Omen: settembre 1998

di marinrin
(/viewuser.php?uid=259354)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - The Red Butterfly ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Requiem with a children's song ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - The doll with red hair ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - The Red Butterfly ***


Note lunghe: I personaggi non mi appartengono, il copyright è riservato alla Mihoyo.
L'autrice si scusa per eventuali errori.

❧ Non c'è un tag 'incest' perchè personalmente considero i due con il concetto originario della versione cinese (la Mihoyo è cinese).
Sworn brothers (o Sworn Sisters) infatti, per farla semplice, indica un forte giuramento di "fiducia e fedeltà" fino alla morte tra due persone - ma ad essere sinceri va anche oltre.
Nella cultura cinese è estremamente delicato e ricco di profondità.
Anticamente era spesso utilizzato - e tutt'ora all'interno di molte novel cinesi - per censurare una relazione (di solito omosessuale); penso tutti sappiano del
 grave problema di 'censura' a riguardo in Cina.
Inoltre il concetto è più che presente anche nella cultura europea: avevamo giuramenti simili tra cavalieri, clan ecc... L'esempio più importante è quello del giuramento dei Bloodbrothers (per l'amor del cielo, la storia ragà).
Tenevo a dare una spiegazione per 2 ragioni:
- 1) La cultura ed il sapere sono cose stupende e reputo sia bene conoscere certe chicche.
- 2) Voglio evitare fraintendimenti con chi magari segue la 'versione' (erronea) in inglese ed ha accettato la scelta censurata degli ex fratelli ''''adottivi''''  (giusto per dire, non è incest nemmeno per la nostra cultura... Ma beh, immagino sia qualcosa relativo a quella Americana. Ad ognuno il suo insomma) - ho i flashback di guerra con Sailor Uranus e Sailor Neptune censurate come cugine, CHE BRIVIDI.
Tutta la questione del giuramento poi intriga davvero tantissimo... Sigh.


Note Importanti
La storia segue il filo narrativo di Kara No Kyoukai facendo riferimenti al Nasuverse: nella fiction sono menzionati temi sensibili come le morti misteriose, il suicidio ed introspezione.
In futuro potrei avere intenzione di creare una mini serie a sè stante con questo setting: per ora mi auguro sia per voi una piacevole lettura.
I capitoli sono divisi con al massimo 2500/3000 parole ognuno; al momento ne conto 4: essendo già conclusa - scritturisticamente parlando - provvederò ad aggiornamenti ogni settima/ settimana e mezza.
Sono presenti forti riferimenti all'esoterismo (con tanto di storicità riguardo a miti e leggende prese da territori italiani, come i riferimenti a Torino, al Noce di Benevento...) ma anche alle religioni Wicca, all'Alchimia, con tanto di Cristianesimo, Scintoismo ed accenni a culture asiatiche e non.


Grazie per iniziare quest'avventura insieme a me! 

Come al solito, ogni commento/recensione è super prezioso e stra gradito!
Ti auguro buona lettura, mio indomabile lettore! 
( ✧≖ ͜ʖ≖)
 
Omen
presagio


 



Settembre 1994
                                               «Vai.»
                                                Un comando silenzioso; la dolcezza delle parole d’un padre nel carezzare il volto del proprio figlio.

 
La luce della luna illuminava il sentiero di ciottoli blandamente. Il riflesso mogio attraverso i vetri rotti, sparpagliati lungo il ciglio, fungeva da unica lucerna.
Diluc tossì, tentando di mantenere il ritmo di quella fuga folle attraverso l’oscurità della foresta.
Le gambe reggevano a stento, i polmoni inalavano quanta più aria possibile; finì con l’inciampare in uno dei rami più esposti, rantolando a terra goffamente.
Il volto toccò il terriccio umido sporcandosi di conseguenza, l’erba a stento era riuscita ad attenuare il duro colpo. Gli occhi gonfi di pianto non davano lui tregua nel vedere sfocatamente.
In suo soccorso, giunse la pioggia: lacrime del firmamento di fronte allo sfregio della vita.
Le mani di Diluc tremavano appena, impregnate del sangue del suo stesso genitore, stringendo al petto l’oggetto che con le sue catene aveva strappato Crepus Ragnavindr all'esistenza.
Tentò di rimettersi in piedi, trascinandosi con  le forze rimaste alla ricerca d’un punto d’appiglio.
Di fronte alla vista ormai smarrita nella miserabile ricerca di qualche segno di vita, viottoli di cadaveri sostavano linearmente.
Diluc alzò lo sguardo e fu lì che lo vide.
Un attimo. Tanto bastò perché il suo intero mondo crollasse e rinascesse allo stesso tempo.
Lunghe ciocche d’argento a librare sorrette dal flebile vento intriso d’umido. Ritto in piedi, bagnato nel rosso, il volto d’ambra lui così familiare sostava a guardare il cielo perso.
Neve sporcata dal carmino del sangue a grondare attraverso gli indumenti, colando piano lungo il braccio, sino a sfinare verso una lunga spada tenuta tra le mani.
La figura si rifletté negli occhi cremisi e Diluc perse il respiro.
Avrebbe voluto gridare, urlare al mondo la sua rabbia verso quel destino ignavo ed impietoso, maledire quel viso un tempo amato con le più struggevoli parole: eppure, tacque.
Le iridi del ragazzo si volsero verso lui ed il tempo parve fermarsi. Erano completamente dorate, cui stelle al posto delle pupille splendevano d’un bagliore irreale.
Attraverso quell’oro si specchiò: vide il vuoto e ne divenne parte.



 




 
 
7 Agosto 1998

                                   Quel mattino si sveglió più prontamente dell’usuale; flebili raggi a incontrare la palpebra stanca, segno avesse dormito meno del solito.
Rimase in ossequio del soffitto per qualche attimo, perso nel riordinare forse pensieri, completamente immobile sul materasso.
A riportarlo alla realtà non bastarono i cinguettii altisonanti delle rondini al di fuori dei finestroni: fu invece il fastidioso trillo proveniente dal telefono malamente poggiato sul pavimento a destarlo in proprio; già mezz’ora, notò, squadrando la sveglia riposta sul comodino.
Non riuscì comunque l’evitarsi un’espressione di tedio, accompagnata da mugugni stufi, quando la voce squillante di Amber, in segreteria, lo costrinse a prendere atto della propria esistenza in quel mondo, ammonendosi silenziosamente di distruggere quell'infernale oggetto mentre poggiava i piedi nudi sul parquet.
Un brivido freddo l’investì ma non vi badò molto, approfittando della lucidità scaturitane per dare una leggera occhiata intorno l’ambiente circostante, quasi a temere d’estraniarsi. Il mettersi a sedere creò un rumore di molle al di sotto del materasso che echeggiò per tempo attraverso le pareti.
L’abitacolo non era pieno di mobilia quanto invece di strani oggetti dalla sfarzosa fattura sulle mensole ed il necessario perché sembrasse perlomeno abitabile: libri a terra, coprivano, in ogni caso, parte integrante della superficie.
Lo sguardo ricadde infine sul lavandino (era il genere di casa con quasi tutto in solo due stanze) e fu lì si accorse continuasse a gocciolare.
Quel tic-tac non l’aveva abbandonato durante la notte – fastidioso, cantilenante, insopportabile.
Eppure non aveva fatto nulla per liberarsene – odiava anche la sola idea qualcun’altro potesse entrare liberamente nell’appartamento.
Grattò la schiena nuda, non indossava che boxer, alzandosi finalmente in direzione dell’armadio.
Le spalle vennero presto coperte da una camicia d’un azzurro chiaro, cui maniche a sbuffo ricordavano canoni tipici rinascimentali.
Una specie di cinghia che fungeva da chocker, munita di un’insigne metallica, venne sistemata con cura poco dopo.
I pantaloni scuri sino alla vita recavano una semplice cintura cui era minuziosamente attaccata una catenina culminante con una piuma di pavone e gli stivali in pelle, poco più bassi del ginocchio, in combo con i guanti dello stesso materiale - ma senza dita ad eccezione del pollice - completavano quel bizzarro look.
L’orecchino che portava al lobo sinistro, cui incastonata era una gemma cerulea in pendant con la collana lunga che portava al collo, gongolò di qualche centimetro mentre l’uomo dalla pelle olivastra si voltava verso lo specchio, sistemando i capelli cobalto come potesse.
Toccò la benda scura all’occhio destro quasi melanconico (non la toglieva mai, nemmeno nel dormire ultimamente), osservando meticoloso il suo riflesso prima d’allontanarsi verso il piccolo frigorifero.
Stappò piano una delle tante bottiglie lì conservate come una sorta di messa a deposito, bevendo un sorso d'acqua fresca poggiato contro il muro.
«Kaeya, sono Jean» continuò il successivo messaggio in ripetizione sul telefono «So che sei in licenza, non si tratta di lavoro, volevo solo chiederti se sapessi come stesse Diluc-»
La bibita finì presto sul lavello; un sospiro mogio a lasciare le labbra di Kaeya. Flesse il bacino, raggiungendo rapido quella ‘scatola’ a pochi metri dalla sua postazione, cliccando così, annoiato, il tastino per fermare il continuo del nastro; lasciò l’appartamento poco dopo.

Scendendo le scale e mettendosi in marcia per la via principale, notò ci fosse più gente del solito.
Frotte di colori accesi e disparati vagavano tra i cigli verso il passaggio pedonale; la moda era sempre così sfarzosa di recente: non poté resistere al domandarsi se fosse stato il caso di comprare una nuova camicia – magari anche con motivi stile pavone, già che c’era.
Stringeva nella mano destra un mp3; da poco si erano diffusi – si trattava di un macchinario strano con tanto di forma buffa scatolare cui capacità era quello di riprodurre suoni registrati  con un’unica cassetta.
Kaeya lo rigirava tra le mani come fosse un giocattolo, lasciando la testa vagheggiare tra le insegne colorate dei negozi.
Si fermò davanti alla vetrina di un rivenditore d’elettronica. Televisori erano esposti in una sorta di piramide dal più piccolo al più grande, impilati come scatolette di tonno del supermercato.
Fece per indossare finalmente gli auricolari, sinché lo sguardo non cadde sull’interruzione della soap opera d’amore, in favore di un servizio urgente.
Lo zoom passò su un uomo sulla quarantina, un giornalista del Tg.
«Oggi, verso le 2 e trenta di pomeriggio, una studentessa del terzo anno di uno dei licei cittadini è caduta dal tetto dell’edificio 5 del complesso Wangshen. Dopo essere precipitata, è stato accertato dal personale medico sia morta sul colpo: è la quarta ragazza a scegliere come luogo il vecchio collegio a distanza di mesi.»
Scoccò la lingua contro il palato; un sopracciglio ad alzarsi.
«Come nei precedenti casi non è stato trovato un messaggio d’addio. La polizia sta indagando attraverso la testimonianza di parenti ed amici alla ricerca di qualche segno di disagio familiare o scolastico...»
Scrollando le spalle, non attese di sentire risvolto, allontanandosi piano e riprendendo la sua passeggiata come nulla fosse, imperturbato.
Man mano procedeva, superata la piazza principale segnata dalla Chiesa di Maria Santissima del Rosario – avanguardia artistica della sua stessa città e principale attrazione – la coltre di grigiore fatta da mezzi ed immobili venne a diramarsi, aprendosi invece a quartieri meno affollati.
Via vai di gente affrettata al lavoro con tanto di disattenzione; evitò qualche spallata involontaria, limitandosi a proseguire senza ulteriori intoppi. Erano zone molto religiose quelle in cui si stava addentrando e roteò gli occhi all’idea di dover chiudere presto la sua camicia per quieto vivere.
Poco vicino, sorgeva infatti un importante monastero femminile con tanto di sezione dedicata alla clausura.
Si trattava di un edificio antico dall’aspetto rudimentale: un cancello di ferro da motivi di foglie d’acanto delimitava il suo perimetro – e se si alzava lo sguardo era possibile scorgere le cellette con tanto di finestre blindate.
Lì di fianco si ergeva anche un modesto parco che separava il complesso da uno degli ospedali privati più importanti della metropoli. Abitualmente era facile scorgere suore appartenenti all’Ordine fermarsi qui in attività contemplativa e di preghiera in osservanza dell’armonia con la natura.
Nell’attraversare un breve tratto della straduncola in ciottoli, s’imbatté a tal proposito in una comitiva di novizie; vestiti candidi, bianchi, simbolo di purezza e dedizione nel servire.
Lo sguardo incrociò quello di una delle più giovani, lì ferma ad assistere un malato; le gote s’imporporarono immediatamente, rendendole la faccia paonazza.
Kaeya Alberich era un uomo estremamente bello.
Alto, slanciato, dal volto gentile e modi galanti, il suo viso d’angelo e la sua lingua di fata erano una mistura fatta apposta per manipolare e spogliare le persone dinnanzi a lui; in altre parole, pericoloso.
Le sorrise nel suo passarle di fianco e questa, in un momento di trance, rimase a guardarlo sino a che – rendendosi forse conto di quanto successo – abbassò lesta gli occhi al pavimento, tornando imbarazzata al suo da farsi nel sentire inoltre un tossicchio distinto proveniente dalla sua superiore a qualche metro.
Kaeya, riconosciutala, onde evitarsi ulteriori rogne, la salutò subito con garbo: la priora Rosaria era forse una delle poche a non calcolare nemmeno di striscio quel fascino, al punto da riuscire persino a beffeggiarlo. La donna picchettó le dita contro il proprio braccio, fulminandolo in risposta…
Ma il giovane non ne parve così turbato ed in un cenno divertito, riprese marcia.
In realtà, per raggiungere l’ufficio della sua datrice, avrebbe potuto prendere una strada decisamente più veloce.
C’erano molte scorciatoie, eppure Kaeya parve non curarsene, prendendo di proposito un’allungatoia per la Piazza dell’Angelo.
Sbadigliò; dita affusolate a sporgersi verso le morbide labbra.
Man mano procedeva, il numero di persone sembrava diminuire sino al punto da potersi contare sulle dita.
Inusuale, certo, ma comprensibile, specialmente in quel posto.
Il rumore dei mezzi rompeva fragile  gli attimi di quiete. In lontananza si scorgeva una spoglia fermata di autobus. C’era come un’aria di irreale, una sensazione strana di sbagliato in quell’angolo preciso della città, quasi ne fosse addirittura separata; riusciva a percepirla perfettamente: tanto bastò a realizzare fosse rimasto totalmente solo.
Una farfalla rossa passò lui di fianco: un cremisi intenso che infastidiva lo sguardo, con diramate macchie di nero. Era incredibilmente grande rispetto alle specie del territorio, su quello non c’erano dubbi.
Tuttavia non fece in tempo a guardarla con più attenzione che uno strano bruciore ne colpì gli occhi: si ritrovò a toccare la benda quasi d’istinto, cercando di rilassare il proprio corpo in opposizione a quella misteriosa forza.
«Bel trucchetto.» mormorò stizzito tra i denti prima che il dolore cessasse in favore d’una solerte sensazione sgradevole a pervadergli la testa: la sentiva quasi leggera, melliflua; stava inibendogli i cinque sensi mentre le voci ovattate di sottofondo diventavano sempre più distinte.
Sollevò lo sguardo, opponendosi a quella bizzarra forza di gravità che l’opprimeva al mantenere l’iride bassa: un cielo tinto di rosso si manifestò dinanzi.
Sette figure in cima ad un palazzo volavano composte, quasi in un cerchio; vesti candide, capelli disciolti al flebile vento. Manifestazioni, alme vivae o semplici fantasmi: riuscì comunque a liberarsi da quelle costrizioni in qualche manciata di secondi, rompendo il legamento al brillare della pupilla e tranciandone i fili – invisibili ai normali umani - con un semplice coltellino.
D’abitudine, prese dalla tasca il suo pacchetto pacco di sigarette: l’aprì rapido, portando il filtro al labbro inferiore, quasi a stoccare flebilmente la carta chiara.
Senza rendersene conto finì ad attendere: fu solo quando si voltò che comprese qualcosa non andasse; socchiuse gli occhi per una manciata di secondi.
«Già, oggi non c’è.» aggiunse, togliendo via la cartuccia e riportandola al suo posto.
L’immagine di fiamme rosse, vive, prese forma di una figura familiare nei suoi pensieri.
Il fuoco era sempre stato un elemento intrigante sin dall’antichità, un continuo associarsi di purificazione e distruzione: eppure, pensando alle sue fiamme, Kaeya non ne aveva paura, non c’era né tentennamento né scalpore. Avrebbe voluto bruciare al loro tocco.
Scosse il capo, cercando tra le tasche. «E non ho l’accendino, sembra.»
Un ‘tch’ scocciato a perturbare il silenzio, prima di allontanarsi e riuscire a muovere qualche passo in avanti, scostando un paio di ciocche cadute davanti al viso: tanto bastò perché l’illusione si sgretolasse.
La fermata dell’autobus non era distante se non pochi metri e con senno del poi distaccarsi fu estremamente piacevole.
Si domandò, mentre saliva le scalette del mezzo, quanto sarebbe riuscito a resistere prima che l’Altro iniziasse i suoi sproloqui su tutta quella situazione…
Dopo aver preso posto, concordò con sé stesso il non indugiare oltre certe questioni, sfilando l’mp3 e mettendo le cuffie nelle orecchie.
Stavolta riuscì finalmente a premere quel tasto d’avvio; non c’era musica in quella specifica cassetta, quanto piuttosto la registrazione del mellifluo ticchettio della pioggia.
Prese un respiro, poggiando il capo contro il sedile in pelle, prima di immergersi completamente in quel mondo fatto di visioni.

Due ragazzi di quattordici anni a correre tra le strade della vecchia vineria, giocando tra foglie verdi delle vigne.
Grappoli d’uva violacei e succosi a macchiare le camicie chiare in quella battaglia nel prendersi, sino a rantolare nell’erba nonostante il rombo del temporale imminente.
In un balzo, quel se più piccolo afferrò uno dei tanti vasi, il vecchio ramoscello puntato contro l’altro ragazzino.
«Andiamo sir Diluc, tutto qui quello che sa fare?» blaterò provocatorio al vedersi raggiunto e pronto ormai al temibile duello.
Il compare tuttavia si ritrovò piuttosto a riderne. «Sembri uno di quei cavalieri farlocchi nei libri di Adelinde!»
Kaeya rispose in scherno. «Ah si?» gufò, guardandosi intorno ed afferrando prontamente una delle coroncine di fiori fatte qualche ora prima –appoggiate su una vecchia botte sotto il portico posteriore della tenuta. La pose sul capo di Diluc senza pensarci ulteriormente. «Ecco: ora tu sei addirittura il re dei cavalieri farlocchi, sua Maestà, sebbene il tuo cavallo in realtà sia un asino!»
Oh! Ora si che il giovane dai capelli rossi l’aveva presa sul personale!
«Solo perché papà mi ha messo in punizione!» bofonchiò l’erede di quell’immensa fortuna, agitando rapidamente il bastoncino con le guance accese dalla vergogna. «E poi è stata anche colpa tua!»
Kaeya ne rise, alimentando quella fiamma viva con tanto di “Si, si, come no!” al punto che si ritrovarono nuovamente a terra, tra l’erba bagnata, ed in lotta per la supremazia l’uno su l’altro.
Poi quiete, il respiro appena affannato in un alquanto strano imbarazzo fatto di molteplici sensazioni: le ciocche vermiglie caddero contro il viso più scuro: si guardarono per un po’, prima che lo stesso Diluc si rivolgesse pancia a terra, sdraiandosi di fianco.
«Proprio una forza da gorilla.» argomentò. L’altro mugugnò un “Non è vero” infastidito prima dell’ennesimo riso.
Innocenza, mani che si sfiorano appena; titubanti.
«Facciamo una promessa, Kaeya.»
Le parole scandite, vivide mentre qualcos’altro si sovrapponeva confusamente in un costante discontinuo: ora adolescenti, l’uno di fronte all’altro; c’era un calice d’oro stavolta a rubare la scena, riempito del sangue delle loro stesse ferite: uniti fino alla morte – giuramento.

Il rumore provocato dall’ultima fermata, lo destò.
I colori del sogno avevano preso piano a sbiadire, avrebbe dovuto aspettarselo, era una mera questione di tempo prima che il passato tornasse a tormentarlo.
Sbadigliò, togliendo gli auricolari, sorridendo furbo nel notare qualche ragazza far cadere lo sguardo su di lui – eppure non attese oltre, scendendo rapido e muovendosi verso la piazza della fontana.
Detta anche ‘Piazza dell’Angelo’ era una delle strade più tranquille e più significative della cittadella; apparteneva al patrimonio storico con suoi palazzi e monumenti antichi che andavano dal tardo medioevo sino a stili rinascimentali.
La grande statua dell’Arcangelo Michele al centro - non ci voleva un genio per intuire fosse ciò che dava nomea a quella frazione - era uno dei simboli locali nonostante la sua storia fosse completamente sconosciuta
Secondo qualcuno c’era stata addirittura mano del famigerato artista italiano Michelangelo, secondo altri invece si trattava solo di leggende metropolitane, sostenendo che la scultura fosse stata voluta dal sindaco di 300 anni prima e realizzata da un copista locale.
Era posto, comunque, in posa conquistatrice, schiacciando il capo d’un diavolo sotto ai piedi: mano stretta e l’altra sguainante una spada.
Persino su quella posizione c’erano state teorie interessanti e fantasiose, come quella che indicasse con l’arma la porta dell’inferno, oppure dove le streghe vivessero o addirittura che mostrasse e avviasse ad uno spettro di magia cui faceva da catalizzatore. Insomma, ce n’era per tutti i gusti…
E chissà, forse nemmeno sbagliavano così tanto.
Kaeya sorrise mefistofelico nell’osservarla qualche attimo in più nonostante i rumori della gente circostante, mettendo rapido le mani in tasca allo scoccare di qualche altro minuto e seguendo infine la traiettoria con tanto di sbadiglio annesso.
Dopo essersi  inoltrato in una viottola che sembrava eternamente la stessa, quasi stesse proseguendo in tondo, e svoltato ben tre volte allo stesso svincolo, innanzi a lui nell’angolo di destra spuntò un portone dall’aspetto tutt’altro che mondano.
Legno di salice e noce a comporlo, con tanto di fattura nei particolari d'oro al dir poco magistrale.
Era molto ampio ed a prima occhiata decisamente pesante: l’elemento che spiccava di più tuttavia era la strana finestra circolare che ricordava chiaramente un rosone in miniatura d’una chiesa gotica.
Non c’erano disegni significativi, quanto piuttosto aguzzando la vista si poteva scorgere l’incisione di un simbolo: un triangolo con una specie di croce equilatera.
La maniglia aveva forma di serpente rappresentato col mangiare la propria coda; Ouroboros, eterno ritorno: Kaeya ne sorrise, perché in effetti nel suo caso era tremendamente vero.
Bussò tre volte e venne risposto con l’echeggio sempre più lento d’ogni botta ricevuta quasi fosse una specie di eco; le finestre della palazzina erano come opacizzate, notò, allontanandosi leggermente.
Al battere dell’ultimo rintocco, con un cigolio penetrante, il portone permise spiraglio, aprendosi il necessario per far proseguire all’interno la figura dell’uomo dai capelli blu.




 
note sui significati:
❧ In numero 3: Nella religione cristiana il numero tre è designato come numero perfetto, simbolo della trinità, in quella ebraica come santità.
In questo caso sebbene si implichi anche queste valenze, l'accenno più importante è alla religione Wicca e al cerchio magico, che bisogna 'aprire e chiudere' (vedesi Kaeya che svincola un tot di volte) rifacendosi in modo particolare alla legge "ogni cosa che facciamo torna indietro tre volte nel bene e tre volte nel male" - ecco il perchè dei tre rintocchi del portone.
 
❧ Il simbolo che Kaeya ha visto rappresenta il fosforo alchemico.
 
❧  Il termine Salice ha origini celtiche e il suo significato è “vicino l'acqua".
Da sempre il salice è considerato una divinità femminile, legato alla fecondità e ai cicli lunari e muliebri, secondo le leggende evocatore di pioggia e nebbie.
Il noce invece... Beh, lo scopriremo nel prossimo capitolo! ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Requiem with a children's song ***


Note: Raccomando ai miei nuovi indomiti lettori di leggere assolutamente le note del primo capitolo per chi non l'avesse fatto.
Lo so che siete brv e già sapete le cose ma è importante ricordarlo onde non ritrovarci con spiacevoli gnigni o grrrrr.
Grazie per iniziare quest'avventura insieme a me! 
 
Come al solito, ogni commento/recensione è super prezioso e stra gradito!
Ti auguro buona lettura, mio indomabile lettore! 
( ✧≖ ͜ʖ≖)



 



 
Omen
presagio


 

 
 
                                                  Un vecchio detto diceva che la magia poteva essere compresa solo da coloro cui mente era abbastanza aperta per vedere al di là del Velo.
Questo non era altro che  il confine tra reale ed irreale, sovrannaturale e naturale: a detta di fanatici, si faceva addirittura più sottile in base alla sete di conoscenza ed all’impegno mostrato dalla persona.
In onestà, era veritiero in parte: seppure molti non lo accettassero, c’era una certa predisposizione dinastica che giocava in merito; il sangue non era acqua dopotutto, ed era questa la ragione per cui quelli chiamati come ‘maghi’ tendevano ad essere estremante selettivi in fatto di discendenza.
Kaeya sbadigliò, muovendo i primi passi verso l’interno senza ulteriori cerimonie: ad aprirsi di fronte a lui fu un lungo corridoio, cui non riusciva a scorgere fondo, dal pavimento in marmo nero (e dal taglio piuttosto lavorato, tra l’altro).
Una prima impressione da ‘sconosciuti’ a certi tipi di ambienti era quella certamente di un vano statico, quasi vuoto: gli infissi erano totalmente immersi nella semioscurità dopotutto, quasi che nemmeno gli spiragli dati dall’apertura del portone ligneo riuscissero a permearvi.
Una persona ‘normale’ non avrebbe dato peso a certi particolari, specialmente se sprovvista della capacità del vedere oltre e senza comprensione del significato di rune affisse: il pensiero razionale, sarebbe stato quello di una chiara bolletta della luce non pagata.
L’uomo dai capelli blu ne rise al pensiero: bastò infatti che l’infisso si richiudesse per svelare il segreto di quella falsa asetticità.
La luce filtrata dal vetro del rosone colpì uno dei tanti cristalli che pendevano dal largo soffitto: in pochi secondi, luce inondò il pavimento, splendendo d’iride e dando alla stanza un aspetto che pareva uscito da un recente racconto fantasy.
«Sia fatta la luce.» mormorò Kaeya, osservando come ora tutto apparisse rigorosamente più ricco e pieno. Fosforo alchemico e pietre d’ametista erano una combinazione non così rara come potesse sembrare.
Il primo, impresso nel vetro del portone, rappresentava l’illuminazione spirituale ed era un simbolo della rifrazione dello spettro, le altre rappresentavano invece l’equilibrio, la guarigione e la purificazione.
In altre parole, erano un eccellente modo per costatare chi stesse entrando, intenzioni comprese, con tanto di calmamente pronto all’evenienza.
Le mura, nel frattempo, avevano preso una tinta lilla con diversi motivi floreali: in quel contrasto chiaro scuro, spiccavano attigui mobili d’annata barocca.
Ne approfittò per specchiarsi e sistemare l’orecchino, facendo attenzione ai preziosi vasi della sua datrice sparsi praticamente qua e là sul percorso.
Nell’aria olezzava un fortissimo profumo di viole misto a rose; ed a proposito di rose viola, queste non mancavano mai nelle composizioni: erano praticamente la firma della proprietaria, le metteva letteralmente ovunque, quasi nello sfregio di marchiare i suoi territori.
Scrollò le spalle, finalmente pronto a procedere verso la prima porta aperta, mentre l’eco di quelli sembravano televisori ridondava fastidiosamente sempre con più alto volume man mano si avvicinasse.
«Splendida giornata, non trova, miss Lisa?» tanto d’inchino nel poggiarsi allo stipite.
Incrociò le braccia: un sorriso furbo a cercare, poco dopo, lo sguardo altrui.
«Oh, come sempre in perfetto orario, ufficiale Alberich.» cinguettò quella, rigirando tra i guanti scuri la sua montatura rossa.
Lisa Minci, la sua altra datrice di lavoro, se così poteva definirla, era una bellissima donna.
Capelli castano chiaro in una delicata coda laterale, viso curato e privo di imperfezioni come fosse porcellana.
Le  labbra fini non mancavano mai di un tocco di rossetto rosato e gli occhi verde smeraldo brillavano d’un aura di mistero. Indossava sempre un completo elegante, mai scomposta: a tal proposito quel giorno vestiva con una gonna violacea a sigaretta ed una camicia bianca sino al gomito, aperta, cui spiccavano orli del probabile reggiseno nero; rispetto alla moda dura del tempo, specialmente per le donne, Lisa era senza ombra di dubbio un’avanguardia e forse anche per questo, il giovane dai capelli blu aveva imparato a rispettarla fin da subito.
Prese tranquillamente posto alla scrivania. L’occhio ceruleo di Kaeya ne seguiva attento i movimenti, finendo con difficoltà a scostarsi dal voluminoso cappello che, per qualche ragione lui ignota, la donna non toglieva mai nemmeno al chiuso.
La televisione continuava a ripetere il servizio di quella mattina.
«Ce n’è stato un altro. Ma questo già lo sai, no?» commentò Lisa.
Il ventiquattrenne alzò le sopracciglia, spostando il volto verso lo schermo del televisore ed ascoltando meticoloso quasi fosse la prima volta quello stesso servizio.
«Jean è preoccupata.» aggiunse la maga, versando del tè nella tazzina di fianco alle carte sulla sua scrivania; dal profumo era decisamente lavanda.
«Sei curioso?» chiese, proponendo quasi di unirsi a lei nell’indicare la credenza.
Kaeya si limitò ad un gesto di rifiuto cortese.
«Questo è il quarto caso. Tutte ragazze diverse, da scuole altrettanto disparate, e che non hanno nessun collegamento tra loro. Nessun problema nella vita privata.» mormorò l’agente, toccando repentino la tempia destra mentre la datrice aggiungeva dello zucchero. «Le famiglie non hanno idea del perché si siano suicidate.»
Lisa prese il primo sorso.
«Quindi danno per scontato avessero sviluppato un qualche disagio personale che le avesse spinte improvvisamente a togliersi la vita senza alcun messaggio d’addio. Sono decisamente troppo banali.»
«Messaggio d’addio?»
«Esatto, la chiave di lettura dovrebbe essere riferita proprio ad un elemento simile.» continuò, socchiudendo gli occhi così da godersi meglio la fragranza del tè. «Pensaci, se volevano morire avrebbero trovato un modo per non dare fastidio a nessuno. No?»
«E questo contraddice il fatto si siano buttate da un palazzo… È questo che volevi dire?»
Gli occhi di Kaeya parvero in effetti illuminarsi; un sorriso rigò il volto di Lisa.
«Bingo. Se non si prova alcun legame per questo mondo, non si sente nemmeno la necessità di annunciarne la propria dipartita. Non aver scritto un messaggio d’addio implica l’essere disposti a scomparire di buon grado: ma, pensaci, una morte simile che attira così tanta indiscrezione, è essa stessa una specie di messaggio d’addio, no?»
«Nessuna di loro aveva realmente intenzione di morire.»
«In altre parole ”è come se fossero uscite a far compere ed un tragico incidente stradale le avesse colte alla sprovvista”.» confermò la donna, terminando piano la sua bevanda «O almeno è ciò che ha detto Diluc.»
Capelli lunghi e sciolti, d’un cremisi intenso, erano ben visibili dalla sua postazione. La figura del giovane Ragnvindr sostava su uno dei divanetti, completamente immobile, a braccia conserte.
«Ha iniziato a indagarci quasi un mese fa. Non mi ha ascoltato quando gli ho detto di lasciar perdere. Il Darknight-Hero è sempre sin troppo diligente verso il dovere.» aggiunse.
L’uomo dai capelli blu sapeva di  non poterla biasimare: conosceva sin troppo bene la testardaggine del suo fratello giurato, e all’onor del vero, nemmeno lui vantava di sviare da un simile difetto; persino quello li univa.
«Mi domando quando tornerà…» Un’occhiata malinconica «Anche se non è ancora in pericolo di vita, ormai non può più nascondersi a lungo.»
Le rassicurazioni erano inutili, ma ironicamente una parte di Kaeya accettò di buon grado il pensiero di Lisa nel menzionarglielo.
Sapeva cosa Diluc fosse, o almeno in tanti anni l’aveva imparato.
Magus… Il velo permetteva la nascita di simili entità continuamente ed il dono fatto alla casata Ragnvindr era di quanto più malsano potesse capitarne.
La prima volta che Lisa aveva incontrato Diluc, il suo primo pensiero era risultato l’ammirare l’enorme quantità di circuiti magici in suo possesso: qualitativamente, aveva riferito, non erano che nella media, ma qualcosa di innaturale permetteva lui di usare gli elementi in maniera troppo precisa per il suo livello.
Kaeya all’inizio dei suoi studi non aveva avuto altre idee se non quella di un probabile sciamano o di un druido: c’era andato vicino, ma lo sguardo della donna ed il suo ‘vietare’ a Diluc di usarla esageratamente fece intuire lui ci fosse molto di più.
“Sappiamo benissimo cosa vuol dire” – sentenziò una voce; Kaeya scosse il capo.
In ogni caso, il rientrare in una simile categoria permetteva almeno dei vantaggi dal punto di vista fisico ed al momento era ciò che più contava.
Era un mondo complicato; a volte i pazzi che sbatteva in prigione avevano decisamente ragione.
«Sei instabile.» commentò la strega alzandosi dalla sua postazione per avvicinarsi.
«È tutto collegato?»
Lisa scosse il capo, mormorando sottecchi un “non me la sento di escluderlo”.
Lo sguardo cadde di nuovo sul televisore e poi su Diluc, lì addormentato.
Una mano finì tra i capelli blu prima di prendere alcuni scatoloni riposti all’angolo della stanza e sollevarli frettolosamente.
Aveva un debito verso quella donna e conosceva il suo posto: era alla stregua d’un famiglio, d’una semplice arma; tutto sommato non l’infastidiva nemmeno in vista di quello che ne avrebbe guadagnato.
Scrollò le spalle.
«Di già?» chiese quella.
«Sistemo le carte e torno a casa. Non vorrai che Jean si preoccupi di non vedermi tornare a lavoro prossimamente, no?» ammonì Kaeya, non senza un riso ricambiato.
E così fece: Lisa lo guardò andare via, trovandosi a porre l’occhio anche sull’uomo dai capelli rossi.
Un sospiro prima di tornare a sedersi.
 




 

 



 
 
                                                 Lo studio interno di Lisa era decisamente l’opposto del suo ufficio: se il primo aveva almeno una parvenza di ordine ed eleganza, il secondo era un completo ammucchiare di scartoffie e ciarpame vario.
A spiccare di più nell’ambiente erano delle bambole appese nel vano destro. A quella zona in particolare doveva stare attento perché la Minci vi lavorava con una certa maniacalità sino al punto da richiamarlo pesantemente al minimo oggetto furori posto nella piccola ala loro dedicata – caos compreso.
Fu quando l’orologio a pendolo rintoccò per la tredicesima volta che il capo di Kaeya si sollevò dalla miriade di carte portate sulla sua scrivania.
Lo sguardo cadde  irrimediabile sulla finestra che dava alito ad un vento freddo di cui si beò prima di allungare le mani verso l’alto e stiracchiarsi.
Un sospiro scocciato seguì il prendere la propria giacca da una delle tante sedie; uscendo da una serie di porticine laterali, il suo primo pensiero aveva il nome di ‘casa’.
Tutto ciò spiegava abbastanza chiaramente quanto qualcosa non andasse bene nel suo umore generale: le voci nella sua testa non erano solo peggiorate ma ora anche più opprimenti.
Nella sua situazione, le sue serate all’Angel Share o al Cat Tails erano solo lontani miraggi… Anzi, fermarsi in farmacia nella speranza di qualche sonnifero non era un’ipotesi che sentiva completamente di ignorare.
Afferrò l’accendino e stavolta riuscì ad accendere finalmente la sigaretta; decise comunque di non aspettare il pullman diretto, e fare, piuttosto, la strada per l’appartamento a piedi con la speranza di schiarirsi le idee.
Aveva appena imbucato la strada quando verso di lui venne incontro un cagnolino – un labrador, per essere fiscali.
Ma non fu l’aspetto né la razza a stravolgere il volto con una certa curiosità.
Le zampe dell’animale erano intrise di un liquido vermiglio, inzuppate al punto da lasciare sulla scia una serie di impronte; le strade erano innaturalmente vuote.
Proseguendo di qualche passo, di fronte a lui si palesò  presto un corpo: il sangue copriva gran parte del marciapiede e della piccola scalinata in rovina; ancora una ragazza e a giudicare dalla divisa anche piuttosto giovane: i vestiti totalmente intrisi.
«Il comitato d’accoglienza.» mormorò. Non c’era nulla potesse fare ovviamente, né poteva permettersi di sostarle troppo vicino. Le spaccature sul cranio erano più che evidenti: una caduta dall’alto.
Tolse il filtro dalla bocca; l’iride azzurra brillò qualche secondo, voltata verso il tetto.
E così si decise, entrando finalmente all’interno del grande palazzo del complesso Wangshen.
Bastò il primo passo perché il suo corpo si facesse incredibilmente pesante: l’aria invece raddensata, calda.
Qualche farfalla gli passò davanti e presto una risata – giovane – echeggiò attraverso le mura grigie, irrompendo la quiete.

Il coniglietto più grande si è ammalato
Il secondo prova a curarlo
Il terzo compra la medicina ♪


Iniziò a cantare: lo stesso mugugnare che già una volta aveva percepito avvicinandosi alla struttura sembrava penetrargli persino nella testa.
Era cinese, una canzone per bambini che doveva aver decisamente già sentito da qualche parte.
Perché ora?

Il quarto la prepara
Il quinto muore
Il sesto viene trasportato via
Il settimo e l’ottavo scavano la tomba per chi è morto e lo seppelliscono ♪


Salì le scale, in parte decrepite, che portavano al primo piano; qui trovò una serie di segni volti a fermare dal procedere oltre nella scena del crimine: un sospiro scocciato ed in pochi secondi, da dietro la schiena, cacciò un coltellino dalla punta argentea, lasciando il giallo dello striscione cadere mogiamente a terra.
Il corridoio che collegava i vari appartamenti, notò, dava su uno spiazzale verde che ricordava lui un chiostro.

Il nono crolla terra ed inizia a piangere
Il decimo domanda perché
Il nono risponde: quinto non tornerà mai più. ♪


Si sporse a dare un’occhiata verso la ringhiera, quando una fiammella di fronte a lui si erse; la testa tornò a fargli male e l’occhio prese a brillare di un innaturale azzurro: una discrepanza nello spazio, constatò.
In pochi secondi uno sciame di farfalle cremisi l’investì e a stento riuscì a mantenere la posizione, provando a proteggere il volto anteponendovi le braccia.
«Vieni.»
Qualcosa ne afferrò il polso, ed in pochi secondi, si vide scaraventato contro i muri al pari d’una bambola: di fronte a lui, apparve una figura femminile: capelli castani, occhi rossicci ed un enorme cappello.
«Una ragazzina non dovrebbe andarsene in giro di notte.» mormorò, sputando il sangue dovuto all’impatto; probabilmente avrebbe avuto dei lividi niente male a cui badare.
Quella per tutta risposta, fece una giravolta con tanto d’occhiolino.
«Pft. La luna è fuori.» echeggiò asserendo all’astro «Ed eccomi qui.»
Kaeya ne rise, beffardo.
«Oh, capisco, capisco. Ma vedi, non ti hanno mai detto che la luna non si indica? Ti verranno i brufoli, signorina.»
La giovane parve intoccata dall’informazione, quanto incuriosita.
«Capisco, vuoi giocare.» aggiunse: intorno a lei una miriade di farfalle rosse.
«Lascia che ti mostri qualche trucco allora, Three butterfly!»
Ma stavolta, Alberich non se ne rimase con le mani in mano.
La lama del pugnale che recava ancora in mano si raggelò in un attimo: prima che una singola farfalla ne toccasse il corpo, fendenti d’aria gelida spezzarono le fragili ali.
«Mi dispiace, non prendere geloni mi raccomando.»
Il volto del fantasma si dipinse di scherno ed un grido spezzò la quiete. Ancora una volta Kaeya venne lanciato contro il colonnato, trascinato poi per terra, e spinto verso il cornicione: sembrava uno spettacolo di burattini.
“Lasciami andare.”
Provò a fare appello alle sue forze, aggrappandosi al ferro prima che un dolore lancinante ne colpisse la testa nuovamente: non ci voleva, non ora perlomeno.
«Lo invidio perché sta sognando…. Quel potere è caldo. Lo sento pulsare.» confessò, apparendo proprio sopra il volto di Kaeya, fluttuando libera.
Fu lì che in un attimo di lucidità, scorse degli strani segni sul muro seguire in perpendicolare verso il basso a modo di pesante incisione.
Ancora una volta gli chiedeva di fidarsi di lui, mh?
«Quella persona… È  qualcuno di terribilmente onesto, ho proprio voglio d’infastidirlo.»
Kaeya digrignò i denti similmente ad un cane rabbioso.
«Lui potrebbe volare ovunque…» mormorò «Vorrei mi portasse con sé.»
E tanto bastò perché il mondo dell’uomo dai capelli blu subisse la scossa per farlo reagire.
Rabbia, gelosia, possesso… Incomprensione?
«Tu non capisci.»
Con forza innaturale, affondò la lama attraverso la carne, lasciando il metallo stridere contro le sue ossa. Un grugnito di dolore lasciò la bocca. Il braccio cadde a terra con un tonfo e mogiamente, Kaeya si dondolò, cadendo verso il basso per recuperarlo; quando sollevò l’occhio, ormai vivido d’oro, non trovò nessuno.
La ragazza era sparita.
 


 

note sui significati:
❧  Lavanda: oltre a sonare tranquillità, nell'esoterismo la lavanda si ricollegava al culto di Venere, per cui era spesso impiegata per magie/rituali per la fortuna in amore; il suo profumo infatti secondo le vecchie leggende poteva attrarre addirittura gli uomini. Tuttavia la sua valenza non terminava qui ma presentava un duplice significato riconducibile alla protezione della persona e alla gioia. Da ciò nasce addirittura la tradizione popolare del mettere della lavanda nel corredo degli sposi, così da donare loro buoni auguri per il futuro. 
 
  Il colore viola nasce dalla mescolanza del blu e del rosso. Il primo incarna la saggezza, il secondo l’amore. Fino a oggi ha sempre rappresentato simbolicamente il mistero, la magia e la metamorfosi. E’ per eccellenza il colore della spiritualità.
 
  La farfalla rossa: nelle culture orientali spesso la farfalla è ritratta come messaggera dei morti verso i vivi.
In particolare, quelle rosse simboleggiavano addirittura buone notizie e portava sfortuna allontanarle o fare loro del male (si kaeya, ti giudico).
In diverse tradizioni il simbolo della farfalla ha acquistato valenze e connotati differenti, come rappresentazione dell'anima stessa, il cambiamento o spesso le si associa addirittura ai segreti siccome seguirle 'conduce a posti misteriosi'.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 - The doll with red hair ***


Note: Raccomando ai miei nuovi indomiti lettori di leggere assolutamente le note del primo capitolo per chi non l'avesse fatto.
Lo so che siete brv e già sapete le cose ma è importante ricordarlo onde non ritrovarci con spiacevoli gnigni o grrrrr.
Grazie per iniziare quest'avventura insieme a me! 

L'autrice si scusa per la lentezza ma il computer l'ha mandata a quel paese e quindi ha dovuto rimandare-
Nel compenso, questo capitolo è piuttosto lunghetto.
Come al solito, ogni commento/recensione è super prezioso e stra gradito!
Ti auguro buona lettura, mio indomabile lettore! 
( ✧≖ ͜ʖ≖)



 



 
Omen
presagio


 


 
                              «Capisco, quindi hai preso una bella batosta eh, mr. principe azzurro?»
La sua datrice non si trattenne, un sorrisetto rigò le labbra tinteggiate da un bizzarro e sin troppo sgargiante rossetto violaceo: probabilmente si trattava di qualche nuova creazione di magia rosa.
«Suvvia, è stata senza dubbio una semplice ritirata strategica, miss Minci.»
Ribatté ironico.
Lisa prese a sbuffare a metà tra il diletto ed il preoccupato, sebbene non si degnò di voltarsi verso di lui nel processo: l’attenzione della donna era infatti tutta sulla protesi dell’ex braccio appartenente a Kaeya.
Parve divertita più del solito perché la fece rotolare sul tavolo in mogano per qualche secondo, quasi come gatto con un gomitolo di lana, prima di prendere un bisturi tra le mani e incidere nettamente.
Tutta la scrivania era tappezzata di fili e strani aggeggi, la libreria di fianco piena di stravaganti bottiglie dal contenuto discutibile ed un sacco d’altra roba pendente di cui in molti avrebbero preferito evitare di domandare – in ogni caso, non avrebbero ricevuto che folli risposte o intricati enigmi.
Le lenti che indossava riflettevano la luce chiara che pendeva dal soffitto del laboratorio interno: si trovavano nel famigerato ‘lato destro’ cui nessuno poteva assolutamente avvicinarsi senza invito, pena elettroshock.
«Interessante tu sia stato capace di distinguere dei vecchi segni decadenza da quelli più recenti fatti da Diluc.» aggiunse, chinandosi nel lavorare minuziosamente alle connessioni nervose ora scoperte: bastava un singolo sbaglio per mandare a monte un intero pezzo, quindi si capiva facilmente il perché cercasse di spostare l’attenzione il meno possibile «Ufficiale, lei ha decisamente… Occhio.»
Kaeya rise blandamente alla battuta: no, il senso dell’umorismo di Lisa non era per niente migliorato, ma chi era lui per non darle un po’ di corda?
«Non sembra ma quello lì ha una forza non indifferente: devo aver colto bene il suo messaggio perché quando mi sono calato nel chiosco, le farfalle hanno smesso di seguirmi. C’era inoltre una chiesa di stile romanico e dalla porta in pezzi sul finale del sentiero in ciottoli. Non credo debba rinominare il responsabile di un tale scempio verso l’arte.»
La maga mugugnò qualcosa che l’altro non colse, continuando imperterrita nell’analisi dell’avambraccio.
«Quindi presumo sia lì che hai trovato quello strano talismano, vero?» chiese, chinandosi su una delle bambole poste sul pavimento e sollevando una specie di filo scuro incastonato.
Finì per dargli le spalle nel processo.
«Si, ed era decisamente ben nascosto. Non è stato facile da individuare.»
Kaeya, poggiato contro il muro a gambe incrociate, approfittò di qualche attimo di silenzio per toccare l’occhio non coperto, premendovi; le ciocche azzurre caddero morbidamente sul viso ambrato e sulla mogia mano.
Era infernale la sensazione che stava provando, come se l’iride stesse ancora bruciando…
Ed il corpo non era da meno, lento nelle risposte e visivamente spossato nonostante i tentativi di apparire a posto: se non fosse stato per il suo talento nel soverchiare la realtà sarebbe risultato ancora più evidente.
Non c’erano scuse stavolta, aveva decisamente esagerato.
«Stai peggiorando.» spiegò Lisa senza voltarsi, quasi potesse persino percepire un movimento tanto silenzioso – e forse, chissà, era davvero così, Kaeya non se ne sarebbe nemmeno stupito, onestamente.
«E’ solo una questione di tempo. Entrambi siete al vostro limite.»
L’uomo morse il labbro, carezzando infastidito la chioma: ma prima che potesse ribattere, si ritrovò Lisa innanzi con uno specchietto.
«Il tuo viso non risponde più alle giuste espressioni.» aggiunse la strega in un sospiro prima di allontanarsi e prendere posto sulla vecchia sedia di fianco la scrivania; era tremendamente seria.
Aveva usato l’Altro senza consulto né tantomeno aver tolto la benda, con instabilità precaria in bonus a fare da contorno: Lisa pareva averglielo letto in faccia.
La verità era che se qualcosa fosse andato storto, avrebbe rischiato di perdere sé stesso nel processo - e quello poteva tramutarsi in un problema più che oneroso, specialmente senza Diluc nei paraggi.
Da contratto, era pur sempre il famiglio della strega e doveva rispettare il lazzo, quello era ciò che la Minci gli stava segretamente intimando.
Come un bambino colto in fragrante dalla propria madre per una marachella, non poteva ora far altro che abbassare la testa in colpa evidente e fare (o fingere?) ammenda.
Per quanto umiliante, si trattava sempre di una questione di responsabilità: un servizio per un altro servizio; andava bene così.
Lo sguardo comunque, mosso da curiosità, cadde irrimediabilmente sulla protesi.
«Non pensavo si rompesse così facilmente, sa, Miss Minci?» mugugnò -  un tentativo provocatorio di cambiare discorso ed evitarsi un’ennesima paternale.
Lisa, tuttavia, poggiò un braccio lungo proprio fianco, tagliando di netto la conversazione.
«Piuttosto,» lo ignorò «non è da te, essere così impulsivo.»
Il bisturi tintinnò un paio di volte, echeggiando in sala. Kaeya comprese di aver fallito miseramente lo sviare – decisamente non era in forma, di norma sarebbe stato molto più facile.
«Non è passato molto tempo da quel caso, sai meglio di me non dovresti strapazzarti.» aggiunse la datrice, perplessa.
«E questo è uno di quelli particolari, ma immagino tu l’abbia capito da solo.»
Il busto si porse in avanti, cercando tra i cassetti dell’immobile: le dita coperte dai guanti in pelle violetti passarono tra i volumi riposti nel terzo con attenzione, sollevandone infine uno; una copertina sin troppo sobria, notò il ‘famiglio’ incrociando le braccia (o l'avambraccio rimastogli con quello sano, per la precisione).
«In quel posto, il tempo è distorto. È come se fosse invertito: si può dire che i dati vengano intrappolati al loro interno. In pratica, non si sono ancora adeguati alla realtà.» continuò l’uomo; gli appartamenti, quello stesso cortile dall’erba stranamente bassa, le scritte pulite sui campanelli…
Se quelli di Diluc non fossero stati segni realizzati con un’arma intrisa di magia, non li avrebbe visti nemmeno lui.
E ciò spiegava il perché non ci fosse nessun segno particolare nei rapporti della polizia.
«Questo è quello che intendevi dire qualche tempo fa vero, Lisa?»
La maga girò un paio di pagine e solo allora sollevò le iridi smeraldo; sorrideva.
«Dimmi Kaeya, cosa ti viene in mente pensando ad un panorama da un posto elevato?»
«Che stai cercando di dire?»
Lisa si alzò solo per sedersi nuovamente in corrispondenza dello spigolo del tavolo; il libro venne poggiato di fianco.
Si gongolò quasi fosse bambina, picchiettando divertita le dita coperte sulle labbra, quasi a cercare le parole adatte.
«Non è facile da spiegare: c’è chi prova vertigine, chi sconforto, chi potere: ci si sente inermi alle volte, tanto quanto potenti. Ma vedi Kaeya, quella a mostrarsi agli occhi non è che distanza…»
L’agente cercò di seguirla: quando Lisa iniziava i suoi discorsi filosofici, perdersi era estremamente facile; sapeva fosse l’ennesima prova per avere il suo aiuto.
Onestamente, non capiva i maghi: parlavano in indovinelli, blateravano di  potere e nozioni assurde, agivano senza una 'propria' coscienza.
Il confine tra immorale e morale era loro vago, i loro scopi volavano oltre la semplice conoscenza o potere, vibrando in uno spettro che chiamavano spesso 'curiosità' e per cui si immolavano senza minima esitazione o paura.
Non erano né burattini, né burattinai: forse era questo loro adattarsi al potere a renderli così affascinanti e pericolosi.
Chissà che sensazione era, quella di ucciderli - sussurrò qualcosa dentro di sé – inumana, forse?
Kaeya scosse malamente il capo, cercando di tornare alla realtà mentre tentava di ribellarsi all’insieme di folli idee che cominciava a chiamarne attenzione; fastidiose.
«Una lontananza, quindi.»
«Bingo!» comunicò la donna, battendo le mani entusiasta. Gesticolava, il cappello violaceo pareva emettere uno strano tintinnio.
«Vedi, la vista di un panorama dall’alto è mozzafiato, persino se questo è ordinario. Eppure nell’osservarlo si crea come una barriera, una forza di divisione che in psicologia ricorda il dissociarsi. Si tratta d’un divario tra quanto consideriamo nostro mondo e il mondo in quanto tale.» continuò.
«È complicato: la tua ragione, rappresentata dalla tua conoscenza e la tua esperienza, rappresentata dalla tua comprensione, si scontrano. Da loro si genera confusione, il che porta al perdere se stessi e cadere.
per farla breve, la vista non è data da ciò che vedi ma da quello il cervello comprende: la nostra vista è quindi protetta dal buon senso. Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo in alto, aldilà delle loro piccole scatole – finirebbero per perdersi… O almeno, in circostanze normali.»
L’uomo dai capelli blu toccò il mento, pensieroso.
«Quelle farfalle hanno smesso di seguirmi entrando nella chiesa, quasi non potessero vedermi in effetti.»
I tacchi di Lisa echeggiarono sui pavimento lucido.
«Logicamente è stato delimitato un perimetro, anche le forze hanno un loro ordine per funzionare correttamente. Ti ho mai raccontato della leggenda delle streghe di Benevento?»
Il famiglio alzò le spalle.
«Conosco solo rimandi a certi rituali e al Noce. È materia di Diluc, quel genere di storie, ricordo pochi stralci: se non erro, qualcosa relativo all’esoterismo medievale ed al cristianesimo..?»
Quella asserì.
«Vedi, secondo la leggenda, San Barbato fece erigere tre chiese per chiudere il campo di energia magica del Noce ed impedire l’afflusso corrompesse il territorio circostante. Ovviamente ci sono un sacco di falsi storici, ma in base al talismano che hai trovato potremmo trovarci di fronte ad un caso simile. Tutti sono collegati da qualcosa a che fare con l’acqua, dal lago sino al fiume Sabato e alle sue rive.»
Quindi, ripensando a quell’oggetto sradicato con forza dalla parete…
«Il carattere cinese usato sembra spaccato il simbolo dell’acqua. Forse la risposta potrebbe avere un senso se localizzassi le altre chiese.»
La strega annuì soddisfatta prima di voltarsi verso il braccio e rimettersi al lavoro, facendo cadere così un innaturale silenzio.
Era una questione di vita e morte, eppure Lisa appariva totalmente tranquilla, come pura normalità.
Kaeya ne approfittò per fare qualche passo e girovagare in quell’area proibita fatta di disegni, di parti antropomorfe di cui solo Dio sapeva cosa e minuziose caricature umane.
Era impressionante la cura la sua datrice detenesse per il più piccolo oggetto, e nonostante lì non pulisse, nemmeno un briciolo di polvere traspariva sull’oggettistica sparsa o tra le teche.
Una bambola in particolare colse la sua attenzione: gli occhi dorati parevano scrutarlo ed irrimediabilmente vide se stesso; accanto, capelli rossi di un’altra testa di quelle creazioni, coprivano lo sterno.
Che li avesse presi come modelli? Eppure i tratti facciali erano ben diversi.
Prese a toccare inconsciamente le ciocche rosse, beandosi del loro assottigliarsi con le sue dita olivastre; erano morbide come seta…
Non che ne avesse dubbio… Il talento della burattinaia Minci era terrificante.
«Se vi si investono tempo e sforzo anche  bambole e braccia artificiali possono essere create con estremo realismo, vero? Ma se non possiedono un’anima, non sono che contenitori, e questo vale egualmente per gli esseri umani. Un vuoto. Proprio come eri tu in passato.»
Mormorò Lisa, rompendo la quiete; la sua figura era appena illuminata dalla luce – non si era voltata, quasi già avesse previsto dove l’altro si sarebbe fermato: l’intuito della grande artista e creatrice di bambole, probabilmente.
Era stato alle mostre della sua datrice un paio di volte, tutti ne rimanevano sempre estasiati dalla cura magistrale e dal realismo: parevano respirare, sussurrarti di liberarle o anche solo pregare uno sguardo.
C’era solo un pezzo, in effetti,  a cui non faceva mai avvicinare, completamente velato.
Una volta aveva scorto dei capelli biondi, ma se ne era subito allontanato dato lo sguardo non esattamente gentile.
Si diceva fosse il suo pezzo migliore, nessuno oltre lei l’aveva mai visto, ed ora si trovava proprio rinchiuso nella cassa sopra le due; preferì non indagare oltre.
«Quando è venuto qui la prima volta, ha aspettato sotto la pioggia anche dopo la mia negazione. All’inizio ho pensato fosse solo un ragazzino riccastro con uno sprazzo di dono, l’avevo intravisto in molte mie esposizioni. Dovetti ricredermi, sai? Non faceva che guardare quelle bambole perché…», qui trattenne un sospiro. «Forse in loro vedeva il tuo volto.»
La mano di Kaeya si fermò di colpo; l’ombra di Lisa contro il muro fu tutto ciò che riuscì a guardare.
«L’avevo avvertito di stare lontano dal complesso Wangshen. Le persone ossessionate dalle bambole non dovrebbero avvicinarsi.»
Kaeya scoccò la lingua.
Non disse altro, lasciò andare la presa e si voltò verso le scale.
Nessuno dei due parlò oltre o insistette: nel corridoio che portava al piano superiore, riuscì a cogliere appena l’inizio di uno strampalato motivetto.
Fu qui si permise un sospiro stanco, mettendo le mani in tasca e valutando la possibilità di scusarsi per il comportamento il giorno successivo. 
Comprendeva di star diventando infantile, da una parte sembrava voler scappare dalle proprie responsabilità, dall’altra non faceva che sentire il peso della colpa addosso.
Se non fosse stato per il loro ennesimo litigare qualche settimana prima, forse nessuno dei due sarebbe finito in quella condizione così spinosa.
La testa gli scoppiava, le voci ora erano molto più forti: cercavano disperatamente di rompere la sua barriera; il confine verso il vuoto era davvero vicino, stavolta.
La luce della luna filtrava di fronte allo studio di Lisa mentre le varie sfere di quarzo rifrangevano sul pavimento: aveva preso la strada per la porta principale ed era perfettamente a conoscenza del perché il suo corpo l’avesse portato lì.
Voleva vederlo, ne aveva bisogno… No. Ne avevano entrambi bisogno, lui e l’Altro.
Buffo: bastò anche semplicemente entrare per sentire il dolore alla testa farsi più fioco.
I capelli vermigli erano sciolti, sparsi sopra il chiaro del divano e Diluc era a dir poco etereo; suonava quasi irreale pensare a quanto invece si nascondesse dietro al viso d’apparenza delicato.
Era vino d’annata in una bottiglia con un’etichetta di succo d’uva.
La sua espressione normalmente sempre stoica e che l’invecchiava terribilmente, aveva lasciato il posto ad una, invece, calma, quasi serena – l’ingelosì terribilmente.
Mentre riposava appariva finalmente della giusta età… Anzi pareva persino più giovane: se fosse stato sveglio, l’avrebbe persino canzonato.
Non poté impedirsi di avvicinarsi, di toccare la chioma cremisi, di perdere le dita in quel rosso mille volte più morbido dei capelli di quella mera bambola.
Fu quando però il corpo cadde sotto la lieve spinta, che Kaeya tornò alla realtà, spezzando quell’incantesimo durato pochi attimi.
Un suggello di emozioni: si sentì come un vaso di pandora nel pieno del caos e l’odiò.
Nella protezione della notte, calò su di lui in un bacio soffice: erano calde come il fuoco, quelle labbra, ma aride.
E lui aveva bisogno di fiamma viva.
Fu ladro mite, prima di sparire oltre l’uscio e tornare nell’appartamento, conscio del tempo che batteva i suoi rintocchi.
Le gocce di pioggia lungo il tragitto non aiutarono il suo umore, la mano rimastagli stringeva il vecchio cellulare: toccò un paio di volte lo schermo, contattando chi di dovere in quella follia; al momento, il nome lampeggiante, era detenuto dall’unica persona che poteva aver accesso liberamente alle chiese per controllare negli anfratti riservati.
Kaeya sapeva di non essere esattamente amato dai chierici e non voleva né poteva rischiare: per quanto si dilettasse a coinvolgere gente negli affari di poco conto, questa volta si trattava di un caso troppo personale e doveva ammetterlo: era stato messo al muro come un topo; quasi umiliante.
Decise di optare per il pullman cittadino stavolta ed evitare il complesso, lasciando lo sguardo cadere sulla movida serale della sua città: era tutto ciò che poteva fare così ridotto.
Tornato all'alloggio, senza dare minimo sguardo all’ambiente preferì buttarsi direttamente nel bagno.
Sotto la doccia, la voce di Diluc registrata nei messaggi del telefono struggeva la sua pace.
“Siamo sempre stati uno.”

Si addormentò con il rumore fastidioso del rubinetto che gocciolava.

 
 
 
 
“Un giuramento lega in eterno.
Il mio destino è il tuo destino.
Il mio sangue è il tuo sangue.
Impresso nelle ossa: proselito.”
Due sedicenni ripetevano le parole impresse sull’ambone; di fronte a loro, una coppa bagnata nell’oro.
“Insieme attraverso le verità del mondo
Scudo e spada.
Fiducia e lealtà.”
 
 

 

 
 
 
 
 
                               Venne svegliato dal trillo del citofono, non sapeva nemmeno che ora fosse onestamente, ma a giudicare dalla poca luce che riuscì a scorgere con la punta dell’occhio dalla finestra, doveva essere sera.
Che avesse dormito un giorno intero? – si domandò. Ed in effetti non poteva escluderlo, acciaccato com’era e letteralmente senza una parte del corpo.
Mugugnò infastidito ponendo il capo tra i cuscini.
Dire la testa gli scoppiasse era decisamente un complimento, dovette resistere all’impulso di arrovellare il tessuto alle orecchie un paio di volte.
Fu solo il fatto del – beh – ‘non avere un braccio’ ad impedirglielo.
Sbuffò e con mal voglia trascinò il suo corpo fuori dal materasso, cercando di apparire presentabile: era pur sempre Kaeya Alberich, anche le apparenze erano un lavoro duro ma importante.
Quando scoprì, comunque, chi fosse alla porta scoprendo guardingo l’occhiello, non riuscì a nascondere una non indifferente sorpresa.
«Il sovraintendente in persona alla mia porta, quale onore miss
Gunnhildr. A cosa devo la visita?» chiese, aprendo quanto bastasse l’infisso da non apparire rude.
Fece attenzione a non scoprirsi troppo: la cugina di Diluc era terribile in quanto ad osservazione…
Il posto non le era certo stato dato per il bel faccino.
Jean sospirò, mano al fianco ed occhi inquisitori; in effetti, non aveva nemmeno indosso la divisa….
Che stesse assistendo ad un evento più unico che raro, Jean in… Vacanza?
«Sir Kaeya.» incalzò quella; Alberich la bloccò prima potesse continuare: una mano appena poggiata sulle labbra.
«Jean non siamo in veste ufficiale, Kaeya va bene. Posso fare qualcosa per te?»
«In realtà ero preoccupata, Amber mi ha riferito non rispondi ai messaggi da giorni, in centrale erano decisamente caotici.»
L’uomo dai capelli blu roteò gli occhi, permettendosi un sospiro tanto spazientito, quanto – stranamente --divertito.
Forse l’idea dell’ufficio in caos non gli spiaceva poi così tanto e Jean parve capirlo perché incrociò le braccia; il sopracciglio biondo ad alzarsi.
«Ma immagino qualcuno come te non possa sprecare tempo con un malato d’influenza o sbaglio?» ammonì l’agente.
«Ti trovo stranamente arzillo in realtà» aggiunse per tutta risposta la donna, calcando molto il tono.
Kaeya sorrise furbo, iniziando una serie di tossicchi programmati poco dopo; mano al cuore, braccio a non reggersi mentre trasformava l’espressione in una contorta da puro dolore.
La sovraintendente probabilmente l’avrebbe fulminato se la sua lingua di fata non avesse trovato il giusto diversivo.
 «Oh!» esclamò infatti, guardando l’orologio. «Le sei, l’ora della medicina – Ah, Jean, non hai un appuntamento con Lisa?»
Un colorito rosso alle gote. «Come-»
«Sono pur sempre un detective, no?»
La 
Gunnhildr scosse la testa; in realtà era molto a tradirla: non solo si trattava di vestiti di tutto punto, ma anche decisamente non del genere che la donna dai capelli biondi indossava usualmente…
Oh, per non parlare del profumo, poi…
Jean si permise un sospiro, estraendo dalla borsa scura che recava con sè un pacco violaceo.
Non aveva nemmeno bisogno di conferme da chi provenisse quel genere di tinta.
«Da parte di Lisa», mugugnò. «E a proposito di Diluc…»
«Non stai facendo tardi?»
La donna morse il labbro in esitazione; che fosse preoccupata glielo si leggeva in faccia.
«La vacanza di lavoro per gli affari della Dawn Winery si sta tirando per le lunghe, Diluc semplicemente tende a non chiamare come al solito: chissà, potrebbe aver trovato piacevole compagni-»
«Kaeya!» esclamò Jean, tirando immediatamente un orecchio al giovane ufficiale.
«Si, è proprio il mio nome» bofonchiò in un piacevole riso mentre finalmente anche le spalle della sovraintendente ora apparivano più rilassate.
Jean era famiglia per lui, quasi una sorella minore: fu felice di trovarla bene.
«Cerca di rimetterti…» aggiunse, mollando la presa e sistemandogli meglio la benda sull’occhio.
Alberich annuì. Un gesto di cortesia prima di salutarsi e rientrare nell'appartamento.






 




 
                                     Prese posto sul letto, iniziando piano a scartare la scatola e accendendo nel mentre una sigaretta.
Il profumo del tabacco si disperse nell'aria riempiendo l'ambiente.
Come da aspettativa, trovò all'interno il nuovo braccio, avvolto in una serie di imbarazzanti nastrini: attaccato, un cartellino dalla fragranza di viole.
“Per ora potrebbe sembrarti scomodo, ma ti ci abituerai in fretta.” Lesse “ Due volte più robusto del precedente, neanche se uno squadrone di elefanti ci passasse sopra si romperebbe.
Spero che con questo braccio il mio piccolo aiutante sia più efficace di prima: trattalo con cura, mon cherie.”
Lisa era sul serio una donna dalle mille sorprese, si ritrovò a pensare mentre lo rigirava con la mano per osservarne bene componenti ed attaccatura.
Doveva essere delicato e non frettoloso con quel genere di oggetti, ma la scaltrezza ed intelligenza erano fortunatamente sempre state sue fidate alleate.
Lo indossò piano, chiudendo le dita e riaprendole per monitorare la reazione dei movimenti.
In effetti era diverso rispetto al precedente in quanto a pesantezza ma i riflessi sembravano abbastanza rapidi.
Ne approfittò, spegnendo il tabacco nella ceneriera sul suo comodino: il fumo prese a salire.
Con un colpo rapido di lama, riuscì a disperderlo in tagli precisi.

 
 





 
note sui significati:
❧  La canzone del capitolo precedente: da dove verrà, chissà? In realtà è un rimando alla canzone cantata da Hu Tao stessa. La versione inglese nel gioco è stata censurata/localizzata (e quando mai!) quindi non appare completa. Per chi gioca con le voci giapponesi, è la canzoncina che spesso canta, al posto di Hilichurls ci sono i coniglietti.
La canzone originale si chiama 10 conigli!

 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3985463