Racconti da Sere Oscure

di celestialslug
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Racconto Primo ***
Capitolo 2: *** Racconto Secondo ***
Capitolo 3: *** Racconto Terzo ***
Capitolo 4: *** Racconto Quarto ***
Capitolo 5: *** Racconto Quinto ***



Capitolo 1
*** Racconto Primo ***


Mi trovavo nel treno regionale che porta dal paesino da cui provengo, uno di quelli sconosciuti, al capoluogo della mia regione. Mi ero seduto in una carrozza a caso, su di uno dei sedili, quelli scomodi in plastica che a fine corsa ti fanno sentire tutto intorpidito, e nel mentre aspettavo di sentire la vibrazione tipica del treno in partenza, avevo infilato gli auricolari e fatto partire una delle playlist del mio Spotify. Non si trattava di nulla di particolare concitato, ma nemmeno troppo rilassante, il giusto mix per farmi riposare su quell'orrendo sedile, senza il rischio di addormentarmi e mancare la mia fermata. Ben presto mi ritrovai, però, a cambiare genere musicale, non che ciò che stessi ascoltando non mi piacesse, sia chiaro, eppure, da quando avevo sentito il treno partire, una sensazione di sonnolenza mi aveva pervaso, come se fosse un notturno che mi riportava a casa dopo un lungo turno di lavoro. Cercai delle canzoni più rumorose, qualcosa che mi piacesse ma fosse forte abbastanza da non farmi cedere alla stanchezza. Mi misi a osservarmi le mani, come se qualcosa non andasse, o magari nella speranza di trovare qualcosa che catturasse la mia attenzione. Mi accorsi, guardando il telefono, che erano ancora le 16:30, lo stesso orario in cui ero salito sul treno, eppure avevo aspettato, ascoltato più di una canzone e inoltre il treno era partito già da un po', ma non ci pensai. Cambiai nuovamente canzone, visto che più di una volta mi era sembrato di svegliarmi, come se mi fossi appisolato. Puntai su qualcosa di puramente fastidioso, al punto da non darmi la pace necessaria ad addormentarmi. Quando però i suoni si fecero fastidiosi al punto di farmi venire la pelle d'oca, sentì il mio corpo ricevere una scossa, mi ero addormentato di nuovo e adesso non sapevo dove fossi. Mi affacciai dal finestrino, il paesaggio era uno di quelli tipici del mio territorio e, sebbene presentasse qualcosa di disturbante, non era un indizio utile a capire dove mi trovassi in quel momento, oltretutto il mio cellulare non sembrava collaborare, l'orario era ancora fermo sulle 16:30, come se non fosse passato tempo dal mio ingresso nel treno, inoltre questi suoni infernali negli auricolari rendevano il tutto sinistro, dunque pensai bene di toglierli, per eliminare perlomeno quel senso di inquietudine, facendolo, però, feci una scoperta agghiacciante: gli auricolari erano staccati da un pezzo, quegli inquietanti rumori non erano prodotto della mente di nessun compositore, bensì erano provenienti da qualcosa intorno a me, come la colonna sonora di un film. Mi affacciai di nuovo al finestrino, alla ricerca di un qualunque cosa che mi riportasse alla realtà, dato che mi sembrava di impazzire. Il rumore si fece assordante e sentì il sangue gelare quando mi resi conto che, riflesso allo specchio, c'era un volto che non mi apparteneva. La pelle era rosa, soffice, schifosamente liscia, gli occhi piccoli, di un colore e un numero totalmente innaturale, mi sembrava di essere un alieno. Il treno inchiodò di getto, mi sembrò di venire catapultato sul sedile di fronte, ma in realtà non ricordo quasi niente, il rumore cessò e quando riaprì gli occhi, ero nella mia casa. Mi alzai di gettò, alla ricerca di uno specchio, pensai sollevato di aver appena fatto un incubo. Nello specchio si rifletteva la mia immagine, di com'ero sembre stato, con la voragine di denti e membrane al centro del mio viso e i numerosi occhi che la contornavano. "Cazzo" pensai "Devo aver sognato di essere umano".

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Capitolo 2
*** Racconto Secondo ***


Le gite scolastiche sono una delle occasioni che ogni studente, dalle scuole elementari a quelle superiori, attende con ansia. Fonte di divertimento, esperienze, amicizie, amori; danno a ragazzi e bambini uno sguardo al mondo che li circonda, specie se quei ragazzi, come me, sono cresciuti in un infimo paesino lontano chilometri dalla città più vicina. Non che abitassi in una fattoria, certo, era più come se fosse una versione rimpicciolita di una vera città. Dunque per noi, adolescenti volenterosi di viaggiare e scoprire cose, quella della gita era una delle occasioni più imperdibili che capitassero a scuola. È motto comune dire che ciò che capita in un luogo debba rimanerci, tuttavia c'è qualcosa che successe nella prima gita che feci al liceo, un fatto che mi porto dietro come un fastidio, ma che fremo dalla voglia di raccontare per l'inquietudine che ci suscitò all'epoca, prima che promettessimo di non farne parola con nessuno. Ma un patto del genere oramai è storia vecchia, quindi trovo sia giunto il momento di parlare di cos'accadde. I pullman che ci avrebbero portati a Roma partirono prima dell'alba, con su un carico di studenti stanchi che speravano nella comodità dei sedili per ritrovare il riposo che non avevano potuto ricercare quella notte. Il viaggio, si svolse pressoché come tanti altri, con le sue fermate per far sgranchire le gambe ai passeggeri. Arrivammo a Roma in piena mattinata, con un sole cocente, che ormai anticipava l'imminente arrivo di giugno e del caldo estivo. Come prima cosa ci assegnarono le camere dell'hotel, in modo che potessimo sistemarci prima di visitare la città. Non si trattava di una catapecchia, non era certo una reggia, era la piena definizione di mediocrità, considerato soprattutto che la nostra stanza era una doppia che era stata adattata a tripla, con un letto quasi sulla porta d'ingresso. Ovviamente, le camere erano divise in maschili e femminili, per evitare che potesse succedere qualcosa, ma certe regole vanno infrante. Così, dopo un giro della città e un ritorno sudato, vista la stanchezza del viaggio, tornammo in hotel e ci riunimmo tutti nella sala da pranzo. Dimenticavo di dire che uno dei miei due compagni di stanza, quella stessa giornata si era reso conto di essere malato, andando a dormire poco dopo cena, lasciando noi a dormire nella camera di alcune amiche. La loro stanza era sicuramente più accogliente della nostra, seppur anche questa sembrava per una quantità più ristretta di persone di quante non ce ne fossero effettivamente. Alla conta eravamo due ragazzi e tre ragazze, ma presto, con l'avanzare della notte, rimanemmo sempre in meno, finché alle 4 di mattina, quasi tutti ci lasciammo andare ad un sonno più che meritato. Tranne uno, il mio compagno, che rimasto ancora sveglio e stranamente pimpante, aveva voglia di girare per l'hotel. Va presa nota del fatto che seppure fosse notte, la temperatura non era scesa particolarmente, e che dunque avevamo lasciato delle porte-finestre aperte, dopo essere usciti per fumare sui balconi; accompagnati dunque dalla leggera brezza che entrava, prendemmo silenziosamente le chiavi della camera e uscimmo. Il giro in sé non fu nulla di entusiasmante, i corridoi erano deserti ed era buio pesto, il che rendeva il tutto sufficientemente inquietante, abbastanza da farci dimenticare la nostra voglia di esplorare e farci tornare di filato in camera, dove entrammo sempre con la furtività solita per non svegliare le altre ragazze. Fu quando ci girammo per andare al letto matrimoniale in cui eravamo stesi che ci accorgemmo di "lui" o qualunque cosa fosse. Era qualcosa scuro, tanto scuro che sembrava risucchiare la luce, ma tanto fino e sottile che sarebbe passato inosservato, non fosse stato per i bagliori della luna. Ansimava quasi come un cane, ma in un modo talmente impercettibile da risultare silenzioso. Ed eravamo lì, bianchi come cadaveri, immobilizzati dal terrore, nel silenzio rotto solo dai respiri delle nostre amiche e dal suo leggero ansimare, mentre con qualcosa che non saprei nemmeno se definire mano, accarezzava i capelli dell'unica ragazza stesa su quel letto, che ogni tanto mugugnava qualcosa nel sonno. Non so dire quanto passò, ma sono sicuro che se anche fossero secondi, a noi sembrarono ore intere, finché poi un raggio di luna lo attraversò come se non ci fosse mai stato, come se fosse stato solo un'illusione del buio. Andammo a letto, decidendo di fare finta di niente e dopo aver giurato di non riparlarne, ci risvegliammo il giorno dopo, convinti di aver fatto solo un incubo. Incubo o no, seppur il ricordo non sia più particolarmente nitido, da quella notte, ho paura del buio.

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Capitolo 3
*** Racconto Terzo ***


La guerra. Riuscireste mai ad immaginare un male più grande? Ve lo dico io, no. Nulla che esiste per davvero su questa terra è più macabro e angosciante della guerra. Coloro che non c'erano non possono capirlo, solo a ricordare quegli anni sento il cuore battermi all'impazzata, le gambe cedermi, i conati salire. È un dato di fatto, la guerra è il male peggiore. Ma, se vi dicessi che io, veterano di guerra, ho visto qualcosa di ancora più spaventoso? Se vi dicessi che c'è qualcosa che mi fa ghiacciare il sangue, ancora più dei miei compagni caduti al mio fianco e della sensazione dell'omicidio sulla propria pelle. Se vi dicessi che esiste di peggio? Eravamo sul confine belga, era l'agosto del '14, dopo diversi piccoli scontri dati dal contatto, gli incontri si fecero sempre più frequenti e capimmo che avevamo di fronte una grossa divisione dello schieramento francese. Passarono alla storia come le Battaglie delle Ardenne, ed è proprio lì che ero io. Ed è proprio lì che è successo. Avevamo appena sconfitto i francesi vicino Bertrix e fermato la divisione nelle rovine del paese, per concedere a tutti qualche minuto di respiro. Mentre controllavamo gli edifici distrutti, alla ricerca di superstiti francesi, mi capitò di entrare nelle rovine di una casa. Era un peccato fosse andata distrutta, perché doveva essere davvero antica, a quanto traspariva dalla struttura; tra le macerie, in quella che sembrava una sala da pranzo, nello sporco, c'era un fagotto: ciò che era strano è che come ho già detto era nello sporco, ma il fagotto ed il neonato al suo interno erano lindi, come se qualcuno avesse preso il bimbo e l'avesse messo lì poco fa. Era probabilmente belga, pensai, ma era un bambino e non aveva colpe: non potevo lasciarlo lì. Così lo sollevai e uscì dall'abitazione distrutta, sull'uscio mi presi il tempo di riposare, dovevano essere gli sforzi della giornata ma tenere quel bambino in braccio sembrava quasi come sollevare sacchi di cemento. Dopo altri dieci passi, mi fermai stremato e, guardando il bambino, esclamai «Mein gott! Quanto pesa» Fu lì che successe, l'infante aprì gli occhi, pesante come un macigno, fissò i suoi bulbi oculari, completamente neri come se fossero solo pupille, e con una voce bassa e sussurrante mi disse «Lasciami a terra se peso così tanto» La guerra sarà anche il male, ma sembra gli uomini nello spirito e nel corpo, ma nessuno spirito è abbastanza forte per quello. Lasciai il nostro esattamente dove l'avevo trovato, giuro che nell'unica frazione di secondo in cui lo guardai, era ancora pulito come se non l'avessi toccato ed era lì, a fissarmi. Non ebbi il coraggio di dirlo a nessuno, mi avrebbero rispedito a casa come uno scemo di guerra. Ma io lo giuro, scheiße, che sento ancora il suo sguardo demoniaco su di me. Il peso di qualcosa, che non era un neonato, ma un male peggiore della guerra.

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Capitolo 4
*** Racconto Quarto ***


Il 14 settembre del 2007 Kenneth Dawson venne ritrovato smembrato nel suo appartamento. I resti vennero ritrovati grazie alla chiamata degli altri condominiali che, da diversi giorni, sentivano la puzza mefitica tipica della cadaverina. Le forze di polizia pensarono subito ad un omicida seriale, mobilitando nei giorni seguenti i profiler delle autorità federali, che però non riuscirono a collegare il modus operandi con nessun assassino. Il 29 dello stesso mese, mentre Jonathan Reyes perlustrava per la centesima volta l'appartamento della vittima alla ricerca di qualcosa, saltò fuori un diario, nascosto in un buco del muro dietro lo specchio del bagno. L'agente Reyes decise, incautamente, di leggere gli scritti dell'uomo alla ricerca di indizi sulla sua cruenta morte, ma ciò che scoprì fu persino più terrificante della vista del cadavere marcescente stesso. Tornato in centrale, bianco come la calce, lui e i suoi colleghi lessero le pagine timorosi. Bruciarono l'agenda poco dopo quello stesso giorno, ponendo il caso Dawson tra quelli irrisolti il prima possibile, nella speranza che nessun altro scoprisse ciò che era successo. Ma Reyes era perseguitato dai ricordi di quelle parole, tanto da decidere di trascriverle. “29 settembre, non ho mai scritto un diario, da adolescente reputavo stupido trascrivere i propri pensieri sulla carta, ma ora spero che farlo possa permettermi di dormire, per lo meno stanotte. Abbiamo bruciato il diario di quel pover'uomo, lo abbiamo fatto non appena abbiamo finito di leggerlo. Le reazioni dei miei colleghi sono state contrastanti, ma già sapevo che l'agente Bell è scettico di natura e che Ward è un poliziotto per miracolo, vista la sua paura persino per la sua ombra. Spero solo che dimentichino, che per loro resti una cosa curiosa e non un'ossessione, come spero che non diventi la mia. Ciò che ho letto, io, non saprei nemmeno come spiegarlo. Le prime pagine sembravano normali, quell'uomo viveva una vita tanto ordinaria quanto noiosa, ma pian piano le sue parole diventavano sempre più strane. Nell'ultimo mese aveva aggiornato spesso il diario, con cadenza irregolare ma frequente, a differenza di com'era solito fare nei mesi addietro. Sembrava come se nell'ultimo mese fosse diventato un'altra persona: paranoico, nevrotico, pazzo quasi. Citava spesso un nome "Gva'tahl", credo fosse scritto così. Da ciò che era intuibile dalle sue lodi, doveva essere una divinità venerata da una setta di cui faceva parte, che ne doveva aver plagiato la mente fino a farlo impazzire. Non mi sono mai ritenuto un uomo religioso, ho iniziato a definirmi ateo subito dopo essere andato a vivere da solo, non avendo mai posseduto uno spiccato senso di fede, ma giuro sul mio nome che leggere ripetutamente quel nome mi ha stretto lo stomaco in un nodo. Probabilmente non sono altro che i deliri di un pazzo, ma non riesco a smettere di pensarci. Ho paura.” Il diario si interrompe per alcuni giorni, per poi riprendere assiduamente nelle settimane successive. “4 ottobre, a quanto pare, tutti in centrale hanno superato il caso Dawson, ritenendolo irrisolto e impossibile. Ora si chiacchiera solo vagamente dell'accaduto e tutti sembrano essere andati avanti, col lavoro e con le proprio vite. Solo io sono ancorato qui coi miei sudori freddi, persino mia moglie è spaventata dal mio comportamento, ma io non riesco a togliermi dalla testa quelle parole. Ho fatto degli incubi ultimamente, abbastanza da pensare di dover contattare uno psicologo, più per le medicine che per il consulto; cosa vuoi che mi dica uno psicologo, se la notte sogno l'oscurità cosmica, sotto lo sguardo di chissà quale mostruosità, che mi giudica come peccatore. Cosa risponderebbe, se gli dicessi che mi scopro a perforarmi gli avambracci con le unghie o a mordermi il labbro fino a sanguinare quando sono sovrappensiero. Che immagino ogni secondo gli orrendi sermoni a "Gva'tahl, il silenzio cosmico" celebrati in qualche fogna putrida da uomini con vesti nere come l'ossidiana, che sacrificano i membri del culto e mangiano le loro membra in onore del dio. Cosa dovrei dire a mia moglie, quando la notte evito di stringerla, per paura di stritolarla in cerca di conforto. Credo di aver bisogno di aiuto.” “12 ottobre, ho contattato uno psicologo, sapevo che non avrei dovuto farlo, visto che il risultato della terapia è stata qualche idiozia legata alle mie paure, strizzacervelli inutile. Perlomeno le medicine mi tranquillizzano, ho smesso di graffiarmi gli avambracci e le labbra stanno guarendo, anche se non possono niente contro il terrore che provo, quando sono in casa, tengo perennemente il televisore acceso, per riempire il silenzio delle stanze e quando sono in giro o a lavoro, fischietto e canticchio per non rimanere mai zitto. Probabilmente sono paranoie, ma il silenzio mi fa congelare il sangue, sento il suo sguardo addosso, il suo giudizio, come quando mi sussurra nei miei sogni bestemmie e melodie infernali. La notte, per non avere una crisi, mi concentro sul respiro di mia moglie finché non mi addormento, per non stare mai nel silenzio più assoluto. Sono scettico, ma spero che la terapia mi aiuti, in qualche modo.” “ 23, ho smesso di prendere le medicine, ho chiuso con lo psicologo urlandogli contro al telefono. Non capisce, nessuno può. Lui mi parla, lo sento, ogni volta che c'è silenzio. Mi dice che fare, come comportarmi per rendergli grazia. Mi sussurra cose terribili che mi fanno scoppiare la testa, ma ho smesso di rifiutarlo. Ho smesso di ricercare rumori e cacciare il silenzio. È come una culla terrificante, ma lo accetto se in questo modo posso servirlo, devo abbracciare il silenzio. Devo ascoltarlo.” Gli scritti si interrompono qui, così come la vita dell'uomo. Nella tarda mattinata del 31 ottobre, il giorno di Halloween, l'agente Jonathan Reyes venne ucciso con due colpi di pistola, dopo essere stato ritrovato da due suoi colleghi in camera da letto, chino sul corpo della moglie, alla quale erano state tranciate le orecchie e divorata parte dell'addome, fino a perforare lo stomaco. Il diario di Reyes non venne ritrovato o, almeno, questo è ciò che sappiamo.

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Capitolo 5
*** Racconto Quinto ***


Jeanne ripose i vestiti nella cesta, se la caricò in spalla e si girò verso la porta di casa. Erano faccende che la scocciavano, ma sua madre le ripeteva sempre che se avesse voluto sposare un uomo più ricco avrebbe dovuto farsi andare bene di tutto, anche i lavori casalinghi più duri. Ma Jeanne era uno spirito libero, voleva correre per i boschi intorno al villaggio, imbucarsi al mercato del paese affianco e fare finta di essere una dama ballando fino allo sfinimento nella radura. Per questo non vedeva l'ora di vedersi con Joseph e Jean, i suoi due più cari amici, nati nel villaggio come lei e con cui aveva passato quasi ogni secondo della sua infanzia; inoltre, lei non sognava certo di sposare qualche vecchio grasso e benestante, che l'avrebbe trattata come la sua sgualdrina personale e l'avrebbe fatta sgobbare in casa fino a farle rompere in due la schiena, lei apprezzava le cose più semplici e genuine, come quando Joseph rubava qualche mela per lei dal frutteto al limitare del bosco, o fingeva di essere un nobile solo per trattarla come un vero gentiluomo. Per questo aveva paura di superare quell'estate, è vero, era solo il 31 di giugno, ma dopo quei caldi mesi, suo padre aveva deciso che era ora di darla in moglie a qualcuno, perché era giunta l'ora. Il futuro la spaventava certo, come le tenebre spaventano i bambini, ma non come Joseph e Jean erano spaventati ora, di fronte a ciò che era appena successo. Gli occhi di Jeanna erano fissi su di loro, non avrebbero saputo dire se fosse ancora viva e sofferente, strozzata dal dolore e incapace di chiedere aiuto. La radura verdeggiante era tinta di scarlatto, e al centro esatto giaceva il corpo della giovane, orridamente smembrato, a tal punto da essere quasi irriconducibile ad un essere umano. Solo il dolce viso di Jeanne era integro, incorniciato dai boccoli biondi sporchi di terriccio e sangue, con gli occhi spalancati come quelli di chi ha appena visto un mostro ed ha troppa paura per urlare: come quelli dei giovani di fronte alla scena. A scavare nelle budella, il muso insanguinato della bestia, che ormai si era saziata e straziava le membra solo per inerzia; alta fino alle spalle di un uomo adulto, con fauci così possenti da sfondare un cranio umano senza problemi. Era come un lupo, ma delle dimensioni di un orso e dalla natura di un demone. Il pelo ispido, come quello di una bestia sporca, bruno come la pelle di una regina di Spagna e tempestato di chiazze rosse, probabilmente di origini diverse. Avrebbero giurato che fossero allucinazioni, isteria, follia; avrebbero potuto molto, ma ora non potevano niente, se non pregare, di fronte al corpo della quattordicenne, morta nella stessa radura nella quale avrebbe vissuto in eterno.

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