XAVIER!

di amirarcieri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione. ***
Capitolo 2: *** “E fu così che il destino ci fece ***
Capitolo 3: *** -E lei chi è? -Diana! Un'amica. ***
Capitolo 4: *** Quel giorno è adesso. ***
Capitolo 5: *** I tatuaggi. ***
Capitolo 6: *** Per sempre il suo bambino. ***
Capitolo 7: *** La ragazza con il vestito blu e i capelli caramellati. ***
Capitolo 8: *** Hylda. ***
Capitolo 9: *** Ti obbligo a farmi dire una verità. ***
Capitolo 10: *** La franchezza non vuol dire sempre giudicare. ***



Capitolo 1
*** Prefazione. ***


Prefazione

 


 

Scesero dalla macchina e varcando la soglia del giardino, si arrestarono davanti al portone che rimasero a contemplare immobili.
Avendo appena smesso di piovere, i residui di gocce d'acqua colavano a intervalli da un tetto all’altro, interpretando la melodia di una musica singolare.
Mentre il cielo acquisiva una tonalità grigia che si approssimava al celeste, il leggero vento smosse le loro chiome, ma erano talmente carichi di tensione da non riuscire neanche a realizzarlo.
Finalmente il momento costantemente atteso da entrambi, era lì, dinanzi a loro, pronto a farsi ricevere.
Il loro cuore si completava al solo pensiero che ad aspettarli oltre quella porta ci fosse l'ultima cosa che aveva atteso di essere trovata e che loro avevano smesso di cercare.
Lo voleva Diana. Lo voleva Wyatt. E lo voleva anche la persona che nel profondo di se stesso l'aveva chiamato inconsciamente per tutto il corso degli anni passati fino ad oggi.
Diana afferrò istintivamente la mano di Wyatt, trovando in quel gesto il suo equilibrio istantaneo.
Quello che si lasciavano alle spalle era un intenso percorso che gli aveva consentito di guarirsi da quei mali permanenti di cui erano state dolcemente tormentate le relative anime e scoprire in loro qualcosa di idoneo per il quale valeva la pena mettere in gioco anche l'ultimo frammento di cuore.
Emettendo degli eccessivi sospiri tirati dall'ansia, Diana mosse la mano in direzione del campanello mentre i suoi occhi si spostavano alla figura di quest'ultimo.
Wyatt, serio in volto, gli accennò un movimento della testa incitandola a premere, e lei, tra le sue pupille che adesso riusciva a vedere per ciò che davvero erano, colse l'unico stimolo che in quel momento mendicava il disperato bisogno di avere: la fermezza.
Diana emise ancora una volta un sospiro, stavolta più rilassato, decidendosi a premerlo per una sola volta. Nel più cordiale dei silenzi, attesero che qualcuno si apprestasse ad aprirgli.
Quando la porta cominciò a dischiudersi, entrambi pazientarono con il cuore in gola che si spalancasse del tutto.
Perché quella non era una porta qualunque.
Quella porta avrebbe segnato la fine della loro logorante ricerca, rinnovando l’immacolata traccia del loro prossimo futuro.
La porta raggiunse il suo limite e mentre la sagoma che si trovava dinanzi a loro prendeva forma, il tramonto di un giorno ormai andato, era pronto ad accoglierli in una nuova vita a loro del tutto ignota.

 

NOTE AUTORE. E si, non vi sbagliate. Sono proprio io con una vecchia/nuova originale. 
Perché Vecchia nuova direte voi? Perché l'ho scritta qualche anno prima e come FF in un momento definiamolo particolare della mia vita. 
E niente, spulciando tra i miei vecchi lavori ho deciso di ripostarla come originale e quindi condividerla con voi. 
La storia (completa) è composta da quindici capitoli e ho deciso che la aggiornerò ogni settimana.
Spero vivamente che la apprezziate. 
Vi aspetto, alla prossima. Ciao, ciao. 

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Capitolo 2
*** “E fu così che il destino ci fece ***


CONSIGLIO: durante le lettura della storia vi suggerisco (se volete ovviamente) di ascoltare queste due canzoni degli Electric Guest perché sono la colonna sonora (la musa ispiratrice) che ha contribuito a scrivere la storia. 
Electric Guest - Over [https://www.youtube.com/watch?v=2Efdzu_eiWQ]
  Electric Guest - Jenny  [https://www.youtube.com/watch?v=YY-teYKUXpQ]



Capitolo uno

 

E fu così che il destino ci fece accidentalmente incontrare"


 

 

Le strade di Londra erano sempre sovraffollate di gente.
Che sia stato d'autunno o d'estate le vie di qualsiasi svincolo erano sempre traboccanti di svariate società che sgambettavano da un negozio all'altro, in continua ricerca di qualcosa su cui investire i propri bigliettoni.
In uno dei tanti negozi che offriva una molteplice varietà di beni, una ragazza era intenta a pescare un nuovo romanzo da divorare nelle ore cariche di apatia.
Di media statura, dotata da una criniera di boccoli definiti color ciliegio, un corpo prosperoso e due occhi bui e grandi, era una ragazza introversa e timida, ma se intuiva che la persona davanti a lei risplendeva totalmente di lealtà, allora, si tramutava nell'esatto opposto.
Si trovava in terra straniera per completare il suo anno sabbatico con l'ultima meta da sogno della sua lista dei desideri. Al suo ritorno in Italia - perché era Italiana e con più precisione Toscana - avrebbe dovuto sapere chi voleva essere e decidersi a prendere in mano la responsabilità del suo futuro, ma per adesso si sarebbe solo goduta ciò che la vita presente le offriva, senza stare troppo a riempirsi la testa di complessi e rovinarsi il viaggio come i due bagagli ricolmi di oggetti che aveva.
La ragazza, percorreva tutta la catena dei libri seguendo le testate appartenenti a ognuno di loro, quando, forse, uno riusci ad ottenere la sua attenzione.
Impaziente, lo prese e cominciò a sfogliarlo mentre nel tempo stesso riusciva a captare qualche frase da lui posseduta.
Passò poco che si ritrovò a leggere la sua prefazione, ma proprio in quel momento, il suo occhio destro si voltò involontariamente per uno scatto di secondo, percependo una forte chiazza rossa.
Lei odiava il rosso. Urtava radicalmente il suo sistema nervoso visivo, eppure si sentiva pizzicare la testa.
Come se qualcosa la stesse istigando a voltarsi verso quella direzione e come se fosse di suo obbligo vedere chi la stesse indossando.
Quindi lo fece. Sbirciò.
Lasciandosi corrompere dalla curiosità, posizionò il libro fin su al naso dando agli occhi la libertà di agire, ma non appena i suoi occhi misero a fuoco la figura che stavano vedendo, l'unica cosa che riuscì a pronunciare fu.
«XAVIER!» la sua esclamazione oltre ad essere rivolta al ragazzo davanti a se, era incentrata sopratutto a se stessa, ancora incredula a ciò che stava guardando.
Il ragazzo dalla chioma castana studiatamente scompigliata e gli occhi ambra, a suo discapito, scioccato, roteo gli occhi a destra e sinistra.
«Che ci fai qui?» continuò a chiedergli, emettendo una risata nevrotica. I suoi occhi luccicarono di dolore.
«Scusa?» domandò il ragazzo scioccato peggio di prima. La ragazza chinò la testa smarrita e fu proprio in quell'istante che capì di aver fatto una ciclopica gaffe.
Lui non era Xavier. Era solo un ragazzo che gli somigliava in maniera eclatante.
Che poi somigliare. Somigliare era solo una piccolezza.
Quello era lui che si era sdoppiato e aveva la facoltà di stare contemporaneamente in due posti diversi.
E poi ragazzo. Ragazzo era solo una generalizzazione.
Lui non era un ragazzo qualunque. Lui era Wyatt.
Un componente del famoso duo musicale che stava avendo un successo planetario: gli “Heart sounds”.
«Oh mio dio scusami! i..io devo averti scambiato per qualcun altro» disse filandosela e lasciandolo lì come un salame.
La ragazza fuggì dal centro commerciale sfrecciando come un fulmine per tutto il tragitto della via.
Il primo vento di settembre si rivoltò contro di lei appannandogli gli occhi e costringendola a coprirsi con la sciarpa di lana bianca. Mentre camminava tra la gente, poteva avvertire l'umiliazione nello specchio degli occhi di ognuno di loro.
Si sentiva terribilmente in imbarazzo. Derisa da se stessa e la sua ostile ossessione.
Ma poi di cosa cavolo si stupiva d'altronde?
Doveva aspettarsi una reazione del genere dal suo organo situato al centro del petto.
In una sua inverosimile fantasia in cui avrebbe incontrato Wyatt, aveva costantemente sottolineato il fatto che lo avrebbe chiamato Xavier.
Era stato così fin da quando l’aveva visto per la prima volta in un’intervista del notiziario mattutino o sulla copertina di una rivista per teenager.
Perché per lei Wyatt non esisteva. Per lei Wyatt era Xavier. Il ragazzo per il quale aveva preso una bella tuonata. E forse anche qualcosa di più.
Soffocata dall’ansia, si voltò una, due volte, per controllare se qualcuno avesse notato il suo atteggiamento ambiguo, e finì così per notate una sagoma farsi spazio tra le altre.
«Aspetta!» udì subito dopo. Diana si voltò nuovamente, arrestando la sua corsa, trovandosi faccia a faccia con Wyatt.
I loro occhi - entrambi eccitati uno dalla corsa fatta, l’altra l’impatto della sorpresa - si saldarono l'uno all'altro come due calamite che si attraggono con la loro spaventosa forza di gravità.
Per ancora una volta, la ragazza, guardandolo, non poté fare a meno di pensare che dinanzi a lei ci fosse Xavier. Era una dipendenza più forte di qualunque altra.
E ora la sua vista partiva a sbiadirsi. E il rimpianto insieme al dolore riemergevano.
E quella sua dolce tortura, ricominciava a dimorare in lei.
«Senti, io sono una r***********a colossale ok? Quindi non badare a ciò che ho detto. Sono priva di senno» gli comunicò questa scuotendo la testa per cercare di scacciare quel suo tormento.
«Io in realtà volevo invitarti a pranzare con me» notificò l’altro con un sorriso brioso stampato sulle labbra. Le sopracciglia di Diana controbatterono confuse ancor prima che lei parlasse.
«Okay? Ora quello ad essere uscito di senno sei tu» 
«Si forse sto cominciando, o forse, già lo sono!» sdrammatizzò Wyatt intrappolandola ai suoi efficaci occhi ambrati. 
«Allora accetti?» le richiese cominciando a farne scemare il brillante sorriso da divo cantante. La ragazza evitò il suo sguardo e voltandosi a destra esibì un. 
«Se proprio insisti»

 

//////////////////

 

 

Wyatt la portò in un ristorante non troppo di lusso, ma neanche misero. Era quel che bastava.
Reso caloroso mediante le luci soffuse dei lampadari sgargianti ed elegantemente appartato con un'arredamento in legno di mogano associato al rosa confetto della stoffa delle sedie e tende, tutt'intorno conteneva un'atmosfera pacificamente altolocata.
Proprio quel che serviva a loro per poter conversare in tutta tranquillità senza rischiare di essere colti dai volgari obbiettivi dei paparazzi.
«Quindi? Perché siamo qui?» chiese Diana diretta, subito dopo aver fatto le ordinazioni reciproche. Era improbabile quanto il loro incontro che l'avesse invitata a mangiare caviale per rimorchiarla.
«E il tuo nome sarebbe?» domandò Wyatt passandosi l’indice sotto il mento coperto da un accenno di peluria. Gli piacevano gli enigmi e aveva già capito che quella ragazza sarebbe stato uno interessante da scomporre. 
«Diana» adattò questa infastidita. Odiava quando alla formulazione di una sua domanda riceveva la risposta di un'altrettanta domanda.
«Diana» ripeté con la sua stessa intonazione.
«Quindi?» Diana stava spendendo gli ultimi secondi di pazienza. E poi sapeva che alla radice c'era qualcosa di succoso per il quale voleva conversare. Lo riusciva a leggere tra i suoi occhi stupefacentemente ambrati.
Erano proprio identici a quelli di lui: limpidi e ammalianti come un bicchiere di vetro pieno di Wisky.
«Tu hai detto "XAVIER"» Wyatt si apprestò ad arrivare finalmente al punto, ma quel nome rese Diana ancora una volta ansiosa.
Tant'è che la sua mano, fece precipitare inavveduta il cucchiaino sul pavimento.
«S..scusami!» si scusò turbata dall'accaduto mentre si apprestava a raccoglierlo. 
«C..comunque si! L'ho detto!» riconoscette poi con forse troppa decisione.
Era puntualmente così.
Al richiamo del suo nome, tutto il suo corpo aveva un effetto che per quanto strano poteva risultare alla vista, il cervello riusciva a decodificare facilmente da che causa derivasse.
«Questo ragazzo» proseguì e lo guardò.
Wyatt rimase ad osservarla in attesa che continuasse a parlare.
Diana sbuffò. La sua calma impassibile la spazientiva.
«Questo ragazzo è sputato a te. Cioè tu sei sputato a questo ragazzo che conosco. Siete praticamente due gocce d'acqua» ormai la lingua le si era sciolta e faceva sembrare quelle sue confessioni degli sciocchi vagheggiamenti.
«La stessa fisionomia, gli stessi movimenti e atteggiamenti. Le sigarette, e poi quei vostri usuali silenzi e gli sguardi persi in pensieri reclusi al resto del mondo» Diana stilettò gli indizi che li accomunava, scatenando l’interesse di Wyatt a tal punto da fargli spostare l’indice sulla guancia incavata per concentrarsi meglio.
«Devi scusarmi! Lo so, non è una cosa normale e forse è anche un'oltraggiosa ingiustizia verso i tuoi confronti» Diana lo fissò ancora una volta, trovando conferma a ciò che stava per dire.
«Io ogni volta che ti guardo vedo Xavier. Xavier, e nessun altro» la sua rivelazione gli trasmise un singhiozzo istantaneo e passò poco che le sue lacrime cominciassero a fuoriuscire, ma aveva imparato a convivere con questo suo dolente aspetto. Aveva attribuito a se stessa la facoltà di ricacciarle lì, nell'esatto posto da dove erano partite.
«Oh scusami io...» ultimò nascondendosi all'interno delle sue gracili braccia.
«Lo so! pensi che sia matta» le sue parole sembravano più un muggito che lettere di una lingua umana.
«No!» Wyatt scosse la testa facendo ricadere pigramente il ciuffo laterale sulla palpebra sinistra.
«Lo penserei se non credessi a ciò che dici» annunciò veritiero. La sua espressione non era rimasta per tutto il tempo immutata perché era paralizzato dallo shock, ma perché grazie ai suoi ragguagli ogni pezzo irrisolto della sua vita cominciava a combaciare con gli altri. «S..stai dicendo che pensi anche tu» Diana assunse una posizione eretta sulla sedia.
«C..che voi potreste essere davvero» gli si mozzò il fiato a dover pronunciare quella definizione.
«Gemelli» definì poi lui con quella sua calma innaturale.
«Io stavo per dire fratelli» ribadì lei delusa. Wyatt si voltò verso la facciata che si esponeva davanti a loro e da lì cominciò a perdersi tra i suoi pensieri.
Messo com’era, ovverocon la parte superiore del viso nascosta dal ciuffo,mostrava solo il profilo del naso greco e le labbra carnosedelimitate dalla barba rada che ne celava la mascella squadrata.
Praticamente spiccicato al “gemello”. Pensò Diana.
«Non lo so! Ci sono cose che non sono al posto giusto e altre che non combaciano. Buchi che perdono acqua da tutte le parti e domande che mi faccio da troppo tempo che non ho mai condiviso con nessuno» Wyatt aveva sempre avuto quest'interrogativo. Perché percepiva di una qualche verità che era stata occultata, sopratutto quando varcava la soglia di casa. Per quanto poteva essere accogliente e il luogo dove aveva mosso i suoi primi passi, rivelava un'aria dotata da una forte carica di nebulosità. Come se anche se avesse voluto affacciarsi oltre quella nebbia, fosse impossibilitato da qualcuno che lo spingeva nuovamente alla cecità.
«E io sarei quella giusta?» gli domandò l’investigatrice numero uno, malgrado fosse scettica al riguardo.
«Diciamo» rispose l’aiutante, mentre spostava le labbra da una parte.
«Il fatto è che io non credo di essere il figlio di mio padre. Mia madre mi nasconde qualcosa» gli confidò a seguito e fu come se avesse gettato un accendino su una squadrata pozza di benzina. 
«A volte mi guarda così addolorata. Come se mi volesse dire qualcosa, ma non lo fa per paura di distruggere l'armonia che lega la nostra famiglia» aggiunse tornando a voltarsi verso lo scenario che si presentava al di fuori del ristorante.
Proprio allora, quasi a voler appurare l’attendibilità delle sue parole, davanti a loro passò una famiglia: il padre che teneva il proprio figlio in braccio e la mamma che portava a spasso il suo gemello nel passeggino.
Gli occhi di Wyatt si riempirono di una venefica tristezza. 
«Altre volte, invece, sento che mi manca qualcosa. Non un padre, ma una parte di me. E’ Come se questa parte di me mi chiamasse ininterrottamente, volesse essere cercata, raggiunta ed infine ricongiunta a quella sua parte perduta dalla quale è stata privata fin dalla nascita» al di là dell'universo, del cielo e il mare, sotto la stessa copertura, in un punto esatto del pianeta Wyatt sapeva che come lui qualcuno, in quel preciso istante, stava avvertendo le sue medesime emozioni.
Lo sapeva perché c'erano volte nelle quali percepiva determinate sensazioni che non si adeguavano per niente alla sua circostanza in cui si trovava. 
E Quella era la caratteristica che distingueva i gemelli dai comuni fratelli.
«Credi davvero che tua madre possa privarti di una cosa tanto importante?» domandò Diana.
Detestava i genitori che nascondevano ai propri figli segreti di questa importanza, e se sua madre era stata in grado di mantenere questo segreto per dei lunghi e estenuanti anni, allora, di certo, aveva imparato a convivere con quel sentimento chiamato rimpianto.

«Non sto dicendo che mia madre è una vigliacca o peggio ancora una s*****a. Dico solo che lei sa» ammise l’altro sicuro. L’amore che provava per sua madre era intoccabile.
Fin da piccolo l’aveva sempre trattato come un piccolo principe, ma era stata sopratutto quella sua troppa apprensione a fargli originare quelle sue immutabili domande. Era quasi come se ogni volta, con quei piccoli gesti, implorasse il suo perdono.
«Scusami ma se hai avuto da sempre questi dubbi, perché non hai cercato di parlare prima con lei?» la domanda di Diana era più che lecita e lui se la aspettava.
«Non ero sicuro! Cioè! È una cosa che non sta ne in cielo ne in terra» il suo collo si tese quando vide Diana emettere una risata nevrotica.
«Perfetto. Allora sono davvero matta» gli lesse negli occhi. Ma non era questo quello che voleva intendere.
«Sopratutto se non si hanno prove» cercò quindi di riparare Wyatt.
«Poi ho notato che su Twitter molti ragazzi e ragazze non facevano altro che alludere alla sconvolgente somiglianza tra me e un certo ragazzo» andò avanti liberando una risata sarcastica per beffarsi della vita. 
«È incredibile! Proprio oggi avevo deciso di andare a parlare con lei, ma continuavo a credere che fosse una grandissima c*****a»
«Poi però, proprio oggi, guarda caso hai incontrato me, e li, non hai avuto più dubbi» concluse lei accertata dal fatto accaduto qualche minuto fa.
Wyatt acconsentì con un cenno deciso della testa.
«Allora che farai? Andrai?» domandò Diana mentre si voltava per rivelare a che punto fossero le loro ordinazioni. Dopo si rivoltò verso di lui e lo vide con le sopracciglia aggrottate.
«Andrai?» le disse contrariato. Diana inarcò le sopracciglia disorientata.
Ma le bastò un solo frammento di secondo per poter apprendere la causa della sua espressione e quando Wyatt concepì che ci fosse arrivata, sollevò le sue nella maniera inconfutabile che tutti conoscevano.
Quella che usava al posto della famosa frase “i'm sexy and know it”.
«Oh! No! Te lo puoi scordare» esclamò questa terrorizzata.
«Io non mi ci immischio dentro questa storia, perché mio caro, ho un valido motivo» si scagionò a braccia incrociate e testa sprezzantemente sollevata.
«S...sono qui in vacanza, d..di conseguenza sono venuta qui per cazzeggiare alla grande. Capisci cosa intendo vero?» dopo quelle eloquenti parole, Diana era sicura che l'avesse avuta vinta, ma il sorriso fanfarone di Wyatt le mise un dubbio in testa.
«Si! So cosa intendi, ma guarda che la colpa è solo tua! Sei stata tu a metterti dentro tutta questa storia» la mise risolutivamente alle strette Wyatt.
Diana spalancò la bocca scioccata. Aveva ragione ancora una volta lui. Il suo ragionamento non faceva una piega e le sue infantili giustificazioni erano state appena schiacciate da quest'ultimo.
Era stata lei. Lei a mettersi in questo maledettissimo casino. Dal momento in cui aveva esclamato il nome “XAVIER!”, era automaticamente entrata a far parte delle loro vite anche se non direttamente.
«Si! E tutta colpa mia!» confermò poi lei abbattuta.
«Anche se non del tutto» aggiunse poi lui per fare sbollire la sua corrente malinconia. E non seppe neanche come mai.
«Io non sono un grande lettore e sinceramente ero li per ricominciare a sperimentare questo mio lato intellettuale» gli spiegò filato. Diana allora intuii cosa stesse cercando di dirgli Wyatt. La colpa non sarebbe mai stata di nessuno dei due perché ad esserlo era solo quell'eccentrica essenza che nessuno avrebbe mai compreso, ma che tutti sapevano che ci fosse.
Quel bambino capriccioso che giocava con le anime delle persone muovendoli come se partecipasse ad una partita di scacchi: il destino.
«Doveva andare semplicemente così» delineò lievemente esterrefatta dalla verità appena scoperta.
Wyatt si alzò di scatto dalla sedia riportando Diana nel mondo reale.
«A..aspetta, e il pranzo?» era sinceramente dispiaciuta. Anche perché aveva accettato il suo invito proprio per questo. Per scroccargli uno di quei pranzi sofisticati che non era mai riuscita a vedere neanche a due millimetri di distanza.
«Tranquilla! Mia madre ce ne darà una più deliziosa e sana» le garantì Wyatt con un sorriso accennato mentre con la mano poggiava sul tavolo delle banconote.
«Certo che sei proprio strano tu!» Diana lo inchiodò ad una guardata lieve. Di certo essere famosi voleva dire anche questo. Buttare soldi a destra e manca senza alcun motivo ed essere riconoscenti di qualcosa senza averlo avuto.
«Anche tu lo sei e molto più di me» ribatté lui ridendo argentino.
Insieme si avviarono alla prima meta che avrebbe verificato le teorie appena ipotizzate e dato loro il percorso per una nuova destinazione.



NOTE AUTORE: ciaoooo come butta? Eccomi tornata con il secondo/primo capitolo della storia come promesso. 
Beh, allora, che ve ne pare di questi due protagonisti? Promettono bene? E delle situazione di Wyatt? Ha ragione lui? O stanno solo vaneggiando entrambi? E del piccolo difettuccio di Diana? Approfondirò su moltissime cose già presente in questo capitolo e capirete molte cose. In pratica, com'è ovvio scoprirete tutto solo leggendola. Altro che ho da dire è che forse cambierò il titolo della storia in "Over" come appunto la canzone. Devo pensarci però. E poi vorrei cambiare un'altra cosina, ma devo pensarci sempre a fondo. Vedrò e vi aggiornerò.  Ah, e per quanto riguarda la canzone Jenny invece vedrete che sono riuscita a metterla in mezzo alla storia e in una maniera molto importante.Vedrete, vedrete...
Quindi niente...alla prossima. Vi aspetto e ringrazio chi mi aggiungerà alle preferite, seguite o ricordate, chi ha recensito, e chi lo farà e chi legge in silenzio. 

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Capitolo 3
*** -E lei chi è? -Diana! Un'amica. ***


 

Capitolo 2

"-E lei chi è? -Diana! Un'amica."


 


 

Camminarono per un tratto di strada corto e quando Wyatt vide la macchina sollevò il braccio con lo scopo di segnalare la sua presenza all'autista.
«E lei chi è?» interrogò l'autista sorpreso. Non rimembrava la minuta figura della ragazza ed era più che certo di vederla per la prima volta.
Wyatt stava per pronunciare il suo nome, ma Diana lo anticipò.
«Diana» disse porgendogli la mano.
«Come andiamo?» aggiunse trattandolo come se fosse uno zio venuto dall’altro continente. L’autista guardo Wyatt scombussolato.
«Lei è Diana» ribadì questo scuotendo la testa come per dire «E’ Diana che vuoi farci?»
«Si! Già! Ma può venire con noi?» si accertò l'auto - amico riferendosi forse al suo aspetto esteriore che si mostrava con la fisionomia di una diciassettenne.
«Già! Ma quanti anni hai?» le domandò Wyatt intrigato. l'auto - amico gli mise quel dubbio in testa. Diana sollevo la testa dal cellulare che aveva appena preso e con un’intonazione pungente replicò.
«Diciamo che sono tua sorella maggiore. Ok? Così ti va bene?» capirai quanti scrupoli si sarebbero fatti se avesse avuto diciassette anni. L'avrebbero per caso scaricata sull'autostrada?
«Mi va bene!» ripeté Wyatt facendo spallucce.
«E com'è che sai parlare e capisci così bene l'inglese?» la domanda del giovane famoso cantante era nata per curiosità, ma anche diretta ad avere qualche succosa informazione sul suo conto.
«Scuola, corso serale e anche un pizzico di talento» si vantò velatamente lei.
Poi la macchina partì e Wyatt allungò la mano verso la radio.
«Oh questa è curiosa! Sono davvero impaziente di scoprire che musica ascoltate voi» si entusiasmò Diana, ma non appena pronunciò l'ultima vocale, avvertì che ci fosse qualche nota discordante.
«Cioè, mi sono espressa male! Volevo dire: non dirmi che durante un viaggio in macchina gli artisti che ascoltate siete voi stessi! Perché è una cosa alquanto ridicola!» adesso si che suonava proprio come doveva essere.
«È ridicolo» commentò Wyatt leggermente agro.
«Cosa che ascoltiate voi stessi o quello che ho detto?» l’espressione di Diiana si mutò in qualcosa di assolutamente innocente.
«Tu che musica ascolti?» anziché rispondere, Wyatt le fece una domanda eco.
«Mi piace lo stile di Katy Perry» nel dirlo il sorriso di Diana si allungo fin su alle orecchie e nel suo sguardo si generò una distesa celeste dove si potevano perfino contare la quantità di stelle in suo possesso.
«Io la adoro» Diana era fan di Katy Perry da ormai due anni. Non la riteneva un'artista dal talento innato solo per ciò che era, bensì perché le sue canzoni contenevano una scarica di positività inesauribile.
Le sue canzoni avevano il potere di trasmettere quell'emozione chiamata speranza. A far realizzare che credere nei propri sogni non era stupido, ma equivaleva semplicemente al vivere.
«Lei è, una grandissima artista» la riaffermazione del cantante aveva avuto una modesta accentuazione di perversione.
Diana assottigliò lo sguardo come a giudicarlo mutamente.
«E questo rimarcato apprezzamento alluderebbe a qualcosa di più oltre a quello che si è già visto?» Amando l’artista, era immaginabile che Diana seguisse anche i profili Twitter dedicategli.
E quei due, i favolosi Heart sounds”, comparivano nella qualunque notizia ed evento in cui andava Katy Perry.
Lei sapeva che i tre avevano un rapporto molto intimo – voci a parte che narravano di loro flirt improponibili – ma loro aveva giustamente evidenziato che si trattasse di semplice amicizia professionale. Prescindendo dalle selvagge bevute ai karaoke. 
«Comunque lei è fottutamente brava» lo corresse dopo assumendosi l'identità di un gangster.
«Oh! Oh!» i due - Wyatt e l’autista - si fissarono con un espressione esaltata sul volto.
«Credo proprio che tu hai trovato la tua Great Girl»
«Yeah! Sei la mia “Great Girl"» avvalorò mentre ancora soffocava una risata divertito dalla virilità di cui la ragazza era in padronanza.
«E tu il mio “pink dimples"» amorevolmente Diana, gli associò il soprannome che aveva dato al suo forse gemello.
«Umh!» ci fu un leggero dissapore da parte di quest'ultimo.
«Sa di infantile» lo bocciò arricciando il naso.
«No! Sa di miele» lo zittì lei con un'altra dose esagerata di zucchero.
Poi finalmente quel suo dannato dito raggiunse il tasto di accensione.
Quando Wyatt lo premette lasciarono che il fantasma di Michael Jackson li conquistasse per ancora una volta tramite radio. Le note della canzone erano morbide e man mano che la musica scorreva, la loro rigorosità si alzava di qualche scala.
Diana si spostò alla sua sinistra e perdendosi nei tratti di quella grossa scia grigia.
Stimando il principio prendendo come esempio Michael Jackson, realizzò per la cinquantesima volta quello che già aveva appurato da un po’: i soldi non facevano la felicità.
Cantanti e attori arci miliardari si inabissavano nella vastità della fama mostrando al loro pubblico solo la parte lingottata di gloria, ma alcuni, isolati nelle loro camere di albergo o case, penavano di dipendenze e percussioni mentali che la maggior parte delle volte ne spezzavano le giovani vite.
Per quei due, ancora adolescenti e catapultati nell’alluvione della popolarità sembrava tutto così meramente incrollabile.
Producevano canzoni come se fossero alberi di arance. Vivevano come ogni loro giorno fosse l’ultimo e la loro anima immortale.
Per non esprimersi sulla nota dell’estetica: Wyatt il caldo. Noah il freddo.
Si erano fatti lo stesso taglio addizionandoci una sofisticata decolorazione argentata e broux colpevole di svenimenti a rotta di collo.
Anche se a Diana apparivano uno come il cosplayer di Jack Frost pre quinto guardiano, l’altro Jack Frost post quinti guardiano.
A capirgli gli artisti. Si disse Diana.
Esiliandosi da tutto il resto, entrò per qualche ora, in un mondo parallelo alla terra.
«Allora perché l'hai portata con te?» l'autista proferì parola solo dopo aver sbirciato dallo specchietto e visto la ragazza dormire.
«Lei è la persona che stavo cercando» Wyatt guardava fuori dal finestrino perso nel pensiero del suo gemello. Diana aveva detto che anche lui spendeva parte del suo tempo fisso su pensieri costanti, forse come lui, si chiedeva da cosa derivasse quel senso di vuoto che non riusciva a riempire con nessun metodo.
Nemmeno con i comuni vizi proibiti che una persona si passava generalmente per sopprimere quel struggente senso di mancanza.
Vizi spesi principalmente a distruggere se stessi e il proprio corpo, nonostante sapessero che l'unica cura fosse proprio quella che continuava a chiamarli incessantemente e avrebbe continuato a farlo in eterno. Perché era una cosa che andava oltre quei confini chiamati vita e morte. Semplicemente, qualcosa che non avrebbe mai smesso di esistere.
«Ascolta Wyatt non ho intenzione di farti la paternale o prendere la posizione di un padre, ma se hai intenzione di fare qualcosa di azzardato, è bene che ti fermi a pensare per un attimo»
«Cinque anni bastano e avanzano per farti riflettere» il suo tono era stato duramente contratto dal ricordo di quei cinque anni, in cui avrebbe voluto agire, tuttavia, per delle paure che adesso gli sembravano così futili, aveva persistito a rimanere nella sua posizione ordinaria.
«Che intendi scusa?» l’auto – amico non riusciva a cogliere neanche un minimo di significato nelle sue parole.
«Se tutto va come deve andare, lo saprai presto»
«Sei strano lo sai?» l’auto amico lo guardò come se fosse pazzo.
«A volte è proprio la pazzia che ci porta davanti alla realtà» filosofò Wyatt.
Voltandosi verso Diana non poté fare a meno di accennare un sorriso.
La sua figura serena e persa tra i sensi di una chissà quale sogno, la testa posata su un braccio e le cuffie alle orecchie, gli attribuivano l’aspetto di una neonata dentro la culla anziché quella di una teppista squilibrata.
Non sapeva il perché, ma sentiva che lei sarebbe diventata qualcosa di cui non avrebbe più potuto fare a meno. Non una dipendenza, ma una di quelle persone che vuoi che a ogni costo siano presenti nella tua vita. Che ti accompagnino ad ogni passo da te fatto nel suo corso.
Wyatt avvertì il vento pizzicargli il viso e voltandosi verso il finestrino, si distese delimitando la sua vista.
Successivamente, non passò molto che Wyatt seguì Diana nel suo stesso cosmo sospeso nel mondo dei sogni.
La macchina sfrecciava sull'autostrada laddove il sole cominciava a calare. La sua luce diveniva sempre più fioca e il tramonto era lì ad accompagnarli in quel loro viaggio che sua destinazione avrebbe dato loro delle risposte a domande ancora apparentemente bislacche.





L'auto ci mise tre lunghissime ore ad arrivare a dovuta meta.
Quando toccarono terra, Diana si stiracchio le ossa in modo esageratamente eccessivo.
Per poter raggiungere l’abitazione di Wyatt dovettero proseguire dritti per un paio di case e notare che il sole avesse già lasciato il posto alla sua tanto amata sorella luna.
L'aria era serena, il cinguettio degli uccelli suonava una melodia pacifica che manteneva entrambi nel più totale dei silenzi. In quanto ancora intontiti dal viaggio.
Una volta raggiunto il cancello desiderato, Wyatt precedette Diana e appena lo aprì, fu come una tradizione in pieno agosto. Tutti i famigliari gli corsero incontro quasi fosse il santo da festeggiare.
Peccato che lui con i santi avesse poco a che fare e forse non si poteva neanche definire tale.
Però Diana riusciva a comprenderli.
Doveva essere un'esperienza dura vedersi portare via il proprio figlio da una motivazione che senza alcuna giustificazione, né ricompensa, aveva reso vero il desiderio identificativo di quest’ultimo.
Margaret era grata al suo dio per avergli dato l'opportunità di realizzare il sogno del figlio, ma rimpiangeva sempre il fatto di non poter dimostrare il suo orgoglio abbracciandolo nei momenti più significativi della sua carriera. O al non averlo più accanto a se nel divano a vedere la televisione e limitarsi a guardarlo tramite proprio quello schermo rettangolare,privata dalla facoltà di parlargli.
E poi, arrivava la parte più dolorosa che si ripeteva ogni volta.
La malinconia trovava sede nel suo cuore proprio in quel momento. In Tutte quelle volte che lo accompagnava alla soglia del portone lasciandolo andare incontro alla sua aspirazione.
Margaret seguiva la macchina finché non fosse scomparsa, e sempre lì, attendava il suo ritorno che avvolte avveniva dopo mesi di tour promozionali.
Wyatt abbracciò le sue sorelline – più il fratellino - e diede uno smacco alla spalla del padre facendo intuire quanto anche lui ricambiasse il loro sentimento. Per ultima lasciò la madre.
«Figlio mio» Margaret lo strinse forte a se lasciando che i loro cuori comunicassero silenziosamente. Diana sentì qualcosa di caldo al cuore che la fece sentire in pace con il resto del mondo.
Vedere una madre abbracciare il proprio figlio era sempre stata una scena che l'aveva colpita. L'amore di una madre per un figlio emergeva superiore a quello degli amici, di un fidanzato e di due fratelli.
L'amore di una madre era capace di sacrificarsi per te.
Di guidarti e mostrare la futura persona che diventerai.
L’amore di una padre poteva darti e toglierti tutto.
«E tu chi sei?» fu un attimo che Diana si ritrovò sei occhi di fronte a se.
«Fai parte dello staff? Sei la sua nuova manager?» interrogò la prima sorella. 
«O la truccatrice?» fu il turno della seconda.
«N..no! i..» le due femminucce non la fecero neanche finire di parlare che subito ricominciarono con la considerazione di possibilità.
«Allora una fortunata fans! O la sua ragazza?» sbraitarono accendendo i loro occhi come una lampadina.
«Sei la sua nuova ragazza?» ripeté il maschietto. Le altre due erano ancora visibilmente sorprese da quest'ultima considerazione.
Tutte quelle domande avevano messo così sotto pressione Diana che neanche lei sapeva più chi fosse.
Quindi smosse il braccio e richiamò l’attenzione del tipetto con cui era arrivata.
«Oh, lei è» disse Wyatt e la guardò cercando un termine da addossargli mentre Diana si mordeva il labbro inferiore agitata.
«Diana» riferì movimentando il braccio verso la sua spalla per fasciarla deciso.
«Un..un'amica» stabilì. Dopodiché accostò la guancia alla sua e la vezzeggiò quasi fosse un gatto.
Quell'impensabile vicinanza per poco non la uccise.
Il suo cervello era stato annientato. I suoi occhi si erano sbarrati.
Non poteva credere che Xavier fosse praticamente addosso a lei. Suonava come qualcosa di strettamente surreale. O astrattamente reale?
Deglutendo priva di respiro spostò gli occhi a destra e lo vide ancora.
Il suo cuore malato, alla sola consapevolezza, aveva ricominciato ad emettere vibrazioni capaci perfino di scuotere il suolo sottostante e fu proprio li che Diana arrestò la sua marcia appena avviata.
Doveva fermarla. Doveva annientarla prima che raggiungesse il cervello, rendendola schiava di quei ricordi.
Ragion per cui si scansò da lui in maniera barbare e in maniera ancor più rozza lo gettò lontano da sé. 
«Hey ragazzo vacci piano! È ancora troppo presto per dire amica» quello che ci fu a seguire fu uno di quei silenzi che non si avvertono neanche al cimitero.
L'unico ad essere stato in grado di interpretare il bruto rifiuto di Diana, era stato Wyatt.
Forse quando all’ora del loro incontro lei aveva pronunciato quel nome quasi come se fosse una malattia letale, o forse, quando l’aveva udito e le sue mani si erano agitate lasciando cadere il cucchiaino dal tavolo, però Wyatt comprendeva cosa si nascondesse all'interno di quei suoi grandi occhi colmi di dolore.
E di certo, stare accanto a qualcuno che è praticamente il riflesso di quella persona che in qualche modo è stata importante per te, non era un’esperienza esemplare da augurare al prossimo.
«D..diciamo che per adesso sono solamente Diana ok?» chiarì la ragazza una volta notate le loro facce.
Margaret che aveva già visto i primi segnali di fumo che avrebbero scatenato un incendio, lasciò perdere il discorso. L'avrebbe ripreso più in là, quando tutte le argomentazioni di primo genere avrebbero trovato la loro stazione di arrivo.
«Come mai sei venuto?» gli chiese smaniosa di sentire la voce di Wyatt. Perdersi in stupide chiacchiere accorciava il tempo con il suo amato figlio e lei non ne voleva spendere ancora un attimo di più.
«Mi sono ritrovato un po' di tempo libero tra le mani e voi sapete che uno dei miei modi migliori di trascorrerlo è stare con voi» spiegò lui. 
«Si! Dai andiamo! Sarete stanchi, vi preparo una buona cena» la madre li incitò a seguirla con una mano nel contempo che apriva la porta.
Chissà quali sorprese gli avrebbe servito loro quella casa.
Entrambi vi si immersero sperando in quell'unica sorpresa accertatrice della loro sanità mentale.

NOTE AUTRICE: ma ciaooo a tutti. Eccomi qui a farvi compagnia in questa quarantena con questo mio secondo capitolo. 
L'Italia e il mondo in generale non se la stanno passando bene, ma spero che le mie storie possano darvi un po ' di serenità e staccare la spina (anche se per poco) da tutti i problemi che stanno incorrendo. 
Quindi che mi dite di questo secondo capitolo? Vi è piaciuto?  Cosa ne pensate dei pensieri di Wyatt?  E la storia in generale?
Vi aspetto con il prossimo capitolo e ringrazio tutti quelli che leggeranno silenziosamente o commenteranno. 
Grazie mille. Alla prossima.

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Capitolo 4
*** Quel giorno è adesso. ***


 


 

Capitolo 3

 

Quel giorno è adesso”


 


 


 

«Allora? Non vuoi dirci niente di te?» domandò una delle sorelle mentre portava alla bocca un boccone di pollo.
Si erano appena accomodati a tavola, ed adesso, stavano cercando di dialogare con l'ospite a sorpresa che si erano ritrovati per casa, in attesa di scoprire chi si nascondesse dietro quel suo viso da bambina.
«Ehm» Diana spostò gli occhi a destra e sinistra.
«Sei italiana vero?» chiese il padre dando peso soltanto in quel momento al suo accento.
«Si!» si limitò a dire misurata sulle parole. Diana non aveva alcuna intenzione di essere scortese o impersonare la parte della ragazza sostenuta, solo che non amava particolarmente far sapere agli altri di se stessa.
«Mi sembra di capire che sei una ragazza parecchio riservata» Margaret fu la prima ad ottenere un forte riscontro con quest'ultima.
«Mi limito solamente ad imitare quest'individuo qui» Diana lo chiamò in causa, ammiccandolo disinvoltamente.
Wyatt deglutì la sua forchettata di pollo, guardò per un attimo lei e voltandosi verso i suoi familiari come se lei non ci fosse, rispose alla sua provocazione.
«In realtà non so neanch'io niente di lei» Diana spalancò la bocca scioccata mentre lui sorrideva glorioso.
«In che senso scusa?» dissero in coro incapaci di cogliere le sue parole.
«Nel senso che ci siamo incontrati oggi» a quelle parole dette ci fu chi reagì sputando l'acqua che stava bevendo, chi rimase con la forchetta serrata alla bocca, e chi, semplicemente, aveva alzato un sopracciglio sconcertato.
Avevano sentito bene? Inteso chiaramente le parole da lui pronunciate?
Si, e non potevano riuscire a concepire una cosa tanto riprovevole.
Wyatt intendeva realmente dire che fosse una, una B***H? Una di quelle donne che vendeva il proprio corpo come carne da macello?
Certo, era vero che adesso potesse permettersi tutte le donne che voleva, comprese quelle di una notte, ma arrivare persino a portale dentro la propria casa era tutta un altra questione.
Dieci occhi si limitarono a scrutarla disgustati.
Quando poi Diana lesse i loro pensieri del tutto fuori luogo, cercò di chiarire l'accaduto.
«Ah! O no! Avete frainteso! Io, io l'ho scambiato per un altro ragazzo» il rumore di un oggetto che entrava in contatto con un altro ed ecco che i nostri investigatori per caso, si scambiarono quell'occhiata d'intesa che segnava la rilevanza di quel momento.
«Ah!» disse Margaret riprendendo la forchetta che gli era appena caduta dalla mano.
Allora, forse non erano pazzi? E le loro assurde teorie? Forse non erano poi cosi tanto assurde? 
Altrimenti perché Margaret aveva appena avuto quell'insolita reazione?
Wyatt si rese conto che non fosse la circostanza giusta, ma doveva cogliere l'occasione. Battere il ferro finché fosse stato caldo.
«Lei mi ha chiamato Xavier» Specificò per fare avere un altro lieve coccolone alla madre.
Lei lasciò precipitare sul pavimento la forchetta sconvolta.
Xavier. Chissà per quale arcana ragione quel nome scatenava lo stesso effetto su tutte le persone care da lui conosciute. Al perché fosse dimora di irrequietudine soggettiva.
La risposta poteva essere soltanto una ed era quell'unica che non aveva mai smesso di dimorare all'interno del suo cervello.
Quella radice dotata da quei buchi neri che occupavano parte della sua mente verso i quali non riusciva a figurare alcun fotogramma.
«Scusatemi! Non badate a me! Un momento di debolezza. Vado a prendere un bicchiere d'acqua, voi continuate pure a mangiare» ma non appena Wyatt vide il suo bicchiere ripieno di essa insieme alla bottiglia d’acqua sul tavolo, sentì ribollire il cervello.
Fu un attimo che schiantò la sedia al muro, correndo come una furia verso la cucina.
Il suo pensiero proiettile, viaggiava seguendo quell'unidirezionale dinamica prescelta e non gli importava più delle conseguenze che sarebbero venute a seguire, perché ormai il colpo era stato sparato e il suo obbiettivo sarebbe stato perforato fino a toccare quell'organo tanto sensibile quanto indispensabile.
«So cosa stai cercando di dirmi sai?» disse quest'ultima all'arresto del suo breve cammino.
La madre non si voltò neanche per vedere chi fosse.
Figurarsi.
Conosceva anche il rumore dei suoi passi, se non la statica dei suoi respiri.
«Sai anche che non sarò io a dirla. Sai, che voglio sia tu a farlo» sapeva che il figlio aveva ragione, ma continuava comunque a mantenere la bocca contratta.
Wyatt cominciava a perdere la pazienza. Odiava quel suo mutismo permanente e odiava quell'aria soffocante che la induceva a strangolare quella sua tanto amabile voce.
In contemporanea, nell'altra stanza, ognuno era intento a captare ogni minimo rumore rendendo la tensione percettibile su ogni loro movimento.
E probabilmente, qualcuno aveva anche smesso di respirare per paura che il suo fiato avrebbe interferito con l'udito ben esteso.
«Mamma! Eri a conoscenza che questo giorno sarebbe arrivato e sai che quel giorno è adesso» la intimidì ruggente di risentimento. 
Margaret però non rispondeva. Statica in quella posizione, continuava a generare silenzi talmente rumorosi da infastidire l'udito altrui.
«C***o! Ma non senti quel dannato bisogno di liberartene? Di avvertire quella f**********a sensazione di leggerezza che si prova quando ci si libera di qualcosa di stramaledettamente pesante?» quelle urla cariche di rabbia furono un segnale d'allarme per Diana, che non resistendo si precipitò in loro soccorso.
Aveva un’andatura decisa e il respiro tirato dalla preoccupazione.
Comprendeva che non sarebbe stato facile riuscire a persuadere la madre, a fargli cantare il testo di una canzone tenuta segretata per anni, ma lei voleva giocarsela per intera. Riuscire ad estorcergli almeno una riga di quel testo sconosciuto al resto dei famigliari, anche la più insignificante.
Giunta davanti alla porta li vide di spalle. Una ancora con le braccia posate sul tavolo e l'altro accostato allo stipite della porta.
«Signora! Ascolti» oltrepasso Wyatt senza neanche voltarsi a guardarlo, mentre quest'ultimo la segui lungo tutto il tragitto.
«Io» ticchettò i secondi per cercare le parole giuste dentro di se.
«Io non sono nessuno per permettermi di dire ciò che sto per dirgli e se vuole può anche odiarmi, ma sarà solamente una futile giustificazione per offuscare ciò che già sa. Perché lei lo sa. Sa che la reale persona che odia è sempre stata se stessa» Diana si scostò nervosamente un capello dietro l'orecchio.
«Io non so che cavolo di metodo abbia usato per riuscire a tenere questo segreto lontano da tutto e tutti per diciannove logoranti anni. L'ha tenuto per se,malgrado sapesse che il suo peso anno dopo anno si sarebbe nutrito delle sue forze,fino ad arrivare a prosciugarla» Diana non riusciva a capacitarsi di tutto questo. Era qualcosa non di ingiusto, ma terribilmente irrazionale.
Margaret accennò un movimento con le spalle senza però emettere nessun fonema.
Ciò mandò in bestia Diana.
«C***o» ed ecco che anche la sua signorilità era andata a farsi benedire.
«Ma non pensa a loro?» la ragazza indicò Wyatt, rimembrando contemporaneamente la figura del gemello nella mente.
«Lei era sicura che avrebbe portato questo segreto con se nella tomba, ma non aveva preso conto di una cosa. La loro indole è stata creata per essere unita l'uno a quella dell'altro. Da soli si sentiranno sempre nulli» Diana si prese del tempo per poter ricominciare a respirare.
«Non lo capisce? Non si fermeranno mai» Diana era disperata. Non poteva credere che fosse così insensibile nei riguardi del figlio. 
«Ma che cos’ha al posto del cuore? Un pezzo di pietra? Non può privarli l'uno dell'altro perché si sentiranno sempre incompleti finché non si ritroveranno. Avranno sempre un vuoto dentro che li renderà vulnerabili e soli» la ragazza attese una sua reazione, ma il suo corpo non accennava a darne alcuna.
Diana scosse la testa nauseata dalla madre che nonostante entrambi gli avevano appena vomitato la realtà in faccia, lei continuava a racchiuderla nel fondo della sua gabbia toracica, dove aveva imprigionato quel dannato segreto.
La ragazza era stava per oltrepassare la soglia della porta, quando si avvertì un gemito di dolore.
«Io non volevo» la sua parafrasi fu introdotta così.
Wyatt guardò Diana che si era appena fermata al suo stesso punto.
«Avrei voluto crescervi entrambi, ma non avevo alternative» la madre finalmente si voltò, mostrando ad entrambi gli occhi arrossati traboccanti di lacrime. 
«Avevo appena scoperto che il tuo vero padre mi aveva appena tradito durante la sua vacanza in Italia e al suo rientro, la sera stessa, mi confessò che non avrebbe mai immaginato di poter perdere la testa per un altra donna fino a quel punto. Aggiunse anche che voleva trasferirsi in Italia per poter vivere a pieno la sua storia d'amore» Diana emise un sorriso sarcastico. Chissà se quel c******e aveva lasciato quest'ultima con medesime parole della successiva.
Sembrava quasi sempre la stessa canzone.
Lui che lascia lei per un altra che conosce dall'altra parte del mondo, sta con lei per un paio d'anni, si crea una famiglia e poi?
Poi la canzone finiva, perciò il pezzo veniva riavvolto così da essere riascoltato per l'ennesima volta.
«Fu una decisione repentina, ma di comune accordo. Lui vi amava, e anche io, per questo gli avrei impedito di portarvi via da me» Margaret spostò la mano sinistra sul braccio destro in un gesto di tutela. 
«Mi aveva già fatto del male e io non gli avrei mai permesso di farmene dell'altro» adesso la mano per quanto si era stretta ad esso rischiava quasi di perforare la pelle.
«Ma poi lui ebbe quell'idea. Quell'idea che per quanto potesse suonare illecita, era l'unico punto d'incontro» la donna guardò il figlio con gli occhi grondanti di afflizione, sperando che un giorno potesse dimenticare ciò che stava per dire.
«Sapeva che sola da non me la passavo bene e che dopo la sua confessione mi aveva resa vulnerabile» Margaret temporeggiò ancora qualche attimo.
«Si avvicinò alle vostre culle e mi disse che eravate identici, che se ognuno di noi ne avesse avuto uno non avremo mai sentito l'assenza dell'altro. Mi disse anche che chiunque avesse scelto lo avrebbe amato e cresciuto senza mai fargli mancare niente, dandogli una vita migliore di quella che avrei potuto darvi io, e forse, su questo punto non si è sbagliato» Margaret abbassò lo sguardo non riuscendo più a reggere quello spartano del figlio.
«Ed infine mi fece giurare di tenere nascosto questo segreto per noi. Mi assicurò che se noi l'avessimo lasciato tale, nessuno sarebbe mai stato portato a pensare il contrario» la donna emise una risata sarcastica in contrasto a quell'osceno cimiero della mente.
«Dovevi vederlo. Con quel suo dannato sorriso malandrino, ha preso uno di voi dicendo: come si dice, ognuno di noi in giro per tutto il mondo ha sette sosia e tu sei il primo degli altri sei rimasti»
«È ridicolo» esibì Wyatt schifato dalla madre e ancor più dal padre, chiedendosi, che razza di persona potesse essere per aver avuto il coraggio di pensare una cosa tanto ripugnante.
«I..io ero debole, ferita e annientata dalla vita, che avrei dovuto fare secondo te?» la voce di Margaret suonava roca come qualcuno che è all'estremo delle sue forze.
«Niente! Tu non hai fatto niente!» accusò il figlio avanzando un passo carico di rabbia.
«Come pensi che fossi stata io in quel momento, Wyatt? Privarmi di un figlio è stato come perderlo»
«Privarvi? È privarvi il soggetto del verbo che devi usare» la corresse Wyatt ustionato dalla furia.
«Dai adesso calmati» gli suggerì dolce Diana posando una mano sul suo petto, ma lui non aveva la minima intenzione di smettere.
«Sai qual'è la cosa che più mi fa andare fuori di testa?» Wyatt la guardò, accanendosi sulla sua figura indifesa.
«Che tu in tutti questi c***o di anni hai creduto fosse stato un torto fatto a te stessa, ma se fosse stato davvero così tu non l'avresti mai permesso. Ci avresti persino mandato in adozione pur di non lasciare che uno di noi potesse essere portato via dall’altro. Invece non era così. Perché tu sapevi che dividendoci le uniche vittime di questa c***o di storia saremo stati noi. Io e Xavier» il figlio la rifiutò sputandogli addosso tutto il disprezzo appena scoperto nei suoi confronti.
La guardava non sapendo più chi fosse la persona davanti a se. Espressamente nauseato dalle sue lacrime obsolete.
Perché non sarebbero state loro a cambiare il presente, né a cancellare il passato.
E per quanto ne sapeva, appariva come una vigliacca che pur di stare a patti con un tale che non poteva essere definito neanche un uomo, aveva negato i propri figli l'opportunità di crescere insieme.
Dopo averla guardata per ancora una volta scuotendo la testa schifato, Wyatt si voltò e uscì di scena senza dire neanche una parola.
Diana lo vide attraversare la stanza al contempo che accendeva una sigaretta.
Sapeva che corrergli incontro adesso sarebbe stato come trovarsi nel bel mezzo di un eruzione vulcanica quindi trovò più confacente voltarsi alla sua sinistra per consolare la madre.
La sua prospettiva cambiò direzione ed emanando un sospiro incerto, si fece coraggio a restringere le distanze con quest'ultima.
Sotto questo punto di vista non Non era mai stata eccezionale nel mostrare il suo appoggio agli altri, ma all'occorrenza si dimostrava una persona idonea alla circostanza.
Senza dire niente, né guardarla, la prese per una spalla e la strinse a se, lasciando che tutte le sue colpe di divulgassero in quel suo pianto liberatorio.
«Non si preoccupi! Suo figlio la perdonerà. Sono certa che troverà la forza per farlo. Deve solo avere pazienza» proprio allora, nella stanza fecero irruzione le figlie seguite dal marito.
Tutti e cinque ammutoliti.
Tutti e cinque con lo stesso pensiero per la testa. Il pensiero di un abbraccio collettivo che avrebbe trasmesso lei, la forza di cui elemosinava il disperato bisogno.


NOTE AUTORE. ma ciaooo. Si non sono sparita. Ci sono ancora e ho aggiornato Xavier! Che ne dite di questo terzo capitolo?
Finalmente la verità è stata svelata, adesso cosa faranno i nostri detective per caso?
Che ne pensate della storia dei gemelli? E la madre? La incriminate? E il comportamento di Diana? La reazione di Wyatt?
Ditemi tutto. 
Ringrazio tutti chi recensisce chi lo farà e i lettori silenzosi. 
Vi aspetto alla prossima e al solito se volete seguirmi sui social questi sono i link: 
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Alla prossima. Ciao, ciao. 

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Capitolo 5
*** I tatuaggi. ***


 

 

Capitolo 4

I tatuaggi”


 

 

[Le nostre mani erano intrecciate. I nostri passi sincronizzati.
Io lo guardavo e vedevo nascere in lui quelle sue dolcissime fossette che amavo tanto mentre le mie labbra si estendevano in un sorriso radioso.
Era tutto così vivido.
Io e Xavier. Xavier e me.
Insieme.
Stretti in un unico corpo, intenti a vivere a pieno quel sentimento che riusciva a trasportarci in un altro mondo privo di tempo.
Un mondo che aveva smesso di essere autolesionista. Un mondo luminoso, in totale armonia con se stesso, dove l'unico reato da lui concesso era quello dell'amare in modo eccessivo.
Mano nella mano, ci sdraiammo sotto un albero di ciliegio, ci cercammo, ci trovammo e da li, precipitammo nel fondo delle nostre pupille.
Tutto improvvisamente, guardando i suoi occhi, mi appariva come un qualcosa di assolutamente perfetto.
Mi sembrava quasi il paradiso in mezzo a un'infinita volta celeste. Un sogno che viveva nella realtà. E Non potevo credere che Xavier mi stesse sorridendo, che le labbra da lui desiderate fossero le mie e che le sue braccia mi stessero custodendo all'interno di un suo abbraccio. Doveva per forza essere un miracolo.
Uno di quelli impossibili, ma che avvenivano comunque lasciandoti privo di respiro.
Ancora incredula, chiusi gli occhi, lasciandomi cullare da quella melodia flautata che gli uccellini stavano interpretando seguendo l'armonia dei nostri cuori.
Il sole ci scaldava tenue, il vento ci accarezzava gentile.
Stavamo vivendo un momento consono in cui la parola era il silenzio, il respiro l'equilibrio contante e ogni altra forma di vita assumeva un significato emblematico. 
Poi, quel momento ci fu portato via.
Fu un secondo che il sole venne risucchiato dall'oscurità, il pacato canto degli uccelli ammutolito da un silenzio che stordì le nostre orecchie, e come un sicario, il vento ci strappò via dalla nostra felicità.
Io lo guardai ansiosa, lui strinse più forte la mia mano mostrandomi la luce infondo a quel tunnel.
Ma inaspettatamente, il nostro cammino fu interrotto da qualcosa che si schiantò dinanzi a noi.
Non fece rumore. Non si disintegrò. Era rimasto del tutto intatto nonostante il suo brusco atterraggio: era un meraviglioso specchio dorato dall'interno fatto in puro cristallo.
Rimasi incantata davanti a tanta perfezione che i miei occhi furono ipnotizzati dal suo surreale luccichio.
Approssimandomi a lui, sporsi una mano, ma a quanto pare tanta avvenenza non pretendeva me.
Lo specchio chiamava Xavier. Lo desiderava ardentemente davanti a se.
Xavier mi guardò cercando la sicurezza nei miei occhi e per sua grazia la trovò pronta a sorreggerlo.
Dopo, con le mani ancora intrecciate, ci avviammo alla sua volta.
Era tutto così strano. Come se nonostante l’avanzare dei nostri passi, lo specchio apparisse sempre più distante.
Allora, ebbi un’adamantina intuizione e mi fermai.
Con mia sorpresa potei vedere che lo specchio si ritrovò a pochi centimetri da noi.
«Sei davvero pronta per questo?» mi chiese quest'ultimo con voce innaturale.
«Ti senti davvero pronta per vedere ciò che ti mostrerò» sibilò gelido. Anche se le sue intimidazioni cominciavano a spaventarmi, accennai un si leggero della testa.
«Bene allora manifestatevi» ci incitò, allegando all’ultima parola una risata maligna. 
Io e Xavier rinvigorimmo l'intreccio delle nostre mani e gettando un sospiro nell'aria ci disponemmo al suo cospetto.
Ma non appena le nostre sagome furono focalizzate dal suo fulgido cristallo, chi si materializzò al mio fianco fu Wyatt.
Cerea in viso, mi affrettai a constatare che la mano da me tenuta fosse realmente quella di Xavier, invece, sollevando la testa, realizzai che era quella di Wyatt.
Fu una situazione così raccapricciante.
Lui che mi attirava in quel suo sorriso beato. Io che scuotevo la testa terrificata.
«Xavier!» mimai senza voce. Perché ero stata privata di proferire parola?
«Xavier» insistetti, nessun suono fievole però uscì dalla mia gola. 
«Io non sono lui» mi urlò improvvisamente contro Wyatt. I suoi occhi di ambra erano vuoti e inquietanti.
«Tu sei Xavier» obbiettai fornendomi del labiale. 
«No» negò lui con il viso tinteggiato di rosso dall’ira. Ormai fuori di se, arpionò gli angoli dorati del pregiato specchio e lo scaraventò rabbiosamente al suolo.
Sobbalzai terrorizzata dal quel suo incontrollato gesto.
«Io non sono lui. Davanti a te ci sono io. Hai capito?» mi sbraitò attanagliando le mie braccia nella presa delle sue mani. Scossi la testa paralizzata dall’orrore di quelle parole.
«Lui non c'è» infierì su di me, iniettandosi le pupille di sangue.
La sua stretta adesso era divenuta insopportabile. Iniziavo a lamentare un principio di dolore alla ossa delle braccia.
«C..che vuoi dire?» gli chiesi tramite labiale con una supplica degli occhi.
Avevo paura. Terribilmente paura. Ma non per il dolore fisico al quale ero sottoposta. La mia paura derivava dalla risposta alla domanda che avrei avuto tra non molto. Il solo pensiero mi fece scivolare lacrime cariche di calore sulle guance. 
«Lui vive solo nella tua mente. Lui non c'è. Lui» partì, interrompendosi per spararmi un colpo al cuore con le sue criptiche ambre. 
«Non ci sarà mai» concluse osservandomi pietosamente]



Diana si risvegliò priva di respiro.
Sollevando la testa e portando la sua folta chioma dietro la nuca, si accorse solo poco dopo che il suo viso fosse bagnato da qualcosa di estremamente caldo.
«Lui vive solo nella tua mente. Lui non c'è. Lui non ci sarà mai» quelle parole facevano più male di una coltellata al cuore.
Erano talmente affilate da arrivare a sfondare la sua gabbia toracica e gettare il suo contenuto in pasto ad un branco di leoni pronti a soddisfare il loro insaziabile peccato di gola corrente.
Avrebbe preferito essere picchiata a sangue pur di non soffocare in quelle dannate fiamme che stavano bruciando ogni sua forma di difesa che aveva eretto per fronteggiarle, Ma fu troppo tardi.
Stavolta, non poté scacciarlo, né digerirlo.
Stavolta, la sua mente fu sopraffatta da quei ricordi seppelliti nel cimitero più abissale di se stessa e non ebbe altra scelta che tornare ad affrontarli per l'ennesima volta.
Erano solo pochi mesi da quando si era imposta di togliere il suo pensiero a quest'ultimo, ma sembrava non esser cambiato niente.
Il suo cuore continuava a dipendere da lui e quei suoi ricordi ad essere ancor più veri della realtà stessa.
Le lacrime ricominciarono a rigargli il volto ancor più incandescenti di prima alla sola constatazione.
Perché era tornato?
Perché si era ripresentato nella sua vita?
Non capiva che lei si era allontana volontariamente da lui?
Che non voleva e non poteva stare con lui?
Non dopo quella parola che stava per dirgli e lei l’aveva fermata a metà.
Serrò le dita nelle lenzuola per provare ad affrontare il dolore mentre le sue urla mute echeggiavano all'interno del torace.
Non voleva più stare così. Non poteva e non doveva annegare nuovamente in quel mondo che ormai aveva smesso di appartenergli.
Il passato non apparteneva a nessuno. Diana sapeva che non era il posto adatto sul quale risiedere.
Lei doveva vivere nel presente. Voleva vivere nel presente perché era lì che ogni giorno tornava a sorprenderti, a far tornare vivida la speranza tramite un sorriso sognate che avrebbe aperto nuove vie da esplorare.
Spinta da una dose di determinazione smisurata, si sollevò dal letto e sedendosi si concentro su i suoi battiti.
Uno per volta i suoi piccoli respiri si fecero sempre più volutivi. Da li poi ritrovò la forza per reagire.
Il respiro torno a essere stabile. I suoi occhi aridi.
Si sentiva già meglio. Come momentaneamente guarita da una febbre mortale.
È fu lieta di questo, perché ebbe la prova di essere diventata più forte. Di poter sognare che un giorno avrebbe annientato per sempre quel suo inferno individuale.
Più serena, poggiò i piedi sul pavimento, dirigendosi in cucina.
Avvertiva la gola secca e sfiorava l'idea di placarla con qualcosa di estremamente freddo- Quindi, attenta a non fare rumore seguiva la strada buia.
I suoi passi erano insonorizzati, ma strettamente estesi. Non aveva intenzione di essere scortese e svegliare tutti o solamente qualcuno di loro, così cercò di essere più rapida possibile.
Tuttavia, il suo obbiettivo ebbe delle aspettative diverse.
Fu uno sorpresa per lei scoprire la sagoma dell'ombra di qualcuno che proveniva dal giardino. Un'ombra accovacciata sulle gambe dal volto sollevato in aria.
Diana, corrugò le sopracciglia incuriosita a chi potesse appartenere, quindi si mosse lesta affacciandosi per metà dalla soglia della porta e quando i suoi occhi scolpirono i tratti di Wyatt, li spalancò istintivamente.
Era seduto sul cornicione della finestra appartenente al soggiorno, stava assumendo un eccessiva tirata dalla sigaretta, gettandola dopo qualche attimo nell'aria soprastante.
I suoi occhi ambra erano sperduti in quell'immensa distesa celeste. Così malinconici, così turbati e spenti da arrivare a trasmettere il corrente stato d'animo a quello altrui. 
Nell’osservarlo, Diana accennò una risata.
Era tale e quale a Xavier.
Non c'era neanche una minuscola sfumatura che li diversificasse, perché erano l'uno lo stampo dell'altro.
Ancora una volta il suo cuore aveva mostrato lei la persona che non era e ormai sotto anestetico di quel miraggio, non resistendo, andò a raggiungerlo.
«Cerchi di cogliere una stella cadente in mezzo a tutte le altre in cielo?» gli chiese audace mentre lo affiancava sul cornicione alla sua sinistra.
Wyatt sorrise compiaciuto. Sapeva quale fosse il reale significato delle sue parole.
«Lo faccio solamente quando sono nervoso o sotto pressione, ma ho promesso di smettere»
«Si!» esibì lei dubbiosa.
«Tu non smetterai mai perché è diventata una dipendenza da qualcosa. E se lo fai solo quando sei nervoso è una disgrazia, perché il tuo stato “negativo” dipenderà sempre dall'assunzione di una sigaretta. E così avrai sempre questo vizio e continuerai a promettere a te stesso che smetterai, quando sai che questo momento non arriverà mai» fece la maestrina incensurata della situazione, sollevando la testa in modo da lasciarsi illuminare parte del viso dai raggi lunari. 
«Hai mai pensato a un'alternativa?» gli offrì gratuitamente una terapeutica alternativa.
«Tu ne hai una» affermò Wyatt in riscontro alla sua domanda. Diana acconsenti lenta.
«Potresti sostituire le sigarette alla musica. Quando canti in te nasce la stessa sensazione che si genera in riscontro al fumo: la pace soggettiva. Il canto è la tua passione. È ciò che sei. E poi non nuoce la salute» Diana si voltò verso di lui e lo derubò del pacchetto di sigarette con la mano di un ladro esperto.
«Ogni qualvolta che avrai l'infrenabile voglia di fumarne una, canta» Diana ne estrasse una dal pacchetto.
«A ogni sigaretta» finse di gettarla nel giardino, depositandola invece sulle cosce. 
«Una canzone» una sigaretta, una canzone.
Una sigaretta, una canzone.
Una sigaretta, una canzone.
Una sigaretta, una canzone.
Continuò così finché nel pacchetto, non ne rimase una, e prendendola disse
«E in ben che non si dica» gli mostrò il pacchetto vuoto.
«Sei riuscito a liberti di questo tossico vizio» dimostrò, sollevando le sopracciglia gloriosa.
«Incredibile» l’espressione di Wyatt era stata realmente rapita dalla sua idea. Un'alternativa così tanto scontata, sita in costante avvenenza davanti ai suoi occhi, come aveva potuto non venirgli a lui?
Forse perché non gli era mai interessato davvero trovare un rimedio.
Lui prometteva, ma in fin fine non ne aveva l'assoluta intenzione. Era solo un modo scrupoloso per tranquillizzare coloro che più gli volevano bene. Mentre invece per se stesso bramava di poterlo fare ancora, malgrado sapeva che la decisione migliore fosse di smettere di imporsi veleno tossico nei polmoni.
«Ci proverò! Grazie» promise veritiero esternandogli un sorriso pacato. 
«Sul serio?» Diana era stupefatta dalle sue parole. Credeva che non le avesse mai prese in considerazione. Che fosse un'idea bizzarra creata da una folle priva di senno.
Wyatt però gli sorrise nuovamente acconsentendo. Lei fu su di giri. 
«È fantastico perché l'ho appena ideata pensando a te» decantò posando le mani sul braccio di Wyatt dove si faceva spazio la scritta “Firedel tatuaggio, ma qualcosa, proprio allora, accadde.
Le orecchie cominciarono a fischiargli e la sua espressione si gelò.
«DIANA? CHE SUCCEDE?» le chiese lui turbato. Quella domanda però non ebbe il suo solito effetto. Non in quel momento.
Il corpo di Diana cominciò a vibrare mentre al tempo stesso la testa si muoveva a destra e sinistra quasi volesse scacciare la realtà.
Lei non parlava, tanto più non respirava.
Scossa ancora dal fatto, fissava quella chiara sottigliezza che distingueva le due indistinguibili copie: i tatuaggi.
Ecco cos'era quel minuscolo particolare che li dissimulava.
Erano quei repellenti tatuaggi. Quegli assurdi scarabocchi che occupavano gran parte del suo corpo.
Per Diana fu come un tradimento a pieno volto e l' imminente entrata in scena di quelle maledette gocce d'acqua salate fu istantanea quanto barbara.
Non si fecero desiderare e neanche acclamare. Silenziose, si mostrarono all'unico spettatore presente esibendosi in un brano tristemente lugubre.
Le cadevano sulla maglietta una dopo l'altra generando piccole macchie dall'identità amara e Diana era ormai schiava della loro legge.
Aveva le mani tese in avanti con la testa china come fosse un corpo esanime privo di coscienza.
Si limitava a lasciarle defluire, al farsi incendiare il viso dalla loro incandescente consistenza.
«Scusami» disse mentre cercava di riprendere respiro tra una lacrima e l'altra.
Perché? Perché continuava a vedere Xavier? Lui non era Xavier. Era Wyatt. Perché il suo cuore non voleva capirlo? Perché?
«È tutto okay» Wyatt la confortò carezzandogli la spalla con la mano sinistra.
«Mi dispiace» continuò lei sfogandosi per trovare consolazione nella sua clavicola. 
«Io non ce la faccio! Il mio cuore è malato» alle sue parole Wyatt sbarrò gli occhi stravolto. Non immaginava che Diana stesse sopportando un male tanto disumano.
Non aveva idea che stesse combattendo contro qualcosa che la stava annientando e che le fiamme che la stavano divorando l'avessero già ustionata.
Fulminato da una scarica di candida umanità, le racchiuse il viso tra le mani per sussurrargli
«Tu ce la farai» ma Diana piangeva sempre più forte. Era come se gli stessero squarciando il cuore.
«No! Non lo capisci? È tutta colpa tua. Sei tu la causa del mio dolore»
«No! Io voglio aiutarti!» Wyatt era testardo cento volte più di lei e malgrado sapesse di essere il problema, voleva disperatamente tramutarsi nella soluzione.
«Ti prego non aiutarmi perché non puoi farlo» se ne oppose ancora Diana. La voce era stata spezzata dal pianto.
Diana non aveva più fiato in bocca e a Wyatt gli si rammaricò il cuore.
La vedeva così piccola e fragile, che dentro di se Wyatt sentiva l’estremo bisogno di proteggerla e aiutarla.
Mirava ad essere la persona giusta proprio come lei si stava dimostrando di essere per lui. 
«Nessuno può sopravvivere da solo a qualsiasi genere di dolore» il ragazzo costrinse i suoi occhi gonfi e rossi a fissarlo.
«Tu ce la farai. Io riuscirò a guarirti, vuoi scommettere?» la dichiarazione fece abbassare per un momento gli occhi a Diana.
«E come? Dimmi, come farai a porre fine a tutto questo? Come riuscirai a far smettere il mio cuore di occultare la realtà? Quando potrò vederti per quello che davvero sei?» sbottò di colpo, alzandosi in piedi per la scarica di rabbia di cui era stato invaso il suo corpo.
«Perché ci tieni così tanto ad aiutarmi? In fin dei conti chi sono io per te? Tu per me?» lo accusò di un lucroso perbenismo, asciugandosi le lacrime con il polso sinistro.
Ricevuto quel graffiante rifiuto, il volto di Wyatt si marmorizzò in un espressione volitiva, maturatamente accentuata dai manrovesci dell’esperienza e i riverberi dei suoi addottrinamenti. 
«Io, ti prometto che proprio grazie a me, tu ci riuscirai a guarire» le disse stoico. Forse era proprio per questo che fino ad oggi, né Wyatt, né Diana, erano mai riusciti a trovare il sentiero esatto per consentire loro di fuggire da quel labirinto soggettivo del quale erano prigionieri.
Si erano perennemente sentiti persi, convinti che avrebbero passato il resto dei loro giorni condannati in quella gabbia traboccante di tormenti.
Ma solo adesso, mentre i loro occhi si stavano attraversando oltre la pupilla, avevano compreso la ragione di tale motivo.
Il raggiungimento dell'uscita che avrebbe segnato la loro libertà era da sempre stato progettato per essere trovato da due persone, non una.
E non si trattava di una persona qualsiasi, ma della guida che senza chiedere un perché, un quando o un dove, prendendolo per mano l'avrebbe portato via da li, mostrandogli nuovamente la luce del sole.
I loro occhi che correntemente avevano toccato il fondo e quindi finalmente le rispettive anime, ebbero l'immacolato piacere di incontrarsi.
Fu tutto così semplice da concepire.
L'anima della persona che stavano sfiorando, l’anima con la quale stavano danzando, era quella che avevano costantemente aspettato.
La stessa che avrebbe guarito ogni singolo dolore da loro detenuto e la sola che al momento del suo arrivo, avrebbero capito all'istante, anche con un incerto contatto visivo, fosse essa.
Loro erano due pezzi di un'unica parte. Erano fatti per armonizzarsi.
Le loro essenze erano fatte per essere presenti la dove fossero state instabili e afferrarsi prima che il loro corpo toccasse terra.
Connessi in un unico corpo, erano i guardiani delle loro relative anime che si sarebbero sentite complete solo stando insieme.
Finita di fare quella realizzazione, Diana chinò il capo come per scusarsi, poi si schiarì la voce affrontando un discorso completamente discorso, ma pur sempre connesso.
«Adesso dove andremo?» chiese, ma nel momento che fece la domanda, si dette la risposta da sola.
«Da tuo padre?» Wyatt acconsenti guardando il vuoto dietro di lei.
«Voglio sapere chi è. Voglio dirgli tutto ciò che penso, leggere tra i suoi occhi la paura e farlo sentire colpevole del crimine che ha commesso» le pupille di Wyatt erano inflessibili. Quasi presi dal pensiero vagante del padre, visibile soltanto a lui.
«Ma dovrai farlo solo» lo avvisò lei ancor più giudiziosa di lui.
«Lo so!» anche Wyatt pensava fosse la cosa migliore da fare perché desiderava che avvenisse così. 
Il giovane ragazzo non lo temeva. Non aveva esitazione ad affrontarlo.
Era pronto. Lo era stato già dal momento in cui sua madre gli aveva confessato i trascorsi passati con quel verme. 
«Adesso vado. Notte» gli preannunciò lei. Avrebbe voluto affrontare l'argomento “mamma”, ma sapeva che la risposta di Wyatt se susseguita da determinate parole, avesse suonato come un rifiuto ancora ben chiaro.
Era meglio lasciare tutto com'era. Lasciare che fosse la notte a suggerirgli la cosa migliore da fare.
D'altronde era stata lei a dire che ci voleva tempo e forse se nessuno gli avesse fatto pressione, già il mattino dopo li avrebbe ritrovati abbracciati in cucina.
«Notte e grazie» ripeté perciò iniziando a marciare dentro casa, ma arrestandosi sulla soglia per attendere la sua risposta.
«Jenny» disse Wyatt di getto.
«Jenny?» lo interrogò lei voltandosi a studiarne il viso assorto nella miriade di stelle.
Vedendolo fare spallucce senza parlare, Diana stava proprio cominciando a pensare che le avesse rivelato il nome della ragazza amata, ma Wyatt sfatò questa sua convinzione, non appena aprì bocca.
«Jenny è un nome che ti si adegua» Wyatt le sviluppò stringatamente la sua tesi.
«È per quale assurda ragione?» Diana si trattenne a stento dal ridere. Gli stava per caso affibbiando un soprannome?
«È un nome che racchiude una nota malinconica mischiata a un pizzico di cazzutaggine. Mi fa pensare ad una donna punk dal cuore tenero» dettagliò con il suo solito sonnolento modo di fare. Diana sorrise compiaciuta. Pesò che il modo in cui l’aveva descritta si uniformasse perfettamente alla sua imperscrutabile personalità. 
«Jenny mi piace» accettò lei stranamente raggiante in viso. 
«Anche a me» ne combaciò l’entusiasmo lui. 
«Rinotte»
«Rinotte» si augurarono. Poi Diana scappò via verso la sua stanza come una cappuccetto rosso alla ricerca di avventura del bosco notturno.
Wyatt rimase a fissare il cielo per un’altra mezzora.
C’erano così tante stelle.
Quante potrebbero essere? Si chiedeva l’animo umano nel vedere qualcosa di inspiegabilmente suggestivo.
Mille. Cento. Dozzine di migliaia?
Impossibile definirlo.
Il cuore di entrambi per quella sera si quietò ed entrambi fecero sogni sereni.


NOTE AUTRICE: ma ciaooo, ogni tanto riappaio, già. Finalmente ho postato il quarto capitolo di questa originale. Allora, che vene pare di come si stanno evolvendo le cose? Il rapporto tra Diana e Wyatt si intensifica sempre di più, ma a dove porterà?  E il loro viaggio insieme quanto a lungo si prolungherà? Ditemi pure ciò che pensate e ringrazio chunque la leggerà, recensirà, aggiungere ai preferiti, ricordate o seguite. 
Grazie millissime a chi lo fa e vi ricordo che se volete aggiungermi ai vari social i link sono questi: 

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Bye, bye. Alla prossimaaaa!



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Capitolo 6
*** Per sempre il suo bambino. ***


Capitolo 5


 

Per sempre il suo bambino“


 


 

Quella mattina il sole li raggiunse pacato.
Cauto,li corteggiò tenue lasciando che i versi dei primi animali mattutini li rendessero in parte coscienti del suo arrivo.
L'aria era stemperata, con la tipica brezza che accompagnava il sorgere del sole ben percettibile nei pori della propria pelle.
Come ogni mattina, Margaret si svegliò al suo solito orario usuale e come ogni volta si apprestò a riempire la sua tazza di caffè,ma stavolta le sue ordinarie abitudini erano state deviate da un irreprensibile meta.
Margaret non poté resistere.
Non poté sottrarsi dal poter rivedere la figura del figlio dormire nel proprio letto come un tempo. Era un’esigenza che andava contro ogni altro istinto.
Così, si accostò alla porta attenta a non fare rumore, la dischiuse accurata nei movimenti, quindi lasciò alle sue pupille l'onore di focalizzarlo nei minimi particolari.
Era così bello poterlo rivedere all'interno di quel piumone e continuare a realizzare che nonostante il passare degli anni non fosse cambiato niente.
Margaret si ricreò nello scoprire che quando fosse abbandonato fra le braccia di Morfeo, tenesse ancora la coperta sollevata fin su l'estremità del naso, si sollazzò a notare i suoi legamenti superiori distesi mentre quelli inferiori piegati, ma più di tutto, si confortare nel accorgersi che un’immancabile espressione distesa dominasse l'integra parte del suo viso.
E Wyatt se ne stava li, ignaro di essere osservato dagli occhi di colei che l'aveva messo al mondo, lasciandogli credere che sarebbe rimasto per sempre il suo bambino, e che niente avrebbe mai cambiato certe parti di vita che aveva puntualmente trascurato negli ultimi due anni.
Margaret, richiuse la porta rincuorata. Poi si avviò in cucina sorseggiando il suo caffè.
Contemporaneamente, nell'altra stanza, anche Diana era intenta a praticare il suo stesso sport olimpico.
Anche lei, come lui, se avesse potuto, avrebbe optato per un lungo sonno risanatore, ma quel fresco lunedì di settembre, per qualche strana ragione si svegliò presto.

Diana, camminava lungo la via con gli occhi chiusi e quando Margaret la vide sgambettare per il corridoio, gli sorrise gentile scomodandosi a preparare una tazza di caffè anche per lei.
«Buongiorno» mugugnò la più giovane ancora intontita dal sonno.
«Buongiorno. Non sono certa che ti piaccia» le palesò la donna passandogli la tazza di caffè.
«Si, in Italia e di gran lunga superiore. Nonostante la quantità sia minore, il gusto è eccezionale» Diana lo sorseggiò comunque, malgrado sapeva quanto pena facesse.
L'avevano avvertita i parenti in Italia, gli avevano detto che era pessimo, ma lei era curiosa di provarlo e non appena lo portò alla bocca, si attribuì un’espressione allucinata.
Era sicuro che la tazza fosse ripiena di qualcosa?
Perché quel liquido marrone era totalmente privo di gusto. Assente di un sapore distinto che ne rimase particolarmente scioccata.
«Vuoi un po' di latte?» consigliò Margaret intuendo che non fosse di suo gradimento.
«No. Io sono allergica al latte» Diana mise la mano davanti a se in segno di divieto. La sola parola “Milk” , le fece salire alla gola un’ondata di nausea.
Perciò per scacciarla, prese un altro sorso di caffè e finì per sciacquarsi la bocca.
Nel vedere quella scenetta comica, Margaret accennò un sorriso divertito.
«Vorrei tanto visitarla qualche volta» e lì, la voce della donna assunse un tono malinconico.
L'Italia era il paese che tutti gli stranieri sognavano di visitare, ma per lei era sopratutto il paese dove collegava una forte quantità di dolorosi ricordi.
«Gliela consiglio. Cioè non perché sono Italiana» Diana aveva capito a cosa fosse rivolto il deprimente stato d’animo della donna, quindi cercò di operare a beneficio della meta come una testimonial viaggi abituata a persuadere le persone a sfruttarne l’opportunità sconto.
«E’ perché trovo che sia bello ritrovarsi in un altro angolo del mondo dove ogni cosa è dissimile. Un angolo dove le ricorrenze, le leggi e persino il modo di pensare è impari» paese che trovi, usanza che va. E si era proprio vero.
In qualunque parte del mondo un individuo si fosse trovato, avrebbe avvertito istintivamente il brusco cambiamento d'ambiente.
Anche solamente se il suo spostamento fosse stato da Milano a Napoli. Perché ogni regione si diversificava per le sue distinte particolarità.
Ognuna con la propria storia e i propri valori che sarebbero stati tramandati di generazione in generazione.
«Lui sta ancora li?» ebbe l’ardire di chiedergli Margaret. Diana capì istintivamente che si riferisse al marito. Era stato il movimento dei suoi occhi a farglielo capire.
«Insieme a Xavier suppongo. Gli unici contatti che ho con lui sono quando mi manda i soldi mensili per non venire meno al patto e delle laconiche lettere in cui mi dice lo stretto necessario» quando Margaret concluse la frase, lasciò di stucco Diana.
Allora non sapeva niente? Non aveva saputo davvero più niente dell'ex marito e del gemello rubato?
Poteva essere che da quel giorno avessero definitivamente perso i contatti?
Diana si chiese come avrebbe reagito la donna nello scoprire la verità?
«No» esclamò secca. Ma a questo punto che erano venuti fuori tutti gli altarini, aveva davvero importanza dire una verità di più o meno?
«Si sono trasferiti?» dedusse Margaret confusa.
«Si» Diana avrebbe anche continuato così. Con le sue ormai famose risposte fisse che raggiunto un certo livello di sopportazione trovava irritanti anche lei. Però stavolta, forse complice il sonno ancora ben percettibile tra le sue palpebre pesanti o forse l'innaturale bisogno di gettare fuori la verità, fu straordinariamente diretta,
«Inizialmente lui viveva in Italia con la sua nuova famiglia, poi però non so per quale ragione è tornato all'estero, e li, a quanto pare ha conosciuto un’altra donna per la quale ha lasciato la moglie attuale»
«Mi sembra di averla già sentita questa storia» Margaret era fortemente risentita da quell’informazione avuta.
«Si, però stavolta ha deciso di seguire la sua diletta solo. Senza marmocchi tra i piedi. Xavier e la figlia avuta con la seconda moglie, sono rimasti a quest'ultima» nel continuare a sentire il resto della storia, Margaret scosse la testa con un sorriso amareggiato.
«Avrei dovuto sapere che non gli importava niente di Xavier. Il suo è stato solo un capriccio per soddisfare la sua marcata parte narcisista»
«Non è propriamente così» la ammonì Diana.
«A no?» La bocca di Margaret si socchiuse per lo sbigottimento.
«No» Diana abbassò lo sguardo come per scusarsi del tono appena usato.
«Lui è letteralmente rapito dal figlio e Xavier ricambia il suo amore» a quella nuova informazione, Margaret sorrise forzata.
«È vero stanno distanti, e che lui li ha nuovamente abbandonati per un’altra, ma non gli fa comunque mancare niente e di tanto in tanto Xavier va a stare per qualche mese da lui per trascorrere le vacanze estive o di Natale» Diana fece una pausa nella quale posò sul tavolo la tazzina.
«Non mi fraintenda. Non sto dicendo che è un bravo padre. Anzi, io pensò che sia un ruffiano senza pudore, però riesce ad essere anche quel che basta per apparire perfetto agli occhi dei figli» spiegò concisa. Margaret acconsentì, facendogli capire che aveva afferrato il principio base. Quindi passò ad un argomento più piacevole.
«Vorrei poterlo rivedere sai?» le confessò. E stavolta si riferiva ovviamente al figlio.
«Lui è» Diana cercò l'aggettivo adatto per descriverlo nel complesso.
«Sbalorditivo»
«Vorrei esserci anch'io! Intendo, quando si riconcilieranno. Vorrei essere presente a questo irripetibile momento. Ho perso fin troppi avvenimenti importanti di mio figlio in questi ultimi mesi» la disse tutta, citando il figlio che ancora se ne dormiva di là, non curante delle ore che scorrevano sotto il suo naso.
«Le prometto che al suo ritorno saranno in due e non più uno» difficilmente Diana non portava a termine una promessa fatta. Per lei mantenere le promesse era come vincere un premio oscar.
La prendeva più come una competizione fra se stessa e i suoi limiti, che il più delle volte venivano superati con la percentuale massima.
«Crederò di essere ubriaca?» ironizzò la donna.
«Il più delle volte è cosi» al pensiero dei due gemelli siti uno dinanzi all'altro, Diana sorrise con naturalezza.
Chissà come si sarebbero sentiti in quel momento.
A che impercettibile rapidità avessero battuto le loro palpitazioni cardiache una volta stretta tra le braccia quella loro medesima metà perduta.
Infinite alternative si generarono nella sua mente, ma nessuna forse avrebbe mai rispecchiato quella reale.
Senz'altro però sarebbe stata una scena magica. Carica di emozione e gioia.
Questo pensiero ricco di totalità, trasmise a Diana un nodo alla gola.
«Beh, io vado a rinfrescarmi» la ragazza scacciò il pensiero dalla testa, portando la priorità all'igiene personale.
«Okay! È tutto in bagno. Se ti serve qualcosa in particolare chiamami» la istruì alzandosi per portare le tazze nel lavello.
«D'accordo e» Diana sollevò le spalle timida.
«Grazie?» le rese la gentilezza sotto forma di punto di domanda. Odiava mostrare il suo lato dolce a quello altrui. La faceva sentire sottomessa e contagiata da quell'amore disperso e ormai raro da trovare in giro per il mondo,ma in situazioni di questo genere era d'obbligo lasciarne defluire qualche minima scaglia. Giusto la certezza di avvalorarsi il rispetto del prossimo e non sentirsi in torto con quest'ultimo.
Margaret le sorrise comprensiva poi andò alla volta del lavello e si accinse a lavare le tazzine con accuratezza.
Diana camminò verso il corridoio con le spalle irrigidite.
La leggera brezza si era fatta abbastanza compatta da poter provocare la pelle d'oca sulle sue braccia scoperte e rizzargli il pelo.
Attraversò perciò il piccolo corridoio facendo una piccola corsa, dopo chiuse la porta tramite una spallata e tirò via un sospiro. Poi i suoi occhi si sollevarono, potendo ammirare lo scenario davanti a se.
La cameretta doveva essere stata della sorella maggiore dalla mentalità basica, non troppo pretenziosa: tanto per cominciare c’era un letto al centro ornato con una coperta blu acciaio, un armadio di vecchia datazione appostato all’angolo sinistro e per finire un mobile con cassettoni gettato a caso all’estremità destra sul quale era stata sistemata una lampadina giallo canarino.
In un angolo remoto della stanza, appallottolati uno sopra l'altro e nel più totale del disordine, facevano capolino i suoi vestiti.
Incerta del fare un passo in più, Diana allungò una mano, arricciando il naso quando furono stretti nelle sue mani.
Per lei non c'era niente di più riprovevole dell'indossare gli stessi capi d'abbigliamento per due giorni consecuitivi.
Era come quasi un’allergia che gli dava quell’irrefrenabile voglia di grattarsi un po' da tutte le parti e di trovare pace solo dopo essersene liberata.
Però era quello che aveva, quindi doveva adeguarsi alla situazione nonostante avesse il disperato bisogno di rifornirsene mediante l'albergo dove alloggiava.
Irritata fin nelle viscere, Diana ammassò tra le sue braccia tutto l’indispensabile di cui aveva bisogno, si chiuse in bagno e appropriandosi della doccia ci rimase per un’ora piena.
Il bagno era un ambiente dai colori marittimi come il verde acqua o il perlato, nell’aria si respirava l’odore balsamico del gelsomino mischiato all’iris, tuttavia malgrado fosse dotato sia di bagno che doccia, Diana optò per la seconda.
Quando fu soddisfatta dell'effetto risanatore che aveva avuto su di lei, uscì, si vestì non troppo entusiasta. Poi fu la volta di accendere il phon, che accese, cominciando a smuovere la sua bellissima chioma naturale.
Mentre si impegnava a dare alle sua chioma di spirali una forma compatta, la porta si aprì all'improvviso. Diana si curò speditamente di richiuderla.
«Chi è?» disse sicura di sapere già chi fosse.
«Wyatt?» il ragazzo fece dell’ironia e spinse con il piede sulla porta per replicare alla forza contraria esercitata dalla ragazza su di lui.
«Non sei nudo vero?» si premurò di chiedergli lei. Diana era realmente preoccupata di quest'ultima incognita.
«Non ho intenzione di rispondere a questa domanda» replicò Wyatt particolarmente divertito della scena. Diana allora allentò la presa per cercare di scorgere qualcosa.
«Perché lo sei o perché è scontato che non lo sei?» ridomandò Diana con voce impancata. Wyatt accennò un’altra risata.
«Tu. Sei. Incredibile.»
«E tu. Sei. Ambiguo.» la ragazza ne rimproverò la paradossale negligenza quasi fosse una cugina responsabile e di tre anni più grande. Ma alla fine, si arrese, lasciando la presa solida dalla manovella per dargli il dovuto benvenuto.
«Buongiorno» Diana lo accolse solare mentre gli fissava spudoratamente i tatuaggi.
Perché appunto, il ragazzo aveva soltanto i boxer ultra aderenti a coprirgli il corpo completamente denudato.
«Buongiorno» rispose questo con la stessa insolita spensieratezza, andando spedito a prendere il dentifricio e lo spazzolino.
Adesso, gli occhi di Diana erano cascati incuranti alla vita smilza del ragazzo.
Stava analizzando con attenzione la sua struttura fisica - snella, ma simmetrica e allenata - in cui si facevano bella mostra mostra di se i suoi molteplici tatuaggi.
Diana ne contò in tutto tre nel braccio destro, due sulla scapola, cinque nel bicipite sinistro.
Ma era sicura che in tutto quel groviglio di linee e inchiostro nero, gliene fosse sfuggito qualcuno.
«Ma non provi imbarazzo a startene mezzo nudo davanti ad una signorina?» si decise a parlare poi, ma continuando a fissare gli addominali netti sulla pelle chiara.
«Può darsi, ma ormai quel che è fatto, è fatto» replicò lui cominciando a spazzolarsi i denti candidi come niente fosse.
«Potresti sempre metterti una maglietta!» lo ammonì lei senza convinzione.
«E comunque se stai così per me non è un problema, anzi, è più un sollievo» gli manifestò perciò, incrociando i suoi occhi ambra attraverso lo specchio.
Wyatt si bloccò sorpreso di quella confidenza, e rimanendo con lo spazzolino a pochi centimetri dalla bocca, ne ricambiò lo sguardo nell’equivalente modo.
Quello che aveva appena affermato era la verità più vera che avesse mai pronunciato.
Wyatt aveva colto il suo reale contenuto, per questo gli sorrise non poco dopo, simulandogli un si con il movimento della testa.
Il sollievo che Diana aveva avvertito nel scorgerlo coperto solo da un paio di boxer, non poteva essere descritto con nessuna parola esistente.
Senza saperlo stava già cominciando a guarire quella sua malattia derivata dal cuore.
Niente più inganni, né occultamenti, ma solo lei e la prova di essere nelle sue integre facoltà mentali.
Perché quei tatuaggi erano l'unica cosa a cui poteva tenersi salda per definirsi tale.
La mano alla quale doveva aggrapparsi per poter ricordarsi chi fosse la persona posta davanti a lei.
E quella persona era Wyatt.
Confortata dai suoi stessi pensieri, Diana riaccese il phon, ma subito lo spense, fulminata da un pensiero troppo importante per non essere condiviso con quest'ultimo.
«Ah, Senti dobbiamo passare dal mio albergo per prendere parte dei miei oggetti personali» gli riferì inarcando le sopracciglia disperata. Già non sopportava più l'avere addosso il maglioncino cobalto del giorno precedente.
«Okay» Wyatt acconsentì nel contempo che si sciacquava la bocca.
«Okay» ripeté anche lei, riaccendendo il phon. Ma lo spense un secondo dopo.
«E tuo padre sta in Canada» specificò per essere sicura di non avere altre perdite di tempo. A quella indicazione Wyatt si accigliò confuso.
«Credevo stesse qui, a Londra»
«No! Ho dimenticato di dirtelo, vive a Toronto»
«D'accordo! Faremo dei biglietti direttamente all'aeroporto» risolse, tamponandosi le labbra bagnate con la tovaglia.
La pazienza di cui quel ragazzo era a disposizione, Diana la trovava quasi disgustosa.
Che derivasse dal nome di cui usufruiva o i bigliettoni posseduti, la sua calma risuonava sempre come qualcosa di terribilmente fastidioso.
E se pensava a come era andato fuori di testa il giorno prima, Diana realizzava che il suo tachimetro emozionale non partiva da una velocità pari a trenta, ma pressava direttamente a centocinquanta.
Portando via dalla testa questo futile pensiero mediante una sventolata di testa, Diana riaccese il phon per riprendersi a spazzolare la chioma con le dita.
Wyatt stava per lasciare la scena del crimine, quando d'un tratto la ragazza cominciò a canticchiare Teenage Dream.
I suoi piedi, quasi come se qualcuno avesse messo pausa, si bloccarono in attesa di ricominciare a sentire quella carezzevole melodia.
Non curante di essere ascoltata, Diana continuò a canticchiare con un andamento di tempo molto equilibrato e Wyatt attese la parte giusta per attaccare le parole possedute da quella base improvvisata.


"Before you met me, I was a wreck but things

Were kinda heavy, you brought me to life
Now every February, you’ll be my valentine, valentine"

Afferrando le sue intenzioni, Diana prese la spazzola pronta a duettare insieme al suo partner.


"Let’s go all the way tonight

No regrets, just love
We can dance until we die
You & I
We’ll be young forever"
entrambi si fermarono nello stesso istante per emettere una risata gaia e darsi un cinque di tutto rispetto.

«Wow! Sei tosta» se ne complimentò eccitato più che mai della scoperta.
«Grazie! Anche tu non sei male» ironizzò lei, dandogli un colpo di spazzola al centro del petto.
«Riesci a fare il ritornello?» volle approfondire Wyatt arci – curioso.
«Tendo a stonare su alcuni punti» gliela palesò lei, facendo una smorfia comica.
«Lo sospettavo» disse Wyatt portandosi una mano sotto il mento fregiato dal sottile pizzetto.
«Cerchi di fare il maestrino provetto di canto?» gli domandò lei, fingendo noia.
«No! Stavo solo evidenziando i tratti della tua profondità vocale! Non è malaccio. Con un po’ di esercizio potresti perfezionarti» le espose serio. In realtà stava anche pensando che se fosse sbucata fuori due o tre anni fa, lui e Noah, l’avrebbero sicuramente presa nella band come seconda vocalist in comando.
«Lo so! Non sei il primo che melo fa notare» disprezzò lei, dirigendosi spedita nella sua stanza. Wyatt la seguì con gli occhi per tutto il percorso che fece nel passargli accanto.
«Ma non mi convincerai mai a fare i provini per Xfactor o quelle robe lì» bocciò l’idea sul nascere e gli chiuse la porta in faccia trionfante.
Diana era stata incitata da molte persone di provare a sfruttare questa sua dote.
Si, era vero, non aveva la voce perfetta, ma riusciva a essere straordinariamente intonata nella maggior parte delle scale e se avesse deciso di partecipare a qualche show canoro o anche solo essere guidata da un professore di canto, certamente l'avrebbe perfezionata, lasciandogli raggiunge l'eccellenza.
Peccato che lei cantasse per svago. Solo per poter sentirsi più leggera e in pace con se stessa.
In pratica era un hobby che adoperata principalmente quando era di buon umore.
Quando tutto gli appariva chiaro e pacifico, dove ogni angolo era per lei ubicazione di imprevisti.
Wyatt, tuttora immobile davanti alla porta, sorrise all’essersi visto bocciare l’idea prima ancora che venisse proposta, poi si affrettò a fare anche lui una doccia.
Per la partenza decise di vestirsi con il suo look casual che indossava generalmente: skinny di jeans chiari, pullover di cotone blu con su stampata una faccina gialla sorridente e un paio di comodi stivaletti in pelle nera.
Un look comodo, ma abbastanza evanescente che riusciva comunque a metterlo al centro dell'attenzione femminile.
La partenza era vicina e all'arrivo del veicolo successe ciò che Margaret aveva sperato.
Wyatt si era fermato a salutare tutti con la sua naturalezza più disinvolta, tuttavia una volta ritrovatosi dinanzi alla madre, si fermò per contemplarla torvo.
Gli occhi di Margaret erano così fragili, schiavi ancora della cicatrice mostrata qualche ora antecedente.
E Wyatt non riusciva proprio a giustiziarla, né a rendere i suoi sentimenti un’emozione di rigetto verso di lei, semplicemente perché, sua madre era il suo eroe.
Colei che aveva salvato l'anima del suo cuore custodendola come il gioiello più prezioso dell'intero universo, chi l'aveva affiancato nei momenti più difficili quando tutto il mondo gli era apparso come un’enorme minaccia nera e chi per nessun motivo al mondo avrebbe messo a repentaglio la sua vita pur di tenere salva la sua.
Cogliendo il perdono tra i suoi occhi, Margaret mosse una mano, per sfiorarlo con un tocco che da carezza si divulgò in un caloroso abbraccio.
E tutto fu perfetto.
Tutto per una scheggia di secondo tornò a risiedere nel passato.
Margaret portò una mano alla nuca del figlio che non era più l'uomo del presente, ma il piccolo pargoletto che ai suoi occhi non avrebbe mai smesso di essere.
Lo stesso che tornando dalla scuola materna gli si gettava tra le braccia urlando il suo nome mentre le ripeteva in continuazione quanto la amasse.
«Vai e non trattenerti. Digli tutto ciò che pensi di lui» lo incitò perciò la donna con tenacia.
«Parlerò anche a nome tuo» promise caparbio. Commossa dalle sue parole, Margaret lo strinse più intensamente a se, prima di sciogliere definitivamente l'abbraccio.
«Mi mancherai» gli disse dal profondo del cuore.
«Anche tu. Ma tornerò. Tornerò come ogni volta» le fece sapere guardandola dritta negli occhi. L'assicurazione del suo ritorno era ben evidente tra le sue pupille ambra cariche di purezza.
Per questo la madre gli credette senza remore.
«Ed è questo che ho ancora la forza per continuare ad aspettarti. Perché sp che tu tornerai sempre da me» i due si riabbracciarono nuovamente, poi fatto il giro di saluti sia da parte sua che di Diana, salirono in macchina.
«Allora dove si va?» l’autista fece la domanda di prassi che avrebbe ripetuto fino al giorno della sua tanto guadagnata pensione.
«All'hotel non so il nome» rispose Wyatt, voltandosi verso Diana per incitarla a dargli un punto di orientamento.
«The Cavendish» disse lei guardandolo sbadatamente.
«Bene! Si parte ragazzi» l’amico autista schiacciò il piede nell'acceleratore e lasciò sfrecciare la macchina sull'asfalto con Katy Perry in sottofondo che colorava di positività il viaggio.



NOTE AUTRICE: e rieccomiiiii con il sesto capitolo. Allora che ne pensate? Continua a piacervi? Wyatt e la madre hanno fatto pace vi ha fatto piacere o pensavate ci volesse ancora un po'? 
E di DIana e Wyatt che pensate? Il loro rapporto si intensifica sempre di più, rendendoli più vicini e consapevoli di questo. 
Diana deve ancora venire fuori per benino, ma poco alla volta si svelerà non temete. 
Bhe, che altro dire? Ringrazio chi leggerà, chi leggerà e recensirà, chi mi aggiungerà alle varie opzioni di scelta della storia. 
Al solito, se volete aggiungermi ai social sono: 

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Thank you so much e alla prossima. 

 

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Capitolo 7
*** La ragazza con il vestito blu e i capelli caramellati. ***


 

 

Capitolo 6


 

"La ragazza con il vestito blu e i capelli caramellati."


 


 

 

 



«Ma non ti preoccupa minimamente l'idea di poter essere immortalato in una foto con me?» sbandierò Diana preoccupata.
Si era appena barricata nella macchina e non gli passava neanche di striscio l'idea di scollarsi da quel sedile.
In tutto questo, i due martiri rimasti vittime – Wyatt e l’autista si intende - del suo richiamo stavano cercando di farla ragionare, ma lei neanche li stava a sentire.
Teneva le gambe incrociate allo stesso modo delle braccia e fissava il movimento sciolto delle persone che andavano e venivano dall'aeroporto in modo superficiale.
«Tanto nel bene o nel male troveranno sempre qualcosa di illecito sul quale sparlare nelle riviste» comunicò Wyatt più docile del solito.
«Appunto. Meglio che l'illecito sia argomentato su UNO anziché DUE» insistette Diana, appesantendo l’intonazione vocale nei numeri uno e due.
Diana era stata presa da così tanti pensieri che aveva dimenticato quello di più essenziale importanza.
E non si stava parlando di un pensiero frivolo del tipo: ho dimenticato di andare in palestra per capriccio o ancora peggio del dover cambiare lo smalto alle unghie.
Questa era una faccenda seria. Con tutto di annessi e connessi.
Diana se lo chiedeva e richiedeva. Come aveva potuto permettere che accadesse una cosa del genere?
Come aveva potuto dimenticare proprio quello che le interessava direttamente in prima persona?
E come poteva credere che non si verificasse?
Non riusciva proprio a trovare pace e più ci rimuginava, più la sua voglia di farsi prendere a mazzate si faceva lecita nella sua mente.
Non gli andava proprio di essere il nuovo soggetto degli scoop di quei giornali scritti da editori con un cervello paragonabile a quello di una gallina, né la causa dei nuovi scandali di Wyatt, e una volta usciti dalla macchina per prenotare il volo, i loro inopportuni obbiettivi mimetizzati in mezzo al traffico urbano, li avrebbero congelati in una foto equivoca su cui montare su una storia falsa senza alcuna credibilità.
Le inaugurazioni di un nuovo flirt passeggero, lo sviluppo delle minacce aperte delle fan che si sarebbero sentite cornificate dal loro idolo e per finire il ricovero in ospedale dell’innocente di turno a causa di un forte crollo emotivo.
Un brivido si fece strada lungo la scia della sua schiena facendogli muovere celere la testa per sopprimerlo.
Non doveva apportare cose simili nella sua mente o solamente immaginarle.
Non era corretto nei riguardi del chiamato in causa e neanche di grande aiuto per il suo coerente ragionamento.
Se solo ripensava a quanto fosse stato agevole passare per l'albergo, facile come bere un bicchiere d'acqua, una risata tagliente si ampliava nella circonferenza delle sue labbra.
Era stato esilarante come in soli dieci minuti era riuscita a soddisfare tutte le sue esigenze primarie: il cambio di indumenti - con qualcuno seduto sul letto che si era mostrato particolarmente interessato alla sua marca d’intimo – fu più veloce dello strappo di un cerotto.
La messa in piega riordinata – con qualcuno che si lamentava della scocca fissazione che fossero fuori posto quando erano perfetti – un capriccio al bacio.
E la valigia riempita con l'indispensabile – con il totale disinteresse delle persone che l'avevano avuta al suo fianco – liscia come l’olio.
Nessun inciampo comunicativo o riconoscimento della vanesia star.
Ma uscire all'aeroporto insieme a quell'individuo chino davanti a lei, che tra l'alto cominciava a stufarsi del suo infondato comportamento, era tutta un’altra bega. Bega che costituiva in primis la sua tanto amata privacy.
«Dai Diana!» le disse provandola a prenderla con parole complesse e profonde.
«Tanto non cambia niente. Anche se fossi solo troverebbero qualcosa di impensabile e illegale su cui scatenare commenti sgradevoli» caricò quindi più irato.
E in fondo non era una balla per cercare di persuaderla.
Wyatt sapeva a cosa esattamente a cosa stava pensando la ragazza.
Come puoi vivere in una realtà tossica fatta di compromessi e infamie?
Non te ne adattavi, non lo accettavi neanche, semplicemente ti convincevi di volerlo.
Dopotutto, questo il prezzo da pagare per la fama avuta. Il costo che ogni persona famosa che sia stata, doveva puntualmente scontare in cambio del loro successo planetario.
Era da sempre stato così e sarebbe continuato ad esserlo.
Qualunque cosa avesse fatto una celebrità, anche la più innocente, i paparazzi avrebbero trovato un paradosso su cui alimentare stronzate.
Wyatt fuma: drogato.
Wyatt è dimagrito: anoressico.
Wyatt è in compagnia di una sconosciuta: puttaniere.
E ancora Wyatt ha un nuovo tatuaggio: cattivo esempio.
Era un punto di vista arduo da gestire, ma che valeva la pena sopportare per poter continuare a far vivere il proprio sogno. O almeno finché non cominciavi a sentirne il malessere costante della sua massacrante influenza.
«Alla fine ci fai l'abitudine e non ti scalfiscono neanche più» completò, fissandola con fare comprensivo.
Intimidita da quel comportamento, Diana abbassò la visuale nel braccio proteso verso di lei, dove vide il tatuaggio di un cuore tribale.
«E della tua “fidanzata” che mi dici?» nel pronunciare la provocazione, la ragazza tornò tenacemente a guardarlo. Aveva usato la definizione “Fidanzata” con un’astuta acidità perché fin dall’inizio aveva trovato quella commedia Shakespeariana scritta con i piedi più finta della sua prima tinta biondo cenere.
«Metti caso gli venga in mente di accecarmi un occhio con un tacco a spillo dodici» Wyatt fece un mezzo sorriso nel sentire l’ipotesi tragi – comica immaginata dalla ragazza.
«Lana non è un più un problema. Io... non la amavo. Lei... non mi amava. Ci siamo lasciati di comune accordo. E si è tutto risolto in tempo record» le raccontò privo di alcuna emozione nel viso pallido e scarno.
Il pensieri principale di Diana fu “Lo sapevo che era tutto studiato a copione”. Tuttavia, ci pensò comunque su un attimo per trovare un’altra scappatoia su cui marciare e averla vinta, ma avere il suo sguardo stabile su di lei, la faceva sentire a disagio.
Non sopportava proprio che la fissasse in quel modo. Proprio per questo non riusciva a riflettere appropriatamente.
Lamentava di un senso di agitazione spontanea dovuta al riscontro dei suoi occhi che erano il calco simmetrico del gemello.
«D’accordo» si arrese lei, sbuffando scocciata. L’aveva fatto giusto per fargli scrollare lo sguardo dalla sua figura. Non aveva voglia di riaffrontare mentalmente i fantasmi amorosi del suo passato ancora fresco.
«Ma bada che se per caso a qualche tua fan sfegatata venisse l’insana idea di farmi un agguato morale o fisico, sarai tu a farmi da scudo» principiò, volando subito dopo fuori dall'automobile con un salto.
Wyatt fu talmente divertito dalla sua condizione, da mettere in atto una medievale messinscena improvvisata.
«Qui per servirla Milady» le recitò. Poi in contemporanea chinò il capo sul petto, portò una mano sull'addome e piegò leggermente la gamba verso sinistra.
Diana cominciò a pensare che le stesse dando il ruolo della dama indifesa e lui si fosse preso quello dell’ardito cavaliere incaricato di proteggerla durante le sue passeggiate in giardino.
La cosa le parve stucchevolmente sovradimensionata, da fargli rimangiare ogni parola condivisa.
«Ho cambiato idea. Mi basto da sola» sputò dura come la roccia.
«Ogni sua soave parola, corrisponde ad un ordine per me» le disse con un sorriso a trentadue denti che sembrava più uno sfotto.
Quindi le tese la mano come per siglare un accordo tra i due, ma Diana la scaccio via spazientita, per poi avviarsi altezzosamente verso il cofano della macchina così da recuperare la sua valigia.
«Dai andiamo che perdiamo il volo» incitò ora impaziente di partire. Aveva impugnato il manico della sua valigia ciano brillante e si era messa gli occhiali da sole cat eye per sembrare più anonima possibile.
L’autista sollevò le sopracciglia sconcertato. Wyatt in risposta lo guardò facendo spallucce.
«Si lo so. Lei è Diana. Che posso farci?» lo anticipò il più anziano.
«Lei è Jenny» Wyatt marcò il soprannome che le aveva assegnato per tenerglielo bene in mente.
L'autista lo appuntò con una guardata esterrefatta.
«Stare con lei ti ha fuso il cervello» concluse e gli passò il bagaglio.
«Era già fuso di suo e comunque io la trovo strana forte» Wyatt afferrò la valigia, stampandosi sulle labbra il sorriso più paraculo dell’universo.
Così, dopo aver racimolato ogni oggetto da loro caricato, si immersero dentro quella struttura sovraffollata da una chiassosa babilonia che andava dai sessantanni ai quindici.
Con pochissimi passi percorrerono metà del tragitto che avrebbero dovuto fare e mentre si apprestavano a fare il Check-in poterono individuare le varie classi tipiche del posto: c'era chi attendeva l'arrivo del suo volo, chi prenotava, chi partiva o all'opposto tornava da un beneamato viaggio.
L’aria e gli odori cambiavano a secondo della nicchia in cui ti ficcavi.
Questo valeva a dire che poteva profumare di cornetto al cioccolato come appesantirsi in un pestilenziale puzzo di sudore umano.
La fila nella quale si erano posizionati, stranamente non era per niente infinita, anzi, davanti a loro si contavano presso a poco cinque persone. Anche l'andamento era abbastanza svelto.
Quando fu il loro turno, Diana non capì se la ragazza posta nel rispettivo lato inverso avesse riconosciuto la giova star o fosse stata ammaliata al primo sguardo.
Lo guardava come se fosse un Dio appena sceso sulla terra per mostrare noi che esistesse qualcosa di più immane degli spiriti mortali.
Un essere circondato da migliaia di donne, soldi e contratti che davano lui l'opportunità di aprire altre porte utili per la sua formazione ancora in ascesa.
A parte questa piccola parentesi - più simile a uno spudorato flirt che a una prenotazione - fu tutto molto semplice e rapido.
Ora seduti uno di fronte all'altra nella sala d'attesa, i due ragazzi attendevano che le famigerate tre ore che avrebbero segnato l'arrivo del loro volo passassero leggiadre.
Non sapendo cosa fare, Diana si armò di telefono per twittare qualcosa di relativamente sostanzioso.
<All'aeroporto con un compagno speciale. C'è gente che ucciderebbe per trovarsi al mio posto>
Diana era sicura che nessuno dei suoi cento follower avrebbe mai decodificato il suo contenuto elusivo.
Se voleva sfruttare la cosa, si sarebbe dovuta fare una fotografia con lui e Twittare qualcosa del tipo "Guardate con chi sto viaggiando? Da non credersi eh?" vedendo i risultati favoriti o disistimati che quel suo momento di popolarità avrebbe scatenato sui social.
Ma a lei non interessava questo genere di attenzione. Era una ragazza abbastanza basica e fiscale sulla sua privacy.
C’era gente che inventava le vicende più fantasiose o scriveva intenzionalmente qualcosa di provocatorio solo per salire di numero di seguaci, tuttavia esistevano anche persone come lei che preferivano continuare ad essere ignorate parlando dell’assoluta verità del loro pensiero.
«Che cavolo stai leggendo?» chiese poi al suo compagno di viaggio che teneva aperto nella mano destra un romanzo, il cui titolo le riusciva difficile da identificare.
La ragazza quindi si alzò dal suo posto e si andò a sedere a quello appiccicato al ragazzo.
«Dieci Piccoli indiani? Cominci con qualcosa di impegnativo» lo stuzzicò dopo essere riuscita a leggere il titolo e l’autrice.
«In realtà la mia primissima lettura è stata Spider Man» le confessò lui passivo.
«Vale no?» si assicurò poi avendo un dubbio esistenziale. Il libro gli era finito poggiato semiaperto sul grembo.
«Si, diciamo che passa come lettura» gliela convalidò poiché la sua era stata un manga.
«Però ora che facciamo? Hai tutto il tempo per leggere durante il volo» chiese quest'ultima per agganciare parola.
«Quello che ti va» capendo ci non poter leggere più di due righe messe inseme, Wyatt rintanò il romanzo nello zaino. Quindi si era accomodato nella sedia come fosse a casa sua: gambe e braccia aperte che gli davano quel suo ormai celebre aspetto da sfaticato.
«Mmm..» Diana chinò la testa a sinistra per aiutarsi a pensare.
«Giochiamo a obbligo o verità» suggerì esuberante senza chiedere. Con lei una scelta non c'era. Per questo non domandava mai.
«Ok! Inizio io?» la assecondò. Anche se parve più che gli avesse chiesto il permesso di andare in bagno.
«Vai sono pronta! Scelgo...» Diana soppesò attentamente lo sguardo ambra del ragazzo. Distogliendolo non poco dopo.
Per non farsi contagiare dall’effetto di quel contatto, si chiese su che livello di malizia venissero concepiti i suoi obblighi.
Ad esaminare la sua persona non sembrava il tipico s*****o con in possesso una quantità di b***********e capace di partorire obblighi disagevoli, ma proprio per questo doveva stare prudente.
Solitamente era proprio questo genere di persone a mostrarsi più perfidi della perfidia stessa.
«Obbligo» disse a mento sollevato. Voleva vedere che cosa avrebbe ingegnato la sua mente perversa. Perché di una mente perversa di stava di certo parlando.
«Mh!» il ragazzo mise una mano sotto il mento per pensare, ma non ideò nessun geniale e spassoso obbligo.
Voleva concepire qualcosa che l’avrebbe abbondantemente irritata. Qualcosa di illuminante e vittorioso
Perciò fu la sua volta di esaminarla più scrupoloso di una visita dermatologa: dei comodi stivaletti scamosciati color petrolio, una camicia verde marino infilata dentro i Skinny Jeans bianchi e totale assenza di trucco.
Wyatt, contrasse la fronte particolarmente risentito.
Nessun indizio utile.
Niente di eccentrico, eccetto che fosse una sfacciata ragazza acqua e sapone.
Stava per dare la sua disfatta, ma poi, Wyatt si voltò, e finì per essere fulminato da una ragazza, il cui caso volle, passasse proprio davanti a loro.
Era bellissima.
Aveva dei sottili e mossi capelli caramellati che ricadevano sull’ovale sfilato del volto, gli occhi di un ghiaccio disarmante e un fisico leggiadro, ma carnoso nei giusti punti.
L’abito che indossava era in velluto blu a scollo quadrato con la gonna svasata che gli falciava l'attacco coscia, mostrando le sue eccelse gambe.
Ma la cosa che più lo folgorò non fu il suo aspetto fisico quanto la sua stazza, praticamente equivalente a quella di Diana.
Il ragazzo perciò spostò lo sguardo a quest'ultima e per lui fu elementare collegare i due indizi.
«Devi scambiarti di abiti con quella ragazza» la intimò di umore frizzantino.
Certo non era un obbligo abbastanza bastardo da provocare la sua umiliazione e di conseguenza ribellione, però sapeva che l'avrebbe infastidita. Doveva per forza infastidirla notando il caratterino genuino che si ritrovava.
Diana segui la traiettoria del suo dito e spalancò la bocca scioccata.
Le venne da pensare che non fosse più questione di bastardaggine, ma proprio sadicità.
Guardava la ragazza camminare e nel frattempo coglieva quegli irrilevanti dettagli cospiratori di una catastrofe assicurata.
Quei tacchi a spillo - alti più o meno tre centimetri – sarebbero stati una sanguinosa tortura che le avrebbe tolto la facoltà di camminare per dodici ore abbondanti.
E cosa dire del vestito invece?
Con il portamento grezzo che si ritrovava, più che una vamp ammaliante, sarebbe somigliata ad una donna delle caverne ubriaca travestita per la sfilata di carnevale.
A quel punto Diana, si voltò verso di lui con ancora quell'espressione impressa sul volto.
«Cosa c’è? Stai per caso pensando di swishare?» le lesse in faccia Wyatt.
Fu allora che Diana capì di non dovergliela dare vinta.
Non a lui.
E il suo nuovo obbiettivo, adesso si era mutato in quello di strappargli dalle labbra quell'insopportabile sorriso da ebete che la sapeva lunga sul da farsi.
«Scordatelo. Guarda e stupisci» gli disse con l’aria più dignitosa che possedeva. Quindi si alzò e lanciandogli una bomba atomica di sguardo, inaugurò la sua breve marcia verso quella povera ragazza inconsapevole di essere vittima del loro scellerato gioco.
«Scusa» nel chiamarla, Diana la sfiorò per un braccio buzzurra.
«Si?» la ragazza si voltò con un cipiglio sul volto. Cercava di capire per quale arcana ragione una perfetta sconosciuta l’avesse fermata.
«E..ecco.» solo in quel momento si rese conto quanto imbarazzante sarebbe stato lo scontare la condizione dell’obbligo.
«Piacere sono Diana» fece nel pallone totale.
«Io sono Joy. Molto piacere» rispose lei sorridendole candidamente.
«Si senti, nell’attesa del nostro volo, io e un tizio stiamo giocando a obbligo o verità» Diana cercò di buttare fuori dal suo cervello la paranormale idea di fare lo scambio di corpo con quest'ultima, pur di evitarsi quella pietosa figura di popò.
«Okay» Joy acconsentì con lentezza per fargli capire che stava seguendo il suo discorso.
«Io come avrai intuito ho scelto obbligo» Intuito.
Come poteva saperlo?
Diana delle volte era più deficiente di quel baggiano che le aveva dato un obbligo tanto irrisorio.
«E cosa comporterebbe quest'obbligo? Un bacio?» domandò Joy con lo sguardo ghiaccio penetrante. Aveva giustamente ipotizzato che fosse l’obbligo più scontato in questi tipi di gioco.
«No, non è un bacio» rispose fin troppo impulsiva. Poi si voltò per perforare negli occhi il diretto interessato come un proiettile senza aspettare una sua presuntuosa replica facciale.
«E comunque l’obbligo è che dobbiamo scambiarci i vestiti» disse di corsa.
Joy rimase un po’ perplessa da quella proposta e il viso di Diana si stizzi in reazione.
«Ma se non vuoi no eh?» le evidenziò, malgrado questo significasse perdere vergognosamente contro quel baggiano di prim’ordine.
«Però ti avverto che il tizio che l'ha dettato si crede un uomo di mondo e poi non ha mai mangiato la pizza Italiana. Cioè, la pizza Italiana. Capisci?» con quella battuta sarcastica
Diana riuscì a convincerla perché la ragazza sprigionò un sorriso che avrebbe fatto concorrenza alla Venere di Botticelli per quanto dolce e splendete fosse.
«Ok! Mi hai convinto!» esclamò divertita. Poi la incitò con la mano a seguirla nei bagni dell'aeroporto.
Ci misero poco a cambiarsi – ognuna in un divisorio di bagno diverso - e quando Diana si infilò il vestito, immediatamente, avvertì l'alternanza del suo modo di vestire con quello che sporadicamente maneggiava su se stessa, ma che intimamente adorava.
«Il tuo amico ha un ottima vista» improvvisò Joy nel mentre che sbottonava audacemente i due bottoni iniziali della camicia.
Quando uscendo dal rispettivo divisorio, si erano viste dentro le vesti dell’altra, aveva fatto ad entrambe uno strano effetto, ma furono pervase anche da un insopprimibile entusiasmo.
«Come faceva a sapere che ci sarebbero stati a pennello?» le chiese Joy.
«Già, come faceva a saperlo?» domandò Diana alla sua ragione. Aveva come l’impressione che avesse memorizzato le sue misure quando si era cambiata in albergo.
Come era potuto risalire alle sue taglie da donna con una sola occhiata?
Possedeva forse un metro da sarto per cervello?
Diana era a conoscenza di gente dotati di capacità sovrumane quali l’orecchio assoluto o la memoria fotografica. Ma questo superava persino il surrealismo truffato con cui i mentalisti ti leggevano la mente.
L’immagine di mammifero bisognoso di carezza che aveva di lui, si stava sollecitamente tramutando in quella di uno specialista di porno come Rocco Siffredi.
«Stai da favola!» le disse Joy franca. Si era messa dietro di lei a braccia incorniciate e ne ammirava le forme morbidamente seducenti ben evidenziate dalla stoffa di velluto del vestito.
«Grazie! Non pensavo potesse donarmi così bene» Diana accettò il complimento, non riuscendo a smettere di guardare il suo riflesso. In fin dei conti il suo reale pallino non era mai stato il vestito.
Diana adorava i vestiti. Adorava sopratutto ogni qual tipo di capo, oggetto o accessorio che le avrebbe valorizzato il corpo femminile.
Tutto, eccetto i tacchi.
Non sapeva il perché, ma aveva sempre avuto questa insana paura e forse l'insicurezza di non saperli portare era stata sua complice giurata fin dalle origini.
«Potrei sapere chi è il tuo amico? Dovresti farmelo conoscere» Joy le fece una richiesta opportuna, ma che per Diana figurò come una tragedia senza pari. Ed ecco che la spettrale sinfonia di Beethoven si faceva spazio nel suo cervello.
E adesso?
Adesso, cosa avrebbe dovuto fare Diana?



NOTE AUTRICE: Ma ciaoooo. Si, non smetterò mai di rompervi le scatole con le mie storie. Che potete farci? 
Beh, questo è il sesto capitolo. Che ve ne pare? 
I due protagonisti vi piacciono sempre di più o di meno? 
E di Joy chemi dite? Se per adesso non vi ha detto molto vedrete che nel propssimo e i prossimi avrà modo di imporsi di più nella trama. 
Ma  secondo voi ora che farà DIana? Glielo presenterà o no? 
Beh, non so cosa altro aggiungere oltre che farò presto i personaggi della storia con Picrew e che ringrazio chi leggerà silenziosamente, chi recensirà, mi manderà messaggi per dirmi cosa pensa della storia e di me come scrittrice, o ancora, aggiungerà alle varie scelte di preferenza. 
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Alla prossima. Byeeee. 

 

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Capitolo 8
*** Hylda. ***


Capitolo 7


 

"Hylda"


 

 

«Si certo» rispose Diana non appena vide che la ragazza cercava con insistenza la risposta tra i suoi occhi.
Il suo sorriso esaltava disponibilità, ma dentro non poteva fare altro che pensare di essersi messa nella m***a più totale.
Tutto a causa di quella vanesia di star che in quel momento se la stava sicuramente ridendo alle disgrazie del prossimo.
Diana rifletté ironicamente sul fatto che fosse proprio una meravigliosa persona.
Ma le venne più voglia di scaraventare la sua stessa testa al muro per aver approvato la stramaledetta richiesta di Joy.
E poi anche se l’avesse voluta disapprovare, cosa si sarebbe potuta inventare lì per lì?
«No,mi dispiace. E’ sotto copertura» o ancora più credibilmente.
«La verità è che è un pazzo che mi ha rapita e adesso sono alla sua merce»
Si. Davvero molto veritiera.
Talmente attendibile che se avesse scritto un romanzo, avrebbe fatto sembrare un mondo di fantasia costellato di unicorni e vampiri surreale.
Pensare anche solo di inscenare una cosa del genere, sarebbe certamente stata passata come la stronzata più idiota di tutta la storia delle balle mai inventate.
Se prima non fosse scappata la denuncia.
«Okay! Andiamo» disse poco convinta Diana. Il sorriso forzato che si era sprigionato tra le labbra, la mise ancora di più a disagio.
L’unica sua speranza si riponeva nell'eventualità che la mano stretta da Joy sarebbe appartenuta ad un estraneo appena conosciuto.
Sicuro.
Si.
Calcolando la fama mondiale di cui gli “Heart Sound” disponevano, era probabile come un canguro che prendeva dimora fissa al polo nord.
Diana contrasse le sopracciglia avvilita, non osava immaginare a cosa si sarebbe potuto scatenare tra non molto.
Un ribrezzo di angoscia le percorse lo stomaco perché sapeva che il riconoscerlo e passare ai convenevoli, avrebbero rappresentato solo il rito d'apertura di quel mondano festival d'acclamazione.
La cerimonia d'introduzione avrebbe poi occupato un'ora compatta solamente spesa per autografi, foto, abbracci e discussioni inutili, per poi chiudere l'operetta al meglio con un sensazionale assolo improvvisato richiesto a gran voce dagli spettatori, impazienti di poter cantare con il loro tanto amato idolo.
Fantastico. Si disse Diana.
Fantastico come la cacca delle colombe che precipitava violenta sulla spalla sinistra di un povero malcapitato.
Ma non aveva altre alternative. Quindi la portò fuori dal bagno, guidandola con rammarico fino alla postazione della “celebre stella inglese”.
Celebre stella inglese” che nel frattempo se ne stava li, seduto come un fannullone a spolliciare sul cellulare e aggiornarsi sui nuovi Twitter altrui.
Ma poi, Twitter smise di guadagnarsi la sua indiscussa attenzione, perché a sorpresa, tra la folla era comparsa lei: Diana.
O per meglio correggersi: chi è quella? Si chiese il ragazzo.
La osservava fissamente, ma continuava a non averne la più pallida idea.
Wyatt pensò che si trattasse di uno scherzo. Che sparendo nel bagno avesse chiamato la sua gemella o beccato fortuitamente una sosia di passaggio all'aeroporto.
Qualunque cosa, ma non che si trattasse della stessa ragazza che aveva accettato di scontare il suo obbligo, perché se così fosse stato, Wyatt ne era appena stato stordito.
Non riusciva proprio a capacitarsi della sua mutazione fatale appena avvenuta.
Era come se la vecchia Diana fosse stata assassinata dalla nuova per rinascere sotto un’altra aura.
La osservava farsi strada tra la folla con quel suo fare altezzosamente variopinto, ma maledettamente sexy – che lui aveva già notato anche nella mise di jeans e camicia – e proprio come lui, anche le persone indietreggiavano al suo passaggio per lasciarglielo libero, quindi identificarla.
Tutti, compreso lui medesimo, credettero di guardare una popolare artista del Pop affiancata dalla sua manager, e forse, qualcuno aveva alzato il braccio per strappargli un autografo.
Era stato incredibile, inverosimile come solo un vestito potesse averla cambiata fino a quel punto.
Era bastato solo quello per fargli assumere un aspetto più maturo, femminile e appariscente.
Una facciata ricercata da chiunque, ma che solo in pochi riuscivano ad ottenere.
Diana in quel momento stava davvero splendendo. Splendendo di luce propria.
Diana in quel momento stava ammaliando ogni tipo di sesso e cosa con il suo scintillante bagliore.
E adesso si era appena rilevata al suo primo pubblico. Li stava incantando, li trascinava a se per renderli schiavi del suo travolgente folgore.
Si, perché Wyatt aveva finalmente capito che Diana era stata concepita per essere ciò che era lui.
Lei era una stella. Una stella nata per brillare davanti a tutto il mondo.
«E’ lui» disse Diana una volta raggiunto. E soltanto allora realizzò che il dito di lei gli stava quasi sfiorando il naso.
«Hey!» esclamò Wyatt porgendo direttamente la mano a Joy.
Diana sudò fredda nel vederla inarcare le sopracciglia e ricambiare volentieri il suo gesto.
«Piacere Joy» Diana non staccava gli occhi da lei per captare ogni minima reazione del suo corpo.
Lo sentiva che lo stava riconoscendo, lo avvertiva nelle budella che lo voleva elogiare e questo comportava un urlo capace di fracassare i timpani dell’intera umanità.
Diana serrò gli occhi in attesa di essere colpita da quel fastidiosissimo suono, ma niente di tutto ciò accadde.
«Certo. Adesso so chi sei» disse Joy.
Ciò significava che fra tre, due, uno.
Il conto alla rovescia predestinato di Diana giunse al termine, tuttavia del suo timbro vocale che raggiungeva gradazioni astronomiche, non c’era alcuna traccia.
«Sei quel ragazzino della band che mia sorella ama tanto» dedusse lei con voce fluida.
«Ragazzino?!» replicò Wyatt. Aveva inclinato la testa e ridotto a due fessure lo sguardo palesemente risentito dal sostantivo attribuitogli.
«Hey, aspetta, h..hai appena detto ragazzino?» vociò Diana a bocca spalancata. gli era venuta una voglia improvvisa di farla Santa subito.
«Scusa, se te lo chiedo, ma quanti anni hai?» le domandò poi curiosa più di una vecchietta affacciata alla finestra.
D’accordo era maleducato chiedere l’età ad una donna, però questa era una situazione particolare dove tutto era concesso e niente privato.
«Venticinque» le rivelò lei orgogliosa.
«Te li porti bene»
«Grazie. Anche tu» si fecero i complimenti a vicenda, senza alludere a quanti invece ne dimostrasse Wyatt.
«Comunque ho un favore da chiederti» dichiarò Joy ad entrambi, sebbene la richiesta fosse indirizzata solamente a Wyatt.
Quest’ultimo acconsentì con un movimento netto della mano sinistra.
«Potresti chiamarla?» Joy gli passo il cellulare dopo averlo cercato nella borsa.
Il giovane lo prese senza sapere cosa effettivamente farsene.
E nel contempo Diana se ne sedeva accanto, lamentando i primi dolori da tacchi ai piedi.

«Io intendo mia sorella. Si chiama Hylda» si affrettò a spiegare quindi Joy.
«Sai, sfortunatamente a causa mia non è potuta venire a uno dei vostri tanti concerti e mi sento ancora molto in colpa. Così se la chiami, beh, la renderesti davvero felice. Ci renderesti felici”» finì, parlando affettuaosamente.
«Yeah! E quella già selezionata giusto?» Wyatt accettò senza interposizioni.
Per lui, proprio come Noah, non c’era niente di più giusto del trattenersi a parlare il più allungo possibile o esaudire ogni desiderio dei loro pazzeschi fans.
E niente e nessuno avrebbe potuto mai mettere pesantemente in discussione questo loro lato espansivo perché era diventato un dato di fatto.
Gli Heart Sounds adoravano i loro fans.
Gli Heart Sounds provavano un amore incondizionato per ognuno di loro.
Restituirglielo era il loro più grande “GRAZIE”.
Dopotutto le star sapevano – malgrado alcuni fingevano di non ricordarlo apparendo degli ingrati– che era sopratutto per merito dei fans se si trovavano in cima alle classifiche mondiali e che senza il loro prezioso supporto avrebbero visto finire la propria carriera in un soffio di vento.
Per questa basilare quanto solenne ragione non li trascuravano mai anche in gesti di questa misura.
Intanto il telefono squillava e Wyatt attendeva con pacatezza l’accettazione della chiamata.
«Pronto?» una voce ridotta si decise a rispondere.
«Hi, Parlo con Hylda?» disse Wyatt entusiasta.
«Si, chi è che parla?» l’intonazione della ragazzina gli fece intende che forse era ad un passo dallo scoprirlo.
«Wyatt degli “Heart Sounds”» Wyatt pronunciò il suo nome come lo avrebbe enunciato il presentatore di uno show televisivo.
«Oh, mio Dio» la voce di Matilda si accese di felicità. Poi fece una breve pausa.
«Wyatt, ma alllora sei davvero tu?» gli chiese più contenuta. A differenza da come avrebbe supposto chiunque, esattamente come la sorella, non strillò affatto.
La sua intonazione era diventata lievemente ansiosa, ma aveva la sicurezza che fosse lui perché conosceva tutte le sfumature della sua voce e neanche un'imitatore sarebbe mai riuscito ad ingannarla. 
«Yeah! Tua sorella mi ha detto tutto. Spero che potrai rifarti alla prossima» gli riferì stranamente conversativo.
Hylda dall'altra parte della cornetta, ci mise un po’ a rispondere.
«Lo spero tanto anch'io» parlò e fece un’altra pausa.
«T..tu non sai alla gioia che mi hai dato chiamandomi» un’altra pausa e fu nuovamente pronta a dialogare con il suo beniamino.

«Tu e Noah mi avete ridato la vita. Voi, avete avete dato al mio cuore un motivo per reagire e combattere. Grazie a voi, adesso so quanto immenso e importante sia il valore dei suoi battiti»
«La vita di tutti è importante. Non scordarlo mai» le parole di Wyatt scorrerono limpide come un fiume che defluisce in una cascata.
Ed era in situazioni di questo genere che Wyatt riusciva a vedere in se stesso ciò che gli altri vedevano in lui.
«Lo farò. Grazie ancora per quello che mi darete»
«Grazie a te» gli rimbalzò modesto Wyatt. E anche se non poteva vederlo, il suono del sorriso di Hylda fu perfettamente udibile.
«Grazie, grazie di cuore» esibì Joy, dopo essere tornata dalla chiacchierata tu per tu con la sorella.
«Per così poco?» la agevolò Wyatt, tornando ad assumere la posizione da fannullone.
«No dico sul serio. Voi siete davvero speciali. Mia sorella non si sbagliava. Non è da tutti accettare richieste di questo calibro, ma tu l'hai fatto. L'hai fatto come se stessi parlando con la tua sorellina minore» nel parlare Joy si sedette sulla stessa sedia nella quale si era accomodata qualche minuto antecedente.
«È il mio lavoro. E io voglio rispettare la mia buona condotta» le illustrò, auto – etichettandosi come un ragazzo fatto di oro e impreziosito di diamanti.
Diana lo guardò di sottecchi.
Tsk. Buona condotta.
Voleva per caso indossare le vesti immacolate di un angelo?
I suoi patetici tentativi di mantenere la fedina pulita poteva anche risparmiarseli e non che lo stesse accusando di reati gravi come il rubare, uccidere o stuprare, era semplicemente, che lo stava profilando.
Lui stesso come tutti era un ragazzo, un uomo o per fare i taccagni un essere umano e come tale era stato schiavo di azioni sbagliate.
Tutti, almeno una volta nella vita, lo eravamo stati.
Faceva parte dello sviluppo mentale e camminava a braccetto con il fluire del suo corso.
«Tua sorella quanti anni ha?» le chiese perciò Diana lineare.
«Quindici» disse lei affondando la testa nelle mani.
«Lei ha subito da poco un’importante operazione al cuore» raccontò.
E quando sollevò nuovamente la testa, i suoi occhi azzurri erano appannati e addolorati.
Diana e Wyatt si guardarono perplessi e una sensazione di ingiustizia si generò al loro interno. Sopratutto in Diana.
Lei sapeva bene la differenza che c’era fra il dolore emotivo e carnale. E quello della sorellina era una vera malattia. Una malattia constatata giornalmente sulla sofferenza del suo corpo.
«Scusaci, noi non» balbettò Diana, ma Joy la interruppe per giustificarli premurosamente.
«Non preoccupatevi. Voi non lo sapevate. Avete ragione»
Wyatt ripensò alle parole di Hylda.
e Noah mi avete ridato la vita. Voi, avete dato al mio cuore un motivo per reagire e combattere. Grazie a voi, adesso so quanto immenso e importante sia il valore dei suoi battiti>
Un brivido freddo gli percorse il braccio e il respiro gli si mozzò al solo rimembrarle.
Ogni sua singola parola, gli si stava insidiando nel cervello ardua, offrendogli la soluzione di ogni suo gesto fatto.
Quelle sue parole non erano state soffiate per mostrare lui a che livello di esagerazione spaventosa si fosse innalzata la sua fedeltà da fan.
E quelle sue pause a sua volta seguite da quella sua voce troppo stanca e affaticata non erano per riscontro all'emozione del parlare al telefono con Wyatt dei Heart Sounds”.
No.
Era il suo cuore.
Il suo cuore infermo.
Il suo cuore, che nel battere troppo deciso le causava problemi respiratori, privandogli di avvertire quella maestosa sensazione nel pieno della sua grandezza.
Un senso di colpa lo invase completamente.
Se solo avesse saputo.
Se solo avesse saputo, le avrebbe trasmesso più di quanto non gli aveva già trasmesso nel canto.
Le avrebbe dato una speranza più valida della validità stessa che racchiudeva il nome della band.
«Adesso capisco» nel parlare Wyatt aveva fissato il vuoto, ma spostò subito dopo la visuale a Joy.
«Da quanto tempo è così?» Chiese Diana. Non era un'impicciona, voleva solo arrivare al lieto punto in cui si parlava della sua completa guarigione.
«Ha cominciato ha manifestare i primi sintomi all'età di undici. Per un periodo è sempre riuscita a riprendersi, ma negli ultimi tre anni i suoi attacchi sono diventati ricorrenti e preoccupanti finché non si è arrivati al punto di doverla ricoverare d’emergenza.» nel narrargli quei sofferti aneddoti, Joy spostò le mani all'interno delle gambe per trattenere meglio la rabbia.
Ricordava perfettamente come si era sentita e come avrebbe continuato a sentirsi in alcuni casi della malattia della sorella.
Nonostante tutti gli sforzi fatti e il tempo passato con lei, si sarebbe sempre data della nullità.
Perché l'unica cosa di qui Matilda aveva più bisogno, era proprio quella che lei non poteva dargli.
«E i tuoi?» le domandò Wyatt.
L’argomento genitori era diventato per lui uno di quelli imprescindibili e rivelatori.
«Loro sono morti in un incidente stradale cinque anni fa. Ma per me non è stato mai un peso prendermi cura di lei. Anzi, il farlo mi gratifica. Vedete, ormai io e mia sorella siamo talmente unite e dipendenti l'una dall'altra che il solo pensiero di dividerci ci fa stare male» proseguì la storia, portandosi una mano al petto.
«Però, negli ultimi tempi aveva perso tutte le speranze che l'avevano lasciata attaccata alla vita. Si stava lasciando andare. Pensava di non poter essere un’adolescente come le altre e che fosse stata lei la causa dell’incidente dei miei. Era immobile. Non parlava. I suoi occhi erano vuoti e non si nutriva di alcun alimento. Io ero così disperata. Non sapevo più come motivarla, ma un giorno ho acceso la televisione per caso e voi stavate cantando. Non ho mai creduto hai miracoli fino a quel giorno, però mi sono ricreduta.» nel raccontare quella parte della sua vita, un sorriso che le irradiò gli occhi di luce, si mostrò a loro.
«Voi l'avete salvata. Voi le avete fatto ritrovare il sorriso perduto e la possibilità di sognare che un giorno tutto questo sarebbe finito. Ma la scorsa settimana, ha avuto un attacco violento. I medici mi hanno detto che aveva urgente bisogno di essere operata. Fortunatamente, grazie ai soldi che i nostri genitori ci hanno messo da parte e il mio lavoro, non abbiamo mai avuto problemi economici, e fortunatamente, grazie a colui che veglia su di noi dall'alto, l’operazione è andata bene. Dovrà stare sotto controllo per qualche periodo poi potrà iniziare la sua fase convalescente a casa» concluse rasserenata dalle sue stesse parole.
Wyatt l'aveva fissata per tutto il tempo e per la prima volta, dopo sua madre, riusciva a provare ammirazione incondizionata verso una donna e non attrazione fisica.
Lui che aveva da sempre amato gli occhi azzurri, ne era appena stato rapito.
Non della sua gradazione, ma di quello che contenevano al loro interno.
Le aveva letto dentro quegli occhi freddi come la neve e aveva visto tanto dolore quanta gioia.
L'aveva pervasa, aveva visto la sua storia, le sue emozioni rivelando una ragazza costretta a diventare donna troppo in fretta per riuscire a combattere la battaglia che i loro genitori avevano sospeso per cause maggiori.
Wyatt si chiedeva dove aveva trovato quella forza atta a spingere contro ogni limite di fermezza esistente.
E si chiedeva anche come quei due frammenti di ghiaccio, potevano essere ancora in grado di continuare a sorridere, pur essendo nella totale consapevolezza di aver visto troppe lacrime scendere da essi.
«In che ospedale si trova?» le domandò Wyatt facendola passare per una domanda casuale.
«St. Michael's Hospital, quello di Ontario. Perché?» nel rispondere la schiena si raddrizzò istintivamente. Quella domanda l’aveva agitata particolarmente in positivo.
«Così. Stavi andando li?» stavolta fu Diana a parlare. Non sapeva come aveva capito perfettamente i suoi piani. E l’idea di fare una deviazione nel mentre del viaggio non suonava affatto malaccio.
«Si,anche, anche voi?» Joy li stava guardando a sopracciglia corrugate. Forse, cominciava a capire anche lei.
«Mh!» sillabò Wyatt.
Quando si dice che è proprio l'intonazione a far capire meglio il concetto anziché la lunghezza della frase.
«Diciamo che abbiamo degli affari da sbrigare lì intorno»
«Yeah! Ho appena scoperto delle cose inverosimili sulla mia vita e adesso devo andare a incontrarle» Diana e Wyatt si sbottonarono quanto bastava per rendere gli affari privati, ma comprensibili all'ascoltatore.
«Più di così non possiamo dirti, perché potresti vendere lo scoop a una rivista di gossip diventando ricca quanto uno sceicco» le disse sottovoce con la mano sinistra posata sulla bocca.
«Wow! Allora buona fortuna» disse solamente Joy. Fortunatamente aveva recepito il messaggio.
«Grazie» ne accolse l’augurio Wyatt.
Solo allora Diana guardò il tabellone, notando che il loro volo era in arrivo.
Con gli occhi li chiamò e quando ottenne la loro attenzione, lo segnalò ad entrambi.
«Oh! A quanto pare, dovremo fare anche il viaggio insieme» realizzò Joy, mettendosi in piedi.
«Ma tu non sei in prima classe» le evidenziò scherzosamente Diana. Aveva agguantato il manico della sua valigia e si era voltata verso Joy con una faccina sconsolata.
«Già! Che peccato» Joy non ci ne aveva proprio preso conto.
Si era talmente trovata bene a interagire con loro, che aveva dimenticato che personaggio di enorme fama fosse uno dei due.
«Consoliamoci. C'è sempre l'arrivo a destinazione» Joy fece l’occhiolino ad entrambi, ma il suo atteggiamento non esplicitò niente di volgare, al contrario, fu totalmente incantevole.
Compiaciuti, Diana e Wyatt capirono che canoni di persona rispecchiasse.
Joy era qualcosa di angelico che attribuiva al peso del tuo corpo l'analogia di una nuvola.
Lei ti dava la possibilità di sapere a come ci si sarebbe sentiti se al posto di persone, fossimo stati quelle milioni di nuvole che spopolavano il cielo. Ed era una sensazione bella da provare nel profondo dell’anima.
Passeggera, ma pur sempre praticabile.
Perciò, sorridenti e alleggeriti, i tre giovani presero i loro bagagli per introdursi all'interno dell'aereo.




NOTE AUTRICE: Salveeeeee. Si, ci sono sempre ed eccomi qui con il settimo capitolo della storia. Beh, diciamo che è esclusivamente dedicato alla due sorelle e la loro storia personale dove ora, in qualche modo, adesso, fanno parte anche Wyatt e Diana. 
Bhe, che dire. 
Che ne pensate? 
Ci sono stata un botto ad aggiornare e chiedo scusa. Comunque ho aggiornato. 
Un altra cosa di cui vi devo informare è che con Picrew ho fatto parte dei Personaggi della storia. 
Per vederli vi basterà cliccare sulla parola "Personaggi". 
E niente, spero che continui a piacervi o vi piacerà per chi inizia a leggerla. Poi al solito ringrazio chi recensisce, chi legge silenziosamente e chi aggiungerà la storia alle preferite, ricordate o seguite. 
Thank you so much. 
Se volete seguirmi sui social sono Twitter | Facebook



Alla prossimaaaaaaaa. 

 

 

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Capitolo 9
*** Ti obbligo a farmi dire una verità. ***


Capitolo 8


 

Ti obbligo a farmi dire una verità”


 

 

 


 

«Salve signori e signore.............si prega di allacciare le cinture di sicurezza.....» avvertì il comandante e tutti i passeggeri eseguirono i suoi ordini come dei soldati addestrati al dettaglio.
Seduti uno di fronte all’altro Diana e Wyatt godevano del comfort della prima classe.
Si perché la prima classe era la prima classe.
Diana stava un pascià in mezzo a tutti quei vantaggi a disposizione: mini bar personali o alternativa di poter ordinare drink direttamente da quello comune, poltrone reclinabili e comode, possibilità di scegliere da menù cucinati da chef accreditati, staff che ti coccolava con attenzioni ossequiose e privacy di ogni genere per ogni passeggero.
«Sedetevi.....e preparatevi per il decollo...vi ringraziamo per aver scelto le nostre linee aeree...»
Per Diana non era certo la prima volta che prendeva un aereo, ma non poteva fare a meno di sentire il cuore in gola per l’eccitazione di rifarlo.
Volare sulla stessa alta quota degli uccelli e ammirare il fiabesco panorama che si sarebbe mostrato sotto i suoi piedi, era stato un sogno che aveva alloggiato nel suo cervello fin da bambina, e poterlo realizzare con una ripetitività così regolare, la riportava immancabilmente a quegli anni di splendente innocenza.
Con un secondo di preavviso, l'aereo si sospese in aria lasciando avvertire al suo stomaco i primi segni di spossatezza, ma niente di simile alla nausea o urti di vomito si fecero vivi nel suo apparato digestivo.
Solamente un’incontenibile voglia di affacciarsi dal finestrino e lasciarsi incantare da quella veduta spettacolare che l'avrebbe accompagnata per tutto il corso del viaggio.
Non essendo più capace di trattenersi, si spinse in avanti.
Ciò che stava rimirando con occhi famelici, la prese a tal punto di isolarsi dal restante che la circondava.
«Ah!» Diana spalancò la bocca stupefatta.
Il vedere con i proprio occhi quello che fin da piccola aveva visto nei film, le stava dando la possibilità di formattare dalla sua memoria ogni sua rappresentazione antecedente per quindi consentirgli di archiviarne una nuova dalla sua diretta esperienza.
«È meraviglioso» commentò. D’improvviso tutto sembrava essere divenuto minuscolo al punto tale da apparire finto e figurativo come nelle mappe di Google Maps.
«Non trovi?» forse Diana parlava a se stessa, forse al suo compagno di viaggio, fatto sta che la sua visuale si allargò e la natura poté avere l'onore di esibirsi in tutto il suo splendore dinanzi alle sue pupille spalancate.
La prima cosa che notò, furono i colori.
A dominare l'intera tela infatti erano il blu del mare e il verde della fauna.
I distinti pigmenti appariscenti che più la riuscivano a descriverla nel suo armonioso manto selvatico.
La seconda che se alla luce del sole la vista era stata cosi strepitosa, non osava immaginare a come sarebbe apparsa quella notturna.
Un flash la colpì al cervello per un secondo accennandogli lo spettacolo di bagliori che la notte gli avrebbe concesso.
«Credo che non mi abituerò mai a tutto questo» disse radiosa. Poi si voltò verso il suo compagno chiuso in uno strano silenzio cogitabondo.
«Non vedo l'ora di vedere lo spettacolo di luci che si genererà fra nove ore» gli riferì sorridendo con un’insita passione.
Wyatt si limitò a sorridergli forzato.
Diana ci rimase un po’ male.
«C..c'è qualcosa che non va?» si curò di chiedergli a sopracciglia corrugate.
Diana l’aveva percepito come un sorriso strano.
Non era come il suo solito sorriso “da sfotto” che teneva in serbo per certe sue richieste o risposte. Era stato più un sorriso malinconico e forzato.
«Aspetta» esclamò colta da una lucida illuminazione.
«Non dirmi che tu soffri di vertigini o una fobia che riguarda il verbo “volare”» sbandierò compiaciuta, ma Diana sapeva che non era questa la sua croce.
L’aveva palesato nello scopo di allentare la situazione e rilassarlo.
«Non è questo» le rispose Wyatt abbassando il braccio che gli copriva il viso.
«Stavo pensando» la informò così da lasciargli intuire quanto fosse stato infastidito dall’essere stato interrotto.
«E..» Diana fece il gesto delle mani che giravano una manovella per spingerlo a proseguire.
«Quante sono le percentuali di probabilità che mi dici a cosa stavi pensando?» la ragazza andò al dunque quando capì che il ragazzo non aveva intenzione di sgrovigliarsi la lingua.
A quel spregiudicato comportamento, Wyatt emise un sorriso sinceramente voluto.
Diana non era un’impicciona e se proprio tendeva ad esserlo, prima chiedeva il permesso all'interessato tramite le sue domande irriverenti.
Wyatt quindi si ricompose e condivise il suo pensiero con uno sguardo grave e fissando ogni muscolo facciale che le modellava il delicato viso.
«Stavo pensando a mio fratello»
«R – riguardo cosa?» Diana l’aveva abilmente contenuto, ma al suo cuore era mancato comunque un battito.
«Non so niente di lui. Insomma, a parte che è la mia copia spiccicata, che tipo di persona è? Qual è il suo cibo preferito? Che musica ascolta? Pratica sport? Viaggia e quanti posti ha visitato? È innam….» Wyatt si morse la lingua all'ultima sua curiosità, ma Diana non ebbe uno squilibrio emotivo nel sentire quella mezza e velenosa parola.
Si limito solamente a scuotere la testa con un accenno di risolino.
Questo perché aveva capito l’origine del suo cruccio.
Era possibile che Wyatt stesse provando della giustificata gelosia nei suoi confronti, e irritato dall'idea che lei conoscesse il gemello meglio di lui, stava tentando di cavargli dalla bocca quante più informazioni irrilevanti e possibili sul suo conto.
«Wyatt, Signor Wyatt, lei mi sorprende, lo sa?» Diana uso il linguaggio formale per rendere il momento lietamente significativo.
«Tu dovresti saperlo più di chiunque altro» gli decantò oi voltandosi versò l’oblò dell’areo mentre un altro sorriso le si formava sulle labbra.
«Dovresti sapere che le persone non si raccontano, ma si vivono» Diana concepì una frase da tumblr dando quasi l’idea di averla letta tramite il suggerimento passatogli da un grande striscione di aeroplano.
«Se adesso io ti dicessi che tipo di ragazzo è, di cosa parlerete quando vi incontrerete? Cosa cosa gli chiederai se ti ho già raccontato tutto io di lui? Non preferisci che sia lui a raccontarti di se stesso?» il suo discorso non faceva una piega e il fatto che avesse nuovamente volto la tasta verso la sua direzione con fare brillante, ne aveva accentuato l’efficacia e ovvietà.
«E’ solo che, solo che non vedo l’ora»
«Di incontrarlo?» Diana lo anticipò sul tempo. Wyatt rispose facendo spallucce.
«Si lo so! È un’emozione che cresce giorno dopo giorno. Un bisogno incontrollabile troppo potente per essere fermato» per articolare bene la parlata e allentare la tensione, Diana cominciò a giocare con l’anello che aveva nella mano sinistra.
«Ma non temere. Non la vedrai mai esplodere,o andare via. O almeno finché non raggiungerai la sua tanto bramata esigenza» Wyatt ebbe come l’impressione che Diana sapesse realmente cosa stesse provando e che condividessero il replicante stato d’animo.
Ma lo era davvero? Forse Wyatt aveva mal interpretato i suoi comportamenti. Forse Diana stava solamente cercando di confortarlo.
Ma possibile che anche lei morisse dalla voglia di rivedere Xavier? Di parlargli? Abbracciarlo?
Ormai, che Diana provasse dei sentimenti intensi verso Xavier, era verificato quanto un test sulla sobrietà, ma fin dove avevano spinto il loro rapporto? Una semplice frequentazione fatta di momenti fisicamente intimi o un amore a trecentosessanta gradi?
Qualcosa di dannoso al loro rapporto doveva però essere successo. Un’improvvida rottura che l’aveva fatto degradare in una discordia sentimentale persistente.
Wyatt, rivangò alla mente quella notte di stelle in cui tutta la sua fragilità, gli era stata servita su un piatto d'argento.
Lei l'aveva accusato dell'avergli riportato in superficie il dolore soppresso, dell'essere affetta da una sindrome del cuore che sottometteva la ragione alle sue inaudite visioni, tuttavia ciò dipendeva dal fatto che fosse ancora infatuata di lui o perché desiderava guarire realmente da questo suo tanto ricacciato sentimento?
«Perché» le chiacchiere di Diana lo disinnescarono ancora una volta fuori dai suoi pensieri.
«Perché non continuiamo con obbligo o verità? Se ti ricordi non avevamo ancora finito e se non mi sbaglio era il mio turno di darti degli ordini» Diana lo faceva sia per focalizzare la sua mente su qualcosa di piacevolmente opposto a quello corrente, ma anche per avere la possibilità di chiudere in bellezza il match.
Non era certo passata sopra l'obbligo che la vanesia star le aveva imposto e di certo quei tacchi malefici non la tenevano alla larga dalla sua vendetta ormai prossima.
«D'accordo» Wyatt stese facilmente alle sue condizioni.
Alla fine non poteva passare nove ore a rammaricare l'affetto del fratello su qualcun altro e attenuarlo con una distrazione sciocca era il rimedio adatto.
«Scelgo obbligo» disse quindi. Avrebbe optato per la verità, ma non voleva fare il coniglio.
Senza contare che si trovavano in un aereo. Obbligo per obbligo scelto, al massimo sarebbe stato costretto a baciarla. E per lui non sarebbe stato poi un così drammatico obbligo.
«Bene» Diana si schiarì la voce. Poi dopo diede inizio ad una catena di ragionamenti contorti che l’avrebbero pilotata ad un successo superiore a quello artefatto dal nemico.
Diana si gingillava l'anello da un dito all’altro, rivendicando l'immagine di.
Un colpo al cuore la scombussolò violentemente.
Di nuovo quella sensazione. Di nuovo quell'incerto timore di non sapere chi fosse il ragazzo seduto davanti a lei.
Di nuovo, quel terrore di riabbracciare l'entità che la ragione stava cercando di bandire dal cuore.
E adesso le sue pupille stavano cercando spasmodiche la loro fonte miracolosa che avrebbe sedato le sue allucinazioni.
Più sollevata, scivolò con gli occhi lungo il suo braccio scoperto, fino a tastare la densa dominante nera dei suoi tatuaggi e perciò evocare silenziosamente il nome Wyatt.
«Vediamo» Diana lo fissò per aggregargli quanti più dati possibili il suo conto.
Nelle varie interviste aveva parlato delle sue strane paure che lo perseguitavano nella vita di tutti i giorni – i bovini, i frutti gialli, i camion - ma ogni sua carenza conferiva a imposizioni banali.
Niente di impensabile. E lei non era in cerca di qualcosa di scontato o imbarazzante, bensì di altamente malefico.
Allora cominciò a fare una lista di mosse a profitto personale.
Un bacio? No. Proposito e riproposto.
Spogliarello? Già visto.
Travestimento da donna? Na. Neanche questo andava bene e poi con Nathan nella band era sicura come il petrolio nel Texas che avessero già assaporato questo tipo di sperimentazione.
Diana continuò quindi a fissarlo.
Cosa l'avrebbe messo in imbarazzo?
Cosa metteva terribilmente in imbarazzo Wyatt dei “Heart Sounds”?
Poi – nel mentre che l’hostess gli aveva chiesto se avessero fame o bisogno di altro per la centunesima volta - le venne in mente l'impensabile.
«Ti obbligo a farmi dire una verità» sputò secca e boriosa. Non era certo quello a cui aveva ambito, però era stato un colpo geniale.
Un colpo degno di un allievo che aveva superato il maestro.
«Sei pericolosa» espresse Wyatt sorridendole compiaciuto.
La ragazza ci sapeva fare e anche bene. Conosceva la strada imminente per divenire amica dell’imprevedibilità.
Infatti Wyatt Aveva pensato a tutto, tranne a questo.
«Che c'è stai pensando di tirarti indietro?» lo provocò, spingendosi in avanti.
Wyatt scosse la testa accentuando la curva sulle labbra e obbligarla all'obbligo di rispondere alla sua domanda.
Poteva essere la sua occasione. L’occasione di cui usufruire per conoscere in ogni dominante cromatica la storia romantica che ruotava intorno a lei e Xavier. Che cosa rappresentava per lei o quale ragione li aveva portati a prendere le distanze.
Ma temeva di poter far traballare nuovamente le difese che la rendevano immune al dolore e rivederla distrutta in quel modo, era l'ultima cosa che desiderava per lei. E anche per se stesso.
«La nostra musica. Voglio sapere se il nostro genere di musica ti aggrada» esordì infine. A quell'obbligo Diana smise di ridere.
«Tutto qui?» Diana era delusa. Si aspettava che uscisse fuori le palle, chiedendogli quell'altra domanda.
Si era data tanta pena per offrirgliela su un piatto d’argento e lui si permetteva di rifiutarla?
«Avanti su, fammi quella domanda della quale brami di conoscere la risposta» lo spronò usando la sensualità dello sguardo ammiccante.
Wyatt corrugò le sopracciglia confuso.
Allora l'aveva intuito? Forse era per questo che aveva stabilito di riprendere il gioco? Per dissetare la sua sete di risposte?
O nello scopo individuale di liberarsi la coscienza?
«Chi è per te Xavier?» cacciò quindi fuori dalla bocca, dopo una serie di casuali movenze delle mani.
Diana gli sorrise appena. Poi si voltò, smise e scosse la testa china.
«Tanto per chiarirci tuo fratello non mi ha fatto niente. La colpa è solo mia» scontò la penitenza cominciando con un’ammissione.
«Sono la classica persona che se durante una frequentazione capisce che l’altra persona interessata sta per dirgli che se ne è innamorata, scappa, arrivando a fare quasi estingue i contatti» gli altri potevano chiamarla incapacità di amare o fobia, ma ciò che lei provava era puro terrore.
Diana sapeva benissimo che nome scientifico avevano dato a quel suo fardello psicologico.
La chiamavano Philofobia. Una parola nata all’unione delle parole greche “Philo” ovvero “Amore” e “Fobia” ovvero
“Paura”.
Sottotitolata con “La gabbia dell’amore” perché ti negava la possibilità di amare o farti amare.
Diana sapeva anche da cosa fosse stata scaturita la fobia.
I continui rifiuti amorosi e le esclusioni degli amici sovrapposte all’essere criticata dai famigliari, erano stati la miccia che aveva innescato la fobia.
Il riconoscere i suoi sintomi e il grado vertiginoso toccato dalla sua paura, non l’avevano stavolta tanto quanto l’essersi riconosciuta.
Ogni qual volta che iniziava una relazione o frequentazione, tutto scorreva bene fino al momento fatidico dove le veniva dichiarato che la preliminare infatuazione d’amore era mutata inevitabilmente in amore.
La prassi non cambiava mai.
L’interessato trovava l’ardire di digli che la amava, lei fuggiva dalla scena nel bel mezzo di un attacco di panico, e smettendo di rispondere alle sue chiamate e evitando i posti dove poteva incontrarlo, tagliava i ponti senza un’apparente giustificata o razionale spiegazione.
La Philofobia portava a questo.
Ti faceva sentire minacciata dall’amore che una persona ti offriva o tu provavi.
Un Philofobico non vedeva l’amore rosso acceso come quello di un fiocco attaccato a dei lucenti capelli oro di una bambina, ma rosso pesto come il sangue. Quasi nero pece.
La fobia bloccava chi ne soffriva.
Creava quesiti nella mente che ne terrorizzavano l’affetto.
E se mi lascio andare e lui mi fa soffrire?”
“E se spendo il mio tempo con una persona che non mi merita?”
“E se non posso più avere la mia libertà e indipendenza?”
“E se non mi accetta per come sono o mi delude?”
Ma l’ultima volta, con Xavier, era stata lei a sparire perché consapevole di essere ad un passo dall’innamorarsi per prima.
«La frequentazione con Xavier è stata fantastica. Ogni giorno era una sorpresa. Lui è una persona davvero speciale. Ha il potere di fare sentire una donna sempre al posto giusto e renderla indispensabile.» Diana sollevò lo sguardo rattristato e malinconico, per posarlo su quello di Wyatt, che era rimasto in silenzio, pronto ad ascoltare ogni suo minimo sospiro.
«Ma vedi, quando si tratta di sentimenti, io divento la regina dei codardi e quando ho capito di essermi non solo affezionata a lui, ma anche di provarne un sentimento più maturo verso i suoi confronti, mi sono data letteralmente alla fuga.» Diana non aveva mai condiviso con mezza anima viva questo suo atrofizzante tormento.
Lo custodiva come un segreto da tenere egoisticamente per se.
Per questo riusciva a spiegarsi la ragione dell’averlo fatto con Wyatt.
Ormai Diana sapeva che lui non era più uno sconosciuto e stava cominciando a diventare una persona essenziale.
Diana lo percepiva che non era come tutti gli altri. Che non si era trovato per caso nel suo cammino.
Wyatt non avrebbe mai liquidato e minimizzato le sue fobie dicendole che si faceva inutili e inesistenti complessi, ma si sarebbe preso cura della sua anima guidandola verso un domani fulgente.
«Questa è una cosa stupida» la biasimò poi lui abbassando la mano sulla quale aveva poggiatola guancia sinistra.
«Come scusa?» Diana ebbe un sussulto al cuore. La parola delusione si stava già formando nella sua mente.
Wyatt però,la dissolse in un attimo dopo, quando le sorrise con un sorriso accigliato e sghembo che esprimeva tutta la sua comprensione e sostegno.
«Ti sembra giusto privare qualcuno dell'amarti? Privarti tu stessa di amarlo? L'amore non può essere controllato, né tanto meno soppresso»
«Si, ma» intervenne lei, sollevando nervosamente le sopracciglia.
Wyatt però non la lasciò replicare.
«Posso capire che ne sei terrorizzata, ma non puoi decidere da sola se essere amata o non amare. Non puoi rinchiuderti in un e dettare le leggi da sola. Il mondo là fuori è pieno di tante persone quante possibilità e vedrai che con il giusto tempo e attenzione troverai chi ti potrà guarire da questa paura» A quelle empatiche e spontanee parole, Diana rispose con un sorrisetto acerbo.
La faceva facile lui.
“Che ti importava se avresti sofferto come un gatto abbandonato durante un temporale ventoso?”
Per le persone rischiare tutto in amore era sempre lecito.
Diana non sapeva se questo dipendeva dal fatto che non ci mettessero cuore nelle cose o perché erano masochiste per nascita.
Ma a loro veniva sicuramente più semplice convivere con i propri sentimenti.
Ho paura dei ragni”
“Sono terrorizzato dagli spazi chiusi”
“Ho paura di annegare”
“Mi terrorizza la vista del sangue e gli aghi delle punture”
Pur comprendendo le loro paure dati da gravi traumi, Diana non poteva fare a meno di pensare a come apparissero banali davanti alla sua fobia. Perché la sua fobia era la più bastarda e paralizzante di tutte.
Però, ammetteva che Wyatt aveva un po’ ragione.
Non poteva continuare per il resto della vita a scappare dai suoi sentimenti. l’amore. Le persone che le volevano bene.
Diana era consapevole di dover affrontare questo suo oneroso inconveniente accomodata su una sedia davanti a un disponibile e attento psicologo, ma rimandava già da due anni perché non corrispondeva a ciò che voleva per se o forse sperava di imparare a gestire la fobia. Magari a conviverci. Di trovare la persona adatta vincerla. A Cominciare a fidarsi di qualcuno.
«Già. Forse si. Forse è così» diede credito al suo discorso, riabbassando il capo sconfortata.
«Ah» Wyatt tagliò corto perché l’atmosfera stava diventando davvero pesante.
Affrontare discorsi di questo genere comportava il farsi carico della pesantezza della malinconia, e la malinconia era l'unica cosa che non andavano cercando in quel momento.
«Prima ho dimenticato di dirtelo. Questo stile ti valorizza molto. Sei bellissima» Wyatt fece riferimento al vestito di velluto blu con la gonna svasata e i tacchi vertiginosi che Diana stava ancora indossando.
Diana capì l’intento del ragazzo e gli sorrise astutamente.
«Cerchi di rimorchiare?» lo sollecitò quindi provocante.
«Se ne avessi avuto l'intenzione, ti avrei già baciata»
«Oh! Allora quando melo chiederai dovrò ritenermi onorata di questo progressivo passaggio» filtrarono sapendo di non filtrare davvero e avere un’evasione dalla noia e i malesseri.
«Comunque questi tacchi sono diabolici. Quando atterreremo, credo che opterò per i piedi scalzi» il modo umoristicamente incazzato con cui lo disse, li fece scoppiare a ridere complici, e da li il tempo passò piacevole.
Parlarono di qualunque cosa gli venisse in mente. Di argomenti leggeri come l'aria che stavano attraversando.
Si raccontarono della loro infanzia che gli era sembrava più una rappresaglia contro i genitori, per poi passare ai loro primi amori, il primo bacio, arrivando alle più esilaranti ragazzate che erano venuti nell'età a seguire, estendendosi perciò al momento dell’esserci scoperti con una passione che spettava solo di diventare un talento affermato e finendo con le loro più brutte figuracce fatte in pubblico, i compleanni, le festività e il mettere a confronto le varie religioni.
L'Hostess che passava per il suo controllo generale che avveniva ogni venti minuti, li vide, e non resistendo a tanta tenerezza li coprì con una coperta di lana.

 

 

NOTE AUTRICE: ciaoooooo, eccomi con l'ottavo capitolo. In questo capitolo si è fatta un po’ di chiarezza sul passato di Diana e i misteri che la circondano sembrano a poco a poco a sfumarsi.
Dopo questo capitolo Diana vi piace di più o di meno?
Pensate che ha ragione Wyatt? O empatizzate per lei e la sua fobia?La coppia Wyatt & Diana funziona?
La philofobia è reale e molte persone (più di quante se ne possa immaginare) ne soffrono. Proprio come l’ansia sociale.
E' un argomento che tenevo ad approfondire e di cui volevo parlare perché le persone devono imparare a empatizzare per molte cose e questa è una di quelle.
Detto questo spero che la storia continui a piacervi e appasionare.
E ve lo dico già da adesso, se vi siete già fatti il punto di come finirà, vi assicuro che non è così.
Con me niente è scontato e come sembra che andrà a finire. Vedrete.
Ringrazio chi recensisce, chi legge silenziosamente, e chi mi ha aggiunta alle preferite, seguite e ricordate.
Vi ricordo anche che se volete seguirmi suoi social sono: Twitter | Facebook

Alla prossima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** La franchezza non vuol dire sempre giudicare. ***


Capitolo 9


 

La franchezza non vuol dire sempre giudicare“

 

 

Quando furono a destinazione, l'hostess li svegliò con delicatezza per dirgli di dover lasciare il veicolo.
«Dannazione. Mi sono persa le luci notturne» Diana ne era realmente dolente.
«Joy non si è ancora fatta vedere» disse invece Wyatt senza stare a sentirla.
Sembrava aver fretta di prenotare la sua stanza d'albergo e affondare nelle coperte del suo gigantesco letto.
«Oh si! Grazie per l'ascolto» lo rimbeccò lei, sorridendogli scontrosa.
«Eccomi, scusatemi» la voce di Joy arrivò giusto in tempo per spegnere le fiamme già divampate dei loro caratteri fumini.
«Fa niente» la accolse garbata Diana.
«Allora questo è il mio numero» Joy le passò un fogliettino lilla dove ne aveva precedentemente appuntato le cifre.
«Così potremo risentirci per due chiacchiere» aggiunse dopo facendole l’occhiolino.
«E per restituirci i vestiti» le puntualizzò Diana.
«Si anche quelli» concordò anche se quello era stato l’ultimo dei suoi pensieri.
«Beh, perciò ci vediamo, magari, domani pomeriggio?» la voce di Joy era suonata nettamente esitante.
«Umh! Può darsi» l'intonazione di Wyatt lasciò pensare a qualcosa di favorevole alla sua iniziativa. In mezzo a quella marea di volti estranei, i clacson furiosi delle macchine e la luce dorata dei lampioni, gli occhi di ghiaccio di Joy furono il gioiello più luminoso e incantevole della sera.
«Okay. Allora a domani» Joy li salutò entrambi con due baci sulle guance, e dopo, salendo su un taxi preso al volo, si immerse nel traffico arenato di Ontario.
«La invidio sai?» disse Diana dopo aver agitato la mano per offrirgli un ultimo saluto.
«Non devi» la supportò Wyatt. Ed ecco che l'uomo saggio recondito nelle profondità più abissali di se stesso, si manifestava alle nove e mezza di sera.
«Mister Wyatt» Diana usava l’appellativo Mister ogni volta che doveva dargli una lezione di vita.
«Io non mi riferisco al suo aspetto fisico, ma il carattere» buttò fuori, cadendo contemporaneamente seduta sopra una valigia.
«Io invidio il suo carattere. È così tremendamente forte e piena di speranza. È incredibile a come, dopo tutto quello che ha passato riesce ancora a donare del bene e sorridere al prossimo» se la prima volta che l’aveva guardata negli occhi ghiaccio, Diana le aveva invidiato realmente l’aspetto esteriore, quella superficialità sciatta non era niente se paragonata all’invidia ponderata che stava provando adesso.
Come una ragazzina che voleva imitare la sua eroina preferita, lei aveva sempre sognato di essere come Joy.
Gloriosa, irriducibile, abbattuta, ma mai sconfitta e dotata da un altruismo capace di far riappacificare Russi con Americani.
«Ma tu lo sei già, solo che non lo sai. Devo solo trovare il coraggio di accettarlo» le denotò, appoggiandosi al muretto per affiancarla. Diana sollevò la testa per scoccargli uno sguardo di disappunto, tutto sommato però, cominciò comunque a riflettere sulle sue parole.
Malgrado sembrasse il classico discorso motivazionale da romanzo fantasy che il maestro di arti magiche faceva al suo pupillo, le sue parole non l’avevano colpita, ma forse, lentamente, qualcosa stava cominciando a smuoversi e interagire con il suo cervello.
Solo che Diana era capricciosamente ostinata di natura, quindi pur di evitare di guerreggiarci attraverso un monologo interiore o proseguire l’argomento che lei stessa aveva aperto, cercò di guardarsi calcolatamente intorno per rivoluzionarlo a uno più trasognato.
Anche a quell’ora l'aeroporto di Toronto, era una città piena di vita che faceva palpitare forte il cuore anche a te: l’andirivieni di persone - c’era chi faceva una svagante passeggiata e chi procedeva con il tipico passo di pendolare che non vedeva l’ora di tornare a casa – la facevano sentire parte di quella loro felicità e frenetica esistenza, la scia di profumo lontana dei cibi fatti in strada ti apriva un buco nero nello stomaco, i suoni dei clacson e le luci intense e ammalianti dell'aeroporto – città - ti davano quel senso di stare guardando una parata in festa locale.
Diana avrebbe voluto compiere ognuna di queste cose, ma quello che fece fu solo di immaginare di realizzarle nel mentre che rimaneva al fianco del suo partner in crimini.
Ma proprio allora, in mezzo a quell’uragano di voci, suoni e colori, Diana notò una cosa.
Forse complice l’angolo discreto – posto a sinistra dell’entrata all'aeroporto, in cui stavano aspettando il taxy, nessuno però aveva riconosciuto il gran pezzo di star con uno strillo o l’indice tremolante volto verso di lui.
La cosa le parve strana e sospetta, ma anche rasserenante.
Niente fan che avrebbero potuto ossessionarlo chiedendogli una foto o paparazzi che li avrebbero ritratti come la coppia del momento.
«Non sapevo suonassi la chitarra» gli chiese un attimo dopo, sollevando il capo verso la direzione del suo silenzioso amico. Quando si era voltata verso Wyatt, le pupille avevano puntato per prima cosa in basso, quindi allo strumento musicale poggiato accanto alla valigia del ragazzo, la domanda perciò le era venuta spontanea.
«Cioè lo sapevo, solo che non credevo fosse un hobby abituale» si apprestò a spiegare, tornando a guardare davanti a lei per vedere se era arrivato un taxy.
«È una cosa che faccio spesso, sopratutto prima di andare a dormire o esibirmi in un palco. Mi rilassa molto» le confidò pacato. Dopodiché, lasciandosi la spallina dello zaino ancorata alla spalla, lo rigirò sul davanti e aprendo la tasca in basso, ne estrasse il suo tanto bramato pacco di sigarette.
Stava per accenderne una tutto gongolante, quando Diana lo trafisse con uno sguardo temerario.
Inizialmente Wyatt non capì.
Presumeva che derivasse da una sua repressione ritardata dovuta a qualcosa di offensivo che aveva precedentemente detto, ma poi la ruota del suo cervello cominciò a girare.
Vederla avvolta da quelle luci abbaglianti e fredde dell'aeroporto con quel sorriso amabile che le si dipinse lentamente sul volto, fu come assistere alla manifestazione di un’accecante divinità, apparsa li dal nulla per mostrargli la via giusta da seguire.
«A ogni sigaretta, una canzone» le sue parole lo travolsero come un uragano in piena città.
Diana lo capì e sollevò giocosamente le sopracciglia per incitarlo a mantenere la sua promessa.
Quest'ultimo acconsentì con un movimento allentato della testa e allontanando l'accendino dalla sigaretta, lasciò cadere le mani sui fianchi così da riflettere sul da farsi.
Per impegnare la parola data avrebbe dovuto cantare.
Cantare significava uscire allo scoperto. E non che questo gli pesasse, anzi le trovate improvvisate lo aggradavano di più di quelli “studiati a copione” - come lo pensava sicuramente Diana - ma il suo manager cosa ne avrebbe pensato di questa arbitraria pensata?
Per decidere meglio, Wyatt fece circolare gli occhi in giro: l'aeroporto era accalcato da molta gente, i taxi sembravano aver smarrito la via del ritorno con la loro andatura letargica e l'atmosfera, nonostante ebbrezza cittadina, sembrava delle più favorevoli.
Tutto sommato non poteva lamentarsi.
Anche perché – oltre la strigliata professionale del suo manager - non aveva niente da temere e nel migliore dei casi sarebbe stato individuato per ciò che era, nel peggiore invece, per un barbone dalle corde vocali pregiate.
Wyatt quindi si concentrò, gettando fuori un sospiro tirato, e chiudendo gli occhi, attaccò con un brano celebre e piuttosto melodico.


And you can tell everybody this is your song
It may be quite simple but now that it's done”


Diana gli sorrise lieta e rimembrando il testo della famigerata canzone di Elton John, lo fiancheggiò nuovamente in un duetto.


I hope you don't mind
I hope you don't mind that I put down in words
How wonderful life is while you're in the world”


«Funziona?» gli chiese non stando nella pelle per la curiosità. Per tutta risposta Wyatt rimise la sigaretta nel pacchetto.
«Si» era incredulo lui stesso a dire quel SI.
Appariva inconcepibile quasi quanto uno scienziato avesse appena trovato il rimedio a un anomalia incurabile.
Gli sembrava tutto così assurdo e allo stesso tempo sbalorditivo.
La teoria di Diana non solo aveva il cento per cento in meno di tossicità, ma lo aveva sopratutto disteso.
Improvvisamente, la sua voglia di fumare era stata sostituita dall'istinto irrefrenabile di cantare.
Ancora, ancora e ancora.
Wyatt scoprì che lo desiderava fare per più quante ore di un concerto senza alcune pause di mezzo.
Man mano che loro proseguivano la piccola esibizione, una folla di curiosi si riunì per ascoltarli e a quell’affollamento di curiosi che riconosceva il gran pezzo di Rockstar, se ne aggiungevano altri che filmavano, diffondendo la notizia sui social.
In ben che non si dica, davanti all’entrata dell'aeroporto, si era formata una folla di fan sfegatate che urlavano e piagnucolavano il nome del loro beniamino.
Diana si divertì un mondo a fare il duetto con lui, ma anche a sentire il modesto coro di quaranta persone farlo insieme a loro.
Una volta finito il mini repertorio di canzoni, Wyatt dovette accontentare tutte le fan con foto e autografi, improvvisando la balla “L’ho fatto per mostrare le mie umili origini e dare l'opportunità di vedere un mio concerto dal vivo a chi non poteva procurarsi i biglietti“ alla domanda “Perché questo concerto improvvisato davanti all'aeroporto?” o “Un’amica” susseguito da un sorriso ammorbidito dalla tenerezza a “Chi è lei? Una nuova della band?”.
Mezz’ora dopo salirono sul primo taxy disponibile con il cuore e la mente tronfi di emozione.
«E’ una bella sensazione» disse Diana orgogliosa. Aveva parlato senza guardarlo, anche se nel vero vedeva il suo riflesso nel finestrino.
«Umh» acconsentì Wyatt, accordandosene.
Era stata realmente una straordinaria emozione.
Sovrana all’esigenza di fumare senza indecenza che si era appena dissolta.
Wyatt adesso la stava guardando con occhi pieni di lodevole luce.
Non riusciva proprio a capire come Diana non riuscisse a vedere che ragazza straordinaria fosse, a quanto simile fosse a Joy e a quanto benessere potesse regalare a un altro suo simile.
«Intendo, è una bella sensazione sapere di essere utile» disse Diana, guardandolo colma di soddisfazione.
«Forse hai ragione. Devo solo accettarlo» adesso anche lei si era conciliata con le sue morali.
E aveva capito.
Lei voleva essere come Joy, ma non sapeva di esserlo.
Lo era sempre stata, ma non aveva mai avuto il coraggio di accettarlo.
Diffidava sopratutto delle sue qualità e che non sarebbe mai stata abbastanza per gli altri.
Ma forse erano solo stupide paure.
Paure prodotte da insicurezze nate nella sua giovane infanzia che non era mai riuscita a superare, perché ammirando il viso di Wyatt colmato dall'appagamento che lei stessa gli aveva indicato, si era sentita proprio come Joy.
Forte, impavida e esaudita come quando gli altri lo erano per mano sua o no.
Quando arrivarono a destinazione e scaricarono tutti i bagagli, Diana rimase a bocca aperta per una cinquantina di secondi.
Davanti a lei c’era un albergo a cinque stelle.
Un albergo a cinque stelle.
Lei non aveva mai minimamente sognato di poter mettere piede su un albergo a cinque stelle, ma adesso che ci era le sembrava tutto un abbaglio da canna.
Malgrado il suo abbaglio durò solo per poco, perché una volta entrata, pensò che si trattasse di una candid camera di cattivo, pessimo gusto.
L’albergo era caratteristico – per non dire atipico - e le fece un’impressione solleticante.
Diana non capiva se fosse stato ottenuto da una macchia di giungla o la giungla fosse stata trasferita nello spiazzo.
La superficie, togliendo i cuscini e i lampadari, era composta in acero canadese e rovere grigio, adornato con rampicanti che si tratteggiavano in disegni dalle forme astruse che davano un senso di selvaggio e libero all’ambiente.
Mentre sgambettava all'interno, Diana temette di potersi imbattere in una pantera nera sonnecchiante oppure un orso bruno che ballava a ritmo di “Indispensabile”.
La reception, abbellita con quei tavoli dentellati, ricavati dai fusti di albero, le poltrone stile vecchia preistoria coperte da pellicce di animali antitetici come la zebra e la tigre, il bancone non era altri che una rozza tavola di legno poggiata su altrettanti due pilastri di legno, e per finire, dietro, uno stendardo raffigurava graffiti rupestri di elementare comprensione.
Diana, si stupì che anche lo staff non si fosse improvvisato cosplayer dei Flintstones e indossasse invece i classici abiti formali.
«Vorremmo prenotare due camere» disse signorile Wyatt, quando raggiunsero la reception.
Il Concierge li guardò malizioso e voltandosi con un sorrisetto altrettanto insinuante, prese due mazzi differenti di chiavi.
Aveva l’aria giovanile portata dalla folta chioma argentata pettinata all’indietro, gli occhi vispi come uno scoiattolo davanti a un pacchetto di noccioline e le battutine di un ragazzino fastidiosamente sincero.
Il modo in cui guardava e si rivolgeva alla suddetta vanesia star, le fece capire che sapeva benissimo chi era e non l’avrebbe sconvolta il vederlo chiedergli una foto a fine prenotazione.
«Certo. Fatemi controllare» disse e si voltò con la i mazzi di chiavi infilati nei rispettivi due ind
«Ne abbiamo a disposizione sia matrimoniali» specificò e dondolò la chiave infilata nell’indice destro.
«Sia singole» concluse dondolando le altre due incastrate nell’indice sinistro.
«Bene io prendo quella singola. Lui quella matrimoniale» si affrettò a decidere Diana.
«Perché?» chiese Wyatt, senza sprecarsi di nascondere il fastidio provato nel sentire quelle sue sconesse parole.
Wyatt, proprio come il Concierge, aveva creduto di dover dividere la stessa camera d’albergo con lei, ma a quanto pare Diana si era fatta tutt’altro filmino mentale.
«Allora? Questa chiave?» la ragazza incitò scorbuticamente il Concierge a dargli la chiave, ignorando la domanda ostile che l’amico le aveva fatto.
«Certo» gliela diede il Concierge con ancora l'espressione da stoccafisso stampata in faccia e cercando una spiegazione nella figura importante di Wyatt.
«Grazie!» lo ringraziò adoperando il tono di figlia di papà che lei stessa odiava, ma che in casi come questi tornava di grande utilità.
A Wyatt non restò altra scelta che prendere quella matrimoniale.
«Se volete a voi posso darvi una meravigliosa suite che si affaccia..»
«No, è a posto così, grazie» lo interruppe Wyatt, preferendo una modesta camera anonima, anziché stare in una sgargiante suite sintomatica di una considerevole notorietà.
Una volta sbrigate tutte le prassi di registrazione e pagamento, presero i loro bagagli e si diressero alla volta dell’ascensore, evitando di farsele portare dal facchino incaricato.
L’ascensore manteneva perlomeno un’estetica sobria e non aveva rampicanti che cadevano dal tetto o scimpanzé facchini addestrati a scortarti fino alla tua camera.
«Perché?» le ridomandò Wyatt, dopo un tranquillizzante, cogitabondo silenzio reciproco.
Stava morendo dalla voglia di saperlo e forse qualcosa la sospettava, ma avere una riprova con la diretta interessata, sarebbe stato più soddisfacente delle teorie stesse da lui elaborate.
«Così potrai portarci tutte le ragazze che vuoi durante il soggiorno» Diana non sembrava affatto imbarazzata della confessione appena fatta, anzi si mostrava controllata e supponente.
«Quindi tu la pensi come un dozzinale programma di gossip» affermò, sperando che le arrivassero la rabbia e delusione con cui aveva intinto ogni singola parola.
Stando al fianco di Diana in questi ultimi giorni, gli aveva fatto credere che tra loro si stesse instaurando una connessione empatica speciale, che lei lo capisse e conoscesse più a fondo di chiunque altro, ma forse aveva dato un giudizio affrettato, profondamente influenzato per metà dai pregevoli intrecci che il destino gli aveva offerto.
«Non è che lo penso è un dato di fatto» mentre esponeva il suo schietto pensiero, Diana fissava i numeri dei tasti dell’ascensore così da evitare il suo sguardo ferito.
«E poi non devi giustificarti con me. Non sono tua sorella, tua madre o la tua ragazza. Sei giovane, ricco, ti vuoi divertire, hai gli ormoni che vanno a mille e frequenti erezio..»
«Se condividessimo la stessa camera d’albergo, pensi davvero che potrei fare una cosa simile» la interruppe lui maggiormente irritato.
Era vero che diventare una stella affermata della musica, gli aveva notato una vita libertina all’insegna dei capricci sessuali e l’abuso di alcol e qualche canna di troppo, ma mancare di rispetto a una donna o costringerla a fare qualcosa contro la sua volontà mai. Avrebbe preferito di gran lunga perdere il novanta per cento della sua fama, che commettere una cosa tanto riprovevole.
«Hey, bad boy calmati. Io ti ho detto la mia, tu la tua. Si può sapere che problemi hai?» sbotto lei fuori controllo.
Diana non lo capiva proprio. Perché era diventato di colpo così ostinato?
Poteva avere tutte leragioni del mondo se gli avesse dato del figlio di b*****a o cornuto, ma perché mostrare tanta acredine per un’evidente travisamento di pensieri e parole?
All’ascensore mancavano due piani per arrivare al piano desiderato e sembravano andare anche loro a pari passo con il tempo a disposizione, giungendo ormai alle battute finali.
«Il problema se tu. Temi di essere la prossima che mi porterò a letto» la accusò pesantemente lui su una cosa vera.
Era certo che fonte della sua spropositata paura fosse riconducibile a questo suo incombente timore.
Si sentiva profondamente minacciata di dover condividere il letto con un’altra persona, non tanto per il fatto che fosse un ragazzo, quanto per l’ipotesi che potesse essere il presunto gemello del ragazzo che aveva scaricato – anche se scaricare non era la parola adatta – in preda a una crisi di panico totale d’amore.
«Certo perché tu non approfitteresti della situazione per toglierti l’ennesimo sfizio da Rockstar vanesia che sei» Wyatt avrebbe provato a portarsela a letto perché provava un'inconfutabile attrazione fisica – forse anche mentale – per lei e lei ci sarebbe cascata perché a un certo punto si sarebbe disconnessa dalla realtà, annegando nel ricordo lontano di Xavier.
Diana non dubitava che non l’avrebbe mai forzata a fare alcunché, ma lui non poteva aspettarsi di realizzare ogni suo desiderio con uno schiocco di dita solo perché era Wyatt dei Waves.
I due rimasero in silenzio senza contemplare minimamente l’idea di sbirciarsi per un secondo di sottecchi.
Reprimevano rabbia e considerazioni come se fosse il dolore causato da una botta presa al mignolo dallo spigolo di un mobile, attendendo con impazienza il momento in cui le porte dell’ascensore si sarebbero spalancate.
Poi però, dopo circa quattro secondi, la ragione e empatia presero il sopravvento sulla sgarbatezza e collera.
Tornando parzialmente lucida, Diana cercò di fare pattuire entrambe le parti.
«Senti, siamo stanchi. Il sonno ci fa dire cose insensate. Meglio lasciar perdere e riparlarne domani mattina. Okay?» Diana non voleva litigare con lui e non aveva nessunissima intenzione di rivoltarsi nelle coperte, divorata dal senso di colpa che le avrebbe azzannato dispettosamente lo stomaco per tutta la notte.
«Si okay» le rispose lui collaborativo, ma la voce nervosa che trasparì, fece sembrare le sue parole la stregua di un armistizio forzato.
Le porte dell’ascensore si aprirono proprio allora con un fruscio sommesso.«Beh, allora buonanotte» gli augurò, voltandosi in maniera vaga verso la sua parte.
«Si, buonanotte» ricambiò, uscendo di scena per dirigersi alla sua camera.
Diana lo imitò compiendo l’identica azione senza mai voltarsi a guardarlo.
Una volta all’interno della sua camera, sbatté la porta e senza sprecarsi di controllare l’ora, chiedersi se avesse fame, sete o osservare il luogo intorno a lei.
Distese solo le braccia, lasciandosi cadere sul morbido materasso alle sue spalle.
Entrambi precipitarono nella fluidità di quelle coperte di seta nello stesso istante,ma differentemente da come potessero immaginare non si sentirono affatto rilassati.
Il loro stato d'animo era occupato da una nana scintilla di vaga inquietudine che li faceva sentire in difetto con l'altro.
Chiudere in quella maniera non era stata affatto una buona manovra e lo intuirono solo dopo aver sbarrato le porte delle rispettive camere.
Tutte quelle parole che si erano urlati contro non avevano portato a un buon punto e tendere a rispettare il principio di parare se stessi li aveva intestarditi a tal punto da non intuire che fossero nella parte della colpa.
Si voltarono su un fianco per provare a distendersi meglio,ma il silenzio al quale erano predisposti rendeva più rumorosi i loro pensieri.
Tuttavia non sembrava che avessero avuto una lite accesa,eppure,pareva che qualche torto gli era stato fatto e ne stessero risentendo correntemente.
Infastiditi,misero a tacere il silenzio stesso e chiudendo gli occhi sprofondarono in un sonno permanente per tutta la notte.
Quel regno dove le illusioni prendevano vita e tutta la malvagità di qui eravamo schiavi si prendeva una tregua sostituita dalla pace e la sintonia arbitraria.

 

 

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La mattina dopo Diana si risvegliò con un ora di anticipo.
Ad un certo punto gli assilli erano stati spenti dal cervello stesso, troppo fiacco per riuscire ad opprimersi da solo, ma la notte non era certo stata portatrice di rimedio.
Quella somara sensazione di fallo nei confronti di Wyatt la continuava a martoriare puntigliosa e convinta che lei, da un momento all'altro, avrebbe ceduto alla sua balia, quando in realtà non aveva nessunissima intenzione di dargli credito.
Diana quindi aprì la valigia e indossò un paio di jeans blu abbinati a una felpa grigia corta sull'ombelico e degli stivaletti anch’essi neri con tacco a blocco.
I capelli, essendo troppo pigra e provata dalla nottata, li legò in una bella coda di cavallo alta.
Poi chiuse la porta della sua camera come se le scocciasse persino camminare, e voltandosi a destra, estese la sua vista fino al fondo.
Un sospiro di angoscia fuoriusci dalla sua bocca.
Ma che stava facendo?
Fissava la porta della camera cinquanta, in attesa che questa si socchiudesse anche di un solo millimetro?
Diana non capiva cosa le prendeva e perché stesse immobile al centro del corridoio dell’albergo, aspettando qualcosa che non sarebbe mai successa.
Non si trovava mica in un film o una scontata fanfiction dove la protagonista principale riusciva a rapire il cuore dell'idolo ambito da migliaia di ragazzine in calore.
E per prima cosa manco le interessava esserlo.
«Bleah! Per carità» pensò sentendosi salire un conato di vomito.
Grazie al cielo questa era la vita reale e nella vita reale solo poche opere romantiche prendevano ispirazione da storie d’amore realmente esistite, ma non andava neanche come ognuno sperava dovesse essere.
E poi lei non ambiva a quello, ma solo a delle semplici scuse.
Scrollandosi di dosso quei pensieri come avrebbe fatto con dell’acqua salata di mare, fu risoluta a proseguire indifferente.
Non doveva rimuginarci sopra.
Non doveva aver nessuna motivazione per sentirsi in colpa, tuttavia se esisteva un metodo indicato per questo suo fardello era quello più efficace quanto diffuso.
Per questo decise di dirigersi al bar dell'albergo e sorseggiare una calda tazza di tè.
Oltre a sciogliergli la mente, il suo infuso naturale si sarebbe preso anche la bega di distendere ogni suo muscolo contratto.
Per scendere prese l’ascensore e seguite le indicazioni per la sala ristorazione, giunta a destinazione, osservò l’ambiente prima di prendere posto a uno dei tavoli: il bancone era una corsia di legno raffinato e sgabelli di velluto grigio perla imbottiti, l’area ristorazione era un dedalo di sedie e tavolini in panama, ce n’era persino una a forma di uovo dove potersi deliziare del panorama sottostante, sorseggiando un caffè e una pina colada, a secondo dei gusti e orario. Nell’aria aleggiava l’odore superdelizioso di bontà ipercaloriche della colazione e le chiacchiere soporifere dei primi campioni mattutini.
«Mi permetta, signorina» d'improvviso una voce maschile e gioiosa la distrasse da quella sua vista costante.
Raggiunto il bar, Diana, era rimasta per tutto il tempo a fissare la porta dell'ingresso con un espressione demoralizzata sul volto, dimenticandosi di fare la sua ordinazione.
«Posso?» ritentò il misterioso ragazzo prima di sedersi nell'effettivo, senza aver mai avuto il suo consenso.
Diana finalmente elevò la testa verso il suono della voce e vide un cameriere ventenne dalla carnagione olivastra, un capello petrolio lungo, portato mosso sulla nuca e qualche ciuffo ai lati delle pupille castano ardente, contornati da una fila scomposta di festose lentiggini.
Tutto in lui, perfino il sorriso niveo e disarmante, portava splendore e buon umore dentro quel luogo frequentato di ospiti passeggeri, ma Diana non volle assorbirne la positività.
Non per quel momento almeno.
Perciò confusa da quell'intrusione senza senso, si decise a fare un'ordinazione.
In fin dei conti cosa poteva volere un cameriere da lei?
«Si vorrei ord...»
«Non sono qui per l'ordinazione. Insomma, l'ho vista seduta in questo stato» la interruppe il cameriere, sistemandosi meglio davanti a lei.
«Sola. Triste. Persa a fissare l'ingresso» il ragazzo sollevò il pollice verso l'entrata per indicargli una donna di mezza età vestita in tutta ghingheri rossi e neri.
«E allora?» gli rivoltò addosso lei rustica.
Che tradotto nella sua personale lingua Dianese significava "Taglia corto bello! Che vuoi da me? Mi stai disturbando a livelli incommentabili".
Tuttavia nell'averla spinta a comunicare, il giovane cameriere le mostrò un sorriso luminosamente compiaciuto.
«Io intendo, nel senso che, ho già visto questo tipo di sguardo e tutte quelle che lo possedevano erano donne infelici» spiegò in tono cattedratico.
Diana aggrottò le sopracciglia con il cervello in disordine, ma la lingua dopotutto pronta a colpire.
«E fammi capire, tutte le volte che le hai viste sedute "Sole, tristi e perse a fissare l'ingresso", gli hai concesso una seduta psicologica senza guadagno?» ironizzò lei, servendosi di una frecciatina gelida atta a smascherare le sue false spoglie di psicologo premuroso.
«No, cioè, quello che sto cercando di dirti» il cameriere fu tanto audace da dargli del tu.
«Posso darti del tu giusto?» ma volle sincerarsi di non essere prossimo all’essere strangolato con la tovaglia che adornava il tavolo al quale erano seduti.
Diana storse la bocca e sollevò le sopracciglia per replicare alla sua richiesta e tradurlo in un chiaro “Fai come ti pare, non mi frega”.
«Perfetto» se ne compiacette il cameriere, facendosi scappare un sorrisetto allegro.
«Dunque, quello che sto cercando di dirti è che so da cosa deriva il tuo stato di tristezza»
«A si?» lo interruppe lei, impostando una studiata voce sarcastica.
Lui però la ignorò proseguendo con il suo monologo da pseudo – Freud.
«Avere una lite furiosa con la persona che si ama è una delle cose più brutte che possono accadere a una coppia. Ma proprio in questi momenti di sconforto devi sempre tenere a mente un’ovvietà: se è vero amore non saranno né le incomprensioni o i dubbi a dividervi perché il sentimento reciproco che provate è più forte di qualsiasi altro corrotto» Diana fece una smorfia plateale.
Ammetteva abbastanza facilmente, che lo pseudo – Freud aveva esperienza al parlare alle donne con problemi di cuore e il suo tatto nell’esprimersi era da sposare.
Tutto regolare. Niente da obbiettare, per carità.
C’era solo una nota sulla quale trovava una leggera stonatura: il sentimento - argomento principale di cui tanto ne cantava le lodi.
La sua demoralizzazione non dipendeva dal fatto che aveva litigato con il suo grande amore, ma per aver avuto uno sciocco, equivoco screzio con colui che al lungo andare sarebbe diventato un “amico indispensabile” nella sua uggiosa vita di tutti i giorni, e forse, più per il legame che si stava creando tra di loro, a demoralizzarla e non dargli pace era lo sgarro da lei commesso verso i confronti di Wyatt.
Diana avverti tutta la pesantezza del sospiro flemmatico che emise.
La frenetica voglia di vedere la figura di Wyatt attraversare la sala e accennargli un sorriso acceso di riappacificazione, la stava divorando lenta.
«Bene, grazie per aver condiviso questo tuo perseguibile e ammirevole pensiero» disse poi, emettendo un sorriso di accettazione.
Malgrado i pensieri caotici le gravassero sullo stomaco, la presenza dell’amicameriere era riuscita a stemperarli un po'.
Fotografie di luoghi abbaglianti e calorosi come una radura piena di margherite in primavera o spiagge con un mare scintillante in pieno agosto, le cominciavano a passare nella mente, facendola automaticamente sentire più spensierata.
«Adesso però, potrei per piacere avere una tazza di tè caldo?» infine Diana fece finalmente il suo tanto bramato ordine, poggiando i gomiti sul tavolo e incastrando i palmi sotto il mento.
Quell’innocente espressione assunta, cosparse di zucchero filato il cuore già attratto dell’amicameriere.
«Certamente! Vado subito a farlo preparare» la accontentò tutta entusiasta, aggiungendoci anche la lusinga di un occhiolino.
Diana ricambiò con un sorriso giulivo.
Di tanto in tanto non faceva male avere un po’ di queste tipo di attenzioni, anche per il lasso di tempo di un temporaneo gioco di parole e sguardi.
Certamente non ricaricava il cuore di una calorosa speranza, ma sapeva essere una buona medicina alla solitudine.
Nel tempo che attese il suo tè, Diana non smise un secondo di tenere d’occhio l’entrata principale del bar, tuttavia ciò che si mostrò ai suoi occhi furono solo una famiglia tedesca con due bambine, un uomo in giacca a cravatta che prese un ordinazione lampo e due coppie di fidanzatini apparente contenti del viaggio in terra straniera che stavano facendo.
La figura di Wyatt fu l’unica a tardare a comparire.
«Ecco a te il tuo tè caldo» l’amicameriere comparì all’improvviso alle sue spalle, facendola scattare sulla sedia.
«E non smettere mai di sorridere perché quando lo fai, riesci a illuminare anche il pianeta più distante dalla Terra» le sussurrò poi intimamente a un orecchio, facendo sbocciare tra le sue labbra un lento, raggiante sogghigno.
Soddisfatto dell’operato fatto, il cameriere si voltò e cogliendo un braccio alzato, si affrettò a prendere l’ordinazione del cliente corrente.
Diana si dedicò completamente al suo amato tè.
Il fumo fuoriusciva soporifero, raggiungendo e rilassando le sue narici, mentre le mani entravano in contatto con la ceramica della tazza e si accaloravano deliziate da quel fuoco accogliente.
Sorseggiava il tè cauta, attendendo che da quella porta facesse ingresso il bluff di una faccia sfrontata come quella dei delinquenti tipici delle sitcom anni ottanta, e quando ciò accadde un senso ansietudine la pervase.
Diana fissava il corpo di Wyatt camminare verso la sua direzione più volitivo del solito.
Fluiva tra i tavoli mantenendo un’espressione vacua, gli occhi tesi.
Vestiva con i suoi soliti jeans blu strappati abbinati a una t- shirt bianca ornata da una scritto rossa al centro e una camicia a scacchi rossi e neri sbottonata.
Diana deglutì il sorso di tè appena preso, impietrita dall’ansia.
Attualmente, si trovava in un conflitto interiore.
Non aveva la minima idea di come agire o comportarsi per non peggiorare la situazione
Se guardarlo, l’avrebbe fatta apparire troppo impenitente o nel parlargli le sarebbe uscito fuori un tono innegabilmente provocatore.
Diana non sapeva stabilire quale gesto sarebbe risultato più favorevole.
E se l’avesse aggredita? O peggio ancora ignorata, andando a sedersi a un altro tavolo?
«Hey» disse, scegliendo di approcciarlo con il suo stesso modo da gangster di strada.
«Hey» le rispose lui sonnacchioso.
«Prendi un té?» Diana provò a essere più cordiale del solito, ma poi se ne pentì perché pensò che potesse apparire solo come una lunghissima e umida leccata di vacca.
«Un caffè» la corresse nel mentre che si accomodava sulla sedia davanti a lei.
«E d’accordo» Diana sollevò il braccio per conquistarsi l’attenzione dell’ami-cameriere.
«Si, signorina?» fece lui, ammiccandola con uno sguardo che stentava la poca confidenza.
Diana stette al suo giochetto, fingendo di non averci intavolato un discorso profondo cinque minuti prima.
«Vorrei un caffè per il mio “amico”» ordinò, indurendo l’intonazione alla parola “amico”.
«Davvero?» nel porre quell’interrogativo, le sue sopracciglia si incrociarono ad ali di rondine.
Diana si stampò un sorriso da scema in faccia e confermò la rivelazione appena fatta.
Era ancora fermo sull'idea che fossero una coppia?
Che cameriere casanova da strapazzo che era.
«Certamente!» la fissò tatticamente per dei secondi e facendogli un’audace occhiolino, partì in direzione del bancone a consegnare i nuovi ordini.
Diana spostò nuovamente la sua prospettiva visiva su Wyatt.
Lo vide osservare oltre ciò che la grande finestra gli esponeva spilorcia: aveva un’espressione vuota ed era visibilmente disinteressato allo scambio di sguardi tra lei e il cameriere mandrillo.
Nello scorgere lo stato d’animo cupo del compagno di viaggio, ne fu demotivata di colpo, sentendo sgretolarsi la speranza di potersene riconciliare.
A quanto pareva il signorotto non aveva la minima intenzione di comunicare e quella sua posizione introversa la diceva più lunga delle parole che avrebbe adoperato per farglielo capire. Un nodo alle budella le si strinse arduo privandola per qualche secondo di respiro.
Non era giusto. Quello che stava facendo era immeritato.
Ambiva forse a farla sentire una ripugnanza umana?
Comprendere quanto s*****a fosse?
«Senti un po’ Cicciobello» sbottò lei, in un impeto di incandescente rabbia.
Quel suo sclero improvviso, lo costrinse a stare istantaneamente sull’attenti.
Diana se ne infischiava se lui non voleva parlarle o che pensava fosse una ragazza indegna della sua considerazione.
Che la ignorasse pure. Che esprimesse pure tutto il suo disprezzo in sua presenza, ma non oggi.
Non oggi, proprio quando più di ogni altro giorno l’avrebbe voluta vicina e lei pretendeva di sussistere al suo fianco.
«Io spero che non hai quella faccia solo perché ci sono io davanti a te. Anche perché non ho nessunissima intenzione di chiederti scusa per qualcosa che non ho mai fatto o detto» sputò fuori pungente e iraconda.
Wyatt era stato per accogliere le sue franche ciance con il favore di un sorriso pago, ma il cameriere mandrillo fece la sua entrata in scena.
«Ecco a voi» disse poggiando le ordinazioni sul tavolo.
«Questo lo offro io» specificò il caffè di Wyatt, amicandolo penetrante.
«Grazie» Wyatt era più che spaesato.
Tutto quello che gli veniva in mente di dirgli era “Vuoi un autografo?” pensando che gli stesse pagando la colazione per quel solo, unico e giustificato motivo.
«Niente» l’ami – cameriere diede una svelta occhiata a Diana, che trovò crogiolata in un’espressione contorta dalla rabbia e sofferenza. Avrebbe voluto intervenire, ma pensò che in questo determinato caso sarebbe stato inopportuno, quindi girò i tacchi e tornò alle sue mansioni da cameriere.
«Forse ieri si» riallacciò Wyatt per riprendere la conversazione interrotta. Diana drizzò il collo istintivamente.
«Ma ho riflettuto e ho capito che tu non sei come gli altri. Tu sei solo franca e la franchezza non vuol dire sempre giudicare» esteriorizzò genuino.
Quando il mattino era sopraggiunto sulle ciglia della giovane vanesia superstar, aveva usato tutti i minuti a sua disposizione a chiedersi del perché avesse effettivamente avuto un battibecco pesante con Diana.
Scegliendo di fare il mestiere che faceva Wyatt era entrato a contatto con un mondo fatto di facciate di circostanza che cercavano di accondiscendere a ogni sua puerile capriccio.
O sentirsi autorizzato a passarsi tutti i piaceri di chi si ritrovava con castelli spropositati di soldi e non sapeva cosa farsene.
Ma Diana l’aveva scioccato. Era stata come una secchiata di acqua gelida durante un sonno profondo e fatto di templi d’oro.
A occhi semi – aperti e con la mente ancora annebbiata dal torpore, aveva realizzato che aveva interpretato male il punto di vista di Diana, che lei non gli aveva sputato addosso cattiverie e maldicenze per il solo scopo di ferirlo, ma solamente reso al corrente dei suoi pensieri. Che guarda caso lo portavano faccia a faccia con la realtà delle sue azioni non propriamente immacolate.
E proprio adesso che la stava osservando dritta in quei grandi occhi del colore di un buco nero profondo che ti attirava violentemente a se, si era reso conto che non aveva mai cambiato idea su di lei. Non aveva svalutato la ricchezza della sua persona o invalidata dell’accompagnarlo in questo suo strampalato viaggio.
Pensava che fosse ancora la ragazza eccezionale che si stava occupando della sua anima, proteggendola apprensiva, e dopo questa transizione burrascosa, la sua fiducia in le si era vorticosamente.
«Quindi scusami» la chiuse con un’espressione neutra abbozzata sul volto assonnato.
«Bhe, wow» furono le uniche parole che il cervello di Diana riuscì a concepire nel momento. Perché la ragazza era rimasta francamente sconvolta.
Ricevere le scuse sinceramente risentite da Wyatt degli Heart sounds, rendeva tanto quanto un doppiatore rinomato che leggeva il tuo libro preferito.
«Ti scuso» disse poi dopo aver ripreso la facoltà di ragionare.
Ed era ovvio che accettava le sue scuse. Sarebbe passata non solo per la stronza più incallita dell’umanità, ma sopratutto l’inguaribile immatura dei due.
Così ripresero a cibarsi della loro colazione senza aggiungere parola alcuna.
Wyatt non era più arrabbiato – e neanche lei – tuttavia quel suo mutismo anomalo – la sua loquacità stamattina era sonnolenta – la indispettiva più dell’averci litigato furiosamente.
Difatti, a un certo punto, ne ebbe abbastanza dei brusii confusi dei presenti e il tintinnio ripetitivo delle posate, quindi aprì un discorso – non proprio casuale – ma che necessitava sicuramente di un’indagine approfondita.
«Allora, hai, pensato a cosa dire a tuo padre?» gli chiese, bevendo l’ultimo sorso del suo tè
«Non sarebbe servito a niente» rispose, adesso pienamente rilassato.
«Puoi anche scrivere un discorso, preparatelo a memoria, ma in situazioni di questo genere, proprio come una dichiarazione d'amore, non è di nessuna utilità, visto che sarà il cuore a dettarti ogni singola lettera» dopo le scuse sincere di Wyatt, ogni cosa sembrava essere tornata come sempre, compresa la posa svogliata degli arti di Wyatt e la sua spocchia di uomo vissuto che Diana avrebbe tanto voluto cancellare con una torta di panna in faccia.
Diana perciò, si affrettò a compiere metaforicamente l’azione.
«Ma in teoria tu non dovresti essere abituato? Le star dello spettacolo non sono tipo istruiti a ripetere a pappagallo tutto quello che gli viene detto di dire dietro le quinte?» Diana sapeva che negli spettacoli come San Remo o X Factor fosse tutto un copione studiato a tavolino e recitato ad arte, ma delle interviste si era sempre chiesta se quanto di quello da loro dichiarato fosse attendibile e coerente con la persona reale che davvero erano.
«E’ sempre un nostro pensiero o idea, ma capita che dobbiamo fare passare un messaggio specifico, aumentare o mettere a tacere un gossip e alzare gli ascolti, quindi siamo portati a dire quello che ci viene detto» il vero problema delle interviste non era come lo esponevi o la quantità di aneddoti che avresti raccontato, ma a chi si diceva.
Nel mondo dello spettacolo, Wyatt aveva compreso in fretta, che le cose andavano così.
Se l’intervistatore in questione era intenzionato a calunniarti o rendere losco un tuo incontro alla luce del sole, avrebbe fatto passare delle parole innocenti in sgarbatezze e l’ausilio di un abbraccio consolatorio in un tradimento.
«E tu quante volte hai seguito questo opinabile copione?» gli chiese quindi lei guardinga.
«Per fortuna sono una testa di» disse lui, sollevando e abbassando le sopracciglia come se alludesse a qualcosa di magneticamente irresistibile.
Diana sollevò il suo di sopracciglio sinistro, continuando con un cadenzato «C – A – Z – Z – O?» Wyatt le sorrise malizioso. Poi si alzò flemmatico dalla sedia, pronto a imboccare la strada precedente e farsi arrecare i bagagli al piano di sotto.
«Hey, aspetta! Io non ho ancora finito il mio tè» gli berciò dietro, indicandogli la tazza fumante in questione.
Per poco non imprecò in inglese. Il fatto che non le facesse mai finire una colazione, pranzo o cena da cinque stelle, la innervosiva a tal punto da fargli cominciare a ideare la tortura di una sarabanda di strumenti musicali nella sua camera, che si sarebbero attivati solo al calar della notte fino all’alba del giorno dopo.
«Okay! Ti aspetto fuori» le concesse, mostrandogli un sorriso soffice tra le labbra distese.
Diana sapeva che “fuori” voleva dire “fumare”.
Aprì bocca per ricordargli il suo voto fatto di fronte a un cielo stellato senza fine - e se si voleva essere taccagni - anche al sommo creatore, ma poi decise di mettersi a tacere da sola.
Ora come adesso ne aveva bisogno quasi più di un tossico della sua dose giornaliera.
Doveva affrontare un mostro dalla natura sinistra e per sopraffarlo, avrebbe dovuto essere ancor più inumano di lui.
Mostrarsi inflessibile. Spietato. Un concentrato di insensibilità privo di compassione.
O un muro indistruttibile che respingeva ogni materiale adoperato per sbaragliarlo.
Diana portò alla bocca l'ultima goccia di tè, sorridendo deliziata.
Per questa volta passava.

 


NOTE AUTRICE: mA rieccomi dopo tipo anni? No anni no, ma mesi mesi mesi e mesi, forse un anno o più è passato, ma alla fine che importa? L'importante è che torno sempre no? beh eccovi un bellissimo, litigiosissimo e simpaticissimo capitolo di "Xavier!". I due compagni di viaggio hanno avuto un dissapore che però è stato facilmente chiarito. Voi che ne pensate? Aveva ragione Diana o Wyatt? Entrambi? 
 Dell'ami - cameriere psicologo che ne pensate? Vi ha trasmesso le stesse sensazioni che ha trasmesso a Diana? 
Che altro dire? Che sono super felice di essere tornata ad aggiornare? 
E niente spero che il capitolo sia di vostro gradimento e che anche il mio ritorno vi fa piacere. 
Ringrazio in anticipo chi leggerà solamente, chi recensirà o mi aggiungerà ai favoriti, seguiti ecc...
Alla prossima. Non posso promettere che i miei aggiornamenti saranno costanti, ma ce la metterò tutta per aggiornare, massimo una volta ogni due o una settimana e va bene. 

 

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