Someone like you

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ragazzo dei waffle ***
Capitolo 2: *** Una passeggiata notturna ***
Capitolo 3: *** Buona Notte ***
Capitolo 4: *** Il lupo bianco ***
Capitolo 5: *** Routine ***
Capitolo 6: *** Feste ***
Capitolo 7: *** Un brutto presentimento ***
Capitolo 8: *** Crepe ***
Capitolo 9: *** Spiragli ***
Capitolo 10: *** Tornare a vivere ***



Capitolo 1
*** Il ragazzo dei waffle ***


Come anticipato nella presentazione della storia,
questo racconto si inserisce nella serie "I love Avengers" da me creata.
I "miei" Avengers sono un po' diversi da quelli Marvel perchè in tanti anni ho creato coppie
e aggiunto personaggi che hanno seguito un percorso tutto loro, a volte diverso da quello del grande schermo.
Il personaggio di Bucky non mi aveva colpito, lo ammetto:
ma dopo aver visto la miniserie The Falcon and The Winter Soldier, mi sono ricreduta
e questa storia è nata praticamente da sè.
Non c'è nessuno spoiler in questo racconto, ma questo Bucky è il personaggio
schivo e tormentato della serie e di cui mi sono innamorata da qualche mese.
Spero che la fanfiction vi piaccia e che vorrete farmelo sapere.
Buona lettura!

New York non dormiva mai. E Rebecca Stan l’adorava. 
Era la città in cui venticinque anni prima era nata, la città in cui era cresciuta, in cui viveva e lavorava. La città lontano dalla quale non riusciva a concepire di poter stare troppo a lungo. 
Quasi quarant’anni prima, il padre di Rebecca aveva conosciuto una giovane che discendeva dalle popolazioni native americane. Il suo nome era Kateri Hahnee e Peter si era innamorato immediatamente dei suoi occhi scuri e della sua pelle olivastra. 
Si erano sposati dopo appena un anno di fidanzamento ed erano andati in viaggio di nozze in Italia perché Kateri sognava da sempre di visitarla. A Roma, Peter si era invaghito della cultura di quel popolo e, tornato in America, aveva aperto una caffetteria dove serviva caffè espresso e dolci italiani. Avevano avuto una figlia quasi subito, Rowena. Rebecca era arrivata quindici anni dopo, quando ormai avevano smesso di pensare di dare un fratello o una sorella a Rowena. 
Mentre Rowena studiava da architetto, Rebecca era cresciuta fra i tavolini del Caffè Roma e, finito il liceo, aveva affiancato papà e mamma nella gestione della caffetteria. Nel 2016 a Peter era stato diagnosticato l’Alzheimer e quindi, a soli ventun anni, Rebecca era diventata proprietaria del locale, che tutt’ora dirigeva. 
Sua madre si era ritirata per badare a Peter, mentre quella odiosa malattia faceva il proprio corso. Ormai Peter riconosceva le figlie con sempre minor frequenza e, ogni volta, era una coltellata al cuore. 
Rebecca abitava al secondo piano di un palazzo in Baxter Street e tutte le mattine, prima delle sette, scendeva in strada, infilava un auricolare e avviava la sua playlist preferita, riponendo il cellulare nella fascia fissata al braccio sinistro. Poi partiva di corsa in direzione sud, diretta al Columbus Park. Correva per una mezz’oretta e poi tornava nel suo appartamento, faceva la doccia e si preparava per andare al lavoro. 
Il Caffè Roma, nel Greenwich Village, era stato rinnovato da poco. Niente di particolare, Rebecca aveva voluto mantenere l’atmosfera del luogo che l’aveva vista crescere, ma l’aveva svecchiato un po’. Con lei lavoravano Sarah, la sua migliore amica e la sua più fidata collaboratrice, e uno staff composto solo di donne. 
Come tutte le mattine, Rebecca prese la bici e raggiunse il Caffè Roma mezz’ora prima dell’apertura. Sarah era già arrivata e la salutò mentre indossava il corto grembiule nero che era la loro uniforme. 
«Hai rischiato di dover aprire tu, stamattina» borbottò la ragazza, mentre si raccoglieva i capelli con uno spillone. «Un idiota con una Lamborghini a momenti mi mette sotto sulle strisce pedonali. Mi si è fermato a dieci centimetri, mi sono vista tutta la vita scorrermi davanti.» 
«Magari voleva solo chiederti un appuntamento» replicò Rebecca, allacciandosi a sua volta il grembiule. 
«Spiritosa. No, la verità è che c’è una quantità di idioti che circola sulle strade di questa città.» 
Rebecca ridacchiò e andò a togliere i chiavistelli alla porta, girando il cartellino su “OPEN”. La campanella che era applicata sul battente iniziò quasi subito a tintinnare, mentre i loro soliti clienti entravano per la colazione. 
Rebecca e le altre ragazze furono impegnate nel servizio finché, mentre Rebecca stava facendo il conto ad una coppia di anziani clienti abituali, Sarah le si avvicinò e accostò la testa alla sua. 
«Il tuo amico è arrivato, Becks» sussurrò. 
Rebecca salutò la coppia e lanciò uno sguardo al nuovo arrivato. Veniva nel suo locale da circa un mese, tutte le mattine. Indossava una giacca che a lei sembrava davvero troppo leggera per la temperatura gelida di gennaio, ma non sembrava essere un problema per lui, e un paio di guanti di pelle che non toglieva mai. 
Vestiva sempre di nero, colore che gli sembrava nettamente cucito addosso dato che in quel mese non l’aveva mai visto sorridere. Anche quel giorno entrò con la solita espressione corrucciata e puntò uno dei tavolini in fondo alla sala, accanto alla vetrina, come se volesse tenere d’occhio l’esterno. 
Nonostante l’espressione tesa che non lo abbandonava mai, era il ragazzo più bello che avesse mai visto. Aveva i capelli castani tagliati corti e un velo di barba gli copriva le guance e la fossetta sul mento. Alzava raramente gli occhi, ma Rebecca era rimasta affascinata dal loro azzurro quando le era capitato di incrociarli. 
Ogni volta che entrava, aveva l'impressione di conoscerlo, o quantomeno di averlo visto da qualche parte. Ma non riusciva a ricordare dove. 
«Secondo me viene per te» commentò Sarah. 
«Ma se non mi guarda nemmeno.» 
Sarah sorrise: «Ti guarda eccome, tesoro.» 
«Hai dei clienti a cui badare, Sarah» la rimbeccò. 
«Anche tu» fece l'altra, accennando con la testa verso il tavolo del ragazzo con la giacca di pelle. 
Rebecca si avvicinò all'uomo che sedeva fissando con espressione torva fuori dalla vetrata. 
«Buongiorno» lo salutò, rivolgendogli un sorriso. Le piaceva il contatto con i clienti abituali, ma questo ragazzo restava un mistero: non sapeva nemmeno come si chiamava. «Prendi il solito?» 
«Buongiorno». La sua voce era decisamente adatta al personaggio, bassa e profonda. «Sì, prendo il solito.» 
«Arriva.» 
Rebecca passò l'ordine alla cucina: lui prendeva sempre waffle ai mirtilli e caffè americano con un piccolo bricco di panna. 
«Perché dovrebbe venire in una caffetteria italiana per prendere un americano e dei waffle?» rincarò Sarah. «Potrebbe trovarli ovunque. Mi sembra quantomeno evidente che venga per te.» 
A Rebecca sarebbe piaciuto crederlo. Era single da quasi tre anni ormai, dopo che aveva scoperto che il suo fidanzato Clive intratteneva almeno due relazioni con altrettante signorine che erano del tutto all’oscuro della sua esistenza. Quando le aveva rintracciate e contattate si erano dimostrate determinate a vendicarsi e ne aveva pagato le conseguenze la preziosa auto sportiva di Clive, che l’aveva ritrovata con la vernice metallizzata profondamente sfregiata da un cacciavite. Lei non l’avrebbe mai fatto – trovava puerili quelle manifestazioni – ma non aveva certo pianto, anzi. 
Da allora non c’era più stato nessuno. Era uscita con un paio di ragazzi, ma nessuno di loro aveva solleticato il suo interesse. Interesse che era decisamente solleticato dal giovane con gli occhi azzurri amante dei waffle, ma Rebecca non era una a cui piacesse fare la prima mossa. 
«Nuova regola: mi trattengo cinque dollari per ogni frase inopportuna» minacciò Rebecca e Sarah rise e alzò le mani in segno di resa. 
Quando l’ordinazione fu pronta la portò al suo tavolo. Lui le dedicò un mezzo sorriso sghembo, che era la massima manifestazione di emozione che gli avesse visto esprimere. Rebecca lo lasciò alla sua colazione e si dedicò agli altri clienti, almeno finché Sarah non richiamò di nuovo la sua attenzione. Ma stavolta non era per segnalare qualcosa di piacevole e le toccò reprimere un moto di rabbia quando vide chi era appena entrato. 
Fece cenno a Sarah di occuparsi dell’ordinazione che stava prendendo lei e si diresse risoluta ad affrontare l’ultima persona che avrebbe voluto vedere. 
«Clive, che diavolo ci fai qui?» 
Lui la squadrò da capo a piedi. Rebecca aveva sempre avuto un debole per i ragazzi con gli occhi chiari anche se quelli di Clive non erano della stessa tonalità di quelli di… no, non era proprio il momento. 
Clive si passò una mano fra i capelli biondi, scostandosi il ciuffo dalla fronte. In passato l’aveva considerato un bel ragazzo ma ora, dopo quello che le aveva fatto, non riusciva a vederlo se non come il traditore che si era rivelato essere. 
«Sono qui per fare colazione» fece lui. 
Non lo vedeva da almeno un anno e mezzo, ovvero da quando era venuto nel locale di sera con una combriccola di amici. Le erano sembrati subito alticci e che ci avessero dato dentro con gli alcolici era stato chiaro quando era stata costretta a chiamare la polizia per farli sloggiare. Nell’occasione, Rebecca gli aveva giurato che non l’avrebbe più fatto entrare nel proprio locale. Clive non si era più presentato, fino a quella mattina. 
«Ci sono decine di bar a New York, puoi sceglierne uno qualsiasi» replicò seccata. «Questo non fa per te, lo sai.» 
«Oh, andiamo. Non fare la cattiva». Sollevò una mano, come a volerle accarezzare la guancia, ma Rebecca si scostò. 
«Non toccarmi» sibilò. «Esci di qui, Clive. Non obbligarmi a chiamare la polizia.» 
Parlava a bassa voce, per evitare che i suoi clienti si accorgessero di quanto stava succedendo. Ma i più vicini dovevano aver sentito perché li stavano fissando. Per fortuna, Clive non aveva voglia di sfidarla. Con un’ultima occhiata sprezzante e la promessa sussurrata di tornare, girò sui tacchi e se ne andò. 
Rebecca prese un lungo respiro per calmarsi e si voltò. Lui era lì, davanti alla cassa, e distolse lo sguardo non appena incrociò i suoi occhi. Ma la donna era certa che avesse sentito tutto. 
Girò attorno al bancone e si scusò per l’attesa. Lui pagò la propria consumazione e le lasciò la solita mancia. Rebecca ebbe l’impressione che volesse dirle qualcosa, ma alla fine richiuse la bocca e se ne andò. 
Il resto della giornata trascorse senza problemi, anche se l’incontro con Clive l’aveva scossa più di quanto avesse dato a vedere e, quando venne finalmente l’ora di chiudere, era esausta. Sua madre le diceva sempre che passava troppe ore lì dentro e forse aveva ragione. 
Rimasta sola, fece i conti della giornata e poi recuperò la giacca e la borsa. Stava per uscire dal retro quando si accorse che le ragazze della cucina si erano dimenticate di buttare la spazzatura. Con un sospiro posò la borsa sul piano della cucina e afferrò i sacchi, trascinandoli fuori. Quindi aprì il cassonetto nel vicolo e li gettò all’interno. 
Si girò e una figura incappucciata si staccò dalle ombre e la spinse contro il cassonetto. La paura le attanagliò le viscere mentre si rendeva conto che l’uomo era alto e grosso e la teneva ferma senza sforzo. 
«Contenta di vedermi, bambolina?» 
Riconobbe all’istante la voce, se non il soprannome con cui era solito chiamarla Clive. Si divincolò con violenza, ma lui era alto un metro e novanta e la superava decisamente in altezza e in forza. Si abbassò per baciarla e Rebecca sentì che puzzava di alcol. Scostò la testa e lui ringhiò qualcosa, mentre abbassava una mano per strizzarle un seno attraverso i vestiti. 
Quello raddoppiò gli sforzi di Rebecca. Sollevò di scatto il ginocchio tentando di colpirlo all’inguine, ma Clive non era così stupido: mosse la gamba, ricevendo il colpo sulla coscia. 
«Oh, ma come siamo focose stasera» borbottò, spingendola con il corpo e costringendola contro il cassonetto. Usò un ginocchio per allargarle le gambe mentre con la mano cercava di insinuarsi all’interno dei suoi pantaloni. 
Poi, improvvisa come era cominciata, la pressione del suo corpo cessò e Rebecca barcollò, libera dalla presa di Clive. Nella penombra del vicolo vide che Clive era rotolato per terra, a qualche distanza da lei. Fra loro, il ragazzo dei waffle. 
«E tu chi cazzo sei?» sbottò Clive, rimettendosi in piedi. Era più alto e più massiccio dell’altro che tuttavia lo fronteggiava con atteggiamento calmo e rilassato. «Non è stata una grande idea intromettersi tra me e la mia ragazza» aggiunse, facendo scrocchiare il collo. 
«Spiacente, ma da quello che ho visto lei non è d’accordo ad essere la tua ragazza.» 
Con un grido incoerente, Clive lo attaccò. Caricò il destro con tutto il proprio peso: Rebecca sapeva che frequentava la palestra tutti i giorni ed era forte, molto forte. Ma il pugno non arrivò mai a segno: il tizio senza nome si limitò ad alzare la sinistra e lo bloccò senza sforzo apparente. Poi lo colpì allo stomaco con il destro, ributtandolo indietro a gambe all’aria. 
Ma Clive era tutt’altro che vinto. Si rimise nuovamente in piedi, furioso per l’umiliazione, e attaccò di nuovo. Agli occhi atterriti di Rebecca sembrò enorme, decisamente più grosso dell’altro che però non si scompose. Si mosse invece con una velocità che ingannò l’occhio e Clive fu di nuovo a terra. 
Gridò di dolore, portandosi le mani al volto, mentre il sangue gli colava dal naso rotto. Mentre Rebecca osservava la scena chiedendosi a cosa stesse assistendo, l’altro si abbassò su Clive, lo afferrò per il bavero e lo sollevò, avvicinando il volto al suo. 
«Ringrazia il cielo che lei è qui, perché è l’unico motivo che mi impedisce di ucciderti in questo preciso istante» sibilò con voce terribile. A giudicare dalla decisione con cui pronunciò quelle parole, non si trattava certo di una sbruffonata. 
Lo spinse via e Clive riuscì a stento a mantenere l’equilibrio. Poi, sempre tenendosi il naso ferito, fuggì. 
Il ragazzo tornò velocemente da lei che, sconvolta, era ancora addossata al cassonetto. 
«Stai bene?» le chiese con dolcezza. 
L’enormità del pericolo scampato le piombò addosso all’improvviso e cominciò a tremare. E, prima di pensare a ciò che stava facendo, si gettò contro il suo petto. Lui sembrò sorpreso, ma fu solo un istante: poi la circondò con le braccia e la strinse a sé. 
«Va tutto bene» sussurrò. «È finita.» 
Le accarezzava i capelli con delicatezza mentre Rebecca si rendeva conto che non si era mai sentita tanto protetta e al sicuro come fra le braccia di quello che era praticamente uno sconosciuto. 
Lui la condusse verso la porta posteriore della caffetteria e la fece sedere sugli scalini, continuando a cingerla con il braccio. 
«Come hai fatto a…?» gli chiese con voce spezzata. 
«Abito qui vicino» replicò. «Stavo tornando a casa e ho sentito del trambusto, così sono venuto a controllare.» 
Rebecca rabbrividì al pensiero di come sarebbero andate le cose se lui non fosse stato nei paraggi. Rimase in silenzio, mentre pian piano il tremore si acquietava e il calore del corpo a cui era stretta la pervadeva. 
«Dai, ti accompagno a casa» disse lui dopo un po’. Rebecca non ebbe la forza per rifiutare l’offerta. 
Prese la borsa e chiuse la porta posteriore, avviandosi poi verso casa, spingendo la bici a mano. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto, lei persa nei suoi pensieri e lui con le mani affondate nelle tasche dei jeans, ma entrambi acutamente consapevoli della presenza dell’altro. 
Quando arrivarono davanti al palazzo di Rebecca, la ragazza estrasse le chiavi dalla borsa. 
«Grazie. Per tutto» mormorò. 
«Non c’è di che. Spero solo che quell’idiota non ti importuni ancora». Rebecca ebbe l’impressione che volesse dirle qualcos’altro, ma lui stirò le labbra in quel solito mezzo sorriso e indietreggiò di un passo. «Beh, è meglio che ora io torni a casa.» 
«Aspetta!» lo fermò. «Non so nemmeno come ti chiami.» 
«James» replicò. «Gli amici mi chiamano Bucky.» 
In quell’istante la luce del lampione cadde sul suo viso in un certo modo e Rebecca si ricordò di dove l’aveva visto. E capì anche come aveva fatto a stendere Clive con tanta facilità. 
«Io sono Rebecca, anche se sospetto che tu già lo sappia. Ma gli amici mi chiamano Becks.» 
Lui sorrise, ma stavolta era un sorriso vero che gli scoprì i denti bianchi e perfetti e gli illuminò gli occhi. 
«Buonanotte, Rebecca» mormorò. 
«Buonanotte, James» replicò. 

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Capitolo 2
*** Una passeggiata notturna ***


In questo secondo capitolo
vediamo come Bucky ha vissuto
il primo vero incontro ravvicinato con Rebecca.
Buona lettura!


Il mattino seguente, quando James arrivò al Caffè Roma, lei non c’era. Provò un fremito di allarme ma vide Sarah aggirarsi tranquilla fra i tavoli e pensò che, se fosse successo qualcosa, sarebbe stata più nervosa. Tuttavia, quando si avvicinò per chiedergli che cosa volesse per colazione, non poté impedirsi di chiederle di Rebecca. 
«Becks sta bene, si è solo presa la mattina libera.» 
Ordinò il solito, ma i waffle erano diversi – meno soffici – e quella mattina il caffè sembrava senza sapore. Strano: era la sua colazione preferita. Si ripeteva in continuazione che frequentava quel posto solo per l’ottimo cibo, ma non era vero. 
Ci era entrato per caso una mattina, dopo che aveva passato quasi tutta la notte a passeggio per le strade di New York, dato che non riusciva a dormire. Lei era dietro il bancone e l’aveva colpito con occhi e capelli neri come l’ala di un corvo. Ovviamente non aveva mostrato alcun interesse per lei, non poteva permetterselo. 
Quando si era avvicinata per accompagnarlo al tavolo aveva notato quanto fosse minuta, superava appena il metro e sessanta. Ma quegli occhi contornati di ciglia lunghissime sembravano quelli di un cerbiatto e si era affrettato a distogliere i propri, con l’irrazionale timore che lei potesse leggergli dentro l’anima nera che aveva al centro del petto. 
Da allora era tornato tutti i giorni, accontentandosi di vederla, sbirciandola senza farsi notare mentre si muoveva fra i tavoli e chiacchierava amabilmente con i clienti abituali. Anche lui poteva definirsi tale, ma non le dava mai confidenza e lei restava a distanza. Come era giusto che fosse. 
Era filato tutto liscio, finché quel tizio si era presentato in caffetteria. Lui aveva finito e stava raggiungendo la cassa quando l’aveva vista parlare con quell’imbecille. Era tesa come non le era mai capitato di vederla e non le era sfuggito che si era scostata quando lui aveva cercato di toccarla. E per fortuna: in quanto, con tutta probabilità, se fosse arrivato a sfiorarla non avrebbe più potuto usare la mano. 
Si era affrettato a pagare ed era uscito, cercando con gli occhi quel tizio odioso. L’aveva scorto poco più avanti, mentre saliva a bordo di un’auto sportiva blu metallizzata. Aveva preso il cellulare nella tasca della giacca e composto un numero mentre quello sgommava via. 
«Maria, ho bisogno di un controllo su una targa» aveva detto, salendo a cavalcioni della sua moto e infilandosi il casco. 
Maria Hill gestiva tutta la grande macchina dietro gli Avengers. Dal suo ufficio alla Avengers Tower di New York aveva il controllo su quanto succedeva nel mondo e segnalava a Steve qualsiasi situazione in cui fosse necessario il loro intervento. 
Non si trattava sempre di invasioni aliene o androidi impazziti, situazioni in cui era necessario riunire l’intera squadra per sventare la minaccia. A volte erano semplici questioni di sicurezza nazionale in cui erano impiegati solo alcuni di loro. Di solito Steve e Sam Wilson, alias Falcon. 
Quest’ultimo era un’aggiunta recente alla squadra, arrivato poco prima che lui fosse ritrovato in Siberia. In passato aveva fatto parte dei reparti specializzati in operazioni di ricerca e soccorso, finché aveva perso il suo compagno. Sam si era ritirato dal servizio attivo, dedicandosi ad aiutare i veterani colpiti da stress post-traumatico, fino a quando aveva fatto amicizia con Steve che l’aveva convinto ad unirsi agli Avengers. 
Il suo aiuto era preziosissimo – anche se Bucky non gliel’avrebbe mai confessato! – dato che poteva volare con un paio di ali meccaniche applicate sulla schiena, ali che erano state modificate e potenziate grazie alle tecnologie di Stark. 
Anche Wanda li accompagnava spesso. Era con loro anche quando avevano fatto irruzione nella base segreta in Siberia in cui lui era tenuto in criostasi ed era grazie al suo aiuto e a quello di Victoria Stark che era riuscito a riprendersi e a riappropriarsi dei ricordi che l’Hydra aveva sottratto dalla sua mente per renderlo un assassino il più efficiente possibile. 
Poi era servita tutta l’influenza di Captain America in seno al Governo per far sì che gli fosse concessa la grazia per i crimini orrendi di cui si era macchiato. Era riuscito a far capire loro che non aveva alcun controllo sul proprio operato e che la sua mente era completamente nelle mani dell’Hydra ma che ora si stava ristabilendo. 
Il suo processo di guarigione era tutt’altro che concluso e c’erano giorni in cui pensava che non si sarebbe mai liberato del tutto dall’orrore che aveva vissuto e di cui era stato, per buona parte, protagonista. Ormai non riusciva a dormire più di due ore consecutive senza che gli incubi lo tormentassero. Ma Steve credeva in lui ed era convinto che avrebbero trovato il modo per uscire da quella situazione. 
«Problemi, Bucky?» gli aveva chiesto, pragmatica come sempre. 
«Non lo so» aveva replicato: non c’era bisogno che sapesse che quello che le stava chiedendo era per interesse personale e nient’altro. 
«Dammi due minuti.» 
Aveva avviato la moto e si era immesso nel traffico, mettendosi a seguire a distanza l’auto del tizio. Non erano ancora passati novanta secondi quando il suo cellulare aveva emesso un trillo. Aveva premuto un pulsante con il pollice, proiettando le informazioni direttamente sulla visiera del casco. 
Il tizio si chiamava Clive Peterson e aveva trent’anni. Abitava nel Lower East Side e, a giudicare dalla direzione, stava andando a casa. Bucky aveva continuato a seguirlo senza dare nell’occhio, finché aveva parcheggiato davanti ad un grande palazzo: dalle informazioni che Maria gli aveva mandato, aveva un appartamento proprio lì. Si era chiesto come fosse coinvolto con Rebecca anche se, dalla reazione che lei aveva avuto, probabilmente si trattava di un ex fidanzato. La cosa, senza un motivo particolare, lo infastidiva. 
Aveva proseguito per un breve tratto, poi aveva lasciato la moto ed era tornato indietro a piedi. 
Da quanto gli aveva mandato Maria, Clive pilotava i battelli turistici che ogni giorno facevano la spola tra Manhattan e Brooklyn. Evidentemente quel giorno non era di turno. 
Bucky si era avvicinato con passo lento alla berlina blu. Giunto accanto al parafango anteriore si era chinato come per sistemarsi i lacci delle scarpe e, con un gesto fulmineo, aveva applicato un piccolo tracciatore GPS alla carrozzeria. Quindi si era raddrizzato, facendo il giro del palazzo e tornando dall’altra parte a recuperare la moto. 
Il localizzatore era collegato al suo cellulare, che gli avrebbe mandato un segnale nel caso in cui l’auto si fosse mossa, permettendogli di seguirla tramite app. Non c’era altro che potesse fare e, a dirla tutta, non aveva neanche idea del perché avesse seguito Clive fino a casa e lo stesse tenendo d’occhio. Si era detto che, non appena si fosse reso conto che era tutto in ordine, avrebbe scordato il problema. 
Per quel giorno non aveva impegni, perciò era tornato alla Avengers Tower e si era rifugiato nel suo appartamento. Nel pomeriggio aveva passato qualche ora in palestra e poi in piscina. Steve era a Washington per alcuni incontri con il Governo quindi quella sera aveva cenato da solo e si era messo sul divano, facendo distrattamente zapping. 
Poco dopo le dieci, il cellulare aveva emesso un segnale di notifica. Era il localizzatore sull’auto di Clive: si stava muovendo. 
Aveva seguito con gli occhi il pallino rosso lampeggiante. Un’idea gli era balenata in testa e aveva usato due dita per diminuire lo zoom della mappa. E quando aveva capito in che direzione stava andando Clive, un velo rosso gli era calato davanti agli occhi. Era schizzato in piedi come una furia, aveva afferrato la giacca e si era fiondato in ascensore. 
Aveva lasciato la moto a qualche distanza dal Caffè Roma e aveva fatto l’ultimo tratto a piedi, continuando a seguire il GPS sullo smartphone. La sua intuizione aveva trovato conferma quando aveva visto la berlina blu di Clive passare a bassa velocità davanti alla caffetteria e parcheggiarsi poco distante. 
Bucky era rimasto nell’ombra, in attesa. Se fosse entrato, lo avrebbe seguito, ma Clive non era sceso dall’auto. Si era spostato in modo da tenere d’occhio contemporaneamente lui e il locale. Aveva visto Rebecca muoversi all’interno: non c’erano molti clienti, l’orario di chiusura era vicino. 
Quando anche l’ultimo se ne era andato, Rebecca aveva chiuso il locale e poco dopo Bucky aveva visto il suo staff uscire dal vicolo a fianco della caffetteria. Con tutta evidenza Clive stava aspettando proprio quello perché era sceso dalla macchina e si era infilato nel vicolo buio. 
Non gli piaceva per nulla la piega che stava prendendo la faccenda. Clive non sembrava avere buone intenzioni e lui era deciso a scoprire quali fossero. Aveva attraversato la strada, seguendolo silenziosamente nel vicolo. 
Anche se cercava di non pensarci troppo, con il suo passato quelle cose gli riuscivano estremamente facili. Quante volte il Soldato d’Inverno era rimasto acquattato nel buio per ore ad attendere la sua vittima, qualcuno che l’Hydra lo aveva mandato ad eliminare. 
Si era dato lo slancio verso l’alto, saltando sulla scala antincendio del palazzo a fianco e atterrando silenzioso come un gatto. Da lassù aveva visto Clive appiattirsi contro il muro, seminascosto nell’oscurità: aveva stretto il pugno in vibranio, con il desiderio di gettarsi su di lui e ridurlo a un rottame di se stesso. Invece era rimasto immobile, tenendolo d’occhio, in attesa. 
Doveva essere passata almeno mezz’ora quando la porta laterale del locale si era aperta e Rebecca era comparsa nel vicolo. Trascinava un paio di sacchi neri e, raggiunto il cassonetto, lo aveva aperto per gettarli dentro. Clive si era mosso in quel momento e, prima che lei si fosse voltata del tutto, le era piombato addosso. 
La ragazza si era divincolata ma quel tizio era bello grosso e, anche se aveva cercato di colpirlo con una ginocchiata all’inguine, non aveva lasciato la presa. Bucky non aveva atteso di vedere altro ed era saltato giù dal suo punto di osservazione. 
Lo aveva afferrato per la spalla, strappandolo via e mandandolo a ruzzolare per terra. Aveva evitato di proposito di usare il braccio in vibranio perché era ad un niente dal perdere del tutto il controllo. 
Quello si era rialzato, blaterando qualcosa sul fatto che non avrebbe dovuto mettersi fra lui e la sua ragazza. Era chiaramente ubriaco, cosa che non glielo rendeva di certo più simpatico. Dalla larghezza delle spalle e dalla circonferenza delle braccia probabilmente faceva palestra ed era più alto di lui, ma non sarebbe stato un problema. 
Clive aveva attaccato, sparandogli contro un destro. L’aveva bloccato con la mano in vibranio, godendo nel sentire le ossa scricchiolare nella sua presa, e lo aveva colpito con un destro allo stomaco, ributtandolo indietro. Anche in quel caso, gli era toccato dosare bene la sua forza, anche se la bestia scatenata dentro di lui gridava per avere sangue. 
Aveva pensato che, a quel punto, Clive desistesse. E invece si era messo in piedi di nuovo, lanciandosi contro di lui. 
Beh, aveva pensato, un po’ di sangue placherà entrambi
Lo aveva colpito forte, sempre con il destro, ed era stata una soddisfazione sentire il naso esplodere contro il suo pugno. Poi, stufo di quella pagliacciata, si era chinato e lo aveva afferrato per il colletto, tirandolo in piedi. 
«Ringrazia il cielo che lei è qui, perché è l’unico motivo che mi impedisce di ucciderti in questo preciso istante». La sua voce aveva poco di umano e Clive lo aveva percepito, vista l’espressione di puro terrore che gli si era dipinta sul viso. Lo aveva spinto via e quello era fuggito come un animale spaventato. Ma a lui già non interessava più. 
Si era girato verso Rebecca che era ancora addossata al cassonetto, quasi che non riuscisse a stare in piedi da sola. Aveva gli occhi sbarrati e, quando le aveva chiesto se stava bene, si era letteralmente lanciata fra le sue braccia. 
Non avrebbe mai dimenticato la sensazione di quel corpo tremante stretto contro il suo. Era da almeno ottant’anni che non aveva un contatto così ravvicinato con una donna e il cuore aveva accelerato il battito. 
Il cervello gli urlava di spingerla via, di tenerla lontana da sé. Ma l’istinto aveva avuto la meglio e le sue braccia si erano chiuse attorno a lei, mentre la mano destra saliva ad accarezzarle la testa appoggiata contro il suo petto. 
L’aveva fatta sedere sugli scalini e, quando gli aveva chiesto come mai si trovasse lì, era stato costretto a mentirle. Non poteva dirle che aveva seguito Clive sin dal mattino, quindi le aveva detto che abitava in zona e che si era trovato lì per caso. 
Aveva continuato a cingerla con il braccio. Si diceva che lo stava facendo per tranquillizzarla, ma la realtà era un’altra: gli piaceva da morire sentirla contro il proprio corpo. Pian piano il tremito si era calmato e lei si era rilassata. Così si era offerto di accompagnarla a casa. 
Avevano fatto il tragitto a piedi, mentre lei conduceva la bici a mano. Non avevano parlato, ma non era il silenzio imbarazzato di quando si resta senza cose da dirsi: era come se anche quello fosse pieno di parole. Una strana sensazione. 
Rebecca abitava nel quartiere di Little Italy e, arrivati davanti ad un palazzo in Baxter Street, si era fermata e lo aveva ringraziato. 
Era stato in quel momento, sotto le luci dei lampioni, che aveva sentito un impulso premere dentro di sé. Era stato vicinissimo a chiederle di uscire, prima di rendersi conto di quello che stava facendo e zittirsi. Non poteva farlo, non poteva permettersi una cosa del genere. Era un assassino, cosa mai aveva da offrire a una ragazza come Rebecca? 
Così l’aveva salutata e aveva fatto per andarsene, ma lei l’aveva fermato. 
«Non so nemmeno come ti chiami.» 
«James. Gli amici mi chiamano Bucky» aveva detto. 
Lei gli aveva detto che i suoi amici la chiamavano Becks. Lo sapeva, aveva sentito il suo staff apostrofarla in quel modo. Ma trovava che Rebecca fosse un nome così bello: era lo stesso di sua sorella, tra le altre cose. 
«Buonanotte, Rebecca». Un sorriso genuino e spontaneo gli era spuntato sulle labbra. 
«Buonanotte, James» aveva replicato lei. 
Se ne era ritornato a piedi fino nel Village dove aveva lasciato la moto, ripensando a come gli era piaciuto sentire il suo nome uscire dalle labbra della ragazza. Non l’aveva chiamato Bucky, ma non gli dispiaceva: nessuno lo chiamava James ed era bizzarramente bello che fosse solo lei a farlo. 
Tornò indietro dai ricordi della sera prima. Finì la colazione e se ne andò. 
Dato che ora sapeva dove abitava fu tentato di presentarsi da lei per assicurarsi che stesse bene. Ma gli sembrò inappropriato e quindi non lo fece, riprendendo la moto e tornando alla Avengers Tower. 

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Capitolo 3
*** Buona Notte ***


James sa bene di dover stare lontano da Rebecca.
Ma, forse, nemmeno il Soldato d'Inverno
ha la forza necessaria per resistere a questo richiamo...
Buona lettura!

 
 
Rebecca si era presa la mattinata libera. Ciò che era successo la sera prima l’aveva lasciata abbastanza scossa e aveva bisogno di riprendersi prima di tornare al Roma. 
Clive era stato un idiota, ma non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto. L’aveva aggredita e, se James non fosse intervenuto, chissà cosa avrebbe fatto. 
Era rimasta sorpresa quando l’aveva visto affrontare Clive. Il suo ex era grande e grosso, eppure James l’aveva mandato al tappeto quasi senza sforzo. E il perché ormai era ovvio. Quando l’aveva accompagnata a casa, aveva capito. 
Lui era James Buchanan Barnes, il migliore amico di Steve Rogers. Aveva letto la sua storia quando era stata allo Smithsonian, mentre si trovava in vacanza a Washington. Steve lo aveva creduto morto ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, mentre assieme ai famosi Howling Commandos cercavano di frenare l’espansione dell’Hydra, la divisione scientifica nazista. In realtà era stato catturato proprio dall’Hydra che gli aveva fatto il lavaggio del cervello e lo aveva trasformato in uno spietato killer, il Soldato d’Inverno. 
Gli Avengers lo avevano ritrovato in Siberia e lo avevano riabilitato, facendolo entrare nella squadra. La cosa aveva generato un bel po’ di scalpore qualche tempo prima e James era apparso in TV. La stampa aveva parlato parecchio del suo braccio metallico. Era tutto ciò che sapeva di lui. 
Conoscere la sua identità le faceva capire il perché del suo atteggiamento, della riservatezza che aveva sempre dimostrato. Non poteva nemmeno immaginare cosa avesse passato mentre era nelle mani dell’Hydra. 
Avrebbe dovuto essere atterrita da lui, ma non era così. Non le aveva fatto nulla di male, anzi. Era intervenuto quando si era ritrovata in pericolo. Meritava almeno il beneficio del dubbio. 
Arrivò alla caffetteria nel primo pomeriggio. Prima di andare, Sarah le disse che James era stato lì quel mattino e aveva chiesto di lei quando aveva notato che non c’era. La cosa le fece piacere. 
Non si aspettava di rivederlo fino al mattino seguente, ma la stupì presentandosi poco dopo le nove di sera. Le sorrise, di nuovo un sorriso vero, e scelse come sempre un tavolino in fondo al locale, anche se notò che sedette in modo da tenere d’occhio la porta d’ingresso. 
«Ciao, Rebecca» la salutò quando la ragazza si presentò al suo tavolo. 
«Ciao, James». Era sorpresa di vederlo a quell’ora, ma non gli disse nulla. 
«Stai bene?» le chiese, guardandola negli occhi. I suoi sembravano più scuri del solito, più intensi. 
«Sì, sto bene, grazie.» 
«Ok» fece lui. «Direi che per i waffle sono fuori tempo massimo. Prendo uno scotch stasera. Liscio.» 
«Arriva» replicò. 
James rimase fin quasi alla chiusura e, dopo il primo, prese un secondo e un terzo drink. Non era un problema per lui, non reagiva all’alcol come una persona normale. Quando era stato liberato dalla base russa avrebbe desiderato con tutto il cuore potersi ubriacare e trovare un po’ di pace dal caos della propria mente, ma non ci era riuscito. Anche se ci aveva provato. Di brutto. 
Quando si avvicinò alla cassa per pagare era praticamente l’ultimo cliente. Era sola, il suo staff si stava preparando per uscire. 
«Grazie per essere venuto stasera» gli disse sottovoce mentre gli dava il resto. «Potrei quasi pensare che tu sia venuto per controllare che io non finisca nei guai un’altra volta.» 
Lui non smentì né confermò: «Dovresti denunciare quell’idiota.» 
Non le disse che avrebbe voluto pensarci lui e ridurlo in uno stato tale che non avrebbe più potuto alzare le mani su nessuno. Non le disse che la rabbia covava dentro di lui sin dalla sera prima e che aveva dovuto fare appello a tutta la sua forza per non raggiungerlo e finire quello che aveva iniziato nel vicolo. E non le disse nemmeno che sì, era lì solo per lei, per accertarsi che Clive non si presentasse di nuovo ad importunarla. 
Rebecca sospirò ma prima che potesse dire qualcosa una delle ragazze si affacciò dalla cucina, dicendo che lei e le altre stavano uscendo. 
«D’accordo, Judith. A domani.» 
«Non dovresti restare qui da sola» affermò quando furono di nuovo soli. E poi, prima di ragionare a fondo su quanto stava per dire, aggiunse: «Vuoi che resti qui mentre chiudi la caffetteria?» 
Avrebbe dovuto dirgli di no, che non era il caso che si disturbasse oltre. Avrebbe dovuto dirgli che era in grado di badare a se stessa, cosa che faceva da tempo. Avrebbe dovuto… ma non lo fece. 
Così, James la aspettò mentre faceva i conti della giornata e le rimase accanto mentre chiudeva. E poi, per la seconda sera consecutiva la accompagnò a casa. 
«Sei di New York?» gli chiese per fare conversazione, mentre camminavano conducendo la bicicletta a mano. 
«La mia famiglia è originaria di Brooklyn. Io sono stato un po’ in giro, diciamo» disse, con una lieve esitazione. «I miei sono morti da tempo, mi è rimasta solo una sorella più grande. Un bel po’ più grande.» 
Rebecca non replicò. Anche se non gliel’aveva ancora detto, conosceva la sua vera identità, quindi capiva bene quando lui diceva di avere una sorella più grande: doveva avere oltre cento anni. 
«Anche io ho una sorella più grande. Ha quindici anni più di me ed è un brillante architetto.» 
«I tuoi genitori?» chiese lui mentre, fermi sul marciapiede, attendevano che il semaforo diventasse verde per attraversare la strada. 
«Cinque anni fa a mio padre è stato diagnosticato l’Alzheimer. Mi ha lasciato la gestione della caffetteria e lui e mia madre si sono ritirati. Papà ha giorni buoni e altri meno buoni, ma la mamma non gli permette di abbandonarsi. È una tosta mia mamma, come gli indiani Mohawk da cui discende.» 
«Oh, questo spiega il colore della tua pelle e dei tuoi capelli» fece lui, scrutandola in un modo che la fece arrossire, ma sperò che con la penombra dei lampioni e il suo colorito naturale lui non lo notasse. 
Giunta a casa, Rebecca portò la bici su per i pochi scalini dell’ingresso e la sistemò nell’atrio del palazzo. Poi si voltò verso James. 
«Beh, grazie di avermi accompagnata anche stasera. E scusami.» 
«Per cosa?» fece lui, le mani affondate nelle tasche della giacca. 
«Perché è la seconda sera che ti costringo ad una passeggiata notturna» replicò con un sorriso timido. 
«Non mi dispiace passeggiare con te» fu la sua risposta. 
Rimase sorpreso egli stesso per quell’ammissione. Non era da lui lasciarsi andare con così tanta facilità, ma Rebecca smuoveva dentro di lui cose che non credeva di poter provare. Era talmente facile tenere le difese basse con lei che stentava a riconoscersi. 
Si accorse che la stava fissando e distolse rapidamente gli occhi. 
«Bene, è ora di tornare» borbottò. 
«Mi chiedevo…» disse Rebecca prima che potesse fare un passo per allontanarsi, «insomma… ti andrebbe di… ecco, venire a cena con me? Questo venerdì, magari?» 
Non andava bene, non andava bene per niente. James sapeva che tutta quella storia era sbagliata. Non avrebbe mai dovuto continuare a tornare in quella caffetteria tutti i giorni per fare colazione. Ora ammetteva a se stesso che l’aveva fatto solo per vedere lei, ma era troppo tardi per quell’ammissione. 
Non aveva una grande esperienza in materia, ma l’esitazione che lei aveva avuto nel chiedergli quell’uscita gli diceva che forse provava qualcosa e non avrebbe dovuto provare nulla nei suoi confronti. Quindi a lui restava soltanto una cosa da fare, ovvero rifiutare. Rifiutare e sparire dalla sua vita. 
«Venerdì è perfetto» rispose invece, stupendosi come se a parlare fosse stato qualcun altro. 
Ma che diavolo gli diceva il cervello? Si stava cacciando in un guaio troppo grosso per poterlo gestire. Lui era sbagliato, distrutto. Dentro di lui non c’era altro che oscurità e non poteva rischiare di contagiare anche lei con le tenebre che appesantivano la sua vita. 
Eppure, quando vide il sorriso di Rebecca, tutti suoi dubbi scomparvero. Per un istante, breve come un battito di ciglia, vide se stesso accanto alla donna, libero dalle pesanti catene del suo passato. Si trattava di una suggestione o il destino aveva voluto regalargli uno scorcio del futuro? Non gli era chiaro: l’unica cosa che sapeva era che l’immagine suggerita dal suo cervello gli piaceva in un modo decisamente sconveniente. 
Si rese conto che la stava fissando da un po’ e si riscosse. 
«Ci vediamo domani mattina, a colazione» disse. 
«A domani» replicò Rebecca, di nuovo con quel sorriso sulle labbra e negli occhi. 
E lui si allontanò, prima di aggiungere altre stupidaggini a quella già enorme di aver accettato l’invito a cena. 
 
***
 
Venerdì arrivò prima di quanto entrambi si aspettassero. Quella mattina, James le aveva detto che sarebbe passato a prenderla alle sette e, anche se era stata lei ad invitarlo, aveva insistito per scegliere lui il ristorante. 
Rebecca si preparò con cura, lasciando i capelli sciolti sulle spalle e mettendo in risalto gli occhi con un ombretto dorato. Indossò un paio di pantaloni neri aderenti e un maglioncino a collo alto a trecce color Tiffany con un’apertura a forma di goccia sul petto. Completò il tutto con un semplice paio di decolleté nere e, quando il campanello suonò, cinque minuti prima delle sette, infilò il cappotto e scese. 
James indossava un corto cappotto nero con il colletto sollevato, cosa che gli conferiva un’aria sexy e misteriosa. Sorrise quando la vide e Rebecca sentì uno strano sfarfallio alla bocca dello stomaco 
«Tutto bene oggi al lavoro?» le chiese, mentre si avviavano a piedi. 
Giunti all’incrocio, James fece per attraversare la strada ma Rebecca si accorse che il semaforo stava diventando rosso, perciò lo prese per il gomito e lo fermò. Era la prima volta che lo toccava intenzionalmente e non era difficile accorgersi che lui stava pensando la stessa cosa. 
Rebecca fece per ritirare la mano ma lui la bloccò, sicché proseguirono a braccetto fino in Mulberry Street. James si fermò davanti alla facciata in pietra facciavista di un piccolo ristorante italiano, il Buona Notte. 
«Spero ti piaccia il cibo italiano» disse, facendole l’occhiolino mentre le apriva la porta per farla entrare. 
Una giovane cameriera bionda li accompagnò ad un tavolino per due. James attese che la donna si sfilasse la giacca e la appendesse alla sedia, poi gliela scostò per farla sedere. Si tolse il cappotto: sotto portava un dolcevita grigio, un colore che esaltava quello dei suoi occhi. 
«Allora, ho scelto bene?» le chiese, mentre la cameriera porgeva loro i menu. 
Rebecca annuì: «Mio papà mi ha trasmesso la passione per tutto ciò che è italiano.» 
Mentre attendevano le loro ordinazioni, Rebecca gli raccontò che i suoi genitori erano andati in luna di miele in Italia e suo padre era rimasto colpito dalla cultura di quel popolo di sognatori e poeti e gli era balenata l’idea di aprire una caffetteria che servisse prodotti italiani a New York, quando la cosa non era ancora così di moda. 
«Il Caffè Roma è nato così e i miei ci hanno lavorato fino a cinque anni fa quando abbiamo scoperto la malattia di papà. Mia sorella aveva già la sua carriera e io ho sempre amato il Roma, quindi papà me l’ha lasciato e ora è tutto mio.» 
James la ascoltava, mentre lei parlava con orgoglio della sua attività e di come avesse fatto qualche lavoro di ristrutturazione al locale, ma cercando di mantenere l’impronta che i suoi genitori gli avevano dato. 
«Quindi tuo padre è un americano che ha perso la testa per l’Italia. Deduco che sia tua madre ad averti passato i geni indiani.» 
La ragazza annuì: «I miei avi calcavano queste terre prima che gli americani diventassero una nazione. La tribù dei Mohawk era una delle sei nazioni irochesi che siglò il trattato di Canandaigua nel 1794 che riconobbe alla mia tribù il possesso di terre nello Stato di New York.» 
Lui la guardava con un sorriso dipinto sul volto e lei socchiuse gli occhi. 
«Che c’è?» gli chiese. «Parlo troppo?» 
«No di certo» replicò. «È che mi piace la fierezza che dimostri quando dici “la mia tribù”. È bello che tu ti senta parte di qualcosa in questo modo.» 
Lui, con il suo passato, non si era mai sentito parte di nulla. La sua vita libera era stata troppo breve: quando l’Hydra l’aveva catturato e aveva fatto esperimenti su di lui, era diventato prigioniero del siero che gli scorreva nelle vene e del condizionamento mentale con cui quei maledetti l’avevano trasformato in un killer. 
«Rebecca però non sembra proprio un nome Mohawk?» evidenziò e lei rise. 
«Mia madre si chiama Kateri, che nella nostra lingua madre significa pura. L’ha cambiato in Catherine quando ha sposato papà, per meglio integrarsi. Per noi, i nostri genitori ritennero che portare addosso i segni delle nostre origini fosse sufficiente» considerò la ragazza, rabbuiandosi. «Il razzismo non colpisce solo i neri, purtroppo. Per mia sorella Rowena, bionda e con gli occhi azzurri come papà, non fu difficile integrarsi. Per me la cosa fu un po’ diversa.» 
Abbassò lo sguardo sul piatto e tornò con la mente a quando andava a scuola e veniva bullizzata per il suo aspetto, per quella pelle più scura, per gli occhi e i capelli neri che testimoniavano la sua discendenza. 
«Nonostante tutto, sono sempre stata fiera delle mie origini». Alzò gli occhi e gli sorrise: «Sono una ragazza americana che discende dagli indiani Mohawk e gestisce una caffetteria italiana. Un bel mix, eh?» 
Continuarono a chiacchierare. James continuava a farle domande, un po’ per tenere l’interesse lontano da sé ed evitare domande sul suo passato, ma soprattutto perché gli piaceva sentirla parlare. La sua voce aveva un tono basso molto piacevole e sarebbe rimasto ad ascoltarla per ore. 
«Posso chiederti una cosa?» fece lei ad un certo punto, mentre la cameriera portava via i piatti e lasciava loro la carta dei dolci. 
Lui tremò, preparandosi ad una domanda personale a cui certamente avrebbe dovuto mentire. 
«Non ho potuto fare a meno di notare che non hai mai tolto i guanti» disse Rebecca, accennando alle sue mani. 
«Problemi di circolazione» disse d’istinto, propinando la stessa bugia che diceva a tutti. 
Lui non era Captain America, qualcuno che la gente riconosceva per strada e a cui i ragazzini chiedevano continuamente autografi. Lui era l’assassino con il braccio di metallo, braccio che teneva il più possibile coperto, quando era in pubblico. 
Rebecca non parve convinta della spiegazione, ma non indagò ulteriormente, cosa di cui gli fu grato. La cameriera tornò e presero entrambi il tiramisù. 
«Ti va di fare due passi?» le disse quando ebbero terminato il dessert. 
«Certo, volentieri.» 
James si alzò e si allontanò per pagare il conto. Quando tornò prese il cappotto e la aiutò ad indossarlo, poi prese la propria giacca e le posò la mano sulla curva della schiena, sospingendola delicatamente verso l’uscita. 
Una volta all’esterno, Rebecca lo prese a braccetto con naturalezza e passeggiarono per il quartiere di Little Italy, zona che aveva quasi perso la propria identità, assorbita in buona parte da Chinatown, ma che conservava ancora un po’ del colore e del folklore di quando era la zona in cui risiedevano la maggior parte degli immigrati italiani. 
Chiacchieravano del più e del meno, perfettamente a proprio agio come se si conoscessero da sempre. Ma, mentre tornavano verso Baxter Street, Rebecca si accorse che lui parlava sempre meno e sembrava teso e preoccupato. 
Arrivati di fronte al suo palazzo, James fece con lei i pochi gradini fino alla porta d’ingresso. Rebecca avrebbe voluto chiedergli di salire per un caffè, ma intuì che era proprio quello il motivo del suo turbamento. Si disse che non doveva correre troppo e lasciare che lui reagisse con i suoi tempi. 
«Beh, è stata una piacevolissima serata» disse, lasciandogli il braccio. «Spero che potremo replicarla quanto prima.» 
«Lo spero anche io» rispose lui. La sua voce era diventata carezzevole come velluto e i suoi occhi si erano fatti più scuri, non certo per il buio che li circondava. 
Rebecca notò che il suo sguardo si fissò per un istante sulla sua bocca. Voleva baciarla e lei voleva essere baciata: tuttavia, non mosse un muscolo. Era lui a dover fare quel passo e lei avrebbe atteso. James si chinò un po’ verso di lei che, d’istinto, si umettò le labbra. 
Ma poi, repentino come era arrivato, il momento passò. Lui si scosse come se si stesse risvegliando da un sogno e si raddrizzò, allontanandosi dalla tentazione di quelle labbra rosee. 
«Bene. Il mio numero ce l’hai» mormorò Rebecca, rompendo quell’impasse. «Ci sentiamo, ok?» 
«Ok» rispose lui in tono laconico. 
Rebecca gli diede la buonanotte ed entrò nel palazzo. E James, dandosi dell’idiota per essere stato così vicino a baciarla, si avviò a piedi in direzione dell’Avengers Tower, sperando che l’aria fredda della notte gli schiarisse almeno un po’ il groviglio di pensieri che affollava la sua mente.


 
Una piccola annotazione: il Buona Notte a New York esiste davvero.
Il Caffè Roma invece no ma, più o meno nella stessa zona, esiste il Caffè Reggio a cui mi sono ispirata per la caffetteria di Rebecca

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Capitolo 4
*** Il lupo bianco ***


Rebecca e James sono stati vicinissimi
a scambiarsi un bacio.
Ma il Soldato d'Inverno ha mille reticenze.
Eppure, Rebecca ha già fatto breccia nel suo cuore.
Buona lettura!


Era stata una giornata piuttosto estenuante e Rebecca sospirò mentre cercava le chiavi dentro la borsa. 
Appena in casa abbandonò la borsa e le chiavi sul tavolo e si spogliò mentre si dirigeva verso il bagno. Lasciò cadere i vestiti a terra e si appuntò i capelli sulla sommità del capo per non bagnarli. 
Quando uscì, arrossata dall’acqua bollente, si asciugò in fretta e indossò un paio di mutandine e una delle maxi-maglie che usava per dormire. Dopodiché sedette sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé e accese la TV. 
Stava facendo zapping quando qualcuno suonò il campanello. Perplessa, guardò l’ora: era quasi l'una. In più, era il campanello della porta e non quello del portoncino. Perplessa, si alzò dal divano e si avvicinò alla porta, avvicinando l’occhio allo spioncino. 
Lì fuori, davanti alla sua porta, c’era l’ultima persona che si sarebbe aspettata. Per un attimo considerò di mettersi un paio di pantaloni, ma alla fine si lanciò un’occhiata nello specchio dell’ingresso, si ravviò i capelli con le mani e fece una smorfia al proprio riflesso. Quindi aprì. 
Qualsiasi cosa avesse in mente di dire, James la dimenticò nel momento in cui vide le sue gambe nude. Un’emozione che credeva morta e sepolta gli agitò il cuore nel petto e uno strano calore gli scorse nelle vene. 
«Non mi aspettavo di vederti qui» fece lei, in tono duro. 
Non aveva tutti i torti, pensò James. Non aveva risposto a nessuna delle chiamate, né ai messaggi che lei gli aveva lasciato sul cellulare. Era sparito, rifugiandosi alla Avengers Tower ed evitando i contatti con chiunque. I suoi amici pensavano che avesse una delle sue solite crisi, ma la verità era un’altra. 
«Lo immagino» replicò. «Mi sono comportato da maleducato. Mi dispiace.» 
Lei posò una mano sullo stipite della porta e James cercò di evitare di abbassare lo sguardo, anche se era consapevole che l’orlo di quel maledetto vestito si era alzato, scoprendo altra pelle. 
«Sei venuto fin qui in piena notte solo per dirmi questo?» 
James sospirò. Evitare di abbassare gli occhi era diventata una vera sfida, dato che l’aria fredda di febbraio rendeva manifesto il fatto che Rebecca non indossava il reggiseno. 
«In realtà, sono venuto per parlare con te. Ma non so se tu abbia voglia di ascoltarmi.» 
Lei rimase in silenzio per un tempo che gli parve lunghissimo, poi si scostò dalla porta e gli fece cenno di entrare. 
«Non credo sia una buona idea» mormorò, ma Rebecca fece un gesto spazientito. 
«Non ho intenzione di restare qui a congelare sulla porta. Quindi, se vuoi parlarmi, dovrai entrare.» 
James si rassegnò e oltrepassò la soglia, mentre Rebecca gli chiudeva la porta alle spalle. Avanzò nell’appartamento che era piccolo, ma molto carino. 
Rebecca lo superò e sedette sul divano, facendogli cenno di accomodarsi. James deglutì e sedette al capo opposto. Era nervoso come non gli era mai capitato, nemmeno sotto il fuoco nemico: quando si accorse di torcersi le mani coperte dai guanti di pelle, smise immediatamente. 
«Ti chiedo scusa se sono piombato qui a quest’ora, ma avevo bisogno di parlarti al più presto.» 
«Strana frase detta da uno che per cinque giorni mi ha completamente ignorata» sbottò lei. 
Non gli avrebbe reso le cose facili, quello era certo. Dopo la cena al Buona Notte era sparito senza una parola e lei c’era rimasta male, anche se aveva cercato di convincere se stessa del contrario. Non aveva risposto al cellulare e non si era nemmeno più presentato al Roma per la colazione. 
«Non è facile per me, ok? Ci sono cose di me che non sai. Cose che non so se potrò mai dirti. Non sono abituato a sentirmi così. Anzi, non mi sono mai sentito in questo modo e avevo bisogno di tempo per capire come gestire ciò che provo.» 
C’era una tale angoscia nel suo tono che la rabbia di Rebecca per il suo comportamento svaporò in un istante. Lui girò lo sguardo su di lei e la malinconia che lesse in quegli occhi azzurri le tolse il fiato. 
«Io non sono ciò che credi, Rebecca» sussurrò, senza staccare gli occhi dai suoi. 
«So chi sei» replicò, prima di poterselo impedire. 
Lui assottigliò lo sguardo e scosse la testa: «No, credimi. Non hai davvero idea di chi io sia. Se ce l’avessi, non mi avresti mai chiesto di uscire». 
«La prima volta che sei venuto nel mio bar, ero convinta di averti già visto da qualche parte» spiegò in tono calmo. «Ma ti ho riconosciuto davvero solo quando sei intervenuto per allontanare Clive e mi hai accompagnata a casa. E allora mi sono ricordata di aver visto una tua vecchia foto allo Smithsonian.» 
James balzò in piedi con uno scatto talmente repentino che non aveva nulla di umano. Rebecca rimase immobile: non aveva paura di lui, quanto di averlo spaventato con le sue rivelazioni. Non voleva che se ne andasse e sparisse di nuovo. 
«Conosco la tua storia, la conoscono tutti da quando sei entrato negli Avengers.» 
Due anni prima, nel corso di un attacco degli Avengers ad una base segreta in Siberia, James era stato ritrovato ibernato in una capsula criogenica. 
Per Steve era stata un’assoluta sorpresa: aveva sempre creduto che il suo migliore amico fosse morto nel 1944. Con l’aiuto delle tecnologie dello SHIELD erano riusciti a risvegliarlo da quel lungo sonno, per accorgersi che non era più Bucky. 
L’Hydra, la terribile organizzazione terroristica, aveva fatto esperimenti su di lui, potenziandolo e rendendolo una letale macchina da guerra. Gli avevano anche fatto il lavaggio del cervello e lo avevano usato per oltre cinquant’anni, togliendolo dall’ibernazione ogni volta che avevano bisogno di lui. Il Soldato d’Inverno, perché era quello il nome che i suoi omicidi gli avevano procurato, aveva al suo attivo dozzine di morti. 
C’era voluta tutta la pazienza di Steve e l’aiuto provvidenziale di Victoria e Wanda per riportarlo alla sua umanità, ma era un percorso che non era ancora concluso, come testimoniavano gli incubi che ancora affollavano le sue notti. 
Rebecca si alzò lentamente e si avvicinò. Con movimenti lenti gli prese la mano sinistra e iniziò a sfilargli il guanto. James si irrigidì ma non si ritrasse. 
«Va tutto bene» sussurrò per tranquillizzarlo. 
Lasciò cadere il guanto a terra e gli accarezzò la mano metallica. Il metallo era strano al tocco: non era freddo come acciaio, bensì caldo come se sotto vi scorresse il sangue. 
«Di ciò che hai fatto in passato non so nulla, se non quanto si dice in giro. Ma per me, restano solo chiacchiere. Non mi importa ciò che eri. Mi importa ciò che sei ora.» 
«Non diresti così, se sapessi. Ho ucciso in modi atroci e…» 
Rebecca gli posò due dita sulle labbra per impedirgli di proseguire. Poi fece scendere la mano e afferrò il cursore della giacca di pelle, prendendo a tirarlo verso il basso. 
La mano destra di James scattò e la fermò. 
«Rebecca, ti prego.» 
Non riusciva a ragionare in maniera lucida con lei così vicina. Il suo profumo era così buono che gli ottundeva i sensi e ogni cellula del suo corpo era perfettamente conscia del fatto che lei non indossasse praticamente nulla sotto il vestito. 
«Non ho paura di te, James.» 
La cerniera riprese a scorrere verso il basso e lui non ebbe la forza di fermarla. 
Rebecca gli infilò le mani sotto la giacca e gliele posò sullo stomaco. Poi risalì in una lenta carezza. Sentiva sotto i palmi la durezza dei muscoli nascosti sotto la maglia. Il petto di James si alzava e si abbassava come un mantice, mentre lui cercava disperatamente di tenere al guinzaglio la bestia che i gesti di Rebecca minacciavano di scatenare. Non sapeva come avrebbe potuto reagire. 
Le dita della ragazza sfiorarono le clavicole. Sentì sotto i polpastrelli la giunzione del braccio meccanico, ma non si fermò: gli fece scivolare la giacca dalle spalle, finché cadde sul pavimento. James indossava una maglia scura a maniche lunghe, perfettamente tesa sul torace muscoloso. 
Rebecca gli posò la destra sul petto, all’altezza del cuore, e percepì il battito frenetico del cuore di James: sembrava un animale in gabbia. 
«Mi importa ciò che sei ora» ripeté, fissandolo negli occhi. 
Con uno scatto del braccio destro, James le cinse la vita e l’attirò a sé, mentre abbassava la testa e si impossessava delle sue labbra. Dio, la sua bocca era così morbida. Era passato un secolo, quasi letteralmente, dall’ultima volta che aveva baciato una donna, e i suoi ricordi dovevano essere molto sbiaditi perché questo bacio gli sembrava la cosa migliore che avesse mai provato. 
Avrebbe voluto fare le cose con calma, ma la fame a lungo covata era difficile da tenere a bada. Rebecca si schiacciò contro di lui che percepì ogni rotondità del suo corpo. Le sfiorò le labbra con la lingua e quando lei le schiuse per lasciarlo entrare, James pensò che il cuore gli avrebbe sfondato il costato. 
Contro ogni buonsenso, la sollevò senza smettere di divorarla con la bocca. Per tutta risposta, Rebecca gli allacciò le caviglie dietro la schiena e quello rischiò davvero di metterlo al tappeto. Il braccio in vibranio si mosse quasi di volontà propria, posizionandosi sotto le natiche della ragazza per sostenerla. 
James si mosse, raggiungendo il divano. Non aveva smesso di baciarla e nemmeno lei sembrava intenzionata a farlo. Si lasciò cadere sui cuscini e Rebecca gli si posò sulle cosce, con le gambe ripiegate ai lati delle sue. 
Senza pensare, sollevò le mani e gliele posò sul volto: era la prima volta, da quando gli avevano impiantato quel braccio cibernetico, che non lo usava per uccidere o ferire. 
Con uno sforzo sovrumano, la scostò appena da sé. Un lieve rossore le si era diffuso sulle guance, gli occhi brillavano e le labbra erano rosse e turgide, infiammate da quel bacio. Non era mai stata più bella. 
«Fermami, Rebecca. Adesso, prima che sia troppo tardi. Prima di pentirti di quello che stai facendo. Perché tutte le voci che hai sentito su di me non sono nulla in confronto alla verità, che è molto peggio di quanto potresti immaginare.» 
Le stava dando l’ultima possibilità per tirarsi indietro. Pronunciare quelle parole gli costò ogni grammo della sua forza, ma doveva farlo. Perché lui era guasto. Rovinato, forse per sempre. Probabilmente corrotto fino al midollo senza possibilità di redenzione. E lei non meritava uno come lui. 
Rebecca non rispose. Gli leggeva dentro tutta la sofferenza che il suo passato gli procurava e tutto il desiderio di venire fuori da quell’incubo. Di una cosa era certa: quello che gli aveva detto poco prima, ossia che non gli importava cosa avesse fatto, era vero. Sì, era stato un assassino, ma aveva agito sotto costrizione. E a Rebecca non serviva sapere che gli Avengers lo avevano reputato degno di aggiungersi alla squadra, per capire quanto fosse cambiato. Lo sapeva dentro di sé, nel profondo. Era qualcosa di inspiegabile, eppure era così. 
Posò i palmi sulle guance coperte di barba e lo baciò di nuovo, stavolta più dolcemente, senza la fame vorace di poco prima. Le mani di James si appoggiarono sulle sue cosce nude: la sinistra era solo leggermente più fresca dell’altra. 
Rebecca fece scendere le mani e gli afferrò il bordo inferiore della maglia. Si tirò un po’ indietro e incrociò il suo sguardo. 
«Posso?» domandò. Non appena gli avesse tolto la maglia, il suo braccio in vibranio si sarebbe rivelato del tutto e doveva essere lui a volerlo. 
James non rispose, ma si raddrizzò e sollevò entrambe le braccia per permetterle di sfilargli l’indumento. Rebecca glielo tolse e lo mise da parte. 
Il corpo dell’uomo era perfetto, così come le era sembrato quando lo aveva percorso con le mani. Solo sulla spalla sinistra, dove era innestato il braccio metallico, una serie di cicatrici gli deturpava la pelle. Rebecca fece per toccarle, ma si fermò. 
«Ti fa male?» chiese. 
Lui scosse la testa: «Non più.» 
Il primo braccio non era esattamente come quello che portava in quel momento. Aveva subìto diversi interventi che gli avevano lasciato quelle cicatrici prima che quelli dell’Hydra si ritenessero soddisfatti. Quando gli Avengers lo avevano trovato in Siberia, l’avevano portato nella loro sede di Malibu e, quando si era ripreso abbastanza, Stark gli aveva costruito quel nuovo braccio in vibranio. 
Rebecca sfiorò con delicatezza quelle ferite rimarginate. Poi chinò la testa e ci posò le labbra. 
Un brivido percorse il petto di James e la donna lo sentì trattenere bruscamente il fiato. Baciò ogni centimetro di quella carne martoriata, odiando gli sconosciuti che l’avevano ridotto in quel modo e struggendosi per il dolore che aveva sopportato e da cui ancora non era libero. 
«Ti stai cacciando in un guaio più grande di te, Rebecca» sussurrò. 
Lei rialzò il capo: «E tu dovresti smettere di preoccuparti. O ti verranno i capelli bianchi e non sarai più così carino.» 
Poi scivolò via dalle sue gambe e si rimise in piedi. Gli tese la mano in un invito silenzioso che gli causò una nuova accelerazione dei battiti. Non sapeva se era pronto per quanto lei gli stava offrendo. Tuttavia, prese la sua mano e la seguì. 
Rebecca lo condusse in una piccola camera da letto quasi interamente occupata da un enorme letto matrimoniale. Accese la lampada sul comodino che diffuse un tenue chiarore e creò un’atmosfera morbida e calda. 
Si girò verso di lui, lo afferrò per la fibbia e lo tirò verso di sé, alzandosi in punta di piedi per baciarlo. Prese a sfilargli la cintura e percepì, di nuovo, che si irrigidiva. Non sarebbe stato per nulla facile: James doveva superare anni di solitudine in cui gli unici contatti che aveva avuto erano per uccidere. Ma Rebecca era determinata a far sì che abbandonasse quelle oscure convinzioni e tornasse a pensare a se stesso come un uomo e non come un assassino. 
Rallentò, lasciando che lui si rilassasse. Ben presto, il suo bacio si fece più profondo: la baciava come un condannato a morte a cui è stato concesso l’ultimo desiderio. La mano sinistra di James risalì la schiena della donna e s’infilò fra i capelli. Le afferrò una ciocca e le tirò indietro la testa: quella mano avrebbe potuto stritolarle il cranio, eppure si muoveva con il tocco delicato di un pianista. 
Rebecca lo guardò e lesse nei suoi occhi lo stesso desiderio. Qualsiasi cosa lui stesse tenendo a bada dentro di sé, era pericolosa: e quella cosa la eccitò da impazzire. Si prese il labbro inferiore tra i denti e James spostò lo sguardo sulla sua bocca. E si avventò su di lei. 
La sollevò di nuovo e Rebecca gli si avvinghiò, circondandolo con le gambe. James scalciò via le scarpe e la coricò sul letto. Risalì la coscia destra con la mano, infilandosi sotto il vestito, passando con delicatezza sul fianco e fermandosi sul seno. Sentì sotto le dita il capezzolo inturgidito, stavolta non per il freddo dato che la pelle di Rebecca sembrava rovente, e lo pizzicò con delicatezza. 
La donna gemette nella sua bocca e quel gemito gli colpì direttamente i lombi. Rebecca si dimenò sotto di lui e quando sentì la sua eccitazione trattenuta dai pantaloni perse quel poco di controllo che le era rimasto. 
«Sono troppo vestita» ansimò, con l’unico desiderio di sentirlo sulla pelle. 
«Posso pensarci io, ma dipende da quanto ci tieni a questo vestito.» 
«Meno di zero.» 
James afferrò lo scollo con entrambe le mani e tirò. La stoffa si strappò per tutta la lunghezza e lei rimase vestita soltanto di un paio di mutandine. Si prese un momento per guardarla, percorrendo il suo corpo con gli occhi, dal seno piccolo e impertinente al ventre piatto, fino alla fossetta incredibilmente erotica dell’ombelico. 
Sul fianco destro aveva un tatuaggio che si estendeva praticamente dall'ascella all'anca. Rappresentava un lupo bianco colto nell'atto di ululare in direzione di una grande luna piena. Era una vera e propria opera d'arte e, dato che il collo del lupo era ornato di piume, non era difficile immaginare che fosse un omaggio alle sue origini Mohawk. 
C’era molto altro comunque che attirava la sua attenzione. Si stese di nuovo su di lei, sentendo il seno sfiorargli il petto nudo ad ogni respiro agitato. Scese a baciarle il collo, sentendo sotto le labbra il battito forsennato del suo cuore attraverso la giugulare. I suoi sensi potenziati percepivano ogni cosa: il calore della sua pelle, il profumo della sua eccitazione, ogni ansito e ogni gemito. 
Carezzò con le labbra la curva del seno e le passò la lingua sul capezzolo. Rebecca si inarcò sotto di lui, rivelandogli in modo chiaro quanto le piacesse. Aveva pensato di essere un po’ arrugginito, ma le reazioni della donna gli dicevano tutt’altro. 
Chiuse la bocca su un seno mentre con la mano le stuzzicava l’altro. Poi scese ancora, lambendole la pelle con la lingua, fino a superare l’ombelico. La baciò attraverso le mutandine, quindi agganciò gli indici ai lati e gliele fece scivolare lungo le gambe fino a che fu completamente nuda. 
Scese dal letto e rimase a guardarla. Per nulla imbarazzata dal suo sguardo, Rebecca portò le braccia sopra la testa e si stiracchiò come una gatta. 
«Sei splendida» le disse. 
«Nemmeno tu sei niente male» replicò e lui sogghignò. 
In piedi in fondo al letto, con quel braccio di metallo brunito, i jeans mezzi aperti e gli occhi scuriti dalla passione, era la creatura più sexy che avesse mai visto. 
Senza staccare gli occhi dai suoi, James si sbottonò del tutto i jeans e se ne liberò, così come dei boxer, restando nudo e mostrando la stessa mancanza di imbarazzo di Rebecca. 
«Eh, non sei male no, Barnes» mormorò, mordendosi il labbro inferiore. 
Lui tornò a stendersi su di lei, sostenendosi con il braccio in vibranio, scivolando sul suo corpo. 
«Dovresti smetterla di morderti, potrei non riuscire a trattenermi» ringhiò. 
«Dal fare cosa?» ansimò, ben consapevole della sua erezione che le premeva sulla coscia. 
«Dal morderti a mia volta» replicò. Poi le chiuse la bocca con la propria e le succhiò il labbro. 
Tutto il loro universo si ridusse a quella stanza, al bisogno di sentire le mani, la bocca, la pelle dell’altro contro la propria. Rebecca si accorse che James non usava mai la sinistra per toccarla. In parte era dovuto al fatto che era destrorso, ma era sicura che non fosse l’unica ragione. 
Ne ebbe conferma quando gliela prese e se la portò al seno. 
«Rebecca, no» sussurrò sulle sue labbra, tentando di ritrarsi, ma lei scosse la testa. 
«Non mi farai del male» replicò, sicura. 
Non aveva timore di farle del male: non l’avrebbe mai fatto. Ma era restio a lasciarsi andare del tutto. Non era semplice abbattere i muri che il suo passato lo aveva costretto ad erigere. Eppure, Rebecca sembrava così a suo agio, così tranquilla rispetto a quello che lui era stato. 
Quel braccio metallico era il suo marchio d’infamia. Chiunque, vedendolo, avrebbe capito che lui era il Soldato d’Inverno, o meglio, lo era stato. E non era qualcosa di cui andare fieri. Per quello lo teneva nascosto e indossava sempre i guanti. 
Tuttavia, quando accarezzò la pelle nuda di Rebecca, gli parve giusto e naturale. Lei sapeva che gli sarebbe bastata una minima pressione e l’avrebbe uccisa, ma si fidava e si stava donando senza alcuna remora. Non era sicuro di meritare tanto. 
Rebecca afferrò la catenella che portava al collo e a cui erano appese le sue vecchie piastrine militari, attirandolo su di sé. Era più che pronta per lui eppure, quando lo sentì spostarsi, si tese e lo guardò negli occhi. 
«È da un bel po’ che non…» 
Aveva mollato Clive tre anni prima e da allora non c’era stato nessuno. E James superava la media anche sotto la cintura. 
James ghignò: «Piccola, non quanto me, puoi starne certa.» 
Tutte le sue esperienze si limitavano al periodo prima della Seconda Guerra Mondiale, quando era del tutto umano. Dopo, non c’era stato spazio per altro oltre a violenza e morte. 
James la penetrò lentamente, scivolando nel suo calore, senza togliere gli occhi dal suo volto. Era perfetta, sembrava fatta apposta per lui: per la prima volta nella sua spregevole esistenza trovò la pace, nell’abbraccio intimo e caldo di quella donna. 
Chiuse le palpebre, appoggiando la fronte a quella di lei. 
Rebecca gli accarezzò i capelli: «Stai bene?» 
James non rispose ma la baciò e cominciò a muoversi. Rebecca lo assecondò: lo cinse con le braccia, artigliandogli la schiena con le dita. Sentiva i muscoli guizzare sottopelle mentre James aumentava il ritmo. Gli circondò la vita con una gamba, e James affondò ancora di più, strappandole un gemito per l’insopportabile piacere che le stava dando. 
Lui arretrò fin quasi ad uscire e spinse di nuovo, prendendo ad alternare spinte veloci ad altre più lente e profonde. Sapeva di essere vicino al culmine, ma stava usando ogni grammo della sua forza per resistere. 
Rebecca invocò il suo nome. Una, due volte. Poi si inarcò sotto di lui che continuò a spingere mentre sentiva i suoi muscoli interni stringerlo come un pugno. Quello mise fine alla lotta che stava portando avanti dentro di sé e, con un gemito rauco, si abbandonò anche lui all’orgasmo. 
Le rimase addosso, sostenendosi con le braccia per non schiacciarla con il proprio peso, mentre riprendeva fiato: si era cimentato in combattimenti meno pesanti. 
«Tutto ok?» le chiese e lei annuì. Era bellissima con le guance rosse e i capelli sparsi disordinatamente sul cuscino. 
Fece per ritrarsi, ma Rebecca gli strinse i fianchi con le ginocchia, impedendogli di scostarsi. James spostò il peso sul braccio sinistro e usò la destra per carezzarle il volto. 
«In teoria, con quello che mi scorre nelle vene dovrei avere un po’ più di resistenza. Sono molto fuori allenamento, temo» mormorò. 
Lei sorrise: «Penso si tratti solo di fare esercizio.» 
Il sogghigno che le rivolse avrebbe dovuto essere dichiarato illegale. Si abbassò su di lei, sfiorandole le labbra con la bocca. 
«Mi piace fare esercizio con te» sussurrò. 
Le catturò la bocca. Era ancora dentro di lei e Rebecca si mosse, spingendosi contro di lui e attirandolo più vicino. Inaspettatamente, il suo corpo reagì. 
La donna lo sentì ridiventare duro e interruppe il bacio per guardarlo negli occhi: «Hai intenzione di recuperare tutto il tempo perso in una notte?» 
«Sono stupito quanto te, credimi» fece lui. Non che avesse una grande esperienza in fatto di sesso, ma era alquanto sorpreso da quel veloce recupero. Forse, dopotutto, essere un super soldato non aveva solo svantaggi. 
Rebecca gli attirò la testa verso il basso e gli avvicinò le labbra all’orecchio: «Non vogliamo sprecare un’occasione come questa, vero?» sussurrò, maliziosa.

 
Il titolo di questo capitolo richiama il nome assunto da Bucky in Wakanda.
Nella mia versione degli Avengers non si fa cenno al regno di Black Panther,
quindi ho dovuto inventarmi qualcosa per giustificare quando, in seguito, Bucky assumerà questo nome di battaglia.
 

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Capitolo 5
*** Routine ***


Bucky ha finalmente messo da parte i suoi dubbi
e si è lasciato conquistare da Rebecca.
Basterà una notte trascorsa insieme per far capire a James
che può fidarsi e affidarsi a Rebecca?
Buona lettura!


La sveglia squillò sul comodino. Le sei. Rebecca sfilò un braccio da sotto il piumino e la colpì svogliatamente, spegnendola. 
Sospirò, ben consapevole del braccio in vibranio che le cingeva la vita e del fatto che la propria schiena era appoggiata al petto solido e caldo di James. 
«Scusa, la mia sveglia suona presto» mormorò, accorgendosi che era sveglio. 
«Tranquilla. Sono state le tre ore meglio dormite della mia vita.» 
Ad un certo punto della notte, erano semplicemente crollati. O meglio, lei era crollata: lui avrebbe potuto benissimo continuare. 
«Devi andare al lavoro?» chiese, strofinandole il naso sul collo. 
«Sì, ma con calma. Sarah ha le chiavi, si occupa lei di aprire». Rebecca si girò nel suo abbraccio e sorrise nell’incrociare quegli occhi azzurri. 
«Salve» sussurrò. 
«Buongiorno, Rebecca.» 
Le piaceva un sacco come pronunciava il suo nome, come se lo facesse ogni volta rotolare in bocca per assaporarlo. La baciò con dolcezza, mandandole fuori giri il cuore: che fosse il caso di procurarsi in casa un defibrillatore? Il pensiero la fece ridacchiare e lui si scostò. 
«Che c’è?» 
«Niente. Pensavo solo che se continui così, avrò bisogno di un trapianto di cuore.» 
Lui rise e Rebecca si perse nei suoi occhi. 
«Dovresti ridere di più, James. Da bellissimo diventi irresistibile, quando lo fai.» 
«Non ho mai avuto molti motivi per ridere. Non fino a questo momento» replicò. 
C’era così tanta tristezza in quella frase pronunciata con calma che Rebecca faticò a trattenere le lacrime. 
«Perdonami, non volevo toccare un tasto dolente» si scusò, ma lui scosse la testa. 
«Ehi, va tutto bene» la rassicurò. «Per tutta la vita ho nascosto ciò che sono e per la prima volta mi sento abbastanza a mio agio da poterne parlare. Sempre che questo per te non sia un problema.» 
Rebecca gli prese il viso fra le mani: «Sono felice che tu voglia confidarti con me.» 
James sorrise: gli riusciva stranamente facile, come se stare con lei portasse alla luce la sua parte migliore, quella che credeva perduta per sempre. 
«Vado a fare una doccia» affermò la donna e, con un ultimo bacio, si alzò e scomparve in bagno. 
Lui ricadde sul cuscino. La notte appena trascorsa era stata la sua migliore, senza dubbio. Non ricordava di aver mai dormito tre ore filate senza incubi e mentre stringeva fra le braccia il corpo morbido e caldo di Rebecca si era fatto il sonno più riposante di sempre. 
Ripensò a come si era sentito in pace quando si era unito alla donna: era una sensazione talmente forte che gli pareva di essere ancora in comunione con lei, come se parte di Rebecca gli si fosse incisa addosso. 
Lei si era dimostrata l’unica, al di fuori della cerchia degli Avengers, ad averlo accettato totalmente. Sapeva che era un assassino, anche se non conosceva tutti i dettagli, eppure la cosa sembrava non importarle. Così come non si era dimostrata spaventata dal suo braccio metallico. 
La sentì entrare nella doccia e cercò di non pensare a come l’acqua stesse scorrendo sulla sua pelle nuda. Però non riusciva a concentrarsi su altro finché, con uno scatto del braccio, scostò le coperte e si alzò. 
Esitò solo un istante con la mano sulla maniglia, poi l’abbassò ed entrò. Lei si voltò di scatto: i vetri della doccia erano appena un po’ velati dal vapore. 
«Va tutto bene?» 
Troppo tardi ragionò sul fatto che avrebbe dovuto almeno bussare, ma lei sembrava solo sorpresa, non imbarazzata. 
Rebecca si stava godendo la carezza dell’acqua calda ad occhi chiusi. La sentiva scorrere addosso, sui capezzoli ancora sensibili dopo le attenzioni che James aveva riservato loro. Si sentiva piacevolmente indolenzita in posti che non erano stati frequentati da un po’ di tempo. 
Quando aveva sentito la porta del bagno aprirsi, aveva pensato che James avesse bisogno di qualcosa. Non si aspettava certo che lui irrompesse nella doccia con tanta veemenza. 
James fece scorrere l’anta ed entrò nella cabina, spingendola contro le piastrelle. Rebecca lanciò un gridolino di sorpresa, ma non si ritrasse quando la baciò. 
La circondò con il braccio in vibranio e la sollevò: era talmente piccola e minuta che non sarebbe stato un problema nemmeno se fosse stato del tutto umano. Rebecca gli si aggrappò alle spalle e gli allacciò le caviglie dietro la schiena mentre James posava la mano libera sul muro dietro di lei, sostenendo entrambi. 
La prese subito, desideroso di ritrovare quella pace, quell’unione del corpo di cui aveva appena scoperto di avere un disperato bisogno. Il pensiero di essere stato troppo rude gli sfiorò la mente, ma quando la sentì rispondere alle sue spinte, muovendosi all’unisono con lui, liberò la mente e si lasciò inebriare dalle sensazioni. 
«James» ansimò. 
«Sì, anch’io» grugnì in risposta. 
L’orgasmo di Rebecca esplose dentro di lei. Si aggrappò a James con forza, tremando come una foglia. Lui la seguì qualche istante dopo: gli tremavano le gambe per la forza dirompente di quella scarica di piacere, ma si puntellò al muro e continuò a tenerla stretta. 
Aggrappata a lui, Rebecca ansimava cercando di riprendere il controllo di cuore, polmoni e cervello. 
«Non azzardarti a mettermi giù, non riuscirei a restare in piedi» gli mormorò contro il collo. 
«Ti tengo io, non preoccuparti» ridacchiò. 
Dopo quello che parve ad entrambi un tempo lunghissimo, James la mise delicatamente a terra, continuando però a sorreggerla con il braccio. Gliene fu grata: era ancora un po’ malferma sulle gambe. 
«Penso che ora dovremmo uscire di qui» borbottò la donna con voce incerta. «Non vorrei che quel braccio ti si arrugginisse.» 
Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere entrambi. 
Finirono per farsi la doccia insieme. Rebecca si avvolse nel suo accappatoio e gli porse un telo. 
«Mi dispiace, non ho un accappatoio per te.» 
«Non è un problema. Non soffro il freddo» replicò, asciugandosi in fretta e avvolgendoselo attorno alla vita. «Anzi, quando mi stai intorno è tutto il contrario.» 
Rebecca si asciugò i capelli alla meglio, poi si dedicò a preparare la colazione. 
«Uova e pancetta?» gli chiese e lui annuì, mentre si dedicava a preparare il caffè. 
Mentre cuoceva le uova lo osservava aggirarsi per la sua piccola cucina, scalzo e a petto nudo. Non si era curato di asciugarsi i capelli e, mentre se ne stava appoggiato a braccia conserte al mobile, in attesa che il caffè fosse pronto, una goccia gli cadde sul petto e scivolò con lentezza sulla sua pelle. 
Rebecca si chiese come una cosa così insignificante potesse scatenarle una reazione tanto potente e si affrettò a distogliere lo sguardo. Ma James aveva notato qualcosa e si avvicinò con indolenza. 
«Che c’è?» domandò. 
«Niente» replicò, rigirando le uova in padella. 
Lui si appoggiò alla sua schiena, spingendosi contro il suo corpo e abbassando la testa. 
«Avanti, dimmelo» ordinò con un sussurro e una voce che prometteva cose a cui lei si impose di non pensare. 
«Non ti lascerò in pace finché non me lo dirai» chiarì, sfilandole la paletta dalle mani e obbligandola a girarsi verso di lui. Era troppo vicino, decisamente troppo vicino. Le scatenava dentro una fame insaziabile. 
«Dovresti… vestirti. Rischi di prendere freddo» balbettò. 
«No, non era questo.» 
Un’altra goccia gli cadde sul pettorale e stavolta Rebecca lasciò libero il proprio istinto e la raccolse con la lingua. 
«Di questo passo non ci arriverai mai al lavoro» ringhiò lui, cercandole la bocca e baciandola con tanta passione dal toglierle il respiro. 
James le sciolse il nodo che chiudeva l’accappatoio, ma Rebecca si affrettò a tenerlo chiuso: «Ti prego. Mettiti qualcosa addosso. Devo andare al lavoro.» 
Lui sollevò l’angolo della bocca in un sogghigno. Poi si ritrasse, afferrando la maglietta rimasta sul divano e dirigendosi verso la camera per recuperare i pantaloni. 
«Questa cosa è solo rimandata, dolcezza» le disse. 
Rebecca tirò un sospiro e recuperò la paletta per girare le uova prima che si bruciassero. Quando James tornò, vestito come la sera prima, lei aveva apparecchiato il tavolo. 
Mangiarono in silenzio, sorridendosi di tanto in tanto. Dopodiché Rebecca finì di prepararsi e, quando tornò in salotto, James si stava infilando la giacca. Notò che prese i guanti ma non li indossò e li mise in tasca. 
«Ho ricevuto un messaggio, ho un briefing alla base. Ma ti accompagno al lavoro» dichiarò. «Se ti va.» 
Rebecca annuì e, mentre lui usciva, indossò il piumino e recuperò la borsa. Poi chiuse la porta e scese in strada. James la stava aspettando a cavallo di una moto dalla vernice nera opaca e, quando lo raggiunse, prese un casco. 
«È il mio e ti starà un po’ grande, ma è meglio se lo indossi.» 
Glielo fece infilare e glielo strinse sotto la gola. 
«E tu?» 
«Ho la testa dura» replicò, facendole l’occhiolino. 
Rebecca si resse alla sua spalla e salì dietro di lui, cingendolo con le braccia e incrociando le mani sul suo stomaco. James avviò la moto e partì. 
Arrivati davanti al bar, Rebecca si tolse il casco e fece per renderglielo, ma lui rifiutò: «Tienilo tu. Ti servirà stasera quando verrò a riprenderti». 
Poi la attirò a sé e la baciò. Era più forte di lui, non riusciva a farne a meno. Ogni volta che gli era vicina non riusciva ad impedirsi di toccarla o baciarla. 
«A stasera allora» mormorò lei. 
«Ti chiamo più tardi, appena posso.» 
Poi si chinò sul manubrio e partì. 
 
*** 
 
Se era vero che erano necessari due mesi per stabilire una routine, Rebecca e James avevano ormai una loro routine. 
L’uomo trascorreva ormai pochissimo tempo nel suo appartamento alla Avengers Tower, preferendo di gran lunga passare le notti da Rebecca. Il resto del tempo lo passava con lei al bar, dando una mano nella gestione, o impegnato all’associazione per veterani di guerra di Sam. 
Nessuno più di lui capiva cosa volesse dire avere un disturbo post-traumatico da stress e, nonostante le iniziali resistenze, Sam aveva capito ben presto che la sua presenza faceva bene a lui ma, soprattutto, a coloro che cercavano un rifugio dal caos delle proprie menti: sapere che uno come il Soldato d’Inverno era stato riabilitato dava loro la convinzione di poter essere salvati. 
Rebecca si godeva quel periodo felice. Non sapeva esattamente cosa stava vivendo con James. O meglio, nessuno dei due aveva bisogno di etichettarlo in qualche modo: stavano insieme, vivevano come una coppia, ma in maniera tranquilla e rilassata, senza pressioni. 
Non c’era stato imbarazzo quando gli aveva dato la chiave del proprio appartamento, né quando gli aveva fatto un po’ di posto nell’armadio e lui aveva smesso di andare avanti e indietro con il borsone, lasciando da lei un po’ di vestiti. 
Le giornate erano più piacevoli da quando James le ronzava intorno per il bar e le notti… beh, le notti erano sempre speciali. Fare l’amore con lui era un’esperienza come lei non ne aveva mai provate. Percepiva quanto fosse importante per James, come se cercasse in lei un rifugio, un porto sicuro. 
Dopo restavano abbracciati e James le raccontava il suo passato. A volte le raccontava di quando era un ragazzo, della sua amicizia con Steve prima che diventasse Captain America. Altre volte, nel buio della loro camera, le raccontava di quando era il Soldato d’Inverno, delle cose orribili che era stato obbligato a fare. 
Una notte, James si svegliò di soprassalto, un grido soffocato bloccato in gola. Rebecca, svegliata dal suo improvviso movimento, si raddrizzò. 
«Tutto bene, James. Tutto bene. È solo un incubo» mormorò. 
L’uomo ansimava come se avesse corso e, quando gli posò la mano sul petto, sentì il suo cuore picchiare in maniera forsennata contro le costole. 
Non era la prima volta che succedeva. Nei primi tempi, quei bruschi risvegli erano stati più frequenti. Di notte, il cervello di James elaborava senza sosta i dati raccolti durante il periodo in cui era stato un assassino al soldo dell’Hydra. Quei ricordi erano per lui estremamente dolorosi e ogni volta si svegliava con un senso di angoscia che solo la presenza di Rebecca riusciva a placare. Prima di conoscere lei, scendeva in palestra e si allenava fino a sfinirsi, come se farlo potesse aiutarlo a sfuggire ai suoi demoni. 
«È finita, tesoro» gli sussurrò, spingendolo a coricarsi. 
Ultimamente, Rebecca aveva sviluppato una sorta di sesto senso per quei momenti. Di solito, durante il sonno riusciva a percepire quando James stava avendo un incubo e allora gli si avvicinava, lo accarezzava con delicatezza e, molto spesso, la sua presenza riusciva a calmarlo. Quella volta, evidentemente, non aveva funzionato. 
«Mi spiace averti svegliata» disse lui. Aveva ancora il respiro accelerato, ma il cuore stava riprendendo un battito normale e sembrava più tranquillo. 
«Non fa niente» replicò lei con un sorriso. 
Senza una parola, James scostò il braccio destro e Rebecca si stese al suo fianco. Appoggiò la testa sulla sua spalla e infilò una gamba fra le sue, mentre lui la circondava e la stringeva a sé, come se non fosse stata già abbastanza vicina. 
Rebecca sapeva che quando faceva così voleva raccontarle ciò che aveva visto e si preparò: non era mai semplice ascoltarlo perché non le nascondeva nulla, nemmeno i dettagli più cruenti. Infatti cominciò a raccontare e lei, con l’orecchio appoggiato al suo petto lo ascoltò, con l’unico desiderio di liberarlo dai pesi che gli opprimevano l’anima. 
«Nel 1991 l’Hydra mi risvegliò dalla stasi criogenica e mi mandò in Virginia. Era il sedici dicembre.» 
I sogni di James erano sempre molto dettagliati e precisi. Più che proiezioni del suo cervello erano veri e propri ricordi. 
«L’obiettivo era recuperare il siero del super soldato. L’Hydra ne aveva una sua versione, ovvero quella merda che mi avevano pompato nelle vene, ma non era né raffinata né stabile come quella creata dal dottor Erskine e che aveva trasformato Steve in Captain America.» 
L’Hydra era venuta a conoscenza che qualcuno in America ci aveva lavorato sopra e lo inviò in missione. 
«Mi appostai di notte sulla strada dove sapevo che il mio obiettivo sarebbe passato. Non appena vidi l’auto, mi misi all’inseguimento con la moto. Mi affiancai e la colpii con il braccio metallico, mandandola a sbattere contro un albero sul ciglio della strada.» 
Raccontava tutto in tono tranquillo, ma lei sapeva quando gli costasse ogni parola. 
«Tornai indietro. Aprii il bagagliaio e trovai quello che ero stato mandato a recuperare, mettendolo al sicuro». La mano di Rebecca era posata sul suo petto e muoveva il pollice in maniera ritmica. «Nel frattempo, l’uomo che era al volante si era trascinato fuori dalle lamiere. Era ferito, ma implorava che aiutassi la moglie. Lei non avrebbe dovuto essere lì.» 
Rebecca cercò di non irrigidirsi, anche se sapeva che il brutto del racconto stava per arrivare. 
«Lo afferrai per i capelli e gli sollevai la testa per guardarlo negli occhi. Lui mostrò di riconoscermi e mi chiamò “sergente Barnes”, ma quel nome per me non significava nulla. Lo colpii al volto e lo uccisi. Non era previsto che lasciassi testimoni, non lo facevo mai.» 
Rebecca non si mosse. L’uomo che aveva compiuto quelle azioni non era quello accanto a lei, lo sapeva nel profondo dell’anima. Non aveva paura di lui, né era sconvolta da quello che aveva fatto. Per lei, era come se il Soldato d’Inverno fosse un’altra persona, totalmente diversa da James. 
«Trascinai il suo corpo senza vita e lo piazzai sul sedile. Poi girai attorno all’auto e aprii la portiera del passeggero. La donna era ferita, ma ancora cosciente. Chiedeva aiuto.» 
James appoggiò la guancia sulla sua testa, stringendola un po’ più a sé. 
«Era talmente fragile che non mi servì nemmeno usare il braccio. La strangolai e la lasciai lì, accanto al cadavere di suo marito.» 
James tacque, ma Rebecca intuiva che c’era qualcos’altro che covava sotto la superficie. 
«Quelli erano Howard e Maria Stark» aggiunse, dopo un bel po’. 
Il pollice che Rebecca stava ancora muovendo sul suo petto si bloccò. Quella era una rivelazione davvero notevole: il Soldato d’Inverno era il responsabile della morte dei genitori di Tony Stark. 
«Lui lo sa?» gli chiese con un filo di voce. 
«Lo sa. E solo l’intervento di Wanda gli ha impedito di uccidermi quando l’ha scoperto. Lei è riuscita a vedere dentro di me, a capire che non avevo alcun controllo sulle azioni che l’Hydra mi chiedeva di compiere.» 
Dopo, erano rimasti in silenzio: non c’erano altre parole da dire. Rebecca l’aveva sentito rilassarsi finché la sua mano si era fermata dal disegnarle cerchi sul braccio e il suo respiro si era fatto più lento e regolare. Si era addormentato. 
Lei era rimasta sveglia ancora un po’, pregando che quello fosse l’ultimo incubo, che quella fosse l’ultima volta in cui doveva sentire il dolore nella sua voce mentre rivangava il pesante fardello del suo passato. 
Il diradarsi dei suoi incubi non era comunque l’unico cambiamento, da quando stavano insieme. Sorrideva di più e Sarah le aveva confidato che non lo trovava più così inquietante come appena conosciuto. 
Un paio di giorni dopo quella rivelazione, James stava tornando da una missione. In quei due mesi, aveva partecipato a diversi briefing, ma Steve l’aveva impiegato in missione solo due volte. 
Non appena il Quinjet si posò sulla piattaforma alla Avengers Tower, James salutò il resto dei compagni e si precipitò di sotto. Aveva bisogno di una doccia e, guardandosi nello specchio all’ingresso, vide che il livido sulla tempia destra non si era ancora riassorbito, ma l’unica cosa che desiderava era vedere Rebecca. 
Afferrò le chiavi della moto e, con ancora addosso l’uniforme da Avengers, scese nel garage sotterraneo. 
Erano da poco passate le tre del mattino perciò percorse il quartiere dove abitava Rebecca a bassa velocità. Lasciò la moto davanti all'ingresso ed entrò. La casa era silenziosa e l’unica luce era data da una piccola lampada di cortesia nel corridoio che portava alla camera da letto. 
Rebecca aveva scalciato via le coperte. Indossava un paio di mutandine nere e una delle sue magliette. Era a pancia in giù, voltata verso la parte dove di solito dormiva lui. Non era la sua posizione preferita e sorrise quando si accorse che il braccio destro era teso sul lenzuolo come a cercare la sua presenza. 
Sedette sul letto con delicatezza e rimase a guardarla dormire per un po’. Poi però non gli bastò più, perciò tese la mano metallica e le accarezzò il volto, scostandole i capelli dalla fronte. 
Rebecca si mosse nel sonno. Poi aprì gli occhi e il miracolo di quel suo sorriso di cui non era più capace di fare a meno lo stupì per l’ennesima volta. 
«Ciao» mormorò, assonnata. «Sei tornato presto, non ti aspettavo prima di domani.» 
«Sono atterrato venti minuti fa. Avevo voglia di vederti» confessò. 
Si abbassò su di lei per baciarla. Gli era mancata più di quanto riuscisse ad ammettere. 
Quando si scostò, Rebecca si tese e accese l’abat-jour. Vide il livido sulla tempia e la preoccupazione le incise i tratti del volto. 
«Stai bene?» 
«Non è niente. Tra qualche ora non si vedrà più» la rassicurò. Poi si alzò e si sfilò la giacca. «Vado a fare una doccia e ti raggiungo.» 
Si bloccò sulla porta della camera e si voltò verso di lei: «Sia chiaro che rivoglio la mia maglietta.» 
«È una minaccia?» lo provocò. 
Lui sogghignò, passandosi la lingua all’interno del labbro inferiore: «Riavrò la mia maglietta. È una promessa.» 
Mentre lui faceva la doccia, Rebecca mandò un messaggio a Sarah, avvisandola che sarebbe arrivata al bar solo in tarda mattinata. La ragazza l’avrebbe trovato quando si fosse svegliata e avrebbe gestito il bar fino al suo arrivo. 
Poi, quando James tornò dalla doccia e s’infilò a letto, si allungò al suo fianco, intrecciando la gamba con quelle di lui e rimase ad ascoltarlo mentre le raccontava della missione finché la sua voce non si affievolì e lui si addormentò. 
Il mattino seguente, Rebecca si svegliò per prima. Si alzò senza che lui se ne accorgesse ed era la prima volta che succedeva: di solito apriva gli occhi non appena lei si muoveva. Preparò la colazione e poi tornò a svegliarlo. 
«Buongiorno, sergente Barnes» mormorò, chinandosi su di lui e baciandolo dolcemente. 
Lui sentì il profumo di caffè e aggrottò le sopracciglia. 
«Sì, sono riuscita ad alzarmi senza svegliarti. Stai invecchiando, temo.» 
Non le disse che non aveva praticamente dormito nei due giorni precedenti. 
Mentre imburrava una fetta di pane tostato, James la guardò negli occhi. 
«Hai impegni questo venerdì?» 
«Non mi pare. Che avevi in mente?» 
«C’è una festa alla Tower» buttò lì e a Rebecca quasi cadde il cucchiaio di mano. 
«Con… gli Avengers?» 
«No, con i compagni di quinta elementare del 1928» scherzò lui. 
«Ah, ah» fece lei, ironica. «Adoro questo umorismo da ultracentenario» aggiunse. 
James ridacchiò: «Scusa, non ho resistito. Comunque sì, con gli Avengers. Pensavo che magari era il caso di farteli conoscere, visto che ormai stiamo insieme da un po’.» 
Gli Avengers erano la sua famiglia, quindi conoscerli ufficialmente equivaleva ad uscire allo scoperto e a presentarsi come coppia di fronte alle persone per lui più importanti. Anche se aveva gettato sul tavolo la proposta come una cosa di poco conto, era un passo piuttosto significativo per la loro relazione. Significava mettere un’etichetta al loro rapporto, e non si era aspettata che James fosse già pronto per farlo. 
«Ok. E festa alla Tower sia» accettò. 
 

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Capitolo 6
*** Feste ***


La sera della tanto temuta festa
alla Avengers Towe è finalmente arrivata.
Ma non sarà l'unica festa a cui parteciperanno
i nostri due protagonisti.
Buona lettura!

 

«Credi che dovrei mettere la camicetta rosa o la maglia con gli strass?» domandò Rebecca, mostrandogli i capi che teneva uno per mano. 
Indossava solo un paio di jeans attillati come una seconda pelle e un reggiseno in pizzo color carne, cosa che distrasse alquanto James, il quale tardò un secondo di troppo a rispondere. 
«Allora?» fece lei, battendo il piede con impazienza sul pavimento. 
«Tesoro, è una festa informale. Sarà una cosa molto tranquilla, andrà bene qualsiasi cosa sceglierai.» 
Rebecca girò su se stessa con tale velocità che i suoi capelli frustarono l’aria come la coda di una leonessa irritata. James sospirò e si alzò dal divano, seguendola in camera dove la vide gettare entrambe le maglie sul letto. Aprì di nuovo le ante dell’armadio e scostò con rabbia le grucce. 
«Come diavolo ci si veste per una festa con gli Avengers?» 
Bucky la prese per le spalle e la fece girare verso di sé. 
«Dolcezza, ora calmati e ascoltami. Non c’è motivo di essere così nervosa, andrà tutto bene.» 
«E se non piacessi ai tuoi amici?» 
James si lasciò andare ad una risata, salvo poi zittirsi di botto quando registrò l’espressione di Rebecca. 
«Rebecca, è impossibile che tu non piaccia a qualcuno, men che meno al resto della mia squadra». Le prese il viso fra le mani, accarezzandole le guance con i pollici. «Non vedono l’ora di conoscere la donna che ha cambiato la mia vita.» 
«Se questo è il tuo modo per non mettermi pressione, non ci stai riuscendo granché bene.» 
La baciò e mentre la stringeva al petto allungò una mano dietro di lei e afferrò una gruccia. 
«Metti questa» disse, scostandosi e porgendole una maglia a manica corta color bordeaux con lo scollo a cascata. «Adoro come ti sta.» 
Venti minuti più tardi James l’aiutò ad indossare la giacca e le aprì la portiera del taxi che aveva chiamato dato che Rebecca aveva rifiutato categoricamente di raggiungere la Tower in moto e rovinarsi i capelli sotto il casco. 
Mentre salivano in ascensore, Bucky le prese la mano e gliela strinse con delicatezza. 
«Devi solo essere te stessa, Rebecca. Loro lo saranno, senza filtri, perché questo è uno dei pochi posti in cui siamo veramente liberi.» 
Le porte dell’elevatore si aprirono e Rebecca sgranò tanto d’occhi. La sala era ampia e con soffitti altissimi, suddivisa in diversi livelli. Ovunque, vetro e acciaio. Sullo sfondo, la splendida veduta di New York dall’alto catturò subito la sua attenzione. 
Divani e poltrone color crema erano disposti per tutta la sala e a tutti i livelli, con le luci strategicamente posizionate in giro. Su un lato c’era un bar talmente ampio da far invidia a qualsiasi locale, con una quantità di bottiglie sulle mensole. 
«Questo posto è una favola» mormorò, guardandosi intorno con la meraviglia dipinta sul volto, dimentica del nervosismo che l’aveva attanagliata prima di arrivare. 
«Avrei detto che avresti commentato con più originalità. È la stessa cosa che hanno detto tutte le altre che ho portato qui.» 
Rebecca lo colpì con una gomitata offesa e James si scostò, tenendosi il fianco come se lei gli avesse fatto davvero male. 
«Ben arrivati, ragazzi». Steve Rogers si avvicinò con un sorriso smagliante, vestito in jeans e camicia con le maniche arrotolate sugli avambracci. 
«Rebecca, ti presento Steve Rogers. Steve, lei è Rebecca.» 
Steve le porse la mano che lei strinse con un po’ di trepidazione: era come stringere la mano all’America intera. 
«Essere qui è un vero onore per me» disse la donna. 
«Sono felice di conoscerti. Buck non fa altro che parlare di te, ultimamente.» 
«Grazie, amico» borbottò l’altro in tono rassegnato. 
Steve ridacchiò: «Se il tuo ragazzo riesce a staccarti le mani di dosso per un po’, ti presento gli altri.» 
Rebecca lo seguì mentre Steve le presentava il resto del gruppo che, rilassato e a proprio agio, sorseggiava drink in attesa della cena. Erano tutti presenti, con tanto di prole: una masnada di bambini di varie età che si rincorreva per la sala. 
«Ragazzi, lei è Rebecca.» 
Tutti le rivolsero sorrisi cordiali e Wanda balzò in piedi e l’abbracciò. 
«Oh, non vedevo l’ora di conoscerti, Rebecca. Bucky è diventato più sopportabile da quando sta con te» affermò. 
«Ehm… beh, grazie. Suppongo» mormorò, imbarazzata da tanto fervore. «Gli amici mi chiamano Becks, comunque.» 
Bucky fece una smorfia, che non sfuggì a Sam in quale si alzò dalla poltrona su cui era stravaccato e si avvicinò ai due. 
«Tu non la chiami Becks, vero?» domandò. 
«Mi rifiuto di chiamare la mia ragazza come una marca di birra» borbottò James senza pensare. Troppo tardi si rese conto del sogghigno di Sam. Questi prese la mano di Rebecca e chinò la testa a sfiorargliela con le labbra. 
«Non so esprimerti ciò che provo nel conoscerti, finalmente. Becks» disse con un sogghigno, calcando bene sull’ultima parola. 
James rilasciò un sospiro esasperato: «Dio, adesso mi darà il tormento con questa cosa.» 
«Ragazzi! Sul serio?» intervenne Beth, raggiungendoli e cingendo con il braccio i fianchi di Steve. Poi si rivolse direttamente a lei: «Non far caso a questi due, sono capacissimi di andare avanti tutta la sera su questi toni.» 
La cena fu rilassata e gradevole. Rebecca sedeva tra James e Wanda e di fronte a lei aveva presto posto Beth. Aveva intavolato con loro una piacevole conversazione, dimenticando ben presto quanto fosse strano essere a cena con gli eroi più forti della Terra. Anche James era sereno come le era capitato di vederlo solo quando erano soli: era evidente che lì non si sentiva osservato e giudicato come a volte accadeva quando andavano in giro loro due e lui veniva riconosciuto come il Soldato d’Inverno. Chiacchierava con Steve e Sam sorseggiando birra direttamente dalla bottiglia, il braccio in vibranio abbandonato sullo schienale della sedia di Rebecca. 
«Ehi, se non vuoi fare una partita per paura di perdere di fronte alla tua ragazza…» disse ad un certo punto Sam. 
«Non vedo perché dovrei perdere stasera, dato che non mi hai mai battuto» replicò Bucky con tranquillità. 
«E la partita della scorsa settimana?» fece l’altro con una smorfia. 
«La regolarità di quella partita è ancora tutta da dimostrare. Comunque, non mi tiro mai indietro di fronte ad una sfida onesta. Quindi, se ci tieni così tanto a umiliarti per l’ennesima volta giocando a biliardo contro di me, sono tutto tuo.» 
James si volse verso Rebecca e le baciò la guancia. 
«Posso lasciarti con queste adorabili signore?» le chiese e quando lei annuì, aggiunse: «Sistemo il pennuto e torno da te, piccola», abbastanza forte perché sentisse anche Sam. 
«Non so proprio come tu faccia a sopportare questo sbruffone, Becks» fece l’altro, avviandosi verso l’angolo della stanza dov’era posizionato il biliardo, seguito da Bucky che ridacchiava sotto i baffi. 
I maschi si spostarono in massa per seguire la partita e dare consigli decisamente non richiesti al loro favorito, mentre le donne si trasferirono sui divani. 
«Siamo una strana famiglia, eh?» le chiese Victoria, sedendole accanto. 
«Una bella famiglia, direi» constatò Rebecca, girando lo sguardo sui bambini che, con la loro energia inesauribile, ancora si rincorrevano per la stanza. 
Dalla zona biliardo arrivavano schiamazzi e grida. 
«La partita sembra entrata nel vivo» ridacchiò Rebecca. 
«Non ha importanza che si tratti di semidei o supersoldati: quando si trovano insieme in questo modo diventano tutti ragazzini.» 
Serenity, la più piccola degli Stark, arrivò ciondolando e piagnucolando. Urtò il tavolino di fronte al divano e Rebecca si tese in avanti per afferrare i bicchieri che ci erano posati sopra e che si stavano rovesciando. Ma prima che riuscisse a sfiorarli, furono avvolti da scintille verdi e si rimisero in piedi da soli. 
Rebecca si voltò e vide gli occhi di Victoria brillare di quella stessa luminosità verde, mentre si tendeva per prendere in braccio la bambina che si lamentava del fatto che Alexander, il figlio di Clint e Natasha Barton, le aveva rubato il suo giocattolo preferito. 
Bastò una sola parola in russo di Natasha perché il piccolo si avvicinasse a Serenity e le rendesse il giocattolo. Le chiese timidamente scusa e la invitò a giocare di nuovo: Serenity, perfettamente fedele al nome che portava, sorrise e accettò la resa dell’amichetto. 
«Dramma evitato» mormorò Victoria, facendo l’occhiolino a Natasha. Poi tornò a rivolgersi a Rebecca: «Spero di non averti spaventata: usare i miei poteri mi viene naturale quando so di poterlo fare» disse, accennando a quello che era successo poco prima. 
«Oh no, tranquilla. James mi ha parlato di quello che sai fare. Anzi, vorrei ringraziarti per quello che hai fatto per lui» aggiunse, cercandolo con gli occhi. 
Rimase a guardarlo mentre si chinava sul biliardo e, sostenendo la stecca con la mano in vibranio, prendeva la mira e colpiva con precisione la bilia bianca. 
«Non ti nascondo che era un bel disastro quando l’abbiamo ritrovato in Siberia» spiegò Victoria con voce grave. «L’Hydra gli ha fatto il lavaggio del cervello, creando un perfetto assassino privo di scrupoli e di qualsiasi umanità. Io e Wanda abbiamo poteri simili e abbiamo lavorato entrambe a lungo con lui per riportarlo indietro.» 
Rebecca si torse le mani in grembo: la sconcertava sempre sentir parlare di quanto l’Hydra aveva sperimentato su James, di quanto lui avesse sofferto, della solitudine che doveva aver provato, lontano dalla sua famiglia e da tutti i suoi affetti. 
«Ma, nonostante tutto il nostro potere» proseguì Victoria, «il vero cambiamento l’ha fatto quando ha incontrato te.» 
Un sorriso si dipinse sulle labbra di Rebecca, che arrossì e abbassò lo sguardo: «Non credo che sia stato merito mio» si schermì, ma l’altra scosse la testa. 
«Il mio dono mi permette di percepire i sentimenti di quanti mi circondano. Sento quello che prova per te e, credimi, è solo per te che vuole essere una persona migliore». 
Victoria le prese la mano e gliela strinse. 
Altri schiamazzi provennero dall’angolo della sala e Rebecca sorrise, vedendo James gettare la stecca sul piano di velluto verde e alzare le braccia in segno di vittoria. 
 
*** 
 
«Cos’è quello?» 
«Niente» replicò Rebecca, cercando di nascondere l’invito in mezzo al resto della posta. 
James socchiuse gli occhi: la risposta della donna era stata decisamente troppo veloce. Si alzò dallo sgabello e si avvicinò, mentre lei nascondeva qualcosa dietro la schiena. 
«Tesoro, non puoi pensare di dirmi “niente” con quel tono e credere che basti a farmi desistere. Di che si tratta?» 
«E tu non puoi credere che bastino quel tuo sorriso assassino e gli occhioni azzurri per ottenere tutto ciò che vuoi.» 
Lui sollevò l’angolo della bocca in un sorriso sornione, continuando a muoversi verso di lei che, per contro, indietreggiava girando attorno al tavolo e mantenendo invariato lo spazio fra di loro: «Pensi sia saggio sfidarmi, Rebecca?» 
James fintò un attacco a sinistra e Rebecca scappò ridendo dall’altra parte. Ma non aveva scampo: James piazzò una mano sul tavolo e si diede lo slancio, atterrando dall’altra parte, proprio davanti a lei. L’azione era stata così fulminea che la circondò con le braccia prima che potesse reagire, bloccandole le mani dietro la schiena. 
«Giochi sporco, Barnes» lo rimproverò, mentre lui le sottraeva la busta e si allontanava. 
«Wow, andiamo ad una festa» fece lui, sbirciando l’invito con curiosità. 
«No, non andiamo da nessuna parte. Non a quella festa, comunque» sbottò Rebecca, cercando di riprendersi il cartoncino che lui, ben più alto, tenne senza sforzo fuori dalla sua portata. 
«Perché no?» 
Con un sospiro esasperato, Rebecca si rassegnò a spiegargli il motivo. Anche perché sapeva che le avrebbe dato il tormento finché non avesse ottenuto quello che voleva. 
«Quella festa è l’annuale ritrovo dei compagni di liceo, organizzata dall’ex reginetta della scuola, tale Chanel Stronza White.» 
«Quella Chanel White? La cantante?» domandò James. 
«Definirla cantante è lesivo nei confronti della musica, comunque sì, proprio lei.» 
«Non mi avevi mai detto di essere stata nella stessa classe di una star» rincarò James. «Perché non ci vuoi andare?» 
«Perché non partecipo da anni e sono appagata di questo felice stato di cose. Non so neanche perché continui a mandarmi l’invito tutti gli anni.» 
James aveva capito sin dall’epiteto con cui l’aveva definita prima che tra loro non correva buon sangue e voleva sapere perché. 
«Magari ha voglia di vederti» fece lui in tono innocente. 
«No, l’unica cosa che vuole fare è sfottermi, come ha fatto per tutti i quattro anni del liceo.» 
Sorpreso da quell’affermazione, James abbassò il braccio e Rebecca riuscì a riagguantare l’invito. 
«E perché ti sfotteva?» domandò, stavolta in tono serio. 
Rebecca si voltò verso di lui e indicò se stessa: «Beh, basta guardarmi. Ho abbastanza sangue indiano nelle vene da sembrare una pellerossa che, per inciso, era il nomignolo con cui usava chiamarmi, con il giusto grado di disprezzo, ovviamente. Credo che in quattro anni non abbia mai pronunciato il mio vero nome.» 
La donna sedette sul bracciolo del divano, abbassando lo sguardo sull’elaborato cartoncino color avorio. 
«Ci sono andata una volta, con Clive. Solo per scoprire che Chanel non è cambiata di una virgola dal liceo. Ha passato buona parte della serata a sottolineare con chiunque quanto fosse strano pensare che alla fine io fossi diventata una cameriera in una caffetteria». Scosse la testa, ricordando quell’orrenda serata. «Clive ci mise del suo, dimostrandosi molto più interessato all’open bar che alla sottoscritta, flirtando con la tipa dietro il bancone come se non ci fosse un domani.» 
Scagliò via l’invito, che planò sul pavimento. James andò a raccoglierlo e tornò da lei, facendole sollevare la testa per guardarla negli occhi. 
«Noi andremo a questa festa, Rebecca.» 
Lei scosse la testa: «Ti prego, James. Non ci voglio andare. Finirà per essere il solito gioco al massacro.» 
Fu lui ad averla vinta, riuscendo a convincerla a dare conferma a Chanel circa la loro presenza. La persuase anche a comprarsi un vestito nuovo, sebbene Rebecca non ne vedesse l’utilità. 
«Fidati di me. Comprati qualcosa di bello e sexy. Voglio che sia tu la reginetta del ballo, quella sera.» 
«Credimi, non succederà. Nessuno può rubare la scena a Chanel.» 
Tuttavia, lo accontentò. E quando, la sera della festa, lei uscì dalla camera con addosso un miniabito nero con l’unica spallina decorata di cristalli luccicanti e un inserto di pizzo sul fianco sinistro che lasciava intravedere la pelle, James sgranò tanto d’occhi. 
«Avevo detto sexy, non irresistibile. Sono sicuro che qualcuno ti lancerà sguardi che non mi piaceranno e mi faranno incazzare.» 
«Ben ti sta» chiosò lei con una smorfia: non l’aveva ancora perdonato per averla convinta ad andare a quella stupida rimpatriata. Poi notò che non era ancora pronto. 
«Perché non sei ancora vestito? Ci sono due ore di macchina per arrivare negli Hamptons.» 
«Perché io non vengo con te, ma il tuo taxi sarà qui tra cinque minuti» rispose, controllando l’orologio. 
«Che diavolo significa che non vieni con me? Io da sola non ci vado, non se ne parla nemmeno.» 
Rebecca stava già per sfilarsi le scarpe, ma James la fermò. 
«Ma per chi mi hai preso? Per Clive?» fece lui in tono offeso. «È ovvio che non ti lascio là da sola, ma io arriverò quando tu sarai già lì. Ti prego, fidati di me» aggiunse, prima che lei potesse replicare. 
«Si può sapere cos’hai in mente?» 
Lui non rispose, limitandosi a sorridere e a inarcare le sopracciglia. Poi, dato che il taxi era arrivato, l’aiutò a indossare la giacca e l’accompagnò fuori. 
«Se ti chiedono dov’è il tuo ragazzo, dì solo che sarò lì a momenti.» 
«Non so cosa tu stia architettando, ma non mi piace il fatto che mi fai andare in quella bolgia infernale da sola.» 
Le sfiorò le labbra con un bacio e le aprì la portiera. 
«Non farai nemmeno in tempo ad accorgerti della mia assenza che sarò già lì. Anche perché non mi piace per niente che tu te ne vada in giro da sola con quel vestito addosso.» 
Così, Rebecca si sorbì le due ore di viaggio giochicchiando con il cellulare finché il taxi non si fermò davanti al cancello dell’enorme villa di Chanel. La donna scese e prese un profondo respiro prima di entrare. 
Nella penombra della sera la dimora era illuminata a giorno. Attorno ad una piscina di ragguardevoli dimensioni erano sistemati diversi gazebo sotto cui gli invitati stavano prendendo l’aperitivo. Camerieri in candida livrea si muovevano tra di loro, porgendo vassoi di tartine o calici di frizzante vino bianco. 
Un DJ era alla consolle preparata sotto il portico e la musica riempiva l’aria. Per fortuna non erano le canzoni di Chanel. 
Rebecca agguantò una flûte e ne bevve il contenuto in un sorso, sperando che potesse farle affrontare meglio quella situazione. Alcuni amici la riconobbero e la salutarono con calore. Si vedeva che erano stupiti dalla sua presenza: tutti ricordavano bene cos’era successo l’ultima volta che era stata lì. 
La padrona di casa non si vedeva ancora e Rebecca sperò di riuscire ad evitarla finché non fosse arrivato James, ma fu una speranza vana. 
«Rebecca, mia cara.» 
L’odiata voce petulante con la R moscia di Chanel le fece rizzare i capelli sulla nuca. Si voltò, mentre quella avanzava verso di lei. Indossava un abito dorato che mostrava più di quanto coprisse, magnificando il lavoro del suo chirurgo plastico che altri non era che il suo secondo marito. 
«Ti trovo in forma». Dal suo tono di voce si sarebbe detto tutt’altro. «Avevo capito che saresti venuta con il tuo ragazzo» aggiunse, lasciando vagare lo sguardo tutto intorno, «ma non vedo Clive.» 
«Ti ho scritto che sarei venuta con il mio ragazzo, ma non sto più con Clive» replicò Rebecca a denti stretti. La voglia di romperle quel naso rifatto era più forte che mai. 
«Oh, povero Clive.» 
Rebecca avrebbe avuto qualcosa da ridire sul povero Clive ma rimase zitta, chiedendosi quando diavolo James avesse intenzione di arrivare a salvarla da quella situazione. 
«E dove sarebbe questo tuo nuovo ragazzo?» chiese Chanel. Il suo tono di voce era scettico, quasi si aspettasse che Rebecca non fosse lì con un vero ragazzo. 
«Dovrebbe arrivare a momenti» sibilò, con il desiderio bruciante di andarsene di lì. 
Le perfette sopracciglia di Chanel schizzarono verso l’alto in un’espressione scettica, ma prima che riuscisse a dire qualcosa, un sibilo acuto coprì la musica. Tutti alzarono la testa mentre un pensiero si faceva strada nella testa di Rebecca. 
Un velivolo comparve nel cielo e Rebecca fu l’unica che non ne fu sorpresa. Il mezzo virò, mettendo in mostra il grosso logo degli Avengers, e rimase in volo stazionario sul prato, a poca distanza dalla piscina. 
«Ma quello… quello è un aereo degli Avengers» disse qualcuno. 
Il portello posteriore si aprì e James si stagliò nell’apertura. Il velivolo doveva essere ad almeno sei metri d’altezza, ma lui non esitò: si lanciò nel vuoto e atterrò in piedi, in perfetto equilibrio. Poi rivolse un cenno con il pollice alzato al pilota che richiuse il portello e prese quota, allontanandosi in fretta dalla zona. 
James corse verso di lei. Indossava la propria uniforme, con la giacca senza una manica per tenere il braccio in vibranio libero da qualsiasi costrizione. 
«Ma che diavolo…?» fece Chanel. 
Lui raggiunse Rebecca e le sfiorò le labbra con un bacio. «Tesoro, scusami, sono stato trattenuto al lavoro.» 
«Chanel, posso presentarti James?» 
James le tese la destra, sfoderando il suo miglior sorriso. Il suo braccio metallico rifletteva le luci e tutti i presenti, Chanel inclusa, non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso: sapevano chi era, conoscevano la sua fama e trovarselo a quella festa non era qualcosa che avevano previsto. 
«Lieto di conoscerti, Chanel.» 
La donna prese la mano che le tendeva quasi temesse di prendere la scossa. 
«È un vero piacere» replicò. 
«Scusa se ho creato un po’ di scompiglio, ma ero in ritardo e sono venuto direttamente dalla missione». Aveva uno zaino sulla spalla sinistra e fu a quello che accennò con il capo. «C’è un posto dove posso cambiarmi?» 
Chanel chiamò un cameriere perché lo accompagnasse in una delle stanze degli ospiti. James prese la mano di Rebecca e la trascinò con sé. 
Quando furono soli, Rebecca si gettò fra le sue braccia e James la sollevò e la fece piroettare. 
«Che ingresso in scena, James!» rise lei. «La faccia di Chanel era talmente tirata che ho temuto che le saltassero le protesi.» 
«Te l’avevo detto o no che dovevi fidarti di me?» 
James sganciò le fibbie della giacca e se la tolse. Dallo zaino estrasse una maglietta girocollo nera e la indossò. Sostituì i pantaloni con un paio di jeans scuri e gli stivali lasciarono il posto ad un paio di scarpe più adatte ad una festa. Completò l’outfit con una giacca scura con il bavero in lucido raso nero. 
«Quando sei saltato da quel velivolo, ho trattenuto il fiato.» 
«Non erano neanche sei metri. Sarei potuto saltare anche da più in alto, ma non volevo strafare, né rovinare il perfetto prato di Chanel» disse, arrotando le R allo stesso modo della loro ospite. 
Rebecca rise: «Credo che dovremmo tornare alla festa ora.» 
Si voltò ed era arrivata alla porta quando James le afferrò la mano e l’attirò a sé. 
«Aspetta» sussurrò. «Sono più di due ore che non ti bacio.» 
Le prese delicatamente il viso fra le mani e la baciò intensamente. Quando si scostò, Rebecca gli sfiorò le labbra con pollice per togliere un residuo di rossetto. 
«Andiamo a conquistare questa festa» disse, prendendola per mano e uscendo con lei. 
Fu memorabile. La presenza di James spostò l’attenzione generale da Chanel che si ritrovò a fare da comparsa sul suo stesso palcoscenico. Lui sfoderò una personalità che Rebecca non aveva mai visto, o almeno non quando erano in pubblico. Attorno a loro c’era sempre uno stuolo di persone che chiedeva a James degli Avengers, se Scarlet Witch fosse davvero così potente e se avesse portato con sé qualcuno dei fighissimi gadget di Tony Stark. 
Lui rispondeva con garbo a chiunque, continuando a tenere un braccio attorno alle spalle di Rebecca ed esaltando le sue qualità di imprenditrice e invitando tutti a provare i dolci che serviva al Caffè Roma. 
Quando la serata si concluse e presero il taxi per rientrare, James le cinse le spalle e Rebecca gli appoggiò la testa sulla spalla. 
«Visto che valeva la pena di partecipare a questa festa?» 
«Se non fosse stato per te, si sarebbe conclusa in ben altro modo.» 
«Dolcezza, dovresti avere un po' più di fiducia in te stessa. Sei la fidanzata di un Avenger, puoi affrontare almeno una decina di Chanel, bendata e con un braccio legato dietro la schiena.» 
Rebecca non replicò, limitandosi a sorridere e a sistemarsi un po' più addosso a James. 
 

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Capitolo 7
*** Un brutto presentimento ***


Gli incontri con gli Avenger
e con la sua ex compagna di classe,
che tanto preoccupavano Rebecca, sono passati.
Ma un nuovo problema di profila all'orizzonte,
proprio nel momento in cui le cose,
tra Bucky e Rebecca,
sembrano andare per il meglio.
Buona lettura!

 
«Aspetta, faccio io.» 
James la raggiunse di corsa e le fece cenno di spostarsi. Afferrò con una sola mano il fusto di birra che lei stava trascinando sul pavimento e lo spostò come se non pesasse nulla. 
«Quand’è che inizierai a renderti conto che non sei più da sola e che il tuo ragazzo è piuttosto portato per il sollevamento pesi?» 
«Ah, quindi saresti il mio ragazzo?» fece lei, ironica. 
James sbuffò una risata. Prese sottobraccio un altro fusto di birra, afferrandone poi altri due, uno per mano. 
«Ok, non serve che provi ad impressionarmi. Vieni già a letto con me» borbottò, mentre osservava con attenzione il gioco dei muscoli sotto la maglietta di James. 
«Non hai dei clienti da servire, donna?» replicò lui in tono burbero. 
«Mi piace guardarti sollevare pesi.» 
Il tono malizioso non sfuggì a James che, una volta posati i contenitori, venne verso di lei con passo lento. Rebecca riconobbe l’istinto predatorio nel suo sguardo, ma non fece neanche in tempo a pensare di indietreggiare che lui le era già addosso. La intrappolò nel cerchio delle braccia e la spinse contro il muro con il corpo. 
Si impadronì della sua bocca, baciandola con una fame che era impossibile da soddisfare. Rebecca inarcò la schiena per sentirlo ancora più vicino, mentre le faceva scivolare la lingua in bocca, rubandole il respiro e rendendole le gambe molli, tanto che dovette aggrapparsi al suo braccio. 
«Dovresti smetterla di baciarmi in questo modo» ansimò sulle sue labbra. 
«In che modo?» chiese lui, scrutandola con un mezzo sorriso che le caricò di elettricità ogni terminazione nervosa. 
«Come se la tua vita dipendesse da questo.» 
«È così» affermò in tono serio. I suoi occhi erano cambiati ora: erano più dolci, come se la stessero materialmente accarezzando. C’erano altre parole sottintese in quello che aveva detto e Rebecca vide che premevano per uscire. Ma James abbassò lo sguardo e sospirò, spezzando quel momento. 
«Dovresti andare di là, prima che mi venga voglia di fare qualcosa di molto sconveniente» mormorò, rubandole un altro bacio. Poi si scostò e lei ne sentì acutamente la mancanza, ma si rassettò i vestiti e tornò in sala. 
Qualche minuto più tardi, mentre preparava un cappuccino per la signora Dutton – in tazza di vetro e con un’abbondante spruzzata di cacao – Sarah borbottò qualcosa dietro di lei. 
«Ma che diavolo…?» 
Rebecca si girò: l’amica guardava fuori dalla vetrata e, quando seguì il suo sguardo, vide anche lei un capannello di persone ferme sul marciapiede proprio davanti al bar, dove era parcheggiato un grosso SUV nero opaco. 
«James» chiamò. «C’è qualcuno per te.» 
Proprio in quel momento, Sam entrò nel locale. 
«Ciao, Sam» lo salutò. 
Sam le era piaciuto appena l’aveva conosciuto. Lui e James non perdevano occasione per punzecchiarsi e sfottersi, ma si stimavano a vicenda e lavoravano bene l’uno con l’altro, tanto che Steve li mandava spesso in missione insieme. 
«Ciao, Becks». Sam indossava la giacca con il logo degli Avengers cucito sul petto, cosa che attirò gli sguardi di tutti i presenti. «Lui è qui?» 
«Sì, è sul retro, sta sistemando il magazzino. L’ho già chiamato.» 
James comparve in quel momento. Vide Sam e roteò gli occhi, fingendosi esasperato. 
«Con tutti i bar che ci sono a New York, proprio qui dovevi venire a fare colazione?» 
Rebecca lo colpì al ventre, rimproverandolo per la maleducazione, ma Sam non si scompose. 
«Credimi, l’ultima cosa che voglio vedere di prima mattina è la tua brutta faccia. Mi sarei risparmiato il viaggio se avessi risposto al cellulare, abbiamo un briefing.» 
«Stavo lavorando, il boss non vuole cellulari.» 
Rebecca aggrottò la fronte e gli rivolse una smorfia. «Tecnicamente non stai lavorando, sei un volontario non pagato.» 
«Non pagato?» fece lui in tono indignato. 
«Molto non pagato» confermò lei. «E comunque sei un Avenger, dovresti avere sempre il cellulare con te.» 
Sam ridacchiò: «Dio, non hai idea di quanto mi gratifichi sentire Rebecca che ti fa la ramanzina!» 
«Piantala, Samuel. Vado a prendere la giacca». Fece qualche passo, poi si fermò e si voltò di nuovo verso Rebecca. «Più tardi parleremo di questa storia, voglio decisamente rivedere il mio contratto. Non sollevo pesi senza un incentivo.» 
Il tono era scherzoso, gli occhi brillavano di malizia. Rebecca rise, scuotendo la testa. 
«Sei decisamente la parte migliore di lui» prese atto Sam non appena si fu allontanato. «È cambiato molto più in questi due mesi con te che da quando l’abbiamo trovato in quella base in Siberia.» 
«Spero sia una buona cosa» si schermì. Le faceva piacere che gli altri vedessero il cambiamento in lui, ma la imbarazzava un po’. 
«Lo è» confermò Sam. Poi si voltò: fuori dal locale, attorno all’auto con i contrassegni degli Avengers, si era radunata una piccola folla. «Forse avrei dovuto parcheggiare un isolato più in là» disse Sam in tono di scuse. 
«Oh no, figurati. Mi fai un sacco di pubblicità gratuita» rispose, facendogli l’occhiolino. «Il mio bar è frequentato dagli Avengers, nientemeno! Sto quasi pensando di cambiargli nome. Che so: la tana di Thor?» 
«Ti prego, no» borbottò Sam. 
«Una volta tanto sono d’accordo con il pennuto» rincarò James. 
Sam sbuffò nel sentirsi chiamare così ma non replicò. «Becks, ti auguro una buona giornata. Su, Freaky Magoo, andiamo: sai che Cap si innervosisce quando fai tardi» concluse, rivolto a James. 
«Arrivo sempre prima di te, Samuel.» 
Girò sui tacchi e uscì. La folla lo riconobbe e gli si strinse addosso e un paio di ragazzini gli porsero un taccuino perché concedesse loro un autografo.  
James la prese fra le braccia e l’attirò a sé. «Non ti ho chiesto se posso prendermi qualche ora, ma tanto non sono pagato.» 
«Mi tratterrò queste ore dalla gratifica che avevo pensato di darti.» 
«C’era una gratifica?» esclamò. 
Rebecca si alzò in punta di piedi e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. 
«Si fotta il mondo. Ci penserà qualcun altro a salvarlo» commentò, abbassandosi per baciarla. 
Rebecca avrebbe voluto approfondire quel bacio, ma in un angolo del suo cervello si rendeva conto di essere al lavoro e con l’ultimo briciolo di autocontrollo lo spinse indietro. 
«Ti chiamo appena ho novità». Poi, con un ultimo castissimo bacio, raggiunse Sam e salì dal lato del passeggero. 
Rebecca si voltò per riprendere il proprio lavoro ma si trovò davanti Sarah che la scrutava con una strana espressione e un sorriso sornione. 
«Che c’è?» chiese, perplessa. 
«È così eccitante il pensiero che esci con un Avengers.» 
Rebecca sorrise, afferrando uno straccio umido per dare una passata al bancone. 
«Lo è. Almeno finché non torna da una missione ferito e dolorante. Insomma, lui non è una montagna di muscoli verde, non ha un’armatura o un qualche tipo di potere psichico con cui deviare i proiettili. È forte ed è veloce, ma è solo un uomo.» 
Si immerse nel lavoro, dedicandosi ai suoi clienti, finché il cellulare le vibrò in tasca: erano passate poco più di tre ore da quando Sam era venuto a prendere James. 
«Ciao, straniero» disse in tono allegro. 
«Ciao, piccola. Tutto bene?» 
Chiacchierarono per un po’, ma Rebecca sentiva che c’era qualcosa che doveva dirle e stava prendendo tempo. 
«Piccola, devo partire. E stavolta dovrò stare via qualche giorno, temo» disse alla fine. «Senti, puoi lasciare il bar a Sarah per qualche tempo? Partiamo tra meno di un’ora e vorrei che fossi qui.» 
Ne parlò un attimo con la ragazza che annuì. 
«Sì, non è un problema. Ti raggiungo alla Tower.» 
«No, mando una macchina a prenderti, così farai prima. Sarà lì tra un quarto d’ora.» 
Quando l’auto arrivò, un giovane in completo scuro scese e le aprì la portiera posteriore. 
«Buongiorno, signorina Stan. Prego.» 
Quando si fu accomodata, quello si rimise al volante e partì. Era già stata diverse volte alla Avengers Tower ma non era mai salita dal sotterraneo. Cercò di non mostrarsi troppo impressionata dal numero di veicoli che era parcheggiato lì sotto e seguì il suo autista fino all’ascensore. 
L’uomo aveva risposto in maniera garbata ma non troppo espansiva ai suoi tentativi di comunicazione, quindi rimase in silenzio mentre l’ascensore la portava su verso il quartier generale degli Avengers. 
Maria Hill l’accolse quando le porte si aprirono. 
«Ciao, Rebecca. Bucky si sta preparando, arriverà presto». La precedette verso la scala. «Vieni con me, puoi aspettarlo di sopra.» 
Salirono un paio di piani. Il grande edificio di vetro, acciaio e cemento era provvisto di una piattaforma su cui il Quinjet era fermo, con le ali ancora ripiegate su se stesse. La rampa posteriore era aperta e Rebecca vide Sam muoversi all’interno del velivolo, già in tenuta di volo e con le ali sulla schiena. 
Anche Steve comparve nella sua uniforme a stelle e strisce, seguito da Wanda che indossava un giacchetto di pelle bordeaux. Entrambi la salutarono e si diressero al jet, visibilmente già concentrati sulla missione. 
«Ehi, sei arrivata». 
La voce di James la fece voltare. Anche lui indossava la propria uniforme: stivali, pantaloni scuri e una giacca in pelle che gli lasciava scoperto il braccio in vibranio per dargli la massima libertà di movimento. Non aveva idea di che missione lo avrebbe impegnato ma, dato che non si sarebbe trattato di una passeggiata nel parco, avrebbe preferito vedergli addosso un’armatura o qualcosa del genere: quella giacca non avrebbe fermato i proiettili. Comunque, tenne per sé i suoi dubbi e lo abbracciò. 
«Quanti giorni starai via?» gli chiese. 
«Tre o quattro, non sappiamo ancora.» 
«Quindi è qualcosa di grosso» commentò lei. 
«Non ci provare, sai che non posso parlarne.» 
Lui non le parlava mai delle missioni prima di prendervi parte. Da un lato perché si trattava sempre di faccende delicate in cui la segretezza era fondamentale, ma soprattutto perché non voleva che si preoccupasse troppo e voleva proteggerla: meno cose sapeva e più era al sicuro. 
«Dovresti venire a stare nel mio appartamento, mentre sono via.» 
«Ma figurati! Abito da sola da quando avevo diciotto anni. Qualche altro giorno non farà differenza.» 
A poca distanza da loro, anche Wanda stava salutando Visione. 
«Sicuro che non vi serva il mio aiuto, Cap?» disse Visione. 
«Wanda ritiene che tu debba restare qui e ho smesso tempo fa di mettere in dubbio le sue sensazioni.» 
«Smetti di fare l’apprensivo, non ce n’è davvero bisogno» replicò la donna, porgendogli la bocca da baciare. 
Rebecca sorrise: Visione si preoccupava per Wanda che, assieme a Victoria Stark, era una delle creature più potenti dell’universo. Nessuno degli Avengers era in grado di essere obiettivo quando si parlava della propria donna. 
«Hai sempre la pistola nel comodino, lo sai, vero?» 
Le parole di James confermavano il suo pensiero di poco prima. Rebecca aveva sempre avuto il porto d’armi per difesa personale e con James era stata diverse volte al poligono ad esercitarsi. Lui aveva lodato la sua tecnica e le aveva dato qualche consiglio per migliorarla. 
«Dai, non fare il paranoico. Non è la prima volta che te ne vai.» 
Sì, era vero. Non era la prima volta, ma non era mai stato via tanti giorni e aveva un brutto presentimento circa quella faccenda. Dio, si stava rammollendo. O, forse, stava solo tornando ad essere umano. 
«Partiamo fra tre minuti» annunciò Steve. 
«Vieni qui» sussurrò, attirandola a sé. 
La baciò. Mentre Rebecca si abbandonava contro di lui, sentì qualcosa crescergli dentro il petto. Era una sensazione forte e potente, che pervase ogni sua cellula. Due parole spingevano per uscire e quando si scostò e la guardò in quegli occhi scuri, fu sul punto di dirgliele. Amava quella donna, lo sentiva, ma i muri che aveva eretto nei suoi anni di solitudine erano ancora troppo alti per essere abbattuti. 
«Che c’è?» fece lei, socchiudendo gli occhi. 
«Stai attenta mentre sono via, ok?» 
Rebecca ebbe la netta impressione che non fosse quello che voleva dirle: c’era un’emozione nel suo sguardo, una che le era già capitato di vedere. Una a cui però lui non era ancora in grado di abbandonarsi. 
«Non sono io quella che deve stare attenta.» 
«Un minuto, Buck» intervenne di nuovo Steve, mentre il sibilo dei repulsori segnalava che Sam aveva acceso i motori del Quinjet. 
Rebecca gli prese il viso fra le mani: «Ovunque andrai, promettimi che starai attento. Chiederò a Maria di avvisarmi quando sarete di ritorno, così mi troverai qui quando tornerai.» 
«Non sono ancora partito e ho già voglia di tornare.» 
«Porta il culo su questo aereo, Bucky. È l’ultimo avvertimento» gridò Steve. 
Le diede un ultimo bacio e corse al Quinjet salendo velocemente la rampa sotto lo sguardo fintamente seccato di Steve. Si girò a salutarla mentre la rampa si richiudeva e il jet veniva spinto all’esterno. Rebecca rimase a guardare mentre il velivolo dispiegava le ali e, spinto dai repulsori, si alzava in volo sulla città. 
«Se ti stai chiedendo se ci si abitua a vederli partire» disse Visione, accanto a lei, «temo che la risposta sia no.» 
 
*** 
 
James era impaziente di tornare a New York, perciò passeggiava nervosamente all’interno del Quinjet che si stava dirigendo a tutta velocità verso l’Avengers Tower. Mancava da casa da quattro giorni ed era il periodo più lungo da quando stava con Rebecca. 
Quando finalmente il velivolo si posò sulla piattaforma, non attese nemmeno che Sam avesse completato le procedure per sbloccare il portello posteriore e scendere. Rebecca gli aveva detto che sarebbe stata ad attenderlo, perciò si guardò intorno perplesso quando non la vide. 
«Maria, come mai Rebecca non è qui?» le chiese. 
«Ho provato a chiamarla, ma non mi ha risposto». Un fremito di allarme lo percorse, ma Maria si affrettò ad aggiungere: «Ho provato anche al Caffè Roma e una delle sue collaboratrici mi ha detto che Becks le ha chiamate stamattina dicendo di avere un po’ di influenza.» 
Si fece una doccia veloce e si cambiò, poi prese la moto e raggiunse il palazzo di Rebecca. Usò le proprie chiavi ma, appena varcata la soglia si immobilizzò. L’appartamento era buio e, ancor prima di ispezionare le stanze, sapeva che lei non era lì. 
Raggiunse la camera: il letto era sfatto, le coperte gettate di lato in disordine. Il cassetto del comodino dalla parte di Rebecca era aperto e la pistola era per terra, come se avesse tentato di prendere l’arma per difendersi, ma qualcuno gliel’avesse sbalzata di mano. 
Un furioso campanello d’allarme gli squillò nella testa ma qualcosa attirò la sua attenzione. Sul materasso c’era un cellulare e non era quello della sua ragazza. C’era un post-it attaccato con scritto “call me”. James lo prese con mano tremante e lo sbloccò. C’era un solo numero in rubrica, quindi avviò la chiamata e lo portò all’orecchio. 
«Bene, sei tornato finalmente» disse una voce sconosciuta dall’altro capo. 
«Dov’è Rebecca?» ringhiò, stentando egli stesso a riconoscere la propria voce. 
«Tranquillo, soldato» disse l’altro, ridacchiando. «La tua dolce Rebecca sta bene, non le è stato torto un capello. Ma se vuoi riaverla viva, devi trovarti tra venti minuti nell’area del Fulton Fish Market. Da solo, mi raccomando. Se ho anche solo il sospetto che uno dei tuoi amichetti Avengers sia con te, Becky finisce sul fondo dell’East River.» 
La comunicazione si interruppe bruscamente e James si precipitò fuori, infilandosi il cellulare in tasca. Avviò la moto e la lanciò a tutta velocità sulle strade di New York. 
Non aveva idea di chi fosse il tizio con cui aveva parlato ma, se aveva preso Rebecca, non era difficile immaginare che fosse qualcuno in cerca di vendetta. Ricordò di aver avuto un brutto presentimento prima di partire per quella missione: accelerò bruscamente, tanto che la ruota anteriore si sollevò dall’asfalto. 
Rallentò solo quando arrivò in vista dei magazzini sotto il ponte di Brooklyn. L’area era prossima alla demolizione in quanto il mercato del pesce si era trasferito nel Bronx, quindi era buia e deserta. Abbandonò la moto e scavalcò la recinzione con un balzo. 
Con il suo udito poteva sentire la presenza di diverse persone più avanti, nascoste dall’edificio che aveva ospitato il mercato. Quando si affacciò dall’angolo, vide tre grossi SUV parcheggiati come a formare una barricata e contò almeno una decina di uomini grandi, grossi e pesantemente armati. 
Un uomo sulla trentina che indossava un cappotto color cammello fece un passo avanti. Aveva i capelli biondi e gli occhi di un azzurro slavato. Dai tratti somatici James lo classificò come proveniente dall’est Europa. 
«Hai fatto in fretta, sono colpito» disse, e James riconobbe la voce del tizio con cui aveva parlato al telefono. 
«Chi sei?» chiese. 
Non scordava mai una faccia, ma quella del tizio non gli diceva nulla. 
«Andrej Melnicov.» 
La faccia non gli era familiare, ma il nome sì anche se non mostrò alcuna reazione. 
«Lei dov’è?» 
«Non sei nella posizione di avanzare pretese.» 
«Lei dov’è?» scandì lentamente, la minaccia ben presente nel suo tono di voce. 
«Prima vediamo se hai armi addosso.» 
James allargò le braccia: «Sono io l’arma, credi che me ne servano altre?» 
«Sicuro di voler proseguire con questo atteggiamento? Non sfidarmi, Barnes; o quel bocconcino della tua ragazza potrebbe subire conseguenze spiacevoli.» 
James strinse i pugni e serrò i denti fino a farsi dolere la mascella. Il bisogno uccidere era una bestia affamata dentro il suo petto. 
«Via la giacca» ordinò Melnicov. 
Con movimenti lenti, James abbassò la cerniera, se la sfilò e la lasciò cadere a terra, togliendosi anche la maglietta e restando a petto nudo di fronte a lui. Girò su se stesso, mostrandogli che non aveva armi infilate alla cintura. 
«I miei complimenti. Notevole, per uno che è nato nel 1917» commentò. 
«Ok, ora basta con le cazzate. Voglio vedere la ragazza.» 
Melnicov fece un cenno con la mano e uno dei suoi uomini si avvicinò ad uno dei SUV. Aprì la portiera posteriore e aiutò Rebecca a scendere. 
James si impose di non distogliere lo sguardo da Melnicov. I suoi sensi potenziati gli dicevano che Rebecca era scossa, ma stava bene. Aveva le braccia legate dietro la schiena e l’uomo accanto a lei le teneva il braccio stretto in una morsa. Il suo cervello stava già registrando la sua posizione in relazione con l’ambiente e i nemici che la circondavano e tenevano sotto tiro entrambi. Sapeva che se avesse tentato una mossa, l’avrebbero fatta a pezzi prima che potesse impedirlo. 
«Ti hanno fatto del male, Becks?» chiese, alzando appena la voce. 
La sua visione periferica era più sviluppata rispetto al normale quindi la vide scuotere la testa come se la stesse guardando direttamente anche se i suoi occhi erano rimasti piantati in quelli di Melnicov. 
«No, sto bene» sussurrò Rebecca. Sapeva che lui l’avrebbe sentita comunque. 
«D’accordo, Melnicov. Cosa vuoi per il suo rilascio?» 
L’uomo estrasse una grossa calibro .50 dalla fondina e la tenne contro la gamba, puntata verso il basso. 
«Nel 1975, l’Hydra ti inviò a San Pietroburgo, che allora si chiamava Leningrado. Il tuo compito era quello di trovare e uccidere l’uomo che portava il mio stesso nome. Mio padre. Ricordi, Soldato d’Inverno?» 
Lo ricordava. Ricordava ognuno degli omicidi che aveva commesso per conto dell’Hydra. Melnicov era uno scienziato russo, fervente oppositore dell’organizzazione criminale di cui lui faceva parte. All’Hydra non piaceva chi le si opponeva e, quando succedeva, inviava il suo cane da guardia a stroncare ogni possibile resistenza. E, ogni volta, la minaccia veniva eliminata. 
«Avevo quattro anni all’epoca» proseguì Melnicol, dato che James non aveva mostrato alcuna reazione. «Per lungo tempo mia madre mi nascose la verità. Quando si riferiva a mio padre, mi diceva solo che era morto in un incidente di laboratorio. Poi però brandelli di verità iniziarono a venire a galla e quando fui abbastanza grande da capire, iniziai a fare domande in giro.» 
Aveva ricostruito ciò che era successo, scoprendo che il Soldato d’Inverno non era un mito. 
«Per anni ho raccolto tutto quello che ho trovato su di te. Ma le informazioni erano così scarse: tu e l’Hydra eravate maestri nel coprire le vostre tracce. Immagina la mia sorpresa quando ho capito che ti avevano trovato e riportato indietro.» 
Melnicov sollevò l’arma e gliela puntò alla testa. Rebecca ansimò, ma James non si scompose. 
«Quello che voglio è molto semplice e c’è una sola parola per definirlo: vendetta. Una vita per una vita. La tua per la sua.» 
«No!» gridò Rebecca, cercando di divincolarsi dalla stretta di quell’energumeno che non si mosse di un centimetro. 
«E cosa mi assicura che lei sarà sana e salva, quando mi avrai piantato una pallottola in testa?» chiese James con tranquillità. 
«Hai la mia parola che lei sarà libera» fece l’altro. 
James sogghignò. «Già. Temo che non basti.» 
Il suo avversario fece un passo avanti e assottigliò lo sguardo: «Aspetto questo momento da tutta la vita.» 
«Avresti dovuto pensarlo meglio, allora» evidenziò in tono piatto. «Sia chiaro: era un buon piano, in realtà. Prendere lei per arrivare a me è stata una buona idea. Ma hai fatto un errore, perché sei un dilettante.» 
L’espressione stupita di Melnicov gli diede una gran soddisfazione. Lo osservò mentre valutava le proprie mosse, chiedendosi cosa avesse sbagliato.  
«C’è una cosa che non hai considerato. Io non lavoro più da solo». 
L’aria intorno a loro si caricò di elettricità, come prima di una tempesta. Scintille rosse di energia avvolsero gli uomini di Melnicov che si ritrovarono bloccati senza possibilità di muoversi. 
Nello stesso istante, Wanda atterrò con grazia alla sua sinistra. Tenere sotto controllo quegli uomini richiedeva per lei un minimo sforzo mentale. 
«Davvero pensavi che sarei venuto qui solo e senza un piano?» sibilò e il terrore che lesse negli occhi di Melnicov gli piacque un sacco. Li aveva avvisati via radio mentre raggiungeva l'area portuale: non sapeva chi aveva di fronte e non voleva rischiare di mettere ulteriormente in pericolo Rebecca. 
Falcon planò sulle sue ali metalliche e si posò accanto a lui. 
«Sam, porta via Rebecca» ordinò. Non voleva che la ragazza vedesse ciò che avrebbe fatto a quegli uomini.  
Al sentire quelle parole, Rebecca si liberò dalla stretta ormai debole sul braccio e corse verso di loro. 
«Sam» disse James in tono pressante. Sapeva che se Rebecca si fosse gettata fra le sue braccia non avrebbe più avuto la cattiveria necessaria per fare ciò che andava fatto. 
Sam non replicò: spalancò le ali e, prima che Rebecca lo raggiungesse, la prese fra le braccia e volò via. 
«Puoi andare, Wanda.» 
«Sicuro?» fece lei, dubbiosa. 
C’erano undici persone sul piazzale ed erano tutte armate. James non aveva altro che il suo braccio in vibranio e la sua forza. 
«Come del fatto che il mio nome è James Buchanan Barnes» fece lui, roteando il braccio metallico. 
Wanda esitò un istante, poi sospirò e si alzò in volo. James si tese, preparandosi al combattimento, attendendo che il potere di Wanda si smorzasse e liberasse gli uomini davanti a lui. 
«Te la sei presa con la persona sbagliata, Melnicov» sogghignò. 
 

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Capitolo 8
*** Crepe ***


Bucky ha messo in salvo la sua Rebecca,
ma il suo rapimento non può lasciarlo indifferente.
E le domande che cominceranno a frullare
nella testa del Soldato d'Inverno porteranno un nuovo doloroso sviluppo.
Buona lettura!

 

Quando atterrarono sulla piattaforma aerea dell’Avengers Tower, Rebecca era troppo in ansia per James per preoccuparsi dell’altezza. 
«Devi riportarmi indietro» gli disse, non appena l’ebbe liberata dalle manette. 
«Non esiste» replicò Sam. 
«Farà qualcosa di molto stupido.» 
«Wanda non glielo permetterà.» 
Quando James l’aveva chiamata Becks, aveva capito che aveva un piano. Lui non la chiamava mai in quel modo, quindi aveva intuito che non era solo. Ma quello che aveva letto nei suoi occhi mentre ordinava a Sam di portarla via non le era piaciuto per nulla. 
Richiamato dal trambusto, Steve li raggiunse e si sincerò che lei stesse bene. Li scortò all’interno e Sam gli spiegò velocemente cosa fosse successo, ma non aveva ancora finito di parlare che Wanda li raggiunse. 
«James?» chiese Rebecca. 
«Ha voluto restare da solo con loro.» 
«Dio! Da solo contro tutti loro? Saranno stati quanti? Otto? Nove?» 
«Undici.» 
Rebecca girò di scatto la testa verso Steve: «Dovete riportarmi là, Steve. Farà qualche cazzata, se non l’ha già fatta.» 
«Bucky sa quello che fa. Se piombassimo lì rischieremmo di distrarlo.» 
«Maledizione!» imprecò la ragazza. 
La mezz’ora successiva fu la più lunga della sua intera vita, finché Steve le disse che James aveva chiamato. 
«Sta bene?» 
«Sì, sta rientrando.» 
Quando finalmente le porte dell’ascensore si aprirono e James fece la sua apparizione, Rebecca si alzò di scatto dal divano e gli corse incontro. Si gettò contro di lui che l’afferrò e la strinse a sé. 
«Ero così preoccupata» balbettò. 
«È finita» replicò in un sussurro, accarezzandole i capelli. 
La donna si scostò e percorse il suo corpo con lo sguardo. Vide diverse escoriazioni sul volto e una ferita sul sopracciglio destro che aveva già smesso di sanguinare. Aveva del sangue sulla gamba destra dei pantaloni e quando Rebecca incrociò il suo sguardo, lui si strinse nelle spalle. 
«È mio, ma è solo un graffio». Spostò lo sguardo su Steve che si era avvicinato: «Uno di quei figli di puttana era più risoluto del previsto.» 
«Quegli uomini…» 
«Stanno meglio di quanto meriterebbero. Ossa rotte e qualche trauma cranico e un paio di loro faranno fatica a riprendere a mangiare cibo solido, ma sono vivi. Attualmente la Polizia si sta occupando di loro, ma per noi non saranno più un problema.» 
Quando aveva mandato via Wanda, il suo unico desiderio era uccidere. Lo sentiva scorrere nelle vene, potente come un incendio. Gli sarebbe bastato abbracciarlo: sarebbe tornato ad essere il Soldato d’Inverno e li avrebbe fatti a pezzi a mani nude. 
Ma lui non era più quella persona. Non era più un assassino e non voleva tornare ad esserlo. Così aveva rimesso il guinzaglio alla bestia che viveva dentro di lui. 
Gli uomini di Melnicov si erano battuti bene, ma nessuno aveva mai avuto una possibilità contro di lui. Li aveva abbattuti uno dopo l’altro, assicurandosi di non ucciderli e impedendo loro di fuggire. Erano riusciti ad assestare qualche buon colpo – la superiorità numerica aveva giocato a loro favore – e uno si era spinto fino a sparargli un colpo che non era stato abbastanza veloce da schivare e che lo aveva colto di striscio al fianco. 
Quando lo scontro era finito, aveva recuperato la giacca e aveva chiamato la Polizia perché venisse a ripulire. Melnicov non era uno stinco di santo: trafficava in armi e droga. La Polizia non aveva fatto domande, ben felice di poter assicurare alla giustizia quel losco individuo. 
«Sei stato avventato, Bucky» lo rimproverò Steve. 
«Niente che non potessi gestire» replicò. Poi abbassò lo sguardo su Rebecca, ancora stretta a lui: «Andiamo, ti porto a casa.» 
«Dovresti farti vedere quella ferita» affermò Sam, ma l’altro scrollò le spalle e, cingendo la vita di Rebecca, entrò in ascensore. 
Scesero nel sotterraneo e James la fece salire a bordo di una delle numerose auto presenti nel garage. 
Arrivarono all’appartamento di Rebecca in un silenzio teso e pesante. La donna continuava a pensare a qualcosa da dire, ma non le veniva in mente nulla. James sembrava arrabbiato e la sua espressione era tornata ad essere molto simile a quella di quando restava seduto al tavolo d’angolo del suo bar. 
«Sam aveva ragione, avresti dovuto farti curare quella ferita» disse, quando furono in casa. 
«Sto bene» ripeté in tono stanco. 
«Dai, fammi vedere». Rebecca si avvicinò, intenzionata a togliergli la giacca per controllare le sue condizioni. Ma prima di riuscire a sfiorarlo, James le afferrò il polso con la mano in vibranio. Per la prima volta, Rebecca percepì la forza di quelle dita metalliche e ne ebbe paura. 
«È tutto ok». I suoi occhi dicevano tutto il contrario. «Vado a fare una doccia» aggiunse. 
Rebecca fece la doccia dopo di lui e, quando uscì, James era già a letto. Aveva gli occhi chiusi, ma Rebecca era sicura che non stesse dormendo. Tuttavia, non ebbe alcuna reazione e, prima di riuscire a pensare a qualcosa da dire, si addormentò. 
Il mattino seguente, quando si svegliò, James non era a letto. La casa era silenziosa: Rebecca notò un biglietto sul cuscino di lui. 
Briefing alla Tower. Ti chiamo più tardi. JB 
C’era sicuramente qualcosa che non andava. Non era mai stato così freddo nei suoi confronti, nemmeno all’inizio. Non ricordava di essersi mai sentita a disagio in sua presenza come la sera prima. Si disse che magari aveva solo bisogno di un po’ di tempo e decise di non stargli troppo addosso. 
La giornata al lavoro trascorse con lentezza irritante. Rebecca tenne il telefono in tasca, sperando di sentirlo suonare, ma la chiamata di James arrivò solo a sera: nessun briefing era mai durato tanto. La donna si defilò e aprì la comunicazione. 
«Ehi, ciao» disse, incerta. 
«Ciao Rebecca. Scusa se non ho chiamato prima, sono stato impegnato.» 
«Non fa niente». 
Seguì un momento di impacciato silenzio. 
«Senti» disse lui ad un certo punto, «ho una missione. Starò via qualche giorno.» 
C’era qualcosa che strideva nelle sue parole. Agli occhi di Rebecca, non era assolutamente in grado di partecipare ad alcuna missione e Steve conosceva il suo migliore amico quanto lei: non gli avrebbe mai permesso di andare, soprattutto non dopo che era stato ferito solo il giorno prima. 
«Così presto, James? Ti hanno sparato solo ieri.» 
«Dovrei tornare martedì» affermò, ignorando il suo commento. 
Rebecca sospirò, affranta. Aveva sperato di poter passare il fine settimana con lui e cercare di chiarire la situazione. 
«D’accordo, ok. Chiamami quando rientri.» 
«Lo farò» replicò, ma Rebecca non era sicura che l’avrebbe fatto. 
«Stai attento, ok?» 
James rispose con un laconico sì e la salutò. 
Rebecca ricacciò indietro le lacrime, inalberò il suo miglior sorriso e tornò dai suoi clienti. 
 
*** 
 
Erano le otto di martedì sera e James non aveva ancora chiamato. Rebecca controllò per l’ennesima volta il cellulare, preoccupata che non ci fosse segnale, ma non era così. 
Era in ansia per tutta quella situazione ma non voleva essere lei a chiamare. Si diceva che era perché non voleva disturbarlo: insomma, in fondo martedì non era ancora finito, giusto? 
Presto lui sarebbe tornato e l’avrebbe chiamata e allora avrebbero parlato. Avrebbe aspettato che fosse lui a fare quel passo: cercava di convincersi che era perché voleva fargli pressioni, ma in realtà aveva paura per la loro relazione. 
Trascorse un’altra ora nella quale il cellulare rimase ostinatamente muto. Alle nove e cinque non resistette più e lo chiamò. Lo lasciò squillare per un bel po’, ma James non rispose. Tentò di nuovo mezz’ora più tardi, con lo stesso, infruttuoso risultato. 
Alle dieci e venti, ormai in panico, si risolse a chiamare Steve il quale rispose al secondo squillo. 
«Becks, ciao. Tutto ok?» le domandò, preoccupato. 
«Sì. Scusami se ti disturbo a quest’ora» fece lei. «Sto cercando di contattare James, ma non mi risponde. So che sabato è partito per una missione, ma mi aveva detto che sarebbe rientrato martedì.» 
Il silenzio che seguì fu assordante. 
«Sì… sì, la missione. Bucky ha avuto un disguido che gli ha fatto perdere un po’ di tempo, ma sta rientrando». Stava mentendo e non era neanche tanto bravo a farlo. «Ti faccio chiamare appena possibile, ok?» 
«Ok, grazie» replicò Rebecca, rassegnata. 
Ormai era evidente che qualcosa non andava, ma Rebecca non aveva alternative se non quella di aspettare. 
Non appena si salutarono, Steve posò il cellulare e si girò verso la moglie, che era seduta accanto a lui sul divano. 
«Qualcosa non va?» chiese la donna. 
«Bucky ha detto a Rebecca che andava in missione. Ma non c’era nessuna missione. Sono giorni che non lo sento, pensavo fosse da lei». Si alzò in piedi: «Vado a controllare il suo appartamento.» 
Scese con l’ascensore e bussò alla sua porta. Non ebbe risposta. 
«Bucky, sono Steve». Niente. 
«Friday, apri questa porta» ordinò. Friday, l’intelligenza artificiale che aveva sostituito Jarvis, gestiva tanto la villa di Malibu quanto la Avengers Tower. 
«Porta in apertura» annunciò e la serratura scattò. 
L’appartamento era buio, illuminato solo dalla luce che proveniva dagli altri grattacieli. Bucky era seduto sul divano, immobile, e fissava il muro davanti a sé. Ai suoi piedi era sparpagliata una quantità di bottiglie di birra vuote che avrebbe fatto invidia a un birrificio. Il siero del super soldato che gli scorreva nel sangue gli impediva di ubriacarsi, ma ci aveva provato comunque. 
Indossava solo un paio di boxer e aveva la barba lunga e i capelli scarmigliati. 
«Che diavolo stai facendo con Rebecca?» 
«Non sono affari tuoi» biascicò, continuando a fissare il muro. 
«Lo diventano, quando le racconti menzogne e lei chiama me per sapere dove sei finito.» 
James non reagì alle sue parole. Il cellulare era posato sul cuscino accanto a lui: il led lampeggiava, segnalando le chiamate perse. 
«Buck, ti stai comportando come un idiota. Lo sai, vero?» 
Per tutta risposta, James si tese e afferrò una bottiglia. Prima di poterla accostare alla bocca, Steve gliela sbalzò via di mano e quella si infranse rumorosamente contro il muro.  
James scattò in piedi con agilità e lo fronteggiò, fermando il viso a pochi centimetri da quello di Steve. 
«Avanti» lo sfidò quest’ultimo. «Se vuoi fare a botte, sono disponibile. Visto che non puoi sbronzarti, posso aiutarti ad andare al tappeto.» 
Steve pensò che l’avrebbe colpito, ma alla fine Bucky sogghignò e girò sui tacchi. 
«Quella ragazza è la cosa migliore che ti sia capitata in tutta la tua vita. Non buttarla via così, Buck» gli gridò dietro. 
«Chiudi la porta quando esci» borbottò. 
 
*** 
 
Rebecca trascorse la notte in bianco. James non aveva ancora chiamato e nemmeno Steve si era più fatto sentire. La sera prima aveva avuto la netta sensazione che Steve le stesse mentendo e che, in realtà, non ci fosse stata alcuna missione. Se era così, non aveva idea di dove James avesse trascorso quei giorni. 
Al mattino, con un mal di testa lancinante per la mancanza di sonno e per tutti i pensieri che le rimbalzavano contro le pareti del cranio, andò al lavoro in taxi. Fu lì lì per dire all’autista di portarla all’Avengers Tower, ma la realtà era che non voleva la conferma che i suoi sospetti erano fondati. 
Lavorò come in trance, servendo i clienti meccanicamente. Quelli più affezionati notarono il suo insolito umore e si chiesero se fosse collegato all’assenza di James. 
Rebecca sobbalzava ogni volta che udiva il rumore di una moto, ma le speranze che James si presentasse al locale scemavano ad ogni giro della lancetta dei minuti. 
Erano passate da poco le quattro quando la campanella sulla porta suonò. Rebecca si girò e lui era lì, in piedi appena al di qua della soglia. Indossava un paio di jeans scuri e una giacca in pelle con il colletto sollevato. Aveva la barba più lunga del solito, ma era sempre l’uomo più bello su cui avesse posato lo sguardo. Se non fosse stato per quell’espressione fredda e austera che non lasciava presagire nulla di buono. 
Mille sensazioni la bombardarono contemporaneamente: sollievo, desiderio, rabbia, paura. Poi scomparvero tutte quando lui si avvicinò. 
«Possiamo parlare?» 
Le parve quasi di non riconoscere nemmeno la sua voce. I suoi occhi erano gelidi. Rebecca annuì e gli fece strada verso il retro, avvisando Sarah di sostituirla. 
Entrò in magazzino e si girò verso di lui che rimase vicino alla porta. Il silenzio era così pesante da darle l’impressione di essere solido. 
«Non c’era nessuna missione» ammise. 
Lei non reagì, ma un brivido le percorse la schiena: aveva appena confermato i dubbi che l’avevano assillata nelle ultime ore. 
«Avevo bisogno di stare da solo.» 
Avrebbe voluto dirgli che invece lei, da sola, era stata malissimo. Ma tacque, aspettando che lui proseguisse. 
«Non posso più continuare questa cosa.» 
Poche parole, ma con un potere enorme. Rebecca sentì il mondo vacillare con violenza, mentre l’onda d’urto di quella frase si abbatteva su di lei.  
«Quale cosa?» domandò. Doveva essere sicura, doveva sentirglielo dire. 
«Questa» rispose lui, indicando lei e se stesso. «Non può funzionare.» 
«È una stronzata!» sbottò Rebecca. «So cosa stai cercando di fare: cerchi di allontanarmi per proteggermi. James, quello che è successo…» 
«Quello che è successo non c’entra nulla» la interruppe. «La questione è un’altra: siamo troppo diversi. Tu sei miele, io sono benzina: la vera stronzata sarebbe mescolarli. Il fatto che la consapevolezza sia maturata in questo momento è solo una coincidenza.» 
Rebecca ebbe la strana sensazione che il suo cuore si riempisse di crepe. 
«Mi dispiace che sia andata in questo modo» proseguì James in tono piatto e privo di qualsiasi emozione. «Credevo che potesse funzionare, ma sei troppo fragile per poter stare nel mio mondo.» 
«Non sono l’unica semplice umana che sta con un Avenger. Beth e Steve, Violet e Bruce: loro non sono troppo fragili per i propri compagni?» 
«Io non sono Steve e non sono Bruce». Lapidario. 
«James, ti prego…» implorò. 
Lui scosse la testa: «Non diventeresti altro che un peso per me. Non riusciresti a tenere il passo e mi rallenteresti. E io non voglio dovermi preoccupare di questo.» 
Il cuore di Rebecca andò in frantumi. Le parve quasi di udire i cocci tintinnare mentre cadevano sul pavimento. Gli occhi le si riempirono di lacrime e distolse lo sguardo. 
«Non sono quel tipo di ragazzo. Mi dispiace.» 
Un pugno in pieno petto avrebbe fatto meno male. 
«Ok» sussurrò, continuando a restare voltata. «Hai chiarito il concetto.» 
Non poteva crederci, non poteva finire tutto in quel modo. Davvero quei mesi passati insieme erano stati una farsa? E il cambiamento che lui aveva fatto e che tutti avevano riconosciuto? 
Ripensando alla loro relazione, in effetti James non le aveva mai promesso nulla. Non avevano mai parlato del futuro e non le aveva mai detto che l’amava. In alcune occasioni aveva avuto l’impressione che fosse sul punto di farlo, ma non era successo. Lei invece aveva perso il conto delle volte in cui si era morsa la lingua per non dirglielo. Aveva taciuto, per paura di spaventarlo, di metterlo sotto pressione: sarebbe cambiato qualcosa se gliel’avesse detto? 
Si arrischiò a guardarlo e se ne pentì. Era immobile, le mani rilassate lungo i fianchi. La osservava con uno sguardo di ghiaccio, i tratti del volto tesi e duri. Non era più la persona che aveva conosciuto. 
Distolse lo sguardo, perché faceva troppo male. «Ora puoi andartene» mormorò. 
Non udì alcun rumore ma quando si voltò, lui non c’era più. 
Si lasciò andare contro lo scaffale dietro di lei: alcune scatole di tovaglioli caddero a terra, ma non se ne curò. Le lacrime che aveva tenuto a bada fino a quel momento ruppero gli argini e le scivolarono sulle guance. Non c’erano singhiozzi, né altro: solo quel pianto silenzioso e devastante. 
Sarah la trovò così. Aveva visto James andare via, senza una parola né un saluto e aveva capito che qualcosa non andava. Le si avvicinò e le toccò la spalla. Rebecca sussultò e si guardò intorno come se non fosse consapevole di dove si trovava. 
«Becks… cos’è successo?» 
Rebecca la guardò, come se non capisse la domanda. Sarah pensò che fosse sotto choc. 
«Sarah… puoi badare tu al locale? Io… non mi sento bene. Dovrei… sì, dovrei andare a casa.» 
«Non c’è problema. Ti chiamo un taxi, Becks.» 
«No. Vado a piedi.» 
Sarah provò a farla ragionare, ma Rebecca afferrò la borsa e uscì. Percorse le strade di New York come in trance: si muoveva come un automa, cuore e cervello scollegati per non sentire il dolore. 
Giunta a casa, notò subito che la chiave che aveva dato a James era sul tavolo. Ciondolò fino in camera da letto e aprì l’armadio: i vestiti di James erano spariti e la parte di guardaroba che gli aveva lasciato era desolatamente vuota. Doveva essere passato prima di andare da lei al bar. Anche il libro che stava leggendo, e che quella mattina era sul suo comodino, era sparito. Era come se James Barnes non fosse mai entrato nella sua vita. 
Vedere che lui aveva portato via le sue cose fu la mazzata definitiva. Crollò in ginocchio mentre singhiozzi potenti come tuoni le squarciavano il petto. Pianse tutte le lacrime che aveva, finché il suo spirito si inaridì e non le rimase più nulla. Quindi si raggomitolò sul pavimento e lasciò che il nero oblio della disperazione la ricoprisse.
 

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Capitolo 9
*** Spiragli ***


Rebecca è distrutta dalla rottura con James
ma non può fare altro che continuare a vivere.
Cerca di tornare alla sua vita di prima,
di dimenticare l'amore che provava per il Soldato d'Inverno.
Ma dimenticare non è possibile...
Buona lettura!

Rebecca si buttò nel lavoro. 
Dopo il primo, iniziale sgomento aveva ripreso le redini della propria vita. Faceva turni massacranti al bar e frequentava la palestra quattro volte a settimana. Tutto pur di restare il meno possibile nel suo appartamento. Perché là c’erano i ricordi e lei non li sopportava. 
Tuttavia, la notte quei ricordi che durante il giorno riusciva a seppellire in profondità tornavano a galla e la obbligavano a bagnare il cuscino di lacrime. 
Poi arrivava l’alba e lei si piazzava sul volto la solita maschera e usciva. Dormiva pochissimo e mangiava come un uccellino, bloccata in una sorta di loop infernale. 
Trascorse un mese e mezzo di quella routine e Sarah era ormai preoccupata da morire. Ma tutte le volte che aveva provato ad affrontare l’argomento, Rebecca si chiudeva a riccio e rifiutava di ascoltare. 
Una mattina, mentre riordinava le scorte in magazzino in un momento di calma, Rebecca si sentì chiamare da Sarah. Tornò in sala e si bloccò. 
«Ciao, Steve» disse, dopo quel momento di stupore. Non aveva più visto nessuno degli Avengers da quando… Gli sorrise: «Sono felice di vederti.» 
Poi notò la sua espressione e quel poco di colore che aveva sul volto defluì, lasciandola pallida come un cadavere, tanto che Sarah le si avvicinò. L’afferrò per il braccio, ma Rebecca non se ne accorse nemmeno. 
«James?» chiese. Ansimava, alla disperata ricerca di ossigeno, mentre mille scenari uno più devastante dell’altro si affacciavano alla sua mente. 
«È stato ferito. È molto grave.» 
Senza alcuna esitazione, Rebecca si tolse il grembiule e afferrò la borsa sotto il bancone. 
«Sarah…» 
«Ci penso io, vai» fece l’altra. 
Uscì con Steve e salì sull’auto che era parcheggiata davanti al bar. Steve partì a sirene spiegate e attraversò a velocità folle la città, bruciando una quantità di semafori. 
Non appena furono alla Avengers Tower l’accompagnò in infermeria, mentre l’ansia di Rebecca cresceva in modo esponenziale ad ogni passo. 
James era disteso sull’unico letto occupato. Il braccio in vibranio era steso lungo il fianco, inerte. L’altro era piegato sul petto, bendato quasi per intero. Una flebo, il cui ago era piantato sul dorso della mano destra, pendeva sulla sua testa e gocciolava pigramente. Non era intubato e respirava autonomamente, anche se aveva la cannula nasale. 
Rebecca si avvicinò al letto e si chinò su di lui. Il suo volto era perfetto, senza nemmeno un graffio: sembrava addormentato. Non lo vedeva da un mese e mezzo e il cuore, nonostante tutto, accelerò il battito. Per la prima volta da quando lui era sparito, si sentì di nuovo viva. 
Un macchinario accanto al letto registrava i suoi parametri che, ai suoi occhi di patita di Grey’s Anatomy, sembravano stabili. Un bip cadenzato e regolare scandiva il suo battito. 
«Cos’è successo?» chiese, con un filo di voce. 
«Si è preso una raffica di mitragliatrice in pieno petto. È colpa mia, non avrei dovuto mandarlo in missione. Non era abbastanza lucido, da quando vi siete lasciati.» 
Non era abbastanza lucido da quando vi siete lasciati. 
Steve si fermò ai piedi del letto. Rebecca scostò un po’ il lenzuolo: il petto di James era avvolto dalle bende che avevano lasciato filtrare un po’ di sangue. 
«Quando siamo arrivati era in condizioni critiche. La dottoressa Cho l’ha portato subito in sala operatoria. È rimasto sotto i ferri quasi sei ore e, appena è uscito, sono venuto a chiamarti.» 
Con mano tremante, Rebecca gli sfiorò la fronte. La pelle era fresca e liscia. 
«Come me, James ha una capacità di guarigione accelerata. Ma la dottoressa sostiene che in questo caso le ferite erano talmente gravi che il suo cervello è andato in standby. È una specie di coma, ma non sappiamo come e quando si sveglierà.» 
Rebecca gli posò la mano sul petto con delicatezza. Lo sentiva espandersi ad ogni respiro, lento e regolare. 
«Ho infranto una promessa, nel portarti qui. Bucky mi aveva fatto giurare che non avrei interferito fra voi due e che avrei accettato la sua decisione di rompere con te.» 
Si voltò verso di lui: «Perché hai deciso di farlo?» 
«Personalmente non avrei voluto. Non volevo esporti a questo dolore. Ma, secondo Beth, tu sei l’unica che può aiutarlo adesso. E mia moglie capisce meglio di me queste cose.» 
«Vorrei che avesse ragione: significherebbe che lui ha bisogno di me. Ma temo che non sia così.» 
«Sussurrava il tuo nome, prima di perdere conoscenza.» 
Non poteva permettersi di aprire uno spiraglio nel suo cuore, non dopo che James l’aveva mandato in pezzi. Abbandonarsi alla speranza che le parole di Steve le promettevano era fuori discussione. Era lì per James, sì. Ma non appena si fosse ripreso e lei fosse stata sicura che era fuori pericolo, se ne sarebbe andata. Anche se questo avrebbe comportato morire dentro un'altra volta. 
«Conosco Bucky da tutta la vita» proseguì Steve. «Abbastanza da sapere che si è comportato come un idiota. Nella sua testa, tenendoti lontana ti avrebbe protetta dal suo passato, da ciò che l’Hydra l’ha fatto diventare.» 
Rebecca sedette con leggerezza sul letto. Sollevò il braccio in vibranio e se lo posò in grembo. Non riusciva a staccare gli occhi dal viso di James. 
«Una parte del Soldato d’Inverno è ancora dentro di lui e lo rimarrà sempre. Victoria e Wanda hanno lavorato su di lui per mesi, nel tentativo di cancellare la programmazione mentale che l’Hydra gli aveva imposto e, nonostante siano due delle creature più forti dell’universo, non ci sono riuscite completamente. E poi sei arrivata tu, una semplice umana – nel senso buono del termine, sia chiaro – che si è dimostrata più potente di due mutanti di classe Omega.» 
Steve si spostò. Si affiancò al letto dall’altro lato e allungò il braccio, afferrando con delicatezza la mano dell’amico. 
«Bucky è forte, si riprenderà.» 
Uno scalpiccio indusse entrambi a voltarsi: era la dottoressa Cho. Rebecca fece per alzarsi, ma l’altra la fermò. 
«Resta lì, mia cara. A Bucky farà bene.» 
«Credi che mi senta?» 
«Ovunque sia, sa che sei qui.» 
 
*** 
 
Rebecca non si allontanava mai dal capezzale di James. Steve aveva provato più volte a convincerla a prendersi una pausa ogni tanto, ma lei non lo ascoltava, continuando a restare al fianco dell’uomo che non aveva ancora ripreso conoscenza. 
Restava accanto a lui, gli parlava in continuazione, leggeva per lui. Lo lavava e lo accudiva, aiutando la dottoressa a fargli la medicazione. La prima volta che vide i danni prodotti dalla mitragliatrice quasi svenne: grazie alla sua elevata capacità di guarigione, le ferite si stavano rimarginando, ma la parte destra del petto e il braccio erano stati letteralmente crivellati dai proiettili. 
«Dio del cielo, come ha fatto a sopravvivere?» 
«Il suo cuore è forte e Bucky non è uno che si arrende. Ma l’abbiamo preso per i capelli: se Cap l’avesse riportato indietro anche solo un’ora più tardi…» 
Helen si concentrò nel suo lavoro: con l’aiuto di Rebecca lo sollevarono con delicatezza e gli pulirono le ferite, bendandole poi nuovamente. 
«Quando si sarà ristabilito, lavorerò su quelle cicatrici. Non si vedranno neanche.» 
Helen le aveva detto di dormire sul letto accanto a quello di James, ma Rebecca aveva rifiutato l’offerta. Non voleva stargli troppo lontana, nel caso si fosse svegliato. Aveva trascinato una poltrona accanto al suo letto e passava la notte con la testa appoggiata sulle braccia incrociate, tenendo fra le sue la mano di James. 
Era lì da due giorni ormai: Helen veniva a visitare James due volte al giorno e, anche se diceva che stava migliorando, Rebecca si struggeva per il fatto che non riaprisse gli occhi. 
All’ennesima visita, Helen si voltò verso di lei: «Rebecca, per quanto pensi di poter continuare in questo modo? Non mangi e non dormi come si deve da quanto?» 
Rebecca distolse lo sguardo, come se facendolo potesse mascherare le ombre sotto gli occhi o il pallore della pelle. 
«A Bucky non serve che tu crolli adesso, Becks» le disse con tatto. 
Rebecca sedette sul letto e accarezzò la fronte di James: «Non appena lui riaprirà gli occhi, mangerò e dormirò». Si chinò su di lui. «Quindi, dipende da te, James.» 
Il resto della squadra veniva spesso a trovare James. Si fermavano un po' a chiacchierare con lei che, lieta di quella distrazione, era felice di poterli conoscere meglio. 
La mattina del terzo giorno, Victoria scese in infermeria. Si trovava a New York per promuovere il suo ultimo romanzo. Era sola, Tony era rimasto a Malibu. 
Si avvicinò al letto di James. Rebecca era rannicchiata sulla poltrona ma era sveglia e girò il capo verso di lei che le allungò un bicchiere di carta. 
«Ti ho portato un caffè caldo. Con panna e zucchero. Mi sembrava che ne avessi bisogno.» 
«Grazie.» 
Mentre Rebecca sorseggiava il caffè, l’altra volse lo sguardo verso Bucky. 
«Come sta?» 
«È stabile. Helen è venuta poco fa. Dice che sta migliorando, ma non riprende conoscenza.» 
«E tu come stai?» 
«Sto bene.» 
Aveva risposto davvero troppo in fretta. Victoria la scrutò con attenzione: era dimagrita e i capelli avevano perso lucentezza. Aveva ombre violacee sotto gli occhi, che erano stanchi e privi di luce. La donna percepiva ciò che aveva dentro, un groviglio di ansia e preoccupazione che le stava corrodendo l'anima. 
«Desolata, ma mentire con me non è possibile. Lo sento che sei a pezzi. Da quanto non dormi?» 
Rebecca considerò l’ipotesi di mentire, ma non aveva senso: inoltre, aveva davvero bisogno di confidarsi con qualcuno. 
«Praticamente da quando mi ha lasciata» confessò. 
Victoria prese una sedia e la avvicinò alla poltrona di Rebecca. 
«Anni fa, quando ad Avengers Hall vivevamo solo io e Tony e io non avevo ancora scoperto di essere così inquietante, organizzammo una festa con gli Avengers. Mia sorella Violet si trovava a passare qualche giorno da noi e si prese quella che io pensavo essere solo una sbandata per Bruce.» 
Rebecca continuò a sorseggiare la bevanda calda, sentendo la caffeina entrare in circolo. 
«Lei non conosceva la sua vera identità, ma io sì e non volevo che lo frequentasse. Giudicavo che fosse troppo pericoloso per lei, che non fosse adatto a lei. Mi misi fra loro, cercando di separarli.» 
Non aveva idea di dove volesse andare a parare con quella storia, ma rimase in silenzio, lasciandola proseguire. 
«Fu una pessima idea. Quando venne a saperlo, Bruce perse il controllo e, se non l’hai mai visto in piena trasformazione, non puoi avere idea di quanto mi spaventò.» 
Da quando frequentava James aveva imparato a convivere con le stranezze degli Avengers. Ma Hulk l’aveva visto solo in TV e, tra l’altro, piuttosto raramente. Ed era l’elemento più difficile da comprendere per lei. 
«Violet e Bruce sono una coppia da allora. Li hai visti insieme, quindi non devo spiegarti altro.» 
Rebecca finì il caffè e posò il bicchiere vuoto sul comodino di James. 
«Perché mi hai raccontato questa storia?» 
«Perché da quell’esperienza ho imparato che sentimenti come questi non possono essere ostacolati. Con mia sorella io ho agito in buona fede, pensando di fare il meglio per lei. Lo stesso sta facendo James con te.» 
Le sue parole presupponevano che James provasse ancora qualcosa per lei. Erano più o meno le stesse parole di Steve. Avrebbe voluto con tutto il cuore credere che fosse vero, ma aveva paura. Paura di illudersi, paura di restare delusa di fronte ad nuovo rifiuto. 
«Mi ha detto cose orribili» confessò con un filo di voce. 
Victoria si alzò in piedi e sospirò. «Sai, il mio potere mi permette di percepire i sentimenti delle persone. E quando James è tornato, quel giorno, era pieno di rabbia come nemmeno il giorno che si è risvegliato dall’ibernazione. C’era tanto odio dentro di lui che l’ho percepito a un isolato di distanza. Ma tutto quell’odio era solo e soltanto per se stesso». Le si avvicinò e le posò la mano sulla spalla. «E, dato che percepisco anche i tuoi sentimenti, so cosa provi per lui.» 
Le lacrime le riempirono gli occhi. Era stanca e preoccupata: desiderava che James si svegliasse e le sorridesse. Desiderava che le dicesse che Steve e Victoria avevano ragione e che aveva cambiato idea. 
«Lo amo così tanto» proruppe e scoppiò a piangere. Victoria l’abbracciò e la strinse a sé. Lasciò che si sfogasse, carezzandole i capelli. 
Quando Bucky gliel'aveva presentata, Rebecca le era piaciuta subito. Era una ragazza con la testa sulle spalle e aveva percepito dentro di lei una profondità di sentimenti davvero notevole. Anche se cercava di evitare di “leggere" le persone, a volte le capitava di sentirle senza volere. I sentimenti che Rebecca provava per James erano veri e autentici, ed era palese anche il contrario: James era innamorato di lei e il tentativo di allontanarla era solo per proteggerla. Ma, di fatto, aveva fatto soffrire entrambi. 
«Mi pento di non averglielo detto, ma le cose fra noi andavano così bene che non volevo spaventarlo o mettergli inutili ansie.» 
«Avrai modo di dirglielo quando si sveglierà.» 
Victoria le passò un pacchetto di fazzoletti e Rebecca si asciugò gli occhi. Victoria si accostò al letto e posò la mano sulla fronte di James. Rebecca vide scintille verdi nei suoi occhi e l’aria si caricò di energia. 
«Sta sognando. Non posso vedere i suoi sogni, ma non sono certo gli incubi dei primi tempi. C’è tanta pace e tanto calore in questi sogni, e io ho sentito questi sentimenti in lui solo dopo che tu sei arrivata nella sua vita. Potrei scommettere che sta sognando di te.» 
 
*** 
 
Rebecca si era addormentata. Non ne aveva avuto l’intenzione, ma era mortalmente stanca e appena aveva abbassato la testa e l’aveva appoggiata con delicatezza contro il fianco di James, era crollata. 
Quando aprì gli occhi non si rese subito conto di cosa l’avesse svegliata. Poi James mosse il braccio e lei saltò su come una molla. Posò una mano sulla sua guancia, entrando nel suo campo visivo. I suoi occhi azzurri si fissarono su di lei. 
«Ehi, bentornato.» 
James sembrava confuso e la sua domanda successiva non fece altro che confermare quell’impressione. 
«Sono morto?» 
Rebecca sorrise, carezzandogli il volto: «No, sei solo rimasto fuori combattimento per un po’.» 
«Per quanto?» 
«Le tue ferite erano molto gravi, James» gli spiegò, posandogli con delicatezza la mano sul petto. «Sei rimasto in coma per qualche giorno.» 
Lui cercò di alzare la testa per controllare le proprie condizioni, ma la donna lo tenne giù: era ancora così debole che non le costò alcuno sforzo. 
«Sono venuta appena Steve mi ha detto che eri stato ferito.» 
«E sei… rimasta qui tutto il tempo?» chiese, girando lo sguardo verso la poltrona e notando i cuscini e la sua felpa preferita sul bracciolo. 
«Sì.» 
James la fissava e lei avrebbe dato tutto per sapere cosa gli passava per la testa in quel momento. Mosse il braccio in vibranio e le sfiorò la guancia. Rebecca non sentiva le sue mani su di sé da troppo tempo: il respiro le si mozzò in gola e rimase immobile, godendosi quel tocco. 
Le sue labbra erano così vicine e così invitanti e l’idea di assaporarle di nuovo la colpì come un ariete. Dovette aggrapparsi a tutta la forza che aveva per non baciarlo. Invece, si allungò su di lui e premette il pulsante di chiamata. 
«Chiamo la dottoressa Cho: deve sapere che hai ripreso conoscenza» gli spiegò. 
James continuava a fissarla, lo sguardo più limpido e consapevole rispetto a poco prima. 
«Dobbiamo parlare.» 
Sì, dovevano decisamente parlare. Lei avrebbe dovuto dirgli che l’amava, perché lui aveva il diritto di saperlo prima di decidere di tenerla fuori dalla sua vita. Avrebbe volto dirgli che quei giorni passati ad accudirlo le avevano fatto capire che non poteva e non voleva fare a meno di lui. Invece, gli posò un dito sulla bocca per farlo tacere. 
«Non adesso, James. Ora devi riposare e riprendere le forze.» 
Helen entrò in infermeria e li raggiunse, chinandosi su di lui. 
«Finalmente, Bucky. Ci hai fatto davvero preoccupare stavolta» gli disse. 
Rebecca fece per scostarsi, ma James le afferrò la mano con una presa sorprendentemente decisa. 
«Promettimi che non te ne andrai.» 
«Te lo prometto. Vado solo a dire agli altri che sei tornato fra noi, mentre Helen ti visita, ok?» 
Lui annuì e le lasciò la mano. 
James la seguì con gli occhi mentre usciva. 
Quando si era risvegliato e aveva visto il suo viso sopra di sé aveva sentito una dolorosa stretta al petto, qualcosa che non aveva niente a che fare con le ferite che aveva riportato. Rivedere i suoi occhi scuri aveva mosso qualcosa di potente dentro di lui, qualcosa che aveva pensato di essere riuscito a seppellire tanto in profondità da non poter più essere recuperato. 
Le labbra di Rebecca si erano aperte nel sorriso che ricordava così bene, anche se aveva fatto di tutto per eliminarlo dalla propria mente. C’era sollievo in quel sorriso, il sollievo di vederlo tornare dal regno dei morti in cui solo per poco non era scivolato. Possibile che, nonostante quello che le aveva detto e la freddezza con cui aveva troncato con lei, Rebecca provasse ancora quei sentimenti per lui? 
Quei pensieri avrebbero dovuto aspettare: si sentiva così stanco che faticava a tenere aperti gli occhi. Helen reclamò la sua attenzione e si sottopose docile alla visita. 
Rebecca, dal canto suo, appena uscita dall’infermeria si appoggiò al muro e lasciò che l’emozione che aveva trattenuto prendesse il sopravvento. Lacrime di gioia e sollievo presero a scorrerle sulle guance e lei non fece nulla per fermarle. James era vivo e si era risvegliato: nient’altro aveva importanza. 
Riprese il controllo di sé e prese l’ascensore per salire di diversi piani, fino a quello che era il centro nevralgico dell’Avengers Tower. Maria stava passando davanti all’ascensore proprio quando le porte si aprirono e si bloccò vedendola. 
«Becks. Tutto bene?» chiese. Dalla sua espressione, Rebecca intuì che si aspettava cattive notizie e si affrettò a tranquillizzarla. 
«Sì, James si è appena svegliato.» 
«Grazie a Dio!» proruppe la donna, abbracciando Rebecca che sentì nuove lacrime pungerle gli occhi. «Vieni, Cap e gli altri saranno felici di apprendere questa fantastica notizia.» 
La seguì fino alla palestra, dove Steve si stava allenando con Visione, Wanda e Sam. Quando videro Rebecca si bloccarono con la stessa espressione che aveva visto sul viso di Maria poco prima ma quando notarono che entrambe sorridevano, capirono. 
«È sveglio. Sta bene» confermò. 
Steve la raggiunse di corsa, la cinse con le braccia e la sollevò, facendola piroettare. 
«Lo sapevo che avrebbe vinto questa battaglia» rise, mentre Rebecca gli si aggrappava e rideva con lui. «Quando pensi che potremo vederlo?» chiese, rimettendola a terra. 
«Helen lo sta visitando in questo momento. Penso che, se tutto andrà come previsto, potrete vederlo molto presto.» 
Steve disse che avrebbe organizzato subito una call con la sede di Malibu in modo da avvisare anche gli altri che Bucky era sveglio e stava bene, mentre Wanda e gli altri facevano a turno per abbracciare Rebecca che si sentì ancora più parte di quella famiglia. Poi si scusò e tornò da James: non voleva stargli lontana più di quanto fosse strettamente necessario. 
Quando arrivò in infermeria, Helen stava compilando la cartella di James che giaceva ad occhi chiusi e non reagì quando lei si avvicinò. 
«Tranquilla, sta solo riposando» la rassicurò Helen. «Anche se ormai è fuori pericolo, il suo corpo sta ancora mettendo tutta l’energia nella guarigione. Dormirà a lungo nei prossimi giorni». Helen finì di scrivere e posò la cartella, mettendo una mano sulla spalla di Rebecca: «Hai promesso che quando avesse aperto gli occhi ti saresti occupata di te stessa.» 
Rebecca scosse la testa, accarezzando il dorso della mano di James che non ebbe reazioni. 
«Voglio essere qui quando si sveglierà. Gliel’ho promesso.» 
«Dormirà per almeno un paio d’ore. Becks, voglio che tu esca a prendere un po’ d’aria e che mangi un pasto come si deve. E non sto parlando solo come amica, ma anche come dottoressa». Rebecca esitava ancora: «Non costringermi a chiedere a Cap di intervenire.» 
Rebecca girò lo sguardo su James e annuì. Si chinò e gli baciò la fronte. Lui sospirò nel sonno. 
«Tornerò prima che tu riapra gli occhi.»
 

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Capitolo 10
*** Tornare a vivere ***


Siamo all'epilogo di Someone like you
e come fa presagire il titolo si tratta di un lieto fine.
Grazie infinite a chi è arrivato sin qui
(e mi scuso del ritardo con cui ho postato questi ultimi capitoli).
Spero che vorrete lasciarmi un pensiero
per farmi sapere cosa ne pensate di questo mio lavoro.
Buona lettura!

 
 
I progressi furono immediatamente evidenti, tanto che già quella sera, quando Steve venne a trovarlo, James volle mettersi a sedere. Rebecca obiettò che secondo lei non era una grande idea, ma James insistette tanto da costringere Steve ad accontentarlo. Lo afferrò delicatamente sotto le braccia e lo aiutò a raddrizzarsi, mentre Rebecca gli sistemava i cuscini. 
Lui cercò di evitare di mostrare il dolore che quel movimento gli aveva causato, tuttavia la cosa non sfuggì a Rebecca. 
«Va tutto bene, Rebecca» disse con calma, prima che lei potesse protestare. 
Mentre Steve si sedeva sul letto, Rebecca li lasciò e ne approfittò per andare a farsi una doccia. Rimase a lungo sotto il getto d’acqua calda, quasi a voler lavare via tutta la preoccupazione di quei lunghi giorni di incertezza. Poi, non volendo approfittare della disponibilità di Steve e incapace di stare troppo a lungo lontana da James, tornò in infermeria. 
«Bene» fece Steve quando la vide, «ora che la tua infermiera privata è tornata io posso andare.» 
James tese il braccio in vibranio e cinse le spalle dell’amico mentre questi lo aiutava a rimettersi coricato. 
«Sono felice che tu sia tornato. Mi sei mancato, Buck. Non farmi più preoccupare così tanto, intesi?» sussurrò. Poi salutò entrambi e se ne andò. 
Rebecca sedette sul letto e gli posò una mano sul petto. James mosse piano il braccio destro e coprì la mano della donna con la propria. 
«Dio, sono così stanco. Mi sembra di essere un neonato» sospirò, mentre faticava a tenere gli occhi aperti. 
Rebecca sorrise: «Il tuo corpo ha subìto un trauma terribile e stai ancora recuperando: è normale che tu senta il bisogno di riposare.» 
Lui girò lo sguardo sulla poltrona accanto al letto. 
«Anche tu dovresti» replicò. Il color caramello della sua pelle mascherava molte cose, ma non gli sfuggivano le ombre violacee sotto gli occhi. «Non hai l’aria di aver dormito molto negli ultimi giorni.» 
Rebecca non replicò e lui si perse a fissare i suoi occhi neri. Un’emozione calda e viva gli si agitava nel petto e non aveva nessuna intenzione di opporre resistenza, non stavolta. Se solo non fosse stato così debole… 
«Dobbiamo parlare, Rebecca.» 
«Non è il momento, James». Rebecca scosse la testa e sorrise. «La priorità adesso è riposare e riprendere le forze. Avremo tempo per…» 
«No, adesso. Quello che devo dirti non può aspettare» la interruppe. Rebecca tacque di fronte alla sua determinazione e attese. 
«In tutta la mia vita ho fatto un sacco di cose spregevoli. Sono diventato un killer ma, per quanto io non voglia aggrapparmi a delle giustificazioni, non avevo controllo su quello che facevo.» 
Le strinse la mano e Rebecca ricambiò la stretta. 
«Ma c’è una cosa che non potrò mai perdonarmi, la più miserabile di tutte. E sai perché è la peggiore? Perché su quella avevo il controllo, eppure ho mandato tutto a puttane». Tacque per un istante. «È stato il giorno che ho deciso di lasciarti» aggiunse. 
Rebecca deglutì, cercando di trattenere le lacrime: «James, non dovresti essere così duro con te stesso» provò a dire, ma lui scosse la testa. 
«Non giustificarmi» sbottò. «Non me lo merito, davvero. Perché quel giorno ti ho mentito e l’ho fatto solo per egoismo.» 
«Egoismo?» 
«Sì, egoismo. Perché non potevo credere che, dopo tutto quello che avevo fatto, il destino avesse deciso di mettere sul mio cammino un tale miracolo. Prima o poi avresti deciso che qualcuna delle mie azioni era troppo da sopportare e mi avresti lasciato. E quindi ho usato il controllo che avevo per chiudere con te prima che tu potessi farlo con me, perché quello non l’avrei sopportato.» 
Rebecca aggrottò la fronte, come se faticasse a seguire il suo ragionamento. Cosa vera, peraltro. Lui sorrise mestamente. 
«Lo so, sono stato un emerito idiota. Tu sopportavi ogni cosa con una tranquillità che mi disarmava. Ogni assassinio che ti avevo raccontato, gli incubi che mi tenevano sveglio di notte, le occhiate di chi per strada mi riconosceva come il Soldato d’Inverno e mi guardava con paura: niente sembrava sconvolgerti. Continuavi a starmi accanto in un modo che io non capivo. Anche quando sei stata rapita a causa del mio passato, l’unica tua preoccupazione era per me». Incapace di sostenere oltre il suo sguardo, si voltò verso le grandi finestre che davano sulla città: «Prima o poi tutto quello sarebbe stato troppo e io dovevo proteggere me stesso.» 
Rebecca liberò la mano dalla sua stretta e gliela posò sulla guancia, facendogli girare la testa verso di sé. 
«Non avevi motivo di proteggerti da me. Non ti avrei mai lasciato, James. Non mi importa il tuo passato, né quanto pericoloso possa essere stare al tuo fianco.» 
Lui stirò le labbra in un sorriso teso: «Nessuna delle torture a cui mi ha sottoposto l’Hydra è mai stata dolorosa quanto dirti addio. E quando mi sono preso quella mitragliata nel petto, l’unico pensiero era che non potevo morire o non avrei mai potuto dirti che mi ero completamente e perdutamente innamorato di te.» 
James fece leva sul braccio in vibranio e si sollevò. Rebecca non fece in tempo a protestare che lui la baciò. Ritrovare quelle labbra e accorgersi che ne ricordava perfettamente la forma e il sapore fu un delizioso shock, come se non fossero passati mesi dall’ultima volta. La donna si abbandonò a quella sensazione, almeno finché James non ansimò e ricadde all’indietro. Lei lo sostenne e lo aiutò a sistemarsi sui cuscini. 
«Chiamo Helen» affermò, ma James scosse la testa. 
«Sto bene, tranquilla». Provò a muovere il braccio destro ma desistette e alzò quello in vibranio, accarezzando piano la guancia di Rebecca. «Ti amo, Rebecca. E spero non sia troppo tardi per rimediare all’enorme cazzata che ho fatto dicendoti che non volevo stare con te. Perché è l’unica cosa che voglio, a qualsiasi costo. Ma capirò se non vorrai più avere nulla a che fare con me.» 
Un’unica lacrima solitaria le scese dall’angolo dell’occhio e James la raccolse col dito. 
«L’unica cosa di cui mi pento è di non averti detto prima quello che provavo per te, ma l’ho fatto solo perché le cose stavano andando alla grande e non volevo metterti inutili pressioni. E quando mi hai detto che era finita ero talmente sconvolta da non avere nemmeno la forza per oppormi.» 
James percepì in quelle parole la scia di disperazione che si era lasciato dietro e si odiò per averla fatta soffrire così. Aveva fatto soffrire entrambi, solo perché non aveva affrontato la cosa con lei. 
«Quando Steve si è presentato al Roma, ho capito subito che ti era capitato qualcosa di molto grave e non ho potuto fare a meno di raggiungerti. Pensavo di essere riuscita ad andare avanti con la mia vita, di poter fare a meno di te, ma la realtà è che mi sono limitata a sopravvivere e ad evitare di andare completamente in pezzi.» 
Lui distolse lo sguardo, rendendosi conto di quanti danni avesse fatto e del dolore che aveva provocato, ma lei si mosse per incrociare di nuovo i suoi occhi. 
«Ti amo, James. E, se vorrai, passerò il resto della vita a ripetertelo finché ti entrerà in quella testaccia dura.»  
Quelle parole erano l’unica medicina di cui aveva bisogno. Rebecca era l’unica medicina di cui aveva bisogno. Con delicatezza e pazienza lei aveva rimesso insieme il suo cuore spezzato e l’aveva guarito dalle terribili ferite che cinquant’anni di assoggettamento all’Hydra gli avevano provocato. 
«Dovresti riposare ora» affermò la donna, sistemandogli i cuscini. «Hai bisogno di qualcosa?» 
«L’unica cosa di cui ho bisogno sei tu» rispose, sollevando il braccio in vibranio e spostandosi un po’ per farle posto accanto a sé. 
«No, non se ne parla.» 
«Non ti lascerò dormire un’altra notte su quella poltrona» obiettò. 
Lei scosse la testa: «Non possiamo starci.» 
«Ma figurati!» contestò James, soffocando uno sbadiglio. «A casa nostra mi dormi sempre appiccicata e non occupiamo più spazio di così.» 
Il cuore di Rebecca ebbe un sussulto quando lui pronunciò le parole “casa nostra” e James sorrise: «E non fare quella faccia, so bene cosa ho detto. Vieni qui.» 
Rebecca si sistemò al suo fianco, incastrando la spalla sotto quella di lui e poggiandogli la testa sul petto, infilando una gamba fra le sue. Lui la strinse a sé, posandole un bacio sui capelli, e lei emise un sospiro di beatitudine. 
Rimasero così per qualche minuto. James si godeva il calore del corpo della sua donna premuto contro il proprio, accarezzandole dolcemente la schiena con la mano in vibranio. 
«Sai che ti dico?» mormorò, un istante prima che la stanchezza avesse la meglio su di lui, «Fosse per me, non vorrei passare il resto della vita più lontano da te di quanto lo sia in questo momento.» 
Rebecca non rispose e James spostò la testa per osservarla: si era già addormentata, il viso disteso in un’espressione serena e tranquilla. 
Sorrise, baciandole dolcemente la fronte. Poi si rimise giù e chiuse gli occhi, abbandonandosi infine al sonno. 
 

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