L'isola maledetta

di Dark Lady 88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III. ***
Capitolo 5: *** IV. ***
Capitolo 6: *** V. ***
Capitolo 7: *** VI. ***
Capitolo 8: *** VII. ***
Capitolo 9: *** VIII. ***
Capitolo 10: *** IX. ***
Capitolo 11: *** X. ***
Capitolo 12: *** XI. ***
Capitolo 13: *** XII. ***
Capitolo 14: *** XIII. ***
Capitolo 15: *** XIV. ***
Capitolo 16: *** XV. ***
Capitolo 17: *** XVI. ***
Capitolo 18: *** XVII. ***
Capitolo 19: *** XVIII. ***
Capitolo 20: *** XIX. ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***
Capitolo 22: *** Nota dell’autore ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Non c’era nulla di mutato nell’isola: il sole continuava a sollevare vapori dalla palude e incendiava coi suoi raggi le rupi lontane;
ma davanti a me era stato consumato un atroce delitto, senza che io potessi far nulla per impedirlo”.


Robert Louis Stevenson, “L’Isola del Tesoro”
 

 
Prologo
 
 
 
Non tirava un filo di vento quel giorno; l’aria ristagnava ferma: sembrava in attesa anch’essa, come quegli uomini che trattenevano il fiato, gli occhi fissi sull’orizzonte. Le vele bianche solcavano il mare, stagliandosi contro l’azzurro sbiadito del cielo. Le accompagnava una foschia leggera, che immergeva le grandi navi in un’atmosfera quasi divina. E fu proprio agli dei che subito corsero le menti degli uomini e delle donne che li videro arrivare. Non sapevano quanto si sbagliavano.

Il capo del villaggio li aveva accolti con grandi onori; i bambini correvano nudi, annunciando l’arrivo degli stranieri: non stavano più nella pelle. I vecchi ricordavano gli antichi racconti, e li riproponevano ai giovani con parole lente e sommesse. I guerrieri si battevano il petto, impazienti di dimostrare il proprio valore agli dei che finalmente erano scesi a benedire il loro popolo.

Quando scesero dalle navi gli indigeni li videro in tutto il loro splendore: avevano la pelle chiara, che riluceva come evanescente nella luce del mattino. Indossavano strane vesti, che li coprivano quasi interamente: niente a che vedere con gli abiti ricavati dalle pelli animali che indossava la gente del posto. Le donne si coprirono i seni nudi, improvvisamente a disagio. Solo una di loro mantenne lo sguardo fermo, e si erse con orgoglio dinnanzi ai nuovi venuti senza accennare ad alcuna paura.

L’uomo che sembrava a capo della spedizione si fece avanti. Guardò la donna dalla pelle chiarissima che si ergeva fiera; i suoi piccoli occhi verdi scintillarono.

L’uomo sorrise, la bocca un taglio sottile e folti baffi che si incurvarono all’insù. Disse qualcosa in una strana lingua che gli indigeni non potevano capire.

Gli uomini parlavano tra loro. Alcuni avevano i capelli di un colore così chiaro che le popolazioni del luogo non avevano mai visto. Si muovevano con spavalderia, come se fossero loro i padroni dell’isola dove erano appena sbarcati.

“E non è forse così?”, si chiese Malik, il baicco, “Non sono stati forse loro a creare il cielo, il bosco, il mare ed ogni cosa che i nostri occhi hanno il privilegio di incontrare su questa terra?”

Non sapeva che presto si sarebbe ricreduto.
 
***
 
L’oro scintillava come i capelli degli uomini. Era strano come qualcosa che per alcuni non avesse alcun valore, per altri fosse il pretesto per uccidere. Ben presto Malik aveva capito che non c’era nulla di buono in quelle creature che erano giunte a bordo delle loro grandi imbarcazioni.

Provenivano da un luogo chiamato Espaňa; ridevano dei loro dei, delle loro nudità. Adesso tutto ciò che per gli indigeni aveva rappresento una certezza, si stava lentamente sgretolando. Vennero ridotti in schiavitù. Non provarono neanche a ribellarsi, convinti di fare la volontà dei loro dei. Dei che consolidavano il loro potere con il sangue. Per la prima volta gli indigeni conobbero la frusta, il dolore, epidemie.

Di uomini ce ne erano già pochi, decimati dalla sanguinosa battaglia che si era appena conclusa con una tribù rivale per mantenere il controllo dell’isola. L’isola che fino a quel giorno era stata la loro casa, per la quale valeva la pena combattere e morire. Questo aveva pensato Malik, quando gli spagnoli avevano cominciato a scavare, rivoltando la terra.

Adesso una grande ferita attraversava il fitto del bosco. Una grande ferita dalla quale non sgorgava sangue, ma una vena d’oro.

Il cacique era morto. Le sue numerose spose lo avevano pianto, ma il suo popolo non aveva potuto onorarlo come gli sarebbe spettato. Era passato un anno da quando, quelli che in un primo momento Malik aveva creduto fossero dei, si erano insediati nella baia.

Lei era morta: la donna che aveva amato da sempre, che aveva desiderato prendere in moglie, che al contrario di tutti gli altri, non si era mai prostrata ai piedi degli invasori. Non aveva voluto piegarsi, non aveva accettato di coprire le sue nudità, aveva portato avanti l’orgoglio del suo popolo fino a quando non era stata uccisa. Malik non aveva avuto il tempo di piangerla.

“Che si tratti di Juracàn, venuto per punirci?”, aveva mormorato il cacique prima di chiudere gli occhi per sempre.

Se quegli uomini erano veramente degli dei, di certo non erano dei benevoli. Con il passare dei mesi, Malik si era convinto che non ci fosse nulla di divino in loro.

Certo, il suo popolo non era estraneo alla crudeltà. In battaglia quegli uomini sembravano animati da una furia cieca, che portava loro ad accanirsi sulle carni dei nemici fino a ridurle a brandelli. Ma il furore sacro della guerra non aveva niente a che fare con quello che stava accadendo sull’isola. Non aveva niente a che fare con quello che avevano portato gli spagnoli.

“Sono venuti per questo”, disse una notte Malik, mostrando la pietra che gli spagnoli chiamavano oro, all’ultimo anziano rimasto.
Nessuno aveva idea di come potesse essere ancora vivo. La pelle scura dell’uomo era solcata da infinite cicatrici, che si confondevano con le rughe sul suo volto. Era sempre stato un punto di riferimento per il suo villaggio. Gli aveva insegnato tutto quello che sapeva sugli dei, su come parlare con loro. Ma da quando gli uomini pallidi erano giunti sull’isola, a Malik gli dei non avevano più parlato. Fino ad allora, gli era bastato osservare intensamente il fuoco, la luna, il pelo dell’acqua, il vento che soffiava sull’erba, per scorgere il riflesso divino; udiva in questo modo, il sussurro di forze più grandi di lui, che lo guidavano nelle scelte, che gli suggerivano cosa fare. Lui, a sua volta, aveva consigliato il cacique e aveva predetto le sorti di ogni battaglia che avevano combattuto. Adesso invece, un silenzio abissale sembrava aver inghiottito la sua mente.

“Hanno bisogno di questo. Quale dio ha bisogno di una pietra? Un vero dio creerebbe ciò che vuole dal nulla. Questi uomini dalla pelle bianca invece usano strani oggetti per piegare noi e la natura al loro volere. Non sono dei. Non sono coloro che avevamo creduto quando sono arrivati. Il loro potere non è dentro di loro, ma proviene dal di fuori. La loro forza non è innata, ma costruita. Hanno trovato il modo di racchiudere il potere del tuono all’interno di quelli che chiamano fucili. In questo modo ci hanno sopraffatto. Ma si tratta di un artificio. Non c’è verità né alcuna giustizia nelle loro azioni”.

Il vecchio aveva annuito alle parole di Malik.

“Non darti pena per ciò che è successo. Gli dei mi hanno parlato, prima che tutto ciò accadesse. Sapevo del loro arrivo. Avevo sentito dei sussurri… ho visto i nostri nemici di sempre cadere sotto il fuoco delle loro armi, e avevo creduto fossero dei salvatori giunti per farci dono di un potere più grande. Adesso ho capito che questi stranieri non fanno distinzione tra i nostri popoli. Siamo tutti uguali, ai loro occhi. Distruggono i nostri templi, facendosi beffe dei nostri dei e delle nostre preghiere”.

Era passato un anno dal loro arrivo. Del popolo di Malik non era rimasto che uno sparuto gruppo di uomini ridotti alla fame. Ossa sporgenti e occhi sbarrati di paura.

“Ormai non c’è più speranza di salvezza per noi. Sai cosa devi fare”, gli aveva detto il vecchio.

Malik lo sapeva. Aveva cominciato a capirlo già da mesi, quando aveva visto il sangue imbrattare le cosce della donna che aveva amato; il suo viso privato della bellezza, ma lo spirito guerriero mai sopito.

Il dio venne da lui in sogno. Malik era rimasto solo: non c’era più nessuno del suo popolo a guardarlo, mentre inalava la polvere che lo avrebbe trasportato nel mondo degli spiriti. Anche il vecchio era morto. Sull’isola sarebbero presto stati introdotti altri schiavi, rapiti da popoli simili a quello che gli spagnoli avevano sterminato. Se non avesse fatto qualcosa, quella sofferenza si sarebbe ripetuta senza fine.

La morte scivolava silenziosa nella notte, impregnando l’aria del suo profumo acre. Coastrique, suo fratello, la accompagnava nel buio. Malik lo pregò di interrompere quel ciclo di sofferenza senza fine. Il sorriso beffardo del dio somigliava a quello del primo straniero che aveva messo piede sull’isola. Adesso Malik sapeva cosa significava: pregustava tutto l’orrore che di lì a poco si sarebbe scatenato su quella terra.

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Capitolo 2
*** I ***


Oceano Indiano, 1695
 
Il capitano Ibrahim Muhammed si portò una mano alla testa. Non sentiva nulla in quel momento, solo un fischio continuo e sordo ed il cuore che gli martellava nella tempia. Per un attimo gli si offuscò la vista. Quando riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu la bandiera rossa che si gonfiava al passaggio del vento. L’aria era satura di polvere da sparo; molti uomini erano a terra, immersi nel sangue. Avevano le bocche spalancate come se stessero gridando, ma lui non riusciva a sentirli. 
Il teschio si muoveva sinuoso sulla bandiera rossa che risplendeva al sole. Il capitano sapeva bene cosa significasse quel simbolo: pirati. Era a conoscenza, quando era salpato a bordo della Ganj-i-Sawai, di cosa rischiava addentrandosi in quelle acque. Gli uomini di cui disponeva erano marinai esperti che aveva ingaggiato con la promessa di un cospicuo salario: il grande veliero indiano trasportava un immenso bottino appartenente all'imperatore Moghul Aurangzeb. La cupidigia aveva abbagliato gli uomini, convincendoli a correre il rischio di attraversare quelle acque insidiose, pur sapendo quanta gola il tesoro avrebbe fatto ai bucanieri.

Nei giorni precedenti il capitano Muhammed e la sua ciurma avevano resistito ad un primo, feroce attacco, ma ora si sentivano stanchi e fiaccati. La nave, che disponeva di quaranta cannoni, aveva tentato di respingere l’assalto, ma lo scoramento che gli uomini avevano provato, avvistando le navi pirata all’orizzonte, si era ben presto tramutato in terrore: era bastato un solo, fortunato colpo di cannone per affondare l’albero maestro della Ganj-i-Sawai; dopodiché, prima ancora che i pirati iniziassero l’arrembaggio, un cannone era esploso, scagliando molti degli uomini in mare, e gli altri orribilmente mutilati.

Il capitano Muhammed sapeva quale prassi avrebbero seguito gli assalitori: i rampini della nave pirata si erano già agganciati, ed i malviventi stavano salendo a bordo; sfoderate le spade, tagliavano senza pietà le gole degli uomini già a terra, inermi.

“Ci arrendiamo!”, gridò Muhammed, “Risparmiate almeno le donne!”

Intorno a lui, gli uomini opponevano una flebile resistenza. Avevano combattuto strenuamente nei giorni appena trascorsi, ma quel nuovo attacco li aveva totalmente spiazzati.

L’uomo si diresse verso di lui senza esitazione. Muhammed immaginò fosse il capitano: era alto, il volto arrossato e gli occhi lucidi, come in preda alla febbre, eppure i lineamenti erano distesi in un’espressione impassibile. Anche la voce con la quale gli si rivolse stonava con lo sguardo acceso: era calma, ma come il mare piatto, l’indiano sapeva quante insidie potesse nascondere.

“Mi chiamo Henry Avery, sono il capitano della Fancy, la nave che vi ha appena abbordato. E come è vero Dio, oggi voi ed i vostri uomini morirete. Le donne verranno stuprate, ogni oncia d’oro rubata dai miei pirati. Non ci sarà pietà, né giustizia, né alcuna esitazione. Nessuno verrà risparmiato. Potete abbandonare ogni speranza”.

Fu inaspettato perché i suoi occhi non tradirono alcuna emozione. Il capitano Henry Avery trafisse il suo avversario con la sciabola. Un’unica, fredda e precisa mossa dritta al cuore. L’indiano ebbe un sussulto. Un rivolo di sangue caldo gli sgorgò dalle labbra insieme ad un gemito che sembrava più di stupore che dolore. Poi il suo sguardo divenne vitreo.

 
***
 
“Ho sentito dire che i festeggiamenti per la vittoria sono durati giorni”, stava raccontando il giovane davanti ad un boccale di birra.

La locanda era affollata e rumorosa. Odore di alcol e sudore impregnavano le pareti. Le prostitute ammiccavano al bancone, civettavano con gli uomini vestiti con abiti logori. Molti di loro avevano i volti solcati da profonde cicatrici. Quasi tutti erano ubriachi. Una serata come un’altra sull’Isola di New Providence.

“Io ho sentito dire, che i tuoi cosiddetti festeggiamenti, per gli uomini della Fancy non consistono in altro che stupri e torture ai danni dei poveri diavoli che hanno la sfortuna di sopravvivere ad un loro assalto”, borbottò l’altro.

“Hal, tu sei sempre così prudente. Non capisco come hai fatto a finire quaggiù, in questi luoghi dimenticati da Dio”.

“Vuoi dire che non ho la stoffa del pirata?”

“La stoffa l’avresti pure. Ma quello che ti manca è la cattiveria. Bevi un po’ di rum, altro che birra!”

“Tu risolvi così ogni discussione, Craig. Ma per alcuni di noi ingozzarsi fino a dimenticare il proprio nome non è la soluzione ad ogni cosa”.

Craig proruppe in una sonora risata. Poco dopo Hal lo imitò.

“Tu sei troppo serio, Hal. Dovresti goderti un po’ la vita”

“Forse. O forse è per questo che di vita ne ho ancora una. E anche tu. Se non ci fossi io a guardarti le spalle…”

“Oh, al diavolo!”, sbottò Craig.

Il giovane pirata trangugiò quello che rimaneva della propria birra con un sorso. Si pulì la bocca con il dorso della mano: “Al diavolo”, ripeté, “Tu e la tua prudenza. Mi sono imbarcato per il Nuovo Mondo in cerca di avventura, poi ho incontrato te e ancora non ho visto un soldo bucato. Da quel che si dice sul capitano Avery, con l’ultimo arrembaggio ha reso i pirati della sua ciurma uomini molto ricchi”.

“Lo so”, lo interruppe Hal, “Stando a quanto si dice, il bottino della Gunsway[1] ammonta a circa 600.000 sterline. Praticamente il capitano Avery potrebbe andarsene in pensione oggi stesso, e vivere di rendita per il resto della sua vita. Non credo che si tratterrà a New Providence per molto tempo ancora”.

“Il Governatore gli ha dato il suo benestare per rimanere sull’isola. Avery non se ne andrà tanto presto, secondo me”.

“Forse”, gli concesse Hal ingurgitando l’ultimo sorso di birra, “Forse vorrà nascondere il tesoro, prima”.

“E perché mai dovrebbe farlo? Io sperpererei tutto fino all’ultimo centesimo…”

“Perché tenere in tasca tutto quell’oro, su un’isola gremita di pirati non mi sembra proprio una buona idea. E a te?”

Craig non rispose; indicò con un cenno del mento l’uomo che era appena entrato. Aveva gli occhi chiari, una barba leggera dalla quale spuntavano le labbra sottili e tese, simili ad una ferita che gli attraversava il volto, e la pelle abbrustolita dal sole. I capelli scuri, percorsi da qualche striatura grigia, erano legati in una coda bassa sulla nuca. Indossava abiti di ottima fattura, come potevano esseri quelli di un ufficiale della marina in un momento di svago.

Hal si accorse che molti altri lo stavano osservando. Il rumore era calato all’improvviso, anche se non era del tutto cessato; le risate sguaiate degli ubriachi si erano affievolite di qualche tono.

Quell’uomo incuteva un timore reverenziale anche senza sapere chi fosse. Ma Hal e Craig lo riconobbero subito: si trattava di Henry Avery, capitano della Fancy, che pochi giorni prima era riuscito a compiere un’impresa della quale tutta l’Isola di New Providence era già a conoscenza, e che ben presto sarebbe diventata leggenda.
 
***
 
Gli uomini che aveva lasciato di guardia alla Fancy erano i più fidati che avesse mai avuto. Avevano seguito Avery in ogni sua decisione senza mai contestarlo, dal giorno in cui aveva avuto l’idea di ammutinarsi sulla Charles e proclamarsi capitano. Da quel giorno, la nave era stata ribattezzata Fancy, e la ciurma al comando di Avery era passata dal servire un capitano corsaro, all’uccidere sotto la bandiera rossa dei pirati. Il Jolly Roger che Henry Avery aveva fatto cucire infatti, era rappresentato da un teschio di profilo con le sciabole incrociate, e svettava su uno sfondo rosso come il sangue.

Il rosso era stato usato da sempre dai pirati provenienti dall’Asia che popolavano i racconti che Avery aveva ascoltato fin da bambino. Ormai, la bandiera più diffusa tra i filibustieri era quella nera, ma il capitano Avery non aveva dimenticato quei racconti.

Ben presto, la reputazione della Fancy aveva fatto il giro dei sette mari, e quando il capitano dava l’ordine di issare la bandiera rossa, sapeva di aver fatto la scelta giusta. Erano ben poche le navi spagnole che non si sottomettevano, affrettandosi a sventolare la bandiera bianca. La temibile Jolie Rouge del Capitano Henry Avery infatti, recava un solo messaggio: morte certa.

La Fancy era immersa nell’oscurità e nel silenzio. In quella notte placida, anche l’acqua era immobile. Erano tre gli uomini di guardia che di tanto in tanto borbottavano qualcosa tra loro. I volti sonnacchiosi, ma le orecchie sempre allerta al minimo suono.

Non ebbero alcuna esitazione quando li videro: sei uomini con i volti coperti si muovevano nel buio, avvicinandosi di soppiatto alla nave. I tre della Fancy si scambiarono un’occhiata d’intesa, mentre il gruppetto, ormai consapevole di essere stato scoperto, si avvicinava con più convinzione.

Il capitano Avery aveva predetto che sarebbe successo: la voce sul tesoro dal valore inestimabile conquistato dalla Fancy si era sparso con rapidità su tutta l’isola. A Nassau in particolare, erano molti i criminali del nuovo mondo che si muovevano in tutta libertà, con il benestare del Governatore, fin troppo facilmente corruttibile.

La nave necessitava di fare carena, ma Avery esitava; il capitano aveva deciso di attendere anche a svuotare la cambusa, ancora stipata dall’ingente bottino conquistato. La Fancy attendeva, immobile sulle acque immobili, nella notte.

Avery aveva in mente di portare il tesoro in un posto sicuro, e solo in seguito dividerlo con la sua ciurma. Lo avrebbe fatto quando le acque si sarebbero calmate, e non avrebbero più corso il terribile rischio che al contrario, vivevano in quei giorni. Non si fidava più neanche dei suoi stessi uomini: la maggior parte di loro era dedita ad ogni tipo di vizio, e molti avrebbero voluto scialacquare subito la propria parte in donne e rum. Per questo, la decisione di aspettare era parsa subito molto impopolare: quei tre uomini che il capitano aveva messo di guardia alla nave, erano gli unici che non avevano emesso un fiato. Gli unici di cui sperava di potersi fidare, almeno per qualche giorno, finché non avesse trovato una soluzione un po’ più duratura.

Per ora, la Fancy stanziava nel porto di Nassau, in attesa di essere assalita. Avery lo aveva quasi sperato: in questo modo avrebbe dimostrato alla ciurma che le sue supposizioni erano esatte, e che nessuno di loro era al sicuro sull’Isola di New Providence, nonostante il benestare del Governo.

I tre uomini di guardia si mossero come uno solo: senza alcun bisogno di parole, si schierarono a difesa della nave: quello era il bottino che avevano conquistato con il loro sangue, e la ricompensa che spettava loro non sarebbe andata perduta. Per nessun motivo al mondo.

I sei assalitori estrassero le spade, ma i tre della Fancy furono altrettanto veloci. Da lontano, un osservatore poco attento avrebbe visto nient’altro che lo scintillio delle lame squarciare l’oscurità per qualche secondo; avrebbe forse udito il tintinnio delle spade che si scontravano, ed il rantolo soffocato degli uomini che cadevano.

Erano tre contro sei. Finito lo scontro, solo due erano i sopravvissuti, entrambi appartenenti all’equipaggio della Fancy. Gli altri erano morti quasi senza un lamento. I pirati rimasti si sbrigarono a derubare gli altri di ciò che potevano avere addosso di valore. Michael Darren, questo il nome di uno dei due rimasti in piedi, prese a frugare anche nelle tasche del compagno morto. L’altro lo guardò con riprovazione.

“Non possiamo fare più niente per lui”, si giustificò Michael con un’alzata di spalle.

Fecero luce con le torce, frugando anche nelle bocche dei cadaveri. Trovarono un paio di denti d’oro che staccarono senza troppi complimenti. Se ne misero in tasca uno ciascuno. Si pulirono le mani sporche di sangue addosso ai vestiti dei morti. Poi salirono sulla balaustra; trasportarono i cadaveri sulla nave uno alla volta. Ed uno alla volta, li restituirono al mare.

Per quella notte, il tesoro era salvo, rifletté Michael. Ma per quanto sarebbero sopravvissuti nella baia di Nassau, prima che una ciurma meglio organizzata avesse deciso di attaccarli?
 

[1] Altro nome con il quale gli inglesi chiamavano la Ganj-i-Sawai

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Capitolo 3
*** II ***


“E così vorreste arruolarvi con il capitano Avery…”.

George Vaughan teneva le braccia incrociate al petto mentre osservava i due giovani. Quelli, intimoriti dall’aspetto truce del vecchio pirata, gli risposero con un cenno d’assenso.

Vaughan sospirò: era il quartiermastro della Fancy fin dal primo giorno in cui la nave era stata battezzata. O meglio, ribattezzata, e rubata all’Inghilterra con lo scopo di depredare onesti marinai.

Il pirata era stato da sempre fedele ad Avery: riteneva il capitano un giovane pazzo, fiero ed indomito, e non si tirava indietro davanti ad alcun pericolo. Di certo avrebbe compiuto grandi imprese, questo lo si capiva bene. Il fegato non gli mancava, e neanche il cervello. A volte peccava di superbia, ma non era mai del tutto imprudente. Sapeva rischiare, ma non commetteva sciocchezze, o almeno non di quelle letali. Sì, Vaughan si era schierato senza alcun dubbio dalla parte del giovane capitano. Ma adesso cominciava a rimpiangere quella decisione.

Quando Avery lo aveva abbindolato con la promessa di rendere ricca la sua vecchiaia, Vaughan aveva immaginato che l’avventura si sarebbe conclusa in fretta, specialmente dopo aver conquistato il tesoro del Gran Mogol; invece adesso si trovava invischiato in quella situazione assurda: la Fancy aveva a bordo il più grande tesoro che tutti gli uomini della ciurma messi assieme avessero mai visto, eppure nessuno di loro aveva diritto di toccarlo.

Hal e Craig si strinsero nervosamente nelle spalle. Quel vecchio lupo di mare con una benda sull’occhio dava loro i brividi: il viso, solcato da rughe profonde, aveva un aspetto truce, e la sciabola che il quartiermastro della Fancy si portava sempre dietro, allacciata alla cintura, non era certo rassicurante.

“Abbiamo sentito dire che al capitano serve un posto per nascondere il tesoro fino a quando… be’, non sappiamo fino a quando. Ma comunque gli serve un posto sicuro”, disse Craig tutto d’un fiato.

Vaughan sussultò: mantenere un segreto a Nassau si era rivelata un’esperienza molto difficile, se non impossibile. Il vecchio quartiermastro aveva suggerito al capitano di vietare agli uomini di andarsene tanto in giro: era soprattutto nei bordelli e nelle locande che avvenivano i danni peggiori.

I pirati, dopo mesi in mare, non vedevano altro che alcol e donne, alle quali confidavano tutto, tra una scopata e l’altra. E quelle vipere erano delle maestre a carpire notizie. Di certo il capitano sapeva perfettamente a cosa avrebbe portato questa situazione: il tesoro della Fancy faceva gola a tutti, ed era questione di tempo prima che qualcuno non cercasse di appropriarsene. Comunque Avery si era rifiutato di imporre limiti ai membri dell’equipaggio: “Sono fin troppo esasperati”, gli aveva confidato. La misera parte che aveva dato loro da sperperare a Nassau non era abbastanza. Volevano di più, ma affinché la spartizione potesse avvenire in maniera regolare, serviva una maggiore tranquillità.

L’espressione cupa di Vaughan fece preoccupare ulteriormente i giovani.

“Non volevamo ficcare il naso, ma… insomma, dovete immaginarlo: ormai tutta New Providence non parla d’altro che di voi e del vostro tesoro”.

“E voi due…”, Vaughan indicò i ragazzi storcendo il naso, “Come avreste intenzione di farvi arruolare, sentiamo? Avete doti particolari, idee brillanti senza le quali non potremmo sopravvivere?L’equipaggio della Fancy è fin troppo nutrito, al momento…”

“Ma noi abbiamo la soluzione ai problemi che vi affliggono”, lo interruppe Craig. Poi, subito pentito, si morse la lingua.

“Perdonate il mio socio… è un po’ irruento. Quello che intendeva dire è che noi avremmo un suggerimento da dare al capitano per risolvere la questione del tesoro. O meglio, per nasconderlo in attesa del momento più opportuno per completare la spartizione tra la ciurma”, spiegò Hal.

“Tu sei sempre così diplomatico, amico…”, borbottò Craig, imbarazzato.

“Per fortuna. Se fossimo in balia della tua lingua lunga, qualcuno ci avrebbe già staccato la testa”

“Basta così”, intimò loro Vaughan.

Li osservò di nuovo, stavolta sforzandosi di vederli sul serio.

“Il capitano è oberato di lavoro, e se voi due topi di fogna pensate…”

“Non vogliamo disturbare il capitano Avery”, disse con foga Craig.

“Lo hai interrotto di nuovo. Non hai capito che non gli piace che gli parli sopra?”, lo rimproverò Hal.

“Hai ragione, mi dispiace. Ma se solo il signor Vaughan ed il capitano ci facessero l’onore di ascoltarci… se ci lasciassero esporre la nostra idea… poi magari fa schifo, ci danno degli idioti e ci mandano via a pedate. Sperando che non ci uccidano. Però sarebbe il caso di provarci, perché è davvero una buona idea, secondo me”.

“Di che diavolo state parlando?”, tuonò Vaughan.

“Ebbene…”, riprese Hal, dopo un attimo di esitazione, “Si tratta di un’isola. Non lontana da qui. Sconosciuta ai più… non segnalata sulle mappe. Sappiamo però per certo che esiste: gli spagnoli la usano da decenni per i loro traffici illegali”.

“Isola? Ma quale isola?”, Vaughan cominciava ad essere esasperato.

“L’isola dello Scheletro. O, come la chiamano quei cani degli spagnoli, la Isla del Esqueleto”.
 
***
 
Il capitano Avery non aveva voglia di scherzare, quella mattina. Durante la notte aveva perso uno dei suoi uomini più fidati, e gli faceva male la testa perché non si faceva una dormita decente chissà da quanto. L’ultima cosa di cui aveva bisogno erano due buffoni che blateravano a proposito di isole e scheletri.

Era andato da lei, quella notte. Dopo essere stato alla locanda ed aver bevuto fin quasi a stordirsi, era salito nella stanza della ragazza. La principessa era sveglia, seduta sul letto.

Quando Avery era entrato, si era stretta le ginocchia al petto, emettendo un singhiozzo. Avery aveva notato che indossava ancora le vesti strappate del giorno dell’arrembaggio. Doveva ricordarsi di mandare qualcuno degli uomini ad acquistare dei nuovi abiti, magari di fattura occidentale. Anche se la giovane indiana non si sarebbe mai davvero potuta mescolare alle donne inglesi. Sull’isola di New Providence comunque si trovava gente di qualsiasi etnia: nessuno avrebbe fatto caso a lei, se non fosse che avevano dovuto trasportarla alla locanda per i capelli, mentre si dibatteva urlante.

“Nessuno ti farà del male”, aveva cercato di rincuorarla il capitano Avery più e più volte durante il viaggio fino a Nassau, “Adesso sei sotto la mia protezione. Presto sarai a casa”.

Avery non credeva davvero che la ragazza capisse la sua lingua. Uno dei suoi uomini aveva origini indiane: era un ometto magrolino dalla pelle di un colore simile a quello della principessa, ma più slavato. Con l’aiuto di quell’uomo, aveva cercato di tradurre per lei le sue intenzioni: in quanto figlia del Gran Mogol, Avery l’avrebbe protetta, ed avrebbe assicurato al padre che nessuno l’avrebbe toccata, in cambio di un riscatto. La ragazza non aveva dato nessun cenno di assenso: probabilmente si sentiva ancora troppo scossa.

Le altre donne a bordo della Ganj-i-Sawai erano state stuprate ripetutamente. Quando Avery aveva intimato agli uomini di risalire a bordo della Fancy, dopo giorni di festeggiamenti, quelle stesse donne erano state sgozzate. Ormai ridotte a bambole di coccio, che non si muovevano se non strattonate dagli uomini, le indiane avevano aspettato docili che i coltelli calassero sulle loro gole, come innocenti animali offerti in sacrificio ad un qualche dio crudele.

“Capitano?”

Il tono impaziente di Vaughan distolse Avery dai suoi pensieri.

“Cosa ne pensate del piano?”

“A me non sembra affatto un piano”, sbuffò il capitano, massaggiandosi le tempie.

“Perdonatemi, ma…”, si intromise Craig, “Forse non credete all’esistenza dell’isola dello Scheletro. È vero, non è segnalata dalle mappe. Non quelle ufficiali, almeno. Ma è proprio qui che sta la chiave del successo della nostra impresa”.

“La nostra impresa?”, gli fece eco Avery, beffardo.

“Quale miglior posto per nascondere un tesoro da valore inestimabile, se non un’isola alla cui esistenza la maggior parte della gente non crede?”, continuò Hal.

“Capitano, capisco che questi due non sembrino molto affidabili…”, insistette Vaughan.

“Come sarebbe a dire?”, bisbigliò Craig al compagno.

“Ma… sappiamo per certo che i cubani hanno una sorta di magazzino da queste parti”, continuò il quartiermastro: “Non si azzardano a mettere piede sull’isola di New Providence, ma ogni pirata di Nassau sa che gli spagnoli che smerciano all’Avana, devono per forza avere un punto di riferimento da queste parti. Passare così vicino ai pirati inglesi con le navi piene di ogni ben di Dio sarebbe un azzardo troppo grande”, continuò Vaughan, “Forse l’Isola dello Scheletro non è altro che una leggenda, ma di certo esiste un antro segreto che, una volta scoperto, potremmo usare a nostro vantaggio. A questo punto, non ci resta altro che trovarlo”.

“E come, di grazia? Anche ammettendo che accetti di far rischiare la vita di quarantaquattro uomini in cerca di una fantomatica isola a forma di scheletro, sulla base di quale rotta dovremmo cominciare a cercarla?”

“Oh, questa è facile”, intervenne Craig.

“Abbiamo ricevuto una soffiata”, lo interruppe Hal, “Sappiamo che la Ventura, un galeone spagnolo carica di tabacco ed altre merci, transiterà in queste acque tra pochi giorni”.

“Non ci resta che appostarci e seguirla”, concluse Craig.

Avery aggrottò la fronte: quei due gli sembravano completamente pazzi.

“E voi per quale motivo ci state aiutando?”

“Ma per partecipare alla spartizione del tesoro, mi sembra ovvio”.

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Capitolo 4
*** III. ***


Continuava a sfregarsi le mani con l’acqua, nella speranza di mandare via per sempre quelle macchie di sangue. Eppure, per quanto ci provasse, la principessa Nymah continuava sentirsene imbrattata.

Quando chiudeva gli occhi, riviveva all’infinito le immagini di quella strage che aveva sconvolto per sempre il suo mondo. Di notte, quelle poche ore in cui riusciva a dormire, i pirati tornavano a popolare i suoi incubi, ancora ed ancora. Le sue compagne brutalmente massacrate, alzavano le mani nella sua direzione, come pregandola di salvarle, invocando un aiuto che la principessa non poteva dare loro.

Qualche giorno prima dell’attacco della Fancy, il capitano Muhammed era riuscito a sventare un altro arrembaggio pirata. L’uomo a capo della Amity, così si chiamava la nave che aveva ingaggiato la prima battaglia, si chiamava Thomas Tew. Quegli uomini avevano la pelle più bianca che Nymah avesse mai visto; alcuni avevano anche i capelli e gli occhi chiari, brillanti come la ragazza immaginava fossero quelli dei demoni.

E come demoni avevano sputato fuoco e disperazione sul Ganj-i-Sawai, la nave incaricata di riportarla a casa. Adesso l’India sembrava così lontana… lo sfarzo, l’oro ed i profumi del palazzo imperiale, le sete colorate di Delhi, i bambini affamati che allungavano le braccia scheletriche verso di lei… i loro sguardi sperduti erano simili a quelli delle donne che erano state stuprate ed uccise sulla nave.

Nymah era ormai certa non avrebbe mai più rivisto casa sua. Fino a poche settimane fa, un pensiero del genere l’avrebbe riempita di gioia: era promessa in sposa ad un uomo di trent’anni più vecchio di lei, dal quale, se Nymah avesse mai potuto disporre liberamente della propria vita, non si sarebbe fatta sfiorare neanche con un dito. Il pensiero di diventare moglie di un simile individuo la riempiva d’orrore. Poi aveva conosciuto l’orrore vero, quello della morte e della paura portate dai pirati mentre il Ganj-i-Sawai attraversava lo Stretto di Mandab, in rotta verso Surat.

Thomas Tew e la Amity avevano disseminato il terrore, colpendo ripetutamente la nave indiana; i pirati di Tew disponevano di otto cannoni, ma l’imponente nave sulla quale viaggiava Nymah era riuscita a respingere l’attacco. La principessa aveva sentito gli uomini imprecare: i danni erano stati ingenti. Le voci dei feriti non erano altro che flebili lamenti, ed alcune donne piangevano spaventate, abbracciandosi tra di loro. Nymha aveva camminato in mezzo alle compagne, stringendo loro le mani e cercando di rincuorarle: il peggio era passato, i pirati erano morti.

La Amity riposava immobile e silenziosa, adesso che il loro capitano giaceva sul fondo del mare. I cannoni della Ganj-i-Sawai avevano squarciato la pancia della nave pirata; per un lungo momento, Nymah non aveva visto altro che schegge di legno e fumo, salire in spirali dense verso l’alto. Thomas Tew era stato colpito a morte. Il relitto della Amity galleggiava tristemente sull’acqua tinta di rosso dal tramonto. La bandiera nera non faceva più paura, adesso.

Ma poi, quando le vedette avevano avvistato il vessillo rosso della Fancy, l’intera nave era stata percorsa da un brusio: avrebbero ingaggiato una nuova battaglia, non c’era scelta.

Nymah non conosceva la reputazione del pirata che aveva conquistato la Ganj-i-Sawai: le dissero che si chiamava Henry Avery, che la bandiera rossa della quale si fregiava la sua ciurma fosse simbolo di morte. Le dissero che, al contrario di Tew, che in alcune occasioni aveva dimostrato umanità nei confronti dei suoi nemici, il temibile Avery godeva nel massacrare brutalmente i poveracci che osavano opporgli resistenza, tanto quanto quelli che si arrendevano senza combattere. Il nemico era solo un ostacolo da abbattere: non c’era alcun rispetto per l’avversario, né pietà per lo sconfitto.
 

 
***
 

“La pietà è per i deboli”, aveva affermato Henry Avery, soffiando il fumo della pipa che condivideva con l’amico Thomas Tew.

Pochi giorni prima dell’attacco, si trovavano a bordo della Amity, dentro la cabina del capitano Tew. Su una scrivania di legno giacevano le mappe che erano servite per tracciare la rotta della Gunsway.

Gli altri capitani, Richard Wan, Joseph Faro, Thomas Wake e William Maze, se ne erano appena andati, dopo aver studiato la strategia di attacco.

Thomas portava ancora sul corpo le cicatrici di quando, qualche anno prima, la sua nave era stata catturata dalla Marina inglese. Gli ufficiali britannici avevano torturato lui e la sua ciurma. Ben pochi si erano salvati, ma Thomas era di tempra forte. Paradossalmente, quell’esperienza non sembrava averlo particolarmente indurito: il ricordo delle brutalità che aveva subito, aveva rafforzato sì in lui l’avversione nei confronti della corona e della legge, ma lo avevano spinto anche a cercare un senso più profondo in quella vita di stenti.

“A volte serve uno sforzo maggiore nel mostrare pietà verso il nemico, di quanto non ne servirebbe per abbatterlo in una furia cieca”, aveva risposto Thomas.

Sorrideva spesso, al contrario di Avery. Thomas credeva fortemente in ideali che non si addicevano molto ad un capitano di una feroce ciurma di pirati.

“Serve molto autocontrollo. Nessuna esitazione durante il combattimento, questo sì. Esitare sarebbe fatale durante un abbordaggio. Ma non tutti sono capaci di fermarsi, una volta abbordata la nave e reso innocuo l’equipaggio”.

“Uccidere i nostri nemici senza lasciare testimoni in vita è utile alla causa: è solo grazie al terrore che spargiamo per i mari, che molte navi si arrendono anche senza combattere. Se mostrassimo pietà, ben presto gli imperi si farebbero un’idea sbagliata di noi, come di avversari da non temere più di tanto. Mostri sì, ma che possono essere sconfitti. Non dobbiamo lasciare loro nessuna speranza. La loro speranza sarebbe la nostra fine”.

Gli uomini sedevano alla penombra della stanza. Erano profondamente diversi, eppure legati da una sincera stima reciproca: Avery non serbava alcun rimorso nell’uccidere e torturare. Sembrava fatto per quella vita, precaria, violenta, ma libera da ogni vincolo; solcare il mare e diffondere il terrore gli davano una soddisfazione che nessun agio o comodità avrebbero potuto eguagliare.

Thomas Tew, al contrario, si era trovato a doversi calare nei panni del pirata, come se fosse una sfida con se stesso: amava la libertà, e forse questa era una delle poche cose che aveva in comune con l’amico, ma detestava uccidere il prossimo, e lo faceva solo in battaglia. Preferiva, quando possibile, non combattere: spesso issare la bandiera nera convinceva i mercantili ad arrendersi, e questo produceva il risultato di un’ottima resa con il minimo sforzo.

Adesso Avery e Tew erano alleati, alla ricerca di un tesoro favoloso: tra pochi giorni avrebbero attaccato la nave dell’imperatore indiano Aurangzeb Alamgir I; il piano prevedeva che la Amity attaccasse per prima, fiaccando il nemico prima dell’arrivo delle altre quattro navi pirata, che avrebbero stretto la Gunsway senza darle possibilità di scampo.

“Quando avremo conquistato il bottino me ne andrò, Henry. Sai che questa vita non fa per me. Sono diventato ciò che sono solo per amore della libertà, che ho scoperto mio malgrado, in questa vita non può essere conquistata senza violenza. Ma grazie a quest’ultima impresa, avrò finalmente le risorse per realizzare il mio sogno”.

Avery sapeva di cosa l’amico stesse parlando. Glielo aveva raccontato in più di un’occasione: Libertalia, una sorta di paradiso terrestre dei fuorilegge, una terra promessa dove chiunque volesse vivere in libertà avrebbe potuto farlo. Le regole erano semplici: tutto era condiviso, dal denaro alle donne, dal cibo ai vestiti. Non c’erano imposizione di nessun genere, né tasse da pagare. Non c’era miseria né ricchezza, ma solidarietà: si viveva per lavorare, si lavorava per se stessi ma anche per gli altri.

Avery non era sicuro che gli sarebbe piaciuta: “Quel che è mio è mio. Se l’ho conquistato con il sudore e con il sangue, chi me lo fa fare di dividerlo con altri?”

“È questo egoismo che sta alla base delle leggi”, gli aveva spiegato Thomas, “La verità è che l’uomo non è altro che un’ombra di passaggio in questa vita; costruiamo castelli di sabbia, e crediamo siano di pietra. Ma quando soffia il vento, quando la risacca distrugge ciò che abbiamo creato, allora ci rendiamo conto di quanto fragili e precarie siano le nostre vite. Non siamo davvero padroni di nulla, possessori di niente. A Libertalia non esistono re, regine o leggi che ci dicano cosa è giusto e cosa è sbagliato: ogni uomo vive per sé, per ciò che lo rende felice, distaccandosi dall’idea di possesso delle cose terrene. Solo in questo modo possiamo aspirare alla vera felicità su questa terra”.

Avery aveva storto il naso: di certo al suo amico non mancava il dono dell’eloquenza, né la nobiltà di spirito. Lui però viveva di materia: ciò che conosceva era la carne, il sangue, il sesso. Versò da bere per sé e per Thomas.

“Alla nostra impresa, allora”, disse Avery, sollevando il bicchiere, “La tua ultima avventura”

Il capitano Thomas Tew sorrise, sollevando il bicchiere a sua volta: “Che possa essere non la fine, ma l’inizio di qualcosa di migliore. E, se vorrai smettere con tutto questo sappi che sarai sempre il benvenuto”.

“Non contarci”, aveva risposto Avery, scolando il rum tutto d’un fiato.

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Capitolo 5
*** IV. ***


L’equipaggio era inquieto. Circolavano strane voci sull’Isola dello Scheletro, ed era risaputo che chi andava per mare era estremamente superstizioso. Avery spiegò alla ciurma che era necessario nascondere il bottino: l’imperatore Mogol aveva preso come un’offesa personale la distruzione della nave sulla quale viaggiava il tesoro: la nave sulla quale viaggiava sua figlia, che una volta giunta a destinazione, sarebbe dovuta andare in sposa ad un ricco principe indiano.

Quest’ultimo particolare però, il nostro buon capitano non può certo raccontarlo agli uomini, rifletté Vaughan.

“Ho sentito dire che l’isola è infestata”.

Un brusio si levò tra i pirati. Raggruppati sul ponte della Fancy, si scambiavano occhiate preoccupate, bisbigliando tra di loro.

“Che vergogna”, proruppe il capitano Avery, “Uomini grandi e grossi… e vi chiamano pirati? Voi dovreste essere il terrore dei sette mari. Crudeli dispensatori di morte e disperazione. Dovreste essere l’incubo che tiene svegli i buoni cittadini inglesi di notte. E invece cosa vedo?”

Avery assunse un’espressione disgustata: “Signorine che rabbrividiscono al pensiero di affrontare cosa…? Degli spiriti? Che assurdità…”

“Non è solo questo, capitano”, intervenne Michael Darren, “Tutti noi contavamo di ottenere la nostra parte del tesoro in tempi più brevi…”
Michael aveva il viso di un angelo, occhi azzurri e capelli biondi che portava lunghi fino alle spalle. Le donne facevano carte false per lui, e lui le ricambiava tutte. A dispetto del suo aspetto da cherubino, Darren era un diavolo della peggior specie: si autodefiniva un libertino, e si raccontava fosse fuggito dall’Inghilterra a causa di una brutta situazione con una donna sposata. Il capitano Avery non aveva voluto approfondire, perché francamente i pettegolezzi non gli erano mai interessati. Comunque Darren era amante della bella vita; spietato in battaglia, uccideva senza pensarci due volte. Era uno degli uomini di cui Avery si fidava, sul quale poteva sempre contare perché non aveva paura di niente; tuttavia, il capitano sapeva che per tenere Darren buono, aveva bisogno di dargli un incentivo.

Senza denaro, in Darren l’interesse per l’avventura cominciava a svanire.

“Con la situazione politica che si è venuta a creare, Darren, lo capisci anche tu che ciò che proponi sarebbe troppo rischioso”, intervenne Vaughan.

Vecchio, saggio George, pensò il capitano Avery.

L’unico della sua ciurma che ragionava con la testa, e non sulla base di bassi istinti.

Michael non replicò; il suo volto si contrasse in un broncio pensieroso, un’espressione per la quale le donne andavano pazze.

“Il Governatore ci ha fatto la grazia di ospitarci a Nassau, ma adesso che le dichiarazioni del Gran Mogol ci hanno condannato tutti, restare qui è diventato troppo rischioso. Il Governo di New Providence non può certo permettersi di sfidare l’Impero Indiano. È strano che la Corona non abbia ancora rilasciato dichiarazioni: comunque penso che dovremmo concordare tutti sul fatto che non ci conviene rimanere qui ad aspettare ripercussioni che di certo non saranno a noi favorevoli”, continuò Vaughan, “Vi assicuro che nascondere il tesoro, al momento, è l’unica cosa sensata da fare. E sapete che io parlo unicamente nell’interesse di tutti. Ve l’ho ampiamente dimostrato più e più volte”.

Era vero. George Vaughan era esattamente l’uomo di cui sia la ciurma che il capitano Avery avevano bisogno: una mente lucida e analitica. Sapeva quando era il momento di mettersi in gioco e rischiare, ma sapeva affrontare anche le situazioni più delicate con la pacatezza del suo sangue freddo. Avery non sapeva se fosse stata l’età a conferirgli quelle capacità così utili su una nave dove gli uomini erano governati dagli istinti più rozzi, o se il quartiermastro della Fancy avesse sempre avuto lo stesso temperamento. Fatto stava che in molte occasioni Vaughan era riuscito a spiegare alla ciurma ciò che era meglio fare con parole che il capitano, fin troppo sbrigativo, non aveva voglia di cercare.

“Tra quanto tempo torneremo a prendere il tesoro?”, chiese Darren.

Gli uomini non erano entusiasti della situazione, ma sembravano essersi un po’ rassegnati.

“Tra un anno”, rispose lapidario il capitano, “Nel frattempo, dobbiamo andarcene da Nassau. Io e il signor Vaughan studieremo la situazione e decideremo dove sarebbe meglio ripararsi…”

“Un anno”, sbuffarono gli uomini.

Era più di quanto avessero sperato. Ma era necessario, rifletté il capitano. Gli venne in mente Thomas Tew, e l’utopia di cui gli aveva parlato pochi giorni prima di morire. Gli aveva descritto così bene Libertalia, la colonia che sognava di fondare, che ad Avery sembrava quasi di esserci stato lui stesso.

Thomas gli aveva spiegato che anche se fosse morto, il suo sogno non sarebbe finito: aveva preso accordi con altri due compari, un certo Oliver Mission, un ex ufficiale francese, ed un certo Angelo Caraccioli, un prete italo domenicano. Descritta così, non sembrava una gran società, rifletté Avery. Anzi, sembrava l’alleanza più stramba della quale avesse mai sentito parlare. Però Thomas ne era così entusiasta che Avery non aveva osato contraddirlo.

“Per Dio e la libertà”, mormorò Avery, ricordando il motto che Thomas e gli altri due avevano scelto come il mantra della loro colonia.

Così si preparò a salpare.


 
***
 

L’isola di New Providence pullulava di pirati e tagliagole che non vedevano l’ora di avvicinarsi ai membri dell’equipaggio della Fancy. Di questo Michael Darren era consapevole: forse l’idea del capitano non era tanto sbagliata, se persino quel vecchio barbagianni di Vaughan era d’accordo.

Quello che proprio non gli andava giù, era una convinzione che pian piano si era fatta strada nella sua mente: se non avessero rapito la ragazza, avrebbe fatto qualche differenza? Il Gran Mogol aveva chiesto il rilascio immediato della sua bella figlia, ma il capitano Avery non aveva preso l’idea neanche in considerazione. A quel punto, chiedere un riscatto all’imperatore indiano sarebbe stato un suicidio: ma cosa aveva intenzione di fare allora Avery con quella donna? Il capitano era un uomo spietato, che non mostrava mai pietà per nessuno, ma con la principessa era estremamente premuroso.

Michael non riusciva a capacitarsene: qualche giorno prima di salpare per l’Isola dello Scheletro, era stato invitato dal capitano ad acquistare abiti occidentali per la ragazza.

“E che non sia roba da puttana”, aveva specificato Vaughan.

Prima di partire, Michael aveva visto il capitano Avery togliersi il cappello e bussare alla porta della donna; lei aveva aperto e si era affacciata sulla soglia. Esitante, il capitano le aveva detto qualcosa a voce così bassa che Michael non era riuscito a sentirlo. Comunque, il ragazzo riconosceva nel capitano Avery tutti i sintomi dell’innamoramento. Era davvero assurdo che il capitano costringesse tutta la ciurma a rischiare la vita per tenersi una donna; ma forse c’erano altri motivi, motivi che Michael Darren non riusciva proprio a comprendere, per i quali la principessa non era ancora stata rilasciata.

Se il capitano preferisce rinunciare al tesoro che alla donna, deve vederci un guadagno che io evidentemente non vedo, rifletté Michael. Perché non rispedire la principessa in India, sperando così di tenersi buono il padre? Certo, l’affronto per l’abbattimento del mercantile non si poteva certo riparare così, ma continuare a tenersi la figlia in ostaggio non era certo il primo passo per risolvere il problema.

A Michael piacevano le donne: tanti anni prima, quando era solo un ragazzo che cercava di farsi strada nell’alta società, ne aveva sedotte molte. Molti suoi compagni, che non avevano conosciuto altro che le puttane, non capivano come facesse: avere un aspetto gradevole di certo aiutava, ma non era solo questo. Michael considerava le donne come esseri estremamente semplici. E fragili. Nella loro fragilità stava la chiave: avevano bisogno di complimenti, così come un fiore aveva bisogno dell’acqua.

Il giorno in cui era fuggito da Londra, era stato perché lo scandalo della sua relazione con la contessa Brandburry era venuto alla luce; era una donna di mezza età, sessualmente disinibita come tutte le sue coetanee (Michael lo sapeva per esperienza). Quando il marito li aveva scoperti insieme, era accaduto il finimondo: Michael era stato costretto a fuggire praticamente nudo dalla grande magione dei Brandburry. Per evitare la vendetta dell’uomo, e quindi la forca, aveva preso il largo. Di tanto in tanto ripensava con nostalgia alle lenzuola di seta profumata della contessa, ai grandi tappeti, al calore del caminetto, alle piume dei suoi abiti, ai gioielli… a tutte quelle comodità alle quali aveva detto addio. Ma anche nel Nuovo Mondo Michael aveva trovato piaceri ed interessi per i quali vivere. Certo, la piega che stavano prendendo gli eventi non gli piaceva affatto.

La nebbia in quella zona era fitta, e si innalzava in dense volute; l’umidità penetrava nelle ossa come un coltello: Michael capì perché circolassero quelle voci sull’Isola dello Scheletro: lì tutto era cupo e spettrale; perfino il sole cocente dei Caraibi sembrava stentare a riscaldare quelle acque infide.

La vedetta aveva avvistato la nave spagnola a poche miglia di distanza.

“Manteniamo la bandiera spagnola”, aveva ordinato il capitano.

Dal vessillo sventolavano i colori della Spagna, per ingannare l’equipaggio che avrebbe dovuto guidare la Fancy all’isola misteriosa. Le due navi si erano avvicinate, fronteggiandosi minacciosamente.

Gli spagnoli avevano chiesto di identificarsi: il capitano Avery aveva dato ordine di rispondere di essere in rotto verso l’Avana, con un carico di tessuti. A sua volta, in uno spagnolo perfetto, aveva rigirato la domanda: la Ventura, questo il nome della nave non molto grande che si trovavano davanti, commerciava liquori. I due capitani si erano salutati con un cenno ed ognuno aveva ripreso la propria rotta, con gli spagnoli in testa che si allontanavano abbastanza velocemente.

“Li perderemo”, aveva avvertito il signor Collins, il nostromo.

“No, niente affatto”, aveva ribattuto il capitano.

La Ventura navigava con le vele spiegate, mentre la Fancy la seguiva a velocità ridotta. 

Il signor Collins, dopo varie imprecazioni, aveva individuato la posizione perfetta. Quando la Ventura cominciò a virare, tutti tirarono un sospiro di sollievo: da quella posizione, aveva assicurato Collins, non li avrebbero visti.

Il timore di tutti, compreso il capitano Avery – anche se non lo avrebbe mai ammesso – era che l’isola dello Scheletro non fosse altro che un’invenzione, e che la Fancy si sarebbe trovata in rotta per l’Avana, andando così a finire direttamente nelle fauci del nemico.

Quando la prima bordata colpì la Ventura, la vedetta aveva ormai avvistato terra. Dell’Isola dello Scheletro, da quella distanza, non si vedeva altro che una striscia di sabbia coperta da un fitto bosco.

Gli spagnoli ci misero poco a reagire: risposero al fuoco quando i cannoni della Fancy stavano ancora ricaricando, come se qualcosa avesse messo la Ventura in allerta e si fosse preparata a quello che stava accadendo. Dopo un breve scontro a fuoco comunque, la Fancy ebbe la meglio, ed il capitano diede l’ordine di abbordare.

Gli uomini ebbero un sussulto: avevano creduto che il capitano avesse l’intenzione di affondare la nave senza colpo ferire: d'altronde avevano già un ricchissimo tesoro a bordo, e non era certo un carico di merci spagnole che avrebbe fatto la differenza per la Fancy.

In effetti Avery aveva preso in considerazione l’idea di affondare la Ventura ed abbandonare il carico in mare, ma poi aveva cambiato idea, spinto da una strana inquietudine.

L’idea comunque si rivelò felice: gli uomini della Fancy attaccarono il piccolo mercantile spagnolo, falciando ogni uomo che gli si parasse davanti, con la stessa ferocia con la quale avevano affrontato ogni combattimento passato.

“Scendete nella stiva”, ordinò il capitano, “Saccheggiate ogni bene che trovate”.

Con un grido di giubilo, Michael Darren guidò un buon numero di uomini sotto coperta. Pochi minuti dopo, la ciurma stava festeggiando con il rum spagnolo. Vaughan imprecò tra i denti: non era il caso di cominciare ad ubriacarsi proprio adesso che servivano uomini per ormeggiare la nave e svuotarla del suo ingente contenuto sull’isola. Non capiva perché il capitano si fosse impuntato per abbordare la Ventura, ma sapeva che Avery non dava mai un ordine a caso.

L’animo dell’equipaggio si era risollevato grazie a quel breve combattimento andato a buon fine. Tuttavia, Vaughan sapeva che rincuorare gli uomini non poteva essere l’unica motivazione di Avery. Lui, che non aveva mai dato importanza all’essere amato dai propri uomini, e che fondava la sua autorità sulla capacità di essere più che altro temuto.

Dal canto suo, Avery si era accostato a quello che doveva essere il capitano della Ventura. Lo spagnolo aveva la pelle bruciacchiata dal sole ed i capelli, che un tempo dovevano essere stati neri, erano percorsi da numerosi, sottili fili bianchi. Dalla bocca gli colava un rivolo di sangue. Era stato colpito a morte da una grossa scheggia di legno che doveva esserglisi conficcata nella gola a causa del fuoco dei cannoni della Fancy. Miracolosamente era ancora vivo, si sorprese Vaughan.

Il capitano Avery si inginocchiò: aveva un’espressione seria ed indecifrabile. Vaughan non aveva mai visto il capitano avere pietà per qualcuno, quindi non riusciva proprio a capire cosa diavolo stesse facendo.

“Grazie per averci condotti all’Isla del Esqueleto. Era esattamente il luogo che stavamo cercando”, mormorò Avery.

Nonostante le parole apparentemente vittoriose, il tono della sua voce nascondeva una certa apprensione.

Lo spagnolo tossì, perdendo sangue dalla bocca.

“Avete commesso un errore a venire qui… non sapete cosa vi aspetta”, biascicò.

“Cosa vuoi dire?”, gli chiese Avery dopo qualche secondo di esitazione.

Ma lo spagnolo non rispose: gli occhi vitrei fissavano già il vuoto della morte.

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Capitolo 6
*** V. ***


Non appena misero piede sull’isola, i pirati della Fancy si resero conto che qualcosa non andava. L’aria era diversa in quella zona; sembrava ristagnante, un’afa che mozzava il respiro.

Il capitano Avery scrutava l’orizzonte con espressione impassibile. Tutta la ciurma era ammutolita. Gli uomini provavano emozioni contrastanti: l’unica cosa sulla quale tutti avrebbero concordato, era un’avversione istintiva nei confronti dell’isola, e la volontà di andarsene da quel luogo il prima possibile.

Michael Darren sospirò: ripensava alla conversazione tenuta la sera prima con il quartiermastro: entrambi concordavano sul fatto che nascondere il tesoro poteva non essere l’idea più brillante avuta dal capitano. Per non parlare di quella povera disgraziata che teneva chiusa a chiave in una stanza di un bordello, a Nassau.

“Cosa vuole farne il capitano della ragazza?”, gli aveva chiesto Michael, “Chiedere il riscatto adesso all’imperatore sarebbe una follia. Quello è già fin troppo incazzato perché gli abbiamo affondato la nave e rubato il tesoro da sotto il naso. Mi pare esagerato chiedergli di sborsare altri soldi per la figlia… a parte il fatto che non scenderà mai a compromessi”.

“Non ti illudere che rimandargli indietro la principessa possa servire a qualcosa. Il danno economico che gli abbiamo arrecato è troppo grande da poter essere liquidato così”.

“Non dico che basti riportargli a casa la figlioletta sana e salva possa chiudere il discorso... ma cosa ha intenzione di fare il capitano con lei? Perché a me sembra tanto che se la tenga unicamente per i suoi trastulli personali…”

“Attento a quello che dici, ragazzo…”, lo redarguì il quartiermastro.

Michael non si lasciò intimidire: “A me non importa cosa se ne fa Avery. Purché non arrechi danno a noi. Tra l’altro, tenerla a Nassau è pericoloso anche per la ragazza. Chi ci dice che il Governatore non decida di consegnarla lui stesso al Gran Mogol? Potrebbe decidere di farlo come atto di buona volontà per riparare al torto subito…”
Vaughan si strinse nelle spalle.

“Nessuno sa dove si trovi la ragazza…”

“Ma non è difficile immaginarlo”.

“Oh, senti… se il capitano ha scelto di lasciarla lì vorrà dire che per il momento la riterrà la scelta più saggia. Non ho idea di cosa voglia fare in futuro…”

In effetti quella situazione rendeva George Vaughan alquanto sconcertato. Una volta il capitano Avery si confidava spontaneamente con lui; gli chiedeva consiglio quando doveva prendere una decisione importante, come poteva essere quella della sorte della principessa indiana. Adesso sembrava non tenere più in considerazione l’opinione di nessuno. Vaughan avrebbe tanto voluto darsela a gambe, a quel punto. Spartire il tesoro, ed ognuno per la sua strada. Ecco cosa aveva consigliato al capitano. Altro che viaggi misteriosi su isole maledette.

All’improvviso, la nave si stagliò dinnanzi a loro. Nascosta dalla nebbia, non era stata avvistata dai cannocchiali della Fancy. La vedetta era scesa: con quella foschia era inutile cercare di individuare qualcosa. Per questo, la sagoma nera e minacciosa del veliero incastrato nell’insenatura, lasciò gli uomini improvvisamente senza fiato. Chissà da quanto tempo si trovava lì: il legno era marcito, divorato dall’acqua che lo lambiva. Immobile e silenziosa, la nave sembrava uno scheletro lasciato lì come benvenuto – o avvertimento – nei confronti di coloro che raggiungevano l’isola.

“Dev’essere molto tempo che si trova qui”, sentenziò Vaughan.

“È possibile che sia uno dei mercantili dell’Avana”, ipotizzò Michael.

“No, lo escludo”, lo liquidò il capitano, “Il signor Vaughan ha ragione. Dev’essere molto tempo che si trova qui. Non credo che qualcuno la stia ancora cercando”.

Michael sentì un brivido freddo percorrergli la schiena, nonostante la calura opprimente.

“Cosa facciamo, capitano?”

Avery aveva le braccia incrociate; non sembrava freddo ed impassibile come al solito. Evidentemente l’isola sortiva un qualche effetto anche su di lui, che non gli era possibile celare del tutto.

“Saliamo. Andiamo a vedere di che si tratta”.

“Speri di trovarci qualcosa di interessante lì dentro?”, gli chiese Michael, perché io non vedo altri motivi per farlo, aggiunse mentalmente.

“Forse. Ma non nel senso che intendi tu”, gli rispose lapidario.

Certo, se ci fosse stato qualcosa di prezioso a bordo della nave, di sicuro gli spagnoli che usavano l’isola per i propri traffici l’avrebbero già razziato. Allora cosa sperava di trovare il capitano? Se lo chiese anche Vaughan.

Michael ed il quartiermastro si scambiarono un’occhiata preoccupata, ma non osarono discutere gli ordini. Nessuno lo faceva mai, quando si trattava di Avery.

L’equipaggio della Fancy era composto da quarantaquattro uomini. Lanciati i rampini, furono solo in sei ad avere il coraggio di salire a bordo della nave, tra i quali il capitano Avery, Michael Darren e George Vaughan. Il legno sul ponte del relitto era anch’esso marcio, così come la plancia che si vedeva dall’esterno.

In silenzio, i sei uomini scesero sotto coperta, il capitano Avery in testa al gruppo, seguito a ruota da Michael. Vaughan chiudeva la fila. Senza dire una parola, le dita tese sull’elsa delle spade, come a doversi difendere da una minaccia improvvisa, nonostante la nave fosse abbandonata.

Non credo che qualcuno la stia ancora cercando, aveva detto il capitano Avery.

Michael sentì un sudore freddo imperargli la fronte. Nessuno la stava cercando. La Fancy invece era la nave più ricercata dei Caraibi, eppure in quel momento, giunti ai confini del mondo, in quel luogo dimenticato da Dio, sarebbero potuti morire tutti, senza essere mai ritrovati. Nessuno sapeva dove si trovava l’isola, in quanto la rotta era segreta. Nessuno li avrebbe più cercati. Non lì.

Non trovarono nulla fino a che il capitano Avery non aprì la stiva. Forzò la porta che opponeva resistenza: il pomello doveva essersi incastrato nel legno in deterioramento. Aprendo tuttavia, Avery sentì il tintinnio della chiave che cadeva a terra. Come se la porta fosse stata chiusa dall’interno.

Quello che videro i sei uomini della Fancy, non lo avrebbero mai dimenticato: cadaveri. Corpi ammassati l’uno sull’altro, come sorpresi dalla morte mentre ancora si muovevano. Molti erano in uno stato di avanzata decomposizione, di altri non erano rimaste che le ossa.

Per quella che sembrò un’eternità nessuno ebbe il coraggio di parlare. Dovevano esserci circa trenta corpi chiusi nella stiva. Alla fine fu il capitano a spezzare il silenzio: i tacchi dei suoi stivali risuonarono mentre calpestava l’acqua putrida che stagnava a terra. Si avvicinò lentamente, inoltrandosi nella fitta selva di cadaveri.

“Sembra che si siano divorati l’uno con l’altro”, mormorò, osservando le pose innaturali nelle quali la morte aveva scolpito quei corpi per sempre.

Erano avvinghiati l’uno all’altro; ad alcuni mancavano degli arti, altri erano stati palesemente squartati.

“Per l’amor di Dio…”, disse Vaughan in un soffio.

“Credi perfino in Dio, adesso?”, lo incalzò Michael.

A dispetto della battuta che voleva essere strafottente, al giovane tremava la voce.

I sei uomini si convinsero ad entrare, stando attenti a non urtare i cadaveri che occupavano la stiva in lungo ed in largo.

“La porta era chiusa dall’interno”, osservò Vaughan.

“Si sono divorati tra di loro. Molti erano ancora vivi quando sono stati dilaniati”, aggiunse Michael.

Alcuni, tra i volti mummificati dei cadaveri meglio conservati, erano infatti contratti in smorfie terrificanti, come se fossero morti tra atroci dolori.

“Usciamo da qui”, si decise il capitano.

Grazie a Dio, pensarono Michael e Vaughan, scambiandosi un’occhiata.

Fecero marcia indietro ed attraversarono l’interno della nave: sul lato opposto si trovava la cabina del capitano. Avery fece di nuovo forza sulla porta; stesso tintinnio di chiave caduta: anche quella era stata chiusa dall’interno.

Il capitano della nave fantasma era ridotto ad un mucchietto d’ossa. La cabina era spartana: quasi del tutto sgombra, qualche scaffale vuoto e delle poche carte sulla scrivania. I sei uomini della Fancy entrarono con animo lugubre e si guardarono attorno. Da una piccola finestra filtrava una luce lattiginosa.

“Il diario di bordo”, Avery estrasse un libricino ammuffito dalle dita dello scheletro del capitano.

Dovette strapparglielo di mano: negli anni, sembrava che le ossa del pover’uomo si fossero conficcate nella carta, diventando un tutt’uno con i pensieri scritti su quelle pagine.

“Cosa dice?”, Vaughan gli si avvicinò, imitato dagli altri cinque.

Avery aprì la copertina del diario con cautela: la carta era bagnata e molto fragile. Le parole, vergate con un inchiostro ormai scolorito, erano scritte in spagnolo, che Avery tradusse mentalmente.
 
17 maggio 1636.

Sono il capitano Fernando Rosco, la giornata è limpida ed il cielo terso; la brezza marina spira leggera e ci sospinge dolcemente attraverso il Mar dei Caraibi. Salpiamo in questo giorno benedetto dal Signore dal porto dell’Avana, a bordo del veliero Esperanza. Siamo diretti in Florida con un carico di tabacco. Il nostro tabacco cubano, proveniente dalle nostre migliori piantagioni.

Avery immaginò un grasso capitano spagnolo con folti baffi scuri ed un sorriso gioviale, orgoglioso di essere a capo di quella ricca spedizione. Sfogliò il diario: le prime pagine erano scarne di annotazioni, scritte con una grafia leggera e svolazzante.

Di tanto in tanto il racconto era interrotto da qualche disegno: parti della nave, schizzi di spiagge tropicali e piccoli pesci. Poi, via via la grafia diventava più fitta; le lettere si incurvavano, come se dovessero sopportare il peso delle parole che andavano a comporre.

Il diario si interrompeva bruscamente: nell’ultima pagina, il capitano Rosco aveva scritto ripetutamente No estamos solos.

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Capitolo 7
*** VI. ***


Hal e Craig stavano cominciando a pentirsi di essersi imbarcati in quell’avventura. Da quando erano salpati avevano avuto uno strano presentimento. Quello che li rincuorava da una parte, mentre dall’altra li preoccupava maggiormente, era che anche il resto dell’equipaggio sembrava avere il loro stesso sentimento. Eppure era stata una loro idea, quella di nascondere il tesoro all’Isola dello Scheletro. E adesso che erano arrivati, la situazione sembrava essere peggiorata, se possibile.

Craig aveva sofferto il mal di mare durante il breve viaggio. Dopo aver vomitato anche l’anima, adesso sedeva scomposto sul ponte della nave. Hal aveva provato a prenderlo in giro, senza ottenere grandi risultati: “Non eri tu quello che sosteneva di discendere dai vichinghi?”, gli aveva chiesto nel tentativo di tirargli su il morale.

“E adesso che diavolo c’entra?”, gli aveva ringhiato l’amico di rimando.
“Be’, i vichinghi non avevano problemi con le navi. Viaggiavano il lungo ed in largo per tutto quello che all’epoca era il mondo conosciuto…”

“I miei antenati di sicuro combattevano a terra”, aveva chiuso il discorso Craig.

Hal non aveva insistito. Quando il capitano Avery era tornato dall’esplorazione della nave fantasma, portando con sé uno strano taccuino, Hal aveva ricominciato a sentire quello strano presentimento.

Il diario gli dava i brividi. Avery lo teneva stretto al petto come se fosse stato un oggetto prezioso. Nelle ore che seguirono, non lo posò neanche per un secondo. Organizzarono una spedizione: serviva che un gruppo di uomini si inoltrasse sull’isola e completasse una prima esplorazione del luogo. Sarebbe stato ottimo individuare subito un punto strategico dove nascondere la cassa colma d’oro e gioielli. Quel gruppo si sarebbe accampato sull’isola, aveva spiegato Avery, ed il giorno seguente lui e tutti gli altri lo avrebbero raggiunto per sotterrare il tesoro. Un piano chiaro e semplice.

C’è solo un particolare, pensò Hal: nessuno, e dico nessuno, è tanto pazzo da offrirsi volontario per andare ad esplorare l’isola. Insomma, quel posto era davvero inquietante. Nessuno aveva voglia di scherzare a quel punto. Specialmente dopo aver sentito il racconto di ciò che era stato trovato a bordo del veliero spagnolo.

“Non c’è nessun volontario?”

Il capitano Avery cominciava ad innervosirsi. Non era un uomo superstizioso, come la maggior parte di coloro che passavano la vita in mare. Cercava di non sfidare mai la sorte ed aveva rispetto per le credenze popolari su ciò che si poteva o non si poteva fare su una nave. Ma di fronte ad una scelta obbligata, Avery si rifaceva alla realtà oggettiva per prendere le sue decisioni. E in quel caso si trovava davanti ad una scelta obbligata: erano arrivati sull’isola, e non potevano certo tornare indietro. Dovevano sbrigarsi a nascondere il tesoro, così se ne sarebbero potuti andare il prima possibile. Certo, la prospettiva di dover tornare in futuro a riprendere la cassa non metteva i pirati di buon umore. Perfino le bottiglie di rum confiscate dalla nave spagnola quella mattina giacevano a terra, ignorate.

“Vado io. Guiderò la spedizione”, si fece avanti Michael Darren.

Il capitano gli fece un cenno d’assenso. L’ultima cosa che Michael aveva voglia di fare era inoltrarsi sull’isola, ma era implicito che toccasse a lui il compito più ingrato. Negli ultimi mesi, Michael stava diventando sempre più indispensabile sulla Fancy. Era una figura meno autoritaria di Vaughan, ma si stava di fatto trasformando nel braccio destro – armato - del capitano Avery. Quando c’era da fare del lavoro sporco, il capitano dava l’ordine, Vaughan spiegava perché lo si dovesse eseguire, e Michael dava il buon esempio, spianando la strada alla ciurma con la destrezza dei suoi fendenti. Aveva imparato a combattere a Londra, e continuava a farlo con raffinatezza, un’eleganza che difficilmente si poteva trovare tra i pirati. Fatto sta, che elegante o meno, Michael era un abile spadaccino e le sue retate erano sempre efficaci.

“Scegli degli uomini”, lo invitò il capitano.

“Io voglio scendere da qui”, biascicò Craig.
 
“Vuoi andare sull’isola?”, sussultò Hal. Poi, davanti allo sguardo corrucciato del capitano, si affrettò ad assumere un’espressione più composta: “Sei sicuro? Forse per questa spedizione serve gente più esperta…”

“No, affatto. Dobbiamo solo perlustrare la zona. L’unica abilità che vi serve è quella di non perdervi tra la vegetazione”, lo interruppe Michael.

“Il che non mi pare poco…”, commentò Hal.

“Voi due andrete bene”, sentenziò Michael, “Inoltre voglio Jones e Lockwood”

“Molto bene”, annuì Avery.

I due uomini convocati da Michael non osarono commentare. Si limitarono a scambiarsi un’occhiata lugubre.
 
I cinque sbarcarono sull’isola a bordo di una scialuppa, mentre la Fancy veniva ormeggiata a qualche miglio dalla costa. Goffamente, i pirati calpestarono la sabbia bagnata e si fermarono sulla riva: la spiaggia era una sottile striscia di terra, mentre la foresta si estendeva a perdita d’occhio.

“Facciamo la finita”, borbottò Michael mettendosi a capo della fila.

Gli altri lo seguirono mogi. Appena messo piede sulla spiaggia, tutti si erano resi conto di come l’aria fosse ancora più insalubre.

“Devono esserci degli acquitrini qui intorno”, aveva commentato Lockwood.

Michael lo aveva scelto perché aveva una mente sveglia e non si faceva suggestionare tanto facilmente. Non si poteva dire lo stesso di Jones, che non era molto intelligente ma aveva la mole di un orso; non era semplicemente grasso: tutto in lui, dal grosso testone pelato, alle spalle massicce, faceva pensare che quell’uomo discendessi dai giganti. Insomma, non sarebbe piaciuto a nessuno doverlo affrontare come avversario, ma ti faceva sentire al sicuro se lo avevi dalla tua parte.

La previsione di Lockwood si era rivelata giusta: ben presto raggiunsero una zona paludosa, dalla quale si innalzavano dense volute di vapore.

“Giriamo al largo da qua, o ci prenderemo la malaria”, disse Michael cambiando direzione.

Era di umore nero, e desiderava soltanto sbrigarsi a portare a termine quel compito. In poche ore i sei uomini percorsero a piedi diverse miglia.

“Comincia a segnare i punti”, ordinò Michael a Lockwood.

Quello estrasse dalla giacca un grosso pezzo di carta un po’ ingiallita, sulla quale era già stato disegnato un abbozzo dell’isola. Nella parte che i pirati avevano avuto modo di osservare, avevano individuato diversi punti di riferimento: erano tre le piccole alture sulle quali avevano intenzione di salire per poter osservare l’isola dall’alto.

Nel diario del capitano Rosco, Avery aveva rinvenuto diversi schizzi della mappa dell’isola, ma non era certo che fossero attendibili: a quanto pare sulla Esperanza erano tutti impazziti.

Lockwood comunque confrontò i disegni di Rosco con quello che avevano appreso fino ad allora sull’isola. Si era seduto a terra, con il busto appoggiato ad un tronco e le carte disposte su un grosso masso. Anche gli altri si erano fermati, mettendosi a sedere come meglio potevano.

“Mangiamo qualcosa prima di riprendere il cammino”, concesse Michael.

Jones era incaricato di trasportare le provviste, essendo il più forte dei cinque. Aprì il sacco nel quale erano contenuti i viveri e li distribuì agli altri con un grugnito di approvazione.

Poco dopo ripresero l’esplorazione, ed andarono avanti fino al tramonto.

“Sicuro che non ci siamo persi?”, chiese Michael a Lockwood.

Quella maledetta foresta gli sembrava sempre uguale a sé stessa.

“Credo proprio di no”, lo confortò l’altro, “Gli appunti degli spagnoli si sono rivelati esatti”.

Michael non sapeva se esserne felice o meno.

“Accampiamoci per la notte. Riprenderemo domani”

“Finalmente”, esultarono Hal e Craig.

“Non credo di aver mai camminato così tanto in vita mia…”, si lamentò Craig.

“Sei tu che sei voluto scendere a tutti i costi dalla nave”, lo rimproverò l’amico.

“Ci stavo per rimettere anche le budella, su quella nave…”

Ore dopo, quando Jones aprì nuovamente il sacco contenente i viveri, ebbe una brutta sorpresa. Assunse un’espressione incredula, che in pochi secondi divenne furente.

“Chi è stato?”, tuonò, “Chi si è fottuto le provviste?”

“Di cosa stai parlando?”, esclamò Michael, esterrefatto.

“Guarda qua!”, insistette Jones, rivoltando il sacco.

Erano rimaste solo due gallette quasi completamente sbriciolate. Seguirono una serie di improperi da parte dei sei pirati.

“Tu”, Jones puntò un dito robusto contro Craig, “tu sei l’unico ad aver insistito a voler esplorare l’isola”.

Jones aveva accusato Craig, ma aveva indicato sia lui che Hal. Entrambi sussultarono.

 “Adesso è una colpa offrirsi come volontario?”, boccheggiò Craig.

“Il mio amico si stava sentendo male…”, balbettò Hal.

“Tu che lo difendi”, aggiunse Jones, “Devi essere coinvolto nel furto!”

“Ma come potremmo aver rubato il cibo?”, continuò a schermirsi Hal, mentre il colorito di Craig era passato dal bianco cadaverico al verde, “La sacca l’hai tenuta sempre tu”.

“Avreste potuto rubare il cibo quando sono andato a pisciare. L’ho lasciata a terra, incustodita”.

“Incustodita mica tanto… il signor Darren ed il signor Lockwood erano presenti. O vuoi accusare anche loro di aver partecipato al complotto?”, Hal ostentava una sicurezza che non aveva.

“Lasciali perdere, Jones. Questo qui sta per svenire o vomitare… o forse entrambe le cose”, li interruppe Michael, indicando Craig con un cenno della testa, “E quest’altro è troppo codardo per aver commesso una tale imprudenza”

“Ma non ha senso…”, intervenne Lockwood per la prima volta, “Nessuno avrebbe potuto rubare le provviste. Neanche il borsaiolo più svelto di tutte le Indie Occidentali... abbiamo avuto sempre la sacca sotto la vista di tutti. E poi perché farlo? Insomma, siamo solo noi sei sull’isola. Come poteva pensare il ladro di farla franca?”

“Eppure qualcuno è stato”, insistette Jones, ancora furente. Prese a colpire il tronco di un albero con i pugni.

Hal e Craig sussultavano ad ogni colpo, immaginando che tra poco, al posto di quell’albero ci sarebbe stata la loro faccia.

“Non mi fido di questi due. Non li conosco, si sono uniti all’equipaggio soltanto ieri e già si danno da fare per mettersi in mostra. Hanno un secondo fine, è chiaro come il sole”.

“L’unico nostro fine è quello di partecipare alla spartizione del bottino. E lo abbiamo reso noto al capitano nel momento in cui abbiamo proposto di nascondere il tesoro sull’isola”, spiegò Hal.

Craig era sempre più pallido, con la fronte impregnata di sudore.

“Insomma, su una cosa il signor Jones ha ragione: qualcuno deve pur essere stato…”, mormorò Lockwood, “Le provviste non si sono certo mangiate da sole…”

“Forse non ne abbiamo prese così tante come pensavamo. Forse ci siamo sbagliati…”, ipotizzò Michael. Dall’espressione del suo volto, sembrava che non ci credesse neanche lui.

“Non è possibile”, abbaiò Jones colpendo di nuovo l’albero. Aveva le nocche della mano insanguinate, ma sembrava immune al dolore, “ho controllato poche ore fa! C’era ancora parecchia roba per tutti”.

“Devi esserti sbagliato, Jones”, tagliò corto Michael, “Adesso incolparsi l’un l’altro non porterà a niente. E smettila di prenderla con quell’albero! Vuoi abbatterlo a mani nude?”
Jones diede un ultimo, rabbioso colpo, poi si arrese, lasciando cadere le braccia sui fianchi ed assumendo un’espressione vacua.

“Qualcuno dovrà pagare per questo…”, insistette, ma con voce stanca.

“E qualcuno pagherà. Ma adesso abbiamo un compito da portare a termine. Accendiamo un fuoco ed accampiamoci per la notte. Domani mattina andremo a caccia. Nella peggiore delle ipotesi, aspetteremo il resto dell’equipaggio con le provviste”.

“Secondo me è un’ottima idea… si vede che il signor Darren è un tipo brillante”, sorrise Craig. Era ancora un po’ pallido, ma cominciava a pensare che non sarebbe morto quel giorno.

“Tu… non cantare vittoria, nano”, Jones prese Craig per il bavero della camicia, alzandolo da terra di qualche centimetro.

Craig aveva una corporatura tozza e robusta, che, unita al fatto che si portava sempre dietro un’ascia – la preferiva alla spada per combattere, come i suoi presunti antenati vichinghi – lo faceva assomigliare ad una specie di gnomo guerriero. Incuteva abbastanza timore se lo si incontrava in un momentaccio, quando smetteva di sorridere e si incattiviva. Tuttavia, confrontato con il mastodontico Jones, Craig appariva come piccolo ed indifeso.

“Mettilo giù, Jones”, lo redarguì Michael, “Non facciamoci prendere dall’isterismo come stupide donnette”.

Quella provocazione sembrò sortire finalmente l’effetto sperato sul gigantesco pirata, che aprì di scatto la mano lasciando cadere il povero Craig. Atterrò con uno sbuffo soffocato. Adesso il suo viso aveva assunto una colorazione rossastra.

“Non rilassarti troppo”, fu l’ultima minaccia che gli riservò Jones per quella sera.

I cinque uomini accesero un piccolo fuoco riuscendo ad incendiare le numerose sterpaglie che trovarono ai confini del bosco. Hal sapeva come provocare la scintilla sfregando tra di loro due pietre focaie; l’evidente secchezza dei rovi che avevano raccolto rese il suo compito particolarmente facile. Hal sussultò, vedendo la fiamma che divampava: riteneva che rendersi utile, alla luce della tremenda discussione che avevano avuto, fosse l’unica cosa da fare in quel momento, per cercare di salvarsi la vita. Maledisse mentalmente il suo amico Craig per averlo coinvolto in quella sciagurata impresa.

I pirati rimasero svegli a turno: per il primo Hal si offrì come volontario (comunque dubitava che avrebbe chiuso occhio, con quel colosso pronto a sgozzarlo che gli dormiva affianco). Dopo un paio d’ore tuttavia, cominciò a sentire la stanchezza, e così Michael Darren lo svegliò per dargli il turno. Quando si addormentò, fece uno strano sogno.
 
Dalle fronde degli alberi filtrava una luce dorata, quasi onirica. Ma, mano a mano che si inoltrava nel fitto del bosco, l’oscurità si faceva più pesante. Fino ad inghiottire tutto. Poi, a poco a poco cominciarono ad emergere delle sagome, nel buio. Si facevano sempre più vicine, ed un terrore cupo si fece strada nella sua mente; sentiva un respiro affannato, ma non capiva da dove provenisse: a volte gli sembrava che qualcuno gli respirasse alle spalle, ma quando si voltava, non c’era nessuno. Lontano, vicino, il respiro gli sfiorava il collo, gelido. Poi vide lo scintillio della lama, ed occhi rossi a pochi centimetri dal suo viso.

“Scappa, maledizione! Cosa stai aspettando?”, era la voce di Michael Darren.

Hal non se lo fece dire due volte: prese a correre. Sentiva la presenza dei suoi compagni attorno a lui: anche loro correvano disperatamente nella foresta. Non si vedeva nulla, e di tanto in tanto inciampicava, fortunatamente senza mai perdere del tutto l’equilibrio. Ma la minaccia si faceva vicina, sempre più vicina… un ramo gli graffiò la faccia e le braccia. Il dolore era vivido e pulsante, ma non poteva fermarsi. Doveva continuare a correre, o sarebbe morto. Ne era certo. Poi inciampò, e cadde a terra. I suoi inseguitori gli furono immediatamente addosso.
 
Hal si svegliò di soprassalto. Erano le prime luci dell’alba, ed i suoi compagni erano già tutti svegli. Il fuoco era spento; dalle ceneri si innalzava un debole fumo.

“Anche tu li hai sognati, non è vero?”, gli chiese Michael.

Jones sembrava aver perso tutta la rabbia della sera precedente. Appariva stanco e smarrito, e lo guardò speranzoso, aspettando di ricevere una risposta negativa. Ad Hal però bastarono pochi secondi per capire: anche i suoi compagni avevano fatto lo stesso incubo. Anche loro li avevano visti.
Annuì.

La speranza lasciò definitivamente il volto di Jones.

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Capitolo 8
*** VII. ***


Avery era chiuso in cabina da ore. Vaughan cominciava ad essere preoccupato: il capitano aveva uno sguardo febbrile, e si stringeva quel diario al petto in maniera ossessiva. Era andato a chiamarlo per la cena, ma Avery aveva ordinato di lasciargli il piatto nella stanza ed uscire. Voleva mangiare da solo, voleva restare solo con il capitano Rosco, gli aveva confidato. Vaughan cominciava a temere per la sua salute mentale. Era da quando avevano avuto la malsana idea di dirigersi all’Isola dello Scheletro che tutto aveva preso una strana piega.

Un pensiero gli strisciò nel cervello. Chissà se usciremo vivi da qui, poi sussultò: per quale motivo non sarebbero dovuti sopravvivere? Non erano in pericolo. Forse c’erano stati indigeni sull’isola, bestie che avevano spaventato a morte l’equipaggio della Esperanza. Ma erano passati sessant’anni da allora, e l’isola veniva utilizzata continuamente dagli spagnoli per i loro approvvigionamenti illeciti.

Era come se una voce estranea alla sua coscienza gli si fosse insinuata nella testa, e continuasse a suggerirgli pensieri di morte. Vaughan rabbrividì, cercando di scacciare quella sensazione. Chissà come se la cavavano gli uomini a terra.
 

Il capitano Avery aveva letto quasi tutto il diario di bordo della Esperanza. Aveva sbocconcellato la cena con pigrizia, mentre leggeva gli ultimi ricordi del capitano Fernando Rosco. Non sapeva perché, ma sentiva che lui e quell’uomo erano molto vicini in quel momento: nonostante le grosse differenze caratteriali, di idee, e di esperienze passate, adesso condividevano la stessa sorte. E forse avrebbero condiviso anche la morte.

Ripenso a quella povera donna che mi salutò con fiducia quando salpai dall’Avana: mia moglie Augustine è sempre stata una donna pia e devota.

Quando giungemmo nel Nuovo Mondo si ammalò: mi chiese di pregare per lei, perché solo così avrebbe avuto speranza di guarigione.

Naturalmente chiesi per lei le migliori cure che erano a disposizione in tutta Cuba. Purtroppo i medicinali nel Nuovo Mondo, scoprii con orrore, non erano così facilmente reperibili come in Spagna. La civiltà non aveva ancora raggiunto davvero i Caraibi: fu da questi dettagli, nel momento del bisogno, che me ne accorsi. Pregai giorno e notte, ed il Signore misericordioso mi accontentò: la febbre di mia moglie scese, e fu così che chiamai la mia nave Esperanza. Chissà se la mia dolce sposa mi aspetta, ancora. Chissà se ha avuto sentore di quello che sta accadendo. Chissà per quanto tempo mi cercherà o mi piangerà. Chissà se si darà per vinta, se si dimenticherà di me.

Avery si massaggio le tempie con la punta delle dita: aveva mal di testa. La grafia di Rosco, giunto a quel punto del diario, cominciava ad essere difficile da decifrare. Inoltre le memorie del capitano erano scritte in spagnolo, così che Avery doveva sforzarsi di tradurre passo per passo. Gli venne in mente Nymah: lei di certo non aspettava il suo ritorno con ansia, come Augustine aspettava suo marito.

Nessuno lo avrebbe pianto se non fosse tornato da quell’avventura.

Prima di salpare, aveva chiesto ad Al-Farayed –così si chiamava il piccoletto di origini indiane che faceva parte della ciurma – di tradurre per lui le seguenti parole: “Non preoccuparti. Presto sarai a casa.

Non chiederemo più alcun riscatto a tuo padre. Tra poco sarai libera. Adesso devo occuparmi di una cosa. Starò via qualche giorno, ma al mio ritorno, ti scorterò personalmente fino in Surat. Andrà tutto bene”.

Farayed aveva tradotto le parole di Avery senza nascondere la sorpresa, ma non aveva fatto alcun commento. Nymah però non sembrava sollevata alla notizia di tornare a casa.

“Sicuro che abbia capito?”, ringhiò Avery.

Farayed le disse qualcosa in tono interrogativo, e la ragazza annuì. L’indiano le chiese ancora qualcosa, e Nymah rispose con voce sommessa.

“Qual è il problema?”, volle sapere Avery.

“Dice che tornare a casa o rimanere qui non fa alcuna differenza per lei. Dice che il suo spirito è morto accanto a quello delle sue compagne”.

Nymah aggiunse qualcosa, stavolta con tono più deciso. Farayed esitò.

“Cosa ha detto?”, lo incalzò Avery.

“Ha detto che… non potete sperare in questo modo di alleggerire la vostra coscienza. Le vostre mani sono sporche di sangue. E tali resteranno”, tradusse Farayed, intimorito, “Be’, io riporto solo quello che ha detto, capitano”, aggiunse, di fronte allo sguardo glaciale di Avery.

“D’accordo, ho capito”, tagliò corto il capitano, “Dille che comunque la rimandiamo a casa. Ormai non può più esserci utile”.

Uscì senza aspettare la risposta della principessa.

 
***
 

Nymah non sapeva quale fosse la sorte peggiore: tornare in India, venire scortata fino a palazzo ed essere ripudiata dal padre, che certamente l’avrebbe ritenuta indegna, oppure rimanere lì, in quella città chiassosa dove le donne andavo in giro praticamente nude, e tutto era intriso d’alcol e stordimento.

L’imperatore Aurangzeb non era mai stato un uomo tenero. Fin da quando era piccola, lei lo aveva visto più come un sovrano che come un padre. Non aveva mai avuto in serbo gesti d’amore né per sua madre, né per le altre mogli. Né per i suoi figli, o almeno non per le femmine. I maschi erano il suo orgoglio, sebbene neanche con loro fosse molto affettuoso. Gli uomini erano comunque tenuti in grande considerazione presso il palazzo imperiale.

Se fosse tornata a casa adesso, Nymah era certa che suo padre non avrebbe creduto che i pirati non l’avessero deflorata. Forse l’avrebbe fatta visitare dai medici di corte, forse l’avrebbe semplicemente cacciata. Sarebbe finita a chiedere le elemosina come i poveri che affollavano la periferia di Delhi? Sarebbe morta di fame in strada? Si sarebbe spinta fino a prostituirsi per un tozzo di pane? Forse poteva scappare… ma per andare dove? Anche a Nassau Nymah non vedeva alcun futuro. Era già stata fortunata che i pirati non l’avessero stuprata. Fortunata poi, fino ad un certo punto. Se fosse morta, quel giorno sulla nave…

Il capitano Avery aveva capito di trovarsi di fronte alla principessa, perché Muhammed aveva dato ai soldati l’ordine di proteggerla. Anche le altre donne si erano schierate tutte davanti a lei, e mentre i loro corpi venivano falciati dai pirati, Nymah aveva guardato l’uomo negli occhi, avvertendo un senso di vertigine. Anche lui era sembrato stupito: il capitano Avery aveva dato l’ordine di non toccarla.

“Dev’essere una persona importante se tutta questa gente è morta per proteggerla”.

Farayed le aveva chiesto chi fosse; Nymah si era rifiutata di rispondere, ma alla fine i pirati avevano scoperto la sua identità interrogando altri membri dell’equipaggio della Ganj-i-Sawai.

Henry Avery comunque non si era dimostrato il mostro sanguinario che credeva. O almeno, con lei era sempre stato gentile. Ma a dispetto dell’insperato trattamento umano che le era stato riservato,

Nymah si sentiva come se le mancasse la terra da sotto i piedi. Il suo mondo era stato sconvolto, e non vedeva più alcun futuro per lei.

Fu per questo che aveva rubato il coltello quando la donna le aveva portato il pranzo. Si era passata la lama sui polsi senza esitazione, accasciandosi sul letto. Pochi minuti dopo tuttavia, la prostituta era tornata per chiederle se avesse bisogno di qualcos’altro, ed aveva trovato Nymah agonizzante. Era stata soccorsa, poi aveva perso i sensi. Quando si era svegliata, la principessa si era trovata davanti il capitano Avery. Era seduto accanto al suo letto. Farayed non c’era.

“Io non capisco cosa vuoi da me…”, le aveva sussurrato lui.

“Si può sapere cosa vuoi?!”, le aveva chiesto alzando il tono della voce.

Una lacrima involontaria aveva percorso la guancia di Nymah. Le facevano male i polsi, ed allo stesso tempo si sentiva stordita. Forse le avevano somministrato qualcosa per il dolore.

“Cosa diamine strillate?”, era intervenuta una donna.

Era la maîtresse del bordello: una donna alta e magra, con lunghi boccoli biondi che le incorniciavano il viso dall’aria furba.

“La ragazza ha bisogno di riposo. Andate, ci penseremo noi a lei”

Il capitano Avery era uscito senza dire una parola.

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Capitolo 9
*** VIII. ***


È dall’acqua che dobbiamo guardarci. Sono rimasto in silenzio, a spiare la superficie apparente placida per tutto il giorno. Da qualche parte, nella mente, la voce di Augustine mi chiamava, supplicandomi di rientrare sotto coperta: “Stare sotto il sole cocente non ti farà bene”, sussurrava, “Puoi perdere la ragione. Procurarti ustioni. Puoi perfino vedere cose che non esistono”.

Ma quella non era veramente Augustine. Erano i fantasmi dell’isola che mi parlavano. Credono che io sia stupido? Sono diventato capitano perché la mia ragione è salda e la mia mente lucida. Ho la responsabilità dei trenta uomini della mia Esperanza. Quindi so bene cosa fare.

Credevano di abbindolarmi facendomi sentire la sua voce… ma è risaputo che le sirene si prendono gioco dei marinai proprio in questo modo: seducendoli con il loro canto, con parole d’amore… per poi ucciderli nell’acqua. Li trascinano fino in fondo, negli abissi, per sbranarli.

È dall’acqua che dobbiamo guardaci. Sono rimasto a fissarla, uno specchio trasparente ed immobile che mi restituiva l’immagine del mio volto dimesso, della barba non curata e degli occhi spiratati.

Forse sembrerò pazzo a guardarmi adesso. Ma io so. So che non devo lasciarmi distogliere dalla mia convinzione.


Poco dopo il tramonto, quando i raggi rossastri del sole ancora illuminavano le increspature, credo di averla vista. La creatura, poco sotto il pelo dell’acqua. Che mi fissava. Non ha aperto bocca, ma ho sentito lo stesso i suoi pensieri.
Sto venendo a prenderti, diceva.
 
Il capitano Avery sobbalzò, riemergendo all’improvviso dalla lettura nella quale era immerso. Era la voce di Vaughan, si rese conto con irritazione. Erano ore che cercava di convincerlo ad uscire. Come se avesse a che fare con un povero pazzo e le sue ossessioni. Cosa credeva di poter fare di più, a quel punto? Tra l’equipaggio si erano cominciate a diffondere le voci: dicevano che l’isola era maledetta, che sulla nave spagnola erano morti tutti. Alcuni sostenevano che la minaccia fosse ben più reale, che ci fossero ancora degli indigeni, nonostante ciò fosse praticamente impossibile, visto che gli spagnoli conoscevano l’isola già da decenni. Se c’erano stati abitanti sull’isola dello Scheletro, di certo erano già tutti morti.

“Capitano, deve venire. Presto”, Vaughan si affacciò sulla soglia dopo aver bussato.

Avery sospirò.

“George, ti ho detto che non voglio essere disturbato…”

“C’è un problema con la ciurma”, lo interruppe il quartiermastro.

Avery decise di passare sopra quell’insolenza perché Vaughan sembrava davvero preoccupato.

“D’accordo”, si arrese.

Gli uomini erano tutti radunati sul ponte; borbottavano tra di loro e sembravano molto irrequieti.

“Che succede?”, tuonò Avery senza rivolgersi a nessuno in particolare.

“È cominciata”, Collins, il nostromo, si fece avanti dopo un attimo di esitazione.

Si sentì un brusio di approvazione tra la folla.

“Cosa?”, sbottò Avery.

“La mattanza”, sentenziò Collins, “Un nostro compagno è sparito. Si chiama… si chiamava Wilkins. Non si trova più da nessuna parte. Presto cominceranno a farci fuori uno ad uno…”

“Collins, mi meraviglio di te”, esclamò Avery, “Posso capire gli uomini, ma tu sei un punto di riferimento per la ciurma. È tuo dovere mantenere i nervi saldi…”

“Con tutto il rispetto, capitano”, rispose Collins senza scomporsi, “Di fronte ad eventi inspiegabili quello che chiede è molto difficile”

“Ma di cosa stai parlando?”, sospirò Avery. Non aveva tempo da perdere con quelle sciocchezze. “Wilkins è un idiota. Si sarà ubriacato e si sarà addormentato da qualche parte”

“Abbiamo perlustrato la nave da cima a fondo”.

“Oppure avrà deciso di sbarcare sull’isola da solo. Avete controllato le scialuppe?”

“Le scialuppe ci sono tutte”, si fece avanti Kinston, il timoniere, “e non può essere andato a nuoto. Wilkins ha… aveva la fobia degli squali. Non mi risulta sapesse neanche nuotare”.

“State dando per scontato che sia già morto?”, chiese incredulo Avery.

“Se non lo è ancora, di certo lo sarà presto. Come è successo all’equipaggio della Esperanza…”, concluse Collins.

Avery era spiazzato da quel comportamento. Perfino gli uomini che credeva meno suggestionabili erano in preda al panico.

“Aprite le orecchie, tutti quanti”, sibilò, glaciale, “Wilkins era un idiota. Se è morto è perché se l’è cercata. Quanto a voi… datevi una calmata. Tutti quanti. Domani mattina sbarcherò insieme ad un altro gruppo e ci ricongiungeremo con i nostri compagni. Sotterreremo la cassa e poi ce ne andremo il più in fretta possibile. Questo posto maledetto non piace neanche a me”.

Gli uomini parlottavano tra loro. Avery scambiò un’occhiata con Vaughan, che si strinse nelle spalle. Dove diavolo era finito quell’idiota di Wilkins? Un uomo non poteva sparire nel nulla. Di certo, prima o poi se ne sarebbe saputo qualcosa. O il corpo sarebbe uscito fuori.


 
***
 

“Dividiamoci”, ordinò Michael Darren.

“Dividerci?”, Hal deglutì a vuoto. Non gli piaceva quell’idea. Per quanto la prospettiva di allontanarsi da Jones potesse essere a lui favorevole, se l’esperienza gli aveva insegnato qualcosa era che in un posto pieno di insidie, faceva comodo rimanere in un gruppo più numeroso possibile.

“Sì, ci dobbiamo dividere. Non abbiamo ancora finito di esplorare l’entroterra e tra poche ore il capitano Avery ci raggiungerà”.

I cinque pirati avevano avvistato un fortino il giorno precedente, salendo su una delle alture che sovrastavano la valle. Era stata una fatica immane: lì la vegetazione si faceva più rada, ed una terra rossa che si alzava in spirali agitate dal vento, entrava nei polmoni e spingeva a tossire fino alle lacrime.

I cinque uomini si sentivano la pelle arida e grinzosa, quando erano scesi da lì. Non erano riusciti a trovare acqua dolce con la quale sciacquarsi almeno il viso, perché ogni fiumiciattolo su quella maledetta isola, sembrava essersi prosciugato. Rimanevano soltanto le paludi. Erano quelle che portavano le zanzare, rifletté Michael. Sì, perché durante la notte gli uomini erano stati punti da uno sciame famelico, e adesso tutti i cinque si trovavano costretti a grattarsi fino a farsi sanguinare la pelle.

“Non toccatevi, se ci riuscite”, suggerì Lockwood, “Grattarsi non farà altro che aumentare il prurito”.

“Ma non dobbiamo dirigerci verso il fortino?”, chiese Craig, rivolto a Michael.

“Io e Jones andremo lì”, specificò Michael, “Voi tre invece completerete il giro verso sud - est, arrivando fino a quell’insenatura che abbiamo avvistato ieri”.

“In questo modo finiremo in tempo per l’arrivo degli altri”, annuì Hal, arrendendosi.

“La prospettiva di dividerci non piace neanche a me”, aggiunse Michael, “Ma dobbiamo sbrigarci. Credo siamo tutti concordi nel desiderio di lasciare l’isola il prima possibile”.

I pirati annuirono.

“Bene. Allora completiamo l’esplorazione. Ci rivediamo alla costa a mezzogiorno preciso”.

Era lì che avevano appuntamento con il secondo gruppo.

“Come facciamo a sapere quand’è mezzogiorno? Dalla fame?”, bisbigliò Craig rivolto all’amico Hal.

“Dal sole, idiota”, lo corresse Michael, “Quando sarà a picco sopra le nostre teste. Te ne accorgerai dalla calura opprimente che già adesso non è piacevole”.

Senza aggiungere altro, i due gruppi si divisero ed imboccarono ognuno la propria strada.
 

Lockwood si mise alla testa dei tre uomini della sua squadra. Lo seguiva Hal e chiudeva la fila Craig, intento a spezzare i rami che gli sbarravano il cammino con l’ascia.

La vegetazione era sempre più fitta in quella zona, e mano a mano che i tre si addentravano nel bosco, l’oscurità si inghiottiva tutto.

Sembra di rivivere il sogno di stanotte, pensò Hal, avvertendo un brivido lungo la schiena. Probabilmente anche gli altri due stavano facendo lo stesso pensiero, poiché nessuno emetteva un fiato.

Poi, davanti a lui, Lockwood si fermò di botto, ed Hal non poté fare a meno di incespicare, rischiando di perdere l’equilibrio. Craig, immerso nei propri, cupi pensieri, non ebbe i riflessi abbastanza pronti da evitare di sbattere addosso all’amico, finendo così a terra.

“Che succede?”, sbottò, dopo essersi rialzato.

“Voi non sentite?”, chiese Lockwood con un filo di voce.

Girò su sé stesso, cercando la fonte del rumore che aveva avvertito.

“Cosa?”, gli fece eco Hal, “Io non ho sentito niente”.

“Ascoltate”.

Lockwood aveva le pupille dilatate come un uomo in preda alle visioni dell’oppio. Gli altri due ammutolirono.

“Io continuo a non sentire niente”, borbottò Craig.

Il respiro di Lockwood si era fatto affannoso.

“Wilkins?”, chiese, rivolto al buio, “Cosa ci fai qui? Siete già sbarcati?”

“Lockwood”, balbettò Hal, “Guarda che qui non c’è nessuno. Dove lo vedi Wilkins?”

Lockwood lo ignorò. Fece un passo in avanti.

Sbaglio o improvvisamente è diventato tutto più buio? Hal non riusciva a togliersi di dosso quella strana sensazione di déjà-vu. L’oscurità, la foresta… ed una strana sensazione alla bocca dello stomaco, una paura atavica che si trasformava in nausea.

“Aspetta, dove stai andando? Ti perderai se prosegui da solo”, gridò Lockwood ancora rivolto al nulla.

Hal sentì Craig bestemmiare, mentre Lockwood faceva qualche passo incerto nella direzione sbagliata.

Poi si metteva a correre.

“Aspetta! Ehi, non c’è nessun Wilkins laggiù! Dove stai andando?”

Hal si aggrappò alla camicia di Lockwood, strattonandola nel tentativo di arrestarlo.

“Lasciami, maledizione! Non vedi che è in pericolo?”, ringhiò Lockwood disarcionandolo.

Hal sussultò: i suoi occhi erano vacui, come se non lo vedesse davvero, ma allo stesso tempo avevano assunto una sfumatura rabbiosa davvero inquietante. Quasi ferina.

Hal non riuscì a non perdere la presa sul compagno. Le sue dita si aprirono, mentre tratteneva il fiato dallo spavento, e quello ne approfittò per scappare, inoltrandosi nella foresta.
 

Lockwood correva. La schiena di Wilkins di tanto in tanto gli appariva a pochi metri davanti a lui, quando una chiazza di luce solare riusciva a filtrare nell’oscurità, nei punti in cui i rami degli alberi si diradavano.

“Aspetta, aspetta, ti prego”

Lo aveva perso, si rese conto con un tuffo al cuore. Poi rinsavì di botto. Ma cosa diavolo stava facendo? Wilkins non poteva essere sbarcato da solo… si era forse perso? C’erano stati dei problemi sulla Fancy? E perché stava scappando? Fu percorso da un brivido, quando si rese conto dell’assurdità della situazione. Poi all’improvviso, comprese: quello non poteva essere davvero Wilkins. Si voltò: dietro di lui, l’oscurità era assoluta.

“Hal… Craig!”, chiamò, ma il buio sembrava aver inghiottito anche la sua voce.

Sentì improvvisamente la gola secca, mentre un sudore gelido gli scendeva sul collo. Poi ricordò il sogno che aveva fatto quella notte, e fu invaso dal terrore. C’era qualcosa che tuttavia non riusciva a ricordare. Ad un certo punto, sognando, aveva incontrato qualcuno… qualcuno che non vedeva da molto tempo e che non credeva di poter rivedere. Non finché era ancora vivo, almeno.

Charles…

Un sussurro. Una voce di donna. Nessuno lo chiamava più con il suo nome di battesimo da molto, molto tempo.

Quanti errori che hai commesso, figlio mio. Quante volte mi hai deluso…

“Ma… madre?”, balbettò.

Non poteva essere, rifletté Lockwood: anche se la voce sembrava appartenere a lei, sua madre era morta. Molti anni prima.

Poi la figura si stagliò nel buio, facendo un passo nella sua direzione. Lockwood si sentì letteralmente gelare il sangue. Per un attimo gli sembrò che il cuore gli si fosse fermato, e che nelle vene non avesse altro che ghiaccio solido. Sentì un formicolio alla pelle, mentre il respiro gli si mozzava in gola.

Dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto, io e tuo padre… ti abbiamo dato la possibilità di studiare, di crearti un futuro… ed è così che ci ripaghi? È così che hai deciso di vivere la tua vita?

La donna era estremamente pallida. Si avvicinò ulteriormente, e Lockwood notò che aveva il mento sporco di sangue, così come la lunga veste da notte. Si ricordò dell’ultima immagine che aveva conservato di sua madre, che anni prima era morta di tubercolosi. Pochi istanti prima di accasciarsi su sé stessa e spegnersi definitivamente, aveva sputato una grossa boccata di sangue, tossendo, che le era colata sul petto. Era così che la ricordava.

Vergognati, adesso la sua voce si era fatta dura, Hai infangato la mia memoria. Hai disonorato la nostra famiglia. Mi hai deluso profondamente.

Le sue mani gelide si strinsero attorno al collo di Lockwood. Paralizzato dalla paura, non poté fare altro che chiudere gli occhi, mentre il fiotto caldo di piscio gli colava dai pantaloni.

Per un interminabile minuto, Lockwood rimase immobile, in attesa. Infine aprì gli occhi: la pressione sul collo era scomparsa. Sua madre se ne era andata. Attorno a lui, l’oscurità era ancora totale.

Sai cosa devi fare, gli arrivò la voce della donna all’orecchio. Precisa e fredda come una stilettata.

“No…”, biascicò lui, mentre le lacrime gli inondavano le guance.

È l’unico modo, Charles, insistette la voce.

Poi un pensiero si fece strada nella sua mente. C’era solo una cosa da fare, aveva detto sua madre. Solo una cosa… l’unica che avrebbe risolto tutto. Lockwood estrasse la daga dalla federa con mano tremante.

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Capitolo 10
*** IX. ***


“Tutti pensano che la navigazione si basi sul vento e le onde.
Non è così.
La navigazione si basa sull’equipaggio, il che significa che si basa sulla superstizione e l’odio”.

Stuart Turton, “Il diavolo e l’acqua scura”
 

Oggi abbiamo perso un altro uomo. Di ritorno dall’esplorazione dell’isola, Barros, il mio secondo, ha annunciato alla ciurma che il suo compagno era morto, e che non aveva nessuna intenzione di tornare mai più sull’isola. Per nessun motivo.

Barros non ha voluto raccontare cosa è successo, però sostiene di aver udito una voce. Che fosse di Dio o del diavolo nessuno lo sa, ma ad ogni modo “conviene dargli retta”, ha affermato. La voce ha intimato agli uomini di andarsene. Barros pensa che ci sia qualcosa nell’acqua. E su questo concordo con lui. Dice che gli spiriti dell’isola tentano di spingere via gli uomini dall’entroterra, con l’intento di condurli sulla spiaggia. Ma avvicinarsi all’acqua non conviene affatto.

A questo punto io mi chiedo solo quanto tempo ci metteremo a morire. La terribile tempesta che ci ha spinto fino a qui non poteva essere più crudele. Se solo fossimo morti allora, non avremmo dovuto sopportare tutto questo.

Ora, a quanto pare non ci sono animali da cacciare, sull’isola. Sembra quasi che anche le bestie abbiano preferito abbandonare questo luogo. Ma noi non possiamo fare niente finché non ripareremo lo scafo. Oggi abbiamo fissato il pennone e l’albero maestro. Ma la nave non è ancora pronta per riprendere il largo. Ci vorranno ancora giorni perché possa navigare di nuovo, ma temo che la mia ciurma abbia il tempo contato. Non credo che l’isola ci permetterà di uscire vivi da qui.
 

Avery continuò a leggere fino al punto in cui Rosco raccontava che i marinai, dopo essersi ammutinati, si erano chiusi all’interno della stiva. Erano convinti di riuscire a così proteggersi dalle creature che provenivano dall’isola. In questo modo però i lavori di riparazione della nave stentavano ad andare avanti, e sembravano non esserci neanche pesci da pescare. Le provviste erano esaurite. Gli uomini continuavano a morire.

Rosco ipotizzava che alcune delle visioni di cui talvolta erano preda sia lui che altri membri dell’equipaggio, fossero provocate dalla malaria, a sua volta derivante dalle punture di quelle maledette zanzare che infestavano l’isola, provenienti dalle zone paludose non molto distanti dal punto in cui la nave si era arroccata.

Dal canto suo, Avery aveva imparato qualcosa dallo sfortunato capitano Rosco: anche lui, come lo spagnolo, osservava l’acqua. Mancavano poche ore al momento in cui, assieme ad un gruppo di uomini che avrebbe scelto tra la ciurma, si sarebbe inoltrato sull’isola dello Scheletro, in appoggio agli esploratori inviati il giorno prima in avanscoperta. Adesso Avery attendeva, spiando i flutti delicati che si infrangevano sulla spiaggia, in piedi sul cassero di poppa.
 

Vaughan era molto irrequieto. Il capitano Avery sembrava aver perso la lucidità che lo aveva da sempre contraddistinto. Il giorno precedente non aveva fatto altro che leggere il diario dello spagnolo, chiuso nella sua cabina. Dall’aspetto che aveva, sembrava non aver chiuso occhio quella notte. Adesso fissava assorto le onde infrangersi a riva, sulla spiaggia di quell’isola maledetta. Vaughan ricoprì mentalmente di improperi quei due idioti che avevano avuto la sciagurata idea di nascondere lì il tesoro.

“È un’operazione semplicissima”, avevano assicurato, “Basterà seguire la nave spagnola. La Ventura passerà di qui tra tre giorni esatti…”

Vaughan cominciava a pensare che anche il tesoro fosse maledetto. Thomas Tew ci aveva rimesso le penne durante l’attacco alla Ganj-i-Sawai. L’orrore che ne era seguito aveva impressionato perfino lui. Uomini e donne brutalmente uccisi, massacrati in nome della bandiera rossa di Henry Avery.

La scelta di risparmiare la principessa e di rapirla aveva fatto infuriare il Gran Mogol, come se avergli fottuto un tesoro dal valore inestimabile non fosse un’offesa abbastanza oltraggiosa, rifletté Vaughan. Cosa passava ora nella mente del capitano? Tutto era andato storto da quando avevano ottenuto quel bottino. Si erano riparati a Nassau, solo per accorgersi di essere ancora in pericolo: il Governatore di New Providence li aveva accolti come un lupo travestito da pecora. La stiva della Fancy era occupata da un immenso bottino, ma la ciurma non poteva disporne.

Forse questa è la punizione per i nostri peccati, pensò Vaughan. Forse sulla nave indiana si erano spinti troppo oltre.

Non essere ridicolo, intimò a sé stesso, mantieni i nervi saldi, almeno tu. Vaughan non credeva nel destino, né in Dio, né in una giustizia superiore. La sua vita non era stata altro che acqua e sabbia. Ed era all’acqua o alla terra che un giorno la morte avrebbe restituito il suo corpo. Non c’era alcun segreto nel cosmo, nessuna spiegazione per quello che stava accadendo. Doveva solo sforzarsi di non perdere la testa e sopravvivere.


 
***
 

“Lo faremo tra poche ore, quando il capitano chiederà di seguirlo sull’isola”.

“Non sarebbe meglio anticipare i tempi? Colpirlo adesso che non se lo aspetta?”

Jack Parrish rimase in silenzio per un lungo momento.

La triste verità era che molti degli uomini che intraprendevano la vita del pirata non erano altro che alcolizzati, poveri diavoli che fuggivano da una vita di stenti, gente senza arte né parte che non riusciva a sopravvivere nella buona società, dove occorreva sapersi destreggiare in qualche modo. Imparavano a combattere, spinti più dalla paura che altro, incoraggiati dal rum, quasi inconsapevoli di essere al mondo. Molti venivano falciati quasi subito; se si riusciva in qualche modo a sopravvivere ai primi arrembaggi, si aveva l’illusione di essere salvi. Ci si sentiva invincibili, e questo non poteva essere altro che un errore. Era allora che solo chi era riuscito ad imparare qualcosa sull’arte della sopravvivenza riusciva ad andare avanti.

Jack Parrish era uno di questi. Sapeva che l’avrebbe spuntata nonostante tutto e tutti, perché aveva fatto di necessità virtù, e teneva alla sua vecchia pellaccia più di chiunque altro.

Quando gli avevano detto che Wilkins era scomparso, era saltato giù dalla propria branda e nella sua mente si era subito fatta strada una sola parola: ammutinamento. Già non gli andava giù il fatto di dover nascondere il tesoro, né di doverlo fare proprio in quel posto da incubo. Ma adesso era davvero troppo: non aveva neanche fatto finta che gli fregasse qualcosa di quel povero diavolo di Wilkins.

Lo riteneva un buono a nulla; ogni centesimo bucato che era riuscito a racimolare con le razzie precedenti, lo aveva speso nel giro di poche ore. Già dopo due giorni di stordimento, quell’idiota era pronto a tornare sulla Fancy, nuovamente ridotto povero in canna.

Abbordare, uccidere, depredare. Sbarcare, scialacquare il denaro conquistato, e salire di nuovo a bordo. La vita per molti di loro si riduceva a questo: ma Parrish era troppo furbo per lasciarsi stordire da rum e donne come i suoi compagni.

Aveva navigato sotto molti capitani, senza mai mettersi troppo in mostra. Si era sempre limitato a sbrigare il proprio dovere, mescolandosi con il resto dell’equipaggio. Era una figura anonima, uno dei tanti venuti dal mare, e che un giorno il mare si sarebbe ripreso. Però in tutti quegli anni trascorsi tra un porto e l’altro, una cosa l’aveva imparata: ogni Golia ad un certo punto incontrava il suo personale Davide. Così ogni capitano accresceva la propria fama di flagello del mare con atti di indicibile crudeltà, fino al momento in cui cadeva rovinosamente. E c’era sempre qualcun altro pronto a prendere il suo posto. Come per la ciurma, così per i capitani: la storia si ripeteva, ancora ed ancora.

Avery sembrava invincibile: reduce dalla battaglia vittoriosa che gli aveva consegnato il suo bottino più grande, proprio adesso era caduto. E stavolta c’era lui, il buon vecchio Jack, a prendere il suo posto.

“Tutto andrà come deve andare. Non prevedo ci sia bisogno di combattere a lungo. Praticamente tutta la ciurma è dalla nostra parte. L’unico che gli rimarrà accanto sarà Vaughan. Ma è vecchio, e non ha molta voglia di spargere sangue, a quanto ho visto. Forse perfino lui passerà dalla nostra parte, quando capirà che gli conviene”.

Jack si accarezzò la barba scura, un gesto che era solito fare quando rifletteva. Aveva una lunga cicatrice che gli attraversava il sopracciglio destro e finiva sulla bocca che gli dava un’aria sinistra.

Gli uomini attorno a lui lo ascoltavano in silenzio. Anche coloro ai quali Parrish non piaceva, avevano dovuto arrendersi all’evidenza: quell’uomo era l’unica possibilità di fuggire dall’isola. Il capitano non era più la persona di cui si erano fidati. Non era più la belva crudele che aveva ordinato loro di innalzare la bandiera rossa, solo pochi giorni prima, quando avevano affondato la Ganj-i-Sawai.
“Comunque, se Vaughan si azzarda a mettersi in mezzo, ammazziamo anche lui”, concluse Jack.

Gli uomini annuirono soddisfatti.

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Capitolo 11
*** X. ***


Vorrei ringraziare le persone che stanno seguendo la storia e soprattutto quelli che l’hanno inserita tra i “preferiti”. Vi invito a lasciarmi un commento per farmi sapere che ne pensate… Grazie dell’attenzione!

L’autrice.
 

Michael e Jones avevano raggiunto il fortino nel giro di un’ora, camminando di buon passo. Avevano mangiato delle bacche che avevano trovato lungo il cammino, pregando Cristo che non fossero velenose. I morsi della fame si stavano facendo violenti, e poco importava se di lì a poco sarebbero stati raggiunti da Avery con altri uomini. Comunque Michael dubitava che sarebbero stati due frutti di bosco ad ucciderli, soprattutto per quanto riguardava Jones: ne serviva di certo una quantità abbondante per stendere quel colosso.

Era dalla sera precedente che Michael era stato colto da un brutto presentimento. E non era solo per le provviste sparite, lo strano sogno condiviso da tutti, il fatto che erano ricoperti di bubboni pieni di pus. Era stato nel momento in cui aveva messo piede sulla Esperanza: la visione di quei corpi straziati continuava a tormentarlo.

Avery aveva preso con sé il diario di bordo, e leggendolo, era venuto a conoscenza dell’agonia che gli sfortunati mercanti spagnoli avevano dovuto subire prima di morire in maniera così orribile.

Quando Michael e gli altri erano partiti, il capitano Avery era già a buon punto con la lettura, e gli aveva confidato che secondo lui gli spagnoli erano impazziti. Non sapeva perché… una tempesta li aveva spinti fino a lì. A quel punto si erano accorti che le bussole non funzionavano, ed erano stati presi dal panico. La Esperanza aveva riportato dei guasti, e gli uomini si erano rimboccati le maniche per rimettere la nave in sesto. Poi qualcosa doveva essere andato storto, perché da lì, il mercantile non era mai più salpato. Michael non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che forse anche loro avrebbero fatto la stessa fine.

Arrivati al fortino, Michael e Jones giunsero alla conclusione che non venisse usato da parecchio tempo.

“Potrebbe essere stato costruito molto tempo fa”, osservò Michael, misurando il perimetro con i passi.

“Davo per scontato che gli spagnoli se ne servissero”, osservò Jones.

“Anche io. Ma è evidente che ci sbagliavamo. Secondo me gli spagnoli non si avventurano nell’entroterra da un bel po’ di tempo. Forse si limitano a sbarcare sulla spiaggia. Forse usano l’isola per gli scambi e poi ripartono senza fermarsi più dello stretto necessario. Sono certo che da qui non passa nessuno da parecchio tempo”.

La costruzione era composta da una pietra grezza e rettangolare. Aveva un soffitto così basso che dava una sensazione di claustrofobia; le fattezze erano rozze, come se fosse stata costruita in fretta.

Michael e Jones sedettero per qualche minuto sul pavimento muschioso del piccolo forte. Chissà chi lo aveva costruito, continuavano a chiedersi in silenzio.

“Vado a pisciare”, annunciò Jones.

Michael non gli rispose. Quando lo aveva preso con sé, non era stato certo per l’acutezza del suo ingegno. Non si aspettava che fosse di chissà quale utilità nell’esplorazione dell’isola. Lo aveva diviso dal resto del gruppo più che altro per evitare che prendesse a pugni qualcuno. Gli altri due idioti li aveva affidati a Lockwood, che era l’unico avversato dei suoi compagni.

Michael non vedeva l’ora che Avery li raggiungesse. Sentiva la mancanza perfino di Vaughan, che perlomeno era una persona con la quale si poteva ragionare.

Sospirò: il fortino non aveva nascondigli segreti. Era una costruzione che poteva offrire riparo durante un combattimento, ma Michael si augurava che non gli servisse in quel frangente. Per nascondere un tesoro comunque non era adatto.

Poco lontano da lì si trovava una caverna, che era indicata anche sulla mappa degli spagnoli. Forse quello poteva essere il posto giusto… Stabilì che avrebbe aspettato il capitano per prendere una decisione. 

Ma perché diavolo Jones ci metteva così tanto?
 

Jones si era allontanato di pochi passi. Aveva fatto il giro del fortino e non aveva neanche fatto in tempo a calarsi le braghe che aveva sentito un rumore: uno scalpiccio di passi, ed un suono di ramoscelli che si spezzavano sotto il peso di qualcosa. Si era voltato di scatto ma non aveva visto niente. Però aveva sentito una risata. Una risata impertinente, che non poteva che provenire dalla bocca di un bambino.

“Chi è là?”

Aveva aperto le labbra per gridare, ma dalla gola non gli era uscito che un suono strozzato; una sensazione d’angosciosa pena gli gravava sul petto.

In cuor suo aveva già un’idea di a chi appartenesse quella risata. Anche se era impossibile, si disse. Non su quell’isola lontana dal mondo, non dopo che lei era morta.

Poi vide un guizzo bianco; fu un attimo: tempo un battito di ciglia ed era già sparito. Ma gli era sembrato di vedere riccioli biondi ed una gonna bianca. Quella risata… era così simile… ma no, si ripeté: era impossibile. Le risate dei bambini si somigliavano tutte. Avevano quelle vocette sottili ed argentee, così facilmente inclini al riso, ma anche allo scoppio d’ira e di pianto.

Gli si formò un groppo in gola. Però quella cosa l’aveva vista. Quella scia che era passata veloce. No, non poteva essere la sua bambina. Lei era morta, dieci anni prima che lui decidesse di abbandonare tutto e partire per unirsi ai pirati. Le aveva tenuto la mano mentre scivolava nella morte in silenzio, obbediente, come era sempre stata. Aveva smesso di respirare come se si stesse semplicemente addormentando.

Poi sentì ancora quella risata. E ricordò: la notte di Natale, la neve che cadeva. Il freddo dentro quella piccola casa di periferia. Sua moglie che piangeva. Suo figlio più grande che cominciava ad accusare i primi sintomi. Nel giro di poche settimane tutta la sua famiglia era stata ricoperta dai bubboni del vaiolo. Tutta la sua famiglia non esisteva più. Lui era stato l’unico a sopravvivere. E in quel momento gli era sembrata più una maledizione che un dono di Dio.

Il forte si ergeva su una piccola altura, dove la vegetazione si faceva via via rada e lasciava il posto alla terra brulla. Ma a pochi metri da lui c’era ancora il bosco, con le fronde fitte che lasciavano intravedere un buio denso. Fu lì che si stagliò la figura.

“Elizabeth”.

Vieni, padre…

La sua voce gli giunse in un sussurro. Era come la ricordava: aveva una veste bianca ed immacolata, boccoli chiari che le scendevano sulle spalle.

Jones aveva amato tutta la sua famiglia, ed il dolore per la perdita della moglie e del figlio non li avrebbe mai dimenticati. Ma più di ogni altra cosa, il ricordo della sua bambina gli pesava sul cuore come una ferita aperta. Una ferita che in quel momento, gli sembrava venisse cosparsa di sale.

Lei scomparve nell’oscurità. E Jones non poté fare a meno di seguirla.

Camminò a lungo, come in preda all’ipnosi. Poi i suoi piedi inciamparono su qualcosa. Jones cadde, e nell’impatto fu come riprendere conoscenza dopo essere rimasto a lungo stordito.

Nella penombra, si accorse con orrore che era un corpo quello che gli aveva sbarrato la strada e lo aveva fatto cadere. Allora lo riconobbe: era Lockwood, il volto trasfigurato in una smorfia di terrore ed un coltello piantato nel petto.

Jones non aveva mai visto un’espressione simile su un cadavere. E ne aveva ammazzata di gente, lui! Ogni volta che si scontrava con qualcuno, Jones poteva leggere nello sguardo dello sfortunato che si trovava di fronte, il terrore di averlo incontrato. Ma Lockwood… quello che doveva aver provato prima di morire non poteva essere semplice paura. L’angoscia che vi si leggeva sembrava disumana.

Mi hai dimenticato, padre…

La bambina stava in piedi davanti a lui. Aveva le braccia lungo i fianchi, ed in mano teneva la sua bambola di pezza preferita.

Adesso però Jones era un po’ più lucido, e fu scosso da un pensiero: quella non poteva essere sua figlia. Elizabeth aveva sempre odiato le storie di fantasmi: era terrorizzata dall’idea che lo spirito potesse non trovare pace. Aveva solo sei anni quando era morta, ma era una bambina molto saggia per la sua età.

Sua moglie aveva chiamato il prete prima che spirasse: l’uomo si era fermato sulla soglia della porta con un fazzoletto sulla bocca, rifiutandosi di entrare, ma aveva fatto il segno della croce e dato alla bambina l’estrema unzione. Aveva assicurato ai genitori che la piccola era monda da ogni male. Come se potesse esserci qualcosa di male in una bambina così piccola ed innocente.

“Tu non sei mia figlia”, mormorò Jones, “Lei riposa in pace”.

Solo in quel momento si accorse che la vegetazione aveva lasciato il posto a qualcos’altro: le rovine di quella che doveva essere stata una città molto grande si ergevano attorno a loro, ormai quasi del tutto ricoperti da muschi ed edera, tanto da renderla quasi fusa con la natura.

Davanti a lui invece, Jones riconobbe una costruzione bassa e tozza in pietra. Sembrava una sorta di altare votivo. Jones si rese conto con orrore che il centro dell’altare era più scuro. Si immaginò un sacerdote dal capo coperto che infliggeva una ferita mortale a qualche animale, ed il sangue che colava, fino ad imbrattare tutto.

La bambina sorrise diabolica, lasciando cadere la bambola. Adesso Jones ne era certo: no, quella creatura non poteva essere sua figlia.

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Capitolo 12
*** XI. ***


Si erano persi di vista. Hal non riusciva davvero a capire come poteva essere successo, ma era così. Aveva inseguito Lockwood nella foresta, mentre Craig arrancava ansimando dietro di lui. Ad un certo punto si era reso conto che stava avanzando alla cieca, e che non sentiva più il respiro di Craig.

Si fermò di botto: l’oscurità si era infittita e adesso, da qualsiasi lato si voltasse, Hal era circondato dall’intricato ricamo degli alberi. Il sole filtrava tenue tra le fronde, illuminando il terreno a chiazze. Perfino l’aria sembrava essere più fredda, nel cuore della foresta.

“Craig?”, chiamò.

La sua voce cadde nel vuoto, inascoltata. Maledisse quell’idiota di Lockwood e si chiese per quale assurdo motivo lo avesse seguito. Si diede subito la risposta: Hal aveva la convinzione che dividersi ulteriormente sarebbe stata una pessima idea. Quella situazione era estremamente simile al sogno che aveva fatto la notte precedente. O per meglio dire, all’incubo. E Hal era certo di una cosa: nell’incubo si era trovato solo a correre nella foresta. Quindi le cose da fare erano due; la prima: non rimanere solo. Il suo proposito era quello di rimanere appiccicato ai compagni, qualsiasi cosa fosse successa. E la seconda: non addentrarsi nella selva.

“Complimenti”, borbottò, rivolto a sé stesso: “Nel giro di un quarto d’ora sei riuscito a fare tutto ciò che ti eri ripromesso di non fare”.

Lo aveva capito subito che quella di dividersi in due gruppi non era una buona idea. Hal pregò Dio con tutte le sue forze di riuscire a ritrovare qualcuno dei suoi compagni: gli sarebbe andato bene perfino Jones. Jones non era così male, se confrontato con la paura atavica che gli aveva scatenato il sogno.

Hal si guardò intorno con circospezione: il buio sembrava diventare ogni secondo più fitto. Come diavolo era possibile? Si aspettava di veder comparire quegli occhi rossi che aveva visto in sogno, da un momento all’altro. Gli venne un groppo alla gola, mentre pensava con nostalgia alla spiaggia bianca di Nassau che si era lasciato alle spalle. Doveva tornare indietro.

“Signore, ti prometto che se mi fai uscire vivo da qui, cambio vita. Te lo giuro”.

Hal pensò che se davvero esisteva una giustizia divina, il Signore di certo non lo avrebbe ascoltato. E perché avrebbe dovuto farlo? Perché dare una mano ad un trentenne squattrinato dedito alla truffa che si era imbarcato per i Caraibi con l’intento di unirsi ai pirati? Perché avere pietà di un uomo che si era dato da fare per unirsi alla ciurma del capitano più feroce dei sette mari, con l’intento di arricchirsi alle spese degli innocenti che erano stati trucidati? Forse Hal non aveva ancora ucciso nessuno, non tecnicamente. Ma non era certo uno stinco di santo, ed erano anni che aveva smesso di pregare, consapevole di non meritare alcun perdono.

Adesso però era tutto diverso: su quell’isola tutto sembrava andare al contrario, ed il buonsenso andava a farsi friggere. Lì, dove la natura selvaggia sembrava avere una volontà propria, Hal sentiva davvero la presenza di Dio, come mai in chiesa gli era accaduto. Di Dio, o… di qualcos’altro. Qualcosa che esisteva prima di lui, prima degli uomini della Fancy. Qualcosa che proveniva da un tempo e da un luogo che la mente umana non poteva concepire.

Hal rabbrividì. Da dove venivano quei pensieri? Possibile che ci fosse tanta inquietudine chiusa nel suo cuore?

“Craig… Lockwood…”

Chiamò con voce tremante. Era solo, ormai. Quella consapevolezza lo raggiunse con la forza di una coltellata. Gli girava la testa. Cosa fare adesso? Doveva tornare indietro, si disse. O almeno provarci. Insomma, gli dispiaceva per Lockwood, ma era l’unica cosa sensata da fare. Forse gli era salita la febbre a causa delle numerose punture di zanzara. E la febbre gli aveva fatto vedere cose che non esistevano. O forse era impazzito come i marinai della Esperanza.

Hal scosse la testa. Smettila, adesso, si impose. Prova a pensare: da dov’è che sei arrivato?

Non lo ricordava. Com’era possibile? Solo pochi secondi prima correva dietro a Lockwood. Hal sentiva il panico che gli cresceva dentro, come una mano che gli premeva sul petto per impedirgli di respirare.

Scegli una strada. Scegline una, maledizione. Non puoi rimanere qui impalato ad aspettare che ti sbrani qualche animale.

Hal fece un passo nell’oscurità.
 

 
***
 

Era giunto il momento di sbarcare, pensò il capitano Avery. Vaughan gli fece un cenno d’assenso senza bisogno di scambiare alcun commento: il vecchio quartiermastro sarebbe rimasto a bordo della Fancy, per tenere d’occhio gli uomini. Avery aveva uno strano sentore: l’aria era satura di aspettativa, una sorta di bizzarra eccitazione, come quella che si respira poco prima di una battaglia. Come se qualcosa o qualcuno fosse pronto ad attaccare.

È la suggestione dell’isola, cercò di tranquillizzarsi il capitano Avery. Non era molto ansioso di scendere a riva: aveva la sensazione di dover rimanere a bordo affinché la situazione non gli sfuggisse di mano. Che la ciurma si preparasse ad un ammutinamento? Ma no, non saranno così stupidi, si rincuorò: ormai era quasi fatta. Tra poco la cassa sarebbe stata sottoterra e per un anno sarebbero stati al sicuro.

“Servono tre volontari”, annunciò Avery alla ciurma.

Osservava l’equipaggio dall’alto, in piedi sul cassero di poppa con le mani incrociate dietro alla schiena. Gli uomini rimasero in silenzio. Avery attese qualche secondo, ma solo per formalità. Sapeva che nessuno aveva intenzione di sbarcare volontariamente sull’isola.

“D’accordo”, sospirò.

Cominciò a scendere lentamente i gradini.

“Allora scelgo io”.

“No, non credo proprio”.

Avery non riuscì a celare la sorpresa.

“Chi ha parlato?”, abbaiò un istante dopo, scrutando i volti degli uomini, “Fatti avanti, codardo!”

“Non sono un codardo”.

Un uomo fece un passo in avanti; gli uomini si scansarono al suo passaggio con fare riverente.

Avery intercettò lo sguardo di Vaughan: anche lui pareva stupito. No, non sapeva niente di quella storia. Probabilmente l’equipaggio complottava dal momento in cui erano salpati da New Providence, e lui non si era accorto di niente. Avery pensò che forse entrambi stavano perdendo colpi, e che il loro intuito stava andando in malora.

“Ci rifiutiamo di andare avanti con questa sceneggiata. Un nostro compagno è scomparso, probabilmente morto…”

L’uomo che si era fatto avanti si chiamava Jack Parrish. Aveva il volto affilato di un lupo ed il suo tono di voce era mellifluo come quello del diavolo.

Gli uomini non emettevano un fiato. Quelli che si erano scansati per far avanzare Parrish adesso si erano schierati in circolo attorno a lui ed al capitano, come se stessero per assistere ad un duello all’ultimo sangue.

“Quali sono le tue richieste, Parrish?”, gli chiese Avery con fermezza, “Perché devi averne di certo”.

“Parlo a nome di tutta la ciurma”, precisò lui, “Vogliamo la nostra parte del tesoro. Fatto questo, ce ne andremo dall’isola. Se rinuncerete ad opporvi, non vi uccideremo”.

Vaughan sbuffò in quella che sarebbe dovuta sembrare un’amara risata, ma questo non fece altro che rafforzare il nervosismo degli uomini.

“È escluso”, sentenziò Avery senza scomporsi, “Seguiremo il piano. Ormai è quasi tutto pronto. Poi ce ne andremo dall’isola tutti insieme”.

“È finita, capitano. I vostri uomini non vi seguono più”.

“Questo è ammutinamento, Parrish”.

I due uomini si scrutarono in silenzio per qualche secondo, come soppesando ognuno la pericolosità dell’altro.

“Sì, lo è”, confermò infine Parrish.

Quella conferma doveva essere un segnale preparato: tre degli uomini più vicini a Parrish sguainarono le spade ed avanzarono di un passo, avvicinandosi ad Avery. A quel punto però, sia il capitano che il quartiermastro se lo aspettavano: Avery e Vaughan estrassero le pistole, puntandole rispettivamente su Parrish e sugli altri capi degli ammutinati.

“Arrenditi, George”, Parrish si rivolse a Vaughan, “Non hai niente da guadagnarci a schierarti con lui. Se passi dalla nostra parte ti assicuro che gli uomini non ti torceranno un capello. Non abbiamo niente contro di te”.

“Fottiti, Jack”, Vaughan sputò a terra con un’espressione disgustata, “Sei solo un vigliacco ed un traditore. Siete tutti troppo stupidi per capire che tutto questo vi si ritorcerà contro”.

“Come vuoi tu”, esclamò Parrish, facendo un gesto agli uomini.

Adesso erano molti di più ad aver estratto la spada, avvicinandosi minacciosi al capitano. Avery non indugiò oltre: fece fuoco in direzione di Parrish, che tentò di schivare il colpo gettandosi a terra.

Il resto della ciurma si avventò contro il capitano ed il quartiermastro, mentre anche il secondo sparava contro la folla. Qualcuno era stato colpito: si vide un fiotto di sangue nell’aria, mentre tutto si impregnava dell’odore della polvere da sparo. Avery e Vaughan non rimasero a controllare chi fosse: corsero sotto coperta, diretti verso la cabina del capitano. La raggiunsero in fretta e si chiusero la porta alle spalle, tirando il chiavistello.

“Sono trenta contro due”, ansimò Vaughan.

Avery non lo aveva mai visto così spaventato durante un arrembaggio.

“Non abbiamo possibilità. Ci conviene arrenderci ed accettare il comando di Parrish”.

“Parrish è morto”, lo corresse Avery, “Gli ho sparato e l’ho colpito. E se non è morto, lo sarà tra poco”.

Al capitano Avery sembrava di averlo colpito al petto. O forse era stato alla spalla? Nel secondo caso forse Parrish si sarebbe salvato. Non aveva fatto in tempo a controllare.

“Non è questo il punto, e lo sai bene”, insistette Vaughan, “Non importa se Parrish muore. Parrish è soltanto il sintomo più evidente della malattia. Sono tutti contro di te, ormai”.

“Sta accadendo di nuovo…”, mormorò Avery.

“Di cosa stai parlando?”, gli chiede Vaughan, trasecolato.

Non gli sembrava che il capitano stesse afferrando la gravità della situazione: se solo ci fosse stato Michael Darren, forse avrebbero potuto tenere in riga la ciurma. Forse li avrebbe perfino distolti dal proposito di ammutinarsi. Ma il signor Darren non c’era: si trovava sull’isola, ignaro di tutto. Vaughan a quel punto era quasi certo che lui ed il capitano sarebbero morti. Chissà come avrebbero reagito Michael e gli altri esploratori, tornando a bordo e trovando la situazione completamente capovolta.

“Sta accadendo di nuovo. Come sulla Esperanza. Gli uomini sono impazziti e sono morti tutti. Noi dobbiamo tenere i nervi saldi. Siamo rimasti gli ultimi, George. Non dobbiamo permettere che accada di nuovo. È il potere dell’isola, non lo capisci? Attraverso la paura che incute negli uomini, tira fuori da loro il peggiore degli istinti. La civiltà qui non è mai arrivata… e se è arrivata, l’isola alla fine è riuscita a scacciarla. Ecco perché tutti sono in preda ai loro impulsi più primordiali”.

“Oh, mio Dio. Solo adesso me ne rendo conto… tu stai impazzendo. Leggere quel diario ti ha fatto questo”.

“Non sono impazzito. Anzi, forse sono l’unico a vedere le cose chiaramente…”

“Henry, ascoltami bene”, lo interruppe Vaughan.

Avery non commentò il fatto che Vaughan avesse deliberatamente ignorato il suo grado e che non lo avesse chiamato capitano: ormai i ruoli erano superflui, e le formalità non contavano più.

E io non sono più il capitano della Fancy, concluse Avery.

“Adesso dobbiamo concentrarci: solo una porticina di legno ci separa da trenta uomini inferociti che hanno intenzione di farci la festa. Dobbiamo arrenderci e cercare di salvarci la pelle”.

“Non ho intenzione di arrendermi a quegli zotici: sarebbe come ammettere di aver sbagliato, quando sono loro ad essere in errore. Seguire il piano e nascondere il tesoro è l’unica mossa sensata da fare”.

“Non c’è più un piano!”, gridò Vaughan, esasperato, “Non c’è più neanche un tesoro. Non c’è più il capitano Avery! Ci sono solo due uomini chiusi dentro una cabina che sta per essere invasa dal resto della ciurma. Ci uccideranno”.

“Dobbiamo resistere fino al ritorno degli esploratori”, affermò secco Avery.

“Ma… gli esploratori hanno l’ordine di aspettare alla spiaggia a mezzogiorno”.

“Torneranno indietro quando si accorgeranno che non arriva nessuno. Darren sarà dalla nostra parte: forse riuscirà perfino a calmare gli animi”.

“Forse ci sarebbe riuscito prima, ma giunti a questo punto gli uomini sono entrati dell’ottica di uccidere per prendersi il tesoro. Quand’è così non si torna indietro”.

“Aspettiamo Darren”, tagliò corto Avery.

Si mise seduto alla sua scrivania.

“Butteranno giù la porta…”, si lamentò Vaughan con un filo di voce.

Il quartiermastro aveva ormai perso le speranze: non sarebbe riuscito a far rinsavire il capitano.

“Che ci provino”, mormorò Avery accarezzando la pistola.
 

 
***
 

Hal adesso correva. Aveva aumentato l’andatura senza neanche rendersene conto. Aveva il fiato corto, le braccia ed il viso completamente ricoperti di graffi. Perfino gli alberi sembravano avere vita propria: gli sbarravano la strada mentre cercava di scappare da neanche lui sapeva cosa.

Ad un certo punto inciampò, finendo a terra con un tonfo. Hal avanzò a tentoni nel buio, finché con le mani, capì cosa lo aveva fatto cadere: erano due corpi.

Poi si accorse che in quel punto la luce penetrava leggermente tra le fronde, e la scena improvvisamente fu chiara davanti a lui: riconobbe Lockwood e Jones. Il primo aveva una ferita all’altezza del petto, mentre il secondo la gola squarciata. Il terreno era completamente inzuppato di sangue.

“Hal”.

Era la voce di Craig. Hal si voltò di scatto ma non vide nessuno.

“Craig”, chiamò a gran voce, “Sono qui, aiutami!”

Poi emerse dalla selva. Craig aveva in mano un coltello sporco di sangue. Hal riconobbe l’impugnatura: apparteneva a Lockwood.

“Cosa è successo qui?”, gli chiese Craig.

“Non lo so… li ho appena trovati”.

Solo in quel momento Hal si rese conto dell’altare che si trovava davanti a lui, e delle rovine antiche che spuntavano tra la vegetazione.

“Dove siamo capitati, Craig? Sembrano i resti di una città… lo vedi? Cosa sarà successo? Perché siamo finiti tutti qui?”

Craig non rispondeva. Hal fu colto da un dubbio e gli si gelò il sangue. Si voltò lentamente.

“Craig… tu sai chi li hai uccisi?”

Craig aveva il volto impassibile. Senza alcun preavviso gli si avventò contro. Hal fece appena in tempo a scansarsi, prima che il coltello gli finisse piantato in un occhio. Craig gli fu sopra; era più forte e puntava la lama alla gola di Hal, che riuscì ad assestargli una ginocchiata nelle parti basse, scrollandoselo di dosso. Il coltello finì per piantarsi nel terreno. Hal non perse tempo: fu subito in piedi mentre anche Craig si rialzava, apparentemente senza provare più alcun dolore.

Hal si inoltrò nella foresta, inseguito da quello che fino a pochi minuti prima era il suo amico Craig, che nel frattempo aveva abbandonato il coltello, estraendo l’ascia.

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Capitolo 13
*** XII. ***


Craig aveva seguito Hal finché era riuscito a stargli dietro. Il suo amico tuttavia era parecchio più alto di lui e con una falcata ne copriva tre di Craig.
Alla fine si era ritrovato solo a vagare nel bel mezzo della foresta. In quell’intricata ragnatela di rami e foglie, sembrava che il sole non riuscisse a filtrare. Era assurdo pensare che oltre quegli alberi era quasi mezzogiorno, ed un caldo asfissiante impregnava l’aria.

Craig si guardò attorno spaesato: strano, non riusciva neanche a ricordare da che parte fosse arrivato. Doveva tornare indietro, al diavolo sia Hal che quello strambo di Lockwood.

Ma perché Hal aveva insistito per andargli dietro? Quando Lockwood aveva cominciato a dare i numeri gli erano venuti i brividi. Quella situazione gli aveva ricordato di una donna anziana che conosceva quando era ancora uno stimato – si fa per dire – cittadino inglese, prima di prendere il largo per le Bahamas.

Quella donna, che la gente la credeva una strega, assicurava di saper parlare con i morti. In svariate occasioni Craig aveva assistito alla scena: la vecchia fissava il vuoto, assumendo un’espressione intensa. Sembrava davvero che stesse ascoltando una voce che poteva sentire solo lei; perfino l’aria pareva più fredda, e tutti – dai bambini affascinati, alle donne che si sentivano svenire, agli uomini più scettici – non potevano fare a meno di trattenere il fiato, in attesa che la sensitiva parlasse.

A volte si lasciava andare in quelli che avevano tutta l’aria di essere attacchi di isterismo: si gettava a terra tremando e perdendo bava dalla bocca. Nel giro di pochi minuti comunque era tutto finito, e la donna riportava ai parenti del presunto defunto che era venuto a trovarla, quello che lo spirito le aveva rivelato. Il più delle volte si trattava di informazioni generiche, o pettegolezzi sul morto di cui tutti erano a conoscenza, ma a volte la vecchia strega tirava fuori qualche assurdità che nessuno, a parte il fantasma e poche persone al mondo avrebbero potuto sapere.

Comunque, veri o falsi che fossero i suoi poteri, la donna racimolava sempre qualche spiccio, e perfino Craig era felice di lasciarle qualcosa di tanto in tanto, perché anche se non credeva a quella pantomima, perlomeno doveva darle atto di saper intrattenere bene il pubblico. E poi la vecchia, per la sua veneranda età, si contorceva e gridava come una fanciulletta: Craig era convinto che da giovane fosse stata una contorsionista anche a letto.

Scosse la testa per scacciare quei pensieri: per quale motivo gli veniva in mente la strega? Wilkins non era morto: si trovava al sicuro sulla Fancy, e non gli risultava proprio che Lockwood avesse il potere di vedere i fantasmi.

A meno che non sia successo qualcosa a bordo… se qualcuno fosse morto, tu non potresti saperlo. Gli vennero i brividi. Ma che sciocchezze andava pensando? Per quale motivo qualcuno doveva essere morto sulla nave? Avevano lasciato la Fancy da meno di ventiquattro ore: cosa poteva essere andato storto nel frattempo?

“Hal… Lockwood…”, prese a chiamare.

Doveva trovarli. Dovevano uscire da lì, o avrebbero fatto la stessa fine che nel sogno. Quello strano sogno condiviso da tutti, che divergeva solo per piccoli particolari. Hal aveva sentito la voce di Michael Darren intimargli di scappare. Lui invece non aveva sentito nessuno. Anzi, la sensazione che aveva provato era di essere stato dimenticato da tutti i suoi compagni, che al contrario di lui si stavano mettendo in salvo sulla nave, lasciandolo lì sull’isola. Abbandonandolo al suo destino.

Ed è proprio quello che sta accadendo…

No, non era possibile. Hal si era allontanato per cercare di riportare Lockwood alla ragione. Non c’erano altri motivi per i quali… Hal se ne è andato. Ti ha lasciato qui a vagare. Vagherai per l’eternità, Craig. Povero sciocco, credevi davvero di avere l’amicizia di qualcuno? Sulla Fancy sei solo un intruso… non hai condiviso alcuna battaglia con quegli uomini, perché dovrebbero spartire il tesoro con te? Perché dovrebbero accettarti? Ma neanche Hal era uno di loro. Erano partiti insieme. Insieme avevano scelto di salpare con Avery. È esattamente per questo che Hal ti ha lasciato da solo. Sa che se vuole ottenere il favore della ciurma deve dimostrare di essere uno di loro. Di poter far parte del gruppo. E di riuscire ad andare avanti senza di te. Tu sei l’unico reietto adesso…

Non era possibile. Hal non lo avrebbe mai fatto. O forse sì? In fondo non erano mica amici da una vita: si erano incontrati durante il viaggio verso il Nuovo Mondo, ed insieme erano venuti a conoscenza del fatto che Henry Avery si trovava a New Providence. Avevano deciso di continuare l’avventura insieme, ma nulla impediva che ad un certo punto prendessero strade diverse.

Deve essere stata tutta una farsa. Hal e Lockwood si sono certamente messi d’accordo per lasciarti da solo. Lo hanno fatto di proposito: infatti non ci hai messo niente a farti perdere le loro tracce. Ti sei chiesto come questo sia stato possibile? Pochi istanti fa erano entrambi vicino a te…

“Maledizione, a voi! Venite fuori, avanti!”

Cominciava a sentirsi male anche fisicamente. Lo avevano abbandonato, e adesso a chi poteva chiedere aiuto? Non c’era nessun essere vivente su quell’isola, a parte le piante. E le zanzare. Presto sarebbe divenuto concime per la terra. Ne era convinto. Sarebbe morto lì, senza che nessuno sentisse la sua mancanza.

Continuò a camminare finché le forze non lo abbandonarono. Si sentiva mancare l’aria: dentro a quella giungla adesso faceva un caldo opprimente, nonostante il sole non la sfiorasse e le tenebre si facessero sempre più fitte. Infine cadde. Ormai non riusciva più a respirare: si arrese.

Quando riaprì gli occhi, Craig si sentì improvvisamente leggero. Adesso vedeva tutto con chiarezza, nonostante fosse ancora buio. Non provava più quella sensazione angosciante di non riuscire a respirare. Poi lo vide, e capì perché si sentiva meglio: Craig non aveva più difficoltà a respirare perché di fatto non ne aveva più bisogno. Ai suoi piedi infatti, giaceva un cadavere. Un uomo nel quale Craig si riconobbe.

“Sono morto”, sussurrò, “e nessuno se ne è accorto. Mi hanno abbandonato sul serio”.

Sì, se ne erano andati. Insieme al dolore, all’ansia, al panico, alla paura. Lo avevano lasciato solo, e adesso che il suo corpo freddo giaceva a terra privo di vita, Craig provava una sola emozione: rabbia.

Una rabbia feroce nei confronti dei compagni che lo avevano abbandonato.

Non sono ancora salpati. Puoi ancora trovarli. E ucciderli.

Craig si mise in cammino.
 

 
***


“Cosa stai facendo?”

Vaughan era sempre più esasperato. Più di una volta gli era passato per la mente di sparare ad Avery ed annunciare agli ammutinati il suo cambio di bandiera; neanche lui sapeva per quale dannato motivo invece rimaneva seduto su quella sedia, in attesa di essere ammazzato assieme a quel pazzo del capitano. Forse poteva tramortirlo con una botta in testa e consegnarlo alla ciurma. Magari non lo avrebbero ammazzato se glielo avesse chiesto. Lo avrebbero legato e se ne sarebbero salpati verso casa. Michael Darren sarebbe stato d’accordo con lui, una volta spiegata la situazione. Sì, Vaughan era certo che Michael avrebbe capito e si sarebbe schierato dalla parte più conveniente. Sì perché insomma, era evidente che a tutti loro conveniva dare retta a Parrish, a quel punto. Meglio ammettere di aver sbagliato che venire ammazzati, giusto?

“Ecco fatto”, esclamò Avery, trionfante.

Gli rivolse un sorriso sinistro, mostrandogli lo schizzo che aveva fatto su un pezzo di carta.

“Oh, bene. Noi stiamo per morire e tu ti metti a fare scarabocchi su un foglio”

“Non è uno scarabocchio, sciocco”, spiegò Avery, “Si tratta della macchia nera. È rivolta a Parrish. Credo sia ancora vivo: devo averlo preso di striscio, accidenti”.

“La macchia nera”, ripeté Vaughan.

“La macchia nera, sì”, annuì Avery.

“Oh, insomma! Non vorrai venirmi a dire che non sai di cosa si tratta?”, gli chiese, accorgendosi che l’espressione atterrita di Vaughan rimaneva la stessa.

“Non mi interessa cosa sia!”, sbottò lui, spazientito, “Dobbiamo uscire di qui sventolando la bandiera bianca”

“Neanche per sogno. La macchia nera li spaventerà a dovere, in attesa che arrivino i rinforzi dalla spiaggia”.

“Ma ti senti quando parli? Stai facendo affidamento su un pezzo di carta e su un pugno di uomini che probabilmente non sono così stupidi da mettersi contro tutta la ciurma”.

“Darren sarà dalla nostra”, asserì Avery, “e la macchia nera li terrà occupati finché non arriverà”.

Vaughan provava sentimenti contrastanti: una parte di lui avrebbe voluto ammazzarlo seduta stante, ma l’altra parte continuava a seguirlo perché ammirava ed allo stesso tempo invidiava la sicurezza ostentata dall’ormai ex capitano della Fancy. Sicurezza e follia.

“Davvero vuoi farmi credere che un marinaio della tua età… ehm, esperienza diciamo, non ha mai sentito parlare della macchia nera?”

Vaughan sospirò, ignorando la battuta sulla sua età. Di certo in quel momento si sentiva davvero troppo vecchio per quei giochetti.

“Sì, ne ho sentito parlare. Veniva usata dai pirati fin dall’antichità per mandare un avvertimento. Accanto alla macchia dovresti indicare il nome della persona alla quale vuoi rivolgerla, una minaccia, ed eventualmente quanto tempo si ha a disposizione prima che la minaccia venga realizzata”.

Avery sorrise trionfante: “Ecco, vedi? Sapevo che avresti capito”.

Jack Parrish. Mezzanotte, scrisse sul foglio.

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Capitolo 14
*** XIII. ***


Craig non fu stupito nel constatare che Lockwood e Jones erano morti. Non si diede troppo pensiero neanche per cercare di capire cosa fosse successo. Probabilmente quei due pazzi si erano accoltellati a vicenda: Lockwood aveva una ferita all’altezza del cuore, mentre Jones un coltello piantato nel collo. Tra l’altro gli sembrò di riconoscerne l’elsa: doveva appartenere proprio a Lockwood.

Che idioti, pensò: sarebbero dovuti scappare senza guardarsi indietro, invece avevano perso tempo a litigare tra di loro per chissà quale motivo, e avevano fatto la sua stessa fine. Erano morti tutti e tre sull’isola. Craig si chiese se prima o poi avrebbe incontrato anche i loro spiriti, se anche loro come lui, non avrebbero trovato pace per quella fine indegna.

Estrasse il coltello dal collo di Jones, lasciando che un fiotto di sangue ancora caldo gli sporcasse la mano: era morto da poco, dunque. Forse anche Hal si trovava ancora sull’isola. Anzi, era sicuro che presto sarebbe passato da lì. Probabilmente non se ne sarebbe andato senza di loro.

L’unico sacrificabile qui è il buon vecchio Craig, giusto?

Con quel pensiero Craig si nascose tra le rovine della città antica che sorgevano tutto intorno allo spiazzo erboso nel quale erano morti i suoi ex compagni. Ed aspettò.

Hal non si fece attendere molto: arrivò correndo, e cadde rovinosamente quando i suoi piedi inciamparono sui cadaveri. Craig attese che quello che fino a poco fa era il suo unico amico al mondo, si rendesse conto della scena che si trovava davanti. Alla fine uscì dall’oscurità con il coltello in mano.

“Craig”.

Hal sembrava quasi sollevato nel vederlo, ed allo stesso tempo spaventato per la situazione. Come sapeva fingere bene! Craig sapeva che Hal era tornato indietro per cercare gli altri, non lui. Però, sorpresa! Li aveva trovati tutti morti. Ma adesso gliela avrebbe fatta pagare. Eccome se l’avrebbe fatto! Non si aspettava certo di trovarsi faccia a faccia con il suo fantasma, giusto?

Craig gli fu addosso, cercando di piantargli il coltello nella gola, ma Hal riuscì a liberarsi dalla sua presa, per poi inoltrarsi nella foresta.

Craig gli andò dietro senza fretta, poiché la situazione volgeva a suo vantaggio: lui riusciva a vedere bene anche al buio, mentre Hal non aveva idea di dove stesse andando.

In pochi passi gli fu di nuovo addosso.

“Craig, Craig ti prego!”, gridò Hal, “Qualsiasi sia il motivo di tutto questo, possiamo parlarne!”

Craig sembrava avere una forza sovrumana. Hal non sarebbe riuscito a tenergli testa ancora a lungo.

Craig scoppiò in una lugubre risata: “Adesso vuoi parlare? E perché non abbiamo parlato quando hai deciso di piantarmi qui sull’isola? Volevi il tesoro tutto per te, non è vero? Accaparrarti anche la mia parte… è stato il tuo obiettivo fin dall’inizio!”

“Ma cosa stai dicendo?”, esclamò Hal, “Io ti avrei piantato sull’isola? Ero corso a cercare Lockwood e tu eri dietro di me. Mi sono trovato da solo all’improvviso e non avevo idea di dove andare! Perché hai ucciso gli altri due? Cos’è successo?”

“Io non ho ucciso nessuno! Casomai sono io ad essere morto a causa vostra…”

Hal non riusciva a capire di cosa stesse blaterando Craig, ma la causa doveva essere la stessa che aveva condotto Lockwood alla morte: credeva di parlare con una persona che non si trovava davvero davanti a lui, ed allo stesso modo Craig doveva essersi convinto di qualcosa che non era mai accaduto. Ma come farglielo capire, adesso?

“Craig, cerca di stare calmo. Cosa vuoi dire con ‘sono morto a causa vostra’”?

“Non sai distinguere tra i vivi ed i morti?”, sibilò Craig, minaccioso.

Avanzò di qualche passo, tenendo l’ascia in mano: il coltello lo aveva perso durante lo scontro, abbandonando vicino ai due cadaveri.

“Non vedi la differenza tra il tuo amico Craig ed il suo fantasma?”

“Credi di essere un fantasma?”, boccheggiò Hal, incredulo.

Non riuscì a fare a meno di ridere: una risata isterica che risuonò strana perfino alle sue orecchie.

“Adesso basta. Il tuo piano è fallito: io sono morto, ma neanche tu riuscirai a mettere le mani sul tesoro. Passerai l’eternità su quest’isola, insieme a me e ai nostri compagni”.

“Craig”, Hal tornò improvvisamente serio.

Anche se le convinzioni del suo amico erano assurde, non poteva sottovalutarlo: forse era stato lui ad uccidere gli altri due, nel delirio febbrile che lo aveva convinto di essere morto.

“Tu non puoi essere morto. Segui il mio ragionamento: se tu fossi uno spirito, come faresti a tenere gli oggetti in mano? L’ascia, il coltello… per non parlare di quando mi hai aggredito! C’è mancato un soffio che non mi cavassi un occhio… e la ginocchiata nei coglioni l’hai sentita?”

Craig rimase in silenzio per qualche secondo. Hal sperò che cominciasse a rinsavire.

“Cerchi ancora di ingannarmi, demone?”, soffiò invece Craig, “Non puoi più farti gioco di me. Ormai ho svelato la tua vera natura…”

“Craig…”, Hal fece un passo indietro, “Tutto questo è un’illusione. L’isola ci sta facendo vedere cose che non esistono. Ci ha diviso e poi ci ha colpito nei punti in cui siamo più vulnerabili. Non so come tutto questo sia possibile ma…”

Craig sollevò l’ascia, pronto a colpire. Hal chiuse gli occhi, in attesa del colpo mortale. Invece non avvertì alcun dolore. Sentì un suono ovattato, e poi un tonfo. Quando riaprì gli occhi, constatò il motivo per il quale non era stato ammazzato: Craig giaceva a terra, con l’ascia ancora in mano. Sembrava privo di sensi. In piedi accanto a lui c’era un uomo molto anziano, che gli rivolse in inquietante sorriso sdentato, mostrandogli poi il grosso ciocco di legno che leggeva tra le mani, e con il quale aveva appena tramortito Craig.

“No hay necesidad che mi ringrazi. Me llamo Vincenzo Alvarez, y estoy bloccato su quest’isola da quasi sesenta años, se ho fatto bien i conti. Por favor, portami via da aquí”.

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Capitolo 15
*** XIV. ***


“Yo era solo un mozzo quando abordé la Esperanza”, il vecchio parlava in un affascinante misto di inglese e spagnolo non molto facile da comprendere. 

Spiegò ad Hal e Craig che aveva imparato la loro lingua grazie ai libri che aveva rinvenuto nella cabina del capitano. Ovviamente non c’era anima viva sull’isola oltre a lui, e quindi il buon Vincenzo non aveva potuto esercitarsi nella conversazione in inglese con nessuno, a parte sé stesso e le piante con le quali sosteneva di aver stretto un legame. 

“Diffidate con las rocas, invece. Las rocas non si fidano de los hombres. Resistono al fascino del encanto de nuestras palabras… sono dure d’animo como la sustancia della quale sono fatte”.

Hal e Craig avevano ascoltato esterrefatti il racconto di come quel vecchio pazzo era riuscito a sopravvivere sull’isola, dopo il naufragio della Esperanza: erano impazziti tutti, spiegò. Lui era riuscito a fuggire sull’isola – l’aveva raggiunta grazie ad una scialuppa – e si era stabilito nell’entroterra. Perché non era impazzito come tutti i suoi compagni? Vincenzo non ne aveva idea. Era convinto però, che con il passare dei giorni gli spiriti che abitavano l’isola lo avessero accettato come parte integrante del loro mondo.

“Non avevano motivo de ucciderme. Ero rimasto isolato dal resto del mundo, y non rappresentavo alcun pericolo, ormai. Inoltre ero solo un niño, all’epoca… forse hanno avuto pietà de mí”.

Craig nel frattempo si massaggiava la testa nel punto in cui Vincenzo lo aveva colpito. Da quando era rinvenuto, sembrava che il suo spirito bellicoso fosse evaporato. 

“Cosa è successo?”, aveva balbettato mettendosi a sedere.

“Su, su… bevi un poco de agua”.

Vincenzo gli aveva dato una pacca d’incoraggiamento sulle spalle, mentre gli porgeva dell’acqua dolce da una borraccia che sembrava aver visto giorni migliori. Dove avesse trovato l’acqua, Hal lo ignorava, considerando che loro non avevano incontrato altro che pantani e malsane paludi. 

A poco a poco Craig aveva cominciato a ricordare gli eventi appena trascorsi, ma gli era rimasto un vuoto confuso dal momento in cui aveva perso di vista Hal. Lui dal canto suo, evitò di raccontargli che lo aveva rincorso con l’ascia in mano. 

Non si sa mai che gli torni la voglia di farmi a fette, pensò.

Gli spiegò invece che Lockwood e Jones erano morti, e che Michael Darren sembrava sparito nel nulla. Hal e Vincenzo lo avevano trovato privo di sensi, gli disse, e lo avevano portato alla spiaggia, dove era fissato l’appuntamento per mezzogiorno. 

“Comincio ad avere una gran fame”, borbottò Craig, scrutando l’orizzonte.

La Fancy era ancorata a poche iarde di distanza, ma era comunque troppo lontana perché dalla spiaggia si riuscisse a capire se ci fosse o meno movimento sul pontile. 

“E ci credo”, sbottò Hal, “Mezzogiorno sarà passato da almeno mezzora”.

Nessun segno né di Michael né del capitano Avery.

“Michael potrebbe aver fatto la fine degli altri. Ma quanto al capitano… non riesco a capire cosa stia aspettando. Vuoi che anche sulla nave sia successo qualcosa?”

“Están todos muertos”, sentenziò Vincenzo.

Poi rivolse loro il solito sorriso inquietante e sdentato; si mise le mani in tasca – indossava delle vesti lacere da marinaio, con calzoni che gli arrivavano al ginocchio e che forse un tempo gli erano stati lunghi – prese a frugare per un breve momento, poi tirò fuori qualcosa di disgustoso. Hal e Craig impiegarono qualche secondo per capire di cosa si trattasse: erano due piccoli roditori morti, spellati, cotti e infilati in uno spiedino di legno. Per poco i due non vomitarono.

“Cibo”, li incoraggiò ingenuamente Vincenzo.

“Ehm, no grazie. In fondo non ho poi così tanta fame…”

“Ma no, infatti. E poi non sta bene che noi mangiamo mentre gli altri sono dispersi chissà dove. Dobbiamo darci da fare per raggiungerli”.

“Sì, buona idea. Sbrighiamoci a tornare sulla nave”.

“Están muertos”, ripeté Vincenzo con convinzione.

Si strinse nelle spalle ed addentò il topo con noncuranza.

Hal e Craig non gli diedero ascolto; si diressero verso la scialuppa, ancora ormeggiata sulla riva, dove l’avevano lasciata il giorno precedente.

“Aspetta un attimo”, Craig si immobilizzò.

“Che ti prende?”

“E se il tipo strambo qui avesse ragione? E se fossero impazziti come quelli della Esperanza?”

Hal tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo aveva temuto che a Craig fosse tornata la follia omicida e che avrebbe tentato nuovamente di ucciderlo.

“E se noi fossimo come Vincenzo? Gli unici sopravvissuti di un viaggio infernale… destinati a rimanere per sempre sull’isola?”

“Non dire sciocchezze”, Hal ostentò una sicurezza non sentiva di avere.

“Vincenzo è completamente fuori di testa. Senza offesa, eh”, disse rivolto al vecchio.

“Se figuri”, si strinse nelle spalle quello, continuando a sgranocchiare di gusto.

“Chi non ci dice che non sia stato lui a farli fuori, quelli della Esperanza?”

“Trenta uomini da solo?”

“D’accordo, non è possibile. Ma magari ha aspettato che si sbranassero tra di loro per… be’, non lo so che vantaggio potrebbe aver ottenuto. Comunque noi abbiamo ancora una nave, e neanche il diavolo in persona potrà impedirmi di prendere il largo e mettere più acqua possibile tra me e quest’isola di mer…”

“E come pensi di fare a governare la nave da solo, se sono tutti morti?”

“Forse non ti sei ancora ripreso dalla botta in testa. Ma perché dovrebbero essere morti?”

“Chi ti ha detto che ho preso una botta in testa?”

Craig lo guardò con sospetto.

“Nessuno. Ho tirato ad indovinare”.

“Uhm”.

“Comunque dobbiamo tentare”, concluse Hal, “Proviamo a tornare indietro e togliamoci il dubbio”.

“Io non mi avvicinerei al agua”, li avvertì Vincenzo, “È da lì donde vienen los monstruos”. 

Hal e Craig si voltarono lentamente.

“Grazie dell’avvertimento. Ma…”

Il vecchio si era fatto improvvisamente serio. Gettò il bastoncino ormai pulito a terra, alle sue spalle.

“Mi trovo qui da cincuenta y nueve años, se come dite voi, somos nel 1695. Los espíritus de la isla me raccontarono toda la historia. Se lo desiderate, ve ne metterò al corrente”.


 
***


Michael Darren aveva atteso il ritorno di Jones inutilmente. Trascorso qualche minuto lo aveva chiamato, poi, pigramente si era messo a fare il giro del fortino, ma di lui non sembrava esserci traccia. Fu solo allora che cominciò a preoccuparsi: forse Jones aveva deciso di entrare nella foresta e cercare un posto per cacare. Ma cominciava ad essere via da un quarto d’ora buono, e si avvicinava il momento in cui sarebbero dovuti tornare alla spiaggia.

Dove diavolo sarà andato quel deficiente?

Michael aveva un brutto presentimento. Se non è qui, io torno indietro. Verrà a cercarci lui. O torneremo a cercarlo noi, quando ci sarà anche Avery. 

Non aveva la minima intenzione di mettersi a cercarlo da solo, addentrandosi nella foresta. Imboccò il sentiero che aveva percorso con Jones per raggiungere il fortino, con l’intenzione di dirigersi alla spiaggia. 

Non riusciva a scacciare i pensieri cupi che affollavano la sua mente. Mano a mano che procedeva, si sentiva sempre più stanco e fiaccato. Era strano: eppure non aveva percorso molta strada quella mattina. 

Michael era praticamente a digiuno da quasi ventiquattro ore, ed aveva una sete tremenda, ma era sopravvissuto a situazioni di ben lunga peggiori di quella. Perché si sentiva così male? Non era solo una sensazione fisica… si sentiva oppresso: la giungla creava attorno a lui un’atmosfera claustrofobica: gli sembrava che i rami degli alberi potessero stringerglisi attorno alla gola da un momento all’altro. 

Cercò di scacciare i pensieri, continuando a camminare. Doveva mantenere la mente salda, o rischiava di impazzire come era accaduto ai membri dell’equipaggio della Esperanza. Quello era lo straordinario potere di suggestione dell’isola: lo stesso che aveva portato alla morte quei trenta marinai… Michael non poté fare a meno di ricordare i loro volti: le bocche aperte, le espressioni raccapriccianti. I teschi con ancora qualche stralcio di pelle ammuffita attaccata al cranio. Era quella la sorte che attendeva anche loro? 

Michael si toccò il volto: cominciava a sentirlo. I tarli lo stavano rodendo da dentro. Eppure lui non era ancora morto! Avrebbe voluto gridarlo a quegli esserini maligni che lo stavano divorando. Si graffiò la faccia, nel disperato tentativo di scacciarli. 

“Uscite fuori, maledizione! Uscite!”

Si mise a correre, neanche lui sapeva dove. I rami continuarono l’opera che aveva iniziato: gli graffiavano il viso e la pelle scoperta delle braccia. Corse fino a che non si rese conto che la giungla aveva lasciato il posto a qualcos’altro. Non c’era più il caldo opprimente dell’isola. 

Era a casa. 

Le strade umide e grigie di Londra si aprivano dinnanzi a lui. Il cielo plumbeo, come se stesse per piovere da un momento all’altro, l’aria gravida d’umidità. 

“Togliti di mezzo, lebbroso”, gli intimò un cocchiere sfrecciandogli accanto con un carro trainato da cavalli.

Le ruote del mezzo gli schizzarono del fango addosso. 

Michael sussultò. Lo aveva chiamato lebbroso? Si toccò di nuovo il volto: i tarli lo avevano completamente divorato. Sentiva la pelle viva sotto i polpastrelli, ed oltre a fargli un male cane, si rese conto con orrore di come doveva essere il suo aspetto. 

Una giovane ragazza gli passò accanto, stretta al braccio della madre. Erano entrambe belle. A Michael, un tempo sarebbe venuto spontaneo fare loro l’occhiolino, e le due sarebbero arrossite, ridacchiando tra loro, oppure avrebbero ricambiato il saluto, nel caso in cui fossero state due dal carattere ardito. Quelle invece si sbrigarono a distogliere lo sguardo, piene di disgusto e paura.

Michael si sentì sprofondare: era tutta colpa dell’isola: lì aveva contratto chissà quale strana malattia tropicale che lo faceva somigliare ad un lebbroso. E adesso i suoi compagni lo avevano scaricato lì. 

“Tornatene a casa, Michael”, gli aveva detto il capitano Avery, “E che non si dica che Henry Avery non ha pietà di nessuno”.

Lo aveva salutato ridendo, ignorando le sue suppliche. Michael non voleva che qualcuno lo vedesse così. Specialmente…

“Guarda come ti sei ridotto…”

Il conte Bradbury lo guardava con disgusto, in piedi dall’altra parte della strada con la contessa sottobraccio. 

“È con questo scarto dell’umanità che mi hai tradito, Charlotte? Davvero eri infatuata di lui?”

La donna non rispondeva. Il conte rideva, mentre lei serrava le labbra, con un’espressione che Michael non avrebbe saputo dire, se di orrore o pietà. Forse entrambe.

Se ne andarono, mentre il conte rideva ancora. 

Michael si rese conto che non era l’unico a ridere: adesso la folla si era raccolta attorno a lui, e lo indicava ridendo, gridandogli insulti. Tutti, dagli straccioni ai nobili, agli strilloni con i giornali in mano, alle prostitute con scollature generose, ai reverendi, che avevano interrotto le loro funzioni, agli ufficiali, ai mercanti. Tutta l’umanità presente in Inghilterra si stava ammassando in quel punto, creando come una sorta di prigione di carne intorno a Michael Darren, indicandolo e ridendo di lui. 

Qualcuno gli tirò addosso della frutta marcia, come si faceva con i criminali alla gogna. O con i condannati a morte. Forse lo avevano scoperto? Erano venuti a sapere che avevano a che fare con un pirata?

Qualcuno lo prese sottobraccio e lo strattonò per farlo camminare. 

“Avanti, muoviti, schifoso”.

Erano due uomini, guardie armate. Per i pirati, la pena era l’impiccagione. Eppure su quel patibolo lo attendeva una ghigliottina. 

Michael si dibatté gridando, ma le guardie lo tennero fermo, mentre il boia lo attendeva con il cappuccio nero calato davanti al volto. Sotto il cappuccio, non c’era altro che ombra, come se il viso dell’uomo non avesse lineamenti e fosse composto solo da tenebra. La stessa tenebra che aveva incontrato nella foresta, sull’Isola dello Scheletro. Quella tenebra che inghiottiva tutto. 

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Capitolo 16
*** XV. ***


Il vecchio parlava con voce suadente, in quella sua strana lingua che sembrava inventata appositamente per la storia. Le sue parole descrivevano in modo inquietante quello che Hal e Craig sapevano già essere accaduto sulla Esperanza: gli uomini erano impazziti, e si erano rivoltati gli uni contro gli altri. E poi tutti contro il capitano, che si era chiuso nella sua cabina, e lì era morto di fame.

“A questo punto sta accadendo el mismo en su vostra nave”, li avvertì Vincenzo. 

Poi riprese il racconto.

Disse che avrebbe preferito essere morto durante la tempesta. Disse che sarebbe convenuto a tutti. Invece il destino li aveva condotti lì. Forse erano stati gli stessi fantasmi dell’isola ad averli cercati.

Quei fantasmi, che durante la sua lunga permanenza gli avevano raccontato la loro storia. 


Coastrique era fratello della dea Morte. Malik aveva da sempre avuto rispetto per tutti gli dei, ma nei confronti di quelli più oscuri, provava sentimenti contrastanti.

“Come si fa ad amare la morte?” Aveva chiesto più volte al suo maestro. “Rispettarla, sì. Temerla, certo. Ma come si fa ad amare un dio che ti porta via tutto quello che ti è più caro al mondo?”

“Senza la morte non esisterebbe la vita”, gli aveva confidato il vecchio mentore. “Il corpo morendo, nutre il terreno. Dal terreno la vita nasce ancora”.

Malik aveva tentato di capire. Attraverso le erbe che aveva accuratamente pestato all’interno del recipiente, e poi bevuto tramite infuso, si era lasciato trasportare nel mondo delle ombre. Non si era mai spinto fin laggiù durante le sue visioni passate, negli altri più oscuri, dove abitavano gli dei oscuri. E dove passavano le anime, in viaggio verso l’aldilà.

Aveva incontrato molti visi famigliari. Malik aveva cercato di attirare la loro attenzione, ma si era accorto che dalla bocca non gli usciva nessun suono. Non poteva chiamarli. Non poteva fare niente per loro. Tra lui ed i morti, scorreva placido un lungo fiume rosso.  E gli spiriti lo guardavano pallidi e muti, consapevoli di quella barriera che li avrebbe divisi ancora per un po’. 

Malik aveva visto la donna che aveva amato, e lei gli aveva restituito uno sguardo carico di dolore.

Aveva percorso a piedi tutto il perimetro, giungendo fino alla sorgente. Laggiù, le acque si facevano ancora più viscose. A Malik era sembrato di udire dei lamenti. Poi il dio era emerso. Malik si era inginocchiato. Si era prostrato, incurvando la schiena ed innalzando un lamento muto. 

“Sai cosa ti chiedo”, gli aveva detto senza parlare. “Vendetta per la mia gente. Per la tua gente. Per coloro che ti hanno pregato e adesso sono scomparsi. Non è rimasto più nessuno a venerare gli antichi dei, perché il nostro popolo è stato spazzato via. Non è rimasto niente della città d’oro che avevamo eretto per rendervi gloria. Tutti sono stati accuditi da vostra sorella, Morte. Adesso sono rimasto l’ultimo, e chiedo giustizia”. 

Il dio era rimasto impassibile. 

“Ti accontenterò”, aveva concesso alla fine. 

Malik si era svegliato e si era accorto che era già mattino. 

Aveva tra le mani un coltello con del sangue fresco che grondava dalla lama. Si era reso conto di aver dormito ai piedi dell’altare. L’altare che adesso era sporco di sangue, come se fosse stato appena compiuto un sacrificio. Tutto intorno a lui, la città cadeva in rovina: le case bruciavano, ed un fumo acre impregnava ogni angolo. 

Era uscito, dirigendosi alla spiaggia. Lungo il percorso, gambe, braccia, busti di uomini bianchi. Sulla riva, lo aspettava il dio degli abissi, fratello della Morte.

“Adesso la tua gente è stata vendicata”, gli aveva detto. 

Poi si era scivolato tra le onde.


“Malik aveva chiesto al dio di restituire a lui el sangre de la sua gente, attraverso el sangre dei suoi carnefici”, spiegò Vincenzo, “El sangre per secoli ha nutrito la creatura que ahora vive en fondo del absimo”.

“Che ne è stato di Malik?”, gli chiese Craig in un sussurro.

“Non crederai a questa storia?”, gli fece eco Hal, aggrottando la fronte.

“Malik està rimasto su la isla, ultimo de la sua gente. Guardiano de les antiche runiase, finché anche lui non esté muerto.

Ogni nave que passa por aquí, incontra el mismo destino. Porque el monstruo està tornato sì nel abismo, ma non dovete illudervi neanche por un momento que stia davvero dormendo. Si riposa, ma resta sempre en attesa. 

Por ogni equipaggio que sbarca en la isla, el dio del abismo chiede a cambio del sangre de los marineros, porque la sua ferocia non està ancora dissetata. Ma lascia sempre en vida qualcuno, porque rimanga su la isla a custodire el antico secreto que affonda sus raíces en el tiempo de la scoperta del nuevo mundo. 

Quindi scegliete la vostra sorte: se salite su quella scialuppa, e se anche por assurdo la creatura vi lasciasse raggiungere la nave, estate pur certi que vi impedirà de ripartire. 

Non ve ne andrete mai de aquí: los españoles sanno muy bien que possono avvicinarsi fino ad un cierto punto, senza mai sbarcare. 

Voi avete commesso el error de voler sfruttare la isla, nello stesso modo in cui los primeros invasores la sfruttarono per la brama de oro. 

La vostra unica possibilità di sopravvivere es con migo, como yo, abitante de la Isla Esqueleto, e guardiano de suo secreto”. 

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Capitolo 17
*** XVI. ***


Hal e Craig spinsero la scialuppa in acqua e si sbrigarono a salire.

“Allora, vieni o no?”

Vincenzo non sembrava affatto convinto di volerlo fare, nonostante avesse espresso più volte la volontà di lasciare l’isola.

“Non credo que ci lascerà andare…”

“Noi comunque ci proveremo. Mi rifiuto di passare qui il resto dei miei giorni. Meglio la morte”, asserì Hal.

“Be’, speriamo di sopravvivere però”, borbottò Craig.

Vincenzo tentennò qualche secondo, poi si convinse a salire.

Hal e Craig si misero a remare, osservando guardinghi l’acqua, mentre Vincenzo restava attaccato con le mani ai bordi della scialuppa come un gatto impaurito.

“Possiamo farcela, andiamo”.

Il sole picchiava davvero forte. Hal e Craig avevano la gola secca mentre aumentavano l’andatura con i remi.

Si aspettavano che qualcosa colpisse la scialuppa da un momento all’altro. Avevano davvero creduto al racconto del vecchio sopravvissuto della Esperanza? Quell’uomo sembrava completamente pazzo.

E come avrebbe potuto non esserlo? Aveva passato cinquantanove anni completamente solo su l’Isola dello Scheletro, un luogo che di certo aveva qualcosa di strano, perché sortiva un brutto effetto su chiunque di loro.

Due dei loro compagni erano sicuramente morti, rifletté Hal. Aveva trovato lui stesso i corpi. Un altro, Michael Darren, era scomparso nel nulla.

Dalla Fancy non arrivava nessuno. Ed il suo amico Craig aveva tentato di ucciderlo. A pensarci bene, Hal non era ancora convinto che Craig fosse tornato del tutto in sé. E se stesse fingendo che vada tutto bene per poi attaccarmi di nuovo?, si chiese.

Di sicuro qualcosa di strano era accaduto. Di sicuro l’isola aveva un potere di suggestione sugli uomini che nessun altro posto al mondo che Hal avesse mai visitato, possedeva con quella intensità.

Perfino lui ne aveva avvertito gli effetti. Non si era sentito solo ed in preda al panico quando si era ritrovato a vagare nella foresta? Quello che aveva provato non si poteva descrivere. Era una paura atavica che aveva risvegliato in lui un istinto alla sopravvivenza che neanche sapeva di avere. Adesso Hal era certo che avrebbe lottato con le unghie e con i denti pur di andarsene da lì.

Gli tornò in mente l’inizio di quell’avventura, la sera che il capitano Avery aveva messo piede per la prima volta nella taverna, e l’eccitazione quando, dopo aver spiegato al signor Vaughan il loro piano, Hal e Craig si erano imbarcati sulla Fancy. Aveva provato un senso di vittoria, come se avesse avuto il tesoro già in tasca. Non era solo per l’oro, ma per la soddisfazione che derivava dall’aver combattuto e vinto, rifletté. Be’, nel suo caso non aveva partecipato alla battaglia, ma riteneva a quel punto di essersi meritato la sua parte.

Qualcosa attirò la sua attenzione. Era stato un attimo. Un guizzo sotto il pelo dell’acqua.

“Està arrivando”, confermò Vincenzo, “Como vi avevo avvertito”.

“Di che sta parlando il pazzo?”, chiese Craig, che non si era accorto di niente.

Il vecchio fece un cenno ad Hal: “Diglielo”.

“I-io…”

Non ci fu bisogno di alcuna spiegazione, perché allora anche Craig lo vide.

La scialuppa tremò per un lungo, terribile istante. I tre rimasero immobili, trattenendo il respiro.

“En fundo ho vissuto abbastancia. Està ora de riposarse… en fundo al mare”, sospirò Vincenzo.

“Tu avrai anche vissuto abbastanza… ma noi no, maledizione”, disse Craig sottovoce, “Che facciamo?”, chiese poi rivolto ad Hal.

“Continuiamo a remare”, propose lui dopo aver riflettuto un istante.

“Ma così la creatura ci vedrà…”, protestò Craig.

“Vuoi rimanere qui impalato a farti arrostire dal sole?”

Non c’erano molte alternative. O cuocere lentamente, rimanendo immobili sulla scialuppa e sperare che prima o poi il vento li spingesse in direzione della Fancy, - cosa che quel giorno non sarebbe potuta accadere, visto che non tirava un filo d’aria – oppure riprendere a remare ed attirare così l’attenzione della cosa lì sotto. La seconda soluzione appariva comunque meglio dell’inerzia assoluta.
Hal e Craig ripresero a remare.

 

***
 


Nel frattempo sulla Fancy, Jack Parrish sentiva crescere una gran rabbia dentro di sé. Cosa pensava il capitano Avery? Era davvero convinto di spaventarlo con i suoi giochetti? La macchia nera… poche ore prima aveva fatto scivolare un pezzo di carta sotto la porta della sua cabina, dove si trovava ancora barricato insieme al signor Vaughan, sul quale c’era scritto il suo nome.

Gli uomini glielo avevano portato: lui si trovava ancora sul pontile, seduto per terra e con la schiena appoggiata all’albero maestro. La pallottola di Avery lo aveva colpito ad una spalla. Jack era stato portato di corsa sotto coperta, ed il medico di bordo lo aveva salvato, estraendo in fretta la pallottola e medicando la ferita.

Adesso si sentiva ancora un po’ debole, ma aveva insistito per farsi accompagnare di sopra, in modo da respirare aria fresca. Fresca per modo di dire, perché ormai doveva essere mezzogiorno passato, e cominciava a fare davvero caldo.

Jack aveva aperto il pezzo di carta piegato in due, stupito nel leggere il suo nome. Dentro, c’era uno schizzo nero ed un’altra scritta: ore 12.00.

Cosa gli sarebbe successo alle ore 12.00? Jack si era messo a ridere, dando del pazzo ad Avery. “Voglio proprio vedere cosa pensa di fare”, aveva borbottato. Così lui ed i suoi uomini avevano atteso. Se quello era stato un diversivo per allungarsi la vita, Jack doveva dargli atto che era stato efficace. Forse sperava che a mezzogiorno gli esploratori tornassero dall’isola, non vedendo nessun segno di vita dalla Fancy? Sì, era probabile, rifletté.

“Il tempo è scaduto”, disse, “Mezzogiorno è passato e non è successo niente. Il nostro capitano ci ha preso per il culo, come al solito”.

Uno degli uomini si affrettò a sorreggerlo mentre cercava di alzarsi. Jack lo scansò, appoggiandosi all’albero maestro. Appallottolò il pezzo di carta con sopra disegnata la macchia nera e lo gettò in mare. Il tempo degli scherzi era finito. Era ora che si cominciasse a fare sul serio.

“State a vedere che a mezzogiorno sarà il nostro buon capitano a morire, al mio posto”, esclamò, prima di scoppiare in una risata sguaiata. Gli uomini lo imitarono.
 

Quello che né Jack, né gli altri membri dell’equipaggio potevano vedere, era che il pezzo di carta aveva colpito la superficie dell’acqua, creando una serie di piccole increspature. In ognuna di esse, l’acqua rifletteva una scena diversa; in ogni scena, compariva un volto appartenente ad un uomo della Fancy. In ogni scena, un uomo moriva.

Il pezzo di carta scivolò nell’acqua, inghiottito dal mare. Tuttavia non raggiunse mai il fondale: qualcosa lo afferrò, prima che potesse continuare la sua discesa.



 
***
 
 

Finalmente l’ho visto. O almeno parte di esso. Non ho idea di quanto sia grande tutto il suo corpo, di come sia fatto il cranio, se abbia occhi, naso e bocca o respiri attraverso le branchie come i pesci.

Quando ha sollevato il gigantesco tentacolo ho pensato che saremmo morti tutti in un momento. Invece la creatura ha colpito l’acqua, provocando una grossa onda che ha investito in pieno la nave. Poi si è ritirata negli abissi.


Sono passati tre giorni da allora: la creatura non è più emersa. Sono giunto alla conclusione che non ne abbia bisogno: gli uomini si sono chiusi nella stiva. Temo che si stiano divorando gli uni con gli altri. A volte li sento gridare in modo disumano.

Io sono chiuso dentro la mia cabina, e non mi rimane che scrivere in questo diario. Non so se un giorno qualcuno lo leggerà. Forse potrà essere d’aiuto ad un altro capitano e ad un’altra ciurma.

Quanto a noi, la nostra sorte è già segnata: la creatura non ci permetterà di lasciare l’isola. Mai più. Forse neanche i nostri spiriti potranno farlo. Sì, perché continuo a sentirle dal giorno in cui siamo naufragati ed approdati qui: le voci di coloro che ci hanno preceduto. Invocano pietà. I loro fantasmi continuano a gridare, nonostante dei loro corpi non sia rimasta che polvere.

Non siamo soli. Non siamo mai stati soli.

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Capitolo 18
*** XVII. ***


Jack aveva radunato gli ammutinati sul pontile della nave. Dalla poppa li osservò tutti con orgoglio: “Ho gettato la macchia nera in mare!”, gridò, “Il capitano Avery non fa più paura! Ormai è solo un verme che striscia sotto terra! È nascosto nella sua cabina da ore, assieme all’altro traditore del quartiermastro! Hanno tramato contro di noi fin dal primo momento! È il tesoro che vogliono… non avevano intenzione di darci neanche un centesimo! Be’, io dico che quel bottino appartiene a noi! A noi che lo abbiamo conquistato col sudore e con il sangue! A noi che abbiamo combattuto e vinto per lui. Andiamo a prenderci ciò che ci spetta!”

Gli uomini proruppero in un grido d’approvazione. Jack sorrise: adesso lo avrebbero fatto a pezzi.
 

“Ma cosa sta succedendo?”

Hal, Craig e Vincenzo fermarono la scialuppa a pochi metri dalla Fancy.

“Quello non è Jack Parrish? Cosa sta facendo, dov’è Avery?”

I tre ascoltarono perplessi Jack arringare gli uomini. Stava gridando di fare a pezzi il capitano.

“È un ammutinamento!”, esclamò Hal, “Cosa facciamo adesso?”

“Yo ve lo avevo detto”, annuì soddisfatto Vincenzo, come se fosse contento della situazione, “Estan todos muertos”.

“Non sono affatto morti”, intervenne Craig.

“Non ancora”, lo corresse il vecchio, sempre sorridendo.

“Non sono ancora morti, ma il capitano è in grave pericolo”, affermò Hal, “E anche noi se rimaniamo qui. Dobbiamo salire a bordo e raccontare quello che è successo. Non possiamo…”

“Se raccontiamo quello che è successo ci accuseranno di aver ammazzato gli altri. Specialmente il signor Darren, che è molto popolare tra la ciurma. Ci faranno fuori insieme ad Avery. Tra l’altro, è stata nostra l’idea di nascondere qui il tesoro”, si lamentò Craig.

“Se restiamo qui moriremo di certo. Dobbiamo salire e tentare di farli ragionare”.

“Non ragionano. Non ragionano più ahora”.

Vincenzo non sorrideva più: “La historia se sta ripetendo”.

Hal e Craig sussultarono. Qualcuno li stava chiamando. Si voltarono nella direzione del rumore, e videro che all’altezza della cabina del capitano, qualcuno aveva lanciato loro una corda.

“Salite, presto”, stava intimando loro il signor Vaughan.

“Grazie a Dio”, esclamò Craig.

Lui ed Hal si affrettarono a pagaiare fino a raggiungere l’estremità della corda.

“Ce la fai a salire?”, chiese Hal a Vincenzo.

“Ma quanto sei premuroso”, lo punzecchiò Craig, afferrando la cima per primo e cominciando a salire.

Il vecchio annuì convinto.

Hal salì per secondo, sperando per quel povero pazzo che l’età non lo avesse fiaccato troppo nel fisico. Lo spagnolo sembrava reggere l’anima con i denti: era così magro che si vedevano le costole dalla camicia aperta sul petto. Tuttavia Vincenzo non aveva mentito: si arrampicò svelto come un fulmine, appoggiandosi con i piedi alla nave. Tutti e tre vennero aiutati dal capitano Avery e da Vaughan ad issarsi a bordo.

“Capitano, siamo così felici di rivederla”, ansimò Craig.

“Là fuori si stanno organizzando per farvi a pezzi”, li avvertì Hal.

“Cominci sempre con le buone notizie, tu…”, lo rimproverò l’amico.

“Cosa è successo sull’isola?”, Avery non perse tempo in convenevoli: “Dov’è Darren?”, poi indicò Vincenzo con un cenno del mento, “E questo da dove salta fuori?”

“Jones e Lockwood sono morti”, spiegò Hal, “Il signor Darren non sappiamo dove sia. Ci eravamo divisi in due gruppi per finire l’esplorazione… ma poi ci siamo persi tutti di vista e abbiamo incontrato Vincenzo. Dice di essere l’unico sopravvissuto della Esperanza”.

Avery e Vaughan erano increduli.

“È vecchio decrepito”, protestò il quartiermastro, “Perfino più di me. Dovevi essere un ragazzo quando sei salpato…”

“Tenevo diez años, signor. Ero el mozzo de la nave…”

“D’accordo, non importa”, tagliò corto Avery, “Speravo che ci fosse anche Michael con voi. Ma è ancora vivo?”

“Non lo sappiamo, capitano. Vincenzo sostiene che sull’isola ci siano strane… presenze, diciamo. Che hanno spinto l’equipaggio della Esperanza alla follia…”, rispose Hal.

Avery sospirò: “Sì, ne sono al corrente…”

“Davvero? E… e crede davvero che l’isola sia maledetta?”, gli chiese Craig.

“Ho letto il diario del capitano Rosco”, spiegò Avery, “Certe cose non può essersele inventate. E non mi venite a dire che era pazzo, perché non è così. Rosco non era pazzo, così come non lo erano i membri dell’equipaggio. È l’isola che ha questo potere sulle menti. Tira fuori le nostre peggiori paure e ce le mostra, spingendoci ad affrontarle. E mi duole ammettere che molti uomini, non sono in grado di sopravvivere a se stessi”.

Vincenzo annuiva, come se le parole del capitano Avery gli risollevassero l’animo.

“Quindi cosa facciamo adesso?”, gli chiese Hal, scuotendolo dai suoi pensieri.

“Contavamo sul ritorno di Michael”, rispose Vaughan con amarezza, “Sinceramente non ne ho idea”.

“Ormai neanche arrendersi avrebbe importanza”, continuò Avery, “Il signor Parrish sta venendo ad ucciderci”.

In quel momento si sentì uno schianto. I cinque uomini chiusi dentro la cabina vennero sbalzati tutto a destra, mentre la nave si piegava su sé stessa e loro sbattevano contro la parete.

Libri e mobili si rovesciarono, compreso il diario di Rosco.

La nave si inclinò fin quasi a rovesciarsi, mentre l’enorme tentacolo bianco vi si aggrovigliava attorno. Accadde tutto in pochissimi secondi, tanto che molti di coloro che caddero in acqua, non ebbero neanche il tempo di capire cosa stava succedendo. Jack fu uno di questi. Lo schiaffo freddo del mare lo colpì, mentre il suo corpo veniva sbalzato in fondo.

Quelli che riuscirono in qualche modo ad aggrapparsi, rimanendo a bordo della Fancy, videro l’acqua tingersi di rosso.

Durò solo pochi istanti, poi il grosso tentacolo si ritirò in mare, e la nave tornò in equilibrio, non prima di aver rollato e beccheggiato fino a far venire la nausea anche al marinaio più esperto.

Pochi minuti dopo il capitano Avery era sul ponte; sembrava particolarmente pallido, ma manteneva i nervi saldi.

“Uomini, alle manovre!”, gridò alla ciurma.

Quelli rimasero per qualche secondo esterrefatti, ma poi si affrettarono ad andare ognuno al proprio posto. Non avrebbero saputo cosa altro fare: il loro capo era appena morto. L’ammutinamento, in pochi secondi non era diventato altro che un ricordo: adesso l’unica cosa che importava agli uomini, era andare via di lì.

“Timoniere, avanti tutta!”

Avery continuava a correre qua e là lungo il pontile della Fancy, abbaiando ordini.

“E Michael?”, gli chiese Vaughan, intercettandolo.

“Michael è morto”, tagliò corto Avery, “Forza con quelle cime! Spiegare le vele”

Qualcosa li colpì di nuovo. Il tentacolo si abbatté sulla nave, portando via un grosso pezzo della balaustra. Schegge di legno volarono ovunque, mentre anche l’albero di trinchetto veniva colpito; il mostro tuttavia lo aveva percosso solo con la punta del tentacolo, che intanto si stava ritirando, inabissandosi di nuovo sotto l’acqua.

“Non ce la faremo mai a scappare”, gridò Hal, “Il mostro non ce lo permetterà!”

“Staremo a vedere”, gli urlò Avery di rimando, mentre sollevava un arpione, “State pronti ai pezzi!”

Gli uomini ai cannoni stavano tremando. Il capitano Avery aveva intenzione di ingaggiare battaglia con un mostro marino, nello stesso modo in cui affrontava un arrembaggio?

“Fuoco”, gridò Avery.

I cannoni spararono, ma nessuno dei loro colpi andò a segno.

“Non funzionerà”, gli disse Vincenzo.

Il vecchio era l’unico che appariva calmo; era in piedi, con le mani lungo i fianchi, immobile in mezzo agli uomini che correvano in preda al panico.

Non gli importa di morire, pensò Hal con disperazione, gli è andata bene una volta, sa di non avere chance di cavarsela di nuovo. Siamo tutti morti.

“El mar ci costringe ad affrontare le nostre paure mas profundos, cuando abbiamo a che fare con la sua rabbia. Lo avete detto voi stesso, capitano: la mayoría parte de los hombres no puede farlo. Qual è la vuestra paura?”

Avery lanciò l’arpione, che affondò nella carne della creatura. Non riuscì ad andare molto in profondità, però; l’arpione cadde in mare, mentre dalla carne del mostro stillava qualche goccia di sangue. Lo aveva ferito in modo superficiale. 

Qual è la mia paura? Si chiese Avery. Il capitano Henry Avery aveva abbandonato tutte le sue paure da diversi anni, ormai. Semmai avesse temuto qualcosa, un tempo, era di guardarsi allo specchio e non riconoscersi più, o riconoscere un uomo che aveva rinunciato alla sua umanità. 

Ma quando la sua mano si era fermata davanti alla ragazza che aveva salvato sulla Ganj-i-Sawai, Avery aveva capito di non essersi smarrito del tutto. Forse c’era ancora umanità in lui. E se anche si fosse sbagliato, avrebbe continuato a vivere. Vivere… ma vivere per cosa? Per cosa valeva la pena lottare, se non credeva più a niente? 

Thomas aveva continuato ad avere speranza, ed era morto. Il capitano Rosco aveva avuto speranza, tanto da battezzare così la nave che lo aveva condotto alla morte. 

Cos’era la speranza per lui? Il tesoro che aveva accumulato… e la speranza che tutte quelle morti non fossero state vane. Rinunciare all’oro… l’oro che lo aveva condotto fin lì, l’oro per il quale aveva combattuto, ucciso, rischiato la vita… che aveva avuto la conseguenza di rovinare per sempre l’esistenza di Nymah. Aveva paura che tutto fosse stato inutile.

Poi all’improvviso, il capitano Avery capì cosa doveva fare. 

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Capitolo 19
*** XVIII. ***


“Gettai il tesoro in mare. Tutto l’oro contenuto dentro la cassa. Gli uomini non emisero un fiato; avevo infranto la promessa di renderli ricchi. Avevamo combattuto insieme molte battaglie, e tutto il bottino accumulato adesso andava perduto per sempre.

Ordinai ad Hal e Craig di portarmi la cassa, quei due strani personaggi che mi avevano inizialmente convinto a nasconderla all’Isola dello Scheletro. Obbedirono senza domandare; lo stesso quando imposi loro di rovesciarne il contenuto in acqua. Aspettammo qualche minuto che il mostro uscisse di nuovo allo scoperto, ma non accadde.

Lo spagnolo, il sopravvissuto della Esperanza, era l’unico che sembrava riuscire a mantenere la calma, in quell’inferno. Il vecchio doveva essere completamente pazzo, o forse era l’unico ad aver capito davvero quello che stava accadendo. Mi fece un cenno con la testa, come a dire che adesso andava tutto bene. Adesso avevamo il permesso dell’isola di salpare.

Così diedi l’ordine di levare l’ancora. Ce ne andammo dall’isola dello Scheletro. E prego Dio di non doverla mai più rivedere. Ancora oggi, a mesi di distanza dall’accaduto, mi capita di sognarla. Temo che purtroppo l’Isola non lascerà mai i miei incubi. Forse, in fondo, neanche liberarsi dell’oro è servito veramente; forse con il corpo ce ne siamo andati, ma la nostra mente abita ancora là”.

Il capitano Avery passò la pipa all’uomo che gli sedeva di fronte. William Kidd gli stava dando la caccia da un anno, ma quando l’Adventure Galley aveva avvistato la Fancy, la battaglia che il famoso cacciatore di pirati pregustava da tanto, era stata rimandata.

I due galeoni si erano fronteggiati minacciosamente, i cannoni puntati e pronti a sparare. Sulla nave di Henry Avery non svettava più il famoso vessillo rosso, ma il capitano della Fancy diede l’ordine di issare la bandiera per un’ultima volta.  Il simbolo di Henry Avery non era più il terrore dei sette mari, ma un segno di riconoscimento troppo evidente: Avery era ancora il pirata più ricercato dei Caraibi, e sventolare il suo stendardo lo avrebbe reso un bersaglio troppo a rischio.

Si sarebbe ritirato di lì a poco. Avery aveva convinto gli uomini che erano usciti illesi dal viaggio all’Isola dello Scheletro a rimanere con lui ed abbordare gli ultimi mercantili. Avevano messo su un bel gruzzoletto, e tra non molto l’equipaggio della Fancy si sarebbe sciolto.

Incontrare l’Adventure Galley proprio in quel frangente era stata una sfortuna. Era stato Vaughan a suggerire ad Avery di issare un’ultima volta la bandiera rossa. Forse erano sopravvissuti all’isola solo per morire in mare, durante l’ennesima battaglia. Ma un epilogo del genere i pirati avrebbero potuto capirlo: perire in combattimento, di spada o di pistola, e finire inghiottiti dalle acque profonde, era una fine che ogni uomo a bordo della Fancy aveva preso in considerazione. Era risaputo qual era il destino dei pirati: o penzolanti da una forca, o a putrefarsi in fondo al mare. Nel più profondo degli abissi. Meglio l’abbraccio dell’acqua che l’impiccagione, comunque. Era una fine decisamente più degna.

Invece non era accaduto nulla di tutto questo: l’Adventure Galley aveva issato bandiera bianca, ed il capitano Kidd aveva chiesto di consultarsi con Avery. Desiderava avere un confronto con il pirata più famoso delle Indie Occidentali, tanto per sapere chi era l’uomo che avrebbe mandato al Creatore. Così aveva detto.

“Non capisco”, disse Kidd sbuffando una nuvola di fumo e passando di nuovo la pipa ad Avery, “Perché avete gettato il tesoro in acqua? Anche ammesso che questa storia assurda sia vera, per quale motivo il mostro dell’isola a quel punto vi avrebbe lasciato andare?”

“Se si vuole credere alla leggenda”, spiegò Avery, “Il popolo di Malik era stato sterminato a causa dell’oro; rinunciando ad assecondare la nostra avidità, abbiamo dimostrato all’isola di essere degni di vivere”.

Kidd rimase in silenzio per qualche secondo, pensieroso. Aveva gli occhi di un colore grigio azzurro, che assomigliava alla sfumatura del mare in tempesta, e la fronte percorsa da piccole rughe premature, in quel momento sottolineate dalla luce della candela.

Ad Avery tornò in mente la sera prima della battaglia contro la Gaji-i-Sawai, prima che Thomas Tew perdesse la vita. Avevano avuto un confronto simile a quello che stavano avendo ora lui e Kidd, e ripensandoci, Avery non poté fare a meno di considerare quante cose erano cambiate da allora. Quanto lui stesso era cambiato. 

Quella conversazione con William Kidd gli dava uno strano, ma confortante, senso di déjà-vu. Gli dimostrava che per quanto le cose potessero cambiare, altre rimanevano familiari. Allo stesso modo in cui il confronto con Thomas gli aveva fatto scoprire aspetti di sé stesso, Avery aveva l’impressione che anche l’incontro con Kidd sarebbe stato segnante.

Che cos’era che faceva nascere un legame tra due persone? Se lo chiedeva spesso, ma non era mai riuscito a darsi una risposta esaustiva. C’erano conversazioni che aveva svolto con Thomas, che sarebbero rimaste per sempre impresse nella sua mente, che avevano influenzato le sue azioni in un modo in cui all’epoca non poteva prevedere. Scoprire le differenze che lo separavano dal capitano Tew, lo avevano spinto ad agire in un certo modo. Adesso Kidd stava soppesando le parole di Avery, ed il capitano della Fancy era sicuro che anche per quell’uomo, quella notte qualcosa sarebbe cambiato.

“I miei uomini sono irrequieti”, gli aveva confidato Kidd, “Spesso sanno essere crudeli. A volte mi chiedo quale sia la vera differenza tra noi ed i pirati che mandiamo alla forca, in quanto a ferocia. Mi trovo a dover ricordare a me stesso il motivo per il quale combatto”.

“E quale sarebbe il motivo?”, gli chiese Avery, “Credete forse che siamo dei mostri? Vi spiegherò caro signore, qual è la verità dietro alle leggende sui pirati. Anche io ero un corsaro come voi, sapete?

Prima di intraprendere questa vita, ho servito la Marina inglese, ed ogni soldo che riuscivo a racimolare lo spedivo ai miei poveri genitori, che riposino in pace”.

“Sì, conosco la vostra storia. E la trovo davvero peculiare”, ammise Kidd, “È per questo che desideravo parlarvi, prima di intraprendere ogni altra azione nei vostri confronti. Mi sono chiesto come sia stato possibile, che un uomo come voi – un rispettoso cittadino britannico – fosse finito per farsi coinvolgere dai pirati”.

“Ed io mi chiedo invece, per quale motivo voi stesso ne siate così affascinato. Dai pirati, intendo. Dalla vita che conducono. Forse, se guardate dentro voi stesso, scoprirete che le nostre inquietudini hanno la stessa radice: è questo senso di precarietà che vi attrae? Perché non è in fondo rischiando continuamente la vita che scopriamo il suo vero significato?

La vita del pirata non è che un lungo brivido continuo, intervallato da momenti di spaventosa lucidità: quando capiamo davvero cosa ci sta accadendo, in cosa questa vita ci sta trasformando, non possiamo fare altro che uccidere la lucidità con l’oppio e con il rum. Solo stordendoci in questo modo troviamo il coraggio di tornare a sentire quel brivido. E allora la giostra riprende a girare, ed il destino si compie ancora una volta, finché non arriva quell’avversario più fortunato di noi, che mette fine alle nostre sofferenze ed alle nostre gioie, una volta per tutte.

Il mio amico Thomas Tew si era illuso che ci fosse qualcos’altro, oltre a questa precarietà; che ci fossero degli ideali, che combattere in nome della libertà ci rendesse diversi dalle bestie sanguinarie quali ci dipingono le vostre cronache. Ma la verità è che ognuno di noi, così facendo, non fa altro che assecondare i propri impulsi. Che, nel caso di Thomas, erano forse nobili. Nel mio caso? Cosa mi ha spinto ad abbracciare la vita del criminale, è questo che volete sapere? Be’, la verità è che non c’è un motivo che potrà accontentare la vostra curiosità. Andare per mare non è mai stata la mia vocazione, ma mi ci sono trovato mio malgrado, ed ho fatto buon viso a cattivo gioco.

Mi sono trovato a combattere al servizio della corona, che per i propri scopi, chiedeva da me il sacrificio di rischiare la vita contro il nemico spagnolo. Inizialmente non avevo nulla contro la Spagna: che siano spagnoli, inglesi o francesi, gli uomini sono tutti uguali. Sono le circostanze che ci rendono più o meno buoni, più o meno coraggiosi, più o meno crudeli. Ognuno di noi è capace di commettere il più atroce dei delitti, se si trova nelle condizioni di doverlo fare.

A forza di uccidere, mi sono reso conto che stavo dando sfogo ad un impulso che bruciava già dentro di me. Ad un fuoco che era sempre esistito, fin dal mio primo respiro, e che a quel punto, dopo aver incendiato la mia anima, non poteva essere più sopito. Thomas cercava in tutto questo un’aspirazione più elevata. Ma per me non c’è niente. Non c’è mai stato niente.

E voi, mio caro signore, dovete stare attento. Voi che andate per mare, voi che siete così simile a me. Ricordate che una volta avvertito, è difficile, quasi impossibile, resistere al canto delle sirene”.

“Volete forse insinuare che rischio anche io di trasformarmi negli uomini ai quali do la caccia? Sostenete forse che io e voi siamo davvero simili?”, Kidd scoppiò a ridere, scettico: “Io come il capitano Tew, combatto per altre motivazioni. E voi non siete altro che volgari criminali, senza alcuna etica né senso della giustizia. Uccidete uomini innocenti e li derubate, arricchendovi alle spalle della società civile, dalla quale provengo. E della quale porto alta la bandiera”.

“Come volete, capitano Kidd”, sogghignò Avery, “Forse è ancora presto per fare i conti con la vostra coscienza. Ma verrà quel giorno, e allora vi ricorderete di me”.

I due capitani si strinsero la mano con rispetto, ma tornato a bordo della Adventure Galley, William Kidd diede l’ordine di attaccare.

La Fancy rispose al fuoco, e dopo aver colpito ripetutamente la nave corsara, i pirati si diedero alla fuga.


Per il resto della sua vita, William Kidd continuò a chiedersi per quale motivo il capitano Avery lo avesse risparmiato, quella notte.
 

Nota: William Kidd abbandonò la carriera di cacciatore di pirati, per diventare pirata lui stesso. Venne condannato a morte ed impiccato nel 1701 a Londra.

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Capitolo 20
*** XIX. ***


Le ferite sui polsi di Nymah erano ancora dolorose. Le ragazze del bordello facevano a turno per imboccarla ed aiutarla a vestirsi, dimostrandole una solidarietà che alla principessa ricordava la cieca fedeltà delle sue compagne morte nell’arrembaggio pirata.

Una delle prostitute aveva origini indiane, e anche se non ricordava molto della sua lingua madre, essendosi stabilita a New Providence in tenera età, riusciva ogni tanto a comunicare con Nymah.

“Non vuole tornare a casa”, spiegò al capitano Avery e al signor Vaughan, di ritorno dall’Isola dello Scheletro.

“Non vuole…?”

Vaughan era sempre più convinto che rapire quella ragazza si fosse rivelato un grosso errore. Ormai l’idea di chiedere il riscatto era andata a puttane; l’unica cosa sensata da fare era lasciare l’indiana al bordello: era bella, e non avrebbe faticato a crearsi il suo circolo di clienti. Inoltre la maitresse era una donna furba, e di certo l’avrebbe accolta a braccia aperte. Anzi, Vaughan era più che certo che la padrona del bordello avesse già fiutato l’affare. Non c’era altro motivo che l’avrebbe spinta a prendersi cura di Nymah con quella calma determinazione a non lasciarla morire.

“Perché non vuole tornare a casa, per grazia di Dio?”, chiese esterrefatto il capitano Avery, “Mi odia così tanto che non può accettare neanche di essere riaccompagnata da me?”

“Lei non vi odia”, affermò la prostituta. Poi, di fronte all’espressione interrogativa di Avery, aggiunse: “Non lo so perché me lo ha detto, ma è così, fidatevi. Una donna la capisce, un’altra donna. Anche se io sono una puttana e lei una principessa. Nymah non parla molto. E anche se lo facesse non la comprenderei. Comunque, da quello che sono riuscita a capire, lei non riesce a decidere se l’avete condannata… o se l’avete salvata. Credo dipenda da quello che deciderete di fare con lei, a questo punto…”.

Avery non rispose. Vaughan ringraziò la ragazza per essersi presa cura del loro ostaggio, e le disse che poteva andare.

Perché talvolta si creano legami così forti tra le persone? Avery se lo chiese ancora. Cosa lo aveva spinto all’amicizia verso Thomas Tew, al non affondare la nave di William Kidd? Quale forza aveva fermato la sua mano, prima che la spada calasse sulla principessa indiana?

Avery non era certo un uomo pietoso. Non era neanche un sadico, ma non provava sensi di colpa nel fare ciò che andava fatto per assicurarsi la sopravvivenza, o il massimo guadagno. Il suo dovere era nei confronti dei suoi uomini, e a loro soltanto aveva dedicato ogni suo gesto, da quando era divenuto capitano della Fancy: loro avevano avuto fiducia in lui, e lui li avrebbe ripagati rendendoli ricchi.

Ma c’erano quei legami, che andavano perfino oltre il senso del dovere. E Nymah rappresentava uno di quei legami. 

Vaughan lo osservò entrare nella stanza della ragazza.

Da quel giorno, Henry Avery smise di essere il capitano della Fancy; lui e Nymah si sposarono e si affrettarono ad andarsene da New Providence. Con Vaughan, l’uomo più fidato che gli fosse rimasto dopo l’avventura all’Isola dello Scheletro, non perse mai del tutto i contatti. 

Quanto agli altri, be’… il vecchio Vincenzo si stabilì a Nassau, dove trascorse gli ultimi anni della propria vita: non dovette mai lavorare, perché i suoi racconti sull’Isola dello Scheletro gli fruttavano quelle poche elemosina con cui riusciva a campare. Comunque, non andò avanti a lungo: pochi anni dopo l’avventura che lo aveva riportato alla civiltà, lo trovarono morto stecchito. Si era spento senza un lamento, e per quanto molti se ne dispiacquero – il vecchio pazzo era divenuto famoso in città, finendo per diventare un personaggio del folclore locale – c’era da ammettere che lo spagnolo aveva vissuto abbastanza.

Alcuni tra i membri dell’ex equipaggio della Fancy vennero catturati: il Governatore non poteva più tirarsi indietro dal fare il proprio dovere; accontentare il Gran Mogol era diventato necessario per evitare un incidente internazionale.

La maggior parte dei pirati comunque si salvò: prese il largo verso altri porti, cambiando identità e continuando la solita vita: salpare, abbordare, uccidere, depredare; sbarcare, spendere tutto in rum e puttane, trovarsi poveri in canna. Salpare di nuovo. Fino a morire.

Hal e Craig rimasero amici e si dedicarono alla pirateria per il resto della loro vita. Presero servizio sotto capitani diversi però, perché la frattura che si era creata tra loro sull’Isola dello Scheletro li portò ad allontanarsi inevitabilmente. Forse un giorno la fiducia sarebbe stata ricostruita, ed avrebbero intrapreso un’ultima avventura insieme, come ai vecchi tempi. Chissà.

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


“È curioso, eppure è vero, che ogni oceano ha il suo colore, le sue sfumature, diverse e particolari, di blu, verde e grigio (…). Era anche per vedere e scoprire cose come queste che ero vissuto. Si finisce facilmente per dimenticarlo, in vite come la mia. Chi l’avrebbe creduto che in tutto questo scompiglio ci fosse posto anche per la bellezza?”

Björn Larsson, “La vera storia del pirata Long Jhon Silver”
 

 
Nassau era esattamente come George Vaughan ricordava. C’era odore di salsedine nell’aria frizzante del mattino; la foschia all’orizzonte si stava lentamente diradando, ed il vecchio chiuse gli occhi, lasciando che la brezza gli accarezzasse il volto. Erano passati più di venti anni da quando se ne era andato. Per molto tempo non aveva più pensato al mare, allo stridio dei gabbiani, ai pirati, agli odori che si respiravano sulle navi. All’isola dello Scheletro. A tutto quel sangue. A quello che si provava ad uccidere un uomo.

Il capitano Avery se ne era andato. Erano passati diversi anni da allora. Sua moglie si era spenta serenamente durante una notte di sonno; lui, che come sempre le dormiva al fianco, l’aveva sentita gemere, come trattenendo il fiato. Aveva pensato stesse sognando.

Ma poi Henry Avery aveva capito che il respiro di Nymah si era arrestato per sempre.

L’aveva pianta insieme ai suoi figli, i suoi molti figli. Le aveva detto addio senza rimpianti: tutto quello che era in suo potere per renderle meno dolorosa la vita su questa terra, il capitano Avery lo aveva fatto. Capitano… da quanto tempo nessuno non lo chiamava più così? Avery aveva chiesto a Vaughan – l’unico della Fancy con il quale era rimasto in contatto – di non usare più quell’epiteto.

Aveva fatto una scelta, dicendo addio alla pirateria. Si sentiva stanco all’epoca… ne aveva avuto abbastanza di morte.

Di tanto in tanto, ad Henry Avery tornava in mente ciò che aveva vissuto sull’isola, ed allora un sudore freddo gli imperlava la fronte.

Un brivido lo attraversava, e l’aria gli sembrava improvvisamente gelida, anche in piena estate, anche quando si sentiva al sicuro, chiuso in casa. Come se nella stanza fosse entrato un fantasma, che nessun cancello e nessun muro eretto da uomini poteva tenere al di fuori. Con Vaughan comunque, non ne parlava mai.

Con il tempo avevano dimenticato. O almeno, avevano creduto di poterlo fare. Le ferite sui polsi di Nymah erano guarite; pian piano, il suo volto si era disteso in quello che poteva essere definito un pallido sorriso.

Era una figura silenziosa la moglie di Henry Avery, che si muoveva lenta per casa come uno spirito.

Quando tornava a casa, la sera, lui le raccontava la sua giornata. Cercava di farla vivere con ogni comodità, ma la donna che aveva sposato sembrava essere così lontana dal mondo terreno, come se la sua mente abitasse a miglia e miglia lontana dal corpo. I gioielli e le pellicce non la incantavano. Le sete preziose, gli ori e gli aggeggi curiosi che Avery acquistava per lei dai mercanti, non sortivano sulla principessa indiana alcun effetto. Non era vanitosa. Non si agghindava, ma non le serviva per essere bella: ogni volta che usciva in pubblico, non mancava mai di suscitare l’invidia delle donne bianche, strette nei loro corpetti che strizzavano il seno, con i capelli attorcigliati in elaborate acconciature. Nymah camminava fiera in mezzo a loro, senza abbassare mai lo sguardo; gli occhi neri incorniciati dalle folte ciglia, la pelle scura, i capelli sempre sciolti che le cadevano sulle spalle, lisci e fermi.

Avery e Nymah avevano avuto cinque figli. Adesso tutti avevano preso il largo, ognuno per la sua strada. Laurence, il primogenito, aveva ereditato dal padre la passione per il mare. 

Laurence si era imbarcato su un peschereccio quando era ancora un ragazzo, e per molti anni i suoi genitori non ne avevano avuto notizie. Poi un giorno era giunta una lettera:

Cari genitori, diceva, spero stiate bene.

Mi dispiace non avervi più dato mie notizie, ma come forse immaginerete, la vita per mare non è affatto facile, né comoda.

Ascoltando fin da bambino i tuoi racconti, padre, credevo di essere preparato a ciò che mi aspettava. Invece mi sono reso conto di come a bordo di una nave la vita scorra in modo diverso rispetto alla terraferma. Altre leggi regolano il passare del tempo, le azioni e la moralità degli uomini. C’è molta superstizione, ma non ignoranza.

Non sono ammesse donne, nei lunghi mesi trascorsi a bordo, ma non sarebbe corretto dire che non c’è alcuna presenza femminile ad accompagnarci nei viaggi. Le donne abitano infatti ogni racconto ed aneddoto che circoli a bordo, e la loro presenza è sempre forte e viva nei nostri ricordi e speranze per il futuro. Che si tratti della memoria di una madre, di una moglie o di una sorella. È all’amore che si riconduce ogni pensiero di questa gente all’apparenza libera ed indipendente, rozza, non avvezza ad alcun affetto.

Ma non è di questo che volevo parlarvi. Vi scrivo per annunciarvi che, nonostante non l’avessi messo in conto, il destino mi ha portato più lontano di quanto avrei mai creduto.

Come sapete, il mare e la fortuna sono estremamente volubili, come i desideri di una donna: ecco, come vi dicevo, ecco che la presenza femminile non cessa mai di influenzare i nostri pensieri.

Ma tornando a me, ecco quello che mi è capitato: eravamo sbarcati da pochi giorni presso Port Royal, quando una sera io ed un mio compare con il quale avevo legato più che con gli altri, venimmo avvicinati da quello che sembrava un ufficiale della Royal Navy. Non portava alcuna uniforme, tuttavia i suoi abiti erano puliti e, dai modi composti e gentili che mantenne durante tutta la nostra conversazione, sembrava un uomo istruito e per niente avvezzo ai vizi.

Quest’uomo ci confidò che il suo capitano, che in molti definivano “pirata”, altro non era che un gentiluomo che si batteva ormai da anni contro l’incessante minaccia delle navi spagnole che di tanto in tanto saccheggiavano la baia. La definizione che meglio si aggradava al suo capitano, così ci spiegò, era quella di “corsaro”.

Con il permesso di Dio e del Re Giorgio, quelli che l’ufficiale definì “gli eroi del nuovo mondo”, difendono i timorosi cittadini inglesi da ogni sorta di nemico. Quale fortuna era stata per noi incontrarlo, ci disse, proprio quella sera: il capitano stava cercando nuovi adepti per la sua causa. Marinai coraggiosi che non aspettavano altro che poter servire il proprio paese.

La paga sarebbe stata molto più ricca rispetto al misero salario che potevano sperare di ottenere a bordo del mercantile che ci aveva portato fin lì. Io e il mio compare facemmo un rapido calcolo, ma non fu tanto l’idea del vantaggio che avremmo ottenuto a convincerci, quanto la prospettiva delle avventure che avremmo vissuto come corsari. Le stesse avventure che mi hai raccontato tu, padre, quando non ero altro che un bambino. Mai avrei immaginato di poterle vivere io stesso!

Così ho deciso di arruolarmi.

Madre, padre, non abbiate timore: sebbene corsari e pirati siano molto vicini nello stile di vita e nei modi di fare, c’è una differenza sostanziale tra i due tipi d’uomo: i corsari sono protetti dalla legge, e se il Signore mi proteggerà in battaglia, non potrà mai accadere che io sia impiccato, sorte che invece spetta a coloro che scelgono di servire sotto la bandiera nera.

Vi scrivo questa lettera per chiedervi di ricordarmi nelle vostre preghiere, e per rassicurarvi sul fatto che non corro alcun pericolo.

Oppure, se anche ne corressi, che questa è la vita che ho scelto, sia che la sorte mi sia favorevole, sia che mi sia avversa. Il mare, la libertà che rappresenta, l’orizzonte sconfinato che scorgo ogni mattina. È così che ho scelto di vivere, e così sarò felice di morire, un giorno.


Con affetto,

Vostro figlio Laurence.
 

 
Avery era diverso dall'uomo che Vaughan aveva conosciuto e con il quale aveva affrontato la vita in mare. Se ne rese conto nella maniera più lucida possibile durante il matrimonio di una delle sue figlie, Mary.

Nymah era sempre stata preoccupata per quella ragazza, la più giovane dei loro cinque figli. Fin da piccola era stata bellissima, con la pelle ambrata della madre e gli occhi profondi del padre. Ma la sua bellezza era pari alla cattiveria che la fanciulla aveva sempre mostrato nei confronti dei fratelli, degli altri bambini, del cagnolino domestico. C’era una rabbia, un fuoco dentro di lei, nei quali Avery si riconosceva come in uno specchio, confidò una sera il capitano a Vaughan. Per lui, gli disse, l’unica salvezza era stata l’amore verso Nymah. Un amore forse mai del tutto ricambiato, ma che aveva sopito il suo spirito.

Quando Mary era andata in sposa ad un giovane, ricco mercante dai modi gentili, che stravedeva per lei, Avery aveva augurato alla figlia che anche per lei l’amore potesse essere la strada verso la serenità.

Poi Nymah era morta, ed Henry Avery si era ritirato in un muto silenzio. Per mesi non si era fatto vivo, tanto che Vaughan aveva cominciato a pensare che fosse morto con la sua sposa. Poi un giorno, Henry Avery lo aveva cercato. E lo aveva fatto per dirgli addio.

“Thomas Tew mi aveva assicurato che sarei stato sempre il benvenuto in quel luogo”, gli aveva detto.

Vaughan lo aveva preso per pazzo: trovare Libertalia era impossibile, ma non era riuscito a dissuaderlo. Chissà se davvero Avery era arrivato a destinazione: forse la colonia voluta da Thomas Tew neanche esisteva davvero. Avery era convinto che si trovasse nei pressi del Madagascar. Vaughan non lo aveva mai più rivisto, ma gli piaceva pensare che il capitano Avery avesse avuto fortuna.

Era stata forse l’ultima avventura del capitano Avery ad accendere la luce nella mente di George Vaughan? Il vecchio quartiermastro della Fancy non lo sapeva. Quello di cui era certo, era che da quando Avery se ne era andato, non aveva smesso neanche per un attimo di pensare all’ Isola dello Scheletro.

Quando il capitano Avery, più di vent’anni prima, aveva deciso di spartire il tesoro e ritirarsi dalla pirateria, Vaughan era stato ben lieto di seguirlo. Sperava di trascorrere gli ultimi anni della sua vita godendosi le ricchezze accumulate, per spegnersi serenamente. Invece la sorte gli aveva dato in dono una vita estremamente lunga. 

Così, alle soglie dei settant’anni, il pensiero del mare aveva ripreso a tormentarlo. Era un richiamo, dolce e suadente come la voce di una sirena. Vaughan sapeva bene di non dover cedere: se ti lasci catturare, se ti abbandoni al canto della creatura, questa ti stringe nelle sue grinfie fino a portarti alla morte. E così accadeva, ogni notte nei suoi sogni: rivedeva l’isola, la sabbia dorata, la natura incontaminata e così bella da mozzare il fiato. Poi l’indigeno sollevava il coltello in aria, il sole scintillava sulla lama, accecandolo ed immergendo tutto in una luce lattiginosa. Quando il vecchio Vaughan tornava a mettere a fuoco, il nero era sparito. Si voltava verso il mare, e scorgeva la risacca tinta di rosso. L’acqua leniva il sangue, lo assorbiva ancora una volta, per nutrire il mostro. L’essere che si nascondeva negli abissi, nelle profondità immerse nel buio. Lì, nell’oscurità, aspettava. Aspettava… ma cosa?

Alla fine, Vaughan si era dovuto arrendere: il mare lo stava chiamando ancora.

“Ho sentito dire che voi avete navigato con Avery”, gli disse quella sera l’uomo alla locanda.

Non era la stessa in cui andava da giovane. Tutto era cambiato a Nassau, eppure non era cambiato niente. Annuì, portandosi il boccale alle labbra.

“E che sapete come arrivare all’Isola dello Scheletro”.

L’uomo era bello in carne e parlava con voce calma ma determinata. I pirati si erano forse un po’ rammolliti, rispetto a come Vaughan li ricordava. O forse questo era quello che ogni vecchia generazione pensava di quella nuova.

Ad ogni modo, il pirata cominciò a raccontargli una storia. Aveva a che fare con un capitano temibile, forse perfino più crudele dello stesso Avery, gli confidò. Riguardava un grande tesoro, e preannunciava duelli all’ultimo sangue. Ma questa in fondo, è un’altra storia.

 

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Capitolo 22
*** Nota dell’autore ***


Grazie a tutti quelli che hanno seguito la mia storia… mi farebbe molto piacere leggere qualche parere da parte vostra!
 
Quest’opera nasce come fanfiction dedicata alla serie tv “Black Sails”.

I fatti si svolgono circa venti anni prima degli eventi narrati nella prima puntata della serie. L’Isola dello Scheletro è descritta secondo le basi del romanzo di Robert Louis Stevenson “L’isola del Tesoro” (di cui a sua volta la serie Black Sails è il prequel). Le modalità secondo le quali il pirata Henry Avery riesce a scovare la posizione dell’isola, sono state descritte seguendo quanto raccontato dal capitano Flint nella puntata 4X9 di Black Sails.

Gli unici personaggi presenti sia nella serie tv che nel racconto sono:
 
  • Hal Gates, che tuttavia non viene mai chiamato per cognome all’interno del romanzo. Il signor Gates nella puntata 1X9 parla dell’amico di gioventù chiamato Craig, definendolo maestro d’ascia, e descrivendolo come un esperto di liquori, oltre ad affermare di aver servito insieme a lui sotto Avery.
  • Il vecchio di cui non viene specificato il nome che nella 4X9 conduce il capitano Jack Rackam fino all’isola del tesoro. Il vecchio sostiene di aver navigato con Avery. Nel racconto, è stato ipotizzato che quel vecchio non fosse altro che il George Vaughan quartiermastro della Fancy, tornato per i motivi che egli stesso spiega a Jack: il richiamo del mare e della libertà che rappresenta.

Per quanto riguarda i personaggi storici, oltre ai capitani Henry Avery e Thomas Tew, nel romanzo compaiono: i capitani William May, Richard Want, Joseph Faro e Thomas Wake.  Questi equipaggi insieme riuscirono ad abbordare la Ganj-i-Sawai e ad appropriarsi di un tesoro composto da 500.000 pezzi d'oro e d'argento. Il capitano Tew rimase ucciso nell’attacco. A bordo della nave indiana viaggiava la figlia dell’imperatore, che Avery prese in sposa. In seguito, dopo aver ottenuto riparo presso l’isola di New Port, e con la conseguente offesa da parte del Gran Mogol che ne scaturì, del capitano Henry Avery si persero le tracce, anche se secondo alcune fonti potrebbe essere morto a Bideford nel 1699.

La storia di William Kidd è in parte vera: fu un corsaro, inizialmente incaricato di combattere la pirateria, finendo in seguito con l’unirsi proprio ai pirati. Tuttavia nel 1695, data durante quale si svolgono i fatti narrati nel romanzo, Kidd era già stato condannato a morte.

Per quanto riguarda Libertalia, si tratta di una colonia abitata unicamente da pirati, fondata da Thomas Tew, Oliver Mission e Angelo Caraccioli. Quasi sicuramente si tratta di una leggenda: si pensa che l’utopia di Libertalia non sia mai stata realizzata.  

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