Dirac Equation

di MrStank
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Skyfall ***
Capitolo 2: *** Everybody Hurts ***
Capitolo 3: *** Is Fear a Liar? ***
Capitolo 4: *** Empire of Dirt ***
Capitolo 5: *** All I Ask ***
Capitolo 6: *** Sign of Hope ***



Capitolo 1
*** Skyfall ***


Buonasera!
Sono felice di poter condividere con voi qualcosa che è nella mia testa da un po' e che sono finalmente riuscita a mettere per iscritto.
Spero possa piacervi tanto quanto è piaciuto a me scriverla!

Quello non può essere altro che l’inferno, pensò TK.

Quando una settimana prima era scoppiato un incendio nel Whitewater-Baldy Complex della Gila National Forest, nessuno alla caserma si era aspettato di dover mandare supporto alle squadre locali. Le fiamme avevano iniziato a consumare la foresta a causa di un fulmine che era caduto in una delle parti più impervie della zona e che, alimentate dal vento, si erano congiunte con un altro principio di incendio situato più ad ovest.

Quando i due incendi avevano cominciato a muoversi simultaneamente e ad allargarsi verso la Gila Wilderness, iniziando a coprire tutta l’area boschiva intorno, da Silver City erano partite richieste di aiuto. Diverse squadre erano cominciate ad arrivare da Phoenix, Tucson ed Albuquerque, città più prossime all’incendio. Successivamente si erano mossi anche elementi provenienti da caserme più lontane, come quella di Austin.

«Non ho mai visto niente del genere», sussurrò Marjan con gli occhi che non riuscivano a staccarsi dalle fiamme e dal fumo che si vedevano provenire dalla foresta.
 
Erano partiti all’alba e, dopo una dozzina di ore di viaggio, erano finalmente giunti a Pinos Altos, dove i vigili del fuoco avevano stabilito il centro operativo per la gestione dell’emergenza.
Il capitano Strand, Paul, Marjan, TK e Carlos, erano smontati velocemente dal camion e avevano raggiunto la tenda in cui venivano coordinate le operazioni.

«Papà, da questa parte», disse TK conducendo il gruppo verso il tavolo dove veniva registrato l’arrivo dei nuovi elementi. 

«Capitano Owen Strand, Caserma 126, Austin, Texas», disse il capitano. «Con me ci sono i vigili del fuoco Marjan Marwani e Paul Strickland, il paramedico TK Strand e l’ufficiale di polizia Carlos Reyes. Siamo a vostra disposizione».

L’addetto incaricato, dopo aver porto i suoi ringraziamenti per il celere intervento, indicò loro di andare all’esterno e di unirsi alle squadre che si stavano formando.
Carlos, in quanto poliziotto, dovette raggiungere la tenda dove la polizia gestiva le sue operazioni, separatamente rispetto a quelle dei pompieri.

«State attenti», disse questi rivolto a tutti, leggermente preoccupato. «Ci vediamo dopo babe», sussurrò a TK prima di allontanarsi.

⋄◉⋄


Se possibile, fuori da lì il caos era ancora maggiore: vigili del fuoco e paramedici sciamavano verso le rispettive unità, chi pronto a partire e chi appena tornato. Alcuni chiamavano a gran voce i nomi dei propri compagni mentre altri sembravano perdere tutte le forze non appena si permettevano di lasciarsi cadere a terra.

L’attenzione di TK venne attirata da un gruppo di pompieri che sembravano scalpitare per partire.

«Capitano Strand, Sergente Andrew Keenly, caserma 52, Phoenix», si presentò uno di loro. «Io e la mia squadra ci stiamo dirigendo all’interno con un A.P.S., se voleste unirvi raggiungeremmo il numero idoneo per ottenere il permesso di partire».

«Siamo dei vostri», rispose velocemente Owen facendo cenno alla sua squadra di salire sul mezzo.

Imboccarono presto la strada che portava all’interno della foresta.
TK rimase colpito da come l’atmosfera mutò velocemente man mano che si addentravano in essa: i colori della natura venivano gradualmente mangiati dal fuoco che era mantenuto a distanza dalla strada da decine di suoi colleghi, in modo che gli altri avessero la possibilità di aggirare l’incendio ed intervenire in altri punti.

Guardò i propri amici e gli altri vigili del fuoco che li accompagnavano: erano tutti tesi, pronti ad intervenire per domare il più grande incendio che si era mai sviluppato in New Mexico.
Non era la prima volta che si trovava in una situazione del genere, l’incendio scoppiato mesi prima in Texas era stato il suo battesimo di fuoco. Battesimo di fuoco. Si trattenne dallo sbuffare una risata al crudo gioco di parole. 
Quella volta aveva rischiato di perdere suo padre. Sapeva che il loro era un lavoro pericoloso, ma non per questo sarebbe mai stato pronto ad accettarlo placidamente. Ancora una volta si stavano dirigendo verso ciò da cui le persone normalmente fuggivano.
Pensò a Carlos e fu felice di sapere che, almeno quella volta, non sarebbe stato troppo in pericolo: la polizia si occupava semplicemente di gestire gli arrivi dei vigili del fuoco e di monitorare le aree di accesso alla foresta.


TK venne riportato alla realtà da una gomitata di Paul, che gli fece cenno verso suo padre.

«… distintamente, io e il sergente Keenly di terremo in contatto per eventuali azioni congiunte. Forza, andiamo», concluse il capitano Strand.

TK seguì Paul con aria interrogativa, accorgendosi in quel momento che i colleghi della caserma di Phoenix si erano già allontanati.

«Questa è la nostra area di azione, il ranch sta venendo evacuato da altre squadre, a noi tocca controllare che non ci siano civili rimasti bloccati nelle zone di campeggio vicine. Le squadre lavoreranno separate», riassunse l’uomo. «Ma dove avevi la testa?»

TK evitò di rispondere e si guardò nuovamente intorno.

Il fumo avviluppava tutto ciò che era alla sua portata. Le fiamme erano ancora lontane, ma se il vento avesse cambiato direzione, sarebbero potute giungere dove si trovavano abbastanza velocemente.
Dal punto in cui si trovava, era possibile distinguere il sentiero e in lontananza, le sagome dei primi bungalow che avrebbero dovuto controllare. 

Avevano lasciato l’A.P.S. nel punto in cui la strada era bloccata dal tronco di un albero caduto, insieme ad altri mezzi di soccorso che erano giunti con loro per prestare assistenza medica.
L’aria era pesante e le tute ignifughe erano ancora più difficili da portare a causa del calore.
Si avviarono verso la prima area attrezzata e controllarono ogni punto.
Il capitano Strand e Marjan si allontanarono sulla destra mentre TK e Paul si diressero a sinistra.

«Allora? A cosa stavi pensando prima?» chiese curioso Paul. «Non ti ho mai visto così distratto prima di entrare in azione».

«Pensavo all’ultima volta in cui ci siamo trovati ad affrontare un incendio del genere», rispose TK.

Paul si irrigidì leggermente al ricordo.

«Già», gli fece eco TK.

«Credi che ci siano anche i ragazzi della 118?» chiese l’uomo.

«Non lo escludo, sono arrivate squadre da tutti gli Stati vicini», rispose il più giovane. 

Potrei chiedere a Buck, pensò.
Da quando si erano conosciuti in Texas, lui e l’altro pompiere erano diventati amici. Più o meno. Ad essere onesti si erano scambiati solo alcuni messaggi ed un paio di chiamate, poche ma sufficienti per consolidare il loro rapporto.
Legare con Buck era stato... naturale. Non si pianifica di “prendere in prestito” un'autopompa con chiunque, dopo tutto. Non avevano avuto bisogno di molto tempo per piacersi e capire di essere esattamente sulla stessa onda.

«Pensi che sia davvero rimasto qualcuno?» chiese per cambiare argomento. 

Paul scrollò le spalle. L'incendio si era sviluppato parecchio più a ovest rispetto alla zona che stavano evacuando, ma il vento aveva già potato che lì l’aria mefitica tipica dei roghi.

«Probabilmente no, saranno rimasti solo quelli del ranch. Organizzare i trasporti per gli animali non deve essere veloce, tanto meno in un’emergenza come questa», gli rispose.

I due continuarono la ricerca ma senza risultati, sembrava che fortunatamente tutti i campeggiatori avessero capito l’antifona e si fossero allontanati.
Dopo un'altra decina di strutture arrivarono alla fine del campeggio dove si ricongiunsero a Marjan ed Owen che stavano parlando con altri pompieri.


Una volta avvicinatisi, TK riconobbe in quelle persone alcuni membri della 118, in particolare Eddie ed Hen. 

«Ci stavamo proprio chiedendo se ci foste anche voi», disse dopo aver salutato entrambi con un sorriso.

«Come avremmo potuto perderci tutto questo?» domandò ironicamente Eddie. «Pensavo che Buck ti avesse scritto».

«Uhm, no. O quanto meno non che io sappia, in mezzo alla vegetazione non prende più di tanto», rispose TK. «Dov’è, a proposito?» chiese, stranito dal fatto che si fosse unito volontariamente ad una squadra diversa rispetto alla propria. O che si fosse allontanato da Eddie.

«Si sta occupando del ranch», si intromise Hen chiedendo poi ironicamente: «Voi due ne avete ancora per molto?»

Eddie e TK scossero la testa.

«Prima che ci raggiungeste, insieme abbiamo concordato che Marjan rimarrà con loro a presidiare questa zona, qui è dove tutte le unità portano eventuali civili. Il sergente Keenly e la sua squadra stanno perlustrando nei campeggi più in basso, ci coordineremo anche con loro. Noi tre, invece, proseguiremo verso il ranch», disse Owen indicando sé stesso, TK e Paul.

Si avviarono verso nord, seguendo il sentiero che Hen aveva loro indicato.
Dopo un quarto d’ora di cammino a TK parve di sentire delle voci in lontananza, qualcuno sembrava stesse chiamando aiuto, aggiungendo qualcosa riguardo ad un edificio aggredito dalle fiamme.

«Avete sentito che voi?» chiese ai compagni per esserne certo.

Gli altri due annuirono e si mossero velocemente verso il luogo da cui provenivano le voci.
Dopo aver oltrepassato gli scheletri di due tende, videro due signore con un bambino che cercavano di ripararsi dalle fiamme provenienti da un bungalow vicino.
Quando esse li videro avvicinarsi, cominciarono a gridare più forte.

«Venite, dobbiamo allontanarci da qui, è pericoloso», disse loro il capitano Strand avvicinandosi. 

Una delle donne fece resistenza, presa dal panico. «No! Un suo collega è rimasto intrappolato dentro, era entrato per andare a recuperarlo», urlò indicando il bambino vicino a loro.

«Non è uscito? Quanto tempo fa è successo?» chiese guardandosi intorno.

«Credo… credo che siano passati una decina di minuti», rispose la signora, «Benjamin… Ben ha detto che l’ha aiutato a venire fuori ma che non l’ha seguito».

Preoccupato, il capitano annuì. 

«D’accordo, ascoltate: mettete della stoffa davanti alla bocca e scendete lungo il sentiero. Fra un centinaio di metri o poco più incontrerete alcuni colleghi. Seguite le loro indicazioni, qui ci pensiamo noi», disse con voce irremovibile. «Paul, va con loro, avverti i soccorsi della nostra posizione e di un possibile ferito», continuò rivolgendosi all’uomo. «Muovetevi!»

Paul annuì, prese in braccio il bambino e si incamminò lungo il sentiero insieme alle due donne, le quali lo seguirono continuando a lanciare occhiate verso la struttura in fiamme, leggermente più convinte.
Quando scomparvero dalla loro vista, TK si avvicinò al bungalow.
La parete ad ovest era stata aggredita dalle fiamme, innescate da scintille portate dal vento, ma forse, forse sarebbe riuscito ad entrare e tirare fuori il collega.
Era consapevole del grande rischio che stava assumendo. Sei un paramedico, non un eroe, gli sussurrò la sua mente, ma sentiva il bisogno, la necessità di trarre in salvo la persona all’interno. Come se, nel caso in cui non avesse almeno provato, lo avrebbe rimpianto per sempre.

«Vado a dare un’occhiata dentro, ti chiamo se lo trovo», disse a suo padre.

Questi, dopo aver valutato attentamente lo stato del bungalow e le variabili che si sarebbero potute verificare, annuì, pronto ad intervenire se il pericolo si fosse accentuato. 

TK prese un respiro profondo e si avvicinò alla struttura che, nonostante tutto, sembrava ancora abbastanza solida. Scacciò il volto di Carlos dalla mente e le parole che si erano scambiati prima di separarsi. Riusciva già ad immaginare la sfuriata che il suo ragazzo gli avrebbe fatto una volta che fosse venuto a conoscenza delle sue azioni avventate.


Una volta all’interno, TK non poté fare a meno di tossire, l’aria era satura di fumo.
Si guardò intorno ed cominciò ad ispezionare tutte le camere, ma non trovò nessuno.
Nel momento in cui stava per tornare indietro notò un’altra uscita e, non lontano da essa, una macchia di sangue. Ottimo, pensò. Il vigile del fuoco era probabilmente riuscito ad uscire, ma avrebbe dovuto trovarlo comunque. E in fretta.
Una volta all’esterno cominciò a guardarsi intorno fino a che avvistò quella che pareva una divisa qualche decina di metri più a sud e si diresse verso di essa.
A terra, vicino a dei cespugli, c’era l’uomo che stava cercando, svenuto.
Il suo cuore perse un colpo nel riconoscerlo: era Buck della 118 di Los Angeles, il compagno di Eddie.

«Papà, l’ho trovato!» urlò. 

TK si inginocchiò accanto a lui, controllandogli immediatamente i parametri vitali.
Il respiro era lento ma costante, aveva una mano tagliata e quasi sicuramente una commozione cerebrale. 
Aspettò che il padre lo raggiungesse prima di intraprendere qualsiasi manovra utile a fargli riprendere conoscenza.

«TK, dobbiamo andare via subito», iniziò Owen. «Ma è...» continuò inginocchiandosi accanto alla figura sdraiata.

«Sì, è Buck», gli confermò TK mentre posizionava l’uomo svenuto supino.
«Tienigli le gambe alzate», disse al padre mentre cercava di arieggiargli il viso. «Il vento sta girando, vero?»

«Sì, dobbiamo allontanarci in fretta», rispose Owen.

Vedendo che Buck dare i primi segni di ripresa, il capitano si allontanò per controllare lo stato del sentiero da cui erano venuti.
Purtroppo sembrava che il vento giungesse smorzato nel punto in cui avevano soccorso l’altro pompiere, ma allontanandosi nella direzione da cui erano venuti, questo si rafforzava e sferzava l’ambiente con folate calde, piene di fuliggine.
L’esperienza gli suggerì che era probabile che i colleghi avessero perduto il controllo sulle fiamme, le quali si stavano quindi avvicinando, più o meno indisturbate, alla loro posizione.
 
⋄◉⋄


Quando Buck rinvenne la prima cosa che riuscì a mettere a fuoco furono un paio di occhi muschiati che lo fissavano con sollievo.
Ci mise un attimo a ricollegarli al pompiere di Austin. O meglio, al novello paramedico.
Tentò di sorridere ma l’unica cose che gli riuscì fu una smorfia dolorante.

«TK?»
 
«Hey»

«Che diavolo è successo?» esalò Buck.

«In ordine hai salvato il bambino che era rimasto nel bungalow, devi essere svenuto ancora all’interno, ti sei ferito alla mano cercando di aggrapparti da qualche parte per non rovinare per terra», gli disse prendendogli delicatamente la mano e iniziando a fasciargliela alla meno peggio. «Sei riuscito ad uscire e ad arrivare fin qui per poi svenire nuovamente», concluse TK, leggermente imbarazzato per come avesse sommerso l’altro di parole. Bravo TK, esattamente così ci si dovrebbe rapportare ai feriti, pensò.

Buck si rilassò a sentire che il bambino stesse bene. 
Tossì, l’aria faticava ad entrare correttamente nei suoi polmoni e la testa gli stava scoppiando.

«Diagnosi?» riuscì a chiedere.

TK lo guardò sorpreso, ma avrebbe risposto allo sguardo intransigente che Buck gli rivolse se in quel momento non fossero stati raggiunti da suo padre.

«Hollywood! Felice che ti sia ripreso», gli disse il capitano Strand prima di farsi serio. «Non è prudente riprendere il sentiero da cui siamo arrivati. Il vento ha girato e credo sia più conveniente scendere verso sud. Dovremmo incontrare presto la strada o qualcuno della squadra di Keenly», concluse.

TK guardò il padre preoccupato, Buck non era certo nello stato di reggere uno sforzo fisico prolungato.

«Quando si parte?» tossì questi, sorridendo ironicamente.

TK sbuffò una risata di rimando prima di abbassarsi e mettersi un braccio di Buck attorno alle spalle, così come fece suo padre dall’altro lato. Si assicurarono che fosse abbastanza stabile prima di cominciare a scendere lungo il versante meridionale del piccolo rilievo su cui erano situati i bungalow.
L’aria si faceva sempre più pesante sia a causa della mutata direzione del vento, sia per lo sforzo a cui si stavano sottoponendo per portare in salvo il pompiere di Los Angeles.
Il volto di Carlos balenò nella mente di TK, ma questi lo scacciò subito. Se fosse uscito tutto intero da lì, forse il suo ragazzo sarebbe stato clemente. 

Avevano appena scorto in lontananza le luci di un’ambulanza quando Buck inciampò, rischiando di far rovinare tutti e tre al suolo.

«Scusate», sussurrò cercando di incamerare più aria possibile.

Pessima idea. La sua gola si riempì di fumo e non poté fare altro che iniziare a tossire violentemente. Si sentiva svenire di nuovo. Non riusciva a respirare.
TK guardò preoccupato il padre che si allontanò velocemente per andare a chiamare i soccorsi.
Poi fece sedere Buck per terra con la schiena contro un masso, cercando di fargli riprendere il controllo della respirazione, che nel frattempo era diventata sempre più rapida ed irregolare. 
Non ebbe successo.

Buck si sentì prendere dal panico, più aria inspirava più i suoi polmoni sembravano infiammarsi.
Era una situazione in cui non si era mai trovato, tendenzialmente gli anni di addestramento prendevano il sopravvento e gli permettevano di comportarsi nel modo più adeguato rispetto a ciò che stava accadendo. Questa volta non accadde e la sua agitazione non fece altro che aumentare.
Gradualmente le cose precipitarono.

«TK, non vedo più nulla», esalò Buck tremante.

Il ragazzo non rispose. Intossicazione da monossido di carbonio, livello sopra il 40%, gli suggerì l’addestramento.

«TK cosa cazzo sta succedendo?» chiese, il panico parlava per lui.

«Il tuo corpo reagisce al fumo. Papà è andato a chiamare i soccorsi. Saranno qui presto», riuscì a mettere insieme TK mettendogli una mano sulla spalla.

«Non voglio morire…» mormorò Buck tra un colpo di tosse e l’altro.

La situazione stava peggiorando rapidamente, TK ne era fin troppo consapevole.
La mancanza di ossigeno avrebbe portato rapidamente il suo amico a perdere conoscenza e poi alla morte se non si fosse intervenuti subito con l’ossigeno e magari con una camera iperbarica.

«Non morirai, te lo prometto», disse invece, cercando di mantenere saldo il suo tono di voce.

A Buck continuava a mancare l’aria. E più ne cercava più quella sembrava non voler entrare nei suoi polmoni.

«Merda, succederà. Dove… dove finirò?» chiese forse a sé stesso.

Il fumo continuava a raschiargli la gola.

«Alla peggio in un letto di ospedale, Buck. Smettila di parlare. Per favore», lo pregò TK.

Gli sembrò di vedere muoversi fra gli alberi una barella e le divise dei soccorritori. O forse erano di pompieri. Non riusciva a capirlo.
Si rese conto solo in quel momento di avere gli occhi appannati.
Un singhiozzo gli scappò dalle labbra senza che potesse impedirselo.

«Non lo fare», tossì Buck afferrandogli alla cieca l’altra mano, «Non… non lo fare», gli disse cercando di non svenire.

TK non riuscì a trattenere un altro singhiozzo.

«Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo».

Il suo sussurro fu soffocato dalle voci dei paramedici che esortavano TK a farsi da parte.
Si rese a malapena conto di come il corpo di Buck fosse stato sollevato e messo su una barella, di come gli avessero posizionato la maschera per l’ossigeno e di come avessero iniziato a praticargli il massaggio cardiaco.

Calde lacrime gli scorrevano lungo le guance.
Si accorse di essere stato condotto dal padre verso la strada e fatto salire su una jeep che partì velocemente dietro l’ambulanza.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo

Singhiozzò ancora...

Si scoprì il polso sinistro.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo

... ed ancora.
Dovette sforzarsi di non pensare a Carlos e al dolore che gli avrebbe causato quando sarebbe venuto a saperlo. Perché sarebbe successo e non ci sarebbe stato modi di evitarlo.
 
Ci vediamo dopo babe

TK chiuse gli occhi sotto lo sguardo dolorosamente consapevole del padre.
 

Spero che il primo capitolo abbia attirato la vostra attenzione e che vorrete continuare a leggere. 
Ad occhio mi sembra che siamo poco meno di quattro gatti in questo fandom, ma spero che chi passi anche accidentalmente di qua voglia lasciarmi un commento.
A presto!

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Capitolo 2
*** Everybody Hurts ***


Buonasera,
Ecco a voi il secondo capitolo, buona lettura

Il SUV coprì rapidamente la distanza che li separava da Pinos Altos.
Durante tutto il tragitto Owen si limitò ad osservare il figlio che sembrava essere caduto in uno stato catatonico. 
Come biasimarlo, pensò.
Quello che TK aveva appena vissuto era una delle cose più dolorose a cui avrebbe potuto pensare, soprattutto conoscendo l’anima sensibile del figlio.

Non si sapevano le ragioni, ma ad alcune persone durante i primi vent’anni di vita vedevano apparire all'interno di uno dei propri polsi delle parole.
Si trattava di persone per cui l’universo, Dio, o chi per lui predisponeva un’anima gemella.
Per certi era una benedizione, per altri una maledizione.
Dal suo punto di vista, quella di TK apparteneva definitivamente alla seconda categoria.
Le parole apparivano sul polso destro o sul sinistro a seconda che si riferissero alle prime che la persona avrebbe sentito dire dalla sua anima gemella o alle sue ultime, pronunciate prima di morire.
Owen sapeva quanto suo figlio fosse innamorato di Carlos e non riusciva nemmeno ad immaginare quanto potesse essere devastante venire a sapere in quel modo che l’uomo con cui stai e che sei sicuro di amare non sia quello con cui si presume dovresti condividere la vita.

Spostò lo sguardo su TK che continuava a fissare la scritta che aveva sul polso.
Owen era più che certo di sapere quali domande stessero passando per la sua testa, sempre che la sua mente non si fosse bloccata nel tentativo di processare quello che era successo.
Cercò di non pensare ad una tale evenienza.
Non era sicuro di come avrebbe potuto fare per aiutarlo: non era uno psicologo e parlare di sentimenti non era il suo forte ma avrebbe dovuto inventarsi qualcosa.

Sperò che TK riuscisse a riprendere un minimo di contatto con la realtà prima che scendessero dal SUV. Era sicuro che sarebbero stati assaliti da domande e richieste di spiegazioni e lui, come capitano che aveva gestito l’operazione di salvataggio, avrebbe dovuto andare immediatamente a riferire quanto successo ai supervisori.
Questo avrebbe voluto dire lasciare TK senza protezione, indifeso di fronte alla furia di chi, sconquassato dal dolore, non avrebbe fatto caso al suo.

Sperò anche che Carlos fosse impegnato altrove e che non potesse venire a cercare di confortarlo.
Per TK sarebbe stato troppo.
Ad Owen piaceva l’agente di polizia, era un ragazzo in gamba, deciso e coraggioso, ma soprattutto amava profondamente suo figlio.
Quando aveva visto TK impegnarsi in quella relazione aveva gioito. Carlos sembrava ed era probabilmente l’uomo migliore con cui il suo bambino sarebbe potuto finire.
Come poteva non essere così?

Gli sarebbe piaciuto molto comprendere le motivazioni per cui sembrava ci fosse, o meglio ci fosse stata, un’anima che avrebbe potuto accompagnarsi meglio a quella di TK.
E soprattutto perché a suo figlio fosse dovuta capitare una cosa del genere.
Avrebbe potuto morire senza sapere chi avrebbe pronunciato quelle parole, avrebbe potuto morire pensando che sarebbe stato Carlos che le avrebbe pronunciate se gli fosse sopravvissuto, avrebbe potuto continuare a vivere senza dubbi.

-

L’ennesimo singhiozzo uscì dalle labbra di TK.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo

Scosse la testa e alzò gli occhi liquidi dalle sue mani.
Poteva percepire la preoccupazione del padre anche senza guardarlo.

Buck-

La sua mente si rifiutava di processare quanto era successo, o quantomeno di processarlo completamente.

Sentì l’agente di polizia a fianco al guidatore contattare Pinos Altos affermando che li avevano trovati e che fra una decina di minuti sarebbero rientrati.
Sentì suo padre mettergli una mano sulla spalla e riuscì a posizionare gli occhi nei suoi.

«TK», lo chiamò il padre, «TK, sai cosa succederà appena scenderemo».

TK annuì, incapace di articolare una risposta di senso compiuto.

«Io dovrò andare a riferire al supervisore. Credo che Hen verrà con me, sarai da solo con gli altri», continuò Owen.

«TK!» esclamò scuotendolo.

Questo è il capitano Strand, pensò TK prima di rispondere con voce gracchiante: «Ne sono consapevole capitano».

Non ci fu tempo per altri scambi di parole.
Owen scese per primo dal SUV e vide Marjan e Paul venirgli rapidamente incontro con sguardi in parte preoccupati e in parte sollevati. Hen ed Eddie li seguivano poco distanti.
Quando anche TK scese dalla vettura, il tempo sembrò congelarsi.

TK vide una serie complessa di emozioni passare sui visi di tutti, in particolare su quelli dei membri della 118: preoccupazione, sollievo, dubbio, incredulità, dolore e rassegnazione.
Affascinante, pensò.
Si sentiva come se stesse assistendo a tutto ciò dall’esterno. Era una sensazione strana, come se il suo corpo si muovesse con l’autopilota e la sua mente avesse inibito tutti i recettori di dolore.

Inclinò leggermente la testa da un lato.
Gli sembrò di vedere suo padre allontanarsi insieme a Hen, Marjan coprirsi la bocca con una mano e Paul chiudere gli occhi.
Gli sembrò di essere risucchiato di nuovo dentro la sua mente: tutto era bianco, come ovatta. Non giungeva nessun suono, niente esisteva lì dentro, non provava niente lì dentro.
È bello, pensò, potrei rimanere qui per sempre.

«Cosa è successo?»

Qualcuno gli stava chiedendo qualcosa, anche se non riusciva a capire esattamente di cosa si trattasse.

Qualcuno aveva cominciato a scuoterlo per le spalle.

Mise a fuoco colui che gli stava parlando con il volto accartocciato dal dolore.
Batté le palpebre.
Oh, lui non si è rassegnato, pensò.

«TK!» 

Il suo nome, insieme alle vigorose scosse che stava ricevendo, lo fecero tornare violentemente alla realtà.

«Cosa cazzo è successo?!» ripeté l’uomo fuori di sé.

Eddie, pensò TK riconoscendolo.

«Intossicazione da monossido di carbonio, livello sopra il 40%», rispose automaticamente. «Probabile commozione cerebrale. Le cose sono peggiorate poco prima che arrivassero i soccorsi. È stato preso dal panico e ha accelerato l’innalzamento del livello di Co2, ha perso momentaneamente la vista e...»

«Dio TK, ti ho chiesto cosa è successo, non la diagnosi di un soccorritore!» lo interruppe Eddie. «Come puoi parlarne così freddamente! Era tuo amico!»

Questo sembrò scatenare una qualche reazione in TK.

«È l’unico modo in cui riesco a rapportarmi con quello che è successo», rispose stringendo i denti.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo.

Il dolore lampeggiò sul suo volto ma si rifiutò di lasciarlo uscire ed abbattersi su coloro che aveva attorno.
Cercò di incamerare aria, ma non fu utile come sperava.
Con voce tremante cominciò a raccontare del bambino, del bungalow, delle fiamme, del vento, del sangue, dell’aria soffocante, del peso di Buck, della sue difficoltà a respirare…

«Ha… ha detto qualcosa?» chiese il pompiere di Los Angeles interrompendolo nuovamente. 
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo.

Quello fu troppo.
TK chiuse gli occhi ed ignorò la domanda.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo.
 
⋄◉⋄

Eddie guardò sconvolto TK andare via. Letteralmente fuggire.
Non si capacitava della reazione. Non dovrei essere io a soffrire più di tutti? Si chiese.
Della discutibile giustizia della domanda si sarebbe preoccupato in seguito.
Guardò Paul e Marjan alla ricerca di una spiegazione per l’assurdo comportamento di TK e rimase immobile quando la ragazza gli si avvicinò per abbracciarlo.
Percepì le sue braccia intorno a sé ma non ebbe la forza di ricambiare.

Si staccò in fretta. Non era da quelle braccia che sentiva il bisogno di essere stretto.
Si guardò intorno smarrito, alla ricerca di un volto che sicuramente non avrebbe trovato.
Sentì l’irrefrenabile bisogno di allontanarsi, ma sapeva di non poter sparire allo stesso modo in cui aveva fatto TK. 
Doveva parlare con Hen, prendere le cose di Buck dal camion e sistemarle (sicuramente avrebbe trovato un disastro come al solito), prepararsi a comunicare la notizia ai colleghi, alla famiglia, doveva… 

«Eddie», lo richiamò dolcemente Hen, «torniamo in città».

Questi annuì e seguì la propria collega che si stava avviando verso il punto in cui i pompieri locali avevano predisposto una serie di mezzi che continuava a fare la spola tra Pinos Altos e Silver City.
Notò che anche Paul e Marjan erano con loro mentre non c’era traccia del Capitano Strand.
Sarà alla ricerca della lepre, pensò malignamente, ma se ne pentì subito.
Sapeva che TK e Buck erano legati, erano amici e riusciva a capire in un certo modo come aveva dovuto sentirsi il paramedico di Austin a vederlo…
Non riesci nemmeno a pensarlo, si disse.

I colori della natura cominciarono a ravvivarsi man mano che si allontanavano dal centro di gestione delle operazioni.
Appoggiò la testa al vetro del mezzo che li stava trasportando, apprezzando il fatto che nessuno si fosse messo a fissarlo.


Arrivati alla caserma 2 di Silver City, Eddie si fiondò nelle docce non guardando in volto nessuno.
Una volta sotto il getto di acqua calda si permise di lasciar andare la mente, tenuta imbrigliata fino a quel momento.
Buck.
I ricordi della loro amicizia gli scorsero rapidamente davanti agli occhi: il loro primo incontro, le discussioni, il loro cominciare a gravitarsi intorno fino a diventare quasi inseparabili.
Erano momenti troppo veloci per poter essere afferrati uno per uno, ma riusciva a percepire la familiare presenza dell’amico in ognuno di essi.
Li lasciò fluire liberamente mentre si asciugava e lentamente si rivestiva.
Non aveva intenzione di passare un solo minuto di più all’interno di quel posto.

Eddie non provava tristezza, era arrabbiato. Furioso.
Non era certo di poter distinguere tutti i destinatari precisi per la sua rabbia, ma era sicuro che uno di loro non poteva che essere Buck.
Buck che se n’era andato, che l’aveva lasciato solo dopo…

Dopo che aveva incasinato tutto, ecco cosa.
Chiuse gli occhi, succube ancora una volta dei ricordi. 

-

Erano appena rientrati in caserma dopo una chiamata che definire assurda sarebbe stato un eufemismo. 
Erano andati a recuperare un uomo che, convinto di essere nuovo messia, aveva voluto lanciarsi dalle impalcature di un palazzo in costruzione, sicuro che gli angeli lo avrebbero salvato. 
Non andò proprio come aveva pianificato  
L'uomo, prima di lanciarsi, era rimasto impigliato in una corda che c'era su una delle suddette impalcature ed era rimasto a penzolare a testa in giù finché non erano andati a recuperarlo. 

«E quando ci ha ringraziato per avergli dato la possibilità di dimostrare in modo appropriato l'intervento divino?» gli aveva ricordato Buck facendolo nuovamente scoppiare a ridere. 

Lui aveva alzato gli occhi al cielo.

Una volta negli spogliatoi avevano cominciato a stuzzicarsi come al solito e, tra una cosa e l’altra, erano rimasti soli. La caserma si era ormai svuotata mentre si dirigevano verso l’esterno.
Buck si era fermato, chinandosi per controllare che ci fosse tutto nel borsone.
Lui lo aveva preso in giro e poi… Poi Buck doveva aver detto o fatto qualcosa che non ricordava assolutamente ed erano finiti a baciarsi contro uno dei camion di servizio, con Buck che gli cingeva i fianchi con le gambe e lui che lo premeva contro la superficie. 

Era stato bello, era stato il coronamento di qualcosa che sentiva da tempo ma che non aveva capito di desiderare fino a quando non era successo. 
Peccato che poi avesse incasinato tutto. Aveva avuto paura di sé stesso, di quello che ammettere di provare qualcosa di più per l'amico avrebbe potuto comportare. 

Così si era staccato bruscamente, sforzandosi di respirare di nuovo correttamente. 
Si erano guardati di sottecchi, Buck aveva provato dire qualcosa, ma lui lo aveva zittito ed ognuno era tornato a casa propria. 
Il giorno dopo Buck si era comportato come se nulla fosse successo. 
Aveva fatto del suo meglio per fare altrettanto, ma gli era reso difficile dalla sua mente che gli riproponeva la scena e il modo in cui si sarebbe potuta concludere ogni qual volta chiudesse gli occhi o vedesse uno dei camion di servizio. 
Di conseguenza aveva cominciato a trattare Buck con freddezza e l'altro se n'era accorto. 
E avevano litigato.
Dopo una settimana Buck lo aveva avvicinato e gli aveva imposto un chiarimento una volta tornati dal New Mexico. 


-

Chiarimento che non avrebbero più potuto avere. 
Infondo, la rabbia che provava non era che rivolta verso sé stesso. 


Spinse lo sguardo oltre le cime degli alberi del parco in cui era giunto vagabondando per la città.
Se si concentrava poteva percepire qualche bagliore dell’incendio in lontananza, anche se non avrebbe saputo dire quale fosse la direzione in cui si trovava il luogo in cui tutto era precipitato.
Buck era stato solo. Non è vero, gli sussurrò una voce nella sua mente, c’era TK con lui. 
Buck era era stato senza di lui. Non sarebbe andata diversamente, si sentì ancora sussurrare.
D’accordo, forse non sarebbe andata diversamente per Buck, ma per sé stesso sicuramente sì.
Avrebbe potuto scusarsi, confortarlo, ascoltare le sue ultime parole, quelle che TK gli aveva negato, rifiutandosi di dirgliele.

Sentì il bisogno impellente di distruggere qualcosa, ma prima che potesse compiere un'azione di cui si sarebbe quasi sicuramente pentito, sentì squillare il telefono: era Christopher.
Prima di rispondere, ringraziò l'universo o chi per lui di avergli donato un tale angelo.

«Hey», sussurrò dolcemente, «non dovresti essere a letto a quest'ora?»

«Papà, quando torni?» chiese il bambino.

«Presto, il tempo di domare le fiamme e torniamo a casa», rispose, rendendosi conto di aver usato il plurale solo quando Christopher gli chiese se Buck sarebbe tornato in tempo per la serata cinema. 

Eddie gli rispose, cercando di tenere sotto controllo tremolio della voce, che forse non ci sarebbe riuscito.

«Perché? Non è venuto neanche settimana scorsa», si lamentò leggermente Christopher. 

Per colpa mia, pensò Eddie. 
Non poteva sostenere quella conversazione per telefono, non sarebbe stato giusto nei confronti di Christopher.

Decise di optare per una mezza verità: «Penso che Buck si fermerà in New Mexico un po' di più rispetto a me», disse. 

«Se ne andrà?» chiese il bambino. 

«Non lo so», trovò la forza di rispondergli Eddie. 

Se n'è già andato, gli sussurrò la sua mente. 

«Una volta Buck mi ha detto che le persone se ne vanno, ma a volte tornano e più ci mancano, più saremo felici di vederle di nuovo», commentò Christopher.

Una lacrima rotolò sul viso di Eddie.
Buck aveva costruito un rapporto splendido con suo figlio, anche lui avrebbe sofferto in modo non indifferente. 

«È tardi, vai a dormire», gli disse. «Ti voglio bene».

«Anche io, buonanotte papà», rispose il bambino.

«Notte», gli fece eco Eddie terminando la chiamata. 

Chiuse gli occhi. Nessuno avrebbe avuto l’esclusiva del dolore causato dalla perdita di Buck.
 
⋄◉⋄

Il sole stava ormai calando quando TK venne raggiunto da suo padre.
Era letteralmente fuggito da Eddie; non era stato un comportamento giusto nei suoi confronti, ma riusciva a malapena a contenere il proprio dolore, figuriamoci se sarebbe riuscito a gestire anche quello altrui.
Aveva vagato per le strade di Pinos Altos senza meta, fino a che non aveva smesso di sentire le sirene dei camion e delle ambulanze.
Si era seduto per terra e aveva chiuso gli occhi. E si era messo ad aspettare.
Cosa esattamente stesse aspettando non era qualcosa su cui aveva la forza di concentrarsi.

«Papà, non so cosa fare», sussurrò quando percepì una persona avvicinarsi e poi sedersi vicino a lui. 
Suo padre lo aveva già salvato una volta, non aveva dubbi che avrebbe tentato di farlo anche questa. Si sentì tirare contro di lui in un mezzo abbraccio.

«Rientriamo a Silver City», gli disse Owen. «Devi levarti di dosso questo odore e cercare di mangiare qualcosa. Poi parleremo di tutto».

TK annuì, fidandosi ciecamente del genitore.  

-

La doccia aveva decisamente aiutato, così come avevano fatto i vestiti puliti: gli sembrava di essere tornato almeno parzialmente lucido.
Inevitabilmente gli occhi gli si erano posati sulla scritta sul polso, ma aveva cercato di non soffermarcisi. Aveva provato a coprirla come faceva solitamente, ma gli era risultato quasi doloroso farlo. 
Ci aveva rinunciato e aveva raggiunto il padre sulla terrazza della caserma, luogo che sembrava essere abbastanza isolato da poter parlare senza essere disturbati. Probabilmente erano tutti troppo stanchi per uscire a guardare le stelle.

«Avevi ragione», disse, tentando e fallendo un piccolo sorriso.

Owen guardò il figlio annuendo leggermente, non sapendo esattamente da che parte cominciare, soprattutto perché non conosceva lo stato in cui versava.
Se TK era un vigile del fuoco ed un paramedico in grado di affrontare con prontezza ogni situazione in cui si trovava, gestendola al meglio, quando si trattava della sua vita privata, il ragazzo si trovava decisamente in difficoltà.
Scosse il capo per cercare di levarsi dalla testa l’immagine di lui che giaceva sul pavimento in overdose.

«Papà?» lo richiamò TK, intuendo i suoi pensieri. 

«Scusa», rispose questi leggermente imbarazzato. Ci si aspettava che cercasse di aiutare il figlio, non che si perdesse nei meandri della sua mente. 

TK sospirò e si appoggiò stancamente al parapetto della terrazza, prendendosi la testa fra le mani.
Sapeva che suo padre voleva parlare, sviscerare quanto successo per impedire alla sua testa di lasciarsi trascinare dalla disperazione, ma non ci riusciva.
Ogni qual volta la sua mente registrava qualcosa che lo riportava a quanto successo non molte ore prima, TK cercava istintivamente di concentrarsi su altro, soffocando il resto.
Non era una sano, ne era cosciente, ma il pensiero di rivivere le fiamme, l’aridità dell’aria, il sangue… 
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo 

… il modo con cui Buck aveva letteralmente stravolto tutto.
Si alzò lentamente la manica della felpa che aveva indossato e quelle parole che conosceva da una vita sembravano ora completamente diverse. Prese un respiro profondo, sforzandosi di penetrare il bianco che aveva avvolto la sua mente.

«Sono diverse», sussurrò.

Owen alzò gli occhi sul figlio, sforzandosi di capire qualcosa che gli sarebbe sempre rimasto estraneo. «Diverse?» 

«Non sono più una scritta, ma un’incisione… E fanno male», continuò TK.

Le sentiva come marchiate a fuoco nella sua pelle: calde, dolorose, pungenti.
Allo stesso modo aveva impressi nella mente gli occhi azzurri dell’amico mentre, preso dal panico, gli afferrava la mano.
Rabbrividì.
Il fantasma di quella presa non lo aveva abbandonato nemmeno per un secondo da quando…
La sua mente ancora una volta si adoperò per non permettere alla scena di palesarsi nella sua memoria, soffocandola in basso.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 

Come avrebbe potuto rispettare quanto chiestogli se non riusciva nemmeno ad occuparsi di sé stesso? Era indubbio che Buck si fosse riferito ad Eddie e a suo figlio. Ma loro lo avrebbero accettato? Avrebbero permesso al lui, che non era riuscito a salvarlo, di star loro vicino?
Non era nemmeno stato in grado di dire ad Eddie che l’ultimo pensiero di Buck era stato rivolto alla sua famiglia, a lui e a Christopher.

Il pensiero di Eddie lo fece incupire ulteriormente. 

«TK?» lo richiamò il padre, spaventato di vederlo affogare nei suoi pensieri, cosciente che in quel caso non avrebbe potuto fare niente per mantenerlo a galla.

Non ottenne risposta. Per qualche minuto nell’aria vibrò solo il silenzio.
Poi il ragazzo espirò, cercando di rilassare le spalle e la muscolatura che aveva automaticamente contratto, come se si fosse preparato fisicamente ad incassare un colpo.

«Non… non è facile», disse. «Tutte le mie certezze, o meglio, quasi tutte le mie certezze sono crollate nel giro di attimi. Papà, Buck ha detto esattamente quelle parole».

Owen annuì, consapevole che non era una banalità quella uscita dalle labbra del figlio.
Probabilmente era la prima volta che lo ammetteva ad alta voce, cosciente di quanto significasse.

«Io… non so cosa fare», ammise. Dopodiché sembrò che la diga che manteneva isolata la mente di TK dalla realtà cominciò a creparsi e il ragazzo aprì ancora una volta il cuore al padre, l’unica persona che lo aveva davvero visto nei suoi momenti peggiori e che aveva comunque continuato a stare al suo fianco. 

Parlò ad ondate, rifugiandosi dopo un poche parole in silenzi che sapevano di riflessione e di realizzazione. Pian piano i silenzi si fecero più brevi e le frasi più lunghe. Da asettiche, si arricchirono di sorpresa, senso di colpa, dolore, rabbia, impotenza, paura.
Owen guardò il figlio quasi affascinato, rendendosi conto di quanto fosse cresciuto rispetto al ragazzino che aveva portato via da New York.

«… e non ho potuto fare niente», disse con rabbia, quasi ringhiando. «Non ho chiesto io di avere una dannata anima gemella. Mi affascinavano, , ma non ne avrei mai voluta una. Quando mi sono apparse quelle lettere nere mi sono fatto domande, immaginato scenari, ma poi non ci ho più dato troppo peso. Avrei potuto morire senza sentirle pronunciare, avrei potuto continuare a credere che non fossero così importanti. Eppure sentirle pronunciare è stato devastante. Avrei potuto continuare a pensare che...»

Il discorso venne interrotto bruscamente dalla suoneria di TK, il quale prese automaticamente in mano il telefono, gelando nel vedere il nome della persona che lo stava chiamando.

Carlos.

Non rispose, cosciente che in quel momento sarebbe stato incapace di sostenere una conversazione con il suo ragazzo.
Il senso di colpa nei suoi confronti era forse ancor maggiore di quello che sentiva per non essere riuscito a salvare Buck. Sapeva che il poliziotto avrebbe sofferto profondamente nel sapere quanto successo.
 
Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo.

Il telefono smise di squillare e TK lesse ad alta voce, sotto lo sguardo vigile del padre, il messaggio che Carlos gli aveva lasciato: ‘Mi hanno assegnato il turno di notte, non posso raggiungerti. A domani. Love you, babe’.

TK sapeva di essere innamorato di lui. Ad essere onesti in quel momento non era sicuro di saperlo, non era sicuro di molto cose. Primo fra tutti come e se sarebbe stato in grado di dormire per tutte le notti a venire. Aveva tante cose di cui occuparsi e non sapeva dove cominciare per nessuna di esse.

«Sei stanco papà, non provare a negarlo. Vai pure dentro, io non credo riuscirei nemmeno a sdraiarmi», disse al padre. «Non mi butterò di sotto, promesso», continuò ironicamente. 

«Non dirlo nemmeno per scherzo», rispose Owen per poi avvicinarsi per abbracciarlo.
«Sicuro?» gli sussurrò.

«Sicuro. Ho bisogno di stare da solo», gli rispose TK.

«TK, non mollare. Tutti stanno soffrendo, ma tu non sei solo», disse Owen prima di rientrare all’interno della caserma. L’alba non doveva essere troppo lontana, non avrebbe disdegnato qualche ora di sonno, anche se dubitava sarebbe riuscito ad addormentarsi.

Grazie per aver letto!
Ho scritto il capitolo ascoltando:
My Immortal - Evanescence (Cover by CORVYX)
Everybody Hurts - R.E.M. (Cover by Melissa Janssen)
Magari sono solo io, ma sono brani che mi hanno aiutata a percepire meglio l'atmosfera di questa parte della storia.
Non li ho indicati all'inizio perché non seguono esattamente la trama e credo che ascoltarli durante la lettura possa essere distraente.

Ad ogni modo, sono stata felice di notare che il primo capitolo sia stato letto da molte più persone rispetto a quelle che immaginavo.
Ringrazio fin d'ora chi vorrà lasciarmi un'impressione o anche una critica, mi piacerebbe davvero leggere le vostre opinioni.

Detto questo, a settimana prossima!

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Capitolo 3
*** Is Fear a Liar? ***


Buonasera, 
Ecco a voi il terzo capitolo, buona lettura



A poca distanza l’uno dall’altro, i telefoni di Eddie e del capitano Strand cominciarono a suonare.
Il pompiere della 118 guardò sconfitto il cellulare, aveva sperato che il centro di comando avesse il buon gusto di evitare di chiamare in servizio chi aveva appena perso un compagno.
Rispose automaticamente, freddo, aspettando che l’addetto gli comunicasse quanto dovuto per poi mandarlo solennemente al diavolo.
Tutto si aspettava tranne la voce di Hen comunicargli qualcosa che non si era nemmeno permesso di sperare.

«È vivo», affermò la donna.

«Chi?»

«Buck. Buck è vivo», ripeté.

Eddie si alzò in piedi di scatto, rendendosi conto solo in solo momento di non sapere dove andare. Aprì la bocca per chiederlo ad Hen ma lei lo precedette, dicendo di raggiungerli al Gila Regional Medical Center e di sbrigarsi.
Quando la telefonata terminò, Eddie chiamò un taxi chiedendo al conducente di portarlo il prima possibile a destinazione.

Buck era vivo.

Era impaziente. Razionalmente poteva immaginare cosa fosse successo, probabilmente era solo svenuto o comunque erano riusciti a rianimarlo. Quello che non capiva era come mai TK fosse stato così sicuro della sua morte, tanto da comunicarla a tutti senza aspettare che i medici la ufficializzassero, senza dar loro la possibilità di sperare.
Il rancore che provava nei confronti di TK non fece altro che aumentare. Si promise di fare una lunga chiacchierata con lui non appena ne avesse avuto la possibilità. Prima però doveva vedere Buck con i suoi occhi, chiarirsi con lui e restargli vicino.

 

⋄◉⋄

 

Lo squillare del telefono fece svegliare Owen di soprassalto. La stanchezza aveva avuto la meglio su di lui, ma le ore di sonno non gli avevano portato alcun beneficio.
Si passò una mano sul viso, stropicciandosi gli occhi, e rispose.

«Capitano Strand», disse con voce roca.

«Owen, stavi dormendo?» chiese Hen incredula.

«Stanchezza e preoccupazione hanno avuto la meglio», rispose. «Cosa è successo?»

«Buck è vivo, i medici mi hanno appena comunicato che è fuori pericolo».

Buck è vivo. Owen rimase in silenzio, non del tutto sicuro di aver capito correttamente.

«Owen?»

«Sì, ci sono. Scusami, conosci la situazione e… ad ogni modo. Sono felice di sentirlo, Buck è un ragazzo formidabile», rispose il capitano.

«Hai perfettamente ragione. Per quanto riguarda la situazione, penso dovresti dirlo al più presto a TK e correre qui al Gila Regional Medical Center. Fra qualche ora dovrebbe svegliarsi e ci permetteranno di vederlo», disse Hen.

«Non credo sarà così semplice, arriveremo il prima possibile», rispose Owen prima di chiudere la chiamata.

Il fatto che Buck non fosse morto era sicuramente la notizia migliore che avesse sentito da giorni a quella parte, l’unica sua preoccupazione era il modo in cui avrebbe reagito TK. 
Era consapevole che la parziale lucidità che aveva mostrato solo qualche ore prima era dovuta all’iniziale accettazione di quanto successo. Buck però aveva ancora una volta sconvolto tutto, cambiando le carte in tavola. Sperò che TK fosse abbastanza forte da reggere il colpo e di affrontare le conseguenze.
Si alzò dal suo giaciglio, si vestì e uscì sulla terrazza, piuttosto sicuro che TK non si fosse mosso da lì.


L’aria all’esterno era fresca, ma non del tutto priva dell’odore di bruciato tipico degli incendi. Nonostante il duro lavoro che innumerevoli pompieri facevano da giorni, la foresta continuava inesorabilmente a bruciare.
Come aveva previsto, TK era ancora sulla terrazza. Era appoggiato alla balaustra, con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il sole, il pollice destro continuava periodicamente a strofinare in modo delicato le parole che aveva incise sul polso sinistro. Probabilmente non era riuscito a chiudere occhio, temendo quello che avrebbe potuto proporgli il suo inconscio se avesse ceduto alle lusinghe di Morfeo.

Owen si avvicinò lentamente, ma TK si accorse subito della sua presenza. Nonostante l’apparenza rilassata aveva i nervi a fior di pelle e i sensi in allerta. Sollevò le palpebre ma non si girò, preferendo aspettare che il padre si avvicinasse.
Quando questi non lo fece, TK si voltò stranito, ma quando i suoi occhi incontrarono quelli di Owen capì subito che qualcosa lo tormentava. Pensando non del tutto erroneamente che fosse la sua resistenza psicofisica a preoccuparlo, cercò di tranquillizzarlo con un piccolo sorriso che non sortì l’effetto sperato.

«Che succede papà? Mi stai facendo preoccupare...» esordì TK.
 
Si guardarono per qualche manciata di secondi prime che Owen sospirasse e dicesse: «Mi ha chiamato Hen, Buck… Buck è vivo».

TK sbarrò gli occhi smettendo per un attimo di respirare.

Buck è vivo.

Buck. Vivo.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 

Spostò lentamente lo sguardo sulla frase incisa sulla sua pelle e gli sembrò che bruciasse.
Non era possibile, lui aveva sentito quelle parole uscire dalle labbra di Buck.
Di conseguenza Buck doveva essere morto. Sarebbe più facile se lo fosse. 
TK inorridì al pensiero.
Eppure… eppure si fidava ciecamente di suo padre e le sue parole non lasciavano spazio ad altre interpretazioni. Che senso avrebbe avuto mentire?
Si ritrovò quasi a sorridere e poi a ridere nervosamente, quasi istericamente. Era una risata sgraziata, dolorosa che gli sembrava risuonasse nel suo petto improvvisamente vuoto.
Scosse la testa, incredulo della piega che sembrava aver preso la sua vita e del modo in cui sembrava cambiare da un momento all’altro.

Come diavolo si sarebbe dovuto comportare adesso? Cosa ci si aspettava che facesse? TK non ne aveva idea. Si coprì il polso con la manica, come se il nascondere le parole alla sua vista gli permettesse di farle sparire, anche solo per un momento.
Sperò che il bianco che aveva avvolto la sua mente precedentemente tornasse con prepotenza, imponendosi su tutto il resto. Non fu così, questa volta fu diverso. La sua mente non venne avvolta da silenzio ed estraniazione, ma fu riempita da suoni, immagini e odori.

Sotto lo sguardo preoccupato del padre, TK si accartocciò improvvisamente su sé stesso prendendosi il viso tra le mani. 
Cominciò tremare e a respirare sempre più velocemente.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 
Buck è vivo.

Gli salì la nausea e si portò una mano al petto.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 
Buck è vivo.

L’aria cominciò ad arrivargli sempre più a fatica nei polmoni, più ne cercava di incamerare meno questa rimaneva. Era un circolo vizioso, un vortice che lo trascinava sempre più a fondo.
Sentì la paura cominciare a strisciargli nelle vene ed espandersi, lenta, inesorabile.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 
Buck è vivo.

Continuava a muoversi, viscida, soffocante.

«TK», gli sembrò di sentire.

Opprimente, umida.

«TK», qualcosa stava cercando di penetrare nel marasma che era diventata la sua mente, «…tacco di panico...»

Tacco? Cercò disperatamente di capire quello che stava succedendo fuori dalla sua testa, ma era dannatamente difficile. Si sentiva pesante, destinato ad affogare.

La voce continuava a risuonare nelle sue orecchie, più insistente, ma sempre calda e tranquilla.
Gli sembrò di afferrare qualcosa riguardo ad un elefantino, delle giostre, il lago di Cleveland e altre cose che inizialmente non avevano alcun senso.
Ognuna di esse, però, gli rimandava una sensazione di protezione e di sicurezza che, sottile, cominciò a pervaderlo. Desiderava che prendesse il posto di tutto il resto, quindi la inseguì.
Continuò a sforzarsi di pensare, lasciando lentamente il suo cervello concentrarsi su altro: la volta in cui da piccolo era salito allo zoo su un elefantino (qualcuno aveva posizionato saldamente una mano sulla sua schiena), lo stupore di una montagna russa che lo aveva precedentemente terrorizzato (aveva scambiato uno sguardo con qualcuno che lo aveva incoraggiato) e un’uscita in canoa nel lago di Cleveland (gli occhi orgogliosi di qualcuno non lo avevano mai abbandonato).

Tutti quegli elementi, che in un primo momento gli erano sembrati sconclusionati, avevano una cosa in comune: suo padre.
Ne riconobbe la voce e si rese conto che la sensazione di annegamento era stava diminuendo. Aprì gli occhi e vide quelli blu di suo padre fissi nei suoi.
Sospirò sollevato, rendendosi conto solo in quel momento di poterlo fare con poca difficoltà.

«Hey», gli disse l’uomo sorridendo sollevato.

«Hey papà», sussurrò TK in risposta, «Grazie». Come avrebbe fatto senza di lui?

Owen scosse la testa, aiutò il figlio ad alzarsi e lo abbracciò stretto. Lo accompagnò all’interno, nella stanza che avevano loro assegnato la quale, fortunatamente, era vuota. I colleghi erano tutti tornati a gestire l’incendio che continuava ad ardere a non molti chilometri da loro.

«Mi dispiace», sussurrò ancora TK una volta riacquisito il controllo su sé stesso.

«TK, non potrò mai capire cosa tu stia effettivamente passando, ma sarà sempre con te», gli rispose il padre. 

TK sorrise timidamente.
Prese un respiro profondo e cercò di mettere ordine ai suoi pensieri: Buck era vivo.
Cautamente cercò di indagare cosa questo avrebbe portato con sé. Ovviamente, da un lato gli procurava sollievo, ma dall’altro… complicava le cose, in un certo senso. TK si sentiva una persona orribile nel pensare ciò, ma era così.
Non aveva idea di come si sarebbe dovuto comportare con Buck, che non aveva idea di cosa significasse realmente per TK, con Carlos, il suo fidanzato-ma-non-anima-gemella i cui messaggi e chiamate aveva continuato ad ignorare (sarebbe stato furioso), con Eddie, che era profondamente legato all’altro pompiere della 118 e che lui aveva fatto soffrire profondamente e, a questo punto, inutilmente.
Di una cosa sola era certo: tutti avevano diritto a delle spiegazioni e le avrebbero pretese. Tutti.

«TK, vuoi venire con me in ospedale?» chiese Owen cautamente.

Il ragazzo sollevò la testa di scatto, aprì la bocca ma non riuscì ad articolare alcun suono.
Un leggero bussare alla porta attirò l’attenzione di entrambi.

«Capitano Strand», iniziò una voce che entrambi conoscevano bene: Carlos.

TK guardò il padre con gli occhi pieni di panico, sentendo quella viscida sensazione di paura ripresentarsi.

Owen comprese al volo che TK non era affatto pronto ad un confronto diretto con il poliziotto.

«Arrivo», disse ad alta voce per poi girarsi verso il figlio e mimargli con le labbra, fidati di me. 

Il capitano uscì dalla stanza chiudendosi velocemente la porta alle spalle.
TK sentì Carlos chiedere di lui, preoccupato perché non aveva ricevuto alcuna risposta ai propri messaggi e alle proprie chiamate. Preoccupato, non furioso.
Gli si strinse il cuore, Carlos era un ragazzo d’oro, non si meritava quello che sarebbe successo.
Perché tu sì, vero? Gli sussurrò la sua mente. E poi, cosa pensi che succederà? 
Owen cercò di rassicurarlo dicendogli che probabilmente non aveva visto i primi e poi che era uscito presto la mattina probabilmente lasciando il cellulare in caserma.
Dal tono di voce con cui Carlos rispose, TK capì che non era del tutto convinto e che il suo istinto da poliziotto gli diceva che c’era qualcosa che non tornava.
Per deviare il discorso, il capitano Strand lo informò delle condizioni di Buck e lo invitò ad accompagnarlo in ospedale, affermando di averlo comunicato a TK tramite messaggio e che, in ogni caso, glielo sarebbe stato riferito non appena avesse rimesso piede nella caserma.
Carlos si insospettì maggiormente a quelle parole, non era dal capitano Strand, da Owen abbandonare il figlio in quella maniera. In ogni caso lo assecondò, seguendolo verso il veicolo con cui avrebbero raggiunto il Gila Regional Medical Center.

TK trasse un sospiro di sollievo nel sentirli allontanare e il senso di colpa nuovamente si ripresentò. Da quando era successo quello che era successo, stava continuando a comportarsi ingiustamente nei confronti della maggiorparte delle persone che gli si avvicinavano o che gli erano vicine. 
Onestamente, non sapeva come avrebbe affrontato le conseguenze dell’accaduto e nemmeno quali sarebbero state. Quali vorresti che fossero? gli sussurrò maligna la sua mente.
Non ci volle molto prima che le lacrime cominciassero a solcargli le guance.

 

⋄◉⋄

 

Quando Buck aprì gli occhi fu sorpreso e quasi sollevato di non trovare nessuno vicino a sé, nessuno a tenergli la mano e nessuno a guardarlo con occhi pieni di sollievo.
O meglio.
Non gli sarebbe dispiaciuto, ma avrebbe voluto una persona sola che facesse esattamente tutte e tre le cose.
Si mosse per valutare la situazione in cui il suo corpo versava.
Un'ilportante dose di antidolorifici doveva star sicuramente tenedo a bada il dolore, ma lo percepiva ad ogni modo un po' ovunque. Ad ogni modo, la cosa che gli causava più difficoltà era respirare senza sentire delle fitte ad ogni movimento.
Muovendosi, vide un giovane infermiere controllargli le fasciature che gli coprivano parte del braccio destro e che, appena lo vide sveglio, allungò la mano per suonare il campanello e ricevere assistenza.

Un paio di infermiere entrò presto nella stanza per controllare i suoi parametri vitali e come stesse in generale. Gli comunicarono gentilmente tutto quello che era successo, le sue condizioni mediche e i tempi di recupero previsti, informandolo al contempo che la sua squadra avrebbe voluto vederlo.
Buck tentò di ringraziare ma gli sembrò di avere la gola ricoperta da carta vetrata, sensazione che si attenuò solo quando gli venne porta un po’ d’acqua.
Annuì quindi lentamente, seguendo con gli occhi gli infermieri uscire. Nonostante il dolore che sentiva percorrergli tutto il corpo, ricordava esattamente quello che era successo: le fiamme, il ranch, i bungalow, il bambino, l’aria pesante, il sangue e… e due occhi muschiati che gli promettevano che tutto sarebbe andato bene, che alla peggio si sarebbe svegliato in un letto di ospedale.
Sorrise al pensiero di TK, pensando al modo in cui avrebbe potuto ringraziarlo per averlo salvato.

Quando sentì dei passi avvicinarsi e la porta della sua stanza aprirsi, girò il viso con non qualche difficoltà per vedere la persona che stava entrando e si scoprì ad aver sperato inconsciamente di vedere altri occhi, occhi di un colore che decisamente non era il marrone che gli si era presentato davanti.
La corporatura massiccia di Eddie e la sua statura lo presero in contropiede, portando Buck a sorprendersi di sé stesso. Non era mai, mai successo che il vedere l’amico - sempre se così potesse ancora chiamarlo - gli causasse anche un leggero disappunto.
Diede la colpa a quanto successo fra loro prima della partenza per Silver City e cercò di sorridergli.

Eddie ricambiò ed entrò nella stanza.

Era arrivato trafelato all’ospedale, aveva pagato il tassista lasciandogli una generosa mancia ed era corso alla ricerca di Hen.
L’aveva trovata seduta su una delle scomode sedie dell’ospedale, in un corridoio anonimo e pieno di sedie bianche.
La collega gli aveva riferito che, fino a che Buck non si fosse svegliato, era impedito loro di entrare, ma sarebbe stato strettamente monitorato fino a quel momento. 
Buck era in una situazione delicata ed era necessario che fosse il suo corpo a risvegliarsi naturalmente una volta smaltita l’anestesia degli interventi che aveva subito.

Era passata qualche ora prima che i due vedessero un paio di infermiere precipitarsi nella stanza di Buck e uscire una manciata di minuti dopo con i volti sorridenti.
Il più anziano dei due aveva preso la parola comunicando loro che il ragazzo era sveglio, ormai fuori pericolo e che sarebbe stato possibile vederlo solamente uno alla volta, a condizione che non lo facessero stancare.
Hen li aveva ringraziati tutti e poi lo aveva invitato ad entrare per primo, dovendo lei andare a riferire al comando e a predisporre la loro partenza anticipata per Los Angeles.

Eddie aveva annuito, decidendo di posticipare a quando Buck sarebbe stato meglio il discorso relativo a ciò che era accaduto fra loro. Al momento l’unica cosa che gli premeva era vederlo e riuscire finalmente a credere che fosse vivo.
Una volta all’interno della stanza, gli sembrò di vedere una leggera delusione passare sul viso di Buck, ma non ci badò e attribuì la smorfia al dolore che sicuramente l’amico doveva star provando.
Si avvicinò al letto, incapace di contenere la gioia che lo stava pervadendo.
Si sedette sulla seggiola più vicina a Buck e posò delicatamente la propria mano sul suo avambraccio destro.
Sentì Buck irrigidirsi, ma era troppo sopraffatto dal sollievo per dare reale importanza alla reazione.

«Eddie?» lo richiamò Buck vedendolo immobile.

L’uomo sorrise e lui si trovò a pensare che si trattasse davvero di un bel sorriso, uno di quelli che Eddie rivolgeva solo a lui e a suo figlio Christopher.

«Hey», disse questi in risposta. «Come stai?»

«Sono stato meglio», ammise lentamente Buck, «ma dalla faccia che hai sembra che tu stia peggio di me». La gola gli faceva decisamente male e sentiva ogni sillaba che articolava graffiarla ferocemente.

«Non sono state ore facili», affermò Eddie. L’eufemismo del secolo, pensò. Erano state ore terribili.

«Mi dispiace», disse Buck.

L’altro scosse la testa. «Fino a qualche ora fa eravamo convinti che tu fossi morto».

Allo sguardo interrogativo di Buck, Eddie continuò: «Ti hanno portato subito via in ambulanza, noi eravamo in un altro punto. Quando il capitano Strand e TK della 126 ci hanno raggiunto, hanno riferito che ormai non c’era più niente da fare. O meglio, TK ce l’ha fatto intendere prima di scappare».

Buck alzò un sopracciglio.

«Sì, ad un certo punto è letteralmente scappato. Non sembrava molto in sé», concluse sperando di aver dato una risposta abbastanza soddisfacente.
 
Accidenti, pensò Buck. Deve averlo davvero sconvolto quello che è successo.
Certo, lui e TK si erano mantenuti in contatto da quando si erano conosciuti in Texas, si trovavano bene insieme, ma non pensava di poter influire così pesantemente su di lui.
Insomma, TK era un paramedico ed era stato un vigile del fuoco, di morti e situazioni difficili ne aveva viste e affrontate tante.
Che lui sapesse, le uniche cose che TK faceva fatica a gestire erano strettamente collegate alle sue vicende personali, nel momento in cui il paramedico e il pompiere cedevano il posto all’uomo.
Ma quello non gli sembrava decisamente il caso. Giusto?

I suoi pensieri vennero interrotti da un lieve bussare alla porta.
Quando questa si aprì, Buck si trovò nuovamente di fronte ad un paio di occhi marroni, decisamente diversi da quelli che il suo inconscio sembrava aspettare.

Eddie spostò velocemente la mano dal braccio di Buck e questi si sentì inspiegabilmente sollevato.
Entrambi fecero cenno a Carlos di entrare e di chiudere la porta, se gli infermieri lo avessero visto tenere la porta socchiusa e stare lì in piedi sarebbero stati guai per tutti.
Carlos entrò nella stanza leggermente imbarazzato, non sapendo se l’invito fosse stato sincero o se fosse di mera circostanza.
Conosceva Buck ed Eddie solo di fama, semplicemente attraverso i racconti di TK e degli altri membri della squadra e non gli sembrava molto educato irrompere in quel modo nella stanza e interrompere la loro conversazione.

«Carlos Reyes», si presentò stringendo la mano ad Eddie e facendo un cenno col capo a Buck. «Mi dispiace avervi disturbato», continuò.

«È un piacere conoscerti finalmente, anche se avevo sperato di farlo in circostanze decisamente diverse», disse Buck.

Carlos sorrise. «Il piacere è mio, TK parla spesso di te», rispose. «Spero tu possa rimetterti presto».

«Buck è una roccia», si intromise Eddie, «Non ho dubbi che presto sarà fuori di qui».

Carlos annuì. «Ad essere sincero speravo di trovare qui TK, ieri sera ero di turno e non mi è stato possibile parlargli, soprattutto dal momento che non risponde al telefono».

«Non lo vedo da quando abbiamo parlato a Pinos Altos e lui è corso via, da quello che so dovrebbe essere tornato alla caserma che è stata assegnata alla 126 con il capitano Strand», disse Eddie, non riuscendo a nascondere completamente il rancore che provava nei confronti del paramedico.

Il poliziotto spostò lo sguardo su Buck.

«Non guardare me amico, qui non è venuto», disse con una leggera vena di risentimento. «L’ultima volta che l’ho visto stavo fottutamente morendo».

«Cosa gli hai detto?» chiese Eddie. Il desiderio di sapere le “ultime” parole dell’amico era tornato.

«Stava cercando di aiutarmi e io, invece di ascoltarlo, gli ho chiesto un favore e ho blaterato qualcosa sul fatto di star fottutamente morendo», aggiunse il pompiere di Los Angeles.

Carlos sbiancò. 

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo. 

Lentamente tutto nella sua mente assunse un senso così come la presunta irrintracciabilità di TK.
Eddie, vedendo il suo colorito farsi grigiastro, gli si avvicinò.
Carlos cercò di sorridere, salutò i due e uscì rapidamente dalla stanza.
Dopo aver scambiato uno sguardo con Buck, Eddie lo inseguì, stufo di veder gente allontanarsi inspiegabilmente ogni qual volta le “ultime” parole dell’amico saltavano fuori.

Carlos si incamminò verso l’esterno, trovò una panchina e vi si sedette, consapevole che presto sarebbe stato raggiunto.
Quando Eddie si accomodò accanto a lui, cominciò a parlare.

«Immagino sarai stufo di assistere a fughe da parte nostra», disse Carlos. «Il motivo per cui TK è scappato e rimane irrintracciabile è estremamente delicato e personale. Sai cosa vuol dire avere delle parole incise sul proprio polso sinistro?» chiese.

Eddie annuì, pur non capendo dove l’altro volesse andare a parare.

«TK è uno dei fortunati, o forse degli sfortunati, che le ha. Ho sempre sperato e creduto che sarei stato io a sussurrargliele, magari riferendomi alla famiglia che avremmo creato», ammise.

«Carlos, non ti seguo», cominciò Eddie. Poi la sua mente gli propose nitidamente una connessione. «Non starai dicendo che...»

«Già. Conosco a memoria le parole di TK: 'Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo'. Ti suonano familiari?»

Eddie sospirò passandosi una mano sul viso. Sì, gli suonavano terribilmente familiari.  
 



Eccoci qui. Spero che il capitolo vi sia piaciuto (se è così, per favore, lasciatemi un commento. Lo apprezzerei davvero molto).

Per quanto riguarda l'attacco di panico, io non ne ho mai avuto uno (fortunatamente), ma mio fratello sì. Ho cercato di descrivere quello che lui mi ha raccontato di aver provato e il modo in cui gli sono stata accanto.
Spero di non aver banalizzato la cosa.

A presto!
 

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Capitolo 4
*** Empire of Dirt ***


Buonasera,
Ecco a voi il quarto capitolo.

Questa volta mi sento di suggerirvi di ascoltare Nine Inch Nails / Johnny Cash – Hurt (Piano Cover by Josh Cohen) mentre leggete.
Il brano è un po' più lento di come sono abituata ad ascoltarlo e della versione di Johnny Cash, ma si può facilmente ovviare al problema impostando la velocità di riproduzione a 1.25.

Buona lettura


Visti dall’esterno, Eddie e Carlos sembravano due persone che avevano appena perso qualcuno di caro, l’atmosfera che li circondava era pesante e cupa. Nessuno dei due osava interrompere il silenzio che aleggiava tra di loro.

La scoperta aveva decisamente colto Eddie di sorpresa.
Come tutti conosceva la storia delle parole, ma, ad essere sinceri, non ci aveva mai creduto molto. Era convinto che la persona migliore con cui passare la vita, sempre che se ne volesse una, fosse quella che si scegliesse e con cui ci si impegnasse solidamente.
Niente e nessuno avrebbe potuto sapere meglio di sé stessi quale fosse quella persona.

C’era da dire che la rivelazione di Carlos gettava una luce diversa sulle azioni di TK. Non che il rancore che provava nei confronti del ragazzo fosse improvvisamente sparito, ma riusciva finalmente a comprendere perché fosse stato così freddo nel raccontargli quello che era successo e la sua fuga quando gli aveva chiesto se Buck avesse detto qualcosa prima di morire.
Ad essere completamente sincero capiva solo parzialmente. TK avrebbe dovuto mettere da parte le sue cose personali e riuscire così a gestire meglio l’apparente morte di Buck. 
Tu ci saresti riuscito?  Sentì una vocina dentro la sua mente chiedergli. , era un pompiere ed un ex-soldato. Non avrebbe commesso tutti gli errori fatti da TK. 
Sicuro?  Incalzò la sua mente. «Al 100%» mormorò, incrociando poco dopo lo sguardo interrogativo di Carlos.
Si schiarì la gola, arrossendo leggermente. Adesso parli da solo come i matti, Diaz? Siamo messi bene…

«Cos'è successo esattamente? Ero in servizio in quel momento», chiese Carlos. Aveva saputo della ormai presunta morte di Buck e del coinvolgimento di TK casualmente, solo poche ore prima che il suo turno finisse, unicamente perché alcuni membri della 52 di Phoenix ne avevano parlato mentre aggiornavano un loro collega.

«Non ero presente, ma da quanto ci è stato riferito, dopo Buck è entrato in una struttura parzialmente in fiamme per recuperare un bambino, l’aria carica di fumo lo ha fatto svenire. Fortunatamente il capitano Strand e TK lo hanno trovato, ma durante il salvataggio si è sentito male, tra la commozione cerebrale ed un'intossicazione da monossido di carbonio è stato vicino a morire. Quando lo hanno caricato sull’ambulanza lo hanno dovuto rianimare con defibrillatore un paio di volte prima che il suo cuore tornasse a battere», raccontò Eddie.

«E poi?», chiese Carlos.

«TK e il capitano, invece di salire in ambulanza con lui, ci hanno raggiunti a Pinos Altos. TK ci ha raccontato qualcosa, praticamente facendoci intendere che Buck fosse morto, ma poi è letteralmente fuggito non appena ho cominciato a fare qualche domanda», disse Eddie. «Adesso capisco perché», concluse.

Carlos annuì. Il racconto di Eddie spiegava molte cose.

«Come stai?» gli chiese Eddie leggermente preoccupato. Il suo colorito era rimasto tendente al grigio.

«Mi sento impotente», iniziò Carlos. «Arrabbiato».

«Con TK?»

«Sì… No… Anche?» farfugliò Carlos.    

Ad essere onesto, il giovane poliziotto poteva individuare con chiarezza i destinatari delle proprie emozioni. Era deluso e arrabbiato con TK, perché il suo ragazzo aveva preferito nascondergli una cosa così importante e delicata, si era allontanato da lui e non gli aveva permesso di avvicinarsi. Aveva sperato che ormai, visto il punto in cui era arrivata la loro relazione, lui sarebbe stata la prima persona a cui TK si sarebbe rivolto in caso di difficoltà.
Evidentemente non è così, pensò amaramente.
L’impotenza derivava dalla consapevolezza che niente di quello che aveva fatto e avrebbe mai potuto fare sarebbe stato sufficiente per metterlo sullo stesso livello di Buck. Anche se TK avesse scelto e fosse riuscito a continuare la loro relazione, nessuno dei due avrebbe potuto ignorare che ci fosse un terzo elemento in essa: le parole che qualcuno aveva realmente pronunciato.
Carlos sapeva che i sentimenti che legavano lui e TK fossero forti e sinceri. Sperò che fossero abbastanza.

«Nonostante possa capire il suo comportamento, sono deluso da come TK mi abbia escluso da una cosa così delicata. Pensava che mi sarei arrabbiato con lui? Che lo avrei accusato? Incolpato? Di cosa poi? Non è colpa sua se gli sono spuntate quelle dannate macchie nere sulla pelle», affermò Carlos.

Eddie annuì. Non conosceva il poliziotto, ma da quello che aveva percepito sentendolo parlare e vedendo il suo atteggiamento, era certo che si sarebbe comportato con TK in modo esemplare: l’avrebbe supportato senza giudicare. A TK non bastava avere questo ragazzo meraviglioso? Pensò Eddie velenoso. Anche Buck voleva avere nelle sue grinfie?

«Era sconvolto», disse il pompiere della 118, «non penso riuscisse a pensare molto lucidamente».
«Pensi davvero che questa cosa delle anime gemelle sia così seria?», chiese sinceramente.

Carlos si fermò un attimo a riflettere. «Sinceramente? Non lo so», ammise. «Per TK sono importanti, anche se mi ha raccontato di averle sentite come un peso a volte. Come tutti, tende a nasconderle e sono un argomento delicato».

Il poliziotto ricordava bene come era venuto a conoscenza delle loro esistenza.
Era successo non molto dopo che lui e TK avevano cominciato ad andare a letto insieme. Una sera, nel bel mezzo di un amplesso, Carlos gli aveva afferrato i polsi, portandoglieli sopra la testa.
L’orologio che il vigile del fuoco solitamente indossava era scivolato leggermente in basso e le sue dita si erano posate con forza proprio sulle parole di TK.
Il ragazzo si era liberato velocemente dalla presa e lo aveva fulminato con gli occhi. Lui lo aveva guardato stranito, rendendosi conto solo in un secondo momento del perché di quell’eccessiva reazione. Si era scusato, ma per quella notte non c’era stato nient'altro da fare.

L’incontro, o meglio lo scontro successivo con la frase di TK avvenne quando lui, nella speranza di ottenere dal ragazzo qualcosa in più rispetto al sesso, aveva preparato una cena.
Il primo di una lunga serie di sbagli, come i calici e candele, che era terminata con una domanda molto inopportuna. Non vuoi avere una storia con me per quello che hai scritto sul braccio? 
Inutile dire che TK avesse dato fuori di matto e se ne fosse andato.
Aveva colto l’occasione di scusarsi propriamente con TK dopo il suo arresto per rissa, quando il vigile del fuoco gli aveva raccontato che la sua difficoltà nell’intraprendere una nuova relazione era legata al suo passato, ad Alex, e non alle parole che aveva sul polso.

Poi si erano finalmente messi insieme.
Quella notte sul cofano della macchina, quando l’aurora boreale aveva illuminato il cielo, TK aveva intrecciato le dita della propria mano sinistra con le sue. In quel momento Carlos aveva capito che TK fosse pronto a cominciare con lui qualcosa di serio. 

«Sono state sempre il terzo incomodo nella nostra relazione. Dopo un po’ ho cominciato a sperare, fino a convincermi che sarei stato io a dirle a TK, ignorando il modo in cui si sforzasse di non trasalire ogni volta che le sfioravo, anche per sbaglio. Noi che siamo senza non capiremo mai esattamente quanto significhino», concluse.

Eddie si trovò a concordare. «Avevo un compagno nell’esercito che le aveva sul polso destro, fra le dune del deserto non sempre era possibile tenere certe cose per sé. Quando una volta è saltato fuori l’argomento, ci aveva detto che per lui non erano importati. Stava con una ragazza meravigliosa, la amava profondamente e aveva intenzione di sposarla, nonostante lei non avesse mai pronunciato la frase che lui aveva scritta sulla pelle.» 

«Confido che succeda anche a me e TK, anche se è diverso. Buck esiste e vive a poche ore di aereo da Austin», affermò crudamente.

«TK ha già rifiutato le avances di Buck una volta, perché dovrebbe ripensarci adesso?» disse Eddie. 

«Buck ci ha provato con TK???» chiese Carlos incredulo.  

«Non proprio, più che altro ha flirtato con lui abbastanza inconsciamente quando si sono conosciuti. TK ha poi interpretato un invito a farsi sentire e trovarsi se mai fosse capitato a Los Angeles come un invito con altre finalità rispetto ad una semplice birra tra amici e gli ha fatto ben presente di avere un ragazzo con cui aveva una relazione piuttosto seria. Buck non è riuscito nemmeno a dirgli che avesse frainteso, ci ha messo un po’ a metabolizzare la cosa», concluse Eddie con un sorriso al ricordo di quando l’amico gli aveva raccontato l’episodio durante il viaggio di ritorno. «Non lo sapevi?» gli domandò.

 «No», rispose Carlos secco, «si vede che TK non lo ha ritenuto tanto importante». O forse lo era troppo, pensò dolorosamente.

«Cosa vuoi fare adesso?» chiese Eddie.

«Innanzi tutto trovare TK. Suo padre lo ha coperto abbastanza e poi… poi si vedrà. Non so quali saranno le intenzioni di Buck, ma non ho intenzione di perderlo o di arrendermi senza lottare», rispose deciso.

«Non credo che Buck avrà intenzione di mettersi tra di voi quando lo verrà a sapere, non sarebbe da lui», disse Eddie.

«Non glielo dirai tu?» chiese Carlos.

«Non penso tocchi a me farlo», rispose il pompiere. «È qualcosa che riguarda lui e TK».

Carlos si trovò completamente d’accordo.

«Io torno da Buck, siamo scappati senza dare spiegazione ed è da un po’ che siamo qui fuori. Penso che il capitano Strand sia ancora all’interno, non mi sembra di averlo visto uscire», affermò Eddie.

I due si alzarono dalla panchina e si avviarono lentamente verso l’entrata.

«Posso darti un consiglio?» chiese Eddie.

«Prego», disse Carlos.

«Mangia qualcosa prima di raggiungere TK, sei bianco come un cencio. Potresti trovarti a dover affrontare una discussione non facile e svenire nel bel mezzo sarebbe controproducente», affermò il pompiere con un leggero ghigno.

Carlos annuì, sbuffando una risata e seguì l’altro all’interno dell’ospedale.

 

⋄◉⋄

 

Quando arrivarono al piano in cui c’era la stanza di Buck, Eddie e Carlos videro il capitano Strand uscire da essa e trasalire leggermente, quasi sorpreso dal vederli arrivare insieme.

«Buck chiedeva di voi», disse questi non appena furono vicini.

«Lo raggiungo subito, con permesso», disse Eddie, muovendosi dopo aver ricevuto un sorriso da parte del capitano ed essersi scambiato uno sguardo d’intesa con Carlos. 

«Che succede?» chiese infatti stranito.

«Dov’è TK?» domandò in risposta Carlos.

«Non lo so, siamo entrambi qui ad aspettarlo», disse il capitano.

«Owen, per quanto ancora hai intenzione di coprirlo? So cosa è successo», affermò il poliziotto. «Voglio solo potergli stare vicino».

A quelle parole, lo sguardo del capitano si abbassò. Non aveva senso continuare, Carlos non se lo meritava.

«Mi dispiace averti mentito stamattina, mi fido di te e so che vuoi solo il meglio per lui», iniziò Owen. «TK non era nelle condizioni di confrontarsi con nessuno. È da ieri che oscilla fra momenti di lucidità e altri in cui non riesce a sostenere il peso dell’accaduto».

«Era in stanza quando sono venuto a bussare, vero?» chiese Carlos.

«Sì, aveva appena avuto un attacco di panico e nel sentire la tua voce stava già ricominciando ad iperventilare», confessò il capitano. «Quello che gli è capitato è devastante e sta facendo davvero fatica a gestirlo».

«Come può essere devastante se non conosceva nemmeno così bene Buck? Se fosse stato uno sconosciuto avrebbe avuto la stessa portata?» chiese Carlos incerto.

«Non lo so», gli rispose Owen. «Noi che non abbiamo nulla di scritto sui nostri polsi non riusciremo mai a capire davvero cosa significhi. Personalmente penso che il fatto che fosse in qualche modo legato a Buck abbia reso tutto peggiore».

Carlos si irrigidì.

«Non mi fraintendere. TK non è in quello stato perché ha d’un tratto scoperto di amare Buck o idiozie simili, lo è perché sa le conseguenze a cui questa rivelazione potrebbe portare e a causa di qualcosa che a noi rimarrà sconosciuto. È preoccupato per te», concluse.

«Per me?» domandò un po’ stranito Carlos.

Il capitano Strand annuì. «Non sta a me parlare di tutto questo. Conoscendo mio figlio, sarà ancora sulla terrazza della caserma. Ha passato lì tutta la notte».

Carlos ringraziò, non provava rancore nei confronti di Owen. Sapeva quanto amasse TK e che tutte le sue azioni erano guidate dalla volontà di proteggerlo.   

«Per quello che vale, mi dispiace. Sono stato felice che TK trovasse te, spero che tutto questo non mini lo vostra relazione», disse Owen.

«Lo spero anch’io», sussurrò Carlos allontanandosi.

 


Il viaggio verso la caserma fu rapido e Carlos era sicuro di aver infranto un po’ troppe regole stradali, anche per un poliziotto.
Aveva deciso di ascoltare TK e di essere cauto, senza accusarlo di niente o mostrare delusione.
Sapeva che per il suo ragazzo sarebbe stata una conversazione non facile e voleva fare tutto il possibile per non metterlo a disagio.

La struttura era quasi deserta, i turni dei vigili del fuoco erano ancora più massacranti dei loro e probabilmente la maggior parte di essi si accontentava di potersi togliere la divisa e addormentarsi in una delle tende presenti a Pinos Altos.
Chiese informazioni per la terrazza e si incamminò verso di essa.
Sentì il cuore battergli sempre più forte nel petto. TK era un affascinante incastro di forza e fragilità. Chiunque fosse stato al suo fianco avrebbe dovuto proteggerlo, anche da sé stesso.

Si scoprì impreparato di fronte a quello che vide una volta giunto a destinazione.
TK era accucciato per terra, una mano fasciata alla meno peggio e un po’ di sangue sulla felpa che indossava.
Carlos si immobilizzò per la preoccupazione, inciampando con il piede sull’ultimo scalino. Che TK avesse…

Il rumore inaspettato fece voltare rapidamente il giovane paramedico, il quale spalancò gli occhi nel vedere Carlos.
Prese un respiro profondo, rifiutandosi di perdere lo stato mentale che aveva raggiunto dopo ore e ore di fatica.
Si alzò e gli andò incontro lentamente, fermandosi a un metro da lui ed evitando di far incrociare i loro sguardi.

«Hey», mormorò in saluto, stropicciando nervosamente la manica della felpa verde che indossava.

Fu come se quel sussurrò restituisse a Carlos la capacità di movimento.
Gli si avvicinò mandando all’aria la cautela che si era promesso di avere e lo abbracciò stretto, sollevato dal vedere che stesse bene. Più o meno.

TK rimase sorpreso dal gesto e ricambiò esitante, cingendo la vita di Carlos con solamente un braccio.

«Che ti è successo?» gli chiese il poliziotto dopo che si furono staccati, prendendo delicatamente fra le sue la mano di fasciata di TK.

«Nulla di grave», rispose questi ritraendola. «Il muro è stato vittima di una sorta di esperimento, un po’ disperato ad essere sinceri».

Carlos lo guardò con crescente preoccupazione.

«Avevo bisogno di sentire qualcosa, qualcos’altro ed è venuto fuori che un po’ di dolore fisico era esattamente quello che mi serviva», continuò facendo spallucce. «Meglio questo che un flacone di ossicodone, no?»

«TK», sussurrò Carlos, non sapendo come rispondere a tale dichiarazione. «Parlami, raccontami tutto, ti prego». 

TK era combattuto ma, incrociando per la prima volta dopo ore gli occhi caldi del ragazzo che amava, sospirò sconfitto.

«Non voglio allontanarti», disse tornando dov’era prima, quasi vergognandosi. «Non voglio ferirti e so che, in qualche modo, succederà».

Il cuore di Carlos si strinse a quelle parole. Non solo per il dolore che poteva chiaramente leggere negli occhi di TK, ma anche per la paura di quello che il suo ragazzo avrebbe potuto dire.
Si allontanò seguito dallo sguardo preoccupato di TK e andò in una delle camere a prendere un kit del pronto soccorso per poi avvicinarglisi nuovamente e sedersi a fianco a lui.
Gli prese delicatamente la mano, sollevato che fosse la destra, così da non doversi trovare di fronte al segno tangibile del fatto di non essere quello giusto.
Questa volta TK non si ritrasse, consapevole che Carlos avesse bisogno di concentrarsi su qualcosa di manuale e meccanico per riuscire a metabolizzare tutto quello che stava per dirgli.

«Mi dispiace», iniziò TK. «Mi dispiace così tanto...»

Carlos scosse il capo. «Non è colpa tua».

«Mi dispiace comunque», ripeté il paramedico. «Se sei qui, avrai parlato con papà. Immagino che tu sappia quello che è successo».

Carlos annuì. «Vorrei sentirlo da te, vorrei sapere come stai. Vorrei capire. O almeno provarci», gli disse interrompendo momentaneamente il lavoro che stava facendo sulla sua mano.

L’assenza di accuse da parte sua permise a TK di cominciare a parlare.
Tralasciò la vicenda in sé, consapevole che sicuramente il suo ragazzo ne fosse già a conoscenza.
Andò in ordine sparso, concentrandosi sul modo in cui si era sentito, su come il suo cuore si fosse quasi fermato quando aveva sentito Buck pronunciare fedelmente le parole che aveva sulla pelle da molti anni a quella parte.
Raccontò di come avesse trattato ingiustamente Eddie e di come avesse sicuramente sofferto maggiormente a causa del suo comportamento e della sua incapacità di dare spiegazioni.
Gli confessò del dilagante senso di colpa che provava e di cui non riusciva a liberarsi: per non aver salvato Buck, per aver fatto credere a tutti che fosse morto senza essersene davvero accertato, per aver costretto suo padre a mentire e a stargli vicino facendogli rivivere in parte quanto successo a New York con Alex e, più di tutto, per aver deluso e ferito l’uomo che stava al suo fianco.

«Cosa sono diventato?» chiese poi. «A volte non riesco più a riconoscemi».

Carlos non lo interruppe, consapevole che quella domanda non fosse rivolta a lui e continuò a medicare la mano di TK.

TK riprese a narrare di come la sua mente fosse stata preda della negazione, della paura e in ultimo della rabbia, che lo aveva portato a tirare un pugno al muro.
Di come si fosse sentito il cuore stretto come da una corona di spine, intrappolato ed incapace di muoversi in una qualsiasi direzione senza ferirsi.

«Se non fosse stato per papà, credo sarei impazzito. Di certo non sarei sopravvissuto all’attacco di panico di stamattina», commentò TK.

Carlos aveva nel frattempo finito di disinfettare le escoriazioni e si stava accingendo a fasciargli propriamente la mano. Alzò lo sguardo e domandò quello che gli premeva sapere di più: «Perché non mi hai chiamato? Ti sarei supportato ogni secondo, lo sai»

«Non avevo il coraggio di guardarti negli occhi e dirti che non… Che qualcun altro aveva detto quello che pensavo avresti detto tu. Che non sei tu quello che l’universo sembra aver predisposto per me», confessò TK.

«Babe»,

TK riportò lo sguardo sul poliziotto, stranito dal sentire quel nomignolo familiare.

«Lo supereremo insieme», affermò Carlos completando la fasciatura e accarezzandogli dolcemente la mano.

TK la ritrasse di scatto. «Non è una cosa che si può superare».

«Che intendi dire?» chiese Carlos sorpreso.

«Che queste», disse TK indicando le lettere nere incise sul suo polso, «non se ne andranno. Mai».

«E quindi? Vorresti gettare via la nostra relazione per correre dietro a Buck? Pensi che l’unico modo per accettare la cosa sia stare con lui?», chiese Carlos allucinato.

«Non ho mai detto questo», rispose TK.

Ma l’hai pensato. Nessuno lo disse, ma la frase aleggiò comunque fra loro.

TK cominciò a sentirsi messo alle strette e si alzò di scatto, allontanandosi dalla fonte del suo disagio. 

«Non so cosa fare, d’accordo?»

«Cosa? Non sai cosa fare? Stai davvero mettendo in discussione tutta la nostra relazione, noi per due parole e un paio di occhi azzurri???» chiese Carlos, incredulo e ferito, alzandosi a sua volta.

«Non sono solo un paio di occhi azzurri», rispose d’istinto TK.

Carlos lo guardò quasi inorridito.

Il paramedico, rendendosi conto delle implicazioni di quello che aveva detto, si tappò la bocca con le mani. Adesso non puoi più rimangiartelo. 
Cominciò a respirare sempre più velocemente e riconobbe il ritorno dei sintomi dell’attacco di panico, alimentato dalla consapevolezza di aver ferito profondamente e forse irreparabilmente il suo ragazzo e dall’assenza del padre al suo fianco.
Afferrò la balaustra e si lasciò scivolare pesantemente a terra.

Carlos cercò di avvicinarsi, ma TK si ritrasse impaurito non appena se ne rese conto.
Il poliziotto si trovò ancora una volta impotente, di fronte a qualcosa che non aveva il potere di controllare. Vedere TK soffrire così e non essere in grado di aiutarlo non faceva altro che rendere più profonda la ferita che gli era stata inflitta. 

Sentì dei passi e si girò, incapace di agire, verso la figura che li stava raggiungendo sulla terrazza.
Il capitano Strand si mosse lentamente e cominciò a parlare dolcemente al figlio, il quale, riconoscendo la voce, lo lasciò avvicinare. A differenza tua.
TK si calmò lentamente, posando la fronte sulle ginocchia e percependo il braccio del genitore saldo sulle sue spalle. Si sentiva un bambino.
Quando si sentì meglio, aprì gli occhi su quelli blu e rassicuranti del padre, dai quali prese la forza per alzarsi e posare i suoi in quelli scuri di Carlos.
Erano pieni di dolore.

«Mi dispiace», disse senza distogliere lo sguardo. «Mi dispiace», ripeté. «Perdonami», sussurrò prima di allontanarsi.

Carlos si mosse per seguirlo, ma venne fermato da Owen che lo prese per un braccio.

«Lasciagli i suoi tempi», gli disse l’uomo dolcemente.

«Così che finalmente si decida a mollare tutto per quelli che non sono solo un paio di occhi azzurri?», chiese Carlos con voce spezzata.

«Così che metabolizzi tutto e si renda conto di quanto abbia sbagliato. Deve trovare lui la forza di affrontarti e sistemare le cose», gli rispose Owen che, vedendo gli occhi del giovane riempirsi di lacrime, se lo tirò contro, abbracciandolo come aveva fatto ore prima con il figlio.



Le mie scuse per il ritardo nell'aggiornamento. Lavorare è semplicemente qualcosa di bello che a volte tiene lontano da ciò che si fa per passione.
Per rimediare, cercherò di caricare il quinto capitolo questa settimana.

Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Come sempre ogni commento sarà davvero, davvero apprezzato.

A presto!

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Capitolo 5
*** All I Ask ***


Buonasera,
Ce l'ho fatta! Come promesso, ecco il penultimo capitolo.
Penso che tutti conosciate la canzone di Adele "All I Ask", e credo che si adatti perfettamente alla seconda e terza parte di questo capitolo.
Proprio come un canto lontano, una malinconia nascosta in superficie, forse nemmeno percepita, ma presente in tutto.
Buona lettura!
 

Qualche giorno più tardi, i medici diedero a Buck il permesso di alzarsi dal letto.
I primi passi non furono facili, ma il pompiere non si diede per vinto e continuò testardamente a stare in piedi. Ciò che lo metteva più in difficoltà era la lenta guarigione dei suoi polmoni che gli impediva di tornare operativo in tempi utili per aiutare a domare l’incendio nella Gila National Forest.

Durante l’inizio della riabilitazione che avrebbe poi dovuto continuare una volta tornato a Los Angeles, Eddie non aveva mai abbandonato il suo fianco.
Lo aveva assistito, sopportato e fatto parlare diverse volte con Christopher, al quale avevano promesso la famosa serata cinema non appena fossero tornati a casa.
Sembrava che il bacio che c’era stato tra loro solo pochi giorni prima non fosse mai esistito e che fossero tornati ai tempi d’oro della loro amicizia.
Buck aveva provato ad intavolare il discorso qualche volta, ma Eddie lo aveva sempre liquidato in fretta.
Favoloso, pensò Buck. E io che speravo che la mia quasi morte facesse scattare qualcosa in lui.

Ad essere sincero, il giovane pompiere non era così dispiaciuto del fatto che il loro rapporto fosse tornato quello di un tempo. Il legame che condivideva con Eddie era chiaramente più profondo rispetto a quello di due semplici amici, ma sembrava che questi non avesse intenzione di approfondirlo. Almeno non per il momento.
Magari una volta tornati a Los Angeles e ripresa la vita normale si sarebbe potuto sviluppare qualcosa di più.

Nonostante i propri desideri, Buck doveva ammettere che c’erano momenti in cui la presenza di Eddie lo… infastidiva. Non avrebbe saputo come descriverlo meglio. Era come se il suo inconscio continuasse ad aspettare qualcosa che sembrava non arrivare mai. O forse qualcuno.
La prima volta aveva dato la colpa al dolore che non lo lasciava pensare chiaramente, poi alla stanchezza e in ultimo all’insofferenza che gli ospedali gli causavano puntualmente.
Ad ogni modo, era cosciente che quelle fossero solo scuse. 

Fu solo dopo un altro paio di giorni che scoprì il motivo di quella serpeggiante sensazione.
Notò che, nel cambiargli le bende, gli infermieri distoglievano lo sguardo ogni volta che si occupavano del braccio destro. La prima volta pensò fosse una casualità, ma la cosa continuò a ripetersi. 
Non riuscendo a comprendere il motivo di tale strano atteggiamento, Buck chiese spiegazioni ad una giovane infermiera che, a differenza degli altri, era stata molto meno sottile nel voltarsi altrove.

«Allora Jane», cominciò leggendo il nome sulla targhetta, «cosa c’è di così brutto là sotto da distogliere lo sguardo?» chiese leggero.

La ragazza arrossì sotto il suo la sguardo incuriosito.
«Niente di brutto, è il protocollo», rispose la giovane.

«Il vostro protocollo impone di guardarsi in giro per la stanza mentre si fasciano i pazienti?» chiese divertito.

«Non ti mette a disagio?» chiese l’infermiera in risposta.

«Il fatto che ci si concentri su di me? Affatto», disse Buck sorridendo come lo stregatto.

«Su quello non avevo dubbi», commentò Jane. «Intendevo che ti si guardi una parte così privata».

Privata? In quale universo l’avambraccio era una parte privata? Si chiese Buck, non riuscendo ad afferrare il senso della risposta.
Era molto più probabile che le fiamme gli avessero ustionato la pelle lasciando un marchio poco gradevole alla vista.
Scosse la testa, decidendo di stare al gioco della ragazza e di divertirsi un po’ a sue spese.

«Effettivamente hai ragione, ma sai, dopo quello che mi è successo, la sotto sarebbe potuto comparire di tutto. Siete sempre così sottili?»

Il rossore dell’infermiera aumentò di qualche sfumatura.

«Chiedo scusa, ho cominciato da poco», rispose.

«Avrai tempo per fare pratica. Se posso darti un consiglio, forse se ti limitassi a distogliere lo sguardo invece di muovere tutto il viso sarebbe meglio», disse cercando in tutti i modi di rimanere serio. 

Nel frattempo, Jane aveva completato la fasciatura. «Non capiterà più. Arrivederci e buona guarigione», farfugliò l’infermiera, letteralmente precipitandosi fuori dalla stanza.

Buck la guardò interrogativo e sbuffò una risata. Che gente strana.
Non riusciva nemmeno a sentirsi un po’ in colpa per aver bistrattato la ragazza, era rinchiuso in quella stanza da troppo tempo per riuscire negarsi del, seppur discutibile, divertimento.
Fece del suo meglio per ignorare la cosa, ma puntualmente i suoi occhi tornavano su quel luogo tanto privato, come se volessero vedere attraverso le bende. 
Cercò di distrarsi pensando ad altro, ma la sua mente, resa ancora più curiosa dal comportamento della ragazza, continuava a fare supposizioni su quello che fosse successo alla sua pelle.
Cedendo alla tentazione, Buck si accinse a disfare la fasciatura che gli era appena stata fatta.
La srotolò delicatamente e questa lasciò spazio qualcosa di nuovo, onestamente all’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato.

Buck la guardò confuso per qualche momento.
Oh.
Oh.
Che cazzo?
Sul suo polso, immacolato fino all’ultima volta che lo aveva visto senza bende, era comparsa una frase. Un fottutissimo agglomerato di parole. Nere.

Non scherziamo neanche in Texas.

Non scherziamo neanche in Texas? Seriamente? Cosa diavolo avrebbe dovuto significare?
Poi, lentamente, cominciò a collegare i puntini.

Oh. Polso destro.
Oh. Parole nere.

Qualcosa cominciò a prendere forma nella sua mente, ma non ne era del tutto sicuro. Da quel che ne sapeva, era decisamente troppo vecchio per quel genere di cose.
Eppure… eppure non se lo sarebbe potuto spiegare diversamente. In ritardo di almeno una decina d’anni, l’universo sembrava aver deciso di fargli un regalo, sempre che così lo si potesse chiamare: gli aveva donato un’anima gemella.
Un’anima davvero poetica, pensò prima che un’altra realizzazione lo colpisse violentemente.
Non era importante la frase in sé quanto chi l’avesse pronunciata e Buck era assolutamente certo di sapere chi gliele avesse dette: TK Strand.


Quando Eddie entrò nella stanza, si trovò puntato da due occhi azzurri che sembravano leggermente fuori di sé.

«Tutto bene? Ho visto un’infermiera uscire velocemente da qui. C'è qualcosa che ti fa male?» chiese l’uomo preoccupato.

Buck si limitò a scuotere la testa.

«Ho parlato con Hen e i medici, partiremo nel pomeriggio per L.A.» iniziò Eddie perdendosi poi in una dettagliata spiegazione di quello che sarebbe successo appena giunti in città. 
«Hey, hai sentito almeno una parola di quello che ho detto?» chiese, vedendo l’amico decisamente distratto.

«Eddie, abbiamo un problema» rispose invece questi, indicandosi il polso e mostrandogli quello che vi era sopra comparso.

Eddie spalancò gli occhi e sembrò congelarsi di colpo.

«Sono…?» iniziò incerto.

«Tu che dici?» ribatté secco Buck, leggermente sarcastico.

«Ma prima non c’erano»

«Lo so»

«Sai…?»

«TK. TK Strand», rispose Buck.

Ovviamente. Non poteva essere altro che TK Strand, la mia personale maledizione, pensò Eddie.

Il silenzio calò inesorabile.
Poi, sotto lo sguardo sempre più stranito di Buck, Eddie raccolse tutte loro cose che erano rimaste nella stanza e le infilò in uno zaino. Effettivamente nel pomeriggio partiamo per LA, pensò il pompiere.
Onestamente, si era aspettato qualcosa di più dall’amico, ma forse questi stava solo cercando di mettere insieme un discorso decente, magari che includesse il suo nuovo tatuaggio come alibi per non esplorare quello che c’era tra di loro.

«Avviamoci, sembra che tocchi a me metterti al corrente di un paio di cose», disse Eddie invitandolo a seguirlo.

 

⋄◉⋄

 

Il giorno seguente la lite con Carlos, TK aveva ripreso a lavorare attivamente con la squadra per la gestione dell’incendio. Avere qualcosa di utile da fare permetteva alla sua mente di lavorare su due binari. Principalmente essa si focalizzava sulle fiamme, l’attrezzatura e tutto quello che l’addestramento gli suggeriva, poi, in background, ragionava e razionalizzava gli avvenimenti degli ultimi giorni.
Aveva dovuto insistere parecchio con il padre perché questi gli permettesse di prestare servizio, ma era riuscito a convincerlo, assicurandogli che non si sarebbe allontanato da lui non più di qualche metro.

Il giovane paramedico si era reso pian piano conto di quanto avesse gestito male la situazione, di come avesse reagito in modo più simile a come avrebbe fatto il TK di New York piuttosto che quello di Austin.
Era un po’ deluso da sé stesso, soprattutto perché il suo comportamento non aveva solo danneggiato lui, ma anche  gli altri, in particolar modo Carlos.
TK ricordava ognuna delle parole, forse più simili a pugnalate, che aveva lanciato contro di lui. E se ne vergognava. Era stato come sparare sulla Croce Rossa e il dolore che aveva provato in quel momento non giustificava niente di quello che aveva fatto.

Il secondo giorno aveva stabilito la lista delle persone a cui avrebbe dovuto parlare.
Aveva deciso che Carlos sarebbe stato l’ultimo. Gli avrebbe parlato, sempre che lui lo avesse voluto ascoltare, una volta tornato ad Austin. Il poliziotto si meritava di più che una chiacchierata veloce fra un turno e l’altro.
Al secondo posto c’era Eddie. TK sapeva cosa quanto Buck facesse parte della sua famiglia insieme al figlio Christopher e si era comportato scorrettamente anche nei suoi confronti, facendolo soffrire per qualcosa che non si era verificato.
La prima persona con cui si sarebbe confrontato sarebbe stata Buck. Non lo vedeva dal giorno in cui era quasi morto e sapeva che avrebbe dovuto cominciare dall’epicentro del terremoto che aveva sconquassato la sua vita per poi sistemare tutto il resto. O almeno provarci.

Doveva ammettere che l’idea di trovarsi faccia a faccia con la sua anima gemella lo riempiva di sensazioni contrastanti. Non sapeva se e come avrebbe dovuto affrontare l’argomento. Forse sarebbe stato meglio accertarsi delle condizioni di salute dell’amico e salutarlo, non caricando anche lui di quel fardello. Ma sarebbe stato giusto? Sicuramente più facile.

TK venne fatto tornare alla realtà da Marjan che, avvicinatasi, gli chiese se volesse unirsi alla squadra per andare a salutare i colleghi della 118 che sarebbero partiti nel pomeriggio per Los Angeles.
Il paramedico annuì, consapevole che, se avesse temporeggiato ancora un po’, avrebbe perso l’occasione di parlare con Buck.
Dopo un pranzo veloce, si diressero verso la caserma 2 di Silver City, dove la 118 era stata fatta sistemare.

«Stai bene?» chiese Owen al figlio.

«Tutto a posto papà, devo cominciare a sistemare le cose», rispose TK prima di uscire dal veicolo.

Mentre la squadra entrava nella caserma invitata da Hen, TK individuò Eddie seduto su un muretto all’esterno. Pensò che di cogliere l’occasione e, nonostante avesse voluto parlare prima con Buck, trovare uno dei due da solo era sicuramente meglio che trovarli insieme ed immergersi in una conversazione che avrebbe virato tra l’imbarazzante e il problematico.
Si avvicinò facendo un po’ di rumore in modo che Eddie lo sentisse arrivare.

«Eddie», lo salutò, «volevo scusarmi per...»

«Non è necessario», lo interruppe questi. «So perché ti sei comportato così, è tutto a posto», concluse mentendo spudoratamente.

«Sai?» chiese stupito TK.

«Carlos non te lo ha detto? Era venuto in ospedale per cercarti, ma parlando con Buck, ha capito perché lo stessi evitando. Ero lì anch'io e, una volta usciti dalla stanza, abbiamo parlato», gli spiegò Eddie.

Il pensiero che Carlos fosse venuto a conoscenza del legame che condivideva con Buck improvvisamente e lo avesse dovuto affrontare da solo, per giunta anche dovendo dare spiegazioni al posto suo, gli fece stringere il cuore. Era convinto che fosse stato suo padre a parlargliene, con la delicatezza che lo contraddistingueva.
Poi si rese conto di cosa implicassero le parole di Eddie.

«Aspetta, Buck sa?» domandò urgentemente.

«Buck sa tutto», si intromise una voce.

«È più complicato di così», rispose contemporaneamente Eddie che, resosi conto della presenza dell’amico, si allontanò per lasciarli parlare. 

 

⋄◉⋄

 

Dopo aver salutato tutti i componenti della 126 e averli rassicurati sulla sua salute, Buck era uscito dalla caserma. Il capitano Strand gli aveva detto che Eddie e TK erano rimasti fuori a parlare e lui non era riuscito a trattenersi dall’andare a cercarli.
Li aveva individuati poco dopo e si era avvicinato lentamente, ascoltando le ultime battute della loro conversazione e intromettendosi deliberatamente. Stavano parlando di lui dopotutto.

Quando gli occhi di TK incontrarono i suoi, ogni fibra del suo corpo sembrò protendersi nella direzione del paramedico dagli occhi verdi e notò a malapena Eddie allontanarsi.
Gli sembrò di essere completamente catturato da essi.
Preso in contropiede e non sapendo assolutamente cosa fare, Buck cercò di mostrandosi molto più sicuro di sé di quanto in realtà si sentisse e aprì le braccia, aspettando che fosse TK ad avvicinarsi. 
Rimase sorpreso dalla velocità con cui il ragazzo ci si tuffò all’interno.

Non appena strinse le sue braccia attorno al corpo del più giovane, Buck sentì quella sensazione di aspettativa che sentiva da giorni finalmente sciogliersi.
Gli sembrò che i suoi sensi si fossero amplificati, nonostante i vestiti riusciva a percepire il respiro di TK e il calore proveniente dalla sua figura accarezzare la propria pelle, in un modo che non aveva mai sperimentato. Era bello. Era strano. Era giusto.
Per quanto potesse essere moralmente discutibile, non riusciva a sentirsi in colpa nei confronti di Carlos o di Eddie per quel contatto che era sicuramente molto più intimo di quanto sembrasse.
Si stava prendendo qualcosa che il suo inconscio sembrava necessitare più di qualsiasi altra cosa.

Sperò non finisse mai. 
Appoggiò il capo su quello del più giovane, inalando il suo profumo mescolato all’odore di fumo che difficilmente sarebbe riuscito presto a togliersi di dosso.
Non poté fare a meno di sorridere a come TK si fosse appoggiato quasi completamente a lui, nascondendo il viso nel suo petto.
Quando dopo un tempo indefinito TK fece scorrere le mani lungo la sua schiena per poi allontanarsi leggermente, entrambi sentirono immediatamente un senso di mancanza.

Spinto dell’istinto, Buck prese con dolcezza il polso sinistro di TK e questi glielo lasciò fare, stupendosi di non percepire alcuna invasività nel tocco dell’altro. Solitamente l’istinto gli faceva allontanare quasi violentemente chi sfiorasse anche per sbaglio quella zona, anche Carlos.
Il pompiere di Los Angeles si stupì di non trovare altro oltre alla manica a coprire la frase in nero che spiccava sulla carnagione chiara di TK. Da quanto sapeva, le persone tendevano a nasconderla.

Sii presente per loro. TK, sto fottutamente morendo.

Restò per un po’ a guardarle ipnotizzato, prima che TK rompesse il silenzio che era sceso fra loro.

«Solitamente le copro, ma in questi giorni non ci sono riuscito», ammise.

«Sono in rilievo», si sentì rispondere Buck mentre passava gentilmente il pollice sulla scritta, quasi sorpreso dal sentire la propria voce.

TK venne attraversato da un brivido.
«Già, da quando le hai pronunciate si sono fatte diverse», rispose.
«Senti Buck, mi dispiace», iniziò il paramedico abbassando gli occhi. «Speravo di poterti evitare questo fardello».

«Avresti preferito non dirmelo?»

«Forse sarebbe stato più facile», rispose TK.

«Per me o per te?», chiese Buck.

La domanda aleggiò nell’aria, senza che nessuno dei due si preoccupasse di rispondere.  

«In ogni caso l’avrei scoperto comunque», affermò Buck.

Sotto lo sguardo interrogativo di TK, il pompiere si tolse le bende dal polso destro, mostrando a TK quello che vi era comparso. 

Non scherziamo neanche in Texas.

«Quando…?» domandò il più giovane.

«Mentre ero in ospedale, pensavo di essere troppo vecchio per queste cose», rispose Buck accennando un sorriso.

Fu la volta del paramedico a rimanere come ipnotizzato, sorpreso dalla nuova e inaspettata piega che avevano preso gli eventi.
Mille pensieri gli passarono per la testa senza che gli fosse possibile afferarli tutti.
Alzò lo sguardo incrociando finalmente gli occhi azzurri di Buck e li vide essere attraversati dalle stesse emozioni che stavano scuotendo la sua anima e la stavano facendo risuonare come mai prima d’ora era successo.
Erano meravigliosi. Si sarebbe volentieri perso in quelle gemme di un azzurro cristallino, dolce e sincero che sembravano guardarlo come se fosse tutto il loro mondo.
Si chiese nuovamente come sarebbe stato se, lasciato Carlos, avesse avuto la possibilità di conoscere meglio Buck, la sua anima gemella. A cosa li avrebbe portati?

 

Per un momento ci furono solo loro, ma la realtà si abbatté presto su entrambi, tarpando le ali a qualcosa che non aveva avuto nemmeno il tempo di sbocciare.

Buck e TK vennero bruscamente portati al presente dal suono della sirena di un’auto della polizia che stava sfrecciando verso Pinos Altos.
Il paramedico perse la prese sul polso di Buck, il quale si allontanò di qualche passo sedendosi sul muretto.

«Carlos?» chiese il vigile del fuoco.

«Abbiamo litigato. Ero ancora sconvolto e ho detto delle cose che non avrei dovuto. Non so se vorrà ancora avere a che fare con me», rispose TK raggiungendolo.

«Dev’essere stato un duro colpo per lui», disse Buck. «Troverai un modo per riappacificarti».

«Eddie come l’ha presa?» gli domandò TK.

«Non lo so, al momento si comporta da amico e la cosa non sembra turbarlo più di tanto. Vedremo come andrà una volta tornati a L.A.» rispose Buck.

Come evocato dai loro pensieri, Eddie li chiamò, in quanto il mezzo che avrebbe riportato la squadra in California sarebbe partito a breve.

«Ti do una mano con la fasciatura, se Eddie la vede fuori posto è capace di staccarmi la testa», disse TK .

«Se entra in modalità mamma chioccia è la fine», affermò Buck sbuffando una risata.  

Dopo che TK gli sistemò le bende, i due si avviarono verso la caserma.
Erano entrambi consapevoli che le poche parole che si erano scambiati erano insufficienti per affrontare un argomento tanto delicato, ma al momento avevano deciso di avere altre priorità.
Per Buck l’intera faccenda delle anime gemelle era nuova, doveva ancora abituarsi e non aveva idea di quanto potesse essere importante, di quanto potesse essere pesante svegliarsi ogni mattina con delle maledette lettere sul polso che sembravano voler decidere della tua vita.
Per TK era invece come se fosse stata riaperta una vecchia ferita. Si era abituato ad esse e aveva imparato a convivere con l’incertezza che portavano con loro.
Nonostante conoscesse finalmente il volto celato dietro quelle parole, amava Carlos e, se il poliziotto glielo avrebbe permesso, si sarebbe impegnato per dimostrarglielo ogni giorno.

Il paramedico afferrò delicatamente Buck per un braccio appena furono a pochi passi dal mezzo e gli chiese quello che più al momento gli premeva sapere: «Tra noi è tutto a posto?»  

Buck lo guardò stranamente consapevole e annuì. Perché non dovrebbe esserlo? Pensò.

«Bene», disse TK sorridendo leggermente. 

«TK, siamo sempre noi. Non è cambiato niente», aggiunse Buck.

Una dolorosa bugia, ma necessaria ad entrambi.

 

Quando raggiunsero gli altri venne il momento di salutarsi.
Le due squadre si scambiarono qualche battuta, con l’invito di fare attenzione e di mantenersi in contatto.
Buck vide TK stringere la mano sia a Hen che a Eddie, notando negli occhi del compagno di squadra un malcelato rancore nei confronti del paramedico. 
Quando venne il suo turno, aprì nuovamente le braccia e strinse velocemente TK.
Non erano più da soli e non voleva che le sue azioni, il suo desiderio di trattenere a sé il corpo del più giovane causasse ad entrambi, ma soprattutto a TK, troppe domande scomode.
Pareva che anche il paramedico fosse dello stesso avviso, dato che non si dilungò, limitandosi a sfiorargli la fasciatura mentre gli chiedeva di stare attento e di prendersi cura di sé.

Buck sorrise a quelle parole. Lo sguardo carico di affetto che gli rivolse TK sembrò imprimersi a fuoco nella sua mente.
Gli strinse leggermente un braccio prima di salire sull'auto pompa e chiudere la porta.
A TK non rimase altro che rimanere a guardare il mezzo allontanarsi.

 

⋄◉⋄

 

TK rimase silenzioso per tutto il viaggio di ritorno e, una volta in caserma, tornò a rifugiarsi in sulla terrazza.
Una nuova malinconia sembrava averlo colpito e non volerlo abbandonare.
Parlare con Buck aveva sicuramente aiutato a dare un peso reale a tutto quello che era successo.
Pensandoci ora, TK si rese conto che avrebbe potuto affrontare il tutto in maniera decisamente diversa, ma si sa, del senno di poi sono piene le fosse.
Il trauma che aveva subito era indubbio ed era sicuro di non averlo superato del tutto, ma l’essere riuscito a rimanere più o meno in piedi era quasi una soddisfazione.

«Hey papà», salutò TK quando notò il padre raggiungerlo.

«Come ti senti?» chiese questi.

«Meglio», rispose TK. «Anche se...»

Anche se è come se dentro di me ci fossero due forze che spingono in direzione opposta, pensò.
Ed era così.
Dopo aver riflettuto a lungo, si era reso conto che il pensiero di rompere con Carlos era una colossale idiozia. Amava il poliziotto ed era ricambiato. Carlos era un ragazzo formidabile, gentile e deciso. Era tutto ciò che si sarebbe potuto desiderare.
Eppure c’era un bisogno atavico e sottile che non riusciva a soffocare. Una sensazione quasi impercettibile di irrequietezza che non gli dava pace.
Qualunque cosa fosse, TK era ben deciso ad ignorarla. Per il suo bene e quello di Carlos.

«… niente, non importa», concluse.

Owen preferì non indagare.

«Ho sbagliato con Carlos, me ne rendo conto. Sai quali saranno i suoi turni?», chiese poi al padre.

«È tornato stamattina ad Austin, alcuni suoi colleghi di Houston gli hanno dato un passaggio», rispose il capitano.

«Oh, capisco», disse TK. «Gli parlerò non appena torneremo a casa».

Il silenzio calò fra di loro.
Owen era orgoglioso di come il figlio si fosse reso conto dei propri errori e di come non volesse scappare da essi. Forse del ragazzo che aveva trovato in overdose sul pavimento del suo appartamento a New York non era rimasto quasi niente.

«Papà, posso essere sincero con te?»

La domanda di TK interruppe i pensieri di Owen, che annuì.

«Questa cosa delle anime gemelle ha senso», confessò dopo aver preso un profondo respiro. «C’è sempre stato qualcosa in Buck che mi attirava, specialmente perché sembrava che la sua presenza facesse fermare una sottile sensazione di essere fuori posto che non mi ha mai abbandonato da quando mi è comparsa la scritta».

Ed era questa la cosa che più lo addolorava, il fatto di non poter negare il modo in cui aveva reagito alla vicinanza di Buck, così come non poteva negare la potenza delle emozioni che lo avevano colpito dal momento in cui aveva creduto fosse morto.

«Non significa che non possa provare amore per qualcun altro e scegliere di stare con lui», continuò il ragazzo. «È semplicemente diverso».

Owen annuì, colpito dal discorso del figlio ma incapace di comprenderlo fino in fondo.
Quando dopo poco TK si allontanò dopo avergli augurato la buonanotte, l’uomo rimase sulla terrazza col viso rivolto verso le stelle, chiedendosi se mai il figlio sarebbe stato in grado di ritornare quello di un tempo o se l’aver scoperto di Buck lo avesse cambiato per sempre.
 



Amo questa storia, ma, ad essere onesti, ho un debole per alcune scene, e naturalmente, l'incontro tra Buck e TK è in cima a quelle.
Grazie a tutti coloro che dedicheranno del tempo a leggere e magari a lasciare un commento! ❤

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Capitolo 6
*** Sign of Hope ***


Buonasera,
A voi l'ultimo capitolo!
Il titolo si riferisce all'omonima canzone del gruppo rock tedesco Scorpions "Sign of Hope".
La adoro e spero che la apprezzerete anche voi, soprattutto in relazione all'ultima parte del capitolo.


L’incendio nella Gila National Forest aveva ormai perso potenza e pian piano le squadre esterne venute in supporto di quelle locali venivano invitate a tornare nelle rispettive città.
La 126 di Austin era rientrata dopo dieci estenuanti giorni di lavoro e la squadra era distrutta.
Per la prima notte, TK chiese ospitalità al padre. Presentarsi nella casa che condivideva con Carlos senza averci prima parlato era fuori discussione.
Sarebbe stato decisamente fuori luogo.
Aveva passato la notte a preparare mentalmente un discorso degno del suo ragazzo (gli piaceva pensare che lo fosse ancora), ma era crollato dopo le prime frasi.

La mattina si era armato di tutte le migliori intenzioni e, dopo essersi fatto dare i turni di lavoro di Carlos, aveva deciso di scrivergli e chiedergli se potessero incontrarsi.
Le ore che passarono tra l’invio del messaggio e la risposta del poliziotto furono estenuanti, ma non poteva certo fargliene una colpa.
Si era comportato ingiustamente nei suoi confronti ed era naturale che Carlos volesse prendere del tempo per pensare a cosa fare. TK sperò nella gentilezza dell’anima del suo ragazzo, che difficilmente gli avrebbe negato la possibilità di spiegarsi.
A meno che tu non l’abbia ferito talmente tanto da far sì che non voglia avere più nulla a che fare con te, gli suggerì malefica la sua mente.

Un paio di ore più tardi, TK aveva l’orario e il luogo in cui Carlos voleva incontrarlo.
Il poliziotto aveva scelto un parco non lontano dalla stazione di polizia, un luogo che sapeva essere molto rilassante per lui.
TK si era vestito con calma, aveva coperto le sue parole con il solito orologio e si era diretto con la macchina verso il luogo prestabilito, andando poi a sedersi su una panchina dalla quale si aveva una bella vista del laghetto artificiale che era stato posizionato poco lontano.
Carlos arrivò con quaranta minuti di ritardo ancora in divisa, segno che il suo turno si era prolungato più del previsto.
Quei minuti non avevano fatto altro che aumentare l’ansia di TK, che aveva dovuto dar fondo a gran parte delle sue energie per non dare fuori di matto.

Quando si accorse dell’arrivo di Carlos, TK si alzò in piedi ma non osò avvicinarglisi.
Non diede il tempo al poliziotto di aprire bocca che subito cominciò a parlare, temendo quello che l’altro avrebbe potuto dire prima che riuscisse a spiegarsi, a chiedere perdono.

«Ti devo delle scuse», iniziò il paramedico, «il modo in cui mi sono comportato nei tuoi confronti è stato orribile. Il fatto che stessi male non giustifica nulla di quello che ho detto e fatto».

Carlos aprì la bocca per dire qualcosa ma TK lo fermò prima che potesse farlo.

«Ti prego, fammi finire», chiese. 

Carlos annuì e lo lasciò parlare.

«Io… avevi ragione, su tutto. Ho visto Buck il giorno in cui sei tornato ad Austin, abbiamo parlato e… Non importa, ho realizzato qualcosa che in cuor mio già sapevo: tu sei la mia priorità. Nessun paio di occhi azzurri possono valere i tuoi», affermò TK.

Gli occhi di Carlos, che per un momento si erano riempiti di paura e si erano induriti, si ammorbidirono di colpo.   

«TK...» iniziò, ma venne interrotto di nuovo.

«Io amo te. Sono innamorato di te e qualsiasi cosa possa dire l’universo, questo non lo si può cambiare. Io… So che a parole non bastano. Vorrei potertelo dimostrare», concluse quasi disperato.

«Finito?» chiese Carlos.

TK annuì mordendosi nervosamente il labbro.

«Mi ha ferito molto il tuo comportamento, non posso negarlo. Ho avuto paura di perderti perché lui ha qualcosa che io non potrò mai avere, lui è qualcosa che io non potrò mai essere», disse il poliziotto. 

«Non sei stato l'unico a riflettere in questi giorni», continuò, «e TK, io preferirei accantonare la vicenda. Non perché non sia importante, ma perché non riuscirei a capirla. Non ce la farei ad ascoltarti parlare di un altro uomo, di come ti senti vicino a lui, di come sia diverso. Tu lo diresti senza cattiveria, magari solo per aiutarmi a comprendere qualcosa che mi è estraneo, ma io lo percepirei sempre come un modo per dirmi di non essere abbastanza». 

Carlos, nonostante cercasse di nasconderlo, appariva così vulnerabile in quel momento...
Quella rivelazione permise al giovane paramedico di vedere sotto una luce diversa il loro litigio.
Il suo ragazzo non aveva voluto fretta di chiudere l’argomento per superficialità, perché non capisse l’importanza che aveva per lui o perché non gli interessasse. Semplicemente, dopo averlo sentito parlare di tutto quello che la “morte” di Buck aveva scatenato in lui, aveva, in realtà, chiesto pietà. Probabilmente ogni sua parola lo aveva ferito e lui, invece di accorgersene di e accettare la proposta di Carlos di superarla insieme, aveva rincarato la dose. 

Non sono solo un paio di occhi azzurri.

TK si vergognò di sé stesso. Non tanto perché in quell’affermazione ci fosse ben più di un fondo di verità, ma perché era stato così meschino nei confronti del suo ragazzo.
E poi aveva rifiutato il suo aiuto nel momento in cui era stato preda del panico, affidandosi completamente al padre, a qualcun altro.

«Io non… non ne avevo idea…» rispose TK scuotendo leggermente il capo. 

Poi alzò gli occhi per incrociare quelli caldi e marroni di Carlos, si avvicinò e gli prese esitante una mano.

«Babe, tu sei tutto per me. Probabilmente, anzi, sicuramente molto più di quello che mi meriterei», affermò deciso. «Ti prometto che non dirò una parola sull’argomento e che la supereremo insieme. Sempre che tu voglia avere ancora a che fare con me».

Carlos gli strinse la mano che il ragazzo aveva fra preso fra le sue. Come poteva TK dubitare che lo volesse ancora con sé?
Gli sorrise e lo abbracciò stretto, felice di sentire le braccia di TK stringerlo questa volta senza esitazione.

«Torniamo a casa», gli sussurrò nell’orecchio.

TK si asciugò gli occhi umidi sulla divisa di Calos, felice di aver fatto pace con il suo ragazzo.
Non si illudeva che sarebbe tornato tutto come prima, ma si sarebbe impegnato per essere all’altezza del poliziotto e del suo buon cuore.
Certo, il modo in cui si era sentito mentre veniva stretto da Buck era diverso rispetto alla sensazione che provava tra le braccia di Carlos, ma non gli importava. Era a casa adesso.

 

⋄◉⋄

 

Una volta tornato a Los Angeles, Buck aveva dovuto aspettare un po’ prima di poter tornare pienamente operativo. Lo avevano costretto a casa per un paio di settimane, in modo da dare tempo ai suoi polmoni di stabilizzarsi e alla sua mano di guarire.
Eddie ed Hen avevano invece ripreso subito e questo aveva permesso a Buck di passare un po’ di tempo da solo con sé stesso.

Nonostante i giorni passati, ogni volta che i suoi occhi catturavano la scritta nera sul suo polso, Buck rimaneva come rapito. Gli tornavano in mente le sensazioni provate in compagnia del giovane dagli occhi muschiati e rimpiangeva di averne avuto così poco a disposizione.
La compagnia di TK era bella e il ragazzo gli mancava.
Sarà un effetto collaterale di questa faccenda delle anime gemelle, pensò Buck.
Per evitare di distrarsi ogni pochi movimenti, il pompiere aveva deciso di mettersi alla ricerca di un qualcosa che potesse coprire quelle parole incantatrici.

Dopo aver girato diversi negozi, aveva finalmente trovato un bracciale in pelle che faceva al caso suo, abbastanza nel suo stile da non suscitare troppe domande.
Quelle parole erano sue, non gli andava di condividerle o di dare spiegazioni ad altri.
Adesso capiva perché l’infermiera che si era occupata di lui in ospedale si era preoccupata di distogliere lo sguardo e perché il protocollo dell’ospedale lo imponesse.
In realtà, l’unico che le aveva viste era stato Eddie.

Eddie.
Buck aveva da tempo ammesso, almeno a sé stesso, di provare qualcosa in più per l’amico e ogni tanto gli sembrava di non essere l’unico.
La serata cinema promessa a Christopher era andata alla grande, i tre avevano mangiato una pizza formato gigante sul divano di casa Diaz e quando il bambino era andato a dormire, lui ed Eddie erano rimasti a parlare per diverso tempo.
Quando il padrone di casa gli aveva offerto una birra, seguita poi da un altro paio, le loro dita si erano sfiorate e Buck aveva visto qualcosa negli occhi dell’altro.
Peccato che poi Eddie aveva fatto di tutto per evitare qualsiasi contatto, almeno fino al momento in cui si erano salutati.
Buck aveva urtato un mobile e il rumore aveva svegliato Christopher che si era alzato per andare a salutarlo. Aveva abbracciato il bambino e poi Eddie, ricevendo da entrambi un sorriso dolcissimo che lo aveva fatto sperare.

Peccato che poi il giorno dopo, durante il turno in caserma, Eddie si fosse comportato come durante i primi tempi della loro conoscenza, stupendo non solo Buck ma anche tutta la squadra.
Per quanto si sforzasse, Buck non riusciva a capire il motivo di quel comportamento altalenante.
Stanco di quell’atteggiamento, una sera aspettò che lui ed Eddie fossero soli nella caserma e lo mise all’angolo, determinato ad ottenere delle risposte.

«Vuoi dirmi cosa diavolo hai?» chiese Buck improvvisamente.

Eddie sollevò lo sguardo dal borsone che stava riempiendo e gli rivolse uno sguardo interrogativo.

«Andiamo amico, non fare quella faccia, sai benissimo di cosa sto parlando», aggiunse. «È da quando siamo tornati dal New Mexico che ti comporti come un fottuto idiota».

L’altro vigile del fuoco sospirò. Aveva sperato di riuscire ad evitare quella conversazione ancora per un po’, ma quando Buck si metteva in testa una cosa, niente e nessuno erano in grado di farlo mollare prima che l’avesse ottenuta.

«Le cose sono cambiate Buck»

«Grazie tante, è il verso in cui lo hanno fatto che mi sfugge», rispose il biondo.

Di fronte al silenzio di Eddie, Buck commentò: «Pensavo di meritarmi almeno una risposta...» 

«Potrei provare qualcosa per te», sussurrò Eddie.

«Cosa?» chiese l’altro colto totalmente di sorpresa.

«Hai sentito», ribatté Eddie. 

«E hai pensato che passare dal farmi gli occhi dolci all’ignorarmi completamente fosse un buon modo per dimostrarlo?» chiese Buck incredulo.

«Non ti ho mai fatto gli occhi dolci», mormorò l’altro

«Non è questo il punto», concluse il biondo.

«Non sapevo come comportarmi, ok? Fra quello che è successo fra noi e la storia di TK...» ammise Eddie.

Ovviamente c’entrava la "storia di TK".
Buck scosse la testa. 

«Eddie, TK è un’altra cosa. Perché dovremmo lasciare che delle discutibili parole cambino la nostra relazione?» chiese.

L’altro pompiere lo guardò come se fosse stupido.

«Forse perché non sono solo delle discutibili parole Buck, indicano che lui è la tua fottuta anima gemella. Probabilmente potrebbe offrirti molto di più di quanto potrebbe fare chiunque altro e io… noi… Non so nemmeno se siamo effettivamente qualcosa o se lo potremo essere», disse leggermente frustrato.

L’incertezza di Eddie venne colta completamente da Buck che, nonostante avesse ottenuto più di quello che aveva pensato, ne rimase comunque un po’ ferito.
Decise di andargli incontro. 

«Eddie, tu e Christopher siete già la mia famiglia e se deve succedere qualcosa fra noi succederà», gli disse avvicinandosi leggermente. «Prendiamoci i nostri tempi, non ci corre dietro nessuno».

Il sorriso che sbocciò sul viso del moro fu sufficiente per Buck che gli sfiorò il braccio. Si avviarono verso l’uscita, l'uno a fianco all'altro, pronti a vedere dove quel qualcosa che c'era fra di loro li avrebbe portati. Era l’inizio di un nuovo percorso.

 

⋄◉⋄

 

I giorni passarono uno dopo l’altro, permettendo a Buck, Eddie, TK e Carlos di trovare un nuovo equilibrio e di scivolare in una nuova routine. Il New Mexico sembrò gradualmente diventare un ricordo fumoso.
Era successo tutto talmente velocemente che a volte sembrava fosse stato uno strano sogno, niente di reale. O forse era solo il desiderio che quanto successo non fosse irreparabile a renderlo tale.
Eppure, eppure esistevano parole, incise sulla pelle e nelle menti che non si potevano cancellare e che sarebbero rimaste costante monito che ci fosse uno sbaglio di fondo.

TK e Buck diminuirono drasticamente i contatti, limitandosi quasi a seguirsi su Instagram e a tenersi così aggiornati l’uno sull’altro. Impararono a comunicare in quel modo.
A volte era facile continuare a fingere che nulla fosse cambiato, eppure le loro vite erano state completamente capovolte.
C’erano stati momenti di difficoltà in cui la tentazione di confrontarsi e confortarsi era stata forte, ma avevano sempre evitato, sia per rispetto nei confronti di Eddie e Carlos, sia per l’istintivo timore che si sarebbero trovati troppo bene.
In qualche modo erano diversi e il loro cambiamento era stato notato un po’ da tutti.
 

Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non è più possibile descriverli come due sistemi distinti, perché in qualche modo sottile diventano un unico sistema.
In altre parole, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti anni luce.


Equazione di Dirac, Paul Dirac, 1928


Dopotutto nella vita si tratta di scelte.
TK e Buck avevano scelto di scegliere altre persone rispetto a loro stessi, perché per quanto potessero cercare di negarlo anche a loro stessi, quello che avevano provato l’uno nelle braccia dell’altro era diverso. Era più che casa, più che l’inizio di un percorso. Era molto di più.

Ma sarebbe stato abbastanza? 

 


Bene, questa è la fine (😢).
È più breve degli altri capitoli, e l'elefante nella stanza è stato trattato (intenzionalmente) in modo approssimativo, ma è quello che è.

Spero davvero che la storia vi sia piaciuta. È stato un banco di prova per me e sono abbastanza soddisfatta del risultato.
Vorrei ringraziare coloro che hanno letto e tutti quelli che lo faranno in futuro.

Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate!

MrStank

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