E Torneranno Le Stelle

di Manto
(/viewuser.php?uid=541466)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lontano Da Qui + Io e Te, L'Inizio ***
Capitolo 2: *** Saggio è Il Caduto, e Il Giovane ***
Capitolo 3: *** Trovami, Io Ti Aspetterò ***



Capitolo 1
*** Lontano Da Qui + Io e Te, L'Inizio ***


DISCLAIMER

I personaggi sotto trattati appartengono solo ad Asagiri-sensei.
La storia è stata scritta senza scopo di lucro.

 

ANGOLO DI MANTO

Salve a tutti.
Per questa volta si è rivelato necessario anticipare qui l’angolo autrice, per spiegarvi alcune cose che considero molto importanti.
La shot fa parte della challenge nata dai prompt della Writober “Canta per Me”, tuttavia ho preferito pubblicarla singolarmente per permettere di seguire lo schema del contest “Favole di Oggi – II Edizione”, indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP.
I prompt della challenge che ho utilizzato sono otto, i seguenti: Tenerezza + Abbraccio + Promessa + Bevanda + Indietro + Incomprensione + Passato + Realtà, ovvero dal numero 18 al 25.
I nomi dei vari paragrafi sono tutti riferimenti a titoli o pezzi di canzoni, come si vedrà nello specchietto posto alla fine della storia.
La storia è una AU ambientata nel mondo contemporaneo, dove le Abilità non sono presenti e la storia è meno ombrosa, ma non priva di angst. Per quanto alcune cose siano necessariamente diverse, ho cercato di fare più rimandi possibili all’opera originale ed essere fedele alla caratterizzazione dei pg per come ci è stata data.
I personaggi di Fyodor, Sigma e Gogol’ hanno tutti la stessa età (cosa che potrebbe essere anche nel canon, visto che per ora sappiamo solamente l’età di Gogol’), ovvero diciotto anni.




 

E Torneranno Le Stelle





 

{ Prologo Lontano da Qui }



 

Immancabili, presenza certa e rassicurante, i sogni si schiudono sotto le palpebre del bambino poco dopo l’inizio del sonno: visioni di fiori e onde d’erba, vento gentile che alza sabbia e dune come un velo, lontane luci di una città immersa nella sera, la pace di un luogo mai piegato da alcuno.
Non c’è motivo di soffrire né entità e fatto da temere, inseguire, comprendere; il mondo si allunga verso il tutto e il niente, comprende ogni cosa e la perde, perché così dev’essere.
Sono le tre del pomeriggio, ma il silenzio che avvolge la stanza rimanda a un’ora più tarda, alla piena mezzanotte; e nulla può la brezza fresca che sospira dall’oceano ed entrando scuote bianche tende, solleva le lenzuola con sottili, azzurre mani e le sistema meglio sul corpo dell’addormentato.
«Noi siamo in veranda se hai bisogno. In veranda», mormora e ripete una voce femminile mentre questa assume corpo e lascia un delicato bacio sulla fronte del piccolo, «riposa bene, tesoro mio.»
Fuori dalla finestra si odono risate e un tono adulto, profondo e rassicurante, che chiama un nome; e sentore di sole, sabbia mossa da passi in corsa, schiuma. Un’ottima giornata per rifugiarsi nel grembo dell’acqua e immaginare di essere nati diversi, liberi e lontano da qui.
E forse non sono più le tre, ma le quattro, le sei; sul soffitto si allunga un tessuto scuro e trapuntato di stelle tremanti e chiare, che trattengono a sé la mente finché possono; lontano da qui.
Nella casa nulla si muove, dalla spiaggia antistante non si ode più giungere nessun rumore: sembrano tutti scomparsi, quasi si siano dimenticati di chi è rimasto a sognare in un letto troppo grande per lui… lontano da qui.
Tale è la malia delle onde, quindi? È così forte da cancellare i pensieri, abbandonare le certezze, portare sempre più distanti? Ma da quel mondo come si torna indietro? Lontano da qui.
Alcune realtà è meglio non sfidarle, lo sanno anche i bambini; ma forse questa è una conoscenza nota solamente a loro, protetti dalla paura sorta dall’immaginazione, da una saggezza che svanisce con l’età.
Eppure, tutti sono consapevoli di come Baia del Dolore non porti quel nome senza motivo; e quindi perché continua a rapire, strappare e dividere senza restituire?
Piove: piove da quel manto stellato, fitto fitto sul viso del bambino, che non può più evitare di svegliarsi. Allora, scopre che non c’è nessun acquazzone, solo lacrime che gli rigano il volto e un singhiozzo incastrato in gola senza un apparente motivo.
«Papà? Mamma, sei tu?»
Se il vento sussurra parole, il bambino non le sente; e si siede sul letto, guardandosi intorno ancora intontito di sonno, mentre si asciuga le guance da gocce che pizzicano gli occhi come se fossero piene di sale, e ne hanno tutto l’odore. Attende qualche attimo, chiama nuovamente i genitori; nessuno replica. Allora si alza e lascia la camera camminando con tutta l’energia dei suoi sei anni, deciso a trovare da sé le risposte. «Ma… ha piovuto davvero fin dentro casa?», mormora questi mentre si guarda i piedi con aria stupita, le piante e le caviglie immerse in una schiuma sottile e nell’acqua sottostante.
Ed è tempesta: non al di là di quelle mura, non dentro, ma nella figura alta e nera, resa tale dalla sera ormai sul tetto, che improvvisamente spalanca la porta e chiama il nome del bambino. Questo non riconosce dapprima il nuovo arrivato e rimane immobile, in attesa, senza espressione e quasi senza battito; non reagisce neppure quando quelle braccia adulte lo stringono e nella presa c’è un dolore così profondo da vincere l’oceano.
Sta ancora sognando? In fretta, troppo, voci e ombre si moltiplicano e riempiono la casa di sussurri e acqua ― impossibile quantificare quanto possa piovere dagli occhi degli uomini ―, giungono abbracci e baci sulla fronte gelida, parole di incoraggiamento ― Non temere, ce la farai. Loro saranno sempre con te ―, ma questa è tutta una visione dell’Altrove, sfocata, illusoria, irreale?
Però è fin troppo vera la colonna bianca che, ore giorni anni o solamente minuti dopo, viene posta sulla spiaggia, un segnacolo per chi è sceso negli abissi e mai più farà ritorno; sono vicini, impossibili da evitare e sfuggire, gli amici di famiglia e i parenti che pronunciano frasi che lui finisce per non comprendere più, che decidono con chi è più competente di loro quale sarà la sua sorte, mentre lui si stacca dal mondo.
Una caligine dotata degli stessi poteri del sonno lo sottrae alla consapevolezza, lo prende per mano e lo avvolge nel manto dell’irrealtà: è una cortina che non si spezzerà facilmente, perché lui per primo la terrà serrata a sé e nessuno avrà il coraggio di levargliela.
Ma tutto ciò che non è stato risolto chiede sempre un prezzo, specialmente se è stato sepolto da lungo oblio; non guarda in faccia nessuno, né adulto né bambino, se deve riportare il giusto ordine.
Quindi, il mattino in cui la realtà non può più essere confinata al di là di protettive fantasie, la voce che incontra il turbamento dell’ora ragazzino non ha forma, non importa a chi appartiene ma solo quello che dice: «Ti ho sentito urlare… stai bene? Sigma, tesoro, sei molto pallido.»
L’appellato non risponde immediatamente; prima, le dita si stringono come artigli su lenzuola intrise di sudore e coperte gettate ai piedi del letto, sulla federa del cuscino quasi fatta a brandelli.
La calda luce estiva bagna l’intera stanza, riversandosi dalle imposte lasciate aperte, e con essa entrano i bagliori del mare e il fantasma della luna, rimasta nel cielo come ombra. Se non fosse per il respiro tremante, percorso da singhiozzi, sarebbe una scena di perfetta armonia ― è da parecchio, tuttavia, che l’innocenza ha volto gli occhi lontano da lì. Lo sa ora, ma è sempre stato così. «Non mi ricordo più la loro voce», mormora Sigma, sentendo le guance farsi molli di sottile pianto. Fuori, l’estate muore prima del suo tempo. «Mi sto dimenticando mamma e papà... e me stesso.»

 

 

Forse nello stesso momento, forse non troppo lontano.

 

«L’ho già detto ai tuoi genitori, ma lo ripeto anche a te: per una volta, una sola ― non si pretende tanto ―, ti risulterebbe difficile aver cura di te? Il mese scorso hai quasi detto addio a una gamba, stanotte sei giunto qui con una ferita ad attraversarti il ventre... come fai a ridurti sempre in un simile stato? Ti fai picchiare da un macellaio in cambio di soldi?»
«Proprio così; e le consiglio di stare attenta, dottoressa.»
«Attenta a cosa?»
«Chi lo sa, magari prima o poi quel macellaio potrebbe venderle parti di me! Non si fidi della carne che le offre, o si rovinerà per sempre l’appetito!»
Un’acuta e prolungata risata che scivola dalla stanza e si sparge nei corridoi, volando su ali libere e veloci, seguita da uno sbuffo sonoro e irritato. «Pochi scherzi! Con questo comportamento, un giorno ci potresti rimettere veramente la vita, e… e smettila di sorridere, per favore. Come fai a divertirti in una situazione simile? Sei veramente un caso perso!»
Una risata più tenue e il suono di una persona che si sistema meglio sul lettino che le è stato assegnato. Forse vuole davvero e solo irritare, o forse si sente comunque bene, lì. «Non direi; però è vero che anche i migliori sbagliano, quindi potrebbe avere ragione lei.»
Il silenzio dell’interlocutrice è una risposta più che sufficiente per il giovanissimo occupante di quella piccola, chiara stanza dell’Hoshino Memorial Hospital, che proprio in quel momento punta lo sguardo felino fuori dalla finestra, sul curato viale d’accesso che si può intravedere dal lettino e alle figure che lo stanno percorrendo. La splendida mattina di Giugno bussa contro i vetri e poi entra, portando in dono il sentore dei giardini e delicati petali rapiti dal vento giocoso, riempiendo il pavimento e le pareti di sbuffi estivi; se fosse giunta in un altro luogo, probabilmente sarebbe rimasta più a lungo.
«Provi dolore? È strano che tu abbia ripreso conoscenza così in fretta, il tuo corpo sembra quasi bruciare l’anestesia. Sei sicuro di stare bene?»
«Dopodomani parto per la Russia, come posso stare male?»
La dottoressa fa una smorfia obliqua mentre finisce di guardare la cartella che ha in mano, quindi ritorna a fissare il paziente con un’espressione eloquente e china la testa di lato. «Se ci arrivi a dopodomani, beninteso; e anche se ti senti in forma, fino a tardo pomeriggio non ti dimetteranno. No, non incanti nessuno con quella faccia, risparmiati pure la fatica: dovessi legarti al letto, te ne andrai quando lo avrò stabilito io, intesi?»
«Non poteva essere più chiara», risponde il ragazzino senza porre altra resistenza, socchiudendo appena gli occhi e affondando maggiormente la testa nel cuscino, una smorfia esasperata a trasformare il viso in una maschera grottesca, costruita apposta per destabilizzare la mente e l’umore di chi con essa si rapporta, «non si preoccupi, non andrò da nessuna parte.»
«Vorrei ben sperarlo. Cerca di riposare, piuttosto, ti farebbe bene un po’ di tranquillità… chissà che la Russia non ti calmi il sangue.»
«Non immaginavo che i dottori potessero credere nei miracoli!»
Una piccola pausa esasperata. «… Cosa avevamo detto sugli scherzi?»
«No, questo non è— va bene, lasciamo stare.»
Con una smorfia trionfante e fugace quanto un istante, la dottoressa dà le ultime raccomandazioni, chiude la cartella e si congeda dal giovane, lasciando che una profonda calma cali nella stanza profumata e quello ritorni a fissare il mondo che si estende al di là dei vetri. Sul viale, l’andirivieni delle persone si sta moltiplicando, quasi l’ospedale sia diventato un enorme formicaio dal quale partono e in cui entrano armate di ordini e lavori da compiere; e nella sua mente i piedi di ognuno segnano la strada, lasciano una traccia che s’imprime a forza nella ghiaia, nell’asfalto, nella pavimentazione, come orme su sabbia bagnata e visi, voci, nei cuori di chi li ha accolti. Quante cicatrici si lasciano sui sentieri? E se questi potessero avere una sensibilità, si sentirebbero vivi proprio grazie alle piccole o grandi ferite lasciate dalla pressione di scarpe e calcagni, e a ciò che di esse rimarrebbe?
Quasi senza realmente volerlo, il ragazzino stacca il volto dalla finestra. Le sue mani hanno già scostato coperte e lenzuola ed esposto il corpo, non c’è neanche bisogno di alzare di un poco la vestaglia ospedaliera: sulle braccia e gambe nude, fin sui piedi e su uno degli alluci, spiccano mezzelune scure, linee nette che attraversano la pelle come meteore e segni meno diritti e chiari che lambiti dalla luce sembrano brillare. Ma se fosse questa la sfida, nessuna cicatrice in quel reticolo di percorsi e deviazioni potrebbe competere con la più vecchia di tutte: quella che gli attraversa l’occhio sinistro, il punto esclamativo che nasce poco sotto il sopracciglio e muore appena sfiorata la guancia; un bello scherzo se si conta che quell’occhio vede alla perfezione, mentre il destro, intoccato, è parzialmente cieco[1].
E lo scoglio che ti ha fatto questo? Come devono sentirsi lui e le onde che lo toccano, loro che non si sono accontentate di lasciare un semplice marchio?
I lasciti puoi pure ignorarli, ma rimangono. Sono loro che ci rendono vivi.
«Sono loro che ci rendono vivi, già», è il pensiero ripetuto ed espresso ad alta voce mentre le dita, quasi sovrappensiero al pari del loro proprietario, velocemente afferrano i chiari, lunghi capelli sparsi sul cuscino e, ravviati questi senza troppa cura, li disciplinano in una lunga treccia sottile, poi chiusa da un bizzarro legaccio scarlatto provvisto di campanellino. Le dita si soffermano su di essa, la tastano e accarezzano da cima a fondo, come a controllare che ci sia ogni sua parte e quindi poter rassicurare la mente. Ha iniziato a farlo da quel giorno, così sostiene Fyodor; sempre lui dice che è il suo modo di aggrapparsi a una vita che, inevitabilmente, non può più tornare a essere la stessa.
Ogni sua ferita e cicatrice, e i modi con cui se le è procurate: alcuni cercati, altri subiti senza chiederli ― e a dire il vero neanche rifiutati ―, tali sono le testimonianze indelebili del fatto che è un corpo cosciente, che continua a sentire, a provare, a decidere e scegliere… a cercare ciò che è andato perduto nell’istante in cui ha aperto quella cartella e il suo verdetto di morte.
Ancor peggio: un verdetto di morte che non era, in realtà, diretto a lui.
Ti senti in colpa, Gogol’? Era meglio che quella chiamata dall’ospedale mai ti avesse raggiunto, e tu fossi rimasto ad aspettare la fine dei giorni senza vederla arrivare? L’ignoranza è un miracolo, la consapevolezza una maledizione.
Mai idea è stata più chiara di questa!
«… Ma che noiaaaaa. La mia mente non ha di meglio da fare che essere triste?»
Solamente i petali penetrati in camera si muovono quando Gogol’ afferra il cuscino e lo lancia dall’altra parte della stanza: non una traccia di violenza o rabbia, solamente voglia di far qualcosa, di dare una scossa all’aria e alla testa che non vuole tacere. Perché è tutto un palla infinita e lui non vuole stare ancora lì a viverla, né chiamarla a sé.
A volte bisogna pur fuggire dalle proprie gabbie.
Non so quando mi lasceranno libero. Ci vediamo direttamente domani?
Entro qualche ora sarai fuori, anche meno se scatenerai l’inferno. Per stasera porto le piroshki?[2] Sempre che i tuoi genitori vogliano vedermi.
Il giovane sorride di sbieco al ricordo degli ultimi messaggi inviati e ricevuti, quindi socchiude gli occhi. Alla malora ogni cosa, la vita è appena cominciata: e se è lì, al posto di un altro, un motivo ci sarà.
Com’è vero che basta poco per alzarsi dal letto e scomparire per qualche tempo, così da gettare nel caos l’intero ospedale.



 

{ I ◊ Io e Te, l’Inizio }



 

A un’ora di distanza dal rosso torii di Hakone Jinja[3], protetto dai sentieri più alti del monte Hakone, riposa uno dei segreti che dimorano nella zona.
Le incantevoli acque di Ashinoko, la meraviglia delle foreste intorno al capo e i sussurri che rotolano lungo i sentieri e i fianchi della montagna sono custodi naturali di ciò che è nato errato e incompleto, ma che agli occhi di chi lo scopre assume un significato completamente diverso: un piccolo orologio intagliato nel tronco di un cedro spezzato, dove al posto di lettere o numeri erosi dalle intemperie, immobili lancette toccano simboli astronomici per metà svaniti e le dodici non sono significate da niente, quasi non fossero mai state inserite.
Nessuno sa da quanto quell’opera respiri in mezzo alla foresta né chi l’abbia creata, e nessuno l’ha mai vista mutare: il tempo e lo spazio non possono scalfire l’Orologio del Cielo ― tale il nome che gli viene dato da chi sa della sua esistenza ―, quasi abbia un ruolo da ricoprire e un obiettivo che non può sottostare né alle leggi umane né a quelle del mondo.
Fin da quando è ragazzino, Sigma è rimasto affascinato da quella totale estraneità alla mutevole realtà; per questo motivo viene attraversato da una scossa di elettrico stupore quando, in un tramonto d’Aprile non dissimile da altri, scorge l’esatto gemello dell’Orologio del Cielo pendere dai portici del campus di Komababa[4], mentre nell’arco che lo sovrasta si può rinvenire una targa che lo qualifica come replica recente del mistero di Hakone.
Nell’avanzare della sera, a mano a mano che le ombre si allungano sotto gli archi e vestono di seta nera le colonne dei porticati, gli astri e i pianeti che il legno abbraccia sembrano emettere tutto il lucore che hanno strappato al sole, liberando sfumature e guizzi non appena l’occhio prova a sfuggire alla loro malia; e paiono muoversi, pulsare e roteare a ogni respiro, dalla costellazione della Corona Boreale incisa al posto delle tre, alla galassia a spirale che occupa il ruolo delle dieci. Un fenomeno che Sigma conosce per averlo visto nelle foreste di Hakone, dove nemmeno i suoni provenienti da Hakone Jinja riescono a penetrare, e che continua a dargli brividi: perché tutte le volte che si è trovato innanzi all’orologio, è accaduto qualcosa d’importante.
Nella loro immobilità, le lancette hanno sempre toccato ore nuove: quelle della sua vita. Allora, è con pensieri d’aspettativa e attesa che, rendendosi improvvisamente conto dell’ora tarda, Sigma si costringe a lasciare il porticato e a svicolare tra le frotte di studenti che escono dalle ultime lezioni e si riversano sulla strada opposta alla sua, per rimandare la contemplazione della scoperta alla settimana successiva e cercarvi risposta con la dovuta calma.
Tokyo brilla già di richiami, bagliori e viva luce quando i piedi del ragazzo lo portano ad abbandonare il campus e a correre verso la stazione più vicina: è venerdì ed è ormai sera, la città si prepara a riprendere un poco di fiato.
Anche Sigma lo fa: qualche ora di riposo è doverosa dopo una settimana intensa, l’ultima del suo primo mese all’Imperiale. Ha appena iniziato l’università e già Aprile[5] si sta disfacendo per rinascere come Maggio… da quando i giorni hanno iniziato a correre veloci e ricchi di sensazioni altre rispetto alla paura del nuovo mattino? Da quando, fatta eccezione per la propria casa, non trovava qualcosa di cui sentirsi parte?
Ancora più importante, tutti questi giorni li ricorda: sì, li ricorda nel dettaglio. Appunti, nomi, parole che evocano intere situazioni: forse il tempo sta scorrendo troppo rapido e lui vorrebbe trattenerlo di più con sé, ma non scivola via dalla sua mente. Il cupo oblio non lo sta visitando e quindi Sigma si chiede se non sia il caso di allentare un attimo la tensione e lasciar brillare la fiammella di serenità che sente pulsare nel petto: la strada va formandosi per mano sua, è lui alla guida, i giorni gli sussurrano che non deve temere di perdersi. Come i numeri e i calcoli che tanto ama, stanno iniziando a trovare il loro ordine.
Se dovesse fare un bilancio di quanto appreso nel suo primo mese, non citerebbe solamente le informazioni recepite con diligenza e passione: parlerebbe della nuova atmosfera, del vivere una realtà che fino a poco fa osservava da lontano, delle occasioni umane che ha colto e di quelle che giungeranno in futuro. Tutto ciò, lo sa, gli verrà chiesto quella sera stessa dall’uomo che considera padre; e lui sarà ben felice di accontentarlo.
Come ogni giorno, a quell’ora il treno che raggiunge Yokohama è un’esperienza che più di una voce definirebbe infernale; eppure il giovane non potrebbe essere più imperturbabile e tranquillo mentre attende pazientemente che il breve viaggio abbia inizio e fine, che scorra come i paesaggi che s’inseguono al di là dei finestrini. Quasi nemmeno si accorge dei tre coetanei che salgono poco dopo di lui, qualche istante prima che le porte si chiudano; sono i loro sussurri, mentre gli passano accanto e lo riconoscono come un volto noto, che si palesano per raggiungerlo appena. «Che cosa succede, Sigma-kun, oggi non hai pianto abbastanza? Sei contento che torni da papà?»
Risate soffocate, toni di sufficienza e scherno che vogliono cadere in un’intesa che non c’è; l’interpellato non risponde a nessuno di loro, già lontano con la mente e mentre le dita battono silenziosamente sulla borsa scolastica un ritmo che unicamente lui può udire, come in un sogno. E al pari di una visione onirica, ben presto il sentore dell’oceano penetra nei vagoni aggrappandosi a pelle e abiti come un invisibile cappotto, e prende lui per mano conducendolo fin sotto le stelle della città portuale.
Al suo fianco per un istante, e subito dopo all’interno della stazione di Yokohama, solo una debole traccia dell’ombra fugace e della luce violenta che si preparano al viaggio inverso a quello del ragazzo. L’incontro avviene, seppur non riconosciuto, e lascia il suo segno; si farà sentire quando sarà necessario, non appena gli eventi scivoleranno al proprio posto.

 

 

Nikolai Gogol’ lo sa da quando è un bambino: le voci che circolano sulla sua persona non sono mai concordi, ma impregnate di quel caos che tanto ama.
Di lui c’è chi mette in luce l’aspetto gradevole ma inquietante, specialmente l’innaturale e perenne sorriso ― ma stranamente nessuno sembra concentrarsi troppo sulla cicatrice che gli attraversa l’occhio sinistro, o sulla bizzarra, bianca benda che a volte copre quello destro, simile a una carta da gioco a causa del tre di quadri disegnato sopra ―, o il carattere esuberante e difficilmente governabile; alcuni commentano che sia un completo mistero nel suo modo di pensare, quindi pericoloso; altri che, per quanto eccentrico e bizzarro, sia una persona più intelligente e profonda, e meno folle, di quanto voglia far sembrare.
Neppure la relazione con Fyodor Dostoevskij, l’amico di una vita, viene lasciata in pace in quel circo di commenti che li additano, rispettivamente, come giullare e demone: persone che è meglio neanche nominare, quasi avessero l’abilità di macchiare e incrinare la serenità solamente pensandole.
Voci, impressioni e mormorii: qualcosa di cui Nikolai ha sempre riso, oppure attizzato per stupire, sconvolgere e confondere, sfruttare l’incomprensione creata per mettere distanza tra sé e coloro che cadono sotto i suoi giochi.
Eccezione fatta per Dostoevskij, non ha mai cercato la presenza e l’amicizia di nessuno né ha mai voluto rinunciare alla propria libertà: un proposito che nel corso del tempo, anche grazie all’incidente all’Hoshino Memorial Hospital e ai suoi lasciti, si è acuito sempre di più fino a creare una maschera con cui approcciarsi al mondo e alle sue forme, così abili nel non riuscire a comprenderlo davvero. O è lui che sta divenendo sempre più bravo ad appropriarsi degli angoli bui della realtà e a sfuggire alle sue regole?
«Non avresti scelto di studiare Teatro e Spettacolo, se tu non avessi avuto il desiderio di giocare sui livelli del possibile e umiliare l’ovvio», ama ripetergli Fyodor ogni qual volta l’argomento venga riproposto, lo sguardo violetto colmo di una luce divertita mentre osserva il mondo intorno a loro.
Tra tutti, l’amico è l’unico che riesca a capirlo: magari non nella sua completezza, forse nemmeno lo vuole appieno… ma quando Dostoevskij lancia una freccia, questa va immancabilmente a segno. Il suo giudizio, che riguardi qualcosa o qualcuno, non è mai errato: non fa fatica a penetrare nella trama dei pensieri così come Nikolai vuole uscire dalla loro traccia.
Quindi, nonostante la scelta della facoltà universitaria fosse già stata presa da anni, quando Fyodor ha dato la sua approvazione in merito, il ragazzo non ha potuto fare a meno di sentirsi in pace; così come non avrebbe potuto non dargli la massima gioia riuscire a passare gli esami d’ammissione al primo colpo ed essere accettato nella medesima università dove, si sapeva per certo, sarebbe entrato anche Dostoevskij: la dorata, gloriosa Imperiale di Tokyo, con le sue infinite strade e possibilità. Un luogo dove nessuno, per ora, conosce la nomea che entrambi portano sulla pelle, e così grande che è molto facile venire ignorati dagli altri; il posto perfetto per coltivare le proprie aspirazioni senza doversi legare forzatamente alle persone, se non per lo stretto necessario.
La patria delle scelte, della libertà: le porte che immettono nel campus di Komababa sono lo spartiacque fra il mondo che Nikolai cerca e quello che ha, e ogni volta che lo sorpassa per entrare nei palazzi universitari è come riprendere a respirare dopo una lunga apnea.
Qualcosa che non condivide fino in fondo con Fyodor, che al contrario suo non può fare a meno di circondarsi di persone: di non essere totalmente sincero con esse, di divertirsi a guardarle mentre vengono confuse dalla sua presenza, ma sempre pronto a dare la caccia per attrarre a sé il maggior numero di menti possibili e per i più disparati desideri, dall’attrazione per la bellezza, fisica o mentale che sia, all’interesse per un particolare modo di comportarsi e le idee che animano i cuori. Fyodor è guidato dalla voglia di conoscere il più possibile e, meglio ancora, di giudicare e guidare a sua volta coloro che considera perduti; come un dio, o qualcuno che si dichiara tale.
Nikolai non ha mai avuto dubbi sul fatto che Dostoevskij avrebbe agito in tal modo anche all’Imperiale: ha assistito a troppi episodi simili per stupirsene e, per non perturbare il suo desiderio di libertà e conscio che pure tentando diversamente otterrebbe ben poco contro le capacità del compagno, non ha mai pensato troppo a come Fyodor sia bravo a giocare con gli altri e a illudere di dar loro quello che vogliono e di cui hanno bisogno, con il risultato che alla fine rimangono solamente loro due a contemplare gli avvenimenti accaduti o quelli che verranno.
Per questo motivo, il pomeriggio di fine Aprile in cui Fyodor lo raggiunge nella Biblioteca Generale con un ghigno obliquo e una sfumatura buia ad attraversargli il volto pallido, Nikolai comprende che presto saranno in tre o più, e nel pensiero di un istante si chiede se sarà un bene per chi giungerà da loro. 
«Che sorpresa vederti con questa espressione, Dos-kun! A chi tocca ora?», sussurra dunque il ragazzo con un mezzo sorriso e gli occhi stretti nell’attesa, chiudendo il libro di Storia del Giappone e voltandosi verso il compagno per ascoltare le ultime novità, per poi tirarlo verso di sé quando questi gli si siede accanto.
«Ho appena trovato qualcuno che potrebbe aiutarti nei tuoi futuri spettacoli di Bunraku[6]», risponde Fyodor eludendo per il momento la domanda e senza guardare il viso dell’amico, l’espressione che si fa più pacifica mentre si appoggia al banco di studio, «anzi, che potrebbe aiutarci. Non è facile trovare una persona che sappia suonare lo shamisen fin dalla giovane età, e-»
Nikolai reprime all’ultimo una risata e punta un dito contro il petto dell’altro. «Aspetta aspetta, quindi questa persona è la tua perfetta rivale?»
Fyodor tace un istante, il tempo di lanciare un’occhiata di leggero rimprovero per l’interruzione, e il suo sguardo si assottiglia in un’espressione indecifrabile. «… Chi può saperlo? Per ora, posso testimoniare che hanno invitato l’individuo in questione a unirsi al Club di Teatro e che sa suonare più di uno strumento, quindi potrebbe essere in grado di accompagnare i tuoi futuri spettacoli qualora io non riesca a farlo.»
Ecco, questo è inaspettato. Da quando lo conosce, Nikolai sa che Fyodor non ha mai perso l’occasione di mostrare le sue abilità musicali ― o in generale ―, addirittura creando la stessa occasione dal nulla; che novità è quella? No, ci dev’essere qualcos’altro dietro le parole appena pronunciate: la motivazione è diversa, ma per qualche ragione a lui non è ancora dato saperla. Comunque sia, contiene lo stupore e china il capo di lato, incuriosito. «Vedremo se è davvero al tuo livello… ma il suo nome? Voglio conoscere subito la nuova stella!»
Dostoevskij ridacchia mentre si guarda intorno, rispondendo in cortese silenzio alle occhiatacce che il tono alto di Nikolai ha attirato su di loro, quindi ritorna dall’amico e il suo volto si fa di un tratto quasi annoiato, come se stesse raccontando un fatto ovvio e per la millesima volta. «Il suo viso non mi è sconosciuto: l’ho intravisto in più occasioni sul treno che conduce a Yokohama, probabilmente è un pendolare. Mentre valutava l'invito del Club, ho notato i suoi occhi soffermarsi sullo shamisen e sugli strumenti presenti nella stanza, osservandoli con quel misto di tranquillità e sicurezza tipico di chi è davanti a una realtà che conosce bene. E le dita… per quanto siano ben curate, i polpastrelli portano i segni di una lunga storia con le corde di uno liuto. O quello, o il nostro amico è un bravo arciere.»
Nikolai sorride appena. La preda del giorno ha già il mirino puntato su di essa, il cacciatore non ha accettato perdite di tempo; e come una parte di sé sente scorrere nel sangue la gioia di non essere implicato in simili questioni, un’altra non può fare a meno di provare leggero fastidio e di accantonarlo immediatamente. «Non lasci mai un largo margine di fuga, tu», mormora Gogol’ mentre riapre il proprio libro e tuttavia non ne guarda una pagina, gli occhi che si volgono altrove e lontano dai fatti del mondo.
«Dovresti sapere che non abbandono mai chi si avvicina di propria sponte.» Tono neutro, e anche lo sguardo di Dostoevskij è distante: la direzione è opposta, ora è impossibile incontrarsi.
«Ed è questo il caso?»
Il rumore roboante di una rovinosa caduta attira l’attenzione di Nikolai, che per la sorpresa sobbalza e si volta d’istinto; con lui una grande parte della Biblioteca Generale e dei suoi mormorii di sconcerto, mentre Fyodor mantiene l’imperturbabilità di un nume. «Perché non scoprirlo ora? Il nostro amico ha appena dato una svolta al pomeriggio, ma ha bisogno di noi.»

 

 

L’acqua torna e ritorna ancora, senza portare via più nulla. Sulla spiaggia solitaria, che tanto ha sottratto, niente può far male.
Come bastano solo pochi istanti a cambiare il futuro, a rivelare il mutamento delle strade e le possibilità che un imprevisto può svegliare!
L’oceano grida e strepita sotto la sferza della tempesta che lo sta attraversando; ma è tempo di rimanere ancora un poco, di respirare appieno la furia delle nubi e vedere la luce rischiarare il grembo del buio: quell’angolo di cielo che resiste contro l’avanzare dei lampi.
Sigma chiude gli occhi, i palmi appoggiati alla sabbia: la terra trema sotto i tuoni, freme e sussulta, e le onde mugghiano terribilmente, torturate dai fulmini che le trafiggono. 
L’abbacinante bagliore che appare e svanisce lo conduce in una realtà diversa: è proprio lì che ora si trova, lontano dall’oceano e dal punto in cui sorge la lapide commemorativa per i suoi genitori, quasi il fortunale non abbia avuto vita.
Sono gli alberi di ginkgo[7] a udire il suo respiro farsi più forte sotto la corsa dei ricordi, è la leggera brezza d’Aprile a solleticargli le guance e scuotergli i capelli; e la mano che si tende verso di lui e gli offre un fazzoletto, uguale a quelli che tiene in grembo ormai inutilizzabili, è sconosciuta quanto gentile.
«Come stai, ti fa ancora male?»
Sigma si tampona leggermente il naso e si dà una veloce occhiata agli abiti; quindi fa un piccolo cenno d’assenso con il capo, a cui segue un sospiro. «Sì, un poco… ma almeno il sangue si è fermato.»
Il giovane che gli ha allungato il fazzoletto, diverso da quello che ha appena parlato, gli dona un largo sorriso e china di lato la testa. «Una caduta magnifica, ma che hai gestito altrettanto meravigliosamente», esclama con trasporto, lasciando Sigma con la confusione tipica di chi non sa se ha appena udito una presa in giro o se l’altro ha parlato seriamente.
Il secondo ragazzo ridacchia, quindi scuote la testa e un’ombra viola scivola lungo la sua chioma corvina e fino negli occhi notturni, non una traccia di scherno nel viso.
In risposta alla tranquillità delle due figure che gli hanno prestato aiuto non appena i suoi piedi hanno deciso d’inciampare in una sedia della Biblioteca e di fargli schiantare il viso al suolo, la vergogna per la figura compiuta davanti a mezzo campus inizia a sfaldarsi, così che Sigma si permette di sciogliere la tensione di un poco e accennare anch’egli un sorriso, per poi accingersi a lasciare il tronco contro cui ha appoggiato la schiena e alzarsi. «Vi ringrazio per quello che avete fatto per me. Potete chiamarmi Sigma.»
Nikolai osserva per un istante i grandi occhi grigi e l’elegante figura del giovane che ha movimentato l’intero pomeriggio; gli prende dolcemente la mano e trattenendola s’inchina con la cortesia di un uomo d’altri tempi.
Un guizzo dello sguardo gli fa comprendere che l’altro è arrossito e non lievemente, e la cosa lo porta ad allargare il sorriso. «Nikolai Gogol’», si presenta, appena prima che Fyodor si faccia conoscere a sua volta e incanti Sigma ― così come accade ogni qual volta Dostoevskij entri in scena.
Ma è sua la mano che il giovane stringe ancora per un poco, mentre le ultime lezioni stanno iniziando e i primi colori della sera scendono su Tokyo; e anche quando quelle si staccano, Gogol’ continua a sentire sulle dita il contatto, come se qualcosa sia rimasto e possa chiamarlo solamente suo ― loro.




 

NOTE

 

[1] Informazione ripresa dalla wikia, sotto la voce del personaggio di Gogol’. Non vi è l’assoluta certezza in questo, per ora è una supposizione dovuta al fatto che in diversi panel l’occhio destro sembri essere opaco, ma l’ho trovata interessante per gli eventi della storia.
 

[2] Nella scheda personaggio, si dice che una delle cose che Gogol’ ama di più sono le piroshki, piccole focacce (simili a panzerotti) della tradizione russa e ucraina, le quali vengono farcite con un ripieno salato o dolce, a seconda del pasto che le vede presenti.
 

[3] Il torii è la porta d’accesso di un santuario shintoista. Hakone Jinja, letteralmente “santuario di Hakone”, è un’importante area sacra situata sul lago Ashinoko, ai piedi del Monte Hakone. Questi è posto a poca distanza sia da Tokyo che da Yokohama, nella prefettura di Kanagawa.
 

[4] Komababa è uno dei cinque campus in cui è divisa la prestigiosa Università Imperiale di Tokyo. Qui si riuniscono le matricole e gli studenti universitari del secondo anno; infatti, il primo anno e mezzo di università sono di istruzione generale, mentre nei due seguenti ogni studente segue le materie del campo di studio scelto.
 

[5] In Giappone, l’anno scolastico inizia ad Aprile.
 

[6] Il Bunraku è una forma di teatro giapponese che prevede l’utilizzo di burattini e una vera e propria recitazione, quest’ultima accompagnata dal suono dello shamisen, liuto a tre corde.
 

[7] La foglia di ginkgo è il simbolo dell’Università Imperiale, in quanto nella zona vi è una grande quantità di questi alberi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Saggio è Il Caduto, e Il Giovane ***


{ II ◊ Saggio è Il Caduto, e Il Giovane }





Ormai è Ottobre inoltrato: le giornate sono così belle e le temperature tanto alte che anche le mura dell’Imperiale non riescono a disperdere il calore, di conseguenza seguire le lezioni non è così semplice.
Ogni tanto, specialmente al volgere della notte, Tokyo si ammanta con lacrime di pioggia e trasforma le sue strade, i palazzi e le finestre in grandi o minute schegge di cielo precipitato al suolo, dove i colori fioriscono nelle loro mille gradazioni e gli ombrelli diventano gli unici abitanti di un mondo diverso.
La stagione sta scivolando verso il proprio riposo, e con lei il primo anno di università ha già raggiunto e superato la sua metà.
All’inizio della settimana di lezioni, sul treno dell’andata, Sigma tiene stretto a sé il taccuino dove segna le impressioni; il silenzio e l’ambiente confortevole, così come il sole che fatica a sorgere, conciliano tutti i pensieri che desidera, che non si interrompono neppure all’arrivo a Tokyo.
La vita sembra esplosa, per lui, quasi che gli anni precedenti siano stati principalmente un bozzolo di preparazione per un grande volo, una stasi per immergerlo nel fiume di persone con cui incrocia regolarmente i passi o i respiri all’interno delle aule; a volte, le sensazioni e le parole sono così tante che il ragazzo deve fermarsi un istante e riprendere fiato, ma mai sotto emozioni negative. Anche la paura di dimenticare pare sempre più lontana, ora, e torna sporadicamente con brevi sogni privi d’importanza.
Le lezioni, gli studi nella Biblioteca Generale, tutto il mondo universitario lo tiene impegnato senza pressarlo; probabilmente perché lo ha atteso per anni e lo sta condividendo con le persone giuste? Non molte quelle con cui si sente in completa sintonia, ma così è naturale che sia: volti e voci che gli sono divenuti amici immediatamente, dopo poche ore di presenza all’Imperiale; persone come Dostoevskij, che si è accorto di seguire molto più di quanto immaginato, incontri che il caso ha voluto far accadere e dove nessuna delle due parti ha ceduto l’altra, per simpatia e istintiva comprensione ― unicamente così potrebbe spiegare il modo in cui ha conosciuto Atsushi Nakajima e la facilità con la quale si sono legati.
Forse è ancora presto per dirlo, eppure le ore passano così veloci e non si sente mai fuori posto in compagnia di queste conoscenze, come se fin da sempre sia stato destinato a raggiungerle; qualcosa dovrà pur contare.
«Ti stanno facendo crescere? Le esperienze che stai vivendo, le persone dalle quali corri ogni mattino, ti lasciano ciò che meriti?», gli chiede il padre adottivo ogni venerdì sera, alla fine di un’altra settimana e quando non c’è spazio per le illusioni, facendogli segno di seguirlo sul balcone della loro casa e mostrarsi al volto della luna.
E Sigma ha sempre la stessa risposta: parole che negli anni più difficili avevano perduto qualsiasi significato nell’apatia data da un dolore tanto diffuso e intenso da non farsi nemmeno percepire; pensieri che sente di poter condividere con la compagnia che frequenta all’Imperiale, e anche rivolgere a sé stesso.
Non è mai troppo tardi per considerarsi un po’ di più.
… E ovviamente, a equilibrare ogni momento fin troppo perfetto c’è la sua appropriata nota fuori dal coro ― in questo caso, abbastanza alta da far venire il mal di testa: l’assoluto protagonista del Club di Teatro[1], la persona più insondabile e inarrestabile che abbia mai incontrato, capace di divenire così assurda e priva di limiti da far perdere il controllo anche agli altri; il suo esatto opposto, si divertono a dire in molti, che risponde al nome di Nikolai Gogol’.
Il Giullare, come lo chiamano in tono non sempre benevolo, che difficilmente si lascia sfuggire l’occasione di punzecchiare chi gli sta accanto, quasi abbia piacere a infastidire e allontanare chi tenta un contatto con lui, e faccia di tutto per portare la gente a questa decisione.
Non c’è una regola né un legame, con lui; eppure, come un bizzarro tassello che stravolge l’intero mosaico del reale, Sigma lo ha conosciuto proprio in un’occasione dove il distacco è l’ultima cosa che ha ricevuto: è stata la mano di Nikolai la prima a tendersi per aiutarlo ad alzarsi dopo aver sbattuto malamente il naso contro il pavimento della Biblioteca Generale, e quel giorno sempre la sua mano si è mostrata pronta a ogni necessità. Un dettaglio che suona come una rarità, se si guarda a quanto è successo nelle settimane successive: di certo non c’è alcun bisogno di segnare sul taccuino il giorno in cui lui e Nikolai hanno rischiato di essere cacciati dall’aula di Letteratura Giapponese perché quest’ultimo ha avuto la fantastica idea di mettersi a fare colazione davanti al professore ― e a spartire la colpa con lui ―, o del caos che il giovane ha seminato negli spazi destinati al Club di Teatro, quasi sia passata una tromba d’aria.
Un intero pomeriggio di riordino è stato a malapena sufficiente per riparare a quello scenario di guerra, il quale ha rischiato di essere successivamente vanificato dalla discussione esplosa tra lui e Nikolai quando questi ha provato a fargli indossare un vestito da sposa, una scena a cui solamente l’infinita pazienza di Dostoevskij è riuscita a porre un freno senza che si cadesse nella violenza fisica. A distanza di mesi, ogni qualvolta si trovino insieme e con Fyodor, non mancano i momenti in cui Gogol’ ancora lo punzecchia per questo e Sigma ribatte a tono e con la promessa che prima o poi gli ritornerà ogni cosa, vestito da sposa compreso; ciò che tuttavia non dice, preferendo tenerlo nel cuore, è come una parte del suo animo invidi l’assoluta capacità di Nikolai di svincolarsi dalle leggi per decidere da sé, la voglia di essere totalmente libero e la caparbietà con cui persegue tali obiettivi.
Nell’Imperiale non girano solamente commenti riguardo al caos che Gogol’ porta o sullo spettacolo che va preparando insieme a una compagnia teatrale di Tokyo: si mormora anche di eventi più intimi, tristi e profondi, che hanno scatenato la determinazione di strappare le radici che lo possano legare agli altri e di cui le cicatrici su tutto il corpo sono una testimonianza concreta. Un’altra prova di magistrale finzione, o i sussurri sanno bene cosa vanno dicendo?
Sigma non si lascia sfuggire nulla né con il diretto interessato né con Fyodor, ma dubita di poter mai capire, lui che quelle radici sicure le ha desiderate e pregate per anni con tutta la disperazione di una persona smarrita.
Ciò che ha un senso, un posto e un motivo per il suo animo, quello di Gogol’ sembra ripudiarlo: è con loro, intento a parlare ininterrottamente di tutto ciò che gli passa per la mente ― o così sembra ―, e al medesimo tempo altrove, già lontano e al di là delle forze di ognuno; irraggiungibile e per questo felice, schermato e protetto grazie alla rottura di qualsiasi vincolo.
E ai quesiti di una simile anima, difficilmente la sua potrebbe rispondere.
 


 

La prima volta che Sigma inizia a mutare le proprie convinzioni, è una notte di metà Novembre.
Qualche giorno prima, il ripasso serale del ragazzo viene interrotto dallo squillo del telefono e dal display illuminato dal numero di Fyodor, con una chiamata in entrata; tre minuti e non molte parole dopo, lo stesso cellulare viene posato sul tavolo e il cuore di Sigma si trova a battere per l’agitazione emozionata che segue il contatto con una persona stimata o a una notizia che ha il potere di rivoluzionare ogni piano: in questo caso, per entrambi i motivi perché il ragazzo è appena stato invitato a uno dei più attesi concerti di musica classica della capitale, con Dostoevskij e senza nessun altro ― un momento unicamente per loro due. Qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare nemmeno volendo, ergo la mano trema leggermente nel registrare la data sul calendario e poco sopra l’appunto che rammenta lo spettacolo di Gogol’, finalmente pronto a essere mostrato, segnato a due settimane dopo.
Lo sguardo si posa su entrambe le note con un misto di felicità e attesa; una sensazione che lo accompagna al giorno dopo, quando le dita prendono il biglietto da quelle di Fyodor e il tempo rallenta un poco la sua corsa.
Forse il sole straordinariamente caldo e forte per essere novembrino, unito all’eccitazione del momento e ai tanti discorsi, eventi e momenti che si intrecciano durante il giorno, nasconde un elemento che dovrebbe essere notato subito; ma l’abbaglio del non detto è più potente di quello del mezzogiorno, e allora tocca lasciar scendere le tenebre e far sì che la luna sciolga le illusioni.
Alla fine la sera tanto desiderata arriva, a dir la verità nemmeno così lentamente come Sigma ha temuto. Tokyo è calma, quietata dal freddo che ha già il sapore dell’inverno, e quando il ragazzo raggiunge la sua meta ha appena il tempo di guardare la facciata dal gusto occidentale del teatro che ospita il concerto, che un istante dopo Dostoevskij è al suo fianco con un’espressione serena e lo scintillio della città negli occhi viola.
Come spesso accade, Sigma si trova ben presto a pendere dalle sue labbra mentre, in attesa che lo spettacolo inizi, il compagno gli racconta la storia del teatro e insieme discutono sulle ultime lezioni all’Imperiale; così che arrivano senza accorgersene al momento che il sipario si alzi, nell’aria già le prime, delicate note che annunciano l’inizio del trionfo.
«Al giorno in cui potremo salire su un simile palco anche noi», è l’ultima cosa che Fyodor sussurra con un mezzo sorriso e come a un brindisi.
«Non ci siamo già, nel nostro piccolo?», è la risposta spontanea di Sigma, alla quale l’altro replica socchiudendo gli occhi e allargando la smorfia con aria soddisfatta. Dostoevskij non potrebbe essere più rilassato e in pace, riconosce Sigma, il quale lo guarda con un lieve sorriso mentre mentalmente lo ringrazia un’ennesima volta per quella che sicuramente sarà una serata meravigliosa.
Il primo attacco di archi gli dà la conferma di ciò e gli incolla la schiena alla poltroncina, catturandogli immediatamente la mente in una danza melodiosa che non lascia scampo; il respiro si blocca così come tutte le attività e i sensi del corpo che non siano il battito del cuore e l’udito, tanto che quando la prima ora di concerto giunge al termine e i musicisti concedono agli ascoltatori e a sé stessi una breve pausa, Sigma ha la sensazione di essere rimasto in apnea fino a tale istante. Da parte propria, Fyodor non gli risparmia occhiate divertite e si allunga verso di lui per dirgli parole che per lo più finiscono perdute, per poi lasciare il proprio posto e allontanarsi un istante, facendo sì che il ragazzo riprenda tutto il respiro di cui ha bisogno.
Una volta calmatosi e approfittando della pausa, quasi Sigma cade in un altro incanto mentre alza il capo per guardarsi intorno e ammirare i ricchi riccioli di marmo, gli affreschi chiari e le statue di gusto classico che adornano il teatro, così lontani da ciò a cui è abituato e tuttavia apprezzabili. «Gogol’-san…», mormora all’improvviso e mentre è concentrato nei suoi pensieri, quasi per caso; perché in questi si è intrufolata la buffa immaginazione di cosa farebbe l’eccentrica energia del ragazzo se si trovasse chiusa in quel luogo così raffinato, e lui non può fare a meno di ridere un poco all’idea per quella che sarebbe sicuramente una scena memorabile.
«Credo che il concerto sarebbe stato gradito anche da lui», esordisce Fyodor, che forse ha sentito tutto o forse ha indovinato il soggetto del suo silenzio, in quell’esatto istante e mentre riprende il suo posto, «gli è sempre piaciuta la musica classica. I suoi impegni hanno deciso altrimenti.»
«Domani avremo parecchio da raccontargli, allora», risponde l’altro, leggermente tremante nel tono a causa della sorpresa e domandandosi quanto effettivamente abbia parlato a bassa voce.
«Di certo è ancora sveglio… sentiremo dopo com’è andato il suo spettacolo.»
Il suo spettacolo.
Sigma rimane immobile, come fulminato, per poi volgersi lentamente verso l’altro. Ancor prima che questi lo guardi, sa di essere impallidito. «Spettacolo?»
Un cenno d’assenso contenuto e neutro.
«Ma… se è della Commedia degli Errori[2] che stai parlando, io credevo… credevo che avesse luogo tra due settimane.»
Dostoevskij incurva appena le labbra; e sotto il ghigno che va oscillando tra il pietismo e qualcosa di più ombroso, Sigma sente un piccolo nodo chiudergli la gola con la fastidiosa sensazione del disagio.
«Forse qualcuno si è dimenticato di dirti che è stato anticipato a stasera?»
Sigma non replica immediatamente e si volge a guardare innanzi a sé, al sipario ancora calato. La scomoda sensazione aumenta e a essa si aggiunge anche un pungolo sottile che inizia a tormentargli il petto e il ventre con ferocia crescente. «Ci teneva moltissimo, ce ne ha parlato per ore e ore.»
«Se è per la sua performance che temi, sono sicuro che sarà andato meravigliosamente anche senza noi a sostenerlo, contando la sua bravura.»
«Non è questo, Dostoevskij-san…» Una breve pausa, dentro alla quale nasce un pensiero rapido come una freccia. Assomiglia a un sussurro che solamente l’istinto può far nascere. «Da quando lo sapevi? Del cambio di data, intendo.»
«Hmm? Mi ha avvertito lui stesso una settimana fa, prima che t’invitassi.»
Prima d’invitarmi. Non ha rinunciato a questa serata per l’amico di una vita. «Eppure stasera siamo qui…», è la replica dal tono leggermente stridulo che Sigma non riesce a trattenere e che non ha desiderio di tacere.
Lo sguardo che Fyodor gli dona passa da imperturbabile a gelido, quale quello che si rivolge a un bambino che ha detto parole inappropriate; ma prima che venga data una risposta, l’intervallo ha termine, il sipario si alza nuovamente e il concerto ricomincia.
Subito la Suite No. 1 di Bach riempie l’intero teatro della magia di una musica sapientemente eseguita e trasporta i presenti nella realtà che questi preferiscono, ma per Sigma l’idillio della prima ora è andato in frantumi e la malia non lo riesce più a rapire: anche se volesse respingerli in un angolo, non potrebbe non sentire il nodo e il pungolo divenire così fastidiosi da mozzargli il respiro, la serenità della sera incrinata sotto il rimorso e quella che considera una colpa anche sua. Non avrebbe mai creduto di pensarlo, un giorno, ma ora non fa che andare da Nikolai con la mente e chiedersi che cosa lo trattenga al suo posto,  per quale motivo non stia attraversando mezza Tokyo in preda a una corsa folle che gli permetta, anche se in vergognoso ritardo, di piombare nel luogo dove si sta tenendo lo spettacolo e di assistere sì agli ultimi minuti, ma di esserci.
Esserci, come quella mano tesa verso di lui che non ha chiesto nulla in cambio.
«Scusami. Grazie per questa sera.»
Fyodor non mostra alcuna espressione quando Sigma, incapace di restare lì un istante di più, si alza e gli sussurra il suo arrivederci, ma questi non ha il tempo di interessarsene: è già uscito dal teatro… e immediatamente si è anche fermato, frenato dalla figura di Gogol’ che, con ancora il trucco di scena sul volto, li sta attendendo a qualche metro dell’entrata con l’adrenalina dello spettacolo che continua a scorrergli nel sangue. Girato di spalle, questi si accorge di Sigma solamente quando il ragazzo gli sfiora un braccio e lo saluta con una smorfia che non sa nascondere l’amarezza che prova.
Da parte sua, Gogol’ lo accoglie con la consueta energia se non di più, tanto che nessuno potrebbe dire cosa lo trattenga dall’abbracciare l’altro; ma le sue dita paiono lingue di fuoco mentre sfiorano la fronte di Sigma, spostando i ciuffi che gli sono ricaduti davanti al viso. «Il concerto è stato così orrendo da toglierti tutto il colore dal corpo?», chiede il giovane con una risata leggera, non convinta, mentre assottiglia gli occhi e lo fissa più da vicino.
Sigma tace e abbassa il capo mordendosi le labbra, non sapendo come chiedere perdono né quanto diritto ne abbia.
Dopo qualche attimo di quello piccolo spazio vissuto solamente da loro due, entrambi percepiscono la presenza di Fyodor e del fiume di persone che lascia il teatro per la fine dell’evento; Gogol’ rivolge l’attenzione all’amico e Sigma indietreggia di un passo mentre li osserva salutarsi allegramente e nota il loro sguardo brillare di qualcosa che lui non possiede, e per qualche ragione questo accentua la sua sensazione di malessere tanto da spingerlo a declinare con gentili scuse ogni proposta per proseguire la serata da qualche parte, così che invece prende il treno più solitario e malinconico della sua vita.
Le sensazioni rimangono come un macigno appoggiato direttamente sulla bocca dello stomaco, nemmeno il sonno più profondo le allenta di un poco: l’oro degli occhi di Gogol’ le attizza ogni qual volta i loro sguardi s’incrocino davanti a Komababa, diventa sempre più difficile sostenerli.
Qualche giorno dopo gli eventi, Sigma non riesce più a trattenersi: ferma Nikolai e lo fa sedere sotto un albero di ginkgo, e le parole escono molto più facilmente di quanto prospettato dalla sua mente.
Per una volta, il sorriso di Gogol’ non è canzonatorio mentre questi fissa Sigma tormentarsi gli splendidi capelli, lunghi e chiari quanto i suoi, e attende che il ragazzo si liberi come il fiume delle sue parole e sveli il dispiacere per aver mancato alla prima del suo spettacolo. Non dubita neppure un attimo di quanto sente: Sigma lo vede da come lo ascolta. Tuttavia, Nikolai lo sorprende una volta ancora quando, finito di parlare, commenta con un innocente: «Ti sei torturato per giorni solamente per questo motivo?»
L’altro giovane rimane un attimo stupito, quindi china il capo. «… Ce ne hai parlato così tanto e tutti sanno quanto sei bravo a recitare; insomma, ero curioso di vederti.» Ma c’è qualcosa d’altro dietro alle sue reazioni, lo sa, anche se in quel momento non riesce a capire cosa sia.
Da parte sua, Gogol’ esplode in una risata sincera, gli prende due ciuffi di capelli e inizia a intrecciarli. «A dir la verità, fino a pochi minuti fa non ho mai creduto che avresti voluto esserci.» Una pausa, la voce che si abbassa di un poco. «Mi attendevo la presenza di Dos-kun, lui sì… ma il concerto faceva solamente una data, mentre noi della compagnia ripeteremo lo spettacolo altre volte. Non si è lasciato sfuggire l’occasione.»
Sigma si porta le ginocchia al petto e le circonda le braccia, come se volesse chiudersi su sé stesso, e vi appoggia sopra il mento. «Avrei voluto sapere del cambio di data», sussurra, «ma è anche vero che io non ho più chiesto conferme o altro, né il motivo per cui non eri presente al concerto. Eppure spesso siamo solo noi tre, ma è come―»
Nikolai lo ferma con un gesto. «Facciamo così», esordisce con un piccolo ghigno sul volto e lo sguardo accesso da una luce nuova, «se ritieni di avermi fatto un torto, allora lo potrai espiare solamente se obbedirai a ciò che ti dirò. Ma niente vestiti da sposa ― non subito, almeno! Aaaah, no, questa non la dovevo dire!»
Sigma corruga la fronte e si adombra appena, sentendo un brivido freddo percorrergli la spina dorsale; non può finire bene, pensa ora come il giorno dopo, quando scende dal treno che lo ha portato a Tokyo e vede Nikolai venirgli incontro con aria sorniona, una piccola borsa nascosta dietro la schiena.
Sarà qualcosa di terribile…
… O forse no?

«Allora? Non sei semplicemente fantastico? Non che prima tu non lo fossi, ma guardati ora!»
Sigma continua a fissare la propria immagine nel piccolo specchio che Nikolai regge di fronte a lui, gli occhi spalancati e senza parole. Il bagno dell’ultimo piano dell’Imperiale, scomodo a tutti gli studenti e praticamente deserto per via delle lezioni, è un completo disastro e probabilmente impiegheranno ore a pulirlo, oltre a doverlo fare in fretta; ma per il momento nessuno dei due si cura del disordine, ora che l’attenzione di entrambi è posta su un gigantesco dettaglio nella figura di Sigma.
«Alloraaaaa?», incalza Nikolai mentre lascia lo specchio nelle mani dell’altro e si sposta alle sue spalle per osservarlo da ogni angolo, «modestamente, è un lavoro perfetto. Puoi toccarli se vuoi!»
Esitante, Sigma si passa una mano tra i capelli, che la tinta ha reso per metà argentei; l’altra metà esatta del capo, invece… l’altra metà è lilla, così come sono lilla i lavandini, l’intera persona di Gogol’ e l’asciugacapelli che questi tiene ancora in mano, sottratto al Club di Teatro. Inoltre, i ciuffi che porta davanti sono stati tagliati per buona parte della loro lunghezza in un’acconciatura che lo ha lasciato sorpreso.
Chissà cosa dovrà escogitare per celare quel cambiamento in università, per non parlare dell’espressione che farà suo padre non appena lo vedrà; ma non può non riconoscere che si piace. Oh sì, si piace davvero tanto, come fa comprendere a Nikolai appena si gira verso di lui e annuisce con convinzione, spingendo l’altro a esultare con la sua solita moderazione e accorgendosi subito che, dentro di sé e senza grande sorpresa, la reazione è la stessa.
Paiono al vertice della gloria, di un momento che è solamente per loro[3].

 


 

Evidentemente, le lancette dell’Orologio del Cielo girano ancora una volta per Sigma: così che neanche tanto tempo dopo, un venerdì sera di Dicembre, il cellulare inizia a squillare come impazzito e lo strappa forzatamente al sonno nel quale è caduto da poco. Un angolo dello schermo segna la mezzanotte, mentre tutto il resto dello spazio è lasciato al nome di Atsushi, il quale lampeggia come un allarme.
Il giovane risponde il più prontamente che può, meno assonnato che preoccupato. «Atsushi-kun?»
Una breve esitazione dall’altro capo della linea, poi la voce dell’amico che esplode: «Sono io. Mi dispiace disturbarti, davvero, ma ho trovato il tuo numero tra i suoi contatti preferiti, ed ecco… non ho pensato ad altro che a chiamare te e Dostoevskij-san, sono andato nel panico!»
La voce di Atsushi è carica di tensione e confusione, e Sigma si alza a sedere nel letto, allunga la mano libera come se potesse afferrare l’altro e stringerlo a sé in un abbraccio. «Che cos’è successo?» La sua voce esprime calma solo in apparenza, perché dentro di sé si è già destata l’agitazione e questa ha infiammato la paura di qualcosa di grave.
«Si tratta del ragazzo che è spesso con te», si sbriga a spiegare l’altro, «Nikolai Gogol’. Ecco, lui… insomma…»
«Atsushi, per favore, non tenermi sulle spine e parla chiaramente.»
«Lui non sta bene, Sigma, affatto. Dovevamo partecipare alla festa in casa di un amico in comune, ci doveva essere anche Dostoevskij-san: ma Gogol’-san si è presentato da solo e ubriaco. Ora si è rinchiuso in bagno, ha bloccato la porta e non risponde a nessuno. Non sappiamo cosa fare e abbiamo paura…
Siamo qui a Yokohama, non tanto distanti da te.»
Sigma chiude gli occhi per un solo momento, per calmare la tempesta di sensazioni e parole che è appena giunta ad annegargli la mente: parole sagge, che gli hanno dato coraggio quando ne ha avuto bisogno, hanno la meglio sulle altre ancor prima che il ragazzo veda il padre apparire sulla porta della camera.
Lo sai? Quando vedi qualcuno in difficoltà, puoi fare una sola cosa: andare a riprenderlo anche in fondo all’Inferno. Perché le persone devono essere recuperate dall’estremo dell’abisso, non si può abbandonarle.
E lui sa ciò che deve fare, come una conoscenza rimasta sempre dentro di lui, mentre i suoi occhi incrociano quelli dell’adulto e tra loro s’instaura un dialogo silenzioso, che non manca l’obiettivo.
Con un cenno del capo, l’uomo acconsente a tutto ciò che Sigma gli dice e niente più trattiene il ragazzo. «Va bene. Dammi l’indirizzo, sarò lì il prima possibile.» Una pausa. «E, Atsushi… anche se non so quanto questo servirà, fammi parlare con lui. Non chiudere la chiamata: fai scivolare il cellulare sotto la porta del bagno, e spera con me.»


 
 

Le lancette corrono e divengono inafferrabili, si fanno dolorose: picchiano con forza secondi e minuti, lanciandosi nel futuro come cavalli impazziti, quasi che da quel moto veloce dipenda la loro vita, e non le gioie e le occasioni di chi ne ascolta l’interminabile ticchettio.
Corrono, lo sa, anche se nei paraggi non c’è alcun orologio: e probabilmente è l’ennesima farsa, la finzione che gioca con colui che è abituato a fingere, come è anche un’illusione lo specchio storto, dalla geometria non ben inquadrabile in una forma nota, che rimanda l’espressione di un folle. Le nocche fanno male; non una goccia è scivolata giù dalle dita, il vetro ha resistito e così la carne, ma il pulsare che l’attraversa è tanto reale e intenso da far stridere i denti.
Che cosa c’è che non va? Chiede lo sguardo, fisso e vitreo, mentre continua a osservare il volto che occupa la superficie riflettente, che cos’è cambiato rispetto al solito?
Per l’ennesima volta, Nikolai si sciacqua il viso nel lavandino, quindi torna a fissarsi. A teatro si insegna a esprimere le emozioni al meglio e a trattenerle; si impara a dire la verità, a nasconderla, a essere chi si è, a uscire dai propri limiti e diventare un’altra persona. Ci si abitua a sopportare, a prevedere, a parlare e districare e pensare, ad affrontare la vita nelle sue sfaccettature.
Quello che lui non ha ancora ben appreso, però, è a comprendere dove finiscano le sue stesse bugie e dove possa affidarsi a ciò che è reale; a liberarsi dalle sue costrizioni e non continuare a cadere là dove fa sempre più male.
Tutto il corpo duole: dalle mani che afferrano il bianco lavandino come un appiglio disperato, alle spalle contratte e alla bocca stirata in un ghigno che vorrebbe essere una risata per sé e gli altri, ma è solamente grottesco e tragico.
Grottesco, paradossale, insondabile come ciò che si crede di lui, come ciò che non è lui: bugia e finzione giungono fino a un certo punto, dopodiché si tocca la comprensione; e a quel punto il suo carnefice ci è arrivato da un pezzo.
Non si troverebbe lì, altrimenti.
Perché Fyodor ha scelto lui? Se l’è chiesto fin da subito: Fyodor, con la sua mente splendida e troppo sottile per essere parte non solo della norma, ma di qualsiasi realtà; Fyodor che nei suoi profondi occhi viola riflette verità che non fa cogliere da nessuno che non sia sé stesso, e ciò che condivide con gli altri sono le briciole della sua essenza. Eppure… eppure, con lui ha deciso di andare oltre, di tenerlo vicino a sé: per anni e anni, fin da bambini, ogni volta che il mondo ha mancato di comprendere la grandezza di Dostoevskij, in qualsiasi occasione questi abbia scoperto il vero volto delle persone, sono stati insieme come un punto fermo che non può cambiare, una certezza, un’unica cosa.
Così ha pensato; invece ― che senso ha nasconderselo ancora, prendersi in giro in maniera così crudele? ― è stato proprio lui il suo giocattolo preferito, il primo fra i pagliacci e il più pazzo e triste, secondo Fyodor meritevole di nessuna spiegazione che valga davvero. E se la farsa è stata messa in piedi fin dal primo momento in cui si sono conosciuti, è anche grazie a lui stesso che è potuta andare in scena.
Davvero, dopo aver visto il potere di quell’anima sulle persone, ha creduto di esserne immune? Di essere diverso, speciale, l’amata eccezione di qualcuno che considera solamente sé stesso e giudica con la sicurezza di un dio?
I fili che ha attaccato al corpo se li è messi da sé, ogni manovra che Dostoevskij gli ha fatto fare è stata consentita da lui. C’è voluto tanto, tanto tempo per cedere la bella illusione, perché anche questo è sempre stato nei piani di Fyodor: rivoltare le debolezze e le bugie, sfruttarle, perdonarle con la carità di chi sa di avere tutto il potere. E la domanda giusta che lui si deve porre è: Perché ho deciso di realizzare la verità? Perché non continuare a chiudere gli occhi e ignorare ancora una volta, pur di essere felice?
Felice, già. Sereni, in pace, possono esserlo solamente coloro che non hanno coscienza della gabbia che li tiene chiusi in un mondo di finzione, sicuri e protetti; ma per quanto ci abbia provato a costruire sbarre più spesse, nel suo caso nessuna di esse è mai bastata ad allontanarlo completamente dalla verità.
Proprio poche ore prima queste sono tutte cadute con la violenza di una condanna lapidaria e, a seguito del primo scontro veramente tale con Fyodor, parole amare sono uscite da una bocca colma di pietà come di superbia.
“Il mondo non può fare a meno di me, ma di te sì.
Tu non sei altro che cambiamento, sconnessione, divisione; tu che esci da ogni regola, non puoi far parte di nessuna realtà. Sei la parte buia di cui tutti hanno paura, sei un mostro.”
Gogol’ si scioglie la benda e fissa il proprio riflesso con entrambi gli occhi scoperti; qualche istante dopo, sta piangendo senza potersi trattenere. Per quanto ci provi non riesce a non vedersi frammentato, tremolante come porcellana appena andata in pezzi. Chi vuole più ingannare con la pretesa di distanza, di lontananza da ogni sentimento e coinvolgimento umano?
Può far calare il sipario, la finzione non può reggere oltre lo spettacolo. Con tante scuse da parte della direzione.
“Dovevi essere tu a morire, ricordalo.
Dovevi essere tu a morire.
Dovevi essere tu a morire.
Dovevi essere tu a morire…”
Non avrebbero potuto esistere parole migliori per spezzarlo e congelargli il cuore. Non sa se si merita quella crudeltà, ma è anche vero che ora come ora non è nemmeno in grado di pensare lucidamente.
Gogol’-san, sono io.
C’è una tempesta nell’aria: il suo odore penetra dalla finestra del bagno di una casa che non conosce, vince anche quello che gli impregna abiti e capelli, non sa razionalizzarlo né dire come lo trovi.
Gogol’-san… mi senti? Sto venendo da te.
Nikolai volta lentamente il capo, seguendo il suono di una voce che proviene da un punto non troppo lontano; una luce sorge dal centro del pavimento mentre un cellulare viene fatto scivolare sotto la porta e gli raggiunge i piedi, lo schermo lampeggiante e fermo su un nome.
Reggendosi con un braccio al lavandino, Gogol’ raccoglie il telefono da terra e, quasi completamente accecato dalle lacrime che gli rendono molli le guance, legge a fatica le lettere che riporta.
Dall’altro capo si sente un respiro affannato e il ritmo di una corsa; e nella mente di Nikolai, per un momento, il vento nuovo arriva su ali bianche, attraversa Yokohama con tutta la velocità che possiede e lo trascina via da lì.
Il caos cresce mentre il mondo gira, anche se è solamente la sua testa; tanto che quando bussano alla porta, una, due e tre volte, inizialmente non si rende conto che il rumore sia fuori da lui, che qualcuno lo stia chiamando con maggior insistenza e disperata determinazione ogni secondo che passa.
Questa diviene un’onda, sbatte violentemente contro la sua persona come una mareggiata, quasi lo fa urlare; ed è perché qualcosa si calmi e tutto smetta di fare dannatamente male che Nikolai sposta il mobiletto che ha messo innanzi alla porta perché nessuno entrasse, aprendo infine quest’ultima. Immediatamente al di là della soglia, due occhi di platino e la pelle pallida di un volto che conosce bene incontrano il suo sguardo.
Nonostante gran parte dell’alcol sia uscito dal suo corpo, ancora la mente non è abbastanza ferma e davanti ai suoi occhi i tratti della persona si confondono: si mescolano per assumere la fisicità di Fyodor e immediatamente dopo divengono la figura slanciata di Sigma. Ma perché questi dovrebbe essere lì? Lo sopporta a malapena, non è così ubriaco da ingannarsi fino a un simile punto.
Sigma è fuori dalla questione, innocente; non possono essere sue le mani che si allungano verso di lui e non lo dilaniano, ma gli sfiorano le braccia e le serrano.
«Gogol’-san, mi riconosci? Nikolai Gogol’, segui la mia voce.»
Sigma… Sigma lo ha trovato, è lì per lui. Ora che l’ha visto, perché non è fuggito, perché si trattiene ancora e gli si avvicina? Gli sporcherà gli abiti, lo rovinerà come fa con tutti.
Ha ragione Dostoevskij: è una dannazione per il mondo, nessuno si merita qualcosa di simile. Eppure, per quanto tenti di svicolare dalla presa di Sigma, questa rimane ferrea come lo sguardo percorso da un fuoco risoluto.
Per una volta l’energia dell’altro vince la sua, in silenzio e senza violenza, e alla fine Nikolai non può fare altro che chiudere gli occhi e appoggiarsi al corpo di Sigma non appena questi gli si affianca e gli passa un braccio sotto le ascelle. «Vieni, andiamo a riposare. Ti reggo io, ti puoi affidare a me», gli mormora il giovane mentre lo stringe a sé e lo conduce fuori dal bagno, ignorando quanto si stia macchiando con gli effetti di una tristezza profonda e straziante. Un tessuto caldo giunge a coprirgli le braccia e il ventre; senza sollevare le palpebre ma seguendo il percorso del tessuto, Nikolai scopre che Sigma ha portato con sé anche una coperta e lo ha avvolto in questa prima di portarlo con sé ovunque voglia. «Non dovevi farlo», mormora mentre affonda il naso nel tessuto, «non spettava a te… Sigma-kun.»
«Lo credi davvero?» Una piccola pausa. «Il silenzio non mi dà fastidio, se non vuoi parlare non farlo; ma se vuoi dirmi tutto ciò che ti passa per la mente, posso ascoltarti, sai.»
Gogol’ non risponde, scegliendo così la prima opzione; le luci mutano e si attenuano non appena si lasciano la casa alle spalle e si buttano nelle braccia della notte, e nell’eco del vicino oceano, sotto pallide stelle, Nikolai cede le ultime energie e si aggrappa al collo di Sigma per non cadere.
«Aspetta, aspetta. Facciamo così.» Sigma è attento e cauto mentre si ferma e si carica in groppa il compagno, tenendogli le gambe con tutta la delicatezza che possiede; e quando questi si rialza per continuare il loro piccolo viaggio, benché sia più alto e robusto del compagno, Nikolai si sente così leggero da credere di esser fatto di piume. Sotto le dita intrecciate che poggiano sul petto dell’altro sente battere il cuore di questi, il tamburellare attutito dalle vesti gentile come il lucore che scende dal cielo e che non giudica.
Per tutto il tragitto la mente tace, esausta quanto il corpo, e solamente il malessere diffuso gli impedisce di cadere addormentato con la speranza di svegliarsi lontano, una diversa consapevolezza nell’anima e ancora qualche illusione. E non è giusto, non è corretto e lo sa: ma mentre appoggia la testa contro quella di Sigma e lascia sprofondare una guancia nei suoi capelli, immagina che quei colori argento e lilla si carichino dello stesso buio che sovrasta le teste di entrambi, che chi lo sostiene sia un’altra persona e il brutto sogno finisca per non tornare mai, mai più.
«Presto saremo a casa, resisti ancora un poco.»
Nikolai annuisce appena e completamente inerme si lascia cullare dal passo dell’altro, per ridestarsi dal torpore solamente quando Sigma si ferma e prende un profondo sospiro. Un attimo dopo una mano diversa, magra e forte, si frappone fra loro e viene immediatamente seguita da una voce altrettanto matura. «Abbassati piano, Sigma. Ecco, fagli appoggiare i piedi al suolo.»
Gogol’ apre gli occhi un poco, attirato dal tono sicuro dello sconosciuto; e una figura secca e alta più di lui incontra il suo sguardo e trova un posto nella mente. Impiega qualche istante a farlo, ma quando trova una risposta il ragazzo alza improvvisamente la testa e spalanca gli occhi, sorpreso. «Sigma-kun… perché non mi hai mai detto di essere il figlio di Bram Stoker? Non mi sarei ubriacato così tanto! Che vergogna, trovarmi davanti a un famoso critico musicale[4] e non sapere nemmeno che battuta fare…», esordisce, riprendendo così parte del suo normale sé.
Sia padre che figlio guardano Gogol’ con stupore, quindi questi accenna un sorriso. «Forse la situazione non è poi così drammatica», sussurra, mentre Stoker non aggiunge nulla se non una piccola smorfia che vale come assenso e aiuta Nikolai a mantenersi in piedi, per poi accompagnarlo in casa con l’aiuto di Sigma. Altre luci, ambienti ampi, caldi e confortevoli, il delicato profumo di pulito e ordine che ha sempre sentito sul compagno e la grande vasca in cui viene adagiato sono la nuova realtà di Gogol’, che docilmente si lascia spogliare dal coetaneo per una veloce ripulita. Non che abbia molte forze per opporsi, d’altronde. «Puzzi da morire, lo sai?», sussurra tuttavia all’indirizzo di Sigma.
«Parla quello che cinque minuti fa era un sacco della spazzatura», risponde prontamente l’altro, che però si libera della giacca e del maglione per rimanere in camicia, «così va meglio per il tuo naso?»
«Eh già…», risponde intanto Nikolai alla prima frase e solamente a quella, «… a chi voglio darla a bere.»
Sigma non replica più; velocemente, recupera e appoggia su un mobile vicino a sé un cambio d’abiti e tutto il necessario per lavare l’altro e s’inginocchia accanto alla vasca, per poi aprire la bocca d’erogazione della vasca e iniziare a sciogliere la treccia del giovane. I capelli di Gogol’ si distendono in morbide onde argento lungo tutta la schiena di questi: sono così splendidi e luminosi che vederli insozzati è uno sfregio alla bellezza, per questo Sigma non perde tempo e, afferrato spruzzino e shampoo, li lava e massaggia con tutta la delicatezza e cura che possiede, passando le ciocche una a una.
Con la coda dell’occhio, Nikolai non perde nessuno dei suoi movimenti e, rannicchiato su sé stesso sotto il bacio purificatore dell’acqua, non fa che chiedersi che cosa spinga Sigma a comportarsi in quel modo. Le persone agiscono così solamente verso i propri amici, ma loro due non lo sono; di certo Sigma non l’ha mai considerato più di una conoscenza… o forse no?
Questo non ha poi grande importanza: non è Sigma che vuole, e non è Sigma che dovrebbe prendersi cura di lui. Quel ragazzo sta occupando un posto che un altro ha rifiutato, non riesce a dimenticarlo neanche ora.
Fiumi e fiumi di alcol non potrebbero annullare la forza di questa verità.
«Che cos’è successo, Gogol’-san?»
La domanda del compagno è esitante e mormorata, la richiesta di un segreto.
Nikolai tace, quindi stira la bocca in una smorfia che contiene dentro di sé un’oscurità addolorata, avvilita e arrabbiata, e continua a non rispondere.
L’altro giovane rispetta il suo silenzio, non domanda più nulla e si dedica nuovamente alla pura operazione di lavaggio; quando ha terminato, avvolge Nikolai in un asciugamano ancora più caldo e morbido della coperta che gli ha dato prima, e a questo punto l’altro giovane prende la situazione nelle sue mani, o almeno ci prova, e gli blocca il braccio che sta per prendere un secondo telo. «Hai già fatto abbastanza, Sigma-kun. Vai a sistemarti e a riposare, ora posso cavarmela da solo.»
Sigma lo guarda con una luce confusa nello sguardo, presto sostituita da un’espressione carica di dubbio. «Sei devastato e stai tremando come un pulcino, non ti reggi nemmeno in piedi.»
«Un premio a te per la perspicacia! Ma per quanto sia in tali condizioni, da questo momento preferisco gestirmela da me. Ce la posso fare benissimo.»
Sigma si alza in piedi. Il suo sguardo è così scuro che pare aver addensato una tempesta negli occhi, tutta contro Nikolai. «Sei in casa mia e di mio padre, sotto la nostra responsabilità. Non dirmi cosa puoi e non puoi fare.»
A quelle parole il ghigno si congela sulla faccia di Gogol’, che dilata gli occhi e li pianta con forza su Sigma. «Se è così, il tempo di asciugarmi e levo il disturbo», sibila mentre si alza, fronteggia il compagno ed esce dalla vasca ostentando una sicurezza non così ferma come vorrebbe, «i miei ringraziamenti per tutto.»
«Gogol’-san…»
Il ragazzo si allontana di un passo come un animale pronto ad attaccare; Sigma fa altrettanto, turbato, e si volta per lasciare a Gogol’ la sua intimità. Questi impiega pochi istanti per soddisfare il quesito di Sigma, il tempo d’intravedersi in un altro specchio e scoprire con una chiarezza allucinante quanto sia il fantasma di sé stesso. «Vuoi sapere che cosa Dos-kun mi ha detto?
Che non sono necessario. Che tutti possono fare a meno di me, e anzi!, che è meglio fare a meno di me. Per lui non sono mai stato un amico, ma un male che non doveva giungere in questo mondo.
Questo è ciò che ha detto Fyodor Dostoevskij, l’uomo che ha incantato me come te, proprio oggi, quando gli ho chiesto se è mai stato sincero con qualcuno o se per lui sono sempre stato un mero passatempo. Dentro di me sapevo già la risposta, ho solo voluto sentirla dal vivo.
Mi ha anche fatto sapere che non si è mai scordato che, anni fa, dovevo morire: quando all’Hoshino Memorial Hospital i medici hanno scambiato le mie analisi del sangue con quelle di un’altra persona e ho letto i risultati di una leucemia che non stava condannando a morte me, ma uno sconosciuto… ecco, per il caro Dostoevskij quella sorte sarebbe dovuta toccare veramente a me.
Perché avrebbe dovuto dirmi qualcosa di simile? Credimi, non m’interessa la risposta.
Tali parole sono sufficienti, non ti pare? Dovevo essere io a morire.
E ora lo odio per questo, quanto lo odio.»
Tali parole sono state pronunciate di spalle l’uno all’altro, eppure hanno investito entrambi come una cappa di piombo. Allo stesso modo continuano ad aleggiare tra loro come nebbia, nel silenzio così pesante di significato da spezzare il cuore. 
Nikolai non aggiunge altro: è stanco, davvero privo di energie, benché più lucido di quando è entrato in quella casa. Senza più alcuna voglia né forza di reggere la maschera, prende gli abiti che Sigma ha scelto per lui, si veste e si asciuga velocemente i capelli, per poi raggiungere il giovane sulla porta.
Lo guarda per un solo istante, quindi volge il viso altrove. «Amare gli altri è uno schifo, Sigma. Imparalo in fretta, così non soffrirai a lungo.
Di nuovo, grazie per tutto.»
Sigma si muove solamente quando lui s’incammina per il corridoio che lo porterà all’ingresso, i passi incerti ed esitanti. Ma sono i suoi o quelli dell’altro? «Rimani, per favore. Riposa per qualche ora…»
Lui neppure si volta. «Ci si vede a Komababa», sussurra sull’uscio, forse udito unicamente dalla notte che già lo ha riaccolto. Solamente le tenebre e l’oceano, ora, possono ascoltarlo e proteggerlo fino a quando lui lo vorrà.



I giorni corrono veloci per portare la neve, la magia del Natale e il morire di un altro anno, la nascita di uno nuovo.
Gogol’ non rispetta la sua promessa: diserta il campus di Komababa e lascia che Sigma si trovi ad affrontare Fyodor da solo, non una parola tra loro né un accenno a quanto è accaduto in una triste sera ricolma di stelle e sconfitte.
In uno degli ultimi giorni di lezioni e durante una corsa da una sala all’altra, Nakajima rivela all’amico che Dostoevskij non ha mai risposto a una delle chiamate che gli sono state fatte né a un solo messaggio inviatogli quella sera, come se per lui Nikolai non sia mai esistito; ma Sigma lo ha compreso già notando l’espressione pacifica con cui il giovane dai capelli notturni lo saluta ogni mattino, quasi un modo per metterlo alla prova e vedere le sue reazioni.
Capodanno arriva velocemente e così lo fa anche il primo giorno di un nuovo ciclo d’esistenza; Sigma e Atsushi passano un pomeriggio e una notte in un impianto termale di Hakone, ma il primo si trattiene lì una seconda notte e attende il mattino per salire verso Hakone Jinja e visitare l’Occhio del Cielo.
Il proposito inizia a mutare appena lui lascia le terme e si concede una passeggiata lungo una sponda di Ashinoko; perché qui, sospesa tra gli ultimi segni delle festività e la nebbia che ammanta i monti scendendo fino alle loro falde, la figura di Nikolai compare all’orizzonte e avanza insieme a un pallido sole, incrociando quella di Sigma in un contatto non previsto.
Seduto su una panchina lungo la via panoramica, avvolto negli abiti tradizionali e intirizzito dal freddo del primo mattino, quest’ultimo abbandona la contemplazione del lago non appena sente il legno farsi più pesante sotto la pressione di un altro corpo, e voltandosi incontra il viso di Gogol’ perso dentro la visione di Ashinoko.
Il silenzio dura ancora per qualche attimo, fino a quando Nikolai non si avvicina maggiormente a Sigma e lo avvolge con sé nel caldo mantello russo che sembra custodire dentro sé l’estate; allora, anche l’animo pare sciogliersi e a poco a poco lascia entrare l’altro in quiete onde di tepore e vicinanza, ed empatia.
«Mi dispiace tanto», sussurra infine Sigma, una goccia intrappolata sulle ciglia e pronta a scivolare lungo la guancia, «per tutto, tutto. Io non sapevo… non potevo immaginare. Avrei voluto che tu restassi quella notte, per potertelo dire subito… mi dispiace anche per non averti saputo fermare. Che disastro.»
Sincere parole alle quali Nikolai risponde con un tenue sorriso, via via sempre più netto. Dentro di esso non follia ma pura realizzazione, gentilezza e una punta di tenerezza. «Va tutto bene, credimi: non era un tuo peso da portare.
Anche io ti devo parecchie scuse, Sigma-kun: non mi sono comportato molto bene negli ultimi tempi.»
«No, non lo hai fatto», assentisce Sigma mentre abbassa gli occhi, «ma avevi i tuoi motivi per agire così. Spero tu stia meglio.»
«Ecco, diciamo che ci ho provato; mi sono anche ricordato che qualcuno, forse lo conosci, una volta ha detto che nei boschi di Hakone ci sia nascosto un tesoro visibile solo a pochi, così sono andato a cercarlo…»
«E lo hai trovato? L’Orologio del Cielo, lo hai visto anche tu?»
Nikolai non cede il sorriso, non davanti allo sguardo luccicante d’attesa del compagno. «Credo di essere stato sul punto di farlo; poi ho sentito il profumo di qualcosa di delizioso e ho cambiato completamente strada.»
Sigma lo guarda con la bocca spalancata, per poi corrugare la fronte e scuotere il capo. «Noto che l’intenzione di prendere in giro il mondo è sempre in forma.»
«E tu devi ancora imparare a essere meno serio!» Gogol’ aggiunge una risata a piena voce, mentre l’altro gli dà una leggera gomitata sul fianco e gli lancia un’occhiata in tralice.
Immediatamente dopo, Nikolai scatta in piedi e spalanca le braccia. «Maaaa se tu mi portassi a visitare Hakone Jinja, così ti posso dilettare con la mia presenza e recuperiamo parte dei giorni perduti? Mi sono annoiato a non sentirti urlare come sei solito fare.»
«Cos’è, un invito a farti buttare giù da qualche burrone?»
«Puoi sempre provarci e vedere se funziona o meno. Allora, accetti?»
La risposta viene da sé qualche attimo dopo, non appena Sigma stringe la mano che il compagno gli porge.

 

Alla fine della giornata, Sigma ritorna a Yokohama dopo tre treni persi e con la voce bassa per aver discusso con Nikolai così tante volte da perdere il conto; quest’ultimo, invece, rientra negli studentati universitari di Tokyo con le gambe a pezzi e le energie quasi a secco, questa volta per motivi felici.
Qualche giorno dopo, la routine universitaria ricomincia e i due ragazzi si ritrovano nuovamente a fianco a fianco tra le lezioni, le ricerche e gli studi, discussioni, perdite di pazienza, scherzi, risate e progressiva crescita; l’unica differenza è che Fyodor non è più con loro.
Non lo sanno ancora, ma una parte di lui è rimasta sulla passeggiata di Ashinoko, un’altra ad Hakone Jinja, e un’altra ancora è già uscita dalle vite di entrambi una sera di Dicembre, non appena Sigma ha deciso di non lasciare indietro nessuno.
Qualcosa di grande è successo, tra loro e nella realtà che li circonda; un giorno lo scopriranno.





 

NOTE
 

[1] Si sa dalle biografie che il giovanissimo Gogol’ prese parte a vari spettacoli come attore, che suo padre fosse un compositore di opere teatrali e che suo zio le mettesse in scena, spesso con l’aiuto del nipote. Nella sua carriera di scrittore, anche Gogol’ si dedicò alla creazione di opere di tal genere, con risultati notevoli.
 

[2] Nella mia mente, La Commedia degli Errori in questione potrebbe essere qualcosa di simile a “L’Ispettore Generale”, annoverata fra i capolavori di Gogol’. Questa si qualifica proprio come una commedia dove sono gli equivoci e i fraintendimenti a farla da padrona.
 

[3] Ripresa rimaneggiata di “I’m on the edge of glory / And I’m hanging on a moment with you”, presente in The Edge of Glory, di Lady Gaga.
 

[4] Ho deciso di rendere Bram un critico musicale per “colpa” del capitolo 89 e della scena in cui chiede a Fukuchi una radio in compenso (non volevo essere scontata lol).
Non c’è invece una spiegazione logica del perché abbia scelto di rendere Bram il padre adottivo di Sigma, se non i miei headcanons molto comfort; personalmente, guardando ai loro caratteri, credo che infatti potrebbero andare anche d’accordo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Trovami, Io Ti Aspetterò ***


{ III ◊ Trovami, Io Ti Aspetterò }





 

Il procedere del nuovo anno porta immediatamente a due cose: la rottura definitiva di qualsiasi rapporto con Dostoevskij e uno degli inverni più freddi che il Giappone abbia mai patito. Il primo fatto si mostra inevitabile fin da subito; per quanto gli abbia fatto male e sia stata causa di uno degli episodi più spiacevoli della sua vita, una parte di Gogol’ ringrazia la pesante sbornia che gli ha permesso di sfogare ciò che prima non ha mai osato realizzare e accettare, ma questo implica anche chiarire la questione e chiuderla definitivamente.
Ogni qual volta il ragazzo ne parli con Sigma, risulta lampante come non sarà un momento facile; e per quanto l’amico consigli prudenza e calma, Nikolai non può promettere che non finisca nel modo più brusco possibile.
Questo è proprio ciò che alla fine succede, con una variazione inaspettata: è Sigma, infatti, il primo a trovarsi innanzi a Fyodor e ad avere non il migliore dei confronti con lui, anticipando di un poco il compagno.
Nonostante questo succeda a poca distanza da Komababa, nessuno assiste a quanto succede o sente nulla, come se una sorta di nebbia sia calata su loro tre e li abbia celati a qualsiasi testimonianza. Solamente le nocche sbucciate, qualche ematoma e tracce di sangue sulle vesti di Sigma fanno intuire cos’è accaduto, ma non una parola esce dalle loro bocche e la faccenda rimane un mistero per l’intero mondo; certo è che da quel momento le loro strade divergono drasticamente da quella di Dostoevskij, in quanto nella mente di entrambi il ragazzo è come morto e da tale viene trattato.
Poco dopo questo fatto, le temperature già basse precipitano e il Giappone viene investito da bufere che si abbattono in maniera continua sull’isola, mettendo a dura prova i servizi, le comunicazioni e l’incolumità delle persone; Tokyo, come le altre città e centri, viene isolata dal resto della nazione dopo un’intera giornata di tempesta, così che l’Imperiale si trova a doversi organizzare per proteggere i suoi studenti e ad aprire gli studentati a coloro che non sono riusciti a fare ritorno a casa in tempo.
Per la prima volta, Sigma è costretto dormire da solo, in una stanza unica dello studentato e lontano da qualsiasi persona che abbia mai chiamato famiglia e tranquillità; questo e la situazione d’emergenza non possono che far vacillare la sua stabile routine, con il risultato che tornano gli incubi e i sogni si fanno più nebulosi, e nella veglia vengono a fargli visita vecchie paure.
Lo studio e le esplosioni d’allegria e caos di Nikolai riescono ad arginare queste per tutto il tempo del giorno, ma non possono tenerle lontane quando scende la notte e i pensieri si fondono con le visioni oniriche, mutandosi in condanne e fantasmi che tolgono lentamente, una dopo l’altra, tutte le energie. Divengono sempre più intollerabili e spaventose, e neanche riempire il taccuino di parole e parole dà a Sigma la sicurezza che la sua mente non perderà mai la coscienza di tutto ciò che lo circonda e rimarrà solamente l’incertezza di non vedere una strada davanti a sé, e nemmeno dietro.
Come può essere e diventare qualcuno, se notte dopo notte svaniscono frammenti di sé?

 

Un’ennesima tempesta è finita da poche ore, quando Sigma si sveglia e immediatamente ha consapevolezza di quanto sognato. Non può dubitare e nemmeno illudersi fino a farlo: conosce bene gli effetti che quelle visioni hanno sul suo corpo e li sente tutti addosso, dal cuore che batte tanto forte da far male alle mani che tremano, alla mente straziata che chiede una pietà che non arriva.
La piccola, bianca stanza dove alloggia è immersa nella luce artificiale di un apparecchio elettronico; il giovane ci mette qualche istante a comprendere che è il suo cellulare a emanarla, sotto la spinta di una chiamata.
Senza nemmeno leggere il nome di chi lo cerca, risponde. E se ne pente subito.
Sigma-kuuuuuun!
Il ragazzo alza gli occhi al cielo e stringe le coperte fino allo spasimo, quindi prende un forte, lento respiro per non mettersi a gridare parole poco lusinghiere e svegliare l’intero studentato.
Dall’altro capo della linea, le risate di Gogol’ si sprecano e irritano di più di secondo in secondo. “Mi hai riconosciuto, veroooo?
E chi non l’avrebbe fatto, per quasi una decina di ragioni?
Non sto indossando niente!”, continua imperterrito il ragazzo.
«Perché sei un idiota. Copriti, si gela anche in camera, e dormi maledizione, è l’una passata.» Sigma chiude la chiamata senza attendere un’altra parola e spegne il telefono, afferra le coperte con un gesto secco e se le tira fin sopra il capo. Rimane immobile per qualche istante, poi sospira e si scopre per metà, accende la luce dell’abat-jour accanto al letto e fissa il soffitto distendersi sopra di sé.
Ora la testa gli gira e il petto continua a pulsare come se lo stessero percuotendo senza sosta: non può andare avanti in quello stato ancora per molto, è ormai al limite… e questa volta non ha voglia di sfogarsi solamente con sé stesso.
Mentre fissa lo schermo del cellulare illuminarsi nuovamente, si chiede se non stia facendo uno sbaglio enorme; ma è l’unico modo per provare ad alleviare la pena, per allontanarsi dall’onda che cresce e non lascia respiro. Che Gogol’ lo faccia anche arrabbiare, e sia; ma che non lo lasci affogare, che piuttosto lo privi della sanità mentale. Questa non è una notte da passare in silenzio.
Uno squillo, appena uno; subito dopo, Nikolai risponde alla chiamata e Sigma lo precede immediatamente: «Sono io.»
Forse non lo sai, ma vedo il tuo numero dal display; altrimenti non avrei risposto così in fretta!”
Ignorando il tono ironico dell’amico, Sigma si morde un labbro nell’esitazione, quindi si mette seduto nel letto e stringe il telefono fino a far dolere le dita. Ha paura, tanto almeno quanto è stanco di temere i propri sogni. «Posso parlarti? Seriamente, intendo, e non attraverso un cellulare. Di persona.»
Certo che sì! Ma prima non mi dovrei rivestire…?”
«Fai in fretta, per favore.»
Rimango nudo, se non vuoi perdere molto tempo!”
«Continua così e ti prendo a calci in bocca, se non altrove. Promesso.»
Una risata squillante, che finisce presto. “Ti aspetto, tu preparati con calma.”
Sigma annuisce come se l’altro potesse vederlo, quindi termina la chiamata e abbassa lentamente il telefono. Le mani fanno quasi fatica ad afferrare la prima felpa che trova nell’armadio e a infilarla sopra la maglia del pigiama; tuttavia, sono leste ad aprire la porta della camera e a chiuderla senza rumore, sicure.
Il corridoio dello studentato è immerso nel silenzio e nel subitaneo lucore che si attiva appena i sensori di movimento avvertono la presenza di Sigma; dalle finestre poste lungo il percorso filtra solamente il precipitare della neve, in un battito calmo che è completamente opposto a quello del giovane.
Per quella che in altre occasioni avrebbe considerato una sfortuna ma ora ringrazia, la camera di Nikolai è situata a distanza di pochi corridoi dalla propria, così che il tormentato arriva in fretta a destinazione e, affidandosi a ogni divinità esistente, bussa piano alla porta dell’amico, dalla quale proviene una bella luminosità azzurra. Passa un istante, quindi questa si apre; e Sigma perde un’altra delle speranze che ha mai avuto su Gogol’ mentre osserva e subito tenta di ignorare l’enorme pigiama che indossa: a forma di pulcino e di un giallo così intenso da dare il mal di testa — e il voltastomaco —, con un cappuccio provvisto di occhi e becco in paillettes nere e rosse.
Semplicemente un orrore.
«Era meglio se rimanevi nudo», è la prima cosa che Sigma mormora intanto che l’amico si fa da parte e con un piccolo inchino lo invita a entrare. «Quindi ora mi devo spogliare? Ma non sei mai contento!», risponde Nikolai con una smorfia, chiudendo la porta alle loro spalle e poi indicando la felpa dell’altro, allargando il sorriso perenne e facendolo diventare una risata soffocata: «Ma… non credevo fossi così teeenerooo!»
Sigma abbassa gli occhi e dà una veloce occhiata alla fila di lanose pecorelle saltellanti ritratte sull’indumento ― in verità non è suo, gli è stato prestato da un altro; ma a che scopo provare a dirlo? ―, arrossisce di colpo e assesta uno schiaffo alla mano di Gogol’. «Smettila, ti stai divertendo anche troppo», soffia mentre ritorna a guardare il cappuccio dell’assurdo pigiama; solo in quel momento nota che l’occhio destro è mancante e il sinistro segnato da una linea che lo attraversa verticalmente come una cicatrice. Senza volerlo lancia uno sguardo al volto di Nikolai e improvvisamente, inspiegabilmente, quell’abito non gli sembra più così terribile.
«Sigma-kun», lo richiama intanto il compagno, occupando la sedia accanto alla scrivania e girandosi verso il letto mentre gli fa segno di accomodarsi su di esso, «hai fatto dei brutti sogni, vero?»
Il giovane non risponde subito; prima sprofonda nelle morbide coperte di Gogol’ e le stringe appena tra le dita, per poi osservare la camera straripante di libri, copioni teatrali, fogli e vestiti sparsi nell’ordine ― non è proprio questo il termine corretto ― più casuale. Tutto profuma di una simbiosi particolare e unica, dove ogni componente ha trovato la strada per entrare in sintonia con gli altri; e quel tutto gli sottolinea quanto lui sia fuori posto.
Senza provare a nascondere il fatto di aver avuto quello che considera un incubo, Sigma china il capo e inizia: «Solamente uno, sempre uguale.» Esita un attimo, poi non si trattiene più. «Già, il soggetto è sempre lo stesso: io, mamma e papà, in una valle tra montagne che non ho mai visto. Facciamo un picnic, giochiamo, raccogliamo fiori, viviamo una giornata piacevole.
Che cosa ti spaventa di quello che vedi?, chiederai. Presto detto: ogni volta che sogno, l’ambiente e le figure dei miei genitori sono meno definite. Svaniscono lentamente ma inesorabilmente: prima il dettaglio di un fiore, poi la cima di un monte, infine la collana di mamma, l’orologio di papà, la luce con la quale osservano il mondo, la loro voce… e quello che ero io allora.
Quando mi sveglio, qualcosa è andato perduto sempre e per sempre.
Gogol’-san… io non sono davvero figlio di Bram Stoker: quando ero piccolo, i miei genitori sono morti annegati nell’oceano di Yokohama. 
Neanche il tempo di salutarli per bene ― stavo dormendo quando sono andati in spiaggia ―, che le onde me li hanno portati via. E io li sto dimenticando… tutto ciò che mi rimane di loro, una traccia qualsiasi, sta svanendo e io non riesco a trovare un modo per fermare questa continua scomparsa.
E non voglio, maledizione, non voglio! La memoria è tutto ciò che di loro mi resta, il passato è ciò che mi forma… e io lo sto rimuovendo! Non lo faccio apposta ma è lui ad andarsene, a scomparire senza un senso e senza uno scopo. Finirà così, dunque? Toglierà senso e scopo anche a ogni parte di me, finirò per non riconoscermi più? E dopo, che cosa rimarrà? Dove potrò mai andare, cosa sarò in grado di fare? Sarò sempre solo.»
Sigma si prende la testa tra le mani e si stringe i capelli, chiudendosi su sé stesso. Si sente smarrito e vuoto, deprivato ogni giorno di più, e niente e nessuno sembra poterlo aiutare, ora che l’unica persona che è mai riuscita nel tentativo non è al suo fianco. «Vorrei essere a casa, ora. Questa incertezza mi sta uccidendo.»
Gogol’ rimane in silenzio per qualche momento; quindi si porta le ginocchia al petto e vi appoggia sopra il mento. «Parlami di loro. Raccontami dei tuoi genitori», esordisce; immediatamente dopo, alza il capo e spalanca gli occhi, attraversato da un’idea. «No, ecco cosa possiamo fare!»
Ancor prima che Sigma possa cercare di comprendere quello che l’amico voglia dire, Nikolai balza giù dalla sedia e si tende verso l’altro. «Alzati anche tu», gli sussurra con un sorriso.
Il giovane ubbidisce con leggera titubanza, che si acuisce quando raggiunge l’altro in mezzo alla stanza e questi lo prende per le spalle, facendolo voltare. «Sai ballare, Sigma-kun?»
La domanda giunge inaspettata e scatena lo stupore dell’interpellato, che impiega un attimo a rispondere. «Non-non ho mai imparato», è la replica mormorata, dopo la quale il ragazzo gira il capo per guardare il compagno. «Cos’hai intenzione di fare?»
Con calma, Nikolai gli prende le mani nelle sue. «Quando abitavo in Ucraina[1], prima di andare in Russia, non ero molto bravo a esprimermi. Sia che i momenti fossero felici sia che le cose non andassero bene, trattenevo emozioni e parole e nessuno poteva spingermi ad aprirmi: ero come una statua.
Poi, un giorno, una nostra vicina di casa se n’è andata a vivere altrove e io ne ho sofferto molto: adoravo quella donna con tutto me stesso, e vederla partire… beh, non  è stato semplice.
La mia nonna ha compreso ciò che stavo provando in quel momento, ma era necessario liberarlo, non farlo ristagnare nel cuore; quindi, mi ha fatto voltare così come ho fatto ora con te, mi ha preso per le mani e ha iniziato a farmi ballare. Il movimento del corpo stimola quello dei pensieri, mi ha detto, e questi troveranno la loro via per uscire.
Quel giorno, dopo un’ora che la nonna mi faceva danzare con sé, le mie parole sono esplose: hanno iniziato a uscire senza tregua, rivelato le mie sensazioni più lontane e come mi stessi sentendo in quell’esatto istante, ho persino pianto. Mi sono liberato.» La presa sulle mani di Sigma si scioglie, mentre le dita di Nikolai sono sicure e gentili quando si posizionano sotto il mento dell’altro e raddrizzano il capo. «Ora, respira e chiudi gli occhi. Immagina di essere da solo: Tokyo non esiste, nessuno vive al suo interno e io non sono qui. Ci sei solamente tu e all’orizzonte, se vuoi, i tuoi ricordi.
Prova a immaginare di avvicinarti a loro.»
Sigma s’irrigidisce quando i loro palmi s’incontrano nuovamente, ma ancora di più quando le rispettive mani destre si staccano e Nikolai gli posa la sua sul fianco. «Tutto è… buio. Non c’è un orizzonte, non vedo nulla», mormora.
«Non ti agitare, va bene. Com’è quel buio?»
Il ragazzo rimane in silenzio, strizzando gli occhi quando Gogol’ inizia la danza. Sigma sente il braccio dell’altro avvolgergli l’intera vita e in un certo qual modo la cosa gli dà sicurezza, tanto che l’afferra con decisione come un appiglio. «Fitto, denso. Sembra non voler lasciarmi passare, faccio fatica ad avanzare. Non mi aspetto di veder apparire una luce.» Appena lo dice, un’immagine fiorisce nella sua mente: una lampada, un colore, un turbine di petali. Attende a parlare mentre insegue ciò che vede, e intanto Nikolai gli fa fare una leggera giravolta e subito un’altra più veloce, in modo che il ragazzo libera parte del fiato che ha incastrato in gola. «Non ha molto senso quel che vedo, sembrano foto spezzate. A volte succede, mi tornano in mente scene che non so contestualizzare.»
«Anche loro hanno un senso, invece; devi solo trovarlo.»
Sigma attende di nuovo: Nikolai si è fermato e lo ha fatto girare in modo che i visi siano rivolti l’uno verso l’altro, per poi stringerlo a sé abbastanza forte da potergli permettere di seguire ogni suo movimento anche a occhi chiusi. La presa è un abbraccio e un’onda che si ripercuotono nella mente, e dentro questa nasce una sensazione.
La sensazione si distende intorno e si restringe immediatamente dopo, prende figura e ombra, trema come una fiamma nel vento ma rimane.
«C’è mamma… mamma che ha i capelli come i miei… so che è davanti a me ma non riesco a…» Sigma apre gli occhi d’istinto: contro il petto di Gogol’, il capo quasi incastrato sotto il mento di questi, ha davanti agli occhi la sua lunga treccia. La parte finale svanisce sotto il corpo di Sigma, ma il legaccio che la chiude, scarlatto e dotato di un campanellino, si fa sentire ancora. Ed è rosso, rosso… non è l’unica cosa ad avere quel colore.
«La sua collana… la sua collana! Rossa, con un pendente attorcigliato in oro, una creazione di un’amica di famiglia. Io l’odiavo, mi sembrava un serpente e mi faceva paura. Papà gliela rubava sempre e rideva.
Tutto è immerso nel buio, nel buio, ma si allunga verso di me.
Fermati un attimo, ti prego.»
Gogol’ obbedisce, si blocca; a occhi spalancati, Sigma cerca di andare oltre ma arriva fino a un certo punto. Tuttavia esso è tutto suo, come sono sue le emozioni che prova immediatamente dopo e le immagini che scorge. «Sono… molte. Tanti punti di luce.» Non vi cerca un senso e le lascia arrivare liberamente: alla rinfusa, come colpi che invece di fare male permettono all’anima di risuonare. Sono intense, sono forti. «Fammi ballare di nuovo.»
Sotto la guida di Nikolai e del passo a due che gli sta facendo eseguire, un’emozione si collega a un’altra e un’altra ancora come fili che s’intrecciano per una trama, dando vita a sprazzi di ricordi ― una bicicletta, una corsa sulla spiaggia, un nome ―, luci e colori. Ci sono rimproveri ed elogi, sbagli e vittorie, tracce di una felicità che l’oceano ha portato via ma non è riuscito a sottrarre davvero.
Le giravolte sono trombe d’aria che lanciano sulla spiaggia ciò che all’acqua non serve e allora restituisce, la tempesta dentro di sé scopre per un istante i relitti e i tesori che gli abissi tengono nel grembo; è tutto lì, niente se n’è andato.
«Puoi farmi danzare più forte? Farmi girare?»
«Certamente.» Gogol’ lo prende di peso e lo solleva con tutte le forze che possiede, mentre Sigma gli getta le braccia al collo, affonda il volto nella sua spalla e si lascia andare al vortice che nasce nel centro del petto. E corre, corre, corre… non ha meta, perché sono molteplici le strade, aumentano a mano a mano che si avvicina.
«Oh, Sigma-kun…»
Come anni prima, piove: piove su di lui, sugli occhi e giù per il volto, sulla spalla di Nikolai quando Sigma la picchietta delicatamente per chiedergli una pausa, sul letto dove infine Nikolai lo distende e lo raggiunge per accarezzargli i capelli.
«Ho visto, Gogol’-san», mormora Sigma tra i singhiozzi e mentre stringe i polsi dell’amico, «ho visto al di là del buio. L’orizzonte che hai detto… c’è. Ancora troppo lontano per me, ma esiste.»
«Ed è questo ciò che conta, no?»
Il ragazzo sorride e apre gli occhi. «Sì… lo è.» Si alza a sedere e si porta di fronte a Gogol’, che lo attende. «Quello che hai fatto… c’è riuscito solo il mio padre adottivo, per un poco. Credo che ci vorrà ancora più di questo, però.»
Nikolai annuisce, una luce gentile nello sguardo. «Un passo alla volta: non si può imparare a ballare in un’unica sera.»
Sigma esita, quindi si guarda le dita delle mani. Non riesce a fare a meno di parlare. «Non credevo che sarei giunto qui… ho sempre pensato di star recuperando tutto il possibile solamente da quando Bram Stoker mi ha adottato. Ogni qual volta lo ascolti suonare o insegni a me a farlo, vedo le immagini di poco fa, ma non come stanotte e non così tante. Pensavo che più in là non sarei mai andato, che fossero le uniche rimanenze… avevo perso le speranze, ormai.» Guarda il compagno, lo sguardo diluito da una riconoscenza intensa. «Devi insegnare a ballare per bene…»
«Lo vedo! E sappi che se mi osanni e veneri posso sì imbarazzarmi, ma non provo certo dispiacere!»
Nikolai para senza difficoltà il cuscino che Sigma gli lancia, quindi glielo tira addosso a sua volta e immediatamente dopo lo assalta per bloccarlo sotto di sé. «Tu però non dire a nessuno che anche io ho un cuore o ti darò la caccia per tutto il mondo, intesi?»
Il ragazzo socchiude gli occhi e fa una smorfia obliqua. «Non lo dubito», commenta un istante prima che Gogol’ lo copra con le coperte e lo avvolga dentro di esse, per poi abbracciarlo. «Tuttavia, sono così buono che ti lascerò dormire qui per stanotte, sei taaaaanto morbido e caldo!»
«Almeno fammi respirare!» Sigma esita, il tempo di pensare alla sua stanza fredda, e fa un sospiro. A dir la verità, si rende conto che non se ne vuole andare da lì e inventerebbe anche scuse pur di rimanere. Sperando che non si noti troppo. «… E va bene, resto.»
A quel punto l’amico lo libera e gli toglie le coperte per sistemare il letto, per poi gettarsi sotto di esse e attendere che l’altro lo raggiunga. Quando lo fa, gli picchietta gentilmente il naso con un dito, per poi scompigliargli i capelli con un sorriso che tutti definirebbero idiota.
Sigma lo respinge con un verso di fastidio, quindi ammorbidisce lo sguardo e, sentendo di essere in bilico sul bordo del letto, si avvicina di più a Gogol’. Gli occhi sono ora spalancati e fissi sull’altro, lucenti: due grandi gemme lunari che s’incontrano con l’oro del sole. «Grazie, Gogol’-san, e buonanotte. Prometto di non fare rumore quando mi alzerò.»
Nikolai scuote la testa e non cede il sorriso. «Prego, ma sappi che mi sveglierò prima di te e ti guarderò dormire, quindi ti farò i dispetti!»
Il ghigno che sorge sul volto di Sigma è eloquente, non privo di sfida. «Di solito mi sveglio alle cinque e mezza.»
Una pausa densa d’impressione e costernazione. «… Tu mi fai seriamente paura, Sigma-kun. Sei sicuro di essere umano?»[2], mormora Nikolai con uno sguardo terrorizzato, prima di seppellire il viso sotto il cuscino e far finta di tremare — forse non è finzione.
Sigma ride genuinamente a quella scena, quindi si raggomitola nel tepore del letto e lentamente chiude gli occhi. «Buonanotte», sussurra nuovamente la sua voce, ripetuta e amplificata da quella di Gogol’, che si è messo più comodo e ha leggermente tirato Sigma verso di sé, perché lui lo sia altrettanto.
La luce viene spenta senza che un rumore incrini l’improvvisa quiete, e le mani di Nikolai continuano a serrare lievemente come in un principio di abbraccio.
Sigma reclina il capo in avanti: ancora qualche centimetro e può toccare il petto dell’altro, e intanto si crogiola nello spazio in cui si trova, sentendosi tranquillo quasi come ogni volta che giunge a casa e vede suo padre attenderlo sulla porta.
Tra loro, è Gogol’ che si addormenta per primo, e grazie al suo respiro regolare, al calore che il corpo emana, Sigma è raggiunto da un senso di fiducia che mai avrebbe pensato di provare; non molto dopo si addormenta senza timore dei sogni, e nonostante le ore rimaste al sonno siano poche, quando si sveglia si trova riposato e sereno.
Nel buio che ancora preme la stanza di Nikolai, si volta sul dorso e si alza a sedere piano, per non svegliare il compagno; e aggrotta le sopracciglia, attraversato da una sensazione che non sa spiegare subito, mentre si tocca la fronte e la sfrega lentamente. Forse è una sua impressione, forse immaginazione: eppure, la pelle sembra conservare l’ombra di un bacio.

 

 

Un giorno capirai quanto ne vale la pena.
È un bel mattino di primo Ottobre: la luce è dolce mentre scende e scivola tra i boschi, percorrendo i sentieri insieme a lui e accompagnando il respiro con esplosioni di colore. Non è difficile trovare l’Orologio del Cielo, se questo lo desidera; certo, ci deve essere un motivo forte, ma la sua saggezza sa riconoscere le anime e non teme di palesarsi al mondo. 
Il misterioso abitante di Hakone è più piccolo di quanto Nikolai si aspettasse, ma non si può dire nulla sui simboli che reca incisi: sono loro la vera presenza della montagna, il segno che c’è qualcosa di più grande degli uomini tutti e che li lega l’uno all’altro.
Il tronco del cedro che ospita il mistero accoglie la sua mano come se lo stesse attendendo da sempre; appena si instaura un contatto si sprigiona anche un aroma sottile, ed è lo stesso profumo che intreccia i capelli di Sigma, il sentore della sua pelle quando gli è così vicino da potergli toccare il cuore. 
Sigma… il suo nome è breve quanto incisivo, più profondo e indelebile delle stelle e dei pianeti che danzano a pochi metri da lui; e il ragazzo è come un fiore, che si nutre di ciò che di più bello nasce e lo rimette nel mondo per condividerlo con gli altri. Se guarda indietro, ai primi giorni all’Imperiale, Nikolai quasi non lo riconosce: ora è più sicuro di sé, in grado di guidare e confortare, con le sue parti oscure proprie di ogni persona e le paure da placare, con ogni dettaglio che lo spinge verso la luce, il posto al quale appartiene.
E in quanto a sé… no, non è più lo stesso. Né migliore né peggiore, forse; semplicemente, mutato. La cosa che più importa è che l’ha voluto lui. 
Ho imparato che la libertà esiste e va conquistata, anche a costo di grande dolore; che il destino non ha potere su di noi, se abbiamo il coraggio di ribellarci.
Di quella stanza dell’Hoshino Memorial Hospital, Nikolai ricorda la luminosità: era una sera di plenilunio, e il paziente lì ospitato non la smetteva di sorridere. Era felice, diceva: felice di sapere che era sua la vita che stava per avere termine, e non quella di un ragazzino appena divenuto cosciente del dolore. 
Ma che cosa resta del senso dell’esistenza, se deve finire in un simile modo? Che cosa ci rimane della libertà di scegliere, di provare e vivere, se dobbiamo essere succubi delle sofferenze?” Le parole risuonano amare ancora oggi, intrise della tristezza di un cucciolo d’uomo che avrebbe voluto cambiare il mondo e spazzare via ogni ingiustizia, partendo dalla malattia e dagli ostacoli alla libertà. 
In verità resta tanto: sono molteplici i motivi per i quali le persone combattono e vivono, così numerosi che non si possono contare nemmeno avendo tutti gli anni che stanno attendendo te.
Ma ora… ora, tutti i sogni che avevi sono stati infranti da un errore.
Come i tuoi, ragazzino?
Gogol’ chiude gli occhi, respira forte. Gli sembra di essere ancora in quella stanza d’ospedale, con la luna a guardarlo tramite i suoi mille occhi neri, i risultati degli esami scambiati stretti nel pugno, la pelle percorsa da scariche elettriche dal sapore della sconfitta; e quelle parole…
Ho imparato che la libertà esiste e va conquistata, anche a costo di grande dolore; che il destino non ha potere su di noi, se abbiamo il coraggio di ribellarci.
Inizialmente, lui ha travisato il vero senso di tali frasi: troppo il peso, la sofferenza e il soffocamento dei legami affettivi e il pericolo da questi rappresentato per il suo cuore e quello altrui, perché chi può dire quando un errore riesce a divenire reale? Come poter affrontare serenamente una perdita, quando comunque vada comporterà sempre tristezza, lacrime e annientamento?
E allora ha scelto di distaccarsi dall’umano, perché solamente chi è solo non rischia di patire; e ha deciso di rimanere al fianco di Dostoevskij per inganno, perché illuso dalle proprie capacità di fuga.
Scappare, farsi del male e fare l’amore con il rischio per avere la sensazione di sentire vivo, di non provare il terrore subito in quella stanza d’ospedale; fingere, nascondere il turbamento in fondo e dietro a mille e mille maschere, cercare l’assoluta libertà tramite queste.
Ma voler essere privo di vincoli non implica saper prevedere gli eventi; e Sigma è arrivato così, senza fretta e senza clamore, con la dolcezza del vento di primavera, tanto delicato che inizialmente non l’ha nemmeno sentito.
Come fa qualcuno che ha sofferto così tanto a desiderare di non perdere il cuore? A volte Gogol’ se lo chiede ancora mentre fissa il giovane dormire nel letto della camera che dal nuovo anno condividono nello studentato, scorgendolo sorridere nei sogni e capendo che lo fa perché non è solo.
Ora nuove parole salgono alla mente, questa volta più vicine nel tempo: confessioni di una sera di poche settimane prima, una cena con Sigma e suo padre ― una delle tante che stanno avendo luogo nell’ultimo periodo; una chiamata che porta l’amico a cambiare stanza, e lui e Bram Stoker che rimangono da soli. Qualcosa, una forza superiore o semplicemente necessaria, spinge Nikolai a parlare, lo sguardo fisso sulla porta attraverso la quale Sigma è uscito. «Forse lei non si rende conto di quanto lo abbia salvato, ma lo ha fatto», mormora, non aspettandosi una risposta.
Invece, Bram non mantiene il silenzio e si sporge verso di lui. «In verità, con me è sopravvissuto; è al fianco di qualcun altro che sta riniziando a vivere.
Ringrazia lui, ragazzo.»
«Ma quella persona ha ancora i suoi dubbi e le sue paure.»
«E chi non ha gli uni e le altre? All’uomo non si può richiedere di cancellare i suoi limiti, gli si domanda per chi è disposto a superarli.»
Che cosa sei disposto a fare, quindi?
Lui e Sigma sono così diversi, e forse per questo sono entrati fin da subito in una sintonia unica nel suo genere: nel battibeccare, prima nel guardarsi senza vedersi realmente e poi nel sentirsi nonostante tutto, nel rimanere.
Nello scegliere di essere liberi di comprendere e affrontare quale cielo sovrasti loro la testa; nel realizzare e accettare che possono guardarlo da soli, ma anche insieme. Nessuno di loro due si è trovato destinato a tutto quello fin da principio; semplicemente, non hanno mai smesso di lasciar andare la vita.
Nonostante le bugie e la distanza, nonostante la stanchezza di fallire e il terrore di perdere sempre più, oppure niente.
L’Orologio del Cielo riflette tutti i suoi pensieri, brilla a ogni sensazione: e si piega docilmente sotto il taglierino che Nikolai estrae, accogliendo la lama come un dono. Le due stelle che il ragazzo incide al posto delle dodici non hanno nome: sono comparse in sogno a Sigma, così ha mormorato questi nel sonno, la notte appena passata. «Sono le stelle di coloro che ci vegliano», ha ascoltato dire l’amico, «coloro che sono sempre con noi.»
Tutti hanno bisogno di qualcuno che rimanga; qualcuno che condivida il proprio calore con loro, che riunisca i punti andati perduti e li colleghi, che li stringa forte e faccia loro capire che per quanto possano avere sbagliato, al di là dei silenzi che non sono stati in grado di superare e del dolore che deve essere ancora affrontato, sono amati. Forse non perdonati, forse non scusati, ma amati.
Se mai ti mancherò, io te lo prometto, ti sentirò e tornerò da te.
Anche se non ti conosco, io ci sarò.
«Lo avresti mai detto, Sigma-kun? L’Orologio del Cielo è per gli uomini: forse non creato completamente da loro, ma per loro e per le stelle che devono ritornare a casa. Le sue lancette seguono moti astrali e desideri umani: tutto trova il suo posto, anche chi e cosa esce dalle regole ha il suo senso.»
Il mattino si riempie di voci e richiami: sono cinguettii, la benedizione di Hakone, la miglior risposta a quanto ha appena detto.
Ed è ora di tornare a Tokyo, alla corsa di ogni giorno, alle prove di teatro, a prendere in giro Sigma sul fatto che a forza di studiare libri e libri di Economia diventerà il manager di qualcosa d’importante, magari di un casinò, e lui sarà lì ogni giorno per fargli perdere le staffe e farsi buttare fuori; è ora di tornare a casa, là dove va a riposare la sua libertà.
Che questa abbia i capelli argento e lilla, è solo un elemento che rende ancora più splendido lo spettacolo migliore in cui possa chiedere di esistere, di essere sé stesso.



 

A Marte,
E a me stessa.








 

NOTE

 

[1] L’autore era di origini ucraine.
 

[2] Parte dei credits di questo siparietto va a Marte.
 

 

CANZONI UTILIZZATE NEI TITOLI
 

  • Lontano da Qui » Brano omonimo di Elisa.

  • Io e Te, l’Inizio » Ripresa rimaneggiata della strofa “I know, you know / That we’ve only just begun”, presente in The Best Is Yet To Come, degli Scorpions.

  • Saggio  è il Caduto, e il Giovane » Ripresa rimaneggiata della strofa “I am the wisdom of the fallen, I am the youth”, presente in The Greatest, di Sia.

  • Trovami, Io Ti Aspetterò » Ripresa rimaneggiata della strofa “I’ll be waiting, come find me”, presente in Find Me, di Sigma e Birdy.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3986867