Numeri 1

di minipink
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Genzo Wakabayashi ***
Capitolo 2: *** Gino Hernandez ***
Capitolo 3: *** Ken Wakashimazu ***
Capitolo 4: *** Ken Wakashimazu pt.2 ***



Capitolo 1
*** Genzo Wakabayashi ***


Genzo Wakabayashi lì, Genzo Wakabayashi là.

Non si poteva aprire uno stracazzo di giornale in tutta Germania senza leggere quel cazzo di nome.
"183 cm per 77 kg, nato il 7 dicembre,  nazionalità giapponese", la frase più copia-incollata della storia del giornalismo sportivo.
E foto, foto, foto.

Quello che non era mai, e dico MAI! riportato sui giornali, era che Genzo Wakabayashi, 183 cm per 77 kg di peso, era un ragazzo composto da un mix letale di boria, arroganza e supponenza. L'essere più spiacevole dell'universo, con manie di grandezza e la fissazione di dover a tutti costi essere il portiere migliore del mondo, whoa. Capirai.

-Devo andare, tra mezz'ora iniziano gli allenamenti - mi informa scostando il lenzuolo e rimettendosi i boxer.

---
Ok, ok. Lo so. So cosa state pensando.
Lo so.


Ma cosa ci posso fare? Si sa che i cattivi ragazzi sono sempre quelli più affascinanti, no? E, difetti caratteriali a parte, bisognava dire che Genzo Wakabayashi era sì alto 183 cm per 77 kg, ma bisognava specificare che quei chili erano molto ben distribuiti.
Lo osservo dal letto, senza muovermi dalla mia precedente posizione, la spossatezza post Wakabayashi-coito è troppo grande da vincere, vorrei ancora quel corpo statuario al mio fianco, per poter ammirare parti che nelle foto sui giornali non si vedevano mica.

Ma cosa andate a pensare??!

Parlavo delle sue mani.

No, sul serio. Vi sfido: cercate ovunque, carta stampata, interviste, internet... non troverete nessun fotogramma che lo immortali senza i suoi fidati, logori guanti da portiere. Che poi ne ha a centinaia di paia, di ogni colore e marchio, ma alla fine per le partite importanti mette sempre i soliti. Le lettere S-G-G-K scritte sulle dita, "una promessa fatta a Mikami", mi ha ermeticamente accenato un giorno. Genzo Wakabayashi, 183 cm per 77 kg, è un sentimentalone.

E poi, dopo, in genere non parliamo mai -deve sempre andare ad un allenamento, una riunione, da qualunque altra parte- ma a volte, raramente, mi racconta qualche aneddoto della sua infanzia, qualche allenamento o partita fra bambini del cacchio giapponesi che giocano a fare gli eroi perchè una partita di calcio al campetto è più importante della salute, e sorride, sorride per davvero, non il solito sorrisino sghembo che fa per la stampa, e in quel momento non sembra poi così spocchioso. "Giocavamo per divertirci, giocavamo per noi, per i nostri sogni" mi ha detto una volta, l'amaro nelle sue parole chiaramente percepibile. Non dissi nulla, poichè sapevo che aveva avuto problemi in squadra per via di non so che colpo di testa durante una partita importante, c'erano di mezzo anche Karl ed Hermann: non conoscevo i dettagli e di sicuro non li avrei chiesti a lui, ma su tutti i giornali era riportata la notizia che Genzo avrebbe terminato la stagione all'Amburgo in panchina. "Adesso non è più un gioco", aggiunse. Genzo Wakabayashi, 183 cm per 77 kg, ed apparire più vulnerabile di un pulcino.

Oppure, a volte ci incontriamo al mattino, lui fuori a correre per il parco, io in passeggiata col cane, ed è palese di quanto gli manchi il suo, di cane. Gioca col mio, e mi racconta di quando da bambino giocava col pallone e John, il suo akita. E anche di quando ha nevicato fortissimo, e il mattino seguente lui e John si sono rotolati nella neve fresca. E di quella volta d'estate, lui e John che si fanno fuori un'anguria gigante in due. Lui e John, sempre lui e John. E mentre lo sento parlare, sorriso genuino ma sguardo malinconico mentre rievoca i ricordi, io mi chiedo che cazzo avessero di così importante da fare tutti quanti i restanti membri della sua famiglia quando lui era piccolo. Genzo Wakabayashi, 183 cm per 77 kg, senza il suo John, solo come un cane in Germania, dall'età di 12 anni.
---

-A che pensi?- la domanda mi riscuote dai miei ricordi. Ha finito di vestirsi, sta mettendosi il giubbotto, pronto per uscire.

-Stavo riflettendo... sai, a pensarci bene non sei l'essere più spiacevole dell'universo-

Blocca la mano prima che arrivi al pomello della porta, si girà di scatto a guardarmi, occhi spalancati
-Che cosa??!-

Una risata mi scappa prima che possa reprimerla, e lui mi segue a ruota. Torna sui suoi passi, si inginocchia per terra di fianco al letto e mi bacia, dolcemente, ma fa scivolare una mano sul mio sedere, strizzando leggermente una natica.
-Pensi che io sia spiacevole? Dopo tutto quello che faccio per te?- mi chiede ammiccante, sopracciglio sollevato e sguardo eloquente.

-No! Ma rimani un borioso, un arrogante ed un supponente!- dico prima di gettargli le braccia dietro al collo e baciarlo di nuovo.
 

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Capitolo 2
*** Gino Hernandez ***


Genzo Wakabayashi lì, Genzo Wakabayashi là.

 

Non si poteva aprire uno stracazzo di giornale in tutta Italia senza leggere quel cazzo di nome.
"183 cm per 77 kg, nato il 7 dicembre, nazionalità giapponese", la frase più copia-incollata della storia del giornalismo sportivo.
E foto, foto, foto.

Quello che non era mai, e dico MAI! riportato sui giornali, era che prima che lui fosse in auge, il portiere migliore d'Europa a detta di tutti era il mio Gino. È ancora il mio Gino. Va là.


Ok che la stampa era estremamente volubile, e bastava una partita si o una no per cambiare drasticamente i titoloni, però quando è troppo è troppo. Non erano stati proprio loro, i giornalisti, a dargli il soprannome di “portiere perfetto”? E avevano fatto bene. Non mi risulta che Genzo Wakabayashi abbia mai completato una stagione intera senza subire reti. Va bhe, a parte in un torneo fra dodicenni, ma quello non conta. Qui si parlava della primavera dell'Inter, il campionato italiano, mica partitelle fra bambini.


Invece, adesso che si è grandi, è Gino che sta disputando un torneo importante, e le sue parate ci hanno portato in fondo imbattuti.

 

“Smettila di leggere quegli articoli, non serve a niente”, mi dice, togliendosi i guanti e avvicinandosi al rubinetto per ficcarci sotto la testa e lasciare che l'acqua gli abbassi la temperatura.

“Ma non ti dà fastidio? Non sei meno bravo di lui, stai facendo delle parate assurde...”

“...e? Sono un portiere no? Non me lo hai ricordato proprio tu l'altra sera?”

“Cosa?”
“Che devo solo fare quello che mi riesce meglio”

---


Semifinale Europeo 2021 Italia – Spagna (1-1)

 

I ragazzi si avvicinano al Mister, che cerca di incoraggiarli e motivarli, ma dalle tribune io lo vedo: Gino è teso.

Sa che i rigori sono responsabilità sua, sa che i compagni si aspettano che lui faccia il miracolo.

So che non vuole deluderli, so che vuole essere all'altezza della sua reputazione.

 

E non è per la rivalità con Wakabayashi.

Quella da più fastidio a me che non a lui.

È senso del dovere.

 

Lui, da sempre, è sempre stato un ragazzo calmo e posato, sempre sorridente e con una buona parola per tutti. Il suo carattere conciliante lo ha reso capitano della nazionale, il leader affidabile e equilibrato che quelle teste calde dei suoi compagni, Gentile e Rusciano per primi, necessitano per rimanere coesi e collaborativi.

Non è stata una sorpresa, dunque, quando alla mia animosità sul fenomeno mediatico Wakabayashi, lui ha mantenuto il sorriso, riconoscendo al nipponico le sue qualità e ricordandomi che quando nella vita le cose si complicano, bhé, è in quel momento che si fanno interessanti. “Vorrà dire che mi impegnerò di più...” mi disse con serenità, “sono un portiere... devo solo fare quello che mi viene meglio!” aggiunse facendomi l'occhiolino.

 

E adesso tel lì, il Gino, tutto solo in mezzo ai compagni, le parole del Mister e le pacche sulla schiena non riescono a smuovere il suo sguardo, che rimane impiantato sull'erba, fronte leggermente corrugata.

È la solitudine dei portieri, come la chiama lui: “sto in una squadra, ma quando c'è da parare un rigore, sono da solo. Se lo paro, ho fatto il mio dovere; se entra, sono un incapace. Io sono un uomo solo, in porta ci si sta da soli”, mi aveva spiegato un sera, in vena di riflessioni filosofiche. O forse era colpa di un drink di troppo, va a sapere.

 

Ripenso a noi da bambini, a fare merenda dopo scuola e litigare su quale cartone animato guardare.

Ripenso a noi da adolescenti, al nostro primo bacio, fra noi ed in assoluto, e alla risata successiva perché era troppo strano.

Ripenso al giorno della sua promozione in prima squadra all'Inter.

Ed in tutti questi ricordi, lo vedo sempre col sorriso -lo sguardo basso non ti si addice, Ginetto.

 

Mi alzo in piedi, mi sbraccio, cerco di attirare la sua attenzione, ti prego guardami.

Ci riesco: alza lo sguardo ed è troppo lontano per poter esserne sicuri, ma giurerei che il volto gli si distende un po'.

Allargo le braccia all'altezza del bacino, un gesto per mimare una ovvietà: “Devi solo fare quello che ti riesce meglio!” urlo con tutto il fiato che ho.

 

I suoi begli occhi azzurri riprendono colore, il petto gli si gonfia di ritrovato orgoglio e sicurezza, alza la testa e torna il suo sorriso che potrebbe illuminare lo stadio. Fa “sì” col capo, e senza smettere di sorridere si appresta a grandi falcate alla sua cara porta.

 

Il resto è storia: rigore di Michael parato, gol di Rusciano e adiòs Espana, a risentirla.

 

---

 

“Sì, giusto... e devo dire che ti viene davvero bene. Domani sera c'è la finale, Ginetto. Domani sera si decide tutto. E tu sarai lì, tra i pali. Da solo.”

“Come sempre.”

“Si, esatto, come sempre. “

“È la cosa che mi riesce meglio.”

“Si, esatto, la cosa che ti riesce meglio.”

Il silenzio rimane fra noi due come appeso, io che fisso lui, e lui che fissa il lavandino.

Il mio Gino ha bisogno di supporto, ed io sono lì per lui.

“Sai che se dovessimo vincere domani, saremmo imbattuti in questo torneo?” mi chiede senza distogliere i suoi occhi azzurri dalla ceramica.

“Si, lo so”

“Sai che nessuna squadra prima d'ora ha vinto semifinale e finale ai rigori?”
“No, aspetta cosa? Mai successo?”

“Mai” e si volta a guardarmi, pupille dilatate. Con la statistica contraria, teme di finire nuovamente oltre i tempi supplementari, è evidente.
Ma io non trattengo un sorriso, che si allarga sempre di più: “Non eri tu a sostenere che quando le cose si complicano, si fanno più interessanti? Pensala in questo modo: SE finite di nuovo ai rigori e SE li pari... la squadra diventa la prima ad aver vinto in quelle condizioni, e TU diventi il portiere che lo ha permesso. Il primo portiere ad aver fermato ai rigori le seconde due squadre più forti del toneo. Il primo!” Il sorriso compare anche sulle sue labbra, “Vedi tu quello che devi fare!” aggiungo facendo l'occhiolino.

“Quello che mi riesce meglio?” mi chiede.

“Quello che sai fare come nessun altro al mondo!” gli rispondo lanciandogli un asciugamano.

 

Per tutta risposta, grondante d'acqua ghiacciata com'è, mi abbraccia e mi schiocca un bacio sulla guancia. Lo sa che le manifestazioni fisiche d'affetto non mi piacciono, lo fa apposta per provocarmi, un gioco che facciamo da quando andavamo all'asilo.

“Ma dai, Gino, stà su de doss! Muoviti, piuttosto, andiamo a casa, che ho fame” fingo più stizza di quella che ho, perché anche se adesso siamo cresciuti, certe cose non cambiano mai.

“Ti voglio bene anch'io” risponde lui.

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NOTE!
Fatti e riferimenti a partire e record battuti sono da considerarsi assolutamente NON casuali 😉.
Non so voi, ma secondo me le prodezze del nostro Donnarumma sono degne del Gino nazionale. Chissà se Takahashi darà più spazio ai nostri giocatori prossimamente...
Rusciano è un personaggio canon, ma assente nel manga (almeno per il momento). Lo trovate come rappresentante dell'Italia nel videogioco Captain Tsubasa: Rise of the new champions.

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Capitolo 3
*** Ken Wakashimazu ***


Genzo Wakabayashi lì, Genzo Wakabayashi là.

 

Non si poteva aprire uno stracazzo di giornale in tutto il Giappone senza leggere quel cazzo di nome.
"183 cm per 77 kg, nato il 7 dicembre, nazionalità giapponese", la frase più copia-incollata della storia del giornalismo sportivo.
E foto, foto, foto.

Quello che non era mai, e dico MAI! riportato sui giornali, era che il suo idolo, il suo angelo dai capelli corvini, era il più giovane giocatore ad essere entrato a giocare in una squadra di JLeague.

Prima divisione.

Titolare.

Così, tanto per dire.



In camera sua, di fianco al suo letto, aveva creato una bacheca che arricchiva ogni giorno con tutte le foto e gli articoli che riusciva a scovare su di lui. I giornali locali erano quelli che prediligeva, poiché erano molto più propensi ad elargirgli spazio rispetto alle testate nazionali, sempre troppo impegnate a declamare le gesta del connazionale che stava imperversando in Bundesliga.

E oh, senti, che ci vuoi fare? Il calcio europeo è più prestigioso di quello del nostro paese, le aveva ricordato freddamente il suo cervello.

E oh, senti, che ci posso fare? Aveva controbattuto il suo cuore, ricolmo di quell'amore totalizzante e accecante di adolescente che idolatra il suo calciatore preferito.



Ma non proprio.

Perché, a dirla tutta, preferiva di gran lunga vederlo in versione karateca.

Volete mettere? I movimenti sinuosi, la casacca perennemente aperta sul torace, a lasciare intravedere i pettorali ampi e gli addominali scolpiti da anni di allenamenti... Ken Wakashimazu è un ragazzo da sogno.



***

Vederlo camminare verso casa dopo la partita, borsone appeso alle spalle e capelli ancora umidi dopo la doccia. Distarsi e inciampare, cadere a terra e rimediare un ginocchio sbucciato e molto imbarazzo, perché lui ha assistito alla scena. Ma si avvicina, corre verso di te, i bei lineamenti scomposti dalla preoccupazione.

Non muoverti, ti aiuto io a rialzarti.”

Si abbassa verso di te, alzi il viso ed i vostri sguardi si incatenano. “Non muoverti”, ripete in un soffio, mentre azzera la distanza fra le vostre labbra.

***



Aveva iniziato a frequentare i corsi di karate sotto la spinta di sua madre, che insisteva affinché iniziasse a fare sport.

Quale?

Uno qualunque.

Basta che non passi i pomeriggi sul divano a guardare la tele o coi videogiochi.

Ok.

Tuttavia: equitazione era troppo costosa, i corsi di tennis non coincidevano con gli orari, nuoto non se ne parlava neanche.

“Perché non karate? Il dojo dei Wakashimazu è qui vicino, ci puoi andare anche a piedi, e non sarebbe male imparare quale mossa almeno per difesa personale” aveva suggerito suo fratello.

Se alla parola “karate” era calato lo sconforto sul suo cuore, alla parola “Wakashimazu” si era subito ripreso. Aveva subito espresso entusiasmo alla proposta, forse un po' troppo entusiasmo, a giudicare dalle espressioni perplesse dei familiari, ma poco importava: una settimana più tardi avrebbe frequentato il dojo del suo amore, lo avrebbe visto dal vero, si sarebbero certamente innamorati! Le loro anime si sarebbero unite, il destino si sarebbe compiuto, il filo rosso che legava le loro vite li stava finalmente traendo uno verso l'altro!



***

Rimanere ad allenarsi oltre l'orario dei corsi, solo tu e lui, a provare e riprovare i movimenti fino a quando non diventano fluidi.

Devi alzare di più i gomiti, allargare le braccia”, lo senti dire, con quella voce calma -sempre calma-, mentre ti gira attorno e senti le sue braccia cingerti, il suo petto contro la tua schiena. Intreccia le sue mani alle tue, ti guida “Così... rilassa i muscoli, lascia che ti mostri come fare”, ti mormora all'orecchio, solleticandolo. Istintivamente ti giri verso di lui, che chiude le braccia ingabbiandoti; istintivamente si china verso di te, che apri le labbra per accoglierlo.

***



Alla faccia del destino benevolo che appianava la strada verso l'uomo della sua vita, (o che così pareva fino a qualche giorno prima), il primo giorno di lezione pioveva a dirotto. Arrivare al dojo dopo aver fatto di corsa il tragitto sotto la pioggia battente, oltretutto per poi trovarlo inesplicabilmente chiuso, era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e disintegrato tutte le sue più rosee speranze.

“Ma che CAZZO!” urlò con tutto il fiato e la frustrazione che aveva in corpo.

Non lo avesse mai fatto: una porta si aprì improvvisamente, uno spilungone in kimono parecchio incazzato palesatosi lì davanti a chiedere spiegazioni, un'apparizione talmente improvvisa ed inaspettata da indurre la sua schiena a piegarsi automaticamente in avanti per scusarsi, senza nemmeno avere il tempo né tanto meno il coraggio di guardare in faccia quello che, con ogni buona probabilità, doveva essere il signor Wakashimazu in persona.

“Mi perdoni, pensavo non ci fosse nessuno”

“Infatti, oggi il dojo è chiuso”

“Si, devo aver sbagliato giorno per il corso, mille scuse”

“E dai, Ken...” interviene una voce alle sue spalle, “non essere il solito! Tanto noi avevamo finito! Lascia che entri almeno fino a quando la pioggia non darà un po' di tregua...”

Ken?!?

Azzarda ad alzare lo sguardo e lui è lì, che torreggia oltre la sua testa, alto, molto più alto di come non sembri in televisione, e bello, molto più bello di come non venga in foto.

E ancora parecchio incazzato.

Si volta di scatto verso la voce, ed i suoi capelli sembrano fatti di raso, luminosi e leggeri.

“Nitta... non ricordo di aver chiuso la lezione. E nemmeno di averti dato il permesso di chiamarmi per nome”

“Oh, quante storie, senpai...” e Nitta (il Falco Shun Nitta! Proprio lui!) si avvicina ai due, ancora sulla porta, sorrisino stampato in faccia. “Allora io vado eh!” aggiunge scoccando un occhiolino in direzione di Ken, ma senza preoccuparsi davvero di nasconderlo, e sparendo subito dopo nella pioggia.

Ken, l'angelo dai capelli corvini, seppur visibilmente, deliziosamente in imbarazzo, con le sue guance appena imporporate si scosta leggermente e ti fa cenno di entrare “Stai grondando acqua, entra, ti porto qualcosa per asciugarti” e sparisce dietro uno shōji.



***

Andare allo stadio, aspettarlo fuori per ore.

Attorno a te un esercito di fan, ragazzine urlanti in magliette scollate che cercano di attirare la sua attenzione, solo per vederlo passare e magari chiedere un autografo, una foto con lui.

Eppure, quando infine lui esce dagli spogliatoi, non le degna di uno sguardo, tira dritto fino a quando: “KEN!” sente la tua voce.

Si blocca e ti individua nella folla, ti raggiunge e ti trae a sé “Ho vinto per te” dice, e ti bacia come hai visto fare solo nei film, tra i flash dei fotografi e l'invidia delle sue ammiratrici.

***



“Ecco, tieni” dice di ritorno, porgendo un asciugamano e sparendo subito dopo. Il tempo di sfregarsi i capelli per tamponare l'acqua in eccesso e ricompare con un vassoio “Per scaldarti”, spiega mentre inizia a servire il tè per entrambi.

“Scusa ancora per prima, io-”

“Non importa” taglia corto lui, “I corsi riprenderanno da domani, abbiamo affisso un avviso in bacheca”

“Oggi sarebbe stata la mia prima lezione, non ne avevo idea”

“Lo so.”

“... lo sai?”

Lo sa? Ma allora... allora! Allora anche lui...

“Si... oggi avrebbero dovuto iniziare le classi dei più piccoli, cos'hai, dodici anni?”



Dodici anni.

Dodici.

Possibile che ai suoi occhi sembri così giovane?



Inizia a balbettare, in confusione “Ve-veramente no, non... non ho dodici anni, ne ho appena compiuti sedici. Sono..” deglutisce “io sono... grande.” Può sentire le lacrime di frustrazione salire agli occhi.

“Ah.”

Ken Wakashimazu non è di certo un chiacchierone.

Ma quando apre bocca...

“Bhe, non ci pensare, la pubertà raggiungerà anche te, un giorno”

...riesce a dire sempre le cosa sbagliata.



Ricaccia indietro le lacrime, perché, a dispetto di quello che pensa questo diavolo dai capelli corvini, non ha dodici anni. Si alza, ringrazia per la cortesia, ma adesso è proprio arrivato il momento di andare, tanto l'acqua cadente dal cielo si è ridotta ad una leggera pioviggine.



***

A casa, sul suo letto, strappa tutte le foto e gli articoli collezionati su di lui.

Non riesce a frenare il pianto, la delusione brucia come se qualcuno stesse marchiando la sua pelle a fuoco, anche a distanza di tre giorni.

Non che si aspettasse che le cose andassero davvero come se le immaginava nella solitudine della sua stanza, ma che addirittura il loro primo incontro si sarebbe tradotto in un'umiliazione totale...

Non sognerà mai più di lui ad occhi aperti, non dopo che lui aveva spezzato il suo cuore!

Ma che pena pensare che non ci sarebbero stati primi baci tra loro, né lezioni private di karate, nessuna dichiarazione d'amore pubblica!

Forse, si diceva, forse aveva ragione lui.

Forse dimostrava ancora dodici anni.



“Hai incontrato il tuo idolo e non era esattamente come lo avevi immaginato?” suo fratello chiede, appoggiato allo stipite della porta di camera sua.

“Non sono affari tuoi!” riesce a dire, tra i singhiozzi repressi.

“Forse no... però lasciati dire che Wakashimazu è un'idiota, se ti fa stare così. E lasciati dire che probabilmente tra un paio d'anni si pentirà di averti ridotto in lacrime.”

“Che vuoi dire?”

“Niente... niente...” sospira. “Vieni giù? Ho preso il gelato, quello che ti piace tanto.”

“Cioccolato bianco?”

“Cioccolato bianco.”

Sorride: meno male che c'era suo fratello. “Arrivo, fratellone!”

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Capitolo 4
*** Ken Wakashimazu pt.2 ***


“Ammazza che stronzo! Ken!” lo redarguì il suo Capitano “non penso che neanche Wakabayashi sarebbe capace di tanto!”

“Che c'entra adesso Wakabayashi?!” ribattè esasperato. Era già abbastanza avvilito così, senza che il Capitano infierisse nominandogli il suo incubo.

“Niente, niente...” cercò di calmare le acque Hyuga, rendendosi conto di aver toccato un tasto dolente. “È solo il primo stronzo che mi è venuto in mente, niente.” Si passò una mano nei capelli ribelli, nervoso. Diede un'occhiata al bancone del bar: ma quanto ci stava mettendo a tornare Takeshi? Aveva bisogno di lui per uscire da quella chiacchierata sgradita.


Dopo il fattaccio nel dojo, Ken era mortificato.

Ma che fare? Mica poteva andare a inchinarsi e chiedere scusa, come aveva fatto con mister Mikami ai tempi dei loro dissapori. Magari fosse bastato così poco... si stava velocemente rendendo conto che i problemi interpersonali erano di gran lunga più complicati. Talmente tanto da pensare l'impensabile... rivolgersi al Capitano in cerca di consigli. Adesso che aveva una ragazza anche lui, magari...

Si rese conto solo in quel momento del suo livello di disperazione: chiedere consiglio a Hyuga su come chiedere scusa ad una ragazza.


Consigli di Hyuga.

Su come chiedere scusa.

Ad una ragazza.



Ragazza che neanche era la sua ragazza, tra l'altro.


Ed era tutta colpa di Nitta! Cazzo gli era saltato in testa di lasciarli da soli! Glielo aveva detto e ridetto! Mai lasciarmi da solo se arriva un'ammiratrice, MAI!


Razza di ingrato.


Takeshi fece la sua ricomparsa con due tè alla pesca e la solita coca cola per Kojiro. “Cosa mi sono perso?”

“Wakashimazu che dice ad una ragazza 'la pubertà raggiungerà anche te, un giorno'” sintetizzò l'attaccante.

“Ma... ma.. Wakashimazu! Quanta brutalità!” uno shockato Sawada non poteva credere alle sue orecchie. “Un'uscita del genere me la sarei aspettata dal Capitano, non da te!”

“Takeshi!” tuonò Kojiro, battendo con forza il pugno sul tavolino. “Cosa c'entro io adesso?!”

“No, niente...niente...” si difese debolmente il più giovane del trio.


Dov'è che l'aveva già sentita, questa conversazione? Lo sguardo furente di Kojiro incrociò per un istante quello del portiere, che a sua volta diresse il suo da un'altra parte, nel tentativo di nascondere un sorrisino.


Tié.


Anche Kojiro portò lo sguardo altrove, appoggiandosi pesantemente allo schienale della sedia e incrociando le braccia sul petto, seccato.

“Potresti provare a mandarle dei fiori, Wakashimazu” buttò lì senza troppa convinzione Sawada, più per distogliere l'attenzione del Capitano da sé che altro.

“No, Takeshi... peggiorerei solo la situazione. È proprio quello il punto: già l'ho offesa, non voglio anche illuderla...”.

“Senti... ma a te questa ragazza interessa? Perché se non è così stai solo perdendo tempo.” intervenne nuovamente Hyuga. “Fregatene.”

“Capitano, te l'ho detto: no, non mi interessa. È una ragazzina, una di quelle che mi seguono. Mi sono dato una regola: mai con una fan. È anche minorenne! Ma ho esagerato: volevo solo scoraggiarla, e invece ho finito per offenderla. Mi guardava come se fossi un idol o un cantante k-pop: eravamo nel dojo, da soli. Non sapevo come uscirne e ho detto una cazzata. Di questo mi dispiace. E no: non me ne frego.”


“Allora, punto primo: smettila di vantarti delle tue ammiratrici,” ribatté Hyuga appoggiando il gomito sul tavolino e agitando il pollice davanti al volto di Wakashimazu, “e punto secondo,” riprese alzando anche l'indice “se la cosa ti pesa tanto chiedile scusa e falla finita. Dì la verità, come la stai dicendo a noi.”

“E quale sarebbe? Che è troppo piccola? Che non mi interessa? Che non voglio relazioni con le mie ammiratrici?”

“Che sei un coglione” tagliò corto Kojiro, che già ne aveva abbastanza di tutta quella storia. Era stanco di fare lo Matsuyama della situazione.


Takeshi, dato il silenzio imbarazzato che era calato dopo l'ultima sparata del Capitano, si dileguò furtivamente in direzione del banco dei gelati.


“Wakashimazu...” riprese Hyuga dopo una breve pausa, voce bassa, seria: “io non sono uno stronzo come Wakabayashi, vero?”

Ken lo guardò come si guarda un cucciolo che ti fissa ad orecchie basse dopo aver distrutto mezza casa. Fece un grande sospiro, socchiudendo gli occhi e lasciando cadere le spalle. “Devo andare” disse solamente, prima di alzarsi dal tavolo e dirigersi verso il dojo, lasciando un attaccante piuttosto perplesso dietro di sé.



***


Il Capitano, come avrebbe anche potuto immaginarsi, non era stato di nessun aiuto: alla fin fine avrebbe dovuto fare i conti da solo: come sempre.


Devi colpire alle spalle tuo padre e dirgli che per il calcio è più importante del karate?


Da solo.


Devi farti valere con Mikami per il posto di portiere titolare della nazionale?


Da solo.


Debuttare in Europa con la nazionale senza aver ricevuto davvero una preparazione atletica e tattica adeguata, spaccarsi la mano pur di parare un rigore per salvare partita e orgoglio. Tornare a casa a leccarsi le ferite.


Da solo.


Forse, si disse, questa situazione non era poi così diversa dal dover parare un rigore. E farsi male, e dover poi aggiustare ciò che si era rotto.


Da solo, s'intende.



***


L'opportunità di porgere le proprie scuse arrivò prima di quanto pensasse: come immaginava, al suo arrivo al dojo di famiglia c'erano ancora gli allievi che stavano ultimando la lezione. Fece il giro lungo per entrare senza farsi vedere, evitando di disturbare l'esecuzione degli esercizi, ma i suoi occhi dardeggiavano a destra e sinistra, in cerca della ragazzina della settimana precedente.


Eccola lì: in terza fila, i movimenti maldestri e scoordinati di chi ha appena iniziato a praticare quella disciplina. Suo malgrado sorrise: gli vennero in mente le sue prime lezioni, le sue titubanze, i suoi sbagli, l'impegno e la dedizione verso una tradizione di famiglia. Poi, il calcio che subentra al karate, la gamba rotta, la delusione del padre nell'apprendere che lui voleva seguire una strada diversa...


A lezione terminata, i ragazzi salutano e si apprestano a raggiungere gli spogliatoi.


Sono diventato anche uno stalker, adesso, si disse mentre la teneva d'occhio di nascosto.

Hey”, esordì poco originalmente per attirare la sua attenzione, una volta che tutti gli altri allievi avevano sgombrato il corridoio. La vide bloccarsi sui suoi passi ed irrigidirsi, senza voltarsi. A Ken si strinse il cuore. Ha ragione il Capitano: sono stato proprio uno stronzo.

Senti, io...” tentò, ma la ragazzina riprese la sua marcia verso l'uscita. “No, aspetta!” e si slanciò in avanti per afferrarle il polso.

Aprì la bocca e prese fiato per dire qualcosa, ma, come pochi giorni prima, non uscì nulla di intelligente.

Dammi il tempo di spiegarmi, io non...” io non sono uno stronzo-io non sono come Wakabayashi-io non me ne frego-io non volevo-io non...Tu NON che cosa, Ken? Come pensava di continuare?


Ken era abbastanza impreparato ad affrontare quella situazione, ma era ancora meno preparato a vedere una ragazza piangere.


Per colpa sua.


Ma quando lei si girò, per guardarlo negli occhi nonostante le lacrime, qualcosa scattò.


Rispetto.


Quella ragazza, sedici anni da poco compiuti, aveva più coraggio di lui, per riuscire a guardarlo dritto in faccia nonostante l'umiliazione subita, per riuscire a guardarlo con gli occhi umidi ma decisi, privi della vergogna che invece abitava nei suoi.

Le parole che fino a poco prima si strozzavano nella gola, furono sciolte dall'intensità di quello sguardo.

Io non riesco a perdonarmi di averti trattata in quel modo. Mi dispiace, sono stato insensibile e stupido, non penso una parola di quello che ho detto la scorsa settimana. Tu...” prese una pausa per riprendere fiato e allentare la tensione “tu... tu non sembri affatto una ragazzina di dodici anni, tu sembri esattamente quello che sei: una giovane donna che ha dato una lezione ad un'idiota. Il bambino fra noi due stato io.” Fece un passo indietro: “Spero vorrai accettare le mie scuse e darmi la possibilità di dimostrarti che sono meglio di come mi sono presentato”, concluse con un inchino.


***


Ken Wakashimazu non era come se lo era immaginato, era meglio.


Mentre rimetteva a posto la sua bacheca, riattaccando e ri-incollando foto e articoli.

Le aveva chiesto scusa, si era inchinato davanti a lei. Come l'aveva chiamata? Ah, sì: giovane donna.

D'altra parte, tutti possono sbagliare nella vita, ma se sbagliare era un difetto di molti, chiedere scusa era un pregio di pochi: ed era certamente un pregio del suo angelo dai capelli corvini.


Bacheca ripristinata, sorellina? Tutto perdonato?”

Sì, fratellone: perdonare non cambia il passato, ma cambia il futuro!”


Porca miseria, sua sorella stava crescendo fin troppo in fretta.

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