Childhood Should Be Carefree

di Bored94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Sakata Gintoki ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Katsura Kotarō ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Takasugi Shinsuke ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Yoshida Shōyō ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Sakata Gintoki ***


Childhood should be carefree, playing in the sun;
not living a nightmare in the darkness of the soul.

- Dave Pelzer

 

Capitolo I: Sakata Gintoki

 

 

Il bambino sgambettò in giro per la stanza, troppo agitato per andare a dormire. Aprì piano piano la porta della sua camera e mise fuori la testolina ricciuta in silenzio, non voleva farsi scoprire: il papà gli aveva detto di andare a dormire già due volte, si sarebbe arrabbiato molto se lo avesse trovato di nuovo in piedi. Avrebbe anche potuto cancellare la gita!

Quel pensiero gli fece richiudere velocemente la porta e correre nel futon. Non voleva perdere il viaggio del giorno dopo. Era il suo compleanno, avrebbe compiuto cinque anni! Era grande ormai! E il suo papà gli aveva detto che avrebbero fatto un viaggio tra uomini! Era la prima volta che lo portava con sé e di solito non passavano tanto tempo insieme, non vedeva l'ora.

La mamma era stata molto triste in quei giorni, forse voleva andare anche lei con loro? Però papà l'aveva convinta che fosse necessario. Succedevano sempre cose molto brutte al villaggio: banditi, Amanto, raccolti perduti... era necessario che lui e Gin facessero quel viaggio, aveva detto. Avrebbe salvato il villaggio.

Chissà dove sarebbero andati? Che cosa avrebbero fatto? Gli avrebbe insegnato a combattere per proteggere la loro casa? Qualcosa lo sapeva fare, glielo aveva insegnato un ragazzo più grande prima di partire per la guerra, ma gli sarebbe piaciuto che il suo papà gli insegnasse qualche tecnica nuova... avrebbe anche potuto farla vedere agli altri bambini del villaggio.

Gintoki si rigirò nel futon. Il suo cervello di bambino lavorava senza posa, troppo eccitato per permettergli di dormire. Quando non ce la fece più si alzò per andare a fare pipì e poi andò a sedersi fuori sotto al portico. Rimase per un po' a guardare le stelle, mentre piano piano l'agitazione cominciava a passare e la stanchezza iniziava a farsi sentire, quando finalmente sentì le palpebre iniziare a farsi pesanti e non riuscì più a trattenere gli sbadigli, si alzò e tornò nella sua stanza, dove si accoccolò nel futon e finalmente si addormentò.

 

«Gintoki. Gintoki, svegliati» il piccolo si svegliò a fatica e si stropicciò gli occhi assonnati.

«Mamma?» chiese ancora mezzo addormentato. La donna cercò di riavviargli i capelli con le mani con scarso successo, avrebbe dovuto sapere ormai che era inutile, facevano ciò che volevano sputando ciuffetti da tutte le parti. Il bambino sembrò svegliarsi di colpo, ricordando ciò che doveva fare quel giorno. «È tardi? È ora di andare? Papà è già pronto?» chiese a raffica mentre saltava fuori dal futon e iniziava a vestirsi in modo frenetico.

«È fuori che ti aspetta» si limitò a rispondere la madre con un sorriso triste, normalmente avrebbe riso davanti a una scena del genere, vedere Gintoki così agitato da faticare a infilarsi i vestiti era una scena davvero divertente, ma non quel giorno. Seguendo un impulso, la donna afferrò il bambino e lo strinse a sé, lui si bloccò, preso alla sprovvista.

«Mamma, dai! Faccio tardi! Ti porterò un regalo, promesso» strillò correndo fuori dopo essersi liberato.

«Sei pronto, Gintoki?» gli chiese suo padre appena lo vide. Gin annuì con entusiasmo e finalmente partirono.

 

Camminarono per un paio di giorni, fermandosi di tanto in tanto per riposare e mangiare, si accampavano per la notte e a volte, su richiesta di Gintoki, si allenavano con due bastoni fingendo che fossero delle katane. Il bambino dai capelli d'argento si stava divertendo molto durante quella gita da uomini, era la prima volta che passava così tanto tempo con il suo papà e si sentiva un adulto aiutando a raccogliere la legna (rametti per lo più, ma sembravano così grandi) e aiutando a preparare l'accampamento per la notte (stava imparando finalmente a piegare la stuoia e le coperte così da riuscire a farle stare nello zaino al mattino). Di notte però gli sembrava così strano andare a dormire senza la buonanotte della mamma... un paio di volte si era accorto che suo padre si faceva serio e pensieroso... che mancasse anche a lui?

Più di una volta aveva pensato di avvicinare la propria stuoia alla sua, per dormire insieme, ma si era trattenuto: era un uomo adesso, doveva abituarsi a stare senza l'abbraccio prima di andare a dormire... però era così difficile addormentarsi in quel modo...Gintoki si diede dello sciocco da solo: non era in grado di cavarsela nemmeno per qualche giorno? Avrebbe dormito benissimo lo stesso. Si girò e rimase a fissare la parete della tenda finché finalmente non prese sonno.

 

Il giorno dopo si svegliarono molto presto e continuarono la loro marcia ancora per un'oretta prima di fermarsi lungo la sponda del fiume per riposarsi. Gin si avvicinò alla riva per bere e sciacquarsi il viso sudato e non si accorse del rumore di passi alle proprie spalle.

«Mi dispiace, ma è per il villaggio» sentì dire dalla voce di suo padre, non fece in tempo a girarsi che si ritrovò scaraventato nel fiume, con la corrente che lo trascinava verso il fondo. Provò a dimenarsi e urlare per chiamare aiuto, ma ogni volta che apriva bocca entrava dell'acqua. In qualche modo riuscì ad afferrare un ramo incastrato tra due massi e ad usarlo come appiglio per tornare a riva. Una volta fuori dall'acqua si accasciò a terra tossendo e ansimando, tremando per la fatica.

Si guardò attorno sconvolto e quando vide suo padre dirigersi verso di lui cercò di alzarsi, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu muovere qualche passo e inciampare più in là di qualche metro, così si girò di nuovo verso suo padre, la schiena appoggiata a un masso e gli occhi sgranati, con le braccia e le gambe ancora indolenzite per lo sforzo di contrastare la corrente e uscire dall'acqua.

«Papà?» chiese il piccolo spaventato. «Cosa fai?»

L'uomo teneva lo sguardo basso e stringeva una katana nella mano destra.

Gin non riusciva a capire. Lo stava punendo per qualcosa? Era stato cattivo?

«Papà, smettila. Mi fai paura» piagnucolò il bambino cercando di farsi più piccolo possibile contro la pietra a cui era appoggiato. Quando vide l'uomo sollevare la spada, si alzò in piedi e gli diede una spinta con tutta la forza che aveva, l'uomo cadde a terra, sbatté la testa sui massi sulla riva del fiume e non si mosse più.

«Gintoki?» la voce di sua madre lo raggiunse inaspettatamente. Il bambino sgranò gli occhi e la guardò terrorizzato.

«Mi dispiace, io non volevo» disse con gli occhi lucidi e il labbro che iniziava a tremare, mentre la donna si avvicinava e si portava una mano alla bocca vedendo la scena. «Io... io non volevo» continuò mentre ricominciava a tremare e le lacrime iniziavano a scorrere. Lei si riscosse e distolse lo sguardo dal marito steso a terra, per poi inginocchiarsi davanti al bambino.

«Lo so, lo so che non volevi» rispose passandogli una mano tra i capelli e accarezzandogli il viso. «Sei tutto bagnato...»

«Papà mi ha buttato nel fiume» spiegò e iniziò a singhiozzare, non più in grado di contenersi. Sua madre lo abbracciò stretto e lo prese in braccio. Si inoltrarono nel bosco fino a raggiungere una grotta in cui si potevano chiaramente vedere le tracce di un fuoco acceso la notte precedente, cibo e qualche coperta. La donna mise a terra Gintoki che continuava a piangere senza riuscire a fermarsi e accese il fuoco, prese una coperta, gliela avvolse attorno e lo fece sedere in braccio a lei, stringendolo forte e dondolando con lui finché non si fu calmato almeno un po'.

«Io non volevo.»

«Lo so, piccolo.»

«Mi ha buttato nell'acqua e poi mi ha inseguito con una spada, mi faceva paura. Volevo solo che smettesse» cercò di giustificarsi ricominciando a singhiozzare.

Sua madre gli accarezzò i capelli e la schiena, cercando di tranquillizzarlo.

«Va tutto bene, non hai fatto niente di male. È stato un incidente. Solo un incidente. Papà ha sbagliato. Anche io ho sbagliato. Sono io a doverti chiedere scusa, non avrei dovuto lasciarti venire fin qua. Avrei dovuto...» la voce le morì in gola, mentre cercava di non mettersi a piangere a sua volta.

Forse per il calore del fuoco o perché poteva sentire il profumo della sua mamma così vicino, piano piano Gin smise di piangere e si addormentò sfinito.

 

Quando si svegliò, si ritrovò ancora nella stessa posizione, ma le fiamme si erano ormai estinte. Sbadigliò e si guardò attorno confuso, poi poco alla volta gli tornò alla mente ciò che era successo qualche ora prima e venne scosso da un brivido, si accoccolò ancora di più contro sua madre, nascondendo il viso contro il suo petto.

«Mamma... perché papà ha fatto quelle cose?» chiese a bruciapelo. «È perché dicono che porto sfortuna? Alcuni bambini al villaggio hanno smesso di giocare con me perché i loro genitori dicono che sono un demone, perché il colore dei miei capelli e dei miei occhi è strano. È per questo che papà non mi voleva bene?» la disperazione nella voce del bambino spezzò il cuore della donna, era così piccolo... certi pensieri non avrebbero mai nemmeno dovuto sfiorare la sua mente... e invece adesso era lì, a farsi tutte quelle domande. Lo aveva trovato tre anni prima insieme a un biglietto, poco lontano dalla loro casa, a quanto sembrava i genitori biologici non erano più in grado di occuparsi di lui. Era così piccolo e spaventato che aveva deciso di portarlo con sé e aveva fatto di tutto per convincere il marito a tenerlo. Che male avrebbe mai potuto fare un bambino solo e indifeso? In quei tre anni non si era mai pentita della sua scelta, il piccolo Gintoki, come avevano deciso di chiamarlo per via del colore dei suoi capelli, aveva portato solo allegria nella loro casa, ma il marito era sempre rimasto freddo e distaccato nei suoi confronti. Sapeva che l'uomo non aveva mai accettato del tutto il figlio acquisito, ma non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto...

«Non sei un demone e non porti sfortuna» gli disse allontanandolo leggermente da sé e sollevandogli il viso con un dito perché la guardasse. «Sei gentile e hai tanti amici, infatti pochi bambini al villaggio hanno smesso di giocare con te, vero?» Gin annuì poco convinto. «Il papà ha ascoltato persone cattive che gli hanno fatto pensare cose brutte. Ho provato a convincerlo che erano bugie, ma non ci sono riuscita... l'unico modo per fermarlo era-» si bloccò, non poteva dire al bambino che li aveva seguiti perché aveva deciso di fermare il marito a costo di ucciderlo, aveva già subito abbastanza traumi, non poteva mettere sulle sue piccole spalle anche il peso di qualcos'altro che non sarebbe stato in grado di capire «era aspettare che foste in un posto con poche persone, così tu saresti potuto scappare e io avrei potuto provare a parlare di nuovo con papà, lontano dalle persone del villaggio, per questo ero lì oggi. Scusa se non sono arriva prima» gli spiegò quindi accarezzandogli il viso.

«Papà è morto per colpa mia, però, non ci hai potuto parlare» rispose il bambino, gli occhi di nuovo lucidi al pensiero di ciò che era successo solo poche ore prima.

«Ehi» disse lei per richiamare la sua attenzione. «È stato un incidente, va bene? Hai avuto paura e ti sei difeso, ma papà era più grosso e più forte. Tu sei ancora piccolo, non eri più forte di lui, non è stata la tua spinta a farlo cadere. Papà è inciampato e caduto. Io l'ho visto, ero lì quando è successo, no? C'erano tanti sassi in quel punto. Non è stata colpa tua. Hai capito?» pregò che gli eventi di quel giorno fossero abbastanza confusi nella mente del bambino perché le credesse.

Gin annuì e si asciugò gli occhi con una manica, in parte più tranquillo: se la mamma diceva che non era stata colpa sua, doveva essere vero.

La donna sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. «Bravo il mio piccolo samurai, così coraggioso.»

 

Ci misero molto meno a percorrere la strada per il ritorno, o così almeno sembrò a Gintoki, occupato a fare alla mamma il resoconto dei giorni precedenti e a mostrarle ciò che il papà gli aveva insegnato sulle piante lì attorno.

Quando arrivarono nei pressi del villaggio però, Gin vide sua madre irrigidirsi e farsi più prudente. Il bambino si ricordò quello che lei gli aveva raccontato nella grotta: nel villaggio c'erano le persone cattive che avevano fatto pensare le cose brutte al papà. E se avessero cercato di prenderlo e portarlo via dalla mamma? Strinse un lembo del kimono della madre con tutte le forze che aveva, mentre il cuore gli batteva sempre più forte.

«Gintoki» disse la donna all'improvviso, lo sguardo fisso davanti a sé «scappa.»

Il piccolo la guardò confuso: dall'altezza a cui si trovava, i cespugli e le piante gli impedivano di vedere i soldati che stavano mettendo a ferro e fuoco il villaggio e che avevano già individuato sua madre tra gli alberi.

«Gintoki» ripeté la donna senza rivolgere lo sguardo verso di lui, per evitare che i soldati capissero che c'era qualcun altro con lei. «Gintoki, ci sono degli uomini molto cattivi al villaggio, devi scappare subito.»

«E tu?»

«Ti raggiungerò, promesso. Ma tu adesso devi correre più veloce che puoi fino a quando non sarai arrivato al prossimo villaggio oltre il fiume. Hai capito?» Il bambino annuì spaventato. «Vai!» lo esortò lei spingendolo e Gin iniziò a correre tra le piante del sottobosco.

 

Il bambino si strinse ancora di più le ginocchia al petto per non sentire lo stomaco brontolare. La mamma aveva detto che lo avrebbe raggiunto presto, erano passate ore ma ancora non si era vista. Gin si era intrufolato in una stalla poco dopo essere arrivato al villaggio, voleva sfuggire al freddo e il buio che stava sopraggiungendo con la notte lo spaventava, lì dentro almeno ci sarebbe stato caldo e un po' di luce; era anche molto affamato, ma non sapeva dove trovare da mangiare, in quel villaggio non conosceva nessuno. Mentre era assorto in quei pensieri, sentì dei passi avvicinarsi al punto in cui si trovava, ma dopo quella giornata era così stanco che non aveva nemmeno la forza di nascondersi.

«Ehi e tu da dove sbuchi?» chiese una voce gentile inginocchiandosi davanti a lui. «Come ti chiami?»

Non vedendolo reagire e notando lo sguardo vacuo del bambino, la donna tirò fuori un pezzo di pane da una delle tasche del grembiule e glielo mise davanti al viso. «Hai fame?»

In qualche modo, questo scosse Gintoki dal suo torpore, dischiuse leggermente le labbra per rispondere e distolse lo sguardo imbarazzato quando il suo stomaco protestò rumorosamente. La donna rise piano. «Temo che un pezzo di pane non sarà sufficiente, vieni con me.»

Il bambino le rivolse uno sguardo sospettoso, ma lei continuò a sorridere e gli porse una mano, in attesa. Le era capitato di vedere altri orfani vagabondare per i dintorni del villaggio ed era sicura che quello fosse uno dei tanti. Gintoki alla fine si convinse e afferrò la mano della sconosciuta che lo portò in casa con sé, dove poté mangiare e dormire.

Il giorno dopo appena sveglio si vestì e si preparò a uscire, la signora che lo aveva accolto il giorno prima gli chiese cosa avesse intenzione di fare.

«Devo trovare la mia mamma. Forse ieri non mi ha trovato perché ero qui dentro» rispose lui convinto.

La donna sospirò, non voleva davvero essere lei a dire certe cose a un bambino di cinque anni, ma doveva evitare che si cacciasse nei guai. «Hai detto di venire dal villaggio dall'altra parte del fiume, vero?» Gin annuì in silenzio, concentrato sulla colazione. «Mi dispiace, piccolo, ma quel villaggio ormai non c'è più. È arrivata la notizia stamattina, poco prima che ti svegliassi. Temo che la tua mamma sia stata presa dai soldati o... che non possa più raggiungerti.»

«No, lei ha promesso che mi avrebbe raggiunto qui.»

«Nessuno oltre a te è arrivato al villaggio ieri notte, lo saprei e-»

«Me l'ha promesso!» urlò il bambino prima di lanciare il cucchiaio sul tavolo e correre fuori da quella casa sbattendo la porta. La padrona di casa cercò di rincorrerlo, ma quando arrivò all'esterno Gin era già scappato di nuovo nei boschi.

 

Erano passati mesi ormai dalla sua fuga dal villaggio e stava imparando a sopravvivere: si spostava da un posto all'altro, continuando a cercare sua madre, si infilava nei fienili per la notte, rubava il cibo dagli orti dei contadini e a volte riusciva anche a rimediare un pasto caldo quando le donne del villaggio di turno si lasciavano impietosire nel vedere un bambino solo vagare in quelle zone di guerra.

Non si era ancora arreso, la mamma gli aveva promesso che l'avrebbe raggiunto, doveva solo continuare a cercarla.

In più di un'occasione era andato a dormire a stomaco vuoto e in più di un'occasione aveva sognato il giorno in cui suo padre lo aveva attaccato e l'ultima volta in cui aveva visto sua madre. Anche addormentarsi era davvero difficile a volte: in alcuni casi era così stanco a causa del suo vagabondare che crollava esausto sul primo cumulo di paglia che riusciva a trovare; in altri passava ore a piangere prima di riuscire a prendere sonno, chiedendosi per quanto sarebbe rimasto solo ancora e quando sarebbe riuscito a rivedere la sua mamma.

 

Non avrebbe saputo dire quando si arrese, forse dopo un anno, forse prima, forse più tardi. A un certo punto la necessità di trovare del cibo e di sopravvivere aveva preso la meglio, così come l'idea di ritrovare sua madre si era fatta sempre più un miraggio. Con il passare del tempo, Gintoki aveva iniziato a credere alle parole delle poche persone che avevano avuto compassione di lui e avevano cercato di spiegargli che sua madre, con ogni probabilità, non era più nel mondo dei vivi.

Ormai aveva sette anni e la guerra era una piaga estesa a tutto il Giappone. Lo stesso Gin si era abituato a vedere i morti lungo le strade e altri bambini come lui vagare nei boschi e nei villaggi, sperando che qualcuno desse loro da mangiare e un letto in cui dormire. Per il bambino dai capelli d'argento le cose andavano diversamente: data la sua particolarità e il suo continuo peregrinare da un villaggio all'altro, tutti erano in grado di riconoscerlo. Purtroppo però questo aveva riportato a galla le superstizioni dei contadini e degli altri abitanti, poiché avevano iniziato a girare storie secondo le quali il piccolo fosse un demone che preannunciava l'arrivo di disgrazie e morte. Il fatto che fossero in tempo di guerra e che disgrazie e morte piombassero continuamente nelle vite delle persone comuni che Gintoki fosse nei paraggi o meno, sembrava non importare. Volevano un capro espiatorio.

Fu allora che iniziarono ad attaccarlo ed insultarlo.

Per sua fortuna, Gin aveva imparato i rudimenti della spada dai ragazzi più grandi al villaggio e spesso erano sufficienti per lasciare sorpresi i suoi aggressori quel tanto che bastava per scappare via. Con il tempo, il bambino divenne sempre più abile, fino ad essere in grado di difendersi.

Aveva anche guadagnato l'appellativo di Demone Divora Cadaveri poiché, non riuscendo sempre a rubare cibo dagli orti o a elemosinare da persone che avevano pietà di lui, aveva iniziato ad aggirarsi sui campi di battaglia, rubando dai cadaveri e dagli accampamenti tutto ciò che gli serviva, che fossero cibo o armi.

 

Fu su un campo di battaglia, a otto anni, che Yoshida Shōyō lo trovò.

Era seduto sul cadavere di un soldato, mangiando un onigiri che aveva trovato e tenendo una katana accanto a sé per ogni evenienza, quando improvvisamente sentì una mano posarsi sulla sua testa. Sollevò lo sguardo e vide un uomo dai capelli lunghi in piedi di fianco a lui. Non portava un'armatura e non sembrava vestito come un contadino.

«Sono venuto qui perché ho sentito che in questa zona appare spesso un demone che divora cadaveri, ma... saresti tu? Mi meraviglio che esista un demone così grazioso.»

Gin spostò la mano dell'uomo con uno schiaffo e scattò in piedi, portò immediatamente la mano destra sull'elsa della katana e la sguainò davanti a sé, rivelando una lama rovinata e ricoperta di sangue.

«Anche quella spada l'hai strappata a un cadavere?» il bambino non rispose e continuò a tenere lo sguardo inchiodato sull'uomo. «Un moccioso come te si è difeso da solo, spogliando i loro corpi in questo modo?» Gin era confuso, quel tizio non sembrava volerlo attaccare e il suo tono era gentile, ma non si fidava. «Sei straordinario. Però non ti serve più quella.» Che stava dicendo? Voleva portarlo ad abbassare la guardia prima di attaccarlo? Beh non ci sarebbe cascato, non era uno stupido bambino ingenuo. «Butta via la spada che brandisci per difenderti perché hai paura degli altri» Gin era pronto, ma l'uomo sfilò la katana dal fianco e gliela lanciò con tutto il fodero. Il bambino, sorpreso, l'afferrò al volo e fece qualche passo all'indietro, cercando di non perdere l'equilibrio. «Ti do la mia. E se vuoi imparare il vero modo di usarla, seguimi» disse l'uomo misterioso dandogli le spalle e incamminandosi tra i cadaveri. Chi era quel tizio? Perché non lo aveva attaccato? Gli aveva addirittura regalato la sua katana. Perché gli importava di lui? Dopotutto non era nessuno di importante, solo un bambino sporco che gli abitanti dei villaggi avevano deciso di prendere di mira. «D'ora in avanti utilizzala non per trafiggere i nemici, ma la parte più debole di te stesso; non per difenderti, ma per proteggere la tua anima.»

 

Gin si rigirò sotto la coperta nel dormiveglia, sapeva che si sarebbe dovuto svegliare, ma si stava così bene al caldo... un momento... al caldo?

Il bambino scattò a sedere e si guardò attorno confuso, prima di svegliarsi del tutto e ricordare: da qualche tempo viveva insieme a Yoshida Shōyō, l'uomo che lo aveva trovato tra i cadaveri e che adesso per lui era semplicemente “il sensei”. A volte appena sveglio faticava ancora a ricordare che non viveva più per strada o che non doveva inventarsi qualche stratagemma per mangiare. Era passato quasi un mese, ma ancora non aveva capito cosa ci trovasse il maestro Shōyō in lui o perché avesse deciso di prenderlo con sé, sapeva solo che era felice di non essere più solo e che ci fosse qualcuno ad occuparsi di lui, anche se all'inizio non era stato troppo convinto di andare con quell'uomo. Lo aveva seguito a distanza e con circospezione, nient'affatto convinto che non fosse un trucco degli abitanti del villaggio per catturarlo, non rendendosi conto che il samurai si era accorto che lo stava seguendo e stava facendo il possibile per non lasciarlo indietro senza insospettirlo. Una volta arrivati davanti alla casa dell'uomo, Gin era rimasto nascosto tra i cespugli del giardino, ad osservare in silenzio. Dopo qualche ora al freddo, Shōyō aveva deciso che era il momento di fargli sapere che si era accorto della sua presenza e lo aveva invitato a entrare. Il sopraggiungere del buio e della fame fecero finalmente capitolare il bambino.

Da quel giorno, Gin era rimasto con Shōyō e aveva iniziato ad imparare a leggere, scrivere e combattere.

Gintoki si cambiò il pigiama e iniziò a vagare per la casa alla ricerca della colazione. Rimase perplesso non trovando il maestro da nessuna parte, ma non se ne preoccupò: probabilmente era uscito mentre ancora dormiva e sarebbe tornato presto.

Passò la mattina facendo qualche esercizio con il bokken, ma verso l'ora di pranzo iniziò a sentirsi inquieto. Quanto sarebbe stato via ancora il sensei?

Dopo aver mangiato uscì in giardino e rimase in attesa, ogni tanto sbirciava fuori dal cancello, aspettando di vederlo comparire in fondo alla strada. Con l'arrivo della sera, tornò in casa e si sedette ad aspettare con la schiena contro la parete. Più il tempo passava però, più il bambino si sentiva a disagio: il maestro aveva così tante commissioni da sbrigare? E se fosse successo qualcosa? Dopotutto c'era una guerra in corso, che qualcuno lo avesse attaccato?

No. Il maestro Shōyō era forte. Sarebbe stato più che in grado di cavarsela contro degli aggressori.

E se non fosse stato quello il motivo?

Gin si strinse le ginocchia al petto.

Se avesse cambiato idea su di lui e lo avesse semplicemente abbandonato lì? Dopotutto sia i suoi amici al villaggio che suo padre credevano che lui portasse sfortuna, suo padre lo aveva anche attaccato per quello. Sua madre gli aveva promesso che lo avrebbe raggiunto, ma non l'aveva più rivista, ormai era sicuro anche lui che fosse morta. Gli altri adulti che aveva incontrato lo avevano cacciato o attaccato... perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso?

Probabilmente anche il maestro Shōyō si era stancato di lui e aveva deciso che non lo voleva più tra i piedi. Dopotutto non lo voleva nessuno. Gintoki appoggiò la testa sulle ginocchia, mentre le lacrime iniziavano a scorrere. Era di nuovo solo.

«Gintoki?» il bambino sussultò ma non sollevò la testa. Era stupito di trovarlo ancora lì? «Gintoki, cos'è successo?» gli chiese mettendogli una mano su una spalla e accorgendosi che stava piangendo.

«Quando mi sono svegliato non c'eri» iniziò a spiegare Gin asciugandosi il viso. «Ho pensato che fossi uscito e così ho mangiato e fatto gli esercizi che mi ha insegnato ieri. Quando ho finito però non eri ancora tornato. Dopo pranzo sono stato fuori ad aspettarti ma non arrivavi, così ho pensato che forse fosse successo qualcosa. Solo che tu sei forte. Quindi ho pensato...» si bloccò e distolse lo sguardo, mentre gli occhi gli si riempivano di nuovo di lacrime.

Shōyō sospirò e lo tirò a sé, sentendosi uno stupido. «Mi dispiace» disse abbracciando il bambino e accarezzandogli la schiena. «Non ti volevo spaventare, avrei dovuto avvertirti, ma pensavo che sarei tornato presto» fece una smorfia ripensando ai Corvi che aveva rischiato di incontrare qualche ora prima e ai quali era sfuggito per miracolo. Gin nascose il viso nel suo kimono. «Ho pensato che non mi volessi più, come il mio papà e le persone dei villaggi» confessò con un filo di voce, ricominciando a piangere e iniziando a raccontare tutto ciò che era successo con suo padre, sua madre, le persone che aveva incontrato... le parole del bambino scorrevano come un fiume in piena tra i singhiozzi, per tutto il tempo Shōyō rimase in silenzio, tenendolo stretto e lasciando che si sfogasse. Era stato veramente un irresponsabile, avrebbe dovuto parlare con Gintoki molto tempo prima.

«È tutto a posto» gli disse passandogli una mano tra i capelli argentati. «È tutto a posto, ci sono io con te adesso. Non sarai più solo.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Katsura Kotarō ***


Capitolo II: Katsura Kotarō

 

«Kotarō, ti ho detto di uscire da lì» lo sgridò sua nonna, tirandolo per un braccio. Il bambino si allontanò dalla porta con passo strascicato. Sapeva perché non poteva entrare: i suoi genitori erano malati, il dottore non sapeva come curarli e stava andando sempre peggio. Sapeva che doveva stare a distanza per non farsi contagiare, ma avrebbe tanto voluto poter parlare con loro. Non pretendeva di poter giocare con sua madre o allenarsi con suo padre, voleva solo poterci parlare senza dover restare sulla soglia della camera, chiedendo solo il minimo indispensabile per non affaticarli troppo.

Sapeva che doveva fare la sua parte, ma avrebbe tanto voluto che le cose tornassero alla normalità. A volte avrebbe semplicemente voluto buttarsi tra i suoi genitori e lasciarsi abbracciare, come quando era piccolo, invece più passava il tempo e meno contatti poteva avere con loro.
Sapeva anche di dover tenere questi pensieri per sé, per non farli preoccupare, ma iniziava a sentire il peso di quella situazione: per primo si era ammalato suo padre, ma almeno aveva ancora la mamma con cui parlare... dopo poco tempo però si era ammalata anche lei, contagiata da suo padre.

Erano rimasti solo lui e la nonna ad occuparsi di tutto.

Le cose andarono avanti così per mesi, al punto che per il bambino quella diventò una nuova normalità: diventò obbediente, serio e responsabile. Si aggirava per la casa in silenzio per non disturbare, non faceva capricci, si allenava da solo con il bokken in cortile e aiutava sua nonna con le faccende di casa.

La vecchia ogni tanto gli rivolgeva uno sguardo preoccupato: aveva soltanto sette anni, avrebbe dovuto essere iperattivo e sorridente, ma ormai di quel bambino sembrava essere rimasta solo l'ombra. Certo, era sempre gentile e disponibile, ma la donna poteva dire con una certa sicurezza che il suo ultimo sorriso, un sorriso vero, non la smorfia di circostanza che si stampava in faccia per non preoccupare i genitori, risaliva a mesi prima.

La verità era che il piccolo faticava a ricordare che la normalità fosse mai stata qualcosa di diverso da quella che viveva in quel momento, ma sapeva che lo era stata.

Doveva esserlo stata.

Doveva esserci stato un tempo in cui si allenava, giocava, ascoltava storie raccontate dai suoi genitori e uscivano insieme nei giorni di festa.

Non poteva essere stato sempre così. Non potevano essere solo sogni che gli facevano visita di notte, per fargli vedere ciò che non poteva avere.
Dovevano essere ricordi, giusto?


Quella normalità venne di nuovo stravolta quando una mattina sua nonna non lo fece avvicinare all'ala della casa in cui si trovavano i suoi genitori.
C'era il dottore all'interno, li stava visitando.
Non poteva entrare in quel momento, stavano riposando.

Uscì di casa per qualche ora e, dopo essersi allenato un po' con il bokken, si diresse verso il parco, dove sapeva ci sarebbero stati degli altri bambini. Si sedette con la schiena contro un albero e restò ad osservarli mentre correvano e ridevano. Uno di loro si avvicinò e lo invitò a giocare, serviva un nuovo giocatore perché un altro bambino era dovuto andare a casa prima, lo sconosciuto ci mise un po', ma alla fine Katsura si lasciò convincere.
Verso l'ora di cena si incamminò verso casa, era di buon umore per la prima volta da settimane e non vedeva l'ora di raccontare a sua nonna e ai suoi genitori che si era fatto dei nuovi amici quel pomeriggio. Quando arrivò a casa sua nonna lo aspettava sulla soglia, un'espressione seria in viso, si abbassò in modo che i propri occhi fossero all'altezza di quelli del bambino e gli mise una mano su una spalla.

«Kotarō, mi dispiace» disse rivolgendogli uno sguardo triste e preoccupato. «I tuoi genitori non ci sono più.»

 

I primi giorni furono i peggiori.
Era come se Katsura non riuscisse a registrare il fatto che i suoi fossero morti: a volte sentiva ancora l'impulso di andarli a controllare nella loro stanza, o di andare da loro a raccontargli qualcosa che era successo durante il giorno... si trattava però solo di pochi secondi. Era stato al funerale, sapeva che non c'erano più, ma a volte era come avere un arto fantasma.

Sua nonna aveva allentato un po' le regole e lo spingeva a uscire di casa più spesso, aveva scoperto che aveva conosciuto altri bambini e voleva che passasse il tempo con persone della sua età, gli avrebbe fatto bene allontanarsi da quella casa di tanto in tanto.

Quella sera Katsura stava tornando a casa coperto di fango dalla testa ai piedi, ma decisamente di buonumore. Ad un tratto si ricordò che sua nonna lo aveva incaricato di passare a comprare del latte e alcune uova, così affrettò il passo e andò a sbrigare le commissioni così sporco com'era. Il negoziante parve divertito dalla scena che gli si dipingeva davanti: non era raro che i bambini venissero incaricati di svolgere qualche piccola commissione dalle loro famiglie e che si perdessero in giochi e scherzi, presentandosi da lui tutti malconci, ma era da molto tempo che non vedeva Katsura così sporco e soddisfatto; sapeva cosa era successo alla sua famiglia e negli ultimi tempi lo aveva sempre visto comportarsi in modo serio e responsabile, era bello sapere che aveva ricominciato a comportarsi come un bambino, anche solo per qualche ora.

Katsura salutò con un inchino veloce e corse verso casa, a mano a mano che si avvicinava però poteva sentire che il buonumore se ne andava gradualmente. Sua nonna lo accolse sulla porta sorridendo, prese ciò che aveva comprato e lo spedì a farsi un bagno. Il bambino restò taciturno per il resto della serata. Lei gli si avvicinò e si sedette accanto a lui.

«Non hai incontrato nessuno oggi al parco?»

Scosse la testa. «C'erano tutti.»

«Non ti hanno lasciato giocare?»

Scosse di nuovo la testa. «Abbiamo giocato a pallone.»

«Allora cosa c'è che non va?» gli chiese sua nonna, immaginava che Katsura stesse sentendo la mancanza dei genitori, ma voleva che le parlasse. Erano passate ormai due settimane dalla loro morte, aveva pianto per conto proprio, ma davanti a lei era sempre stato stoico, voleva che si lasciasse andare e lasciasse a qualcun altro la responsabilità di fare l'adulto. «Kotarō?»

«Abbiamo giocato a oni-gokko, mi sono nascosto in tanti posti strani, sono andato anche su un albero, solo che poi sono caduto in una pozzanghera enorme» adesso si spiega tutto il fango pensò la nonna, Katsura intanto continuava a raccontare e stava iniziando ad animarsi. «A un certo punto ho dovuto fare io l'oni e li ho trovati tutti, nonna! Uno si era anche nascosto in riva al fiume! Un altro era andato in una stalla» decisamente il fango non è più un mistero.

«Quindi ti sei divertito» commentò la donna.

Il bambino annuì, poi si fece serio. «Solo che mentre tornavo a casa ho pensato che dovevo raccontarlo alla mamma e al papà, perché sicuramente loro conoscevano un sacco di posti in cui nascondersi. Solo che poi...» la voce gli tremò e abbassò lo sguardo, «mi sono dimenticato» disse con voce tremolante, la nonna lo attirò a sé e lui si lasciò abbracciare, appoggiando la testa alla spalle della donna. «Mi sono dimenticato che non ci sono più» terminò scoppiando a piangere.

«È tutto a posto, è normale. Oggi ho quasi preparato la cena anche per loro, sai?» disse in modo cospiratorio, Katsura sgranò gli occhi. «Sai che sono morti, il fatto che ogni tanto vorresti raccontare loro qualcosa, significa solo che per te è una cosa importante e che non ti sei ancora abituato al fatto che se ne siano andati. Ci vorrà un po' di tempo... nel frattempo, devi fare quello che hai voglia di fare. Se vuoi uscire a giocare, esci. Se ti vuoi allenare, allenati. Se vuoi piangere, piangi. Non serve a niente fingere quando siamo tra di noi, hai capito?»
Il bambino annuì e nascose il viso contro il suo petto, lasciando scorrere le lacrime.

 

Aveva compiuto da poco otto anni e ormai si era abituato all’assenza dei genitori. Aveva anche trovato qualcuno con cui allenarsi e le sue capacità, già molto sviluppate per un bambino della sua età, stavano migliorando rapidamente, tanto che il suo istruttore non escludeva che sarebbe potuto entrare all’accademia militare. Purtroppo però, anche questa nuova vita non durò a lungo. Dopo la morte dei suoi genitori, le condizioni economiche della famiglia di Katsura peggiorarono sempre di più: avevano dovuto contrarre dei debiti per pagare le cure e il funerale dei genitori di Kotarō, così sua nonna iniziò a vendere vestiti e gioielli, soprammobili e tutto ciò che non era strettamente necessario alla loro sopravvivenza.

 

«Ma non è giusto!» si lamentò il bambino pestando i piedi. La vecchia sospirò, niente affatto sorpresa. «Perché il sensei non può più venire?!»

«Non ci sono più soldi per pagarlo, piccolo. E ci sono ancora delle spese da pagare per le cure e il funerale dei tuoi.»

Katsura mise il broncio e incrociò le braccia sul petto. «Tu avevi detto che mi avrebbe insegnato a combattere!»

«Lo so, ma non possiamo più pagarlo, dovrà andare via.»

«Ma io ho già venduto i giochi! Perché deve andare via anche lui? Sei cattiva!» urlò il bambino pestando un piede per terra e scappando via.

 

Katsura tenne il broncio a sua nonna per giorni, limitandosi a rispondere a monosillabi e ad allenarsi in giardino da solo. La nonna non lo punì per quel comportamento: c'erano stati troppi cambiamenti in un solo anno, era normale che il bambino fosse sconvolto. Almeno per una volta si stava comportando in modo normale per la sua età. Dopo un'altra settimana però, la vita del piccolo samurai venne stravolta per l'ennesima volta in poco più di un anno.

Stava tornando a casa dal parco, con il suo bokken in cintura, quando si accorse che c'erano delle persone in casa sua che parlavano con sua nonna.

Anzi litigavano.

Si avvicinò con cautela e sentì che stavano parlando di soldi. Quegli uomini volevano dei soldi da sua nonna e a quanto pare si erano stancati di aspettare. Le urla si fecero sempre più concitate e a un certo punto uno dei due uomini spinse la donna, mandandola lunga distesa sul pavimento.

Katsura brandì il bokken che portava in cintura e si avventò sui due uomini agitando la spada di legno, colpendoli in tutti i punti che fosse in grado di raggiungere. Dopo un primo momento di sconcerto, uno dei due «ospiti» realizzò che erano stati attaccati da un bambino e gli mollò un calcio nello stomaco. Katsura si piegò in due senza fiato, mentre l'uomo lo afferrava per il bavero e lo sollevava di peso.

«E tu da dove spunti? Non ti hanno insegnato a non intrometterti nelle faccende degli adulti, moccioso?» chiese lanciandolo accanto a sua nonna, che lo tirò rapidamente verso di sé e si mise tra lui e i due uomini. «Hai tempo fino a domani» le ricordarono loro prima di andarsene.

 

Quell'incontro si rivelò un punto di non ritorno, l'unico possedimento di valore rimasto alla sua famiglia era la casa in cui vivevano e furono costretti ad abbandonarla. La nonna si accorse della rabbia e della tristezza del bambino, erano successe troppe cose in un solo anno, quella serie di sfortune avrebbe reso un inferno la vita di chiunque, eppure suo nipote restava serio e composto, anche quando poteva vedere nei suoi occhi la frustrazione, il dolore, la confusione e la rabbia agitarsi dentro di lui. Non pretendeva che Katsura, ancora così piccolo, fosse in grado di capire la serie di avvenimenti che avevano colpito la loro famiglia, ma doveva assicurarsi che non ripetesse di nuovo un gesto tanto sciocco quanto attaccare qualcuno con cui non aveva nessuna possibilità di vittoria. Per quanto fosse un gesto onorevole e coraggioso, così facendo avrebbe finito per farsi uccidere. Fu per quel motivo che lo portò davanti alla tomba dei genitori e decise di fargli un discorso che sapeva sarebbe suonato come qualcosa di completamente opposto al codice di un samurai.

«Kotarō,» disse una volta davanti alla lapide «per un generale a capo di un'armata, quale credi che sia la qualità più importante? Anche se è un guerriero di forza incomparabile o un virtuoso di raro valore nel saper disporre i suoi soldati sul campo, se il generale viene a mancare la battaglia è già bella che perduta. Se morisse, non riuscirebbe più a proteggere i suoi uomini e il suo paese, o nient'altro. Per questo motivo, un generale deve essere il più codardo di tutti in battaglia. Quindi Kotarō, non preoccuparti, piangi quanto vuoi. Piangi pure, comportati pure da smidollato. Finché il suo generale è vivo, finché tu sei vivo, la famiglia Katsura non si estinguerà. Non importa se ti danno del codardo. Resta in vita, Kotarō. Per quanto possano schernirti, noi sappiamo che tipo di persona sei. Sappiamo che saresti un generale con i fiocchi.»

Katsura si lasciò sfuggire qualche lacrima silenziosa, ma non reagì a quelle parole. Era così stanco. Perché tutte quelle erano dovuto succedere proprio a loro? Voleva solo che la sua vita tornasse ad essere normale.

E invece adesso non aveva più nemmeno una casa a cui tornare.

 

Le settimane seguenti furono dure: dovettero dormire nei templi e nelle case abbandonate, andando a elemosinare cibo al villaggio. Inoltre sua nonna iniziò a diventare sempre più debole e Katsura dovette presto occuparsi di trovare i posti migliori per dormire e andare a cercare il cibo. Non passò molto e anche sua nonna lo lasciò. Katsura non era in grado di capirne la causa, non avevano soldi per un medico e lui non sapeva cosa fare per gestire a situazione, non aveva potuto fare altro che guardarla spegnersi. Così si era trovato completamente solo e senza un posto in cui vivere.

 

Si svegliò con lo stomaco che gli brontolava, ma non si alzò. Era dal giorno prima che non mangiava nulla e se ne stava sdraiato in quella casa abbandonata con lo sguardo perso nel vuoto. Era rimasto solo. Un rumore catturò la sua attenzione, una porta si aprì ed entrarono un paio di uomini.

«Ehi ma tu cosa ci fai qui?» chiesero sorpresi vedendo il bambino. «Questa casa dovrebbe essere vuota. Ehi tu! Non puoi restare qui, questo edificio verrà demolito tra poche ore. Dai, vattene!» Katsura se ne andò senza rivolgere loro la parola. Vagò per il villaggio per qualche ora senza una meta, ignorando gli sguardi di compatimento e i bisbigli delle persone che lo vedevano passare. Ormai tutti sapevano chi fosse e quali vicende lo avessero portato a vivere per strada ed alcune persone avevano tentato di avvicinarlo ma avevano ricevuto in risposta solo uno sguardo distaccato e vuoto, così con il tempo tutti avevano smesso di tentare.
Le cose iniziarono a cambiare per caso. Quel giorno, dopo essere stato cacciato dalla casa in demolizione, Katsura stava vagando per il villaggio assorto nei suoi pensieri, quando andò a sbattere contro qualcuno per strada. Il bambino non reagì in nessun modo, semplicemente fece un passo indietro, girò attorno alla persona contro cui aveva sbattuto e riprese a camminare senza guardarla in faccia.

«Katsura?» cercò di attirare la sua attenzione l'uomo, lui si girò più per un automatismo che per aver riconosciuto la voce che lo chiamava. Quando vide il volto dell'uomo però sgranò gli occhi.

«Sensei?»

«Sono stato via a lungo. È molto tempo che non ci vediamo, vero?» sorrise l'altro, poi aggrottò le sopracciglia vedendo lo stato in cui si trovava il suo ex allievo. «Cos'è successo?»

Katsura sospirò e distolse lo sguardo, non aveva ancora deciso se raccontare tutto che il suo stomaco brontolò con forza. Il sensei scoppiò a ridere. «Forse è meglio che prima di parlare, mangi qualcosa. Vieni, casa mia è qui vicino.»

Dopo un momento di indecisione, la fame ebbe la meglio e il bambino dai capelli neri seguì il maestro. Una volta a casa sua poté finalmente mangiare come non faceva da settimane, il sensei rimase in silenzio ad osservarlo e lo lasciò terminare con calma. Quando ebbe finito, l'uomo gli rivolse uno sorriso e uno sguardo preoccupato: lo aveva trovato a vagare da solo per il villaggio, sporco e chiaramente affamato, inoltre il suo sguardo assente non lo tranquillizzava affatto.

«Hai ancora fame?» il piccolo scosse la testa. «Bene, mi vuoi dire cos'è successo? Perché se in giro da solo, tutto sporco. Dov'è tua nonna?»

Lo sguardo del bambino si fece di nuovo assente e il maestro attese in silenzio che si convincesse a parlare.

«È morta» disse finalmente Katsura dopo qualche minuto. «Qualche giorno fa. Come la mamma e il papà. Ci sono solo io adesso.»

L'uomo rimase un attimo interdetto. Da solo? Aveva soltanto otto anni, come poteva cavarsela da solo? Perché nessuno al villaggio lo aveva preso con sé? Perché non era stato avvertito?

«Mi... mi dispiace, non lo sapevo, nessuno mi ha detto nulla» il bambino non rispose. «Quindi... adesso vivi da solo in quella casa?»

Katsura scosse la testa. «Quegli uomini l'hanno presa.»

«Quali uomini?»
«Quelli che volevano i soldi. Abbiamo dato via i vestiti della mamma e del papà, i gioielli, i miei giocattoli... però volevano degli altri soldi, così hanno preso la casa.»

Il maestro si portò una mano davanti alla bocca, il gomito appoggiato al tavolo, incapace di trovare qualcosa da dire. Ci mise un paio di minuti a decidere il da farsi. «Ascolta» disse infine «adesso vai a farti un bagno, va bene? Stanotte dormirai qui. Domani decideremo per bene cosa fare. Ho un paio di idee, ma dovrai essere d'accordo anche tu.»

Katsura lo guardò con occhi sgranati. «Posso stare qui?»

«Certo, adesso che so cosa stai combinando non posso di certo lasciarti dormire dove capita a digiuno. Visto che ci siamo ritrovati dobbiamo festeggiare: stasera sukiyaki. Intanto tu vatti a lavare, io esco a prendere gli ingredienti che mi mancano e magari qualche vestito pulito che puoi usare, d'accordo?»

Il bambino restò a fissarlo in silenzio, per poi scoppiare a piangere all'improvviso, spaventando non poco il sensei che si avvicinò e lo abbracciò, lasciandolo sfogare per un po'. Avrebbe mangiato quella sera. E avrebbe dormito in un futon in una casa vera. E aveva ritrovato il sensei, quindi non sarebbe stato da solo.

 

Katsura si sentiva estremamente nervoso. Il maestro gli aveva spiegato che lo avrebbe tenuto molto volentieri con sé, ma che presto sarebbe dovuto partire di nuovo per la guerra e non era il posto adatto per un bambino. L'idea del sensei era quella di ripassare le tecniche di spada che avevano imparato insieme tempo prima e poi cercare di farsi ammettere all'accademia militare.
In quel momento si trovava davanti agli esaminatori dopo solo una settimana di allenamento, non si sentiva affatto pronto e continuava a muoversi, spostando il peso da un piede all'altro. Il sensei gli mise una mano sulla spalle e Katsura fece un respiro profondo. Appena gli misero in mano un bokken però tutto il suo nervosismo si placò. Gli chiesero qualche tecnica di base e qualche kata. Alla fine chiamarono un altro bambino della sua età, sembrava particolarmente annoiato mentre si metteva in posizione. Al segnale iniziarono a fare qualche scambio leggero, ma all'improvviso Katsura si sentì incalzare così iniziò anche lui a combattere con più foga, trasformando quella dimostrazione in un vero e proprio duello. La noia scomparve dagli occhi verdi del suo avversario, che aveva assunto un'espressione sorpresa e improvvisamente interessata.

Gli esaminatori dovettero richiamarli all'ordine tre volte prima che i due bambini si fermassero, ansanti.

«Ottimo, puoi andare» dissero gli esaminatori, rivolti al bambino sconosciuto che si strinse nelle spalle e se ne andò, non senza aver rivolto uno sguardo incuriosito a Katsura. «Molto bene, molto bene. Sembra che il tuo allievo sia all'altezza degli iscritti della nostra scuola. E hai detto di aver allenato questo bambino solo saltuariamente? Incredibile...»

«È proprio per questo che l'ho portato qui oggi. Credo che dovrebbe essergli riconosciuto il diritto di frequentare l'accademia.»

«Nella nostra accademia però sono tutti figli di samurai, lo sai bene. Inoltre il piccolo non ha né casa né famiglia, chi pagherà la sua retta?» un borbottio sommesso si sollevò tra le fila degli esaminatori, mentre Katsura vedeva allontanarsi sempre di più la possibilità di essere accettato in quella scuola.

«Sarebbe però un'aggiunta conveniente alla nostra accademia» si intromise un secondo esaminatore. «Se il livello del bambino è questo con così poco allenamento, immaginate cosa potrebbe diventare con uno studio continuato e strutturato. Il ragazzo è un prodigio, non possiamo sprecare un talento del genere» alcuni esaminatori borbottarono il proprio assenso, Katsura tenne lo sguardo inchiodato a terra sentendosi avvampare. Un prodigio? Lui?

«D'accordo, d'accordo...» intervenne il rettore dell'accademia. «Valuteremo la possibilità di assegnare una borsa di studio al bambino.»

 

La risposta fu recapitata il giorno seguente al sensei: Katsura avrebbe dovuto iniziare a seguire le lezioni la settimana seguente senza perdere ulteriore tempo, dal momento che doveva recuperare molte nozioni di base per essere in pari con gli altri studenti. Il bambino passò i mesi seguenti a studiare senza sosta e ad allenarsi con il bokken sia all'accademia che a casa del sensei e presto colmò il divario che lo separava dagli altri allievi. I suoi progressi stupirono molto gli insegnanti e arrivarono anche alle orecchie dei genitori dei suoi compagni di scuola, presto tutti non facevano che parlare del bambino prodigio spuntato dal nulla. Fu più o meno in quel periodo che il suo sensei dovette ripartire per la guerra e Katsura si trovò di nuovo a vivere da solo, la novità però era che avrebbe potuto tornare a vivere nella propria vecchia casa, l'accademia aveva riscattato il suo debito.

 

Con il passare degli anni Katsura si abituò a quella nuova vita: studiava, si allenava, si occupava delle faccende di casa e passava le proprie giornate con il bambino dagli occhi verdi, che aveva scoperto chiamarsi Takasugi Shinsuke. Takasugi sembrava l'unico a non essere impressionato o infastidito dalla fama di Katsura, gli altri compagni di classe avevano iniziato ad evitarlo pensando che si volesse mettere in mostra. La verità era che tutto gli sembrava abbastanza semplice. Takasugi dal canto suo si annoiava a morte perché nessuno dei loro compagni ci metteva realmente dell'impegno, nemmeno quando si trattava di combattere, quindi finiva puntualmente per batterli e farsi odiare, per poi cacciarsi nei guai. Fu proprio durante uno di quei guai che conobbero Gin e il suo sensei. Dei ragazzi più grandi, fratelli di alcuni loro compagni di scuola, volevano attaccare briga con Takasugi perché aveva umiliato i loro fratelli minori, inutile dire che il bambino non li aveva presi sul serio nemmeno per un attimo. Quando sembrava che la situazione stesse per degenerare, una katana si piantò in mezzo ai due gruppi e sollevando lo sguardo tutti notarono che era stata lanciata da un bambino con i capelli argentati dallo sguardo annoiato, era evidente che non aspettava altro che un diversivo del genere per buttarsi nella mischia insieme a loro due. Non esplose però nessuna rissa, con grande disappunto di Takasugi e del nuovo arrivato, perché il maestro di quest'ultimo intervenne dando una lezione sia a lui che ai bulletti che erano andati a infastidirli. Incuriositi da quello strano ragazzino e dal suo insegnante, Takasugi e Katsura fecero qualche ricerca e scoprirono che facevano parte di una nuova scuola che insegnava ai bambini poveri a leggere e a scrivere, oltre che l'arte della spada. Takasugi presto si mise in testa di voler sfidare il sensei della Shoka Sonjuku, così si chiamava la scuola, cosa che non stupì affatto Katsura, finendo per iniziare una rivalità con Sakata Gintoki, il bambino con i capelli d'argento, che sembrava non fare alcuna fatica a tenere a testa al bambino dagli occhi verdi. In qualche modo, nemmeno questa rivalità sorprese particolarmente Katsura. Gintoki però non sembrava infastidito, anzi sembrava divertirsi molto a combattere contro Takasugi, al punto che aveva iniziato a comportarsi come se loro fossero allievi della Shoka Sonjuku a loro volta. Katsura riconobbe che il loro nuovo amico non aveva tutti i torti, visto che ormai erano lì quasi ogni giorno. Il bambino dai capelli d'argento aveva addirittura iniziato a chiamare Kotarō Zura, cosa che non lo entusiasmava particolarmente all'inizio, ma l'amico non sembrava intenzionato a smetterla (anzi, anche Takasugi aveva iniziato a chiamarlo in quel modo) e ci dovette fare l'abitudine.

 

Le cose cambiarono definitivamente con il complotto ai danni della Shoka Sonjuku, dovuto alle accuse rivolte al sensei Shōyō secondo le quali lui stesse cercando di far cadere il governo. Zura non aveva potuto starsene con le mani in mano, aveva trovato tanti nuovi amici e non aveva nessuna intenzione di perdere anche quelli. Con Takasugi aveva così avvertito Gintoki e Shōyō, che avevano mandato via tutti gli studenti, ma non bastava: a Zura piaceva allenarsi con Takasugi e Gintoki e preferiva cento volte la Shoka Sonjuku all'accademia militare. La scelta quindi, non fu difficile, quando il sensei Shōyō e Gin comunicarono ai due bambini che se ne sarebbero andati, loro li seguirono senza batter ciglio.

 

Nonna, essere un generale è davvero dura. Si ritrovò a pensare una sera mentre si trovava con i suoi nuovi compagni. Cerco di sfuggire a ogni possibile pericolo, ma visto che sono l'ultimo rimasto, non posso sfuggire alla solitudine. Non riesco a superare le notti soltanto fingendomi un codardo. Ecco perché diventerò il samurai più codardo e allo stesso tempo più forte di tutti. Ma non lo farò da solo. Voglio diventare tanto forte e tanto codardo da poter proteggere gli amici con cui ora riesco a superare le notti.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Takasugi Shinsuke ***


Capitolo III: Takasugi Shinsuke

 

Il pugno di suo padre lo fece finire con il sedere per terra. Si pulì il sangue che colava dal labbro con una manica, ascoltando solo in parte ciò che l'uomo gli stava urlando contro. Le botte e le urla non erano una novità. Aveva dieci anni ormai ed era abituato a quelle reazioni da parte del padre, aveva imparato a muoversi con circospezione in casa propria, sapeva in quali orari poteva entrare e uscire indisturbato, quali risposte dare e come comportarsi. A volte però vederlo era inevitabile e in quei frangenti l'uomo aveva sempre un motivo per rimproverarlo o prendersela con lui.

In quel momento stava probabilmente urlando perché in quel periodo tornava spesso malconcio dai duelli con Gintoki, sicuramente stava blaterando qualcosa sull'onore e la reputazione.

La reputazione.

Come se a Shinsuke importasse della reputazione di quella famiglia.

Come se quella famiglia avesse avuto una reputazione da difendere.

Una volta, esasperato dai discorsi del padre che gli ricordava di comportarsi sempre in modo consono al suo rango di samurai, aveva sbottato che nessuno all'accademia li prendeva sul serio. Tutti sapevano che erano una famiglia di rango inferiore e fingere che non fosse vero era stupido e inutile. Quella sera aveva sperimentato il geta di suo padre.

«La prossima volta che creerai problemi verrai diseredato» sentì il padre urlare, questo lo riportò alla realtà e lo guardò, senza alzarsi da terra. Almeno questa è una novità, pensò. «Calma i bollenti spiriti e pensa a cosa vuol dire essere un samurai. Jinbei! Non dargli da mangiare!»

Shinsuke non protestò e si limitò ad andarsene in silenzio, rifugiandosi al tempio. Digiunare non era un problema, era un'altra delle punizioni di suo padre a cui si era abituato da tempo. Non voleva però dargli la soddisfazione di sentire il suo stomaco brontolare per la fame. Sarebbe tornato più tardi, una volta che la fame se ne fosse andata e che suo padre fosse stato chiuso nel suo studio.

Era seduto sulle scale del tempio, pensando che in realtà in quel momento aveva davvero fame e valutando quale fosse il rischio di provare a rubare qualcosa dalla cucina al suo ritorno, quando vide arrivare Katsura. In qualche modo l'amico sapeva sempre dove trovarlo.

«Stupida nonna. Le ho sempre detto che mangio solo gli onigiri ripieni di prugne» Takasugi gli rivolse uno sguardo poco convinto «quindi perché ci ha messo il tonno e la maionese? Fa niente. Mi sa che li lascerò al tempio come offerta.» Il bambino continuò a guardare Katsura mentre quest'ultimo fingeva di non essersi accorto di lui e di star semplicemente pensando ad alta voce, se ne stava addirittura andando senza salutare o dare segno di aver notato la sua presenza.

«Katsura... ma tua nonna non è morta tanto tempo fa?» sapeva che quella domanda non c'entrava nulla e che avrebbe semplicemente dovuto ringraziare, ma non era abituato a gesti del genere nei suoi confronti, si sentiva leggermente a disagio. In un certo senso era contento che l'amico avesse fatto finta di non vederlo e avesse lasciato lì gli onigiri come se nulla fosse.

«Takasugi, hai trovato qualcosa?» gli chiese Katsura, ignorando il suo commento.

«No, niente. Ho capito che sono debole. Ho capito che ci sono un sacco di persone più forti di me là fuori. Voglio diventare un samurai più forte di loro.»

Quella sera tornò a casa dopo aver spazzolato gli onigiri portati da Katsura e aver chiacchierato con lui per un po'. Il bambino dalla coda di cavallo gli piaceva: non era come quegli altri snob dell'accademia ed era effettivamente un avversario con il quale valesse la pena confrontarsi. Lo aveva scoperto per puro caso quando alcuni insegnanti lo avevano chiamato per mettere alla prova un novellino che voleva entrare all'accademia, poco più di un anno prima. Aveva accettato perché gli sembrava un modo come un altro per scacciare la noia e aveva finito per scoprire un avversario interessante. Con il tempo il loro rapporto si era evoluto e, essendo entrambi esclusi dai propri compagni per il rango sociale e per il loro atteggiamento, avevano finito per legare.

Non che Katsura fosse come lui. Assolutamente.

Takasugi era un piantagrane e non faceva altro che rispondere alle provocazioni dei compagni, infastidendoli ancora di più quando durante gli allenamenti li sconfiggeva uno dopo l'altro con un sorrisetto compiaciuto sulla faccia, sbattendogli in faccia quando fossero incapaci.

Katsura dal conta suo tendeva a rimanersene sulle sue e a impegnarsi negli studi, questo insieme alla sua fama di essere un bambino prodigio, lo aveva reso insopportabile ai compagni che pensavano si desse troppe arie per essere uno zotico che frequentava l'accademia solo grazie a una borsa di studio. Il fatto che "lo zotico" avesse risultati migliori dei loro in tutte le materie non aiutava ad accrescere la sua popolarità.

A differenza dei loro compagni, Takasugi lo trovava molto interessante e si divertiva a sfidarlo di tanto in tanto, anche se Katsura non era mai troppo entusiasta dei loro duelli. Inoltre aveva l'abilità di comparire nei momenti più utili, come in quel momento con gli onigiri, o qualche giorno prima quando erano stati minacciati dai fratelli maggiori dei loro compagni.

Entrando nella casa silenziosa, Takasugi pensò di essere sfuggito a suo padre e di potersene andare a dormire senza doversi sorbire una seconda ramanzina. Si sbagliava.

«Ti sembra questa l'ora di tornare?»Shinsuke sussultò e si girò di scatto verso l'angolo della corridoio da cui aveva sentito arrivare la voce di suo padre. «Dove sei stato?»

Il bambino fece involontariamente un passo indietro, sulla difensiva. «Ero in giro, mi hai detto di non cenare.»

«Eri ancora con quel moccioso, vero?» Takasugi si morse la lingua, a suo padre non andava a genio Katsura, diceva che uno come lui avrebbe dovuto frequentare la scuola del tempio, non di certo una prestigiosa accademia militare. In un'altra occasione avrebbe risposto in modo pungente, ma era tardi, erano soli e le aveva già prese quel giorno. Voleva solo andarsene a dormire.

«Cosa fai? Non rispondi?» scelta sbagliata, ma esisteva poi una scelta giusta? Il padre lo afferrò per un braccio e lo strattonò nella sua camera. Una volta lì, gli mollò uno schiaffo che gli fece girare la testa di scattò e lasciò uno segno rosso sulla sua guancia. «Devi rispondere quando ti viene fatta una domanda.»

Il bambino non si azzardò ad alzare lo sguardo, sentiva la guancia bruciare e la presa del padre sul suo polso era troppo stretta, inoltre stava tenendo il suo braccio in una posizione tale che per Shinsuke era impossibile scappare senza farsi male.

Un altro schiaffo. «Allora?»

«Sì. Ero con Katsura» rispose alla fine in un soffio. Il pugno nello stomaco lo prese alla sprovvista e dovette lottare con tutte le sue forze per non vomitare. Se suo padre avesse scoperto che aveva mangiato sarebbe stato ancora peggio.

«Quante volte ti ho detto che devi lasciar perdere quel moccioso? Eh? Devi girargli al largo, hai capito?» disse afferrandogli il viso e girandolo a forza verso di sé. La presa era così stretta da fargli male e il bambino annuì per farlo smettere.

Finalmente l'uomo lo lasciò andare e lo spedì a letto, per poi uscire sbattendo la porta. Takasugi si infilò nel futon e iniziò a massaggiarsi il polso e la spalla, facendo dei lunghi respiri. Si sentì infastidito dalla propria debolezza. Si era ripromesso di non farsi più spaventare da quell'uomo e invece si era comportato da codardo, aveva accettato di non vedere più l'unico amico che aveva (anche se non aveva assolutamente intenzione di mantenere la parola) e adesso era lì raggomitolato nel futon a tremare con gli occhi che gli bruciavano.

Non ricordava esattamente quando suo padre aveva iniziato a picchiarlo, ma gli sembrava che fosse così da sempre. La prima volta di cui aveva ricordi chiari risaliva a qualche anno prima, a quando ne aveva circa sei o sette: era tornato a casa sporco perché si era azzuffato con altri bambini, poiché lo avevano preso in giro dicendo che era povero. Suo padre non aveva reagito bene allo stato dei suoi vestiti o ai segni viola sparsi su tutto il corpo. All'epoca suo padre lo terrorizzava. All'inizio, quando lo puniva, scoppiava a piangere e lo supplicava di smetterla, scusandosi e promettendo che avrebbe fatto il bravo, ma suo padre non lo aveva mai ascoltato. Così aveva smesso di piangere e di supplicare. Durante il giorno riusciva a mettere su una faccia spavalda, di solito riusciva a filarsela dopo il primo schiaffo o il primo pugno, ma di sera non era così semplice. Suo padre sembrava più grande e spaventoso. A volte invidiava Katsura: lui viveva da solo, ma almeno nessuno lo picchiava. Non doveva avere paura di girare in casa propria o di rivolgere la parola al proprio padre.

 

Nei giorni seguenti accantonò in un angolo del proprio cervello quanto accaduto con il padre e andò nuovamente con Katsura alla Shōka Sonjuku, doveva sfidare di nuovo Gintoki. Lo avrebbe battuto prima o poi. Non si sarebbe arreso finché non ci fosse riuscito.

 

«Punto!»

Ci era riuscito. Rimase per un attimo a fissare il bambino dai capelli d'argento disteso al suolo, mentre gli altri studenti iniziavano ad urlare ed esultare.

«Fantastico!» urlò qualcuno e Shinsuke si trovò circondato da altri bambini entusiasti per l'incontro a cui avevano appena assistito.

«Sei riuscito a sconfiggere Gintoki! Incredibile!» Takasugi si guardò attorno, non capendo cosa stesse succedendo.

«Ce l'hai fatta! Ottimo lavoro! Hai resistito!» esultò un altro.

Perché quei bambini sconosciuti stavano esultando per la sua vittoria? Non erano amici e lui aveva appena sconfitto uno di loro. Avrebbero dovuto essere arrabbiati. «N-non fate gli amiconi con me» protestò, preso in contropiede. «Non siamo mica compagni di classe!»

Gli altri studenti continuarono a ridere, per nulla impressionati dalla sua risposta. Perché non lo stavano cacciando via?

«Oh non lo siete?» li interruppe una voce alle sue spalle. Il sensei Shōyō aveva seguito il combattimento dall'inizio alla fine. «E io che pensavo ti fossi già unito alla nostra scuola. Voglio dire, eri così felice di allenarti tutti i giorni... no,» si fermò pensieroso prima di sorridere di nuovo «a sfidare il dōjō.»

I bambini scoppiarono nuovamente a ridere, mentre lui distoglieva lo sguardo imbarazzato.

Gintoki, ancora inginocchiato a terra, protestò. «Ehi! Cos'è tutta questa felicità? È uno sfidante di un altro dōjō! Ha attaccato il nostro dōjō! Ha preso la verginità della mia sconfitta!» Gin smise di urlare solo quando Katsura gli appoggiò una mano sulla spalla.

«Non siamo più avversari. Prepariamo insieme degli onigiri» tipico di lui, cercare di farsi amici in posti improbabili. Tipo in un dōjō che avevano appena sconfitto. Fu la risposta di Gintoki a sorprenderlo.

«Non siamo più avversari... ma tu chi sei?!» aveva ancora lo stesso tono da provocatore, ma... davvero non era arrabbiato per la sconfitta allora? Era solo un attaccabrighe come lui? «Perché dovrei mangiare degli onigiri preparati da un completo sconosciuto?!»

«Chi ha detto che devi mangiarli? Li devi solo preparare» la risposta illogica di Katsura scatenò nuove vivaci proteste da parte del bambino dai capelli d'argento.

«Che razza di rito sarebbe questo?!»

La situazione divenne gradualmente più assurda fino a quando Shōyō non mangiò uno degli onigiri senza permesso facendo scoppiare tutti a ridere. Suo malgrado anche Takasugi si trovò a ridere come non faceva da molto tempo. Sia gli studenti che l'insegnante in quel posto erano davvero strani, non sembravano affatto turbati dal fatto che Takasugi si presentasse praticamente tutti i giorni per combattere con Gintoki, o dal fatto che fosse riuscito a batterlo. Nessuno di loro aveva preso in giro lui e Katsura per tutte le batoste che Shinsuke aveva preso da Gin, nemmeno quest'ultimo aveva infierito particolarmente. Questo non sarebbe mai successo nella sua vecchia scuola. Sembrava li avessero accolti come due di loro, come se fossero... amici.

 

«Ehi tu» era ormai il tramonto e Shinsuke si stava incamminando verso casa, quando la voce di Gintoki lo raggiunse. «Sei Takasugi, giusto? Non darti delle arie solo perché hai vinto. Anche se questa volta sei riuscito a vincere per puro miracolo, quante volte ti ho battuto io?»

Il bambino dai capelli viola chiuse gli occhi e sospirò. A quanto pare si era sbagliato, Gin se l'era presa, semplicemente si stava comportando bene davanti al sensei. Doveva aspettarselo. Probabilmente adesso gli avrebbe detto di girare al largo dal suo amici e dal suo sensei. Dopotutto lui non era uno di loro.

«Se vuoi davvero sconfiggermi... se vuoi rifarti di tutte le sconfitte... torna di nuovo domani.»

Cosa? Lo stava invitando a tornare? Poteva tornare? Gli stava davvero solo dicendo di non montarsi la testa? Era la prima volta che qualcuno non se la prendeva con lui per averlo battuto. Anche prima che iniziasse a prendere in giro i propri compagni dell'accademia per essere più deboli di lui, quando semplicemente riusciva a batterli, loro non avevano mai reagito bene e lo avevano velocemente tagliato fuori.

«Ma questa volta vincerò io» concluse Gintoki tornando dentro alla scuola.
Shinsuke si sentì incredibilmente sollevato, per un attimo aveva temuto di non poter mettere più piede in quel posto, ma così non era stato. Poteva ancora tornare ad allenarsi con il sensei Shōyō, in mezzo a gente a cui a quanto pare lui piaceva, visto come avevano festeggiato la sua vittoria. E anche quel Gintoki non sembrava male, forse avrebbero potuto diventare amici, come con Katsura. Gli sarebbe piaciuto davvero tanto.

 

Quella piccola parentesi non durò a lungo. Iniziarono a circolare voci secondo cui il sensei Shōyō stava istruendo i bambini per creare una specie di piccolo esercito personale con lo scopo di rovesciare il governo. Inutile dire che suo padre lo aveva di nuovo punito per essere stato in quella scuola e lo aveva legato al ramo di un albero, sia come punizione, sia per assicurarsi che non scappasse di nuovo.

Takasugi rimase appeso per quella che gli sembrò un'eternità. Sperava davvero che suo padre andasse a slegarlo prima che venisse buio, in quel periodo faceva freddo la notte e gli era capitato alcune volte di restare appeso dopo il tramonto (non tutta la notte, solo per un po'), lo odiava. Con il buio non era più in grado di vedere nulla e ogni rumore che sentiva lo faceva scattare sull'attenti, i sensi acuiti al massimo per capire di cosa si trattasse: una persona che si stava avvicinando? Un animale sull'albero? Il vento che faceva strani suoni inquietanti tra i rami? Odiava non vedere nulla, non riusciva ad avere un quadro completo della situazione e lo faceva sentire inerme. Non essere in grado di reagire a eventuali pericoli lo spaventava a morte. La prima volta che suo padre lo aveva appeso a un albero aveva otto anni. Non ricordava più cosa avesse fatto per meritare quella punizione, ma ricordava ancora ciò che aveva provato restando appeso da solo al buio.

A quel punto aveva smesso da tempo di cercare di impietosire suo padre con le lacrime e con le suppliche, quindi se n'era rimasto in silenzio con le orecchie tese e gli occhi sgranati. Registrava ogni fruscio, ogni ombra... il minimo movimento e rumore erano fonte di ansia. Poi aveva iniziato ad autosuggestionarsi. Alla fine non ce l'aveva più fatta e aveva iniziato a piangere, spaventato dalle strane forme che assumevano le ombre nel cortile e dagli scricchiolii e dai fruscii che sentiva attorno a sé e che facevano battere il suo cuore a mille. Suo padre era andato a liberarlo dopo quelle che gli erano sembrate ore, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato in realtà.

Mentre era perso in quei pensieri, il sole era calato al di là dell'orizzonte. Fu l'arrivo di Katsura a richiamarlo alla realtà e Shinsuke non poté fare a meno di essere grato e sollevato di quella distrazione.

«Che piacevole vista» esclamò il bambino dai capelli lunghi. «C'è un cretino che vola nel cielo.»

«Già, c'è davvero una bella vista da qui. Riesco perfino a vedere un idiota.»

Katsura si appoggiò al muro del cortile. «Cosa farai d'ora in avanti?»

Takasugi mosse leggermente i piedi addormentati e distolse lo sguardo. «Non posso fare nulla» rispose demoralizzato. «Mi ha detto che verrò diseredato se metterò di nuovo piede in quel posto.»

«Capisco. Quindi anche tuo padre ha sentito quelle voci.»

Entrambi sapevano bene di cosa stesse parlando Katsura: le voci del presunto complotto del sensei si erano diffuse a macchia d'olio ed era solo questione di tempo prima che il governo facesse chiudere la scuola... o peggio.

 

Non avevano potuto fare a meno di intervenire, specie dopo che uno dei bulletti che li avevano minacciati tempo prima, uno dei fratelli maggiori dei loro compagni di accademia, aveva detto a Shinsuke che i loro genitori avevano denunciato Shōyō e presto il governo sarebbe intervenuto. Katsura aveva raccontato subito a Gintoki ciò che avevano scoperto, poi Takasugi aveva fatto in modo di trovarsi sulla strada in cui sarebbero passati gli uomini che volevano cacciare Shōyō. Non senza una certa sorpresa, vide arrivare Katsura.

«Takasugi. Non credi che sia un po' tardi per andarsene in giro così? Stavolta potresti venire diseredato veramente»

«Non c'è bisogno di preoccuparsi» rispose semplicemente Shinsuke. «Domani non avrò più un posto in cui tornare» dopotutto aveva dato il benservito a quegli stupidi bulletti. Suo padre non lo avrebbe mai perdonato questa volta. E in ogni caso Takasugi non aveva intenzione di scoprire quale sarebbe stato il prezzo da pagare per essere perdonato da lui. Era stanco di girare per casa propria cercando di non farsi notare o di pensare costantemente a ciò che avrebbe dovuto dire (o non dire) per non essere picchiato.

La verità era che a nessuno dei due bambini ormai importava più molto della loro vecchia vita. Katsura era consapevole che quella notte avrebbe perso la borsa di studio, come gli aveva fatto notare Takasugi, ma anche a lui piaceva la Shōka Sonjuku, così come gli piacevano il sensei Shōyo, Gintoki e gli altri studenti. Voleva restare con lui e i loro nuovi amici. Se per farlo doveva farsi espellere da quella noiosa accademia, allora lo avrebbe accettato di buon grado.

 

I loro desideri vennero esauditi quella notte. Poco dopo vennero raggiunti da Gintoki, pronto ad attaccare briga insieme a loro, ormai era chiaro che li considerava suoi compagni e i due non poterono evitare di sentirsi compiaciuti. La loro zuffa improvvisata venne però fermata da Shōyō, che accorgendosi che Gintoki era sparito, aveva dedotto cosa stesse succedendo ed era intervenuto, spaventando gli uomini che stavano per sguainare le loro katane contro dei bambini di dieci anni. Per un attimo i tre videro una luce diversa e sinistra comparire negli occhi del maestro, ma scomparve immediatamente quando rivolse di nuovo la sua attenzione a loro tre. Il pugno che ricevettero come punizione per il loro gesto avventato, non impressionò particolarmente i tre bambini, né smorzò il loro entusiasmo; dopotutto il sensei aveva accettato Takasugi e Katsura come suoi nuovi studenti e i due erano euforici, mentre Gintoki aveva appena guadagnato due compagni della sua età e che avevano capacità in grado di rivaleggiare con le sue. Tutti e tre erano convinti che da lì in poi le cose si sarebbero fatte molto divertenti.

 

Il primo periodo comportò una serie di cambiamenti nelle vite dei due bambini: Katsura era visibilmente su di giri, per quanto cercasse di comportarsi comunque in modo controllato. A quanto pare, si ritrovò a pensare Takasugi, vivere da solo gli era pesato più di quanto aveva voluto dare a vedere e adesso era semplicemente felice di non essere più costretto a cavarsela per conto proprio. Takasugi d'altra parte dovette abituarsi ai metodi poco ortodossi di Shōyō, non era affatto rigido come gli insegnanti dell'accademia, ma sapeva essere altrettanto esigente, senza però umiliarli. Inoltre aveva modi molto... esuberanti per dimostrare il suo entusiasmo. In più di un'occasione Shinsuke si era trovato a sussultare vedendo con la coda dell'occhio un movimento brusco da parte del maestro, sapeva che non lo avrebbe mai picchiato per punirlo, ma non riusciva a fare a meno di irrigidirsi. Non sapeva se Shōyō se ne fosse accorto, ma il dubbio gli venne un giorno che lui, Katsura e Gintoki avevano deciso di fare una sorpresa al maestro, questa era stata particolarmente gradita e il sensei si era lanciato su di loro ridendo. Li aveva afferrati e trascinati verso di sé, per poi stritolarli in un abbraccio di gruppo. In un primo momento Takasugi aveva cercato di liberarsi, non capendo cosa stesse succedendo, poi aveva visto il sorriso soddisfatto di Katsura e l'espressione fintamente annoiata di Gintoki e si era leggermente rilassato. Era una reazione normale quindi? Aveva rivolto un'occhiata dubbiosa a Shōyō e si era accorto che il sensei gli stava sorridendo in modo rassicurante. Shinsuke aveva distolto lo sguardo, paonazzo, mentre il maestro lo spettinava e iniziava a ridere davanti alle facce dei tre bambini, che non avrebbero potuto avere tre reazioni più diverse. I tre amici si guardarono e vedendo le rispettive espressioni non poterono fare a meno di scoppiare a ridere a loro volta, Takasugi compreso. Era al sicuro, nessuno gli avrebbe fatto del male in quella nuova casa.

Forse quella poteva diventare la sua famiglia.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Yoshida Shōyō ***


Capitolo IV: Yoshida Shōyō


 

La prima volta fu colpa della fame.

La seconda volta ci pensarono i lupi. Quella persona gli aveva detto di non allontanarsi da solo nei boschi, ma non aveva ascoltato.

La terza volta la sua morte fu causata da altre persone. Bastò un errore e fu l'inizio della fine. O forse fu solo l'inizio. Dopotutto le capacità degli umani di infliggere dolore e morte erano infinite, come poteva esserci una fine?

La spada lo attraversò da parte a parte e cadde riverso al suolo. Si risvegliò qualche ora dopo. Troppo presto. Lo avevano messo insieme ai cadaveri degli altri caduti sul campo di battaglia, in quel momento si trovava ancora in mezzo ai corpi dei propri compagni che aspettavano la sepoltura. I soldati ancora vivi stavano scavando le tombe di fortuna in cui gettare i cadaveri e non si accorsero immediatamente dell'uomo che si stava alzando. Appena lo videro imbracciarono le armi e gli furono addosso. Lui era più forte di un normale umano, ma loro erano troppi ed erano i suoi compagni. Non voleva far loro del male. Li vide avvicinarsi, gli occhi sgranati per la paura e le spade puntate contro di lui. Fece un passo indietro sollevando le mani e sorridendo in modo rassicurante. Aprì la bocca per spiegare, ma al posto della sua voce uscì solo un fiotto di sangue. Rivolse uno sguardo incredulo e triste ai suoi compagni prima di accasciarsi al suolo, trafitto dalle lance.  

Questa volta era stato prudente, ma non era bastato. La katana gli tagliò di netto la testa, che rotolò per qualche metro prima di fermarsi contro un sasso poco distante. Gli occhi vitrei ancora aperti fissi verso il cielo.

Il cappio si strinse attorno al suo collo, poteva sentire la corda tirare sempre di più. Cercò di controllare il respiro, ma quegli uomini continuarono a tirare. Presto i suoi piedi si staccarono dal suolo e iniziò ad annaspare. Poteva sentire la fune segargli la pelle, i polmoni iniziarono a bruciare mentre gli spasmi iniziavano a scuotere i suoi muscoli. Si portò istintivamente le mani alla gola, cercando di strappare la fune, ma più il tempo passava, più sentiva le forze venirgli meno. Nemmeno l’adrenalina data dalla paura che si stava impossessando di lui riuscì a dargli abbastanza forza per liberarsi. Provò a supplicare, ma la voce gli si bloccò in gola, insieme ai suoi respiri sempre più brevi e affannosi. Poi sopraggiunse il buio. 

Avrebbe dovuto abbandonare quel villaggio molto tempo prima. Lo sapeva. Eppure non lo aveva fatto. Perché non lo aveva fatto? Aveva passato così tanti anni ad evitare le altre persone, aveva vissuto isolato e al sicuro per decenni, perché questa volta aveva ceduto? Perché aveva riaccompagnato quei contadini al villaggio dopo averli salvati dai briganti? La strada ormai era sicura. Avrebbe potuto lasciarli andare per conto proprio, invece li aveva seguiti fino al villaggio. Aveva ceduto alle loro suppliche ed era rimasto con loro. Aveva anche permesso loro di scoprire la sua vera natura e loro non lo avevano cacciato. Era per questo? Perché quelle erano state le prime persone che non lo avevano trattato come un mostro dopo così tanto tempo? Era davvero così debole e patetico? Il risultato? Erano morti. Si era allontanato dal villaggio solo per qualche ora e al suo ritorno le case erano state bruciate e gli abitanti erano morti. Non tutti però. No, era riuscito a trovarne alcuni ancora vivi nelle mani dei loro aggressori.
Aveva combattuto.
Aveva supplicato.
Ma era stato inutile. Quegli uomini erano troppi e lui non poteva combattere al meglio delle proprie capacità. Gli ostaggi erano troppo vicini. Le spade del nemico erano pericolosamente vicine alle loro gole, a ricordargli che anche se avesse vinto sarebbero morti comunque. Riuscirono a disarmarlo. Tentò di contrattare: non avrebbe più cercato di resistere ma per favore, per favore, per favore, che lasciassero andare quei ragazzini.
Supplicare fu una perdita di tempo.
I ragazzini vennero uccisi uno dopo l'altro tra le urla e i tentativi di fuga, mentre quattro persone lo circondavano e gli trafiggevano le gambe e le braccia in modo che non potesse intervenire. Lo costrinsero a guardare mentre uccidevano gli ostaggi uno per uno, mentre la disperazione si impadroniva di lui e restava a fissare impotente. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma era colpa sua se tutto ciò stava accadendo, era solo colpa sua e guardare era la sua punizione. Solo alla fine i suoi aguzzini ebbero la misericordia di ucciderlo.

Rintanarsi nei boschi o nascondersi tra la folla non era più possibile. Sembrava che le storie su di lui ormai circolassero liberamente, tutti sembravano sapere del mostro immortale che vagava per quelle terre. Era abbastanza sicuro che ci fosse una taglia sulla sua testa. Aveva la certezza che ormai dargli la caccia e cercare di ucciderlo fosse la nuova attività preferita dagli umani. Una nuova sfida. Fece una smorfia disgustata e si calò il sandogasa sul viso.

Non riusciva a muoversi, l'effetto del veleno che gli avevano somministrato non era ancora scomparso. Per quanto tentasse, non riusciva a sollevare nemmeno un dito, mentre lo infilavano nella cassa. E nemmeno quando la cassa venne lanciata in mare. Mentre quella bara improvvisata si inabissava, poteva sentire le voci disgustate degli umani che lo avevano gettato in mare, mentre esultavano cinicamente della sua morte e della sua sofferenza.
«Se il mostro non può morire, ci assicureremo che non possa più liberarsi» avevano sogghignato, dopo averlo legato e calato nella cassa insieme ad alcune grosse pietre. Avevano chiuso il coperchio e avevano calato quella specie di feretro in mare. Presto l’acqua aveva iniziato ad infiltrarsi tra le assi.
«E se si dovesse liberare?»
«Come dovrebbe fare a liberarsi? Non hai visto come era legato? Vedrai che ce ne siamo sbarazzati una volte per tutte...»
L’acqua lo stava ormai comprendo totalmente e aveva iniziato a farsi strada nei suoi polmoni. Istintivamente cercò di tossirla fuori e di trattenere il respiro, ma i suoi polmoni si contrassero con uno spasmo in cerca di ossigeno e altra acqua si fece strada nel suo naso e nella sua gola. Dopo quelle che sembrarono ore fu di nuovo in grado di muoversi. Sapeva che dimenarsi non sarebbe servito a nulla, ma non poté fare a meno di agitarsi per tentare di liberarsi. Chiunque lo avesse legato non aveva fatto un buon lavoro perché presto i nodi cedettero e lui si trovò a spingere contro il coperchio della cassa, cercando di aprirla. La pressione dell’acqua però esercitava molto più forza dei suoi muscoli ancora indeboliti dal veleno e i suoi polmoni continuavano ad annaspare inutilmente in cerca d’aria. Sarebbe morto così dunque questa volta. E anche la prossima. E quella dopo. Il suo corpo avrebbe continuato a rigenerarsi e a riportarlo in vita, i suoi polmoni avrebbero continuato ad annaspare in cerca di aria e lui sarebbe affogato ancora e ancora. Il panico iniziò a impossessarsi di lui, ma non servì a nulla. L’agitazione gli faceva soltanto sprecare le energie più in fretta, gli faceva inspirare acqua sempre più in fretta, in una disperata e irrazionale ricerca di ossigeno.

Non sapeva quanto fosse passato, quante volte si era risvegliato per poi affogare di nuovo? Aveva perso il conto dopo le prime dieci. A un certo punto alcuni pesci erano riusciti a farsi strada tra le assi della cassa. Qualcosa lo aveva punzecchiato. Qualcosa a un certo punto lo aveva morso e questo aveva risvegliato una nuova ondata di panico e nuovi tentativi di liberarsi. Non era servito a nulla. Doveva essere giunto in profondità perché era circondato dal buio e dal silenzio. Morire non era diventato più facile o meno spaventoso. Gli occhi continuavano a bruciare. I polmoni continuavano a cercare spasmosdicamente ossigeno e a riempirsi d’acqua. Le ferite sulle sue mani causate dai tentativi di aprire la cassa avevano smesso di rimarginarsi a causa dell’acqua. Faceva male. Tutto faceva male. E aveva paura. Avrebbe passato così l’eternità? Perché? Non aveva mai fatto del male alle persone, nonostante gli avessero dato la caccia e lo avessero ucciso. Perché lo odiavano e lo temevano? Perché non potevano semplicemente lasciarlo in pace? Perché non-

Lo aveva trovato. Aveva trovato il villaggio delle pers- degli umani che lo avevano gettato in mare. Rimase a guardare le fiamme consumare le case poco distanti fino a quando l’incendio non si fu estinto.

Quella non fu l’ultima volta ovviamente. Dopo quell’episodio venne ucciso ancora molte volte. Venne giustiziato, smembrato, bruciato vivo più volte di quanto potesse ricordare, ma il dolore… quello lo ricordava. Ricordava l’acqua entrargli nei polmoni, ricordava il fuoco mangiargli la carne e le lame dei suoi aguzzini farlo a pezzi. Ricordava tutto. Aveva supplicato e ucciso, ma il risultato era sempre lo stesso. Che si lasciasse guidare dalla paura o dalla rabbia, il risultato non cambiava. Mai.

Alla fine lo avevano rinchiuso. Non avrebbe saputo dire quanto rimase rinchiuso in quel posto, ma aveva davvero senso parlare di tempo? Non sarebbe comunque morto. Non davvero. La cella in cui si trovava era umida e buia, di un buio opprimente che ricordava le profondità del mare in cui era stato gettato. A volte quel pensiero era sufficiente a togliergli il fiato e a impedirgli di respirare, come se i suoi polmoni fossero di nuovo pieni d’acqua. I giorni si trasformarono in settimane, in mesi, in anni. Quando il buio si faceva soffocante, l’uomo si rintanava in un angolo della propria mente, cercando di scomparire. La fame e la sete presto smisero di avere importanza, erano diventate un altro modo per scandire il passare dei giorni: per morire di fame e disidratazione era necessaria all’incirca una settimana, a volte anche meno. Non era solo però. Le voci nella sua testa gli tenevano compagnia. Alcune avevano paura, erano terrorizzate dal buio, dalla fame, dalla sete, del dolore, dalla morte… altre erano furiose con gli umani. Un paio li compativano poiché gli umani temevano ciò che non erano in grado di capire, molte altre li odiavano, di un odio viscerale e assoluto. Erano loro al comando quando le sbarre della prigione non furono più in grado di contenerlo. Erano loro al comando quando nacque Utsuro. 

«Hai sentito? Sembra che quel demone sia di nuovo nei paraggi...» sentì bisbigliare un uomo poco distante. Per un attimo si irrigidì e portò una mano all’elsa della katana, ma si rilassò subito. Non stavano parlando di lui. Lo sapeva. Erano secoli che non mostrava il suo volto al mondo, era rimasto nascosto dietro la maschera del corvo così a lungo che ormai le storie su di lui erano state dimenticate. Aveva speso molte delle sue vite a capo del Tenshōin Naraku e nessuno era più in grado di riconoscerlo. La sua fuga non cambiava nulla. Proseguì per la sua strada, intenzionato a ripartire il prima possibile, ma la sua attenzione venne attirata da una conversazione poco distante.
«Un amanto, vi dico. È uno di quei disgustosi alieni che stanno arrivando ad invaderci.»
«Stupidaggini, perché mai un amanto dovrebbe avere quell’aspetto? A cosa gli servirebbe in guerra? No, ti dico che è un demone, sicuramente nato dagli spiriti dei bambini morti orfani.»
«Beh» aggiunse un terzo «qualsiasi cosa sia quell’essere, è inquietante e decisamente non umano. Avete visto i suoi capelli? Sono del colore dell’argento...»
«I capelli? Perché vogliamo parlare degli occhi? Sono rossi. Mio cugino ha detto che se lo è trovato davanti una notte e gli occhi di quel piccolo mostro brillavano come due pozze di sangue.»
«Questo perché si nutre di cadaveri» intervenne un altro. «Non lo sapete che vaga sui campi di battaglia e si nutre dei morti rimasti senza sepoltura? Una delle figlie di Kimura, il fabbro, lo ha visto aggirarsi tra i cadaveri due notti fa.»
Il primo uomo ad aver parlato sputò in terra. «Non rispettare nemmeno i morti. Dobbiamo liberarci di quel demone o qualunque cosa sia prima che attiri l’ira dei caduti su di noi.»
«Tsk e chi dovrebbe andarci? Vuoi forse avvicinarti tu a quel piccolo mostro?»
La discussione si trasformò in un litigio su chi avrebbe dovuto occuparsi del demone e Shōyō, come aveva deciso di farsi chiamare in questa vita, si avvicinò al gruppo. Si schiarì la voce per attirare la loro attenzione proprio mentre gli umani stavano decidendo che forse sarebbe stato meglio organizzare un gruppo apposito per liberarsi del mostro.
«Scusatemi» intervenne Shōyō con un sorriso conciliante in viso, «non ho potuto fare a meno di sentire i vostri discorsi. Siete sicuri che si tratti di un demone o di un amanto?»
Gli uomini gli rivolsero uno sguardo perplesso, non avevano notato la sua presenza fino a quando non si era rivolto direttamente a loro. «Che altro dovrebbe essere? Sembra un bambino, ma ha capelli argentati, occhi rossi e pelle chiarissima, vaga per i campi di battaglia cibandosi di cadaveri e più di un uomo che ha osato avvicinarsi è stato ferito da lui!»
«Capisco» annuì lui, attento a non far vacillare l’espressione pacifica che si era dipinto in volto. Conosceva umani come quelli. Erano dello stesso stampo di quelli che gli avevano dato la caccia come un animale per secoli, non si sarebbe stupito se quello di cui stavano parlando fosse stato semplicemente un bambino dai tratti singolari. O un piccolo amanto. O qualcosa di simile a lui. Un po’ del suo risentimento dovette trasparire dal suo sguardo perché vide gli umani fare istintivamente un passo indietro, confusi. «Se volete posso liberarvi dalla sua presenza.»
«In cambio di che cosa?» chiese uno degli uma- degli uomini, sospettoso.
«Non dovrete fare domande» si limitò a rispondere sorridendo. Li vide scambiarsi sguardi confusi e incerti, ma alla fine accettarono, sollevati che non avrebbero dovuto essere loro a occuparsi del piccolo mostro. 

Il piccolo mostro non era altro che un bambino umano. Lo aveva capito nell’esatto momento in cui lo aveva scorto in lontananza, seduto su un cadavere impegnato a mangiare un onigiri trovato chissà dove. Aveva occhi rossi e capelli d’argento ma era innegabilmente un bambino umano, non un demone. Non era nemmeno come lui. Non che avesse mai nutrito dei dubbi in merito, nei secoli aveva già visto bambini come quello… erano rari ma nulla di particolare. Il piccolo era palesemente denutrito e poteva scorgere la paura nascosta dietro al suo sguardo ostile. Il bambino non aveva esitato a sfoderare una katana non appena lo aveva visto, chissà quanti adulti si erano avvicinati a lui cercando di fargli del male, se le sua prima reazione vedendone uno era stata quella di difendersi invece che di chiedere del cibo. Senza nemmeno rendersene conto, Shōyō aveva deciso di portarlo con sé, gli aveva donato la propria katana e lo aveva fatto diventare il suo primo allievo… non pensava che avrebbe avuto un allievo dopo… aveva scacciato via quel pensiero e si era concentrato sul piccolo Gintoki, come aveva detto di chiamarsi. Il bambino non sembrava ricordare molto a parte il proprio nome e che era rimasto solo. Ad occhio e croce doveva avere all’incirca otto anni. Era così piccolo e spaventato… poté vedere la diffidenza sparire dagli occhi del bambino, a mano a mano che si convinceva che Shōyō non gli avrebbe fatto del male, anche se continuava a portare la katana che gli aveva regalato ovunque andasse. Non l’appoggiava per mangiare, né per allenarsi, nonostante nel dōjō usasse uno shinai. Non se ne separava nemmeno quando andava a dormire, le manine strette intorno al fodero come se fosse un’ancora di salvezza. Shōyō aveva provato a prenderla una notte, per permettere a Gintoki di dormire più comodamente e in modo che potesse muoversi nel sonno senza rischiare di farsi male tirandosela addosso, ma si era rivelato un errore: pochi minuti dopo, il bambino aveva iniziato ad agitarsi, il suo respiro si era fatto più affannoso e aveva iniziato a gemere e piangere. Shōyō aveva rimesso allora la katana al suo posto sul futon e aveva afferrato una delle mani di Gintoki, portandola sul fodero, dopodiché aveva iniziato ad accarezzargli i capelli in attesa che si calmasse. 

L’errore più grave però lo commise qualche settimana dopo. Doveva sbrigare alcune commissioni, ma non voleva svegliare il bambino perché la notte precedente aveva faticato ad addormentarsi, agitato da pensieri che non aveva voluto condividere con il suo sensei. Aveva programmato di metterci solo qualche ora e di tornare prima che Gintoki si svegliasse, ma presto si era rivelato impossibile raggiungere la destinazione o tornare indietro: il Tenshōin Naraku lo stava ancora cercando. Non importava quante deviazioni facesse, i Corvi erano lì. Non sembrava sapessero esattamente dove cercare, ma non poteva tornare indietro. Se lo avessero visto lo avrebbero seguito. Non potevano trovare Gintoki. Non poteva nemmeno ucciderli perché per quanto fosse veloce, una parte di loro si sarebbe comunque accorta di ciò che stava succedendo e li avrebbe messi in allarme. Alla fine aveva impiegato l’intera giornata per far perdere le proprie tracce ai Corvi, lasciando indizi e guidandoli nella direzione opposta rispetto a quella in cui si trovava il luogo in cui alloggiava. Più di una volta aveva rischiato di farsi scoprire, ma alla fine era riuscito ad allontanarli a sufficienza da Gintoki e a tornare a casa. Lì aveva trovato il bambino raggomitolato in un angolo, le ginocchia al petto e la testa china. Fece correre lo sguardo da una parte all’altra della stanza, alla ricerca di nemici o di qualche pericolo, niente sembrava fuori posto. Gintoki non sembrava ferito.
«Gintoki?» provò a chiamarlo, avvicinandosi. Il bambino sussultò ma non sollevò la testa. «Gintoki, cos'è successo?» gli chiese mettendogli una mano su una spalla e accorgendosi che stava piangendo. Il bambino rispose con voce sommessa, cercando di trattenere i singhiozzi. Lo aveva aspettato tutto il giorno, si era tenuto impegnato, ma alla fine, dopo un giorno intero da solo, la paura aveva avuto la meglio. Shōyō sospirò mentre lo avvicinava a sé. Come aveva fatto ad essere così idiota? Gli iniziò ad accarezzare la schiena e i capelli, scusandosi e cercando di giustificarsi. La voce gli morì in gola però quando il bambino lo interruppe, la voce così bassa che quasi rischiò di non sentirlo. «Ho pensato che non mi volessi più, come il mio papà e le persone dei villaggi...»
Shōyō non potè fare altro che restare in silenzio e abbracciare il piccolo che singhiozzava senza riuscire a fermarsi, mentre gli raccontava di suo padre, di sua madre, dei contadini che gli avevano dato la caccia… più il bambino parlava, più Shōyō sentiva una rabbia cieca farsi strada dentro di lui, che gli impediva di non pensare a come sarebbe stato semplice, così semplice, ucciderli tutti. Tornò alla realtà quando sentì la testa del bambino premere contro il suo petto e le manine stringere in modo disperato il suo kimono. Si accorse di aver stretto la presa, ma Gintoki non sembrava infastidito, anzi… si stava aggrappando a lui con tutte le sue forze, mentre tremava e piangeva. Shōyō sospirò e cercò di far sparire ogni traccia di rabbia dalla propria voce.
«È tutto a posto» gli disse passandogli una mano tra i capelli argentati. «È tutto a posto, ci sono io con te adesso. Non sarai più solo.»

Shōyō rimase ad osservare i bambini per un po’. Avevano passato tutto il giorno ad allenarsi e in quel momento si stavano sfogando rincorrendosi nei pressi della scuola. Le loro energie sembravano non finire mai.
Shinsuke e Kotarō erano con loro ormai da qualche mese, ricordava ancora la notte in cui avevano deciso di seguire lui e Gintoki… inizialmente aveva nutrito qualche dubbio sul farsi carico di altri due bambini, dopotutto insegnare in una scuola era ben diverso che occuparsi di loro tutto il giorno tutti i giorni, ma a Gintoki sembravano piacere davvero molto e non l’aveva mai visto così felice come quando si allenava o giocava con quei due. Alla fine Shōyō non era stato in grado di dire di no.
Non che avesse davvero un motivo per dire di no.
O che avesse intenzione di rimandarli a casa loro.
Da subito gli era parso chiaro che Kotarō non avesse nessuno ad aspettarlo a casa. Il bambino aveva perso tutta la sua famiglia da tempo ormai ed era estremamente indipendente, era evidente però quanto fosse felice di non essere più solo. Lui, Gintoki e Shinsuke erano costantemente insieme, anche durante i pasti e al momento di andare a dormire. Shōyō aveva dovuto spostare i loro tre futon nella stessa stanza per evitare che sgattaiolassero in giro di notte nel dormiveglia, più di una volta infatti li aveva scoperti a dormire pressati nello stesso futon o sul pavimento della stessa stanza. Ovviamente da svegli non avrebbero mai ammesso di voler dormire insieme, così Shōyō aveva dovuto inventare qualche stupida scusa sul perché non potessero più usare tre stanze ma soltanto una.
Con il passare del tempo, capendo che quella era la sua nuova casa e che nessuno lo avrebbe mandato via, la disciplina che Kotarō si era autoimposto iniziò ad allentarsi: a volte si lamentava prima di alzarsi al mattino, dimenticava di rimettere in ordine le sue cose e storceva il naso quando a cena c’era qualcosa che non gli piaceva. Più di una volta il bambino si era appoggiato a Shōyō la sera, quando lui, Shinsuke e Gintoki cominciavano ad essere stanchi e a gravitare attorno al loro sensei pretendendo attenzioni prima di andare a dormire. Kotarō era anche l’unico dei tre a non mostrarsi turbato o infastidito dagli abbracci che a volte Shōyō distribuiva senza preavviso, si lasciava acchiappare senza protestare e con un sorriso soddisfatto sul viso. Non che Gintoki fosse davvero infastidito dalle dimostrazioni d’affetto di Shōyō, la sua testa indugiava sulla sua spalla un secondo di troppo perché i suoi sospiri d’esasperazione e i suoi tentativi di fuga fossero credibili. La reazione più inaspettata era arrivata da Shinsuke: la prima volta il bambino aveva cercato di sfuggire alla sua presa e, quando non ci era riuscito, gli aveva rivolto uno sguardo allarmato. Si era rilassato solo vedendo che i suoi due amici non stavano opponendo resistenza.
Shōyō ripensò a quell’episodio mentre i bambini giocavano in lontananza. Se doveva essere del tutto onesto, non era rimasto sorpreso affatto. Aveva notato come Shinsuke si irrigidiva ogni volta che Shōyō faceva un movimento più brusco del normale in un posto che non fosse il dōjō, inoltre già prima che si unisse alla Shoka Sonjuku si era accorto di come il bambino avesse spesso lividi e ferite sul corpo. Dal momento che Shinsuke era in grado di tenere testa a Gintoki in duello, Shōyō dubitava fortemente che quei segni fossero causati da altri bambini, ma intervenire gli era stato impossibile: non era nella posizione di poter portare via un bambino alla sua famiglia. In ogni caso, non si era rivelato necessario, alla fine era stata la sua stessa famiglia a diseredarlo, quindi non potevano di certo lamentarsi del fatto che Shōyō lo avesse preso con sé. Anche se una parte di lui, una piccola parte di chi era stato in passato, sperava che quegli umani si presentassero davanti a lui avanzando pretese.
Un urlo attirò la sua attenzione e si guardò intorno allarmato, i bambini si erano allontanati. Si alzò di scatto e si diresse in tutta fretta verso il punto da cui provenivano le urla. Li trovò vicino al fiume, Gintoki era in acqua fino alla vita e stringeva i polsi di Shinsuke, mentre Kotarō era ancora sulla riva, l’acqua che gli arrivava a metà dei polpacci e le mani sulla schiena del bambino dai capelli viola. Shinsuke era a metà strada tra loro e puntava i piedi, nonostante gli altri due si fossero fermati non appena si era messo a urlare.
«Cosa sta succedendo?» intervenne Shōyō con sguardo serio e studiando le espressioni dei tre bambini, Gintoki e Kotarō sembravano confusi e allarmati, non capendo il motivo della reazione dell’amico e del suo sguardo spaventato.
«Non lo so» ammise Gintoki titubante. «Abbiamo deciso di venire al fiume e lui non voleva entrare in acqua, così abbiamo provato a convincerlo» spiegò alzando una mano che stringeva ancora il polso dell’amico, mentre Kotarō faceva un passo indietro e toglieva le mani dalla sua schiena. «Solo che poi si è messo a urlare» concluse il bambino dai capelli d’argento, confuso. «Ma glielo abbiamo detto, fa lo stesso se non sa nuotare. Qui si tocca.»
Shōyō si avvicinò e fece uscire tutti e tre dall’acqua, spedì poi Gintoki e Kotarō a cambiarsi e prese Shinsuke da parte.
«Allora?» chiese con gentilezza. «È vero quello che ha detto Gintoki? Hanno solo provato a farti andare in acqua con loro o hanno fatto qualcos’altro?»
Il bambino scosse la testa. «Volevano che andassi con loro.»
«Non sai nuotare? Se vuoi ti posso insegnare…» provò a suggerire il sensei, ma lasciò perdere vedendo Shinsuke scuotere la testa e avvolgersi le braccia attorno al busto. «So nuotare» mormorò il bambino, tenendo lo sguardo a terra.
«Ok, bene» sorrise lui incoraggiante. «Allora qual è il problema? Hai paura dell’acqua?» il suo allievo scosse nuovamente la testa, aveva gli occhi lucidi e tremava leggermente. Shōyō lo afferrò per un braccio e lo avvicinò a sé, facendolo sedere sulle sue ginocchia. «Ehi...» disse piano, mentre il bambino si lasciava andare e scoppiava a piangere contro il suo petto. Il sensei lasciò che si sfogasse per un po’, accarezzandogli i capelli. «Non vuoi dirmi cos’è successo?» gli chiese una volta che il bambino si fu calmato.
Nei minuti che seguirono Shōyō dovette fare ricorso a tutto il suo impegno per non lasciar trasparire la sua rabbia. Suo padre gli aveva messo la testa sott’acqua per punizione. Il padre di Shinsuke aveva usato sul figlio di dieci anni una tecnica di tortura usata sui nemici in guerra, come… quell’uomo aveva una vaga idea di cosa significasse trattenere il respiro fino a quando i polmoni iniziavano a fare male? Aveva idea di cosa significasse sentirli riempire d’acqua mentre si annaspava in cerca di ossigeno? Aveva- inspirò a fondo cercando di riguadagnare la calma. Shinsuke era ancora lì che piangeva in silenzio. Non poteva farsi travolgere dalla rabbia e dai ricordi legati alle sue morti. 

Fu solo dopo un paio d’ore che riaccompagnò il bambino nella stanza che condivideva con Gintoki e Kotarō. I due amici erano già dentro ai futon, ma ancora svegli, uno sguardo preoccupato e colpevole sui visini corrucciati.
«È tutto a posto adesso» li rassicurò il sensei sorridendo. «Potrete ancora andare a giocare al fiume, ma dovrete avvisarmi prima e non potrete tirarlo in acqua. Entrerà quando ne avrà voglia, capito?» i due bambini annuirono, anche se dalle loro espressioni era chiaro che ancora si stessero chiedendo che cosa fosse successo. «Shinsuke mi ha detto che sa nuotare, ma alcune persone lo hanno tenuto con la testa sott’acqua un po’ di tempo fa e non lo lasciavano andare, quindi per un po’ non farà il bagno con voi.»
Vide Kotarō sgranare gli occhi e Gintoki irrigidirsi leggermente. «Quali persone?» chiese il bambino dai capelli d’argento con espressione seria e sguardo di sfida. Shōyō sorrise spingendo Shinsuke verso gli altri due. «Nessuno di cui vi dovete preoccupare. Non può raggiungervi. Nessuno può farvi del male qui» si limitò a rispondere, mentre Kotarō e Gintoki trascinavano Shinsuke verso il futon. Chiuse il fusuma e si allontanò sollevato nel sentire le loro risate attraverso la porta.
No. Nessuno avrebbe più fatto del male ai suoi allievi. 

 

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