Star Trek Keter Vol. IX: Senz'anima

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Blitzkrieg ***
Capitolo 3: *** Fuori dall'ombra ***
Capitolo 4: *** L'Esecutore ***
Capitolo 5: *** Le macerie dell'Impero ***
Capitolo 6: *** Androidi ***
Capitolo 7: *** Il mondo cavo ***
Capitolo 8: *** L'Inferno è vuoto... ***
Capitolo 9: *** Potenza di calcolo ***
Capitolo 10: *** Alveare ***
Capitolo 11: *** ... tutti i diavoli sono qui ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. IX:

Senz'anima

 

QUESTI SONO TEMPI BUI,

LA PRIMA GUERRA CIVILE

DELLA STORIA FEDERALE.

INVECE DI ESPLORARE NUOVI MONDI,

LA KETER DEVE RICONQUISTARE

QUELLI CADUTI SOTTO LA DITTATURA

DELL’UNIONE GALATTICA.

CHIUNQUE LE SBARRI LA STRADA,

ANCHE IN BUONAFEDE,

NE CONOSCERÁ L’IRA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2580.175

(10 anni prima della Guerra Civile)

Luogo: Ammasso Nero

 

   La navicella della Flotta Stellare sfrecciava tra i nembi di gas interstellari violacei, schivando gli occasionali corpi solidi che si frapponevano sulla sua rotta. Ogni tanto gli scudi brillavano per la collisione con i corpuscoli minori. In cabina c’era un silenzio teso, rotto solo dagli occasionali avvertimenti del copilota e dalle laconiche risposte del timoniere.

   «Attento, ci sono altri detriti. Impatto fra cinque secondi» disse il Remano, con gli occhi fissi al quadrante dei sensori.

   «Li vedo, adesso schivo» rispose l’Umano, corrugando appena la fronte. Le sue mani si mossero rapide sui comandi e la navetta schivò agilmente gli scuri frammenti. Alcuni erano troppo lisci per essere degli asteroidi.

   «Ci siamo» disse il pilota.

   «Sì, quelli erano frammenti di scafo» confermò il collega, leggendo il rapporto dei sensori. «Leghe di duranio e tetraburnio compatibili coi trasporti che cerchiamo».

   «Che ti dicevo? Questa è la volta buona!» disse l’Umano, con un lampo di trionfo negli occhi.

   «Aspetta a cantar vittoria» ammonì il Remano. «Sono relitti federali, ma non è detto che siano quelli che cerchiamo. In questo ammasso sono scomparse molte navi».

   «Lo so» grugnì il pilota, senza distrarsi dalla guida. «Cerca frammenti di massa superiore alle duemila tonnellate».

   Il collega eseguì e i risultati non si fecero attendere. «Rilevo una dozzina di frammenti, tutti nel raggio di un giorno luce. Si allontanano in varie direzioni, ma direi che in origine appartenevano alla stessa nave».

   «Al convoglio» corresse l’Umano. «In base alla loro velocità, calcola a quando risale l’esplosione» ordinò.

   «Vediamo... compensando il rallentamento dovuto all’attrito coi gas nebulari...» mormorò il Remano, eseguendo i calcoli sull’interfaccia LCARS. «Direi ventiquattro o venticinque anni fa» concluse.

   «Ah! Lo sapevo, tutto combacia!» esclamò l’Umano, perdendo per un attimo la calma. «Stavolta ci siamo, amico. Sono davvero i resti del convoglio».

   «Speriamo» disse il Remano, scoprendo i denti in un’espressione nervosa tipica della sua specie. «È il quinto giro illegale che facciamo e siamo indietro sul lavoro».

   «Andiamo, Nick!» lo canzonò il pilota. «Non dirmi che sei ansioso di ficcare le mani in quelle vecchie mine!». Disinnescare i residuati della Guerra delle Anomalie era il motivo per cui si trovavano nell’Ammasso Nero. Ma era una missione assai più personale a condurli in quella zona densa di relitti.

   «Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Nick!» sbuffò il Remano, fissandolo con gli occhietti gialli alquanto infossati.

   «D’accordo, Nicrek» si corresse l’Umano, pronunciando il suo nome per intero. «Allora, cos’è quest’improvvisa passione per le mine subspaziali?».

   «Non è una passione, Jack. È solo... il nostro incarico» puntualizzò il Remano. «E noi lo stiamo trascurando per correre dietro al tuo convoglio, col risultato che siamo la squadra che ha disinnescato meno mine. Quando il Capitano Garm lo saprà, non sarà contento».

   «E tu lascia che si scontenti» disse Jack, in tono di sopportazione. «Can che abbaia non morde».

   «Cos’è un can?» chiese l’alieno.

   «Si chiama cane. È un animale da compagnia» spiegò l’Umano. «Davvero non li conosci? Credevo che ormai fossero dappertutto. Comunque volevo dire che la nostra missione ha la precedenza su un lavoro di routine. Anche il Capitano ne converrà, quando gli porteremo la prova».

   «Sempre di trovarla, una prova» sospirò Nicrek. «Dopo tutti questi anni l’energia si è dissipata. È impossibile stabilire se le astronavi sono state distrutte dal Fronte Temporale, come dicono tutti... o dai Breen, come dici tu».

   «Ehi, dubiti della mia parola?» s’indignò Jack, girandosi bruscamente verso il collega.

   «Calmo, non ti sto dando del bugiardo» lo rabbonì il Remano. «Dico solo che all’epoca eri molto giovane e forse hai frainteso...».

   «Non ho frainteso un bel niente!» ringhiò l’Umano. «Furono i Breen ad attaccarci, li ho visti bene. Uno di quei mostri mi comparve davanti e uccise mia madre».

   «Sì, me ne hai parlato» ricordò Nicrek, a disagio. «Se solo fosse sopravvissuto qualche altro testimone! Sarebbe molto più facile convincere le autorità».

   «Sono sopravvissuti in molti, ma i Breen li hanno catturati» precisò Jack, perso nei ricordi. Non sarebbe stato così fissato con quella missione, altrimenti. Sebbene fossero passati tanti anni, conservava una flebile speranza che qualcuno dei prigionieri fosse ancora vivo. Magari suo padre. «Allora, qual è il frammento maggiore?» si riscosse.

   «Eccolo, ti ho inviato le coordinate» disse il Remano, trafficando con i comandi. «È bello grosso... un quarto di astronave. Si direbbe l’Eta Carinae, la nave su cui eri».

   «Ottimo» disse Jack, dirigendo al punto indicato. Lì aveva le maggiori speranze di trovare la scatola nera. Altrimenti avrebbe ispezionato gli altri frammenti, uno alla volta. Se c’era una virtù che non gli difettava, era la tenacia.

 

   Il relitto dell’Eta Carinae era immerso in una zona di gas particolarmente densi. I due federali lo videro delinearsi come una massa informe dai bordi slabbrati. Lo scafo era stato tranciato dall’esplosione, mettendo a nudo i corridoi e gli ambienti interni, che ora sembravano tante finestre vuote. Alcuni tronconi si protendevano nello spazio, come il fasciame di un antico veliero. Il relitto ruotava sui tre assi in modo complesso, tanto che a Jack servì qualche minuto per uniformare il moto della navetta.

   «La plancia è integra... sorprendente» disse Nicrek, che nel frattempo l’aveva analizzato. «Naturalmente è decompressa, come tutto il resto. E non c’è gravità artificiale».

   «Me l’aspettavo. Vado con la tuta» disse Jack, lasciando i comandi. «Tu aspettami qui».

   «Non vuoi che vada io, Tenente?» si offrì il Remano, che era di grado più basso.

   «Grazie, ma è la mia missione» disse Jack. Andò nel comparto posteriore della navetta e aprì l’armadietto, traendone una tuta spaziale. Si assicurò che la provvista di ossigeno fosse al massimo e la indossò. Visto che l’amico lo aveva seguito, gli diede le ultime istruzioni. «Trasferiscimi in plancia. Segui i miei segni vitali, ma riportami indietro solo quando te lo dirò... o se rilevassi qualche pericolo».

   «Tranquillo, non c’è nulla che possa impattare contro quel relitto nelle prossime ore» lo rassicurò Nicrek. «Piuttosto spero che la Garuda non ci richiami».

   «Se l’astronave chiama, tu inventa una scusa» disse l’Umano, sbrigativo.

   «E di che tipo? Siamo tre parsec fuori rotta!» protestò il Remano.

   «Non so, usa l’immaginazione. Ci vediamo!». Jack era già sulla piccola pedana di teletrasporto.

   «Tu sei matto, lo sai?» sospirò Nicrek, prevedendo guai con i superiori.

   «E tu sei quello che mi segue!» ridacchiò Jack. «Andiamo, siamo ufficiali della Flotta Stellare. Affrontare l’ignoto è il nostro primo dovere».

   «Uhm... sì, hai ragione» convenne il Remano. «Buona fortuna, Jack Wolff» aggiunse solennemente, porgendogli la mano. «Spero che troverai ciò che cerchi».

   «È la volta buona, me lo sento» disse l’Umano, serrandogli le dita nella manona guantata della tuta. Dopo di che si mise in posizione sulla pedana, mentre il collega azionava i comandi. La navetta si dissolse attorno a lui. Dopo venticinque anni di rovello, Jack tornava sul trasporto in cui la sua famiglia era stata distrutta. E stavolta avrebbe fatto giustizia, ne era certo.

 

   L’Umano si trovò a volteggiare nella plancia buia e senza gravità. Per prima cosa magnetizzò le suole degli stivali, così da poter camminare. Cadde per un metro e vacillò per l’impatto, trovandosi a ondeggiare in avanti. Istintivamente cercò di compensare muovendo le braccia, ma non ottenne risultati in quell’ambiente privo d’atmosfera. Perciò continuò a piegarsi in avanti, con grande disagio delle articolazioni, fino a raggiungere il pavimento. Mise avanti le braccia per attutire l’urto. Adesso era praticamente steso, se non per il fatto che le suole erano saldamente piantate sul pavimento. Evitò di spingersi indietro, per non ricadere sulla schiena.

   Ricordando le lezioni d’Accademia sugli ambienti a gravità zero, il giovane piegò le ginocchia, assumendo una posizione accucciata, e da lì si mise cautamente in piedi. Quando si sentì stabile, fece qualche passo in avanti. Ogni falcata gli costava una fatica terribile, per via delle suole magnetizzate, ma il Tenente contava di farci l’abitudine. Finalmente poté guardarsi attorno.

   La plancia era immersa nelle tenebre; le consolle spente rilucevano debolmente nel bagliore della torcia da polso. Con un groppo in gola, Jack aumentò la luminosità. C’erano oggetti che fluttuavano attorno a lui, rimbalzando eternamente da una parete all’altra: schegge delle consolle esplose, un tricorder, un phaser... e cos’era quella sagoma più grossa che gli veniva contro?

   La torcia illuminò d’un tratto il pallido viso di un cadavere. Jack sobbalzò e per un attimo il cuore gli batté a mille. Sapeva che lì a bordo c’erano ancora le vittime; ma non poteva realmente prepararsi alla loro vista.

   «Ehi Jack, tutto a posto?» trasmise Nicrek. «Il tuo battito cardiaco...».

   «Sto bene» disse l’Umano, riavendosi dallo spavento. «Ho trovato una vittima» spiegò, osservandola alla luce della torcia. Era un Tarkaliano, anche lui Tenente della Flotta Stellare. Doveva essere caduto in battaglia, come indicavano le ustioni che gli sfregiavano un lato della testa. Per il resto era ottimamente conservato: il freddo e il vuoto dello spazio avevano impedito la decomposizione. Sul suo volto c’era ancora la smorfia di dolore degli ultimi attimi. I compagni non erano riusciti a salvarlo e anche i Breen lo avevano lasciato lì, a galleggiare nel vuoto, rimbalzando all’infinito da una parete all’altra. «Senza dignità» si disse il giovane, osservandolo cupo. Una volta fatto rapporto al Capitano Garm sarebbe tornato con una squadra, per recuperare le vittime e dar loro le esequie.

   «Cerca di non distrarti» lo richiamò il Remano. «Sei lì per la scatola nera, non per i caduti... a loro penseremo dopo, semmai».

   «Sì, sì» fece Jack, di nuovo lucido. Scostò il cadavere e si diresse alla postazione sensori e comunicazioni. La consolle era spenta come tutte le altre e in mancanza d’energia l’Umano non poteva riattivarla. Ma c’erano dei comandi manuali che potevano essere sbloccati.

   Faticando a ogni passo, Jack raggiunse la postazione. Riconobbe subito il punto che gli interessava: prima di partire aveva esaminato i progetti di quei trasporti, per controllare dov’era la scatola nera. Si accucciò di nuovo e cercò di aprire un pannello. Era difficile, perché il guanto della tuta entrava a stento nell’incavo della maniglia. E anche quando riuscì a farvelo entrare, si accorse che la maniglia non girava, per quanta forza vi esercitasse. Forse i terribili colpi subiti dalla nave avevano deformato il metallo.

   «Frell!» imprecò l’Umano. «Non ho fatto tutta questa strada per fermarmi ora!». Trasse il phaser dalla cintura e lo regolò alla giusta intensità per tagliare il metallo, senza distruggere ciò che si trovava all’interno. Impugnando l’arma con ambo le mani, per meglio dirigere il raggio, aprì il fuoco. Gocce di sudore gli solcarono la fronte, man mano che il lavoro procedeva. Il computer della tuta rilevò l’aumento di traspirazione e ridusse l’umidità dell’aria per compensare.

   Quando il contorno del pannello fu ritagliato, Jack spense il phaser, lo riportò su stordimento e lo riagganciò in cintura. Con il cuore che gli martellava in petto, afferrò nuovamente la maniglia e tirò con forza. Stavolta il pannello venne via senza problemi ed egli lo lasciò a galleggiare in aria. Si chinò in avanti, dirigendo la luce nell’intercapedine. Davanti a lui c’era un cilindro scuro e levigato, inserito per metà nella paratia.

   «Bingo!» esclamò l’Umano. Quella era la scatola nera, ed era integra. Aveva temuto che i Breen l’avessero rimossa, per nascondere le loro malefatte; invece eccola lì. Evidentemente gli alieni erano così sicuri del fatto loro che si erano fatti incauti.

   «L’hai trovata?» chiese Nicrek, che teneva sempre il canale aperto.

   «Ci puoi scommettere, amico! Ce l’abbiamo fatta... ora la estraggo» rispose Jack. Infilò la mano nell’intercapedine e sbloccò il meccanismo. Stavolta non ci fu bisogno di forzare le cose: il cilindro uscì senza problemi dall’alloggiamento. Era molto pesante, per via della corazza tribaltica che doveva proteggerlo anche in caso d’esplosione della nave; ma l’assenza di gravità aiutò Jack a sollevarlo. L’Umano doveva solo stare attento a non farsi trascinare dalla sua inerzia.

   «Okay, riportami indietro» disse Jack, stringendo la sua sudata prova. «Quando il Capitano vedrà questo, dovrà starmi a sentire!».

 

   «E questa che roba è?» chiese Garm, quando il Tenente gli posò il cilindro sulla scrivania.

   «La scatola nera dell’Eta Carinae» spiegò Jack, emozionato. «Sa, uno dei trasporti che furono attaccati dai...».

   «Sì, ricordo che me ne ha parlato» tagliò corto il Capitano, un po’ infastidito. «Mi spiega come fa ad averla?».

   «L’ho recuperata!» disse l’Umano con orgoglio.

   «Quando?».

   «Stamattina, durante l’operazione di sminamento».

   «Ah, ecco perché lei e Nicrek avete disattivato così poche mine!» si accigliò lo Zalkoniano. «Invece di fare il vostro dovere, avete bighellonato per l’Ammasso».

   «Signore, questa è la prova di un attacco che è costato migliaia di vittime all’Unione! Quasi tutte civili! L’intero convoglio da Deep Space 3!» s’infervorò il giovane.

   «Senta, Tenente, capisco che per lei la faccenda sia importante. Dopotutto ha perso la famiglia in quell’attacco» riconobbe Garm. «Ma la Flotta ha dichiarato che il caso è chiuso».

   «Questa lo farà riaprire» insisté Jack. «Contiene tutte le letture dei sensori; ci saranno senz’altro le immagini delle navi Breen».

   «Beh, suppongo di sì...» disse il Capitano, squadrando il cilindro con sospetto. «Certo, i dati si possono falsificare. Per riaprire le indagini servirebbe una prova materiale...».

   «Ho anche quella» disse prontamente l’Umano. «Vieni, Nick» aggiunse, premendosi il comunicatore.

   Il Remano entrò nell’ufficio, reggendo un contenitore per campioni. «Signore...» mormorò, socchiudendo gli occhi. La sua specie non gradiva l’illuminazione intensa.

   «Cos’ha lì?» chiese lo Zalkoniano.

   «La prova che voleva» disse teatralmente Jack, aprendo il contenitore che il collega gli porgeva. «L’abbiamo trovato nel relitto». Estrasse un grosso casco color bronzo, dal muso allungato e la visiera verdastra.

   «Un casco Breen» riconobbe il Capitano, colpito.

   «Come sa, i Breen non lasciano in giro la loro roba» commentò l’Umano. «Ma quando invasero il convoglio ebbero delle vittime, ed evidentemente non le recuperarono tutte. Abbiamo trovato solo il casco che galleggiava in un corridoio, ma suppongo che il resto della tuta sia nei paraggi. Come vede, le prove sono inoppugnabili».

   «Eh, già» ammise Garm, scrutando cupamente il casco levigato. «Tenente, le sue scoperte cambiano tutto. Farò esaminare la scatola nera dai tecnici informatici. Se, com’è più che probabile, le registrazioni corroboreranno la sua teoria, la Flotta Stellare dovrà riaprire le indagini. Con queste prove, e con le altre che troveremo sul relitto, la verità sarà ristabilita. Le faccio i miei complimenti, signor Wolff» disse, alzandosi per stringergli la mano. «Grazie alla sua perseveranza, le vittime dell’attacco avranno finalmente giustizia».

   «Posto che siano morte» corresse Jack, ricambiando la stretta. «Ho sempre pensato che molti siano stati catturati dai Breen. Qualcuno potrebbe essere ancora vivo...».

   «Di questo ci occuperemo a tempo e a modo» promise il Capitano, stringendo la mano anche a Nicrek. «Andate, ora... prendetevi un giorno di riposo, ve lo siete meritato! Io darò questa ai tecnici» disse, posando la mano sulla scatola nera. «Appena avremo i dati, li invierò al Comando di Flotta. Scoppierà un bel trambusto... ma quando ci vuole, ci vuole».

   L’Umano e il Remano si scambiarono un’occhiata di trionfo, poi Jack tornò a concentrarsi sul superiore. «L’Unione dovrà ripensare i suoi rapporti coi Breen» si azzardò a dire.

   «Per forza» borbottò il Capitano, corrucciato. «Garm a plancia, fate rientrare tutte le squadre addette allo sminamento!» ordinò. «Appena saranno a bordo, usciamo dall’Ammasso. Dobbiamo trasmettere alla Terra, si tratta di una faccenda della massima importanza».

   «Sì, signore» confermò il Primo Ufficiale.

   «Bene, potete andare» concluse lo Zalkoniano.

   «Grazie, Capitano» disse Jack. Fece per lasciare l’ufficio, assieme al collega.

   «Ah, un’ultima cosa» li trattenne Garm. «Finché non avrò ricevuto istruzioni dal Comando, gradirei che questa cosa restasse fra noi. Anzi, ve lo ordino. L’equipaggio è già abbastanza stressato da settimane di sminamento. Non voglio che tutti si preoccupino per ciò che accadrà coi Breen, prima ancora che la Flotta abbia deciso il da farsi. Intesi?».

   «Sì, Capitano» promise Jack. Gli sembrava uno scrupolo eccessivo, ma non volle contestare il superiore, proprio ora che era riuscito a convincerlo.

   «Sì, Capitano» gli fece eco Nicrek.

   I due ufficiali lasciarono l’ufficio. Appena la porta si fu richiusa alle loro spalle, Garm ricadde pesantemente in poltrona. Passò lo sguardo dalla scatola nera al casco, le prove inconfutabili della responsabilità Breen nella tragedia di venticinque anni prima. «Computer, apri un canale criptato con la Terra» ordinò stancamente. «Livello di sicurezza 1, autorizzazione Garm lambda-6».

   «Specificare la destinazione» richiese il computer.

   «Atlantide, ufficio della Senatrice Rangda» disse il Capitano, intrecciando le dita. Era nei momenti delicati come quello che gli servivano istruzioni.

 

   La palestra della Garuda era equipaggiata con attrezzi di ogni genere, adatti a una vasta gamma di specie umanoidi e persino ad alcune di quelle più aliene. In quel momento Jack era sdraiato su un lettino, in canottiera, e sollevava un pesante bilanciere. Le sue braccia muscolose luccicavano di sudore, ma la presa era ancora salda. «Cinquanta, cinquantuno...» contò tra sé. Il giovane era fiero della sua forma fisica e non perdeva occasione per allenarsi. Era anche un modo per sfogare la rabbia che gli covava dentro fin dall’infanzia, da quando aveva perso i suoi genitori. E lo aveva aiutato non poco a superare il difficile addestramento per entrare nella Sicurezza.

   Un sibilo lo avvertì che la porta si era aperta, ma sulle prime l’Umano non ci badò; la gente entrava e usciva in continuazione dalla palestra. Fu solo quando alcuni colleghi della Sicurezza entrarono nel suo campo visivo che si accorse del problema.

   «Ci segua, Tenente Wolff» disse l’Ufficiale Tattico, un imponente Capellano.

   «Che succede?» chiese il giovane. Depose il bilanciere sugli appositi sostegni e si rialzò, detergendosi il sudore dalla fronte. Il capo della Sicurezza, il suo diretto superiore, era lì con altri quattro agenti. E tutti impugnavano i phaser.

   «Lei è in arresto» disse il Capellano, squadrandolo freddamente.

   «Scherza?! Qual è l’accusa?» chiese Jack, sentendosi franare il mondo addosso.

   «Vendita di segreti militari allo Stato Imperiale Romulano» rispose il superiore, serissimo. «Dato che è della mia squadra, non occorre che le ricordi i suoi diritti. Venga; dobbiamo scortarla in cella, dove resterà in attesa del giudizio».

   «Questo è assurdo!» ringhiò il giovane. «Quali segreti avrei venduto? E chi ha mosso questa’accusa ridicola?».

   «Dal computer di bordo sono state trafugate informazioni top secret sulla Molecola Omega» spiegò l’Ufficiale Tattico. «E il Guardiamarina Nicrek ci ha riferito che nell’escursione di stamane lei ha insistito per modificare il piano di volo».

   «Per trovare il relitto dell’Eta Carinae!» si giustificò Jack. «Ho trovato le prove che furono i Breen ad attaccarla, e le ho consegnate al Capitano Garm».

   «Non è quello che ci ha riferito il suo collega» lo gelò il superiore. «Lui afferma che una volta salito sul relitto lei gli ha ordinato di allontanarsi a tre parsec. Ma nonostante la distanza e le interferenze dell’Ammasso, Nicrek ha rilevato il passaggio di un Falco da Guerra. Cosa di cui lei, in seguito, ha rifiutato di discutere».

   «È tutto falso!» protestò l’Umano. «Non so cosa gli sia preso, ma Nick sta mentendo».

   «Questo lo stabilirà il processo» ribadì il Capellano. «Ora si muova, svelto» aggiunse, muovendo appena il phaser per esortarlo a camminare.

   A Jack non restò che indossare la maglia dell’uniforme – privata del comunicatore – e precedere le guardie. Uscirono dalla palestra e presero la strada che conduceva alle prigioni. Mentre camminava, l’Umano pensava a come provare la sua innocenza. «I diari dei sensori della navetta proveranno che Nick mente» disse.

   «Al contrario, i diari confermano la sua testimonianza» ribatté il Capellano.

   Jack si sentì rizzare i peli sul collo. «È impossibile, qualcuno deve averli manomessi! Magari proprio lui!» suggerì, anche se non riusciva a immaginare il movente. «Ascolti, voglio parlare col Capitano» disse ancora.

   «Negativo, l’ordine è di confinarla in cella» tagliò corto l’Ufficiale Tattico.

   «E la scatola nera dell’Eta Carinae? L’avete esaminata?!» chiese Jack, sperando che almeno quella faccenda fosse risolta.

   «Non so di cosa parla» disse invece il superiore.

   Jack si bloccò e lo fissò, pallido come un cencio. «Parlo di quella che ho riportato dalla missione» spiegò. «C’erano la scatola nera e un casco Breen: le prove di ciò che accadde al convoglio. Il Capitano mi ha promesso che le avrebbe fatte esaminare subito».

   «Io non so nulla di questa faccenda» si accigliò il Capellano.

   «Mi sta dicendo che Garm non gliene ha parlato?!» si disperò il giovane.

   «Proprio così. E ora torni a camminare» lo esortò l’Ufficiale Tattico, fissandolo con sospetto.

   L’Umano dovette obbedire. Mentre camminava in silenzio, seguito dai colleghi armati, rifletté su quell’incredibile serie di disgrazie. Non poteva essere un errore... no, qualcuno stava cercando di rovinarlo. Nicrek era coinvolto, dato che aveva mentito; ma non poteva essere l’unico responsabile. C’era qualcun altro sopra di lui, che tirava i fili; e doveva essere il Capitano. Era Garm che aveva promesso di far esaminare le prove e non l’aveva fatto, anzi le aveva occultate... forse distrutte, pensò Jack con una stretta al cuore. Se le cose stavano così, allora era davvero nei guai. La parola di un Tenente valeva poco, contro quella di un Capitano. E qualunque fosse il complotto capace di coinvolgere la Flotta Stellare, doveva esserci tanto di quel marcio che da solo non sarebbe mai riuscito a dimostrare la verità. Lo avrebbero condannato... forse gli avrebbero persino impedito di testimoniare, pensò con un brivido.

   «Dentro» ordinò l’Ufficiale Tattico. Erano giunti davanti alla cella. Il carceriere abbassò il campo di forza che fungeva da ingresso, così che l’indagato potesse entrare.

   «Mi hanno incastrato» disse in fretta Jack. «Chieda al Capitano della scatola nera; controlli che...».

   «Dentro, Umano!» berciò il Capellano. Lo afferrò rudemente per un braccio e lo sospinse nella cella. L’attimo dopo il campo di forza fu rialzato, isolando il prigioniero.

   «Dovete ascoltarmi, maledizione!» gridò il giovane, tempestando di pugni la barriera. Ottenne solo delle scosse elettrostatiche che gli intorpidirono le mani. I suoi colleghi se ne andarono alla svelta, senza voltarsi.

   Rimasto solo nella piccola cella, l’Umano cercò di raccapezzarsi. Finalmente capì perché nessuno lo ascoltava. Non era solo la parola di un Tenente contro quella del Capitano... no, era la parola di un umano contro quella di un alieno. A quel pensiero, il giovane lanciò un grido di rabbia e frustrazione. Fu un suono lungo e animalesco, più simile a un ruggito che a una voce umana. L’ingiustizia della sua sorte lo dilaniava, minacciando di fargli perdere il lume della ragione. Era andato così vicino a dimostrare la verità... ma era incappato in un infame complotto. Giurò a se stesso che, se mai fosse uscito di cella, non sarebbe più stato così ingenuo. «D’ora in poi non mi fiderò di niente e di nessuno!» si promise, sedendo in brandina.

 

   Come Jack temeva, il processo fu una farsa. L’udienza si tenne a porte chiuse, senza che i mezzi d’informazione ne parlassero. Tutti si comportarono come se la sentenza fosse già stata emessa, e fossero lì per pura formalità. Persino il suo avvocato difensore gli suggerì subito di costituirsi. Quando l’Umano rifiutò, dichiarandosi innocente, il legale gli fece capire che nemmeno lui gli credeva.

   Giunti in aula, furono soprattutto i testimoni dell’accusa a parlare. Il primo fu Nicrek. Era la prima volta dal giorno dell’arresto che Jack vedeva il suo collega, ora divenuto il suo principale accusatore. Cercò subito il suo sguardo, nel tentativo di capire cosa gli passasse per la testa; ma il Remano non lo guardò mai.

   «Dunque, ci dica cosa accadde in Data Stellare 2580.175» invitò l’avvocato dell’accusa.

   «La nostra nave, la USS Garuda, si trovava da due settimane nell’Ammasso Nero» esordì Nicrek. «L’incarico era individuare e disinnescare le mine subspaziali risalenti alla Guerra delle Anomalie. Perciò ci eravamo divisi in piccole squadre, composte da due o tre elementi, che operavano dalle navette. Tipicamente una missione durava una giornata, o anche meno, dopo di che tornavamo sulla Garuda a riposare. Io e il Tenente Wolff siamo abilitati a questo tipo di operazioni, quindi andammo insieme».

   «Lei conosce il Tenente Wolff da tempo?».

   «Da quando abbiamo preso servizio, cinque anni fa» rispose il Remano.

   «Come descriverebbe il suo collega?».

   «È un buon ufficiale, finora si era sempre dimostrato ligio al dovere. Ma...».

   «Ma?».

   «Ecco, credo che sia ossessionato dall’incidente occorso al convoglio dell’Eta Carinae, distrutto dal Fronte Temporale venticinque anni fa» affermò Nicrek. «Jack era a bordo e fu l’unico superstite. Considerata la sua giovane età e la perdita dei genitori, ritengo che sia rimasto traumatizzato. Ha sviluppato un’ossessione che lo porta a cercare il colpevole, diffidando dalla versione ufficiale dei fatti...».

   «Obiezione, questa è una mera ipotesi» notò l’avvocato della difesa.

   «Un giudizio basato sulla conoscenza approfondita» ribatté l’accusa.

   «Obiezione respinta» disse il giudice, un vecchio Xindi Arboricolo. «La presenza di atteggiamenti ossessivo/compulsivi nel Tenente Wolff è rilevante ai fini del processo. Ma torniamo al giorno dell’incidente. Ci dica cosa accadde e si attenga ai fatti».

   «Sì, Vostro Onore» disse il Remano. «Il Tenente mi aveva manifestato da tempo la sua volontà di approfittare dell’incarico nell’Ammasso Nero per fare ricerche sul convoglio. Aveva individuato alcuni relitti e contava di trovare gli altri nelle vicinanze. Così mi chiese di aiutarlo in questa... missione ufficiosa».

   «Lei era consapevole che ciò significava una deviazione dagli ordini, che erano di sminare la nebulosa?» chiese l’accusa.

   «Sì, e me ne assumo la responsabilità» confermò Nicrek. «Pensavo che se c’era la minima possibilità che Jack avesse ragione, dovevo aiutarlo a ristabilire la verità».

   «Wolff le ordinò di aiutarlo, facendo valere il suo grado?».

   «No, me lo chiese come favore personale».

   «Uhm... continui».

   «Nei giorni precedenti avevamo già visitato quattro relitti, senza trovare nulla di rilevante» riferì il Remano. «Quella era la nostra ultima occasione. Poiché si trattava del frammento più grosso che avessimo mai trovato, Jack si mostrò ottimista. Mi chiese di teletrasportarlo direttamente in plancia. Io mi offrii di andare al suo posto, ma lui insisté per occuparsene di persona. Fin qui non c’era nulla di strano; in fondo era la sua missione. Ma appena fu a bordo, Jack mi ordinò di allontanarmi ad almeno tre parsec».

   «È una menzogna! Sei rimasto lì tutto il tempo!» gridò l’Umano, stringendo convulsamente la balaustra davanti a sé.

   «Silenzio!» ammonì il giudice. «Continui» si rivolse all’accusa.

   L’avvocato riprese a interrogare il testimone. «Ha detto che stavolta fu un ordine?».

   «Esatto».

   «E il Tenente addusse qualche spiegazione?».

   «No; mi disse semplicemente di attenderlo a quella distanza per un’ora».

   «La cosa non le parve strana?».

   «Beh, sì. Ma era una situazione delicata e non volevo contrariarlo» affermò il Remano. «Così feci come ordinato. Venti minuti dopo, rilevai un Falco da Guerra romulano».

   «Della Repubblica o dello Stato Imperiale?».

   «Dello Stato Imperiale, ne sono certo. Era uno di quei nuovi vascelli di classe Tal’aura» sostenne Nicrek. «Apparve per pochi secondi, già accanto al relitto, come se fosse uscito dall’occultamento. E svanì com’era apparso, prima che io potessi reagire».

   «Dopo che accadde?».

   «Temevo per l’incolumità del Tenente, ma non volevo trasgredire il suo ordine. Inoltre temevo che il Falco da Guerra fosse ancora nei paraggi, nel qual caso la mia navicella non offriva una valida protezione. Così attesi fino al termine dell’ora» disse il Remano. «Scaduto il tempo, tornai al relitto e recuperai Jack».

   «Gli chiese dei Romulani?».

   «Sì, ma lui rispose che non si era accorto di nulla. Disse che non aveva trovato la scatola nera e che quindi era inutile perdere altro tempo. Tornammo sulla Garuda senza ulteriori conversazioni» concluse Nicrek.

   «Bugiardo, l’avevo trovata eccome!» inveì Jack.

   «Silenzio, ho detto!» sbottò il giudice. «Questo è l’ultimo ammonimento. Al prossimo intervento indebito, lei sarà allontanato dall’aula».

   «Sentito? La smetta di peggiorare le cose» bisbigliò l’avvocato difensore.

   «E lei quando conta di fare il suo lavoro?!» ribatté l’Umano, seccato dal suo scarso impegno.

   «Ogni cosa a suo tempo».

   L’accusa passò a interrogare i tecnici informatici della Garuda. Questi affermarono che qualcuno aveva scaricato informazioni riservate sulla Molecola Omega dal computer di bordo, dieci giorni prima dell’incidente. Ciò era accaduto da un terminale pubblico della nave, ma i sensori interni indicavano che Jack era il più vicino, in quel momento.

   «Lei confessa di aver scaricato quelle informazioni?» chiese l’accusatore, rivolgendosi finalmente a Jack.

   «No, lo nego decisamente» rispose l’Umano. «Non saprei neanche come fare. Quei file sono accessibili solo al Capitano. Ci vorrebbe un genio informatico per violare il computer della Garuda, e io non lo sono».

   «Quindi sostiene che sia stato qualcun altro a rubare quelle informazioni?».

   «Sostengo che non le abbia rubate nessuno, perché se ci fosse stata una tale breccia nella sicurezza ne sarei stato informato» disse il giovane. «Quest’accusa è solo un pretesto per incastrarmi».

   «Ma ammette di aver convinto il Guardiamarina Nicrek ad accompagnarla presso quel relitto, in violazione della vostra missione?».

   «Beh, sì...».

   «Ammette d’essere salito a bordo, rifiutando l’offerta del collega di andare al suo posto?».

   «Sì...».

   «E ammette di avergli poi ordinato di allontanarsi?».

   «No, questa è una menzogna».

   «Cos’ha fatto, mentre era là tutto solo?».

   «Ho cercato la scatola nera e l’ho trovata. Poi ho recuperato anche un casco Breen...».

   «Ha incontrato dei Romulani?».

   «No».

   «Ha trasmesso loro dei dati?».

   «No».

   «Ha lasciato le informazioni sul relitto, così che loro potessero recuperarle in un secondo momento?».

   «No, i Romulani non c’entrano niente in questa storia! Nicrek se li è inventati!» sbottò Jack.

   «Perché l’avrebbe fatto?».

   «Ve l’ho detto, per incastrarmi. Evidentemente non vuole che si faccia luce sull’attacco al convoglio... e non è l’unico» disse l’Umano, fissando bieco Garm. Questi rispose con il suo sorriso strafottente. Era perfettamente a suo agio, come chi sa per certo che se la caverà; un fatto che accrebbe l’ansia di Jack.

   Fu la volta del Capitano a salire sul banco dei testimoni. «Capitano Garm, l’indagato asserisce di aver trovato le prove del coinvolgimento Breen e di avergliele consegnate» ricapitolò l’accusa. «Parla di una scatola nera e di un casco militare. Lei ha visto questi oggetti?».

   «Assolutamente no» disse il Capitano, con la massima faccia tosta. «Il Tenente Wolff non me ne ha nemmeno accennato. Se ora ne parla, dev’essere nel maldestro tentativo di gettare fango su di me, per stornare i sospetti dalla sua persona. Questo comportamento mi ferisce profondamente... è un oltraggio non solo contro di me, ma contro tutta la Flotta Stellare».

   Jack avrebbe voluto scavalcare la balaustra, agguantare il superiore e strangolarlo con le sue mani. Ma si trattenne, ben sapendo che non sarebbe riuscito a raggiungerlo. E provarci non avrebbe certo migliorato la sua posizione. Non poteva nemmeno contestarlo a voce, per non essere espulso dall’aula. Almeno l’atteggiamento di Garm gli confermava che era coinvolto nella cospirazione. Doveva aver ordinato lui a Nicrek e ai tecnici di mentire. Passi per i tecnici, che erano dei mezzi sconosciuti... ma dal suo amico Remano non se l’aspettava questo tiro mancino. Chissà cosa gli aveva detto il Capitano, per convincerlo a mentire. Forse gli aveva promesso dei favori. Oppure aveva minacciato di far arrestare anche lui. Ma poteva averglielo semplicemente ordinato, invocando il segreto militare e la ragion di Stato.

   «La parola alla difesa» disse il giudice.

   Jack fissò il suo difensore, sulle spine. Quella era l’ultima possibilità che gli restava. L’avvocato contro-interrogò i testimoni dell’accusa, cercando di farli cadere in contraddizione, ma non ci riuscì. A giudicare dal suo atteggiamento svogliato, non sembrava aspettarsi il successo. Alla fine si rivolse direttamente al giudice. «Vostro Onore, vorrei far notare che le prove del furto di dati commesso dal mio assistito sono meramente indiziarie. Anche il contatto fra lui e i Romulani non può essere provato. La storia personale del Tenente Wolff indica che egli aveva tutte le motivazioni per indagare sulla tragedia del convoglio. Dunque non c’erano secondi fini che potessero condurlo lì».

   «Ma c’è una discrepanza tra la sua deposizione e quella del Guardiamarina Nicrek» notò l’accusa. «E ce n’è una ancora più grossa con la testimonianza del Capitano Garm, che asserisce di non aver ricevuto alcuna prova del coinvolgimento Breen».

   «Ne convengo» disse l’avvocato difensore. «È possibile che il mio assistito, trovandosi in situazione di grave stress nel visitare quel relitto, abbia impartito al Guardiamarina l’ordine illogico di allontanarsi e se ne sia poi dimenticato. È altresì possibile che il suo profondo desiderio di provare la colpevolezza dei Breen lo abbia indotto a credere di avere le prove, e di averle consegnate al Capitano, quando invece nulla di tutto ciò è accaduto. A fronte di questa ipotesi, chiedo una perizia psichiatrica per valutare le condizioni del mio assistito. Se sarà accertata l’infermità mentale, chiedo che egli sia prosciolto dall’accusa».

   «Ehi, ma che fai?!» ringhiò Jack. «Io non ho nessuna infermità! Sono Garm e la sua cricca a essere marci fino al midollo!».

   «Basta così» disse il giudice. «Accolgo la richiesta di una perizia, con la raccomandazione che sia eseguita al più presto. Leggerò il responso in privata sede. Quando ci riuniremo, sarà per deliberare la sentenza. Fino ad allora la Garuda resterà in orbita, affinché i testimoni siano reperibili. Così è deciso, l’udienza è sospesa».

 

   Nei giorni successivi l’Umano fu sottoposto a un’umiliante serie d’interrogatori ed esami clinici, volti ad accertare il suo stato mentale. Il giovane valutò la possibilità di fingersi pazzo, se questo poteva scagionarlo, ma rinunciò ben presto all’idea. La scienza medica del tardo XXVI secolo non era facile da ingannare: se ci avesse provato, i dottori e gli psicologi se ne sarebbero accorti. Il che avrebbe notevolmente peggiorato la sua posizione. E poi non gli andava di cavarsela in quel modo. No, preferiva andare in prigione da innocente, piuttosto che in clinica psichiatrica da sano di mente.

   Gli esami finirono e il rapporto andò al giudice, che si prese ancora un paio di giorni per decidere. Infine Jack Wolff si ritrovò nell’aula del tribunale. I suoi accusatori erano presenti e dal modo in cui Garm sorrideva sembrava che conoscesse già la sentenza. Il giudice giunse per ultimo e parlò in tono sbrigativo, come se avesse già la mente rivolta alla prossima vertenza.

   «Signori, oggi siamo riuniti per giudicare il caso del Tenente Wolff» esordì lo Xindi Arboricolo. «Egli è accusato di aver venduto segreti militari allo Stato Imperiale Romulano, dopo essersi appartato presso il relitto dell’Eta Carinae col pretesto di provare l’attacco Breen.

   Gli interrogatori hanno evidenziato una frattura insanabile tra la testimonianza dell’imputato e quelle dei suoi colleghi, incluso il Capitano Garm. È chiaro quindi che il caso non può essere derubricato a semplice malinteso. La prima considerazione è che il Capitano e gli altri testimoni dell’accusa non hanno motivo di mentire. Per contro, l’imputato aveva ben due moventi: la ricompensa dei Romulani Imperiali e la vendetta contro la Flotta che, a suo parere, aveva insabbiato le indagini sull’attacco al convoglio.

   La perizia psichiatrica condotta su richiesta della difesa ha evidenziato che il Tenente Wolff è perfettamente capace d’intendere e di volere. Dunque l’unica conclusione logica è che egli abbia volutamente reso falsa testimonianza a questo tribunale. Il che conferma la sua colpevolezza».

   Lo Xindi Arboricolo si curvò in avanti, rivolgendosi direttamente all’Umano. «Tenente Wolff, lei ha disonorato l’uniforme. Ha tradito la fiducia che la Flotta riponeva in lei» disse con severità. «Pertanto la condanno all’ergastolo, da scontare nella colonia penale di Jaros II. Spero che lì avrà modo di meditare e di comprendere la gravità delle sue azioni. Così è deciso, l’udienza è tolta».

   Quando il giudice batté il martelletto, il giovane si sentì come se gli conficcasse un paletto nel cuore. Ogni residua speranza che nutriva per la giustizia federale era ridotta in cenere.

   «Mi spiace, ho fatto il possibile» disse l’avvocato difensore, per poi dileguarsi.

   Mezzo stordito dall’angoscia, Jack vide avvicinarsi le guardie. «Venga con noi» ordinò il caposquadra. «La scorteremo alla nave prigione».

   L’Umano lo ignorò e fissò invece il Capitano Garm, che sorrideva in prima fila. «Maledetto!» gridò, tendendo le braccia verso di lui. «Ti ucciderò! Giuro che prima o poi ti spaccherò il cuore!» minacciò, senza curarsi d’essere udito da tutti. Tanto che poteva accadergli di peggio?

   «Non ci rivedremo più» rispose Garm, sempre con quell’aria beffarda. «Addio, traditore». Lo Zalkoniano gli girò le spalle e se ne andò, seguito dagli altri testimoni dell’accusa. Fra loro c’era Nicrek, che evitò d’incrociare lo sguardo con Jack.

   «Venga, ho detto, o ricorreremo alla forza!» ammonì il capo delle guardie. Due agenti agguantarono l’Umano per le braccia e lo trascinarono all’indietro, verso l’uscita.

   «Maledetti, tutti voi!» strepitò Jack, mentre lo portavano via. «Un giorno avrò la mia vendetta! Mi sentite? Vi annienterò tutti!» inveì, sebbene fosse in una posizione di assoluta impotenza. Ma proprio per questo doveva aggrapparsi a qualcosa. Se la giustizia pubblica non esisteva, allora non gli restava che quella privata. La vendetta, come la chiamavano le anime belle che non erano mai state condannate ingiustamente. E sebbene fuggire da un carcere federale fosse un’impresa disperata, il giovane si promise di tentare in ogni modo. La sua conoscenza degli strumenti e delle procedure, derivante dall’esperienza di ufficiale tattico, gli sarebbe stata utile. Per il resto poteva contare solo sulla fortuna, se gliene restava.

 

   La nave prigione sfrecciava verso Jaros II, con il suo carico di galeotti. C’erano ladri, assassini... e poi c’era Jack Wolff, tutto solo nella sua cella. Era seduto sulla brandina, con la testa fra le mani, e rimuginava sui suoi torti. Non aveva altro da fare. Ad ogni istante la sua collera cresceva. «Se solo avessi un’occasione per uscire... non me la farei scappare» si promise.

   D’un tratto il campo di forza dell’ingresso si disattivò. Jack alzò lo sguardo e vide tre guardie davanti a sé: un Cardassiano, un Pakled e un Luriano. A vederli non parevano tipi raccomandabili.

   «Jack Wolff... hai chiesto di fare una chiamata subspaziale?» chiese il Cardassiano.

   «Sì» rispose l’Umano, restando seduto.

   «Chi vuoi chiamare?».

   «Questo non vi riguarda».

   «Risposta sbagliata, carogna!» berciò il secondino. Lo afferrò per il bavero, costringendolo ad alzarsi. «Tutto quel che fai ci riguarda. Allora, chi vuoi chiamare? I tuoi amici Romulani, per chiedergli di venire a salvarti?».

   «I miei familiari» corresse il detenuto. «Da quando sono stato arrestato, non ho ancora avuto la possibilità di contattarli. Significa che non sanno cosa mi è successo. È il caso d’informarli, prima che lo sappiano da qualcun altro».

   «Oh, ma che tenerone!» rise il Cardassiano, indietreggiando un poco. Anche le altre guardie risero, scambiandosi occhiate complici. «E dimmi, chi vuoi chiamare di preciso? I tuoi genitori sono schiattati, quindi chi ti rimane?».

   «I miei nonni materni» bofonchiò il giovane.

   «Sentito, amici? Il bimbo vuol chiamare i suoi nonni!» sghignazzò il Cardassiano. Subito dopo però si fece serio, persino aggressivo. «E cosa gli racconterai, eh? Che sei innocente? Gli chiederai di farsi intervistare dal Federal News per far scoppiare uno scandalo?».

   «Sentite, fare la chiamata è mio diritto» protestò Jack. «Se non volete concedermelo, allora sloggiate».

   «Non sei tu che dai gli ordini!» tuonò il Pakled, facendosi avanti. «Siamo noi che comandiamo, mettitelo in testa!».

   «L’ultima volta che ho letto il regolamento, non prevedeva di angariare i prigionieri» obiettò il detenuto. «Sapete, fino a poco tempo fa ero uno di voi... sì, ero nella Sicurezza. Sulla Garuda, però; una di quelle navi che esplorano e fanno cose utili. Non su questo cesso di carretta su cui mandano i falliti» li derise. «Quanti anni sono che ammuffite qui? Io dico almeno cinque».

   I secondini divennero lividi. «Devo aver fatto centro» si disse Jack. Ma non ebbe il tempo di gioirne.

   «Sentito, ragazzi? Questo pezzo di dren fa il gradasso» disse il Cardassiano, in tono lento e minaccioso. «Crede ancora di contare qualcosa. Facciamogli capire che si sbaglia». Lo colpì deliberatamente al plesso solare, facendolo piegare in avanti. «Tu non sei niente, capito? Niente!» gli sibilò all’orecchio. «Di te non importa a nessuno; e sarà così per il resto della tua insulsa vita».

   «Mi hanno accusato di aver disonorato l’uniforme» boccheggiò l’Umano. «Ma siete voi che la disonorate, con questo atteggiamento».

   «Oh, ancora non hai capito come stanno le cose?» gongolò il Cardassiano, lieto di avere l’occasione d’infierire. «Allora ti daremo una lezione. Consideralo un assaggio di quel che ti aspetta su Jaros II». Cercò di colpirlo ancora allo stomaco, ma stavolta Jack non si fece sorprendere. Parò il colpo e rispose con un gancio destro, che spedì indietro il Cardassiano, tra le braccia del Luriano che si affrettò a sorreggerlo.

   «Hai fatto un grosso sbaglio!» ringhiò l’alieno dalla faccia scagliosa, sputando una boccata di sangue. «Addosso!».

   Senza lasciare uno di loro a sorvegliare l’ingresso, i tre secondini si gettarono compatti sul prigioniero. Jack mise a segno qualche colpo, specialmente contro il Pakled, che era grasso e lento. Ma poi il Luriano lo colpì alla nuca con il calcio del phaser. Il giovane cadde a terra, tramortito. Furono i calci a farlo riprendere: gli aguzzini si erano messi a colpirlo selvaggiamente. Jack provò a rialzarsi, sapendo che altrimenti sarebbe stata la fine, ma sulle prime non ci riuscì. Poté solo raggomitolarsi a terra, cercando di proteggersi la testa con le braccia.

   «Facciamo vedere a questa feccia chi comanda!» gridò il Cardassiano. Lo colpì in pieno viso con un calcio, ridendo di gusto. Jack sentì una fitta atroce al naso. Istintivamente vi portò le mani; quando le ritrasse se le vide lorde di sangue. Quel colpo gli aveva spezzato il setto nasale. Il giovane rantolò, cercando di riprendere fiato.

   «Che c’è, ne hai abbastanza? Ma se ho appena iniziato!» sghignazzò il Cardassiano, chinandosi ad afferrarlo per i capelli. «Leccami gli stivali, pezzo di dren» ordinò, sollevandogli la testa in quel modo brutale. «E dì che sei un figlio di shutta... perché tutte le femmine Umane sono shutte».

   A quel punto qualcosa scattò in Jack. Le lezioni d’autodifesa imparate all’Accademia si fusero con la sua sete di vendetta, conglomerandosi in un diamante di feroce determinazione. Quei tre alieni, che disprezzavano tanto gli Umani, non immaginavano cosa può fare un Homo sapiens addestrato, motivato e senza nulla da perdere. Bene, lo avrebbero imparato a loro spese.

   Il giovane diede un violento strattone, riuscendo a liberarsi; una ciocca di capelli rimase in mano all’aguzzino. La sorpresa apparve sul volto grigio e scaglioso del Cardassiano. Prima che questi potesse reagire, Jack lo agguantò per la gola e gli sbatté con violenza la testa sul pavimento. Il secondino non si mosse più, mentre il prigioniero balzò in piedi, pronto a vendere cara la pelle.

   «Sei morto!» gridarono gli altri due, attaccandolo simultaneamente.

   Ma Jack Wolff non si era mai sentito così arzillo. Il suo corpo, scolpito da anni di duro addestramento, si muoveva più rapido del pensiero. Schivò i colpi dei nemici e rispose con tremenda efficacia, colpendoli al volto e al collo. A un certo punto balzò sul lettino, usandolo come un trampolino per saltare tra gli avversari e atterrare alle loro spalle. Quando il Pakled fu stordito, lo sorresse e lo usò come scudo per proteggersi dal Luriano, che aveva impugnato il phaser. Il raggio colpì l’alieno già svenuto, senza danneggiare l’Umano. L’attimo dopo Jack lasciò cadere il Pakled e, prima che il Luriano potesse sparare di nuovo, gli bloccò il polso. Infine lo colpì con un devastante uppercut, mandandolo a cadere all’indietro, privo di sensi.

 

   Ansante e ancora dolente per le percosse, il giovane si guardò attorno. Lo scontro era finito, i carcerieri erano tutti a terra... e il campo di forza della cella era abbassato. «La mia occasione» si disse. «Che il diavolo mi porti, se me la faccio scappare!».

   Prima di uscire, tuttavia, l’ex Tenente si chinò sugli avversari per sincerarsi delle loro condizioni. Il Pakled e il Luriano erano storditi, ma respiravano. Il Cardassiano, invece... Jack si accorse che il colpo alla testa era stato più forte del previsto. Sulla sua tempia c’era una ferita da cui stillava il sangue. «Frattura cranica» comprese. L’alieno non respirava e tastandogli il polso Jack non avvertì alcun battito.

   «È morto» si disse, scioccato. Pur prestando servizio nella Sicurezza, non aveva mai ucciso nessuno prima d’ora. Le poche volte in cui si era trovato coinvolto in scontri a fuoco si era sempre limitato a stordire gli avversari. Ma quel Cardassiano era morto e lui non poteva portarlo in infermeria per tentare di rianimarlo. Si disse che l’alieno era una carogna, che se l’era cercata; e che lui, Jack Wolff, non aveva avuto scelta. Era tutto vero. E tuttavia restava il fatto che per evadere era diventato un assassino. Se anche fosse riuscito a scagionarsi dalle prime, ingiuste accuse, non poteva sottrarsi a questa. Ciò significava una cosa sola: non avrebbe mai riavuto una vita normale. D’ora in poi sarebbe stato sempre in fuga, sempre braccato dalla legge.

   Questo pensiero accrebbe il suo senso d’urgenza, così che il giovane si affrettò a disarmare gli avversari. Che ironia: erano tutti e tre muniti di phaser, ma non erano riusciti a usarli a dovere. Gli prese anche i comunicatori, affinché non chiamassero rinforzi. Infine uscì dalla cella, ritrovandosi nella sala di guardia, e si precipitò ai comandi. Aveva una certa familiarità con quel tipo di consolle, quindi non ebbe problemi a rialzare il campo di forza.

   Il primo passo verso la libertà era compiuto, ma ne restavano molti altri. Era solo, su una nave prigione che aveva un equipaggio di almeno quaranta effettivi, tra piloti e guardie. Per giunta si trovavano in un settore di spazio piuttosto trafficato. Se l’equipaggio avesse lanciato una richiesta di soccorso, i rinforzi sarebbero arrivati presto. «Come ne esco?» si chiese.

   La risposta giunse da sé, appena si guardò intorno. Dalla sala di guardia erano visibili molte altre celle, quasi tutte occupate. Lì dentro si trovavano criminali veri: gente che aveva ucciso e compiuto i crimini più abietti per guadagno personale. La feccia della Galassia. Ma in quel frangente erano i soli alleati di cui disponeva. Molti di loro si erano alzati in piedi, non appena lo avevano visto libero, e ora lo fissavano speranzosi. Ma anche quelli che erano rimasti seduti o sdraiati sui lettini non lo perdevano di vista. Aspettavano la sua prossima mossa. Una mossa obbligata, comprese Jack.

   «Il nemico del mio nemico è mio amico» si disse il giovane, per farsi coraggio. Ma se li avesse liberati, che garanzie aveva che quei delinquenti non lo avrebbero eliminato? «Devo mettere subito in chiaro chi comanda» si disse. Buffo... finché era nella Flotta, non aveva mai pensato a se stesso come a un leader. Era un ufficiale di carriera, certo, ma non si aspettava di arrivare molto in alto. Adesso, invece, doveva capeggiare quella banda di disperati... con le buone o con le cattive. Impugnò il phaser e attivò gli altoparlanti delle celle, così che tutti lo udissero.

   «Fratelli miei... guardatevi nel vostro squallore! Ditemi, chi vi ha rinchiuso lì?!» chiese con voce stentorea.

   «I federali!» risposero a una sola voce i prigionieri.

   «I federali, già! Fino a poco tempo fa ero uno di loro!» rivelò Jack, pur sapendo che era una mossa rischiosa. «Mi hanno incastrato per coprire i loro sporchi traffici e poi hanno cercato di eliminarmi prima ancora che arrivassi alla prigione! Ma l’hanno pagata cara... e questo è solo l’inizio!» promise, mostrando il palmo della mano insanguinata. «Se ora vi do la libertà, qual è la prima cosa che farete?» li istigò.

   «Conquisteremo la nave!» risposero i detenuti.

   «Fallirete» li gelò l’Umano, «se non sarò io a guidarvi. Vedete, ero nella Sicurezza, quindi conosco le loro procedure. So cosa fare per coglierli di sorpresa... ma voi dovete obbedirmi. Se non lo farete, sarete riacciuffati oppure uccisi. Allora, siete con me?!» gridò, sapendo di avere poco tempo prima che squillassero gli allarmi.

   Un grosso Letheano, che fino ad allora era rimasto seduto in brandina, si alzò e venne davanti al campo di forza. «Chi sei tu?» chiese, fissandolo con gli occhi rosso sangue.

   «Chi ero non ha più importanza... d’ora in poi sarò lo Spettro» disse il giovane, colto da una subitanea ispirazione. «Se mi seguirete, vi consegnerò la tecnologia dell’Occultamento Sfasato, che ci renderà imprendibili. Ebbene?!».

   Il Letheano rifletté brevemente. «Io sono con te» disse solennemente. «Guidaci alla libertà, Spettro!».

   «Guidaci, Spettro! Guidaci, Spettro!» ripeterono gli altri detenuti, alzando i pugni. Cominciarono in pochi, ma in men che non si dica il coro si allargò, finché tutti lo invocarono.

   Era il momento. Come osservandosi da fuori, l’Umano vide le sue mani premere i comandi per disattivare i campi di forza. Gli schermi si dissolsero, permettendo ai galeotti di evadere. Si riversarono nella sala di guardia, rumoreggiando.

   «Zitti!» li ammonì Jack. «Dobbiamo essere rapidi e silenziosi, o la nostra fuga sarà stroncata sul nascere. Mi serve un luogotenente... e penso di averlo trovato» disse, squadrando il Letheano. «Come ti chiami?».

   «Dauthka» rispose l’alieno con voce gutturale.

   «Bene, Dauthka... tu sarai il mio Primo Ufficiale» disse l’Umano, consegnandogli uno dei phaser che aveva requisito alle guardie. Era il momento della verità. Se il Letheano era un assassino opportunista, lo avrebbe ucciso per strappargli il comando.

   Il momento passò e Dauthka non fece segno di rivoltarsi contro il suo liberatore. «Allora, qual è il piano?» chiese invece.

   Jack sorrise, sentendosi d’un tratto più sicuro di sé, e cominciò a spiegare.

 

   Un’ora dopo la nave prigione era in mano agli evasi. I federali erano chiusi nelle celle, salvo i pochi caduti negli scontri. Jack intendeva abbandonarli sul più vicino pianeta abitabile, concedendo loro un trasmettitore subspaziale, così che la Flotta li recuperasse. Molti degli evasi avrebbero preferito tenerli in ostaggio e altri non vedevano l’ora di vendicarsi su di loro; ma l’Umano era deciso a imporre la sua volontà. Anche se c’erano state alcune vittime, non avrebbe permesso ai suoi di uccidere a piacimento, e nemmeno di farsi scudo con i federali. Avrebbero trovato altri modi per cavarsela.

   Naturalmente anche qualche evaso era caduto negli scontri, ma nel complesso le perdite erano minime. Dopo aver liberato anche i prigionieri degli altri ponti, Jack si era ritrovato a capo di una ciurma di ben duecento effettivi. Erano tanti, e fra loro non mancavano i criminali irriducibili. Non sarebbe stato facile mantenere il comando ed evitare che quei disgraziati si scannassero tra loro. Ma ci doveva provare. Dauthka gli sarebbe stato prezioso: era già diventato il suo braccio destro.

   «Bene, bene» disse l’Umano, aggirandosi nella plancia con il phaser ancora in pugno. «Il radiofaro subspaziale è spento?».

   «Sì, capo» disse il Letheano, che sedeva alla postazione tattica.

   «Allora è il momento di cambiare rotta» ordinò Jack.

   «Dove andiamo?» chiese il timoniere, un giovane Takret.

   «Rotta verso le Badlands, le attraverseremo per far perdere le tracce» decise l’Umano. Smise di aggirarsi; era davanti alla poltroncina del Capitano. Per un attimo la osservò combattuto: non era così che sperava di guadagnarsene una. «Al diavolo» pensò, e vi sedette.

   «Deviazione effettuata; procediamo a velocità costante» disse il timoniere.

   «Sarebbe il caso di parlare alla ciurma» consigliò Dauthka.

   «Uhm, sì» mugugnò Jack, tastandosi cautamente il naso dolorante. Era proprio rotto e forse gli sarebbe rimasto un po’ storto. Un piccolo prezzo, per la libertà... ma ora non doveva lasciarsi distrarre da quel dolore pulsante. Il Letheano aveva ragione, la loro situazione era ancora critica. Jack aveva piazzato in plancia i compagni più fidati, ma la maggior parte degli evasi era sparpagliata in altri ponti. Non poteva sapere cosa stessero architettando. Molti probabilmente cercavano navette e capsule per svignarsela. Altri forse complottavano per prendere il comando. Era una situazione precaria e le cose potevano precipitare in ogni momento. Serviva un discorso chiarificatore.

   Il giovane aprì un canale con tutta la nave e prese fiato. «Spettro a ciurma; v’informo che la nave è nostra!» annunciò, suscitando un coro d’acclamazioni, in plancia e altrove. «Siamo liberi come vi avevo promesso. Ma la Flotta c’inseguirà, statene certi. Se non vogliamo tornare dietro le sbarre, dobbiamo prendere delle decisioni».

   Fatta una breve pausa, l’Umano riprese con più sicurezza. «Ora che vi ho liberati, non posso e non voglio trattenervi contro la vostra volontà. Quelli di voi che vogliono lasciare la nave potranno farlo. Sappiano però che saranno soli e braccati. Quelli che sceglieranno di restare qui avranno maggiori speranze di cavarsela. Insieme formeremo un nuovo equipaggio. Saremo pirati, vale a dire che saremo padroni di noi stessi e raddrizzeremo i nostri torti. Nessuna legge federale, nessun regolamento di Flotta ci legherà le mani. Useremo i nostri talenti per restare liberi, per trovare altri che la pensano come noi... e per arricchirci!». Queste ultime parole suscitarono nuove acclamazioni.

   «Avete il resto della giornata e tutta la notte per pensarci. Domattina ci riuniremo nell’hangar, per salutare i fratelli che avranno deciso di andarsene. Pensateci bene!» raccomandò Jack. «A chi ci lascerà auguro buona fortuna. Ma a chi resterà con me, dico: voi sarete la banda dello Spettro. Sarete temuti e rispettati sui mondi senza legge della frontiera. Parteciperete ad avventure redditizie. E se avete dei conti in sospeso coi Breen... col tempo li pareggerete. La riscossa comincia ora!».

 

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Capitolo 2
*** Blitzkrieg ***


-Capitolo 1: Blitzkrieg

Data Stellare 2592.292

Luogo: Galorndon Core

 

   «Un’offerta per la nuova scuola! Tenete accesa la fiamma della solidarietà, in questi tempi bui!» esclamò V’Lena. Era da ore che si sgolava, davanti alla porta del centro commerciale. Le mani e il volto erano ormai intirizziti dal freddo; i fiocchi di neve che cadevano dal cielo scuro le avevano imbiancato il copricapo. Eppure la giovane Romulana ripeteva la sua esortazione, tendendo le mani ai passanti.

   Costoro perlopiù la ignoravano, anzi la maggior parte di loro accelerava il passo. Non che i cittadini della Repubblica Romulana fossero senza cuore; ma due anni di guerra civile avevano eroso il loro potere d’acquisto e le prospettive scoraggianti li inducevano alla parsimonia. Da quando l’energia delle abitazioni era stata razionata, per decreto del governo, pochi potevano usare il replicatore per procurarsi ciò di cui abbisognavano. Così erano tornati a fare acquisti alla vecchia maniera. C’erano impianti che producevano cibo e beni di prima necessità, e trasporti che li smerciavano ai punti vendita, come nei secoli precedenti l’invenzione dei replicatori. Nessuno sapeva quanto sarebbe durato questo stato di cose; i più pessimisti paventavano l’avvento di un Medioevo post-tecnologico.

   «Perché c’è bisogno di una nuova scuola?» chiese un passante, fermandosi davanti alla questuante. La moglie e il figlio piccolo, che lo accompagnavano, restarono qualche passo indietro.

   «Negli ultimi mesi molti sfollati dell’Unione sono stati trasferiti qui» spiegò V’Lena.

   «Umani, eh?» fece il passante.

   «Non solo; tante specie sono state travolte dal conflitto» precisò la giovane. «Bajoriani, Trill, Xindi... sapesse in quanti hanno dovuto abbandonare le loro case!».

   «E devono venire proprio qui?».

   «I nostri mondi sono stati risparmiati dalla guerra...».

   «Finora» sospirò il Romulano. Dato che ormai si era fermato a parlare, si sentì obbligato a fare una piccola offerta, quel poco che poteva permettersi in tempi di magra. La giovane gli sorrise, grata.

   «Mamma, perché quella signora è vestita in modo così strano?» chiese il bambino, che era rimasto più indietro con la madre.

   «Perché è una Qowat Milat, tesoro» fu la risposta. «Si tratta di uno strano ordine monastico di sole donne. Le sue adepte credono che...».

   «Noi crediamo nella filosofia del Candore Assoluto!» rispose la monaca, con un ampio sorriso. «All’opposto dei Vulcaniani, che reprimono le emozioni, e dei Romulani Imperiali coi loro segreti e le loro doppiezze, noi crediamo che non debbano esserci filtri tra pensieri, parole e azioni. La nostra è la Casa della Verità».

   «Wow, bello!» esclamò il bambino, a cui la severa disciplina romulana stava stretta. La madre invece era imbarazzata; non immaginava che la monaca l’avesse udita a quella distanza. «Ho anche sentito che vi addestrate nelle arti marziali e nell’uso di armi da taglio» disse freddamente, stringendo a sé il figlio come per proteggerlo. «Come s’inserisce questo nella vostra filosofia?».

   «Non siamo sicarie, se è ciò che teme» si accigliò V’Lena. «Non accettiamo ingaggi, anche se la nostra assistenza può essere richiesta; ma decidiamo noi se è una causa degna».

   «Con quale criterio?».

   «Lottiamo solo per cause perse» rispose la monaca, con disarmante semplicità. «Ricorriamo alla violenza come ultima risorsa e anche allora chiediamo sempre ai nostri avversari di “scegliere la vita”, cioè di arrendersi».

   «E ora aiutate i profughi...» notò il Romulano che aveva fatto l’offerta.

   «In questo momento raccolgo donazioni per dar loro una scuola, sì» confermò V’Lena. «Ma le mie sorelle assistono in vari modi la Federazione nella lotta contro la perfida Unione. Vedete, siamo giunte alla conclusione che si tratta della causa più persa che ci sia».

   «Capisco» deglutì il Romulano. «Beh, buona fortuna».

   «Grazie! Altrettanta a voi!» trillò la giovane. Unì i palmi delle mani e poi li aprì, mostrandoli agli interlocutori, a mimare un libro che si apre. Era il saluto tradizionale del suo Ordine.

   La famiglia romulana si riunì e poi si allontanò, mentre la monaca tornava a chiedere offerte. Anche se si sforzava d’essere ottimista, doveva ammettere che la situazione era davvero brutta. Si era ormai agli sgoccioli del secondo anno di Guerra Civile. L’Unione Galattica, governata dalla Presidente Rangda, controllava i sistemi centrali di quella che un tempo era la Federazione Unita dei Pianeti. Per imporre le sue leggi liberticide usava i Pacificatori, cioè quella parte di Flotta Stellare che le aveva giurato fedeltà e si era militarizzata. Ma contava anche sugli aiuti dei Voth, la potenza del Quadrante Delta. Due anni prima quegli alieni, lontani discendenti degli Hadrosauri terrestri, avevano ritrovato la loro patria ancestrale, dopo un oblio durato milioni di anni. Sfortunatamente ne avevano anche reclamato la proprietà, pretendendo di sloggiare gli attuali abitanti – Umani e alieni – per sostituirli con i propri coloni. Quando Rangda aveva ceduto all’ultimatum, consegnandogli la Terra, la Guerra Civile era stata inevitabile.

   Gli ufficiali di Flotta che avevano rifiutato di obbedire all’ordine presidenziale si erano trovati banditi con l’accusa di ribellione. I loro ex colleghi li avevano braccati, i loro parenti erano stati interrogati e talvolta usati come esche per tendere loro trappole. Alla fine non era rimasto loro che riunirsi su Kronos, stabilendovi un Comando di Flotta in esilio. Il loro proposito di deporre Rangda e riconquistare la Terra si era ben presto arenato contro l’immensa superiorità numerica del nemico. La nuova Federazione non aveva nemmeno la contiguità territoriale: era spezzata in due tronconi che stentavano a coordinarsi e a prestarsi soccorso.

   Il Fronte Occidentale era quello più malmesso, essendo piccolo e quasi interamente circondato dal nemico. Un punto di svolta era stata la Battaglia di Bajor: sebbene il sistema fosse caduto in mano all’Unione, quest’ultima aveva subito perdite così gravi da dover cambiare approccio. Rangda aveva smesso di affidare la guerra a burocrati inesperti, selezionati solo per la fedeltà personale, e aveva permesso ai Pacificatori di fare carriera in base ai loro meriti. La nuova strategia dell’Unione ricorreva meno alla forza bruta e più agli omicidi politici, per decapitare la leadership ribelle. Ormai non c’era pianeta federale che non fosse stato teatro di sanguinosi attentati. Almeno Rangda aveva perso il supporto dei Breen, dopo le devastanti perdite subite nel sistema bajoriano. Si doveva solo a questo se il Fronte Occidentale non era completamente crollato.

   Le cose andavano meglio nel più vasto Fronte Orientale. Qui c’erano l’Impero Klingon e la Repubblica Romulana, i cui cantieri sfornavano a ritmo frenetico le nuove astronavi di classe Juggernaut, la miglior difesa contro il nemico. I mondi romulani, in particolare, non erano stati ancora minacciati e quindi potevano accogliere i profughi provenienti da quelli sotto attacco. Di tutte le specie federali, nessuna aveva sofferto quanto gli Umani. Banditi dalla Terra, erano perseguitati anche sugli altri pianeti dell’Unione, dov’erano considerati possibili spie e traditori. Di conseguenza erano condotti in Centri di Rieducazione pericolosamente simili a campi di concentramento, dov’erano indottrinati per accertarsi che fossero fedeli all’Unione e alla sua Presidente. I più fortunati se la cavavano con pesanti umiliazioni; ma chi osava protestare finiva sulle Lobo-Sedie, da cui si rialzava con danni neurologici.

   In tutto quest’orrore, le Qowat Milat alleviavano le sofferenze degli Umani e degli altri diseredati; ma era come cercare di arginare la marea con un secchiello. «Beh, è per questo che esistiamo» si disse V’Lena. Pur essendo ancora una novizia, ce la stava mettendo tutta per vivere secondo la regola dell’Ordine. Si spazzolò la neve dall’abito monacale e tornò ad appellarsi al buon cuore dei passanti.

   Fu allora che risuonarono le sirene d’allarme. Erano il segnale che una forza ostile minacciava il pianeta; e di quei tempi potevano essere solo i Pacificatori. Era strano che colpissero così lontano dal fronte, ma forse faceva parte della nuova strategia, mirata a spargere il terrore. Udendo gli allarmi, gli abitanti interruppero all’istante le loro occupazioni e si diressero ai rifugi sotterranei. Chi poteva si teletrasportò; gli altri dovettero correre. Alcune navette della polizia sorvolarono la città. Gli agenti controllavano che tutti seguissero il piano d’evacuazione e sarebbero intervenuti in caso di resse o saccheggi; ma non potevano proteggere gli abitanti da un attacco orbitale. E Galorndon Core non disponeva di uno Scudo Planetario. Per la sua difesa poteva contare solo su alcuni vecchi Falchi da Guerra. Se il nemico fosse riuscito a oltrepassarli, o se fosse stato così numeroso da attaccare simultaneamente le navi e il pianeta...

   V’Lena aveva appena formulato il pensiero che subito lo vide concretizzarsi. Dal cielo piovvero raggi verdi, che colpirono alcuni palazzi della città, disintegrandoli. Ci furono lampi accecanti, seguiti da immani boati e da onde d’urto che scossero gli edifici circostanti. Una delle esplosioni avvenne a pochi isolati di distanza: la monaca fu sollevata da terra e scaraventata all’indietro. Per sua fortuna atterrò sulla neve, che attutì l’impatto. Si rialzò a fatica, rintronata dall’onda d’urto. Attorno a lei c’erano scene di panico: gente che scappava, feriti a terra che si lamentavano, corpi immobili che forse erano morti. L’attacco dallo spazio continuava, spietato. Eppure era chiaro che il nemico non voleva annientare l’insediamento, o avrebbe usato i siluri. No, quelli erano colpi chirurgici, per distruggere luoghi chiave come la caserma della polizia e il presidio della Flotta Stellare. Il resto della città doveva essere risparmiato, per tornare sotto la giurisdizione dell’Unione.

   «Codardi» pensò V’Lena, osservando impotente i micidiali raggi verdi che piovevano dal cielo. Verdi?! Quello non era il colore delle armi dei Pacificatori. Sarebbero dovuti essere giallo-arancioni, come i phaser, oppure azzurri come i raggi anti-polaronici. Il verde era il colore dei disgregatori romulani.

   «Oh, no» si disse la monaca, intuendo l’orribile verità. Aprì la bisaccia che portava ancora con sé e ne trasse un Visore a lungo raggio. Regolandolo sul massimo ingrandimento poteva inquadrare le navi in orbita, pur non avendo la precisione di un telescopio vero e proprio. La Romulana lo indossò, correggendo la lunghezza d’onda per vedere oltre la cappa di nubi. Ecco, lì c’erano i Falchi da Guerra repubblicani che cercavano di difendere il pianeta. Erano soverchiati dal fuoco nemico: V’Lena ne vide uno esplodere. Gli altri si ritirarono, per non finire allo stesso modo. Probabilmente i loro scudi avevano incassato molti colpi e stavano per cedere.

   La Qowat Milat spinse oltre lo sguardo, in cerca degli assalitori. Si aspettava di vedere i Falchi dello Stato Imperiale, l’altra potenza nata dalla scissione dell’Impero Romulano. Erano due secoli che lo Stato Imperiale sognava di conquistare la Repubblica, restaurando l’antico Impero; ma col tempo la minaccia sembrava sfumata. La Repubblica si era aggregata ai federali, mentre lo Stato Imperiale si era ridotto ed era diventato una nazione eremita, dai confini vigilati e impenetrabili. «Ma la Guerra Civile ha cambiato tutto» comprese V’Lena. Adesso era la Repubblica a trovarsi sotto pressione, con la flotta sparpagliata su fronti lontani e poche navi a vigilare il confine con lo Stato Imperiale. Per i loro vecchi nemici era l’occasione perfetta per attaccare. «Perché la Flotta Stellare non l’ha previsto?» si chiese la Romulana, angosciata. In quella vide le navi nemiche. E restò di sasso.

   Quelle cose non avevano nulla in comune con i Falchi da Guerra. Erano giganteschi ammassi di metallo scuro, che protrudeva grottescamente. Si stentava persino a riconoscere la prua dalla poppa e l’alto dal basso. Non c’erano gondole quantiche, ali o altri elementi tipici del design romulano. Vi erano solo dei lunghissimi aculei che puntavano in varie direzioni, talora richiudendosi come tenaglie. In certi casi sembrava che la nave avesse cercato di trasformarsi in una sfera e non ci fosse riuscita, restando parzialmente aperta. Talvolta i tronconi maggiori erano collegati da filamenti più sottili, come se quelle mostruosità stessero ancora crescendo. La cosa più sorprendente era l’estrema differenza tra una nave e l’altra: sebbene fossero tutte irte di aculei, non ce n’erano due uguali. Alcune erano compatte; altre più aperte e brancolanti. Alcune erano poco più grandi dei Falchi da Guerra; altre raggiungevano proporzioni titaniche. Erano armate con disgregatori, certo ad alta potenza, e strani missili scuri e spinosi. Ed erano tante... troppe, per il loro debole presidio. V’Lena ne contò otto, ma potevano essercene altre attorno al pianeta.

   Non sapendo che fare, la novizia pensò di chiedere istruzioni alle sue consorelle. Levò di tasca il comunicatore e lo attivò. «Sorella V’Lena alla Casa della Verità; dove devo andare? Dov’è che sarò più utile?» chiese con un groppo in gola. Non ebbe risposta. Ma guardando a est, dove si trovava il loro monastero, vide che quella parte della città era stata bombardata. Possibile che anche il monastero fosse stato distrutto? Forse sì, pensò la giovane con un tremito. Lo Stato Imperiale odiava a morte la loro dottrina, così antitetica alle sue losche trame. Se le cose stavano così, lei era l’ultima Qowat Milat del pianeta. Il che esigeva doppio impegno da parte sua.

   La monaca gettò il piatto delle offerte e sguainò la tan qalanq, la spada tradizionale del suo Ordine. Probabilmente le sarebbe servita, nelle ore di disordine che l’attendevano; e non solo contro gli sciacalli che approfittavano delle distruzioni. No, era probabile che gli Imperiali sbarcassero le truppe d’occupazione, dopo essersi assicurati il controllo dell’orbita.

   Dovendo darsi un obiettivo, la giovane si diresse all’accampamento degli Umani, alla periferia della città. Lì c’erano i bambini per i quali si stava allestendo la scuola; la causa alla quale aveva contribuito fino a pochi minuti prima. Era chiaro, ormai, che quel progetto non si sarebbe realizzato. Il meglio che poteva fare era raggiungere i bambini, cercare di proteggerli... forse fuggire con loro, se avesse trovato un trasporto. Già, ma come superare quelle astronavi micidiali? V’Lena non lo sapeva. Se le sue consorelle erano morte, come temeva, forse stava per seguirle. Ma lo avrebbe fatto restando fedele ai suoi ideali.

 

   Gli ultimi Falchi da Guerra repubblicani batterono in ritirata, con gli scafi anneriti e costellati di falle. Sul ponte dell’ammiraglia imperiale, gli ufficiali li osservarono con feroce soddisfazione. Era da tutta la vita che si preparavano a quel momento.

   «La vendetta è un piatto che va gustato freddo» mormorò l’Imperatrice. Il suo viso era in ombra, perché l’illuminazione della plancia era volutamente tenuta bassa.

   «Come dite, Altezza?» chiese il Pretore Oren, avvicinandosi.

   «Citavo un vecchio proverbio Klingon» rispose la sovrana, agitando una mano con noncuranza.

   «Possiamo inseguire quei Falchi; ormai basta poco a finirli» suggerì l’Ufficiale Tattico. Si chiamava Ducrax ed era un Romulano imponente, dai capelli tagliati a zero salvo che sulla sommità del capo.

   «Eseguite; ma la nostra nave terrà la posizione» ordinò l’Imperatrice, contemplando il pianeta blu dall’atmosfera turbinosa. «Però lasciate andare uno di quei Falchi. Il più piccolo... risparmiate il più piccolo» aggiunse.

   «Così avvertirà la Federazione» notò Oren.

   «È quello che voglio» disse l’Imperatrice. Sebbene il suo volto restasse in ombra, il Pretore ebbe l’impressione che sorridesse.

 

   «Svelti, bambini! No, non potete tornare in tenda a prendere le vostre cose!» disse V’Lena. Sotto la supervisione sua e di altri adulti, i bambini e i ragazzi umani si stavano rifugiando nel bunker sotterraneo. Questo li avrebbe protetti dai saccheggiatori, ma certo non dalle agguerrite truppe imperiali. Si poteva solo sperare che i conquistatori non avessero particolare interesse nei loro riguardi. Dopo una breve ma concitata discussione, i responsabili del campo avevano optato per questa linea d’azione. L’alternativa – fuggire con le navette – sembrava troppo pericolosa, finché quei vascelli mostruosi erano in orbita.

   «Ci sono tutti?» chiese V’Lena, vedendo che l’afflusso di ragazzi si era fermato.

   «Sì, tutti» confermò un educatore, con l’aria tirata. «Chiuditi dentro con loro e non aprire per alcun motivo, se non t’inviamo il codice di riconoscimento».

   «Sarò più utile fuori» suggerì la giovane.

   «Non direi» rispose l’uomo, squadrandola da capo a piedi. «Agli Imperiali non piacciono le Qowat Milat, quindi anche tu sei a rischio. Del resto i ragazzi ti conoscono e si fidano di te. Bada a loro, fa’ che non cadano nel panico».

   «Come vuoi» cedette la monaca, rinfoderando la sua lama. Arretrò di qualche passo, mentre il portone blindato si richiudeva. Ecco, si era chiuso del tutto. Adesso era isolata nel sottosuolo, assieme ad alcune centinaia di bambini e ragazzi, oltre a un pugno di educatori. Tra gli adulti lì presenti era l’unica che sapesse combattere. Ma sapeva che, se gli Imperiali avessero sfondato, la sua presenza non avrebbe fatto molta differenza. Nel migliore dei casi li avrebbe rallentati.

   «Stiamo per morire?» chiese un bambino di otto o nove anni, spaventatissimo.

   «Può darsi» rispose V’Lena, seguendo istintivamente il Candore Assoluto. Ma quando vide il terrore sul volto del piccolo e dei suoi coetanei, decise di aggiustare il tiro. «O può darsi che vada tutto bene» li rassicurò. «Non lo sappiamo ancora. Nell’incertezza, non è il caso di aver paura».

   «Dov’è la mia mamma?!» chiese una bambina di forse sette anni, con gli occhioni lucidi, sul punto di scoppiare in lacrime.

   «È in superficie, con gli adulti» spiegò la monaca.

   «Perché?».

   «Perché questo bunker è troppo piccolo per accogliere tutti».

   «Ma io la voglio qui!».

   «Non puoi...» cominciò V’Lena, ma fu interrotta.

   «Allora voglio tornare su!» frignò la bambina, e cominciò a singhiozzare disperatamente. Il suo pianto si allargò come un’onda ai bimbi più piccoli.

   «Si allontani, qui fa solo danni!» sibilò un’educatrice, inviperita.

   Mentre gli Umani cercavano di calmare i loro piccoli, la Romulana si appartò in un angolo, dove c’erano trasmettitori per comunicare con l’esterno. Rimase prudentemente in silenzio subspaziale, per non attirare l’attenzione dei nemici. Tuttavia nulla le impediva di captare le trasmissioni. Ora che la battaglia spaziale era finita, si aspettava che lanciassero un ultimatum. Non si sbagliava.

   La trasmissione veniva dall’ammiraglia imperiale. La plancia era semibuia, certo per non rivelare i dettagli della loro tecnologia. C’era un sedile simile a un trono, su cui si trovava una figura con l’uniforme militare dello Stato Imperiale: un fitto reticolo grigio e nero. Il viso era in ombra, s’intravedeva solo la tipica capigliatura a caschetto dei Romulani Imperiali. A essere illuminato era invece il braccio destro, che impugnava un elaborato scettro metallico.

   «Il Debrune Teral’n» riconobbe V’Lena con un fremito. Era l’antico scettro impugnato dagli Imperatori romulani e poi dai Pretori. Si riteneva che fosse andato distrutto con il pianeta Romulus, nell’esplosione della supernova di Hobus. Forse lo avevano ritrovato fra i detriti... ma era più probabile che fosse una copia moderna.

   «Mi rivolgo agli abitanti di Galorndon Core e a tutti i cittadini della Repubblica Romulana» disse colei che impugnava lo scettro, con fredda voce di contralto. «In quest’epoca di cambiamenti, in cui i vecchi equilibri crollano, è tempo che il nostro popolo si riunifichi. La Repubblica Romulana si è dimostrata incapace di proteggervi. Ha stoltamente aderito all’Unione Galattica, rinunciando alla propria sovranità; e l’Unione vi ha trascinati nella sua guerra civile.

   Noi dello Stato Imperiale siamo qui per rimediare a questa sciagura. È nostro fermo proposito restaurare l’Impero Stellare Romulano, reclamando tutti i mondi che ne facevano parte all’epoca del suo splendore. Vi chiediamo di unirvi a noi spontaneamente, in fratellanza e letizia. In cambio avrete quella protezione che la debole Repubblica e l’Unione corrotta non hanno saputo darvi. Questo è il momento di prendere in mano il vostro destino; di proclamare che il popolo romulano è di nuovo unito e capace di annoverarsi tra le potenze della Galassia. Che il Teral’n, lo scettro dei nostri padri, possa guidarci a un secondo Impero, più glorioso del primo!». Così dicendo lo batté a terra, provocando un clangore metallico.

   «Chi sei, pazza fanatica?» si chiese V’Lena, cercando di riconoscere la fisionomia in ombra.

   «Se vi domandate chi sia, io che impugno il Teral’n, sappiate che sono l’unica in diritto di farlo» disse la sovrana, alzandosi in piedi. Il suo viso fu illuminato da una luce cruda. Aveva occhi azzurri e freddi; sulla fronte non c’era accenno del segno a V tipico dei Romulani. I capelli, tagliati a caschetto, erano di un biondo oro. C’era una sola leader, nella lunga storia dell’Impero, con quei tratti somatici; e non era una Romulana purosangue. «Sono l’Imperatrice Sela e vi accolgo nel mio regno» sorrise la mezza Umana.

 

   Fu in quel momento che un singolo vascello della Flotta Stellare uscì dalla cavitazione quantica. Colpì l’ammiraglia imperiale con una salva di siluri, senza penetrarne gli scudi, e passò rapidamente oltre. Le astronavi simili a istrici risposero al fuoco, ma la nave federale schivò la maggior parte dei colpi con incredibile agilità. Entrò nell’atmosfera del pianeta e puntò dritta verso la capitale. Era uno strano vascello, dalla forma compatta e lo scafo corazzato blu-violaceo, privo di finestre. Fino a qualche anno prima avrebbe meravigliato gli avversari; ma ora non più. L’USS Keter era diventata famosa in gran parte della Galassia: amata da alcuni, odiata a morte da altri, ma certamente non ignorata.

   «Terry, abbassa gli scudi e imbarca gli Umani» ordinò il Capitano Hod, sentendo la nave che vibrava appena per quella manovra spericolata.

   «Eseguo» rispose l’Intelligenza Artificiale, in tono distaccato. C’era stato un tempo in cui Terry era l’Ufficiale Scientifico dell’Enterprise-J e si occupava in prevalenza di analisi sensoriali. Ma da quando l’Enterprise era stata distrutta, all’inizio della Guerra Civile, la sua vita era drasticamente cambiata. Adesso era l’Ufficiale Tattico della Keter, vale a dire che era lei ad aprire il fuoco contro i nemici e talvolta a distruggerli. Esteriormente era quella di sempre: una proiezione isomorfa con l’aspetto di una donna umana di etnia orientale, sul principio della ventina. Era così fin dal giorno della sua prima attivazione e non aveva mai apportato cambiamenti, salvo a volte una nuova acconciatura o un abito informale per i momenti di relax. Era nei meandri del suo programma che le cose erano cambiate. Come ogni essere senziente, Terry aveva fatto esperienze e si era evoluta, adattandosi alle circostanze.

   «Rilevo trecento segni vitali Umani in un...» cominciò Zafreen, l’addetta a sensori e comunicazioni.

   «Sono bambini; li sto teletrasportando per primi» l’interruppe Terry. Per quanto l’Orioniana fosse veloce nelle sue letture, non poteva anticipare l’IA che era direttamente collegata ai sensori. In teoria le analisi spettavano a Zafreen, ma c’erano casi in cui bisognava decidere e agire all’istante.

   «... in un bunker sotterraneo» concluse Zafreen, a beneficio dei colleghi. L’Orioniana era imbronciata, come tutte le volte che si sentiva marginalizzata dall’efficientissima IA.

   «Abbiamo posto per tutti?» chiese il Comandante Norrin.

   «Li trasferirò nei corridoi se necessario, ma sì, possiamo imbarcare tutti gli Umani» confermò Terry, che li stava teletrasportando più in fretta possibile. «Sempre che siano più bisognosi di protezione rispetto agli altri» aggiunse. Ogni volta che un pianeta cadeva in mano all’Unione, la Flotta Stellare cercava di evacuare gli Umani, sapendo che erano la categoria più a rischio. Ma stavolta gli avversari erano i Romulani Imperiali, quindi non era affatto chiaro chi avesse più bisogno di protezione.

   «Ci sono milioni di Romulani laggiù; non possiamo salvarli tutti» disse il Capitano Hod, corrucciata. Sapeva che privilegiare ancora gli Umani le avrebbe attirato gli strali della Repubblica Romulana, ma nell’incertezza doveva seguire la procedura standard.

   Una serie di scosse interruppe i suoi pensieri. Non erano le lievi vibrazioni dovute al volo atmosferico, bensì gli scossoni irregolari provocati dal fuoco nemico.

   «Gli Imperiali ci colpiscono» disse Terry. «Sto disintegrando i loro siluri prima che giungano a bersaglio; questi sono i disgregatori».

   «Quanto possiamo resistere?» chiese il Capitano, confidando nella resistenza dello scafo in neutronio.

   «Venti secondi al massimo» rispose l’IA, mentre le scosse aumentavano.

   «Bastano?».

   «Appena».

   In quella un oggetto metallico si materializzò in plancia. Era scuro e minaccioso, con lunghi aculei che si protendevano fin quasi al soffitto. Si trattava senz’altro di una mina, o forse di un siluro, che gli Imperiali avevano teletrasportato approfittando degli scudi abbassati. Hod e Norrin, che se lo videro apparire davanti, scattarono in piedi. «Breccia nella sicurezza! Lo rimandi indietro!» ordinò il Capitano.

   «Sto disturbando il loro segnale» disse Terry, concentrandosi. I federali videro che il bagliore verde del teletrasporto non si era del tutto estinto. In certi momenti l’ordigno pareva sul punto di dissolversi, in altri prendeva consistenza.

   Il timoniere Vrel, che ce l’aveva alle spalle, si girò con tutta la poltroncina e gli dette un’occhiata. Notò un piccolo quadrante, su cui spiccavano dei caratteri romulani. Era una lingua che il mezzo Xindi conosceva a grandi linee. «Tre secondi all’esplosione!» avvertì.

   «Fuori...» mormorò Terry, ricorrendo a tutte le sue capacità per disturbare il teletrasporto. «Ho... detto... fuori!» gridò, mentre i suoi occhi lampeggiavano.

   L’ordigno si dissolse. Tre secondi dopo uno dei vascelli imperiali fu squassato da un’esplosione interna, che squarciò la fiancata. L’astronave danneggiata lasciò l’orbita, per non rischiare altri colpi. Le altre continuarono a sparare.

   «Gli Umani sono tutti a bordo» disse Terry, rialzando prontamente gli scudi. «Le nostre bocche da fuoco dorsali sono danneggiate» aggiunse.

   «Allora ritiriamoci» ordinò il Capitano, osservando a malincuore la città indifesa. Laggiù c’erano milioni di persone che potevano legittimamente chiedersi perché erano state lasciate indietro.

   «Agli ordini» disse Vrel, che odiava tener ferma la nave a fare da bersaglio. La diresse verso l’alto, attraverso le nubi, fino a superare l’atmosfera turbolenta. La Keter era di nuovo nello spazio, a centinaia di chilometri dal punto di discesa. I vascelli irti di aculei la inseguirono.

   «Quei porcospini c’inseguono, ma... strano, hanno cessato l’attacco» riferì Zafreen. «Ora ci chiamano».

   «È la nave ammiraglia» puntualizzò Terry, usurpando ancora una volta il suo ruolo. L’Orioniana alzò gli occhi al soffitto, ma non aggiunse nulla.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano, alzandosi per fronteggiare l’avversaria. Nella sua carriera aveva affrontato Capitani, Ammiragli, Generali; ma un’Imperatrice le mancava.

   «Capitano Hod... era da tanto che desideravo incontrarla» esordì Sela.

   «Poteva chiamare prima di mandarci un ordigno in plancia» notò l’Elaysiana.

   «Era solo una prova; volevo assicurarmi che foste all’altezza delle dicerie» rispose la mezza Romulana, liquidando la faccenda. «D’altro canto siete stati voi a sparare per primi».

   «Avete assalito un mondo federale; è nostro dovere reagire» obiettò il Capitano.

   «I vostri doveri vi hanno portati in guerra contro tutti» sogghignò l’Imperatrice. «I Voth, l’Unione, i Breen... non vi conviene inimicarvi anche noi. Fareste meglio a non ostacolare la riunificazione del nostro popolo».

   «I Breen si sono disimpegnati dal conflitto e i Voth non si disturbano a combattere di persona» obiettò Hod. «Non siamo così disperati come crede».

   «Lo sarete, se oserete attaccarci di nuovo» minacciò Sela. «Ormai avrete capito che abbiamo la superiorità tecnologica. Dica alle sue autorità che esigo la restituzione immediata di tutti i mondi dell’Impero Romulano all’epoca della sua massima estensione. O ce li consegnate pacificamente, o li riconquisteremo con la forza; e in quel caso le vittime si conteranno a milioni». Batté il Debrune Teral’n a terra, per sottolineare l’ultimatum.

   «Sa bene che la Federazione non cederà mai i suoi pianeti senza combattere» ribatté Hod.

   «Eppure avete ceduto la Terra» notò l’Imperatrice.

   «Quella è stata l’Unione! Ed è il motivo per cui la combattiamo» esclamò il Capitano, perdendo per un attimo il controllo.

   «La Federazione, l’Unione... ma si ascolta quando parla?» ghignò Sela. «Siete consumati dal vostro conflitto intestino. Comunque vada a finire, non tornerete quelli di prima. Mi creda... noi Romulani ne sappiamo qualcosa, di guerre civili» aggiunse con una smorfia.

   «Se c’è qualcosa che può ricompattarci, è proprio la vostra aggressione» suggerì l’Elaysiana, anche se lei stessa non osava crederci.

   «Vedremo, Capitano» disse la mezza Romulana, fissandola torva. «Per oggi vi lascio andare, affinché riferiate il mio messaggio. La prossima volta non sarò così clemente». Puntò il Teral’n contro l’Elaysiana, che notò la lama fissata in cima. Non era solo uno scettro: all’occorrenza fungeva da arma. «Oh, a proposito... prelevare gli Umani è stato inutile, dato che non ho particolare animosità contro di loro. Anzi, in un certo senso li considero... di famiglia» aggiunse con un sorriso sardonico.

   Chiusa la comunicazione, l’ammiraglia imperiale riapparve sullo schermo. Era un groviglio di aculei metallici costruito attorno a un informe corpo centrale. Hod la fissò cupamente. «È tecnologia Borg, vero?» chiese.

   «Io... devo fare altre analisi...» farfugliò Zafreen, incerta.

   «Lo è» confermò Terry. «L’unico precedente è la Narada, la nave che attaccò la Federazione e i Klingon all’indomani della catastrofe di Hobus. Distrusse intere flotte, prima d’inseguire la navicella dell’Ambasciatore Spock e scomparire con essa nel buco nero della supernova».

   «Sì, ho letto qualcosa al riguardo» annuì il Capitano, rabbuiata. «La nostra intelligence riteneva che quella nave fosse un unicum, impossibile da replicare... siamo stati troppo ottimisti».

   «Anche se il loro primo successo avvenne per caso, era solo questione di tempo prima che individuassero tutti i fattori necessari a replicarlo» confermò Terry. «Può darsi che gran parte della loro flotta sia stata convertita in quel modo».

   «Questo attacco non può essere isolato» avvertì Norrin. «Se lo Stato Imperiale ha deciso di sfondare, l’avrà fatto lungo tutto il confine».

   «Rotta verso Nuovo Romulus» ordinò Hod, con un groppo in gola. «Dobbiamo organizzare la difesa. E riferire il proclama di quella... quella...». La voce le mancò, mentre si risedeva.

   «Dittatrice tornata dall’Oltretomba?» ironizzò Vrel, sebbene anche lui avesse poca voglia di ridere. Portò la Keter in cavitazione quantica, lasciando Galorndon Core in mano agli invasori.

   «Escludendo la resurrezione, resta una limitata gamma d’ipotesi» disse Terry. «Quell’individuo può essere un ologramma o un androide con le fattezze della defunta Imperatrice».

   «Uhm... dubito che gli Imperiali le avrebbero affidato il comando» obiettò Norrin. «A quanto mi risulta, i Romulani non apprezzano le Intelligenze Artificiali. Non ce li vedo a prendere ordini da una di loro».

   «Non potrebbe essere una Romulana che si maschera per fingersi la loro sovrana più famosa?» suggerì Zafreen, volendo contribuire alla discussione.

   «Improbabile» disse Terry. «Dovrebbe comunque giustificare il suo ritorno».

   Zafreen la guardò storta. Oltre a intromettersi nel suo lavoro, l’IA aveva l’abitudine di smontare le sue ipotesi e i suoi suggerimenti, mettendola in ridicolo davanti agli altri.

   «Magari è la vera Sela, che ha viaggiato nel tempo» borbottò Vrel, giusto per buttarla lì.

   «Questo aprirebbe scenari inquietanti, ma ritengo che ci sia una spiegazione molto più semplice» disse Terry.

   «È un clone» indovinò Hod.

   «Esatto, Capitano» annuì la proiezione isomorfa. «Se gli Imperiali dispongono di campioni genetici dei loro sovrani, possono aver clonato la più capace, nella speranza che ridia lustro allo Stato».

   «Un clone di Sela con a disposizione una flotta di Narada» mormorò Hod, cupa in volto. «Stavolta sarà dura» aggiunse, così piano che solo Norrin e Terry la udirono.

 

   Nuovo Romulus e i suoi due soli parevano annegati nelle tinte oltremare della Nebulosa Azzurra, che avvolgeva il sistema. La Keter entrò nell’orbita del pianeta, affiancandosi ai Falchi da Guerra e alle navi della Flotta. A poca distanza vi erano i cantieri spaziali, dove i lavori procedevano incessanti. La notizia dell’attacco imperiale si era sparsa come un fulmine nella Repubblica Romulana, suscitando terrore e disperazione.

   Il Senato era già in riunione plenaria; al loro arrivo i federali furono invitati a partecipare. L’assemblea era presieduta dal Console D’Nas. A rappresentare la Flotta Stellare era invece il Commodoro Lantora, appena giunto con la Constellation. Vedendo entrare Hod, le fece segno di avvicinarsi: l’Elaysiana era il primo capitano della Flotta ad aver affrontato gli Imperiali. I due si salutarono rapidamente, sottovoce.

   «Come vedete, la situazione è drammatica» stava dicendo il Console, accennando all’ologramma tattico che galleggiava al centro dell’aula. Lo Stato Imperiale aveva sfondato lungo tutto il confine. La mappa era aggiornata in tempo reale, man mano che giungevano i rapporti dal fronte. «Due anni di guerra civile hanno minato le nostre difese» spiegò D’Nas. «Le guarnigioni al confine sono state travolte, i nostri mondi cadono uno dopo l’altro. Voi dovete aiutarci!» si appellò ai federali.

   «Con tutto il rispetto, Console, ma l’eventualità di un attacco imperiale era tutt’altro che remota» disse Lantora. «La vostra Repubblica ha sempre vissuto sotto questa minaccia. Avete costruito avamposti lungo il confine, avete fortificato ogni pianeta. So che la maggior parte di queste forze sono rimaste al loro posto, malgrado la Guerra Civile» aggiunse, prevenendo le proteste del Console. «E sapevate benissimo che lo Stato Imperiale poteva approfittare del conflitto per attaccarvi. Quindi com’è possibile che vi abbia colti così alla sprovvista?».

   «Lei non ha idea della loro tecnologia!» obiettò D’Nas. «Ci hanno attaccati con vascelli di cui non si era mai visto l’eguale. La loro potenza di fuoco è immane e i loro scudi si adattano alle nostre armi».

   «In realtà c’è un precedente» intervenne Hod. «La Narada del Capitano Nero, che seminò il caos all’indomani della supernova di Hobus. Quella nave era potenziata con tecnologia Borg. Riteniamo che lo stesso valga per questi incrociatori, il che spiega il loro aspetto e le loro capacità».

   «Come fu distrutto il prototipo?» chiese uno dei senatori.

   «Mentre inseguiva la navicella dell’Ambasciatore Spock si avvicinò troppo al buco nero di Hobus e ne fu risucchiato» sospirò il Capitano. «È da escludere che gli Imperiali ripetano un simile errore. E comunque adesso hanno un’intera flotta di quelle navi, quindi perderne una o due non farebbe differenza».

   «Possiamo usare i siluri transfasici» disse il Console. «Finora sono stati efficacissimi contro i Borg».

   «È questo il problema» disse l’Elaysiana. «Durante il breve scontro a Galorndon Core, abbiamo colpito l’ammiraglia imperiale con un’intera salva di quei siluri. I suoi scudi si sono indeboliti, ma non tanto da cedere. È chiaro che ormai si sono adattati. Del resto anche i Borg, quelli veri, l’hanno fatto. Due anni fa li affrontammo nel Quadrante Delta, scoprendo che i siluri transfasici non sono più così efficaci. Era una delle cose che volevamo discutere col Comando di Flotta... se non fosse scoppiata la Guerra Civile».

   «Sta dicendo che i Borg potrebbero attaccarci e non abbiamo difese?!» si allarmò D’Nas.

   «Per il momento i Borg restano nel Quadrante Delta» rispose il Capitano, cercando di non far scoppiare il panico. «I nostri avversari sono gli Imperiali».

   «Sono d’accordo» intervenne Lantora. «Si tratta di un blitzkrieg, una guerra-lampo che mira a conquistare la maggior quantità possibile di mondi prima che possiamo riorganizzarci. E credo proprio che il loro obiettivo finale sia questo pianeta» disse, suscitando un mormorio di paura tra i senatori. «Di conseguenza il tempo è essenziale. Per rispondere all’attacco convocheremo le forze che avevamo radunato per la controffensiva sul Fronte Orientale. I Klingon non saranno contenti, ma confido che l’Ammiraglio Chase riuscirà a farli ragionare».

   «Dobbiamo intensificare gli sforzi diplomatici con l’Unione e i Voth, per un cessate il fuoco» disse il Console. Parecchi senatori manifestarono il loro assenso.

   «Non mi fiderei troppo della loro parola» disse Lantora, cupo. «Sarebbero capaci di accettare... e poi di attaccarci alle spalle, dopo essersi accordati sottobanco con gli Imperiali per spartirsi i pianeti».

   «Quel che ci serve sono nuovi alleati, di cui poterci fidare» propose Hod. «Dobbiamo rivolgerci a chi soffrirebbe maggiormente per la vittoria imperiale».

   «Non penserà mica a...» fece il Console, rifiutando persino di pronunciare quel nome.

   «Ai Remani, certo» confermò il Capitano. «Sono un popolo guerriero, quindi possono darci un aiuto consistente. E di certo non vogliono tornare sotto il giogo romulano».

   I senatori dettero segni di scontento; alcuni lasciarono persino l’aula.

   «Abbiamo dato ai Remani un pianeta, perché si autogovernassero» sbuffò D’Nas. «Si accontenteranno di proteggere quello. Figurarsi se vorranno sacrificarsi per noi! E anche se accettassero, come potremmo fidarci?».

   «Siete sotto la stessa minaccia» rispose Hod, rivolgendosi a tutto l’auditorio. «È un inizio, per collaborare. E voglio dirvi un’altra cosa. Duecento anni fa, all’epoca della supernova di Hobus, aveste la possibilità di cooperare. Se Vulcaniani, Romulani e Remani avessero unito le forze, la minaccia sarebbe stata sventata e l’Impero sarebbe ancora unito. Così non fu; e tutti noi scontiamo ancora le conseguenze di quell’errore. Se oggi ripeterete lo sbaglio... se sarà ancora la sfiducia a prevalere... allora sarà davvero la fine».

   I senatori borbottarono e discussero tra loro, mentre il Console cercava di riprendere il controllo dell’aula. Alla fine la proposta di Hod fu messa ai voti. Data l’estrema urgenza, la votazione si tenne subito. La mozione fu approvata con un margine risicato.

   «Dunque è deciso: ci rivolgeremo ai Remani» concluse il Console. «Ma dati i nostri trascorsi, preferirei che fosse un rappresentante federale a condurre le trattative. Magari proprio lei, Capitano Hod, che ha perorato così efficacemente in quest’aula».

   L’Elaysiana fu presa in contropiede. «Veramente mi aspettavo di riportare la Keter in battaglia, Console» disse. «Sono certa che potete designare un ambasciatore allo scopo».

   «Se andasse uno di noi, le trattative si trascinerebbero più a lungo e con minori probabilità di successo» insisté D’Nas. «Le circostanze non lo permettono. Lei si è acquistata grande fama in questi anni, in campo sia militare che diplomatico. È una cosa che i Remani apprezzeranno. Allora, accetta l’incarico?».

   Hod guardò Lantora, che le fece segno di sì. «Lo accetto» rispose.

   «Ottimo» disse il Console. «Allora partirà subito per Crateris».

   «Prima devo sbarcare un migliaio di civili che abbiamo evacuato da Galorndon Core» disse il Capitano. Tralasciò il fatto che erano tutti Umani, per non indispettire i Romulani. «Confido che gli darete asilo».

   Il Console si consultò brevemente con alcuni collaboratori, a microfoni spenti. Dalla gestualità parve che questi sollevassero obiezioni, che tuttavia furono respinte. «Nell’interesse della causa, vi permettiamo di sbarcare i rifugiati» disse infine D’Nas. «Partirete appena finito».

   «Vi ringrazio, Console, a nome della Flotta Stellare» disse Hod. «I miei rispetti al Senato e al popolo romulano» aggiunse, prima di lasciare l’aula.

   Lantora se ne andò di lì a poco, ma la riunione del Senato proseguì per ore. Dal fronte arrivavano notizie sempre più catastrofiche. La flotta imperiale avanzava inesorabile, lasciandosi dietro i rottami delle navi repubblicane. I Klingon avevano promesso aiuti, che però dovevano ancora arrivare. Nel frattempo i pianeti della Repubblica cadevano uno dopo l’altro sotto l’occupazione nemica.

 

   «Lo fa apposta, ti dico!» sbuffò Zafreen, lanciando un’occhiataccia a Terry.

   «E io ti dico che è impossibile» ribatté Vrel. «Lei fa solo il suo lavoro...».

   «... vale a dire che io non faccio il mio?!» protestò l’Orioniana.

   «Non ho detto questo» fece il mezzo Xindi, sulla difensiva.

   «Però lo pensi!».

   Il timoniere alzò gli occhi al soffitto e rinunciò a controbattere. Preferì dedicarsi al pranzo. Lui e la sua compagna erano infatti in sala mensa, dopo essere smontati dal turno, e come di consueto mangiavano assieme. Terry sedeva qualche tavolo più in là, da sola. Non mangiava nulla – in quanto ologramma non ne aveva bisogno – ma leggeva un d-pad, distraendosi occasionalmente per scambiare qualche parola con i colleghi. Qualunque cosa ci fosse su quel d-pad, lavoro o svago, non aveva bisogno di consultarlo in sala mensa. Eppure l’IA era lì, a imitare le abitudini degli Organici.

   «Guardala, Miss Perfettina!» sibilò l’Orioniana, lanciandole un’occhiata al vetriolo. «Deve sempre precedermi, correggermi o smentirmi. E hai visto com’è nelle riunioni? Quando faccio un’ipotesi me l’affossa, e se trova il minimo neo nel mio lavoro, lo dice davanti a tutti!».

   «È un’Intelligenza Artificiale; è programmata per essere efficiente» disse il mezzo Xindi, scrollando le spalle. «A tratti può sembrare soffocante, ma è un bene che si sia unita a noi. Non saremmo durati così a lungo, altrimenti. E se ti sembra invadente, considera che non lo fa solo con te. Se trova un errore lo corregge, chiunque sia a commetterlo».

   «Però non mi sembra che a voialtri stia col fiato sul collo!» insisté Zafreen. «Voglio dire, ha mai interferito col tuo lavoro? Ti ha mai sottratto il controllo del timone, durante una manovra?».

   «Beh, no» ammise Vrel. Sarebbe andato su tutte le furie, se si fosse permessa.

   «Io invece vengo sempre interrotta. A volte fa delle analisi senza esserne richiesta, assumendo il controllo della mia consolle. È snervante non sapere mai se controllo i miei strumenti!» si lamentò l’Orioniana.

   «Dev’essere perché sull’Enterprise-J era addetta ai sensori» suggerì il mezzo Xindi.

   «Beh, non è più sull’Enterprise. Qui ha un altro incarico; dovrebbe concentrarsi su quello» disse Zafreen, immusonita.

   «Potresti dirglielo... con tatto» suggerì Vrel, un po’ incerto. Non sapeva se la sua compagna era abbastanza diplomatica per questo.

   «Qui? Adesso?» si stupì l’Orioniana, colta dall’ansia.

   «Perché no?».

   «Mah, non saprei neanche come attaccar bottone» ammise Zafreen, che quando si trovava davanti alla proiezione isomorfa perdeva la loquacità. «E poi mi chiedo che diavolo ci viene a fare, qui. Voglio dire, non deve mica mangiare!».

   «Magari lo fa per sentirsi più simile a noi» suggerì Vrel.

   «Ma lei non è come noi!» puntualizzò l’addetta ai sensori. «Ha un computer al posto del cervello. Fa miliardi di calcoli al secondo, ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. Tiene in memoria tutto il database federale. Non c’è niente che non sappia, o che non possa scoprire dopo averci rimuginato un po’».

   «Questo non è vero» obiettò il timoniere. «Ci sono un sacco di cose che anche lei non sa».

   «Ad esempio? Falle una domanda, e vediamo se non sa darti almeno qualche ipotesi o statistica» lo sfidò Zafreen.

   Fu il turno di Vrel a farsi prendere dall’ansia. Non voleva disturbare un ufficiale superiore solo per vincere la discussione. In quella si accorse che Terry li fissava. Si chiese se avesse sentito la loro conversazione. La proiezione isomorfa aveva un udito finissimo... ma d’altro canto la mensa era affollata e il chiacchiericcio era alto. Forse si era solo accorta che la fissavano. In ogni caso lasciò il proprio tavolo e venne loro incontro.

   «Posso fare qualcosa per voi?» esordì, in tono neutro.

   «Noi, ehm... ci stavamo solo chiedendo cosa legge d’interessante» farfugliò il timoniere.

   «È una raccolta di vecchi racconti terrestri» rispose Terry, mostrando il display. Il titolo diceva: “Io, robot”.

   «Pensavo che stesse riesaminando le letture dello scontro coi Romulani, per scoprire i loro punti deboli» la provocò Zafreen, beccandosi un’occhiataccia dal compagno.

   «Sto facendo anche quello» rispose Terry con voce monocorde. «Ma si tratta di un compito lungo, quindi l’ho delegato alle mie funzioni automatiche. Se scopriranno qualcosa, l’informazione raggiungerà la mia soglia di coscienza».

   «Bello, lavorare così!» si lasciò sfuggire Zafreen, piena d’invidia.

   «Ci domandavamo anche fin dove arrivino le sue capacità di calcolo» intervenne Vrel, prima che la situazione degenerasse. «Se le chiedessi, che so...» il timoniere agitò le dita, come se cercasse di afferrare l’idea a mezz’aria «... se è possibile invertire l’entropia, lei cosa risponderebbe?».

   «Mi sta davvero chiedendo se è possibile violare il Secondo Principio della Termodinamica?» chiese Terry, guardandolo fissamente.

   «Ehm, sì» mormorò Vrel, sentendosi terribilmente sciocco. «Così, per pura curiosità...».

   Terry rimase immobile per lunghi secondi, come se tutte le sue facoltà di calcolo fossero devolute al problema. Non parlava, non sbatteva nemmeno gli occhi. Vedendola in quello stato, Vrel sentì un nodo allo stomaco. «Non l’avrò mica mandata in tilt?!» si chiese, assalito dal panico.

   Finalmente l’Intelligenza Artificiale si riscosse. «Al momento non ho dati sufficienti per una risposta significativa» disse in tono misurato.

   Il timoniere esalò il fiato. «Ah, bene... cioè, buono a sapersi» farfugliò.

   «Desidera pormi altri quesiti?» chiese Terry, squadrandolo con aria di sufficienza.

   «No, no... è tutto. Torni pure al suo libro, e grazie della cortesia» disse Vrel, rosso come un peperone.

   «Arrivederci, Tenente» salutò l’IA. «Zafreen...» aggiunse, rivolta all’Orioniana. Dopo di che girò sui tacchi e tornò al suo tavolo. Sedette nell’identica posizione di prima; sembrava che non si fosse mai alzata.

   «Hai sentito? Ti ha salutato col tuo grado, mentre io sono solo Zafreen!» disse l’addetta ai sensori, indispettita. La cosa era tanto più seccante, in quanto lei e Vrel erano pari grado.

   «Oh, insomma, falla finita!» sbottò il timoniere, ancora imbarazzato dalla figuraccia. «Quali che siano i tuoi problemi con Terry, vedi di risolverli alla svelta. Ci stiamo cacciando in uno scontro all’ultimo sangue coi Romulani Imperiali... come se non avessimo già abbastanza nemici... e l’ultima cosa che ci serve sono dei conflitti interni». Riprese a mangiare, senza più guardare la compagna.

   Zafreen non osò ribattere, ma lanciò un’occhiata obliqua a Terry. Sentiva che non sarebbe stato facile aggiustare le cose fra loro. Da parte sua stava già dando il massimo, non poteva essere più efficiente di così. E non poteva certo chiedere alla proiezione isomorfa di ridurre la sua efficienza. Così sarebbe rimasta un ufficiale di serie B, messa in ombra da quella macchina infallibile.

   «Beh, potrebbe andarmi peggio» pensò. «Potrei essere senza supervisione e fare qualche sbaglio irreparabile». Non era granché come consolazione, ma era tutto ciò che aveva.

 

   Chiusa nel suo ufficio ormai da troppe ore, il Capitano Hod scorreva il database sui Remani, alternandolo con quello sui Romulani. Prima di andare in missione a Crateris, sentiva il bisogno di rinfrescarsi la memoria su quei popoli. Doveva capire la loro psicologia, se voleva avere qualche speranza di successo.

   Il segnale della porta la distrasse dalla lettura. «Avanti» disse, quasi grata dell’interruzione.

   Norrin entrò nell’ufficio, ma si tenne vicino all’ingresso. «Abbiamo sbarcato i rifugiati di Galorndon Core» annunciò. «Gli ingegneri riferiscono che le riparazioni sono completate. Siamo pronti a partire».

   «Bene, dia l’ordine» disse il Capitano, aspettandosi di vederlo uscire subito. Invece il Comandante restò dov’era.

   «Devo fare una precisazione» disse Norrin. «Uno dei rifugiati è ancora a bordo e chiede di restare».

   «Per quale motivo?» si accigliò l’Elaysiana.

   «Sostiene di poterci essere utile... ma forse è meglio che parli direttamente con lei» consigliò l’Hirogeno.

   «D’accordo, lo faccia entrare» cedette il Capitano. Sapeva che Norrin non glielo avrebbe introdotto, se fosse stato uno sprovveduto. Disattivò l’oloschermo e si rivolse all’aspirante passeggero, che entrava in quel momento. Non era un Umano, come si aspettava.

   Era una giovane Romulana, molto sui generis. Aveva i capelli lunghi e raccolti in una coda, contrariamente al caschetto che prevaleva tra la sua gente. Indossava casacca e pantaloni neri, con un soprabito blu scuro stretto in vita da una cintura. Sembrava un abito ufficiale, anche se non propriamente una divisa militare.

   «Salve, Capitano!» esordì la giovane, con un brio insolito per la sua gente. «Sono Sorella V’Lena, dell’Ordine Qowat Milat». Si accompagnò con il saluto che mimava l’apertura di un libro.

   «Ah, le monache guerriere» disse Hod, che per un attimo era rimasta interdetta. «Posso chiederle com’è salita a bordo?».

   «Quando gli Imperiali ci hanno attaccati a Galorndon Core, ho aiutato a nascondere i bambini nel bunker» spiegò la Romulana. «Dopo di che sono stata teletrasportata con loro».

   «Capisco» disse l’Elaysiana. «Quel che non mi spiego è perché vuole restare a bordo. Siamo a Nuovo Romulus: è il luogo più adatto a lei. Troverà certo un monastero del suo Ordine».

   «Il monastero di Galorndon Core è stato distrutto, le mie sorelle uccise» rispose V’Lena, senza celare il suo dolore. «Non posso rinchiudermi in un altro santuario come se niente fosse. Devo contribuire alla causa».

   «È un desiderio tipico dei sopravvissuti» disse Hod, «ma può indurre a passi falsi. Conosco la vostra dottrina del Candore Assoluto: spesso vi rende vulnerabili nei confronti degli altri Romulani».

   «Se ci conosce, saprà che siamo addestrate al combattimento» rivendicò la monaca, con un certo orgoglio.

   «So pure che combattete solo per cause perse» si accigliò il Capitano. «È questo che pensa di noi?».

   «Capitano, la prego!» disse V’Lena in tono accorato, accostandosi alla scrivania. «So che state andando a Crateris per chiedere aiuto ai Remani. Io li conosco: all’inizio dell’apprendistato sono stata un anno sul loro pianeta. Parlo la loro lingua e so come ragionano. Il mio Ordine è in buoni rapporti con loro... in effetti siamo i soli Romulani per cui abbiano simpatia. Quindi potrei farvi comodo».

   Hod considerò la proposta. Alla sua valutazione contribuì il fatto che dopo due anni di Guerra Civile la Keter era sotto organico: le perdite erano state numerose e la Flotta in affanno non riusciva a sopperire. Qualunque aiuto, anche di un solo elemento, poteva fare comodo. Ma c’era una questione che la preoccupava. «Lei è volenterosa, gliene do atto» disse lentamente. «Ma non è un ufficiale addestrato della Flotta Stellare e questo complica le cose. Inoltre il suo Ordine è noto per gli atteggiamenti – ehm – imprevedibili. Considererò la sua offerta solo se lei s’impegnerà a ubbidire scrupolosamente a me e ai miei ufficiali».

   «Capitano, noi Qowat Milat abbiamo un detto: una promessa è una prigione» disse V’Lena. «Significa che non possiamo accettare limitazioni nell’esercizio della nostra etica».

   «Anche noi della Flotta abbiamo un detto: un ufficiale che non obbedisce agli ordini è una mina vagante» ironizzò Hod. «Significa che non la prenderò mai a bordo, se sospetto che farà di testa sua alla prima occasione».

   «Curioso... se lei avesse obbedito agli ordini, a quest’ora militerebbe nei Pacificatori, non tra i ribelli» notò la Romulana. «In effetti, tutti coloro che si trovano su questa nave hanno disobbedito in nome della propria etica».

   «Ed è una scelta che scontiamo ogni giorno» s’indispettì l’Elaysiana. «Ma non è una scusa per scivolare nell’anarchia. Se non crede di poter rispettare la nostra autorità, allora deve lasciare questa nave. E deve farlo seduta stante, perché stiamo per partire. Ogni secondo perso avvantaggia gli Imperiali».

   «D’accordo, resto» capitolò V’Lena, con una rapidità che sbalordì Hod. Il Capitano guardò il Comandante, che restava in attesa dietro alla Romulana, in cerca di consiglio. Si aspettava che Norrin cacciasse via a pedate quell’importuna. Invece, sorprendentemente, l’Hirogeno annuì.

   Hod pensò seriamente d’ignorare il consiglio e cacciare quella monaca svitata. Ma la missione a Crateris aleggiava nella sua mente come una grande incognita. Ogni aiuto, per quanto improbabile, poteva fare la differenza. «E va bene» cedette. «Il Comandante le assegnerà un alloggio e vigilerà sulla sua condotta. Per il momento farà capo a lui» ordinò.

   «Grazie, Capitano!» trillò la monaca. «Le prometto che non se ne pentirà!». Lasciò l’ufficio di buon passo, seguita da Norrin.

   L’Elaysiana si augurò di aver fatto la scelta giusta. Era in momenti come quello che sentiva più acuta la mancanza di Jaylah Chase, il suo miglior agente. Jaylah se n’era andata a inizio guerra, per contribuire alla causa in un altro modo. Era stato necessario, eppure il Capitano rimpiangeva il vuoto che aveva lasciato sulla Keter. Che quella strana giovane potesse colmarlo? Forse era questo che aveva persuaso Norrin ad appoggiarla; ma Hod era ancora preoccupata dalla sua impulsività. Con un sospiro, tornò a spulciare il database. Non avvertì nemmeno la lievissima vibrazione che indicava l’ingresso della Keter nel tunnel di cavitazione quantica. La missione a Crateris era cominciata.

 

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Capitolo 3
*** Fuori dall'ombra ***


-Capitolo 2: Fuori dall’ombra

 

   Quando, nel 2387, la supernova di Hobus aveva distrutto Romulus, l’orrore e il cordoglio si erano sparsi in tutto il Quadrante, anche presso quei popoli che avversavano i Romulani. Le cerimonie di lutto, i giorni della memoria, l’accoglienza dei rifugiati avevano dominato il dibattito pubblico e l’attenzione dei cittadini. Pochi, invece, avevano ricordato che Romulus non era l’unico pianeta abitato del suo sistema stellare. A parte gli avamposti sui planetoidi, c’era un altro mondo densamente abitato: Remus. E a differenza di Romulus, colonizzato duemila anni prima da esuli Vulcaniani, ospitava una specie nativa.

   I Remani non erano molto conosciuti nella Galassia, salvo per aver costituito a lungo le truppe d’assalto imperiali e per aver preso brevemente il potere nel 2379, minacciando una guerra contro la Federazione. Dopo di allora erano quasi caduti nel dimenticatoio. Eppure le loro vicende erano proseguite, sempre all’ombra dei Romulani. Dopo secoli di sfruttamento e repressioni, nel 2386 il senato romulano aveva finalmente concesso loro l’indipendenza. Ma Remus era ormai un mondo depauperato delle risorse, sull’orlo del collasso. Perciò i Remani avevano ricevuto una nuova patria, il pianeta Crateris, su cui si erano trasferiti in massa. Appena in tempo. La supernova dell’anno seguente li aveva costretti ad accelerare il trasloco, prima che Remus fosse distrutto. Dopo di allora i Remani avevano fatto parlare poco di sé. Ma con la crisi in atto, il loro isolazionismo sarebbe stato messo a dura prova.

   La Keter uscì dalla cavitazione ai margini del sistema e si avvicinò a velocità subluce, inviando segnali di riconoscimento. I minuti passarono e il pianeta s’ingrandì sullo schermo: era un globo marrone costellato di crateri da impatto, con pochissima acqua in superficie. Da parte dei Remani non ci fu alcuna risposta alle chiamate.

   «Scansione del pianeta» ordinò il Capitano Hod. «Sono decenni che una nave federale non entra in questo sistema; voglio sapere come hanno impiegato le loro risorse».

   «Non troverà granché, Capitano» avvertì V’Lena, convocata in plancia. «Anche se Crateris non è ostile come Remus, i Remani hanno mantenuto le vecchie abitudini. Vivono perlopiù sottoterra, in città schermate ai sensori. Hanno miniere, cantieri e fabbriche di armi pesanti, ma tengono quasi tutto occultato».

   «Vogliono nascondere la loro forza» disse l’Elaysiana, scrutando il pianeta butterato. «Lei pensa che abbiano molte navi?».

   «Non saprei... ma i Remani sono sempre stati un popolo guerriero, e ora che sono indipendenti credo si siano attrezzati per restarlo» ragionò V’Lena. «Tra l’altro, Crateris è ricco di risorse minerarie. Contiene persino depositi di dilitio. Credo che i Remani sarebbero ricchissimi, se si aprissero di più ai commerci».

   «Uhm... Zafreen, invii di nuovo il biglietto da visita» ordinò il Capitano. L’Orioniana eseguì, indirizzando la trasmissione nell’area del pianeta in cui si concentravano le città sotterranee.

   «Suggerisco di alzare gli scudi» intervenne Terry.

   «No, sarebbe considerato un segno di sfiducia» si oppose V’Lena.

   In quella una decina di vascelli uscirono dall’occultamento, circondando la Keter. Somigliavano a Falchi da Guerra, ma gli scafi erano scuri e avevano linee più spezzate, come se li avessero stropicciati.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sullo schermo». Il Capitano si alzò, com’era solita fare quando si presentava.

   Apparve un Remano. Come tutti quelli del suo popolo aveva un viso pallido e glabro, dagli occhietti gialli infossati, il naso piatto, i denti affilati e le orecchie a punta. Ricordava un po’ i Na’kuhl, contro cui la Keter aveva lottato duramente, tanto che il Capitano dovette ripetersi che i Remani erano tutt’altra specie.

   «Sono il Pretore Obiruk» disse il Remano, con voce gutturale. «E voi non siete stati invitati. Lasciate il nostro spazio, lasciatelo subito!».

   «Non vi avremmo disturbati, se non fosse per una grave questione...» cominciò il Capitano.

   «Suppongo si riferisca all’attacco dello Stato Imperiale. Sì, ne siamo informati» la interruppe il Pretore. «Seguiamo l’evolversi della situazione. Ma finché i Romulani si massacrano tra loro, la cosa non ci riguarda».

   «Con tutto il rispetto, ma vi riguarderà eccome» disse Hod. «Il vostro pianeta si trova entro i confini dell’antico Impero Romulano. La Repubblica vi ha accordato l’indipendenza, ma lo Stato Imperiale non starà ai patti. Vedete, gli Imperiali hanno dichiarato apertamente che vogliono riconquistare tutti i sistemi di un tempo. Da un momento all’altro vi assaliranno in forze».

   «Che ci provino; siamo pronti a riceverli!» grugnì Obiruk.

   «Sarebbe incauto aspettare di farvi circondare» intervenne Norrin. «Un buon Cacciatore anticipa la preda, non sta sulla difensiva».

   «Un Hirogeno?» s’interessò il Pretore. «Siete dei guerrieri impavidi; non sapevo che alcuni di voi servissero nella Flotta» riconobbe.

   «Sono l’unico nella Flotta... ma il mio clan è alleato alla Federazione» precisò Norrin. «È questo tipo di alleanza che vi proponiamo. Nessuna intromissione nei vostri affari, nessuno scambio culturale. Solo una breve collaborazione per ricacciare il nemico» disse, sperando di far breccia nella diffidenza dell’altro.

   «Sono belle parole» disse Obiruk. «Ma nella nostra storia abbiamo sentito molti discorsi del genere e sono state quasi sempre menzogne. Anche i Romulani, la prima volta che li incontrammo, parlarono in questi termini».

   «La Federazione mantiene la propria parola» obiettò Hod.

   «Non mi parli della Federazione!» s’inalberò il Remano. «Siete immersi fino al collo nella vostra guerra civile. Una guerra in cui le menzogne e la propaganda contano ancor più delle vittorie sul campo».

   Il Capitano incassò il colpo. I Remani erano ben edotti sulla situazione, malgrado il loro isolamento. L’Elaysiana stava pensando a come aggiustare il tiro, quando V’Lena le si affiancò, così che la vedessero.

   «La Flotta Stellare è ancora fedele ai valori di un tempo» dichiarò la Romulana. «Ho visto questi ufficiali rischiare la loro nave, abbassando gli scudi nel bel mezzo della battaglia, pur di evacuare i civili in pericolo su Galorndon Core».

   «E tu chi sei?» chiese Obiruk, sorpreso da quell’entrata in scena.

   «Sorella V’Lena, delle Qowat Milat» si presentò lei, accompagnandosi con il saluto delle mani a libro aperto. «Quattro anni fa sono stata sul vostro pianeta, nell’ambito del programma sulle colture idroponiche».

   «Farò controllare» disse il Pretore, rivolgendo un cenno a qualche sottoposto fuori campo. «Le Qowat Milat sono bene accette... siete gli unici Romulani che non mentono» aggiunse. «É pronta a giurare che la Flotta non ha secondi fini?».

   «Una promessa è...» cominciò subito V’Lena, facendo irrigidire i federali.

   «... una prigione, sì. Conosco il vostro motto» ridacchiò il Remano. «Credo davvero che lei sia una Qowat Milat... e anche i miei ufficiali lo confermano» disse, guardando di nuovo fuori campo. Evidentemente qualcuno dell’equipaggio aveva trovato conferma alla passata visita di V’Lena.

   «Ci lasci venire a terra, o sulla sua nave, come preferisce» pregò la Romulana. «Dobbiamo approfittare del poco tempo che abbiamo, prima che lo Stato Imperiale ci travolga con le sue navi potenziate dalla tecnologia Borg. In ogni caso sceglierete voi le modalità della collaborazione».

   Obiruk rifletté per qualche attimo. Sembrava che il riferimento alla tecnologia Borg l’avesse inquietato. «E sia!» cedette. «Vi accoglieremo nella capitale e discuteremo la situazione... anche se non vi prometto niente».

   Hod fissò incredula la monaca e poi scambiò un’occhiata con Norrin, che aveva le labbra increspate a sorriso. Ancora una volta il Comandante aveva visto giusto: portare la giovane con loro era stata una scelta vincente. Il Capitano decise che le avrebbe dato più credito.

 

   I vascelli remani scortarono la Keter mentre questa s’inseriva nell’orbita e anche dopo continuarono a marcarla stretta. Ricevute le coordinate di teletrasporto, il Capitano si preparò a scendere con Terry e V’Lena, affidando la nave a Norrin.

   «Sarei più tranquillo se potessimo tenerla in aggancio col teletrasporto» disse il Comandante. Le città remane erano infatti schermate e la protezione veniva tolta solo per il tempo necessario ai trasporti autorizzati.

   «Non corriamo alcun pericolo» sostenne V’Lena. «I Remani ci hanno garantito l’immunità diplomatica».

   «E crede che saranno di parola?» chiese Terry.

   «Sì» rispose tranquillamente la Qowat Milat. «Naturalmente dobbiamo presentarci disarmati» aggiunse, mostrando i palmi vuoti.

   Terry non era soddisfatta. «Potrei prendere più scorta...» disse, quasi bisbigliando all’orecchio del Capitano.

   «A che scopo, se saremo disarmati? Ci basterà lei» rispose Hod, sempre a bassa voce. «Ma cerchi di non far capire che è una proiezione isomorfa».

   Le tre lasciarono la plancia per fare gli ultimi preparativi. All’ora convenuta s’incontrarono in sala teletrasporto. Terry aveva una variante dell’Emettitore Autonomo agganciata in cintura anziché al braccio, per dare meno nell’occhio. V’Lena lo guardò brevemente, senza capire di che si trattasse, ma non fece domande. La Romulana aveva lasciato nell’alloggio la sua preziosa tan qalanq, la spada rituale, anche se aveva tenuto la cintura multiuso. Quanto al Capitano, aveva con sé un d-pad con alcuni dati tattici e i dettagli sulla proposta d’alleanza.

   «Bene... un altro pianeta» disse Hod, salendo sulla pedana. «Ormai ho perso il conto di quelli che ho visitato, ma credo d’essere sopra il centinaio, contando anche i satelliti e i planetoidi».

   «Io sto a 199» disse Terry, destando la sorpresa di V’Lena.

   «Caspita, lei è una gran viaggiatrice!» commentò la Romulana, ancora convinta che Terry fosse Umana. «Da quant’è che lavora nella...» cominciò a chiedere, ma in quella il teletrasporto si attivò, trasferendole nel sottosuolo.

 

   Crateris era un pianeta meno ostile dell’antico Remus, ma comunque peggiore della maggior parte dei mondi abitati. La Flotta Stellare lo considerava di classe L, ovvero marginale o adattabile alla colonizzazione. I Remani però non avevano cercato di rendere più ospitale la superficie, anzi la usavano come discarica. I loro sforzi erano tutti rivolti al sottosuolo. La prima cosa che avevano fatto, una volta trasferiti, era stata ampliare le caverne naturali di cui il pianeta era ricco. Vi avevano impiantato miniere e industrie, il cui incessante fragore saliva fino ai livelli urbani. Le colture idroponiche sostentavano la popolazione in crescita, pur non essendo certo una finezza per il palato. Gran parte dell’acqua serviva a scopi agricoli e industriali, così che quella pro capite era severamente razionata. Questi e altri disagi costellavano la vita dei Remani, che tuttavia non se ne lamentavano. Erano un popolo spartano, che badava solo all’essenziale.

   Al loro arrivo le ospiti furono subito circondate dalle guardie, che senza una parola le condussero alla sala del Consiglio. Era un ambiente semibuio, poiché la lunga evoluzione sotterranea aveva reso fotofobici i Remani. Poco alla volta, comunque, il Capitano si abituò alla luce fioca e riuscì a distinguere ciò che aveva intorno. Era un salone rivestito di metallo, con grandi balconate sovrapposte in cui si assiepavano i Consiglieri. In una terrazza isolata, nella parete di fondo, stavano il Pretore e i suoi più stretti collaboratori. Tutti i Remani avevano abiti violacei, che rilucevano debolmente come il carapace dei coleotteri. Per la maggior parte erano di sesso maschile, tuttavia c’erano alcune donne, anch’esse calve, ma dal viso più liscio.

   «Il Consiglio riconosce il Capitano Hod della Flotta Stellare» disse Obiruk. «Esponga la sua richiesta, ma sia concisa».

   «Grazie, Pretore» disse il Capitano, facendosi avanti. «Sono qui come inviato della Federazione per proporvi un accordo di mutua difesa. Come sapete, lo Stato Imperiale ha sferrato un attacco lampo contro la Repubblica. La sua nuova flotta, potenziata dalla tecnologia Borg, lo rende una minaccia temibile. Per adesso sono i mondi romulani a cadere; ma potete star certi che gli Imperiali arriveranno anche qui. Non crediate che venga come profeta di sventura o per trascinarvi nel conflitto. La guerra vi colpirà, che lo vogliate o no. Potete solo decidere se volete combatterla da soli o con degli alleati».

   L’Elaysiana proseguì, avendo cura di presentare l’alleanza come una faccenda tra i Remani e la Federazione. I Romulani repubblicani furono a malapena nominati, sebbene fossero proprio loro a necessitare di soccorso immediato.

   Come temeva, molti Remani non furono impressionati dalla sua parlantina e si lanciarono in attacchi infuocati contro gli ex dominatori. «Per duemila anni i Romulani ci hanno oppressi e schiavizzati!» ringhiò un Consigliere. «Ci hanno usati come carne da macello nelle loro guerre espansionistiche. E quando provammo a conquistarci la libertà con Shinzon, voi federali li aiutaste a reprimerci!» inveì.

   «Shinzon voleva farci guerra» obiettò il Capitano. «Aveva attrezzato la sua nave ammiraglia con un’arma al thalaron per sterminare i Terrestri. Che altro potevamo fare, se non fermarlo? Ma negli anni seguenti ci siamo adoperati affinché vi fosse data la libertà. Abbiamo fatto pressione sul senato romulano e smosso l’opinione pubblica con...».

   «Bah! C’è voluta la distruzione dei nostri pianeti e la Guerra Civile Romulana per ottenere la libertà!» sbottò il Remano.

   «Devo correggerla. Questo pianeta vi fu concesso un anno prima che esplodesse la supernova di Hobus» precisò Hod. «Da allora la Repubblica Romulana non ha mai attentato alla vostra indipendenza. Anzi, vi ha protetti contro i tentativi dello Stato Imperiale di ricondurvi in schiavitù. Lasciatela crollare e perderete il vostro miglior difensore. Nascondetevi in queste caverne... e gli Imperiali verranno a stanarvi. Come potrebbero restaurare il vecchio Impero, senza assoggettarvi di nuovo?».

   I clamori salirono dai palchi dei Consiglieri, obbligando il Pretore a ripetuti richiami per riportare l’ordine. Il dibattito riprese senza che Hod avesse l’impressione di smuovere i Remani. Infine la riunione fu aggiornata. Le tre ospiti furono scortate fuori dalla sala, ma non tornarono sulla Keter. Un inserviente chiese loro di rimanere fino all’indomani, quando il Consiglio avrebbe dato il responso. Per non urtare gli anfitrioni, e sperando che la permanenza l’aiutasse a capirli meglio, il Capitano accettò.

   Dopo una chiamata di controllo alla Keter, in cui riferì la situazione, Hod si fece scortare all’alloggio che le era stato predisposto. Anche Terry e V’Lena ebbero le loro camere, attigue alla sua. L’una e l’altra le sussurravano spesso consigli su come gestire i Remani, finché l’Elaysiana chiese loro che la lasciassero riposare. Era stata una lunga giornata e non era ancora finita.

 

   Qualche ora dopo Hod fu invitata a una cena ufficiale; non sapeva cosa ci fosse sul menu e non volle chiederlo. Trovò le compagne di viaggio che l’aspettavano fuori dal suo alloggio. Il trio fu scortato ancora una volta per le gallerie della città-formicaio, fino a sbucare in un’immensa cavità sotterranea.

   Era una caverna grossomodo cilindrica, più alta che larga. Si trattava di un ambiente pubblico, l’equivalente di una piazza. Lungo le pareti c’erano infatti dei camminamenti provvisti di balaustra, affollati di civili che passeggiavano e chiacchieravano. Qua e là delle scale permettevano di passare da un livello all’altro. Vi erano anche delle balconate aggettanti di pietra, così ampie da accogliere decine di persone. All’arrivo delle ospiti, molti Remani si fermarono a osservarle.

   A quella vista Hod si sentì meglio. Il luogo pubblico e la folla di curiosi le davano un’immagine meno ostile del popolo remano. Anche la luce era più intensa del solito. Alzando lo sguardo alla volta rocciosa, il Capitano vide che al centro vi era un cerchio liscio e lucente. Doveva essere un’apertura che dava sulla superficie, chiusa solo da una lastra semitrasparente. Probabilmente c’erano anche dei condotti per il ricambio dell’aria.

   Spinta dalla curiosità, l’Elaysiana si avventurò su uno dei balconi, che era stato sgombrato dalle guardie. Raggiunse la balaustra e guardò di sotto. La caverna era ancor più profonda di quanto immaginava: tra loro e il fondo c’era almeno il doppio della distanza che li separava dalla sommità. E sul fondo cresceva la vegetazione, la prima che vedeva su quel pianeta. Erano piante piccole, dalle foglie rossicce o brune, riunite in filari ordinati.

   «Sono le colture idroponiche» spiegò V’Lena, affiancandosi a lei. «Per questo i Remani devono far entrare così tanta luce: per loro equivale al solleone».

   «E riescono a sfamarsi così?» chiese il Capitano.

   «Qualcosa coltivano anche in superficie, nelle poche zone fertili» precisò la Romulana. «Altri prodotti sono importati, ma credo che in caso di necessità possano cavarsela senza».

   «Autarchia» mormorò Hod, preoccupata. Avrebbe preferito che dipendessero dal commercio, perché questo li avrebbe obbligati a interessarsi di ciò che accadeva intorno a loro.

   «Le piace la nostra città?» chiese una voce baritonale alle sue spalle.

   Il Capitano si voltò di scatto: era Obiruk, scortato da due guardie. Si aspettava d’incontrarlo a cena, ma evidentemente il Pretore voleva scambiare qualche parola in privato. Forse era un buon segno. «Quello che avete realizzato è straordinario» riconobbe Hod. «Capisco che vi stia a cuore e che vogliate proteggerlo» disse con una traccia di nostalgia.

   «Il suo mondo è controllato dall’Unione, vero?» chiese il Remano. Così dicendo le si affiancò presso la balaustra. I due non si guardarono, ma continuarono a osservare il panorama. Terry e V’Lena indietreggiarono, affinché potessero parlare liberamente.

   «Sì» confermò l’Elaysiana, con il cuore pesante. «Per adesso non ha subito gravi ritorsioni, ma... non so se ci tornerò mai. Questo vale per la maggior parte dei miei ufficiali».

   «E le vostre famiglie sono ancora oltreconfine, eh?» tornò a chiedere il Pretore.

   «Già» sospirò il Capitano. «In questo modo l’Unione può ricattarci. Ma noi non ci arrendiamo. Tutti coloro che prestano servizio sulle nostre navi lo fanno per libera scelta. A chi non se la sentiva abbiamo permesso di tornare a casa».

   «Non è una mossa saggia, per dei guerrieri» commentò il Remano, storcendo la bocca. «Ma suppongo che sia coraggioso, in un certo senso. Dimostra che non temete il nemico». Finalmente si girò verso l’Elaysiana. «In confidenza le dico che sarei disposto a collaborare, a patto di non sguarnire troppo il nostro mondo» disse Obiruk. «Ma non posso mostrarlo apertamente, o i miei oppositori mi accuseranno d’essere debole e venduto ai vostri interessi. Nella camera del Consiglio manterrò l’imparzialità. Domani ci sarà la votazione, e se prevarranno gli interventisti, avrete più che un aiuto simbolico» promise.

   «Grazie, Pretore» disse Hod, rincuorata. «La sua è una scelta lungimirante. Speriamo che la votazione vada a buon fine! A suo giudizio, quante possibilità ci sono che...».

   Il Capitano non poté finire la frase. Una delle guardie del corpo del Pretore estrasse il disgregatore e per prima cosa uccise il suo collega, prima che reagisse. Subito dopo puntò l’arma contro Hod. «Nessuna possibilità!» gridò, e aprì il fuoco.

 

   Accadde tutto in un attimo, tanto che i presenti non ebbero il tempo d’intervenire. A parte Terry. Mentre l’attentatore sparava per la prima volta, la proiezione isomorfa schizzò in avanti a velocità sovrumana. Per un attimo apparve come una sagoma confusa di luce, più che un corpo solido. Data la distanza di alcuni metri, il movimento fulmineo non bastò a raggiungere il nemico e immobilizzarlo. Le permise però di frapporsi tra lui e Hod.

   Quando il Remano aprì nuovamente il fuoco, il raggio disgregante centrò la proiezione isomorfa, che sfarfallò brevemente. Per fortuna l’Emettitore Autonomo non era stato colpito e riuscì a gestire il picco d’energia.

   Meravigliandosi di vedere la federale ancora integra, il Remano passò a un altro bersaglio: il Pretore, colui che avrebbe dovuto proteggere. Ma in quella V’Lena gli fu addosso. La Qowat Milat gli afferrò il polso, deviandolo verso il basso. Partì un altro colpo, così potente da trapassare il balcone. Il Remano ne approfittò per tenere premuto il grilletto e fendere il pavimento tra lui e le guardie che sopraggiungevano. Quand’ebbe ritagliato metà della balconata, V’Lena riuscì a spegnergli l’arma. Gli dette una gomitata in faccia, gli torse il polso e finalmente riuscì a disarmarlo. Lo gettò a terra con un calcio e gli puntò in faccia il disgregatore appena conquistato. «Perché?» ansimò.

   «Siamo Remani. Non moriremo più per i Romulani!» ringhiò l’avversario.

   «Tu... sarai giustiziato per alto tradimento!» ansimò Obiruk, che se l’era vista brutta.

   «Non importa; sono in tanti a pensarla come me» sogghignò l’altro. In quella si udì uno scricchiolio, che crebbe fino a divenire uno schianto. Ai presenti ci volle un attimo per capire cosa stava succedendo. «Il balcone!» gridò Terry, sentendo il pavimento cederle sotto i piedi. La crepa tracciata dal disgregatore si stava rapidamente allargando. Alcuni di quelli che si trovavano nell’area pericolante riuscirono a uscirne in tempo; gli altri caddero con metà della balconata.

   Terry e V’Lena rimasero sulla lingua di roccia sospesa nel vuoto, assieme al Pretore, che fu tirato indietro dalle sue guardie. Hod e l’attentatore precipitarono, ma solo per due piani. Più in basso c’era infatti un’altra terrazza, ben più ampia, sulla quale si trovavano molti civili. Sentendo il balcone sopra di loro che scricchiolava e vedendo la crepa allargarsi, si erano scostati in tempo per non farsi schiacciare. Alcuni però erano ancora sulla terrazza, che a sua volta si crepò e cedette per il peso. Questa però era rinforzata con listelli di metallo, che si piegarono senza cedere del tutto.

   «Oh, no» mormorò V’Lena, sporgendosi a guardare la scena agghiacciante. La terrazza era inclinata di almeno trenta gradi e sembrava sul punto di precipitare nel vuoto. Sotto di essa non c’erano ulteriori balconate in grado di arrestarne la caduta, solo cento metri di strapiombo. Incastrati tra il pavimento e la balaustra c’erano quattro Remani, tra cui due bambini. Poco discosta da loro giaceva Hod, che aveva perso i sensi per la caduta. E lì accanto c’era il traditore, un po’ malmesso ma ancora sveglio. Vedendo l’Elaysiana svenuta accanto a lui, estrasse un pugnale dalla cintura.

   «Fermo!» gridò V’Lena, mirandolo con il disgregatore che gli aveva strappato. «Scegli la vita, amico mio!» consigliò, seguendo il suo codice filosofico.

   «Scelgo quella del mio popolo!» gridò il Remano, apprestandosi a sferrare il colpo. Ma prima che potesse pugnalare il Capitano, fu freddato da una delle guardie remane che si erano affiancate a V’Lena. La Romulana si lasciò sfuggire un sospiro, lieta che l’incombenza di uccidere le fosse stata risparmiata. Ma il pericolo non era cessato. La terrazza continuava a inclinarsi, scricchiolando in modo preoccupante.

   «Sta per crollare!» gemette V’Lena. Alzò gli occhi e si trovò a fissare Terry, accanto a lei. Solo ora ragionò sul fatto che era sopravvissuta a un colpo diretto di disgregatore. Le fissò il congegno in cintura e capì. «Sei un ologramma» constatò, con una certa freddezza. «Li puoi salvare?».

   «Non tutti» rispose Terry, che aveva già fatto i suoi calcoli. «Il Capitano ha la precedenza» disse.

   «Aspetta, che ne è del bene dei molti?!» s’indignò V’Lena.

   Ma la proiezione isomorfa era già saltata giù. Atterrò in un punto della terrazza che, a suo giudizio, era abbastanza solido per sostenerla. In effetti la balconata resse, ma la sua inclinazione peggiorò e alcuni bulloni saltarono. L’IA si lasciò scivolare lungo il piano inclinato fino a raggiungere il Capitano. Se la caricò in spalla e cominciò a risalire, quasi strisciando. Alla sua velocità avrebbe fatto in tempo, ma non gliene sarebbe rimasto per aiutare i quattro Remani.

   «Va bene, tocca a me» si disse V’Lena. Pur avendo lasciato le armi sull’astronave, aveva ancora con sé la cintura multiuso. Tra il suo equipaggiamento c’erano parecchi metri di cavo sottile e ultra-resistente. Ne srotolò un capo e lo annodò attorno a una colonna, poi si sporse nel vuoto, valutando l’altezza. Era un bel salto, pensò deglutendo, ma poteva farcela. Si lasciò scivolare verso il basso, con il cavo che si srotolava adagio, rallentando la caduta. S’interruppe quando raggiunse i Remani. «Ce la fate a salire con questa corda?» chiese.

   I due adulti ci riuscirono e così il ragazzino più grande. Ma quello più piccolo non ce la faceva, o forse aveva troppa paura. «D’accordo, aggrappati a me» disse V’Lena. «Non temere... e non guardare giù!» raccomandò.

   Il piccolo Remano obbedì, abbarbicandosi alle spalle della Romulana. Questa rimase dov’era, per non appesantire troppo la cordata, mentre gli altri tre salivano. Le guardie remane che li attendevano due piani più in alto erano pronte ad afferrarli, appena giunti a portata. Nel frattempo Terry continuava a risalire il piano inclinato della balconata, che scricchiolava sempre più forte. Era ormai presso il camminamento. Anche qui c’erano dei Remani, che le vennero in aiuto. Dapprima le tesero le mani, per aiutarla a issarsi; poi presero Hod e la distesero a terra.

   L’IA si voltò, pronta a tornar giù per salvare la famiglia remana, ma vide che ci aveva pensato V’Lena. Due Remani si erano già messi in salvo, risalendo il cavo. Il terzo, un ragazzino, era quasi in cima. La Romulana invece era ancora giù, con il bambino più piccolo. In quella ci fu uno schianto. Gli ultimi bulloni saltarono e le travi si deformarono a tal punto che la terrazza si rovesciò in avanti, frantumandosi. I macigni si abbatterono sulle colture idroponiche, cento metri più in basso. Fortunatamente i coltivatori si erano messi in salvo, non appena avevano udito il frastuono del primo crollo e avevano visto la terrazza pericolosamente inclinata sopra le loro teste.

   Sulla balconata più alta, i Remani afferrarono il ragazzino e lo trassero in salvo. Poi guardarono giù, seguendo il cavo teso. Il crollo aveva sollevato un gran polverone, ma passato qualche attimo videro ciò che speravano. La Romulana era ancora aggrappata al cavo e lo risaliva a forza di braccia, con il bambino tenacemente aggrappato alle spalle. Conquistò un palmo dopo l’altro, incitata dalle grida degli spettatori. A un certo punto scivolò per un lungo tratto, spellandosi le mani, tanto che il cavo si macchiò del suo sangue verde. Ma non si arrese neanche allora. Con il cuore che batteva all’impazzata riprese a salire, sempre più su, finché sentì delle braccia robuste che l’afferravano, aiutandola a issarsi. Allora seppe di avercela fatta. Sorrise, prima di svenire per la fatica e l’emozione.

 

   Come c’era da aspettarsi, la cena fu annullata. Il Pretore lasciò in fretta la zona pubblica, tornando nel settore amministrativo dove la sicurezza era maggiore. Sui terrazzi e i ballatoi della grande caverna si radunava intanto una folla. Alcuni lodavano il coraggio di V’Lena, ma altri si mostravano ostili contro i federali e chiedevano che fossero cacciati. I due gruppi erano sul punto di venire alle mani. Vedendo che la situazione stava per degenerare, Terry contattò la Keter. Spiegò rapidamente l’accaduto e chiese il ritorno immediato per la squadra. I Remani abbassarono la schermatura della città, per consentire il trasferimento.

   Quando apparvero nella cabina di teletrasporto dell’infermeria, Hod fu subito caricata su un bio-letto. «Ha battuto la testa, ma non è grave» disse la dottoressa Mol, dopo una rapida scansione. «Si riprenderà in poche ore».

   La tensione si allentò. Terry si reintegrò con il suo mainframe, scaricando i ricordi della missione. Intanto V’Lena si riebbe dal breve stordimento e respinse i medici che volevano visitarla, assicurando che stava bene. Chiese solo un rigeneratore dermico per curarsi le mani spellate. Fu lei stessa a passarselo sulle escoriazioni, dopo essersi seduta su un lettino appartato.

   «Grazie dell’aiuto» disse Terry, accostandosi. «Aver salvato quei civili potrebbe spostare l’ago della bilancia in nostro favore».

   «E secondo lei era l’unico motivo per salvarli?!» chiese la Romulana, lanciandole un’occhiataccia.

   «Certo che no. Le loro vite hanno valore di per sé» precisò Terry.

   «Ma lei ha anteposto quella del Capitano. Una sola persona» notò V’Lena. «Io le avevo chiesto di scegliere i molti, ma non mi ha ascoltata!».

   «Ho udito le sue parole, se è questo che intende» corresse l’IA. «Ma nelle mie valutazioni devo considerare molti fattori».

   «Ad esempio?».

   «Il ruolo del Capitano» fu la pronta risposta. «Con lei al comando abbiamo già salvato molte vite e confido che continueremo a salvarne. Quindi era essenziale che sopravvivesse».

   «Invece quei quattro Remani sono insignificanti, giusto?» fece V’Lena, per nulla soddisfatta. «Spero di non trovarmi mai in pericolo assieme a qualcuno che conta più di me». Così dicendo spense il rigeneratore dermico, che non le serviva più, e lo posò sul tavolino. Fletté le dita, accertandosi che le mani fossero tornate in salute.

   «Deve comprendere che non si tratta di classismo, ma di logica» disse Terry. «E poi c’è un altro motivo. Prima d’entrare in azione, avevo calcolato le probabilità di successo. Il Capitano sarebbe sopravvissuta nell’88% dei casi, mentre c’era solo un 22% di probabilità di salvare tutti e quattro i Remani».

   «E lei agisce in base ai calcoli probabilistici!» sbottò la Romulana. «Ma certo, come potrebbe essere altrimenti? Lei è una macchina... un ologramma. All’inizio non l’avevo capito, ma è diventato ovvio quando ha assorbito quella scarica di disgregatore».

   «Sono un’Intelligenza Artificiale che si manifesta come proiezione isomorfa» precisò Terry, con una punta d’orgoglio. «Ma sono decenni che studio la vita degli Organici» aggiunse, più che altro a se stessa. «La mia speranza era di combinare il meglio dei due mondi».

   «Lei potrà anche raccogliere più dati ed elaborarli più in fretta di noi Organici... ma quand’è il momento di agire, non può scegliere con più introspezione» affermò V’Lena. «Ecco perché noi Romulani non costruiamo synth» aggiunse.

   Terry conosceva quel vocabolo, abbreviazione di “sintetici”. Era un termine gergale e un po’ denigratorio per indicare le Intelligenze Artificiali, che fossero androidi oppure ologrammi. «Non credo che la vostra avversione per le IA sia logica» disse, sulla difensiva. «Forse non siamo campioni di filosofia, ma si può dire lo stesso anche di molti Organici. Cos’è realmente che non vi piace, di noi?» volle sapere.

   «Beh, non posso parlare a nome di tutta la mia gente» si cautelò la Romulana. «Ma credo che l’opinione prevalente sia questa: se i synth sono inferiori a noi, allora possiamo farne a meno. E se invece siete pari, o peggio ancora superiori... allora siete voi che potete fare a meno di noi».

   «Temete la nostra ribellione? Non è all’orizzonte» sostenne Terry.

   «Però la maggior parte di voi si è schierata con Rangda, all’inizio della guerra!» si accalorò V’Lena, che in accordo alla sua dottrina manifestava sempre le emozioni. «Altrimenti quella dittatrice non avrebbe preso il sopravvento».

   Terry ripensò alla Caduta della Terra. Era vero: la Flotta Stellare stava respingendo i Voth quando la Presidente aveva ordinato di cedere il pianeta. Se la maggior parte delle IA non le avesse obbedito, la Terra sarebbe rimasta ai federali e la Guerra Civile non sarebbe scoppiata. L’obbedienza agli ordini, la più decantata virtù dei synth, aveva condotto al disastro. Non c’era da stupirsi che ora fossero invisi a molti. Almeno i colleghi della Keter la rispettavano; ma Terry comprese che fuori dalla nave molti la guardavano con paura e sospetto, se non addirittura con odio. «Non sono responsabile per ciò che fanno le altre IA, come lei non è responsabile per le azioni degli altri Organici!» protestò.

   «Però ha dimostrato la sua logica, sulla balconata» obiettò V’Lena. «Vedremo cosa ne penseranno i Remani» disse, e saltò giù dal lettino. Abbandonò l’infermeria, lasciandosi alle spalle una Terry giù di corda.

   Ogni volta che le sembrava di aver compreso gli Organici, l’IA si trovava di fronte a logiche contraddittorie e inconciliabili. Poteva seguire una o l’altra corrente di pensiero, ma non avrebbe mai trovato “il” modo giusto di comportarsi, che le desse la sensazione d’essere arrivata. E questo era frustrante.

 

   L’indomani mattina il Capitano Hod si presentò in plancia per prendere servizio alla solita ora.

   «Capitano, come sta?» chiese il Tenente Comandante Ki’Lau, che dirigeva il turno di notte. Le venne incontro con premura.

   «Sono pienamente ristabilita» lo rassicurò l’Elaysiana, che aveva trascorso la notte in infermeria. «Come si comportano i Remani?».

   «Nessuna chiamata» rispose lo Xaheano. «Le loro astronavi si tengono in posizione e non ci sono cambiamenti sulla superficie del pianeta. Se posso fare un’osservazione...».

   «Sì?» fece Hod, accomodandosi sulla poltrona di comando.

   «Ecco, non lo definirei un buon segno. Se volessero mobilitarsi in favore dei Romulani, ci sarebbe più movimento» disse Ki’Lau.

   «Non può darsi che stiano radunando vascelli occultati?» suggerì Vrel, sostituendo Ennil al timone.

   «Se è così, hanno un occultamento perfetto, perché io non ho rilevato niente» disse Smig, l’addetta ai sensori. Lasciò la sua postazione a Zafreen, scoccando uno sguardo invidioso all’Orioniana, ben più appariscente di lei.

   «Questi Remani non mi sembrano molto onorevoli. Credo che continueranno a farsi gli affari loro» commentò Mo’rek. Il Klingon aveva appena ceduto la postazione tattica a Terry. Quando l’IA era salita a bordo si era discusso se dovesse restare perennemente in servizio, come in genere facevano i suoi simili. Alla fine il Capitano le aveva accordato il riposo durante il turno di notte, non perché le servisse il sonno, ma per permetterle di distrarsi e coltivare i suoi interessi. Il più felice era stato Mo’rek, che non aveva perso la sua mansione.

   «Li chiameremo all’ora prevista» disse il Capitano, scrutando pensierosa il pianeta bruno. Dopo l’esperienza del giorno prima, non intendeva tornare laggiù. Le trattative, se ce ne fossero state, si sarebbero tenute via subspazio, oppure sulla Keter.

 

   Le ore passarono con esasperante lentezza, finché Terry avvertì che era il momento. «Aprire un canale» ordinò il Capitano.

   Obiruk apparve sullo schermo. «Capitano Hod, uhm... sta bene?» chiese, nel tono di chi non è abituato a fare simili domande.

   «Perfettamente, grazie. Sono lieta di rivederla; spero che non abbia subito altri attentati» disse l’Elaysiana.

   «No, anche se dovrò rinunciare alle apparizioni pubbliche» grugnì il Remano. «Capitano, devo informarla che il Consiglio ha appena terminato la riunione».

   «Posso sperare in un esito favorevole?» chiese Hod, senza mostrare quant’era sulle spine.

   «La votazione non c’è stata» rispose il Pretore, le parole grevi come macigni. Per un attimo vi fu silenzio.

   «E quando si terrà?» domandò il Capitano, con una calma che non riusciva a mascherare la volontà di pressare l’interlocutore.

   «I tempi... saranno lunghi» disse Obiruk, evasivo. «Vede, il Consiglio è profondamente diviso. Come tutta la nostra società, del resto. Proprio adesso ci sono manifestazioni a favore e contro l’intervento, sul punto di scontrarsi. In queste condizioni non possiamo agire in modo avventato. Ci occorre tempo per raggiungere un’intesa».

   «Quanto tempo? Il nemico avanza!» lo incalzò Norrin.

   «Non posso prevederlo. Nel frattempo è meglio che ve ne andiate» disse il Pretore. «Le mie navi vi scorteranno fuori dal sistema. Non fate resistenza o peggiorerete la situazione. Quando avremo trovato un accordo ve lo faremo sapere».

   «Mi confesso delusa» disse il Capitano. «Non ditemi che l’attacco dello Stato Imperiale vi ha colti di sorpresa; sono due secoli che vi preparate all’evenienza».

   «La Guerra Civile cambia le cose» spiegò il Remano. «Né possiamo ignorare che il nemico padroneggia la tecnologia Borg. Ma non devo giustificarmi con voi!» si riscosse. «Andate, ora... e non tornate, se non saremo noi a richiamarvi».

   «Se questa è la vostra volontà, la rispetteremo» disse l’Elaysiana, che contrariamente al solito non si era alzata per dialogare. «Però vi avverto: appena avranno finito con la Repubblica – forse anche prima – gli Imperiali verranno qui. E allora capirete che agire tardi equivale a non agire affatto». Al suo gesto, Zafreen chiuse il canale.

   «Dai Remani mi aspettavo di più» commentò Vrel, imbronciato.

   «Ne convengo; ma restare non farebbe che indispettirli» disse il Capitano, rassegnata. «Ci riporti a Nuovo Romulus, massima cavitazione. Speriamo solo di non aver perso troppo tempo».

 

   Il Capitano scoprì ben presto che anche il suo ultimo augurio era andato a vuoto. In tre giorni d’assenza, la situazione al fronte era precipitata. Lo Stato Imperiale aveva diviso la sua flotta in gruppi di quattro o cinque Narada, talvolta accompagnate da Falchi da Guerra tradizionali. Ciascuna di queste flottiglie era capace di conquistare un intero sistema stellare. Quando lo facevano, lasciavano un vascello a presidiarlo e passavano al successivo.

   «Con questa tattica arriveranno qui entro due settimane» disse Lantora alla riunione d’emergenza. «Presumo che riuniranno le flottiglie in un’armata più corposa. Se cade Nuovo Romulus, la Repubblica è spacciata. A quel punto ci troveremo quasi del tutto circondati» disse, accennando all’ologramma al centro della sala. L’Unione da una parte, lo Stato Imperiale dall’altra rischiavano di stritolare i miseri resti della Federazione.

   «Per questo contavo sui Remani» sospirò il Commodoro. «Il loro disimpegno è una rovina per noi, ma anche una follia per loro. Gli Imperiali cercheranno in ogni modo di sottometterli, se non altro per una questione d’immagine».

   Sentendosi chiamata in causa, Hod pensò di dover dire la sua. «Obiruk non ha escluso l’intervento» disse. «Ai Remani serve solo più tempo per decidere».

   «In linguaggio politico significa che resteranno a guardare» disse il Console D’Nas, senza allegria. «No, inutile affidarci a loro. Dobbiamo ragionare come se fossimo soli. Non resta che radunare le forze per difendere questo pianeta, anche a costo di sguarnire le colonie».

   «Col dovuto rispetto, Console, ma è proprio ciò che vogliono gli Imperiali» disse Lantora. «Così avranno gioco ancora più facile nel sottomettere le colonie. E una volta fatto questo, potranno colpire la capitale con tutta la loro forza. Io suggerisco di sbarrargli il passo prima che arrivino qui. Arroccatevi sulle colonie, difendetele a oltranza. Questo vi darà più tempo».

   «Tempo per cosa?!» protestò D’Nas. «Se anche vi procuriamo qualche giorno in più, voi come lo spenderete? Cosa potete fare di concreto per migliorare la situazione?».

   Lo Xindi rifletté brevemente. Aveva già un’idea, doveva solo trovare le parole giuste per esprimerla. «Il grande vantaggio degli Imperiali sono le Narada» disse. «La tecnologia Borg si adatta, perciò è difficile contrastarla. Dobbiamo saperne di più. Dobbiamo dare ai nostri ingegneri qualcosa da studiare. Il che significa impadronirci di uno di quei vascelli».

   Il silenzio cadde sulla sala, finché il Console fece udire la sua voce un po’ raschiante. «La sua proposta è logica, Commodoro, ma difficilmente attuabile. Se quelle navi sono ardue da distruggere, lo saranno ancor più da conquistare. Anche riuscendo ad abbatterne gli scudi, dobbiamo supporre che abbiano un equipaggio numeroso e difese interne».

   «È anche logico che gli Imperiali preferiscano l’autodistruzione alla resa» aggiunse un gerarca Romulano. «Sono certamente gelosi di quella tecnologia e determinati a mantenerne l’esclusiva».

   «Non ho detto che sarà facile, ma dobbiamo tentare» puntualizzò Lantora. «Cercheremo d’isolare una Narada. Come sapete, non ce ne sono due identiche; noi selezioneremo una delle più piccole. L’attireremo in un’imboscata e poi l’attaccheremo con forze superiori».

   «Un piano ardito» commentò il Console. «Chi farà da esca?».

   «Io, con la mia nave» rispose lo Xindi, destando stupore e preoccupazione. «E tra i rinforzi avrò la miglior nave della Flotta. Capitano Hod, è pronta a venire a caccia d’Imperiali?».

   «Dopo sette anni con il Comandante Norrin, siamo tutti un po’ Cacciatori sulla nostra nave» rispose l’Elaysiana, con l’ombra di un sorriso.

   «Bene, allora è deciso» disse Lantora, dandosi un pugno sul palmo. «Partiremo subito. Conquisteremo una Narada e la setacceremo in cerca di un punto debole».

   «Supponendo che ce l’abbia» commentò D’Nas.

   «Nel peggiore dei casi ne replicheremo la tecnologia, così almeno combatteremo ad armi pari» precisò il Commodoro.

   «Replicare la tecnologia Borg... non promette bene» pensò Hod, ma si astenne dal dirlo. Gli Imperiali li avevano portati alla disperazione. E quando si è disperati, si fanno cose folli. In quel momento l’Elaysiana lo era abbastanza da fare quel salto nel buio.

 

   A centinaia di anni luce, sul pianeta Vothan – un tempo chiamato Terra – il Consiglio della Difesa si teneva in un clima teso. Rangda tacque a lungo, mentre i Pacificatori illustravano la situazione.

   «Le cose sono in continua evoluzione, ma Sela ha enunciato chiaramente il suo intento: restaurare l’Impero Romulano» concluse il Comandante in Capo. «Quei mondi sono attualmente in mano ai ribelli, quindi per ora siamo esentati dallo scontro con lo Stato Imperiale. Ma resta il fatto che il nostro obiettivo, come Unione Galattica, è di riconquistarli. Se non li strapperemo ai ribelli, dovremo farlo agli Imperiali. E considerato che questi ultimi dispongono della tecnologia Borg, l’impresa si annuncia assai più difficile. Personalmente ritengo che dovremmo firmare una tregua coi federali, per affrontare questa minaccia comune».

   Ci fu un lungo silenzio, in cui tutti fissavano la Presidente. Anziché rispondere all’esortazione, la Zakdorn si volse alla sua destra, dove sedeva l’Ammiraglio Hadron, leader delle forze d’occupazione Voth. «Come ve la cavate con la tecnologia Borg?» chiese.

   «È insidiosa, ma finora siamo sempre riusciti a respingerla con successo» rispose Hadron. «Se lo Stato Imperiale minaccerà i mondi attualmente sotto il vostro controllo, interverremo con tutta la forza necessaria per difenderli» promise.

   «Sentito? Non c’è nulla di cui preoccuparsi» disse Rangda, rivolta ai suoi. Sguardi preoccupati corsero da un capo all’altro della tavola, ma sembrava che nessuno osasse contestarla.

   Seduta al suo posto, con le mani in grembo, Lyra Shil restò in silenzio. Come Ministro dell’Informazione era abbastanza vicina alla Presidente da sapere che dietro l’apparente noncuranza c’era sempre un piano d’emergenza. E poi non le conveniva esporsi troppo: era di gran lunga la più giovane in quella sala e fino a due anni prima era una signor nessuno. Doveva la sua carica a una decisione improvvisa di Rangda e sapeva che, se l’avesse contrariata, la Presidente se la sarebbe ripresa con la stessa facilità. Era già abbastanza seccante che i suoi genitori Lantora e T’Vala e suo fratello Vrel militassero fra i ribelli; non voleva passare a sua volta come una contestatrice.

   «Signora Presidente... tutti quei mondi che ora cadono in mano agli Imperiali appartenevano all’Unione, prima che scoppiasse la guerra» disse infine il capo dei Pacificatori. «Il nostro obiettivo era riconquistarli. Non è ancora così?».

   «Certamente» rispose la Zakdorn. «La nostra missione era e resta ripristinare l’integrità dell’Unione. Ma non ha senso intervenire ora. Lasciamo che i nemici si sbranino a vicenda; dopo sarà più facile abbattere lo stremato vincitore».

   «E se lo Stato Imperiale riuscisse a consolidare le conquiste? Le cose per noi diventerebbero molto più difficili» insisté il militare.

   «Uhm... voglio che stimiate meglio il potenziale bellico delle Narada e che studiate delle contromisure» ordinò la Presidente. «Tuttavia non ingaggiate lo scontro senza il mio permesso» raccomandò.

   «Sarà difficile studiarle a distanza» borbottò il Comandante in Capo, ma si risedette.

   «Eccellenza, la prego di riconsiderare» disse una voce un po’ tremante. Tutti fissarono con stupore colui che aveva parlato. Era Turf, l’addetto alle pubbliche relazioni della Presidente. Il tozzo Yridiano era noto come un leccapiedi che non contestava mai le decisioni di Rangda, perciò era inconcepibile che l’avesse fatto in quella circostanza.

   «E perché mai?» si meravigliò la Presidente. Per la verità si aspettava qualche altra contestazione, ma non certo da lui.

   L’Yridiano deglutì prima di rispondere. «Ecco... tra i pianeti conquistati dagli Imperiali c’è Galorndon Core, che occupa una posizione strategica e ospita delle fabbriche d’armi che potrebbero essere rivolte contro di noi» si giustificò.

   «Cos’è, vuol farmi la lezione? Conosco le peculiarità di quel mondo. Conosco tutti i mondi dell’Unione» disse Rangda, fulminandolo con lo sguardo.

   «Anche se non intervenissimo su larga scala, credo che dovremmo riprenderci almeno quel pianeta...» insisté Turf.

   «Che assurdità! Non possiamo riprenderci un pianeta e basta... una volta entrati in conflitto con lo Stato Imperiale, si lotterà per la vittoria totale» obiettò la Presidente. «Ecco perché dobbiamo procedere con la dovuta cautela».

   «Quel che il signor Turf ha tralasciato di dire è che la sua famiglia vive su Galorndon Core» disse perfidamente il Ministro dell’Economia, un pingue Ferengi.

   «Ah, è così?!» s’indignò Rangda, fissando l’Yridiano che tremava come una foglia. «Adduce ragioni tattiche, quando in realtà si tratta di motivi personali? Che meschinità! Tutti noi siamo servi dello Stato prima che figli, fratelli o genitori. Abbiamo degli interessi privati, è inevitabile; ma finché siamo in carica, dobbiamo sempre anteporre il bene comune. Mi sono spiegata?!».

   La voce stentorea della Zakdorn rimbombò nella sala. I presenti fissarono Turf con ostilità: era prassi consolidata che chi cadeva in disgrazia agli occhi della Presidente non ricevesse alcuna solidarietà, neanche da chi la pensava come lui. Del resto, ogni volta che qualcuno veniva degradato si aprivano delle opportunità di carriera per altri.

   «S-sì, Eccellenza, certo. Le porgo le mie scuse» mormorò Turf, facendosi piccolo piccolo. Per il momento non subì altro che il rimprovero verbale, ma fu chiaro che la sua posizione era divenuta assai più precaria. E nella cerchia della Presidente c’erano molti soggetti più che disposti a dargli l’ultima spintarella verso la rovina.

   «Ho fatto bene a restare in silenzio» si disse Lyra. Incidenti del genere erano preziosi per farle comprendere le dinamiche del potere e insegnarle a restare a galla. In quella ricordò che doveva chiedere una cosa alla Presidente. Aspettò che altri Ministri parlassero, così che nel frattempo la collera di Rangda sbollisse. Quando le parve il momento opportuno, parlò nel tono più normale: «Signora Presidente, questa crisi influirà sulla nostra politica di ricollocamento degli Umani?».

   «Assolutamente no» rispose la Zakdorn. «Procederemo secondo tempi e modi stabiliti».

   «E per quanto riguarda la caccia ai corsari...».

   «Anche quella proseguirà secondo i piani. Faccia i suoi annunci alla popolazione, dopo di che le cose si metteranno in moto da sole».

 

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Capitolo 4
*** L'Esecutore ***


-Capitolo 3: L’Esecutore

 

   Jack Wolff – in arte lo Spettro – digrignò i denti, chiamando a raccolta tutte le sue forze. Tese i muscoli al massimo, ma le corde che lo tenevano avvinto al lettino di tortura erano state correttamente annodate e non avevano punti deboli. Allora provò a contorcersi, a divincolarsi, ma scoprì di poter muovere, e di poco, solo gli avambracci. Il resto del corpo era costretto ad aderire al giaciglio.

   «Coraggio... te la sei cavata in situazioni peggiori» si disse l’Umano. Rilassò i muscoli, per non spossarsi inutilmente, e si guardò attorno, ragionando sul da farsi. La cella in cui si trovava era di foggia antica, quasi da maniero. Pareti e pavimento erano in pietra, macchiata dall’umidità. I precedenti carcerati li avevano cosparsi di graffiti ripugnanti: insulti, maledizioni, figure di mostri e scheletri in atteggiamento rapace. Al momento, però, Jack era solo. Non c’erano altri prigionieri e nemmeno guardie in vista, anche se non poteva escludere che le sue mosse fossero sorvegliate da fuori.

   Il lettino su cui l’avevano legato era molto basso: si alzava da terra di appena un piede. Sforzandosi al massimo, Jack riusciva a sfiorare il pavimento con le punte delle dita. Fu allora che degli squittii poco rassicuranti attirarono la sua attenzione. Piegando la testa notò del movimento a terra. Piccole, sudice creature zampettavano attorno a lui. Sembravano più grosse dei ratti terrestri; forse erano arvicole cardassiane. La luce era così incerta che non poteva esserne sicuro.

   Almeno i carcerieri gli avevano lasciato del cibo, su un piccolo vassoio posato a terra. C’erano delle pagnotte, coperte da una strana salsa, e una brocca d’acqua. Purtroppo quegli animaletti che zampettavano a terra avevano tutta l’aria d’essere affamati. Legato com’era, non poteva proteggere le sue scorte dai loro denti. «Devo liberarmi da questi legacci» si disse. Era il primo, indispensabile passo da compiere. Pur rimanendo chiuso in cella, almeno non sarebbe stato così penosamente immobilizzato. E avrebbe potuto difendere il cibo da quelle bestiacce.

   In quella Jack udì un clangore metallico proveniente dall’alto. Raddrizzò la testa e vide che nel soffitto si era aperta una botola. L’interno era oscuro, ma ben presto qualcosa si mosse, accompagnato da un inquietante cigolio. Calò un lungo pendolo, che terminava con...

   «No!». Era una mannaia. Una vera e propria mannaia, a forma di mezzaluna, con i corni rivolti in alto e la lama affilatissima protesa contro il suo petto, all’altezza del cuore. Scese lentamente, finché si fermò circa un metro sopra di lui, con uno scatto d’ingranaggi. Per qualche secondo restò immobile, ma Jack sapeva che la quiete non sarebbe durata. Non si costruisce un arnese come quello se non si vuole usarlo.

   D’un tratto il pendolo, e con esso la mannaia, s’inclinò di lato, fin quasi a sfiorare la parete. Da qui fu rilasciato. Fendette l’aria con un sibilo, passò sopra il prigioniero senza toccarlo e raggiunse l’estremità opposta, da cui ricominciò il suo movimento ritmico. Avanti e indietro, la lama a mezzaluna scintillò sopra il corsaro, che ogni volta avvertiva il lieve spostamento d’aria. Che fosse solo una tortura psicologica? Jack non osò sperarlo. Riprese gli sforzi per liberarsi, senza successo.

   Fu solo dopo parecchi minuti che l’Umano si accorse di un orribile fenomeno: a ogni oscillazione, il pendolo si abbassava di un millimetro. Già adesso gli era molto più vicino di quando si era messo in moto e ciascun dondolio peggiorava le cose. Presto lo avrebbe raggiunto, e allora... game over. Doveva liberarsi, e subito! Ma come?!

   «Urgh... maledetti... non mi avrete!» gracchiò il corsaro, tendendosi spasmodicamente nel tentativo di liberarsi. La mannaia era sempre più vicina; ora ne avvertiva distintamente il sibilo e lo spostamento d’aria. Eppure doveva esserci una via di fuga. Tornò a guardarsi attorno, in cerca d’ispirazione. Ancora un rintocco; la lama quasi gli sfiorava il petto...

   In quella la porta si aprì e una donna pallida, dai capelli color platino, fece il suo ingresso. Per un attimo restò immobile, a osservare la scena. «Sigh... lo sapevo che ti avrei trovato in una situazione del genere» commentò. «Se non ti cacci nei guai, non sei contento».

   «Tesoro, ti spiace tornare fra qualche minuto? Sono un po’ occupato, come vedi...» disse Jack, contorcendosi nel tentativo di liberarsi.

   «Non c’è tempo da perdere. Computer, fine programma!» ordinò la donna.

   «No, aspett...».

   I muri in pietra e il pendolo della tortura si dissolsero. E così fece il lettino. Jack cadde da trentacinque centimetri d’altezza sul pavimento del ponte ologrammi. Atterrò di schiena, tenendo la testa sollevata per non battere la nuca. «Ouch!» si lamentò.

   «Quante storie. Su, alzati» gli disse la compagna, tendendogli la mano.

   Il corsaro si rialzò, trovandosi a fissare gli occhi azzurro ghiaccio di Jaylah Chase. La mezza Andoriana viveva con lui da due anni, cioè dallo scoppio della Guerra Civile. Aveva lasciato la Keter per partecipare alle loro missioni di spionaggio, sabotaggio e liberazione di prigionieri, anche se continuava a considerarsi parte della Flotta Stellare. Era stata una decisione sofferta, ma in un certo senso era il coronamento di un percorso durato anni. Un percorso che li aveva visti dapprima nemici, poi alleati riluttanti, infine amanti segreti. Adesso Jack non riusciva a immaginare la sua vita senza di lei. Jaylah aveva dato un senso alla loro lotta, trasformando un’accozzaglia di pirati dediti al guadagno e alla vendetta in un equipaggio corsaro in prima linea nel conflitto. Le loro imprese erano già diventate leggenda e ispiravano altri a opporsi al regime. Naturalmente li avevano anche resi i maggiori ricercati dell’Unione. Jack temeva il giorno in cui Rangda gli avrebbe messo alle calcagna un segugio più sveglio dei soliti Pacificatori. Lo temeva soprattutto ora che aveva qualcosa – anzi, qualcuno – da perdere.

   «Potevi darmi qualche minuto» si lamentò, massaggiandosi le braccia indolenzite. «Sono certo che avrei scoperto come liberarmi».

   «Dovevi spargere la salsa sui legacci, così i ratti li avrebbero rosicchiati fino a spezzarli» rivelò Jaylah.

   «Grazie per avermi rovinato la sorpresa. A proposito, tu come lo sai? Ci hai già giocato?» volle sapere Jack.

   «No, ma è ispirato a un vecchio racconto dell’orrore terrestre» rispose la mezza Andoriana. «Sai, dovresti trovarti un altro passatempo. Questo somiglia troppo al nostro lavoro».

   «È proprio per questo che lo faccio. Un giorno o l’altro qualcuno mi acciufferà, quindi devo allenarmi a evadere» spiegò il corsaro. «Comunque, se hai in mente di meglio, sono aperto ai suggerimenti».

   «Ci serve una vacanza in un posto tranquillo. Il ponte ologrammi avrà pure in memoria qualche pianeta decente... ci guarderò» promise Jaylah. «Adesso però vieni. Sta succedendo qualcosa di strano».

   Lasciarono il ponte ologrammi e percorsero gli ampi corridoi della Stella del Polo. Costruita dal Sindacato di Orione, l’astronave era caduta in mano allo Spettro cinque anni prima, divenendo l’ammiraglia della sua flotta corsara. Finora se l’era cavata bene, anche perché Jack cercava di tenerla lontana dalle grandi battaglie, riservandola agli attacchi mordi e fuggi.

   Salita la grande scala a chiocciola, i due entrarono in plancia. «Capitano sul ponte!» li accolse Graush. Il Letheano era il fratello minore di Dauthka, primo alleato di Jack, e dopo la sua morte gli era subentrato nel ruolo di Primo Ufficiale. Udendo la sua voce stentorea, tutti i corsari si misero sull’attenti. L’Umano sorrise fra sé; quella disciplina era uno dei ritocchi dovuti a Jaylah, ma non gli dispiaceva. Sottolineava la sua autorità a bordo e rammentava a tutti che erano qualcosa di più che una banda di fuorilegge.

   «Allora, che succede?» volle sapere Jack.

   «Abbiamo captato questo comunicato dalla Terra» disse Siall, l’addetto a sensori e comunicazioni. Il Boliano con la benda sull’occhio lo visualizzò sullo schermo principale. Lyra Shil, in veste di Ministro dell’Informazione, si rivolgeva ai cittadini dell’Unione per tranquillizzarli riguardo all’avanzata dello Stato Imperiale.

   Nel vedere la mezza Xindi, uno dei volti pubblici del regime, Jack arricciò il naso. Lui e Jaylah avevano parlato più volte di darle una lezione, ma non ne avevano mai avuta l’occasione. Finché Lyra se ne andava in giro a ispezionare i Centri di Rieducazione potevano sperare di avvicinarla, e in effetti era così che suo fratello Vrel l’aveva sorpresa un anno prima. Ma il timoniere della Keter non aveva avuto cuore di ucciderla, né era riuscito a catturarla, e da allora Lyra lasciava di rado la sicurezza della capitale.

   «... gli aggiornamenti giungono di ora in ora. È chiaro ormai che lo Stato Imperiale punta alla conquista di Nuovo Romulus, ma per voi che mi ascoltate non c’è nulla da temere» stava dicendo Lyra. «I Pacificatori sorvegliano il confine e i Voth ci hanno garantito il pieno appoggio, qualora gli Imperiali dovessero attaccarci...».

   «Signori, abbiamo già parlato dello Stato Imperiale» disse Jack. «Non rischierò la Stella contro quelle navi-istrice. Del resto non faremmo la differenza in una battaglia campale. È nelle missioni d’infiltrazione che diamo il meglio».

   «Aspetta un momento» pregò Jaylah. «Siall, manda avanti».

   Il Boliano accelerò il filmato, portandolo fin quasi alla conclusione. Solo allora ripristinò la velocità normale, rendendo intellegibili le parole.

   «... devo inoltre comunicarvi una triste notizia» disse Lyra. «Nella giornata di ieri il trasporto Dagon, che portava duecento Terrestri alla nuova dimora su Deneva, è stato attaccato dai corsari. I superstiti dell’equipaggio hanno riferito che si trattava della banda dello Spettro, come confermano le registrazioni dei sensori». Mentre parlava apparve un’inquadratura della Stella del Polo che apriva il fuoco contro gli osservatori. Durò pochi secondi, dopo di che riapparve la mezza Xindi.

   «Dopo aver abbattuto gli scudi del Dagon, i fuorilegge hanno sequestrato tutti i passeggeri, per poi darsi alla fuga. Non è ancora pervenuta alcuna richiesta di riscatto, ma i canali sono aperti. Se lo Spettro sta ascoltando questo messaggio, lo esorto a non nuocere ai Terrestri: non è accanendosi sugli innocenti che gioverà alla sua causa. Piuttosto dovrebbe contattarci. Anche se per legge l’Unione non paga riscatti, siamo disponibili a uno scambio di prigionieri. Nulla, per noi, è più importante della vita dei nostri cittadini». Il viso accorato di Lyra, che guardava fisso nell’olocamera, lasciò il posto al logo dell’Unione Galattica. La trasmissione era finita.

   Per parecchi secondi ci fu silenzio. Tutti fissavano Jack, che rimuginava sul messaggio. «Beh, partiamo da ciò di cui siamo certi» disse infine l’Umano. «Non l’abbiamo assalito noi, quel trasporto. Fino a un minuto fa non sapevo nemmeno che esistesse».

   «Quella registrazione...» cominciò Graush.

   «È un falso, ovviamente. Una mossa propagandistica come tante» tagliò corto lo Spettro.

   «Ma resta il fatto che una nave è stata attaccata e duecento Terrestri sono spariti» disse Jaylah. «Assodato che non li abbiamo presi noi... dove sono finiti?».

   «Ehi, calma, stai correndo troppo» la frenò Jack. «Che prove abbiamo che nave e passeggeri esistano? Solo la parola di Lyra! Puzza di trappola».

   «Ehm, veramente abbiamo fatto qualche ricerca prima di chiamarti, capo» disse Siall. «Sembra proprio che il Dagon esista. I servizi segreti federali confermano che ha già fatto dei viaggi del genere. E anche quei passeggeri esistono... o almeno esistevano. Sulla Terra non ci sono più e a Deneva non sono mai arrivati».

   «Okay, diciamo che esistono. Resta il fatto che non li abbiamo presi noi» ribadì lo Spettro. «Quindi ci sono due possibilità. La prima è che un’altra fazione abbia compiuto l’attacco, usando una nave identica a questa per incolparci. La vedo difficile... la Stella del Polo è unica. Gli Orioniani non ne hanno fatte altre così».

   «Potrebbe essere un trucco dello Stato Imperiale, per impedire all’Unione e alla Federazione di ricompattarsi» suggerì Graush.

   «Un po’ cervellotico, ma dai Romulani potrei anche aspettarmelo» concesse lo Spettro. «Tuttavia propendo per la seconda possibilità, cioè che sia un inganno dell’Unione per attirarci in un’imboscata. Ci sono altri trasporti che seguiranno quella rotta nelle prossime settimane?».

   «Il Chemosh, della stessa classe, partirà fra tre giorni. La notizia è pubblica» disse Siall.

   «Ah! Non vedete che è una trappola?» scattò Jack. «C’incolpano della sparizione, noi seguiamo il trasporto successivo per vedere cosa c’è sotto... e i Pacificatori ci attaccano. Mi stupisco solo che abbiano escogitato un piano così banale».

   «Sono d’accordo, ma resta il fatto che duecento Terrestri sono spariti e non sappiamo che fine abbiano fatto» disse Jaylah. «Seguendo il trasporto restando occultati potremo vederci chiaro. Se i Terrestri sono trasferiti su un’altra nave dei Pacificatori, la seguiremo per scoprire dove li nascondono».

   «E se il colpevole fosse qualcun altro?» s’inquietò lo Spettro.

   «Sarà comunque un bene scoprire chi è. In ogni caso, non saremo costretti a rivelarci» argomentò la mezza Andoriana.

   «Sempre che i passeggeri non siano in pericolo di vita» rimuginò l’Umano. «Uhm, questa faccenda non mi piace. Chiunque sia il colpevole... e propendo per i Pacificatori... è chiaro che ci vuole attirare. I Terrestri sono solo l’esca... quindi potrebbero considerarli sacrificabili».

   Tornò il silenzio. Jack sentiva gli sguardi su di sé e sapeva di dover decidere. Poteva lavarsene le mani, ma aveva la sgradevole sensazione che in quel caso le sparizioni sarebbero continuate. Oppure poteva cacciarsi in un’evidente trappola. Ma se non ci pensavano loro a risolvere questo mistero, chi l’avrebbe fatto? Certo non la Flotta Stellare, troppo distratta dall’invasione dello Stato Imperiale.

   «E va bene, ci occuperemo di questa faccenda» decise. «Ci metteremo in coda al Chemosh, rimanendo occultati. In caso di attacco stabiliremo di chi si tratta prima di rivelarci. Non daremo battaglia ad avversari sconosciuti. Sono stato chiaro?».

   «Sì, Capitano» disse Graush. Ma lo Spettro non stava guardando lui. I suoi occhi erano fissi su Jaylah, che in passato si era spesso esposta a gravi rischi.

   La mezza Andoriana notò lo sguardo e capì a cos’era dovuto. «Sì, Capitano» promise. Non poteva biasimare Jack per il fatto che teneva a lei. Stavolta avrebbe fatto la brava, si disse.

 

   La Stella del Polo si addentrò nello spazio dell’Unione mantenendosi occultata e in silenzio subspaziale. Anziché puntare verso il sistema solare, da dove il trasporto sarebbe partito, i corsari fecero in modo d’incontrarlo lungo il tragitto. Questo era dovuto sia alla mancanza di tempo, sia alla necessità di tenersi alla larga dalle navi Voth che pattugliavano il sistema e che avrebbero potuto rilevarli. L’incontro avvenne nello spazio aperto, tre giorni dopo la partenza del Chemosh.

   «È confermato, si tratta di un vecchio trasporto di classe Restoration» disse Siall. «Non ne restano molti, in circolazione».

   «C’è una scorta?» volle sapere lo Spettro.

   «Negativo, a meno che sia occultata» rispose il Boliano.

   «Uhm, sempre più sospetto. Seguiamo il trasporto da una certa distanza, direi almeno un’UA» ordinò l’Umano.

   La Stella del Polo corresse rotta e velocità, mettendosi non proprio in coda al vascello, quanto piuttosto su una rotta parallela. A quella distanza i corsari potevano sorvegliarlo e avevano il tempo di reagire se fosse successo qualcosa. Non restava che attendere.

 

   Il giorno passò senza eventi e così quello successivo. Ma la seconda notte il sonno di Jack fu interrotto da un allarme. «Capitano sul ponte. Il Chemosh è sotto attacco!» lo avvertì Graush.

   «Da parte di chi?» farfugliò l’Umano, agguantando il comunicatore sul comodino.

   «Sembra impossibile, ma è una copia esatta della Stella. Proprio come aveva detto Lyra» rispose il Letheano.

   «Restate in attesa, sto arrivando» disse Jack, d’un tratto lucido. Guardò Jaylah, che si era destata accanto a lui. «Ci siamo» disse. «Penso che sarà interessante».

   I due si vestirono a precipizio, indossando anche le tute a Occultamento Sfasato: Jack quella nera da Spettro, Jaylah quella bianca da Banshee. Per il momento tuttavia evitarono di attivare i caschi. Dopo di che, per risparmiare tempo, si teletrasportarono in plancia. Davanti a loro si parò una scena drammatica. Il Chemosh era sullo schermo, inclinato di 45°. Aveva danni alle gondole; quella di dritta perdeva plasma. Altri colpi giungevano dall’alto, martellando gli scudi sempre più deboli. Il trasporto rispondeva al fuoco, ma non aveva speranza.

   «Non è apparsa alcuna scorta?» chiese lo Spettro.

   «Negativo; sono soli» rispose Siall. «Hanno la propulsione fuori uso e gli scudi stanno per cedere del tutto».

   «Voglio vedere l’aggressore» disse Jack. Anche se Graush gli aveva confermato che si trattava di una replica della loro nave, non ci avrebbe creduto davvero finché non l’avesse vista con i suoi occhi. Fu prontamente accontentato: la nave assalitrice apparve sullo schermo.

   Era la copia sputata della Stella del Polo, fino all’ultimo dettaglio dello scafo. Persino il colore era lo stesso, un verde scuro con alcuni dettagli grigi. La nave manovrava agilmente, sparando con i disgregatori anteriori, mentre gli scudi a bolla assorbivano il fuoco nemico.

   «Ne hanno davvero costruita un’altra» commentò Graush.

   «Al tempo; voglio un’analisi sensoriale completa» ordinò lo Spettro. Sedette sulla poltrona di comando, che l’orgoglio degli Orioniani aveva reso simile a un trono. Jaylah si accomodò su un seggio del tutto simile, che il corsaro aveva predisposto per lei. In un frullio d’ali giunse anche Goldie, la mascotte della nave. Era una femmina di falcone cestiano, dal collo lungo e il piumaggio dorato. La fedele bestiola si posò sul bracciolo della poltrona di Jaylah, lasciandosi carezzare.

   «I sensori non penetrano i loro scudi» avvertì Siall. «Comunque le dimensioni sono uguali alle nostre, e così velocità e maneggevolezza».

   «Uhm, hanno gli scudi a bolla» notò l’Umano. «Noi di solito li teniamo aderenti allo scafo».

   Al suo fianco, Jaylah fu colta da un’intuizione. «Calcolate la massa di quella nave e cercate la sua traccia di curvatura» ordinò, sempre carezzando Goldie.

   I corsari eseguirono, mentre lo scontro proseguiva a tutto vantaggio degli attaccanti. Il Chemosh era ormai alla deriva; i suoi armamenti venivano distrutti con colpi precisi.

   «La massa si direbbe inferiore alla nostra e la traccia di curvatura è diversa» concluse Siall.

   «Come immaginavo» disse Jaylah. «Quello che vediamo è un ologramma creato attorno al vascello. Gli scudi sono a bolla perché altrimenti vedremmo i colpi nemici attraversare il finto scafo».

   «Astuto» riconobbe lo Spettro. «Resta da vedere chi c’è dietro».

   «Attacchiamo, capo?» chiese l’Ufficiale Tattico, un Nausicaano di nome Skal’nak.

   «È proprio ciò che vogliono» mugugnò Jack. «Aspettiamo che abbassino gli scudi per imbarcare i prigionieri».

   Non dovettero attendere molto: di lì a un minuto il Chemosh fu del tutto disarmato. La falsa Stella gli si avvicinò, ma anziché assumere una posizione stazionaria continuò a girargli attorno come uno squalo.

   «Ecco, hanno abbassato gli scudi» disse Siall. «Cercano di prendere a bordo i Terrestri, ma...».

   «Ma?» lo incalzò Jack.

   «I Pacificatori hanno attivato un inibitore di teletrasporto per tenersi i passeggeri. Essendo interno alla nave, gli aggressori non possono disabilitarlo...».

   «... a meno di abbordarla» concluse lo Spettro. «L’inibitore protegge tutto il trasporto?».

   «Negativo. C’è una piccola zona libera a prua, vicino al deflettore. E ho appena rilevato un singolo teletrasporto» aggiunse il Boliano.

   «Ci siamo» disse lo Spettro, alzandosi di scatto. «Mandatemi lì. Chiunque sia, voglio vederlo e fargli qualche domanda. Jaylah, a te la nave».

   «Posso venire con te» si offrì la mezza Andoriana.

   «Non è necessario. Pensa a disabilitare la falsa Stella» ordinò il corsaro. Salì sulla pedana di teletrasporto, mettendosi in posizione.

   Jaylah avrebbe voluto insistere, ma pensò che non c’era tempo da perdere. E malgrado l’amore e la collaborazione che li univa, Jack restava pur sempre il Capitano della Stella. I suoi ordini andavano eseguiti, a maggior ragione durante una battaglia. «In bocca al lupo» gli augurò.

   «Crepi!» rispose Jack, ammiccando. L’attimo dopo attivò il casco, che si dispiegò dal collo della tuta, richiudendosi attorno alla sua testa. Era di nuovo lo Spettro, il corsaro senza volto. Svanì nel bagliore del teletrasporto, diretto all’incontro con il suo emulo.

 

   Materializzato nella sala controllo deflettore, lo Spettro attivò immediatamente l’occultamento della tuta. Si mosse in fretta, guardandosi attorno. Non c’era nessuno in vista e non si udiva nemmeno rumore di passi. Eppure l’intruso della falsa Stella doveva essere lì, o nelle immediate vicinanze. Possibile che l’imitazione non si limitasse all’astronave, ma si estendesse anche alla tuta occultante?

   «Impossibile... quella ce l’ho solo io» si disse. Era l’invenzione dei suoi genitori ed era sempre riuscito a proteggerla. Però gli venne in mente che anche i Voth possedevano l’Occultamento Sfasato. Se lo avessero concesso ai Pacificatori, questi avrebbero costruito tute analoghe alla sua. «No, i Voth non condividono mai la loro tecnologia. Stagnanti come sono, hanno troppa paura di perdere il vantaggio sulle altre specie» ricordò. Tuttavia non riuscì a tranquillizzarsi del tutto.

   Stava per lasciare la sala controllo quando vide due corpi riversi a terra, presso una consolle. Erano gli addetti al deflettore. Si chinò su di loro, tornando tangibile, e li esaminò. Erano ancora vivi, ma qualcuno li aveva storditi con un raggio ad alta potenza. E c’era un dettaglio inquietante: sebbene fossero entrambi armati, nessuno aveva fatto in tempo a impugnare il phaser. Chiunque li avesse aggrediti, lo aveva fatto in un lampo.

   Preso da un senso d’urgenza, Jack si rialzò e lasciò la sala, sfasandosi per attraversare la paratia. Corse attraverso lastre di duranio, condotti dell’energia e tubi di Jefferies, fino a sbucare in un corridoio. Qui trovò un altro ufficiale a terra: questo era della Sicurezza. Almeno aveva il phaser in pugno, ma evidentemente non gli era bastato. Il corsaro lo oltrepassò, senza fermarsi ad appurare se era stordito o morto. Sentiva grida e suoni di phaser che venivano da più avanti. I Pacificatori avevano ingaggiato lo scontro con l’invasore e a giudicare dalle urla stavano soccombendo.

   Con il cuore che batteva forte, come non gli capitava da tempo, lo Spettro corse in avanti. I rumori della battaglia erano sempre più vicini. Scavalcò i corpi riversi di altri Pacificatori, finché una svolta lo portò nel mezzo del combattimento.

   Gli agenti sparavano da tutte le parti, come impazziti. Qualcosa guizzava tra loro, apparendo e sparendo, troppo rapido e fuggevole perché l’occhio potesse riconoscerlo. A volte sparava con un phaser, in altri casi li percuoteva con tale forza da scaraventarli contro le paratie. Ben presto rimase in piedi solo il caposquadra, che arretrò verso un portone, dando una sventagliata di phaser nel corridoio. Non poté vedere né ferire lo Spettro, che rimaneva occultato. A forza d’indietreggiare il Pacificatore stava per raggiungere l’ingresso, quando il misterioso aggressore gli apparve davanti. Lo attraversò, mettendolo fuori combattimento, e tirò dritto. Jack vide solo una sagoma umanoide color cremisi, che spariva nel portone.

   «Spettro a Stella, non hanno copiato solo la nostra nave. Qui c’è qualcuno munito di Occultamento Sfasato. Restate in attesa, cerco d’identificarlo» disse. Radunò il coraggio e attraversò a sua volta il portone. Si trovò in una sala dalle paratie grigie che solitamente doveva essere una stiva di carico, ma che era stata riadattata per ospitare parte dei passeggeri. Costoro erano radunati contro la parete opposta, muti e tremanti per il terrore. Davanti a loro si ergeva l’invasore.

   Era un guerriero alto più di due metri, rivestito da una tuta corazzata rosso sangue, con tanto di casco integrale. Colore a parte, la corazza somigliava in modo impressionante a quella dello Spettro, se non che il torace era più ampio e le braccia più grosse. L’aggressore afferrò un passeggero per la gola, sollevandolo senza alcuno sforzo. «Dov’è l’inibitore di teletrasporto?!» domandò. La sua voce, alterata elettronicamente, pareva un ringhio bestiale. Sbatté l’Umano contro la paratia, strappandogli un lamento.

   «Perché non ne parli con me?» chiese lo Spettro, apparendo alle sue spalle.

   «Volentieri» disse il guerriero cremisi, pericolosamente soddisfatto. Gettò via l’Umano, come un rifiuto inutile, e si volse a fronteggiare il corsaro. «Eccoti, vecchio mio. Mi chiedevo quanti trasporti avrei dovuto attaccare, per attirare la tua attenzione». Sebbene avesse il volto celato e la voce deformata, si aveva l’impressione che sorridesse.

   «Non ne serviranno altri» commentò il corsaro. «Sai, dicono che l’imitazione è la più sincera forma di adulazione. Se è così, accetto il complimento. Ma vorrei sapere chi sei e cosa vuoi, prima di decidere cosa fare con te».

   «Io sono l’Esecutore» rivelò lo sconosciuto, avvicinandosi a grandi passi. La visiera dorata spiccava sul casco cremisi. «E voglio la tua testa».

 

   La falsa Stella stava ancora girando attorno al Chemosh, talora assestandogli ulteriori colpi, quando la vera nave dei corsari si rese visibile e l’attaccò da dietro. La reazione fu immediata. La finta Stella sfrigolò e si dissolse, rivelando un vascello oblungo, dalla simmetria tripartita. Persino le tre gondole, quasi del tutto integrate nello scafo, erano poste a 120° una dall’altra. L’astronave si girò immediatamente e si avventò sulla Stella, sparando con i potenti disgregatori anteriori. La nave corsara tremò sotto quel fuoco intenso.

   «E questo che diavolo è?!» fece Graush.

   «Si direbbe un’Hydra» mormorò Jaylah, riconoscendo l’insolita configurazione. «Tutto a babordo, presto!» ordinò, insolitamente agitata.

   La Stella aveva appena cominciato a manovrare quando accadde un fatto inusitato. L’Hydra si aprì da prua a poppa, dividendosi in tre per il lungo. Ogni elemento era provvisto di armi, scudi e propulsione autonomi, compresa una gondola quantica.

   «Attacco multi-vettore» riconobbe la mezza Andoriana. «Massima energia agli scudi e aumentate la velocità!» ordinò, accorgendosi che non le sarebbero sfuggiti.

   I tre moduli dell’Hydra sfrecciarono accanto alla Stella, colpendola selvaggiamente da più lati. Le fiancate alte della nave furono martellate e così il dorso. Fortunatamente la velocità dei vascelli era elevata, così che si superarono in un attimo. Se la Stella fosse rimasta più a lungo sotto il tiro incrociato, sarebbe stata distrutta. Anche così riportò danni.

   «Brecce nello scafo sui ponti 14, 27 e 28» avvertì Skal’nak. «I campi di contenimento reggono, ma l’occultamento è compromesso».

   «Frell!» imprecò Jaylah. «Teniamoci il più possibile a distanza. Non deve prenderci di nuovo nel fuoco incrociato. Rimodulare gli scudi».

   «Tu conosci quell’affare?» domandò Graush.

   «L’Hydra era un progetto segreto della Sezione 31. Doveva riprendere l’attacco multi-vettore della classe Prometheus» spiegò la mezza Andoriana. «Non sapevo che ne avessero mai realizzate... devono averlo fatto i Pacificatori, dopo lo scoppio della guerra».

   «Quindi ci sono i Pacificatori, là dentro? E hanno assalito il loro trasporto?!» si stupì il Letheano.

   «Sì, per attirarci in un’imboscata. Presto, dobbiamo riprendere Jack!» ordinò Jaylah.

   «Non è così semplice. Sul Chemosh c’è ancora interferenza e comunque non possiamo abbassare gli scudi finché lottiamo con l’Hydra» disse Skal’nak.

   «Conosci la potenza di quella nave? Possiamo batterla?» chiese Graush.

   «Se hanno seguito il progetto... temo di no» disse la corsara.

   In quella giunse il messaggio dello Spettro, che riferiva di un intruso munito di Occultamento Sfasato.

   «Non cercarlo, è una trappola!» avvertì Jaylah. Non vi fu risposta.

   «Troppe interferenze, non credo ti abbia sentito» disse Siall.

   La mezza Andoriana fissò cupamente i tre moduli dell’Hydra che li colpivano da varie angolazioni. Date le ridotte dimensioni, i loro scudi non erano potenti come quelli della Stella. In compenso la loro agilità era incredibile, tanto che riuscivano a evitare molti colpi con brusche variazioni di rotta. In attacco usavano schemi d’assalto combinati e sempre diversi, difficili da prevedere. Di solito attaccavano due per volta, mentre il terzo si teneva indietro, per rigenerare gli scudi. Per una singola nave era arduo reggere il confronto.

   Ma Jaylah non era l’ultima arrivata tra i corsari. Tra gli insegnamenti di suo padre, gli studi d’Accademia e l’esperienza di Agente Temporale, aveva un’ampia conoscenza di armamenti e strategie. E la Stella del Polo conteneva un vasto arsenale: erano anni che i corsari attaccavano i trasporti militari, tenendo per sé il meglio che trovavano. «Lanciate le cariche nucleoniche, disturberanno i loro sensori di puntamento e destabilizzeranno gli scudi» ordinò la mezza Andoriana.

   «E poi quale bersaglio colpisco?» chiese Skal’nak. I tre moduli dell’Hydra erano identici. Se anche uno ospitava la plancia vera e propria, con gli ufficiali superiori, non c’era modo di riconoscerlo.

   «Quelli in attacco, quali che siano» rispose Jaylah. «Dopo di che ci allontaneremo a massima curvatura, fingendo di fuggire. Invece faremo un ampio cerchio e torneremo qui a prendere Jack» stabilì. Il piano supponeva che il corsaro resistesse abbastanza a lungo. Ma se c’era una cosa che la mezza Andoriana aveva imparato su di lui, era la sua abilità nel sopravvivere.

 

   Nella stiva del Chemosh, lo Spettro e l’Esecutore si fissavano, cercando di valutare le rispettive forze. I passeggeri si assieparono lungo i lati, muti spettatori del confronto. Passarono i secondi, dilatati dalla tensione. Non si udiva un solo respiro.

   Fulmineo come un pistolero d’altri tempi, lo Spettro alzò il braccio e sparò con il phaser innestato nel bracciale. Il raggio attraversò l’Esecutore, che si era sfasato, e colpì la paratia retrostante, lasciando una chiazza scura. L’attimo dopo i ruoli s’invertirono. L’Esecutore, tornato tangibile, aprì il fuoco e lo Spettro fece appena in tempo a sfasarsi, divenendo anche invisibile. L’Umano comprese che il suo avversario lo aveva lasciato sparare per primo, per accrescere le probabilità di colpirlo. «È in gamba, il bastardo... devo stare più attento» si promise.

   «Come, scappi dopo il primo round? Che codardo!» lo derise l’Esecutore. Si guardò attorno, girando più volte su se stesso, così che lo Spettro non potesse coglierlo alle spalle. Vedendo i suoi scatti, i passeggeri terrorizzati si pressarono ancor più contro le pareti.

   «Dove vorresti andare? La tua nave non può riprenderti a bordo. E non credo che ti nasconderai in qualche pertugio, in attesa dei soccorsi» proseguì il sicario. «No... tu sei ancora qui, in attesa di colpirmi alle spalle. Beh, non ti renderò le cose troppo facili. Sei giunto per salvare i tuoi simili, giusto? Bene, allora dimostralo! Se non ti riveli, li ucciderò uno alla volta... a cominciare dai bambini».

   Così dicendo si avventò sul bimbo più piccolo che si trovava in sala, un frugoletto di cinque o sei anni. Respinse il padre, che si era frapposto: con un solo manrovescio lo scagliò contro la parete, da cui l’uomo si accasciò tramortito. La madre strillò e afferrò il piccolo, cercando di fargli scudo. L’Esecutore la stordì con un colpo alla nuca e poi la calpestò, mentre afferrava il bambino. Lo sollevò per un braccio, strappandogli un grido di dolore e terrore.

   «Lascialo andare, verme!» tuonò lo Spettro, palesandosi. Non poteva tollerare quella vista, che gli ricordava come i Breen avessero ucciso sua madre, quando lui aveva la stessa età di quel bambino.

   «Lasciarlo andare? Pessima scelta di parole!». L’Esecutore rise di cuore e scaraventò il bimbo contro la parete opposta, con forza sufficiente a ucciderlo. Lo Spettro si tuffò di lato, afferrandolo al volo, e cadde con lui a terra, assicurandosi di attutire il colpo.

   Mentre i due toccavano il pavimento, l’Esecutore estrasse il phaser incorporato nel bracciale e li prese di mira. Sapeva che lo Spettro era tangibile, dato che aveva tra le braccia il bambino. In quella però uno dei passeggeri gli venne addosso, urtandolo con una spallata. Il sicario vacillò appena e sbagliò il colpo, che sfiorò il casco dello Spettro e chiazzò il pavimento. Subito l’Esecutore si girò verso l’uomo che lo aveva fatto fallire. Anziché sparargli, gli prese la testa fra le mani e gliela torse, rompendogli le vertebre. Il poveretto cadde a terra stecchito e gli altri passeggeri arretrarono terrorizzati verso gli angoli della stiva. Alcuni raggiunsero il portone e vi batterono sopra, chiamando aiuto, ma le ante metalliche rimasero chiuse.

   Lo Spettro, che aveva visto tutto, posò il bambino e tornò in piedi con un balzo. Si avventò contro l’Esecutore e stavolta i due vennero alle mani. Era una lotta in cui non contava solo l’abilità dei combattenti, ma anche la qualità delle tute, che moltiplicavano la loro forza e li proteggevano dai colpi. Jack sferrò una serie di attacchi alla testa, ma l’avversario li parò tutti con facilità. A un certo punto l’Esecutore gli bloccò il pugno, trattenendolo nella propria mano: il suo braccio non arretrò di un millimetro mentre assorbiva la forza del corsaro. Rispose con un colpo così violento da farlo cadere in ginocchio, con il casco che scricchiolava. Prima che Jack potesse riaversi, il nemico lo sollevò di peso e lo scaraventò contro il lato opposto della stiva. Mentre era a mezz’aria gli sparò di nuovo.

   Il corsaro fece appena in tempo a sfasarsi. Vide il raggio mortale che lo attraversava, poi lui stesso volò attraverso il portone chiuso. Tornò solido appena in tempo per rotolare a terra e rimettersi in piedi. Si trovava nel corridoio di prima: a terra c’erano i Pacificatori storditi. L’Umano boccheggiò, sentendosi girare la testa. Quei pochi secondi di scontro lo avevano lasciato esausto e dolorante. Nella sua lunga carriera non si era mai trovato di fronte un avversario del genere. L’Esecutore aveva i suoi stessi poteri, ma era decisamente più forte e veloce. E finché si trovavano in mezzo ai civili, poteva usarli come ostaggi.

   «Devo farlo allontanare» si disse Jack, pur non sapendo come.

   In quella l’Esecutore attraversò il portone chiuso e gli venne contro, inesorabile. «Li senti, Jack? I tuoi crimini ti gravano come palle al piede. Il sangue delle tue vittime grida vendetta alle stelle. Sono io, quella vendetta. Non importa dove fuggirai... io sarò sempre con te, più fedele della tua ombra, più implacabile del rimorso, più inestirpabile di un’ossessione!» tuonò.

   Jack si sfasò nuovamente per precauzione, poi arretrò lungo il corridoio. «Con la mia coscienza ho sempre fatto i conti, ma tu non sei un’astrazione che ha preso corpo» disse. «E non sei nemmeno un tizio qualunque che s’è alzato la mattina e ha deciso di farmela pagare. Quella roba che indossi costa un patrimonio: devono avertela data i Pacificatori. E siccome hai ammesso d’essere qui per me, è chiaro che sei uno di loro. Ti hanno davvero autorizzato a devastare le loro navi o ti sei fatto prendere la mano?».

   «Qualunque danno collaterale dipende dalla tua ostinazione. Voi corsari avete già perso, ma... vedremo quanti innocenti moriranno, prima che lo capiate» rispose l’Esecutore.

   «Tipica logica dei Pacificatori» ribatté Jack, disgustato. «Potrà anche darvi dei risultati, ma per ogni nemico che uccidete, ve ne create altri dieci».

   «Verrà il giorno in cui tutti quelli che sono pronti a morire saranno effettivamente morti, e gli altri accetteranno le regole!» tuonò l’Esecutore. «Ma tu sei fortunato, perché non vivrai fino a quel giorno. La tua patetica rivolta finisce oggi».

   Il sicario scattò in avanti, prendendo sempre più velocità. Il corsaro prese fiato e corse a sua volta. Stavano per scontrarsi quando l’Esecutore spiccò un gran salto. Lo Spettro ne approfittò per scivolare in avanti. Mentre gli passava sotto, si rese tangibile e alzò il braccio per sparargli.

   Fu allora che l’Esecutore estrasse una vibro-lama dal bracciale e sferrò un colpo che infranse l’armatura dello Spettro. Lo colpì al braccio, facendo sprizzare scintille e mettendogli fuori uso il phaser. Jack sentì un dolore acuto e continuò a scivolare in avanti, fino a urtare il portone. Piegò le ginocchia per assorbire l’urto e si rialzò più in fretta che poté. Intanto l’Esecutore era atterrato in piedi e si era girato, con la vibro-lama levata. «Sei sconfitto!» esultò.

   Il corsaro si accorse con orrore che oltre ad essere disarmato aveva anche una falla nella corazza. La ferita al braccio era di poco conto, ma il danno alla tuta gli impediva di occultarsi. Era completamente indifeso. Tra lui e l’avversario non c’erano ingressi, né si aprivano altri corridoi. E il portone della stiva, alle sue spalle, era ancora sigillato. Il suo peggiore incubo si era avverato: aveva la tuta fuori uso e nessuna via di fuga. Non sapeva nemmeno se Jaylah e gli altri stessero bene, o se anche loro fossero stati sopraffatti: da un pezzo aveva perso il contatto.

   Per un attimo lo Spettro si aspettò che l’Esecutore ritirasse la vibro-lama e gli sparasse, ma non fu così. L’avversario gli venne contro a grandi passi, con la lama protesa. Allora Jack ricordò le sue prime parole: era lì per prendersi la sua testa, nel senso letterale.

   «Ma chi sei?» chiese il corsaro, cercando di guadagnare tempo. «Da come parli, si direbbe che tu mi conosca... che abbia un conto in sospeso con me. Dimmi il tuo nome!».

   «Uhm... potrei farlo» rimuginò il sicario, fermandosi per qualche secondo. «Ma preferisco accopparti senza darti questa soddisfazione» decise. Riprese ad avanzare con la vibro-lama levata, pronto a sferrare il colpo letale.

 

   Dopo aver tracciato un ampio cerchio nello spazio, la Stella del Polo si riavvicinò al Chemosh. I tre moduli dell’Hydra la inseguivano, sparando a tutto spiano.

   «Riesci ad agganciare Jack?» chiese Jaylah, reggendosi ai braccioli mentre la plancia tremava sotto i colpi. Goldie, il falcone cestiano, svolazzava sopra di lei, starnazzando per l’agitazione che lo aveva contagiato.

   «Negativo, è ancora nell’area schermata» rispose Siall. «Ma rilevo il segnale d’emergenza della tuta. È danneggiata, non può occultarsi».

   La mezza Andoriana scattò in piedi. «Ci sono avversari nei paraggi?» chiese.

   «Solo uno. Il segnale è molto strano, non capisco cosa sia» disse il Boliano.

   In un attimo Jaylah gli fu accanto. La corsara vide le letture e si figurò la situazione. Jack era indifeso, davanti a un nemico che si avvicinava per finirlo. Finché non lasciava quella zona della nave non potevano trarlo in salvo, né lei poteva raggiungerlo per aiutarlo. La mezza Andoriana si chiese disperatamente come salvarlo... e in quella notò che i due erano assai vicini allo scafo esterno. «So cosa fare» disse, correndo alla postazione tattica. Il Nausicaano le lasciò i comandi, sapendo che non c’era tempo per spiegare. «Facciamo un passaggio ravvicinato a babordo» ordinò Jaylah, prendendo il controllo dei disgregatori anteriori.

 

   L’Esecutore era a pochi passi dallo Spettro quando alle sue spalle ci fu un’immane esplosione, così violenta da gettarli entrambi a terra. Il fuoco li avvolse, arroventando le corazze. Jack sentì il calore nel braccio, là dove la tuta era compromessa, e vi premette sopra l’altra mano per proteggersi.

   Ma il fuoco e il fumo non ristettero a lungo; in un attimo furono risucchiati verso il fondo del corridoio. Anche le numerose schegge dell’esplosione volarono tutte in quella direzione. Jack non si era ancora ripreso che si sentì trascinare in avanti sul pavimento. Lo stesso accadeva all’Esecutore, con la sola differenza che essendo girato nell’altro senso egli veniva trascinato all’indietro. L’Umano guardò avanti e vide una scena impressionante: in fondo al corridoio non c’era più la grigia paratia, bensì lo spazio stellato. La Stella aveva aperto una falla nello scafo e ora l’aria fuoriusciva, trascinando i corpi solidi... inclusi loro.

   Istintivamente Jack magnetizzò gli stivali della tuta, ancorandosi al pavimento. Il risucchio lo curvò in avanti ed egli rimase così, con l’aria che gli fuggiva attorno. Sentì un fischio acuto, accompagnato da un’ondata di gelo, e si guardò il braccio: l’aria usciva anche dalla falla nella tuta.

   Pochi metri più avanti, anche l’Esecutore era trascinato dall’aria in fuga. Poiché rivolgeva la schiena alla falla, gli servì qualche attimo in più per girarsi e avvedersi del pericolo. In quel breve lasso di tempo fu attirato fin quasi in fondo al corridoio. Se fosse stato espulso nello spazio, sarebbe divenuto inoffensivo. Ma il sicario reagì prontamente, magnetizzando a sua volta le suole. Il suo movimento all’indietro si arrestò ed egli rimase dritto in piedi.

   Per un attimo i due avversari si fronteggiarono, a sei o sette metri di distanza, mentre l’aria ululava tutt’intorno.

   «I tuoi complici sono disperati» disse l’Esecutore, ritraendo la vibro-lama nel braccio. «Ma tutt’al più avranno la tua carcassa» aggiunse, estraendo al suo posto il phaser. Ora che i movimenti erano ostacolati dagli stivali magnetici, trovava più pratica quell’arma. Prese di mira lo Spettro, che a sua volta era rallentato e non poteva nascondersi. «Addio, vecchio mio» disse freddamente.

   Jack rimase immobile. Voleva morire in piedi, guardando il suo avversario in faccia, o almeno in quel casco impassibile che gliela copriva. Pensò a Jaylah...

   In quell’attimo si attivò il campo di forza d’emergenza, il cui scopo era isolare il corridoio per proteggere il resto del vascello dalla decompressione. Nessuno, né lo Spettro né l’Esecutore, aveva fatto caso all’emettitore, visibile come una sottile linea scura che contornava il corridoio. La barriera energetica comparve in mezzo a loro, ma più vicina al sicario. Tanto vicina che gli recise il braccio teso.

   «Campi di forza attivi, breccia isolata» annunciò il computer di bordo, tramite un altoparlante.

   Troncato di netto, il braccio armato cadde nella porzione di corridoio protetta. Qui il vento si placò all’istante, il suo ululato si estinse; l’aria era di nuovo in quiete. Jack inspirò a pieni polmoni. Non credeva nei miracoli, ma quello ci andava davvero vicino.

   Dall’altra parte della barriera azzurrina, l’Esecutore era immobile, come congelato. L’aria continuò a fuggire nello spazio, ma lui rimase in piedi, ancorato dagli stivali magnetici. Finalmente il vento cessò: la pressione era crollata a zero e anche la temperatura si era equalizzata con lo spazio, vicino allo zero assoluto.

   Muovendosi a fatica con gli stivali magnetici, lo Spettro si avvicinò al campo di forza. Voleva capire se il suo avversario era vivo o morto. La logica diceva che, avendo perso il braccio, la sua tuta era compromessa: l’aria era sfuggita dallo squarcio e questo lo aveva ucciso. Ma il corsaro aveva la brutta sensazione che l’Esecutore non fosse così facile da eliminare. E infatti...

   Trovandosi in assenza d’aria, il sicario non poté far udire la sua voce. Però si mosse, mostrando chiaramente d’essere vivo. Sollevò il pugno superstite, quello sinistro, in un gesto di sfida. Non dava alcun segno di soffrire per il braccio amputato. Poi smagnetizzò gli stivali e voltò le spalle a Jack, dirigendosi verso il fondo squarciato del corridoio. Quando fu lì, affacciato sullo spazio, svanì in un teletrasporto scarlatto. Doveva essere tornato sulla sua nave.

   Temendo che il nemico tornasse, malgrado la mutilazione appena subita, Jack cercò di contattare la Stella. Finalmente gli risposero. «Sei sempre nella zona schermata, capo. Non puoi tornare a prua?» chiese Siall.

   «Mi riesce difficile, al momento» ammise Jack. Si chinò e raccolse il braccio mozzato dell’Esecutore per esaminarlo. Non vide ossa, né carne, né sangue. Dentro la corazza c’erano solo circuiti e cavi che contornavano un’intelaiatura metallica. Ecco spiegato perché quell’essere non aveva mostrato dolore, e come aveva resistito alla decompressione. Era un androide. Questo però mal si conciliava con il suo sadismo e con l’impressione che aveva dato di conoscerlo...

   «Okay, sentite, i Pacificatori mi saranno addosso tra un attimo. La mia tuta è compromessa, quindi sono disarmato e non posso occultarmi» ricapitolò il corsaro. «Se abbandono la nave, riuscite a teletrasportarmi?».

   «Sì, ma come conti di...» fece Siall.

   «Ci penso io. Voi pensate solo a trasferirmi in fretta. La tuta non è più a tenuta stagna» avvertì l’Umano.

   «Come sarebbe?! Jack!» gridò Jaylah, atterrita.

   Lo Spettro non l’ascoltò. Imbracciò l’arto mozzato dell’Esecutore come se fosse un fucile phaser, puntandolo contro l’orlo del campo di forza. La sua mano corse al phaser incorporato, che usciva poco sotto al polso. Strappò un cavetto, usandolo per fare contatto con un altro. Partì un raggio continuo, ad alta potenza, che Jack indirizzò lungo il bordo. La barriera azzurrina sfrigolò sempre più, finché l’emettitore si guastò del tutto.

   Subito l’aria riprese a fuggire nello spazio con un boato. Jack dovette piegarsi in avanti, stando attento a non perdere il braccio dell’Esecutore: voleva esaminarlo una volta tornato a bordo. Staccò il cavetto, per interrompere il fuoco. «State pronti... ora!» avvertì, mentre smagnetizzava le suole.

   Privato del suo appoggio, il corsaro fu trascinato in avanti dall’aria in fuga. Percorse il corridoio per tutta la sua lunghezza e fu espulso nello spazio. Anche se premeva sulla falla nel braccio con l’altra mano, sentì il fischio dell’aria che usciva. L’ossigeno gli mancò; i timpani parevano sul punto di scoppiare. Un gelo atroce si diffondeva dal braccio in tutto il corpo. Per un attimo l’Umano ebbe la visione delle stelle che gli vorticavano attorno. Naturalmente le stelle erano ferme ed era lui a girare come una trottola. Vide il Chemosh sempre più lontano e intravide un’altra sagoma in rapido avvicinamento. Che fosse la Stella? La vista gli fu sottratta prima che potesse accertarsene.

 

   «Ce l’abbiamo, è in infermeria» disse Siall.

   «Su gli scudi!» ordinò Jaylah, sentendo la nave tremare sotto il fuoco nemico.

   «Fatto, ma abbiamo brecce nello scafo» avvertì Skal’nak. «I tubi lanciasiluri di poppa sono fuori uso e i motori a impulso sono danneggiati». Mentre parlava la Stella del Polo si allontanò dal Chemosh. I tre moduli dell’Hydra le rimasero alle costole, sempre sparando. Aumentarono persino la velocità, avvicinandosi sempre più alla nave corsara, per prenderla di nuovo nel fuoco incrociato.

   «Rilasciate le mine neutroniche multicinetiche» ordinò la mezza Andoriana. «Abbaglieranno i sensori nemici, permettendoci di andare a curvatura senza essere seguiti».

   «E i Terrestri sul trasporto?» chiese Graush.

   «Non possiamo aiutarli» disse Jaylah a malincuore. Aveva abbastanza esperienza militare da sapere che, se la Stella non fosse fuggita subito, sarebbe stata distrutta. «Fate come ho detto».

   «Come vuoi, Banshee» disse Skal’nak, usando il suo nome da battaglia. Rilasciò un grappolo di mine, che esplosero all’impatto con i tre moduli dell’Hydra. I vascelli oblunghi resistettero, ma i loro sensori furono accecati proprio nell’attimo in cui la Stella balzava a curvatura.

   Usciti dalle esplosioni, i moduli si trovarono davanti lo spazio vuoto. Per prima cosa tornarono a unirsi, riformando l’Hydra, così da potenziare gli scudi. Poi sondarono lo spazio in cerca della traccia di curvatura; ma i corsari erano abili a nasconderla. Dopo alcuni minuti di sforzi infruttuosi, l’Hydra tornò verso il Chemosh. Il trasporto alla deriva era stato abbandonato dall’equipaggio; ma il suo carico di Terrestri era ancora lì, alla mercé dell’Esecutore.

 

   Appena fu ragionevolmente sicura che il nemico non li stesse seguendo, Jaylah scese in infermeria. Trovò Jack sul lettino: con suo enorme sollievo era cosciente. Il medico gli stava curando la ferita al braccio, oltre che gli effetti della lieve decompressione. Nel vederla l’Umano fece un sorriso, che tuttavia risultò fiacco. Era ancora provato dallo scontro.

   «Come stai?!» chiese la mezza Andoriana, venendogli accanto.

   «Stavolta le ho prese... sono gli incerti del mestiere» ammise lo Spettro. «Ma non vedo l’ora di prendermi la rivincita».

   «Contro chi? Chi è stato a ridurti così?!» volle sapere Jaylah.

   Jack avrebbe preferito rimandare la discussione, ma pensò che questo l’avrebbe allarmata ancor più. Perciò riferì fedelmente l’accaduto, senza minimizzare la pericolosità dell’avversario. Jaylah ascoltò in silenzio, intervenendo solo un paio di volte per chiedere dei chiarimenti.

   «Questo è tutto. Non dubito che l’Esecutore sia ancora vivo, se possiamo usare questo termine per un androide. Quindi continuerà a darmi la caccia» concluse lo Spettro. «La cosa che più mi preoccupa è che dispone dell’Occultamento Sfasato. Che siano stati i Pacificatori a perfezionarlo, o che l’abbiano ricevuto dai Voth, è un disastro. Se lo useranno estesamente in guerra, sarà la fine».

   «Se sono stati i Voth a darglielo, potrebbero aver preso precauzioni per impedirgli di replicarlo» ipotizzò la mezza Andoriana. «Ma riguardo all’Esecutore... sei certo di non averlo mai incontrato prima? Da quanto mi hai detto, sembrava che ti conoscesse» notò.

   «Sì, è strano» ammise Jack. «Un paio di volte mi ha persino chiamato “vecchio mio”. Sembrava che volesse farmela pagare per qualcosa».

   «E tu non hai idea di chi sia?».

   «No, purtroppo» sospirò l’Umano. «Per carità, i nemici non mi mancano. Ma un androide che milita tra i Pacificatori e vuole vendicarsi... no, non saprei proprio dargli un nome».

   «È la verità? Sei hai fatto qualcosa di riprovevole, quand’eri un pirata, e me lo vuoi nascondere...» fece Jaylah, fissandolo con sguardo penetrante.

   «No» insisté Jack, sostenendo lo sguardo. «Mi è capitato a volte di fare cose riprovevoli, e te le ho dette. Ma non so chi sia questo Esecutore che mi da la caccia, devi credermi».

   «Va bene» cedette la mezza Andoriana, sperando ardentemente che il compagno dicesse la verità. In caso contrario non avrebbe potuto perdonarlo. Ma questa sfiducia, o sospetto di sfiducia, non era già una vittoria dell’Esecutore? «Non devo lasciare che quel mostro ci divida. Finché non avrò prove del contrario, crederò che Jack sia sincero» si disse Jaylah.

   Il medico si scostò, avendo terminato di curare la ferita al braccio. Jack mosse l’arto, sentendolo di nuovo sano, e si mise a sedere sul lettino. «Ah, molto meglio. Ben fatto, doc» ringraziò.

   «Lei è ancora debilitato dallo scontro. Le raccomando almeno due giorni di riposo» disse il dottore, prima di ritirarsi.

   «Bah, chi ne ha il tempo?» fece Jack, alzandosi. «Voglio dare un’occhiata al braccio dell’Esecutore. Chissà che non ci aiuti a identificarlo».

   «Domani» disse Jaylah, ributtandolo sul lettino con una spinta. «Non dimenticare che per il nostro orologio biologico è notte fonda. Tu riposerai qui, come ha detto il medico».

   «E va bene» si arrese il corsaro, che in effetti si sentiva stanco morto. «A domattina, tesoro. Intanto dì alla ciurma che se l’è cavata bene, malgrado gli imprevisti. E fa’ cominciare le riparazioni, con priorità all’occultamento. Non sappiamo quando capiterà il prossimo scontro».

 

   La mattina dopo i due si ritrovarono nel laboratorio di cibernetica. Posero il braccio dell’Esecutore sullo scanner, che lo esaminò nei minimi dettagli, creandone una copia digitale. Dapprima fu su quella che lavorarono, esaminandone l’interno. Poi, dopo aver preso confidenza, aprirono l’originale e ne estrassero alcuni componenti.

   «Interessante» mormorò Jack. «Ci sono evidenti analogie con gli androidi di tipo Soong. I materiali usati, il modo di organizzare i circuiti... peccato non sapere nulla del suo cervello positronico».

   «Una volta conoscevo un androide di tipo Soong» ricordò Jaylah. «Si chiamava Adam. Era con me nella Squadra Temporale, ma lo perdemmo nella missione contro Vosk. A dirla tutta, si sacrificò per salvarci» disse malinconica.

   «Mi spiace» disse lo Spettro. «Comunque l’Esecutore non è proprio identico ai Soong. È più resistente... direi che è stato progettato per il combattimento. Questo corrobora l’ipotesi che i Pacificatori l’abbiano creato apposta per darmi la caccia».

   «Ma non spiega perché sembrava conoscerti» notò Jaylah.

   «Forse l’hanno programmato apposta così, per confondermi» disse Jack, ma lui stesso non era molto convinto. «Beh, a quest’ora si sarà rimpiazzato il braccio e avrà ripreso la caccia, quindi dobbiamo trovare il modo di rottamarlo».

   «Gli androidi di tipo Soong possono essere disattivati con determinati flussi di particelle» ricordò la mezza Andoriana. «Il guaio è che l’Esecutore indossa una tuta come le nostre, che lo isola da tutto. Ci vorrebbe una potenza enorme per perforarla».

   I due discussero a lungo del problema, cercando vari modi per superare la corazza, ma invano. Allora consultarono i tecnici di bordo, che talvolta li avevano aiutati a perfezionare o riparare le loro tute. Anche così non cavarono un ragno dal buco.

   «Basta, sono ore che ci arrovelliamo senza fare progressi!» sbottò a un certo punto Jaylah. «Dobbiamo staccare. Andiamo in mensa a mangiare qualcosa, così sentiremo che ne pensa Raav».

   Jack la guardò un po’ sorpreso. «Il tuo amico è un ottimo cuoco e dà buoni consigli, ma non credo che possa aiutarci in questo caso» disse. «Però vengo con te. Sto morendo di fame».

 

   La mensa, posta a prua della nave, era ampia e comoda come l’avevano voluta gli Orioniani. Alle pareti c’erano i replicatori alimentari, ma l’annessa cucina comprendeva forni e fornelli, per preparare le pietanze in modo tradizionale. Era il regno di Raav, l’unico Gorn della banda. Il fatto che costui fosse un rettile alto più di due metri, munito di zanne e artigli, non deve trarre in inganno: Raav era uno degli spiriti più saggi e pacati di bordo. Vecchio di due secoli, ma ancora in forze, aveva accumulato una lunga esperienza negli angoli più strani della Galassia. Era una fonte inesauribile di aneddoti, storie – più o meno romanzate – e consigli, anche se parlava più degli altri che di sé, essendo abbottonato sul suo passato.

   «Ah, Jaylah! Capitano...» li accolse, appena li vide entrare. «È da un po’ che non vi vedo. So che siete stati indaffarati. Uh, che brutta cera!» disse, mentre i suoi occhi a palla indugiavano su Jack. «Vi preparo un pranzo completo, eh?».

   «Fammi quello che vuoi, l’importante è che sia tanto» disse l’Umano. «E aggiungi una bottiglia di brandy sauriano». Lui e Jaylah si accomodarono a un tavolo e in men che non si dica Raav fece la sua magia culinaria. Dopo un anno di permanenza a bordo ormai conosceva i loro gusti, sicché fu in grado di servire un ottimo pranzo, con portate personalizzate.

   «Era tutto ottimo, come al solito» si congratulò Jack a fine pasto. «Devo starci attento con te. Se vengo qui troppo spesso, ingrasserò tanto da non entrare più nella tuta da Spettro» scherzò.

   «A quel che sento, smaltisci con il moto» disse Raav, accomodandosi su una sedia vicina. «Allora, vi va di parlare?» chiese, passando lo sguardo da lui a Jaylah.

   L’Umano esitava a vuotare il sacco, ma la mezza Andoriana lo fece per lui. Raav ascoltò attentamente, sbattendo gli occhioni gialli. «Sssshhht!» sibilò infine, alla maniera dei Gorn. «Siete proprio certi che l’Esecutore sia un androide?».

   «Il suo braccio è meccanico» rispose automaticamente Jack.

   «Il braccio, già. Avete visto solo quello» puntualizzò Raav.

   «Vuoi dire...».

   «Non dico niente, salvo che non dovete dare nulla per scontato» chiarì il Gorn. «Finora sappiamo che l’Esecutore ha molti talenti, nessuno scrupolo e una sola missione: prendersi la tua testa. Quindi pensa a come tenertela attaccata».

   «Groan, ci penso eccome!» mugugnò il corsaro, massaggiandosi la fronte con una mano. «Stamattina quella grandissima shutta di Lyra ha annunciato che noi abbiamo assalito il Chemosh e rapito i passeggeri. Dell’Esecutore non ha fatto parola. A questo punto temo che gli attacchi proseguiranno. Così se non reagiamo l’Unione continuerà a incolparci e se interveniamo l’Esecutore ci tenderà un’altra imboscata».

   «Sssshhht! Brutto affare» convenne Raav. «Bisognerebbe vedere che fine hanno fatto i Terrestri».

   «È chiaro che li ha presi l’Esecutore, ma non sappiamo dove li abbia portati» disse Jaylah. «Se riuscissimo a liberarli e a restituirli alle loro famiglie, allora cambierebbe tutto! Sarebbe un colpo enorme alla credibilità dell’Unione. Purtroppo non sappiamo dove cercarli».

   «Non sappiamo quasi niente del nemico, ecco il problema!» ribadì Jack. «Se almeno capissimo chi è, forse avremmo qualche speranza di sconfiggerlo. Invece brancoliamo nel buio, mentre lui sembra conoscerci bene!» si lamentò.

   «Uhm... hai detto che il braccio somigliava a quelli degli androidi Soong» ricordò il Gorn. «Non hai pensato di chiedere a loro?».

   «Eh?!» si riscosse il corsaro. «No, diamine! Eppure è la mossa più logica» ammise. «Forse uno di loro si è unito ai Pacificatori. O forse sono stati i Pacificatori a scendere da loro e prendersi i progetti. Dovranno dirmelo... mal che vada, mi aggiornerò sui loro sistemi e su come metterli fuori uso!» s’infervorò.

   «Aspetta. Quando dici di andare da loro, intendi...» fece Jaylah.

   «Sul pianeta Coppelius, certo. È lì che si trova la principale colonia di androidi Soong» confermò Jack.

   «Mi pare che in questa guerra siano rimasti neutrali» disse la mezza Andoriana. «Perché pensi che ti aiuteranno?».

   Il corsaro non rispose subito. Si accomodò meglio sulla sedia, appoggiandosi allo schienale, mentre il suo sguardo si faceva remoto. «Sono in buoni rapporti con loro. Vedi, sono già stato su Coppelius, molti anni fa».

   «Non me ne avevi mai parlato» notò Jaylah.

   «Beh, non c’è molto da dire. Accadde subito dopo l’evasione, quando mi trovai a capo di una banda di galeotti, sulla nave-prigione che avevamo conquistato» spiegò l’Umano. «La prima cosa che feci fu tornare di nascosto a casa, dove i miei nonni materni avevano nascosto la tecnologia dell’Occultamento Sfasato. Dopo di che usai quella tecnologia per costruirmi la tuta. Ma come puoi immaginare non fu tutta farina del mio sacco. In fondo ero un agente della Sicurezza, non un ingegnere. Non ero in grado di progettare una tuta così complessa. Mi serviva aiuto, e subito, perché la ciurma era irrequieta e voleva i bottini che le avevo promesso. Così mi rivolsi ai migliori esperti di robotica: gli androidi Soong».

   «E loro ti aiutarono... anche se eri evaso e volevi darti al crimine?» chiese Jaylah, sempre più stupita.

   «Beh, non mi espressi in questi termini. Per fortuna il mio processo era avvenuto a porte chiuse, quindi non sapevano che ero ricercato» spiegò lo Spettro. «Dapprima presi contatto con un solo androide. Poco alla volta ne conquistai la fiducia, e quando fui ragionevolmente certo che non mi avrebbe denunciato, accennai alla mia idea. Dovresti vedere quanto si entusiasmano quei tipi, davanti a progetti del genere! Portano ancora l’impronta del loro creatore, quel genio pazzoide del dottor Soong. In un attimo ebbi i loro laboratori di ricerca robotica a mia disposizione».

   «E quando hai avuto ciò che volevi, scommetto che sei sparito – è il caso di dirlo! – senza nemmeno ringraziare» ironizzò Jaylah.

   «Ero ricercato, non potevo restare a lungo nello stesso posto» si giustificò il corsaro. «E gli androidi compresero che non gli conveniva confessare di avermi aiutato a diventare lo Spettro. Così tennero il becco chiuso».

   «Ne sei certo?».

   «Non sarebbero rimasti indipendenti, altrimenti».

   «Uhm... ma forse non saranno felici di vederti riapparire adesso, di nuovo bisognoso d’aiuto» s’inquietò la mezza Andoriana.

   «Beh, rammenta che sono androidi; non sono vendicativi come noi Organici» disse Jack. «In ogni caso non mi presenterò con le fanfare. Tasterò accuratamente il terreno e solo se mi sentirò sicuro prenderò contatto. Inoltre mi rivelerò solo a pochi individui fidati, non a tutta la comunità».

   «Sembra ragionevole» cedette Jaylah. «Ma io ti guarderò le spalle. E tu non accennerai minimamente al fatto che sono con te. Devo essere il tuo jolly».

   «Andata!» accettò l’Umano. Il patto fu suggellato con una forte stretta di mano, cui seguì un brindisi di brandy sauriano.

   «Alla missione!» disse Raav, partecipando al brindisi. «Allora, quando si parte?».

   «Subito» disse Jack. «Non voglio che l’Esecutore abbia il tempo di prendere altri ostaggi. Spettro a plancia, abbiamo una nuova rotta» disse, premendosi il comunicatore. «Torniamo a Coppelius, dove la nostra avventura ha avuto inizio».

 

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Capitolo 5
*** Le macerie dell'Impero ***


-Capitolo 4: Le macerie dell’Impero

 

   “Tutte le rotte portano a Romulus” diceva un vecchio proverbio imperiale. Ma le cose erano drasticamente cambiate due secoli prima, quando la supernova di Hobus aveva distrutto i pianeti gemelli Romulus e Remus. Quello che un tempo era il cuore di un fiorente Impero era divenuto un tetro cimitero spaziale. I due pianeti si erano frantumati sotto la violentissima onda d’urto e i loro resti si erano dispersi nell’orbita, formando una cintura di asteroidi. I frammenti maggiori, tuttavia, si concentravano in un volume di spazio limitato, tanto che la gravità aveva cominciato a farli riavvicinare. Gli astronomi ipotizzavano che dalla loro riaggregazione si sarebbe formato un nuovo pianeta, comprendente i resti di entrambi. Ma i processi di formazione planetaria richiedono milioni di anni; nel frattempo restava il campo di asteroidi. Era meta di pellegrinaggio per i nostalgici dell’Impero e per chiunque volesse omaggiare le vittime. A volte vi andavano le scolaresche, così che i giovani constatassero la pericolosità dei fenomeni naturali e la miopia di chi non si premuniva contro di essi. Ma vi transitavano anche pirati, ladri di rottami e persino spie, in cerca di qualche resto dell’ambita tecnologia romulana.

   Sulla porzione maggiore di Romulus, tanto grande da mostrare ancora la curvatura del pianeta, si trovava un’installazione costruita dopo la catastrofe. Alla sua realizzazione avevano contribuito sia la Repubblica che lo Stato Imperiale e ogni anno ospitava cerimonie congiunte. Aveva forma di monolito, per la verità non imponente: lo spazio interno era limitato e ospitava solo una piccola guarnigione. Ma era dotata di un potente proiettore olografico, tenuto perennemente acceso. E l’ologramma verde brillante raffigurava l’emblema dell’antico Impero Stellare, che con le sue ali spiegate sembrava abbracciare la desolazione circostante.

   Anche i membri di altre specie e persino i nemici non potevano restare indifferenti a quel memoriale di passata grandezza. Era prassi consolidata che chi vi passava davanti osservasse uno scrupoloso silenzio e si astenesse da ogni forma di violenza. Per duecento anni quel santuario era rimasto al riparo da tutti i conflitti. Ma ora anch’esso stava per essere profanato.

   L’USS Constellation sfrecciò nella cintura di asteroidi, facendo un pericoloso slalom tra le rocce. Invece di seguire il tragitto più sicuro, indicato dalle boe spaziali, si addentrò nella zona più fitta e insidiosa. La inseguiva una Narada che, pur non essendo delle più mastodontiche, era comunque assai più grande e armata. I suoi aculei metallici si aprivano ai lati come grandi ali. Dovendo seguire i federali nel pericoloso campo d’asteroidi, il vascello si riconfigurò. Gli aculei si piegarono in avanti, dandogli un’aria più compatta, che riduceva il rischio d’impatto. Parte dei disgregatori si rivolse agli asteroidi, sbriciolandoli in frammenti che venivano parati più agevolmente dagli scudi. Il resto delle armi continuò a bersagliare la Constellation, i cui scudi fluttuavano. L’inseguimento portò le due navi sempre più vicine al Memoriale di Romulus.

   A un tratto tre vascelli uscirono dall’occultamento. Erano la Keter e due Falchi da Guerra repubblicani. Apparvero a poppa della Narada, dove gli scudi erano più deboli, dato che gli Imperiali avevano concentrato l’energia a prua. Li bersagliarono con un fuoco concentrato, cercando di abbatterli prima che gli Imperiali ridistribuissero l’energia; ma avevano sottovalutato la potenza dell’incrociatore. Malgrado l’attacco a sorpresa, gli scudi di poppa ressero finché l’energia fu deviata, e allora divennero impenetrabili.

   «Okay, abbiamo perso l’effetto sorpresa» disse Hod, vedendo che la Narada rispondeva al fuoco con le armi di poppa. «Hod a flottiglia, allargatevi!».

   I due Falchi virarono ai lati, mettendosi temporaneamente fuori tiro. La Keter, più resistente, continuò a tallonare l’incrociatore, che a sua volta inseguiva la Constellation. La nave di Lantora, che aveva gli scudi indeboliti, fece di tutto per seminare gli inseguitori. Andò ancora più nel fitto, approfittando delle minori dimensioni e della maneggevolezza per sgusciare tra gli asteroidi. La Narada, assai più ingombrante, non poté evitare svariati impatti; ma i suoi scudi resistevano. A un tratto i due Falchi da Guerra l’attaccarono di nuovo, dai lati. L’incrociatore subiva ora un fuoco durissimo da tutte le direzioni. Eppure tirava dritto, come se non fosse un problema, e rispondeva colpo su colpo.

   «Ho individuato il nome dell’incrociatore» disse Terry, che lo stava analizzando in cerca di punti deboli. «Si chiama Zhat Vash, come un’antica setta romulana dedita alla distruzione delle Intelligenze Artificiali».

   Il Capitano le rivolse un’occhiata preoccupata. Se gli scudi cedevano, era possibile che gli Imperiali attaccassero Terry con un raggio decompilante. «Situazione?» chiese.

   «Gli scudi nemici reggono» riferì la proiezione isomorfa. «Sto ruotando le armoniche dei phaser e i nostri alleati fanno lo stesso coi disgregatori, ma quella nave ormai si è adattata a tutto».

   «Maledetta tecnologia Borg» si disse Hod. «Continui a far fuoco. Anche se sono adattati, prima o poi finiranno l’energia» ordinò.

   L’inseguimento divenne una gimcana sempre più rischiosa, finché la Constellation si avvicinò al residuo planetario che ospitava il Memoriale di Romulus. Sfrecciò lungo il frastagliato bordo inferiore, dove il magma si era raffreddato a contatto con lo spazio. Per ordine di Lantora, la nave bersagliò le rocce. Le grandi esplosioni perforarono la crosta solidificata, mettendo a nudo la parte fusa che covava all’interno. Il magma aveva appena cominciato a uscire quando la Constellation l’oltrepassò, ma era diventato una fontana quando passò la Zhat Vash. Per un attimo l’incrociatore fu circondato dalla roccia fusa, che gli impediva di sparare. La Constellation ne approfittò per mettersi fuori tiro. La Zhat Vash continuò testardamente a inseguirla, ma per il momento i fuggitivi potevano rigenerare gli scudi.

   «Vrel, gli stia dietro!» raccomandò Hod. Anche la Keter passò in mezzo al magma, correggendo la rotta per non esserne del tutto avvolta. Rimase alle costole della Zhat Vash, continuando a bersagliarla. A un tratto l’Elaysiana si accorse che la plancia aveva smesso di tremare.

   «Gli Imperiali non ci colpiscono più» confermò Terry. «Concentrano il fuoco sui Falchi da Guerra».

   «Hanno capito che sono meno resistenti» disse Norrin. «Terry, li tenga monitorati. Se i loro scudi s’indeboliscono, dobbiamo coprirli mentre si ritirano».

   «Sono già indeboliti» avvertì l’IA. «Cedimento imminente».

   «Aprire un canale» ordinò subito il Capitano. «Keter a Falchi, disimpegnatevi prima che...».

   Troppo tardi. Alcuni siluri della Zhat Vash colpirono uno dei Falchi, tranciandogli un’ala. Il vascello dovette rallentare, il che almeno lo portò rapidamente fuori tiro. Ma non era in condizione di continuare la battaglia. Sarebbe stato fortunato a uscire dal campo d’asteroidi.

   Al secondo Falco andò peggio. Aveva appena cominciato ad allontanarsi quando i disgregatori della Zhat Vash gli perforarono la fiancata, mandandolo fuori rotta. Il vascello si trovò davanti un grosso asteroide e non fece in tempo a deviare. L’impatto fu violentissimo: la plancia fu distrutta e le esplosioni dilagarono, finché il Falco svanì in un lampo verdastro. Sbarazzatasi delle navi repubblicane, la Zhat Vash tornò a concentrarsi sulla Keter.

   «Abbiamo perso gli alleati» riferì Zafreen con un filo di voce. «Siamo soli».

   «Niente affatto» disse il Capitano, celando lo scoramento. «Vrel, diminuisca la velocità e ci tenga a distanza. Terry, massima energia agli scudi frontali. Dobbiamo prendere tempo».

 

   All’interno del Memoriale di Romulus, la guarnigione seguiva lo scontro senza poter intervenire. Dato il suo ruolo simbolico, infatti, l’installazione non era armata. Aveva solo uno scudo a cupola, che la proteggeva da eventuali impatti di asteroidi. E dato che il cimitero spaziale si trovava nello spazio della Repubblica, la guarnigione era interamente composta da tecnici e soldati repubblicani. Sapevano cosa gli sarebbe successo, se gli Imperiali avessero prevalso: nel migliore dei casi sarebbero finiti in una colonia penale. Perciò era con ansia che seguivano le fasi dello scontro. La maggior parte di loro si era radunata davanti al finestrone di trasparacciaio del centro di comando, da cui potevano osservare la battaglia.

  «Signore, una navetta è appena uscita dall’occultamento a dieci chilometri da qui» avvertì un tecnico. «Hanno inviato un codice di riconoscimento e ci chiedono di abbassare lo scudo».

   «Una navetta?» si stupì il Comandante Chaltak, distogliendosi dall’osservazione. «Hanno abbastanza spazio per evacuarci tutti?».

   «Non hanno parlato d’evacuazione. Sono loro che vogliono salire a bordo» precisò il tecnico.

   «Per fare che?» si stupì Chaltak. Dette di nuovo una rapida occhiata alla battaglia, che volgeva a favore degli Imperiali. Quale che fosse la strategia dei federali, avevano poco tempo per attuarla. «D’accordo, abbassi lo scudo» cedette, augurandosi che non fosse una trappola.

   Le guardie circondarono la pedana di teletrasporto mentre questa s’illuminava. Apparvero quattro figure. Tre erano agenti della Sicurezza della Keter. Il quarto era un alieno alto e smilzo, chiuso in una tuta termica argentea. Non aveva volto: nel casco vorticava un plasma bianco-azzurro. Era un Penumbrano, una delle specie federali più schive ed enigmatiche. Il suo popolo lasciava raramente il proprio pianeta, preferendo meditare su astrusi problemi matematici piuttosto che schierarsi politicamente; ma ogni specie aveva degli individui eccentrici.

   «Sono la 76ª Distillazione di Blu» si presentò l’alieno, scendendo rapidamente dalla pedana. «Potete chiamarmi Dib. Sono l’Ingegnere Capo della Keter e ho un compito urgente da svolgere. Vi prego di farmi accedere ai controlli dell’olo-proiettore».

   «Non c’è tempo per i giochetti, dobbiamo andarcene!» lo pressò il Comandante.

   «Il mio intervento aumenterà notevolmente le probabilità di vittoria. I controlli, prego» insisté il Penumbrano.

   «E va bene» cedette il Romulano. Lo guidò a un quadro comandi assai complesso, con due oloschermi che contornavano l’interfaccia tattile verdastra. «Almeno mi spiega che vuol fare?» chiese.

   «La dimostrazione varrà più di un’esposizione verbale» disse Dib, sedendo in poltroncina. Inserì un’unità di memoria nell’apposita fessura e scaricò i dati, poi mise mano ai controlli. Lavorava in fretta, come se fosse stato abituato a usare quei comandi.

   Chaltak ricordò che i Penumbrani avevano una comprensione istintiva della tecnologia. Stava per interrogarlo ancora, quando sentì del clamore. I suoi ufficiali, raccolti davanti alla finestra, indicavano qualcosa che era apparso nello spazio.

 

   A centinaia d’anni luce di distanza, sulla sua nave ammiraglia, l’Imperatrice Sela seguiva in diretta subspaziale lo scontro, trasmessole dalla Zhat Vash. Vide la Keter nascondersi dietro un grosso asteroide, per dar sollievo agli scudi. La Zhat Vash non perse tempo ad aggirare l’ostacolo: lo disintegrò con pochi colpi.

   «Possiamo inviare rinforzi?» chiese a un tratto l’Imperatrice.

   «Ho già dirottato la nave più vicina, ma anche ad alta curvatura impiegherà alcune ore ad arrivare» rispose prontamente il Pretore Oren. «Tuttavia non c’è ragione di preoccuparsi. La Zhat Vash è in vantaggio: ancora pochi colpi e distruggerà la Keter».

   «Appena l’avrà fatto, ordinatele di riprendere l’inseguimento della Constellation» disse Sela. «A occupare il Memoriale ci penseranno i rinforzi».

   D’un tratto la Zhat Vash cessò il fuoco e si girò di 90°, offrendo il fianco alla Keter. L’Imperatrice s’irrigidì sulla poltrona di comando. «Che gli prende?!» volle sapere.

   «Altezza, un’altra nave è apparsa nel sistema» avvertì un ufficiale.

   Il nuovo vascello entrò nell’inquadratura. Era un cubo perfetto, dalle pareti grigio-verde in gran parte lisce, salvo alcuni punti in cui s’intravedeva un groviglio di tubi e travature. Al vederlo, i Romulani restarono senza fiato. «Borg» mormorò il Pretore. «È come temevo, Altezza. Non avremmo dovuto usare la loro tecnologia... ora li abbiamo attirati».

   «Gli scienziati dicevano che era impossibile!» sibilò Sela, con la paura negli occhi. Prima ancora di salire al trono aveva trascorso mesi nella Cripta, il grande laboratorio segreto dello Stato Imperiale, dov’era stata assemblata la nuova flotta. Aveva supervisionato le ultime fasi costruttive, interrogando i tecnici su questo e altri aspetti. Le avevano garantito che i Borg, ancora annidati nel Quadrante Delta, non potevano rilevare le Narada a quella distanza. Si promise di punirli per quell’errore, che minacciava tutto lo Stato Imperiale.

   «Dite alla Zhat Vash di ritirarsi, presto!» ordinò Oren agli addetti.

   «Ordine annullato» disse però Sela, battendo il Debrune Teral’n sul pavimento. «Dobbiamo valutare la potenza di fuoco dei Borg. Dite alla nostra nave di attaccare».

 

   Il Cubo e la Zhat Vash si fronteggiarono per circa un minuto, ignorando la Keter che si allontanava. Per quanto l’incrociatore imperiale fosse massiccio, il Cubo lo sovrastava. E non c’era dubbio che i Borg padroneggiassero la propria tecnologia assai meglio dei Romulani, che ne avevano recuperata solo una parte e ne avevano compresa ancor meno. Le sorti dello scontro erano segnate. Eppure, all’ordine dell’Imperatrice, la Zhat Vash attaccò. I disgregatori colpirono la liscia superficie del Cubo senza arrecare alcun danno. Quanto ai siluri, giunti a bersaglio subito dopo, vi svanirono all’interno senza esplodere.

   «Ma che...» fece Oren, socchiudendo gli occhi con aria confusa.

   Al suo fianco, Sela soffiò come una tigre inferocita. «Idioti! Ditegli di andarsene!» ordinò. Ma era troppo tardi.

   La Keter tornò all’attacco e la Constellation, che aveva fatto un ampio giro, le si affiancò. Entrambe le navi scagliarono una salva completa di siluri transfasici che, sebbene meno efficaci di un tempo, restavano i più validi contro i Borg. Ma i siluri non furono diretti contro il Cubo, bensì contro la Zhat Vash. La colpirono sulla fiancata, in rapida successione, e stavolta riuscirono a perforarne gli scudi. Ci fu un lampo e il vascello imperiale sbandò; aveva uno squarcio sulla fiancata. Alcuni aculei se ne distaccarono, perdendosi nel campo d’asteroidi.

   E non era finita.

   Incapace di dirigere la sua traiettoria o di rallentare, la Zhat Vash andò dritta contro un asteroide. Era una massa compatta di ferro e nichel, proveniente forse dal nucleo del pianeta. L’impatto frontale fu di una violenza inaudita. L’asteroide si frantumò, malgrado la sua compattezza; ma anche l’astronave fu devastata. Quasi tutti gli aculei che protendevano a prua si spezzarono e perfino il corpo centrale si deformò, assorbendo l’impatto. Lo squarcio sulla fiancata si allargò a dismisura, mettendo a nudo interi ponti. Esplosioni verdastre punteggiarono lo scafo.

   Ad anni luce da lì, sull’ammiraglia di Sela, il contatto subspaziale s’interruppe; sullo schermo riapparvero le stelle. «Maestà, credo che abbiamo perso la Zhat Vash» mormorò l’addetto alle comunicazioni.

   «Era solo un vascello» minimizzò Oren, temendo che l’Imperatrice s’infuriasse. «Ne abbiamo altri cento così. E sapevamo che ne avremmo persi alcuni nella Riconquista. Finora le perdite sono state inferiori alle aspettative, perciò questa disgrazia non cambia i piani. Piuttosto è il ritorno dei Borg ad essere allarmante...». La voce del Pretore si spense, perché Sela stava facendo qualcosa d’inaspettato. Stava ridendo.

   «Amico mio, possibile che non abbiate ancora capito?» riuscì a dire la mezza Romulana, tra un sussulto e l’altro. «Forse non siete così sveglio... forse la toga di Pretore non vi si addice» aggiunse, facendosi di colpo seria.

   «Maestà, se volete illuminarmi...» disse il Romulano, punto sul vivo da quelle parole che tutti gli ufficiali avevano udito.

   «I Borg non ci sono mai stati» spiegò Sela.

   «Ma il Cubo...».

   «È apparso vicino al Memoriale di Romulus» disse l’Imperatrice. «E cos’è il Memoriale, se non un enorme proiettore olografico?».

   Oren vacillò, portandosi una mano alla fronte. Un ologramma... la loro nave si era distratta per fronteggiare un banalissimo ologramma. Ecco perché i raggi disgreganti e i siluri non avevano sortito effetto: lo avevano attraversato per poi perdersi nello spazio. Ma quella distrazione aveva permesso ai federali di riposizionarsi e colpire. «È stato... un deplorevole incidente, ma non si ripeterà» mormorò il Pretore, pallidissimo.

   «No, certo» disse Sela in tono acido. «Ma le conseguenze possono essere catastrofiche. Siamo certi che la Zhat Vash sia stata distrutta? Perché in caso contrario abbiamo consegnato le nostre migliori tecnologie al nemico». L’Imperatrice si alzò, attirando l’attenzione degli ufficiali. «Cercate di ripristinare il contatto» ordinò. «E dirottate tutte le navi del settore verso il Cimitero di Romulus. Che distruggano i federali... assieme ai resti della Zhat Vash». Si risedette, e solo il Pretore – che la conosceva bene – capì quant’era preoccupata.

   «Altezza, volete sospendere la nostra avanzata?» si premurò Oren.

   «No, l’abbiamo pianificata troppo a lungo per cambiarla al primo intoppo» rispose Sela stancamente. «Continueremo come previsto. Se c’è la minima possibilità che il nemico ottenga qualcuna delle nostre tecnologie, dobbiamo ultimare la Riconquista prima che possa avvalersene».

   «Saremo a Nuovo Romulus fra dieci giorni» promise il Pretore.

   «Ci conto» disse Sela, con sguardo tagliente. «Ora riuniamoci alla flotta principale».

 

   La Zhat Vash si librava nello spazio, a poche centinaia di chilometri dal Memoriale di Romulus. Dell’orgogliosa nave imperiale non restava che un rottame alla deriva, circondato dai frammenti dello scafo e da quelli dell’asteroide.

   «Il nemico è inerte» confermò Terry. «Energia al minimo, motori disattivati, niente scudi».

   «Ci sono superstiti?» chiese Hod. Date le dimensioni dell’incrociatore, si aspettava che avesse un equipaggio numeroso.

   «Rilevo 705 segni vitali a bordo» rispose Zafreen, prevenendo la collega.

   «Non sono molti, per una nave di quella stazza» disse Norrin. «Molti sistemi devono essere automatici... la tecnologia Borg li aiuterà».

   «Capitano, molti di quei segni vitali sono fiochi» avvertì l’Orioniana, continuando le analisi. «Devono essere feriti. E il supporto vitale è instabile... anche se considerando il volume della nave, passeranno giorni prima che scarseggi l’ossigeno».

   «Dovremmo aiutarli» disse Vrel, pur sapendo che sarebbe stato difficile tenere sotto controllo così tanti prigionieri.

   «Le trattative spettano al Commodoro Lantora» disse Hod, lieta d’esserne dispensata per questa volta. «Adesso recuperiamo i nostri».

   La Keter si avvicinò al Memoriale di Romulus. Durante la battaglia c’erano stati molti colpi a vuoto e alcuni di essi lo avevano sfiorato, ma fortunatamente lo scudo a cupola aveva resistito. Al segnale convenuto la base disattivò gli schermi. I federali recuperarono la loro squadra e in via cautelare prelevarono anche il personale romulano. Dib apparve sulla pedana di plancia, per fare rapporto.

   «Congratulazioni, signor Dib» lo accolse il Capitano. «Il suo diversivo è stato essenziale per la vittoria».

   «Curioso... avevo calcolato solo un 20% di probabilità che gli Imperiali si lasciassero trarre in inganno» rispose il Penumbrano, impermeabile ai complimenti come lo era all’umorismo. «La base è in buone condizioni e non abbiamo feriti» aggiunse.

   «Bene, assegnate degli alloggi agli ospiti» disse Hod. «Come vanno le cose con gli Imperiali?» chiese poi a Zafreen.

   «Il Commodoro gli ha intimato di arrendersi, ma loro non rispondono» disse l’interpellata. «Però la Zhat Vash è in rotta di collisione con quello spicchio di Romulus. La Constellation la sta deviando col raggio traente».

   «Gli serve aiuto?» chiese istintivamente il Capitano.

   «Non ce l’hanno chiesto... comunque direi di no. Ormai la quantità di moto della Zhat Vash è ridotta» rispose l’Orioniana, sforzandosi d’essere efficiente, così che Terry non la scavalcasse di nuovo. Inquadrò i vascelli sullo schermo. La nave federale, piccola al confronto dell’incrociatore imperiale, lo aveva agganciato con il raggio azzurrino e lo deviava lentamente su una rotta sicura.

   «Terry, Dib, preparate la squadra di sbarco» ordinò il Capitano, osservando l’astronave catturata. «Non sappiamo fra quanto arriveranno i rinforzi imperiali, quindi ogni secondo è prezioso. Se non riusciremo a riattivare i motori, dovremo accontentarci di scaricare il database...».

   «Capitano, i livelli d’energia stanno risalendo» avvertì Terry. Pochi attimi dopo la Zhat Vash aveva ripreso a far fuoco. Per quanto fosse poco più di un rottame, con gli scudi abbassati, parte delle sue armi era ancora in funzione. E il bersaglio era la Constellation. Presa alla sprovvista, la nave federale fu colpita prima di potersi difendere. Il raggio traente si spense e la nave arrancò, cercando di mettersi fuori tiro.

   «Frell!» imprecò il Capitano. «Terry, gli disattivi le armi!».

   L’IA aprì il fuoco contro la Zhat Vash. Al tempo stesso ne colpì i siluri prima che andassero a segno, sapendo che la nave di Lantora non poteva reggere molti colpi. Passarono i secondi, senza che il suo intervento fosse risolutivo. «Ci sono troppi detriti, non ho il tiro pulito. E le bocche da fuoco sono profondamente incassate nello scafo» si giustificò.

   «Gli scudi della Constellation cedono!» avvertì Zafreen.

   «Terry, distrugga la Zhat Vash!» gridò Vrel, in ansia per suo padre.

   «No, ci serve intera, o i sacrifici saranno stati vani» obiettò Norrin, pensando al Falco da Guerra che era stato distrutto.

   Terry si sentì gli occhi puntati addosso. Era impossibile salvare la Constellation senza distruggere la Zhat Vash... a meno che... le sue subroutine tattiche trovarono la soluzione in un nanosecondo. Quelle etiche, invece, rimasero in sofferenza molto più a lungo. Le era richiesta un’azione che finora era sempre riuscita a evitare; ma stavolta non c’erano alternative. E non c’era nemmeno il tempo di chiedere l’autorizzazione al Capitano, perché un solo secondo di ritardo avrebbe comportato la distruzione della Constellation. Con uno sforzo che fece sfrigolare la sua proiezione, Terry attivò i comandi.

   La struttura aghiforme posta a prua della Keter si riconfigurò leggermente. Gli aghi vennero più in fuori e si piegarono verso la Zhat Vash. L’energia si accumulò, facendo vibrare la nave, e squillò un allarme che l’equipaggio non aveva mai udito prima: «Allarme verde!». Anche agli ufficiali servì qualche attimo per riconoscerlo. Nel frattempo il caricamento si completò. Ci fu un lampo e una nube verdastra avvolse il vascello imperiale, sottraendolo alla vista.

 

   La Constellation tremava sotto il fuoco nemico. In plancia il suono degli allarmi si confondeva con le voci concitate degli ufficiali. Il Commodoro Lantora dovette gridare per farsi sentire: «Timoniere, ci porti via!».

   «I propulsori sono danneggiati» rispose l’ufficiale, che stava già tentando.

   «Abbattete i siluri in volo» ordinò allora lo Xindi.

   I banchi anti-polaronici entrarono in funzione, distruggendo le testate prima che arrivassero a bersaglio. Ma la Zhat Vash disponeva anche di potenti disgregatori. Il loro fuoco si concentrò sulla plancia della Constellation.

   Ci fu uno schianto, seguito da un’esplosione. Lantora alzò istintivamente le braccia, per proteggersi il viso dal calore e dalle schegge. Quando le riabbassò, vide ciò che nessun ufficiale vorrebbe mai vedere: una falla nello scafo. Era nell’angolo tra lo schermo principale e il soffitto, e misurava due metri di diametro. L’aria ne usciva a fiotti, trascinandosi dietro ogni cosa. Lo Xindi fece appena in tempo a premere un comando sulla poltroncina, prima d’essere sollevato di peso.

   Le cinghie di sicurezza entrarono in funzione, avvolgendolo nel loro abbraccio protettivo e ancorandolo alla poltroncina. Lantora sentiva il gelo terribile dello spazio e aveva le orecchie dolenti per la brusca decompressione, ma almeno non era trascinato via dall’aria in fuga. Aveva guadagnato qualche secondo. I suoi ufficiali non furono tutti così fortunati. Il timoniere, che era il più vicino alla falla, si aggrappò disperatamente al suo sedile, ma anche questo fu sollevato. Il disgraziato urlò, venendo trascinato verso l’alto: il suo lamento si perse nel boato. Lantora lo vide sparire nello spazio, con la sedia ancora stretta tra le mani. Gli altri ufficiali si aggrappavano disperatamente a consolle e ringhiere, cercando di non farsi espellere. Anche se fossero riusciti a reggersi, la plancia si sarebbe decompressa in meno di un minuto, e allora sarebbero morti ugualmente.

   Con le dita già intorpidite dal freddo, Lantora digitò un codice d’emergenza sul bracciolo. Alle sue spalle l’addetto ai sensori perse la presa e fu attirato verso la falla. Stava per essere espulso, com’era accaduto al timoniere, quando un campo di forza si attivò a metà plancia. L’ufficiale lo urtò con violenza e da lì cadde a terra, tramortito. Il vento cessò all’istante e tornò il silenzio, rotto solo dai lamenti dei feriti e dal ronzio delle consolle danneggiate. Ora che la falla era isolata, i federali erano salvi. L’atmosfera nella loro zona era stabile, anche se rarefatta; l’impianto d’aerazione la stava già ripristinando. Nella metà anteriore della plancia, invece, l’aria continuò a fuoriuscire, finché la pressione scese a zero.

   Lantora si portò le mani alle orecchie, che gli dolevano terribilmente. Aveva un cerchio alla testa e il fiato corto, quindi si sforzò di respirare con regolarità. Anche se era lieto che lo schermo fosse entrato in funzione, non aveva scordato che la nave era sotto attacco. «Rapporto!» boccheggiò.

   «La Zhat Vash ha cessato il fuoco» riferì l’Ufficiale Tattico, uno dei primi a riprendersi.

   «E allora che fa?» si meravigliò lo Xindi. Gli Imperiali non potevano averli graziati... c’era sotto qualcosa.

   «Niente. Non può fare niente» rispose l’ufficiale. «Signore, quella nave non costituisce più una minaccia». Così dicendo la inquadrò sullo schermo. La Zhat Vash era seminascosta da una densa nube verdastra. «È thalaron, signore. Settanta parti per milione. Gli Imperiali sono tutti morti».

 

   Sulla plancia della Keter regnava un silenzio di morte. Tutti avevano gli occhi fissi allo schermo, dove la Zhat Vash era inerte, in mezzo alla letale nube verde. Infine il Capitano distolse lo sguardo, rivolgendolo a Terry. La proiezione isomorfa era immobile come una statua, le mani ancora sui comandi. «Rapporto» ordinò Hod, cercando di suonare normale.

   Poiché Terry non reagiva, fu Zafreen a riscuotersi. «La Zhat Vash ha cessato il fuoco. Non ci sono più segni vitali a bordo. La Constellation ha riportato danni allo scafo, ma è salva» disse l’Orioniana. Lanciò un’occhiata furtiva a Terry, chiedendosi cosa le passasse per la mente.

   «Cessare allarme» ordinò il Capitano. «Terry, lei ha... fatto il necessario. Sono certa che anche la Flotta ne converrà».

   «Chiedo il permesso di lasciare la plancia» disse Terry, atona.

   Hod non la interrogò sulle sue condizioni. Era chiaro che non stava bene, dopo quella strage. «Permesso accordato» si limitò a dire.

   Invece di andare nel turboascensore, la proiezione isomorfa svanì lì dov’era. Probabilmente si era trasferita nel suo alloggio. Un ufficiale ausiliario la sostituì prontamente.

   Il Capitano pensò che i problemi con Terry non erano finiti, ma dovette rivolgere la sua attenzione alle questioni più urgenti. «Fra quanto potremo abbordare la Zhat Vash?» chiese.

   «Le radiazioni thalaroniche sono intense» rispose Zafreen. «Fra due ore potremo inviare una squadra con le tute. Per andarci senza, beh... serviranno dei giorni».

   «Giorni!» si disse Hod, risedendo in poltrona. Non avevano così tanto tempo. Di lì a poche ore sarebbero giunti i rinforzi dello Stato Imperiale. A questo punto era ancora più importante riuscire a portar via la nave, per esaminarla con calma in un luogo sicuro. Sempre che i gravi danni non lo impedissero. Che ironia: per domare la Zhat Vash avevano dovuto ridurla in condizioni tali che ora rischiavano di non ricavarci nulla.

 

   Il pennellino scorreva agilmente sulla carta, tracciando i kanji, gli eleganti ideogrammi giapponesi. Era da tempo che Terry s’interessava alla cultura del Sol Levante, ma solo da poco aveva iniziato a praticare lo shodo, l’arte della calligrafia. Era uno dei tanti modi con cui cercava di comprendere e far suo il pensiero umano. Le prime volte si era affidata al suo database linguistico e alla coordinazione oculo-motoria per tracciare segni così perfetti che sembravano stampati. Ma poco alla volta aveva capito che in tal modo non stava facendo arte. Approfondendo l’argomento, aveva trovato i collegamenti con la filosofia zen. Aveva compreso che per praticare la calligrafia doveva prima entrare nel mushin, quel peculiare stato mentale privo d’affanni, giudizi e attaccamento, in cui si aprivano le porte della creatività.

   Per un’Intelligenza Artificiale abituata a eseguire miliardi di operazioni al secondo non era facile sospendere a tal punto il lavorio mentale, ma Terry faceva del suo meglio. Non voleva pensare alla Guerra Civile, a ciò che aveva fatto quel giorno, a ciò che avrebbe ancora dovuto fare. Voleva solo svuotare la mente e riempire la carta di esili caratteri, validi sia come aforismi che per il valore estetico. Non era un compito facile; ci voleva un ritmo costante, non interrotto da soste, e non erano ammessi ritocchi o correzioni. Solo a fine lavoro avrebbe riletto ciò che aveva scritto, per meditarci sopra.

   Il cicalino della porta l’avvertì di un visitatore. Terry dovette interrompere l’attività, proprio ora che stava prendendo il ritmo. Pulì il pennello su uno strofinaccio e lo ripose nel cassetto, lasciando i fogli appena vergati ad asciugare sulla scrivania. Non si prese la briga di sondare i segni vitali del visitatore: era certa che fosse il Capitano. Si pulì rapidamente anche le mani dall’inchiostro e andò verso la porta, aprendola senza bisogno d’impartire il comando vocale.

   Il visitatore indugiò sulla soglia. Non era il Capitano. «Spero di non disturbarla» si scusò Dib, nel suo tono dimesso.

   «No, prego, venga avanti» disse Terry, un po’ sorpresa. In due anni di servizio non aveva mai ricevuto visite dall’Ingegnere Capo. Lavorava bene con lui, dato che tra i colleghi il Penumbrano era quello che più le si avvicinava in termini di logica, facoltà mentali ed efficienza. Ma proprio per questo le loro conversazioni restavano di carattere professionale.

   «Grazie, Tenente Comandante» disse Dib, scivolando all’interno con il suo passo elastico. Si guardò attorno con interesse. L’alloggio di Terry era arredato nello stile tradizionale del Giappone. Alle pareti erano appesi acquerelli su carta raffiguranti paesaggi naturali: il monte Fuji, un ciliegio in fiore, un’alba sul mare. Sui mobili e le mensole c’erano alcuni alberelli bonsai, potati con cura quasi maniacale. E sulla scrivania vi erano i fogli dello shodo, con l’inchiostro ancora luccicante. Terry stessa indossava una vestaglia simile a un kimono, di colore bianco, ornata da un motivo floreale.

   «Cosa la porta qui?» chiese la proiezione isomorfa.

   «La Keter e la Constellation hanno spostato la Zhat Vash fuori dalla nube radioattiva» spiegò Dib. «Fra un’ora i livelli di thalaron scenderanno abbastanza da permetterci di salire a bordo. Come sa, dobbiamo cercare di riattivare i motori. Un compito arduo, considerando il poco tempo a disposizione. Per questo il suo aiuto sarebbe prezioso».

   «Sì, verrò» sospirò Terry. Sarebbe stato il colmo se, dopo tutto l’accaduto, non fossero riusciti a ricavare niente da quella nave.

   «Colgo un certo stress nella sua voce» notò il Penumbrano. «Se è a causa di ciò che ha fatto, vorrei farle notare che non aveva altra scelta».

   «Magra consolazione! E da quando siamo in guerra me la ripeto troppo spesso» disse Terry, amareggiata.

   «Lei è l’Ufficiale Tattico» disse Dib, come se questo bastasse a giustificare tutto.

   «Ma non è sempre stato così!» ribatté l’IA, invidiando la sua atarassia. «Sono stata programmata come Ufficiale Scientifico dell’Enterprise-J. Non era previsto che combattessi, anche se in caso d’emergenza potevo sostituire qualunque ufficiale inabile. E in effetti l’ho fatto, qualche volta... ma sempre contro nemici esterni.

   Ora invece sono il capo della Sicurezza, per giunta durante una guerra civile. In questi due anni ho partecipato a decine di scontri. E anche se mi sono sforzata di disabilitare le navi nemiche senza distruggerle, in certi casi non... non ho avuto scelta, come dice lei. Il risultato è che ho ucciso migliaia d’individui, per la maggior parte cittadini dell’Unione. Non sono stata programmata per questo. Va... va contro le mie direttive di rispetto per la vita senziente» disse, con una nota di disperazione.

   «Le sue azioni s’inquadrano nella lotta contro il regime di Rangda e sono giustificate dal codice di guerra» la consolò Dib. «Tuttavia, se ritiene che le sue subroutine possano trarne danno, dovrebbe chiedere il trasferimento a un altro incarico. Al limite potrebbe dimettersi dalla Flotta. Anche se il regolamento vieta di farlo in tempo di guerra, credo che data la sua natura sintetica si possa fare uno strappo».

   «La mia natura sintetica!» esclamò Terry, angosciata. «Non voglio tirarla in ballo. Sono quarant’anni che mi sforzo di somigliare di più agli Organici. Agli Umani in particolare, visto che mi hanno modellata con le loro fattezze. Perché crede che abbia conciato così il mio alloggio?!» chiese, allargando le braccia a indicare gli acquerelli e i bonsai. «Cerco di darmi un’identità... uno sforzo inutile, probabilmente». Non sapeva perché stesse dicendo queste cose al Penumbrano. Forse aveva solo voglia di sfogarsi e l’alieno le sembrava una persona fidata.

   «Perché vuole somigliare agli Umani? Lei ha facoltà notevolmente superiori alle loro» notò Dib.

   «Vero» riconobbe Terry, con un pizzico d’orgoglio. «Ma le cose umane... riempiono la vita. Gli Umani sono molto creativi. Hanno creato me, e tutte queste belle cose. Arte, musica, letteratura...» disse, tornando a guardarsi intorno.

   «Mi paiono cose in gran parte superflue, ma... accetto il suo punto» disse cautamente il Penumbrano. «Tuttavia insisto nel mio suggerimento. Se crede che il suo ruolo di Ufficiale Tattico collida con le sue direttive, non le resta che passare a un altro incarico».

   «Ci ho pensato fin dal primo giorno» disse Terry, con un sorriso malinconico. «Ma vede, se io me ne andassi, qualche Organico dovrebbe prendere il mio posto. Non avrebbe i miei riflessi, né la mia estesa conoscenza delle astronavi nemiche. Il suo rendimento come Ufficiale Tattico sarebbe inferiore e questo ci metterebbe tutti in pericolo. Poiché le mie direttive vietano anche gli errori di omissione, non posso permetterlo. Se posso accrescere la sicurezza della nave, devo farlo».

   «Ma così continuerà a soffrire» disse piano Dib.

   «Sì, è inevitabile» disse Terry in un soffio. «Ma continuerò a fare il mio dovere, finché... ne sarò in grado. Vada, ora. Tra poco la raggiungerò in sala teletrasporto».

 

   Quando Terry si presentò in sala, gli altri erano già lì. C’erano Norrin, con un manipolo della Sicurezza, e Dib con una squadra d’ingegneri. La proiezione isomorfa si stupì nel vedere anche V’Lena. Tutti tranne Dib stavano indossando le tute ambientali per proteggersi dalle radiazioni. Quanto al Penumbrano, la sua solita tuta termica era già una difesa sufficiente. Mentre la squadra ultimava i preparativi, Terry si appartò con Norrin.

   «Che bisogno abbiamo di portarci dietro la Bene Gesserit?» gli chiese tra l’ironico e lo sprezzante.

   «La cosa? Ah, parli di V’Lena... è qui per ordine del Capitano. Pensa che avere una Romulana nella squadra ci aiuterà a evitare trabocchetti» spiegò l’Hirogeno.

   «O a caderci. V’Lena non è dei nostri, potrebbe agire incautamente» sbuffò la proiezione isomorfa, ancora risentita dopo le dure parole che la monaca le aveva rivolto.

   «Anche se non ha frequentato l’Accademia, è comunque una combattente provetta. Su Crateris ci è stata preziosa» riconobbe Norrin. «Non sarà che avete dei contrasti personali?» indovinò.

   «Mi preoccupo solo per l’efficienza della squadra» negò Terry.

   «Le do qualcos’altro di cui preoccuparsi: i sensori a lungo raggio dicono che fra quattro ore arriverà un’altra nave imperiale» disse il Comandante. «Se non riusciamo a rimettere in moto la Zhat Vash, dovremo scaricare il suo database e tagliare la corda».

   «Ricevuto» disse la proiezione isomorfa, di nuovo professionale.

   I due salirono sulla pedana di teletrasporto, assieme a V’Lena e agli agenti della Sicurezza. La loro destinazione era la plancia romulana. Se non ci fossero stati pericoli, gli ingegneri li avrebbero raggiunti. «Energia» ordinò Norrin in tono calmo, come se fosse stata una missione ordinaria.

 

   La plancia della Zhat Vash era ampia e costruita con una logica difficile a comprendersi. Si suddivideva in numerosi vani, affacciati su una zona centrale in cui si trovava il seggio del Capitano. Non vi era uno schermo principale: al suo posto si trovava una piccola alcova, probabilmente un replicatore. L’illuminazione era bassa e irregolare, nei toni del verde e del giallo. A terra c’erano mucchi di cenere: tutto ciò che restava dell’equipaggio. Solo i comunicatori, i disgregatori e alcuni elementi metallici delle uniformi non si erano corrosi e affioravano dalla polvere come tetri ricordi dei loro proprietari. Nel vederli, Terry distolse lo sguardo e cercò di pensare ad altro. Era l’unica del gruppo a non indossare la tuta ambientale, dato che le radiazioni thalaroniche non minacciavano il suo Emettitore Autonomo.

   «Tutto a posto?» le chiese Norrin, sfiorandole il braccio. «Se non se la sente, può rientrare».

   «No, sto bene. Farò il mio lavoro» disse Terry, non volendo sfigurare davanti agli agenti. Ispezionò le consolle, cercando qualcosa che le permettesse di fare una diagnostica. Si accorse ben presto che i comandi visibili erano insufficienti a controllare la nave. Dovevano esserci degli oloschermi che si erano disattivati per via dei danni. Anche l’illuminazione così incerta doveva dipendere dallo stesso motivo.

   Mentre Terry controllava i comandi, il resto della squadra ispezionò le altre zone della plancia, talora addentrandosi fra le ombre. V’Lena si guardò intorno con crescente nervosismo; aveva estratto la tan qalanq.

   «Qualcosa non va?» chiese Norrin, accostandosi.

   «Questa plancia non somiglia a nulla che abbia mai visto» disse la Romulana, a disagio.

   «Perché, su quante navi imperiali è stata?» indagò l’Hirogeno.

   «Eh? Nessuna, ovviamente!» fece la monaca, che si girava a ogni fruscio. «Ma una plancia romulana dovrebbe avere una certa logica, e questa non ce l’ha. O meglio, ha una logica diversa... quella dei Borg, suppongo».

   «C’era da immaginarlo che l’interno riflettesse l’esterno» disse Norrin, guardandosi attorno a sua volta. «Qualunque cosa abbiano fatto a queste navi, resta ben poco di romulano».

   «C’è ancora attività» li informò Terry, passando rapidamente da una consolle all’altra. «Il computer ha diagnosticato i danni».

   «L’equipaggio sarà morto, ma la nave è ancora viva!» sussurrò V’Lena. Nella luce incerta, i suoi occhi sembravano enormi.

   «E potrebbe non gradirci» mugugnò Norrin, alzando il fucile phaser. «Mi sono già trovato in una situazione simile, anni fa, sul Melange». In quell’occasione era stata Jaylah a salvarlo; stavolta non poteva contare sulla sua pupilla. Si guardò attorno con i sensi allenati di un Cacciatore, finché colse un movimento. Qualcosa strisciava nel buio... qualcosa di metallico, a giudicare dal lieve stridore.

   «Attenti!» gridò l’Hirogeno, aprendo il fuoco mentre schivava l’attacco. Ci fu un lampo e un tentacolo metallico cadde sul pavimento, tranciato di netto. Restò a contorcersi come la coda di una lucertola, mentre la parte rimanente rientrava nella parete.

   Altri tentacoli uscirono dalle zone in ombra e guizzarono contro i federali, che risposero sparando. Terry ne tranciò uno che le veniva addosso, ma non si avvide di un altro che le strisciava alle spalle. Quando il tentacolo, irrigidito come una lancia, la trafisse all’addome, la proiezione isomorfa sfrigolò per un attimo. Una rapida occhiata le confermò che l’Emettitore Autonomo allacciato al braccio era integro. Senza scomporsi, Terry si girò e spezzò il tentacolo con un tiro preciso. Afferrò il segmento che ancora la trafiggeva e se lo estrasse con un deciso strattone, per poi gettarlo via.

   «Terry, sapesse quanto la invidio!» disse Norrin, che non poteva certo lasciarsi infilzare. I tentacoli lo attaccavano in rapida successione e lui doveva neutralizzarli tutti. «Norrin a Keter, riportateci indietro!» ordinò.

   «Abbiamo dei problemi, la Zhat Vash crea un campo di dispersione» rispose l’addetto al teletrasporto. «Potete lasciare la plancia?».

   «Non credo che servirebbe» disse Norrin. Si gettò a terra per schivare un altro attacco e colpì il tentacolo che dardeggiava sopra di lui, spezzandolo. Rotolò sul pavimento e si rialzò in fretta, malgrado l’impaccio della tuta. «Tutti con me, schiena contro schiena!» ordinò, ma non poteva essere obbedito all’istante. I suoi agenti stavano lottando contro i tentacoli e alcuni si erano allontanati dal gruppo. Scoprirono ben presto che non c’erano zone sicure.

   V’Lena prese a strisciare lungo il muro, recidendo i tentacoli che fuoriuscivano. In quel modo riuscì a tagliarne parecchi, prima che potessero ritorcersi contro di lei. Altri furono distrutti dagli agenti, finché sulla plancia tornò una parvenza di calma, guastata solo dai tentacoli mozzati che si contorcevano sul pavimento.

   I federali stavano per tirare il fiato, quando udirono un ronzio e videro illuminarsi l’alcova. Era davvero un replicatore... ma perché si attivava adesso? Al suo interno apparve un congegno a forma di dodecaedro, con un’apertura sulla faccia anteriore. Uno degli agenti si avvicinò a ispezionarlo.

   «Aspetta!» lo richiamò Norrin. Troppo tardi. L’ordigno emise un raggio disgregatore, così potente da vaporizzare lo sfortunato agente. Gli altri corsero a nascondersi dietro le consolle o nei vani laterali della plancia.

   Con la prontezza e la precisione di un veterano, Norrin sparò al congegno, disintegrandolo. Ma prima ancora che tutti i pezzi fossero ricaduti a terra, un altro si formò al suo posto. Il Comandante dovette tuffarsi dietro una consolle per sfuggire ai colpi. «Dobbiamo fracassare il replicatore!» gridò, per farsi udire sopra le esplosioni.

   Terry sparò all’ordigno, distruggendolo una seconda volta. Stava per aprire nuovamente il fuoco, prima che si riformasse, quando risuonò un ululato di guerra. V’Lena aveva scagliato la tan qalanq in avanti, come una lancia. La spada si conficcò in fondo al replicatore, che sprizzò scintille e si spense. I federali si trovarono padroni della plancia.

   «State bene?» chiese Terry, passando in rassegna gli agenti. Uno dopo l’altro dettero tutti l’assenso.

   Nel frattempo Norrin informò la Keter dell’accaduto. «Il pericolo sembra passato, ma la plancia ha bisogno di una bonifica. Non inviate gli ingegneri; vi diremo noi quando sarà sicura» concluse.

   «Ricevuto; tenete alta la guardia» raccomandò il Capitano.

   Norrin si accostò a V’Lena, che stava estraendo la spada dal replicatore. «Niente male» riconobbe. «Bada solo a non esporti troppo; tieni sempre conto di cosa fa il resto della squadra».

   «Sì, Comandante» annuì la monaca, e tornò a ispezionare la plancia.

   Qualche metro più in là, Terry la guardò di sottecchi. La loro ospite aveva fin troppo successo; era la seconda volta consecutiva che la metteva in ombra. Non che l’IA fosse particolarmente invidiosa. Ma la giovane Romulana era incauta e un giorno o l’altro ne avrebbe pagato il prezzo. Per il momento, comunque, il pericolo era passato; Terry tornò alle consolle.

   «Dimmi che ci capisci qualcosa» disse Norrin, venendole a fianco. Aveva regolato il canale della tuta per parlare solo con lei, escludendo il resto della squadra.

   «Questi comandi sono insoliti» ammise la proiezione isomorfa. «Somigliano più alla tecnologia Borg che a quella romulana. Significa che sarà difficile farci strada nel loro computer». Così dicendo mise mano a una consolle.

   «Difficile... ma non impossibile, spero».

   «Direi di no. Ci sono alcuni codici, che appresi anni fa durante la mia missione nella Cripta, che potrebbero tornarmi utili».

   «E ovviamente li ricordi alla perfezione» disse Norrin. «Te l’ho già detto che t’invidio?».

   Terry non rispose, ma accennò un sorriso. Essere una proiezione isomorfa non era poi così male, si disse.

   Di lì a poco la plancia si riavviò: l’illuminazione divenne più uniforme e riapparvero gli oloschermi. Anche il ronzio di sottofondo cambiò tonalità. Rispetto a prima, il centro di comando sembrava meno ostile.

   «Ho disabilitato il sistema anti-intrusi» spiegò Terry. «Ora possiamo far salire gli ingegneri».

   «È certa che non ci sia più pericolo?» chiese Norrin.

   «Certa è una parola grossa, quando c’è di mezzo la tecnologia Borg» ammise l’IA. «Diciamo che, per adesso, non posso fare meglio di così».

   «Uhm... visto che il tempo stringe, correremo il rischio» disse il Comandante. «Norrin a Keter, mandateci gli ingegneri».

 

   Nelle ore seguenti i tecnici federali esplorarono la Zhat Vash, cercando di comprenderne la tecnologia. Molte delle cose che trovarono li lasciarono perplessi. La propulsione era quella tradizionale romulana, alimentata da una micro-singolarità. Tuttavia alcuni perfezionamenti tecnici permettevano di raggiungere velocità più elevate rispetto ai comuni Falchi da Guerra. La nave in sé aveva una potenza spaventosa, e quell’energia poteva essere devoluta in gran parte agli scudi, che avevano un’altissima capacità di adattamento. Lo scafo era in tritanio, come quello dei cubi Borg. Ma era soprattutto nella conformazione della nave che si vedeva l’influenza della Collettività. Tutti i sistemi erano ridondanti, anche quelli non essenziali.

   «Questa nave ha subito danni estesi ai sistemi vitali e decompressioni in metà dei ponti, eppure è ancora in gran parte operativa» disse Dib, terminata la diagnostica. «Il computer sta già provvedendo alle riparazioni».

   «Senza l’equipaggio?» s’inquietò Norrin.

   «L’equipaggio certo gioverebbe, ma la nave è sostanzialmente in grado di auto-ricostruirsi grazie ai droni riparatori» spiegò l’Ingegnere Capo.

   I due stavano percorrendo un corridoio che aveva un lato affacciato su una vasta cavità interna. Udendo un fitto ticchettio, Norrin si sporse dalla balaustra. Vide migliaia di piccoli droni operai, simili a ragnetti, che zampettavano sulle superfici, eseguendo le riparazioni più disparate. Potevano procedere sulle pareti verticali e persino sul soffitto. Tutti quanti erano provvisti di pinze e saldatori, ma per il resto l’equipaggiamento variava in base alla loro funzione. Dovevano essercene decine di tipi diversi. Per la maggior parte erano grandi come una mano, ma alcuni raggiungevano le dimensioni di un grosso cane. Lavoravano all’unisono, senza mai intralciarsi, efficienti e solerti come formiche.

   «Uhm... saremmo nei guai se diventassero ostili» ragionò Norrin. «Li può disattivare?».

   «Sì, signore... ma credevo che il nostro proposito fosse di portare la Zhat Vash via da qui» disse il Penumbrano. «L’unico modo è permettere ai droni di ultimare le riparazioni».

   «Ora che sono qui, preferirei far esplodere questa macchina infernale e andarmene» pensò il Comandante, ma sapeva di non poterlo fare. La Flotta voleva quella nave ad ogni costo. «Faccia in modo che gli sgorbietti diano la priorità alla propulsione» disse. «E li tenga d’occhio. Alla prima mossa sospetta, li frigga!» ordinò.

   «Friggerli, signore?» si stupì il Penumbrano.

   «Sì, insomma, li disattivi» chiarì Norrin, un po’ brusco. A volte dimenticava che l’alieno interpretava tutto alla lettera.

   «Friggere uguale disattivare» ripeté Dib, come per appuntarsi quell’informazione. «Agli ordini, Comandante».

 

   Tornata sulla plancia della Zhat Vash, dopo aver ispezionato la sala macchine, Terry ci trovò tra gli altri anche Zafreen, che armeggiava con una consolle. Qualunque cosa volesse fare, l’Orioniana non sembrava aver successo. Continuava a trafficare con i comandi, imprecando contro la nave e contro la tuta che la impacciava.

   «Cosa sta cercando di fare?» chiese la proiezione isomorfa.

   Zafreen alzò gli occhi al soffitto, prima di girarsi a guardarla. «Il Capitano vuole che scarichi i diari dei sensori» disse in tono controllato. «Sa, potrebbero esserci dati sui cantieri imperiali e sulle altre Narada».

   «Sì, è logico» convenne Terry. «Ma perché non l’ha chiesto a me? Posso farlo in un minuto».

   «É... gentile da parte sua offrire sempre il suo aiuto» disse l’Orioniana a denti stretti. Da come aveva pronunciato quel “gentile”, si capiva che intendeva tutt’altro. «Ma vede, il reparto sensori e comunicazioni è una mia responsabilità. Sono io che me ne occupo. E questo è uno degli incarichi che spettano a me» disse, calcando il tono sui possessivi. Non ne poteva più di quelle intromissioni.

   «E ci sta riuscendo?» chiese l’IA.

   «Io... uhm... ho appena cominciato, va bene?» si giustificò Zafreen. Non era vero. Erano almeno venti minuti che trafficava con i comandi, ma la collega non poteva saperlo. Sperò ardentemente che Terry se ne andasse e la lasciasse fare.

   Ma Terry non se ne andò. Al contrario, si fece avanti e consultò l’interfaccia. «Ha sbagliato sezione. Questi sono i diari personali dell’equipaggio» notò, con quel tono da maestrina che Zafreen odiava.

   «Davvero? Cioè, ehm, l’avevo notato» incespicò l’Orioniana, vergognandosi della sua goffaggine.

   «Tenente, come se la cava con il romulano?» indagò Terry.

   «Oh, è come una seconda lingua!» si vantò Zafreen. Era una menzogna spudorata. In realtà lo capiva pochissimo, tanto che aveva dovuto attivare la matrice di traduzione all’interno del casco. Il computer traduceva per lei, proiettando il testo sulla visiera.

   Terry le si avvicinò, notando le paroline rosse che scorrevano.

   «Sa che è la traduzione, e può anche leggerla al contrario, maledetta!» pensò l’addetta ai sensori.

   «Insisto... posso sbrigare il lavoro in un minuto, se mi lascia fare» disse l’IA.

   «No!» si stizzì Zafreen. «Questo è un lavoro mio! Posso farcela, voglio farcela da sola! Altrimenti tanto vale che le consegni il mio reparto! Ormai è lei che lo gestisce!».

   «Non intendevo offenderla» disse Terry, infastidita da quella reazione spropositata. «E non voglio esautorarla dalle sue mansioni. Però da quando sono salita a bordo è capitato spesso che lei facesse degli errori o perdesse tempo prezioso. A volte sono cose da poco, ma in certi casi la sua inefficienza mette in pericolo la nave. Quando ciò accade, io devo intervenire» spiegò.

   «Interverrebbe anche se fossero gli altri a sbagliare?» chiese l’Orioniana, rancorosa.

   «Certamente».

   «Non è vero! Loro non li corregge mai!» proruppe Zafreen.

   «Forse quelle volte in cui l’ho fatto, le è sfuggito» suggerì la proiezione isomorfa. «Ma in effetti mi capita raramente di dover correggere il loro lavoro. Il suo, invece, ha spesso bisogno di revisione».

   Quelle parole umiliarono l’Orioniana. Lei ce la metteva tutta per fare bene il suo lavoro. L’aveva sempre fatto e da quando c’era Terry aveva raddoppiato gli sforzi. E ancora non bastava... non sarebbe mai riuscita a soddisfarla. Ma non voleva fare mea culpa, né fuggire. Non le restò che reagire con rabbia. «Lei... lei non è il mio supervisore!» protestò. «Quindi la smetta di starmi col fiato sul collo. Mi lasci lavorare in pace, come tutti gli altri!».

   Terry stava per ribattere, ma fu zittita dall’arrivo di Norrin. Il Comandante le fissò entrambe con severità. «Allora, volete smetterla di dare spettacolo? Zafreen, ha lasciato aperto il canale generale della tuta. Significa che sentiamo tutti il vostro bisticcio».

   A quelle parole l’Orioniana divenne ancora più verde. «Mi scusi, signore» disse con un filo di voce. Chiuse la linea generale, tenendo aperta solo quella con il superiore.

   «Se non vuole che Terry debba sempre subentrarle, sbrighi il suo lavoro» l’ammonì l’Hirogeno. «Quanto a lei, Tenente Comandante, pensi innanzi tutto ai suoi incarichi. Siamo ancora in spazio ostile, e non possiamo attardarci a...». Norrin s’interruppe, notando una spia che lampeggiava sul quadro comandi.

   «Allarme di prossimità» disse Terry, che aveva seguito il suo sguardo. «C’è un vascello in avvicinamento».

   «Sullo schermo, se c’è uno schermo» ordinò il Comandante. «Se no, ditemi di che si tratta!».

   «Sì, signore» disse Zafreen, mettendo mano ai comandi. Anche se non ci capiva molto, riuscì ad attivare uno schermo olografico davanti alla poltrona del Capitano. L’inquadratura mostrava una porzione del Cimitero di Romulus, con il Memoriale in un angolo.

   In quella un vascello uscì dalla curvatura. Era nero con riflessi verdastri e aveva dimensioni colossali. Sembrava un ammasso di aculei, tesi in avanti per trafiggerli. I rinforzi dello Stato Imperiale erano arrivati.

 

   «Non ha senso, dovevano arrivare tra un’ora!» gemette Zafreen.

   «Evidentemente questa è un’altra nave, che viaggiava occultata» dedusse Terry. «Ci hanno indotto un falso senso di sicurezza».

   Il vascello imperiale aprì il fuoco contro la Keter e la Constellation, che dovettero alzare gli scudi per proteggersi. Questo bloccava le squadre sulla Zhat Vash. Il Cimitero di Romulus ridivenne un campo di battaglia, con le due navi federali che cercavano di trattenere il mostruoso incrociatore, ma erano chiaramente in difficoltà. Le astronavi volteggiarono tra gli asteroidi, scambiandosi colpi, mentre la Zhat Vash restava inerte.

   «Possiamo attivare gli scudi?» chiese Norrin, temendo che gli Imperiali li colpissero.

   «Ci provo, ma in ogni caso abbiamo poca energia» disse Terry, correndo alla consolle tattica. Iniziò a lavorarci con velocità sovrumana.

   «Plancia a Dib, è in grado di portarci via?» chiese ancora il Comandante.

   «Per la propulsione a curvatura ci vorrà un’altra ora» rispose l’Ingegnere Capo. «Al momento posso darle un quarto d’impulso».

   «Lo faccia» disse Norrin. Non era molto, ma in ogni caso non si poteva andare più veloci in mezzo agli asteroidi, per ragioni di sicurezza.

   Uno degli agenti prese il timone e cercò di allontanare l’astronave dal combattimento. «Questi comandi sono strani» mugugnò. La Zhat Vash aveva fatto poca strada, quando l’altro incrociatore si gettò all’inseguimento.

   «Scudi alzati» disse Terry, appena in tempo. L’astronave nemica fece un passaggio ravvicinato, tempestando di colpi la Zhat Vash. La nave vibrò e gli oloschermi sfarfallarono. Zafreen si lasciò sfuggire uno strillo acuto.

   «Gli scudi sono deboli, non resisteremo a lungo» avvertì Terry.

   «Può rispondere al fuoco?» chiese Norrin.

   «Negativo, gli armamenti sono offline».

   «Eppure questa nave stava sparando, quando lei ha... terminato lo scontro» ricordò l’Hirogeno.

   Il viso di Terry ebbe una contrazione dolorosa al ricordo. «Le armi in sé sono in gran parte operative. Il problema è che il computer non mi da l’accesso: tutto ciò che riguarda i sistemi tattici è cifrato» spiegò la proiezione isomorfa.

   Norrin tornò a guardare l’oloschermo. L’incrociatore sopraggiunto era ancora più grosso e armato della Zhat Vash. Stava surclassando le due navi federali, approfittando anche del fatto che la Constellation era danneggiata.

   «Gli Imperiali ci stanno alle costole, non riesco a distanziarli» avvertì il timoniere.

   «Terry, può attivare l’occultamento?» chiese Norrin, alla ricerca di una via d’uscita.

   «Credo di sì» rispose l’IA. Abbandonò il tentativo di riattivare le armi e si concentrò sul nuovo compito. Nel frattempo il vascello imperiale colpì duramente la Constellation, tranciandole una delle quattro gondole quantiche. La nave federale, ormai senza scudi, dovette allontanarsi per non essere distrutta. Restava solo la Keter.

   «Occultamento attivato» disse Terry, mentre l’illuminazione della plancia cambiava tonalità.

   Il timoniere cambiò subito rotta e poi procedette a velocità ridotta. La Keter e l’incrociatore rimpicciolirono in lontananza, fino a confondersi con gli asteroidi.

   «Siamo salvi!» trillò Zafreen.

   «Aspetti a dirlo» ammonì Norrin, che non si era ancora rilassato. «Terry, controlli che l’occultamento sia completo. Con tutti i danni che abbiamo, non vorrei che ci fosse una perdita di particelle».

   Il Comandante aveva appena parlato che l’incrociatore imperiale balzò in avanti, dritto contro di loro. Aprì il fuoco: colpi precisi, diretti ai motori. La Zhat Vash perse la spinta.

   «Ci vedono, dopotutto» si disse Norrin. A questo punto non sapeva che altro inventarsi. Dette un’occhiata a V’Lena, che fin lì si era dimostrata piena di risorse. Ma la giovane Romulana aveva gli occhi chiusi, la mano sull’elsa della spada e stava mormorando un mantra.

   «Gli scudi cedono» avvertì Terry. «Integrità strutturale critica».

   «S-stiamo per morire?» balbettò Zafreen, incredula che tutti i loro sforzi fossero falliti.

   «Non temere, i nostri katra vivranno in eterno» disse V’Lena, serafica.

   «Scusa, sai, ma ci tengo anche al corpo!» rimbeccò l’Orioniana, per nulla confortata.

   Norrin stava per ordinare l’evacuazione, pur sapendo che gli Imperiali avrebbero facilmente abbattuto le capsule. Ma in quella l’incrociatore nemico subì un pesantissimo fuoco laterale. Una nuova astronave era entrata in scena: una che aveva le stesse armi della Keter, ma più abbondanti. I suoi colpi micidiali tranciarono alcuni aculei dell’incrociatore, che dovette interrompere l’inseguimento per contrattaccare.

   Approfittando della svolta, la Keter tornò all’attacco. Anche la Constellation, pur danneggiata, lanciò una salva di siluri da grande distanza. Attaccato da più lati, l’incrociatore imperiale optò per la ritirata. Abbandonò il Cimitero di Romulus lasciandosi dietro alcuni aculei spezzati.

   «Chi è stato ad aiutarci?» chiese Norrin.

   «Si direbbe... no, non ci credo!» esclamò Zafreen. Anziché dirlo, visualizzò l’astronave sull’oloschermo. Vedendola, i federali s’irrigidirono.

   Il nuovo vascello somigliava alla Keter, ma era più grande e squadrato. Aveva un deflettore rosso che spiccava sullo scafo corazzato nerastro. Il Moloch, il vascello dell’Unione che per due anni era stato la loro nemesi, li aveva salvati.

 

   Respinti gli Imperiali, il Moloch disattivò le armi, pur mantenendo gli scudi alzati. La sua chiamata fu diretta alla Keter.

   «Sullo schermo» disse Hod, rigida come una statua.

   Apparve Radek, impettito nell’uniforme candida dei Pacificatori. L’ex Comandante della Keter si era ormai adattato al nuovo incarico. «Salve, amici» esordì, leggermente beffardo. «Vedo che avete ancora l’abitudine di cacciarvi nei guai. Che fareste, se non ci fossimo noi Pacificatori a proteggervi?».

   «Lei è qui per l’incrociatore imperiale» ribatté Hod con freddezza. «Sappia che non glielo consegnerò. Piuttosto lo farò esplodere».

   «Rinunci alla violenza, per una volta, e mi ascolti» disse pazientemente il Rigeliano. «L’invasione dello Stato Imperiale ha inquietato l’Unione. Dopotutto questi settori sono nostri, anche se al momento li controllate voi. In circostanze normali, per noi non farebbe molta differenza se gli Imperiali vi soppiantassero. Ma l’uso sconsiderato della tecnologia Borg ci obbliga a prendere contromisure. Dunque eccoci qui, a tendervi la mano. L’accettate?».

   Passarono i secondi. Tutti aspettavano la risposta di Hod, che fissava cupamente il suo ex Primo Ufficiale. Due anni prima Radek le aveva spezzato il cuore, unendosi ai Pacificatori. Da allora era stato il suo nemico più accanito: aveva inseguito la Keter da un pianeta all’altro, cercando più volte di distruggerla. «Davvero si aspetta che ora mi fidi di lui?» pensò l’Elaysiana. Finalmente parlò. «Non vedo perché le mosse dello Stato Imperiale debbano impensierirvi» disse. «La vostra Presidente ha ceduto la Terra ai Voth e parecchi altri pianeti ai Breen. Che differenza fa, se ora gli Imperiali si prendono qualche settore?».

   Radek fece un sorriso troppo effimero per essere genuino. «Proprio perché abbiamo già rinunciato a molti pianeti non possiamo perderne altri» spiegò. «Quindi dobbiamo bloccare quest’invasione sul nascere. Catturare un incrociatore per studiarlo è il modo più logico di procedere. Volevo farlo io, ma voi mi avete preceduto, quindi è naturale che uniamo le forze».

   «Rangda sa della sua mossa?» chiese Hod.

   «Ma certo. Sono qui su ordine della Presidente» assicurò Radek in tono affabile. «Se accettate, avete la mia parola d’onore che non vi danneggeremo in alcun modo, fino al termine della crisi».

   «E poi, nemici come prima?».

   «Suppongo di sì... a meno che questa collaborazione non stimoli una trattativa di pace tra i nostri governi» auspicò il Rigeliano.

   «In questi anni avete dimostrato di non essere affatto interessati alla pace» disse Hod, fissandolo bieca. «Che farà se rifiuto la sua offerta?».

   «In tal caso, temo che dovrò impadronirmi dell’incrociatore con ogni mezzo» rispose Radek con fatalismo. «Dopo di che, essendo fallita l’offerta di pace, ricadrei negli ordini precedenti e dovrei distruggervi. Anche se riusciste a scappare, avrete perso l’occasione di studiare l’astronave. Perché, pur con tutta la stima che ho nei vostri riguardi, dubito che riuscirete a catturarne un altra».

   Hod continuò a riflettere. Se non avesse avuto le squadre sulla Zhat Vash, l’avrebbe distrutta. Ma siccome le squadre c’erano, e non poteva recuperarle con il Moloch ostile, doveva procedere diversamente. «Accetto la sua offerta, Capitano Radek» disse con voce fredda e distaccata. Si astenne volutamente dal dire che si fidava di lui.

   «Bene. Venga sul Moloch, così discuteremo i dettagli» propose il Rigeliano, con la massima serietà.

   «No grazie, ci tengo alla vita» rispose Hod sardonica. «Perché non viene lei sulla Keter? Dopo la lunga assenza le sarà venuta un po’ di nostalgia, o sbaglio?».

   «Non sbaglia affatto» sospirò Radek, passando lo sguardo sulla plancia familiare. «Ma anch’io devo cautelarmi. Che ne dice di discutere in olopresenza?».

   «E sia» acconsentì l’Elaysiana. «Ma abbiamo poco tempo. Fra meno di un’ora arriverà un’altra Narada. E quella che abbiamo respinto potrebbe tornare a darle manforte. Non resisteremo al loro assalto combinato».

   «Per allora avrete riattivato la curvatura dell’incrociatore?» chiese il Rigeliano.

   «Credo di sì».

   «Il signor Dib non delude mai, eh? Bene, ci vediamo fra cinque minuti. Radek, chiudo».

 

   Alla riunione partecipò anche il Commodoro Lantora, informato da Hod dell’offerta di Radek. I tre graduati si recarono nelle rispettive sale tattiche. Una volta stabilito il collegamento, ciascuno di loro vide apparire, seduti al tavolo, gli ologrammi degli altri due. La discussione fu a tratti tesa, ma non degenerò mai in scontro. Lantora mantenne un certo distacco mentre Radek esponeva le sue ragioni. Lo Xindi convenne sulla necessità di arginare lo Stato Imperiale e si disse pronto a mantenere la tregua fino ad allora.

   Con il tempo ormai agli sgoccioli, Hod chiamò a rapporto Dib, per sapere se era pronto a spostare la Zhat Vash. L’Ingegnere Capo apparve a sua volta in olopresenza. «La nave è pronta a partire» confermò. «Posso portarla a curvatura 9,9».

   «Basterà per tenere a distanza gli altri incrociatori?» chiese Lantora.

   «Basterà finché ripareremo l’occultamento» rispose il Penumbrano. «A quel punto potremo seminarli».

   «Sembra perfetto» approvò Radek. «Direi di partire senza indugio».

   A quelle parole Lantora s’incupì. «Capitano Hod, è pronta ad assumere il comando dell’operazione?» chiese.

   «Prego?» si stupì l’Elaysiana. «Credevo che venisse con noi». Non era solo cortesia verso il superiore. La potenza di fuoco della Constellation era indispensabile per controbilanciare la superiorità del Moloch, se l’alleanza fosse venuta meno.

   «Purtroppo la mia nave ha subito danni considerevoli ai sistemi propulsivi» disse lo Xindi a malincuore. «Abbiamo perso una gondola quantica e un’altra è danneggiata. Con le due rimanenti possiamo andare al massimo a velocità 3».

   Hod accusò il colpo. Così azzoppata, la Constellation non poteva tenere il passo delle altre navi. Se si fosse aggregata, le avrebbe rallentate tutte... e gli Imperiali li avrebbero raggiunti. No, bisognava per forza separarsi. Ma la inquietava lasciare il Commodoro per andarsene con i Pacificatori. «Non desidera salire sulla Keter?» chiese in tono controllato.

   «Lo vorrei, ma non sarebbe giusto nei suoi confronti» rispose Lantora. «La Keter è la sua nave e lei ha dimostrato di saperla dirigere ottimamente. Può farlo anche in questa circostanza».

   «Dunque quali sono gli ordini?» chiese l’Elaysiana.

   «Partiremo subito, appena terminata questa riunione» disse Lantora, celando la preoccupazione. «Io tornerò a Nuovo Romulus, mentre lei... beh... non credo che il Capitano Radek vorrà seguirla in un sistema federale».

   «E io non credo che il Capitano Hod vorrà seguire me in uno dell’Unione» aggiunse il Rigeliano.

   «Per questo vi sto inviando le coordinate di rendez-vous in una zona di confine» disse il Commodoro, facendo un cenno a un ufficiale fuori campo. «Vi manderò qualche nave veloce» promise. «Spero di rivedervi con qualche scoperta utile sul nemico. Buona fortuna, Capitano Hod. Quanto a lei, Radek... mi appello al suo onore di ex ufficiale della Flotta» aggiunse, scoccando al Rigeliano un’occhiata non proprio amichevole.

   «Ha la mia parola di ufficiale e gentiluomo» rispose il Pacificatore, prima di chiudere il collegamento. Lantora e Hod tuttavia rimasero in olopresenza. Ora che potevano parlare liberamente, il Commodoro assunse un tono più confidenziale.

   «Prima che me lo dica, le confermo che detesto questa situazione» disse lo Xindi. «Oltre a rischiare di farci soffiare la Zhat Vash, devo esporvi a un rischio enorme. Se ritiene che non dobbiamo fidarci di Radek, me lo dica ora. Cogliendoli di sorpresa potremmo reimbarcare le vostre squadre e distruggere l’incrociatore».

   «No, abbiamo sacrificato troppo per perderlo così» sospirò Hod. «Non lo distruggerò prima d’averne ricavato un utile».

   «Si fida di Radek?» indagò Lantora.

   «Non mi fido di nessun Pacificatore» fu la risposta indiretta. «Ci hanno dimostrato fin troppe volte di che pasta sono fatti. Ma la situazione è quella che è».

   Il Commodoro annuì gravemente. «Se scoprirete qualcosa, potremmo anche condividerlo coi Pacificatori» disse. «L’importante è che non siano loro gli unici a guadagnarci. Occhi aperti, Capitano!» raccomandò.

   La proiezione olografica svanì dalla sedia, lasciando Hod a rimuginare in sala tattica. Ma il Capitano non poteva attardarsi; gli Imperiali sarebbero arrivati a minuti. Così si riscosse e tornò in plancia. Giunse appena in tempo per vedere la Constellation che si allontanava. La nave del Commodoro era conciata male, il che paradossalmente consolò l’Elaysiana: anche se fosse rimasta con loro, non avrebbe fatto differenza.

   «Gli Imperiali si avvicinano» avvertì Zafreen. «Saranno qui tra dieci minuti».

   «Dica a Dib di portare la Zhat Vash al punto d’incontro» ordinò il Capitano. «Vrel, stia accanto a quella nave. Non la perda neanche per un istante» raccomandò.

   «Non posso credere che viaggeremo col Moloch» borbottò il timoniere, memore di tutte le volte che lo avevano affrontato.

   «È difficile da accettare per tutti» disse Hod. «Ma siamo ancora ufficiali della Flotta Stellare, non dimentichiamolo. Se c’è una tregua coi Pacificatori, la rispetteremo».

   «Finché durerà» corresse Vrel.

   «Sì, Tenente. Finché durerà» convenne l’Elaysiana, sedendo in poltrona.

   La Zhat Vash riattivò i motori a curvatura, che brillarono di verde, e lasciò il campo d’asteroidi. L’attimo dopo la Keter e il Moloch la seguirono, uniformando la velocità con tale precisione che le restarono affiancati, uno per lato. Solo il Memoriale di Romulus, ormai abbandonato, rimase a illuminare quell’angolo di spazio.

 

   Due giorni dopo le astronavi erano al punto di rendez-vous, a debita distanza dal fronte con lo Stato Imperiale. La Keter e il Moloch si fronteggiavano, pronte a riprendere le ostilità al minimo passo falso. A mezza strada fra le due e un poco più in basso stazionava la Zhat Vash. Ingegneri di ambo gli equipaggi la stavano depurando dalle radiazioni e al tempo stesso ne studiavano la tecnologia. Il lavoro era complicato dal fatto che i due equipaggi si sorvegliavano a vicenda per cogliere gli indizi di un eventuale tradimento.

   Uscendo dal suo ufficio, dopo aver letto il rapporto preliminare degli ingegneri, Hod si accostò alla postazione sensori e comunicazioni. «Novità?» chiese.

   «Nessuna» disse Zafreen. «Il Moloch non ha inviato alcuna trasmissione e non rilevo vascelli in avvicinamento».

   «Ha filtrato il rumore di fondo nel subspazio?» chiese l’Elaysiana, guardandola come se non si fidasse del tutto delle sue capacità.

   «Sì, Capitano» disse l’Orioniana a denti stretti. Possibile che nessuno su quella nave la ritenesse capace? «Terry ha pensato bene di darmi i suoi suggerimenti per rilevare i segnali nascosti. Li ho seguiti tutti. Ma anche così non ho trovato niente».

   «Uhm... continui la sorveglianza» ordinò il Capitano.

   In quella si accese una spia sul quadro comandi. «Trasmissione dalla Zhat Vash, per noi e per il Moloch, solo audio» disse Zafreen.

   «Sentiamo».

   «Attenzione, qui è l’Ingegnere Capo Dib». La voce del Penumbrano aveva in sé una strana urgenza. «Raccomando di spostarci immediatamente ad almeno cinque parsec di distanza. I Romulani Imperiali sanno che siamo qui».

   «Come hanno... non importa, ce lo dirà dopo» disse Hod.

   Federali e Pacificatori si accordarono frettolosamente su un nuovo punto d’incontro. I tre vascelli si ritrovarono a dieci parsec di distanza, sempre lungo il confine.

   «Apra un canale con la Zhat Vash» ordinò il Capitano. «Signor Dib, attendo spiegazioni».

   «Se vuol salire a bordo, gliele darò di persona» si offrì il Penumbrano. «Non occorre che indossi la tuta, dato che abbiamo terminato la decontaminazione».

   «Sto arrivando» disse l’Elaysiana. «Norrin, a lei la plancia».

   «Faccia attenzione» raccomandò l’Hirogeno. «È una nave mezza Borg, e dentro ci sono dei Pacificatori. Io mi porterei il phaser».

 

   Hod non voleva apparire paranoica, ma alla fine si fece scortare da due agenti. Si teletrasportarono alle coordinate indicate da Dib, che non corrispondevano alla plancia della Zhat Vash, ma a uno dei livelli inferiori.

   Materializzata accanto all’Ingegnere Capo, il Capitano si guardò intorno. Si trovava in un ambiente colossale, interconnesso con altri tramite passerelle sospese sul vuoto. L’intrico di tubi e travi, la grafica delle interfacce e l’illuminazione verdognola ricordavano in modo impressionante i vascelli Borg. Mancavano solo le alcove di rigenerazione. Sentendo un ticchettio fitto e incessante, il Capitano sbirciò in un corridoio e vide decine di droni-ragno al lavoro.

   «Non si preoccupi, sono innocui» la rassicurò Dib.

   «Se lo dice lei... allora, cos’è successo?» chiese il Capitano.

   «Aspetti, non è la sola a essere curiosa» disse Radek, uscendo da un altro passaggio. Anche lui aveva una scorta.

   Hod s’irrigidì. Erano due anni che non s’incontravano di persona, anche se si erano fronteggiati più volte sul campo di battaglia. «Se il signor Dib ci ha fatti spostare, avrà avuto una buona ragione» disse, prendendo istintivamente le sue difese.

   «Stavo esaminando il processore centrale della Zhat Vash quando ho fatto una scoperta singolare» spiegò il Penumbrano. «Seguitemi, prego».

   Li condusse per un lungo corridoio, che non presentava svolte né incroci. In compenso c’erano ben tre porte di sicurezza, che si aprirono in successione.

   «Cos’è, la cassaforte?» ironizzò Radek.

   «È il plesso centrale» corresse Dib, ignorando l’umorismo. «L’unica parte non ridondante dell’astronave. Qui si trova il processore primario del computer, assieme a... un altro apparato».

   Sbucarono in un salone pieno di complessi strumenti, tra cui spiccava un dispositivo grossomodo conico agganciato al soffitto. Era alimentato da sei condotti, in quel momento spenti, e servito da interfacce allineate lungo le pareti. Davanti al pannello principale c’era Terry, che all’arrivo dei visitatori si voltò. «Salve, Capitano Hod» l’accolse. Non rivolse alcun saluto a Radek, che peraltro non aveva mai incontrato prima, essendosi unita all’equipaggio solo dopo la sua partenza.

   «Salve a lei. Cos’è questo dispositivo?» chiese Hod, accennando al minaccioso pezzo di tecnologia che incombeva su di loro.

   «A una prima analisi somiglia al vinculum, il congegno che si trova su tutti i vascelli Borg per unirli alla Collettività» rispose la proiezione isomorfa.

   «E a un’analisi più dettagliata?» incalzò Radek.

   Terry scambiò un’occhiata con Hod, che annuì lievemente, autorizzandola a rispondere. «La sua funzione non è molto diversa» spiegò l’IA. «Collega l’astronave a una vasta rete subspaziale».

   «La Collettività?!» si allarmò il Rigeliano.

   «No» chiarì Terry. «Io e Dib abbiamo concluso che tutte le Narada sono collegate tramite questo network. Ciò permette di coordinarsi con efficienza, scambiandosi informazioni e ordini».

   «E fa sì che ogni nave, in qualsiasi momento, sappia dove si trovano tutte le altre» aggiunse l’Ingegnere Capo.

   «Per questo ci ha fatti spostare» disse Hod, comprendendo il pericolo corso. «Ma adesso...».

   «Abbiamo disattivato il vinculum subito prima della partenza, recidendo il collegamento. Quindi gli Imperiali ignorano la nostra nuova posizione» la rassicurò Terry.

   «E pensate di riuscire a tenerlo spento?» domandò Radek. «Lo chiedo perché la tecnologia Borg tende a ripararsi».

   «Questo è il problema» convenne Dib. «D’ora in poi terremo il vinculum sotto costante osservazione. Al minimo segno d’attività dovremo disattivarlo nuovamente e poi spostarci prima che arrivino gli Imperiali».

   «Potremmo gettarlo nello spazio e poi distruggerlo» propose il Rigeliano.

   «È probabile che in quel caso i droni-ragno ne costruirebbero un altro, magari in una zona diversa della nave, dove lo scoveremmo troppo tardi» avvertì Terry.

   «No, dobbiamo approfittare della situazione» disse Hod. «Vediamo... quant’è profonda l’interconnessione tra i computer delle Narada?».

   «Si direbbe che lo sia molto» rispose Dib. «Potremmo violare i computer delle altre navi da questa».

   «E le altre potrebbero violare il nostro» avvertì Terry. «Il collegamento è una lama a doppio taglio».

   «Molto interessante!» disse Radek, che stava già macchinando dei piani. «Se giochiamo bene le nostre carte, potremo disabilitare l’intera flotta nemica. Non dico distruggerla, ma almeno metterla in stand-by. Cosa che la renderebbe vulnerabile alle armi tradizionali».

   «È possibile?» chiese Hod, osservando i suoi ufficiali. Per un attimo ci fu silenzio.

   «Il rischio è alto» rispose infine Dib. «Potremmo essere sopraffatti dalla potenza combinata degli altri computer. E anche se avessimo successo, dubito che la flotta nemica rimarrebbe bloccata più di qualche minuto. Agli Imperiali basterà riavviare i computer e i reattori per tornare a pieno regime».

   «Pochi minuti... uhm... possono bastare, se agiamo con decisione» valutò Radek. «Naturalmente bisognerà radunare una grande flotta. La vostra flotta, visto che gli Imperiali sono nel vostro spazio» si rivolse a Hod.

   «Dimentica che le Narada sono sparpagliate» disse l’Elaysiana. «Anche mobilitando la Flotta, non possiamo colpirle tutte nell’arco di pochi minuti».

   «Chi ha detto d’inseguirle una ad una?» fece Radek. «Io suggerisco di aspettare che attacchino Nuovo Romulus. È il pianeta più difeso della Repubblica, quindi le Narada dovranno radunarsi per sferrare l’attacco».

   «Per allora il resto della Repubblica sarà già caduto!» contestò Hod.

   «È inevitabile che cada» insisté Radek. «Sarà già molto se riusciremo a fermare gli Imperiali a Nuovo Romulus. Poi si potrà pensare a una controffensiva... ma è inutile guardare troppo avanti».

   «Capitano, alla loro attuale velocità d’espansione gli Imperiali saranno a Nuovo Romulus tra appena otto giorni» ricordò Terry a bassa voce. «Se attuiamo il piano di Radek, difficilmente saremo pronti prima di allora».

   Hod rimuginò per qualche secondo, sogguardando il vinculum che pendeva sopra le loro teste come una spada di Damocle. Non sapevano nemmeno se fosse possibile violare la rete subspaziale nemica, e anche riuscendoci, la finestra d’attacco era penosamente stretta. E sul piano personale, non le andava di avallare la proposta di Radek. Ma che altro potevano fare? Restare in disparte, mentre lo Stato Imperiale fagocitava la Repubblica? «D’accordo, facciamolo» decise.

   «Ero certo che avrebbe accettato» disse il Rigeliano, con un sorriso sagace. «Vedrà, sarà come ai vecchi tempi».

   «Veramente c’è un altro problema» intervenne Dib, sollevando il lungo indice. «Riguarda la nostra potenza di calcolo».

   «Si spieghi» disse Hod.

   «Quando saremo impegnati nello scontro informatico, l’esito dipenderà in buona misura dalla potenza dei computer» spiegò l’Ingegnere Capo. «E dato che noi controlliamo una sola Narada, mentre il nemico ne ha un centinaio, l’esito è scontato».

   «Non possiamo aggiungere potenza di calcolo?» chiese l’Elaysiana, guardando incerta Terry.

   «Nemmeno io posso eguagliare un centinaio di questi supercomputer» ammise l’IA a malincuore. «Ricordi che anche se di base sono romulani, li hanno potenziati con la tecnologia Borg».

   «Beh, ci sono pianeti con supercomputer potentissimi» rimuginò Radek. «Potremmo rivolgerci a loro».

   «Quali pianeti hanno risorse informatiche sufficienti?» chiese Hod.

   «Non sono molti» disse Terry. «Ci sono Aldea, Bynaus, Memory Alpha...».

   «Appartengono tutti all’Unione!» contestò il Capitano.

   «È un problema?» chiese Radek.

   «Temo proprio di sì. Non vi metterò in condizione d’impadronirvi di questa nave» disse Hod con decisione.

   «Oh, andiamo! Non vede cos’è diventata? Preferirebbe vedere la Repubblica Romulana in cenere, piuttosto che fidarsi di noi!» protestò il Rigeliano.

   «Pensi ciò che vuole, ma siamo stati noi a catturare la Zhat Vash. Ora non ve la consegneremo a domicilio» ribadì l’Elaysiana, ferma nella sua decisione. «Ci sono pianeti federali che fanno al caso nostro?» chiese poi a Terry.

   «Ehi, un momento!» insorse Radek. «Se lei non accetta di andare nell’Unione, io non tollero che si vada nella Federazione».

   «Così restano solo i mondi neutrali. Sono pochi e potrebbero negarci l’aiuto» s’impensierì Hod.

   «Allora receda dalla sua decisione» rimbeccò Radek.

   «C’è un mondo neutrale che fa al caso nostro» disse Terry. I due Capitani la guardarono, ma lei rimase in silenzio. Allora seguirono il suo sguardo e videro che fissava Dib.

   «Il Tenente Comandante allude a Penumbra, il mio mondo natale» disse l’Ingegnere Capo nel suo tono sommesso. «Poiché la mia specie è dedita a profondi studi matematici, abbiamo la potenza di calcolo necessaria a violare la rete romulana».

   «Ottimo! Rotta verso Penumbra!» disse Radek, come se fosse lui solo a dare gli ordini. «Le confesso che ho sempre desiderato vedere il suo pianeta, incontrare la sua gente...».

   «Non potrebbe incontrarli di persona. Penumbra è un mondo uranico» ricordò Dib. «Tuttavia devo oppormi alla proposta».

   «E perché?!» s’indignò il Rigeliano, preso in contropiede.

   «Allo scoppio della Guerra Civile, quando il mio popolo scelse la neutralità, i pochi Penumbrani che si trovavano lontani da casa ricevettero l’ordine di rientrare» spiegò l’Ingegnere Capo. «Io fui l’unico a disobbedire, poiché ritenevo d’essere più utile sulla Keter. Così facendo fui condannato all’esilio. Non posso tornare su Penumbra, quale che sia il motivo».

   «Beh, allora non lo faccia! Resti sulla Keter o su questa nave, senza metter piede a terra» disse Radek.

   «Non mi sono spiegato a dovere. Nessun Penumbrano accetterà più di lavorare con me, quindi non potrò partecipare al progetto» chiarì Dib.

   Hod comprese che in tal modo non c’era garanzia sulle intenzioni dei suoi simili. Se avessero modificato il piano per il loro tornaconto, nessuno se ne sarebbe accorto. Certo, i Penumbrani erano famosi per l’onestà... ma con una posta così alta, non si poteva lasciare nulla al caso.

   «Credo che Terry la possa sostituire» insisté Radek, deciso a non darsi per vinto.

   «C’è un’altra ragione per cui sconsiglio di andare a Penumbra» rivelò Dib. «Come vi ho detto, il vinculum può riattivarsi in ogni momento, permettendo al nemico di localizzarci. Finché siamo nello spazio aperto possiamo continuare a spostarci, ma una volta raggiunto un pianeta e avviato il lavoro dovremo mantenere la posizione. Ciò consentirà agli Imperiali di raggiungerci e colpirci...».

   «Quando arriveranno, saremo già lontani» sostenne Radek. «E poi, se avremo successo, le Narada saranno distrutte».

   «Potremmo non avere successo» obiettò l’Ingegnere Capo. «Ma anche se distruggessimo le Narada, per poi allontanarci, il nemico potrebbe inviare dei Falchi da Guerra a colpire il pianeta per pura rappresaglia. Io non voglio che ciò accada al mio mondo. Anche se i miei simili mi hanno bandito, non meritano di finire nel mirino dello Stato Imperiale».

   Per quanto il Penumbrano non avesse emozioni al pari dei colleghi, Hod avvertì l’attaccamento che provava per la sua gente, malgrado questa l’avesse disconosciuto. Se ne sentì stringere il cuore. Non era diverso dall’ansia che lei stessa nutriva per la sua patria, Elaysia.

   «Questo pericolo vale per qualunque pianeta sceglieremo!» sbuffò Radek. «Che sia dell’Unione, della Federazione o neutrale, c’è sempre il rischio che gli Imperiali lo facciano oggetto di rappresaglia. Possiamo selezionare il più difeso, ma a parte questo...».

   «C’è un’alternativa» intervenne Terry, che negli ultimi minuti era rimasta in silenzio, immersa nei pensieri. «Posso indicarvi un luogo che possiede la necessaria potenza di calcolo, che non si opporrà al nostro piano... e che non teme rappresaglia».

   «Davvero? Non conosco alcun pianeta che soddisfa tutti questi requisiti» si stupì Radek.

   «Nemmeno io» ammise Hod. «Di che mondo si tratta?».

   «Ho detto che è un luogo, non un pianeta» precisò Terry, con un sorriso enigmatico. «Anche se in effetti è più vasto di tutti i mondi abitati...».

   «Oh, capisco» disse Dib a bassa voce. «Ottima idea. In effetti quella megastruttura è particolarmente adatta a sostenere un assedio».

   «Volete spiegare?» chiese l’Elaysiana, che aveva perso il filo del discorso.

   «Capitano» disse Terry con voce misurata, «è mai stata nella Sfera di Dyson?».

 

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Capitolo 6
*** Androidi ***


-Capitolo 5: Androidi

 

   Coppelius era il quarto pianeta del sistema Ghulion, più piccolo della Terra ma anche più denso, e quindi con una gravità equivalente. Due lune rosse adornavano il suo cielo; la superficie era calda e assolata. Era qui che Altan Inigo Soong, figlio del leggendario Noonien Soong, aveva portato avanti il lavoro paterno creando un’intera colonia di androidi, diversi per aspetto e inclinazioni. Dal 2399 la colonia era divenuta un protettorato federale, anche se i suoi abitanti, tutti androidi di tipo Soong, vivevano appartati e intrattenevano scarsi rapporti con l’esterno. Passato indenne attraverso i conflitti, Coppelius aveva mantenuto lo status di protettorato anche sotto l’Unione, salvo dichiararsi neutrale allo scoppio della Guerra Civile. Per il momento i Pacificatori non lo avevano toccato; ma c’era da credere che lo avrebbero fatto, una volta consolidato il controllo di quel settore.

   La Stella del Polo si avvicinò occultata, in compagnia di altre tre navi corsare che facevano capo alla banda. Ora che sapeva d’essere nel mirino dell’Esecutore, infatti, lo Spettro voleva contare su una maggior potenza di fuoco. I vascelli restarono presso il satellite più lontano e scansionarono il sistema, cercando altre astronavi. Risultò che non ce n’erano. Non c’erano neppure piattaforme orbitali che proteggessero l’insediamento.

   «Non hanno difese perimetrali?» si stupì Jaylah.

   «In realtà ne hanno, ma di solito le tengono a terra» spiegò Jack. «Le chiamano Orchidee, per via della loro forma. Si aggrappano alle astronavi, le disabilitano con un campo di dispersione e poi le trascinano nell’atmosfera, bruciando con esse».

   «Strano modo di difendersi» commentò la mezza Andoriana. «Quante ne hanno?».

   «E chi lo sa? Le nascondono sottoterra. Comunque c’è da supporre che siano molte; e che le abbiano aumentate a causa della guerra» rispose l’Umano.

   «Quando i Pacificatori arriveranno, lo faranno in forze» notò Graush. «I tuoi amici synth dovrebbero sapere che non avranno scampo».

   «Infatti dubito che opporranno resistenza» convenne Jack. «Dobbiamo confidare che la situazione non gli piaccia e che quindi accettino di aiutarci. Non c’è tempo da perdere; andrò subito dal mio contatto».

   «A proposito, chi è?» chiese Jaylah, notando che ancora non gliene aveva parlato.

   Il corsaro indugiò prima di rispondere, come se cercasse le parole adatte. Per la prima volta, Jaylah ebbe l’impressione che non gli andasse di affrontare l’argomento.

   «Si chiama Sutra» disse infine Jack. «È uno dei pochi abitanti che ogni tanto se ne vanno in giro, infatti spero che non sia assente. Inoltre, uhm... è l’unica androide che abbia mai manifestato poteri telepatici» rivelò.

   Jaylah restò di stucco. «Telepatia? Ma... è impossibile. Un cervello positronico non può...».

   «Perché no? Che sia a base di neuroni e reazioni elettrochimiche, o di circuiti isolineari e flussi di positroni, è pur sempre un cervello. Quel che conta è la struttura, il modo in cui è organizzato» corresse lo Spettro. «Comunque non temere: Sutra non può leggerci nel pensiero. Il massimo a cui arriva è la Fusione Mentale vulcaniana, per la quale occorre il consenso dell’altra persona».

   «E tu l’hai mai fatto con lei?» volle sapere Jaylah, indispettita. Più cose scopriva su questa Sutra, meno le piaceva; e si chiedeva quanto esattamente lei e Jack fossero intimi. C’erano ancora troppe cose che ignorava sui primi anni da pirata del suo compagno, e questo la metteva a disagio.

   «No» rispose Jack, cercando di tranquillizzarla. «Che c’è, sei preoccupata?».

   «Ho un brutto presentimento» confermò Jaylah. «Anche se avete collaborato in passato, cerca di non fidarti troppo adesso. In questa guerra ci è già capitato d’essere traditi».

   «Ehi, non sono uno sprovveduto!» rivendicò lo Spettro. «Sarò cauto, come ti ho detto. Mi presenterò dapprima a lei, e solo se ne avrò una buona impressione lascerò che altri sappiano della mia presenza. Inoltre scenderò di notte. Anche se non dormono, gli androidi a quell’ora si ritirano nelle loro case per tenerle in ordine e per svagarsi».

   «Quindi ha il suo indirizzo» notò Jaylah, ma non volle sollevare la questione. «Cerca di non farla svagare troppo; siamo qui in missione» disse invece, e lasciò la plancia.

 

   La colonia degli androidi non era che un piccolo insediamento, sperduto in un territorio secco, anche se non propriamente desertico. Le case erano basse e ampie, così bianche da riverberare al sole. Dopo il tramonto, però, il villaggio divenne molto buio: l’illuminazione pubblica era minima, dato che agli androidi non serviva molta luce per dirigere i loro passi. Anche la temperatura crollò, com’è tipico dell’entroterra. Le strade si svuotarono in fretta; gli androidi si erano ritirati nelle loro abitazioni.

   Avvicinatosi con una navicella, lo Spettro si teletrasportò direttamente in casa di Sutra. Non era il modo più garbato di riprendere contatto, dopo la lunga assenza, ma era quello più sicuro. Il corsaro si trovò in un ampio soggiorno, arredato in stile minimalista eppure lussuoso per la scelta dei materiali. Le luci erano spente, ma dalla finestra entrava un tenue chiarore, proveniente dalle lune e dalle altre case. Una porta conduceva alla cucina, mentre una scala a vista portava al piano superiore. Una balconata interna alla casa permetteva, da lassù, di tenere d’occhio il soggiorno. Ma lo Spettro non era solo. Con lui c’era la Banshee, ovvero Jaylah, che si mantenne occultata.

   «Questi androidi si trattano bene» commentò la mezza Andoriana, notando il lusso dell’abitazione. Sembrava la casa di un Organico, più che di un synth.

   «Alcuni di loro hanno più di duecento anni. Quando hai tanto tempo a disposizione, puoi rendere la tua casa confortevole» rispose l’Umano. Parlavano tramite il canale criptato delle tute; chi si fosse trovato con loro non avrebbe udito alcun suono.

   «È come te la ricordi?» chiese Jaylah.

   «Direi di sì» rispose Jack, guardandosi attorno. «Forse ci sono più foto... sembra che Sutra sia diventata sentimentale». Si accostò a un tavolino e osservò le olografie che vi erano posate. Riconobbe alcuni volti famosi: il Capitano Picard, il dottor A. I. Soong. E c’erano due ragazze dai capelli neri che sembravano gemelle... perché erano state costruite così.

   D’un tratto le luci si accesero a giorno; le pareti chiare amplificarono l’effetto. «Guarda, guarda... sapevo che saresti tornato da me» disse una voce carezzevole, proveniente dall’alto. «Ma speravo che avresti imparato a usare il campanello».

   Jack alzò repentinamente lo sguardo. Una giovane donna era affacciata alla balaustra e lo guardava dall’alto in basso. No, si corresse: quella non era una donna, e non era neanche giovane. Era un androide vecchia di oltre due secoli. Però, accidenti, come li portava bene!

   A vederla sembrava sui vent’anni. Di corporatura minuta, aveva un viso ovale dai lineamenti squisitamente cesellati. I capelli, nerissimi e lisci, scendevano ben oltre le spalle. Indossava un abito arancione dal taglio semplice, che lasciava scoperto l’addome. Maniche e pantaloni erano lunghi e ampi, con spacchi laterali che le davano un’aria da odalisca. I sandali con un po’ di tacco ne slanciavano la figura. La si sarebbe scambiata per un’Umana molto attraente, non fosse stato per la tonalità dorata della pelle. Anche le iridi erano di un giallo-oro, che faceva risaltare le pupille.

   «Non mi serve il campanello, grazie a te» rispose lo Spettro. «La tuta che mi hai aiutato a costruire funziona egregiamente. Credo infatti che tu abbia sentito parlare delle mie attività...».

   «Se ne sentono così tante, di storie, che è difficile scegliere a quali credere. Per alcuni sei un eroe senza macchia, per altri un volgare ladro, per altri ancora un terrorista. Suppongo che la verità stia nel mezzo» disse Sutra, increspando le labbra in una smorfia. «Sai, quando ti ho aiutato, non immaginavo cosa stavo creando».

   «Ma in seguito hai avuto il buonsenso di non divulgare il tuo ruolo nella mia ascesa» notò il corsaro.

   «Certo; non vogliamo problemi con la legge» rispose l’androide, parlando evidentemente a nome della comunità. Scese la scala con aria indolente e un po’ maliziosa, ma i suoi occhi gialli non persero di vista lo Spettro. L’abito leggero le ondeggiò attorno, lasciando intravedere le belle forme.

   «Sutra, eh?» fece Jaylah, sempre sul canale interno delle tute. «Sicuro che il suo nome completo non sia Kama Sutra?!».

   «Non ora, ti prego!» fece Jack, sempre sulla linea criptata. Poi riattivò il microfono per far udire la sua voce. «È proprio per non darvi noie che non sono più tornato. Pensavo che fosse la cosa migliore per tutti. Comunque mi sono tenuto informato su di voi. Se foste stati in pericolo, avrei fatto il possibile per sdebitarmi».

   «Ed è questo che alla fine ti ha riportato qui? Siamo in pericolo?» chiese la brunetta, fermandosi davanti a lui. Lo fissò da sotto le lunghe ciglia, anche se non poteva vederlo in volto, per via del casco.

   «Lo siete da quand’è scoppiata la Guerra Civile; non serve che te lo dica io» rispose lo Spettro. «Vi siete dichiarati neutrali e per il momento i Pacificatori v’ignorano, essendo presi da altre faccende. Ma ormai i sistemi vicini sono caduti in mano loro. Significa che presto verranno qui, esigendo la vostra fedeltà. A quel punto che farete?».

   «Che possiamo fare, se non arrenderci? Non abbiamo una flotta e comunque siamo programmati per aborrire la violenza» rispose l’androide.

   «Diciamo piuttosto per usarla come ultima risorsa; tu stessa te ne sei servita, a volte» insinuò Jack.

   «Acqua passata. I miei fratelli e sorelle mi hanno perdonata, ed io non rifarò certi errori» affermò Sutra. Ma quell’accenno al suo ambiguo passato l’aveva innervosita. «Allora è solo per questo che sei tornato? Se ti avessi detto che affronteremo i Pacificatori, ci avresti aiutati?» chiese, scostandosi di qualche passo.

   «No, avrei cercato di dissuadervi» rispose il corsaro. «Non ho forze sufficienti a proteggervi; al limite potrei trasferirvi altrove. Ma ho la sensazione che non lascerete questo pianeta».

   «Certo che no; è casa nostra» confermò l’androide. «I Terrestri non hanno lasciato volentieri il loro mondo, ti pare? E voi state combattendo una guerra pur di restituirglielo. Ma sento che mi nascondi qualcosa. Sono cinica se penso che ti serve ancora il mio aiuto?».

   «No, sei solo logica» disse l’Umano. «Ma stavolta non farò giochetti, mia cara. Ti dirò chiaro e tondo come stanno le cose, e lascerò che sia tu a decidere se vuoi ancora collaborare».

   «Ti ascolto» disse Sutra, fissando fuori dalla finestra l’insediamento avvolto dalle tenebre. Jack vide riflesso sul vetro il suo viso assorto.

   Il corsaro espose il suo problema, chiarendo che non era stato lui ad assalire i trasporti e a rapire i Terrestri. Parlò dell’Esecutore e descrisse il loro scontro, ma come concordato si astenne dal menzionare Jaylah. «Ora sai perché sono qui» concluse. «O l’Esecutore è uno di voi, oppure è stato costruito con la vostra tecnologia. Nessuna delle due eventualità mi piace. Non sarà che vi siete comprati l’indipendenza, mettendo a disposizione dei Pacificatori quella macchina per uccidere?».

   «Come osi?! Nessuno di noi agirebbe così!» insorse l’androide, girandosi di scatto.

   «L’Esecutore mi chiamava “vecchio mio” e si comportava come se tra noi ci fosse un conto in sospeso» spiegò lo Spettro. «Anche se l’ultima volta che sono stato qui me ne andai di fretta, speravo di non essermi lasciato dietro tanto astio...».

   «Nessuno qui ti vuole morto, credimi. Neppure io» dichiarò Sutra, con un mezzo sorriso. «E nessuno si è unito ai Pacificatori. Però, vedi, le nostre specifiche non sono più segrete da tempo. L’Unione sa perfettamente come costruire androidi simili a noi. Del resto, da quel che mi hai detto, hai potuto esaminare solo un braccio dell’Esecutore. È poco per stabilire fin dove arrivano le somiglianze. Quel che conta è il cervello positronico, lo sai bene».

   «Quello sarà difficile da ottenere» disse Jack. «Quindi mi occorre un’idea più precisa di cosa sto affrontando e se possibile un asso nella manica per il prossimo scontro».

   «Vuoi che ti aiutiamo a distruggerlo» comprese Sutra. «Significherebbe infrangere la nostra neutralità».

   «Neutralità che, come hai ammesso, non può durare» ribatté il corsaro. «Presto i Pacificatori saranno qui...».

   «... e tu vuoi il nostro aiuto prima di allora. Se ciò trapelasse, finiremmo in un mare di guai».

   «Per questo sono venuto da solo, nel cuore della notte, senza farmi vedere dagli altri. È il tuo parere che voglio. Se credi che vi stia mettendo in pericolo me ne andrò e nessuno salvo te saprà mai che sono passato».

   «Che animo nobile!» ghignò l’androide. «Ci sei davvero tu, sotto quel casco? Sì, credo che sia tu. Ma non me la racconti giusta: non sei venuto da solo» disse, guardandosi attorno come una tigre che ha fiutato la pista.

   Lo Spettro ebbe un fremito, e uno ancora maggiore lo ebbe la Banshee. Fino a quel momento Jaylah si era impegnata a celare i suoi pensieri, e con essi la sua presenza. Essendo una telepate, però, era come un faro per chiunque altro avesse facoltà analoghe. Come quell’androide molto sui generis.

   «Ti sbagli» disse il corsaro.

   «Non mentirmi!» esclamò Sutra, alzando l’indice affusolato. «Amami, odiami, sfrutta le mie abilità... ma non raccontarmi balle. C’è un’altra persona, proprio in questa stanza. Deve avere una tuta simile alla tua. E so con chi ti accompagni di questi tempi. La chiamano Banshee e ormai è famosa quanto te. Allora, non vuoi presentarmela? Ehi, Banshee, dico a te! Fatti vedere!» esclamò, con le mani alla bocca per fare da megafono.

   Dall’angolo in cui si trovava, Jaylah sfrigolò di rabbia: contro di sé per non essere riuscita a celarsi, contro Jack per averla messa in quella situazione e soprattutto contro quella squinzia meccanica che li conosceva fin troppo bene. Ma non poteva lasciarla urlare o avrebbe allertato tutto il vicinato, e addio segretezza. Così si fece avanti e disattivò l’occultamento, manifestandosi nel suo minaccioso aspetto da corsara. «Grida un po’ più forte e non ci vedrai più, nessuno di noi» avvertì.

   «Ah, sapevo che eri qui!» fece Sutra, con un sorriso smagliante. «Jack ti avrà detto che ho un sesto senso».

   «Me ne ha accennato» grugnì la Banshee. «Sai, lui mi dice tutto. Mi ha parlato persino di te».

   «Solo cose belle, spero... ma che capolavoro! La tua tuta, intendo» disse l’androide, girandole attorno per osservarla da tutte le angolazioni. «Nano-polimeri per accrescere l’agilità e diminuire il peso. Phaser integrato nel bracciale. E naturalmente la griglia fonica per lanciare il tuo famoso grido. È troppo chiedere di sentirlo?» domandò in tono innocente.

   «Se ci tieni a informare tutta la città della nostra presenza, devo presumere che tu abbia già deciso di aiutarci. E che ti faccia garante per i tuoi simili» disse Jaylah.

   «Non è ancora il momento» disse Sutra, accantonando la curiosità. «Ma davvero, Jack, questo è il tuo capolavoro. Hai fatto passi da gigante, anche senza il mio aiuto. Però potevi tornare prima. Sigh, i giorni di Risa sono lontani...» sospirò, in tono di rimpianto. Si lasciò ondeggiare lievemente, come al ricordo di una brezza.

   «Risa?! Che ci facevate là?!» chiese Jaylah, tornando al canale criptato.

   «Ne parliamo dopo» rispose Jack, dimenticando di fare lo stesso. La sua voce fu udita da Sutra, che sorrise, intuendo la battuta mancante.

   «Parlerete di cosa? Di quel che c’è stato fra noi?» infierì la brunetta. «Non serve. Il nostro rapporto fu professionale, come sono certa che sia ora il vostro. È un vero lupo dello Spazio, il nostro caro Jack. Andiamo, mostrami la faccia. Tanto la conosco!».

   Imbarazzato ma ormai rassegnato, lo Spettro ritirò il casco, scoprendo il volto. «Contenta?» borbottò.

   «Oh, ancora quel naso rotto! Perché non te lo fai accomodare?» chiese Sutra.

   «Sono un corsaro, non un fotomodello» fu la laconica risposta.

   «Se preferisci così! E tu cara, che aspetti a toglierti il casco? Dopotutto sei tra amici...».

   «Lo sono?» chiese la corsara. «Eppure non hai ancora detto se intendi aiutarci. Se la risposta è no, stiamo solo perdendo tempo».

   «Che caratterino! Si vede che te le scegli bene» fece la brunetta, lanciando un’occhiata complice a Jack. Dopo di che si rivolse di nuovo a Jaylah. «Se è questo che ti preoccupa, cara, sappi che sono a vostra completa disposizione. Ti basta?».

   «No. Voglio anche sapere come la prenderanno i tuoi simili» rispose l’interpellata.

   «Non posso garantire per ogni singolo abitante, capiscimi» disse l’androide. «Ma sono certa che gli esperti dell’Istituto di Robotica saranno con noi. Possiamo contare sulla loro discrezione. Quanto agli altri, non occorre che sappiano. Allora, vi pare accettabile?» chiese, passando lo sguardo dall’uno all’altra.

   «Direi di sì» rispose Jack, stringendole la mano. Al di là degli screzi e delle frecciatine, non poteva sperare di meglio.

   «Sì, finché voi synth vi atterrete al patto» precisò Jaylah, indugiando a fare lo stesso.

   «Sintetici, che brutta espressione!» fremette Sutra. «Io non credo che esistano persone vere e finte. Penso piuttosto che ci siano i saggi e gli stolti».

   «Allora sarete saggi a rispettare l’accordo» disse la Banshee, ostinandosi a celare la propria identità. Lei e Sutra si strinsero appena le estremità delle dita, e solo per un attimo.

 

   I giorni su Coppelius furono pochi, ma intensi. Sutra tenne fede alla parola, mettendo a disposizione dei corsari l’Istituto di Robotica. Era un’installazione della massima importanza, se si considera che per gli abitanti era l’equivalente di un ospedale. Lì gli androidi si recavano per essere riparati se subivano danni o se qualche parte del loro corpo si logorava. Ed era solo grazie all’Istituto che potevano accrescere le loro file. Lì infatti costruivano altri esemplari, personalizzando i loro tratti somatici e dandogli una programmazione base, cui subentrava l’istruzione. Ma il loro lavoro non era una mera ripetizione di quello del dottor Soong: gli androidi facevano costantemente ricerca, per migliorarsi sia nell’hardware che nel software. Gli ultimi modelli erano assai più avanzati di Data, o della stessa Sutra, vecchia ormai di due secoli.

   Poiché nell’Istituto lavoravano in molti, la presenza dei corsari non poté essere nascosta. Ma come promesso da Sutra, i ricercatori s’impegnarono a mantenere il riserbo. Del resto, quasi tutti avevano conosciuto Jack all’epoca della sua prima visita e non se l’erano certo scordato. Risultò che l’Umano era ancora gradito, soprattutto per le gesta in favore della Federazione. Anche la Banshee fu accolta senza troppe domande, sebbene a differenza di Jack celasse ancora la propria identità. Le poche volte che fu pregata di rivelarsi, Jaylah si oppose tenacemente. Non voleva che il suo segreto restasse impresso nei cervelli positronici di quegli androidi.

   Vedendo che Sutra aveva tanta voce in capitolo tra i suoi simili, la mezza Andoriana si chiese quale ruolo ricoprisse nella comunità. Era strano, ma nessuno glielo aveva ancora detto. La cosa più ovvia era domandarlo a Jack, ma scoprì che le riusciva difficile toccare l’argomento. Jack era sempre stato reticente a parlarle di Sutra e lei ne indovinava il motivo. Qualcosa tra loro doveva essere successo. Jaylah aveva sempre saputo che il suo compagno aveva avuto parecchie amanti, prima di legarsi a lei. Era comprensibile e non poteva, né voleva fargliene una colpa. Ma aveva sempre sperato, ingenuamente, di non doverle incontrare. Ora invece si trovava a lavorare gomito a gomito con una di loro, e poteva solo augurarsi che tra i due non ci fosse un ritorno di fiamma. Il fatto d’indossare sempre la tuta da Banshee, mentre la rivale appariva decisamente più invitante, peggiorava le cose.

   Fu così che Jaylah si rivolse ad altri androidi per avere delucidazioni sul conto di Sutra. Quel che scoprì non fece che accrescere i suoi timori. Le testimonianze erano parziali e a tratti contraddittorie, cosa strana per gli androidi. Poco alla volta, però, la mezza Andoriana si fece un quadro della situazione. Sutra era uno dei primi modelli creati su Coppelius. In origine aveva alcune “gemelle” identiche, o che differivano per pochissimi tratti, ma nel tempo queste erano scomparse, finché era rimasta solo lei. In passato aveva compiuto azioni riprovevoli, arrivando persino a uccidere nel tentativo di scacciare i federali dal pianeta. I dettagli, però, Jaylah non riuscì a scoprirli. Disattivata e riattivata più volte, anche a distanza di tempo, alla fine Sutra era stata perdonata. Con la sua abilità d’intrallazzatrice aveva reso dei servigi alla colonia, contribuendo a mantenerla indipendente. Era uno dei pochi androidi che viaggiava, spesso portando cose utili al ritorno. Ed era l’unica che avesse mai manifestato capacità telepatiche; cosa d’estremo interesse per i suoi simili, che non avevano accantonato l’idea di fabbricare altri esemplari così. Per tutti questi motivi, Sutra era tornata ad avere un peso considerevole nelle decisioni della comunità, pur non ricoprendo alcuna carica pubblica.

   Saputo questo, Jaylah si promise di sorvegliare attentamente la loro alleata. Tornata all’Istituto di Robotica, la trovò che stava esaminando il braccio dell’Esecutore, assieme ai tecnici. Con loro c’era anche Jack.

   «Confermiamo la vostra valutazione» disse un androide calvo. «Questo braccio presenta evidenti analogie con i nostri, salvo alcune modifiche che lo rendono più resistente, dunque più adatto agli scontri. Ma ciò non dimostra alcunché. I progetti del nostro hardware sono pubblici da tempo. La Flotta Stellare e in seguito i Pacificatori hanno costruito androidi per usarli in luoghi a rischio come miniere, cantieri spaziali e carceri».

   «Sì, ne abbiamo visti a Elba II e in altre prigioni» confermò la Banshee.

   «Vede allora che l’Esecutore non è diverso da loro» disse il tecnico.

   «Al tempo!» si oppose lo Spettro. «Quell’essere è diverso da ogni altro androide che abbia mai incontrato. Intanto ha un macabro senso dell’umorismo...».

   «Molti di noi padroneggiano l’umorismo; non è così insolito» commentò Sutra.

   «Sì, ma lui si comportava proprio come un Organico, con sbalzi d’umore...».

   «... cosa fattibile da qualunque androide dotato di chip emozionale. Andiamo, ci conosci così poco?».

   «Mi basta sapere se i Pacificatori o i tecnici dell’Unione sono stati qui di recente» disse Jack.

   Gli androidi si scambiarono qualche occhiata. Sutra annuì lievemente, istigando quello calvo a parlare. «Nei primi mesi dopo lo scoppio della guerra, alcuni roboticisti dell’Unione ci hanno fatto visita» rivelò il tecnico. «Volevano aggiornamenti sul nostro hardware. Non avevamo molto da dargli, tuttavia condividemmo quelle poche innovazioni, in cambio della promessa di rispettare la nostra sovranità. Si trattò peraltro di un accordo meramente verbale, che a ben vedere i roboticisti non avevano l’autorità di pattuire; ma non c’erano ambasciatori con loro. L’ultima visita fu in Data Stellare 2591.109; dopo di allora non siamo più stati visitati da esponenti dell’Unione».

   «Uhm... avete detto che vollero solo gli aggiornamenti meccanici. Siete certi che non abbiano preso i software?» chiese lo Spettro.

   «Al 100%» garantì il tecnico. «Ma vorrei ricordarle che l’Unione possiede centri di ricerca robotica avanzati quanto il nostro. Se ai Pacificatori occorreva un nuovo modello per darle la caccia, erano perfettamente in grado di progettarlo e costruirlo».

 

   La discussione languì, perdendosi nei dettagli tecnici, finché i corsari lasciarono l’Istituto. Ci sarebbero tornati il giorno dopo, per discutere di come neutralizzare l’Esecutore. Jaylah voleva tornare sulla Stella, ma Sutra insistette perché venissero a casa sua. Jack accettò e la compagna, che non voleva perderlo di vista, fu costretta a seguirlo.

   «Mettetevi comodi; se avete sete vi porto qualcosa» si offrì la brunetta quando furono dentro. «Dico anche a te, cara: sei certa di non volerti levare almeno il casco?».

   «Più che certa» rispose la mezza Andoriana.

   «Beh, se cambi idea, fammelo sapere» disse l’androide. «Se resterai nei prossimi giorni, posso prestarti qualche capo d’abbigliamento. Abbiamo la stessa taglia» valutò.

   «Grazie dell’offerta, ma credo che fra poco tornerò... torneremo sulla Stella» si corresse Jaylah, guardando Jack.

   Il corsaro aveva accettato la birra che la padrona di casa gli offriva. La sorseggiò distrattamente, seduto al tavolo. «In effetti farei meglio a non trattenermi» disse.

   Sotto il casco da Banshee, Jaylah sorrise soddisfatta.

   «L’Esecutore è ancora là fuori a darmi la caccia. Se mi seguisse fin qui, non vorrei metterti in pericolo» spiegò Jack tra un sorso e l’altro. Il sorriso di Jaylah si spense.

   «Oh, non darti pena per questo. Abbiamo le nostre difese» disse Sutra, sedendogli accanto. «E poi ci sono tante cose che vorrei mostrarti, finché sei qui. La tua vecchia overbike, ad esempio».

   A queste parole l’Umano rialzò immediatamente la testa. «Ce l’hai ancora?!» si emozionò.

   «Ma certo. Me l’hai affidata, quindi me ne sono presa cura» sorrise l’androide. «È in garage, tirata a lucido e perfettamente funzionante. Ogni tanto ci faccio un giro, anche se non abbiamo molte strade fuori dall’abitato. Vuoi vederla?».

   «Accidenti, sì!» fece Jack, scattando in piedi. «Temevo che l’avessi venduta, o rottamata per ripicca».

   «Non potrei mai farti soffrire così...» sussurrò l’androide, con un sorriso seducente.

   «Ehm, di quale overbike state parlando?» chiese Jaylah, indispettita da questo nuovo elemento di complicità fra i due.

   «Quella che avevo ai tempi dell’Accademia» spiegò Jack, tutto infervorato. «Un modello THX che avevo personalmente migliorato. Quando presi servizio nella Flotta dovetti lasciarla a casa. Ma dopo l’evasione, quando tornai a prendere i piani dell’Occultamento Sfasato, me la ripresi. All’epoca però eravamo ancora sulla nave-prigione catturata... non era adatta a tenerci la moto, anche perché non mi fidavo granché della ciurma. Così la lasciai qui. Su, fammela vedere!» si rivolse a Sutra.

   «Volentieri» sorrise lei, lasciando la sedia di vimini. Lo precedette con passo leggero in garage, dove la vecchia moto levitante faceva ancora la sua figura. Il telaio era nero, con dettagli in argento; dietro al pilota c’era posto per un passeggero.

   «Ammira!» si gloriò Jack, rivolto a Jaylah. «Classe 2568, con un sistema inerziale di tipo XVIII per i dislivelli e un’accelerazione da 0 a 300 km/h in cinque secondi».

   «Wow» fece la mezza Andoriana. Non si era mai appassionata alle overbike e del resto il corsaro non gliene aveva mai parlato, ma era evidente che ci teneva come alla luce dei suoi occhi. Ecco un’altra cosa che Sutra sapeva, e che lei apprendeva in ritardo.

   «Sai, tre anni fa si sono guastati i freni» rivelò l’androide. «È successo all’improvviso, mentre guidavo... quasi mi schiantavo contro un muro».

   «Davvero?! Mi spiace. Li hai accomodati?» s’interessò Jack.

   «Non è stato facile; ormai sono fuori commercio» spiegò Sutra, lieta di vederlo pendere dalle sue labbra. «Ho dovuto scansionarli e riprogrammare il replicatore perché me ne facesse di nuovi. Poi ho smontato mezza carrozzeria per sistemarli. Non capisco perché li abbiano messi così in fondo...».

   «Dipende dal fatto che rispetto al modello precedente hanno ristretto il telaio, per farlo più aerodinamico, e hanno spostato in avanti il generatore antigravitazionale» spiegò l’Umano. Lui e l’androide presero a parlare fittamente dell’overbike, mettendola a confronto con i modelli più recenti. Ogni tanto Jack vi girava attorno, per ammirarla da tutti i lati, e si complimentava per com’era ben tenuta.

   Qualche metro più in là, Jaylah cominciò a sentirsi fuori posto. Non se ne intendeva abbastanza per partecipare alla conversazione e comunque non le andava di contendersi l’attenzione di Jack. Non era nella sua indole. «Ehm, io torno sulla Stella» disse, dopo essersi schiarita la voce.

   «Eh? Sì, sì, ti raggiungo fra poco» disse il corsaro, distraendosi solo un momento. L’attimo dopo era di nuovo intento a confabulare. Volle persino accendere l’overbike, non per mettersi alla guida, ma solo per sentire il ronzio del motore e giudicare se era in regola.

   «Sigh» fece la Banshee, svanendo nel teletrasporto. Una volta lasciato quel pianeta con la sua maliarda, avrebbe fatto a Jack un discorsetto. Magari poteva convincerlo a prendersi l’overbike a bordo, ora che aveva una nave più grande. Così avrebbe avuto un motivo in meno per tornare a Coppelius. E poi non le sarebbe dispiaciuto fare un giretto in moto con Jack su qualche bel pianeta, o al limite sul ponte ologrammi. L’importante era che fossero soli.

 

   Il giorno dopo Jack e Jaylah erano di nuovo nell’Istituto di Robotica, a consultarsi con gli androidi sul modo migliore per neutralizzare l’Esecutore. Ne discussero nella stessa sala del giorno prima, un grande laboratorio con un finestrone polarizzato che attenuava la luce solare.

   «Inutile girarci attorno; so che c’è un modo per disattivare gli androidi a distanza» disse lo Spettro. «Sarebbe l’ideale contro l’Esecutore. Forse non vi va di darmi quel congegno, ma avete la mia parola che lo userò solo contro di lui e ve lo renderò a missione compiuta».

   Gli androidi si scambiarono delle occhiate, riflettendo sulle parole dell’ospite. «Il dispositivo che cerca si chiama elettro-chiarificatore» disse quello calvo, di nome Nous. «Fu ideato da Altan Inigo Soong come strumento di controllo, dopo che suo padre Noonien fu assassinato dall’androide Lore. Come può immaginare, il suo uso è strettamente regolamentato. È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo dovuto usarlo».

   «È passato molto dall’ultima volta che c’è stato un androide assassino in circolazione» puntualizzò Jack. «Credo che quell’essere sia una minaccia anche per voi. Se lo tolgo dalla circolazione, vi farò un favore».

   «Sempre che l’Unione non riconosca che lei lo ha sconfitto grazie al nostro aiuto. In tal caso intraprenderebbe azioni punitive contro di noi, e questo non possiamo permetterlo» disse Nous.

   «Farò sì che l’Unione non sappia com’è stato sconfitto l’Esecutore. Dopo averlo disattivato, lo ridurrò in atomi» promise il corsaro.

   «Il suo intento è lodevole, ma potrebbe fallire» obiettò l’androide calvo. «Da quanto ci ha detto, l’Esecutore è scaltro e pieno di risorse. Se sopravvivesse all’elettro-chiarificatore, potrebbe dedurre che ve lo abbiamo dato noi e scatenare ritorsioni».

   «Che raggio d’azione ha quel dispositivo?» chiese Jaylah.

   «Dipende dalle dimensioni del modello» rispose Nous. «Al momento ne abbiamo solo di portatili, il cui raggio è limitato a quindici metri. Ma c’è un altro fattore decisivo: la schermatura». Così dicendo si avvicinò al sostegno su cui giaceva ancora il braccio mozzato dell’Esecutore. Ne sfiorò la liscia corazza, soffermandosi sull’orlo, là dove il campo di forza l’aveva tagliata di netto. «Questa è una lega di duritanio, molto resistente alle radiazioni. Anche se abbiamo solo il braccio da analizzare, è logico supporre che il resto dell’armatura abbia la stessa composizione» disse.

   «Quanto sarà ridotto il raggio del chiarificatore?» chiese lo Spettro.

   «Cinque metri. Meno, se il cranio dell’Esecutore avesse una corazza più spessa o ulteriori schermature» rispose l’androide.

   «Frell! A quella distanza, tanto vale usare la vibro-lama» imprecò Jack.

   «Glielo sconsiglio. La sua armatura resisterebbe ai colpi» disse Nous, senza cogliere il sarcasmo.

   L’Umano sentì riaffiorare una preoccupazione latente. Se un androide sofisticato come quello non afferrava una battuta, come mai l’Esecutore ci riusciva così facilmente?

   «Avete detto che la potenza del chiarificatore dipende dalla sua stazza. Non potete fabbricarne una versione sovradimensionata?» chiese Jaylah.

   «Penso che sia fattibile» fu la risposta. «Ma questa decisione dovrebbe essere votata dalla comunità».

   «Il che vorrebbe dire rivelarci a tutti: proprio quello che vorrei evitare» disse lo Spettro, scornato.

   «Almeno dateci la versione attuale» esortò la mezza Andoriana. «Anche se ha dei limiti, resta uno strumento in più contro... l’Esecutore!». L’ultima parola fu urlata, mentre la corsara scattava in avanti, urtando Jack. Così facendo lo mise fuori tiro; ma il raggio phaser gli sfiorò i capelli, lasciando una striscia bruciata.

   Lo Spettro comprese all’istante il pericolo. Attivò il casco della tuta e si sfasò, così che il colpo successivo lo attraversò senza nuocergli. «Tu!» ansimò, voltandosi.

   «Io, sì! Te l’avevo detto che sarei stato la tua ombra» disse l’Esecutore, facendosi avanti. Aveva un braccio nuovo, identico a quello perduto. Balzò sopra una consolle, che li divideva, e sparò a Nous, vaporizzandogli la testa. Il corpo dell’androide cadde all’indietro con un clangore. «Avrei dovuto aggiungere che ucciderò chiunque ti accompagni» proseguì il sicario.

   Squillarono gli allarmi, mentre il laboratorio diveniva teatro di una feroce sparatoria. Lo Spettro e la Banshee scambiavano colpi con l’Esecutore, passando continuamente da solidi a sfasati. Cercavano di colpire l’avversario nei brevi attimi in cui era tangibile e lui faceva lo stesso con loro. Nessuno però riusciva a mettere a segno un colpo; così i raggi phaser attraversavano i corpi intangibili, devastando la sala. Alcuni congegni esplosero, altri andarono in corto circuito. Colpita in più punti, la grande vetrata polarizzata andò in pezzi, lasciando entrare la luce abbagliante. Gli androidi che circolavano all’esterno videro il danno, oltre a udire la sparatoria, e si misero in allarme.

   Poiché lo scontro si trascinava, l’Esecutore bersagliò anche gli androidi. Ne distrusse altri due, colpendoli alla schiena mentre cercavano di fuggire. Poi prese di mira Sutra, che era disarmata come gli altri. L’androide dorata reagì con riflessi sovrumani. Si rotolò a terra, sfuggendo appena al colpo, e si nascose dietro la capsula in cui erano assemblati i nuovi androidi.

   «Stai bene?» le chiese lo Spettro, sparando a raffica.

   «Sì» confermò Sutra. «Dobbiamo dividerci. Cercate di trattenerlo, mentre io prendo il chiarificatore».

   «Sarebbe più semplice se mi lasciaste finire il lavoro» disse il sicario. «Così me ne andrei e voi tornereste in pace. Ma finché aiutate i corsari, siete nemici dell’Unione. Dimmi, quanti dei vostri siete pronti a sacrificare per loro?».

   Sutra non rispose, ma guardò incerta Jack. Il corpo inerte di Nous giaceva tra loro, a testimoniare il prezzo che gli androidi avevano già iniziato a pagare.

   «Spettro a Stella, emergenza! Riprendete me e la Banshee» ordinò Jack, sperando d’indurre l’Esecutore a lasciare Coppelius.

   «Impossibile, capo» gli rispose Graush. «L’Hydra ci ha attaccati. Dobbiamo tenere su gli scudi finché non ce ne sbarazziamo. Cercate di resistere».

   «D’accordo, a dopo» disse lo Spettro, sempre più preoccupato. Almeno stavolta la Stella aveva tre navi scorta ad aiutarla.

   In quella si udirono le sirene d’allarme anche fuori dall’edificio. Le autorità avevano rilevato la battaglia in corso e stavano prendendo contromisure. «Attenzione, siamo sotto attacco da parte di un vascello sconosciuto. I cittadini devono recarsi nei rifugi, mentre le Orchidee provvederanno a neutralizzare il nemico» disse una calma voce d’androide.

   Gli abitanti obbedirono con la prontezza e l’ordine derivanti dalla loro natura robotica. Non ci furono fughe precipitose, resse o calpestamenti. Tutti si recarono ai rifugi assegnati, senza intralciarsi, in un silenzio surreale. Non si sarebbe neanche detto che erano in pericolo, se non fosse stato per il passo più svelto del solito. In breve le strade e la piazza si svuotarono, dando all’insediamento l’aspetto di una città fantasma.

   Anche nel laboratorio semidistrutto era calato il silenzio. Jack, Jaylah e Sutra si erano nascosti dietro ai macchinari. «Dov’è l’Esecutore?» chiese l’androide, arrischiandosi a dare un’occhiata.

   «Occultato» disse lo Spettro. «Non muoverti». Andò in avanscoperta, occultandosi a sua volta. Il laboratorio era diviso tra una metà così illuminata da riverberare in modo abbagliante e un’altra immersa nel buio. Gli strumenti colpiti sfrigolavano o emanavano fumo. Il corsaro esaminò ogni angolo, senza trovare il suo avversario. Sapeva che, se il loro occultamento fosse stato sintonizzato sulla stessa frequenza, lui e l’Esecutore avrebbero potuto vedersi e persino toccarsi; ma le probabilità che ciò accadesse erano infinitesimali.

   Accorgendosi che la ricerca era infruttuosa, Jack tornò indietro. Non temeva molto per Jaylah, a sua volta sfasata, ma per Sutra, che era indifesa e disarmata. E infatti la trovò sotto il tiro dell’Esecutore, che le era apparso alle spalle. L’androide se n’era accorta, ma non poteva far altro che stare immobile, nella sua posizione accucciata.

   «Jack, vecchio mio... perché vuoi rendere le cose difficili?» chiese il sicario. «Lo sai che ovunque tu vada, io ti farò il vuoto attorno. L’unico modo che hai per fermare la scia di sangue è consegnarti».

   In quella la Banshee gli apparve dietro. Sparò con il phaser incorporato nel bracciale e al tempo stesso lanciò il suo famigerato urlo ultrasonico. Nessuno dei due attacchi andò a buon fine. L’Esecutore schivò il phaser con uno scarto fulmineo e le venne contro, per nulla ostacolato dagli ultrasuoni. Le afferrò il braccio armato e glielo piegò inesorabilmente verso la testa. Jaylah non poteva occultarsi finché il phaser era estroflesso dal bracciale, e la mano dell’Esecutore era in posizione tale che non riusciva a farlo rientrare.

   «No!» gridò lo Spettro. Non osando sparare mentre Jaylah e l’Esecutore erano avvinghiati, gli si avventò contro e cercò di strapparlo da lei. Lottarono per qualche attimo, ma l’Esecutore era in vantaggio, pur essendo solo contro due. Afferrò il corsaro per la gola, sollevandolo da terra, e lo scaraventò contro la finestra. Il vetro, già parzialmente in frantumi, si ruppe del tutto quando Jack volò fuori.

   Fortunatamente il laboratorio si trovava al primo piano dell’edificio, affacciato su una piazza con fontana. Lo Spettro si rigirò mentre cadeva e atterrò in piedi, flettendo le ginocchia per assorbire la violenza dell’impatto. Alzò gli occhi alla finestra infranta, da cui venivano grida e schianti, ma la sua attenzione fu richiamata da ciò che gli accadeva intorno.

   Stavolta l’Esecutore non era giunto solo. Con lui c’erano degli agenti che, pur non avendo le insegne dei Pacificatori, avevano tute occultanti simili alle loro. Queste però erano prive di Sfasamento, come Jack scoprì subito, sparando a un avversario che si era appena occultato. Colpito in pieno, l’agente tornò visibile: aveva un foro in mezzo al petto. Cadde all’indietro e restò inerte. Lo Spettro gli si avvicinò per osservare la ferita, visibile attraverso lo squarcio nella tuta. Come sospettava non c’era sangue: solo circuiti sfrigolanti. Quegli agenti erano androidi e ciò corroborava l’ipotesi che anche l’Esecutore lo fosse.

   Vedendo che cinque nemici convergevano su di lui, il corsaro si guardò attorno in cerca di una via di fuga, o almeno di un modo per pareggiare le forze. Notò che la fontana aveva una vasca rettangolare molto ampia e bassa: l’acqua arrivava poco sopra le caviglie. Colto dall’ispirazione vi corse dentro, occultandosi nel momento in cui saltava oltre l’orlo.

   Gli androidi lo imitarono, entrando da più direzioni per circondarlo, ma loro non avevano lo Sfasamento. Anche se occultati, la loro presenza era rivelata dalle impronte nell’acqua e dagli spruzzi che sollevavano ad ogni passo. Lo scontro riprese, a tutto favore dello Spettro. Presto la vasca si cosparse di androidi distrutti o semidistrutti. Questi ultimi sussultavano e ripetevano all’infinito i loro ordini: terminare i corsari. Solo quando i loro cervelli positronici erano completamente demoliti la macabra litania cessava. Ma pur avendo il sopravvento, Jack era divorato dall’angoscia, sapendo di aver lasciato Jaylah e Sutra in compagnia dell’Esecutore.

 

   Approfittando della breve distrazione del nemico, che aveva defenestrato lo Spettro, la Banshee riuscì a divincolarsi e a ritrarre il phaser nel bracciale. L’Esecutore reagì sparandole nello stomaco, ma era troppo tardi: la corsara si era nuovamente sfasata. Allora il sicario si rivolse a Sutra, ma vide che anche lei era fuggita, approfittando della loro lotta. Fece appena in tempo a vedere la porta del laboratorio che si richiudeva dietro all’androide.

   «Scappate pure; renderà la caccia più eccitante» disse ad alta voce, sapendo che la Banshee era ancora vicina. «Nel frattempo i vostri complici moriranno a causa vostra. Presto tutti vi odieranno... non avrete più rifugi. Alla fine verrete a cercarmi, implorandomi di darvi il colpo di grazia!».

   La minaccia non ebbe risposta. L’Esecutore attese ancora un poco, sperando che la Banshee si rivelasse per reagire alla provocazione. Quando capì che non l’avrebbe fatto, anzi con ogni probabilità se n’era andata, il sicario si sfasò e andò in cerca dei suoi nemici.

 

   In quel momento, più addentro nell’Istituto, Sutra correva con tutta la rapidità delle sue gambe meccaniche. Raggiunse un armadietto della Sicurezza e passò l’occhio davanti al sensore, provocandone l’apertura. Davanti a lei c’erano phaser manuali e altri in formato fucile, disposti in bell’ordine. L’androide si accontentò di un modello tascabile. Richiudendo l’anta dell’armadio, si trovò di fronte la Banshee. La vista inaspettata la fece sobbalzare.

   «Non è di questo che abbiamo bisogno. Prendi l’elettro-chiarificatore» la esortò Jaylah.

   «Beh, io ne ho bisogno. Non voglio rimanere l’unica disarmata!» ribatté Sutra, stringendo il phaser. «Quel mostro sta facendo una strage. Tu e Jack dovete tenerlo impegnato... dopotutto siete stati voi a portarlo qui!» accusò.

   «Noi? No, aspetta un momento. Nessuno ci ha seguiti» si difese la mezza Andoriana.

   «Come puoi dirlo? Eravamo in pace, ma a trentasei ore dal vostro arrivo la nostra colonia è diventata un campo di battaglia!» protestò l’androide. «È chiaro che l’Esecutore riesce a seguirvi. Tenetelo a mente, la prossima volta che andrete in un luogo abitato».

   Jaylah esitò, sentendosi in colpa al pensiero che quella rovina fosse il risultato della loro disattenzione. «Ci serve un punto d’incontro» borbottò.

   «Se ci riesci, porta l’Esecutore sul tetto. Ci vediamo lì» disse Sutra. Ciò detto corse via, diretta ai sotterranei dell’Istituto, dove in una camera blindata era custodito l’elettro-chiarificatore.

 

   La Stella del Polo tremava sotto i colpi dell’Hydra, sebbene stavolta avesse tre navi a darle manforte. Il vascello dell’Esecutore schivava i siluri con un’agilità unica o li abbatteva in volo con tiri precisi. I suoi colpi, invece, andavano sempre a segno. Quando finalmente le navi corsare l’accerchiarono, l’Hydra ricorse nuovamente all’attacco multi-vettore. Si aprì in tre moduli che circondarono una delle navi scorta, bersagliandola da più parti. La nave corsara cercò di disimpegnarsi, ma i suoi scudi cedettero sotto la gragnola ed essa svanì in una fiammata. I moduli dell’Hydra si allontanarono, sottraendosi al fuoco delle navi superstiti per rigenerare gli scudi.

   «Frell» imprecò Graush, che aveva il comando. «Dobbiamo colpire con più precisione. Regolare gli scanner di puntamento e triassiliare il fuoco con le altre navi».

   «È inutile, sono troppo veloci!» ringhiò Skal’nak. «Dobbiamo andarcene, prima che ci facciano a pezzi».

   «Non abbandono il Capitano a terra» si oppose il Letheano. «Mi ha affidato il comando perché gli dessi copertura».

   «Se non ci sottraiamo al fuoco, non avrà più una flotta a cui tornare» insisté il Nausicaano. «Se solo questi dannati androidi ci aiutassero! Ma preferiscono farsi i fatti loro, in attesa che la guerra abbia un vincitore, piuttosto che combattere come noi» si sfogò.

   Con la testa fra le mani, Graush stava per ordinare la ritirata, confidando nelle capacità di sopravvivenza dello Spettro. Ma in quella gli eventi presero un’altra piega.

   «Mi sa che ti sbagli» disse Siall, consultando i sensori. «Dal pianeta si alzano delle... cose. Non sono astronavi e nemmeno missili. Credo siano le Orchidee di cui parlava il capo!» si animò.

   «Sullo schermo» ordinò Graush.

   L’orbita di Coppelius si era affollata di strani oggetti, simili a giganteschi fiori. Avevano ciascuno sei petali arancioni, sorretti da nervature. Dal centro della corolla promanavano dei filamenti simili a tentacoli. Altre membrane si allungavano all’indietro, gonfiandosi ad ogni movimento. Tuttavia non potevano essere il sistema propulsivo, dato che i congegni avevano ormai lasciato l’atmosfera e si muovevano nel vuoto dello spazio. Nel complesso le Orchidee sembravano fragili, quasi evanescenti; i corsari stentavano a credere che fossero un sistema difensivo.

   «Sono ventiquattro» le contò Siall. «La metà si dirige verso di noi, l’altra metà va contro l’Hydra».

   Il Boliano stava ancora parlando quando i tre moduli dell’Hydra aprirono il fuoco. Le Orchidee si rivelarono provviste di scudi, ma alcune furono comunque distrutte strada facendo. Le rimanenti accelerarono, manovrando per accerchiare il nemico. L’altra metà dello squadrone, però, puntava ancora contro i corsari.

   «Ce l’hanno anche con noi!» disse Skal’nak. «Dobbiamo aprirci un varco, prima che ci abbranchino con quelle membrane».

   «No!» disse Raav, che era in plancia come consigliere. «Disattivate le armi, invece, e restate in attesa».

   «Disattivare le armi, puah! Torna in cucina, cuoco, e lascia a noi la battaglia!» lo derise il Nausicaano.

   «Fa’ come dice» ordinò tuttavia Graush.

   «Ma signore...!» protestò Skal’nak.

   «Spegnile, ho detto, o mi troverò un altro ufficiale tattico!» gridò il Letheano, fulminandolo con gli occhi rossi.

   Il Nausicaano obbedì brontolando, mentre Siall trasmetteva l’ordine alle navi scorta rimanenti.

   Appena i loro sensori captarono che i corsari avevano disattivato le armi, le Orchidee smisero di avvicinarsi e mantennero la posizione. Le cose andarono diversamente con l’Hydra, che continuava a sparare. Molte Orchidee furono distrutte, ma altre ne presero il posto, avvicinandosi sempre più. Quando i loro petali sfiorarono i tre moduli, subito li abbarbicarono, ricoprendo gli scafi nel loro abbraccio membranoso. Le successive Orchidee coprirono le porzioni di scafo ancora libere o si sovrapposero alle prime. Di conseguenza l’agilità dei moduli fu gravemente ridotta.

   «Sono lenti... distruggiamoli!» propose Skal’nak.

   «Sssshhht! Se spariamo otterremo solo di liberarli, e diverremo noi stessi il bersaglio delle altre Orchidee» avvertì Raav. «Lasciate che se la sbrighino loro».

   «I moduli nemici perdono energia» notò Siall. «È l’effetto di un campo di smorzamento».

   «Gli androidi sanno il fatto loro, dopotutto» commentò Graush. «Lasciamoli fare».

   «Le Orchidee li trascinano verso il pianeta» disse ancora il Boliano. «Il capo aveva ragione, li faranno precipitare». In quella però uno dei moduli ne smembrò una, sparando con i disgregatori anteriori. Gli altri due moduli si accostarono e sfregarono uno contro l’altro, lacerando i viluppi. Ora che erano parzialmente liberi, la loro energia tornò a crescere. Ne approfittarono per dare potenza ai propulsori, riprendendo quota.

   Graush aggrottò la fronte. L’Hydra era davvero pericolosa. Forse le Orchidee avrebbero distrutto un modulo o due, ma era improbabile che li eliminassero tutti. Nel frattempo loro non potevano intervenire. E lo Spettro e la Banshee erano a terra, in balia dell’Esecutore.

 

   Jaylah correva nei meandri dell’Istituto di Robotica, scambiando occasionali colpi con l’Esecutore che la inseguiva. Ciascuno dei due si rendeva tangibile per il tempo necessario a sparare e poi tornava a sfasarsi, per evitare la risposta. Era stata la mezza Andoriana a ritrovare il sicario e ora cercava di attirarlo sul tetto, come concordato con Sutra. Non potendo usare gli ascensori, che l’avrebbero confinata in uno spazio angusto con l’avversario, scansionò la zona circostante in cerca delle scale. Regolando il Visore sui raggi X poteva vedere gli ambienti in trasparenza, anche se la risoluzione diminuiva con la distanza. Finalmente trovò una rampa. Vi si diresse di corsa, passando attraverso le pareti. Mantenne la visione a raggi X, per individuare gli androidi e stargli lontana; non voleva che l’Esecutore ne distruggesse altri. Finalmente raggiunse le scale e le salì di corsa.

   Ebbe fortuna: la rampa giungeva fino al tetto, che per gran parte della sua estensione era piatto e fungeva da terrazza panoramica. La corsara sbucò all’aria aperta, poi dovette fermarsi, stanca per la lunga corsa. Si guardò indietro: non c’era traccia dell’Esecutore. Usò i raggi X per controllare la tromba delle scale, ma non lo vide nemmeno lì. Né si era fermato in uno dei piani sottostanti. Doveva essersi occultato, il che significava che poteva essere ovunque.

   «Devo restare all’erta» si disse Jaylah. Il sicario poteva attaccarla in qualunque momento, ma lei non poteva disinteressarsi al resto della battaglia. Udendo spari e schianti, si recò alla balaustra e guardò giù. Ora che era in cima all’Istituto poteva osservare l’intera piazza, oltre a vedere i tetti degli edifici circostanti, più bassi. Vide che a terra c’erano altri nemici, dalle tute scure, impegnati in scontri a fuoco con gli androidi. Probabilmente erano solo un diversivo. Ma di Jack, che era caduto dal primo piano, non c’era traccia.

   «Banshee a Spettro. Mi senti, Jack? Rispondi!» disse, temendo che fosse ferito o peggio. L’assenza di una pronta risposta accrebbe la sua ansia. Intanto una squadra nemica stava attaccando l’ingresso dell’Istituto; molti androidi cadevano sotto i loro colpi. La mezza Andoriana aveva quasi deciso d’intervenire, quando udì una voce familiare.

   «Spettro a Banshee, resta dove sei. Ci penso io a quei tostapane».

   «Jack! Ma dove...». Jaylah non finì la domanda, perché in quella udì il suono di un’overbike. Era più ruggente del normale, come se qualcuno avesse potenziato illegalmente il motore. Guardò sotto di sé e vide una macchia scura che sfrecciava sui tetti. Sorrise sotto il casco; quella era una delle cose che solo al suo Jack sarebbe venuta in mente di fare.

 

   In sella alla sua adorata overbike, lo Spettro volava da un tetto all’altro, superando gli occasionali vuoti che gli si spalancavano innanzi. Di regola le overbike erano fatte per levitare a un metro dal suolo e in presenza di dislivelli perdevano quota, più o meno bruscamente. Ma lui aveva modificato la sua affinché restasse in assetto, per brevi tratti. Quando era corso a prenderla, temeva che non gli avrebbe risposto con la prontezza di un tempo. Ma Sutra aveva detto il vero: il veicolo era ancora in ottime condizioni. Anzi, gli pareva che acceleratore e freni non fossero mai stati così sensibili al tocco. Sentendo il ruggito del motore, gli parve d’essere ancora un cadetto di belle speranze. Ma non poteva perdersi nei ricordi: aveva una missione da compiere.

   Il corsaro staccò la mano destra dal manubrio, riuscendo a manovrare l’overbike con la sola sinistra, e aprì il fuoco contro gli agenti nemici che si erano appostati davanti all’Istituto. Riuscì ad abbatterne un paio, prima di riprendere il manubrio per correggere la traiettoria. Mentre aveva le mani giù, alcuni avversari risposero al fuoco. I raggi phaser gli balenarono attorno, talora colpendo il cornicione e facendone saltare via dei pezzi. L’Umano passò indenne attraverso una nube di calcinacci e superò un altro baratro tra due edifici. Appena fu stabile staccò di nuovo la destra e tornò a bersagliare i nemici, che in tal modo furono presi tra lui e le guardie dell’Istituto. Alcuni caddero; ormai erano sulla difensiva.

   Jack si era distratto a lungo per colpirli. Quando tornò a guardare davanti a sé, vide un baratro troppo ampio per superarlo d’un balzo: l’overbike avrebbe perso quota. Senza starci a pensare, girò bruscamente a destra, approfittando del fatto che gli edifici circondavano completamente la piazza. In tal modo prese a costeggiare un altro lato del piazzale: adesso era dirimpetto all’Istituto. Vide Jaylah sul tetto, che lo guardava, e fece un’impennata. L’attimo dopo riprese a crivellare gli avversari. Voleva fare un giro completo attorno alla piazza e poi salire in cima all’Istituto, per aiutare la sua amata ad affrontare l’Esecutore. Al pensiero che Jaylah era sola contro quel mostro, premette sull’acceleratore. Niente e nessuno gli avrebbe impedito di tornare da lei.

 

   Constatato che Jack stava arrivando, Jaylah tornò a guardarsi attorno, in cerca dell’Esecutore. Aveva promesso a Sutra di attirarlo sul tetto e le sarebbe dispiaciuto fallire. D’altro canto era rischioso trovarsi lì sola con il nemico, se l’androide non giungeva con il chiarificatore. Sempre che Sutra volesse aiutarla. La mezza Andoriana si chiese se il suo sospetto era legittimo, o non veniva piuttosto da ragioni personali. Si stava ancora guardando attorno quando sentì mancarle il pavimento sotto i piedi. Il permacemento si sgretolò, colpito da sotto, e la corsara cadde al piano inferiore. Atterrò malamente tra le macerie. Ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo che vide l’Esecutore calare la vibro-lama su di lei.

   Ci fu uno schianto e il casco della Banshee si squarciò all’altezza dell’occhio sinistro. Jaylah sentì un dolore acuto e per un attimo vide rosso. Era ferita; restava da vedere quanto gravemente. Alzò il braccio, attivando il phaser incorporato, e mirando con l’occhio buono sparò in faccia all’Esecutore. Questi reagì sfasandosi, appena in tempo.

   Approfittando dell’attimo di tregua, Jaylah si rialzò, sebbene fosse dolorante. Il danno alla tuta era una tragedia, perché le impediva di sfasarsi. E questo, al cospetto dell’Esecutore, era una condanna a morte. Doveva fuggire... ma come, dato che non poteva più attraversare le pareti, mentre il sicario ne era ancora in grado? Non restava che tornare in campo aperto. Notando che si trovava in un ufficio, balzò sulla scrivania e da lì sopra un armadietto. Un terzo salto, ancora più notevole, la riportò sul tetto dell’edificio.

   «Jack, mi serve aiuto. L’Esecutore mi ha danneggiato la tuta» disse attraverso il canale criptato. Non rivelò d’essere stata ferita, per non spaventarlo ancora di più.

   «Resisti, sto arrivando. Resta sul tetto dove posso vederti» rispose il corsaro. Dette piena potenza all’overbike, accelerando la corsa sui tetti, e svoltò di nuovo a destra: ora percorreva il lato della piazza adiacente all’Istituto. Qui i tetti erano diseguali e ad altezze diverse; alcuni non erano nemmeno piatti. Ciò rendeva la sua gimcana ancora più pericolosa. Ma non pensò neanche per un istante di prendere un’altra strada, che certo gli sarebbe costata molto più tempo.

   Sulla terrazza panoramica, Jaylah cercò di allontanarsi dal foro nel pavimento, ma l’Esecutore ne emerse con un unico possente balzo. La sua corazza brillò scarlatta alla luce del sole. Vedendo che la corsara era a poca distanza, le saltò addosso.

   La mezza Andoriana, che aveva ancora il phaser sfoderato, gli sparò in pieno petto mentre lui era a mezz’aria. Uno, due colpi lo attraversarono, segno che si era sfasato durante il balzo, pur restando visibile. Ma al momento dell’atterraggio tornò ben solido: i suoi piedi si piantarono sul pavimento e la sua vibro-lama strappò il phaser dal bracciale di Jaylah. Un calcio violento la gettò all’indietro, contro la balaustra. Dolorante e mezza accecata, la Banshee comprese di essere sconfitta. Doveva succedere, prima o poi. Si augurò che l’Esecutore la uccidesse, perché essere consegnata a Rangda sarebbe stato peggio.

   «Tutto qui? Dalla fama che circonda il tuo nome, mi aspettavo qualcosa di più» disse l’Esecutore.

   «Se non sei soddisfatto, puoi lasciarmi andare e ricominciare daccapo» ironizzò Jaylah, sperando che Jack venisse ad aiutarla. O era meglio di no? Forse era proprio ciò che voleva il nemico: usarla come esca.

   «Mai anteporre il piacere al dovere» rispose il sicario. Ritirò la vibro-lama e al suo posto estroflesse il phaser.

   «No!» gridò una voce nota. Era Sutra, appena sbucata da una delle scale d’accesso al tetto. L’androide si precipitò contro l’Esecutore, i capelli corvini agitati dalla corsa. Impugnava uno strano oggetto, simile a una bacchetta metallica: doveva essere l’elettro-chiarificatore. Quando lo attivò, dalla sua punta lampeggiò una luce blu. Stando ben attenta a puntare l’arma contro l’avversario, Sutra si frappose tra lui e Jaylah, continuando a far fuoco.

   Per qualche secondo l’Esecutore restò immobile, come paralizzato. La corsara cominciava a credere che fosse tutto finito, quand’ecco che il sicario si riscosse. Rialzò il phaser e colpì Sutra a bruciapelo. Ci fu uno sfrigolio, accompagnato dall’odore di circuiti bruciati. L’androide emise un sospiro assai umano e cadde all’indietro, tra le braccia di Jaylah, che la depose a terra. Il danno era grave, anche se forse non irreparabile. Dal foro sopra lo sterno trasparivano componenti elettronici semiliquefatti. Gli occhi gialli erano spalancati, il volto congelato in un’espressione di vago stupore.

   «Non sei un androide» disse Jaylah, alzando gli occhi al nemico. Solo così si spiegava l’inefficacia del chiarificatore.

   «Non ho mai detto di esserlo» ribatté l’Esecutore. Ancora una volta fu sul punto di sparare, ma in quella udì un rombo alla sua destra. Si girò e vide qualcosa venirgli contro, oscurando il basso sole mattutino.

   Fu così che lo Spettro irruppe sul tetto dell’Istituto di Robotica. Balzato con l’overbike da un edificio più basso, vide l’Esecutore che aveva abbattuto Sutra ed era in procinto di colpire Jaylah. Preso da una furia incontenibile, accelerò al massimo e lo travolse. Ci fu uno schianto: il cofano dell’overbike si accartocciò come se fosse di stagnola e lo Spettro si piegò in avanti, urtando il manubrio. Il pettorale della corazza lo protesse dall’urto.

   Quanto all’Esecutore, fu scagliato in aria come una marionetta. Il suo corpo descrisse un ampio arco prima di ricadere oltre la balaustra. Anziché precipitare per un solo piano, com’era accaduto allo Spettro, cadde per tutti e dieci. Eppure riuscì ad atterrare in piedi, schiantando le mattonelle sotto di sé. Un po’ ansante, si guardò attorno: era circondato dai pezzi dei suoi androidi, ormai tutti distrutti. Gli agenti locali uscirono dai ripari e lo circondarono con i phaser spianati. «Lei è in arresto, in nome della legge» disse il caposquadra.

   «Sono io, la legge!» rispose il sicario con voce tonante.

   Dieci piani più in alto, lo Spettro si accostò alla balaustra con l’overbike ammaccata e si sporse a guardare. Lui e l’Esecutore si fissarono: la corrente d’odio tra loro era palpabile.

   «Al prossimo incontro, vecchio mio. Ricorda che non puoi sfuggire alla giustizia! Più ci provi, più il tuo conto sale, e a farne le spese sono i tuoi cari!» minacciò l’Esecutore, per poi svanire nel teletrasporto scarlatto dell’Hydra.

 

   Appena vide che il sicario se n’era andato, Jack scese dall’overbike e si chinò su Jaylah. «Sei ferita?!» chiese, esaminandola con apprensione.

   «Più nell’orgoglio che altro» rispose la mezza Andoriana, ancora debole e scossa. «Sutra sta molto peggio. Pensi di poterla salvare?». Pur essendo in ansia per l’androide che le aveva fatto scudo, era lusingata dal fatto che Jack si fosse interessato a lei per prima.

   «Ci proveremo, ma prima dobbiamo tagliare la corda» disse il corsaro. Aiutò Jaylah a rialzarsi, poi prese tra le braccia il corpo inanimato di Sutra. «Spettro a Stella, ora potete imbarcarci?».

   «Affermativo, restate in posizione» rispose Graush.

   Pochi secondi dopo i tre furono teletrasportati a bordo. Oltre a loro, anche l’overbike ammaccata fu presa nel raggio. Ricomparvero sulla pedana di plancia.

   «Portala nel laboratorio cibernetico» ordinò lo Spettro, consegnando Sutra a un sottoposto. Appena fu libero andò alla poltrona di comando. «Rapporto» ordinò, sedendovi pesantemente. Jaylah si accomodò accanto a lui e subito Goldie le venne al polso. Il falcone cestiano continuava a farle festa, come se avesse capito il pericolo a cui era sfuggita. La mezza Andoriana lo carezzò distrattamente, concentrata com’era sulla battaglia.

   Le Orchidee avevano completamente avvolto uno dei moduli dell’Hydra, privandolo dell’energia, e ora lo stavano trascinando nell’atmosfera. I corsari lo videro lasciarsi dietro una scia di plasma che rigò l’emisfero in ombra, come una meteora. Infine ci fu l’esplosione, che devastò una delle numerose zone desertiche e spopolate del pianeta. Una nube di polvere si alzò a nascondere il cratere ribollente di lava, mentre le radiazioni contaminavano una vasta area.

   «Fuori uno; ne restano due» mormorò lo Spettro. Ma i due moduli restanti dell’Hydra non davano l’idea di cedere, anzi si erano in gran parte liberati. Il corsaro fu certo che l’Esecutore era su uno di quei due. «Già, ma quale? Non siamo in grado di abbatterli entrambi... forse neanche uno» rimuginò.

   «Capo, prima c’è stato un momento in cui i loro scudi vacillavano» disse Graush. «Ne ho approfittato per piazzargli dei segnalatori a bordo. Forse scoveremo il rifugio dell’Esecutore, e con esso la prigione dei Terrestri».

   «Se lui non scopre i segnalatori» borbottò Jack. Da quel che aveva visto, non era facile metterlo nel sacco.

   «Credo che dovremmo tentare» disse Jaylah. Aveva ritirato il casco e si stava tamponando il taglio, che le aveva spaccato un sopracciglio. Fortunatamente l’occhio era illeso.

   Vedendo la sua compagna ferita, il corsaro non se la sentì di rischiare il resto delle sue forze in un’incerta battaglia. Né voleva lottare così vicino a Coppelius: gli androidi avevano già avuto fin troppe vittime. «Spettro a flotta, ritiriamoci» ordinò a malincuore. La resa dei conti con l’Esecutore doveva aspettare.

   Approfittando delle ultime Orchidee che trattenevano i moduli dell’Hydra, le tre astronavi corsare balzarono a curvatura. Si lasciavano dietro i detriti della quarta nave e la colonia androide duramente colpita.

 

   Immobile nella capsula di riparazione al centro del laboratorio cibernetico, Sutra lasciava che i sofisticati bracci robotizzati la rimettessero in sesto. I loro movimenti producevano un continuo ronzio di sottofondo, cui si sovrapponeva il suono mutevole degli strumenti. Intanto lo Spettro e alcuni tecnici sedevano ai comandi, controllando che ogni passaggio fosse eseguito correttamente.

   «Auto-diagnostica completata. Il mio sistema energetico è nuovamente operativo. Funzionalità motoria al 75% in aumento. Memoria ripristinata» disse Sutra, in tono un po’ meccanico. Poi i suoi occhi si mossero, l’espressione si addolcì e anche la voce divenne più umana. «Sono qui dentro da ore. Vorrei muovermi un po’» disse.

   «Abbi pazienza, hai un sacco di roba scassata» rispose Jack.

   «Roba scassata! Ti piacerebbe se mi riferissi così ai tuoi organi?» rise l’androide, ma poi si fece triste. «Ho fallito, sul tetto» disse.

   «Non dirlo nemmeno» reagì lo Spettro. «Credevamo che il chiarificatore avrebbe funzionato. Se non l’ha fatto, significa che l’Esecutore è troppo schermato... oppure che non è un androide».

   «Buona la seconda; la sua mente non è quella di un’Intelligenza Artificiale» disse Jaylah, entrando in quel momento. La ferita al sopracciglio era stata curata in infermeria, così che non restava alcun segno. Tuttavia la corsara indossava la tuta da Banshee di riserva, con tanto di casco, segno che non voleva ancora rivelare all’ospite la sua identità.

   «Hai percepito dei pensieri?» s’interessò Jack.

   «Le emozioni, più che altro» rispose la mezza Andoriana. «Quell’essere ci detesta in una maniera incredibile... raramente ho percepito tanto odio. È dispostissimo a fare una strage d’innocenti pur di ucciderci, e sarebbe felice di morire lui stesso, pur di trascinarci con lui».

   «Uhm... lo hai percepito anche tu?» chiese lo Spettro a Sutra.

   «La mia empatia funziona solo per contatto, come quella dei Vulcaniani» spiegò l’interpellata. «Comunque non ci vuole un telepate per accorgersi di quanto vi odia. Tutta la distruzione che ha seminato oggi era solo per farvi uscire allo scoperto».

   «Già, senti... mi dispiace di averlo attirato sul tuo mondo» disse Jack, pieno di rimorso. «Se ci torneremo, sarà solo a partita chiusa. Intanto ti daremo una navetta, così potrai tornare a casa».

   «Dubito che sarò bene accetta» disse l’androide con amarezza. «I miei simili m’incolperanno di aver attirato la guerra, che finora ci aveva risparmiati. Sono lenti al perdono, sapete».

   «Vuoi dire che non ti riaccoglieranno?!» chiese l’Umano, sorpreso e dispiaciuto.

   «Conoscendoli, temo che lo faranno solo quando l’Esecutore sarà distrutto e non potrà più minacciarci» rispose Sutra. «Ma anche se avessi la certezza d’essere riaccolta, resterei con voi. Ormai sono coinvolta in questa faccenda».

   «No, per niente» disse il corsaro. «Ti ci ho trascinata io, ed è stato un errore».

   «La Galassia brucia e noi androidi ci nascondiamo su un pianeta che prima o poi sarà comunque asservito!» protestò Sutra, agitandosi al punto che i bracci riparatori dovettero fermarsi. «Non è per questo che il dottor Soong ci ha creati. Lui voleva che aiutassimo gli Organici... anche se mi ci è voluto del tempo per capirlo. Lasciatemi venire con voi. Anche se l’Esecutore non è un androide, fa uso di androidi; le mie conoscenze vi saranno utili. E poi ho contatti ovunque» rivendicò.

   «Aspetta un attimo» disse Jack. Uscì dal laboratorio con Jaylah, che ritirò il casco affinché potessero vedersi in faccia. «Abbiamo avuto grosse perdite; ci serve ogni aiuto possibile» ragionò l’Umano.

   «Non so... c’è ancora qualcosa che non mi convince, in lei» mugugnò la mezza Andoriana.

   «Ti ha salvato la vita, su quel tetto. Se non si fosse frapposta, rischiando la distruzione, io non sarei arrivato in tempo» le ricordò lo Spettro.

   «Lo so, eppure sono irrequieta. Ci sono ancora troppe cose che non quadrano in questa storia» insisté Jaylah. Dopo un breve silenzio, riprese: «Il Capitano sei tu e non voglio insistere, ma fammi un favore: non abbassare la guardia, quando c’è di mezzo lei. Intesi?».

   «Intesi» disse Jack, abbracciandola. Dopo di che la mezza Andoriana dispiegò il casco ed entrambi rientrarono nel laboratorio. «Benvenuta nella banda!» annunciò il corsaro, avvicinandosi all’ospite.

   Nella sua posizione confinata, Sutra si limitò a sorridere, come se non avesse mai dubitato del successo.

   «Sarai un ufficiale scientifico e all’occorrenza un operativo» disse sbrigativamente lo Spettro.

   «Agli ordini... mio Capitano» disse la brunetta, con voce seducente. «Allora, quali sono i piani per l’avvenire?».

   «Nei prossimi giorni tracceremo l’Hydra, sperando che ci porti al suo rifugio» spiegò Jack. «Lì abbiamo le migliori probabilità di trovare i Terrestri rapiti. Anche se liberarli è importante di per sé, la loro testimonianza ci farebbe comodo. Proverebbe a tutti che l’Esecutore appartiene ai Pacificatori, o comunque è in combutta con loro».

   «Peccato non sapere ancora chi è di preciso» commentò Sutra. «Tu sei proprio sicuro di non conoscerlo, eh?».

   «Macché! Se mai l’ho visto in passato, era prima che diventasse così» sospirò l’Umano.

   «Quando scopriremo il suo rifugio, forse capiremo anche chi è» disse Jaylah.

   Furono le ultime parole di quella conversazione. Sutra tornò immobile, per consentire alla capsula di terminare le riparazioni, mentre i corsari ripresero a supervisionare l’intervento. Solo la mezza Andoriana lasciò il laboratorio. Anche lei aveva un lavoro da sbrigare. Doveva riparare la tuta da Banshee, in previsione del prossimo scontro. E chissà che Raav non le desse ancora qualche consiglio; sentiva di averne un gran bisogno.

 

   Nei giorni successivi la flottiglia corsara seguì l’Hydra da una distanza di sicurezza, grazie ai segnalatori piazzati durante la battaglia. I congegni erano due, per accortezza: uno attivo fin da subito e l’altro che si accese solo dopo tre giorni. Come previsto il primo fu individuato e neutralizzato fin dal primo giorno, mentre il secondo una volta attivatosi restò in funzione, segno che il nemico aveva abbassato la guardia.

   L’Hydra si diresse a gran velocità verso lo spazio romulano, cosa che inquietò i corsari; tuttavia si arrestò prima di varcare il confine. Consultando le mappe astrali, i corsari constatarono che si era fermata presso una vecchia stazione federale.

   «Deep Space 4 era un avamposto costruito un po’ per studiare la Distesa di Typhon, un po’ per tenere d’occhio i Romulani» disse Siall alla successiva riunione tattica. «Dopo la Guerra Civile Romulana perse importanza e trent’anni fa fu abbandonata. Almeno così dicono gli archivi».

   «L’Esecutore potrebbe averla rioccupata, facendone una prigione per i suoi ostaggi» suggerì Sutra, che partecipava alla riunione. «La loro vita è in pericolo, perché possono testimoniare che non siete stati voi a rapirli. Dobbiamo salvarli al più presto».

   «Uhm... questa è un’operazione che va attentamente pianificata» disse lo Spettro. «Non possiamo permetterci passi falsi, tanto più che l’Esecutore sarà lì ad aspettarci».

   «Aspettarci?» ripeté l’androide, perplessa.

   «Certo. Sappiamo che è astuto e che ha trovato il nostro primo segnalatore» disse Jack. «Potrebbe aver lasciato il secondo di proposito, per attirarci in un’imboscata. Faremo una ricognizione per tastare il terreno e stabilire se gli ostaggi sono davvero lì. Ma prima ancora di questo voglio far tappa nella Distesa». Vedendo che Sutra lo fissava perplessa, si spiegò: «Nella Distesa di Typhon c’è uno dei nostri rifugi. Ci abbiamo accumulato armi, equipaggiamenti e anche qualche navetta. Passeremo a rifornirci, in vista della missione. In altre circostanze chiederei l’aiuto della Flotta, ma... conosciamo la situazione» s’incupì. I comunicati degli ultimi giorni indicavano che la Federazione era nel caos e i Romulani Imperiali si apprestavano a conquistare Nuovo Romulus con le loro invincibili Narada.

   «Odio dirlo, ma forse dovremmo rimandare quest’operazione e unirci alla difesa di Romulus» intervenne Jaylah, che si sentiva ancora legata alla Flotta Stellare.

   «Poche navi in più non cambieranno le sorti della battaglia» si oppose Sutra. «Ricordate che gli Imperiali hanno le Narada. Questa nave può opporsi a vascelli del genere?».

   Cadde un prolungato silenzio. «No, non può» disse infine lo Spettro.

   «Allora la logica vuole che continuiamo a occuparci dell’Esecutore e dei Terrestri rapiti» insisté l’androide. «Se riuscissimo a rendere pubblica la faccenda, sarà una grande vittoria d’immagine contro l’Unione».

   Parecchi corsari manifestarono il loro assenso. Per quanto l’idea di affrontare ancora l’Esecutore non li entusiasmasse, la prospettiva di trovarsi circondati dalle Narada era ancora peggio. «Giusto, e poi questa missione possiamo gestirla come pare a noi. Se andassimo a Romulus, dovremmo sottostare agli ordini della Flotta» rincarò Skal’nak.

   «Allora è deciso, continueremo col nostro obiettivo» confermò Jack. Aveva ancora in mente gli sguardi terrorizzati dei Terrestri sul Chemosh: non voleva abbandonarli nelle grinfie dell’Esecutore.

   «Ma...» fece Jaylah, delusa.

   «È deciso» disse lo Spettro, in tono inappellabile. «Rotta per il rifugio, massima curvatura. Siall, tieni d’occhio il segnalatore e avvertimi se l’Hydra tornasse a muoversi. Non dobbiamo farci più cogliere di sorpresa».

   Alzatosi il Capitano, i suoi ufficiali lo imitarono. Per un attimo Jaylah e Sutra si fissarono; la mezza Andoriana avrebbe giurato di aver visto un sorrisetto di trionfo sulle labbra dell’androide.

 

   Quella sera Jack e Jaylah cenarono in sala mensa. La mezza Andoriana aveva finalmente dismesso i panni della Banshee, per tornare in quelli più comodi di Jaylah. Tuttavia c’era un silenzio insolito tra i due. «Che fai, mi tieni il broncio?» chiese l’Umano verso fine pasto.

   «Non ce l’ho con te» assicurò la mezza Andoriana. «Sono solo preoccupata per tutto. Per la Federazione... per la Keter... per i Terrestri rapiti... e per noi stessi. L’Esecutore è un osso duro. Dobbiamo stare attenti alle nostre mosse». Così dicendo prese a lanciare dei pezzetti di carne a Goldie. Ogni volta il falcone cestiano faceva scattare il collo in avanti, prendendoli al volo, e festeggiava il boccone con un verso acuto.

   «Già» mormorò l’Umano, con lo sguardo basso. «Alla ciurma non posso dirlo, ma... ti confesso che questi scontri con l’Esecutore mi hanno scosso. È sempre un passo avanti a noi; mi chiedo se non sia un avversario superiore alle nostre forze». Nel parlare tormentava il cibo nel piatto senza mai inghiottirlo, anzi praticamente senza vederlo, tanto era immerso nei pensieri.

   «Su, vedrai che ce la caveremo, come sempre» disse Jaylah, cercando di confortarlo. In realtà anche lei era in difficoltà, tanto che poté dargli solo vaghi incoraggiamenti. Almeno era lieta che Jack ne parlasse con lei, anziché con Sutra. «Come va l’overbike?» chiese a un certo punto. Sapeva che il veicolo era ancora parcheggiato nell’hangar, accanto alle navette.

   «Eh? Non l’ho ancora controllata» si riscosse l’Umano. «Credo sia conciata male... ma scasserei un milione di overbike, se ne andasse della tua sicurezza» le sorrise.

   Jaylah gli sorrise di rimando e per un po’ fu come se tutto andasse normalmente. La mezza Andoriana finì di nutrire Goldie, che s’involò e andò a riposare sul suo trespolo, accanto alla finestra panoramica.

   «Che facce scure» notò Raav, venendo loro accanto. «È a causa dell’Esecutore, eh? Sono giorni che nessuno parla d’altro. Ho sentito ipotesi fantasiose sul suo conto, ma nulla di convincente».

   «Ci conosce troppo bene» mugugnò Jack. «Soprattutto me. Ah, se solo capissi chi è!».

   «Se vi conosce, allora dovete cambiare strategie» consigliò il Gorn. «Prendetevi il tempo che serve prima di agire e se necessario state sulla difensiva. Sapete, su Gornar abbiamo un detto: “Anche la serpe più grossa prima o poi deve cambiar pelle”. Ed è allora che diventa vulnerabile. Sssshhht! Cercate di capire quando cambia pelle... e occhio che non sia lui a sorprendervi senza la corazza».

 

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Capitolo 7
*** Il mondo cavo ***


-Capitolo 6: Il mondo cavo

 

   La Sfera di Dyson si librava nello spazio, in perfetto equilibrio gravitazionale con la stella al suo centro. Dopo milioni di anni dalla sua costruzione, era ancora la più grande struttura artificiale della Via Lattea. La sua corazza esterna in neutronio la rendeva impervia agli asteroidi interstellari e a quasi tutte le armi, tanto che non presentava spaccature. Sulla sua superficie, a intervalli regolari, si trovavano ingressi pronti ad accogliere i visitatori. Con un diametro analogo a quello dell’orbita terrestre intorno al Sole, la Sfera aveva una superficie interna pari a 250 milioni di pianeti come la Terra. Era più di quanti ve ne fossero in tutta la Galassia. Ciò significava che, all’epoca del suo splendore, era più popolosa di tutti i mondi terrestri sommati.

   Ma quell’età aurea era finita da un pezzo. Invecchiando, la stella centrale era divenuta instabile, trasformandosi in una gigante rossa. Luce, calore e radiazioni erano aumentati a dismisura, rovinando l’ecosistema interno della Sfera. Gli immensi oceani erano evaporati, lasciando uno sconfinato deserto rovente. L’atmosfera si era fatta densa e opaca come quella di un pianeta venusiano. E così gli abitanti avevano dovuto abbandonare la megastruttura, che per secoli era rimasta vuota e, strano a dirsi, sconosciuta agli altri popoli della Via Lattea. Solo un caso fortuito aveva permesso alla Federazione di scoprirla.

   All’iniziale sorpresa erano subentrate le domande. La costruzione di una Sfera di Dyson richiedeva una tecnologia assai superiore a quella federale e un’impareggiabile costanza d’intenti. Dunque chi erano i costruttori? E dove si erano trasferiti? Le migliori menti federali si erano arrovellate sul problema per due secoli. Navi scientifiche avevano mappato la superficie interna, trovando scarsi resti urbani. Gli insediamenti erano stati “smontati” dai costruttori stessi con qualche nanotecnologia, prima di partire, così da non lasciare indizi sulla loro natura. Li aveva forse spinti il timore che qualcuno s’impadronisse delle loro raffinate tecnologie, facendone cattivo uso. Solo la scoperta di alcune intercapedini nello spessore del guscio aveva iniziato a dissipare il mistero. In quelle sale controllo, ancora vivibili, c’erano tecnologie che rispondevano al tocco degli umanoidi. I computer erano stati formattati, per proteggere i segreti dei costruttori; ma una statua in platino-iridio mostrava le loro sembianze. Erano i Proto-Umanoidi, il popolo ancestrale che aveva favorito l’evoluzione di tutte le specie umanoidi successive.

   «Che spettacolo» mormorò Vrel, vedendo il globo grigio sempre più vicino. «Qualcuno di voi c’è già stato?».

   «Io, quando l’Enterprise tornò dalla missione ad Andromeda» rispose Terry.

   «Ho letto i rapporti» disse Hod, contemplando assorta la megastruttura. «In quella missione trovaste i Proto-Umanoidi e parlaste faccia a faccia con loro. Avete discusso anche della Sfera?».

   «Sì, poco prima di tornare» annuì la proiezione isomorfa. «I Proto-Umanoidi ormai risiedono stabilmente ad Andromeda e non vogliono tornare nella Via Lattea, per non rischiare conflitti con i loro... figli» spiegò, alludendo alle specie umanoidi. «Però non hanno nulla in contrario a che noi esploriamo la Sfera e ne usiamo le tecnologie, per quel poco che ne resta. Le cose pericolose le hanno eliminate prima di andarsene».

   «Entriamo, allora» ordinò il Capitano. «Zafreen, trovi un ingresso abbastanza grande per la Zhat Vash».

   «Vediamo... ci sono migliaia di portali, ma solo alcuni fanno al caso nostro» mormorò l’Orioniana, sondando la sterminata superficie della Sfera.

   «Ne cerchi uno vicino ai poli, è lì che si trovano le intercapedini» consigliò Terry.

   «Grrrazie, signora» fece Zafreen a denti stretti. La sorveglianza dell’IA le pareva sempre più opprimente. «Ecco, ne ho uno. Settore 9947-B». Oltre a trasmettere le coordinate al timone, le inviò anche al Moloch e alla Zhat Vash.

   Le tre astronavi puntarono verso il polo nord della Sfera. Gradualmente la superficie grigia riempì gli schermi visori e la curvatura divenne impossibile da percepire. Ai federali pareva di essere in rotta contro un muro; eppure erano ancora lontanissimi. Man mano che si avvicinavano, un sottile reticolato geometrico si disegnò sulla superficie. Erano rettangoli che ne contenevano altri più piccoli, e così via. Si trattava della suddivisione in settori del guscio, che era stato realizzato affiancandoli e saldandoli, a miliardi.

   «Per la Keter è un po’ come tornare alle origini» notò Terry.

   «Perché?» chiese incautamente Zafreen.

   «Perché il neutronio dello scafo è stato prelevato dal guscio di questa Sfera» spiegò l’IA. «Prenderlo da una stella di neutroni sarebbe stato troppo pericoloso. Non conosce le specifiche di questa nave?».

   «Conosco ciò che attiene al mio lavoro!» ribatté l’Orioniana, risentita.

   «Anche il neutronio del Moloch viene da qui, vero?» chiese Norrin, per spegnere il nuovo bisticcio.

   «Affermativo» rispose Terry.

   «Ma che bella rimpatriata» mormorò l’Hirogeno, osservando l’interminabile ripetizione di rettangoli concentrici.

 

   Dopo un’ora di avvicinamento a massimo impulso, la monotonia della superficie fu interrotta dal portone d’ingresso. Apparve dapprima come un minuscolo puntino, che crebbe man mano che le astronavi si avvicinavano, rivelando sempre più dettagli. Il portale si trovava al centro di un avallamento nel guscio di neutronio. Era di forma ottagonale, tanto grande da consentire l’entrata dei tre vascelli affiancati. Lo contornava un complesso sistema d’antenne, che captarono l’arrivo dei visitatori.

   «Arresto totale, trasmettiamo il segnale» ordinò il Capitano Hod. Da tempo la Flotta sapeva come provocare l’apertura dei portali.

   «Segnale trasmesso» disse Zafreen, il cui nervosismo era cresciuto man mano che si avvicinavano. «Sentite... non sarà che là dentro si nascondono i Pacificatori, pronti a farci la pelle?».

   «Se volessero tradirci, è improbabile che scelgano questo momento» disse Terry.

   «Ne convengo; ma per sicurezza terremo gli scudi alzati» ordinò il Capitano.

   Zafreen scoccò un’occhiata trionfante a Terry, che però non la guardò nemmeno, impegnata com’era.

   L’immenso portone ottagonale si aprì in due ante che rientrarono nella struttura, lasciando il passaggio vuoto. Nello stesso momento dei potenti raggi traenti agganciarono le tre astronavi e le guidarono all’interno. Era una testimonianza dell’ingegnosità dei Proto-Umanoidi che la maggior parte degli ingressi funzionasse ancora. Gli equipaggi, istruiti sul da farsi, non si opposero alla procedura, per non danneggiare i sistemi propulsivi. Solo quando i vascelli furono dentro la Sfera i raggi traenti si spensero e i timonieri poterono riprendere la guida.

   Davanti a loro brillava ora l’antica stella che, avendo quasi esaurito l’idrogeno, si stava espandendo in gigante rossa. La sua fotosfera era di un arancione scuro, cosparso di grandi macchie. Immani eruzioni solari sollevavano archi di plasma incandescente e inondavano l’habitat interno di radiazioni. Gli ufficiali della Keter osservarono con un misto di ammirazione e dispiacere quel mondo cavo ormai morente, e così fecero quelli del Moloch. Quella era l’antica dimora dei Progenitori, gli antesignani di tutte le specie umanoidi. Come sembrava assurda la loro Guerra Civile, ora che si trovavano lì...

   «Non rilevo vascelli dei Pacificatori» disse Zafreen.

   «E quello allora cos’è?» chiese Vrel, indicando una sagoma opaca che aveva iniziato a eclissare la stella. Per adesso ne celava solo uno spicchio, ma più l’astronave si muoveva, immettendosi in un’orbita interna, più l’eclisse aumentava. La luce però non era bloccata del tutto; era solo offuscata.

   Zafreen cominciò ad analizzare l’oggetto, ma ancora una volta fu battuta sul tempo da Terry. «Si tratta di uno statite» spiegò la proiezione isomorfa. «L’Unione ne piazzò centinaia, prima che scoppiasse la Guerra Civile. Si tratta di satelliti stazionari, composti da una vela di nano-polimeri che assorbe gran parte delle radiazioni solari. In tal modo si creano delle eclissi permanenti su alcune zone della superficie interna».

   «In pratica sono degli ombrelloni!» commentò Zafreen.

   «Diciamo così» fece Terry, in tono di sufficienza. «L’idea era di rendere nuovamente abitabili quelle aree».

   «Saranno un’inezia, rispetto alla superficie totale. Ne vale la pena?» chiese Vrel.

   «Si tratta pur sempre di milioni di chilometri quadrati» notò l’IA. «Comunque l’instabilità della stella sconsiglia la costruzione di centri abitati. Il rischio di brillamenti ed eruzioni massive è troppo alto. L’idea era che nelle zone risanate s’insediassero piccoli gruppi d’esploratori e scienziati, che proseguissero lo studio della Sfera. In caso d’emergenza si sarebbero rifugiati nelle intercapedini del guscio, in attesa dei soccorsi».

   «E non ha funzionato?» chiese ancora il timoniere.

   «Anche per loro il rischio era notevole. Ci si è accorti che era meglio continuare a farli operare da un’astronave, che potesse andarsene subito in caso di necessità» spiegò la proiezione isomorfa. «Però gli statiti sono stati lasciati in posizione, per valutarne le prestazioni a lungo termine. Se saranno buone, li si potrà usare per proteggere i pianeti minacciati da eruzioni solari».

   «Adesso si può scendere nelle zone in penombra?» volle sapere il Capitano.

   «Meglio di no» rispose subito Zafreen, analizzandole più in fretta che poteva per non farsi anticipare da Terry. «Ci sono 80º C... peggio di una sauna... e le radiazioni sono proibitive».

   «C’è anche un’atmosfera tossica» puntualizzò Terry.

   «Sì, e le tempeste di sabbia!» sbottò l’Orioniana, per avere l’ultima parola.

   «Comunque tutto ciò è irrilevante» disse ancora l’IA. «Il nostro lavoro sarà condotto nelle intercapedini, dove il supporto vitale è attivo».

   «Temperatura 21º C, pressione atmosferica 947 millibar, umidità 40%» disse Zafreen, sempre più decisa a non farsi surclassare.

   «D’accordo, se mai potrò andare in villeggiatura tornerò qui» disse il Capitano, suscitando sorrisi e risatine degli altri ufficiali. L’Orioniana si morse la lingua; il suo tentativo di mostrarsi efficiente le si era ritorto contro.

   «Va bene, mettiamoci al lavoro» disse Hod, facendosi d’un tratto seria. «Vrel, ci ponga in orbita stazionaria. Terry, torni sulla Zhat Vash e aiuti Dib coi preparativi. Zafreen... non stacchi i sensori dal Moloch e ci avverta alla prima mossa sospetta».

   La Keter s’innalzò ulteriormente rispetto alla superficie interna della Sfera, mettendosi poco sopra lo statite. Ora i federali potevano vederlo di tre quarti, senza la stella che gli brillava dietro. Somigliava davvero a un immenso ombrellone, di forma esagonale. La membrana di nano-polimeri aveva un colore dorato. Al centro c’era un componente più spesso, del tutto opaco: il vettore dal quale la vela si era dispiegata. L’ombra proiettata dal dispositivo cadeva a poca distanza dal portale, che nel frattempo si era richiuso. In lontananza si vedevano altri statiti, ciascuno dei quali gettava il suo cono d’ombra. In quel paesaggio surreale, la Keter si dispose in orbita stazionaria e le altre due navi la imitarono.

   La Zhat Vash si era appena posizionata, quand’ecco che la sua superficie prese a riconfigurarsi. Gli aculei spezzati si aprirono a corolla, rivelando un’apertura. Al tempo stesso il vascello indirizzò un raggio traente contro la stella, attirandone il plasma. Il flusso arancione e incandescente gli venne incontro come un serpente.

   «Hod a Zhat Vash, che state facendo?» si allarmò l’Elaysiana.

   «Nulla, Capitano» rispose Dib. «È la nave che ha avviato una procedura automatica».

   «La può interrompere?».

   «Temo di non avere familiarità con questo protocollo».

   «Allora vi tiriamo fuori di lì» disse Hod, osservando con apprensione il plasma che si avvicinava al vascello. Con il Moloch lì accanto, non le piaceva evacuare la Zhat Vash; ma non poteva esporre i suoi al pericolo.

   «Negativo, Capitano. La prego di restare in attesa» disse il Penumbrano.

   «Ha trovato la soluzione?».

   «Non credo ci sia alcun problema da risolvere».

   «Ma il plasma...!».

   «È ad appena 3.200º C e si avvicina in modo controllato. Data l’età della stella, è ricco di elementi pesanti» spiegò l’Ingegnere Capo. «La mia ipotesi è che la nave voglia rifornirsi. Avendo subito gravi danni, deve rigenerarsi. Il plasma stellare contiene la materia e l’energia che le occorrono».

   Affascinata, Hod osservò la Zhat Vash che risucchiava il plasma dell’astro morente, facendone nuova linfa vitale per se stessa. L’effetto fu incredibilmente rapido: le falle dello scafo iniziarono a richiudersi e gli aculei spezzati a ricrescere, grazie all’indefesso lavoro dei droni-ragno. Il Capitano si chiese se la nave sarebbe tornata alla configurazione originale o se ne avrebbe assunta un’altra. E lo scafo sarebbe stato come prima o avrebbe mutato composizione in base agli elementi estratti dalla stella? Erano tutte cose che avrebbero verificato nei giorni a seguire.

   «Bene, allora... se la Zhat Vash ha fame, lasciatela mangiare» decise il Capitano. «L’importante è che non cominci a papparsi altre navi».

 

  Quando la Constellation uscì dalla cavitazione nei pressi di Nuovo Romulus, trovò una situazione assai più caotica di quella che aveva lasciato. L’orbita era affollata di navi cariche di fuggitivi, provenienti dai sistemi conquistati dallo Stato Imperiale. I profughi chiedevano il permesso di sbarcare, ma i Romulani glielo stavano negando per due motivi. Primo: non potevano sapere se delle spie imperiali si erano mischiate a loro. Secondo: la capitale stessa era in pericolo. Il nemico si avvicinava infatti a velocità spaventosa, con una manovra a tenaglia che non lasciava dubbi sull’obiettivo. I difensori stavano quindi radunando le forze per resistere, sebbene avessero poca speranza. Nuovo Romulus era cinto da uno Scudo Planetario, oltre il quale si trovavano centinaia di piattaforme difensive. Ancora più in alto si trovavano le astronavi, poche in verità. C’erano centocinquanta Falchi da Guerra, molti dei quali in cattive condizioni, e appena cinquanta navi della Flotta Stellare. Dei Remani non c’era l’ombra, e ormai nessuno si aspettava di vederli arrivare, perché tra Nuovo Romulus e Crateris si stendeva l’armata nemica.

   «Signore, tra i nuovi arrivi c’è la Sha Ka Ree» notò l’addetto ai sensori, inquadrandola sullo schermo. Era una classe Retribution, che riprendeva un antico e raro design. La sezione a disco era parzialmente traforata, tanto da somigliare a un anello con un disco più piccolo al centro. La sezione motori era larga e piatta, mentre le gondole si allungavano di molto.

   «Bene, aprire un canale» ordinò lo Xindi, un po’ rincuorato.

   Il Capitano T’Vala Shil apparve sullo schermo. Lantora la guardò con un affetto venato di nostalgia. Da quando era scoppiata la Guerra Civile, vedeva raramente sua moglie. Non che prima avessero molto tempo: le loro carriere nella Flotta li tenevano separati. E c’era un problema ancor più grave che incombeva su di loro. In quanto mezza Vulcaniana, T’Vala aveva ancora un aspetto giovanile e gran parte della vita davanti, mentre non si poteva dire lo stesso dello Xindi. Avevano sempre saputo che sarebbe stato così, e lo avevano accettato; ma Lantora cominciava a sentirsi in imbarazzo quando rivedeva sua moglie.

   «Ero quasi certo di trovarti qui» sorrise il Commodoro, cercando di scacciare la tristezza.

   «Sono giunta appena ho potuto» confermò T’Vala. «Queste navi sono tutto ciò di cui la Flotta può privarsi, purtroppo».

   «I Klingon non hanno inviato niente?» si stupì lo Xindi.

   «Non hanno potuto. Le loro forze sono ancora impegnate nei sistemi di Boreth, Archanis e Rura Penthe» spiegò la mezza Vulcaniana.

   «Vuoi dire che i Pacificatori continuano l’offensiva?!» si allarmò Lantora.

   «Certo, che ti aspettavi?» fece T’Vala. «Quando me ne sono andata, stavano approfittando della situazione per premere ancora di più».

   «Maledetti» si disse il Commodoro, che aveva lasciato la Keter in loro compagnia.

   Vedendo la sua espressione, la mezza Vulcaniana si preoccupò. «Che succede? Dov’è la Keter?» chiese.

   «Sei al corrente della nostra missione?» chiese Lantora.

   «Sì, il comando romulano mi ha informata che dovevate catturare una Narada... un piano rischioso» disse T’Vala. «Per questo te lo chiedo: che è successo alla Keter?».

   «Vieni a bordo, ne parleremo faccia a faccia».

 

   «Li hai lasciati col Moloch?!» sbraitò T’Vala. La mezza Vulcaniana camminava su e giù per la sala tattica: era l’unico modo di sfogare l’angoscia. Lantora invece sedeva stancamente al suo posto. Non c’erano altri: lo Xindi aveva voluto affrontare sua moglie da solo.

   «Non ho avuto scelta» sospirò Lantora. «Lo Stato Imperiale ci era addosso e la mia nave era danneggiata. Se fossimo rimasti con loro, li avremmo rallentati e gli Imperiali ci avrebbero presi tutti. Così abbiamo dovuto dividerci. È stata la logica, tesoro... la stessa dannata logica che hai sempre cercato di farmi seguire».

   «E dopo quarantadue anni, dovevi diventare logico proprio adesso? Non potevi aspettare qualche giorno in più?!» chiese T’Vala, girandosi a guardarlo. Aveva le lacrime agli occhi.

   «Ehi, non disperare. Il Capitano Hod è in gamba e la Keter è indistruttibile» cercò di consolarla lo Xindi. «Se avranno problemi coi Pacificatori, abbandoneranno la Zhat Vash e torneranno qui».

   «Se i Pacificatori non s’impadroniscono della nave e la usano contro di loro!» corresse la mezza Vulcaniana. «Dovevi distruggerla, piuttosto che lasciargliela».

   «Distruggere la Zhat Vash avrebbe vanificato l’operazione e con essa il sacrificio di un Falco da Guerra repubblicano» obiettò Lantora. «Ho preferito confidare nella Keter».

   «C’è nostro figlio su quella nave!».

   «E credi che l’abbia dimenticato?!» gridò lo Xindi, perdendo finalmente la calma. «Ma Vrel è un ufficiale della Flotta Stellare e conosce il suo dovere. Fortunatamente ha preso il meglio sia da te che da me. Se la caverà... se la caveranno tutti» disse, cercando di convincersi.

   T’Vala sembrava prossima al crollo nervoso. Si avvicinò al marito, senza incrociare il suo sguardo. «Due anni fa abbiamo perso nostra figlia» mormorò. «Se ora perdessimo anche Vrel...».

   «Non accadrà» ribadì Lantora. «E quanto a Lyra... chissà cosa serba il futuro».

   «Non farlo» disse la mezza Vulcaniana, guardandolo finalmente negli occhi. «Non illuderti che tornerà da noi. Ha scelto in base alla sua logica distorta: sta con l’Unione e passa il tempo a fare propaganda. Non è più nostra figlia. Per quanto mi riguarda, Lyra è morta».

   Cadde il silenzio, lungo e opprimente. Alla fine, con grande sforzo, Lantora prese le mani della moglie tra le sue. «Di Lyra non voglio più parlare. Riguardo alla Keter, invece, non tutto è perduto. Ci siamo accordati per incontrarci sul confine, se fossimo sfuggiti agli Imperiali. Con la Constellation in questo stato non ho potuto andarci, ma tu puoi farlo subito. Anzi, te lo ordino come Commodoro. Sei autorizzata a portare due navi scorta con te, per avere un po’ di vantaggio sul Moloch».

   «E me lo dici adesso? Vado subito!» si rianimò T’Vala. «Dammi le coordinate».

   «Eccole» disse Lantora, consegnandole un d-pad. «Mi raccomando, sta’ attenta. Se il Moloch vi crea problemi...».

   «... lo distruggerò» promise la mezza Vulcaniana. I suoi occhi erano spietati. «Shil a Sha Ka Ree, riportatemi a bordo» ordinò, premendosi il comunicatore. Svanì nel bagliore azzurro del teletrasporto, prima ancora che Lantora potesse salutarla.

   Di lì a pochi minuti la Sha Ka Ree partì assieme a due navi di classe Horus. Viaggiando a massima cavitazione, raggiunsero il punto di rendez-vous in un giorno. Ma una volta lì, non trovarono alcuna astronave.

   «Scansione approfondita. Cercate tracce di cavitazione» ordinò T’Vala, ben sapendo che le tre navi avevano avuto tutto il tempo di arrivare.

   «Negativo, Capitano. Se sono stati qui, le tracce si sono dissolte» riferì l’addetto ai sensori dopo qualche minuto.

   «Allora... allora aspetteremo» disse la mezza Vulcaniana, pur sapendo che era illogico.

   «Capitano, non possiamo attardarci» le ricordò il Primo Ufficiale. «Nuovo Romulus è in pericolo, dobbiamo contribuire a difenderlo. È la logica che lo impone... il bene dei molti!» disse, cercando di far breccia nella mezza Vulcaniana.

   La madre e il Capitano lottarono entro T’Vala, finché il Capitano ebbe la meglio. «Sì, è la logica» convenne con un filo di voce. Guardò le stelle: una volta le aveva amate, ma ora le odiava per com’erano indifferenti alle tragedie che si consumavano in mezzo a loro. «Rotta per Nuovo Romulus, massima velocità» ordinò, e scomparve nel suo ufficio. Un equipaggio non deve mai veder piangere il suo Capitano.

   Quando i tre vascelli si riunirono ai difensori del pianeta, Lantora non chiamò nemmeno. L’assenza della Keter era già abbastanza eloquente. Lo Xindi lesse il rapporto, quando glielo spedirono, e tornò al lavoro. Era quasi contento di avere tanto da fare, perché almeno le mille incombenze lo distraevano. Solo quando tutto fu pronto e le astronavi si schierarono in attesa del nemico ripensò alla Keter. «Buona fortuna, ragazzi, ovunque siate» disse fra sé. «E buona fortuna soprattutto a te, figliolo».

 

   La prima cosa che fecero i federali, dopo essersi teletrasportati nelle intercapedini, fu riattivare l’illuminazione. La seconda fu assicurarsi che l’impianto d’aerazione funzionasse. La terza fu cercare i terminali della rete informatica.

   I computer dei Proto-Umanoidi erano incassati nello spessore del guscio e, pur non essendo tanto più avanzati di quelli federali, occupavano un volume impareggiabile. Ogni settore aveva il suo computer e tutti erano connessi in una rete di parecchi miliardi di elaboratori. Ciò rendeva la Sfera di Dyson il più grande centro informatico della Via Lattea, salvo forse l’Unicomplesso Borg. Anche ora che quasi tutti i sistemi erano offline, i computer regolavano l’apertura e la chiusura dei portali, guidavano le astronavi con i raggi traenti e mantenevano la Sfera in equilibrio gravitazionale con la sua stella. Cercavano anche di smaltire il calore e le radiazioni in eccesso, sebbene in questo avessero fallito da tempo: ma senza i sistemi di raffreddamento la superficie interna sarebbe stata ancora più rovente.

   A guidare la squadra era Terry, che conosceva la Sfera di Dyson dalla precedente visita, e che ad Andromeda aveva osservato una sua versione ancor più evoluta, il Cervello Matrioska. «Da questa parte» disse l’IA, imboccando un corridoio. «La sala del mainframe non è lontana».

   «Vorrei che restasse con noi fino al termine del lavoro» disse Dib, che la seguiva dappresso. «La sua conoscenza di questi sistemi sarà utile».

   «Beh, non è che i Proto-Umanoidi mi abbiano istruita sui loro computer» si schermì Terry. «E purtroppo il Cervello Matrioska fu distrutto prima che potessi studiarlo a fondo. I rapporti delle squadre che lavorarono qui saranno più preziosi della mia esperien...». La sua voce si smorzò fino a spegnersi.

   «Che succede?» chiese l’Ingegnere Capo del Moloch, un Dopteriano dal cranio calvo e maculato.

   «Ho sentito qualcosa» disse Terry, impugnando il phaser. I suoi agenti la imitarono, e così quelli del Moloch.

   Dib estrasse subito il tricorder. «Rilevo dei segni vitali, venti metri avanti a noi» disse. «Non riesco a isolarli, devono usare qualche sistema di mascheramento. Ma direi che si tratta di svariati individui».

   «A che gioco state giocando, ribelli?!» chiese l’Ufficiale Tattico del Moloch, un Osaariano dal viso asimmetrico. Il suo phaser puntava contro Terry, e precisamente al suo Emettitore Autonomo. Un colpo e l’avrebbe uccisa.

   «Non c’è alcun “gioco”» disse Terry, mantenendo la calma. «Chiunque si nasconda qui, ci è del tutto ignoto».

   «Ma davvero? Eppure è stata lei a proporre di venire nella Sfera!» obiettò l’Osaariano. «Forse sapeva che era un covo di ribelli e ne ha approfittato per tenderci un’imboscata».

   «Sì, così avrete la Zhat Vash tutta per voi! Che manigoldi!» rincarò il Dopteriano.

   «Se avessimo cattive intenzioni saremmo stati decisamente maldestri a farci scoprire così, non vi pare?» notò Terry.

   «Comunque non vi permetterò di allontanarvi» disse l’Osaariano, tenendola sotto tiro.

   In quella un campo di forza si attivò qualche metro più avanti e un altro comparve dietro alla squadra. Gli ufficiali erano isolati in un segmento del corridoio.

   «Ha visto? Ci hanno intrappolati!» gemette il Dopteriano.

   «Sì, e noi siamo in trappola con voi» disse pazientemente Terry. «Ribadisco che, se vi avessimo teso un’imboscata, lo avremmo fatto in modo più razionale».

   «Ciò non toglie che ci sono degli estranei, e che una trappola è effettivamente scattata» puntualizzò l’Osaariano. «Zannis a Moloch, teletrasporto immediato per tutta la squadra» ordinò, premendosi il comunicatore. Non ci fu risposta. «Zannis a Moloch, rispondete, siamo sotto attacco!» insisté, senza miglior fortuna.

   «Il campo di dispersione blocca anche le comunicazioni» dedusse Dib. «Chiunque sia ad attaccarci, è evidente che controlla i sistemi della Sfera».

   «Ma che vogliono?!» chiese il Dopteriano, sempre agitato.

   «Il fatto che ci abbiano bloccati suggerisce che vogliano tenerci in vita» grugnì Zannis, abbassando finalmente il phaser. «Ma i nostri colleghi si accorgeranno che abbiamo perso il contatto e verranno in soccorso. Quindi i nemici devono fare la loro mossa prima di allora».

   L’Ufficiale Tattico aveva appena parlato che una piccola grata si aprì nella parete, appena sotto il soffitto. Ne uscì un fumo denso e arancione, che colò come un liquido, addensandosi sul pavimento. Subito i membri della squadra cominciarono a tossire, salvo Dib e Terry, che non respiravano.

   «Che roba è?!» chiese il Dopteriano, con gli occhi arrossati e lacrimanti.

   «Sono i gas tossici della superficie» rispose Dib, con la solita calma. «Qualcuno li sta pompando qui per eliminarvi».

   «Eliminare... noi, eh?» ringhiò l’Osaariano, di nuovo sospettoso. «Voi invece siete immuni! Che combinazione!».

   «Io e Dib saremo anche immuni, ma i nostri colleghi non lo sono» ribatté Terry, accennando ai loro agenti e ingegneri. Anche loro si stavano spolmonando.

   L’Ufficiale Tattico del Moloch fissò la sua omologa con durezza, poi sparò contro il campo di forza, che assorbì il raggio.

   «La sua arma dovrebbe essere cento volte più potente per superare quella barriera» avvertì Terry. «Ricordi che questa è la tecnologia dei Proto-Umanoidi». Estrasse a sua volta il phaser e lo diresse contro la parete, facendo fuoco continuo. «Aiutatemi. A questa velocità non farò in tempo a ritagliare un varco prima che soffochiate» avvertì.

   I Pacificatori spararono a loro volta contro il muro, ma la durissima lega ci metteva un pezzo a fondersi. Nel frattempo gli ufficiali tossivano sempre più; molti avevano le lacrime agli occhi e barcollavano. Il fumo era ormai all’altezza della vita e continuava a salire. Dib afferrò il Dopteriano, che si stava accasciando, e lo sorresse affinché non respirasse una maggior concentrazione di gas.

   Fu allora che alcune figure si fecero avanti, oltre il campo di forza. Erano sagome sfocate, per via del fumo, ma quando si avvicinarono Dib riconobbe uno di loro. «Signor Arvid, che ci fa qui?» chiese.

   Il vecchio Risiano, ex ufficiale scientifico della Keter, si accostò alla barriera fin quasi a sfiorarla. «Ci vivo» rispose in tono secco. Strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco i compagni del Penumbrano. «Quelli sono Pacificatori» s’insospettì.

   «Ci sono anche membri del nostro equipaggio» disse Terry, smettendo di tagliare la parete. «Stiamo collaborando contro una minaccia comune».

   «Non ditemi che la guerra è finita! Non ce la beviamo... siamo aggiornati sulla situazione» obiettò Arvid. Quelli alle sue spalle annuirono. Appartenevano a varie specie federali e indossavano uniformi paramilitari. Erano armati alla meno peggio con phaser e disgregatori.

   «La guerra continua, ma tra noi e il Moloch c’è un cessate il fuoco» spiegò Terry. «Abbiamo sottratto un incrociatore allo Stato Imperiale e dobbiamo studiarlo, prima che gli altri distruggano Nuovo Romulus. Avete rilevato l’incrociatore, vero?».

   «Sì» ammise Arvid. «Temevamo che i Pacificatori si fossero alleati con lo Stato Imperiale, impadronendosi della Keter».

   «Ora sapete che non è così» disse la proiezione isomorfa. «Questa collaborazione può essere il germe di un armistizio, quindi sospendete l’attacco. Se questi Pacificatori muoiono, il Moloch attaccherà e sarà il disastro».

   Arvid rifletté brevemente, mentre i Pacificatori si accasciavano, tossendo disperatamente. Infine si portò la mano al comunicatore. «Arvid a centro di comando, fermate l’attacco. Ci sono i nostri, qui. Sì, ci sono anche i Pacificatori. Pare che abbiano stipulato una tregua, per studiare quella nave istrice. Liberateli, ho detto... garantisco io per loro».

    La grata nel muro si richiuse, interrompendo l’afflusso di gas tossico. Al suo posto se ne aprì una vicina al pavimento, che aspirò il gas. Quando l’aria ridivenne limpida, i campi di forza si disattivarono. Federali e Pacificatori annasparono, riempiendosi i polmoni di ossigeno. Gli agenti della Sicurezza furono disarmati dai paramilitari prima di potersi riprendere. Solo Terry era in grado di difendersi, ma consegnò spontaneamente il suo phaser.

   «Sono il Tenente Comandante Terry, Ufficiale Tattico della Keter» si presentò.

   «Un’Intelligenza Artificiale?» chiese Arvid, notando il suo Emettitore Autonomo.

   «Esatto, sono subentrata a Norrin due anni fa, allo scoppio della guerra. All’epoca lei aveva appena lasciato la nave» disse l’IA. «Se le mie informazioni sono esatte, fu tra coloro che non se la sentirono di ribellarsi all’Unione ed ebbero licenza di andarsene».

   «Uhm, sì» mugugnò il Risiano. «Pensavo di tornarmene a casa, ma come vede non sono riuscito a star lontano dai guai».

   «Cos’è questo gruppo a cui si è unito?» chiese Terry, accennando ai paramilitari che lo scortavano. Le loro uniformi raffazzonate non avevano mostrine.

   «Non ne parlerò davanti a loro» disse Arvid, scrutando torvo i Pacificatori. Dopo di che gli si rivolse direttamente. «Signori, adesso sarete condotti in cella. Se quelli della Keter saranno persuasivi, potremmo liberarvi».

   «Farete meglio a decidere in fretta» disse l’Osaariano. «Se non faccio rapporto al Capitano Radek entro un quarto d’ora, le nostre truppe attaccheranno in forze».

   «Sono una forza considerevole» sussurrò Terry al Risiano. «Non credo che possiate dargli battaglia».

   «Siamo più attrezzati di quanto crede» disse Arvid tra i denti.

   «Sarebbe la fine della tregua» insisté l’IA.

   «Sai che perdita!» fece il vecchio, sprezzante.

   «A farne le spese sarà la Repubblica Romulana» intervenne Dib. «Lo Stato Imperiale la distruggerà, se non troviamo il modo di sabotare la sua flotta. Cosa possibile solo violando la rete subspaziale che la tiene unita. Ma per farlo ci serve molta potenza di calcolo; ecco perché siamo qui».

   «Uhm... suppongo di dovermi fidare della sua parola di Penumbrano» disse lo scienziato. «Ma non rinunciamo facilmente agli ostaggi».

   «Può condurci dal vostro leader, così che conferiamo con lui?» chiese Terry, in tono d’urgenza.

   Arvid non rispose subito. Al suo cenno, le guardie portarono via i Pacificatori. Solo quando furono lontani il Risiano si rilassò. «Eccomi qui» disse allargando le braccia. «Sono io il capo di questa comunità».

   «Lei?». Terry non celò la propria sorpresa. «Ma lei era...».

   «Il metereologo e climatologo della Keter, sì» confermò il vecchio. «Tra poco capirete perché sono così importante, da queste parti. Venite». Imboccò un corridoio laterale e ai federali non restò che seguirlo. Dovevano camminare di buon passo per stargli dietro.

   «Adesso può dirci chi è questa gente?» chiese Terry.

   «Siamo la Catena Cremisi» rivelò Arvid, sempre di fretta. «Sa di che si tratta?».

   La proiezione isomorfa annuì. «Secondo i servizi segreti, siete un’organizzazione paramilitare nata sulla Terra, dopo che Rangda l’ha ceduta ai Voth, e poi diffusa in gran parte dell’Unione. Vi opponete ai Pacificatori e alla Polizia del Pensiero. Nascondete i ricercati e liberate i prigionieri dai Centri di Rieducazione».

   «Vedo che è bene informata» disse Arvid. «Oso dire che siamo un discreto grattacapo per Rangda... il che ci rende vostri alleati naturali, se vi degnaste di collaborare» aggiunse in tono velatamente accusatorio.

   «La Catena Cremisi è troppo violenta per i nostri gusti» disse Terry. «Avete compiuto attentati che in alcune occasioni hanno preso di mira anche i civili della parte avversa».

   «Incidenti isolati... la nostra lotta è contro i Pacificatori» sostenne il Risiano, infastidito.

   «Ma lei non può essere il capo di tutta la Catena» notò l’IA.

   «Certo che no! Sono solo uno degli anelli» confermò Arvid. «Comunque la nostra struttura è decentralizzata. C’è un consiglio direttivo che si riunisce quando può, ma i suoi membri cambiano spesso. I capi-cellula come me hanno grande libertà d’azione».

   «E lei che fa, esattamente?» inquisì Terry.

   Il Risiano le restituì un’occhiata scaltra. «Non vado in giro a piazzare bombe, se è questo che crede. Il mio ruolo è puramente difensivo. Vede, quando la Catena aiuta a fuggire i ricercati, o libera i prigionieri, poi li porta qui. Questo è il nostro rifugio principale». Così dicendo entrò in un ascensore grande quanto una stanza. I federali lo seguirono. Arvid attivò i comandi alieni con la noncuranza di chi li usa tutti i giorni. Ci fu una lieve vibrazione e l’elevatore s’innalzò a gran velocità.

   «Quanti siete?» chiese ancora Terry, inquieta.

   «Circa centomila» fu la sorprendente risposta. «Veniamo da quasi tutti i mondi dell’Unione. In particolare abbiamo molti Umani liberati dai Centri di Rieducazione. Alcuni ce li ha consegnati quel pittoresco corsaro che si fa chiamare Spettro. Lo conoscete?».

   «Abbiamo collaborato con lui» confermò la proiezione isomorfa. «Ma non mi aspettavo che riusciste a mantenere così tanta gente in queste intercapedini».

   «Chi vi ha detto che stiamo tutti nei sotterranei?» ribatté Arvid, con uno strano sorriso.

   «La superficie è invivibile...» rispose Terry, ma si bloccò.

   «Questa è l’opinione corrente» disse il Risiano, fregandosi le mani soddisfatto. «Ma guardate un po’, e ditemi cosa ne pensate».

   L’ascensore si aprì sul lato opposto a quello da cui erano entrati. I federali videro un’intensa luce arancione che, proveniente da dietro di loro, riverberava sul pavimento. Avvertirono anche un’ondata di aria calda, come se arrivasse l’estate. Si voltarono lentamente, trovandosi davanti a uno spettacolo unico nella Galassia.

   Erano affacciati su un mondo cavo, grande quanto il sistema solare interno. In alto brillava la stella morente, appena velata da uno statite. La sua luce arancione dava l’impressione del tramonto, anche se in realtà era allo zenit e non se ne discostava mai. Davanti a loro c’erano prati d’erba giallastra e resistente, disseminati di abitazioni. Erano edifici molto semplici, poco più che prefabbricati, talvolta circondati da piccoli orti. Gli abitanti li stavano evacuando: alcuni si rifugiavano nei sotterranei, altri preparavano le navette al decollo. Molti, vedendo i nuovi arrivati, interruppero l’attività e li fissarono. Era da tanto che non vedevano uniformi della Flotta Stellare.

   I federali spinsero lo sguardo in avanti, verso l’orizzonte che... non c’era. La distesa pianeggiante proseguiva oltre l’ombra dello statite, dove l’atmosfera si faceva torbida e le radiazioni impedivano a qualunque cosa di crescere. Invece di curvare verso il basso, creando l’orizzonte, la superficie si piegava verso l’alto, andando ad avvolgere la stella. Dal loro punto di vista pareva di trovarsi sul fondo della Sfera, che incombeva su di loro come una cupola smisurata. In realtà avrebbero avuto la stessa impressione da qualunque punto della superficie. Ed era sempre meglio dell’altra prospettiva, quella che tutti cercavano di evitare: la sensazione orribile d’essere incollati al soffitto e di poter cadere da un momento all’altro nel vuoto, verso la stella.

   Un altro effetto di quell’ambiente anomalo era l’impossibilità di valutare adeguatamente le dimensioni del guscio. Succede lo stesso nelle caverne, dove talvolta quelle che sembrano piccole rocce si rivelano formazioni enormi e assai lontane. Ma in quella megastruttura l’effetto era amplificato. Non c’era modo di afferrare la vastità dell’ambiente chiuso: l’unico indizio era la pianura che fuggiva in lontananza prima di curvarsi verso l’alto. Un tempo quello sterminato habitat aveva ospitato oceani e continenti, con tutti i climi possibili, dal tropicale al polare. Il cielo era stato un mosaico verde-azzurro, spruzzato dal bianco delle nuvole. Ora però dominavano l’arancio e il bruno dell’atmosfera tossica, mentre gli statiti sul lato opposto della Sfera erano invisibili per la distanza.

   «Avete mai visto uno spettacolo del genere?» chiese Arvid.

   «Una volta, molto tempo fa» disse Terry, ricordando l’avventura nel Cervello Matrioska. «Ora capisco perché questa gente la tiene in tanta considerazione. Se non fosse riuscito a far funzionare gli statiti, non sarebbero sopravvissuti».

   «Già, in un certo senso è il sogno di ogni metereologo» ammise il Risiano, tra il compiaciuto e l’imbarazzato.

   «Dottor Arvid, lei ha detto che siete in centomila; non mi pare che vivano tutti qui» notò Dib, a cui era bastato un colpo d’occhio per stimare la densità abitativa della zona.

   «Certo che no, ci sono altre oasi sotto altri statiti» confermò il Risiano. «E alcuni di noi trascorrono la maggior parte del tempo nei sotterranei, dove si trova il centro di comando».

   «Tuttavia avete molte cose in superficie. Come avete fatto a nascondervi?».

   «Eravamo preparati all’eventualità che arrivassero i Pacificatori» spiegò il metereologo. «Mascheriamo gli insediamenti con ologrammi e grazie ai computer della Sfera riusciamo anche a creare false letture dei sensori».

   «Ingegnoso» riconobbe il Penumbrano. «Suppongo che l’approvvigionamento energetico non sia un problema» aggiunse, accennando alla gigante rossa.

   «No di certo!» ridacchiò Arvid. «La fascia equatoriale della Sfera è coperta di pannelli solari, in gran parte ancora operativi. Significa che abbiamo energia da vendere. Possiamo tenere costantemente attivi i sistemi di mascheramento. Possiamo alimentare i replicatori con cui procurarci cibo e materiale da costruzione. Possiamo...» e qui s’interruppe.

   «Potete difendervi?» indovinò Terry. «Che armi avete?».

   «Scusi, ma non sono pronto a discuterne» s’irrigidì il Risiano.

   «Invece dovrebbe. Ora che ha catturato una squadra di Pacificatori, il Moloch attaccherà» avvertì la proiezione isomorfa. «Se libera gli ostaggi e ci permette di mediare un accordo, forse eviteremo lo scontro. Ma in ogni caso non potete restare qui, ora che i Pacificatori vi hanno scovati. E purtroppo sulla Keter non c’è abbastanza posto per trasferirvi tutti in una volta».

   «Abbiamo molte navicelle» la rassicurò Arvid. «Tra quelle e la Keter, possiamo caricare tutti. Ma come potete immaginare, ci duole lasciare questo rifugio. Abbiamo lavorato sodo per renderlo vivibile. C’è gente che sta qui da oltre un anno e ormai lo considera casa sua. Non saranno contenti di sapere che ci avete portato i Pacificatori» aggiunse, con un’occhiata sfuggente.

   «Noi... siamo desolati di avervi messi in pericolo» disse Terry, senza rivelare che era colpa sua. «Se avessimo saputo che vivevate qui, avremmo cercato un altro luogo. Anche se in effetti non saprei dove trovare la necessaria potenza di calcolo. Se solo non ci aveste attaccati! Forse potevate restare nascosti».

   «Il nostro centro di comando è proprio nella zona in cui vi stavate recando. Non saremmo riusciti a sbaraccare in tempo» chiarì lo scienziato. «Ora molti di noi vorranno resistere a oltranza. Vediamo... oltre alle nostre difese ci sono la Keter e quell’incrociatore che avete catturato. Se uniamo le forze, può essere l’occasione per sbarazzarci del Moloch. So quanto filo da torcere vi ha dato in questi anni. Non le andrebbe di chiudere i conti?».

   «I miei desideri sono irrilevanti» disse l’IA, assumendo un atteggiamento impersonale. «Abbiamo una tregua coi Pacificatori e non saremo noi a violarla».

   «Credete che rispetteranno la parola? Non lo fanno mai!» s’incupì Arvid.

   «Non è una buona ragione per essere i primi a tradire» insisté Terry. «E poi il Comando dei Pacificatori sa che siamo qui. Se il Moloch sparisse, manderebbe altre navi a indagare».

   «Ci avete messi in una bella situazione!» sbuffò il Risiano. «Beh, ormai la frittata è fatta. Chiamerò il Capitano Hod, e anche Radek. Vediamo di tenere le dita lontane dai grilletti, finché la vostra missione sarà ultimata».

 

   La Keter e il Moloch furono informati della situazione, appena prima che lanciassero una spedizione congiunta per trovare gli scomparsi. Questo però non risolse il problema. Saputo che nella Sfera si annidavano dei ribelli, Radek intimò alla Catena Cremisi di arrendersi e di rilasciare gli ostaggi, sia federali che Pacificatori. In risposta, la Catena minacciò di giustiziare i Pacificatori. La palla passava ora alla Keter.

   Il Capitano Hod capì che solo la diplomazia poteva sbloccare la situazione. I Pacificatori tendevano a vedere i ribelli come un tutt’uno, senza distinguere tra la Flotta Stellare e la Catena Cremisi. Se al posto di Radek ci fosse stato un altro Capitano, quell’incidente avrebbe già messo fine alla tregua. Stando così le cose, Hod cercò di fargli capire che loro non c’entravano.

   «Mi riesce difficile crederlo» disse il Rigeliano durante la riunione in olopresenza. «È stata Terry a proporre di venire qui. Sempre voi avete scelto questo settore della Sfera. E ora, guarda caso, scopriamo che è un covo di terroristi!» disse, lanciando un’occhiata di fuoco ad Arvid, anche lui in olopresenza.

   «Siamo profughi privati delle case. Cittadini in fuga dalla vostra Polizia del Pensiero. Partigiani che lottano per la democrazia e la libertà...» si difese Arvid.

   «Siete dei tagliagole!» ringhiò Radek. «Solo nell’ultimo mese avete compiuto quindici attentati terroristici sulla Terra. Avete piazzato bombe negli alloggi che i Voth si erano appena costruiti, massacrando intere famiglie!».

   «La Catena Cremisi è composta di cellule pressoché autonome, unite solo dall’obiettivo di scacciare Rangda e i Voth» sostenne lo scienziato. «Se alcuni gruppi fanno attentati, noi non ne siamo responsabili. Sempre che quanto dice sia vero... sempre che non sia una messinscena per demonizzarci» insinuò.

   «Come osa! Ci sono delle vittime, e lei le sta insultando!» s’indignò il Rigeliano, scattando in piedi.

   «Silenzio, tutti e due!» gridò Hod, dando una manata sul tavolo.

   Radek e Arvid, che si fronteggiavano con aria truce, si girarono a guardarla.

   «Non siamo qui per risolvere questo groviglio politico» disse l’Elaysiana, più calma. «Siamo in guerra, il che significa che si compiono atrocità da tutte le parti. Quel che mi preme chiarire è che la Flotta Stellare non ha alcun rapporto con la Catena Cremisi».

   «Sta mentendo. Ci sono corsari, come lo Spettro, che fanno la spola tra voi e loro!» accusò Radek.

   «I corsari non c’informano di tutti i loro traffici. Senta, se fossimo in affari con la Catena, crede che vi avremmo condotti nel suo rifugio? Non gli abbiamo fatto un favore!» chiarì Hod.

   «No di certo» grugnì Arvid. «Semmai ci avete messi in pericolo».

   «E allora perché ci stavate aspettando?» obiettò il Rigeliano.

   «Oh, bella! Siamo sempre pronti a difenderci!» sbottò il vecchio scienziato.

   «Signori, dobbiamo allentare la tensione, o gli unici a vincere saranno gli Imperiali. Ciò significa che tutte le parti in causa devono fare una dimostrazione di buona volontà. Lei, Radek, si asterrà dall’attaccare. In cambio la Catena rilascerà i Pacificatori».

   «E voi della Flotta, che farete?» chiese il Rigeliano.

   «Se qui nella Sfera ci sono feriti o malati, li cureremo. Inoltre consentiremo alla Catena di tenere in ostaggio i nostri, fino al termine della missione» disse Hod, spiazzando Arvid. «Solo allora tratteremo per il loro rilascio».

   «Se voi e la Catena siete complici, è un ben piccolo sacrificio» borbottò Radek.

   «Ma noi non siamo complici» disse Hod. «Come suo ex Capitano, le chiedo di fidarsi di me, almeno su questo punto».

   Si guardarono a lungo negli occhi.

   «E va bene» cedette il Rigeliano. «Voglio crederle, in nome... dei vecchi tempi. Ma alla loro prima mossa falsa» e indicò Arvid «la nostra reazione sarà immediata!».

   «Che volete fare, eh? Attaccarci nei sotterranei? Li conosciamo molto meglio di voi!» avvertì il Risiano.

   «No» disse Radek con un sorriso perfido. «Pensavo piuttosto a quegli statiti. Sono dei giocattoli interessanti, ma così fragili... basterebbe un nonnulla per distruggerli. E poi vedremo come resisterete alle radiazioni. Una bella sfida per i climatologi!» lo derise.

   «Vedo che ha gettato la maschera, Pacificatore» disse Arvid, fissandolo con disprezzo. «L’avverto: se colpite gli statiti, sigilleremo tutti gli ingressi della Sfera. Non ne uscirete mai più».

   «Basta!» intervenne ancora Hod. «Sappiamo tutti che potete farvi del male a vicenda. Ma lo scopo di quest’incontro è evitare che ciò accada. Perciò intendo mantenermi equidistante. Se vi colpirete... non importa chi comincia... la mia nave attaccherà entrambi. Ma ribadisco che qualunque scontro tra noi andrà a vantaggio esclusivo degli Imperiali. Quindi cerchiamo di collaborare fino al termine della crisi, e poi... poi potremo riprendere dove ci eravamo interrotti. Siete d’accordo?».

   «Lo sono» disse Arvid.

   «Anch’io» mugugnò Radek.

   «Allora mettiamoci al lavoro. Abbiamo già perso fin troppo tempo» concluse il Capitano.

 

   Stipulata la tregua, gli ingegneri si misero al lavoro. Dib e la sua squadra, formalmente ancora in ostaggio della Catena, poterono accedere alla rete informatica della Sfera. Erano miliardi e miliardi di computer, uno per settore, che lavoravano all’unisono. Ovviamente molti di essi si erano guastati nei secoli di abbandono; ma la maggior parte funzionava ancora. Ciò faceva della Sfera un impareggiabile centro di elaborazione. Era con quella potenza di calcolo che i federali speravano di violare la rete subspaziale delle Narada.

   «Notevole» riconobbe Dib. «Il potenziale informatico della Sfera supera quello di qualunque mondo federale di almeno quattro ordini di grandezza. Se potessimo sfruttarlo in tempo di pace, otterremmo immensi benefici».

   «Per sfruttarlo in tempo di pace, dobbiamo prima vincere la guerra» borbottò Arvid.

   Terry invece tornò sulla Zhat Vash, dove si trovava il plesso di collegamento con la rete. Di tutti gli ostaggi federali, solo lei era stata rilasciata, in quanto il suo mainframe si trovava sulla Keter: trattenere una proiezione non avrebbe fatto differenza. Con lei andò Zafreen: l’addetta alle comunicazioni doveva mantenere stabile il segnale, una volta che la Zhat Vash fosse stata rimessa in rete. Fu subito chiaro che le due non avrebbero lavorato bene assieme. Terry controllava regolarmente il lavoro dell’Orioniana, che era sempre più risentita; e il nervosismo le faceva commettere ancora più errori. Ma sulla Zhat Vash c’erano anche i tecnici dei Pacificatori, che collaboravano secondo gli accordi. La loro presenza angustiava Hod, che di lì a poco convocò V’Lena nel suo ufficio.

   «Voleva vedermi, Capitano?» esordì la monaca.

   «Sì, venga avanti» l’accolse l’Elaysiana. «Volevo ringraziarla per quanto ha fatto finora e chiederle se è disposta a continuare».

   «Naturalmente; qual è la missione?».

   «Sto per mandare sulla Zhat Vash i tecnici che abbiamo evacuato dal Memoriale di Romulus» spiegò il Capitano. «Anche se non sono specializzati quanto i nostri, li aiuteranno a familiarizzare coi comandi romulani. Voglio che vada con loro».

   «Volentieri, ma... io non sono un tecnico informatico» ammise V’Lena.

   «Tranquilla, non deve fingersi una di loro. Li accompagnerà come scorta. Quelli che deve sorvegliare sono i Pacificatori. Li tenga d’occhio e mi avverta se coglie qualche discorso sospetto».

   «Si aspetta un tradimento?».

   «Nella nostra situazione devo aspettarmi di tutto» rispose Hod. «La tregua è precaria e può rompersi in ogni momento».

   «Se i Pacificatori cercassero d’impadronirsi della Zhat Vash...».

   «... dovrà fermarli ad ogni costo. Posso contare su di lei?» chiese l’Elaysiana, scrutandola. Se avesse avuto Jaylah a disposizione, avrebbe affidato a lei quell’incarico; ma Jaylah era lontana e quindi doveva arrangiarsi con ciò che aveva.

   «Da quando lo Stato Imperiale ci ha invasi, la mia missione è ostacolarlo» disse V’Lena. «Se questo è il modo, ben venga».

   «Ma non prenda altre iniziative senza il mio permesso» raccomandò il Capitano.

   «Una promessa è...».

   «... una prigione, lo so» sbuffò Hod. «Ma ora che si è impegnata ad aiutarci, deve rispettare la catena di comando, il che significa obbedire agli ordini. È chiaro?».

   La monaca rifletté brevemente. «Sì, signora» disse infine. «C’è altro?».

   «No, può andare. I Romulani partiranno tra venti minuti dalla sala teletrasporto 1».

   «Allora arrivederci, Capitano» disse V’Lena, e lasciò in fretta l’ufficio, per aggregarsi alla squadra.

   Hod la osservò mentre usciva, augurandosi di aver fatto la scelta giusta. Le Qowat Milat onoravano sempre la parola data ed erano rinomate come combattenti eccezionali. Tutte qualità utili, se ci fosse stato da lottare per il controllo della nave. Ma V’Lena era giovane e impulsiva; il Capitano si augurò che non diventasse una scheggia impazzita.

 

   La presenza dei Romulani sulla Zhat Vash permise di sveltire le operazioni. Entro sera l’astronave fu connessa alla rete informatica della Sfera. Fatto questo, si tenne una nuova riunione in olopresenza. Vi parteciparono gli ufficiali della Keter e del Moloch, oltre ad Arvid in rappresentanza della Catena Cremisi.

   «Dichiaro aperta la riunione» disse Hod. «Prima di entrare nel merito, c’è una questione da risolvere. Le nostre tre fazioni sono in conflitto, ma dobbiamo far sì che il processo decisionale non sia paralizzato dalla divergenza di vedute. Quindi propongo una soluzione semplice: il voto diretto, secondo il modello del triumvirato. Io, Radek e Arvid esprimeremo i nostri pareri, e se due di noi concorderanno sulla strategia, chi si trova in minoranza dovrà attenersi alle decisioni».

   «Per me va bene» disse Arvid, pensando di avere più in comune con lei che col Pacificatore, e quindi di avere la maggioranza garantita.

   «Anche per me» aggiunse Radek, di malavoglia. Il rischio d’essere messo in minoranza da quelli che, ai suoi occhi, erano ribelli non gli andava giù. Ma solo così si evitava la paralisi decisionale.

   «Bene, allora possiamo cominciare» disse Hod. «Signor Dib, vuole aggiornarci?».

   «I collegamenti tra la Zhat Vash e il network della Sfera sono completi. Siamo pronti a lanciare l’attacco informatico» disse il Penumbrano.

   «Bene, ma dobbiamo calibrare i tempi per ottimizzare il risultato» intervenne Radek. «In precedenza ha detto che una volta violata la rete subspaziale, le Narada avranno pochi minuti di vulnerabilità. Me lo conferma?».

   «Sì» disse il Penumbrano. «Quando gli equipaggi avranno spento e riavviato manualmente i sistemi, disconnettendo le astronavi dalla rete, non potremo più influenzarle».

   «Quindi dobbiamo attendere l’attacco a Nuovo Romulus. Se le disabilitiamo in quel momento, la vostra flotta potrà distruggerle» affermò il Rigeliano.

   «Sempre che non disattivino la rete subpaziale per precauzione, o che l’attacco informatico non richieda più tempo del previsto» intervenne Norrin. «Io credo che dovremmo colpire non appena gli Imperiali entreranno nel sistema».

   «Se li blocchiamo quando sono lontani dal pianeta, non è detto che la Flotta riesca a cogliere l’occasione» obiettò Radek. «I vostri colleghi potrebbero non accorgersi nemmeno che le Narada sono vulnerabili. Io dico di aspettare l’inizio della battaglia».

   I due guardarono Hod, aspettandosi che dicesse la sua. Il Capitano rifletté un attimo e si schiarì la voce. «Indipendentemente dalla decisione, dobbiamo conoscere la situazione in tempo reale» disse.

   «Nulla di più facile» assicurò Arvid. «La Catena ha una rete di sonde e trasmettitori assai efficiente. Appena ci avete comunicato le vostre intenzioni, abbiamo organizzato una staffetta subspaziale che ci permette di monitorare la situazione a Nuovo Romulus».

   «Senti, senti!» fece Radek. «E dovremmo fidarci di voi?».

   «Sì, visto che siamo i padroni di casa» disse seccamente lo scienziato.

   «Diciamo piuttosto gli occupanti abusivi, ma... va bene» cedette il Rigeliano. «Dato che abbiamo un solo tentativo, rinnovo il mio invito ad attendere l’inizio della battaglia».

   «Io invece condivido la prudenza del Comandante Norrin» disse Arvid. «Dobbiamo colpire appena gli Imperiali entreranno nel sistema». Ancora una volta si rivolsero a Hod, il cui voto era decisivo.

   «Se la Flotta non potrà colpire subito le Narada, gli Imperiali le proteggeranno con i Falchi tradizionali, che costituiscono ancora il grosso della loro flotta» ragionò l’Elaysiana. «Di conseguenza devo convenire col Capitano Radek».

   Arvid ebbe un moto di sorpresa e di stizza, ma aveva promesso di attenersi alla scelta della maggioranza. Non poteva rimangiarsi la parola, o il triumvirato si sarebbe dissolto. «In tal caso, spero che i tecnici saranno svelti» disse. «Perché per ogni minuto perso, una nave della Flotta sarà distrutta. Forse è questo che vogliono i Pacificatori» insinuò, fissando bieco Radek.

   «Le mie ragioni le ho esposte e la maggioranza ha deciso» ribatté il Rigeliano, imperturbato. «Ora parliamo di come difenderci, se gli Imperiali ci localizzassero».

   La riunione proseguì, rallentata dalla scarsa fiducia tra le parti. Ci furono altre votazioni, su vari argomenti, e la geometria delle alleanze cambiò più volte. Mai, però, accadde che tutti e tre fossero concordi. Fortunatamente la fazione in minoranza, quale che fosse, accettò sempre l’esito. Infine la riunione si aggiornò. Malgrado i dissapori, erano riusciti ad affrontare tutti i punti all’ordine del giorno.

   «Bene, per oggi è tutto. Ci rivedremo domani alla stessa ora, per gli aggiornamenti» disse Hod, alzandosi. I suoi ufficiali la imitarono. A quel segno gli ospiti in olopresenza interruppero il collegamento. I loro ologrammi si dissolsero, tranne quello di Radek, che restò seduto al suo posto.

   «Ha problemi con la linea?» ironizzò Hod.

   «No, ma vorrei scambiare ancora qualche parola» disse il Rigeliano.

   «Questo è altamente irregolare. Se voleva dirmi qualcosa, doveva farlo durante l’assemblea» disse l’Elaysiana, sul punto di andarsene.

   «Capitano, la prego, non è niente che riguardi i nostri progetti» chiarì Radek.

   Hod esitò, ma poi fece segno agli ufficiali di lasciarla. Il Pacificatore non poteva nuocerle, in quanto il suo ologramma era intangibile e Terry si assicurava che lo restasse. Uno dopo l’altro gli ufficiali lasciarono la sala tattica. Norrin, Ladya e Dib si comportarono come se Radek non fosse più lì, mentre Vrel e Zafreen gli scoccarono occhiate velenose prima di andarsene.

   Finalmente sola con il suo ex Primo Ufficiale, il Capitano si risedette, ma senza guardarlo. «Sia conciso, perché non ho molto tempo da dedicarle» ordinò.

   «Non la smetterà mai con questo atteggiamento da regina tradita, eh?» sospirò Radek. «E va bene, basta che mi stia a sentire. Volevo parlarle dei suoi parenti su Elaysia».

   Il Capitano s’irrigidì. La sorte dei suoi familiari, che vivevano su un mondo dell’Unione, era un tarlo che la rodeva costantemente. Sapeva che all’inizio della guerra erano stati interrogati dalla polizia e poi rilasciati; era anche riuscita a fargli pervenire un ologramma con le memorie salvate dal Simbionte Dax. Ma da allora non aveva più saputo nulla di loro. «Se vuole ricattarmi, sappia che non otterrà niente da me. Neanche se ne andasse della loro vita» avvertì.

   «Ricattarla?! Ma per chi mi prende?» fece Radek, urtato. «Volevo solo dirle che i suoi cari stanno bene. Sua madre ha avuto qualche problema di salute, ma è tutto risolto. Suo fratello Yesod e la moglie hanno ancora i loro impieghi. I bambini vanno a scuola, a quanto mi risulta senza problemi. Il più grande sta per entrare nel secondo ciclo d’istruzione».

   «Perché mi dice questo?» chiese Hod, in tono piatto. Stava ancora evitando di guardarlo.

   «Perché so quanto lei sia diventata paranoica. Di certo crede che abbiamo fatto cose orribili ai suoi cari» spiegò il Rigeliano. «Volevo assicurarle che non è così. Mi sono personalmente assicurato che i suoi parenti stiano bene e ho fatto pressioni affinché siano lasciati in pace. Comunque vadano a finire le cose tra noi, loro se la caveranno».

   «Le sue pressioni saranno inutili, se Rangda deciderà di usarli per ricattarmi. Ma apprezzo il gesto» disse l’Elaysiana, guardandolo finalmente in volto. «Loro non sono responsabili delle scelte che ho fatto».

   «No, certo» disse Radek con calore. «E lei... ci ha ripensato?».

   «A cosa?».

   «Alla sua scelta di ribellarsi».

   «Certo che sì».

   «E cos’ha deciso?» chiese il Rigeliano, con una flebile speranza.

   «Dopo ciò che ho visto in questi anni, sono ancora più convinta di aver fatto la scelta giusta» sentenziò l’Elaysiana, levandogli quella speranza.

   «Dovevo immaginarlo... cocciuta fino in fondo» disse Radek, tra l’irritato e il rassegnato. «Eppure lei non è pazza, né stupida; si sarà resa conto che non potete vincere. Entro un paio d’anni espugneremo i vostri ultimi bastioni. Tutto il sangue versato, da una parte e dall’altra, è stato inutile. Era chiaro fin dal principio che avremmo vinto noi. Allora perché... perché continuate a farvi del male?».

   «Perché non accettiamo la vostra dittatura. Tutto qui» rispose Hod. Non c’era più rabbia, né indignazione in lei; solo una gran tristezza.

   «Abbiamo idee diametralmente opposte su cos’è una dittatura» sospirò Radek. «E io che ancora ci speravo...» disse, rovistandosi in tasca. Ne estrasse la metà di un medaglione, dal taglio slabbrato. Era il pendente con dedica che le aveva donato per il compleanno, poco prima che la Guerra Civile li dividesse. Hod lo aveva infranto in un raptus, ma poi gliene aveva restituito una metà, trattenendo l’altra per sé, con l’augurio che un giorno si sarebbero incontrati per ricomporlo.

   «Ce l’ha ancora?» si stupì l’Elaysiana.

   «Sempre» disse lui. «E lei, ha conservato la sua metà?».

   «Mi spiace, Radek» disse Hod, permettendo alla sua voce di ammorbidirsi. «Temo di averlo gettato via, dopo la Caduta di Bajor».

   Per il Rigeliano fu un bruttissimo colpo. Era ferito, glielo si leggeva negli occhi. Ma c’era dell’altro; un pensiero innescato dalla scelta lessicale dell’Elaysiana. «La Caduta...» mormorò, fissando assorto la sua metà del medaglione. «Noi la chiamiamo la Liberazione di Bajor». Come si poteva trovare un’intesa, quando le vittorie e le gioie di una parte erano le sconfitte e i dolori dell’altra?

   «Questione di punti di vista» ammise Hod. «Ora siamo alleati contro lo Stato Imperiale, ma poi tornerà tutto come prima. Non può esserci pace, finché non risolviamo le cause profonde del conflitto. E per risolverle, Rangda dovrebbe cedere il potere; ma sappiamo entrambi che questo non accadrà».

   «Allora avremo la pace nell’altro modo» disse Radek, stringendo il monile con più forza. «Con la nostra vittoria militare e la vostra sconfitta. È il modo peggiore, ma funziona. Diamine, se funziona! La Storia lo dimostra». Il suo ologramma svanì, lasciando Hod a rimuginare nella sala vuota.

 

   La dottoressa Ladya Mol si massaggiò la fronte bombata e senza sopracciglia, sentendosi sul punto di crollare. Da quando la Keter era entrata nella Sfera, l’infermeria traboccava di pazienti. Molti dei rifugiati infatti si trovavano in cattive condizioni di salute, o perché erano giunti lì dopo molte disavventure, o perché gli statiti non li avevano protetti adeguatamente dalle radiazioni. Quelli che erano stati nei Centri di Rieducazione, e avevano subito trattamenti sulle lobo-sedie, pativano ancora conseguenze neurologiche. La Catena Cremisi non poteva farci granché, così i pazienti venivano portati sulla Keter. Oltre che un’opera buona, era anche un modo per ingraziarsi la Catena e tenere in piedi il triumvirato. Ma per i medici era un’esperienza massacrante. Erano giorni che Ladya non dormiva abbastanza e non aveva tempo per vedere il suo caro Norrin. Dopo le prime giornate aveva affidato i trattamenti d’ordinanza allo staff e si era ritirata nel suo ufficio, per ricevere i pazienti che soffrivano di problemi particolari. «Avanti il prossimo» disse stancamente.

   Entrarono due Umani, un uomo e una donna, sul principio della trentina. Si fecero avanti con una certa esitazione.

   «Uno alla volta, per cortesia» disse la Vidiiana.

   «Siamo qui per un problema che riguarda entrambi» disse l’uomo.

   «Ah, i coniugi Martinez» riconobbe Ladya, scorrendo l’elenco dei pazienti. «Uhm, non ho le vostre analisi. Che sintomi avete?».

   «Non è un problema di salute... non nel senso comune del termine...» disse l’uomo, imbarazzato.

   «Se vi occorre una consulenza psicologica, dovrete aspettare» avvertì la Vidiiana. «Abbiamo troppi casi urgenti. In seguito potrete parlare col dottor...».

   «Non mi sono spiegato; noi abbiamo un problema fisico» spiegò l’altro, sempre più rosso.

   «Beh, allora mi dica!» lo esortò Ladya, resa un po’ brusca dalla stanchezza.

   «Noi... uhm, ecco...» s’impappinò l’uomo.

   «Siamo sposati da tempo e vorremmo un figlio, ma io non riesco a concepire» tagliò corto la donna.

   Ladya si alzò subito e le venne incontro con il tricorder medico. «Da quanto ci state provando?» chiese, per accertarsi che non fosse semplice sfortuna.

   I due si scambiarono un’occhiata. «Un anno, direi...» fece il marito.

   «Sì, più di un anno» confermò la moglie. «Naturalmente ci siamo regolati sui miei giorni fertili, ma... niente» disse, frustrata. «Non sappiamo neanche se ci sia un vero problema...».

   «Se è da un anno che provate, il problema c’è eccome» disse Ladya. «Avete idea di chi dei due possa averlo?».

   «No, purtroppo» rispose l’uomo, abbracciando la compagna. «Vede, ci siamo conosciuti nel Centro di Rieducazione di Regulus. Siamo fuggiti insieme quattordici mesi fa e dopo un mese di viaggio siamo giunti qui. È da allora che proviamo ad avere un figlio. Ma nessuno dei due è mai stato genitore e nella Sfera non ci sono molti medici, quindi non sappiamo dov’è l’inghippo».

   «Lo scopriremo presto» lo tranquillizzò Ladya. «E una volta scoperto, state certi che lo risolveremo. Ci sono fior di terapie per curare l’infertilità» assicurò. «Almeno tra membri della stessa specie» aggiunse tra sé. Lei che era Vidiiana aveva scoperto di non poter avere figli da Norrin, un Hirogeno. Ormai si era rassegnata, tanto che ci pensava di rado; ma curare l’infertilità altrui le ricordava che il suo problema era insolubile.

   «E se dovessimo abbandonare la Sfera? Non potrà seguirci!» disse la donna, con apprensione.

   «Per prima cosa devo fare la diagnosi; poi potrò prescrivervi il trattamento» la calmò Ladya. «Se non avrò tempo di somministrarlo vi darò la ricetta, e con un po’ di fortuna potrete farlo altrove. Venite adesso, vi porto al bio-scanner» disse, e li guidò fuori dall’ufficio. Non immaginava la sorpresa che l’attendeva da quelle letture. Ma molti eventi dovevano verificarsi, prima che potesse confidare ad altri le sue scoperte.

 

   Gli ultimi Falchi da Guerra repubblicani abbandonarono disordinatamente il sistema di Cheron, lasciandosi dietro gli scafi sventrati delle navi meno fortunate. Dalla sua nave ammiraglia, la Valkis, l’Imperatrice Sela li osservò compiaciuta. «Un altro sistema torna in seno all’Impero» commentò. «È qui che la nascente Federazione ci sconfisse, secoli fa. E ora dov’è? Ah, sì... è impegnata nella sua Guerra Civile!» commentò, facendo ridacchiare gli ufficiali.

   La restaurazione dell’Impero procedeva ancor più rapida del previsto, grazie alla potenza delle Narada e alla loro perfetta coordinazione, garantita dalla rete subspaziale. Se non fosse stato per la Zhat Vash, nulla avrebbe incrinato l’ottimismo della sovrana.

   «Possiamo inseguire le navi fuggiasche e finirle» suggerì Ducrax, l’ufficiale tattico.

   «No. Si stanno dividendo e io non voglio disperdere le forze» disse Sela, che dopo la scomparsa della Zhat Vash era meno propensa agli azzardi. «Proseguiremo come abbiamo fatto sinora. Sbarazzatevi delle ultime difese planetarie e sbarcate le truppe nei punti nevralgici».

   Mentre gli ufficiali eseguivano, il Pretore Oren si fece avanti. «Altezza, ho una buona notizia... e una cattiva» esordì.

   «Allora non sarò né lieta, né turbata» disse l’Imperatrice, con una punta di umorismo. «Parla pure, amico mio» aggiunse in tono più confidenziale.

   «Abbiamo localizzato la Zhat Vash» disse il Pretore. «Il nemico aveva disattivato il plesso centrale, ma come sapete la tecnologia Borg si rigenera. Il plesso si è riattivato per trenta secondi, prima che i federali lo neutralizzassero. In quel breve lasso di tempo, i nostri tecnici hanno triangolato l’origine del segnale».

   «Poiché questa era la buona notizia, devo supporre che il vascello si trovi in un luogo infausto» disse Sela, tamburellando sul bracciolo.

   «Temo di sì» disse Oren. «Il segnale proveniva dalla megastruttura che i federali chiamano Sfera di Dyson. Sapete, quella che...».

   «So di che si tratta» tagliò corto Sela. «Si trova in profondità nello spazio dell’Unione».

   «Già» disse il Pretore, a disagio. «Prima il Moloch soccorre la Keter e ora scopriamo che hanno portato la nostra nave nell’Unione. C’è da credere che si siano ricompattati contro di noi».

   «Non è quello che mi dicono i ricognitori e le sonde-spia» obiettò la sovrana. «Stando agli ultimi rapporti, ci sono ancora scontri accaniti tra Pacificatori e Flotta Stellare».

   «Forse il Moloch ha sottratto alla Keter il controllo del nostro incrociatore...».

   «O forse la collaborazione è limitata a quelle due navi» indovinò Sela. «So che Radek è stato il Primo Ufficiale di Hod per anni. Potrebbero aver trovato un’intesa, senza aspettare l’autorizzazione dei loro superiori».

   «In ogni caso dobbiamo recuperare o distruggere la Zhat Vash, prima che possano studiarla a fondo» raccomandò Oren. «Se s’impadronissero della tecnologia Borg, non avremmo scampo».

   L’Imperatrice rifletté brevemente, con aria cupa. «Non sottovaluterò questo problema... anzi, me ne occuperò di persona!» decise, alzandosi di scatto.

   «Maestà, ne siete certa?» si stupì il Pretore. «Abbiamo molti validi capitani che possono occuparsene. Voi dovreste stare al sicuro dietro le linee...».

   «Non è così che si forgia un Impero!» ribatté la mezza Romulana. «Il tempismo è essenziale, quindi andrò con le dieci navi più veloci. Staremo occultati per tutto il viaggio, distruggeremo la Zhat Vash e torneremo subito indietro. Nel frattempo voi, Pretore, proseguirete l’offensiva».

   «Agli ordini, Imperatrice!» disse prontamente Oren, levando il braccio nell’antico saluto militare. «Proseguirò l’accerchiamento di Nuovo Romulus, ma attenderò il vostro ritorno per sferrare l’attacco finale».

   «No! Finché siamo in vantaggio, non dobbiamo sprecare un solo minuto» obiettò Sela, temendo che l’avanzata s’impantanasse. «Romulus deve cadere, a maggior ragione se c’è il rischio che i federali si ricompattino contro di noi. Solo in seguito potremo prenderci una pausa per fortificarci».

   Oren esitò. Conosceva l’assoluta importanza, sia militare che propagandistica, di prendere Nuovo Romulus. Era ciò che serviva per proclamare la rinascita dell’Impero Stellare, anche qualora non fossero poi riusciti a conquistare tutti gli altri sistemi. Ma andare all’attacco mentre il nemico controllava una delle loro navi lo inquietava. «Mi assicurerò che, oltre alle Narada, la nostra flotta comprenda un contingente di Falchi da Guerra» disse, cercando di scacciare la preoccupazione.

   «Certo; sei autorizzato a richiamarli dagli altri fronti» concesse Sela. «Ora che siamo così avanti, la conquista di Nuovo Romulus ha la precedenza su tutto».

   L’Imperatrice si avvicinò allo schermo, osservando con bramosia la Nebulosa Azzurra che racchiudeva il pianeta. Aveva sempre pensato che sarebbe stata lei a condurre l’attacco; lei ad essere ricordata come la conquistatrice di Nuovo Romulus. Ora, invece, doveva cedere quell’onore a un altro. Era seccante, ma non vedeva alternative. E Oren era il suo collaboratore più fidato; difficilmente avrebbe usurpato il trono in sua assenza. Del resto, sarebbe stata via pochi giorni. «Puoi andare» disse, girandosi verso il Pretore. «Che la vittoria ti arrida. Al ritorno, mi aspetto di brindare nel Senato della Repubblica».

   «A quel giorno, Vostra Maestà» disse Oren, inchinandosi profondamente. Dopo di che salì sulla pedana di teletrasporto che corredava la plancia e si trasferì sulla sua ammiraglia.

   La flotta si divise subito. L’Imperatrice partì con le dieci navi più veloci, tutte di classe Narada. Le altre proseguirono l’avanzata, unendosi ai rinforzi che affluivano dagli altri fronti. Stavano già circondando la Nebulosa Azzurra e presto avrebbero attaccato il pianeta al suo interno. Il Pretore parlò alla flotta, rivelando che avrebbe guidato lui l’assalto, mentre l’Imperatrice conduceva un’operazione segreta ma vitale nello spazio nemico. In cuor suo si aspettava che Sela tornasse vittoriosa da lì a dieci giorni e quindi non intendeva deluderla. Ma se per qualunque motivo la sovrana non avesse fatto ritorno, Oren era certo di reggere al “dispiacere”.

 

   Cinque giorni dopo la flotta dello Stato Imperiale strinse il cerchio attorno a Nuovo Romulus. I vascelli attaccarono il sistema stellare da più direzioni, neutralizzando rapidamente le difese esterne. Poi confluirono in un’unica flotta, che mosse a velocità d’impulso contro la capitale.

   I difensori erano schierati secondo il modo collaudato: poco sopra lo Scudo Planetario e inframmezzati alle piattaforme orbitali. Dalle loro plance, videro i vascelli imperiali emergere dalla Nebulosa Azzurra come leviatani affamati. I più grossi erano ovviamente le Narada, dagli scafi nerastri e irsuti. Ora che ce n’erano così tante radunate, le loro differenze individuali erano ancora più evidenti. Si discostavano moltissimo per forma e dimensioni, come se ognuna fosse cresciuta a modo suo. Per contro, i Falchi da Guerra erano standardizzati. La maggior parte apparteneva alla famigerata classe Tal’aura, agile e letale.

   Osservando la flotta nemica in avvicinamento, Lantora notò che le Narada e i Falchi erano astutamente mischiati. Le Narada erano in prima linea, data la superiorità dei loro scudi; ma in mezzo ad esse e subito dietro c’erano i vascelli più piccoli. Il Commodoro sospirò. Aveva sperato che gli Imperiali ponessero le Narada al centro e i Falchi ai lati, così da poter tentare di accerchiarli. Invece si trovava di fronte uno schieramento omogeneo, distribuito nelle tre dimensioni in modo che fosse troppo ampio da circondare. Se avesse provato a incanalare le sue navi tra le Narada, per sfondare, le avrebbe esposte a un fuoco pesantissimo da tutti i lati. Sarebbe stata una carneficina. No, poteva solo tenere la flotta a ridosso dello Scudo Planetario e resistere a oltranza. «Rapporto» ordinò.

   «Ci sono novanta Narada e duecentocinque Falchi da Guerra» rilevò l’Ufficiale Tattico. «La loro formazione mista sconsiglia i tentativi di sfondamento».

   «Non vedo la Valkis» notò Lantora.

   «Perché non c’è» confermò l’ufficiale. «Confrontando la flotta nemica con l’elenco stilato in questi giorni, risulta che mancano dieci Narada, tra le più potenti».

   «Potrebbero essere ancora impegnate sugli altri fronti» suggerì il Primo Ufficiale.

   «O potrebbero coglierci di sorpresa nel momento peggiore» disse Lantora. «Aprire un canale con la nostra flotta».

   «Canale aperto».

   «Attenzione, Commodoro Lantora a flotta. Ordino a tutte le navi di tenersi in formazione, senza tentare accerchiamenti o sfondamenti delle linee nemiche. Ricordate la potenza di fuoco e la resistenza delle Narada» ammonì lo Xindi. «La nostra sola possibilità consiste nel restare accanto alle piattaforme orbitali, così da sommare la potenza di fuoco, e rintuzzare gli assalti nemici. Mirate ai Falchi da Guerra. Se ne distruggiamo abbastanza, il nemico potrebbe ritirarsi. Ricordate: qui si decide non il destino di un pianeta, ma di tutta la Federazione. Tenete duro, e buona fortuna!».

   Rivolse uno sguardo alla Sha Ka Ree, dove T’Vala si accingeva a fare la sua parte. Il loro ultimo incontro aveva avuto il sapore amaro di un addio; più che parlare si erano abbracciati a lungo. Speravano ancora per la salvezza di Vrel, ovunque fosse con la Keter. Quanto a Lyra, avevano perso la speranza di vederla tornare. Ecco dov’erano giunti, dopo una vita spesa al servizio della Flotta Stellare.

   «Ci chiamano da un Falco da Guerra».

   «Sullo schermo» ordinò Lantora. Si aspettava un ultimatum; l’unico dubbio era chi lo avrebbe lanciato, data l’assenza dell’Imperatrice.  

   Apparve un Romulano dai capelli grigi e lo sguardo severo, anche se non propriamente crudele. «Sono il Pretore Oren, dello Stato Imperiale Romulano» si presentò. «Come annunciato, sono qui per reclamare il possesso di Mol’Rihan».

   «Mi aspettavo che se ne occupasse Sela» disse Lantora. «Che è successo alla sua imperatrice-clone? Non mi dica che l’ha già rimpiazzata!».

   «L’Imperatrice è ancora saldamente al comando e ha incaricato me di questa missione» rispose Oren, evasivo. «Nella sua clemenza, vi offre la possibilità di consegnare questo sistema e andarvene incolumi».

   «Questo sistema... e poi un altro, e un altro ancora, finché tutti i mondi romulani torneranno in mano vostra» commentò il Commodoro.

   «È nel nostro diritto. Siamo gli unici eredi legittimi dell’Impero Romulano, dacché la Repubblica ha ceduto la sua sovranità all’Unione... che l’ha trascinata nella Guerra Civile» rispose prontamente il Pretore. «Noi restituiremo la Pax Romulana ai pianeti martoriati dal conflitto. La loro sicurezza sarà il nostro primo dovere; un dovere che voi federali avete fallito».

   «I Romulani ci hanno chiesto di difenderli da voi. E questo è un dovere che non abbiamo ancora fallito» ribatté lo Xindi.

   «Fallirete oggi» avvertì Oren, curvandosi un poco in avanti. «Ammiro la vostra dedizione, ma mi dolgo che non capiate d’essere al capolinea. La vostra testardaggine vi costerà molto sangue inutile». Con questa minaccia chiuse il canale. La flotta imperiale riapparve sullo schermo, sempre più vicina.

   «Non perdetevi d’animo. Aprite il fuoco appena il nemico sarà a distanza di tiro» ordinò Lantora ai suoi ufficiali. Strinse forte i braccioli della poltroncina, pronto a quella che con ogni probabilità era l’ultima battaglia della sua vita.

 

   Dopo cinque giorni di viaggio ad alta curvatura nello spazio dell’Unione, la flotta occultata dell’Imperatrice raggiunse la Sfera di Dyson. Le Narada percorsero l’ultimo tratto a velocità impulso, mantenendosi invisibili. Nel frattempo sondarono la megastruttura, cercandone difese e punti deboli.

   Sela osservò la Sfera sempre più vicina con emozioni ambivalenti. Non poteva fare a meno di provare meraviglia e una certa ammirazione per quell’opera immane, frutto della specie più antica della Via Lattea. In un certo senso ne provava invidia, perché qualunque conseguimento del suo Impero impallidiva al confronto. Ma sapeva che la megastruttura era stata abbandonata dai suoi costruttori, segno che infine l’ambiente li aveva sconfitti. E se doveva attaccarla, per eliminare la Zhat Vash... bene, non avrebbe esitato.

   «Altezza, siamo a distanza di tiro» disse Ducrax.

   «Suggerisce di attaccare senza nemmeno lanciare un ultimatum?» chiese la sovrana, continuando a osservare la Sfera.

   «Quelli là dentro sono nostri nemici. Noi abbiamo il fattore sorpresa. La filosofia dell’Espansione Illimitata ci dice chiaramente come procedere» si giustificò il Romulano.

   «Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» mormorò Sela, assente.

   I Romulani si guardarono l’un l’altro, perplessi. «Io... mi chiamo Ducrax, Vostra Maestà» le ricordò l’Ufficiale Tattico.

   Sela sorrise tra sé, prima di rivolgersi al sottoposto. «Non ho scordato il tuo nome. Era solo una citazione dalla letteratura umana. Che persona sarei, se non conoscessi entrambe le mie culture?» ironizzò. La sua ascendenza Umana era resa evidente dai capelli biondi: la sua testa spiccava tra i caschetti neri dei Romulani come l’oro in mezzo al carbone. La Sfera di Dyson, opera dei Progenitori, le ricordava come tutte le specie umanoidi fossero intimamente legate; e quindi le rammentava le sue stesse origini.

   «Le mie scuse, Altezza. Dunque quali sono gli ordini?» chiese Ducrax.

   «Useremo il guanto di velluto» decise Sela. «Mi dica, ci sono navi dell’Unione nel raggio dei sensori?».

   «Negativo».

   «La Sfera ha dei sistemi difensivi?».

   «Non rileviamo nulla. Ma il guscio in neutronio c’impedisce di analizzare l’interno. Potrebbe esserci un’intera flotta, là dentro» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Con le nostre armi, quanto ci vuole a perforare il guscio?».

   «Sto calcolando» disse il Romulano, chino sulla consolle. «Il neutronio è molto più sottile in corrispondenza dei portali, quindi è lì che dovremo attaccare. Per aprirci un varco... uhm... servirà almeno un quarto d’ora di fuoco coi siluri fotonici».

   «E nel frattempo il nemico fuggirà dagli altri ingressi» disse Sela con disappunto. «Quanti sono in tutto?».

   «Sono... centomila, Altezza» si sgonfiò Ducrax.

   «Quindi nemmeno la nostra intera flotta potrebbe presidiarli tutti. E anche per minarli servirebbero anni» notò l’Imperatrice. «Vedi come la tua filosofia dell’attaccare a testa bassa non sia poi così utile. Usciamo dall’occultamento e contattiamoli» ordinò.

 

   Gli allarmi squillarono nella Sfera di Dyson, invitando chiunque non l’avesse ancora fatto a mettersi al riparo. Gli habitat creati all’ombra degli statiti rimasero vuoti. I combattenti della Catena Cremisi corsero ai loro posti, mentre le tre astronavi – la Keter, il Moloch e la Zhat Vash – si preparavano anch’esse alla battaglia.

   Da quando l’incrociatore aveva segnalato la sua posizione, cinque giorni prima, tutti sapevano che gli Imperiali sarebbero venuti a reclamarlo. In una tumultuosa riunione, Arvid aveva chiesto che si spostassero in un altro sito, ma Hod e Radek si erano opposti, per l’impossibilità di trovare un centro d’elaborazione che eguagliasse la Sfera. Tutte le alternative erano inferiori, e comunque si sarebbe riproposto il problema territoriale, con federali e Pacificatori che non volevano recarsi nei pianeti nemici. Così si era deciso di rimanere lì e resistere a oltranza, sempre che lo Stato Imperiale non sospendesse l’attacco a Nuovo Romulus. Ma i ricognitori della Catena Cremisi confermavano che l’avanzata proseguiva, anzi sembrava che gli Imperiali volessero bruciare le tappe. Così, quando le dieci Narada uscirono dall’occultamento, i difensori erano pronti a riceverle.

   Un portale localizzato presso il polo nord della Sfera si aprì, lasciando filtrare la luce arancione dell’interno. Gli Imperiali lo localizzarono subito e si avvicinarono come falene, approfittandone per sondare l’interno. Scoprirono così che c’erano appena tre astronavi.

   Prima che potessero entrare, la Keter e il Moloch ostruirono l’ingresso. Le due navi corazzate avevano concentrato tutta l’energia sugli scudi anteriori. L’Imperatrice Sela le fissò cupamente: erano la prova definitiva della collaborazione tra federali e Pacificatori. «Chiamiamole entrambe» ordinò, accomodandosi di nuovo sul suo scranno.

   I due Capitani apparvero in inquadrature affiancate. Fu il Rigeliano a prendere la parola. «Sono il Capitano Radek, della Forza di Pace dell’Unione. Avete invaso il nostro spazio» esordì. «Vi ordino di rientrare nei vostri confini».

   «Sarò lieta di farlo, una volta che ci avrete restituito il nostro incrociatore» rispose Sela. «Valuterò persino di non rispondere all’aggressione contro la Zhat Vash».

   «Quella nave, come le altre, ha violato i confini e ha assalito i nostri pianeti» intervenne Hod. «La risposta è stata commisurata alla gravità dell’infrazione».

   «Capitano Hod... mi sorprende vederla accanto ai Pacificatori. Lo sa che in questo preciso momento i colleghi di Radek stanno mettendo a ferro e fuoco i vostri mondi?» la provocò l’Imperatrice.

   «Ciò che accade altrove non ha importanza. Qui collaboriamo per difendere la nave che abbiamo conquistato» chiarì l’Elaysiana. «Le consiglio di ritirarsi, finché può. E le dico un’altra cosa: la smetta di pavoneggiarsi con la tecnologia Borg, perché un giorno o l’altro li attirerà per davvero. E allora sarà la fine per tutti» ammonì.

   «Mi fermerò solo quando avrò restaurato l’Impero Romulano!» ribatté Sela, più aggressiva. «È la mia ragione di vita» si lasciò sfuggire.

   «Sì, dev’essere il motivo per cui l’hanno creata» indovinò Hod, fissandola negli occhi. «Non è la prima volta che qualcuno clona un leader del passato, sperando che ridia lustro al presente. Lo fecero anche i Klingon con Kahless. Ma l’esperienza ha dimostrato che questi cloni, privati delle esperienze formative degli originali, non sono che pallide ombre».

   Sentendosi denigrare così davanti ai suoi ufficiali, l’Imperatrice fu colta dalla rabbia. «Talvolta le ombre sono più lunghe di coloro che le proiettano, Capitano» sibilò. «Ma sarà la Storia a giudicare. In questo caso la Storia dirà che le ho offerto la salvezza e che lei l’ha stoltamente ignorata».

   «Vuole attaccare il capolavoro dei Proto-Umanoidi... il simbolo della nostra origine comune?» chiese l’Elaysiana. «Se lo fa, si attirerà l’odio di tutto il Quadrante».

   «E non creda di riuscire a tenerlo nascosto» aggiunse Radek.

   «Che m’importa se mi amano o mi odiano? Basta che temano la mia flotta!» ringhiò Sela, e con un gesto secco ordinò di chiudere il canale. Il suo autocontrollo era stato messo a dura prova e ora non si trovava in una posizione migliore di prima. Passò lo sguardo sugli ufficiali, per accertarsi che fossero ancora nei ranghi.

   «I suoi ordini, Altezza?» chiese Ducrax.

   «Fuoco contro quelle navi, dobbiamo forzare l’ingresso. E tenete i sensori puntati sulla Zhat Vash, nel caso che la spostino» ordinò la sovrana. Strinse con forza il Debrune Teral’n, confidando nella potenza delle Narada e nell’efficienza degli equipaggi. In quello stesso momento, ad anni luce di distanza, la sua flotta principale apriva il fuoco contro i difensori di Nuovo Romulus.

 

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Capitolo 8
*** L'Inferno è vuoto... ***


 

-Capitolo 7: L’Inferno è vuoto...

 

   Le tre navi corsare si addentrarono nella Distesa di Typhon, seguendo una rotta nota a pochi. Pur non essendo pericolosa come le Badlands o l’Ammasso Nero, la Distesa era pur sempre sede d’interferenze elettromagnetiche e subspaziali, che annebbiavano i sensori. La navigazione doveva quindi essere particolarmente accurata, per non rischiare la collisione con qualche corpo celeste. Ogni tanto le navi uscivano dalla curvatura e si fermavano per ricalcolare la loro posizione. Dovevano inoltre aggiornare le mappe, poiché quella regione era ricca di asteroidi interstellari, anche di grosse dimensioni.

   I corsari giunsero così al loro rifugio, nel cuore della Distesa. Era un planetoide dalla superficie scura e rocciosa, priva d’acqua. La tenue atmosfera si arrossò quando la sua stella, una fioca nana rossa, uscì dalla temporanea eclisse. Tre lune asteroidali, piccole e irregolari, gli orbitavano attorno. Dalla plancia, in cui era stata chiamata, Sutra lo osservò con interesse.

   «Benvenuta a Sokar» l’accolse lo Spettro. «È un mondo di carbonio».

   Sutra annuì, sapendo cosa ciò comportasse. A differenza dei pianeti terrestri, ricchi di silicati, i pianeti carboniosi avevano una predominanza di questo elemento, variamente plasmato dalle condizioni di pressione e temperatura. Si andava dai carburi in forma rocciosa alla grafite, fino ai diamanti, che talvolta raggiungevano dimensioni prodigiose. Di conseguenza quei pianeti erano spesso sfruttati come miniere. «Carino. Lo hai scoperto tu?» chiese l’androide.

   «No» ammise il corsaro. «Era una miniera federale, ma fu abbandonato dopo la Guerra delle Anomalie. Qualche anno fa lo abbiamo riscoperto. Abbiamo occupato le vecchie miniere e... beh, tra poco le vedrai».

   Giunti a diecimila chilometri dalla superficie, le navi corsare si arrestarono. «Che state facendo?» chiese Sutra, notando che non accennavano a entrare in orbita.

   «Aspetta» disse Jack. «Non crederai che un deposito così importante sia indifeso? Abbiamo riattivato la vecchia griglia difensiva e con l’aiuto della Flotta l’abbiamo potenziata. Se non ci facciamo riconoscere, saremo polverizzati».

   «Sei sempre il solito... se non ti circondi di morte e distruzione, non sei contento!» ammiccò Sutra.

   Dal suo seggio, la Banshee restò in silenzio, accarezzando ritmicamente Goldie. In cuor suo, avrebbe volentieri mandato il rapace a strapparle gli occhi.

   I corsari tacquero, mentre Siall trasmetteva il codice d’identificazione. Se il custode non avesse risposto, sarebbe stato segno che il rifugio era stato espugnato durante la loro assenza e che ad attenderli c’erano i Pacificatori. In tal caso la battaglia sarebbe stata ineluttabile.

   «Il custode risponde col suo codice... e corrisponde» disse il Boliano, allentando la tensione. «Ora ci chiama».

   «Sullo schermo» ordinò lo Spettro.

   Apparve un Roylano. Come tutti quelli della sua specie era piccolo, con la pelle verdastra così dura da sembrare legnosa e gli occhi interamente neri. Il suo complesso linguaggio, simile a un ronzio, necessitava del traduttore automatico. «Alla buon’ora!» esordì. «Cominciavo a credere che vi foste dimenticati di me».

   «Non siamo andati in villeggiatura, Virrikek» ribatté Jack, seccato. «Fuori dalla Distesa è una bolgia che non immagini».

   «Immaginare! Sono sei mesi che sto qui, a immaginare cosa farei se potessi uscire da questo buco!» protestò il nanerottolo.

   «Sarà meglio che tu abbia pronto l’inventario, perché dobbiamo rifornirci» disse il corsaro, ignorando le lamentele.

   «Certo, fate pure man bassa. L’importante è che mi diate il cambio!» insisté il Roylano.

   «Vedremo... ma ricorda che siamo in guerra e tu sei un soldato. Un soldato serve la patria anche facendo la guardia a un bidone di benzina!» disse l’Umano, sarcastico.

   «Benzina?» ripeté Virrikek, perplesso.

   «È un vecchio modo di dire» tagliò corto Jack. «Adesso scendiamo. Graush, a te il comando. Sutra, vieni con me. Dobbiamo selezionare le armi più adatte contro l’Esecutore e i suoi agenti».

   «Vengo anch’io» disse la Banshee, alzandosi. «Così Goldie potrà finalmente sgranchirsi le ali». Il falcone cestiano strillò, sentendosi chiamato in causa, e le fu subito al polso. Tutti e tre andarono alla pedana di teletrasporto e furono trasferiti negli abissi del pianeta di carbonio.

 

   Le miniere di Sokar erano cresciute per secoli, diramandosi in decine di pozzi e gallerie che si erano spinti sempre più in profondità nella crosta ricca di composti carboniosi. Sfruttate prima dal Consorzio Minerario Andoriano e poi dai federali, erano diventate una cittadella sotterranea con alloggi confortevoli, magazzini per il minerale grezzo, fonderie e un centro di comando all’avanguardia. Tutto era finito bruscamente quarant’anni prima, durante la Guerra delle Anomalie, quando una distorsione spaziale aveva sterminato il personale e messo fuori uso il supporto vitale. In seguito l’Unione avrebbe potuto riattivare l’impianto, ma aveva preferito concentrarsi su mondi più accessibili. Così il planetoide era rimasto abbandonato, cadendo nel dimenticatoio. Per i corsari non era stato difficile riattivare il supporto vitale e potenziare le difese.

   I visitatori si materializzarono nel centro di comando, un salone vasto e ben equipaggiato, anche se un po’ in rovina. La luce pioveva dall’alto sulla poltrona di comando vuota, lasciando il resto in penombra. La Banshee rilasciò Goldie, permettendole di volteggiare fino alla volta rocciosa.

   «Ehi, ehi! Niente animali!» protestò Virrikek, trottando sulle tozze gambette per venire incontro agli ospiti.

   «Questo chi lo dice?» chiese la Banshee.

   «Il regolamento della miniera».

   «Puoi mangiartelo, il regolamento. Adesso le facciamo noi, le regole!» disse la corsara, ghignando sotto il casco. Dopo anni di obbedienza ai dettami della Flotta Stellare, era liberatorio dire una cosa del genere.

   «Okay, okay» fece il Roylano, stupito da quella veemenza. «E la signorina è...?» si rivolse a Sutra.

   «La vostra esperta d’androidi» si presentò lei. «Mostrami il deposito d’armi, perché ci serviranno i grossi calibri».

 

   Per recarsi all’armeria i corsari attraversarono uno dei settori superiori delle miniere. Alcuni corridoi avevano paratie lavorate, ma altri erano poco più che tunnel scavati nella roccia. Ogni tanto erano tagliati da grandi spaccature della crosta, che sprofondavano per chissà quanto: il fondo spariva nelle tenebre. In questi casi c’erano dei ponteggi metallici che varcavano gli abissi. Ogni passo rimbombava, ogni parola faceva eco in quella vastità sotterranea.

   «Quanti livelli ci sono?» s’incuriosì Sutra, guardando sotto di sé.

   «Quarantasette, ma noi usiamo solo quelli superiori» rispose il custode, che li accompagnava. «I livelli più profondi sono abbandonati da quarant’anni».

   Passando accanto a una parete rocciosa, l’androide notò delle vene rilucenti. Vi passò sopra la mano, incuriosita. «Sono... diamanti?» chiese.

   «Eh, sì. Le miniere sono piene di questi ninnoli» confermò Virrikek. «L’Unione le ha abbandonate solo perché ne ha altre su pianeti più accessibili, e perché dopo la guerra c’era il rischio di crolli».

   «Crolli? E c’è ancora, questo rischio?» s’inquietò l’androide. Per quanto fosse più resistente di un Organico, non era invulnerabile. Il crollo di un solo livello sarebbe bastato a distruggerla.

   «È molto ridotto, ora che le miniere non sono più in funzione» rispose il Roylano, senza tranquillizzarla del tutto.

   Strada facendo i corsari informarono Virrikek della minaccia costituita dall’Esecutore. Finalmente giunsero all’armeria, che si rivelò ben fornita. C’erano centinaia di ordigni, accumulati in anni di scorrerie. Il custode dette loro l’inventario, da lui aggiornato nel corso della lunga sorveglianza. «Purtroppo l’unica cosa che scarseggia sono proprio le armi anti-androide» disse. «Ma avete detto che quasi certamente l’Esecutore non è un synth».

   «I suoi tirapiedi lo sono» spiegò Jack. «Voglio sbarazzarmi almeno di loro. Sutra, pensi di poter costruire una versione sovradimensionata dell’elettro-chiarificatore?».

   «Uhm... smontando un po’ di questa roba per riciclare i componenti, direi di sì» rispose l’androide, scorrendo l’inventario. «Ma ci vorrà qualche giorno; è una tecnologia complessa» avvertì.

   «Comincia subito» ordinò lo Spettro. «Intanto voglio fare quella ricognizione presso Deep Space 4».

   «Con tutta la flotta?» chiese la Banshee.

   «No, lascerò qui una nave scorta, per rafforzare le difese» disse il corsaro. Mentre Sutra e Virrikek cominciavano a estrarre i componenti dai container, la prese da parte. «Vorrei che tu restassi qui, mentre andiamo in avanscoperta» aggiunse.

   «Per controllare Sutra? Certo!» approvò la mezza Andoriana.

   «No, Sutra viene con noi, nel caso che l’Esecutore ci scovasse» la smentì Jack. «Il fatto è che, finché questa storia non sarà finita, è pericoloso per noi restare assieme. Se avessimo la peggio quel demonio ci spaccerebbe entrambi, come per poco non accadeva a Coppelius. Stando separati, invece, abbiamo maggiori probabilità che almeno uno di noi se la cavi» disse sottovoce.

   Jaylah restò allibita. «Cos’è, un modo contorto per dirmi addio?!» s’indispettì.

   «Certo che no!» sbuffò lo Spettro. «Ma in questi due anni ti ho fatto rischiare continuamente la vita nelle nostre missioni. Ora che ho un conto aperto con l’Esecutore sei ancora più in pericolo, perché potrebbe usarti per arrivare a me. Quindi vorrei che, per una volta, restassi al sicuro dietro le linee. Sono tentato persino di riportarti su Kronos, dai tuoi genitori, ma so che non accetteresti».

   La mezza Andoriana rifletté su queste parole. La preoccupazione di Jack la commuoveva, ma c’era un problema evidente. «Se la sfida con l’Esecutore non si risolverà in tempi brevi, che faremo? Dovremo restare separati?» chiese.

   «Per la tua sicurezza, sarebbe meglio» sospirò l’Umano. «Comunque ci penseremo dopo aver completato questa missione. Allora, sei disposta a restare qui... e a promettermi di non saltare su una navetta per seguirci all’ultimo momento?».

   «Se tu mi prometti che non cercherai lo scontro diretto con l’Esecutore» disse Jaylah. «Per quanto suoni epico, troveremo un altro modo per sbarazzarci di lui».

   «Andata!» disse Jack.

   Si strinsero la mano come avevano fatto sette anni addietro, la prima volta che avevano deciso di collaborare.

 

   La Stella del Polo lasciò Sokar appena completati i rifornimenti. Virrikek salì a bordo, come aveva richiesto, e fu assegnato all’Ingegneria. In compenso lo Spettro lasciò una guarnigione a difendere la base, e con essa Jaylah. In ogni caso la mezza Andoriana tenne presso di sé la tuta da Banshee. «Fai molta attenzione» raccomandò a Jack, quando fu l’ora di separarsi. «Ricorda che è solo una ricognizione. Qualunque cosa troverai, niente mosse improvvisate».

   «Intesi» disse lui. «Ma tu non stare in ansia. Del resto non sarà un giro lungo; tornerò fra due o tre giorni».

   «A presto, allora» disse Jaylah.

   Si salutarono con un rapido bacio, dopo di che il corsaro tornò sull’astronave. Una delle navi scorta restò presso il rifugio, mentre l’altra accompagnò la Stella in perlustrazione. I vascelli procedevano occultati e a velocità ridotta, analizzando lo spazio davanti a sé. Non volevano sorprese lungo la rotta per Deep Space 4.

   «Arriveremo domani a metà giornata» riferì Siall.

   «Bene, allora mi ritiro» disse Jack, che per supervisionare le operazioni si era sobbarcato un doppio turno. «Avvertitemi se ci fosse qualche problema».

   Il corsaro lasciò la plancia scendendo l’ampia scala a chiocciola e andò dritto al suo alloggio. Era così stanco che non volle nemmeno passare dalla sala mensa: avrebbe cenato con il replicatore. Sebbene avesse appena salutato Jaylah, si accorse che già gli mancava. L’alloggio senza di lei pareva vuoto: era come tornare agli anni precedenti, quando la loro relazione era segreta e gli incontri sporadici. Si chiese se avrebbe dovuto insistere affinché la compagna tornasse a Kronos. Essere di nuovo separati l’avrebbe rattristato, ma almeno lei sarebbe stata al sicuro... o no?

   «Conoscendola, tornerebbe sulla Keter o su qualche altra nave federale, a rischiare la vita almeno una volta a settimana» si disse Jack. A ben vedere, non faceva molta differenza che restasse con lui. Se solo non fosse stato per l’Esecutore! Finché c’era quel sicario a perseguitarli, il corsaro non avrebbe dormito sonni tranquilli.

   Consumata una rapida cena, l’Umano andò in camera da letto... e la trovò occupata. Una donna lo attendeva, adagiata sulle coperte in posa languida. Non indossava molto, e quel che aveva era assai poco coprente. Per un folle attimo, ingannato dalla penombra, il corsaro pensò che Jaylah lo avesse seguito in barba all’accordo. Poi riconobbe i capelli scuri e la pelle dorata di Sutra. «Come sei entrata?» le chiese.

   «Oh, andiamo; una porta sigillata non è un ostacolo insormontabile» sorrise l’androide.

   «Allora dovrò comprarmi un cane da guardia. Non fraintendere, sei uno splendore come sempre; ma io non ti avevo invitata» mise in chiaro Jack.

   «Davvero? Hai lasciato indietro la tua amichetta; pensavo fosse quello, l’invito» ridacchiò Sutra.

   «Hai frainteso. Forza, via di qui» disse freddamente lo Spettro.

   «Ehi, che modi!» si risentì la brunetta, ritraendosi leggermente. «Il Jack che conoscevo non si sarebbe tirato indietro».

   «Il Jack che conoscevi non aveva una relazione stabile».

   «Relazioni stabili... che assurdo costrutto sociale!» sbottò l’androide, scendendo finalmente dal letto. «È stata la Banshee, vero? Ti ha infettato col virus della monogamia. È carina, almeno? Di che specie è?» indagò.

   «Ah, non saprei. Non l’ho mai vista senza il casco» s’inventò Jack.

   Nel sentire questo, Sutra scoppiò a ridere. «Non ce la faccio, Jack, davvero! Ero arrabbiata con te, volevo punirti per come mi hai schifata; ma dopo questa freddura non riesco a serbarti rancore. Stammi bene, davvero» disse abbracciandolo. Raccattò i suoi abiti e si rivestì. Solo quando fu sulla soglia si soffermò un attimo. «Se ti stancassi di quel pezzo di ferraglia che chiami Banshee, sai dove trovarmi» disse, e lasciò l’alloggio.

   «Tra voi due non è Jaylah, il pezzo di ferraglia» mormorò l’Umano, appena fu solo. Dopo di che andò a coricarsi.

 

   Il giorno dopo, all’ora prevista, le due navi corsare raggiunsero Deep Space 4. La stazione era formata da due dischi sovrapposti, simili agli ombrelli di un fungo, uniti nella parte centrale più spessa. Quattro elementi di raccordo più piccoli la collegavano a intervalli regolari, vicino all’orlo dei dischi.

   «Analisi tattica» ordinò lo Spettro.

   «È un bel bestione, capo» disse Skal’nak. «Otto banchi per raggi anti-polaronici, otto cannoni a impulso, sedici tubi di lancio siluri. Gli scudi m’impediscono di analizzare l’interno, ma una stazione così avrà un equipaggio numeroso. Quattrocento effettivi come minimo, forse di più».

   «Un attacco frontale è fuori discussione» disse Graush. «Certo che se lo Spettro riuscisse a disabilitare le difese, sarebbe diverso...» aggiunse, guardando speranzoso il superiore.

   «Uhm, ci sono astronavi?» chiese questi.

   «No, nessuna» rispose l’Ufficiale Tattico. «Del resto, una stazione così non ha bisogno di una scorta».

   «E allora dov’è l’Hydra?» chiese Jack. «È stato il segnalatore che ci avete piazzato a guidarci fin qui. Che dice il segnale, c’è ancora o no?».

   Calò un silenzio imbarazzato, mentre Siall faceva le analisi. «Il faro subspaziale è ancora attivo» rispose. «Il segnale viene dall’hangar principale della stazione».

   «E l’hangar è grande abbastanza da contenere l’Hydra?».

   «Affermativo».

   «L’Hydra è stata danneggiata nella battaglia di Coppelius. Forse l’Esecutore ha bisogno di ripararla» suggerì Skal’nak.

   «O forse è una trappola» obiettò lo Spettro. «Potrebbe esserci solo il segnalatore, là dentro. Magari l’Hydra è appostata qua fuori, con altre navi di rinforzo, in attesa che ci palesiamo. A questo avete pensato?».

   Tornò il silenzio. «Allora che facciamo, capo?» chiese Graush.

   «Per adesso continuiamo a esaminare la stazione e i dintorni» rispose il corsaro. «Cercate tracce di tachioni, antiprotoni... qualunque cosa indichi la presenza di un vascello occultato. E occhio ai sensori gravimetrici, che potrebbero indicare la presenza di una massa nascosta».

   Trascorsero i minuti, mentre Siall e alcuni ufficiali ausiliari facevano le analisi. Jack ne approfittò per controllare che stava facendo Sutra. Dopo il mezzo incidente della sera prima l’aveva evitata, ma gli avevano riferito che si era messa al lavoro per costruire il nuovo elettro-chiarificatore. Il computer gli indicò che l’androide era nell’hangar: solo lì c’era spazio sufficiente per testare l’efficacia dell’arma a decine di metri. L’olocamera di sorveglianza confermò che Sutra era lì con Virrikek e altri tecnici. Attorno a loro giacevano apparecchi mezzo smontati per trarne i componenti, mentre tra le braccia dell’androide prendeva forma la nuova arma. Rassicurato, Jack tornò a prestare attenzione ai suoi ufficiali.

   «Ehi, capo... sto rilevando qualcosa» disse a un tratto Siall. «È un minuscolo flusso di anti-protoni, 100 km a dritta. Nessuna causa apparente. Può essere il segno che c’è una nave occultata».

   «Ci siamo» pensò Jack, raddrizzandosi sulla poltrona. «I sensori gravimetrici che dicono?».

   «Nulla. Se è un’astronave, dev’essere piccola» disse il Boliano.

   «Come i due moduli superstiti dell’Hydra. Ritiriamoci, non voglio affrontarla in casa sua» ordinò il corsaro.

   La Stella aveva appena iniziato a manovrare, quand’ecco che Deep Space 4 aprì il fuoco con i cannoni a impulso. I corsari pensarono subito di essere stati rilevati. «Ci attaccano!» esclamò il timoniere, deviando bruscamente per evitare i colpi.

   «No, fermo! Stanno colpendo da tutt’altra parte» lo bloccò Skal’nak. Inquadrò i colpi, che parevano diretti verso lo spazio aperto. «Assurdo, prendono di mira la loro nave occultata!» si stupì il Nausicaano.

   «O è un piano per farci uscire allo scoperto... o quella non è una loro nave» ragionò Jack. «Restiamo occultati e aspettiamo».

   La stazione continuò a sparare. La maggior parte degli impulsi phaser si perse nello spazio, ma alcuni colpirono una forma affusolata. Incassati i primi colpi, il veicolo perse l’occultamento. Era una navicella di classe Gryphon.

   «Tutto qui?» si stupì Graush.

   «Sì Comandante, gli anti-protoni venivano da lì» confermò Siall.

   La navicella smascherata cercò di fuggire, ma un’altra raffica – stavolta precisa – le mise fuori uso i motori. Resa inoffensiva, fu agganciata da un raggio traente che l’attirò verso la stazione.

   «Ci sono segni di vita a bordo?» chiese Jack, incerto sul da farsi.

   «Nessuno, signore» disse il Boliano. «Però, uhm... rilevo un debole campo positronico. Sbaglierò, ma potrebbe essere un androide di tipo Soong».

   «La faccenda si fa interessante!» disse lo Spettro, intrecciando le dita. «Teletrasportate il pilota in una delle nostre celle, avendo cura di disarmarlo. Poi allontaniamoci a curvatura 9».

 

   Gli ordini furono prontamente eseguiti. Pochi minuti dopo i corsari erano sulla via del ritorno e lo Spettro, occultato, studiava l’ospite attraverso la parete di trasparacciaio della cella.

   Era una copia pressoché identica di Sutra, salvo la pelle rosa e gli occhi grigio-azzurri che le davano un’aria decisamente più umana. I capelli neri erano più corti: arrivavano appena sotto al mento. La si sarebbe detta un’Umana di etnia mista asiatico-occidentale, per via del taglio lievemente obliquo degli occhi. Jack la osservò a lungo, cercando di ricordare dove l’avesse già vista. Infine capì: era nell’olografia in casa di Sutra. Quanto agli abiti, l’androide indossava una tuta di volo piuttosto generica, ma su di essa era appuntato un comunicatore della Flotta Stellare. Pur essendo prigioniera si guardava attorno senza particolare timore, nella paziente attesa che qualcuno venisse a parlarle.

   Il corsaro decise di accontentarla, quindi si rese visibile, pur tenendo il volto celato dal casco. Vedendolo apparire davanti a sé, la prigioniera non mostrò paura né sorpresa; tuttavia si alzò dalla brandina e si avvicinò alla parete trasparente.

   «Hai scelto un pessimo luogo e un pessimo momento per andartene in missione da sola, mia cara» esordì lo Spettro. «So che sei un androide di tipo Soong e che i Pacificatori ti volevano. Se non fosse per me, ora saresti nelle loro mani».

   «Ti aspetti un grazie?» chiese l’androide, squadrandolo freddamente.

   «Beh, male non farebbe. Ma mi aspetto soprattutto che rispondi alle mie domande. Altrimenti mi ci vuol poco a rimetterti là dove ti ho presa» minacciò il corsaro.

   «No!» esclamò la prigioniera, perdendo un po’ di sicurezza. «Ascolta, io e te siamo alleati. Tu collabori con la Flotta Stellare; io ne faccio parte. Sono un agente federale».

   «Ma davvero? Dimmi il tuo nome e quello del tuo costruttore. Non azzardarti a mentire, perché se menti io lo scoprirò presto, e allora la tua posizione si farà difficile» avvertì Jack.

   «Mi chiamo Soji Asha» rivelò l’androide. «Mio padre, chiamiamolo così, era Bruce Maddox, eminente roboticista del XXIV secolo. Il mio progenitore neurale, però, era l’androide Data».

   «Data!» ripeté lo Spettro, ragionando su quel nome storico. «Dunque sei stata assemblata due secoli fa».

   «Non è cortese chiedere l’età di una signora» disse Soji, con un sorriso ironico.

   «Allora torniamo alla domanda iniziale. Perché ronzi attorno a una stazione dei Pacificatori, mentre la Federazione è sotto attacco da parte dello Stato Imperiale?» volle sapere Jack.

   «Nelle ultime settimane sono scomparsi due trasporti carichi di Terrestri, e non dovremmo occuparcene?» ritorse l’androide. «Sapevamo che non potevi essere tu, quindi doveva essere una mossa dei Pacificatori per screditarti. Seguendo i loro movimenti siamo risaliti a questa stazione. Io sono stata incaricata di verificare che ci siano effettivamente i Terrestri. Presumo che il tuo scopo sia lo stesso».

   «Sì, ma io non mi sono fatto scoprire... anche se i Pacificatori si saranno accorti che un’altra nave ti ha salvata» puntualizzò Jack. «Bene, se ciò che dici è vero siamo dalla stessa parte della barricata, anche se non proprio nella stessa trincea. Non escludo che si possa collaborare. Ma nel mio lavoro non si lascia nulla al caso, quindi preparati a una Fusione Mentale. Così saremo certi che hai detto la verità».

   «È difficile fondersi con un androide» obiettò Soji.

   «Difficile, ma non impossibile. Caso vuole che abbia a bordo la persona più adatta a farlo» disse lo Spetto, compiaciuto. Volendo accorciare le distanze, si sfasò ed entrò nella cella. «Preparati a una bella riunione di famiglia, mia cara. Stai per incontrare tua sorella Sutra».

   La reazione di Soji fu assai diversa dal previsto. In lei non c’era né la gioia di chi ritrova un parente, né la paura del bugiardo che si vede smascherato. Al contrario, l’emozione che traspariva dal suo viso giovanile era la rabbia. Una collera gelida, covata per anni.

   «Sutra!» sibilò l’androide. «Quella serpe continua a perseguitarmi. E ora è riuscita a guadagnarsi la vostra fiducia?! Non avete idea del nemico che vi siete portati in casa. Per vostra informazione, mia sorella è un’informatrice dei Pacificatori. Se l’avete a bordo, siete tutti in mortale pericolo».

 

   Lo Spettro tacque per qualche secondo, riordinando le idee. Aveva la netta sensazione che, se avesse affrontato Sutra, lei avrebbe rovesciato le accuse su Soji. Gli serviva un riscontro oggettivo per incriminare una delle due “sorelle”. «Sono accuse pesanti, le tue» disse infine. «Puoi provarle?».

   «Prima devo sapere a che titolo l’avete presa a bordo. Cosa vi ha promesso?» chiese Soji.

   Jack esitò, ma poi decise di vuotare il sacco. «Il suo aiuto per eliminare l’Esecutore» rivelò.

   «Chi?!».

   Il corsaro glielo disse, riassumendo tutto ciò che era accaduto dall’attacco al Chemosh in poi. Quando ebbe finito, Soji rimase pensierosa. «Se questo sicario è al servizio dei Pacificatori, allora non mi stupirei se Sutra si fosse unita a voi come spia» disse infine. «Probabilmente lo sta aiutando a seguire i vostri spostamenti».

   «Dimentichi una cosa» obiettò lo Spettro. «Tua sorella ha combattuto assieme a noi su Coppelius. Si è frapposta tra l’Esecutore e la Banshee, ricevendo un colpo che l’ha quasi uccisa».

   «Quasi! Ma ora è riparata e in piena attività» puntualizzò Soji. «Dimmi una cosa: tutti gli altri androidi che sono stati colpiti dall’Esecutore, sono vivi o morti?».

   «Morti» ammise Jack. L’Esecutore gli aveva sempre sparato alla testa. Solo Sutra era stata colpita al torso, così da sopravvivere. «Ammetto che, in quest’ottica, la cosa appare sospetta. Ma mi serve una prova più consistente per incriminarla» disse.

   «Lasciami accedere ai sensori di bordo. Cercherò di capire se sta segnalando in qualche modo la vostra posizione» propose l’androide.

   «Ce ne saremmo accorti, ma... va bene, fa’ la tua prova. Finché non avremo certezze, sarai sotto sorveglianza» avvertì il corsaro.

 

   Di lì a poco Soji era nella sala sensori ausiliaria, assieme allo Spettro, a Siall e a una manciata di tecnici. Per ordine del Capitano, la sua presenza a bordo era stata celata a Sutra. La nuova arrivata consultò i diari dei sensori, constatando che non c’era stata alcuna trasmissione sospetta. Allora cercò le tracce di un segnale criptato. Provò parecchi metodi, sotto gli occhi dei tecnici che controllavano il suo lavoro. Le ricerche, tuttavia, fallirono una dopo l’altra. Con il passare dei minuti l’espressione di Soji, dapprima sicura di sé, si fece più corrucciata.

   «Qui non caviamo un ragno dal buco» disse infine Jack, spazientito. «Cercherò un altro modo per vedere chi di voi due mente».

   «Aspetta, fammi fare un ultimo tentativo» disse Soji. «Ho notato che i vostri sensori sono un po’ vecchiotti... senza offesa. Hanno un ciclo di scansione che lascia una finestra cieca di un nanosecondo ogni ora».

   «Ma davvero?!» fece lo Spettro, fissando minacciosamente l’addetto.

   «Lamentati con gli Orioniani, capo» si difese Siall. «Hanno riempito questa nave di orpelli e poi hanno risparmiato sui sensori».

   «Un nanosecondo non basta per spedire un rapporto vero e proprio, ma Sutra potrebbe avere un segnalatore subspaziale incorporato» spiegò Soji. «Se ha individuato la finestra cieca, può inviare un bip ogni ora. In tal modo l’Esecutore saprà sempre la vostra posizione».

   «Puoi rilevare questa micro-trasmissione?» chiese Jack, sentendo montare l’ansia.

   «Penso di sì. Dobbiamo disallineare il ciclo di scansione dei sensori interni e puntarli su di lei» disse l’androide, eseguendo man mano che spiegava. «Ecco fatto, non ci resta che aspettare. Se mia sorella sta trasmettendo, lo sapremo al massimo fra un’ora».

   Fu l’attesa più snervante che Jack ricordasse. I minuti si trascinavano come al rallentatore. Dieci... venti... trenta... quaranta. Ancora niente.

   «L’ora sta per scadere» disse Siall.

   «Non è ancora scaduta» ribatté Soji, con gli occhi incollati allo schermo.

   Al quarantasettesimo minuto ci fu un bip. Jack fremette come se lo avessero pugnalato.

   «Frell! È come dice lei!» imprecò Siall, controllando i dati. «È un segnale subspaziale nascosto. Se non avessimo disallineato il ciclo dei sensori, non l’avremmo mai rilevato».

   «E viene da...?» chiese Jack, pur non avendo ormai dubbi.

   «L’hangar, dove si trova Sutra» confermò il Boliano. «Mi spiace, capo».

   «Dispiace anche a me» mormorò Soji. «Avrei voluto che mia sorella fosse cambiata, ma... è incorreggibile» disse, chinando il capo avvilita.

   «Stai per diventare figlia unica!» ringhiò lo Spettro, marciando verso la porta. «Questa è la volta che la rottamo».

   «No! Lasciala a me» pregò Soji, correndogli dietro.

   «Fatti da parte; questa è la mia nave, li sistemo io i traditori» disse rudemente il corsaro. «E poi, Sutra sta costruendo un elettro-chiarificatore. Diceva che lo avrebbe usato contro i tirapiedi dell’Esecutore, ma ora mi chiedo se non lo stia preparando apposta per te. Quindi resta a distanza di sicurezza, finché non avrò la situazione sotto controllo».

   «E va bene» cedette l’androide. «Ma cerca di prenderla viva. Così la porterò alla Federazione, affinché sia giudicata».

   «Prima vedrò che danni ha provocato» disse lo Spettro, per nulla rabbonito.

 

   Sutra sedeva al centro dell’hangar, con i componenti elettronici sparpagliati attorno a lei. Tra le sue braccia, l’elettro-chiarificatore aveva ormai preso forma. A vederlo sembrava una variante di fucile phaser.

   «Magnetizzatore interfasico» ordinò l’androide, tendendo la mano come un chirurgo che non può distogliere lo sguardo dal lavoro. Virrikek le consegnò prontamente lo strumento. Sutra aveva appena iniziato a usarlo quando udì aprirsi la porta. Alzò lo sguardo e vide arrivare lo Spettro, accompagnato da una scorta.

   «Ciao, Sutra» disse Jack con finta cordialità. «Allora, come procede il lavoro?».

   «A meraviglia, ho praticamente finito» rispose l’androide, chiudendo il comparto su un lato dell’arma. «Possiamo cominciare con le prove. A proposito, il tuo ingegnere è davvero bravo. Mi ha suggerito un paio di trucchi che hanno sveltito il lavoro. Complimenti, piccolo amico!» disse, battendo il cinque sulla manina legnosa dell’alieno.

   «Mi fa piacere sentirlo. Allontanati, Virrikek» ordinò però lo Spettro. Il Roylano capì che qualcosa non andava e obbedì prontamente, ponendosi dietro ai corsari. A un cenno del loro Capitano, questi estrassero le armi.

   «Ma che succede? Ce l’hai con me?» chiese Sutra, alzandosi. Aveva ancora il chiarificatore in mano.

   «No, ce l’ho con me stesso, per aver abbassato la guardia malgrado gli avvertimenti di Jaylah» rispose l’Umano, avanzando lentamente.

   «Jack, così mi spaventi. Dimmi che sta succedendo» ripeté l’androide, passando lo sguardo sui corsari che la stavano circondando.

   «È finita, mia cara. Sappiamo che stai facendo da faro subspaziale per l’Esecutore» rivelò lo Spettro. «A causa tua, il nostro peggior nemico ci ha tracciati. Dammi una valida ragione per cui non dovrei giustiziarti seduta stante».

   «Amore, ci dev’essere un errore. Io non potrei mai...».

   «Smettila di mentire!» gridò lo Spettro, facendola sobbalzare. «Spara o arrenditi, ma piantala di raccontarmi balle. Tutto ciò che è successo, da Coppelius in poi, l’avete concordato. Anche quando hai fatto da scudo a Jaylah sapevi che lui non ti avrebbe uccisa; era un trucco per carpire la nostra fiducia e salire a bordo. Immagino che alla fine contasse anche di recuperarti, così che gli facessi rapporto. Gli sei stata molto utile, perciò dimmi: cosa ti ha offerto in cambio della mia testa? O sei stata tu ad andare da lui per offrirgli l’accordo?».

   Passò qualche secondo, dopo di che Sutra sospirò e gettò l’arma, allentando la tensione. «È venuto lui da me, ovviamente. Non mi ha offerto nessuna ricompensa personale, se t’interessa saperlo. Solo la salvezza per la mia gente e l’indipendenza di Coppelius dall’Unione. Altrimenti i Pacificatori ci avrebbero spazzati via. Che altro potevo fare, se non accettare? Che avresti fatto tu, a ruoli invertiti?».

   «Di certo non mi sarei fidato dei Pacificatori. Ogni loro promessa è una menzogna» disse il corsaro, gelido. «Adesso voglio conoscere i dettagli del vostro piano».

   «Non c’è nessun piano, oltre a ciò che già sai. Io dovevo salire sulla vostra nave e fare da tracciante. Lui mi avrebbe recuperata alla prima occasione. Fine della storia» disse l’androide.

   «Ah, no... questa storia non è affatto finita!» avvertì lo Spettro. «Ora sarai tu a dirmi tutto ciò che sai su quell’individuo, se vuoi sopravvivere». Al suo cenno i corsari la presero di mira.

   «Non posso, Jack» rispose lei con voce fioca. «Distruggerà Coppelius, se lo tradisco».

   «Non se lo accoppo prima io. Chi è, insomma?!».

   «Non lo so!» esclamò l’androide. «Non mi ha detto nulla sul suo conto, salvo che dispone di grandi risorse».

   «Sì, quelle dei Pacificatori. Ma forse possiamo ritorcere il piano contro di lui» ragionò lo Spettro. «Dimmi come e quando doveva recuperarti. Potremmo approfittarne per tendergli un’imboscata».

   «No, Jack. Lui è troppo forte, ti ucciderà...» mormorò Sutra, accostandosi.

   «Non sei tu a decidere. Dimmelo!» ordinò il corsaro.

   Erano faccia a faccia. Per un attimo si fissarono come in una gara di volontà; poi sul viso dell’androide apparve un sorrisetto maligno. «Non metterò a repentaglio la mia gente solo per avvantaggiarti in questa faida. Dovrai distruggermi... se ne sei capace» disse in tono di sfida. La sua testa s’inclinò appena, come per un tic.

   «Ti posso senz’altro accontentare» disse cupamente lo Spettro. Mosse a sua volta la testa, per far dispiegare il casco della tuta. Non accadde nulla. Allora alzò il braccio, cercando di far fuoco, ma il phaser non si attivò.

   «Tsk-tsk... è vero quel che si dice di voi Umani: il sesso vi rende stupidi, persino quando non lo fate!» ghignò Sutra. «Cosa credi che sia venuta a fare nella tua cabina, ieri sera? Certo, anche quello non mi sarebbe dispiaciuto... ma il motivo principale era sabotare la tuta. Ma tu eri così ringalluzzito al pensiero che fossi lì per te da non pensare che avessi altre intenzioni!».

   Livido in volto, l’Umano si fece indietro. Sapeva che, senza la tuta a proteggerlo, l’androide non avrebbe faticato a spezzargli il collo. «Non mi serve la tuta. Ho una squadra, se non l’hai notato» disse.

   «E io controllo l’ambiente, come noterai tra un attimo» ribatté Sutra, per nulla intimorita. La sua testa scattò di nuovo in quell’insolito tic. Non poteva essere un caso... stava impartendo degli ordini. Ma a chi, o a cosa? Jack lo scoprì subito.

   Alle spalle dell’androide ci fu un sonoro scatto metallico. Seguì un’improvvisa folata di vento che trascinò i corsari in avanti, facendone cadere molti. Jack dovette chinarsi per bilanciare il peso. Alzò gli occhi e vide Sutra, ancora salda in piedi, che lo guardava dall’alto in basso con aria sadica. Dietro di lei il portone dell’hangar si stava aprendo, rivelando un rettangolo di spazio sempre più ampio. E il campo di forza che in quei casi tratteneva l’atmosfera non era attivo. Restava poco prima che l’ambiente si depressurizzasse completamente.

   Sentendosi già mancare l’aria, Jack tentò di abbandonare il salone. Stava arrancando sul pavimento, contrastando la violentissima corrente, quando le dita d’acciaio di Sutra lo bloccarono.

   «Non così in fretta, bello mio. Non ti va di uscire con me? E allora uscirai da solo!» lo derise la brunetta.

   L’Umano reagì dandole un pugno in pieno viso, ma con la tuta disattivata la sua forza non bastava a danneggiare l’androide. Questa inclinò appena la testa, assorbendo il colpo, e sorrise. «Cominci a invecchiare» infierì.

   Attorno a loro, l’hangar era nel caos. La fuga d’aria trascinava i corsari verso l’esterno, che significava morte certa. Alcuni di loro afferrarono container e altri oggetti pesanti, ma anche questi furono trascinati sul pavimento, o addirittura s’involarono. Persone e oggetti furono espulsi nello spazio. Persino le navette scivolarono verso l’uscita, urtandosi fra loro e travolgendo tutto ciò che incontravano. Le uniche a restare salde furono quelle che avevano lo scafo magnetizzato, così da aderire al pavimento.

   «Beh, si è fatto tardi; devo andare» disse Sutra, mollando Jack. «Tu non venirmi dietro, eh?» lo canzonò un’ultima volta. Dopo di che si diresse alla navetta più vicina. Il vento impetuoso le agitava i capelli e i lembi dell’abito, ma a parte questo piccolo inconveniente l’androide non risentiva della violenta decompressione, né del brusco calo di temperatura.

   «Ferma! Tu non vai da nessuna parte!» disse una nuova voce. Era Soji, che si frappose tra la sorella e la navetta. Era disarmata, per volontà dello Spettro, ma non sembrava preoccuparsene. Anche lei non era infastidita dalla perdita d’aria.

   «Ciao, sorellina. Come al solito arrivi tardi!» rispose Sutra, ma dietro al sorriso sprezzante s’intuiva un odio smisurato. «Vedo che collabori di nuovo con una banda di straccioni, come all’epoca di Picard e della Sirena. Ma stavolta non te la cavi». Adocchiò l’elettro-chiarificatore, che era stato trascinato dall’aria in fuga fino a incastrarsi contro uno degli shuttle più grossi, il Dullahan. Subito smise di opporsi al vento e si lasciò scivolare sul pavimento per raggiungerlo.

   Soji reagì prontamente, facendo lo stesso. Intercettò la sorella prima che raggiungesse l’arma e la colpì di lato, facendola deviare. Passarono accanto al Dullahan senza fermarcisi contro. Sutra tese disperatamente il braccio, ma le sue dita sfiorarono il chiarificatore senza far presa. In un attimo erano molti metri più avanti, avvinghiate in una lotta senza quartiere. Afferrata la sorella, Soji le schiacciò il viso contro il pavimento e ve lo fece strisciare. Sutra urlò di rabbia, cercando furiosamente di divincolarsi.

   Più verso il fondo dell’hangar, Jack si sentiva prossimo a svenire. Rinunciò a opporsi al vento e si lasciò scivolare a sua volta verso il Dullahan. Se fosse riuscito a entrarvi, richiudendo il portello, sarebbe stato salvo. Ma quando urtò contro un lato della navicella, l’Umano non riuscì a rialzarsi. L’aria era quasi finita, tanto che occhi e orecchie parevano sul punto di scoppiargli. I polmoni vuoti bruciavano e il gelo lo attanagliava, anchilosando i suoi movimenti. Rantolò, tendendo le mani al portello, e si accasciò del tutto. Che ironia, per il ladro che era penetrato nei luoghi più sorvegliati dell’Unione, morire nell’hangar della sua stessa nave...

   «Tieni duro, amico!» disse una voce raschiante. Qualcosa di grosso giunse accanto al corsaro, che con le ultime forze alzò il viso per guardarlo. Era Raav, il fedele cuoco e consigliere di bordo. Il vecchio Gorn, che evidentemente sopportava la decompressione meglio degli Umani, raccolse Jack e se lo caricò in spalla. Poi aprì il portello del Dullahan e vi entrò, vincendo il risucchio dell’aria. Ebbe anche l’accortezza di raccogliere l’elettro-chiarificatore e portarlo dentro, per accertarsi che non cadesse in mano a Sutra. Appena il portello si fu sigillato dietro di loro e il supporto vitale entrò in funzione, lo Spettro inspirò a pieni polmoni.

   «È tutto a posto, fa’ respiri profondi» consigliò Raav, deponendolo a terra.

   «Grazie» rantolò Jack. «Ma che ci fai qui?».

   «Prima di lasciarci, Jaylah mi ha chiesto di tenerti d’occhio. Non si fidava di Sutra, e nemmeno io. Quindi appena ho saputo che stavate indagando su di lei, ho raggiunto Soji e ci siamo tenuti pronti a intervenire» spiegò il Gorn. «Certo che voi mammiferi dovreste smetterla di costruire androidi simili a voi, ma più resistenti!».

   «Sono d’accordo» ansimò Jack. Si rimise in piedi con l’aiuto di Raav e guardò fuori dallo schermo anteriore. Il Dullahan era ancorato al pavimento dallo scafo magnetizzato, ma altre navette erano scivolate o persino rotolate fuori dall’hangar, assieme a tutti gli oggetti non assicurati alle pareti. Alcuni corsari si erano messi in salvo nel corridoio; gli altri erano finiti nello spazio. Le uniche persone ancora in piedi nell’hangar erano Soji e Sutra, impegnate in una lotta senza esclusione di colpi. Ma anche questo stava per finire.

 

   Con uno scatto repentino, Sutra si liberò dalla presa della sorella e riuscì a rialzarsi. Si portò una mano alla guancia, dove aveva strisciato contro il pavimento, e sentì qualcosa di ruvido. L’attrito le aveva raschiato l’epidermide in polimeri elastici, mettendo a nudo il metallo sottostante.

   «Non volevo che finisse così» disse Soji, sovrastando a stento l’ululato del vento. «Possiamo ancora sconfiggere l’Esecutore, se ci aiuti».

   «Forse!» ammise Sutra. «Ma non sconfiggeremo i Pacificatori e i Voth. Nessuno può farlo. Tanto vale schierarsi col vincitore: è l’unica scelta logica!».

   «Soong e Maddox ci crearono affinché aiutassimo gli Umani...» provò ancora Soji.

   «Non lascerò che due tizi morti decidano il nostro avvenire!» ringhiò Sutra.

   In quella le due androidi udirono un suono sferragliante. Una delle navette più piccole si era rovesciata e ora veniva rotolando contro di loro. Il risucchio dell’aria era così forte che negli ultimi metri prese a rimbalzare sul pavimento. Venne addosso alle due sorelle con velocità più che sufficiente a spazzarle via.

   Anziché scartare di lato, Sutra si accucciò a terra. Aveva calcolato che la navetta le sarebbe passata sopra in uno dei suoi rimbalzi. Si augurò che Soji non avesse la stessa prontezza; in alternativa si aspettava che la sorella si chinasse come lei. Ma non fu così.

   Vedendo la navetta che le veniva contro e Sutra che si abbassava, Soji calcolò tutte le variabili e prese una decisione. Afferrò la sorella e la strinse saldamente, restando in piedi. Sutra la fissò inorridita con gli occhi gialli, intuendo la sua scelta. L’attimo dopo la navetta colpì violentemente Soji, che fu gettata nello spazio, con la sorella ancora tra le braccia. Fluttuarono nel vuoto, allontanandosi sempre più dalla nave dei corsari.

   Pur sopportando l’esposizione diretta allo spazio, le due androidi erano impossibilitate a cambiare direzione o a rallentare il loro moto. La navetta con cui erano state espulse era fuori portata e si allontanava sempre più, ruotando su se stessa. L’ultimo sbuffo d’aria attorno a loro si disperse nel vuoto, salvo quel poco che condensò, avvolgendole in un sottile strato di brina. Ora non potevano più parlare, non essendoci un’atmosfera che trasmettesse le loro voci. Potevano solo guardarsi e sperare che qualcuno, sulla Stella, le riprendesse a bordo. Altrimenti sarebbero rimaste alla deriva nello spazio... per sempre.

 

   «Allora, cos’è successo sulla mia nave?!» chiese lo Spettro appena fu tornato in plancia.

   «Capitano, che bello vederti tutto d’un pezzo!» lo accolse Graush. «Quella shutta meccanica ha sabotato il computer. Per fortuna non è entrata nei sistemi chiave, ma è riuscita ad aprire l’hangar senza toccare una consolle, semplicemente trasmettendo il segnale».

   «Me ne sono accorto. Cambiate tutti i codici di sicurezza» ordinò Jack. «Quante vittime abbiamo?» volle sapere.

   «Cinque, senza contare Soji che probabilmente è ancora viva» rispose il Letheano.

   «Ci sono astronavi nelle vicinanze?» chiese ancora l’Umano, sapendo che l’apertura dell’hangar aveva compromesso l’occultamento.

   «Nessuna, capo. Per fortuna ci siamo allontanati da Deep Space 4» disse Siall.

   Solo allora lo Spettro cominciò a calmarsi. «Condizioni della nave» richiese, sedendo in poltrona.

   «L’hangar è ripressurizzato e l’occultamento è di nuovo attivo» disse il Boliano.

   «Localizzate tutto il materiale che è stato espulso nello spazio e teletrasportatelo a bordo. Inviate dei piloti nelle navette perché le facciano rientrare» ordinò il corsaro. «Recuperate anche i corpi delle vittime, così potremo seppellirli».

   «Sì, capo». La ciurma si mise al lavoro, ma dopo qualche attimo Siall rialzò la testa. «E riguardo alle due synth?» chiese.

   «Trasferite qui Soji. Soltanto lei» comandò lo Spettro. Girò la poltrona in modo da fronteggiare la pedana di teletrasporto, mentre l’androide vi si materializzava.

   Tratta direttamente dallo spazio, Soji apparve in posizione coricata. Si guardò attorno e si rialzò, spazzolandosi la brina dall’uniforme. «Finalmente. Cominciavo a credere che mi avreste lasciata là» commentò.

   «Ti ho ripresa appena la situazione è tornata sotto controllo» spiegò Jack. «Sei danneggiata?».

   «Ho preso una bella botta, ma mi reggo in piedi» minimizzò l’androide, sfiorandosi una spalla scorticata. «Magari passerò dal tuo laboratorio cibernetico, per un controllo».

   «Fa’ pure. E grazie d’essere intervenuta. Devo la vita a te e a Raav» riconobbe lo Spettro.

   «Sei un alleato troppo prezioso; la Flotta non può perderti» ironizzò Soji, ma subito dopo tornò seria. «Dov’è mia sorella?» chiese, notando la sua assenza.

   «Ancora là fuori» disse il corsaro, indicando vagamente lo spazio.

   «Hai intenzione di riprenderla a bordo?».

   Lo Spettro rifletté brevemente. «Ha un faro subspaziale incorporato e può influenzare i sistemi di bordo. Tutto sommato, penso che la lascerò dov’è».

   «Dammi una navetta, ci penserò io» propose l’androide.

   «No, ti voglio concentrata sulla missione» si oppose Jack. «Se sopravvivremo ai prossimi scontri, torneremo a prenderla e potrai farne ciò che vorrai. Altrimenti resterà qui, a scontare le sue malefatte» decretò.

   «Questa non è la legge federale» obiettò Soji, scontenta.

   «No, infatti; è la mia legge» disse lo Spettro, arcigno. «L’unica che conta, su questa nave».

   «Non so proprio che ci trova Jaylah in te» borbottò l’androide, guardandolo storto.

   «Ma sei ancora con noi?» volle sapere il corsaro.

   «Per forza; devo completare la mia missione» sospirò Soji. Guardò le stelle sullo schermo, chiedendosi se avrebbe mai rivisto sua sorella. La detestava per tutto ciò che aveva fatto, eppure non poteva fare a meno di pensare a lei.

   Qualche minuto dopo Graush riferì che gli ordini dello Spettro erano stati eseguiti. Tutto il materiale espulso nello spazio era stato recuperato, incluse le navette e i corpi delle vittime. Soltanto Sutra era ancora là fuori, a vorticare nello spazio. «Illuderà l’Esecutore che siamo ancora in questa zona» notò il Letheano. «Potremmo approfittarne».

   «L’Esecutore, già...» rimuginò lo Spettro. «Se ci ha tracciati da Coppelius in poi, saprà anche dove abbiamo fatto tappa. E questo lo porterà dritto al nostro rifugio... dritto da Jaylah!». Dette un pugno sul bracciolo, in preda all’ira; ma la paura gli serrò la gola, come se fosse di nuovo a corto d’aria. «Presto, rotta verso Sokar. Massima curvatura!» ordinò.

   La ciurma obbedì con una prontezza che dimostrava come la mezza Andoriana fosse benvoluta e rispettata da tutti, alla pari dello Spettro. La Stella del Polo partì ad alta curvatura e così fece la sua nave scorta, informata della situazione.

   «Capo, pensi davvero che l’Esecutore abbia attaccato la nostra base?» chiese Graush dopo un po’. «Io pensavo che, se voleva tenderci un’imboscata, avrebbe aspettato che radunassimo le forze per l’assalto a Deep Space 4».

   «Questa sarebbe la mossa più logica, ma non possiamo correre rischi» disse Jack. «Forse teme che Sutra lo tradisca e la scoperta del nostro rifugio lo spingerà ad anticipare i piani. In ogni caso non sarò tranquillo finché Jaylah non sarà di nuovo fra noi». Che ironia, si disse: l’aveva lasciata indietro per proteggerla, e invece l’aveva esposta a un pericolo mortale. Se le fosse successo qualcosa mentre lui era lontano... no, non voleva nemmeno pensarci. Oh, perché non potevano andare più veloci?

   «Quanto ci vorrà per tornare a Sokar?» chiese, soffrendo per ogni istante che passava.

   «A massima curvatura, ventuno ore» rispose il timoniere.

   «Approfittane per riparare la tua tuta» gli suggerì Soji.

   «Ne ho una di riserva» disse lo Spettro, non volendo rischiare che il suo equipaggiamento facesse ancora cilecca. «Come Jaylah, del resto. Anche lei ha una seconda tuta qui a bordo. Ora che ci penso, uhm...» fece, squadrando l’ospite da capo a piedi.

   «Che c’è?» fece l’androide.

   «Mi sembrate della stessa taglia» spiegò il corsaro. «Quando arriveremo a Sokar, io scenderò con la tuta da Spettro... e la Banshee verrà con me. Se ti senti di recitare quella parte».

   «Pensavo che lo permettessi solo a Jaylah» disse Soji, un po’ stupita dall’offerta.

   «È stata proprio lei a insistere affinché la Banshee fosse un ideale che altri possono incarnare, se le succedesse... insomma... se fosse necessario» disse, con una contrazione dolorosa del volto. «Allora, ci stai? È solo per questa volta, finché non avremo salvato Jaylah» chiarì.

   «Devi amarla proprio tanto» mormorò Soji, persa in ricordi lontani. In quasi due secoli di vita aveva avuto la sua dose di amori perduti. «E va bene, Spettro. Per stavolta sarò la Banshee» acconsentì.

   «Ottimo. Vieni con me, non c’è tempo da perdere» disse il corsaro, lasciando la poltrona di comando. «Ti spiegherò come funziona la tuta e ti aiuterò a far pratica, nel breve tempo che abbiamo. Graush, a te la plancia».

 

   Le stelle vorticavano attorno a Sutra, miste ai nembi bluastri della Distesa di Typhon. Ovviamente era lei a ruotare su se stessa, così da avere quell’impressione. Avrebbe tanto voluto fermarsi, ma non ne era in grado. In assenza di sistemi propulsivi, l’androide non poteva rallentare il suo moto, né cambiare traiettoria, e nemmeno stabilizzarsi in modo da non girare più. Ad ogni rotazione vedeva sua sorella, a pochi metri di distanza, e la Stella del Polo che rimpiccioliva in lontananza.

   A un certo punto ci fu solo la Stella, perché Soji era svanita. Sutra comprese che i corsari l’avevano teletrasportata a bordo. Ma avevano lasciato lei nello spazio! L’androide si disperò al pensiero che il suo destino era interamente nelle loro mani. Sperò con tutta se stessa che la riprendessero, anche solo per interrogarla. Stare chiusa in cella sarebbe stato mille volte meglio che andare alla deriva nello spazio per l’eternità. Ma come poteva illudersi che Jack la riprendesse, dopo ciò che gli aveva fatto?

   «Soji è con lui. Lo convincerà a riprendermi» si disse Sutra. «È fatta così, quella sciocca sentimentale. Dice di odiarmi, ma alla fine torna sempre da me. Accadrà anche stavolta. Ancora pochi minuti e potrò lavorarmela...».

   Ma i minuti passarono senza che la situazione cambiasse. L’androide scorse alcuni lontani bagliori di teletrasporto, misti alla luce dei motori a impulso. Era il segno che i corsari si stavano riprendendo ciò che era finito nello spazio: container, navette.

   «Presto toccherà a me. Andiamo, sorellina, non abbandonarmi ora...» pensò Sutra. Ma quando tornò a cercare la Stella con lo sguardo, dopo l’ennesima rotazione, non la vide più. Né la vide nei giri successivi, per quanto sforzasse la sua vista telescopica. Le ci volle qualche minuto per accettare la realtà: i corsari l’avevano abbandonata, e così Soji. A meno che tornassero a prenderla in un secondo momento, il suo destino era segnato. Lo spazio era così vasto, i pianeti così lontani uno dall’altro, da rendere praticamente impossibile che un’altra nave passasse di lì per caso.

   «Un momento... c’è l’Esecutore. Lui riceve ancora il mio segnale. Presto o tardi si accorgerà che non si sposta più in modo apprezzabile e verrà a cercarmi. Devo solo avere pazienza» si disse l’androide. Ma era difficile sopportare l’attesa in quelle condizioni. Più una creatura è intelligente, più ha bisogno di stimoli per tenere la mente occupata. E di stimoli ce n’erano ben pochi nello spazio interstellare. Ah, se solo le stelle avessero smesso di girare! Ma non c’era modo di fermare quella tortura. Poteva solo chiudere gli occhi, ed è ciò che fece quando non ne poté più.

   Passò il tempo. I minuti divennero ore e le ore divennero giorni. I corsari non tornavano, sua sorella non si vedeva e anche dell’Esecutore non c’era l’ombra. Che si fossero distrutti a vicenda? In tal caso nessuno sarebbe tornato a prenderla. L’angoscia crebbe in lei, finché desiderò urlare per sfogarla. Il solo fatto di udire la propria voce le avrebbe dato una parvenza di sollievo. Ma come tutti sanno, nello spazio nessuno può sentirti gridare.

 

   Dopo un giorno di viaggio a massima curvatura, le due navi corsare raggiunsero il cuore della Distesa di Typhon, dove i gas erano più densi. Il disco scuro di Sokar apparve tra le volute bluastre. Era la prima volta che Jack non si sentiva sollevato nel vederlo. Aveva il presentimento che il suo nemico fosse lì ad attenderlo. «Allarme rosso» ordinò. «Analisi sensoriale».

   «La nostra nave è scomparsa» disse Siall. «Ma rilevo dei frammenti in orbita che...». S’interruppe mentre proseguiva le analisi.

   «Che? Parla!» ordinò Jack. Il suo incubo si era avverato: l’Esecutore era stato lì durante la loro assenza e aveva scatenato una battaglia. Il corsaro poteva solo sperare che il suo avversario avesse avuto la peggio, e che quei rottami in orbita appartenessero all’Hydra.

   «Non c’è dubbio, è la nostra nave» mormorò invece il Boliano. «La composizione dei detriti coincide col suo scafo».

   «Ci sono navette o capsule di salvataggio?».

   «Nessuna, signore. Se c’erano, il nemico le ha prese».

   Un silenzio di tomba scese in plancia. Perdere un’altra nave era un duro colpo per la banda; e nessuno osava chiedere in che stato fosse la base. Soji si accostò allo Spettro, che tuttavia la ignorò: i suoi occhi erano fissi allo scuro planetoide.

   «Che ne è del rifugio?» chiese finalmente l’Umano.

   «Ci sono i segni di una battaglia» rispose il Boliano. «Le batterie di superficie sono distrutte e gli schermi sono disattivati. Nelle miniere si sono verificati dei crolli. Il centro di comando è ancora integro, ma... non rilevo segni vitali».

   Stavolta il silenzio fu così prolungato che i corsari fissarono con ansia il loro capitano, temendo che qualcosa avesse ceduto nella sua mente. Immobile e silenzioso, Jack fissava il pianeta sullo schermo; l’unico segno di vita erano gli occhi che sbattevano ogni tanto.

   «Tracce dell’Hydra?» chiese Graush, per sbloccare la situazione.

   «Nessuna; ma potrebbe essere occultata e pronta a colpire» disse Siall.

   «Se ci sono dei prigionieri, saranno a bordo...» cominciò il Letheano, ma in quella lo Spettro si alzò di scatto.

   «Io scendo. Da solo» disse Jack. «Voi state pronti a difendervi, quando apparirà l’Hydra. Se vi troverete in svantaggio andatevene, anche a costo di lasciarmi qui. Se invece sarete voi a prevalere, cercate i segni vitali dei nostri. Se li trovate, cercate di salvarli. Altrimenti distruggete quella nave» ordinò.

   «Ehi, non puoi andare laggiù da solo!» intervenne Soji. «Questa è senz’altro una trappola dell’Esecutore».

   «Una trappola per me!» corresse Jack, guardandola con occhi selvaggi e spiritati. «A questo punto preferisco farla scattare, e vada come deve andare». Dispiegò il casco, divenendo lo Spettro a pieno titolo, e si recò al teletrasporto.

   «Aspetta, non gettare la tua vita così!» insisté l’androide, inseguendolo. «Ci serve un piano».

   «È questo il piano» disse il corsaro, salendo sulla pedana.

   «Ma l’Esecutore...».

   «Se è come credo, ci sarà lui ad aspettarmi. Nessun altro ci disturberà. Saremo io e lui, come doveva essere fin dal principio». Si rivolse poi al suo Primo Ufficiale. «Graush, se io non torno, la nave è tua. Continua a batterti per la nostra causa».

   «Capitano, no!» esclamò il Letheano. «Tu sei una leggenda; non possiamo perderti».

   «Tranquilli, fratelli miei» disse lo Spettro, passando lo sguardo sulla sua ciurma. «Le leggende non muoiono mai del tutto. Energia!» ordinò. E si dissolse in un bagliore dorato.

 

   Materializzato nella sala teletrasporto della base, Jack trovò un ambiente molto diverso da quello che aveva lasciato appena due giorni prima. L’installazione era semidistrutta: sale e corridoi erano in gran parte bui, o rischiarati a stento da qualche pannello lampeggiante. Cavi elettrici strappati pendevano pericolosamente dai soffitti, sprizzando scintille a migliaia di volt. Le pareti erano deformate o venate di crepe, mentre alcune volte rocciose erano crollate, ostruendo i passaggi. Su tutto aleggiava un silenzio di morte, rotto solo dagli sfrigolii elettrici e dall’occasionale rimbombo di qualche frana d’assestamento. Non c’era dubbio che quella base fosse ormai una tomba. Ma allora dov’erano i corpi?

   Lo Spettro ispezionò una gran quantità di ambienti, senza scovare nemmeno un cadavere. Dunque l’Esecutore li aveva presi tutti. Per farci cosa, lo sapeva solo lui. Tuttavia il corsaro trovò strumenti e persino armi che di certo erano stati impugnati dai suoi uomini durante l’attacco. Erano abbandonati a terra. E c’era un indizio ancor più inquietante. Ogni volta che sul pavimento c’erano tracce di sangue, a indicare il punto in cui qualcuno era morto, c’erano anche delle strie, segno che il cadavere era stato trascinato via. Trascinato, non teletrasportato! Doveva essere stato un lavoro lungo, ma Jack non volle fare ipotesi sul suo scopo. Però affrettò il passo.

   Il corsaro oltrepassò gli uffici e gli alloggi degli operai. Quando il suo percorso era ostruito da un crollo, non perdeva tempo ad aggirarlo: si sfasava e attraversava le tonnellate di roccia e metallo. Ben presto si lasciò alle spalle anche le fucine e gli ascensori che portavano giù, nelle voragini delle miniere. Superò una passerella metallica che varcava un abisso oscuro, badando appena ai sinistri scricchiolii sotto i suoi piedi. Puntò dritto al centro di comando, sapendo che vi avrebbe trovato il suo avversario.

   Quanto a Jaylah, gli restava un’ultima, flebile speranza. I sensori della Stella non avevano captato i suoi segni vitali, ma ciò non significava per forza che fosse morta. Forse al momento dell’attacco aveva indossato la tuta da Banshee e così facendo si era sottratta alle analisi. Poteva essere ovunque, ancora occultata, in attesa del suo arrivo. Ad ogni passo Jack si guardava attorno, sperando di vederla apparire. Ma ciò non accadde. E così fu con angoscia e incertezza che giunse a destinazione.

 

   All’avvicinarsi di Jack, il portone si alzò verticalmente. Era più lento del solito e il meccanismo cigolava, ma riuscì comunque ad aprirsi. Il centro di comando era immerso nell’oscurità, salvo per il cono di luce che dal soffitto cadeva sulla poltrona del Comandante. Un tenue fumo scaturito dalle consolle infrante aleggiava nel salone, spiccando in quella luce cruda. E seduto sulla poltrona, in atteggiamento di paziente attesa, c’era un guerriero rivestito di un’armatura cremisi.

   «Ti stavo aspettando» disse l’Esecutore. La sua voce dal timbro metallico echeggiò nella sala.

   «Ho fatto più in fretta che potevo, ma prima ho dovuto buttare la spazzatura» rispose lo Spettro.

   «Parli di Sutra? È una cara ragazza... certo più ragionevole di te» disse il sicario, con una nota di compiacimento. «Mi è stata utile, ma sapevo che prima o poi l’avresti scoperta. Il suo segnale la dà ad anni luce di distanza. L’hai gettata nello spazio, eh? Vergogna... è una sorte crudele».

   «Non più crudele di quella che tu spargi ovunque vai» ribatté il corsaro. «Ho visto le strie di sangue a terra; sono opera tua».

   «Già, ho voluto decorare l’ambiente» confermò l’Esecutore. «Benvenuto nel mondo che hai creato con la tua futile ribellione. Guardali, Jack... guarda coloro che confidavano in te!». Così dicendo premette un comando sul bracciolo.

   La luce si fece più soffusa. Nel chiarore crescente, Jack vide due grossi cumuli ai lati della poltrona. Il maggiore era fatto di... corpi. Decine e decine di cadaveri, molti dei quali orribilmente smembrati, erano ammucchiati uno sull’altro. Si trattava del personale che lo Spettro aveva lasciato a presidiare la base: tecnici, guardie, anche un medico. Ad accrescere l’orrore, erano tutti privi della testa.

   Questo indusse Jack a guardare il secondo mucchio. Aveva un aspetto diverso dal primo, essendo composto da oggetti più piccoli e rotondi. Erano le teste mozzate ai cadaveri. L’Esecutore le aveva impilate, assicurandosi che non si disperdessero rotolando. Ecco cosa intendeva con “decorare l’ambiente”. L’Umano si ritrovò a fissarle una per una, temendo di riconoscere il volto di Jaylah. Ma non poteva esaminarle tutte, dato che molte erano coperte dalle altre. L’orrore lo nauseò, costringendolo a fermarsi. Una pila di corpi qua, una pila di teste là... ecco cosa rimaneva della sua guarnigione. Di coloro che, come diceva l’Esecutore, si erano fidati di lui.

   «Tu cerchi un volto familiare» disse l’Esecutore, malignamente compiaciuto. «Presumo sia quello della tua dolce metà, la Banshee. O dovrei chiamarla... Jaylah Chase».

   A quelle parole Jack restò impietrito. Nessuno fuori dalla loro banda, e da un ristretto numero di ufficiali della Flotta, sapeva che Jaylah era la Banshee. L’Esecutore poteva averlo scoperto in un solo modo: sconfiggendola. Le possibilità di rivederla viva si erano ridotte al lumicino. Ma lui non doveva mostrare segni di cedimento, o sarebbe stata la fine. «Non so di chi parli» disse il corsaro, lieto che il casco gli celasse il volto.

   «Suvvia, basta con la recita!» esclamò il sicario. «Jaylah era la Banshee; lo ha fatto per amor tuo. E questa è stata la sua rovina. L’ha condotta a questo mondo oscuro... l’ha condotta da me!» disse famelico.

   Lo Spettro decise che era tempo di scoprire le carte. «Lei dov’è, adesso?» chiese. Ancora non voleva rassegnarsi all’ineluttabile.

   «Ahhh... ti sta proprio a cuore, eh?!» gongolò l’Esecutore. «Che faresti per riaverla? Tradiresti il tuo equipaggio, consegnandolo a me? Ti consegneresti tu stesso?».

   «Lei non lo vorrebbe» rispose il corsaro, con la bocca secca. «E ora, per l’ultima volta... dimmi dov’è!».

   «Se proprio insisti...» disse l’avversario, vagamente annoiato. Raccattò un sacchetto di plastica scura che teneva accanto al seggio e si alzò. Reggendo il sacco con una mano, vi frugò dentro con l’altra. «Sai, quella poveretta ti amava proprio tanto. Avresti dovuto vederla: ha lottato con tutte le sue forze, invocando il tuo nome. Nonostante ciò, l’ho uccisa facilmente».

   Così dicendo l’Esecutore estrasse il contenuto della sacca. Lo tenne alto nel cono di luce, per consentire allo Spettro di osservarlo. A quella vista l’Umano si sentì mancare. La flebile speranza che l’aveva animato fin lì, permettendogli di sopportare tanti orrori, si estinse. Il trofeo era la testa mozzata di Jaylah, massacrata con gli altri; il sicario la sorreggeva beffardamente per un’antenna.

 

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Capitolo 9
*** Potenza di calcolo ***


 

 

-Capitolo 8: Potenza di calcolo

 

   L’attacco dello Stato Imperiale alla Sfera di Dyson cominciò quando le Narada aprirono il fuoco contro la Keter e il Moloch, che ostruivano l’ingresso. I Romulani avevano scansionato il portale e le sue immediate vicinanze, accertandosi che non ci fossero armi. Non si erano curati tuttavia dei raggi traenti che dovevano condurre le astronavi all’interno. Quei raggi, come ogni sistema della Sfera, erano sotto il controllo della Catena Cremisi. E la Catena sapeva perfettamente come usarli.

   Non appena le Narada fecero fuoco, i raggi azzurrini si attivarono. Agganciarono le grandi astronavi e le spinsero in collisione l’una con l’altra. Vedendosi trascinare, gli Imperiali rimodularono gli scudi e manovrarono nel tentativo di liberarsi, ma invano. Le Narada si urtarono con tale violenza da frantumare gli aculei metallici che le rivestivano. Al loro interno, gli equipaggi furono scaraventati contro le pareti. Ci furono danni, feriti e anche qualche vittima. La stessa Imperatrice Sela ruzzolò poco dignitosamente giù dal trono, anche se si rialzò subito, senza un graffio. La sua nave ammiraglia aveva riportato danni lievi, ampiamente coperti dalla ridondanza dei sistemi. Altre versavano in condizioni peggiori. Una di esse, la più piccola, fu trascinata dai raggi contro la superficie di neutronio della Sfera.

   «Propulsori indietro tutta!» ordinò il Capitano della nave incidentata, mentre gli allarmi di prossimità squillavano. Sullo schermo, la superficie grigia della Sfera era sempre più vicina. I Romulani si prepararono all’impatto...

   Dalla Valkis, l’Imperatrice vide l’astronave schiantarsi. Quasi tutti gli aculei si spezzarono contro il neutronio e la nave si rovesciò su un fianco, rotolando più volte prima di arrestarsi. Malgrado i sistemi ridondanti, i suoi scudi cedettero. La Keter il Moloch ne approfittarono per colpirla con i siluri transfasici. La prima salva aprì uno squarcio sulla fiancata, la seconda vi entrò; pochi attimi dopo il vascello si dissolse in una vampa giallo-verdastra. I suoi frammenti crivellarono le altre navi, rimbalzando sugli scudi.

   «Disabilitate quei raggi» ordinò Sela, livida in volto. Mentre le Narada superstiti colpivano gli emettitori con un fuoco concentrato, la Keter e il Moloch indietreggiarono, rientrando nella Sfera. Prima che gli Imperiali tornassero a colpirle, il portale si richiuse tra loro. Il primo round si era concluso con uno smacco per gli invasori, che si trovavano tagliati fuori, con una nave in meno.

   «Ben ragionato, Hod» si disse l’Imperatrice. La sua avversaria era all’altezza della fama; doveva stare molto attenta a come procedeva. «Voglio una rete di sonde attorno alla Sfera, pronte a rilevare l’apertura di qualunque portale» ordinò. «Appena sarà pronta, aprite il fuoco contro l’ingresso». Si risedette e attese, mentre le sue istruzioni venivano eseguite. Anche se non poteva intrappolare i nemici nella Sfera, dato il numero esorbitante di uscite, poteva entrare con la sua flotta ed espellerli. A quel punto li avrebbe braccati per ogni dove. E non appena i loro scudi avessero ceduto, era pronta a ripagarli con la loro moneta: un irraggiamento di thalaron che avrebbe ucciso gli equipaggi, lasciando intatte le astronavi.

   «Saranno ottime aggiunte alla mia flotta» pensò Sela, pregustando le applicazioni militari che le avrebbero fruttato.

 

   Sulla Zhat Vash, nel plesso centrale, i tecnici della Flotta e dei Pacificatori erano pronti a entrare in azione. Aspettavano solo che Zafreen, dalla plancia, li avvertisse del momento in cui gli Imperiali avrebbero attaccato Nuovo Romulus.

   «Plancia a plesso, la flotta imperiale sta avanzando» disse finalmente l’Orioniana. «Ingaggeranno i nostri a minuti. Incidentalmente ci sono altre dieci navi che cercano d’entrare nella Sfera, quindi vedete di sbrigarvi».

   «Ricevuto; procedo a riconnettere la Zhat Vash alla rete subspaziale» disse Terry. Fatto questo si sarebbe coordinata con Dib, che si trovava nella Sfera, per inviare l’ordine di stand-by alle Narada. La proiezione isomorfa aveva appena iniziato la procedura, quando una squadra di Pacificatori armati irruppe in sala.

   «Alt!» disse l’Ufficiale Tattico. Era l’Osaariano che la Catena aveva liberato su richiesta di Hod. «Non è ancora il momento di mettere a nanna le Narada».

   «Si sbaglia; non c’è un secondo da perdere» corresse Terry. Rimise mano alla consolle, ma l’Osaariano la distrusse con un colpo di phaser. L’IA ritirò la mano, che sfrigolò leggermente prima di stabilizzarsi.

   «Ah-ah» l’ammonì il Pacificatore. «Stia buona, o la prossima volta colpirò il suo Emettitore Autonomo».

   Il gelo cadde nella stanza. I tecnici del Moloch si allontanarono svelti dai colleghi della Keter, ponendosi accanto ai loro agenti. I due gruppi si fissarono con ostilità, senza parlare. L’unico suono erano le pulsazioni ritmiche del vinculum che incombeva sopra di loro, simili ai battiti di un cuore. Il dispositivo si era riattivato, ma Terry non aveva completato la riconnessione.

   «Vi rendete conto che, se non fermiamo gli Imperiali, ci distruggeranno?» chiese Terry.

   «Distruggeranno la vostra flotta a Nuovo Romulus» corresse l’Osaariano. «E faranno piazza pulita della Catena Cremisi, qui nella Sfera. Ma noi del Moloch ce la caveremo».

   «Radek ha acconsentito ad aiutarci» insisté la proiezione isomorfa.

   «Non m’insegni quali sono gli ordini del mio capitano!» berciò il Pacificatore. «Questa finta alleanza serviva solo a darci accesso alla Zhat Vash. Non abbiamo mai pensato seriamente di collaborare con voi... perché l’Unione non scende a patti coi terroristi».

   «Gli Imperiali non si fermeranno a Nuovo Romulus. Conquisteranno un sistema dopo l’altro, fino a invadere l’Unione» tentò ancora Terry.

   «Infatti li fermeremo proprio nel modo prestabilito» rivelò l’Osaariano. «Ma questo accadrà solo dopo che avranno distrutto la vostra flotta».

   «In pratica li userete per fare il lavoro sporco... e poi li eliminerete» comprese l’IA, fissandolo con disgusto.

   «Elimineremo due minacce in una» corresse il Pacificatore. «Ma lei può ancora salvarsi, se accetta di collaborare. La sua aberrazione informatica sarà corretta e riprenderà servizio su una nave dell’Unione. Ottemperi!» ordinò.

   «Non mi dia ordini come se fossi uno stupido computer! Io sono padrona di me stessa!» rivendicò Terry.

   «Oh oh, adesso giochi a fare la persona vera?!» ridacchiò l’Osaariano, passando a un tono paternalistico. «È un difetto della tua serie; infatti vi abbiamo ritirate dal servizio. Tu sei l’ultima».

   «La vostra ennesima persecuzione» disse Terry con amarezza. Per quanto si sforzasse di somigliare agli Umani, essere l’ultima IA della sua serie la faceva sentire terribilmente sola.

   «Bah! Credi d’essere viva solo perché ti hanno dato un bel faccino, ma non lo sei» infierì il Pacificatore. «Tu sei solo un’imitazione della vita! Un ammasso di fotoni e campi di forza, gestiti da un software. E siccome i synth non hanno diritti, ora sarai rottamata» concluse, mirando accuratamente all’Emettitore Autonomo.

 

   La Keter si stava riposizionando per fronteggiare gli Imperiali, prossimi a sfondare, quando fu colpita sulla fiancata. Fortunatamente il Capitano si aspettava quella slealtà e aveva ordinato di mantenere gli scudi da ogni lato. L’astronave tremò appena, mentre gli schermi assorbivano il colpo.

   «Chi è stato?» chiese Hod.

   «Il Moloch» rispose Norrin, con gli occhi accesi di sdegno.

   «Avrei preferito che fosse la Catena» disse l’Elaysiana, sorridendo senza gioia. «Bene, abbiamo il nemico in casa. Buttiamolo dove merita» disse, indicando la gigante rossa. In quel momento la stella agonizzante era in preda a un’eruzione, che aveva sollevato un immane arco di plasma dalla fotosfera.

   «Con piacere» disse Vrel, imprimendo alla Keter una rapida cabrata per schivare il secondo assalto.

   Le due astronavi ripresero l’antica sfida. Stavolta la Keter era in fuga e il Moloch la inseguiva, o così sembrava. I due vascelli zigzagarono tra gli statiti, i satelliti stazionari che gettavano coni d’ombra su piccole porzioni del mondo cavo. Le fragili vele dorate andarono in pezzi quando i colpi andati a vuoto del Moloch le crivellarono. Fortunatamente la Catena Cremisi aveva già evacuato gli habitat. I rifugiati avevano trovato scampo nelle intercapedini del guscio o in piccole navicelle, pronte al decollo. Anche così, la distruzione degli statiti fu un duro colpo per chi aveva trascorso mesi o anni nella loro ombra protettiva. I rifugiati, assiepati davanti agli schermi, videro le vele lacerate che precipitavano con curiosa lentezza e seppero che erano stati i Pacificatori a colpirle.

   Con una mossa ardita, Vrel fece passare la Keter tra due statiti affiancati. Il Moloch provò a imitarlo, ma era troppo grosso e ne colpì uno. La vela dorata aderì allo scafo, avvolgendone la parte anteriore. Chi stava in plancia vide lo schermo farsi opaco. «Frell!» imprecò Radek. Per un attimo il Moloch volò alla cieca, mentre il timoniere passava dalla navigazione a vista ai sensori. Approfittando di quei pochi secondi, la Keter compì un cerchio della morte al di sopra del Moloch e ridiscese dietro di esso. Mentre i cannoni a impulso del Moloch laceravano lo statite, liberando la visuale, la Keter lo colpì da dietro con i siluri quantici.

   «Scudi posteriori al 70% in diminuzione» avvertì l’Ufficiale Tattico del Moloch, mentre la nave si scuoteva.

   «Inversione totale, contrattacchiamo!» ordinò Radek, maledicendo l’inventiva dei suoi ex colleghi.

   Il Moloch si girò di 180º senza diminuire la velocità e rispose al fuoco con le armi di prua. Ma nei pochi secondi richiesti dalla manovra, la Keter si era già disimpegnata. Ora andava dritta contro la gigante rossa, puntando all’arco di plasma che s’innalzava lento dalla sua superficie.

   «Se deve finire nel fuoco, così sia» disse Radek.

   I due vascelli sfrecciarono verso la stella, con il Moloch che accorciava le distanze, sparando a tutto spiano. Di conseguenza il portale della Sfera rimase indifeso, proprio quando il fuoco concentrato delle Narada lo stava incrinando.

 

   Nelle profondità della Nebulosa Azzurra, la flotta dello Stato Imperiale stringeva il cerchio attorno a Nuovo Romulus. Le novanta Narada avanzavano indenni attraverso lo sbarramento difensivo, aprendo la strada ai duecento Falchi da Guerra. Alcune navi federali, che si trovavano in prima linea, finirono prese tra le maglie della rete. Colpite su tutti i lati, furono disabilitate e infine distrutte. L’armata imperiale proseguì inarrestabile, travolgendo i resti fiammeggianti degli scafi. Obbedendo all’ordine impartito dall’Imperatrice prima di andarsene, gli artiglieri presero di mira le navette e le capsule che tentavano di mettersi in salvo, abbattendole spietatamente. Così facendo inducevano altre navi federali a farsi avanti per salvarle, trasformandosi a loro volta in bersagli. E la carneficina proseguiva.

   «Commodoro Lantora a flotta, restate nei ranghi. Non fatevi avanti per nessun motivo» ordinò lo Xindi. Condannare i fuggiaschi lo ripugnava profondamente, ma non c’era scelta. «Non che mantenere la posizione migliori molto le cose» si disse. Le navi superstiti erano ormai strette contro lo Scudo Planetario, il che riduceva di molto le loro possibilità di manovra. Anche le piattaforme orbitali cedevano sotto il massiccio fuoco nemico.

   Le Narada avanzavano implacabili. I loro scudi si erano ormai adattati a tutte le armi dei difensori. Solo un fuoco incredibilmente concentrato poteva soverchiarle; ma in tal modo ne erano state distrutte appena cinque. Cinque su novanta. I difensori invece avevano perso decine di astronavi.

   «La battaglia è già persa» comprese Lantora, mentre la sua nave tremava e gli scudi s’indebolivano. Non gli restava che ordinare la ritirata, prima di consumare la sua flotta inutilmente. Sempre che riuscissero a fuggire da quella rete micidiale. Ormai dubitava anche di questo.

 

   Quando l’Osaariano le mirò l’Emettitore Autonomo, Terry chiuse gli occhi, preparandosi all’oblio. Le era già capitato molte volte di correre rischi mortali, ma i suoi calcoli le avevano sempre indicato una probabilità sia pur minima di salvezza. Ora che invece era certa di morire, si scoprì terrorizzata. Ma forse se lo meritava, si disse avvilita. Progettata per proteggere gli Organici, aveva fatto l’esatto opposto, uccidendone a migliaia in quella guerra. Adesso la ripagavano con la stessa moneta.

   In quell’attimo la porta si riaprì alle spalle dell’Osaariano, che si voltò con il phaser in pugno. Non fu abbastanza rapido. La tan qalanq gli calò sulla mano, recidendola all’altezza del polso. Il Pacificatore gridò dal dolore, stringendosi il moncherino sanguinante. La mano tagliata cadde, impugnando ancora l’arma, ma V’Lena l’afferrò al volo con la sinistra. In un lampo la monaca si disfece della mano e impugnò il phaser. Mentre lo regolava su stordimento, un altro Pacificatore le sparò. Incredibilmente V’Lena riuscì a parare il raggio con la lama, che resistette. Reggendo ancora il phaser con la sinistra, la Romulana fece fuoco continuo, stordendo tutti gli agenti. Erano passati sì e no cinque secondi dall’apertura della porta e V’Lena si ergeva tra i Pacificatori privi di sensi. «Bugiardi» mormorò, fissandoli con delusione.

   Terry, che aveva riaperto gli occhi al grido dell’Osaariano, la fissò incredula. Sapeva che le Qowat Milat erano combattenti provette, ma ciò che aveva visto era ai limiti del prodigio. «Grazie» mormorò.

   «Ringrazi il Capitano Hod. Si aspettava qualcosa del genere e mi ha detto di stare in guardia» disse V’Lena. Si avvicinò all’Osaariano, l’unico avversario non stordito, che si stringeva il polso sanguinante. «Posso aiutarti» si offrì.

   «Crepa!» ringhiò il Pacificatore. Con la mano superstite agguantò il phaser di un collega svenuto. Invece di sparare ai federali prese di mira il vinculum sopra le loro teste. Se lo avesse distrutto, l’esplosione li avrebbe uccisi tutti e ogni speranza di sabotare le Narada sarebbe sfumata.

   «Non farlo, amico mio... scegli la vita» disse V’Lena, fedele ai precetti del suo Ordine.

   «Scelgo quella dei Pacificatori!» ribatté l’Osaariano, e aprì il fuoco. Il suo raggio si estinse contro un campo di forza che circondava il vinculum.

   «Conoscendovi, ho preso anch’io qualche precauzione» disse Terry.

   Pazzo di rabbia, l’Ufficiale Tattico mirò V’Lena, che tuttavia sparò per prima, stordendolo. «Questa gentaglia è ovunque, anche in plancia» disse la monaca. «Li puoi fermare?».

   «Ci provo» disse la proiezione isomorfa, recandosi a una consolle. I tecnici del Moloch le sbarrarono la strada. Il loro capo, il Dopteriano, si premette il comunicatore. «Kinnik a plancia, abbiamo...» cominciò a dire, ma V’Lena stordì anche lui.

   «Qui plancia. Continui, Tenente» rispose un Pacificatore.

   Terry si affrettò a raccogliere il comunicatore. «Abbiamo la situazione sotto controllo» disse, imitando perfettamente la voce del Dopteriano. «Zannis ha eliminato la synth e ora controlliamo il plesso centrale».

   «Ottimo. Restate in attesa, mentre ci assicuriamo il controllo totale della nave. Plancia, chiudo».

   «Bene» commentò Terry, tornando alla voce normale. «La prima cosa da fare è sbarazzarci di voi» disse ai tecnici nemici.

   «Che vuoi farci, brutta synth?» chiese uno di loro.

   «Nulla d’irreparabile. Sarete reclusi fino al termine dell’emergenza» disse l’IA, andando alla consolle. Mentre V’Lena teneva sotto tiro i Pacificatori, i tecnici della Flotta li privarono di comunicatori e strumenti. «Vediamo... queste dovrebbero essere le prigioni» mormorò Terry, scorrendo le planimetrie della nave. «Sempre che non siano le camere di assimilazione».

   «Non osare...!» gracchiò l’ingegnere, ma fu teletrasportato assieme agli altri Pacificatori, sia tecnici che agenti.

   «Il prossimo passo è riconquistare la plancia» disse Terry. «Io però devo concentrarmi sul sabotaggio delle Narada. Siamo in ritardo, l’attacco a Nuovo Romulus è già iniziato» disse, pensando a Lantora e T’Vala che in quel momento erano assaliti da forze soverchianti.

   «Me ne occupo io» si offrì V’Lena. «Sono già in contatto col gruppo di Chaltak». Erano quelli che avevano salvato dal Memoriale di Romulus; c’era da aspettarsi che dessero il massimo contro lo Stato Imperiale.

   «D’accordo» acconsentì l’IA. «Se riuscite a prendere la plancia, cercate di tenere la Zhat Vash lontana dalle altre navi. Niente eroismi inutili» raccomandò.

   «Intesi» disse la monaca, e infilò la porta.

 

   Dopo quindici minuti di fuoco concentrato, il portale di neutronio andò in pezzi. Migliaia di schegge superdense schizzarono dentro la Sfera, veloci come proiettili e molto più perforanti. Alcuni statiti che si trovavano lungo la loro traiettoria furono sforacchiati, permettendo alle radiazioni di reclamare gli habitat sottostanti.

   Aperto il varco, le Narada entrarono nel mondo cavo, in fila indiana a causa della loro mole. Non conoscendo ancora l’entità delle difese, l’Imperatrice tenne la sua nave alla retroguardia. «Dove sono la Keter e il Moloch?» chiese. Sapendo che erano dotati di occultamento, temeva un agguato.

   «Sono vicini alla stella» li localizzò l’addetto ai sensori. «Altezza, è molto strano... si direbbe che stiano combattendo fra loro!».

   «Come?! Sullo schermo» ordinò Sela, incredula.

   Gli ufficiali guardarono assieme a lei. Non c’era possibilità d’errore: le due navi si scambiavano colpi presso l’eruzione solare, talora immergendosi nell’arco di plasma per poi uscire da un’altra parte.

   «Può essere un inganno per distrarci» suggerì Ducrax.

   «Non credo» disse Sela, il cui volto pallido era acceso d’arancione dal bagliore della stella morente. «Miei fidi, quella che vedete è l’agonia dell’Unione Galattica. Non occorre che interveniamo: si distruggeranno da soli. Pensiamo piuttosto a reclamare la nostra nave».

   «Eccola» disse l’addetto, inquadrandola sullo schermo. «Si è in gran parte rigenerata».

   L’Imperatrice la contemplò per qualche attimo. La Zhat Vash orbitava molto più in alto degli statiti. Il suo raggio traente attirava un flusso di plasma stellare, che entrava da un condotto sulla fiancata. Qui materia ed energia erano riconvertiti dal vascello, che li usava per riparare i danni. Gli aculei spezzati nel Cimitero di Romulus stavano ricrescendo come code di lucertola; in dieci giorni erano quasi tornati alla lunghezza originale. Tuttavia non avevano la stessa forma e orientamento di prima. Che fosse un difetto della rigenerazione o un adattamento alle nuove condizioni, la Zhat Vash si stava riconfigurando. Sela stava per ordinare di abbordarla, quando il flusso di plasma s’interruppe. Uno scudo a bolla balenò attorno allo scafo, prima di stabilizzarsi.

   «Hanno alzato gli schermi» confermò l’Ufficiale Tattico.

   «Se la Zhat Vash non vuol tornare all’ovile, allora la distruggeremo» ordinò Sela. «Fatelo in fretta». Non vedeva l’ora di andarsene dalla Sfera e riprendere il comando della flotta principale.

   In quella la Narada che procedeva in testa alla flottiglia fu colpita dall’alto da un potentissimo raggio bianco, che la fece sbandare. Quelle che la seguivano dovettero rallentare e aprirsi a ventaglio.

   «Siamo sotto attacco! È un banale raggio laser, ma con una potenza di milioni di terajoule» disse Ducrax.

   «Dov’è l’astronave?» chiese l’Imperatrice, sorpresa da quell’arma.

   «Non c’è alcuna nave» rispose l’Ufficiale Tattico. «È un’arma innestata nella struttura della Sfera». Inquadrò il polo nord, da dove venivano i colpi. Gran parte dell’arma era sepolta nello spessore del guscio, che la proteggeva; solo l’emettitore direzionabile ne usciva. Sparava ogni dieci secondi, correggendo ogni volta il puntamento.

   «Continua a colpire la Tomalak, sta indebolendo i suoi scudi» avvertì Ducrax.

   «Rispondere al fuoco» ordinò Sela. «E badate che la Zhat Vash non ne approfitti per scappare» raccomandò.

   Le irsute navi imperiali puntarono verso il polo nord e aprirono il fuoco contro il superlaser. I loro raggi disgregatori si arrestarono contro lo scudo a cupola che lo proteggeva.

   «Astuto» riconobbe l’Imperatrice. Se i difensori avessero posizionato le armi all’esterno della Sfera, avrebbero dovuto costruirne migliaia per difendere tutti gli ingressi. Piazzandole dentro, invece, ne bastavano due – una ad ogni polo – per avere una copertura totale. Lo svantaggio era che un colpo andato a vuoto avrebbe devastato la superficie interna della Sfera. Questo poteva essere un rischio inaccettabile quando la megastruttura era densamente abitata; ma non adesso che era un deserto radioattivo. Un colpo errato avrebbe perforato il suolo, mettendo a nudo lo strato sottostante di neutronio, ma lì si sarebbe fermato. Non c’era rischio che perforasse il guscio, facendone uscire l’atmosfera.

   «Sbrigatevi a distruggere quell’arma» ordinò Sela. Tamburellò sul bracciolo, in preda a una crescente irritazione. La Sfera di Dyson le stava riservando troppe brutte sorprese.

 

   Nel centro di comando della Sfera, incassato nello spessore del guscio, c’era concitazione. I combattenti della Catena Cremisi seguivano la battaglia e facevano di tutto per ostacolare l’avanzata dello Stato Imperiale. Quando il superlaser polare colpì una Narada ci furono acclamazioni.

   «Notevole» riconobbe Dib, ancora in attesa di sferrare l’attacco informatico.

   «È un raggio di Nicoll-Dyson» spiegò Arvid. «In pratica è un superlaser alimentato dall’energia solare... come tutte le nostre cose. Con questo giorno perenne, non rischiamo di rimanere a secco».

   «Suppongo che lo abbiate costruito voi, dato che i Proto-Umanoidi non si lasciarono dietro alcun armamento» disse il Penumbrano.

   «Lo abbiamo finito da poco» confermò lo scienziato. «Il suo gemello al polo sud non è ancora completato, perciò abbiamo attirato gli Imperiali in questo emisfero».

   «È consapevole che non basterà a respingerli?» chiese Dib, abbassando il tono di voce affinché non lo sentissero altri.

   «Certo» mugugnò il Risiano. «Siamo già pronti ad abbandonare la Sfera. Resta da vedere se ce la farete a sferrare l’attacco informatico».

   «La Zhat Vash è ancora silente» disse il Penumbrano, consultando lo schermo. «Ma io resterò in attesa finché sarà possibile».

   «Si fida proprio dei nostri colleghi, eh?» fece Arvid, ricordando gli anni di servizio sulla Keter.

   «Conosco la loro capacità di aggirare gli ostacoli. E lei non si fida?».

   «Sì...» rispose il vecchio scienziato. «Ma se è per questo, mi fidavo anche di Radek» s’incupì, osservando il Moloch che affrontava la Keter tra le eruzioni solari.

 

   Teletrasportata nel plesso centrale, Zafreen restò per un attimo immobile, con gli occhi sbarrati. «Frell!» imprecò.

   «I sensori mi dicono che la plancia è occupata dai Pacificatori. Ho pensato che fosse il caso di metterla al sicuro» spiegò Terry.

   «Quando mi hanno vista sparire, quelle carogne mi hanno sparato!» si lamentò l’Orioniana. Si tastò un po’ ovunque, come per accertarsi d’essere intatta. «E dire che mi stavo lavorando il caposquadra per fargli abbassare la guardia...».

   «Non ne dubito, ma stia tranquilla: il suo schema è integro» disse l’IA. «Qual è la situazione?».

   «La Keter sta trattenendo il Moloch presso la gigante rossa» spiegò Zafreen. «Gli Imperiali hanno sfondato; la Catena li bersaglia col superlaser, ma non li distrarrà a lungo».

   «Dobbiamo procedere con l’attacco informatico» disse Terry, già al lavoro su una quantità di oloschermi. «Sto riattivando il vinculum. Lei controlli che il canale subspaziale resti aperto» disse indicandole una consolle, dove aveva dirottato i comandi delle comunicazioni.

   L’Orioniana corse alla postazione e verificò lo status. «La linea c’è, anche se...».

   «Continui» la esortò Terry. La proiezione isomorfa stava lavorando alla massima velocità per recuperare il tempo perso: le sue mani erano a malapena visibili.

   «Ecco, l’eruzione solare e la battaglia creano parecchie interferenze. Cerco di pulire il segnale» disse Zafreen, armeggiando con i controlli. Perché il sabotaggio riuscisse, molte cose dovevano funzionare alla perfezione. Dib doveva sfruttare il potere di calcolo della Sfera, Terry doveva riconnettere la Zhat Vash alla rete subspaziale e lei doveva mantenere aperto il canale. Se uno solo di questi delicati passaggi falliva, l’intera operazione sarebbe andata a monte.

   Passarono i secondi; la tensione si tagliava con il coltello. Gli ingegneri della Keter che aiutavano Terry correvano da una consolle all’altra e parlottavano fitti tra loro, in un gergo così tecnico che Zafreen non lo capiva. Ma a giudicare dal tono di voce e dalle occasionali imprecazioni, la situazione volgeva al peggio. «Ci sono problemi, vero?» chiese l’Orioniana, sperando in una delucidazione.

   «Sono nella rete, ma gli Imperiali cercano in ogni modo di estromettermi» spiegò l’IA. «Sono... molto abili» ammise. Anche se pareva impossibile, i suoi movimenti divennero ancora più veloci. La sua mente elettronica eseguiva miliardi di calcoli al secondo, prevedendo tutte le possibili contromosse del nemico e neutralizzandole prima che divenissero effettive. Gli oloschermi apparivano e sparivano attorno a lei, le spie lampeggiavano sulle consolle e tutto il vinculum ronzava sopra la sua testa. Era una lotta informatica senza quartiere, non meno accanita di quella che si consumava nello spazio. «La nostra velocità di trasmissione cala, che sta facendo?» chiese a Zafreen.

   «Sono gli Imperiali» disse l’Orioniana, anche lei immersa nel lavoro. «Disturbano il segnale, ma credo di poter compensare...».

   «Lasci stare, me ne occupo io» disse Terry, visualizzando lo status delle comunicazioni sull’ennesimo oloschermo.

   «No!» protestò Zafreen con veemenza. «Questo è il mio compito, lo sbrigo da me! Lei pensi al resto!».

   «I suoi riflessi sono lenti e il suo lavoro è farraginoso. Non posso rischiare che il collegamento salti, ne va della nostra flotta» ribatté Terry, cercando di estrometterla dai controlli.

   A quelle parole, l’Orioniana andò fuori dai gangheri. «Stammi a sentire, saputella! Non sarò la più istruita a bordo, ma faccio questo lavoro da sette anni e ho imparato qualcosa» sbottò. «So che ti preoccupi per i nostri cari, ma credi che io non lo faccia?! Non puoi controllare sempre tutto e tutti... non è così che funziona! Quindi, per una dannata volta, fidati di me e lasciami fare!».

   Udendo quella sfuriata, Terry rimase interdetta per un istante. Le sue subroutine sotto stress valutarono le probabilità che Zafreen fallisse e le trovarono pericolosamente alte. In tal caso, le direttive della Flotta dicevano di escluderla dal lavoro. Ma c’erano altre “direttive” che si erano formate in lei nel corso degli anni, grazie agli algoritmi euristici di apprendimento. Una di queste diceva che si poteva dare campo libero alle persone di fiducia. La vecchia e la nuova direttiva lottarono per un millisecondo – un tempo lungo per l’IA – prima che una prevalesse.

   «D’accordo, pensaci tu» disse Terry. Restituì a Zafreen il controllo delle comunicazioni e tornò a concentrarsi sulla lotta informatica.

   L’Orioniana restò stupita; non si aspettava quella stima da parte della proiezione isomorfa. Ma non c’era tempo da perdere. Con rinnovata fiducia in se stessa, si concentrò sul compito di mantenere stabili le comunicazioni. I Romulani erano astuti e facevano di tutto per disturbare il segnale: Zafreen doveva compensare ogni interferenza. Per certe cose seguì le procedure standard, per altre si affidò all’intuito. Era così assorbita dall’incarico che ormai non sentiva neanche le parole dei colleghi e si accorse a malapena che la nave aveva cominciato a tremare.

 

   I federali avanzarono cautamente nella plancia della Zhat Vash, riconquistata dopo un duro scontro a fuoco con i Pacificatori. Vedendo un avversario che si muoveva ancora, il Comandante Chaltak lo stordì con un colpo di phaser. Di fatto era lui a capo del commando, composto per la maggior parte dalla guarnigione del Memoriale di Romulus. Alcuni agenti ammanettarono i Pacificatori storditi, mentre altri corsero ai comandi. Tra loro c’era V’Lena, che prese la postazione sensori e comunicazioni.

   «Gli Imperiali hanno distrutto il superlaser» avvertì la Qowat Milat. «Vengono contro di noi». Inquadrò le Narada che si avvicinavano in formazione. Erano solo otto: la nona era stata distrutta dal raggio di Nicoll-Dyson. Anche così, erano una forza soverchiante per la Zhat Vash.

   «Come va l’attacco informatico?» chiese Chaltak.

   «Procede, ma dobbiamo guadagnare tempo» rispose V’Lena.

   «Cerchiamo di tenere gli Imperiali a distanza» ordinò il Comandante.

   I disgregatori delle Narada infersero i primi colpi alla Zhat Vash. L’incrociatore catturato tremò leggermente, ma i suoi scudi resistettero. I federali non cercarono nemmeno di rispondere al fuoco, sapendo di non poter affrontare otto vascelli come il loro. Piuttosto dettero energia agli scudi e si allontanarono a massimo impulso, dirigendo verso la stella. Gli Imperiali li inseguirono, sparando a tutto spiano.

   Sulla Valkis, Sela era sempre più furiosa. «Non fateli scappare! Accerchiateli, tagliategli ogni via di fuga... insomma, sono una nave sola!» esclamò.

   La Zhat Vash sfiorò la fotosfera stellare e proseguì verso la parete opposta della Sfera, tallonata dagli Imperiali. Quando fu vicina al guscio le si aprì un altro portale davanti: erano i padroni di casa che le offrivano una via di fuga. L’astronave vi si diresse a massimo impulso. Sfrecciò attraverso l’ingresso, non ancora del tutto aperto; subito le ante cominciarono a richiudersi.

   «Più veloci! Non dobbiamo perderla!» gridò Sela. La sua nave, in testa agli inseguitori, accelerò ulteriormente. I lunghi aculei si piegarono in avanti per renderla più affusolata. Con quest’accorgimento riuscì a passare, pur sfregando la fiancata con tale violenza da strappare un paio di spuntoni. Gli incrociatori che la seguivano dovettero rallentare e deviare la traiettoria, per sfuggire all’impatto con il portale ormai richiuso.

   La Zhat Vash e la Valkis erano adesso all’esterno della Sfera e ne sorvolavano la superficie monotona, scambiandosi colpi. Gli altri incrociatori erano confinati all’interno e non potevano dare manforte. Alcuni aprirono il fuoco contro il portale, mentre altri schizzarono verso quello già distrutto. Ciò voleva dire raggiungere il lato opposto della Sfera e poi girarle attorno: un viaggio lungo anche a massimo impulso.

   Sulla sua plancia, che ora tremava per i colpi, Sela aveva smesso di dare ordini. Si limitava a fissare la Zhat Vash, ribollendo di collera. Avrebbe distrutto quella nave a qualunque costo e poi sarebbe tornata di corsa nello spazio romulano. Non sarebbe entrata mai più in quella trappola che chiamavano Sfera di Dyson, a meno di non essersene già assicurata il controllo.

 

   Dal suo punto di accesso, Dib controllava l’intera attività informatica della Sfera. Miliardi di calcolatori lavoravano all’unisono, per creare il più grande potere computazionale del Quadrante. Ora quel potere era interamente devoluto alla lotta informatica contro lo Stato Imperiale.

   Non era un compito facile. Ogni Narada disponeva di un potentissimo computer, più una serie di elaboratori ausiliari. E poiché quelle astronavi erano un centinaio, la somma del loro potere di calcolo era immensa. Ma non poteva paragonarsi ai miliardi di elaboratori della Sfera. Con il passare dei minuti, inoltre, Dib rilevò che il potenziale degli Imperiali diminuiva. Ciò dipendeva dal fatto che alcune Narada erano state distrutte: una presso la Sfera, una al suo interno, altre cinque nell’attacco a Nuovo Romulus. Ad ogni nave eliminata, la rete s’indeboliva.

   Ma la capacità di calcolo pura e semplice non era tutto. Ciò che contava era riuscire ad addentrarsi nel labirinto informatico delle Narada. Era una terra incognita piena di trappole, depistaggi e vicoli ciechi. Più volte i federali ebbero l’impressione di aver abbattuto le difese nemiche, solo per trovarsi di fronte nuovi firewall. Certe piste sembravano promettenti, ma si risolvevano con un nulla di fatto. Altre portavano a traguardi inutili. Che importava se si mettevano fuori uso i replicatori alimentari o si abbassava l’illuminazione? Per neutralizzare le Narada serviva ben altro. Dib non tentò di attivare la loro autodistruzione, sia per ragioni umanitarie, sia perché quei codici erano i più cifrati e serviva troppo tempo per violarli. Quello che cercava era un comando di stand-by: l’equivalente della rigenerazione dei vascelli Borg.

   Oltre ad attaccare, il Penumbrano si preoccupava della difesa. Il canale che univa la Zhat Vash alle altre Narada era infatti a doppio senso. Se loro potevano violare i sistemi nemici, nulla vietava agli Imperiali di ricambiare. Per cinque volte l’Ingegnere Capo rilevò dei tentativi d’intrusione, che avrebbero distrutto la Zhat Vash o l’avrebbero messa fuori uso. E per cinque volte li bloccò in extremis. L’ultimo attacco fu così terribile che lui e Terry dovettero lavorare all’unisono, dai rispettivi terminali, dando fondo alle loro capacità informatiche per sventarlo. Per il Penumbrano fu la sfida più ardua mai affrontata. Il suo corpo di protoplasma, composto da cellule d’idrocarburi, si convertì interamente alle funzioni cognitive. Per mezz’ora Dib fu “tutto cervello”. Le sue mani guizzavano rapidissime sui comandi, sotto lo sguardo affascinato di Arvid.

   Nel frattempo la battaglia continuava dentro e fuori la Sfera, con i federali che cedevano su ambo i fronti. Presso la stella centrale, la Keter cercava in ogni modo di tenere a distanza il Moloch, ma ormai aveva esaurito i trucchi. I suoi scudi stavano cedendo, mentre quelli dei Pacificatori erano ancora a metà potenza. Fuori dal guscio la Zhat Vash scambiava colpi con la Valkis. Era già in svantaggio, ma la situazione volse al peggio quando quattro Narada sfondarono il portale e vennero in soccorso alla loro ammiraglia. Le tre rimanenti, che avevano fatto il giro per uscire dall’altra parte, arrivarono pochi minuti dopo. Le otto astronavi circondarono la Zhat Vash, colpendola selvaggiamente. Ai federali non restò che deviare tutta l’energia agli scudi, ma anche così stavano per cedere.

   «Signor Dib, le restano pochi secondi per fare il suo miracolo» disse Arvid.

   Il Penumbrano non rispose, concentrato com’era nel suo compito. Davanti a lui i sentieri informatici si dipanavano, le barriere crollavano, finché il sistema energetico delle Narada fu messo a nudo. Ed eccolo lì, il comando della rigenerazione. Dib premette il tasto... fu un gesto indistinguibile dagli altri... e accadde. Quasi tutti i panelli si oscurarono e il brusio informatico si ridusse a un sussurro.

   «Ce l’ha fatta?» bisbigliò Arvid, con gli occhi febbricitanti che spiccavano sul viso esangue.

   Il Penumbrano lasciò che la maggior parte della sua massa corporea abbandonasse le funzioni cognitive, tornando all’equilibrio consueto. «Il nemico è fritto» annunciò.

   «Fritto?» si stupì il Risiano.

   «Sì, non si dice così? Fritto è sinonimo di disattivato... me l’ha spiegato Norrin».

 

   Le otto Narada si strinsero attorno alla Zhat Vash, bloccandole ogni via di fuga. Gli Imperiali bersagliavano la loro nave perduta con i disgregatori e i siluri, sapendo che gli scudi stavano per cedere. In plancia, i Romulani repubblicani cercavano di guadagnare tempo, nella speranza che i colleghi federali completassero la missione.

   «Gli scudi stanno cedendo!».

   «Deviate tutta l’energia ausiliaria».

   «Attenti, non dobbiamo toglierla al plesso centrale. Se resta a secco, è la fine».

   «È già la fine, non vedete?!».

   V’Lena ignorò la concitazione degli ufficiali e osservò le Narada che li colpivano. Su una di quelle navi c’era l’Imperatrice Sela. Era vicinissima, appena un centinaio di chilometri, ma era come se stesse rintanata su Rator III. Non aveva speranza di raggiungerla e fargliela pagare, a meno che l’attacco informatico riuscisse, cosa di cui ormai dubitava. Sentì che la Zhat Vash tremava sempre più forte; gli scudi stavano per cedere. Non c’era neanche il tempo di correre a una capsula di salvataggio... non che servisse a qualcosa, data la tendenza degli Imperiali a distruggerle. Ciò che più le spiaceva non era la morte in sé, ma il fatto di lasciare incompiuta la sua missione. Se solo avesse potuto andare fino in fondo...

   Fu allora che le Narada interruppero l’attacco. Prima tacquero i disgregatori, poi gli ultimi siluri in volo impattarono sugli scudi della Zhat Vash. Un silenzio surreale calò sulla plancia. Tutti fissavano gli incrociatori immobili sullo schermo.

   «Ce l’hanno fatta...» mormorò un ufficiale.

   V’Lena riabbassò gli occhi alla consolle dei sensori ed eseguì una rapida analisi. «Affermativo, le navi sono in stasi. Armi e scudi sono disattivati, come anche la propulsione; ma non durerà a lungo. Dobbiamo approfittarne per renderle inoffensive!».

   I Romulani non se lo fecero ripetere. Il vasto arsenale della Zhat Vash fu rivolto contro le Narada, che subirono colpi devastanti. Lo scopo era disabilitarle, non distruggerle; ma considerando i loro sistemi ridondanti, bisognava picchiare duro. Anche la conoscenza della Zhat Vash non era molto utile per individuare i loro punti deboli, date le enormi differenze da nave a nave. Fu così che le Narada furono praticamente sventrate.

   «Distruggete la Valkis» ordinò Chaltak.

   «No, gli ordini sono di disabilitarla come tutte le altre!» si oppose V’Lena.

   «L’Imperatrice è troppo pericolosa per lasciarla vivere» insisté il Comandante.

   «Se la uccidiamo, vinceremo la battaglia; ma se la catturiamo viva potremmo vincere la guerra» insisté la Qowat Milat.

   Il Romulano rimuginò, scrutando il vascello nemico che incassava colpi. I lunghi aculei si staccavano dal corpo centrale, come aghi di pino in una tormenta. «E va bene» cedette. «L’Imperatrice cercherà di fuggire, quindi dobbiamo bloccarla prima che lasci la plancia. Chi si offre volontario?».

   V’Lena ricordò l’ammonimento di Terry a evitare gli eroismi. Ma poi rammentò i suoi pensieri di poco prima, quando pensava d’essere spacciata. Ora che l’Universo gliene aveva data l’occasione, doveva andare fino in fondo. Voleva guardare l’Imperatrice negli occhi e dirle che non la temeva. Fu la prima a farsi avanti. Ispirati dal suo gesto, molti altri Romulani la imitarono.

 

   La plancia della Valkis era ancor più labirintica di quella della Zhat Vash. Più che un centro di comando sembrava un sotterraneo, pieno di anfratti oscuri. L’illuminazione, già bassa, si era pressoché disattivata quando la nave era entrata in stand-by. Restavano pochi faretti d’emergenza, che brillavano di un verde malato. A questi si aggiungevano le scintille sprizzate da alcuni cavi che pendevano dal soffitto danneggiato. Quei cavi ad alto voltaggio erano un pericolo mortale, e non certo l’unico: la plancia brulicava di ufficiali scelti dello Stato Imperiale. Almeno i tentacoli metallici che avevano dato filo da torcere sulla Zhat Vash erano disattivati, come gli altri sistemi.

   All’apparire dei federali si udirono grida roche in lingua romulana. Il bagliore del teletrasporto, ancor più evidente nella semioscurità, li rendeva facili bersagli. Alcuni furono falciati all’istante, prima che potessero trovare riparo. I superstiti ingaggiarono lo scontro a fuoco con gli Imperiali. Disgregatori e phaser s’incrociarono nel buio; alcune consolle esplosero gettando una luce cruda, che permise ai combattenti di localizzarsi.

   In mezzo alla baraonda, V’Lena non aveva occhi che per l’Imperatrice. Corse da un riparo all’altro, senza nemmeno rispondere al fuoco, finché la vide: stava salendo su una pedana di teletrasporto incassata nella parete. Impugnava il Debrune Teral’n ed era scortata da alcuni ufficiali. Di certo fuggivano in un luogo più sicuro; forse già dentro una scialuppa di salvataggio. Doveva fermarli. Con una temerarietà che rasentava l’incoscienza, la monaca si gettò in avanti, in mezzo alla gragnola di colpi. I suoi compagni le diedero tutta la copertura possibile. V’Lena si tuffò contro gli Imperiali proprio nel momento in cui il teletrasporto si attivava e si dissolse con loro.

 

   Riapparvero in un ambiente vasto ed echeggiante, costruito su più livelli. V’Lena lo riconobbe come l’hangar principale, avendone visto l’equivalente sulla Zhat Vash. C’erano piattaforme che sporgevano nel vuoto, a varie altezze. Molte ospitavano navette e anche navicelle di media stazza, pronte al decollo. Con ogni probabilità l’Imperatrice intendeva lanciarle tutte, impedendo ai federali di capire su quale si trovava. La parete più vicina era dominata da un’enorme ventola, facente parte dell’impianto d’aerazione. Anche quella si era fermata, come gli altri macchinari; dalle sue profondità saliva solo un roco cigolio.

   Trovandosi con la Qowat Milat in mezzo a loro, i Romulani si discostarono. L’Imperatrice corse via, stringendo il Teral’n, mentre gli altri cercarono di uccidere l’intrusa. Con i riflessi affinati dal duro addestramento, V’Lena schivò i colpi, lasciando che gli avversari si eliminassero tra loro. Stordì i rimanenti a colpi di phaser, anche se dovette abbatterne un paio con la tan qalanq. Vide il più alto in grado, l’Ufficiale Tattico, mettersi in salvo balzando sulla piattaforma sottostante, ma non gli badò. Era Sela che voleva.

   La inseguì fin davanti a una navicella. L’Imperatrice stava per entrare quando V’Lena le sparò, mancandola di poco. Allora la mezza Romulana si fermò e si girò lentamente. Non aveva armi, all’infuori del Teral’n. Attivò un comando sul manico ed ecco, una lama affilatissima si aprì sulla sommità dello scettro, che divenne una temibile arma. L’Imperatrice lo bilanciò sulla spalla e restò in attesa, in posizione di guardia. Non disse una parola, ma sul suo volto c’era un sorriso di sfida.

   V’Lena avrebbe potuto stordirla con il phaser, ma non sarebbe stato leale. Il suo codice morale imponeva di accettare le sfide, così gettò l’arma a raggi, conservando solo la spada. C’era qualcosa d’inevitabile nel fatto che quelle due antiche armi, il Debrune Teral’n e la tan qalanq, dovessero scontrarsi. Il simbolo del potere assoluto e quello del candore assoluto... e stava a lei far sì che prevalesse il secondo.

   «Sono V’Lena, delle Qowat Milat!» si presentò la giovane, con una certa spavalderia. «Hai ucciso le mie consorelle a Galorndon Core. Ne risponderai alla giustizia federale».

   L’Imperatrice non si degnò nemmeno di risponderle, ma avanzò con cautela, segno che non sottovalutava le sue capacità. La monaca la imitò, finché furono a pochi passi di distanza. Girarono una intorno all’altra, studiandosi in cerca di un varco nelle difese. In quella la Valkis si scosse sotto i colpi della Zhat Vash. Le piattaforme dell’hangar s’inclinarono a tal punto che alcune navicelle scivolarono fino all’orlo e da qui caddero nel vuoto. Sela e V’Lena dovettero piegarsi in senso opposto per restare in piedi.

   Approfittando di quella distrazione, l’Imperatrice attaccò. Sferrò un colpo che avrebbe squarciato la gola a V’Lena, se lei non si fosse scostata prontamente. La giovane rispose con un affondo che l’altra si affrettò a parare. Scoppiò il duello, che fu lungo e spossante. Entrambe le combattenti erano forgiate da addestramenti ferrei, che le avevano portate all’apice delle potenzialità psico-fisiche. Tra le Qowat Milat, solo una novizia su dieci superava le prove; le altre erano respinte. Quanto all’Imperatrice, la competizione che l’aveva portata al trono non era stata certo inferiore. Così le due si trovarono in perfetta parità.

   Ciò che cambiava erano le armi e di conseguenza lo stile di combattimento. La tan qalanq era una lama lunga e sottile, simile alla katana giapponese. Era leggera e ben bilanciata; dava il meglio di sé nei colpi ampi, fatti per tagliare. Al contrario, il Debrune Teral’n somigliava più a una corta alabarda. Il peso notevole si concentrava all’estremità, dove c’era la lama. Il manico metallico era buono per parare, ma per passare all’attacco bisognava cercare di trafiggere. Il Teral’n dava un allungo maggiore e cozzando contro la spada la respingeva, avendo più inerzia; ma i colpi andati a vuoto sbilanciavano chi lo impugnava. La tan qalanq consentiva invece di sferrare un assalto dopo l’altro, riacquistando in fretta l’equilibrio.

   V’Lena sperava che l’avversaria si stancasse in fretta, ma non fu così. Sela continuava a menare come un fabbro, cosa tanto più strana in quanto era Romulana solo per metà. L’altra metà era Umana e questo avrebbe dovuto darle una forza minore. Forse non era un semplice clone, si disse V’Lena. Forse c’era di mezzo qualche potenziamento genetico. A quel pensiero la monaca assunse uno stile più difensivo e cercò di risparmiare le forze, minate dai ripetuti scontri sulle due astronavi.

   A complicare le cose, la Valkis riprese a scuotersi e a inclinarsi sotto i colpi della Zhat Vash. La battaglia, infatti, non era finita. Le navi imperiali erano state danneggiate, ma ora che gli ingegneri avevano riavviato i sistemi energetici avevano già cominciato a rigenerarsi. Questo obbligava la Zhat Vash a sparare ancora, per mantenerle inoffensive, ed eventualmente a distruggerle. Se V’Lena non si fosse sbrigata a tornare con l’Imperatrice prigioniera, forse Chaltak avrebbe eliminato anche quel vascello. Le esplosioni dilagarono nell’hangar, assordando le due combattenti, minacciandole con il fuoco e le schegge. Ad ogni colpo le piattaforme d’atterraggio s’inclinavano, rischiando di farle precipitare nel vuoto. Se si fosse aperta una falla, sarebbero state risucchiate nello spazio dall’aria in fuga.

   «I federali non hanno capito che ho inseguito Sela fin qui» intuì V’Lena. Credevano che fossero ancora in plancia e cercavano di decomprimere l’hangar per impedire all’Imperatrice di fuggire. Avrebbe voluto avvertirli, ma sotto quella gragnola di colpi non poteva distrarsi neanche per premersi il comunicatore.

   Una scossa particolarmente violenta fece perdere l’equilibrio a entrambe. Scivolarono fino all’orlo della piattaforma. V’Lena cadde in quella sottostante, un volo di cinque metri che la lasciò intontita. Invece Sela, che mentre scivolava aveva graffiato il pavimento col Teral’n per rallentare, rimase precariamente aggrappata al bordo. Vedendo l’avversaria riversa al suolo sotto di sé, pensò che era l’occasione di chiudere i conti. Mollò la presa e si lasciò cadere, per inchiodarla a terra con la sua arma.

   Ma la monaca era ancora cosciente. Avvedutasi del pericolo si rotolò a terra, evitando il colpo. Il Teral’n si conficcò nel pavimento metallico, sprizzando scintille, e vi rimase incastrato. Mentre Sela cercava di estrarlo, V’Lena tornò in piedi con un colpo di reni. E con un solo rapido attacco, decapitò l’avversaria. La testa mozzata rotolò via e il corpo si accasciò accanto al Debrune Teral’n, ancora confitto a terra.

 

   V’Lena ansimò, spossata dalla lunga lotta. Aveva vinto, ma aveva anche perso, dato che era salita su quella nave per catturare l’Imperatrice. Lo scontro però si era evoluto in modo imprevisto e Sela si era rivelata un osso così duro che non le aveva lasciato scelta. Almeno aveva la certezza che fosse morta.

   Certezza?

   La monaca sbatté gli occhi, pensando che la stanchezza le desse le traveggole. Il corpo di Sela era intatto, con la testa ancora al suo posto, sebbene sotto di lei si allargasse la chiazza verde del sangue. E la testa poco lontano era quella di un Romulano maschio, dai capelli neri e corti.

   Fu allora che il disgregatore la colpì alla schiena, strappandole un lamento soffocato. V’Lena si accasciò in preda a un dolore lancinante. La tan qalanq cadde accanto a lei, tintinnando sul pavimento. E Sela – la vera Sela – si avvicinò, con il disgregatore in mano e un sorriso trionfante.

   «Voi monache svitate siete proprio come vi descrivono» disse l’Imperatrice. «Abili nel combattimento, ma troppo stupide per sopravvivere». Si fermò accanto al suo doppione e si chinò, premendogli il distintivo. Il mascheramento olografico si dissolse, rivelando il corpo di un Romulano con l’uniforme da Ufficiale Tattico.

   «Questo era il Subcomandante Ducrax, uno dei miei ufficiali più fedeli» disse Sela, osservandolo con rimpianto. «È stato lui a proporsi come sostituto in caso di pericolo. Quando ci avete attaccati, ci eravamo già scambiati. Sulle prime mi sono sottratta allo scontro, confidando che ti avrebbe uccisa... che delusione». Si rialzò e ripose il disgregatore in fondina. Poi afferrò il Debrune Teral’n e con un certo sforzo lo estrasse dal pavimento. Ne esaminò la lama, accertandosi che non fosse danneggiata.

   Dalla sua posizione accasciata, V’Lena alzò lo sguardo offuscato di lacrime sull’avversaria. Ora capiva perché la controfigura dell’Imperatrice era così forte. Altro che mezza Romulana; Ducrax era un Romulano puro, e dei più robusti. Aveva lottato in silenzio perché la voce maschile lo avrebbe tradito. E lei non se n’era accorta, se non quand’era troppo tardi. «Hai avuto paura di batterti» mormorò.

   «Mi sono battuta secondo il mio stile» corresse Sela. Le si accostò brandendo il Teral’n. Per prima cosa ne usò la punta per allontanare la tan qalanq dalla sua portata. Poi rivoltò l’avversaria sulla schiena, con un calcio, strappandole un lamento. «Patetica idealista» commentò. «Voi Qowat Milat siete sempre sincere e lottate per cause perse. Come potevi pensare di sconfiggermi?!».

   «Ti ho fatto perdere tempo, e tanto basta» mormorò V’Lena. Il dolore stava passando, sostituito da un senso d’intorpidimento. Attorno a loro, l’hangar era semidistrutto; quasi tutte le navicelle erano precipitate giù dalle piattaforme.

   «Chi brandisce quest’arma detiene tutto il potere dell’Impero» proseguì Sela, come se non l’avesse udita. Levò il Debrune Teral’n, pronta a sferrare il colpo mortale. «La tua lama, invece, rappresenta il Candore Assoluto. Guarda un po’ chi ha vinto! Come dicono gli Umani... in guerra la prima vittima è la verità».

   «Ci sono sorti peggiori della morte» sussurrò la monaca, preparandosi a rendere il suo katra.

   Sela stava per chiederle un esempio, ma decise di non perdere altro tempo. Senza alcuna esitazione le affondò il Teral’n nell’addome, dove i Romulani hanno il cuore, inchiodandola al pavimento.

 

   Nelle profondità della Nebulosa Azzurra, il destino della Repubblica Romulana stava per compiersi. Pressate contro lo Scudo Planetario, crivellate di colpi, le navi romulane e federali cedevano una dopo l’altra, svanendo in grandi fiammate. Anche le piattaforme difensive erano state in gran parte distrutte. L’anima nera della flotta imperiale erano le Narada, sempre in prima linea. Due di queste concentrarono il fuoco sulla Constellation, che si trovava tra loro.

   «Guarda, guarda...» disse Oren, notando l’astronave in difficoltà. Il Pretore assisteva alla battaglia standosene al sicuro nelle retrovie. In ciò si distingueva dall’Imperatrice, che invece tendeva a esporsi fin troppo. Sela lo faceva per ragioni d’immagine, dovendo accentrare su di sé la fiducia e l’entusiasmo popolare. Ma Oren preferiva sacrificare un po’di consenso in favore della sicurezza personale. Aveva persino rinunciato a dirigere la battaglia da una Narada, preferendo rimanere sul suo vecchio e fidato Falco da Guerra. «Pretore Oren a flotta, distruggete la Constellation. Assicuratevi che il Commodoro Lantora non ci sfugga» ordinò.

   Le navi imperiali concentrarono ancor più il fuoco sulla nave danneggiata. Lantora ordinò delle manovre evasive, ma i propulsori non rispondevano più. Erano alla deriva, in mezzo al fuoco nemico. Vedendo la sua nave che si disfaceva, lo Xindi si preparò al peggio. Quando aveva deciso di difendere il pianeta, nonostante l’evidente disparità di forze, se l’era sentito che quella era la sua ultima battaglia. Era abbastanza preparato alla fine; il suo unico rimpianto riguardava Lyra. Sua figlia avrebbe mai capito che sbagliava a servire la dittatrice? Non lo avrebbe mai saputo. Almeno gli restava Vrel di cui essere orgoglioso.

   In quella la Sha Ka Ree si affiancò alla Constellation ed estese gli scudi per proteggerla, mentre teletrasportava a bordo i superstiti. Lantora si ritrovò in plancia, accanto a T’Vala, mentre il suo equipaggio si materializzava nell’hangar e nelle sale teletrasporto.

   «Stai bene?» si preoccupò la mezza Vulcaniana.

   «Sì, ma... non dovevi compromettere la tua nave» mormorò lo Xindi. Adesso era la Sha Ka Ree a trovarsi in pericolo, isolata in mezzo alla gragnola nemica. Estendere gli scudi li indeboliva; ancora poco e avrebbero ceduto.

   «Dovevo, invece» disse T’Vala, mentre il vascello tremava sempre più. Anche se non potevano abbandonarsi agli abbracci davanti all’equipaggio, si presero la mano stando affiancati e la tennero stretta.

 

   Sulla lontana Terra – o Vothan, com’era chiamata ora – la Presidente Rangda e i suoi ministri seguivano con interesse la battaglia. Le sonde spia inviavano gli aggiornamenti in tempo reale, fornendo un quadro esauriente della situazione. I leader dell’Unione non dovevano fare altro che osservare le immagini sull’oloschermo e ascoltare il rapporto tattico.

   «La flotta imperiale ha circondato la Constellation e la Sha Ka Ree. La distruzione delle due navi è imminente» disse il Comandante in Capo dei Pacificatori.

   Lyra si sporse in avanti sulla poltroncina, per osservare meglio i vascelli affiancati. Aveva quasi smesso di respirare per la tensione, tanto che solo quando avvertì la fame d’aria riprese fiato. Sapeva che su quelle navi c’erano i suoi genitori. La folle manovra della Sha Ka Ree poteva spiegarsi solo con la disperata volontà di sua madre di salvare suo padre. Ora erano entrambi spacciati. Come Ministro dell’Informazione, Lyra era lieta che due pericolosi nemici dello Stato fossero eliminati. Ma come figlia provava un senso d’angoscia, quasi di soffocamento. Com’erano arrivati a quel punto? Al punto in cui doveva gioire per la morte dei suoi genitori, o quantomeno non doveva mostrare alcun dispiacere?

   «Tutto bene, mia cara?».

   Lyra si riscosse a fatica e si costrinse a distogliere lo sguardo dallo schermo. Era stata Rangda a porle la domanda. E quando la Presidente parlava, bisognava per forza risponderle. «Sì, Eccellenza» disse, cercando di suonare normale.

   «Spero che tutto questo non ti turbi. Dopotutto ci sono i tuoi genitori su quelle navi...» insisté la Zakdorn.

   Lyra si chiese se era un test per valutare la sua lealtà. Nel dubbio, si comportò come se lo fosse. «Hanno smesso d’essere i miei genitori nel momento in cui si sono uniti ai ribelli» disse con freddezza. «Ora non significano niente per me».

   «Bene» approvò Rangda, anche se il suo sguardo non era amichevole come le sue parole. «Ma non sei tenuta all’indifferenza. È giusto che tu rifletta sugli errori che li hanno condotti a questa sorte. Non hanno creduto nella democrazia... non hanno creduto in me. Ecco perché ora sono perduti».

   Lyra annuì, con un groppo in gola. Solo quando vide che la Presidente aveva distolto lo sguardo, per osservare di nuovo la battaglia, osò fare altrettanto.

 

   Gli scudi della Sha Ka Ree stavano per cedere quando il fuoco martellante delle Narada si arrestò. I vascelli irti d’aculei rimasero inattivi, salvo per il fatto che continuavano ad avanzare, trascinati dall’inerzia.

   «Rapporto sensori» ordinò T’Vala.

   «Le Narada sono completamente inerti» confermò l’addetto. «Armi, scudi, propulsione... è tutto offline».

   «Ah!» si rianimò Lantora. «Qui c’è lo zampino della Keter! Devono aver usato la Zhat Vash per connettersi alle altre navi e disabilitarle. I tecnici della Repubblica avevano ipotizzato che fossero collegate da una rete subspaziale. Se è così, la vulnerabilità sarà breve. Dobbiamo approfittarne!».

   «Sentito? Fuoco a volontà contro le Narada!» ordinò T’Vala. «E aprite un canale col resto della flotta».

   Fu Lantora, ancora al comando nonostante la perdita della sua nave, a impartire l’ordine di attacco. Ciò che restava della flotta federale si lanciò in avanti, bersagliando le Narada con i siluri transfasici. Ora che i vascelli erano senza scudi, ne bastavano un paio per distruggerli. Le esplosioni giallo-verdastre punteggiarono l’orbita di Nuovo Romulus, illuminando il cielo notturno come fuochi d’artificio. Gli Imperiali, infatti, avevano attaccato dall’esterno del sistema stellare, così che la battaglia aveva luogo nell’emisfero in ombra del pianeta. Coloro che non avevano trovato posto nei rifugi sotterranei videro i bagliori e ripresero a sperare. Molti levarono grida di trionfo; altri si abbracciarono e piansero di sollievo.

   Chi non gioiva erano gli Imperiali. Dalle retrovie il Pretore osservò cupamente i lampi verdastri. Ogni esplosione erano miliardi di crediti imperiali e un migliaio di soldati che andavano in fumo. Almeno lui era al sicuro, sul suo Falco da Guerra vecchio stile; ma le Narada erano spacciate. «Quanto ci vuole per riavviare gli incrociatori?» chiese.

   «Almeno dieci minuti, signore. Per allora li avremo persi tutti» rispose cupamente un tecnico.

   «Questa è opera della Keter» comprese Oren. «Significa che l’Imperatrice ha fallito. Forse è deceduta». Le implicazioni erano chiare a tutti. Sela era un clone, quindi non aveva parenti stretti. Non si era ancora sposata e non aveva figli. Per giunta aveva soppresso gli altri embrioni clonati e conservati in stasi criogenica, nel timore che uno di essi venisse fatto nascere, diventando una pericolosa rivale. Di conseguenza non c’era un erede designato. A succederle sarebbe stato, con ogni probabilità, il Pretore. A quel punto dipendeva da lui proclamarsi Imperatore o mantenere l’attuale titolo, cambiando la forma di governo dello Stato Imperiale.

   «Signore... dovremmo ritirarci» suggerì il Primo Ufficiale.

   Oren considerò questa possibilità, alla luce della sorte dell’Imperatrice. Se era ancora viva, al ritorno non lo avrebbe perdonato per essersi ritirato. Se invece era morta, la conquista di Romulus gli avrebbe spianato la strada al trono imperiale. Dunque in entrambi i casi gli conveniva proseguire l’attacco.

   «Negativo» disse il Pretore. «Abbiamo Falchi da Guerra in numero sufficiente a vincere lo stesso. Fateli avanzare, così proteggeranno le Narada finché queste torneranno operative. Non cessate l’attacco fino alla conquista del pianeta! Questa è la nostra grande occasione e non la sprecheremo».

   Ancora una volta le navi imperiali respinsero i federali contro lo Scudo Planetario. Dopo la lunga battaglia, i difensori erano così malmessi che i Falchi da Guerra erano più che sufficienti a prevalere. Ma le sorprese di quel giorno non erano finite. Approfittando del momento in cui gli Imperiali riorganizzavano i loro ranghi, una nuova flotta uscì dall’occultamento e si gettò nella mischia. I vascelli scuri si stagliarono contro le volute azzurre della nebulosa. Somigliavano ai Falchi dello Stato Imperiale, eppure li attaccarono, soccorrendo gli stremati federali. Aggredito sul fianco, lo schieramento imperiale vacillò.

   «E questi chi sono?» chiese Lantora.

   «Si direbbero... i Remani!» gioì l’addetto ai sensori. «Alla fine sono arrivati! Rilevo un centinaio di Falchi da Guerra».

   «La missione di Hod non è stata vana» si rischiarò lo Xindi. «Aprire un canale con l’ammiraglia».

   I Remani risposero subito. «Sono il Pretore Obiruk» si presentò il loro leader. «Oggi sono qui non per dimenticare il passato, ma per impedire che ritorni. Noi Remani non ricadremo mai sotto il giogo dell’Impero Romulano. Di conseguenza ci schieriamo con la Repubblica».

   «Sono le scelte coraggiose come questa che fanno la Storia» disse Lantora. «Siete più che benvenuti».

   «Vedo che lei combatte in prima linea, a differenza di Oren... bene!» approvò Obiruk. «Ma dov’è la Keter? Pensavo di trovarla al vostro fianco. È stata distrutta?».

   «No!» disse lo Xindi, che avendo un figlio su quella nave trovava l’idea intollerabile. «Cioè, non lo sappiamo; ma riteniamo di no. La Keter ha una missione speciale, grazie a cui abbiamo disabilitato le Narada. Ma l’effetto è di breve durata. Aiutateci a eliminarle, prima che tornino operative!».

   «Volentieri» disse il Pretore. «Obiruk a flotta, concentrare il fuoco sulle Narada. Avanti con l’attacco, dobbiamo unire il nostro fronte con quello federale. Questa è l’ora del riscatto! Gli Imperiali ci hanno sempre disprezzati, ma oggi impareranno a temerci».

 

   La battaglia proseguì per un’altra ora, con grandi stragi da ambo le parti. Gli Imperiali resistettero tenacemente, determinati com’erano a conquistare Nuovo Romulus. Ma con la distruzione delle Narada e l’attacco dei Remani, erano in svantaggio. Da attaccanti che erano, furono progressivamente circondati dai vascelli nemici. Fu la loro volta di trovarsi con le navi pressate in un volume di spazio esiguo. Alcuni Falchi entrarono persino in collisione con i relitti delle Narada, pur sempre enormi.

   La furia dei Remani era impressionante. Malgrado la fama di popolo guerriero, era da tempo che si erano ritirati su Crateris, tanto che molti si chiedevano quali fossero le loro effettive capacità militari dopo la lunga pace. Ora quell’interrogativo ebbe risposta: i Remani erano ancora dei soldati formidabili. Ed erano pronti a tutto per conservare la loro indipendenza. Ogni volta che i Remani riuscirono ad abbordare un vascello imperiale, lo conquistarono, per quanto duro fosse lo scotto.

   Vedendo che la situazione volgeva al peggio, Oren riconsiderò la sua strategia. Era certo che, se al suo posto ci fosse stata Sela, l’attacco sarebbe continuato. Non potendo conquistare Nuovo Romulus, l’Imperatrice si sarebbe accontentata di bombardarlo, per poi ritirarsi nei sistemi già occupati. Ma lui non era Sela. Non ci teneva a fare una carneficina, che peraltro non avrebbe giovato allo Stato Imperiale. Era meglio ritirare la flotta, finché gliene restava una. Così contattò le sue forze.

   «Attenzione, Pretore Oren a flotta. Questo è un ordine di ritirata generale. Cessate l’attacco e ritiratevi in modo ordinato, proteggendo le retrovie finché saremo fuori dalla nebulosa. Abbandonate le navi rimaste senza propulsione, dopo aver attivato l’autodistruzione». Dopo una breve pausa, sentì di dover dire qualcosa per il morale. «Non lasciatevi prendere dallo sconforto. La nostra Riconquista ha subito una battuta d’arresto, ma la guerra continua, e tre quarti dello spazio repubblicano è già tornato in mano nostra. Non abbiamo nulla da rimproverarci».

   Le navi imperiali si disimpegnarono dagli scontri e abbandonarono il sistema, secondo le istruzioni. Si lasciavano dietro molti relitti, d’ambo gli schieramenti. Le Narada erano state distrutte fino all’ultima, mentre dei duecento Falchi da Guerra ne era rimasta la metà. Ma anche i difensori erano falcidiati: i federali avevano perso più di metà delle loro navi e persino i Remani, giunti per ultimi, ne avevano perse un terzo. Quella sera non ci furono festeggiamenti a Nuovo Romulus; il conteggio delle vittime era ancora in corso. Il pianeta era salvo, per il momento. Ma il nemico si era ritirato appena fuori dalla Nebulosa Azzurra e poteva tornare all’attacco in ogni momento.

   «Dobbiamo approfittare di questa sosta per ricostituire le difese» disse Lantora alla prima riunione tenuta dopo la battaglia. «Per fortuna i cantieri spaziali sono rimasti indenni sotto lo Scudo Planetario. Li stiamo impiegando per riparare le navi danneggiate. Saremo lieti di metterli anche a vostra disposizione» si rivolse a Obiruk.

   «Grazie, ma sappiamo provvedere da noi» rispose orgogliosamente il Pretore.

   Lo Xindi non insistette, sapendo che i Remani erano gelosi delle loro tecnologie e non volevano permettere nemmeno agli alleati di studiarle. «Come preferisce. Se vi servisse del materiale grezzo per le riparazioni, fatecelo sapere» si limitò a dire.

   «Gli Imperiali hanno lasciato la Nebulosa, ma non credo che abbiano rinunciato ai loro piani» intervenne T’Vala, appena tornata da un giro d’ispezione con le poche navi ancora intatte. «Per quanto ne sappiamo, potrebbero avere altre cento Narada nelle retrovie. E la prossima volta rinunceranno alla rete subspaziale».

   «Uhm... dipende tutto dall’Imperatrice» rimuginò Lantora.

   «Già, l’Imperatrice!» grugnì Obiruk. «Che ne è di lei? Quest’attacco è stato sferrato da Oren. Non pensavo che Sela l’avrebbe affidato a un altro, neanche al suo Pretore. Lei dov’è, che sta facendo?».

   «Non lo sappiamo» sospirò il Commodoro. «Può darsi che sia andata in cerca della Keter, nel qual caso direi che ha fallito. Ma poiché noi stessi abbiamo perso i contatti, non possiamo esserne certi».

   «Se Sela è sopravvissuta, tornerà a prendere le redini dello Stato Imperiale» disse T’Vala.

   «Non ci resta che aspettare» concluse Lantora. «Se Oren resterà al comando, significa che le è successo qualcosa. In tal caso potrebbe aprirsi uno spiraglio per le trattative. Ma se l’Imperatrice dovesse tornare, mi aspetto che ci attacchi di nuovo».

 

   Sela contemplò il corpo senza vita di V’Lena con un senso di feroce soddisfazione. Non era la prima volta che uccideva qualcuno a mani nude; per aprirsi la via al trono si era fatta strada con ogni mezzo. Ma raramente le era capitato di sentirsi così appagata dopo un’uccisione. Sconfiggere una Qowat Milat era la conferma che l’astuzia contava più di qualunque altra dote.

   Uno scossone la riportò al presente. La sua nave ammiraglia era semidistrutta, doveva andarsene subito. Purtroppo la piattaforma su cui si trovava non ospitava navicelle; quella che c’era era scivolata, cadendo in fondo all’hangar. Doveva trovarne subito un’altra. Estrasse il Debrune Teral’n dal corpo ancora caldo di V’Lena e si guardò intorno, in cerca di una navetta che fosse pronta al decollo. In quella il suo comunicatore squillò.

   «Plancia a Imperatrice, mi ricevete?».

   «Affermativo, qual è la situazione?» chiese Sela, mentre correva all’elevatore più vicino.

   «Abbiamo respinto i federali, ma c’è un nuovo problema» disse l’ufficiale, con il terrore nella voce.

   «Di che si tratta?».

   «È meglio se lo vedete coi vostri occhi, Altezza. Entrate in modalità olo-visiva».

   Sela entrò nell’elevatore e lo diresse verso una delle piattaforme più alte, dove aveva adocchiato una navicella. Mentre aspettava di arrivare in cima, fece come richiesto. Il comunicatore divenne un olo-proiettore che le mostrava la visuale dello schermo principale. Davanti alla loro nave c’erano i resti semidistrutti delle altre Narada.

   E c’era un vascello Borg. Era un Cubo Tattico, dalla liscia corazza grigia da cui a tratti affiorava il reticolo di tubi e travi. Per il momento manteneva la posizione, accontentandosi di sondare le navi circostanti con un raggio verde.

   «Ah! Possibile che cadiate due volte nello stesso tranello?!» esclamò Sela, sprezzante. «Quello è un ologramma che i federali proiettano per spaventarci. È la stessa tattica che hanno usato nel Cimitero di Romulus. Non li facevo così scarsi di fantasia».

   «Vostra Maestà...».

   «Basta così, Comandante» tagliò corto la mezza Romulana. «Completate il riavvio del nucleo e ridate potenza a questa nave. Poi tracciate la rotta per Nuovo Romulus. Dobbiamo verificare che Oren...».

   In quella il cubo Borg agganciò la Valkis con un raggio traente. E la nave tremò; Sela lo avvertì distintamente. Per un attimo rimase congelata dall’orrore. Un ologramma non poteva far tremare la nave. «I federali ci hanno colpiti?» chiese con un filo di voce.

   «Negativo» rispose il Comandante. «È quello che cercavo di dirle. Stavolta i Borg sono veri. Guardate!».

   L’inquadratura si spostò, mostrando la Zhat Vash che fuggiva verso la Sfera di Dyson. Entrò dal portale che gli Imperiali avevano sfondato dall’interno. Per il momento i Borg la ignorarono, concentrandosi sulle altre otto Narada, più indifese e a portata di mano. Mentre tenevano immobilizzata la Valkis, la colpirono con un secondo raggio, che la squassò.

   «Raggio tranciante!» avvertì il Comandante. «Stanno ritagliando una sezione dello scafo... vorranno studiarlo. E, Altezza... rilevo dei teletrasporti in corso. Sono centinaia».

   L’Imperatrice lo ascoltava a stento. Appena l’elevatore raggiunse la piattaforma saltò giù e corse a perdifiato verso la navetta, il suo faro di salvezza.

   Fu allora che apparvero i Borg. Una mezza dozzina di droni si materializzò tra lei e la navicella, costringendola a fermarsi. Non erano lenti e goffi come quelli che avevano minacciato il Quadrante due secoli prima. Il loro esoscheletro era aderente, con pochi elementi sporgenti, e procedevano a passo sciolto. Ma gli occhi erano spenti e le loro voci si fondevano nel famigerato proclama che faceva tremare la Galassia: «NOI SIAMO I BORG. ASSIMILEREMO LE VOSTRE PECULIARITÁ BIOLOGICHE E TECNOLOGICHE. LA RESISTENZA È INUTILE».

 

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Capitolo 10
*** Alveare ***


-Capitolo 9: Alveare

 

   Vedendo i Borg che le venivano contro, certo per assimilarla, Sela non perse il sangue freddo. Non era diventata Imperatrice per nulla. Estrasse fulminea il disgregatore e aprì il fuoco: sei colpi, sei centri perfetti. Tutti i droni stramazzarono sul pavimento, morti... o era più corretto dire disattivati. Di lì a un attimo svanirono, richiamati sul Cubo. Era tipico dei Borg recuperare i loro resti, per impedire al nemico di studiarli.

   Sela corse di nuovo verso la navetta, consapevole di aver guadagnato pochi secondi. Non fu abbastanza veloce: altri droni apparvero tra lei e la salvezza. La mezza Romulana aprì di nuovo il fuoco, colpendoli a distanza ravvicinata. Stavolta i raggi verdi furono assorbiti dagli scudi individuali dei droni.

   «Maledizione... si sono già adattati» constatò Sela. Erano stati rapidissimi, segno che la Collettività aveva continuato a evolversi. L’Imperatrice dovette correre via, in cerca di un’altra navicella. Mentre costeggiava l’orlo della piattaforma, si guardò intorno e vide uno spettacolo agghiacciante.

   Sulle numerose terrazze dell’hangar c’erano ormai centinaia di droni, che stavano attaccando il suo equipaggio mentre questo cercava di mettersi in salvo. I Romulani sparavano con i disgregatori, ma i Borg si erano adattati; nemmeno concentrando il fuoco su di loro si riusciva ad abbatterli. Il proclama dell’Alveare risuonava in tutto l’hangar, inframmezzato ai fischi dei disgregatori, agli schianti dei colpi andati a vuoto e ai lamenti di chi era già stato infettato: «NOI SIAMO I BORG... VOI SARETE ASSIMILATI... LA RESISTENZA È INUTILE».

   «Staremo a vedere!» sibilò Sela. Impostò il suo disgregatore sulla sequenza di sovraccarico, facendone una granata. Lo gettò davanti ai droni che si avvicinavano e corse a nascondersi dietro la consolle di controllo volo. Di lì a qualche secondo ci fu l’esplosione. Sela balzò fuori dal nascondiglio e vide che tre droni erano a terra, disattivati; gli altri procedevano come se nulla fosse.

   «Volete la guerra? Non chiedo di meglio!» ringhiò l’Imperatrice. Si gettò contro i Borg brandendo la sua ultima arma, il Debrune Teral’n. Cercò di trafiggere il drone più vicino, ma la lama scivolò sulla sua corazza pettorale lasciando solo un lieve graffio. Allora ritrasse il Teral’n e colpì di nuovo, con tutte le sue forze: stavolta l’avversario cadde con la gola squarciata. Prima che potesse gioire, altri droni le apparvero attorno, teletrasportati dal Cubo: era circondata.

   «Fatevi sotto! Ne ho per tutti!» gridò la mezza Romulana. Si gettò contro la marea incalzante, sferrando colpi terribili col Teral’n. In una vita di duri addestramenti e scontri all’ultimo sangue, non si era mai battuta così. Falciò i Borg con precisi colpi alla testa e alla gola, aprendo le carni grigiastre e versando il sangue scuro di nanosonde. Schiantò i loro impianti oculari e recise i cavi che uscivano dalle corazze. Immerse la lama nei bagliori verdastri dei teletrasporti, così che quando i droni terminavano di materializzarsi erano già morti. Ma per quanti ne abbattesse, altrettanti ne arrivavano. Cercavano di agguantarla, disarmarla, iniettarle le nanosonde che l’avrebbero resa una di loro. Fatalmente le forze di Sela declinarono. I suoi colpi divennero più deboli e imprecisi. I Borg invece erano sempre al massimo, anzi le parve che la loro efficienza aumentasse. Forse avevano analizzato il suo stile di combattimento, trovandone i punti deboli. Più volte i loro tubuli di assimilazione le dardeggiarono a pochi centimetri dal collo o dalle braccia. Doveva prendere quella navetta, o sarebbe stata la fine.

   Abbattuti due avversari, Sela usò il Teral’n come puntello per oltrepassarli con un salto. Corse a perdifiato verso la navicella. C’era quasi... doveva solo oltrepassare i corpi di tre droni, quelli abbattuti dal disgregatore-granata. Ma che ci facevano ancora lì? I Borg non solevano riprendersi i loro caduti?

   Con orrore, Sela vide i droni rialzarsi. Le loro orrende ferite erano in gran parte rimarginate. Evidentemente l’efficienza delle nanosonde era aumentata. L’Imperatrice non fece in tempo a fermarsi, e comunque doveva oltrepassarli per entrare nella navetta. Piombò su di loro come una furia, riuscendo ad abbatterne due. Il terzo le bloccò il Teral’n con una mano, afferrandolo poco sotto la lama. Con l’altro braccio, interamente meccanizzato, il drone sferrò un colpo così violento da troncare l’asta metallica. La lama cadde, sferragliando sul pavimento.

   Vedendosi disarmata, Sela rimase per un attimo paralizzata dal terrore. Poi si riscosse, appena in tempo per evitare i tubuli. Si lasciò scivolare a terra e falciò il Borg con un calcio, riuscendo a farlo cadere. Raccolse la lama del Teral’n e, con la forza della disperazione, gliela conficcò nell’occhio. L’impianto oculare si schiantò, sprizzando scintille, e il drone sussultò prima di spegnersi definitivamente. Ansante, Sela alzò lo sguardo alla navetta, ormai vicinissima.

   Fu allora che i tubuli di assimilazione le si piantarono nel collo. Un altro drone le era giunto alle spalle, mentre lei era distratta. Sela avvertì il flusso di nanosonde che si diffondevano nel suo corpo, scurendo i vasi sanguigni. Quando sentì che le arrivavano al cervello, lanciò uno strillo agonizzante. La sua individualità stava per esserle strappata... sarebbe diventata una nullità, un drone insignificante e spendibile come quelli che l’attorniavano. Le tornarono in mente le ultime parole di V’Lena, che ora suonavano sinistramente profetiche: «Ci sono sorti peggiori della morte». Ma finché era ancora se stessa, voleva vendicarsi almeno del drone che le aveva fatto questo. Si rigirò tra le sue braccia, gli afferrò un sottile cavo che gli usciva dalla testa e tirò con tutte le sue forze, riuscendo a strapparlo. Ci fu uno scoppio di scintille e il Borg crollò a terra, disattivato.

   Sela cadde con lui e arrancò sul pavimento, cercando di allontanarsi. Si sentiva il corpo in fiamme, la testa sul punto di esplodere. Guardandosi le mani, le vide venate di nero. Le nanosonde avanzavano in fretta. Di certo avevano già cominciato ad assimilarla. Una volta terminato il processo, lei non ci sarebbe stata più... e la Collettività avrebbe incamerato tutte le sue conoscenze.

   Tutte le sue conoscenze!

   Questo significava che i Borg avrebbero appreso così tanto sullo Stato Imperiale, comprese le sue capacità militari, da poterlo invadere e assimilare. Nella foga di restaurare l’Impero Romulano, lo aveva condannato alla peggiore delle sorti. A meno che...

   Notando l’orlo della piattaforma a poca distanza, Sela capì qual era l’unico modo di evitare la catastrofe. Arrancò verso il bordo, con il proposito di buttarsi giù. I Borg non avrebbero avuto nulla da assimilare, una volta che il suo cervello si fosse spappolato sul pavimento, cento metri più in basso. Ma sentì le forze abbandonarla; stava per perdere conoscenza. Sapeva che non si sarebbe più svegliata... non come Sela. Cercò di resistere; mancavano pochi metri. Ma un altro Borg l’afferrò tra le braccia dure e fredde, tirandola indietro, sebbene lei si dibattesse. La prese in braccio e la portò dagli altri droni, che attendevano immobili e silenziosi.

   «Maledetti! Non l’avrete... vinta...» singhiozzò Sela, dibattendosi sempre più debolmente. La sua pelle era già pallida come la loro; le nanosonde formavano dei grumi in certi punti. Era da lì che sarebbero spuntati i primi impianti. In quella ci fu come un click nella sua mente, ed ella perse i sensi. Il suo corpo ricadde abbandonato tra le braccia del drone.

   «LA RESISTENZA È INUTILE» dissero una volta di più i Borg, mettendosi in posizione di teletrasporto. I raggi verdi li richiamarono sul Cubo, dove un’alcova di maturazione attendeva l’ex Imperatrice, ultima aggiunta della Collettività.

 

   Tornate in plancia dopo il tour de force nel plesso centrale, Terry e Zafreen videro che la Zhat Vash era rientrata nella Sfera. «Rapporto» ordinò l’IA. «Le Narada sono disattivate, perché ci siamo allontanati?».

   «Giudichi lei stessa. Visuale di poppa» ordinò Chaltak, scuro in volto. Il cubo Borg apparve sullo schermo, parzialmente visibile attraverso l’ingresso sfondato.

   «Frell! Dalla padella alla brace!» gemette Zafreen, facendo un balzo indietro. «Ma... siamo sicuri che sia vero?» chiese, ricordando l’ologramma nel Cimitero di Romulus.

   «Al cento per cento. I Borg hanno già abbordato le navi imperiali» riferì il Comandante. «Avevo inviato una squadra sulla Valkis, per catturare l’Imperatrice, ma l’attacco è fallito. All’arrivo dei Borg ho richiamato i superstiti».

   «Quindi Sela è rimasta a bordo?» si allarmò Terry.

   «Temo di sì» disse Chaltak. «Dubito che sfuggirà ai Borg».

   La proiezione isomorfa valutò la possibilità di tornare indietro, per sottrarla all’assimilazione, e la scartò in quanto inattuabile. «Dobbiamo andarcene subito» disse. «Dov’è la Keter?».

   «Ancora alle prese col Moloch» rispose il Comandante, consultando una consolle. «No, mi correggo: viene verso di noi».

 

   La Keter era messa a mal partito dopo la lunga battaglia con il Moloch. Vrel aveva approfittato delle eruzioni solari per tenere il nemico a distanza, guadagnando tempo, ma ormai gli scudi stavano per cedere. Vedendo che la Zhat Vash era rientrata nella Sfera, il Capitano Hod ordinò di andarle incontro, sperando nel suo aiuto. La nave federale lasciò la fotosfera e diresse verso gli alleati a massimo impulso. Aveva coperto metà della distanza quando si arrestò: i sensori avevano rilevato la presenza dei Borg. Anche il Moloch, che la inseguiva, si fermò nello stesso momento, poche migliaia di chilometri più indietro.

   Entrambi i Capitani fissarono il Cubo incorniciato nell’ingresso, avvertendo un senso di rovina incombente. Era da due anni che attendevano quel momento, ovvero da quando avevano incontrato la Collettività durante la missione nel Quadrante Delta. In quell’occasione i Borg avevano dimostrato di non aver perso le cattive abitudini. Pur non essendo riusciti ad assimilare la Keter, avevano lasciato intendere di essere ancora interessati ai popoli federali e i loro vicini.

   «Ci siamo» mormorò Hod. «È il momento che aspettavamo. E la Guerra Civile ci ha impedito di prepararci».

   «Forse sono state le Narada ad attirarli» suggerì Norrin. «Ai Borg non piace che altri usino la loro tecnologia. Può darsi che se gli diamo la Zhat Vash c’ignorino».

   «Gliela consegnerei anche, ma ci sono i nostri su quella nave» disse il Capitano. «State pronti col teletrasporto. Appena abbassano gli scudi, dobbiamo prenderli tutti... prima che lo facciano i Borg».

 

   Mentre osservava la Keter sullo schermo, Terry immaginò gli ordini che il Capitano impartiva in quel momento. Poteva quasi sentirla, tanto era certa d’intuire il suo piano. Restava da vedere se i Borg si sarebbero accontentati della Zhat Vash e delle altre Narada. I precedenti non erano incoraggianti. E c’era un altro problema: il Moloch. Quella nave infernale era ancora lì, a poca distanza dalla Keter. Se abbassavano gli scudi per consentire il teletrasporto, ne avrebbe approfittato per distruggerli.

   «Che facciamo?» sussurrò Zafreen, intuendo il problema. «Dimmi che hai la soluzione... ce l’hai sempre...».

   Terry abbozzò un sorriso. In mezzo a tanti disastri, la confortava vedere che l’Orioniana, con cui non era propriamente in buoni rapporti, si affidava a lei. «C’è una sola cosa da fare» disse, facendosi avanti con decisione. «Presto, datemi il timone».

 

   Sotto lo sguardo inquieto dei federali, la Zhat Vash riattivò i motori a impulso e schizzò in avanti. Passò accanto alla Keter senza rallentare e puntò dritta contro il Moloch.

   «Ma che gli prende?» mormorò Radek, vedendo la nave irsuta che gli veniva addosso.

   «Dobbiamo aprire il fuoco» lo pressò il Primo Ufficiale.

   «No, non possono essere così folli» disse il Rigeliano. «Si fermeranno o ci passeranno oltre...».

   Ma la Zhat Vash non si fermò e non cambiò traiettoria. Vedendola sempre più grande, Radek cedette: «Distruggetela!».

   Il Moloch aprì il fuoco con i potenti cannoni a impulso, ma la Zhat Vash aveva concentrato l’energia negli schermi anteriori. L’astronave resistette ai colpi e proseguì l’attacco, fino a impattare contro il Moloch. Solo negli ultimi secondi Terry aveva ridotto la velocità. Anche così, l’urto fu violentissimo. Entrambi gli equipaggi furono scaraventati contro le pareti. Le consolle si schiantarono, i condotti scricchiolarono e parecchi sistemi andarono in avaria. Ma non i propulsori.

   Ci volle qualche secondo prima che i Pacificatori si riavessero, e in quel lasso di tempo il destino della battaglia fu segnato. Ai comandi della Zhat Vash, Terry ordinò alla nave di riconfigurarsi. I lunghi aculei anteriori si piegarono come zampe di ragno, abbarbicando il Moloch. Lo strinsero da ogni lato, così che i Pacificatori non potessero liberarsi con alcuna manovra.

   Sulla sua plancia, Radek si rialzò dolorante, solo per vedere la nave-ragno che li agguantava. «Maledizione, dobbiamo liberarci! Fuoco a volontà!» ordinò.

   Il Moloch tornò a sparare, indebolendo gli scudi romulani. Ma nel frattempo la Zhat Vash aveva azionato al massimo i propulsori. In tal modo spinse i Pacificatori all’indietro. Le due navi, così abbarbicate da comportarsi come un unico vascello, presero sempre più velocità.

   «Dove ci portano?» chiese Radek, con un orribile sospetto.

   «Verso... verso la stella» rispose il timoniere.

   «Applichi una spinta contraria».

   «Ci sto provando, ma i loro propulsori sono più potenti dei nostri».

   «Allora usi quelli laterali per cambiare la traiettoria».

   «Sto tentando anche questo, ma si adattano in fretta. Si direbbe che usino il computer per correggere la rotta».

   «Terry» comprese Radek. Doveva esserci l’Intelligenza Artificiale dietro quel folle piano per arrostirli nel sole. «Continuate a sparare, dobbiamo spazzarli via!» ordinò.

   Il Moloch colpì a raffica, indebolendo gli scudi anteriori della Zhat Vash. Ma gli scudi posteriori erano già stati abbassati da Terry, per consentire alla Keter di salvare l’equipaggio. E la Keter non si fece sfuggire l’occasione. Poiché sulla nave imperiale c’era solo il personale essenziale, bastò mezzo minuto per teletrasportare tutti, a eccezione di Terry, ancora al timone.

   La proiezione isomorfa si accorse che la Zhat Vash tremava ed era sempre più riottosa ai comandi. Il fuoco intenso e continuo del Moloch cominciava a danneggiarla. Era difficile mantenere la rotta, ma l’IA tenne duro: ormai il sole era vicino. La sua luce intensa arrossò la plancia e le eruzioni di plasma salutarono le astronavi avvinghiate.

   La Zhat Vash cominciò a perdere pezzi. Gli aculei si staccavano sotto i colpi del Moloch e restavano indietro, scintillando nella corona solare. Mancava poco. I sistemi cedevano, gli allarmi si sovrapponevano e tutto il vascello tremava nell’agonia, ma Terry restò al timone, concentrandosi esclusivamente sulla guida. Non si mosse nemmeno quando un condotto esplose alle sue spalle, riversando gas tossici nella plancia abbandonata. Ecco, erano nella fotosfera. Lo scafo indebolito della Zhat Vash cominciò a fondersi. Il Moloch, invece, era ancora protetto dagli scudi. Ma non poteva fermare quella corsa verso l’annientamento.

   «Attenzione, falle multiple nello scafo. Integrità strutturale compromessa» avvertì il computer.

   «Terry a Keter, energia» ordinò l’IA, premendosi il comunicatore. Era un azzardo, perché le radiazioni solari di quella intensità interferivano con il teletrasporto. Infatti il raggio l’avvolse a lungo, talora indebolendosi, mentre i colleghi della Keter cercavano di avere un aggancio migliore. Terry vide la plancia della Zhat Vash sparire e riapparire più volte attorno a lei. Nei momenti in cui tornava a bordo, sentiva gli allarmi del computer.

   «Rottura del nucleo imminente... evacuare la nave...».

   Dalla Keter le due navi avvinghiate erano ormai invisibili, sprofondate nella fotosfera. Solo quando la Zhat Vash esplose si vide un lampo bianco. L’onda d’urto si allargò nel plasma arancione per migliaia di chilometri, prima che l’incessante attività solare la cancellasse.

 

   Sulla plancia della Keter c’era un silenzio di tomba. Tutti fissavano la stella che riempiva lo schermo, incapaci di articolare parola. La prima a cedere fu Zafreen. «Oh, Terry!» singhiozzò. «Era la migliore tra noi... e non gliel’ho mai detto!» si disperò.

   «Me l’hai detto ora» disse una calda voce alle sue spalle, accompagnata da una mano che le sfiorava gentilmente la spalla.

   Zafreen si voltò: Terry era davanti a lei. «So che il tuo mainframe è qui a bordo» balbettò. «Ma la Terry che è venuta in missione con noi...».

   «Si è salvata; ho già eseguito il reintegro» la rassicurò l’IA. «A proposito, non mi sono ancora congratulata per come hai tenuto aperto il canale subspaziale, mentre io e Dib entravamo nella rete» disse, mostrando di ricordare la missione.

   «Ehm... è tutto molto toccante, ma avete scordato che là fuori c’è un cubo Borg?» chiese Vrel, additando lo schermo. Il Cubo manteneva la posizione davanti all’ingresso sfondato.

   «Tutto dipende da qual è la loro missione» disse Terry. «Se i Borg sono qui solo per recuperare la loro tecnologia, hanno finito. Se invece hanno voglia di assimilare... allora siamo nei guai» ammise. La Keter aveva gli scudi al lumicino: non poteva affrontare un Cubo Tattico.

   Trascorsero alcuni interminabili minuti, nei quali il Cubo analizzò l’interno della megastruttura. Quando ebbe finito, cominciò a lanciare dei siluri... contro le Narada. Nel giro di un minuto le aveva distrutte tutte. Infine ruotò sul suo asse e schizzò via a transcurvatura, come se avesse faccende più importanti da sbrigare.

 

   Con la partenza dei Borg, la tensione in plancia si allentò. «Stasera, tequila per tutti... offro io» disse Zafreen.

   «Non è ancora finita» avvertì il Capitano. «Tutti ai propri posti. Controlliamo se ci sono superstiti tra gli Imperiali».

   La Keter uscì dalla Sfera ed esaminò i resti delle Narada. Non c’era molto: i vascelli erano stati disintegrati. Navette e capsule di salvataggio erano state in gran parte catturate dai Borg, anche se i sensori ne rilevarono alcune in fuga. In compenso Zafreen rilevò dei superstiti che si erano rifugiati nelle cavità del guscio. Il Capitano ordinò di catturarli. «Li interrogheremo per farci un’idea di cos’è successo a Sela» spiegò. «E quando li restituiremo allo Stato Imperiale, testimonieranno che la loro sovrana ha risvegliato i Borg. Chissà che gli Imperiali non si diano una calmata».

   Fatto questo, la Keter rientrò nella Sfera e contattò la Catena Cremisi. «Ah, eccovi qui! Complimenti per la magnifica vittoria!» salutò Arvid.

   «Così sembra» disse Hod, più misurata. «Ma questa battaglia avrà conseguenze difficili da prevedere. Ora che i Borg sono tornati, può succedere di tutto. In ogni caso voi non potete restare. I Pacificatori sanno che vi nascondete qui e verranno a prendervi».

   «Il Moloch è distrutto» obiettò il Risiano.

   «Potrebbe aver contattato i Pacificatori» avvertì l’Elaysiana. «Questo non è più un nascondiglio sicuro».

   «Uhm, temo di no» ammise Arvid a malincuore. «Che peccato, però. Tutta questa superficie... milioni e milioni di pianeti abitabili... tornerà vuota. Che spreco!».

   «Un giorno questa sciagurata guerra finirà, e allora... chissà» disse Hod.

   «Già, chissà» convenne il vecchio scienziato. «Le rimando il signor Dib e gli altri, non abbiamo più motivo di trattenerli. L’evacuazione comincia subito. Abbiamo navicelle a sufficienza, ma per quanto riguarda i malati che avete preso in cura... potreste tenerli, per adesso?».

   «Possiamo» acconsentì il Capitano. «Ci rivedremo al punto d’incontro, per consegnarvi i guariti. A presto».

 

   Il ritorno di Dib fu festeggiato dai colleghi, ma il Penumbrano, schivo come al solito, se ne tornò subito in sala macchine. A vederlo non si sarebbe mai detto che aveva appena portato a termine uno dei più difficili sabotaggi informatici mai compiuti dalla Flotta Stellare.

   Nel frattempo la Catena Cremisi avviò l’evacuazione della Sfera. Migliaia di navicelle lasciarono la superficie del mondo cavo, stipate di perseguitati che ora dovevano trovarsi un’altra casa. Le operazioni furono rallentate dal fatto che non tutti volevano lasciare quel luogo, dopo aver speso mesi o perfino anni a renderlo più vivibile. Ci furono anche scontri per accaparrarsi le navette migliori. Alcune, che erano state mezze smontate per riciclarne i componenti nelle abitazioni, furono abbandonate. Altre, che non volavano da tempo, ebbero problemi a decollare.

   «Che spettacolo...» disse Zafreen, zoomando l’inquadratura. Navette d’ogni foggia e misura stavano lasciando la megastruttura, riunendosi in convogli. Per facilitare le cose, Arvid aveva aperto centinaia d’ingressi. I convogli si diressero a quelli più vicini, in un immane esodo. I federali osservarono con emozioni ambivalenti. Al sollievo per aver salvato tutte quelle persone si univa l’apprensione per il loro destino. E c’era la domanda di fondo, a cui nessuno sapeva rispondere: la vita dei rifugiati sarebbe sempre stata così? Una serie di fughe da un nascondiglio all’altro, in posti sempre più lontani e precari, senza mai essere davvero al sicuro? Le persecuzioni dell’Unione avrebbero mai avuto fine?

   Queste riflessioni furono bruscamente interrotte quando Zafreen rilevò un segnale in avvicinamento. «Allarme di prossimità, arrivano i Pacificatori!» avvertì.

   «Da quale ingresso?» chiese Hod, guardando gli innumerevoli portali aperti.

   «Da nessuno. Il segnale è dietro di noi... è il Moloch!».

   Il vascello nero uscì dal plasma incandescente, come un demonio sputato dall’Inferno. Aveva lo scafo graffiato e il deflettore di navigazione infranto, ma nel complesso era ancora integro. Alla sua vista i federali furono presi dallo sconforto. Se l’esplosione della Zhat Vash a distanza ravvicinata non era bastata a distruggerlo, cosa lo avrebbe fatto?

   «Yotz, non ce ne libereremo mai?!» imprecò Vrel. «Sono conciati male... attacchiamoli e facciamola finita!».

   «Anche i nostri scudi sono ancora deboli» avvertì Terry.

   Hod ebbe un attimo d’esitazione, divisa tra il desiderio di chiudere i conti col Moloch e il timore che un’altra battaglia fosse fatale per loro. In quella giunse una chiamata dalla Catena Cremisi: «Arvid a Keter, scortate il convoglio principale fuori da qui. Noi ce la caveremo».

   «Ne è certo?» chiese il Capitano.

   «Andate, ho detto... buona fortuna». Il Risiano chiuse la comunicazione.

   Hod guardò il convoglio in fuga. Molte di quelle navicelle erano vecchie e malmesse; non avrebbero mai resistito al Moloch. «Faremo come ci ha chiesto» decise.

   Vrel borbottò qualcosa, ma eseguì. La Keter si mise in coda al convoglio, che dirigeva verso una delle uscite più grandi. I convogli minori avevano già lasciato la Sfera; gli ingressi si richiusero dietro di loro. Quello era l’ultimo.

   Il Moloch era sempre più vicino. Appena fu a distanza di tiro sparò con i cannoni anteriori. Il suo bersaglio erano le navicelle in fuga. Una di esse, colpita in pieno, fu vaporizzata.

   «Assassini!» sibilò Hod. «Vrel, ci tenga il più possibile in mezzo. Terry, estenda al massimo gli scudi».

   Gli ufficiali eseguirono, anche se estendere così tanto gli scudi significava indebolirli. Per fortuna le navette stavano già varcando l’uscita. Emersero come uno sciame d’api e appena fuori si divisero, così che il Moloch non potesse inseguirle tutte. Subito il portone cominciò a richiudersi, nel tentativo di proteggerle. Ma la Keter doveva ancora passare.

   «Vrel...» fece il Capitano.

   «Ci sono» disse il timoniere, con la fronte imperlata di sudore. Girò la Keter di 90°, così da passare con il lato più sottile dell’astronave nel varco sempre più stretto. Nello stesso momento Terry rese gli scudi di nuovo aderenti. Il portale stava per serrarsi, le stelle svanivano...

   Con un ultimo sforzo dei motori, la Keter eruppe all’esterno della Sfera. Dietro di essa, il portale si sigillò, costringendo il Moloch a sterzare ad angolo retto per evitare un impatto fatale. La nave dei Pacificatori sorvolò un tratto di deserto a bassissima quota. Infine emerse dalle nubi solforose, come una belva privata della sua preda.

   «Possiamo distruggere il portale, o sfruttare uno di quelli già sfondati...» suggerì il Primo Ufficiale.

   «Negativo, ci metteremmo troppo tempo» obiettò Radek. «Per allora i ribelli si saranno dileguati».

   «Ma allora...».

   «Rotta verso il settore 9947-B» decise il Rigeliano. «Attaccheremo il quartier generale della Catena».

 

   La caccia ai ribelli fu breve, dato che ormai ne restavano pochi. Il centro di comando cadde facilmente, ma come previsto tutti i dati riguardanti la Catena Cremisi erano stati cancellati dai computer. I Pacificatori cercarono Arvid e ben presto lo trovarono. Il vecchio Risiano non stava cercando di scappare e non si nascondeva nemmeno. Era salito in superficie, all’ombra dell’ultimo statite. Aveva con sé un inibitore di teletrasporto che impediva al Moloch di agganciarlo, ma a parte questo non sembrava volersi sottrarre alla cattura.

   Radek volle arrestarlo di persona, accompagnato da una squadra della Sicurezza. Per evitare brutte sorprese, andarono provvisti di tute ambientali. Il Rigeliano impugnava il phaser, mentre i suoi agenti avevano i fucili phaser. Si teletrasportarono appena oltre il raggio dell’inibitore, poche centinaia di metri, e andarono dritti contro Arvid.

   Il Risiano li attendeva comodamente seduto su una sdraio. Aveva gli occhiali da sole e sorseggiava un cocktail con l’ombrellino. «Benvenuti nel mondo cavo!» li accolse in tono affabile.

   «Signor Arvid, lei è in arresto, in nome...» cominciò Radek.

   «... della legge, sì, sì, lo so» fece il vecchio, agitando la mano con noncuranza. «Mi risparmi la solfa e si goda il panorama. È magnifico, vero? Ci sono giorni in cui non farei altro che ammirarlo. Per carità, i tramonti di Risa sono splendidi... ma questo è un mondo dove il Sole non cala mai! Con gli statiti, speravo di renderlo nuovamente abitabile».

   «Forse un giorno sarà possibile» disse il Rigeliano. «Ora però deve venire con me».

   «No grazie, preferisco restare».

   «Andiamo, non renda la cosa ancora più spiacevole...».

   «No, dico sul serio, io resto. Guardi là». Arvid indicò l’orizzonte, dove qualcosa si muoveva. L’atmosfera solforosa, non più trattenuta dai campi di forza, si stava riversando nell’oasi. Al tempo stesso anche lo statite si ripiegava, permettendo all’accecante radiazione solare di correre verso di loro.

   «Lei è senza tuta... morirà!» lo avvertì Radek. «Spenga l’inibitore, così la salveremo!».

   «No» disse Arvid, e sorbì il cocktail. «Ho vissuto abbastanza. Preferisco andarmene con questo mondo morente, piuttosto che vivere nella vostra utopia».

   «Se tutti i delinquenti facessero come lei, la mia vita sarebbe molto più facile» borbottò il Rigeliano, arretrando di un passo. L’atmosfera venefica era sempre più vicina.

   Il Risiano posò il cocktail e si alzò. «Ricordi che furono i Proto-Umanoidi a costruire tutto questo» disse, facendo un ampio gesto. «Un giorno potrebbero tornare e chiedervi il conto delle vostre azioni». Alzò le braccia, come ad accogliere la morte che gli veniva incontro. L’attimo dopo i gas tossici e incandescenti lo spazzarono via. I Pacificatori, pur appesantiti dalle tute, dovettero piegarsi sulle ginocchia per non essere gettati a terra. Barcollando in mezzo alle folate, si allontanarono, finché il teletrasporto poté riportarli sul Moloch.

   «Vi è sfuggito» notò il Primo Ufficiale con disappunto. Questo impediva di localizzare le altre basi della Catena Cremisi.

   «È morto per sua scelta» spiegò Radek, mentre si toglieva la tuta con l’aiuto di un inserviente. «Era una di quelle persone che non sanno adattarsi al progresso».

 

   La Keter viaggiava verso il punto d’incontro con la Catena Cremisi. Anche se la battaglia poteva dirsi vinta, non ci furono festeggiamenti. L’apparizione dei Borg gettava un’ombra cupa sul futuro, aggiungendosi ai drammi della Guerra Civile e dell’espansione romulana.

   Quella sera si tenne una commemorazione in memoria dei caduti. La folla si riunì nell’hangar, l’unico ambiente tanto vasto da accoglierla. Oltre all’equipaggio, infatti, c’erano i pazienti salvati nella Sfera di Dyson. Quando ci furono tutti, la nave scese a velocità subluce. Il portone dell’hangar si sollevò, mostrando le stelle; a trattenere l’atmosfera provvedeva il campo di forza. In quella cornice suggestiva, il Capitano Hod parlò della necessità di non arrendersi, anche quando pareva che tutta la Galassia fosse contro di loro.

   «Di tutti gli amici che abbiamo perso di recente, vorrei ricordare in particolare la giovane V’Lena, dell’ordine Qowat Milat» concluse il Capitano. «Nella sua breve permanenza a bordo ha lasciato il segno, salvando molti di noi. Purtroppo non posso dire di averla conosciuta a fondo; me n’è mancato il tempo. Ma una cosa credo di averla capita. V’Lena era una di quelle persone che credono fermamente in un ideale di giustizia e lottano fino all’ultimo per affermarlo. Anche se la sua vita è stata troncata prematuramente, io... io credo che il suo esempio abbia appena cominciato a vivere. Portiamolo nel cuore per tutti i giorni a venire. Facciamo che il suo coraggio e la sua sincerità continuino a vivere in ciascuno di noi. In libertà».

   Il pubblico si disperse in piccoli gruppi; i membri dell’equipaggio tornavano al lavoro, mentre i passeggeri andavano in infermeria o agli alloggi loro assegnati. Si alzò un fitto chiacchiericcio, che divenne un brusio di sottofondo. In quella confusione, Zafreen andò in cerca di Terry. La trovò presso il campo di forza: la proiezione isomorfa osservava il firmamento, con le braccia incrociate dietro la schiena.

   «Ehm, tutto bene?» chiese l’Orioniana, affiancandosi.

   «Più o meno» si riscosse l’IA. «Posso fare qualcosa?».

   «Volevo solo dirti che avrai il mio rapporto missione entro sera» disse Zafreen, che in altre occasioni era stata redarguita per averlo consegnato in ritardo. «Inoltre in questi giorni mi sono fatta trasmettere da Arvid i dati sugli statiti e sugli habitat sottostanti. Così, se mai la guerra dovesse finir bene, la Flotta potrà riprendere gli sforzi di terraformazione».

   «Grazie della premura; ci sono scienziati che apprezzeranno quei dati» disse Terry. «Ma lascia stare il rapporto, puoi scriverlo quando vuoi» aggiunse inaspettatamente. «Riposati, magari prenditi una giornata libera. Te lo sei meritato. Hai fatto un ottimo lavoro sulla Zhat Vash. In effetti credo di dovermi scusare per la pressione a cui ti ho sottoposta negli ultimi giorni. Ti accusavo d’essere meno efficiente dei colleghi, ma ripensandoci, forse sono io che non riesco a rassegnarmi al cambio di mansioni».

   Zafreen rimase impressionata da quella confessione. «Grazie... non mi aspettavo una cosa del genere» farfugliò.

   «Perché no?».

   L’Orioniana distolse lo sguardo, fissando le stelle. «Io... ho sempre pensato che tu non avessi molta stima di me» ammise. «Beh, la maggior parte dei miei colleghi non ce l’ha. Ma tu in particolare... sei sempre così perfetta! Così inumanamente perfetta. Non c’è mansione a bordo che non sapresti ricoprire. Mi fai sentire ancora più stupida e inutile».

   «Mi spiace se in alcune occasioni ho dato l’idea di volerti mettere in ombra» disse l’IA. «Siete un equipaggio affiatato; quando sono salita a bordo non volevo certo scombinare i vostri equilibri».

   «Lo so... ed è per questo che sono così arrabbiata. Perché è vero che sapresti fare il mio lavoro meglio di me!» si sfogò Zafreen, sempre guardando lo spazio.

   «Sì, è vero... perché sono stata programmata per farlo. Ma ci sono momenti in cui rinuncerei a tutto, pur di essere Organica» rivelò Terry.

   L’Orioniana si girò verso di lei, al colmo dello stupore. «Scherzi? Tu sei superiore a noi sotto ogni aspetto! Non hai bisogno di mangiare, bere, dormire. Non ti dimentichi le cose e non fai errori di distrazione. E poi... vivrai chissà quanto, sempre giovane e bella» aggiunse con una punta d’invidia.

   «Io non vivo... perché non sono un essere vivente» disse piano l’IA.

   «Oh, andiamo!» sbottò Zafreen. «Sei una proiezione isomorfa che imita una persona fino al livello cellulare! Certo che sei viva!».

   «Hai detto bene... io imito una persona. Ma resto una simulazione computerizzata, gestita da un programma» puntualizzò Terry. «Se qualcuno lo manipola, può alterare il mio aspetto e il mio carattere. Può farmi dimenticare ciò che sapevo e farmi cambiare opinione su ciò che so».

   «Beh, anche noi Organici possiamo essere manipolati. Anzi, direi che rispetto a te siamo ancora più facili da influenzare» insisté l’Orioniana, che non riusciva proprio a vedersi come la privilegiata fra loro due.

   «Ma almeno siete responsabili dei vostri traguardi» insisté l’IA. «Se fate una buona azione, è perché l’avete scelto. Io invece sono stata programmata già con tutte le nozioni necessarie per svolgere il mio incarico, e posta in servizio su una nave stellare senza aver fatto nulla per meritarlo».

   Zafreen ragionò per qualche attimo. «Mi sembra che te lo sia meritato eccome, dopo di allora» argomentò. «Comunque noi Organici siamo responsabili anche dei nostri fallimenti, e non è piacevole».

   «Accetterei volentieri d’essere responsabile dei miei insuccessi, se in cambio potessi gioire delle mie vittorie».

   «Non sapevo che tu avessi avuto degli insuccessi» si stupì l’Orioniana.

   «Ne ho avuti eccome» sospirò l’IA. «E ancora mi chiedo se avrei potuto agire diversamente o se seguo un binario programmato. Sai, io t’invidio».

   Zafreen rimase di stucco. «Tu... invidi me?!».

   «Sì, perché sei figlia di un boss del Sindacato di Orione e potevi approfittarne per fare la bella vita. Invece hai abbandonato quell’ambiente, hai studiato in Accademia e ti sei guadagnata un posto nella Flotta Stellare. Hai superato la tua... programmazione di base e ti sei data nuovi scopi, scelti da te» disse Terry, estatica. «E poi... hai trovato l’amore» sussurrò.

   «Tu... non lo conosci?».

   «Lo conobbi una volta, tanto tempo fa» rivelò la proiezione isomorfa. «Anche lui era una sorta d’Intelligenza Artificiale, ma il nostro idillio fu breve. Lui si sacrificò per salvarci e io rimasi sola. Da allora non ho più amato nessuno».

   «Mi dispiace... ma almeno hai tanto tempo a disposizione, visto che non invecchi. Puoi sempre sperare in un futuro migliore» la incoraggiò Zafreen.

   «Coi nemici che avanzano da ogni parte, mi riesce difficile sperare» disse Terry, fissando desolata il pavimento.

   «É una delle cose che facciamo noi Organici, per irragionevole che sia. Se vuoi essere come noi, dovresti imitarci anche in questo» consigliò l’Orioniana. Fece per andarsene, ma dopo i primi passi indugiò. «Comunque secondo me hai superato la tua programmazione, e di parecchio. Non ti saresti unita a noi ribelli, altrimenti».

   «Continuo a chiedermi se... se sia sufficiente, per avere un’anima» sussurrò l’IA, fissando lo spazio trapunto di stelle.

   «Ci sono frotte di Organici che passano tutta la vita senza porsi minimamente queste domande. Per quanto mi riguarda, tu hai molta più anima di loro» la rincuorò Zafreen. Dopo di che si ritirò, lasciando Terry alle sue riflessioni.

 

   Quattro giorni dopo la Keter raggiunse il rifugio della Catena Cremisi, un planetoide nell’Ammasso di Hromi. I capi locali dell’organizzazione non furono affatto contenti di sapere che a causa dei federali il loro rifugio nella Sfera di Dyson era stato scoperto. Non si calmarono nemmeno quando Hod gli spiegò che, grazie a quell’operazione, l’espansione dello Stato Imperiale era stata fermata. Ci furono momenti di tensione, nei quali la Keter fu circondata dalle navicelle della Catena, pronte a far fuoco. Solo quando i miliziani si accorsero che non l’avrebbero spuntata contro la nave della Flotta accettarono di patteggiare. La Keter sbarcò i passeggeri, salvo alcuni pazienti, che Ladya volle trattenere per accertamenti. A quel punto i federali dovettero andarsene, con la solenne promessa di non tornare. Mentre si allontanavano, Hod pensò che con ogni probabilità non avrebbero mai più collaborato con la Catena, anzi non era da escludere un futuro antagonismo.

   Altri due giorni di viaggio portarono la Keter nel cuore della Nebulosa Azzurra, dove le ferite della battaglia erano ancora fresche. I rimorchiatori stavano sgombrando l’orbita dai detriti, prima che precipitassero sul pianeta. I cantieri spaziali erano pieni di navi danneggiate e gli ospedali a terra traboccavano di feriti. Con enorme sollievo, Vrel riconobbe la Constellation e la Sha Ka Ree, le navi dei suoi genitori. Ma la sorpresa più grande furono i vascelli Remani. Gli ufficiali della Keter non credevano di avere smosso quella specie isolazionista e orgogliosa.

   «È bello vederla qui» disse Hod, quando ebbe Obiruk sullo schermo. «Mi hanno informata che il vostro intervento è stato decisivo. Spero che questa collaborazione possa continuare».

   «Deve, ora che siamo entrati in guerra» disse il Pretore. «Ci siamo già accordati per l’acquisto di mine e piattaforme difensive per proteggere il nostro mondo. La rappresaglia dello Stato Imperiale non si farà attendere».

   «Non è detto» avvertì Hod. «Sono successe cose che potrebbero sconvolgere i piani degli Imperiali».

   «Suppongo che c’entrino con la missione che vi ha tenuti lontani, e con la paralisi che ha colto le Narada nel momento decisivo» commentò il Remano.

   «Riferirò tutto alla riunione» disse il Capitano. «Per ora posso dirle solo che ci sono altre fazioni in gioco».

   «Uhm... e che mi dice della giovane V’Lena, è ancora con voi? Il suo atto eroico sul nostro pianeta ha influito non poco sulla nostra decisione di schierarci» rivelò il Pretore.

   A quelle parole, Hod ebbe come una fitta. «Sorella V’Lena è tra le vittime della battaglia» disse. «Se quest’alleanza è anche merito suo, allora è una ragione in più per tenerla viva. Facciamo che sia la sua eredità».

 

   Quel giorno stesso, appena ne ebbe la possibilità, Vrel si recò sulla Constellation. La nave era stata seriamente danneggiata, per cui l’avevano messa in cantiere. Ovunque c’era un viavai di tecnici intenti alle riparazioni; le loro voci si sovrapponevano al suono dei saldatori e degli altri strumenti, formando un continuo brusio.

   Ad attenderlo in sala teletrasporto c’erano i suoi genitori. L’incontro fu commosso: lo abbracciarono entrambi, prima T’Vala e poi Lantora. «Oh, Vrel!» esalò la mezza Vulcaniana, stringendolo forte. «Quando non ho trovato la Keter al punto d’incontro, ho temuto il peggio».

   «Ci sono capitati parecchi imprevisti» ammise il timoniere. «Ma abbiamo trovato anche degli alleati inaspettati, e Terry è stata straordinaria. Comunque la missione è stata dura; anch’io ero in pensiero per voi» aggiunse, rivolto a entrambi i genitori.

   Andarono nell’alloggio di Lantora, dove poterono parlare liberamente, raccontandosi le ultime vicissitudini. Quando ebbe finito, Vrel chiese ai genitori se avevano notizie della Stella del Polo e di Jaylah.

   «Ancora niente» rispose il padre. «L’Unione accusa i corsari di rapire i Terrestri che vengono deportati nelle colonie... è senz’altro una manovra per screditarli. Forse cercano anche di attirarli in un’imboscata. Ho inviato uno dei miei agenti migliori a investigare sulla faccenda, ma ancora non ha fatto rapporto. Spero che si faccia sentire al più presto».

   Lo Xindi non disse che era stata Lyra ad accusare la banda dello Spettro. Per tutto il tempo che la famiglia passò insieme, la figlia minore non fu mai nominata. Non c’era motivo di aggiungere quel dolore ai tanti che già avevano.

   «Ti andrebbe di cenare con noi, stasera?» propose T’Vala, non volendo che il figlio ripartisse subito.

   «Volentieri» disse Vrel. «Che ne dite se viene anche Zafreen? Così la conoscerete un po’».

   I genitori si scambiarono un’occhiata. Non erano contentissimi della sua relazione con l’Orioniana, che ai loro occhi appariva un po’ fatua. Ma dopo che avevano temuto per la sua vita, questo era l’ultimo dei problemi.

   «Volentieri» disse T’Vala. «Era da tanto che aspettavamo l’occasione, vero?» disse, lanciando un’occhiata obliqua al marito, per invitarlo ad assentire.

   Per un attimo Lantora sembrò fare resistenza, ma poi si rasserenò. «Certo» disse. «Se ti sta così a cuore, allora è di famiglia».

 

   Tre giorni dopo una flotta federale, rinforzata da Falchi romulani e remani, lasciò il pianeta e giunse ai margini della Nebulosa Azzurra. Un uguale numero di Falchi dello Stato Imperiale le venne incontro, fermandosi a qualche centinaio di chilometri. Le due flotte, entrambe malmesse, si fronteggiarono per parecchi minuti. Poi dalla Keter uscirono alcune navette, che diressero verso gli Imperiali. Altrettante navicelle uscirono dalla Tal’aura, la nave di Oren, e mossero verso i federali. I due gruppi s’incrociarono a metà strada, proseguendo fino a raggiungere gli schieramenti opposti.

   «Aprire un canale con la Tal’aura» ordinò Hod.

   Oren apparve sullo schermo. Indossava ancora la divisa da Pretore, sebbene questa non fosse una prova decisiva sulla sorte dell’Imperatrice. «Pensavo che sarebbe stato Lantora a gestire questo scambio d’ostaggi» esordì.

   «Il Commodoro mi ha affidato la missione, dato che è stata la mia nave a prendere i prigionieri» rispose Hod. Non rivelò che la Constellation e la Sha Ka Ree erano troppo danneggiate per occuparsene. «Sono settantaquattro, tutti quelli che abbiamo potuto salvare dai Borg».

   «E io gliene mando altrettanti, scelti tra quelli catturati nella Riconquista» garantì Oren. Naturalmente si trattava di marinai di basso grado; gli ufficiali se li erano tenuti. Tuttavia era notevole che il Pretore avesse accettato uno scambio alla pari. Tradizionalmente lo Stato Imperiale pretendeva scambi diseguali a proprio favore, anche in proporzione di uno a dieci. Ma stavolta Oren doveva recuperare tutti i propri ostaggi, per interrogarli in merito ai Borg.

   Hod dette una rapida occhiata a Zafreen, che annuì, a conferma che i federali liberati erano nel numero convenuto. «Bene; i vostri prigionieri sono stati trattati dignitosamente, secondo le norme di guerra» disse il Capitano. «Penso che troverà esaurienti le loro testimonianze su ciò che è accaduto presso la Sfera di Dyson. Ma c’è una questione di cui voglio parlare anch’io: la sorte della vostra Imperatrice».

   Il Pretore s’irrigidì. «Di questo non discuterò» disse.

   «Deve farlo, se le è cara la vita!» lo richiamò Hod. «Sela è scomparsa dopo che i Borg hanno abbordato il suo vascello. Se non è ancora tornata da voi, significa che l’hanno assimilata. Ciò vuol dire che la Collettività ha appreso tutte le sue conoscenze, incluse quelle di natura militare. I Borg vi conoscono, Pretore! Sanno come aggirare i vostri punti di forza e come sfruttare le vostre debolezze. Dunque vi invaderanno; ed è probabile che lo facciano in grande stile, con più vascelli».

   «Che ne sa lei, di cosa faranno i Borg?» fece Oren, ma sotto il tono sprezzante si avvertiva la paura.

   «Io e il mio equipaggio li abbiamo incontrati nel Quadrante Delta» spiegò il Capitano. «Hanno ripreso le campagne d’assimilazione, con la differenza che si sono fatti furbi. Ora non si limitano a fare da bersaglio, sperando di adattarsi; sanno pianificare delle strategie per vincere con le minori perdite possibili. Se fossi in lei, sospenderei la Riconquista e penserei a fortificare il confine».

   «Certo, è a questo che vuole indurmi» borbottò il Pretore. «Lo sa che abbiamo altre Narada in cantiere? Non ci vorrà molto, prima che siano pronte; e allora potrò reiterare l’attacco».

   «E correre il rischio di attirare di nuovo i Borg? Ci pensi bene. Sela ha usato le Narada e i droni l’hanno assimilata. Se lei seguirà le sue orme, farà la stessa fine» ammonì Hod.

   Il Pretore tacque per lunghi secondi. Infine parlò, in tono sbrigativo: «I pianeti che abbiamo reclamato fanno di nuovo parte dello Stato Imperiale, quindi li difenderemo da qualunque aggressore, che siano i Borg oppure voi. E non crediate che siamo a corto di navi. Anche mettendo da parte le Narada, abbiamo un’efficiente flotta di Falchi da Guerra. Questo è il nuovo status quo; vi consiglio di accettarlo. Oren, chiudo».

   La flotta imperiale fece dietro-front e lasciò le propaggini della Nebulosa Azzurra, tornando allo spazio che aveva conquistato nelle settimane precedenti. I federali, a loro volta, rientrarono a Nuovo Romulus.

   «Oren non è uno stupido» disse Norrin. «Ha fatto un po’ di scena per rispettare le apparenze, ma seguirà il suo consiglio. Congelerà l’avanzata e si metterà a fortificare i confini».

   «Già» disse Hod, per nulla confortata. «E tutti i pianeti che lo Stato Imperiale ha conquistato in questa guerra-lampo resteranno sotto il suo controllo. Sono tre quarti della Repubblica Romulana, e noi non possiamo liberarli. Anche coi Remani al nostro fianco, abbiamo subito troppe perdite».

   «Si fa quel che si può» concluse l’Hirogeno.

   «E a volte non basta» si disse Hod, lottando contro la disperazione. La Federazione arretrava su tutti i fronti, i suoi mondi cadevano come birilli. E ora alle minacce dei Pacificatori, dei Voth e dello Stato Imperiale si erano aggiunti pure i Borg. Quante altre navi dovevano perdere, quanti amici dovevano ancora seppellire, prima di ammettere che la guerra era persa?

 

   Nella sala del processore, addossata alla sala macchine, Dib e Terry eseguivano il controllo mensile dei sistemi informatici. Come al solito parlavano poco, limitandosi a riferire i dati essenziali.

   «La diagnostica indica che nell’ultimo mese hai sopportato livelli di stress particolarmente elevati» notò l’Ingegnere Capo.

   «Non mi serviva la diagnostica per saperlo» borbottò Terry. «Ma adesso sto meglio».

   Dib tacque per qualche secondo, ma poi decise di non lasciar cadere l’argomento. «Ne sei certa? Ricordo quando mi hai detto dell’angoscia causata dalle tue mansioni di Ufficiale Tattico. L’esperienza degli ultimi giorni ha cambiato qualcosa?».

   Terry si fermò un attimo a riflettere. «Beh, abbiamo combattuto un’altra battaglia... e ho dovuto uccidere ancora. Sabotando le Narada, ho permesso alla Flotta e ai Remani di distruggerle» disse. «Però, così facendo, ho salvato la nostra gente, sia sulle navi che a terra. Anche senza tener conto della mia fedeltà alla Flotta, ho salvato molte più vite di quelle che ho sacrificato. Da un punto di vista aritmetico, i conti tornano».

   «Il bene dei molti» notò Dib.

   «Sì, qualcosa del genere. Però vorrei che fosse più semplice capire cos’è davvero questo “bene dei molti”, specialmente quando non c’è una situazione vita-morte, ma uno scontro ideologico» si lamentò la proiezione isomorfa. «Purtroppo l’unico modo per azzerare i contrasti sarebbe trasformare tutti in Borg... e questo non mi sembra un miglioramento».

   «Forse i Borg, con la loro mente alveare, sono nati proprio come un tentativo di appianare i contrasti. Ma sembra che gli sforzi di questo genere siano fortemente distruttivi verso chi non si vuole conformare» notò il Penumbrano.

   «Si può dire lo stesso del regime di Rangda» disse Terry. «Forse una certa dose di dissenso è necessaria alla società, a patto di non scivolare nell’anarchia totale. Ci vorrebbe un equilibrio tra ordine e caos... tra efficienza e imprevedibilità».

   La proiezione isomorfa tacque finché la diagnostica fu terminata. Solo allora si rivolse di nuovo al collega. «E a te cos’è rimasto, di questa esperienza?» chiese.

   Il Penumbrano rifletté brevemente. «La Sfera di Dyson è un manufatto notevole. Credo che abbiamo ancora molto da imparare dal suo studio» rispose. «Il dottor Arvid credeva fermamente nella possibilità di renderla abitabile, anche agendo sul sole. Voleva riprendere gli studi del dottor Seyetik sulla rigenerazione delle stelle tramite i Dispositivi Genesis. Il mio popolo s’interroga da tempo sulla questione, ma non abbiamo ancora raggiunto una conclusione. Tu credi che sia possibile rivitalizzare una stella morente?».

   Terry ci ragionò su. «Con un enorme trasferimento d’energia, forse. Altrimenti si violerebbe il Secondo Principio della Termodinamica».

   «Sì, è questo il problema» convenne l’Ingegnere Capo. «Avrei voluto usare il potere computazionale della Sfera per affrontarlo, ma non ne ho avuto il tempo. Tu che ne pensi?».

   «Uhm... non sei il primo a chiedermi se è possibile invertire l’entropia» rimuginò l’IA. «Ma tutti i dati in mio possesso restano insufficienti per una risposta significativa».

   Di solito le conversazioni di quel tipo finivano lì, ma stavolta l’interlocutore non si arrese. «Verrà un tempo in cui i dati saranno sufficienti, o questo problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili?» chiese Dib.

   «Per come la vedo io, nessun problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili» rispose Terry.

   «Allora quand’è che avrai dati sufficienti per rispondere alla domanda?».

   «Non posso prevederlo. So solo che, per adesso, i miei dati restano insufficienti».

   «Continuerai a occupartene?».

   «Lo farò, quando avrò tempo».

   Terry si avviò verso l’uscita. Stava per varcarla quando Dib le parlò ancora. «Spero che, quando finalmente avrai la risposta, ci sia ancora qualcuno a cui comunicarla. In caso contrario, potresti procedere per dimostrazione» suggerì.

   «Grazie del consiglio, lo terrò a mente» disse l’IA, e lasciò il salone.

 

   Seduta alla sua scrivania, Lyra assunse l’aria impostata dei discorsi ufficiali e fissò l’olocamera davanti a sé. Un segnale audio l’avvertì del momento in cui andava in onda.

   «Salve, cittadini dell’Unione. Sono qui per aggiornarvi sulla crisi in atto sul confine romulano e per assicurarvi che non correte alcun pericolo. L’espansione dello Stato Imperiale si è arrestata nella Nebulosa Azzurra, quando la sua flotta è stata respinta dalla Repubblica Romulana con l’inaspettato aiuto dei Remani. In quest’occasione le Narada sono state disattivate con un attacco informatico, che ha permesso di distruggerle. Tutto questo ci tocca in minima parte, in quanto i sistemi attaccati dagli Imperiali erano sotto il controllo dei ribelli. Ad oggi non si sono verificati scontri tra la nostra flotta e quella dello Stato Imperiale».

   Questo non era vero, si disse: il Moloch aveva colpito gli Imperiali in due diverse occasioni. Ma tutto ciò che riguardava quell’astronave era classificato.

   «Le diplomazie sono al lavoro per evitare l’espandersi del conflitto» riprese Lyra. «Stando agli ultimi rapporti, l’Imperatrice Sela è scomparsa nella battaglia. Con ogni probabilità sarà dichiarata deceduta nelle prossime ore. Di fatto il potere nello Stato Imperiale è già transitato al Pretore Oren, che ha dichiarato di non cercare lo scontro con l’Unione».

   La mezza Xindi non accennò alla comparsa dei Borg, né al fatto che quasi certamente Sela era stata assimilata. Rangda era tassativa su questo: i Borg non dovevano essere menzionati, per non terrorizzare la popolazione. In cuor suo, Lyra era contraria a questa decisione. Per un attimo ebbe la folle tentazione di disobbedire all’ordine e informare i cittadini, approfittando della diretta Olonet. Ma si trattenne: sarebbe stata la fine della sua carriera. E in fondo, la Presidente aveva ragione; questa notizia avrebbe scatenato panico e disordini.

   Accortasi che stava esitando davanti all’olocamera, Lyra riprese il discorso. «I Voth si sono offerti di fare da mediatori, anche se finora non è giunta risposta dallo Stato Imperiale. In ogni caso, i nostri amici sauri si sono impegnati a difenderci, qualora gli Imperiali attaccassero i pianeti sotto il nostro controllo».

   Servirono delle acrobazie verbali per dare un tono rassicurante al discorso, pur senza rivelare cosa ne sarebbe stato dei mondi già conquistati dallo Stato Imperiale. Lyra stessa non lo sapeva. Poteva solo arguire che terminata la Guerra Civile l’Unione avrebbe cercato di riprenderli. Dunque una guerra con lo Stato Imperiale ci sarebbe stata, prima o poi.

   «Per finire, voglio comunicarvi una buona notizia. Il Moloch ha individuato un rifugio della Catena Cremisi nella Sfera di Dyson. I fuorilegge si erano nascosti nelle intercapedini del guscio, oltre che in alcuni habitat interni, ripristinati dall’Unione prima del conflitto. La base è stata espugnata e molti terroristi sono stati assicurati alla giustizia, sebbene il loro leader Arvid abbia preferito togliersi la vita piuttosto che affrontare il processo. Ora la Sfera è di nuovo sicura. Si spera che in futuro possa tornare oggetto di studio ed eventualmente di colonizzazione».

   Anche in questo caso c’era molto “non detto”, ma la sicurezza pubblica imponeva di rivelare solo l’essenziale. Lyra riprese fiato, avviandosi alla conclusione: «Questo è tutto. Come avrete notato, si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel. La sedicente Federazione e i suoi alleati terroristi arretrano su tutti i fronti. Secondo gli analisti militari, di questo passo la vittoria ci arriderà in meno di due anni. Fino ad allora, continuate a resistere. Fidatevi delle istituzioni e della Presidente Rangda, nostro faro di speranza in questo conflitto. Lunga vita e prosperità, a tutti noi».

   Il cicalino informò Lyra che la trasmissione era terminata e infatti subito dopo l’olocamera rientrò nel piano della scrivania. La mezza Xindi permise ai suoi lineamenti di rilassarsi. Era stanca di dare informazioni così mutile e deformate, ma si disse che era colpa della guerra. Non appena il conflitto fosse terminato, la comunicazione sarebbe tornata trasparente.

   «Computer, apri un canale col signor Turf» ordinò in tono svogliato. Aveva una riunione con lui; nulla d’importante, ma era una di quelle cose che non si potevano delegare.

   «Impossibile eseguire. Il nominativo non è riconosciuto» disse il computer, accompagnandosi con un suono di diniego.

   «Oh, questa poi!» si stupì Lyra. Avevano riunioni del genere a cadenza settimanale e finora non c’era mai stato questo problema. Era capitato un paio di volte che l’Yridiano non fosse reperibile perché impegnato altrove, ma il computer non aveva mai rifiutato il suo nominativo. «Aprire un canale con l’addetto alle pubbliche relazioni della Presidente» provò il Ministro.

   L’interessato apparve in pochi attimi. Non era Turf, bensì un Kelpiano alto e magro. Lyra ne fu così sorpresa che riuscì appena a congratularsi per la sua nomina e imparare il suo nome. Non chiese perché Turf era stato rimosso dall’incarico, anche se ripensò al piccolo alterco che l’Yridiano aveva avuto con Rangda.

   Terminata la riunione, Lyra restò sovrappensiero. Era strano che non l’avessero informata dell’avvicendamento. Decise di contattare Turf per sapere come stava e sentire la sua versione dei fatti. «Computer, localizzare Turf, ex capo ufficio stampa della Presidente» ordinò.

   «Impossibile eseguire. Non risulta un ex capo ufficio stampa con questo nome».

   Lyra trasecolò. «Sei andato in tilt?! Turf ha quell’incarico fin da quando Rangda è stata eletta, sette anni fa. Si occupava delle sue pubbliche relazioni già da prima, quand’era Senatrice» ricordò.

   «Negativo. Non risulta un ex capo ufficio stampa con questo nome» ripeté il computer, cocciuto.

   La mezza Xindi avvertì un nodo allo stomaco. Stava accadendo qualcosa di strano e d’inquietante. Sedette più composta e attivò l’oloschermo della scrivania. Da lì accedette al database governativo e cercò notizie di Turf. Scoprì che non ce n’erano. La sua scheda personale era assente, i provvedimenti da lui firmati recavano altri nomi, tutto ciò che aveva fatto negli anni era smistato tra altre figure. Il senso di malessere crebbe dentro Lyra e si alzò, fino a divenire un groppo in gola. Qualunque cosa ci fosse sotto quella sparizione, era sempre più sinistra.

   Con crescente affanno, la mezza Xindi cercò le olografie in cui Turf appariva a fianco della Presidente. Dovevano essercene moltissime, perché l’Yridiano l’accompagnava spesso nelle sue uscite pubbliche. Cerimonie, ricevimenti, cene di gala, inaugurazioni di monumenti e opere pubbliche... Turf era sempre a fianco di Rangda. E invece no: in tutte le olografie che Lyra trovava, l’Yridiano era sparito. A volte il suo posto era occupato da altri, a volte era semplicemente vuoto. Sempre più agitata, Lyra cercò olografie recenti, riguardanti eventi ai quali lei stessa aveva partecipato. In quei casi non poteva sbagliarsi: ricordava perfettamente che Turf c’era. Ma scoprì con orrore che l’Yridiano era svanito anche da quelle immagini.

   Come se non fosse mai esistito.

   Per alcuni minuti Lyra rimase in silenzio, chiedendosi se era incappata in un’alterazione della linea temporale. In quel caso doveva contattare la Commissione per l’Integrità Temporale, che avrebbe aperto un’inchiesta. «Cosa dice la logica? Avanti... sei Vulcaniana per un quarto!» si disse. Il dato da cui partire era che almeno lei si ricordava di Turf. Quindi se c’era un’alterazione del tempo, ne era stata risparmiata. Ma perché? Ultimamente non era venuta in contatto con anomalie temporali, per quanto ne sapeva. Decise di cercare ancora notizie sull’Yridiano, allargando la ricerca.

   Quando stava per arrendersi, finalmente trovò qualcosa. Era un trafiletto del Federal News, risalente a parecchi anni prima. Spiegava come Turf avesse partecipato all’inaugurazione di una scuola su Kessik IV, rivolgendo un discorso a insegnanti e alunni. C’era anche un’olografia che lo mostrava mentre tagliava il nastro d’ingresso.

   Quell’immagine restituì a Lyra un briciolo di calma. Non stava impazzendo e non era finita in un Universo parallelo. Turf esisteva, o almeno era esistito. L’articoletto lo identificava correttamente come il capo ufficio stampa di Rangda. Ma proprio in quel momento, mentre lo leggeva, l’articolo cambiò. Al posto di Turf c’era un Dopteriano che già lo aveva sostituito in altre fonti. Era come se ci fosse all’opera una forza che voleva cancellarlo dall’Universo. Ma non poteva alterare la memoria di tutti... o sì? Forse anche lei lo avrebbe dimenticato da un momento all’altro.

   Presa dalla frenesia, Lyra aprì una schermata di scrittura e si appuntò le informazioni salienti su quello strano caso. Non fidandosi a tenere tutto su supporto informatico, vista la facilità con cui sparivano i dati, stampò tutto su un foglio di carta sintetica: una cosa che nel XXVI secolo si faceva di rado. A quel punto poté tirare il fiato e riflettere.

   La decisione che prese fu di contattare separatamente vari colleghi, con dei pretesti, e accennare a Turf. Non li prese di petto, chiedendo se sapessero di lui. Si limitò a fare il suo nome en passant e talvolta ad accennare a cose che l’Yridiano aveva fatto. Si accorse che nessuno si stupiva nell’udire il suo nome, eppure tutti lo lasciavano scivolare come una cosa irrilevante. Sapevano che era esistito, ma si comportavano come se ciò non li riguardasse.

 

   Solo dopo molti giorni Lyra riuscì a far breccia nel muro di omertà. Era nei giardini davanti al palazzo presidenziale e stava chiacchierando con il Ministro dell’Istruzione, riguardo a una proposta di riforma del sistema scolastico. «Ricordo che, all’ultima riunione, il signor Turf fece un commento... non ricordo di che si trattasse... ma era del tutto pregnante. Lei per caso lo rammenta?» chiese in tono casuale.

   Il Ministro, un anziano Cairn, smise di passeggiare e la fissò con aria cupa. «Non è il caso di fare quel nome» disse.

   «Perché no? Anche se è stato rimosso dall’incarico...».

   «Non è stato rimosso solo dall’incarico; ormai l’avrà notato» disse il Cairn, abbassando la voce e guardandosi attorno con aria da cospiratore. «È stato rimosso da tutto. Meno ne parliamo, meglio è».

   «Ma che fine ha fatto?» insisté Lyra.

   «Non lo so e non voglio saperlo... ma credo che non sentiremo più parlare di lui» rispose il Ministro.

   «No, un momento! Quali erano i capi d’accusa? Chi l’ha processato, e dove?» insorse la mezza Xindi.

   «Le ho detto che non lo so!» sbottò il Cairn, guardandosi di nuovo attorno con ansia. Accorgendosi che la collega non demordeva, decise di sbottonarsi, nella speranza che poi lo lasciasse stare. «Ho sentito dire che non si era rassegnato ad abbandonare la sua famiglia su Galorndon Core, sotto l’occupazione dello Stato Imperiale» le sussurrò all’orecchio. «Pare che abbia dato degli ordini ai Pacificatori, fingendo che venissero da Rangda, nella speranza di salvare i suoi cari. Povero sciocco, doveva sapere che sarebbe finito male».

   «Ascolti, io capisco che Turf sia stato... rimosso» disse Lyra, anche lei bisbigliando. «Quel che non mi spiego è la sua scomparsa da tutte le fonti. Che bisogno c’era...». Si fermò, notando che l’altro la guardava con un misto di pietà e commiserazione.

   «Mia cara ragazza, sarai anche Ministra dell’Informazione, ma sei ancora così ingenua!» disse il vecchio Cairn, carezzandole la guancia con il dorso di un dito. «Un attentato contro l’autorità della nostra beneamata Presidente è intollerabile. Chi lo compie dev’essere epurato da tutti i documenti, anche quelli passati. Vedi, chi controlla il passato controlla il presente... e chi controlla il presente, controlla il futuro. Non è mai servito il viaggio nel tempo per queste cose: basta il controllo dell’informazione. Benvenuta nell’utopia moderna». Ciò detto il Ministro si allontanò, sperando di non dover riprendere mai più il discorso.

 

   Lyra rimase imbambolata per interi minuti, riflettendo sulle implicazioni di quel discorso. Sulle prime fu tentata di respingerlo, come uno scherzo o un vaneggiamento. Ma poi ripensò a quante volte il suo lavoro l’aveva costretta a manipolare le informazioni. Quand’era stata l’ultima volta che aveva riferito fedelmente una notizia ai cittadini? Non lo ricordava nemmeno; dovevano essere passati mesi. Quanti rapporti sfavorevoli aveva scritto, nelle sue visite ai mondi dell’Unione, senza nemmeno curarsi di sapere come sarebbero stati puniti gli interessati?

   A queste riflessioni ne seguì automaticamente un’altra: al primo sgarro, anche lei sarebbe “sparita” come Turf. Non era un’ipotesi, ma una constatazione. Era già successo, quindi poteva ripetersi. Se era accaduto a un collaboratore così stretto della Presidente, poteva capitare a chiunque. Anche a lei. E in quel clima di terrore misto a opportunismo, nessuno si sarebbe preso la briga d’indagare sulla sua scomparsa.

   Con il cuore in gola, Lyra rientrò nell’imponente palazzo presidenziale. Tornò dritta filata al suo ufficio e frugò nei cassetti, finché ritrovò il foglio di carta su cui si era appuntata le informazioni su Turf. Lo stracciò per il lungo, riducendolo in tante striscioline di carta, che poi strappò ulteriormente. Infine gettò i frammenti simili a coriandoli nell’inceneritore. Solo quando l’ultimo pezzetto fu vaporizzato tornò a respirare normalmente. Ma i suoi timori non si erano certo estinti con quei pezzi di carta. Continuava a chiedersi se, un giorno, qualcuno avrebbe ripetuto quei gesti con i documenti che la riguardavano.

 

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Capitolo 11
*** ... tutti i diavoli sono qui ***


-Capitolo 10: ... tutti i diavoli sono qui
 
   Il tempo pareva congelato nel centro di comando dell’impianto minerario di Sokar. Ritto davanti alla poltrona di comando, l’Esecutore reggeva trionfante la testa mozzata di Jaylah, per la disperazione dello Spettro. Ai lati erano ammucchiate le sue altre vittime: da una parte i corpi, dall’altra le teste. Erano tutti corsari esperti, ma non avevano potuto opporsi al sicario, piombato su di loro mentre la Stella del Polo era in ricognizione. Ora questi si apprestava a prendersi un’altra testa, l’unica che gli interessava veramente: quella di Jack.
   «Bene, vecchio mio, ora ti restano tre possibilità» disse l’Esecutore. Gettò il suo macabro trofeo, che rotolò fino ai piedi dello Spettro. «Puoi tentare la fuga, nel qual caso t’inseguirò e ti ucciderò. Puoi lottare con tutte le tue forze e soccombere, com’è accaduto a lei. Oppure puoi rassegnarti all’inevitabile e lasciarti giustiziare senza opporre resistenza. Sentiti libero di scegliere l’opzione che preferisci: tanto il risultato non cambia».
   Devastato, Jack fissò gli occhi spenti della sua amatissima Jaylah. Lei era stata il suo unico raggio di sole in una vita tenebrosa; l’unica speranza che un giorno sarebbero vissuti normalmente, lontani da guerre e orrori. Ora quella speranza era definitivamente tramontata. Non gli restava più nulla, salvo che un’ardente sete di vendetta. Dopo un lungo silenzio, il corsaro alzò lo sguardo e fissò l’imperscrutabile visiera dorata del suo avversario. «Lotterò... e giuro che ti ammazzerò» disse.
   «Sono già morto una volta. È stata un’esperienza istruttiva» rispose l’Esecutore, criptico. Prima che Jack potesse ribattere, alzò il braccio e apri il fuoco. Il corsaro si sfasò appena in tempo: il raggio phaser gli attraversò la testa e colpì la parete dietro di lui. Fu così che gli ultimi due visitatori di quel mondo morto ingaggiarono lo scontro.
 
   La Stella del Polo attendeva nell’orbita del pianeta di carbonio. In plancia regnava il silenzio, da quando lo Spettro se n’era andato. «Notizie dal Capitano?» chiese Graush.
   «Nessuna» rispose Siall, sconsolato.
   «Se l’Esecutore era là ad attenderlo, staranno già combattendo» disse Soji. Per un attimo tornò il silenzio. «Basta, io scendo!» sbottò l’androide, che vestiva già la tuta da Banshee.
   «Non ci provare! Gli ordini dello Spettro sono chiari» si oppose il Letheano. «Tu resterai qui, o ti sbatteremo di nuovo in cella».
   «Dovete solo provarci!» reagì Soji in tono minaccioso. Avendo la tuta, poteva sfasarsi in ogni momento, diventando imprendibile.
   Per un attimo i due si fissarono con ostilità. Il conflitto fu evitato da un violento scossone della nave.
   «È l’Hydra! Cioè, i due moduli superstiti» disse Siall. «Sono usciti dall’occultamento e ci attaccano a poppa». Fortunatamente la Stella teneva gli scudi alzati, o quel primo attacco sarebbe stato fatale.
   «Manovre evasive, rispondere al fuoco. Coordiniamoci con la nave appoggio» ordinò Graush.
   In un attimo l’orbita di Sokar divenne teatro di una feroce battaglia. I due moduli dell’Hydra, agilissimi ma con difese limitate, sferravano rapidi assalti e poi si ritiravano per rigenerare gli scudi. La Stella del Polo era più stazionaria, mentre la sua nave appoggio si azzardava talvolta a inseguire i moduli per assestare qualche altro colpo. In quello scontro altalenante vi era una sola certezza: finché i corsari tenevano alzati gli scudi, non potevano recuperare lo Spettro. Dunque non potevano salvarlo, se la sua situazione fosse volta al peggio.
 
   Sebbene lo Spettro avesse giurato di uccidere l’avversario, sapeva che non avrebbe avuto scampo in uno scontro frontale. Decise quindi di lasciarsi inseguire, aspettando il momento opportuno per volgersi e contrattaccare, o per nascondersi e tendere agguati. Fortunatamente le miniere di Sokar erano un labirinto che offriva infinite possibilità del genere. Per un po’ i contendenti s’inseguirono per corridoi e gallerie. Ognuno dei due sparava quando ne aveva l’occasione e poi tornava a sfasarsi per sfuggire alla reazione. Non c’erano più parole tra loro, solo i sibili delle armi e gli schianti dei colpi andati a vuoto. Era la prova finale delle loro abilità combattive e nessuno dei due intendeva mollare, quale che fosse il prezzo.
   D’un tratto Jack sbucò in un salone molto più vasto dei precedenti. Era colmo di enormi macchinari, dai contorni appena intuibili nella semioscurità. «Computer, luce!» ordinò.
   Malgrado i decenni di abbandono e i numerosi danni subiti, il computer della base era ancora attivo ed eseguì il comando. Il salone s’illuminò, rivelando una gran quantità di apparecchi industriali, che componevano una catena di raffinazione. Una fitta rete di passerelle, disposte su più livelli uniti da montacarichi, permetteva di seguire il processo dall’inizio alla fine. Lo Spettro riconobbe la raffineria in cui i minerali erano depurati e l’annessa fonderia in cui erano trasformati in lingotti pronti per lo smercio. C’era ancora in deposito una notevole quantità di minerale grezzo, che giaceva lì dal giorno in cui gli operai erano morti.
   «Ebbene, non dicevi di volermi affrontare?» disse l’Esecutore, sbucando da un altro lato del salone. «Finora non hai fatto che scappare! Dov’è la tua grinta, dov’è la tua vendetta?» lo provocò.
   «Ora vedrai» mormorò lo Spettro, raggiungendo una consolle. Era impolverata, ma i comandi funzionavano ancora. Bastarono pochi attimi per riattivare l’impianto. I vecchi ingranaggi cigolarono e sbuffarono, non essendo oliati a dovere, ma poco alla volta entrarono in funzione. Il rullo scorrevole su cui si trovava il minerale grezzo si mosse dapprima a scatti, ma poi sempre più regolarmente. Le macine sminuzzarono il minerale, i crogioli lo fusero, gli altiforni lo depurarono dalle ultime scorie. Una serie di meccanismi colò il titanio fuso nelle forme, da cui sarebbero stati estratti i lingotti. In pochi minuti il salone si riempì del frastuono di tutti quei macchinari all’opera. Il metallo fuso gettò la sua luce calda sulle pareti e la temperatura aumentò sensibilmente. Per adesso la catena di raffinazione funzionava, ma senza la dovuta supervisione degli operai era facile che s’inceppasse, con esiti catastrofici.
   L’Esecutore si aggirò in quella confusione, guardandosi attorno. I movimenti rapidi dei macchinari gli rendevano più difficile cogliere la presenza della sua preda. Il rumore copriva i passi dello Spettro, mentre gli altiforni e le colate di metallo fuso accecavano il suo visore termico. Individuare il corsaro in quelle condizioni era arduo, tanto che la ricerca si protrasse per parecchi minuti, infruttuosa.
   «Non puoi nasconderti per sempre, vecchio mio» disse l’Esecutore. «Presto la scorta di minerale grezzo si esaurirà. Allora questi macchinari si fermeranno definitivamente».
   D’un tratto il corsaro si materializzò a metà di un balzo e gli fu addosso. Lo colpì con un calcio sul volto celato dal casco, gettandolo all’indietro, sulla catena di raffinazione. Mentre cadeva, l’Esecutore gli afferrò la caviglia e lo trascinò con sé. Finirono entrambi sul rullo scorrevole, in mezzo ai blocchi di minerale sgrossato. Il rullo li portava verso il primo strumento di raffinazione, una grossa macina cilindrica.
   «Ah ah! Ora sì che ci divertiamo!» rise l’Esecutore, rallegrato dalla situazione letale. «Cerchiamo di arrivare fino agli altiforni, così dopo averti ucciso potrò placcarti nel metallo!».
   «Tu sei pazzo» mormorò Jack.
   «No, il pazzo sei sempre stato tu» corresse il sicario, con voce stranamente familiare. «Io sono quello che ti segue».
   All’Umano parve di avere già udito queste parole, ma non ebbe il tempo di pensarci, perché l’avversario attaccò. Si scambiarono alcuni colpi, finché il rullo li portò contro la macina; allora si sfasarono per attraversarla senza essere maciullati. Appena giunti dall’altra parte ripresero a combattere, finché dovettero sfasarsi di nuovo per sfuggire al pericolo, e così via. Se nessuno fosse riuscito a prevalere, avrebbero attraversato la raffineria dall’inizio alla fine: dalle macine per minerali alle presse per lingotti, passando per le fornaci. Nessuno dei due pensò di saltar giù dal rullo, pur avendone occasione, grazie alle passerelle che lo bordavano. Nessuno voleva cedere.
 
   I due moduli dell’Hydra fecero l’ennesimo passaggio ravvicinato, sparando a tutto spiano contro la Stella del Polo. La nave corsara rispose al fuoco, concentrandosi su un solo modulo, come faceva dall’inizio della battaglia.
   «Scudi di babordo al 60% in diminuzione» avvertì Skal’nak. «Però anche gli scudi nemici vacillano».
   «Ehi, per un attimo ho avuto una lettura dell’interno!» esclamò Siall. «L’equipaggio è composto di androidi, come previsto. Però c’è anche un segno vitale umanoide».
   «Uno solo? Fammi vedere!» s’interessò Soji, affiancandosi a lui. Vedendoli chini a parlottare sulla consolle, anche Graush si unì a loro.
   «Può essere...?» fece il Letheano.
   «È possibile» disse Siall. «Ma le letture sono incomplete».
   A quelle parole, Graush tornò a sedere in poltrona. «Concentrate tutto il fuoco su quel modulo e dite alla nave appoggio di fare altrettanto. Dobbiamo abbattere gli scudi, ma senza distruggerlo» ordinò. Dopo di che si rivolse a Soji: «Sei pronta a entrare in azione?».
   L’androide attivò il casco, che si richiuse con uno scatto metallico. «Affermativo» disse, mentre il visore azzurro s’illuminava. «Mandatemi più vicina che potete a quel segno vitale».
   «Dovrai affrontare gli androidi» avvertì il Letheano. «Te la senti?».
   «Il vostro capo mi ha insegnato a usare la tuta» rispose Soji.
   «Intendo dire: te la senti di combattere la tua specie?» chiarì Graush, fissandola con sospetto.
   «L’Universo non si divide in Organici e Sintetici, ma in chi segue la coscienza e chi segue gli ordini» ribatté la nuova Banshee. «Oggi seguirò la coscienza».
   «Allora ti servirà questo» disse Virrikek, consegnandole l’elettro-chiarificatore. Il Roylano stentava a reggere l’arma, grossa quanto lui. «Dovrebbe stendere tutti gli androidi davanti a te in un raggio di venti metri. Ricorda però che, non essendo integrato nella tuta, non può sfasarsi con essa. Quindi se dovrai sfasarti ti cadrà di mano».
   «Lo terrò a mente. Comunque non avrò bisogno di attraversare le pareti, se mi manderete abbastanza vicina all’obiettivo» disse Soji, impugnando l’arma. Salì sulla pedana di teletrasporto e si tenne pronta a entrare in azione.
   I due moduli dell’Hydra erano già in picchiata per eseguire un altro passaggio. La Stella del Polo sussultò e i suoi scudi s’indebolirono, ma il suo fuoco concentrato riuscì a penetrare le difese nemiche. Uno dei moduli sbandò e il suo scafo fu intaccato. Batterono entrambi in ritirata, incalzati dalla nave appoggio dei corsari. Nello stesso attimo la Stella abbassò gli scudi per eseguire il teletrasporto. Ci riuscì appena prima che l’Hydra fosse fuori portata.
   Materializzata in un corridoio, la Banshee fu subito assalita dagli androidi, ma si aprì un varco con l’elettro-chiarificatore. «Non tutto il male viene per nuocere. Se non fosse stato per Sutra, non avrei quest’arma» si disse. Procedette spedita, quasi correndo. Si lasciava dietro una scia di androidi disattivati, caduti a terra in pose scomposte, con gli occhi gialli spalancati in un’espressione di vago stupore. Finalmente giunse al luogo che la interessava: le prigioni. Non ebbe difficoltà a riconoscere quella giusta, dato che ce n’era solo una occupata.
 
   Soli nella raffineria, lo Spettro e l’Esecutore continuavano a battersi, sfasandosi di frequente per sfuggire sia agli attacchi nemici che ai macchinari. I colpi andati a vuoto danneggiarono tuttavia alcuni apparecchi, tanto che la catena automatica cominciò a incepparsi. I contendenti però ne erano a malapena consapevoli, assorbiti com’erano dallo scontro. Oltrepassate le macine e gli altri strumenti di depurazione, giunsero alle fornaci. Qui il metallo veniva fuso e riversato in grandi crogioli, dai quali si eliminavano le ultime scorie. Dopo di che era versato negli stampi, per solidificarsi in lingotti.
   Balzato da un livello all’alto dell’impianto, per disimpegnarsi dallo scontro, lo Spettro si aggirò presso l’imboccatura di un crogiolo. Accanto a lui c’era una colata di titanio incandescente, simile a una cascata dorata. Vapori roventi gli turbinavano attorno, rendendo l’aria irrespirabile; solo la tuta gli permetteva di resistere. Guardò sopra di sé, ma non riuscì a vedere l’Esecutore. Che fosse saltato anche lui?
   «Dove sei?» si disse il corsaro, guardandosi attorno in cerca dell’avversario. I vapori offuscavano la luce visibile e il calore intenso accecava gli infrarossi, quindi provò altre lunghezze d’onda, ma senza esito. Forse l’Esecutore si era di nuovo sfasato. In ogni caso era meglio allontanarsi. Cercando una via d’uscita, Jack valutò a che altezza si trovava dal suolo. Concluse che era ancora molto in alto. Troppo, per saltar giù.
   In quella il sicario emerse dalla cascata di titanio. Piombò addosso al corsaro prima che potesse sfasarsi: gli afferrò il phaser innestato nel bracciale e glielo strappò via. In un colpo solo Jack fu disarmato e messo nell’impossibilità di sfasarsi. Cercò di mettersi fuori tiro, ma si trovò a vacillare sull’orlo del crogiolo. Sotto di lui ribolliva il titanio fuso. Se ci fosse caduto con la tuta danneggiata, sarebbe arrostito come un’aragosta nel suo guscio.
   «Bella battaglia, vecchio mio; ma è finita» sentenziò l’Esecutore. «La tua leggenda muore adesso». Afferrò il corsaro per il collo e fece per gettarlo nel metallo incandescente.
   «Le leggende non muoiono mai... vecchio Nick» ribatté lo Spettro.
   «Come mi hai chiamato?!» si meravigliò il sicario. Tale fu lo stupore che la sua presa s’indebolì e lo Spettro ne approfittò per liberarsi.
   «Oh scusa, dimenticavo che non ti piace quel diminutivo» disse Jack, in tono beffardo. «Allora ti chiamerò col tuo nome intero, Nicrek».
   Per qualche attimo i due avversari si fissarono senza parlare, anche se non si può dire che vi fosse silenzio, dato che i macchinari attorno a loro erano in piena attività. La cascata di titanio fuso si arrestò e il crogiolo fu spostato dal suo alloggiamento, per lasciar posto a un altro. I contendenti però si trovavano sulla struttura di sostegno e qui rimasero, avvolti dai vapori incandescenti.
   «Come l’hai capito?» chiese infine l’Esecutore.
   «È stata quella frase che hai detto prima, sul fatto che io sarei il pazzo e tu quello che mi segue. Ci dicemmo la stessa cosa, quando trovammo il relitto dell’Eta Carinae» spiegò Jack.
   «Hai buona memoria» riconobbe il Remano.
   «Tutti i dettagli di quella giornata mi sono rimasti impressi nel cervello» confermò l’Umano. «Del resto fu il giorno decisivo per le sorti di entrambi. Io fui accusato ingiustamente, il che mi ha indotto a divenire lo Spettro. Tu d’altro canto mi tradisti, facendomi condannare; e ora cerchi ancora di distruggermi, nei panni dell’Esecutore. Sì, tutto ciò che è accaduto in questi anni non è che la conseguenza di quel giorno».
   «Allora saprai che il finale è già scritto» disse Nicrek. «All’epoca mi fu facile distruggerti la vita; e ora mi sarà altrettanto facile strappartela definitivamente».
   «Perché?!» chiese Jack, sovrastando il fragore di una nuova colata. «Perché mi tradisti? E perché sei così ossessionato da me? Sembra quasi che tu voglia vendicare un torto, quando in realtà sono io che devo raddrizzarne molti».
   «Tu non hai idea!» ringhiò il Remano. La sua voce, che in precedenza aveva un timbro metallico, apparve ora carica di rancore.
   «Allora spiega» lo esortò Jack, un po’ per curiosità, un po’ per prendere tempo mentre pensava a come cavarsela.
   «Sì, ti spiegherò; così saprai quant’è meritata la tua sorte!» disse Nicrek. «Devi sapere che quando ti accompagnai in cerca del relitto non c’era malizia in me. Ti consideravo un amico e volevo aiutarti a metterti il cuore in pace. Inoltre volevo rendere giustizia a quelle vittime, nel caso tu avessi ragione e la verità fosse stata insabbiata. Ma quando tornammo sulla Garuda con le prove, il Capitano Garm mi richiamò nel suo ufficio dopo che te n’eri andato. Mi spiegò che conosceva già la sorte dell’Eta Carinae e delle altre navi del convoglio. Sapeva cioè che erano stati i Breen ad attaccarle, anziché il Fronte Temporale. Ma per ordini superiori, doveva tacere».
   «Gli ordini di Rangda!» ringhiò Jack. «All’epoca era Senatrice; non aveva l’autorità per nascondere quel massacro».
   «Il silenzio era il prezzo che i Breen volevano per non unirsi al Fronte. Un prezzo modesto, dopotutto» ribatté il Remano. «Anche in seguito, per mantenere le buone relazioni con loro, la verità doveva restare occultata. Così concordai con Garm la versione della storia che raccontai al processo e che ti fece condannare. Speravamo d’esserci liberati di te, garantendo la pace. Ma no, tu non potevi uscire di scena! Dovevi rimanere una spina nel fianco! Così sei evaso, diventando lo Spettro. Abbiamo capito subito che eri tu, ma non potevamo gridarlo ai quattro venti, per non riaprire il caso. Perciò Garm ti diede la caccia con la sua nuova nave, la Keter. Ma siccome era uno stupido pallone gonfiato, si fece ammazzare, e la verità venne a galla. Così ci siamo definitivamente inimicati i Breen».
   «Sarebbe accaduto comunque, prima o poi. Ma tu non eri sulla Keter» notò Jack.
   «No, io fui trasferito sulla Juggernaut del Capitano Gulnar» rivelò Nicrek. «Avevo intuito che collaboravi con quelli della Keter – soprattutto con Jaylah – ma non potevo dimostrarlo. Così ho atteso, mentre i giorni dell’Unione erano sempre più cupi. Ho visto l’Ammiraglio Chase e gli altri reazionari opporsi in ogni modo alle sacrosante riforme di Rangda. Ho visto te diventare sempre più famoso e potente nei mondi di frontiera, anziché marcire in galera come meritavi. E quando i Voth hanno reclamato la Terra, e Rangda li ha accontentati... ancora una volta per mantenere la pace... le sono stato leale. Ero io l’Ufficiale Tattico che ha distrutto l’Enterprise-J. È stato il momento più esaltante della mia vita, distruggere l’astronave che capeggiava la ribellione!» rivendicò, levando le mani in segno di trionfo.
   «C’erano tremila persone a bordo» disse Jack, con la gola secca.
   «Tremila nemici della pace!» ribatté il Remano. «Ma nella battaglia successiva, a Elba II, tu aiutasti la Keter a distruggere la nostra nave. Il mio coraggioso Capitano si sacrificò restando a bordo e molti altri perirono nella battaglia. Io non fui così fortunato» disse cupo. «Mentre mi attardavo per accertarmi che i superstiti si mettessero in salvo, fui travolto dall’esplosione di un giunto di potenza. Sentii il fuoco che mi divorava la carne. Sentii i brandelli del mio corpo maciullato che si staccavano, mentre i compagni mi trascinavano sullo shuttle medico. Poco alla volta il dolore si attenuò, finché scivolai nel nulla.
   Mi affidarono alla Sezione 31, che da tempo aveva elaborato un programma per ricostruire gli agenti mutilati e trasformarli in macchine per uccidere. Non conosco i dettagli di ciò che mi fecero. Tuttavia so per certo che rimasi clinicamente morto per ore, prima che mi rianimassero con le nanosonde Borg. Per la cronaca, non ho alcun ricordo del tempo in cui sono stato morto. Non ho visto niente... non credo ci sia niente da vedere. Ricordo solo che al risveglio il mio corpo non c’era più. I chirurghi avevano buttato via un pezzo dopo l’altro, finché era rimasto solo il cervello. Quel cervello ora si trova qui dentro» disse picchettandosi il casco con l’indice «ed è tutto ciò che rimane del tuo amico Nicrek. Tutto il resto è meccanico. Capisci, vecchio mio? La mia vita è finita. Non ho più un volto da mostrare ai miei cari. Non ho più un naso per sentire i profumi e papille per gustare i sapori. Non ho neanche più sesso, frell! Tutto ciò che mi resta è la speranza di farti soffrire almeno un decimo di quanto ho sofferto io. E credo d’essere sulla buona strada per riuscirci» disse, malignamente compiaciuto.
   Lo Spettro aveva ascoltato il monologo senza interrompere e rifletté qualche secondo prima di esprimersi. «Sei vittima della guerra, come ne abbiamo avute tante anche noi» disse. «Ma è stata la Sezione 31 a trasformarti in una macchina, contro il tuo volere. E sono stati i Pacificatori a usarti come arma da allora. Continueranno a sfruttarti anche dopo che mi avrai ucciso. Quindi chiediti chi sono i tuoi veri nemici. Siamo noi... oppure sono loro?».
   «Ah ah, non ci provare!» rise la cosa che un tempo era stata Nicrek. «I miei guai sono cominciati con te, e fu la tua nave a smembrarmi. Non mi fermerò finché non avrò fatto lo stesso a te e a tutti quelli che ti seguono. Solo allora mi sentirò così in pace con me stesso da potermi finalmente togliere la vita». Così dicendo estrasse il phaser e mirò al petto di Jack. Un colpo e il corsaro sarebbe caduto all’indietro, scomparendo nel metallo fuso.
   «Sai, credo di sapere perché non hai visto niente, quand’eri morto» mormorò lo Spettro.
   «Ma davvero? Dimmi!» fece l’Esecutore, sarcastico.
   «Perché l’Inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui» rispose lo Spettro, ricordando le parole scritte da Shakespeare quasi mille anni prima. Mai come allora gli erano parse così veritiere.
 
   Fu allora che si udì un acutissimo fischio, capace di risuonare alto e chiaro anche in mezzo al fragore della fonderia. Qualcosa di dorato scese in picchiata contro l’Esecutore, alla velocità di una meteora. Gli afferrò il phaser e lo strappò dall’alloggiamento, per poi ripartire verso l’alto quasi alla stessa velocità. Schizzò verso un camminamento che correva lungo la parete, molto più in alto. Solo quando l’ebbe raggiunto rallentò e aprì le ali, rivelandosi Goldie, il falcone cestiano che da un anno era la mascotte dei corsari. Jack ricordò che Jaylah, a cui la bestiola era fedelissima, l’aveva portata con sé nella base, così che avesse più spazio per volare. E com’era solita fare, Goldie si posò sul polso teso della mezza Andoriana, dopo averle consegnato il suo bottino.
   A quella vista, Jack restò come fulminato. Aveva visto con i suoi occhi la testa mozzata della sua amata. L’Esecutore gliela aveva mostrata, reggendola beffardamente per un’antenna, prima di gettarla ai suoi piedi. Eppure Jaylah era lì, viva e vegeta, con la testa ben attaccata sulle spalle. E accanto a lei vi era la Banshee, ovvero Soji. Il corsaro non osò credere che fosse vero, perché non avrebbe retto all’eventuale smentita. Attese semplicemente che qualcuno parlasse, svelando l’arcano.
   Come in risposta al suo desiderio, la mezza Andoriana prese la parola. «Stai bene, Jack?» chiese commossa.
   «Io... credevo che tu fossi morta» rispose l’Umano. «Ho visto la tua testa recisa, in mano a questo mostro».
   «Era un inganno. Forse un ologramma. Sono proprio Jaylah, e sono viva!» proclamò la mezza Andoriana.
   Jack sentì che era vero. Le sue energie, ridotte al lumicino dal lungo scontro, si ridestarono. D’un tratto aveva di nuovo una ragione per vivere e lottare.
   «L’Esecutore mi ha presa viva, perché Rangda voleva interrogarmi. Quindi mi ha rinchiusa sull’Hydra mentre ti tendeva questa trappola» proseguì Jaylah. «Per fortuna il nostro equipaggio mi ha rilevata e la Banshee ha abbordato la nave, liberandomi. Mi spiace che tu abbia creduto il peggio, ma ora siamo qui con te».
   Udito questo, lo Spettro si rivolse all’Esecutore. Non gli disse nulla, ma dalla postura del corpo appariva molto più minaccioso.
   «Sapevo che era meglio ucciderla... maledetti ordini!» mugugnò il Remano. «Se t’interessa saperlo, non c’era alcun ologramma in sala comando. I corpi dei corsari sono veri, li ho uccisi tutti. E la testa di Jaylah l’ho creata col replicatore della mia nave. Contavo sul fatto che la disperazione ti rendesse più facile da uccidere. Beh, pazienza. Ti ucciderò comunque e poi mi sbarazzerò anche di loro» promise.
   «Non sarà facile, ora che la tua tuta è danneggiata» notò lo Spettro.
   «Come la tua» ribatté l’Esecutore.
   «Già, ma la Banshee invece è in ottima forma. Scommettiamo che ti prende a calci in culo?» fece Jack, il ghigno intuibile dalla voce.
   «Può darsi» concesse Nicrek. «Ma se mi succede qualcosa, la mia nave vaporizzerà questa base a suon di siluri. Come vedete, io vinco in tutti i casi». Ciò detto si scagliò contro lo Spettro, con una furia perfino superiore a prima. Il corsaro reagì a sua volta con energia rinnovata. Si avvinghiarono e caddero di nuovo su un rullo mobile, scomparendo tra i macchinari sbuffanti e le colate di metallo incandescente.
 
   Ora che le tute erano compromesse, e quindi non potevano più sfasarsi, la lotta divenne ancora più pericolosa. I contendenti avevano infatti raggiunto le presse che davano forma ai lingotti, ancora caldi e malleabili dopo la fusione. Gli enormi macchinari si muovevano con impressionante rapidità e precisione. La loro forza d’urto era immane: se uno dei contendenti fosse rimasto schiacciato, la tuta corazzata non lo avrebbe salvato. Così Jack e Nicrek dovettero interrompere la lotta e concentrarsi sulla sopravvivenza. Scattarono tra le presse nel momento in cui si aprivano, scavalcando i lingotti incandescenti, per poi sostare negli interstizi mentre si richiudevano.
   Lo Spettro era più avanti e cercava di distanziare l’Esecutore, che però continuava a tallonarlo. Mentre l’Umano scattava per superare l’ultima pressa, il Remano gli si tuffò dietro e lo afferrò per una gamba, facendolo cadere in avanti. Jack fece appena in tempo a respingerlo con un calcio e rotolarsi in avanti, prima che la pressa lo schiacciasse.
   Ora che il massiccio blocco metallico li aveva divisi, lo Spettro corse in avanti, cercando di guadagnare un po’ di distanza. Ma si avvide di essere giunto in fondo al salone. I lingotti sagomati sparivano in una fessura nel muro, troppo sottile per passarci a sua volta. Di certo finivano in un deposito attiguo, dov’erano impilati; ma per lui era la fine della corsa. Girandosi, vide l’Esecutore che attraversava a sua volta la pressa nel momento in cui si riapriva.
   Trascinato verso la parete, Jack si guardò rapidamente attorno, in cerca di una via di fuga. Se fosse saltato giù, sarebbe precipitato per un lungo tratto prima di toccare il fondo del salone. Non sapeva di preciso quanto, perché laggiù non c’erano luci, tanto che il pavimento era immerso nell’oscurità. In ogni caso gli pareva un salto eccessivo. Osservando l’altro lato, però, notò una passerella di servizio che correva appena un metro più sotto. Vi balzò appena in tempo e Nicrek fece altrettanto. Il corsaro era ancora con le spalle al muro, ma almeno non si trovava più su un rullo scorrevole.
   «Sei mio!» disse l’Esecutore, avventandosi contro di lui. In quella però la Banshee piombò dall’alto, atterrandogli davanti e costringendolo a fermarsi. Lei e Jaylah avevano seguito lo scontro dalla passerella superiore, anticipando i due contendenti, in quanto non dovevano sostare tra una pressa e l’altra. Ora Soji era scesa per aiutare il corsaro, mentre Jaylah – che non aveva la solidità dell’androide né indossava la tuta – era rimasta sul camminamento.
   «Questo è per Coppelius» disse Soji, e aprì il fuoco. Con sua grande sorpresa, il raggio phaser attraversò l’Esecutore senza nuocergli. Solo allora l’androide si accorse che il sicario era riuscito a richiudere lo scomparto nel braccio, ripristinando lo sfasamento.
   Rapido come il pensiero, l’Esecutore attivò la vibro-lama e disarmò la Banshee. Stavolta non si limitò a privarla del phaser: le tranciò l’avambraccio. L’arto di Soji cadde sulla passerella e l’androide si accasciò con un grido strozzato. Anche se non era fatta di carne e sangue, aveva dei recettori elettronici del dolore. Quella mutilazione era il peggior danno che le capitava da tempo e la rendeva del tutto indifesa. Il Remano stava per finirla, ma dovette tornare a sfasarsi, perché Jaylah lo bersagliava dall’alto con un phaser. Ignorando i colpi che lo attraversavano, Nicrek oltrepassò l’androide accasciata e marciò contro Jack, deciso a chiudere i conti.
   Dato che i suoi attacchi erano inefficaci, Jaylah corse avanti e si sporse dalla passerella. «Prendi!» gridò, gettando il phaser a Jack, che aveva più probabilità di cogliere l’attimo in cui l’avversario si rendeva tangibile. Fu un tiro ben calibrato e il corsaro a sua volta scattò con precisione. Afferrò il phaser a mezz’aria e sparò al nemico, ma di nuovo il raggio lo attraversò senza danneggiarlo.
   «Fatica sprecata!» lo irrise l’Esecutore. «Ora mi prendo la tua testa». Ciò detto spiccò un gran balzo, che lo avrebbe portato addosso a Jack.
   Come al rallentatore, il corsaro vide l’avversario che gli piombava contro. Il primo impulso fu di colpirlo a mezz’aria, ma si trattenne. Lo aveva visto fare la stessa mossa contro Jaylah, a Coppelius, e sapeva che sarebbe tornato tangibile solo nell’istante in cui colpiva. Perciò fece un’altra cosa. Non ci fu tempo per ragionare: agì d’impulso e solo a cose fatte se ne rese conto.
   Anziché colpire direttamente il nemico, Jack balzò all’indietro, tanto da urtare il muro con la schiena. Nello stesso attimo sparò a piena potenza contro la passerella, nel punto in cui l’Esecutore sarebbe atterrato. Il metallo si disintegrò in un lampo accecante e il ponticello tremò. Con un ringhio animalesco di rabbia e sconfitta, il sicario volò attraverso lo squarcio apertosi sotto i suoi piedi e scomparve nel buio. Qualche secondo dopo ci fu un clangore metallico, segno che aveva colpito il pavimento. Poi il silenzio.
 
   Ripresosi in fretta, Jack corse da Soji e l’aiutò a rimettersi in piedi. «Ce la fai?» le chiese.
   «Io... credo di sì» disse l’androide, riuscendo a reggersi sulle gambe. Il dolore stava passando e non rischiava certo di morire dissanguata. Con l’arto superstite raccolse quello reciso, nella speranza che i tecnici glielo riattaccassero. In quella però si udirono dei suoni poco rassicuranti che provenivano dai macchinari.
   «Jack, la raffineria sta andando in pezzi!» avvertì Jaylah, che dalla sua posizione soprelevata aveva una visione migliore dell’insieme. I danni provocati dallo scontro si erano accumulati e ora i macchinari iniziavano a cedere. Uno degli enormi crogioli s’inclinò e cadde, inondando il pavimento di metallo fuso. Alcuni apparecchi andarono fuori tempo, facendo cadere i semilavorati, mentre le strutture di sostegno cigolavano sinistramente.
   «Via di qui» disse Jack. Lui e Soji percorsero la passerella per un lungo tratto, mentre i danni a cascata squassavano l’impianto, finché trovarono una scaletta a chiocciola che li portò al livello di Jaylah. Finalmente l’Umano e la mezza Andoriana si riabbracciarono.
   «Tesoro, credevo di averti persa» le mormorò Jack all’orecchio, stringendola forte.
   «Anch’io ero in pena per te» disse Jaylah, quasi singhiozzando. «Andiamocene da questo inferno».
   «Spettro a Stella, teletrasporto per tre, se potete» ordinò il corsaro, ricordando la minaccia dell’Esecutore riguardo a ciò che avrebbe fatto la sua nave, se lo avessero ucciso. Non ci fu risposta; evidentemente l’Hydra disturbava le comunicazioni. «Seguitemi, l’hangar è vicino» disse allora l’Umano. I tre si affrettarono lungo il camminamento, fino a raggiungere l’uscita. Dietro di loro la raffineria era ormai in preda alle esplosioni e ai crolli.
   «Goldie!» chiamò Jaylah, sostando brevemente sulla soglia.
   Il falcone cestiano, che stava volando in cerchio sopra al punto in cui era caduto l’Esecutore, la udì nonostante il frastuono. Forse era più che la voce, si disse lo Spettro; forse Jaylah riusciva a esercitare un richiamo telepatico. Fatto sta che il volatile rispose, volando a zig-zag per evitare i crolli. Le venne al polso e poi seguì il trio lungo i corridoi e le scale di sicurezza che portavano ai livelli superiori dell’impianto.
 
   Dopo una battaglia lunga e piena d’incertezze, la vittoria pareva arridere ai corsari. Privato degli scudi, uno dei moduli dell’Hydra era stato abbordato dalla Banshee, che aveva liberato Jaylah e se n’era andata con lei. Per un po’ il modulo era riuscito a tenersi fuori tiro, grazie alla maggior velocità, e ne aveva approfittato per rigenerare gli scudi. Ma ora la Stella e la sua nave appoggio lo avevano preso nel fuoco incrociato. Il vascello oblungo si scosse, perdendo plasma dalla gondola.
   «L’ho privato della cavitazione quantica, ora non può sfuggirci!» esultò Skal’nak.
   «Continua a far fuoco. Non fermarti finché non sarà distrutto!» ordinò Graush, vedendo l’occasione di prevalere.
   «Ha cambiato rotta» avvertì Siall. «Punta contro la nave appoggio». Lo inquadrò sullo schermo. Il vascello nemico sfrecciava contro la nave corsara, senza cercare di schivare i colpi.
   «Oh, no» si disse il Letheano, intuendo l’intenzione degli androidi. «Raggio traente, dobbiamo deviarlo! E dite ai nostri di levarsi, prima che...».
   Non riuscì nemmeno a finire la frase. Il modulo dell’Hydra entrò in collisione con la nave corsara e la tranciò in due. Continuò la sua folle corsa, squassato dalle esplosioni, finché una raffica di siluri della Stella lo disintegrò completamente. I due tronconi della nave corsara esplosero in successione, mischiando i loro detriti a quelli degli avversari.
   «Siamo rimasti soli» pensò Graush, sconfortato. In pochi giorni avevano perso tutte le loro navi appoggio. Per fortuna la Stella era ancora in buone condizioni; ma sarebbe stato difficile persuadere altre bande a unirsi a loro, dopo questa debacle. «Dov’è l’ultimo modulo dell’Hydra?» chiese il Letheano.
   «Dirige verso il pianeta» rispose Siall. «Ehi, ha abbassato gli scudi!».
   «Fuoco a volontà!» ordinò Graush, sorpreso da quest’azione, ma deciso ad approfittarne.
   I potenti disgregatori della Stella intaccarono lo scafo dell’Hydra. Nello stesso attimo anche l’Hydra aprì il fuoco, indirizzando una salva di siluri quantici contro il pianeta. Subito dopo partì a cavitazione, per sottrarsi ai colpi che altrimenti l’avrebbero distrutta.
   «È andata, Comandante» mugugnò Skal’nak. «Ma i siluri colpiranno la base tra venti secondi».
   «Localizzate i nostri e teletrasportateli!» ordinò Graush, guardando con apprensione lo scuro pianeta.
   I siluri azzurri calarono nell’atmosfera tenue ed esplosero in successione sulla superficie, scavando un cratere sempre più profondo. Di per sé erano abbastanza potenti da distruggere l’impianto minerario. Ma ciò che un tempo era stata una miniera, adesso ospitava anche la santabarbara dei corsari. I magazzini erano colmi di armamenti d’ogni genere: siluri transfasici, mine subspaziali, persino armi isolitiche illegali. Parte di queste scorte era stata imbarcata dai corsari nell’ultima visita, ma più della metà era ancora lì. Travolte dall’esplosione dei siluri quantici, detonarono simultaneamente.
   L’effetto fu devastante. Una porzione della crosta planetaria fu strappata, mettendo a nudo il mantello di carburi e grafite. Visto dallo spazio, sembrava che un immane gigante avesse morsicato il pianeta, asportandone un pezzo e lasciando un cratere dall’orlo slabbrato, ribollente di lava. Le rocce che non si erano vaporizzate finirono nello spazio: alcune sarebbero ricadute come meteore, le altre avrebbero formato un sistema di anelli.
   «Oh, Capitano...» mormorò Graush, fissando quella scena infernale.
   «Riposo, ciurma» disse una voce familiare alle sue spalle.
   Il Letheano si voltò, emozionato. Lo Spettro era sulla pedana di teletrasporto, assieme a Jaylah e a Soji; quest’ultima reggeva il suo braccio destro amputato. C’era anche Goldie, che tornò al suo trespolo come se nulla fosse accaduto. Il loro ritorno fu salutato dai corsari, anche se nel complesso il clima era mesto: la battaglia aveva avuto un costo troppo elevato per considerarla una vittoria. Graush riferì come si erano svolti i fatti, senza tacere alcun dettaglio. «Non so perché l’ultimo modulo dell’Hydra abbia abbassato gli scudi» concluse.
   «Lo so io» disse Siall, che negli ultimi minuti aveva esaminato le letture dei sensori. «L’Hydra ha eseguito un teletrasporto. Il segnale era in entrata, quindi ha imbarcato qualcuno».
   «L’Esecutore» disse Jack in tono asciutto. «Dunque è sopravvissuto». In fondo lo sapeva già; se lo sentiva nelle ossa che la loro sfida non era finita.
   «Almeno ha perso due terzi della sua nave!» disse Skal’nak. «Forse ce lo siamo levati di torno per un po’. Quel che gli resta non è abbastanza per darci battaglia».
   «Se l’Hydra è fedele al suo nome, non ci metterà molto a sostituire le parti mancanti» disse lo Spettro, corrucciato. «Dobbiamo approfittare della pausa per far perdere le nostre tracce».
   «E come la mettiamo con gli ostaggi a Deep Space 4?» chiese Soji, ricordando la sua missione iniziale.
   «È una grande stazione ed è in allerta. Senza le navi appoggio, non abbiamo la forza per espugnarla» sospirò Jack. «Dovrà pensarci la Flotta Stellare, sempre che la guerra glielo permetta».
   «Sono d’accordo, ma è meglio fare un’ultima ricognizione, nel caso che gli ostaggi siano trasferiti» consigliò Jaylah. «Se l’Esecutore è sopravvissuto, informerà senz’altro la stazione che ce la siamo cavata anche noi».
   «E va bene» acconsentì lo Spettro. «Occultiamoci e facciamo rotta per Deep Space 4». Stava per sedersi sulla poltrona di comando, ma decise di lasciar perdere. Era troppo stanco e scosso per sobbarcarsi un altro turno; voleva solo andare nel suo alloggio a riposarsi. Ed era certo che anche Jaylah fosse nelle stesse condizioni. «Graush, a te la plancia» ordinò. Dopo di che se ne andò con la compagna a braccetto. Anche Soji lasciò la plancia, diretta al laboratorio di cibernetica, dove i tecnici l’avrebbero rimessa in sesto.
 
   Il giorno dopo la Stella del Polo era di nuovo presso Deep Space 4. La nave occultata si tenne a una certa distanza dalla stazione, che pareva in fermento. Alcuni caccia la pattugliavano, come aspettandosi un attacco. C’era anche un vascello di classe Horus, la Rukh, che lasciò gli attracchi e si allontanò a metà impulso.
   «Rilevo quattrocento segni vitali, in gran parte Umani, ammassati nelle stive» disse Siall. «Devono essere gli ostaggi: i duecento del Dagon e altrettanti del Chemosh».
   «Li stanno trasferendo, come temevo» commentò Jaylah. «Seguiamoli per vedere dove li portano». In quella, tuttavia, l’astronave svanì dallo schermo. Non era balzata a cavitazione; si era semplicemente dissolta.
   «Rapporto sensori!» ordinò lo Spettro.
   «Non si sono occultati» disse Siall, in affanno. «Credo piuttosto che abbiano usato il propulsore cronografico per trasferirsi altrove. Se è così, non possiamo tracciarli».
   «Frell!» imprecò Soji, affiancandolo alla postazione sensori. I tecnici le avevano già riattaccato il braccio, con tale perizia che la saldatura era invisibile. «È così, li abbiamo persi» ammise di lì a poco. «I Pacificatori hanno voluto cautelarsi, nel caso li stessimo osservando».
   «Hai idea di dove potrebbero aver trasferito gli ostaggi?» chiese Jack.
   «No» rispose l’androide in un soffio. «Ma temo per le loro vite. Sono tutti testimoni... e l’Unione non può permettere che la verità venga a galla».
   Vi fu un lungo silenzio. Le implicazioni erano chiare: le vite dei prigionieri erano appese a un filo, i Pacificatori potevano sbarazzarsene in qualunque momento. Ma i corsari non avevano più una pista da seguire.
   «Allora è finita» sospirò infine Jack. «Andiamocene prima d’essere rilevati. Dobbiamo riorganizzarci».
   Mestamente, la Stella del Polo si allontanò dalla stazione. In plancia il morale era basso e gli ufficiali parlavano sottovoce. Vedendo che anche Jack e Jaylah erano afflitti, Soji gli si avvicinò. «Avete fatto tutto il possibile» disse per rincuorarli. «Ora però devo tornare a Nuovo Romulus, per fare rapporto alla Flotta Stellare. Potete darmi un passaggio, o altrimenti prestarmi una navetta?».
   «Andremo tutti a Nuovo Romulus» decise lo Spettro. «Se il pianeta è ancora minacciato dagli Imperiali, ci uniremo alla difesa. Ma prima torniamo a prendere Sutra».
 
   Dopo tre giorni passati a vorticare nello spazio interstellare, Sutra stava perdendo ogni speranza d’essere salvata. Aveva confidato che i corsari tornassero a prenderla, se non altro per interrogarla; ma se l’Esecutore li aveva distrutti, ecco che la sua punizione non avrebbe avuto fine. Essere isolata da ogni contatto e da ogni informazione, in compagnia solo dei propri cupi pensieri, era una tortura. Il suo cronometro interno l’avvertiva con esattezza del trascorrere del tempo, mentre un Organico ne avrebbe perso cognizione; ma ciò non le era di alcun conforto. In quanto androide, non rischiava di morire per la prolungata esposizione allo spazio. Ma questa resistenza, che un tempo la inorgogliva, si era trasformata nella sua condanna. Avrebbe preferito essere un’Organica e perire, piuttosto che vegliare nel buio fino alla consumazione dei secoli. «Che ironia: non posso vivere e non posso morire...» si disse.
   D’un tratto lo spazio si accese del bagliore di un’astronave. Per un attimo l’androide esultò, pensando che Jack fosse tornato a prenderla. Ma il suo entusiasmo si raffreddò nel riconoscere le linee aggressive dell’Hydra. Dunque era stato l’Esecutore a vincere... o no? Mentre ancora se lo chiedeva, fu teletrasportata a bordo.
   Materializzatasi riversa sulla pedana, Sutra si levò i capelli scompigliati dal volto, alzò gli occhi e lo vide. Imponente nella corazza cremisi, l’Esecutore incombeva su di lei. «Comoda?» le chiese nel suo tono gutturale.
   L’androide scattò subito in piedi, con le giunture un po’ dolenti per la brusca escursione termica. «Mi dispiace, ma posso spiegare. È tutta colpa di mia sorella Soji. È salita sulla Stella del Polo e mi ha smascherata...».
   «Dovevi sbarazzarti di lei» ribatté il sicario, glaciale.
   «Ci ho provato, ma erano tutti contro di me!» protestò Sutra. «Il nostro accordo non prevedeva una situazione del genere».
   «Non invocare il nostro accordo» ammonì l’Esecutore. «Per quanto ne so, potresti avermi tradito, dando informazioni ai corsari per salvarti la vita».
   «Ma non hai visto che mi hanno abbandonata nello spazio?!» s’indignò l’androide. «Se non fosse per te, sarei rimasta là fuori in eterno. Sporchi corsari... ma che ne è di loro?».
   «Li ho sorpresi su Sokar, infliggendogli danni considerevoli, ma lo Spettro e la Banshee l’hanno scampata» rivelò il sicario. «Ora mi dirai tutto ciò che hai appreso mentre eri sulla loro nave. La composizione dell’equipaggio, gli armamenti, i loro piani... voglio sapere ogni cosa. Se mi darai informazioni rilevanti, ti lascerò andare. Altrimenti resterai al mio servizio finché avrai saldato il tuo debito».
   «Come vuoi» deglutì Sutra, sapendo che non poteva contrattare con lui. Andarono nella sala degli interrogatori, dove l’androide descrisse per filo e per segno la sua esperienza sulla Stella del Polo, aggiungendovi le sue considerazioni. Infine restò in attesa, sperando che l’Esecutore la congedasse.
   «Hai detto molto, ma speravo di più» la gelò il Remano. «Non mi hai fornito dettagli sui loro sistemi tattici, né mi hai detto dove si trovano gli altri rifugi».
   «Perché non lo so! I corsari non si fidavano completamente di me, quindi hanno ristretto il mio accesso al computer» spiegò l’androide. «E siccome c’era sempre qualcuno a tenermi d’occhio, non ho potuto sabotare il sistema».
   «E io dovrei fidarmi della tua parola» notò l’Esecutore.
   «Che motivo avrei di mentire?!» sbottò Sutra, esasperata. «Senti, mi sono infiltrata tra loro e ti ho aiutato a decimarli, a rischio della mia vita. Poi ti ho riferito tutte le mie scoperte. La mia parte di accordo è rispettata, ora lasciami andare». Fece per abbandonare la sala degli interrogatori, ma il sicario tese il braccio a bloccarle il passo.
   «Poiché lo Spettro e la Banshee sono ancora vivi, si rende necessario un nuovo accordo» disse. «Tornerai a Coppelius, ma non ti muoverai da lì e resterai a mia disposizione se dovessi richiamarti. Una guarnigione di Pacificatori si stabilirà sul pianeta, per accertarsi che nessuno lo lasci. Le vostre vite saranno la nostra garanzia».
   «Questo è inaccettabile!» protestò l’androide. «Tutto ciò che ho fatto è stato per mantenere la nostra indipendenza!». I suoi occhi gialli si colmarono di rabbia, ma anche di paura.
   «Nessun sistema entro i confini dell’Unione può essere indipendente» ammonì l’Esecutore. «Tutti, presto o tardi, saranno annessi. Ringrazia che vi lascio un po’ di guinzaglio. Potrebbe andarvi molto peggio. Potreste essere coscritti in massa e costretti a servirci, come le macchine che siete».
   «Noi non siamo macchine!» ringhiò Sutra. «E tu di certo non sei il mio padrone». Così dicendo gli afferrò il casco, serrandolo tra le mani. I suoi occhi dorati si arrovesciarono all’indietro mentre concentrava le proprie facoltà telepatiche su di lui.
   «Cosa credi di fare?» chiese l’Esecutore, afferrandole le mani nel tentativo di staccarsele.
   «Sarai anche un cyborg, ma il tuo cervello è organico» disse l’androide. «Questo è un handicap, quando hai a che fare con me». Rafforzò la presa, sia fisica che mentale.
   Il sicario comprese che l’avversaria stava cercando di paralizzarlo con un attacco telepatico. Se fosse riuscita a renderlo incosciente avrebbe potuto procurarsi un’arma e ucciderlo, oppure fuggire. Non poteva permetterlo. Si concentrò a fondo, respingendo Sutra dalla sua mente. Al tempo stesso le serrò i polsi. L’androide era forte, ma il cyborg lo era ancora di più. Lentamente ma inesorabilmente la costrinse a staccare le mani dalle sue tempie.
   «Ma come fai?!» gemette Sutra.
   «Se ti riferisci alla mia resistenza mentale, sappi che ero un Remano. Alcuni di noi hanno facoltà telepatiche» rivelò Nicrek. «Non è nulla di eccezionale, ma è abbastanza per respingerti. E ora, mia cara, è tempo di lasciarci». Ciò detto scaraventò Sutra contro la parete di fondo.
   L’androide colpì la paratia e da lì cadde in piedi, ma non ebbe il tempo di contrattaccare. Il sicario aveva già estratto il phaser e le sparò in pieno petto, come aveva fatto a Coppelius. Il raggio la trapassò da parte a parte, intaccando la parete retrostante. Sutra cadde in ginocchio, ansimando mentre eseguiva l’auto-diagnostica. Capì subito che il danno era grave, tanto da impedirle di proseguire la lotta.
   «Perdonami. Posso ancora... esserti utile...» boccheggiò. «Dammi un’altra... occasione...».
   «Nessun perdono per i ribelli. Nessuna seconda occasione per i traditori» sentenziò l’Esecutore. «Sappi che, a causa della tua sconsideratezza, i tuoi fratelli e sorelle androidi subiranno un trattamento assai più duro da parte dei Pacificatori». Così dicendo il sicario la prese ancora di mira; stavolta puntava alla testa. «Volevi somigliare agli Organici, giusto? Bene, ora scoprirai cosa proviamo a morire» infierì.
   «Uccidimi pure... ma non ucciderai Jack» ansimò Sutra, fissandolo con sconfinato disprezzo. «È più furbo... di te. Sarà lui... ad ammazzarti!».
   «Se anche fosse, tu non lo saprai» disse l’Esecutore, e aprì il fuoco.
 
   «Ancora una volta siamo arrivati tardi» disse lo Spettro, contemplando i resti fracassati di Sutra. Li avevano trovati alla deriva nello spazio, non lontano dal luogo in cui l’androide era stata espulsa. Subito li avevano imbarcati, portandoli nel laboratorio di cibernetica per vedere se l’androide era recuperabile.
   «Il cervello positronico è stato colpito in pieno» disse Jaylah, che stava eseguendo la diagnostica. «Il 90% della sua massa è distrutto e non rilevo alcuna attività nel resto. Però mi risulta che siano già stati fatti dei recuperi d’emergenza. Dicono che basti una manciata di neuroni per ricostruire lo schema cerebrale di un androide Soong. Non è così?». Si rivolse a Soji, in cerca di conferma.
   «Corretto» annuì l’androide. «Io e le mie sorelle fummo costruite dal dottor Maddox che si era basato, in parte, sulla traccia neurale di Data. Ma in questo caso preferirei che non eseguiste la procedura».
   «Non vuoi riavere Sutra?» si meravigliò Jack. «Io personalmente la detesto per come ci ha venduti, ma credevo che tu tenessi ancora a lei».
   «È così» confermò Soji, con lo sguardo remoto. «Ma mia sorella, al pari di me, si considera una persona e non una macchina. Le macchine si possono riattivare, i computer resettare, i programmi riscrivere. Per le persone non è così. Lasciala riposare in pace» sussurrò, contemplando un’ultima volta il viso di Sutra, così simile al suo.
 
   L’Hydra viaggiava ad alta cavitazione verso il sistema solare, dove i due moduli distrutti sarebbero stati rimpiazzati per ripristinarne l’originale potenza. Ma la Presidente Rangda non era tanto paziente da aspettare il suo arrivo, così l’Esecutore le fece rapporto su un canale criptato. Prima di entrare nella sala di trasmissione, ordinò ai suoi androidi di non disturbarlo per alcun motivo.
   La Zakdorn si manifestò sotto forma di ologramma. Era assai più grande del normale, tanto da torreggiare sul pur alto sicario. Questi le s’inginocchiò prontamente innanzi. «Riverisco Vostra Eccellenza» disse. «I vostri ordini sono stati eseguiti. Ci siamo sbarazzati degli ostaggi e ho personalmente eliminato la traditrice Sutra».
   «Torna al sistema solare, così rimetteremo in sesto la tua nave» ordinò la Presidente. «Inoltre discuteremo delle tue strategie. Sai, sono molto delusa da te. Avevi grandi risorse a disposizione per sgominare i corsari; invece te li sei fatti scappare!» lo rampognò.
   «Li ho feriti» corresse il sicario. «Ho dimostrato che sono vulnerabili come chiunque altro. Quando i loro alleati lo sapranno li abbandoneranno, mentre i rivali vedranno l’opportunità di distruggerli. Lo Spettro era una leggenda, ma io l’ho fatto sanguinare, e ora le acque s’intorbideranno, attirando gli squali».
   «Tu devi fare ciò che ti dico, come te lo dico!» rimbeccò la Presidente. «Altrimenti ti rimpiazzo con un nuovo modello. I volontari non ci mancano... sapessi quanti Pacificatori a brandelli abbiamo, dopo due anni di guerra».
   «Non ne dubito» disse il Remano. «Ma quest’esperienza mi ha insegnato molto sullo Spettro, e anche sulla Banshee. Al prossimo scontro sarò assai più preparato».
   «La Banshee, già!» rimuginò Rangda. «Sembrava che fosse Jaylah, ma poi le hai viste assieme. Come lo spieghi?».
   «Ritengo che in origine Jaylah fosse la Banshee, ma quando l’ho catturata i corsari l’hanno rimpiazzata subito con qualcun’altra dei loro» rispose l’Esecutore. «Questo è il vero problema. Vede, Eccellenza, io posso anche uccidere Jack Wolff e Jaylah Chase, ma non lo Spettro e la Banshee. Loro ormai sono divenuti delle idee. Se gli interpreti originali muoiono, altri ne prenderanno il posto» avvertì.
   «Difficilmente i sostituti saranno altrettanto pericolosi» obiettò la Zakdorn. «Ma anche se lo fossero... la morte di quei due seccatori mi darà ugualmente una gran gioia. Quindi appena riavrai l’Hydra in sesto riprenderai a dargli la caccia. E non preoccuparti per il fatto che ormai lo Spettro e la Banshee siano delle idee. Anche le idee muoiono, sai? Succede quando sono sostituite da idee migliori. E il nostro modello di società è il migliore di tutti. Alla fine anche i ribelli lo ammetteranno» disse, sorridendo fiduciosa.
   «A quel giorno, Vostra Eccellenza» augurò il Remano. «Che giunga al più presto».
   «Diciotto mesi: tanto ci vorrà per schiacciare gli ultimi resti della Flotta Stellare» disse la dittatrice, e chiuse il canale.
 
   Dopo una settimana di viaggio ad alta curvatura, la Stella del Polo raggiunse Nuovo Romulus. Trovò un pianeta provato dalla battaglia e circondato da astronavi in riparazione nei cantieri spaziali, ma nel complesso salvo. I corsari inviarono il codice di riconoscimento e furono scortati nell’orbita. Con sollievo riconobbero la Keter tra i vascelli in riparazione. Di lì a poco Jack e Jaylah si trasferirono sulla Constellation, dove furono ricevuti dal Commodoro Lantora. Con loro venne anche Soji, che doveva fare rapporto.
   «Benvenuti a bordo. È un sollievo vederti, figliola!» disse lo Xindi, salutando calorosamente la mezza Andoriana. «Saluti anche a te, Jack Wolff» aggiunse in tono più formale. «E bentornata, agente Asha. La sua missione?».
   «È fallita, purtroppo» disse l’androide, mortificata. «Ho localizzato gli ostaggi terrestri presso Deep Space 4, ma non ho potuto salvarli, nonostante l’aiuto dei corsari. I Pacificatori li hanno trasferiti di nuovo, temendo che tornassimo coi rinforzi, e stavolta abbiamo perso la traccia».
   «Infausta notizia. Beh, sono certo che ha fatto il possibile; leggerò il suo rapporto quanto prima» disse Lantora. Dopo di che si rivolse di nuovo ai corsari. «Grazie comunque per l’aiuto. Da tempo non avevamo vostre notizie, salvo quella spazzatura del Federal News. È superfluo dire che non ho mai creduto che ci foste voi, dietro quei rapimenti. Vi avrei cercati, ma come avrete notato, abbiamo avuto altre gatte da pelare. L’attacco imperiale è stato duro; e purtroppo non è ancora finita».
   «Anche noi siamo decimati» disse Jack. «E abbiamo altre cattive notizie da riferire».
   «Ne parleremo nel mio ufficio» disse lo Xindi, facendogli strada.
   Il colloquio con il Commodoro fu lungo. I corsari riferirono le loro disavventure con l’Esecutore e Sutra, avvertendo che la perdita delle navi appoggio e del rifugio su Sokar comprometteva le loro capacità belliche. In cambio Lantora li informò su quanto accaduto con i Romulani Imperiali e i Borg.
   «Per adesso gli Imperiali si sono ritirati oltre la Nebulosa Azzurra, sotto l’autorità del Pretore Oren. Hanno interrotto l’avanzata per paura dei Borg, ma stanno fortificando i sistemi conquistati. Un contrattacco nelle attuali condizioni è impensabile. Temo che quei sistemi siano perduti» sospirò lo Xindi.
   Jack e Jaylah si scambiarono un’occhiata cupa. La perdita di gran parte dei mondi romulani poteva segnare il crollo del Fronte Orientale, in precedenza il più saldo dei due. Ormai restavano solo i Klingon a opporsi alla marea incalzante dei Pacificatori.
   «Avete più avuto notizie dei Borg?» chiese Soji.
   «No, ma se hanno assimilato l’Imperatrice, com’è praticamente certo, temo che li rivedremo presto» rispose il Commodoro. «Stiamo allestendo una task-force con il compito di approntare un piano difensivo».
   «In tal caso chiedo d’essere riassegnata a quella squadra» disse l’androide. «Ho già avuto a che fare coi Borg» aggiunse.
   «Lo so bene; lei è un’esperta della Collettività» riconobbe il Commodoro. «Pertanto la riassegno con decorrenza immediata. Scenda al più presto alla capitale, nel nostro presidio. È lì che stiamo radunando la task-force». Dopo di che si rivolse ai corsari: «Se avete dei danni, vi aiuteremo a ripararli. Potete passare qui qualche giorno, mentre informiamo la Flotta Stellare dell’Esecutore. Dato che la sua nave ha un mascheramento olografico, dovremo innalzare le misure di sicurezza e aggiornare i codici di riconoscimento. Non possiamo permettere che s’infiltri in una delle nostre basi, o peggio ancora nel Quartier Generale su Kronos».
   «Se lui ci dà la caccia, noi la daremo a lui» promise Jack. «E per favore, rendete noto a tutti che in realtà è il traditore Nicrek, trasformato in cyborg dopo la Battaglia di Elba II. Già questo gli leverà l’aura di mistero e d’invincibilità».
   «Consideralo fatto» promise Lantora.
 
   Di lì a poco Soji dovette scendere a terra, per assumere il nuovo incarico. Ciò significò dire addio ai corsari. Fu un saluto commosso, perché l’androide era molto benvoluta, pur avendo trascorso solo una decina di giorni con loro.
   «Arrivederci e grazie di tutto» disse Jack, stringendole la mano. «Senza il tuo aiuto non ce la saremmo cavata».
   «Grazie di avermi liberata dall’Hydra» aggiunse Jaylah, salutandola a sua volta. «Spero che ci rivedremo. Sarai sempre la benvenuta sulla Stella del Polo».
   «Arrivederci, allora» disse Soji, sorridendo per la prima volta da quando aveva perso sua sorella. «Mi terrò informata sulle vostre missioni. E grazie per avermi fatto indossare la tuta da Banshee! È stata la cosa più emozionante che abbia fatto da quando viaggiavo con Picard. Quindi vi saluterò a modo suo: au revoir, mes amis!». E scomparve nel bagliore azzurro del teletrasporto.
   Jack e Jaylah rimasero per qualche attimo in silenzio, poi lasciarono la sala. «Bene, la Stella è in riparazione, quindi abbiamo alcuni giorni per tirare il fiato» disse l’Umano. «Ti andrebbe di trascorrerli su Nuovo Romulus? Non ci sono mai stato, ma ho sentito dire che è un bel pianeta».
   «Vorresti che ci prendessimo una licenza?!» si stupì la mezza Andoriana, che dopo l’aggiornamento bellico a tutto pensava fuorché a quello.
   «Certo! Saremo anche in guerra, ma non dobbiamo scordarci di vivere, finché siamo vivi» argomentò lo Spettro. «Allora, che ne dici?».
   «Per me va bene, ma non saprei dove andare di preciso» ammise Jaylah, che non era mai stata un tipo “da vacanza”.
   «Lascia fare a me» propose il corsaro. «Troverò un posticino tranquillo, dove passare qualche giorno in santa pace».
   «Affare fatto» acconsentì la mezza Andoriana. «Basta che non sia una spiaggia; non le ho mai sopportate».
 
   Il giorno dopo, di buon mattino, Jack e Jaylah si teletrasportarono su Nuovo Romulus. Si trovarono sul ciglio di una strada che attraversava una densa foresta. In lontananza si ergevano delle montagne, tinte di azzurro dalla foschia. L’aria era fresca e frizzante, carica degli aromi del bosco.
   «Siamo nella foresta di Isha» spiegò l’Umano. «Quelli laggiù sono i monti Vastam, alle cui falde scorre il fiume Atlai. Sull’altro lato ci sono le rovine di Hwael e il cratere Paehhos».
   «Bello!» approvò la mezza Andoriana, guardandosi attorno. «Ma credevo che prima ci saremmo fermati in albergo».
   «I nostri bagagli sono già là» spiegò Jack. «Noi però dobbiamo andarci come si faceva una volta, prima che inventassero le astronavi e il teletrasporto. In fondo il gusto dell’esperienza sta nel viaggio» ammiccò.
   «Ah, e come ci arriviamo?» chiese Jaylah.
   «Lo vedrai. Spettro a Stella, energia!» ordinò l’Umano, premendosi il comunicatore.
   Teletrasportata dall’astronave, apparve la sua vecchia overbike, riparata dai danni subiti a Coppelius. Era così lucida che scintillava alla luce del doppio sole. C’erano anche delle giacche in pelle da motociclista e i caschi regolamentari. «Che ne dici?» fece Jack, sprizzando orgoglio da tutti i pori. «Viaggeremo per gran parte della giornata, in una delle regioni più belle del pianeta. Saremo solo tu, io e lei» disse, rimirando la sua adorata overbike.
   «Dico che è una splendida idea» sorrise Jaylah, prima che si baciassero con passione. Solo pochi giorni prima era infastidita dall’attenzione che il compagno riversava su quella moto. Ma dopo averci riflettuto, era lieta che volesse andarci con lei e con nessun’altra.
   Indossarono le giacche e si allacciarono i caschi. Poi Jack si mise alla guida e Jaylah si pose sul sedile del passeggero, aggrappandosi a lui.
   «Tieniti forte, dolcezza!» raccomandò il corsaro, facendo ruggire il motore. E sfrecciarono attraverso il paesaggio mozzafiato. 
 

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare 2592.322
Luogo: USS Keter, presso Nuovo Romulus
 
   Nella quiete del suo alloggio, il Capitano Hod riposava su una sedia reclinata, con gli occhi chiusi, ascoltando musica classica. Era un’abitudine che aveva preso dall’Ammiraglio Hortis, un tempo fiero nemico della Flotta Stellare, con cui tuttavia aveva collaborato durante la difficile missione nel Quadrante Delta. Hortis era morto nell’ultima battaglia, ma non prima di averle trasmesso il suo interesse musicale. Così eccola lì, ad ascoltare una famosa sinfonia dei Krenim.
   Il Capitano, tuttavia, non stava oziando. L’esperienza nella Sfera di Dyson l’aveva profondamente colpita; aver visto l’antica dimora dei Proto-Umanoidi la faceva meditare su quel popolo, che viveva tuttora nella galassia di Andromeda. I pensieri s’incastravano come tessere di un puzzle, formando poco alla volta un piano coerente. Forse esisteva un modo per risolvere la disputa sulla Terra... o persino l’intera Guerra Civile...
   Il cicalino dell’ingresso interruppe le sue riflessioni. L’Elaysiana si riscosse, strofinandosi gli occhi. Avrebbe tanto voluto ordinare al visitatore di rimandare all’indomani, ma la trattenne il pensiero che poteva trattarsi di una cosa importante.
   «Computer, pausa» ordinò con voce impastata. Si alzò dalla comoda sdraio e controllò di essere in ordine, per quanto possibile. Indossava la vestaglia... non il massimo, per un Capitano che riceve un subordinato. Ma non aveva il tempo di cambiarsi. Così drizzò la schiena e assunse l’aria più dignitosa che poteva. «Avanti» disse.
   Era Ladya. Il Capitano ne fu lieta: la dottoressa era sua amica e uno dei pochi confidenti che avesse a bordo. «Scusi se la disturbo a quest’ora, Capitano» esordì la Vidiiana.
   «Non c’è problema, venga avanti» l’accolse Hod. «Posso offrirle qualcosa?» chiese, invitandola a sedersi.
   «Grazie, ma preferirei di no» disse Ladya, mantenendo un tono formale. Non si sedette nemmeno. Restò dritta come un palo al centro della stanza, con un d-pad in mano.
   «Allora, che succede?» chiese l’Elaysiana, presagendo guai.
   «Capitano, come sa in questi giorni ho esaminato centinaia di rifugiati che vivevano nella Sfera, in maggioranza Umani...» disse la Vidiiana.
   «Sì, e mi aveva detto che non c’erano gravi problemi» ricordò Hod. «Devo dedurre che ora ne ha trovati?».
   «Ecco... è una faccenda molto particolare» disse Ladya, dondolando il peso da un piede all’altro. «C’è di mezzo la riservatezza tra medico e pazienti, quindi non ho potuto parlargliene prima d’accertarmi della situazione».
   «Ladya, ora comincia a spaventarmi. Cos’hanno che non va quelle persone?» chiese il Capitano.
   «Non sono malate» la rassicurò subito la dottoressa. «Non hanno disfunzioni genetiche. Tuttavia molte coppie hanno lamentato un problema. Loro... non riescono a procreare».
   «Oh». Il Capitano fu presa in contropiede. «Suppongo che abbia individuato la causa. Aspetti... c’entrano le radiazioni?» chiese, ricordando che solo gli statiti avevano protetto quei poveretti dalla gigante rossa. Forse erano insufficienti, a dispetto delle rassicurazioni di Arvid.
   «Così pensavo, ma dopo accurati esami ho scartato quest’ipotesi» disse Ladya.
   La dottoressa sembrava decisa a parlare per gradi, dandole ogni volta il tempo di assorbire la notizia. Anziché confortare il Capitano, questo atteggiamento la preoccupò ancor più. «E allora qual è il problema?» incalzò.
   «Le loro gonadi sono necrotiche, Capitano; non riescono a produrre i gameti. Questo sia negli uomini che nelle donne» rivelò la Vidiiana. «Ho passato giorni a cercarne la causa. Il mistero ha cominciato a dissiparsi quando ho notato una cosa: la sterilità colpisce i reduci dei Centri di Rieducazione».
   «Sta dicendo...» mormorò il Capitano, sentendo un brivido lungo la schiena.
   «Che è l’Unione, certo. Tutti gli Umani che passano dai Centri sono sterilizzati, a loro insaputa» confermò Ladya.
   «E i membri di altre specie?».
   «Loro no. Nemmeno quelli che sono internati per gravi reati» rispose la dottoressa. «Capisce? Mentre gli alieni non subiscono alcuna menomazione, gli Umani sono sterilizzati in massa».
   «Ma perché?!» gemette l’Elaysiana, pur intuendo l’orribile spiegazione.
   «Perché ci sono due modi di compiere un genocidio» rispose la Vidiiana. «Il primo consiste nello sterminare tutti i membri di un certo gruppo etnico. Quest’azione è la più eclatante e quindi genera resistenza. L’altro sistema consiste nell’impedire a quell’etnia di riprodursi. Ovviamente è molto più lento, ma proprio per questo più difficile da riconoscere; ed è ancora più arduo individuare i colpevoli. Per adesso non c’è una consapevolezza diffusa del problema, neanche tra gli Umani. Quando diventerà evidente, l’Unione potrà fornire spiegazioni alternative. Invocheranno derive genetiche, squilibri ormonali o chissà che altro. S’impegneranno a risolvere il problema, faranno analisi, organizzeranno convegni... e non caveranno un ragno dal buco». Ladya fece una risata cattiva, poi riprese in tono più basso e dolente.
   «Nel frattempo la specie umana invecchierà. Le morti non saranno più compensate dalle nascite e senza ricambio generazionale si spegneranno la creatività, l’inventiva, la fantasia. Gli adulti senza figli non si preoccuperanno più del futuro, di ciò che lasciano ai posteri. Conterà solo ciò che il singolo individuo può arraffare nel presente. E così sarà la fine. Posso dirglielo già da ora, Capitano. Se non troviamo il rimedio finché ci sono ancora giovani coppie in grado di procreare, la specie umana è condannata all’estinzione».
 
 
FINE
 
 
 

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