Regalami un Sorriso

di Little Miss Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno scambio fortunato ***
Capitolo 2: *** Lentiggini ***
Capitolo 3: *** Vodka Lemon ***
Capitolo 4: *** Perdona i miei Silenzi ***
Capitolo 5: *** Il Gioco Della Bottiglia ***
Capitolo 6: *** Punto di Rottura ***
Capitolo 7: *** New York, New York! ***
Capitolo 8: *** Regalami un Sorriso ***
Capitolo 9: *** Pancakes, Alcohol and Rock 'n Roll ***
Capitolo 10: *** Un Giorno (Non) Come Gli Altri ***



Capitolo 1
*** Uno scambio fortunato ***


 Regalami un sorriso

 

Capitolo Primo: Uno scambio fortunato.

Il bar situato di fronte al Liceo Classico “Umberto Eco” nell’ora che precedeva la campanella d’inizio diventava un vero e proprio Inferno. Situato in un punto strategico del quartiere romano EUR, si affacciava sulla stessa piazza dov’erano situate la Posta, la stazione dei vigili del fuoco, l’ufficio di una importante compagnia telefonica ed una scuola elementare. Di conseguenza ogni mattina vi confluivano persone di tutte le età e di tutte le professioni per consumare la prima colazione, ordinavano cornetti, moretti(*), cappuccini e caffé corretti. I ragazzi dopo aver ordinato si sedevano sui tavolini situati fuori dal bar e mentre mangiavano, avevano l’opportunità di ripassare per l’ultima volta la materia in cui rischiavano quel giorno.
Quel giorno ero arrivata prima del mio solito e dopo aver constatato che al solito punto di ritrovo della mia classe non ci fosse nessuno, mi ero diretta verso il bar. Solitamente arrivavo sempre un po’ prima per poter parcheggiare tranquillamente la mia macchinetta senza il rischio di trovare le macchine degli impiegati dei vari uffici parcheggiate anche sui posti riservati ai motorini e a tutti i mezzi di cilindrata cinquanta. Tuttavia quella mattina, stranamente, avevo deciso subito cosa mettermi e non avevo perso troppo tempo camminando avanti e indietro per casa senza combinare niente, riuscendo così ad uscire alle otto meno dieci da casa e stando alle otto in punto di fronte all’inquietante cancello del mio liceo.
-Scusate- Dissi a voce abbastanza alta in modo da riuscire a farmi spazio fra la massa di gente che si era accalcata nell’area fra il bancone e la cassa. Mentre aspettavo che fosse il mio turno per pagare mi guardai intorno cercando di scorgere qualche volto conosciuto: riconobbi qualche ragazza dell’ultimo anno ed una professoressa della sezione G che chiaccherava animatamente con un suo alunno.
-Buongiorno, Ginni!- La voce di Franco, il proprietario del bar, mi destò dalla mia perlustrazione del luogo. Mi voltai con un ampio sorriso e contai velocemente i soldi che tenevo sulla mia mano destra: un euro e trenta giusti giusti. –Un moretto ed un caffé, giusto?-
-Giusto- Risposi sorridente. In fondo dopo due anni passati a fare sempre colazione lì, ordinando le sempre stesse cose, anche lui ed i baristi avevano imparato a memoria i miei gusti in fatto di cibo. Posai i soldi sul piattino e presi lo scontrino, mettendomelo subito in tasca. Tanto non me lo chiedevano neanche più. Sgomitando il più elegantemente possibile ed il meno dolorosamente per coloro che mi circondavano, riuscii a raggiungere il bancone, buttando immediatamente la mia borsa a terra. Non appena Anna, la barista, mi notò, mi accolse con un ampissimo sorriso e mi fece segno di andare a prendere il moretto ed il caffé. Non passarono neanche due minuti che stavo già consumando tranquillamente la mia colazione. Mentre addentavo felice il moretto assaporandone il sapore al cioccolato pensando alla giornata che mi aspettava, mi guardai un po’ intorno e non appena voltai la testa a destra vidi al mio fianco un ragazzo che non avevo probabilmente mai notato prima a scuola avvicinarsi, posare la borsa a terra e mettere lo scontrino sul bancone. Lo osservai incuriosita mentre mandavo giù l’ultimo pezzo di quella bontà ipercalorica che avevo appena mangiato: alto, capelli mori non troppo lunghi e leggermente spettinati, carnagione un po’ scura e lineamenti tranquilli, dolci e regolari. Possibile che nella mia scuola, carente di ragazzi carini, non si fosse mai parlato di quel ragazzo che meritava sicuramente un posto nella classifica dei più desiderati? Ipotizzai che fosse uno nuovo mentre portavo la tazzina alle labbra per mandare giù il caffé amarissimo. Ad un tratto lui si girò ed incrociò il mio sguardo che gli stava facendo una radiografia da almeno un paio di minuti. Mentre le mie guance si coloravano probabilmente di porpora ed indirizzavo il mio sguardo ficcanaso sul piattino dove posavo la tazzina, lui sorrideva guardandomi per poi tornare a concentrarsi sul suo cappuccino.
-Ciao, Anna!- Dissi con evidente imbarazzo nella voce mentre mi piegavo a raccogliere la borsa a tracolla da terra.
-Ciao, Bella!- Rispose salutandomi con la mano. –Ci vediamo domani!- Nonostante fosse sempre indaffarata, mi parlava sempre con una simpatia ed una gentilezza immensa, facendomi sentire ogni volta benvoluta al famoso “baretto dell’Eco”. Lanciai un’ultima occhiata al nuovo, misterioso ragazzo che in quel momento mi dava le spalle ed uscii, ringraziando il cielo che l’ora di punta era ormai passata e c’era la metà della gente.
-Ginni, Ginni, Ginni!- Una chioma di capelli biondi sembrava correre nella mia direzione dal parcheggio e solo quando si fermò e si scosse, vidi il viso della mia migliore amica, Sara.–Buongiorno! Che ore sono?- Mi domandò con un po’ di fiatone passandosi una mano fra i capelli per sistemarli e stringendo saldamento nell’altra il suo casco azzurro.
-Sono le otto e dieci- Risposi guardando l’orologio che portavo al polso. –Sembra che tu ti sia fatta di corsa il tragitto da casa a qui!- Osservai guardandola un po’ meglio senza poter evitare di ridere.
-Non ho sentito la sveglia, mi sono alzata venti minuti fa.. Non chiedermi come faccia ad essere qui! Sono venuta solo perché quella folle della Marini oggi vuole controllare le nostre parafrasi di Dante!- Respirava a stento e la sua espressione sembrava raccontare da sola la sua disavventura mattutina.
-Comunque, ora che mi hai degnata della tua regale presenza, proporrei di andare a cercare Gianluca ed entrare.. Metti caso che oggi la Marini si è svegliata prima! Poi se entriamo un minuto dopo avrà un motivo per chiamarci!- Cominciai ad incamminarmi in direzione della scuola e proprio mentre oltrepassavo il bar, usciva quel ragazzo senza nome. Lo guardai un momento prima di ascoltare ciò che mi raccontava Sara.
-Ieri sono stata tutto, tutto il pomeriggio a copiare quella dannata parafrasi da internet! Non finivano più quei cavolo di versi..- Sara era fatta così, amava lamentarsi. Era una ragazza molto sveglia, dolce, ed anche piuttosto intelligente, ma studiare regolarmente non faceva proprio per lei.. Si riduceva ogni volta all’ultimo minuto e finiva sempre per fare le cose a metà, prendendo così voti mediocri. 
-Io più che altro ho faticato a mettere insieme tutti i fogli sparsi che avevo disperso per casa!- Commentai senza troppo interesse per l’argomento mentre ci fermavamo proprio davanti alla nostra scuola, sul marciapiede opposto. –Strano che non si veda Gianluca..- Mormorai guardando la strada in salita che stava alla mia destra, su cui lato destro erano parcheggiate tutte le macchinette e tutti i motorini. -..Eppure il motorino l’ha già parcheggiato!- Aggiunsi guardando il suo scooter 125 della Yamaha sistemato accanto ad una moto nera come la pece che faceva la sua bella figura fra tutti quei motorini.
-Magari è già dentro.. Entriamo dai, che non ho voglia di colloquiare con quella racchia!- Sara mi tirò per un braccio facendomi attraversare, praticamente trascinandomi, la strada. Varcammo il cancello e salimmo i gradini, entrando così nell’edificio vero e proprio. Svoltammo a sinistra e prendemmo le scale, salendo al primo piano. Raggiunsimo la nostra classe il II E ed entrammo, trovando sei nostri compagni di classe impegnati a discutere animatamente dell’ultima partita della Roma.
-Buoongiorno!- Esordì colui che era il mio più grande amico, più importante anche di Sara e di tutto il resto del mondo: Gianluca. Capelli castani, con la frangia, portati sempre con quel poco di gel che gli donava quell’aria un po’ sbarazzina, i vestiti firmati ma senza esagerazione ed un sorriso che era in grado di illuminarti la giornata più buia. Una persona d’oro: sorridente, ambizioso, comprensivo.. Ma c’era anche da dire che era dannatamente, perdutamente stronzo. Amava dare un’immagine di sé forte, del menefreghista, ma non appena si apriva con qualcuno perdeva subito quella stupida maschera.
-Ciao, tesoro!- Dissi stampandogli un bacio sulla guancia prima di andare a posare la borsa sul banco che condividevo con lui, mentre Sara si sedeva su quello dietro che invece spartiva con Annagiulia, un’altra nostra grande amica, anche se non aveva lo stesso rapporto che avevamo noi tre.
-Oggi prevedo un’assenza collettiva- Dissi mentre andavo alla porta per affacciarmi al corridoio.
-Mannaggia alla mia stupidità!- Sbottò Matteo, un mio compagno di classe che sembrava un troll un po’ più carino. –Potevo evitare di far sega(*) quattro giorni fila per poi ridurmi il giovedì ad entrare!- Batté un pugno sul banco per poi tornare a discutere con Davide, un altro della sua stessa specie della divinità di Francesco Totti. Eravamo in tutto otto persone su diciotto quella mattina.. Indubbiamente quella vecchia megera avrebbe chiesto la parafrasi, perché spiegare non poteva secondo il regolamento d’Istituto che voleva la presenza di metà classe più uno affinché il docente potesse andare avanti con il programma.
-Arriva, arriva!- Annunciai ai miei compagni di classe precipitandomi al mio banco e prendendo posto affianco a Gianluca che già aveva tirato fuori il libro di italiano. Ci dividevamo i libri e di conseguenza non dovetti neanche scomodarmi di aprire la mia borsa: la penna la prendevo da lui ed era meglio non far vedere alla professoressa dei quaderni, in caso se ne fosse dimenticata!
-Buongiorno, ragazzi..- Disse con la sua solita vocina frettolosa fissando terra e trascinando la sua borsa di pelle marrone. Quella borsa pesava un quintale ed era l’incubo di ogni studente del corso E essere incaricato a portargliela nella sua prossima classe. Tutti ci alzammo, visto che non alzarsi era ritenuto da lei un attacco personale, e non appena lei si sedette noi tutti la imitammo, guardandoci silenziosamente intorno e pregando tutti affinché si esaurisse un unico nostro desiderio. –Come mai oggi siete così pochi? Io volevo far progredire un po’ le vostre conoscenze, per Bacco!- Borbottò aggrottando le sopracciglia ed aprendo il registro di classe. –Facciamo prima a segnare solamente i presenti, oggi.. Allora, vediamo chi c’è..- Si guardò intorno portandosi la penna alla bocca per poi fiondarsi a scrivere. –Chiara Amatori..Matteo Bassotti..Valeria Guglielmino.. Davide Manili.. Giorgia Moccia.. Veronica Paglialunga.. Sara Rossetti.. Ginevra Sforza e Gianluca Terenzi.. Eccoci qui!- Chiuse trionfante il registro e continuò a segnare le assenze sul proprio registro personale.
Ombretta Marini era considerata probabilmente la professoressa più suonata in tutto il Liceo Classico “Umberto Eco”. I racconti delle sue lezioni, delle sue battute e di tutte le sue stranezze avevano circolato per anni e continuavano a circolare per tutti i corridoi, fra tutti gli studenti ed i professori ma, stranamente, non arrivavano a lei che era la diretta interessata. Non amava seguire il programma ministeriale della propria materia: in realtà si permetteva di saltare spesso autori importanti ed opere, solo perché non sono esattamente di suo gusto. Aveva i capelli lunghi fino le spalle, grigi e sparati all’aria stile Einstein, vestiva antiquata e non sempre in un modo definibile decente. Tuttavia ciò che maggiormente i suoi studenti temevano erano le sue interrogazioni: era in grado di chiederti le cose più assurde, concentrarsi su una riga di un lunghissimo canto di Dante e mandarti a posto con un quattro solo per una domanda a cui non davi una risposta pienamente soddisfacente. La donna più eccentrica del mondo.
-Oggi cos’avevamo? Dante?- Domandò con la sua aria stralunata. Qualcuno annuì e lei si alzò dalla cattedra avanzando su quegli stivali scamosciati che portava da anni e con ancora il cappotto addosso. –Non dovevo fare un controllo delle parafrasi?-  Domandò senza conoscere in realtà neanche lei la risposta. Nessuno tuttavia osava mentirle, perché sennò la punizione sarebbe stata ben peggiore. Non si metteva né ad urlare, né a fare scenate isteriche Ombretta. Lei perdeva la fiducia, se la legava al dito e non perdeva mai l’occasione per ricordarlo.
Mentre passava fra i primi banchi, noi altri tiravamo fuori i quaderni di italiano dagli zaini. Presi la borsa e la posai sulle mie ginocchia, la aprii e ci mancò poco che non tirassi un urlo. Probabilmente in quel momento sembravo uno di quei comici cartoni animati con gli occhi sparati fuori dalle orbite e la mandibola che toccava terra.
-Non è la mia borsa questa!- Dissi a Gianluca boccheggiando. Inarcò un sopracciglio, non aveva afferrato il concetto. –Non-è-la-mia-borsa!- Scandii nuovamente ficcando la sua testa quasi dentro di essa. –Guarda!-
-Ho capito, ho capito..- Disse allontanandomi con le mani. –E di chi è diamine è allora?- Bella domanda!
-Se lo sapessi non starei qui no, che dici?- Proprio in quel momento la trotterellante figura di Ombretta Marini si accostò al terzo banco centrale che, guardate un po’ il caso, era proprio il mio.
-Dove sono i quaderni, ragazzi?- Domandò fintamente cordiale mentre in realtà già articolava la ramanzina che ci avrebbe fatto in caso non glieli avessimo dati. Gianluca le passò prontamente il suo e lei si buttò a leggere a capofitto. Gianluca Terenzi era il suo alunno preferito, ne aveva sempre uno di sesso maschile. Generalmente disprezzava i maschi e li riservava un trattamento peggiore che alle ragazze ma con il suo cocchetto di turno cambiava decisamente atteggiamento: dolce, affettuosa, premurosa..quasi una mamma! –Bravo, vedo che resti sempre un ragazzo diligente!- In realtà non aveva letto neanche mezza parola di quelle parafrasi. Gianluca avrbebe potuto tranquillamente scriverci i testi delle canzoni dei Metallica e lei se la sarebbe bevuta senza troppi problemi. –Il tuo, Sforza?- Panico.
-Professoressa.. Non ci crederà, non ci credo neanche io..Ma c’è stato uno scambio di borse!- Lei mi fissava con gli occhi sbarrati ed era già pronta ad aprire la bocca per poter usare finalmente la ramanzina che si era preparata. Tuttavia provai a salvarmi in corner e portai sul tavolo la borsa nera, l’aprii e tirai fuori tutti i libri ed i quaderni che c’erano dentro. –Non sono i libri di questa sezione, guardi!- Escalmai mettendole ad un centimetro dal naso il libro di italiano del misterioso proprietario di quella borsa. La Marini prese il libro fra le mani e lo guardò incuriosita, lo aprì alla prima pagina per cercare il nome ma non lo trovò.
-Per quanto mi riguarda potresti aver messo su questa piccola, divertente scenetta per non fare le parafrasi.. Sforza, sicuramente sei una ragazza onesta ma in tutti questi miei anni di carriera ho imparato che fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio!- Trotterellò alla cattedra e mi fissò sorridente mentre prendeva la sua agendina rossa. –Annoto il tuo nome e alla nostra prossima lezione provvederò a controllare se adempi ai tuoi compiti, signorina!- Detto ciò mi lasciò completamente perdere per continuare il proprio giro ed io sospirai sonoramente. In fondo mi era andata anche meglio del previsto. Guardai Gianluca e cominciai ad aprire ogni singolo libro e quaderno. Non c’era il nome da nessuna parte, né la classe, né un diario. Come poteva qualcuno andare in giro senza diario!
-Non ha personalità questa persona! Ha una scrittura che potrebbe essere sia di una ragazza che di un ragazzo! Non ha un diario, ha i quaderni mezzi vuoti, i libri talmente usati che neanche a volerlo riuscirei a distinguere una scritta attuale da una passata.. Chi diamine è una persona che a gennaio, con il primo quadrimestre agli sgoccioli, ha i quaderni mezzi vuoti?- Stavo cominciando a sfiorare l’isterismo e mentre li richiudevo uno per uno mi immaginavo la reazione che avrebbe avuto l’altra persona nel momento in cui avrebbe aperto la borsa. Maledizione.. Mi dovevo proprio comprare la tracolla dell’Eastpack più anonima ed irriconoscibile di tutte? Nera, senza peluche, senza portachiavi.. Chiavi? –Le chiavi! Gian, le chiavi!- Gli diedi un pugno sul braccio che lo fece sussultare. Sara fece un “shhh” invitandoci a stare più calmi visto che Ombretta stava controllando proprio al suo banco. –Le chiavi della mia macchinetta erano nella borsa..- Sussurrai posando la tracolla a terra. –C’era il mio portafoglio, i miei documenti, il mio telefono, il mio iPod.. Questo qui non ha nulla! Neanche uno straccio di libretto scolastico!-
-Guarda il lato positivo..- Si intrommise Sara che era stata appena abbandonata dalla professoressa che se ne stava tornando alla cattedra. -..L’altro ha i tuoi documenti, con su scritto il tuo nome ed indirizzo. Troverà sicuramente il modo di riportartela!- Quelle parole mi fecero tanto rincuorare che riuscii a non pensare troppo alla storia della borsa e presi addirittura qualche appunto sul nuovo argomento che la vecchia spiegava. Incredibile.. Quel giovedì si stava rivelando una giornata davvero incredibile.
Sei ore più tardi suonava la campanella più amata dagli studenti di tutte le classi: quella dell’ultima ora. Non appena finì il suo gioioso canto, gli alunni di undici intere sezioni si riversarono nei corridoi del liceo e cominciarono a precipitarsi verso una delle due uscite, a seconda di dove si trovasse la loro classe, di dove avessero parcheggiato. Uscii da quella principale che dava proprio sulla salita dove avevo parcheggiato con ancora la borsa sconosciuta sulla mia spalla. Nessuno era venuto a reclamarla durante la ricreazione e stavo cominciando davvero a perdere le speranze. Magari era un ladro che aveva creato tutto ciò per rubarmi soldi, chiavi e tutto. Le mie preoccupazioni aumentarono: cominciavo a ragionare come la mia folle prof di italiano.
-Ci vediamo domani!- Sara salutò me e Gianluca con un affettuoso bacio sulla guancia ed andò verso il suo motorino che si trovava dalla parte opposta della piazza. Io e Gianluca invece prendemmo la salita ed andammo verso i nostri rispettivi mezzi di trasporto.
-Mi dispiace di non poterti dare un passaggio, davvero.. Devo passare a prendere mia sorella a scuola..- Mi disse sinceramente dispiaciuto Gianluca. Scossi la testa, sapevo perfettamente che mi avrebbe portata sulla luna se avesse potuto.
-Tranquillo, ho mandato un messaggio a mamma avvertendola che siccome lei stava a lavoro andavo con l’autobus da nonna e restavo a pranzo da lei!- Risposi osservandolo mentre si metteva il casco e saliva sullo scooter. Certo che Gianluca meritava tutto il titolo del più desiderato della scuola. Aveva un bel fisico asciutto e scolpito, vestiva in quel modo perfetto che oscillava fra il firmato ed il casual senza mai prevalere da un lato, era simpatico, socievole ed intelligente.. Anche se l’intelligenza non era mai un fattore che veniva considerato dalle ragazze al momento di valutare una loro nuova preda.
-Ciao, Ginni!- Mi disse mandandomi un bacio lontano ed allontanandosi a gran velocità. Mi fermai lì a guardare sconsolata la mia macchinetta parcheggiata qualche metro più in là mentre mi stringevo di più nel mio cappotto. I miei lunghi capelli rossicci ondeggiavano mossi dal freddo vento invernale e mi sentivo che la sciarpona che mi ero avvolta intorno al collo non avrebbe protetto le mie povere corde vocali e che il giorno dopo probabilmente sarei sembrata un travestito della Colombo (*).
-Si, papà.. Guarda non so chi diamine sia! Stamattina sono andato alla partita di pallavolo con la scuola, sì, e quando ho aperto la borsa per prendere la tuta.. non era la mia!- Ero già sul punto d’andarmene quando a quelle parole scattai come un radar. Il proprietario della lucente moto nera che era stata parcheggiata vicino a quella di Gianluca era anche il proprietario della famosa borsa? Non lo vedevo in faccia in quanto stava sistemando qualcosa nel sottosella, forse il bloccadischi.
-Sì,sì.. ci sono i documenti e tutto.. Non credo di averla mai vista a scuola!- Ma come non mi aveva mai vista! Dove viveva il ragazzo? Conoscevo quasi tutti in quel liceo essendo stata per tutti e quattro gli anni rappresentante di classe e passando le mie ricreazioni in cortile a conversare con tutti quelli che mi capitano a tiro. –Vabbè dai ci vediamo a casa ..Sì, sì, avevo tutto nelle tasche per fortuna. A tra poco!- Attaccò e dopo aver sistemato il cellulare in tasca prese il casco e se lo rigirò fra le mani.
-Hey, aspetta!- Urlai facendolo voltare di scatto. –Credo che tu abbia la mia borsa..- Aggiunsi a voce un po’ più bassa. Lo sconosciuto si tolse il casco e rimasi un attimo allibita: era il ragazzo di quella mattina al bar. Certo che non mi aveva mai vista.. Io non avevo mai visto lui, pensavo addirittura che fosse uno nuovo. Lui inarcò un attimo il sopracciglio e poi sorrise, sfoggiando uno dei sorrisi più belli che avessi mai avuto l’opportunità di vedere.
-Credo proprio di sì!- Disse tirando fuori dalla tasca della giacca il mio libretto. –In questa foto sembri una ragazzina di dieci anni con la varicella!- Commentò ridacchiando la mia foto. Strabuzzai gli occhi e con uno scatto felino gli strappai di mano il pezzo di carta e lo strinsi al petto, non prima di aver buttato un occhio sull’orribile foto.
-Ok che sembro che io abbia dieci anni e non diciassette.. Ma non ho la varicella! Sono tante, tante lentiggini.. Le ho anche ora..- Provai a giustificarmi un po’ imbarazzata. In fondo era proprio un bel ragazzo, lui, e sentirmi fare certi commenti sulla foto non mi faceva stare proprio a mio agio. Lui mi guardò intensamente per poi annuire.
-In effetti sei proprio piena zeppa di lentiggini!- Osservò per poi avvicinarsi a me e posare accanto ai miei piedi la mia borsa. –E sei anche un po’ secchiona.. Cosa ci fai con dieci versi del Purgatorio parafrasati con tanto ordine e diligenza?- Questo era decisamente troppo!
-Ma non ti sarai fatto un po’ troppo i fatti miei? Oggi la professoressa ci controllava i quaderni e.. E sempre meglio dei tuoi! Ma dai! Non c’è uno straccio di nome da nessuna parte, hai una scrittura ambigua ed i tuoi quaderni potrebbero anche non esserci visto l’uso che ne fai!- Obiettai cocciuta ma anche un po’ divertita da quella situazione.
-Anche tu non hai tardato ad aprire tutto, Ginevra.- Bene, mi chiamava anche per nome il ragazzo! Aveva un bel sorriso certamente, ma era estremamente beffardo e sghembo. I suoi occhi castani sembravano ridere in continuazione di me ed io non sapevo se il tutto mi desse fastidio, mi stesse indifferente o simpatico. Gli passai la borsa e presi la mia, aprendola e sorridendo felice. Afferrai le chiavi della macchinetta ed il cellulare: dovevo avvertire mia madre del fatto che non aveva una figlia completamente deficiente ed andare subito da nonna, che mi stava già aspettando.
-Io ora devo andare!- Dissi infine con un sorriso che probabilmente si allargava su tutto il mio volto. –E siccome tu conosci il mio nome, potrei sapere il tuo?- Domandai curiosa guardandolo negli occhi.
-Emanuele.- Rispose molto semplicemente mentre si metteva la borsa in spalla e riprendeva il casco nero come la sua moto. –Ci si vede a scuola allora- Aggiunse sedendosi sulla yamaha.
-Sì, ci si vede!- Mi voltai e mi incamminai verso il mio adoratissimo mezzo di trasporto e, quando ne ero ormai a due passi mi voltai e vidi Emanuele ancora impegnato con il casco in un mano ed il cellulare nell’altro.
-Io non ti ho rubato la tuta, eh!- Dissi a voce alta. Lui alzò lo sguardo e mi sorrise, scoppiando poi proprio a ridere.
-Non c’era. Un giornò ti racconterò!- Lasciandomi con quella sottospecie di promessa si infilò il casco, abbassò la visiera e infilò il cellulare nella borsa. Fece retromarcia e poi con una sonora sgommata si allontanò. Lo seguii con lo sguardo mentre aprivo la portiera e mi sedevo in macchina. Posai la borsa sul sedile affianco al mio e tirai fuori un attimo le mie cose: il mio quaderno di italiano, i miei libri di storia e latino, ed infine il mio diario. Lo sfogliai qualche secondo per poi notare sulla seconda pagina un post-it giallo con su scritto:
“Complimenti per i gusti musicali! E.”
Sorrisi leggendo quella calligrafia anonima, chiusi poi il diario e partii in fretta diretta a casa di mia nonna. Probabilmente non mi immaginavo nemmeno che quello scambio avrebbe cambiato il resto del mio anno scolastico.





(*) Il moretto è un cornetto la cui pasta è fatta completamente di cioccolato ed anche al suo interno ne è riempito.
(*) La Colombo è la strada che porta dal Colosseo ad Ostia e di notte è solita essere frequentata da prostitute e travestiti.

Questa è la prima fanfiction originale che scrivo ed è ambientata in tutti posti da me conosciuti. Il mio liceo non si chiama Umberto Eco, ma la piazzetta, il baretto e tutti i luoghi descritti sono realmente esistenti. Per i personaggi mi sono ispirata a ragazzi e ragazze che frequentano la mia scuola oppure a persone di fuori che conosco. La mia prof di italiano è la famosa Ombretta, anche se non si chiama così! Spero che questa FF vi piaccia, anche se so che far appassionare le persone con una originale non è sempre facile. Tuttavia mi piace questa storia ed ho intenzione di portarla avanti!
Un bacione,
Silvia.

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Capitolo 2
*** Lentiggini ***


Capitolo Secondo: Lentiggini.

La sigaretta dopo un compito in classe di Greco è probabilmente la migliore dell’intera giornata, seguita da quella dopo mangiato. Feci un ultimo tiro prima di lasciarla a Gianluca, gustando il sapore che la Marlboro Light aveva lasciato nella mia bocca. Io, Gianluca, Sara, Matteo e Valeria eravamo in cortile a goderci quei venti minuti in più di ricreazione che ci eravamo guadagnati consegnando prima il compito. Io ero poggiata con la schiena contro la palestra, Valeria era seduta con la schiena poggiata nel mio stesso modo, mentre gli altri tre stavano in piedi davanti a noi o confrontando pezzi della versione o facendo ipotesi sugli errori fatti e sul futuro voto.
-Quasi non ci speravo più in una versione di Erodoto.. Mi ha salvata dal corso di recupero a febbraio!- Disse Valeria alzando i pugni al cielo vittoriosa. –Io amo quella donna, oggi me la sposerei!- Aggiunse sorridente.
-Adesso non esagerare.. Io non mi sposerei la Mauro neanche per tutto l’oro di questo mondo!- Commentò Sara facendo il gesto del vomito. Maurizia Mauro, professoressa di latino e di greco che si era diplomata proprio all’Umberto Eco, era una di quelle donne che sorridevano tanto e pugnalavano altrettanto spesso alle spalle. Non aveva preferenze, non ti aiutava mai. Se avevi la media del dieci spaccato ed un giorno facevi una scena muta era due, non era un “torni la prossima volta”, “sei politico”, e baggianate del genere che si sentivano troppo spesso ultimamente.
-Io per un sette la sposerei e ci andrei a letto!- Esclamò Matteo scoppiando poi a ridere. Inutile dire che lo seguimmo tutti a ruota in quella risata, scrollandoci di dosso la tensione accumulata nell’ora e mezza precedente. Matteo Bassotti era una di quelle persone che dopo quattro anni in classe insieme ancora non riuscivo a capire perfettamente. Era molto furbo, sveglio, sapeva come arruffianarsi le professoresse e senza il minimo sforzo aveva una media decente. Però era anche il classico teppista che si sfondava di alcol, fumo di tutti i generi. Un giorno poteva essere la persona più gentile ed altruista del mondo, quello dopo uno stronzo che ti faceva contrarre tutte le viscere per la rabbia. Era famoso in tutta la scuola per la sua famosa schiacciata di pallavolo: le ragazze di tutto il liceo quando c’erano le partite del torneo interno, evitavano di giocare nella partita contro il IIE proprio per non rompersi un dito o un polso, com’era già successo precedentemente.
-Che schifo!- Gianluca diede una spintarella a Matteo, buttando nel frattempo la sigaretta. –Mi stavo immaginando la scena e.. CHE SCHIFO!- Ormai la risata ci aveva contagiati tutti ed eravamo piegati in due, con le lacrime agli occhi. Quando riuscii bene o male a riprendermi mi rimisi dritta, inspirando profondamente e guardando in direzione dell’entrata a scuola vidi uscire due ragazzi. Aguzzai la vista e ne riconobbi uno: Emanuele.
Era passata ormai una settimana dal nostro casuale scambio di borse e conseguente incontro, e quella era la prima volta che lo rivedevo dopo che ci eravamo salutati davanti la sua moto. Indossava dei jeans scuri, delle converse blu, un maglione grigio e sopra aveva il giubbotto nero della Museum.
-Chi è quello?- Domandai tranquilla ai miei amici. Era distante almeno venti metri, sicuramente non avrebbe sentito niente. Tutti quanti si girarono a guardarlo mentre io cercavo di fare la disinteressanta fissando il mio sguardo sulle finestre dei bagni di ogni piano da dove erano affacciati alcuni quartini (*)
-Quello col cappotto nero è Emanuele Benassi, l’altro è Federico della Valle- Rispose prontamente Sara. Poi mi guardò con quel suo modo curioso e birichino. –Perché ti interessa, Ginni? Ti piace per caso?- Domandò facendomi l’occhiolino. Tutti i miei amici mi fissarono incuriositi. Raramente a me, Ginevra Sforza, la lentigginosa rossa del IIE, piaceva un ragazzo. Solitamente avevo differenti spasimanti ma li consideravo tutti estremamente appiccicosi e stupidi, così mi ero guadagnata con il tempo la fama di “stronza”. In realtà non mi ero mai lamentata di quell’appellativo che accompagnava spesso il mio nome fra i ragazzi, perché in fondo un po’ stronza lo ero davvero, senza impegnarmici. Il mio problema più grande con i ragazzi era che sì, magari fisicamente mi piacevano e ci uscivo un paio di giorni, ma dopo quarantotto ore se non avevano neanche un po’ di sale in zucca li scaricavo senza farmi troppi problemi e senza dar loro troppe spiegazioni. Restava il fatto che a me, quel ragazzo, non piaceva. Indubbiamente aveva qualcosa che catturava la mia attenzione ma, oltre a ciò, non c’era assolutamente nulla.
-No, ma che dici!- Distolsi lo sguardo dalla figura di Emanuele e mi concentrai a dissuadere i miei amici dalla teoria che stavano silenziosamente covando. –Solo che lui era il famoso proprietario della borsa che ho scambiato ieri e non sapevo il suo cognome!- Mi giustificai determinata riuscendo apparentemente a convincerli.
-E ci hai anche parlato?- Domandò Valeria lanciandogli di tanto in tanto un’occhiata.
-Mmm.. Sì, perché?- Quella domanda mi aveva un po’ stupita effettivamente. Se ci avevo parlato? Certo.. Mica mi ero presentata, mi ero presa la borsa, gli avevo ridato la sua e poi ero corsa via!
-Hai parlato con Benassi? Non ci credo!- Questa volta era Sara che mi guardava con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca aperta. –Perché non me l’hai detto!- Lanciai una silenziosa richiesta d’aiuto a Gianluca e Matteo, sperando di essere salvata da quelle due che mi stavano lentamente circondando. Però i ragazzi hanno un brutto vizio, purtroppo: parlare sempre ed esclusivamente di calcio, donne e moto. In quel momento il loro discorso verteva sul nuovo calendario di Megan Fox e sapevo che pretendere un salvataggio d’emergenza era agli stessi livelli di chiedere ai miei come regalo di compleanno un Ferrari: inutile e deludente.
Tornai a posare lo sguardo sulle mie due amiche che mi guardavano in preda ad una voglia irrefrenabile di novità ed abbassai un momento lo sguardo prima di parlare. –Ma sì che ci ho parlato! Abbiamo scherzato un po’ sulla storia dello scambio e su queste cose.. Poi me ne sono andata! – Dissi tutto d’un fiato sperando di calmarle ma le mie parole ebbero l’effetto contrario. –Perché diamine fate quelle facce!- Sbottai esasperata.
-Hai parlato, riso, scherzato con Emanuele Benassi! Te ne rendi conto?- Disse Valeria con foga mentre Sara accanto a lei annuiva. –Emanuele Benassi! Quello lì non scende mai in cortile, non parla mai con nessuno che non sia Federico della Valle o un compagno di classe ed è un figo allucinante! E’ ricco da far paura.. Il padre è il proprietario di un’importantissima multinazionale e la loro famiglia passa l’anno scolastico qui e le vacanze a New York in un attico sulla 5th Avenue!- Certo che Valeria Guglielmino si stava rivelando un vero e proprio database di gossip. Valeria era una ragazza tutto pepe: capelli castani, portati a caschetto, uno stile tutto suo ed originale. I suoi occhietti vispi sembravano sempre sul punto di combinare qualche pasticcio ed era un’amante della risata di prima classe.
-Grazie per avermi detto la sua vita, morte e miracoli ma davvero, non mi interessa, ci ho solamente parlato per quella questione della borsa!- Sara e Valeria si guardarono per un istante, decidendo silenziosamente di non insistere più. Probabilmente immaginavano che ben presto i motivi per insistere si sarebbero presentati spontaneamente.
-Comunque sta in II A- Disse ad un tratto Sara. Mi aveva letto nel pensiero per caso? Avevo passato gli ultimi due minuti a chiedermi in che classe stesse, per capire anche perché non lo avevo mai visto nel mio corridoio. Lui stava sempre al mio stesso piano, solo con la classe nel corridoio che si affacciava sulla grande piazza, mentre la mia finestra dava sulla scuola elementare.
Passò poco tempo ed il discorso su Emanuele Benassi era stato archiviato. Nel frattempo era suonata la campanella che annunciava l’inizio della ricreazione ed un mare di gente si era riversato nel cortile. La maggior parte della popolazione studentesca trascorreva quei quindici desiderati minuti nel cortile, mentre una parte più ristretta preferiva vagare per i corridoi, o restare in classe a ripassare o affacciarsi alle finestre dei bagni ed osservare la vita da sopra senza però prenderne parte. Molte persone desideravano quella campanella per poter scendere e contemplare per quindici minuti la persona che volevano ma con cui non avevano ancora mai parlato, altri per incontrarsi con i rispettivi fidanzati o con amici che stavano nelle classi, molti semplicemente per sedersi o con la schiena contro la palestra o sul campetto esterno di pallavolo e chiaccherare ripassando nel frattempo qualcosa tutti insieme. Una volta mi era capitato di dover restare su in classe durante la ricreazione e solo allora mi ero affacciata ad una delle famose “finestre” e dovetti ammettere che era uno spettacolo seguire tutto da sopra, soprattutto se si stava al primo o al secondo piano, da dove c’era una visuale perfetta visto che si entrava nel cortile solamente dal piano seminterrato.
Quel giorno il mio sguardo cercò comunque incuriosito Emanuele Benassi. La descrizione che me ne avevano dato Sara e Valeria mi fece distrarre completamente dai discorsi che venivano nel frattempo condotti all’interno del gruppetto con cui passavo le mie ricreazioni. Aveva quel non so che si misterioso, quel ragazzo, di irraggiungibile che mi intrigava. Forse perché noi umani siamo fatti così: ci interessiamo di qualcosa solo quando quel qualcosa non sa minimamente della nostra esistenza.
Ad un tratto lo notai e mi destai dai mille pensieri che già inconsciamente stavo facendo. Era seduto sugli scalini che collegavano la faccia della scuola che dava sulla piazza ed il cortile, con Federico della Valle ed altri ragazzi della sua classe che avevo già visto qualche volta in giro per la scuola. Era tranquillo, rilassato, rideva e si vedeva che stava a proprio agio. Non lo avevo davvero mai notato in quei quattro anni a scuola? Com’era possibile? Eppure le mie amiche e, secondo il loro parere, moltissime altre ragazze sarebbero morte pur di ottenere un suo sguardo, una minima considerazione da parte sua. Eppure lui era così.. Riservato. Non era come Gianluca. Gianluca era un bellissimo ragazzo, desiderato da mezza scuola, ed era aperto, parlava con tutte le ragazze che timidamente si presentavano. Lo faceva per poi illuderle, certo, perché come ho già detto un po’ stronzo lo era, ma almeno non si chiudeva a riccio, conquistando giorno dopo giorno sempre maggiore popolarità all’Umberto Eco. Benassi invece era completamente l’opposto.. O era timido e non a conoscenza dell’effetto che faceva il suo aspetto alle ragazze, oppure era un ricco, viziato figlio di papà che si considerava estremamente superiore e non si mischiava con la ‘gente comune’. Chissà perché avevo il presentimento che fosse lo specchio della mia seconda ipotesi. Eppure il giorno precedente si era rivelato simpatico, aveva scherzato, riso, mi aveva anche presa in giro, se volevamo essere precisi, rivelandosi un tipo alla mano.

Driiin

Senza che me ne fossi accorta era trascorsa l’intera ricreazione che io avevo passato a guardare imbambolata un ragazzo. Un ragazzo! Come se fosse il primo essere di sesso maschile decente che vedessi! Dio, sembravo una dodicenne in calore!
-Come mai oggi eri così silenziosa?- Mi domandò Gianluca mettendomi un braccio intorno le spalle mentre stavamo rientrando nell’edificio. –Di solito non stai zitta un minuto. Mi nascondi qualcosa, roscia?- Sorrideva lui, ma sapevo che in realtà nutriva forti sospetti.
-Ma che! Stavo solamente pensando alle due ore infernali che ci aspettano! Matematica e fisica!- Mentii spudoratamente facendo spallucce. Non dovetti fingere più di tanto l’odio che nutrivo per quelle due materie.. In fondo stavo ad un Liceo Classico e l’odio per le materie scientifiche era innato in quasi tutti.
-Ma se oggi andiamo a vederci quel documentario!- Si intromise Sara prendendomi sottobraccio. La mia mano destra finì sulla mia fronte. –Sei la solita sbadata!- Ridacchiò insieme a Gianluca.
-Quello su Einstein, è vero!- Dissi ridendo anche io. Quei due erano la mia dose di allegria giornaliera. Sapevano farmi ridere sempre, in qualsiasi occasione, senza fare niente di speciale. Non dovevano inventarsi balletti, fare facce buffe, bastava che parlassero, facessero una battuta, ed io già ero a terra morta dal ridere.. Era la loro presenza. La presenza dei miei due migliori amici.
-Anche voi andate?- Una voce alle nostre spalle parlò quando arrivammo al pianerottolo del nostro piano. Ci voltammo ed incrociammo lo sguardo di Giacomo De Angelis, il rappresentante di classe del II A. Fermi tutti: II A? La classe di Emanuele?
-Sì! Infatti l’Angelucci ce lo aveva anticipato che ci sarebbe stata un’altra classe!- Disse Gianluca dopo aver stretto la mano di Giacomo.
-Ah, davvero l’aveva detto?- Chiesi senza neanche accorgermente. I tre mi fissarono un po’ straniti.
-Oggi stai un po’ fra le nuvole eh!- Disse Giacomo sorridendo. –Chissà a cosa o a chi pensa la signorina!- Tutti scoppiarono a ridere ma io ringraziai il cielo, nel frattempo, per avere tutte quelle lentiggini che mascheravano sempre i miei rossori improvvisi.

Dieci minuti dopo il IIA ed il IIE si trovavano nell’Aula Magna del Liceo “Umberto Eco” a parlare a voce altra fra loro mentre le due professoresse di matematica cercavano di far partire il documentario. Sedevo nell’ultima fila con Sara, Gianluca, Davide e Matteo e seguivo attentamente la partita di briscola che gli ultimi due stavano facendo sui propri iPhone.
-Ma sei un deficiente eh!- Sbottai tanto una piccola botta in testa a Matteo. –Ti pare che butti il tre di briscola con l’asso che non è ancora uscito! Ti sta bene!-
-Non avevo visto che era di briscola!- Provò a giustificarsi cercando di recuperare l’irrecuperabile. Un secondo dopo aveva messo il telefono in tasca scocciato per non leggere l’enorme scritta “HAI PERSO” che sarebbe apparsa a breve sullo schermo. Mi guardai intorno e riuscii a scorgere Emanuele, seduto con Giacomo e Federico qualche fila avanti a me, tutto impegnato a ridersela con i due amici. Distolsi lo sguardo e decisi di non imbambolarmi a fissarlo più, concentrandomi su Sara e Davide che stavano cercando di vincere all’ennesimo gioco stupido che il ragazzo aveva scaricato dall’iStore.
-Silenzio, ragazzi, silenzio!- Disse l’Angelucci ad alta voce. –Accendete i vostri cervelli e spegnete i cellulari!- Le battutine di quella donna circolavano da anni per la scuola e, anche quella, provocò qualche risatina per la sala.
-Come sapete, Albert Einstein.. – Continuò la Rosa, la professoressa dell’altra classe. Spensi decisamente anche il cervello, oltre al cellulare, posando la mia testa sulla spalla di Sara e non facendo caso ad una sola parola di quella donna. Si spensero le luci e restammo noi, le prof ed Einstein. Il documentario partì, in bianco e nero, ed una monotona, noiosissima voce parlò. In inglese?! Certo! Quelle due pazze speravano che 40 alunni avrebbero retto due ore di film coi sottotitoli anche in bianco e nero?
-Prof ma che è sta cosa!- La voce di Davide sovrastò quella inglese del narratore e tutti si girarono verso di noi prima di scoppiare in una sonora risata. Fra tutte quelle teste girate c’era anche quella di Emanuele che rideva insieme agli amici guardandoci. Guardandomi, forse. Chissà se mi aveva notata, riconosciuta. Lo guardai con un sorriso ma lui sembrò non accorgersi di me, tanto è vero che si girò e con le braccia incrociate al petto continuò a seguire il filmato. Maledetto ragazzo! Poi aveva dato della secchiona a me, quello?
Sbuffai imbronciata, come una bambina a cui si rompe la bambola preferita. Mi poggiai allo schienale della sedia e cominciai a cercare di seguire quel dannato documentario. Peccato che il II E fosse la classe più casinista dell’intera scuola e la nostra cattiva fama era giunta ovunque.. Neanche volendo mi sarei riuscita a concentrare! I ragazzi cominciarono a tirarsi palline di carta e ben presto nelle ultime due file scoppiò una vera e propria guerra con tanto di urla barbare, alleanze e comportamenti non adatti a dei diciassetteni e a dei diciottenni.
-Matteo questa me la paghi!- Dissi a voce forse un po’ troppo alta nel momento decisamente sbagliato. In quel momento l’Angelucci aveva interrotto la riproduzione del filmato e Davide aveva tirato una pallina di carta proprio in testa a lei. La donna si voltò e mi becco con il braccio a mezz’aria pronta a dare un’amorevole carezza a Matteo.
-Sforza!- Il mio cognome rimbombò per tutta l’Aula Magna e fra le due classi calò il silenzio. –Ringrazia Dio che non ti mando dalla preside per questa!- Urlò alzando la mano con la pallina tirata da Davide in mano. Boccheggiai, pronta a rispondere, ma la gomitata nello stomaco da parte di sara mi intimò il silenzio. –Te la cavi uscendo solamente dall’aula fino alla fine della riproduzione del filmato! Non ti metto una nota solo perché siamo agli sgoccioli del primo quadrimestre ed un sette in condotta ti rovinerebbe!- I suoi occhi sembravano pronti ad incenerirmi. Presi velocemente la borsa e me la misi a tracolla, mentre sentivo i miei compagni esprimere pareri tipo “Pur di non vedere questo schifo mi faccio sbattere fuori pure io!” e gli occhi di quaranta persone puntati su di me. Anche i suoi occhi. Lo guardai per un istante mentre tentavo di uscire da quella fila di sedie.
-Non sei poi tanto secchiona!- Mi disse ad un tratto facendomi l’occhiolino. Inutile dire quanto fosse giunto inaspettato quel commento alle mie orecchie. Si era accorto della mia presenza, di tutto.. Non ero stata un fantasma per lui in quell’ora e un quarto di stupido documentario. Scossi la testa e sorrisi, uscendo poi dall’Aula Magna senza proferire altra parola.
Non appena chiusi la porta sospirai sollevata: in fondo mi ero tolta il peso di dover seguire quel noiosissimo video fino alla fine! Nonostante ciò, non vedeva l’ora di vedere uscire Davide Manili da quella stanza per fargliela pagare. L’Angelucci già la detestava abbastanza, le mancava pure quel ricordino per avere un perfetto “pacco regalo” da dare ai miei genitori ai prossimi colloqui. Maledetto ragazzo!
Sbuffando mi incamminai verso la macchinetta del caffé e dopo aver inserito trenta centesimi presi quello che era il terzo caffé macchiato della giornata. Uscii in cortile, presi una sigaretta e me l’accesi, gustandomi quei trenta minuti di pace che mi aspettavano.
Perché tutto d’un tratto Benassi mi rivolgeva la parola? Era passata una settimana senza che lo vedessimo, quel giorno non mi aveva calcolata di striscio ed ormai lo vedevo troppo ben puntato sul suo piedistallo. Magari voleva essere simpatico, divertente. Poi per aver fatto quella battuta aveva dovuto ricordare il fatto che mi aveva dato della secchiona quel giorno! Fermi, fermi, fermi. Io, Ginevra Sforza, stavo cominciando a farmi filmini su un ragazzo? Io che i ragazzi non li desideravo mai e loro si presentavano di continuo? Dov’era finita quella parte di me che era definita stronza e che andava a braccetto con la mia popolarità? Feci un altro tiro di sigaretta e scossi la testa. Non era possibile, mi stavo riducendo a fare cose che non erano da me. In quella settimana non ci avevo mai pensato a quel ragazzo, ma possibile mi fosse bastato solamente rivederlo per rifarmi tanti tanti viaggi mentali?
Finii la sigaretta e la buttai, bevendo poi l’ultimo sorso di caffé e gettando il bicchierino di plastica nel secchio che stava accanto alla porta dov’ero poggiata.

-I haven't been home for a while I'm sure everything's the same mom and dad both in denial and only jokes to take the blame..-(*) Cantavo ad alta voce mentre guidavo diretta a casa. Appena era suonata la campanella mi ero precipitate fuori da scuola, ero salita in macchinetta ed ero partita. Il cielo non faceva pensare a nulla di buono ed ero sicura che a breve avrebbe piovuto. Il semaforo diventò verde ed io proseguii diretta a Via della Grande Muraglia, dove vivevo. Svoltai a destra e presi la strada che avrei dovuto fare dritta per dritta per almeno altri cinque minuti. Guidavo piano, a quei cinquadue chilometri orari che l’Aixam mi permetteva. La radio era altissima, come mio solito. Amavo cantare ma avevo sempre avuto l’impressione di essere abbastanza stonata e, di conseguenza, se dovevo cantare dovevo farlo senza poter sentire la mia voce. Mentre mi lasciavo alle spalle il Laghetto dell’EUR pensavo alla giornata che mi aspettava una volta a casa. Dovevo studiare latino e biologia, fare una versione di greco e poi andare in piscina per il corso teorico da bagnina.. Era solo l’una e mezza, potevo tranquillamente farcela! Tutto sommato ero complessivamente di buonumore ma, la sfiga nera che mi perseguitava da una settimana circa, era pronta dietro l’angolo a colpire.

Boom

Avevo preso sicuramente una buca, ma la cosa più grave era che la macchinetta si era spenta. Fortunatamente, se fortuna la si poteva chiamare, stavo sulla corsia a destra e così riuscii ad accostare il più possibile la macchinetta al marciapiede, nonostante il motore spento e mettere poi le quattro frecce. Uscii da quella inutile scatola di latta e mi guardai intorno: non c’era niente e nessuno che potesse essere utile a me e all’Aixam. Mi portai le mani fra i capelli e tirai fuori il cellulare. Spento. Mannaggia a me che mi scordavo sempre di metterlo in carica! Strinsi i pugni e guardai il cielo. Ecco, direte che è la scena più classica del mondo, la più ridicola. Ma credetemi, quella scena scontata e da due soldi capitò proprio a me. La pioggia. Piccole, stupide, insulsi gocce cominciarono a cadere sul mio viso bagnandomi gli occhi, il naso, le guance. Mi tolsi l’elastico che portavo al polso e lo usai per legarmi i capelli. Non che fossi una di quelle bimbe amanti dei propri capelli che sbraitavano appena si arricciavano, ma erano lunghi fino alla metà della schiena e quando erano bagnati si appiccicavano ovunque dandomi un fastidio micidiale.
Guardavo l’orologio senza riuscire a ragionare: cosa fare? Dove lasciare la macchinetta? Come tornare a casa? Intanto erano passati dieci minuti senza che io concludessi qualcosa. Ad un tratto, mentre la pioggia mi aveva fatto completamente la doccia e le mie speranze erano finite sotto le suole delle mie scarpe, sentii il rombo di un motore ed il rumore di una fermata. Alzai lo sguardo e vidi una moto nera lucente davanti alla mia macchinetta grigia. Emanuele?
-Oddio sia ringraziato il cielo!- Esclamai forse a voce troppo alta, perché mentre si toglieva il casco lo vedevo che rideva sotto i baffi. Probabilmente non ero mai stata così felice in vita mia di vedere una persona.
-Che ti è successo, studentessa modello?- Mi domandò non appena scese dalla moto, avvicinandosi. –La scatola di latta è morta?- Solo io potevo chiamare in quel modo il mio amatissimo catorcio. Arricciai un po’ il labbro e poi annuii.
-Non riesco più a farla partire.. Ho provato tutti i modi che il meccanico mi ha suggerito di provare in questi casi..- Lui scoppiò a ridere sotto il mio sguardo accigliato. –Che ti prende?-
-Scommetto che ti si ferma regolarmente!-
-Sì..ma è la prima volta che non riparte!- Fu un botta e risposta veloce. Di sicuro non mi facevo tenere testa, in nessun discorso, scherzoso o serio che fosse, da nessuno. Emanuele salì in macchinetta e provò ad avviarla senza alcun successo, poi tolse le chiavi me le diede in mano e sorrise, come uno che pensa a qualcosa.
-Sali in macchina!- Mi disse, aprendomi la portiera. Alzai un sopracciglio senza muovere un passo. –Su dai, non fare la preziosa.. Dobbiamo parcheggiarla in quel posto un po’ più avanti, non puoi mica lasciarla qui finché non viene il carroattrezzi!- Più che convinta salii in macchina e tolsi il freno a mano, mettendo poi le mani sul volante.
-Vai, sono pronta!- Lui si era già posizionato dietro la macchina, con le braccia tese e le mani che premevano sul vetro posteriore. Cominciò a spingere e la macchinetta senza troppi problemi si spostò. Fortunatamente per entrare nel posto non dovemmo fare molte manovre e dopo qualche situazione esilarante e risata, uscii dalla macchinetta soddisfatta con la borsa a tracolla. Emanuele sorrideva raggiante mentre era impegnato a tirare qualcosa fuori dalla sua cartella senza lasciare che i libri si bagnassero per la fitta pioggia. Allungò poi il braccio e mi porse un casco bianco, semplice, con qualche scritta in nero qua e là.
-Stai scherzando?- Avevo una paura folle delle moto e di qualsiasi cosa avesse due ruote. Le mie avventure, o forse sarebbe stato meglio chiamarle disavventure, con la bicicletta erano note a tutti miei amici ed ogni volta che si organizzava una scampagnata io restavo a casa a guardarmi la televisione.
-Come ci vorresti tornare a casa, di grazia?- Mi domandò guardandomi negli occhi. In quel momento mi persi completamente nel suo sguardo. I suoi occhi castani avevano qualche leggerissima sfumatura di verde ed era così grandi, dolci, espressivi. La frangia mora era appiattita contro la fronte e le goccioline di pioggia scivolavano veloci sul suo viso. Diamine, possibile che mi incantassi come se nulla fosse?
-Sulla bicicletta mi sono rotta una gamba, poi un polso, poi tre dita. Una volta sono salita sul motorino di Sara ed abbiamo preso una buca, cadendo.- Dissi in fretta, quasi per nascondere l’imbarazzo provocato dal raccontare sia la mia incapacità di stare su mezzi a due ruote, sia quello provocato dall’essermi fissata a guardarlo.
-Hai paura?- Domandò ridacchiando. –Ma ti fai tanto la dura, l’ho visto il tuo diario, sai.. Tutte canzoni dei Metallica, dei Guns and Roses.. E poi hai paura della moto e della..- Qui la risata prese il sopravvento. Impiegò qualche secondo a riprendere controllo di sé. -..della bicicletta?- Boccheggiai qualche secondo prima di ridere un po’ anche io.
-Sono paure fondate perlomeno!- Mormorai alzando le mani e facendogliele vedere. –Guarda i miei mignoli..Sono stortissimi..- Dissi con voce lamentosa. Lui prese le mie mani fra le sue ed avvertii un calore unico, immenso. Lo osservai mentre le guardava divertito, tenendole strette.
-Sei proprio un personaggio!- Disse poi lasciando delicatamente le mie mani e passandosi le proprie fra i capelli. –Mettiti quel casco e andiamo. Sta diluviando e non smetterà.. E se non arriviamo a casa domani ci sveglieremo con la broncopolmonite.- Ormai le sue parole non suonavano più come proposta, ma come un vero e proprio ordine. Senza aggiungere altro salì sulla moto e mi fece cenno con la mano di montare. Con la maggiore lentezza di cui ero capace mi avvicinai a quella bestia di moto e salii, mettendomi poi in fretta il casco. –Non te lo stringere troppo che poi muori non per colpa della moto ma per soffocamento!- Mi stava guardando nello specchietto retrovisore. Probabilmente arrossii ma per fortuna non mi specchiai in quel momento, odiavo vedere la mia figura già prevalentemente rossiccia diventarlo ancora di più.
-Dobbiamo andare alla fine di Viale della Grande Muraglia..poco prima del benzinaio.- Annunciai, schiarendomi prima la voce. Lui si limitò a fare un leggero segno con il capo.
–Sei pronta?- Deglutii e poi mormorai un leggerissimo “sì” mentre mettevo i piedi nel punto apposito–Puoi anche stringerti a me, eh.. Non ti faccio del male.- Disse guardandomi per un ultima volta prima di abbassarsi la visiera e mettere in moto. Passai le mie braccia intorno al suo busto e chiusi gli occhi. In quel momento lui diede gas ed un attimo dopo la mia macchinetta era solo un lontano ricordo.
Emanuele guidava veloce, sicuro di sé, ma senza esagerazione. In fondo penso che si preoccupasse della mia innata paura per la moto e non ci tenesse a farmi prendere un infarto. Stringendomi a lui riuscivo a percepire tutto il suo calore e, dopo i primi istanti, aprii gli occhi e guardai il mio quartiere scorrermi veloce affianco. Si muoveva agilmente fra le macchine e le sue fermate non erano mai brusche ed improvvise ma anzi, completamente il contrario. Mi aveva fatto apprezzare per una volta nella mia vita quello che chiamavano il “brivido delle due ruote” e quando si fermò davanti alla mia palazzina e non sentii più il vento sul mio viso, dovetti ammettere che quasi mi dispiaceva.
-Allora, fifona.. Com’è andata?- Mi domandò mentre scendevo dalla moto e mi toglievo il casco, senza reggermi neanche bene in piedi. Lui si era tolto il proprio senza però scendere dalla moto e mi guardava con un sorriso.
-Strano ma.. bene.- Risposi sincera, restituendogli il casco e cominciando a prendere le chiavi di casa dal cappotto. Su una cosa aveva avuto ragione.. La pioggia non aveva proprio voglia di smettere di cadere.
-Sono proprio un guidatore provetto!- Disse ridendo con quel suo fare spavaldo ed un po’ ammiccante.
-Te lo potrei anche lasciar credere, mister modestia!- Lo guardai sistemare il casco bianco nella borsa e risistemarsela in modo tale che non lo disturbasse a guidare. –Grazie mille, comunque, davvero.. Mi hai salvata da.. Non so nemmeno io che cosa..-
-Ma figurati!- La sua risposta fu gentile. Per un momento pensai alla descrizione che mi aveva dato Valeria di quel ragazzo: chiuso nel suo mondo, viziato, ricco sfondato e menefreghista. Non vedevo nessuno di quegli attributi in lui.
-Ti devo un favore.- Dissi prima di salutarlo con un cenno della mano ed avviarmi al mio cancello. Lui ricambiò quel cenno con un movimento più piccolo, più impercettibile, e mi guardò mentre aprivo piano il portone. Prima di scomparire dietro di esso mi voltai per guardarlo un’ultima volta. Si era già messo il casco senza però abbassare la visiera.
-Ciao, Lentiggini!- Mi urlò con un largo sorriso beffardo impresso sulle labbra. Poi si sistemò il casco e tutto per un’ultima volta e partì velocemente, più velocemente di quando c’ero io dietro di lui. Mormorai un impercettibile “ciao” e poi entrai scuotendo la testa.
Lentiggini? Mi aveva chiamata.. Lentiggini?


Autrice:
Grazie mille a tutti coloro che hanno recensito, aggiunto la storia ai preferiti e alle seguite, ma anche ai lettori silenziosi. Sono felice che il primo capitolo vi sia piaciuto e spero che questo non vi deluda visto che io lo adoro. Non so precisamente come farò continuare l’intreccio ma fidatevi che me ne uscirò con qualcosa di buono!
Un abbraccio a tutti,
Silvia.

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Capitolo 3
*** Vodka Lemon ***


Capitolo Terzo: Vodka Lemon 

Lentiggini. Mi aveva chiamata Lentiggini.
Quando entrai nella mia stanza, buttandomi poi sul letto, non riuscii a non pensare ad Emanuele Benassi.. come darmi torto, d’altronde? Affioravano nella mia mente le immagini di quella mezz’ora passata insieme, del passaggio in moto, del suo modo di fare, della sua risata ed inevitabilmente mi ritrovai a fantasticare.
Cosa diamine succedeva? Ero sempre io, Ginevra Sforza? Scossi la testa mentre mi toglievo il cappotto, la sciarpa ed infine le scarpe, senza prendermi la briga di mettere a posto niente di tutto ciò. Sicuramente qualcosa di strano, di insolito stava accadendo ed io non riuscivo a farci i conti, ma perché? Forse inesperienza o paura. Inesperienza perché mai mi ero trovata nella situazione di pensare ad un ragazzo che non era minimamente interessato a me e paura perché probabilmente il ricordo di Federico bruciava ancora dentro di me.
Federico Grandi era stato il mio primo, unico ragazzo. L’unico che era riuscito ad aprire il mio cuore definito da tutti di ghiaccio, l’unico che mi aveva fatta sentire speciale, che era entrato nella mia vita con convinzione, apparentemente per non uscirne mai. Eppure, come sempre accade, l’utopia di quell’amore destinato a durare per sempre si infranse, lasciando solamente cocci che ferivano molto più della rottura del sogno stesso. Ancora ricordavo quel pomeriggio autunnale quando pochi giorni dopo aver festeggiato i nostri nove mesi insieme, mi aveva detto che non mi amava più come prima, che non ricambiava più i miei sentimenti, che voleva farla finita con me per non illudermi ancora di più, per non ferirmi. Io ne ero uscita distrutta inizialmente, con il cuore spezzato non in due pezzi, ma in infiniti, ma con il passare dei giorni, delle settimane, vedendo in lui solo indifferenza, avevo raccolto tutte le mie forze fino a costruire una maschera d’indifferenza di cui mi ero stupita io stessa.. Due settimane e sembrava che non fosse passato nulla, sembrava che sul mio cuore non fosse passato un treno. Erano trascorsi tre mesi da quel ventisette di ottobre, ma nonostante facessi finta di nulla, nonostante ridessi di quella storia, spesso mi chiudevo in stanza ed accedendo la musica soffrivo silenziosamente, con orgoglio, com’ero abituata a fare con tutto.

 Driiiin!

 Il telefono di casa mi destò da quella triste ondata di pensieri, facendomi sobbalzare. Corsi velocemente in salone e presi la cornetta, schiarendomi la voce.
-Pronto?- Dissi, sperando che chiunque fosse non riuscirre a sentire la mia voce un po’ roca, dispersa ancora in quei dolci e contemporaneamente amari ricordi.
-Ginevra, sono io!- Era la voce di mia madre, che probabilmente mi aveva chiamato mille volte sul cellulare ed infine arrerasi aveva chiamato a casa. –Perché hai il cellulare spento?-
-Sì è scaricato.. Senti, la macchinetta si è rotta, l’ho lasciata parcheggiata in Via della Tecnica..- Cominciai mentre mi guardavo le punte ramate dei capelli. –Non è che poi potresti chiamare il carroziere e chiedergli quando può venirla a prendere?-
-Sì, sì.. – Mi disse leggermente sbrigativa lei dopo qualche istante. Probabilmente aveva ancora molto lavoro da svolgere. –Tu stai bene? Vai a mangiare, ti ho lasciato un’insalata!- ù
-Tutto apposto, mamma, non ti preoccupare.. Ora vado a mangiare!- Quella breve conversazione si chiuse con i soliti saluti che ci si scambia fra madre e figlia e poggiata la cornetta andai in cucina. Presi l’insalata che mi madre mi aveva preparato e me la portai in salone dove dopo essermi seduta ed aver acceso la televisione, cominciai a mangiare con gusto. Quando mi ritenni sazia e soddisfatta, presi il telecomando e cominciai a cambiare canale, sperando di trovare un programma, magari anche il più stupido che fosse di mio gradimento, ma sembrava che quella pioggia avesse lavato via anche tutto ciò che di decente ci fosse in tv, costringendomi a spegnerla. Tornai in cucina mettendo a lavare il piatto, il bicchiere e la forchetta, affacciandomi nel frattempo anche alla finestra, per perdermi ad osservare le goccioline che correvano lungo il vetro, donando sempre più maliconia a quel pomeriggio.

 Driiiin!

 Possibile che tutti avessero deciso di farsi due chiacchere con me? Sbuffando corsi nuovamente in direzione del telefono e risposi cercando di mascherare la mia scocciatura.
-Pronto?- Quasi mi stupii della falsità del mio tono, aggrottando la fronte. Evidentemente non fui l’unica a stupirsi, visto che dall’altra parte della cornetta sentii una risatina.
-Che diamine fai?- La voce di Sara mi fece decisamente risollevare il morale e sorrisi quasi naturalmente, buttandomi poi sul divano pronta ad un’intensa chiaccherata.
-Pensavo fosse di nuovo mia madre..- Mi giustificai, cominciando a giocherellare con i capelli. -..Non hai idea di cos’è successo oggi dopo scuola!- Così mi riservai la bellezza di poter parlare da sola indisturbata di tutto ciò che mi era accaduto, ripercorrendo gli eventi. Raccontai filo e per segno la mia amata disavventura, mentre lei faceva strani versi di stupore ogni volta che mettevo in mezzo Emanuele. Mi ritrovai a sfogliare con un sorriso le immagini di quei momenti, sognando ad occhi aperti lontana da occhi indiscreti, sola nel mio mondo.
-Come sarei voluta essere al tuo posto.. in moto con Benassi!- La voce sognante di Sara mi fece quasi venire il diabete. Da quand’era che aveva quella cotta per quel ragazzo che era stato uno sconosciuto per me fino alla settimana precedente?
-Benassi è un tipo strano.- Commentai un po’ sovrappensiero mentre guardavo un video che passavano su MTv. –A scuola non mi calcola, appena stiamo io e lui si trasforma, diventando un’altra persona.-
-Benassi è così, te l’ho detto. Ha il suo mondo, ci vive, il resto non lo calcola. E’ uno di quei tipi che “se il mondo casca, mi sposto un po’ più in là”! Per quanto può essere figo.. Lascialo perdere!- La ascoltai senza fiatare, sentendomi nuovamente dire quelle cose che già sapevo perfettamente, che già mi ero sentita raccontare più volte.
-Hai ragione- Mentii, sperando che in questo modo cambiasse argomento. Inutile dire che non fossi d’accordo con ciò che aveva appena detto: ormai mi ero costruita un’immagine di Emanuele Benassi completamente differente da quella che ne avevano le mie amiche e le restanti studentesse dell’ Eco.
-Comunque ti avevo chiamata per dirti che domani sera andiamo al festino di Marika Marchesani, quella del IIIC..- Una festa! Finalmente! Sorrisi sollevata sia per il cambio d’argomento repentino sia per la novità. Un festino con alcol, fumo e buona musica a casa di una delle più ricche del nostro liceo. Cosa avrei mai potuto desiderare di più?

 Quel sabato uscii da scuola con uno strano buonumore. Forse era l’aria di festa che ormai era palpabile all’interno del Liceo, o forse era il bel tempo che finalmente aveva scacciato via il ricordo del diluvio del giorno precedente. Scesi l’ultimo scalino e salutai Gianluca e Sara, aspettando poi mia madre. Mi voltai a guardare le classi che uscivano dalla scuola, riversandosi nella stretta salita, ed inevitabilmente il mio sguardo fu catturato dal II A e dai suoi componenti che scendevano con la classica fretta di tutti coloro che terminano finalmente la settimana scolastica.
Emanuele Benassi e Federico della Valle si fermarono a chiaccherare con dei ragazzi della B giusto un metro e mezzo davanti a me. Poggiata con la schiena contro il muretto, li osservai con discrezione, aiutata anche dalla folla che continuava a scorrere davanti a me e spesso fermandosi per salutarmi e chiedermi informazioni o sulla vita scolastica studentesca o su qualche attività che il comitato studentesco stava organizzando. Passarono cinque minuti, cinque minuti in cui i miei occhi cercarono i studiare i suoi movimenti, cercando di capire se quei movimenti corrispondevano o meno all’idea che mi ero fatta di lui.
Il mio cellulare vibrò. Mia madre era arrivata. Mi alzai sulle punte e vidi la Mercedes classe A parcheggiata di fronte al baretto. Salutai un paio di ragazze del quinto ginnasio che si erano fermate a parlare e mi incamminai nella direzione di mia madre, sistemandomi bene sulla spalla la borsa. Successe tutto in pochi istanti: passando affianco al gruppetto dove stava parlando Emanuele, presi una storta e persi l’equilibrio, andandomi a poggiare proprio sulla spalla per non cadere. Una volta ripresa, alzai lo sguardo e gli sorrisi, nel modo più amichevole possibile.
-Oi ciao.. Scusami!- Dissi, senza riuscire a togliermi dalle labbra quel sorriso ebete. La sua reazione mi spiazzò completamente. Mi guardò in quel modo austero, serio, e senza pronunciare parola si voltò, tornando a parlare con i suoi amici. Come se non esistessi. Come se non fossero esistiti quei momenti che avrebbero reso necessario un saluto, un qualsiasi cenno, un’espressione differente.
Stupita, con nuovi dubbi per la testa, me ne andai velocemente, cercando di fare il minor numero di passi possibile per arrivare alla macchina di mia madre. Entrai, mi sedetti e fissai davanti a me senza pronunciar parola.
-Tutto bene?- Mi domandò mia madre con dolcezza, sistemandomi una ribelle ciocca rossa dietro l’orecchio e sorridendomi. Annuii impercittibilmente, forzando le mie labbra ad assumere la forma di quello che si sarebbe potuto definire un sorriso. Partimmo e mi persi nel guardare fuori dal finestrino finendo, mentre giravamo nella parte opposta alla salita, a lanciare uno sguardo a quel gruppetto. Benassi non c’era più e non lo capii solo dal fatto che il gruppo avesse perso un componente, ma anche da rombo del motore che fece scattare la mia testa costringendomi a guardare avanti, a guardare una moto nera sfrecciare.
-Queste moto! Sono così pericolose!- Esclamò mia madre, alzando poi leggermente il volume della musica. Le fui immensamente grata, riuscì a lasciarmi immersa nel miei pensieri, senza disturbarmi.
Allora mi ero sbagliata io? Mi ero illusa pensando di aver scoperto un lato di Emanuele che non conosceva nessuno, un lato bellissimo che rivelava solamente a me? Aveva avuto ragione Sara a definirlo un’egoista, un menefreghista, egocentrico? Chiusi gli occhi scuotendo delicatamente la testa: non potevo essermi immaginata quel suo sorriso così dolce, così vero, non potevo essermi immaginata la sua gentilezza, la sua premura nei miei confronti. Non potevo essermi immaginata un altro Emanuele Benassi.

 Stivali neri con il tacco da otto centimetri. Calze nere a bande larghe. Vestito nero corto che giovava dello spessore delle calze, con uno scollo classico, con le maniche corte. Mi guardavo allo specchio girando e rigirandomi, legando i capelli per poi slegarli. Non ero esattamente il tipo di ragazza che si metteva in tiro per andare alle feste e quella sera ero piuttosto compiaciuta del fatto di essere riuscita a vestirmi bene, senza cadere sull’elegante, mantenendo quel mio stile un po’ alternativo, originale. Presi una cintura che tenevo sul tavolo, bianca e grigia, e la misi sotto il seno. Pronta, sembrava che finalmente fossi pronta per uscire.
Mi allontanai dallo specchio prima di scatenare quell’autocritica che sorge spontanea quando ci si specchia cercando qualche difetto nel proprio look che in realtà è già impeccabile. Il citofono suonò ed afferrando al volo il cappotto nero lungo e la borsetta nera di pelle, mi precipitai fuori dall’appartamento, scoccando prima un bacio sulla guancia di mia madre.
-A casa per le due!- Mi urlò dietro. Le risposi con un sì gridato mentre varcavo già la soglia della porta, sbattendola poi alle mie spalle. Scesi le scale, cercando accuratamente di non rompermi l’osso del collo nell’impresa ed una volta fuori dal palazzo insipirai profondamente.
Squadrai lo scooter di Gianluca, spostando poi lo sguardo sul suo viso radioso ed allungai il braccio per prendere il casco che gentilmente mi porgeva. Mormorai un “grazie” indimidito, montando poi dietro di lui.
-Buonasera, Madamigella!- Mi disse con dolcezza, voltandosi e sorridendomi in quel modo affascinante che lo caratterizzava. –Pronta per la partenza?- Domandò, mettendosi poi il casco ed avviando lo scooter.
-Sì, stai attento..- Dissi supplichevole passando le braccia intorno la sua vita, stringendomi alla sua schiena. Nuovamente mi trovai a sperimentare il brivido delle due ruote e mi trovai a pensare ad Emanuele, a quel passaggio a casa, al suo sorriso sghembo, a quando mi aveva chiamata “lentiggini”. Sorrisi, chiudendo gli occhi ed assaporando la sensazione di avere il vento in viso, cercando di scacciare tutti i pensieri che affollavano la mia testa da due giorni interi ormai. Troppo tempo. Troppo tempo perso dietro a chi? Dietro l’ennesimo buffone, pallone montato?
Ci fermammo ed aprii gli occhi, allentando la presa su Gianluca, scesi in fretta dal motorino e mi tolsi il casco.
-Andata così tragicamente?- Mi domandò, allungando il braccio per passarmi con dolcezza una mano fra i capelli. –Dai che sono andato piano e non ho preso buche..- Ridacchiò, ritirando poi la mano e scendendo a propria volta dallo scooter, piegandosi per mettere la catena.
-Sei stato bravo.- Lo lodai affettuosamente, guardandomi poi intorno con le braccia incrociate al petto. L’ampio parcheggio che si trovava di fronte la villa di Marchesani era colmo di macchinette, macchine e motorini, ma il mio sguardo insoddisfatto dei dubbi, dei problemi di quella giornata, si andò a posare proprio sull’ultimo mezzo di trasporto che avrebbe dovuto addocchiare: una moto nera, parcheggiata vicino ad una mini cooper rossa. Emanuele Benassi era alla festa. Perché era alla festa? Non era Benassi colui che non partecipava mai ad eventi del genere, troppo impegnato nella vita mondana del “proprio mondo”? Aggrottai le sopracciglia e, quando Gianluca finì con la catena, mi avviai all’entrata insieme a lui, ridendo per qualche battuta, ma con la testa altrove, decisamente.
Citofonammo e dopo esserci identificati varcammo il cancello, ritrovandoci in un magnifico giardino con tanto di piscina. Era presente davvero tutta la scuola, o perlomeno tutte le classi liceali e qualche membro delle ginnasiali. Camminai sicura di me fra tutti quei gruppetti: conoscevo la maggior parte delle persone, sicuramente non ero la ragazza che non si sentiva a proprio agio, non lo ero mai stata.
-GINNIIIII!- Sara mi abbracciò con tanta foga da farmi barcollare. –Finalmente sei arrivata!-  La baciai su una guancia e sentii la puzza di alcol salirmi su per le narici. Era ubriaca persa. Si allontanò da me e mi sorrise, passandosi una mano fra i lunghissimi capelli mentre si reggeva appena sui tacchi blu che aveva ai piedi. Mi accorsi solo allora che aveva un bicchiere in mano e con uno scatto glielo rubai, lasciandola stupefatta per qualche istante. –Ginni cattiva..- Mormorò mettendo su il broncio. –Sei proprio una stronza!- Sbottò infine girando sui tacchi ed allontanandosi traballante. Gianluca mi guardò con aria preoccupata e fece per seguirla quando ad un tratto la vedemmo avvicinarsi ad un ragazzo e parlare apparentemente tranquilla. Aguzzammo la vista e riuscimmo a riconoscere la fisionomia di Federico della Valle.
-Da quant’è che lo conosce?- Mi domandò Gianluca quasi leggendomi nella mente. Feci spallucce scuotendo poi la testa.
-Pensavo che la conoscenza di Benassi e Della Valle fosse Off Limits.. Ma adesso parla con entrambi..- Entrambi restammo in silenzio mentre vedevamo Federico offrirle un’altro bicchiere ben colmo, per poi passarle il braccio intorno alla vita ed entrare in casa.
-Gianluca!- Una voce femminile ci distrasse. Mi voltai e vidi una gallinella di quarto ginnasio buttare le braccia intorno al suo collo stampandogli un bacio sulle labbra. Vidi il mio migliore amico girarsi imbarazzato nella mia direzione, come a volersi scusare, ma io con un leggero gesto della mano gli dissi che era OK, che poteva andare, ed in pochi istanti restai sola.
Senza pensarci due volte entrai in casa e cercai Marika, la quale trovai seduta sui divanetti con dei compagni di classe a sorseggiare dello spumante.
-Ginni! Sei venuta!- Mi accolse con un abbraccio, alzandosi. –Vieni, ti accompagno a posare il cappotto..- Mi prese sotto il braccio e mi trascinò al piano superiore, nella sua stanza. Posai il cappotto sul letto e poi scesi nuovamente con lei.
-Gran bella festa, come al solito..- Mi complimentai gentilmente.
-Sì, se non fosse per tutta la gente ubriaca.. Hai visto in che stato gira Sara?- La mia preoccupazione a quelle parole salì ancora di più. –E’ andata con Della Valle, quello del II A chissà dove..-
-Se non si fa vedere entro poco la vado a cercare!- Disse con un sorriso, cercando di mascherare la mia reale ansia. Ci salutammo e fui libera di andare a mia volta al tavolo dove vi erano tutti gli alcolici. Mi fermai dubbiosa ad osservare cosa potessi bere, quando una voce alle mie spalle mi fece trasalire.
-Stanotte puoi far baldoria, non devi mica più guidare.- Mi voltai ed il mio sguardo si intrecciò con quello di Emanuele. Eccolo lì di nuovo a parlarmi.. A parlarmi come se nulla fosse, come se mi parlasse sempre così, ogni volta, come se non mi evitasse in cortile, all’uscita, come se per lui esistessi.
-Non amo bere più di tanto.- Dissi con calma, cercando di distogliere lo sguardo ma senza alcun risultato. Lui sorrise, io lo imitai con poca grazia. Senza dire nulla prese una bottiglia di vodka ed un bicchiere, lo riempì per un quarto e poi vi versò della limonata. –Tu invece non dovresti guidare?- Gli domandai, inarcando un sopracciglio.
-Infatti è per te, questo.- Mi porse il bicchiere e dopo che lo afferrai, fece scivolare le proprie mani nelle tasche, senza smetterla di guardarmi. Portai il bicchiere alle mie labbra e mandai giù un sorso di quel cocktail che mi aveva preparato. –Approvi?- Domandò curioso come un bimbo che consegna i propri compiti a casa alla maestra.
-Buono..- Era il cocktail più semplice al mondo, dannazione, ma il solo fatto che l’avesse preparato lui gli donava tutto il gusto che necessitava per essere “particolare”. Lui annuì soddisfatto, mentre io terminavo di mandare giù quel primo colpo basso per il mio fegato.
-Come sono andati questi giorni senza scatola di latta?- Mi domandò, prendendomi così dolcemente in giro. Dannazione, perché non si comportava così anche a scuola, perché non mi faceva mai caso? La vodka cominciava a fare effetto, leggermente, me ne accorsi dal fatto che cominciai a sentire la testa un poco più leggera.
-Hey, la posso chiamare solo io in quel modo!- Risposi ridendo, contagiando anche lui in quella mia..allegria, se così la si poteva chiamare. Lo vidi chinarsi sul mio orecchio, con quel suo modo di fare affascinante, unico.
-Scusami..- Mi sussurrò, allontanandosi poi con il sorriso sghembo già pronto a ridere di me. Aggrottai le sopracciglia stupita da tutta quell’improvvisa confidenza. Restammo un paio di minuti in silenzio, sorridendo, e quel momento quasi dolce, quasi sincero, vero, fu interrotto dalla comporsa di Federico che teneva per mano Sara, decisamente ubriaca.
-Sara!- Mi avvicinai alla mia migliore amica, guardandola negli occhi. Lei non rispose, evidentemente già in quello stato che è al confine fra ubriachezza pesante e leggera. Si limitò ad annuire con un sorriso ebete. Federico fece l’occhiolino ad Emanuele e prese una bottiglia di vodka dal tavolo, cominciando poi allontanarsi con Sara che lo seguiva come un cagnolino.
-Dove vai con quella?- Gli urlai dietro. –Sta già abbastanza male, lasciala stare!- Mi trattennero dal correre appresso a quei due solo lo sguardo truce di Sara e la mano di Emanuele che mi trattenne delicatamente per un braccio. Federico mi rise in faccia, continuando poi a camminare imperterrito, mentre io mi voltavo verso Emanuele, con le labbra schiuse ed un’espressione interrogativa dipinta sul volto. Mi bastarono pochi istanti per disincantarmi e riprendere un po’ di lucidità. Con un colpo secco allontanai il mio braccio dalla mano di Emanuele, facendo qualche passo indietro.
-Come mai tutto d’un tratto ti interessa qualcosa di me?- Sbottai, dicendo parole che non avrei mai detto se non avessi bevuto quella vodka. –Mi parli quando fa comodo a te. Altrimenti non mi calcoli. Non sono la prima deficiente troia che prendi e ti porti a letto con un paio di battutine e qualche sorriso.- Da un lato ero seriamente soddisfatta di ciò che stavo dicendo, dall’altro ancora non mi rendevo conto di quanto me ne sarei potuta vergognare. –Quindi ora, se non ti dispiace, vado a togliere la mia amica dalle grinfie di un altro puttaniere come te.- Senza degnarlo di un’altra occhiata girai sui tacchi e me ne andai veloce, cercando di seguire quello che mi era sembrato il tragitto fatto da Federico.
-Ginevra!- Gianluca mi si avvicinò, decisamente preoccupato. –Sara si è chiusa in camera con Federico..- Aggiunse ansiosamente.
-E con una bottiglia di vodka, lo so..- Lo guardai meglio e vidi sul collo un enorme livido violaceo che tendeva al nero. –Ma cosa diamine ha quella al posto della bocca?- Sbottai senza riuscirmi a trattenere dal ridere.
-Un’aspirapolvere.- Sorrise e per un attimo scaricammo la tensione. Ma fu solo un attimo, appunto, perché quella festa non era destinata a finire in una maniera decente.
-Sta sbrattando l’anima!- Urlò una ragazza che si era affacciata dal piano di sopra. Io e Gianluca ci guardammo per poi precipitarci su per le scale.
-Chi?- Domandai guardandola negli occhi. Lei scrollò le spalle, indicandoci un corridoio.
-Una del II E.. sta nell’ultima porta a destra..- Lo disse con tanta indifferenza, noncuranza, che mi venne una voglia immensa di darle un pugno sul naso. Senza neanche aspettare Gianluca corsi lungo il corridoio con il cuore che batteva a mille, affacciandomi poi a quello che era un bagno. La mia mandibola toccò terra ed il mio cuore si fermò: Sara era stesa a terra, i capelli biondi sparpagliati sulle mattonelle bianche ed il viso rossissimo.
-Sara!- Urlai precipitandomi al suo lato, scuotendola per le spalle. Alzai lo sguardo ed incrociai quello di Federico, colpevole, che mi guardava senza muoversi.
-E’ svenuta..- Disse una ragazza al mio fianco, senza alzare la testa. Mi girai e vidi Gianluca alla soglia della porta.
-Chiama l’ambulanza, subito.- Ordinai scuotendo la testa.
-Ma sei deficiente? Sai che casino che scatta?- Sbottò Federico, guardandomi con gli occhi sbarrati.
-Ha ragione. Dobbiamo chiamare l’ambulanza.- Mi voltai di scatto e vidi Emanuele affianco a Gianluca.
Tutto mi sembrò passare velocemente, troppo velocemente. Gianluca chiamò il 118 mentre tutti gli invitati alla festa o scappavano verso le proprie case oppure nascondevano dove potevano la marijuana e tutte le altre sostanze illegali che erano state portate a quel festino. Io restai seduta lì al lato di Sara, tenendole la mano, finché non sentii le sirene dell’ambulanza far alzare ancora di più il tono della voce di tutti.
Quando i medici arrivarono, mettendola sulla barella, li seguii fino all’automobile, sorretta da un lato da Gianluca e dall’altro da Emanuele, sorprendentemente. Gianluca, essendo l’unico diciottene, salì nell’ambulanza con Sara, mentre io cercavo di seguirlo, mentre cercavo di capire cosa dicevano quegli uomini con la tuta arancione riguardo lo stato della mia amica.
-Calma..- La voce di Emanuele accompagnata dalla sua forte stretta sembrarono fermare i miei impulsi per qualche attimo. Chiusi gli occhi e cercai di non cercare più il volto di Sara, con quel rossetto sbavato, il mascara colato, i magnifici capelli biondi sporchi di vomito, e la sua pelle così bianca, pallida, con quel rossore esagerato sulle goti.
L’ambulanza partì e se ne andarono indifferenti ma pieni di gossip tutti gli alunni dell’Umberto Eco che il lunedì avrebbero avuto di che parlare indubbiamente. Scoppiai in un violento pianto, un pianto disperato e lungo che Emanuele soffocò stringendomi forte al suo petto. Sentii la sua mano salire alla mia nuca premendo il mio volto contro di lui, posando nel frattempo il mento sulla mia testa. Le parole coma etilico non uscivano dalla mia testa. Quelle due parole che i medici avevano così tante volte detto.

 

 

 

Ecco anche il terzo capitolo! Spero che anche questo vi piaccia e non vi annoi troppo! Sinceramente la parte della festa la reputo un po’ scontata ma ho cercato di non renderla il solito punto dove succedono tutti gli impicci, anzi :P! Ringrazio swettlove, grillomylife, balenotta per le recensioni in questi capitoli! Sono davvero molto importanti per me! Inoltre ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la storia ai preferiti, coloro che la seguono e coloro che la leggono senza recensire! Un bacione!

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Capitolo 4
*** Perdona i miei Silenzi ***


Capitolo Quarto: Perdona i Miei Silenzi.

Mi sciacquai il viso con l’acqua gelida dei bagni dell’ospedale Sant’Eugenio, alzando poi lo sguardo per specchiarmi ed inorridire del mio stesso riflesso. La mia pelle era bianchissima, come la neve, le lentiggini contrastavano esageratamente con quel pallore. Gli occhi azzurri avevano un aspetto stanco, spaventato, accentuato dalle leggere occhiaie che si erano formate e dal rossore dei bulbi oculari. I miei capelli probabilmente erano gli unici ad aver mantenuto un aspetto composto: giovavano ancora dell’effetto della piastra e ricadevo lisci fino all’altezza del seno. Mi asciugai le mani ed uscii dal bagno, incamminandomi lungo il corridoio del pronto soccorso in direzione di Gianluca, Emanuele e Federico che parlavano a bassa voce davanti la porta della stanza dove i medici stavano con Sara ed i suoi genitori. Avevo già avvertito mia madre dell’evento e mi aveva detto di stare tranquilla, di stare lì tutto il tempo che avrei voluto e chiamarla per ogni necessità. Anche lei era infinitamente preoccupata: Sara era come una figlia per lei, la adorava e quell’evento l’aveva scossa indubbiamente.

 Ero giunta al Pronto Soccorso poco dopo che l’ambulanza era partita. Emanuele aveva sciolto quell’abbraccio e mi aveva offerto il casco ed un passaggio in moto. Strano da immaginare, ma non avevo neanche dato fiato alla mia bocca per lamentarmi della mia paura, per chiedergli di andare piano. Mi ero semplicemente messa quell’affare sulla testa e l’avevo allacciato, per poi sedermi silenziosamente dietro di lui stringendomi piano alla sua schiena. La villa di Marika Marchesani si trovava appena a dieci minuti dall’ospedale, ma quel tragitto mi parve infinitamente lungo. Guardavo la città scorrermi affianco senza in realtà accorgermi di dove fossi, quali strade stesse percorrendo, e quando si era fermato, ero scesa sempre senza dire nulla, con lo sguardo vuoto puntato sull’ambulanza parcheggiata di fronte l’ingresso del pronto soccorso. Emanuele aveva messo la catena, l’allarme alla moto e poi mi aveva passato un braccio intorno alle spalle, delicatamente, quasi con la paura di sfiorarmi, e ci eravamo incamminati verso l’edificio, in silenzio. La presenza di Benassi mi dava sicurezza, in fondo, mi dava quel senso di pace che in quel momento necessitavo. Lo guardai un istante, scoprendolo concentrato che fissava la strada davanti a sé, i muscoli tesi ma quell’aria tranquilla. Entrammo nella piccola saletta d’accettazione, mentre tutti gli altri pazienti in attesa di guardavano. C’erano persone di tutte l’età che aspettavano il proprio turno: chi con un piede rotto, chi con un pallore esagerato sul volto.
-Sì, siamo qui per Sara Rossetti.- Emanuele parlava composto con il signore di circa cinquant’anni che era dedito a fare tutte le pratiche dell’accettazione. –Sì, la ragazza arrivata con l’ambulanza poco fa.- Aspettammo un paio di secondi e la porta alla nostra si aprì in uno scatto.
-Prego, si trova nella stanza numero sette.- Ci disse gentilmente, indicandoci la porta. Mi precipitai dentro senza nemmeno aspettare Emanuele ed una volta all’inizio del corridoio vidi in lontananza Gianluca poggiato contro una parete. Corsi il più veloce possibile, o almeno alla velocità che mi permettevano i miei tacchi, e lo abbracciai con forza. Le sue braccia risalirono la mia schiena, stringomi piano contro il suo corpo.
-Shhh..- Sussurrò piano al mio orecchio, cercando inutilmente di calmarmi: le lacrime erano ricominciate a scendere e non avevano intenzione di smetterla. –Stai calma, dai..- Aggiunse con dolcezza, passando le dita fra i miei capelli. Passarono cinque come venti minuti e mi allontanai da lui, strofinandomi gli occhi gonfi. –Hey, ragazzi..- Mi voltai e vidi Emanuele con affianco Federico che stringevano a turno la mano di Gianluca, salutandosi. Probabilmente l’occhiata che lanciai a Federico fu esageratamente truce, visto che il mio migliore amico mi diede un leggero pizzico sul braccio. Evitai tuttavia di salutarlo, mordendomi la lingua per non fare qualche battutina sicuramente acida e poco conveniente.
 -Come sta?- Domandò Federico a Gianluca. Quest’ultimo si strinse nelle spalle, incupendosi.
-Coma etilico.- Una pugnalata sarebbe stata meno efficace, meno dolorosa. Le mie viscere di contrassero e per un momento la mia vista si appannò. Chiusi gli occhi e mi poggiai contro la parete, incapace di ragionare, di parlare. Coma etilico. Le mie paure si erano avverate, il mio terrore era reale ora: la mia migliore amica stava rischiando la morte. Le mie gambe tremarono, divenendo molli e mi sentii improvvisamente più pesante. Sarei caduta a terra se delle forti braccia non mi avessero sorretta. Mi fecero sedere su un qualcosa che non riuscivo a definire e solo allora aprii gli occhi vedendo davanti a me il volto di Federico della Valle.
-Tutto bene?- Mi chiese con premura, passandomi una mano sulla guancia che doveva essere gelida visto quanto bruciava la sua pelle a contatto con la mia.
-Non mi toccare.- Ringhiai con tutte le poche forze che mi erano rimaste. –Non ti basta aver fatto andare in coma Sara?- Alzai la voce, mentre la mia testa ricominciava a girare con forza, facendomi per un attimo oscillare. Federico fu sul punto di rispondere, ma Emanuele poggiò la mano sulla sua spalla, facendolo ammutolire immediatamente. Gianluca passò avanti a quei due e mi fece stendere con delicatezza sulla barella dov’ero già seduta.
-Chiudi gli occhi e riprenditi.- Mi intimò con estrema dolcezza. Annuii, cercando di rilassare tutti i miei muscoli, di sciogliere i nervi. Mi bastarono pochi istanti per azzerare i pensieri, per caderein uno stato di semincoscienza che parve durare settimane, mesi.
Aprii gli occhi improvvisamente, sedendomi di scatto e guardandomi intorno, senza realizzare dove mi trovassi effettivamente. Furono le calde mani di Emanuele, che mi presero il viso, a riportarmi alla calma. Lo guardai negli occhi e velocemente realizzai: ricordai tutto ciò che era successo e riconobbi quel corridoio dalle pareti bianche ed arancioni.
-Quanto ho dormito?- Chiesi in un sussurro, mentre le sue mani si allontanavano e lui si rimetteva dritto in piedi.
-Non più di cinque minuti.- Mi rispose sorridendo. –Gianluca e Federico sono andati a prenderti dell’acqua ed un caffé.- Al secondo nome piegai il mio volto in una smorfia. –Non credere che non gliene freghi niente: è spaventato come tutti noi.- Mi disse, leggendomi quasi nella mente tutti i pensieri negativi che rivolgevo a Federico.
-Non gli importa di Sara.- Risposi prontamente. –E’ qui solo perché ha una coscienza!-
-Che ne sai?- Domandò, facendomi aggrottare le sopracciglia. Cosa voleva dire? –Lo sapevi che a Federico piace Sara da un anno? Non è.. Non siamo i mostri che tu pensi.- Strabuzzai gli occhi incredula: a Della Valle piaceva Sara? Da un anno? Pensare che lei li considerava Off Limits, irraggiungibili. –Ed anche lui era ubriaco, questa sera.. Quindi non ragionava troppo quando continuava ad offrirle da bere..-
-Ti prego non lo giustificare.- Dissi con una nota d’accidia. –Non ha scuse.- Lui annuì, evidentemente d’accordo con ciò che dicevo. Poi ripensai alle sue parole ed aggiunsi con più dolcezza, con più calma. –Non ho mai detto che siete dei mostri.-
-Ci hai dato dei puttanieri. E credimi che non lo siamo.- Mi ricordò lui con una nota quasi di tristezza nella voce. Arrossii violentemente ricordandomi del discorso che gli avevo fatto quando Federico aveva condotto via Sara e mi ritrovai senza nulla da dirgli, improvvisamente. Gli avevo rinfacciato di non calcolarmi mai quando eravano a scuola, di parlarmi solo quando ci ritrovavamo noi due. Grazie a Dio quell’imbarazzante silenzio fu ben presto interrotto da Gianluca e Federico che tornavano parlando tranquillamente, porgendomi poi prima il caffé e poi la bottiglietta d’acqua.
Il caffé amaro scivolò velocemente nella mia gola, bruciando un po’. Strizzai un po’ gli occhi, schifata, per poi aprire in fretta la bottiglietta di plastica, mormorando un “grazie”, evitando accuratamente lo sguardo di Federico. L’acqua fresca quasi mi rivitalizzò e mi ritrovai a respirare più regolarmente, apparentemente più tranquilla. Alzai finalmente lo sguardo e guardai i tre ragazzi con un leggero sorriso, quasi a volerli rassicurare e proprio in quell’istante dei passi veloci, forse troppo, ci fecero tutti voltare in direzione della porta d’ingresso del corridoio.
Franco Rossetti e Alba Schinardi, i genitori di Sara, camminavano velocemente verso dove eravamo seduti noi. Mi passai una mano fra i capelli e poi li feci un cenno con la testa, di saluto. Alba mi si avvicinò, abbracciandomi con dolcezza.
-Grazie per essere venuta.. Per essere venuti.- Si rivolse a tutti noi, prima di seguire il marito nella stanza numero sette. Nel momento in cui aprì la porta riuscimmo ad intravedere il letto su cui era stesa Sara, prima che la porta sbattesse nuovamente. La paura sul viso della madre di Sara mi fece rabbrividire con forza.

 Raggiunsi Emanuele, Gianluca e Federico, con il viso sciacquato che mi donava l’illusione di aver lavato via le mie preoccupazioni. Restava il fatto che noi eravamo lì mentre dentro c’era Sara in coma etilico. La parola coma aveva un tale effetto su di me, ogni volta che la pronunciavo, che necessitavo di poggiarmi alla spalla di Gianluca o di Emanuele.. Inutile dire che evitavo accuratamente di avere contatti con Federico, ancora incapace di guardarlo negli occhi.
Non si sa ancora niente?- Domandai con un filo di voce, sperando in una buona notizia, anche se erano passati appena dieci minuti da quando me ne ero andata per andare in bagno.
-Sono usciti i genitori di Sara,- cominciò Gianluca, guardandomi con aria grave. –e ci hanno detto che è meglio se ci accomodiamo in Sala d’Attesa, se vogliamo restare..Altrimenti possiamo anche tornare a casa.- La sua voce si incupì nuovamente e a quel punto alzai lo sguardo. –Sara non sembra avere intenzione di svegliarsi.. sai non esistendo un "antidoto", la terapia del coma etilico si fonda sulla correzione dell'ipotermia, dell'ipoglicemia e dell'acidosi, ovvero la diminuzione del PH del sangue.. – Mi spiegò, utilizzando quei termini così precisi, così tecnici. -..dobbiamo aspettare e sperare.- Chiusi gli occhi e sospirai, incrociando le braccia al petto ed incamminandomi verso la Sala d’Attesa, lentamente, reggendomi appena su quei tacchi a causa della testa troppo pesante, a causa dei troppi pensieri che l’affollavano. Mi sedetti su una sediola, passandomi entrambe le mani fra i capelli e fissando il pavimento. Sospirai sonoramente, cercando di calmare il mio cuore che come impazzito batteva. Coma etilico. Correzione dell’ipotermia.. Quelle parole così tecniche mi facevano impazzire: non sapevo cosa volessero dire, non sapevo cosa stesse accadendo a Sara.
Emanuele si sedette affianco, me ne accorsi dalla presenza di un paio di scarpe nuove nell’aria che stavo guardando per terra, imbambolata. Alzai lo sguardo ed incrociai il suo, chiudendo poi gli occhi e poggiandomi contro lo schienale.
-Vuoi venire a fumarti una sigaretta con noi?- Aprii gli occhi vedendo Gianluca davanti a me che si rigirava un pacchetto di Camel fra le mani. Scossi la testa debolmente. Passò lo sguardo su Emanuele che a propria volta scosse la testa e se ne andò fuori con Federico, sorridendomi con dolcezza.
-Se vuoi, vai..- Dissi ad Emanuele, guardandolo. -..non devi farmi da babysitter- aggiunsi, cercando di buttarla sul ridere.
-Non fumo.- Rispose molto semplicemente lui, ricambiando il mio sorriso e rilassandosi sulla sediola, alzò lo sguardo sul soffitto. Non dissi nulla, limitandomi a guardare dritto davanti a me, senza in realtà vedere nulla, troppo concentrata a sciogliere i nodi dei miei pensieri. Fui tanto presa da quella complicata impresa che mi addormentai senza nemmeno accorgermene, scivolando con dolcezza fra le braccia di Morfeo. Le braccia che mi accolsero, tuttavia, non furono esattamente quelle della divinità greca ma di una divinità in carne ed ossa che sedeva al mio fianco. Nel sonno sentii Emanuele Benassi abbracciarmi con dolcezza, portando la mia testa sul suo petto e poggiando la sua guancia contro essa. Beandomi di quella posizione, del calore del suo corpo, riuscii a dimenticare per una frazione di secondo tutto: Sara, il coma etilico, Federico.. Come se mi fossi fatta una doccia che avesse lavato via le mie impurità, le mie preoccupazioni, lasciandomi soddisfatta nei confronti del mondo per quel brevissimo istante.

 Affrontare il mio Liceo dopo quel weekend infernale mi sembrava una di quelle sfide impossibili che non sarei mai riuscita a vincere. Mai. Mi veniva da rimettere solamente pensando a quando sarei giunta di fronte al cancello e tutti avrebbero cominciato a pormi le domande su Sara, sul coma, sulla sua situazione. Come avrei potuto rispondere? Mentre aspettavo che Gianluca mi passasse a prendere, cercavo con tutte le forze di non tornare a casa e restarci, evitando di ricordare ancora quella tremenda notte ed il giorno seguente. Avevo passato la domenica chiamando ogni secondo i genitori di Sara, sperando che ci fossero miglioramente, ma alla fine loro mi avevamo liquidata dicendomi semplicemente che mi avrebbero chiamata non appena avessero saputo qualcosa. Erano passate diciotto ore e non era successo nulla, nessuno mi aveva chiamata se non Gianluca. Emanuele mi aveva accompagnata a casa la mattina precedente, salutandomi con una dolce carezza sul viso e l’invito a riposarmi, con la promessa di vederci a scuola.. Vederci a scuola. Certo, ci saremmo visti, ma ci saremmo anche salutati? Avrebbe nuovamente fatto finta di non vedermi dopo gli ultimi eventi che in un modo o nell’altro ci avevano uniti? Non feci in tempo a trovare una risposta che Gianluca arrivò, fermandosi proprio davanti il mio palazzo. Velocemente corsi allo scooter, mi infilai il casco e salii, senza paura ormai. Mi strinsi a lui e dopo avergli mormorato un “buongiorno” all’orecchio, partimmo velocemente.
Gianluca parcheggiò lontano dalla salita e dal baretto e quando scendemmo mi guardò negli occhi, capendo evidentemente cosa li turbava.
-Semplicemente non ti curar di loro.- Mi disse, finendo poi di mettere la catena al motorino. –Fregatene.. Se ti chiedono qualcosa, rispondigli e basta, senza prolungare il discorso.- Continuò, alzandosi in piedi e prendendo lo zaino che aveva lasciato poggiato sulla sella.
-Io me ne frego.- Cercai di sembrare convinta. –Ma non posso pensare al menefreghismo della gente..- Scossi la testa, passandomi poi una mano fra i capelli.
-La gente sarà sempre menefreghista e vorrà sempre avere qualcosa di cui parlare.- Disse serio, cominciando ad incamminarsi. –Se ti butti giù per i coglioni dell’Umberto Eco, cosa farai più avanti?- Abbozzai un sorriso, seguendolo. Passando davanti al baretto notai come una ventina di teste si girò a guardarci, parlottando poi rumorosamente. La storia di Sara Rossetti era un gossip succulento, che si poteva spolpare per bene, fino in fondo senza annoiarsi. Io ero la migliore amica, la famosa Ginevra “quella roscia” e Gianluca “quello figo”, era il suo migliore amico.. Eravamo al centro di quel gossip quasi quanto lei e quanto Federico “quello che Rossetti s’è fatta” ed Emanuele “quello con cui la roscia è andata in moto”. Nel momento in cui ci fermammo davanti l’imponente entrata del Liceo la stessa ochetta con la bocca da aspirapolvere di sabato sera, venne a salutare Gianluca con due baci sulle guance, ridacchiando come una deficiente. Mi guardò di sbieco, mormorando un “ciao” nella mia direzione.
-Come sta l’alcolizzata?- Domandò con una risatina a Gianluca. Lo vidi irrigidirsi ed io strinsi i denti.
-L’alcoliz..- Una mano si posò dolcemente sulla mia bocca, invitandomi in quel modo al silenzio. Non riuscivo a girarmi per vedere l’autore di quel gesto e restai immobile, lanciando un’occhiata a Gianluca.
-L’alcolizzata è in coma etilico. Ora che hai lo scoop corri a raccontarlo e levati dalle palle.- Lo sconosciuto allentò la presa e mi voltai, ritrovandomi davanti Emanuele Benassi. Non so se sorrisi per ciò che aveva detto a quella gallinella o perché finalmente mi stava guardando, mi stava parlando, mi stava considerando.
-Perché frequenti quella deficiente?- Chiese Emanuele a Gianluca mentre si stringevano la mano.
-Per avere quattordici anni è molto.. sveglia, la ragazza.- Rispose sorridendo. Eccolo il vero stronzo che nascondeva dentro di lui!
-Basta che ve la da  e siete subito ai suoi piedi!- Ridacchiai, notando che Emanuele non si era mosso  di un millimetro, standomi ancora vicinissimo.
-A me non basta.- Disse tranquillo guardando prima me e poi Gianluca.
-Questa è la tecnica che usiamo per rimorchiare quelle che non ce la danno!- Disse quest’ultimo, facendoci scoppiare tutti a ridere. La tensione era alta, certo, ma cercavamo tutti di mascherarla, giocando a quel gioco delle maschere abilmente, nonostante sapessimo tutti come fosse la sua conclusione.
-Come sta?- La voce cupa di Federico interruppe quella falsità e ci fece precipitare tutti insieme nel burrone rappresentato dalla vita reale. Ci guardammo tristemente negli occhi, rispondendoci già da soli.
-Non ci sono miglioramenti.- Dissi sospirando, fissandomi poi le punte degli stivali marroni che portavo. Nessuno disse nulla e continuammo a stare così in piedi senza sapere cosa dire, cosa fare.. Qualsiasi parola sembrava troppo sbagliata, qualsiasi gesto sembrava troppo banale. –Oggi pomeriggio ho intenzione di andare all’ospedale.- Disse ad un tratto, risollevando gli sguardi di tutti.
-Qual’è orario delle visite?- Domandò Emanuele.
-Dalle sei alle sette.- Risposi prontamente, guardandolo.
-Vengo con te.. –
-Anche io.- Disse Federico, affrontando il mio sguardo.. C’era da dire che era rimasto un po’ intimorito dopo l’ultimo sfogo che avevo avuto con lui.
-Io vengo, ovviamente..- Concluse Gianluca. –Però vi raggiungo alle sei e mezza, che fino le sei ho gli allenamenti di calcio.-
-Io non so come venire allora!- Intervenii. Gianluca era l’unico che abitava vicino a me e che mi dava sempre passaggi quando la macchinetta si rompeva. Quindi spesso.
-Ti passo a prendere io alle sei meno dieci e ci vediamo all’entrata principale alle sei. Ok?- Emanuele parlò così chiaro e conciso da non avere neanche il tempo di stupirmi. Mi limitai ad annuire, assecondata da Federico.
La campanella della prima ora suonò, facendoci sbuffare tutti all’unisono. Stava per iniziare l’ennesima, pesante giornata scolastica. Sei ore di curioso vociare, sei ore di domande, di risposte da dare.
-Ci vediamo a ricreazione.- Con quel saluto Emanuele e Federico si allontanarono, lasciando me e Gianluca soli. Quest’ultimo passò il braccio intorno alle mie spalle e ci incamminammo nella direzione dell’ingresso, pronti ad affrontare, insieme, quella mattinata.

Scesi dalla moto di Emanuele tremando per il freddo. Mi strinsi nel cappotto e nascosi il viso fino l’altezza del naso nella sciarpa che portavo. Ma non tremavo solamente per il freddo: nella mia mente il pensiero principale era Sara. Sara stesa su un lettino, con delle macchine che la monitoravano. Sara stesa nel bagno della villa di Marika. Sara che continuava a bere. Rabbrividii a quelle immagini e mi strinsi nelle spalle, mentre con Emanuele mi incamminavo verso l’entrata dell’ospedale. Attraversammo la strada e raggiungemmo Federico che già ci aspettava, bruciando l’attesa fumando una sigaretta.
-Mi lasci due tiri?- Gli chiesi quando arrivammo, dopo esserci salutati. Mi guardò sorpreso, per quell’incredibile “voglia di conversare” che avevo nei suoi confronti. Gli avevo rivolto già troppe parole per i miei gusti. Lui si limitò ad annuire, passandomi la sigaretta. Fumai lentamente assaporando il sapore del tabacco, buttando poi il mozzicone a terra.
Entrammo nell’ospedale e dopo essere passati per l’accoglienza, salimmo al terzo piano ed andammo  nella stanza dov’era ricoverata Sara. Arrivando ci ritrovammo di fronte i suoi genitori.
-Buonasera..- Esordimmo quasi in coro, per poi salutare personalmente i due. Guardai Alba e Franco con un po’ di rancore, per non avermi più chiamata, per non avermi più fatto sapere nulla.
-Come sta?- Chiese gentilmente Emanuele, mantenendo un tono di voce basso, che lasciava trapelare tutte le emozioni che il suo cuore sperimentava.
-E’ stabile, ma non migliora. – Disse secco Franco, tamburellando nervosamente con le dita sulla propria gamba.
-Entrate, dai ragazzi..- Alba guardò con dolcezza il marito, con amore, cercando di risollevare il suo morale ormai a terra, le sue speranze perse. Un sorriso di circostanza si dipinse sul nostro volto ed entrammo nella camera. Il mio cuore si ghiacciò: Sara era stesa, immersa nella solitudine di quella singola che i genitori le avevano preso affinché stesse sola, senza condividere il proprio spazio con nessun’altra persona. Era pallida, stesa quasi come una.. morta. Il suo petto si alzava e si riabbassava impercittibilmente, ed il monitor al fianco del letto ticchettava, scandendo i battiti del cuore di Sara.
Sentii Federico al mio fianco espirare sonoramente e mi voltai, vedendolo per la prima volta sotto una luce diversa. Era affranto, enormemente spaventato, pallido. Chiuse gli occhi e si portò la mano alla bocca, avvicinandosi poi lentamente al letto. Cercai di imitarlo ma la mano di Emanuele, posandosi dolcemente sulla mia, mi trattenne.
-Dagli un secondo..- Mi disse, indietreggiando fino a poggiarsi con la schiena sulla parete, in attesa.
-Scusami, Sara.. Scusami per essere stato uno stronzo, scusami per essermi approfittato della tua ebrezza ieri, per non essermi fermato. Scusami se ti ho ridotto in questo stato, se ti ho portato a questo. Pagherei per rivederti come ti vidi l’anno scorso per la prima volta.. Ero affacciata alla finestra del bagno, durante la ricreazione, e tu ridevi in cortile, con Ginevra. Eri felice della vita, eri felice.. e la tua risata mi è rimasta talmente impressa che eccomi, dopo un anno, che ti confesso il mio.. amore.- Sussultai a quell’ultima parola, volgendo la testa nella direzione di Emanuele che serio guardava dritto davanti a sé, quasi senza respirare. –Scusami..- Lo sentii mormorare un’ultima volta per poi girarsi verso di noi. I suoi occhi erano lucidi, sinceri, ed il mio cuore si strinse in una morsa che mi fece sussultare.  Mi ero sbagliata così tanto su Federico della Valle? Osservai la sua frangia bionda, i suoi occhi verdi, e mi chiesi come aveva fatto quel ragazzo che stava in piedi davanti a me a fare, a dire ciò che lui aveva fatto e detto il giorno precedente. Federico uscì dalla stanza ed Emanuele lo seguì, e io restai così sola. Mi avvicinai a Sara lentamente, prendendo poi una sedia e sedendomi accanto a lei, prendendole la mano.
-Non avevi ragione su Emanuele come io non avevo ragione su Federico. Te lo devo confessare.. Avevi ragione sui miei sentimenti nei confronti di Benassi quella mattina dopo il compito di greco. Mi piace, sì.. Te lo dico sinceramente, te lo dico perché quando ti sveglierai ti farò una testa enorme per dirti “perché per lui non esisto”, “perché non mi parla”, “non gli piaccio”, e mi odierai così tanto che vorrai farmi finire su un lettino di questo genere con tante contusioni alla testa.- Ridacchiai da sola, sperando che le lacrime non cominciassero a scendere. –Perché è così. Io per lui non esisto.. Fa finta che io non ci sia, si volta altrove invece di salutarmi.. E poi diventa così, così incredibilmente ambiguo.. Con quei sorrisi che possono voler dire una come mille altre cose, con quei suoi gesti gentili, dolci.. – Scossi la testa..ma cosa stavo dicendo? Mi alzai, mettendo la sedia a posto, pronta ad uscire quando un leggero colpo di tosse mi fece voltare.
-Sei una deficiente..- Il mormorio che uscì dalle labbra di Sara mi fece strabuzzare gli occhi. –E’ innamorato perso.- La guardai immobile come una statua a metà fra dove avevo posato la sedia ed il letto. Quando il mio cervello realizzò mi precipitai dalla mia migliore amica e vidi i suoi occhi leggermente aperti ed un leggerissimo sorriso sulle labbra.
-Sei sveglia!- Dissi con le lacrime agli occhi. –Emanuele! Federico! E’ sveglia!- Urlai voltandomi, ma Emanuele era già lì e Federico stava entrando con Alba e Franco. Emanuele da quanto si trovava lì affianco alla porta? Aveva forse sentito il mio monologo, il mormorio di Sara?
Alba si precipitò vicino alla figlia con Franco al proprio seguito. La gioia che lessi nei loro occhi fu imparagonabile a qualsiasi altra espressione di felicità io avessi visto nella mia vista. Alba piangeva a dirotto e Franco a stento tratteneva le lacrime, troppo concentrato a preservare la sua maschera di uomo duro e incommovibile. In quel momento entrò Gianluca, con un pacchetto di dolcetti in mano e per poco non li lasciò cadere quando vide una Sara sveglia guardarlo dal letto. Gianluca si avvicinò, lasciando il pacco su di un tavolino, e strinse la mano della ragazza con delicatezza, osservandola, sorridendo, per poi allontanarsi e lasciare il posto a Federico. Lo sguardo che si scambiarono probabilmente non me lo scorderò mai: avete presente quegli sguardi pieni di parole, pieni di sentimenti che ti restano impressi? Ecco. Sara gli regalò il suo sorriso più bello, schiarendosi poi la voce e spostando lo sguardo con Emanuele.
-Ho bisogno di riposare ora.- Disse piano, beandosi ancora delle nostre espressioni che fra lo stupito e l’infinita gioia probabilmente erano tanto irripetibili quanto l’evento che era appena accaduto. Si era svegliata dopo due giorni di coma, di coma etilico.. Si era svegliata ed era lì davanti a noi che sorrideva, ci guardava, cancellando con quei suoi piccoli gesti l’incubo in cui eravamo precipitati tutti quel sabato sera. Era finita. Dopo averla salutata ancora, uscimmo tutti dalla stanza mentre i medici la visitavano. Uscimmo dall’ospedale, ci allontanammo il più possibile da quel posto dove per due giorni avevano versato le nostre lacrime, svelato i nostri timori. Ognuno tornò nella propria casa a parte Alba e Franco che restarono con la figlia.
Emanuele mi accompagnò a casa e sorprendentemente scese dalla moto, fermandosi a chiaccherare con me. Inutile dire che mi torturavo chiedendomi se effettivamente avesse sentito o meno ciò che avevo detto a Sara, se aveva sentito i miei sentimenti essere svelati così apertamente.
-Non riesco a smettere di sorridere.- Dissi guardandolo, giustificando il sorriso ebete che avevo stampato sulle mie labbra senza riuscire a toglierlo.
-Non farlo.- Rispose lui ridacchiando. No, non avrei smesso di sorridere per nulla al mondo, assolutamente. –Ciò che è successo merita tutti i sorrisi di questo mondo.- Aggiunse.
-Forse mi ero sbagliata su Federico.- Ammisi, incrociando le braccia al petto. Sì, dopo ciò che avevo sentito, dopo aver visto quello sguardo, i suoi occhi lucidi, ero certa del fatto che mi fossi sbagliata.
-Non avevi tutti i torti, in fondo..- Mi ricordai le scene di quel sabato sera ed annuii, ricordando anche l’odio nei suoi confronti, gli scatti nel pronto soccorso.
-Già..- Guardai un attimo per terra, per poi riaffrontare i suoi occhi. Pessima idea: mi persi in quel castano così intenso, così affascinante, e mi ritrovai ad imbambolarmi come una stupida ancora. Mi schiarii la voce e distolsi lo sguardo, ormai chiaramente consapevole del fatto che ero arrossita completamente. -..Grazie per avermi accompagnata, comunque.. – Dovevo recuperare il mio contegno, dannazione! Anche il mio colorito se possibile! -..ora devo proprio andare.-  Ecco, così magari avrei posto termine alle orribili figure che mi ero probabilmente procurata quel pomeriggio. Lui annuì, sembrando per niente scosso da quel fatto.. Certo, come mai si sarebbe dovuto comportare? Non gli interessavo, assolutamente.
-Ci vediamo domani a scuola?- La sua domanda retorica mi evitò un altro giro fra i miei pensieri contorti. Annuii, aprendo poi il portone. Quando fui ormai sul punto di entrare, la sua mano prese la mia con delicatezza come prima, nell’ospedale. Lo guardai stupita, chiedendo una spiegazione, una giustificazione di quel suo gesto improvviso. –Perdona i miei silenzi, Lentiggini.- Mi disse con estrema dolcezza, lasciando poi la mia mano e voltandosi, andando alla propria moto. Indietreggiai, chiudendomi il portone alle spalle e poggiando la schiena contro di esso. Socchiusi gli occhi e li riaprii solo quando lui partì ed il rombo del motore della sua moto fu solo un ricordo lontano. Cosa voleva dire? Perché dovevo perdonare i suoi silenzi? Come faceva a sapere di quanto mi avevano fatto patire quei suoi silenzi? Aveva sentito, sicuramente, indubbiamente, il mio monologo.  E’ innamorato perso. Le parole di Sara, tuttavia, mi fecero gioire il cuore. Mi ritrovai così a sorridere stupidamente guardando il cielo. Emanuele Benassi in due settimane aveva conquistato la mia mente, i miei sogni. Sì, io Ginevra Sforza per la prima volta nella mia vita, desideravo ardentemente un ragazzo.

 

 

 Eccomi al termine del quarto capitolo! Ho pubblicato solamente ieri il terzo, ma le idee sono venute così velocemente che non mi sono trattenuta dal continuare. Cosa dire.. Spero che anche questo capitolo vi piaccia e che continuiate a seguirmi.
x_Mokona, swettlove, grillomylife: Grazie infinitamente per le recensioni e per i complimenti! Spero di non deludervi con il passare dei capitoli :P
Inoltre ringrazio coloro che mi hanno aggiunta alle preferite e alle seguite, ed anche tutti i lettori silenziosi.
Silvia.

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Capitolo 5
*** Il Gioco Della Bottiglia ***


Capitolo Quinto: Il gioco della bottiglia.

Fissavo la valigia che tenevo aperta sul letto con le mani sui fianchi e la tipica espressione di una ragazza che vorrebbe metterci tutto ma ci può mettere solo l’essenziale. Disperata, in poche parole. Sbuffai sonoramente alzando poi lo sguardo, incrociando quello di Gianluca e di Sara che stando seduti alla mia scrivania un po’ mi guardavano spazientiti, un po’ controllavano le notifiche su facebook.
-Aiutatemi!- Dissi esasperata, sedendomi poi sul letto su dei jeans. Gianluca alzò le mani come a dirmi “me ne tiro fuori” e quindi mi decisi ad indirizzare il mio sguardo di cucciolo ferito a Sara, in modo da convincerla. –Sara! Aiutami! E’ colpa tua se sono in questo guaio!- La supplicai, scendendo dal letto e mettendomi in ginocchio davanti a lei.
Alba e Franco, i genitori di Sara, avevano invitato me, Gianluca, Federico ed Emanuele a trascorrere il weekend nella loro casa a Roccaraso, una località sciistica abruzzese situata a poche ore da Roma ed abbastanza movimentata, sia di giorno che di notte. L’intento del viaggio era di festeggiare il risveglio di Sara, che era avvenuto una settimana e mezzo prima, ringraziandoci anche per essere stati vicini alla figlia e a loro in quelle trentasei ore infernali. Inutile dire come fossi nello stesso tempo elettrizzata e spaventata dal dovere passare un finesettimana con Benassi, nella stessa casa, ogni secondo, minuto, ora della giornata insieme.
-I miei ci passano a prendere fra un’ora e mezza, Ginni. Quindi, adesso scegli uno di tutti quei jeans che hai buttato sul letto che sono tutti uguali, fra l’altro, prendi un paio di stivali col tacco, il vestito che hai scelto dopo due ore di dubbi, le felpe, la tuta, le magliette.. tutto ciò che vuoi, insomma, basta che ti sbrighi, perché altrimenti ci perdiamo il venerdì sera a Roccaraso. Chiaro?- Strabuzzai gli occhi, assumendo poi la classica espressione della bambina offesa. Sara diventava decisamente autoritaria quando ci si metteva, riuscendo ad incutere addirittura del timore. Lanciai un’occhiata alle valige dei miei due migliore amici, collocate accanto alla porta e silenziosamente cominciai a mettere alcune cose nella mia valigia ancora vuota.
-Federico chiede se è un problema se lui ed Emanuele vengono qui fra mezz’oretta, un po’ in anticipo.- Disse Gianluca, voltandosi a guardare.
-No, che non è un problema!- Urlò subito Sara entusiasta.
-Sì che lo è! Guardate in che stato sono.. Guardate la mia stanza!- Troppo tardi, evidentemente, visto che Gianluca ridacchiava guardando lo schermo. Mi precipitai al computer e da sopra la sua spalla lessi la conversazione che teneva aperta con Federico. “Ginni è d’accordo..Venite quando volete!” Tirai un pugno sul braccio di Gianluca, incenerendolo con lo sguardo, per poi correre a finire di riempire quella maledetta valigia.
Certo che Sara era così felice di vedere arrivare Federico.. Non sapevo se effettivamente avesse sentito la dichiarazione d’amore che le aveva fatto quel pomeriggio all’ospedale, se se ne ricordasse o non so che, ma certamente sapevo che lui gliela fatta nuovamente, il giorno seguente, quando l’era andata a trovare a casa e da quel giorno il loro rapporto era cambiato, non divenendo ancora una storia ufficiale, ma una relazione da cui entrambi erano coinvolti e che entrambi stavano usando per capire se erano veramente pronti a diventare l’uno il ragazzo dell’altro. Ero felice per lei, enormemente.. Sara era probabilmente una delle ragazze più belle che conoscevo, con quei capelli lunghi, biondi, che ti illuminavano ogni volta che li scuoteva, e gli occhi azzurri come il cielo, grandi, veri, come lei, ma non aveva mai aperto il suo cuore a nessuno.. Aveva frequentato molti ragazzi, certo, ma nessuno aveva avuto il merito di essere stato il suo “primo amore”, e se Federico Della Valle avesse assunto quel titolo, in fondo non mi sarebbe dispiaciuto più di tanto.. La mia opininione era totalmente cambiata in quei dieci giorni, dal giorno in cui Sara si era risvegliata. Ero andata oltre i miei stessi pregiudizi, oltre a quella maschera di Don Giovanni biondo, alto e bello che portava forse inconsciamente, scoprendo una persona gentile, premurosa, sincera, che aveva semplicemente bisogno della persona giusta per aprirsi e mostrare tutte quelle sue qualità.
In balia di quei pensieri, stupefandomi, conclusi di riporre vestiti nella valigia, piegando un cappello. Avevo preso la tuta per lo snowboard, la maschera, i vestiti per le due sere, i tacchi, le scarpe da ginnastica.. tutto insomma. E ci avevo messo molto meno del previsto. Sospirai soddisfatta e non feci in tempo a sedermi sul letto per riprendere fiato che suonarono al citofono. Scattai in piedi e mi chiusi in bagno, sbattendo la porta. Nel frattempo mia madre dal salone urlò, annunciandoci che Emanuele e Federico stavano salendo. Mi guardai allo specchio, sciogliendo la coda alta e lasciando i capelli rossi ricadere in dei morbidi boccoli sulle spalle, ed afferrai il beauty-case sia per truccarmi sia per infilarlo dopo nella valigia.
-Ginni posso provarmi uno dei tuoi reggiseni?- Mi ero appena finita di mettere il mascare, aprendo poi la porta e ritrovandomi davanti Emanuele e Federico con un largo sorriso sulle labbra.
-No, Federico.- Risposi fintamente arrabbiata. –Emanuele, vale anche per te ovviamente.- Lui mi guardò con aria angelica, alzando le mani in segna di resa. –Gianluca!- Chiamai e lui alzò un braccio, per farsi vedere, seduto sul letto. –Anche per te.- Tornai nel bagno finendo di riemprire il mio beauty-case, per poi uscire il più velocemente possibile, in modo che non combinassero altri guai. Li guardai con aria sospettosa, avvicinandomi alla valigia e posandovi il beauty, chiudendola poi definitivamente e finalmente, anche.
-Ce l’hai fatta!- Disse Gianluca, avvicinandosi e sollevando la mia valigia, per metterla a terra. –E’ solo un fine settimana eh.. pesa un quintale!- Commentò storcendo il viso.
-Non so come tu sia abituato ad andare sulla neve, ma la tuta pesa!- Gli feci la linguaccia, togliendogli la valigia dalla mano ed andandola a mettere affianco alle altre quattro. Quando mi voltai, vidi Emanuele e Federico particolarmente concentrati a fissare un punto sulla mia parete. Aggrottai le sopracciglia, avvicinandomi curiosa. Sfortunatamente le loro risatine mi rivelarono prima del previsto il motivo del loro divertimento: stavano ammirando la foto preferita di mia madre. Io all’età di sei anni in montagna: così tante lentiggini che non si vedeva la mia pelle, i capelli ramati al vento e gli occhi azzurri spalancati, come se avessi appena incontrato l’uomo nero.
-Te l’hanno mai detto che sembra che tu abbia la varicella?- Mi domandò Federico in preda alle risate mentre si stendeva sul letto, casualmente accanto a Sara, e prendendo casualmente la sua piccola mano con la propria. Sorrisi, mentre afferravo per un braccio Emanuele e lo allontanavo da quella parete.
-Sì, effettivamente me l’ha già detto il tuo amichetto.- Dissi a denti stretti, spingendo quella montagna sul mio letto ed andandomi a mettere vicino a Gianluca, con un leggero broncio. -Non sono poi così tante le mie lentiggini.- Bofonchiai poggiando la testa sulla spalla del mio migliore amico.
-Se prendi una penna e provi ad unire tutte le lentiggini, crei uno di quei giochetti della settimana enigmistica!- Disse Gianluca, facendo scoppiare tutti a ridere. Spalancai la bocca sorpresa, saltando poi su Gianluca e cominciando a dargli piccoli pugnetti sul petto. Sfortunatamente stando a cavalcioni su di lui, fui molto facile da ribaltare e caddi precisamente e non esattamente con leggerezza addosso ad Emanuele che invece di scostarmi passò delicatamente il suo dito sul mio viso. Lo guardai stupita da quel gesto così pubblico e così dolce.. Ma mi dovetti prontamente ricredere delle sue intenzioni.
-Hai proprio ragione, Gian.. Sarebbe da passare sul computer con lo scanner ed inviare alla Settimana Enigmistica.- Mi alzai e mettendo le mani sui fianchi sbuffai, cercando di assumere una presenza autoritaria. Ma tutti scoppiarono nuovamente ed inevitabilmente a ridere.

 Probabilmente al destino non ispiravo simpatia, visto che nel momento in cui ci sedemmo nell’ampia auto del padre di Sara, capitai proprio vicino a Emanuele. L’auto che la famiglia Rossetti utilizzava per i viaggi era una di quelle che contenevano fino a nove persone e cui sedili erano disposti a due per due e davanti vi era il posto per il conduecente ed altre due persone. Sara si sedette avanti con la madre ed il padre, Gianluca si precipitò a prendere posto vicino a Federico e, bell’amico, mi lasciò con Emanuele. Ci sedemmo nella penultima fila, buttando tutti gli zaini nell’ultima e desiderai essere in qualsiasi altro posto al mondo, pur di non provare quell’imbarazzo. Restai in silenzio guardando fuori dal finestrino finché non furono caricate tutte le valigie e non fummo pronti per partire. Non appena la macchina si mosse, chiusi gli occhi e poggiai la testa contro il sedile: non volevo dormire, anche perché se mi fossi addormentata come l’ultima volta vicino ad Emanuele, i miei neuroni si sarebbero fusi. Non potevo negare il piacevole ricordo delle sue braccia intorno a me che mi cullavano con dolcezza nel sonno, ma non potevo neanche permettermi di rivivere quei momenti con la consapevolezza che lui forse sapeva, che lui forse aveva sentito il mio monologo all’ospedale. Lo sentii muoversi accanto a me ed aprendo gli occhi mi girai, guardandolo mentre si toglieva il giubbotto, buttandolo sui sedili dietro. Lo imitai e con un sorriso gli passai il mio cappotto affinché lo poggiasse dietro. Il silenzio regnava sovrano, mentre davanti a noi Federico e Gianluca parlavano senza fare alcuna sosta, noi ci limitavamo a sguardi e sorrisi che con la loro dannatà ambiguità rischiavano di farmi impazzire. Emanuele mi porse una cuffietta del suo iPod ed io la presi, mormorando un “grazie” ed immergendomi nei pensieri accompagnata anche da quel sottofondo musicale.. Una cosa che avevo in comune con quel ragazzo c’era: i gusti musicali. Ricordavo ancora e non senza un sorriso, il bigliettino che mi aveva lasciato nel diario il giorno dello scambio, dove lodava le mie preferenze in fatto di musica. Tenendo il tempo con un dito, mi lasciai incantare dalla strada che scorreva alla mia sinistra, con la fronte poggiata contro il finestrino.

 Arrivammo a Rivisondoli, la cittadina affianco a Roccaraso dove aveva casa la famiglia Rossetti, verso le sette e mezza di sera e dopo aver scaricato le valigie ci sistemammo nella casa. Questa era un appartamento a due piani situato nel centro della piccola città, completamente in legno conservava quella magnifica aria invernale, che ti faceva proprio intendere che eri arrivato in una località sciistica. Ci sistemammo nelle nostre stanze: io con Sara, mentre i tre ragazzi condividevano la stanza degli ospiti. Cenammo velocemente con ciò che Alba aveva portato da casa e poi salimmo a cambiarci per uscire la sera. Non avevamo intenzione di andare per locali, discoteche, in quanto la mattina dopo ci aspettava una sveglia alle sette, quindi optai per dei jeans, gli stivali marroni con il tacco, un maglione bianco un po’ lungo ed il giubbotto marrone nella Museum. Ero pronta anche per andare al polo nord, in quel modo. Aspettai che Sara finisse di truccarsi e scendemmo al piano di sotto dove i tre ragazzi ci stavano aspettando non senza fare un po’ di sano baccano.
-Le principesse ce l’hanno fatta!- Disse Gianluca applaudendo, beffardo. Gli feci la linguaccia, spostando poi lo sguardo su Emanuele che, tanto per confondermi ancora di più, mi guardava in una maniera strana, quasi a volermi fare una radiografia. Mi limitai a sorridergli, mentre Sara approfittando dell’assenza dei genitori, si era già allegramente buttata fra le braccia di Federico.
-Cosa facciamo?- Domandai, voltandomi verso Sara che velocemente si ricompose, restando mano nella mano con Federico, sorridente come non mai.
-Andiamo ad un pub irlandese che sta qua dietro casa e poi possiamo andare alla pineta che sta lì davanti.. Stiamo un po’ ai tavolini a non fare nulla e torniamo a casa.- Propose con una scrollata di spalle. –Poi domani andiamo ad una discoteca che sta ad una ventina di minuti da qui a piedi.- Aggiunse tranquilla.
-Per me va bene.- Disse Emanuele, allacciandosi il giubbotto e sistemandosi la sciarpa. –Usciamo ora però che sennò muoriamo di caldo.- Lo seguimmo chiaccherando, ci fermammo sul pianerottolo ad aspettare che Sara chiudesse la porta a chiave, visto che i genitori erano andati a farsi un giro per la città, ed uscimmo in strada.
-Ho proprio voglia di una Guinness!- Esordì Emanuele, camminando affianco a me e Gianluca.
-Io mi prendere un bel Jack Daniel’s..- Commentò quest’ultimo, guardandomi poi. –E tu?- Guardai avanti, vedendo che Sara e Federico si erano abbastanza allontanati da noi e poi dissi a voce bassa.
-Ma avete ancora voglia di bere dopo ciò che è successo?- Non ci avevo ancora mai pensato neanche io, in realtà, non sapevo come comportarmi con l’alcol davanti a Sara. Eppure era lei che ci stava conducendo ad un pub, sapeva che noi non volevamo smettere di bere, a differenza sua che si era dichiarata ufficialmente astemia.
-Una birra o un Jack Daniel’s non ti fanno nulla.. Non abbiamo mica voglia di ubriacarci.- Disse tranquillamente Emanuele, guardandomi negli occhi. –L’esperienza di Sara ci serva per il futuro, per non alzare troppo il gomito.- Annuii, non so se rapita dalle sue parole o dal suo sguardo, dai suoi occhi. Deglutii, guardando poi la strada davanti a me.
-Io un Bayley’s non lo rifiuterei.- Dissi cercando di fare la vaga. Certo che faceva un freddo! Eravamo agli inizi di febbraio, nel pieno della stagione sciistica, ed uscivamo tranquillamente a farci passeggiate per Rivisondoli.. con l’intenzione di andare in una pineta, poi! Solo Benassi e Sara potevano essere d’accordo su un programma serale di quel genere.
-Eccoci!- Federico alzò un braccio, circa venti metri davanti a noi, indicandoci il pub dove stavano entrando con Sara. Affrettammo leggermente il passo e ci ritrovammo davanti l’insegna del “Irish Original Pub”, nel quale entrammo tirando un sospiro di sollievo non appena il caldo del locale ci avvolse, come anche il vociare di tutte le persone presenti.
Ci andammo a sedere in un tavolo da sei situato in un angolo, piuttosto riservato, e dopo esserci tolti i giubbotti, passammo ad aprire i menù, anche se infondo avevamo già scelto tutti cosa prendere.
-Avete scelto, ragazzi?- Ci voltammo tutti insieme a guardare la cameriera e notai come a Gianluca ed Emanuele cadeva la mandibola, mentre Federico si tratteneva dal fare la stessa fine. La ragazza che era venuta a prendere le ordinazioni era la copia di Angelina Jolie, ma della nostra età. Lunghi capelli neri, un po’ mossi, grandi occhi marroni, il viso tondo, le labbra carnose. Non potei non posare lo sguardo su Emanuele e provare un sentimento a me completamente nuovo: la gelosia. La guardava come si guarda una divinità, pendendo completamente dalle sue labbra. Gianluca si schiarì la voce e le sorrise.
-Io prendo un Jack Daniel’s.- La cameriera ricambiò il suo sorrise mentre appuntava sul taccuino, spostando poi lo sguardo su Emanuele.
-Io una Guinness media.- Lo sguardo che la ragazza gli riservò fu così chiaro che non ci serviva un intenditore dei comportamenti umani per capire che era sinceramente interessata a lui. Mentre scriveva l’ordine, lo guardava di tanto in tanto e lui ricambiava, felice, soddisfatta.
-Un Baileys’ con ghiaccio.- Ordinai secca io, senza neanche guardarla, troppo impegnata a fare i conti con quella dannata gelosia che si era insinuata velocemente dentro me. Non udii neanche le ordinazioni di Federico e Sara, troppo impegnata a decifrare gli sguardi che Emanuele e la ragazza si stavano lanciando.
-Torno subito!- Ci disse infine con un largo sorriso, allontanandosi. Gianluca ed Emanuele si buttarono subito a commentare la ragazza.
-Cioé ma l’hai vista?- Certe volte mi chiedevo cosa avessero messo nel cervello di Gianluca: un cervello o mangime per galline. Diamine, era il mio migliore amico, perfettamente a conoscenza della mia sbandata per Emanuele Benassi e cosa faceva? Lo incitava a chiederle il numero? Lo incitava ad andare a parlare? Ovviamente.. “una figa del genere non si può lasciar perdere così!”. Scossi la testa sconsolata guardandomi poi le unghie.
-Ma la volete smettere? Siete proprio dei disperati!- Sbottò Sara dopo avermi lanciato un’occhiata ed aver capito che dietro il mio falsissimo sorriso si celava un sentimento ben più forte e doloroso.
-In tempi di carestia ogni buca è galleria!- Disse Gianluca scrollando le spalle. Ringraziai Dio che stesse seduto proprio davanti a me. Gli diedi un calcio su uno stinco che sperai vivamente ricordasse per il resto della vita. Mi guardò ed ammutolì, capendo che se avesse anche cominciato a lamentarsi, avrebbe avuto il bis.
-Eccomi qui!- L’odiosa voce della cameriera ci fece nuovamente voltare tutti di scatto. Ma a guardarla ormai restò solamente Emanuele. Gianluca fissava il tavolo, io guardavo Emanuele pendere dalle labbra della ragazza e Sara e Federico semplicemente chiaccheravano fra di loro. –La coca-cola?- Domandò e quando Sara alzò la mano, gliela porse con gentilezza. –Il rum e pera?- Lo passò a Federico. –Il Baileys’?- Alzai la mano evitando di guardarla negli occhi, e presi fra le mani il bicchiere, mormorando un “grazie”. –Il Jack Daniel’s è per te..- Gianluca finalmente si disincantò dal cercare un non so che nel tavolo e la guardò. –E la Guinness invece ricordo perfettamente che è per te.- Casualmente si ricordava perfettamente proprio dell’ordinazione di Emanuele. Ma chissà perché!  Si allontanò infine con un ampio sorriso e mentre guardavo Emanuele seguirla con lo sguardo mi diedi una piccola botta in testa. Dannazione, ero così gelosa? Al punto da fissarlo mentre guardava un’altra? No, non se ne parlava.. Dovevo cambiare assolutamente atteggiamento visto che quello che avevo stava diventando ridicolo. Non poteva piacermi un ragazzo fino a quel punto.. Un ragazzo che non ci pensava nemmeno a me, che aveva la testa altrove. Sconsolata fissai il mio Bailey’s e portai il bicchiere alle labbra, mandando giù un sorso.
-Domani dobbiamo assolutamente fare la Direttissima!- Quando riuscii finalmente a tornare a seguire i discorsi dei miei amici, sentii Sara parlare entusiasta delle discese che avremmo dovuto fare il giorno dopo. –Vero che è fantastica, Ginni?- Alzai lo sguardo e la guardai, guardando poi gli altri che mi fissavano. Annuii, poggiando il bicchiere sul tavolo.
-E’ fantastica.. Pura adrenalina.- Commentai cercando di metterci tutta l’euforia che potevo. –Anche se quando è ghiacciata non è il massimo per lo snowboard.-
-Anche tu fai snow?- Mi domandò Emanuele. Lo guardai e mormorai un “sì”. –Allora non sono l’unico.. Questi fanno tutti sci.- Sorrise, lanciando poi un’occhiata agli altri.
-Non capiscono le emozioni che ti può dare una discesa sullo snowboard.- Dissi semplicemente, sentendomi a mio agio visto che si parlava di un argomento a me caro.
-Il vento sul viso, le curve mozzafiato, l’adrenalina..- Emanuele mi parlava con quell’aria sognante caratteristica dei bambini che amano molto qualcosa e si trovano a parlarne con gli altri. Lo guardavo così perso nella propria passione, nei proprio discorsi, che non sentii neanche una parola delle molteplici che mi aveva rivolto, limitandomi ad annuire. –Domani ci divertiamo io e te.- Il suo discorso si concluse con quella frase. Sorrisi, passandomi una mano fra i capelli ed aprii bocca per rispondere quando un braccio si allungò davanti a me posando qualcosa sul tavolo. Alzai lo sguardo ed incrociai quello della cameriera che aveva lasciato il conto sul tavolo, che aveva “rubato” tutte le attenzioni che mi aveva rivolto fino a quel momento Emanuele. –Potete pagare alla cassa.- E dicendo ciò si allontanò nuovamente. I ragazzi pagarono sia per loro che per noi, vietandoci categoricamente di tirare fuori i portafogli ed Emanuele dopo aver racconto tutti i soldi si alzò andando alla cassa, dicendoci di aspettarlo fuori. Mentre uscivamo non potei non notare che stava chiaccherando con la cameriera, ridevano, scherzavano.. Avevano entrambi colto l’attimo. Evviva il Carpe Diem!
-Dov’è la pineta?- Chiesi a Sara mentre mi accendevo una sigaretta. Lei la indicò: si trovava proprio davanti al pub. –E cosa facciamo lì oltre al morire dal freddo?- Lei sorrise e tirò fuori dalla borsa una bottiglia vuota.
-Il gioco della bottiglia!- Sorrise maliziosa lanciando un’occhiata a Federico.
-Il gioco della bottiglia?- Ripetei perplessa. Loro annuirono soddisfatti e nel frattempo Emanuele uscì dal pub, dando una pacca sulla spalla di Gianluca.
-Giulia mi ha lasciato il numero.. Ha detto che domani sera ci becchiamo in discoteca!- Eccitato come un bambino di due anni che gioca con il proprio action-man, Emanuele annunciò al mondo la propria conquista. –Adesso possiamo andare. Qualcuno ha parlato del gioco della bottiglia?-

 Il gioco della bottiglia è probabilmente il metodo più semplice ed efficace per arrossire davanti al ragazzo che segretamente ti piace. Seduti ad un tavolo nella pineta ci guardavamo negli occhi mentre la bottiglia era immobile al centro, pronta per essere girata.
-Credo che noi tutti conosciamo le regole o sbaglio?- Domandò Sara mentre passava un dito sul collo vitreo della bottiglia.
-Anche il mio cane sa le regole!- Sbottò Emanuele, aprendosi poi in un sorriso.
-Meno male che non è stupido come te Luis..- Commentò a bassavoce Federico, ridacchiando. Sara alzò le mani per calmare i due amici che erano pronti ad affrontarsi in una gara di insulti e si schiarì la voce.
-Allora cominciamo con il gioco!- Annunciò Sara mentre gli sguardi di tutti si posavano sulla bottiglia e la tensione saliva leggermente. Sara ci guardò con uno strano luccichìo negli occhi, facendo infine girare la famosa bottiglia che si fermò su Federico.
-Presumo che le opzioni siano: bacio se esce una ragazza e schiaffo se esce un ragazzo. Giusto?- Domandò sorridendo. Annuimmo tutti e Federico allora girò la bottiglia, per trovare la persona da schiaffeggiare o da baciare. –Sara!- Esultò felice, girandosi poi verso di lei. Li guardai con un sorriso mentre lui prendendole il viso fra le mani, la baciava con dolcezza, non limitandosi al bacio a stampo previsto.
-Ho detto bacio non “fare un bambino”!- Rise Gianluca mentre dava una spintarella a Federico, in modo da farli allontanare. Sorrisero entrambi e Sara prese la bottiglia, facendola girare.
-Un bacio a Gianluca!- Disse con un sorriso quando la bottiglia si fermò puntando il ragazzo.
-Hey e se io non volessi?- Borbottò Federico fintamente offeso. Sara gli stampò un dolce bacio sulle labbra, andando poi da Gianluca. Lo baciò, dandogli poi uno schiaffo leggero. Sorrise e tornò da Federico e prese la sua mano. Il mio cuore batteva forte, incredibilmente forte. Emanuele mi guardava di tanto in tanto ed io avevo quell’inevitabile sensazione che sarebbe capitato anche a me di doverlo baciare. Ed il sesto senso non sbaglia mai..
-Uno schiaffo ad Emanuele! Finalmente!- L’esultanza di Gianluca mi fece svegliare di colpo dai miei sogni ad occhi aperti. Vidi come Gianluca dava uno schiaffo non esageratamente forte ad Emanuele che rideva, afferrando poi la bottiglia.
-Posso usarla per dartela in testa?- Domandò a Gianluca che scosse la testa, allontanandolo. –Ok, ok.. Giriamola.- La girò con forza e con lo sguardo seguii ogni singolo giro. Il tempo sembrò andare molto più piano ed ogni volta che passava accanto a me, non respiravo, finché non passava oltre. Alla fine rallentò bruscamente e sembrò fermarsi su Gianluca ma continuò ancora, puntando me. Alzai lo sguardo, incrociando il suo che beffardo mi guardava. In quel momento mi sentii come una bambina di cinque anni: mi sarebbe piaciuto scuotere la testa, dire che non volevo, dire che mi vergognavo e che mi tiravo fuori da quella storia.. Eppure avevo diciassette anni e non potevo più godere di quei privilegi infantili, perché usufruirne avrebbe voluto ammettere il fatto che ero innamorata di Emanuele Benassi.
-Bacio! Bacio! Bacio!- Intonò Sara battendo le mani. Emanuele si alzò sorridendo, avvicinandosi. Mi guardò tranquillo mentre posava le mani sulle mie goti che stavano bollendo, giovando del buio che nascondevano il mio rossore. Si chinò sul mio viso guardandomi negli occhi, per poi chiuderli e posare le sue labbra con dolcezza sulle mie. Fu uno stupido, breve bacio a stampo, ma per me durò mesi, anni, e mi fece rabbrividire con forza. Quando si allontanò, rompendo quell’incantesimo, aprii gli occhi e lo guardai, deglutendo. Mi sorrise mentre si allontanava, sedendosi nuovamente davanti a me e passandomi la bottiglia. Cercai di ricompormi mentre la posavo sul tavolo e la facevo girare, mentre tutto dentro di me in realtà tremava.
-Un bacio a Federico!- Disse Gianluca battendo le mani. Mi alzai quasi meccanicamente, lanciando un’occhiata a Sara che non si toglieva un sorriso ebete dalle labbra dopo il mio bacio con Emanuele, e mi avvicinai a Federico, baciandolo poi senza sentimento, senza alcuna emozione.. Come avrei baciato Gianluca, come avrei baciato mia madre.. E non riuscii a non pensare al dolce contatto con le labbra di Emanuele, al delicato tocco delle sue dita sulla mia pelle, al suo sorriso. Mi ritrovai a fantasticare su noi due insieme, al poter godere di quei suoi baci in ogni momento, senza vergogna, senza la necessità di avere mille lentiggini per nascondere il rossore delle mie guance. Mi ritrovai a pensare a noi due e a nessun altro e mentre mi sedevo, portando una mano fra i miei capelli, guardai Emanuele che ricambiava il mio sguardo e mi chiesi se fossi realmente innamorata di lui o era una di quelle cotte che ti vengono quando vuoi follemente qualcuno che non puoi ottenere. Sì, perché ne ero convinta, testarda come ero. Lui voleva Giulia, quella cameriera dell’Irish Pub, non voleva me. E contemporaneamente non riuscivo a spiegarmi la dolcezza dei suoi movimenti, di quel bacio.. Giunsi alla razionale conclusione che probabilmente dovevo smetterla di guardare film d’amore, visto che mi stavo immaginando tutto, ma dedussi anche che il ricordo delle sue labbra sulle mie non sarei mai riuscita a dimenticarlo, malgrado per lui fosse stato un bacio uguale a quello che io avevo dato a Federico: spassionato, fraterno.

 

 
(Dal 23 al 30 Agosto sarò in viaggio.. Quindi, in caso non riesca a postare domani, posterò il 31.. mi scuserete per l’attesa spero!:D)
Ecco il quinto capitolo! Che dire.. Era un capitolo necessario per far delineare tutto il resto della storia. Vi dico solamente di stare bene attenti alla figura di Giulia, la cameriera, che non è stata introdotta così a caso ;)! Inoltre vi annuncio che per il prossimo (e vero, magari :P) bacio fra i due dovrete ancora aspettare un pochettino..ma che ne varrà la pena, visto che ho avuto un colpo di genio! Vi lascio con queste due piccolissime anticipazioni e passo ai saluti!

Ombrosa: Oddio, quando ho visto la tua recensione ho spalancato gli occhi. Non ne ho mai ricevute di così lunghe J! C’è da dire che il mio desiderio, dall’inizio della storia, era di distinguere i miei personaggi da quelli che ultimamente incrocio spesso: la sfigata che si innamora del figo.. Oppure i classici battibecchi! Quindi ho cercato di creare dei personaggi con dei caratteri variopinti, differenti fra di loro, ognuno rappresentante di una parte della popolazione studentesca che si incontra di solito. Ginni me la immagino come una ragazza abbastanza popolare, certo, ma non per la sua bellezza o per i suoi soldi. E’ indubbiamente molto carina nell’aspetto, ma è conosciuta per il carattere, per il ruolo che ricopre di rappresentante e per i suoi capelli rossi. Mentre Emanuele è bello, ma non popolare. Vive in un suo mondo, con dei suoi amici, e sembra (come anche Federico) qualcosa che non è a causa del suo alienarsi dall’ “Umberto Eco”. Gianluca diciamo che è il classico “bello e stronzo” visto però da un’altra luce: un ottimo, sincero amico che farebbe di tutto per le sue migliori amiche. Federico è, come hai detto tu, una persona dall’animo buono, che subisce l’ira di Ginni appunto a causa della maschera che lui inconsciamente porta.. Lui non si crede né irraggiungibile, né “off limits”, né tutto ciò che sembra a prima vista: è una persona tranquilla che semplicemente non sente la necessità di avere troppi amici, accontentandosi di quei pochi ma veri che ha: Emanuele..e poi Gianluca, la stessa Ginevra e Sara, con la quale stringe qualcosa di più forte di un’amicizia. Sara invece è un personaggio che pian piano delineerò sicuramente meglio, ma lei è allo stesso livello di Ginevra, come “popolarità”, ma decisamente più ingenua.. Ma resta una formidabile amica che non tradirebbe mai né Ginni né Gianluca. Grazie mille per il tuo commento, in sintesi xD! Spero di leggere altre tue recensioni!
Swetlove: Tu sei da mettere in cima alle persone da ringraziare! Segui questa storia dall’inizio ed ogni volta mi lasci una recensione, facendomi felcissima. Anche io adoro questo capitolo, guarda, proprio perché è pieno di emozioni dall’inizio, alla fine, e quella frase conclusiva.. beh, è alla chiave di tutto l’intreccio :D
Sonietta: Wa anche io amo Emanuele! Non si sbilancia mai troppo.. Alle volte le fa credere chissà cosa, altre volte la evita.. J Poi dopo che avrai letto questo capitolo (ed anche i due seguenti), avrai ancora più dubbi riguardo a lui, credimi.. Ma non farmi sbilanciare con le anticipazioni! Grazie per la recensione, spero continuerai a seguire la FF!

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Capitolo 6
*** Punto di Rottura ***


Capitolo Sesto: Punto di Rottura


Dopo aver acquistato gli skipass e noleggiato gli sci e le tavole da snowboard, io, Sara, Emanuele, Gianluca e Federico, stavamo sull’ovovia che ci avrebbe portati in cima alla montagna. Io stavo accando ad Emanuele, guardandolo di tanto in tanto, mentre gli altri parlavano di uno strano film che avevamo visto la sera prima quando eravamo tornati a casa.
-E quel coniglio cosa c’entrava?- Domandò Sara, che ancora non riusciva ad individuare il senso di quelle due ore e mezza di film, malgrado glielo avessimo spiegato in tutti i modi possibili almeno cento volte.
-Niente, Sara, nienta..- Disse un Federico ormai scoraggiato. Lei mise su il broncio, incrociando le braccia al petto e sbuffando. Federico le sorrise, chinandosi poi a baciarla con dolcezza. –Te lo spiego più tardi, ok?- Lei annuì e lui le passò delicatamente una mano sul viso. Sorrisi a tutta quella dolcezza, posando poi lo sguardo su Gianluca ed Emanuele che stavano confabulando qualcosa cercando di non farsi sentire.
-Di che parlate?- Domandai senza nascondere la mia curiosità. Loro due mi guardarono, senza togliersi un bellissimo sorriso dalle labbra.
-Della tua bellezza mozzafiato, Ginni.- Disse Emanuele, languidamente. No, non doveva fare così, dannazione! Minava all’integrità della mia sanità mentale!
-Non fare il ruffiano.- Gli feci la linguaccia, togliendo nel frattempo un po’ di neve dalla mia tavola.
L’ovovia arrivò a destinazione e scendemmo dalla cabina, inspirando poi a pieni polmoni quell’aria fresca, dannatamente fredda, caratteristica dell’altitudine. Chiusi gli occhi, soddisfatta, e quando li riaprii mi trovai costretta ad inseguire i miei carissimi amici che si erano già allontanati, tutti allegri ed in preda alle chiacchere. Mi sedetti affianco ad Emanuele, cominciando a sistemare gli attacchi dello snowboard. Dopo averli stretti adeguatamente mi alzai in piedi, affiancata ad Emanuele e dopo essermi scambiata proprio con quest’ultimo un’occhiata complice, ci buttammo in quella discesa, insieme.
Ecco, le emozioni che si provano quando cominci una pista sullo snowboard sono indescrivibili ed inimitabili..Per provarle bisogna semplicemente armarsi di coraggio ed imparare a maneggiare uno snowboard. Il vento si incontrava con dolcezza con la pelle del mio viso ed ogni volta che molleggiavo sulle ginocchia per fare una curva, mi veniva di intonare una di quelle canzoni con un ritmo deciso e cantarla a tutta voce. Guardai Emanuele che si muoveva espertamente poco davanti a me. Fece un leggero trick, fermandosi poi ad aspettarmi e quando lo raggiunsi gli sorrisi, tranquilla, felice: finalmente nel mio posto naturale, finalmente in pace con me stessa, felice.

A mio parere, quando si è in montagna, non c’è nulla di migliore del pranzo alla baita: lasciare gli sci, la tavola e tutte le fatiche della prima metà della giornata sciistica ed abbandonarsi ad un ipercalorico panino con la salsiccia e delle patatine fritte.
Noi cinque eravamo pienamente impegnati in quell’attività, stando seduti su delle sdraio a prendere il sole. Addentai con gusto il mio panino, tenendo gli occhi chiusi a causa del sole che batteva talmente forte che non sembrava essere in pieno inverno.
-Io e Gianluca abbiamo una proposta!- Annunciò Emanuele soddisfatto. Tutti ci girammo con un’espressione che poteva essere definita solamente come preoccupata. Quei due avevano particolarmente legato ed una cosa che li caratterizzava era indubbiamente il fatto di progettare scherzi, uscite esilaranti e fuori dal comune. –Non vogliamo proporvi di scalare l’Everest, tranquilli!- Disse alzando le mani, arrendendosi davanti a noi.
-E nemmeno il K2 spero!- Commentò Federico ridacchiando, mentre Gianluca faceva il verso della sua risata, facendola concludere con un “no”.
-Siccome Sara e Ginni portano lo stesso numero di scarpe.. Ed anche io,Federico e Gianluca, avevamo intenzione di fare uno.. scambio.- Spiegò Emanuele, con un sorriso disteso.
-Sci per Snowboard!- Completò soddisfatto Gianluca, mentre noi ci scambiavano delle occhiate contemporaneamente preoccupate ed interessate.
-Noi ragazzi facciamo a giro, visto che siamo dispari..Ma comunque la cosa è fattibile. In più c’è questa pista che saprebbero fare anche bambini di due anni a nostra disposizione.- Emanuele e Gianluca erano eccitati come non mai, certo che si divertivano con poco.
-Se mi rompo l’osso del collo sullo snowboard è colpa tua eh!- Ammonì Sara a Emanuele con un sorrisetto.
-Guarda che rischio come te di farmi male sugli sci.. devo ancora capire come diamine fate ad andare su quei cosi, con le gambe staccate..- Borbottò Emanuele mentre beveva la sua Coca-Cola.
-Ma che dici! La tavola è il mistero irresolvibile!- Disse Gianluca, mentre Federico alle sue spalle annuiva. –Come fai ad andare sullo snowboard, con le gambe incollate, e la possibilità di muoverti solamente grazie al bacino, le braccia..-
-Veramente ti muovi grazie al movimento delle ginocchia, anche.- Precisai, facendo la linguaccia a Gianluca. Emanuele passò un braccio intorno alle mie spalle, abbracciandomi in quel modo strano, da seduto.
-Una che finalmente mi capisce!- Esultò soddisfatto.
-Avete venduto l’anima al diavolo voi due, ecco cosa avete fatto!- Disse Gianluca, finendo nel frattempo il panino ed accartocciando la carta, buttandola nel cestino che stava vicino a noi.
-Almeno andrò all’inferno in buona compagnia!- Dichiarò Emanuele, ancora abbracciandomi.
Quando tutti ebbero terminato il proprio meritato pranzo, fumato una sigaretta e riso a dovere, ci alzammo, pronti ad affrontare quella nuova avventura programmata da Emanuele e Gianluca.

 Dopo molti, forse troppi tentativi, riuscii finalmente a far scivolare il mio piede nello scarpone da sci. Federico esultò, alzando i pugni al cielo e Sara batté le mani soddisfatta. Io tirai un sospiro di sollievo, molto semplicemente. Non avevo ancora mai affrontato una fatica del genere, abituata com’ero ai comodi e morbidi scarponi da snowboard che si infilavano senza esagerate difficoltà. Mi voltai a guardare Emanuele e Gianluca, impegnati nella stessa impresa, e ridacchiai. Emanuele si voltò e ricambiò il mio sorriso, facendomi poi l’occhiolino.
-Ahi! Così mi blocchi la circolazione!- Urlai, dando uno schiaffetto sulla mano di Federico, che strizzò gli occhi, prendendo l’altro scarpone.
-E’ necessario se non vuoi ruzzolare giù dalla montagna con le gambe rotte.- Disse, mentre Sara gli dava una leggera gomitata.
-Non la spaventare dai..- Disse con un ampio sorriso guardano un po’ me ed un po’ lui.
-Oddio devo infilare anche il secondo scarpone?- Dissi leggermente impaurita, fissando lo scarpone rosso fiammante che Sara aveva noleggiato, decisamente riluttante.
-Vuoi andare con uno solo sci?- Domandò Federico, inarcando un sopracciglio. Io scossi la testa mentre lui pazientemente aiutava il mio piede ad infilarsi in quella robaccia che non era uno scarpone, no, era un avvoltoio affamato della sanità del mio piede! Strinsi i denti, spingendo la punta del mio piede dentro lo scarpone con tutte le mie forze. Quando finalmente scivolò dentro, scatenai una reazione uguale a quella precedente, alla quale però parteciparono anche Emanuele e Gianluca, che ci avevano raggiunti.
-Voi siete matti comunque ad andare in giro con queste trappole ai piedi.- Commentò Emanuele, fissandosi i piedi disgustato.
-Devo ammettere che gli scarponi da snowboard sono più carini.- Ammise Sara guardandosi i piedi.
-Hey, non mi plagiare la ragazza!- Sbottò Federico. Ci voltammo tutti a guardarlo incuriositi: aveva definito Sara la sua “ragazza”. Un sorriso si delineò sulle nostre labbra, mentre Sara arrossiva, finendo di allacciarmi lo scarpone.
-La tua dolce metà dopo quest’esperienza si convertirà alla cultura dello snowboard!- Ridacchiò Emanuele, porgendomi poi la mano per aiutarmi ad alzarmi. La strinsi con forza, mettendomi poi in piedi e cominciando a camminare in quel modo strano in cui camminano gli sciatori quando indossano gli scarponi.
-Ed ora?- Domandammo all’unisono io e Sara, io guardando gli sci e lei lo snowboard. Gianluca, che per il momento non partecipava a quel divertente scambio, sorrise, preparandosi a continuare la spiegazione della deviazione della sua mente e di quella di Emanuele, ovvero di ciò che dovevamo fare.
-Adesso ognuno prende il suo mezzo di trasporto, se lo carica in spalla, e sale un po’ di quella salita. Poi tenta a mettersi in piedi e scendere.- Parlò con tanta calma e chiarezza che mi venne voglia di tirargli un pugno sul naso.
-Devo portarmi questi cosi dietro?- Domandai accigliata inarcando le sopracciglia. Ecco perché preferire mille volte lo snowboard agli sci, dannazione! Lui annuì, indicandomi poi la salita che dovevo incominciare ad affrontare. Lasciai che i lineamenti del mio viso si piegassero in una smorfia ed incominciai a camminare, pesantemente, con Emanuele al mio fianco che sbuffava.
-Cosa sbuffi tu! L’idea è tua!- Ridacchiai, dandogli una leggera spintarella.
-Non pensavo comprendesse il dover trascinare gli sci.- Disse a denti stretti, trattenendo a stento una risata. Scossi la testa, facendo altri dieci passi per poi buttare gli sci sulla neve e metterli paralleli, come mi aveva accuratamente spiegato Sara. Miracolosamente riuscii ad incastrare gli scarponi negli sci al primo tentativo, come Emanuele, e dopo averli messi, prendemmo le bacchette e lanciammo un’occhiata a Sara e Federico che si stavano allacciando gli scarponi, ridendo.
-E dopo ciò?- Urlai. Sara alzò lo sguardo, sorridente come non mai.
-Per girare devi fare lo spazzaneve.. Scava nei ricordi della tua infanzia.- Storsi il naso alla sola idea di ricordare le mie esperienze sugli sci di quando avevo sette anni. Avevo visto e rivisto i video fatti da mia madre e quello che mi era rimasto impresso era quando, scendendo da una discesa, avevo preso una pietra ed ero cascata, facendomi di faccia circa venti metri. Mi faceva male tutto al solo pensiero.
-Lentiggini, ti vuoi muovere?- Alzai lo sguardo e vidi Emanuele che tranquillamente girava.
-Ma tu sei un imbroglione!- Sollevai la bacchetta nel tentativo di fare un gesto minaccioso. Sapeva sciare quel deficiente! Ridussi gli occhi a due fessure, mentre dandomi una leggera spinta con le bacchette cominciavo a muovermi.
-Lentiggini no..no..-  Avevo compiuto un grandissimo errore. Secondo le leggi più elementari della fisica, se un corpo si trova in discesa, scende più velocemente e pericolosamente di un corpo che scende in parallelo con una leggera inclinazione. Indovinate? Come una stupida mi ero messa con il volto bello che diretto a valle e gli sci, su quella piccolissima discesa, stavano cominciando a prendere una minima velocità. Cercai di svoltare a sinistra, accennando uno spazzaneve, ma tutto ciò che accadde fu ben differente dalla semplice caduta che mi sarei aspettata.
Nel momento in cui svoltai a sinistra, il mio sci si andò ad infilare perfettamente in mezzo a quelli di Emanuele. Istintivamente mi aggrappai al suo busto con tutte le mie forze, mentre cadevano entrambi a terra cominciando a rotolare nella neve. Le sue braccia mi strinsero forti al suo petto mentre sentivo gli sci staccarsi dai miei piedi e la neve infilarsi dentro la mia tuta ed entrare nella mia bocca.
Cinque secondi dopo eravamo fermi. Aprii timorosa gli occhi ritrovandomi sopra ad Emanuele Benassi che mi guardava tranquillo, con un sorriso sulle labbra. Ero talmente vicina a lui che sentivo il suo respiro infrangersi con dolcezza sul mio viso e le punte dei nostri nasi si sfioravano leggermente.
-Tutto apposto, Lentiggini?- Domandò ridacchiando. Io, completamente persa nel castano dei suoi occhi, nella dolcezza del suo sorriso, riuscii a malapena ad annuire, sperando di non svenire così fra le sue braccia. –Sei proprio un disastro..- Disse scuotendo la testa mentre con una mano sistemava una ciocca dei miei capelli dietro le orecchie. Non si muoveva, non mi toglieva da quella posizione che, tutto sommato, non mi dispiaceva affatto.
-E tu giochi sporco!- Tirai uno scherzoso pugnetto sul suo petto, sorridendo. –Sai sciare perfettamente!-
-Mmm.. Forse ho fatto anche qualche anno di sci!- Ammise, posando nuovamente la sua mano sulla mia schiena. –Sei tutta piena di neve..- Commentò a voce bassa, quasi in un sussurro che mi fece rabbrividire con forza. Non seppi cosa rispondere: lo guardai negli occhi senza riuscire a spiccicare parola incantata da quella unica, incredibile vicinanza di cuinon sarei riuscita a godere ancora, probabilmente. Lui schiuse le labbra, senza allontanarsi, senza allontanarmi di un millimetro.
Boom.
Federico rotolò sopra di noi. Chiusi gli occhi sentendo il rumore della tavola che cadeva con forza sulla neve.
-Questa ha fatto male.- Commentai mentre scivolavo al lato di Emanuele, passandomi una mano dietro la schiena.
-Scusate..- Mormorò Federico, prima di scoppiare a ridere, sedendosi. Cercai di sollevarmi e vidi Sara scivolare tranquillamente sullo snowboard: aveva talento la ragazza. Si avvicinò a noi, scuotendo la chioma bionda con un largo sorriso.
-Alzatevi, sennò stasera niente Rumba Room!-

 La discoteca “Rumba Room” era situata in effetti proprio a venti minuti a piedi dalla casa di Sara e, quando arrivammo notammo immediatamente una lunga fila di persone che desideravano entrarvi. Secondo quanto ci avevano spiegato Alba e Franco quella era l’unica discoteca che c’era nell’area fra Rivisondoli e Roccaraso e di conseguenza tutta la gioventù e non che abitava lì si riuniva il sabato sera in quell’unico locale. Ringraziai il cielo, in quel momento, che Sara conoscesse tutti i PR della zona e che ci aveva fatto mettere in lista, evitandoci quella lunga coda, in quel modo. Facendoci spazio fra tutte le persone, riuscimmo miracolosamente ad arrivare all’entrata e dopo aver preso il braccialetto azzurro della discoteca, entrammo.
C’era da dire che quella sera ero più debilitata del solito: Emanuele si era messo in tiro, evidentemente, e tutte le mie sinapsi avevano smesso di lavorare contemporaneamente. Indossava dei jeans scuri, semplici e stretti, che scendevano dritti fino alle converse nere basse. Ma la mia vera debolezza che lui aveva scoperto, era la camicia. Una semplice camicia bianca con le righe sottili nere, era stata in grado di annientare la mia capacità di intendere e di volere, abbinata quei primi bottoni slacciati e ai capelli mori leggermente spettinati che ricadevano morbidamente sulla sua fronte. Anche io, in fondo, mi ero data da fare quella sera: mi ero messa un vestito bianco, quindici centimetri sopra il ginocchio, con sotto delle calze marroni a bande larghe ed i miei stivali marroni con il tacco. La scollatura non era esagerata ma era notevole e giovava dello chinon in cui ero miracolosamente riuscita a raccogliere i miei capelli.
Non appena entrammo nel “Rumba Room”, le mie orecchie dovettero abituarsi alla musica alta che suonava imperterrita e all’enorme massa di gente che era affollata nella pista e sui balconcini. Passammo prima a lasciare le borse ed i cappotti, diretti poi alla pista nella speranza di riuscirci a ritagliare un po’ di spazio per noi.
-Ti sei ripresa dalla caduta?- Disse Emanuele, chinandosi all’altezza del mio orecchio in modo che lo sentissi. Mi voltai ed incrociai il suo sguardo, sorridendo.
-Sei molto delicato quando cadi, davvero.- Dissi ironica, ridacchiando. Non potevo non essere di buonumore dopo che pensavo a quella rotolata che ci eravamo fatti insieme. Insieme, sì, uno abbracciato all’altro, per concludere in bellezza, come nei film, sdraiati l’uno sull’altro. Maledetto Federico! Scossi la testa, guardando poi la pista e movendo qualche passo.
-Potrò mai farmi perdonare?- Fui costretta a girarmi nuovamente, invitata dalla sua dolce mano che si era posata sulla mia schiena. Veramente lo avevo perdonato immediatamente, da quando mi aveva guardato in quel modo prima che Federico rompesse la magia, lo avevo perdonato a prescindere. Tuttavia scollai le spalle, guardandolo furbescamente.
-Chissà..- Dissi mantenendomi sul vago, mentre Federico, Sara e Gianluca già avevano cominciato a ballare. Emanuele prese la mia mano con dolcezza.
-Un ballo migliorerebbe la situazione?- Domandò mentre il mio cuore si scioglieva alla delicatezza del suo tocco, al ricordo delle sue mani sulle mie guance, del suo bacio.
-Forse.- Arrossii, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulla nuova conquista di Gianluca: una ragazza un po’ bassa, coi i capelli a caschetto castani ed un bel fisico, anche se piuttosto minuto. Emanuele seguì il mio sguardo e lo sentii ridere, per poi andare in pista trascinandomi con sé.
La famosa hit di Flo-Rida suonava a tutto volume, scandendo il ritmo dei movimenti di tutte le persone presenti. Nel momento in cui si sentirono le prime note della canzone, tutti esplosero in applausa e grida di approvazione, buttandosi poi in massa nella pista, riducendo ulteriormente il già poco spazio a disposizione. Quando mi arrivò una spinta da dietro, finii addosso ad Emanuele, che prontamente portò una mano dietro la mia schiena, facendo aderire i nostri corpi. Alzai timidamente lo sguardo, incrociando il suo, e mi chiesi cosa diamine mi aveva spinto punto primo ad accettare quel ballo, punto secondo a stare così dannatamente vicina a lui. Passarono appena un paio di secondi in cui ci fissammo così, senza dire nulla e fare nulla, prima che lui si cominciasse a muovere a tempo di musica, contagiando anche il mio corpo a quell’ennesima tortura. Vista la posizione già sconveniente in cui eravamo costretti a causa del pienone del sabato sera, portai le mie braccia al suo collo con un’iniziale timidezza che fu immediatamente spazzata via dal ritornello. Non so neanche io cosa successe: magari fu la canzone che amavo particolarmente o i passi sicuri di Emanuele, ma ci ritrovammo a ballare in una maniera decisamente non adatta a due “perfetti amici”. Le sue mani, posate sui miei fianchi, seguivano ogni mio movimento ed io ero, stranamente, perfettamente a mio agio, senza il minimo rossore, senza la minima timidezza.
-You spin my head right round right round when you go down, when you go down down..- Lo sentii cantare ad alta voce, mentre per l’ennesima volta i nostri corpi aderivano perfettamente a causa del movimento che incrementava non appena arrivava il ritornello. Quei tre minuti e mezzo della durata della canzone, passarono nello stesso tempo lenti e veloci e quando la canzone terminò, facendone iniziare una non esageratamente conosciuta che fece svuotare leggermente la pista, noi restammo fermi, imbambolati, vicinissimi. Ci guardavamo negli occhi con un leggero sorriso sulle labbra, come se tutto il mondo intorno a noi si fosse fermato, lasciandoci quell’attimo di paradiso.
-Perdonato?- Mormorò al mio orecchio, guardandomi poi in quel modo che mi faceva morire.
-Mmm..- Feci finta di pensarci un attimo, arricciando sul mio dito indice una ciocca ribelle di capelli. -..sì, dai, sei perdonato.- Le sue labbra si allargarono in un sorriso e la mia gola improvvisamente si seccò. Non c’era assolutamente niente da fare: ero completamente andata per Emanuele Benassi, non c’erano storie che reggevano.. non potevo nasconderlo neanche più a me stessa. Certo, ero già giunta alla conclusione che mi piaceva, anche parecchio, ma ero sempre stata convinta del fatto che mi piacesse solo perché non lo potevo ottenere.. Ed invece, mi piaceva da impazzire a prescindere. Anzi, quando sembrava starci, quando sembrava che mi provocasse, mi piaceva ancora di più.
-Vado a prendermi qualcosa da bere.- Dissi, mentre bloccavo Gianluca che evidentemente era diretto come me al bar.
-Ci vediamo fra poco allora!- Emanuele sorrise, facendomi l’occhiolino ed andando a raggiungere Federico e Sara. Guardai con Gianluca e passai un braccio intorno la sua vita, alzando poi lo sguardo per rivolgergli un ampio sorriso.
-Come mai siamo così felici?- Mi domandò, scompigliandomi delicatamente i capelli, prima di portare il proprio braccio intorno alle mie spalle. Io mi strinsi nelle spalle, mentre nella mia mente si era fissata l’immagine di Emanuele, ormai. Gianluca sorrideva a sua volta, tranquillo, soddisfatto.
-E tu su chi hai fatto colpo?- Domandai io, prendendo la palla al balzo per cambiare l’argomento trattato. Come sperato Gianluca si illuminò ulteriormente a quello domanda.
-Si chiama Marzia, vive alla Garbatella(*) e va al “Primo Levi”.. ha la nostra stessa età e qui sta in casa della cugina!- Spalancai gli occhi, mentre mi facevo spazio per arrivare al bancone. Fortunato il ragazzo, si era trovato una ragazza a Rivisondoli che viveva vicino a lui. Stupefacente. –Che spettacolo!- Sorrisi insieme a lui, sinceramente felice per ciò che mi aveva appena detto.
-Che vi preparo?- Il barman comparve davanti a noi, sorridendoci cortesemente. Mi guardò intensamente, aspettando che ordinassimo, e non potei non notare l’intenso azzurro dei suoi occhi. Incredibile, dovevo smetterla di imbambolarmi a fissare gli occhi di tutti i ragazzi decenti o carini (o magari belli!) che mi si presentavano!
-Per me un Negroni!- Disse Gianluca, lasciandomi ancora beare per qualche istante del sorriso che il barman mi rivolgeva.
-Per me un Cosmopolitan.- Dissi infine, dopo aver messo un po’ di pace e di ordine nel mio povero cervello. Il ragazzo ci sorrise, posando due bicchieri sul bancone e cominciando a preparare i nostri cocktail.
-Di dove siete?- Ci domandò poi ad un tratto, mentre prendeva il ghiaccio.
-Roma!- Rispose prontamente Gianluca, osservando nel frattempo i movimenti sicuri delle sue mani.
-Si sente subito che non siete di qui.- Commentò, rivolgendomi un ampio sorriso. –Io sono Marco, comunque.- Si presentò, allugando velocemente la mano per stringere quella di Gianluca e la mia, per poi continuare con i cocktails.
-Io sono Ginevra e lui e Gianluca.- Dissi ricambiando finalmente uno dei molteplici sorrisi che mi aveva indirizzato. –Tu sei di qui?- Domandai posando entrambi i gomiti sul bancone e sedendomi su una sediola, imitando Gianluca. Lui annuì, offrendoci finalmente il Negroni ed il Cosmopolitan.
-Dell’Aquila.-  Precisò, pulendosi le mani con un asciugamano e prendendo poi i due coupon delle consumazioni gratuite che gli stavamo porgendo. –Io vado a servire i prossimi. Semmai ci si rivede dopo!- Ci fece l’occhiolino e si avvicinò sorridente a due ragazzi che si erano avvicinati qualche metro più in là.
-Insomma non ci stava provando..- Disse Gianluca mentre beveva il primo sorso del Negroni. Io sorrisi, scrollando le spalle.
-Un po’..- Portai alle labbra il Cosmopolitan e ne assaporai il sapore.
-Non ti dispiaceva troppo però, eh!- Mi diede una piccola pacca sulla spalla ed io arrossii. Certo che si notava proprio quando un ragazzo mi interessava almeno un po’!
-Non troppo..- Sorrisi, guardando poi tutte le persone che ci circondavano: coppie che si formavano e si separavano, ragazze che mandavano languidi sguardi ai loro amati. In discoteca si potevano ammirare le scene più bizzare. Terminammo i nostri cocktail in silenzio, posando poi i bicchieri vuoti sul bancone ed alzandoci.
-Torniamo dalla tua amata?- Dissi con un largo sorriso, cominciando a farmi spazio fra la folla. Gianluca, accanto a me, sorrise come quello stesso bambino che dopo aver giocato con il suo action-man va a giocare con la playstation: enormemente soddisfatto e voglioso.
-A ritrovarla fra tutta questa gente la mia amata.- Ci fermammo davanti agli scalini che conducevano alla pista e la perlustrammo dall’alto.
-Eccola lì, guarda..- La indicai e mi voltai per godere del sorriso che si illuminò sulle sue labbra. Non c’era cosa più bella del vedere il mio migliore amico felice sorridere.
-Io vado.- Mi disse, poggiando con dolcezza una mano sul mio braccio. Io annuii, rendendolo “libero” di andare da quella ragazza che gli faceva quell’effetto e mi guardai intorno, alla ricerca di Sara, Federico ed Emanuele.
Non tardai, sfortunatamente ad individuarli..Probabilmente sarebbe stato meglio che il mio sguardo non si fosse posato sulla chioma bionda di Sara e, poi, su Emanuele. Lui ballava allegro, sorridendo, ma non da solo, ovviamente. La sua mano destra stringeva a sé il corpo di una ragazza che riconobbi solo dopo aver strizzato gli occhi: Giulia, la cameriera della sera precedente. Il loro ballo lasciava intendere a tutti le loro intenzioni: la loro complicità, i loro movimenti, i loro sguardi d’intesa, erano solamente delle premesse a quello che accadde dopo. Mentre sentivo il mio cuore scricchiolare piano, sforzandosi di non rompersi, Giulia si muoveva sinuosamente contro il corpo di Emanuele, strusciandosi quasi avidamente contro di lui. Lui teneva il viso piegato sull’incavo del suo collo, e con l’altra mano seguiva i movimenti del suo bacino, non dispiacendosi di far scendere le dita ogni tanto più sotto della linea dei fianchi. Scossi la testa, cercando di distogliere lo sguardo, ma i miei occhi sembrava legati da un’invisibile forza all’autolesionismo. Ad un tratto il mio cuore raggiunse l’apice della sopportazione e si spezzò. Si spezzò nel preciso istante in cui le labbra di Emanuele si posarono su quelle di Giulia in un bacio ben differente da quello che aveva dato a me, la sera prima. Un bacio vero, un bacio reale, che si approfondì velocemente, lasciando perdere il tempo della musica, ed aprendosi a movimenti per più sensuali, ben più intensi. Restai ferma, mentre il mondo intorno a me si muoveva velocemente, ad ascoltare il suono che facevano le parti del mio cuore cadendo a terra. Un suono assordante che fu accompagnato da un dolore nel petto che mi era stato uno sconosciuto, fino a quel momento.
La canzone terminò e loro si allontanarono, riprendendo fiato. Emanuele alzò lo sguardo e mi guardò, ancora pietrificata in cima alle scale. Affrontai il suo sguardo con tutto l’orgoglio che avevo dentro di me, un orgoglio indubbiamente ferito, ma che non voleva farsi beccare in quelle condizioni. Le mani di Giulia si posarono sulle guance di Emanuele, trasportandolo in un altro bacio, al quale lui partecipò solo dopo avermi lanciato un’ultima, indecifrabile occhiata. Mi voltai, passandomi una mano fra i capelli ed allontanandomi il più velocemente da ciò che rimaneva del mio cuore, dei miei sentimenti. Cercando di non incrociare lo sguardo di nessuno, mi avvicinai al bancone, sedendomi su una sediola. Non ci potevo credere: mi ero fatta illudere. Io, Ginevra Sforza, un’illusa. Mai avrei immaginato di mettere in una stessa frase il mio nome, il mio cognome, ed il termine “illusa”. Ero andata troppo oltre quella volta.. Avevo fantasticato su una storia senza un futuro, su una storia che esisteva solo per me: i suoi sorrisi, i suoi sguardi, la caduta sulla neve, quel ballo.. erano cose normali, fra amici, che io invece, volando sulle ali della fantasia, avevo interpretato male, creandomi una storia, una realtà valida solo ed esclusivamente per me, alla quale lui non aveva la minima intenzione di partecipare.
-Di nuovo qui?- Alzai lo sguardo, incrociando quello di Marco. Accennai un sorriso, annuendo. –Prendi qualcosa?-
-Non ho un soldo.- Risposi molto semplicemente, cercando di deviare il corso dei miei pensieri.
-Offro io!- Mi fece l’occhiolino, guardandomi poi dritto negli occhi. Ricambiai quello sguardo schacciando tutta la tristezza che piano piano si era accumulata dentro di me.
-Guarda che non è una scusa per non pagare, la mia.- Chiarii, lasciandomi poi dolcemente contagiare dalla risata che suscitai in lui con le mie parole.
-Non ti ho mai accusato di una cosa del genere.- Riuscì a dire fra una risata e l’altra.
-Mm... Allora voglio un Invisibile.- Lui spalancò gli occhi e scosse la testa.
-Cosa stai cercando di dimenticare?- Domandò, aggrottando le sopracciglia.
-Scusami?- Avevo capito bene la sua domanda? Non stavo assolutamente cercando di dimenticare qualcosa. No, niente mi turbava. Andava tutto bene. O no?
-Ti vuoi prendere una sbronza, questo è chiaro dopo che ordini un Invisibile. La domanda è perché vuoi prenderti una sbronza tutto ad un tratto? Vuoi dimenticare qualcuno o qualcosa?- Io abbassai lo sguardo, scoperta nel mio tentativo di cercare di passare oltre a tutta la storia di Emanuele, di Giulia.. –Un ragazzo?- Suggerì, porgendomi nel frattempo un bicchiere d’acqua che accettai volentieri.
-Una storia lunga.- Dissi fissando il bicchiere di plastica.
-Fra dieci minuti stacco, se vuoi puoi raccontarmela.- Propose con semplicità, guardandomi. Mi strinsi nelle spalle: in fondo perché non avrei dovuto accettare? Sara stava con Federico, Gianluca con la sua nuova conquista ed Emanuele con Giulia. Che mi restava da fare?
-Ok.- Accettai, mentre Marco si allontanava con un largo sorriso sulle labbra. Sembrava un ragazzo a posto, tutto sommato.. Avevo quella strana sensazione di potermi semplicemente fidare. Lo aspettai standomene seduta lì al bancone, guardandomi un po’ intorno, senza vedere nulla in realtà. Ero fatta così, quando mi perdevo nei miei pensieri mi isolavo a tal punto dal mondo da lasciarmi scorrere la vita davanti senza reagire in alcun modo. Quei dieci minuti passarono talmente lentamente che mi sembravano ore che stavo lì a pensare e a ripensare al comportamento di Emanuele, cercando di analizzarlo, di comprenderlo. Marco mi si avvicinò già con il giubbotto e la sciarpa, pronto per abbandonare il locale. Io mi alzai e lo seguii fino al guardaroba, dove ritirai la mia borsa ed il mio giubbotto, per poi uscire dal locale. Tirai un sospiro di sollievo quando, uscita nella strada dove era situato il locale, non sentii più la musica assordante e la gente che mi circondava da tutti i lati.
Quando vi fu abbastanza silenzio per poter parlare, io e Marco cominciammo a discutere del più e del meno, camminando per Rivisondoli.
-Quanti anni hai?- Mi domandò Marco, guardando un po’ me ed un po’ la strada.
-Diciassette, e tu?-
-Venti-  Sorrise. –Sto al secondo anno di Medicina.- Lo guardai incuriosita, mentre ci avvicinavamo ad una panchina situata dopo il parco che si estendeva davanti alla discoteca.
-Io vorrei fare medicina, dopo aver finito il liceo.- Dopo esserci seduti, chiaccherammo un po’ della facoltà che frequentava e mi spiegò molte cose, chiarendo molti dei dubbi che avevo su medicina. Marco era un ragazzo intelligente, un po’ timido, un tipo alla mano, insomma, che però perse tutti i punti conquistati quando tornò a toccare il mio unico tasto dolente: Emanuele.
-Insomma perché volevi ubriacarti?- Mi domandò ad un tratto, dopo un lungo discorso sulla microchirurgia. Io abbassai lo sguardo: colpita ed affondata. Sospirai, stringendomi maggiormente nel giubbotto e guardando la discoteca in lontananza.
-Mi piace da impazzire un ragazzo, Emanuele, che era lì nella discoteca..- Era la prima volta che parlavo così apertamente di ciò che provavo a qualcuno che non fosse Sara o Gianluca, e quasi non mi sembrava vero di aprire il mio cuore ad un completo sconosciuto. –E mi ero convinta, piano piano, che in un certo senso ricambiasse anche lui i miei sentimenti.- Mi passai una mano fra i capelli, prendendo poi il pacchetto di sigarette dalla borsa, accendendomene una.
-E lui ha baciato un’altra, questa sera.- Concluse il mio racconto con una semplicità che mi stupì. Lo guardai stupefatta, annuendo poi debolmente.
-Già.. Sono un’illusa.- La parola “illusa” ogni volta che la pronunciavo mi faceva rabbrividire. Faticavo ad ammettere a me stessa che mi ero lasciata prendere in giro così facilmente dai miei sentimenti.
-Sei una stupida.- Disse lui molto semplicemente e quando si scontrò con la mia espressione aggiunse velocemente. –Sei una stupida ad abbatterti così a diciassette anni per un ragazzo.-
-Non ci sono età in cui abbattersi è accettabile ed età in cui non lo è.- Commentai, portando poi la sigaretta alle mie labbra.
-Certo, ma quando si è giovani bisogna essere sempre pronti a guardare avanti.- Io non potei fare altro oltre ad annuire. –Senti ma.. Tu sei sicura di non piacergli?-
-Ne sono sicura al cento percento!- Risi, nascondendo un certo isterismo in quella risata. –Se ne va in giro a baciare altre! Come potrei mai piacergli!- Scrollai le spalle, guardandolo poi negli occhi.
-Non è mica detto..- Disse con un sorriso ben stampato sulle labbra, guardando poi l’orologio che portava al polso. –Sono le due e mezza.. Io alle tre devo raggiungere degli amici, quindi adesso ti riaccompagno, ok?- Io mi alzai in tutta risposta, guardandolo tranquilla. In fondo avevo fatto proprio bene ad uscire con lui da quel locale. Guardai la sua frangia castana che ricadeva un po’ disordinatamente sulla fronte, il naso dritto, gli occhi azzurrissimi.. ed indubbiamente era anche un bel ragazzo che aveva del cervello e non aveva colto l’occasione per provarci spudoratamente, come avrebbero invece fatto molti altri esponenenti del sesso maschile.
Ci incamminammo diretti alla discoteca, camminando lentamente, cercando anche di morire di freddo.
-Comunque, se non gli piaci è un idiota.- Risi alle sue parole, mentre lui aggrottava le sopracciglia.
-E’ la frase più scontata che potessi dire.- Gli spiegai, cancellando quell’espressione stupita dal suo volto.
-Io credo di no, invece. Sei bella, simpatica, intelligente.. cosa potrebbe volere di più un ragazzo?- Arrossii, spostando immediatamente lo sguardo dai suoi occhi al terreno.
-Delle labbra all’Angelina Jolie.- Mormorai, sperando che non mi sentisse. Invece lui scoppiò a ridere, portando un braccio intorno alle mie spalle.
-Non mi dire che si è baciato con Giulia Pelosi!- Io annuii, guardandolo. La conosceva anche lui? –Un mese fa, prima di cominciare il mio turno in discoteca, ero andato al pub a bermi una birra.. –
-E lei ci ha provato spudoratamente.- Questa volta fu il mio turno di completare la sua frase, mentre lui annuiva ancora in preda alle risate.
-Sei molto meglio tu.- Disse infine, mentre io sorridevo sarcastica. –Per il semplice fatto che non sei una puttana.-
-Ah grazie! Solo per questo!- Ridevo anche io ormai, mentre gli davo una spintarella. –Se volevi riempirmi di complimenti fino alla fine potevi almeno dire che io ero molto più bella, interessante!- Ormai eravamo davanti al locale, dovevamo solamente attraversare la strada e ridevamo come non mai. Ero riuscita a cancellare momentaneamente tutta la storia di Emanuele dalla mia testa e ridevo sinceramente, con le lacrime agli angoli degli occhi, reggendomi alle spalle di Marco.
Successe tutto velocemente: una mano si posò sul mio posteriore insistentemente ed io mi voltai di scatto, notando un gruppo di uomini che ci passò davanti ridendo. Individuai il proprietario di quella mano che evidentemente aveva osato troppo e lo spinsi tanto violentemente da farlo quasi cadere giù dal marciapiede.
-Sei un porco!- Gli urlai dietro, già pronta ad attraversare con Marco accanto che mi guardava e tutte le persone che si trovavano davanti la discoteca che si erano ammutolite e si godevano la scena. Misi il primo piede sulle strisce pedonali, cominciando ad avvicinarmi alla discoteca, quando quello stesso uomo che avevo spinto, mi prendeva per un braccio ed allontanandomi violentemente da Marco, mi avvicinava a sé. Guardai il suo volto sudicio, lercio come la mano che mi aveva toccato, e sentii il suo alito che puzzava d’alcol infrangersi sul mio viso.
-Lasciami.- Ringhiai, divincolandomi, ma la sua presa era troppo forte. Marco si avvicinò, cercando di allontanarmi da quell’uomo, ma gli amici del tipo lo bloccarono da dietro, impedendogli di muoversi. –Lasciami!- Urlai questa volta più forte, chiedendomi nel frattempo, stretta in quella presa di ferro, con le sue sudice mani piantate sul mio sedere , perché nessuno da quel diamine di locale si muoveva. Chiuse gli occhi, cercando di divincolarmi nuovamente. Urlai spaventata quando ad un tratto, poco dopo che avevo riaperto gli occhi, un pugno si era andato ad infrangere contro il naso di quell’uomo, facendogli perdere la presa che aveva sul mio corpo. Mi allontanai velocemente, attraversando la strada, per poi voltarmi a guardare la scena. Emanuele, Federico e  Gianluca si erano lanciati su quell’uomo, mentre Marco era stato lasciato dagli amici di quel porco ed adesso stava aiutando i due a liberarsi di quei tipi. Un braccio mi strinse la vita. Mi voltai ed incrociai lo sguardo preoccupato di Sara che teneva una mano sulla propria bocca, incredula.
Solo l’intervento dei buttafuori della discoteca riuscì ad interrompere lo scontro fra i nove. La banda si allontanò, tirando qualche insulto da lontano, mentre Gianluca, Marco, Emanuele e Federico se ne andavano dal lato opposto, spinti dagli enormi buttafuori. Senza neanche aspettare Sara mi buttai al loro seguito, attraversando di corsa la strada ed abbracciando da dietro Gianluca. Lui si voltò, con un labbro rotto e chissà quali altre ferite nascoste dal buio di quella strada. Si voltarono anche Federico, Marco ed Emanuele, tutti con del sangue che usciva o dalle labbra o dal naso.
-Scusate ragazzi..- Mormorai abbassando lo sguardo. –E’ tutta colpa mia.-
-E’ colpa tua per il semplice fatto che te ne vai in giro con gli sconosciuti.- Le parole di Emanuele mi fecero alzare lo sguardo di scatto, mentre una rabbia improvvisa saliva. –Che diavolo ci facevi fuori dalla discoteca?- I suoi occhi sembravano lanciare fiamme.
-Emanuele, smettila, non è colpa di nessuno..- Federico portò la propria mano sulla spalla dell’amico. –Ha avuto la sfortuna di incontrare dei porci ubriachi.- Nel frattempo ci aveva raggiunti Sara, con il fiatone. Guardai prima Marco e poi Emanuele, mentre il sangue ribolliva.
-E cosa restavo a fare dentro la discoteca, eh? Eravate tutti impegnati, o sbaglio?!- Parlai a voce talmente alto che Sara e Gianluca, che stavano parlottando, ammutolirono. Emanuele abbassò di colpo lo sguardo, mentre il mio cuore si stringeva. –Mi sbaglio?!- Ripetei, guardandolo fisso negli occhi, arricchita di una nuova forza che era alimentata dalla rabbia.
-Non ti sbagli.- Mormorò lui a denti stretti, distogliendo lo sguardo.
-E cosa dovevo fare? Restare lì come una cogliona a guardarti mentre ti strusciavi addosso a quell’altra? Eh? Non gira tutto intorno a te!- L’ultima volta che avevo avuto il coraggio di parlargli in quel modo era stato alla festa di Marika Marchesani, quando Sara si era ubriacata. –Vaffanculo, Emanuele!- Ed in quelle parole riversai tutto il disprezzo, la rabbia, il risentimento e la delusione che avevo covato quella sera quando lo avevo visto con Giulia. Mi girai di scatto, allontanandomi. Qualcuno mi seguì e quando una mano si posò sulla mia spalla, mi girai così rabbiosamente che il povero che mi aveva seguito quasi scattò. –Ancora non hai ca.. Ah, Marco.- Abbassai lo sguardo, vergognandomi di quella mia reazione. Quando ritrovai il coraggio per guardarlo negli occhi, notai un ematoma che si andava creando intorno il suo occhio, leggermente socchiuso. –Scusami..- Mormorai.
-Non ti preoccupare.. Scusami tu se ti ho fatto incontrare quei tipacci.- Accennò un sorriso.
-Non è colpa tua.- Ricambiai quel leggero sorriso, con il cuore che ancora batteva ancora follemente dopo quello sfogo ad Emanuele.
-Io ora devo andare.. Scrivimi il tuo numero, che semmai ci sentiamo.- Mi porse il suo cellulare ed io sorrisi, mentre scrivevo il mio numero, con le dita che tremavano sia per il freddo che per il nervoso.
-Grazie per la chiaccherata.- Dissi infine, mentre li porgevo il telefonino.
-Grazie a te.- Si chinò per baciarmi le guance, allontanandosi poi con un sorriso. –E non ti preoccupare troppo per il tizio.. Quando capirà l’errore madornale che ha fatto, se ne pentirà.- Con quella perla di saggezza riferita chiaramente ad Emanuele, Marco si allontanò. Le mani affondate nelle tasche ed i capelli che venivano mossi dal freddo vento. Restai ferma, le braccia incrociate, incapace di voltarmi a guardare cosa succedeva dietro di me, incapace di incontrare nuovamente lo sguardo di Emanuele. Avevo chiuso con lui, ufficialmente.. avevo chiuso con quel ragazzo che non aveva capito niente di me, che era stato in grado di prendere il mio cuore, illuderlo, farlo innamorare, per poi spezzarlo con una tale durezza da non lasciare neanche la possibilità di ricostruirlo.
-Tesoro..- La voce di Gianluca mi riportò alla realtà. Le sue braccia mi strinsero forte al suo petto e ricambiai con forza quell’abbraccio. In quel momento volevo solamente Gianluca e Sara, nessun altro.. Volevo tornare alla mia vita, quella senza Emanuele e Federico, quella senza quei due ragazzi che non avevo mai visto e che avrebbero potuto tranquillamente continuare a vivere la propria vita lontani dall’Umberto Eco e da me. In realtà il povero Federico non aveva nessuna colpa in tutta quella storia.. Anzi, probabilmente era l’unico che si era rivelato una persona normale, alla fine di tutto.. Aveva avuto ragione Sara su tutto: su Emanuele, sul suo carattere, su tutta la negatività che aveva espresso riguardo i suoi confronti.
Soffocai tutto il mio dolore e la mia rabbia nel pianto che asciugai contro il petto di Gianluca. Pianto che lui, Sara, Federico ed anche Emanuele presero per il pianto tipico di una ragazza spaventata, una ragazza a cui è stato toccato il sedere da un vecchio pervertito, una ragazza cui amici si sono picchiati con forza davanti ai suoi occhi per lei.. Mentre in realtà ero solamente una ragazza ferita che stava vivendo la sua seconda delusione d'amore.


Spazio dell'autrice: Non odiatemi. Ho odiato anche io scrivere questo capitolo.. Ma era necessario per far progredire il racconto, visto che come vi ho già detto ho già delineato i capitoli successivi! Vi premetto che dovrete sopportare un altro paio di capitoli.. cattivi, ecco, di questo genere! E dopo ciò non mi dilungo più con le anticipazioni! :) Ora passo ai ringraziamenti! 
Grazie infinitamente a Ombrosa, Swettlove, MoKoNa_x ! Non sapete quanto faccia piacere leggere le recensioni.. Mi date un sostegno enorme! 
Vi mando un bacione enorme e spero che continuerete a seguirmi tutti: voi che recensite, voi che leggete silenziosamente, voi che mi aggiungete ai preferiti e alle storie seguite!

Silvia.

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Capitolo 7
*** New York, New York! ***


Capitolo Settimo: New York, New York!

 Era passato un mese da quel quattro di febbraio. Un mese dal giorno in cui il mio cuore si era spezzato a causa di Emanuele Benassi. Un mese dal giorno in cui, non sapevo neanche io per quale motivo, se ne era andata via una parte importante dentro di me. Sembrerà inevitabilmente una di quelle frasi melodrammatiche delle diciassettenni innamorate, ma purtroppo era ciò che io diciassettene disillusa, provavo all’incirca da trenta giorni.
Era successo tutto in fretta, forse troppo in fretta, stentavo ancora a metabolizzare gli eventi del gennaio passato, malgrado febbraio fosse già passato da un pezzo e marzo stava passando, ben deciso a lasciare il posto ad Aprile, al mio diciottesimo compleanno, alle vacanze di Pasqua e tante altre cose che mi sembravano troppo differenti da quelle che io in realtà volevo.
Quel quattro febbraio, quando avevo urlato in faccia ad Emanuele il fatto che mi aveva scocciato con le sue manie di egocentrismo e lo avevo anche mandato a quel bel paese, non poteva non avere un amico del cuore: il cinque febbraio.

 Quella domenica mi ero alzata tranquilla dal letto, cercando di non rispondere alle invadenti domande di Sara sul mio stato d’animo. Mi ero chiusa a riccio dopo lo sfogo contro il petto di Gianluca ed evitavo accuratamente le domande di tutti su come mi sentissi. Come mi potevo sentire? Delusa? Ferita? Amareggiata? No, molto semplicemente: confusa. Ma non avevo voluto condividere quel mio stato d’animo con nessuno, e quella mattina mi ero precipitata in cucina a bere un caffé espresso che non poteva farmi altro che bene.
-Buongiorno.- Quando entrai in cucina, alzando lo sguardo incrociai ovviamente lo sguardo di Emanuele. Mi soffermai a guardare il suo labbro rotto, il grosso ematoma sulla sua guancia e l’occhio leggermente socchiuso, cercando tuttavia di mantenere l’espressione più impassibile possibile.
-Buongiorno.- Risposi freddamente, mentre mettevo la cialda nella tecnologica macchinetta Nespresso, quella pubblicizzata da George Clooney, per intenderci. Aspettai che il mio caffé fosse pronto e poi mi andai a sedere al tavolo, rigorosamente davanti ad Emanuele Benassi, se qualcuno avesse voluto avere il gusto del dubbio. Cercai di mandare giù il caffé il più velocemente possibile, per evitare quella stramba ed inconveniente situazione, ma quando fui sul punto di cominciare ad ustionarmi la lingua, piombò nella stanza Gianluca, ed io tirai un sospiro di sollievo.
-Buongiorno, Ginni. Buongiorno Emanuele.- Disse con dolcezza, spostando lo sguardo da me a Emanuele, come per volerci studiare con decisamente poca discrezione. Non c’era niente da studiare, niente! Non c’era neanche più niente da scovare: le relazioni, di qualsiasi genere ci fossero state, fra me, Ginevra Sforza, ed lui, Emanuele Benassi, erano terminate la sera precedente, o meglio dire alle tre di notte di quella stessa domenica.
-Buongiorno, Gianluca.- Risposi cortesemente, mentre l’atmosfera che si andava creando mi piaceva sempre di meno. Evitai accuratamente lo sguardo di Emanuele mentre prendevo una delle brioches che i genitori di Sara ci avevano comprato. Perché tutto d’un tratto Benassi mi guardava così intensamente? Che diamine aveva da guardare? Non mi ero truccata male, a dire il vero non mi ero truccata affatto, non avevo disegni strani nel viso e non stavo mangiando spinaci, evitando il rischio di avere roba strana fra i dente. Cosa voleva?
-Buongiorno a tutti!- Eccolo completato il quadro! Federico e Sara entrarono nella Sala da Pranzo e fermandosi accanto a Gianluca alla macchinetta del caffé, fissarono me ed Emanuele al tavolo, malgrado ci fossero tre posti liberi ad aspettarli.
-Potete sedervi, eh.- Dissi mentre finivo il caffé e posavo rumorosamente la tazzina sul tavolo. Li guardai riducendo i miei occhi a due fessure.
-Stiamo aspettando il caffé!- Trillò allegra Sara, guardando poi con amore Federico. Scossi la testa, chiedendomi se quella notte mentre io ero immersa in un sonno senza sogni, loro avessero fatto festa a base di sostanze stupefacenti ed allucinogene.

 Driin Driin

 La suoneria più banale del mondo, appartenente alla nokia, ruppe quella strana situazione, ed io ringraziai il cielo di essere l’unica deficiente ad avere quella suoneria e di essere quindi chiamata a rispondere a quel benedetto telefonino, evadendo da quel posto. Senza guardare lo schermo risposi, estremamente felice per avere finalmente altro a cui pensare.
-Ciao, Ginevra, sono Marco.- La volce calma e rassicurante di quel ragazzo mi fece spuntare un sorriso sulle labbra. Sia benedetto Marco, il cameriere del “Rumba Room!”
-Ciao, Marco!- Risposi raggiante, mentre Emanuele lasciava cadere la brioche per fissarmi. Che diamine hai da guardare? Gli avrei voluto dire, ma riuscii a trattenermi, tornando a guardare la tazzina vuota del caffé. –Come mai chiami così presto?-
-Devo andare in biblioteca a studiare.- Fece un attimo di pausa. –Ti sta fissando come un pesce lesso?- Spalancai gli occhi, cercando poi di recuperare un po’ di contegno.
-Ma cosa dici!- Sbottai, mentre notavo la curiosità accrescere negli occhi di Sara, Gianluca, Federico e ovviamente di Emanuele.
-Rispondi!- Il suo tono era beffardo ed io ridacchiai. Maledetto Marco!
-Sì.- Sibilai, cercando nel frattempo qualcosa con cui distrarmi.
-E poi dici che non gli piaci. Sta ribollendo di gelosia.- Per poco non cascai a terra dalle risate. Risate decisamente isteriche, sfortunatamente.
-Ed io sono cappuccino rosso!- E prima che potesse ribattere aggiunsi. –Non usare la scontata battuta che i miei capelli sono rossi come il cappuccio.- Sentii Emanuele soffocare una risata. Lo incenerii con lo sguardo, tornando a concentrarmi su Marco.
-Comunque le mie profezie si avvereranno, Rossa.-
-Rossa mi mancava come soprannome..- La mano di Emanuele si strinse in pugno. Cercai di evitarlo. –Comunque ti aggiornerò, stanne pur certo.-
-Okay, allora ora ti lascio al pomeriggio dei tuoi sogni.- Adorabili i ragazzi sarcastici, no?
-Ciao, Marco.-
-Ciao, Rossa!- Chiusi la telefonata, posando il telefonino sul tavolo ed alzando lo sguardo. Tutti cercarono di fingersi indaffarati, come se non avessero ascoltato come degli avvoltoi quella chiamata. Tutti si finsero indaffarati tranne Emanuele. Sbuffando mi alzai da tavolo, posando la tazzina nel lavandino ed allontanandomi da quella cucina-sala da pranzo.

 Tutti matti. Erano tutti irreversibilmente, incredibilmente, matti. Non c’era niente da fare. Dopo aver passato lo skipass nell’apposito apparecchio, io e gli altri stavamo in fila per prendere la seggiovia che ci avrebbe portati in cima, dalla quale poi saremmo dovuti scendere affrontando l’adorata Direttissima: una lunga, lunghissima pista nera, che dava del filo da torcere a tutti, nessuno escluso, ed era incredibilmente bella.
Giunti ormai ai tornelli, Federico, Sara e Gianluca si erano fermati e casualmente mi ero ritrovata seduta su quella dannata seggiovia insieme a Emanuele. Ovvio. Guardai dritto davanti a me e mi accorsi che quella salita era lunga, incredibilmente lunga, probabilmente sarebbe durata dai cinque ai dieci minuti. Troppo tempo da trascorrere con quel deficiente. Sbuffai, togliendomi poi un guanto e prendendo dall’interno della mia tuta il pacchetto di Camel Light. Presi una sigaretta, mettendomela fra le labbra, riponendo poi il pacchetto nella tasca interiore. Portai la mano alle tasche dei pantaloni, per poi sbuffare con talmente tanta forza da rischiare di lasciar cadere la sigaretta.
-Maledizione.- Sussurrai a denti stretti.
-Hai bisogno dell’accendino?- La voce di Emanuele suonò estremamente gentile. Troppo gentile. Mi girai e lo guardai in cagnesco, mentre lui mi rivolgeva un ampio sorriso. Non aveva capito nulla, allora? Non aveva capito che aveva chiuso con me? Tuttavia presi l’accendino e mi accesi la sigaretta, riconsegnandoglielo il più in fretta possibile.
-Da quand’è che fumi?- Domandai dopo aver fatto un paio di tiri, sempre senza guardarlo.
-Non fumo. L’ho portato via a Giulia ieri, per sbaglio.- Rispose tranquillamente, mettendosi poi a fischiettare. Ah bene! Dovevo anche ringraziare Giulia Pelosi di aver lasciato casualmente l’accendino ad Emanuele, sanando in tal modo la mia crisi da assenza di nicotina. Grazie Giulia!
-Capisco.- Dissi secca, determinata a non spiccicare più parola per il resto della salita. Ed il deficiente fischiettava. Diamine, mi sentivo proprio una ragazzina delle elementari ad insultarlo per ogni minima cosa che faceva, ogni parola che pronunciava..ma non c’era niente da fare: ero orgogliosa, di un orgoglio ferito sì, ma di un orgoglio che adesso non ci pensava proprio a cedere un’altra volta davanti a quel bel faccino.
Gettai via la sigaretta, guardando poi dritta davanti a me. Mancava una cinquantina di metri all’arrivo, grazie a Dio. Mi misi in posizione per scendere, togliendo la tavola dalla sbarra. Tentai di sollevarla ma qualcuno la bloccava. Mi voltai per vedere Emanuele che la tratteneva, serio in volto.
-Perché hai reagito così?- Domandò. Guardai prima lui e poi il punto d’arrivo sempre più vicino. Doveva togliere quella cosa immediatamente.
-Non ho reagito in nessun modo.- Risposi secca, tentando nuovamente invano di alzare la sbarra.
-A me non sembra.- Mi guardava fisso negli occhi, non curandosi del fatto che a cinque metri dovessimo scendere.
-Alza quella sbarra, deficiente!- Ringhiai con tutta la forza che avevo. Lui lasciò molto semplicente la presa e quella si alzò. Appena posai la tavola sulla neve, prendendo controllo dei miei movimenti, mi chinai un secondo a fermare gli attacchi, prendendo poi a scendere velocemente la Direttissima senza voltarmi. Emanuele Benassi non aveva capito assolutamente nulla, quello era certo. Possibile che il suo cervello fosse veramente pieno di mangime per canarini? Un cervello non era proprio riuscito a prenderselo quando li consegnavano? No, non funzionava così con me. Mi aveva ferita, la sera precedente, magari non lo sapeva, magari non pensava al bacio con Giulia come prima causa di quella mia rabbia.. E poi, però. Poi mi aveva anche colpevolizzata! Mi aveva accusato in quella semi-scenata di gelosia che era colpa mia se si ritrovava con la faccia deformata perché andavo in giro con “sconosciuti”. Ma alla faccia sua lo sconosciuto! Era una persona molto più normale di lui! Sicuramente con un cervello ben funzionante nella scatola cranica! Mentre inventavo nuovi termini per insultare mentalmente Emanuele, scendevo in preda ai deliri quella dannata Direttissima che, quel giorno era più gelata del solito. Facevo una fatica immensa a controllare la tavola e a non perderne il controllo durante le varie curve. Ad un tratto, mentre giravo in backside, riuscendo a malapena a mantenere in equilibrio la lamina sulla lastra di ghiaccio che avevo preso, qualcuno mi afferrò per il cappuccio del giubbotto della tuta, facendomi cascare all’indietro. Grazie al cielo la direttissima era stretta e mi trovavo proprio al bordo pista: beccai in quel modo un cumulo di neve e rallentai la discesa, tirando un sospiro di sollievo mentre senza girarmi, mi mettevo nel fuoripista, seduta. Dopo aver ripreso controllo di me stessa mi voltai e vidi Emanuele che teneva ancora fermamente il mio cappuccio. Sbarrai gli occhi incredula.
-Mi potevi ammazzare, razza di deficiente!- Urlai dopo essermi slacciata gli attacchi ed essermi messa in piedi davanti a lui.
-Non ti è successo niente, o sbaglio?- Domandò lui senza reagire alle mie urla da pazza isterica.
-Poteva succedermi! Ma che diamine hai in quella testa?- Lo guardavo fisso negli occhi mentre il mio sangue ribolliva. –Cosa diamine vuoi ottenere?-
-Spiegazioni.- Ah! Lui voleva delle spiegazioni! Certo, molto logico. –Ed il tuo perdono.- Aggiunse mentre io lo fissavo accigliata. Il mio perdono, certo!
-Ho solamente deciso che è meglio se stiamo uno fuori dalla vita dell’altro.- Dissi fredda, gelida quasi come l’aria e la neve che ci circondava. Lui non fece una piega, non mosse un singolo muscolo, continuando a guardarmi negli occhi.
-Io non voglio che tu stia fuori dalla mia vita.- Ribatté con tale semplicità che io per poco non mi lasciai deviare. No, dovevo portare avanti quella storia a testa alta, non volevo più soffrire per lui.
-Dimmi un motivo per cui vuoi che io resti.- Replicai affrontando il suo sguardo, senza più timidezza, senza più imbambolarmi davanti a quel castano. –Dimmi un motivo per il quale tu vuoi me e non una qualsiasi altra persona nella tua vita.- Specificai. Calò il silenzio. Lui spostò lo sguardo a terra e si strinse nelle spalle, senza parlare, mentre io lo continuavo a guardare, tenendo le redini di quella situazione, non subendo più. Lui finalmente mi guardò negli occhi.
-Io..- Tentò di dire, ma richiuse immediatamente la bocca. Io lo guardai, incitandolo con lo sguardo. Sperando che lui dicesse qualcosa che cambiasse le mie intenzioni.. Perché infondo io non volevo interrompere quella “relazione”,di qualunque genere fosse, con lui. Ma Emanuele abbassò nuovamente gli occhi ed io sospirai, mentre il mio cuore si stringeva forte.
-Quando trovi una risposta soddisfacente, fammi uno squillo.- Dissi secca, amareggiata, mettendomi poi la tavola ai piedi ed andandomene lanciandogli un ultimo sguardo. Lui mi guardava fermo, immobile, come se ad un tratto fosse diventato una statua di ghiaccio. Mi voltai dall’altra parte e scesi la Direttissima, cercando di resettare i miei ricordi fino ad un mese prima, quando Emanuele Benassi non era nessuno per me.

 Mi destai da quell’ondata di ricordi, tornando alla prima settimana di Marzo che stavo vivendo. Terminai di fare la cartella, mettendomi poi la borsa a tracolla e dandomi un’ultima occhiata allo specchio. Quel lunedì si tornava in classe dopo la settimana di riposo che la scuola ci dava sempre a fine febbraio. Mi sistemai i capelli ed uscii dalla mia camera, per poi uscire di casa. Mia madre era già uscita da un pezzo per andare in ufficio, quindi non mi soffermai a salutare nessuno e corsi spedita nel garage. Dieci minuti ero davanti a scuola.
Quel marzo non era cominciato nel migliore dei modi, metereologicamente parlando. Erano già tre giorni che pioveva a dirotto e quella notte aveva addirittura grandinato. Con il cappuccio della felpa che indossavo tentai di ripararmi dalla pioggia, mentre andavo a passo spedito al baretto. Arrivai inevitabilmente bagnata e quando entrai ringraziai il cielo che Sara e Gianluca avevano preso un tavolino lontano dalla massa, anche se vicino ai bagni, e mi aspettavano lì con il mio caffé ed il moretto già pagato.
-Grazie vi adoro..- Dissi semplicemente, buttando la borsa a terra e levandomi il giubbotto, per poi sedermi. Sara era tutta intenta a ripassare per l’imminente interrogazione di filosofia, mentre Gianluca ricopiava la versione di latino. Insomma avevo degli amici molto studiosi!
-Oggi non rischi nulla?- Mi domandò Gianluca alzando un occhio da Cicerone. Io scossi la testa soddisfatta.
-Rischierei solamente italiano ma mi giustifico, che ieri sera sono tornata tardi e non ho fatto in tempo ad aprire il libro.- Avevo passato il week-end a Milano a casa di mio padre ed il treno aveva fatto ritardo, al ritorno.
-E’ andata bene su?- Chiese Sara, chiudendo finalmente il libro e sorseggiando tranquilla il suo cappuccino. Ingoiai un pezzo di moretto, annuendo.
-Sì, sono stata coi miei soliti amici di lì.. sabato siamo andati ad un pub carino e per il resto siamo stati lì al Duomo e dintorni..- Risposi, bevendo poi il caffé prima di continuare. –Voi che avete fatto?-
-Siamo stati con Federico, Emanuele e Sara a Firenze..- Disse cauto Gianluca, ben consapevole del fatto che il tasto “Benassi” era sempre piuttosto doloroso per me.
-Divertiti?- Domandai atona, concentrandomi a mangiare il moretto.
-Sì abbastanza.. peccato che di vita notturna a Firenze non ce ne sia.- Commentò Sara con un largo sorriso sulle labbra. –Oh guardate, c’è Federico!- Si illuminò ancora di più, sbracciandosi poi per attirare l’attenzione dell’amato. Alzai a malavoglia lo sguardo, vedendo inevitabilmente la figura di Emanuele avvicinarsi insieme a Federico al nostro tavolino. In quel mese non ci eravamo praticamente mai visti. Avevo interrotto le uscite con quei due ed avevo passato i sabato sera o con Gianluca e Sara soltanto o con la mia classe. A ricreazione Emanuele non scendeva mai e nei corridoi non ci incontravamo, quindi quella era una sottospecie di “primo incontro” dopo la tempesta.Abbassai lo sguardo, finendo il moretto il più lentamente possibile.
-Ciao, Ginni!- Mi salutò Federico, chinandosi a baciarmi una guancia.
-Oi, Fede!- Risposi con tutta la mia simpatia. In fondo Federico non mi aveva fatto niente ed avevo passato volentieri alcuni pomeriggi a casa di Sara anche con lui. Non lo volevo solamente vedere quando era in compagnia dell’amichetto.
-Ciao.- Mi salutò Emanuele. Lo guardai freddamente, a differenza del mio cuore che accellerava.. Maledetto!
-Ciao.- Risposi talmente secca da stupirmi, portando poi tutta la mia attenzione al discorso che stavano portando avanti Gianluca, Sara e Federico.
-Avete sentito che si è allagato tutto l’ultimo piano e metà del nostro?- Disse Federico. Noi spalancammo tutti gli occhi: ok che il liceo cadeva a pezzi. Ma addirittura allagarsi per due piani interi!
-Quali classi del nostro piano?- Domandai curiosamente. Lui si strinse nelle spalle.
-Non lo so.. Ce lo diranno quando entreremo perché molte classi sono in gita e quindi c’è disponibilità di classi vuote ..magari spostano lì gli sfollati..-

 Me ne stavo seduta tranquillamente accanto a Gianluca, immersa completamente nella pace dei sensi. Avete presente quando non vi devono interrogare, avete fatto tutti i compiti, nessuno vi rompe? Ecco, quello era il mio stato d’animo mentre al cambio dell’ora giocherellavo con il mio diario attendendo l’arrivo di Ombretta Marini.
Sara stuzzicava con la matita Gianluca, mentre Davide e Matteo erano vicini al nostro tavolo a parlare di Daniele de Rossi come due dodicenni con gli ormoni in fiamme.
-Ma sembrate gay!- Sbottai dopo un po’ che loro gli attribuivano aggettivi come “bello di casa”, “il più bello” e cose simili.
-Shh.. Non capisci nulla. Totti e De Rossi sono ..SONO!- Disse orgogliosamente Matteo levando i pugni al soffitto.
-Ah, certo.. capisco..- Mormorai cercando altro su cui concentrarmi. I deliri calcistici maschili sono davvero da evitare se si tiene al proprio Quoziente Intellettivo. Aprii il diario ed il mio sguardo si imbatté sul post-it di Emanuele. Complimenti per i gusti musicali. Quanto tempo era passato da quando ci eravamo scambiati le borse? Da quando mi aveva dato il passaggio a casa con la moto? Poco, ma a me sembrava troppo.
-Buongiorno, ragazzi!- Trillò Ombretta Marini entrando saltellante. Scattammo tutti in piedi per salutarla e poi ci sedemmo. –Allora, allora.. Oggi vorrei proprio sentire qualcuno visto che i pagellini sono vicini e non ho neanche un voto..- Disse mentre apriva la propria borsa e tirava fuori i libri, sistemandosi poi gli occhiali sul naso. Alzai prontamente la mano, attirando la sua attenzione. –Dimmi, Sforza.-
-Professoressa, vorrei giustificarmi.- Dissi con voce chiara e decisa. Lei strabuzzò gli occhi ed incominciò a scuotere la testa: brutto segno.
-Ma hai avuto questa bella settimana per prepararti..E poi avevo già annunciato che interrogavo.. Lo sai, lo sapete, che dovete dirmi delle giustificazioni prima che io specifichi cosa voglio fare nell’ora di lezione.- Disse in quel continuo scuotere di testa che cominciava seriamente a darmi sui nervi.
-Ma non ha dato il tempo..- Provai incerta ma lei scattò in piedi, con gli occhi che brillavano di una strana luce decisamente folle. Bruttissimo segno.
-Sforza! O vieni a colloquiare con me o prendi due o prendi due ed esci fuori dalla classe!- Sbarrai gli occhi: ma stava parlando seriamente quella donna? Non sapevo una ceppa del programma d’italiano, non avevo ripassato assolutamente nulla e le mie conoscenze di fermavano a gennaio quando mi aveva chiamata per mettermi un voto in pagella.
-Ma prof! Sono partita e ieri sono tornata tardi! Non ho ripassato nulla!- Mi alzai anche io, cercando di giustificarmi in tutti i modi, anche a costo di arrampicarmi sugli specchi con tutte le mie forze.
-Sempre con queste scuse! Ma non ti sei stancata? Ancora ricordo la tua storiella per la parafrasi..- Ridacchiò, guardandosi le mani. Lo sapevo, lo sapevo che l’avrebbe ritirata fuori. -..Uno scambio di borse eh, Sforza?- L’accompagnai nella sua folle risata, mentre in me nasceva uno strano desiderio di sangue: la volevo morta, subito, quella dannata professoressa incompetente.
-Poi però l’ho ritrovata.- Abbozzai un sorriso, sperando che si dimenticasse la faccenda del due.
-Sforza, mi hai stancata. Vai fuori dalla classe.. Per questa volta senza il due. Ma non ti voglio vedere per il resto dell’ora. Fuori!- Alzai le mani in segno di resa ed uscii il più velocemente fuori da quella maledetta classe.
Era matta, era completamente matta quella donna. Cosa diamine si prendeva? Confondeva la cocaina con lo zucchero la mattina? Scossi la testa mentre chiudevo la porta alle mie spalle. Mi poggiai con la schiena contro la parete e scivolai a terra, portando le gambe al petto, mettendo ordine nella mia testa. Seriamente ero stata cacciata dalla classe perché avevo tentato di giustificarmi in italiano? No, non era possibile. Mi alzai di scatto, passandomi le mani tra i capelli, incamminandomi poi al bagno che si trovava a pochi metri dalla mia classe. Quando fui sul punto di entrare, chiudendo la porta per poter fumare, una porta sbatté con tale forza da farmi saltare. Tornai indietro nel corridoio e guardai allibita Emanuele Benassi che era davanti alla mia classe. Alzai entrambe le sopracciglia. Da dove era uscito?
-Tu non stai nell’altro corridoio?- Domandai, mentre mi avvicinavo a lui. Lui guardava ancora infuriato la porta.
-Si è allagato.. Ricordi quello che diceva Federico?- Disse recuperando la calma. Mi ero quasi dimenticata del suono della sua voce: un po’ roca, profonda, così dannatamente maschile ed attraente.
-Ah.. E vi hanno spostai qui..- Conclusi, facendo scivolare le mani nelle tasche mentre tornavo a poggiarmi con la schiena alla parete. Lui annuì sedendosi per terra come avevo fatto io poco prima.
-Come mai sei fuori dalla classe?- Mi domandò, guardandomi poi fisso negli occhi. Il tempo non aveva aiutato a guarire le ferite del mio cuore.. Perché dopo un mese, rivederlo, rivederlo guardarmi in quella maniera, mi faceva rabbrividire.
-Ho una professoressa folle. Mi ha sbattuta fuori perché mi sono giustificata.- Spiegai, riassumendo tutto l’evento a quelle poche parole. –E tu?- Quando finì di sghignazzare, lo vidi stringere i pugni: era un gesto che faceva quando si innervosiva.
-Quella cogliona di Arte.. Mi sono preparato quell’interrogazione da una settimana e non mi ha fatto recuperare il quattro del compito perché ho confuso il termine “essiccato” con “disseccato”.. Le ho montato su una scenata che mi ha fatto guadagnare il suo odio perenne.. Ma ne è valsa la pena, la odio dal primo giorno che l’ho vista!- Concluse in quel modo quel suo racconto un po’ rabbioso, un po’ confuso.. Ed io gli sorrisi. Lui mi guardò, senza dire nulla, ed io mi sentii avvampare le guance.
-Perché mi guardi?- Chiesi senza pensarci. Che vergogna.. come me ne uscivo con quelle domande? Abbassai lo sguardo, intimidita.
-Mi ero quasi scordato di quanto fosse bello il tuo sorriso.- Mi rispose con la voce più roca del solito, in una sottospecie di sussurro. Probabilmente diventai un peperone e mentre sussurravo un timido “grazie”, evitai accuratamente di alzare lo sguardo. –Com’è andata questa settimana?- Lo ringraziai mentalmente per aver cambiato argomento e lo guardai con molta più calma.
-Sono stata qui a Roma.. ed il week-end sono salita a Milano a trovare mio padre.- Risposi. Che gioco stavamo giocando? Era solo una chiaccherata, infondo. Mica gli stavo offrendo l’opportunità per recuperare il rapporto perso con me.. Era solo una chiaccherata fra due studenti che erano stati sbattuti fuori dalle rispettive classi contemporaneamente.
-Ah tuo padre lavora lì?-
-Vive lì con la sua famiglia.- Precisai con assoluta calma. Lui si limitò ad annuire, probabilmente imbarazzato per il fatto tirato fuori. In realtà a me non faceva nessun effetto parlare della storia della mia famiglia. Mia madre era stata amante di mio padre, che le aveva mentito dicendole di aver lasciato sua moglie e l’aveva poi messa incinta, scappando quando il test di gravidanza aveva dato positivo. Non era esattamente il padre ideale, il padre che si voleva conoscere.. ma mia madre ci teneva, tuttavia, a farmi avere una figura paterna e di conseguenza andavo ogni tanto a trovarlo, ma senza considerarlo troppo. Lui ci provava, certo, ad instaurare un rapporto con me.. Ma lui per me non era nessuno, non significava nulla. Passavo le giornate a Milano uscendo con i miei amici di lì, limitandomi a pranzare una volta o due con mio padre. –Tu sei andato a Firenze giusto?- Domandai, deviando il quella volta il corso della conversazione.
-Sì.. Ci siamo divertiti..- Rispose senza troppo entusiasmo. Si alzò, mettendosi nella mia stessa posizione, poggiato però alla parete opposta. –L’hai più visto Marco?- Quella domanda arrivò come un fulmine a ciel sereno. Cercai di non mostrarmi esageratamente sorpresa e boccheggiai, prima di riuscire a parlare.
-Sì è venuto a Roma un paio di volte.. Ci sentiamo fondamentalmente con internet e al telefono.- Dissi con voce incerta. Cosa gliene importava ad Emanuele se avevo sentito Marco? E perché si ricordava ancora di Marco? Deglutii, guardando un po’ il pavimento ed un po’ lui. –Tu hai più visto Giulia?- Non so con quali forze riuscii a pronunciare quelle parole. Ero masochista, ecco tutto.
-Mi ha mandato un sacco di messaggi.. Mi ha chiamato parecchie volte.. Ma non ho mai risposto. Non me ne frega nulla di quella stupida.- Rispose serio, senza staccarmi gli occhi di dosso. E certo! Però intanto in discoteca non gli era dispiaciuto farsela strusciare addosso in tutte le posizioni possibili! Accennai un sorriso e distolsi lo sguardo. –Si era illusa che quella cosa in discoteca potesse avere un seguito.- Ecco come rideva delle ragazze che si illudevano! Velocemente nella mia mente si fece spazio il pensiero che avesse potuto ridere anche di me, dei miei sentimenti, del mio cuore ferito.. La vista mi si annebbiò e socchiusi gli occhi. Sì, probabilmente aveva riso di me, aveva riso delle mie scenate, delle mie parole.. Di tutte le volte che lo avevo guardato con gli occhi tipici di una deficiente stracotta del figo di turno.
La campanella suonò ed io alzai lo sguardo, incrociando il suo che mi fissava in una maniera dubbiosa, interrogativa. Cercava di capire cosa passasse per la mia mente.
-Io vado.- Dissi, riuscendo a malapena a parlare. Mi girai, pronta ad entrare in classe, quando la sua mano mi afferrò dolcemente per il polso, come aveva fatto infinite altre volte. Mi girai e lo guardai, incapace di opporre resistenza.
-Mi manchi da morire.- Mormorò, mentre io mi scioglievo lentamente ai suoi piedi. Mi avvicinò a sé ed io obbedii a quel gesto che mi avvicinava a lui. –Io ti voglio nella mia vita, Ginni.- Aggiunse. A quelle parole il mio cervello si svegliò tutto d’un tratto e la mia espressione si indurì. Dovevo portare avanti la decisione presa. Mi allontanai di scatto, liberandomi da quella leggera presa.
-Perché?- Domandai sicura, senza paura. Volevo un perché, volevo una risposta, una qualsiasi. Lui si incupì, incrociando le braccia al petto.
-Ginni, ti prego.. Cancella tutto ciò che è successo..- Prese il mio viso fra le mani, ma riuscii ad allontanarmi nuovamente con non so quale forza di volontà. Dov’era la Marini? Perché non usciva? -Emanuele, sai perfettamente che voglio una risposta. Non bastano più queste frasi fatte.- Dissi seria, mentre i miei occhi si appannavano a causa delle lacrime che volevano uscire. Non potevo guardarlo, non potevo stare così davanti a lui.. Mi girai ed entrai in classe, fregandomene altamente del fatto che la professoressa non fosse ancora uscita. Mi sedetti al mio banco ignorando le sue parole, passandomi le mani fra i capelli sotto lo sguardo preoccupato di Gianluca. Perché Emanuele non usciva dai miei pensieri?

 -Sei innamorata.- Decretò Marco. Lo guardai con entrambe le sopracciglia inarcate. Stavamo seduti sulle scale di Piazza di Spagna mangiando tranquillamente il take-away del Mc Donald’s.
 
-Grazie, non ci ero arrivata!- Borbottai sarcastica, addentando poi il mio Cheeseburger.
-E presumo che tu sappia che devi anche fare qualcosa.- Io scoppiai a ridere, scuotendo poi la testa.
-Qui ti sbagli. Non ho intenzione di fare nulla.- Dissi convinta, guardandolo di sbieco. –Tra qualche settimana mi passerà questa mia stupida cotta.- Continuai, mangiando nel frattempo le patatine.
-Non è una stupida cotta. Sei innamorata.- Non osai replicare, limitandomi a continuare a mangiare. –E cosa vorresti fare? Continuare a piangerti addosso per queste settimane nella speranza di scordarti di lui?-
-Io non mi piango addosso!- Sbottai indignata. –Mica ho tre anni!- Finii il cheeseburger buttando la carta nella busta che ci avevano dato, passando poi a terminare anche le patatine e la coca-cola.
-Ci pensi continuamente però.- Guardai Marco, che ricambiava tranquillamente il mio sguardo. Il mio cuore dava ragione a lui ma la mia testa.. La mia testa no. Portava avanti le proprie considerazioni agguerrita, senza farsi intimorire da nessuno. Restai in silenzio finendo le mie patatine.
-Io non so cosa fare.- Ammisi infine, mentre sorseggiavo la coca-cola. Sì, infondo la realtà era proprio quella: io non sapevo cosa fare con Emanuele. Avrei voluto non fare nulla.. Assolutamente nulla.
-Non fare nulla non ti farà stare meglio.- Ovviamente aveva smontato il mio desiderio in due secondi. Sospirai, guardando i turisti che si accalcavano vicino alla fontana per fare le foto.
-Perché non fa qualcosa lui?- Borbottai scocciata, facendo scoppiare a ridere Marco.
-Lui ha provato a fare qualcosa..quand’è successo? Il lunedì della settimana passata?- Io annuii, ricordando l’accaduto nel corridoio.
-Sì ma.. Io voglio che lui mi dia un  perché..un dannato perché..- Mugolai fissandomi le scarpe.
-Hai ragione.-
-E che è successo che mi dai ragione?- Scoppiammo a ridere. Incredibile a dirsi ma Marco De Angelis era entrato a far parte della mia vita, dopo quel quattro febbraio a Rivisondoli. Ne era entrato a far parte senza prepotenza, senza forzare.. Aveva semplicemente trovato la chiave giusta per farmi aprire il mio cuore a lui, ed ora era una delle persone a cui raccontavo tutto della mia vita.
Veniva regolarmente a trovarmi a Roma, una o due volte al mese, come quel giorno, quel sabato. Aveva la macchina e quindi non era un problema per lui venire nella Capitale, ogni volta che avevo bisogno di lui o quando lui aveva voglia di raccontarmi un po’ di sé. Marco era un ragazzo per bene, uno di quelli che si cercano assiduamente e si catalogano come principi azzurri. Era bello d’aspetto ma anche intelligente.. Mi aveva parlato per ore ed ore della facoltà di medicina, delle sue aspirazioni, dei suoi sogni. Poi mi aveva raccontato della sua situazione famigliare, i problemi con il fratello che era al carcere minorile per aver picchiato la propria professoressa, del padre e della madre che facevano finta che non esistesse per non macchiare di vergogna il nome della loro famiglia. Inoltre avevamo affrontato insieme non solo i miei problemi d’amore, ma anche i suoi.. Che si trovava in un perenne tira e molla con la ragazza che era stato il suo primo vero amore.
Dovevo ammettere, in fondo, che quel quattro febbraio non era stato un giorno totalmente negativo. Avevo conosciuto Marco e Gianluca aveva conosciuto Marzia, la sua attuale ragazza.
Sì, faticavo anche io a capacitarmi del fatto che Gianluca, il mio Gianluca Terenzi, si fosse fidanzato, mettendo finalmente la testa a posto. Aveva sempre rappresentato per me il Casanova ideale.. Il bello e impossibile di cui io ero la migliore amica, invidiata da tutte le ragazze. Ma ero felice per lui, incredibilmente felice.. Marzia era una ragazza adorabile che avevo avuto modo di conoscere in quel mese, ci teneva a Gianluca e non gli faceva mancare attenzioni..Come del resto faceva anche lui nei suoi confronti. E nel frattempo il ero l’unica che ancora vagava da sola in mezzo a migliaia di cuori innamorati.

 Salutai Marco con un bacio sulla guancia, scendendo dalla sua Smart ed avviandomi verso il mio palazzo. Salii al secondo piano, dovevo vivevo, ed entrai nel mio appartamento. Mia madre ancora non c’era. Entrai nella mia stanza e buttai il cappotto sul letto sedendomi poi al computer. Entrai su Facebook ed andai a vedere i messaggi privati che mi attendevano: Valeria.. Sara.. Emanuele Benassi. Emanuele Benassi?! Guardai stupida lo schermo, cliccando poi sul messaggio per leggerlo.

Presto saprai il perché.

Il mio cuore cominciò a battere a velocità inaudite. Presto saprò il perché. Cosa voleva dire quell’ennesimo misterioso messaggio? Emanuele Benassi aveva proprio scocciato con quella storia dei rebus.. Continuava a mandarmi messaggi in codice che non riuscivo mai a risolvere a causa sia della sua ambiguità e sia del fatto che non ero assolutamente portata per indovinare.
Spensi il computer e mi buttai sul letto, guardando il soffitto. Emanuele Benassi era un vero e proprio dilemma, dall’inizio alla fine. Inizialmente non mi calcolava in dei momenti e poi mi calcolava troppo.. Poi eravamo passati agli sguardi d’intesa, agli abbracci, alle frasi dette un po’ apposta un po’ no.. Ed ora eravamo tornati ai messaggini in codice scritti su Facebook. Ottimo. Io, povera deficiente innamorata, cosa mai dovevo pensare? Perché non volevo dare una tregua al mio cuore stremato? Ce l’aveva così tanto con me?
E ripensai velocemente a quella mattina nel corridoio.. “Mi manchi” mi aveva detto avvicinandomi a sé. Cosa sarebbe mai successo se mi fossi avvicinata cedendo al suo fascino? Cosa aveva intenzione di fare? E perché tutto d’un tratto dopo un mese mi diceva quelle cose e dopo un mese e mezzo mi mandava messaggi privati così, senza senso? Mi pensava anche lui, forse?
-Ginni, sei a casa?- La voce di mia madre mi fece destare di scatto. Mi alzai da letto e mi sistemai i capelli.
-Sì, mamma, arrivo!- Corsi in salone, sorridendo a mia madre. Lei alzò il braccio stringendo una busta blu.
-C’è posta per te.- Disse, porgendomi la busta. La guardai incuriosita, aprendola.

 Gentile Ginevra Sforza,
Le annunciamo con immenso piacere che in seguito alla Sua partecipazione alla competizione d’inglese al concorso Canguro, ha vinto un viaggio a New York dal 3/04 al 07/04 di questo anno ed un corso di inglese di per la durata del suo soggiorno nella prestigiosa Williams School of New York City.
Alloggerà nel campus della Columbia University, situato nel centro della città e tutte le spese di vitto e alloggio saranno pagate dalla nostra organizzazione.
Alleghiamo insieme a questa lettera la prenotazione del volo di andata e ritorno ed i dettagli sul suo corso di lingua nella città.
Le inviamo i nostri più cordiali saluti,
Asia De Matteis e Giacomo Cornacchia.

 Fissai con la bocca spalancata quei fogli. Lessi almeno tre volte la lettera e controllai almeno altre dieci la prenotazione dell’aereo.
-Allora?- Domandò mia madre, curiosa. Io la guardai completamente stupefatta.
-Ho vinto un viaggio a New York.- Dissi riuscendo a malapena ad articolare quella frase.
-Un viaggio a New York? Fai vedere!- Mi strappò di mano tutta la documentazione. Corsi al calendario: Era il diciassette marzo.. Ed il tre aprile andavo a New York. Avrei festeggiato il mio diciottesimo compleanno a New York.
-Vado a New York!- Dissi ad alta voce, come finalmente realizzando ciò che mi stava accadendo. Mia madre mi guardò sorridendo ed annuendo.
-Sì, Ginevra, vai a New York.- La abbracciai con foga, baciandole più volte la guancia. Non potevo crederci.. Possibile che finalmente la fortuna mi stesse sorridendo? Andavo a New York. Gratis. Andavo a New York grazie ad un diamine di concorso fatto in prima liceo. Andavo a New York!

Spazio dell’autrice*che pubblica perché il viaggio che doveva fare è saltato..uff*: Alloooora! Spieghiamo questo capitolo. Ho voluto soprattutto delineare il rapporto che c’è ora fra Emanuele e Ginevra ed i motivi dei loro comportamenti. Inoltre ho voluto delineare meglio la figura di Marco ed il suo ruolo nella storia.. Ricordatevi che non introduco mai i personaggi a vuoto, io! Inoltre, ho introdotto questa nuova avventura che attende Ginni. New York. Vi dice qualcosa? Mah.. Non anticipo nulla! Spero che vi piaccia anche questo capitolo malgrado io personalmente lo reputo noioso, anche se necessario. Ora passiamo ai ringraziamenti:
x_MoKoNa: Preciso che sfortunatamente queste storie romantiche hanno sempre un non so che di film.. Tuttavia quel capitolo l’ho voluto introdurre appunto per delineare meglio la figura di Emanuele. Come hai detto tu è molto ambiguo.. Non si capisce se è interessato a Ginevra o no. In realtà sembra proprio che lui si diverta semplicemente.. Ma dopo la reazione di Ginni e le sue decise condizioni affinché tornino al loro rapporto precedente, Emanuele comincia a cambiare e a definirsi, perdendo la sua tendenza a cambiare ogni secondo faccia. Comunque.. Grazie infinite per la recensione, attendo tuoi commenti anche su questo capitolo! Un abbraccio!
Swettlove: Eh già, Emanuele è proprio un deficiente.. Però se non fosse così complicato e stupido, non sarebbe bella la sua storia con Ginni, no? J
Grillomylife: Ahahahah ma non si chiama Lucry! E’ Ginni lei!
Vero15Star: Oh! Una nuova lettrice! Si.. Sfortunatamente in amore siamo tutti un po’ degli idioti! Emanuele è uno stronzo da un lato, certo, ma anche lui si renderà conto dei propri errori, col passare del tempo.. Gianluca è il migliore amico che anche io vorrei, e tutte le sue caratteristiche, il suo carattere, sono uguali a quelle di un mio carissimo amico che però non vive a Roma.. Uffa! La sfiga proprio! :D Grazie per la tua recensione, spero di leggerne altre! Bacio!
Elienne: Marco è un amoree! Infatti l’ho introdotto anche in questo capitolo perché mi piace un sacco.. Anche se ho paura di farlo diventare una sottospecie di Gianluca 2! Grazie per la recensione!
Ombrosa:
Ahahah si in quel capitolo mi ero effettivamente divertita.. Ho creato un paio di situazioni che potevano far pensare che succedesse qualcosa ed invece.. Alla fine La Catastrofe più totale! :D Grazie per aver conitnuato a leggere e recensire questa storia.. mi fa un piacere immenso!

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Capitolo 8
*** Regalami un Sorriso ***


"L'amore chiede tutto, ed ha il diritto di farlo."
Ludwig van Beethoven

 

 

Capitolo Ottavo: Regalami un Sorriso.

 Sorseggiavo tranquillamente la mia Guinness, muovendo la testa a ritmo di musica, mentre mi trovavo con Marco all’Irish Pub del mio quartiere alla vigilia della mia partenza per New York. Avevo già salutato Sara, Gianluca, Federico e Marzia che si erano assicurati che non solo mi divertissi ma che mi ricordassi di loro nel momento di comprare i souvenir. Per quanto riguardava il mio imminente diciottesimo compleanno al quale mancavano all’incirca quarantotto ore, mi avevano semplicemente raccomandato di non pensare troppo al regalo che mi avevano fatto in quanto lo avrei ottenuto solamente “a tempo debito”.
-Sei emozionata?- Mi domandò Marco, mentre mangiava le noccioline che ci avevano portato con le birre.
-Da impazzire.- Dissi ridacchiando, alternando alla birra la sigaretta. La cosa più bella di quel pub era proprio l’area fumatori. –E’ sempre stato un mio sogno andare a New York, ma ogni volta mia madre mi trascina in viaggi esotici e mai nelle grandi metropoli. Erano anni che assillavo Gianluca e Sara affinché andassimo nella Grande Mela!- Lui sorrise.
-Io ci sono stato dopo la maturità.. Mi sono fatto un mese lì per poi tornare per gli esami d’ammissione a Medicina.- Aprii la bocca sbalordita. Avevo appena trovato il viaggio perfetto per me! –Tu però hai avuto più fortuna. Non paghi neanche!-
-In effetti quando ho ricevuto quella lettera sono rimasta per un attimo sconvolta. Non ci potevo credere di avere tutta quella fortuna, io, che ultimamente sembro perseguitata dalla sfiga!- Scoppiammo a ridere entrambi anche se in realtà io, con quella risata, volli mascherare una più nascosta tristezza. Da quando avevo conosciuto Emanuele, quella mattina di Gennaio, non erano stati pochi gli eventi che mi avevano colpito. Per citare solo quelli più importanti c’era stato il coma etilico di Sara, la decadenza della fiducia di Ombretta Marini nei miei confronti, la mia seconda delusione d’amore e tanti, tanti filmini mentali che non riuscivo più a smettere di farmi. Se avessi impegnato l’energia che mettevo per sognare ad occhi aperti nello studio e nella ricerca, probabilmente in quel momento sarei stata una rinomata scienziata ai livelli di mister Einstein!
Tuttavia da quando mi era arrivata quella lettera riguardante New York, avevo ben deciso di smetterla di farmi problemi, di piangermi addosso come diceva Marco e di pensare sempre solo ai lati negativi portati dalla comparsa di Benassi nella mia vita. Tutto sommato, come avevo già detto, non era andato poi tutto così tanto male per me e per i miei amici e, probabilmente, era finalmente arrivato anche il mio turno di godermi un po’ di felicità.
Dopo che Marco ebbe pagato il conto, rifiutandosi categoricamente –come sempre- di farmi pagare anche solo un centesimo, uscimmo dal pub e salimmo nella smart. Nonostante fossero già i primi d’aprile, il tempo non era assolutamente migliorato: faceva sempre piuttosto freddo e non si poteva uscire di casa senza una sciarpa addosso ed un cappotto, anche se non esageratamente pesante. Non appena chiudemmo le portiere dell’auto, Marco mise in moto ed accese la musica, infilando nel lettore CD un disco dei Guns and Roses, come faceva sempre quando ero in macchina con lui.
-Ti riporto a casa, no?- Mi domandò, guardandomi un attimo mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio.
-Sì, domani ho l’aereo che parte alle dieci di mattina.. Devo stare per le otto a Fiumicino e quindi capirai a che ora dovrò mettere la sveglia.- Marco si limitò ad annuire, partendo poi a gran velocità dal pub.
Passavo lentamente le dita sulle rifiniture in legno della portiera, giocherellando con tutto ciò che mi capitasse a tiro. Amavo con tutta me stessa quella macchina: forse perché mi faceva evitare di pensare ai cinquantadue chilometri orari che faceva la mia scatola di latta o forse perché ormai dopo due mesi che conoscevo Marco, mi ci ero abituata.
-Almeno starai per un po’ senza problemi per la testa.- Lo guardai. Sapevo perfettamente che si riferiva ad Emanuele e mi domandai mentalmente per quale assurdo motivo, tutto ad un tratto, lo tirava in ballo. Durante tutta la sera non lo avevamo nominato ed io ne ero stata estremamente felice ed ora, a due minuti da casa, mi diceva quelle cose. Strano.
-Mh..Sì, un po’ di pace almeno per i miei diciotto anni l’ho ottenuta.- Dissi tranquilla, anche se ancora un po’ stordita, mentre lui ormai si fermava sotto il mio palazzo.
Ci guardammo per un istante e lui mi sorrise, portando poi con mia grande sorpresa, la sua mano al mio viso, carezzandomi con dolcezza la guancia per poi sistemare una ciocca ramata dietro l’orecchio. Cosa stava facendo? Il mio cervello cominciò a lavorare bruciando tutti gli zuccheri che avevo ingerito nel corso di quella giornata.
-Mi mancherai, lo sai?- Domandò Marco con voce roca, guardandomi fisso negli occhi. Il panico si impadronì di ogni singolo muscolo del mio corpo e mi paralizzai, riuscendo per fortuna a non fare facce troppo strane. Deglutii, continuando a ricambiare quello sguardo.
-Anche tu..- Mormorai prendendo finalmente un po’ ti fiato. Perché tutto d’un tratto mi preoccupavo in quel modo? Quante volte Gianluca mi aveva parlato così, anche in modo più esagerato, quante volte mi aveva carezzato il viso, abbracciato, mormorato cose dolci? Ma lui non è Gianluca. Un’odiosa vocina parlò nella mia mente ed io mi chiesi per la prima volta nella mia vita, seriamente, se non stessi veramente sfiorando la follia più totale. Però, infondo, quella sottospecie di coscienza aveva ragione: Marco non era Gianluca. Quell’ultimo lo conoscevo da tutta la mia vita, mi aveva vista con l’apparecchio, con i brufoli, mi aveva vista rompermi il polso con il monopattino, mi aveva vista crescere, soffrire, cambiare ed io lo avevo visto nelle stesse situazioni. Gianluca era il mio migliore amico, mio fratello in pratica, mentre Marco era semplicemente un ragazzo molto gentile che conoscevo da due mesi e che mi ispirava fiducia e simpatia.
-Spero che mi penserai in questi giorni..- Cominciò lui, facendomi paralizzare nuovamente quando con la sua mano tornò a carezzare con dolcezza la mia guancia, scendendo poi con le dita sulle mie labbra, sfiorandole e schiudendole leggermente. Ero completamente impazzita:perché non mi muovevo? -..Perché io ti penserò in continuazione.- Continuò Marco imperterrito. Il buio dell’auto probabilmente nascondeva la mia espressione terrorizzata. –Credo di essermi innamorato di te.- Quelle ultime parole arrivarono a me come una pugnalata. Ecco cosa succedeva a fidarsi troppo di un ragazzo che non fosse il mio Gianluca! Non ebbi neanche il tempo per ragionare, fare qualcosa, perché le labbra di Marco si posarono con estrema delicatezza sulle mie, per far poi spazio all’insistenza. Mi ritrovai a rispondere per qualche istante a quel bacio, finché il mio cervello si decise a darsi una mossa e a risolvere quella maledetta situazione.
Portai le mani al petto di Marco e lo allontanai di colpo da me, guardandolo poi negli occhi senza sentirmi più spaesata. Scossi la testa mentre le mie labbra ardevano a causa di quel bacio che aveva assunto per qualche strano motivo i caratteri della violenza.
-Marco, io..- Cominciai a dire, ma lui sorrise, scuotendo la testa ed allontanandosi.
-Sei innamorata di Emanuele, lo so..- Guardò la strada davanti a sé, stringendo le mani in dei pugni. Ma allora era proprio una fissa dei ragazzi quella dei pugni! Io mi limitai ad annuire, senza smettere di guardarlo.
-Mi dispiace.- Mormorai. Marco continuava a scuotere debolmente la testa.
-Scusami tu, Ginni.. Ho superato il limite. Sapevo perfettamente di Emanuele ma non sono riuscito a controllarmi.- Poi finalmente si girò a ricambiare il mio sguardo, con un’espressione un po’ triste sul volto ma quel suo perenne largo sorriso sulle labbra. –Fai finta che non sia successo nulla, se puoi.. e fai buon viaggio.- Io annuii, aprendo la portiera. Per un attimo mi fermai a pensare se lasciarlo con un bacio sulla guancia o no, ma alla fine decisi di andarmene senza peggiorare ulteriormente la situazione. Richiusi la portiera alle mie spalle con un leggero sorriso sulle labbra, aprendo poi il cancello ed entrando nel palazzo. Sentii la macchina partire e sospirai. Quella nuova avventura proprio non mi ci voleva.
Arrivai a casa e buttai il cappotto, la borsa e la sciarpa sul letto, guardando poi di sbieco la valigia già pronta per la partenza. Il giorno dopo andavo a New York.. Non dovevo lasciarmi turbare da quell’avvenimento. Ma come fare? Chissà da quanto tempo Marco nutriva nei miei confronti un sentimento più forte dell’amicizia, chissà da quanto tempo credeva di amarmi e chissà come si sentiva in quel preciso istante.
Probabilmente lui, in quel momento, provava le medesime cose che avevo provato io quando avevo visto Emanuele baciarsi con Giulia. Gli avevo detto detto chiaramente, più volte, nel corso di quel mese che amavo Emanuele, che volevo Emanuele.. E chissà lui ogni volta come si era sentito. Chiusi gli occhi, portandomi le mani fra i capelli e sospirando.

Dopo essermi ripresa almeno un po’, presi il cellulare e fissai per qualche istante lo schermo. Infine andai sul menù e scelsi di scrivere un nuovo messaggio.

 Marco mi ha baciata. Avevi ragione tu.. Quell’amicizia puzzava troppo.
Inviai il messaggio a Gianluca, sospirando. Mi aveva avvertita più volte nel corso di quei due mesi che probabilmente Marco aveva intenzione di ottenere qualcosa di più delle nostre amorevoli chiaccherate giornaliere da tipici amici. Inizialmente avevo creduto che lo dicesse per gelosia nei confronti del nostro rapporto ma, solo in quel momento, incominciavo a realizzare seriamente che Gianluca non si sbagliava mai.

 E magari adesso ti stai deprimendo e non ti va di partire. Idiota! Mettiti a letto e pensa che domani a quest’ora stare a New York City e che starai attendendo impaziente il tuo diciottesimo compleanno!
Ecco perché adoravo Gianluca: non mi aveva scritto “avevo ragione io” oppure “te l’avevo detto” ed era anche riuscito ad indovinare perfettamente il mio stato d’animo. Sorrisi ad ogni parola di quel messaggio, ridacchiando fra me e me.

 Sei il mio angelo. Ti voglio bene, tesoro! Buonanotte.
Posai il cellulare sul comodino e mi spogliai, mettendomi il pigiama e poi andando in bagno per struccarmi. Da un lato il mio cuore soffriva un po’ per Marco perché si immedesimava nelle sensazioni che probabilmente in quel momento lui stava provando, dall’altro invece mi ordinava di seguire il consiglio di Gianluca, di lasciarlo perdere perché non ne valeva la pena di rovinarsi il viaggio dell’anno a causa di un ragazzo conosciuto appena due mesi prima.
Tornai in camera e tolsi tutta la roba che avevo accumulato sul letto nel corso di quella giornata e mi misi sotto le coperte, spegnendo la luce. Solo a quel punto presi il cellulare e lessi l’ultimo messaggio di Gianluca.

 Attenta che così mi innamoro anche io!!! Scherzo lo sai, che poi Marzia ti impicca! Ti vu bi anche io.. Ma bi sta per bruciare. Buonanotte, chiamami dall’aeroporto.
Scoppiai a ridere come una deficiente mentre spegnevo il cellulare e chiudevo gli occhi. Ecco perché ero felice di svegliarmi ogni mattina per andare a scuola, ecco perché quando stavo male riuscivo ad affrontare tutto con un sorriso. Avevo Gianluca e sapevo che nessuno sarebbe riuscito a distruggermi finché ci sarebbe stato lui al mio fianco. Con quell’ultimo pensiero lasciai il mondo degli svegli e mi inoltrai in quello dei dormienti, crollando in un lungo, profondo sonno.

 Salii felice e soddisfatta nei confronti del mondo e dell’intero universo su quell’aereo, pronta psicologicamente ad affrontare quella vacanza a New York City, totalmente inconsapevole del fatto che, otto ore dopo, sarei scesa arrabbiata come una belva con il desiderio di tornare a Roma.
-Goodmorning!- Mi salutò educatamente una hostess sulla quarantina: la tipica donnona americana. Capelli biondi, corti, viso tondo ed un sorriso tanto ampio quanto falso. –The Business Class is right here.- Mi indicò cortesemente i miei posti a sedere in prima classe. Le risposi con un semplice accenno di sorriso, avviandomi poi al mio posto. Non feci in tempo a fare due passi che la mia mandibola cadde a terra ed i miei occhi uscirono fuori dalle orbite.
-Cosa diamine ci fai tu qui?- Emanuele Benassi sedeva tranquillamente al posto affianco a quello che doveva essere il mio, leggendo il Messaggero. Mi guardò, sorridendo.
-Vado a New York.- Disse con estrema calma. –Anche tu, immagino.- No, qui c’era qualcosa che non tornava. Aprii la bocca, come per parlare, ma poi la richiusi stizzita. Lui mi guardò ancora un po’, compiaciuto, tornandosene poi a leggere il giornale.
-Signorina, potrei passare?- Una signora anziana mi tamburellava con le sue lunghe dita nodose sulla spalla. Annuii e mi sedetti velocemente vicino ad Emanuele, ancora incapace di capacitarmi del fatto che andasse a New York.
-Perché vai a New York?- Domandai, evitando accuratamente di urlare.. Malgrado fosse una tentazione irresistibile.
-Mi va.- Scrollò le spalle senza staccare gli occhi dalla pagina sportiva. Gli strappai il giornale dalle mani, mettendomelo sulle ginocchia. Lui si girò lentamente, inarcando un sopracciglio.
-E vorresti dirmi che è un caso che tu vada a New York proprio quando ci vado io, durante la settimana scolastica, e stia seduto proprio accanto a me?- Ridussi gli occhi a due fessure mentre uno strano presentimento stava avendo la meglio su di me.
-Il mondo è piccolo, Ginni. Ora dammi il giornale, su..- Allungò la mano in direzione del Messaggero ed io prontamente gliela schiaffeggiai.
-Non me la dai a bere così!- Dissi con una tonalità decisamente alta: stavo cominciando a dare in escandescenze. La hostess che mi aveva accolto si fermò accanto alla nostra fila, indicandoci il segno delle cinture che dovevano essere allacciate. Emanuele le sorrise nella maniera più ruffiana che avessi mai visto, guardandomi poi severamente.
-Su, Ginevra, allaccia questa cintura che l’aereo adesso comincia a muoversi e poi decolliamo.- Sorrise un’ultima volta all’americana, che ricambiò allontanandosi. Io sbuffai, sistemando quella cintura e guardando lo schermo davanti a me su cui compariva il logo della Delta Airlines. Decisi di lasciar perdere l’interrogatorio per un po’: almeno per la durata del decollo, che rappresentava per me il punto più critico dell’intero volo. Mentre l’aereo faceva le manovre per giungere alla pista, cercavo di non inviare troppe maledizioni ad Emanuele Benassi, seduto al mio fianco, che leggeva tranquillamente il giornale, che gli avevo restituito, senza farmi troppo caso. E certo, lui era tranquillo.. Ed io mi ritrovavo a pensare per quale strano scherzo del destino mi trovassi su quell’aereo seduta vicino a lui. L’aereo prese velocità, alzandosi poi velocemente in cielo, pronto ad affrontare quella traversata dell’oceano Atlantico. Chiusi gli occhi, evitando di pensare agli incidenti aerei degli ultimi anni e cominciando ad immaginare il mio soggiorno negli States.
-Sei proprio ingenua.- La voce di Emanuele unita alla mia paura del decollo, favorirono a far diventare il più cagnesco possibile lo sguardo che gli lanciai.
-Cosa vorresti dire?- Sibilai, mentre il mio stomaco si contorceva.
-Da quand’è che per i concorsi Canguro vinci un viaggio in America?- Disse con un ampio sorriso sulle labbra. Io spalancai la bocca, non pensando più all’aereo in fase di decollo ma alle sue parole.
-Cosa diamine stai insinuando?- Dissi con una voce che non riconobbi come mia: roca, preoccupata. Quell’orribile presentimento stava tornando a galla.
-Che forse è stato uno scherzo architettato con grande maestrìa.- Disse vago, riponendo nello zaino che aveva con sé il giornale e cominciando a guardarsi intorno, evitando accuramente il mio sguardo assassino. Lo afferrai per il colletto della polo che portava, costringendolo a fissarmi negli occhi.
-Sputa il rospo.- Sillabai, con il suo viso ad un paio di centimetri dal mio. Lui sorrise.
-Forse ho organizzato tutto io.- Le ultime due parole le disse appena, visto che strinsi talmente tanto quel colletto da rendergli difficile il respirare. Lui allontanò le mie mani dal suo collo con delicatezza, mentre io non riuscivo a togliermi un’espressione di sorpresa dal volto.
-Avresti pagato mille euro di volo?- Domandai stupefatta. –Avresti falsificato la documentazione della Williams? Dell’alloggio alla Columbia?- Ad ogni domanda che ponevo il mio sangue ribolliva a temperature sempre più alte.
-Ho pagato solamente l’inchiostro per stampare tutti i fogli.- Disse, trattenendo appena una risata.
-Ed il volo aereo?- Non ci potevo credere. Stava parlando seriamente? Era veramente serio?
-Non sai che è mio padre a costruire tutti gli aerei della Delta?- Domandò con calma mentre io scuotevo la testa. –Ora lo sai.- Concluse dondolando beffardo la testa. Gliela avrei staccata a morsi quella testa. –Quindi dedurrai che i biglietti sono gratis.- Concluse soddisfatto. La manovra del decollo era terminata e l’aereo era passato in fase di crociera. Slacciai la cintura ancora frastornata e cercai di calmare i miei nervi.
-E per quale assurdo motivo avresti fatto tutto ciò?- Balbettai incerta sul da farsi: picchiarlo o rassegnarmi. Ormai stavo andando a New York.. Il fatto che fosse colpa di Benassi era un piccolo insulso.. Dettaglio. No?
-Io e te dobbiamo chiarire un po’ di cose.- Strabuzzai gli occhi.
-TU SEI MATTO!- Urlai dandogli un pugno sul braccio. Un po’ di persone di affacciarono dalla Economica per guardarci. –Tu hai organizzato tutto ciò perché devi chiarire con me? Tu sei matto!-
Abbassai il tono della voce, senza continuare a riempirlo di pugni. –Non potevi parlarmi a Roma? Qual’era la necessità di portarmi a New York? Sei matto, matto, matto!-
-A Roma non mi ascolti..- Disse lui affrontando tranquillamente il mio sguardo. Lo odiavo quando riusciva a mantenersi calmo in tutte le situazioni. –E poi fa più effetto a New York.-
-P-più effetto?- Balbettai. Stava scherzando vero? Da piccolo gli avevano datto una botta in testa davvero forte, forse?
-Consideralo come un regalo di compleanno.- Mi rivolse un ampissimo sorriso, quasi più ruffiano di quello che aveva indirizzato alla hostess americana.
-E mi spieghi dove dormo?- Milioni di domande cominciavano ad affiorare.
-A casa mia.- Rispose, prendendo la rivista di bordo.
-A-a casa tua?-
-Non sapevi che ho un attico sulla quinta strada?- Sì, lo sapevo. Ricordai in un lampo le parole di Sara su di lui, il fatto che passasse tutte le sue vacanze a New York e che fosse ricco sfondato. Preferii non rispondere, prendendo il telecomando dello schermo situato sul sedile di fronte al mio ed impostando l’inglese come lingua. Non ci potevo credere: non solo mi ero fatta ingannare da Emanuele Benassi in quella maniera colossale, ma ero seduta su un aereo, diretto a New York, proprio con l’organizzatore di quella trappola ed avrei passato quattro giorni con lui, compreso il mio compleanno. Mentre immaginavo tutte le modalità in cui potevo far morire quell’adorabile ragazzo, quest’ultimo sorrideva beato mangiando le noccioline che l’hostess gli aveva portato. Potevo buttarlo giù dal suo attico, farlo investire da un taxi, ficcargli una forchetta in gola mentre dormiva beato. I miei occhi ormai erano due fessure ed uno strano sadismo si stava impossessando con me, quando qualcuno tamburellò insistentemente sulla mia spalla. Mi girai ed il gioioso volto di Emanuele mi accolse.
-Ci guardiamo un film?- Mi domandò con aria innocente. L’annuncio del pilota coprì la marea di parole poco carine che gli rivolsi.

 Ero sveglia da almeno cinque minuti e guardavo lo schermo che diceva che mancavano dieci minuti all’arrivo. Al mio fianco Emanuele dopo aver bevuto lo champagne che si era riuscito a far dare dalla hostess nonostante non avesse ventuno anni, dormiva beato, senza accorgersi della lenta discesa dell’aereo.
Per tutta la durata del volo non gli avevo rivolto parola se non per rispondergli acida, ancora troppo immersa nei miei pensieri contorti per riuscire a mettere insieme delle frasi sensate. Era tutto estremamente assurdo: per quale motivo Emanuele aveva organizzato tutto quel viaggio? Possibile che fosse così esageratamente determinato a chiarire con me? Presto saprai il perché. Quel messaggio privato era arrivato lo stesso giorno della falsa lettera della vincita del viaggio ed io non avevo mai pensato a collegare quei due eventi, troppo presa dall’entusiasmo per la partenza. Emanuele Benassi mi aveva stupita per l’ennesima volta e malgrado dissimulassi la mia soddisfazione per quel suo gesto, non riuscivo a nascondere a me stessa la contentezza per trovarmi su quell’aereo con lui, diretta a New York dove avremmo passato quattro giorni noi due da soli.
-Mhh..- Emanuele si rigirò al mio fianco, mugolando. Lo guardai ed evitai per un pelo di mettermi a ridere come una deficiente: aveva i capelli mori tutti spettinati, la bocca appena schiusa e l’aria di un bambino innocente. Tirai fuori la macchinetta fotografica e gli scattai velocemente una foto, nascondendola subito. Ci fu un vuoto d’aria e l’aereo sobbalzò, facendo svegliare di scatto il mio compagno di viaggio che sbadigliò, stiracchiandosi poi. –Buongiorno.- Disse con la voce ancora impastata dal sonno e gli occhi gonfi. –Quanto manca?- Domandò dopo essersi scrocchiato l’osso del collo.
-Stiamo atterrando.- Risposi con maggiore calma rispetto alla nostra prima chiaccherata: ormai il mio tono trapelava rassegnazione da tutti i pori.
-Dopo che abbiamo preso le valige andiamo a casa a posare tutto.. Ci viene a prendere l’autista di mio padre.- Spiegò mentre l’aereo toccava finalmente terra, facendo scoppiare tutti in degli applausi. Emanuele mi parlava così calmo del nostro programma per la giornata che mi veniva sinceramente voglia di riprendere a sbraitargli contro per tutto ciò che aveva organizzato. Mi limitai quindi ad annuire serrando i denti, tirando nel frattempo fuori il telefonino dalla tasca dei jeans. Lo accesi e chiamai mia madre, fregandomene altamente delle disposizioni di sicurezza che vietavano l’uso degli apparecchi elettronici fino alla definitiva fermata del veicolo.
-Ciao, mamma!- Dissi, cercando di sembrare il più calma possibile. Non ero abituata a mentire a mia madre.
-Ciao, tesoro! Andato bene il volo?-
-Sì, ho dormito tutto il tempo.. Che ore sono ora lì in Italia?- Domandai, slacciandomi nel frattempo la cintura. Guardai Emanuele che giocherellava con il proprio iPhone. Scossi la testa.
-Qui sono le sei.. da te è mezzogiorno, giusto?-
-Esatto. Senti mamma, ti mando un messaggio quando arrivo al campus che sennò mi scarico la scheda subito!-
-Ok, ci sentiamo dopo.-
Attaccai e riposi il cellulare nella borsa, inspirando ed espirando profondamente. Povera mamma che pensava che fossi diretta al campus della Columbia University, mentre in realtà stavo per essere segregata nella casa newyorkese di Benassi. Cosa avevo fatto di così negativo nella mia vita precedente?
Venti minuti dopo io ed Emanuele avevamo già passato il controllo passaporti e stavamo aspettando tranquillamente l’arrivo dei nostri bagagli. Continuavo a non parlargli, aggrappata all’utopia che quello fosse solo l’ennesimo incubo notturno e che presto mi sarei svegliata, ridendone allegramente. Un pizzico sul braccio mi fece capire che non ero nel mondo dei sogni, ma in quello reale, e che l’incubo lo stavo vivendo in prima persona. Guardai Emanuele che con quella sua aria angelica fissava i primi bagagli che stavano uscendo, come se non fosse stato lui a staccarmi mezzo braccio con quel pizzico.
-La mattina prendi una gran dose di simpatia tu, vero?- Lui scoppiò a ridere.
-Tu invece sei un’accannita consumatrice di yogurt scaduti.- Rispose a tono, facendomi boccheggiare qualche istante. Aveva decisamente stancato quel ragazzo! Individuai la mia valigia e la tirai via dal nastro che la trasportava, con Emanuele che ridacchiava per l’espressione che avevo evidentemente fatto.
-Potevi anche aiutarmi.- Borbottai mentre mi davo una botta sulle ginocchia, per sistemare i jeans.
-Quando faccio cose carine per te reagisci sempre male.- Disse mentre prendeva il suo trolley, posandolo poi con estrema leggerezza affianco al mio.
-Fra le cose carine devo anche aggiungere il fatto che mi hai ingannata per portarmi a New York con te?- Domandai inarcando un sopracciglio.
-Anche..- Non riuscì a concludere la frase perché gli tirai un pugno nello stomaco con non troppa delicatezza.
-No, quella non è una cosa carina.- Conclusi la nostra breve e simpatica conversazione in quel modo, girando poi sui tacchi ed avviandomi verso l’uscita dell’aeroporto senza preoccuparmi di aspettarlo.
-Ma dove vai da sola! Non sai manco qual’è la nostra auto!- Mi urlò dietro, ridendo.
-Prendo un taxi!- Sbottai, senza girarmi, continuando a camminare decisa.Mi  ritrovai a stare ferma all’uscita dell’aeroporto, le braccia incrociate al petto ed una grande confusione in testa.
-Come mai sei qui, signorina so-tutto-io?- Mi canzonò Emanuele, raggiungendomi e sorridendomi beffardo. Ovviamente ero rimasta ferma lì senza sapere dove andare, da chi andare, come andare. Non risposi, cercando di non far caso a quel sorriso sghembo che gli illuminava il volto. –Forse mi aspettavi?-
-Forse.- Borbottai. Lui ridacchiò vittorioso.
-Andiamo su..- Indicò una Mercedes nera parcheggiata una decina di metri da noi e si incamminò. Lo seguii, muovendo ogni singolo passo senza rendermene ormai conto. L’autista scese dall’auto per aprire il portabagagli e sistemare le valige, passando poi ad aprirci le portiere, per farci entrare. Mi sedetti sui comodi sedili in pelle, tirando un sospiro di sollievo per il riscaldamento. A New York il tempo non era migliore di quello di Roma, anzi, faceva anche più fresco.
-Andiamo direttamente a casa, Mark.- Disse Emanuele in perfetto inglese. Dannazione, la sua voce quando parlava in inglese era ancora più attraente.
-Perfetto.- Rispose, concentrandosi poi sulla guida. Cominciai a guardare fuori dal finestrino, chiedendomi un altro milione di volte come avevo fatto ad essere così stupida per cadere in quel maledetto scherzo. Non avevo chiamato l’agenzia, niente, avevo preso tutta la documentazione, tranquilla ed ero salita sull’aereo, felice, diretta a New York.
-Domani è il tuo compleanno.- Disse Emanuele. Mi voltai con un mezzo sorriso. Lui guardava tranquillo fuori dal finestrino, con i muscoli rilassati, sembrava immerso nel suo universo parallelo.
-Mh..- Mi limitai ad emettere un lieve mugolìo.
-Richieste particolari?- Si voltò anche lui, guardandomi direttamente negli occhi, quasi come a volermi trapassare con tutta la sua forza.
-Mi basterebbe un perché.- Dissi a voce bassa, sovrappensiero. Solo dopo realizzai di averlo veramente detto. Stupida, stupida, stupida! Lui rise, buttando indietro la testa. Poi tornò serio e prese la mia mano e se la portò alle labbra, baciandola leggermente prima di lasciarla con delicatezza sul sedile.
-Testarda che non sei altro.- Mormorò, lanciandomi un’ultima divertita occhiata, tornando a guardare la città che si delineava al nostro fianco, fuori dal finestrino.
Si, Emanuele, la testarda ero io, ero la io razionale e non. Testardo era il mio maledetto cuore che ti desiderava follemente e non ne voleva proprio sapere di battere per te, di sobbalzare ogni volta che ti vedeva..E testarda era diventata anche la mia mente che non voleva vedere il soffrire il cuore e cercava ora disperatamente delle risposte, per proteggermi dalla sofferenza, dal dolore.
-Ginni..- Una voce distante mi chiamava, scuotendomi anche con decisione. Sì, era arrivata la fine di quell’incubo. Aprii gli occhi e vidi Emanuele chinato su di me che sghignazzava. No, l’incubo era appena cominciato.
Mi ero addormentata con la guancia spiaccicata contro il vetro della macchina e dopo che mi fui staccata mi strofinai il viso e gli occhi non energia. Mi guardai intorno: eravamo proprio sulla quinta strada; lo si notava dal traffico, dalla gente sui marciapiedi.. Guardai infine Emanuele negli occhi e scossi la testa.
-Siamo arrivati.- Mi disse con dolcezza, piano, in modo da non farmi intontire ancora di più. Io mi limitai a fare un leggerissimo cenno con il capo e lo seguii fuori dalla macchina. Mark aveva già tirato fuori le valigie e ci sorrideva raggiante. Dopo i brevissimi saluti, io ed Emanuele ci avviammo verso il portone d’ingresso della lussuosa palazzina dove avremmo soggiornato. Il portiere ci aprì la porta, salutando affettuosamente Emanuele e sorridendo a me. Il tragitto fino all’ultimo piano fu piuttosto silenzioso.. Da un lato ero ancora nel mondo dei sogni, dall’altro non sapevo cosa dire ad Emanuele visto che il mio cervello era convinto a non instaurare un rapporto normale con lui fino a che non avesse ricevuto risposte soddisfacenti. L’ascensore arrivò a destinazione ed io seguii Emanuele nel pianerottolo, aspettando poi che aprisse la porta. Mi guardavo curiosamente intorno, chiedendomi nel frattempo se era veramente tutto reale: mi trovavo veramente in un lussuoso appartamente sulla Fifth Avenue? Ero veramente con Benassi? Scossi la testa, entrando finalmente in casa.
-Wow.- Non riuscii a trattenere quella esclamazione come misi piede nell’appartamento. Era molto grande, arredato in stile classico, con tutti i mobili in legno pregiato. Ci fermammo nel salone, caratterizzato da un enorme libreria al cui centro c’era un televisore al plasma e degli eleganti divanetti verdi con le rifiniture in oro. Emanuele si buttò sul divano, sospirando.Camminai per un po’ per l’appartamento, tornando poi dal proprietario di tutto quel ben di Dio.
-Dove mi sistemo?- Domandai indicando eloquentemente la mia valigia. Lui aprì gli occhi, squadrandomi un istante.
-Dove ti pare..- Ma si, in fondo casa era la sua, no? Io dovevo andare “dove mi pareva”. Scossi la testa, indirizzandomi poi verso il corridoio dove avevo capito fossero sistemate tutte le camere da letto. Aprii la prima porta che mi ritrovai sulla destra, ma l’urlo di Emanuele mi fece talmente saltare su dalla paura da far cadere il trolley.
-Tutte le camere ma non quella!-
 Era ancora lontano. Io ridacchiai ed alzai la valigia, guardandolo poi con aria di sfida. Aprii la porta e mi ritrovai in un ampia stanza con le pareti azzurre: la stanza di Emanuele? Entrai, lasciando il trolley alla soglia, guardandomi curiosamente intorno.
-Lentiggini, ti avevo detto di..- Troppo tardi, avevo già localizzato ciò che lui potentetemente cercava di nascondermi: una sua foto decisamente da usare come motivo di ricatto, appartenente ai teneri anni della sua infanzia. Emanuele era fotografato all’età di sette anni circa, con i capelli spettinatissimi ed una smorfia allucinante dipinta sul volto. Mi portai le mani alla bocca mentre scoppiavo a ridere, piegandomi quasi un due. Alzai un secondo lo sguardo e vidi Emanuele alla soglia della porta che mi fissava in cagnesco. Mi portai una mano agli occhi per asciugarmi le lacrime che si erano rintanate negli angoli.  A quel puntò Emanuele scattò, placcandomi con una classica mossa da rugby e buttandosi insieme a me sul letto. Soffocai un gridolino, riprendendo poi nuovamente a ridere, guardandolo.
Era steso sopra di me, sul comodo letto ad una piazza e mezzo, e sorrideva indispettito, guardandomi. Stava violando tutte le regole che avevo posto, stava rompendo uno ad uno i paletti che con tanto difficoltà avevo conficcato per delimitare quello che era stato e quello che era il nostro rapporto.
-Non hai diritto di ridere di quella foto, tu..- Disse, puntandomi l’indice addosso fintamente minaccioso. Io imbronciai il labbro inferiore. -..Non mi guardare così.. Dopo che ho visto quella tua foto, hai perso ogni diritto di criticare le mie smorfie!- Feci una faccia scandalizzata, spingendolo via da me per farlo scivolare al mio lato.
-Mi avevi promesso che non mi avresti più presa in giro per quella!- Riuscii a dire fra una risata e l’altra, pensando sia alla mia foto che alla sua.
-A mali estremi, estremi rimedi!- Disse lui convinto. Restammo così a ridere, guardando un po’ il soffitto ed un po’ l’uno all’altro, per un bel po’.
Alla fine dovevo ammettere che con Emanuele mi divertivo sempre: sapeva farmi ridere, farmi stare bene con me stessa e nei confronti del mondo.. Peccato che fosse anche dannatamente stronzo e che amasse giocare con i miei sentimenti. Ma questi erano piccolissimi dettagli.

 Driin.

 Quella stramaledetta suoneria, accompagnata da un’insistente vibrazione, fecero rompere di colpo il contatto visivo che i miei occhi avevano instaurato con quelli castani di Emanuele. Mi sedetti sul letto, tirando fuori il cellulare dalla tasca e guardai il numero sul display. Marco. Sorrisi inconsciamente e risposi.
-Oi, ciao..- Emanuele nel frattempo si alzò, uscendo dalla stanza. Mi faceva effetto parlare con Marco dopo gli avvenimenti della sera precedente, a quel pub.. In fondo Marco me lo aveva detto chiaramente che per lui la nostra non era solamente un’amicizia, ormai, mentre io ero ancora follemente innamorata di Emanuele Benassi.
-Ciao!- La sua voce suonò allegra come sempre: per un momento sperai che gli fosse passata la delusione, ma subito realizzai che non fosse possibile.. Io dopo due interi mesi ancora pendevo dalle labbra di Emanuele senza riuscire a disincantarmi. –Com’è andato il volo? Sei arrivata al campus?- Domandò.
-Non hai idea di cos’è successo..- Incominciai, fermandomi poi un istante. Quanto male gli avrebbe fatto sapere che stavo con Emanuele a New York?
-Si?- Incalzò lui ed io dovetti fare velocemente mente locale.
-Quel coglione di Benassi stava in aereo con me.. Quel ragazzo non lo sopporto più di giuro, mi da ai nervi.- Sì, forse se gli parlavo male di Emanuele si sarebbe sentito un po’ meglio. Sentii Marco ammutolirsi tutto d’un tratto e già me lo immaginai tutto con i muscoli testi che respirava profondamente, cercando di mantenere la calma. Dopo un po’ ridacchiò, istericamente, scaricando evidentemente la tensione, ed io capii che avevo agito correttamente.
Per mia sfortuna, nel momento in cui decisi di far stare meglio Marco, ferii inconsapevolmente Emanuele. Nel momento in cui pronunciai altre cose su di lui, ben più pesanti, lui si affacciò alla porta, guardandomi con una faccia a metà fra il deluso e l’arrabbiato. Senza pronunciare parola si voltò e se ne andò. Due secondi dopo sentii la porta d’ingresso chiudersi rumorosamente.
-Ginni, ci sei?- Mi domandò Marco, visto che ero rimasta in silenzio a ragionare su ciò che era successo.
-Mh si.. Marco, scusa, ma ora devo proprio andare..- Dissi velocemente, alzandomi già dal letto.
-Ci sentiamo a mezzanotte!- Esclamò lui entusiasta, chiudendo infine quella chiamata. Sì, certo, ci saremmo sentiti a mezzanotte, per il mio diciottesimo compleanno, ma nel frattempo Emanuele se ne era andato, prendendosela con molta probabilità per ciò che avevo detto. Corsi fuori dalla stanza, cercandolo per tutto l’appartamento nella vana speranza che non fosse veramente uscito: controllai in ogni singola stanza dei due piani di cui era composta la casa, senza trovarlo, e solo allora decisi di uscire fuori ad affrontare New York. Mettetevi nei miei panni, maledizione.. Ero in una città che conoscevo solo di nome e di fama, senza la più pallida idea di come orientarmi e alla disperata ricerca di un ragazzo offeso che conosceva quella metropoli meglio delle proprie tasche. Perdevo assolutamente in partenza.
Mentre correvo nella stanza di Emanuele per prendere il cappotto, lanciai uno sguardo all’orologio che segnava le due passate.. dove se ne andava un ragazzo italiano diciassettenne alle due e mezza del pomeriggio a New York? Scossi la testa: entrare nella testa di Emanuele e capirlo era impossibile già per le cose più futili, figuriamoci per una questione seria. Mi precipitai fuori dall’appartamento prendendo le chiavi che il geniaccio aveva lasciato e mentre scendevo in ascensore mi soffermai a pensare che per la prima volta in tre mesi era colpa mia e non sua. Avevo indubbiamente esagerato, quella volta, con le parole, i commentini su Emanuele.. Sì, potevo covare un certo rancore nei suoi confronti e voler far stare meglio il cuore spezzato di Marco, ma ciò non giustificava assolutamente far del male ad un ragazzo che, diciamocela tutta, mi aveva portata a New York con sé.
Così mi ritrovai fuori dal palazzo, sulla Fifht Avenue, senza avere la più pallida idea di dove andare, cosa fare. Mi ritrovai ad aver percorso l’intera quinta strada, lunga com’era, ad aver camminato lungo l’intero perimetro del Central Park che dava sull’Upper East Side, e a non aver concluso nulla. Non era quello il modo in cui speravo di trascorrere il mio primo giorno lì a New York, non era il modo in cui speravo di relazionarmi con Emanuele: in fondo quella arrabbiata ero io e ad un tratto i nostri ruoli si erano scambiati, lasciandomi spiazzata. I taxi, la gente, New York si mostrò ai miei occhi confusa e troppo veloce, almeno per la mia capacità di intendere di quel momento.
Tornai così sconfitta alle sei davanti al palazzo, salutando con un cenno il portiere.
-Ha visto Emanuele Benassi?- Domandai al signore sulla quarantina d’anni. Lui scosse la testa, stringendosi nelle spalle.
-Non l’ho visto più rientrare da quando lei è uscita a cercarlo.- Io ringraziai e decisi di poggiarmi contro il muro, all’aria aperta, per aspettarlo. Sì, non m’interessava passare il mio primo giorno a New York ad aspettare un deficiente che mi aveva fatta stare male.. Non m’interessava dare retta alla mia parte razionale che mi imponeva di andarmi a godere la città. Non mi sarei mai riuscita a godere New York nelle condizioni in cui ero in quel momento, andava completamente contro la mia natura.
Passavano i minuti, le ore, ed io restavo inchiodata a quel muro, guardando ogni singola persona che passava fumando una sigaretta dopo l’altra. Ogni volta che vedevo una frangia disordinata mora, o un ragazzo con la polo gialla ed un maglione grigio, il mio stomaco ed il mio cuore saltavano contemporaneamente, facendo una capriola, ma non appena realizzavo che non era lui entrambi ammutolivano, lasciando un grande vuoto dentro di me. Non saprei dire quanto tempo passò esattamente dal momento in cui cominciai ad aspettarlo lì, ma quando lo vidi scendere dalla Mercedes nera, annullai tutta l’ansia dell’attesa e per poco non gli saltai con le braccia al collo. Per poco, sì, perché quando scese tutto traballante senza riuscirsi a reggere bene in piedi, l’ansia fece velocemente spazio alla preoccupazione. Gli corsi incontro, abbracciandolo per riuscire a sorreggerlo senza far notare nulla di strano al portiere che per il momento, continuava a stare tranquillo senza badare troppo a noi.
Quando lui poggiò la sua testa sulla mia spalla, abbandonandosi contro di me, un fortissimo odore di alcol giunse alle mie narici ed io spalancai gli: era ubriaco. Ma che ore erano? Perché tornava ubriaco? Non riuscii a pormi troppe domande visto che non appena congedai con un gesto Mark, Emanuele si divincolò da quella sottospecie d’abbraccio.
-Non fingere che ti importi qualcosa di me ora.- Borbottò, incamminandosi poi con passo incerto dentro la palazzina. Il portiere ci aprì la porta con aria circospetta ma io mi limitai a sorridere, come a volerlo tranquillizzare che il signorino Benassi non avesse nulla.
-Non fingo, idiota.- Sussurrai all’orecchio di Emanuele mentre aspettavamo l’ascensore. –Cosa diamine avevi intenzione di fare?- Aggiunsi, guardandolo seria.
 Lui non mi rispose, limitandosi a spendere tutte le proprie energie per restare in piedi. In ascensore lo osservai meglio: la testa gli dondolava da un lato all’altro e gli occhi erano completamente rossi.. Stentavo a riconoscerlo. Davvero quelle mie parole a Marco lo avevano portato a tanto? Addirittura all’andarsi ad ubriacare? No, non era possibile.. Lui era l’imperscrutabile Benassi, quello che ne sapeva una più del diavolo, che cambiava ogni secondo e che non riuscivi mai a conoscere veramente.
Le porte dell’ascensore si aprirono ed io passai un braccio intorno alla sua vita, per aiutarlo a reggersi meglio in piedi, camminando poi verso la porta. Tirai fuori le chiavi e con un po’ di difficoltà riuscii a farlo finalmente entrare dentro casa. Lui si liberò dal mio braccio e si andò a buttare sul letto dove ore prima era successo tutta la catastrofe e sospirò rumorosamente. Certo che io ero proprio attratta dagli ubriaconi, eh! Prima Sara, poi Emanuele.. e le loro sbornie le dovevo subire tutte io!
Raggiunsi con estrema lentezza la stanza dove si era sistemato e mi affacciai, incontrando il suo sguardo pronto ad accogliermi. Era uno sguardo vuoto, spaesato, evidentemente aveva bevuto non poco e la testa gli stava girando ad alte velocità.
-Non ho bisogno della tua compassione, Lentiggini..- Borbottò, mettendosi poi seduto e smettendola di guardarmi. Io abbassai lo sguardo, colpevole, avvicinandomi lentamente a lui. Mi inginocchiai in modo tale da ritrovarmi con il viso alle sue spalle e lo guardai seriamente, costringendolo a corrispondere quel mio sguardo portando le mie mani al suo viso.
-Non sono un tipo che compatisce, dovresti saperlo.- Dissi seria, concentrandomi a restare tale senza cadere nel fascino dei suoi occhi, anche se così dannatamente ubriachi e rossicci.
-Mi disprezzi.- Disse lui evidentemente amareggiato. –E chi disprezza tratta l’oggetto del proprio disprezzo come tu tratti me solamente con compassione.- Sospirai. Io non lo disprezzavo.. Non lo disprezzavo con nemmeno una cellula del mio corpo, non lo disprezzavo neanche per scherzo, malgrado lo desiderassi spesso, per non soffrire più per amore.
-Io non ti..- Cominciai, ma lui mi interruppe con un brusco gesto della mano.
-Ti ho sentita, è inutile che adesso parli con tanto affetto nei miei confronti.- La sua voce era la tipica voce di un ubriaco che dice tutto ciò che ha nella mente, senza riuscire a trattenersi. Mi sarebbe venuta voglia di stringerlo forte a me, dicendogli che io lo amavo, che avevo detto tutte quelle parole solo a causa di Marco.. Ma restai ferma, immobile, a guardarlo sentendomi terribilmente in colpa.
-Ti vado a preparare un caffé.. Sdraiati intanto.- Mormorai infine, alzandomi in piedi ed uscendo velocemente dalla stanza mentre il mio cuore batteva veloce. Arrivai alla cucina e poggiai le mani sul lavandino, chiudendo poi gli occhi e sospirando.
Tutto ad un tratto Emanuele si era mostrato ai miei occhi come non aveva mai fatto prima: debole, sconfitto, deluso.. E pensare che la causa di ognuno di quegli aggettivi che ora gli attribuivo fossi io, mi faceva stare enormemente male. Immaginai per un istante come mi sarei sentita io se lo avessi sentita parlare in quel modo di me con.. Giulia, ad esempio, malgrado sapessi perfettamente che lei fosse già uscita dalla sua vita, precisamente quello stesso quattro febbraio in cui il mio cuore si era spezzato. Al posto di Emanuele mi sarei sentita morire, avrei pianto per ore, mi sarei fatta tremila filmini, lo avrei odiata con tutta me stessa. E magari anche lui in quell’istante mi stava odiando. A quel pensiero il mio cuore si strinse talmente forte da farmi sospirare.
Dopo aver preparato il caffé, avendoci spremuto anche un po’ di limone dentro, tornai nella stanza di Emanuele, trovandolo finalmente in una posizione diversa da quella in cui l’avevo lasciato. Stava steso sul letto fissando la parete. Quando entrai lui alzò debolmente lo sguardo, seguendomi con esso finché non mi sedetti al suo fianco, poggiando la tazzina sul suo comodino.
-Come ti senti?- Gli domandai con gentilezza. Lui come risposta mugolò. Ottimo, la sbornia lo stava portando alla fase del delirio.. Poi si sarebbe finalmente addormentato. Si mise a sedere, o almeno ci provò, e lentamente portò la tazzina alle proprie labbra, bevendo il caffé. Non disse nulla, tornandosene sdraiato a guardarmi con occhi vuoti.
Gli passai una mano fra i capelli mori, come avevo desiderato di fare a lungo, e lui chiuse gli occhi, rilassandosi sotto i miei tocchi. Le ciocche dei suoi capelli scivolavano con estrema facilità fra le mie dita e mi accorsi che il mio cuore e la mia mente avessero finalmente fatto pace, almeno per quei pochi minuti che furono accompagnati dal silenzio che regnava in quella stanza.
Passarono forse venti minuti ed io feci per allontanare la mano, pronta ad andarmene per lasciarlo dormire, quando lui afferrò le mie dita con le sue, lasciandomi quindi nella stessa posizione in cui ero stata fino a quel momento. Lo guardai curiosamente, ma lui non aprì gli occhi.
-Vorrei solo che tu fossi felice e che non odiassi me e questi quattro giorni a cui ti ho costretta..- Mormorò con la voce impastata. Aprì debolmente gli occhi ed i nostri sguardi si incrociarono mentre lui lasciava la presa sulla mia mano. Io restai immobile, come paralizzata da ogni singola parola che aveva pronunciato.
-Scusami per ciò che ho detto prima.- Riuscii solamente a dire. Non pensai in quel momento che paradossalmente ero io che chiedevo scusa a lui e non era lui che chiedeva il mio perdono. Emanuele scosse con poca energia la testa.
-Non mi devi nessuna scusa tu.- Io sorrisi. Evidentemente il ragazzo leggeva anche la mia mente. –Però se vuoi farti perdonare una cosa la potresti fare..- Eccola là! Ora la parte stronza di lui sarebbe venuta a galla. Sospirai.
-Dimmi..- Dissi, sforzandomi di non guardarlo male. Avevamo appena “chiarito” quell’inconveniente e non volevo vederlo nuovamente afflitto. Strano a dirsi ma il suo sguardo da cucciolo ferito ed orgoglioso mi era rimasto impresso fortemente, forse perché mi ricordava un po’ me dopo che avevo chiuso con lui.
-Regalami un sorriso.- Le sue parole mi lasciarono a bocca aperta. Lo guardai per qualche istante mentre i miei neuroni sembravano essersi paralizzati, non facendomi più ricevere alcun segnale dal cervello. Le mie labbra si piegarono spontaneamente in un dolce sorriso ed Emanuele lo ricambiò, chiudendo poi gli occhi e crollando in un lungo sonno.
Mi aveva chiesto seriamente di regalargli un mio.. sorriso? Siccome il mio cervello era deceduto, nel frattempo, non riuscii più finalmente a fare migliaia di ragionamenti contorti sul comportamento di Emanuele e, per una buona volta, fu il mio cuore a domare ogni mio singolo movimento. Scesi dal letto e ci risalii dall’altro lato, stendendomi al lato di Emanuele. Poggiai la mia fronte contro la sua spalla, sdraiandomi sul fianco destro e mi addormentai in pochi istanti, con il cuore finalmente più leggero e soddisfatto di aver battuto la mia esagerata razionalità.

 

 
**Autrice**
Cominciamo col dire che in questo capitolo ci ho messo tutta me stessa.. Sapete che di solito non mi sbilancio con i commenti su ciò che scrivo e sono sempre piuttosto critica nei confronti di ciò che scrivo.. Ma questa volta lo devo dire: amo questo capitolo. Forse vi stupirete per ciò che succede fra Marco e Ginni ma, l’avevo già anticipato, Marco avrà un ruolo di primo piano nella Fan Fiction e non uscirà di scena presto. Come vedete, inoltre, il capitolo porta il titolo dell’intera storia.. Tutta l’idea della FF era partita da quando mi ero ricordata una scena del genere che mi è successa nella vita reale, quindi sono piuttosto affezionata a quelle tre parole xD!
Per ciò che Emanuele combina in questo capitolo: spero che non vi sembri troppo banale e scontata l’idea che quei due vadano a New York.. ma non ho resistito ed ho cercato di creare un modo carino per mandarceli entrambi e riuscire finalmente a risolvere questa relazione un po’ complicata che hanno.
Vorrei tanto aver visto le vostre facce quando Ginni arrivando nella Business Class incontra Emanuele seduto molto sfacciatamente che la guarda come se non fosse successo nulla.. Ho riso da sola mentre li immaginavo seduti sull’aereo insieme! Comunque, come vedete sta succedendo qualcosa, ma non crediate che Emanuele riesca a sfuggire alla voglia di “perché” di Ginevra.. sennò sarebbe troppo banale, ecco! Però vi anticipo che per sapere dovrete aspettare un altro capitolo o forse due! Detto ciò passo ai ringraziamenti!
Vero15star: Sì, Emanuele è davvero un cretino..però come vedi forse il comportamento di Ginevra gli sta facendo mettere un po’ la testolina a posto. Sfortunatamente i ragazzi capiscono solo a suon di mazzate ù.ù! Senza aver ancora letto la tua recensione avevo accontentato un po’ la tua fantasia su Marco e Ginni, vedi? Anche se alla fine non va a buon fine nulla xD Gianluca io lo amo con tutta me stessa..altro che Emanuele! Però ti devo deludere dicendoti subito che fra lui e Ginni non ci sarà mai nulla.. Voglio provare a crederci in questa sincera amicizia fra donna e uomo per una buona volta!! xD Grazie mille per la recensione!!
Elienne: Ahahah..Io quando sono cotta di un ragazzo mi faccio trecento pippe mentali su ogni suo singolo gesto/movimento.. quindi mi sono completamente immedesimata nella povera Ginni! Per la spiegazione di Ema dovrai ancora aspettare un paio di capitoli, ma più o meno hai colto come sarà..anche se non l’ho ancora messa bene a punto!
Betty O_o: Wa una nuova lettrice! Grazie infinite per tutti i complimenti! Gli errori ortografici sfortunatamente sono frutto della mia enorme pigrizia: scrivo di getto senza premeditare mai e poi sono sempre troppo pigra di andare a rileggere per scovare errori di battitura etc. Mi sforzerò d’ora in poi! Come vedi sono riuscita a pubblicarla prima della tua partenza ! Enjoy it!
x_MoKoNa: Spero che piano piano riuscirai ad apprezzarlo un po’ di più dai.. xD!! Grazie per la recensione comunque, :**
Swettlove: Eccola la mia lettrice più accanita! Ahah come vedi alla fine a New York Emanuele ci è venuto per davvero.. Ha organizzato tutto lui!! J Spero che ti piaccia questo capitolo.. Un bacione!
Ombrosa:
Non sei affatto ripetitiva per il semplice fatto che è sempre un enorme piacere vedere la propria storia recensita ed apprezzata! Il viaggio sfortunatamente è saltato ma vabbè.. ormai mi è passata la delusione iniziale!

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Capitolo 9
*** Pancakes, Alcohol and Rock 'n Roll ***


Come vorrei stare qui con te, cosa darei per restarti accanto,
vorrei che tu potessi sorridermi
.
La Sirenetta.

 

 

 

 Capitolo Nono: Pancakes, Alcohol and Rock ‘n Roll.

 Il profumo della marmellata al lampone si insinuò nelle mie narici sinuosamente e mi fece aprire leggermente gli occhi. Per un attimo li richiusi, scivolando nuovamente nel mondo dei sogni, ma quando notai che questo non desisteva, mi costrinsi a controllare meglio da dove provenisse.
Aprii con tutta la mia forza di volontà e vidi una candela bruciare, incastrata su dei pancakes con panna e lamponi. Alzai lo sguardo ed incrociai quello di Emanuele e collegai finalmente tutto. Sorrisi, passandomi una mano fra i capelli.
-Fra un minuto compi diciotto anni..- Mi disse con voce calma.
Spostai più volte lo sguardo dai pancakes a lui. Allora aveva organizzato davvero tutto quel ragazzo. Scossi la testa, senza riuscire ormai a scollarmi il sorriso dalle labbra. L’arrivo della mezzanotte fu segnalato dai messaggi che cominciarono ad arrivare sul mio cellulare, che sentivo in lontananza, visto che lo avevo lasciato sul divano insieme al cappotto quando ero tornata.
-Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri a Ginevra, tanti auguri a te...- Cantò con dolcezza, continuando a guardarmi negli occhi intensamente, e quando terminò avvicinò a me quella torta improvvisata.
-Esprimi un desiderio.- Mi disse.
Io ci pensai un istante, seguendo il movimento della piccola fiamma sulla candela che si muoveva a destra e a sinistra. Cosa potevo desiderare in quel momento? Ero con Emanuele. Emanuele non faceva lo stronzo. Ero a New York. Ero a New York in un attico sulla Quinta Strada. Desideravo.. Desideravo il suo amore, ecco tutto.
Presi fiato e soffiai con forza su quell’unica candelina a forma di numero diciotto che c’era e battei insieme a lui le mani. Ricambiai per un istante il suo sguardo, sicuramente arrossita come non mai, e poi lo abbassai.
-Grazie.- Dissi dopo essermi schiarita la voce.
-Di niente.. Quasi dimenticavo: auguri, neodiciottenne.- Portò la mano al mio viso ed io spalancai gli occhi. Tirai un sospiro di sollievo quando la fece scivolare sul mio orecchio e cominciò a tirare con delicatezza. Contai insieme a lui fino a diciotto e quando terminò quella leggera tortura, scoppiammo entrambi a ridere.
Dal salone la amata suoneria cominciò a farsi sentire insistentemente ma inizialmente non avevo la benché minima intenzione di muovere un muscolo per scendere da quel letto, beandomi per quegli istanti della presenza di Emanuele Benassi al mio fianco. Fu solo quando ricominciò a suonare per la quarta voce che finalmente riuscii a prendere la forza di volontà necesssaria per alzarmi da quel morbido ed accogliente letto.
-Pronto?- Domandai un po’ incerta visto che, tanto per cambiare, mi scordai di leggere il nome della persona che mi chiamava.
-Auguriiiiii!- La voce di Sara per poco non mi assordò.
Nel frattempo mi raggiunse Emanuele, posando i pancakes sul tavolino situato nel centro della stanza, togliendo nel frattempo le candeline e guardandomi con la coda dell’occhio.
-Grazie, Sara!- Dissi con un ampio sorriso sulle labbra.
-Hey, ci sono anche io!- La voce di Gianluca mi fece allargare ulteriormente il sorriso, per quanto fosse possibile. –Auguri, Ginni!-
-Grazie, Gianluca.- I miei due migliori amici: quelli era sicuramente gli auguri a cui tenevo di più.
-Siete arrivati a New York senza problemi?- Mi domandò Sara. Fui sul ponto di rispondere tranquillamente quando, ad un tratto, collegai le sue parole con gli avvenimenti di quella mattina.
-Tu sapevi che Emanuele aveva organizzato tutto?- Dissi con gli occhi spalancati, voltandomi nella direzione del ragazzo che invece stava sghignazzando. Sara temporeggiò qualche istante e capii che Gianluca le aveva rubato nel frattempo il telefonino.
-Veramente lo abbiamo aiutato a farti cadere nella trappola.- Mi disse con voce calma. Erano stati tutti contagiati dalla sfacciataggine di Benassi?
-Ma io vi odio!- Tuttavia non riuscivo a non sorridere.  Mi sedetti affianco ad Emanuele sul divano, guardando la mia torta con soddisfazione e con l’acquolina in bocca.
-Ora ti lasciamo ai prossimi auguri, ci sentiamo domani mattina.- Dissero in coro.
-Ok, a domani. Grazie..-
-Ti vogliamo bene!- Urlarono nuovamente ed i miei timpani furono sul punto di rompersi nuovamente. Aspettai la chiamata di mia madre e poi lasciai il telefonino su una poltrona, concentrandomi su Emanuele.
-Hai plagiato anche i miei migliori amici.- Dissi con tono fintamente arrabbiato.
-L’idea di New York è stata mia però. Quando sono venuto in camera tua non ho potuto notare le foto della città, il poster enorme sul tuo letto.- Mi spiegò con estrema calma, mentre mi porgeva le posate per tagliare i pancakes e prendeva una macchinetta fotografica poggiata a qualche centimetro dai piatti.
-Ma non mi vorrai fare anche una foto! Mi sono appena svegliata!- Protestai, coprendomi il viso con le mani.
-Zitta e taglia la torta!- Ordinò ridendo, contagiandomi inevitabilmente. –La vorrai una foto alla mezzanotte del tuo diciottesimo compleanno!-
-Punto primo non è una torta e punto secondo è mezzanotte e dieci!- Ribattei cocciuta, abbassando nel frattempo le mani e portando le posato a sfiorare i pancakes.
-Dettagli.- Sorrise, inquadrandomi con l’obiettivo. –Cheese!- Io lasciai ad un sorriso prendere posto sulle mie labbra, incapace di negargli quel permesso: ero davvero entusiasta, non potevo nasconderlo a nessuno, tantomeno all’artefice della mia gioia. Il flash consacrò quel momento che sarebbe rimasto negli anni e chissà, quando sarei stata vecchia, vedendo quella foto, sarei morta dalle risate, ricordando come quel folle di Emanuele Benassi mi aveva portata a New York per “chiarire” e per festeggiare il mio compleanno.
Mentre tagliavo i pancakes e con Emanuele cominciavamo a mangiarli, mi soffermai a guardarlo in ogni suo movimento, e ricordai cos’era successo poche ore fa, quando era tornato ubriaco. Chissà anche in quel preciso istante come si sentiva: i postumi della sbornia, il malditesta, il sonno, il fusorario.. Eppure era così felice, così naturale, ed era in grado di conquistarmi con ogni suo piccolo gesto.
-Grazie.- Dissi ad un tratto.
Lui si girò nella mia direzione, la forchetta a mezz’aria con un pezzo di pancake, sorridente. Probabilmente non gli avevo mai parlato così seria, così dal profondo nel mio cuore senza dirgli cose negative. Quelle volte che gli avevo aperto i miei sentimenti era stato per cacciarlo fuori dalla mia vita, per chiudere i nostri rapporti.. Invece in quel preciso istante lo stavo ringraziando per aver organizzato in ogni minimo dettaglio quel quattro Aprile.
-Di niente..- Disse infine. Mi rispondeva sempre nello stesso modo: sorrideva, diceva “di niente” e guardava il cibo davanti a sé, finendo finalmente di mangiare la sua parte di ‘torta’ e lasciandosi andare contro lo schienale del divano.
-Torno subito.- Mi disse sbadigliando e si alzò, tornando in camera. Lo aspettai solo qualche istante, perché lui tornò subito dopo aver fatto un po’ di rumore di là, con una bustina  in mano.
-Cos’è quello?- Domandai aguzzando la vista. Lui la poggiò accanto a me, sedendosi poi a gambe incrociate sul divano.
-Gianluca e Sara ci tenevano a fartelo avere.- Mi rispose.
Finii di mangiare il più velocemente possibile i pancakes e mi fiondai ad aprire il regalo che i miei migliori amici mi avevano fatto. Ecco cosa intendevano dicendo che i regali sarebbero arrivati a tempo debito. Maledetti!
Presi la bustina e la aprii sotto lo sguardo attento e circospetto di Emanuele. Uscì fuori una scatoletta color verde acqua legata elegantemente con un nastro dorato. Aprii senza far troppi danni il tutto e tirai fuori un bracciale di Tiffany&Co. Per poco non mi prese un colpo: mi avevano regalato davvero quel bracciale.. Io vi avevo fatto accenno mesi prima, senza darci troppo peso, sperando che fosse un regalo fatto con tutto il resto della classe, non solo da loro due.  Sorrisi rigirandomelo fra le mani, ancora totalmente incredula.
-Ti aiuto a mettertelo?- Mi domandò cortesemente Emanuele. Alzai lo sguardo ed annuii, porgendogli il bracciale ed allungando il braccio in modo che potesse sistemarlo al mio polso. –Ecco fatto!-
Ammirai e riammirai il cuore pendere al mio polso per almeno una ventina di volte, sorridendo felice ad Emanuele, avrei sorriso felice al mondo intero in quell’istante. Non m’importava che lui mi dovesse ancora delle spiegazioni, ormai sapevo che lui me le avrebbe date al momento giusto, senza le mie pressioni. Scattammo più foto insieme, le foto più stupide, quelle che si fanno nei momenti più classici di demenza, e mi ritrovai a ridere come non mai, con le lacrime agli occhi. Finimmo a rincorrerci come due deficienti di sei anni per tutta l’estensione della casa, buttandoci cuscini addosso ed infine addormentandoci sul suo letto dopo aver parlato. Parlato di cosa? Parlato di me, di lui, parlato delle nostre aspirazioni, dei momenti passati, di Federico e di Sara, di Gianluca.. Parlammo di tutto, tranne che di noi. Per la seconda volta nell’arco delle ultime dodici ore mi addormentai con un sorriso ben stampato sulle labbra ed Emanuele al mio fianco nelle mie stesse condizioni. Il mio cuore era diventato nuovamente un suo giocattolo? Non me lo domandai quella notte.. Non mi chiesi nulla di strano, nulla di complesso come avevo fatto negli ultimi tre mesi. Certo che la frase “l’unico che può curare le tue lacrime è colui che te le ha fatte versare” si rivelò incredibilmente veritiera. Mi bastava Emanuele al mio fianco per dormire in pace con me stessa e con il mondo?

 Quando tornai ad aprire gli occhi, fu a causa della sveglia che Emanuele aveva impostatato sul proprio cellulare alle dieci di mattina. Alzai leggermente la testa, per guardarmi intorno. Ero stesa sul letto faccia a faccia con Emanuele. Lui teneva il suo braccio sul mio fianco e dormiva ancora beatamente, non avendo evidentemente sentito il suono della sveglia. Sorrisi, tornando a posare la testa sul cuscino e lasciando il mio sguardo vagare lungo i dolci lineamenti del suo volto. Immerso così nei suoi sogni, sembrava la persona più innocua, più semplice dell’intero universo. Sarebbe stato bello avvicinarmi a lui ancora un po’, allungarmi un po’ e posare le mie labbra sulle sue con estrema dolcezza. Inconsapevolmente bruciai cinque centimetri che ci separavamo e così, a due centimetri dal suo viso, decisi di tornare a rilassarmi sul cuscino. Chiusi gli occhi, mentre sentivo il suo respiro infrangersi delicatamente contro la mia pelle.
-Ginni?- La sua voce roca mi fece aprire gli occhi lentamente. I nostri sguardi si incrociarono a due centimetri di distanza ed io annuii debolmente.
-Buongiorno.- Mormorai con un leggero sorriso sulle labbra.
Lui allontanò il suo braccio dal mio corpo, stiracchiandosi e mettendosi seduto sul bordo letto. I suoi capelli erano più disordinati del solito ed il suo volto, da addormentato, non perdeva il suo fascino, acquistando d’altro canto una tenerezza che non si coglieva spesso sul suo viso.
-Buongiorno, festeggiata.- Mi disse dopo essersi ripreso almeno un po’, voltandosi nella mia direzione. Io mi sedetti sull’altro lato del letto dopo avergli sorriso. Mi ero addormentata con i vestiti del viaggio e le scarpe grazie a Dio ero riuscita a togliermele in un momento di lucidità.
-Dov’è il bagno?- Gli domandai inarcando un sopracciglio mentre mi precipitavo a prendere il mio beautycase dalla valigia. Lui mugolò ed alzò il braccio, indicando fuori dalla porta.
-L’ultima porta sulla destra.- Eccoli i postumi della sbornia. Parlava e si atteggiava come un ubriaco: probabilmente quando sarei tornata dal bagno lo avrei trovato bello addormentato sul letto come se nulla fosse.
-Ti senti bene?- Chiesi mentre mi avviavo verso il corridoio. Per risposta ricevetti un mugolìo e capii che le mie previsioni non erano state affatto scorrette. Entrai nel grande bagno e chiusi la porta alle mie spalle, spogliandomi poi e mettendomi sotto la doccia. L’acqua calda mi scivolò addosso facendo diffondere il calore per tutto il mio corpo e per quei quindici minuti mi sembrò di essere immersa nel Paradiso. L’unico suono che sentivo era l’acqua che si infrangeva contro i miei capelli, la mia pelle, isolandomi da tutto il resto del mondo.
Tuttavia quegli attimi paradisiaci si conclusero bruscamente con la scoperta ch Emanuele Benassi fosse un razzo a lavarsi e a vestirsi a differenza mia. In poche parole, l’adorabile ragazzo, mi staccò l’acqua calda e mi costrinse a sbrigarmi a prepararmi. Inutili erano stati i miei tentativi di ribellarmi inventando scuse come “E’ il mio compleanno!” “sono più grande di te”, perché in un modo o nell’altro, andando davvero contro la mia natura, quindi minuti dopo ero vestita, asciugata e con i capelli sistemati.
-Ti odio.- Dissi a denti stretti, facendolo scoppiare a ridere.
-Mi amerai dopo questa giornata.- Tuttavia il mio cervello decise di non abbandonarmi almeno quel giorno e non appena udì il verbo ‘amare’ si mise velocemente in azione. L’aveva scelto appositamente quel verbo? Sapeva dei miei sentimenti? Oppure lo aveva detto senza rifletterci su? Lo guardavo di sbieco mentre scendevamo nell’ascensore, occupando le mie mani prima nell’allacciarmi il cappotto, poi a sistemarmi la sciarpa, poi a lisciarmi il camoscio di cui erano fatti i miei stivali. Sì, per i miei diciotto anni la Grazia Divina mi aveva regalato evidentemente la follia. Bellissimo regalo! Ero pazza!
-Ti voglio portare nel mio negozio preferito qui a New York.- Annunciò ad un tratto mentre camminavamo lungo la Fifth Avenue. –Ogni volta che vengo qui e non voglio stare a casa perché litigo con i miei o perché mi annoio ed ho volta di pensare ad altro, vado lì e poi me ne vado in un altro posto che ti voglio mostrare a Central Park.-
-Io quando ho voglia di starmene per i fatti miei me ne vado al Pincio (*), tu sei più complesso.- Dissi con un sorriso sulle labbra, osservandolo mentre mi parlava in quel modo sognante dei posti a lui cari.
-La mia villa a Roma mi offre abbastanza posti per isolarmi. Questo appartamento alla fine no, quindi.. Mi sono arrangiato.- Provai ad immaginarmi per un attimo Emanuele che sentiva la necessità di stare un po’ in pace, per pensare.. Sorrisi a quell’immagine mentre arrivavamo ad una via un po’ nascosta dov’era situato un negozio di musica.
Entrammo ed il nostro arrivo fu annunciato da un campanello collocato sulla porta. Mi trovai immersa in un’atmosfera decisamente accogliente e.. antica. Era un negozietto di cinque metri per sette, da un lato vintage, dall’altro rock e vendeva non solo dischi originali ma anche in vinile.
-Ciao, Emanuele!- Quello che doveva essere il proprietario del negozio venne ad accoglierci, abbracciando affettuosamente Emanuele che ricambiò con un ampio sorriso.
-John, questa è Ginevra. Oggi è il suo compleanno e vorrei che tu le trovassi qualcosa di particolare ed unico.- Inizialmente sorrisi per la presentazione, poi mi voltai con tanto di occhi verso Emanuele. Ma allora veramente gli avevano dato una botta in testa da piccolo.. Ancora che mi voleva regalare qualcosa? Dopo tutto ciò che aveva già fatto!
-Io non..- Provai a dire ma fui interrotta da John che strinse calorosamente la mia mano.
-Molto piacere! Vieni, vieni, mi è arrivato un vinile molto raro dei Ramones proprio ieri..- La mia iniziale voglia di rifiutare categoricamente ogni altro regalo da parte di Emanuele scomparve nell’istante in cui John mi mostrò la registrazione live di una performance dei Ramones che io avevo cercato molto ma a cui poi avevo rinunciato visto che ne esistevano pochissime copie. Stringendo l’oggetto fra le mani mi voltai prima a guardare Emanuele, poi John, poi il disco, poi nuovamente Emanuele.
-Lo prendiamo.- Disse soddisfatto Emanuele, allontanandosi poi con John e lasciandomi ammirare quel mio regalo di compleanno. Dopo aver rimurginato per due secondi, li raggiunsi alla cassa e diedi il vinile al proprietario affinché me lo mettesse in una busta.
-Grazie.- Dissi guardando Emanuele.
-E’ il tuo compleanno.-  Rispose lui molto semplicemente prendendo il resto da John e dandomi in mano la busta.
-Hai davvero un ottimo ragazzo! Tienitelo stretto!- Io prima sbiancai a quelle parole e poi diventai rossissima.
-Lui n..- Ma Emanuele bloccò le mie parole.
-Grazie di tutto, Jhon.- Salutò educatamente, uscendo poi insieme a me dal negozio. Non gli dissi più nulla riguardo il commento dell’anziano signore e ci incamminammo discutendo di musica diretti al Central Park.
Probabilmente ancora non realizzavo per cosa stessi sorridendo di più: per quella rarità dei Ramones o per Emanuele? Scossi la testa, ben decisa a liberarmi di quella mia razionalità per quel giorno: ero diciottenne, ero libera, ero perseguibile legalmente, anche, però questo era un dettaglio. Volevo vivere quella giornata in ogni suo istante, in ogni sua parte con un sorriso e sapevo che potevo farlo, almeno finché Emanuele ci fosse stato. Finché ci fosse stato quell’Emanuele e non l’altro che non conoscevo.
Raggiungemmo in una ventina di minuti anche il secondo punto della nostra ‘escursione’ mattiniera. Nel cuore del Central Park vi erano diversi laghi artificiali ed Emanuele mi condusse verso quello più grande.
-Questo è il The Reversoir,- Mi spiegò mentre camminavamo per un sentiero che ci stava conducendo proprio verso la riva. –venivo sempre qui la domenica mattina,- Continuò guardando un po’ me un po’ per terra. –mi sedevo sull’erba e guardavo le gare che organizzavano i bambini con le proprie barche a vela in miniatura, accompagnati dai loro genitori.- A quelle ultime parole un po’ di tristezza velò la sua voce e ci sedemmo per terra. Portai le gambe al petto e posai il mento sulle ginocchia, continuando ad ascoltarlo. –Sai perché venivo qui da bambino?- Nonostante fosse una domanda retorica io scossi debolmente la testa, continuando a seguire quel suo discorso. –Perché ogni domenica mattina io chiedevo a mio padre di accompagnarmi a giocare con gli altri bambini come facevano tutti i padri e lui mi rispondeva sempre di no, perché doveva lavorare, perché doveva andare ad Atlanta, perché doveva finire un progetto.. E mi prometteva sempre che la prossima volta, la prossima domenica, saremmo andati. Fatto sta che promessa dopo promessa sono passati dieci anni ed ora non voglio più giocare con le barchette la domenica mattina.- Concluse quel suo racconto con evidente amarezza ed io restai per un attimo spiazzata. Per quale motivo tutto d’un tratto mi aveva voluto raccontare quelle cose? Guardai l’acqua del lago venire mossa leggermente dal vento e poi guardai il suo viso cupo indirizzato verso il punto che io avevo fissato fino a qualche istante prima. Si schiarì la voce e capii che stava per continuare il suo discorso. –Amo questo posto con tutto me stesso perché qui ho sognato veramente.. La mia fantasia si immaginava come sarebbe stato con mio padre, e tante altre cose..- Quando disse quelle ultime parole si voltò verso di me e mi sorrise, con più sincerità, con più gioia.
-Questo posto è bellissimo.- Riuscii semplicemente a dire, passando un braccio intorno alle spalle di Emanuele e posando la testa sulla sua spalla, come se fosse la cosa più naturale da fare.
-Già, lo so..- Mormorò lui prima di sospirare. E fu così che trascorsi la mezz’ora più silenziosa e più intensa di tutta la mia vita. Nessuno osò dire nulla ed i miei occhi furono lasciati liberi di vagare per la superficie di quel lago e la mia mente di perdersi nei meandri della sua fantasia. Aveva ragione Benassi: quello era il posto adatto per pensare ed isolarsi. Ed io pensai a Marco ed ai suoi sentimenti, pensai a Gianluca, a Sara, pensai a me stessa e a ciò che provavo nei confronti di Emanuele. Pensai a tutto ciò che mi era successo da quel giorno di Gennaio e non potei non giungere alla conclusione che quello scambio aveva cambiato l’intero corso della mia vita e forse non l’aveva indirizzata troppo verso la negatività.

 Uscii nella terrazza del superattico indossando un vestito nero, corto, con delle decolleté nere lucide ed un cappotto nero sopra. I capelli erano lasciati cadere boccolosi sulle mie spalle ed ero leggermente truccata. Feci un leggero colpo di tosse ed Emanuele si voltò, lasciando spazio ad un’espressione di sorpresa sul proprio volto.
-Stai bene..- Lo sentii dire un po’ incerto mentre mi veniva incontro. Era forse in imbarazzo? Lui indossava dei pantaloni neri abbastanza eleganti, una camicia bianca e un maglione grigio con un ampio scollo a V, con sopra a sua volta un cappotto nero per coprirsi dal freddo.
-Come mai tutta questa eleganza?- Gli domandai accendendomi una sigaretta. Lui sorrise guardando prima l’orologio e poi me.
-Fra dieci minuti ci passa a prendere Mark ed andiamo a farci un giro per la città.- Rispose vago. Probabilmente aveva già premeditato qualcosa ed io arrossii al pensiero.
-Oggi mi stai viziando troppo.- Ridacchiai per poi aspirare il fumo della sigaretta.
-I diciotto anni vengono una volta soltanto, non avrai nulla da rimpiangere almeno.- Già, nulla da rimpiangere. Qualcosa avrei rimpianto sicuramente: nonostante fossero state infine le occasioni per baciarlo, per provare a dirgli qualcosa, io mi ero sempre tenuta bene a distanza a causa del mio adorato cervello che stava tornando a comandare il mio cuore. Voleva un perché lui e non si fidava come me del fatto che Emanuele me lo avrebbe dato di sua spontanea volontà.
Alle otto spaccate uscimmo dal palazzo, accomodandoci nella nerissima Mercedes che ci aspettava. Faceva un po’ più freddo del solito, quella sera, o forse era semplicemente l’emozione a farmi rabbrividire continuamente.
-Dove andiamo?- Domandò Mark, voltandosi.
-All’Empire State Building.- Rispose prontamente Emanuele, guardandomi poi con un ampio sorriso.
-Ma è chiuso! Ho visto stamattina gli orari! Il sabato sera non ci si può salire! (*)- Dissi guardandolo. Ma lui in tutta risposta mi fece cenno con la mano di aspettare.
-Preferisci andare a cena?- Mi domandò ad un tratto. Io lasciai un’espressione di disgusto impadronirsi dei miei lineamenti: alle sei ci eravamo abbuffati di hot dog e nachos in un ristorante vicino casa ed ancora me lo sentivo sullo stomaco. –Immaginavo.-
-Tanto l’Empire è chiuso.- Borbottai convinta incrociando le braccia sotto il seno.
-Quanto rompi!- Disse lui ridendo.
Ebbene sì, nuovamente Emanuele Benassi aveva avuto ragione.
Ci fermammo proprio davanti l’imponente palazzo dell’Empire State Building e dopo essere scesi degli uomini vestiti alquanto elegantemente accolsero affettuosamente Emanuele all’interno dell’edificio, accompagnandoci all’ascensore. Sì, il dettaglio che il padre di Benassi conoscesse metà New York probabilmente mi era sfuggito.
-Brava signorina-so-tutto-io..- Mi canzonò Emanuele mentre salivamo a gran velocità. Gli feci la linguaccia, decidendomi poi a non tornare più sull’argomento per evitare ulteriori prese in giro.
Quando arrivammo in cima ed uscii all’aperto trovando New York completamente ai miei piedi, per poco non dissi addio alla mia mandibola. Mi affrettai ad affacciarmi e guardai meravigliata Emanuele che immortalò prontamente la mia espressione da ebete con la sua macchinetta fotografica. Dopo che lo ebbi insultato per un paio di secondi, lui si avvicinò a me e mi sorrise.
-Ti piace?- Domandò con un largo sorriso. Io annuii e lui guardò giù, beandosi a sua volta per qualche istante di quel panorama che probabilmente non era la prima volta che si mostrava ai suoi occhi.
-Come hai fatto a farci fare questa visita privata?- Domandai poi mentre facevamo il giro a trecentosessanta gradi per quell’Osservatorio della città.
-Contatti di mio padre.- Rispose scrollando le spalle. Avevo indovinato allora.. Ma quanto era potente il padre di Emanuele allora? Aggrottai le sopracciglia scacciando quel pensiero dalla mia mente, tornando a concentrarmi al presente: a me, Emanuele, la foto che continuava a scattarmi. Mi sentivo un po’ una diva a stare lì, vestita così elegantemente, solo con lui su quella torre, senza nessun altro. Mi avvicinai a lui e guardandolo negli occhi gli sorrisi. Lui mi guardò un po’ incerto, un po’ stupefatto.
-E’ il miglior compleanno di tutti.- Dissi, per poi ridere e fare un giro su me stessa.. Lui rise, seguendomi con lo sguardo e disse qualcosa che non riuscii a capire, ma che sembrò un “è la giornata più bella di tutte”.

 Erano le dieci di sera quando Mark si fermò. Ancora non realizzavo cose stesse succedendo visto che Emanuele si era assicurato che dalla benda che mi aveva legato intorno gli occhi non riuscissi a vedere nulla.
Mi ero così limitata nel corso di tutto il tragitto dallo State Empire Building a porre insistentemente domande ad Emanuele su dove fossimo, quale fosse la nostra destinazione, ma la sua risposta era stata una molto semplice e diretta minaccia di ritrovarmi anche con una benda sulla bocca, per non parlare più.
La portiera si aprì ed Emanuele prese la mia mano, guidandomi fuori dall’auto, aiutandomi a scendere. Lo seguii, affidandomi ciecamente alla guida della sua mano, che mi conduceva con delicatezza per quei posti sconosciuti, che non potevo né immaginare, né prevedere.
-E’ un ascensore questo?- Gli domandai, mentre sentivo delle porte aprirsi e la spinta di Emanuele che mi invitava ad andare in quella direzione.
-Forse.- Rispose ridacchiando. Quanto lo odiavo quando faceva così.. Riusciva sempre a mantenersi così serio nel proprio gioco, non faceva una piega, non si lasciava mai tradire da una parola uscita involontaria dalle sue labbra.
Presto sentii il caldo abbandonarmi, accogliendo un gelo incredibile. Un vento fortissimo mi colpiva, scompigliandomi i capelli e facendomi congelare dalle punte dei piedi. Mi strinsi più forte ad Emanuele che invece, simpaticissimo com’era, si allontanò, posizionandosi dietro la mia schiena.
-Pronta?- Domandò al mio orecchio. Dopo essermi ripresa dai brividi che mi percorsero a causa della sua immensa vicinanza, annuii estremamente curiosa.
Lo sentii sciogliere il nodo dietro la mia testa e poi la benda cadde fra le mie mani, mentre io aprivo gli occhi, restando imbambolata davanti a ciò che mi si presentava davanti.
Un elicottero di modeste dimensioni ci stava aspettando, già avviato, in una delle più classiche scene da film, film che stavo vivendo in quei momenti in prima persona. Ero sulla cima di un grattacielo e New York mi stava aspettando per essere esplorata anche in quella maniera nuova, totalmente sconosciuta per me.
Senza dire nulla mi voltai verso Emanuele, raggiante, che rispose entusiasta a quel mio sorriso, posando poi una mano sulla mia schiena. Incominciammo a camminare nella direzione dell’elicottero: Emanuele salì per primo, tendendomi poi una mano per riuscire a salire; gliene fui grata, visto che i tacchi che avevo indossato non mi permettavano un grande equilibrio. Mi sedetti accanto al finestrino e nel frattempo il pilota ci fece sistemare le cinture ed ogni cosa per partire, tornando poi davanti. Stavamo per partire.
-Hai un po’ di paura?- Mi domandò Emanuele con un ampio sorriso. Io annuii, deglutendo. Già avevo paura dell’aereo, figuriamoci di un elicottero. –E’ normale, anche io ne avevo la prima volta.- Gli sorrisi debolmente, mentre quel veicolo cominciava ad emettere suoni ben più forti. –Prendi la mia mano.- Mi voltai verso di lui, aggrottando leggermente la fronte, e lui non attese un mio movimento. Prese la mia mano, intrecciando con decisione le sue dita con le mie. Gli sorrisi debolmente, chiudendo poi per un istante gli occhi.
L’elicottero decollò e prese velocità rapidamente, e New York si mostrò sotto i miei occhi. Fu uno di quegli spettacoli di cui avevo tanto sentito parlare con entusiasmo, quelle immagini che si sognano, si provano ad immaginare, ma che non si capiscono finché non si vivono in prima persona.
New York di notte, illuminata da migliaia di luci immortali di tutti i colori, appariva più splendida che mai, più splendida di quanto io me la fossi ma potuta immaginare. L’elicottero sorvolava sul fiume Hudson e alla mia sinistra la città appariva in tutta la sua maestosità. La presa di Emanuele sulla mia mano era ferma, ancora, anche se la paura aveva fatto spazio nel mio cuore all’entusiasmo, alla felicità.. Quella vera.
Mentre tornavamo a sorvolare la città, Emanuele mi indicava prima la Statua della Libertà, poi l’Empire State Building, poi il Central Park, la Fifth Avenue, Times Square.. I miei occhi si perdevano in quella miriade di immagini, increduli della fortuna che avessero avuto. Increduli come lo ero io: ero su quell’elicottero grazie ad Emanuele, ero a New York grazie ad Emanuele, e stavo festeggiando il compleanno più importanti di tutti in un modo che non mi sarei mai neanche immaginata che potesse essere possibile.
Istintivamente strinsi di più la mano di Benassi e restai qualche istante a constatare quanto fosse calda, dolce, gentile quasi.. E soprattutto a realizzare che mai avrei più potuto provare delle emozioni del genere trovandomi su un maledetto elicottero che mi stava facendo New York.
Mi voltai verso Emanuele, che ricambiò quel mio sguardo, e gli sorrisi con tutta la dolcezza che avevo, mettendo in quel sorriso tutto ciò che provavo nei suoi confronti, tutto l’amore, tutta la gratitudine.
Non riuscii a pensare per un solo istante che lui avesse giocato con i miei sentimenti, che fosse stato uno stronzo.. Perché il ragazzo con cui ero stata quelle ultime ventiquattro ore corrispondeva perfettamente all’idea che mi ero fatta di lui le prime volte che ci avevo parlato.

Qualcuno dice che in America se non si è ventunenni non si può bere.
Qualcuno dice che se si vuole bere in America bisogna avere documenti falsi.
Nah, molto più semplice.
Se ti vuoi ubriacare a New York e sei una neo-diciottenne, basta che vai in un locale con Emanuele Benassi.
Dopo l’Empire State Building, il volo sull’elecottero, la benda sugli occhi e tutte le soprese che Emanuele mi aveva riservato per quella serata, decidemmo molto saggiamente di festeggiare il mio compleanno anche in un modo più adulto, disse lui e alcolico, precisai io.
Raggiungemmo il Bellavita(*), un prestigioso locale situato proprio accanto a Times Square e ci sedemmo ad un tavolino, ben decisi a violare decisamente le regole americane. Francamente non ci credevo più di tanto che ci avrebbero servito da bere senza neanche chiederci uno straccio di documento ma mi dovetti ricredere, tanto per cambiare in quella serata, quando Emanuele andò a salutare di persona il proprietario del locale ed io fui ovviamente accolta come la nuova girlfriend del signorino.
-Potresti finire in carcere per ciò che stai facendo.- Disse ridacchiando Emanuele, mentre sfogliavamo attentamente il menù in cerca di qualcosa di decisamente alcolico.
-Ma smettila..- Fu la mia risposta che arrivò più che tempestivamente. Ero ancora in grado di intendere e di volere.
In conclusione ordinammo due martini a cui ne seguirono altri due, dello champagne, altri Martini, altro champagne e quando la testa cominciava già a girare, decidemmo di passare al Cosmopolitan, alla Tequila, al Sex on The Beach e tutto ciò che più alcolico si poteva desiderare.
Un bicchiere.
Due bicchieri.
-Dovremmo regolarci..- Disse ad un tratto Emanuele, o almeno credo, ma prendemmo la saggia decisione di bere un altro bicchiere d’acqua e tornarcene a casa.
Sfortunatamente i bicchieri d’acqua, per come li intendevamo noi, erano shottini di vodka che si duplicavano. Solamente quando la mia testa cominciò a girare con molta decisione, riuscimmo ad alzarci dal tavolo ed andarcene.
Camminavo accanto ad Emanuele con la testa che girava in maniera incontrollabile e mi poggiavo alla sua spalla per riuscire a mantenermi in equilibrio sui tacchi. Eppure, nonostante la pesantezza di quella sbornia, ridevamo, continuavamo a ridere come due matti per ogni piccola cosa che ci accadeva, per ogni parola, gesto..
Salimmo nella macchina giusta solamente grazie a Mark che ci pescò mentre andavamo da tutt’altra parte e ci riportò al nostro posto.
Pochi minuti dopo ed eravamo già a casa.
Non mi rendevo conto assolutamente di nulla di ciò che mi stava accadendo intorno: avevo solamente l’impellente bisogno di sentire Emanuele affianco a me, perché sapevo che finché ci sarebbe stato lui al mio fianco non mi sarebbe successo nulla.
-Ginni, aspettami su in terrazza.- Mi disse Emanuele dopo che ci fummo tolti i cappotti ed io le scarpe.
-Vieni con me..- Mormorai implorante prendendolo per mano e tirandolo verso di me. I nostri visi si trovarono a tre centimetri di distanza e lui sorrise.
-Credimi che sarai felice quando salirò.- Non riuscivo a capire se lui fosse più sobrio di me o no, anche se ne dubitavo fortemente vista la quantità di alcol che avevamo bevuto in quel maledetto locale.
Salii così le scale, rischiando più volte di rompermi l’osso del collo visto che non mi reggevo praticamente in piedi e quando arrivai in terrazza l’aria fredda mi fece per un attimo riprendere un minimo di lucidità. Mi sedetti su una delle sedie di legno che c’erano ed aspettai Emanuele.
La mia lucidità  era in realtà solamente quella piccola e breve fase che precede la sbornia di cui non ti ricordi nulla. Certo, sapevo regolarmi solitamente, ma quella sera in compagnia di Emanuele qualcosa stava decisamente sfuggendo al nostro controllo.
Stavano sfuggendo al nostro controllo i nostri gesti: più volte la distanza di sicurezza fra me ed Emanuele si era annullata e ci eravavamo ritrovati quasi sul punto di superare quella linea dell’ “amicizia”, se così si poteva chiamare il nostro rapporto.
Una canzone a me ben conosciuta cominciò a suonare ad alto volume per tutta la terrazza.
Inizialmente mi domandai se non fosse uno scherzo portato dall’alcol ma poi, quando vidi comparire Emanuele da dentro casa con una bottiglia di vodka in mano, capii che l’aveva accesa lui.
-Da dove hai presto quella?- Domandai indicando la bottiglia, avvicinandomi a lui.
-L’abbiamo presa prima al locale, non ricordi?- Scossi la testa.
Avevamo davvero preso una bottiglia di vodka al locale?
Mi dimenticai ben velocemente di quel nuovo quesito visto che il mio cervello si spense non appena decisi di bere un goccio di vodka liscia. Mi lasciai completamente andare al ritmo della musica e cominciai a ballare.
Da sola?
Con Emanuele?
Con la bottiglia?
Probabilmente la risposta era sì per ognuna delle ipotesi, visto che degli unici ricordi che mi restarono di quella serata conservavo quello delle mie braccia intorno al collo di Emanuele. Emanuele che mi guardava sorridendo e bevendo un po’ di vodka. Io che bevevo dalla bottiglia e la trattavo come se fosse mia figlia.
-Ginni, smettila di bere.- Mi disse ad un tratto Emanuele, togliendomi la bottiglia dalle mani. Io mi imbrociai e mi accorsi che già un quarto se ne era andato.
-Non è giusto.- Brontolai. –Ho diciotto anni, su!- Dissi cercando di riprendermela. Emanuele mi guardò seriamente e mi fece sedere, mettendosi poi seduto davanti a me.
-Puoi bere solo se facciamo una cosa.- Io spalancai gli occhi.
-Maiale!- Urlai dandogli uno schiaffo. Emanuele scoppiò a ridere.
-Ma se non ti ho detto neanche cosa.- Ricordo che mi calmai a quelle parole.
-Cosa allora?- Chiesi curiosa.
-Facciamo il gioco della verità. Se vuoi bere, devi rispondere sinceramente alla domanda che ti faccio. E dopo che bevi, tocca a te farmela e così via.- Spiegò lui. Io accettai ovviamente, non sapendo incontro a cosa mi stessi spingendo.
-Sei mai stata innamorata?- Mi domandò lui, tenendo la bottiglia a mezz’aria.
-Sì.- Risposi prontamente. –Federico Grandi.- Gli dissi anche il nome, anche se non me l’aveva chiesto. Riuscii miracolosamente a trattenermi dal dirgli che fossi anche innamorata di lui. Mi passò la bottiglia ed io mandai giù un sorso: ormai scendeva giù come se fosse acqua.
-Sei mai stato innamorato?- Gli domandai.
-Sì, di Michela De Paolis.- Non la conoscevo. Mi strinsi nelle spalle e gli ripassai la bottiglia. Avevo uno strano istinto assassino nei confronti di quella Michela De Paolis. Beata lei. Pensai, o forse lo dissi. Lui prese la bottiglia e se la portò alle labbra.
-Sei vergine?-
-Che cazzo te ne frega?- Ribattei velocemente. Lui ridacchiò, stringendosi nelle spalle.
-Stai al gioco o non vuoi bere?- Io ridussi gli occhi a due fessure.
-No.- Risposi secca mentre le immagini della mia prima volta affioravano. Federico che mi stringeva a sé, mi baciava, mi diceva che mi amava più della sua stessa vita. Quei ricordi mi fecero rabbrividire mentre bevevo un altro po’ di vodka. –E tu?-
-No.- Ovviamente non avevo nutrito il benché minimo dubbio sulla sua risposta.
Ogni domanda era un sorso di vodka.
Ogni sorso di vodka era un passo lontano dalla lucidità.
Ogni passo lontano dalla lucidità era un passo lontano dalla memoria.
L’ultima domanda che ricordo fu “Sei innamorata?”, ma non so cosa gli risposi.

 

 

 


**Autrice**
Allora! Ecco il compleanno di Ginevra ed ecco un Emanuele che apre finalmente un po’ il suo cuore! Vi anticipo che il prossimo capitolo sarà scritto dal punto di vista proprio di Emanuele ed avrete le risposte a tutte le vostre domande.
So che mi odierete per come ho fatto concludere il capitolo visto che l’ho interrotto proprio sul punto più bello, però dai..almeno vi incuriorisco un pochettino, no?!
Tutti i posti descritti nel capitolo riferiti a New York escluso il lago, l’Empire State Building ed il volo in elicottero, sono inventati da me!
Che dite, vi è piaciuto? Io non ne sono esageratamente convinta ma spero che vi piaccia ugualmente! La sbornia l’avevo premeditata da mesi.. E mi sono divertita da impazzire a scrivere provando a sentirmi nei panni di un’ubriaca che non ricorda assolutamente nulla e che le cose che ricorda le ricorda tutte confuse, incastrate.

Ora passiamo ai ringraziamenti che questa volta sono numerosi.. Sono felicissima quando ricevo tante recensioni per un capitolo, mi sento appagata!

__Yuki__:  Una nuova lettrice, che bello! Meno male allora che non è stata banale come cosa..Ed io che mi preoccupavo tanto. Pensa che non ho proprio pensato al fatto che anche Emanuele potesse vincere! Grazie infinite per i complimenti, spero continuerai a seguire la storia!DarkViolet92: Grazie infinite!

Elienne: Ahahahah credimi, ho riso come pochi a scrivere la parte dell'aereo. Spero che ti piaccia questo capitolo!
sonietta: Anche tu sei nuova! Dai che più o meno ci avevi preso..ma per le spiegazioni dovrai ancora attendere il prossimo capitolo! Spero che questo ti sia piaciuto!
cloddy94: Quante nuove persone che commentano..quanto sono felice! Che dire, cara, grazie mille per ogni singolo complimento. Posto molto regolarmente perché al momento sto in Russia dai miei nonni e mi annoio a morte e di conseguenza ho tanto tempo per scrivere, scrivere, scrivere..e poi non mi so trattenere non postando qualche giorno il capitolo quando so già che è pronto! Spero che questo capitolo non abbia deluto le tue aspettative! Un bacio!

Betty O_o: E di che? Avevo il capitolo pronto e mi sono detta: perché temporeggiare? Ebbene il nostro Emanuele ha una vena romantica, suvvia..soprattutto in questo capitolo e Ginevra dopo due mesi di silenzio si sta finalmente sciogliendo. Io mi sarei sciolta subito onestamente xD Fai buon viaggio! Un bacio
alletta: Un'altra novità fra le mie commentatrici! Quanto sono felice che ti abbia appassionata la mia storia! :) Grazie mille per tutti i commenti spero di leggere altre tue recensioni più avanti.
Ombrosa: Un capitolo di sorprese, eh? Non sei la prima che mi dice che pensava che Emanuele avrebbe vinto il concorso..e pensare che io non l'ho neanche sfiorata come idea! Questa New York capitolo dopo capitolo ci svelerà sempre più Emanuele, quello "vero" come lo chiama Ginni.. Non quello che lei detesta. Non perderti il prossimo capitolo che sarà scritto interamente dal punto di vista di Emanuele e vedrai quante cose usciranno a galla (compreso il fatto che lui abbia bevuto per non pensare a quello che Ginni aveva detto a Marco)! Un bacione e grazie come sempre per la tua recensione. Un bacio!
vero15star: Ahahaha.Si, secondo me quel ragazzo per quattro mesi ha avuto tutto nella testa tranne il cervello ma ora perlomeno si sta dando da fare per rimediare! Io al posto di Ginni ci sarei arrivata a piedi a New York piuttosto che salire in macchina con Emanuele! Per quanto riguarda Marco non temere! Il povero piccino innamorato tornerà! xD Un bacione e grazie infinite per seguirmi sempre!
swettlove: Oddio quanti complimenti..sono felicissima che ti sia piaciuta l'idea con la quale li ho spediti entrambi a New York! Per quanto riguarda la frase..io la amo, mi fa pensare a tanti momenti belli belli belli.. e poi immaginarmi Emanuele che la diceva, beh, ha tutto un suo effetto, no? Un bacione.


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Capitolo 10
*** Un Giorno (Non) Come Gli Altri ***


Through it all, I made my mistakes
I stumble and fall, but I mean these words
I want you to know
With everything I won't let this go,

 these words are my heart and soul
I'll hold on to this moment you know,

 'cause I'll bleed my heart out to show
That I won't let go

With Me – Sum 41

 

 

 

Capitolo Decimo: Un giorno (non) come gli altri.

 Emanuele Benassi non era mai stato sinonimo di passeggiate alle dieci di mattina.
Eppure quella mattina quando mi svegliai con la testa ancora pesante per la sbornia e le palpebre che non ne volevano sapere di stare alzate, mi feci una doccia velocemente ed uscii, ben deciso a schiarirmi le idee, a capire qualcosa di tutto ciò che mi era successo ultimamente.
Da quella mattina di gennaio la mia vita era cambiata decisamente con l’ingresso di Ginevra Sforza nella mia quotidianità. In un modo o nell’altro aveva conquistato la mia testa ed il mio cuore e mentre camminavo le immagini di quei tre mesi si presentavano una dopo l’altra nella mia mente.
Era un modo particolare quello in cui avevo conosciuto Ginevra, effettivamente.
Quel giorno ero arrivato a scuola un po’ prima del mio solito e siccome mia madre e mio padre erano partiti per andare a trovare i miei zii ad Ancona, avevo deciso di fare colazione al confusionario baretto della mia scuola. Non lo frequentavo quasi mai visto che odiavo il rumore di prima mattina e quando vi entrai per poco non mi prese un colpo. Ragazzi e ragazze mai visti erano affollati a chiaccherare, a pagare alla cassa.. e spingevano, ridevano, cantavano: uno zoo. Dopo aver pagato il mio cappuccino mi avvicinai al bancone e la vidi per la primi volta: Ginni era al bancone e stava bevendo il caffé e mangiando un moretto, guardandosi distrattamente intorno. Mi fermai accanto a lei e diedi lo scontrino alla barista. Lei tornò dopo pochissimi istanti con un largo sorriso sulle labbra ed il mio cappuccino fra le mani. Quella mattina ne avevo di cose da fare: avevo il compito di matematica in terza ora e di conseguenza io e Federico avevamo deciso molto saggiamente di non andare a scuola, per farci un giro in centro: tanto mio padre era convinto che avessi una partita di pallavolo e, a dircela tutta, non gliene importava più di tanto.
Alzai lo sguardo dal cappuccino e mi guardai intorno, incrociando quello di Ginevra che stava al mio lato. Lei per un attimo spalancò gli occhi e poi tornò a concentrarsi sul suo caffé: beccata. Non la conoscevo ma non mi posi minimamente la domanda sul perché mi stesse fissando.. ormai non mi interessava più. Decine su decine di ragazzine urlanti si affollavano durante la ricreazione casualmente davanti la mia classe per guardarmi ed una in più o una in meno che mi faceva il filo ormai non mi faceva nessuna differenza.
Ginevra finì la sua colazione e se ne andò velocemente dopo aver salutato la barista. Io mi limitai a finire di bere il mio cappuccino ed uscii a cercare Federico.
-Guarda quant’è figa!- Sì, lo avevo decisamente trovato. Mi girai e lo vidi tutto adorante guardare nella direzione di una ragazza dai lunghi capelli biondi che correva il più velocemente possibile: Sara Rossetti, l’amore della sua vita.
-Sì, invece di imbambolarti muoviti che qui passano un sacco di professoresse.- Lo tirai via a forza dalla visione celestiale della sua Lei e ridacchiando ci avviammo verso la fermata dell’autobus.
Molto francamente non mi ero mai interessato attivamente di far sbocciare l’amore fra Federico e Sara.. Non si erano nemmeno mai parlati e,soprattutto, non avevo la minima voglia di fare da Cupido. Me ne fregavo altamente dei discorsi amoreggianti di lui, anche se non era un comportamento esattamente degno del migliore amico di sempre.. Ma ero fatto così e Federico mi accettava anche in quel modo.
-Com’è andata a finire allora la storia con i tuoi zii?- Domandò Federico mentre ci sedevamo sul primo autobus che portava alla metro. Sospirai pesantemente, sistemandomi la borsa dell’Eastpack sulle ginocchia.
-A quanto pare mio padre e lo zio Giorgio hanno litigato davvero per bene questa volta.- Dissi, cercando di parlare con la maggiore noncuranza possibile. –Sembravano moglie e marito che urlavano chi avrebbe usato a giugno e chi a luglio la casa a Porto Cervo..- Mi strinsi nelle spalle.
-E tutto ciò perché sei riuscito a farti anche la tua stessa cugina!- Federico mi diede una pacca sulla spalla, sorridendo. Risposi a quella pacca con un leggero pugnetto mentre scendevamo dal 778, scendendo lungo gli scalini che portavano alla metro, di fronte a cui vi era la parte meno frequentata del “Laghetto dell’EUR”.
-Almeno io sono riuscita a farmela.- Sentenziai infine, ridacchiando, mentre ci sedevamo sull’erba e distendevamo le gambe. –Sei venuto con me in Calabria per anni, provandoci, ma lei non c’è mai stata..-
-Ha un debole per i troll, evidentemente.- Scoppiammo entrambi a ridere per un po’, finché Federico non riuscì a riprendere il controllo di sé, calmandosi. –Parlando di cose serie.. fumiamo?- Domandò, indicando eloquentemente con lo sguardo la borsa. Io annuii, cominciando ad aprire la mia borsa. Guardai dentro sempre con un sorrisetto sulle labbra e quest’ultimo si spense immediatamente. –Allora?- Chiese Federico più insistentemente. Io scossi la testa, alzando lo sguardo.
-Non è la mia borsa!- Balbettai. Federico scoppiò a ridere, dandomi una leggera bottarella. Io deglutii. –Federico, non è la mia borsa questa! Guarda!-
Cominciai a tirare fuori tutti i libri, velocemente, uno dopo l’altro e li fissavo stupefatto.
-C’erano quaranta euro d’erba lì dentro!- Federico parve finalmente realizzare mentre sfogliava furiosamente i libri ed i quaderni che io estraevo. –Prendi il libretto!- Mi strappò praticamente la borsa dalle mani e dieci secondi dopo sventolava il libretto davanti al mio naso. Lo afferrai e guardai la foto ed i dati personali.
-Ginevra Sforza,- Cominciai a leggere, mentre Federico guardava i quaderni con gli occhi ancora fuori dalle orbite. –nata il quattro aprile del novantuno.. frequenta il II E, conosciamo qualcuno in II E?- Federico parve illuminarsi.
-Sara..- Disse con aria sognante, prendendo il libretto e guardando la foto. -E’ la migliore amica! E’ la rappresentante d’istituto.. Non l’hai mai vista?- Io scossi la testa, guardando la foto attentamente. –Anche lei è una gran figa. Sono una coppia di fighe.- Diedi una botta in testa a Federico.
-La smetti di fare il pervertito!- Sbottai, poggiando il libretto indietro nella borsa.
-Parla quello che si scopa la cugina!- Lanciai un’occhiataccia a Federico e questo guardò altrove. Per passare il tempo allora presi un quaderno di Ginevra. Era nero, con le pagine verdi: particolare la ragazza. Lo aprii e per poco che non persi la mandibola: versi su versi del Purgatorio dantesco parafrasati con ordine e diligenza.
-Ce l’ha un diario questa?- Domandai mentre Federico fissava con la mia stessa espressione un altro quaderno della sconosciuta.
-Ma hai visto quant’è ordinata, fa paura!- Mi sventolò davanti al naso un altro quaderno. –Comunque sì, tieni.- Posai il quaderno di italiano per terra e presi il diario.
-Guarda questo qui.. C’è il Purgatorio trascritto e commentato.- Gli dissi mentre cominciavo a sfogliare il diario: una smemoranda interamente nera. Ogni pagina che giravo incontravo una frase di una canzone sempre differente dei gruppi più svariati: Led Zeppelin, Guns and Roses, Nirvana, Ramones, Sex Pistols, Simple Plan, Negramaro, Negramaro, Negrita.. –Fede, mi passi i post-it?- Domandai alzando lo sguardo da quelle pagine. Federico era fissato con i post-it e se ne portava sempre un bel mazzetto con sé. Lui annuì, cercando nel proprio zaino per poi passarmeli. Dopo aver rimediato anche una penna decisi di lasciare un segno del mio passaggio a quella famosissima ma per me sconosciutissima Ginevra Sforza.
Ginevra Sforza.
Ginni.

L’avevo lasciata sul letto che dormiva ancora profondamente, un braccio sotto il cuscino e l’altro lasciato cadere morbidamente lungo il suo fianco. Si era addormentata così la sera precedente quando l’avevo portata in camera ubriaca, si era lamentata come sempre dimendandosi con forza dalla mia presa ma appena l’avevo coperta con il piumone era crollata in un sonno profondo.
Dimenandosi era riuscita a dirmene di tutti i colori, che ero uno stronzo, che l’avevo usata per poi metterla a letto come una bambina, che me l’avrebbe fatta pagare.. Ma non capiva che fatica era stata per me staccarmi dalle sue labbra, dai suoi baci, dal suo corpo e riportarla a letto.
Era cominciato tutto per festeggiare i suoi diciotto anni: eravamo andati al Bellavita, avevamo bevuto un bel po’, ci eravamo fatti regalare una bottiglia dal proprietario e ce ne eravamo tornati a casa. Saliti in terrazza avevamo acceso la musica ed avevamo dato via a quel gioco che avevo ideato teoricamente per farla bere di meno, visto che il ricordo di Sara, dell’ospedale era piuttosto fresco e vederla finire nella stessa situazione non era il mio desiderio più forte. Un sorso, un altro e le domande erano diventate più a bruciapelo, più intime.
-Sei vergine?- Le domandai ridacchiando, tenendo la bottiglia in alto in modo che lei cercasse di allungare le sue braccia per prenderla, senza però riuscirci.
-Che cazzo te ne frega?- Mi rispose subitò, riservandomi quello sguardo assassino che non fece altro che aumentare le mie risate.
-Stai al gioco o non vuoi bere?- La tentai, facendo oscillare davanti al suo naso la bottiglia. Lei si arrese, sospirando.
-No.- Rispose secca e mi rubò la bottiglia dalle mani con avidità, perdendosi mentre beveva nei suoi pensieri. –E tu?-
-No.- Le risposi tranquillamente. La mia prima volta non me la ricordavo.. Le uniche cose di cui ero certo erano che era accaduto tutto in spiaggia a Sabaudia durante il ferragosto di tre anni prima con una ragazza più grande di me. La classica storiella che racconterebbe il figo di turno agli amici ma di cui io non avevo nulla di cui vantarmi, visto che infondo, certi ricordi sono preziosi e si vorrebbero avere.
Scossi la testa mentre portavo la bottiglia alle mie labbra senza bere però. Se avessi continuato la mia memoria si sarebbe azzerata ed infondo erano molte le immagini di quella sbornia che mi volevo conservare.
Ginni che ballava a piedi nudi, con le braccia alte verso il cielo, i lunghi capelli rossi che oscillavano da una parte all’altra e quel suo sorriso. Quel sorriso così sincero, così ampio, così vero.. Quel sorriso che illuminava, contagiava chiunque e di cui io ero totalmente dipendente dalla prima volta che me ne aveva rivolto uno.
Poi c’era Ginni che ballava con me, tenendo le braccia incrociate dietro il mio collo, guardandomi con i suoi occhi azzurrissimi leggermente arrossati da tutte le ore che eravamo svegli e dall’alcol.
-Ti sei divertita oggi?- Le domandai infine curiosamente.
-Sì.- Rispose ed il mio cuore parve fare un salto di gioia. Ci tenevo davvero così tanto a farla felice?
-E tu?- Mi domandò prontamente lei, bevendo la vodka.
-Sì..- Mormorai, ormai disperso nei ricordi, nei pensieri, anche se offuscati e confusi dall’alcol. Sì, ero stato benissimo con lei, ero stato con lei così come avevo desiderato starci da tempo.
-Ginni,- Incominciai, passando la bottiglia da una mano all’altra, guardando un po’ questa ed un po’ la ragazza seduta davanti a lei. –Sei innamorata?- Le domandai guardandola dritta negli occhi. Lei per un attimo parve confusa, stupita, imbarazzata da quella mia domanda, ma poi si sciolse in un dolce sorriso.
-Sì- Mi rispose tranquilla, affrontando coraggiosamente il mio sguardo. Il mio cuore parve fermarsi un istante per poi riprendere a battere furiosamente. Era innamorata? Di chi? Di me ? Riusciva ancora ad essere innamorata di me dopo tutto ciò che era successo da febbraio?
-E tu sei innamorato, Emanuele?- Alzai lo sguardo ed incrociai il suo che mi fissava insistentemente: voleva delle risposte, Ginevra, voleva i suoi perché lei.
-Sì.- Risposi infine, sospirando.
Era stato così difficile dire quell’unica, brevissima parola, ma ora il mio cuore era lì che saltava di gioia mentre io ero come paralizzato, incollato alla sedia. Ero innamorato davvero? Ero innamorato di lei? O era solamente l’effetto dell’alcol?
Impossibile saperlo, almeno finché sarei stato in quelle condizioni, ma l’unica cosa di cui ero certo era che più volte, negli ultimi due mesi, dopo che lei mi aveva dato il suo ultimatum, avevo pensato a lei, alla possibilità di noi due insieme.
Presi la bottiglia che lei mi porgeva e la posai sul tavolo accanto a noi, scuotendo la testa. Non volevo più giocare a quel gioco. Lei fece per riprendersela ma istintivamente posai la mia mano sulla sua e la fermai così a mezz’aria. Ginni mi guardò perplessa: forse ancora rimurginando sulle mie parole, forse ormai troppo ubriaca per ragionare come una persona normale.
Mi alzai e la tirai verso di me, lasciando che il suo corpo aderisse perfettamente contro il mio, godendo dei brividi che mi percorsero completamente al contatto con lei. La guardai un’ultima volta negli occhi prima di poggiare le mie labbra sulle sue. Erano morbide, accaldate, e sapevano incredibilmente di vodka. Una mia mano scivolò fra i suoi capelli, scendendo poi sulla sua nuca e stringendola con forza a me in quel bacio.
Inizialmente la sentii stupita sotto i miei tocchi, poi entrambi ci dimenticammo di cosa stessimo facendo, dove fossimo, e quel bacio si approfondì velocemente. Mi lasciai rubare dal suo profumo, dalle sue mani delicate che carezzavano prima il mio viso, poi la mia schiena, che mi tenevano stretto a lei. Ma non ce n’era bisogno che mi stringesse per non lasciarmi andare via, non me ne sarei mai andato. Le mie mani scesero lungo la sua schiena, carezzandola intensamente, mentre le nostre labbra si staccavano ed io scendevo lungo il suo collo in una calda scia di baci.
-Ho freddo..- Mormorò lei contro le mie labbra quando tornai a posarle sulla sua bocca. Io mi allontanai da lei e la guardai un attimo, chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta: ero ubriaco, lei era ubriaca. Ma gli istinti del proprio corpo sono duri da tenere a freno. Così la condussi per mano nel superattico, e scivolai insieme a lei sul divano che era situato lì.
-Va meglio?- Le domandai mentre lei si stendeva su di me, facendo fare un balzo al mio stomaco. Lei si limitò ad annuire, tornando a baciarmi. Ed io risposi a quel bacio lasciando che le nostre lingue si intrecciassero in quel gioco, in quella danza che stavano conoscendo, scoprendo. Le mie mani esplorarono il suo corpo prima con indecisione, lentezza e poi con più intensità, con più desiderio. Scoprii che il suo collo era un’attrazione formidabile per me alla quale non riuscivo più a resistere e che ogni volta che la baciavo avevo voglia di farlo ancora, ancora, senza fermarmi mai.
I baci che seguirono fecero alzare mano a mano la temperatura in quella stanza. Le mie mani avevano abbassato le spalline del suo vestito, lasciando intravedere la pelle nuda del suo petto ed il reggiseno nero, mentre lei si era impadronita dei bottoni della mia camicia. Scendeva lenta su quei bottoni, mentre io non riuscivo a privarmi di un suo solo sospiro, di un suo solo bacio, e solo quando ormai giunse al quinto e la mia pelle arse al contatto con quella del suo petto, ebbi non so quale forza di allontanarla da me.
-Stiamo esagerando.- Dissi serio, cercando di non guardare quei suoi dannati occhi che avrebbero piegato ai suoi piedi chiunque. Lei aggrottò le sopracciglia, provando ad avvicinarsi nuovamente, ma io la riuscii a tenere lontano, alzandomi poi velocemente con lei dal divano. –Hai bevuto troppo, Ginni, ti porto a letto.- Lei mugolò, posando le sue mani sulle mie spalle, per reggersi in piedi senza cadere e poi, dopo avere realizzato il senso delle parole mi guardò male.
-Sei uno stronzo.- Disse, allontanandosi di scatto da me. La presi in braccio, riuscendo con non so quale fortuna a non prendermi uno degli schiaffi che cercava in continuazione di tirarmi. Come ho già detto, me ne disse di tutti i colori, mi minacciò in tutti i modi possibili e quando la posai soddisfatto sul mio letto mi aveva detto le parole che mi avevano tormentato il cuore per tutta la notte seguente.
-Fai tutto come ti pare a te! Mi baci quando vuoi tu, ti approfitti della mia sbornia, mi usi e poi mi porti a letto come una bambina! Cantami anche la buonanotte ora!- Mi urlò, mentre io le carezzavo i capelli cercando di farla stendere. –E non mi toccare!- Mi schiaffeggiò la mano ed io la allontanai, non riuscendo comunque a sorridere.
Davvero pensava quelle cose?
Pensava che non m’importava di lei?
Pensava che mi fossi approfittato di lei?
Scossi la testa, portando le mani sul viso costringendomi a guardarmi. Si ammutolì all’istante ed io la guardai: piena di lentiggini, confusa, non mi capiva, non capiva quella situazione.
-Baciarti era la cosa che desideravo di più.- Le sussurrai, mentre lei lasciava passare sul suo viso decine e decine di espressioni differenti: sorpresa, curiosità, sorpresa, odio, sorpresa.
-Lasciami stare, ti prego- Mormorò scuotendo la testa. –Non ci voglio restare male- Aggiunse, sdraiandosi e sospirando. Io cercai di trovare una spiegazione ragionevole a quelle parole, ma Ginevra non era l’unica sotto l’effetto dell’alcol e la mia testa girava insistentemente. Mi limitai a sistemarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio e a coprirla con il piumone.
-Buonanotte.- Le dissi infine, piegandomi sul suo viso per lasciarle un dolce bacio sulle labbra. Lei annuì debolmente mantenendo gli occhi chiusi.
-Notte.- Rispose, girandosi poi sull’altro fianco. Mi alzai dal letto e socchiusi la porta alle mie spalle. Chiusi e riaprii gli occhi, rendendomi conto che la mia testa girava decisamente più velocemente di qualche istante prima e che avevo l’impellente bisogno di stendermi.
Raggiunsi un po’ traballante il divano in salone e mi sdraiai a pancia in su, sospirando sonoramente. Quando chiusi gli occhi non riuscii a dormire immediatamente: forse per la sensazione che il mondo stesse girando, forse perché la mia testa non riusciva a trovare la pace, a liberarsi dai ricordi, dagli avvenimenti di quella serata. Quando varcai la soglia del mondo dei sogni, lo feci però con l’immagine di Ginevra ben stampata nella mia mente.

 Riuscii finalmente a raggiungere lo Starbucks situato all’incrocio della Fifth Avenue con la 59esima strada e tirai fuori dalla tasca dei jeans cinque dollari, rivolgendo poi un sorriso alla cassiera.
-Un moka-frappuccino piccolo, perfavore.- Ordinai educatamente, stupendomi poi della mia stessa voce: più roca e più profonda del solito.
-Arriva subito!- Mi disse la ragazza con un sorriso, rivolgendosi poi al prossimo cliente: una signora anziana con i suoi due nipotini. Sorrisi con amarezza, prendendo poi il mio frappuccino ed uscendo dallo Starbucks, incamminanandomi lungo la Fifth Avenue, diretto ormai a casa.
Considerai più volte l’idea di andare al Central Park ma l’erba bagnata non faceva altro che allontanarmi da quell’idea.
Più pensavo a ciò che era successo la sera precedente e più mi ponevo la domanda che mi aveva rivolto Ginevra: “sei innamorato, Emanuele?” Ero innamorato io, Emanuele Benassi?
Avevo deciso di chiudere definitivamente con l’amore, avevo deciso che non ne valeva la pena di soffrire, di passare ore infernali a causa di una ragazza. Ero stato fidanzato un anno e tre mesi con Michela. Quindici mesi in cui io avevo dato tutto me stesso giorno dopo giorno, mese dopo mese, perché lei era la mia prima vera ragazza, la prima con cui non stavo solo così per starci durante una vacanza estiva, ma ci stavo perché io l’amavo e lei amava me. Ci eravamo conosciuti alla festa di diciotto anni della cugina di Federico, andava a scuola in un liceo scientifico del centro di Roma ed era più grande di me di un anno. Mi presentai, chiaccherammo un po’ e poi ci scambiammo i numeri, cominciando a sentirci, a frequentarci. Un mese dopo ci mettemmo insieme e cominciammo quella che aveva tutti i caratteri della storia che doveva durare per sempre. Sfortunatamente quell’eternità fu violentemente spezzata dal suo ex, con il quale si frequentò per gli ultimi quattro mesi della nostra storia. Lo scoprii da solo, casualmente, nel modo probabilmente peggiore, il giorno che preceva il nostro sedicesimo mesiversario. Ricordavo ancora quel pomeriggio perfettamente in ogni suo dettaglio: ero uscito da scuola e l’avevo chiamata, chiedendole se aveva voglia di uscire quel pomeriggio, lei mi aveva risposto che aveva da fare ed allora ero uscito a farmi un giro con Federico, accompagnandolo a comprare dei libri per scuola a Piazza della Repubblica; arrivammo e prima di entrare Federico mi domandò di aspettarlo perché voleva fumare una sigaretta e fu in quell’istante che il destino si pronunciò: se fossimo entrati non avrei mai potuto notare una coppia che si baciava appassionatamente in una mini cooper rossa parcheggiata a pochi metri dalla libreria, non avrei mai scoperto Michela ed il suo tradimento.
Sospirai e mi accorsi che in preda ai ricordi mi ero fermato a guardare una famigliola che giocava a football nel parco, ridendo e gridando a gran voce. Scossi la testa, riprendendo a camminare con la testa, invece, totalmente altrove. Fra le nuvole.
Fatto stava che dopo la mia rottura con Michela mi ero ripromesso solennemente che non mi sarei mai più andato a buttare in delle storie d’amore ed avevo cominciato così a stilare la mia lunga lista da Don Giovanni. Federico mi aveva rimproverato più volte il fatto che non mi comportavo bene, che cambiare ragazze come se nulla fosse non mi faceva apparire migliore e non faceva soprattutto onore. Avevamo litigato più volte insistentemente sull’argomento e la volta che la nostra amicizia per poco non si chiuse seriamente successe che ci prendemmo a pugni e deviai il suo setto nasale e lui mi ruppe uno zigomo. Dopo quel giorno mi calmai sicuramente ma restò il fatto che ero diventato estremamente cinico e poco disponibile nei confronti dell’amore, delle ragazze, della possibilità di provare nuovamente determinati sentimenti.
Eppure Ginevra da quel giorno in cui ci eravamo scambiati le borse, era stata in grado di stimolare il mio cuore freddo ed impassibile. Era riuscita a farmi provare delle emozioni, dei sentimenti che avevo rinchiuso nel più lontano dei cassetti e che non avrei mai più voluto sentire. Dal primo giorno in cui l’avevo vista avevo combattuto assiduamente per capire cosa fosse ciò che provavo per lei: amore o attrazione. Non ero giunto ad una conclusione malgrado più volte mi fossi illuso di aver trovato una soluzone, eppure quando l’avevo baciata mi era sembrato tutto così giusto, tutto così sensato, ed il mio sì a quella sua domanda sembrava la cosa più vera che io avessi detto in tutta la mia vita.
Gli ultimi tre mesi era stati caratterizzati dalla sua comparsa nella mia vita, la migliore amica della ragazza del mio migliore amico, inevitabilmente i nostri destini si erano intrecciati per non riuscire più a separarsi, malgrado i tentativi di Ginevra.
Sospirai nuovamente, buttando via il bicchiere ormai vuoto dove prima c’era stato il mio moka frappuccino e, nonostante fossi abbastanza distante ancora dal mio palazzo, decisi di attraversare la strada ma, a mia grandissima sorpresa, vidi venire proprio nella mia direzione Ginevra. Camminava veloce, con gli occhi ben puntati su di me. Era bella Ginevra di una bellezza tutta sua, particolare. Aveva quei lunghi boccoli ramati, la pelle quasi diafana e quelle migliaia di lentiggini ed infine i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi azzurri. Erano dello stesso colore del cielo quando non c’era aria di tempesta, così grandi, sinceri, che sembravano offrirti la possibilità di entrare in lei, comprenderla e che lasciavano sfuggire quella leggera paura di affezionarsi troppo, quella paura che lei aveva sempre nei miei confronti.
Accennai un sorriso ma l’espressione sul suo volto mi fece intendere che non stava decisamente venendo in pace. Le opzioni erano poche: o si ricordava perfettamente della notte precedente o aveva voglia di riscuotere il suo ‘perché’.
-Sei un coglione!- Mi urlò quando fu ad un metro di distanza, dandomi uno schiaffo sulla guancia che probabilmente mi lasciò metà del viso rossa. –Sei uno stronzo!- Cominciò a darmi insistenti pugni sul petto. Inizialmente non compresi tutto ciò che stava accadendo e solo dopo che la mia mente ebbe realizzato ciò che stava accadendo, la afferrai per i polsi e la bloccai.
-Che succede?- Le domandai con la maggior calma possibile. Lei alzò lo sguardo e notai che i suoi occhi erano leggermente gonfi, con delle occhiaie un po’ accennate: aveva forse piano? Deglutii, mentre lei si liberava dalla mia presa e si toglieva velocemente la sciarpa che portava al collo.
-Cosa succede, maiale?- Urlò, facendo girare qualche newyorkese incuriosito a guardarci. Indicò il suo collo. –Ecco cosa succede! Come me lo spieghi!- Guardai il suo collo teso e notai che sulla pelle chiara risaltava un grosso livido violaceo: maledizione.
-Io..- Provai a dire ma lei mi azzittì in fretta, dandomi una spintarella.
-Tu sei un porco, hai capito? Ti sei approfittato del fatto che fossi ubriaca! Mi hai usata per i tuoi sporchi comodi e poi te ne sei fregato!- Si fermò, abbassando le mani e guardandomi con aria tradita, ferita. Il mio cuore si strinse.
-Eravamo ubriachi, abbiamo cominciato a baciarci e..- Provai a spiegarmi, ma lei scuoteva già la testa.
-E hai ben pensato di prenderti tutto no, visto che c’eri!- Spalancai gli occhi: davvero pensava che io avessi continuato, avessi superato quel limite.
-Ginni, no.. Ci siamo solamente baciati in un modo un po’ più spinto, ma non è successo nulla!- Anche io alzai la voce: da un lato indignato per ciò che stava pensando di me, dall’altro perché non volevo, non volevo assolutamente litigare con lei.. Non dopo ciò che era successo, non dopo che avessi capito che a lei ci tenevo davvero.
-E perché dovrei crederti?- Domandò con la voce leggermente tremante. –Perché dovrei crederti, Emanuele! Non hai fatto nulla per meritarti la mia fiducia, mi hai semplicemente fatta sempre soffrire!- I suoi occhi si riempirono di lacrime ed ebbi il forte impulso di abbracciarla, stringerla al mio petto, baciarla. Eppure lei era lontana chilometri, aveva innalzato un muro fra di noi che non riuscivo a superare.
-Credimi e basta. Non avrei mai potuto farti una cosa del genere.- Ero stato io che l’avevo fermata, che l’avevo preso in braccio, l’avevo portata a letto e l’avevo fatta dormire: non riuscivo a sopportare di sentirmi trattato come un mostro.
-Ero ubriaca persa! Avresti dovuto portarmi a letto subito, non avresti dovuto farmi più bere!-
-Ti ho portata a letto!- Urlai esasperato, mentre lei mi guardava pronta ad incenerirmi. –Ti ho messa a letto, ti ho coperta con il piumone, l’ho fatto!-
-Ma prima ti sei approfittato un po’ della situazione, no? Cosa mi sarei mai potuta aspettare da uno come te? Da uno che bacia le ragazze in discoteca così per fare e poi le prende anche in giro! Come mi posso aspettare da uno che per tre mesi ha giocato con il mio cuore: l’ha preso, l’ha illuso e poi l’ha schiacciato!- Mentre gridava quelle parole le lacrime uscivano violentemente, scendendo sulle sulle sue guance. Il mio cuore si paralizzò: l’avevo davvero illusa? L’avevo davvero fatta soffrire? Inarcai un sopracciglio e lei notò evidentemente la mia sorpresa nel sentirmi dire quelle cose. –Cosa pensavi che mi aveva fatto piacere vederti baciare Giulia? Che non mi piacessi? Ti sei sbagliato! Perché..- E si fermò un attimo, abbassando lo sguardo, respirando profondamente. -..Perché ti amo! Ti amo e non dovrei farlo! Non posso amare una persona schifosa come te, non posso amare uno che a me non ci tiene neanche minimamente, che mi fa star male per mesi, che prima non mi calcola, che poi mi sorride e fa il gentile.. Non posso amare uno che non mi rivolge la parola per due mesi e poi mi porta a New York come se nulla fosse!- Singhiozzava violentemente davanti a me, mentre io ero fermo, non riuscendo a muovere un singolo muscolo.
Ti amo. Quelle due parole rimbombavano nella mia mente e le mie ginocchia sembravano essersi fatte improvvisamente molle come non mai.
Ti amo. E pensavo a Ginevra che soffriva a causa mia, a quanta forza aveva avuto ad affrontare il mio sguardo tutte quelle volte che il suo cuore invece moriva a causa mia.
Ti amo.
–Ti voglio fuori dalla mia vita, per sempre! E non m’importa più di sentire i tuoi perché! Non mi dirai mai perché mi vuoi nella tua vita per il semplice fatto che tu neanche sai se mi vuoi o meno..Perché sei fatto così, Emanuele! Vuoi tutto e non vuoi niente! Io non sono merce di scambio, un giocattolo, sono una persona con un cuore, che sta male a causa tua e non ci sta più a stare ai tuoi stupidi, infantili giochetti!- Prese fiato, asciugandosi con la manica del cappotto le lacrime. Tremava tutta. Poi alzò lo sguardo e mi guardò seriamente. –La cosa più ridicola sai qual’è? Immaginavo che avresti detto qualcosa, almeno, invece sei così codardo da non riuscire neanche a commentare.- Scosse la testa mentre io venivo pugnalato da ognuna di quelle parole. –Me ne vado a Roma, ho già chiamato ed ho cambiato il biglietto.- Concluse così quel suo lungo discorso e si girò, correndo via da me.
La guardai allontanarsi, velocemente, ed io non riuscii a muovermi. Perché? Perché non la seguivo e non la fermavo? Per dirle poi cosa?
Ti amo.
Anche io l’amavo, l’amavo dal primo momento, l’amavo dalla prima volta che mi aveva sorriso.
Ti amo.
Il suo sorriso, i suoi occhi, la sua risata. Tutto era impresso dentro di me, stampato per non essere più cancellato, come se fosse inchiostro indelebile.
Ti amo.
L’amavo perché quando stavo con lei tutto il resto del mondo poteva anche scomparire, perché quei due giorni a New York erano stati i migliori di tutta la mia vita.
Ti amo.
-Ti amo anche io..- Mormorai al vento, mentre dei bambini correvano davanti a me, facendomi svegliare di colpo. Eppure ero arrivato troppo tardi, anche quella volta.. Avevo pensato che sarebbe stato tutto facile, che tutto si sarebbe piegato ai miei piedi, anche lei.. Avevo pensato che quando avrei voluto, lei ci sarebbe stata, ed invece Ginevra era differente e se ne era andata. Mi aveva aspettato, mi aveva dato la possibilità di averla, di stare con lei, ed io l’avevo presa alla larga, pensando che ci sarebbe stato il tempo. Era stata chiara: avevamo chiuso definitivamente perché io non riuscivo a decidermi ed aveva fatto bene.
Me ne vado a Roma.
Non appena ricordai quelle sue ultime parole qualcosa riuscì finalmente a scattare nella mia testa e presi in fretta il cellulare dalle mie tasche con le dita che tremavano. Tremavo. Digitai il numero di mia zia che lavorava al check-in della Delta Airlines lì a New York. Non poteva finire così, non doveva finire così, non quando avevo capito che era lei che volevo, che senza di lei non potevo starci, che senza di lei non potevo farcela.
-Ema! Ciao!- La voce di mia zia suonò estremamente gioiosa alle mie orecchie.
-Ciao, zia.. Senti, ti chiamavo per chiederti un favore..- Cominciai, deglutendo.
-Sì certo, dimmi, va tutto bene lì al centro no?- Mi domandò. No, andava tutto a rotoli, andava tutto male, malissimo.
-Sì, va tutto bene. Ginevra Sforza a che ora ha l’aereo oggi?- Domandai mentre ogni singola parte del mio cuore moriva al suono del suo nome.
-All’una e mezza.- Guardai l’orologio: erano le undici. Probabilmente già stava in taxi. –Sei sicuro che vada tutto bene?-
-Sì, grazie mille zia.- Attaccai senza aspettare risposta e corsi con tutta la velocità che avevo fuori dal Central Park. Probabilmente quella mattina lei aveva organizzato tutto: si era svegliata, aveva visto il succhiotto, aveva chiamato la Delta Airlines, fatto la valigia ed era venuta da me..  Mi aveva trovato nonostante non le avessi detto dove fossi.
Arrivai con il fiatone davanti al mio palazzo e, non vedendo Mark da nessuna parte, alzai prontamente il braccio per fermare un taxi.
-All’aeroporto!- Dissi senza neanche curarmi di parlare in inglese. Ma quello parve capire alla perfezione e diede gas, allontanandosi in fredda dal Central Park, dal centro di New York.
Cosa mi era preso? Ero rimasto lì immobile ad ascoltare le sue parole senza riuscire a parlare. Codardo. Possibile che non me ne fossi mai reso conto prima di quanto fossero i miei sentimenti nei suoi confronti? Avevo voluto fare quel viaggio a New York con lei per chiarire, certo, per accennarle che forse da parte mia ci fosse qualcosa in più di  un’amicizia. Ingenuo! Non mi ero mai accorto del fatto che lei mi amasse? Non ci avevo mai fatto caso? Mi ero curato solamente di non perdere il rapporto con lei perché da parte mia pensavo che non ce l’avrei mai fatta senza di lei, mentre ero convinto che io a lei non interessassi ormai da quel cinque febbraio in cui mi aveva dato il suo ultimatum.
Idiota.
Il taxi si fermò ed io lasciai in mano dell’uomo una banconota da cento dollari senza nemmero procurarmi di riscuotere il resto. Scesi giù dall’automobile e corsi all’interno dell’aeroporto, venendo travolto dalla marea di gente che doveva partire e che affollava ogni singolo metro quadrato di quel posto.
Decisi di agire seguento il mio istinto e corsi istintivamente verso i controlli situati fuori dalla dogana, spingendo via tutti coloro che si trovavano in mezzo dicendo “excuse me” ogni tre passi. Non potevo lasciarla partire, non potevo rovinare tutto con lei definitivamente, non prima di averle detto che l’amavo anche io, che non poteva lasciarmi lì perché avevo bisogno di lei, come la sera precedente: avevo bisogno della morbidezza delle sue labbra, delle sue braccia strette intorno a me, dei suoi sorrisi, dei suoi sguardi così allegri, furbi, sinceri.
-Ginevra!- Urlai sbracciandomi quando individuai la sua chioma rossa in coda per fare il controllo. Lei si girò e spalancò gli occhi, domandando poi qualcosa alla signora che stava in fila davanti a me: stava cercando di passare avanti. In quel momento allora me ne fregai altamente di tutto e di tutti e scavalcando tutta la fila che mi separava da lei l’afferrai per un braccio e la avvicinai a me con tanta forza che lasciò cadere la propria borsa a terra, guardandomi poi spaventata negli occhi.
-Lasciami, abbiamo già concluso il nostro discorso.- Disse gelida, divincolandosi. Ma io non avrei lasciato quella presa, non l’avrei più lasciata andare via.
-No, non abbiamo concluso nulla perché io devo ancora parlare.- Ribattei determinato. Lei fece un sorriso ironico, voltandosi a guardarsi intorno. La gente ci fissava leggermente dubbiosa.
-Hai avuto la tua occasione per parlare. Hai avuto tre mesi per parlare.- Mi guardò fisso negli occhi ed io deglutii. No, dovevo assolutamente continuare, portare a termine quel nostro discorso.
-Mi sono svegliato troppo tardi. Ma non negarmi la possibilità di chiarire, ti prego.- La supplicai, mentre il mio cuore accellerava i battiti.
-Non le voglio sentire le tue solite frasi fatte.- Sembrava rassegnata mentre scuoteva con poca energia la testa. –Te l’ho già detto una volta: non sono la prima troietta che ti porti a letto con un paio di battutine.- La prima volta che avevo sentito quelle parole avevo riso, invece in quel momento mi faceva ancora più male al cuore.
 -Io ti amo.- Presi il suo viso fra le mie mani, costringendola a guardarmi negli occhi. –Ti amo ed è per questo motivo che non posso pensare ad una mia sola giornata senza averti più nella mia vita. Ti voglio nella mia vita perché sei riuscita a farmi provare nuovamente dei sentimenti che avevo rimosso disilluso e ferito dopo una storia finita male. Ti amo perché mi basta un tuo sorriso per stare bene, mi basta un tuo sguardo, una tua risata..una tua presa in giro.- Abbassai lo sguardo e fissai il pavimento. –Non avrei mai voluto farti del male, ma come hai detto tu sono uno stronzo, sono un deficiente egoista che ha messo sempre se stesso davanti a tutto.. Sono stata così impegnato a cercare di capire ciò che provavo io nei tuoi confronti da non pensare minimamente a ciò che potessi provare tu, in quei momenti..- Affrontai il suo sguardo acquoso.
-Perché mi evitavi inizialmente?- La sua serietà fu tradita dal tremolìo della sua voce.
-Ti evitavo perché dalla prima volta,- carezzai con il pollice le sue guanca, deglutendo. –dalla prima volta che ti ho visto ho provato qualcosa di diverso, di forte nei tuoi confronti. Chiamalo colpo di fulmine, chiamalo come ti pare, ma ne avevo paura..Ne avevo paura perché io mi ero ripromesso di non innamorarmi più, di non legarmi più ad una ragazza come mi ero legato a lei.- Chiusi gli occhi un attimo, mentre l’immagine di Michela si insinuava prepotentemente nella mia mente, venendo poi sostituita da quella di Ginevra, in piedi davanti a me, con le labbra leggermente schiuse e la voglia di capire, di essere convinta. –Ti evitavo quando ero con i miei amici, mascherandomi dietro la mia fama di “montato che si isola dal mondo con Della Valle”..ma poi quando ero davanti a te non riuscivo a non.. a non innamorarmi giorno dopo giorno di te.-
-Ma se eri..se eri innamorato di me..- Capii che pronunciare quelle parole per lei era incredibilmente difficile. -..Perché? Perché..Giulia?-
-Perché sono uno stronzo..Un puttaniere.- Deglutii, allontanando le mani dal suo viso. –Un puttaniere che in quella discoteca tanto per cambiare ha fatto uscire fuori la sua natura..Perché sono così in realtà, o almeno ero così prima di conoscere te.- Sospirai, mentre lei fissava un po’ il soffitto, un po’ per terra. –Io voglio sono te, adesso.. E non ti voglio come un premio di cui vantarmi, non ti voglio perché non sei caduta ai miei piedi ed allora voglio mostrare al mondo  che io posso averti.-
-Anche perché io sono caduta ai suoi piedi.- Mi guardò con un mezzo sorriso sulle labbra.
-Scusami, Ginni, ti prego.. Ieri sera, malgrado tu sia convinta che io ti abbia usato, non sai come sono stato quando ti ho baciato, mi sono sentito felice.. Quando ti ho allontanato, quando ti ho portato a letto, ho combattuto con ogni mia forza, con ogni mio muscolo contro il mio desiderio.. Avrei desiderato dartene altre mille di baci, sentire le tue mani su di me.. Scusami..- Lei però era ancora dubbiosa: rincuorata sicuramente, ma anche incerta.
-P-perdona i miei..silenzi?- Balbettò. Io ricordai come in un flashback il coma etilico di Sara, l’ospedale, quel pomeriggio del risveglio. –Avevi sentito il mio monologo a Sara?- Domandò, ricominciando debolmente a tremare, guardandomi.
-No.- Risposi fermamente. Di cosa parlava ora? Aggrottai la fronte e lei sbiancò. –Io quel giorno mi ero reso solamente conto che non volevo più evitarti, che volevo conoscerti, che volevo lasciarti la possibilità di entrare nel mio cuore..- Le spiegai con calma.
-Quel giorno dissi a Sara che  mi piacevi da morire.- Disse seriamente, scuotendo poi la testa. –E che tu non mi calcolavi, che eri strano..-
-E’ cominciato l’imbarco per il volo DL 921 diretto a Roma Fiumicino.-
Ginevra si voltò di scatto: era il suo volo.
-Non andare, ti prego.- La implorai prendendo nuovamente il suo viso fra le mie mani.
-Ho paura di fidarmi.- Mormorò ricambiando il mio sguardo.
Mi chinai sul suo viso e la baciai, finalmente da sobrio, finalmente con tutte le carte in tavolo e nessun dubbio, nessuna cosa tenuta dentro il mio animo nascosta. Inizialmente lei ricambiò il mio bacio con indecisione, con timidezza. La strinsi con delicatezza a me, mettendo tutta la dolcezza di cui ero capace in quel bacio. Non ero una qualsiasi ragazza che baciavo per raggiungere il mio scopo, no, lei era diversa e tutto con lei doveva essere differente. Lei ricambiò il mio bacio portando le braccia ad intrecciarsi dietro il mio collo. Lasciai le mie mani scendere lungo la sua schiena, esplorandola con delicatezza, quasi avendo paura di farle del male. E fu un bacio diverso da quello che ci eravamo scambiati la sera precedente: riversammo in quel bacio tutti i nostri sentimenti, le nostre emozioni e le mescolammo, mentre il tempo sembrava essersi interrotto intorno a noi. Quando ci separammo aprii piano gli occhi, quasi con la paura di svegliarmi da quel sogno. Lei fece evidentemente lo stesso e quando ci guardammo le sue guance divennero rosse.
-Scusami..- Scosse la testa, allontanandosi poi da me e prendendo da terra la borsa che le era cascata. Non capivo: la guardavo negli occhi e cercavo di comprendere cose le stesse passando per la mente. La presi per una mano, ma lei si allontanò continuando a scuotere la testa. -..Devo andare.- Mormorò, alzandosi poi sulle punte per baciarmi dolcemente le labbra un’ultima volta.
E mi lasciò così, con gli occhi spalancati in mezzo ad una folla di gente che faceva il controllo dei bagagli e passò attraverso il metal detector senza più girarsi nella mia direzione.
Se ne era andata.
Non riuscivo ancora a realizzare che alla fine avesse scelto di.. andarsene. Possibile che era finita così? Possibile che appena avevo riaperto il mio cuore, questo era stato immediatamente
spezzato?
Ed io la volevo dannatamente.
La amavo e la volevo con me.
Osservai i suoi capelli rossi allontanarsi sempre più dal mio campo visivo e sospirai, mentre le mie mani si stringevano in dei pugni in cui tentavo di sfogare tutta la mia rabbia, la mia frustrazione. Se ne era andata.
Restai per qualche altro istante fermo lì con la gente che passava scansandomi, facendo di me ciò che voleva. Solo dopo qualche minuti mi mossi, uscendo dall’aeroporto. Muovevo ogni singolo passo senza realmente accorgermi di dove fossi, dove stessi andando. Uscii dall’aeroporto con nella testa voci su voci che si accavallavano, intrecciandosi con le parole di Ginevra, con le immagini di Ginevra.
-Hey, ragazzo, hai bisogno di un taxi?-
Alzai lo sguardo e mi accorsi di essere uscito dall’aeroporto e mi ritrovai davanti ad un ragazzo di colore che mi fissava insistentemente. Battei un paio di volte le palpebre, cercando di riprendere un po’ di controllo.
-Allora?- Domandò spazientito, battendo il piede a terra.
-Sì, grazie, devo andare a Central Park.- Risposi, finalmente riuscendo a mettere insieme delle parole in inglese. Lui annuì e mi fece cenno di seguirlo. Salimmo nel taxi e partimmo in totale silenzio. Guardavo fuori dal finestrino e ricordavo il giorno in cui ero arrivato lì con Ginni: la sua faccia sorpresa in aereo, il suo sorriso ironico, la sua risata isterica e la sua voglia di autonomia da me finita male. Sorrisi fra me e me, scuotendo leggermente la testa: non potevo aver mandato a puttane tutto in quella maniera.

 Scesi dal taxi dopo aver pagato e mi incamminai con le mani affondate nelle tasche all’interno del polmone verde di New York. E così mi ritrovai per l’ennesima domenica a vagare come un senzatetto per quell’enorme parco, amareggiato e ferito.
La mia meta fu inevitabilmente il lago dove avevo affogato tutte le volte il mio dispiacere e che quello impassibile aveva assorbito, liberandomi di un peso che premeva forte sul mio cuore. Mentre camminavo guardavo le persone che ridevano, si abbracciavano, si rincontravano e mi sentivo un po’ come mi sentivo da piccolo quando vedevo i bambini felici con il loro padre che li stringeva forte al proprio petto e poi li aiutava con le barchette. Sospirai, sedendomi sulla riva, portando le ginocchia al petto e posando la testa su di esse, guardando delle anatre in lontananza.
Probabilmente lei in quel momento era già sull’aereo, magari stava già decollando e forse stava pensando a me. Magari rideva della situazione, dandomi dell’idiota, magari piangeva, magari sospirava.. Me la immaginai in ogni situazione ed infine premetti i palmi delle mani sui miei occhi con forza, come a voler cancellare tutto, come a voler tornare indietro alla sera precedente, non farla ubriacare, baciarla da sobria..
Avevo organizzato il suo compleanno punto per punto, accuratamente, perché alla fine di quella serata volevo confessarle che la volevo nella mia vita perché sapeva farmi battere il cuore come nessun’altra, che ero gelosa di quel suo nuovo amichetto..Marco, o come diamine si chiamava, che volevo poter godere del suo sorriso ogni volta che ne volevo. Mi passai una mano fra i capelli infine, alzandomi e sistemandomi la camicia ed il maglione, stringendomi poi maggiormente nel mio giubbotto.
Così mi voltai, stanco di stare lì a fissare quelle maledette barche in miniatura, ben deciso ad andarmene a casa. A fare cosa poi? Scossi la testa scacciando via quella domanda e quando alzai lo sguardo mi ritrovai davanti Ginevra.
Era una visione? Sognavo o ero desto?
Lei mi sorrise debolmente, facendo un passo verso di me e non capivo ancora, la mia mente si rifiutava di funzionare correttamente. Boccheggiai un po’ e lei ridacchiò, allungando le sue braccia nella mia direzione.
Solo allora mi accorsi che stringeva fra le mani una barca a vela bellissima: costruita di un legno scuro, con le vele grandi, bianchissime, e tutti i dettagli rifiniti con cura. Era una barca a vela da mettere in acqua e controllare con il telecomando. Era la barca a vela che da bambino avevo desiderato, la barca vela che avrei voluto mettere nell’acqua di quel lago insieme a mio padre..e me l’aveva regalata Ginevra. Ma il regalo più bello non era quel dannato giocattolo, ma lei.
Lei che stava in piedi davanti a me sorridente, lei che mi guardava negli occhi, lei con i suoi bellissimi boccoli ramati e la voglia di vivere dipinta sul volto. Era lei in carne ed ossa. Si schiarì la voce ed io mi decisi a chiudere la bocca.
-Ho pensato che infondo,- Cominciò, facendomi capire che dovevo prendere la barca. –ti sei guadagnato una domenica da ricordare con felicità.- Pendevo dalle sue labbra e quando terminò, tenendo con una sola mano la barca, poggiai l’altra sulla sua guancia e l’avvicinai a me, baciandola con dolcezza.
Sì, era quello ciò che volevo, era lei che mancava nella mia vita, e nulla di più giusto avrei mai potuto fare.
Le mie labbra sulle sue leggermente fredde ebbero l’effetto di scaldarmi non solo tutto il corpo ma anche il cuore. Tornò ad essere un cuore che batteva sinceramente, che batteva per una ragazza, che batteva innamorato.
Quando ci allontanammo mi parve di essere bruscamente riportato alla realtà dopo degli attimi puramente paradisiaci. Lei mi sorrise, lasciandomi un altro delicato bacio a fiordilabbra. Poi si allontanò, oltrepassandomi e dirigendosi alla riva del lago.
-La proviamo questa barca?- Mi domandò facendomi l’occhiolino.
Allungai il braccio per riuscire a prendere la sua mano, facendola voltare. Le sorrisi, carezzando con dolcezza le sue piccole dita.
-Ti amo, Ginni.- Le dissi con voce chiara, seriamente, e provai emozioni indescrivibili quando lei si sciolse in un ampio sorriso, chinando leggermente la testa.
-Ti amo anche io, Emanuele.- Rispose, tornando poi sui suoi passi, verso il lago, sorridente. La seguii e la affiancai, piegandomi poi sulle ginocchia a posare la barca sull’acqua, spingendola con delicatezza e prendendo il telecomando che Ginni mi offriva. Mi alzai e la guardai, sorridendo.
Come potevo non sorridere? Non avrei più smesso di sorridere con lei insieme a me. Mi aveva regalato la capacità di amare ed essere felice con una ragazza di nuovo, dopo un lungo periodo di tempo.

 

 

 

 

 

**Autrice**
Ecco finalmente questo soffertissimo capitolo.. E’ stata un’impresa scriverlo, concluderlo, perché avevo sempre paura di cadere nella banalità. Sì, lo so che ho fatto le due classiche scene da film, come finale, ma non sono riuscita a trattenermi perché erano dannatamente belle!
Come vedete ho finalmente risposto a tutte (credo!) le domande ed ho delineato un po’ meglio il carattere di Emanuele (credo!) individuando anche le cause che l’hanno portato ad assumere determinati atteggiamenti! Per il resto.. Quanto sono belli con Ginni! Ho pensato fino all’ultimo se far partire Ginevra o meno ma, alla fine, ho deciso che tirarla per le lunghe era davvero esagerato e quindi, nel prossimo capitolo, vedremo perché ha deciso di tornare da lui.
Non mi dilungo troppo con i commenti e passo a ringraziare tutti coloro che anche questa volta hanno recensito (amo le recensioniii!):

sonietta: ecco le risposte alle tue curiosità! ;) Thank u per la recensione!
DarkViolet92: eheheh..al loro risveglio: tanti problemi!
Vero15star: Ha strisciato abbastanza? Dai che è tenero.. Gianluca tornerà nel prossimo capitolo come anche Marco! Non ti preoccupare, le tue recensioni in prima crisi mi fanno sempre sorridere e tanto piacere! Un bacio e grazie!
__Yuki__: Questa volta sono stata un po’ meno veloce ma ammetto che veramente rispetto ad altri autori sono un fulmine. Il punto è che siccome ho molta ispirazione scrivo molto velocemente.. non mi piace far aspettare i lettori perché io stessa ODIO aspettare! Grazie mille per i complimenti e per la recensione.. Spero che ti piaccia questo fondamentalissimo capitolo xD
Ombrosa: Certo che è organizzato, deve farsi perdonare il ragazzo! Come vedi sono arrivate le risposte a tutte le domande! Un bacio e grazie!
Anthy: Uh una nuova lettrice! Grazie mille, cara, per tutti i bei complimenti! J Spero continuerai a seguirmi! Un bacio
ChasingTheSun: Ciao, Vale non che mia nuova lettrice! Come vedi mi sono sbrigata a concludere di scrivere questo capitolo per non farvi stare troppo sulle spine.. Spero ti piaccia! Un bacio e grazie!
X_MoKoNa: Ti do ragione su ciò che hai detto perché io, al posto di Ginni, me ne sarei proprio che andata. Però Emanuele alla fine Ginevra la conosce visto che fra alti e bassi sono passati tre mesi e sono “legati” dall’amore che lega Federico e Sara e dall’amicizia (che vedremo ben definita più tardi) fra Emanuele e Gianluca. Spero che ti piaccia questo capitolo in cui ho focalizzato solo ed esclusivamente Emanuele e spero, e qui mi affido alla tua critica, di non averlo vittimizzato troppo perché era la cosa che temevo maggiormente!! Grazie come sempre per la tua recensione.. Un bacio!
Swettlove:
Eh si che ha organizzato tutto..Finalmente lui e Ginni parlano e si relazionano senza muri ed ostacoli fra di loro. Credo che oggi sarai piuttosto felice di leggere gli avvenimenti di questo capitolo.. xD un bacio e grazie grazie grazie!

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