Una rosa piena di spine

di lucille94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 ***
Capitolo 6: *** Cap. 5 ***
Capitolo 7: *** Cap. 6 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Era sera ormai; una sera romana placida di silenzio sotto un cielo sereno, d'un blu uniforme e scuro quanto bastava a far rifulgere le stelle in tutto il loro splendore. Sotto quel cielo la città dormiva; poche fiaccole erano affisse ai lati delle strade principali, tracciando costellazioni terrene da contrapporre a quelle celesti, quasi che la città di quaggiù volesse dialogare con quella di Lassù.

Eppure, in tanta pace, c'era chi faticava a prendere sonno e indugiava a spiare da una finestra aperta il profilo dei tetti che a malapena si intravedeva nell'oscurità. Era Clarice ed era sola. Aggrappata al davanzale di pietra, stretta tra gli stipiti, minuta e assorta in pensieri nuovi, rivedeva davanti a sé il volto di quella donna che aveva tanto insistito per scambiare qualche parola con lei la mattina di quel medesimo giorno.

Era una donna di quarant'anni portati con dignità quasi sfacciata. Sfacciata, sì, perché a discapito delle belle vesti e degli ornamenti ella era di nascita popolana e l'accento la rivelava per ciò che era: una fiorentina benestante. Lucrezia si chiamava, e veniva giusto da Firenze per conto del marito a svolgere certi affari su cui non era stata prodiga di dettagli. Era educata e dotata di un senso innato alla delicatezza del parlare.

Sua madre Maddalena aveva risposto gentilmente alla sconosciuta, benché desse l'impressione di sapere bene chi fosse. E, una volta superatala alla volta di San Pietro, le aveva detto: "Clarice mia, tieniti buona quella donna se vuoi campare a Roma".

"A Roma, madre? Non è ella fiorentina?"

"Per quanto sia fiorentina, le sue mani arrivano fino a qui. Suo fratello è Giovanni Tornabuoni, direttore del banco Medici."

"Medici, dite?" aveva ripetuto, trasalendo, per poi aggiungere, quasi a correggere il primo impulso: "Il banco del papa?"

"Precisamente. Perciò ti dico di tenertela buona: tuo zio potrebbe avere bisogno di prestiti nell'avvenire. E se non lui, forse Rinaldo quando diventerà cardinale."

Ora, alla finestra, il volto accarezzato dalla brezza, Clarice ripensava a quella donna perché le era parso che la guardasse in modo ambiguo, quasi volesse farle un ritratto. Era rabbrividita sotto quegli occhi scuri e attenti e aveva chinato il capo in segno di onestà, come le era stato insegnato fin da bambina. Era una Medici, dopotutto, e a quel nome le era sovvenuto un ricordo tutto suo, segreto, anzi segretissimo.

"L'avevate già incontrata?"

In quella sola frase, proferita quella mattina come il guaito di un cucciolo, Clarice aveva cercato la conferma di un sospetto di cui nemmeno lei aveva piena coscienza allora. Sua madre aveva abbozzato un sorriso e, senza smettere di camminare, aveva risposto: "Così potrebbe dirsi, sebbene non l'avessi mai vista".

Quella giornata, insomma, era stata colma di mistero. Un mistero cominciato prima ancora di quell'incontro, ora che ci pensava meglio: il giovedì non era solita andare a messa a San Pietro. Quando sua madre l'aveva esortata a seguirla, aveva colto una nota di eccitazione nella sua voce. E mentre camminavano fianco a fianco per le strade della città, con la scorta al seguito, erano state entrambe insolitamente silenziose. D'un tratto, il sospetto che era rimasto latente per tutta la giornata le balenò davanti: l'incontro era stato concordato. Non era perciò frutto di un caso che la matrona de Medici si trovasse sul loro cammino.

Lasciò la finestra, la sigillò bene per non patire freddo durante la notte e si rimboccò il collo della camicia da notte. Aveva come il presentimento che presto avrebbe rivisto la fiorentina; faticò ad addormentarsi e, quando finalmente il sonno vinse le preoccupazioni, queste le lasciarono in viso un'espressione corrucciata. I capelli rossi, distesi sul cuscino, le facevano da aureola increspata in piccole onde.

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Capitolo 2
*** Cap. 1 ***


Era domenica e, come da consuetudine durante la Quaresima, pretesto di lauti banchetti. Nel giorno della festa si abbandonava il rigore penitenziale e si offriva ogni ben di Dio per la vista e il palato dei gran signori e dei loro ospiti. In quella, di pomeriggio, capitò di vedere entrare nel salone di Palazzo Orsini Lucrezia de' Medici accompagnata da colui che, in forza della somiglianza, doveva essere suo fratello Giovanni; li seguiva un ecclesiastico, Gentile Becchi, intimo della famiglia. Lucrezia preferiva solitamente usare il nome da nubile, Tornabuoni, poiché la sua famiglia d'origine godeva in patria di una fama più nobile di quella del coniuge, benché questi fosse meglio fornito di denaro. A Roma, però, il nome dei Medici valeva qualcosa di più e la diplomazia insegna a far uso cauto e accorto di ogni strumento a propria disposizione. Lucrezia non era di certo una sprovveduta.

Lucrezia era prossima a compiere i quarantuno anni; tuttavia, era una donna di bella presenza, con poche rughe ben accomodate sul viso affilato, con un naso diritto e un poco lungo e due occhi neri penetranti. Anche i capelli erano neri, nonostante mostrassero ormai di tendere piuttosto al grigio. I segni dell'età, lungi dall'essere causa di rammarico, erano un motivo di vanto per lei, la prova visibile di impegno attivo e di carattere forte. Nella sua espressione furba si leggeva, di quando in quando, una nota di biasimo per le donne romane, quelle nobildonne dedite alle arti femminili e refrattarie agli affari, al denaro e alla politica. In fondo era giunta nella città papale proprio per dare la più fulgida dimostrazione del proprio acume, approfittando forse delle precarie condizioni di salute del marito Piero.

Non impiegò troppo tempo, l'astuta Lucrezia, a individuare il padrone di casa. Latino indossava la porpora, ma si distingueva soprattutto per l'altezza: era questa che lo faceva svettare tra i convitati, di cui tanti erano chierici tonsurati come lui. Il suo viso aveva un'espressione volitiva che si sarebbe adattata più a un condottiero che a un uomo di Chiesa, ma ciò non stupiva dato che la famiglia Orsini aveva dato alla luce più condottieri e militari che papi; dei primi, il numero sarebbe stato difficilmente calcolabile, mentre i secondi erano due, Celestino III e Nicolò III. Lo stesso Latino era salito in alto nella gerarchia ecclesiastica: prima arcivescovo di Urbino, quindi legato papale presso il re di Napoli, poi arciprete della Basilica di San Giovanni in Laterano. Non erano dettagli da tralasciare.

Giunta davanti al cardinale, Lucrezia si inchinò dignitosamente. «Vostra Eminenza mi onora accogliendomi nella sua casa».

«Madonna Medici, voi mi onorate della vostra visita. Messer Piero è ancora gravemente indisposto?» rispose Latino Orsini, porgendole la mano affinché baciasse l'anello cardinalizio. In quel semplice gesto non si scorse sfumatura di arroganza o supponenza, ma piuttosto di benevolenza. Lucrezia se ne accorse, sorrise un poco e: «Dall'ultima sua lettera ho inteso che le sue condizioni sono migliorate; i dolori, per lo meno, lo hanno lasciato».

Il cardinale augurò che ciò fosse preludio per una guarigione, conscio però che la gotta non è solita lasciare la presa dalla carne che ha cominciato a macerare. La donna annuì e sussurrò un'invocazione a San Gottardo, quindi, rialzando gli occhi, si accorse di una persona che stava proprio allora sopraggiungendo da una stanza attigua.

«Abbiamo sentito dalla nostra cara sorella Maddalena», la anticipò il cardinale Latino, «che vi siete incontrate pochi giorni sono dalle parti di San Pietro.»

«Vi ha detto bene vostra sorella, Eminenza. È un piacere rivederla così presto», replicò con un cenno di saluto del capo. Quindi riprese, rivolta alla nobildonna che ormai li aveva raggiunti: «Un piacere sincero, come intendete voi».

«Non sarà un piacere tanto grande quanto il mio nell'avervi qui. Ecco Clarice che viene.»

Clarice seguiva la madre; comparve nell'esatto momento in cui Maddalena la introduceva nella conversazione e, colta alla sprovvista, si affrettò a inchinarsi e a rispondere: «Madonna, benvenuta».

Di nuovo quello sguardo indagatore, uno sguardo che riconosceva, quelle labbra socchiuse come a preludere un discorso lungo e puntiglioso. Questa volta Clarice si aspettava davvero di sentirsi descrivere da capo a piedi come una statua di marmo da trasporre in dipinto; ma Lucrezia tacque e, dopo l'occhiata, si sciolse in un complimento: «Siete molto graziosa, madonna, in questo abito stretto sui fianchi. Permettetemi di dirvi che rende molto più giustizia alla vostra bellezza di quel lenzuolo che indossavate giovedì mattina».

«Vi ringrazio, madonna.»

«A Firenze abbiamo altre fogge d'abito: le donzelle nubili devono pur mostrare la propria bella sembianza prima che il tempo le sciupi. Lasciamo che la giovinezza abbia le proprie gioie, poiché da vecchi non possiamo far altro che lamentarci delle occasioni perdute», riprese Lucrezia, scambiando sguardi di assenso con il cardinale e con la matrona. Clarice ascoltò l'encomio con vergognosa modestia e sorrise un poco vedendo la fiorentina ammiccarle benignamente.

«E i vostri capelli hanno una tinta così accesa da rassomigliare un fuoco, madonna Clarice. Donde vi viene nota tanto bizzarra?» domandò; nel farlo si rivolse a Latino Orsini, che colse l'opportunità di dar sfoggio alla propria casata: «Si può dire che sia un tratto distintivo della famiglia. Sapete, mia nipote è Orsini due volte poiché suo padre, messer Jacopo, è degli Orsini di Monterotondo, mentre noialtri siamo degli Orsini di Bracciano».

«E ha fratelli, codesta fanciulla?»

«Ne ha: Rinaldo è suddiacono; Orso, il piccolo della casa, attende ora le sue lezioni con la spada. Sarà lui a succedere a messer Jacopo. Ha poi una sorella maggiore di nome Aurante, pronta a maritarsi con Gian Ludovico Pio di Savoia. E voi, madonna, so che avete più figli di quanti n'abbia io», rispose Maddalena. Lucrezia assentì, gonfiandosi di orgoglio: «Ne ho cinque, ringraziando il Cielo. Tre femmine e due maschi, di cui il minore ritengo abbia l'età di vostra figlia. A Firenze,» aggiunse, «la famiglia Orsini gode di un'ottima fama, a differenza di quei Colonna così violenti e poco eleganti».

Prevedibilmente, Latino e Maddalena si compiacquero del complimento; Clarice, invece, si morse il labbro e inspirò, assumendo un'espressione che trepidava di incertezza. Ciò non sfuggì a Lucrezia, che le si rivolse di nuovo. «Madonna, vorreste raccontare a una vecchia donna forestiera la grandezza della vostra famiglia? Sapete, Lorenzo e Giuliano si appassionano di cavalleria e, quando sapranno che ho avuto il privilegio di parlare con voi, vorranno certamente conoscere meglio i magnanimi Orsini».

La fanciulla scambiò un rapido sguardo con la madre e si schiarì la voce. «Come Sua Eminenza il cardinale mio zio vi ha detto, signora, i miei genitori sono ambedue Orsini. Mio padre è Iacopo Orsini da Monterotondo e possiede la metà dei possedimenti di quel paese; l'altra parte è di mio zio Lorenzo. Inoltre possiede tre castelli, dove i miei fratelli e io siamo soliti passare l'estate. Vedete, l'estate è molto calda qui a Roma.»

«Anche a Firenze, madonna, difatti mio marito ama trascorrere la stagione a Cafaggiolo, dove abbiamo un casale e molto terreno. E da parte di vostra madre?»

Clarice annuì e riprese: «Oh, i miei parenti materni sono molto noti e sono certa che i vostri figli li conoscano: Sua Eminenza è uomo famoso per la sua amicizia con il Santo Padre, e i miei zii messer Napoleone e messer Roberto sono grandi condottieri. Sono tra l'altro cugini di secondo grado di mio padre».

«L'unione che regna in casa vostra è invidiabile, madonna», concluse Lucrezia, ringraziandola. «E voi dovete essere molto devota ai vostri parenti.»

«Lo sono, madonna.»

«E sarete una buona moglie, quando verrà il tempo opportuno», riprese l'altra, sorridendole di nuovo. «Immagino che una fanciulla della vostra grazia, della vostra gentilezza e bellezza sia già promessa a un fortunato sposo.»

«In verità,» si intromise un po' bruscamente Maddalena Orsini, «Clarice nostra è ancora tenerella per un fidanzamento. Se ne riparlerà tra un anno buono, anche se non vi nascondo che ci guardiamo attorno per il migliore partito di Roma.»

Lucrezia fece segno di concordare, ma quando parlò si espresse in modo piuttosto ambiguo. «Le mie figliole le ho maritate tutte giovanissime e tutte han dato ottime prove di virtù; m'hanno resa molto orgogliosa, sapete, e credo che il medesimo sarà per voi».

Le occhiate che volavano sovente tra le due madri davano a Clarice una certa soggezione e, combinate con un particolare ricordo che rimontava all'anno precedente, la giovinetta non poteva che maturare sospetti sempre più impellenti, sicché le sue mani non stavano più a bada, ma si torturavano a vicenda, torcendo gli anelli, i bracciali, senza posa.

Perché non riusciva più a cavarsi dalla testa quei frammenti confusi di conversazione? Quelle parole, spiccate da un simpatico accento fiorentino, sussurrate affinché la basilica non rimbombasse tradendo la loro presenza agli ultimi fedeli ancora raccolti in preghiera chi qua, chi là?

Più che un timore, il suo era un presentimento: un pensiero che, più i minuti passavano, più prendeva corpo nella figura dell'ospite straniera capitata come per caso nella città del papa. Perché se Clarice era quasi del tutto sicura che sua madre non sapesse nulla – altrimenti l'avrebbe già tempestata di domande fino alla follia –, l'altra evidentemente sapeva qualcosa, se non proprio tutto. Non aveva di che preoccuparsi, ché nulla di biasimevole era intercorso in quell'occasione; pure, non era una coincidenza se, giusto giusto a un anno di distanza dalla Santa Pasqua del 1466, Lucrezia Tornabuoni si scomodava a venire di persona a Roma, benché le apparenze potessero in qualche modo giustificarla: il marito infermo, il fratello direttore di banco, i Medici banchieri del papa...

«Clarice, non rispondi?»

La voce bonaria dello zio la riscosse dai mille ragionamenti in cui la sua mente si era ingarbugliata. Rivolti gli occhi grandi di timidezza alla donna fiorentina, Clarice balbettò se, per cortesia, potesse ripetere la domanda. Lucrezia non se ne fece un cruccio e: «Nessuna domanda, madonna, solo un saluto e un augurio di rivedervi presto. Sarò a Roma ancora per qualche giorno e importanti questioni di curia mi potrebbero richiedere altri colloqui con vostro zio. Se Dio non lo permetterà, allora vi auguro una Pasqua autentica dopo una Quaresima di santa penitenza. A Dio, madonna Clarice; a Dio, madonna Orsini; e voi, Eminenza, vi prego di benedirmi».

Latino tracciò un'ampia croce con la mano destra borbottando una preghiera; ma Clarice, con i suoi grandi occhi verdi ancora fissi sull'ospite, dubitava se avesse o meno piacere di vederla un'altra sola volta. Forse, per placare l'animo improvvisamente turbato, sarebbe stato molto meglio rifugiarsi dietro la piccola bugia di un malessere di stagione, ed evitare di incontrarla più.

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Capitolo 3
*** Cap. 2 ***


Il capo non ha biondo, perché non se n'ha di qua: pendono i suo capegli in rosso, e n'ha assai. La faccia del viso pende un po' tondetta, ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi pare un po' sotiletta, o, a dir meglio, gentiletta. Il petto non potemo vedere, perché usano ire tutte turate; ma mostra di buona qualità. Va col capo non ardita come le nostre, ma pare lo porti un po' innanzi: e questo mi stimo proceda perché si vergogniava; ché in lei non vego segnio alcuno, se non per lo star vergogniosa. La mano ha lunga e isvelta. E tutto racolto, giudichiamo la fanciulla assai più che comunale; ma non da comparalla alla Maria, Lucrezia e Bianca. Lorenzo lui medesimo l'ha vista; e quando esso se ne contenti, tu lo potrai intendere.

Piero, giunto a quel punto, si arrestò. Aveva già letto tante volte quella descrizione per figurarsi la fanciulla, pure pensava che, se il figlio l'aveva già vista, tanto sarebbe bastato a farlo propendere per un assenso, qualora Lorenzo fosse stato del parere. Passò poi alla seconda lettera, quella scritta di propria mano dalla moglie, quella Lucretia tua che si firmava in calce con la confidenza di un'amica più che di una moglie. L'altra lettera, quella che aveva appena cessato di leggere, l'aveva scritta Giovanni e aveva un tono serio e analitico. La scrittura di Lucrezia, invece, risuonava della sua voce vera. Diceva: Chome ti dicho per letera di mano di Giovanni, noi abiano visto la fanciulla, con buono modo, e sanza dimostratione; e quando la cosa non n'abia avere effetto, non ci si meterà nulla del tuo, ché nullo ragionamento s'è avuto. La fanciulla ha dua buone parti, ch'è grande e biancha: non ha uno bello viso, né rusticho; ha buona persona. Lorenzo l'ha veduta: intendi da lui se la li piace; ché ci è tante altre parti, che s'ella sodisfaccessi a lui, ci potremo contentare. El nome suo è Crarice. (1)

Una volta di più era del medesimo parere di lei. Era qualcosa che capitava sovente nel loro matrimonio, un matrimonio ben riuscito a tutti gli effetti: prolifico e pacifico, quanto si potesse onestamente desiderare. Si rivolvette, perciò, a mandare a chiamare il figlio, tanto più che le due lettere gli si offrivano, con due frasi rivelatrici, l'occasione di prenderlo un po' in giro.

Lorenzo si fece annunciare dal rumore dei propri passi che, agili e scattanti, percorrevano il corridoio con una certa impazienza. Non bussò entrando nello studiolo del padre. Aveva un gran sorriso in volto e gli occhi gli brillavano ancora per il divertimento; aveva quel modo di fare sbarazzino dei giovanotti che sanno perfettamente chi sono e, anzi, eccedono di qualche misura nella stima di sé.

«Di nuovo a cavallo, tu e tuo fratello?» brontolò Piero, lasciandosi comodamente scivolare contro lo schienale della sedia.

«Di nuovo a cavallo, padre», rispose puntualmente Lorenzo, ravviandosi la zazzera di capelli neri che gli cascava sulla fronte. Aveva lo stesso sguardo di sua madre: occhi neri e pronti a saettare da un oggetto all'altro seguendo la rapida corsa di un intelletto acutissimo e, soprattutto, dotto.

«Bada che Giovanni non si rompa il collo», disse Piero, quasi burbero. Lorenzo sapeva leggere bene i modi di suo padre, perciò non si preoccupò e continuò a scherzare: «Del mio collo non v'importa nulla, padre?»

Uno scambio di sguardi fulmineo e Piero raggelò il figliolo con una battuta degna della provocazione: «Importerà a te, quando t'avrò detto le nuove di tua madre da Roma».

«Ha già scritto?» sobbalzò il ragazzo, perdendo in un attimo tutta la spavalderia. Piero tese le labbra e afferrò le due lettere, una per mano; se le distese davanti e, guardandole, osservò: «Non una, ma due lettere. Il medesimo giorno, per giunta! Tua madre non tace nemmeno quando si tratta di scrivere».

Lorenzo rimase ancor più perplesso; era sul punto di insistere con le domande, quando suo padre riprese a dirgli: «Ho come l'impressione che tu e lei foste in combutta per beffarvi di me».

«Beffarci di voi? Non v'intendo...»

«Tu m'intendi bene, bischero d'un garzone che sei: Clarice, figliola di Jacopo Orsini», continuò Piero, usando un tono burbero che non gli si addiceva. Lorenzo sbiancò e rispose subito a propria difesa: «Non so cosa vi abbia detto la mamma, ma...».

«Non m'ha detto niente, ecco!»

Lorenzo lasciò andare un lungo sospiro: «Forse perché non v'è molto da dire».

«Questo è da decidersi dopo, ora rispondi schietto: l'hai mai veduta, questa fanciulla?»

«Sì, l'ho veduta. Alla messa solenne di Pasqua in San Giovanni. Era poco più d'una bambina, ma mi piacque perché aveva i capelli rossi, perciò m'arrischiai a parlarle.»

«E che le dicesti?»

«Nulla di che, non rammento. Aveva perduto un guanto, credo, o altro...»

«E come ti parve?»

Lorenzo fece spallucce. «Graziosa, certo era graziosa, ma ve l'ho detto: era una bambina», poi, interrottosi bruscamente, riprese: «Ma perché me lo domandate?»

Piero avrebbe già smesso i panni dell'offeso, giacché non lo era, e avrebbe impugnato il pennino per vergare una risposta affermativa alle lettere della moglie: che lui la ricordasse era un segno evidente di interesse, benché un po' distante nel tempo, e il fatto di averla definita graziosa apriva alla speranza che potesse piacergli. Sapeva che per catturare l'attenzione del suo rampollo era necessario più di un bel visino: Lorenzo aveva conosciuto molte giovani donne, per quanto fosse lui stesso parecchio giovane, e sicuramente ne aveva dimenticata la maggior parte. La memoria della fanciulla romana, così vivida, era un buon inizio.

«Tua madre l'ha incontrata: dice che s'è fatta ormai una graziosa donnina. I capelli li ha sempre rossi e anche le forme sono buone.»

«Me ne compiaccio», intervenne Lorenzo, sempre più sospettoso e guardingo. Piero lo scrutò un momento: «Io credo che tu abbia un buon intuito per i migliori partiti, figliolo. Dunque, veniamo al sodo: se tra un paio d'anni la togliessi in moglie, ti garberebbe?»

Vedendolo spalancare gli occhi, Piero fu pronto a rincuorarlo: «Tua madre dice che si procederà solo con il tuo favore, perciò se non ti pare cosa da farsi, non si farà».

«Un paio d'anni...? Ma... Non avrò ancora vent'anni, padre», obiettò il ragazzo con tono di capriccio. «Voi vi siete ammogliato a ventotto!»

Stavolta il vecchio Medici sospirò, poi disse: «La mia salute è debole, la tua invece è nel pieno vigore: bisogna approfittare di questo, Lorenzo, per quanto possa parere un sacrificio».

Braccato da un'osservazione saggia come quella, il giovane tentennò, quindi, come aggrappandosi a un pretesto, ribatté: «Una sposa romana, per giunta! Voi mi farete rompere la tradizione; parleranno di noi, in città, diranno che ci siamo gonfiati a chiedere in sposa una Orsini!»

«Lo faranno di certo, mi allarmerei qualora non lo facessero: dovranno ben sfogare l'invidia. Tu non allarmarti per causa loro, perché i tuoi nemici non hanno bisogno di nuovi pretesti per odiarti visceralmente. Quanto al tempo», continuò, «c'è dell'altro: non potremo tenere nascosto a lungo un simile fidanzamento. Saranno pochi mesi prima che vi sposiate, una volta raggiunto l'accordo sulla dote. Intendi che se la notizia si diffondesse troppo presto, ci rimetteremmo non solo il matrimonio, ma la nostra stessa reputazione».

Lorenzo scosse la testa e intrecciò le dita, per nulla disposto a cedere così presto. «Penseranno che siamo deboli e che cerchiamo l'appoggio di potenti forestieri per irrobustirci. Potrebbero congiurare di nuovo contro di voi, tentare di uccidervi! No, padre: è bene che io aspetti e sposi una fiorentina, così gli animi si placheranno e non daremo adito alle voci che ci accusano di essere dei tiranni».

«Credi che sposando una fiorentina porterai pace alla città? La tradizione ha secoli di storia, e nondimeno i fiorentini non hanno cessato mai di ammazzarsi. È vero, siamo deboli; anzi, non siamo noi a essere deboli, ma tutta la città. È Firenze che deve stringere nuove alleanze, ora che le vecchie scricchiolano. Perché uno conosce i propri nemici, ma non gli amici.»

Piero era ben consapevole tanto del dispetto del figlio quanto del suo acume politico. Lo vedeva fremere di stizza, ma sapeva che quel matrimonio, con le promesse di potere e notorietà che si portava appresso, solleticava la sua ambizione. Se avesse voluto davvero evitarlo, avrebbe piuttosto mentito a Lucrezia, avrebbe taciuto il nome dell'Orsini e avrebbe ricusato ogni possibile fidanzata. Le sue proteste suonavano un po' troppo forzate per essere del tutto sincere. Perciò Piero, accostandoglisi per parlare sottovoce, concluse dicendogli: «A che scopo tua madre t'avrebbe chiesto delle fanciulle di Roma? Per cicalecci da lavandaie? Tu l'hai capito subito che sarebbe partita per cercarti moglie, poche frottole, e le hai detto di quella ragazza perché sai che sarebbe un gran colpo se la sposassi.»

Il figlio, incalzato dalle osservazioni, ammutolì. Suo padre riprese: «So che è la fretta a guastarti l'umore; ho avuto anch'io diciassette anni, figlio mio, e comprendo che tu ti senta troppo giovane per il matrimonio. È un sacrificio necessario per il bene della nostra famiglia».

Lorenzo aveva l'aria abbattuta e meditabonda. Il labbro inferiore, che naturalmente sporgeva un poco dal superiore, dava alla sua espressione una piega corrucciata. Piero attese un momento, poi: «Pensaci,» gli disse, «poi verrai a darmi il tuo responso.»

Così si accordarono. Uno tornò alle proprie lettere, l'altro ai cavalli. Giuliano stava ancora in sella, ma non sembrava tediato dall'attesa. Quando scorse sopraggiungere il fratello: «Che voleva il babbo?»

«Nulla, stupidaggini. Ora vuole farmi sposare», sbuffò questi, montando in groppa allo stallone con un solo balzo. Diede di sprone e cominciò a galoppare senza badare alla voce lo chiamava, pregandolo di rallentare. Le strade di Firenze erano strette e affollate, ciononostante i due giovani scavezzacollo videro aprirsi la folla di fronte a loro, la fendettero come un fulmine l'aria, superarono le porte e tornarono a correre lungo la via sterrata che si perdeva tra i campi coltivati.

A Lorenzo piaceva la quiete della campagna: la campagna era in grado di calmare i suoi stati d'animo più impetuosi, di placare dubbi e risentimenti nei declivi morbidi delle colline toscane. La natura lo riempiva di un entusiasmo positivo, perciò si stava lasciando alle spalle la città. Si allontanò quanto gli sembrò necessario, quindi deviò dal tracciato principale per addentrarsi in un boschetto che sorgeva sulla terra comune. Giuliano lo seguì.

Si arrestarono sotto una grande quercia; il minore dei due smontò per primo, sbrigandosi a prendere per le redini il cavallo dell'altro.

«Ora scendi e mi racconti», asserì perentorio, atteggiandosi da adulto quando non era che un ragazzino di quattordici anni appena compiuti. Lorenzo lo guardò dall'alto, facendo l'offeso.

«Che vuol dire che vuol farti sposare?» lo incalzò il fratello, strattonandolo per il lembo del mantello che pendeva dalla cavalcatura.

«Vuol dire che mi ha trovato moglie, e me l'ha trovata a Roma.»

«Roma?!»

Lorenzo, alla fine, scivolò giù dalla sella. «Tra due anni, due anni!»

Giuliano, davanti alla faccia imbronciata dell'altro, scoppiò a ridere fragorosamente. «Chi ti mancherà di più: la Francesca, la Nina o la morettina di due sere fa?»

«Sta' zitto, che sei ancora un fantolino, tu!» sbottò, immergendo le mani tra i capelli lunghi. «O non crederai mica che cambierà qualcosa.»

«E allora che cos'è che ti dà noia? Magari è pure piacente e spigliata come piace a te, e ci potrai stare tutte le volte che vorrai e farci quello che vuoi, senza che il Becchi vada a lamentarsi dal babbo per i tuoi eccessi amorosi.»

Lorenzo si morse una nocca per trattenersi dall'indirizzare a Giuliano epiteti poco educati. «E se fosse frigida? Se in fin dei conti non mi piacesse?»

«Tu non sei Adone, quindi non devi pretendere che lei sia Venere», lo prese in giro il fratellino impertinente. Per canzonarlo ancora di più, si avvicinò e gli trasse la berretta che aveva indossato prima di uscire. Era stato così lesto che Lorenzo dovette arrendersi a guardare il suo trionfo, il suo agitare la preda in aria con poca o nessuna cura.

«Parli così perché non toccherà a te», sospirò alla fine. Giuliano allora tornò da lui, gli calcò in testa la sua berretta e constatò, con una saggezza che Lorenzo non si sarebbe aspettato: «Il babbo e la mamma ti voglion troppo bene, quindi se ti fanno sposare hanno buone ragioni e si aspettano che sarai felice e contento anche così. Sarai ammogliato, sì, ma le tue favorite sono sempre alla tua portata, sbaglio? E poi Roma ti fa gola, lo sappiamo tutti.»

Lorenzo negò con la testa, sconsolato. «Se uno ha moglie, si prevede che presto diventerà padre, e con la paternità viene l'autorevolezza, e all'autorevolezza non si addicono le notti in taverna, gli schiamazzi e le burle. Mi pare che il tempo mi stia scivolando via tra le dita senza che lo possa afferrare, mi vedo già vecchio!»

«Non cadere nella solita malinconia, Lorenzo, non adesso. Forza, salta in groppa, che ti faccio cambiare aria.»

Ma era tardi per una simile raccomandazione. Il carattere di Lorenzo era naturalmente volubile: tanto era allegro un istante, tanto quello dopo era abbattuto. Giuliano sapeva che in questi casi non c'era che una cosa da fare, e cioè lasciarlo a sbollire la tristezza per conto suo. Avrebbe potuto fargli una predica degna di maestro Gentile, ma non avrebbe sortito alcun miglioramento del suo umore, quindi tanto valeva davvero rimontare in sella e ritornare verso casa. Lorenzo avrebbe pur avuto fame, prima o poi, e conosceva la strada. Perciò, vedendolo seduto ai piedi della quercia a rimuginare sul da farsi, lo salutò con un cenno della mano e se ne andò al trotto fischiettando l'ultima gagliarda che aveva ascoltato al ballo del carnasciale. Quando, quella sera stessa, seppe che suo fratello aveva accettato il proposito di sposare Clarice Orsini, non ne fu affatto stupito.

 

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(1) I brani riportati sono tratti dalle lettere autentiche di Lucrezia Tornabuoni inviate al marito il 28 marzo 1467.

I testi completi sono facilmente reperibili online.

 

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Capitolo 4
*** Cap. 3 ***


La diplomazia esige tempi lunghi e tanta cautela, così dovette passare un anno prima che le cose si muovessero. Tutto cominciò ad aprile 1468 con una lettera di Piero de' Medici al cognato Giovanni Tornabuoni, una lettera che sarebbe parsa troppo vaga a chi non fosse stato addentro alle politiche di famiglia, ma che suonò come un chiaro segnale di via libera. Da quel momento, Giovanni diventò un assiduo frequentatore di palazzo Orsini, con grande piacere del cardinale Latino e di sua sorella Maddalena.

Quanto a Clarice, all'apprendere delle trattative di fidanzamento in corso ella reagì come ci si aspettava da lei, ossia con remissiva obbedienza. Non aprì bocca per sollevare obiezioni, semplicemente parve crogiolarsi nella prospettiva di un matrimonio prestigioso com'era quello che le veniva preparato da altri.

Aurante, la figlia maggiore, si sarebbe sposata a fine maggio: aveva attraversato lo stesso percorso due anni prima. Una proposta, discussioni interminabili, infine il contratto e ora, sempre più prossime, le nozze con Gian Ludovico Pio di Savoia, un nobile condottiero del nord Italia. Ecco perché Clarice, un pomeriggio in cui il sole batteva sulla città spandendo la propria luce in ogni angolo, si mise alla sua ricerca. Era difficile fingere sempre, rispondere ogni volta con le parole adeguate, evitare che il timore sgorgasse dalle ciglia in forma di lacrime, o dalle labbra in forma di sospiri. Capitava che sua madre la riprendesse per qualche sguardo lontano, distratto; per rari tentennamenti e balbettii; per eventuali risposte sgarbate, quando la tensione la sovrastava.

Aurante aveva i capelli castani, non rossi come i suoi, ma gli occhi erano verdi e un po' più vispi. Aveva un carattere più estroverso e, a tratti, più testardo all'apparenza, ma questo solo perché Clarice aveva imparato precocemente a stare zitta se le circostanze non fossero state favorevoli. Di tanto in tanto, però, la schiettezza della sorella più grande aveva il vantaggio di sembrare più sincera dell'ambiguità di un'occhiata timida. Perciò Clarice decise di rivolgersi a lei.

La trovò nei giardini, fortunatamente sola. Non sapeva perché si fosse recata lì senza la compagnia di qualche dama o, per lo meno, di una fantesca; fatto sta che le si fece vicina con discrezione, uscendo allo scoperto solo quando ormai l'ebbe raggiunta.

«Aurante,» la chiamò, poi, senza attendere risposta, domandò: «Posso sedere con te su questa panca?»

A un cenno affermativo, sedette stringendosi forte una mano nell'altra. Non osò parlarle immediatamente del vero motivo che l'aveva condotta fin lì: preferì constatare innanzi tutto come, essendo solo maggio, facesse già così caldo.

«Infatti ti vedo più rossa del solito su quelle guance», replicò Aurante. «Ma tu non arrossisci per il sole, vero? Arrossisci perché hai visto Tornabuoni nel salone.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché ti conosco.»

Clarice non avrebbe voluto introdurre l'argomento in modo brusco; tuttavia, dato che la sorella aveva rotto gli indugi, le andò dietro. «Sono venuti a discutere della dote, me lo sento. Nostra madre dice che non riescono a mettersi d'accordo per via delle usanze diverse.»

«La verità è che non vogliono farti sfigurare davanti ai Medici. Povera stellina, chissà che cosa ti aspetta laggiù.»

«Perché dici così?»

«Come perché? Sei davvero tanto ingenua?» domandò di rimando. Dato che Clarice non dava cenno di comprendere a cosa alludesse, Aurante riprese: «Firenze non ha una buona fama; sono gente immorale, gretti avari o lussuriosi o tutt'e due. Tuo marito di certo non fa eccezione, se è vero quel che si raccontava a Roma al tempo del suo viaggio qui».

«Se sono brutte cose, io non le voglio sapere.»

«Invece credo che sotto sotto tu le voglia sapere eccome! Per esempio, una notte...»

«Non è per questo che sono venuta da te», la interruppe, prendendole la mano con uno scatto improvviso. Aurante sbuffò guardando il cielo azzurro. «E perché, allora?»

«Per chiederti se hai paura di sposare Gian Ludovico.»

Ci pensò su; magari fece solo finta. Quando rispose, la sua voce era un po' più acuta di prima, come se fosse forzatamente gaia e leggera: «No, non ne ho. È venuto a trovarmi, dopotutto, ci siamo parlati e posso dire di conoscerlo. Lorenzo, invece, verrà a corteggiarti?»

«Giovanni Tornabuoni dice che, fosse per lui, sarebbe già stato qui. È suo padre che non lo vuole lasciar venire per paura di qualche imboscata lungo la via.»

Aurante arricciò il naso. «Vecchie scuse, Clarice. Secondo me non gli interessi affatto. Dopotutto è il tuo primo e unico pretendente e ti chiede in moglie senza averti mai vista: io non sarei affatto lusingata da tutto ciò.»

La piccola e indifesa Clarice si sentì schiacciare da simili parole, benché esse non fossero in tutto veritiere; ma il suo segreto sarebbe rimasto tale ancora per qualche tempo. Per un momento le passò per la mente il sospetto che sua sorella parlasse spinta dall'invidia, ma nella sua purezza d'animo scartò quel pensiero. Era molto più semplice, in effetti, rassegnarsi all'idea di un matrimonio di convenienza con uno sconosciuto che non teneva a lei, piuttosto che illudersi e rimanere poi scottata per troppa ingenuità. Andava per i sedici anni, ora e tempo che smettesse di sognare ad occhi aperti. Tuttavia, la sua memoria la riportò indietro all'aprile del 1466: aveva ancora il profumo di incenso nelle narici e il suono delle campane sembrava cullarla. E c'era quel ragazzo che la guardava, quasi che l'aspettasse, e teneva in mano il suo guanto nero orlato di ermellino, glielo tendeva sorridente, accennava un inchino e restava lì, in attesa. "Buona Pasqua di Resurrezione, madonna", le diceva.

«C'è dell'altro che forse non sai», disse Aurante, riscuotendola dalla breve distrazione. «A Firenze le donne perbene sanno leggere e scrivere e gli uomini badano a questo come badano al viso e al corpo delle loro mogli e figlie. Una fanciulla non sarà benvoluta in famiglia se si rivela ignorante.»

«Ne sei certa?» titubò lei, che a malapena riusciva a tenere la penna in mano per più di tre righe. Vide la sorella mordersi le labbra con un ghigno antipatico. «Lo sai che Lucrezia Tornabuoni è patrona di poeti e dicono scriva ella stessa lodi e sonetti?»

Sì, l'aveva sentito dire. Era una di quelle voci che si insinuava tra un pettegolezzo e l'altro e che a Roma condiva tutto con un sapore di biasimevole trasgressione. A Firenze, però, non c'era biasimo per passatempi letterari e questo la spaventava.

«Anche lui scrive, anche Lorenzo», riprese Aurante, divertendosi a tormentarla. «Conviene che ti metti di buona lena o farai una magra figura.»

Clarice, che aveva già maturato il medesimo proposito prima ancora che la sorella glielo suggerisse, avvertì l'urgenza di cominciare immediatamente, quel pomeriggio stesso: non avrebbe atteso un minuto di più. Salutò, afferrò la gonna con entrambe le mani e corse nello studiolo di suo padre. Trovò subito ciò che cercava: un pennino, il calamaio e un foglio di carta già in parte scritto e lasciato da bruciare nel camino per l'inverno successivo. Sedette alla scrivania, intinse la punta della penna e, con la lingua che spuntava a un angolo della bocca, tracciò esitante una bella e grande C, poi una l e via di seguito, finché non lesse il proprio nome tutto intero: Claricie Ursini. La grafia era un po' esitante, ma l'esercizio l'avrebbe portata a migliorare.

*

Il suo proponimento incontrò presto l'opposizione di sua madre Maddalena: con il trasferimento della famiglia nei possedimenti di Monterotondo, per scampare la calura della città, ella le fece attendere più lezioni di danza che non di scrittura. Con Aurante lontana, ormai maritata, Clarice perse l'abitudine di chiudersi nello studiolo a tu per tu con una pagina bianca, rallegrandosi invece dei miglioramenti nel ballo. Sua madre teneva la corrispondenza, insistendo che Lorenzo venisse a conoscerli prima che le trattative si chiudessero, ma da Firenze non arrivavano mai risposte assertive. Maddalena non si perdeva d'animo, e ad ogni missiva concludeva con un invito destinato a rimanere in sospeso.

Il tempo passò in fretta scorrendo come acqua cristallina: e come l'acqua, il suo passaggio inebriava Clarice di emozioni piacevoli, di attesa e impazienza; se non che, quando l'acqua le arrivò alla gola, la sua percezione cambiò all'improvviso. Se ne accorse il 26 dicembre, vigilia delle sue nozze per procura, mentre si metteva a letto con i capelli raccolti sulla testa. Era prossima al matrimonio e non si era quasi accorta di essere fidanzata: mai una lettera, mai un regalo da parte del suo futuro sposo. Entrambe le famiglie avevano agito tramite intermediari, con il risultato che i due giovani non avevano quasi avuto parola in nulla e non si erano mai parlati.

Il giorno dopo fu ancora peggiore del precedente. Gli Orsini erano raccolti nel salone del palazzo, gli emissari dei Medici erano all'ingresso. Clarice indossava un abito rosso e di rosso era vestito anche lo sposo: non Lorenzo, perché stava a Firenze, ma Filippo de' Medici, arcivescovo di Pisa e lontano cugino di Piero, suo suocero. Il cardinale Latino, con indosso i paramenti, benedisse la vera nuziale e pronunciò una preghiera, quindi Filippo colse l'anellino d'oro e glielo mise al dito.

Al termine della cerimonia, Clarice si ritirò nello studiolo del padre. Quando impugnò il pennino, la sua mano tremava sensibilmente.

«Magnifico Consorte», cominciò, «ardischo di scrivervi per dirvi che quest'oggi sonno divenuta la donna vostra con la benedizione di Nostro Signore. Prego che voi stiate bene e lo stesso vostro e mio padre Piero, vostra e mia madre Lucretia, e tucti li altri. Mia madre vi benedice e aspetta vostre bone nove et eziandio io il medesimo. Ho speransa che vogliate venirmi a prendere quando che sia per condurmi alla cara Firenze che voi amate. Non altro. Recommandatemi a tucti. Rome 18 decembris 1468»

Prese un respiro dopo tante righe scritte di getto in una grafia forse troppo rigida per trasmettere fino in fondo l'intensità del suo affetto. Lasciò sufficiente spazio, quindi, in lettere piccole, quasi che volesse scomparire, scrisse Vostra Clarice de Ursinis.

*

Il giorno seguente, scherzo del destino, arrivò una lettera da Firenze datata 25 dicembre: Lorenzo in persona scriveva, e si indirizzava alla fidanzata ormai diventata moglie. Conscio che la missiva sarebbe pervenuta dopo la celebrazione delle nozze per procura, Lorenzo aveva scritto sul verso: Magnifica domina Clarice de Ursinis coniugi sua amantissima in Roma. La lettera passò da una mano all'altra, trattata sempre con grande reverenza, finché giunse tra le pallide dita di Clarice, che lesse con trepidazione il titolo cui non aveva ancora fatto l'abitudine. Non resistette alla tentazione di aprirla subito e così, si potrebbe dire volata a una seggiola accanto al camino principale, sedette e strappò la ceralacca.

Magnifica consorte, vi scrivo nel Santo giorno della nascita di Nostro Signore perché ho al presente recevuto con alegrezza grande la lettera di messer Giovanni mio zio che mi dice il 27 venturo si pronuncerà la promessa e saremo come sposati. Sappiate che sono contento e sto bene, così spero di voi. Attendo l'ora di conoscervi e i giorni paion passare lenti con voi tanto lontana. Vi voglio dire che si terrà in Firenze una giostra in onore vostro e io vi prenderò parte, pregovi di dedicare qualche vostro santo pensiero alla mia salute. Ogni mattina ringrazio Nostro Signore d'avermi dato sì cara donna, ché voi siete tenuta per fanciulla pura e onorevole e ch'io non merito, sicché mi racomando a voi, a vostra madre Magdalena e alla brigata vostra. Qui stiamo tutti bene. Non altro per ora. In Firenze 25 dicembre 1468.

E sotto, in lettere chiare e distese e senza abbreviazioni, Lorenzo de' Medici marito vostro.

Clarice sentì il cuore batterle così forte da temere che scoppiasse. Strinse la lettera al petto come a voler prevenire un simile evento, si volse verso la madre e proferì in un sospiro: «M'ha scritto, m'ha scritto di suo pugno e mi ha chiamata Magnifica consorte! Oh, madre mia, sono così felice che vorrei partire domani per andare a Firenze».

Incapace di tenere per sé la propria euforia, uscì nel giardino del palazzo e si mise a saltare e ballare, incurante del freddo pungente dell'aria decembrina. Poi, quando il fiatone la costrinse a fermarsi, un nuovo pensiero fece capolino nella sua mente. Fece allestire la carretta e ordinò che la sua governante si preparasse ad accompagnarla. Voleva andare a incontrare lo zio acquisito, Giovanni Tornabuoni, alla sede della filiale dei Medici a Roma, per comunicargli la lieta notizia della lettera. L'avevano incoraggiata tutti a usare più confidenza con i parenti di suo marito cosicché questi potessero scrivergli di com'era affabile, dolce e gentile la sua sposa. In questo caso, però, era la vera e spontanea gratitudine di Clarice a spingerla a uscire contro l'abitudine.

Cavalcò al trotto per le strade della città senza tener conto dei mendicanti che alzavano le mani verso di lei per qualche elemosina: non aveva occhi per guardarsi attorno, persa nei propri sogni da bambina. Quando, però, si trovò di fronte Giovanni in persona, per la prima volta sola e senza l'assistenza della madre, Clarice non seppe come cominciare. Lo zio fiorentino era un uomo robusto, con un bel viso pieno e regolare e i capelli precocemente ingrigiti; aveva sempre un'espressione affabile ed era di buona compagnia, fine ed elegante nel parlare e misurato negli atti. Trovatosi davanti la ragazzina, per prima cosa le si inchinò chiamandola Madonna con molto sussiego e lei, vezzeggiata al punto giusto, cedette di nuovo all'emozione. «Messer Giovanni, vostro nipote mi ha scritto una lettera e la gioia è stata tanta che ho voluto dirvelo di persona, perché ve ne rallegriate con me», esordì con un gran sorriso. Giovanni annuì ma, prima che potesse ribattere, Clarice riprese: «E parla di una giostra a cui parteciperà in onore mio! Oh, ditemi, sarà pericoloso? Non vorrei ricevere nuove spiacevoli...»

Lo zio sorrise e, per rincuorarla, le disse: «Non stiate in pena, i miei nipoti sono entrambi abbastanza forti da restare in sella senza difficoltà. Lorenzo, inoltre, si è allenato molto in vista di quella giostra, sicché non avete da temere né pericoli né disonore». Quindi invitò la fanciulla a fermarsi qualche tempo presso di lui e lei accettò di buon grado, provando l'ebbrezza di sentire per la prima volta l'accento fiorentino piegarsi a chiamarla Madonna Medici.

 

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Capitolo 5
*** Cap. 4 ***


Mentre a Roma Clarice si beava di nuove e inebrianti sensazioni, Lorenzo a Firenze era nel pieno dei preparativi per la sua giostra. Non era affatto un evento insignificante, anzi, tutto il contrario: la città agognava un po’ di svago da tanti anni, dopo la guerra innescata dalla congiura contro Piero suo padre. Ora, cessati i venti ostili, tutti si preparavano alla giostra, in ossequio alla tradizione di giochi cavallereschi che potevano illudere i ricchi mercanti, almeno per un giorno, di essere nobili e valorosi eroi da ciclo bretone.

Ogni buona famiglia voleva schierare il proprio paladino: c’erano i Pitti, c’erano i Vespucci, i Bracciolini, i Pazzi, e tutti ambivano al premio con uguale brama. Il rischio di sfigurare era dietro l’angolo, perciò Lorenzo pensò e operò in grande: lo stendardo fu commissionato al Verrocchio, i migliori cavalli furono chiesti in prestito ai signori più influenti della penisola. Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano e alleato prezioso della Repubblica fiorentina; Ferrante d’Aragona, unico sovrano in Italia che potesse fregiarsi del titolo di re; Federico da Montefeltro, duca ma soprattutto condottiero e, non ultimo, padrino di battesimo del primogenito di Piero de’ Medici. Lorenzo scrisse più lettere nei primi di gennaio che in molte occasioni precedenti, e ne ricevette altrettante. Si barcamenava alla scrivania del padre mentre lui stava a letto in preda ai dolori estenuanti dati dalla gotta. A sera, però, si prendeva la rivincita delle fatiche diurne con passatempi più piacevoli.

La sua brigata era composta per lo più da giovanotti più grandi di lui, alcuni dei quali già ammogliati, altri irriducibilmente scapoli. I più degni di nota erano certamente Lugi Pulci e Braccio Martelli, rispettivamente di trentotto e ventisei anni. Il primo era il discendente di una nobile famiglia caduta in disgrazia e doveva gran parte delle proprie fortune a Lucrezia Tornabuoni, che l’aveva preso sotto l’ala per la sua produzione poetica irriverente a lei molto congeniale. Era un uomo fatto, eppure ancora celibe, con il naso diritto e lungo, la fronte spaziosa e gli occhi chiari. Aveva sempre la parola pronta ed era, come la sua poesia, incline agli scherzi e a divertimenti discutibili. Il secondo, altro rampollo di famiglia nobile, era da poco sposato a una Pazzi, ma non per questo si dedicava a una vita costumata e, anzi, era spesso l’apripista di certe spedizioni notturne cui i compagni più giovani prendevano parte sull’onda del suo entusiasmo.

C’era anche Sigismondo della Stufa, un ragazzo ventiduenne, amico di più lunga data di Lorenzo e a lui più vicino per età; aveva i capelli castani e gli occhi cristallini di un animo fedele e ponderato, ma, trascinato dalla brigata, non si tirava indietro qualora si paventasse qualche impresa. Parimenti amici di vecchio conio erano Dionigi Pucci e Gianfrancesco Venturi, di ventitré e venticinque anni, che si distinguevano dai precedenti per l’appartenenza a famiglie di mercanti: il primo era spigliato fino alla spudoratezza e non brillava per creatività artistica, disinteressato com’era alle materie poetiche e più legato al mondo economico che era il pane di suo padre e dei suoi zii; il secondo, biondo come biondi erano tutti i suoi parenti per parte di madre, era il saccente della combriccola, l’anima polemica, l’indisponente, ed era in costante competizione con Lorenzo in ogni campo, senza però che questo intaccasse il loro rapporto.

A Firenze tale brigata era famosa e il cipiglio scorbutico di Piero, quando ne parlava, tradiva tutta la disapprovazione di un padre che vede uscir di casa il figlio e non vuole immaginare a quali bagordi andrà incontro.

La scena si ripeté per l’ennesima volta alla conclusione della cena del dì 30 gennaio 1469. Mentre Piero addentava pacifico un boccone di pane a fine pasto e tendeva la mano alla coppa d’acqua che gli avrebbe tolto quel po’ di sete che aveva, vide Lorenzo alzarsi e scrollarsi le briciole dalla giornea pesante che aveva tenuto addosso dopo essere tornato da una passeggiata con Giuliano. Lucrezia notò il guizzo nello sguardo di suo marito, ma ritenne fosse meglio tenere la bocca chiusa.

«Dove vuoi andare con questo tempaccio, tu?» disse all’improvviso, presentendo già una risposta che non si fece attendere. «Vo coi compagni a rinfrescarmi», fece Lorenzo, incorreggibile, rimettendo la sedia al posto e afferrando, come un ladro la refurtiva, una mela verde.

Piero non rimase impassibile. «Sicché vorresti andar di fuori con la neve a mezza gamba e la tramontana?»

«Vo anch’io!» esclamò Giuliano, balzando in piedi con gli occhi scintillanti; sua madre, con un solo cenno della testa, lo rimise letteralmente al suo posto. Lorenzo, vedendo che la resistenza dei genitori non poteva più porre tanto freno alle sue scorribande, sogghignò e si avviò verso la porta gongolando. Prima di lasciare la sala, si volse e: «Arrivederci a domattina!», quindi chiuse la porta dietro di sé.

Indossò un mantello pesante e un berretto che gli riparasse anche le orecchie; affacciandosi su via Larga, gettò un’occhiata a destra e una a sinistra. La sua attenzione cadde immediatamente su un gruppetto di persone che sostava dall’altro lato della traversa su cui si affacciava il lato nord del palazzo. Rabbrividì muovendo il primo passo: sebbene indossasse gli stivali, infatti, il freddo gli penetrò fin nelle ossa facendolo esitare. Tirò bene il mantello sul collo e, testardo, si incamminò nella neve. Il gruppetto, che nel frattempo si era accorto di lui, lo guardava avvicinarsi. Nella penombra – nessuna fonte di luce era loro necessaria per raggiungere una meta ben conosciuta – era impossibile riconoscere i visi di ciascuno, ma Lorenzo si orientò indovinando dall’altezza e dalla stazza la loro identità. Quando fu ormai a breve distanza, si accorse che erano quattro.

«Dov’è Luigi? Abbandona l’impresa?» fu dunque la prima cosa che disse, una volta giunto presso di loro. Sorse una risatina sommessa, poi: «Ha l’umor nero in questi giorni e non gli va di divertirsi», rispose la voce ancora acuta di Dionigi. Lorenzo storse la bocca in una smorfia di dispetto. «Peccato! Mi sarebbe piaciuto dire di esser sesto tra cotanto senno1

«Lascialo perdere, vedrai che domattina se ne sarà già pentito», ribatté prontamente un altro, cingendogli le spalle. Era Braccio Martelli, il maggiore tra tutti per età, con la sua disinvolta andatura da capobrigata. Lorenzo gli tenne dietro incespicando nei cumuli di neve che erano raccolti a lato della strada.

Si diressero senza indugi verso l’Arno, a sud, attraverso il rione di Santa Croce. Sulle rive del fiume, non tanto distante dalla grande chiesa di Santa Reparata, sorgeva la Taverna della Baldracca, dove loro erano accolti sempre come avventori abituali. Il brutto tempo rallentò leggermente la passeggiata e non fece altro che accrescere il desiderio di un posto caldo, di vino e di divertimento. Fu Sigismondo ad aprire la porta della taverna: i cinque ridevano di cuore per l’ultima frecciatina scoccata dalla lingua tagliente di Giovanfrancesco Venturi. I rampolli delle migliori famiglie fiorentine sfilarono tra ubriaconi e sgualdrine andando a occupare un piccolo tavolo nell’angolo vicino alle scale: questo avrebbe permesso loro di salire agilmente al piano di sopra al momento giusto.

Dionigi Pucci ordinò vino per tutti e Braccio brancò una ragazza che, fingendo noncuranza, gli era passata accanto. Prese a baciarla appassionatamente, poi, a un tratto, la fece scivolare sulle gambe di Sigismondo, che lo imitò senza bisogno di ulteriori incitamenti. Lorenzo lanciò un urlo di approvazione e tutta la brigata gli si associò con applausi e commenti decisamente spinti. La ragazza sorrise lasciva e si spostò in braccio a Dionigi, baciandolo per terzo; quindi toccò al Medici che, avendola aspettata con impazienza, le diede il bacio più lungo e intenso. Nel frattempo giunsero due serve con calici e fiaschetti: una la ghermì Gianfrancesco, l’altra Sigismondo.

«Questa», esclamò il primo, stringendo bramoso la ragazza, «è una faccia nuova! Come ti chiami, fragolina?»

«Matilda, messer mio.»

«Guarda, Lorenzo!» riprese lui, baciandole le labbra una, due, tre volte con trasporto. «Matilda è mia, intendi? La voglio tutta per me, e tu non l’avrai!»

Lorenzo scoppiò a ridere. «Ma se me la sono fatta la settimana scorsa! Impara da Luigi a startene a casa, vedi come finisce!»

Gianfrancesco grugnì un insulto, arraffò la propria coppa e tracannò il contenuto, poi, pulendosi la bocca con il braccio, sbottò: «Non ho mai avuto alcuna voglia che non ti sia cavata prima tu, maledetto Medici!»

«Certo! Guarda se si può portare avanti tante faccende come vuoi fare tu, Francesco!» ribatté Dionigi Pucci. «Che alla fine non ne fai mai nessuna!»

Crescendo il consumo di vino, crebbero i toni. Nessuna ragazza poté più sgattaiolare nei pressi di quel tavolo senza attirarsi motteggi piccanti, occhiatine o baci appassionati. Prima che gli spiriti bollenti degenerassero pubblicamente, Braccio Martelli si alzò barcollante e, sceltasi una compagna, si affrettò su per le scale; in un battito di ciglia, tutti gli andarono dietro, litigandosi le carezze delle altre due fanciulle che erano rimaste prigioniere del vortice della loro lussuria. Non ci sarebbe stato granché da litigare, però, e la cosa assumeva i tratti di un gioco seduttivo più che di una vera e propria contesa: si infilarono, uno dietro l’altro, nella medesima stanza, e Dionigi, forse più accorto degli altri, chiuse la fila entrando in trionfo con due fiaschetti colmi nelle mani tenute alte. La porta appena chiusa, e Braccio era già avvinghiato alla bella prostituta che si era accaparrato; i restanti prodi seguaci di Venere, da un lato il vino e dall’altro una coscia o un seno scoperti, si lasciavano svestire dalle ninfette disinibite da loro conquistate.

«Tieniti stretto Matilda, Francesco, che Lorenzo te la sta guardando», rise Sigismondo lasciando cadere la propria giornea di vellutino blu sulla pediera del letto. Il Venturi, ingelosito, lanciò un’occhiata di sfida all’avversario e si coricò sulla fanciulla prima che questa potesse dire be. Non che lei fosse scontenta, affatto! Rise di una risata civettuola che suscitò la pelle d’oca ai giovani rimasti senza compagnia, per cui gli occhi di tutti corsero alla terza prostituta, loro vecchia conoscenza: si chiamava Linora e veniva da Parma, viveva a Firenze da tre anni ed era nell’età migliore, i venticinque anni. Dionigi, più attratto dal vino che da lei, non si dispiacque di prendere due sorsi a canna, mentre Sigismondo e Lorenzo allungavano le mani alle vesti ormai succinte che le velavano il corpo florido. Lei, per gioco, rifiutò l’uno e l’altro, poi si protese e li baciò a turno immergendo le mani tra i loro capelli.

Lorenzo rabbrividì, cercando le sue labbra come fossero di miele, ma l’amico lo trattenne e, prendendolo in giro, sussurrò: «Non vuoi tenerti casto e puro per la moglie romana?»

Si guadagnò uno spintone, ma Lorenzo rideva e toccava senza pudore le forme generose di Linora. «Zitto e godi, bischero», e prendendo una coppa lo forzò giocosamente a bere. «E tu, avaro, facci spazio», aggiunse alla volta di Giovanfrancesco ormai nel pieno dell’amplesso con Matilda. Questi, in tutta risposta, replicò: «Sta’ in piedi, che non mi fido».

«Temi per Matilda o piuttosto per te?» ridacchiò Dionigi, brandendo il fiaschetto nella destra. Giovanfrancesco si volse a lui con una smorfia. «Alla larga tutti voi tre», borbottò prima di tornare al proprio trastullo.

«Grullo!» esclamò Sigismondo, ma Lorenzo fece spallucce. «Lascia perdere e prendila in braccio, che chi s’accontenta gode e noi godremo più di lui.»

 

1Citazione da Inferno, IV v. 102

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Capitolo 6
*** Cap. 5 ***


Al risveglio, Lorenzo sentiva pulsare le tempie; non sapeva addebitare con certezza al vino o alle donne quel leggero fastidio mentre, da coricato, si tirava seduto. Lanciò un’occhiata alla propria destra, vedendo Dionigi che sonnecchiava ancora con un lieve russare a bocca aperta; quindi passò a Sigismondo, che gli stava a sinistra, immerso in un sogno che gli corrucciava il viso in un’espressione di scontento. Gianfrancesco dormiva ancora abbracciato alla Matilda, quasi temesse che in un frangente di distrazione gliela potessero sottrarre con l’inganno. Sorrise, Lorenzo, al pensiero che fosse geloso di una prostituta la quale, per definizione, l’avrebbe presto dimenticato a favore del cliente del nuovo giorno. Era ben consapevole, però, che la sua gelosia non fosse tanto rivolta all’oggetto di un amore carnale quanto all’idea di essersi conquistato uno spazio dove invece lui, almeno per quella sola notte, non si fosse intromesso.

Braccio si alzò in piedi, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, e lo guardò dritto in viso. Il suo sguardo era uno dei pochi capaci di metterlo in soggezione, di suscitargli un brivido su per la schiena quasi che fosse ancora un pivellino appena uscito dall’infanzia, ignaro delle dolcezze e delle asprezze che il mondo può riservare; ignaro della filosofia di Platone e del suo scandaloso modello d’amore che eleva a somme altezze, un amore che non contempla donne angeliche, ma piuttosto dà estremo valore all’amicizia tra uomini e fanciulli.

«Ora tornerai a palazzo?» gli chiese sottovoce. «Mi piacerebbe parlare un po’ di quella novella che vuoi scrivere. Luigi mi ha detto qualche cosa…»

«Devo tornare, non ho scelta. Mio padre ha storto il naso iersera, se non tornassi nemmeno stamane si infurierebbe. Poi la giostra imminente…» si scusò, come se avesse bisogno di una giustificazione per sottrarsi a una passeggiata solitaria con un vecchio amico. Non era più un fanciullo, anzi, era un uomo, era sposato e aveva girato il piccolo grande mondo delle corti d’Italia. Eppure, lo sguardo di Braccio lo disarmava dell’eloquenza, della spigliatezza che lo contraddistingueva all’interno della compagnia. Arraffò le calzebrache che pendevano da un’asse fissata a mo’ di mensola sopra il letto, le indossò in fretta e si calò addosso la camicia strappandola da sotto la testa di Sigismondo che, lungi dal volersi svegliare presto, si voltò dall’altra parte continuando a dormire. Mise su la pesante giornea di velluto nero, allacciò stretta la cintura ai fianchi, infilò un piede e poi l’altro negli stivali e per ultimo si avvolse attorno alle spalle il mantello foderato di calda pelliccia, tenendo in mano solo il cappello.

«Esco con te», disse allora Braccio, seguendolo fuori dalla camera di osteria che avevano tenuto occupata per tutta la notte. Lorenzo non attese di essere raggiunto, passò accanto al banco, ordinò semplicemente di addebitare al proprio conto la spesa di tutta la brigata e uscì all’aperto coprendosi il naso con il collo ampio del mantello. Udiva, dietro di sé, i passi dell’amico tenergli dietro con un certo impaccio nella neve, ma non rallentò per dargli agio. Aveva la testa piena di preoccupazioni, ora che l’emicrania era sfumata via con il risveglio; in particolare pensava a che cosa avrebbe raccontato ai genitori per ingraziarseli dopo l’ennesima goliardia.

In quella, Braccio lo affiancò. Le strade erano trafficate a quell’ora del mattino: le botteghe stavano per aprire, i venditori urlavano da un capo all’altro delle vie e i primi avventori di facevano largo come potevano. Non era difficile riconoscere il primogenito di Piero de’ Medici né stupiva trovarlo fuori casa con la faccia ancora stravolta dai vizi della notte passata. Quella mattina, però, Lorenzo non aveva solo l’espressione sfatta che tutti, bene o male, sapevano a chi addebitare; c’era di più, ed erano le preoccupazioni che, passo dopo passo, crescevano e crescevano.

«Non ti vedevo così teso da tanto tempo e, francamente, speravo di non doverti più vedere a questa guisa», borbottò Braccio senza la benché minima traccia di scherzo nella voce profonda. Lorenzo non staccò gli occhi dalla via che stavano percorrendo nel cammino che, risalendo verso nord, li stava riportando nel rione del Leon d’Oro nel quartiere del Santo suo omonimo. «Sono solo stracco», minimizzò, schiarendosi la gola.

«No, non è vero. L’ho capito da questa notte che qualcosa non ti garba.»

Stavolta non rispose, serrò la bocca e si intestardì a voler tornare a palazzo. Se avesse dovuto riferirgli tutte le cose che non gli garbavano in quel preciso momento, avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta: i cavalli per la giostra tardavano ad arrivare, da Roma non venivano notizie interessanti e, a coronare il tutto, suo padre stava inesorabilmente degradando verso una triste fine. Aveva fatto l’abitudine all’idea di non vederlo invecchiare, a differenza dell’avolo Cosimo che aveva raggiunto la veneranda età di settantasette anni in barba agli acciacchi della gotta. Piero non aveva mai goduto di buona salute, ma ora gli attacchi della malattia erano più crudi che mai.

«Forse è per via del matrimonio che non sai più goderti la compagnia di Linora?» insinuò malizioso Braccio nel tentativo di farlo sorridere. Lorenzo non diede segno di aver ascoltato una sola parola, tirò dritto ancora per qualche passo e poi, di punto in bianco, una palla di neve grossa come una pesca lo colpì tra capo e collo, colando piccoli grani di ghiaccio lungo la sua schiena. Si volse in un attimo, ma non fu abbastanza svelto da schivare un secondo proiettile bianco che lo colse ancor più alla sprovvista, facendolo indietreggiare con gli occhi annebbiati di cristalli disciolti.

«Luigi!» protestò perché, in quel breve frangente in cui aveva potuto guardarsi alle spalle, aveva immediatamente riconosciuto l’autore della burla. Pulci si avvicinava minaccioso con le munizioni nelle mani, senza soffrire, all’apparenza, il freddo che gli faceva tutte le dita rosse.

«Così impari a divertirti senza di me!» dichiarò, palesando in una sola frase il suo personale casus belli. Lorenzo si accucciò a terra per riparare all’attacco con una difesa all’altezza, ma l’avversario lo anticipò spingendolo giocosamente a terra. Quando fu seduto a gambe larghe con l’espressione intimidita di un bimbo, Luigi gli strappò via il cappello e gli premette una manciata di neve tra i capelli, quindi, non contento, gli afferrò il colletto della camicia, quel poco che spuntava dalla giornea, e affondò una seconda manciata nei suoi vestiti. Lorenzo, prima di gemere di fastidio, riuscì ad aggrapparsi alla coscia sinistra di lui e lo fece rovinare accanto a sé. Braccio, che fino a quel momento era rimasto un passo indietro a rimirare la scena, si gettò su di loro per impedire a entrambi di rialzarsi.

I passanti cercarono di non far caso alla zuffa, anche se i più bacchettoni mormorarono tra sé qualche imprecazione generale contro la gioventù senza buoni costumi. Poco importava che si trattasse del figlio dell’uomo più influente di Firenze; anzi, forse tale dettaglio, non proprio trascurabile, rendeva le lagnanze un poco più appetitose, condite di quella critica politica che per i fiorentini era pane quotidiano. Lorenzo, comunque, lasciava i pettegolezzi al loro posto, ossia molto in basso nella sua considerazione. Amava divertirsi perché con il divertimento riusciva a strappare brandelli di felicità da una tela perlopiù dipinta a tinte fosche; non avrebbe sgualcito quei rari momenti con il pentimento tardivo che i vecchi gufi si auguravano subentrasse presto alla spericolatezza giovanile.

Tuttavia, se non furono le occhiatacce e i borbottii a riscuoterlo, fu qualcos’altro: un uomo, un domestico che prestava il proprio lavoro in casa sua da prima che lui nascesse, e che si chiamava Matteo, giunse a prenderlo con la vistosa livrea solo parzialmente celata dal mantello nero.

«Messer mio,» lo chiamò, tendendogli subito una missiva. «Questa è appena giunta da Roma ed è indirizzata a voi. Ve l’ho portata subito come avete richiesto.»

Lorenzo, all’udire ciò, balzò in piedi liberandosi con estrema facilità dell’ingombro dei due amici. «Date, date, Matteo!» esclamò, afferrando bruscamente la lettera e affrettandosi a leggere l’intitolazione del destinatario, che recitava: Illustrissimo honorandissimo Lorenzo de Medici sposo in Fiorenza. Era lei, dunque, era Clarice che gli scriveva. Non perse un solo istante, strappando la ceralacca e spiegando il foglio davanti a sé.

Magnifico consorte, recommandate. Ho hauta una vostra lettera e inteso quanto scrivete. Che a voi sia cara la mia lettera me piace como a collei che sempre desidera fare cosa che ve sia grata, e più dite che avete poco scritto. Remagno contenta a tanto quanto vi piace, governandome sempre in bona speransa. Madonna mia matre ve benedice. Piacive recomandarmi a vostro e mio padre, a vostra e mia matre e a quelli altri che vi pare. Sempre me recomando a voi. A Roma die xviii gennaro 1469.

Vostra Clarice de Ursinis (1)

«La sposina gli scrive e guarda lui come legge trafelato. Allora un po’ ti deve interessare, la Romana», constatò Luigi, bastandogli una sola occhiata per decifrare l’espressione intenta del più giovane amico. Lorenzo non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di scoprirlo teneramente affezionato a una fanciulla che, a detta di tutti, non aveva mai visto, perciò replicò secco secco: «Mi interessa il suo nome, questo sì, e anche la sua bella dote. Ma che t’importa, poi, se scrivo alla mia fidanzata?»

«Avevi detto che non le avresti mai scritto!» intervenne Braccio con una faccia tutta maliziosa.

«Mio zio ha tanto insistito che ho dovuto farlo. State pur certi che, se fosse dipeso da me…»

Uno sguardo birichino volò tra Luigi e Braccio, uno sguardo che fece perdere a Lorenzo ogni intenzione di continuare la propria difesa. «Ruffiani che non siete altro, restate pure contenti delle vostre supposizioni.»

E si avviò così, senza aggiungere altro. A quel punto, soli e liberi di dire la propria, Luigi e Braccio si guardarono di nuovo, stavolta un po’ più cupi. «Quand’è così, io mi preoccupo», disse il primo, le mani poggiate salde sui fianchi. L’altro, con un sospiro, gli fece eco: «Io pure. Ma come potrebbe non essere così, tirato da mille parti, che nemmeno il figlio di un re!»

«Di un re morente…»

«Come se non bastasse.»

Tacquero, poi: «Cambierà qualcosa, secondo te?» domandò piano Braccio, temendo il suono stesso di quella domanda. Luigi si prese del tempo. «Un matrimonio non ha mai cambiato un uomo e non cambierà nemmeno lui. La morte del padre, ahimè, è tutt’altra faccenda. Spera che Piero abbia una tempra più forte di quel che sembra; e spera che Lorenzo possa reggere l’urto dei nemici, quando questi prenderanno il sopravvento.»

 

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Capitolo 7
*** Cap. 6 ***


La vigilia della giostra Clarice si svegliò alla prima luce del sole. Si levò dal letto con le trecce inanellate attorno alla testa, nastri bianchi come serpenti tra di esse, e si gettò all’inginocchiatoio che si trovava alla sua destra, sotto un crocifisso di legno ornato di dorature. Fissò gli occhi sul volto sofferente del Cristo, giunse le mani e sussurrò: «Mio Signore, accetta la mia penitenza e risparmia mio marito dai pericoli della giostra. Ti prego, guarda pietoso la tua serva, non lasciare che nulla di male capiti a messer Lorenzo domani». Poi, piegando la testa, riprese: «Madre di Dio, intercedete per lui davanti a Vostro Figlio e fate che esca sano e salvo dall’arena. Il mio cuore non sopporterebbe cattive notizie».

Quindi, fattasi il segno di croce, si alzò. L’idea del digiuno le era stata consigliata da sua madre Maddalena, che l’aveva prontamente comunicata ai parenti fiorentini con un tono orgoglioso e fiero. Erano una famiglia di condottieri e anche le donne erano avvezze al sangue, alla morte violenta e alle gravi menomazioni.

«Ma Lorenzo non è un guerriero!»

Clarice ribatté timorosa all’osservazione di sua madre quando, vedendola apparire vestita di un lungo e dimesso abito scuro, senza gioielli, le aveva detto che aveva preso l’impegno con eccessivo zelo.

«A questo serve il tuo digiuno, figlia mia: il tuo sacrificio sarà gradito a Dio e gli concederà la salute.»

Un sospiro spezzò il ritmo serrato dei suoi respiri. «Sacrificio?» balbettò. «Lo accolgo volentieri se ne risulteranno cose buone. Non ho paura di soffrire nel corpo, ma temo profondamente il dolore dell’anima.»

«S’intende, figliola, s’intende.»

Maddalena sembrava voler liquidare il discorso come se lo ritenesse di poca importanza. Meglio, le importava di certo che Lorenzo salvasse la pelle, aveva però una bassa considerazione delle velleità cavalleresche di quei mercanti arricchiti e non si soffermava a pensare che, trattandosi di giostra, erano contemplati tutti i pericoli di uno scontro armato. La sua bambina, quella bambina che aveva maritato recentemente al fiorentino, si angustiava per un nonnulla, ma avrebbe dato un’ottima impressione di sé a Giovanni Tornabuoni e a suo nipote Francesco, che erano attesi da un momento all’altro.

C’era però anche un altro significato della parola sacrificio che Clarice preferì scacciare subito lontano dai propri pensieri, ora che avevano così numerosi motivi per farsi cupi di per sé. Le era già capitato, quando si trovava sola, spesso a notte fonda, insonne, di sentirsi un’offerta votiva non dissimile da quelle che i pagani offrivano ai loro falsi dei. Nel suo caso, il dio potere, il dio denaro e il dio vanità, una Trinità blasfema che si personificava in un giovane sconosciuto, dalla fisionomia vagamente abbozzata tra fantasia e ricordo. Tuttavia, il solo balenare di quel timore la fece sbiancare ulteriormente: Maddalena non se ne accorse; Rinaldo, il giovane suddiacono suo fratello, sì. Avevano meno di un anno di differenza, caratteri opposti e profonda complicità. Rinaldo tacque, rivolgendole uno sguardo di incoraggiamento di nascosto dalla madre. Le avrebbe parlato volentieri in privato, se ne avesse avuto il tempo, ma i Tornabuoni lo anticiparono e Clarice, al loro arrivo, parve dimenticare ogni altra cosa.

Quando questi arrivarono, quasi all’ora di pranzo, Clarice li attendeva sulla soglia della sala. «Messer Giovanni,» salutò con una riverenza, «vostro nipote vi ha forse scritto qualcosa in vista della giostra?»

«Si dà il caso di no, madonna. Ma so che gareggerà con i migliori destrieri della penisola; nondimeno, Lorenzo ha un fisico robusto, cavalca dalla più tenera età e sa come ci si tiene in sella. Vedrete che vi farà onore e si meriterà il premio.»

«Non ne dubito affatto!» rispose, giungendo le mani. «Ma temo per gli incidenti che occorrono spesso nelle giostre. Prendete il Montefeltro ad esempio: un così grande condottiero, esperto di duelli più d’ogni altro, è rimasto ferito e sfigurato in volto. Molti altri sono… mio Dio… sono morti! Io sono molto in pena, sono giorni ormai che non dormo più, e so che non sarò tranquilla ancora per tanto tempo, perché le notizie viaggiano insopportabilmente lente quando qualcuno le aspetta con tanta premura quanta ne ho io.»

Giovanni scambiò uno sguardo con Francesco, poi le sorrise benignamente. «Anch’io ho partecipato a una giostra in gioventù e non ero ben fornito di mezzi e di fortuna come mio nipote. Non dovete temere, ve lo assicuro.»

Accettando con gratitudine i suoi incoraggiamenti, Clarice venne a una domanda che la torturava da quando aveva realizzato che i giostranti sono soliti scegliersi una dama per cui battersi. Il gioco impone che tale dama sia presente, e il fatto che lei non sarebbe stata a Firenze fino a giugno l’autorizzava a pensare che Lorenzo avrebbe ufficialmente combattuto per qualcun altro.

«Per chi scenderà in campo domani?» domandò, ma la voce le mancò e le parole uscirono dalle sue labbra come un sussurro soffocato. Ciononostante, Giovanni la sentì e, toccandosi i radi capelli grigi sulla testa, ammise: «Per Lucrezia Ardinghelli, madonna».

Sentendo le guance cambiare colore, Clarice ripeté quel nome trasecolando e Francesco, per trarre d’impaccio lo zio, si trovò costretto a dare spiegazioni più articolate. «La Lucrezia è figlia di un Donati, famiglia antica ma caduta in disgrazia; s’è maritata con l’Ardinghelli, Nicolò Ardinghelli, tre anni or sono. C’è chi dice che sia la donna più bella di tutta Firenze e vostro marito l’ha eletta a soggetto dei propri componimenti, sull’esempio di Dante e Petrarca, illustri poeti della nostra città.»

Il giovane non avrebbe potuto dire parole più schiette per definire l’ambigua relazione che legava il Medici all’Ardinghelli. Francesco, figlio di Filippo Tornabuoni, dimorava da qualche tempo presso lo zio paterno, ma non aveva ancora plasmato i propri modi sui diversi usi e costumi del popolo romano. Ciò che a lui appariva immediatamente come un servaggio amoroso dettato dal superiore amore per la poesia, tale non era nemmeno comprensibile a una fanciulla poco educata alle lettere e alla lirica volgare. Ella, infatti, aveva ora gli occhi velati di lacrime e la sua figura si era fatta ancora più minuta, con le spalle ricurve di tristezza. «Dunque, mio marito ama questa donna così bella…»

«No, no! Madonna, non si tratta dell’amore che intendete… Mio nipote non è un santo, ve l’ho già detto, ma non vi mancherebbe mai di rispetto a questa maniera», si affrettò a rincuorarla Giovanni, non senza scostare un poco il nipote Francesco che, suo malgrado, aveva rimediato al buco con una pessima toppa. Notando come, pian piano, il colore ritornasse sulle guance paffute di Clarice, aggiunse: «So che vi ha scritto di recente; vedrete che, passata che sarà la giostra, verrà qui a visitarvi senza indugio. E si preparano già le grandi feste per il vostro arrivo, e i migliori falegnami di Firenze stanno intagliando il vostro talamo nuziale. Quando sarete laggiù stenterete a credere ai vostri occhi per la meraviglia.»

Clarice afferrò delicatamente la coppa e bevve un sorso d’acqua come a schiarirsi le idee. Giovanni, che stava in piedi di fronte a lei, la imitò prendendo un goccio di vino rosso; quindi sbirciò verso madonna Maddalena, che se ne era rimasta da un canto, quasi pretendesse di non aver nulla a che fare con il colloquio, mentre in realtà non si era persa una sola parola.

«Messere,» intervenne, sentendosi interpellata, «mia figlia, vedete, è molto, troppo angosciata da questa giostra. Pensate che non ha toccato cibo dal tramonto in qua e dice che non mangerà neppure domani, che non ne avrebbe la forza!»

La ragazzina scosse un poco la testa, come a dire che un pensiero del genere non era venuto da lei, ma la sua paura era sincera, gliela si leggeva negli occhi verdi e languidi. Perciò Francesco Tornabuoni si sentì portato a replicare: «Mio cugino sarà molto commosso al conoscere il vostro attaccamento nei suoi confronti».

Non era questa una bugia inventata su due piedi per trarre la giovinetta dall’imbarazzo in cui l’impudenza della madre l’aveva precipitata: Lorenzo era stato molto chiaro nell’ultima lettera e, pregandolo di visitare la moglie nella vigilia della giostra, aveva espressamente richiesto una descrizione del suo stato e se davvero mostrasse qualche sorta di affetto verso di lui. Da parte sua, diceva lo sposo, c’era il più vivo interesse a costruire un rapporto buono nella speranza di mantenere i legami con Roma nel modo conveniente ai Medici. Anche Giovanni, in quel frangente, ripensò a quella missiva, constatando come Lorenzo fosse fin troppo razionale, in certi casi. Le sue parole non lasciavano trapelare alcuna cura per la giovane che aveva preso in moglie, eppure, conoscendolo, era un ragazzo franco, capace di esprimere i propri sentimenti con immediatezza e spontaneità: quale che fosse la sua disposizione nei riguardi di Clarice, non era dato saperlo. Era comprensibile, da un lato, che non avesse particolari stimoli da esternare; dall’altro lato, i due si erano già visti segretamente, si erano parlati. Nessuno sapeva cosa si fossero detti, ma lo zio sospettava che il nipote fosse almeno un po’ curioso di vedere di persona com’era cresciuta, questa fanciullina romana. E costei, nel manifestare il suo dispiacere alle mancate visite e la sua apprensione per la giostra, tradiva più del semplice attaccamento che può derivare da un legame matrimoniale contratto per ragioni politiche.

Quando, una manciata di minuti più tardi, lasciarono il palazzo degli Orsini, insomma, Giovanni e Francesco Tornabuoni avevano tanti ottimi spunti per scrivere una lettera dai toni incoraggianti.

*

«Come sarebbe a dire che l’hai già incontrato?!»

Gli occhi chiari di Rinaldo splendevano della curiosità maliziosa di chi non si sarebbe aspettato una simile rivelazione. Avevano atteso che i Tornabuoni scomparissero dalla vista prima di ritirarsi in privato, al piano nobile del palazzo, per parlare lontano dalle orecchie di quella pettegola della loro madre. Il sole inclinava al tramonto e la camera da letto di Clarice, che volgeva a ovest, era inondata da un’opaca luce aranciata che penetrava dallo spesso vetro dell’unica finestra. Sedevano sul letto, il camino acceso davanti a loro li scaldava a stento, per quanto si ingegnassero insieme di scegliere i ciocchi migliori da mettere a fuoco. Certo, però, che quando Rinaldo ebbe ascoltato l’ultima rivelazione della sorella, una gran vampa di calore gli era salita su dal petto fino alla radice dei capelli: interromperla era stata l’unica cosa che avrebbe potuto alleviare un poco l’improvvisa necessità di sfogare ciò che avrebbe definito al confine tra spavento ed eccitazione.

Clarice, dal canto proprio, vedendo arrossire il fratello e sgranare gli occhi e pendere dalle sue labbra, pensò che lui volesse giudicarla per una ragazzina senza morale e si affrettò a giustificarsi: «Aveva il mio guanto, ho dovuto fermarmi a ringraziarlo!»

Non avrebbe potuto intendere diversamente l’esclamazione del fratello minore. Abbassò lo sguardo e si prese le mani una nell’altra mordendosi il labbro senza accorgersene, rigirando l’anello nuziale che le ornava il dito da poco più di un mese; ma Rinaldo era più che mai assetato di informazioni e, di fronte al suo silenzio, insistette: «La mamma non sa niente, pensa se le giungesse la voce! Clarice che parla con Lorenzo de’ Medici e questi nel giro di un anno la chiede in sposa».

«Guarda che gli ho solo detto “grazie”. Non gli ho chiesto nemmeno chi fosse, è stato lui che ha voluto dirmi il suo nome. Fosse stato per me io…»

«Tu te lo saresti fatto sfuggire perché sei vergognosa!» la prese in giro lui. «Per fortuna lui ha fatto in modo di procurarsi il tuo guanto, altrimenti chissà come sarebbe andata a finire.»

«Lo pensi anche tu, dunque? Che l’abbia fatto apposta a farsi trovare con il mio guanto?»

«Poco ma sicuro! E ti ha pure detto il suo nome. Secondo me gli piaci.»

Clarice arrossì più violentemente di prima. «No, non può essere. Aurante è di tutt’altro avviso!»

Rinaldo roteò gli occhi verso il cielo, poi, dopo un sospiro pieno di pazienza, le fece notare che la loro sorella maggiore non sapeva nulla dell’incontro segreto. «Questo dà tutta un’altra luce alla faccenda!» concluse trionfante. «Nessuno ti può negare la bellezza, Clarice. E lui se ne intende, perciò ti ha preso in moglie senza troppe esitazioni.»

Il vocio della strada che correva sotto la finestra si impose da protagonista nel silenzio che chiuse l’ultima affermazione del giovane suddiacono. Poco lontano si trovava la via dei fabbri, sicché, cadenzati come tanti tamburini metallici, tintinnavano i martelli contro le incudini. Nondimeno, in altre stagioni la via principale era percorsa da carri e persone di ogni ordine e ceto e poteva capitare di sentire una varietà di parlate da far invidia al porto di Napoli o di Genova. Nel pieno inverno, però, l’afflusso di gente era fortemente ridotto, l’aria era ferma nel suo gelo con l’eccezione di sporadiche soffiate di vento che spazzava lo sterrato, tale che, oltre ai solerti fabbri poco distanti, si udiva di tanto in tanto qualche donna intonare una canzone o un ragazzo condurre le oche, e uomini chiacchierare degli affari che avrebbero intrapreso nella primavera ventura.

«Sono pur sempre un’Orsini», ribatté Clarice alla fine, senza smorzare un pizzico di altezzosità nella voce. Suo fratello annuì, distese bene le mani sulle ginocchia e rispose: «Certo, il nostro nome attira i nuovi ricchi come il miele attira le mosche. Ma non sono loro gli unici che ne traggono vantaggio».

Nonostante la sicurezza che vibrava nel tono di Rinaldo, cosa che solitamente contribuiva a confortarla, Clarice avvertiva dentro di sé lo stesso smarrimento di prima, come se nulla fosse cambiato. Piegò il capo svogliatamente su una spalla, sospirò e tese immediatamente le labbra. Suo fratello, accorgendosene, le prese delicato la mano e gliela carezzò pian piano. «Che cos’è quel visino tutto mogio, mmh? Dimmelo, Clarì, che non sopporto di vederti così», sussurrò al suo orecchio, benché nessun altro fosse presente. Lei soffocò un singhiozzo, si tamponò la guancia con la mano libera e confessò: «Una volta Aurante m’ha spiegato che cosa un uomo si aspetta da sua moglie e… Io sapevo già che i bambini vengono se gli sposi dormono insieme, ma…»

«Ma non ti aspettavi che ci fosse bisogno d’altro. Di toccamenti, di baci e di amplessi. E sentiamo, che cosa t’ha detto di preciso?»

Prima di riferire, con la precisione di una memoria suggestionata, tutte le indicazioni ricevute dalla sorella maggiore, Clarice dedicò un lungo sguardo alle vesti di lui, che erano quelle austere di un giovane uomo di Chiesa. Esitò, temendo che argomenti del genere fossero un invito al peccato di lussuria per un ragazzo come Rinaldo, ma, dato che insisteva senza demordere, decise di sciogliere gli indugi. «Lorenzo… Lorenzo ha già praticato con donne, perciò debbo essere pronta a… A fare ciò che mi dirà. Sempre rispettando la morale, certo. Per esempio, se mi volesse fare qualcosa che è peccato grave, io gli devo dire che no, non voglio; e per il resto ho da star buona, silenziosa il più possibile e ferma, per non fare guai.»

«Sì, così penserà che sei una statua o peggio, un cadavere. Proprio un bel divertimento, non c’è che dire», rise Rinaldo, interrompendola senza potersi trattenere. Ma Clarice, imperterrita, riprese: «E ha detto che i maschi sono buffi a vedersi, sono strani. Mi ha raccomandato di non mettermi a ridere quando lo vedrò, ma nemmeno a piangere di paura. Credo che chiuderò forte gli occhi e gli lascerò fare ciò che vuole, a patto che faccia in fretta.»

Il buon suddiacono, invece che darle ragione appellandosi alla virtù della pudicizia, si profuse in un duro rimprovero: «Clarì,» esordì con il piglio di un maestro, «se farai così, tuo marito si pentirà di averti sposato, e ne avrà tutte le ragioni. Per cominciare, lui sa, spera che tu sia illibata, che tu non abbia mai veduto altri uomini e che non sappia da che parte prendere la faccenda. Non mostrarti paurosa, ma solo timida; non impertinente, ma curiosa; non ostinata, ma ritrosa. Gioca con lui, se lui vorrà giocare. E se ti parrà di andare troppo di fretta, distrailo senza infastidirlo. Non dargli sempre quello che chiede o penserà d’aver a che fare con una serva che può governare a proprio piacimento, ma non negarti mai del tutto perché, a forza di no, lo spingerai a cercare chi gli dirà sempre di sì. Intendi?»

A un cenno affermativo, continuò: «Finché sei giovane, Clarì, sii anche piacente. Sì, può darsi che commetterai qualche peccatuccio con tuo marito, e dunque? Nessun mortale è immune dal peccato, per cui non condannarti a una vita di perpetua penitenza. Se poi tuo marito ha tanta esperienza, di certo saprà che anche la femmina vuole la propria parte; da ciò che si dice è generoso e non ti negherà quel che ti spetta».

Come sovrappensiero, in realtà profondamente concentrata, Clarice si levò in piedi e andò a guardare dalla finestra il panorama di tetti e di colonne di fumo che salivano verso un cielo bigio che sembrava raccoglierle tutte come il mare raccoglie l’acqua di ogni fiume senza badare alla sua provenienza. E così il fumo dei palazzi dei nobili si mescolava senza distinzione a quello delle baracche dei popolani a monito dell’uguaglianza di tutti gli uomini, similmente a quanto fatto dalla peste a partire dalla metà del secolo precedente. Accantonando le cupe riflessioni che l’inverno e l’educazione religiosissima le avevano sempre ispirato, Clarice osò spingere più in là lo sguardo, oltre le mura della città, oltre le colline, i boschi e i campi coltivati, quasi oltre il cielo; piegò quindi lo sguardo a destra per inseguire il nord perché laggiù, da qualche parte, c’era Firenze e con essa Lorenzo.

«E quella Lucrezia Ardinghelli?» domandò allora, fingendo indifferenza, mentre le braccia che teneva conserte si stringevano più vicine al suo seno. Rinaldo fece spallucce. «Non mi preoccupo di lei; a tuo marito piace? Che gli piaccia! L’importante è che tu sia la sua donna e nessun’altra possa rivendicare i tuoi diritti per suoi.»

Nel tentativo di rilassarsi, si scelse una ciocca rossa di quelle che, per noncuranza, erano sfuggite alla treccia e vi girò attorno l’indice mentre, non vista, si mordicchiava ancora il labbro. «E com’è questo Medici? Non me l’hai ancora descritto bene…», fece Rinaldo, per non lasciare che si crogiolasse in un germoglio di gelosia.

Clarice prese un lungo respiro. «Lorenzo è alto, più alto della maggior parte degli uomini ch’io abbia visto finora; più alto anche dello zio Latino.»

«Così alto?!»

«Sì, credo di arrivare alla sua spalla, su per giù. Ha le spalle larghe e il petto ampio.»

«Così non c’è rischio che tu sia più alta di lui! T’immagini come sarebbe bizzarro a vedersi?» scherzò, dato che sua sorella non era affatto piccola di statura, per quanto invece fosse minuta di costituzione. Nell’insieme, il suo corpo aveva un’apparenza leggiadra ed elegante e il suo portamento apportava quel tocco di nobiltà che la distingueva dalle altre fanciulle di buona famiglia; cosa che, certo, aveva avuto effetto sia su Lorenzo sia su sua madre Lucrezia, per cui aveva scritto di lei: “Non credo che costì sia al presente più bella fanciulla a maritare”.

«E il volto?» riprese poi Rinaldo, piegandosi a poggiare i gomiti sulle ginocchia.

«Ecco…» esitò lei. «Ha folti capelli neri che tiene lunghi, secondo la moda, e gli occhi ugualmente neri. Ha il naso un po’ storto, in verità, e come schiacciato. Non lo definiresti un bel giovine se lo vedessi. Eppure…»

«Eppure…?»

«Ha uno sguardo così intenso che sembra quasi conoscerti già prima ancora di parlarti e, quando ti parla, è proprio come se avesse sempre saputo come farlo. Con me, per esempio…»

Stava per rivivere quel momento ed ecco, come per incanto, se lo vide davanti come quel giorno di Pasqua di due anni prima. Aveva in mano il suo guanto nero orlato di ermellino, glielo tendeva sorridente, accennava un inchino e restava lì, in attesa. “Buona Pasqua di Resurrezione, madonna”, le diceva. Ma questo a Rinaldo l’aveva già raccontato; non era stata invece del tutto sincera su quello che era seguito. Aveva omesso alcuni particolari, alcuni discorsi che forse avrebbe fatto meglio a confidare a qualcuno, o le speranze che ardevano nel suo cuore al solo ricordo avrebbero potuto scottarla.

«Quando ci siamo incontrati, lui…» riprese, ma di nuovo la potenza della memoria la richiamò indietro, facendole perdere il filo. Lorenzo la guardava con quegli occhi neri che, da soli, parevano governare ogni cosa attorno a lui. Il fascino che prorompeva dalla sua figura la ammaliava ancora e lei restava così, le labbra schiuse per lo stupore, ad ascoltarlo. Nell’attimo in cui lui si apprestava a parlarle, la porta della camera si aprì all’improvviso.

«Clarice! Hai da provare l’abito di broccato, sbrigati a scendere che stiamo tutti appresso a te.»

Sua madre balenò sulla soglia prima che la porta si richiudesse pesantemente al suo partire. La ragazzina, reduce da uno spavento reso ancor più crudo dallo stato sognante cui era stata strappata, s’accorse di essersi portata una mano al petto e, a malincuore, ricacciò il ricordo là dove usava stare quando non aveva modo di distrarsi. Rinaldo, indispettito dall’interruzione e dalla curiosità rimasta insoddisfatta proprio quando credeva che sarebbe stata saziata, sbuffò e picchiò i pugni nel materasso, quindi si alzò, scese dalla pedana in legno su cui poggiava il letto e raggiunse l’uscio. Lo scostò piano per farsi precedere e lei lo superò camminando a testa bassa, obbediente e triste al medesimo tempo.

 

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