Dove scorre il fiume

di Lily_of_the_Valley01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sono passati quasi undici anni dall'ultima volta che sono stata qui. Allora ero solo una bambina, una ragazzina di dodici anni che non si immaginava nemmeno che di lì a pochi mesi sarebbe stata travolta dalla valanga nota come "adolescenza".

Bei tempi, quelli. Si fa per dire, eh: in realtà non mi mancano affatto. Non mi capita spesso di ripensare agli anni in cui la mia vita è andata a rotoli, quando la magia dell'infanzia è andata in mille pezzi  e la vita reale è venuta a bussare alla mia porta con la scortesia che la contraddistingue.

Ma va be', è acqua passata... o almeno mi piace pensare che sia così. Quest'anno la mamma ha deciso di tornare a San Tommaso mossa dalla nostalgia dei tempi andati e io ho deciso di seguirla. È la prima volta che sento davvero il bisogno di allontanarmi dalla città, almeno per i mesi estivi. Sì, è colpa della calura, ma non solo. Questo è stato un anno strano. Ho finalmente concluso il percorso di studi che mi ha permesso di avere in tasca una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere e ho come la sensazione che una parte della mia vita si sia conclusa.

Io andrò avanti a studiare, resterò nella stessa facoltà che mi ha accolto per gli ultimi tre anni, ma le altre... le altre no. C'è chi cambia ateneo, c'è chi va a lavorare, c'è chi parte per un'avventura all'estero. E c'è anche chi si sposa, come Emma. Pazza. Come diavolo si fa a sposarsi quando non si hanno nemmeno ventitré anni? Sinceramente mi sembra un suicidio. Un modo per buttare nel gabinetto gli anni migliori della propria vita e tirare lo sciacquone. Io non la capisco. Non riesco nemmeno a immaginarmi di avere un ragazzo serio, figuriamoci se  riuscirei a sopravvivere con un marito, magari con dei figli. Mi vengono i brividi solo a pensarlo.

Rabbrividisco davvero, mentre cammino sulla strada sterrata che profuma di erba e di sole. È impressionante vedere quanto poco gli anni abbiano cambiato questo posto: è praticamente rimasto uguale a come me lo ricordavo. I miei piedi calzati in un paio di vecchie scarpe da ginnastica sollevano nuvolette di polvere bianca che mi si appiccica alla pelle, ricoprendomi fino al ginocchio in una specie di patina grigiastra che dovrò lavare via al più presto. Quand'ero bambina me la trovavo fino in bocca.

Cammino sola, ma è come se accanto a me ci fossero le ombre dei ragazzini che un tempo mi accompagnavano. Sandra, Michele, Giovanni e Letizia. A volte Matteo, ma solo ogni tanto, perché i suoi genitori erano troppo apprensivi per permettergli di scorrazzare a piede libero come facevamo noi. Chissà che fine ha fatto. Chissà che fine hanno fatto: non ho più avuto notizie di nessuno di loro. Magari abitano ancora da queste parti.

In realtà non ho voglia di incontrare nessuno: questa estate la voglio dedicare solo a me. A settembre dovrò tornare in città e riprendere gli studi, dovrò ricostruirmi un nuovo nido in un nuovo appartamento, magari più piccolo dell'ultimo che ho affittato, se possibile senza coinquilini, ma fino ad allora non voglio pensare a nulla se non a me stessa.

Il fatto è che ho bisogno di ricaricarmi un po'. Mi sento spossata, vado a letto esausta e mi sveglio stanca. Le giornate mi sembrano opache e ripetitive, prive di interesse e di colore. A volte ho la sensazione di guardare la mia vita dall'alto, di assistervi senza esserne veramente la protagonista. Mia madre sostiene che sia colpa dello stress legato alla tesi che ho sostenuto pochi mesi fa, ma io mi chiedo se il problema non sia un altro. Google mi dice che i miei sintomi sono riconducibili a una forma d'ansia, magari anche a una leggera depressione, ma la verità è che io mi sento in attesa: di cosa, non sono certa di saperlo.

Sempre mia madre - l'unica persona che mi è abbastanza vicina per potersi permettere di darmi consigli in merito - sostiene che dovrei trovarmi un hobby o almeno un ragazzo. Più facile a dirsi che a farsi. Io li hobby ce li ho: mi piace leggere, scrivere, fare fotografie, ma ultimamente anche queste cose mi sembrano solo un modo inutile per passare il tempo. Il ragazzo ce l'avevo, ma ci siamo lasciati poco dopo Natale: le cose non funzionavano più già da tempo. Stavamo insieme per abitudine, senza provare più amore né tenerezza. Non rimpiango Stefano e lui non rimpiange me, ne sono certa.

Però, a volte...

Ecco, il fatto è che a volte ho l'impressione che il tempo passa e invece che andare avanti io vado indietro. So che non dovrei fare dei paragoni con gli altri, so che ognuno cresce con i propri tempi, ma ci sono dei momenti in cui non posso fare a meno di pensare che le mie amiche siano scappate avanti e mi abbiano lasciato ferma al palo.

Io non ho mai lavorato, se escludiamo qualche lavoretto estivo di poco conto. Durante l'anno accademico vivo da sola, sì, ma l'appartamento me lo paga la mia mamma. Non ho mai avuto una storia seria e il solo pensiero di averla mi fa girare la testa. Io non mi sento pronta. Non mi sento pronta a decidere cosa farò da grande e non mi sento pronta a pensare di farmi una famiglia tutta mia. Non posso immaginare di passare quello che mia madre ha passato per colpa di mio padre. Non riesco a vedermi con un neonato in braccio. Riesco a malapena a essere responsabile per me stessa, figuriamoci se potrei esserlo per altri.

Ci sono giorni in cui mi chiedo se in me ci sia qualcosa di sbagliato. Ma forse sto solo ricadendo nella mia vecchia abitudine di rimuginare troppo sulle cose. È per questo che mi serve questa estate: per schiarirmi le idee. E poi, anno nuovo, vita nuova. Più consapevole. Più sicura di me. Più adulta. Più...

Basta. Ci sto ricascando. Ho bisogno di resettare la mia mente e so anche qual è il posto perfetto per farlo.

Il sole di questa giornata di inizio luglio è fin troppo caldo per i miei gusti, ma so che dove sto andando mi aspetta una deliziosa brezza che sa di acqua dolce e di fiori di ginestra. Sono le due del pomeriggio, un orario in cui le persone sane di mente se ne stanno rinchiuse in casa o adagiate all'ombra di un albero o di un ombrellone, e la strada è tutta mia. Ho incontrato solo un signore che portava a passeggio un cane e due impavidi ciclisti, e sono sicura che giù al fiume non ci sarà nessuno: quello in cui sto andando non è un buon posto per pescare.

Anche se sono passati molti anni dall'ultima volta che l'ho percorsa, i miei piedi ricordano perfettamente la strada e i miei occhi riconoscono tutti i segnali naturali che mi indicano il percorso. Ecco la curva dove una volta sono caduta pedalando troppo velocemente, ecco l'albero marcio (è un miracolo che sia ancora in piedi) che da bambina mi sembrava un gigante mostruoso, ecco il masso che nasconde il sentierino che porta sulla riva del fiume. Sono arrivata.

Al di là del ciglio della strada l'erba è alta e all'improvviso mi raggiunge l'odore intenso delle ortiche. Sorrido: solo in questo momento mi accorgo di averne sentito la mancanza. Le ortiche, con il loro fusto urticante, sono state una presenza fissa nelle estati della mia infanzia e adesso mi sembra quasi che mi stiano dando il benvenuto, sorridendomi come delle amiche un po' stronze che quando ci sono ti punzecchiano, ma che quando non ci sono ti mancano.

Non mi mancano abbastanza per fargli di nuovo fare conoscenza con i miei stinchi, quindi mi muovo con cautela, facendo bene attenzione a dove metto i piedi. Come immaginavo, il sentiero è poco frequentato: l'erba che lo ricopre è appena calpestata da qualcuno che dev'essere passato da queste parti questa mattina o magari ieri pomeriggio. Alzo appena lo sguardo e vedo il fiume scintillare al di là delle betulle e degli ontani che crescono sulla riva.

Mi scopro di nuovo a sorridere e ad allungare il passo. L'angolino di prato ombreggiato sul quale ho passato tanti pomeriggi con i miei amichetti di un tempo è proprio là, a poche decine di metri da dove mi trovo ora. Già sento sotto ai miei piedi l'erba fresca, già mi pare di vedere, oltre le mie palpebre chiuse, il gioco di luci e ombre delle foglie mosse dal vento. Magari schiaccerò un pisolino. Magari resterò sveglia a fantasticare o a non pensare a niente o a sognare la trama di un nuovo racconto. Magari...

I miei sogni vanno in frantumi all'improvviso. Il mio posto, il mio angolino di fiume, il fazzoletto di terra sul quale avevo in programma di fermarmi per ricaricare le batterie è già occupato. Il cuore mi balza in gola e lo stomaco mi si stringe in una morsa oltraggiata. La mia prima reazione è la rabbia. No, seriamente: la mia cassa toracica si gonfia in un respiro bellicoso e per un istante sono tentata di andare dall'invasore e di dirgli di levare immediatamente le tende. Il che è ridicolo, visto che questo posto non è più mio che suo, però questo non toglie che ci sono rimasta male. Molto.

Il tizio che mi ha appena rovinato il pomeriggio (forse l'intera estate, sussurra la vocina pessimista che risiede nella mia testa) se ne sta appallottolato a pochi passi dalla riva del fiume, la testa incastrata tra le spalle e lo sguardo perso tra i flutti. O almeno immagino che lo sguardo sia perso tra i flutti: non ho modo di saperlo, visto che mi dà le spalle.

Indugio per un istante, indecisa se girare sui tacchi (silenziosamente, per non dare l'impressione di essermi data alla fuga appena l'ho visto) o se invece scendere fino al fiume per dare comunque un'occhiata al mio santuario rovinato. Vince la seconda opzione. E che diavolo: sono venuta fino a qui, tanto vale almeno respirare l'aria di quell'angolo di fiume che mi piace tanto.

Cerco di farlo con nonchalance, senza guardare l'intruso, ma il mio sguardo ricade inevitabilmente su di lui. È sempre così, quando vedo un'imperfezione su qualcosa che sarebbe altrimenti perfetto. 

Che poi, adesso che lo guardo bene, questo tizio mi sembra decisamente fuori luogo: è luglio, ci saranno trenta gradi e lui se ne sta seduto per terra con addosso un paio di jeans e una camicia a maniche lunghe. Da dove è sbucato? Cosa diavolo ci fa qui, uno vestito in questo modo? La gente del posto se ne va in giro in maglietta e pantaloncini, la sua eleganza spicciola mi sembra quasi ridicola. Dove crede di essere?

I miei passi devono richiamare la sua attenzione e il tizio si volta. Mi guarda e io vedo che è più vecchio di quanto mi aspettassi: la sua postura e i suoi capelli un po' lunghi e spettinati mi avevano fatto pensare a un ragazzo della mia età, ma in realtà credo che quest'uomo sia sulla trentina. Ci sono alcune rughe attorno ai suoi occhi scuri e il suo volto tradisce una certa maturità.

Esito per qualche secondo. Non è abbastanza giovane perché io lo possa approcciare come farei con un mio coetaneo, ma non è abbastanza vecchio perché io lo saluti come farei con un coetaneo di mia madre: la sua è un'età di mezzo che mi confonde e che mi innervosisce un pochino. 

Mai quanto i suoi occhi neri, però, che mi seguono con insistenza. Sul suo volto pallido - in verità piuttosto anonimo e, mi sbaglierò, ma mi pare che abbia il naso storto - si disegna un'espressione che mi sembra quasi infastidita. 

Be', ciccio, pure tu mi stai disturbando, penso, gettandomi i capelli dietro le spalle e spostando risolutamente lo sguardo sul fiume.

«Buongiorno» mi apostrofa. Ha una voce profonda, direi piacevole. Non riesce a nascondere una tensione di fondo: sì, è decisamente infastidito dalla mia presenza.

«'giorno» replico io dandogli le spalle e osservando l'acqua che scorre. Anche se non lo guardo, ho come l'impressione che i suoi occhi siano ancora fissi su di me e all'improvviso mi ricordo che i pantaloncini che indosso sono un po' troppo corti. Nulla di scandaloso, ma l'orlo mi arriva appena sotto il sedere. Sono comodi, perfetti per camminare nella calura estiva, ma ora le mie mani prudono per afferrarli e abbassarli un pochino nel tentativo di nascondere almeno un pezzettino di coscia.

Non farlo, mi dico. Non c'è nessun motivo di fargli vedere di che colore hai le mutande, e poi sono sicura che non ti stia guardando il culo. O almeno spero.

Resisto per meno di un minuto. Il tizio in camicia non dice una parola, non produce un singolo rumore, ma io avverto la sua presenza simile a una vibrazione elettrica e pulsante alle mie spalle. Chiudo gli occhi e conto fino a dieci, poi esalo lentamente. Va bene, ho marcato il territorio: adesso posso andarmene.

Lancio un ultimo sguardo all'acqua placida e turchese che scorre davanti a me, guardo la sabbia argentea nella quale non ho potuto affondare i piedi, accarezzo con gli occhi le foglie che vibrano smosse da una brezza leggera. Tornerò presto, prometto al mio angolino di fiume, poi mi dirigo di nuovo verso il sentiero che mi condurrà alla strada.

«Arrivederci» mormoro rivolta all'uomo in camicia, ma lui non mi sente, oppure finge di non farlo.

Poco male, penso: più che un arrivederci, il mio voleva essere un addio. 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Il giorno dopo decido di tornare al fiume. Il primo tentativo è andato male, d'accordo, ma oggi andrà sicuramente meglio. Del resto quali sono le probabilità che il mio angolino preferito sia ancora occupato? Non ci passa poi così tanta gente da queste parti, e quello che porta sulla riva è un sentiero che non vedi, se non sai che è lì.

Mentre mi allaccio le scarpe da ginnastica mi raggiunge la voce di mia madre. «Stai uscendo di nuovo?» mi chiede.

Aggrotto la fronte. «In che senso "di nuovo"?» ribatto. Per oggi non ho ancora messo piede fuori di casa.

Lei mi guarda dalla poltrona sulla quale è accoccolata e si stringe nelle spalle. «Ieri pomeriggio sei sparita per diverse ore» mi fa notare.

«Sono andata a passeggiare giù al fiume» la informo, senza capire il perché di quell'interrogatorio inaspettato.

«Mh-mh» è l'unica risposta che ottengo. Mia madre riabbassa gli occhi grigi sul romanzo che sta leggendo e conserva una perfetta faccia da poker. È una professoressa, insegna filosofia in un liceo classico e sono più che sicura che durante le interrogazioni sia assolutamente terrificante. Poveri studenti.

Mi alzo in piedi per fronteggiarla meglio. «Be'? Si può sapere cosa c'è?» Ho la netta sensazione che voglia spingermi ad ammettere qualcosa. Dal momento che però non ho nulla da confessare, il suo atteggiamento mi confonde.

«No, niente» dice, senza alzare lo sguardo dal suo libro. «Mi chiedevo solo se per caso non avessi incontrato qualcuno dei tuoi vecchi amici.»

Ah, ecco. Spera che stia già socializzando, il che è piuttosto preoccupante, se consideriamo che siamo arrivate a San Tommaso solo un paio di giorni fa. L'estate si prospetta pericolosamente lunga, se questo è il modo in cui intende affrontarla.

«No, non ho incontrato nessuno» ribatto. Non è del tutto vero, ma quello che voglio dire è che non ho incontrato nessuno di interessante. «A dire il vero non so nemmeno se abitano ancora da queste parti.»

«Matteo e Letizia sì. Sandra è tornata per l'estate e Michele dovrebbe venire qui almeno per i week-end» mi informa solerte lei.

Perfetto, penso. Si è già informata per bene, a quanto pare. Non dico che la cosa non mi faccia in un certo senso piacere, ma mi mette addosso anche un po' di agitazione. Voglio decidere io come e quando riallacciare i rapporti con il passato.

«Ah, ok» taglio corto. «Va be', io vado, eh.»

«Ancora al fiume?»

Indico la mia tenuta sportiva. «Vado a correre» rispondo pronta. «Ho deciso di provare a ricominciare a farlo. Non può che farmi bene, no?»

Un sopracciglio nero e perfettamente disegnato schizza verso l'alto. «E lo fai alle due di pomeriggio?» mi chiede senza preoccuparsi di nascondere lo scetticismo.

Non ha tutti i torti, ma io mi stringo nelle spalle. «Un orario vale l'altro. Adesso almeno girano meno zanzare che alle sei di sera.»

«Mh.»

Alzo gli occhi al cielo. «A dopo, ma'» sospiro, agitando una mano in segno di saluto e infilando velocemente la porta. 

Per il primo tratto di strada corricchio davvero, anche se le mie gambe stentano un po' a riconoscere il ritmo che un tempo era loro famigliare. Forse quella di ricominciare a correre non è poi un'idea malvagia. Certo, dovrei farlo a un orario migliore: mia madre ha ragione. Oggi però i pantaloncini sportivi e il top rosa fluo che indosso sono solo un travestimento, un qualcosa per giustificare la mia presenza sulla strada sterrata per il secondo giorno di fila. E se...

Sì, va be'. Sono paranoica. Il fatto è che su questa cosa ci ho rimuginato ieri sera, prima di riuscire a prendere sonno. Mi sono immaginata di tornare al fiume e di trovare ancora il tipo che ci ho trovato ieri. Se per due giorni di fila ci incontrassimo nello stesso posto isolato dal mondo, potrebbe pensare che lo stia facendo apposta.

Potrei cambiare orario, mi sono detta. Ma no: c'è una parte scaramantica della mia mente che mi impone di ripetere quasi alla perfezione i gesti che ho compiuto ieri, come se così facendo potessi cancellare e superare la piccola delusione che ho provato trovando il mio posticino segreto già occupato da un estraneo.

Ed ecco che entrano in gioco le scarpe ammortizzate e i calzoncini da runner: se dovessi incrociarlo di nuovo (improbabile, ma non impossibile) potrei spacciarmi per un'atleta con una routine consolidata e non ci farei la figura dell'idiota. O almeno spero.

Dal momento però che io non sono un'atleta, appena mi allontano a sufficienza dal centro abitato rallento il passo fino a camminare. Ho corso per dieci minuti scarsi e già mi fa male la milza e un rivoletto di sudore mi scivola lungo le tempie. Mi porto automaticamente una mano alla nuca, lì dove i miei capelli lunghi sono raccolti in una coda alta. Caldo. Fa davvero troppo caldo per fare questi exploit fisici.

Proseguo camminando fino al sentiero dietro al masso e quando lo raggiungo mi accorgo di avere il cuore in gola. Ridicola, mi dico. Sei ridicola.

E nonostante riconosca io stessa quanto il mio atteggiamento sia stupido, mi avvio trotterellando giù lungo il sentiero, con tutta l'aria di una che stava già correndo sulla strada e ha semplicemente deciso di fare una piccola deviazioni per rinfrescarsi nell'acqua del fiume. Le rane e i moscerini apprezzeranno la mia performance, spero.

Quando arrivo a pochi passi dall'acqua mi accorgo però di avere anche un altro spettatore. Non è possibile! Penso fermandomi di colpo e rischiando di incespicare nei miei stessi piedi. Il tipo di ieri è ancora qui e la realtà dei fatti inizia ad assumere forma davanti ai miei occhi: il mio posticino è anche il suo. Il mio santuario è stato violato. Dovrò trovarmi un altro luogo in cui rilassarmi e riordinare i miei pensieri.

La mia è sicuramente una reazione eccessiva, ma per una manciata di secondi i miei occhi si riempiono di lacrime. Le ricaccio indietro, ma il nodo che mi stringe la gola non si allenta.

Lui, la mia nemesi, è praticamente nella stessa posizione in cui l'ho lasciato ieri: seduto a terra, gambe raccolte al petto, jeans scuri e camicia bianca risvoltata sugli avambracci. La camicia di oggi è, se possibile, ancora più ridicola di quella di ieri: solo un idiota si vestirebbe di bianco e poi andrebbe a sdraiarsi sull'erba. 

A differenza di ieri, però, si è già girato a guardarmi e sul suo volto passa immediatamente un guizzo di riconoscimento. Dio, questa cosa è imbarazzante, penso. Non so perché, ma ho come l'impressione che sia consapevole che la mia corsetta improvvisata è solo una farsa.

Ormai però sono qui e non posso fare altro che proseguire nella mia pantomima. Mi costringo a staccare gli occhi dal tipo seduto per terra e gli volto le spalle, comportandomi come se la sua presenza non mi turbasse affatto.

Con tutta la calma del mondo – e con i muscoli un po' più rigidi del normale, ma potrebbe pensare che sia colpa della corsa che in teoria ho fatto – porto le braccia sopra alla testa e mi stiracchio inarcando la schiena. Poi piego una gamba e stiro il quadricipite. Si faceva così, no?

L'acqua mi chiama. La calura è opprimente e la brezza fresca che spira dal centro del fiume ha un effetto quasi ipnotizzante. Senza nemmeno rendermene conto mi chino e mi tolgo le scarpe, poi entro nell'acqua bassa. I miei piedi affondano nell'impalpabile sabbietta grigio-argento che si è accumulata nell'ansa creata dal corso d'acqua. Le onde fredde mi lambiscono appena le caviglie, ma è già sufficiente perché una sensazione di profondo benessere si impossessi di me, salendo dalle gambe e arrivando fino al centro del petto. Mi era mancato. Il fiume, intendo.

Se fossi sola lancerei le scarpe sul prato e mi rimboccherei un po' i pantaloncini, poi mi siederei sull'erba che cresce sulla riva e lascerei che le mie gambe vengano sommerse completamente dall'acqua. Dal momento che però non sono sola, valuto per un attimo le mie opzioni. All'improvviso un ricordo mi attraversa la mente. Quando io e gli altri eravamo bambini, questo praticello nascosto dalla vista era il nostro posto preferito, ma bastava seguire il corso del fiume per pochi metri per approdare su una seconda spiaggetta.

Era piccola, ed era una spiaggia vera e propria, con il fondo di sabbia e non di erba, ma non era male. È esattamente quello cha fa al caso mio.

Cammino seguendo la corrente, senza voltarmi per controllare se l'invasore mi stia osservando. La vegetazione è più rigogliosa di quanto non ricordassi e i rami degli ontani si spingono sull'acqua, costringendomi a scostarli con entrambe le mani. Anche il fondo del fiume è un po' cambiato, e lì dove un tempo c'era solo morbida sabbia spunta adesso qualche ciottolo arrotondato. Porca vacca, penso quando il mio alluce destro urta dolorosamente contro una pietra che non avevo visto. 

La spiaggia c'è ancora, più o meno. Il fiume deve però aver cambiato leggermente il suo corso, o il suo livello deve essersi alzato, perché al posto della sabbia morbida che ricordavo trovo una fanghiglia grigiastra ben poco accogliente: non c'è nemmeno da pensare di sistemarsi qui.

Chiudo gli occhi ed esalo pesantemente. Si vede che non è proprio destino. Con la coda tra le gambe torno sui miei passi, sollevando in maniera esagerata le ginocchia per affrontare meglio la corrente. Quando approdo sulla spiaggia erbosa dalla quale ero partita solo un minuto prima, getto a terra le scarpe e mi concedo un secondo sospiro. 

E niente. Anche oggi niente da fare. Domani proverò a cambiare orario... sempre ammesso che io abbia davvero voglia di tornare qui. Questo posto sta iniziando a perdere un po' del suo fascino.

Quando mi giro per tornare verso il sentiero - e al diavolo i piedi bagnati - incontro gli occhi scuri del tipo con la camicia. Mi sta osservando, com'è naturale che sia, e sul suo volto pallido c'è un'espressione che non so bene come interpretare.

«Una volta lì dietro c'era un'altra spiaggetta» dico, prima di riuscire a trattenermi. Non so perché, ma mi sento in dovere di dargli qualche spiegazione.

Lui sgrana gli occhi, come se non si aspettasse che gli rivolgessi la parola. 

«Adesso però non c'è più» proseguo. Forse è una mia impressione, ma la mia voce suona un po' strozzata. Perché gli sto dicendo queste cose? Perché dovrebbe fregargliene un accidente di quello che gli sto raccontando? «Il fiume... il livello dell'acqua dev'essersi alzato e adesso è quasi del tutto sommersa.»

Silenzio. Poi lui annuisce. «Ah.»

Brava, Chiara, hai fatto la figura dell'idiota, mi dico. Adesso vattene. Però non mi schiodo e continuo a incontrare gli occhi del tizio. Sono dei begli occhi, adesso che li guardo bene. Sono dei banali occhi marroni, sì, ma hanno una forma elegante, un po' allungata. Gli danno quasi un'espressione dolce, in netto contrasto con il resto dei suoi lineamenti, che sono invece un po' duri, affilati. E sì, il naso è decisamente storto: forse se l'è rotto ed è guarito male.

Quando mi accorgo che lo sto fissando da un po' troppo tempo, distolgo lo sguardo. Sto arrossendo? Deglutisco e mi chino per raccogliere le scarpe. «Be'... io vado.»

«No, aspetta!» Non ho fatto nemmeno due passi, ed ecco che la sua voce mi richiama. Mi volto per lanciargli un'occhiata interrogativa e vedo che si sta alzando, spolverandosi con una mano i jeans per liberarli dai fili d'erba che ci sono rimasti attaccati. «Me ne vado io.»

Una parte di me esulta per quella svolta inaspettata, ma un'altra parte è invece mortificata: nonostante tutto, non intendevo cacciarlo. «Ma no, non è il caso» esclamo, sollevando una mano come per fermalo. «Posso tornare un'altra volta.»

Lui mi rivolge un sorriso quasi impercettibile, fatto con un solo angolo della bocca. «Già ieri sei passata di qui e non hai trovato posto» mi dice, e non so perché, ma il fatto che anche lui si ricordi di me mi sorprende. «Facciamo un po' per uno.»

Mi mordo le labbra e abbasso gli occhi, annuendo grata. «Be', allora grazie.» Dopo qualche secondo indico con una mano il piccolo spiazzo erboso. «Da bambina venivo spesso in questo posto, ma adesso manco da qualche anno. Ci sono affezionata.»

Lui fa un cenno d'assenso con il capo. «Piace molto anche a me: lo trovo rilassante.»

L'uomo si guarda attorno e dalla postura del suo corpo mi accorgo che non è particolarmente felice all'idea di andarsene prima del previsto, e la cosa non fa altro che alimentare i miei sensi di colpa. Probabilmente la cosa giusta da fare sarebbe proporgli di rimanere entrambi: del resto, il prato può ospitare comodamente quattro o cinque persone. Però c'è qualcosa di intimo nel condividere uno spazio tanto isolato con un perfetto sconosciuto, e il solo pensiero di farlo mi mette a disagio. Anche perché questo è uno sconosciuto decisamente imponente: alto e solido, con spalle larghe e braccia che la camicia sembra faticare a contenere. Avverto uno strano pizzicorino a livello dello stomaco che non ho nessuna intenzione di esaminare troppo da vicino.

Quando non rispondo alla sua ultima osservazione - a quanto pare ero troppo occupata a studiare i muscoli che si possono indovinare al di sotto della stoffa bianca per accorgermi che i tempo stava passando - il tipo si avvia verso il sentiero che conduce alla strada. Quando mi passa accanto, si ferma per una frazione di secondo. «Buona giornata, allora.»

Io sorrido, anche se ormai lui è passato oltre. «Altrettanto», rispondere, prima di aggiungere, a voce più alta: «E grazie!» 

L'ho praticamente urlato e, prima di sparire oltre la vegetazione, lui si volta per rivolgermi un cenno di saluto e un sorriso che questa volta lascia intravvedere anche un po' di denti.

Mh, penso, lasciandomi cadere sull'erba fresca. Magari l'ho giudicato male. 

Chissà come si chiama, mi chiedo qualche istante più tardi. Chissà se è uno che viene da fuori, o se invece è di San Tommaso.

La curiosità mi solletica il petto e io passo il resto del pomeriggio a pensare a come soddisfarla.

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