Effetti collaterali

di shana8998
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***
Capitolo 11: *** 10 ***



Capitolo 1
*** 0. ***


                                                                                 Prologo
«Oh no, no, no!» mormorai  incredula, davanti allo spettacolo dei miei tulipani gialli, bianchi e rossi brutalmente divelti.
Mi alzai di scatto dalla scrivania, dove stavo lavorando al computer, e corsi alla porta finestra come una furia. Questa volta lo avrei ucciso, senza dubbio.
Dopo un lungo anno e mezzo di stupidi scherzi adolescenziali, alla fine si era spinto davvero troppo in là. Nemmeno la mia compagna di stanza al college era stata capace di farmi imbestialire così tanto, neanche al tempo dei sei mesi senza doccia e deodorante per "salvare il pianeta".
Quell'anno e mezzo prima, alla veneranda età di ventiquattro anni, ero diventata orgogliosamente proprietaria della mia prima casa. Avevo sputato sangue per comprare la casa dei miei sogni. La villetta ad un piano con le grandi porte finestre che davano sul giardino. Giardino nel quale avrei piantato i miei amati tulipani e tutte le rose che volevo.
La sensazione di essere proprietaria di una casa mi era parsa più esaltante di quanto non credessi.
Finalmente qualcosa di mio. Mio soltanto.
Avevo passato ore su ore a scegliere la gamma di colori giusta per ogni stanza, a pulire, sistemare e spulciare ogni mercatino nel raggio di cinquanta chilometri, per trasformare un po' di legno e cemento in una vera casa.
Eppure, tutto questo era nulla a confronto con le ore rubate allo studio per curare il giardino.
Dopo vesciche, punture d'api, graffi e mal di schiena da non contarsi, alla fine ero riuscita a trasformare quel cortile brullo in un paradiso.
La mia felicità era durata però solo quattro mesi. Fin quando, nella casa accanto, non si era trasferito lui.
All'inizio avevo trovato eccitante l'idea di avere un nuovo vicino, uno che non fosse vecchio e scontroso. Ma il giorno che incontrai Aron Green tutta la mia felicità di proprietaria novella di una casa era andata a farsi benedire.
Appena arrivato, in soli dieci minuti, era riuscito  a fare retromarcia contro la mia cassetta delle lettere, a disseminare per il mio giardino immacolato gli incarti del fast food di cui straripava la sua auto, e per finire si era svuotato la vescica sul grosso tronco della vecchia quercia che si trovava sul prato di fronte, indirizzandomi un sorriso pigro e una scrollata di spalle, non appena si accorse di me, scandalizzata, sull'uscio di casa.
Quel ragazzo era un barbaro.
Nei quattro mesi successivi, aveva trasformato la mia vita da cartolina in un inferno. Non riuscivo a spiegarmi come potesse, un ragazzo da solo, avere un impatto tale sulla mia felicità, eppure lui ce l'aveva.
Nel corso dei mesi avevo dovuto vedermela con i segni delle palline da tennis sulle lenzuola appena stese fuori ad asciugare, e anche sul muro esterno della casa. Avevo dovuto sopportare la musica a tutto volume, le feste. Un paio di volte avevo sorpreso gente senza vestiti scavalcare la staccionata, che divideva il suo dal mio giardino, con l'intento di fornicare nel mio cortile. Sul mio prato.
Poi, le partite di basket alle tre del mattino, i bagni in piscina da ubriachi, e le donne che facevano piazzate sul prato davanti casa di lui, o sul mio, quando vigliacco si rifiutava di uscire ad affrontarle.
E, come se non bastasse, a rendere il tutto ancora più difficile si aggiungeva il fatto che fossimo entrambi vincitori di una micro borsa di studio che aveva permesso ad entrambi di accedere ad oculistica come aiutanti di laboratorio abilitati.
Anche li era un tormento. Non gli ci era voluto molto per trasformare la mia casa e il mio lavoro in un incubo. 
Se fuori distruggeva qualsiasi cosa fosse mia, in sede, aveva la mania di "prendere in prestito".
Ed ecco qui che sparivano, penne, libri, intere pile di ricerche già consegnate e non, una volta perfino la scrivania.
Sembrava convinto di essere il ragazzo più affascinante del mondo. Lui poteva: poteva e basta.
Non si faceva problemi ad usare il fascino e la bella presenza per il proprio tornaconto, lasciando pesare sulle mie spalle lavoro e responsabilità extra, mentre lui si divertiva a fare l'abilitato simpatico che fa divertire gli studenti.
Già dal primo giorno -anzi, no - dal primo istante in cui  aveva messo piede nel mio corso, sapevo che avrei dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Questo genere di opportunità capitano una volta sola e di certo non mi sarei lasciata sfuggire l'occasione di diventare professoressa o oculista specializzata per colpa di uno stronzo.
Ma se dentro l'istituto dovevo tenere duro, fuori potevo scappare.
L'unica possibilità che avevo era quella di cambiare casa. Almeno quella.
Dopo il primo anno avevo cercato di metterla in vendita ma non c'ero riuscita.
Ogni volta che un possibile acquirente si faceva vivo, lui riusciva a dissuaderlo senza nessuno sforzo, semplicemente comportandosi...da Aron Green.
Pochi mesi fa avevo deciso di ritirare l'appartamento dalla messa in vendita, ma dopo che lui aveva deciso di darsi al golf rompendomi ben tre vetri, mi convinsi a tornare alla carica.
Piazzai di nuovo il cartello in vendita e sparai che l'incubo volgesse al termine.
Niente. Anche questa volta, Aron era riuscito a dissuadere ben dieci acquirenti: uscendo di casa in boxer per ritirare la posta, dando in escandescenze come quella volta memorabile, quando aveva lanciato il computer dalla finestra urlando come un matto, e poi inevitabilmente per la mancanza di manutenzione del suo appartamento.
Il suo giardino era ricoperto di sterpi ed erbacce. Si limitava a pagare un ragazzo del vicinato per tosare l'erba meno di una volta ogni mese.
Per tutto il resto del tempo, il suo giardino sembrava l'habitat di piccole creature dei boschi.
Anche le mura esterne non erano messe altrettanto bene, per non parlare dell'immondizia abbandonata qua e la ogni qualvolta dava una delle sue magnifiche feste.
Insomma, se qualcuno dei possibili acquirenti non era stato dissuaso da lui personalmente, ci aveva pensato la sua casa a farlo.
Ed io lo odiavo per questo. Con tutta me stessa.
Non avevo fatto nulla di male per meritare una simile croce. Aron era una maledizione.
Ma purtroppo sono sempre stata troppo spaventata da certi ragazzi, specie se di bell'aspetto, per potermi lamentare.
Ero sempre stata così, sin da piccola. Sempre tranquilla e timida, col naso seppellito in un libro, sperando che nessuno mi notasse. Non è che non fossi una persona socievole, lo ero. No, il fatto è che ero proprio una gran fifona. Quando i bambini a scuola mi prendevano di mira o mi importunavano, di solito mi facevo piccola piccola, incapace di reggere il conflitto. E questa brutta abitudine mi era rimasta anche da adulta.
Quando poi si trattava di ragazzi come Aron, la cosa peggiorava. I suoi capelli castani, gli occhi azzurri come il mare e i suoi bei lineamenti cesellati mi rendevano nervosa. Semplicemente, non ci sapevo fare con le persone.
Appena mi trovavo davanti a un bel ragazzo, che si comportava da stupido, eccomi che diventavo un'idiota piagnucolosa.
Quanto odiavo le persone aggressive. E quanto odiavo non essere in grado di gestirle.
Lo stesso si può dire dei ragazzi con i quali ero stata nel corso degli anni e che si erano approfittati di me senza farsi scrupoli.
Per colpa loro, mi ero ulteriormente chiusa in me stessa, incapace di reagire.
E questa era la sola ragione per cui Aron Green si era salvato in quell'anno e mezzo.
Ma ora basta. I fiori erano l'ultima goccia. Quei bulbi erano un regalo della mia defunta nonna. Me li aveva donati proprio appena trasferita, poi, qualche mese dopo, la demenza senile ed un tumore me l'aveva strappata via. Quei tulipani erano tutto ciò che mi restava di lei ed io ci tenevo più di qualsiasi altra cosa. Forse, anche più della mia stessa borsa di studio.
Ecco perché uscii in giardino tirata come le corde di un violino.
Notai un tubo di gomma arrotolato e presi una decisione lampo. La faccenda finiva qui e subito. I tempi in cui ero stata la più grande fessa del pianeta erano ormai giunti al termine.

«Maledizione!»
Aron balzò in piedi, colpito dal getto d'acqua ghiacciata.
Si voltò senza sapere bene cosa aspettarsi, di certo non di trovarsi davanti la sua timida vicina e collega che gli puntava addosso un chilometro di tubo dell'acqua.
Sicuramente pensò che fossi uscita di testa.
«Sta lontano dai miei tulipani!» gli intimai con un tono di voce autoritario che sorprese persino me stessa.
Aron mi guardò. Nonostante la mia espressione e la mia voce fossero tutt'altro che amichevoli, ed i nervi che avevo a fior di pelle fossero palpabili, lui non poteva fare a meno di sorridermi.
«Cazzo, ma sei matta?», sembrò costringersi ad imprecare, come se stesse mantenendo la parte.
Gli feci cenno con il tubo di farsi indietro.
«Levati dalla mia aiuola...Adesso!»
«La tua aiuola?» Mi chiese con quello che definirei un grugnito perplesso.
«Si la mia aiuola» E via un altro getto d'acqua «Questi fiori erano un regalo di mia nonna ed erano vivi, prima che arrivassi tu!»
Frustrato, Aron si passò una mano fra i capelli spettinati «Allora avresti dovuto controllare meglio il confine della tua proprietà»
Lo guardai stringendo gli occhi «L'aiuola è nella mia proprietà!»
«Non penso proprio tesoro, controlla nell'atto di proprietà. Quest'aiuola è tutta nella mia proprietà» ribatté seccatamente. Indicò il mezzo metro di spazio che separava le due case, dove l'aiuola correva fino alla grande staccionata di legno che cominciava sul lato del suo giardino e continuava affianco alla casa, separando i due giardini «Tu possiedi quindici centimetri a partire dal muro della tua casa. È per questo che quella stupida staccionata marrone parte a ridosso del tuo muro anziché del mio.»
Ispezionai il punto che stava indicando seguendo l'aiuola per tutta la sua lunghezza.
Chiunque aveva costruito quelle due case identiche era stato un vero stupido. Nonostante fra i due appartamenti c'erano più di dieci metri di distanza, le finestre delle stanze da letto erano lontane forse meno di ottanta centimetri.
Di colpo odiai quella sporgenza che mi ricordava tanto la stanza di una torre, come quelle delle favole.
Non c'era nessuna privacy. Se io non fossi stata abituata a rintanarmi in stanza con le tende ben stese, a quest'ora chissà quante ne avrei viste succedere li da lui.
Guardai la staccionata e la ripercorsi con le pupille a ritroso fino a ritrovarmi nuovamente gli occhi azzurri di Aron davanti.
Sospirai afflosciando le spalle «Li sposterò quei quindici centimetri. Preferisco perdere un po' di giardino che averti fra i piedi.»
A quell'annuncio, lui sembrò spalancare gli occhi come se si fosse accorto di aver esagerato.
«No! Non farlo.» 

Non potevo sapere che sarebbe incominciato tutto così. Che Aron si sarebbe trasformato nel mio effetto collaterale per colpa di una manciata di tulipani.

 

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Capitolo 2
*** 1. ***


                                                                                                      1.
Non credetti ai miei occhi quando vidi Aron gettarsi sui miei tulipani - gli ultimi rimasti -, strappandoli via come se fosse fuori di sé.
«Fermati!»
Sul suo viso era stampata l'espressione più dispettosa che avessi mai visto.
«Ho detto fermati, Aron!»
Mi ignorò e continuò a sradicare le mie piante, assicurandosi di tirarsi appresso anche i maledetti bulbi.
Li lanciava il più lontano possibile, nella sua proprietà, così che io non potessi andare a riprendermeli.
Con un dito premuto sulla bocchetta del tubo, lo inondai con un lungo getto d'acqua gelata. Ma nulla poteva interrompere la sua opera di distruzione dell'aiuola.
«Basta!» gridai, ma nemmeno allora concentrò la sua attenzione su di me.
Rallentò solo per un istante, quando si ritrovò davanti allo spazio angusto nella staccionata, quello che divideva la mia villetta dalla sua.
Per infilarcisi, Aron dovette stringere le spalle e chinarsi. A quel punto, capii che sarebbe scappato a rintanarsi come un ratto in casa sua. Non potevo lasciarlo andare senza fargliela pagare.
Mentre si chinava per raccogliere i tulipani e gettarli nel cassonetto dell'immondizia, gli afferrai le caviglie.
«Ma che cazzooo!» Aron piombò a terra. I tulipani stretti nelle sue mani esplosero attorno a lui e sulla sua testa, spargendosi per tutto il cortile.
«Guarda cosa hai fatto, idiota!» Inveì.
Avvinghiai i suoi polpacci e strisciando mi portai fin sopra la sua schiena.
«Se tu non avessi fatto il cazzone come al tuo solito, a quest'ora non saresti bagnato fradicio e non avresti tulipani dappertutto!»
Sfruttando il vantaggio di essere esile e snella, scavalcai in fretta Aron e mi chinai come un rapace ad agguantare i miei poveri tulipani.
Ne raccolsi quanti più possibile. Li avrei ripiantati, tutti. E nell'esatto posto dov'erano.
«Lascia quei fiori!» Ad un tratto, sentii le ginocchia di Aron sfiorare la mia schiena e le sue mani correre ai miei polsi.
«Toglimi le mani di dosso!» Con tutta la forza, continuai a raccogliere fiori nonostante avessi appena ingaggiato una vera e propria lotta con lui.
«Non ti metterei le mani addosso se non fossi nella mia proprietà!».
Non ci vidi più. Sapevo che quella era una tattica come tante per farmi perdere ulteriormente le staffe, e...aimè, Aron aveva vinto.
Mi infuriai e gli rifilai una gomitata.
Aron imprecò borbottando fra i denti, nonostante ciò, però, tornò alla carica come un animale selvatico.
In un batter d'occhio Aron Green stava imprigionando il mio corpo fra il suo e il prato dietro le mie spalle.
Rimasi di sasso, e lui ne approfittò per spostare la presa dai miei polsi, che teneva saldamente incollati all'erba, ai fiori che stringevo fra le dita. Me li strappò dalle mani e se li lanciò dietro le spalle.
«Ho detto toglimi le mani di dosso, non crollami addosso»
In poco meno che qualche attimo, mi ritrovai a non saper cosa fare. Faticavo a controllare il respiro, probabilmente sarei finita in iperventilazione e poi avrei perso i sensi.
Come diavolo ero finita nel suo cortile, al centro di una pioggia di tulipani, con lui sopra di me?!
Aron restò a fissarmi per un momento. Non avevo idea della direzione che avevano preso i suoi pensieri, ma mi sembrò letteralmente perso chissà dove con la mente.
«Qual è il tuo problema?» La mia voce metallica però lo risvegliò all'istante.
«Il mio problema? Qual è il tuo problema?!»
Io avevo un solo problema e portava il suo nome ed il suo cognome.
«Sei tu il mio problema. Tu e i tuoi dispetti del cazzo. Le tue feste del cazzo e le tue grida del cazzo!»
Al mio esplodere di rabbia, tutto ciò che fece fu...ridere.
Ridere a crepa pelle.
Si portò una mano sulla pancia e ricadde a sedere sull'erba.
Anche se ora ero libera, non mi consolò affatto vederlo così divertito.
«Il tuo problema...sarei io? Ma se non mi guardi in faccia da quando ti ho pisciato davanti!»
Dovetti deglutire a forza. Era più sboccato di quanto non lo fossi io. Solo che dette da me le parolacce avevano tutto un altro suono. 
«Forse è proprio perché mi hai pisciato davanti, che mi dai così sui nervi.» Mi risollevai in fretta. La mascella serrata e lo sguardo fisso su di lui in caso mi avesse trascinata nuovamente a terra.
«O magari perché me lo hai visto
Il sangue mi scivolò alle ginocchia. Non ricordavo questa parte e mi pareva assurdo che lui, fra tutte le cose che poteva notare, aveva visto me guardargli...insomma, guardarglielo.
Scossi la testa non nascondendo una smorfia di disgusto «Non faccio questo genere di cose, non è da me.»
Mi passai le mani sul sedere per far cadere del terriccio che mi era rimasto attaccato. Lo sguardo rapace di Aron seguì ogni singolo movimento delle mie mani e varcò ogni curva del mio corpo. Se avessi continuato a farci caso, sarei finita per arrossire e non volevo.
«Secondo me, saresti in grado di fare un bel pò di cose...»
Sentii le guance imporporarsi all'istante. Carica d'ira, pensai che fosse giunto il momento di rompergli il naso con un pugno.
Strinsi le dita fino a farmi diventare le nocche bianche. Ero pronta.
«Ti sbagli e...non permetterti di dirmi certe cose! Tu non mi conosci affatto!»
No. Non dovevo colpirlo. Dovevo sparire dal suo cortile. Volevo solo correre a casa e barricarmici dentro.
Aron sbuffò e, issandosi su con un braccio, tornò in piedi.
Mi guardò quasi con indifferenza e tutto l'entusiasmo nel farmi sentire a disagio sembrò diradarsi velocemente «Tranquilla, non sei il mio tipo, non mi interessa sapere veramente quello che fai a letto con la gente»
All'impatto con le sue parole, per assurdo, mi sentii punta nel vivo. Sminuita. E il fastidio accrebbe dentro me come una vampata di calore improvvisa.
Restai zitta. Mi aveva messa all'angolo, svalorizzata, mi sentivo piccola come una formica.
«Bene così. Perché dovresti saperlo poi? Non te la darei nemmeno se ne avessi due!»
Voltai le spalle e a passi pesanti mi diressi verso il piccolo spazio al centro di due travi nella staccionata.
Non avevo idea dell'espressione che poteva avere il suo viso, ma sapevo che, per una volta -una soltanto-, mi ero fatta valere o almeno ci avevo provato.
Afferrai un lato della trave e mi chinai, ma proprio quando finalmente potevo battere la ritirata, Aron tornò a parlarmi.
«Che fai, non li rivuoi questi?»
Mi voltai. Si era chinato a raccogliere i miei fiori e li stringeva in un pugno scuotendoseli davanti.
A quel punto c'erano due cose che potevo fare: tornare a prendermeli o lasciar perdere e mettermi in salvo.
«Tieniti quei dannati fiori.» Borbottai.
La mia mente mi voleva fuori da quel prato. Avevo una sorta di repulsione per quel ragazzo, ma la reazione del mio corpo non fu in linea con i miei pensieri.
Le gambe non si mossero di un millimetro, la schiena non si piegò per passare all'interno della staccionata e le mie mani restarono appoggiate sulle travi.
Ero in attesa. In attesa di cosa, però?
Aron si morse un labbro e con un mezzo sorriso scosse ancora il mazzo davanti a sé.
«Dannazione, e va bene.» mormorai.
Quando mi vide tornare verso di lui, i suoi lineamenti si rilassarono. Ciò non cambiò l'espressione vittoriosa sul suo viso, ad ogni modo.
«Ecco a te» disse e mimò un grosso sorriso.
Afferrai i fiori con un gesto rapido. L'aria piatta e seccata.
«Adesso mi lascerai piantare ciò che resta di loro, o dovrai continuare a piazzarci sopra la tua sdraio?»
Non so per quale motivo, Aron amava tanto prendere il sole sulla mia povera aiuola.
«Fa pure. Piantali dove vuoi.»
Disse con una scrollata di spalle.
Era impressionante la velocità con cui si stufasse facilmente anche degli stessi scherzi idioti che ideava lui stesso.
«Ah. E non potevi lasciarmelo fare anche prima, senza distruggermi un quarto di giardino?»
Guardai i petali bianchi e gialli dei tulipani stretti fra le mie dita. Erano sgualciti, alcuni si erano strappati e qualche gambo pendeva lento e acciaccato dalla mia mano.
Mi si strinse il cuore a vederli così.
«Saresti mai venuta a parlarmi se non lo avessi fatto?»
Avevo sentito bene?
Scossi il capo. 
«Come hai detto?» 
Si allacciò le braccia dietro la nuca.
Non sapevo se continuare a fissare i suoi occhi azzurri o i piccoli tatuaggi stampati lungo entrambe le sue braccia.
«Hai capito.»
Persi un battito.
Perché Aron Green voleva parlare con me? No, la domanda esatta era un'altra: perché si era spinto a tanto, pur di parlare con me?
«Emh, no. Probabilmente non ti avrei mai rivolto parola.»
Distolsi lo sguardo da lui e lo riportai nuovamente ai fiori.
«Ecco, vedi? Allora ho fatto bene.»
Sfoggiò un sorriso così perfetto che per un momento mi sentii scottare le guance.
Guardare i fiori era un'ottima idea, senza dubbio.
«Potevi salutarmi, non c'era bisogno di tutta questa cagnara.»
Storse le labbra e mimò un'espressione eloquente.
«Ok, no. Non potevi»
Non gliene avevo dato mai occasione. Aron aveva ragione, da quando lo avevo visto urinare davanti a casa mia lo avevo evitato come la peste.
Per me era un barbaro, uno zotico, un elemento che non avrebbe mai fatto per me.
«Hai confermato una cosa, sai?»
«Cosa?»
Sciolse le braccia lungo i fianchi.
Il suo metro e ottanta abbondante, sovrastò il mio metro e settanta scarso e mi sentii costretta a rannicchiarmi nelle spalle quando si sporse verso me.
«Che sei una con la puzza sotto al naso.» Mi fece l'occhiolino e drizzò nuovamente la schiena.
«Non sono una che ha la puzza sotto al naso! Forse tu non te ne rendi conto di quanto sei fastidioso come vicino. Non si tratta di classismo o di puzza sotto il naso, si tratta di rispetto che tu non hai!»
Strinsi i pugni finendo per rompere anche gli ultimi gambi di tulipano.
«Dio, sei sempre così puntigliosa? Facevo per dire.»
«Ascolta.» Trovare la calma mi sembrò un gesto epico «Siamo partiti con il piede sbagliato, non trovi?»
Ma io ero, da sempre, una persona molto democratica e sapevo controllarmi quando ce n'era bisogno. Più o meno.
«Quindi,-» proseguii «che ne dici di ripartire da zero?»
Aron si massaggiò il mento guardando un punto indefinito sopra la sua fronte «Mmh, ci sto.»
Incrociò le braccia al petto e tornò a fissarmi in quella maniera che tanto mi faceva girare le palle «Come pensi di procedere? Devi riconquistarti le mie grazie.»
Le mie sopracciglia formarono un perfetto arco di stupore «Io?!»
Annuì convinto. «Non hai idea di quanto tu mi abbia ferito, ignorandomi» sollevò un dito e mimò di asciugarsi una lacrima finta.
Arricciai le labbra.
Era un cretino. Non c'erano dubbi.
«Posso immaginare...» mormorai piatta.
Nei suoi occhi balenò qualcosa al sapore di idea lampo.
«Che ne dici di una cena?» si affrettò a chiedere.
«Oh, no. Non se ne parla. Limitiamoci a fare i vicini rispettosi, Green.»
La sua bocca si incurvò all'ingiù.
Fa sul serio?
«E' un'offerta di pace, nulla di più» sollevò le mani davanti a sé. I palmi ben spalancati «e se ti sentirai a disagio, prometto di lasciarti andare»
Sapeva di trappola la sua offerta.
«Ok. Un'ora, non di più. Una cena veloce»
Le labbra di Aron si schiusero mostrando l'ennesimo meraviglioso sorriso.
E ammettere che fosse meraviglioso mi costò parecchio.
«Domani?»
«Domani.»

                                                                                         *******
Se c'era qualcosa che odiavo più di Aron, era l'uscire a cena fuori. L'ansia di prepararsi, il continuo e frenetico controllare l'ora e la mia ossessività nel calcolare tutto fino all'ultimo istante.
Per non parlare del dover scegliere cosa indossare...un attimo. Perché diavolo dovevo scegliere qualcosa da indossare? 
Non stavo andando ad un appuntamento, era solo il solito, fastidioso, Aron. Una tuta e una felpa sarebbero andate bene.
Aprii l'anta del mio armadio e sfilai appunto il pantalone di una tuta e la mia felpa preferita. Ma quando mi calai quest'ultima sulla testa e mi guardai allo specchio, assurdamente, mi sentii fuori luogo.
Insomma, era Aron si, ma io ero pur sempre una ragazza e poi lui mi vedeva tutte le mattine vestita così.
«No.» Me la sfilai e scesi giù per le gambe il pantalone grigio della tuta balzandoci fuori.
Tornai all'armadio e lo perquisii.
«Nemmeno questo» mi tirai dietro le spalle una maglia.
Un pantalone nocciola.
Una gonna.
Un'altra maglia.
«Ok. Respira.»
I miei occhi finirono su una gonna a pieghe grigia. Non era il massimo, ma almeno mi etichettava per quello che ero: una ragazza.
Sfilai da una gruccia una camicetta bianca e raggiunsi con le dita di una mano il cassetto dell'intimo.
"Martedì". Era questo che diceva il paio di slip che avevo afferrato velocemente dal comò, anche se era Venerdì.
La scritta risaltava a caratteri cubitali sul sedere. Qualche anno prima, durante un viaggio con i miei genitori, la compagnia aerea mi aveva smarrito i bagagli ed io ero stata costretta a comprare delle mutande economiche da Target. Certamente non avrei buttato sette paia di mutande solo perché mi ricordavano che giorno della settimana fosse.
E poi, nessuno doveva vedermi l'intimo né quella sera, né -probabilmente- in un futuro prossimo.
Frettolosamente corsi in bagno. Aprii l'acqua e mi fiondai sotto il getto caldo.
Avevo fretta che quella serata passasse. Già potevo sentire il disagio nel trovarmi dentro casa del nemico e sicuramente, sarebbe finita nel peggiore dei modi.
Aron amava due cose: le feste e mettermi in imbarazzo. Nulla lo avrebbe fatto demordere dall'organizzarmi un tranello sottobanco.
«Che Dio me la mandi buona»
Terminata la doccia corsi nuovamente in camera.
Avvolta da ben due asciugamani, uno addosso ed uno avvolto alla testa, strofinai via le goccioline d'acqua e mi affrettai ad indossare prima l'intimo e poi ciò che avevo scelto.
«Otto meno venti» Ero in anticipo di venti minuti. C'era tutto il tempo per asciugarmi i capelli e...
tlack.
Il tonfo di qualcosa sul vetro della finestra mi fece sussultare.
Esitante mi avvicinai alla tenda e la spostai.
No. Non era possibile.
Aron, appoggiato con i gomiti al davanzale della finestra di camera sua, si picchiettava un orologio immaginario sul suo polso.
«Non ho tutta la sera. Ho anche degli impegni, io.» Disse marcando l'io finale.
Strinsi le labbra e sentii le narici allargarmisi.
Tirai nuovamente la tenda e calpestando nervosamente il parquet con i piedi scalzi raggiunsi la toletta con le spazzole e il phon.
Mi accomodai seduta allo sgabello e nervosamente pettinai i lunghi capelli, biondi e mossi.
Impiegai meno di dieci minuti per asciugarli e raggiunsi l'uscio di casa Green in un'altra manciata di minuti.
«Finalmente, credevo di dover mangiare solo» Aron scostò l'anta e mi rifilò un'occhiata da capo a piedi. Non ebbi il coraggio di definire il suo sguardo perché ci avevo visto di tutto. Quindi lo ignorai.
«Ti prego. Dacci un taglio» lo sorpassai porgendogli con uno scatto il giacchino dello stesso color grigio sbiadito della gonna.
Aron borbottò una risata. Afferrò il giubbino e mi fece cenno di accomodarmi nell'unica stanza dalla quale filtrava della luce.
«D-Dov'è il disordine e lo sporco e le bottiglie che ti scoli di notte?!»
Il salotto dalle pareti cobalto era in perfetto ordine. C'era odore di pulito misto al tabacco di qualche sigaretta fumata distrattamente, e tutto sembrava essere perfettamente in armonia con i mobili e con i quadri.
«Quali bottiglie?» Ridacchiò sbalordito apparendomi accanto.
«Quelle che credevo...» E se avevo immaginato una persona che non era mai esistita? «Niente, lascia stare»
Aron mi rifilò un'occhiata indecifrabile e inarcò per un secondo le sopracciglia.
Restai sull'uscio del salotto per qualche istante, anche dopo che lui mi invitò ad accomodarmi a sedere. Le dita strette attorno alla cinta della borsa.
«Torno subito.» Attraversò la stanza passando a piedi scalzi su quello che aveva tutta l'aria di essere un grosso tappeto persiano e sparì dietro l'anta di una porta quadrettata in vetro smerigliato e legno.
Ero sbalordita. Probabilmente se mi fossi trovata esattamente dove credevo di finire, non mi sarei sentita così a disagio.
Se Aron fosse stato l'Aron per come lo avevo immaginato, forse, avrei approfittato di quella cena per dirgli quanto lo detestavo. Ma mi aveva colta alla sprovvista.
«Preferisci mangiare dentro o fuori?» Si affacciò da quella che sembrava essere la cucina, con le mani aggrappate alla cornice della porta.
Il viso sorridente, rilassato.
«E' uguale.» dissi senza riuscire a smettere di guardarmi attorno. Anche mentre avanzavo verso lui. «Non fare tante cerimonie, Aron. Sono solo io»
Accanto al muro vicino alla porta del salotto da dove ero passata, c'era un tavolino rotondo di legno. La luce proveniva dalla grossa abat-jour sopra di esso e illuminava una sfilza di cornici d'argento che tenevano ben protette delle foto.
Alcune dovevano essere di Aron da piccolo. I capelli scuri, gli occhi chiari che non gli erano cambiati affatto.
Una lo ritraeva appeso con le braccia alla fune di una barca a vela. Con lui c'era anche un uomo. Un uomo che gli assomigliava incredibilmente.
«E' mio padre»
Sussultai. Non lo avevo sentito arrivarmi alle spalle.
«Ti somiglia.»
Accennò un sorriso breve «Si.» ma svanì in fretta.
«E quella donna? E' tua madre?»
Indicai la foto di una donna bionda. Bellissima.
«Lei è la mia matrigna. Marleen.»
Il fatto che Aron mostrasse pubblicamente le foto della sua famiglia e che ne parlasse, doveva dimostrare che non era poi così spregevole come ragazzo.
Sicuramente rompi scatole, ma non cattivo.
Magari mi ero sbagliata.
«E' molto bella, anche lei.»
Qualcosa nella mia affermazione lo aveva dovuto disturbare perché notai l'espressione del viso cambiare per ben due volte. Ma poi, con il suo solito fare, aveva smorzato i suoi pensieri.
«Però non hai detto che sono bello anche io» Allungò una mano sulla superficie del tavolino e sollevò il mento fino a che i suoi occhi furbi non incrociarono i miei.
«Se avessi voluto dirlo, lo avrei fatto. Non credi?»
L'angolo della sua bocca si piegò in una smorfia divertita.
«Sei proprio stronza.» disse e poi spostò le sue labbra accanto al lobo delle mie orecchie «Tanto riuscirò a farti pronunciare quelle tre paroline».
Piegai il collo da un lato con la speranza di scacciare via il suo respiro, i brividi che mi aveva fatto salire lungo la spina dorsale e i pensieri positivi sul suo conto.
Aron era un predatore ed era furbo ed io non dovevo trovarmi li.
Poggiai le mani sulla canotta con la vistosa testa di un toro e la scritta Bulls stampata sotto e lo scostai da me «Andiamo a mangiare, ti prego.»
Fece un passo indietro e sospirò un sorriso. Poi allargò il palmo della mano e mi fece cenno di raggiungere la porta a vetro.
Se Gretha, la mia migliore amica di sempre, avesse saputo dov'ero finita quella sera e in che guaio mi ero cacciata!
Sicuramente mi avrebbe fatto una lavata di testa. Nemmeno lei vedeva di buon occhio Aron. Anzi, non lo sopportava affatto.
Ma secondo me, per come la conoscevo bene, odiava Aron per il semplice fatto che non la degnasse mai di uno sguardo.
Le piaceva. Le era sempre piaciuto, perché Aron era esattamente come la sfilza di ragazzi poco raccomandabili che amava portarsi a letto. Ma con gli altri ci era sempre riuscita.
Gretha era bella e prosperosa e simpatica. Tutti la desideravano, nonostante fosse una terribile "nerd" ed eccellesse praticamente in tutto.
Anche io lo ero, ma a differenza sua ero anche figlia di una marchesa, il che mi rendeva oggetto di odio e angherie da parte di tutti.
Ma ci ero abituata e quella era comunque un'altra storia.
«Accomodati»
Le pareti della cucina di Aron erano verde pisello o forse gialle senape. C'era un neon dentro l'applique sulle nostre teste ma non illuminava abbastanza perché io potessi distinguere il colore dei muri. Ciò che però distinguevo bene erano i banconi di legno perfettamente laccati e le presine a scacchi bianchi e verdi agganciate sopra il lavandino. Le calamite a forma di frutta sul frigo e le imbarazzanti presine di gomma a forma di anatroccolo abbandonate sul fornello.
«Oddio e quelle cosa sono?» Le indicai e risi.
Lui si imbronciò «Non offendere le mie presine!» le afferrò e se le infilò per prendere qualcosa dal forno.
«Non mi permetterei mai» risposi con ironia sollevando i palmi delle mani, combattendo la voglia di sghignazzare.
Aron si chinò e tirò fuori una pirofila dal forno.
Un polpettone fumante apparve davanti ai miei occhi immerso in un mare di patate al forno.
Lo stomaco mi si allargò all'istante.
«Lo hai fatto tu?» chiesi sbalordita.
Sollevò un sopracciglio «Va bene che sei un'ospite, però non montarti la testa.» Scostò la sedia e si accomodò davanti a me «Ho preso due roll al supermercato. Mi piace il polpettone.»
Risi fra i baffi.
Non credevo che ad Aron Green potevano piacere cose normali come il polpettone o le presine a forma di anatroccolo.
«Allora? Che aspetti, mangiamo.» Indicai le posate di servizio.
Lui le afferrò al volo e si sollevò per tagliare il roll a fette.
Ne mise tre nel mio piatto e una cucchiaiata enorme di patate.
«Non so quanto ne mangi» Per un momento, uno soltanto, mi sembrò terribilmente in difficoltà.
«Va bene così, grazie».
Ma ovviamente durò poco.

A fine cena, la pancia mi esplodeva. Sentirsi satolli nella tana del lupo era un guaio grosso.
Non avrei avuto i riflessi per mettermi in fuga, ma infondo...forse non ce n'era nemmeno bisogno.
«Resti a vederti un film?»
Riemergendo dalla cucina, con la borsa stretta fra le dita, trovai Aron sbracato sul divano del salotto con il telecomando stretto fra le dita.
«Sono le nove passate ed io ti avevo dato un'ora»
Anche se non stava guardando me, ma lo schermo del plasma agganciato alla parete accanto alla cucina, sorrise divertito lo stesso.
«Non ti mangio, cappuccetto rosso»
Socchiusi le palpebre per un istante «C-Come prego?»
I suoi occhi terribilmente azzurri e penetranti fecero una capovolta per la stanza prima di piombare su di me «E' solo un film.»
Storsi un labbro e poi me lo passai fra i denti delicatamente «Chi mi dice che non farai qualcosa...che potrebbe farmi arrabbiare? Sei bravo in questo»
Sospirò dal naso e sollevò le mani «Non farò niente, lo giuro»
Perché Aron mi avesse chiesto di restare? Non lo sapevo. Perché accettai? Men che meno.
«Ok. Un film, poi torno a casa»
Annuì e mi fece spazio sul divano.
C'era del disinteresse. Una punta, in tutto ciò che faceva. Sia nel modo in cui mi aveva fatto spazio a sedere, sia in quello con cui si rivolgeva a me.
Eppure, una parte di lui doveva trovarsi a suo agio in mia presenza.
Mi accomodai ad un cuscino di distanza da lui.
La schiena dritta, le gambe strette e tese.
Ero rigida, agitata.
Tutto il contrario di lui, che se ne stava sbracato come se stesse in spiaggia.
Non si era nemmeno degnato di mettersi un paio di scarpe.
Insomma, inviti qualcuno a cena per lo meno cambiati i vestiti.
Guardai le dita nude dei suoi piedi per un po' prima che una smorfia non apparve sul mio viso portandomi a guardare altrove.
«Ti piacciono i polizieschi?»
Domandai notando che aveva smesso di cambiare canale dopo aver incrociato appunto un giallo.
Drizzò la schiena e incrociò le gambe sul divano.
«Si e i film d'amore»
Gli rifilai un'occhiataccia a cui rispose ridacchiando.
«No, infatti. Non fanno per me, ma non c'è un granché in tv.»
«A me invece piacciono. Non sai mai chi è l'assassino fino alla fine» feci una pausa per guardare una scena del film e poi tornai a parlare «a meno che non sei me e lo capisci dopo le prime cinque battute».
Sbuffò «Dimentico sempre che sei un genio, Watson
Lo guardai di sfuggita e quell'occhiata non fu l'unica cosa che mi scappò.
Stavo sorridendo il ché mi lasciò sorpresa all'istante.
Restammo per un po' in silenzio, qualche volta, interrotto da me per commentare il film fino a che dopo svariati minuti, dove nessuno dei due diceva niente, Aron parlò.
«Perché quando cercavo di salutarti borbottavi e rientravi in casa?»
Sbattei le palpebre un paio di volte confusa «Be' perché mi avevi rotto tre vetri e imbrattato la casa con quella maledetta pallina da tennis. E poi ti ho visto-»
«Non rincominciare con quella storia. Ti ho chiesto scusa»
Inarcai le sopracciglia «Quando scusa? Temo di non ricordare»
Si voltò. Ora si che avevo i suoi occhi addosso, ma erano nuovamente privi d'interesse. Avevo la sensazione che dei momenti non mi guardasse affatto mentre degli altri pensasse a qualcosa intensamente.
«Che dovrei fare, implorarti?»
«Sarebbe un'idea.»
Sbuffò scuotendo la testa «Non sono il tipo.»
Di quello non ne ero certa. Infondo mi aveva pregata di restare a cena da lui.
«Ti ho invitata qui, mi sembra abbastanza.»
La sua arroganza non tardò ad arrivare seguita dalla mandria dei miei nervi.
Come riusciva ad irritarmi lui, nessuno mai.
«Devi essere sempre così stronzo? Non eri obbligato a farmi venire qui.» Mi sollevai di scatto. Era ora di andarmene o avremmo finito per rotolarci sul pavimento un'altra volta, magari prendendoci a pugni però.
I suoi occhi si fecero di colpo più grandi e mi seguirono quasi increduli.
«Dove vai?»
«A casa. Ho sonno e domani abbiamo il corso.»
Dove diavolo aveva messo la mia giacca? Non la vedevo in sala.
«Sei sempre così permalosa? O hai difficoltà a distinguere un'offesa da un'affermazione?»
Sentii ogni muscolo farsi sempre più teso.
«E tu sei sempre così sgarbato con tutti?»
Si sollevò dal divano come se gli avessi appena sferrato un pugno e fosse pronto a reagire.
«Sgarbato? Sgarbato perché ti ho detto che la cena rappresentava il modo per chiederti scusa ?Non capisco, che diavolo volevi facessi?»
Ok, Haly dacci un taglio. Ha ragione.
«Scusa.» 
Quella parola lo fece demordere dal dire qualsiasi altra cosa. 
«Non mi relaziono spesso con le persone, ma questo credo tu lo sappia.» mi grattai la nuca. Sentivo le guance farsi sempre più calde ed il collo pizzicarmi.
Aron sospirò quasi con rassegnazione. Mi afferrò le spalle e guardò il mio viso.
«Dovresti incominciare ad abbassare quell'assetto militare che hai montato su per farti scudo. Rilassati Evans, non tutti sono degli stronzi. C'è anche chi si diverte a fingere di esserlo.»
Nella mia vita mi ero sentita molte volte piccola come una pulce, ma quella le aveva battute tutte.
«Be' a me sono capitati più stronzi veri, che attori.» Sviai lo sguardo ferito al tavolo rotondo colmo di foto.
Aron restò a guardarmi per qualche istante ma io non ebbi il coraggio di ricambiare.
«Io non voglio fare solo lo stronzo con te. Voglio anche conoscerti.»
«Che...significa?»
Mosse un passo verso me e la voglia di farne uno indietro accrebbe. Peccato che le sue mani fossero sulle mie spalle, il che mi serrò le gambe.
«Che mi piace fare l'idiota con te, farti arrabbiare, vederti incazzata nera ma l'ho fatto, è stato divertente e ora vorrei passare alla parte successiva. È più di un anno che lavoriamo insieme e viviamo ad un passo l'uno dall'altra, eppure, io non ti conosco affatto.»
«Tutto quest'interesse nel conoscermi?» Aggrottai la fronte senza accorgermene.
«Che ne so, magari mi paro il culo in questo modo se dovessi mai romperti un altro vetro» alzò le spalle.
«Anche se fossimo buoni amici ti prenderei a calci, qualora succedesse di nuovo. Ho speso un capitale per quei dannati vetri.»
Rise.
«Te li restituirò» notò che mi ero smarrita. Era colpa dei suoi occhi. «i soldi, intendo.»
Scossi la testa «Tienili per il prossimo vetro che mi romperai».
Afferrai la borsa dal divano e misi la cinta sulla spalla.
«E' davvero tardi, Aron».
Una parte di me - l'immancabile lato del cazzo, di me - provò un senso di delusione constatando che il cervello aveva agito prima della coscienza.
Ma anche una parte di Aron, forse quella che mal sopportava di più, sembrava delusa dalla mia decisione.
Non disse nulla però. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e aspettò.
«Devo riposare...»
Perché non diceva niente? 
Una vocina dentro la mia testa si era permessa di sussurrare qualcosa come :"dille di restare". La soppressi. All'istante.
«Si. Giusto. Il corso...»
Si spostò per farmi passare.
Lo superai e nel farlo trovai la mia giacca appoggiata ad una sedia, accanto alla parete dietro al divano.
La raccolsi. Avrei dovuto fare pochi metri e così evitai di infilarmela.
«Ti accompagno.»
Annuii seguendolo lungo il corridoio. Nonostante le luci spente vedevo perfettamente dove stavo mettendo i piedi e vedevo Aron, un passo davanti a me.
Afferrò la maniglia della porta e la girò. Il lampioncino appeso sotto la piccola tettoia non tardò ad accendersi grazie al sensore che rilevò i nostri movimenti.
«Sono stata bene, dopo tutto.»
Aron accennò un sorriso «Anche io.»
Respirai pesantemente «Allora a domani.»
Annuì ma poi di colpo qualcosa gli ritornò alla mente.
Sollevò l'indice e mi chiese di aspettare un attimo.
«Dove corri adesso?»
«Aspetta e vedrai!»
Sparì dietro la porta, lungo il corridoio, e poi ancora in salotto.
Che diavolo aveva dimenticato?
Alzai gli occhi al cielo sospirando e sfilai il cellulare dalla borsa. Sul display brillava l'ora, ed erano le dieci passate. Dovevo già trovarmi a casa, nel letto pronta a...
Una serie di passi veloci e pesanti scalpicciò sul pavimento e poi, di colpo, la sagoma di Aron con un grosso secchio stretto per le mani apparve all'improvviso al centro della porta.
Feci appena in tempo a sbarrare gli occhi, prima che una grossa secchiata d'acqua -per fortuna calda - mi piovesse addosso.
«Aron! Ma che cazzo!»
Lui lasciò andare il secchio e, piegato, rise tanto da farsi venire le lacrime.
«Dio! Sei un imbecille!» Mi guardai la gonna e la camicetta: ero zuppa. Bagnata fradicia fino alle mutande. Mi sentivo l'acqua ovunque e qualche brivido di freddo incominciava ad accavallarsi sulla schiena.
Mi strinsi nelle braccia.
«Dovevo farlo, scusami.»
«Dovevi?!» gridai.
«Certo» si ricompose asciugandosi l'angolo dell'occhio «Sennò saresti andata via»
Schiusi le labbra.
Ma che cazzo...









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Capitolo 3
*** 2. ***


                                                                                      2.
Aron raccolse il secchio e tornò a fissarmi in attesa di una mia reazione.
Dovevo entrare? Stavo gelando e mi sarebbe preso un colpo se avessi attraversato il marciapiede così conciata.
«Allora? Resti li a gelarti?»
Mi strinsi maggiormente nelle spalle. Il grosso cipiglio che si era impresso sul mio viso non voleva saperne di sparire.
Gettai lo sguardo sulle travi di legno sbiadite dell'ingresso. Dovevo entrare?
Quel dubbio mi stava massacrando la mente.
Ma non era il solo. Perché Aron si comportava così? Non gli era bastato quell'anno e mezzo di torture?
Avevo sopportato in silenzio ogni sorta di dispetto, di mancanza di rispetto, di sgarbo e poi, quando sembrava aver capito i suoi sbagli, eccolo li che si perdeva nuovamente in un bicchiere d'acqua.
A lui piaceva prendersi gioco di me, esattamente come a tutti gli altri.
Mi salì un groppo alla gola. Ero stufa di essere presa come bersaglio di ragazzi annoiati, di stronze affamate d'invidia, di persone che non  si rendevano conto che io ero fatta di carne ed ossa e avevo dei sentimenti.
«Halanie...» La voce di Aron, da divertita quale era, all'improvviso divenne un sussurro.
Lasciò il secchio accanto allo stipite della porta. Per un momento esitò restando a guardarmi, poi provò ad avvicinarsi.
«Sta lontano».
Avrei voluto darmi uno schiaffo in piena guancia da sola quando mi accorsi che la voce mi era uscita dalla gola rotta e che stavo per piangere come una stupida bambina.
Aron sollevò una mano, ma al mio ordine gli restò sospesa a mezz'aria.
«Cosa ci trovate tutti di tanto divertente nel trattarmi così?» Affondai ancor di più le unghie nella stoffa umida della camicetta.
Non riuscivo a guardarlo, non avevo il coraggio.
Piuttosto mi concentrai sulla borsa rovesciata a terra e sulla giacca impregnata d'acqua ai miei piedi, cercando di ricacciare indietro quelle dannate lacrime che spingevano per rigarmi le guance.
«Era solo uno scherzo...» Tentò di giustificarsi lui con un filo di voce. Ebbi l'impressione che vedermi in quel modo lo aveva colto seriamente alla sprovvista.
«E' sempre solo uno scherzo! Peccato che dietro i vostri scherzi di merda ci sia una persona!»
Non riuscivo a controllarmi. Sapevo di star esagerando, come al mio solito, ma non ce la facevo più. Dopo una vita passata a subire dispetti e maltrattamenti da tutti i miei coetanei, il livello di sopportazione aveva raggiunto il culmine.
Ero satura.
E ferita.
In un'altra circostanza, avrei riso anche io di me stessa. Ma non ora.
«Scusa. Io non credevo che avresti reagito così» fece un passo avanti ma si fermò all'istante, quando sollevai lo sguardo prima ai suoi piedi scalzi e poi a lui.
«Sai cosa significa essere un bersaglio? Perché io lo sono stata per anni» dissi in un singulto « No. No, che non lo sai. Perché tu sei come tutti quegli stronzi che per anni hanno sabotato la mia vita!»
Aron stirò le labbra nervoso e poi si mosse nonostante sapesse perfettamente che non volessi.
«Adesso calmati. Ok?» 
Trattenni il respiro. Gli occhi sbarrati e rivolti al profilo della sua spalla. La vedevo sgranata, ciò stava a significare che mi era vicino. Troppo vicino.
Solo un attimo dopo, capii di essere fra le sue braccia o forse me ne ero accorta subito ma non potevo crederci.
Il calore del suo corpo si irradiò contro il mio.
Avevo il cuore in gola e seppur volessi scappare, nessun arto si mosse.
Aron era in grado di pietrificarmi con una sola occhiata e allo stesso tempo, di sciogliermi come neve al sole.
Era imperdonabile: odiavo più quello che era in grado di farmi che il suo caratteraccio o i suoi stupidi scherzi.
«Entra. Giuro che non ti farò più nemmeno mezzo dispetto.» fece una breve pausa «Volevo solo che restassi, ma chiederlo a parole era troppo imbarazzante»
Sollevai il mento ed incrociai il suo sguardo.
Per la prima volta, Aron Green era imbarazzato. Anzi, l'imbarazzo lo stava proprio divorando.
Ma non era l'unico, anche io stavo morendo di vergogna.
Avevo bisogno di aria e di capire come riuscissi a stare fra le sue braccia.
Mi resi conto che i miei avambracci erano premuti contro il suo petto, ciò nonostante, non stavano applicando la giusta pressione per scacciarlo. Erano semplicemente appoggiati su di lui. E le mie gambe, fredde e umide, erano contro le sue. Era per questo motivo che sentivo i muscoli contratti.
«Impara a chiedere. Non sempre ti verrà detto di no.»
Lui era certo del contrario. Ma io non più.
Se era in grado di far provare una certa irrequietezza al mio corpo, forse sarebbe stato capace di convincermi a fare qualsiasi altra cosa.
«Lo farò, la prossima volta»
I suoi occhi immensi mi fissarono per quella che parve un'eternità. Io ci stavo affogando dentro.
Aron lasciò andare la mia schiena e una sensazione di freddo pungente mi attraversò nell'esatto punto dove il suo corpo non premeva più contro il mio.
Raggiunse l'anta della porta ed aspettò di vedermi entrare.
Raccolsi le mie cose con la coda fra le gambe e mi convinsi a seguire il tepore proveniente dall'interno della sua villetta.
Per quanto Phoenix fosse calda di giorno, di notte le temperature -specie nel mese di Ottobre- scendevano in picchiata.
E nonostante amassi da matti il freddo, in quella circostanza avrei preferito ci fossero quaranta gradi all'esterno.
Poi ci pensai: che differenza faceva? Dentro stavo bollendo.
Per la confusione.
Per l'imbarazzo.
Per lui.
«Ti faccio strada» 
Stringendo la giacca e la borsa contro il mio petto, seguii Aron nel buio del suo corridoio.
C'erano circa quattro porte. Una dritta all'ingresso, quella scorrevole del salotto e altre due a destra.
Poco prima di incrociarne una, urtai una consolle e le chiavi dentro la conchiglia di ceramica tintinnarono.
«Ti sei fatta male?» chiese in risposta al mio "aia".
Scossi la testa «Sono apposto.»
Aron tornò a voltarsi e poggiò una mano sul pomello della prima porta senza aprirla «Qui c'è il bagno.» poi si spostò di lato e aprì la seconda «E questa è camera mia, puoi cambiarti qui se vuoi»
L'idea di entrare dentro camera sua mi fece contrarre lo stomaco.
Non per l'avversità che provavo per lui, bensì per tutti gli strani pensieri che si stavano accavallando senza alcuna logica nella mia testa.
«Hai una camera così...normale» entrai.
Era veramente una stanza normale.
Le pareti erano rosse: un rosso spento, per niente intenso, ed erano costernate da scaffali colmi di libri e fogli.
C'era una scrivania al centro della parete a ridosso della finestra di camera mia. Era piena di quaderni.
Una chitarra era appoggiata al bordo del letto matrimoniale che occupava il lato sinistro della camera. Lo avevo sentito un paio di volte strimpellare con quell'affare e ricordavo di aver serrato la cerniera della finestra imprecando.
Non so se ci si fosse impegnato, ma in quel "paio di volte" era riuscito ad interrompere la mia sessione di studio senza problemi. Aveva un radar, secondo me, e gli diceva perfettamente quando agire per disturbarmi. Sennò non si spiegava.
Fece scorrere il piccolo cassetto nella colonnina di legno appoggiata sotto le mensole colme di libri.
«Non credo di avere indumenti da ragazza» mormorò frugandoci dentro «ma credo che una delle mie maglie ti coprirà abbastanza»
«Qualsiasi cosa, basta che me la presti in fretta. Sto gelando» 
Mi rannicchiai seduta sul bordo del letto. I brividi lungo la mia schiena - decisamente poco piacevoli- sembravano cavalloni in riva al mare.
«Ecco, prendi» 
Mi porse una T-shirt che sicuramente doveva star grande anche a lui.
L'agguantai e con un'occhiata felina- «voltati» gli intimai di girarsi.
Non mi avrebbe visto nuda. Né quella sera, né in futuro.
«Ti vergogni?» chiese ridacchiando.
Inarcai un sopracciglio «Non dovrei?».
Incrociò le braccia al petto « Quando vai al mare, non sei in mutande e reggiseno lo stesso?»
«Non è la stessa cosa.»
Sospirò dal naso «Siete tutte uguali. Vi vergognate per le cavolate, poi andate alle feste e fate chissà quali sconcezze»
Sgranai lo sguardo «Aron, io non faccio sconcezze e non vado alle feste.» tirai fuori il bordo della camicetta dalla gonna «Quel genere di ragazza è il genere che frequenti tu. E adesso, voltati.» 
Mi sollevai dal materasso. Le dita, sulla stoffa candida della camicetta, pronte per separare i bottoni dalle asole.
«Si Signora.»
Aron lanciò gli occhi al cielo, girò sui talloni e mantenne le braccia incrociate, in attesa che mi cambiassi.
Mi ripromisi di farlo in fretta. Ero indecentemente imbarazzata, a tal punto che quando abbassai la zip della gonna e provai a sfilarla dai piedi, per poco non caddi.
«Ho fatto. Puoi voltarti»
I suoi occhi incrociarono prima il mio corpo e poi me, e le sue pupille si allargarono così tanto che l'iride azzurra divenne solo un piccolo cerchietto attorno ad esse.
Velocemente guardò in direzione dei miei panni e si mosse per raccoglierli da terra.
«Ho un'asciugatrice in bagno» mormorò.
Questa volta avevo l'impressione che gli si fosse attorcigliata la lingua e mi venne da ridere.
Potevo essere una gran fifona, ma non un'ingenua. Non così tanto.
Si chinò davanti alle mie gambe e raccolse in fretta la gonna e la camicetta.
Rialzandosi però, le sue pupille si ritrovarono a solcare la forma dei miei polpacci e delle mie cosce.
In quel preciso istante, qualcosa si era mosso dentro me. Mi dissi, assurdamente, che quello sguardo, su di me, mi piaceva.
E non importava come fosse, se sporco o impacciato. Mi piaceva essere guardata in quel modo da uno come lui.
Mi resi conto che la parte più carnale di me voleva uscire fuori e mi ritrassi all'indietro.
Lui si sollevò velocemente e sparì dietro l'anta della porta per qualche istante.
Che diavolo mi era preso?
Sfiorai le mie guance con i palmi delle mani: erano bollenti.
Stavo impazzendo? Sicuramente.
C'era una nota positiva in tutto ciò, però, perché Aron si era fermato alle cosce. Non aveva guardato sotto la T-shirt, e per quanto lo trovai strano da parte di un tipo come lui, gliene fui grata.
«Aron» mi voltai quando sentii i suoi piedi battere sul pavimento. Ma l'espressione che trovai sul suo viso mi confuse. Ancor di più ciò che disse «Se vuoi ti accompagno a casa».
Non mi guardava questa volta. Mantenendo gli occhi su un punto qualsiasi del pavimento e una mano sulla nuca, sembrava aver perso il controllo ed essere finito nel baratro del disagio.
Perché?
Guardai fuori dalla finestra, quella di camera mia.
Era giusto. Dovevo andarmene.
«Sei imbarazzato?»
Mi morsi la lingua subito dopo.
Ma che mi saltava in mente? Perché dovevo aizzarlo?
Aron sollevò entrambe le sopracciglia e dire che fosse stupito sarebbe potuto sembrare un eufemismo.
«Imbarazzato? Di cosa?»
«Di restare in camera con una ragazza-» mi avvicinai di un passo «mezza nuda» e poi un altro «e di non poterla sfiorare nemmeno con un dito» e poi l'ultimo, fino a che le mie labbra non furono pericolosamente vicine ad un lato del suo viso.
Aron sospirò una risatina fra i denti.
«Poi non dire che non te le cerchi...»
Parte del mio collo si irrigidì. Aveva ragione.
Drizzai la schiena.
Perché continuare a sfidarlo?
Perché lui mi aveva messo a disagio un'infinità di volte, ed ora avevo colto io l'occasione.
«Però ho ragione, non è così?»
I suoi occhi chiari percorsero il mio viso sin troppo accaldato, ma lo sguardo che mi lanciò fu incomprensibile.
«Solitamente, chi entra qui dentro esce senza mutande» disse facendomi l'occhiolino «perciò la mia non è vergogna, è seccatura dato che non posso toccarti.»
Ripensai alle terribili mutande con la scritta "Martedì" sul fondoschiena. Ero una miracolata. Lui non le avrebbe mai viste. E la cosa mi consolò. Parecchio.
E poi non facevo parte della schiera di fan che avrebbe fatto di tutto per finire sotto le sue lenzuola.
Avanzò costringendo me ad arretrare di un passo, ma non chiuse la porta.
Forse voleva veramente riportarmi a casa.
Magari, proprio per non finire a desiderare qualcosa che mai e poi mai sarebbe successo.
Raggiunse il bordo del materasso e ci piombò sopra.
«L'asciugatrice impiegherà trenta minuti. Perciò rilassati, non penso di avere il tempo materiale per farti qualcosa»
Assottigliai le palpebre in due fessure «E cosa ti fa pensare che io tema che tu possa farmi qualcosa?» feci una pausa «So per certo che non farai niente, perché IO non voglio che tu faccia niente»
Aron cacciò una risata sterile.
«Sentila...»
Afferrò il cellulare sul comodino e sbloccò lo schermo con il pollice.
Con disinteresse si concentrò a guardar scorrere, molto probabilmente, post e foto su MySpace.
«Sei odioso» borbottai raggiungendo il bordo del materasso.
Mi accomodai ai piedi. Per nessuna ragione mi sarei stesa accanto a lui. Ugualmente però sentii i suoi occhi dietro la mia nuca ed involontariamente piegai il collo.
Scese un silenzio imbarazzante rotto solo dal soffio dell'asciugatrice nell'altra stanza.
Quella era il genere di situazione che mi faceva piombare nelle braccia di Imbarazzo. Il demone stronzo che mi perseguitava ormai da una vita.
«Gretha Kileen, è tua amica?»
La domanda mi fece voltare all'improvviso.
«S-Si, perché?»
Guardò me, poi lo schermo del cellulare.
«Mi ha aggiunto su MySpace» proferì con un'alzata di spalle.
Alla fine lo aveva fatto. Solo pochi giorni prima, durante un'esercitazione in facoltà, mi aveva confessato di volerci provare con Aron dato che lui non si decideva a fare la prima mossa.
Peccato che Aron non aveva fatto nessuna "prima mossa" perché Gretha non gli piaceva affatto.
E lei lo sapeva, glielo avevo detto durante una delle mie "paternali" da genitrice iperprotettiva. A quanto pareva però, i miei tentativi di dissuasione erano risultati vani.
«Ignorala» dissi, l'aria vistosamente agitata.
«Perché? Non è male.»
«Tu fallo e basta.»
Il lampo di dispetto che balenò nello sguardo di Aron mi fece salire i nervi all'istante.
«Emh...no.» Voltò lo schermo del cellulare verso me e con l'indice della mano libera pigiò "accetta" sotto la richiesta di amicizia.
Mi voltai del tutto, allungandomi sul materasso alla ricerca del cellulare. Volevo strapparglielo dalle mani e cancellare quella richiesta perché un tipo come lui le avrebbe spezzato il cuore.
Gretha lo conosceva poco. Non aveva idea delle cose che sapevo o che vedevo io molto più spesso di quanto non lo volessi.
«Ma che fai?» protestò lui quando vide la mia mano rigida come gli artigli di un'aquila mirare al suo cellulare.
Lo alzò sulla testa e mi guardò aggrottando la fronte.
«Cancellala.»
«Perché?»
«Perché tu le spezzerai il cuore.» ammisi senza difficoltà.
L'espressione di stupore tornò a stamparsi sul suo viso. 
«Mio Dio, Evans non mi scopo tutte quelle che respirano. Solo una parte.»
Corrugai la fronte ancora di più.
«Cancellala, ti ho detto!»
Mi issai più su, lungo il materasso e gli bloccai il polso libero mettendomi in sicurezza.
Il suo cellulare era sempre più vicino.
C'ero quasi.
Un altro po'.
Mi gelai.
Non so se fu perché mi resi conto di aver raggiunto quasi la testata del letto o perché avessi sentito il suo respiro solcare l'incavo del mio collo.
Abbassai repentinamente lo sguardo. La mano sollevata a mezz'aria.
Lentamente le mie palpebre si aprirono come le ali di un gabbiano.
Aron mi guardò. Scoppiò a ridere.
Non servì nessun commento: ero a cavalcioni sopra di lui, un'altra volta.
Be' la prima volta c'era stato lui, ma non eravamo su un letto ed io, sicuramente, non avevo l'espressione inebetita come in quel momento.
Abbassò la mano che stringeva il cellulare sul cuscino e mi scrutò con aria soddisfatta e un vistoso sorrisetto sornione.
Volevo dire qualcosa, ma balbettai un paio di parole confuse che lo fecero ridere di nuovo.
«Ok.» disse «Adesso dimmi, cosa dovrei pensare? Insomma, te le cerchi certe cose.»
Io non mi cercavo proprio un bel niente!
Agivo d'impulso, non con malizia e puntuale come un orologio finivo sempre per fare qualche cavolata.
Lasciai di colpo il polso che gli tenevo stretto e sollevai le mani avanti ancor prima di sollevare il resto del mio corpo.
Tirai su la schiena, pronta ad alzarmi, ma Aron mi afferrò i fianchi facendomi ricadere nuovamente su di lui.
«Ti sconsiglio di farlo» mormorò senza far sparire il sorrisetto odioso «Sarebbe decisamente imbarazzante, per entrambi»
Smisi di respirare.
Avevo capito perfettamente a cosa si stesse riferendo.
«È meglio che non sia quello che penso» sibilai a denti stretti.
«Oh, no. Non lo è» Invece lo era eccome. 
Sentii tutto il sangue dentro di me fluirmi sulle guance.
Avrei voluto gridargli che era un maniaco e un porco, ma infondo aveva ragione. Gli ero piombata addosso ed ero in mutande.
«Ti prego. Sto per urlare. Fammi alzare»
Non la smetteva di sghignazzare. Era strano -assurdo- nessuno aveva mai riso tanto con me. Di me forse si.
Aron lasciò andare i miei fianchi «Fa pure» e scrollò le spalle.
Appena trovai il modo schizzai sul materasso a sedere. Non guardai lui, né le sue gambe, né...il resto.
«Sei veramente....Non ci sono parole per definirti»
Guardò oltre la sua fronte «Be' in realtà ce ne sono un'infinità: simpatico, accattivante, perfetto» -bello da morire.
 No, cioè non lo avevo pensato sul serio...
«Tu non sei niente di tutto questo! Sei egocentrico, volgare e arrogante, e-»
Improvvisamente si sollevò con un gomito.
«E...questo ti piace» 
Lo scrutai allampanata. Non poteva pensare veramente le stronzate che gli uscivano dalla bocca.
«Ma ti senti?» Strinsi le ginocchia al petto e distolsi lo sguardo. Perché quelle parole bruciavano così tanto?
Incastrò le sue braccia dietro la nuca e socchiuse le palpebre.
«Ad ogni modo, tu non piaci a me...quindi.»
«Lo hai già detto.» dissi con una smorfia antipatica.
Poi ci ripensai «E il tuo coso, comunque, non la pensa come te» 
Rise «Il mio non è un coso e gli hai strusciato il sedere sopra, è semplicemente sensibile.»
Scossi la testa.
«Come dici tu, si.»
Aron ruotò su un fianco, una mano sotto al mento e l'aria furba sul viso «Ti da fastidio?»
Alzai un sopracciglio «Cosa?»
«Il fatto che io ti dica che tu non fai per me»
Mi dava fastidio? 
«Che dici? Certo che no!»
Si. Mi dava fastidio.
Schiuse le labbra e sorrise ma non disse altro.
Si rigettò con le spalle sul materasso e sbadigliò annoiato.
I suoi occhi corsero al soffitto. Non sapere dove fossero diretti i suoi pensieri mi snervava.
«Però sei simpatica.»
«Oh, ma davvero?»
«Si» mormorò atono «Mi fai ridere. Poche persone sono in grado di farlo.»
«Tu ridi perché mi massacri costantemente» guardai fuori dalla finestra. Camera mia non mi era mai mancata così tanto.
«Prima mi è dispiaciuto veramente vederti piangere.»
Sul serio?
«Però ridevi anche in quella circostanza»
«Perché sono fatto così. Non tutti nascono giusti» mi sembrò che mancasse un "come te", ma per fortuna non lo disse.
«Però qualcuno ci prova anche ad essere giusto.»
Lo sentii respirare pesantemente «Perché io non l'ho fatto? Non ci ho provato? Mi sembra che sei li, vestita...»
Lo scrutai con disinteresse «Se questo lo chiami provare ad essere giusti...»
Mi sollevai dal materasso. Avrei ricacciato i miei panni anche umidi, li avrei indossati e sarei andata via.
Era ora di darci un taglio.
«Scappi?»
Ridussi le palpebre a due fessure e scossi la testa mimando una smorfia poco simpatica.
«Si, scappi. Dimentico sempre che sei brava in questo» incalzò.
Perché non lo avevo ucciso il giorno prima in giardino?
«Si può sapere che problema hai con me?»
Aron si sollevò a sedere e liquidò la mia domanda con un'alzata di spalle.
«Aron, lasciami in pace. Non sei nemmeno costretto ad essere carino o gentile con me, perciò...»
«Chi dice che sono costretto? Non ero costretto a fare niente questa sera, eppure, ti ho invitata a cena, ti ho fatta restare e sono stato persino bene»
«Ti rendi conto di aver elencato tre cose che fondamentalmente andava di fare a te ? La cena, il farmi restare...che c'è, ti annoiavi?» Affondai le braccia nel mio petto allacciandole l'una all'altra.
Schiuse le labbra e sviò lo sguardo.
«Ok. Pensa ciò che vuoi.»
«Apposto. Ora posso riprendermi i vestiti?»
Forzò un sorriso teso e settico, sollevò il palmo di una mano e lo mosse lentamente indirizzandolo verso la porta. «Accomodati»
Uscii dalla stanza senza troppe cerimonie e scostai l'anta della porta del bagno.
Io e Aron non saremo mai andati d'accordo.
Lui ed io eravamo come il giorno e la notte, incompatibili. Due rette parallele che non si sarebbero incontrate mai, né in questa vita, né in un'altra.
Pigiai il tasto off sull'asciugatrice e tirai fuori i miei panni.
Erano ancora umidi e anche un po' sgualciti, ma mi spogliai ugualmente della T-shirt e mi ricalai dentro la mia "pelle".
Tornai in camera di Aron pronta a raccogliere la borsa e gli stivaletti.
Me li sarei infilati in fretta e sarei scappata da lui e dal suo caratteraccio.
«Allora io vado» quando entrai in camera, dormiva. 
L'espressione distesa, beata.
Avanzai silenziosamente verso il bordo del letto e mi chinai a raccogliere gli stivaletti.
Restai come un'ebete a guardarlo: era bello. Bello sul serio.
Era chiaro perché tutte le ragazze del nostro corso gli sbavassero appresso: non c'era niente in lui che non fosse perfetto.
Peccato che ne fosse consapevole e usasse quel particolare per sminuire e maltrattare le persone a suo piacimento, come tutte le ragazze che avevo visto piangere e gridare contro la sua porta.
Per fortuna, io non sarei stata una di quelle.
Afferrai la cinta della borsa da terra e mi avventurai silenziosamente verso l'abat-jour sul suo comodino.
Gli avrei spento la luce e sarei uscita. Un gesto di premura, perché infondo mi aveva ospitata e aveva anche abbozzato delle scuse. Più o meno.
Allungai la mano nell'incavo fra il materasso e il bordo del comodino cercando a tastoni l'interruttore, quando, improvvisamente, mi sentii afferrare da sotto un'ascella.
«Aron»
Ritrovai il suo braccio attorno al mio sterno e la mia spalla accanto al suo viso, premuta contro il cuscino.
«Che diavolo fai?...» protestai cercando di raddrizzare la schiena da quella posizione innaturale.
«Resta. Odio dormire da solo»
«Ma non lo stavi già facendo?» Cercai di scacciare il suo braccio senza buoni risultati.
Alla fine mi arresi. Lasciai cadere il paio di scarpe a terra e la cinta della borsa scivolò dalla mia spalla un attimo dopo.
Sospirai rassegnata. E avvilita. «Almeno fammi spazio» 
Anche se non potevo vedere il suo viso immaginai quell'odioso sorrisetto sputargli sulle labbra.
Si trascinò leggermente più in là sul materasso e mi fece spazio fra il bordo e lui.
Volevo chiedergli di togliere quel dannato braccio dal mio petto ma non ebbi il coraggio di farlo. Per una volta non stavamo litigando e non avrei rovinato quel momento.

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Capitolo 4
*** 3. ***


                                                                                             3.
«E' questo il 32 di Long Point Road?», domandò il ragazzo dalla criniera bionda e imperlata di gel, mentre usciva da un'utilitaria scalcagnata che aveva parcheggiato all'imbocco del vialetto di Halanie, bloccandone l'uscita.
Ora, normalmente mi sarei limitato ad ignorare lo stronzo o a liquidarlo con un rapido cenno affermativo, e avrei  continuato a badare ai fatti miei. Ma non quella mattina. Quella mattina volevo fare qualcosa di buono per la mia vicina timida ed introversa, specie perché, per colpa mia, aveva saltato la sessione mattutina del corso. Dopo la sera prima ero certo che non si sarebbe arrabbiata e non avrei rischiato di farla correre a nascondersi nuovamente come era solita fare.
Ok, forse non ne ero così convinto, ma non riuscii ugualmente a trattenermi, specie dopo aver visto il coglione infilarsi un preservativo in tasca con un gesto plateale, rivolgendomi perfino uno sguardo complice.
Fanculo.
In quel momento non mi importava se ciò che stavo per fare l'avrebbe fatta fuggire su per le colline di corsa, o se l'avesse spinta a chiedere un'ordinanza restrittiva nei miei confronti. Mi dovevo liberare di quel pezzo di merda.
«Sei qui per lei?» chiesi, scaricando una delle sette casse di birra dalla macchina.
Il tipo con quattro palmi di gel in testa mi guardò perplesso. «Si, perché?».
Finsi turbamento, gettandomi una rapida occhiata alle spalle.
«Credo che non sia proprio una buona idea, intendo uscirci. Perché è per questo che sei qui, giusto?»
«Si, abbiamo un appuntamento» ammise.
Stentavo a credere che una ragazza come Haly riuscisse ad uscire con ragazzi del genere.
«Perché non dovrebbe essere una buona idea?» riprese a chiedere, dopo qualche istante di titubanza.
Dovetti trattenermi dal ridere notando che stava diventando nervoso.
«È evidente che non sai...» lasciai di proposito la frase a metà.
«Sapere cosa? Un'amica che abbiamo in comune mi ha combinato questo appuntamento...» disse, poi gettò lo sguardo verso le tende chiare del salone di Haly.
Avevo visto bene? Si erano mosse?
Mi sfregai il collo, sospirando piano «Be' amico, non sono affari miei ma...dovresti stare attento»
«A cosa?» piagnucolò.
Esitai. Dovevo tirar fuori una buona motivazione o una buona scusa per troncare quella manfrina «Ecco...lei ha...» Pensa Aron. Pensa. «Un problemino...» mi indicai l'inguine.
Gli occhi del ragazzo si spalancarono come se avesse appena visto qualcosa di terribile apparirmi sulla patta dei pantaloni. 
Spalancò la bocca, incominciò ad indietreggiare e... «Sai, credo di essermi appena ricordato di avere un impegno.» con quelle parole saltò praticamente in macchina dileguandosi.
Me la risi. 
Me la risi perché un ragazzino di appena -quanto? Vent'anni?- era piombato con l'auto, quasi sicuramente di sua madre, pronto per scoparsi una ragazza di quasi cinque anni più grande convinto, chissà da chi, che ci sarebbe anche riuscito.
E risi, perché metterlo in fuga era stato parecchio divertente e anche molto più semplice del previsto.
«Pss» 
Stavo ancora gongolandomi fra me e me per le mie grandi doti d'attore, quando un sibilo arrivò alle mie orecchie. «Pss» e poi un altro.
Mi voltai di colpo verso il vialetto di Halanie. Lo percorsi con lo sguardo a ritroso fino a che, da dietro l'anta della porta, non spuntò un orribile cappello di lana.
«Halanie?» Aggrottai la fronte. Quel cappello era veramente orrendo.
Si guardò prima a destra, poi a sinistra, «Vieni qui» e mi fece cenno di raggiungerla con la mano.
Vedendola conciata in quel modo dovetti stringere le labbra per non scoppiare a ridere.
L'orribile cappello che portava sulla testa era di color verde vomito. Il larghissimo accappatoio era persino peggio, ma il fazzoletto di stoffa appallottolato che stringeva in una mano era il tocco di classe.
«Che diavolo...»
Dato che la sera prima, quando era rimasta a dormire da me, era in perfetta salute stentavo a credere che quella tenuta, con 30 gradi all'esterno, non fosse stata progettata per respingere l'invito del giovane dai capelli incellofanati.
«È andato via?»
«Si, ma perché sei conciata così?»
Haly si guardò addosso e storse le labbra come se si fosse resa conto solo allora di quanto fossero terrificanti gli abiti che indossava.
«Sono malata.» disse saettando lo sguardo su di me «Molto malata.»
«Sei-malata?...»Sollevai un sopracciglio.
«Oh si, non hai idea di quanto stia male» finse una serie di colpi di tosse, tornando dentro casa.
Ridendo, si sfilò il cappello e me lo tirò.
«E lui?» lo presi al volo, prima che mi finisse dritto in faccia «Che storia è questa?» e lo indicai seguendola in salotto.
«Niente» si limitò a rispondere in fretta.
«Niente? Io direi che invece questo fa parte del tuo abbigliamento bizzarro e soprattutto anti-appuntamento.»
Mi rivolse un innocente sguardo da cerbiatta e rispose: «Non so di cosa stai parlando. Ho l'influenza.» colpo di tosse.
Per dare più credito a quella buffa bugia, tirò su con il naso.
Era imbarazzante, adorabile, ma imbarazzante.
Non riuscii a trattenermi  dall'alzare gli occhi al cielo e ridacchiare «Non capisco perché non puoi semplicemente ammettere che stavi cercando un modo per scaricare l'uomo della tua vita»
Haly scese sulle spalle l'orribile accappatoio e lo lanciò su uno dei due divani celesti del suo salone, prima di avviarsi verso la cucina.
«Dico sul serio...Sono malata.» insisté lei «Davvero. Potrei morire proprio adesso, mentre parliamo» si portò il dorso della mano sulla fronte e finse uno svenimento.
Non riuscivo a trattenere le labbra dal sorridere. Halanie era veramente in grado di farmi quell'effetto?

Non avevo idea di cosa Aron avesse detto a Jason per scacciarlo così in fretta dal vialetto di casa mia, ma aveva funzionato. Era scappato con la coda fra le gambe evitandomi l'ennesimo, triste, appuntamento non romantico della mia vita.
«Mi spieghi una cosa?» chiese lui alzando la voce perché lo sentissi dal salotto mentre ero in cucina intenta a prendere il bricco del latte dal frigo. «Perché le tue amiche si ostinano a combinarti appuntamenti?»
Afferrai una tazza dalla credenza e la poggiai sul tavolo. Svitai il tappo del bricco e versai il latte. Poi presi una buona manciata di cereali dal contenitore di vetro sul tavolo e li annegai dentro la tazza; infine tornai in sala.
«Credo si divertano a farmi uscire con gente discutibile» ammisi stringendomi nelle spalle mentre mandavo giù una grossa cucchiaiata di cereali intrisi di latte.
Gli occhi di Aron non si staccarono da me nemmeno per un istante. Ad un certo punto, infatti, lasciai andare il cucchiaio nella tazza.
Lo stomaco si strinse e il ricordo di averci dormito insieme tornò vivido soffocandomi di vergogna.
«Non potresti semplicemente dirgli che sei apposto?» Si andò a sedere su uno dei due divani e strinse le mani attorno alle sue braccia tenendole allacciate al petto.
«Dovrei...» sorrisi timidamente sviando lo sguardo. 
Spostai la sedia dal tavolino quadrato accanto alla parete che separava la sala dalla cucina, e mi accomodai.
Preferii guardare la ciotola mezza vuota anziché gli occhi dannatamente magnetici di Aron.
 «Certo che voi femmine siete proprio strane.» Sbuffò e gettò la testa all'indietro, poggiandola sul bordo dello schienale del divano.
Per fortuna non mi guardava più. I suoi occhi vagavano sul soffitto come se stesse pensando o se si fosse solo perso nella sua mente.
Ad ogni modo, Aron aveva ragione: Gretha e Samantha dovevano darci una taglio con quella storia degli appuntamenti lampo su Tinder.
«Posso chiederti una cosa?» Afferrai la tazza con due mani e trangugiai qualche sorsata. La poggiai e mi asciugai le labbra con il dorso della mano «Cosa gli hai detto per farlo scappare?»


«Che diavolo gli hai detto?!».
Ok, una reazione del genere era prevedibile. Insomma, Haly non aveva tutti i torti: dire che era affetta da una malattia venerea non era stata una delle mie migliori idee.
«Non sapevo che altro dirgli!»
Balzò in piedi dalla sedia. Il viso irradiato -si fa per dire- di nervi.
«Tipo...niente? C'era bisogno per forza di dirgli qualcosa, Aron?»
Allargò i palmi delle mani e le narici. Era fuori di sé.
Mi sollevai dal divano carico come una molla «Bene. Ci saresti uscita, allora?»
Lo sguardo di Haly si fece deluso e...spiazzato.
Drizzò la schiena e guardò il pavimento grattandosi la testa «Be'...no. Non volevo uscirci.» borbottò.
«Vedi? Ti ho dato una mano.» Sollevai il mento con fierezza. Certo, potevo scegliere una scusa migliore, questo era vero, intanto però l'avevo aiutata.
Halanie aggrottò la fronte, il che rese la sua espressione ancora più buffa.
Strinse le labbra e poi sospirò socchiudendo le palpebre.
«Non aspettarti un grazie per questo.» Si voltò verso il tavolo e raccolse la tazza sparendo in cucina nuovamente.
La seguii.
Era intenta a lavare il cucchiaio quando varcai la soglia di una cucina identica, nella forma, alla mia.
«Ora che ci penso...» lasciò andare il cucchiaio insaponato nel lavello e girò la manopola «Perché sei ancora qui?»
Corrucciai la fronte.
«In che senso?»
«In casa mia. Non ti è bastato farmi dormire da te e farmi  perdere il corso, questa mattina?» sollevò le mani gesticolando e qualche schizzo d'acqua le bagnò il pantalone grigio del pigiama che si era infilata dopo aver lasciato casa mia.
«Aspetta, è questo il tuo modo di dimostrarmi gratitudine?»
Mi sentivo offeso. Sul serio.
Pensavo di averle fatto un favore mandando a cagare quel coglione.
Lei spalancò gli occhi e potrei dire che sembrava veramente sbalordita.
«Oh si, Aron, ti sono molto grata per aver detto a un perfetto sconosciuto che sono affetta da una malattia venerea. Come farei senza di te!» mimò un sorriso finitissimo sbattendo persino le palpebre e poi tornò seria in un lampo.
«Va a casa. A casa tua.» ringhiò.
Stronza.
Sollevai le mani a mezz'aria e con un sospiro rassegnato le risposi «Sto andando» prima di uscire dalla sua cucina.
No. Decisamente io e Halanie Evans non saremo mai andati d'accordo.


Non potevo credere che di sua iniziativa aveva scacciato quel tipo dal mio giardino. Certo, dovevo riconoscere che mi aveva fatto un enorme favore ma -cazzo- proprio una malattia venerea? 
Comunque, una parte di me non la smetteva di gioire.
Era stupido.
Terribilmente stupido e imbarazzante, dover ammettere che mi era piaciuto l'intervento di Aron.
Non avevo idea del motivo per il quale si era comportato così, ma che lo avesse fatto  mi faceva...mi dava...cazzarola, avevo le farfalle allo stomaco.
Rotolandomi sul materasso del mio letto, rimuginai su quanto era accaduto in solo un giorno e mezzo.
Era già particolarmente difficile allontanare il ricordo del suo viso accanto al mio mentre dormivamo, ma quello che aveva fatto...Rendeva tutto tremendamente compromettente. Per me, è chiaro.
Che mi stesse incominciando a piacere? No. Non era possibile.
Guardai oltre la trasparenza della tenda stesa davanti alla finestra. La luce in camera di Aron era accesa.
Sospirai.
Forse ero stata troppo severa con lui. Infondo voleva solo aiutarmi.
«Maledizione»
Mi sollevai dal materasso. Uscii dalla tuta del pigiama e mi sfilai la maglietta abbinata per indossare un jeans e una felpa qualsiasi.
Allacciai le stringe di un paio di Adidas e mi affrettai a raggiungere la porta d'ingresso di casa mia.
Afferrai la maniglia e, un attimo prima di aprirla, cercai di raccogliere tutta la calma che sapevo appartenermi.
Percorsi il vialetto di ciottoli chiari e spostai il piccolo cancello di legno.
I pochi metri di marciapiede che separavano le nostre case, in quell'occasione, mi parvero ancora più brevi.
In un batter d'occhio ero davanti alla porta di casa sua.
Dovevo solo scusarmi con lui. Perché ero così riluttante?
Sollevai il pugno chiuso di una mano, pronta per colpire l'anta della porta quando essa si aprì.
Un profumo da uomo, intenso, mi arrivò dritto alle narici facendomi increspare i peli dietro la nuca.
Aron, vestito come se stesse per andare al suo primo appuntamento, apparve dietro l'anta ancor prima che il mio cervello si potesse rendere conto che lui fosse li.
«Che c'è?» disse con il suo solito tono burbero.
Arricciai le labbra.
«Dove stai andando?»
Lui strabuzzò lo sguardo, poi, con un'occhiata perplessa, si limitò a dire che stava uscendo.
Abbassai la mano infilandomela in tasca frettolosamente.
«Ah, ok.» risposi pronta a scendere i gradini sotto la piccola tettoia «Ero passata solo per-niente. Ci vediamo domani al corso».
Uno dei miei più grandi difetti è -da sempre- l'essere estremamente orgogliosa oltre che estremamente timida.
E in quella circostanza non sapevo se definirmi più l'una o l'altra.
Le labbra di Aron si schiusero appena in un breve sorriso. Dio, ma perché lo divertiva tanto vedermi disarmata dal mio stesso carattere?
«Non hai finito la frase» mi fece notare chiudendosi la porta alle spalle e scendendo velocemente i gradini affilandosi dietro di me.
«Che frase?» feci la finta tonta.
Sfilò dalla tasca del jeans la chiave dell'auto.
«Cosa eri passata a fare?»
Irritante. Ecco un aggettivo che lo caratterizzava alla perfezione.
«Niente Aron, sul serio» Lo guardai di sfuggita scostando il cancelletto della sua recinsione.
Sghignazzò raggiungendo la portiera della macchina.
Si calò dentro e mise in moto.
Che cazzo mi era saltato in testa? Sapevo -in parte- com'era Aron e conoscevo il suo lato dispettoso. Se avesse potuto mettermi in ridicolo ad ogni singola occasione, lo avrebbe fatto ed io non facevo altro che dargliene modo.
Mi affrettai sul marciapiede. Dov'era casa mia? Perché sembrava così lontana?
«Quindi non me lo vuoi dire?»
Sbarrai gli occhi quando me lo ritrovai affianco. L'auto che marciava ad uno all'ora.
Mi morsi un labbro per non sorridere.
Che razza di tipo.
«Te l'hanno mai detto che sei petulante?»
Fece finta di rifletterci sfiorandosi il mento con due dita e storcendo un labbro «Si, diverse volte.»
Annuii «E non pensi che avevano ragione?»
«Nah. Sono petulante solo con chi voglio».
Restai come un'ebete a quell'affermazione e al sorriso raggiante di un attimo dopo.
Probabilmente stavo sorridendo anch'io di riflesso, perciò mi massaggiai le labbra affinché quella dannata curva saprisse da loro.
Non dovevo sorridere ad Aron Green. Per nessuna ragione al mondo.
«Ok, diamoci un taglio. Sono arrivata a casa» indicai con il pollice il vialetto di casa mia «Perciò, ti saluto»
Scostai l'anta e misi un piede nel mio cortile.
«Resti a casa questa sera?»
Mi voltai.
Che gli importava?
«SS-Si. Mi hai mai vista uscire di Venerdì sera?»
Rise fra i denti «Nemmeno di Lunedì in realtà.»
«Sottolineare che io non esca quasi mai, ti appaga?»
E come, solo lui, riusciva a farmi sorridere senza volerlo, -credetemi- ,riusciva anche a farmi saltare i nervi ad una velocità impressionante.
Si limitò ad un'alzata di spalle.
Scossi la testa «A domani Aron.»


22:00
Era questa l'ora che brillava sul display del mio cellulare fino a ché la serie di sms mandati da Gretha non si avvilupparono sullo schermo.

Gretha: Non dirmi che sei a casa! Devi assolutamente raggiungerci al Club stasera.

Lessi. Le spalle si afflosciarono ancor prima di proseguire a leggere il contenuto dei suoi sms.

Gretha: Ci sono tutti. PROPRIO TUTTI.

Scriveva. 

Gretha: Per favore. Non voglio andare da sola.

Odiavo le rimpatriate da studenti. E odiavo condividere il mio tempo con quelli della borsa di studio, fuori dall'istituto.
Insomma, eravamo perfetti sconosciuti. Alcuni di noi, dopo un anno e mezzo, ancora si chiamavano per cognome e quasi nessuno aveva il numero di cellulare dell'altro.
L'unica cosa che ci -che li- legava erano le feste al Club. Un bar dalla clientela prettamente studentesca che distava poco dalla scuola dove insegnavamo come aiuto-laboratorio.
Un posto come un altro che amavo solo quando era vuoto e le luci erano soffuse.

Io: Ti prego, cancella il mio numero.
Gretha: :'(


Sospirai. Gretha certe volte sapeva essere snervante.

Gretha: Giuro che ti riporterò a casa per le due al massimo.

Sollevai le sopracciglia davanti allo schermo.

Io: Mezzanotte.
Gretha: L'una. Pleaseeee.
Io: -.- ok.


Mi trascinai per tutta casa. Non potevo darmi pace: erano le dieci e Gretha sarebbe arrivata fra meno di trenta minuti conoscendo la sua impazienza quando si trattava di feste e alcool; perciò mi sarei dovuta muovere e in fretta.
Raggiunsi il bagno e aprii l'acqua calda.
Nel frattempo, aspettando che arrivasse a temperatura, andai in camera e presi la prima gonna e il primo top a caso, assieme ad un paio di scarpe basse e con la punta.
Calarmi sotto il getto bollente scacciò per qualche istante Aron dalla mia testa e il fatto che non appena avevo visto il nome Gretha brillare sulla tendina del mio cellulare avevo ripensato a quella maledetta richiesta d'amicizia che gli aveva mandato.
Non mi dava fastidio, piuttosto, provavo una sorta di preoccupazione vera per lei.
Aron era un vero stronzo.

Gretha: Esci, sono qui.

Venti minuti dopo ero pronta. La gonna nera con i fiori grandi e gialli come il sole ondeggiava sulle mie cosce nude e il top nero aderiva perfettamente ad ogni curva del mio addome a dovere.
Il fatto che non amassi le feste, non diceva di me che non amassi vestirmi per le occasioni.
Ero arrivata al punto di sperimentare qualsiasi tipo di abbinamento. Fanculo quello che potevano pensare gli altri -specialmente le altre- mi piacevo. Punto.
«Mio Dio! Cuore ma sei bellissima!»
Gretha lo era molto più di me.
I capelli folti e castani, il seno grande e tondo e le gambe carnose. Tutto l'opposto di me.
Mimai una posa da modella e poi scoppiai a ridere.
Aprii la portiera della sua auto e mi calai dentro.
«Bella questa pochette, dove l'hai presa?»
Gretha girò lo sterzo e si rimise in strada.
«In un negozietto qui accanto, qualche mese fa»
Sorrise mantenendo lo sguardo sulla strada «Mi piace».
Poi sfilò dal pacchetto, appoggiato sul contachilometri davanti a lei, una sigaretta e l'accendino.
Coprì la fiamma con entrambe le mani lasciando lo sterzo per un istante e tirò una boccata.
Guardai il finestrino spalancato e la cenere che svolazzava dietro, sui sedili posteriori.
A Gretha non era interessato mai nulla della sua auto. Era  di suo nonno, un regalo che le era stato fatto solo perché l'università e poi questo concorso, l'avevano portata a chilometri di distanza da casa sua.
Era vecchia, diceva sempre e per questo non la curava affatto.
Però lei almeno l'aveva.
Io, la mia, ero stata costretta a lasciarla a mio fratello maggiore che, per lavoro, viaggiava parecchio e la Geep gli faceva comodo.
«Perché hai deciso di andare al Club? Tu odi quel bar.» 
Gretha mi lanciò uno sguardo speranzoso «Perché, secondo te?»
Aggrottai la fronte «Dio...Non dirmi che vuoi andarci per Aron»
Oddio. Non dirmi che li c'è anche Aron.
Lei annuì con convinzione «Piper dice che sul gruppo di MySpace ha scritto che avrebbe partecipato alla cena e la cena era alle 19.»
Proprio quando lo avevo visto uscire di casa.
«Piper non dice anche, che ti sbava dietro e ti da queste informazioni solo per cercare di accattivarti?»
Gretha corrucciò la fronte «Non dire cavolate. Io e lui ci conosciamo da una vita!»
«Sette mesi non sono una vita.»
Ci tenevo a sottolinearglielo.
«Fa lo stesso» replicò con una scrollata di spalle « Loro sono amici ed erano a cena insieme, perciò saranno tutti e due al Club».
Quindi le "cotte" facevano fare quel genere di cose? Seguire la gente, stalkerarla, controllare assiduamente il loro profilo MySpace come amava fare Gretha?
«Eccoci»
Accostò l'auto accanto al marciapiede, proprio davanti al tendone rosso a forma di cupola con l'insegna CLUB illuminata da tanti piccoli led viola e verdi.
All'esterno della porta a vetri c'era un corposo gruppo di giovani dalle età più disparate.
Alcuni molto giovani, altri che avevano ben superato la soglia dei venticinque.
Mi feci coraggio e tirai la leva per aprire lo sportello.
L'aria fresca mi raffreddò le cosce e un attimo dopo anche le guance, ma non stiepidì il senso di agitazione che provavo. Affatto.
Gretha mi afferrò il polso e con disinvoltura sguisciò fra la moltitudine di ragazzi dai capelli impomatati e ragazze che sapevano di lusso e vita notturna.
Paillettes e tacchi lucidi tralucevano ovunque sul tappeto rosso che portava, dritto dritto, dentro la pancia dell'inferno.
«Ok, sistemiamoci qui» disse, lasciandomi andare il polso.
L'essere schiacciata fra le spalle di due ragazzi alti e in camicia e due ragazze dalle pochette spigolose e l'alcool che le faceva traballare mi fece maledire l'ultimo sms mandato a Gretha.
«Vedrai, ci divertiremo» mi sorrise raggiante.
«Se lo dici tu.» borbottai, guardando la fila dritta avanti a me.

Morale della favola, riuscimmo ad entrare al Club solo dopo quaranta minuti.
I piedi indolenziti e il camoscio delle mie decolté nere, ingrigito di pedate.
Avevo sudato ancor prima di muovere due passi in pista.
Nervosa, lasciai il mio cappotto al guardarobiere e scostai la tenda di velluto pesante che separava l'ingresso buio dalla sala vera e propria.
Di giorno, il Club era un bar qualsiasi. Un bar di studenti dove, per lo più, si consumavano colazioni e dove Mitch, nostro compagno di corso, si destreggiava fra pomeriggi di lavoro dietro al bancone e sessioni extra di studio.
Io amavo quel posto solo alle tre del pomeriggio, quando era vuoto e sui tavolini di legno venivano accese le abat-jour anziché il pavimento strobo d'ultima generazione come in quel momento.
Amavo la calma della musica lounge e il tintinnare delle tazzine che venivano riposte sulla macchina da caffè.
Non il branco di gorilla che stava saltando al centro della pista come in quel preciso istante.
«Spero che tutto questo finisca presto» borbottai come una vecchia zitella.
«Guarda! Piper e gli altri sono li giù!» mi strattonò un braccio Gretha. Incespicai per un momento e urtai una ragazza dietro di me.
Mi sgranchii la mascella. Se avevo pensato di aprire bocca per chiederle scusa, vedendo l'occhiataccia che mi aveva rifilato, decisi che avrei potuto darle una testata piuttosto.
Demorsi dall'idea di farlo e seguii Gretha attraversando - fra gomitate e cori- la pista.
«Gretha, sei arrivata!» la salutò Piper sollevandosi dal divanetto nell'area privé.
Che poi, di privato non c'era proprio un bel nulla. Eravamo su una specie di rettangolo rialzato dalla pista con alcune corde a delimitarne il contorno. Al centro, un tavolino bianco e tre divani. Due erano vicini e uno difronte.
«E c'è anche Evans!»
Mi strinsi nelle spalle sollevando appena il palmo della mano «Ehilà».
C'era proprio tutta la banda degli adepti della McGrennet.
Tutti tranne Aron.
Guardai Gretha e lei me. La delusione era ben impressa sul suo volto.
Si sporse verso il lobo del mio orecchio e ci piagnucolò dentro «Non c'è».
Socchiusi le palpebre con un'espressione comprensiva e le diedi una pacca sulla spalla «Pensa a divertirti, sbucherà prima o poi».
Lei mi sorrise tiepidamente. 
«Fate spazio gente.» Con un gesto plateale, Piper si sollevò dal divanetto aiutando Gretha e poi me, a scavalcare il tavolino colmo di bottiglie di vino.
Assieme a noi, attorno al tavolo, c'erano Mitch, che quella sera non era di turno al bar, Luis, Walter e Piper ovviamente. I pochi adepti degni della borsa di studio riservata a sole 10 persone per sei stati diversi.
Eravamo dei geni. Almeno questo è ciò che diceva la nostra borsa di studio.
Piper porse un bicchiere colmo di Aperol a Gretha.
Poi guardò me «Bevi qualcosa?»
Scossi la testa.
Non amavo l'alcool, non come ora, perciò se potevo, cercavo di rinunciarvi per  la maggior parte delle occasioni.
Le labbra di Piper formarono una curva all'ingiù «Dai, fallo per me» mi pregò.
Mi passai una mano sul viso. La rassegnazione aveva lasciato spazio alla disperazione «D'accordo» mormorai sollevando una mano verso le bottiglie «prenderò qualcosa da bere»
Si vedeva che non ero affatto a mio agio e forse Piper lo aveva notato. Per questo mi offrì un bicchiere di vino. Poi un altro e un altro ancora.
 
Ancor prima di metà serata ero ubriaca...e stavo ballando una canzone ritmata, che non avevo mai sentito prima, al centro della piattaforma dove giaceva il nostro tavolo, assieme a Mitch e Samantha.
Sentivo caldo, terribilmente caldo. Dentro al Club, l'aria si era fatta consumata e satura di vapore. La testa mi girava vertiginosamente e le gambe erano molli. La pelle madida di sudore e i capelli che si incollavano sul viso peggioravano le cose.
«Voglio lavarmi la faccia» biascicai sporgendomi pericolosamente dal bracciolo del divanetto. Gretha si tirò indietro per non rischiare di sbattere la sua fronte contro la mia.
«Hai bisogno che ti accompagni?»
Scossi la testa.
«Ne approfitto per comprare anche una bottiglietta d'acqua» Afferrai la pochette accanto alle sue cosce e cercai di drizzare la schiena.
Mi rendevo conto che stavo barcollando, ma non ne potevo fare a meno, era più forte di me.
Mesticai all'interno e tirai fuori un paio di spiccioli.
«Torno» sollevai l'indice «subito».
Gretha e Piper mi scrutarono con apprensione.
«Noi ti guardiamo da qui» disse lei.
Piper le teneva un braccio dietro le spalle e una mano sulle ginocchia ed io, a differenza di molte altre volte, li trovai belli insieme. Belli che potevano tranquillamente formare una coppia. Nella mia testa, in quel momento, sicuramente erano una coppia.
Il ritmo incalzante del brano che avevano appena mandato in play e il volume esageratamente alto, mi davano l'impressione di poter sentire la musica dentro il mio stomaco. Era fastidioso, specie dopo tutti i bicchieri di vino che Piper mi aveva allungato fra una chiacchiera e l'altra.
Giusto, di cosa avevamo parlato? Di corsi. Di esami. Di voti. 
Non di Aron. Gretha, quando era con Piper faccia a faccia, evitava quel discorso. Era ingiusta con quel ragazzo, lui le sbavava dietro e lei, facendo così, lo stava illudendo e basta.
«Come Aron farebbe con lei» pensai ad alta voce.
Avevo raggiunto il centro della pista.
Sotto i miei piedi, quadrati colorati si alternavano illuminandosi in blu, rosso e verde, mentre un led chiaro e abbastanza forte, la circondava illuminando la sala di una luce intensa e calda al tempo stesso.
Il bancone non era molto distante da me.
Dietro, un ragazzo probabilmente trentenne, serviva cocktail come se avesse saputo fare solo quel mestiere nella vita.
Veloce e coordinato afferrò uno shaker e ci butto dentro quattro, cinque, liquidi diversi. Lo chiuse, lo agitò e poi con eleganza versò il contenuto dentro un calice.
Seguii ogni singola goccia piombare nel bicchiere abbassandomi oltre il bancone fino a far toccare la punta del mio naso contro il bordo.
Avevo l'impressione che i miei occhi si fossero incrociati un paio di volte, ma quella colata densa e ambrata mi aveva stregata.
La sbornia mi aveva stregata.
Il barista mi sorrise «Prendi qualcosa?»
Le braccia muscolose e ricche di tatuaggi, gli occhi chiari e i capelli biondi.
Allungai un gomito sul bancone «Prendo te, se vuoi»
Rise.
Io invece socchiusi le palpebre e cercai di aggrapparmi al bordo del bancone «No, cioè non intendevo dirtelo, lo stavo pensando».
In realtà, la mia bocca stava dicendo delle cose e la mia testa le pensava subito dopo.
Credo si chiamino freni inibitori. Be' li avevo persi.
«Che ne dici di un Japanise? Ti vedo già bella in forma»
Mi guardai addosso. Ero in forma? Mi puzzava di sarcasmo non riferito al mio aspetto fisico. Ma il mio cervello, in quel momento, riusciva a comprendere le frasi per come venivano dette non per cosa significassero davvero.
«Vada per il Japa-coso»
Rise ancora.
Velocemente miscelò un paio di bevande nello shaker, lo chiuse, lo agitò e mi porse un Tubler alto con una cannuccia scintillante.
«Per te» sorrise, ed ora che era più vicino potevo vedere lo smile agganciato sopra la sua arcata superiore.
Allungai un dito per sfiorarglielo o forse pensai di farlo.
Lui mi guardò allampanato ed io mi fermai.
«I soldi, giusto» gettai sul bancone i pochi spicci che avevo raccolto dalla mia borsa.
Il ragazzo li guardò e poi guardò me «Sta tranquilla, offre la casa» stirò, quindi, la mano sulle monete e le spinse contro di me sulla superficie del bancone.
«Grazie»
Qualcosa mi bruciò dritto nella pancia. L'alcol era in grado di farmi sentire strana. 
Afferrai il bicchiere e mi voltai. Nel farlo urtai con le spalle il bancone del bar. Afflitta dai miei pochi riflessi, decisi che avrei sorseggiato il Japa-coso li.
«Che buono, cos'è?» Una mano molesta mi strappò il bicchiere dalle dita.
«Ridammelo!»
 Aron? Da dove diavolo era spuntato fuori?
Si infilò la cannuccia in bocca e tirò una lunga sorsata.
«Mi è stato offerto!» biascicai inveendo con la mano alzata.
Mi fissò continuando a sorseggiare il Japa-coso. Gli occhi grandi come quelli di un cerbiatto e l'aria da angioletto che non era. Affatto.
«E ora è mio» disse, pulendosi le labbra solo quando il bicchiere arrivò a metà.
«Ma è praticamente finito!» gli feci notare indicando il liquido verdognolo.
Lui sollevò il bicchiere oltre il suo naso ed annuì serio.
«Cazzo, Aron-» piagnucolai «era il mio!»
Tirò un altro paio di sorsi colmi fino a che non tintinnò solo il ghiaccio nel bicchiere.
«Vuoi ballare?»
Lo lasciò dietro le mie spalle e mi afferrò le mani.
«No, perché dovrei ballare? Io volevo bere il mio Japa...quello»
Mi ignorò trascinandomi verso la pista.
«Be', ora balli»
Afflosciai le spalle e storsi le labbra «Non mi va. Ti prego...».
Cercare di combattere la sua presa sui polsi fu inutile. Gli schiaffi che pensavo di star sferrando non erano altro che mere carezze sul dorso della sua mano.
Aron si fermò in quello che pareva essere l'unico spazio libero fra la folla di gente sovraeccitata.
Si piazzò davanti a me e si attirò le mie braccia sulle sue spalle.
«Toglimi una curiosità. È la prima volta che bevi?» 
Perché diavolo mi stava così vicino?
E perché il mio stomaco si stringeva assieme ad altre parti del corpo?
«Forse. Che ti importa?»
Cercai di fare un passo indietro o quanto meno di non sfiorarlo. Dormirci insieme mi era bastato.
«Non credi che per essere la prima volta, hai mandato giù un bel po' di roba?»
Scossi la testa «E' stato Piper ad offrirmi da bere. Ha detto che non erano tanti bicchieri.»
Aron si incupì «Tanti bicchieri? Quanti ne hai bevuti?»
Mi sporsi verso di lui ed appoggiai il mento sulla sua spalla guardando le mie dita e contando.
Mi ritrassi e gli mimai il numero quattro.
«Quattro? Quattro cosa?» Era allarmato? 
«Quattro calici di vino.»
Non rispose. Guardò alle sue spalle verso la pedana rialzata e poi tornò a guardare me.
«Che c'è? Vuoi picchiere Piper?» risi.
Questa volta fui l'unica.
Aron si sporse verso il lobo del mio orecchio «No, ma se vuoi fare "le prime esperienze", chiama me, non Piper»
Non afferrai affatto cosa volesse dirmi, in quel momento. Mi limitai ad annuire.
«Questa musica non mi piace» mormorai. Effettivamente da scuola di Zumba eravamo passati a Rave sotto i ponti di Seattle, e mi stava fracassando la testa.
«Nemmeno a me. Senti, che ne dici se ti vai a dare una sciacquata e magari bevi anche un po'»
«Bere? Cosa?» Sorrisi all'idea di bere qualcos'altro dato che sentivo  la sobrietà tornare in me.
Aron si accigliò «Acqua. Bere, acqua»
Sospirai annoiata ma acconsentii, anche perché ad Aron era difficile dire di no.
Mi voltò di spalle e indicò i bagni.
Passammo fra la gente, ma questa volta nessuno mi rifilò gomitate o pestate di piedi.
Le braccia di Aron erano attorno alle mie ed io non mi ero mai sentita più al sicuro di allora, fra tutte quelle persone.
«Ecco, entra» scostò l'anta senza maniglie del anti-bagno e lo superai.
All'interno c'era una luce forte, bianca, e poi un piccolo corridoio illuminato di rosso con due porte: una per le donne e l'altra per gli uomini.
«Odio la fila» mormorai guardando la spasa di ragazze in coda per il bagno.
«Vieni» 
Mi voltai sentendomi trascinare all'indietro.
Aron aprì la porta del bagno dei ragazzi e mi trascinò dentro.
«E' il bagno dei maschi» mi lamentai.
«Non devi pisciare, giusto? Allora puoi usare ugualmente il lavandino» Incrociò le braccia al petto.
«Quanto sei cafone» 
 Sollevai la leva del rubinetto e mi chinai per bere una sorsata d'acqua.
«Dove eri finito questa sera?» Chiusi l'acqua ed agguantai un tovagliolo di carta dal contenitore accanto alla mia testa.
Mi asciugai le labbra ed attesi di sentire la voce di Aron gettando il pezzo di carta da qualche parte sul piano in marmo del lavandino.
«In giro per la pista» Il cellulare gli vibrò nella tasca del pantalone. Lo tirò fuori, guardò lo schermo e poi l'oscurò con l'apposito pulsante.
«Come mai sei venuta qui? Non eri quella del "io non esco il Venerdì sera"?»
Mi morsi un labbro spostando -per forza di cose- il peso da un piede all'altro.
«Gretha mi ha convinto. Non sarei mai venuta qui»
Aron sospirò raggiungendo il lavandino e si issò con le braccia fino a sedersi sul bordo.
«Almeno, ti sei divertita?»
Storsi un labbro «Si...più o meno»
La mia testa aveva incominciato a protestare. Essere in quel bagno angusto con Aron non stava facendo altro che accrescere strane sensazioni contrastanti dentro di me.
«Comunque, sul serio, se certe cose non le hai mai fatte non decidere di provarle con la compagnia sbagliata»
Il fatto che lui sembrasse così apprensivo nei miei confronti, poi, mi mandava in confusione.
«E la compagnia giusta, chi sarebbe? Tu?» Ondeggiai all'indietro. Aron allungò un braccio all'istante e per fortuna toccai il bordo di marmo prima con le mani e poi con il sedere. Senza farmi male.
«Sempre meglio di quella di Piper. Dov'era, mentre tu eri in mezzo alla pista ubriaca?»
Un pugno di nervi si piazzò al centro del mio stomaco.
«Non sono una bambina, Aron!».
«Se non lo fossi, non saresti ubriaca»
Che colpo basso.
«Sei uno stronzo.»
«Ah!» esclamò «Pure!?»
«Si. Mi insulti sempre»
Sospirò fra i denti. Le gambe che gli dondolavano nel vuoto «Da quando bambina è un insulto?»
«Da quando è rivolto ad una ragazza di ventiquattro anni fatti e finiti in quella maniera.»
Scivolò giù dal lavandino toccando agilmente il pavimento con le suole delle scarpe «Be' potresti essere anche la bambina di qualcuno, a quel punto non sarebbe più un insulto.»
Non mi ci vedevo chiamata da qualcuno in quella maniera, né tanto meno, pensata in quel modo da persone diverse da mia madre o da mio padre.
«Non sono una bambina, mettitelo in testa»
Aron si mosse verso la porta.
Afferrò la maniglia con una mano mentre le dita dell'altra si dirigevano alla chiave per girarla e quindi aprirla.
«Questa sera, si.»
Gli afferrai una spalla, presa dalla rabbia, e lo voltai di scatto.
«Non sono una bambina.» ringhiai.
Come non avevo avuto il coraggio di guardare Aron fino a quel momento, non lo avevo avuto per guardare me e lo stato pietoso in cui versavano le mie condizioni nel riflesso dello specchio appeso sul lavandino. Ma potevo immaginarmi. Non volevo, ma potevo.
Alzò gli occhi al cielo.
«Se, se...Va bene, adesso fatti dare un passaggio a casa» Come provò a voltarsi di nuovo, lo fermai. Con più irruenza.
I suoi occhi si aprirono maggiormente.
«Ti sembro una bambina?» Mi indicai addosso con un gesto delle mani. 
«Devo esserti sembrata una mocciosa che non sa controllarsi alle feste solo perché ha bevuto troppo-» le mie dita sfiorarono il bordo della gonna «forse, ti potrò anche sembrare una bambina che non sa stare al mondo» le infilai dentro la gonna ed artigliai il bordo del top ricacciandolo fuori e poi più su, oltre la testa. Fissai Aron dritto negli occhi. Anzi, la mia rabbia lo fissò dritto negli occhi «Ma adesso, ti sembro una bambina?».
Le sue pupille si allargarono a dismisura. Più dell'unica volta in cui mi era capitato di vederle così.
«Che stai facendo?» mormorò. Nonostante la sbornia, colsi il fiume di agitazione che gli stava scorrendo nelle vene.
Potevo sentire tutto il sangue fluirmi sul collo e imporporare le mie guance. Dire che stavo andando a fuoco era riduttivo.
Sarei esplosa, sentivo che stava per succedere da un momento all'altro.
Per la vergogna.
Per la rabbia.
Per la voglia che avevo di...baciarlo?
Restai immobile davanti a lui: il top stretto in una mano e il seno, appena nascosto da un balconcino nero, che non esitava ad imperlarsi di sudore.
Dentro quel bagno, all'improvviso, sembrava che la temperatura si fosse alzata di almeno venti gradi.
Mi rendevo conto di ciò che stava succedendo. Sapevo di essere mezza nuda davanti a lui, sapevo anche che avevo voglia che i suoi occhi restassero su di me. Il punto era, che per quanto avessi voluto fermare tutto questo, non ci riuscivo.
L'esplosione di rabbia, di ferite ben più vecchie e profonde di quelle causate dalle prese in giro di Aron, mi avevano letteralmente travolta. Ed incontrollabile, ogni reazione non tardava a venire fuori con prepotenza. Come quando avevo deciso di sfilarmi il top.
Ma gli occhi di Aron si sollevarono dal mio seno di colpo e piombarono sul viso restandoci.
La sua espressione era un miscuglio di pensieri e sensazioni.
Se da una parte scorgevo eccitazione dall'altra, il fastidio nel vedermi assumere quell'atteggiamento era papabile.
«Rivestiti.» disse con abbastanza serietà da ferirmi.
«No.» Ero furiosa. Aron mi denigrava ad ogni occasione. Non si lasciava mai sfuggire un mio passo falso ed ora...Ora che mi stava guardando nuda, ancora una volta, era riuscito a mettermi in imbarazzo facendomi sentire piccola e insulsa e...brutta.
«Haly sei ubriaca, rivestiti» provò a sfilarmi il top dalla mano, ma lo artigliai con più forza.
Sospirò socchiudendo le palpebre e le sue spalle si afflosciarono per un attimo.
«Haly, ti prego...»
«No. Voglio che mi guardi e poi voglio che mi dici ancora che sembro una bambina»
Il motivo per cui la sbronza mi spingesse a chiedergli una cosa simile, restò ignoto per tutto il tempo.
Cosa me ne fregava? Insomma, era Aron.
Sospirò più rumorosamente.
«Te lo chiedo per favore, rimettiti quel top.» mi pregò.
Non lo avrei fatto. L'alcool me lo impediva. La parte più nascosta nella mia coscienza, me lo stava impedendo.
Perdere i freni inibitori era una bella schifezza.
Feci un passo avanti e di riflesso lui sfiorò con la schiena la porta alle sue spalle.
«Perché ti comporti così? Ti faccio schifo?»
Mi guardò allampanato.
«Che dici? No, che non mi fai schifo!» tese le braccia verso i miei polsi e li agguantò delicatamente. Allo stesso tempo però, notavo che quel gesto non era altro che un modo per tenermi a distanza di sicurezza.
«Allora perché ti comporti come se te ne facessi?»
Un altro passo, corto e veloce, portò le mie gambe fra le sue.
Piegai i gomiti, ma Aron non lasciò andare ugualmente i polsi.
«Sei ubriaca e non sai cosa stai facendo» ammise.
E...si lo ero, ma sapevo perfettamente cosa stavo facendo solo che non riuscivo a tornare al controllo della sede di comando nella mia testa.
Lo fissai dritto negli occhi. Erano belli. Belli e fumosi.
«So cosa sto facendo» mormorai allungando il mento verso il lobo del suo orecchio.
Parte del corpo di Aron si irrigidì.
«No che non lo sai. E rischi di pentirtene, perché ti conosco»
Sbottai in una risatina «Tu non mi conosci e non sai di cosa mi potrei pentire»
Spostai il viso lontano dal suo orecchio e mi ritrovai a guardare di nuovo i suoi occhi. Il suo viso sembrava accaldato, come se si stesse combattendo dal trattenersi; anche il suo respiro era più pesante.
«Di questo, si.» continuò.
Non sapevo bene cosa stesse succedendo, ma quando lui liberò i miei polsi e osservò di nuovo le mie labbra sentii infuriare la battaglia fra la mia sbronza, gli ormoni e il buon senso.
«E tu? Ti pentiresti?»
Le mie labbra sfiorarono appena le sue. Aron respirò di scatto.
La sua bocca sapeva di liquore al melone e di dolce.
Socchiuse le palpebre per un istante piegando la testa all'indietro e poi le spalancò.
«Al diavolo!» 
Vinsero gli ormoni: i suoi.
Schiuse le labbra e mi baciò: la sua lingua sfiorò la mia e avvertii lo strano effetto del piercing come una piccola vampata di piacere.
Bruciavo e non avevo la minima idea che certe cose dessero quella sensazione in particolare.
Mi fece scivolare le mani lungo i fianchi. Il mio cervello andò in tilt ancor prima che mi sfiorasse i glutei da sotto la gonna e li artigliasse. 
Mi attirò a sé e spontaneamente le mie cosce si avvinghiarono alla sua vita, e le braccia attorno al suo collo.
Mi ritrovai seduta sul bordo del lavandino in un lampo.
Le labbra massacrate dai baci roventi.
Aron era caldo, la sua pelle lo era e il suo respiro era affannoso.
Allontanò le labbra dalle mie e per un istante sentii la mancanza del contatto. Durò poco però, perché me le ritrovai a solcare ogni curva del mio collo. Il suo respiro si muoveva con me mentre inconsciamente cercavo -anzi, desideravo- il suo bacino fra le mie cosce. Mi afferrò per i capelli per farmi sollevare il mento e continuò a baciarmi sul collo, sulla clavicola.
E proprio quando arrivò a lei, la morse delicatamente. In un'altra occasione mi sarei vergognata del gemito che sfuggì dalla mia gola, ma non in quel momento. Non da ubriaca. 
Non avevo mai provato una simile voglia di qualcuno né, tanto meno, tanta eccitazione.
«Si può sapere cosa succede qui dentro?» Una mano bussò irruentemente alla porta facendo tremare lo stipite, come un fulmine a ciel sereno.
Aron si separò in fretta da me e si voltò.
Il mio top era per terra, umido per lo schifo che c'era sul pavimento ed io ero mezza nuda, con il trucco sfatto e la voglia che palpitava fra le mie cosce.
«Aron» mormorai in preda al panico portandomi le mani sul seno di riflesso.
Aron guardò me, poi il top a terra e nuovamente la porta.
«Sta calma.»
Come potevo restarmene calma, in quelle condizioni?
E poi, perché solo in quel momento avevo realizzato cosa fosse accaduto?
Ero esattamente come tutte quelle ragazze che cacciano il peggio di sé alle feste, come quelle che descriveva Aron. Esattamente, come quelle che si portava a casa e che illudeva.
«Sto per vomitare» mormorai.
Aron spalancò gli occhi «Proprio ora?»
Annuii in fretta.
«Ok, ok» si allontanò dalla porta e mi aiutò a scendere dal bordo del lavandino.
Raggiunse la tavoletta e la sollevò.
«Ti aiuto»
Ma non avevo bisogno di aiuto. Avevo bisogno di dimenticare tutto quello che era successo.
Mi chinai cercando di toccare il meno possibile attorno a me e Aron mi raccolse i capelli in una coda improvvisata.
Peggio di così non poteva andare: un attimo prima ero pronta a farmi deflorare sul lavandino di un bar ed ora, ero china con la faccia dentro al cesso a tentar di vomitare i miei errori.
«Allora? Si può sapere chi c'è qui dentro?» La voce carica di nervi dietro la porta non ne voleva sapere di darci un taglio.
«Porca puttana! Un attimo, amico!» protestò Aron.
Merda, non ci riuscivo. Per quanto sentissi il bisogno di buttare tutto fuori, il mio stomaco non riusciva a collaborare.
«Non ci riesco» dissi, dopo averci provato un paio di volte.
«Va bene. Non sforzarti, magari è solo lo spavento per colpa di questo coglione»
Mi tese una mano e l'afferrai per rialzarmi.
«Forse».
La stabilità nelle gambe non era ottimale, ma sicuramente mi ero ripresa dalla sbornia.
«Come faccio ad uscire così?» ero pronta a piangere qualora Aron non avesse trovato una soluzione, perché io ne ero a corto.
Mi guardò privo d'espressività, poi, colto da un lampo di genio si sollevò la T-shirt nera sulla testa sfilandosela.
Dovetti mordermi un labbro quando il torace muscoloso e cosparso di piccoli tatuaggi venne fuori. 
«Che stai facendo?»
Me la porse «Mettiti questa.»
«E tu?»
Abbozzò un mezzo sorriso «Fa più scandalo una ragazza nuda, che un ragazzo senza maglia»
Senza aggiungere altro mi convinsi ad accettare la maglia e la infilai sulla testa.
Aron raccolse il mio top e aprì la porta solo quando si accertò che fossi pronta.
Il ragazzo che aveva bussato insistentemente per tutto il tempo, vedendoci, borbottò qualcosa.
Sorpassandolo, Aron lo riguardò storto ma non accadde nulla. Per fortuna.
Stretta nelle spalle e mano per mano a lui, riaffiorammo dal bagno, attraversando la pista colma di gente.
«Torniamo dagli altri?» chiesi alzando un po' la voce.
Si voltò a guardarmi. La sua espressione era tutt'altro che amichevole.
«Ti riporto a casa.»
In realtà era esattamente li che volevo andare. Lontana da quel bar, dal suo bagno, da quello che mi era saltato in testa quella dannata sera.
«Amico! Che diavolo...» Mitch apparve radioso come un raggio di sole, da dietro un quartetto di ragazzi intenti a ridere e sorseggiare birre in bottigliette di vetro.
«Lascia stare, lunga storia.» disse Aron senza manifestare emozioni «Hai visto Piper?»
Ce l'aveva ancora con lui?
Mitch mimò un no con la testa.
«Ok, non fa niente» -per fortuna.
«Quindi, andate via?» Mitch spostò lo sguardo su di me poi tornò al viso del suo amico.
«Si, si. Si è fatto tardi.»
A quell'affermazione lo stesso amico di Aron restò sorpreso. 
Storse le labbra ma, in fine, si limitò a salutarlo con una pacca sulla spalla e un cenno a me.

A quel punto, non sapevo se tornare in auto con Aron, soli, dopo che l'alcool era sciamato via, sarebbe stato peggio del resto.








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Capitolo 5
*** 4. ***


4.

 

L’auto di Aron aveva il suo odore e mi stava asfissiando.

Non potevo dire con certezza che quello fosse il motivo per cui mi sentivo terribilmente strana. Forse, era colpa di tutto l’alcool che avevo ingerito, o forse, più semplicemente, del fatto che avevo baciato Aron Green. Lo avevo fatto sul serio!

Che diavolo mi era saltato in testa?! Decisi all’istante che non sarebbe capitato mai più. Non avrei mai più trangugiato tutti quei bicchieri, non sarei più andata ad una festa con Gretha e non avrei mai più dato ascolto a Piper.

Dannato Piper, se non mi fossi lasciata convincere dai suoi modi gentili, non mi sarei mai trovata nell’auto di Aron, ubriaca, accaldata e con quella scena patetica di me nel bagno del Club, che si ostinava a ripresentarsi alla mia memoria.

Mi ero spogliata davanti a lui: perché diavolo lo avevo fatto?

Cercai di analizzare il motivo. In realtà, cercavo di capire il mio gesto persino mentre stava accadendo tutto.

Mi dovevo sentire proprio una pezza da piedi per decidere di fare qualcosa di così…stupido!

Scrutai Aron con la coda dell’occhio. Sembrava rilassato alla guida della sua auto, mentre la strada sfrecciava sotto gli pneumatici. Guardava dritto oltre il parabrezza, un gomito poggiato sull’estremità dello sportello e il viso poggiato sul dorso chiuso della stessa mano. Chissà a cosa stava pensando? Sicuramente non a quello che era capitato, solo poco prima, nel gabinetto lercio del locale. Credere che potesse pensare ad altro, per qualche ragione, mi consolò. Sarebbe stato meglio per entrambi dimenticarci di quanto accaduto. E quindi…

Haly dacci un taglio! Per la milionesima volta, durante quella sera, gli avevo spiato il ventre spoglio senza accorgermene.

Possibile che in una situazione tanto sgradevole, l’unica cosa che mi riuscisse bene era osservare i suoi addominali o i tanti piccoli tatuaggi sparpagliati sulla sua pelle tesa? 

Sei così affamata? Mi domandò la mia coscienza. Dovevo esserlo. Non mi era mai capitato di poter guardare un ragazzo a torso nudo, così da vicino. Specie, uno che avevo baciato!

Mi schiarii la voce. Dovevo fare in modo di distogliere la concentrazione da lui, dal suo corpo, da ciò che avevamo fatto.

Dio…che avevo fatto…

Mi strofinai i palmi delle mani un paio di volte e per la prima volta, mi resi conto di non saper cosa dire. Ero brava a cambiare discorso, ad aprirne uno dal nulla, ma quella volta mi sentivo…paralizzata. A corto d’idee e con lo stomaco contratto, decisi che non avrei dovuto parlare di frivolezze ma spiegare quanto accaduto. Aron doveva sapere che era solo colpa dell’alcool, che non c’era nulla nei miei confronti verso di lui, e che non sarebbe mai successo una seconda volta. Gli avrei posto le mie scuse e la questione si sarebbe risolta così. Certo, conoscendomi, l’indomani non sarei riuscita a guardarlo in faccia, per questo, e per tanti altri motivi più personali, era il momento di mettere in chiaro le cose. 

«Emh…», attesi che Aron rinsavisse dai suoi pensieri e preso un gran respiro proseguii. «Mi dispiace per quello che è successo in bagno. Non doveva accadere, io non sono così.» Esatto. Io non ero come le ragazze che amava portarsi a letto lui. Non ero una che si lasciava deflorare nello squallido bagno di un bar. Ero molto più dello schifo che avevo fatto quella sera.

«E credimi, ti giuro, che non accadrà mai più.» mi affrettai a concludere.

Mi sentivo così mortificata, così strana, che persino il riflesso del mio viso nello specchietto retrovisore mi sembrava appartenere a qualcun altra.

«E’ stato solo un bacio», disse più serio che mai, «le persone si baciano in continuazione. E concordo nel dire che non succederà mai più.»

Le sue parole mi ferirono all’istante. 

Non era questo che volevi? Mi domandai. Era esattamente ciò che avrebbe dovuto rispondermi, eppure, perché mi sentivo così ferita?

Insomma, avanti, ero ubriaca e lui era un bel ragazzo; era stata una lunga serata ed io avevo dato di matto, non c’era motivo per sentirsi…esattamente come mi sentivo in quel momento.

Cercai di non ripensare a quel bacio, ma sentivo ancora le sue labbra sulle mie e dopo aver ascoltato le sue parole mi sentivo, oltraggiata.

Umiliata.

Usata.

Era così stupido sentirsi in quella maniera.

«Possiamo…tenerlo per noi?», gli proposi guardando altrove.

Nonostante il fuoco dentro il mio petto, cercai di mantenere un’aria decisa. Era stato uno sbaglio e tale sarebbe rimasto. 

«Sicuramente. Non ci tengo a farlo sapere in giro.»

Ecco che tornava l’arroganza, solo che questa volta mi era sembrato persino offensivo nel modo in cui mi si era rivolto.

«Ti faccio così schifo?»

Solo poco prima gli avevo gridato contro quella domanda e lui mi aveva risposto che non era così, che io non facevo schifo, doveva essere tutto nella mia testa.

Allora perché in quel momento, seduta nella sua auto, tornavo a pensare che Aron provasse repulsione nei miei confronti?

Ma soprattutto, cosa cavolo doveva interessarmi di ciò che provava lui verso di me?

Mi innervosii.

Le innumerevoli sensazioni che stavo provando mi stavano dando alla testa. Non riuscivo più ad individuare la causa del mio stato d’animo. Sapevo di sentirmi ferita però, e questo bastava a farmi infuriare.

«Perché? Ti vergogni?», lo punzecchiai.

Aron aggrottò la fronte per quello che parve essere un millesimo di secondo.

«Hai problemi d’autostima, Evans?»

«Non tirare me in ballo. Ti ho fatto una domanda.» Avevo voglia di litigare. Adesso era palpabile.

Aron sospirò quasi con rassegnazione. Intercettò una piazzola di sosta e accostò marciando a passo d’uomo, finché, la sua auto non si fermò nel silenzio della sera, spezzandolo con il suono del suo motore.

Sentii il mio petto stringersi in una fitta fastidiosa.

Che stava facendo?

«Ascolta,» disse con il tono di voce più pacato e tranquillo che avessi mai sentito, «Eri ubriaca. E’ stato solo un bacio, nulla di ché. Non c’è motivo per cui tu te ne debba preoccupare così tanto.»

Più parlava, più la detestabile sensazione di vergogna, prepotente, si accaparrava parte di me.

Mi aspettavo di sentirgli dire qualcosa come “non mi è neanche piaciuto”, e qual punto avrei riconosciuto il vero Aron. Non quello del “ti presto la maglietta”, “ti aiuto a vomitare”, “ti bacio, ti accarezzo, ti faccio sentire come non ti sei mai sentita prima”.

«Dovevi fermarmi.» -ma non lo hai fatto. Perché non lo aveva fatto?

«E sentire ancora tutta quella tiritera sul “faccio schifo” e bla, bla, bla? No, grazie. E’ stata una serata già abbastanza pesante così.»

All’improvviso sentii gli occhi inumidirsi.

Ero davvero così fragile? Tanto che bastavano le parole di uno stronzo per distruggermi?

Serrai la mascella, mi resi conto che qualcosa stava ribollendo in me e non era solo la mortificazione.

«Oddio», afferrai di colpo la maniglia, «devo vomitare.» poi, spalancai la portiera.

«Non di nuovo…Ti prego.»

Non ebbi il tempo di rispondere, scesi e intercettata la lingua d’erba nata a bordo strada, mi liberai.

Ebbene si, quella serata si sarebbe conclusa così: con me curva accanto al guard-rail a vomitare gli innumerevoli bicchieri d’errori che avevo commesso, mentre Aron era alla guida dell’auto praticamente semi nudo. Se quello fosse stato un film comico, forse, avrei persino sorriso. Ma non era un film, era la dannata realtà.

Ci divertiremo. Maledetta Gretha, perché le avevo dato ascolto?

«Tutto bene?», domandò Aron dopo qualche minuto.

«No, non c’è nulla che va bene.», borbottai fra le labbra, mentre cercavo di pulirmi il viso con il dorso della mano.

Notando che quella risposta era arrivata solo alle mie orecchie, decise di scendere dall’auto. Quando sentii la portiera sbattare, mi dissi che, per nulla al mondo, avrei continuato a farmi sminuire, o a dargli modo di provare pietà per me, dopo quanto mi aveva detto.

«Vattene, Aron.»

Sentii la breccia sotto le sue scarpe scalpicciare fino a che non avvertii la sua presenza dietro di me.

Aron allungò le mani e mi raccolse i capelli allontanandoli dalle mie guance.

«Hai sentito? Vattene ho detto.», dissi ancora con più aggressività.

Cazzo, perché non rispondeva? Perché non trovava un modo per litigare e chiudere quella storia?

Mancavano un paio di isolati da casa mia, li avrei percorsi a piedi senza problemi.

«Va meglio?», mormorò. La voce profonda mi fece irrigidire.

«Andava meglio anche prima», mi voltai scacciando le sue mani dai miei capelli.

Non distinsi esattamente la sua espressione. Era serio, molto serio, ma anche apprensivo. Odiavo che fosse apprensivo nei miei confronti.

Si infilò la mano in tasca e tirò fuori un pacchetto di fazzoletti. Me lo porse ed attese che mi convincessi ad accettarlo.

Se avessi potuto farne a meno, lo avrei mandato al diavolo, ma ancora una volta, guardando il mio riflesso nel vetro anteriore dell’auto, mi dissi che avrei dovuto abbassare l’ascia di guerra.

Perciò, gli strappai dalle dita il pacchetto e tirai fuori un fazzoletto passandolo attorno alla bocca.

«Ti diverte, non è vero?», chiesi con rabbia. «Vedermi ridotta così…ti diverte?»

Gli occhi di Aron si allargarono a dismisura, poi tornò serio.

«Mi hai sempre trovata imbarazzante, e adesso devi ti essere veramente divertito nel vedermi ridotta in questa maniera.»

«Niente affatto.» disse serio. «Perché dovrebbe divertirmi, vederti star male?»

Feci spallucce. Perché doveva divertirlo sminuire quello che era successo tanto da farmi sentire uno schifo?

«Perché ti ha sempre divertito torturami. Ed ora-» allargai le braccia, «- accomodati pure. Hai una bella storia da raccontare.»

Aron mi fissò dritta in faccia. Assottigliai le palpebre senza rendermene conto. Avrei pagato qualsiasi somma pur di spiare i suoi pensieri in quel momento.

«Sei malata, Halanie.» 

Come prego?

«Volevo solo darti una mano e tu, invece, credi che io sia qui per deriderti. Qual è il tuo problema?»

«Non lo fai sempre? Deridermi, intendo.»

«Non è questo il caso.» Fece un passo verso di me ed io arretrai.

«Sai qual è il motivo per cui continui a fare così? Non puoi accettare di esserti lasciata andare, ecco qual è il tuo problema.»

Touché.

Se andavo bene ad analizzare tutto il contesto, forse, Aron aveva ragione.

«Anzi», disse con più convinzione, «a te spaventa proprio l’idea di lasciarti andare. L’idea che qualcuno possa giudicarti, possa pensare male di te. Ma cazzo, Haly, è stato solo un bacio, non me l’hai data in quel bagno, non è successo nulla di tutto ciò, e anche se fosse successo io non sono nessuno per poterti giudicare.»

Ah no? E quelle che si portava a letto e poi lasciava chiuse fuori casa quando rivendicavano ciò che LUI aveva fatto?

Come considerava quelle ragazze? Avventure? Poco di buono? Passatempi?

A quel punto non sapevo decidere se l'aver sminuito quel bacio, fosse stata una mossa azzeccata per Aron o se stesse camuffando il suo essere stronzo con delle belle parole.

Sospirai.

«Hai ragione.» Dissi ancor prima che potesse continuare a parlare. «Ma questo non accadrà, giusto? Perché tu non ne parlerai con nessuno e non succederà mai più.»

Quando udì le mie parole pensai di averlo visto rabbuiarsi, forse mi sbagliavo.

«Esatto. Ora possiamo andare?»

Avevo un vago presentimento: quella storia non sarebbe finita così.

Comunque annuii.

Ero distrutta e in quel preciso istante, mi resi conto che tornare a casa era l’unica cosa che desideravo.

Avrei avuto l’indomani per piangermi addosso.

Quindi montai in auto poco dopo. Per tutto il tragitto restammo in silenzio. Silenzio, rotto solo dal leggero sottofondo musicale di una stazione radio scelta a caso.

Quando, dopo circa dieci minuti, scorsi il tetto di casa mia mi sembrò di essere appena sopravvissuta ad un’apocalisse.

«Sei sicura di voler restare sola?» Mi chiese Aron accostandosi al marciapiede in procinto di casa mia.

«Si che sono sicura.» proferii seria, spalancando lo sportello.

Aron spostò lo sguardo sullo sterzo. Non sembrava tranquillo.

Be’, se si stava preoccupando di camuffare il suo caratteraccio con gesti carini, si sbagliava di grosso.

Non mi sarei più fidata di Aron Green.

«Notte.», dissi prima di chiudere lo sportello. Perché io, a differenza sua, un’educazione l’avevo ancora.

Aron sollevò il palmo di una mano ma non mi rivolse neanche un’occhiata.

 

Gretha: Dove sei finita?

Piper: Haly, che fine hai fatto? Mitch mi ha detto che ha visto te e Aron andare via dalla festa insieme.

 

Quando misi il telefono a caricare una moltitudine di messaggi da parte della combriccola di adepti della McGrennet mandò in tilt la mia casella di posta.

Non li avrei letti tutti, notai solo un paio di sms mandati da Piper e Gretha. Il fatto che leggevo di Aron e di me, anziché un “come stai” mi fece salire i nervi.

Diavolo! Ero ubriaca, mi avevano vista sparire e invece di preoccuparsi per me, loro si preoccupavano del fatto che Aron mi avesse trascinata fuori dalla festa.

In un impeto di rabbia, afferrai il cellulare e per un momento pensai di raccontare tutto quello che era successo.

Poi, il briciolo di buon senso che mi era rimasto -dato che tutto il resto lo avevo preso a calci quella sera- mi supplicò di non farlo e lo ascoltai.

Nessuno doveva sapere di quel bacio.

Primo perché Aron piaceva a Gretha più di quello che dava a vedere, secondo, perché non ci tenevo veramente a farlo sapere in giro.

Aron non era, di certo, il tipo di ragazzo che vedevo al mio fianco.

Grugnii un verso di disperazione quando per l’ennesima volta mi raccontai cosa avevo fatto in quel bagno.

L’indomani, sicuramente, avrei cercato casa altrove e avrei deciso di trasferirmi in qualche città lontana da quel posto.

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Capitolo 6
*** 5. ***


5.


 

Adoravo l’istante che precedeva il risveglio, quando le sottili ragnatele all’interno del mio cervello si univano l’una con l’altra a formare un ammasso coerente di coscienza. 

Ma quella mattina c’era qualcosa di diverso. Il mio corpo era più caldo del solito, e un pensiero opprimente continuava ad essere disturbato dall’incessante vibrazione del mio cellulare.

 Cosa avevo fatto la sera prima? La testa mi esplodeva e, per quanto mi riguardava, potevo tranquillamente essere distesa su una gondola, in balia delle onde, dato che il mio stomaco insisteva nel ribollire.

Nauseata e confusa, spalancai gli occhi. L'ennesimo sms mandato, sicuramente, da Gretha, mi fece maledire me stessa per aver accettato di essere diventata sua amica.

Allungai un braccio verso il mio comodino e agguantai l’apparecchio elettronico.

La mia casella di posta era piena. L’icona lampeggiava sul display e segnava almeno 20 sms.

Un numero che non avevo mai letto prima di quel momento su quello schermo.

Mi tirai a sedere sul materasso in fretta.

La strana sensazione di fastidio che pulsava nel mio stomaco continuava a farlo contrarre.

C’erano sms di Piper, almeno 3 e una decina appartenevano a mia madre, ma io aprii soltanto quelli inviati da Gretha.

L’ultimo messaggio era un vocale.

 

▶ «Non cercare di ignorare i miei messaggi o sarò costretta a chiamarti finché non risponderai per l’esasperazione.»

 

Il suo tono di voce non prometteva nulla di buono. Gretha mi aveva mandato decine di “dove sei” e “che fine hai fatto” a cui non avevo risposto, ovviamente, non per il motivo che credeva lei, bensì, perché ero a dormire quando mi aveva cercata e ancor prima, ero a bordo strada china a vomitare e il mio telefono era praticamente morto.

Mi feci coraggio e digitai un messaggio breve.

 

Haly: Aron mi ha riportata a casa, sono crollata. Scusa.

 

Non potevo negare di essere stata con lui, ma potevo fingere che non fosse accaduto nulla di strano.

Il visualizzato apparve in fretta ma, ancora più in fretta, arrivò la sua telefonata.

«Fai sul serio?», era decisamente incazzata.

«Gretha, non è come pensi. Mi sono sentita male e lui-»

«Come hai potuto?! Sei sparita con Aron senza nemmeno avvertirmi!»

«Gretha, ti prego, calmati. Non è successo niente, Aron si è solo offerto di portarmi a casa. Ero ubriaca.»

«Mitch mi ha detto di avervi sorpresi all’uscita dei bagni e Aron non aveva addosso la maglietta. Non so se crederci, francamente, saresti una vera stronza se così fosse. In ogni caso non dovevi accettare. C’eravamo noi lì, ti avrei riportata io!», gridò.

A quel punto, non credevo alle mie orecchie.

«Ah no? E per quale motivo? Perché piace a te? Aron non ti pensa nemmeno!»

Cosa diamine stavo facendo?!

Mi resi conto in fretta che ciò che le avevo detto era estremamente immaturo. Che mi prendeva? Chi ero io per sapere se ad Aron, Gretha, piacesse o no?

«Sei pessima.», sibilò.

Quel commento mi fece sprofondare.

«Credevo di essere tua amica, pensavo di potermi fidare. Invece, sotto sotto mi fottevi.»

Volevo gridare che non era così da dentro il microfono, ma aveva ragione. Non dovevo baciarlo. Non dovevo desiderarlo.

«Sai che ti dico, Evans? Vaffanculo.»

«Gretha, non-.» Riattaccare.

La telefonata terminò ancor prima che potessi provare a mentire.

Si, so che sembra - anzi, è - squallido, ma non sarebbe mai più accaduto nulla con Aron e Gretha…a lei tenevo molto di più. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di chiarire quel malinteso.

Maledizione.

Mi buttai di spalle sul materasso e fissai il soffitto per un lasso di tempo lunghissimo.

Che guaio avevo combinato?

Ancor prima di potermi colpevolizzare a sufficienza, sentii  gli occhi riempirsi di lacrime.

Non solo avevo permesso a quello stronzo di Aron di prendersi gioco di me, rendendomi del tutto vulnerabile, ma avevo anche perso - a causa sua - la mia migliore amica.

No, non potevo permetterlo.

Afferrai il telefono e cercai sulla rubrica il numero di Piper. 

Ok Haly, lo chiami e…cosa pensi di dirgli? Che Gretha è innamorata di Aron? Così gli spezzerai il cuore. 

Che fra te e Aron non è successo nulla? Anche questa mi sembra un’idea pessima e se veramente devi parlare con qualcuno, devi farlo con Gretha non con Piper, non con Mitch, ma solo con lei.

«Dio!», protestai. Ma perché doveva essere tutto così difficile?

Valutai che l’unica persona con cui potevo parlare sinceramente di tutto quanto fosse Samantha.

Sam, l’altra mia migliore amica, mi conosceva meglio di chiunque altro e non mi sarebbe pesato raccontarle persino di Aron.

Perciò, cercai il suo numero e lo composi.

I bip d’attesa, prima della chiamata, mi sembravano interminabili, ma non appena sentii la sua voce trillare da dentro il microfono, una sorta di calma mi travolse.

 

«Haly? Tutto bene?»

«Ho fatto un casino, Sam. Devi aiutarmi.»

 

C’è una cosa da aggiungere prima di continuare a raccontare: Sam e Gretha non erano amiche per la pelle; l’unica cosa che le accomunava ero io, e per quanto loro si fossero sforzate a diventare buone amiche, Sam se ne era sempre tenuta a debita distanza.

Gretha e il suo modo di essere non le piacevano affatto.

 

«Si tratta di Gretha», le dissi, «Si è arrabbiata con me perché sono tornata a casa con il mio vicino.»

«Chi? Quello di MySpace?»

«Te ne ha parlato, quindi?»

«Se me ne ha parlato? Ha riempito la mia casella di posta con le foto di quel ragazzo. Ha tipo un’ossessione per lui e il suo fare scanzonato.»

Deglutii, forse non era l’unica a quanto pareva.

Scossi il capo scacciando quel pensiero fuori luogo e tornai a parlare.

«Be’, ieri, dopo avermi costretta ad andare ad una stupida festa, dopo avermi fatta ubriacare,-»

«Ti sei ubriacata?!», mi interruppe.

«Si, ma non è questo il punto, lasciami finire… Dopo tutto questo, mi ha praticamente dato dell’amica di merda solo per essere tornata a casa con quel tipo. Voglio dire, è il mio vicino di casa, non c’è nulla di male. Io non ho…»

«Haly.» Mormorò, ma non l’ascoltai, presa dal mio racconto, perciò, dovette ripetersi «Haly.»

«Cosa?»

«Dimmi la verità, mi stai parlando di ieri sera solo per giustificare qualcosa per il quale ti senti terribilmente in colpa.»

Mi zittii. Aveva ragione.

«Ascolta, non c’è niente di male in quello che hai fatto. Sei tornata a casa con un ragazzo, eri ubriaca e lui è stato così gentile da offrirti un passaggio.»

Se solo fosse veramente andata così, le parole di Sam mi sarebbero state di grande aiuto. Ma io avevo baciato Aron e se Gretha ne avesse avuto conferma, le avrei spezzato il cuore.

Sentivo la gola stretta e quella dannata verità che scalpitava per uscire dalla mia bocca.

Cosa avrebbe pensato Sam di me? E se ne avesse parlato con Gretha? Potevo rischiare? Forse, per una volta, dovevo fidarmi di chi mi stava attorno.

«L’ho baciato, Sam.»

Alla fine, mi arresi. Se non avessi confessato a nessuno quanto accaduto, mi sarei sentita divorata da quel segreto.

Sam attese un paio di secondi prima di rispondere.

«M-Ma è fantastico!», ascoltai il tono della sua voce, la sua risposta: avevo deluso anche lei, ma non voleva che la cosa mi pesasse. «Insomma,è un bel ragazzo e tu non ti sei mai presa una cotta per nessuno. Non una seria e sana, quanto meno.»

Non avevo una cotta per Aron. E di certo, se me ne fossi presa una per lui, non sarebbe stata né seria, né sana. Soprattutto sana.

«Non è fantastico, affatto. E’ un disastro! E non ho una cotta per lui, temo solo che Gretha lo venga a sapere.Credimi, non mi interessa Aron, voglio solamente far pace con Gretha.»

Sam mi ascoltò per un altro buon quarto d’ora e ponderò un modo per farmi tranquillizzare. Gretha non sarebbe mai venuta a sapere di me ed Aron se entrambi avessimo tenuto il becco chiuso. E io lo avrei tenuto sicuramente, speravo solo che Aron facesse lo stesso.

 

                                                                                 *******

 

Durante il pomeriggio restai chiusa in casa a sfogliare i volumi di oftalmologia. Avevamo un esame quel fine settimana e per nulla al mondo mi sarei fatta trovare impreparata a causa delle stronzate che andavo facendo.

Sistemata sul tavolino angolare accanto alla parete della cucina, spaginai i miei appunti sulla sua superficie e mi infilai il paio di occhiali da vista, pronta a concentrarmi sulle nozioni che riportava il capitolo.

Sin da piccola, non era mai successo che anteponessi altro allo studio. I miei impegni, i pensieri, ciò che mi frullava per la testa… Tutto passava in secondo piano. Sempre. Ma quel giorno ero più agitata del previsto.

Il solo restare ferma, a sedere, sembrava costarmi caro.

Dopo svariati cambi di posizione, un paio di tazze di the e una - o due - manciate di biscotti decisi che era il momento di darci un taglio.

C’era tutto il programma di anatomia che mi aspettava e quello che stavo studiando era ben poco rispetto a quanto mi mancava.

Concentrati, Haly.

Presi il volume ed incominciai a recitare a voce alta le prime righe. Ogni tanto, appuntavo qualche parola chiave sul quaderno accanto al mio braccio e quando non capivo il significato di qualcosa lo digitavo velocemente sulla tastiera del portatile, ammassato accanto alle pile di fogli.

«Dicesi Emeralopia o cecità notturna quella condizione in cui…quella condizione in cui…Maledizione!» Colpii il piano di legno del tavolo con lo spigolo del volume.

Dannato Aron. Anche quando non c’era fisicamente riusciva a distruggere tutti i miei piani.

Guardai oltre la sporgenza della finestra, dietro le tende chiare, lì dove scorgevo il riflesso di casa sua. Le finestre erano aperte ma le luci all’interno sembravano spente.

Che fosse uscito? Spostai lo sguardo verso il vialetto, lì dove sapevo esserci la sua auto parcheggiata. C’era.

«Ma che diavolo sto facendo? Ora lo spio?», scossi la testa e tornai a guardare le fitte righe stampate sulla pagina candida del volume di oftalmologia.

Tutte quelle parole si accavallavano davanti ai miei occhi formando una macchia senza senso. Più provavo a concentrarmi, più quel dannato bagno mi tornava in mente. Non osavo, poi, chiudere gli occhi. Ci avevo provato un paio di volte, una delle quali solo per grattarmi la nuca, e tac, eccola lì, la sensazione delle sue mani sotto la mia gonna. Un brivido mi aveva attraversato la schiena. La sensazione di quel momento era paragonabile a quella che si prova bevendo tequila. All’inizio sembra arderti la gola, fai persino fatica a mandarla giù, ma poi ti piace e ne vuoi ancora. Sempre di più. 

Scacciai dalla testa l’idea di aver desiderato Aron. Non credevo ancora che fosse stato possibile.

Presi la penna ed appuntai:

REGOLA N.1 

NIENTE PIU’ ALCOOL.

Esausta appoggiai la guancia sulle mie stesse braccia e fissai il salotto immacolato. I divani celesti, il tappeto persiano al centro della stanza, i vasi bianchi accostati agli angoli delle pareti, le foto, l’ordine. Io ero quel genere di persona. Ero molto più simile a quella casa di quanto non lo fossi stata alla me della sera prima. Halanie della sera precedente non era altro che una perfetta sconosciuta. 

Però mi sono divertita. Mi dissi, provando una sorta di sconfitta nell’ammetterlo.

Mi ero divertita, mi ero sentita viva per la prima volta.

Certo, potevo risparmiarmi tutto il resto.

Risollevai la schiena e fissai il display del cellulare. Non c’erano più i 20 sms della mattina, non c’era nulla. Né una chiamata, né una notifica di MySpace. Nulla. Il mio mondo, quando tornava a girare per il verso giusto, era piatto e, per quello che potevo saperne io, si muoveva esattamente  come un frisbee che vola in un’unica direzione. Mai nella mia ovviamente.

Forse dovrei chiamare Gretha.

Non era una buona idea ma il solo sapere di aver chiuso con lei mi faceva disperare.

Le volevo bene sul serio.

E no, non lo volevo fare solo perché in facoltà era una delle poche che frequentavo. Non lo volevo fare neanche per tenere il gruppo saldo, lo facevo perché tenevo veramente alla nostra amicizia e uno stupido errore non sarebbe stato la causa di una rottura fra noi.

Allungai la mano verso il cellulare. Non mi crederà mai. Ma serrai il pugno all’istante.

Dovevo trovare le parole giuste da dirle.

Mi schiarii la voce.

«Gretha, mi dispiace molto per ciò che-NO. Così mi riattaccherà ancor prima del mi dispiace.»

Afflosciai le spalle.

«Ehi, Gretha!» -no, nemmeno così va bene.

«Senti, non è successo nulla, ok? Nulla.» Ma diavolo, era successo qualcosa. Eccome!

Nella mia galleria c’erano svariate foto, per lo più dei mie defunti tulipani, ma molte altre ritraevano me e lei in vacanza o in facoltà.

Mi piaceva sfogliarle qualche volta. Be’, a dire il vero lo facevo per lo più quando, inconsciamente, volevo ricordare a me stessa di avere anche una vita sociale.

Ad ogni modo, in quel momento, desideravo guardarle.

Ne avevo una scattata il giorno dell’inaugurazione di un parco acquatico in città. C’eravamo noi due che trionfanti sollevavamo sulle nostre teste due piccoli squaletti di peluches. 

Sorrisi mentre la guardavo.

Se non ci fosse stata Gretha in facoltà, probabilmente, in diverse occasioni, sarei crollata.

Per me aveva indubbiamente fatto tanto. Tantissimo.

Entrai nei suoi messaggi e provai a digitare:

 

Haly: Non puoi farm|

 

Farmi cosa? Che intendevo dirle con “non puoi farmi questo”?

Non poteva evitarmi? Non poteva ignorare le mie chiamate? Non poteva essere arrabbiata con me? Certo, certo che poteva! E ne aveva persino tutto il diritto…forse.

Ma io avevo il diritto di tenermi stretta un’amica anche se questo stava a significare che dovevo mentirle. 

 

Haly: Non è successo niente fra me e Aron.

 

                *********

 

Era sera ormai e Gretha aveva ignorato definitivamente anche l’ultimo mio tentativo di riappacificazione. Era la prima volta che, buttata a sedere sul divano, spiavo la sua home di MySpace. Mi resi conto che tutti - proprio tutti - raccontavano la loro vita e quasi sempre era movimentata: fatta di amici, di feste, di gioia.

Sulla sua pagina c’erano miriadi di foto con i suoi compagni di corso, con il suo coach di pilates, con delle ragazze che, francamente, non avevo mai visto e in tutte, appariva sorridente. Mi dissi che se avessi aperto un profilo MySpace avrei potuto pubblicare solo foto dei miei genitori, del mio cagnolino Buddy e dei miei tulipani.

NO! Di quelli no, perché Aron me li aveva sradicati tutti!

Se solo ci ripensavo….!

Sospirai, mentre con il pollice scorrevo velocemente la sua bacheca personale, quando il telefono trillò.

Una breve didascalia mi informava che Gretha Winther aveva pubblicato un nuovo video.

Aggiornai la pagina e di colpo mi apparve in primo piano.

Al centro il pulsante per metterlo in play.

 

«Finalmente una serata fra veri amici.»

Spalancai gli occhi.

Il video riprendeva lei, decisamente allegrotta, con un bicchiere in mano ed il braccio attorno al collo di quello che mi sembrava essere Piper. Non erano in un locale, ma per strada forse all’uscita di qualche pub.

Il video era leggermente sgranato ma, quando l’obiettivo si spostò, riconobbi perfettamente il viso che stava inquadrando. Aron.

Aron era con Piper e Gretha.

Quando? Perché?

Deglutii. Dovevo riprendere il controllo.

Innanzitutto dovevo spegnere quel dannato video: stavo passando veramente per una stalker.

In secondo luogo…cosa ci trovavo di strano? Erano sempre usciti insieme, no?

Certo che si. Rispose la mia coscienza al mio posto.

Allora perché ero appena stata travolta da un’onda di gelosia così prepotente da farmi contrarre le budella?

Forse perché ti sei fatta quasi deflorare nel cesso di un bar?

Si, sicuramente per quello. E anche perché una parte di me desiderava essere in quel video al posto di Gretha e non per Aron, non solo per lui, ma per poter dire, come aveva fatto lei, di avere degli amici.

Di nuovo un brivido. L’avevo percepito mentre, sollevandomi dal divano, stavo per andare a prendere l’ultimo bicchiere d’acqua prima di darci un taglio con tutta quella storia. 

«Vedrai, domani passerà tutto.», mi dissi speranzosa.

Il Weekend stava volgendo al termine e molto probabilmente, sarebbe tornato tutto alla normalità in men che non si dica.

 

                                       ********

2:00 am.

 

Ero ancora nel dormiveglia quando sentii l’auto di Piper fermarsi nel vialetto della casa di Aron con la musica a tutto volume.

Avevo chiaramente sentito la sua voce mentre salutava Aron e Gretha, un attimo prima di ripartire.

Ripartire?

Balzai a sedere sul materasso. Dalla finestra leggermente aperta riuscivo a vedere più o meno tutto.

E c’era Gretha, ubriaca,  che rideva e volteggiava intorno ad Aron mentre si avviavano verso la villetta.

Non credevo ai miei occhi. 

Che diavolo stava facendo?

Attraversarono la lingua di ciotti fino alla veranda, poi, Aron tirò fuori il mazzo di chiavi dalla tasca del jeans e infilò quella più lunga nella toppa.

In quel preciso istante, qualcosa dentro di me fece crack.

Si, lo so è sciocco. Lo era anche allora, insomma, io non avevo alcun diritto di sentirmi esattamente come mi sentivo.

Ero ingiusta: verso Gretha, verso lui, verso me; perché non riuscivo a realizzare quali fossero i miei sentimenti.

Cosa provavo? In quel momento stavo guardando Aron dalla finestra mentre si portava a casa la mia migliore amica e mi suscitava…rabbia.

Ma, effettivamente, perché ero arrabbiata?

Perché aveva vinto lei una sorta di sfida che era stata proclamata solo nella mia testa?

Perché mi sentivo tradita?

Perché Aron piaceva anche a me?

Perché mi aveva baciata e poi ripudiata e umiliata nella sua auto?

«Le persone si baciano in continuazione.»

«Sicuramente non ci tengo a farlo sapere in giro.»

Le sue maledette parole mi vorticavano in testa rimbalzando qua e là, ricordandomi quanto fossi stata sciocca quella sera.

Non dovevo lasciarmi andare, come aveva detto lui.

Serrai le labbra. Mi stava venendo da piangere ma non sapevo nemmeno il perché.

Aron aprì la porta e accese la luce all’interno dell’appartamento, Gretha sorrise e poi avanzò sugli scalini che la separavano dall’ingresso.

Non volevo vederli scopare dalla finestra di camera mia.

Non avrei permesso a nessuno dei due di umiliarmi in quel modo, perciò, frustrata, tornai sotto le lenzuola e mi pigiai il cuscino contro le orecchie.

Non volevo rischiare di sentire il fracasso nella mia testa o i gemiti di Gretha qualora ci fossero stati.

Dovevo essere piuttosto patetica in quel momento.

Su, andiamo, il cuscino premuto contro le orecchie, gli occhi gonfi…Ma io…ero anche quella e piangevo, perché tutti piangono quando stanno male, quando sono arrabbiati.

Ed io ero furiosa, perché…diamine! Non ci stavo capendo niente. Per la prima volta, qualcuno era riuscito a farmi perdere il controllo. Farlo perdere a me! Che ossessiva com’ero, non avevo mai perso di vista nulla specie quando si trattava dei miei sentimenti.

Aron ci riusciva, ed io dovevo incominciare a preoccuparmi.

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Capitolo 7
*** 6. ***


6.



 

Presi un respiro profondo «Sono gay», dissi.

«Sei gay?», ripeté il tipo insopportabile che ci aveva provato negli ultimi dieci minuti, dandomi il tormento.

«Sei sicura?»

Trattenni una risata. Sembrava davvero deluso.

Odiavo giocarmi la carta dell’omosessualità, soprattutto perché non era vera, ma a volte non avevo scelta.

Se almeno lui ci avesse provato in modo carino, avrei gentilmente declinato la sua proposta. Ma no, aveva dovuto comportarsi per tutto il tempo come un porco.

E con porco, intendo dire che aveva esordito dicendo: «Quel vestito ti sta benissimo, ma starebbe ancora meglio appallottolato ai piedi del mio letto.»

Davvero triste. Soprattutto dal momento che eravamo in un bar ed erano appena le sette e trenta del mattino. Tra i commenti viscidi, l’appiccicume e gli occhi puntati sulle tette, cominciavo a sentirmi un tantino infastidita.

Se non avessi avuto bisogno di un’iniezione di caffeina, me ne sarei già andata, ma ce l’avevo e non potevo andarmene o sarei morta.

E quindi, eccomi lì, con appena quattro ore di sonno sulle spalle a farmi molestare da quello che sembrava il testimonial della pubblicità di un deodorante.

«Si, sono sicura.»

Sembrò pensarci un attimo. «Quindi hai una ragazza. Be’, pensi che voi due potreste avere voglia di…»

«NO.», dissi secca.

«Ma se io…»

«No.»

«Dai, non mi hai lasciato nemmeno finire. Ho una telecamera che-»

«No.»

«Sarà divertente.»

«Ti ho detto di no.»

«Oh, avanti…»

«Ti ha detto di no.»

Mi voltai lentamente e decisamente allampanata verso l’interlocutore alle mie spalle.

Aron?!

Spalancai gli occhi vedendolo dietro di me. L’aria pigra, il viso assonnato e, ora, anche snervato.

«Ehi! Non avevi detto di essere gay?», disse il tizio in modo accusatorio.

E Aron, senza battere ciglio: «Infatti io sono la sua puttana, e ora sparisci.»

Sprofondai dalla vergogna quando, pigramente, circondò le mie spalle con il suo braccio mantenendo lo sguardo sul porco.

Non potevo credere a ciò che stava succedendo.

Non parlavo con Aron dalla notte al Club, lo avevo visto portarsi a casa la mia migliore amica e, conoscendolo, sicuramente avevano consumato, perciò, tutto quello che stava accadendo in quel momento era assurdo.

Il pervertito guardò il braccio di Aron attorno alle mie spalle e poi me, stringendo gli occhi.

Poi tornò a guardare sia me che Aron; avrei giurato che si stesse domandando se continuare o meno.

Date le sue piccole dimensioni e la massa muscolare di Aron, il tipo decise saggiamente di lasciar perdere.

«Non sapevo che ti piacessero giochini e telecamere…» Commentò, solo quando il pervertito, sbuffando, si era allontanato.

Afferrai il suo braccio con entrambe le mani e lo allontanai dalle mie spalle.

«Infatti, non mi piacciono.»

Aron sghignazzò fra sé e sé, poi tornò a guardare la fila davanti a noi.

«Allora? Cosa mi offri stamattina?»

Il respiro mi si mozzò. Faceva sul serio? Insomma, dopo tutto quello che era successo, davvero, si rivolgeva a me come se nulla fosse?

«Io? Perché mai dovrei offrirti qualcosa?»

Aron si sporse verso il lobo del mio orecchio «Perché ti ho aiutata a sbarazzarti di quel maiale. Se fosse stato per te, ora, ti avrebbe trascinata chissà dove.»

Strabuzzai gli occhi.

«Non penso proprio!»

Aron mi scrutò mimando un’occhiata eloquente.

Ok, forse aveva ragione. Non ero riuscita a scollarmi quel tipo da sola, ma di certo non sarei finita in camera sua!

«No? Davvero?»

Aggrottai la fronte. Ecco che, di nuovo, montavano i nervi dentro me.

«Ce l’avrei fatta anche da sola. Non avevo bisogno del tuo aiuto.»

Curvò le labbra all’insù. All’improvviso gli vidi balenare sul viso un’espressione furba.

«Be’ se è così-», intercettò il tipo appiccicoso «Ehi tu, Haly ci ha ripensat-»

«Aron!», lo spinsi fra la folla in fila per accaparrarsi un caffè e qualche croissant.

Scrutai Aron con l’espressione più adirata che riuscissi a mimare, ma tutto ciò che riuscii ad attirarmi fu una risatina.

«Sai, sei buffa quando ti incazzi.» 

«S-Sono…buff- Sono arrabbiata!», rise ancora.

«Oh sì, lo vedo…Sai, assomigli a quella razza di cane, ma si, quella razza piccola piccola che fa un sacco di rumore per niente. Un Chiwawa.»

Stentavo a credere alle mie orecchie.

Sbigottita schiusi le labbra per dire qualcos’altro, sperando in qualche offesa ad effetto, ma non riuscii a mormorare nulla.

Lo odiavo. Molto più di prima.

«Cosa vuoi, Aron?», avanzai di un passo. Un altro paio di persone e sarebbe toccato a me.

«Prendere un caffè?», fece vago.

«Dico sul serio. Cosa vuoi?»

Sospirò.

«Invitarti ad una festa.»

Mi si torsero le budella, all’istante.

«Scordatelo.»

Afflosciò le spalle. «E’ una festa di facoltà. Non corri il rischio di bere quantità esagerate di alcool.» -e di baciarmi. Se lo avesse aggiunto sul serio, me ne sarei andata. A monte il caffè!

«Le feste non fanno per me.», sentenziai seria.

Non osai guardare la sua espressione. Dopo quello che mi aveva vista fare in quello stesso bar, solo poche sere prima, potevo immaginare come mi stesse guardando.

La fila avanzò e finalmente, raggiunsi il bancone.

«L’alcool non fa per te, non le feste. Quelle ti farebbero bene.»

Scossi il capo «Da quando sai cosa mi farebbe bene?» dissi, poi guardai la commessa, «Mi da quel sacchetto di Muffin e un cappuccino? Anzi un caffè doppio, grazie.»

«So che te ne stai sempre rintanata in casa, perciò si, ti farebbe bene andare ad una festa.»

Dio! Quanto era insistente! D’un tratto, avrei preferito che ci fosse stato ancora faccia da porco accanto a me.

«Dacci un taglio, Aron.»

Sorrisi alla cameriera e le lasciai i soldi compreso di mancia.

Poi sgusciai dalla fila e, intercettato un tavolino libero, poggiai il sacchetto ed il caffè doppio sulla sua superficie.

Aron apparve dall’altro capo del tavolo e si piazzò a sedere, sprofondando nell’imbottitura della sedia.

Pescò un muffin e sospirò.

«Ti divertirai.», mormorò addentando il muffin trafugato.

«Prego, serviti pure.», dissi seccamente mettendo lo zucchero nel caffè.

«Già fatto, grazie», sollevò il muffin e me lo sventolò davanti, quasi a sfiorandomi il naso.

«Finiscila…», ridacchiai.

Aron sorrise. Un sorriso sincero, divertito. Di colpo, potevo sentire le mie guance bollenti.

Non volevo parlare con lui di quello che era successo, né tanto meno, gli avrei detto che l'avevo visto in compagnia di Gretha. Ma c’era un motivo per cui mi stavo sentendo quasi in dovere di ricacciare quella storia: con lui stavo bene.

Si, certo, l’odiavo. Però, quando ero in sua compagnia, le rare volte in cui non mi faceva saltare i nervi, sapeva farmi ridere davvero.

«Allora? Ci vieni o no alla festa?»

Addentò un altro spicchio di muffin.

 «Ho un appuntamento.», Ammisi.

Si irrigidì per un istante o almeno così mi sembrò. 

«Immagino che questo vuol dire che la nostra storia d’amore è finita.», rispose molto ironicamente mandando giù il pezzetto di dolce. Gli occhi fumosi su di me.

«Immagino di si.»

«Mi ferisci.»

«Sopravvivrai…ovviamente ti servirà uno psicologo», ammiccai un sorrisetto.

«E’ un altro sfigato? Ultimamente dove sei tu ci sono sempre sfigati.»

Lasciai vagare lo sguardo esasperato altrove e mugugnai qualcosa.

«Scusami, non capisco la tua lingua, puoi ripetere?», disse adocchiando un altro muffin caldo all’interno della bustina.

«Non esco con gli sfigati e-Controllati!», protestai schiaffeggiandogli la mano non appena lo vidi allungarla, di nuovo,  verso la bustina di muffin.

Aron mise il broncio, il ché mi fece lanciare un’occhiata al cielo.

«Maledizione, dov’è l’amore? Sono un uomo affamato.»

Aprii con un sospiro la bustina ed estrassi il dolcetto ancora caldo.

Spezzai l’ultimo muffin in due.

«Sei patetico.», borbottai,  porgendogli la metà. Lui se la infilò tutta in bocca con un gran sorriso, gustandosela. Era veramente buono come sembrava.

Aron aveva il gran potere di modulare a suo piacimento i miei stati d’animo. Riusciva a farmi passare dall’imbarazzo ai nervi, alle risate, a molte altre emozioni - e non tutte solo nel petto - in men che non si diceva e ciò, mi stordiva il più delle volte.

«Bene.», si sollevò soddisfatto.

«Ti senti meglio ora che hai spazzolato la mia colazione?», brontolai ingurgitando un sorso di caffè.

Mi rifilò un’occhiata carica di soddisfazione.

«Ti passo a prendere alle sei.»

«Non verrò!», la tazzina tintinnò rumorosamente sul piattino.

«Oh, sì che lo farai…», mormorò quasi sibilando, curvandosi verso di me, «Ti costringerò, sai che sono bravo.»

Per un momento restai a fissarlo dritto in faccia. Avevo i nervi a fior di pelle, ciò nonostante, erano anche altre le sensazioni che provavo in quel momento.

Aron drizzò la schiena fierissimo e con un sorrisetto sagace e un cenno della mano si allontanò verso l’uscita.

Merda! Merda! Merda!

Che stava succedendo? Che gli passava per la testa?

Mi aspettavo lo stesso silenzio settico dei giorni precedenti: andava bene a lui e soprattutto a me.

Ma ora che mi aveva parlato come se nulla fosse, be’ stentavo a capire le sue intenzioni.

Per vergogna o pudore, mi sarei aspettata di averci chiuso per tutto il resto dell’anno.

Si era portato a casa Gretha, questo stava a significare che ora aveva un flirt con lei, allora, perché? Perché?!


A lezione non riuscii a concentrarmi e di certo, la causa non erano le quattro ore di sonno.

«Haly!» Sam mi accostò in corridoio, raggiante come sempre.

«Sam», le sorrisi.

«Com’è andata la lezione? So che la Brown vi ha assegnato una quantità di roba da studiare allucinante.»

Annuii afflitta. «Proprio così, e non so da dove cominciare.»

Il corridoio pullulava di studenti ed io non avevo ancora incontrato Gretha. Non sapevo dire se fosse un bene o meno.

Sam ed io attraversammo il piano, avevamo lezione nella stessa aula alla terza ora.

Lei mi spiegò un po’ di quanto era riuscita a studiare per quella lezione e ci scambiammo opinioni su svariati argomenti, finché, poco prima di sparire in aula, non mi domandò: «Va tutto bene? Quella storia?»

Sospirai grattandomi la testa.

«Questa mattina ho visto Aron», le confessai, «Ed è assurdo, perché lui mi parla come se non fosse successo nulla.»

Sam sorrise «Non dovrebbe?»

«Diamine, no! Ci siamo-» abbassai il tono di voce «-baciati!».

Sam scrollò le spalle «E questo che c’entra, vi conoscevate anche prima di quel bacio e parlavate anche prima. Magari non vuole che fra voi le cose cambino.»

Storsi un labbro.

Aron ed io non parlavamo. Non c’era nessun prima, non eravamo mai stati buoni amici, non ci eravamo frequentati, lui aveva semplicemente fatto una serie di cose per cui io mi ero ritrovata invischiata con la sua persona.

Cose, che stentavo ad analizzare. Anzi, mi rifiutavo di analizzare.

«Non eravamo amici. Non lo siamo mai stati.» dissi, più seria che mai.

«Magari, lui non la pensa così. Magari, e dico tanto per dire, vorrebbe veramente essere tuo amico.»

Sam abbozzò un altro sorriso molto più breve e entrò in aula lasciandomi lì, sull’uscio, inebetita.

Amici? Glielo aveva detto lui?

Aron voleva essere mio amico?

«Cosa vuoi?»

«Invitarti ad una festa.»

«Ti farebbe bene.»

Non avevo mai pensato a quella possibilità.

Mi accomodai a sedere e tirai fuori dalla mia borsa il volume di oftalmologia e gli appunti. Tutta quella storia mi stava dando il mal di testa, dovevo piantarla.

C’era ben altro di cui preoccuparsi al momento.

La Jekins incominciò a scrivere qualcosa alla lavagna e in pochi attimi, mi resi conto che la lezione era già iniziata. Non ero mai stata così distratta prima d’ora e l’entrata rumorosa di Aron peggiorò la situazione.

Avanzando oltre la porta, urtò con lo zaino l’anta che fece tremare persino la parete adiacente.

Qualcuno ridacchiò insieme a lui quando la professoressa trasalì per lo spavento.

«Signor Green, la lezione è incominciata da circa dieci minuti.», lo rimproverò lei, anche se il tono della sua voce non era per nulla contrariato. Possibile che Aron avesse fascino persino con le donne molto più mature?

Oddio, e se fosse andato a letto persino con la Jekins? Insomma, quanto aveva, 34 anni?

Scossi la testa. Ero veramente maliziosa.

Aron salì i gradoni dell’aula rialzata, scegliendo di accomodarsi esattamente accanto a me. Gretha era a qualche fila di distanza e mi accorsi solo dopo un po’, che non aveva mai smesso di togliergli gli occhi di dosso. Lui, al contrario, non l’aveva nemmeno vista.

«Proprio qui dovevi metterti?», ringhiai a bassa voce.

«Ci sono per caso i nominativi sui posti?», rispose lui, con lo stesso tono di voce da finto tonto che gli veniva tanto facile, guardando dritto avanti a sé.

«No, ma non sarebbe una cattiva idea. La promuoverò alla prossima assemblea.»

Aron sghignazzò «Dimenticavo che sei il lacchè dei professori.»

«C-Cos- Che hai detto?!»

Ero pronta a spingerlo via dalla sedia quando la Jekins si accorse di noi.

«Si, signorina Evans. Ha qualcosa da dire?», domandò la Jakins a me, richiamando l’attenzione di tutti su di noi.

Sprofondai. Le guance che mi andavano a fuoco. Restai con le mani sul braccio di Aron, come avevo detto lo stavo per spingere via, ma ad occhi e croce, chiunque ci stava guardando in quel momento, avrebbe assisstito ad  altro.

«No, signorina Jekins, non ho detto nulla.», squittii.

Aron si appoggiò allo schienale della sedia e mi fissò, probabilmente divertito dal rossore delle mie guance.

Mi sistemai gli occhiali sul naso con un gesto nervoso.

Odiavo trovarmi al centro dell’attenzione ed Aron ne aveva appena avuto la conferma.

Qualcosa mi diceva che in caso fossimo rimasti amici, mi sarei dovuta abituare alla malsana propensione che aveva nell’attirare sempre l’attenzione su di sé.

«Si, signorina Jekins. Evans ha qualcosa da dirle.»

Guardai Aron con gli occhi spalancati.

«Giuro che se ti prendo…», borbottai serrando un pugno.

Aron dondolò su due dei quattro piedi della sedia per un po’, godendosi la scena,  poi, a quell’affermazione, piombò sporgendosi verso di me.

«Che mi fai?», sibilò al mio orecchio.

Ogni muscolo si contrasse senza che potessi evitarlo.

Non erano solo nervi.

«No, signorina Jekins. Le assicuro di non aver detto nulla.»

C’era qualcun altro in quella classe che stava perdendo le staffe oltre alla Jekins, ed era Gretha.

Avevo evitato di incrociare il suo sguardo finché avevo potuto, ma ora quei due occhi ridotti a due piccole fessure, potevo sentirli dritti dietro la nuca.

Pregai Aron di darci un taglio. Inutilmente.

«Se non ti è chiaro, continuerò finché non accetterai il mio invito.»

Era una minaccia. Senza dubbio, una subdola minaccia.

«Fa pure, non mi interessa.»

Sam, seduta dall’altro lato, intanto se la rideva ascoltandoci.

Aron si voltò verso me piazzandomi i suoi occhi fumosi dritti in faccia. L’espressione dispettosa e pericolosissima.

«D’accordo. L’hai voluto tu.»

Lo scrutai terrorizzata ma, ancor prima di rendermi conto di cosa stesse per fare, lui aveva già sfilato qualcosa dalla sua borsa e per poi nasconderla nella mia.

Attimi dopo, un’oscena suoneria ricca di parolacce si propagò per l’aula. Mi scappò un gridolino, mentre come una pazza scavavo fra le mie cianfrusaglie.

«Chi diavolo è?», la Jekins si voltò verso le file di banchi furiosa.

Tutti si guardavano attorno spaesati.

«Gesù, dove diavolo hai nascosto il-», l’ipod di Aron era ruzzolato in fondo alla borsa, travolto da fazzoletti, penne, quaderni e qualche tampax. Più scavavo, più lo vedevo affondare nelle mie cose. Ad un tratto volevo morire.

Aron, al contrario, se la rideva di gusto.

«Signorina Evans, spero lei abbia una buona giustificazione.» Quello era soltanto l’inizio di una delle ramanzine più imbarazzanti e severe che avessi mai sentito.

Si rischiava un bel richiamo per una bravata del genere e non mi sarei fatta richiamare per una cosa del genere, soprattutto perché non era colpa mia!

«Io- Cioè, io non…», farfugliai. 

«Non lo sa che il telefono va spento?» La Jekins si avvicinò ai gradoni dell’aula e con il passo severo, avanzò nella mia direzione.

Come un rapace piombò davanti al mio banco e afferrò la mia borsa, ci scavò dentro e tirò fuori il marchingegno.

«Signorina Evans, sono veramente delusa dal suo comportamento.», disse, mentre la scrutavo con gli occhi gonfi come quelli di un cerbiatto.

«Questo è confiscato.», sentenziò severamente. Abbandonò la borsa sul mio banco e tornò verso la cattedra furiosa.

«Siete universitari, non liceali. Atteggiamenti del genere, oltre che demenziali sono anche fuori luogo alla vostra età.»

Appellare con la parola demenziale la bravata di Aron, fece sentire stupida anche me. Soprattutto me.

Volevo piangere e lo avrei fatto, se solo Aron non fosse stato così impertinente da ridermi in faccia. I nervi mi montarono dentro come cavalli al galoppo.

«Giuro che me la pagherai.», lo minacciai.

«Accetta il mio invito.», tornò a ripetere. Il sorriso perfetto e divertito che gli spuntava sulle labbra.

Distolsi in fretta lo sguardo.

«Divertiti a quella stupida festa.»

Aron schiuse le labbra, sospirò e si lasciò ricadere, sconfitto, con la schiena sulla spalliera della sedia.

La lezione più lunga della mia vita proseguì senza altri intoppi, e quando finalmente scoccò l’ora, potei raccogliere le mie cose pronta a dileguarmi. 

«Vorrei avere un attimo la vostra attenzione, prima che torniate alle vostre aule», disse la professoressa Jekins alzando la cartellina per richiamare l’attenzione di tutti in aula. «Abbiamo bisogno di un altro volontario per organizzare il ballo di questa sera.», proseguì lanciando uno sguardo speranzoso a me e quando sollevai il braccio quasi le brillarono gli occhi. Nessuno voleva occuparsi del ballo, era una vera seccatura. Gli studenti volevano andarci solo per sbronzarsi, rimorchiare, pubblicare stupide foto sui social, ma mai nessuno - nessuno - se ne sarebbe voluto occupare.

«Il signor Green mi stava giusto dicendo che voleva occuparsene lui, dato che non ha un’accompagnatrice.»

«Cosa?», sbottò lui, ma era troppo tardi.

Lo sguardo di rivalsa che gli lanciai fu il gesto più appagante che avessi mai fatto.

La Jekins gli rivolse un sorriso smagliante. «Bene, eccellente! Ottimo! Si assicuri di essere qui per le sette. La ringrazio.»

La Jekins non si preoccupò neanche di verificare con lui, scappò dall’aula prima che potesse rifiutare.

Aron tornò a guardare me «Infida bastarda.», disse fra i denti.

Il mio sorriso passò da innocente a maligno in meno di un secondo. «Divertiti al ballo.»

Mi sollevai e produssi un inchino. Soddisfacente. Molto soddisfacente.

Aron, però, non sembrava arrabbiato, piuttosto divertito tanto da sorridere, forse, senza rendersene neanche conto.

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Capitolo 8
*** 7. ***


6.



 

La palestra della facoltà era piena. Avevo appena finito di montare le luci strobo, allestire gli stendardi, controllare che sui tavoli ci fosse tutto l’occorrente e maledire Haly per quello scherzo di merda, quando, dal piccolo palco allestito dalla Jekins, un tipo incravattato inaugurò l’inizio di quella maledetta serata.

La musica si propagò per la palestra e miriadi di teste invasero la “pista”.

Per un buon quarto d’ora restai fermo davanti alla serie di tavoli imbanditi, ponderando cosa potessi mandare giù e, rendendomi conto che di alcolico non c’era praticamente nulla, decisi di riempirmi un bicchiere con della limonata - sperando che quel liquido giallognolo fosse realmente limone.

«Oh mio Dio, lo amo!», piagnucolò a voce alta una ragazza, Cindy o qualcosa del genere. Dopo venti minuti fermi come due ebeti a sentir piangere e parlare solo lei, incominciavo ad agitarmi.

Mi guardai attorno nervosamente e sospirai di sollievo quando vidi un gruppetto di ragazzine raggiungerci circondando lei.

«E’ proprio uno stronzo!», disse una di loro.

«Non dire così! Io lo amo!», pianse Cindy.

«Oh lo so, ma tu meriti di meglio». Storsi un labbro quasi disgustato. Quindi avrei passato tutta la sera ad ascoltare storie di cuori infranti?

Comunque, stava andando tutto bene. Con l’arrivo delle consolatrici, potevo tornare a supervisionare quel branco di teeneger con gli ormoni in subbuglio che ascoltava pessima musica.

Avrei volentieri ucciso Halanie.

Feci per allontanarmi dal gruppetto, quando, mi sentii chiamare.

«Signor Green, come può farmi questo?», esclamò la stessa Cindy, implorante.

Rimasi con un piede a mezz’aria e mi guardai - per la seconda volta - attorno.

Magari lì accanto c’era un altro signor Green che non vedeva l’ora di occuparsi della questione. Ma non credevo di essere così fortunato.

Mi schiarii la voce «Farti cosa, esattamente?»

Cindy mi rifilò un’occhiata carica di sarcasmo, con due occhi increduli dai quali dedussi che dovevo essere messo - per forza - al corrente di tutto quello che stava accadendo nella sua vita.

Considerando che non avevo mai prestato attenzione alla vita di una donna, Cindy era destinata ad un risveglio a dir poco brusco.

Grazie al cielo, una delle sue amiche ebbe pietà di me.

«Marc Grisword. Nelle ultime due settimane hanno mangiato allo stesso tavolo per ben due volte! Durante l’ora di studio individuale le ha parlato per tutto il tempo ed ora, è qui con quella.», finì con una smorfia talmente disgustata che non potei far a meno di seguirne lo sguardo.

Vidi Marc che ballava con una moretta molto carina. Il suo nome lo ricordavo: Lucia. Era una ragazza sveglia e terribilmente simpatica. Se la memoria non mi ingannava, Marc era stato cotto di lei durante l’ultimo anno. Quel povero ragazzo, che normalmente era sicuro di sé e rilassato, quando c’era lei si trasformava in un idiota balbettante. Mi ero chiesto spesso quando avrebbe trovato il coraggio di chiederle d’uscire e…be’ quella sera l’aveva trovato.

«Uhm, buon per lui», borbottai suscitando uno sguardo collettivo d’offesa.

«Come può dire questo?», pianse Cindy ancora più forte. Mi sentii rimpicciolire.

Oh, si. Decisamente, avrei ucciso Haly per quella situazione.

«Emh…Giusto. Allora, mettiamola così…Lui non ti merita.», farfugliai, cercando di consolarla. Speravo anche in un suo attimo di distrazione così da potermela dare a gambe, effettivamente.

Cindy sorrise sollevata.

I suoi occhi carichi di qualche emozione che, oltre a non aver individuato, mi spaventava persino un po’, si allargarono a dismisura.

«Detto da un uomo fa un altro effetto», cinguettò e poi, come un rapace, intercettò il mio braccio attorniandolo con entrambe le sue.

Deglutii.

«Perché non mi fa da cavaliere, signor Green», disse sbattendo le ciglia.

Ebbi un brivido e non fu piacevole.

«Emh, ecco…», maledetta Haly «Sono il supervisore, non mi è permesso, mi dispiace.»

Cindy mimò un profondo e calcato broncio, ciononostante, continuò a spalmare le sue tette contro il mio gomito.

«O-Ok, diamoci una calmata.», recuperai il mio arto strappandoglielo dalle grinfie. «Sono certo che troverai qualcuno che sarà ben disposto a farti da cavaliere.» Dissi e con una serie di brevi passi mi dileguai verso il centro della pista.




 

«Sono stato molto bene.» Avevo veramente un appuntamento, l’ultimo sulla mia agenda degli appuntamenti lampo che falliranno. Dopo Jonathan non ci sarebbe stato nessun altro.

Mi costrinsi a sorridere e ovviamente mentii. «Anche io.», dissi, sperando che lui non mi chiedesse di specificare che cosa mi fosse piaciuto, perché sarebbe stata davvero un’impresa ardua trovare qualcosa di piacevole in quella serata, se escludevo il fatto che stava per finire.

Era davvero l’ultima volta che uscivo con qualcuno suggeritomi da Sam o da Gretha. In questo caso da Sam, perché Gretha non mi rivolgeva la parola.

Anche se, in fin dei conti, non era stato tanto male all’inizio. Lui era stato puntuale e l’avevo trovato abbastanza carino, anche se un po nerd. Era alto e un po’ allampanato, ma tutto sommato non male.

Indossava abiti puliti e aveva un buon profumo. Il primo sentore che c’era qualcosa che non andasse l’avevo avuto al ristorante.

Era stato allora che la madre lo aveva chiamato la prima volta. Si, la prima volta, perché le chiamate erano state più di una. Per l’esattezza, nelle 4 ore d’appuntamento - che era durato così tanto perché lui ci aveva messo un’eternità a mangiare - lei aveva chiamato in totale sei volte. Ero sicurissima che fosse la madre, perché lui aveva risposto rimanendo sempre seduto a tavola, e l’interlocutore dall’altra parte del telefono parlava decisamente forte.

Il motivo delle telefonate passava da: dirgli che le mancava, sapere se preferiva tornare a casa e mangiare quello che aveva cucinato lei, ricordargli che avrebbe dovuto riordinare la sua stanza e, quello che personalmente preferiva, sapere se era ancora con lei.

A giudicare dal tono e dal numero di chiamate, la mamma non era molto felice che il suo bimbo era uscito con me.

Peccato che il bimbo in questione avesse trent’anni e, per sua stessa ammissione, non aveva mai vissuto da solo.

E perché mai avrebbe dovuto se viveva con la sua migliore amica e amante? Ovvero la sua cara mamma.

Certo, aveva passato un bel po’ di tempo a lamentarsi di quanto ingiusta fosse sua madre. Chi avrebbe immaginato che un trentenne potesse essere messo in castigo perché non aveva raccolto i calzini sporchi dal pavimento? Io no di sicuro.

Non vedevo l’ora di tornare a casa, infilarmi una tuta e squagliarmi sul mio divano davanti ad un buon libro.

Era tutto ciò che desideravo quella sera, null’altro.

No, forse qualcos’altro c’era.

Dovevo chiedere scusa ad Aron. Lo avevo lasciato in balia della Jekins e dei mocciosi che frequentavano l’altra ala dell'istituto: sicuramente era furioso.

Per questo, la grossa fetta di torta al cioccolato con copertura di arachidi nel contenitore che avevo tra le mani.

Da come aveva divorato i miei muffin, ad Aron dovevano piacere particolarmente le cose dolci e perciò, poteva essere comprato con il cibo.

«Bene, eccoci qui», dissi allegramente mentre Jonathan accostava nel mio vialetto di casa. «Mi sono divertita. Grazie mille.», salutai veloce aprendo lo sportello e scendendo dall’auto.

Tutto ciò che volevo fare era correre mille miglia dalla sua auto e da quel momento imbarazzante.

«E’ davvero una casa carina.», disse lui. Sobbalzai: la sua voce proveniva da qualche parte vicino alle mie spalle, troppo vicino.

Mi voltai e trattenni a stento l’imprecazione che stava per sfuggirmi dalle labbra. Mi stava seguendo verso l’ingresso.

Volevo piangere. Davvero. Quando sarebbe finito quell’incubo?

Camminai fino alla porta e mi appiccicai un altro sorriso finto sulla faccia. «Be’, grazie di nuovo.»

«Prego.». Mi rivolse un sorriso timido e poi…si chinò per baciarmi.

Grazie al cielo me ne accorsi in tempo, e girai la faccia per ricevere un bacio umidiccio sulla guancia. Dio.

Quasi non riuscivo a trattenermi dalla voglia di asciugarmi la faccia.

Cancellerai questo ricordo sotto una bella doccia calda, promisi a me stessa con una smorfia.

«Ops, scusa.», mormorò chinandosi per darmi un altro bacio.

Seguendo il più arcano degli istinti - quello di sopravvivenza - mi schiacciai contro la porta, pronta, forse nemmeno troppo, ad andare incontro al mio terribile destino. 

Jonathan si avvicinò. Vicino. Sempre più vicino.

No, non potevo arrendermi così, non avrei sopportato un’altra sbavata.

Aprii la porta più veloce che potei e tirai un passo indietro sperando che l’ingresso della villetta mi risucchiasse come in uno di quegli horror che avevo visto da piccola.

Ovviamente non accadde.

«Be’, sono stata bene ma…»

«Posso entrare per un caffè?», chiese ansioso. E poi ovviamente aggiunse «Stasera posso fare tardi quanto voglio.» Oh, sapevo che stava mentendo. Si sarebbe beccato una bella lavata di capo da mammina.

Stavo aprendo bocca per rifiutare cordialmente, quando la faccia annoiata di Aron apparve alle spalle di Jonathan.

«Sei tornata, finalmente», sbadigliò.

Indossava ancora la giacca nera e la camicia bianca, e non lo sto facendo notare perché era scioccante vederlo così bello in quei panni, ma perché mi ero resa conto che probabilmente la festa della Jekins si era protratta fino a quel momento.

Feci un salto.

«Che cos-», non feci in tempo a chiedere nulla. Aron tirò da dietro le spalle, la mano che da un po’ teneva nascosta. In pugno, quelle che avevano tutta l’aria di essere un paio di manette.

Jonathan sgranò gli occhi. Guardò me, totalmente confuso, e poi Aron in maniera molto meno amichevole.

«Pensavo fossimo d’accordo che mi avresti avvisato prima di invitare qualcun altro nel nostro letto», disse lanciando una rapida occhiata a cuore di mamma.

«Be’ sei fortunato», lo sorpassò snobbandolo leggermente «c’è lubrificante in abbondanza.». Una volta che fu ad un passo da me si voltò nella direzione del giovane allampanato e mimando un occhiolino proseguì dicendo «Spero che tu non sia il tipo di ragazzo che urla quando io…»

«Voi siete malati!», gridò Jonathan interrompendolo prima che potesse finire la frase.

«E tu», poi si rivolse solo a me, «sta lontana da me, non provare nemmeno a cercarmi!»

Sbigottita mi resi conto solo qualche secondo dopo della porta che sbatteva alle sue spalle e dell’auto che ripartiva a tutto gas, secondi a seguire.

«Quello è per me?», domandò Aron con un insolito sorrisetto sornione stampato in faccia, indicando il contenitore tra le mie dita. A quel punto gli avrei dovuto gridare qualcosa tipo “che diavolo ti è saltato in testa” o “perché lo hai fatto”, ma tutto ciò che mi uscì fu un «Forse.» e un sorrisetto inebetito. 

Aron mi girò intorno come un predatore pronto ad attaccare.

«Questa volta, perché ti sei intromesso?»

Abbandonò le manette sulla consolle accanto alla porta d’ingresso e con uno slancio provò ad intercettare il contenitore che, prontamente, sollevai oltre la mia testa.

Ridacchiai.

«Dovevo vendicarmi.» Allungò di colpo una mano, ma ancora una volta riuscii a non fargli afferrare il contenitore.

«E quelle?», indicai le manette.

Curvò le labbra all’insù, rifilandomi l’occhiata più maliziosa che avessi mai visto sul suo viso. D’un tratto temevo di sapere cosa se ne facesse di quelle manette.

«Un regalino della mia ex.»

Spalancai le palpebre e un’espressione sbigottita, ma  anche carica di sarcasmo, si piazzò sul mio viso.

«Davvero?»

Aggrottò la fronte «No. E’ un regalino delle tue dannate matricole. Tu non sai cosa ho dovuto sopportare questa sera.»

Di colpo, potevo immaginare Aron ringhiare come un cane, il ché mi divertiva da matti.

Infatti risi, cosa che lo fece imbestialire.

Scattò verso di me, lasciando che dalla mia gola si liberasse un gridolino: sapevo che non avrei potuto proteggere il pezzo di torta ancora a lungo.

«Dammi quella torta!», protestò. Mi ritrovai con le spalle contro la parete: il viso di Aron ad un palmo dal naso, e le sue mani attorno ai miei polsi. Li stringevano delicatamente, eppure, avevo l’impressione che in quel punto esatto la mia pelle stesse prendendo fuoco.

Trattenni il fiato.

Incredibilmente, non avevo la più pallida idea del perché mi sentissi così…strana.

«Ok, ok. Tienila.»

Sogghignò vittorioso.

«Grazie.».

Tornai a respirare solo quando si impossessò del contenitore e ci guardò dentro.

«E’...»

«Glassa al burro d’arachidi e cioccolato, si.», terminai al suo posto.

«Sei fantastica.» mormorò quasi a bassa voce.

«Come dici?»

«Dicevo alla torta.», mentì.

«Si…certo…», ammiccai un sorrisetto, poi lo superai e mi diressi in cucina.

«Ti prendo un cu-», stava già addentando la torta afferrandola con le mani. «Come non detto. Un tovagliolo.»

 

Qualcosa aveva spinto Aron a restare appollaiato sul mio divano anche dopo aver trangugiato il pezzo di torta.

La tv era accesa su un canale che, sicuramente, non avevo scelto io e lui se ne stava lì svaccato, con le braccia lungo la testata azzurra, in silenzio.

«Hai intenzione di restare per molto?», gli chiesi riemergendo dalla cucina, con due di tazze di the tra le mani. 

«Finché non avrò abbastanza sonno da decidere di tornare a casa mia.»

E sicuramente con quella bomba ipercalorica e stra-carica di zuccheri il sonno gli sarebbe arrivato l’indomani.

Sospirai rifilandogli un’occhiata rassegnata.

«Ecco, tieni.» Aron afferrò la tazza di the e dopo qualche istante fece un sorso.

Mi accomodai accanto a lui.

«Allora? Com’è andata la serata?»

«Non chiamarla serata, piuttosto, chiamala nottata infernale.»

Risi.

Lui aggrottò la fronte «Guarda che non ti ho ancora perdonata.»

Risi di più.

«Che c’è? Tu puoi accanirti su di me per un anno intero ed io non posso farti uno scherzetto?»

«Chiamalo scherzetto! Sai cosa vuol dire passare la serata a controllare un branco di adolescenti in balia dei loro ormoni?»

Annuii «L’ho fatto per due anni, so cosa significa.»

«Be’ io no. E giuro che la prossima volta, se mi fai uno scherzo del genere…», stava per aggiungere qualcos'altro, quando il suo telefono squillò.

Aron si infilò la mano in tasca e guardò il nome sul display.

Quasi mi venne voglia di chiedergli se fosse Gretha ma quando rispose dicendo «Ehi, amico…», una parte di me sembrò sollevata.

Si alzò dal divano e raggiunse il corridoio lasciandomi sola.

Una parte di me ancora cercava di realizzare il motivo per cui lui fosse a casa mia, dopo quello che era successo fra noi, dopo Gretha e le innumerevoli volte che ci eravamo dati fastidio.

Era come se, di colpo, si fosse riscoperto curioso di cosa potesse nascere fra noi comportandosi da…amico.

Perché non c’erano dubbi, Aron voleva solamente essere mio amico, anzi, voleva solo avere un passatempo da torturare quando si sentiva annoiato. Ecco la verità.

«Era Mitch», disse tornando verso il divano, come se a me dovesse interessare qualcosa di chi lo chiamava, «Dice che non riesce a contattare Piper e Gretha da ieri sera.»

«Oggi erano a lezione, magari sono usciti per una delle loro serate folli.» Ponderai con attenzione le espressioni sul viso di Aron, ma non lessi fastidio dopo la mia affermazione.

«Sicuramente.»

«Si faranno vivi…», conclusi affondando la schiena contro la morbidezza del divano e poggiando le dita dei piedi sul bordo del tavolino di vetro davanti a me.

Mantenni gli occhi puntati sulla tv anche mentre Aron tornava a sedersi.

Il noioso programma sulle armi da fuoco venne sostituito con un film di qualche anno prima, uno di quelli leggeri che si guardano i fine settimana di pioggia. Per fortuna, almeno mi sarei potuta concentrare su altro che non fosse la presenza di Aron ad una spanna da me.

Specie, perché ora si era disteso dall’altro capo del divano e il suo ginocchio aveva urtato la mia coscia restandoci appiccicato.

Mi sentivo proprio una stupida: che diavolo mi prendeva? Perché ero così tesa?

«Perché sei qui?».

«Mh?»

Lo scrutai. Ero certa di avere un’aria imbarazzata che poche volte al mondo mi capitava di assumere.

Fatti coraggio Haly «Perché sei qui?», dissi di nuovo.

Aron fece spallucce «Non ho niente di meglio da fare.»

Arroganza. Di nuovo.

Non dovevo stupirmi, era Aron in fondo.

«Be’ io potrei avere di meglio da fare.», commentai acidamente.

«Cosa? Uscire con un altro pagliaccio?»

A quell’affermazione la mia testa schizzò nella sua direzione.

«Jonathan non era un pagliaccio! Era solo…»

Mi rifilò un’occhiata eloquente «Un pagliaccio. E lo sai anche tu.»

Odiavo quando aveva ragione.

«Ok, non era un principe azzurro, ma almeno è stato gentile con me ed educato…»

Storse un labbro, lo sguardo rivolto alla tv «Abbiamo idee differenti di gentilezza ed educazione e sicuramente di come flirtare con qualcuno.»

«Oh, questo è poco ma sicuro.», brontolai.

«Che c’è, vuoi che me ne vada? Ti ho rovinato la serata con quel tipo?»

Mimai una smorfia «Mi piacerebbe ammettere che sia così.» - ma non è così. Senza di lui, forse a quell’ora mi sarei trovata in un bel pasticcio.

«Allora ammetti che il mio aiuto è stato provvidenziale», il suo tono di voce si era affievolito, ora sorrideva persino un po’.

Alzai gli occhi al cielo «Ok, mi sei stato d’aiuto.»

«Lo sapevo.», proferì vittorioso.

Restammo in silenzio nei minuti successivi, intanto, la protagonista del film si era appena mollata con il suo ragazzo ed ora la vedevo piangere davanti a una coppa enorme di gelato. Che scena patetica, sembrava quasi me.

«Ti fa male la schiena?», la voce di Aron mi fece trasecolare impercettibilmente.

«Mh?»

«Te la stai massaggiando.»

Effettivamente, avevo un fianco indolenzito. Sicuramente stare rannicchiata in quell'angolino di divano doveva essere parte della causa.

«Un po’ ma non…» - che stava facendo!?

Aron sollevò la schiena e mi afferrò per le spalle nello stesso modo in cui si afferra qualcosa di estremamente leggero. Mi sentii sollevare come un sacco di patate, nessuno dei miei muscoli era riuscito a flettersi opponendosi, e in men che non si dica, mi ero ritrovata con la schiena premuta contro il suo petto.

La testa contro la sua clavicola, il profumo da uomo incastrato nelle mie narici.

Il cuore mi schizzò in gola.

«Meglio?»

Che dovevo rispondere? Si, così da restare sopra di lui? O no, così da liberarmi da quella situazione?

Qualsiasi cosa stesse pensando di fare Aron, aveva tutta l’aria di una forma di resa.

Stava a dire “tregua”: basta litigi e dispetti.

Forse sbagliai, ma mi accomodai meglio contro di lui. Voltandomi, ora, avevo il viso contro il suo petto e lo sguardo rivolto verso la tv.

«Adesso va meglio.»

Aron lasciò che mi accoccolassi sul suo addome, prima di richiudere le braccia attorno a me.

Potevo sfiorare con le dita le pulsazioni del suo cuore che, a differenza del mio, erano placide, tranquille.

Assurdo! Tutto quello che stava succedendo…mi piaceva.

Anche se mi sentivo agitata, se avevo il cuore in gola e lo stomaco serrato; stare così, in pace, con lui, mi piaceva.

«Ti ha pagato la cena?»

Sollevai lo sguardo oltre la mia fronte.

«No.»

Ridacchiò «Un pagliaccio con la P maiuscola.»

Che nervi!

«Dacci un taglio!» gli pizzicai un pezzetto di pelle sotto la camicia, cosa che lo fece contorcere per un istante.

«Dico sul serio,», proferì cercando di fermarmi i polsi «come fai? Come riesci ad attirare così tanti casi umani?»

Spalancai le palpebre. Ora volevo fargli male sul serio.

«Tipo te?»

Ridacchiò. Avevamo appena ingaggiato una lotta senza neanche accorgercene.

«Amore, io sono il migliore.», strizzò l’occhio.

«Egocentrico.», dissi mimando una smorfia che si attirò l’ennesima risata divertita da lui.

«Sei così presuntuoso.»

«E ti piacerei se non fosse così?».

Mi si mozzò il fiato.

«Com- Cos- A me tu non piaci! Ti sopporto appena.»

Se avesse nominato il bagno e quella notte al Club, giuro, lo avrei cacciato. Ma non lo fece, sarebbe stato veramente indelicato, altrimenti.

Aron si sollevò ancor prima che potessi accorgermene.

Mi ritrovai in ginocchio, di fronte a lui, gli occhi nei suoi.

Di colpo, ebbi l’impressione che si stesse domandando: “Perché?”.



 

Perché? Perché non riuscivo a capire? Maledizione!

Possibile che Halanie riuscisse a mandarmi in confusione, così?

Non ero attratto da lei, almeno non come credevo.

Mi dava sui nervi il fatto che mi avesse sempre snobbato, per questo le davo il tormento. Ma non provavo attrazione per lei. Almeno era quanto continuavo a ripetermi da giorni.

Perché era assurdo che, dopo quella notte al club, non me la fossi riuscita a togliere dalla testa.

Avevo visto altre ragazze dopo.

E nonostante avessi scopato abbastanza da poter dire che quel bacio non era stato nemmeno un granché, ancora ci stavo pensando.

Quella sera potevo essere ovunque, in un bar, ad una festa migliore di quella della Jekins, sotto le coperte con qualcuna; e invece avevo deciso di passare il resto della notte con Haly. E lo avrei fatto, ovviamente.

Dovevo capire, a tutti i costi, cosa mi stesse passando per la testa.

Era il suo modo di essere che mi portava ad avere atteggiamenti del genere verso di lei?

Forse, non era tanto strano sentirmi in dovere di proteggerla. Lei era quel genere di ragazza capace di essere spezzata anche solo con un’occhiata di troppo. Era così fragile delle volte, che quasi avevo l’impressione di poterla rompere anche solo sfiorandola. E delle altre, invece, era così forte da diventare persino sexy. E mi costava caro ammettere che l’avevo trovata attraente in quelle circostanze. Haly non era il mio tipo: non era brutta, sia chiaro. Tutt’altro. Ma, ecco, se dovevo vedermi assieme a qualcuna, quest’ultima non aveva nulla di Halanie.

Purtroppo, però, quel pensiero si contrapponeva a quanto, invece, mi stava suggerendo da giorni la testa…e non solo.

E ora che l’avevo ad un palmo dal muso, continuavo a cercare cosa, in lei, mi attirasse così tanto.

Haly storse la testa da un lato, forse se ne era accorta. La mia incertezza, i miei dubbi; non era una stupida.

«Sei più buffa del solito.» Dissi, impedendo al resto del mio corpo di fare qualcosa di veramente sciocco, che l’avrebbe fatta scappare chilometri da me.

Aggrottò la fronte «Lo devo prendere come un complimento?»

Feci spallucce.

E se avessi seguito i miei istinti, invece?

Difficilmente riuscivo a non essere egoista: se avevo voglia di qualcosa, me la prendevo.

Magari avrei scoperto che Halanie mi piaceva sul serio, oppure, che volevo solo scoparla.

D’un tratto, mi domandai come fosse averla nuda sotto di me e lo stomaco si strinse. 

Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso e Haly non stava facendo nulla perché questo accadesse, il ché non aiutava. Affatto.

Era rimasta in ginocchio, i gomiti stretti contro il seno e i polsi ancora fra le mie mani.

Non sapevo esattamente dove guardare. Se il suo viso, che di colpo mi sembrava più accaldato del solito, il suo seno stretto fra i gomiti o le sue gambe scoperte.

Se solo ne avessi avuto il coraggio, forse a quell’ora le sarei saltato addosso.

Ma non ero così temerario, specie di fronte a qualcosa a cui non sapevo dare un perché.

Haly, ad un certo punto, ritirò le braccia e poggiò i palmi delle mani sul divano, in procinto delle sue ginocchia.

Adesso era persino peggio.

Il vestito a fiori che indossava non aveva una profonda scollatura, ma le aderiva così tanto che ad un certo punto, messa in quel modo, i bottoncini allacciati proprio sopra il seno sembravano pronti a schizzarle via delle cuciture.

Deglutii. Lo faceva apposta? O era solamente della sana ingenuità?

«Va tutto bene?», domandò curiosa.

«Emh, si. Non dovrebbe?»

No. No che non andava tutto bene. Ero in preda agli ormoni manco fossi stato un quindicenne. Assurdo! Mai successo.

Una parte di me avrebbe - veramente - voluto rovinare tutto.

Volevo saltarle addosso e fare cose assolutamente poco pudiche.

Ma l’altra, quella più razionale, invece, disse «Che ne pensi di amici?»

«Amici?», domandò incredula.

«Si, amici. Abbassiamo l’ascia di guerra e proviamo a tollerarci.»

L’espressione di Haly in quel momento era un pastrocchio di pensieri ed emozioni che non mi era dato conoscere.

«Perché vorresti essere mio amico…?»

A quel punto non mentii «Perché sto bene con te.» e i suoi occhi divennero enormi.

«Davvero?», non ci credeva nemmeno lei.

Annuii.

«Davvero.»

«Amici.», disse di nuovo.

«Si, se per te va bene.»

Strinse le labbra. «Non so a cosa possa portarci, ma si, perché no. Amici.» Si sollevò dal divano. Ovviamente, non feci nulla per non guardarle l’orlo della gonna svolazzarle quasi a pari di chiappe.

Amici. Certo, come no…

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Capitolo 9
*** 8. ***


7.


Feci accostare il tassista in prossimità della villa dei miei genitori, ignorando l’occhiataccia del parcheggiatore, pagato da mia madre, che era lì appositamente per occuparsi di «tutte le vetture degli ospiti.»

Cercai di nascondere l’insofferenza, ma proprio non ci riuscivo.

Figuriamoci se i miei non avevano fatto le cose in grande, anche per un semplice barbecue in famiglia.

Perché si dessero tanta pena, non ero mai riuscita a capirlo. Non è che il resto della famiglia non sapesse quanto fossero ricchi. Piuttosto, cercavano sempre di dimostrare quanto fossero meglio e più ricchi degli altri.

Se qualcuno me l'avesse chiesto avrei detto che era una cosa patetica, ma ovviamente a nessuno era mai interessata la mia opinione in merito. Da me ci si aspettava solo che mi presentassi alle riunioni familiari, che mi comportassi in modo impeccabile e che tenessi la lingua a freno. Davvero divertente.

Per le restanti quattro ore successive, che era esattamente il tempo che mia madre mi aveva imposto di restare altrimenti mi avrebbe fatto una scenata memorabile, avrei dovuto sopportare sguardi compassionevoli perché non ero sposata, non avevo figli, per il lavoro, per il mio aspetto. Sì, sarebbe stato grandioso. Grandioso, davvero.

Mi passai una mano sulla gonna per togliere le pieghe mentre mi avvicinavo alla porta d’ingresso. La porta si aprì prima che potessi bussare.

Arnaud, che da dieci anni era lo spocchioso maggiordomo di mia madre, mi guardò disgustato arricciando il naso.

«Sua madre l’aspettava mezz’ora fa, signorina Evans.», disse tirando su col naso, sprezzante. Non avevo potuto fare a meno di notare, nel corso degli anni, che invece le mie sorelle le chiamava per nome, e mentre lo faceva sorrideva, addirittura.

Comunque, non avevo nessuna intenzione di restarmene lì, impalata, a discutere con quell’uomo.

«Lei dov’è?»

Un’altra tirata di naso. «La signora è nel giardino sul retro. E’ molto stanca. Ha lavorato per un giorno ed una notte consecutivi per organizzare questo barbecue. E’ in piedi dall’alba e non ha avuto un attimo di riposo.»

«Si, certo.» Dissi distrattamente, facendomi largo tra il mucchio di gente sconosciuta. 

«Emh, no…Un momento signorina Evans!»

Era buffo come i barbecue di famiglia, a casa mia, diventassero sempre l’occasione per invitare chiunque i miei genitori ritenessero che valeva la pena impressionare o ingraziarsi.

A quanto pare, ero l’unica che si era presentata senza nessuno al seguito. Apparte Arnaud.

«Haly, che bello rivederti!», Jacob. Un cugino di non so quale grado di parentela, mi stava salutando calorosamente sollevando il palmo della mano.

«Ehi!», finsi un sorriso di cortesia e fermai la mia marcia nelle sue prossimità.

«Quanto tempo! Sembra un’eternità.»

«…Già…»

«Voglio cogliere l’occasione per invitarti al vigneto ed essere ospite nel mio cottage. E’ favoloso, lo adorerai!», esclamò abbastanza forte da richiamare l’attenzione delle persone lì attorno.

Ero certa che quelle parole fossero più per loro che per me, dal momento che lui, in realtà, mi odiava. Mi aveva sempre odiata, sin da quando eravamo matricole e frequentavamo lo stesso liceo. Il motivo? Non gliel’avevo data. Nemmeno dopo le insistenti avance e non lo avrei fatto di certo a 24 anni suonati accettando il suo invito nel suo cottage. Coglione.

Mi stampai sulla faccia un sorriso falso come Giuda - merito degli insegnamenti di mia madre - e con una scusa mi defilai verso il giardino sul retro, dove trovai mia madre che faticava a versare martini, mentre spettegolava con le sue sorelle e qualche zia.  Mia nonna, quella ancora viva e vegeta, russava su una sedia a rotelle, sotto l’ombrellone, a qualche metro di distanza.

Il mio patrigno, i cognati, diversi zii e cugini e altri uomini sconosciuti, sedevano su candide sdraio a bordo piscina parlando di quotazioni in borsa e altri discorsi noiosissimi che avevo sentito e risentito un migliaio di volte nel corso della mia vita.

Sul prato, gli addetti del catering cuocevano la carne su immense griglie a gas, mentre altri portavano il cibo e sistemavano le sedie intorno ai tavoli, che ora occupavano una piccola parte dei cinque acri di giardino dei miei genitori.

Non fui sorpresa di non vedere bambini al barbecue di famiglia. Anche solo suggerire la possibilità di portarcene uno equivaleva a mandare mia madre nel panico. Era sicuramente una donna di società, ma una madre, una nonna? Nemmeno un po’.

Anche nella mia infanzia era stata ben poco presente. Perché farlo quando puoi pagare qualcuno che lo faccia al posto tuo? Le mie sorelle ed io, infatti, eravamo state cresciute da tate fino all’età di dieci anni, quando poi ognuna di noi era stata iscritta ad un collegio privato.

Io c’ero durata poco più di quattro mesi, poi, mia madre si era vista costretta a ritirarmi. Era stato allora che aveva riversato tutte le sue attenzioni su di me diventando invadente, oppressiva, costante.

Ovviamente, né il mio padre biologico, né quello che vedevo svaccato sulle sdraio in quel momento, ne erano al corrente. Per loro i figli erano accessori, ed anche per mia madre era stato così fino a che non avevo compiuto dieci anni e le avevo iniziato a dare problemi. All’immagine, si intende.

La mia sarebbe stata un’infanzia orribile se i miei nonni non avessero comprato casa vicino alla scuola e non mi avessero portata a vivere con loro. Se il resto della mia infanzia era stata stupenda era solo per merito loro.

Adoravo la vita che mi avevano fatto fare, i valori che mi avevano trasmesso e tutto ciò che mi avevano lasciato fare.

Era stata mia nonna a spronarmi: dovevo prendere in mano la mia vita. Lei lo voleva per me e così avevo deciso di non tornare a casa dai miei.

«Oh, Halanie, eccoti qui cara!», mi salutò mia madre in tono allegro. Si stava sforzando di sorridere? Indubbiamente si stava sforzando di sorridere. O forse era solo il botox? La sua faccia sembrava bloccata in una smorfia di dolore.

«Ciao mamma…», le diedi un bacio quasi inesistente sulla guancia, non appena si avvicinò ancheggiando nel suo tubino fucsia verso di me.

«Hai già incontrato le tue sorelle?»

Non vedevo Martha e Fear da mesi. Dire che non avevamo un granché di rapporto era riduttivo. Loro erano molto più simili a mia madre di quanto non si credesse.

Dopo che avevo comunicato la mia iscrizione alla facoltà di ortottica non si erano più fatte vive. Meglio. Almeno non dovevo più sorbirmi frasi riluttanti su quanto mancassi loro, sul tornare a casa e scegliere Princeton anziché una facoltà con un nome lungo e impronunciabile che non mi avrebbe fatta diventare nessuno.

«Direi di no.»

Mia madre spalancò - si fa per dire - la bocca come se la questione la scioccasse.

«Arnaud!», schioccò due dita. Il maggiordomo accorse frettolosamente.

«Si, signora?»

«Trova immediatamente un posto per Haly allo stesso tavolo delle sorelle. Mi raccomando.»

Arnaud annuì un paio di volte e poi mi rivolse le spalle invitandolo a seguirlo.

Non ero la più piccola delle tre. Fear lo era.

Nonostante ciò, ero quella che aveva dato più problemi a mia madre e questo si era ripercosso, forse, anche sul rapporto che avrei dovuto avere con loro. Rapporto inesistente, almeno per quello che riguardava me e Martha. Fear aveva diciannove anni, all’epoca, e con lei, essendo quasi coetanee, andavo leggermente più d’accordo.

Arnaud scostò una sedia dall’imbottitura bianca, allacciata da due grandi fiocchi del medesimo tessuto candido sui lati, e mi indicò di sedermi.

«Grazie.», mormorai, scivolandoci sopra a sedere.

«Haly, che bello vederti», disse Fear fingendo un sorriso di cortesia.

«Ah. Ci sei anche tu…» Martha con la sua sagoma snella e impataccata di brillanti da cima a piedi, mi serpeggiò alle spalle e raggiunse la sedia accanto alla mia. 

«Anche a me fa piacere vederti, Martha», commentai sarcastica mentre i suoi occhi castani si fermavano sul mio viso, gelidi. Durò un attimo prima che decidesse di guardare altrove e quando Fear provò a rivolgermi ancora la parola, la fulminò.

Il banchetto - perché, alla fine della fiera, di quello si trattava - incominciò un attimo dopo, facendo si che io non potessi aggiungere qualsiasi cosa avessi voluto aggiungere.

All’inizio sembrava andare tutto bene. Ero a tavola con degli sconosciuti, sorelle comprese, e nessuno si degnava di rivolgermi parola il ché era praticamente un lusso. Finché, Martha non si sporse verso me. Il sorrisetto velenoso che le era spuntato sulle labbra non prometteva nulla di buono. Probabilmente aveva tentato di essere discreta, ma alzare il tono di voce di parecchi decibel sembrava essere prerogativa della nostra famiglia.

«Poverina! La dieta non ha funzionato?», corrucciò la fronte, anche se in realtà sapevo che stava sopprimendo una risatina cacofonica «Sei stata mollata di nuovo?»

 Martha sapeva benissimo com’era andata a finire la mia ultima “relazione seria”, perciò quello era un colpo basso. Bassissimo, quasi meschino.

«Tieni», tirò fuori dalla pochette un bigliettino che sembrava aver conservato appositamente per quel momento e me lo porse «Questo è il numero di mio marito, è medico chirurgo. Un asso nel suo lavoro.»

Continuai a sorridere sbigottita, afferrando il bigliettino che - in tutta onestà- le avrei fatto ingoiare.

Non so perché Martha amasse mettermi a disagio, perché per lei era più semplice rimarcare come dovevo essere e non elogiare com’ero veramente.

Se si trattava di aspetto era sbagliato che portassi una terza, la cosa giusta era essere pelle ed ossa e senza seno.

E così per qualsiasi altra cosa. Certe volte, pensavo che fossi semplicemente io il problema e non il mio modo di essere.

Ad ogni modo, non avevo nessun problema con il mio corpo. Mi piacevo, avevo lo stesso fisico di mia nonna alla mia età. La stessa nonna abbandonata a russare sulla sedia a rotelle e che tutti avevano paura di far arrabbiare tranne me.

Tutti la guardavano dall’alto il basso per i suoi modi poco aristocratici, dimenticando che era anche merito suo se la sua famiglia godeva di certi privilegi.

«Secondo me Haly è perfetta così com’è», disse Fear e per un momento pensai che si fosse schierata dalla mia parte. Ero quasi sorpresa, felice, ma poi proseguì «L’unica cosa che dovrebbe togliersi sono quelle.»

«Quelle cosa?» Chiesi mentre lo sguardo volava sul viso di uno dei miei cugini che guardava mia nonna come un avvoltoio. Ero certa che le stesse contando i respiri.

«Il tuo seno…cara. E’ così proletario. Ti da l’aria di una cameriera o di una colf.», intervenne una zia seduta esattamente davanti a me.

«Penso che staresti benissimo con meno curve», aggiunse Fear sorridendo ancora.

«Quando avrò voglia di diventare infelice come voi, penserò alla chirurgia.», posai il biglietto da visita sul tavolo e afferrai la bottiglia di champagne dal cestello. Ogni gesto venne osservato dalle mie sorelle e dalla zia Betty con disgusto. 

«Come sta andando?» Mia madre apparve accanto a Fear e sorrise a tutte e tre. In realtà il sorriso si spense di un tono quando incrociò il mio sguardo, ma lo ignorai.

«A proposito, cara», disse come se si fosse appena ricordata di non avermi umiliata abbastanza «Come va con il tuo piccolo Hobby?»

Il mio piccolo hobby, cioè il mio tirocinio in facoltà. Sorriso forzato. «Alla grande, grazie per avermelo chiesto. Tra due mesi arriveranno le vacanze estive. Sto pensando di fare un viaggio, magari nel New Hampshire.»

«Onestamente, cara, non so proprio perché lo fai. Se sei così determinata a lavorare, potresti abbandonare quel ramo e prendere giurisprudenza o medicina come tuo padre. Lo fai perché speri di trovare un uomo?», il tono speranzoso fu la ciliegina sulla torta.

Sorriso forzatissimo. «Non lo faccio per trovarmi un uomo, lo faccio perché mi piace.»

Per tutta risposta aggrottò la fronte. In realtà, mi accorsi che tutti a quel tavolo l’avevano aggrottata. Non riuscivano a capire perché volessi lavorare, il ché era assurdo. Personalmente per me quel gruppetto era composto da mele marce e persone vuote. Mi domandai cosa ci stessi ancora a fare seduta lì con loro.

Giusto, mia madre e la sua minaccia di farmi una scenata…

«Hailine.» L’uomo tronfio d’alcool che si stava caracollando verso il tavolo aveva, stretta nella mano che non manteneva il calice, una confezione perfettamente infiocchettata. 

«Halanie», mormorai. Ma non per farmi sentire, non sarebbe servito a nulla. Marcus non avrebbe mai imparato il mio nome, anche se stava con la mamma da più di otto anni.

«Buon compleanno tesoro.» Disse e mi porse maldestramente il pacchetto.

«Grazie.» Sorriso finto. Il mio compleanno era stato in inverno, circa sei mesi prima di quel momento. Si, nessuno della famiglia ci aveva pensato, ovviamente. Escluso la nonna che era stata l’unica ad avermi chiamata.

E Sally, la vecchia tata che si era ricordata del giorno del mio compleanno spedendomi una scatola di cioccolatini.

«Non riesco a credere che la mia piccola abbia già ventidue anni.»

«Lo so.» Non ci riuscivo a credere nemmeno io dato che di anni ne avevo ventiquattro, ma ehi, se mi voleva fare più giovane, che ragione c’era di mettersi a discutere?

«Ne ha ventiquattro, imbecille.» Tutte le teste si voltarono verso la nonna. Stava raggiungendo il tavolo a bordo della sua sedia a rotelle, anche se ero certa che non si sarebbe fermata mai abbastanza a lungo per salvarmi da quella gente. «Ne ha fatti ventiquattro a Gennaio. Ah! Mi lascio dietro solo imbecilli.» borbottò, sorpassando il tavolo.

Sorrisi e questa volta era vero.

«Va bene così Marc-Papà.»

Vidi il sorriso sulle labbra di Marcus vacillare, e per la prima volta da quando lo conoscevo mi sembrò a disagio.

«Ti chiamerò in settimana.», disse deciso.

«Sul serio, va tutto bene.»

«Marcus, non ha più dieci anni, non c’è motivo che faccia tante storie per una stupida data di nascita.», commentò mia madre sventolandosi la mano davanti.

A quel punto, avrei voluto dire qualsiasi cosa ma sentii solo gli occhi pizzicarmi.

Dalla rabbia, sia chiaro.

«Già, non ce n’è motivo.», mi sollevai dalla sedia rumorosamente. Mia madre mi scrutò allampanata.

«Se volete scusarmi, ho bisogno del bagno.»

Con una scusa mi allontanai dal tavolo e dalle loro facce sbigottite e, per alcuni versi, divertite.

Non c’era nulla di divertente in un patrigno che non ricorda la data di nascita di una delle sue figliastre, ma ancor meno divertente è una madre che ignora totalmente il tuo compleanno.

Per mia madre doveva essere normale, lei, gli auguri, li aveva sempre fatti solo a Martha. Probabilmente mai nemmeno a Fear, il problema era che a tutte e due stava bene così.

Tante volte mi ero chiesta chi sarebbe diventata Fear. Insomma aveva diciannove anni e stava per raggiungere quella soglia d’età dove se non ti sposi sei come Halanie.  Come sarebbe venuta su?

Quando eravamo molto piccole avevo avuto un rapporto diverso con lei. Eravamo complici, affini, le volevo bene.

E so che lei ne voleva a me. Poi me ne ero andata, prima in collegio, poi dai nonni e alla fine in un’altra casa per sempre. Dovevo aver rotto qualcosa senza rendermene conto.

«Se vuoi andartene lo capisco.», la porta a scomparsa del bagno sparì all’interno del muro e il viso di Fear apparve dietro di essa. I capelli castani e scuri raccolti dietro la nuca, l’abito lungo, verde smeraldo, gli occhi scuri e profondi.

«Volevo andarmene da quando il tassista mi ha scaricata davanti al cancello.» proferii bevendo un sorso d’acqua dalla cannella.

«Che problema hai, Haly?», Fear raggiunse la fila di lavandini di marmo nero e appoggiò il suo fondoschiena contro il bordo.

«Io? Sul serio?» Strappai un pezzo di carta dall’espositore apposito e mi asciugai la bocca.

«Si, insomma, si percepisce il disagio che hai quando sei con la tua famiglia.»

Fear sollevò le mani. Le sue dita corsero al colletto della mia camicetta di seta.

«Forse perché amate mettermi a disagio?» Gettai il pezzo di carta e la fissai aspettando che mi togliesse le mani di dosso.

«Martha e la mamma, non io.»

Mi fissò dritta in faccia. Il suo sguardo era così intenso che, per un momento, quasi credetti che stava dicendo la verità.

Schioccai la lingua sul palato mimando una smorfia, e scacciai l’idea che fosse sincera con un’occhiata al cielo.

«Fear,» presi un bel respiro «io non sono e non sarò mai come te, Martha o la mamma. Chiaro?»

A quel punto, quello che avevo decifrato come uno sguardo speranzoso si indurì.

«Vedi? E’ per questo che ti odiano.»

La delusione si appropriò del suo viso velocemente. 

«Mi odiano perché ho scelto di essere me stessa?»

Non distinsi le emozioni nel suo sguardo.

«Potevi fingere di essere ciò che volevano che fossi. Così non ti avrebbero mai costretta ad andare via.»

«Lo avrebbero fatto ugualmente. Il collegio, la casa dei nonni-»

«Sei scappata da loro!»

Spalancai le palpebre «E’ questo che ti hanno detto?»

Non potevo credere alle mie orecchie, così era quella la motivazione che le avevano dato? Sul serio!? Da quando la nuova verità sul perché mi fossi trasferita dai nonni consisteva in una mia fuga da casa? Io non ero scappata, erano stati i miei nonni a decidere che io fra tutte e tre dovevo salvarmi.

«I nonni mi hanno preso con loro perché tua madre non era in grado di crescermi!»

Fear serrò la mascella. I pugni chiusi, lo sguardo abbattuto.

«Dici solo bugie, come da piccola.». Rabbia. Di questo risuonava la sua voce.

Si allontanò da me e raggiunse nuovamente la porta del bagno.

«Non ho mai detto bugie.»

Fear lanciò lo sguardo oltre la sua fronte e sorrise tristemente «Sai che c’è, non importa.» Fece un momento di pausa e sembrò riprendere possesso di se stessa «Fra poco arriveranno i Coen, mamma sarà impegnata a pavoneggiarsi con loro, perciò potrai uscire dal retro.»

Mi venne quasi da sorridere «Che fai? Mi stai cacciando?»

Fear si voltò rivolgendomi uno sguardo imperscrutabile. Poi, assurdo, sorrise.

«E’ evidente che né tu, né il resto delle persone presenti, siete contenti della tua permanenza qui, ti allevio solo l’agonia.», capitolò e poi sparì lungo il corridoio.

Solo quando non la vidi più, né sentii i suoi tacchi sul marmo, mi sembrò di tornare a respirare.

 

Dovevo seguire il consiglio di Fear e andarmene. E lo avrei anche fatto subito se solamente il tassista mi avesse risposto alle chiamate.

Dopo svariati tentativi vani, abbandonai l’idea di contattare la sua compagnia per fare un reclamo e mi misi ad ispezionare la rubrica alla ricerca di un numero, uno qualsiasi, a cui scroccare un passaggio.

Per quanto io fossi una fan del “cavatela da sola”, quel pomeriggio scelsi di smetterla di fare l'indipendente e l’emancipata, e composi il numero di Aron.

Lo so. Lo so, già vi sento…”eh però te le vai a cercare”, “Proprio Aron?!”. Avete, tutti, indubbiamente ragione. Ma in quel momento non vedevo chi altro poter chiamare dato che i numeri di cellulare a mia disposizione si limitavano a 3, di cui uno, quello di Gretha, che non era da considerare. Quindi si, avevo scritto ad Aron, che per raggiungere casa di mia madre, impiegò circa quindici minuti, tempo record, se consideravo il traffico che c’era stato quando ero arrivata io.

«Dove pensi di andare.» Ad un passo dalla porta sul retro, sussultai.

«Nonna.» L’espressione perennemente arcigna di mia nonna si addolcì di poco. Pochissimo. 

«Esci dalla porta principale, non sei una ladra, questa è anche casa tua e hai tutto il diritto di mandare a quel paese questa gente.»

Sorrisi.

Il cuore mi si era appena aperto creando una voragine di malinconia immensa.

Feci un passo indietro e la raggiunsi chinandomi verso di lei. L’abbracciai.

Per un momento rimase interdetta, chissà da quanto non veniva abbracciata da qualcuno.

 Ricambiò il gesto delicatamente.

«Non sai quanto mi manchi.»

Ridacchiò «Non sei cambiata affatto, piagnucolona eri da piccola e piagnucolona sei da adulta.»

Quando tirai su la schiena, agli angoli dei suoi occhi notai due lacrime incastrate alle ciglia.

Mia nonna era una persona burbera, una vecchia signora di campagna che aveva trovato fortuna nel New Hampshire, ma era anche l’unica che, a modo suo, sapeva dimostrare affetto vero.

Se avessi potuto sarei rimasta lì, solo per lei, per sempre.

«Avanti, adesso va.»

Annuii asciugandomi gli occhi in fretta.

Attraversai l’ampia cucina e un paio di saloni vittoriani prima di trovare l’androne d’ingresso.

Afferrai il chiavistello della porta di legno, alta almeno tre metri e spessa venti centimetri, e l’aprii. «Signorina Evans dove sta andando?»

Mi voltai in direzione di Arnaud.

«Non lo vedi? C’è qualcuno che mi sta aspettando.»

Aron fece rapido un cenno con la mano ad entrambi.

Il maggiordomo aggrottò la fronte. Oltraggiato, schifato e sarei potuta andare avanti per ore a descrivere i suoi stati d’animo in quel momento.

Ma ora, la sua preoccupazione era catalizzata solamente sulla reazione di mia madre e di quando avrebbe saputo che una delle sue figlie stava per lasciare il suo epico banchetto accompagnata da un ragazzo ricoperto di tatuaggi e dall’aria poco raccomandabile. Mia madre sapeva essere molto, molto pesante, e non solo perché aveva un carattere autoritario e dedito al perbenismo, ma anche perché era una fan accanita del martini.

E Dio solo sapeva cosa era in grado di fare in balia dei fumi dell’alcool.

Per la verità, oltre a Dio, soprattutto Arnaud lo sapeva.

L’alito di preoccupazione a riguardo non si risparmiò di trapelare dallo sguardo dell’uomo che, per ben due volte, aveva pronunciato il mio nome, mentre mi inseguiva lungo l’ampia scalinata che portava al cancello d’ingresso.

«Sua madre diventerà furiosa!», disse più a se stesso che a me.

«Credo che quello sia un tuo problema.»

Risposi continuando a camminare svelta.

«Eh no! Quello diventerà anche un suo problema! Sa perfettamente cosa succede quando le si disobbedisce!»

«Non ho più dieci anni, lo ha detto anche lei. Saprò affrontare una lavata di capo.»

Il cancello, finalmente.

Scostai l’anta e mi rivolsi ad Aron «Ti prego, portami via da qui.»

Feci il giro dell’auto e aprii lo sportello.

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Capitolo 10
*** 9. ***


9.


«Chi era quella gente?».

L’auto marciava a velocità moderata lungo il selciato allontanandosi sempre più dalla villa dei miei genitori. 

«La mia famiglia, gentaccia.», borbottai, poggiando il gomito nell'incavo del finestrino.

Aron ridacchiò.

«Non posso credere che una come te abbia appena messo nella stessa frase le parole “famiglia” e “gentaccia”.»

Gli rivolsi un’occhiata eloquente «Questo perché tu non li conosci.»

Usciti da una strada secondaria, ci ritrovammo al centro di tre grandi corsie. Direzione, periferia della città.

Era quasi sceso il tramonto quando l’auto fermò in prossimità di una stazione di servizio.

«Mi è venuta fame.», proferì, spegnendo il motore.

Accanto alla pompa di benzina, scorgevo un piccolo locale dall’insegna al neon gialla. Una casetta di travi di legno scure preceduta da una tettoia a proteggere qualche tavolo qua e là. Trattoria da Benny.

Quel posto non mi ispirava molta fiducia ma, in tutta onestà, durante il rinfresco non avevo toccato nulla ed ora incominciavo a sentire i morsi della fame.

«Sei ancora lì?» Aron aveva già aperto la porta d’ingresso.

«Eccomi, sto arrivando.»

Trattoria da Benny sapeva di olio per friggere e crocchette di pollo. L’interno del locale, apparentemente anonimo, era poco più che illuminato dagli ultimi raggi di sole che facevano capolino da vecchie tendine ricamate.

Contavo quattro tavoli vuoti e un bancone da bar  veramente logoro. Tutto, rigorosamente, di legno scuro.

Aron spostò uno sgabello e le gambe metalliche grattarono il pavimento con un rumore stridulo.

Come se fosse un habitué di quel posto, piantò i gomiti sulla superficie unticcia del bancone e sollevò davanti a sé quello che doveva essere un menù.

«Mh, pollo fritto», mugugnò. 

Mi accomodai accanto a lui.

«Che ne dici di cheesburger e alette di pollo?», proseguì. In quel momento mi resi conto dell’entusiasmo di Aron. Eppure, eravamo sulla statale, in una bettola, a leggere un menù stropicciato, seduti su sedie che avevano visto tempi migliori. Possibile che gli bastasse così poco per essere felice?

«Non male», dissi, «Però anche bacon e salsiccia…».

Il suo sorriso si allargò. «Alla faccia della dieta.»

«Io non seguo nessuna dieta.», replicai.

A quel punto, Aron corrugò la fronte in una maniera molto buffa ma anche molto irritante.

«Ok, sto attenta a cosa mangio. Evito le schifezze. Questo non significa seguire una dieta.»

Tornò a guardare il menù «Letteralmente, si.»

Esacerbante. Da aggiungere alla lista infinita di appellativi che stavano bene accanto al suo nome.

«Come dici tu.», sospirai arrendevole.

All’improvviso, una donna tracagnotta apparve da dietro le biglie di una tendina antimosche. Stampata addosso un’espressione poco amichevole: continuava a fissarci come se l’avessimo disturbata.

«Cosa vi porto?».

 Indossava un camice bianco dal colletto rosso, una cuffia e un paio di pantaloni da cuoco. Dedussi che ci avrebbe preparato lei da mangiare.

«Per me un doppio cheeseburger e patatine fritte.», disse Aron convinto. La donna afferrò taccuino e penna e cominciò a scrivere.

«Mh. Per te?» Ora stava fissando me. Indecisa, guardai ancora il menù. Incominciavo a sentirmi i palmi delle mani umidi.

«Alette di pollo e una birra grande...rossa.»

«Fa due.»

La donnona in divisa bianca si voltò verso la stanza alle sue spalle e gridò a qualcuno il nostro ordine, poi sparì di nuovo dietro la tendina.

Aron raccolse i menù e li appoggiò accanto al suo gomito. 

«Mio Dio, mette i brividi», mormorai.

Rise.

«Sicura che non siete parenti? Il caratteraccio è quello.».

In un’altra circostanza mi sarei offesa perché come sempre aveva trovato il modo di offendermi, invece, mi voltai verso lui ed iniziai a ridere. Per la prima volta e nemmeno per una battuta divertente. Aron sembrava quasi scioccato. Io non ridevo mai alle sue battute, nemmeno quando queste erano veramente divertenti. Quindi, adesso che lo stavo facendo come una stupida, senza un’apparente motivo, lui doveva sentirsi spiazzato. Ciononostante, le due fossette sulle sue guance gli si erano fatte più calcate come se, in fondo, quello che stava vedendo gli piaceva.

Anzi, no. Gli stava proprio piacendo. Come una cosa nuova che guardi con sorpresa.

«Vaffanculo Aron, non sono…così.» Gli diedi una piccola spinta che lo fece traballare sullo sgabello.

«Oh, si che lo sei. Sei anche peggio.»

Spalancai la bocca ma non dissi nulla e non perché non ci fosse nulla da dire. Perché, cazzo, era la prima volta che non stavamo litigando. Mi piaceva quel momento.

Mi sporsi verso lui appoggiando una mano sul suo avambraccio «E’ per questo che non puoi fare a meno di me».

Non pensavo sul serio quello che gli avevo detto. Molto probabilmente volevo prendermi gioco di lui esattamente come lui faceva con me ogni volta. 

I suoi occhi fumosi si bloccarono sul mio viso. Una vampata di calore mi inondò le guance.

Non ricordo di essere riuscita a decifrare il suo sguardo, ma era così intenso e carico di cose non dette che mi intimidì.

Un attimo dopo era svanito e era tornato l’Aron di sempre con un’espressione più pericolosa stampata in faccia.

Sporse il viso verso me e guardando un punto qualsiasi oltre la mia spalla disse: « Deve essere stancante.»

«Cosa?».

«Fingere che sia io quello che non può fare a meno di te, quando sappiamo entrambi che non riesci a starmi lontana nemmeno per mezza giornata.» 

Pezzo di m…

«Ma se per un anno ti ho evitato come la peste!».

«E ora guarda dove sei.» fece un movimento con lo sguardo per sottolineare che sì, ero esattamente dove mi ero giurata di non comparire mai: accanto a lui.

Mi morsi un labbro cercando di reprimere una risatina stizzita. Colpita e affondata.

Prima che potessi aggiungere altro, la donna grassoccia apparve davanti a noi con due vassoi di plastica rossi stretti fra le mani «Il vostro ordine.»


Ci eravamo spostati su un tavolo accanto alla vetrata più grande del locale. Fuori si era fatto buio. Guardai l’ennesima auto sfrecciare lungo la strada, un’aletta di pollo stretta fra due dita.

«Sei così volgare quando mangi», proferii con disgusto mentre il mio sguardo era tornato su Aron che si stava impiastricciando le dita con la doppia razione di salsa cheddar.

«Immagino che tu gli hamburger li mangi con coltello e forchetta, giusto?».

«Ah-Ah. Sicuramente non li mangio come una cannibale.»

Sospirò una risatina, non mi guardava.

Ci doveva essere un motivo ben preciso se mi trovavo proprio lì, in quel momento, con lui e non stavo parlando solo di quel posto. Intendevo dire anche un motivo per cui l’avevo cercato fra la moltitudine di numeri a disposizione. Fra le tante persone che avrei potuto chiamare - e lui era l’ultima della lista - avevo cercato immediatamente il suo nome.

Si può desiderare ed odiare una persona allo stesso tempo?

«Ti svelo un segreto: le cose sono più buone quando le mangi con le mani.»

«Davvero?», inarcai le sopracciglia.

«Pensa all'insalata, a come si condisce.»

«Mangeresti mai l'insalata con le mani?»

«Perché no!»

«Sei un caso perso…»

Cosa poteva attirare la mia attenzione in Aron? Non aveva niente, niente, delle qualità che ricercavo in un uomo.

Eppure, c’era qualcosa in lui. Qualcosa che non ero ancora riuscita ad individuare e che mi costringeva a scavare sempre più in profondità. Non mi sentivo mai sazia abbastanza quando si parlava di lui ultimamente.

Aron era un puzzle a cui mancavano diversi pezzi. Il problema era che io amavo i puzzle, specie quelli molto complicati.

«E’ proprio vero che tiro fuori il peggio di te, eh?».

Afferrò la sua birra e mandò giù un paio di sorsi, forse tre.

«Ti diverti ad irritarmi e questo mi fa impazzire.»

Vidi le sue spalle scuotersi. Sghignazzava. Di nuovo.

«Dico sul serio, basta che io dica qualcosa che tu subito ribatti con la tua opinione che è sempre, costantemente, in contraddizione con la mia. Perché?»

Fece spallucce «Perché siamo diversi.», poggiò il bicchiere sul tavolo ma continuò a giocherellarci con le dita.

«No, tu non fai così perché siamo diversi. Tu fai così perché ti piace vedermi in difficoltà. Ti diverte vedermi indifesa.»

I suoi occhi, adesso, puntavano dritti nella mia direzione.

«Non dire stronzate.»

«Non è una stronzata, è la verità.».

Aron sospirò: «Possiamo trovare un compromesso? O ci teniamo alla larga l’uno dall’altra oppure proviamo a diventare amici. Non ho più le energie per litigare con te.».

Non avevo voglia di stargli alla larga, non dopo due birre grandi doppio malto. Ma nemmeno di diventare sua amica.

«Allora?», continuò aspettando una mia risposta.

«Nemmeno io voglio litigare con te», ammisi. Ed era la verità, anche se apparentemente qualsiasi cosa mi dicesse era un buon pretesto per aggredirlo.

«Ok, allora amici?», facevo sul serio?!

Annuii.

Alla fine delle mie alette di pollo, le birre erano diventate tre ed io incominciavo a straparlare.

«Questo vuol dire che non c’è neanche la remota possibilità di fare la fine di quelle ragazze…».

«Quali ragazze?», Aron alzò la mano verso la donnona e indicò la spinatrice della birra.

Poco dopo si materializzavano un altro paio di bicchieri sul tavolo.

«Quelle che ho sorpreso mezze nude nel giardino di casa tua, o peggio, quelle che ho visto piangere disperate nel giardino di casa tua.»

Mi guardò in un modo strano che ignorai.

«No, non c’è il rischio che tu faccia quella fine.»

Mi assalirono due sensazioni contrastanti. Se da una parte era proprio quello che volevo, dall’altra…avvertivo una delusione improvvisa. Cosa c’era che non andava in me?

Mandai giù l’ultimo sorso del mio bicchiere e mi trascinai davanti quello pieno.

«Vorrei che anche Gretha non facesse quella fine…»

Il ricordo di lei, fuori dalla porta di casa sua, mi fece contrarre i muscoli della pancia.

Sorrise come a ricordare qualcosa ed io mandai giù un pugno di nervi.

«Neanche lei corre il rischio.», affermò. «Ciò non toglie che ci siamo divertiti, si. Ma a te che importa?» Mi scrutò oltre il bordo del suo bicchiere, in attesa di veder materializzare qualcosa sulla mia faccia.

Il suo tono era di assoluta indifferenza, ma io ero scioccata.

Quindi era vero, loro avevano…

«Infatti non me ne importa. Voglio solo assicurarmi che tu non la faccia soffrire.»

Sentire che lui andava a letto con altre ragazze, con una mia amica, non avrebbe dovuto farmi star male, invece era così. Mi suscitava una specie di gelosia immotivata che cominciava seriamente a farmi sentire accaldata.

«Aaah…Sei gelosa?». Mi prese in giro.

Aggrottai la fronte. «Ovviamente no. Mi dispiace perché è una mia amica.»

Dubitavo che Aron sapesse che Gretha non mi rivolgeva la parola da un po’, perciò mascherare il resto dei miei pensieri con quella scusa sembrò perfetto.

«Ti preoccupi troppo, Gretha è felicissima.»

«Ok, ok. Ho capito. Possiamo cambiare argomento?».

Nonostante la birra incominciasse a farmi sentire la testa pesante e i pensieri leggeri dal mio volto doveva esser trapelato altro, perché Aron ora mi guardava sorridendo.

Spostando il peso, da una coscia all’altra, sulla seduta, dissi: «Quindi sarai più gentile con me?».

Il suo bicchiere era a metà e lui non la smetteva di giocherellarci.

«Certo. E tu la smetterai di fare l’acida cercando sempre un pretesto per litigare?».

«Non sono affatto acida!»

La sua espressione diceva ben altro. Sospirai arrendevole.

«Ok, lo sono. E’ colpa tua però.»

«Colpa mia?».

«Se solo tu non fossi così…» -così come, Halanie? 

Ci fu un momento in cui le parole restarono sospese sulla punta della mia lingua e tutta la mia attenzione si spostò al piercing che vedevo sfregare fra i denti.

Aron ridacchiò ancora. 

Si accorgeva di certe cose ben prima che io stessa me ne potessi rendere conto. Non andava bene, affatto.

La sedia fece rumore trascinandosi all’indietro.

«Dove stai andando?», chiesi.

«A pagare.»

Per fortuna non averlo più davanti mi fece tornare a respirare.

Il locale, adesso, era pieno di persone. Le luci soffuse illuminavano volti provenienti da chissà dove lungo la statale. C’era baccano, abbastanza da coprire i miei pensieri.

Aron poggiò una banconota da venti dollari nella direzione di una vecchia e sgangherata cassa nera. Attese il resto e si voltò cercando me e la porta d’uscita.

«Domani c’è lezione alle dieci.» Affermò chiudendosi la porta di Trattoria da Benny alle spalle.

«Si.»

«Allora non mettere quella dannata sveglia alle sette.»

Gli rifilai un’occhiataccia che però smascherò un’espressione sorpresa sul mio volto.

«Senti le mie sveglie?».

Percorremmo quel breve tratto di asfalto verso l’auto.

«Maledizione, si.»

«Ho bisogno di ripassare prima di arrivare in facoltà.»

«Giusto, dimenticavo che sei una maniaca del controllo.»

Che ero io?

«Non sono affatto una maniaca del controllo!».

Spalancai lo sportello con veemenza e senza accorgermene urtai una seconda auto posteggiata accanto alla nostra.

Aron strizzò le palpebre di scatto.

«Scusa».

«Non fa niente.», sospirò. C’era un profondo solco sulla fiancata della berlina rossa che avevo accidentalmente colpito ed ero certa che fosse appena apparso.

Aron aveva fatto il giro della macchina e ora stava guardando nella mia stessa direzione.

«Credo che sia meglio salire in auto. Adesso.»

«Non dovremmo cercare il proprietario?»

«Sono quasi certo che fosse il tipo seduto dietro di noi.»

Guardò in direzione della vetrata. Seguendo quella direzione trovai la sagoma tracagnotta di un tipo poco affabile. Braccia tatuate, grugno astioso. Aveva qualche tatuaggio della marina militare. 

«Oppure…potremmo far finta che non sia successo nulla…». Sviai lentamente lo sguardo e piombai a sedere in auto.

 

La canzone che suonava dall’interfono della radio non la conoscevo, ma mi piaceva. Mi accomodai meglio sul sedile e poggiai la testa all’indietro.

«Ultimamente sto bevendo un po’ troppo spesso.», ammissi spostando lo sguardo verso il profilo di Aron.

«Hai bevuto altre volte oltre che la sera della festa?».

Feci spallucce «Questa sera…E al rinfresco dei miei.»

Possibile che avesse corrugato la fronte? Nah, probabilmente me lo ero immaginato.

«Almeno non eri in compagnia di Piper.», commentò.

Aveva un bel po’ di sarcasmo quell’affermazione. Sarcasmo che mi fece innervosire.

«Tu però lo frequenti spesso.»

Ripensavo al video: lui, Gretha e Piper. Ricordavo i due ubriachi fradici e Aron accanto a loro mentre…Che stava facendo? Il video era sgranato. Una ripresa fatta di notte e con la poca luce di qualche lampione.

Mantenne le mani salde sullo sterzo «Frequentiamo la stessa facoltà, capita di vederci.»

Ruotai sul sedile, appallottolata, con le ginocchia sulla seduta.

«Tu nemmeno lo sopporti», singhiozzai.

Mi scrutò con la coda dell’occhio, «Esattamente come tu non reggi l’alcool.»

«Io reggo l'alcol perfettamente!» -emh, no. Effettivamente, era l’alcol a reggere me.

«Si…Come dici tu.»

Ad un tratto il suo telefono incominciò a vibrare. 

«Ti stanno chiamando.», dissi.

«Ho sentito.»

«E allora perché non rispondi?». Lui lo aveva tirato fuori dalla tasca, aveva guardato lo schermo per poi oscurarlo un attimo dopo.

Poi aveva guardato me con un’espressione divertita stampata in volto. «Non credo che tu voglia sapere chi mi ha chiamato e perché.» Capii al volo che si trattava di Gretha.

Mi rizzai sul sedile.

Avevo voglia di tornare a casa il prima possibile, in quel momento, ma qualcos’altro dentro di me la pensava diversamente, al punto da spingermi a sperare che il tragitto si allungasse di un paio di chilometri.

«Perché no?», lo sfidai aprendo il palmo della mano in direzione della sua coscia. «Siamo amici, giusto?»

Aron sospirò senza far sparire il sorrisetto dalle labbra.

«Haly…».

«Dico sul serio, se ti frequenti con lei a me sta bene.»

Socchiuse le palpebre per un istante, il telefono che non la smetteva di vibrare.

«Fallo o risponderò io.»

Non sapevo con esattezza perché volessi per forza che lui rispondesse a Gretha, ma incominciavo a temere che quello sarebbe stato il pretesto per scacciare certi pensieri che mi venivano in mente quando ero con lui.

Scosse la testa e tornò a guardare la strada.

A quel punto, capendo che, no, non avrebbe risposto, allungai la mano e artigliai il cellulare prima ancora che potesse far qualsiasi cosa per fermarmi.

Lessi le inconfondibili cifre del numero di Gretha che scorrevano sul display e per un istante, uno solo, esitai.

Veramente volevo sentire ciò che avevano da dirsi?

Mi tremò il pollice ma accettai la telefonata lo stesso, pentendomi un attimo dopo.

Pigiai sul vivavoce e avvicinai il microfono verso la bocca di Aron.

«Ehy.», disse lui, rifilandomi un’occhiataccia.

«Ehy».

La voce di Gretha sembrava sognante. 

«Dove ti trovi?», chiese lei.

«Sulla statale.»

«A fare cosa?»

«Riporto un amico a casa.»

Qualcosa era appena esploso, rovinoso, nel mio petto.

Un amico? Perché non le aveva detto di essere con me?

Incominciai a pensare che Gretha avesse un’importanza diversa per lui e… mi dava fastidio, anche se non lasciai trapelare nulla dal mio viso.

«Ci vediamo stasera?», gli chiese lei.

«Stasera…», Aron curvò lo sterzo superando un incrocio «Sul tardi.», affermò lui.

Avevo il cuore a mille e rifiutavo con tutta me stessa di capire perché.

«Va bene», la perenne voce sognante di Gretha capitolò con «A più tardi, un bacio.»

La chiamata si interruppe, così come le cose che avremmo potuto dirci io e Aron.

Lui restò in silenzio, il flusso imperscrutabile dei suoi pensieri era un fortino inaccessibile.

E nemmeno io riuscii a dire qualcosa. Il suo cellulare era ancora stretto nelle mie dita, il dorso della mano sulla mia coscia. Avevo l’impressione di avere una bomba addosso. 

All’improvviso, interruppe il silenzio. Mancava poco a casa mia e mi dissi che non c’era bisogno che provasse a parlarmi. Non c’era motivo, davvero.

«E’ tutto ok?». La sua voce, adesso, era più bassa e profonda.

Non mi rivolgeva lo sguardo, ma potevo scorgere lo stesso il suo imbarazzo.

«Certo.», dissi con fermezza.

In realtà non andava bene proprio un cazzo, ma lui era l’ultima persona che avrebbe dovuto saperlo.

Finalmente, casa.

Quando il marciapiede si materializzò davanti ai miei occhi, mi sembrò di respirare per la prima volta nella mia vita.

L’auto accostò in prossimità del mio cancelletto.

«Non ti trattengo ancora, hai da fare.»dissi. C’era una punta d’acidità nel tono della mia voce. Non posso negarlo.

Aron sospirò: «Non farlo». 

Avevo promesso sia a lui che a me, che avrei fatto in modo di non litigare più.

Aron aveva detto che ero acida, quindi dovevo avergli dato quell’impressione, perciò, dovevo darci un taglio.

«Che ho detto?», feci spallucce mimando un sorriso riparatore, falsa come Giuda.

«Lo sai perfettamente.»

Scesi dall’auto.

«Non farla soffrire, dico sul serio.»

Chiusi lo sportello prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa e imboccai il vialetto di casa.

Cosa provavo in quel momento? Sicuramente, confusione.

Mi dava fastidio, parecchio fastidio, il fatto che Gretha si calasse sotto le sue lenzuola, esattamente, come mi aveva dato fastidio il fatto che lui le avesse mentito dicendo che ero un amico da riaccompagnare.

Che Aron le avesse detto una bugia per non sorbirsi una lavata di testa dalla sua nuova - gelosissima - conquista? Erano arrivati già a quel punto?

Comunque, quella fuori luogo ero indubbiamente io.

Gretha aveva una cotta per Aron da molto prima che mi ficcasse la lingua in bocca in quel bagno.

Perciò se c’era qualcuno che doveva farsi da parte, quella ero io.

Ad ogni modo non potevo negare che la sensazione di bruciore allo stomaco fosse per altro che non fosse la birra tracannata in quella trattoria.

Quando mi chiusi il portoncino dietro le spalle, il silenzio di casa mia mi travolse. Respirai a fondo.

Ero finita in un bel guaio.

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Capitolo 11
*** 10 ***


10.


Da quella sera delle due birre doppio malto -che poi erano diventate quattro- erano passate un paio di settimane. Conscia di quanto accaduto e dopo essermi maledetta per più di un paio di volte, avevo cercato di mantenere la parola data: Aron ed io eravamo amici.

E con amici, mi piaceva intendere che avremmo condiviso gli stessi spazi senza cercare di cavarci gli occhi reciprocamente.

Non era un’idea entusiasmante, ma quella specie di accordo me lo aveva tolto dai piedi per un bel po’ di giorni.

Lo avevo visto in facoltà. Anche quella mattina. Ci eravamo salutati, lui mi aveva rubato la brioches come al suo solito e poi era sparito in aula per le restanti cinque ore.

Bene. Benissimo.

Una parte di me poteva definirsi sollevata, a dir poco raggiante.

Ero riuscita persino a pianificare il restante pomeriggio senza il timore che il sottoscritto si piazzasse fuori dalla mia porta o peggio, facesse qualsiasi altra cosa stupida solo per darmi fastidio.

Quando stavo imboccando il corridoio della facoltà, pronta per tornare a casa, avevo un depliant di una fiera stretto fra due dita.

Si leggeva che ci sarebbero state, in centro, diverse bancarelle dell’antiquariato e non solo. Era invitante.

L’idea era quella di comprare qualcos’altro per abbellire casa e magari, altri boccioli di tulipano per rimpiazzare quelli che Aron aveva divelto.

Ancora non posso ripensarci!

Si, decisamente, l’idea non mi dispiaceva affatto.

Catalizzare la mia attenzione su altro che non fosse il mio rumoroso vicino di casa e la mia ex migliore amica che ci andava a letto insieme, mi avrebbe solo fatto bene.

 

Alle cinque del pomeriggio ero seduta sullo scomodissimo sedile di un autobus di linea.

Sam mi aveva scritto un paio di sms: voleva chiedermi degli appunti, poiché, l’indomani, avrebbe dovuto tenere una lezione importante.

Le avevo detto che ci saremmo viste quella sera, magari a casa mia e che doveva stare tranquilla perché l’avrei aiutata a preparare la lezione in meno di un paio d’ore. Magari, ci sarebbe anche scappato uno di quei film strappalacrime che tanto piacevano a lei.

Entusiasta, aveva acconsentito e per fortuna la sequela di messaggi impanicatissimi si era trasformata in chiacchiere fra amiche.

Qualcuno chiamò la fermata al posto mio e in un batter d’occhio mi ritrovai sul marciapiede al centro di un fiume umano di teste parlanti.

Il centro quel pomeriggio brulicava di persone.

Persone e sacchetti con stampati i vari loghi degli stand sparpagliati ovunque.

Alzai lo sguardo dal cellulare e mi ritrovai di fronte al mio riflesso in una vetrina.

Non indossavo gli occhiali da vista quel giorno ma li avevo comunque con me.

Avevo preferito un look più sportivo: t-shirt e pantaloncino di jeans. Si, qualche volta, anche io osavo un abbigliamento più contemporaneo e in linea con la stagione corrente! 

Scalpicciai il marciapiede a bordo delle mie Adidas e mi insinuai fra la folla come una lepre.

C’erano veramente un mucchio di bancarelle e vendevano ogni tipo di cosa.

La seconda che incrociai attirò la mia attenzione. Strumenti per il giardinaggio. 

Strumenti - professionali- per il giardinaggio. Mi brillarono gli occhi.

«Tuo padre fa giardinaggio?». La voce proveniva dall’altro lato dello stand. L’uomo con la camicia da boscaiolo e la pelle avorio mi sorrise. 

«Ehm…No, in realtà io lo faccio.», risposi stizzita.

Perché ancora si considerava quell’attività, un’attività per soli uomini o per sole donne attempate? Una ventiquattrenne non poteva adorare le piante?

Lui mi scrutò con non celata sorpresa.

«Davvero?».

«Si. Davvero.»

«Che bello!», esclamò raggiante «Voi ragazzi siete sempre alle prese con feste e alcolici, non credevo di trovarne qualcuno che preferisse certi hobbies».

L’uomo si precipitò a mostrarmi i vari modelli di rastrelli e i più disparati semi di piante esotiche e non, spiegandomi nel dettaglio come e quanto poterli interrare. Discutemmo su quanta acqua dare e quali fertilizzanti fossero meglio.

«E’ la prima volta che parlo a qualcuno del mio hobby senza sentirmi snobbata.», risi e lui fece lo stesso.

«Di solito, io ne parlo solo con mia moglie.»

Ok, sembrava molto strano il fatto che mi trovassi a parlare con un ultracinquantenne di piante e che non mi fossi fermata affatto su bancarelle dell’intimo o cose più da ragazza. Ma io ero anche quel genere di persona, più quel genere di persona. Pure se odiavo essere definita noiosa per qualcosa che, invece, mi faceva stare bene.

La chiacchierata terminò un paio di minuti dopo, non ricordo esattamente chi dei due proferì la battuta finale. Ora, però, avevo uno scontrino per mano e dieci bustine di semi di piante coloratissime. Ero contenta, davvero.

Proseguii la maratona di bancarelle e comprai un altro scacciasogni, un paio di presine, due fermagli per capelli e un mascara.

Ripeto, anche io fingevo di essere una ragazza. Qualche volta.

Quando l’orologio al mio polso segnò le sette della sera, mi dissi che per quel pomeriggio avevo fatto abbastanza.

Sapevo che la fermata dell’autobus era a pochi metri di distanza dal punto in cui mi trovavo io e mi misi in marcia, a ritroso, per raggiungerla.

Proprio in quel momento, i miei occhi andarono a scontrarsi con una figura famigliare.

Gretha.

Piantonai i piedi sul posto.

Era accanto allo stand dell’intimo, assieme a lei potevo scorgere un altro mezzo busto coperto da una colonnina girevole colma di calzini.

Persi un battito, forse due.

Mi nascosi dietro un lato dello stand di accessori per auto e moto e come una ladra, spiai la mia ex amica.

Stava sorridendo mentre tirava su un paio di slip indecenti di un rosa Smoothie andato a male terrificante e lo stava mostrando a qualcuno.

Cercai di sporgermi per vedere meglio ma quella dannata colonnina era proprio in mezzo ai piedi, perciò, mi abbassai sulle ginocchia speranzosa di trovare il volto dello sconosciuto.

Quando mi resi conto che c’era Piper accanto a lei, una parte di me non ne fu affatto sorpresa.

Gretha aveva sempre fatto così con lui. Quel genere di tira e molla da “non siamo fidanzati ma flirtiamo lo stesso” che sapevo far struggere il sottoscritto d’amore.

Forse dovevo comportarmi così anche io con i ragazzi. Perché, più Gretha si comportava da prima donna, nonché da stronza, più chiunque le ronzava attorno.

«Che diavolo stai facendo?».

Un brivido.

La voce alle mie spalle che mi aveva fatto accapponare la pelle la conoscevo sin troppo bene.

«A-Aron…?».

Alzai lo sguardo oltre la mia fronte e lo trovai in piedi dietro di me che mi scrutava esattamente come io avrei guardato un insetto mai visto prima.

Per le mani stringeva un paio di bicchieri di carta bianca e non ci volle molto per capire cosa contenessero.

Lui aggrottò la fronte divertito.

«Perché sei accucciata sul marciapiede?»

«Ecco…Ho perso un anello.», mentii, fingendo di guardarmi attorno.

«Un anello?».

«Si, un anello, Aron.».

L’ansia che provavo era palpabile.

Maledizione, colta sul fatto proprio da lui…no!

Ridacchiò.

«Non hai incontrato Gretha e Piper? Dovrebbero essere qui in giro.».

Mi risollevai da terra e risposi un semplice «No. Eri con loro?». Dovevo dargli l’impressione di non essere affatto sorpresa di vederlo né di sapere che era proprio in compagnia di Gretha. Ci stavo riuscendo? Insomma…

Lui annuì.

«Piper mi ha chiesto di portargli due birre…», fece spallucce.

Solo ad Aron sfuggiva il motivo per cui Piper lo aveva commissionato di sparire dalle palle. Quasi mi divertivo a vedere il suo nuovo amichetto provarci con la sua ragazza.

Altro brivido. 

Colpa dell’appellativo nuova ragazza apposto sopra la testa di Gretha e messo accanto al viso di Aron.

La mia mente pensava troppo in fretta e cose molto stupide, si.

Comunque, chi ero io per rovinare a Piper, Gretha e Aron il fantastico terzetto che non sapevano di aver creato? Nessuno, però potevo godermelo.

«Beh, allora…Ti lascio alle tue birre.»

Aron mi scrutò quasi deluso «Non ti unisci a noi?».

«Unirmi a cosa, esattamente? Non ho voglia di bere un’altra volta. Quando bevo straparlo.», distolsi per un momento lo sguardo.

Altra risatina snervante. Non mi mancava affatto.

«Lo so.»

«Come…lo so?».

Però, anche se con non poca difficoltà, dovevo ammettere che quel sorriso era veramente incantevole.

«Puoi sempre non bere, comunque.»

Stavamo già attraversando la strada in direzione ex migliore amica e, quando me ne accorsi, era troppo tardi.

«Haly!»

La voce di Piper mi fece sussultare. Senza aver il tempo di pensare a nulla, sollevai impacciatamente una mano e gli sorrisi.

«Ehilà…» -mannaggia a me…

Provai a salutare anche Gretha che però continuava a rifilarmi uno sguardaccio serio e tagliente come solo lei sapeva fare.

Mi ero sempre reputata superiore a certe circostanze e perciò mi costrinsi a salutarla come avrei fatto in un qualsiasi altro momento. Soprattutto, perché se non l'avessi fatto, Aron avrebbe scoperto che a causa sua avevamo tagliato i rapporti.

«Ciao Gretha.», sorrisi e tutto mi aspettavo fuorché un suo «Halanie, che bello che ci sei anche tu! Sei dei nostri stasera?».

Falsa. Falsissima! Mio Dio, quella ragazza era Giuda in persona e io la conoscevo da sin troppo tempo per non accorgermi della piccola venuzza corrugata sulla fronte e della fatica che aveva impiegato per darla a bere ai nostri…amici.

«Dove andate di bello?». Da buona allieva, avevo imparato molto da lei negli anni e perciò, preseguii con quel teatrino.

«C’è una festa in spiaggia questa sera.», ammise Piper. Poi, fece un passo avanti e con occhi supplicanti mi prese entrambi i polsi, implorevole «Devi. Essere. Per forza dei nostri.» Detta in quel modo sembrava quasi più una minaccia che un invito ed io avevo capito perfettamente il motivo. Mi venne da ridere.

«Veramente questa sera avevo promesso a Sam…».

«Oh, andiamo! Non fate sempre quelle secchione e senza vita sociale!».

Incurvai le sopracciglia. Volevo rispondere qualcosa, ma il lato strapermaloso di me lo impedì, allora fu Aron a parlare «Forse non è il caso.».

Forse non è il caso.

Quella frase mi spiazzò, rimbombando nella mia testa ancora e ancora. -e ancora.

Forse non è il caso stava a dire: sto con la nuova tipa che mi scopo e non voglio quella a cui ho ficcato la lingua in bocca fra i piedi.

Non potevo credere alle mie orecchie.

Avrei colto volentieri la palla al balzo e con quell’assist mi sarei potuta dileguare ma… Ehy, chi ero io per non rispondere palla in petto a Aron? E chi era lui per decidere cosa avrei dovuto o non dovuto fare quella sera?

«Una festa in spiaggia, dici?».

Gretha si irrigidì. Aron si irrigidì e, io stavo godendo come un riccio.

«Perché no? Dopotutto sto sempre chiusa in casa.»

A quel punto, meschina, spostai lo sguardo in direzione di quello di Aron che si fece stizzito.

Non avevo la più pallida idea di quale piega avessero preso i suoi pensieri ma,  qualunque cosa stava pensando gli doveva essere andata per traverso.

«Ottimo!», proferì euforico Piper «La festa è alle nove, vuoi che mandi qualcuno a prenderti?».

A quel punto, dubitavo di poter scroccare un passaggio al mio vicino. «Magari!», cinguettai.

La bocca di Piper si allargò in un sorriso e mezzo. «Ok, tu preoccupati solo di farti bella per le nove.»

«Lo farò.»

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