Germogli Malefici di LADY ROSIEL (/viewuser.php?uid=22661)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ATTO I ***
Capitolo 2: *** ATTO II ***
Capitolo 3: *** ATTO III ***
Capitolo 1 *** ATTO I ***
Questo
racconto è
risultato fra i vincitori della I biennale del bando letterario
nazionale – anno
2013 – "La Sinfonia della
Menzogna" di AFRAM per l’arte – Galleria “Il Germoglio.”
157 partecipanti totali e venti
racconti vincitori, selezionati per una raccolta in un unico volume
stampato a
numero limitato e la realizzazione di un dipinto che ritraesse
l'essenza dei
racconti vincitori. (Mostra a tema.)
Germogli MALEFICI
ATTO – I
Arcobaleni di primavera
scintillavano nell’aria, ritoccando
forme e colori con sapiente maestria. Piccoli occhi nocciola osservano
il mondo
con l’incanto dell’innocenza, mentre
i suoi morbidi capelli castani, raccolti da una treccia, si lasciavano
abbracciare con dolcezza dall’amico sole. Era una bambina così candida
e piena
di gioia che spesso, solo quel suo tenero gattino, sembrava riuscire a
starle
accanto con la stessa esuberanza che lei palesava.
«Chi è stato a rompere il vaso in salotto? – domandò la madre alla
piccola,
investigando sull’accaduto. – Sei stata forse tu, piccola mia?» chiese
poi.
La bimba tremò spaurita, consapevole di aver sciaguratamente rotto uno
dei più
belli e preziosi cimeli di famiglia. E per quello doveva essere punita,
lo
sapeva, ma impaurita da quella che poteva essere la reazione della
madre,
accampò una piccola scusa.
«Uhm… No mamma. Non sono stata io.» ammise dopo averci riflettuto un
pochino.
«E allora chi è stato?»
«E’ stato il gatto! – si giustificò subito dopo. – Sì, è stato il
gatto!» sottolineò
ancora una volta, con più vigore di prima. E desiderando d’esser
creduta,
arricciò le labbra in una smorfia dispettosa, gonfiando poi le guance,
assumendo un’espressione accigliata.
«Siamo sicuri?» domandò una volta ancora, ma non ottenendo alcuna
risposta
cercò di assecondare il volere della piccola. In fin dei conti, non era
così
insolito che il loro gatto di casa rompesse qualche soprammobile. – Era un cucciolo davvero vivace. – innegabile, così come era vero che stava
capitando con una frequenza sempre maggiore.
«Quel gatto sta diventando un problema: dovresti cercare d’insegnargli
a non
salire sul tavolo.» proferì infine la donna, cercando di far
predominare la
razionalità, evitando inutili battibecchi ed eventuali piagnistei.
«Uhm. Sì, hai ragione mamma. Cercherò d’insegnarglielo!» esclamò poi,
tuffandosi sul parquet per afferrare e coccolare il gatto.
Sorrise.
Era stata quella la sua prima piccola bugia.
Un’innocua bugia, detta solamente per proteggere se stessa da una più
che probabile
filippica della madre.
Soltanto una piccola bugia.
Nulla di più.
L’aveva detta a fin di bene. Le era scivolata dalle labbra come burro, senza nemmeno accorgersene.
I caldi raggi del
sole fecero spazio alle nuvole, e nella penombra di quel giardino
fiorito, il
primo seme della discordia venne originato.
©
LADY
ROSIEL/ Luna Azzurra
|
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Capitolo 2 *** ATTO II ***
Germogli MALEFICI
ATTO
– II
Nove anni più tardi,
alla tenera età di quattordici anni, la
piccola Chiara era ormai una giovane adolescente. Per
anni aveva creduto nell’utopia di quel
mondo fatato, sincero e gioioso, dove era cresciuta come un candido
Giglio,
protetto nella sua teca di cristallo.
Eppure, un poco per volta, stava capendo che quella serenità
immaginaria era
soltanto opera di un sortilegio della sua famiglia. Un bellissimo sortilegio, ma pur sempre irreale.
Arricciò le labbra in un tiepido sorriso malinconico.
Con tutta se stessa aveva sperato che quel mondo fiabesco fosse l’unica
realtà
che il cielo le avesse donato. Lo aveva sperato anche la prima volta in
cui fu
vittima della cattiveria delle sue compagne di classe, persino quando
s’avventarono
su di lei e le bagnarono la testa con il getto freddo dell’acqua del
lavandino
del bagno al secondo piano. Anche quando scorgeva i loro volti
sogghignarle con
decisione, parlandole alle spalle e trovando un modo per ferirla. Anche
in quel
preciso momento, non appena vide quella terribile scritta su quel
foglio
strappato e malconcio, anche quando avvertì le sue gambe tremare ed un
freddo
improvviso gelarle le ossa del corpo.
«Devi morire. Sei inutile.»
Quelle viscide parole echeggiavano nei labirinti oscuri della sua
mente,
squassandole lo stomaco e spaccando a metà la sua anima.
Non c’era nulla di poetico nella vita.
Nulla di così divertente
che riuscisse a farla davvero
sorridere.
La sua vita ormai valeva poco. Molto poco.
L’immagine aggraziata e colma di dolcezza che affollava i suoi pensieri
era
solo un nostalgico ricordo di ciò che una volta era: una tenera bambina
baciata
dalla vita. Ed ora che quell’immagine stava sbiadendo ogni giorno di
più,
Chiara faticava persino a comprendere chi lei in realtà fosse. Non si
sentiva
più umana.
Era stata svuotata da ogni
sentimento. Non si riconosceva più.
Era solo un guscio vuoto, completamente diaccio.
Un fiore moribondo, agonizzante, che lentamente s’apprestava a sfiorire
per poi
sparire, inghiottito da quella sua stessa misera esistenza.
«Com’è andata a scuola, tesoro?» domandò sua madre, non appena
rincasata.
«Uhm, come sempre.» ammise la giovane Chiara, poggiando la cartella di
scuola
vicino all’armadio dei cappotti, raggiungendo la madre in cucina.
«Ti sei divertita? Hai imparato cose nuove?»
«S-Sì. Certo. A scuola s’imparano sempre un sacco di cose!» esclamò
illuminando
il suo volto in un sorriso sincero, mentre la sua mente cercava di
accostare le
migliori parole che conoscesse, fingendo
per davvero che tutto andasse per il verso giusto.
«Ah… Deve essere bello avere quattordici anni! Alle volte vorrei poter
tornare
giovane, sai?»
«Non sei vecchia, mamma! – ammise addentando un grissino – Mi piace
avere
quattordici anni. Non voglio crescere.» aggiunse poi, sedendosi al
solito
posto, attendendo che la pasta si cuocesse.
Adorava parlare con sua madre, adorava vederla sorridere. E mai avrebbe
cercato
di compromettere quella felicità, nemmeno se questo avesse significato mentire, perdendo se stessa.
Le bugie, infondo, erano soltanto una liete variazione della verità e
non
comportavano alcun rischio. Quel fastidioso tremolio alle gambe, e
anche quell’ineluttabile
voglia di piangere a gran voce, non erano altro che innocue emozioni. E
poco
importava se quel senso d’inquietudine si faceva largo sempre più
velocemente
nel suo cuore ferito e illuso, ciò che davvero desiderava era soltanto: sorridere ancora una volta.
Stava inevitabilmente
cambiando.
L’immagine che Chiara rivedeva riflessa sullo specchio, non era più
quella di
una ragazzina di soli quattordici anni a cui piaceva truccarsi e
prendersi cura
del suo corpo e dei suoi lunghi capelli.
Era diversa. Distorta.
Le sembrava di essere diventata terribilmente inquietante.
Si faceva paura da sola.
L’immagine che i suoi occhi riflettevano era più simile a un qualcosa
d’informe
e vagamente oscuro. Totalmente differente dall’immagine rasserenante di
quel
candido Giglio che per anni aveva creduto d’essere. Le sue labbra narravano bugie una dietro l’altra, di
continuo, e non le diceva nemmeno per
difendere qualcuno, ma solo per proteggere quella stupida di se stessa.
Non
riusciva a farne a meno.
Aveva compreso che rilevare agli altri le proprie debolezze era solo un
modo
per farsi mangiare più velocemente dagli squali di quel grande acquario
che era
vita.
Tutti erano squali, nessuno escluso, e rendersi ancora più deboli e
miserabili
ai loro occhi significava solo andar incontro alla propria distruzione.
Lentamente, giorno dopo giorno, si stava circondando di innumerevoli bugie e più continuava quella sua
ipocrita recita, più si sentiva
debole e fragile, nonostante regalasse sorrisi di zucchero a ogni passante.
La sua etica stava
inesorabilmente cambiando. Si sentiva
corrotta.
Sporca. Tradita e inutile.
Eppure continuava a camminare, ripercorrendo le stesse strade ogni
giorno,
alzando la testa e guardando in avanti, senza mai perdere il controllo,
sorridendo
sino alla nausea.
«Frequenti anche tu
questo liceo?» domandò una ragazza
sconosciuta, forse poco più grande di lei, sorreggendosi sugli appositi
appoggi
di quell’affollato autobus nell’ora di punta.
«Sì. Sono al primo anno.»
«Al primo? Io sono al terzo. Piacere, sono Elisa.» affermò con
disinvoltura la
ragazza, porgendole la mano, in segno di amicizia.
«Il piacere è mio. Io mi chiamo Chiara.» rispose di rimando, stringendo
con
eleganza la mano della compagna.
«Fai tutti i giorni questa strada per tornare a casa? Magari possiamo
trovarci,
di tanto in tanto. E’ sempre bello poter fare nuove amicizie!»
«Si, hai ragione. Quando vuoi, mi trovi sempre su questo pullman. Non
ho ancora
in programma di traslocarmi!» ammise, abbozzando una lieve risata,
distendendo
con semplicità le labbra, comunicando gioia non solo con il sorriso, ma
anche
con gli occhi.
Stava mentendo. Lo stava facendo
ancora una volta.
Continuava a fingere che tutto andasse bene, che si divertisse e che le
piacesse davvero quella vita indegna.
«Allora spero di non darti fastidio la prossima volta che t’incontro.
Mi sembri
una brava persona.»
«No, figurati! Sei libera di disturbarmi quando vuoi! Piace anche a me
conversare con la gente.» aggiunse poi, calandosi a tal punto nel
personaggio
che interpretava da dimenticarsi tutto quel dolore subito e sopportato
in
silenzio.
Le aveva detto che: “le piaceva conversare con la gente", ma aveva
mentito
anche su quello.
Lei odiava conversare con le persone.
Anche se forse, più semplicemente: lei odiava le persone.
Odiava i loro sorrisi spigliati che nascondevano coltelli affilati come
spade,
pronti a dilaniare il proprio avversario. Odiava il loro frenetico
chiacchiericcio pronto a sentenziare condanne e assoluzioni, credendosi
alla
pari di un Dio.
No, quelle persone non erano sue amiche. Non lo sarebbero mai state.
Il calore che quei corpi di carne e ossa emanavano era illusorio, e
certo non
le riscaldava il cuore. Avrebbe preferito essere invisibile ai loro
occhi,
piuttosto che continuare a percepire quei loro sguardi trucidi
lacerarle la
carne, sbranandola e dissanguandola a loro piacimento.
Era forse una prelibata e fragile gazzella circondata da affamati leoni?
Prima o poi sarebbe crollata, frantumandosi come cristallo per poi
diventare
nuovamente cenere. E più continuava a parlare con disinvoltura,
fingendosi una
persona coraggiosa, più desiderava essere lasciata da sola, emarginata
dal
mondo.
Voleva fuggire.
Fuggire lontano, in un luogo dove nessuno la conosceva, non aveva
bisogno
d’abbracciare quel futuro oscuro, pieno d’inganno in cui non avrebbe
più avuto
un cuore.
«Come mai sei arrivata
con tutto questo ritardo? Lo sai che
mi hai fatto preoccupare?» prese abilmente parola sua madre, non appena
la vide
varcare la soglia di casa.
«Perdonami. L’autobus era in ritardo. – ammise Chiara in extremis,
tralasciando
la parte in cui aveva seriamente preso in considerazione di fuggire di
casa,
allontanandosi da quella vita surreale. – La prossima volta cercherò di
avvisare.» aggiunse poi, controllando sul proprio cellulare la lista
delle
chiamate ricevute e non risposte.
«Questa volta ti perdono, ma non tirare troppo la corda. Dai, forza
vieni a
tavola che è pronto!»
«N-No, non mangio.»
«Eh?»
«Ti ringrazio, ma non ho fame. Sono molto stanca e ho davvero un mal di
testa
spaventoso! Ho soltanto voglia di sdraiarmi un pochino.»
«Ma, sei sicura? Non hai neanche un po’ di appetito? Vuoi un
antidolorifico,
tesoro?»
«No, tranquilla mamma. Casomai, se non passa, fra un’oretta ne prendo
una
bustina.» E giustificando per l’ennesima volta il suo enigmatico
comportamento,
corse in camera sua chiudendosi a chiave, sospirando profondamente.
Che bugiarda! Davvero una pessima recita!
Per quanto ancora aveva intenzione di inventare scuse?
Un attacco di emicrania fulminante? Tzè, e poi cosa si sarebbe
inventata?
Aveva soltanto voglia di affogarsi con le sue stesse mani, tentando di saziare quegli ingordi ed irritanti
crampi di fame che attorcigliavano in due il suo stomaco affamato!
Comportandosi a quel modo, cosa aveva risolto?
Non era facendo preoccupare sua madre che sarebbe uscita da quella
situazione,
lo sapeva bene. Eppure, c’erano giorni in cui tutto arrivava al momento
sbagliato, proprio come in quel momento, e niente sembrava andarle
bene.
Giorni oscuri.
Giorni in cui iniziava ad odiare se stessa.
Giorni in cui perdeva anche la capacità di essere gentile con gli
altri, e non
riuscendo a far nulla, continuava a deprimersi ancora di più. In quei
giorni
grigi e malinconici, certamente quelle che feriva maggiormente erano le
persone
a lei più care, ed odiava quel senso d’impotenza e la frustrazione che
in lei
questo generava.
Continuava imperterrita a smarrirsi nei dedali infiniti che la sua
mente
annebbiata dalle troppe lacrime versate, continua a ridisegnare.
Confondendo la
finzione con la realtà.
Perché era nata? Perché era così debole?
Perché continuava a fingersi forte, nascondendo a tutti quelle copiose
lacrime
che ogni giorno le rigavano il volto? Perché nessuno si accorgeva del
dolore
che provava?
Le persone che la circondavano continuavano a dirle che era una ragazza
forte e
risoluta, la lodavano dicendole che non si arrendeva mai, continuando
sempre e
soltanto a scorgere l’immagine che di lei preferivano. Sovrapponevano
di
continuo quell’immagine brillante che aveva da bambina a quella della
bella
ragazza che stava diventando; scorgendo solo una dolce metà di quella
scomoda
verità.
Anche chi la derideva, e la sottometteva ogni santo giorno, alla fine,
non
faceva altro che osservare solo una parte di quella moneta.
Si stava perdendo.
Era teneramente a metà fra razionalità e irrazionalità.
Fra follia e ingegno. Fra oscurità e brillantezza.
Aggrappata disperatamente a un lembo di stoffa ormai sin troppo
ammuffito per
continuare a sostenerla in eterno. Con amarezza, cercava d’aggiustare
il puzzle
della sua vita, ricomponendo con abile pazienza ogni piccolo
pezzettino, mentre
al contempo, contava le notti senza fine e quei sentimenti così
guizzanti e
ambigui che le scavavano il petto e l’anima con una forza senza eguali.
Possibile che in quel grande cielo stellato, non vi fosse una piccola
stella
gemella?
Possibile che nessuno riuscisse a scorgere la traballante verità nel
suo cuore,
insegnandole a non vacillare e a non perdere il lume della ragione?
Più e più volte aveva cercato di gridare, ma dalle sue morbide labbra,
timidamente dipinte di rosa, non usciva alcun suono, semplicemente si
dischiudevano in un tiepido e ingannevole
sorriso.
Inconsapevolmente
derideva sé stessa.
Inconsapevolmente distruggeva sé stessa una volta ancora.
Nascondeva la propria fragilità emotiva all’ombra di piccoli sorrisi.
Con il trascorrere dei mesi, era diventata brava a ridere anche quando
non si
divertiva affatto.
Era forse cambiata?
Nelle profonde acque
dell’inconscio affondava facilmente,
trascinando il suo corpo malconcio e ferito. Forse, quel desiderio che
tanto opprimeva la sua anima era soltanto "amore".
Osservando con
meraviglia quel giardino vestito a festa, quello che una volta era
soltanto un
piccolo seme solitario, ora brillava con orgoglio.
Sbocciando con amabile lentezza, cresceva forte e rigoglioso.
Il prelibato fiore della discordia allietava la benevolenza di quello
scorcio
fatato, e nutrendosi dell’odio, prosperava
famelico.
©
LADY
ROSIEL/ Luna Azzurra
|
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Capitolo 3 *** ATTO III ***
Germogli
MALEFICI
ATTO – III
All’età
di ventisei anni, Chiara era finalmente una persona
diversa. Una persona nuova. Era rinata e ora che finalmente aveva
affrontato i
suoi peggior incubi, fra cui quel desolante periodo di depressione, era
tornata
a sfidare il mondo a testa alta, imparando a trarre profitto da quelle
scomode
e pesanti verità che aveva sperimentato sulla sua stessa
pelle.
Era diventata
forte; spietata.
Si confondeva
fra la folla, cercando di assomigliare alle
persone che le stavano accanto, fingendosi interessata alle loro
conversazioni
e alla loro amicizia, e trincerandosi dietro ad un sorriso, analizzava
e
rifletteva attentamente sulle parole che sentiva sputar fuori da quelle
loro
labbra velenose. Ammaliata, scorgeva ogni più piccolo
movimento del corpo di
chi gli stava accanto, idealizzando carattere e indole di ogni
individuo. Lo
faceva persino con i bambini. E le volte in cui il suo affinato intuito
si
sbagliava erano davvero poche – le si poteva contare sulle
dita di una mano.
Il suo era un dono speciale; unico.
Ed ora che era diventata abbastanza cinica riusciva ad
utilizzarlo nel migliore dei modi: ingannando il suo prossimo, traendo
spesso
vantaggiose soddisfazioni personali.
Dopo svariati anni, finalmente, la ruota della fortuna era tornata a
girare.
La dolce e
poetica Chiara, quella ragazzina vivace e candida
come neve s’era frantumata come cristallo ed aveva lasciato
lo scettro a quella
nuova sé stessa, quella forte, razionale ed opportunista. Ci
aveva impiegato
anni per racimolare i cocci di sé stessa, saturando le
ferite del cuore che le
era stato strappato dal petto, e si era aggrappata a
quell’unica speranza
maturata dall’odio per se stessa: non sarebbe più
crollata.
Non le sarebbe
più importato quello che persone avrebbero
potuto dire o non dire di lei, non le sarebbe interessato far soffrire
allo
stesso modo chi probabilmente non se lo meritava affatto. Non era
più una
timida gazzella impaurita, non sarebbe diventata ancora una volta la
preda di
qualcuno. No, non era più quella fragile e malsana ragazzina
che non faceva
altro che preoccuparsi per gli altri e richiedere affetto e protezione.
Per anni si era
sentita insignificante come un granello si
sabbia al vento, per anni aveva lottato contro quel suo desiderio di
abbandonarsi alla vita, di giungere sino alla morte, per poter
bloccare, almeno
in parte, quel dolore sconfinante che le squarciava il petto.
La realtà che i soli occhi le mostravano era così
alterata che non riusciva più
a cogliere di quale colore fossero quelle rose splendenti al calar del
sole, e
persino i giudizi erano solo dei diavoli tentatori – crudeli
bugiardi – come li
chiamava lei.
Solo allora comprese che doveva accertarsi del valore delle
cose e delle persone riuscendo a contare solo su sé stessa.
E così, si
camuffava ricercando la maschera più avvenente che di volta
in volta trovava in
vendita. Ci appiccicava su un sorriso e un’indole fittizia, e
mascherandosi abilmente
in qualcun altro riusciva a cogliere la verità dietro alle
menzogne più feroci.
Ingannava il suo
prossimo con la stessa abilità con cui
ingannava sé stessa.
Era una lotta frenetica e continua. Ed ora che era
finalmente un’adulta in tutto e per tutto, poteva essere
libera di andare dove
voleva, intraprendendo la strada che più le sembrava
adeguata, e libera di fare
quello che segretamente bramava con passione.
Eppure, nonostante quella sua libertà sembrasse infinita,
continuava a sentirsi imprigionata in un’invalicabile cella.
Una cella molto
più grande e spaziosa dell’amabile teca di
cristallo in cui i suoi genitori
l’avevano custodita per lungo tempo.
Quell’assurda prigionia aveva il sapore delle arance e la
fragranza intensa del
limone e dei fiori primaverili.
Forse
però, stava solo sragionando una volta ancora.
Non poteva più continuare a smarrirsi nel passato.
Adesso era agile e invincibile quanto un potente leone.
Un leone che, nonostante la sua mole, si fingeva ancora una tremante
gazzella pronta
a sbranare la sua deliziosa preda in un agguato mortale.
«Sono
davvero stremata! E’ tutto il Santo giorno che corro
da una parte all’altra della città!
D’altro canto come potevo perdermi la prima
domenica di saldi?!» domandò senza neppure
attendersi una risposta plausibile
dall’amica.
«Hai ragione. Tu adori lo shopping sopra ogni altra
cosa!» proferì Chiara,
porgendole un bicchiere d’aranciata fresca, e sedendosi
accanto a lei.
«Non so proprio come tu riesca a fare acquisti solo tramite
internet! Non
sopporterei di perdermi l’attimo in cui, dopo ore di coda,
sbaragli la
concorrenza, aggiudicandoti l’oggetto dei tuoi
desideri!» aggiunse poi la sua
collega, trasognando ad occhi aperti.
In
verità quella donna, più grande di lei solo di un
anno,
non era solo una semplice collega di lavoro, ma era anche la figlia del
suo
capo. E beh, certo non poteva mostrarsi scontrosa con lei, nonostante
la
detestasse terribilmente.
La odiava.
Non c’erano mezze misure, Chiara odiava Francesca, ma
nonostante tutto cercava
di andarci mortalmente d’accordo, fingendosi addirittura una
delle sue migliori
confidenti. Intraprendere una relazione d’amicizia con lei
aveva avuto, nel
corso di quegli anni, notevoli vantaggi per Chiara –
soprattutto quando si
trattava di frequenti ritardi mattutini sul posto di lavoro, giornate
di riposo
e perché no, anche sullo stipendio!
In fin dei conti doveva solamente mostrarsi solare, garbata e prestare
attenzione a quei discorsi frivoli e patetici di quella sciocca
ragazzina
viziata!
Non era poi
così difficile…
Il gioco valeva la candela, e Chiara lo aveva capito da tempo, ormai.
E quindi, anche quella domenica pomeriggio, si era ritrovata a dover
offrire
ospitalità a Francesca, preparando un caffè molto
più aromatico del suo solito,
e offrendole gentilmente stuzzicanti dolcetti di marzapane e frollini
fatti in
casa. Per l’occasione, aveva anche preparato il miglior
servizio di porcellana
che custodiva gelosamente nel ripiano più in alto della
credenza. Ora non le rimaneva altro che donarle
uno dei suoi sapienti
e accomodanti sorrisi al limone, mostrandosi quanto più
amabile e pronta ad
ascoltare ancora una volta la sua tremenda voce gracchiate.
«Ah!
Meno male che posso sempre contare su di te! Sei
davvero un’amica!» esclamò entusiasta
Francesca, sorseggiando il suo caffè
bollente.
Chiara, dal canto suo, avrebbe preferito optare per una
risposta molto più diretta e sincera, come ad esempio: "sei
davvero
insopportabile! Non ti sono amica nemmeno un pochino, sia chiaro! Se
poi, per
amica intendi una che ti punterebbe volentieri un coltello fra le
scapole,
allora siamo davvero amiche!”
Fortuna però, che la razionalità di Chiara era la
sua miglior compagna di vita,
e così, nascondendosi ancora una volta dietro ad un sorriso,
proferì dolci
parole di zucchero oscurando del tutto i suoi pensieri.
«Figurati! Non ho fatto davvero nulla di particolare. Sei
un’amica preziosa per me, è naturale che mi
preoccupi per la tua salute e
m’interessi dei tuoi problemi. Sei sempre la benvenuta in
questa casa!» Al
termine di quelle sue parole non poté non notare una leggera
e volubile
commozione negli occhi un po’ arrossati di Francesca. E senza
aggiungere altro,
si lasciò abbracciare dolcemente, cullandosi in quel calore
velenoso che sapeva
sempre farla sogghignare all’ombra di sguardi indiscreti.
Dio, come si
sentiva potente in quegli attimi! Aveva il
mondo ai suoi piedi!
E quella sciocca sgualdrina perennemente vestita in rosa, proprio come
la peggior
Barbie che i suoi occhi avessero mai incrociato, era solo
l’ennesima preda che
il destino le aveva servito su un piatto d’argento.
L’agnello sacrificale.
Un’insignificante sacrificio per accomodare gli Dei del
Cielo. E più il calore
emanato dal corpo di Francesca si scontrava sulla pelle sempre un
po’ fredda di
Chiara, più il piacere che sgorgava dal suo cuore corrotto
dall’oscurità
aumentava vertiginosamente.
Le sue piccole mani candide stringevano con impeto quel
corpo ricoperto di carne succulenta, privandolo un po’ alla
volta di quel
calore invitante e facendolo immoralmente suo. Chiara si sentiva in
paradiso.
Interminabili
note di violino si disperdevano nell’aria.
Una sinfonia armoniosa e pregna di malinconia assalì il suo
corpo, torturandolo
dolcemente. Stava manovrando con sapiente maestria
quell’ennesima bambola di
carne.
La faceva danzare sino a farle perdere il fiato nel suo roseo giardino
fiorito.
Oscurando e mescolando verità e menzogne, fingendo di non
sapere cosa fosse
reale e cosa no, continuando a confondere sempre i suoi pensieri,
Chiara non
riusciva ancora ad avere fiducia in sé stessa.
Era diventata
brava a narrare frottole, era diventata una
nobile stratega, e ormai affrontava la vita come una grande partita di
scacchi,
dove ogni pedina prendeva vita e studiando l’avversario con
astuzia, riusciva
sempre a fare la mossa che più le conveniva, mangiando la
pedina avversaria
ogni qualvolta riuscisse a fare scacco matto. E nonostante questa sua
incredibile vocazione, ancora faticava ad ascoltare la voce nascosta
del suo
cuore.
Tramutandosi nel
leone che aveva sempre desiderato essere,
aveva perso sé stessa. Aveva abbandonato i suoi sentimenti e
ogni tipo di
emozione che assomigliasse all’affetto e all’amore.
In passato era stata
tradita, e il dolore era ancora troppo grande per poter credere in un
mondo
dalle sfumature limpide e vivide come i caldi colori
dell’estate.
Aveva tradito ogni suo principio, rifiutando la compassione
e allontanando l’amore. Ed ora si sentiva felice.
Sorrideva, gioiva e piangeva,
alle volte l’una non escludeva l’altra! Era folle e
sgargiante quanto Arlecchino!
Attirava l’attenzione di tutti, e regalando dolcezza celava
la sua codardia,
fingendosi forte e indomabile.
Continuava a
camminare come un’equilibrista, perennemente in
bilico fra terra ferma e mare, facendosi forza con le sue sole ossa. Il suo cuore stava
inesorabilmente morendo,
ma la sua mente stava finalmente assaporando la gioia di vivere.
Continuava a vacillare, cadendo nell’oscurità
più assoluta, ma anche così, non
si perdeva d’animo, e agguantando quell’unica
certezza – confidando che mai
nessun’altro avrebbe potuto distruggere un giocattolo
già rotto – continuava
imperterrita a camminare, correndo ti tanto in tanto.
In quel luogo,
dove Chiara si sentiva a disagio persino nel
respirare, tratteneva il respiro, rifiutando persino l’aria,
annientando
l’immagine della vera sé stessa che stingeva un
poco alla volta. Era finalmente
serena.
Poteva essere come desiderava, poteva non aver paura delle
tenebre, poteva dar vita tranquillamente a quella parte tenebrosa di
sé stessa.
Poteva essere ciò che aveva sempre desiderato. E senza
accorgersene, continuava
a versare lacrime oscure, cariche di orrore, come se ridesse a
crepapelle e
sorrideva senza sosta, come se piangesse a gran voce. Più
diventava brava a
dire bugie e a trovare scuse, più desiderava la freddezza di
un abbraccio
eterno.
Nell’utopia
silente, l’avvenente fiore della discordia brillava
aggraziato quanto una
stella nel cuore della notte. Dolcemente, prosperava solitario,
cibandosi dei
più meschini fiori che sciaguratamente avevano desiderato
stargli accanto,
regalandogli quella rara bellezza eterea e quel dolce nettare vitale
che
scorreva nel loro fragile stelo. Macchiandosi di peccato recideva la
vita
altrui, facendola sua un poco alla volta, inesorabilmente.
Il fiore della discordia germogliava con ardore non
solo nel giardino, ma anche nel cuore di quella dolce ragazzina che
anni prima
aveva strappato alla bontà, corrompendola con il suo fascino
al veleno. Primo o
poi anche quella ragazzina sarebbe stata completamente sua.
© LADY ROSIEL/ Luna
Azzurra
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