Il
giorno dopo decido di tornare al fiume. Il primo tentativo è
andato
male, d'accordo, ma oggi andrà sicuramente meglio. Del resto
quali
sono le probabilità che il mio angolino preferito sia ancora
occupato? Non ci passa poi così tanta gente da queste parti,
e
quello che porta sulla riva è un sentiero che non vedi, se
non sai
che è lì.
Mentre
mi allaccio le scarpe da ginnastica mi raggiunge la voce di mia
madre. «Stai uscendo di nuovo?» mi chiede.
Aggrotto
la fronte. «In che senso "di nuovo"?»
ribatto. Per
oggi non ho ancora messo piede fuori di casa.
Lei
mi guarda dalla poltrona sulla quale è accoccolata e si
stringe
nelle spalle. «Ieri pomeriggio sei sparita per
diverse ore» mi
fa notare.
«Sono
andata a passeggiare giù al fiume» la informo,
senza capire il
perché di quell'interrogatorio inaspettato.
«Mh-mh»
è l'unica risposta che ottengo. Mia madre riabbassa gli
occhi grigi
sul romanzo che sta leggendo e conserva una perfetta faccia da
poker. È una professoressa, insegna filosofia in un
liceo
classico e sono più che sicura che durante le interrogazioni
sia
assolutamente terrificante. Poveri studenti.
Mi
alzo in piedi per fronteggiarla meglio. «Be'? Si
può sapere
cosa c'è?» Ho la netta sensazione che voglia
spingermi ad ammettere
qualcosa. Dal momento che però non ho nulla da confessare,
il suo
atteggiamento mi confonde.
«No,
niente» dice, senza alzare lo sguardo dal suo
libro. «Mi
chiedevo solo se per caso non avessi incontrato qualcuno dei tuoi
vecchi amici.»
Ah,
ecco. Spera che stia già socializzando, il che è
piuttosto
preoccupante, se consideriamo che siamo arrivate a San Tommaso solo
un paio di giorni fa. L'estate si prospetta pericolosamente lunga, se
questo è il modo in cui intende affrontarla.
«No,
non ho incontrato nessuno» ribatto. Non è del
tutto vero, ma quello
che voglio dire è che non ho incontrato nessuno di
interessante. «A
dire il vero non so nemmeno se abitano ancora da queste
parti.»
«Matteo
e Letizia sì. Sandra è tornata per l'estate e
Michele dovrebbe
venire qui almeno per i week-end» mi informa solerte lei.
Perfetto,
penso. Si è già informata per bene, a quanto
pare. Non dico che la
cosa non mi faccia in un certo senso piacere, ma mi mette addosso
anche un po' di agitazione. Voglio decidere io come e quando
riallacciare i rapporti con il passato.
«Ah,
ok» taglio corto. «Va be', io vado,
eh.»
«Ancora
al fiume?»
Indico
la mia tenuta sportiva. «Vado a correre»
rispondo pronta. «Ho
deciso di provare a ricominciare a farlo. Non può che farmi
bene,
no?»
Un
sopracciglio nero e perfettamente disegnato schizza verso
l'alto. «E
lo fai alle due di pomeriggio?» mi chiede senza preoccuparsi
di
nascondere lo scetticismo.
Non
ha tutti i torti, ma io mi stringo nelle spalle. «Un
orario
vale l'altro. Adesso almeno girano meno zanzare che alle sei di
sera.»
«Mh.»
Alzo
gli occhi al cielo. «A dopo, ma'» sospiro,
agitando una mano
in segno di saluto e infilando velocemente la porta.
Per
il primo tratto di strada corricchio davvero, anche se le mie gambe
stentano un po' a riconoscere il ritmo che un tempo era loro
famigliare. Forse quella di ricominciare a correre non è poi
un'idea
malvagia. Certo, dovrei farlo a un orario migliore: mia madre ha
ragione. Oggi però i pantaloncini sportivi e il top rosa
fluo che
indosso sono solo un travestimento, un qualcosa per giustificare la
mia presenza sulla strada sterrata per il secondo giorno di fila. E
se...
Sì,
va be'. Sono paranoica. Il fatto è che su questa cosa ci ho
rimuginato ieri sera, prima di riuscire a prendere sonno. Mi sono
immaginata di tornare al fiume e di trovare ancora il tipo che ci ho
trovato ieri. Se per due giorni di fila ci incontrassimo nello stesso
posto isolato dal mondo, potrebbe pensare che lo stia facendo
apposta.
Potrei
cambiare orario, mi sono detta. Ma no: c'è una
parte
scaramantica della mia mente che mi impone di ripetere quasi alla
perfezione i gesti che ho compiuto ieri, come se così
facendo
potessi cancellare e superare la piccola delusione che ho provato
trovando il mio posticino segreto già occupato da un
estraneo.
Ed
ecco che entrano in gioco le scarpe ammortizzate e i calzoncini da
runner: se dovessi incrociarlo di nuovo (improbabile, ma non
impossibile) potrei spacciarmi per un'atleta con una routine
consolidata e non ci farei la figura dell'idiota. O almeno spero.
Dal
momento però che io non sono
un'atleta, appena mi
allontano a sufficienza dal centro abitato rallento il passo fino a
camminare. Ho corso per dieci minuti scarsi e già mi fa male
la
milza e un rivoletto di sudore mi scivola lungo le tempie. Mi porto
automaticamente una mano alla nuca, lì dove i miei capelli
lunghi
sono raccolti in una coda alta. Caldo. Fa davvero troppo caldo per
fare questi exploit fisici.
Proseguo
camminando fino al sentiero dietro al masso e quando lo raggiungo mi
accorgo di avere il cuore in gola. Ridicola,
mi dico. Sei
ridicola.
E
nonostante riconosca io stessa quanto il mio atteggiamento sia
stupido, mi avvio trotterellando giù lungo il sentiero, con
tutta
l'aria di una che stava già correndo sulla strada e ha
semplicemente
deciso di fare una piccola deviazioni per rinfrescarsi nell'acqua del
fiume. Le rane e i moscerini apprezzeranno la mia performance, spero.
Quando
arrivo a pochi passi dall'acqua mi accorgo però di avere
anche un
altro spettatore. Non è possibile! Penso
fermandomi
di colpo e rischiando di incespicare nei miei stessi piedi. Il tipo
di ieri è ancora qui e la realtà dei fatti inizia
ad assumere forma
davanti ai miei occhi: il mio posticino
è anche
il suo. Il mio santuario
è stato violato. Dovrò
trovarmi un altro luogo in cui rilassarmi e riordinare i miei
pensieri.
La
mia è sicuramente una reazione eccessiva, ma per una
manciata di
secondi i miei occhi si riempiono di lacrime. Le ricaccio indietro,
ma il nodo che mi stringe la gola non si allenta.
Lui,
la mia nemesi, è praticamente nella stessa posizione in cui
l'ho
lasciato ieri: seduto a terra, gambe raccolte al petto, jeans scuri e
camicia bianca risvoltata sugli avambracci. La camicia di oggi
è, se
possibile, ancora più ridicola di quella di ieri: solo un
idiota si
vestirebbe di bianco e poi andrebbe a sdraiarsi sull'erba.
A
differenza di ieri, però, si è già
girato a guardarmi e sul suo
volto passa immediatamente un guizzo di riconoscimento. Dio,
questa cosa è imbarazzante, penso. Non so
perché, ma ho come
l'impressione che sia consapevole che la mia corsetta improvvisata
è
solo una farsa.
Ormai
però sono qui e non posso fare altro che proseguire nella
mia
pantomima. Mi costringo a staccare gli occhi dal tipo seduto per
terra e gli volto le spalle, comportandomi come se la sua presenza
non mi turbasse affatto.
Con
tutta la calma del mondo – e con i muscoli un po'
più rigidi del
normale, ma potrebbe pensare che sia colpa della corsa che in teoria
ho fatto – porto le braccia sopra alla testa e mi stiracchio
inarcando la schiena. Poi piego una gamba e stiro il quadricipite. Si
faceva così, no?
L'acqua
mi chiama. La calura è opprimente e la brezza fresca che
spira dal
centro del fiume ha un effetto quasi ipnotizzante. Senza nemmeno
rendermene conto mi chino e mi tolgo le scarpe, poi entro nell'acqua
bassa. I miei piedi affondano nell'impalpabile sabbietta
grigio-argento che si è accumulata nell'ansa creata dal
corso
d'acqua. Le onde fredde mi lambiscono appena le caviglie, ma
è già
sufficiente perché una sensazione di profondo benessere si
impossessi di me, salendo dalle gambe e arrivando fino al centro del
petto. Mi era mancato. Il fiume, intendo.
Se
fossi sola lancerei le scarpe sul prato e mi rimboccherei un po' i
pantaloncini, poi mi siederei sull'erba che cresce sulla riva e
lascerei che le mie gambe vengano sommerse completamente dall'acqua.
Dal momento che però non sono sola, valuto per un attimo le
mie
opzioni. All'improvviso un ricordo mi attraversa la mente. Quando io
e gli altri eravamo bambini, questo praticello nascosto dalla vista
era il nostro posto preferito, ma bastava seguire il corso del fiume
per pochi metri per approdare su una seconda spiaggetta.
Era
piccola, ed era una spiaggia vera e propria, con il fondo di sabbia e
non di erba, ma non era
male. È esattamente quello cha fa
al caso mio.
Cammino
seguendo la corrente, senza voltarmi per controllare se l'invasore mi
stia osservando. La vegetazione è più rigogliosa
di quanto non
ricordassi e i rami degli ontani si spingono sull'acqua,
costringendomi a scostarli con entrambe le mani. Anche il fondo del
fiume è un po' cambiato, e lì dove un tempo c'era
solo morbida
sabbia spunta adesso qualche ciottolo arrotondato. Porca
vacca, penso quando il mio alluce destro urta dolorosamente
contro una pietra che non avevo visto.
La
spiaggia c'è ancora, più o meno. Il fiume deve
però aver cambiato
leggermente il suo corso, o il suo livello deve essersi alzato,
perché al posto della sabbia morbida che ricordavo trovo una
fanghiglia grigiastra ben poco accogliente: non c'è nemmeno
da
pensare di sistemarsi qui.
Chiudo
gli occhi ed esalo pesantemente. Si vede che non è proprio
destino.
Con la coda tra le gambe torno sui miei passi, sollevando in maniera
esagerata le ginocchia per affrontare meglio la corrente. Quando
approdo sulla spiaggia erbosa dalla quale ero partita solo un minuto
prima, getto a terra le scarpe e mi concedo un secondo
sospiro.
E
niente. Anche oggi niente da fare. Domani proverò a cambiare
orario... sempre ammesso che io abbia davvero voglia di tornare qui.
Questo posto sta iniziando a perdere un po' del suo fascino.
Quando
mi giro per tornare verso il sentiero - e al diavolo i piedi bagnati
- incontro gli occhi scuri del tipo con la camicia. Mi sta
osservando, com'è naturale che sia, e sul suo volto pallido
c'è
un'espressione che non so bene come interpretare.
«Una
volta lì dietro c'era un'altra spiaggetta» dico,
prima di riuscire
a trattenermi. Non so perché, ma mi sento in dovere di
dargli
qualche spiegazione.
Lui
sgrana gli occhi, come se non si aspettasse che gli rivolgessi la
parola.
«Adesso
però non c'è più» proseguo.
Forse è una mia impressione, ma la
mia voce suona un po' strozzata. Perché gli sto dicendo
queste cose?
Perché dovrebbe fregargliene un accidente di quello che gli
sto
raccontando? «Il fiume... il livello dell'acqua
dev'essersi
alzato e adesso è quasi del tutto sommersa.»
Silenzio.
Poi lui annuisce. «Ah.»
Brava,
Chiara, hai fatto la figura dell'idiota, mi dico. Adesso
vattene. Però non mi schiodo e continuo a
incontrare gli
occhi del tizio. Sono dei begli occhi, adesso che li guardo bene.
Sono dei banali occhi marroni, sì, ma hanno una forma
elegante, un
po' allungata. Gli danno quasi un'espressione dolce, in netto
contrasto con il resto dei suoi lineamenti, che sono invece un po'
duri, affilati. E sì, il naso è decisamente
storto: forse se l'è
rotto ed è guarito male.
Quando
mi accorgo che lo sto fissando da un po' troppo tempo, distolgo lo
sguardo. Sto arrossendo? Deglutisco e mi chino per raccogliere le
scarpe. «Be'... io vado.»
«No,
aspetta!» Non ho fatto nemmeno due passi, ed ecco che la sua
voce mi
richiama. Mi volto per lanciargli un'occhiata interrogativa e vedo
che si sta alzando, spolverandosi con una mano i jeans per liberarli
dai fili d'erba che ci sono rimasti attaccati. «Me
ne vado io.»
Una
parte di me esulta per quella svolta inaspettata, ma un'altra parte
è
invece mortificata: nonostante tutto, non intendevo
cacciarlo. «Ma
no, non è il caso» esclamo, sollevando una mano
come per
fermalo. «Posso tornare un'altra volta.»
Lui
mi rivolge un sorriso quasi impercettibile, fatto con un solo angolo
della bocca. «Già ieri sei passata di qui
e non hai trovato
posto» mi dice, e non so perché, ma il fatto che
anche lui si
ricordi di me mi sorprende. «Facciamo un po' per
uno.»
Mi
mordo le labbra e abbasso gli occhi, annuendo
grata. «Be',
allora grazie.» Dopo qualche secondo indico con una mano il
piccolo
spiazzo erboso. «Da bambina venivo spesso in questo
posto, ma
adesso manco da qualche anno. Ci sono affezionata.»
Lui
fa un cenno d'assenso con il capo. «Piace molto
anche a me: lo
trovo rilassante.»
L'uomo
si guarda attorno e dalla postura del suo corpo mi accorgo che non
è
particolarmente felice all'idea di andarsene prima del previsto, e la
cosa non fa altro che alimentare i miei sensi di colpa. Probabilmente
la cosa giusta da fare sarebbe proporgli di rimanere entrambi: del
resto, il prato può ospitare comodamente quattro o cinque
persone.
Però c'è qualcosa di intimo nel condividere uno
spazio tanto
isolato con un perfetto sconosciuto, e il solo pensiero di farlo mi
mette a disagio. Anche perché questo è uno
sconosciuto decisamente
imponente: alto e solido, con spalle larghe e braccia che la camicia
sembra faticare a contenere. Avverto uno strano pizzicorino a livello
dello stomaco che non ho nessuna intenzione di esaminare troppo da
vicino.
Quando
non rispondo alla sua ultima osservazione - a quanto pare ero troppo
occupata a studiare i muscoli che si possono indovinare al di sotto
della stoffa bianca per accorgermi che i tempo stava passando - il
tipo si avvia verso il sentiero che conduce alla strada. Quando mi
passa accanto, si ferma per una frazione di
secondo. «Buona
giornata, allora.»
Io
sorrido, anche se ormai lui è passato
oltre. «Altrettanto»,
rispondere, prima di aggiungere, a voce più
alta: «E grazie!»
L'ho
praticamente urlato e, prima di sparire oltre la vegetazione, lui si
volta per rivolgermi un cenno di saluto e un sorriso che questa volta
lascia intravvedere anche un po' di denti.
Mh, penso,
lasciandomi cadere sull'erba fresca. Magari l'ho
giudicato
male.
Chissà
come si chiama, mi chiedo qualche istante più
tardi. Chissà
se è uno che viene da fuori, o se invece è di San
Tommaso.
La
curiosità mi solletica il petto e io passo il resto del
pomeriggio a
pensare a come soddisfarla.
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