Quattro centimetri e mezzo

di Sakuminitan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** §1 – Dalla cameretta alla cucina ***
Capitolo 3: *** §2 – La trappola del ragno ***
Capitolo 4: *** §3 – Nella pattumiera ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.

 

Una musica infernale rimbombava sulle pareti della stanza, risuonando a un numero inaudito di decibel da ogni direzione. Il pavimento tremava a intervalli regolari come colpito da un terremoto a intermittenza, e c'era un forte ronzio che—con la stessa cadenza—non faceva che aggiungersi alla confusione già prodotta dalla musica. Una tale baraonda avrebbe fatto impazzire chiunque: ma si trattava solo di ciò che noi comunemente definiremmo sveglia.

Marina aprì gli occhi, ancora semiaddormentata ma già visibilmente infastidita. Mise da parte il 'piumone', e giratasi di lato appoggiò i piedi direttamente sul 'pavimento'. Quello che per lei era un piumone è per noi solo un batuffolo quadrato di cotone, e quello che per lei era un pavimento è per noi la superficie fredda e legnosa di una scrivania. Camminò seccata, a passi veloci, in direzione della sorgente di quel frastuono infernale. Quella che si trovava davanti era un'enorme piattaforma rettangolare, giacente a pancia in su, nera ai bordi e dotata di una superficie scura e riflettente nel mezzo; la musica sembrava provenire da una piccola grata su uno dei bordi. In poche parole, era un telefonino.

Ci salì su facendosi leva con un ginocchio, e quando fu in cima si mise a saltare a più non posso. Non sarebbe mai riuscita a spingere il bottone laterale che avrebbe sbloccato lo schermo, ma sapeva che il saltare su e giù sullo schermo avrebbe prima o poi fatto capire allo smartphone che era ora di attivarsi. Dopotutto era così che spegneva la sveglia ogni mattina. Ci vollero quasi dieci salti perché il telefono ne captasse due di fila, e li associasse a un doppio tocco per sbloccare il display. Adesso si trattava solo di camminare in punta di piedi (per non attivare nulla involontariamente), e saltare con decisione sul punto esatto del menu per interrompere definitivamente la sveglia. Subito cadde il silenzio nell'ambiente, e anche il terremoto causato dalla vibrazione del cellulare si acquietò.

«È fatta» si disse Marina piano piano, quasi a far riposare le orecchie, mentre si sedeva a riprendere fiato sul bordo del telefonino, e trascinava i piedi sulla superficie della scrivania sotto di lei. Raggiungere la cucina per la colazione non sarebbe stato uno scherzo, ma la cosa non la preoccupava: l'aveva già fatto sì e no altre settemila volte e più, in fondo.

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Capitolo 2
*** §1 – Dalla cameretta alla cucina ***


1.

 

Il viaggio verso la cucina non era mai semplice. Ciò che occorreva era la prestanza, sia fisica che mentale: la prima per coprire l'intera lunghezza del tragitto, e la seconda per fronteggiare prontamente qualsiasi tipo di ostacolo potesse capitarle davanti. Marina ormai non ci pensava quasi più, ma ciò che lei faceva ogni mattina era paragonabile a quello che un alpinista, un marinaio o un esploratore potevano forse fare non più di dieci, quindici volte nella vita. La pelle che loro rischiavano per una vetta himalayana, un mare tropicale o una foresta africana, infatti, lei la rischiava ogni mattina soltanto per andare a mangiare.

Tutto cominciava con una lenta scalata verso il basso. Il monitor del computer presente sulla scrivania sopra la quale dormiva era collegato al pavimento tramite un cavo nero, che si adagiava delicatamente sulle piastrelle prima di ricurvare su e inserirsi in una presa elettrica. Marina non aveva bisogno di scale o ascensori: sin da quando era bambina, e la sua altezza si poteva ancora misurare in millimetri, arrampicarsi era ciò che le veniva più naturale tanto quanto per i pesci lo è nascere in acqua e nuotare. Basti dire che le ci volle più tempo per raggiungere a piedi la parte posteriore della scrivania che per calarsi giù da questa lungo il cavo, benché quest'ultimo scendesse all'ingiù—dalla sua prospettiva—per quasi una trentina di metri. Toccò il pavimento nei pressi della presa, in un groviglio di cavi fra muro e scrivania. Cominciò subito a tossire a causa della polvere accumulata, che era sempre troppa per i suoi piccoli polmoni; e questo non fece altro che farle allestire il passo ancor più in fretta per allontanarsi il prima possibile dal retro della scrivania.

Il pavimento della sua stanza, nonché della casa in generale, era al contempo il suo regno e il suo terrore. Era il suo regno, perché ogni stanza o corridoio della casa aveva delle sezioni sui lati chiaramente evidenziate con del nastro adesivo giallo, e coperte da una tettoia in scala fatta di ferro: lì camminava lei ogniqualvolta doveva spostarsi da una stanza all'altra. Ma era anche il suo terrore, per motivi altrettanto ovvi. ‘Non è peggio di chi cammina in strada’, si diceva per darsi coraggio mentre procedeva avanti: muoversi da sé era uno dei pochi modi che aveva per rendersi indipendente dai propri genitori e mostrarsi della sua età nonostante le dimensioni del suo corpo, e non vi avrebbe mai rinunciato nonostante la paura. Al massimo si rincuorava pensando al fatto che nemmeno un pedone che cammina sul marciapiede è del tutto al sicuro dalle macchine che corrono in strada; e così come il rischio aumenta di molto quando la strada la si attraversa, ma lo si fa in sicurezza in punti specifici e ben segnalati, così faceva lei quando doveva raggiungere il muro opposto passando per le sue strisce pedonali personali, dipinte anch'esse in scala in diverse zone del pavimento.

Uscita dalla stanza, cominciava l'incognita più grande: la camminata lungo il corridoio. Questa, che in base a quanto aveva dormito la notte precedente durava solitamente dai cinque ai dieci minuti, poteva rivelarsi una semplice scampagnata o una trappola mortale. Nel punto intermedio del tragitto, a metà strada fra la porta della sua stanza e quella della cucina, si sarebbe trovata perfettamente scoperta, senza alcun riparo oltre la tettoia e a più di due minuti di distanza dalla porta più vicina. Se le si fosse parato davanti qualcosa in quegli attimi, da una vespa a—non sia mai—uno scarafaggio, non avrebbe potuto fuggire o chiamare aiuto. Certo, le probabilità che una cosa del genere succedesse erano molto basse: senza contare che alle finestre di tutte le stanze della casa, da cui filtrava la tenue luce del mattino, erano rigorosamente fissate delle zanzariere per impedire anche alla più piccola mosca di entrare. Realisticamente parlando, Marina non avrebbe incontrato anima viva all'infuori dei propri genitori in quel corridoio. Loro, o il fratello.

Un'ombra la investì, e una scarpa da tennis gigantesca cadde sul pavimento accanto a lei appena al di fuori della zona protetta riservatale.

 

«Marina?» tuonò una voce dall'alto, mentre la mini-ragazza si teneva una mano sul petto dopo aver sussultato per un istante. Era Luca, suo fratello minore.

«Ciao...» gli rispose lei con voce timida, sporgendo la testa oltre la zona delimitata dalla tettoia e salutandolo con un cenno della mano: non avrebbe potuto sentirla dal pavimento, quindi non poteva limitarsi al solo parlare.

Il ragazzo fece altrettanto, ma con un gesto più indifferente e interrotto a metà; poi tirò dritto, e in due secondi fu già dentro la cucina.

 

Per Marina ci volle più tempo; ma non solo per via di quanto fosse piccola. La verità era che il suo viaggio era qualcosa che nemmeno la sua famiglia conosceva interamente. Marina aveva scoperto, già da qualche mese, una piccola fessura tra il muro del corridoio e il coprifìlo in legno della porta della cucina. Un'apertura impossibile da notare a occhio nudo, ma non per lei. Se la si attraversava, questa portava comunque all'interno della cucina: ma Marina veniva così nascosta dalla porta stessa, che la mattina a colazione era spalancata e si apriva verso l'interno della stanza. La porta formava così un piccolo triangolo scuro e polveroso coi due muri adiacenti: ed era un posto tutto suo, una specie di rifugio segreto che conosceva solo lei. Chi altri in quella casa, se non la ragazza alta una manciata di centimetri, poteva reclamare quell'angolino di cucina per sé e farne l'equivalente di una casetta sull'albero personale?

Come se non bastasse, da qualche giorno Marina aveva più di un motivo per andare lì la mattina. Anche quella volta entrò lesta nella fessura, e tossì ancora e più di prima a causa della polvere; ma tirò comunque dritto.

«Dove sei?» chiese con voce roca una volta uscita dall'altro lato, forte del fatto che dal pavimento, e in particolare da una parte così nascosta della stanza, nessuno potesse sentirla. Si udì piccolo suono; qualcosa si avvicinò.

«A-ah! Eccoti qui!» Marina gioì. Un piccolo ragno si era appena avvicinato a lei.

Non si fece problemi a toccarlo, e lo accarezzò quasi come fosse un cane o un gatto; il ragno, dal suo canto, non la attaccò: benché alta solo quattro centimetri e mezzo, era comunque più grossa delle prede cui era abituato. Si limitò a zampettare su di lei, cosa che Marina interpretava come il suo modo di dirle che era contento di vederla. E quando questo le si staccò di dosso e tornò per terra, Marina prese a seguirlo come già aveva fatto nei giorni precedenti. Si stava dirigendo verso una zona ancora più priva di luce e impolverata, direttamente sotto uno dei mobili accanto al frigorifero. Era lì che aveva la sua ragnatela.

Ma da lì sotto era impossibile anche per Marina, di converso, capire per bene ciò che i suoi familiari stavano dicendo.

 

«Comunque... Marina dov'è?» chiese sua madre al fratello, dopo avergli porto la colazione sul tavolo. Non le era sfuggito che da qualche giorno la figlia aveva cominciato a ritardare un po' la mattina, e temeva che avesse qualche problema: se fosse dipeso da lei, l'avrebbe trasportata a mano dalla sua stanza alla cucina tutti i giorni.

«Era in corridoio, sta arrivando» rispose lui disattento, mentre controllava il cellulare con una mano e intingeva i biscotti nel latte con l'altra.

«E com'era? Tutto normale?» ancora preoccupata, chiedeva.

«Certo, che vuoi che ci sia?» lui invece rispose un po' stizzito, quasi infastidito dalla discussione. «Appena arriva, la vedi alla porta».

La madre cercò di calmarsi. Non voleva sbirciare oltre la porta e dare un'occhiata al corridoio, perché a causa della tettoia in miniatura avrebbe dovuto mettersi in ginocchio per controllare chi c'era sotto: Marina l'avrebbe vista, e non prendeva bene l'essere trattata come se fosse totalmente incapace anche soltanto di spostarsi da una stanza all'altra. Inoltre, il figlio non aveva tutti i torti: per entrare in cucina non poteva che passare dall'uscio. Prima o poi l'avrebbe vista arrivare.

«D'accordo» disse allora, adocchiando comunque il pavimento per sicurezza. Tra le gambe di uno dei mobili intravide dei fili luminescenti. Era una ragnatela.

«Di nuovo...» si disse. «Luca, prendimi una scopa».

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Capitolo 3
*** §2 – La trappola del ragno ***


2.

 

Sotto quel mobile, Marina si trovava in compagnia del suo amico ragno. Benché questi non fossero noti come ottimi animali da compagnia al pari di un cane o di un gatto, era il massimo cui lei poteva aspirare: piccolo al punto da non rischiare di venir mangiata (le arrivava a malapena al ginocchio, a lei che era alta quattro centimetri e mezzo), e andava fatta di necessità virtù, quindi non ci si poteva lamentare troppo. In ogni caso, qualsiasi fosse la ragione che l'aveva portata a interessarsi a lui, ormai ci si era affezionata per davvero: e quando questo sembrò muoversi per andarle a mostrare la ragnatela che aveva costruito, Marina lo seguì senza batter ciglio.

«Sembra molto bella» commentò parlandogli come se potesse capirlo. Nel buio sotto al mobile appariva quasi invisibile, lì fra il muro e la base del frigorifero che stava di fronte a loro; luccicava fievolmente in risposta alla poca luce che filtrava. D'un tratto si sentì fermata, come se qualcuno le avesse di colpo afferrato un braccio. La ragnatela era ben più estesa di quanto sembrasse, e giungeva fino al pavimento dove uno dei fili le si era attaccato alla manica destra. Ora non voleva più andar via; e quando lo toccò con l'altra mano per poterlo staccare finì incollata pure quella.

Il ragno sembrava guardarla, o comunque restava fisso a puntare col corpo nella sua direzione, a circa mezzo centimetro da lei. La guardava dimenarsi per cercare di liberare la mano, e non faceva nulla per aiutarla. Non che Marina se lo aspettasse, perché sapeva bene—a dispetto di ciò che in cuor suo sperava—che un da un ragno non ci si può aspettare quel che si aspetta da un cane; ma la sua immobile staticità (fermo a osservarla quasi come ad aspettare che s'intrappolasse del tutto) stava cominciando a inquietarla. Cominciò ad avvicinarsi a lei a piccoli passettini quando ormai tutto il suo braccio era immobilizzato, e con la zampa toccò incerto la seta come a chiedersi in che modo avrebbe portato al centro della ragnatela una preda grande più del doppio rispetto al suo corpo.

Marina intanto continuava a divincolarsi, ma più lo faceva e più scopriva fili sempre più sottili e sempre più invisibili che ora iniziavano a restringerle i movimenti anche su altre parti del corpo. Ormai non riusciva più a muoversi da lì. «Ehi!» gridò «Aiutami! Tirami fuori da qui!» si rivolse al ragno quando si rese conto di essere al corto di altre opzioni, ma questo ovviamente non cambiò per nulla il proprio atteggiamento. Marina ebbe difficoltà anche soltanto a credere a ciò che le stava succedendo. Era vero che fin dall'inizio si era affidata al fatto di esser troppo grande perché lui la vedesse come un insetto qualunque da mangiare, ma più che a quello credeva che ormai le fosse riconoscente per la compagnia che gli dava; credeva che la vedesse come una sua pari, o come un criceto vede la sua padroncina. Ora si sentiva stupida per aver trattato quel ragno come qualcosa di diverso da ciò che era: un ragno. Si arrabbiò, e grugnendo in preda alla delusione mise tutta la forza che aveva nelle sue braccia: ma anche questo si rivelò infruttuoso, e lasciandosi andare in avanti si rese conto che ormai non era più libera neppure di cadere per terra. Non aveva alcuna speranza di liberarsi da quella ragnatela, e nessuno della sua famiglia sapeva dove si trovasse al momento. Temette quasi che quella fosse la fine per lei: ma all'improvviso un'ombra calò dalla sua sinistra, oscurando la luce del lampadario della cucina che giungeva fin sotto il mobile. E con un enorme boato vide avvicinarsi a lei le gigantesche setole di una scopa.

 

«Ce l'hai fatta?» Luca chiese distrattamente, quasi come frase di circostanza, mentre faceva colazione e vedeva la madre tentare di disfare la ragnatela che aveva appena notato. Questa s'interruppe, e ritrasse indietro la scopa.

«No, devo mettermi in ginocchio» rispose, e facendo così si mise nella posizione migliore per poter usare la scopa in orizzontale e spingerla il più lontano possibile sotto il mobile.

 

Lì sotto, intanto, era il caos. Marina urlava col cuore in gola mentre la scopa si avvicinava a lei, e si fermò giusto a qualche millimetro dal suo volto prima di essere insperatamente ritratta indietro. Durante quegli istanti la micro-ragazza riuscì a vedere quanto fossero grandi quelle setole più di quanto non avesse mai avuto l'opportunità di fare in tutta la sua vita—ciascuna di queste era più lunga di lei, e anche i batuffoli di polvere intrappolati lì in mezzo potevano rivaleggiarla in grandezza. Ora restava lì, ancora invischiata nella seta, inerme e terrorizzata da ciò che sentiva: aveva capito che la scopa sarebbe tornata fra pochi secondi, ma stavolta non si sarebbe fermata. Dietro di lei il ragno si era già dileguato; e se pure lui nella sua limitata capacità di comprendere si era reso conto del pericolo incombente, non c'era possibilità che Marina, anche nella migliore delle ipotesi, ne uscisse illesa e senza alcun graffio.

«Mamma! Mamma!» urlava comunque nella speranza che lei la sentisse, e nel mentre girava la faccia di lato: l'ultima cosa che voleva era che una di quelle setole le si conficcasse in un occhio e l'accecasse. Il rombo ritornò, e di nuovo l'oscurità calò davanti a lei. La scopa giunse come un treno, impattò su di lei, la staccò da tutti i fili della ragnatela e coprì la sua vocina con disarmante facilità. Le setole attutirono il colpo, ma Marina sbatté comunque violentemente contro la base in plastica della scopa; e lì, circondata da pelucchi in plastica alti come alberi e polvere da ogni lato, si ritrovò confusa, dolorante e nuovamente bloccata. Stavolta non riusciva a muoversi non perché qualcosa la trattenesse, ma per il dolore causatole dalla botta che aveva preso in pieno con la faccia e con il petto; e in ogni caso si ritrovava in quella che sembrava una giungla fitta e polverosa che si muoveva a una velocità inumana trascinandola con sé, e da cui difficilmente sarebbe riuscita a scappare senza rischi dato che in quelle condizioni era impossibile orientarsi. Le girava anche la testa per via di tutto il movimento cui era sottoposta, visto che la madre stava sbattendo ripetutamente la scopa contro il muro per togliere quanto più poteva della ragnatela; e la piccola ragazza pregava che quelle setole non perdessero mai d'elasticità, perché se queste si fossero fatte del tutto da parte e la base della scopa avesse sbattuto direttamente contro il muro allora neppure lei avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza. Si raccolse su sé stessa, appallottolandosi in posizione fetale attorno a una delle setole cui si aggrappò con tutta la forza che aveva in corpo, e piangendo sperò che la madre smettesse immediatamente di fare quel che stava facendo e che si accorgesse finalmente di lei.

Il primo dei suoi due desideri le fu realizzato quasi subito. Dopo cinque o sei colpi la scopa si fermò, e la madre la ritrasse con un movimento fluido e veloce per gettare tutto ciò che aveva catturato nella paletta che reggeva in mano. Marina nemmeno se ne accorse, e istintivamente si tenne aggrappata a quella setola evitando così di finirci dentro; ma così la donna continuò a non accorgersi di lei, e non sospettando affatto che sua figlia si trovasse nascosta e intrappolata nella sua scopa si diresse verso il cestino della cucina. Svuotò prima la paletta che conteneva la maggior parte dei frammenti di ragnatela e poi, con la faccia girata verso la porta della stanza, scosse la scopa per far cadere dentro la pattumiera tutta la polvere che aveva catturato. Con essa cadde anche Marina, e quando il coperchio si chiuse si trovò immersa nella più totale oscurità. Il suo ultimo grido fu coperto dalle parole della madre.

«Ma Marina ancora non è arrivata?» si chiese preoccupata guardando la porta della cucina, dal momento che la figlia pareva essere insolitamente in ritardo.

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Capitolo 4
*** §3 – Nella pattumiera ***


3.

 

«Aiuto! Aiuto...!» Marina continuava a gridare in preda alla paura, ma la sua voce si faceva sempre più fievole man mano che realizzava cosa le era appena accaduto e dove si trovava. Era circondata da un ambiente buio su tutti i lati, a tratti maleodorante; e sedeva su una montagnola che da alcune parti pareva essere composta da cartone, altrove era più molliccia e da altre parti ancora fredda e dura come il metallo. L'ultima cosa che ricordava era l'essere finita nella paletta della madre dopo che questa l'aveva accidentalmente catturata con la scopa: per Marina non era difficile immaginare che al momento si trovava nella pattumiera della cucina. E le batteva forte il cuore per la paura, perché sapeva benissimo che da lì non sarebbe mai riuscita a scappare da sola.

All'interno della cucina l'atmosfera era soltanto leggermente più rilassata. La madre di Marina adocchiò nuovamente il corridoio, e cominciò a inginocchiarsi per poter guardare sotto la piccola copertura che ricopriva la minuscola corsia laterale—attaccata al muro—che Marina usava per spostarsi in casa di stanza in stanza. Sapeva che Marina reputava atteggiamenti del genere iperprotettivi e quasi paranoici, e non le sarebbero piaciuti (perché vedeva la cosa come se i suoi genitori non avessero in lei fiducia sufficiente neppure a credere che potesse camminare da sola in casa senza supervisione); ma i minuti passavano, e lei non compariva. E sotto la copertura non c'era nessuno.

«Non può essere che non ci sia» non riusciva a spiegarsi la sua assenza. «Sarà ancora in camera?»

«Non penso» Luca, il fratello minore, rispose con la sua tipica noncuranza per tutto ciò che riguardasse la sorella, «ti ho detto che l'ho incontrata in corridoio venendo qui.»

«E allora dov'è?» ribatté la prima, consapevole del fatto che la strada dalla sua camera alla cucina era praticamente tutta diritta e non c'erano luoghi per cui deviare il tragitto né ragioni per farlo. Alla madre non restò quindi che un possibile pensiero: Marina era già entrata in cucina, ma né lei né Luca se n'erano accorti. Fece quindi qualche passo attento per tornare all'interno della stanza, e posizionandosi accanto al tavolo guardò al pavimento della cucina: non la vedeva ancora.

Era pur vero che le probabilità che Marina fosse riuscita a oltrepassare la porta non vista erano pressoché nulle (per quanto lei volesse essere indipendente, suo padre e sua madre non le avrebbero mai dato tutta quell'autonomia in casa se non avessero la certezza di poter sempre tenerla d'occhio in qualsiasi momento); ma nonostante ciò quella appariva al momento come la spiegazione più probabile. Dopotutto nessuno a parte Marina sapeva della piccola fessura nel muro del corridoio che conduceva direttamente in cucina, nello spazio dietro la porta: e perciò a loro non restava che giustificare la cosa con una propria incredibile distrazione che aveva permesso alla piccoletta di attraversare l'uscio non vista.

D'un tratto Luca si alzò. Aveva finito di fare colazione, e fece per tornare in camera sua prima che la madre lo bloccasse mettendogli una mano sulla spalla. «Fa' attenzione!» lo ammonì, intimandogli di guardare per bene dove metteva i piedi. «Potrebbe essere entrata senza che la vedessimo...»

Luca diede una rapida occhiata alle mattonelle che lo separavano dall'uscita della stanza, e vedendole completamente sgombre si scrollò di dosso la mano della madre e a passi veloci si diresse verso il corridoio. «Sarà tornata in camera sua per qualche motivo» disse solo; e poi uscì.

 

Dentro la pattumiera restava intanto Marina, ancora immersa nell'oscurità. Grazie al silenzio attorno a sé riusciva finalmente a sentire la conversazione che i suoi familiari stavano avendo, e pur attutita dalla spessa parete in plastica è riuscita a capirne il senso. La madre aveva correttamente intuito che Marina era entrata in cucina, ed era solo questione di tempo prima che facesse il collegamento con la polvere che aveva gettato via solo pochi minuti prima e decidesse di guardare dentro il cestino della spazzatura. Doveva solo attendere, e quindi si sedette a gambe incrociate su quello che al tatto sembrava un cartone per il latte vuoto a ridosso di una delle pareti; aveva già deciso di spostarsi il più lontano possibile dal punto in cui era caduta (per quanto fosse possibile orientarsi al buio) per evitare la remota possibilità che sua madre potesse aprire la pattumiera e gettar dentro dell'altra spazzatura prima di arrivare a capire che la figlia si trovava lì dentro.

Marina tese l'orecchio. Sentiva la madre camminare a passi lenti e misurati, certamente spaventata all'idea che la minuscola ragazza potesse spuntarle davanti all'improvviso prima che lei avesse il tempo di arrestarsi. Il silenzio era tale che Marina provò anche a urlare per attirare l'attenzione della madre: ma da quella distanza la sua voce poteva suonare al massimo come uno squittio indistinguibile, e con la parete della pattumiera a fare da ostacolo le sue parole erano praticamente impercettibili alle orecchie di chiunque.

La madre continuava a guardarsi intorno—principalmente a terra—ma di Marina non c'era ancora nessuna traccia. A un certo punto pensò che forse Luca aveva ragione, e magari la figlia era semplicemente tornata in camera. Ma perché? Dopotutto non lo aveva mai fatto, e la colazione la stava aspettando. Era immersa ancora in questi pensieri quando qualcosa schizzò sulle piastrelle davanti ai suoi piedi. Solo per un attimo sorrise, pensando che fosse Marina: ma un decimo di secondo bastò per rendersi conto che si trattava di un animale. Era un ragno, possibilmente quello che aveva intessuto la ragnatela che lei stessa aveva precedentemente disfatto. A quanto pareva, era riuscito a sopravvivere alla sua scopa...

S'illuminò. «La scopa!» si disse impaurita, realizzando in un sol colpo che se davvero Marina aveva già raggiunto la cucina senza che nessuno la vedesse allora poteva essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Si gettò sulla scopa (ora appoggiata al muro), ma fra le setole non trovò niente; guardò alla paletta, ma era vuota anch'essa; non restava allora che un unico posto. Con le gambe un po' tremanti si diresse verso la pattumiera, e la aprì. La luce delle finestre si versò tutta all'interno, quasi accecando la piccoletta. E infatti eccola lì, seduta a un angolino su un cartone del latte traballante: era tutta impolverata, ma era proprio Marina.

«Gioia!» la madre gridò sollevata, e Marina dovette mettersi le mani alle orecchie per non finirne assordata. Un secondo dopo la sua vista era già oscurata da un paio di dita gigantesche che subito la afferrarono—pollice sull'addome e indice sulla schiena—e la sollevarono delicatamente. Quando Marina si guardò nuovamente intorno si trovava sull'enorme palmo della mano della madre, la quale la osservava con occhi grandi e luccicanti di felicità.

«Mamma!» la felicità era ovviamente reciproca, e Marina corse in direzione del mignolo per abbracciarlo: persino questo era molto più grande di lei, ma era il massimo che potesse fare per esprimere la propria contentezza e la propria gratitudine per essere stata salvata.

«Mi dispiace, davvero!» la madre si prese comunque la responsabilità dell'accaduto. «Non so come ho fatto a non vederti! Ho controllato la porta tutto il tempo...»

La micro-ragazza ebbe un piccolo sussulto. Avrebbe dovuto rivelarle del passaggio che aveva utilizzato per entrare in cucina senza passare dalla porta? Da una parte questo avrebbe messo la madre in pace con sé stessa, visto che non si era lasciata sfuggire nulla e la colpa sarebbe stata unicamente del comportamento irresponsabile della figlia; dall'altra parte, però, temeva la reazione e il biasimo della madre se avesse confessato. Marina tentennò. Congiunse le mani, e sarebbe apparsa visibilmente nervosa se solo fosse stato possibile vedere nei dettagli il suo volto millimetrico. Non ce la faceva a mentire.

«No, è... stata colpa mia» disse. «C'era... c'era un buco nel muro. Volevo vedere dove portava, e sono... finita sotto il mobile. Poi... poi sono rimasta lì, finché...»

La madre la interruppe. «Non avrei mai usato la scopa se avessi saputo che eri lì sotto!» disse con un tono e un volume a metà strada fra la semplice constatazione e il rimprovero. Marina non replicò, perché sapeva di essere nel torto.

«Scusami. È stata... colpa mia.»

Si sentì abbassare velocemente, e vide che la mano su cui stava si era appoggiata al tavolo. Capendo l'antifona, Marina scese e toccò terra sulla superficie legnosa proprio accanto alla gigantesca ciotola da cui il fratello, prima, aveva mangiato la propria colazione.

Marina temette che stesse per arrivare una punizione. Quella sera contava di uscire coi propri amici, qualcosa che nelle ultime settimane non aveva fatto: ma dopo quanto appena successo non era più così scontato che la madre le concedesse il permesso di andare con loro. Marina odiava come nonostante avessero tutti la stessa età—andavano tutti all'ultimo anno delle superiori—lei fosse ancora l'unica che doveva dipendere dal permesso dei genitori per questioni del genere. Eppure dentro di sé Marina non rimpiangeva o rinnegava ciò che aveva fatto quella mattina. Molto della vita le era precluso a causa delle due dimensioni: per ovvi motivi non aveva mai potuto avere un cane o un gatto da compagnia, e non si sentiva di aver sbagliato del tutto solo per aver provato ad avere un ragno come sostituto.

Certo si sentiva in colpa per aver fatto preoccupare la madre, e ora questa la guardava dall'alto in basso con aria severa mentre si preparava a dire qualcosa; ma non ci stava a farsi negare la serata con gli amici. E se la discussione fosse andata a parare là, era pronta a difendere la sua uscita con loro con le unghie e con i denti.

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