Germogli Malefici

di LADY ROSIEL
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ATTO I ***
Capitolo 2: *** ATTO II ***
Capitolo 3: *** ATTO III ***



Capitolo 1
*** ATTO I ***


Questo racconto è risultato fra i vincitori della I biennale del bando letterario nazionale – anno 2013 – "La Sinfonia della Menzogna" di AFRAM per l’arte – Galleria “Il Germoglio.”
157 partecipanti totali e venti racconti vincitori, selezionati per una raccolta in un unico volume stampato a numero limitato e la realizzazione di un dipinto che ritraesse l'essenza dei racconti vincitori. (Mostra a tema.)



Germogli MALEFICI

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ATTO – I

Arcobaleni di primavera scintillavano nell’aria, ritoccando forme e colori con sapiente maestria. Piccoli occhi nocciola osservano il mondo con l’incanto dell’innocenza, mentre i suoi morbidi capelli castani, raccolti da una treccia, si lasciavano abbracciare con dolcezza dall’amico sole. Era una bambina così candida e piena di gioia che spesso, solo quel suo tenero gattino, sembrava riuscire a starle accanto con la stessa esuberanza che lei palesava.

«Chi è stato a rompere il vaso in salotto? – domandò la madre alla piccola, investigando sull’accaduto. – Sei stata forse tu, piccola mia?» chiese poi.  
La bimba tremò spaurita, consapevole di aver sciaguratamente rotto uno dei più belli e preziosi cimeli di famiglia. E per quello doveva essere punita, lo sapeva, ma impaurita da quella che poteva essere la reazione della madre, accampò una piccola scusa.
«Uhm… No mamma. Non sono stata io.» ammise dopo averci riflettuto un pochino.
«E allora chi è stato?»
«E’ stato il gatto! – si giustificò subito dopo. – Sì, è stato il gatto!» sottolineò ancora una volta, con più vigore di prima. E desiderando d’esser creduta, arricciò le labbra in una smorfia dispettosa, gonfiando poi le guance, assumendo un’espressione accigliata.
«Siamo sicuri?» domandò una volta ancora, ma non ottenendo alcuna risposta cercò di assecondare il volere della piccola. In fin dei conti, non era così insolito che il loro gatto di casa rompesse qualche soprammobile.  – Era un cucciolo davvero vivace. –  innegabile, così come era vero che stava capitando con una frequenza sempre maggiore.
«Quel gatto sta diventando un problema: dovresti cercare d’insegnargli a non salire sul tavolo.» proferì infine la donna, cercando di far predominare la razionalità, evitando inutili battibecchi ed eventuali piagnistei.
«Uhm. Sì, hai ragione mamma. Cercherò d’insegnarglielo!» esclamò poi, tuffandosi sul parquet per afferrare e coccolare il gatto.
Sorrise.
Era stata quella la sua prima piccola bugia.
Un’innocua bugia, detta solamente per proteggere se stessa da una più che probabile filippica della madre.
Soltanto una piccola bugia.
Nulla di più.
L’aveva detta a fin di bene. Le era scivolata dalle labbra come burro, senza nemmeno accorgersene.

     I caldi raggi del sole fecero spazio alle nuvole, e nella penombra di quel giardino fiorito, il primo seme della discordia venne originato.




© LADY ROSIEL/ Luna Azzurra

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Capitolo 2
*** ATTO II ***



Germogli MALEFICI

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ATTO – II

Nove anni più tardi, alla tenera età di quattordici anni, la piccola Chiara era ormai una giovane adolescente.  Per anni aveva creduto nell’utopia di quel mondo fatato, sincero e gioioso, dove era cresciuta come un candido Giglio, protetto nella sua teca di cristallo.
Eppure, un poco per volta, stava capendo che quella serenità immaginaria era soltanto opera di un sortilegio della sua famiglia. Un bellissimo sortilegio, ma pur sempre irreale.
Arricciò le labbra in un tiepido sorriso malinconico.

Con tutta se stessa aveva sperato che quel mondo fiabesco fosse l’unica realtà che il cielo le avesse donato. Lo aveva sperato anche la prima volta in cui fu vittima della cattiveria delle sue compagne di classe, persino quando s’avventarono su di lei e le bagnarono la testa con il getto freddo dell’acqua del lavandino del bagno al secondo piano. Anche quando scorgeva i loro volti sogghignarle con decisione, parlandole alle spalle e trovando un modo per ferirla. Anche in quel preciso momento, non appena vide quella terribile scritta su quel foglio strappato e malconcio, anche quando avvertì le sue gambe tremare ed un freddo improvviso gelarle le ossa del corpo.

«Devi morire. Sei inutile.»

Quelle viscide parole echeggiavano nei labirinti oscuri della sua mente, squassandole lo stomaco e spaccando a metà la sua anima.
Non c’era nulla di poetico nella vita.

Nulla di così divertente che riuscisse a farla davvero sorridere.
La sua vita ormai valeva poco. Molto poco.
L’immagine aggraziata e colma di dolcezza che affollava i suoi pensieri era solo un nostalgico ricordo di ciò che una volta era: una tenera bambina baciata dalla vita. Ed ora che quell’immagine stava sbiadendo ogni giorno di più, Chiara faticava persino a comprendere chi lei in realtà fosse. Non si sentiva più umana.
Era stata svuotata da ogni sentimento. Non si riconosceva più.
Era solo un guscio vuoto, completamente diaccio.
Un fiore moribondo, agonizzante, che lentamente s’apprestava a sfiorire per poi sparire, inghiottito da quella sua stessa misera esistenza.


«Com’è andata a scuola, tesoro?» domandò sua madre, non appena rincasata.
«Uhm, come sempre.» ammise la giovane Chiara, poggiando la cartella di scuola vicino all’armadio dei cappotti, raggiungendo la madre in cucina.
«Ti sei divertita? Hai imparato cose nuove?»
«S-Sì. Certo. A scuola s’imparano sempre un sacco di cose!» esclamò illuminando il suo volto in un sorriso sincero, mentre la sua mente cercava di accostare le migliori parole che conoscesse, fingendo per davvero che tutto andasse per il verso giusto.
«Ah… Deve essere bello avere quattordici anni! Alle volte vorrei poter tornare giovane, sai?»
«Non sei vecchia, mamma! – ammise addentando un grissino – Mi piace avere quattordici anni. Non voglio crescere.» aggiunse poi, sedendosi al solito posto, attendendo che la pasta si cuocesse.
Adorava parlare con sua madre, adorava vederla sorridere. E mai avrebbe cercato di compromettere quella felicità, nemmeno se questo avesse significato mentire, perdendo se stessa.
Le bugie, infondo, erano soltanto una liete variazione della verità e non comportavano alcun rischio. Quel fastidioso tremolio alle gambe, e anche quell’ineluttabile voglia di piangere a gran voce, non erano altro che innocue emozioni. E poco importava se quel senso d’inquietudine si faceva largo sempre più velocemente nel suo cuore ferito e illuso, ciò che davvero desiderava era soltanto: sorridere ancora una volta.

Stava inevitabilmente cambiando.

L’immagine che Chiara rivedeva riflessa sullo specchio, non era più quella di una ragazzina di soli quattordici anni a cui piaceva truccarsi e prendersi cura del suo corpo e dei suoi lunghi capelli.
 Era diversa. Distorta.
Le sembrava di essere diventata terribilmente inquietante.
Si faceva paura da sola.
L’immagine che i suoi occhi riflettevano era più simile a un qualcosa d’informe e vagamente oscuro. Totalmente differente dall’immagine rasserenante di quel candido Giglio che per anni aveva creduto d’essere. Le sue labbra narravano bugie una dietro l’altra, di continuo,  e non le diceva nemmeno per difendere qualcuno, ma solo per proteggere quella stupida di se stessa. Non riusciva a farne a meno.

Aveva compreso che rilevare agli altri le proprie debolezze era solo un modo per farsi mangiare più velocemente dagli squali di quel grande acquario che era vita.
Tutti erano squali, nessuno escluso, e rendersi ancora più deboli e miserabili ai loro occhi significava solo andar incontro alla propria distruzione.  

Lentamente, giorno dopo giorno, si stava circondando di innumerevoli bugie e più continuava quella sua ipocrita recita, più si sentiva debole e fragile, nonostante regalasse sorrisi di zucchero a ogni passante.

La sua etica stava inesorabilmente cambiando. Si sentiva corrotta.
Sporca. Tradita e inutile.
Eppure continuava a camminare, ripercorrendo le stesse strade ogni giorno, alzando la testa e guardando in avanti, senza mai perdere il controllo, sorridendo sino alla nausea.


«Frequenti anche tu questo liceo?» domandò una ragazza sconosciuta, forse poco più grande di lei, sorreggendosi sugli appositi appoggi di quell’affollato autobus nell’ora di punta.
«Sì. Sono al primo anno.»
«Al primo? Io sono al terzo. Piacere, sono Elisa.» affermò con disinvoltura la ragazza, porgendole la mano, in segno di amicizia.
«Il piacere è mio. Io mi chiamo Chiara.» rispose di rimando, stringendo con eleganza la mano della compagna.
«Fai tutti i giorni questa strada per tornare a casa? Magari possiamo trovarci, di tanto in tanto. E’ sempre bello poter fare nuove amicizie!»
«Si, hai ragione. Quando vuoi, mi trovi sempre su questo pullman. Non ho ancora in programma di traslocarmi!» ammise, abbozzando una lieve risata, distendendo con semplicità le labbra, comunicando gioia non solo con il sorriso, ma anche con gli occhi.

Stava mentendo. Lo stava facendo ancora una volta.
Continuava a fingere che tutto andasse bene, che si divertisse e che le piacesse davvero quella vita indegna.

«Allora spero di non darti fastidio la prossima volta che t’incontro. Mi sembri una brava persona.»
«No, figurati! Sei libera di disturbarmi quando vuoi! Piace anche a me conversare con la gente.» aggiunse poi, calandosi a tal punto nel personaggio che interpretava da dimenticarsi tutto quel dolore subito e sopportato in silenzio.

Le aveva detto che: “le piaceva conversare con la gente", ma aveva mentito anche su quello.
Lei odiava conversare con le persone.
Anche se forse, più semplicemente: lei odiava le persone.
Odiava i loro sorrisi spigliati che nascondevano coltelli affilati come spade, pronti a dilaniare il proprio avversario. Odiava il loro frenetico chiacchiericcio pronto a sentenziare condanne e assoluzioni, credendosi alla pari di un Dio.
No, quelle persone non erano sue amiche. Non lo sarebbero mai state.

Il calore che quei corpi di carne e ossa emanavano era illusorio, e certo non le riscaldava il cuore. Avrebbe preferito essere invisibile ai loro occhi, piuttosto che continuare a percepire quei loro sguardi trucidi lacerarle la carne, sbranandola e dissanguandola a loro piacimento.

Era forse una prelibata e fragile gazzella circondata da affamati leoni?
Prima o poi sarebbe crollata, frantumandosi come cristallo per poi diventare nuovamente cenere. E più continuava a parlare con disinvoltura, fingendosi una persona coraggiosa, più desiderava essere lasciata da sola, emarginata dal mondo.
Voleva fuggire.
Fuggire lontano, in un luogo dove nessuno la conosceva, non aveva bisogno d’abbracciare quel futuro oscuro, pieno d’inganno in cui non avrebbe più avuto un cuore.

«Come mai sei arrivata con tutto questo ritardo? Lo sai che mi hai fatto preoccupare?» prese abilmente parola sua madre, non appena la vide varcare la soglia di casa.
«Perdonami. L’autobus era in ritardo. – ammise Chiara in extremis, tralasciando la parte in cui aveva seriamente preso in considerazione di fuggire di casa, allontanandosi da quella vita surreale. – La prossima volta cercherò di avvisare.» aggiunse poi, controllando sul proprio cellulare la lista delle chiamate ricevute e non risposte.
«Questa volta ti perdono, ma non tirare troppo la corda. Dai, forza vieni a tavola che è pronto!»
«N-No, non mangio.»
«Eh?»
«Ti ringrazio, ma non ho fame. Sono molto stanca e ho davvero un mal di testa spaventoso! Ho soltanto voglia di sdraiarmi un pochino.»
«Ma, sei sicura? Non hai neanche un po’ di appetito? Vuoi un antidolorifico, tesoro?»
«No, tranquilla mamma. Casomai, se non passa, fra un’oretta ne prendo una bustina.» E giustificando per l’ennesima volta il suo enigmatico comportamento, corse in camera sua chiudendosi a chiave, sospirando profondamente.
 
Che bugiarda! Davvero una pessima recita!
Per quanto ancora aveva intenzione di inventare scuse?
Un attacco di emicrania fulminante? Tzè, e poi cosa si sarebbe inventata?
Aveva soltanto voglia di affogarsi con le sue stesse mani, tentando di saziare quegli ingordi ed irritanti crampi di fame che attorcigliavano in due il suo stomaco affamato!
Comportandosi a quel modo, cosa aveva risolto?
Non era facendo preoccupare sua madre che sarebbe uscita da quella situazione, lo sapeva bene. Eppure, c’erano giorni in cui tutto arrivava al momento sbagliato, proprio come in quel momento, e niente sembrava andarle bene.
Giorni oscuri.
Giorni in cui iniziava ad odiare se stessa.
Giorni in cui perdeva anche la capacità di essere gentile con gli altri, e non riuscendo a far nulla, continuava a deprimersi ancora di più. In quei giorni grigi e malinconici, certamente quelle che feriva maggiormente erano le persone a lei più care, ed odiava quel senso d’impotenza e la frustrazione che in lei questo generava.

Continuava imperterrita a smarrirsi nei dedali infiniti che la sua mente annebbiata dalle troppe lacrime versate, continua a ridisegnare. Confondendo la finzione con la realtà.
Perché era nata? Perché era così debole?
Perché continuava a fingersi forte, nascondendo a tutti quelle copiose lacrime che ogni giorno le rigavano il volto? Perché nessuno si accorgeva del dolore che provava?

Le persone che la circondavano continuavano a dirle che era una ragazza forte e risoluta, la lodavano dicendole che non si arrendeva mai, continuando sempre e soltanto a scorgere l’immagine che di lei preferivano. Sovrapponevano di continuo quell’immagine brillante che aveva da bambina a quella della bella ragazza che stava diventando; scorgendo solo una dolce metà di quella scomoda verità.
Anche chi la derideva, e la sottometteva ogni santo giorno, alla fine, non faceva altro che osservare solo una parte di quella moneta.

Si stava perdendo.

Era teneramente a metà fra razionalità e irrazionalità.
Fra follia e ingegno. Fra oscurità e brillantezza.
Aggrappata disperatamente a un lembo di stoffa ormai sin troppo ammuffito per continuare a sostenerla in eterno. Con amarezza, cercava d’aggiustare il puzzle della sua vita, ricomponendo con abile pazienza ogni piccolo pezzettino, mentre al contempo, contava le notti senza fine e quei sentimenti così guizzanti e ambigui che le scavavano il petto e l’anima con una forza senza eguali.

Possibile che in quel grande cielo stellato, non vi fosse una piccola stella gemella?
Possibile che nessuno riuscisse a scorgere la traballante verità nel suo cuore, insegnandole a non vacillare e a non perdere il lume della ragione?
Più e più volte aveva cercato di gridare, ma dalle sue morbide labbra, timidamente dipinte di rosa, non usciva alcun suono, semplicemente si dischiudevano in un tiepido e ingannevole sorriso.

Inconsapevolmente derideva sé stessa.
Inconsapevolmente distruggeva sé stessa una volta ancora.
Nascondeva la propria fragilità emotiva all’ombra di piccoli sorrisi.
Con il trascorrere dei mesi, era diventata brava a ridere anche quando non si divertiva affatto.
Era forse cambiata?


Nelle profonde acque dell’inconscio affondava facilmente, trascinando il suo corpo malconcio e ferito. Forse, quel desiderio che tanto opprimeva la sua anima era soltanto "amore".

     Osservando con meraviglia quel giardino vestito a festa, quello che una volta era soltanto un piccolo seme solitario, ora brillava con orgoglio.
Sbocciando con amabile lentezza, cresceva forte e rigoglioso.
Il prelibato fiore della discordia allietava la benevolenza di quello scorcio fatato,  e nutrendosi dell’odio, prosperava famelico.






© LADY ROSIEL/ Luna Azzurra

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Capitolo 3
*** ATTO III ***



Germogli MALEFICI


ATTO – III

All’età di ventisei anni, Chiara era finalmente una persona diversa. Una persona nuova. Era rinata e ora che finalmente aveva affrontato i suoi peggior incubi, fra cui quel desolante periodo di depressione, era tornata a sfidare il mondo a testa alta, imparando a trarre profitto da quelle scomode e pesanti verità che aveva sperimentato sulla sua stessa pelle.

Era diventata forte; spietata.

Si confondeva fra la folla, cercando di assomigliare alle persone che le stavano accanto, fingendosi interessata alle loro conversazioni e alla loro amicizia, e trincerandosi dietro ad un sorriso, analizzava e rifletteva attentamente sulle parole che sentiva sputar fuori da quelle loro labbra velenose. Ammaliata, scorgeva ogni più piccolo movimento del corpo di chi gli stava accanto, idealizzando carattere e indole di ogni individuo. Lo faceva persino con i bambini. E le volte in cui il suo affinato intuito si sbagliava erano davvero poche – le si poteva contare sulle dita di una mano.
Il suo era un dono speciale; unico.
Ed ora che era diventata abbastanza cinica riusciva ad utilizzarlo nel migliore dei modi: ingannando il suo prossimo, traendo spesso vantaggiose soddisfazioni personali.
Dopo svariati anni, finalmente, la ruota della fortuna era tornata a girare.

La dolce e poetica Chiara, quella ragazzina vivace e candida come neve s’era frantumata come cristallo ed aveva lasciato lo scettro a quella nuova sé stessa, quella forte, razionale ed opportunista. Ci aveva impiegato anni per racimolare i cocci di sé stessa, saturando le ferite del cuore che le era stato strappato dal petto, e si era aggrappata a quell’unica speranza maturata dall’odio per se stessa: non sarebbe più crollata.

Non le sarebbe più importato quello che persone avrebbero potuto dire o non dire di lei, non le sarebbe interessato far soffrire allo stesso modo chi probabilmente non se lo meritava affatto. Non era più una timida gazzella impaurita, non sarebbe diventata ancora una volta la preda di qualcuno. No, non era più quella fragile e malsana ragazzina che non faceva altro che preoccuparsi per gli altri e richiedere affetto e protezione.

Per anni si era sentita insignificante come un granello si sabbia al vento, per anni aveva lottato contro quel suo desiderio di abbandonarsi alla vita, di giungere sino alla morte, per poter bloccare, almeno in parte, quel dolore sconfinante che le squarciava il petto.
La realtà che i soli occhi le mostravano era così alterata che non riusciva più a cogliere di quale colore fossero quelle rose splendenti al calar del sole, e persino i giudizi erano solo dei diavoli tentatori – crudeli bugiardi – come li chiamava lei.
Solo allora comprese che doveva accertarsi del valore delle cose e delle persone riuscendo a contare solo su sé stessa. E così, si camuffava ricercando la maschera più avvenente che di volta in volta trovava in vendita. Ci appiccicava su un sorriso e un’indole fittizia, e mascherandosi abilmente in qualcun altro riusciva a cogliere la verità dietro alle menzogne più feroci.

Ingannava il suo prossimo con la stessa abilità con cui ingannava sé stessa. 
Era una lotta frenetica e continua. Ed ora che era finalmente un’adulta in tutto e per tutto, poteva essere libera di andare dove voleva, intraprendendo la strada che più le sembrava adeguata, e libera di fare quello che segretamente bramava con passione.
Eppure, nonostante quella sua libertà sembrasse infinita, continuava a sentirsi imprigionata in un’invalicabile cella. Una cella molto più grande e spaziosa dell’amabile teca di cristallo in cui i suoi genitori l’avevano custodita per lungo tempo.
Quell’assurda prigionia aveva il sapore delle arance e la fragranza intensa del limone e dei fiori primaverili. 
Forse però, stava solo sragionando una volta ancora.

Non poteva più continuare a smarrirsi nel passato. Adesso era agile e invincibile quanto un potente leone.
Un leone che, nonostante la sua mole, si fingeva ancora una tremante gazzella pronta a sbranare la sua deliziosa preda in un agguato mortale.

«Sono davvero stremata! E’ tutto il Santo giorno che corro da una parte all’altra della città! D’altro canto come potevo perdermi la prima domenica di saldi?!» domandò senza neppure attendersi una risposta plausibile dall’amica.
«Hai ragione. Tu adori lo shopping sopra ogni altra cosa!» proferì Chiara, porgendole un bicchiere d’aranciata fresca, e sedendosi accanto a lei.
«Non so proprio come tu riesca a fare acquisti solo tramite internet! Non sopporterei di perdermi l’attimo in cui, dopo ore di coda, sbaragli la concorrenza, aggiudicandoti l’oggetto dei tuoi desideri!» aggiunse poi la sua collega, trasognando ad occhi aperti.

In verità quella donna, più grande di lei solo di un anno, non era solo una semplice collega di lavoro, ma era anche la figlia del suo capo. E beh, certo non poteva mostrarsi scontrosa con lei, nonostante la detestasse terribilmente.
La odiava.
Non c’erano mezze misure, Chiara odiava Francesca, ma nonostante tutto cercava di andarci mortalmente d’accordo, fingendosi addirittura una delle sue migliori confidenti. Intraprendere una relazione d’amicizia con lei aveva avuto, nel corso di quegli anni, notevoli vantaggi per Chiara – soprattutto quando si trattava di frequenti ritardi mattutini sul posto di lavoro, giornate di riposo e perché no, anche sullo stipendio!
In fin dei conti doveva solamente mostrarsi solare, garbata e prestare attenzione a quei discorsi frivoli e patetici di quella sciocca ragazzina viziata!

Non era poi così difficile…
Il gioco valeva la candela, e Chiara lo aveva capito da tempo, ormai.

E quindi, anche quella domenica pomeriggio, si era ritrovata a dover offrire ospitalità a Francesca, preparando un caffè molto più aromatico del suo solito, e offrendole gentilmente stuzzicanti dolcetti di marzapane e frollini fatti in casa. Per l’occasione, aveva anche preparato il miglior servizio di porcellana che custodiva gelosamente nel ripiano più in alto della credenza. Ora non le rimaneva altro che donarle uno dei suoi sapienti e accomodanti sorrisi al limone, mostrandosi quanto più amabile e pronta ad ascoltare ancora una volta la sua tremenda voce gracchiate.

«Ah! Meno male che posso sempre contare su di te! Sei davvero un’amica!» esclamò entusiasta Francesca, sorseggiando il suo caffè bollente.
Chiara, dal canto suo, avrebbe preferito optare per una risposta molto più diretta e sincera, come ad esempio: "sei davvero insopportabile! Non ti sono amica nemmeno un pochino, sia chiaro! Se poi, per amica intendi una che ti punterebbe volentieri un coltello fra le scapole, allora siamo davvero amiche!”
Fortuna però, che la razionalità di Chiara era la sua miglior compagna di vita, e così, nascondendosi ancora una volta dietro ad un sorriso, proferì dolci parole di zucchero oscurando del tutto i suoi pensieri.
«Figurati! Non ho fatto davvero nulla di particolare. Sei un’amica preziosa per me, è naturale che mi preoccupi per la tua salute e m’interessi dei tuoi problemi. Sei sempre la benvenuta in questa casa!» Al termine di quelle sue parole non poté non notare una leggera e volubile commozione negli occhi un po’ arrossati di Francesca. E senza aggiungere altro, si lasciò abbracciare dolcemente, cullandosi in quel calore velenoso che sapeva sempre farla sogghignare all’ombra di sguardi indiscreti.

Dio, come si sentiva potente in quegli attimi! Aveva il mondo ai suoi piedi!
E quella sciocca sgualdrina perennemente vestita in rosa, proprio come la peggior Barbie che i suoi occhi avessero mai incrociato, era solo l’ennesima preda che il destino le aveva servito su un piatto d’argento. L’agnello sacrificale.
Un’insignificante sacrificio per accomodare gli Dei del Cielo. E più il calore emanato dal corpo di Francesca si scontrava sulla pelle sempre un po’ fredda di Chiara, più il piacere che sgorgava dal suo cuore corrotto dall’oscurità aumentava vertiginosamente.
Le sue piccole mani candide stringevano con impeto quel corpo ricoperto di carne succulenta, privandolo un po’ alla volta di quel calore invitante e facendolo immoralmente suo. Chiara si sentiva in paradiso.

Interminabili note di violino si disperdevano nell’aria.
Una sinfonia armoniosa e pregna di malinconia assalì il suo corpo, torturandolo dolcemente. Stava manovrando con sapiente maestria quell’ennesima bambola di carne.
La faceva danzare sino a farle perdere il fiato nel suo roseo giardino fiorito.
Oscurando e mescolando verità e menzogne, fingendo di non sapere cosa fosse reale e cosa no, continuando a confondere sempre i suoi pensieri, Chiara non riusciva ancora ad avere fiducia in sé stessa.

Era diventata brava a narrare frottole, era diventata una nobile stratega, e ormai affrontava la vita come una grande partita di scacchi, dove ogni pedina prendeva vita e studiando l’avversario con astuzia, riusciva sempre a fare la mossa che più le conveniva, mangiando la pedina avversaria ogni qualvolta riuscisse a fare scacco matto. E nonostante questa sua incredibile vocazione, ancora faticava ad ascoltare la voce nascosta del suo cuore.

Tramutandosi nel leone che aveva sempre desiderato essere, aveva perso sé stessa. Aveva abbandonato i suoi sentimenti e ogni tipo di emozione che assomigliasse all’affetto e all’amore. In passato era stata tradita, e il dolore era ancora troppo grande per poter credere in un mondo dalle sfumature limpide e vivide come i caldi colori dell’estate.
Aveva tradito ogni suo principio, rifiutando la compassione e allontanando l’amore. Ed ora si sentiva felice.
Sorrideva, gioiva e piangeva, alle volte l’una non escludeva l’altra! Era folle e sgargiante quanto Arlecchino!
Attirava l’attenzione di tutti, e regalando dolcezza celava la sua codardia, fingendosi forte e indomabile.

Continuava a camminare come un’equilibrista, perennemente in bilico fra terra ferma e mare, facendosi forza con le sue sole ossa.  Il suo cuore stava inesorabilmente morendo, ma la sua mente stava finalmente assaporando la gioia di vivere.
Continuava a vacillare, cadendo nell’oscurità più assoluta, ma anche così, non si perdeva d’animo, e agguantando quell’unica certezza – confidando che mai nessun’altro avrebbe potuto distruggere un giocattolo già rotto – continuava imperterrita a camminare, correndo ti tanto in tanto.

In quel luogo, dove Chiara si sentiva a disagio persino nel respirare, tratteneva il respiro, rifiutando persino l’aria, annientando l’immagine della vera sé stessa che stingeva un poco alla volta. Era finalmente serena.
Poteva essere come desiderava, poteva non aver paura delle tenebre, poteva dar vita tranquillamente a quella parte tenebrosa di sé stessa.
Poteva essere ciò che aveva sempre desiderato. E senza accorgersene, continuava a versare lacrime oscure, cariche di orrore, come se ridesse a crepapelle e sorrideva senza sosta, come se piangesse a gran voce. Più diventava brava a dire bugie e a trovare scuse, più desiderava la freddezza di un abbraccio eterno.

 

    Nell’utopia silente, l’avvenente fiore della discordia brillava aggraziato quanto una stella nel cuore della notte. Dolcemente, prosperava solitario, cibandosi dei più meschini fiori che sciaguratamente avevano desiderato stargli accanto, regalandogli quella rara bellezza eterea e quel dolce nettare vitale che scorreva nel loro fragile stelo. Macchiandosi di peccato recideva la vita altrui, facendola sua un poco alla volta, inesorabilmente.

     Il fiore della discordia germogliava con ardore non solo nel giardino, ma anche nel cuore di quella dolce ragazzina che anni prima aveva strappato alla bontà, corrompendola con il suo fascino al veleno. Primo o poi anche quella ragazzina sarebbe stata completamente sua.



© LADY ROSIEL/ Luna Azzurra

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