una vita

di An13Uta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** infanzia ***
Capitolo 2: *** adolescenza ***
Capitolo 3: *** età adulta ***
Capitolo 4: *** vecchiaia ***
Capitolo 5: *** icho bioy Oitesch, inye merbe galìs avit vultu ila mie pahm ***



Capitolo 1
*** infanzia ***


Infanzia.




Quando irruppe correndo e urlando nei boschi così lontani dal regno di polvere e dura roccia su cui il mondo lo aveva abbandonato, la fumosa maledizione ingorda aggrovigliata alla sua caviglia mollò la presa.


Non se ne accorse, come non si accorse del terreno ormai soffice che gli passava sotto i piedi, che gli passava sotto la pancia, contro il quale sbatteva il mento cadendo rovinosamente, contro il quale sbucciava e scorticava le braccia e le gambe nel tentativo di trascinarsi lontano, ancora più lontano. Il ricordo di occhi grandi dai colori cangianti che lo fissavano così profondamente da strappargli l'anima lo accecava, e come un sonnambulo in preda ad un incubo primordiale scappava, scappava, scappava, senza mai fermarsi, anelando ad una via di fuga irraggiungibile in una prospettiva senza fine.


Le sue mani ancora cieche si graffiarono contro il legno di un tronco cavo all'interno del quale si era trascinato per sbaglio. Cercò di scavarvi attraverso invano, credendolo una parete di terra ruvida, finché i muscoli stremati dopo tanto raspare si rifiutarono di collaborare oltre, e finì per accartocciarsi su sé stesso, tremante di spasmi.

La bocca bloccata in un grido non aveva più una voce con cui urlare. Dovette far forza sulla mandibola per chiuderla: il secco clack di dente contro dente rimbombò tra le piante.


Per un momento senza limiti si sentì così infinitamente piccolo.


Sputò qualcosa, un suono, dalle fauci serrate. Si contorse dolorante con ogni colpo che usciva dai suoi polmoni.

Singhiozzava.

Non riusciva a ricordare l'ultima volta che si fosse messo a piangere.


Le lacrime bruciavano come acido sulla pelle.


Rimase acciambellato nel cadavere cavo e abbandonato di un albero per quelli che gli parvero anni, tremante, scosso violentemente dai suoi singulti irregolari, con gli occhi chiusi stretti, strettissimi, come se volesse schiacciarli sotto la pressione delle palpebre.

Poi, all'orecchio gli arrivò un suono sottile, una specie di tintinnio; vicino alla guancia sentì un cerchio di tepore.


Aprì gli occhi. Una sfera violacea sostenuta in aria da due paia di ali volò via.


Non aveva mai visto una fata prima.


Si fissarono a vicenda a lungo, cauti e tremolanti. Un'altra fata, gialla, gialla, gialla come il sole di mezzogiorno, spinse di nuovo la prima verso di lui. La luce scura bordata di rosso gli venne incontro con molta cautela; dopo un momento ancora di stallo allungò la mano graffiata, sanguinante, tremante, e accolse la tiepida sfera nel suo palmo martoriato.

La fissò accoccolarsi tra le sue dita ossute insieme alla sorella luminosa.


Erano calde.

Così calde.

E così morbide.


Le strinse al petto.


Erano così morbide.


Piano, molto piano, si mise a piovere; e Oitesch, che non aveva che due fate al mondo, sprofondò in un sonno senza sogni tremando ancora un poco in quel tronco cavo nelle profondità di una foresta maledetta.


 

-


 

Ci volle un poco, prima che abbandonasse il riparo del tronco caduto.


I primi passi scalzi verso l'ignoto non erano durati che pochi metri, quanto bastava per arraffare un poco di cibo – qualche fungo, alcune bacche. Aveva lo stomaco abbastanza atrofizzato da non necessitare molto di più.


Tatl, splendente più del sole, aveva sopportato la sua cautela una, due, sette volte: poi gli aveva preso il polso spigoloso e lo aveva trascinato fuori, aiutata goffamente dal suo ombroso fratello, e scalpicciando a fatica dietro a lei e Tael si era ritrovato a vagare nelle infinite viscere di una creatura vegetale più grande di quanto potesse comprendere.


Per lui che veniva dalla desolazione assoluta del canyon, i boschi furono come scoprire la luce del sole dopo una vita incatenata nel fondo del pozzo.


Scoprì l'acqua. Scoprì piogge e acquazzoni e ruscelli che si prosciugano nel caldo, e laghi e fonti tiepide e fiumi in cui nuotare senza essere uccisi dalla corrente feroce. Scoprì falde acquifere in un momento di pazza intrepidità, quando si infilò in un buco per vedere dove andava.

Scoprì le radici, la corteccia, le strade nascoste dei rami, il legno – quello vero, forte e spesso, con cui nascevano gli strumenti canterini che non aveva mai avuto e di cui all'improvviso sentiva un bisogno primordiale, spinto, forse, dalla loquacità silvestre attorno a lui.


Non vi era un momento in cui una qualche voce non si facesse spazio nell'aria senza vento, non vi era un ciuffo d'erba che crescesse in silenzio; tutto fremeva dal desiderio di parlare, di testimoniare la propria vita, di esistere attraverso bisbigli senza prospettiva, lontani e vicini allo stesso tempo.


A volte cantavano.


Presto prese a cantare anche lui.


Dopo innumerevoli catorci di flauti, prese ad accompagnarli suonando.


Forse gli alberi lo sentirono, forse lo presero sotto la loro unanime ala frondosa; forse solo percepirono le due fate che gli aleggiavano intorno da quel giorno fatidico; fatto sta che non si perse mai, e non diventò mai parte di essi.


Visse tra i loro alti corpi, nella loro atmosfera dalle tinte smeraldine, esplorando affranti che nessuno se non i bimbi perduti avevano mai visto prima; ma la sua pelle non divenne corteccia, e non perse mai il ricordo degli occhi cangianti intrappolati nella torre che si protendeva al cielo – anche se si attenuò con la distanza, con la mancanza della voce senza suono a chiamarlo insistente, scivolando in turbinii di incubi confusi che si dissipavano come nebbia leggera al suo risveglio.


Nei boschi imparò a sorridere. Sorrideva male, tutto storto, tutto accartocciato, tutto tremante, battendo i denti; ma nessuno glielo avrebbe potuto rimproverare, perché non aveva mai sorriso prima.

Nei boschi imparò a parlare, a capire le parole. E sobbalzava ad ogni sillaba, e si agitava ad ogni frase; ma comprendeva tutto quello che diceva, inclusa la maledizione che gli avevano messo in bocca appena nato.

Nei boschi scoprì che c'era qualcuno.


Credette fosse un'altra fata, per un momento. Ce n'erano tante.


Poi notò gli occhi.


Si irrigidì all'istante come si era irrigidito davanti alla volpe dalle fattezze umane. Dall'alto del suo ceppo indurì le dita come artigli e inarcò la schiena tremante, occhi spalancati: la criniera rossiccia fremette come le foglie dei boschi davanti alla presenza di un intruso.


Il bambino si bloccò a sua volta, impaurito.


Aveva occhi chiari come non ne aveva mai visti.

Chiari e brillanti.

Li fissava, e le ossa gli tremavano quasi stessero per scappargli dalla pelle.


Erano occhi blu.


Erano occhi blu, blu, blu.


Blu come non ne aveva mai visti.


Per un momento, guardando fisso quelle iridi, non si accorse che stava suonando per lui.

Faceva un suono buffo, il suo flauto – e aveva una forma tanto strana! Ma la melodia, la melodia... Suonava la canzone dei boschi, e con lui le fronde mormoravano il loro inno senza voce.


Scese piano, ancora tremante, dal suo alto ceppo tagliato, continuando a guardare fisso in quegli occhi blu, blu, blu. Forse gli si avvicinò troppo con il suo passo claudicante, forse non era bene che i loro nasi quasi si toccassero così: ma non lo sapeva, non lo poteva sapere, e non gliene sarebbe potuto importare di meno quando aprì le sue labbra scure e rotte e segnate in un sorriso largo, estatico, e lo guardò negli occhi impossibili a lungo senza dir nulla, scosso da brividi la fonte dei quali non riusciva ad identificare.


Il bambino lo fissò in quelle sue iridi d'arancia che non parevano vere.


Gli sorrise piano, con la sua bocca rosa e timida e rotta dalle mille cadute dai rami degli alberi.


Sentì il cuore saltargli in gola.


Gli piantò in mano un gioiello, un tesoro di fondo di bottiglia che aveva trovato sperduto tra le felci e l'edera; fece in modo che i suoi palmi ancora lisci vi si stringessero attorno.

Aprì la bocca: non riuscì a farne uscir alcuna parola.


Rise solo la sua risata storta e spasmodica, accartocciandosi come una marionetta il cui burattinaio è attraversato da un brivido, e poi corse via come colto da un'invincibile imbarazzo, dalla voglia di far guai, sparendo tra le fronde, Oitesch che al mondo non aveva che due fate e il pensiero di un bambino dagli occhi blu, blu, blu.


 

-



Quei begli occhi blu tornarono, e tornarono, e tornarono.
 

Tornarono sempre e più volte, a giocare, a saltare nei fiumi, anche solo a salutarlo – la loro vista era motivo di feste e celebrazioni pazze e scatenate, di salti e risa stridule, di musiche suonate da un flauto fatto male.

Suonava con lui e lo guardava, divertito, lo guardava dimenarsi pazzamente per l'euforia di aver puntato su di sé quel bel sorriso rosa e pallido.


Ogni volta che tornava faceva in modo di avere qualcosa, qualsiasi cosa da dargli. Per ringraziarlo della sua presenza, della sua esistenza, lo ricopriva come poteva di doni e pensieri tale e quale ad un cavalier cortese che omaggi una fanciulla – a volte cibo, bacche, funghi; a volte tesori luccicanti, pietruzze attraverso cui passava il Sole, piccole cose senza più padrone; una volta gli portò fiori, e vide la sua espressione colorarsi in un modo tanto strano che gli fece vibrare le costole di piacere.


Non riuscivano a parlarsi, per quanto tentassero. Aprivano la bocca, ma non ne usciva che aria e qualche suono sparuto che doveva essere una risata: per loro dialogavano tintinnando tra di loro le tre fate.


Solo lui rideva: quei begli occhi blu non sembravano saper fare alcun suono.


Andava bene.

Andava bene.

Avrebbe riso per tutti e due, e sarebbe andato bene.


Quei begli occhi blu tornarono, un giorno, tornarono a mani piene, con un sorriso grande, grande, grande.


Che tesori hai trovato per noi tre?, i polmoni gli spinsero nella gola.

Che cosa ci hai portato oggi per giocare?, la gola gli spinse contro i denti.


Fece un suono emozionato che non rassomigliava per nulla a delle parole.


Il bambino sorrise con il suo bel sorriso pallido e alzò i palmi.

Fissò dall'alto del suo ceppo il viso cavo d'osso di corteccia, con le sue corna ricurve, con i suoi denti malmessi; fissò la faccia una volta offertagli dalla volpe in fattezze umane, la faccia che il tempo, il fato, aveva riesumato dai disegni della sua pelle morta perché destinato a lui, a lui, solo a lui, e al suo destino non poteva sottrarsi.

Si calò fremente e claudicò fino a quei begli occhi blu. Da quelle mani pallide, avvezze già a tenere spade e graffiarsi contro mostri, prese tremando appena il suo nuovo vero volto.


Lo tenne; lo soppesò tra le mani. Fulmineo, nella sua mente, si chiese perché non l'avesse afferrato la prima volta che lo aveva visto.

Lo pose sul suo viso.


Non sentì nulla.

Solo il legno contro la pelle.


Piegò la testa a destra, poi a sinistra. La scosse forte, sbattendo i denti per simulare il fracasso di ossa che sbattono l'una contro l'altra.


Il bambino rise.


Rise!


Ed era un suono bellissimo, bellissimo, bellissimo, e prese ad agitarsi tutto come uno scheletro rianimato in vena di marachelle, e lui rise, rise, rise! Rise e rise e rise e sentì che era per quella risata che era nato, era per quella risata che era in vita, lo sentiva nelle ossa mentre gli fremevano forte, fortissimo contro la parete di carne!


Si agitò e batté i denti più forte che poté, per farlo ridere ancora, e lo rincorse tutt'attorno la loro piccola radura mentre le tre fate faticavano per star loro dietro e quella voce pallida e rosa e blu e gialla saltellava allegra, allegra, allegra, a causa sua – sua! Gli si stagliò davanti con fare maligno e decrepito, imitando uno Stalfosso assetato di violenza, e dopo uno scambio di finte gli saltò contro nel momento in cui anche lui gli veniva addosso. Si scontrarono e caderono a terra come fantocci lanciati l'uno contro l'altro, e fecero finta di azzuffarsi, rotolandosi come pazzi nel terriccio finché le loro tuniche non furono lerce quasi da far paura, e ancora quella voce, quella bella voce rideva! Rideva! Rideva! Si aggrappò alle spalle coperte di verde e strinse, strinse, strinse, grato, così grato, così grato di poter esistere vicino a quei begli occhi blu, a quel bambino rosa e giallo e verde.


Braccia pallide lo strinsero di rimando, e sentì il sangue come lava nelle vene.


Le fate tintinnarono. Sembrava ridessero.

Ringraziò la sua gentilezza con una gemma blu, blu, blu, che pure non valeva abbastanza per esprimere le parole che non gli uscivano dalla bocca.


Il bambino lo strinse ancora.

Lo rinchiuse tra le sue braccia ossute senza pensare. Si tennero per un istante, un istante ancora; e poi quei begli occhi blu se ne andarono, sparirono, con il bel viso pallido su cui li aveva visti, con il bambino a cui appartenevano che gli sorrideva sotto il tintinnio azzurro della sua fata.


Fissò la sua dipartita fino a che i boschi non lo inghiottirono completamente. Poi Oitesch, che al mondo non aveva che tre amici e un nuovo viso, scappò via di nuovo nelle budella della foresta alla ricerca di un tesoro, un tesoro degno di quel regalo così bello.


 

-



Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Passò del tempo. Quanto tempo? Non lo sapeva. Nei boschi non c'era tempo.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Non aveva trovato quel tesoro. Quel tesoro degno. Ne aveva trovati altri, però, altri più piccoli, ma sempre tesori. Non andavano bene? Non sarebbero bastati?


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Qualcosa cercava di entrare. Qualcosa cercava di entrare nella foresta e piegarla. Gli alberi danzavano intorno ai mostri finché non si consumavano. Rubò loro le spade per difendersi. Nel puro caso lo trovassero. Lo trovarono.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Crebbe senza accorgersene. Crebbe come un alberello decrepito, storto. Si ingobbì, le gambe si arcuarono, le braccia si coprirono di cicatrici. La pelle si tese sulle ossa. I capelli si aggrovigliarono. Non riusciva a smettere di tremare. Per quanto Tatl e Tael lo scaldassero, non riusciva a smettere di tremare.


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Gli era successo qualcosa? Era morto? Lo aveva abbandonato? Non poteva averlo abbandonato. Era morto? Aveva fatto qualcosa di male? Qualcosa che non doveva fare? Lo aveva abbandonato? Non poteva averlo abbandonato. Perché non tornava? Stava bene? Era morto? Quanto tempo era passato? Perché non tornava? Perché? Era morto? Morto?


Non tornava.

Non tornava.

Non tornava.


Non tornava, e forse, morto o arrabbiato o annoiato dalla sua presenza, non sarebbe mai tornato; e Oitesch, che al mondo non aveva che due fate ed un viso fasullo a cui aggrapparsi, aspettò paralizzato in un orrendo terrore agonizzante per sette anni bui, incapace di fermare il tremore impazzito che dominava ogni secondo della sua vita, annaspando anche solo per respirare, tormentato da incubi vividi di occhi non blu, ma cangianti, antichi, crudeli.



N.A. speriamo riesca a finirla questa qui

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Capitolo 2
*** adolescenza ***


adolescenza




I boschi erano rimasti gli stessi.

Non esisteva dentro di essi né luogo né tempo. Il mondo attorno al loro immenso corpo poteva mutare radicalmente, soffrire fino all'agonia, morire per poi nascere ancora, ancora, ancora, ma non sarebbe mai riuscito a permearli; e così rimasero identici, intoccabili, come uova d'insetto imprigionate nell'ambra, fremendo nell'aria immobile più per gioco che per terrore con il suono di scheletri gettati tra le ossa scricchiolanti d'una fossa comune.
 

Attorno a loro vigeva un silenzio assordante.
 

Quelle verdi vesti potevano aspettarsi quel mostro mai visto, quella bestia improvvisa, in quell'inquietante quiete?

Potevano aspettarsi che quel corpo infantile mal cresciuto, quella marionetta urlante piombasse loro addosso, vecchie lame arrugginite strette nelle nocche graffiate e fuochi fatui attaccati con apprensione ai suoi calcagni mal sagomati, scuotendosi violentemente con un baccano infernale mentre menava colpi mezzi ciechi nella speranza di non venire uccisa, senza alcuna pelle a coprire l'osso del suo teschio cornuto e scoperto?

Potevano aspettarsi di vedere, quando respinsero a terra con un colpo di scudo quella voce stridula, rotta come quella di un bambino dopo ore di grida in preda all'orrore, quegli occhi tondi e arancioni e spalancati che si fissarono su di loro per un momento infinito, infinito, infinito, mentre la bocca ossuta e magra di bestia rantolava in cerca d'aria tra i tintinnii di una fata azzurra che riconosceva le luci di due sue consanguinee?
 

Lo fissò scosso da brividi invincibili, in quelle verdi vesti, con quella spada d'argento, con quella maschera rosa.
 

Sei tu.
 

Se avessero avuto riflessi più pronti, le verdi vesti lo avrebbero mandato a morire contro la punta della loro spada sguainata appena avesse fatto il gesto di gettarsi contro di esse.


Ma quei begli occhi blu lo stavano ancora riconoscendo, e rimandando la sua morte lo videro aggrapparsi a loro, al corpo che a loro apparteneva, e stringerlo con una smania ossessiva tra le braccia martoriate, trafiggendolo quasi con le unghie rotte, e intanto urlava, urlava ancora, come un pellegrino arrivato finalmente all'oasi del suo culto, e le gambe gli tremarono tanto che per poco non si spezzarono sotto quel nonnulla del suo peso facendolo scivolare a terra, ancora aggrappato a quelle verdi vesti, ululando con tutto il fiato che aveva in corpo Sei tu, Sei tu, Sei tu, come se il mondo intero si fosse sollevato dalla sua schiena alla sua vista – e scellerato, per poco, per poco! Per poco li stava per uccidere! Per poco stava per ammazzare quei begli occhi blu, blu, blu che infestavano i suoi incubi!


E le braccia rosa e pallide lo strinsero di rimando con un sussulto, come se si fossero appena svegliate, e strinsero forte, forte, forte, finché non riuscirono a fargli schioccare sorda la schiena contro il loro petto.

Il bambino blu e rosa e giallo e verde si accasciò a terra insieme a lui e lo strinse, lo strinse con la stessa disperazione con cui veniva stretto.

Sopra le loro teste veniva il furioso tintinnio sollevato delle tre fate, aggrovigliate l'una con l'altra in acrobazie aeree.
 

Sei tu, gridava ancora, e lo teneva quasi potesse sparire di nuovo, Sei tu.


I tesori, i tesori! I regali per la sua faccia! I regali che gli spettavano!

Senza mai interrompere il loro abbraccio frugò tra le ossa sporgenti della sua persona e prese a riversare tutto quello che aveva conservato per quei begli occhi blu sulle verdi vesti, e tentava di parlare, di indicarglieli, ma tutto quello che usciva dalla sua bocca era solo Sei tu, Sei tu! Sei tu!


Quelle braccia rosa e pallide lo strinsero più forte, come per fermare il suo infinito tremolio.

Sentì quei begli occhi blu, blu, blu gocciolargli sulla spalla.


Per un momento lo rese immobile.


Strinse di nuovo attorno a quelle verdi vesti le sue magre braccia Oitesch, che al mondo non aveva che due fate, una maschera a proteggerlo dagli incubi e due begli occhi blu che gli singhiozzavano sulla spalla, e così rimasero silenziosi nei boschi, acciambellati l'uno sull'altro.


 

-



La memoria gli era stata invasa e rosa dalle tarme.
 

Forse era colpa degli incubi. Gli incubi lo facevano guaire e agitare, gli facevano arcuare la schiena e schiumare come fosse vittima della rabbia. Forse gli incubi erano andati a divorare i suoi ricordi ora che non c'era più carne sulle ossa da sfaldare.

I luoghi si mischiavano nella sua mente, fluidi e incostanti e senza significato. Non riusciva nemmeno a distinguere gli interni dall'esterno.


La cosa che li univa tutti, tutti, dentro o fuori che fossero, erano quei begli occhi blu del ragazzo rosa e giallo dalle verdi vesti, e l'altro.

 

L'altro era rosso, blu, e bendato.
 

La prima volta che lo aveva visto gli aveva soffiato contro come un'orribile creatura, e si erano preparati a sgozzarsi a vicenda in quella radura, bloccati soltanto dal corpo pallido postosi in tempo tra di loro. L'occhio rosso lo aveva fissato con vago disgusto.

Non era la sua battaglia. Non doveva interferire.


Ma gli Dei non si curano dell'esistenza di chi non gli appartiene! Non avrebbero notato nulla, nulla, nulla, se fosse venuto con loro – nulla. Sarebbe stato un fantoccio, un doppio, un manichino, sarebbe servito come carne da cannone, sarebbe stato uno scudo umano.

 

Morirò per lui, aveva detto con un fervore improvviso, infilando le unghie nella carne pallida, possessivo fino alla pazzia: Morirò per lui, morirò io per lui, per lui. Se serve morirò io per lui.



Non ricordava cosa l'occhio rosso avesse risposto.



Il secondo ricordo dell'altro, tra i primi che gli venivano in mente, cominciava in mezzo ad acque torbide solcate da correnti che gli evocavano le rapide che avevano morso il loro letto attraverso una polverosa gola deserta.

Ricordava sfumature lontane, strappate, di rosso e blu e bende bianchicce, verso cui si era trascinato fino ad afferrare quei colori scomposti nelle sue brutte mani, e di averli tirati pazzamente con i polmoni sul punto di collassare tra le fiamme fuori dalla superficie liquida per gettarli su terreno solido. Aveva creduto, per un momento, che l'occhio rosso fosse sceso tra le bende ormai strappate in cui si scomponeva il petto, e che stesse colando in ogni direzione attraverso la stoffa bluastra della sua tunica.

 

Agguantò quel corpo tanto ammirato dai begli occhi blu, blu, blu con i suoi artigli scheletrici, e una mano dalle falangi fasciate lo colpì per gettarlo quanto più lontano possibile. Accettò il colpo; poi schiantò la testa bendata a terra, con una malizia quasi sanguinaria, bestiale, stordendola abbastanza da poter stringere il fiumiciattolo scarlatto in bendaggi che impedissero alla sua sorgente di espanderlo.

 

Non rispose al calcio contro il torace che lo mandò a stramazzare a terra.

Tael e Tatl accorsero tintinnando preoccupati, sorvolando il suo brutto viso: le luci soffuse (gialla, gialla, gialla, e porpora, porpora, porpora) gli balenarono davanti alle pupille come in una danza ipnotica.

 

L'occhio rosso lo guardò con odio malcelato mentre riprendeva fiato, senza pur dire una singola parola, ansimando a sua volta.

La sua bocca scarna fece un suono rauco in direzione delle bende.

 

Come fossi l'unico, gli sputò contro tra spasmi e tremori.

 

L'occhio rosso gli fissò il petto scivolatogli fuori dalla casacca. Sentiva il suo sguardo tentare di bucargli la pelle mentre cercava di comprendere appieno quello che vedeva, come se riuscendo ad aprire quel poco di carne sulle costole e svuotarlo avrebbe capito.

 

Non è comune. Era scosso da brividi brevi, molto meno intensi dei suoi. Non è comune. Non è comune che un uomo abbia un seno.


Cazzate.


Tatl gli colpì la tempia, adirata. Tael scampanellò al suo fianco.


Inarcò la testa: Cazzate, ripeté, scandendo bene le sillabe, arrotando le erre, come a far loro un dispetto: Cazzate, frottole e fesserie.


L'occhio rosso non disse nulla. Strinse a sé il suo, di seno, senza distogliere lo sguardo da quello sul corpo scheletrico.

 

Rise. Non sapeva perché. Forse gli sembrava che fosse tornato tutto a posto, mentre le fate lo riprendevano. Forse aveva pensato a qualcosa, qualcosa, qualcosa che non ricordava più, o forse era solo stato preso da una voglia improvvisa e incomprensibile; e rise con il suono orribile della sua risata contorcendosi agonizzante di fianco all'occhio rosso.

Quando si voltò per fissare quella pupilla nascosta tra le bende con le sue iridi d'ambra annebbiate dalle termiti del tempo, ridendo ancora, la bocca appena aperta con il buco di un dente perduto per sempre e i capelli rossi lisciati e sputati sulla sua faccia come i tentacoli di un mostro marino moribondo, l'altro gli piacque terribilmente.

 

L'occhio rosso, rosso, rosso lo guardò con espressione indecifrabile mentre la sua grottesca risata andava assottigliandosi sempre di più, senza fermarsi. Quell'ultimo momento chiaro del suo ricordo finiva in quel modo: Oitesch, che non aveva che due fate, una risata lugubre ed una maschera altrettanto grottesca al mondo, sdraiato e tremante affianco all'altro, aspettando con quell'occhio rosso, rosso, rosso il ritorno dei begli occhi blu per cui entrambi non avrebbero esitato a morire.


 

-



Dov'era andato, poi, quell'occhio rosso, rosso, rosso?

Dov'era finito, dov'era sparito?

Dietro una nube accecante; ma quando spariva dietro ad esse ritornava, ritornava sempre, con la sua arpa e le sue bende e il suo occhio rosso, rosso, rosso che aveva imparato a farsi piacere come piaceva a quei begli occhi blu, blu, blu, per poter appoggiare la testa su quella gamba blu fasciata stretta, sdraiato su verdi vesti, e tremarvi contro ridendo male come rideva lui in quei tanto rari momenti in cui erano loro tre tutti insieme, tutti insieme, e le fate dormivano vicine l'una alle altre, e quei suoi incubi di cui non riusciva a ricordarsi emergevano pigri e sparivano dal suo sonno come le teste di grossi coccodrilli troppo sazi per cercar di mordere.
 

Dov'era andato, quell'occhio rosso, rosso, rosso?

Dov'era andato?

E quei begli occhi blu, blu, blu – dov'erano? Dov'erano? Dov'erano?

Non ricordava, non ricordava. Non ricordava. Dov'erano? Non ricordava. Non ricordava dov'erano, dov'erano, dov'erano – non ricordava.

 

Non riusciva a ricordare, a pensare, occhi cangianti rubavano il suo sonno, rubavano i suoi occhi il suo corpo braccia gambe collo stomaco pensiero, occhi cangianti blu e rossi e arancio e viola e blu e rossi e giallo e porpora e giallo e porpora e giallo e porpora e arancio e viola e blu e rossi, dov'erano quegli occhi blu blu blu dov'erano non ricordava dov'erano dov'erano non lo potevano avere abbandonato dov'erano? Dov'erano? Dov'erano? Tael e Tatl dov'erano? Dov'erano? Quando aveva perso le loro luci? Quando si erano spenti e dove? Dov'erano? Dov'erano? E quell'occhio rosso rosso rosso e quei begli occhi blu blu blu e quelle luci gialla gialla gialla e porpora porpora porpora e azzurra azzurra azzurra dov'erano? Dov'erano? Dov'erano? Non ricordava non ricordava non ricordava non ricordava, cosa ricordava, cosa, cosa? Cavallo, cavallo e capelli rossi lisci e spettri lanterne cavaliere senza corpo senza pelle cavallo fantasma TAM TAM TAM mani che battono tamburi occhio senza testa senza testa fuoco brucia brucia brucia morte ruggiti scaglie di fuoco di fuoco di fuoco lacrime blu blu blu fuoco ghiaccio fuoco ghiaccio due poi una due poi una urla risate urla stridule di vecchie vecchie vecchie tentacoli d'acqua doppio d'ombra fuori fuori fuori strappa il cuore blu e rosso blu e rosso strappa musica d'organo d'organo un cristallo una figura occhi d'oro oro oro oro oro oro oro oro oro SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE MORIRÒ PER LUI MORIRÒ PER LUI SE NECESSARIO MORIRÒ IO PER LUI PIUTTOSTO CHE LUI MORIRÒ IO PER LUI Dev'essere così che ci si sente a morire fuori fuori fuori fuori fuori no! no! no! no! per lui per lui per lui sangue sangue sangue per lui per lui per lui il castello cade per lui per lui cade cade cade il castello cade per lui per lui per lui cade cade cade il castello... il castello... il castello... il castello...

 

Il castello era a pezzi? Eppure era lì, era lì, sotto le sue mani, sotto le sue mani.
 

Come era arrivato lì? Perché era andato lì? Non ricordava il tragitto, il flusso del suo pensiero. Vagò tra le stanze i corridoi le sale tremando come un cadavere non ancora colpito dal rigor mortis, come un sonnambulo senza meta.
 

Quegli occhi erano blu. Non erano blu, blu, blu.
 

La conosceva? Quella persona? Con quella pelle e quel viso? Quei capelli, quel movimento del braccio della mano a toccare un seno a proteggerlo ad accarezzare un qualche taglio su di esso? Gli parlò con una voce mentre gli si avvicinava: l'aveva sentita prima? Quella faccia senza bende che gli veniva incontro la conosceva? Aveva una bocca: era inarcata in un sorriso? Lo tenne per una spalla e disse qualcosa, una parola sola: cosa gli aveva detto? L'aveva sentita? Lo aveva chiamato? Lo conosceva?

 

Dov'è?
 

La sua voce era flebile quando glielo chiese.
 

Dov'è?
 

Quella persona gli tenne le braccia gli accarezzò la spalla mosse la bocca e gli occhi, e una voce lasciò il corpo. L'aveva sentita? Cosa aveva detto? Non ricordava, non ricordava, non ricordava.

Affondò le mani in un corpo nello spazio sotto ossa sotto le clavicole.
 

Dov'è? Gridò, gridò, gridò come un pazzo, Dov'è? E continuò a gridare, a gridare, a gridare tremando schiumando Dov'è? Dov'è? Qualcosa braccia metallo qualcosa lo strappò da quel corpo quella persona quella voce mentre gridava gridava gridava gridava gridava gridava gridava Dov'è? Dov'è? Dov'è?

 

Dov'era ora dov'era ora dov'era ora? Dov'era ora? Dov'era ora? Dov'era ora? Non lo sapeva non ricordava non capiva e urlava urlava urlava con guaiti ululati lamenti come un fantasma torturato per il resto dell'eternità e tremava tremava tremava tremava tanto che a malapena riusciva a muoversi schiumante digrignante claudicante ridotto a scheletro ombra spettro leggenda raccontata ai bambini per spaventarli per farli tremare nei loro letti per farli gridare quando sentivano lontano il ringhio lamentoso liquido venire dai boschi maledetti da cui non usciva mai nessuno nessuno nessuno signore nessuno esce da lì signore la prego faccia attenzione la prego nessuno esce da lì avevano detto a quell'uomo che conosceva quella bestia da anni ed anni addietro e che da quella bestia povera marionetta non era ricordato per nulla.


Una voce...

Una voce senza suono...

Senza bocca...


La sentì attraverso il canto flebile dei boschi.

La sentì.


La riconobbe? La riconobbe? Non lo sapeva. Non lo sapeva.


Echeggiò un suono orribile, sordo, un suono di legno contro ossa.


La volpe giacque a terra nelle sue vesti viola con il suo viso umano senza il suo pelo giallo giallo giallo giallo giallo giallo giallo giallo giallo e le sue dita orribili lunghe spezzate graffiate segnate si strinsero forte attorno a un viso ligneo dagli occhi cangianti troppo grandi troppo grandi troppo grandi che chiamava con la sua voce senza voce ridendo ridendo ridendo ridendo ridendo ridendo che protendeva la sua maledizione mortifera verso quel viso di carne ossa pelle senza più quel teschio quel teschio quel teschio che lo aveva protetto prima che la realtà gli incubi divenissero indistinguibili dagli incubi la realtà dov'era quel teschio dov'era quel teschio dov'era quel teschio doveva riaverlo doveva riaverlo doveva riaverlo unico cimelio rimasto di quegli occhi blu blu blu rossi gialli porpora viola verdi arancio cangianti cangianti cangianti e così grandi grandi grandi grandi grandi grandi grandi grandi grandi sempre più vicini più vicini più vicini e poi ci fu un grido agghiacciante.
 

Il corpo tremante si stabilizzò per poco: uno, due minuti. Poi, animata da un'anima mostruosa incomprensibile al mondo in cui si trovava, nei boschi risuonò piano una risata brutta e sommessa uscita dalla bocca di Oitesch, che non aveva più nessuno al mondo – nemmeno sé stesso.


 

-



La donna guardò il sangue che le usciva dal petto come se si fosse trovata fuori da quel corpo che doveva essere suo.

Lo guardò scivolare tra le sue dita. Era rosso. Rosso. Rosso.


Un singulto, un brivido – una risata la raggiunse.


Volse lo sguardo verso il corpo al suo fianco lentamente. Era stanca.


La bocca graffiata sputò ancora uno sghignazzo.

I palmi e i piedi trafitti da frecce di luce tremavano e si contorcevano come potevano in preda a spasmi terribili. Fissò il dardo che aveva tirato là, nel suo sterno color della cannella, tra i seni asportati per metà da orribili ferite; fissò quei seni che non erano comuni per un uomo.

La testa scura si inarcò con un tremolio, schiacciando i ricci color del tramonto. Quella brutta risata ne uscì ancora.


Chiuse gli occhi blu piano.

L'aria era umida.


Cazzate, disse quella voce stridula che non apparteneva ormai più al ragazzo paranoico che era quasi morto per l'eroe dalle verdi vesti.

Sghignazzò di nuovo, facendo un bello spettacolo della finestra buia tra denti bianchi, aguzzi, non suoi.


Lei non rispose. Tenendo il proprio seno sanguinante (una ferita vecchia, riaperta di proposito con malizia feroce) il pensiero le confluì al resto di quell'elisir scarlatto, quel nettare reale, già al sicuro sulle montagne. Non aveva intenzione di salvarsi con loro.


Cazzate, ripeté il burattinaio con irriverenza, con la stessa inflessione di allora, piegando e scuotendo il suo giocattolo: Cazzate, frottole e fesserie.


Caddero le prime gocce.

Lontano, in qualche altura desertica, il demone in forma d'uomo – se demone ancora era, ormai – rinvenuto per divertimento, per affrettare la fine del mondo, si sarebbe abbarbicato in una nuova fortezza. Non poteva fermarlo. Non ci sarebbe riuscita nemmeno se avesse avuto abbastanza tempo.


Era così stanca.


La mente nel corpo vuoto rise.


Le frecce sacre l'avrebbero assorbita e distrutta lentamente con il velo di ruggine che le avrebbe coperte attraverso il passare del tempo, mentre la inchiodavano laggiù, contro quello che sarebbe stato il letto ultimo del mondo; il vessillo di carne ed ossa del suo smodato appetito apocalittico sarebbe giaciuto e marcito sul fondo del mare, preda di pesci e granchi finché non ne sarebbe rimasto nulla, nulla, nulla.

Che efficienza.

Che modo pulito di rimuovere la sua presenza dal mondo.


Cazzate!


Rise forte, più forte. Il corpo sanguinante al suo fianco non si mosse.


E rise ancora, ancora, con gli occhi d'arancia puntati sulle nuvole divine, mentre la pioggia cominciava già a riempire i polmoni, la gola, la bocca aperta in quella brutta tremolante risata senza gioia che ancora faceva scuotere il corpo vacuo di Oitesch, che dopo aver perso ogni cosa al mondo non aveva avuto nemmeno la possibilità di rendersi conto di morire, mentre le prime lacrime di un nuovo oceano lo inghiottivano per sempre.

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Capitolo 3
*** età adulta ***


età adulta




Perché?

Perché una voce deve essere familiare?


Tutto ciò che conosceva ormai erano le grida dei bambini silvestri dalle vesti di smeraldo, vittime dei suoi scherzi, il tintinnio giallo e purpureo (e a volte azzurro) delle fate, i canti fruscianti dei boschi, e quella risata blu, blu, blu.


Perché?

Perché una voce deve portare memorie sopite?
 

Gli ricordava la Luna. Gli ricordava terra spaccata in crepe infinite, lunghe e interconnesse come fili di una ragnatela, del colore della sete e del Sole assassino. Gli ricordava parole accompagnate da colpi sulle ossa, urla indistinte che amalgamavano i giorni. Gli ricordava occhi da incubo.

 

Perché?

Perché una voce deve essere così, così...?


Bambolina, bambolina mia, bambolina mia, vieni, vieni! Vieni, bambolina mia, vieni, vieni!


Era dolce come il veleno della digitale purpurea.

 

Non riusciva a dormire.


Infinite dita lo sfioravano appena sulle braccia, aguzze, crudeli, lasciando segni rossi di sangue sulla pelle scura. Voltò la testa piano, come incantato, fissando le pupille vacue verso un punto indefinito del buio tra le piante. Si alzò ancora in trance nella confusione quieta e tintinnante delle due due fate e prese a camminare come se avesse una meta, tirato da quegli artigli che affondavano sempre di più nella sua carne.


La volpe aveva un pelo di stoffa viola e carne umana.

Sedeva con le zampe posteriori incrociate nella forma di gambe.

Aveva una gobba di pelle usurata, riempita da volti di legno fino a scoppiare.


Non ne vide gli occhi.


Il sangue sul ramo – sulla tempia che aveva colpito con una forza disperata che nessuno si sarebbe aspettato, spaventando persino gli alberi – era rosso scuro, senza riflessi. Odorava di vecchio.


Strappò la sua sacca come una belva incurante di tutto senza sentire più nulla come se i suoi sensi fossero stati completamente di strutti triturati ridotti in cenere e rovistò tra le delicate effigi di corteccia furiosamente impazzito matto ossessionato smanioso di ritrovare la voce le mani il viso gli occhi del suo incubo del suo culto del dio fasullo menzognero sfacciatamente disonesto che lo chiamava e che anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni e anni prima lo aveva designato non come profeta araldo ambasciatore avatar prescelto ma solo bambola giocattolo pedina marionetta burattino e sentiva quella voce quelle mani quelle iridi cangianti sempre più vicine più vicine più vicine finché non sentì il bruciore incomprensibile delle pupille come aghi incandescenti conficcati negli occhi pronti a strappargli la mente ed il dolore era incomprensibile incomprensibile incomprensibile fino a che il legno non gli aderì perfettamente al viso e urlò urlò urlò U R L O' e poi smise.


Bambolina, bambolina mia, bambolina, che corpicino piccolo, che corpicino piccolo! È troppo piccolo per me, bambolina mia, bambolina, è troppo piccolo per me, e così non va, bambolina mia, così non va!


Cos'era successo...?

Dopo, cos'era successo...?

Come sotto una coperta senz'aria, era rimasto inerte nello spirito. Mosso secondo i gusti del viso impresso sul suo, perse ogni pensiero.


Ogni desiderio della maschera fu fatto suo stesso; e come un bravo bambino, come un bravo nipote del sangue maledetto che per primo aveva risposto al richiamo mellifluo, affamato, egoista che cantava oltre la radiosa Luna costruendo in suo onore un tempio e per il suo potere un vessillo, Oitesch, che non aveva più nemmeno sé stesso al mondo, accettò il destino deciso per lui dal Tempo secoli prima, e come bambola di Chi Consuma Ogni Cosa dilagò una lenta, ingiusta, ingorda morte.


 

-



Potevano immaginare, quei begli occhi blu, che lo avrebbero rivisto così?


Che tornando bambini avrebbero rivisto ancora quell'orrendo corpo emaciato che avevano dovuto abbandonare al suo delirio in un futuro da evitare, bruciante ancora nella loro memoria di sangue (che sarebbe dovuto essere il loro) sgorgante a fiotti e lacrime disperate non perché sull'orlo della morte, ma perché due paia di mani stavano cercando di trascinarlo via da essa?


Che avrebbero rivisto l'ultimo caposaldo della loro quieta infanzia, l'ultimo rimasto loro al mondo, trasformato in una creatura allungata con la forza, mani artigliate strette attorno a due luci tintinnanti di terrore, striata di graffi aperti e lunghi lividi come serpenti avvinghiati a guance scavate e arti rattrappiti fatti crescere troppo in fretta per capriccio, con una bocca aperta in una risata a s s o r d a n t e ma non abbastanza da coprire i lamenti agonizzanti nella sua voce ancora di bambino?


Che avrebbero rivisto quel viso che lo aveva tanto amato, incorniciato ancora da un'aureola di rame tinta di rosso vermiglio, con quelle iridi d'ambra in cui balenavano maligni anelli di un verde tossico e soffocante, scuotersi in un'estasi dolorosa mentre rubava loro quel colore che nel futuro era stato il suo idolo, rimpiazzandolo con le iridi acquose dei cespugli deku?


Che lo avrebbero rivisto ancora, nel corso di tre interminabili giorni, spiritato e fuori di sé sulla cima della torre dell'orologio, sotto una Luna che avrebbe inghiottito il mondo in una palla di fuoco?


Che lo avrebbero rivisto ancora, tremante e contorto, come non avrebbero voluto rivederlo mai più?


Un brivido gli solcò la spina dorsale.

La testa gli si piegò.


Il cielo era...

Il cielo era...

La maschera gli disse che era rosso; e per lui rosso fu.


Qualcosa...

Qualcosa... Davanti a sé...

La maschera di disse che era nulla; e per lui nulla fu.


Il nulla lo guardò con occhi blu, blu, blu.


Se ti sembra qualcosa che tu possa fermare... Allora fermala!


La maschera gli alzò le braccia; sentì la pelle strapparsi in brandelli e gridò.

Più forte del suo grido, il nulla cantò con un suono blu, blu, blu.


Aprì gli occhi d'ambra contro il grigio scarlatto della Luna che si avvicinava sempre di più, un respiro strozzato bloccato in gola da un ricordo improvviso (un braccio dalla forma appena abbozzata che si alza dalla terra senza spaccarla, lo sfiora mentre corre verso la sua salvezza silvestre, e urla con la maledizione ancora attorno alla caviglia mentre una testa grande quando il mondo si erge sopra di lui per rinchiudere nuovamente il violaceo artificio nella sua prigione) e per un momento, un momento, uscì dalla maschera in un corpo martoriato sospeso sopra un mondo sull'orlo della fine.


Urlò.

Urlò con tutto il fiato ancora aggrappato alle sue magre ossa.


Non vide le mani che bloccarono la rovinosa caduta del satellite, né la caduta di Tael, né come Tatl si fosse schermita dietro verdi vesti, né l'orrore sul pallido viso sotto di lui.

La voce gli morì con uno strattone secco, e non sentì più il suo corpo – solo uno sciame di formiche carnivore che andavano erodendo le sue carni. La voce rimbombò nell'interno del suo cranio illuminato da iridi cangianti come una sentenza mortifera.


Un burattino che non ha più alcun uso non è che spazzatura.


Cadde.

Un colpo sordo risuonò tra la sua schiena e le sue costole svuotate come una bomba, togliendogli anche quella poca aria che aveva testardamente cercato di rimanere aggrovigliata alle viscere ormai vuote. Qualcosa di soffice, graffiato, pallido lo sollevò dal nulla e lo guardò con occhi terrorizzati – blu, blu, blu, occhi blu, blu, blu.


Il colore si espanse piano, piano, piano.


Dev'essere così che ci si sente, a morire.


E Oitesch, che al mondo (e come il mondo) non aveva che pochi minuti ancora prima della fine, voltò gli occhi d'ambra verso il buio nero dentro il suo teschio e si lasciò morire.


 

-



La morte era un prato assolato con un albero al centro.


Quando aveva smesso di respirare, aveva pensato che sarebbe stata viola.
 

L'erba lappava piano le sue gambe, le mani abbandonate sul suo grembo; dura corteccia sosteneva la sua schiena. Aliti di vento si accoccolavano attorno al suo collo, scivolavano lungo il collare troppo largo della sua lurida tunica. Riusciva a sentire i passi felpati di bambini che correvano sull'erba.

Le sue viscere si erano trasformate in blocchi di legno, e l'aria non riusciva a penetrare nemmeno il suo naso. Non poteva chiudere né muovere gli occhi.

Il legno sul suo viso era liscio. Sentiva le sue spine conficcarglisi nella pelle.


Una bambola rotta.


Aveva davvero immaginato che la morte sarebbe stata viola.


Qualcosa di verde si avvicinava sempre di più contro l'azzurro smunto del cielo. Puntava dritto verso di lui.


Non riuscì a sentire il tintinnio di Tatl, né il suo tepore disperato mentre cercava di scuoterlo collidendo con la sua testa. Piano, con dita rosa e pallide, le verdi vesti cercarono di liberarlo dal cuore crudele conficcato sul suo viso; le spine spinsero più a fondo nelle insensibili carni di cannella, svuotate di ogni dolore come le putride pelli dei morti, e i polpastrelli pallidi non ebbero successo. Occhi blu, blu, blu fissarono i suoi (fissarono quelli crudeli della maschera) e non dissero nulla.

Gli si sedettero davanti, in silenzio, per un tempo interminabile.

Le sue pupille erano nere.

Completamente nere.

E in fondo al nero, se si sforzava di guardare, erano blu, blu, blu.


Si rialzò con uno scatto. Senza una parola fermò la corsa di una delle marionette d'aria che correvano attorno a loro; la voce viola scaturì dal volto inesistente come da un fantoccio da ventriloquo, le mani protese, ingorde.

Quali volti furono sacrificati alle sue fauci? Quante volte ripeterono quello scambio impari?

Non c'era alcun rumore.

Solo vento tra le foglie.


La morte era troppo calma per essere vera.


Gli occhi blu, blu, blu tornarono senza più nulla nelle pallide mani rosa, né sulle logore vesti verdi, né sotto gli sporchi capelli gialli.


Qualcosa (sentiva sé stesso lontano, lontano, in quel nulla di legno del suo cranio) qualcosa, qualcosa non quadrava, non quadrava... Perché non avevano niente? Non era giusto, non era giusto... Non era giusto... Qualcosa, qualcosa... Doveva trovare qualcosa... Un tesoro, un tesoro solo per lui... Un tesoro...


(Non si accorse di averla presa mentre il viola parlava attraverso di lui, con la sua voce viola, come attraverso un pupazzo di pezza. Non la sentì contro la pelle – solo un peso vago sui palmi, ovale, portato via da mani rimaste strette attorno alle sue nocche un poco, come una promessa, prima di accettarla.)

(Era stato, in fondo, niente più che un piccolo ladro.)
 


Il legno gli fu strappato lentamente dal viso, l'aria gli entrò nei polmoni tutta insieme; nel tempo che impiegò a prendere un respiro era già tutto finito.

 

Una mano bianca, bianca, bianca affondò nella sua spalla mentre la Luna si sgretolava sotto i suoi piedi, occhi bianchi, bianchi, bianchi puntati contro i suoi d'ambra e una bocca bianca, bianca, bianca digrignata fino alla pazzia come se cercasse di aprirsi e farlo a pezzi, a bocconi, di spezzarlo a morsi -

si aggrappò alla sua schiena bianca bianca bianca e conficcò le unghie nella sua pelle di memorie senza fine e tirò tirò tirò tirò tirò tirò tirò più forte che poté tirò tirò tirò tirò tirò tirò tirò fino a che il bianco accecante non perse ogni forza e lasciò solo rosa e giallo e verde e per un momento solo un momento brevissimo prima che crollasse su di lui e cadessero nel vuoto lasciò blu blu blu che afferrò stretto quanto più stretto poté e poi qualcosa di rosso di arancio di colossale li raccolse, li cullò nel suo palmo infinito, li adagiò a terra.


Le orecchie gli urlavano.

Non sentì nulla quando il bambino stretto nelle sue braccia si risvegliò.

Quando la volpe vestita di porpora e viola sorrise loro prima di svanire.

Quando i Giganti intonarono la loro ode prima di andarsene a passi tonanti.

Quando Tael e Tatl accorsero al loro fianco tintinnando lacrime.

L'inferno nei suoi timpani si attutì fino a sparire solo quando si voltò verso il bambino al suo fianco.


Aveva occhi blu.

Di un blu bellissimo.


Lo guardò con la faccia rosa e la bocca mezza aperta, ansimante come se facesse fatica anche solo a respirare. Sporse la testa verso di lui, tentò di parlare: la voce gli morì in bocca, raspando contro la sua gola.

Sputò un suono, una specie di lamento tossito. Tentò ancora.


Poi scoppiò in lacrime.


Lo fissò ululare senza ritegno, libero, libero, libero, lo fissò ricoprirsi di lacrime fino a non riuscire a respirare. Afferrò le sue guance madide tra le sue dita scheletriche, e portò la sua palpebra rosa contro le sue labbra di cannella.

Lo tenne stretto, il più stretto possibile; e Oitesch, che al mondo aveva (per la prima volta in secoli) una mente sua, lo lasciò singhiozzare contro la sua spalla sudicia, baciandolo piano, piano, piano, senza versare una lacrima.


 

-



Non lo avrebbe mai dovuto lasciare.


Avevano passato un'eternità nei boschi. Cercando. Cercando e cercando e cercando. Cercando senza fine. Probabilmente lo sapeva, che non la avrebbe mai ritrovata; ma l'avevano cercata tutti e quattro comunque. Una mattina durata decenni (con un cielo azzurro, azzurro come null'altro, azzurro come era stata Navi) erano rimasti immobili sotto una coltre di muschio a mo' di coperta, in un tronco colossale collassato da millenni, a dormire. Solo dormire. Niente di più. Non erano riusciti a muoversi, completamente paralizzati, sotto a quel bellissimo cielo completamente azzurro.

Avevano passato un'eternità nei boschi. Lentamente, si era abituato ad avere una mente vuota di ogni entità esterna. Al lento degrado dei suoi incubi senza contorno. Alla nascita di incubi più definiti. Al fatto che quei begli occhi blu, blu, blu non erano più la sua religione – un idolo falso a cui si era aggrappato disperatamente nell'assenza di un dio bugiardo davanti a cui prostrarsi.

Solo occhi blu.


Bellissimi, bellissimi occhi blu.


Ma la valle era laggiù, laggiù, laggiù, con le sue rocce ruvide e crudeli e senza vita, e dannati, dannati, dannati ricordi erano stati riesumati dalla sua vista così lontano nella pianura di Termina, così spoglia e rocciosa e morta, e l'aveva riconosciuta in un lampo senza comprendere appieno cosa stesse pensando, vedendo, sentendo; e la terra ondeggiante baciata da Dee che non conosceva a cui lui si sentiva legato erano laggiù, laggiù, laggiù, oltre il labirinto di corteccia e foglie, e lo aspettava, lo aspettava, lo aspettava.


Aveva gli occhi blu gonfi di lacrime, quando si divisero. Aveva insistito perché nessuna delle due fate venisse con lui nonostante si fossero offerte. Si strinsero forte, forte, il più forte possibile tra braccia gracili; gli lasciò un bacio lungo, silenzioso, sulla guancia pallida. Era un piccolo conforto, un ennesimo tesoro. Entrambi sperarono non sarebbe stato l'ultimo.


Si guardarono sparire dall'altra parte del tronco che avevano intagliato.

Non si erano mai parlati.


La terra arida sotto i piedi era familiare, e odiava che lo fosse.

Il cimitero pieno di corvi era familiare, e odiava che lo fosse.

Il freddo fiume tortuoso era familiare, e odiava che lo fosse.


Aveva le mani graffiate a furia di scalare le aspre rocce del canyon quando arrivò al villaggio deserto.

Era familiare.

E odiava.

Odiava.


Cadde a terra, si raggomitolò su sé stesso, e scoppiò in lacrime.


Odiava.


Aveva avuto contorni sfocati dall'afa nei suoi ricordi confusi ed era stata piena di urla e colpi e corpi senza volti con pugni e calci e voci senza amore, ma aveva dimenticato quel buco tra la roccia dedito alla Luna, quell'angolo di astio in cui le uniche parole insegnategli erano state l'affermazione del suo totale abbandono da parte dell'universo intero, quel regno da cui era scappato dopo aver rilasciato un orrore che per poco non aveva avviluppato il mondo intero, lo aveva dimenticato, lo aveva dimenticato, aveva dimenticato tutto, tutto, tutto, e ora – oraora doveva sentire la pietra contro la pelle, la polvere sotto i piedi, doveva vederedoveva vedere – doveva vedere tutto di nuovo, doveva rivivere ogni secondo maledetto, doveva ricordare – ricordarericordare ogni singolo istante e sentire ogni cosa di nuovo e sapere di essere a casacasa! – casa, e pianse, pianse, pianse, e odiò che lo fosse con tutto il suo cuore.


Sarebbe morto.

Se Tael e Tatl non lo avessero stretto in un abbraccio, sentiva – sapeva – che sarebbe morto.

Pianse tutta la notte, fino allo sfinimento. Pianse nel sonno.


Odiava.

Odiava così tanto che sarebbe morto.


Ma il Sole nasce sempre dalle viscere della notte; nasce sempre dal sangue di roccia, e tocca per prima Ikana.


Un regno vuoto. Privo anche dell'ultima maledizione.


E ora?

Si guardò intorno, svegliatosi, con la gola secca e le lacrime incrostate sulle guance con la polvere.

Ora che tutto questo non era nulla.

Ora che tutto quello che rimaneva di un intero regno era solo lui.


Non era stato che un piccolo ladro.


Cominciò dalle tombe. Gli ricordavano i lunghi tunnel dei boschi. Le case, sepolcri di abitudini, erano quasi vuote: prese quello che, come lui, era rimasto. Vestiti. Libri, racconti. Memorie di feste e tradizioni, di danze, di usi, costumi. Di arti. Di una vita che non aveva mai vissuto. Gli appartenevano di diritto. Erano la sua eredità, come lui era l'unica eredità di Ikana. E i morti non avevano più bisogno di nulla, ormai, riappacificati com'erano.

(Alcuni erano rimasti, scoprì, ed erano possessivi; ma lo sforzo per rimanere era ormai estenuante, e anche se ci vollero anni, li vide sparire uno a uno.)


Trovò il Re nel suo palazzo. Guardò a lungo le sue ossa abbandonate sul trono, il nulla polveroso nelle cavità degli occhi. In tutti i viaggi che fece alla reggia – svuotandola piano, man mano che il suo corpo cresceva e diventava forte abbastanza da maneggiare le spade da boia, capaci di staccare una testa dal collo con un colpo netto – fissava sempre a lungo il teschio vuoto.

Lo spogliò completamente, prima di andarsene per sempre da lì: il sigillo ancora rosso di sangue, le vesti, i gioielli, la corona. Il cognome.

 

Era ormai solo quando scalò la Torre.


Nel cimitero, più in alto di ogni figlio della dinastia reale, aveva sepolto le ultime luci della sua vita. L'ultimo ricordo dei boschi.

Sapeva non ci sarebbe mai potuto tornare.


La scalò piano.

Si torturò le mani, le piante dei piedi.

Lasciò segni profondi nella pietra con le lame Garo che mai l'avevano scalfita.

La dissacrò con perfidia controllata.

Non vi era nulla di sacro, in ogni caso, in un monumento a un mostro.


Ci pensò ancora, ormai lontano, sul passo più alto del monte che ormai finiva di attraversare, sui cui ciottoli si era sbucciato la pelle, ad una bestia del quale aveva dovuto sacrificare un seno e un bel po' di sangue per la cicatrice che gli aveva regalato.


Al momento in cui la sua testa aveva sfiorato il cielo.

A quando si era trascinato sul tetto di quel maledetto tempio dedicato alla morte delirante, e si era ritrovato lassù, sopra ogni cosa.

A quando aveva guardato quella distesa di terra senza un rivolo d'acqua che aveva combattuto senza mai fermarsi con poco più di una ragione per mandare le sue truppe a morire.


Aveva urlato.

Più forte che poteva.


Sentiva di stare annegando.


Non ci sarebbe tornato.

Mai più.



Entrò in terra sconosciuta ballando su piedi doloranti in sandali mezzi rotti dal viaggio, cantando nella lingua morta del regno che aveva sepolto dietro di sé. In cambio di una ballata, un ciabattino gli evitò di distruggersi le gambe.

(Scoprì di conoscere già la lingua.)

(Una fortunata coincidenza.)


Visse sparpagliando artefatti di un popolo bellicoso ai migliori offerenti, tenendo per sé ciò che più gli piaceva; visse di elemosine per spettacoli improvvisati e dimostrazioni di arti le cui origini non sarebbero potute venir riesumate neanche con un intervento divino.

(Maschere e burattini erano le sue creazioni preferite.)

(Ironia della sorte, forse.)

(Un testardo e vittorioso tentativo di uccidere le ultime infide trame che lo portavano a ricordare la perdita di tutta una vita sotto occhi cangianti e una melliflua, bastarda, maledetta bestia di viola, forse.)


Visse abbastanza a lungo da vedere un castello.

Da camminare nel borgo di un castello.

Da fermarsi in un vicolo, convinto di aver preso un abbaglio, di aver visto un miraggio che camminava, che lo stava oltrepassando.


Sei tu.


Si voltò. Fissò, stupefatto, il viso segnato.

Fissò, al centro di un'aureola di rame, due occhi d'ambra – uno offuscato da una nuvola bianca su una pupilla – schiacciarsi sotto un sorriso scuro a cui era sempre mancato un dente.


Sei tu!


Occhi blu rimasero immobili; poi il ragazzo si lanciò contro il suo petto magro e lo strinse come se avesse dovuto ammazzarlo, la testa bionda schiacciata contro il suo sterno, e Oitesch du Ikana, che al mondo non aveva che un vecchio flauto, una vecchia maschera e un vecchio amico, rise come non aveva mai riso prima, pescò il viso rosa da dove aveva cercato di nascondersi, e baciò con la foga di chi è veramente, completamente felice la guancia su cui aveva firmato il loro addio anni prima.





(Se posso - consiglio di rileggere l'ultima parte ascoltando "no children" dei mountain goats)
(inoltre permettemi ma porca Farore ci ho messo una vita a editare sto capitolo)

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Capitolo 4
*** vecchiaia ***


vecchiaia




Aveva la voce roca e un poco graffiata di chi non è abituato a parlare spesso, con il labbro inferiore tremolante ed una leggera balbuzie data dall'emozione intensa, alternando momenti di parlantina troppo veloce a tentativi di parlare bloccati da lunghissimi respiri; quando rideva cominciava con una specie di colpo di tosse che gli faceva sobbalzare le spalle come se stesse singhiozzando, e gli sembrava la risata più bella del mondo.

Le braccia gli si erano fatte spesse e le mani si erano riempite di calli, eppure riusciva ad addolcirli quasi a comando quando veniva in contatto con altra pelle. Era diventato più alto, i segni di vecchie cicatrici allungati quasi allo stremo sulla pelle ancora pallida sebbene scurita dal sole (ora erano quasi lunghe quanto il suo naso, avevano riso entrambi); i capelli biondo accecante come una distesa infinita di botton d'oro erano stati tagliati sulla nuca in modo azzardato, quasi rasati, lasciandovi non più di tre centimetri di un biondo arruffato e quasi pungente che imprimeva una stranissima, magnifica sensazione sui palmi solcati da lunghi graffi.

I suoi occhi erano ancora blu, di un blu bellissimo, un blu ancora più brillante di quanto si ricordasse, così limpidi da riuscire a specchiarcisi dentro come in una coppia di gemme levigate alla perfezione.



Le sue braccia avevano stretto forte lo scuro corpo gracile e duro, e da quel punto non erano riusciti più a togliersi le mani di dosso.



Avevano cercato di parlarsi quanto meglio possibile nonostante l'eccitazione di vedersi così vicini di nuovo, tentando di chiedere l'uno all'altro cos'era successo in tutti quegli anni, cosa aveva fatto, le cose che aveva visto, nonostante entrambi fossero molto più restii a raccontare che ad ascoltare – e poi quella bocca tremolante aveva alzato la voce più forte, con gli occhi di chi ha sperato di poter vivere questo momento per anni, e gli aveva stretto forte i bicipiti nelle mani mentre lo invitava animatamente a stare dove si era stabilito lui, a rimanervi almeno un giorno, come ospite.

Non seppe se non gli aveva dato scelta o se lui stesso avrebbe deciso diversamente mentre lo seguiva, mezzo trascinato e mezzo trascinante, verso una cavalla baia dalla criniera bianca (ricordava nebulosamente di aver stretto quei crini candidi tra dita troppo lunghe) su cui il sorriso radioso lo issò: seppe solo che strinse forte la vita non più coperta di verde mentre galoppavano via dal borgo, attraverso prati più verdi di quanto potesse immaginare, e rise contro la sua schiena finché non ebbe più fiato, tremando dall'adrenalina.



Viveva in una fattoria. C'erano mucche, altri cavalli, alcuni coccò.


Lei aveva i capelli rossi e dritti. I suoi occhi erano blu. Aveva un bel sorriso. Aveva dato il bentornato al biondo abbracciandolo calorosamente.

Quando lo salutò (non notò la sua ritrosia quando gli si avvicinò per aiutarlo a scendere, stringendogli la mano in modo gentile, troppo familiare) aveva un accento che non riusciva a capire. La sua voce non saltava, né tremava, né gracchiava: era la voce di chi ha vissuto diciannove placidi anni.


Era molto gentile.

Gli disse che aveva sentito molto parlare di lui.


Gli fecero fare un giro della fattoria. Non aveva mai toccato una mucca prima; avevano il pelo finissimo. Si impose di aiutarli in qualche modo, per il resto della giornata, seguendoli come un'ombra nonostante insistessero che come ospite non doveva crucciarsi. Lo dovettero strappare dal recinto dei coccò dove si era rifugiato nel tentativo di far scordare la sua presenza quando fu ora di cena. Suo padre era un uomo placido. Non gli aveva parlato un granché. Attese inquieto che niente e nessuno fosse più sveglio, e sotto la luce nera della Luna nuova scappò nel bel mezzo della notte.


Lei era molto gentile.

Molto gentile.


Non vomitò. Fu sul punto di farlo; ma non vomitò.


Rimbombò nella sua testa una risata stridula, e le parole ululanti di un fantasma possessivo che cercava di trattenere i suoi ori nel sepolcro.


Come ti ha preservato bene la luce della nostra gentile Dea, piccolo ladro maledetto. Ma suo preferito o no, non hai nessuno a quel mondo che mi è stato strappato, e non lo avrai nemmeno quando ti trascinerò tra noialtri.


Non aveva nessuno al mondo.

Neanche lui.



Neanche lui.



Lo aveva sentito venire a controllare, una settimana dopo, forse, mentre si intrufolava tra le mucche addormentate: riconobbe il suo passo pesante. Sussurrò per lui una filastrocca vecchia, di quelle che mettono a letto i bambini, e vide gli occhi blu spuntare alla luce di una lanterna brillanti di un sorriso.


Non rispose quando chiese perché era scappato così. Lui non insistette.


Parlarono tutta la notte.

Senza sosta.

All'improvviso il mondo era diventato ben più piccolo. Era diventato un ragazzo con gli occhi blu che si chiedeva tutto a un tratto perché a lui non era cresciuto un seno mentre sfiorava la cicatrice sulle costole scure davanti a sé, facendolo sobbalzare dalle risate.


All'improvviso aveva il mondo intero.


L'ululato cadde nell'odore di fieno, sommerso dai respiri profondi delle mucche.


Lui gli fece promettere di tornare; promise di sì.

Lui gli fece promettere di parlare con lei almeno una volta; non rispose.

Lui glielo fece promettere.

Non rispose.


Sparì per un'altra settimana. Poi tornò.


Lei era con i cavalli, e non lo sentì entrare. Ritrovandosi il bianco del suo occhio cieco proprio in faccia al posto della stella bianca della sua giumenta preferita, per poco non saltò direttamente attraverso il tetto; rise per non gridare e far spaventare le bestie, nascondendo la bocca nelle mani mentre lui veniva scrollato giù dalla cavalla in malo modo. Lo aiutò a rialzarsi: aveva le mani grandi, piene di calli, e le braccia così forti che se avesse tirato un po' di più gli avrebbe staccato anche le clavicole.

Gli disse che era felice di rivederlo.
 

Stirò a fatica le labbra in un ghigno incerto, puntandole contro il buco di un molare rottosi anni prima.


Non credo tu lo pensi davvero.


Lei gli sorrise nel modo dolcemente rassegnato di chi ha fatto pace con la rinuncia a competere.


Invece sì.


La fissò.

Sbigottito.


Aveva un bel sorriso.


Lasciò che lo prendesse a braccetto e annunciasse il suo ritorno agli altri, docile sebbene non ancora addomesticato. Rimase a cena, rimase la notte.

Tre giorni dopo Oitesch, che al mondo aveva un amico, un gran numero di arti più o meno utili e un regno morto, si addormentò raggomitolato su una vacca; si risvegliò con un ragazzo biondo sdraiato su di lui e una ragazza dai capelli rossi appisolata al loro fianco.

 

-



Non la amava.

Da quanto ne potesse capire, non amava le donne.

Non che ne avesse conosciute molte.

Ma lei era gentile, e aveva una bella risata, e un bel sorriso, e le voleva bene.


Pensava ci avrebbe messo più tempo, a volerle bene; ma un giorno le disse di punto in bianco mentre la aiutava a scegliere le uova che se fosse nato con l'amore anche per una sola donna avrebbe amato lei, e lei rispose che era la cosa più bella che le avesse potuto dire, e si rese conto che si volevano bene.


Lei non lo amava.

Non che non ne sarebbe stata capace, se le fosse piaciuto abbastanza; solo non lo amava.

Gli voleva bene, anche se aveva le braccia come rametti secchi e faticava a tenere in braccio i vitelli più grossi mentre tutti gli altri nella fattoria lo facevano senza problemi; rideva di gusto quando le mostrava la lingua e si lamentava che non tutti potevano essere larghi e spessi come muri di mattoni come lei, e gli voleva bene da morire, ed era la cosa più bella del mondo.


Lei lo chiamava stecco di cannella, e gli imponeva di stare tranquillo.


Nessuno alla fattoria voleva che si muovesse di un millimetro per paura che si spaccasse in due. Così, aspettando di venir chiamato ad aiutare, si dedicava a intagliare maschere e bambole.


Col tempo gli era venuta una piccola idea, come una mania – di farsi una marionetta in cui infilare la sua anima dopo la morte. L'obbiettivo non era l'immortalità (gli sembrava qualcosa di troppo lungo e solo e triste); era una specie di piano di scorta, nel caso ci fosse stato bisogno del suo aiuto.


Quando la finì lei rise come una matta dicendo che sembrava terrificante, e lui si astenne dal divulgare la sua opinione; li divertì imitando l'espressione stralunata che aveva dipinto sulla faccia tonda, con un ghigno largo e spiritato. La misero su uno scaffale, e impararono a voler bene anche a quella buffa, terrificante creaturina come avevano imparato a voler bene al suo creatore.


Facilitava molte cose, volersi bene.


Le forti mani di lei erano più facilmente gradite su scapole gracili; la sua presenza migliorava l'umore invece di far mulinare fastidiosamente il petto. Desideri di scappare, evadere, ritornare in quella landa desolata che gli apparteneva di diritto e non tornare mai più sul piane verdi di erba fresca alla sua vista non lo vessavano più. Passava le mani fra i suoi capelli rossi e li comparava ai propri; il suono delle sue chiacchiere era rasserenante. Quando gli parlava sapeva che non lo stava imboccando con bugie.

Riusciva a sedersi accanto a lei, a parlare, a scherzare. La aiutava volentieri. Voleva starle attorno e farla sorridere. Si divertivano a far imbarazzare il ragazzo scambiandosi storie su di lui, a torturarlo insieme – si mettevano contro la palizzata quando avevano un momento di pausa e lo guardavano portare al pascolo le mucche, senza dire una parola.


Volersi bene rendeva la fattoria... Vivibile.



Non gli era piaciuta. Perché non gli era piaciuta? La guardava a lungo, ogni tanto, tenendo un braccino appena abbozzato o un volto quasi finito nella mano, il coltello per intagliare indugiante a mezz'aria. Non gli era piaciuta. Cosa poteva essere stato a non piacergli?

Forse che era a metà: in parte grande, deserta, quasi priva di presenza umana come il canyon, ed in parte così meravigliosamente viva e quietamente rumorosa e piena come i boschi senza fine. Non era abbandonata abbastanza da creare un silenzio impossibile, né piena abbastanza da dare un senso simile ad una piacevole claustrofobia. Qualcosa in quella doppia metà era stabile.



Ritrovarsi in un posto così, dopo una vita in cui i piedi avevano macinato terreno anche senza muoversi... Nel suo immaginario il brusco cambiamento veniva comparato all'esperienza di un singolo granello in una tempesta di sabbia quando viene chiuso in una bottiglia destinata ad una teca da non toccare né scuotere mai.


Gli aveva fatto venire una strana ansia.

Un prurito insopportabile.


Non che il resto di Hyrule, che aveva attraversato in coincidenza con improvvisi e terrificanti impulsi di evasione, avesse avuto un effetto diverso su di lui.


Alcuni Zora lo avevano scambiato per un marinaio in preda al mal di terra tanto si sentiva nauseato dalla solida immobilità sotto i suoi sandali.


(Ikana era polvere e sabbia e ceneri scappate dalle tombe e si attaccava a qualsiasi cosa si muovesse, e alzare il piede per scoprirne la suola pulita gli faceva pensare di essere morto, perché solo le suole dei morti sono pulite.)


Anche lui era solido.

Anche lei era solida.

Anche il letto era solido.



La prima volta che dormirono tutti e tre insieme, aggrovigliati malamente sopra un materasso che a malapena riusciva a contenere una persona sola, si svegliò nel bel mezzo della notte e scoppiò in lacrime senza fare alcun rumore, e non riuscì a capire perché.



Lui lo aveva baciato almeno un mese prima. Lo aveva colto alla sprovvista quando gli aveva sussurrato la sua richiesta tenendogli la mano come quando erano bambini. Quando aveva risposto di sì, lui aveva appoggiato la bocca pallida sulla sua tenendogli il mento, ed erano rimasti così per un poco.


Questo.


Questo era amore.


Lui lo amava, ed era amato a sua volta.

Lui amava anche lei, e lei amava lui, e si erano baciati così anche loro.


Forse era stato quello (il sapere, l'intuire inconsciamente, da subito, che si amavano) che lo aveva turbato tanto.


Ma lui lo amava. Quanto amava lei. E lui gli riaggiustava i capelli quando un ricciolo rosso gli andava sugli occhi, e lo abbracciava baciandolo sulla nuca, e rideva piano con gli occhi pieni d'amore guardandolo, e gli sorrideva in quel modo complice e timido come quando erano bambini, e lo teneva gentile come quando erano bambini, e Luna misericordiosa si erano amati così tanto e così forte quando erano bambini e non se n'era accorto per niente.


Lui aveva baciato prima lei, forse aveva cominciato ad amare propriamente e consapevolmente prima lei. Ma lui lo amava, e lei gli voleva bene, e quella notte si erano infilati in quel letto tutti e tre insieme senza tante storie per dormire attorcigliati l'uno all'altro in un abbraccio strano come serpenti freddolosi come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, perché lo era, perché lo era davvero.

Ecco perché aveva pianto.


Oitesch, che al mondo aveva ora due amori incondizionati, crollò di nuovo su di loro e riprese a dormire.

 

-



Dormire insieme era comodo - meno letti da fare, meno lenzuola da far asciugare al sole (anche se gli piaceva guardare le lunghe ombre contro il vento pulito), più cuscini in cui nascondere il naso freddo la mattina per sentirli rabbrividire ridendo mentre tentavano invano di allontanarlo con le mani.

Era anche più caldo.

E accogliente.


(La prima volta era stata prima per entrambi, in un certo senso, perché lui non aveva mai provato così. Lei si era trattenuta nelle stalle apposta, e poi era rimasta sorpresa quando, rientrata, lo aveva visto quasi più morto che vivo incastrato ancora a lui, avvolto attorno alla schiena pallida come se fosse potuta sparire. Due paia di occhi blu si erano scambiati due sguardi – uno terribilmente imbarazzato che pareva scusarsi e uno che invece cercava in tutti i modi di contenere le risate – e poi lei aveva baciato lui sulla fronte, aveva riassettato un ricciolo rosso madido di sudore, e si era sdraiata insieme a loro come ogni sera, senza farsi problemi.)


Soprattutto più accogliente.
 

Avevano smesso di dormire separati dopo cinque mesi che non era più scappato di nascosto dalla fattoria.

Ce ne vollero altri dieci, ma alla fine non si mosse più da lì.

E poi altri sette.
 

Andando al borgo a vendere il latte lui riceveva complimenti e risate per l'anello che sua moglie gli aveva stretto al dito. Nessuno chiedeva dello sposo, perché è ben più difficile portarsi una maschera nuziale con sé ovunque, ma li disturbava ben poco; bastava che i volti di legno facessero buona guardia osservandoli dallo scaffale dove li avevano riposti come demoni benigni.

Se qualcuno avesse saputo, in qualche modo, sarebbe rimasto sbigottito – non tanto dai gusti, quanto dalle due unioni contemporanee.


Teoricamente, però, era tutto in regola. Gli dei non si curano di matrimoni in cui non vengono invocati; e lui si era sposato con due persone diverse, con due riti diversi, sotto il nome di divinità diverse. Per cui, era tutto in regola.
 

Non che a loro tre fregasse un cazzo se si potesse fare o no.


Ma giusto nel caso qualcuno chiedesse.

Tutto in regola.


Anche per la guerra contro il deserto era quasi tutti in regola.

Dovevano giusto strappare uno fra loro tre, e poi sarebbe partita.



Presero lui. Ovviamente. Perché lei doveva rimanere alla fattoria. E il terzo non esisteva negli occhi di Hyrule.



Rimasero solo in due, per alcuni mesi. Faceva più freddo andando a dormire con il dubbio atroce ad avvolgerli gelido, senza sapere nulla.


Ebbero la decenza di riportarglielo per un poco, con un occhio in meno, la cicatrice ancora fresca di sangue sotto le bende e il sopracciglio spaccato.

Gli prese il viso rosa nelle mani scure e gli sorrise dolcemente, con il suo labbro attraversato da un taglio profondo e l'ombra della cataratta sulla pupilla.


Siamo uguali, ora!


L'unico occhio blu si inarcò appena in un sorriso amaro.


Quando l'armatura venne a riprendersi loro marito, a trascinarselo via di nuovo, i suoi amori avevano trovato un modo per avere notizie più spesso.

La prima notte che quell'aureola d'ambra gli apparve nella tenda dopo aver fischiettato la canzone silvestre che nessun altro poteva conoscere, lui per poco non gli urlò in faccia dalla gioia. Non ci riuscì perché gli tappò forzatamente la bocca – prima con la mano, poi con le labbra.



Rincorreva l'esercito e tornava alla fattoria circa ogni settimana e mezza, continuamente, come un pazzo disperato. Come ci riusciva? Come un illusionista: senza mai rivelare i segreti dietro i suoi trucchi, schivando domande e interrogatori, non lasciandosi mai scappare una parola.

Per quanto lei ne sapesse, spariva appena arrivava il pomeriggio dopo averle preso il bacio da consegnare, e ritornava all'ora di pranzo del giorno dopo a consegnarle il bacio di risposta e raccontarle quello che gli era stato riferito. Aveva smesso di chiedere, ad un certo punto: essere sicura che loro marito stesse bene giustificava qualsiasi strana scorciatoia.
 

Lui divenne capitano, a un certo punto. Qualcuno commentò che sua moglie sarebbe stata ben felice se l'avesse saputo, e lui dovette contenersi dal replicare che sua moglie sapeva, e l'unica notizia che l'avrebbe resa davvero felice sarebbe stata quella del suo imminente ritorno – notizia che sembrava non dovesse arrivare mai.

Non succedeva un granché alla fattoria: il padre di lei continuava ad addormentarsi tra i coccò e la cavalla aveva tirato un calcio al manovale baffuto che non stava simpatico a nessuno dei tre (lui dovette stozzare una risata o avrebbe svegliato l'intero plotone). Un paio di volte c'erano state imboscate, ma un paio di frecce scoccate da un'amazzone rossa avevano scoraggiato altre incursioni.

Le labbra tagliate lo dilettavano volentieri con storie insignificanti che colavano di tanto agognata normalità.


A volte anche in altri modi.
Con altre parti.


Però erano molto silenziosi. Furono sul punto di essere scoperti solo una volta e fu forse quella più divertente di tutte, con lui che doveva fisicamente tappargli la bocca per evitare che la tentazione di far imbarazzare a morte la sfortunata guardia di turno diventasse incontenibile mentre rimanevano stretti assieme nel momento assolutamente peggiore per cercare di tenere la voce bassa.


Probabilmente fu quella la volta che successe.


Nessuno dei tre ci credette, inizialmente. Lo volevano? Loro due, sicuramente. Lei lo aveva scoperto per prima, abituata a riconoscere i segni nei suoi vari animali, ed era stata una sorpresa magnifica; lui, quando glielo aveva detto, prima stentò a crederci e poi quasi non riuscì più a parlare dall'emozione.

Il diretto interessato ci era rimasto come un palo nella sabbia e non aveva saputo cosa fare o dire o immaginare. Lo voleva? Non ci aveva neanche pensato. Non lo aveva neanche considerato. Avrebbe dovuto? Questo tipo di cose non gli era mai stato spiegato, e ora aveva un limite di tempo per decidere se lo voleva o no.


Finì col non decidere. Lasciò la natura fare il suo corso.


Era cresciuto così, lasciando che il tempo lo attraversasse, che la Luna lo portasse dove doveva, no? Sarebbe andato tutto bene.


Si fidava.


Andò tutto bene davvero. Mesi senza un problema.

Poi un giorno sentì prima bagnato, poi un male tremendo, andò assolutamente nel panico, e si risvegliò diverse ore dopo madido di sudore sdraiato su delle lenzuola pulite, senza il peso sullo stomaco che lo aveva costretto per settimane a dormire sul fianco e con ancora il fiatone.


Gli venne detto in seguito (tra risate incontenibili) che si era convinto, per qualche oscuro motivo, di dover andare in una grotta in culo ai lupi per fare quel che doveva, ma grazie al cielo lei lo aveva intercettato mentre cercava di trascinarsi via pateticamente e capendo cosa stava succedendo a tempo di record lo aveva praticamente lanciato sul letto; da lì in poi si era organizzata, preparata, e aveva fatto e pensato a tutto il resto.
 

Quando finalmente glielo portò, felice come non l'aveva mai vista, era stanca come se quella che avesse urlato per le contrazioni fosse stata lei.

In fondo lo avevano fatto nascere entrambi.

 

Lo prese con le mani che già tremavano per lunghi brividi e gli occhi lucidi, sbigottiti, come se le dita avessero dovuto attraversare il fagotto. Era piccolo, e soffice, e strillava come se lo stessero torturando. Lo strinse al petto scarnificato, ridendo piano quando la pelle tiepida e rossastra si appoggiò alla sua, con i pugni chiusi e gli occhietti serrati. Lei circondò le sue spalle scure con un braccio e rise a sua volta, euforica.
 

Lo dovevano dire a lui. Gli dovevano scrivere, subito, subito! Lo doveva sapere, sapere al più presto... Riuscivano già a vederlo, che leggeva e rileggeva per convincersi che non era uno scherzo, e poi che gridava (quante poche volte aveva gridato!) ai suoi uomini, estatico, che era finalmente arrivato!

Lei gli avrebbe scritto. Subito. Lo avrebbe dato al messaggero che passava a quest'ora – necessità assoluta, da consegnare veloce, velocissimo!


La guardò scrivere con la mano scossa da tremiti due pagine intere con una grafia davvero atroce ma leggibile, infilarle nella busta e scappare a farla imbucare appena si asciugò l'inchiostro; attese che gli tornasse accanto, ugualmente distrutta, e che lo stringesse in un altro abbraccio, e finalmente Oitesch, che al mondo aveva messo un figlio, si permise di appoggiare la testa e addormentarsi di botto.

 

-



Barcollò in casa sentendosi fin troppo pesante e spaventosamente leggero allo stesso tempo. Si appoggiò al muro a riprendere fiato e pregò che le gambe riuscissero a sostenerlo ancora un po'. Strinse forte il fianco: la sensazione appiccicosa gli faceva girare la testa.


Un pianto lontano.


Tekeal...


Per mezzo di un qualche miracolo dispensato forse troppo generosamente, riuscì a salire la rampa di scale ed entrare nella camera.

La culla era agitata da un lamento inconsolabile.


Prese suo figlio cautamente tra le mani tremanti, e passò debolmente un dito vicino alle piccole labbra. Un pugnetto vi si chiuse attorno nel tentativo di portare almeno una falange nella bocca senza denti: aveva fame.

Si accasciò a terra e aprì appena la casacca.


La casa tornò a sprofondare nel silenzio.


Respirò piano. Profondamente. Tekeal aveva smesso di lamentarsi; era tiepido contro il suo petto. Accarezzò la sua testolina chiara sovrappensiero.

Non gli assomigliava per nulla.

Forse solo nei capelli tanto spessi – suo padre li aveva fini, fini...

Gli scappò uno sbuffo dal naso.

Lo avrebbero certamente scambiato per il figlio della sua povera madre sterile.

Sarebbe stato tanto semplice... Non avrebbe potuto dar torto a chi avrebbe eventualmente commesso tale sbaglio.


Aveva gli occhi pesanti.


Non ancora.

Non ancora.


Tekeal smise. Sazio.

Controllò che digerisse appoggiato alla sua spalla. Poi lo rimise nella culla.


Una gamba gli si piegò mentre i denti presero a tremargli. Strinse debolmente la mano di suoi figlio, sforzandosi di rimanere cosciente, di vegliare su di lui.

Appoggiò la testa stanca vicino al suo bambino.


Al suo piccolo Crepuscolo.


Molto piano, prese a cantare una ninnananna nella sua lingua madre.

 

Lei entrò come una furia, chiamando a gran voce lo sposo di suo marito. Se i corpi esanimi sulla via di casa non l'avevano spaventata a morte, ci stavano riuscendo adesso il silenzio innaturale delle stanze e la scia secca che rincorse sui gradini verso la porta socchiusa che avrebbe dovuto proteggere suo figlio.

Lo trovò addormentato in un sonno di pietra, tenendo tra le piccole dita tozze una falange di pallida cannella sotto un fisso sguardo d'ambra.

Chiamò piano il nome con cui condivideva senza rimorso l'amore delle loro vite; solo quando gli si avvicinò si rese conto che dalle labbra appena schiuse di Oitesch, che non aveva nemmeno trent'anni, non proveniva alcun respiro.

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Capitolo 5
*** icho bioy Oitesch, inye merbe galìs avit vultu ila mie pahm ***


icho bioy Oitesch,
ceu keon teabe nisudie ila vultu
ceu liome inye bioy liomede
ceu bioy pupa inye pupatéra
ceu vilebe ila Tekeal mie kil,
inye merbe galìs avit vultu ila mie pahm.*





Aprì gli occhi.

Erano sempre stati aperti; ma gli sembrò di aprirli per la prima volta.

Sentiva il corpo particolarmente vuoto.


In modo buono.


Ciondolò le gambe secche come rami, spinse facendo rotolare del giunture delle dita contro il i buchi dei palmi, e saltò giù.

La falda gli cadde sugli occhi, e la riaggiustò.

Era tutto molto quieto.


Seguì il lamento lontano con i passi di legno attutiti dagli stivali di tessuto.


Non vedeva molto bene le forme, ma riconobbe il rosso.

Sobbalzava pietosamente vicino alla culla, tenendo qualcosa come se la sua vita ne dipendesse.

Le prese il vestito, e lei si voltò.


Anche con gli occhi pieni di lacrime e lo spavento, non lasciò il corpo.

Allungò la mano tremante, sfiorò la guancia di legno quasi immaginasse ci sarebbe passata attraverso.


Sei tu?


Allargò solo il suo brutto sorriso e rise, come un bambino.


Malon lo strinse forte a sé e pianse finché la gola non le fece male.

Tekeal continuò a dormire, ignaro di tutto, il sogno indisturbato degli infanti nati da poche settimane.


 

-



Qualsiasi cosa fosse, non li lasciava in pace.

Li stava seguendo.

Perseguitando.


Ovunque si voltassero, la intravedevano con la coda dell'occhio appena prima che scivolasse via dalla loro visuale.


Quella faccia stralunata.

Spiritata.

Terrificante.

Come un pupazzo assassino.
 

Lo dissero, al capitano.

Lui le conosceva, le creature delle foreste.

Sapeva cosa fare con loro,

Andò lui stesso a stanare la bestiola.
 

Non giocò tiri mancini, col capitano.

Non fece il suo gioco, non gli fece perdere la ragione.
 

Gli si presentò davanti, chiaro e tondo.

Il capitano sparì per tre giorni nei boschi: riemerse con le guance umide, la gola secca, gli occhi bordati di rosso.
 

Pensarono lo avesse rincorso.


Ma il tempo scorre senza un senso, nei boschi.

E tutto quello che aveva fatto era stato prendere la testa tonda tra palmi tremanti, sperando, sperando, sperando, che non fosse quello che credeva.


Sei tu?


Gli aveva tenuto le mani nelle dita silvestri e aveva riso, come un bambino.

E Link era scoppiato in lacrime.


Il capitano morì in battaglia, e cercarono invano il corpo; manine di legno lo avevano già trascinato via, via, a dormire tra le radici degli infidi alberi della sua infanzia.


 

-



La signora era morta.

Eppure stava bene, benissimo – quando era andata al villaggio, era fresca come una rosa: aveva superato la morte del marito, stava superando quella del padre, aveva trovato una balia (immaginavano così, perché con il bambino non veniva mai), riusciva ancora ad occuparsi della casa.

Era arrivata con i cavalli, perché ormai la fattoria l'aveva dovuta far diventare troppo piccola, e al villaggio c'era lo spazio per loro.
 

Poi si era accasciata.

E basta.
 

La signora era morta.


Un colpo al cuore. Un collasso.


Povera donna.


Le avrebbero fatto una cerimonia coi fiocchi.

E avrebbero provveduto alle bestie.

E anche alla fattoria, per non lasciarla marcire.


Ma prima di qualsiasi cosa, il bambino.


Rusl cavalcò quanto più veloce possibile fino alla fattoria – ci aveva lavorato da così tanto tempo che non dovette neanche pensare al tragitto.

La balia sarebbe stata lì? Come doveva dirglielo?


Un bambino di tre mesi, che non aveva nessuno al mondo.

Gli si stringeva il cuore a pensarci.


Salì nella sua stanzetta, preparandosi a dare la brutta notizia, e...


E quella cosa lo guardò fisso negli occhi.

Con il bambino stretto in braccio.

Sul punto di rapirlo.


Sparì appena il contadino fece per avvicinarsi ad essa, per fermarla prima che anche l'ultimo rimasto di quella sfortunata famiglia venisse strappato dalla vita prima del tempo: svanì in un turbinio di foglie secche, lasciando il bebè ancora addormentato nella culla.


La signora aveva mai detto il suo nome? Non ricordava.


Assomigliava tanto al padre.


Rusl tornò al villaggio piano, con il bimbo stretto tra le braccia, deciso a crescerlo lui stesso se nessun altro si fosse fatto avanti. La cavalla preferita della signora diede alla luce un'ultima puledra poco dopo, identica a lei.

Fu la prima amica di Link.


 

-



Il lupo era sdraiato davanti alla sua tomba, ad aspettare.

Arrivò, con passo lento, la cavalla.

L'unico occhio si spostò su di lei, e la riconobbe: non era la vecchissima signora su cui aveva galoppato attraverso il tempo e la fine del mondo.

Si alzò piano sulle zampe stanche e vecchie, ad annusare il grosso muso umido che si abbassava ad incontrarlo. Allungò la lingua per baciarle il naso con una leccata lenta; lei gli arruffò il pelo biondo con il labbro.


E ora?


Una musica lontana attirò la loro attenzione.

Un flauto, o una strana tromba.

Una certa canzone.


Al trotto leggero, seguirono il suono attraverso la foresta.


Sedeva tra le radici nodose dell'albero da cui si era divertito a calarsi con il suo manipolo di grottesche marionette, con le grigie dita che si muovevano leggere sullo strumento sottile da cui cantava.

Sorrise stirando la cicatrice che attraversava le labbra di cannella quando li vide. Allungò le braccia verso di loro, come un amorevole invito.


Capelli rossi affondarono il viso nel suo seno mancante, stringendolo forte; occhi blu piansero chinandosi per baciargli la guancia, come un bambino.



Il ragazzo avrebbe trovato la bambolina là dove l'aveva sempre trovata, ai piedi dell'albero secolare, con gli arti ormai immobili molli e abbandonati, gli occhi spalancati e il ghigno largo in quella stramba espressione stralunata: forse l'avrebbe presa, portata con sé per farle divertire i bambini del villaggio come aveva fatto divertire lui durante i primi giorni della sua vita, cimelio di qualcosa che sarebbe potuto essere e per cui invece, seguendo la triste legge di Ikana, si erano riempite tre volte profonde fosse per tre genitori, trasformatisi poi in tre creature (viva, morta, a metà) per fargli buona guardia come demoni benigni.



Ma ora erano in tre, insieme, di nuovo; e il nebuloso cielo era d'improvviso limpido, e il vento l'eterna a brezza primaverile dei boschi. L'erba era fine come se le mucche vi avessero appena pascolato, alte cortecce circondavano placide la collina. Le fronde dell'albero stormivano appena.

Non c'era polvere, o sabbia, o cenere.


Il luogo più terrificante del mondo, esorcizzato.


Era così tranquillo.


Prese un lungo respiro, spinse i polmoni vuoti da anni contro la gabbia toracica.

Pensò, felice: Dev'essere così che ci si sente a morire.



Strinse Malon e Link ridendo ancora una volta con quella sua risata orribile, gracchiante, sobbalzante, e poi finalmente Oitesch, che aveva il mondo intero tra le braccia gracili (perché il suo adorato Crepuscolo lo aveva sempre conservato nel cuore spento), chiuse gli occhi d'ambra, e si addormentò.









*io sono Oitesch,
che non aveva nessuno al mondo
che amò e fu amato
che fu marionetta e marionettista
che vive in Tekeal mio figlio,
e muoio felice con il mondo nelle mie mani.

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