La Discendente di Ithlinne - Edited

di GiakoXD
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hai paura dell’uomo nero? ***
Capitolo 2: *** Risveglio a Villa Wayne ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Wiedźmin - pt.1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Wiedźmin - pt.2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Ti abbiamo trovata ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Il cavaliere del disegno - pt.1 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - Il cavaliere del disegno - pt.2 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Qui sei al sicuro - pt.1 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 6 - Qui sei al sicuro - pt.2 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7 - Via delle Paludi ***
Capitolo 11: *** Capitolo 8 - Una cosa da strego - pt.1 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 8 - Una cosa da strego - pt.2 ***



Capitolo 1
*** Hai paura dell’uomo nero? ***


* Salve!!! Dopo lungo ponderare, ho deciso di riprendere in mano e aggiornare La discendente di Ithlinne, già postata in questo sito. Dal momento che la prima versione l'avevo iniziata una cosa come 6 anni fa (mamma mia...la vecchiaia...) ho pensato che non sarebbe bastato rivedere la vecchia apportando una manciata di modifiche, quindi ho pensato di riscriverla daccapo. La storia è la medesima, spero che però nell'insieme risulti più fluida e piacevole da leggere... Vi avviso di un'altra cosa però... sono una persona al 100% incostante! ho millemila interessi diversi e salto da uno all'altro senza tregua. questo per dirvi che potrei stopparmi di botto e lasciare la storia ferma mesi...portate pazienza... (al momento però ho già fatto 6 capitoloni, quindi vedete voi...). Non mi pare di avere null'altro da dire...boh. Allons y! *




Era stata decisamente una pessima giornata.
Pessima già dal mattino. Sveglia presto, pioggia, lezioni sparse per mezza Padova, pioggia battente, assistenti dei prof che non fanno altro che leggere le slide in modo monotono, rovesci sparsi... l’aveva già detto che non aveva mai smesso di diluviare un secondo?
Aveva pensato di poter migliorare quella scoppiettante giornata accettando l’invito dei suoi amici di andare fuori a bere qualcosa – era mercoledì peraltro – ma tutto non aveva fatto che peggiorare.
Dovevano essere in sei, poi verso sera erano iniziati i pacchi. Prima Tommaso, ma quello era un classico, lui non veniva praticamente mai! poi però anche Marta aveva scritto qualcosa a proposito della palestra: sembrava non facesse altro nella sua vita!
Camminava a passo deciso lungo le giallognole vie del centro, scansando le pozzanghere. Girò l’angolo e dovette inclinare di molto l’ombrellino scalcagnato per evitare che una raffica di vento improvvisa lo rivoltasse come un calzino. Un profondo sospiro: era fradicia.
Alla fine, erano rimasti in quattro: lei, Marco, un suo amico e la morosa di quest’ultimo, che lei non aveva mai visto.
 
Doveva rivedere la sua lista di amicizie, decise mentre saltava con malagrazia una pozzanghera.
 
L'amico di Marco era un ragazzo perfettamente anonimo, né troppo brutto né troppo bello, che da quando era arrivato non aveva fatto altro che guardare la partita senza quasi proferire verbo, era rimasto lì con il naso all’aria verso lo schermo, abbassandolo solo se costretto. La sua fidanzata invece si era fatta attendere parecchio ed era arrivata solo dopo quasi un’ora, in un turbinio di profumo soffocante. Con il senno di poi sarebbe quasi stato meglio se non si fosse mai presentata, dal momento che non appena si fu seduta al tavolo Chanel non smise di parlare un secondo, monopolizzando la conversazione su di sé, sui suoi problemi, sui suoi professori e infine sul taglio di capelli che voleva e che il parrucchiere cinese non era riuscito a farle. La ragazza si era ridotta ad annuire simulando uno sguardo attento – Chanel si era seduta proprio davanti a lei e proprio non sapeva che altro fare – Marco invece cercava di lanciare fugaci sguardi alla partita tra un “eh, già” e un “sì, certo”. Solo il suo ragazzo sembrava esente da quella tortura, perché continuava a fissare lo schermo come se nulla fosse, mentre lei sembrava ignorarlo. “Che coppia!” aveva pensato ad un certo punto.
 
Si tirò su il bavero del cappotto più che poteva e rabbrividendo indirizzò l’ombrellino scassato controvento, il vento umido le stava intirizzendo le mani scoperte. Si portò una mano in cima alla testa e il suo viso si contrasse in una smorfia: i suoi lunghi capelli biondi erano umidi di pioggia, nonostante fossero mezzi infilati sotto il cappotto. La ragazza si immaginò perfettamente la condizione pietosa in cui li avrebbe trovati il giorno dopo. Mentre svoltava a destra, si chiese se avrebbe avuto voglia di svegliarsi prima per dargli una sistemata il giorno dopo. “Seeee, come no…” si disse.
Le vie erano deserte e la pioggia che picchiettava sulla tela dell’ombrello aiutava a perdersi nei pensieri.
 
Alla fine, aveva deciso di mettere fine a quel supplizio. Aveva iniziato a trangugiare la sua birra più velocemente possibile – sempre annuendo ai discorsi senza fine di Chanel – e non appena ebbe vuotato il boccale inventò al volo una scusa per andarsene. Matteo le scoccò un’occhiata supplichevole, ma lei lo ignorò; che chiedesse pure aiuto al suo amico inesistente, lei per quella sera aveva dato.
Si era alzata dal tavolo un po’ troppo bruscamente, aveva aspettato che la testa le smettesse di girare, poi si era vestita ed era andata a pagare. Sulla soglia, aveva armeggiato un po’ troppo con le stecche dell’ombrellino per tentare di raddrizzarle poi, sospirando, aveva lasciato il calore e la luce del locale e si era immersa nell’oscurità e nella pioggia, che cadeva incessante.
Erano le undici di sera e la ragazza continuava a camminare tranquilla, superando i radi passanti che come lei procedevano il più chinati possibile sotto i loro ombrelli.
“Se non altro, almeno fra poco me ne andrò a letto e questa giornata di merda finirà” stava pensando la ragazza prendendo la seconda a destra e assaporando il tepore delle coperte.

Purtroppo, si sbagliava di grosso.

Aveva preso la scorciatoia meccanicamente, schiacciata com’era sotto il suo ombrellino e immersa nella frustrazione per la pessima giornata e il desiderio di infilarsi sotto le coperte il prima possibile. La strada in cui aveva svoltato era un viottolo contorto, che si snodava dietro i due più vecchi collegi del centro, un’angusta viuzza con i sanpietrini mezzi smossi, di quelle in cui le macchine, per seguire la strada, finivano per scavalcare con le ruote il marciapiede quasi ad ogni curva, facendo imprecare i passanti. Durante il giorno quella era una strada molto frequentata, specialmente dagli studenti di medicina e ingegneria, perché permetteva di risparmiare parecchio tempo negli spostamenti, ma a quell’ora, durante un simile diluvio, non era altro che un vicoletto buio e completamente deserto.
Immersa com’era nei pensieri e nel rumore della pioggia battente, la ragazza realizzò solo a metà strada che quella scorciatoia l’aveva percorsa un sacco di volte durante il giorno, ma pochissime volte di notte. E mai, in nessun caso, da sola.
Non appena se ne rese conto, vide anche quanto debole sembrasse la luce giallastra dei lampioni punteggiata dalla pioggia battente, e quanto più densa fosse invece l’oscurità che si incuneava tra di essi.

Una vecchia bicicletta passò veloce in una stradina parallela, la ragazza sentì il familiare cigolio ritmico del campanello e delle vecchie ruote mentre procedeva sui sampietrini. Il suono la distrasse per un momento, fino a che non iniziò a diminuire fino a spegnersi, lasciandola ora nel più completo silenzio. A parte il denso rumore della pioggia, che scrosciava decisa su tetti e davanzali, e il gocciolio degli scoli delle grondaie, ora non si sentiva nient’altro.
Un balcone spinto dal vento cigolò sinistro, e da quel momento la fantasia della ragazza fece il resto. Si rese conto con apprensione di essere completamente sola, di notte, in quel vicoletto buio e cercò allora di accelerare il passo con lo stomaco contratto. Purtroppo, non era per niente facile: camminava in mezzo alla strada per evitare gli scrosci d’acqua che precipitavano dai tetti giù per gli stretti marciapiedi, e cercava anche di non finire nelle pozzanghere più profonde. Aveva affrettato il passo tanto quanto l’acciottolato sbilenco le permetteva, ma la fitta penombra le rendeva difficile vedere dove metteva i piedi; si ritrovò quindi a camminare a testa bassa per vedere meglio la strada, e con l’ombrellino schiacciato più che poteva sopra la testa. Fu per questo motivo che non si accorse di nulla fino a quando non fu troppo tardi.
Le sue scarpe da ginnastica erano completamente zuppe di pioggia e le dita dei piedi iniziavano a congelarsi. “Perché cavolo non ho messo gli stivali stasera?!” si stava domandando la ragazza, e mentre stava considerando dove poter mettere tutti i suoi vestiti ad asciugare, una voce maschile le biascicò: «Ciao bella…»
Si irrigidì, il cuore le batteva all’impazzata nelle orecchie, ma si impose di sembrare calma. Con l’ombrellino così calcato sulla testa e lo sguardo basso non si era minimamente resa conto dell’uomo appoggiato al muro sotto una tettoia, al riparo dalla pioggia e dalla luce, che ormai le stava solamente ad un paio di metri di distanza. Continuò a camminare mentre lo guardava di sottecchi, fingendo una tranquillità che non possedeva.
«Ehi, bella, ce lo hai un po’ di posto sotto l’ombrello?», l’uomo uscì dal riparo della tettoia e iniziò ad avanzare verso di lei, le mani in tasca, la pioggia in testa.
“Merda, merda, merda!!!!! E adesso?!?!”
La ragazza continuò ad avanzare a testa bassa, aumentando il passo, cercando di fingere di non capire la sua lingua, di fingere di essere incapace di intendere, o di essere sorda, fino a quando non si trovò alla sua altezza. Stava considerando di lanciargli in faccia l’ombrello e di mettersi a correre verso dove era venuta, quando l’uomo le si parò davanti sogghignando, o almeno, lei immaginò che sogghignasse, visto che l’oscurità era fitta e di lui si vedevano solo pochi lineamenti abbozzati.
«Bella, non senti che ti ho fatto una domanda gentile?» e allungando una mano le afferrò una manica del cappotto, iniziando a tirarla verso di lui. La ragazza, ora completamente terrorizzata, tentò di divincolarsi e di liberare il braccio tirando la manica in maniera convulsa. L’ombrellino cadde a terra, ruotando sulle stecche sbilenche.
Sudore acre. Alcol. La ragazza registrò queste inutili informazioni mentre il suo cervello sembrava incapace di qualsiasi pensiero coerente. Mentre continuava a divincolarsi, però, registrò anche qualcos’altro: un suono. Un profondo, ferale e gorgogliante ringhio, qualcosa di inumano che non aveva mai udito prima. Sembrò che anche il molestatore lo avesse sentito, poiché anche lui come la ragazza aveva smesso di lottare di colpo, e insieme a lei ora si stava girando lentamente verso il fondo del vicolo, dove un enorme essere era appena emerso dall’oscurità.
Non appena entrambi l’ebbero messa a fuoco, in quel preciso istante la creatura smise di ringhiare.
Smisero anche tutti gli altri suoni, in effetti. Sembrò che tutta la città trattenesse il respiro, mentre fissava quella creatura semi umana, ritta in piedi, immobile e spaventosamente enorme. Non si sentiva più la pioggia cadere, non si sentivano più i fiochi rumori della città in lontananza, non si sentivano nemmeno i respiri affannosi e mozzi della ragazza e del suo molestatore, nonostante i loro petti si alzassero e abbassassero convulsamente, stretti in una morsa di terrore. Il silenzio era totale e irreale.
L’essere, ancora immobile nella penombra del vicolo, avanzò ora di un paio di passi, trascinando i piedi adagio, con lentezza calcolata, fino a che non entrò nel cono di luce del lampione più vicino. Così illuminato si fermò un istante inclinando la testa, lasciando che le sue vittime lo vedessero completamente, beandosi del terrore crescente che si insinuava in loro. L’odore del loro panico era come una droga, per lui.
Il molestatore tentò di imprecare, ma tutto quello che riuscì a fare fu di muovere le labbra a vuoto.
Così illuminato dalla luce giallastra del lampione si ergeva in tutta la sua orrenda figura: la creatura aveva un corpo alto poco più di due metri, ritto su due gambe tozze e troppo corte. Era semiumano seppur terribilmente sproporzionato: il busto troppo largo e le braccia troppo lunghe, che quasi toccavano il suolo e terminavano in lunghissimi artigli ricurvi, su due gambette terribilmente piccole. Indossava qualcosa che sembrava essere stato un impermeabile, benché ora fosse poco più di uno sporco cencio slabbrato che gli arrivava quasi fino ai piedi.
Nonostante il corpo potesse sembrare in qualche modo umano, la sua faccia mai avrebbe potuto sembrare quella di un essere vivente.
La pelle grigiastra, gonfia, sembrava quella di un cadavere annegato, un ghigno gli attraversava la testa quasi da parte a parte, livido, come una profonda spaccatura nel terreno. Ma erano gli occhi, o meglio, la loro assenza, a incutere nelle sue due vittime il terrore più grande: le cavità oculari erano vuote, scuri abissi circolari da cui sgorgava un denso fluido giallastro simile a pus. E nonostante tutto – la ragazza ne era perfettamente consapevole – quell’essere li stava fissando.
Il mostro si concesse un altro istante per aspirare il terrore delle sue vittime, dopodiché si ritrasse leggermente su sé stesso, pronto a scattare.
Il molestatore perse ogni pudore a quel punto e spalancando la bocca in un altro grido muto iniziò a fuggire, inciampando più volte nei propri piedi prima di iniziare a prendere velocità. La ragazza nemmeno si accorse della fuga dell’uomo. Non riusciva a staccare gli occhi da quell’essere, dall’aspetto mostruoso e orrendamente letale, dalle orbite vuote. Una parte del suo cervello le diceva di muoversi, quasi glielo urlava, di girarsi e correre più che poteva, ma tutto il resto di lei era bloccato, incapace di fare qualsiasi cosa se non rimanere lì, paralizzata nel più completo terrore, ansimante e impalata a fissare quella creatura. E quando quest’ultima aprì la bocca, la ragazza smise di fare qualsiasi pensiero coerente.
Dapprincipio fu come se si fosse aperta una lunga crepa sul volto grigiastro; lentamente questa si allargò sempre di più, sempre di più, fino a che la faccia del mostro non arrivò quasi alla metà del suo petto, somigliando ora ad un’oscura fornace irta di zanne giallastre. Inspirando il terrore che stava incutendo alla sua vittima, la creatura iniziò lentamente ad avvicinarsi.
Fredde lacrime iniziarono ora a scendere dagli occhi della ragazza, mischiandosi alla pioggia e raccogliendosi sotto al mento tremante. Ancora paralizzata dal terrore, la giovane non si accorse della figura che spuntò alle sue spalle fino a che questa non la ebbe superata con un balzo, atterrando proprio davanti alla creatura. Con un movimento fulmineo, quest’ultima tranciò di netto uno dei due arti artigliati della belva, facendogli descrivere un lungo arco in aria; un denso fiotto di sangue scuro schizzò dappertutto, lungo la parete, sul terreno e sul cappotto della ragazza che, sbigottita, indietreggiò spasmodicamente fino a sbattere contro il muro alle sue spalle.

Era una scena surreale.

L’orrenda creatura e il nuovo arrivato, che si rivelò essere un uomo con una lunga spada, iniziarono a scannarsi lungo quel vicolo reso viscido dalla pioggia e dal sangue. La creatura attaccava lanciandosi in avanti e vorticando l’unico lungo arto che gli rimaneva, tentando di tranciare in due l’altro combattente, che dal canto suo schivava gli assalti roteando con grazia e contrattaccando con affondi e ampi fendenti. Aveva una velocità quasi inumana.
Ma il culmine della follia era che tutto il combattimento avveniva nel più completo silenzio: non si riusciva ad udire né lo stridere della lama contro le zanne, né i passi nelle pozzanghere, né il continuo gocciolio del sangue che sgorgava dal moncone della belva. Sembrava un film a cui era stato tolto l’audio.
“…sono a Padova… questa è Padova…” era tutto quello che la mente della ragazza riusciva a produrre, tentando invano di dare un senso a tutto quanto, ancora premuta contro il muro.
Ad un certo punto lo spadaccino lanciò a terra una fialetta di vetro che si fracassò al suolo, sempre senza il minimo rumore, e nell’aria iniziò ad aleggiare un curioso odore di profumo per uomo. La creatura sembrò contrariarsi, perché iniziò a contorcersi spalancando la bocca in un muto ululato. Dopo un ultimo attacco particolarmente scomposto essa tentò il tutto per tutto: balzò indietro fino alla ragazza e tentò di raggiungerla con le enormi fauci. Le avrebbe sicuramente ingoiato la testa in un unico boccone se lo spadaccino non fosse intervenuto. Con un balzo e uno spintone scagliò la giovane di lato e mentre la belva lo colpiva con gli artigli sulla coscia lasciata pericolosamente scoperta, egli roteò su sé stesso; la sua lama descrisse un aggraziato movimento che colpì la gola della creatura, attraversandola come fosse burro.
La ragazza osservò rapita l’enorme testa che sembrò volare in aria per un lungo momento, per poi rotolare sull’acciottolato a pochi passi da lei. Il corpo decapitato della creatura ondeggiò e si accasciò a terra, dove continuò a scuotersi in preda agli spasmi per alcuni interminabili momenti. Il sangue scuro zampillava a fiotti da entrambe le parti. Incapace di distogliere lo sguardo, il corpo della ragazza venne piegato in due da un conato.
In quel momento il suono della pioggia ritornò, sempre più forte, insieme al raspare sulla pietra degli artigli della creatura e insieme a tutti gli altri suoni.

«Stai bene?» l’uomo rinfoderò lentamente la spada, le si avvicinò e le tese una mano. La sua voce, seppure improvvisa, sembrava calma e amichevole.
La ragazza si costrinse a distogliere lo sguardo dal corpo decapitato e, ancora accasciata a terra, guardò in alto verso il suo salvatore. Il volto era nascosto dall’oscurità. «Io… penso di sì. Il sangue non… non è mio…» gli disse abbassando lo sguardo verso il suo cappotto, impiastricciato da grosse macchie scure e dense. Cercò di rialzarsi, ma le sue gambe ancora non volevano collaborare. Alzò una mano e prese quella dell’uomo, che l’aiutò a tirarsi su.
Abbozzò un sorriso mentre finì di alzarsi e lo guardò di nuovo. Aprì la bocca per ringraziarlo, ma balzò indietro con un gemito. Per un momento, aveva visto il volto dello spadaccino. La guardava con un paio di occhi gialli, quasi luminosi, con pupille strette come fessure, come fossero quelli di un felino.
Lo scatto di lei fu così repentino che anche lui, sorpreso, fece un passo indietro, portando il peso sulla gamba ferita, che cedette di colpo. Imprecando tra i denti, sembrò ricordarsi solo in quel momento del lungo artiglio reciso che gli perforava la coscia da parte a parte, regalo d’addio della creatura. Con il capo abbassato verso la gamba, socchiuse gli occhi e prese un lungo respiro. Senza alzare lo sguardo le disse piano: «Ascolta, se mi occupo un attimo di questa, mi prometti di non scappare? Non c’è più nessun pericolo, me compreso.» e senza aspettare una risposta si trascinò fino al muro, di fianco alla ragazza, ci si appoggiò stringendo i denti e si mise ad armeggiare con un astuccio che tintinnava colmo di fiale di vetro.

La ragazza lo guardava combattuta. Era un ragazzo, perché ora che lo vedeva bene non poteva avere molto più che trent’anni, sconosciuto e conciato in quella maniera così assurda, con armatura – portava una spessa armatura di cuoio scuro su quasi tutto il corpo – e spada medievali. Le era sembrato che avesse gli occhi gialli, felini, ma forse era stata solo suggestione, perché ora che riusciva a vedergli meglio il volto aveva trovato solo due normalissimi occhi scuri. Se ne stava lì, assorto nella ricerca, e continuava a frugare con le mani guantate dentro il borsello. Era pallido come la morte, con grosse vene bluastre lungo tutto il viso e i capelli fradici, che gli si appiccicavano alla fronte e gli cadevano sugli occhi. Chiunque fosse, o qualsiasi cosa fosse sembrava stremato, e lo era per aver salvato lei.
Sembrò anche che non avesse trovato quello che cercava, perché imprecò a denti stretti e scivolò leggermente con la schiena contro la parete.

Tirando su con il naso la ragazza prese una decisione. Si avvicinò al ragazzo e gli disse decisa di sedersi poco più in là, al riparo sotto una tettoia. Lo aiutò a spostarsi. L’altro obbedì senza fiatare, incuriosito da quel repentino cambio di atteggiamento. Lei gli si inginocchiò a fianco e recuperò una bottiglietta di gel antibatterico dalla borsa, se lo spalmò sulle mani e iniziò ad esaminare la ferita. L’artiglio aveva trapassato la parte più esterna della coscia, perforando la fascia muscolare e uscendo dietro.
«Proverei ad estrarlo, ma…» sembrava molto fragile, voleva dire la ragazza. Se l’avesse spaccato all’interno della gamba, poi rimuoverne i frammenti sarebbe stata una vera sofferenza.
«…È fragile, sì. Molto appuntito, ma fragile» confermò lui annuendo appena. «Ce la fai?»
«…penso di sì» gli rispose dopo un momento, decisa.
«Allora mettici questo sopra» gli tese una mano che tremava appena. La boccetta che gli aveva dato aveva un forte odore di disinfettante, misto a qualcosa che sembrava salvia o qualche altra erba aromatica. Lei fece come gli aveva detto e il ragazzo si irrigidì un istante stringendo i denti, poi poggiò la testa all’indietro sul muro. Socchiuse gli occhi e prese fiato.
Anche la ragazza prese un profondo respiro e ricordando il tirocinio ritrovò la calma di cui aveva bisogno. Si guardò per un attimo le mani, che ora avevano smesso di tremare, poi iniziò ad estrarre lo spuntone il più dritto possibile, lentamente. I suoi movimenti erano tornati fermi e controllati.
Il ragazzo stringeva i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, ma a parte questo soffriva in silenzio.
Il terrore e la stanchezza ora se ne erano andate completamente, adesso la mente della giovane era concentrata su cosa andava fatto. Almeno per ora. “Come a tirocinio” si diceva, niente di troppo diverso. Era necessario che gli sistemasse la gamba meglio possibile, perché così non avrebbe potuto andare molto lontano, e invece di strada doveva farne ancora parecchia, immaginava lei, e molto probabilmente sotto sforzo, con un carico sulle spalle, se come supponeva non l’avesse lasciata sola in quel vicolo. Sperava di resistere ancora un po’, che l’adrenalina continuasse a circolare almeno fino a che non avesse finito.

Il ragazzo riaprì gli occhi, osservò la fasciatura improvvisata che gli veniva stretta intorno alla coscia e l’artiglio lungo il marciapiede, intatto. Si passò una mano sul viso e prese un lungo sospiro. Guardò il viso della ragazza, concentrato. Sembrava che ci sapesse fare. Nonostante il viso ancora sconvolto e fradicio di pioggia, sembrava anche carina. Per una volta pensò che sarebbe stato un vero peccato doverla drogare, ma le regole erano regole. D’improvviso venne colto da un sospetto e gettò un’occhiata alla tasca dei pantaloni dove teneva le fiale di Stilnox e la trovò squarciata. Nonostante la poca luce, gli bastò un’occhiata perché trovasse i resti della boccetta che cercava, a pezzi in un angolo del vicolo. Adesso non aveva più modo di drogarla. Sbuffò stizzito.
«Scusa, ho stretto troppo?»
«No, va bene»
«Allora dovrei aver finito. Ce la fai ad alzarti? Ecco, piano. Ho stretto parecchio, ma non penso basti, devi farti mettere almeno due-tre punti, penso…» mezza ubriaca, vittima di chissà cosa e infine infermiera da battaglia, la prof sarebbe stata fiera di lei, si disse la ragazza. Ora però sentiva l’adrenalina iniziare a scemare, cominciava ad essere molto stanca. Si strofinò gli occhi e la faccia con una mano mentre guardava il ragazzo caricare il peso sulla gamba un poco alla volta, guardingo.
«Ah, cosa c’era in quella boccetta che mi hai dato? Salvia? Sapeva da quelle…»
Lui le si avvicinò con un passo, allungò una mano guantata e le accarezzò la guancia. «Ti sei spalmata un po’ di sangue sulla faccia» si giustificò poi, mentre lei lo fissava con gli occhi spalancati, arrossendo violentemente. Questo fu troppo. Iniziarono a ronzarle le orecchie e grosse macchie scure le comparvero davanti agli occhi.
Il ragazzo la vide vacillare sul posto e la afferrò prima che cadesse a terra. Rimase immobile per un attimo, riflettendo, poi se la caricò in spalla con una smorfia e iniziò a correre sotto la pioggia, il suo fardello svenuto sobbalzava ad ogni passo.


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Allur? che ve ne pare? inizio interessante? beh, fatemi sapere, pliiis!!!
ciao! ****

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Capitolo 2
*** Risveglio a Villa Wayne ***


Si risvegliò in un letto d’ospedale. Nonostante non avesse idea di come ci fosse finita o di dove fosse di preciso, almeno su quel punto era sicura al cento per cento. Nonostante l’edificio sembrasse avere più di cento anni, doveva essere una casa di cura di qualche tipo: forse era una struttura privata. Si stiracchiò e si guardò intorno con calma. Era una stanza spoglia: tre letti con testiere a ringhiera e lenzuola ruvide e bianche. Ai lati di ciascuno, pulsanti di emergenza e interruttori per le abat-jour poste sui piccoli mobiletti grigi di servizio. Nella stanza non c’era nessun’altro, ma se servivano altre prove del fatto che fosse in un ospedale, glielo confermò il camice azzurro spento che si accorse di indossare.
Si tirò su sui gomiti e guardò fuori.
La luce del mattino entrava lattiginosa da due ampie finestre alla sua destra e illuminava alcuni granelli di polvere mentre volteggiavano pigri. L’orologio, che ticchettava placido appeso sopra una delle due porte di ingresso, segnava le dieci scarse. Poco più a sinistra, un crocifisso di legno. Alcuni suoni ovattati giungevano da qualche parte dell’edificio, troppo flebili per capirne l’origine; dalle finestre, invece, giungevano i richiami di alcuni uccellini.
Benché ignorasse dove fosse finita, la ragazza si sentiva stranamente calma e rilassata, controllò di non avere niente di anomalo, nessun dolore e nessun ago attaccato alla pelle, quindi si ridistese sul lettino con un sospiro, le mani giunte sulla pancia.
 
Voleva rimanere in quella bolla di tranquillità più che poteva, perché aveva bisogno di tempo per digerire i fatti della notte prima. Tempo e molta calma.
Escluse a priori che fosse stato tutto unicamente frutto della sua fantasia, si sarebbe svegliata nel suo letto, in quel caso. Poi, aveva bevuto solo una birra, difficilmente si sarebbe potuta inventare una cosa del genere, dubitava perfino di essere una persona con abbastanza fantasia per creare quella creatura mostruosa...
L’immagine dell’enorme bestia raccapricciante le tornò vivida davanti agli occhi e le strinse lo stomaco al solo ricordo. Chiuse gli occhi e si ritrovò a guardare nuovamente tutta la scena come se si trovasse dietro un vetro, come fosse davanti ad uno squalo in un acquario. Ringraziò la sua memoria fotografica, perché aveva colto e registrato un sacco di particolari, nonostante il terrore e il panico che l’aveva attanagliata e paralizzata.
La tunica sudicia, gli artigli lunghi e ricurvi, i sanpietrini fradici di pioggia e di sangue. Le ritornò in mente anche la completa e assurda assenza di suoni intorno a lei e l’incapacità di emettere grida e singhiozzi lei stessa. Anche il molestatore doveva essersi messo ad urlare ad un certo punto, prima di scappare, ma nemmeno lui aveva prodotto alcun suono. Le grida, la pioggia, il combattimento, non si era sentito niente di niente: solo quando la creatura era piombata a terra decapitata i suoni erano tornati. Doveva essere stata una specie di magia di quell’essere...
Magia? Beh, se ora credeva che quell’essere fosse reale, allora poteva credere anche all’esistenza della magia, no? ...Era tutto così assurdo...
Le tornarono in mente le orbite vuote, la testa decapitata rivolta verso l’acciottolato, il sangue scuro che sgorgava in zampilli sempre più deboli. Si ritrovò ad avere nelle narici ancora l’intenso fetore del vicolo, della creatura, e il ricordo le sembrò spaventosamente vicino. Le venne di nuovo la nausea e si passò la mano sul viso cercando di calmarsi. Una cosa del genere era rivoltante anche al sicuro dietro il vetro di un acquario, a quanto pareva.
 
Si sentì un tonfo provenire dall’esterno della stanza, poi un cigolio metallico che si avvicinava sempre di più. La ragazza si ributtò a letto di slancio e finse di dormire, con una palpebra appena socchiusa. Sentì il cigolio della porta che veniva aperta, poi intravide un’infermiera, che entrava nella stanza spingendo un carrello. La ragazza finse di svegliarsi, la donna non sembrava ostile.
«Buongioooorno…» la salutò quella con una voce gentile ma sonora, allenata al dialogo con i pazienti. Spinse il carrello fino al lato del suo letto. «Come ti senti oggi, stella?»
«Buongiorno. Io… penso bene.»
«sì? Bene, adesso controlliamo» Le sentì la febbre con una mano dalle unghie verniciate di rosso. «Non dovresti averne, ma controlliamo. Metti questo in bocca, per favore» e subito si avvicinò alla finestra, per spalancare le tende bianche.
Sembrava il perfetto archetipo della “dolce e gentile infermiera”: sulla cinquantina, rossetto e unghie rosse e capello biondo cotonato. Aveva un’espressione cordiale stampata in volto, frutto di lungo allenamento contro i pazienti più difficoltosi.
«Posso chiederle una cosa?» Biascicò la ragazza, poi si tolse il termometro dalla bocca. «Quando sono arrivata?»
«Mi pare che tu sia arrivata ieri, intorno a mezzanotte»
«Ah, ecco. E chi mi ha portato? È stato per caso un ragazzo? Perché vorrei ringraziarlo…»
L’infermiera si girò e piantò gli occhi in quelli della giovane, l’espressione d’ordinanza appena incrinata. «Un ragazzo? Ti ricordi che è stato un ragazzo? Perché non…» esitò. «No, stella. È stato… mi sembra che ti avessero portata qua con l’ambulanza, sai? Dovevi essere svenuta, forse non ti ricordi bene… dopo provo a chiedere meglio, sì, ecco, bon…» l’infermiera raccolse di nuovo tutto, in modo un po’ troppo sbrigativo, la salutò e uscì spingendo fuori il carrello e lasciando la ragazza di nuovo sola a fissare la porta chiusa. Il cigolio del carrello si affievolì fino a sparire e nella stanza tornò nuovamente un tenue silenzio.
 
Credette alla versione dell’infermiera solo per un istante.
Uno.
Poi abbassò lo sguardo e vide il termometro ancora abbandonato tra le sue dita.
Allora lui l’aveva trasportata fino a lì, dopo l’attacco.
Non era detto, in realtà: poteva aver chiamato un’ambulanza dopo che lei era svenuta, poteva aver aspettato che arrivasse, magari, e poi poteva essersene andato. Era plausibile. Dopotutto, qualcosa le diceva che quel ragazzo non volesse farsi troppo vedere in giro così conciato: le dava l’idea che fosse un membro di una specie di setta. Ma questa ipotesi non spiegava lo strano comportamento dell’infermiera: il suo tergiversare e i modi frettolosi sembravano confermare che in qualche modo lei lo avesse visto, quello strano ragazzo con la spada e un buco nella gamba.
“Deve avergli fatto un male fotonico” le venne in mente in quel momento, mentre l’immagine del lungo artiglio ricurvo si sovrapponeva alle crepe del controsoffitto. Si rivide mentre lo estraeva dalla coscia del ragazzo, con mani meno ferme di quanto non ricordasse. Rivide poi il suo viso, contratto e dolorante, che aveva sbirciato mentre finiva di stringergli la fasciatura. Le era sembrato bello, nonostante la smorfia di sofferenza e il colorito cadaverico.
 
Uno stormo di uccelli saettò davanti alle ampie finestre, con un coro di schiamazzi. Si tirò sui gomiti e guardò distrattamente verso le finestre, ancora assorta nel ricordo. “Aveva addosso sul serio un’armatura?” così sembrava, di una specie di cuoio scuro, che gli copriva una buona parte del corpo. Sembrava una cosa da film, si disse mentre scendeva piano dal letto e si alzava in piedi. Si sistemò il camice che le si era arrotolato quasi fino in vita. Un guerriero con armatura e spada scintillante, a Padova, nel 2015! Il cavallo bianco doveva averlo lasciato nella stradina laterale, pensò con un mezzo sorriso. Si avvicinò alle grandi finestre e guardò fuori.
 
“Sono nella villa di Bruce Wayne!” pensò non appena ebbe dato un’occhiata all'esterno.
Si trovava al terzo piano di un’imponente villa di inizio Novecento, enorme, con ampi cornicioni e lunghe file di grandi finestre uguali a quella da dove stava guardando. Probabilmente si trovava su una stanza sul retro dell’edificio, poiché si affacciava su un ampio giardino privato circondato da un vecchio e muscoso muro patronale; al di là di questo si stagliava un alto canneto, tipico delle campagne venete.
Il parco, che doveva essere molto bello durante la bella stagione, ora aveva l’aspetto desolato dell’inverno. Ancora slavato dalle piogge del giorno prima, era ora spoglio e umido. Piccoli sentieri di ghiaietto si allontanavano da una grande fontana di pietra, ora senz’acqua, e si perdevano tra le siepi semi spoglie, tra alberi rinsecchiti e aiuole vuote, fino a confondersi nell’ombra. Anche la luce lattiginosa di quel mattino umido non migliorava quell’immagine triste e cupa. Unica nota di colore era un’upupa, dall’ampio ciuffo rossiccio, che saltellava su una panchina tra i giardini. La ragazza si stava sporgendo per riuscire a vedere meglio il cortile sottostante, quando delle voci nel corridoio la fecero trasalire. Si girò e si lanciò nuovamente sul rigido materasso, si tirò su il lenzuolo e cercò di assumere una posa naturalmente addormentata. Aveva appena chiuso gli occhi quando la porta si aprì lentamente.
 
«Oh, dorme ancora...» la ragazza riconobbe quella voce profonda e tranquilla. Era il cavaliere della notte precedente, difficile sbagliarsi. Socchiuse appena gli occhi, ma non riuscì a vedere altro che il lato sinistro della stanza. Represse l’impulso di girare la testa.
«Con quello che le è successo non mi stupisce» gli rispose una voce calma e misurata di qualcuno che sembrava più vecchio.
«Così è questa eh? ...non è male per niente!» un mormorio ammirato di una terza persona, poi una felpa scura entrò nello stretto campo visivo della ragazza e lo occupò quasi completamente. «Perché quelle fighe toccano a te mentre a me toccano sempre gli ubriaconi e le vecchiette?» la felpa scura sbuffò esageratamente e si avvicinò ancora di più al viso della ragazza, che ora riusciva a vedere anche un po’ della faccia del proprietario, fino al naso. Sembrava coetaneo dell’altro.
«Shhh! Abbassa la voce!» gli sibilò contro l’anziano. Si avvicinò un poco al letto ed entrò ai margini del campo visivo della ragazza. Era un uomo sui sessant’anni circa, con capelli corti e grigi e folti baffoni dello stesso colore. Girò la testa verso destra e parlò piano: «C’erano solo lei e un altro uomo, corretto?»
«Già. Faccia da delinquente e alito da ubriaco. No, non mi ha visto, ho aspettato che passasse oltre. Comunque si è lasciato dietro una scia di alcol talmente forte che non penso ricorderà niente, o penserà di aver avuto delle brutte allucinazioni. Poi il babau stava per attaccarla e sono dovuto intervenire»
«Certo...» l’anziano annuì, pensoso.
Il secondo ragazzo, che era rimasto girato verso gli altri due seguendo il discorso, tornò a concentrarsi verso il letto. «Maaa...» iniziò con un mormorio allusivo «...non è che qualcuno ha perso la droga di proposito? Uno a caso, eh?»
«Piantala Fabio, sei solo tu quello che potrebbe farlo. E parla piano!» gli mormorò l’altro stizzito.
L'anziano intervenne. «Dal momento che ancora dorme non ha senso rimanere qui. Su, andiamo. Mica vogliamo che si svegli con le nostre brutte facce davanti, no?»
«Parla per la tua di faccia, nonno! E in quanto a svegliarsi mh...» Il ragazzo dalla felpa scura chiamato Fabio rimase immobile un paio di secondi, in silenzio, sotto lo sguardo interrogativo dei due compagni, e della ragazza che ancora fingeva di dormire. Poi alzò una mano e fece un gesto, fuori dal suo campo visivo e di colpo si avvicinò verso il suo viso. «...potrei provare a baciarla, magari riesco a svegliare la nostra principessina addormentata. Mmh, ha delle labbra talmente invitanti... oh, guardate! Arrossisce! La mia sola presenza sta “rompendo l’incantesimo”! O forse non stava dormendo per niente? Ma buongiornoooo!» la salutò con una smorfia vittoriosa, mentre la ragazza, rassegnata, apriva gli occhi con un profondo sbuffo. «Eri già sveglia prima che entrassimo, vero?» Fabio si allontanò dal suo viso, continuando tuttavia a guardarla con espressione sorniona.
«Sì, ero già sveglia. Forse ho finto di dormire per non dover guardare la tua brutta faccia, magari?»
L’anziano ai piedi del letto scoppiò a ridere. «La signorina riesce a tenerti testa, Fabio! Non sono in tanti! Buongiorno cara e scusaci per l’intrusione, ma l’infermiera aveva detto che eri sveglia per cui... Ti senti meglio stamattina? Sì? Molto bene, allora io e il chiacchierone qui torniamo dalle infermiere e ti facciamo portare la colazione» Si era rivolto a lei con espressione gentile, le rughe marcate intorno agli occhi. «Ti chiami Katherina, vero?»
«Ehm… Katherina Pedrotti…sì»
«Non volevamo sbirciare, ma alle infermiere servivano i documenti, capisci…» si affrettò a spiegare l’uomo vedendo l’espressione titubante della ragazza, che rilassò nuovamente le spalle. «Katherina mmh… tedesca?»
«… altoatesina. Per metà. Mia mamma lo è…»
L’uomo annuì cordiale, poi sembrò ridestarsi di colpo. «La colazione, giusto! E tu levati quel muso dalla faccia e seguimi, avanti! Katherina, quando hai mangiato e sei pronta vieni su a trovarci, vorrei scambiare quattro parole con te. Fai con calma, non preoccuparti, Nat sa la strada.» e con l’altro alle calcagna, l’anziano uscì e richiuse la porta alle sue spalle.
 
Nella stanza piombò un lungo, denso silenzio. Katherina, fingendo di studiarsi le mani con una concentrazione estrema, non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Il ragazzo, dal canto suo, continuava a guardare la porta dove gli altri due se ne erano andati lasciandolo solo. Rimasero in quel silenzio imbarazzato per un po’ fino a che, quasi all’unisono, non si girarono entrambi e si guardarono negli occhi.
«Avrei delle domande da farti…» mormorò lei.
Il ragazzo sostenne il suo sguardo per alcuni momenti, poi si girò, prese una sedia e la trascinò vicino al letto. «Lo immaginavo»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Wiedźmin - pt.1 ***


L'orologio alla parete ticchettava placido, indifferente al silenzio imbarazzato che regnava nella stanza. Katherina si torceva le unghie, tentando di trovare una domanda intelligente da porre al ragazzo seduto a fianco del letto: “Scusa, per caso sai se sono pazza?” e “Ho avuto un incidente e ora sono in coma?” sembravano un po’ troppo per iniziare.
Dal canto suo, però, il ragazzo in questione non sembrava minimamente intenzionato a darle una mano. Se ne stava seduto sulla sedia con espressione indifferente e guardava fuori dalla finestra in perfetto silenzio.
La ragazza fece un lungo sospiro e decise di partire dal principio. «Beh, io sono Katherina, e già lo sai. Tu, invece?»
Lui girò appena la testa. «Sono Anatolij»
«Genitori originali anche tu?»
«...più o meno» le rispose vago. Poi tentò di accavallare una gamba – la destra – ma la bloccò a mezz’aria, sibilando tra i denti. La riappoggiò a terra e la massaggiò.
«Fa ancora molto male?»
«Non molto. Pizzica»
«Ti sei fatto mettere dei punti?»
«Due»
«Ah... sì giusto, due ci stava...» sollevò lo sguardo dalla gamba ferita e lo posò sul viso del ragazzo. «Quindi è successo sul serio, vero?»
Anatolij annuì, ricambiando il suo sguardo. Aveva gli occhi di un intenso color oro, un colore strano anche se bello. Nessun segno di pupille da felino, si accorse lei con sollievo. «Allora quella cosa esiste sul serio?»
«Purtroppo sì»
«E cosa era di preciso?»
«Un babau»
«Scusa, babau?! Come quelli delle storielle per spaventare i bambini?!»
«Già»
Andando avanti a monosillabi avrebbero fatto notte, stava pensando Katherina che faticava a credere ancora a tutto quello che le stava capitando e moriva dall’ansia di avere più informazioni. «Mi dai una mano a capirci qualcosa o dobbiamo continuare con questo interrogatorio? Sei veramente una fonte traboccante di spiegazioni, davvero!» lo guardava con gli occhi ancora sgranati mentre torceva le lenzuola con le mani.
Anatolij incurvò le labbra in un sorriso sarcastico. «Dovevi farti salvare da Fabio allora. Adesso saresti sepolta dalle chiacchiere. Vado a chiamartelo se vuoi»
«No no per carità!» le disse lei alzando le mani in segno di resa. Poi le riposò sulle lenzuola, l’espressione nuovamente seria. «Beh, visto che non è stato un incubo allora… grazie per avermi salvata»
«Figurati» le rispose Anatolij in un mormorio, ricambiando il lieve sorriso che le era comparso sul volto e la guardò. Aveva delle occhiaie scure sotto i grandi occhi verdi e una cascata esagerata di capelli biondi, lunghi, scarmigliati e ancora mezzi umidi che le incorniciava il volto e gran parte delle spalle e delle braccia facendola sembrare più esile di quanto già non fosse. Sembrava ancora parecchio agitata, il ragazzo lo capì dagli occhi che scattavano nervosi per un nonnulla e per la voce lievemente tremula.
Fece un profondo sospiro – quello di chi ha già raggiunto il numero massimo di parole giornaliere – si passò una mano tra i capelli, poi iniziò: «allora, la creatura che ti ha attaccato ieri notte si chiama sul serio babau, sì, le leggende e anche le storie tramandate dagli anziani hanno quasi sempre un fondo di verità. Attaccano principalmente di notte, anche se è raro che si spingano così all’interno dei grandi centri abitati. Sì, attaccano, ce ne sono altri in giro per il mondo, purtroppo. Sono tutti molto grossi e hanno tutti lunghe braccia con artigli molto affilati. In più, sono in grado di creare un’area dove le onde sonore non riescono a propagarsi, circondano loro stessi e le loro prede, in questo modo nessuno dall’esterno sente le urla di aiuto… e le urla di dolore. Sono creature cieche, avrai notato le orbite squisitamente vuote, perciò usano il fiuto. E…»
Katherina lo interruppe sgranando gli occhi: «Quindi sei stato tu a tirargli il profumo? Per dargli fastidio?»
Lui sorrise appena. «Si tal mostro, oh strego, affrontar devi, un’ampolla di greve odor a lui jecta. Poscia che l’effluvio ha l’aere ammorbato, cum argento assali lo babau acciecato.»
Le sopracciglia di Katherina si alzarono, se possibile, ancora di più. «…scusa?»
«Gli ho tirato addosso un flaconcino di profumo prima di attaccarlo, in questo modo era praticamente cieco, anche se non del tutto, come avrai potuto notare… è riuscito lo stesso a capire dov’eri, alla fine…»
«Ah, sì, sì, ok, quello l’ho capito. Intendevo… e questa specie di filastrocca da dove viene?!»
Anatolij sospirò, se possibile, più profondamente. «Abbiamo un libro, in cui sono raccolte le descrizioni di tutte le creature come il babau, con le caratteristiche, le abitudini, le abilità che possiedono e i metodi per sconfiggerle. Lo impariamo a memoria. Avrai capito che non è proprio recentissimo…»
«…l’avevo immaginato. E anche le armature sono così vecchie? Ah, poi perché usare delle armature medievali nel 2015? Non esistono protezioni migliori al giorno d’oggi?»
«Lo stile è medievale ma l’armatura è recente. L’esterno è fatto in cuoio ma all’interno c’è uno spesso strato di Kevlar, quello che si usa per i giubbotti antiproiettile…»
Katherina annuì energeticamente con aria saputa. «Sì, so cos’è, guardo parecchi polizieschi. Ma allora perché dargli una forma così antica? Perché rimanere sul medievale?»
Il ragazzo aveva aperto la bocca per rispondere ma si bloccò, girando lievemente la testa verso la porta della stanza. Levò un dito verso Katherina per intimarle il silenzio; lei rimase a guardarlo lievemente infastidita, finché non le parve di sentire un cigolio sommesso che proveniva dall’esterno della stanza. Poi ci fu un bussare deciso e dalla porta entrò l’infermiera di poco prima spingendo un carrello. Non appena vide Anatolij, seduto impassibile a fianco del letto, sembrò vergognarsi della bugia detta poco prima e servì la colazione in fretta, a capo chino. Disse appena un paio di frasi di circostanza e in meno di un minuto era già uscita di nuovo in corridoio.
 
Katherina guardava il vassoio, il bicchiere di thè fumante, le fette biscottate e si accorse solo in quel momento che moriva di fame.
«Ma voi chi siete?» domandò calma, imburrandosi generosamente una fetta.
«A questa non ti rispondo, te lo dirà Viktor dopo. Lui sa raccontarlo bene.»
«Come non mi rispondi! Ma se è la domanda più importante di tutte quelle che ho!»
«Allora intanto fammi le altre, oppure puoi sempre sbrigarti a mangiare e poi venire su da Viktor»
«Ho fame! Sono stata attaccata da un babau ieri, non so se te l’hanno detto!» gli disse con tono ironico, poi addentò una fetta biscottata gonfia di burro e marmellata alla ciliegia. «Guarda tu» disse tra un boccone e l’altro «se devo farmi attaccare dai mostri per avere la colazione a letto»
«Non ne vale troppo la pena, direi, per una colazione del genere!» le rispose Anatolij con il viso che finalmente perdeva il tono neutro e che si accendeva di divertita ironia.
 
Katherina lo guardò sorridendo a sua volta: il pallido sole che entrava dalla finestra gli rischiarava metà del volto. Aveva una carnagione veramente pallida, ma non del colore malato della sera prima. Sotto le sopracciglia folte, l’occhio illuminato dalla luce brillava dorato, fisso nei suoi. I capelli castano scuro gli ricadevano scomposti sulla fronte in una frangia spettinata. Katherina li ricordò gonfi di pioggia e appiccicati alla fronte color del gesso, come si erano ridotti in quel vicolo. Ricordò anche lo sguardo preoccupato di Anatolij che le prendeva il viso tra le mani per controllare che il sangue che aveva in volto non fosse suo e il tocco dei guanti tiepidi sul viso.
Si rigettò a capofitto sulla colazione con la faccia in fiamme e le farfalle nello stomaco. Si concentrò sull’operazione di farcitura della fetta biscottata come se stesse operando a cuore aperto.
Di colpo un brandello di conversazione le tornò vivido alla mente. «Volevate drogarmi?!?» urlò tanto all’improvviso che l’altro quasi sobbalzò. La fetta biscottata le si sbriciolò tra le dita.
Anatolij la guardò interdetto per un attimo, poi ricordò che Katherina aveva solo finto di dormire, prima. Cercando le parole, si sistemò la frangia sovrappensiero e sospirò. «È la procedura. Dopo aver salvato qualcuno, solitamente lo droghiamo in modo che dimentichi, poi se è necessario, lo scarichiamo al primo ospedale, così quando si sveglia può pensare di essere stato aggredito da qualche balordo o di aver bevuto troppo e il problema finisce lì. Sì, è necessario, altrimenti poi si saprebbe che genere di belve ci sono là fuori e si saprebbe che esistiamo noi. Non serve che fai quella faccia, è il metodo meno problematico che abbiamo trovato. Prova a pensare: se l’esistenza dei babau, delle strigi diventasse di dominio pubblico cosa pensi succederebbe?»
«E c’è un motivo per cui a me non hai riservato questo bel trattamento?»
Anatolij scivolò leggermente sulla sedia. «Lo Stilnox va somministrato subito, anche mezz’ora dopo e si rischia che la vittima ricordi abbastanza. La dose che avevo io era nella tasca forata dall’artiglio, una coincidenza incredibile…»
«Oh! Allora io sono una coincidenza! Che gioia! E per le coincidenze qual è la procedura?! Una droga più forte? Un bel trauma cranico e poi le scaricate all’ospedale più vicino?!» Katherina aveva iniziato ad alzare la voce, preda dell’ansia. Si sentiva presa in giro da quelle persone che fino a pochi minuti prima aveva preso per salvatori e che invece ora volevano drogarla o chissà cos’altro. Gli occhi le bruciavano.  «È per questo che mi avete tolto il cellulare, perché non chieda aiuto?! E tu sei qui per non farmi scappare, giusto?!»
Anatolij alzò le mani in segno di resa. «Abbassa la voce, per favore. Intanto, il cellulare è nella tua borsa, dentro quel cassetto, anche se ti pregherei di non usarlo per ora. Poi, non so cosa si fa in questi casi perché non mi è mai successo prima, ma ti posso assicurare che non ti verrà fatto alcun male. Non ti ho certo salvato per farti del male a tradimento un minuto dopo. Tu non mi conosci, ma cerca di fidarti.» la guardò intensamente, cercando di trasmetterle tutta la sua sincerità.
Katherina, gli occhi rossi, fece un profondo respiro per calmarsi. «Va bene. Quindi? Quando saprò quello che mi spetta?»
«Appena sei pronta. Finisci la colazione e poi andiamo su dagli altri: Viktor ti spiegherà tutto» Anatolij si alzò e controllò l’ora sul cellulare. Aveva una cosa da fare, cinque minuti, poi sarebbe tornato da lei.
«Aspetta» Anatolij si fermò che aveva già un piede fuori dalla porta. «E i miei vestiti?» domandò Katherina indicandosi il camice con una mezza fetta biscottata.
Anatolij esitò un secondo. «Giusto. Torno subito» disse uscendo dalla porta.


*-*-*-*-*-*
Non mi sembrava...ma ho ricaricato tutto il testo con « invece di << così forse non saltano i dialoghi...
Bye!

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Wiedźmin - pt.2 ***


Katherina indugiava di fronte ad una austera porta di legno. Stava cercando il coraggio di bussare e contemporaneamente anche un segno che quella fosse la porta giusta.
Seguendo le indicazioni che Anatolij le aveva dato, una volta pronta era uscita dalla camera in cui si era risvegliata e si era trovata in un corridoio di un ospedale. Dalla totale assenza di voci e di altri suoni, aveva immaginato di essere in un’ala in disuso: le luci erano spente e la fioca luce invernale che entrava dalle finestre creava un senso di abbandono e di malinconia. Alcuni suoni ovattati e indistinti l’avevano raggiunta dai piani inferiori, segno che nel resto dell’edificio ci doveva essere dell’attività. Guardandosi intorno la ragazza aveva percorso il lungo corridoio fino in fondo oltrepassando camere e saloni vuoti. Le pareti erano colorate del classico colore verde spento da ospedale e anche i corrimano di legno facevano parte dell’arredamento tipico di una struttura sanitaria, forse leggermente più datata rispetto alla media nazionale. Come da indicazioni, a destra aveva trovato la rampa di scale e aveva iniziato a salire, mentre un senso di preoccupazione e di inquietudine crescevano sempre di più dentro di lei.
Aveva proseguito lentamente, strascicando i piedi. Aveva paura di trovarsi faccia a faccia con quegli individui: quanti sarebbero stati? Cinque? Dieci? Cinquanta? E cosa avrebbero deciso di farle ora che sapeva? I gradini le erano sembrati troppo alti e ripidi.
Terminata la lunga rampa di scale si era trovata in un ambiente completamente diverso: più che un ospedale, ora sembrava fosse finita nell’ala professori della facoltà di medicina. La sede vecchia.
Tutto intorno a lei trasmetteva austerità, oltre al senso del tempo che scorre. Era tutto di legno scuro, dal parquet liso al centro, al corrimano alle pareti. Un pesante silenzio permeava l’aria e alcuni granelli di polvere volteggiavano pigri nella luce soffusa che entrava dalle grandi finestre. Di nuovo le era tornato alla mente il paragone con Villa Wayne e si era quasi aspettata che Alfred avrebbe di colpo girato l’angolo indicandole la strada. Invece il maggiordomo non era apparso, quindi la ragazza aveva percorso guardinga l’intero corridoio e aveva svoltato a destra fino alla grande porta chiusa che le era stata indicata prima da Anatolji. E lì era rimasta, impalata e in soggezione.
 Si aggiustò la pesante felpa: sembrava un rapper.
 
Mentre finiva gli ultimi sorsi di thè rovente, Anatolij era tornato nella camera con cattive notizie: i suoi vestiti erano ad asciugare e non sarebbero stati pronti prima di un paio d’ore. Le aveva quindi portato dei vestiti di riserva, una pesante felpa scura con cappuccio e un paio di pantaloni della tuta, poi le aveva dato indicazioni su dove andare una volta pronta ed era sparito di nuovo. Era tutto troppo grande e troppo largo per la sua figurina esile: aveva rimboccato le maniche più che poteva ma continuavano a srotolarsi e a coprirle quasi completamente le mani. I pantaloni, invece, continuavano a finirle sotto le scarpe. Come se non bastasse si era data un’occhiata allo specchio e aveva trovato un paio di occhi rossi che la fissavano spalancati, ancora reduci dalla nottata appena trascorsa. Anche i capelli erano un disastro, metà crespi e metà ancora umidicci le ricadevano scomposti sulle spalle, contribuendo a rimpicciolirla ancora di più. Aveva deciso di legarli stretti in una coda e di gettarsi in faccia dell’acqua gelida, per tentare di cancellare almeno un po’ di quel viso da tossica.
Guardandosi ora, ancora impalata davanti alla porta chiusa, pensò di non aver fatto un buon lavoro. Ma disquisire di moda non avrebbe fatto sparire quello che doveva fare, quindi prese coraggio e bussò.
 
Venne accolta in un grande studio spazioso. Il legno era l’elemento principe anche di quella stanza: alte librerie di mogano incorniciavano le pareti, il pavimento era anche qui di scuro e liso parquet e c’era un enorme tavolo rettangolare al centro della stanza. Di legno scuro anche quello. Le pesanti tende erano state tirate completamente, tuttavia il sole lattiginoso dell’inverno non riusciva a rendere troppo luminosa la sala; le luci era spente e una debole penombra aleggiava qui come nel resto dell’edificio.
Ad uno dei capi del tavolo era seduto l’anziano uomo di poco prima, le mani giunte davanti a sé. Con espressione gentile le fece cenno di accomodarsi dove voleva. Katherina si sedette su un lato del tavolo, più lontano possibile dall’altra persona che aveva già visto, Fabio, che stravaccato su una sedia guardava il cellulare. Così assorto non sembrava prestarle la minima attenzione e la ragazza poteva quindi guardarlo bene. Sembrava molto esile sotto i pesanti vestiti invernali che indossava e la carnagione leggermente olivastra sembrava fargli risaltare il viso magro: Katherina pensò che dovesse essere mulatto. Aveva i capelli castano scuro, rasati ai lati e più lunghi in cima alla testa, che portava legati in un codino.
“È parecchio carino anche lui… peccato per il carattere” pensò la ragazza guardandolo di sottecchi. Un fruscio alle sue spalle però la costrinse a voltarsi. Un ragazzo enorme, alto quasi due metri e dalla corporatura massiccia, dalla pelle nera del colore dei chicchi del caffè, si era alzato da una poltroncina e si avvicinava al tavolo. Katherina non l’aveva notato entrando nella stanza e vedersi apparire una persona così imponente all’improvviso la spaventò parecchio. Cercò di non darlo a vedere, dal momento che il ragazzo, ignaro di tutto, le si era avvicinato con espressione gentile e le aveva teso una mano. << Hamidi, piacere >> le disse con voce morbida e profonda. << Piacere. Katherina >> rispose lei sentendosi un po’ sollevata dai suoi modi gentili. Gli tese una mano che lui ricoprì nella sua, poi il ragazzo si sedette su una sedia vicina, i muscoli delle enormi braccia tendevano il maglioncino chiaro.
Mancava ancora solo Anatolij, le disse l’anziano, poi avrebbero finalmente iniziato. Nell’attesa lui le fece le classiche domande di cortesia giusto per ingannare il tempo: che corso frequentava, a che anno di medicina era e dove viveva lì a Padova. Nessuno le chiese come andavano gli esami o quanti gliene mancassero e faticò a trattenere un sorriso. Sembravano tutti molto gentili, eppure Katherina non poteva fare a meno di essere in ansia per ciò che doveva venire. Qualsiasi cosa fosse stata.
Dopo alcuni minuti, Anatolij entrò e si sedette dall’altra parte del tavolo, borbottando una scusa per il ritardo.
<< Iniziamo? >> propose il vecchio e come un sol uomo i ragazzi si sedettero composti e attenti, i cellulari spariti. Katherina sentì l’atmosfera tendersi intorno a sé.
<< Bene allora, siamo tutti qui, solo quelli che vedi. Non siamo più tanti quanto una volta, purtroppo. Katherina, loro sono Anatolij, Fabio e Hamidi, mentre io sono Viktor. >> l’anziano si sporse lungo il tavolo e le tese una mano. Poi continuò: << Anatolij penso ti avrà detto che di solito abbiamo un… metodo per non far conoscere ai civili cosa facciamo e cosa si aggira nel mondo, e devo dire che sono state rare le volte in cui non ha funzionato. Personalmente, ho visto solo un altro caso nella mia vita, ma devo confessarti che al tempo ero ancora un giovane sconsiderato, per cui non ho prestato l’attenzione che la questione meritava. Ah, prima di tutto, voglio rassicurarti dicendoti che non ti verrà fatto alcun male, anche se è possibile che verrai sottoposta a ipnosi, in modo da farti dimenticare questi particolari accadimenti. È necessario che ne discuta con un paio di persone, prima, ma in ogni caso penso che l’ipnosi sia il metodo più invasivo che potremmo impiegare >>
<< Per ora, invece, dovrai giurare a me e ai presenti che manterrai il segreto di tutto quanto hai visto, del vicolo e di noi. Non dovrai dirlo a nessuno, né a tua madre, né al tuo diario, nel caso lo avessi. Abbiamo più di un metodo per controllare che tu mantenga la parola data, metodi buoni e metodi… meno buoni. Nel caso scoprissimo che hai rivelato l’accaduto a qualcuno, in quel caso, purtroppo, non potremmo comportarci in maniera altrettanto gentile. Saremo costretti a prendere alcuni provvedimenti, verso di te e verso tutti quelli a cui lo potresti aver raccontato; tu non mi conosci, ma credimi quando ti dico che non troverei il minimo piacere a dare l’ordine.>> il tono calmo e pacato con cui Viktor aveva iniziato a parlare era diventato sempre più minaccioso, i suoi occhi sempre più gelidi, in un crescendo di intensità che sembrava inchiodare Katherina alla sedia. Il vecchio prese fiato prima di riprendere. << Pertanto, ora per favore dimmi che è tutto chiaro e giura a me e agli altri presenti che manterrai il segreto>>
Katherina sentì su di sé lo sguardo penetrante dei quattro uomini, era parecchio spaventata. Era solo una sensazione, ma si sentiva circondata da predatori, più che da normali persone. L'espressione vigile, i corpi tesi; nonostante le espressioni fossero cordiali, sembravano tutti sul punto di estrarre una di quelle spade scintillanti e di balzarle alla gola. L’atmosfera era talmente pesante che sembrava le comprimesse il petto e le impedisse di respirare. Si raddrizzò sulla sedia e tentò di assumere l’espressione più autorevole che poteva, serrò le mani per impedire che tremassero e guardò Viktor dritto negli occhi: << Giuro che manterrò il vostro segreto… non che abbia molta scelta, in ogni caso.>>
L’anziano tornò finalmente a sorriderle. << No, in effetti non ne hai molta >>
L’atmosfera tesa sembrò sgonfiarsi all’istante. Con un fruscio, i ragazzi si erano seduti più comodamente.
Katherina si rese conto di essere sulla punta della sedia e prendendo finalmente fiato si rilassò appoggiandosi allo schienale. << Beh, adesso che ho giurato, mi potreste dire chi siete e cosa fate? Da quello che ho capito sareste una specie di setta, no?>>
<< “Setta”? Questa è proprio una brutta parola…>>
<< Io non ho mai detto “setta”, sia chiaro… >>
<< Siamo ovviamente una ONLUS, no? >> li interruppe Fabio, sornione.
Viktor li ignorò. << un termine vale l’altro, non è importante chi siamo, ma ciò che facciamo. Vedi cara, creature come quella di ieri notte sono nate insieme con il mondo, quindi insieme con il mondo siamo nati noi: li combattiamo, li conteniamo, evitiamo che facciano del male alla gente. Siamo conosciuti con molti nomi: streghi, wiedźmin, witcher, monster hunters e un sacco di altri termini molto folcloristici, a seconda della regione. Vedi, siamo sparsi un po’ in tutto il mondo, raggruppati in piccole congreghe – ecco, congrega sarebbe uno dei termini corretti, invece di setta – ma comunque… quando ci chiamano, andiamo dove serve. Quando nessuno ci chiama ci alleniamo, ci prepariamo e studiamo, e ci alleniamo ancora. Passiamo da uno scontro al successivo. Uno strego difficilmente muore nel suo letto>>
Calò un lungo silenzio. Katherina rimuginava su quanto appena ascoltato mangiucchiandosi le unghie. Guardando un punto imprecisato del tavolo venne colta da una domanda: <>
Viktor si sporse leggermente in avanti, annuendo in segno di approvazione. << Questa è proprio una domanda intelligente, mia cara. Ma non darmi del lei, che mi fa sentire ancora più decrepito di quanto non mi facciano già sentire questi tre! >> guardò i tre giovani streghi con finto sguardo offeso.
<< Noooooi, nonnino caro?!? >> Fabio si portò teatralmente una mano al petto.
<< Con te faccio i conti dopo >> gli rispose Viktor reprimendo un sorriso, poi si rivolse nuovamente a Katherina. << Tornando a noi, mi hai chiesto chi ci chiama. Beh, vedi mia cara, in ogni paese c’è sempre almeno un’organizzazione antica quanto la nostra, radicata e pubblica, di cui la gente si fida e che protegge la nostra identità in cambio dei nostri servizi. Sei una ragazza sveglia, sono sicuro che se ci pensi bene, puoi arrivarci da sola >>
Katherina aggrottò le sopracciglia, pensosa. << Mmhh… la polizia? L’esercito?>>
<< Gneeee! >> Fabio mimò il suono scuotendo la testa. <> in risposta alla faccia confusa della ragazza, Fabio giunse le mani come in preghiera.
<< Sul serio?!? No, dai, aspetta! E tipo in Asia o in Africa come fate? >>
<< Più di un’organizzazione ho detto, infatti. Il Vaticano qui, La Mecca là… abbiamo patti antichissimi di collaborazione e di segretezza con praticamente tutte le principali religioni. Loro ci mantengono e ci inviano a risolvere problemi, noi andiamo. >>
<< La rete di intelligence religiosa è formidabile! E poi sono anche dei maestri nell’insabbiamento nel caso trapeli qualcosa! Francisco ha i potenti mezzi! >> Fabio le fece l’occhiolino.
Katherina era completamente sbalordita. Sprofondò di più nella sedia, nell’ampia felpa e nei pensieri. Fissava un punto in mezzo al tavolo, senza vederlo. << E come si fa ad entrate nella vostra congrega? >> chiese dopo un momento, a nessuno in particolare.
Sempre assorta nei pensieri percepì una sensazione di gelo inondare la stanza e si costrinse a sollevare lo sguardo nuovamente sui presenti. Sembrava che le finestre si fossero di colpo spalancate e che il vento invernale l’avesse investita in pieno. Guardò verso l’anziano e lo vide prendere un lungo respiro prima di parlare. << Questa è una domanda molto penosa a cui rispondere. Entrare non è un’aspirazione o un privilegio, direi più che è una condanna. Per eliminare alcune creature, mostri come quello che hai visto ieri notte, sono necessarie abilità sovraumane, capacità che un uomo normale non riuscirebbe ad ottenere nemmeno con anni e anni di allenamento. Ci sono mostri velenosi, invisibili, enormi o velocissimi: un uomo normale contro alcuni di questi durerebbe meno di un minuto. Per questa ragione alcune congreghe secoli fa hanno messo a punto un… trattamento… per avvantaggiare i propri soldati. La Prova delle erbe. Vedi, perché funzioni è vitale che venga somministrata entro i dodici, tredici anni di vita, perché i risultati siano quelli sperati… non dopo, no. Dopo sarebbe certamente inutile… sicuramente mortale... >> sembrava che ogni parola gli costasse una tremenda fatica << è un procedimento lungo, doloroso, e soprattutto rischioso. Ti ho detto prima che uno strego difficilmente muore nel suo letto, un novizio, invece, può morire molto prima. La prova può avere effetti menomanti… o letali. Molto spesso. Troppo. Ma è necessaria… per fare quello che facciamo. A chi sopravvive conferisce capacità altrimenti irraggiungibili: velocità, forza… oltre a mutazioni indesiderate. Spesso, già. Agli altri, invece… negli ultimi anni siamo riusciti ad alzare il tasso di sopravvivenza a quattro su dieci. Ai miei tempi era di tre. Ah, il progresso… >> sul volto di Viktor affiorò un sorriso amaro.
La ragazza alzò lo sguardo per posarlo negli occhi dell’anziano, la voce un sussurro. << Sei su dieci non sopravvivono, hai detto? Date a dei bambini questa “Prova delle erbe” e già sapete che il sessanta per cento di loro morirà soffrendo? >>
L’uomo annuì abbassando lo sguardo.
<< Senza la Prova, sarebbero morti al primo combattimento. Saremmo morti… >> la voce profonda, vibrante di Hamidi sembrava provenire dalle profondità della terra.
Katherina stava ancora faticando a digerire la faccenda delle congreghe di witcher, streghi o come si chiamavano. Del ruolo della Chiesa in tutta la faccenda. E soprattutto dell’esistenza di mostri orribili che scorrazzavano in giro per il mondo, senza che la maggioranza delle persone ne fosse a conoscenza. Sembrava un libro fantasy più che la realtà. Un fantasy iniziato molto male. E oltre a tutto questo, come se già il resto non fosse sufficiente, questa Prova delle erbe. Un trattamento mutante da somministrate a dei bambini con solo il quaranta per cento di probabilità di sopravvivenza. La ragazza si volse verso Hamidi, fissandolo incredula: << Ma… Chi lo farebbe di propria volontà? Vi avevano spiegato i rischi? Ve li avevano tenuti segreti, o magari vi hanno costretto con la forza? >>
Hamidi sospirò. << Li conoscevamo >>
<< Ma allora perché…>>
<< Per sopravvivere >>
La voce di Viktor costrinse la ragazza a voltarsi. L’uomo si passava una mano sul collo e le rivolse un sorriso triste. Abbassò lo sguardo segnato dalle rughe, sembrò ancora più vecchio. << Se tu fossi sola, smarrita, stremata dagli stenti o dai soprusi. Se sentissi in cuor tuo, che la fame e la sete ti concederanno un paio di giorni, forse. Se sentissi che la morte si sta avvicinando. Se fossi consumata nel corpo e nella mentre, ferita, lacera. Abbandonata tra i rifiuti o tra i cadaveri, ormai una bambola rotta che non ha più la forza di lottare. Che sta pensando di arrendersi, smettere di soffrire. >> la sua voce era un mormorio sommesso. Sembrava quasi parlasse a sé stesso. I tre ragazzi tacevano guardando il tavolo. Anatolij strofinava con un dito una macchia invisibile, Fabio tormentava una manica della felpa. L’anziano continuò: << Lasciarsi morire è così facile, a quel punto… ma se proprio a quel punto arrivasse qualcuno, che promette di nutrirti, sanare le tue ferite, proteggerti… anche solo per un po’ di tempo. Anche se fosse per un anno soltanto. O due. Tu cosa faresti? >> alzò la testa rimasta china fino a quel momento e guardò Katherina con i suoi occhi azzurro ghiaccio. Stavolta era lei quella incapace di sostenere il suo sguardo. << La congrega ci ha trovato quando non avevamo nulla, ci ha regalato un altro po’ di vita. Ci ha sfamato, ci ha rimesso in sesto, ci ha fatto da seconda famiglia… anche i ragazzini… quelli che poi non ce l’hanno fatta hanno avuto… un barlume di felicità… riesci a comprendere?>>
Katherina annuì, aveva la gola secca. Con un sospiro volse lo sguardo e incontrò quello di Fabio. << Mi hanno trovato nelle Favelas di Rochinha, avevo sei anni. >> disse con un unico sospiro distendendosi sulla sedia.
<< Baraccopoli di Kibera, in Kenya. Ne avevo otto.>> la voce profonda di Hamidi aveva una punta di amaro mentre si esaminava le unghie delle mani.
<>
Viktor fissava un punto lontano. <> La sua voce era un sussurro.
 
Erano ritornati tutti a quei giorni, Katherina lo vide chiaramente nei loro sguardi e nel silenzio greve che scese e che le strinse il cuore. La fame, il dolore, i tormenti. Senza averla mai vissuta, un po’ di quella sofferenza si impadronì di lei e si ritrovò a stringersi le braccia al petto, per tentare di calmarsi. Sprofondò nella sedia con lo sguardo nel vuoto, tentando di assimilare tutto quello che aveva appena sentito. Quelle quattro persone, seppur provenienti dai più lontani angoli del mondo, avevano conosciuto la stessa sofferenza, le stesse privazioni, e avevano scelto la Congrega, la speranza di sopravvivenza a quella prova rischiosa, piuttosto che una morte di stenti. Erano sopravvissuti allora ed erano sopravvissuti poi a quella mutazione, all’addestramento, e ora rischiavano ancora una volta la vita, proteggendo persone ignare da mostri e creature sovrannaturali. Sembrava la trama di un film, di quelli con i cacciatori di vampiri o di demoni: sarebbe stata una trama perfetta. E invece a quanto pareva, succedeva veramente. Fece un profondo sospiro: “è tutto ancora così folle” si disse.
 
Cercò di riscuotersi e smise di mangiucchiarsi le unghie. Era un brutto vizio che aveva fin da piccola, che le capitava nei momenti di stress. Guardò Anatolij: aveva ancora lo sguardo perso nei brutti ricordi, sovrappensiero si passava una mano tra i capelli.
<< Quindi… adesso cosa devo fare?>> la sua voce riscosse lui e gli altri e li riportò a quella stanza in penombra, dai luoghi più oscuri dove si erano persi.
<< Niente, cara. Appena i tuoi vestiti saranno asciutti, potrai tornare a casa. Per il momento potrai fare come nulla fosse, nel frattempo io parlerò con un paio di persone. Quando avrò capito come agire, ci faremo vivi. >> Viktor si alzò dalla sedia e si avvicinò alla porta, invitandola a raggiungerlo con un cenno del braccio. << Ti ricordo del tuo giuramento, Katherina, mi raccomando, e ti auguro una buona giornata >>
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Ti abbiamo trovata ***


«Il terzo giorno perirono tutti i bambini all'infuori di uno, di appena dieci anni. Questi, fino a quel momento in preda a una follia violenta, era improvvisamente piombato in un profondo torpore. I suoi occhi avevano uno sguardo vitreo, le mani afferravano senza posa la coperta o si agitavano in aria, come a voler agguantare delle piume. Il respiro si fece rumoroso e roco, la pelle si ricoprì di un sudore freddo, appiccicoso e maleodorante. Allora gli fu di nuovo iniettato nelle vene l'elisir, e l'attacco si ripeté. Questa volta subentrò un'emorragia dal naso e la tosse si trasformò in vomito, dopodiché il bambino perse le forze e divenne inerte.
Per due giorni i sintomi non recedettero. La pelle del bambino, fino ad allora madida di sudore, divenne secca e infuocata; il polso, pur perdendo pienezza e vigore, era abbastanza forte, lento piuttosto che veloce. Non si svegliò neppure una volta, e neppure gridò più.
Infine, sopraggiunse il settimo giorno. Il bambino si destò dal sonno, e i suoi occhi sembravano quelli di un serpente...»
Carla Demetia Crest, La Prova, delle Erbe e altre pratiche segrete
degli strighi viste coi miei occhi, manoscritto riservato alla
consultazione del Capitolo dei Maghi
(Andrzej Sapkowski – Il sangue degli Elfi)
 
 
 
Era un pomeriggio di febbraio, nebbioso e gocciolante; la luce, che per tutto il giorno non era mai stata troppo vivida, iniziava ora a scemare nel tramonto.
L’autobus procedeva a scossoni, accelerando e frenando bruscamente e facendo ondeggiare pericolosamente tutti i passeggeri stipati in piedi nel corridoio. Katherina si aggrappava forte alla balaustra e cercava di scrutare fuori; senza troppo successo. All’interno dell’autobus c’era un caldo soffocante: il riscaldamento era acceso al massimo e l’umidità, che evaporava dalle persone e dai vestiti bagnati di pioggia, si appiccicava a ogni superficie e appannava i vetri, rendendo quasi impossibile vedere fuori.
La ragazza, temendo di perdere la fermata, usò il dorso della mano per pulire una piccola porzione del vetro davanti a sé, poi, colta dal ribrezzo per la quantità abnorme di germi, batteri e chissà quali altre schifezze che sapeva di aver raccolto, si ripulì sul cappotto arricciando il naso. Scrutò dalla fessura pulita che aveva appena creato: la pioggia ghiacciata faceva desistere la maggior parte delle persone a muoversi a piedi, e i pochi coraggiosi sfilavano veloci dal finestrino.
L’autobus era uscito dal centro e si dirigeva verso la periferia, le strade si facevano meno congestionate e anche le abitazioni iniziavano ad allontanarsi dalla strada, lasciando posto a giardini e recinzioni. Un paio di volte, Katherina vide passare dal finestrino maestose ville venete circondate da parchi inselvatichiti dall’inverno.
La ragazza controllò l’ora, poi ritornò a guardare dal finestrino. Si ritrovò a pensare al giorno prima e alla chiamata persa che aveva trovato sul cellulare tra una lezione e l’altra.
 
<< Pronto? >>
<< Ehm, sì… pronto. Ho trovato una chiamata da questo numero. >>
<< Sono Anatolij. Ciao. Ti ricordi, immagino. >> sentendo la sua voce, così inaspettata, il cuore della ragazza aveva saltato un battito.
<< Ah, ciao! Sì, beh… certo che mi ricordo, ovvio che mi ricordo... >> Come poteva dimenticare una cosa come quella?!
<< Sei a lezione? Perché posso richiamare dopo >>
<< No no, sono in pausa. Ho una ventina di minuti quindi dimmi tutto >> il fiato di Katherina si condensava in piccole nuvolette candide. Era uscita sulle scale antincendio, lontana dal chiasso degli altri universitari in pausa. L’aria gelida le si infilava nella trama del maglione, intirizzendola.
<< Viktor ti vorrebbe parlare, deve aver deciso cosa fare. Ce la faresti ad essere qui ad Arkham martedì, cioè domani, verso le cinque? >>
<< Scusa… “Arkham”?>>
<< Ah, scusa. “Casa di cura e igiene mentale San Giorgio” è troppo lungo da dire ogni volta, quindi l’abbiamo chiamata Arkham >>
Evidentemente anche loro avevano trovato un paragone con la villa dei Wayne, pensò Katherina mentre, dal tono, immaginava il lieve sorriso che era sicuramente comparso sul viso del suo interlocutore, quel lieve arricciarsi delle labbra piene. Rabbrividì, stavolta forse non per il freddo. << Domani va benissimo, poi non si può mica dire di no al Cavaliere Oscuro, no?>>
<< …che? >>
“Non aveva capito? Il manicomio, no? C’era un altro Arkham?” aveva pensato lei con una smorfia << Scherzavo, lascia perd… >>
<< Kate?! Ecco dov’eri! Che fai fuori al gelo? ...Ah, scusa sei al telefono, non avevo visto! >>
<< Se hai da fare vai pure, ci vediamo domani >> le aveva detto il ragazzo dall’altro capo del telefono che aveva evidentemente sentito.
<< No! aspetta… scusa un secondo Alice, arrivo subito. Anatolij? >> lo aveva poi chiamato a bassa voce per non farsi sentire dall’amica.
<< Dimmi >>
<< Tu…sai cosa ha deciso Viktor? >> aveva tentato di non avere un tono supplichevole, anche se non era sicura di esserci riuscita.
<< Non mi ha detto niente, gli piace darsi un tono e mantenere la suspence. Lo saprò anch’io domani >>
<< Ah… >> il sospirò nervoso si era condensato in una densa nuvola biancastra.
<< Non sarà niente di che, stai tranquilla, ok? Ci vediamo domani… “Kate” >>
E così aveva riagganciato, lasciandola impalata al gelo con un mezzo sorriso, seppure con un senso di preoccupazione che le montava a livello dello stomaco.
<< Anatolij? Mmmh chi è questo Anatolij???>> le chiese l’amica con sguardo allusivo mentre Kat la raggiungeva.
<< Un tipo… l’ho conosciuto due mercoledì fa… In centro… >>
<< …carino? >>
La ragazza aveva fatto un ampio cenno con il viso, le sopracciglia alzate al massimo, ed entrambe avevano riso.
 
Uno scossone dell’autobus riportò Katherina alla realtà. Mancava ancora un altro po’ di strada, a giudicare dall’orologio. Riabbassò il braccio e lo strinse sullo stomaco, sovrappensiero. Erano passate due settimane da quel fatidico mercoledì universitario. Aveva pensato che sarebbe stato impossibile tornare alla normalità, alla sua routine da studentessa universitaria dopo aver saputo di mostri e cacciatori di mostri. Invece, aveva relegato quelle vicende in un cassetto, giorno dopo giorno sempre più nel fondo, sotto le lezioni, gli esami, gli impegni, finché tutto non le era sembrato niente più che un raccontino fantasy mal scritto. Si era ritrovata a pensarci forse una o due volte durante quei quindici giorni, nel silenzio della biblioteca dove andava dopo le lezioni, quando si era messa a guardare gli alberi secchi in cortile. Poi si era stropicciata gli occhi, aveva impugnato nuovamente l’evidenziatore e tutto era passato.
Era bastata quella voce, la sua voce, ormai così inaspettata, e tutta quella follia le era ripiombata addosso come una secchiata di acqua gelata e l’agitazione era tornata nuovamente a stringerle lo stomaco. Aveva dormito a stento quella notte.
 
“Almeno lo rivedo” pensò Katherina premendo il pulsante della fermata. “Almeno una gioia”
“Si, certo! Potrebbero aver deciso di ipnotizzarmi o chissà cos’altro e io penso solamente a rivedere lui”. L'autobus si fermò ondeggiando. “Però ne vale proprio la pena, cazzo!”
“Se non fosse una specie di guerriero di una setta segreta, forse, ma sta di fatto...”
“Perfetto, sto avendo una conversazione con una seconda voce nella mia testa... a quando il costumino rosso e le spade sulla schiena? … fortuna che sto andando proprio nel posto giusto” pensò mentre il cartello “Casa di cura per igiene mentale San Giorgio” le appariva davanti agli occhi.
L’alto muro di cinta lasciò il posto ad un imponente cancello di ferro, al momento chiuso, e ad uno più piccolo per l’ingresso a piedi, che invece si spalancava su un vialetto contornato da alberi secchi e gocciolanti di pioggia. Presto, si disse la ragazza, il parco sarebbe tornato ad essere verde e accogliente, ma al momento aleggiava un’atmosfera lugubre; grosse gocce di pioggia si staccavano dai rami spogli e picchiavano sull’ombrello della ragazza mentre percorreva il viale.
Katherina proseguì fino all’ingresso della casa di cura, lasciò l’ombrello e, non sapendo bene cosa fare, si avvicinò al banco dell’accettazione.
Una donna sulla quarantina alzò gli occhi dal monitor. << Hai bisogno? >>
<< Buongiorno, sì. Avrei un appuntamento con il signor Viktor…>>
La segretaria la guardò perplessa per un momento, poi il suo sguardo sembrò congelarsi. << Ah. Il signor Viktor? Glielo chiamo subito. Può aspettare qui >>
Katherina la ringraziò e si allontanò verso alcuni divanetti. Si sedette e mentre si guardava intorno la ragazza si rese conto che la volta scorsa doveva essere per forza passata da questa reception, sebbene non se la ricordasse minimamente. Ora che ci faceva caso, della prima volta in cui era stata in quel posto, si ricordava di essere uscita dalla stanza in cui si era risvegliata e poi aveva una specie di vuoto fino agli scossoni dell’autobus; sembrava che la stanchezza, la paura di quella notte, l’ansia le avessero completamente occupato la mente tanto da averla avviluppata in una specie di stato di trance.
Katherina guardò l’ingresso, ben tenuto ma un po’ datato, con le poltroncine di simil pelle e i quadri alle pareti dalle cornici grosse e pesanti. No, proprio non ne aveva ricordi.
Si era alzata per dare un’occhiata fuori dalla finestra quando una voce familiare alle sue spalle la fece voltare.
<< Katherina? Ciao! Che ci fai qui? >> Fabio con espressione curiosa, la salutò con la mano.
Completamente fuori luogo rispetto all’ingresso della casa di cura, se ne stava in piedi a pochi passi da lei in tenuta da palestra, con pantaloncini e t-shirt logori oltre che completamente zuppi di sudore. A dispetto di come le era parso la prima volta, era sì molto esile, ma sotto la tenuta leggera si intravedevano i muscoli definiti, indubbiamente frutto dell’allenamento da strego.
Cercando di distogliere lo sguardo da quel notevole spettacolo, la ragazza aprì la bocca per rispondergli quando di colpo lui esclamò: << Era oggi?! Porca miseria!!! Ti giuro, ero convinto che fosse domani! Ok ok, allora vado a chiudere tutto, ok. Scusa, me ne ero completamente dimenticato! Ok, quindi chiudo, poi devo farmi una doccia, direi, perché sono lurido…>>
La ragazza lo guardava parlare tra sé e sé ad alta voce, tentando di intromettersi dicendogli che nonostante a lui sembrasse una tragedia, a lei non lo sembrava per nulla. Lo guardava gesticolare e parlare senza sosta, con gli altri visitatori che lo guardavano perplessi, le scarpe da ginnastica consumate e i vestiti grondanti di sudore. In effetti una doccia era necessaria.
Di colpo, così come aveva iniziato, il ragazzo si riscosse e sembrò prendere una decisione. <> come annuendo a sé stesso, la guardò con un sorriso, come orgoglioso del suo piano.
La ragazza lo guardò a sua volta e il sorriso le si raggelò sulle labbra. << il… il tuo occhio. È... sempre stato così? >> mormorò incerta.
Un occhio scuro, normale, e uno di un giallo vivido e dalla pupilla lunga e stretta la guardarono per un attimo confusi, poi Fabio sembrò rabbuiarsi, abbassò lo sguardo e fece un profondo sospiro. << Scusa. Visto che mi ero dimenticato che saresti venuta non ho messo la lente. L’altra volta ce l’avevo. Ti ho spaventato? >>
<< Mannò, no, figurati! È solo che non me l’aspettavo, l’altra volta avevi entrambi gli occhi normali, cioè non normali, intendo marroni... >> Katherina tentava di minimizzare, non si era spaventata, solo non se lo aspettava. Fu un mezzo shock anche perché di colpo le era tornato in mente che anche Anatolij, quella notte nel vicolo, sembrava avesse degli identici occhi da felino.
<< Tranquilla...ho capito cosa intendi >> ancora, Fabio evitava di guardarla, il suo viso era rivolto verso la finestra, in modo da nascondere l’occhio sinistro. Le indico un punto della stanza lontano da orecchie indiscrete e una volta lì le spiegò: << Beh, ti ricordi quando si parlava di mutazioni dovute al diventare uno strego? Ecco, gli occhi degli streghi, che di solito sono normali, diventano così quando serve, con l’adrenalina del combattimento, più o meno. Il mio invece è mutato male e rimane così sempre... bella roba, eh? >> il tono simulava indifferenza, anche se si grattava nervosamente la testa rasata.
Katherina gli si avvicinò di un paio di passi, tentando un sorriso. << Ho capito. E come ci si vede con gli occhi così? Se posso chiedertelo... >>
<< Di notte ci si vede molto bene anche se praticamente in bianco e nero, di giorno invece si vedono molti dettagli ma è tutto un po’ scolorito... dai andiamo. Da questa parte >> tagliò corto lui e fece strada.
Katherina lo seguì mentre imboccava un corridoio a passo spedito e immaginò che la conversazione fosse conclusa. Tutti loro avevano gli occhi mutati, a quanto pareva, anche se Fabio aveva questo problema indesiderato che lo obbligava a nascondere la malformazione con una lente. Attraversarono alcuni corridoi nel cuore della casa di cura; vari pazienti camminavano lentamente e si fermavano al loro passaggio, guardandoli con sguardo vacuo mentre altri, seduti sulle poltroncine o su sedie a rotelle, li ignoravano completamente, fissando meraviglie e ricordi visibili a loro soltanto. I due ragazzi superarono porte da cui provenivano urla improvvise e pianti e bestemmie, seguite dalle voci decise delle infermiere, o altre porte da cui alcuni pazienti li chiamavano scambiandoli per personale medico, balbettando parole sconnesse. Fabio, seguito a ruota dalla ragazza, entrò deciso in una camera sulla destra.
Non appena vide Anatolij seduto in fondo alla stanza, lo stomaco di Katherina si esibì in alcune piroette, nonostante la ragazza si fosse imposta di non comportarsi come una ragazzina delle medie.
Il ragazzo, chino su una sedia, contemplava in silenzio una bambola di pezza che una giovane seduta accanto a lui pettinava amorevolmente.
La paziente, altro non poteva essere dato il braccialetto bianco intorno al suo polso, era completamente assorta dal suo lavoro di spazzola, lento e preciso; lunghi capelli scuri le coprivano parzialmente il volto da cui spuntava un occhio perfettamente azzurro anche se dall’espressione assente. Doveva avere circa una ventina d’anni, calcolò Kat mentre insieme a Fabio si avvicinava al letto: Anatolij alzò un attimo lo sguardo verso di loro mentre la ragazza sembrò ignorarli completamente, assorta com’era dal suo lavoro.
Nelle case di cura e di riposo, le bambole venivano spesso date alle pazienti di sesso femminile, perché in questo modo le ospiti più problematiche tendevano a rimanere tranquille. Alcune finivano per trattarle quasi come figlie o nipotine; Kat l’aveva già visto quando sua nonna era stata ricoverata.
Chissà chi era quella ragazza, si chiedeva Katherina guardando la scena di sottecchi: Anatolij non smetteva di osservare lei e la bambola in silenzio, con la solita espressione indecifrabile sul volto, nonostante questa volta sembrasse anche un po’ triste. Poteva essere una sorella? Una cugina? No, non poteva, lui era un orfano. E se fosse stata una vittima che lui non era riuscito a salvare? Sembrava un’ipotesi assurdamente da telefilm, ma anche tutte le vicende che sembravano vorticargli intorno sembravano da telefilm, si disse.
Iniziò a sentirsi completamente fuori posto lì in piedi, estranea in quel momento privato e cercò di guardare altrove. Nella stanza c’erano anche altri tre letti: uno era vuoto e sfatto, nel secondo un anziano borbottava nel sonno mentre nell’ultimo una donna di mezz’età guardava una piccola televisione a basso volume, con la bocca semiaperta e gli occhi vuoti.
La voce di Fabio la richiamò alla realtà: evidentemente anche lui era stufo di rimanere lì impalato in silenzio. Con un’improvvisa ondata di parole, anche se a bassa voce, lo strego si rivolse al suo collega: << Ehi, Nat, io ero convinto che fosse domani! Invece mi chiamano da giù e la becco nell’atrio. Io te la lascio qua, scappo su a farmi una doccia e a cambiarmi che sono lurido. Ti giuro, io avevo salvato domani, nel cervello. Ok, vado. Un quarto d’ora e vi raggiungo. Avvisa tu per favore, grazie! >> e senza attendere una minima risposta, il ragazzo girò sui tacchi e sparì nel corridoio.
 
La stanza ripiombò nel silenzio, solo la televisione emetteva il suo indistinto borbottio.
La donna al fianco di Anatolij finì di pettinare la sua bambola con un lieve sorriso, poi si girò verso il ragazzo e gli allungò la spazzola. Lui la prese con un cenno e la ripose in un cassetto con una delicatezza infinita.
Come dimenticandosi di qualsiasi altra cosa, la ragazza si alzò di scatto dal letto e andò alla finestra, dove iniziò a scrutare il panorama intensamente, come se solo lei vedesse quel dirigibile che sorvolava il parco, o l’arcobaleno che spuntava tra gli alberi. Il ragazzo le guardò la schiena per un breve momento, poi sospirò e finalmente si rivolse a Katherina: <> le chiese piano.
<< No, figurati. Ascolta… >> iniziò lei, ma una sensazione improvvisa la costrinse a fermarsi e le fece morire le parole in gola. Era osservata.
Si girò verso il resto della stanza e il tempo si congelò. Tre paia di occhi la fissavano spalancati.
All’unisono, con un unico scatto sincronizzato, i tre pazienti avevano ruotato la testa in direzione di Katherina, come marionette tirate dallo stesso filo.
I due malati distesi sui letti, anche quello che fino a pochi secondi prima sembrava dormire, erano ora seduti, sporti in avanti, le mani serrate sulle balaustre. La paziente dagli occhi azzurri era ritta in piedi rivolta verso di lei, le braccia flosce lungo i fianchi. Tutti e tre fissavano Katherina ad occhi spalancati, con un’espressione di odio folle.
<< Ti
Abbiamo
Trovata >>
Mormorarono d’improvviso, con un’unica voce inumana, metallica.
 
Katherina boccheggiò, incapace di reagire. Al suo fianco – lei non l’aveva visto alzarsi – era comparso Anatolij.
Lo strego analizzava confuso la situazione, preso alla sprovvista: i suoi riflessi, frutto delle mutazioni e degli interminabili allenamenti, avevano agito senza bisogno di un comando, lo avevano portato al fianco della ragazza, in posa difensiva, i muscoli pronti. Anche le sue braccia si erano mosse da sole: la sinistra era corsa in avanti, a fare scudo a Katherina, mentre la destra era scattata dietro la schiena a cercare la spada. Afferrando il vuoto, il volto del ragazzo aveva avuto un moto di stizza.
I tre pazienti rimanevano ai loro posti, con gli occhi folli calamitati su Katherina e ripetevano senza sosta quelle tre parole “Ti abbiamo trovata” con voce surreale.
Lo strego volgeva lo sguardo da uno all’altro, preparandosi al peggio; il suo medaglione vibrava senza posa.
Inaspettatamente la prima a muoversi fu Katherina: con un singhiozzo improvviso fece un passo indietro, inciampando su una sedia e facendola stridere violentemente sul pavimento. Così come era iniziato tutto finì: dopo alcuni secondi di immobilità, i pazienti ritornarono a quello che stavano facendo, riprendendo a ignorare Katherina come se nulla fosse mai accaduto. Il rumore sembrava aver spezzato il sortilegio come fosse una bolla di sapone.
I due malati sui lettini si ridistesero lentamente, tirandosi su le coperte. La ragazza della bambola si volse di nuovo verso la finestra, dando le spalle al resto della stanza.
 
Il cambiamento era stato così repentino e surreale che Anatolij per un attimo esitò, confuso. Sfiorò il medaglione che aveva al collo e trovandolo immobile, con cautela prese Katherina per le spalle e la condusse fuori dalla stanza. Con un occhio continuò a controllare i movimenti dei pazienti, temendo una seconda reazione, ma sembravano tutti ritornati ai loro mondi fantastici e non gli prestavano più alcuna attenzione. Lo strego allora portò la ragazza fino alle scale, per condurla fino al loro piano.
Katherina, con il respiro corto e gli occhi sgranati, lo guardava con ansia, cercando una qualche risposta alle innumerevoli domande che le traboccavano nella mente. Non osava però emettere il minimo suono, non ancora, quindi si lasciò portare fino al quarto piano senza opporre resistenza. Le mani che le cingevano le spalle erano ferme seppur delicate, ma lei non se ne rendeva conto, presa com'era dalla paura.
Ricominciò ad avere un respiro regolare solo quando raggiunsero il quarto piano, con il suo rassicurante corridoio di parquet consumato. Anatolij l’aveva condotta fino ad una specie di salotto, dove le indicò un lungo divano e le fece cenno di sedersi. Lui rimase in piedi invece, pensoso.
A braccia conserte, con la schiena al muro, fissava un punto imprecisato del pavimento. Ripassava la scena senza sosta, cercando di far quadrare i pezzi. Nonostante andasse con la memoria alle innumerevoli pagine dei manoscritti degli streghi, poche erano le cose capaci di fare una cosa del genere, ancora meno erano quelle considerate non ancora estinte.
<< Cosa... cosa cazzo è successo? >> mormorò Katherina con un filo di voce, sentendosi ora abbastanza al sicuro da parlare.
<< Purtroppo non ne ho la minima idea... >> Anatolij non alzò lo sguardo. << È iniziato tutto appena hai cominciato a parlare, giusto? Fino a quel momento non avevi ancora detto niente, no?>> si passò una mano sulla fronte: parlava più a sé stesso che con la ragazza. <>
Nella mente dello strego si formò un elenco disordinato di creature, incantesimi, maledizioni, di tutto quello che poteva causare quei particolari fenomeni; man mano che ne scartava, altri si aggiungevano al marasma. Aveva ben pochi elementi, al momento. <> Anatolij sbuffò e gettò la testa all’indietro. Rimase così per un attimo, poi riabbassò lo sguardo, posandolo su Katherina. Lei giocherellava nervosa con un telecomando che doveva aver trovato tra le pieghe del divano, lo sguardo perso nel vuoto; per un momento, Anatolij rivide Anna, che pettinava la sua bambola con così tanta cura. Il senso di colpa si insinuò subdolo in lui, ma il ragazzo lo scacciò dalla mente quasi con foga. “Non di nuovo” si disse.
<< Dovremmo andare ad informare gli altri, ti senti meglio?>> chiese lo strego avvicinandosi al divano.
Lei sembrò riscuotersi e alzò lo sguardo, acida. << Mi sento meglio un paio di palle, però andiamo, si>>
Evidentemente il nervosismo la rendeva sboccata, pensò il ragazzo mentre la guardava alzarsi con un lungo sospiro e aggiustarsi i lunghi capelli oro, ma il suo istinto di sopravvivenza lo bloccò prima che potesse commentarlo ad alta voce.
 
Anatolij fece strada e uscirono entrambi nel corridoio silenzioso, procedendo fianco a fianco. Katherina, ancora molto scossa, camminava guardinga: le sembrava di sentire scricchiolii e rumori ovunque e si lambiccò il cervello cercando qualcosa da dire che rompesse quel pesante silenzio. Sospettava che lui di sicuro non lo avrebbe fatto.
<< Ah, scusa… prima hai parlato di un medaglione che vibra?>>
<< Sì. Il medaglione da strego >>
<< Ah, certo. Ovvio. Il medaglione da strego. Che sarebbe? >> lo incalzò lei, incuriosita.
Il ragazzo si fermo e con il pollice sollevò una catenina che portava al collo. Da sotto il maglione estrasse un grosso medaglione rotondo, con incastonato nel centro un feroce lupo d’argento, dalle fauci spalancate. Così sollevato, il medaglione ruotava lentamente su sé stesso e la luce che lo colpiva creava una danza di chiaroscuri che sembravano dargli una parvenza di vita. Sembrava che potesse serrare le fauci da un momento all’altro.
Kat allungò il collo, rapita. << Bello! …un po’ inquietante però…>>
<>
<< La mia seconda ipotesi era la Scuola dei Teneri Coniglietti… a parte le stupidate, quindi questo medaglione vibra? Vibra se c'è un pericolo?>>
<< Non proprio un pericolo. Vibra se c'è qualcosa di soprannaturale nei paraggi. Come quello che è successo prima. Che poi nella maggior parte dei casi soprannaturale sia uguale a pericolo è un dettaglio…>>
<< …sì, infatti, non formalizziamoci sui dettagli. Soprannaturale pericoloso o soprannaturale buono, non mi dispiacerebbe avere un medaglione di questi, visto l’andazzo… immagino però che siano riservati ai soli soci, giusto?>>
<< Quando li metteremo su Ebay ti farò sapere >> le rispose e le sue labbra si incurvarono nell’ormai classico mezzo sorriso. << Per il momento basta che rimani vicino a me >> aggiunse poi.
Mhhh…non mi faccio certo pregare” pensò Kat arrossendo. << Non è che posso sentire come fa quando vibra? Sono curiosa. Ah, ma ci vuole un mostro nei paraggi…>>
<< Non per forza. Tieni>>
In un istante la ragazza si ritrovò a stringere tra le mani il freddo medaglione a forma di lupo, ancora legato al collo dello strego e sospeso a pochi centimetri dal suo maglione scuro. Kat si accorse di essergli finita pericolosamente vicino quando vide lo strego alzare una mano e portarla tra di loro, accanto al suo viso e appena sopra alle sue mani strette intorno al ciondolo. Si trattenne dal sollevare lo sguardo verso il suo viso, puntandolo invece la sua mano semi-aperta. Una cicatrice gli percorreva l’anulare, sembrava molto vecchia.
Un morbido mormorio la riportò alla realtà. << Durante l’addestramento, agli streghi vengono insegnati un paio di incantesimi, veloci da lanciare e molto, molto semplici, da poter usare contro alcune creature. Incantesimi è una parola grossa, quindi non pensare a cosa tipo palle di fuoco o invisibilità. Direi che sono più una specie di trucchetti. In ogni caso bastano per far vibrare il medaglione. Creerò un venticello e il medaglione si metterà a vibrare. Pronta? >>
Katherina levò lo sguardo e lo posò in quello di lui, così vicino. << Mi dici tutto questo solo perché tanto poi me lo farete dimenticare?>>
Perché posso distrarti un po’ da tutto quello che ti sta capitando” voleva rispondere lui. <> le disse invece.
<< Allora mostrami tutto, finché sono in tempo>> disse lei, con gli occhi che brillavano di curiosità, l’ansia messa da parte per un momento.
Lo strego sorrise impercettibilmente e annuì. Poi rilassò le spalle, batté le palpebre e i suoi occhi assunsero forma felina. Tracciò con le dita il segno Aard e iniziò ad incanalare una piccola quantità di energia, giusto quanta serviva all’esperimento.
Katherina avrebbe dovuto posare lo sguardo sul palmo aperto del ragazzo, che si riempì di un tenue bagliore. Avrebbe dovuto percepire la brezza leggera che ora scaturiva dalla mano dello strego, che le scompigliava i lunghi capelli. Invece, alzò lo sguardo e lo posò nel suo, in quegli occhi colore dell’ambra e dalle pupille feline, così tranquilli e sicuri di sé e che la studiavano così intensamente. Nemmeno lo strego stava guardando il suo palmo aperto, dove ora vorticava una specie di sfera ribollente d’aria.
Fu un istante. Un ricordo della sua infanzia apparve davanti agli occhi della ragazza, un disegno che un tempo aveva fatto e appeso in camera.
Poi il medaglione nella sua mano vibrò e tutto scomparve.

*********
Saaalve! Un altro capitoletto che ho ricontrollato ma che avevo tendenzialmente già pronto... che ve ne pare? Ce l'avete un po' di hype per cosa vedrà Kat nel suo ricordo? Perchè se non ce l'avete me ne vado... XD
Questo capitolo mi è uscito parecchio lungo, non ho trovato un punto dove spezzarlo, tipo il capitolo precedente... la consolazione è che c'è più da leggere...no?
Beh...fatemi sapere che ne pensate!
Ciauuuuz!

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Il cavaliere del disegno - pt.1 ***


« Ma io non voglio andare fra i matti », osservò Alice.
 « Be', non hai altra scelta», disse il Gatto « Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.»
 « Come lo sai che sono matta?» disse Alice.
 « Per forza,» disse il Gatto: « altrimenti non saresti venuta qui.»
Lewis Carroll – Alice nel paese delle meraviglie
 
 
 
Nell'immenso bosco di abeti regnava una profonda quiete. La luce pomeridiana del sole filtrava a stento attraverso la fitta vegetazione e la penombra era di un caldo color ambra. Un denso profumo di resina impregnava l’aria.
A terra, sotto gli imponenti tronchi, un’unica distesa di aghi di pino caduti, secchi e dal colore della sabbia.
Un unico puntolino blu si muoveva in quel mare silenzioso.
Una bambina con un bel vestitino blu correva a perdifiato in quel fitto bosco di abeti.
Correva al limite delle sue possibilità, ma ora iniziava ad essere stanca. Il petto le bruciava terribilmente. Le grandi radici che emergevano dal terreno la facevano inciampare, gli aghi di pino le si infilavano nelle scarpette, le graffiavano le gambe.  Sapeva però di non potersi fermare.
Non sapeva in che direzione andare e le grosse lacrime che le sgorgavano dagli occhi le rendevano difficile vedere, in quel mare di tronchi tutti uguali. Avrebbe voluto chiamare i suoi genitori, urlando fino a farsi scoppiare i polmoni, ma anche la sua piccola mente di sei anni sapeva che non doveva fare rumore, altrimenti l’uomo-bestia l’avrebbe trovata.
Quello che non sapeva era che la creatura riusciva a sentirla benissimo anche così, anche senza che lei urlasse. Il suo udito bestiale sentiva ogni suo singolo passettino. Avanzava con balzi silenziosi a poca distanza da lei. Fingeva di rimanere indietro, ma in realtà stava solamente giocando con la sua preda.
In preda ai singhiozzi – ormai la sua corsa era diventata un incespicare confuso – la bambina accecata dalle lacrime riuscì a fermarsi appena in tempo: davanti a lei era comparso un dislivello nel terreno, che scivolava per una manciata di metri verso il basso.
Asciugandosi la faccia con la manica del vestitino blu, la bimba cercò di placare il respiro affannoso, tentando di ascoltare i rumori che provenivano dietro di sé.  Boccheggiava e non sapeva bene cosa fare. Aveva il terrore di tornare indietro verso l’uomo-mostro, ma aveva anche paura di scivolare giù e di cadere. Tirò su poco elegantemente con il naso. Suo papà l’avrebbe sicuramente aiutata a scendere, scendendo prima e porgendole la sua grande mano forte. Ma lui non era lì con lei.
All’improvviso un rumore secco di rami spezzati la fece decidere: in realtà non era un rumore provocato dal mostro, era stata solo una pigna caduta giù dagli alti rami a fare rumore, ma la bimba, poverina, non poteva saperlo. Non poteva sapere neppure che la creatura si muoveva nel sottobosco senza fare il minimo rumore, a dispetto della sua stazza.
Ignara di tutto la bimba iniziò la discesa, accucciandosi e tenendosi alle radici contorte che emergevano lungo il dislivello. Il vestitino rimaneva indietro, raspando terriccio e aguzzi aghi di abete.
 
Aveva voluto assolutamente indossare quell’abitino per il giro al lago con i genitori, facendo i capricci all’idea di mettere qualcosa di più pratico; era andata con la mamma a comprarlo solo due giorni prima, e aveva voluto sfoggiarlo alla prima occasione. Per le scarpette poi, uguali a quelle di Alice nel Paese delle meraviglie, non aveva voluto sentire ragioni, aveva quasi pianto alla proposta dei genitori di metterne un paio da ginnastica. Le sue scarpette da principessa! Le tornava ancora in mente la voce di sua mamma mentre le diceva “e se le sporchi, Schatzi? Le hai appena comprate, Katherina!” Ma alla fine avevano ceduto alle lagnanze della figlia: in fondo era solo un giro sul lungo-lago, cosa poteva mai succedere?
E invece, come Alice, era finita in quel mondo bizzarro e popolato da mostri, e tentava in tutti i modi di uscirne scendendo lungo quel ripido dislivello. Le piccole mani si riempivano di terriccio mentre si aggrappavano alle radici, ma continuava a scendere e singhiozzare, un piedino alla volta.
Un brontolio, simile ad un tuono in lontananza ruppe il silenzio del sottobosco e la bambina con terrore guardò verso l’alto. L’uomo-bestia, enorme sopra di lei, la osservava con un orrendo ghigno divertito. La sua voce sembrò una frana che rotolava giù da una montagna. << Torrrrrna qui...stupida bambina. Con le buone…>>
Fu a quel punto che le scarpette, le belle e traditrici scarpette dalla suola liscia, perdettero la presa, e la bimba con un urlo strozzato scivolò lungo quello che rimaneva del pendio perdendosi tra i cespugli sottostanti.
La piccola Alice precipitava nella tana del Bianconiglio.
Alle pendici del dislivello, fitti cespugli erano riusciti a crescere nonostante la perenne penombra. La bambina vi si ritrovò immersa quasi completamente. Per fortuna non aveva niente di rotto, però il vestito si era strappato in più punti ed era impiastricciato di terriccio e rametti. Ovunque aveva aghi di pino che le pungevano la pelle. La bambina decise però di ignorare le punture e di rimanere nascosta nel cespuglio, dove si rannicchiò con le ginocchia al petto. Non osava fiatare. Tendeva le orecchie così tanto da credere che si potessero rompere, ma non riusciva a sentire alcun rumore: il battito forsennato del suo cuoricino la assordava.
All’improvviso sentì un crescente scricchiolio di foglie e rami, e vide con orrore che l’uomo bestia era sceso dal pendio e stava guardando verso di lei. Dai suoi occhi sgorgarono nuove e copiose lacrime mentre si rendeva conto che da lì non poteva più scappare. Voleva disperatamente che papà e mamma la trovassero.
<< Esci, bimbetta…so che…sei là…perrrrrcepisco…la tua paura…>>
<< Dovresti ascoltare di più con le orecchie, invece. Forse così avresti sentito i guai arrivare.>> era una voce maschile, però non era suo papà. La curiosità spinse la bambina a sporgersi fuori dal cespuglio per vedere l’uomo che, vestito come un cavaliere di Re Artù, stava senza paura davanti all’uomo bestia che si era girato di scatto verso di lui.
<< Sparrrrrisci…mutante…la bambina è nostrrrrra…>> la bimba vide il mostro abbassarsi e grattare per terra con le unghie, come faceva Rex quando voleva attaccare. Però Rex lo faceva solo per giocare.
<< Lo sai che non è così che funziona >> lo sentì dire, con voce calma e per niente spaventata, come se fosse un vero cavaliere che combatteva mostri tutti i giorni. << piccola! chiudi gli occhi e non aprirli fino a che non te lo dico io!>> urlò poi, e la bambina capì che stava parlando con lei. Obbedì senza esitare e piantò il viso fra le ginocchia.
Iniziarono le urla.
 
 
Nel sottobosco era calato un silenzio tetro. Finalmente.
Le urla dell’uomo-bestia e del cavaliere avevano messo i brividi alla bambina per un tempo lunghissimo, e nemmeno tappandosi le orecchie era riuscita a farle sparire del tutto. Ruggiti di rabbia, urla di dolore sia umane che bestiali. Crepitii di rami spezzati e di corteccia che si staccava dai tronchi.
Ora invece si sentiva solo il vento caldo che muoveva le fronde degli alberi, su in alto.
<< Bambina? No, non spaventarti, sono io. È tutto terminato. Ti tiro fuori da lì, sì? Solo… tieni gli occhi chiusi, sì? Ecco, prendi la mia mano >>
Il cavaliere la aiutò delicatamente a districarsi dal cespuglio di rovi. Le mise una mano sul capo, per tenerglielo abbassato, e la allontanò dal campo di battaglia. Per il suo bene, era meglio che non vedesse l’uomo riverso in una pozza di sangue, nudo e dal viso straziato dal dolore. Era meglio che non capisse che era tutto ciò che rimaneva dell’enorme creatura che l’aveva inseguita fino a lì.
La portò lontano, quella piccola bambina indifesa, sporca e piangente; le ultime parole del licantropo gli davano ancora da pensare, ma decise di occuparsene poi.
<< Eccoci qui, ora tu puoi aprire gli occhi di nuovo. Riesci tu a stare in piedi da sola? Come ti chiami, bella bambina?>> quello strano uomo non parlava come suo papà, ma usava quelle “u” che sembravano “v”, proprio come sua mamma.
<< Katherina >> rispose lei tirando un po’ su con il naso.
<< Proprio un bel nome. Io mi chiamo Gabriel >>
<< Cos’hai alla faccia? Ti ha fatto male l’uomo bestia? >> La bambina guardava incuriosita il cavaliere. Aveva occhi gialli da gatto e il viso pallido come un fantasma, solcato da lunghe striature bluastre. Lei però non aveva paura: il viso di quell’uomo era gentile e la guardava sorridendo. E per di più l’aveva salvata.
<< No, stai tranquilla…fra un poco mi passa. E tu piccolina, stai bene? >>
<< Mi fa un po’ male il ginocchio. Però voglio andare dalla mamma! Tu lo sai dov’è il lago che io mi sono persa? >>
<< Si, adesso ti ci porto, è da quella parte. Ah che brutta sbucciatura che hai qui, ascolta, salta su che io vado più veloce. Pronta? Andiamo!>>
 
Il cavaliere correva nel sottobosco trasportando la bambina in braccio come se quasi non avesse peso. Lei guardava alternativamente gli alberi filare veloci dietro di loro e su in alto il viso del suo salvatore, che ora non era più pallido come un fantasma ma era tornato di colore normale. Puntò il dito verso il suo braccio. << Hai sangue qui >>
<< Hai ragione, non me ne ero accorto. >> Rallentò la sua corsa fino a fermarsi e armeggiò con una mano in un sacchettino trasparente.  << Sai cosa facciamo? Prendiamo questa medicina che ci fa passare il male, io al braccio e tu al ginocchio, ok? >>
<< Sa di menta. >>
<< Eh sì, hai ragione! Adesso andiamo da tua mamma. Si parte!>>
Gli alberi tornarono a filare veloci, il vento rumoreggiava nel bosco come la risacca del mare. Cullata dalla corsa leggera del cavaliere e dal battito del suo cuore, la bimba appoggiò il viso sulla sua spalla e si addormentò tranquilla.



******
beh... che ve ne pare di questo flashback??? carino?? ho cercato di farlo più bimbesco possibile, spero di esserci riuscita almeno decentemente...
ho spezzettato in due anche questo capitolo... è un po' cortino, ma la prossima metà arriverà a breve, insieme ai drammi! XD
se vi è piaciuto o c'è qualche enorme castronata lasciatemi un commentuccio!!!
ciauz!!!!

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - Il cavaliere del disegno - pt.2 ***


<< Ehi... >>
<< …ehi >> una smorfia di dolore le contorse il viso.
<< È tutto passato. Come ti senti? >>
<< Mnh... cosa mi è successo? Questa volta, intendo...>>
<< Dovresti dirmelo tu. Ti sei messa ad urlare di colpo e ti sei messa a correre. Sembravi come...in trance? No, non toccarti, hai sbattuto in pieno sullo stipite di quella porta.>> le afferrò la mano per impedirle di toccarsi la fronte. Ignorandolo, lei levò comunque la sinistra e si sfiorò il bernoccolo con una smorfia. << Già, come ho detto, hai un bel bozzo. Ho provato a fermarti ma ti sei divincolata all’improvviso e ti sei messa a correre lungo il corridoio. Poi hai cambiato direzione e ti sei lanciata verso il muro: hai sbattuto forte, pensavo fossi svenuta. Allora hai iniziato a piangere... >> cambiò argomento, a disagio. << meglio metterci subito del ghiaccio, così non diventa una mongolfiera. Riesci ad alzarti? >>
Lentamente Katherina provò a mettersi in piedi, ma a metà del movimento vacillò pericolosamente e crollò di nuovo sul pavimento. Anatolij la osservava in silenzio: le guance arrossate e rigate di lacrime, gli occhi gonfi persi nel vuoto, le sopracciglia aggrottate. La vide tentare senza troppa convinzione di darsi un contegno sistemandosi i vestiti e asciugandosi le lacrime. Sembrava così esile, in quello stato, sopraffatta da tutto quello che le stava accadendo. Prese un profondo respiro prima di dirle << Torno subito>>. Poi si allontanò e sparì dietro ad una porta.
Quando ritornò da lei con una borsa del ghiaccio – non erano trascorsi che un paio di minuti – la ritrovò esattamente come l’aveva lasciata: ancora seduta, ancora pallida, ancora con lo sguardo perso.
<< Ti è tornato in mente qualcosa? >> le chiese, inginocchiandosi di fronte a lei.
La ragazza alzò il viso e lo fissò per un momento con uno sguardo stravolto. Non sembrava nemmeno che lo vedesse davvero. << Tutto >> mormorò atona << ora ricordo tutto>>. Poi riabbassò lo sguardo, che si perse nei graffi del parquet consumato di fronte a sé.
Anatolij attendeva in silenzio. Aspettava con pazienza che lei trovasse le parole. Quando si passò l’involto gelato da una mano all’altra, Katherina iniziò a parlare. La sua voce era poco più di un sussurro, ma per il ragazzo non era un problema.
<> un sorriso amaro seguito da un sospiro. <"E lui chi è, Schatzi?” mi aveva chiesto. “È un cavaliere coraggioso che salva le bambine dai mostri!” le avevo risposto come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E lei aveva fatto “Ahnnn!” come fanno i grandi quando fingono di capire i giochi dei bambini, poi mi aveva chiesto: “E perché gli hai fatto gli occhi gialli?”>>
Katherina alzò lo sguardo fino ad incontrare quegli occhi ambra che la fissavano stupiti. Quasi scintillavano, tanto erano vicini. <>. La ragazza prese un lungo respiro, poi espirò lentamente. << Il suo medaglione era a forma di gatto, sai?>>
Quasi senza produrre suono, Anatolij levò il braccio e le posò delicatamente l’involto gelato sulla fronte. << L’esperimento del medaglione deve averti sbloccato alcuni ricordi che pensavi di aver rimosso...>> le mormorò.
Kat annuì debolmente. Portò una mano alla fronte per reggere il sacchetto del ghiaccio e così facendo la sovrappose a quella del ragazzo; pensò che a quel punto lui avrebbe tolto la sua, invece rimase immobile, la mano sulla sua fronte, gli occhi fissi nei suoi. <> Le dita di Anatolij erano lunghe e sottili e iniziavano a infreddolirsi. Continuava a guardarla con quegli intensi occhi ambrati e l’espressione indecifrabile da cui faticava a sottrarsi.
Anche se tutti i suoi guai erano iniziati con la sua comparsa, anche se ogni volta che lo vedeva le capitava qualcosa di tremendamente folle e pericoloso, il suo sguardo in qualche modo la faceva sentire al sicuro. Forse era una prerogativa degli occhi da strego, quell’espressione gentile anche se tremendamente triste. Anche lo strego nel bosco l’aveva guardata con uno sguardo simile. L'infanzia in comune, forse. Però no, gli occhi ambrati che la stavano osservando ora erano diversi. Niente poteva accaderle, in quel momento. Non se lui era lì a guardarla in quel modo. Non aveva la forza per impedire al suo stomaco di formicolare.
Sarebbe rimasta così per ore, invece il ragazzo sembrò riscuotersi di colpo e tolse la mano dal fagotto così bruscamente che Kat quasi lo fece cadere. La sua espressione era tornata seria e indifferente, i suoi occhi di nuovo distanti.
<> l’espressione sorniona di Fabio, che era appena comparso dalla porta delle scale, sembrò congelarsi non appena vide la scena: Katherina con gli occhi arrossati, l’involto del ghiaccio, con un balzo semplicemente troppo veloce in un attimo era anche lui inginocchiato davanti alla ragazza.
<< Cos’è successo?>> sembrava seriamente preoccupato.
Kat aprì la bocca per rispondere ma venne anticipata. << Sembrava un fenomeno di trance>>
<< Come una trance?! Qui? Ma che…>>
<<È passata ora. Sta bene>>
<>
<> Guardò il suo compagno con uno sguardo così feroce da non ammettere repliche.
Fabio alzò le spalle. <> disse, poi si dileguò dietro ad una porta.
Anatolij riabbassò lo sguardo verso la ragazza. Con un lungo sospiro di chi si era appena ripromesso di fare tutt’altro, le mise una mano intorno alla vita e la prese in braccio senza il minimo preavviso.
<< Che cazzo fai?! >>
“Ancora sboccata la signorina” lo strego trattenne un sorriso. << Come ho appena detto, ti porto di là dagli altri. Viktor deve sapere.  >>
La ragazza, ancora troppo stravolta per protestare, arrossì in silenzio, lasciandosi trasportare come da bambina da uno di quegli strani cavalieri.
 
 
Gli altri due streghi li stavano in effetti aspettando da parecchio tempo, ormai stravaccati sulle poltrone. Hamidi, dopo aver sbuffato e dopo essersi lamentato più volte, si era distratto guardando il cellulare, il più anziano invece sfogliava un giornale alla sua scrivania. Sentendo dei passi nel corridoio – i passi di Katherina, Anatolij non produceva quasi suono – alzarono la testa all’unisono, si alzarono in piedi e si prepararono a rimproverarli pesantemente. Avevano anche già aperto la bocca per protestare, ma bastò una rapida occhiata all’espressione sconvolta della ragazza, ai suoi occhi arrossati e i due streghi ammutolirono all’istante. Accorsero invece al lungo tavolo scuro e si sedettero in silenzio, aspettando che gli altri facessero lo stesso.
Il silenzio nella stanza era pesantissimo. Fabio era tornato con una bevanda dall’odore pungente per Katherina, quindi si era seduto anche lui, in attesa. I tre streghi ignari di tutto facevano rimbalzare lo sguardo interrogativo da Katherina ad Anatolij, ma nessuno sembrava decidersi a parlare. Lei sembrava ancora sull’orlo delle lacrime, lui invece aveva l’espressione neutra come al solito e la guardava tormentare le maniche del maglione, in silenzio.
<< Katherina è stata vittima di una sorta di attacco psichico... >> si decise a dire infine il ragazzo, cercando di scacciare i pensieri che gli vorticavano in testa, concentrandosi sul suo lavoro. Raccontò agli altri di quanto successo nella camera dei pazienti e di come poi tutto era finito improvvisamente, anche se per precauzione poi aveva portato lo stesso la ragazza al sicuro su, nel salotto.
<< Di certo non è una cosa che può fare chiuque... >> disse Viktor rompendo il lungo silenzio che calò nuovamente nella stanza. << un mago, certo, ma quanti ne sono rimasti al giorno d’oggi?>>
<< un vampiro maggiore forse? O meglio, servono probabilmente un paio di vampiri maggiori...>>
<< un Djinn?>>
<< ...tutte ipotesi... non abbiamo praticamente indizi >> la voce profonda di Hamidi interruppe i ragionamenti. << Più che capire chi possa essere stato, la domanda che sinceramente preme di più a me è “perchè”; prima il babau, poi questo. Perché tutto proprio a Katherina? Non vi sembra la vera domanda, ora?>>
Anatolij annuì. << Lo è. Lo è perché c’è dell’altro. Una volta ripreso fiato non siamo venuti subito qui da voi. O meglio, stavamo venendo qui. Ma lungo il corridoio ho mostrato a Katherina come funziona il medaglione... e tralasciando i dettagli, all’improvviso è stata colpita da una specie di trance. È durata parecchio, almeno un minuto. No, né convulsioni né catatonia... già, anche questo è strano... e nessuna risposta agli stimoli esterni, questo è meno strano>> lo strego prese fiato e guardò la ragazza <>
<< Ricordati che sei al sicuro ora...>> tentò di dirle Viktor, sfoderando la sua espressione più rassicurante possibile.
<< Non so da che parte iniziare>> mormorò lei, poggiando le mani sul tavolo e non riuscendo a distoglierne lo sguardo.
<< Tu comincia... è questa la parte più difficile>>
Kat annuì appena, continuando a guardarsi le mani. < E così Katherina raccontò agli streghi tutto quanto le era ritornato alla memoria, dalla fuga da quello che altro non poteva essere che un lupo mannaro. Raccontò della caduta dal pendio, così ripido per una bambina di sei anni, e della voce della creatura che le diceva di arrendersi e tornare da lei con le buone. Raccontò anche dell’arrivo del suo cavaliere, lo strego della Congrega del Gatto, Gabriel, che le aveva urlato di chiudere gli occhi mentre lui uccideva il lupo mannaro con la sua spada e la sua armatura di cuoio e acciaio, per preservarla dalla violenza dello scontro e dalla vista di tutto quel sangue.
Quando finì, in quella stanza colma di libri di mostri e leggende, nessuno sapeva cosa dire. I presenti erano rimasti silenziosi, cercando di assorbire tutte le informazioni, le implicazioni e le conseguenze di tutto l’accaduto.
 
Con lentezza Viktor alzò la testa e prese la parola accarezzandosi i baffi, come se lo aiutasse a ragionare meglio. << Non hai nemmeno un ricordo di quanto è accaduto prima della fuga dal licantropo? >>
Lei fissava un punto imprecisato lungo il tavolo scuro, un punto tra quello studio e la sua infanzia. << Mi ricordo solo che la strada per andare al lago era piena di gallerie, poi mi ricordo qualcosa del lago, abbiamo dato da mangiare alle papere, ma di cose che possono essere utili nulla, mi dispiace>>
<< Le droghe degli streghi sono forti, soprattutto per una bambina. Non è colpa tua se ti hanno fatto dimenticare tutto >> le disse Hamidi in risposta alla sua espressione scoraggiata.
<< Con il senno di poi, non avrei mai voluto ricordare quel mostro. Mi fa paura anche ora che è un ricordo lontano, figuriamoci a sei anni. Penso che non avrei dormito per mesi interi, o sarei ancora in terapia…ho rivalutato la vostra procedura di cancellazione dei ricordi…>> disse la ragazza con un sorriso amaro.
Uno stormo di passeri volò davanti alle grandi finestre. Il sole invernale iniziava già a sparire dietro l’orizzonte.
<< In ogni caso dobbiamo vederci più chiaro. Penso che a questo punto sia necessario pensare al caso peggiore e considerare che anche il babau non sia stato una coincidenza, oltre che all’evento di controllo psichico accaduto poco fa, ovviamente. >>
Gli streghi annuirono, Katherina abbassò ancora di più lo sguardo, se possibile. A quell’eventualità ci aveva pensato anche lei, ma sentirla dire a voce alta le provocò comunque una stretta dolorosa allo stomaco. La mascella contratta le tremò. Anatolij la osservava, le sopracciglia aggrottate.
<< Bene >> l’anziano strego spinse indietro la sedia << direi che un buon punto di partenza sarebbe ritrovare questo Gabriel, se è ancora in circolazione. Mi metterò in contatto con Padre Rossi e vedrò di far saltare fuori qualcosa, se riuscissimo a contattarlo sarebbe oro!>> Viktor si alzò con una smorfia, massaggiandosi la schiena dolorante.
Questo sembrò mettere fine alla riunione perché si alzarono anche tutti gli altri. Tutti meno Fabio, che era rimasto seduto e si rigirava il codino con le dita, in silenzio. Apparentemente sovrappensiero domandò guardando il tavolo: << Kat, tu sei una fuori-sede, giusto? Non abiti qui a Padova, sei qui in appartamento, vero? >>
Il silenzio che scese lo costrinse a riscuotersi. Quattro teste erano scattate in direzione di Fabio, sorprese dalla domanda contorta e apparentemente fuori luogo.
Quattro paia di occhi lo guardavano talmente straniti che il ragazzo si inalberò, cercando di spiegare. << Mica lo chiedo così a caso! Per una volta sono serissimo, ne sono capace anche io, sapete? Non sempre, ma ogni tanto sì...>>
<< ...e quindi?>> lo incalzò Hamidi
<< E quindi pensavo... se Kat è qui a Padova senza i suoi genitori è più facile inventarsi delle scuse... si potrebbe dire ai suoi che è qui a studiare e alle coinquiline che è a casa, no? Perché hai delle coinquiline immagino, giusto? Beh... e invece potrebbe rimanere qui, no? Così la teniamo d’occhio. Mica la faremo tornare a casa da sola dopo tutto quello che ci siamo detti!>>
<< ...oddio, Fabio non hai mica tutti i torti. Domani arriverà una bufera di neve, state pronti!>>
Lo strego brasiliano rispose ad Hamidi con un dito medio alzato e l’espressione strafottente, poi si alzò a guardò il suo maestro. <>
<< Dico che stranamente concordo con te. Sarebbe più saggio far rimanere qui Katherina almeno un paio di giorni>> rispose reprimendo un sorriso, poi si rivolse proprio a lei, con espressione gentile. << Ovviamente solo se la diretta interessata è d’accordo. Sarebbe per la tua sicurezza>>
La ragazza rispose agli sguardi degli streghi stringendosi nelle spalle, il viso in fiamme. Non si sarebbe mai sentita più al sicuro che in quell’istituto, non finché non avesse scoperto cosa stesse perseguitando proprio lei e perché. << In effetti mi sentirei più sicura a rimanere qui con voi, se non do fastidio>>
Gli streghi le rivolsero un sorriso, tutti tranne Anatolij che, non visto, contrasse la mascella.
<< Non dirlo nemmeno, bambina mia, abbiamo tanto di quel posto in più, siamo così in pochi>> le disse l’anziano dirigendosi alla sua scrivania. Trafficò un momento nei cassetti, poi tornò nuovamente dalla ragazza e le porse qualcosa. << Puoi rimanere qui quanto vuoi, Katherina e ti prometto che risolveremo questa faccenda prima possibile. Se dovesse mettersi a vibrare avvertici subito, intesi?>>
La ragazza annuì guardando il medaglione con il lupo che roteava pigro tra le sue dita.
<< Ragazzi, accompagnate Katherina a prendere le sue cose in appartamento? Ci vai tu, Anatolij?>>
<< Sì >> annuì atono
<< Bene. Io mi metto subito al lavoro. Ci vediamo a cena >> Viktor si chiuse la porta dello studio alle spalle, lasciando gli altri fuori sul corridoio. Fabio e Hamidi accennarono un saluto, poi sparirono dietro un’altra porta.
Kat li guardò sparire, poi riabbassò lo sguardo sul medaglione. Il lupo famelico ricambiò il suo sguardo. La ragazza fece passare la catenina intorno al collo e sospirò.
<< Hai risparmiato le spese di spedizione >> le disse Anatolij attirando la sua attenzione. <>
Katherina ricambiò il suo mezzo sorriso e lo seguì lungo il corridoio in penombra.
 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - Qui sei al sicuro - pt.1 ***


Come suggerito da Viktor, dopo la riunione Anatolij accompagnò la ragazza al suo appartamento in zona Pontecorvo, in modo che recuperasse il necessario per passare un paio di giorni nella casa di cura.
Appena arrivati, lo strego spense il motore e con le sopracciglia lievemente aggrottate seguì con lo sguardo la ragazza fino a che non sparì dietro il portone del piccolo condominio. Poi la sua mente si immerse in ingarbugliati ragionamenti.
Kat si precipitò in camera, dove ficcò a forza troppe cose in una valigia troppo piccola, dopodiché passò in salotto per affrontare la coinquilina. Le inventò al volo una specie di scusa, non si sarebbe nemmeno più ricordata quale, forse la zia in ospedale, o forse uno zio. Era ancora così agitata che sarebbe bastata una domanda qualunque per farle crollare il palco, ma fortunatamente la coinquilina era così stressata per l’imminente esame di chimica generale che l’aveva ascoltata appena, levando a stento lo sguardo dai libri. Allora Kat la salutò sbrigativa, trascinò la valigia, la borsa e il borsone giù per le scale, raggiunse la monovolume nel parcheggio, si diede una manata in fronte, mollò tutto in mezzo alla strada, ritornò in fretta in appartamento, raccolse in un fagotto il pigiama e le ciabatte e ritornò nuovamente giù mentre Anatolij finiva di caricare in auto il bagaglio. Ripartirono subito dopo.
Per tutto il viaggio di ritorno la ragazza, provando a rompere quell’inquietante silenzio, tentò più volte di parlare del più e del meno, ma lo strego sembrava essersi rintanato in un freddo mutismo. Guardava fisso la strada e sbottava ogni tanto un monosillabo: Kat non sapeva sinceramente cosa pensare. Sembrava che tutto ad un tratto lui non tollerasse più la sua presenza. Non che fino a quel momento fosse stato troppo amichevole e cordiale, ma ora sembrava rasentare il limite dell’odio. Forse aveva detto qualcosa che lo aveva irritato, pensò lei a quel punto, e aveva quindi lasciato perdere ogni tentativo, mettendosi a guardare il paesaggio monotono fuori dal finestrino.
 
Il gelido buio invernale era calato già da un pezzo quando i due ritornarono nella casa di cura. Gli ampi finestroni illuminati del complesso creavano lunghe ombre sinistre lungo i vialetti di accesso, tra i profili contorti degli alberi.
Kat percorse il viale a passi veloci e a testa bassa. Non voleva vedere il mannaro nascosto dietro al cespuglio rinsecchito. Non voleva vedere il ramo scheletrico di ciliegio che voleva ghermirla e portarla via. Il freddo umido le ghiacciava le orecchie e la mano che reggeva la borsa. Per l’agitazione aveva camminato con passi ampi e veloci tanto che aveva distanziato Anatolij, che ancora perso nei propri pensieri la seguiva distrattamente. La ragazza ritornò a respirare normalmente soltanto quando ebbe messo piede negli ormai familiari corridoi del quarto piano, solo allora iniziò a sentirsi di nuovo al sicuro. Seguì lo strego che la condusse in una cameretta in fondo al corridoio. Era piuttosto piccola e spoglia: un letto, un armadio e un tavolo con una lampada da studio, non c’era praticamente altro, né un quadro né una tenda davanti alla finestra. Guardando il piccolo crocifisso appeso sopra alla porta, Kat si sentì un po’ come nel collegio dei frati dove stava la sua compagna di corso: almeno lei non avrebbe avuto l’obbligo della messa del martedì. Ma quella cameretta spoglia era al momento uno dei posti più sicuri in cui lei potesse stare, quindi non si sarebbe lamentata per nessuno motivo.
Anatolij, rimasto sulla soglia, ruppe il silenzio << Ok, allora ti lascio disfare le valigie. Ci vediamo dopo in cucina, è la…second…terza porta a sinistra appena esci. >> si era sporto con il collo fuori, lungo il corridoio.
Kat mollò di colpo il borsone semiaperto sul letto. << Le borse posso disfarle dopo. Vado subito >>
<< È presto, le pizze arriveranno… non prima di mezz’ora >>
<< Beh, allora vado ad aiutare a fare la tavola, almeno vi do una mano >>
<< Penso siano perfettamente in grado di mettere una tovaglia e un paio di forchette, tanto più che tocca a Fabio, stasera>>
<< Beh… ma lo aiuto lo stesso… >>
<< …Katherina?>>
<< Dimmi >>
<< Qui sei al sicuro. Lo sai, vero?>>
<< … >> Kat abbassò lo sguardo. Lo sapeva, ma al tempo stesso sapeva di non poter riuscire a rimanere da sola. Quello però di cui era certa, era che se lui fosse andato via ora, lei sarebbe crollata.
Lo strego guardò a lungo quel volto preoccupato: il rossore negli occhi color smeraldo, la contrazione al centro delle sopracciglia fine, i falsi sorrisi tirati, dove gli angoli della bocca tendevano però al basso. Li vedeva perfettamente, non serviva la sua vista sviluppata.
 Intuì che, nonostante la sicurezza abbozzata, le parole sboccate, senza qualcuno vicino, la ragazza sarebbe sicuramente crollata. Le sarebbe servito del tempo per accettare tutto quello strano e pericoloso mondo in cui era appena caduta di testa e per un po’ avrebbero dovuto tutti starle vicino, almeno fino a che non avesse smesso di avere così tanta paura. Se ne rendeva conto bene Anatolij, che la osservava in piedi ancora appoggiato alla porta: poco importava che lui volesse l’esatto contrario. Anche lui, che si era appena deciso di starle il più lontano possibile, avrebbe dovuto fare la sua parte. Quindi sospirò frustrato, poi si staccò dallo stipite dove era appoggiato e andò a sedersi di slancio sul bordo del letto, a fianco al borsone. Storse la bocca e decise che questa volta passava, ma che dalla prossima volta avrebbe delegato la faccenda agli altri più che poteva. Estrasse il cellulare. << Ok, ti aspetto qui >> le disse senza guardarla.
<< Scusa…>>
 
La testa di Katherina continuava a ciondolare, nonostante la luce intensa della lampada e la sedia scomoda. Stava giocando con gli altri tre streghi ad un complesso gioco da tavolo, pieno di regole e piccole pedine dalle tinte pastello. Di solito Katherina adorava quei giochi, più grosso era il manuale e più le piaceva, ma la giornata densa di preoccupazioni e di eventi si stava facendo sentire; con la testa poggiata su una mano, la ragazza tentava di seguire tutte le mosse, ma la mente era impastata e gli occhi pesanti. Non voleva addormentarsi in quella maniera, ma in qualche modo lo sperava anche. Dubitava che sarebbe riuscita a prendere sonno, una volta sola in quella camera estranea che le avevano dato.
 
Durante la cena a base di pizza, Katherina aveva cercato il più possibile di distrarsi e di alleggerire il suo stato d’animo. Gli streghi in questo sembrava le stessero dando quanto più aiuto possibile, avevano scherzato e parlato del più e del meno, e avevano sempre cercato di mantenere la ragazza all’interno della conversazione. Lei si era stupita di quanto sembrasse una normalissima cena tra parenti, tipo tra un nonno con i suoi nipoti. Le battute, gli insulti, gli argomenti di conversazione erano quelli di tutti i ragazzi della sua età e sembravano così distanti dalla storia della Congrega del Lupo, dalla Prova delle erbe, e dall’immagine di Anatolij che squartava un mostro raccapricciante in mezzo ad un vicolo viscido di sangue.
Ci furono però un paio di episodi che le fecero tornare in mente che quelli non erano per niente persone comuni. Per esempio, quando Viktor aveva afferrato al volo una posata che lei non aveva nemmeno visto cadere, oppure quando Fabio le aveva elencato i titoli dei giochi da tavolo disponibili in uno scaffale completamente al buio in fondo alla stanza.
Katherina si era ripromessa di osservare tutte quelle particolarità, mentre aiutava a sparecchiare la tavola.
 
Viktor li aveva salutati tutti ed era andato a dormire quasi subito dopo cena, non prima di aver posato una mano sulla spalla di Katherina e di averle augurato di dormire, oltre che averla rassicurata ancora una volta di essere al sicuro là con loro. Gli altri tre streghi, intuendo lo stato d’animo della ragazza, avevano all’unisono deciso di farle compagnia ancora un po’, quindi avevano tirato fuori i giochi da tavolo, scartandone alcuni troppo lunghi o altri troppo rumorosi. Avevano optato quindi per quel gioco colorato, e avevano iniziato a spiegarlo.
 
Non era trascorsa nemmeno mezz’ora che la ragazza iniziò a sentire gli effetti della giornata appena trascorsa. L’ultima cosa che vide con chiarezza fu un lancio di pedine e di improperi addosso a Hamidi – che le prese tutte al volo con una velocità impressionante, le pedine – per una certa mossa che aveva fatto e che gli altri due giocatori avevano trovato subdola e traditrice, poi Kat scivolò lentamente con la testa tra le braccia, arrendendosi al sonno. I tre ragazzi ammutolirono e rimasero un momento a guardarla, perplessi. Finalmente la ragazza aveva iniziato a rilassarsi un po’, pensarono più o meno tutti loro. Poi si guardarono a vicenda con espressione di sfida e con un tacito accordo proseguirono a giocare in religioso silenzio: mai avrebbero fatto vincere Hamidi a tavolino!
 
 
 
*-*-*-*-*-*
Cooooos’avrà vvoluto dire Anatolij con quel suo “esatto contrario”?!?!?
Suspence eh?!?
Lo spero…perché effettivamente è l’unica cosa che avviene in questo capitolo… mezzo capitolo… XD però ogni tanto servono dei capitoli che facciano un po’ da collante, purtroppo…
Beh… in ogni caso se siete giunti fin qui fatemi sapere che ne pensate!!!
Ciauuu!!

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Capitolo 9
*** Capitolo 6 - Qui sei al sicuro - pt.2 ***


Katherina si svegliò di soprassalto e si sedette sul letto con uno slancio. Aveva il respiro mozzato, la bocca spalancata alla ricerca di ossigeno che non arrivava ai polmoni. Nelle orecchie il sordo martellare del suo cuore. Si portò le ginocchia al petto e si raggomitolò su sé stessa, cercando di calmarsi, cercando di riscaldare il gelo che aveva nel petto. I muscoli faticavano a risponderle, preda dei tremori.
Le sembrava ancora di sentire la pioggia che le bagnava il volto, e quei neri abissi infetti che la osservavano. Le sembrava ancora di sentire la bava tiepida del lupo mannaro sulle braccia. Si raggomitolò ancora di più in sé stessa, affondando le unghie nella pelle.
Nel suo incubo, babau e lupo mannaro erano diventati un tutt’uno indistinto, ma che incuteva il terrore sommato di entrambi.
 
Ci volle qualcosa che le sembrò un’eternità, ma finalmente riuscì a recuperare un respiro regolare e, alzando cauta la testa, si accorse che la stanza in cui si trovava non era completamente al buio poiché una tenue luce lunare riusciva a filtrare dalle imposte semi aperte. Scoprì di essere nella camera che le avevano lasciato gli streghi, la sua valigia era addossata all’armadio, dove l’aveva lasciata ore prima. Si rese conto di non essere arrivata lì con le sue gambe e un lieve calore le riscaldò le guance. Involontariamente le si formò nella mente l’immagine di Anatolij che la portava in braccio e la metteva a dormire, ma si diede subito della cretina, cercando di scacciare quella fantasia dalla mente. Scrollò la testa nell’oscurità.  
C’erano altre mille possibilità più realistiche di quella, a ragionarci: era più fattibile fosse stata un’infermiera, oppure Fabio che aveva approfittato per palparle il sedere, oppure magari Viktor... che però aveva mal di schiena... però era più credibile il vecchio strego che la portava con una carriola invece di Anatolij... lui l’aveva trattata in modo talmente gelido, quel pomeriggio…
Si riscosse di colpo cercando di fermare la sua mente insolitamente creativa e guardandosi intorno trovò il cellulare posato sul comodino. Controllò l’ora: erano appena le tre. Katherina prese un profondo sospiro e scostò la coperta: di rimettersi a dormire, in quello stato e in quella stanza estranea non se ne parlava, così prese il cellulare e usò la luce del flash per uscire nel corridoio. Le sembrava di aver intravisto una specie di salotto nel pomeriggio e sperò di poterlo ritrovare, sperò che ci fosse una TV e sperò anche che dessero uno di quei bei programmi noiosi che potessero farle da anestetico: un bel documentario sull’oceano sarebbe stato il top, ma nella condizione attuale si sarebbe fatta andar bene anche un dibattito politico.
 
Non era possibile. Settanta canali e non c’era niente di niente. Il vuoto cosmico. Aveva già fatto quasi il terzo giro completo. Già durante il giorno si faticava a trovare qualcosa di passabile, ma alle tre di notte era praticamente una battaglia persa in partenza.
Katherina stava ragionando se ritornare indietro fino alla replica di Law and Order quando un rumore proveniente dal corridoio le fece balzare il cuore in gola. Sembrava fosse una porta che si chiudeva, la ragazza quasi si slogò le orecchie per captare qualcos’altro.
«Toc toc...» sussurrò debolmente una voce, poi dalla porta spuntò lentamente una testa. Era Fabio. «Ti ho spaventato?» disse, ma era più una domanda retorica, data l’espressione atterrita che si ritrovò davanti. «Scusa… Ho pensato che potessi avere freddo, qui in sala. Di notte spengono il riscaldamento in quasi tutto lo stabile.»
Era scalzo e indossava un pigiama di pile a righine orizzontali. Nonostante si fosse palesato nel modo più delicato possibile, era innegabile che Kat si fosse spaventata lo stesso. Aveva ancora in testa l’immagine del lupo mannaro e faticava a scacciarla. «Sì, in effetti ho preso un colpo, ma non è per te...figurati...» abbozzò un sorriso tirato che doveva essere rassicurante. «Ti ho svegliato? Ho la TV troppo alta?»
«No, no, tranquilla. Anche io mi sveglio spesso durante la notte. Ho immaginato che potevi essere tu, quindi ho pensato di portarti una bella coperta!». Le porse il fagotto e Katherina lo accettò traboccante di gioia, dato che effettivamente aveva mani e piedi già mezzi gelati.
«Sono un cavaliere, eh?» si vantò Fabio quasi gongolando.
Kat annuì mentre scompariva nella coperta. In effetti era stato gentile. Dopo il loro primo incontro disastroso e la figuraccia che le aveva fatto fare lo aveva bollato malamente come invadente e petulante, però forse poteva dargli un’altra chance. Con questo gesto aveva sicuramente guadagnato una seconda valutazione!
«Non riesci a dormire?» le chiese lui distogliendola dalle sue classifiche, l’espressione ritornata seria.
«...no» ammise Kat. «Ho sognato una specie di mix tra babau e lupo mannaro che mi inseguiva. Tremendo...»
«Beh, allora se sono un cavaliere non posso esimermi dal rimanere un po’ qui a farti compagnia! Sempre che tu mi voglia... Posso sedermi?» era ritornato nuovamente allegro, sembrava sempre allegro. Le fece l’occhiolino alla luce bluetta del televisore.
«In effetti non mi va moltissimo di rimanere da sola. Ti avverto però che non c’è un cavolo di niente in TV...»
«Come no???» Fabio si lanciò sul divano «Metti sul 43, di solito a quest’ora fanno una replica di un programma di viaggi... eh, lo so perché anche io vengo qui spesso, di notte...visto? Eccolo! Ah, però sta quasi per finire...» le disse lui con lo stesso slancio, e da quel momento sembrò un fiume in piena di parole. Non la smise un secondo di commentare i programmi, di raccontarle i fatti suoi o semplicemente dare aria alla bocca, e quando Kat girò su un canale in cui trasmettevano una telenovela portoghese sui mezzadri del Novecento si esibì addirittura in una imitazione in lingua dei personaggi. Kat non sarebbe riuscita a trattenere le risate neanche volendo.
Era talmente coinvolgente che Katherina si ritrovò ben presto a non pensare più al suo incubo e alle sue paure, ed era quello a cui il ragazzo puntava: immaginava che lei avesse bisogno di distrarsi e aveva deciso di unire l’utile al dilettevole facendo quello che gli piaceva di più: dare aria alla bocca. Rispose anche volentieri a tutte le domande che la ragazza gli poneva in merito alla sua specie di famiglia e in meno di dieci minuti Fabio si era conquistato il telecomando e un pezzo di coperta.
Ormai, così stravaccato, occupava quasi metà del divano, per quanto la ragazza cercasse di raggomitolarsi continuava a sfiorarlo con i piedi. Non era abituata a questa confidenza, anche se a quanto parere lui era di tutt’altro avviso. Quasi senza preavviso, infatti, lo strego le prese i piedi avvolti nella coperta e se li mise sulle gambe. Katherina, colta alla sprovvista, lo fissò interdetta, ma Fabio si giustificò: «Non ci stavi… Così stiamo comodi entrambi, no?». La guardava con un’espressione talmente ingenua e sincera, che la ragazza concluse che realmente avesse agito per praticità e che non avesse secondi fini. Dal momento che sembrava non ci fosse nulla di male, quindi, lasciò là i piedi e non disse nulla.
Lo osservava, alla luce cangiante della tivù: stava lì, spaparanzato sul divano con un’espressione di totale relax e spensieratezza, l’occhio felino quasi socchiuso. Eppure da quello che le aveva detto, anche lui spesso faticava a dormire ed era costretto a fare come lei, a venire in salotto a farsi distrarre dalla TV. In quel momento, invece, sembrava che niente potesse scalfire la sua tranquillità e, per quanto Kat lo ritenesse impossibile, piano piano finì per trasmetterne un po’ anche a lei. Il mormorio della TV a basso volume e le chiacchere del ragazzo ben presto sortirono l’effetto sperato e finalmente Katherina iniziò a sentire la testa leggera e le palpebre che si chiudevano come quelle delle bambole. Vide Fabio girarsi verso di lei e mormorarle qualcosa: «Ti proteggiamo noi, dal lupo mannaro, dal babau, da tutto quanto. Non devi avere paura…gli incubi… non possono farti nessun male…» sembrava essersi un po’ impappinato, ma la sua voce era un sussurro gentile e comprensivo. Katherina annuì quasi senza rendersene conto, poi abbandonò la testa sul poggiolo imbottito del divano.
 
Fabio rimase a guardarla in silenzio. Li ricordava, gli incubi. E li odiava.
Quando era stato accolto in quella famiglia anche a lui avevano detto le stesse parole: “non avere paura degli incubi, non possono farti male”. Ma quelle parole pronunciate da perfetti estranei raramente servivano a qualcosa. Per mesi interi si era svegliato nel cuore della notte gridando, zuppo di sudore e lacrime. Nelle narici aveva l’odore della sporcizia, del sangue e di quegli uomini, sulla pelle sentiva ancora il dolore delle bastonate e il bruciore dei legacci, e quelle mani che lo stringevano e lo toccavano. Allora urlava per coprire i ricordi e picchiava la testa sul pavimento per scacciare le immagini, finché non giungeva uno degli streghi più grandi, fino a uno di questi non abbracciava il suo corpicino debole e malnutrito. Uno strego addestrato, possente, con le cicatrici sul corpo e i calli sulle mani che coccolava e calmava un bimbetto gracile e appena arrivato e che cercava di accarezzargli la testa con movimenti impacciati, riempiendosi i vestiti di moccio e di lacrime.
Quello era servito contro gli incubi, certamente più delle vuote parole.
 
Delicatamente, Fabio si alzò, spostandole le gambe.
Sì, decisamente odiava gli incubi.
Le coprì i piedi che erano usciti dalla coperta e le mise un cuscino dietro la testa, lentamente, come avevano fatto a lui per tanto tempo molti anni addietro.
Li odiava perché dopo così tanti anni, nonostante fosse anche lui diventato forte e addestrato, nonostante i calli sulle sue mani, accadeva che gli incubi tornassero a tormentarlo, improvvisi, traditori, per ricordargli quanto fosse ancora impotente contro di loro.
Con un sospiro Fabio spense la TV. Il buio in cui piombò la stanza non era un problema, ci vedeva perfettamente. Gli bastava l’occhio sinistro, quello che non tornava mai all’aspetto normale.
Senza produrre alcun suono uscì dalla stanza.
 
 
**************
Salveeee! Per il ciclo "a volte ritornano" ecco finalmente la parte 2, purtroppo non riesco in nessun modo ad essere costante... nonostante ogni volta mi dica di riuscire a prendere il via... abbiate pazienza...

In più questo mezzo capitolo ho finito per riscriverla tipo 3 volte perchè mi sembrava mancasse sempre qualcosa... che ve ne pare? Piaciuto il semi POV di Fabio? perchè non è che esiste sono Anatolij, no? e i lievi accenni alla sua brutta infanzia?? Pian pianino cercherò di infilare altri ricordi o dettagli di ciascun personaggio...
in ogni caso fatemi sapere cosa ne pensate su su, magari mi velocizzo!!! basta anche un "bah" o un "carino..."
e nel frattempo ho sistemato i dialoghi che perdevo sempre pezzi per strada... ho ricevuto una dritta e spero di aver sistemato!!!
ciauuuuu!!!

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Capitolo 10
*** Capitolo 7 - Via delle Paludi ***


Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, a quell’ora tarda, non avrebbe visto molto più che una stradina malamente asfaltata, stretta contorta e piena di buche, che si perdeva tra campi, vigneti e poche e sporadiche case. Guardando meglio, forse avrebbe visto una giovane lepre che zampettando piluccava i ciuffi d’erba vicino al fosso sul lato destro della strada. Sceglieva indisturbata solo le ciocche più fresche e gonfie di rugiada.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
Marco stava tornando a casa a bordo della sua utilitaria con troppi anni e troppi chilometri, i fari abbaglianti accesi.
Al passaggio dell’auto, la luce bucava il denso strato di nebbiolina che si levava ai lati della strada, dall’erba e dai fossi e che galleggiava a mezzo metro dal suolo.
Marco tornava nella casa che condivideva con la sua compagna dopo la partita settimanale di calcetto. Aveva trentadue anni e conviveva da quasi cinque anni, e una volta alla settimana, salvo imprevisti dell’ultimo minuto, si trovava con i vecchi amici del paese a giocare a calcetto e a bere una birra.
Questa volta avevano perso, le avevano prese piuttosto malamente e lui personalmente aveva un ginocchio gonfio. Era quindi abbacchiato.
E per radio non facevano niente di decente.
 
La strada che stava percorrendo era il modo più veloce per arrivare a casa dal campo sportivo dove si trovava con i suoi amici. Questo, salvo che non ci fossero altri veicoli, perché Via delle Paludi era talmente stretta da essere percorribile solo da un’auto e mezza alla volta. Uno stretto fosso la seguiva sulla destra e alberi e cespugli la incorniciavano da entrambi i lati, rendendo difficile la visuale dietro le numerose curve.
Marco si massaggiò il ginocchio sinistro storcendo la bocca e represse uno sbadiglio. Gli serviva della bella musica per rimanere sveglio o non sarebbe arrivato vivo alla fine della via.
Purtroppo, la radio non sarebbe bastata.
 
Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, all’una meno un quarto di notte, non avrebbe visto molto più che una stradina malamente asfaltata, stretta contorta e piena di buche, che si perdeva tra campi, vigneti e poche e sporadiche case. Guardando meglio, forse avrebbe visto una giovane lepre che zampettando piluccava i ciuffi d’erba vicino al fosso sul lato destro della stradina. E avrebbe visto passare un’auto scura a velocità moderata. I fari che squarciavano l’oscurità.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
Marco provò per l’ennesima volta a cambiare canale radio, gettando occhiate distratte verso i nomi delle emittenti, che si alternavano rapidamente. Mentre trafficava con i tasti, una buca gli fece premere il bottone sbagliato, e la radio cominciò a produrre solo fastidiose interferenze. L’uomo sbuffando si concentrò sull’apparecchio per sistemare il danno.
Quando rialzò lo sguardo vide una bambina sul ciglio della strada e quella visione così inaspettata nel cuore della notte gli gelò il sangue.
C’era una bambina con corti capelli neri e una camicia da notte bianca al lato della strada. I piedini scalzi affondati nella nebbia.
L’uomo non fece in tempo a frenare. Fece invece l’errore di deglutire e di sbattere le palpebre per vedere meglio.
C’era una bambina con corti capelli neri e una lacera camicia da notte in ginocchio, sul cofano della sua auto. Le manine dalle unghie spaccate sul vetro del parabrezza. La pelle grigiastra e rigonfia, gli occhi vitrei e annacquati dello stesso colore, piantati nei suoi. E degli occhi molto più grandi dietro di lei, rossi come braci, che lo fissavano anch’essi, gonfi di malignità.
 
Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, a quell’ora tarda, avrebbe visto una auto scura con gli abbaglianti accesi perdere il controllo, uscire dalla stradina malamente asfaltata, stretta contorta e piena di buche, e schiantarsi con un botto tremendo su un salice piangente a lato della strada. Avrebbe poi visto una giovane lepre spaventata a morte saettare con grandi balzi e sparire nel fitto dei campi coltivati a soia.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
In una delle rare case lì vicino, a causa del forte schianto, si accese una luce.
 
 
****
Salve!
Che ve ne pare di questo petit capitolo?? Vi confesso che questo è l’esatta scena che ha fatto nascere questa storia un sacco di anni fa! Frutto di una svarionata notturna in mezzo alle stradine vicino a casa mia!! XD (no, non ho visto un mostro e non ero ubriaca... ho visto un movimento a bordo strada, forse una lepre...)
… il mio cervellino e la saga di The Witcher hanno fatto il resto!!!
Nel prossimo capitolo ci sarà un po’ di allenamento da strego... ancora un po’ di collante prima che arrivi la big trama!
Fatemi sapere se ancora mi state seguendo nonostante le lunghe pause pliiiis (così se mi gaso magari mi velocizzo ^__- )
Ciauuu!!!

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Capitolo 11
*** Capitolo 8 - Una cosa da strego - pt.1 ***


Un fastidiosissimo fascio di luce si infiltrò tra le tende non del tutto tirate della finestra e si conficcò, nella più totale indifferenza, nell’occhio destro di Katherina. La ragazza, dopo aver tentato invano di creare una muraglia impenetrabile strattonando la coperta – e riuscendo solo nell’intento di far uscire i piedi dall’altro lato – dovette dichiarare la resa e aprire gli occhi. Si trovava ancora nell’ampio salotto, nessuno l’aveva riportata in camera questa volta, si rese conto, ma stiracchiandosi, notò con la punta delle dita di avere un cuscino infilato dietro la testa e si lasciò sfuggire un sorriso. Fabio aveva conquistato un’altra vagonata di punti.
Il cellulare abbandonato sul tavolino la informò che erano le otto del mattino, perciò rimase per un po’ ad assaporare il tepore della coperta e la tranquillità. Ne aveva ancora bisogno.
Dopo essere rimasta per un tempo indefinito nel sano e rinvigorente ozio, la ragazza si alzò, andò a sciacquarsi la faccia nel piccolo bagno in fondo al corridoio, poi gironzolò verso la cucina. Il corridoio era immerso nel silenzio: per essere la casa di quattro maschi, si disse, sembrava decisamente troppo calma. Forse erano usciti.
Dalle finestre filtrava la luce tenue di una bella giornata invernale, di quelle in cui il sole riscalda tutto ciò che bacia, mentre nelle zone d’ombra rimangono i barlumi della brina che non riesce a sciogliersi.
Arrivata in cucina, Kat non trovò nessuno degli streghi, trovò però un post-it giallo fosforescente piantato in mezzo alla tavola che sembrava decisamente sospetto: “ALLA PUPA! Prendi quello che vuoi, il caffè è nel bricco. Le tazze sopra il lavello. Non prendere quella di Brontolo! ;- )”
Incuriosita, Kat aprì l’anta e trovò la tazza incriminata. Si trattava del nano sempre scocciato della Disney, che la guardava torvo e con le braccia incrociate; diversamente dal solito però, portava con disinvoltura un paio di folti baffoni grigi molto familiari e che sicuramente non erano previsti nel cartone animato. Sghignazzando, la ragazza rimise a posto la tazza e optò per quella con il Millennium Falcon. Decise di scaldarsi tutto il caffè che trovò nel bricco – aveva decisamente bisogno di carburante – ma quando provò ad accendere il fornello non successe nulla. Raccolse tutte le sue energie mattutine, per sua sfortuna molto scarse, e si mise ad armeggiare con la manopola.
«L’accenditore non funziona, usa l’accendino alla tua destra. Ecco. Eh, purtroppo qui è tutto un po’ datato, devi avere pazienza»
Kat lasciò il fornello che riscaldava il caffè e si girò verso Viktor, che era apparso silenziosamente alla porta e le sorrideva tranquillo. «Buongiorno, mia cara. Sei riuscita a dormire un po’ su quel vecchio divanaccio?» le chiese, avvicinandosi al frigo e versandosi dell’acqua in un bicchiere.
«Buongiorno. Abbastanza, sì. Pensavo di non riuscirci per niente...» decise di glissare sulla parte che comprendeva Fabio, nonostante Kat avesse la sensazione che il vecchio strego sapesse anche quello.
Viktor sorseggiò con calma la sua acqua fino a che i suoi occhi non caddero sul piccolo rettangolino di carta fosforescente in centro al tavolo. «Oh, Brontolo!» ridacchiò tra i folti baffoni grigi «Allora... hai potuto ammirare la tazza che mi hanno regalato? L’hanno fatta fare apposta in una stamperia in centro, sai? Un progetto segreto e premeditato contro la mia persona!» le diceva fingendo a stento un’espressione offesa, mentre gli occhi non smettevano di sorridere orgogliosi «Hanno usato il computer per farla!» Mentre l’anziano strego rituffava i folti baffi nel bicchiere con quello sguardo divertito, Kat non riuscì a non ridere insieme a lui.
«È come se fossero figli miei, sai? Dispettosi e confusionari, come penso siano quasi tutti i figli normali.» Viktor posò il bicchiere nel lavello mentre Kat finiva di aggiungere il latte al suo litro di caffè. «Se scoprissero che la nostra base è qui, come minimo dovremmo trasferirci in un altro luogo e i trasferimenti vengono decisi dall’alto, dove se ne infischiano del fatto che siamo stati una specie di famiglia per più di dieci anni, non è detto che ti tengano tutti e quattro uniti...»
«Viktor» Katherina lo interruppe, cercando di mettere nel suo sguardo quanta più fermezza possibile, nonostante la faccia ancora impiastricciata dal sonno. «Mi avete salvato la vita, ora mi ospitate in casa vostra per proteggermi. Non potrei mai tradire la vostra fiducia. Ti prego di credermi»
«Ti credo» l’anziano strego la guardò ancora un momento con un’espressione indecifrabile, poi sembrò riscuotersi, le augurò una buona giornata e fece per uscite. «Ah Katherina, scusa se ti interrompo di nuovo.» aggiunse voltandosi «Pensavo, se non sai cosa fare questa mattina forse potresti andare giù in palestra con gli altri, sai...  io sono dell’idea che un po’ di attività fisica faccia bene anche allo spirito... forse è solo un’abitudine da strego, però...»
«Oh, beh, tanto vale fare un tentativo!»
 
Kat girò l’angolo orientale dell’imponente casa di cura e si ritrovò davanti una palestra dall’aria normalissima, come poteva esserlo una qualsiasi palestra di scuola media. Incrociò le braccia per proteggersi dal freddo mentre piccole nuvolette bianche si formavano davanti alla sua bocca.
Aveva indossato una semplice tuta nera, costituita da paio di pantaloncini attillati che le arrivavano al polpaccio e una felpa con la zip, sotto aveva una maglietta a maniche corte. L'abbigliamento le metteva in risalto la figura magra. Non si poteva dire che fosse proprio ossuta, ma non aveva nemmeno un fisico atletico: guardandosi allo specchio, di solito, si diceva di sentirsi come un paletto, senza tette né culo.
Era una fortuna che avesse portato tutto il necessario: quando aveva preparato al volo la valigia il giorno prima, una vocina le aveva suggerito di buttarci dentro anche un paio di tute da ginnastica, che le sarebbero potute servire nel posto dove stava andando. La ringraziò mentalmente: dato che non era per niente una persona sportiva, senza quel consiglio sicuramente le avrebbe lasciate in fondo all’armadio dove si trovavano da tempi immemori. Poi si diede della pazza, avendo appena ringraziato una sua vocina nel cervello, sospirò e si legò i lunghi capelli con un elastico che aveva al polso.
 
Il piccolo edificio, utilizzato una volta per la riabilitazione e la mobilità dei pazienti dell’istituto, era rimasto abbandonato quando la Casa di Cura San Giorgio, vincendo un qualche tipo di concorso regionale, aveva utilizzato i fondi per costruire una palestra più moderna e all’avanguardia nel lato ovest della struttura principale. Per un tacito accordo, l’edificio più vecchio era diventato ad uso esclusivo della Congrega.
L'esterno della palestra non aveva praticamente nulla di strano, perfino l’intonaco scrostato poteva rientrare perfettamente nello standard degli edifici scolastici. Quando però Katherina varcò la soglia, senza volerlo si ritrovò a sospirare.
Mentre percorreva lo stretto viale gelato che portava alla palestra, la ragazza aveva immaginato un’infinità di scenari possibili circa il luogo in cui si stava dirigendo: aveva ipotizzato ci potessero essere congegni medievali, montagne di bilancieri dalle dimensioni più disparate, rastrelliere piene di armi e complicate attrezzature da palestra. Immaginò addirittura un ring e una parete da scalata: più o meno tutto in quest’ordine.
Quando spinse la porta, si ritrovò davanti semplicemente a tutto quello che aveva immaginato, mescolato insieme in modo confusionario e anacronistico. Eccetto la parete da scalata.
 
La palestra era immersa nella penombra. L'illuminazione non era stata accesa e il basso sole invernale filtrava a malapena dalle strette vetrate impolverate: Kat immaginò però che agli streghi, quella luce potesse essere più che sufficiente.
Strizzando gli occhi, la ragazza passò lo sguardo lungo il bordocampo, trovandolo ingombro di una quantità spropositata di macchinari e attrezzature. Tutto era accostato insieme in maniera disordinata, vecchio e nuovo, funzionante e distrutto. Ad uno degli angoli, c'erano effettivamente un numero spropositato di bilancieri appesi ad alcuni sostegni, che andavano dal mezzo chilo a dimensioni che Kat faticava a concepire.
Subito accanto, sembrava ci fosse il cimitero degli attrezzi distrutti; Katherina lo ipotizzò notando lo spesso strato di polvere che li ricopriva e il loro pendere in modo asimmetrico. Più a sinistra vide cesti di palloni e palle mediche di varie dimensioni, poi persino alcune balestre appese ad una rastrelliera e un sostegno pieno di spade di legno; Kat avrebbe continuato ad osservare il resto della palestra, se il suo sguardo non fosse stato catturato da tre paia di occhi gialli, che la fissavano incuriositi.
«Ehm... buongiorno! Viktor mi ha suggerito di fare un salto qui, se non avevo altro da fare...»
I tre streghi, che stavano correndo intorno al campo, le si avvicinarono ansanti. Anatolij era quello più in disparte, notò la ragazza.
«Viktor ti ha mandata qui ad allenarti, quindi?»
«Non ha proprio detto che mi devo allenare... cioè... ha detto tipo che un po’ di fatica fisica avrebbe fatto bene al mio spirito. Ha detto anche che è “una cosa da strego”, ma penso che in effetti non mi farebbe male...»
«Beh, allora unisciti pure a noi, stiamo finendo il riscaldamento. Ci mancano...» Hamidi controllò l’orologio «...circa dieci minuti di corsa. Ma tu fai quello che riesci, sai?»



*-*-*-*-*-*-*
Beh…intanto ringrazio chi mi ha commentato in precedenza dicendomi delle virgolette « invece che << per non far saltare i dialoghi… ho sistemato tutto nel mio fidato file word…ora darò una sistemata ai capitoli precedenti appena mi viene l'ispirazione (purtroppo con il preview di epf facevo fatica a controllare tutto e non me ne ero mai accorta…domando scusa…)
Siamo ancora ai capitoli collante, l'ho anche modificato rispetto alla prima versione dividendo gli avvenimenti in due giornate distinte... no, non volevo allungare il brodo eh?! non l'ho fatto per quello: sono dell'idea di dare un po' di realismo a quanta sfiga può accadere in sole 10 ore in una giornata normale! XD Visto che non è un film ma una fic senza limiti di capitoli far esplodere tutti gli avvenimenti uno dietro l'altro mi sembra irrealistico... boh capitemi pliiiis... vi pregoooo... * Giako scappa verso il tramonto in maniera drammatica*

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Capitolo 12
*** Capitolo 8 - Una cosa da strego - pt.2 ***


“Che faccio quello che riesco possono stare tutti tranquillissimi, loro e quel loro fastidiosissimo fisico da streghi! …che è l’unica cosa positiva di continuare a farmi doppiare, vedere i loro prestanti lati B! Mamma mia che culi!”. Katherina rallentò l’andatura, ansimando. Non si era aspettata nemmeno per un istante di poter competere con loro: lei non era per nulla un’atleta e in più aveva anche una mezza idea di quanto potessero essere sovrumani. Mezza idea però, che si frantumò contro la realtà dopo nemmeno trenta secondi. Vederli correre in quel momento, in quel modo… la ragazza si chiese se non stesse avendo un’allucinazione: correvano con la velocità dei centometristi una lunghezza da mezza maratona e avevano iniziato a doppiarla che lei non aveva percorso neanche un giro completo. Li vedeva quasi non toccare terra, leggeri e senza sforzo, tanto che le ritornò in mente un film sui vampiri, dove avevano fatto camminare gli attori sui tapis-roulant per mimare la loro super velocità. Manco a dirlo, a Fabio avanzava anche di chiacchierare!
“È chiaro che non spiffererò a nessuno dell’esistenza degli streghi” si disse Katherina mentre finiva la corsa, già esausta, “se solo ci provassi probabilmente mi farebbero internare all’instante!”
Dopo, fu la volta di saltare i gradoni degli spalti. La ragazza aveva odiato quell’esercizio già fin dall’infanzia, da quegli unici tre mesi di pallavolo che aveva fatto. Si sentì tremendamente goffa mentre finiva la prima salita e mentre gli streghi iniziavano la seconda: fortuna che fare esercizio doveva tirarle su il morale!
Terminato il riscaldamento, stava ancora ansimando seduta sui gradoni quando le si avvicinò Hamidi. Le allungò un bastone di legno. «Noi ora volevamo fare un po’ di allenamento con la spada. Che dici, ti va di provare?»
«Non voglio farvi perdere tempo. Non ho la minima idea di come si faccia…»
«Tranquilla. Di solito facciamo un po’ di allenamento in coppia, mentre il terzo rimane a cazzegg… cioè, girarsi i pollici. Ti insegno un po’ di parate base, se ti va!»
«Ah beh… se non ti va di cazzeggiare allora ok, sì!» gli rispose la ragazza ridendo.
 
Tock!
«Ok, bene. Ora parata di terza. Inclina un po’ di più la spada, così.  Adesso quarta. Tieni più indietro il piede sinistro, più stai defilata, meno possono colpirti. Perfetto!»
Tack!
«Bella! E ora… proviamo questa. Sì, quasi! Tieni un po’ più alta la spada però, altrimenti ti colpisco lo stesso. Molto meglio! Bene, ora vediamo se riesci anche senza che ti dica cosa fare. Bene, ok. Ricordati il piede sinistro, perfetto!»
Tock! Tack!
 
Hamidi era sorpreso della capacità di apprendimento di Katherina.  Aveva iniziato con la teoria della spada, elencandole le parate classiche e mostrandole contro quali tipi di attacchi servivano. Poi era passato a simulare i vari attacchi, chiedendole a voce di usare la giusta parata. Katherina non solo aveva memorizzato quasi alla perfezione ciascuna postura, ma stava dimostrando di capire la logica dietro ad ogni movimento. Certo, all’inizio aveva invertito un paio di volte la rotazione del braccio o si era dimenticata indietro un piede, ma più andavano avanti e meno commetteva errori.
L’enorme strego iniziò quindi ad aumentare il ritmo, e ad esasperare sempre meno i suoi attacchi, per renderli meno ovvi. Rimase positivamente sorpreso quando, dopo un lieve tentennamento iniziale, Kat capì l’antifona e si adeguò a quel cambio di andatura. Sembrava anche che si stesse divertendo.
Era veramente una buona allieva, si disse Hamidi, peccato che mancava completamente di forza e aveva pochissima resistenza. La ragazza ansimava già da parecchio e non stavano facendo quasi nessuna fatica.
Lo strego decise quindi di terminare l’allenamento e ne approfittò per tentare un ultimo esperimento. Fece un passo indietro, prendendo lo slancio.
«E se cercassi di colpirti così?» le chiese caricando esageratamente il braccio dietro la testa. Calò la sua spada di legno con forza. Il cozzare delle due armi fu così violento che Katherina sentì il braccio vibrare. Lasciò cadere la sua spada con una smorfia.
«Se un colosso del genere ti si lancia addosso così lo devi schivare! Se tenti di parare finisci solo per spezzarti le braccia!» le disse Fabio, avvicinandosi. «Fidati, lo dico per esperienza. Hamidi poi ha solo fatto finta di metterci forza, sai?»
Kat si massaggiava il polso dolorante: «Ah, “solo finta”… ovvio…»
«Scusa, dovevo metterci meno forza… Ti ho fatto tanto male?»
«Tranquillo, sta già passando. Cavolo, ero talmente concentrata sulle parate che non ho nemmeno pensato di schivarlo… ma invece voi due? Non vi stavate allenando?»
Fabio la guardava divertito. «Certo, solo che siamo rimasti incantati dalla tua bravura! Vero, Nat? Diglielo che è brava! Impari in fretta! Hai visto anche tu, nonno?»
Viktor annuì col capo, in piedi vicino alla linea di bordocampo. La ragazza non l’aveva visto entrare. «Sei veramente molto brava, ragazza mia. Purtroppo però, sono venuto qui per un altro motivo. Ha chiamato Padre Rossi. C’è un caso sospetto. Sembra un incidente d’auto, però ci sono alcuni elementi che non quadrano. Pensano valga la pena di controllare.»
«Elementi che non ti avrà esposto, immagino…»
«No, Anatolij. Purtroppo sai anche tu com’è fatto… ad ogni modo è a circa un’ora da qui. A chi tocca questa volta?»
«Vado io»
Katherina non si girò come gli altri due streghi in direzione di Anatolij. Intercettò però lo sguardo perplesso che gli rivolse il ragazzo africano. Guardando le sue sopracciglia puntate verso l’alto, non serviva far parte della Congrega per capire che offrirsi volontari non era una cosa che accadeva spesso. Guardando il suo stupore, identico a quello di Fabio, si capiva perfettamente che di solito quei tre facevano a gara per non uscire. Solo allora si girò verso Nat; guardava il suo mentore con la ormai classica espressione neutra e sembrava ignorasse volutamente le occhiate dei suoi compagni.
Sembrava un pensiero troppo stupido, che si fosse offerto volontario solo per avere una scusa per allontanarsi da Arkham, un motivo valido per levarsi di torno Katherina. Sembrava così stupido, che ormai era l’unico pensiero che vorticava nella testa della ragazza, e più cercava di ignorarlo, più quello le aderiva al cervello e le faceva salire il nervoso. Iniziò a giocherellare con la spada di legno per avere qualcosa da fare.
Lo strego anziano sembrò indifferente a quella stranezza. «Va bene. Il parroco ti aspetta per l’una, se ce la fai. Appena sali ti do l’indirizzo e i contatti come al solito. Beh, rimarrei volentieri qui a ciondolare con voi, ma ho delle telefonate da fare per la questione Gabriel. Vado. A dopo»
 
Katherina non aveva più voglia di allenarsi e si sedette sui gradoni. Osservò di sottecchi Anatolij, stava rimettendo a posto la sua attrezzatura. Mordicchiandosi un’unghia continuava a crogiolarsi nel pensiero che la sua presenza lo infastidisse e si arrovellava per cercare cosa poteva aver combinato di tanto grave per meritarsi tale trattamento. Poteva aver detto qualcosa di offensivo verso gli streghi? Forse senza volerlo, non conosceva così bene la loro professione... però a quel punto dovevano essere tutti offesi con lei, no?
Ma più di tutto, nei giorni precedenti le era sembrato che le dimostrasse un certo interesse, poi di punto in bianco invece sembrava non riuscisse più a tollerare la sua presenza. Almeno che fosse coerente, no?
Si mangiucchiava le unghie, infastidita e lo beccò a guardarla mentre usciva dal ripostiglio. L’espressione corrucciata che gli si formò sul viso sembrava confermare in pieno la sua teoria. “Se ho fatto qualcosa di così tremendo, non sarebbe meglio dirmelo in faccia, invece di fulminarmi con gli occhi?! Madonna…”
Katherina, con le mani che le prudevano, puntò lo sguardo sugli altri due streghi, concentrata: non voleva rischiare di guardarlo nuovamente.
Gli oggetti della sua attenzione, completamente ignari della guerra psicologica in corso, si preparavano ad un combattimento. Salutarono con un cenno Anatolij che se ne andava, poi si misero in posizione. Si lanciarono uno contro l’altro all’unisono, combattendo ad una velocità e con una grazia impossibili. Attaccavano, schivavano, paravano. I loro corpi roteavano in un unico movimento fluido. La ragazza assisteva allo scontro deprimendosi e arrabbiandosi ancora di più: le avevano appena detto che era stata molto brava, ma ora si sentiva come un cagnolino che aveva dato la zampa per la prima volta. Il nervoso continuava a salirle in modo esponenziale. E poi c’era sempre quello stronzo dell’altro strego…
 
“Eddai adesso basta Katherina, eccheccazzo!”
Non era mica una ragazzina delle medie e soprattutto lo conosceva da neanche due settimane… doveva smetterla di comportarsi da tredicenne in piena pubertà, e sicuramente doveva far sbollire quel nervoso. Avere il sangue alla testa a quel modo per una stupida infatuazione momentanea le sembrava del tutto ridicolo. Probabilmente era colpa anche della situazione assurda in cui era finita, si disse. Sicuramente. L’ansia per quello che le stava capitando si era condensata in quella rabbia insensata. Le mani le tremavano e aveva anche una specie di calore alla bocca dello stomaco. Doveva assolutamente far sbollire un po’ quel nervoso, non era da lei.
Si alzò dagli spalti di scatto, decisa ad andarsene e venne colta da un capogiro. Durò solo un istante: probabilmente quello era un calo di zuccheri, si disse senza darci troppo peso. Uscì dalla palestra con il cellulare in mano. Avrebbe chiamato la sua coinquilina per chiederle del suo esame e delle ultime novità, così probabilmente si sarebbe distratta un po’. Magari, nel frattempo, sarebbe passata per la cucina a cercare quei biscotti che aveva visto a colazione…
 



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Ecco…2 mesi per 2 pagine scrause… sono pessima scusate >__<
Mi sono resa conto di aver spostato in avanti la storyline di tipo mezza giornata (rispetto alla prima versione) e sono andata in crisi mistica perché mi sono convinta che mi avrebbe incasinato un weekend più avanti… dovevo mettermi con calma a far quadrare tutto quindi ho perso tempo… alla fine ho buttato tutto in vacca e quindi oggi ho postato come niente fosse!! XD forse forse mi viene anche meglio così!
Ok, la smetto di accampare scuse…
Fatemi sapere la vostra! Katherina dovrebbe darsi all’ippica? La storyline è sacra e non la dovevo tocare? Lunga vita alla storyline? Tutto bello basta che vada avanti veloce? Attendo vostre!!
Ciau!!!
 

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