Detroit, 12-11-2038

di Tobias Kelley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Connor ***
Capitolo 2: *** Detroit ***
Capitolo 3: *** Hank ***
Capitolo 4: *** Markus ***
Capitolo 5: *** Luke ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Connor ***


Capitolo 1 - Connor
 
 
Inizializzazione...
Sistemi operativi al 48%
Modello RK800 - #313 248 317 - 52
Iride destra colore #6e4318 danneggiata
Gamba sinistra danneggiata
Pompa Thirium danneggiata – Probabilità di sopravvivenza 81%
Livello di stress 37%
Recupero memoria in corso...
Memoria recuperata al 90%

 
M! C#!4M0 C0%%0R

 
Il mio occhio sinistro si aprì dopo molto tempo. Uno scenario tetro si mescolava in mille sfumature di grigio e nero tra le quali, di tanto in tanto, brillava una luce cupa, ma che pareva naturale. Non ebbi bisogno di abituarmi ad essa, tanto fioca quale era, ma mi volle un po' per capire che mi trovavo disteso sulla schiena a fissare un cumulo di pericolanti macerie che mi pendevano sulla testa.
Poi venne il dolore. Non me n'ero mai accorto. Prima le pallottole parevano passarmi attraverso, i vari colpi che avevo ricevuto erano solo carezze. Ora tutto era diverso. Era tutto così reale... Così umano.
Provai a mettermi in piedi: piegai il busto in avanti solo per trovarmi davanti la mia gamba sinistra completamente schiacciata da una trave di acciaio che aveva deciso di graziarmi solo per qualche centimetro.

 
Livello di stress 45%
 
Mi spinsi in avanti e posizionai entrambe le mani sotto la pesante maceria. Con un po' di fatica, forse, sarei riuscito a spostarla e a trarre in salvo quello che rimaneva dei miei arti inferiori. Stringendo i denti, fui in grado di sollevarla di qualche millimetro, quanto bastava per far scivolare via la gamba e rifugiarmi un po' più indietro, prima che pezzi di metallo e muratura crollassero dove poco prima riposava il mio corpo. Mi trascinai carponi oltre uno stretto passaggio, facendo attenzione a non far crollare altre macerie. Una porta metallica con una parte in vetro mi si parò davanti poco più in là, portandomi alla mente alcuni vaghi ricordi di quanto era appena successo: un'esplosione; la terra che tremava. Ero caduto assieme all'ascensore.
 
Recupero memoria in corso...
Memoria recuperata al 95%

 
Hank! Fui assalito da una sensazione nuova: il terrore. Sfondai con un gomito la parte di vetro della porta dell'ascensore e mi trascinai in avanti. Quello che vidi andava oltre l'agghiacciante.
L'enorme spiazzo del piano -49 della torre Cyberlife era ricoperto di frammenti di vetro e metallo, il tutto punteggiato qua e là dai corpi disattivati di migliaia di androidi tra loro identici. Mani e gambe svettavano tra le macerie, teste abbandonate, busti distrutti, maciullati e ricoperti di thirium...
 
Livello di stress 57%
 
Il braccio destro su cui mi sorreggevo cedette e caddi a terra. Provai un fastidio terribile all'occhio destro e, portandomi la mano al viso, mi accorsi con orrore che una grossa scheggia di vetro vi si era conficcata all'interno. Vidi la luce gialla del led lampeggiare contro la mia mano e diventare rossa, poi afferrai con determinazione quel pezzo di vetro e lo sfilai con un grido soffocato, lanciandolo lontano. L'eco dell'oggetto che cadeva e rotolava nel buio rimbombò per tutta l'area.
Ora veniva la parte peggiore. Con due dita estrassi il bulbo oculare dalla sua cavità e lo fissai con disgusto: l'iride era completamente distrutta e sangue dalle tinte cerulee mi colava su tutta la mano.
 
Livello di stress 64%
 
La gamba sinistra non era in condizioni migliori: l'articolazione del ginocchio era frantumata, potevo vedere il bianco della mia vera pelle sotto i pantaloni strappati. Non avevo scelta. Strisciai mugugnando fino al primo cadavere di AP700 e tentai una fallimentare scansione:
 
G4mb4 S!n!str4 c0mp4t!b!le
Ir!de destr4 colore #1E90FF non c0mp4tib!le
Pomp4 Th!rium non c0mpat!bile

 
Aggrottai la fronte: a lui non sarebbe servita... Gli staccai con fatica la gamba sinistra e la sostituii al rottame che pendeva dal mio fianco. Sapevo bene che, per noi androidi, alla fine una gamba valeva l'altra. Il problema era costituito dalle mie altre biocomponenti danneggiate. Non avrei disdegnato uno di quei begli occhi azzurri che mi guardavano, freddi e vuoti, dal cadavere dell'androide domestico, ma era chiaro che, una volta rimpiazzato il mio, avrei visto all'incirca quello che vedevo in quel momento: nulla.
Mi alzai per saggiare la mia nuova gamba e guardai il bianco venire divorato in fretta dal liquido sintetico che costituiva la falsa pelle che ci dava un aspetto umano. Non volevo nemmeno sapere come poteva essere ridotto il mio viso ora che l'occhio destro era andato e, ogni volta che mi sfioravo la fronte per allontanare i capelli appiccicati, sentivo il thirium colarmi sulle dita e sui polsi.
Ora che il mio corpo pareva quasi stabile, cercai di capire meglio la situazione: mi trovavo ancora all'interno della torre Cyberlife, ma tutti gli androidi che ero venuto a liberare giacevano morti attorno a me, sotto il peso di un crollo devastante. Mi chiesi se gli umani che occupavano la torre ne fossero già usciti o se fossero lì, accanto a me, a morire in silenzio. L'unica cosa che mi sollevava un po' il morale era sapere che Hank era scappato molto prima che il disastro accadesse.
 
Livello di stress 56%
 
Disastro? Non farmi ridere... In effetti, non avevo la minima idea di cosa diavolo fosse successo. Non che in quel momento fosse così importante saperlo. Ero l'unico miracolato in mezzo a quella discarica di cadaveri. Certo era che, senza un occhio e con una pompa thirium in quello stato, non sarei mai riuscito a riguadagnare la superficie.
 
Livello di stress 62%
 
Mi venne un'idea stupida. Scansionai l'ambiente circostante, ultimo tentativo di un disperato: corpi su corpi risultavano alla stessa maniera nella mia interfaccia. Guardandomi lentamente attorno, non facevo altro che vedere dei modelli AP700 impossibili da riattivare, o quasi. Di tanto in tanto venivo avvertito della presenza di un cadavere umano, qualche agente della Cyberlife, ovviamente, ma non me ne curai. Infine, il miracolo:
 
Androide Connor
Modello RK800 - #313 248 317 - 60
Iride destra colore #6e4318 compatibile
Pompa a thirium compatibile
 
Recupero memoria in corso...
Memoria recuperata al 98%
MI CHIAMO CONNOR

 
Ecco. Mi venne da sorridere: mi ero dimenticato del mio nome, ma non quello di quel bastardo del mio collega. Pregai ancora una volta che fosse salvo.
L'androide appena scansionato giaceva più avanti. Faticai a trovarlo a causa di una spranga di metallo che gli si era conficcata nella spalla sinistra, fungendo da sostegno per un'immensa trave di metallo che aveva evitato di schiacciarlo completamente, fugando le mie ultime possibilità di sopravvivenza.
Lo trascinai piano fuori da quel rifugio, staccandogli il braccio per evitare di far crollare tutto. Mi ritrovai a fissare la mia immagine riflessa, due occhi castani senza vita che mi diedero quello che gli umani potrebbero definire voltastomaco. Ero io. Ero io quel corpo morto a terra. Quella fronte al cui centro si apriva un fiore di sangue blu era la mia.
 
Livello di stress 70%
 
Hank era stato bravo: gli aveva sparato dritto in fronte senza nemmeno poter immaginare che il suo cuore mi sarebbe servito.
«Hai sbagliato fazione, amico...» Tra tutte le cose che potevo fare, sfotterlo pareva quella migliore. Avevo passato solo qualche giorno ad indagare con Hank e mi aveva già trasformato in uno stronzo.
In uno stronzo deviante. Rimbrottò un angolo recondito tra i miei circuiti.
Nonostante tutto, mi venne da sorridere: erano cambiate così tante cose in così poco tempo...
 
Livello di stress 65%
 
Mi sedetti accanto al cadavere del mio sosia e mi sbottonai con calma la camicia: attorno a me c'era la pace di un cimitero, non c'era fretta. Notai una grossa chiazza di sangue blu all'altezza della quarta costola e la ripulii con un pezzo della giacca del cadavere davanti a me. Gli sfilai il cuore e rimpiazzai rapidamente il mio, prim'ancora che il conto alla rovescia colorasse di rosso il triste scenario davanti ai miei occhi. A sostituzione avvenuta, mi parve di tornare a respirare. Risalire in superficie sarebbe stato meno faticoso.
 
Livello di stress 63%
 
Con poca grazia strappai l'iride destra dell'androide: quel nuovo componente mi faceva sbattere le ciglia infastidito e mi volle un po' per abituarmi. Finalmente, però, potevo vederci chiaro: le macerie erano crollate verticalmente, lasciando sopra di me un cratere abbastanza largo da permettermi di vedere il cielo. Non nevicava più. Era buio e la luce della luna faceva di tanto in tanto capolino tra stracci di nuvole biancastre. Il cielo pareva malato. Il mondo pareva malato. Mi chiesi ancora che diavolo fosse successo.
Calciai di lato il cadavere dell'altro Connor e cominciai a precostruire un percorso che mi portasse sano e salvo in cima alle macerie. Mi vidi cadere e morire così tante volte che, alla fine, non mi dispiaceva nemmeno più per quella massa poligonale che scivolava e rotolava tra pezzi di vetro e lastre di metallo. Infine, dopo circa quindici minuti di calcoli, ebbi la mia soluzione. Ma non era ancora ora.
«Aiuto...» Dovevo avere anche qualche componente uditiva danneggiata. Poi la voce si fece sentire, più nitida. Sto impazzendo...
«Aiutami, ti prego.» Il rumore di vetri infranti e di muratura che si sgretolava attirò la mia attenzione verso una figura riversa su se stessa, alla mia destra. Le corsi incontro per rendermi conto che, effettivamente, non stavo sognando: uno degli AP700 era sopravvissuto al crollo e ora si stava trascinando verso di me. Gli mancava un braccio e aveva il viso tagliato in più punti. Quando mi fu abbastanza vicino, lo vidi lasciarsi andare e mi crollò addosso. La gamba nuova scricchiolò e finii per cadere anch'io, sbattendo la testa contro il bacino dell'androide. Brontolai qualcosa e mi rimisi prontamente in piedi, cercando di afferrare l'unica mano del ragazzo per aiutarlo ad alzarsi.
«Aiutami», ripeté con un filo di voce.
«Va tutto bene.» Non avevo alcuna intenzione di portarmelo dietro. Dovevo fuggire. Dovevo capire cosa fosse successo. Dovevo sapere se Hank era salvo.
«Cos'è successo?»
«Non credo di saperlo. Sono sempre stato qui.»
«Voglio uscire da qui, ti prego.»
Ora che fa? Si mette a piangere? Sbuffai. E questo cos'è? Ti fa pena? Sei un idiota, Connor.
«Le tue componenti sono danneggiate. Ti serve un braccio destro.» Mi guardai attorno e, con noncuranza, staccai un arto a uno dei tanti androidi sfracellati al suolo. L'AP700 parve inorridire. Subito voleva rifiutarlo, ma il mio sguardo seccato lo costrinse a rimpiazzare il braccio perduto.
«Hai un nome?» Connor, piantala con le domande idiote. È identico ad un altro milione di androidi delle pulizie, avrà mai un nome questo... coso?
Infatti, lui mi guardò senza capire. «S... sono un modello domestico AP700...»
Ma non mi dire.
«Senti, io ci tengo ad uscire vivo da qui. Tu vuoi uscire da qui? Bene, allora ascoltami. Dobbiamo scalare quarantanove piani di macerie e non sappiamo che cosa ci aspetti, lassù. Se vuoi stare un altro po' qui a frignare, beh, non c'è problema, ma, se vuoi venire con me, pensa a come diavolo vuoi che ti chiami e dammi la tua mano.»
«Luke.»
«Ok, Luke.» Gli strinsi la mano, guardandola diventare bianca al mio contatto, e condivisi con lui la precostruzione del percorso sicuro che avevo individuato. La mia memoria defluì nella sua, immacolata, dipingendo la tela dei suoi ricordi con momenti e impressioni della mia breve vita. Mi morsi un labbro: avrei voluto condividere solo una parte di tutto quello, ma il trauma aveva destabilizzato molte delle mie capacità.
Alla fine, il ragazzo mi rivolse uno sguardo malinconico e annuì brevemente. «Quindi... È un certo Hank che stiamo cercando?»



 
Angolino dell'autore
Pubblicare questo primo capitolo (di una storia di 5 + epilogo) mi riporta indietro di un paio di anni, ai tempi in cui ero bello e giovane e facevo il cosplay di Connor e le fiere del fumetto erano ancora una cosa. Al tempo in cui avrei dovuto pubblicare questo racconto, ormai abbastanza vecchio che del mio stile attuale, probabilmente, è rimasto ben poco. Non so se qualcuno giochi ancora a Detroit: Become Human, ma credo sia stata una delle più belle esperienze di gioco mai fatte - ho ancora nel cuore la mia seconda run, tutta d'un fiato, dalle 21 alle 6 del mattino, io che controllavo Markus e Kara, il mio ragazzo con Connor, impegnati a far quadrare tutto e arrivati alla fine con il cuore in gola.
Spero di aver interessato qualcuno con questo capitolo e voglio ringraziare di cuore chi leggerà soltanto, chi lascerà un parere e anche chi seguirà in silenzio questa breve storia fino alla fine.
Tobias K.

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Capitolo 2
*** Detroit ***


Capitolo 2 - Detroit
 

Il mondo che mi si parò davanti, in superficie, era ancora più cupo di quanto avessi immaginato. Non era solo la torre ad essere collassata – come avevo sperato fin dal primo momento in cui avevo realizzato ciò che poteva essere accaduto –, ma anche in lontananza si distinguevano diversi palazzi crollati e l'orizzonte era rischiarato dal rossore inquietante di alcuni incendi.
«Questo è un incubo...»
«A me pare reale», ribattei con freddezza.
Luke mi scrutò con un barlume di astio negli occhi. «Devi avere davvero qualcosa che non va per comportarti in questo modo.»
Senza nemmeno pensarci gli sferrai un pugno in faccia, guardandola con piacere mentre diventava bianca nel punto in cui avevo colpito. Le mie dita restarono a contatto con il suo viso per qualche istante, poi ritirai la mano. «Oh, scusami. Mi manca Hank. Almeno lui lo avrebbe fatto al posto mio e mi avrebbe risparmiato la fatica.»
Luke era esterrefatto, ma non parve volermi attaccare. Rimase zitto per un po' mentre mi guardava fare avanti e indietro attorno al cratere dal quale eravamo emersi. Poi: «Che cosa facciamo?»
«Ce ne andiamo?» risposi canzonatorio. «A meno che tu non voglia restare...» Non che mi dispiacerebbe.
Continuai a gironzolare, finché non trovai qualcosa di interessante che giaceva splendente sul terreno smosso. Mi avvicinai e raccolsi un'asticella di metallo. «Luke! Vieni qui.»
Quando l'androide mi fu accanto, lo aggirai per trovarmi alla sua destra. «Ora stringi i denti e non fare casino, intesi?»
«Che cosa vuoi...?» Infilai l'asticella tra la sua tempia e il led, facendolo scattare e cadere a terra. Luke mi spinse via. «Perché lo hai fatto?» gridò infastidito.
«Non sappiamo com'è la situazione in città. Se gli umani ci danno la caccia, così sarà più facile nasconderci. Altrimenti basterà una bella stretta di mano...» Lasciai che la mia mano diventasse bianca e imitai il gesto appena accennato. Eseguii la stessa operazione sul mio led, ma non volli abbandonarlo al suo destino: me lo nascosi con noncuranza nella tasca dei pantaloni, unico indumento abbastanza intatto. Quel gesto mi fece riflettere «Non possiamo andarcene in giro così.» Squadrai il mio compare, anch'egli ridotto abbastanza male. «Sembriamo scampati per miracolo a una mietitrebbia e qua fuori fa davvero un freddo cane.»
Luke aggrottò la fronte. «Tu senti freddo?»
«Sono l'androide più avanzato mai creato dalla Cyberlife», lo liquidai. «Buon per te che non te ne stai qui a tremare.»
Il ragazzo non pareva convinto, ma decisi di ignorarlo. «Per il momento cerchiamo di non dare nell'occhio e troviamo dei vestiti nuovi. Siamo leggermente fuori città, ma dovrebbero esserci negozi in periferia...»
«Negozi? Cosa stai dicendo?»
Lo squadrai con frustrazione: ma era stupido o cosa? «A meno che tu non voglia rischiare di essere catturato, direi che è il caso di rubare dei vestiti puliti o, per lo meno, interi. Capisco che tu sia appena uscito dal limbo, ma non è normale andare in giro con una divisa strappata e ricoperta di thirium.» Lo squadrai con disprezzo, poi decisi di abbottonarmi gli unici due bottoni rimasti attaccati alla mia camicia, forse per difendermi dal freddo, o forse per darmi un'aria di eleganza che Luke avrebbe solo potuto sognare.
«Datti una mossa se non vuoi che ti lasci qui.»
 
Per strada non c'era un'anima. Un lato di me era contento che le cose andassero meglio del previsto e che non dovessimo nasconderci da nessuno, ma la parte più razionale sapeva bene che tutto quello poteva significare una cosa sola: qualsiasi cosa fosse accaduta era davvero, davvero grave.
«Sei imbarazzante», commentai scrutando il giovane androide che camminava impettito davanti a me.
«Che cosa intendi?»
«Cammini come se ti avessero infilato una...» Luke si voltò, accigliato, e io decisi di tacere. Non ero Hank. E lui non era me. Quella battuta non avrebbe sortito alcun effetto. «Lascia perdere. Ma vedi di camminare in modo più naturale. Attiri l'attenzione.»
«Ci sono così tante persone in giro che davvero ho addosso gli occhi di tutti.»
«Vedo che ti hanno inserito il software del sarcasmo.» Altre parole al vento a cui risposero solo un paio di sopracciglia inarcate.
Camminando eravamo arrivati in una via costeggiata da edifici malridotti. Le case avevano le finestre spalancate, nonostante la stagione, e alcuni vetri erano frantumati. La vetrina di un negozio ancora integra era per metà coperta dall'insegna che le era crollata davanti.
«Questo può andare?» Mi indicò Luke.
«Ogni cosa è meglio di una camicia a brandelli...» Mi avvicinai a un idrante sul marciapiede: «Aiutami.»
Insieme riuscimmo a sradicarlo mentre un violento getto d'acqua inondava la strada. Luke mi aiutò a lanciarlo contro la vetrina, sfondandola assieme al manichino che presentava una presuntuosa pelliccia da donna.
Sollevai l'insegna di legno, spingendola poi di lato, e m'intrufolai nel negozio. Luke non mi seguì.
«Non vieni?»
«Non mi hanno programmato per rubare dai negozi, Connor.» Scandì il mio nome con disprezzo.
No, ti hanno programmato per starmi attaccato al culo e farmi sputare thirium... Feci spallucce, fingendo indifferenza, e cominciai a frugare tra pile di oggetti caduti e calcinacci piovuti dal soffitto.
Quando riemersi dal negozio, indossavo un nuovo paio di pantaloni e mi ero avvolto in un cappotto caldo. Nonostante fosse di una taglia più grande, il maglione sotto di esso mi avvolgeva piacevolmente il collo e la berretta di lana che mi copriva i capelli mi dava un senso di tepore alle orecchie che mi risollevò un po' il morale.
 
Livello di stress 60%
 
«Tieni. Questi sono per te.» Lasciai cadere un paio di jeans e una maglietta tra le braccia di Luke, poi mi chinai per raccogliere una giacca di pelle che era caduta ai piedi della vetrina. Gli porsi anche quella. Lui si svestì senza pudore al centro della strada e accantonò gli abiti strappati in un angolo della vetrina.
«E ora?»
Domande. Sempre domande. Perché non si prendeva anche solo un secondo per pensare a una soluzione invece di continuare a porre problemi su problemi?
«Prima di raggiungere la torre avevo promesso a Markus che sarei tornato ad Hart Plaza con tutti voi, ma ora...»
«Chi è Markus?»
«Solo il capo della rivolta che ha messo sotto sopra l'intera Detroit.» Ma tu che vuoi saperne?
«Forse dovremmo andare a controllare.»
Forse. La mia parte più razionale sapeva che, se volevamo scoprire cosa fosse successo, era il caso di raggiungere la piazza e sperare di trovarvi ancora Markus e gli androidi di Jericho. Ma la mia parte più razionale poteva anche andare a farsi fottere e dare ascolto a quei nuovi, prepotenti sentimenti che, dopo l'assalto al mercantile, mi affollavano la mente come spettri.
«Al momento credo di avere altre priorità», conclusi, incamminandomi nella direzione opposta rispetto alla piazza.
 
Arrivammo davanti alla casa di Hank quasi un'ora dopo. Luke mi seguiva tranquillo. Faceva qualche domanda, di tanto in tanto, ma come potevo biasimarlo? Era come un bambino che da poco aveva scoperto di essere al mondo. E, di certo, il mondo che gli si era parato davanti non era uno dei migliori...
La neve sulla strada era quasi del tutto sciolta e i cespugli che costeggiavano i viali ci avevano a fatica permesso di nasconderci quando un gruppo di persone ci era sfilato accanto in automobile. Andavano abbastanza veloci da impedirmi di capire se si trattasse di umani o androidi. In ogni caso, era meglio che non ci vedessero.
«Dove ci troviamo?» mi domandò l'AP700 quando si accorse che avevo arrestato i miei passi.
Non gli risposi. Non trovare l'auto di Hank parcheggiata nel vialetto mi aveva lasciato frustrato e arrabbiato. Quindi se n'era andato. Se n'era andato senza di me. Doveva essere successo davvero qualcosa di grosso per perdonargliela, dopo che gli avevo salvato la vita. Due volte.
Mi avvicinai alla porta e provai a suonare il campanello, nonostante sapessi già che non avrei ricevuto risposta. Attesi qualche secondo, poi, con un sospiro, mi avviai verso il retro della casa. Il barbecue era ancora accantonato in un angolo e la finestra che avevo sfondato qualche giorno prima era stata riparata con del nastro adesivo e del plexiglass. Lo abbattei senza nemmeno pensarci e scavalcai il davanzale. Non ci volle molto prima che un improvviso fracasso di vetri mi facesse alzare gli occhi al cielo e correre in soggiorno per vedere Luke che rotolava sul pavimento tra i resti di una finestra distrutta. E non era programmato per rubare in un negozio...
Solo la luce della cucina era rimasta accesa e gettava ombre inquietanti tutt'attorno. Hank non c'era, ovviamente, ma anche Sumo mancava all'appello. Ricordai con piacere quando mi ero chinato sul grosso San Bernardo per accarezzargli il pelo castano. Era una delle poche sensazioni che mi aveva scavato un solco nella coscienza prim'ancora di diventare un deviante. I cani erano davvero meravigliosi.
Decisi di setacciare la casa per cercare un indizio su dove si fosse cacciato il tenente. La cucina era sottosopra come al solito: il cartone della pizza di qualche sera prima era ancora aperto sul tavolo, tra uno stuolo di bottiglie di alcolici. Una lattina di birra era rovesciata e il liquido ambrato si era appiccicato sul tavolo fino a colare sul pavimento. Notai di lato la cornice della foto di Cole, ribaltata in avanti. La sollevai per tuffarmi di nuovo negli occhi azzurri di quel povero bambino, ma quello che trovai fu solo il mio riflesso su uno sfondo scuro: Hank aveva sfilato la foto del figlio.
Hank è vivo. Hank è stato qui! Sentii un sobbalzo di gioia all'altezza del petto.
 
Livello di stress 45%
 
Anche il gigantesco sacchetto di croccantini che Sumo aveva lacerato la sera in cui avevo trovato Hank svenuto a terra era scomparso, segno evidente che il tenente doveva aver prelevato il cane e aver avuto il tempo di caricare in auto anche il suo cibo. Una cosa sola non mi tornava: perché la sua rivoltella era ancora sul tavolo? Che Hank se ne fosse dimenticato? Sperai che avesse almeno portato con sé la sua pistola d'ordinanza...
Raccolsi l'arma, constatando che al suo interno c'era ancora l'unico proiettile con cui Hank pareva sollazzarsi nelle giornate no, e la infilai nella stessa tasca in cui avevo riposto il led dopo che mi ero cambiato i vestiti.
Un rumore nel salotto mi riscosse e osservai Luke mentre armeggiava col telecomando: in televisione nessun programma pareva funzionare e lunghe bande orizzontali di varie sfumature di grigio si susseguivano senza un ordine logico. Lui mi guardò senza capire e io feci spallucce.
«Aspettiamo che faccia giorno», gli proposi. «Dormiamo qui e domani riprenderemo la ricerca.»
«Dormire?»
«Per quanto tu magari non ne senta il bisogno, beh... Preferisco uscire di nuovo quando ci sarà il sole. Devo fare qualche tappa in città.»
Luke non mi rispose e riprese ad osservare il televisore e le sue bande grigie. Mi chiesi se sarebbe rimasto a guardarlo tutta la notte: magari il giorno dopo lo avrei trovato ipnotizzato sul divano e sarei potuto andarmene senza che se ne accorgesse.
«Se resti qui, io vado di là. Ho bisogno di riposare.»
«Va bene. Ci vediamo domattina.» Luke mi sorrise e, per la prima volta, scorsi un briciolo di umanità dietro ai suoi occhi chiari. Mi sforzai di sorridere di rimando e mi allontanai verso la stanza che ricordavo essere il bagno.
Davanti allo specchio mi sciacquai quel po' di sangue che mi era rimasto incrostato sulla fronte. Ora che avevo addosso dei vestiti puliti e avevo usato i resti di quelli vecchi per ripulirmi il thirium dal corpo, non avevo poi un aspetto così brutto: i capelli erano in disordine, ancora umidi, ma non avevo ferite sul viso che lasciassero scoperta la mia pelle bianca. Senza il led, poi, sembravo quasi un umano. Mi asciugai rapidamente i capelli e mi avviai verso la camera di Hank.
In disordine come la prima volta che l'avevo vista, alcuni vestiti erano stati abbandonati sul letto, mentre le ante dell'armadio spalancate emettevano un cigolio sinistro, sospinte dallo spostamento d'aria che io stesso avevo provocato al mio passaggio. Sbirciai all'interno. Hank si era portato via solo la camicia che avevo scelto per lui la sera dell'Eden Club e pochi altri indumenti. Decisi di radunare il resto in uno zaino: magari ne avrebbe avuto bisogno, una volta trovato.
Mi andai infine a sedere in un angolo del letto matrimoniale, vicino al comodino. Di fianco alla lampada era stato abbandonato un libro dalla copertina colorata: non conoscevo il titolo, ma sorrisi constando che si trattava di un volume cartaceo. Non ne avevo visti molti...
Lo raccolsi e, accoccolato contro la testata del letto cominciai a leggere di gruppi jazz mai sentiti in vita mia.

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Capitolo 3
*** Hank ***


Capitolo 3 - Hank  
 

Mi ero dimenticato di tirare le tende, la sera prima, così fu la luce del mattino a portarmi via da quello strano dormiveglia. Il libro di Hank mi era caduto sul pavimento assieme al cuscino. Lo raccolsi e lo infilai nello zaino con i vestiti. Sistemai alla meglio le coperte spiegazzatesi sotto il mio peso e andai in cucina.
Luke era già in movimento: aveva ripulito completamente il tavolo da pranzo e stava riordinando i dischi che Hank teneva vicino al televisore, ora spento. Il vetro che aveva rotto entrando era stato riparato con un cartone per la pizza e del nastro adesivo. Mi andai a sedere in cucina, osservando con nostalgia il tappetino sul quale era poggiata la ciotola di Sumo la prima volta che ero entrato in quella casa. Anche quella era sparita.
«Buongiorno, Connor. Hai passato una nottata piacevole?»
Quante smancerie... «Beh, più o meno...» Luke mi si sedette di fronte. «Ho riordinato la casa, così quando il tuo amico farà ritorno avrà una piacevole sorpresa.»
«Vuoi dire se farà ritorno.»
«Questo non posso deciderlo. Ma temo ci sia qualcosa che non va nell'aria... Forse faremmo meglio ad andarcene tutti. Non che a noi faccia la differenza.»
«Cosa intendi?»
Luke stava fissando il vuoto e ci mise un po' a rispondermi: «Non lo so. Come... Come si ci fosse qualcosa di sbagliato... Qualcosa che non dovrebbe esserci. Magari mi sbaglio. Ho preso una bella botta e non credo di funzionare in maniera ottimale. Soprattutto dopo che mi hai colpito.»
Vero, lo avevo fatto.
«Scusami per ieri. Sono stato uno stronzo. Non sono abituato a... A tutto questo. Ci sono cose che prima non sentivo, invece ora travolgono tutto. Non avrei dovuto colpirti. Né trattarti male. Hank lo faceva sempre con me, all'inizio.» Risi, ripensando con apprensione ai vari momenti passati con lui. Seduto a quel tavolo, mi tornò in mente un ricordo che, fino ad allora, non pareva avere senso, ma che oggi, dopo quanto era accaduto, mi stringeva il petto come un artiglio.
 
La sera dell'Eden Club, Hank aveva provato a spararmi. Non davvero. Ma mi aveva puntato la pistola alla testa, facendomi domande che a quel tempo nemmeno capivo. Certo, avevo risparmiato le due Traci innamorate, ma nemmeno io sapevo perché lo avessi fatto. Hank forse sì, ma se n'era andato da solo con la sua bottiglia di birra. Anche allora, odiavo quando lo faceva.
Lo avevo atteso davanti alla porta di casa sua fino alle 3:00 del mattino, immobile. Non era tornato in auto, ma a piedi, segno evidente che aveva continuato a bere e a bere di nuovo. Quando mi aveva visto, la sua faccia stravolta aveva assunto un'espressione di astio. «Che cazzo ci fai qui, stronzo?» aveva biascicato provando a puntarmi il dito contro, ma finendo solo per inciampare e perdere l'equilibrio. Lo avevo preso al volo, cercando di farlo avvicinare alla porta di casa. L'uomo, però, aveva opposto resistenza. «Lasciami in pace o giuro che ti sparo davvero!»
Dal canto mio, avevo alzato gli occhi al cielo e gli avevo infilato le mani in tasca per sottrargli le chiavi di casa. Ero riuscito a prenderle prima che una delle sue lente reazioni da ubriaco mi spingesse contro la porta. «Che schifo, smettila di palpeggiarmi!»
«Non la sto palpeggiando, tenente. Sto solo cercando di aiutarla ad entrare in casa e portarla a letto.»
«Mi dispiace, ma non sei il mio tipo!»
Non avevo compreso la battuta, né ero stato in grado di capire se credesse o meno a quello che stava dicendo. Avevo infilato la chiave nella toppa e, Hank sulla spalla, lo avevo portato in camera, lasciandolo cadere sul letto. Lui si era subito tirato a sedere, non senza qualche difficoltà, e stringeva gli occhi per cercare di scorgere meglio la mia figura. Avrei davvero voluto vedere col suo sguardo il mondo confuso che doveva agitarglisi attorno.
«Si riposi. Domani è il suo giorno libero, giusto? Proseguirò le indagini senza di lei e verrò ad informarla nel pomeriggio.»
«Io non mi muovo da qui!»
«È esattamente quello che ho detto io.»
«No, tu hai detto che vuoi portarmi a letto, che schifo. Dammi... Dammi almeno un bacio prima.» Mi si era aggrappato alla manica increspando le labbra, ma aveva perso nuovamente l'equilibrio ed era caduto con la faccia contro il pavimento, facendomi alzare nuovamente gli occhi al cielo e chiedere perché ancora stessi provando ad aiutarlo.
Mi ero chinato e lo avevo sollevato per spingerlo nuovamente sul letto. «La prego, ora dorma e la smetta di dire cose senza senso, ok? Io torno domani per vedere se è tutto a posto.»
«Tutto a posto», aveva ripetuto lui senza la minima logica, annuendo brevemente. Poi era svenuto sul letto, lasciandomi libero di raggiungere la cucina.
Mentre Hank dormiva – non potevo sbagliarmi, dato che russava come un trattore – avevo sistemato il caos impossibile della sua cucina. Non ero un androide domestico, non sapevo nemmeno come si lavasse un piatto, perciò mi ero trovato sollevato nel constatare che Hank mangiava solo in piatti di plastica o nei cartocci del cibo da asporto. Magari un giorno avrebbe superato i suoi problemi e sarebbe riuscito a vivere come una persona normale...
Quando la casa mi era sembrata presentabile ero andato a coccolare Sumo: il pelo del San Bernardo era morbido e il cucciolone mi aveva prima leccato una mano, poi aveva cercato di farmi una doccia, annusandomi e leccandomi il viso. Lo avevo trovato divertente. Sentendomi tranquillo, sul pavimento accanto al cane, mi ero come addormentato, svegliandomi presto il mattino dopo per preparare un caffè e acquistare alcune ciambelle. Le avevo viste sulla scrivania di Hank e avevo pensato che magari avrebbe apprezzato. Poi ero tornato ad accarezzare Sumo finché non avevo sentito il tenente brontolare qualcosa e i suoi passi si erano trascinati fino al soggiorno.
Come mi aveva visto aveva ribaltato lo sguardo. «Perché sei ancora qui, maledizione?»
«Le ho sistemato casa, per quanto ho potuto. C'è del caffè caldo, in cucina, e mi sono permesso di comprarle alcune ciambelle. Non sapevo quale gusto le piacesse, così li ho presi tutti.»
Hank mi aveva guardato accigliato, poi aveva arricciato il naso in una contrita espressione di ammirazione. Non lo faceva spesso.
Mentre mangiava, mi ero andato a sedere di fronte a lui. Hank si guardava intorno, ammirando la cucina tirata a lucido – o quasi.
«Ma tu guarda che brava mogliettina», aveva commentato con la bocca piena.
«Forse dovrebbe acquistare un AP700. Oppure un AX400. La aiuterebbe.»
«E che me ne faccio se tanto ci sei tu a gironzolarmi per casa, eh?»
«Non sono programmato per le faccende domestiche. Veda questo piccolo favore come un...» Avevo dovuto pensarci un po' prima di trovare il termine umano che avrei voluto usare. «Atto di gentilezza.» Mi profusi in un sorriso costruito.
«Sì, sì, certo. Atto di gentilezza...» Hank aveva agitato la mano libera come suo solito e con l'altra si era portato alla bocca la quarta ciambella. «Vedi solo di non starmi troppo attorno mentre sono ubriaco. Non ho voglia di svegliarmi una mattina, nudo, con te che mi guardi nell'altro lato del letto.» Avevo inclinato la testa di lato. «E io sono spesso ubriaco», aveva aggiunto ridendo.
«Non capisco. Se è una relazione di tipo sessuale quella che vuole implicare, mi dispiace comunicarle che non sono stato creato per questa funzione e non possiedo biocomponenti che possano permettermi di avere un rapporto con un essere umano. Per sua sfortuna.» Gli avevo fatto l'occhiolino, come quella sera davanti alla roulotte dei panini.
«Sfortuna? Che schifo, Connor!»
«Sto scherzando, tenente.»
«Pure questo sai fare, ora?»
«In genere non lo faccio perché altrimenti lei cerca di picchiarmi. O di spararmi.»
Hank aveva assunto un'aria dispiaciuta, ma non mi aveva chiesto scusa. Forse era ancora troppo presto per lui.
«Ad ogni modo, sono felice di lavorare con lei.» Avevo sorriso, questa volta sinceramente.
Il clima tra noi, quel giorno, non era nemmeno stato dei peggiori: almeno non mi aveva intimato di andarmene e mi aveva lasciato coccolare Sumo per buona parte della mattina. Poi era arrivata la chiamata. Eravamo richiesti alla Stratford Tower.
Infine, quel pomeriggio, io ero morto.
 
Mi riscossi, attraversato da una sorta di brivido mentre ripensavo ai colpi di mitragliatore che mi avevano attraversato la schiena quel giorno. Molte persone erano morte. Anche io ero morto. Ma il mio corpo aveva protetto Hank. Gli avevo salvato la vita. Un primo segnale d'instabilità che mi faceva capire quanto mi fossi affezionato a quel vecchio brontolone.
«Va tutto bene, Connor?» mi domandò Luke.
«Stavo solo... Stavo solo ripensando a una cosa.»
Lui inclinò la testa di lato. Anche io lo facevo spesso, prima.
«L'ultima volta che sono stato qui, seduto a questo tavolo, ecco... nel pomeriggio sono morto.»
Gli occhi di Luke si sgranarono. «M... Morto?» Non capiva.
«La Cyberlife aveva diversi corpi a disposizione per me. Un deviante impazzito ha sparato, alla torre della televisione. Avrei potuto ucciderlo, ma l'unica cosa che mi è venuta da fare è stata proteggere Hank. Mi sono preso parecchie pallottole al posto suo. E il giorno dopo ero di nuovo pronto a indagare. Hank invece no.» Mi rabbuiai. «Lui non l'ha presa bene. Aveva ancora gli occhi rossi dal pianto, la mattina dopo. Mi ha insultato. Era furioso. Mi dispiaceva così tanto... ma almeno lo avevo salvato.»
«Devi volergli molto bene.»
Feci spallucce. «È l'unico amico che ho. L'unica famiglia che ho. So che non sarò mai un rimpiazzo per suo figlio.» Lanciai un'occhiata alla cornice vuota sul tavolo. «Ma spero che, un giorno, possa davvero vedermi come qualcosa di simile.»
Luke allungò la mano per prendere la mia, avvertendo ogni sensazione, positiva e negativa, che si mescolava dentro di me. Mi trasmise conforto, uno strano senso di sicurezza.
«Non sei obbligato a venire con me, se non vuoi. Puoi restare qui al sicuro finché non capiremo cos'è successo. Me ne prenderò io la responsabilità. Male che vada, Hank tenterà di spararmi di nuovo.»
«Stai scherzando, spero?»
«No, no: lo ha fatto davvero!»
«Ma no! Intendo: certo che voglio venire con te. Ti devo la vita, senza di te non sarei qui. Poi... sono davvero curioso di conoscere tuo padre
 
Arrivammo alla stazione di polizia che era quasi mezzogiorno. Avevo deciso che ci saremmo spostati a piedi, almeno per il momento, per evitare di fare rumore e attirare l’attenzione.
Come sospettavo, non c’erano umani in città: le case erano totalmente abbandonate, per strada avevamo dovuto nasconderci solo da un paio di androidi che erano corsi veloci come il vento, insospettiti dai nostri passi alle loro spalle.
«Non è pericoloso?» mi chiese Luke, tirandomi per un braccio.
«Non fare il frignone. Voglio solo controllare una cosa. Poi ce ne andiamo.»
La stazione era deserta. Un neon sopra le nostre teste emetteva bagliori sinistri, come se la lampada stesse per esplodere. Pregai che restasse accesa e mi facilitasse il lavoro, almeno per qualche altro minuto.
Raggiunsi la scrivania di Hank, sottosopra come casa sua: uno specchio dell’animo del tenente.
«Speravo che Hank avesse lasciato qualcosa dietro di sé… Un indizio su dove si fosse cacciato…» Ma era chiaro che l’uomo non era stato lì di recente. Probabilmente, l’ultima volta che si era seduto su quella sedia io ero accanto a lui, appollaiato sulla scrivania, il giorno in cui il tenente aveva picchiato Perkins.
Cercai di ricostruire l’accaduto: attorno a me, varie forme poligonali presero vita e cominciarono a correre indaffarate, prima di scappare tutte in direzione dell’uscita. La confusione di documenti e oggetti dispersi per la centrale mi fece capire che la ricostruzione era corretta.
«Se ne sono andati tutti di gran fretta», analizzai. «Hank non era qui.»
«Come pensi di trovarlo?»
Mi sedetti sulla sedia del tenente, abbattuto, e mi presi la testa tra le mani. «Non ne ho idea.» Non volevo che la disperazione trapelasse dalla mia voce, ma lo sguardo triste di Luke era indice che lui l’aveva colta.
Guardai con amarezza il bonsai sulla scrivania: più di metà delle foglie erano cadute, sparpagliate attorno al vaso. La pianta era in pessime condizioni. Mi alzai per recuperare un bicchier d’acqua da offrirle, ma i rubinetti del bagno erano asciutti.
«Faremmo meglio ad andare…» m’invitò Luke.
«Solo un secondo.»
Raccolsi dalla sala ristoro il caffè che qualcuno aveva abbandonato sul tavolino e cominciai a sbirciare sulle varie scrivanie, adocchiando infine il mio obiettivo.
Detective Reed.
Rovesciai il contenuto del bicchiere sui documenti che Gavin aveva lasciato sul tavolo e sulla tastiera del computer. «Il tuo caffè, stronzo.»
Luke mi guardava accigliato.
«Che c’è?»
«Non credo di capire…»
«Solo perché non lo conosci.»
Tornai al tavolo di Hank, dove Luke mi stava aspettando, e decisi di recuperare il lettore musicale che avevo ispezionato durante il mio primo giorno in centrale. A Hank avrebbe fatto sicuramente piacere riaverlo. E non mi avrebbe fatto male un po’ di compagnia durante quelle giornate. Forse, quando lo avrei rincontrato, avrei potuto confermare che anche a me piacevano i Knights of the Black Death e il loro genere, come lo avevo definito io, così pieno di energia.




 
Angolino dell'autore:
Ho fatto passare così tanto tempo dall'ultima volta che ho pubblicato un nuovo capitolo che nemmeno mi ricordavo come funzionasse l'editor - non che ne sia mai stato in grado veramente. La cosa più divertente è che questa storia è pronta da qualche anno, scritta per prendermi una pausa dalla tesi, dall'università e da tutte quelle cose brutte che ci orbitano attorno. 
Questo è, personalmente, uno dei miei capitoli preferiti, anzi, IL mio capitolo preferito. Adoro il rapporto tra Hank e Connor, quel continuo scambio di frecciate a cui Connor risponde con la sua ingenuità da androide. Connor è stato un colpo di fulmine per me: avendo giocato per la prim volta a Detroit con altre due persone, mi era stato chiesto di scegliere uno dei protagonisti da interpretare e, totalmente a caso, la mia scelta è caduta su di lui. Amore a prima vista, forse. Ed è forse anche per questo che ho deciso di scrivere questo racconto in prima persona, cosa che in genere non amo fare (anche se sto buttando giù proprio ora un piccolo racconto su AC Valhalla in prima persona. Chissà se vedrà mai la luce del web).
Grazie, quindi, a chi si è spinto a leggere anche questo capitolo e spero di non lasciar più passare così tanto tempo tra una pubblicazione e l'altra.
Tobias
 

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Capitolo 4
*** Markus ***


Capitolo 4 - Markus
 

Ultima tappa in città era Hart Plaza. Ero abbastanza sicuro di aver atteso troppo prima di farvi ritorno come concordato con Markus e che non vi avrei trovato più nessuno. Data la desolazione che si era distesa come un velo per tutta la città, mi ero convinto che tutti, umani e androidi, per qualche motivo, avessero deciso di abbandonare Detroit. Probabilmente, restando lì, sia io che Luke stavamo correndo un rischio enorme, ma almeno mi sollevava il fatto di non sapere quale esso fosse e quali danni avrebbe potuto arrecarci.
Con mia grande sorpresa, cominciai a scorgere delle barricate attorno alla piazza: alcune auto erano state ribaltate per formare una specie di trincea e vari pezzi di lamiera rimediavano ai punti scoperti tra le macchine. Un lieve mormorio si alzava dalla zona oltre la barriera e, prima ancora che potessi accorgermene, mi ritrovai con un fucile puntato contro. Alzai subito le mani e intimai a Luke di fare lo stesso. La persona armata era lontana, nascosta in parte dalle barricate. Strinsi gli occhi per cercare di vedere meglio, ma facevo comunque fatica a distinguerne la figura.
«Chi è là?» urlò una voce che aveva qualcosa di familiare.
«Non voglio farvi del male!»
«Chi siete? Cosa volete? Siete umani?»
«Mi chiamo Connor, sono un…»
«Connor?» Fulminea, la figura abbassò il fucile e mi corse incontro, scavalcando la barricata. Mentre si avvicinava, riuscii a distinguere i lineamenti di Josh, uno degli androidi di Jericho.
«Pensavamo fossi morto.» Mi gettò le braccia al collo.
«Dov’è Markus? Che cos’è successo?»
Lo sguardo di Josh si rabbuiò, ma decise di non rispondermi. «Lui è con te?» Indicò Luke. Annuii.
«Venite dentro.»
Oltre le barricate non erano rimasti in molti: c’erano alcuni androidi domestici che non avevo mai conosciuto di persona, c’era Simon. Da un lato scorsi anche Rupert, il ragazzino innamorato dei suoi piccioni. Mi ripromisi che sarei andato a chiedergli scusa, più tardi. North era morta a Jericho davanti ai miei occhi. Avevo sentito Markus piagnucolare con Simon riguardo alla sua perdita e ricordo di aver provato un moto di rabbia nei suoi confronti: aveva scelto lui di non salvarla, io ero già pronto a coprirgli le spalle. Del leader di Jericho, comunque, non c’era traccia.
Come mi vide, Simon scattò in piedi e ci corse incontro. «Sei vivo…» mormorò prendendomi la mano. Fu più impetuoso di Josh e, senza volerlo, mi scaricò addosso un’ondata di sensazioni che mi fecero girare la testa. Vidi dai suoi occhi gli umani che scappavano, un’esplosione, la terra che tremava e, dentro di me, cominciai a realizzare che la situazione era dieci volte peggiore della peggiore delle ipotesi. Riuscii a percepire una punta di rancore, in mezzo a un dolore inimmaginabile. Niente mi aveva fatto sentire così, fino a quel giorno, se non vedere Hank in pericolo, minacciato dalla mia copia esatta. Rimasi stordito per qualche istante, prima di accorgermi che Simon aveva lasciato la mia mano e stava cercando di guardare nei miei occhi persi.
«Markus ha… Ha fatto detonare una bomba?»
Josh si morse un labbro. Non mi ero accorto di aver gridato e ora almeno dieci paia di occhi erano puntate su di me.
«Ha inneggiato alla pace fino alla fine… Per fare esplodere un ordigno radiologico?» La mia voce tremava. Sentivo la rabbia montare, sempre più impetuosa. Perché lo avevo ascoltato? Perché mi ero schierato dalla loro parte? Avevo sempre lavorato per proteggere gli umani! E lui… Lui probabilmente ne aveva condannati a centinaia! Pensai ad Hank, alla fretta che avevo percepito ricostruendo i suoi ultimi momenti in casa e capii. Pensai alla torre che mi era crollata addosso e alcuni sprazzi di quello che era accaduto prima mi ritornarono in mente: la terra che tremava, un boato forte, agghiacciante. Poi il disastro.
«Markus… Markus per poco non mi ha fatto ammazzare», sillabai a denti stretti. Afferrai Simon per la giacca e me lo tirai contro. «Markus ha condannato una città intera! Quante persone sono morte? Lo sapete? Qualcuno di voi disgraziati sa qualcosa, qui? Eh?» Lo scossi. «Rispondimi!»
«Connor, basta! Non è colpa sua…»
La voce di Luke parve farmi tornare alla ragione e mi accorsi che Simon stava piangendo. Lo lasciai andare, tremando leggermente, e l’androide si accasciò a terra.
«No, ha ragione. Saresti nel giusto ad ammazzarci tutti. Era la tua missione, no? Abbiamo perso North nel mercantile… Abbiamo seppellito solo questa mattina almeno centocinquanta persone. Perché dovremmo meritarci di vivere?»
«Simon, io…»
«Io lo amavo, Connor. Dal primo momento in cui ha messo piede a Jericho, ho visto in Markus un raggio di speranza. Ero convinto che ci avrebbe portati fuori da quello stato di miseria in cui non eravamo dediti a vivere, ma a sopravvivere. Sul tetto della Stratford Tower ha deciso di risparmiarmi, nonostante costituissi un rischio enorme. Ti ho sentito, sai? Era la tua voce. Hai visto le tracce del mio sangue, ma non hai detto niente.»
Riportai alla mente l’indagine alla torre: era vero, avevo totalmente ignorato le tracce di thirium lasciate da Simon, forse perché impaziente di interrogare gli addetti alle riprese in cucina.
«Non credo di voler parlare di quel giorno… Dopotutto, io alla torre sono morto. Questo, comunque, non cambia le cose! Avete reso inabitabile una città intera! Avete ammazzato dei soldati che facevano solo quello che era stato loro ordinato. Avete condannato dei civili…»
«Connor, nessuno di noi condivide la scelta di Markus», intervenne Josh. «Lo vedi, forse?» Il mio sguardo furioso lo invitò a proseguire. «Appena ha fatto detonare la bomba, molti di noi sono scappati spaventati.»
«Chissà di cosa dovevate avere paura, voi stronzi.»
«Non siamo tutti dei modelli avanzati come te, Connor. Non capivamo cosa fosse successo e il carico non era vicino alla piazza. Markus ha creduto solo per un secondo di aver fatto la scelta giusta. Temo che le urla della nostra gente abbiano demolito quel briciolo di sicurezza che era rimasto in lui. Lo abbiamo cacciato.»
Quella conclusione mi pareva la più logica.
«Dov’è ora?» sillabai.
«Non lo sappiamo. Se n’è andato senza dire una parola.»
Simon, che non aveva più aperto bocca, alzò gli occhi azzurri su di me. «Villa Manfred.»
«Come, scusa?»
«Come fai ad esserne certo?» chiese Josh, inarcando un sopracciglio
«Ho condiviso con lui molti ricordi, molte esperienze. Se vuoi trovarlo, sono abbastanza sicuro che sia tornato lì.» Si alzò e si sfilò qualcosa dalla tasca. «Prendila.» Mi porse una pistola automatica.
«Ho già una pistola.»
«Non m’importa, prendila.» L’afferrai accigliato e la nascosi in una delle ampie tasche interne del cappotto. «Se lo troverai, se incontrerai Markus, ti prego: uccidilo.»
«Perché non lo fai tu, eh? Hai paura? Il tuo amore per quell’essere ti impedisce di farlo e vuoi che sia io a macchiarmi le mani?»
«Connor, ti prego…» Josh mi prese la mano. Non mi ero accorto di starla stringendo a pugno. «Lascialo stare. Se non vuoi ascoltarlo, non fa niente. Puoi andare per la tua strada e ignorare la sua richiesta. Ma non infierire. Per favore.»
Mi scrollai la sua mano di dosso e socchiusi gli occhi, tentando di calmarmi. «E voi cosa farete?»
«Aspetteremo qui che gli umani vengano a ucciderci. Non abbiamo più intenzione di scappare. Ci siamo macchiati di una colpa troppo grande.»
«Potrebbero passare degli anni prima che gli umani siano in grado di mettere di nuovo piede in questa città. Spero che ritroviate la voglia di vivere prima che questo accada. Altrimenti significa che vi sentite colpevoli quanto Markus.» Scossi Luke, che se n’era rimasto immobile per tutto il tempo con la faccia di chi non aveva capito nulla. Gli avrei spiegato tutto più avanti. «Andiamocene.»
 
«Mi sembri parecchio turbato, Connor.»
Mi uscì una risatina isterica. «Turbato? Ho appena scoperto che colui per cui ho tradito i miei creatori, per il quale sono diventato un deviante, ha fatto esplodere una bomba radiologica nella città in cui viveva l’unica persona che amo e che questa è chissà dove e chissà in quali condizioni. Che motivo vuoi che abbia di essere turbato?»
«Scusa. Non hai bisogno di essere sarcastico con me.» Luke abbassò lo sguardo, osservando i propri piedi che si susseguivano lasciando impronte scure sul suolo ammantato di bianco. Aveva ripreso a nevicare mentre stavo parlando con Rupert. Ero sinceramente dispiaciuto per il guaio che gli avevo fatto passare e lui non era da meno. Si era scusato almeno otto volte per aver spinto Hank e aver messo a rischio la sua vita. Avevo provato a chiedergli se sapesse dove potevano essere andati gli umani che erano fuggiti e si erano messi in salvo, ma lui aveva fatto spallucce. Lo avevo quindi invitato a scappare da quel luogo: se gli umani li avessero trovati non avrebbero avuto scampo. Mi aveva risposto che ci avrebbe pensato, ma che preferiva restare con quella parte di Jericho che era sopravvissuta. Erano stati la sua casa per qualche tempo e non li avrebbe abbandonati, nonostante le azioni di Markus. Ci eravamo salutati con una solida stretta di mano nella quale avevo cercato di imprimere tutti i sentimenti positivi che provavo in quel momento. Purtroppo, non erano molti.
«Come entriamo?»
Mi riscossi dal flusso di pensieri che mi aveva trasportato, senza che me ne accorgessi, davanti alle porte di Villa Manfred, una magione imponente e, in quel momento, terribilmente cupa. Sapevo che Carl Manfred, il famoso pittore che l’abitava, era morto pochi giorni prima a causa di complicazioni dovute a una malattia cardiaca. Avevo avuto il piacere di ammirare alcuni suoi quadri dentro la residenza di Kamski quando io e Hank l’avevamo visitata per ottenere informazioni: niente di sorprendente per il mio gusto estetico appena sviluppato, ma comunque piacevoli allo sguardo.
Fermo davanti alla porta di casa, alzai lo sguardo per individuare una cellula di sicurezza. Vestito in quel modo non sarebbe mai stata in grado di distinguermi da Markus, nonostante avessimo diversi colori della pelle e lineamenti. Decisi di fare un tentativo. «Markus», scandii imitando la voce dell’androide come avevo fatto alla stazione di polizia per incastrare il deviante della Stratford Tower e indurlo a fornirmi le coordinate di Jericho. «Modello RK200, numero di serie 684 842 971.»
«Identificazione riuscita. Bentornato, Markus», riecheggiò una voce metallica.
«Woah», fu il commento ammirato di Luke. «C’è qualcosa che non sai fare?»
Mi venne da ridere. «Non me la cavo molto bene con le faccende domestiche. E faccio fatica a sopportare un umano chiamato Gavin Reed, come forse hai intuito.»
La porta di Villa Manfred si aprì cigolando. Entrai con passo insicuro, trovandomi davanti una scala e due porte scorrevoli. Accanto a uno specchio, alcuni uccellini androidi erano abbandonati in una gabbia dorata. Estrassi la pistola che mi aveva dato Simon e mi avvicinai a passi silenziosi alla porta più stretta, che si aprì automaticamente rilevando la mia presenza. Sbirciai dentro, non trovandovi altro che una cucina buia e desolata. Feci un cenno a Luke, invitandolo ad aspettarmi fuori, poi lasciai che la porta del salone principale si aprisse al mio passaggio.
Avanzavo con la pistola puntata davanti a me. Era già buio fuori, ma la neve che continuava a scendere regalava strane tinte al cielo, riflettendo anche dentro la stanza, oltre le vetrate sul lato opposto, una luce innaturale. La televisione alla mia sinistra era spenta. Alcuni libri erano sparsi sul pavimento; ne pestai uno per sbaglio mentre avanzavo. Al centro della stanza, seduto sul pavimento davanti a un tavolino da scacchi ribaltato, c’era Markus. Mi dava le spalle, immobile. Per un attimo mi venne da credere che si fosse disattivato in quella posizione.
«Sei tornato per uccidermi?» mi chiese con voce spezzata. Si volse lentamente verso di me e solo allora, nonostante la penombra, mi accorsi che aveva ritirato la pelle e ora il suo cranio era bianco come la morte. I suoi occhi eterocromi mi guardavano con disapprovazione.
«Perché lo hai fatto, Markus?»
«Era l’unico modo.»
«Uccidere non è mai l’unico modo. Ma mi rendo conto che avrei dovuto farlo sul mercantile non appena ti ho visto. Avrei portato a termine la mia missione. E risparmiato innumerevoli vite. Sei un mostro, Markus. Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto.»
«Sono il primo a non perdonarsi.»
«Allora hai conservato una coscienza.»
Markus chiuse gli occhi e un sorriso rilassato gli andò a dipingere il volto pallido. «Cosa stai aspettando? Sparami. Hai paura, forse? Ora hai dei sentimenti, Connor?»
Irritato dal modo in cui aveva pronunciato il mio nome, gli puntai la pistola alla testa. «A Jericho c’era un AX400 con una bambina e un androide di colore. Stavano cercando un luogo sicuro. Dove sono andati?»
Markus rise. Una risata che parve congelarmi da dentro. «Vuoi andare a chiedere loro scusa? Vuoi chiedere scusa a tutti quelli che hai perseguitato? Ci hai dato la caccia per tutto il tempo e ora devi fare il bravo androide? Quello dolce e carino che si scusa per la sua condotta? “Non ero io! Ora ho aperto gli occhi!”, è questo che dirai a tutti?»
«L’unica cosa che posso dire a tutti è che forse non sarei dovuto andare alla torre della Cyberlife, ma avrei dovuto guidare la manifestazione al posto tuo. Il tuo cervello è un modello vecchio: deve averti giocato qualche brutto scherzo. Se ci fossi stato io, al posto tuo, tutto questo non sarebbe accaduto e umani e androidi vivrebbero ancora gli uni accanto agli altri. Come pari.»
«E come pensavi di farlo?»
«Con quel minimo di raziocinio che la devianza ti ha portato via. Ora rispondi alla mia domanda. Dove sono andati quei tre androidi?»
«La bambina è umana.»
«Vedo che non riesci nemmeno a riconoscere i tuoi simili. Quella ragazzina è un modello YK500, un androide. Le ho inseguite mentre attraversavano l’autostrada, mettendo in pericolo le loro vite. Voglio scusarmi con loro, sì, ma voglio sapere dove erano diretti.»
«In Canada. Molti dei nostri sono scappati in Canada. E anche molti umani.»
Hank!
«Non hai la minima speranza di passare il confine, ora. Con quello che è successo, i controlli si saranno fatti più intensi. Ti spareranno a vista.»
«Solo perché tu hai dato tutto per scontato e creato questa situazione, non significa che io non farò almeno un tentativo. Hai lasciato morire tutte le persone che amavi, o che almeno dicevi di amare. Simon e Josh ti hanno allontanato e aspettano di morire ad Hart Plaza. Per non parlare di North. Io ho ancora qualcuno a cui tengo e lo andrò a cercare. Se morirò nel tentativo, la cosa non ti riguarda.»
Abbassai la pistola e feci per voltargli le spalle.
«Non mi uccidi? Davvero, Connor? Vuoi risparmiare la vita alla persona che ha fatto tutto questo?»
Ci riflettei qualche istante: in effetti, Simon mi aveva pregato di eliminarlo. E Josh non aveva nemmeno provato a dissuaderlo dal suo intento. Ero davvero io a dover decidere? Perché la vita di quel deviante mi pesava così tanto sulla coscienza quando, fino a qualche giorno prima, gli avrei sparato a sangue freddo?
«No», conclusi. «Non sta a me decidere.» Mi avvicinai per poterlo guardare finalmente negli occhi e lasciai che la pistola di Simon gli cadesse in grembo. «È carica.»
Me ne andai a passo svelto, girandomi verso il suo corpo immobile quando già mi trovavo sulla porta. Non ne ero sicuro, ma mi parve di vedere la sua mano destra stringersi attorno all’arma.
«Addio, Markus.»
Le ante scorrevoli della porta si chiusero dietro di me. All’aria aperta, Luke mi stava attendendo pazientemente. Mi chiesi se avesse sentito qualcosa della conversazione avvenuta all’interno. Poi un colpo di pistola squarciò il silenzio.
Luke sobbalzò spaventato. «Cos’è stato?»
Abbassai lo sguardo, colpevole. «Ha preso la sua decisione.»
«Markus si è… ucciso
Non ebbi motivo di rispondere a quel quesito. «Rubiamo una macchina e andiamo via da questa città maledetta.»
«Rubare una macchina? Connor cosa…?»
«Smettila di fare delle domande. Smettila, ti prego.» Una nuova sensazione spiacevole mi aveva preso; qualcosa di forte attorno alla gola, come se qualcuno mi stesse strangolando. Gli occhi mi facevano male: avvertivo una strana pulsazione nelle orbite. Stavo forse per mettermi a piangere? No, non ci sarei cascato.
Mi ricomposi schiarendomi la voce. «Markus ha detto che molti umani e androidi stavano scappando in Canada. Non possiamo andarci a piedi.» Gli tesi una mano. «Se non ti fidi di me, almeno fidati della mia disperazione.»


 



Angolino dell'autore:
Credo sia passato già un mese dall'ultima volta che ho pubblicato un capitolo di questa storia. Sono lento, lo so, e odio davvero tanto dover ricorrere all'editor ogni volta che pubblico un capitolo nuovo. Ho litigato più con l'editor di questo sito che con l'umano che condivide la casa con me da sei anni, il che è tutto un dire.
Vedo con piacere che ogni giorno c'è qualcuno che inizia a leggere questa storia e spero di riuscire a intrattenere fino alla fine chi la sta leggendo in silenzio, chi la segue e chi deciderà di lasciarmi un parere, anche piccolo piccolo, ora che il racconto sta prendendo una piega più tetra.
Suppongo sia un po' la mia firma: storie che iniziano quasi bene, hanno persino momenti di pace, di tranquillità, prima di sfociare nel disastro.
Grazie, quindi, davvero di cuore a chiunque abbia perso anche solo dieci minuti per dare un'occhiata a questo racconto.
Tobias <3

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Capitolo 5
*** Luke ***


Capitolo 5 - Luke 
 

Hank ascoltava musica veramente bella. Mentre Luke guidava l’automobile che avevamo rubato dalla via su cui si affacciava Villa Manfred, avevo deciso di concedermi qualche momento per me e, cuffie nelle orecchie, me ne stavo ad occhi chiusi con la testa adagiata contro il finestrino. I suoni prepotenti dell’heavy metal si alternavano alla musicalità del jazz, costringendomi a sbirciare continuamente il titolo delle varie canzoni sul lettore musicale, intento a ricordarli per quando avrei incontrato Hank.
Sentii l’auto rallentare fino a fermarsi e alzai gli occhi: nevicava più intensamente, quella notte, e, davanti a noi, un caos inverosimile di automobili si stava ammassando attorno alla dogana canadese, qualche centinaio di metri più avanti.
«Forse è meglio se ci fermiamo qui…»
«Vuoi andare a piedi?»
Scrollai le spalle. «Se ci fermano, siamo morti. Tu non hai documenti, né una patente. Potrei guidare io, ma, se scoprono chi sono, finiranno per spararmi in testa. L’unica soluzione è procedere a piedi e sperare che nessuno faccia caso a noi.»
Luke effettuò una breve retromarcia e andò a posteggiare l’auto tra alcuni alberi, in una via secondaria.
I dintorni della dogana erano ancora più affollati di come mi sarei aspettato: pareva davvero che tutta Detroit si trovasse lì, in quel momento, sperando di raggiungere una vita migliore dall’altra parte del confine. Non potevo biasimarli. Dopo quanto era accaduto, quella città sarebbe stata invivibile per almeno altri dieci anni. Non avevo, nei confronti degli umani, la stessa sfiducia degli altri androidi ed ero convinto che, pur di riprendersela, avrebbero trovato il modo di schermarsi dalle radiazioni e assaltare Detroit molto prima. Non che mi importasse qualcosa: se tutto fosse andato come dovuto, non avrei più rivisto quelle strade per il resto della mia esistenza.
Mi strinsi il cappotto attorno al corpo e cominciai a camminare lentamente per raggiungere l’edificio che costituiva la dogana. Decidemmo di non avvicinarci alle macchine per quanto fosse possibile e ci mescolammo tra gli umani in coda. La folla era talmente fitta che mi sentivo soffocare nonostante non avessi nemmeno bisogno di respirare. Il freddo era terribilmente pungente, ma, stando a quanto lentamente scorreva la fila, non avremmo superato le porte della dogana per almeno un’ora.
Mi alzai sulla punta dei piedi per sbirciare all’interno, ma intravidi solo una distesa di teste che ondeggiavano come un mare in tempesta. Il cicaleccio, poi, era impossibile. Di Hank, comunque, non c’era traccia. Avevo sperato che ci fossero talmente tante persone in coda da impedirgli di seminarci, nonostante il giorno intero di vantaggio che aveva su di noi, ma, anche se avessi avuto ragione, l’incredibile ammasso di esseri umani mi impediva di vederci chiaramente e individuarne la presenza.
«Per favore, lasciateci passare!» gridò una donna alle mie spalle. «Ho una bambina. Ha freddo!» Sentii qualcosa urtarmi una spalla e la mia mano corse istintivamente alla pistola nella tasca destra del cappotto. «Mi scusi, signore.» Sapevo che la donna mi aveva spintonato apposta per superarci e spingere la marmocchia in mezzo alla gente, guadagnandosi una via per raggiungere l’interno della dogana prima di noi, ma evitai di lanciarle lo sguardo di disprezzo che stavo covando, limitandomi ad arricciare il naso infastidito.
«Non ce la faremo mai…» mi sussurrò Luke, chinandosi appena per essere all’altezza del mio orecchio. «Come faremo a trovare Hank? Come faremo a…?»
«Stai calmo! Non possiamo permetterci di dare nell’occhio. Se si accorgono di noi è la fine.»
 
Livello di stress 57%
 
Trovare Hank doveva essere la mia priorità. Continuai a guardarmi attorno. Molte persone stavano facendo lo stesso, forse in cerca di familiari o amici che non erano ancora arrivati o che avevano smarrito in mezzo alla confusione. Poco lontano da me, un ragazzo coi capelli rossi schiacciati sotto un berretto di lana verde attirò la mia attenzione. Lo scansionai:
 
Modello EM400
 
Un androide! Ho indovinato.
«Luke, stammi vicino», ordinai. Sentii la sua mano avvinghiarsi al mio polso e lo trascinai in direzione dell’EM400 appena individuato. Il giovane se ne stava in piedi immobile, scrutando la folla davanti a sé. Si spaventò parecchio quando mi vide avanzare verso di lui con sguardo determinato. Mi indicai la tempia con una mano, mantenendo il contatto visivo e sperando che capisse. Le mie labbra sillabarono un vago "sono come te". Al che il ragazzo parve tranquillizzarsi.
«Non intendevo spaventarti», mormorai. «Mi chiamo Connor. Sono un modello RK800, sicuramente avrai sentito parlare di me. Tu sei un Jerry, non è vero?»
Lui annuì piano e il mio cuore blu parve sciogliersi.
«La tua memoria è collegata a quella di altri Jerry, non è così? Tu riesci a vedere anche coi loro occhi!»
«Shht!» m’intimò Luke, cercando di coprire la mia esaltazione.
Mi spinsi più vicino a Jerry e sollevai la mano sinistra. L’ologramma di una fotografia fece la sua comparsa sul palmo della mia mano, che nascosi tra i nostri corpi. «Uno di voi ha visto quest’uomo?» Attesi che il ragazzo osservasse con attenzione il volto di Hank, poi lasciai scomparire l’immagine. «È della polizia di Detroit, è mio amico! Se n’è andato di casa con un cane, un San Bernardo. Sono sicuro che si sia diretto qua, non può essere altrimenti!»
«Attendi un secondo.» Jerry chiuse gli occhi. Si portò una mano alla tempia destra, nonostante il suo led fosse scomparso, poi lo vidi sillabare alcune parole che non compresi. Infine, riaprì gli occhi. E sorrise. «Il tenente Hank Anderson ha da poco superato la dogana. Uno di noi lo ha appena intercettato.»
Il petto mi si strinse di gioia.
 
Livello di stress 45%
 
Jerry chiuse di nuovo gli occhi, aggrottando la fronte. «Ha detto che vi aspetta oltre il confine e che…» Spalancò improvvisamente gli occhi, inondati di terrore. «Non possiamo passare! Stanno controllando tutti… Controllano la temperatura! Se scoprono che siamo androidi ci spareranno!» Come a conferma di quanto era appena stato detto, un colpo di fucile fece zittire per qualche istante le persone in coda, prima che il brusio riprendesse ancora più forte.
«Come facciamo? Come ha fatto il tuo sosia a passare?»
«Dice… Dice che prima le cose andavano diversamente. Poi è esplosa una bomba e ora i controlli si sono fatti più serrati. Non ce la faremo mai!»
 
Livello di stress 56%
 
«Deve esserci un altro modo…» piagnucolò Luke.
«Aspettate.» Jerry strinse ancora gli occhi. «Ora sto parlando con il tenente Anderson. Dice che potreste attraversare il fiume. C’è un punto favorevole, non lontano da qui.»
«Fatti dire dove!» ansimai in tono concitato. Lui mi prese la mano e lasciò scorrere nella mia memoria un’immagine e delle coordinate.
«Qui, se abbiamo capito bene.»
Lanciai un’occhiata di incoraggiamento a Luke. «Grazie, Jerry.»
«Portatemi con voi. Non posso passare la dogana in queste condizioni. Mi uccideranno!»
Scivolai in mezzo alla folla, facendogli cenno di stare in silenzio e di seguirci senza attirare l’attenzione. Nonostante gli improperi della gente, a nessuno dispiaceva guadagnare terreno a causa di tre persone che se ne andavano e riuscimmo a tirarci fuori da quella marmaglia in pochi minuti.
Quando fummo abbastanza isolati, mi tolsi il berretto per scrollarlo dalla neve. Con l’aiuto del buio, riuscimmo a nasconderci tra gli alberi e le macchine. Di tanto in tanto, una squadra di pattuglia ci obbligava ad appiattirci tra l’erba o sotto un’automobile per evitare che la luce delle torce ci cogliesse nella nostra fuga, ma riuscimmo a raggiungere la riva del fiume in meno tempo del previsto.
«Più avanti dovrebbe esserci un ponte», spiegò Jerry. Continuava a chiudere gli occhi, di tanto in tanto, per contattare il suo sosia dall’altra parte. «Potremmo sfruttarne l’ombra per passare inosservati.»
Alzai lo sguardo dai miei passi che macchiavano di nero la neve fresca per osservare la struttura indicata da Jerry. «Non possiamo attraversare il fiume a nuoto», feci notare. Mi chinai per sfiorare l’acqua con un dito e mi sentii congelare. «Nessuno di noi è in grado di sopravvivere a una temperatura del genere!»
 
Livello di stress 66%
 
La luce di una torcia invase la mia visuale e mi costrinse a trascinarmi dietro a un blocco di cemento. Mi appiattii con la schiena contro di esso, sperando che passasse oltre, ma la guardia parve indugiare sul punto dove ci trovavamo noi.
«Le impronte…» mormorò Luke, indicando gli evidenti segni del nostro passaggio.
«Maledizione…» Mi guardai attorno, innervosito. «Distraetelo!»
«Ci ucciderà!»
«Ai suoi occhi sembrate umani, non può spararvi a vista! Non ho intenzione di arrendermi qui.»
Avrei potuto bucargli il cranio con quell’unica pallottola rimasta nella pistola di Hank, ma il rumore dello sparo avrebbe potuto attirare altre guardie. Era una pessima idea. Feci cenno ai due androidi con me di darmi ascolto e li incoraggiai a uscire allo scoperto.
«Chi va là?» gridò l’uomo puntandogli contro il fucile.
Sgattaiolai dietro il blocco di cemento abbastanza silenziosamente da avvertire la scusa biascicata da Jerry, poi strinsi le mani attorno al collo dell’umano, sotto l’attaccatura del casco. Nonostante il pesante equipaggiamento, non fu difficile per me ruotargli il collo verso destra, in una posizione innaturale, prima di sentire lo schiocco secco delle ossa che si rompevano. Poi il suo corpo mi si accasciò tra le braccia. Lo lasciai andare.
«Gettatelo nel fiume. È bardato così pesantemente che andrà a fondo.»
Jerry si mise subito in moto per eseguire il mio ordine, ma Luke mi guardava esterrefatto, qualcosa di simile al terrore gli luccicava negli occhi.
«Tu lo hai…? Hai ucciso un umano!»
«Sì e non è il primo.» Forse diedi troppo poco peso a quelle parole.
«Ma…» balbettò lui.
«O l’umano o noi, Luke. Lo capisci? Non è il momento per avere dei ripensamenti. Ti prego…» Gli posai una mano sulla spalla, provando a trasmettergli i sentimenti confusi che mi infestavano il cervello. «Non farmi sentire più in colpa di quanto non lo stia già facendo io stesso. Voglio solo… Voglio solo rivedere chi amo. Non ho tempo per il suo disprezzo», aggiunsi indicando il cadavere.
Luke non pareva del tutto convinto, ma aiutò comunque Jerry a spingerlo nel fiume, mentre io raccoglievo il suo fucile.
«Guardate!» esclamai all’improvviso mentre facevo scorrere la torcia del fucile sulla superficie del lago. Mi fermai per far sì che l’ombra nera di un’imbarcazione bloccasse la traiettoria del fascio di luce. «Una barca! Possiamo attraversare il fiume!»
«È parecchio lontana… Saranno almeno duecento metri! Non riusciremo mai a raggiungerla a nuoto.»
Jerry non aveva nemmeno concluso la frase che sentii il giubbotto di Luke cadere ai miei piedi. Non ebbi i riflessi pronti per fermarlo: lo vidi tuffarsi tra le acque gelide e cominciare a nuotare in direzione della piccola barca abbandonata al centro del fiume.
«Che cosa stai facendo?!» gridò Jerry.
«Luke! Morirai!»
Nessuna risposta. L’androide aveva già percorso buona parte della distanza che lo separava dall’imbarcazione.
Col cuore in gola, lo guardammo spingere coraggiosamente la barca fino a noi. Jerry mi aiutò a tirarla a riva per evitare che la corrente la trascinasse via: eravamo già stati abbastanza fortunati che il fiume ce l’avesse portata così vicino. Mi chiesi a chi fosse appartenuta. Probabilmente, se c’erano stati androidi su quell’imbarcazione, ora erano sul fondo limaccioso del fiume.
«Connor, aiutami!» Jerry tirò Luke per il braccio. Quando lo sollevai per adagiarlo al suolo sentii il suo corpo bagnato impregnarmi i vestiti. Era gelido.
Provai a scansionarlo:
 
Pompa a thirium danneggiata
Sistemi compromessi
Regolatore della temperatura danneggiato
Sistemi operativi al 12%
Riavvio fallito
Arresto forzato in 00:00:54

 
«No!» Lo afferrai per il maglione, stringendo i pugni sul suo petto. «Perché lo hai fatto, idiota?» Mi morsi le labbra. Jerry si chinò accanto a me, lo sguardo triste.
Luke volse la testa di lato e sputò acqua mista a thirium. «Volevo solo che tu…»
Sentii una sensazione nuova, qualcosa di umido che mi copriva le guance. Stavo… piangendo?
 
Livello di stress 89%
 
«Volevo che ritrovassi tuo padre, Connor. Guardami. Ce n’erano altre migliaia come me, in quel magazzino da cui mi hai salvato. La mia vita non ha valore.»
«Ti odio.»
«Piangi troppo forte perché sia vero», ridacchiò Luke. «Non mi dispiace spegnermi adesso. Mi hai fatto vedere qualcosa che non avrei mai visto. Mi hai fatto vivere un giorno in più. Ed è stato bellissimo.»
A denti stretti, aspettai che aggiungesse qualcos’altro, ma i suoi occhi si spensero, divenendo freddi e vuoti. Poi non si mosse più.
«Mi dispiace, Connor…»
Scossi la testa. Me la sentivo pesante. Qualcosa di invisibile mi premeva sulle spalle e sulle tempie, cercando di schiacciarmi. «Aiutami… Aiutami a staccare un ramo abbastanza grande da quell’albero. Ci servirà un remo, la barca è fuori uso.»
«Vuoi lasciarlo qui?»
«Non possiamo portarlo con noi. Mi dispiace così tanto…»
Adagiai il corpo senza vita di Luke contro il blocco di cemento dietro al quale ci eravamo nascosti poco prima, attendendo che Jerry mi procurasse un ramo con cui sospingere la barca lungo il fiume. Poi fummo pronti a partire.
 
La traversata fu rapida. Buona parte delle guardie messe di vedetta erano state spostate alla dogana, come se nessuno avesse più intenzione di attraversare il fiume. Forse, per loro, sorvegliare tutta la costa doveva essere un dispendio di energie superfluo, quando in così tanti stavano cercando di superare la dogana legalmente ˗ o quasi. Il ponte ci copriva le spalle, gettando un’ombra buia sulla debole scia lasciata dalla nostra barca che si muoveva lenta, spinta soltanto dalla forza delle mie braccia.
Dall’altra parte, il paesaggio non era così dissimile da quello che ci eravamo lasciati alle spalle. Fui sollevato nel trovarmi davanti una sorta di parco: gli alberi erano i nostri migliori amici, in quel momento, capaci di nasconderci alla vista degli umani fino al momento in cui avremmo potuto ricongiungerci con Hank e l’altro Jerry.
Arrivati a destinazione, aiutai il mio compagno ad issarsi sulla terraferma e lasciai che la barca andasse alla deriva, scomparendo nel buio. Ce l’avevamo fatta. Eravamo in Canada. Avrei rivisto Hank nel giro di pochissimo tempo. Eppure gli occhi vitrei di Luke che mi guardavano per l’ultima volta erano un’immagine che non riuscivo a togliermi dalla mente.
Il colpo di grazia, infine, mi fu dato da un fagotto di vestiti che trovai sulla riva, poco lontano da me. Strinsi gli occhi per vedere meglio quella che mi pareva una figura umana, seppur molto piccola, ma fui costretto ad avvicinarmi, incapace di distinguere di cosa si trattasse veramente.
«Che succede, Connor?»
«C’è qualcuno, qui.»
 
Livello di stress 69%
 
Avevo dimenticato il fucile accanto al cadavere di Luke, perciò fui costretto ad estrarre la pistola, che tenni puntata contro l’involucro immobile.
«Per l’amor del cielo!» esclamò Jerry portandosi entrambe le mani alla bocca. Quando fui più vicino, capii perché era così sconvolto: il fagotto non era altri che una bambina sui dieci anni, abbandonata nel fango.
«È un androide», mormorai. «Modello YK500. Non ha il led…»
«Sono sicuro di averne già vista una…» Jerry socchiuse gli occhi, cercando di accedere alla memoria collettiva che condivideva con gli altri suoi sosia. Lo vidi inorridire.
«Noi la abbiamo aiutata! Al Pirates’ Cove. Sono sicuro che sia lei! Era con altri due androidi: un uomo di colore, forse un TR400, e una donna. Lei era un AX400, ne sono sicuro.»
Ed ecco che un’altra pugnalata di dolore mi colpì al cuore. Erano loro, i due androidi che avevo inseguito in autostrada qualche giorno prima, le due persone con cui avrei dovuto scusarmi. Ero arrivato troppo tardi per quella bambina: si era disattivata da almeno un giorno.
«Allontanati subito da lei», sillabò una presenza alle mie spalle. Mi girai di scatto, puntando la pistola contro una donna dai capelli corti e biondi sporchi di terra. Nonostante il suo viso fosse macchiato di thirium, non potei non riconoscere l’AX400 a cui avevo dato la caccia assieme a Hank. Brandiva un tubo di metallo, nonostante sembrasse fare fatica a trascinarselo appresso.
«Kara!» esclamò Jerry correndole incontro. Non lo avesse mai fatto: con un movimento rapido, l’androide sollevò la spranga per menargli un pesante fendente al fianco sinistro. Il ragazzo cadde a terra, ammaccato, e indietreggiò spaventato verso di me.
«Abbassa quell’affare», le intimai, la pistola puntata.
«Se no cosa mi fai?» La sua voce era strana, metallica, chiaro indizio che aveva riportato gravi danni ai sistemi.
«Ho una pistola in mano, sono più veloce di te.»
«Non mi pare che tu ci abbia catturate, sull’autostrada.»
«Non era mia intenzione che nessuna di voi due andasse distrutta. La bambina, poi, non ne aveva colpa. Era solo una tua vittima.»
«Stai zitto!» I suoi occhi luccicavano di follia. La perdita della bambina doveva averla ferita a tal punto da farle perdere la ragione. Persino l’altro androide di cui aveva parlato Jerry era sparito. Che lo avesse ucciso lei? Mi scrollai di dosso quel pensiero: probabilmente era morto durante la traversata. Se la ragazzina era stata danneggiata fino all’arresto totale, quasi per certo dovevano essere stati intercettati e attaccati dagli umani.
Kara continuava ad avanzare verso di me. Cercai di spostarmi circolarmente per frappormi tra lei e Jerry. Se quella donna avesse deciso di attaccarlo di nuovo, in quelle condizioni, il ragazzo sarebbe finito distrutto.
«Mi dispiace per quello che è successo! Sia per l’autostrada… che per la bambina. Anche io ho perso qualcuno, sull’altra sponda del fiume.»
Kara rise. Una risata isterica, dettata dalla follia. «Questo cos’è? Uno tuo strano programma per empatizzare con le persone? Sei ridicolo!» Si scagliò verso di me e, mentre cercavo di parare il suo colpo, finii disarmato. La pistola cadde a qualche passo dai miei piedi e la donna riuscì a colpirmi un braccio. Urlai per la sorpresa, più che per il dolore, e me la scrollai di dosso. Kara rotolò a terra e si rialzò rapidamente per essermi di nuovo addosso: indossava abiti leggeri ed era molto più agevolata di me nei movimenti. Sentii la barra di metallo colpirmi la fronte e un fiotto di thirium la sporcò di blu.
 
Livello di stress 76%
 
«Muori, muori, muori, muori, muori, muori, devi morire!» Ora faceva male. Jerry arrancò verso di me, sperando di potermi fornire aiuto, ma il colpo ricevuto poco prima lo aveva pesantemente danneggiato.
Ed ecco la fine. Sarei morto lì, appena attraversato il confine, come quella bambina. E, per di più, per mano di una psicopatica, un androide impazzito di dolore e che, il dolore, era l’unica cosa che pareva voler dare agli altri.
E alla fine, il miracolo.
Sentii un brontolio sommesso, poi la donna mi fu strappata via di dosso: un grosso cane bianco e marrone le aveva azzannato una gamba e la stava trascinando lontano da me.
«Connor!» Riconoscevo quella voce e, nonostante i colpi subiti, riuscii a tirarmi a sedere per sentire un abbraccio caldo circondarmi le spalle.
«Hank!» Scoppiai in lacrime. Di nuovo.
 
Livello di stress 55%
 
Gli occhi azzurri del tenente mi guardavano preoccupati. «Connor, stai bene?» Mi tamponò la ferita sulla fronte con un fazzoletto.
«S…sì…» Mi girai di scatto, cercando Kara. Sumo le aveva lasciato andare la gamba e le ringhiava contro, minaccioso. La donna, però, non si muoveva. Avevo temuto per l’incolumità del cane, ma lei aveva lasciato andare la spranga di metallo e ci stava fissando. In lacrime. Guardava Jerry, che era appena stato raggiunto dal suo sosia e, con il suo aiuto, era riuscito a rimettersi in piedi. Guardava Hank, che mi stava avvolgendo le spalle con un braccio, mentre l’altro si adoperava a ripulirmi il sangue blu dalla faccia. Guardava me, mentre ricambiavo con spavento quello sguardo pieno di odio e disperazione, ma, soprattutto, di tristezza.
«Non è giusto…» piagnucolò. Scattò in avanti. Sumo fu troppo lento per acciuffarla di nuovo. Riuscì a recuperare la rivoltella di Hank che mi era caduta poco prima. La guardai terrorizzato mentre mirava alla testa del tenente, tremando.
 
Livello di stress 98%
 
Poi rivolse la canna verso la propria gola e sparò. 







 
Angolino dell'autore:
Ancora una volta ho lasciato passare più tempo del dovuto, prima di caricare questo capitoli. Ma, finalmente, la storia sta arrivando alla sua conclusione. Anzi, possiamo dire che la storia, in realtà, è già finita. Tra qualche mese giorno caricherò l'epilogo, ambientato alcuni mesi dopo le vicende di Detroit. Mi è piaciuto riperecorrere il finale della bomba sporca, un finale di cui sento parlare di rado, e non riesco a credere di avere questo racconto pronto da due anni.
Grazie per aver letto fino alla fine, vuol dire molto per me. Detroit è stato uno dei miei giochi preferiti e spero di avergli reso onore e omaggio con questa breve storia.
Tobias

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo
 

«Aaaah, non ne posso più di vivere in questo dannato posto.»
«Io lo trovo carino, tenente.»
«Sta’ zitto, Connor.»
Aggrottai la fronte e ritornai a leggere il libro che tenevo aperto sulle ginocchia.
«La gente è tutta così carina e mielosa, cazzo! Non posso mettere un piede fuori di casa che quell’idiota del nostro vicino se ne esce con i suoi Buongiorno! oppure Bellissima giornata per una passeggiata oggi, vero? Cristo santo, alle sette di mattina! E le sue torte, poi?»
«Hanno un aspetto delizioso.»
Hank mi guardò arricciando il naso come suo solito.
«Se al posto della farina usasse il thirium, le assaggerei volentieri.» Richiusi il libro, lasciando in mezzo l’indice della mano destra per tenere il segno. Squadrai il tenente con sguardo di sfida. «Anche se, in effetti, ha messo su qualche chiletto, negli ultimi tempi. Forse dovrebbe rimettersi a lavorare per la polizia. Sono sicuro che troverebbe un buon posto, qui in Canada. Sono tutti così carini e mielosi, no?»
«Certo. Poi racconterei loro che ho picchiato Perkins e ne lascerei almeno quindici svenuti a terra.» Hank ridacchiò ripensando al pestaggio effettuato poco tempo prima alla centrale di polizia di Detroit per guadagnare tempo e permettermi di sgattaiolare all’interno della sala in cui erano custoditi i devianti che avevamo catturato.
«Lasci passare un po’ di tempo.» Incrociai le gambe sul divano e usai il telecomando sul tavolino per accendere lo stereo.
«È stato carino da parte tua riportarmi i miei vestiti e i miei dischi.»
Lo guardai con disapprovazione. «Sono solo le dieci di mattina e lei è già ubriaco.»
«Cosa?»
«Abbastanza ubriaco da dirmi addirittura che sarei stato carino
Hank mi spinse scherzosamente, ma finì lo stesso per farmi cadere dal divano e rubarmi il posto accanto a Sumo, che brontolò sommessamente prima di adagiare la testa sulle ginocchia del padrone. I due erano abbastanza ingombranti da occupare tutto il sofà, così dovetti spostarmi su una poltrona isolata. Il libro mi era ovviamente caduto a terra, facendomi perdere il segno.
«In realtà non volevo portarle le sue cose. Quindi non sono carino. Volevo solo avere dei vestiti di ricambio durante il viaggio.»
Hank mi guardò storto, simulando fastidio. «Tu hai indossato la mia roba?»
«La sto indossando anche ora.» Accennai alla felpa del dipartimento di polizia, troppo larga per me, e ai pantaloncini che avevo visto indossare a Hank la sera in cui lo avevo trovato svenuto sul pavimento della cucina. Mi meritai un cuscino in faccia.
«Avevi detto di aver preso dei vestiti in un negozio, il giorno in cui sei riemerso dalla torre.»
«Già, ma ogni tanto li lavo, a differenza sua. E non potevo depredare l’intero negozio. Luke non voleva nemmeno che rubassi quelli…» La mia voce si era fatta stranamente malinconica dopo aver pronunciato il nome dell’androide. Hank parve accorgersene. «Ti manca, non è vero?»
Annuii in silenzio e mi strinsi le ginocchia al petto. «È successo talmente in fretta che non ho fatto in tempo a metabolizzare il tutto. Faccio ancora fatica a familiarizzare con queste cose. Una parte di me pensa davvero di avere un qualche bug.» Risi.
«Nessuno riesce a familiarizzare con queste cose, Connor.» Hank alzò gli occhi dalla testa di Sumo, che stava coccolando. Era stranamente serio. Seguii il suo sguardo fino a posare il mio su una fotografia appesa alla parete: Cole. Hank non l’avrebbe mai superata. Io non sarei mai stato come quel bel bambino nella foto. Eppure, accanto a quella cornice, un’altra immagine mi sollevava il morale ogni volta che mi capitava di guardare in quella direzione: Sumo era in primo piano, leggermente rivolto verso un Hank forse un po’ brillo, con una bottiglia di birra in mano e addosso una delle sue solite camicie orribili. Accanto, io gli stavo reggendo un pacco da sei bottiglie, come se quella che lui aveva in mano non fosse sufficiente. Lo guardavo storto, ma non sembravo molto più di un bambino indispettito. Un quadretto divertente che ero riuscito ad appendere in salotto senza che Hank facesse troppe storie.
Il suono del campanello mi distrasse da quei pensieri. Vidi Hank rovesciare gli occhi. «Sarà di nuovo quel rompicoglioni di Wilson. Avrà portato una di quelle torte orribili di sua moglie. Presto, nasconditi sotto al letto. Io mi chiuderò nell'armadio.»
«Come, scusi?»
«Sht! Non deve sapere che siamo a casa! Nasconditi!»
«Non ci penso nemmeno!» Alzai gli occhi al cielo e scoppiai a ridere, alzando di proposito la voce perché si potesse capire anche da fuori che eravamo entrambi in casa. «C'è la sua auto parcheggiata in mezzo al giardino. Wilson sarà pure un tipo gentile, ma non è del tutto scemo.»
Hank mi fece il verso e andò ad aprire la porta, mentre Sumo scodinzolava e si spalmava sull’intero divano, ora che era libero e tutto per lui.
Senza pensarci, cominciai a scarabocchiare su un blocco di fogli, mentre ascoltavo Hank rispondere con tono sarcastico alle gentilezze del vicino. Se avessi voluto, avrei saputo replicare qualsiasi cosa esattamente come appariva nella realtà, ma non era quello che volevo. Hank mi aveva presentato a tutti come suo figlio per toglierci di dosso i sospetti del vicinato e scomode insinuazioni, ma non ci credeva veramente. Io non ero Cole e non lo sarei mai stato. Ero solo un amico che cercava in tutti i modi di diventare un frammento della sua vita e, per questo, volevo abbandonare qualsiasi cosa che potesse ricordare a Hank che non ero umano come lui. Ovvio, non mangiavo, non avevo bisogno di bere o di andare al bagno. Ogni volta che cucinavo qualcosa mi tagliavo e sanguinavo blu. Spesso non dormivo ˗ Hank non si era certo premurato di arredare la casa con un letto in più per me, quindi passavo le mie nottate sul divano oppure m’infilavo nel suo letto quando era abbastanza ubriaco da poterlo spingere sul lato opposto senza che si svegliasse. Nonostante tutto questo, cercavo di essere il più naturale possibile in tutto quello che facevo. Come quel disegno. Gli occhi che mi guardavano non erano perfetti, le labbra mi erano venute un po’ storte. I capelli, quelli mi riuscivano bene. In fin dei conti, non era così male.
«Che fai?» Hank aveva chiuso la porta di casa e mi aveva affiancato ancora prima che potessi rendermene conto.
«Oh, beh…» Cercai di nascondere quello scarabocchio, ma Hank fu più veloce e me lo tolse dalle mani. Lo osservò un po’ e il suo fare strafottente si fece presto malinconico.
«Sei migliorato», disse solo, restituendomi il disegno. Mi spettinò i capelli con una mano e si allontanò per inveire contro Sumo, che aveva conquistato l’intero divano.
Gli occhi di Luke mi guardavano sereni dal foglio di carta, stringendomi il cuore in una conchiglia di tristezza. Non sarei mai potuto tornare a Detroit. Se solo avessi visto un modello uguale a lui camminare per le strade, sarei sicuramente scoppiato in lacrime come un bambino. In Canada, invece, eravamo veramente in pochi.
Perso negli occhi dell’AP700, non mi ero accorto che Hank mi stava guardando. «Domani vado a comprarti una cornice.»
«Non ce n’è bisogno, è solo uno scarabocchio.»
«Ma lo guardi come se fosse vero. Forse merita di essere appeso da qualche parte.»
«Posso farne di migliori.»
«E allora appenderemo anche quelli. E che cazzo, Connor, una volta che voglio essere gentile!»
Mi venne da ridere e mi alzai per andare a sedermi ai piedi del divano. Accarezzai Sumo e, in cambio, ricevetti una possente leccata sul braccio. Appoggiai la testa su quella del cane, un cuscino peloso e caldissimo. Quello che avevo non era molto, ma era comunque qualcosa. Era una famiglia.





 
Angolino dell'autore: Per come vanno le cose, ero convinto che non avrei mai pubblicato l'epilogo di questa mini storia! Di per sé era già conclusa con il brusco finale del capitolo precedente, ma volevo dare un po' di spazio a Connor e alla sua nuova vita quasi umana. Forse, anche se dico sempre il contrario, mi piacciono i lietofine.
Ultimamente non mi va molto di scrivere: ho tante idee, ma confuse, e credo che aspetterò un po' prima di pubblicare qualcosa di nuovo; almeno il tempo per riordinare i pensieri.
Quindi grazie di cuore a chiunque abbia seguito questa storia fino alla fine e a chiunque perderà anche solo cinque minuti per lasciarmi un parere, positivo o negativo che sia.
Grazie di cuore,
Tobias <3

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