Il lungo cammino verso te

di moira78
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pensieri notturni ***
Capitolo 2: *** Decisioni ***
Capitolo 3: *** Confidenze ***
Capitolo 4: *** Il ricevimento ***
Capitolo 5: *** Dubbi e incertezze ***
Capitolo 6: *** Un'altra corsa verso il destino ***
Capitolo 7: *** Incontro ***
Capitolo 8: *** Fiamme ***
Capitolo 9: *** Il confronto e l'addio ***
Capitolo 10: *** Notizie ***
Capitolo 11: *** Gelo ***
Capitolo 12: *** Lacrime ***
Capitolo 13: *** Confessioni d'amore ***
Capitolo 14: *** Dolcezze e dolori ***
Capitolo 15: *** Segreti svelati ***
Capitolo 16: *** Di baci e ferite ***
Capitolo 17: *** Nuovi propositi ***
Capitolo 18: *** Di risate e decisioni drastiche ***
Capitolo 19: *** Ombre e luci ***
Capitolo 20: *** Minacce ***
Capitolo 21: *** La trappola ***
Capitolo 22: *** Sospetti ***
Capitolo 23: *** Trame nell'ombra ***
Capitolo 24: *** Un meccanismo diabolico ***
Capitolo 25: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 26: *** Preghiere e speranze ***
Capitolo 27: *** Risveglio ***
Capitolo 28: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 29: *** Di tagli e redenzioni ***
Capitolo 30: *** Reminiscenze ***
Capitolo 31: *** Vincoli ***
Capitolo 32: *** Anime imprigionate ***
Capitolo 33: *** Prove di coraggio ***
Capitolo 34: *** Errori e strategie ***
Capitolo 35: *** Scomode verità ***
Capitolo 36: *** Confessioni ***
Capitolo 37: *** Ostacoli e incontri ***
Capitolo 38: *** Nodi al pettine ***
Capitolo 39: *** Limbo ***
Capitolo 40: *** Determinazione ***
Capitolo 41: *** Ritorni e scoperte ***
Capitolo 42: *** Di crisi e lumache striscianti ***
Capitolo 43: *** Conseguenze e rimorso ***
Capitolo 44: *** Rivelazioni ***
Capitolo 45: *** La resa dei conti ***
Capitolo 46: *** Di ritorni e addii ***
Capitolo 47: *** Decisioni e pentimenti ***
Capitolo 48: *** La condanna e il perdono ***
Capitolo 49: *** Turbamenti ***
Capitolo 50: *** Il pianto del cielo ***
Capitolo 51: *** Nuove e vecchie prospettive ***
Capitolo 52: *** Di lettere e mani tese ***
Capitolo 53: *** Ricordo di un amico ***
Capitolo 54: *** Arrivi e partenze ***
Capitolo 55: *** Intenzioni e speranze ***
Capitolo 56: *** Il secondo amore ***
Capitolo 57: *** Il secondo incontro ***
Capitolo 58: *** Baci e disillusioni ***
Capitolo 59: *** Di occasioni e treni persi ***
Capitolo 60: *** Tempesta ***
Capitolo 61: *** Il sentiero per Oz ***
Capitolo 62: *** L'ultima spiaggia ***
Capitolo 63: *** Speranze nell'oscurità ***
Capitolo 64: *** Il primo incontro ***
Capitolo 65: *** Di colline, lacrime e corse a perdifiato ***
Capitolo 66: *** Insieme ***
Capitolo 67: *** Un nuovo mattino ***
Capitolo 68: *** Confronto ***
Capitolo 69: *** Di fughe e discussioni ***
Capitolo 70: *** Nuove prospettive ***
Capitolo 71: *** Gelosie ***
Capitolo 72: *** Proposta ***
Capitolo 73: *** Di conversazioni e inviti ***
Capitolo 74: *** Passi verso la felicità ***
Capitolo 75: *** Chiacchiere nella notte ***
Capitolo 76: *** Di confidenze e risate in cucina ***
Capitolo 77: *** Sentenza ***
Capitolo 78: *** Dolci timori ***
Capitolo 79: *** Coronamento di un sogno ***
Capitolo 80: *** In fuga d'amore ***
Capitolo 81: *** Di fuoco e miele ***
Capitolo 82: *** Dall'alba al tramonto ***
Capitolo 83: *** Imprevisti ***
Capitolo 84: *** Fuori dall'eclissi ***
Capitolo 85: *** Superare gli ostacoli ***
Capitolo 86: *** Luna di Magnolia ***
Capitolo 87: *** Scozia ***
Capitolo 88: *** Nella buona e nella cattiva sorte ***
Capitolo 89: *** Festa a sorpresa ***
Capitolo 90: *** Di reietti e nuove speranze ***
Capitolo 91: *** Epilogo ***
Capitolo 92: *** Extra: Ritagli ***



Capitolo 1
*** Pensieri notturni ***


Ho riscoperto l'anime di Candy Candy in età adulta. Ho letto il manga e i romanzi, rivalutando alcuni personaggi e scoprendo sfumature della storia che prima non avevo colto: pur avendo scritto soprattutto nel fandom di Ranma 1/2 per quasi vent'anni, mi sono resa conto che Candy, con i suoi amori e le sue vicende, si sarebbe prestata benissimo a una fanfiction nella quale poter approfondire sentimenti e protagonisti. Una specie di parco giochi tutto da scoprire per me! Una sfida in piena regola!

Ho scritto alcune one-shot e una piccola long dai capitoli molto brevi ma tutto è stato quasi propedeutico a questa long che, nel momento in cui scrivo qui, è ancora in stesura. Ho letto tante fanfiction, soprattutto in lingua straniera, e per me sono state fonte d'ispirazione: l'incompleta Pupilas de gato, Until death, In fragranti, Love never fails, El castigo per un engano e l'italianissima Frantumi. Solo per citarne alcune, ovviamente. Qualsiasi riferimento che possa sembrarvi simile a queste o altre storie è dovuto al fatto che le ho lette anche più volte e sono state molto formative, per me che mi affacciavo a questo fandom per la prima volta, nonostante conoscessi Candy da piccolissima: mea culpa, se è accaduto si tratta di riferimenti inconsci.
Devo ringraziare con tutto il mio cuore la mia beta di sempre, Tiger Eyes, un' Autrice con la A maiuscola che, per dirla come i giapponesi, è la mia sensei da tempo immemorabile. Ci conosciamo da anni e, pur non amando particolarmente questo fandom si è sciroppata (e si sta ancora sciroppando) ogni singolo capitolo, prodigandosi in correzioni e suggerimenti preziosi che non fanno altro che indurmi migliorare sempre. Non avrò mai parole sufficienti per ringraziarla abbastanza.

Grazie anche ai membri di gruppi Facebook dedicati a Candy e ad Albert (l'unico e solo 'anohito', secondo me e chi ha letto i romanzi sa bene di cosa parlo) che hanno risposto alle mie domande folli sui personaggi quando ero troppo pigra per andarmi a rileggere manga e romanzi: qualsiasi incongruenza è colpa mia e solo mia.

Trattandosi di una storia unica ma con momenti abbastanza definiti tra loro, ho deciso di suddividerla in più parti, ma ognuna segue l'altra nel medesimo arco temporale, quindi non spaventatevi.

Infine, chi volesse seguire gli aggiornamenti e le follie delle mie fanfiction, ovviamente inclusa questa, ecco la mia pagina Facebook dove, se lo vorrete, vi accoglierò volentieri: https://www.facebook.com/groups/271206063490654

Basta ciarlare, si comincia... che emozione, ragazzi!

 
PRIMA PARTE: TRAVELS
 

Pensieri notturni

L'aria fredda della notte avvolse Candy con la carezza di un vento leggero ma costante. Sapeva che Miss Pony e Suor Lane si sarebbero preoccupate per lei, ma aveva davvero bisogno di stare sola con i suoi pensieri per un po': era troppo confusa.

Due volti cari apparvero dietro alle sue palpebre chiuse, mentre avvertiva il leggero frusciare delle fronde di papà albero sopra di lei. Forse avrebbe dovuto arrampicarsi, ma per qualche motivo aveva deciso di rimanere seduta ai suoi piedi, come se da quella posizione potesse avere più risposte. Come se la piccola Candy che saliva fino in cima avesse lasciato il posto alla donna che doveva fare ordine nei suoi sentimenti.

"Per me non è cambiato niente". Era stata quella frase di Terry a scuoterla come quelle fronde. Si era aspettata che nel suo cuore avvenisse lo stesso: non era forse ancora innamorata di lui? All'inizio aveva pensato che si trattasse del senso di colpa. Terence aveva atteso un anno e mezzo dopo la morte di Susanna prima di scriverle quelle parole e ora non c'era più nulla a separarli. Era come se quell'evento funesto avesse dato loro il via libera per stare insieme e sembrava tutto così sbagliato!

Ma no, non era neanche questo, si disse strappando qualche filo d'erba come se quel gesto l'aiutasse a riflettere meglio. La realtà era che il suo cuore non batteva più così forte quando pensava a lui e alla possibilità di riunirsi al suo amore tormentato. La verità era che il suo cuore batteva quando riceveva le lettere da Albert, oppure lui tornava e la guardava con quegli occhi cerulei che le ricordavano il cielo limpido dell'estate.

Albert...

Candy si portò una mano al petto. Che Dio la perdonasse, ma più ci pensava e più era convinta di essersi innamorata del suo patrigno. O del suo tutore. O dello zio William. O del suo migliore amico.

"Del mio Principe della Collina", sospirò tirandosi a sedere e dandosi un leggero pugno sulla cima della testa. "Ma io che colpa ne ho se sono tutti la stessa persona?", esclamò rivolta al suo papà di legno e foglie.

Guardandosi dentro, sapeva di aver sempre voluto un gran bene ad Albert, che sembrava essere lì per lei in ogni momento difficile. Successivamente, aveva capito che la cosa era anche abbastanza intenzionale in quanto, come suo padre adottivo, l'aveva sempre seguita dietro le quinte della vita.     

Mai, mai aveva pensato che quel sentimento di profonda amicizia e fratellanza sarebbe mutato in qualcosa di più profondo. Quando era avvenuto? Di certo scoprire tutte quelle verità sulla sua identità aveva aperto dei cancelli nella sua anima di cui non credeva di avere la chiave e ogni tassello era tornato al suo posto. Lo aveva forse sempre amato come suo Principe della Collina? Oppure era successo dopo?

Si stava facendo troppe domande e cominciava ad avvertire il freddo della notte sulla pelle.

Il 'quando', alla fine dei giochi, aveva meno importanza, pensò avviandosi verso casa. Adesso era il presente a preoccuparla: cosa avrebbe dovuto rispondere a Terence? In una lettera mai spedita aveva vergato le parole 'ti ho amato', al passato. Il suo cuore già sapeva, forse?

Doveva rivederlo, decise, e doveva farlo subito.

                                                                                         ***

Terence guardava il soffitto, seguendo le ombre proiettate dalle fronde del faggio alla luce della luna.

La sera, nella solitudine della sua casa, gli portava sempre alla mente ricordi e preoccupazioni e quella non faceva eccezione.

Aveva spedito quella dannata lettera da mesi e non aveva ricevuto alcuna risposta. Ormai era certo che Candy fosse cambiata e che quelle lacrime e quel volto che aveva creduto di vedere a Rockstown facessero parte della sua fantasia.

Alla prima dell'Amleto non c'eri. E non mi hai mai scritto. Oh, Candy...

Dentro di lui, stava sempre prendendo più strada una verità amara quanto plausibile: la sua Tuttelentiggini non lo amava più. Il periodo passato con Susanna, anche se non era stato il 'per sempre' che doveva essere, aveva definitivamente ucciso il loro amore.

"Distruggo tutto ciò che tocco", disse alla stanza vuota aprendo con violenza un cassetto per afferrare un vecchio pacchetto di sigarette ormai vuoto e accartocciato. Se lo portava dietro dai tempi della Saint Paul School e ogni volta che lo prendeva in mano ricordava quali altre mani glielo avevano strappato, sostituendolo con un'armonica.

Quella sera Terence rimase con quel pacchetto stretto nel pugno come se volesse stritolarlo e guardava la fisarmonica come se avesse intenzione di gettarla dal balcone. Invece le dita si allentarono e seguirono i gesti che avevano imparato da tempo. Nel giro di qualche istante, una musica malinconica inondò la stanza mentre una lacrima troppo a lungo trattenuta scendeva lenta sul viso.

Se avesse potuto riavvolgere il tempo, non avrebbe accettato le condizioni della sua testarda Candy. Ma lei non aveva tutta la colpa, anzi, il suo era stato un gesto nobile.

Nel suo cuore, Terence sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di lasciare Susanna, specie dopo quel tentativo di suicidio. L'altruismo di Candy aveva solo reso le cose più semplici, perché aveva interpretato subito la situazione e l'aveva risolta in un batter d'occhio. Forse in modo troppo veloce, troppo definitivo.

Mentre la melodia scivolava via dalle sue labbra, Terence capì che se gli avesse parlato d'amore o se avesse temporeggiato, probabilmente lui sarebbe crollato e le sue buone intenzioni sarebbero andate all'Inferno, proprio come la sua vita attuale. Candy doveva averlo compreso ed era praticamente scappata via da lui, da loro.

Il suono si distorse per un attimo in una nota stonata. Terence riprovò e la corresse: magari col passato avesse potuto fare lo stesso! Invece il suo destino sarebbe rimasto per sempre una melodia cacofonica a causa di una singola stonatura. 

Ora Susanna non c'era più e forse anche quell'amore così bello e appassionato che univa lui e la sua Tarzan Tuttelentiggini era sparito.
Era come se fossero morte entrambe e lui fosse destinato a rimanere solo, su una scena buia, dopo che tutti gli attori se n'erano andati.

                                                                                         ***

Albert guardava fuori dal finestrino del treno che lo avrebbe riportato a Chicago. Finalmente aveva sistemato i suoi affari e poteva concedersi una pausa, seguendo le cose direttamente da lì: si appoggiò con aria stanca sullo schienale ricordando che George lo aspettava per la mattina dopo e aveva già un'agenda piena d'impegni.

Ma la sua mente non era mai stata tanto lontana dagli affari economici della famiglia.

Il suo primo impulso era stato quello di salire su un altro treno, qualche ora prima, recarsi al porto e raggiungere di nuovo l'Africa. Lì si sentiva libero, in mezzo alla natura selvaggia e agli animali che amava tanto: se si concentrava, poteva ancora avvertire il profumo della terra riarsa e il rumore del fuoco che crepitava al centro dell'accampamento. Nel fiume dei ricordi, gli parve persino di sentire anche quell'effluvio di cannella che proveniva da Fiona, di cui aveva tentato disperatamente d'innamorarsi. L'aveva lasciata triste e piangente con un bacio d'amicizia, mormorando un 'mi dispiace' nella sua lingua natia.

Sorrise a quel ricordo che si era riaffacciato alla mente, ma capì che non poteva forzare il suo cuore a provare qualcosa di diverso da ciò che aveva dentro da sempre. Anzi, da 'chi' era da sempre dentro di lui.

Le dita tracciarono disegni immaginari sul vetro, la mente si era ormai irrimediabilmente persa in lei.

"Candy", sillabò quasi senza voce, mentre il dito vergava una C sbiadita sul finestrino appannato. Si portò le mani al viso, sentendosi dannato: si era innamorato della sua figlia adottiva, era tutto sbagliato! Aveva iniziato a rendersene conto solo dopo aver riacquistato la memoria: era come se, con essa, fosse finalmente venuto a galla un sentimento che era lì da sempre ma che aveva sempre evitato di lasciar emergere.

Ricordò come all'inizio fosse solo una bambina da proteggere, poi l'aveva vista trasformarsi in donna sotto ai suoi occhi alla velocità di quel paesaggio che cambiava così repentinamente dal finestrino. A Londra, quando si erano rivisti nelle vie buie, mentre lei cercava disperatamente una farmacia aperta per Terry, aveva dovuto dissimulare il suo stupore. Quanto avrebbe voluto prenderla sottobraccio e passeggiare con lei invece di riaccompagnarla a scuola! Gli venne da ridere all'immagine di Candy che, con il suo aiuto, si arrampicava sul muro di cinta e saltava dall'altra parte come se niente fosse.

Una signora, sentendolo ridere, si voltò a guardarlo e lui si schiarì la voce, ricomponendosi e riflettendo che la Candy piagnucolosa della Collina di Pony era diventata una signorina ribelle e gentile che avrebbe fatto di tutto per i suoi amici e... per il suo amore.

La risata di poco prima diventò una malinconia pungente: Albert aveva relegato in fondo alla sua anima la fitta di dolore che provava ogni volta che pensava a Terence e Candy insieme. In lui era ancora vivida la sensazione di tristezza che lo aveva avvolto quando, alla Casa della Magnolia, l'aveva vista disperata dopo il loro addio.

Quella stessa tristezza che ora lo affliggeva e che cercò di scacciare rimembrando la quotidianità vissuta con lei mentre era senza memoria.

In quell'appartamento piccolo ma accogliente, avevano vissuto per molto tempo come fratello e sorella, ma la loro complicità si era consolidata in quelle cene insieme, nel saluto che le riservava ogni mattina prima che si recasse al suo lavoro in ospedale, nei loro progetti per migliorare la casa in cui vivevano, incluse le pulizie settimanali e nelle incursioni quasi sempre disastrose di lei in cucina.

Le pentole traboccavano, il cibo nelle padelle bruciava, ma eri sempre la cosa più bella che mi fosse capitata. La mia salvezza.

Una volta recuperati i suoi ricordi, aveva capito che quell'Albert in cui sbocciavano i sentimenti per Candy era quanto di più fedele a se stesso ci fosse. Gli unici freni che aveva avuto erano stati la differenza di età prima e il ricordare tutto improvvisamente poi.

La mattina in cui me ne sono andato mi sembrava di percorrere un lungo tunnel oscuro. La luce me l'ero lasciata alle spalle.

Il loro rapporto era stato sconvolto ed era ricominciato tutto da capo, con il peso delle sue nuove identità. Aveva scrutato le reazioni di Candy e si era reso conto di quanto fosse felice di aver ritrovato il suo adorato prozio William e anche il suo caro Principe della Collina. Ma poteva essere chiamato amore?

Quante emozioni ho visto passare sul tuo viso! Stupore, incredulità, gioia... ma alla fine correvi sempre tra le mie braccia.

Aveva faticato non poco per disfarsi di quelle etichette e spesso nelle loro lettere avevano scherzato sui nomignoli che gli dava Candy. Alla fine, l'aveva convinta a chiamarlo semplicemente Albert o, al massimo, piccolo Bert come faceva la sua compianta sorella maggiore.

Uno sbadiglio incipiente gli suggerì che aveva bisogno di dormire per qualche ora, se non voleva arrivare a Lakewood come uno straccio, ma i suoi pensieri continuavano a turbinare intorno allo stesso soggetto come la pellicola di un film che si riavvolga ancora e ancora.

Candice White Ardlay, che aveva trasformato il suo spirito libero e calmo in una sorta di tempesta estiva.

Doveva togliersela dalla testa, o sarebbero stati guai: non era la prima volta che formulava quei pensieri, ma puntualmente Candy gli tornava a riempire la mente, il cuore e l'anima, contro ogni razionalità.

Ancora una volta, pensò che lei non lo avrebbe mai amato come voleva.

Prima di scivolare in un sonno tormentato tra gli scossoni del treno, però, una vocina interna gli sussurrò un ammaliante quanto inquietante 'e perché no?'.

Un altro scossone improvviso lo catapultò fuori da un sonno che gli parve essere durato non più di un minuto. In realtà il sole era alto e il macchinista stava annunciando che erano giunti a Chicago. Scuotendo la testa per svegliarsi completamente e desiderando ardentemente del caffè, Albert recuperò la valigia e si apprestò a scendere, mentre una nuova consapevolezza si faceva sempre più nitida nella sua mente.

D'improvviso, gli parve tutto chiaro come quel mattino.

Crogiolarsi nei dubbi o, peggio, tentare di allontanare da sé quel sentimento non l'avrebbe mai reso felice o comunque gli avrebbe fatto rimanere per sempre il dubbio. Ripensò alle parole della zia Elroy prima che partisse: "Al tuo ritorno dovremo pensare assolutamente a sistemarti: un uomo importante come te dovrebbe già essere sposato e avere degli eredi!".

E lui non voleva sposarsi se non per amore. Sua sorella Rosemary aveva lottato e, anche se la sua vita era stata tristemente breve, aveva conosciuto la felicità.

Voglio essere felice anche io.

Albert non sapeva come sarebbe andata a finire con Candy, ma di una cosa era certo: era innamorato di lei e avrebbe preferito rimanere single e adottare uno o anche più bambini dalla Casa di Pony, piuttosto che sposare un'altra donna.

Mentre saliva sull'auto che l'avrebbe riportato alla residenza di Chicago questa convinzione si fece più forte.

"Buongiorno, signorino William, spero abbia viaggiato bene", lo salutò educatamente l'autista.

"Molto bene, grazie! Come vanno le cose?".

L'uomo rispose che tutti lo stavano aspettando, soprattutto sua zia. Albert sospirò. Un passo per volta.

Innanzitutto doveva chiarire le cose con Candy, o tutti i suoi progetti sarebbero stati castelli in aria e nulla più. Era pronto a esporsi e anche a soffrire, se fosse stato necessario.

La vita era troppo breve per sprecarla con le congetture.
                                                                         

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Capitolo 2
*** Decisioni ***


Voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno recensita su entrambi i siti, che mi hanno lasciato un pensiero sui gruppi Facebook o che semplicemente hanno inserito questa storia tra le preferite. Grazie di cuore!
 
Miss Pony e Suor Lane si guardarono alla luce delle lampade ad olio che avevano acceso, mentre Candy si torceva le mani in attesa delle loro parole. Il rituale serale della loro riunione in quella stanza, quella notte parve a Candy una sorta di esame da sostenere: non era più l'infermiera di mattina e la direttrice aggiuntiva della Casa di Pony il pomeriggio: era semplicemente Candy, che aveva bisogno di confessare i suoi più reconditi segreti alle donne che l'avevano cresciuta.

"Candy, cara, sei sicura dei tuoi sentimenti?", le domandò Suor Lane. "Quell'uomo è stato così generoso con te che non merita di illudersi e soffrire, lo capisci vero?".

"Io...", tentò Candy ma la voce amorevole di Miss Pony la interruppe.

"Suvvia, Suor Lane, abbiamo ben visto da quanto tempo lo conosce. Sono più di dieci anni che Candy ha modo di interrogare il suo cuore, saprà quello che prova, dico bene, tesoro?".

"Sì, ma allora... quel Terence? Ricorda quando la nostra Candy è corsa qui sperando di trovarlo e non ci ha neanche salutato?".

"Oh, ma è stato molto tempo fa e...".

"Ah-ehm", si schiarì la voce la diretta interessata, volendo intervenire in quella conversazione ma tentando di non essere maleducata. Le brave donne s'interruppero e la guardarono. "Scusatemi, vi darò delle spiegazioni. Perlomeno, quelle che ho dato a me stessa".

Sia accomodarono meglio sulle sedie e Miss Pony versò un po' di tè nelle tazze: "Sapete che lo zio William, Albert e il mio Principe della Collina sono la stessa persona. E sapete che l'ho conosciuto quando ero solo una ragazzina e temevo di aver perso Annie per sempre".

Loro annuirono sorridendo.

"Bene, e sapete anche che ho sempre considerato Albert come un fratello, a prescindere dalle personalità che mi nascondeva, seppure in buona fede. C'è stato un periodo, quello in cui lui ha perso la memoria, in cui abbiamo vissuto insieme e io mi occupavo di lui. Non sopportavo l'idea che se ne andasse in giro da solo, vagando alla ricerca di se stesso senza nessuno al suo fianco e non solo perché gli dovevo la sua amicizia e il suo appoggio incondizionati. Gli volevo bene davvero, ma probabilmente i miei sentimenti allora erano ancora acerbi, visto che sono andata a New York da Terence".

S'interruppe per un istante, ricordando quel periodo e focalizzando ciò che aveva provato.

"Ricordiamo molto bene quanto fossi stata male dopo la separazione dal signor Grandchester, ci hai raccontato che ti sei ammalata e che il signor Albert si è preso cura di te. Però, Candy... eravate un uomo e una donna che vivevano sotto lo stesso tetto, non hai detto tu stessa che hai avuto qualche problema con il padrone di casa a causa delle voci che giravano?", intervenne in tono dolce Miss Pony.

"Ci siamo comportati sempre come un fratello e una sorella e spero che voi non dubitiate mai di questo, anche se devo ammettere che forse qualcosa in me ha cominciato a cambiare proprio in quel periodo. L'idea di tornare a casa e cucinare per lui... o almeno tentare, perché era lui il cuoco migliore tra noi due, mi riempiva di gioia. Forse stavo superando il confine sottile tra il considerarlo un carissimo amico e un marito, ma il pensiero di Terence era ancora troppo forte perché me ne rendessi conto. A conti fatti, è stato grazie ad Albert se alla fine sono riuscita ad andare avanti con la mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo è stato un processo doloroso di allontanamento da quel sentimento, che era stato tanto forte ma sfortunato: ormai Terry apparteneva a Susanna". Candy sorseggiò il suo tè, beandosi del calore che la tazza trasmetteva alle sue mani. Quel semplice gesto le consentì di riprendere fiato e mettere ordine nei suoi pensieri.

"In quel periodo chi c'era nel tuo cuore, Candy?", chiese con delicatezza Suor Lane sporgendosi un po' in avanti.

Lei si lasciò sfuggire una risatina amara: "Albert è diventato parte preponderante della mia vita: ci scambiavamo lettere continue e ci siamo incontrati più volte a Lakewood, come ricorderete, anche per il mio compleanno. Insomma, io sono andata davvero avanti e stare con lui e condividere i miei pensieri è diventata la mia nuova normalità. La verità è che accettavo semplicemente di essergli accanto e di non vedere l'ora che tornasse dai suoi viaggi di lavoro, senza interrogarmi più di tanto. Almeno fino a quando Susanna non è morta e Terence non mi ha mandato quella lettera".

Calò il silenzio e Candy fu grata alle sue due mamme per non interromperlo, perché quello era il fulcro del suo cambiamento e voleva spiegarlo bene. Se fosse riuscita ad aprirsi con loro, forse sarebbe riuscita a farlo anche con Albert. Che poi lui ricambiasse i suoi sentimenti era tutta un'altra storia, ma doveva fare le cose un passo alla volta.

"Mi sono resa conto", cominciò lentamente, "che quello che sentivo per Terence si era affievolito, non ho fatto i salti di gioia nel saperlo ancora innamorato di me. Tutt'altro. Ho provato un senso di... amarezza, perché temevo di non potergli più dare quello che si aspettava da me. E i miei pensieri... sono tornati ad Albert".

Tacque, incapace di aggiungere altro.

Dopo un intero minuto intervenne Suor Lane: "Candy, tra quello che hai appena detto ed essere convinta di esserti innamorata del signor Albert però c'è un po' di differenza, o sbaglio?".

"È per questo che voglio vedere Terry. So che può suonare crudele, ma solo avendolo davanti potrò capire davvero per chi batte il mio cuore e se non sarà per lui, almeno potrò dirglielo a quattr'occhi e non per mezzo di una fredda lettera".

"E cosa succederà se ti accorgi che ti sei sbagliata e che invece c'è lui nei tuoi pensieri? Rimarrai a New York?", chiese Miss Pony riponendo la sua tazza ormai vuota sul tavolo.

Candy scosse la testa: "Non lo so, ma di sicuro non posso parlare ad Albert dei miei dubbi finché non saranno dissipati. Non sono affatto certa che lui mi veda come una donna, anzi, è più probabile che mi consideri solo una cara amica. Ma non voglio innescare meccanismi difficili da riavvolgere, mi capite?".

Suor Lane annuì: "Sono completamente d'accordo con te. In ogni caso non sarebbe corretto illuderlo. E quando partirai?".

Candy tamburellò sulla tazza con le dita, riflettendo: "Penso che ci vorrà qualche giorno, devo avvisare Terence che ho bisogno di parlargli e sistemare il lavoro. Inoltre Albert vuole che partecipi a un ricevimento di beneficenza questo fine settimana e non voglio deluderlo".

"Sì, ma cosa gli dirai? Lui ormai sa bene quali sono i tuoi spostamenti e...", obiettò Miss Pony.

Candy si picchiò la fronte con una mano: "Accidenti, non ci avevo pensato!", esclamò. "Gli dirò che devo andarci per lavoro: lì c'è un grande ospedale, quindi... ecco! Posso raccontargli che una mia carissima collega mi ha chiesto di supportarla perché deve assentarsi e nessuno può darle il cambio, così io...".

"Candy", dissero in coro Miss Pony e Suor Lane con un tono fermo che non concedeva repliche.

Lei scrollò le spalle, come sgonfiandosi e rilasciò un sospiro: "Sono bugie, vero? E io non dovrei raccontare bugie, specie ad Albert".

Loro annuirono sorridendo.

"Però se gli dico che vado da Terence lui penserà...".

"Candy, hai ben detto che lui ti tratta come una sorella. Se così fosse non lo ferirai ma neanche gli farai capire che forse provi qualcosa per lui. Forse sarà sufficiente che tu gli comunichi la tua intenzione di rivedere il duca di Grandchester per chiarire le cose tra voi, senza approfondire".

"Oh, Miss Pony, che pasticcio!", si lamentò Candy gettandosi fra le sue braccia in cerca di conforto. Avrebbe di certo seguito il suo consiglio, ma non era certa di poter fingere indifferenza davanti al suo principe. Purtroppo, quello che provava traspariva sempre ed era visibile soprattutto ad Albert che la conosceva anche meglio di Terence.

"Su, su, coraggio. Che fine ha fatto la coraggiosa bambina che si arrampicava sugli alberi e affrontava ogni difficoltà? Segui sempre il tuo cuore, piccola Candy, e vedrai che sarà tutto più semplice".

"Grazie, Miss Pony, farò come dice e cercherò di non apparire ad Albert diversa dal solito. Ho però il sospetto che se i miei sentimenti saranno confermati, dopo la visita a Terry, dovrò faticare parecchio per farmi vedere da Albert come una donna e non come una ragazzina piagnucolosa", concluse asciugandosi una lacrima furtiva.

"Per quello c'è tempo, tesoro mio. Se il suo cuore è pronto non gli ci vorrà molto per innamorarsi di te", disse Suor Lane.

"Spero proprio che lei abbia ragione".

                                                                                         ***

"Sono pronto a confessare a Candy i miei sentimenti", dichiarò William Albert Ardlay riponendo i documenti nel cassetto con un gesto deciso e cominciando a camminare lungo tutto il perimetro dello studio. Si slacciò i polsini e si tirò su le maniche della camicia, godendo del senso di libertà dopo tante ore di lavoro.

"Scusi?", la faccia stupita di George era impagabile e lui scoppiò a ridere.

"Non dirmi che non te ne sei mai accorto! Certo, io stesso ci ho messo un po', ma...".

"Certo che me ne sono accorto, non ci vuole molto a distinguere la devozione di un tutore dall'adorazione di un uomo innamorato", commentò l'uomo.

"Sapevo che avresti capito! E di lei cosa mi dici? Hai notato qualcosa nel suo comportamento?", gli chiese speranzoso, posandogli una mano sul braccio. Si sentiva esaltato come mai in vita sua.

"Ma, signorino William, che le posso dire? Io posso solo darle un parere personale, non sono in grado di dichiarare una verità inconfutabile", rispose sulla difensiva.

"Beh, fallo lo stesso. Sai quanto mi fidi del tuo giudizio, poche volte hai sbagliato a consigliarmi. Anzi, forse mai", riprese fervidamente, allargando le braccia.

George si schiarì la voce e ad Albert parve alquanto in imbarazzo. Ma ci teneva ad avere un suo parere, era come il padre che lui aveva perso quando era appena ragazzino: "Ecco, di sicuro ho notato nella signorina Candy un profondo cambiamento. Quando sta con lei, da quel che ho potuto vedere, mi sembra sempre felice, serena. Si ha come la sensazione che si trovi... nel posto giusto, quando le sta vicino".

Quelle parole riempirono il cuore di Albert come una manna benefica e si ritrovò a sorridere come un adolescente alla prima cotta: "È la stessa sensazione che ho avuto io. E la condivido in pieno. È dai tempi della nostra convivenza che il mio cuore è pronto per lei e non voglio più aspettare".

"Ma... signorino William, che mi dice del Duca di Grandchester? Lei è certo che...".

Albert sentì i muscoli del suo volto rilassarsi in un'espressione più seria. Smise di passeggiare per la stanza e andò alla finestra, fissando un punto lontano: "Non lo so, George. Candy mi ha fatto leggere il suo diario in qualità di prozio William e io gliel'ho restituito come Albert. Da quel giorno non abbiamo più parlato di lui. So che era molto triste per la morte di Susanna, ma non ho idea di cosa sia accaduto tra loro dopo, se si siano scritti o... rivisti".

"Capisco".

Chiuse gli occhi, riflettendo a lungo, poi si voltò verso il suo fedele confidente e aggiunse: "Ho messo in conto anche un suo rifiuto, pur se non ti nascondo che in me prevale la speranza che mi scelga. Se così non fosse... ebbene...", sedette sul divano, riavviandosi i capelli dalla fronte, frustrato, "le sarò comunque accanto e la sosterrò. Ma sarà difficile essere lo stesso di prima e dimenticarla. Magari farò un altro viaggio".

George alzò un sopracciglio, con fare ammonitore: "Le ricordo che i suoi viaggi hanno comportato ritardi considerevoli nei rapporti con i nostri soci e la finanza non ha sentimenti. A questo punto devo augurarle doppiamente che Candy decida di fidanzarsi con lei o potremmo avere seri problemi".

Albert rise di gusto, si alzò dal divano e gli diede una pacca sulla spalla: "Bene, grazie per il pensiero, ma ricordati che in famiglia abbiamo anche il valevole Archibald Cornwell...".

"...che è molto preso dai preparativi del suo matrimonio con la signorina Brighton...", lo interruppe discretamente.

"...e che ha un fiuto eccezionale per gli affari, oltre ad amare molto più di me questo mondo. Potrei dire che è il mio braccio destro". Lesse il disappunto negli occhi di George e si affrettò a rettificare: "Ok, dopo di te. Diciamo che è il sinistro". Gli fece l'occhiolino e uscì dalla stanza, canticchiando un vecchio motivo scozzese che avrebbe voluto provare con la cornamusa in occasione del ricevimento ormai prossimo.

Non sapeva perché, ma era davvero ottimista sul suo futuro.

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Capitolo 3
*** Confidenze ***


                                                                   Amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.
                                                                                                                                                    (Antoine de Saint-Exupery)

                                                                                                       - ᵹ-
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Terence avrebbe voluto abbracciare tutte le persone che incontrava, quella mattina: finalmente lei gli aveva scritto e finalmente l'avrebbe rivista, dopo tanti anni di separazione. Non poteva crederci! Rilesse più e più volte il contenuto della lettera, ignorando volutamente il seme del dubbio che alcune parole cercavano d'instillargli nel cuore:

Carissimo Terry,
come stai? Mi è dispiaciuto molto apprendere la triste notizia della morte di Susanna, sono certa che tu ne abbia sofferto enormemente: era solo una donna innamorata e sfortunata. Lo dimostra il tatto che hai usato nell'attendere più di un anno prima di scrivermi e ora è venuto il momento di incontrarci faccia a faccia per capire dove siamo giunti. Se per te non è un problema vorrei venire a New York la prossima settimana, ma ho bisogno di sapere se sarai in tournèe o ti troverò al tuo appartamento. Cercherò di alloggiare poco distante, così potremo vederci subito e parlare.

A presto

Candy White Ardlay

Offuscato. Era tutto offuscato dalla gioia di rivederla. Era offuscata la mancanza di una frase che gli rispondesse: "anche per me non è cambiato niente"; era offuscata l'omissione di qualsiasi parola d'affetto e l'aggiunta di un "tua" prima della firma. Era offuscato persino il tono stesso della lettera, che sembrava più una comunicazione ufficiale che una promessa di incontro tra due innamorati.

Lui però amava Candy e tutto sarebbe andato bene. Lei non poteva non ricambiarlo, il loro legame era stato così forte!

Grazie a quella visione di lei avuta a Rockstown la sua carriera si era risollevata.

Per lei aveva sacrificato la sua felicità e si era rialzato laddove voleva solo annegare nel dolore.

Non poteva deluderlo.

Chissà quanto hai sofferto anche tu, amore mio!

Era stato uno sciocco a dubitare di lei, ora era più che mai convinto che Candy avesse semplicemente voluto attendere il giusto lasso di tempo dalla morte di Susanna.
Certo, se ci ripensava gli dispiaceva per Susanna, soprattutto quando si ricordava che la speranza era rinata solo il giorno dopo la sua morte.

Mentre il suo corpo attendeva ancora di essere tumulato.

Dio lo perdonasse, Lui solo sapeva se non aveva versato lacrime amare sulla sua ingiusta dipartita.

Ma adesso era libero di amare la donna che aveva sempre sognato e nulla avrebbe cambiato questa realtà.

Quante volte sono stato tentato di scriverti o persino di prendere il primo treno per correre da te.

Ma aveva atteso. E atteso.

18 mesi, altri 18 lunghi mesi senza vederti, ascoltarti, toccarti...

Quella sua risposta era rimasta sospesa nel tempo e la disperazione gli aveva attanagliato il cuore.

Candy innamorata di un altro; Candy che lo aveva dimenticato; Candy in collera con lui. Le sue serate passate a guardare il soffitto o a bere in qualche bettola.
Oggi quella risposta era arrivata e Terence si sentiva di nuovo vivo.

Candy gli aveva scritto che dovevano parlare: "Per capire dove siamo giunti", ripeté a bassa voce mentre si recava alle prove in quella nebbiosa mattinata. Lui sapeva benissimo dove era giunto.

Le avrebbe chiesto immediatamente di sposarlo.

E lei avrebbe detto di sì.

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"Candy, stai un po' ferma, per favore!", la redarguì Annie mentre tentava di stringerle il corsetto in vita.

"Uffa, io li odio questi cosi, ma non erano passati di moda?", si lamentò Candy guardandosi allo specchio.

"In realtà le signorine dell'alta società li portano ancora e tu lo sei, quindi...".

Candy si alzò in piedi e, con un gesto deciso, si tolse il corsetto e lo gettò via: "Io sono una Ardlay e se c'è una cosa che lo zio William mi ha insegnato è che devo essere libera. Oggi sarò libera di indossare il mio splendido abito senza questa trappola! Non mi pare di essere ingrassata, quindi non ne ho bisogno".

Annie spalancò la bocca e gli occhi come se non avesse mai visto una sfacciataggine simile e Candy alzò gli occhi al soffitto, mentre tentava di infilarsi il suddetto vestito: "Chiudi la bocca o ti ci entreranno le mosche, Annie, e dammi una mano qui".

La sua amica e sorella eseguì, ma quando parlò lo fece con voce rassegnata: "Non cambierai mai, Candy. Lo sai che chiunque ballerà con te potrebbe accorgersene, nel momento in cui ti circonderà la schiena con la mano?".

Candy chiuse gli occhi e immaginò Albert circondarle la schiena e sfiorare la sua pelle senza l'impaccio di quell'ulteriore indumento. Le venne la pelle d'oca e sentì il volto arrossarsi: "Potrebbe non essere così male, no?".

"Candy!", strillò Annie con la faccia di nuovo sconvolta.

"Oh, insomma, non dirmi che non ti farebbe piacere ballare con Archie senza corsetto!", la stuzzicò lei con un'espressione birichina sul viso.

"Candy!", ripeté quella a voce più alta, facendola scoppiare a ridere.

"Va bene, va bene, non mi diventare del colore di queste bellissime rose! A proposito, te le ha mandate lui, vero?", le chiese guardando il vaso intarsiato in cui troneggiavano 15 splendide rose rosse.

"Sì", disse lei portandosi le mani al viso per nascondere pudicamente il rossore. "Ha detto che non vede l'ora di rivedermi dopo il suo ultimo viaggio e che tra qualche mese viaggeremo insieme, come marito e moglie".

"Certo che lo farete, Annie cara, almeno finché tu non aspetterai un bambino e dovrai fermarti".

"Candy!", stavolta l'infermiera era pronta a farle il verso e lo dissero quasi insieme. Anche Annie si mise a ridere.

"Candy, sei davvero la solita. Però anche tu ti meriti di essere felice, non pensi che sia giunto il momento di sistemare le cose con un certo attore famoso?".

Lei cambiò espressione e divenne improvvisamente seria. Più il loro incontro si avvicinava, più sentiva il disagio opprimerla. Non c'era nulla dell'aspettativa che l'aveva fatta fremere qualche anno prima, quando doveva raggiungerlo per la prima di "Romeo e Giulietta" e tutto era andato orribilmente storto. Non c'erano quell'emozione e quella trepidazione tipiche di una donna innamorata. Era come se i suoi dubbi stessero scomparendo solo all'idea di rivederlo: "Lo farò presto, tra qualche giorno parto per New York".

Annie le si avvicinò cautamente, era evidente che avesse colto il suo tono triste: "Dovresti essere felice ma sembra che tu vada alla gogna. Che succede, amica mia?".

Candy sospirò, guardandosi allo specchio e cominciando a spazzolarsi i lunghi capelli sciolti: "Succede che temo dovrò dargli una brutta notizia. Sto andando da lui per togliermi ogni dubbio ma anche per parlargli. Annie, sono quasi certa che il mio cuore appartenga a qualcun altro da tempo".

Gli occhi di Annie si spalancarono di nuovo e la ragazza si portò una mano alla bocca: "E a chi?".

Lei si limitò a guardarla come per chiederle come facesse a non capirlo e vide le sue labbra formare quel nome: "Albert".

"Sì, lui". Si portò una mano al petto, dove il cuore aveva già cominciato a battere più forte al solo sentirne il nome. "Il mio principe della collina, colui che è stato mio amico da sempre. Sono stata così cieca a non accorgermene prima! L'incontro con Terry è stata una dolce e travagliata parentesi, ma le cose cambiano".

Annie stava scuotendo la testa con vigore: "Candy, sei sua figlia! E lui ti considera tale, come puoi pensare...?".

"Abbiamo dieci anni di differenza, sono sua figlia solo sulla carta. Sarebbe fisicamente impossibile, non trovi? Chiamalo il mio tutore, se vuoi, ma non zio, né padre. E riguardo i suoi sentimenti... non so nulla di certo ma non voglio espormi ora. Non prima di aver chiarito le cose con Terry".

"Candy potresti rimanere delusa, e soprattutto sola se alla fine lascerai Terence, ci hai pensato?".

"E che dovrei fare, stare con lui anche se non lo amo? Mi dispiace, Annie, ma non lo farò. Se Albert non mi vorrà soffrirò molto. Forse dovrò persino allontanarmi da lui. Ma preferisco la solitudine a un'unione senza sentimenti".

Annie si posizionò dietro di lei per aiutarla con l'acconciatura: "Non posso darti torto, Candy, ma pensaci bene. Magari nel tuo cuore un posticino per lui è rimasto".

"Certo che è rimasto. Voglio ancora molto bene a Terence, mi è molto caro. Ma quella scintilla che mi si accendeva nel petto... io non la sento più", concluse tristemente.

Annie scrollò la testa e per parecchi minuti rimasero in silenzio, mentre provavano a sistemare i capelli in modi diversi: "Perché non li lasci sciolti? Ti metto questo nastro e sei già bellissima".

Candy annuì, compiaciuta: quella sera sarebbe stata semplice, come il suo cuore. E se era destino che Albert la notasse lo avrebbe fatto nella sua genuinità.

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Albert si guardò nello specchio per l'ennesima volta. Non era mai stato vanitoso, lui che preferiva indossare un paio di comodi pantaloni e una vecchia maglietta con le maniche arrotolate, gettarsi una sacca sulla spalla e andarsene in giro con la sua Poupee.

Ma quella sera doveva dichiararsi alla donna che amava e voleva essere impeccabile. Aveva scelto un completo nero molto semplice, anche perché si trattava di un ricevimento di beneficenza e non occorreva essere troppo eleganti.

Si chiese ancora una volta se stesse facendo la cosa giusta.

Il suo cuore era già oltre e gli gridava a gran voce di buttarsi, ma dopo lunghe riflessioni aveva ancora il timore di sbagliare tutto. Poteva aver travisato il suo comportamento fraterno o, peggio, avrebbe potuto spaventarla e farla fuggire da lui.

In pochi giorni aveva preso una decisione cruciale e se avesse atteso ancora, solo per essere certo di fare la cosa giusta, non ne sarebbe mai venuto a capo. Era stanco di aspettare, tanto valeva togliersi subito il pensiero e smetterla di struggersi così.

Nel bene o nel male avrebbe saputo.

Si controllò i bottoni della camicia e si rese conto che le mani gli tremavano impercettibilmente: era come se si preparasse a scavalcare un burrone, non era stato così teso neanche quando aveva dovuto affrontare il leone che aveva aggredito Candy. In quel momento gli era già chiaro che avrebbe dato la vita per lei.

Ora tremava di fronte alla possibilità di perderla.

"Ok, coraggio ragazzone, non vorrà farsi attendere!", la voce improvvisa gli fece fare un salto e quando si voltò si trovò davanti il sorriso di George. "Nervoso?", gli chiese avendo sicuramente notato la sua reazione esagerata.

"La prossima volta che mi arrivi alle spalle mentre sto meditando ricordati di portare i sali della zia Elroy. Mi hai fatto prendere un accidenti", scherzò incamminandosi verso la porta.

"Con tutto il rispetto, signorino William, i sali li ho messi da parte per la signora Elroy proprio nell'eventualità che la sua dichiarazione vada a buon fine", ribatté sagacemente.
Albert lo fissò per un attimo con un'espressione divertita, poi concluse: "Andiamo, aspettano solo noi".

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...E come diceva nella sua bellissima trilogia "Pupilas de Gato" una delle mie autrici preferite del fandom, PCR de Andrew: "Le vostre recensioni sono il mio stipendio"!

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Capitolo 4
*** Il ricevimento ***


L’amore vuol sentirsi dire le cose che sa già.
                                                                                   L’amore dev’essere un’eterna confessione.
                                                                                                                                  (Victor Hugo)
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Candy si guardò intorno. Albert non era ancora arrivato e lei non sapeva come dirgli che era in partenza cercando di non fargli capire il vero motivo. In realtà non sapeva neanche se parlargli di Terry e dei suoi dubbi, ma appena avrebbe menzionato New York si sarebbe scoperta. Inevitabilmente.

Non conosceva quasi nessuno ma era grata del fatto che i Lagan fossero rimasti in Florida a occuparsi dei loro alberghi: figurarsi se si sarebbero scomodati per un ricevimento di beneficienza! Aveva salutato la zia Elroy guadagnandosi un semplice cenno del capo e già le sembrava tanto.

"Eccolo!", esclamò Annie facendola trasalire. Ma, quando si voltò, la vide correre incontro ad Archie, che la salutò brevemente con un lungo bacio su una mano. L'etichetta imponeva che non potesse fare molto più di questo, anche se erano quasi sposati.

Lei avrebbe voluto gettarsi fra le braccia del suo amore, intrecciargli le mani dietro la nuca e magari avere un bacio vero...

"Buonasera, piccola Candy", la sua voce la colse di sorpresa e si sentì presa in castagna mentre pensava proprio a lui.

"A... Albert, buonasera!", ribatté temendo di andare a fuoco. Bell'inizio per una che non voleva scoprirsi più di tanto.

"Scusami per il ritardo ma sono uscito tardi da una riunione e...", alzò le spalle e Candy gli sorrise. E quella luce che guizzava nei suoi splendidi occhi, se l'era immaginata o era reale?

"Non fa niente, davvero. L'importante ora è che tu sia qui". Rimasero a guardarsi per qualche istante così intenso che Candy maledisse quelle parole così sibilline che le erano uscite.

Lui la sorprese perché divenne improvvisamente serio e fece qualcosa che non si aspettò: le prese le mani e piantò quegli occhi incredibili nei suoi, facendole diventare le gambe di gelatina: "Candy, io vorrei...".

"William, gli investitori ti stanno aspettando. Se ti interessa il progetto per questo nuovo ospedale devi affrettarti a stringere qualche mano e intrattenerli prima che venga servito il buffet", la voce della zia Elroy interruppe quel momento magico come una benedizione e una condanna allo stesso tempo.

Albert le riservò un'espressione contrita e le assicurò che avrebbero parlato successivamente, prenotandosi per un ballo. Il pensiero di Candy andò direttamente al corsetto e arrossì violentemente: forse avrebbe dovuto dare retta ad Annie. O forse no. Dio, le stava scoppiando la testa!

Senza pensarci accettò un flute di champagne che uno dei camerieri le stava offrendo e quando Archie le si avvicinò per salutarla la apostrofò con un: "Ehi, Candy, non sapevo che bevessi!".

"Nemmeno io", ribatté lei soffocando un singhiozzo. Ne aveva bevuti solo pochi sorsi e già le girava la testa. Sperava solo che la zia Elroy non se ne accorgesse o l'avrebbe diseredata assieme ad Albert, anche se non era lei la sua tutrice!

Cercò d'instaurare una conversazione con i suoi due amici, dicendosi dispiaciuta che non ci fosse Patty e ricordandosi solo dopo che la ragazza sarebbe stata sicuramente presente al prossimo matrimonio: "Mi sembri un po' con la testa fra le nuvole stasera, sai?", incalzò Archie. "È sempre per via dello champagne o ci sono altri motivi?".

Candy fu certa per un attimo che Annie gli avesse accennato al suo viaggio e tra loro cominciò una breve conversazione muta fatta di movimenti delle labbra e delle sopracciglia. Archie dovette notarlo, perché spostava lo sguardo da una all'altra come se stesse assistendo a una partita di tennis e sembrò pronto a fare una domanda.

In quel momento attaccò la musica e Annie ne approfittò per chiedergli di ballare. Dopotutto, lei non aveva fatto la spia, semplicemente il suo amico la conosceva molto bene.

La serata continuò a svolgersi in modo molto tranquillo e Albert la presentò come sua protetta a qualcuno dei suoi soci: quando lo faceva, poteva sentire la sua mano sfiorarla appena dietro alla schiena irradiando brividi come piccole scosse elettriche, rendendola desiderosa di un contatto maggiore. Cercando di non soffermarsi sui segnali che il cuore e il corpo le mandavano come disperati SOS, si limitò a fare degli inchini e a dirsi entusiasta per l'apertura di una nuova struttura medica, in quanto era infermiera. In quel momento incontrò la faccia contratta della zia Elroy e quasi se ne pentì, ma le parole di Albert le riempirono il cuore di gioia: "Candy è una ragazza straordinaria. La sua totale abnegazione verso il prossimo è motivo di grande orgoglio per me: sono stato io stesso suo paziente e posso assicurarvi che prende molto sul serio il suo lavoro".

"Oh, non ne dubito, signor William, dev'essere un onore essere assistiti da un'infermiera così affascinante!", dichiarò quello che gli era stato presentato come mister Campbell.

Candy arrossì e l'uomo proseguì: "Scherzi a parte, è davvero ammirevole che una signorina così ben educata come lei sia anche tanto altruista", concluse facendole un elegante baciamano. Lei ne fu lusingata e lo ringraziò di cuore.

Quando si allontanarono, Albert le mormorò all'orecchio facendole venire la pelle d'oca: "Se non fosse uno dei miei migliori investitori e avesse almeno 30 anni più di te, avrei potuto essere quasi geloso".

Lei si voltò di scatto per guardarlo e cercò nel suo volto sorridente una traccia di scherno. Eppure, in quell'espressione così dolce non leggeva forse anche una certa serietà?

"Bert, tu...?". Non poteva credere che fossero saltati così velocemente alla fase successiva. Ancora non avevano messo in chiaro niente e già parlava di gelosia! Possibile che lui... davvero...

"Balliamo?", le chiese senza rispondere a una domanda che neanche aveva posto.

Annuì, incapace di negargli quel valzer delizioso, mentre sentiva la sua mano posarsi sulla schiena e l'altra intrecciarsi alle dita della mano.
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Albert aveva appena superato un confine invisibile, dicendole tra il serio e il faceto che era geloso. Tuttavia voleva aspettare che fossero soli per parlarle con il cuore in mano e approfittò del valzer che aveva appena attaccato per stringerla un po' a sé.

Che fosse dannato se non trasalì quando la sua mano sinistra toccò la schiena di Candy: oltre la leggera stoffa del corpetto del vestito avvertì il calore della sua pelle e la linea netta della sua spina dorsale. Deglutì con la gola improvvisamente secca, rendendosi conto che non poteva più dissimulare l'attrazione che provava per lei.

Già quando era entrato e l'aveva vista era rimasto incantato: sapeva che era bella, ma la semplicità di quel vestito color verde brillante e i capelli finalmente sciolti sulle spalle andavano oltre ogni sua aspettativa. Per un attimo aveva pensato di trovarsi al cospetto di una ninfa dei boschi o della Dea della Natura in persona.

In più, lei lo stava fissando con quei due interrogativi smeraldi verdi che sembravano scavargli nell'anima: "Sai che più tardi suonerò la cornamusa?", disse di punto in bianco per stemperare la tensione.

Lei sembrò entusiasta: "Davvero? Sentirò di nuovo il suono delle lumache che strisciano?", chiese prima di scoppiare a ridere.

Lui la imitò, e il suo petto si riempì di una sensazione di pienezza e gioia che sembrava non dover avere mai fine, mentre la sua mano si beava del tocco sulla schiena di Candy e cercava inconsapevolmente i punti in cui la pelle era nuda.

Lei dovette accorgersene perché disse: "Ho... non ho voluto mettere il corsetto, mi dava fastidio. Spero di non averti messo in imbarazzo", sussurrò, arrossendo vistosamente, facendogli svolazzare le classiche farfalle nello stomaco e alimentando un lontano desiderio nascente.

"Tranquilla, piccola, nessun imbarazzo tra noi", poté solo rispondere.

Era ubriaco di Candy, voleva essere tutt'uno con lei, condividere con quella ragazzina divenuta donna ogni attimo della sua vita. Non era mai stato convinto, come in quel momento glorioso, di quello che doveva dirle. Se non lo amava avrebbe imparato e tutto sarebbe andato bene: era una certezza improvvisamente ineluttabile nel suo cuore.
Si chinò su di lei, desiderando baciarla ma sfiorandole appena il lobo dell'orecchio per sussurrarle ancora: "Andiamo in giardino, devo parlarti".

Avvertì il suo corpo vibrare mentre gli diceva un timido 'sì' e lo seguiva senza più fiatare.
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Candy si sentiva come se camminasse sospesa tra le nuvole, in una realtà onirica. La mano di Albert sulla schiena, le sue labbra morbide e la voce carezzevole nel suo orecchio e, poco prima, quella frase.

Stava succedendo tutto troppo velocemente e ormai era chiaro che Albert volesse parlarle proprio dell'argomento che lei voleva rimandare. Quando erano cambiate così tanto le cose tra loro? Non se n'era accorta o aveva semplicemente sorvolato quei pensieri? Ma, soprattutto, cosa avrebbe fatto ora? Avrebbe potuto semplicemente annullare l'incontro con Terry e lasciarsi trasportare dagli eventi, ma doveva a loro due la possibilità di rivedersi, non voleva lasciare alcuna zona d'ombra in quello che poteva essere il suo rapporto con Albert.

Lo champagne e la vicinanza del suo principe della collina, però, la stavano destabilizzando e l'unica cosa che capiva era che, contrariamente ai suoi piani, avrebbe dovuto rivelargli quasi tutto.

O forse si stava sbagliando di grosso? Il tragitto dalla casa al giardino fu interminabile, lui camminava piano come se stesse riordinando i pensieri e guardava a terra. Magari voleva parlarle di tutt'altro e lei era solo una povera illusa.

Stava impazzendo, non sapeva più cosa fosse meglio: ma ormai erano arrivati a una panchina nel bel mezzo del giardino delle rose dove tanti anni prima aveva scorto Anthony e, di qualunque cosa le volesse parlare, l'avrebbe fatto di lì a pochi istanti.

Tacque in trepidante attesa, scorgendo il suo viso illuminato solo dalla luce della luna e di una lanterna offuscata dalle fronde di un cespuglio. Si vedeva che stava cercando le parole e provò per lui un moto di tenerezza quando si accorse che si stava tormentando le mani: non lo aveva mai visto così indeciso. Improvvisamente, le sembrò molto più giovane della sua età, quasi suo coetaneo.

"Candy", esordì provocandole un brivido di aspettativa, "ti ricordi quando vivevamo alla Casa della Magnolia?".

"Sì", rispose chiudendo gli occhi, "abbiamo dovuto fare finta di essere fratelli e stavano per sfrattarci perché... pensavano...uh...". Si era appena infilata in un vicolo senza uscita, perfetto.

"Pensavano che fossimo una coppia clandestina", rise lui senza guardarla negli occhi, come se fosse imbarazzato. "Però... era una convivenza serena. Anche se non avevo memoria e i soldi erano pochi, mi sono goduto tutte le piccole cose di ogni giorno: cucinare, aspettarti quando tornavi dal lavoro... Tu eri felice?".

Candy sorrise a quei ricordi: "Certo, Albert, che domande sono? Il nostro è sempre stato un legame speciale. La verità è che, anche se eri tu il paziente, mi sono sentita sempre coccolata da te, come quando ti incontravo in giro per il mondo e tu mi aiutavi. In quel periodo non so se sono stata più io a prendermi cura di te, o tu di me", disse piano.

Le tornò in mente il periodo in cui lei e Terry si erano lasciati e fu sicura che anche Albert stesse ricordando la stessa cosa: scrutò il suo profilo con le mani intrecciate davanti alle labbra e avrebbe dato non sapeva cosa per leggere nei suoi pensieri.

"A volte vorrei tornare indietro nel tempo e vivere di nuovo con te".

Candy chiuse gli occhi, aveva la gola secca, e si sentì annegare e annaspare nel mare dei suoi stessi sentimenti contrastanti. Tentò disperatamente di riportare il discorso a una dimensione più amichevole e si arrovellò il cervello in cerca di qualcosa di sensato da dire: "Ci siamo divertiti molto, vero? Nonostante le difficoltà...", tentò, infine.

L'espressione di Albert divenne rigida, delusa e lo vide deglutire come se cercasse di trovare le parole: "Sì, è così", soffiò con aria assente e lei capì chiaramente che non era quella la piega che voleva far prendere alla sua frase. Poi rilassò le spalle e aggiunse: "Mi piacerebbe tanto vivere senza responsabilità, senza il peso del mio nome. A volte sogno di tornarmene in Africa o in giro per il mondo semplicemente come Albert il vagabondo".

Candy si rilassò a sua volta, grata di tornare su un terreno neutrale. "È comprensibile, tu sei uno spirito libero e non ti piace avere legami. Però questa è la tua famiglia e, perdonami se te lo dico, ma sei fortunato ad averne una", non poté fare a meno di aggiungere.

Lui si accigliò e le prese le mani, facendole venire la pelle d'oca: "Candy anche tu fai parte della famiglia Ardlay, non dimenticarlo mai!", le disse seriamente.

"Certo, certo, lo so... volevo solo dire che...".

Lui abbassò la testa, ora sembrava a disagio: "So cosa intendevi, Candy, scusami. Quello che volevo dire prima è...". Si alzò d'improvviso e lei si chiese se non fosse meglio interrompere la conversazione. Ma una parte di sé si sentiva così vicina ad accarezzare il sogno di un Albert innamorato di lei, che aveva dimenticato tutti i suoi buoni propositi.

" Albert, io...".

"Vorrei averti sempre al mio fianco durante i miei viaggi, Candy", concluse lui dandole le spalle. 

Candy smise di respirare per quasi un minuto intero, la testa cominciò a girarle e capì che doveva riprendere aria prima di svenire.

"A...Albert", articolò a fatica.

Lui si girò di nuovo nella sua direzione, improvvisamente nervoso. Gesticolava con fare esasperato e sembrava parlare più a se stesso o a un interlocutore invisibile che a lei: "Io ti ho adottata, sono il tuo tutore. Ti ho voluta sempre proteggere e non dovrei guardarti con occhi diversi: è sbagliato, è immorale, è... forse è addirittura contro natura, nonostante tu non sia la mia figlia naturale". Sedette di nuovo, prendendosi la testa fra le mani.

Lei gli toccò la spalla, senza trovare una singola parola da dirgli. Non sapeva se rimanere in silenzio fosse una buona idea, ma davvero non avrebbe saputo come replicare senza scoprirsi. Non aveva mai visto Albert così vulnerabile: lui, sempre così sereno, la roccia solida su cui appoggiarsi anche nelle situazioni più disperate ora le appariva schiacciato da un peso insopportabile.

Ma non poteva essere lei ad alleggerirlo. Non ora, non prima di essersi chiarita con Terence.

"Cosa vuoi dire, Albert?". Sapeva che era una domanda rischiosa, ma ormai le cose si erano spinte troppo oltre per rimandarla.

"Ho cercato di soffocare questo sentimento e forse... forse devo continuare a farlo, tu che ne dici, piccola Candy?", le domandò alla fine, posandole una mano sulla guancia.
Lei aprì la bocca per ribattere qualcosa di sensato e le uscì solo un: "non lo so" che fece mutare l'espressione di Albert in qualcosa di molto simile alla tristezza. In realtà non sapeva se lui volesse fuggire dai quei sentimenti.

Era così confusa e sconvolta dal fatto che Albert avesse deciso di aprirle il suo cuore proprio in quel momento, che per un attimo pensò di chiedergli cosa intendesse quando diceva di vederla con occhi diversi: sarebbe stata una domanda stupida? O una richiesta legittima? Oppure l'estremo tentativo di non vedere la realtà? Quella stessa realtà che da tempo si stava modificando e che lei aveva deliberatamente ignorato. La medesima realtà che le sembrava di aver visto riflessa negli occhi di Albert in più di un'occasione.

Ma Albert non aveva fantasmi del passato a creargli dubbi o zone d'ombra. O, almeno, era quello che mostrava.

Non voleva fargli del male e illuderlo, Albert meritava la verità.

Fu così che, mentre finalmente gli confessava le sue intenzioni, lo interruppe involontariamente nello stesso momento in cui lui forse cominciava ad articolare proprio quella frase che tanto agognava e paventava. Parlarono nello stesso, identico attimo:

"Candy, io ti...".

"Vado a incontrare Terry".

Anche l'aria sembrò fermarsi, congelando quel momento per un istante eterno.

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Capitolo 5
*** Dubbi e incertezze ***


“Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare, e motivi per restare.”

                                                                                                                                     Dalai Lama


Albert sentiva degli artigli affilati affondargli nel cuore facendolo sanguinare. Era pronto a un suo rifiuto, specie per via di Terence, ma se gli avessero detto che Candy lo avrebbe fatto proprio mentre tentava di mettere a nudo i propri sentimenti, non ci avrebbe mai creduto.

Era stata una coincidenza davvero crudele, ma d'altronde la colpa era solo sua.

Aveva tergiversato troppo, cominciando il discorso con il piede sbagliato. Introdurre tutto con i ricordi della Casa della Magnolia gli sembrava la cosa migliore per avvicinarsi al fulcro della situazione, ma la sua reazione lo aveva destabilizzato.

Era stato un periodo in cui sembravano veramente una coppia appena sposata e non un fratello e una sorella, per quanto il loro fosse stato un rapporto del tutto platonico. Era sempre stato convinto che, in fondo al cuore di Candy, crescessero gradualmente sentimenti simili ai suoi ma adesso temeva di aver preso un abbaglio, specie dopo averla vista e sentita così sfuggente.

Ormai, però, si era spinto troppo oltre. Tuttavia, non riusciva a spiegarsi con lei come avrebbe voluto, perché notava in Candy delle riserve troppo evidenti. Così si era messo quasi a parlare con se stesso, girando intorno all'argomento come uno sciocco, lui, che nella sua vita e negli affari aveva sempre parlato chiaro.

Si rese conto che aveva paura, una paura enorme di perderla. Sperava ardentemente che Candy capisse e al contempo non voleva.

Dopo il suo soliloquio quasi delirante, lei era rimasta immobile, sembrava sconvolta dalla sua confessione e così si era convinto di aver sbagliato tutto. Ma era troppo tardi per tornare indietro e, mentre ancora una volta si dannava ad alta voce per quello che non doveva accadere, gli era scivolata fuori la domanda diretta: doveva ben sapere cosa ne pensasse Candy, di un patrigno che la vedeva come una donna.

Nonostante avesse impostato la sua dichiarazione in quel modo così sbilanciato e degno di un adolescente che non sappia trovare le parole, trovò abbastanza eloquente la risposta di Candy. In quel "non lo so", lesse il desiderio di non ferirlo e di cercare di rimanere neutra per non dirgli un "no" secco.

Quello era il momento giusto per farsi da parte, ma il lato ribelle e innamorato di Albert aveva avuto il sopravvento e la frase gli era semplicemente sfuggita dalle labbra prima che potesse impedirselo: d'altronde, ormai, che differenza poteva fare? Se era un rifiuto, tale sarebbe rimasto, però almeno poteva dire di averle confessato chiaramente ciò che provava.

Ma il destino beffardo volle che Candy troncasse ogni flebile speranza di conquistarla in futuro con quella frase, pronunciata in contemporanea alla sua.

Fu come se lo avesse pugnalato in pieno petto.

Rimase a fissarla per alcuni secondi, mentre la vedeva portarsi le mani alle labbra. Voleva forse ricacciare indietro quello che aveva appena detto? Non importava più. Fece uno sforzo sovrumano per sorriderle mentre le poggiava una mano sulla spalla con fare fraterno e disse con voce più ferma di quel che si sarebbe aspettato: "Bene, sono felice per te, Candy. Ti auguro buona fortuna. Ora scusami, ma devo andare a recuperare la cornamusa".

Si alzò e cominciò a camminare. Sapeva di doverle apparire come un ragazzino deluso, ma non voleva assolutamente che cogliesse nei suoi occhi il dolore e che li vedesse lucidi. Non voleva che la sua piccola Candy avesse sensi di colpa.

Quando ormai era quasi all'ingresso udì la sua voce: "Albert, aspetta!". Si era sollevata il vestito per rincorrerlo ma l'oscurità e una pietra dissestata le giocarono un brutto tiro, perché cadde improvvisamente a terra.

Le fu subito vicino: "Candy! Ti sei fatta male?".

Lei alzò su di lui un viso madido di lacrime e Albert ne fu ulteriormente addolorato: "Sì, no, cioè, non è stata la caduta a farmi male. Sono io ad aver fatto male a te e ora anche io sono... sono...". Singhiozzava forte e non poté fare a meno di prenderla fra le braccia.

"Cara, dolce Candy", mormorò con la voce che gli tremava. Non poteva permettersi di crollare, doveva essere sempre quella roccia salda cui farla aggrappare e lo sarebbe stato, fino all'ultimo. Le sollevò il viso e le asciugò gli occhi sforzandosi ancora di sorriderle: "Non devi preoccuparti per me, io starò bene. Ho sbagliato, sapevo che c'era ancora lui nel tuo cuore. Ho creduto, stupidamente che...".

Lei cominciò a scuotere la testa con vigore, facendo ondeggiare quella chioma sciolta nella quale avrebbe solo voluto affondare le mani e le labbra: "No, non hai capito, Albert! Io non voglio andare da Terry per quello che pensi. Io... solo... devo solo mettere ordine nel mio cuore. Devo chiarire i miei sentimenti per lui e parlargliene".

Albert deglutì, confuso: "Chiarire i tuoi sentimenti?", ripeté a mo' di domanda.

Candy abbassò lo sguardo: "Non chiedermi di più, Albert, ti prego. Io... ho lasciato qualcosa anzi, qualcuno indietro senza darmi mai la possibilità di comprendere davvero cosa sia rimasto di quel rapporto. Tra me e Terence non c'è mai stato nulla di chiaro, di fatto è qualcosa che è stato spezzato ancor prima di nascere. Però entrambi nutrivamo dei sentimenti l'uno per l'altra, era evidente come la luce del sole. Ora devo riprendere le fila di ciò che si è fermato nel tempo per capire se davvero è tutto finito per me, oppure no".

Albert cominciò ad avere il respiro corto per l'emozione: cosa gli stava dicendo Candy? No, basta con le illusioni adolescenziali. Candy aveva parlato di chiarire i suoi sentimenti, non gli aveva detto che forse era innamorata di un altro. Di lui.

Le prese il volto tra le mani, asciugandole le lacrime, rendendosi appena conto del leggero tremore che gli pervadeva il corpo: "Va bene, ho capito, tranquilla, vai e chiarisciti con Terry. Io ti aspetterò come sempre. Oppure ti sosterrò anche se decidessi di non tornare".

In realtà, dentro di sé, sapeva benissimo che il desiderio di un suo ritorno era ormai irrimediabilmente acceso e che, se avesse deciso di restare con Terence, lui sarebbe andato in mille pezzi. A quel punto non gli importava più neanche di averla: gli sarebbe bastato che gli restasse accanto come amica, come era sempre stato.

Candy sarebbe rimasta il suo sogno impossibile e lui si sarebbe accontentato delle briciole.

"Grazie, grazie Albert, ti voglio così tanto bene!", pianse lei gettandogli le braccia al collo.

Si beò del suo corpo premuto contro il proprio, intrecciandole le mani dietro alla schiena che non aveva il corpetto e sprofondando il viso tra i suoi meravigliosi capelli sciolti, proprio come aveva sognato solo alcuni minuti prima. Avrebbe voluto rimanere così per sempre. Piangere con lei, ridere con lei, baciarla, ma Candy non gli apparteneva in quel modo, così dovette imporsi di staccarla gentilmente prima che qualche curioso decidesse di mettersi a cercare il capofamiglia.

Le asciugò le ultime lacrime, intimandole di non piangere e le abbassò gentilmente la testa per darle un casto bacio sulla fronte, come avrebbe fatto in un giorno qualsiasi.
"Rientriamo, ragazzina. È l'ora delle lumache che strisciano", mormorò tentando di stemperare quel momento dal sapore dolceamaro.

Ancora una volta, lei lo seguì senza dire una parola.
- § -
 
Annie stava attendendo che Archie tornasse con il drink che le aveva offerto dopo aver ballato con lei.

Ancora una volta, nonostante i fiori e le dimostrazioni d'affetto, erano distanti e formali come se, invece di due fidanzati, fossero due semplici conoscenti. Aveva osservato Candy e Albert, dopo la confessione della ragazza, e si era resa conto, con stupore e disappunto, di quanto sembrassero loro una coppia molto più di lei e Archie.

Non sapeva ancora se Candy fosse convinta del tutto dei propri sentimenti, né se lui la ricambiasse, ma bastava vederli insieme per rendersi conto del legame forte che li univa. Probabilmente non se n'erano accorti neanche loro.

Con Archie, nei momenti migliori, si sentiva come una sorellina di cui lui si prendesse cura con tenerezza. Mentre ballavano non l'aveva mai toccata facendo vagare la mano sulla sua schiena come aveva visto fare ad Albert, complice sicuramente l'idea balzana di Candy di non mettere il corsetto.

Oh, certo, erano entrambi dei gentiluomini, ma non serviva un occhio esperto per comprendere come, al di là delle apparenze, ci fosse una chimica tra quei due che tra lei e il suo fidanzato non era mai esistita. Non era da Annie fare quei pensieri, ma aveva ben ascoltato le conversazioni delle sue amiche dell'alta società quando parlavano dei loro fidanzati e dei corredi che stavano preparando.

Alludevano a baci rubati, a camicie da notte favolose per la prima notte di nozze e facevano enormi sospiri arrossendo al pensiero della luna di miele. Ascoltandole, Annie aveva cominciato a chiedersi cosa non andasse in lei: anelava un bacio da Archie da tanto tempo e, sì, voleva essere bella e desiderabile la notte del suo matrimonio, in barba a tutte le convenzioni.

Probabilmente era peccato provare attrazione per un uomo o volersi sentire desiderata da lui, almeno così le avevano sempre insegnato. Non ne sapeva molto di più, perché tutto veniva etichettato come un dovere coniugale persino spiacevole, al quale adempiere con pazienza e sottomissione per dare eredi alla famiglia.

Ma, nel suo cuore, Annie aveva sempre saputo che si trattava di un atto d'amore che partiva dal cuore e che avrebbe dovuto coinvolgere entrambi gli sposi. Curiosamente, però, quel cuore e quell'attrazione in Archie non li avvertiva affatto e, cosa assolutamente riprovevole, la sentiva dentro di sé.

Amava Archie e si sentiva naturalmente impaziente e timorosa con l'avvicinarsi delle nozze: perché lui non le dava alcun segnale in quel senso? Forse era normale così, specie dopo tanti anni e Archie era solo molto rispettoso, ma più ci pensava e più si convinceva che era una pia illusione.

Tanto più che vedeva nei suoi occhi accendersi spesso una luce diversa da quella che aveva quando la guardava. Erano i momenti in cui Candy era nei paraggi.

Anche poco prima, mentre la prendeva in giro per lo champagne, si era sentita esclusa, persino di troppo. Avevano ballato e lui era distratto. Aveva seguito Candy e Albert con lo sguardo mentre uscivano e le aveva persino chiesto dove fossero diretti.

"Non lo so", aveva mentito.

Annie provò l'impulso di trasformarsi in una donna più spigliata come Candy, salire nella sua stanza e togliersi il corsetto, sfidando Archie a ballare di nuovo con lei. Chissà se la sua mano l'avrebbe toccata con ardore, o se non se ne sarebbe nemmeno accorto.

Arrossì, nascondendo il volto tra le mani, odiandosi perché, nonostante gli avesse chiesto molte volte se l'amasse, si era sempre accontentata delle sue risposte preconfezionate che ora, più che mai, le suonavano false.

Il suo era affetto, non amore.

Mentre tornava da lei con i bicchieri, Archie si guardò ancora intorno e le parve di cogliere un'espressione sollevata quando vide Candy e Albert rientrare. Ad Annie non sfuggì nemmeno il fatto che Candy evitasse lo sguardo di Albert e che quest'ultimo apparisse stranamente teso.

Chissà cosa si erano detti.

Archie le offrì il bicchiere: "Fra un po' dovremo suonare, vuoi ballare un'altra volta, prima?".

Lei scosse la testa: "Archie...", cominciò.

"Sì, tesoro?".

Ami ancora Candy, vero? Non l'hai dimenticata mai veramente.

"Niente", decise di lasciar perdere, ancora una volta. Non quella sera, non in quel momento. Ma prima di sposarlo avrebbe dovuto sapere.

 
Grazie come sempre alla mia beta Tiger Eyes, che in ogni singolo capitolo si prodiga in correzioni e suggerimenti!
 

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Capitolo 6
*** Un'altra corsa verso il destino ***


Cara Candy,
ti aspetto nel giorno che tu hai scelto. Mi troverai nel mio appartamento, non prima delle sette di sera, però. Purtroppo, nonostante le mie insistenze, non sono riuscito a convincere Robert a darmi il giorno libero, altrimenti sarei venuto a prenderti alla stazione.
Candy, ti aspetto con trepidazione: non vedo l'ora di riabbracciarti.

Tuo

Terry

Candy sospirò, portandosi la lettera al petto. Povero, caro Terry, ancora così innamorato di lei. Eppure aveva cercato di essere distaccata nella sua lettera, anzi, aveva scritto parole al limite della freddezza. Non aveva avuto scelta, ma il fatto che lui desiderasse rivederla con tanta trepidazione significava che non aveva capito. O che non voleva capire.

Mentre entrava in clinica e salutava il dottor Martin, l'unica cosa a cui riuscì a pensare fu che erano giorni che non vedeva Albert, e che non l'avrebbe rivisto almeno fino al suo ritorno dal viaggio.

"Candy, cosa ci fai qui?", le chiese il dottore facendola trasalire.

"Come?", domandò senza capire.

Il buon dottore si grattò la testa: "Accidenti, eppure ero sicuro che saresti dovuta partire questa mattina. E non tocco un goccio di whisky da...", ma lei già non lo ascoltava più e a malapena si rese conto che stava contando sulle dita.

"Oh, no, era oggi! Devo correre!", gridò gettando via il berretto da infermiera e cominciando a slacciarsi la divisa.

"Ehi, ehi, quanta fretta! A che ora parte il tuo treno?".

"Mi scusi". Candy consultò l'orologio da taschino del medico, estraendolo dalla sua tasca senza tante cerimonie: "Tra un'ora!".

"Ragazza mia, allora conviene che tu prenda la carrozza di Tom: è venuto per accompagnare suo padre ma so che deve andare in città. Ti darà volentieri un passaggio".

Lei lo guardò stralunata: "Tom è qui? Il signor Steve sta male?", domandò preoccupata.

Il dottor Martin scoppiò a ridere: "Oh, no, tranquilla, è un semplice controllo, ma sai com'è fatto. Se il figlio non lo obbliga a...".

"Candy!". La voce del suo amico la raggiunse proprio in quel momento.

"Oh, Tom, devo chiederti un grande favore!".

Mentre lui lanciava i cavalli in una folle corsa verso la stazione, Candy si chiese perché ogni volta che doveva raggiungere Terence era terribilmente in ritardo. Ebbe un dejà-vu della notte in cui era fuggita dalla Saint Paul School per arrivare al porto prima che partisse e la sensazione si acuì quando vide il treno, su cui sarebbe dovuta salire, lanciare uno sbuffo di vapore mentre si allontanava inesorabilmente.

Si accasciò al suolo, priva di forze, come se avesse corso lei stessa fin lì. Quel continuo rincorrersi e non trovarsi era un segno ineluttabile del destino, a quanto pareva.
Tom la raggiunse con la valigia: "Mi dispiace, Candy, ho fatto del mio meglio".

Gli sorrise, rassicurante: "Stai tranquillo, Tom, la colpa è mia. Stamattina sono uscita di corsa e ho a malapena salutato Miss Pony e Suor Lane, altrimenti sono certa che mi avrebbero ricordato loro per tempo che dovevo partire. Per fortuna che almeno la valigia l'ho lasciata in clinica!", concluse colpendosi leggermente la testa con un pugno.
Tom si mise a ridere: "Sei proprio sbadata, Candy! Ora che farai?".

"Semplice, mi siederò qui e aspetterò il prossimo treno. Tu torna pure da tuo padre, sai quanto odia gli ospedali!".

Si salutarono affettuosamente e lui a un certo punto disse: "Candy... in bocca al lupo".

Per un attimo rimase stupita dal suo tono: aveva detto ai suoi amici che sarebbe andata a New York per una questione di lavoro, ma ormai quel ragazzo cresciuto con lei doveva leggerle dentro. Ovviamente non sapeva la verità sui suoi sentimenti contrastanti, ma non erano quelli la sede o il momento per confidarsi. Si limitò a sorridergli e a ringraziarlo per tutto.

 Il treno successivo arrivò dopo due ore.
- § -

Albert rilesse lo stesso rapporto tre volte prima di cominciare a capirne il senso. Sbuffò, frustrato, mentre avvertiva la presenza di George di fronte a lui che attendeva pazientemente: "Qualcosa non va, signorino William?", esordì alzando leggermente un sopracciglio.

Scosse la testa: "Quando ti deciderai a chiamarmi semplicemente Albert? E comunque no, va tutto bene, è solo che non riesco a concentrarmi".

"Se vuole posso farle un riassunto io del mercato azionario di oggi. Il consiglio degli investitori suggerisce...".

"Sì, va bene", tagliò corto lui firmando velocemente il foglio. "Vendiamo e non se ne parli più".

George si limitò a prendere in mano quel foglio e a ripiegarlo con cura, commentando con calma: "Se non fosse la mossa azzeccata, a mio modesto parere, oserei dire che ha tirato a indovinare".

Albert fece un sorrisetto sbilenco, guardando il suo amico e tutore di sempre: "Se avessi sbagliato mi avresti corretto tu, lo so".

"Ma lei non sbaglia mai, signorino William, neanche quando è distratto come stamattina".

"E come ieri, e come l'altro ieri...", concluse guardando fuori dalla finestra. In realtà era dalla sera del ballo che aveva la testa fra le nuvole. Sapere che Candy forse non era più innamorata di Terence accendeva in lui sentimenti contrastanti, ma in quel momento lei era su quel treno per New York e tutto poteva ancora accadere.

La giornata era ancora lunga e lui doveva occuparsi di parecchie faccende, sia nel suo studio che recandosi in banca. Doveva cercare di concentrarsi su quello che stava facendo o sarebbe impazzito, oppure avrebbe mandato all'aria qualche grosso affare. O magari entrambe le cose.

Confessando finalmente a se stesso e a Candy i propri sentimenti aveva aperto una porta che rischiava di minare seriamente la sua integrità mentale. Era come un ragazzino alla prima cotta che si rifiuti di studiare o occuparsi delle faccende importanti per inseguire la sua amata.

E lui era il capofamiglia degli Ardlay, una delle più potenti di Chicago e forse degli Stati Uniti. Non una cosa da poco.

Se fosse dipeso da lui, però, sarebbe stato già in viaggio verso l'Africa con Candy, se solo lei lo avesse accettato. Le avrebbe mostrato i luoghi che amava, gli animali, magari impegnandosi in altre missioni umanitarie con lei al fianco. L'avrebbe fatta innamorare di lui, sposata e avrebbero avuto tanti bambini...

"... nei rapporti con i bancari delle società concorrenti. Signorino William? Albert, mi stai ascoltando?". A riportarlo alla realtà fu piuttosto quel nome pronunciato da George. Si voltò, stupefatto.

"Finalmente!", esclamò cercando di mascherare il fatto che non aveva ascoltato una parola di quello che aveva detto sino a quel momento.

Il buon uomo sospirò con aria rassegnata: "Signorino William", cominciò strappandogli un'espressione delusa, "capisco che il momento sia... uhm, come dire?, molto delicato, per lei. Ma devo ricordarle che ci sono situazioni famigliari di estrema urgenza che necessitano la sua attenzione, se non vogliamo finire in bancarotta tra qualche anno. Può cercare di concentrarsi sugli impegni per non mettere in difficoltà tutti gli Ardlay?".

George era stato così incisivo e gentile che Albert provò un acuto senso di colpa. Nonostante i suoi pensieri fossero sempre, irrimediabilmente focalizzati su Candy, si predispose a spegnere momentaneamente quell'interruttore per dedicarsi ai suoi doveri.    

"Hai ragione, George, ti chiedo scusa", disse riprendendo il controllo di se stesso e dicendosi che, perlomeno, avrebbe potuto continuare a offrirle una stabilità economica degna di lei.

"Tuttavia, se preferisce parlarne...". Il tono di George era volutamente evasivo. Nonostante gli anni, aveva sempre una forma di rispetto enorme nei suoi confronti e non voleva varcare troppo il limite della confidenza, se non era necessario.

Albert decise che glielo doveva e, diamine, aveva bisogno di parlarne con qualcuno! E chi, se non il suo fidato consigliere e tutore? Non gli aveva forse già rivelato che aveva intenzione di confessare a Candy i suoi sentimenti? Il minimo che si meritava era conoscere l'epilogo di quella sera.

"Tornerà da Terry per... fare chiarezza, come dice lei. Non è sicura di amarlo ancora", riassunse fissando un punto della scrivania.

"Beh, è già un passo avanti", commentò George tranquillo.

Alzò lo sguardo su di lui, perplesso: "Lo pensi davvero? Non mi sembrava molto contenta quando le ho detto che la vedevo con occhi diversi".

L'uomo di fronte a lui si accigliò, come riflettendo: "Però, se come mi ha detto, la signorina Candy ha bisogno di fare chiarezza potrebbe essere semplicemente troppo confusa per aprire il proprio cuore".

Albert si passò le dita della mano tra i capelli, sperando di poter sciogliere i nodi della sua anima come faceva con le ciocche: avrebbe dovuto tagliarli di nuovo, a proposito.
"Non so, George, mi sembrava riluttante. Temo che lei mi veda semplicemente come un fratello maggiore".

"Le ha detto così?".

"No, ma...".

"Non tragga conclusioni affrettate, signorino William. E comunque, anche se ora non prova nulla per lei, non è detto che in futuro non possa succedere. Semplicemente quello non era il momento giusto".

Si sedette, incrociando le mani sulla scrivania: "Stavo per dirglielo, George, ma prima che potessi finire la frase mi ha detto che andava da lui. È stato come ricevere una doccia gelata".

George sembrò colpito: "Deve essere stato molto brutto, lo so". E lo sapeva davvero, rifletté Albert, chiedendosi se avesse mai provato ad aprire il cuore alla sua defunta sorella, prima che lei decidesse di sposare un altro uomo.

"Immagina la scena: io che sto per confessarle chiaramente il mio amore e lei che mi comunica che sta per andare a incontrare Terence", fece una risatina amara.
"Non tutto è perduto, William".

"Non lo so. Non ne sono sicuro. Adesso come adesso la mia speranza è che torni con il cuore libero. Sono un codardo egoista, ma preferisco vederla sola che a fianco di un altro uomo. Io, che qualche anno fa l'ho mandata dritta da lui".

"E quella volta non è rimasta col signorino Terence", gli ricordò.

"No, ma Susanna era ancora viva. Oh, devo smetterla di pensarci, o impazzirò", concluse strofinandosi il viso con le mani. Stava per venirgli uno di quei mal di testa di cui si lamentava spesso la zia Elroy.

"Coraggio, non è da lei arrendersi così facilmente", tentò di rincuorarlo George riponendo i documenti in una cartellina.

"Hai ragione", dichiarò alzandosi e battendo le mani sul piano di lavoro, "pensiamo agli affari e quel che sarà, sarà, giusto? Basterà aspettare e vedere".

Ma Albert, di tempo, ne aveva già aspettato fin troppo.

Mentre usciva dalla stanza con il suo fidato George, il suo pensiero volò inesorabilmente a lei, su quel treno che correva a New York, senza che potesse impedirselo.
 
- § -

Candy arrivò a New York nella tarda serata del giorno successivo, essendo partita ben due ore dopo. Era stanca, aveva fame e voleva solo stendersi un attimo su un letto vero prima di incontrare Terry. Non si erano dati un orario preciso, ma se avesse potuto avrebbe rimandato l'incontro alla mattina dopo.

Ogni ora, ogni minuto passato sul treno le erano serviti per confermare ancora più nel suo cuore ciò che già sospettava da tempo. Non si sarebbe mai dimenticata un appuntamento con Albert e appena arrivata si sarebbe precipitata da lui anche se avesse viaggiato per giorni.

La realtà era che si stava pentendo amaramente di aver illuso così Terence e di aver creduto davvero che ci fosse qualcosa da chiarire dentro di sé. Tutto il suo essere gridava il nome di Albert e desiderava solo che le sue braccia le si chiudessero intorno in quel preciso istante.

Ma era giusto così: era necessario dire addio a Terry, glielo doveva.

Coraggiosamente, entrò nel suo piccolo albergo presentando la propria prenotazione. Si sarebbe fatta una doccia calda, cambiata e avrebbe bussato alla porta dell'attore. Magari avrebbe comprato dei dolcetti da mettere sotto ai denti con lui... forse, però, era una pessima idea: cosa se ne sarebbe fatto del dolce quando gli stava per riversare addosso l'amara verità?

"Mi dispiace, signorina, ma la sua stanza è stata occupata". Le parole del receptionist interruppero bruscamente il suo flusso di pensieri.

"Come? Ma non è possibile!", esclamò sentendo una nuova ondata di stanchezza pervaderle gli arti.

"Sono spiacente, ma l'attendevamo ore fa e nel frattempo è arrivata una signora che viaggia con il figlioletto, quindi le abbiamo dato priorità".

Candy sospirò, frustrata: "Beh, per me va bene una camera qualsiasi".

L'uomo parve stringersi nelle spalle per rimpicciolire davanti a lei quando spiegò: "Purtroppo l'albergo è al completo, signorina... oh!". Il receptionist sembrò accorgersi di qualcosa d'importante mentre consultava il registro e chiamò un collaboratore, parlandogli all'orecchio.

"Cosa? Che c'è adesso?", domandò confusa.

"Le chiedo di perdonarmi, non avevo collegato il suo nome con quello della famiglia Ardlay", dichiarò facendole un profondo inchino e mettendola estremamente in imbarazzo, "Provvediamo subito a intimare alla signora di cercare un'altra sistemazione, tra l'altro quella è una delle nostre migliori stanze, si trova all'ultimo piano ed è dotata di...".

Candy sentì una rabbia cieca pervaderle il corpo e martellarle le tempie: "E voi mandereste fuori a quest'ora una signora con un bambino piccolo solo perché il mio è un nome importante? Siete davvero degli insensibili!".

Il receptionist rimase visibilmente basito, mentre il collega che stava già recandosi alla scalinata si bloccò. Candy ormai era un fiume in piena, complici la stanchezza e i nervi a pezzi: "Se davvero in questo albergo siete soliti fare delle discriminazioni solo in base al ceto sociale, allora state pur tranquilli che non ci metterò più piede! Lasciate in pace quella povera donna e suo figlio, la colpa è mia che ho perso il treno, quindi me ne assumo tutta la responsabilità. Buonasera", concluse riprendendosi la valigia e uscendo di lì a testa alta.

Camminò a passo svelto per qualche minuto per sbollire l'irritazione, poi la sua mente riprese a vagare.

Pensò che avrebbe dovuto dire ad Albert di revocare l'adozione, soprattutto ora che tra loro due le cose stavano per cambiare radicalmente. Non avrebbe certo potuto fidanzarsi con suo padre! Ridacchiò, arrossendo a quel pensiero e desiderando con tutta se stessa che Albert le facesse quella fatidica domanda!

Non avrebbe mai creduto che anche lui fosse innamorato di lei, era come un sogno troppo bello dal quale non avrebbe mai voluto svegliarsi. Avevano persino deciso di aprire i loro cuori quasi nello stesso momento... Il dubbio la colse d'improvviso: stava davvero per dirle quelle parole o magari se lo era sognato?

Io ti...

Io ti considero come una sorella. Io ti voglio bene. Non gli aveva dato il tempo di finire la frase, accidenti a lei! Poteva terminarla in qualsiasi altro modo!

No, non era possibile: il suo sguardo, la sua dolce agitazione, quel suo confessarle che la vedeva con occhi diversi... era chiaro, come il sole e come le sue iridi...

Gli occhi di Albert...

Dopo qualche minuto in cui fantasticava, si rese conto che stava camminando senza meta in una strada buia: davvero una pessima idea per una ragazza sola.

"E adesso dove vado?", si chiese sapendo già la risposta. Prese un respiro d'incoraggiamento e cominciò a dirigersi a casa di Terry.

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Capitolo 7
*** Incontro ***


Terry si sentiva come un leone in gabbia. Dove diavolo era finita Candy? Con la mente in subbuglio, ripercorse gli avvenimenti del pomeriggio e della serata.
Prima l'aveva cercata in tutti gli alberghi e gli avevano confermato, in uno piuttosto vicino, che c'era effettivamente una prenotazione a suo nome, ma che la signorina non si era ancora presentata.

Quindi era tornato in teatro, suscitando le risate di Robert: "No, Terence, la tua amata non ti ha cercato qui!", lo aveva canzonato.

Preoccupato, alla fine era tornato a casa e nemmeno il portiere l'aveva vista. Si gettò sul letto portandosi un braccio sulla fronte e chiudendo gli occhi.

Candy che non arrivava, Candy che ci aveva ripensato, Candy che all'ultimo momento aveva deciso di rimanere dove stava. Oppure, ancora peggio, Candy che aveva avuto un incidente.

Ormai la sua testa formulava solo pensieri negativi, ma d'altronde non era quello che stava facendo da quando le aveva detto addio su quella dannata scalinata? Era rimasto con Susanna solo per vederla morire di spagnola, regalandole qualche anno di felicità. Aveva recuperato la sua carriera dopo la visione di Candy a Rockstown, ma questo era tutto.

Se avesse saputo come sarebbe andata a finire, avrebbe mandato al diavolo il suo lavoro e, che Dio lo perdonasse, anche la povera e sfortunata Susanna che aveva rischiato la sua vita per lui.

"Sono una persona cattiva", si disse accarezzando il tessuto delle lenzuola nuove che aveva messo quella mattina. Sì, perché nei suoi sogni più proibiti, lui e Candy avrebbero mandato al diavolo anche le convenzioni e si sarebbero amati per tutta la notte, sposandosi nella prima chiesa disponibile il giorno dopo.

Questi erano i suoi folli piani, in effetti. E quei piani potevano essere la sua rovina.

Se la freddezza che traspariva dalla lettera di Candy si fosse rivelata la tragica verità, pensava che si sarebbe semplicemente lasciato morire. Rabbrividì a quell'eventualità, immaginandosi sulla terrazza di un ospedale cercando la Nera Signora come aveva avuto il fegato di fare Susanna anni prima.

"Tu non saresti lì per salvarmi, vero, Tarzan Tuttelentiggini?", domandò alla stanza vuota con labbra tremanti, avvertendo le lacrime pungergli gli occhi.

Fu proprio in quell'istante che bussarono alla porta e un'ondata di calda speranza lo investì come una scossa elettrica, mentre saltava giù dal letto e si precipitava alla porta.
 
- § -
 
Quando Terence le aprì, Candy sentì un nodo allo stomaco. Ma non era perché i suoi sentimenti verso di lui si fossero risvegliati: in realtà stava soffocando nel senso di colpa.
Terry era bello come lo ricordava, ma sembrava dimagrito e le occhiaie che gli cerchiavano gli occhi le suggerivano notti insonni. Aveva uno sguardo così colmo di felicità e di speranza che avrebbe solo voluto scappare: come avrebbe fatto a dirgli ciò che le era accaduto?

 "Io... io ho perso il treno, e...", le sue spiegazioni per temporeggiare furono interrotte dalla stretta di Terence che, come quella volta in riva al lago, non esitò a baciarla possessivamente sulle labbra.

Questa volta, però, non fuggì. Né lo schiaffeggiò.

Il senso di colpa che già l'affliggeva divenne un tormento peggiore quando decise che voleva ricambiarlo come ultima prova. Nel momento in cui Terry aprì le labbra per approfondire il bacio, però, le prime lacrime cominciarono a scenderle sul viso e dovette respingerlo.

"Perdonami, Terry, io...". La testa le girò e si ricordò che non mangiava nulla dall'ora di colazione. Non aveva neanche pensato a comprare qualcosa da mangiare sul treno. Cominciò a vedere nero e, prima che fosse buio, lui l'afferrò al volo.
 
- § -
 
Albert si slacciò l'odiosa cravatta, si tolse le scarpe direttamente con i piedi lanciandole lontano e sprofondò nel divano del suo studio, gettando la testa all'indietro.

Aveva passato tante giornate come quella, ma sentiva dentro di sé un'inquietudine che aumentava in modo esponenziale la stanchezza: ovviamente, il motivo era Candy.

Una parte di lui, Albert il vagabondo felice, avrebbe voluto prendere il primo treno per arrivare a New York a riprendersi ciò che anelava; l'altra parte, William Ardlay, gli diceva che invece sarebbe dovuto rimanere non solo per occuparsi degli affari di famiglia, ma anche per lasciare alla ragazza il tempo e il modo di chiarirsi.

Era come se un angioletto e un diavoletto fossero in lizza tra loro per farlo impazzire.

In quella città, poi, c'era uno dei suoi amici più cari. Probabilmente era già con lei. Immaginò Terence e Candy litigare furiosamente e avvertì una fitta di soddisfazione che lo spaventò: era diventato un mostro, non c'era dubbio.

Li immaginò mentre si baciavano e la sua fantasia gli suggerì altre immagini che scacciò definitivamente. Lei era solo sua, e solo lui aveva il diritto di esplorarne i più reconditi segreti.

La sua schiena nuda, senza il corsetto.

Scosse la testa con vigore: non doveva pensare a certe cose. Non le aveva mai considerate fondamentali e non avrebbe cominciato adesso.

La sua pelle calda.

Ma con Candy tutto era cambiato, specie negli ultimi tempi.

Man mano che capiva quanto la amasse, cominciava a desiderarla anche fisicamente e a dirla tutta poteva anche essere considerato normale, visto che si trovava ad aver vissuto trent'anni senza mai aver stretto una donna fra le braccia.

Nonostante gli si fosse presentata più di una volta l'occasione e lui ne fosse stato talvolta tentato, c'era qualcosa che lo bloccava.

Il matrimonio, i principi che mi hanno inculcato, l'amore vero... troppi ingredienti per un'alchimia perfetta.

Quell'alchimia era sempre stata rappresentata da Candy: voleva che fosse lei sua moglie, la sua compagna, la sua amante.

Ancora una volta ripensò al corpo nudo e disponibile di Fiona che, dopo tanti mesi di amicizia in Africa, gli si era offerta spontaneamente senza una parola. In quel caso, era stato vicinissimo a cedere, ma solo per un bisogno che, una volta soddisfatto, gli avrebbe lasciato l'amaro in bocca.

Non voleva ingannarla e glielo aveva spiegato. "Non fa niente, voglio solo avere un ricordo di te. Sono destinata a un altro uomo per volere della mia famiglia".

"A maggior ragione non chiedermi di tradire il mio cuore. Sei molto bella e per me sarebbe molto facile regalarci qualche ora di felicità: ma sarebbe qualcosa di fittizio. Però ti do un consiglio. Se non lo ami opponiti". L'aveva delicatamente coperta con la propria giacca e le aveva stampato un innocuo bacio sulla fronte, mentre i suoi pensieri volavano a un'altra donna bionda dagli occhi verdi.

Come ora, come sempre.

"Candy, Dio mio, cosa mi hai fatto", sospirò pensando che, semmai lei lo avesse rifiutato, forse sarebbe diventato un religioso e si sarebbe dedicato a missioni umanitarie.
 
- § -
 
Quando si svegliò nel letto di Terence e lo vide davanti a sé, con quell'aria preoccupata, Candy capì di essere svenuta. E non a causa del bacio.

Il groviglio di sensi di colpa s'intensificò oltre misura quando sentì nell'aria un profumo invitante e si rese conto del cibo che lui aveva predisposto su un vassoio accanto a lei: "Pensavo avessi fame", commentò lui amorevole.

"Oh, grazie Terry, hai pensato proprio bene". Colta da un istinto incontrollabile che aveva un che di animale, Candy si gettò sul cibo ignorando completamente il poveretto che, molto probabilmente, si stava struggendo a causa sua.

La vergogna la colse violenta quando lui prima la fissò sconvolto mentre teneva un pezzo di pane in una mano e la forchetta nell'altra, poi scoppiò a ridere così di cuore che le si strinse l'anima a pensare che forse era l'ultima volta che avrebbe udito quel suono.

"Santo Cielo, Candy, ma in che razza di modo hai viaggiato?! Sei forse venuta a piedi?".

No, Terence, in realtà mi sono completamente dimenticata che avevamo appuntamento oggi e ho fatto tardi, sussurrò una voce interna facendola sentire più cattiva di Eliza Lagan, di sua madre e di suo fratello messi insieme.

Finì di mangiare con più calma, concedendo al suo corpo esausto ciò di cui aveva bisogno anche se a dire il vero non aveva più fame. Posò con delicatezza le posate nel piatto, poi lo guardò, cercando di evitare i suoi occhi e incontrandoli comunque, bisognosi e vigili: "Terence, dobbiamo parlare".

Lui deglutì vistosamente. Candy vide il suo pomo d'Adamo andare giù e poi su un paio di volte: "Candy...".

"No, ti prego, non mi interrompere o rischio di non arrivare fino in fondo", lo pregò abbassando lo sguardo.

Lui le prese delicatamente il vassoio dalle mani e lo posò sul comodino: "Ti ascolto, Candy".

Quelle parole segnarono l'inizio di un'agonia infinita per lei. Ogni dubbio era stato spazzato via, in quel bacio disperato aveva già dato il suo personale addio a Terence e, se prima aveva potuto temporeggiare per via della debolezza fisica, la resa dei conti era arrivata.

Se avesse potuto sprofondare l'avrebbe fatto.

"Terence", cominciò con voce tremante, "io sono venuta qui perché avevo bisogno di chiarire i miei sentimenti. Per questo ho lasciato che mi baciassi. Ti chiedo perdono per questo...".

"Aspetta, aspetta, aspetta", la interruppe lui facendo gesti concitati con la mano e mettendosi l'altra sulla fronte, con gli occhi chiusi come per non vederla, "che vuol dire che volevi chiarire i tuoi sentimenti? Non vorrai dirmi che in tutto questo tempo tu hai smesso... di... di... ".

"Io ti ho amato, Terence", ripeté citando la lettera mai spedita. Evitò di ricordagli che le aveva appena promesso di non interromperla. Ormai ne aveva tutto il diritto. Il loro confronto era iniziato e non si sarebbe tirata indietro. Cercò di evocare il volto sereno e dolce di Albert e ne assorbì la tranquillità, rilassandosi all'istante. Stava lasciando un uomo che la adorava pensando a un altro. 

"Ok, ok", disse Terence camminando per la stanza con aria vistosamente nervosa. "Posso capire che siano passati molti anni e che siano accadute tante cose nel frattempo. Giusto. Ma ti dico una cosa, Candy", sedette sul letto accanto a lei e le prese le mani tra le sue, baciandole amorevolmente. Candy si accorse che tremava. "Io ti farò innamorare di nuovo di me. Ricominciamo da capo, ti corteggerò, se vuoi ti prenderò anche in giro. Scherzeremo e ci divertiremo. E tutto sarà come prima, te lo prometto!".

L'infermiera si accorse con orrore che negli occhi di Terry si accendeva un lampo di follia mentre diceva quelle parole a cui sembrava non credere lui per primo. Ed ebbe paura. Candy era terrorizzata dalla possibilità che Terence impazzisse. Lei aveva cercato di andare avanti con la sua vita, ma lui doveva aver sofferto enormemente mentre tentava di farlo.

"Terence", cominciò col suo tono più dolce.

"Terry! Tu... mi chiami sempre Terry, ricordi?", la interruppe stringendole di più le mani.

Era sicura che non sarebbe diventato pericoloso, ma per un attimo si ritrovò con la gola secca. Doveva trovare le parole giuste: "Terry, va bene", gli concesse, "è stato... è stato bello conoscerti. Separarmi da te mi ha davvero spezzato il cuore quel giorno. Abbiamo vissuto momenti indimenticabili e io li terrò sempre qui, nel mio cuore. Ma... è stata una parentesi. Bellissima, struggente, dolorosa, ma pur sempre una parentesi. Io...".

Il volto di Terence divenne improvvisamente pallido mentre le lasciava finalmente le mani. Tutta l'insana baldanza di poco prima sembrava essere stata spazzata via dalle sue parole, ora pareva gelidamente consapevole della realtà. Terence strinse le labbra in una smorfia di dolore, in apparenza più composto, poi camminò piano verso la finestra. Lo seguì, avvicinandosi alle sue spalle: "Non vuoi... che ci diamo una seconda possibilità, Candy?", chiese con voce soffocata.

Lei cominciò a piangere, continuando a guardargli le spalle, mentre vedeva che Terence stringeva a tal punto le tende che pensò volesse strapparle via. Lo aveva già fatto a pezzi e ora doveva infliggergli il colpo finale. Se avesse potuto, si sarebbe fatta carico del suo dolore pur di non farlo soffrire di più: sì, perché comunque gli voleva bene. Si trattava di un amore diverso, squisitamente fraterno, quello che pensava di nutrire per Albert alla Casa della Magnolia.

Era come se i due sentimenti si fossero rimescolati e bilanciati e ora l'uomo della sua vita non era più Terry.

"Io... io non posso, Terence, mi dispiace". Anche l'abbraccio fu alla rovescia. Adesso era lei a circondargli la vita con le braccia, mentre si dicevano addio. Perlomeno non erano su una scala, perché temeva che le gambe non le avrebbero retto.

Lui si girò, mostrandole di nuovo gli occhi di quel blu intenso: erano lucidi, una lacrima scendeva lenta lungo la guancia e Candy vi lesse rassegnazione e dolore, "C'è un altro, non è vero? Ti sei innamorata di un altro uomo?", le chiese tremante, posandole le mani sulle spalle.

Lo aveva capito da solo.

Candy lo fissò negli occhi, quegli occhi tempestosi e affascinanti così diversi da quelli limpidi e sereni di Albert. Quegli occhi che una volta aveva amato davvero. Fu sollevata nel non leggervi più quel lampo di follia che l'aveva spaventata poco prima, forse sciolto in quella singola lacrima, ma ora doveva rispondere alla sua domanda: "Sì, Terence, lui...".

Non poté terminare, perché le grida in strada distolsero completamente la loro attenzione: sembrava esploso il finimondo.

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Capitolo 8
*** Fiamme ***


L’amore è un fuoco. Ma non saprai mai se scalderà il tuo cuore o brucerà la tua casa.
(Joan Crawford)
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Quando Candy si ritrovò davanti all'edificio in fiamme, in mezzo alla gente urlante che correva ovunque con secchi d'acqua improvvisati, cadde in ginocchio in preda a un violento tremore.

"Candy, stai bene?", le fu subito accanto Terence. A quanto pareva le parti si erano invertite: Candy era sconvolta e lui tentava di rincuorarla.

Si girò verso la sua faccia stravolta e disse: "Quello... è l'albergo dove sarei dovuta trovarmi io. Ho lasciato la mia camera a una signora con il suo bambino", rispose cominciando a piangere.

Stupore e orrore si disegnarono sul suo volto, mentre Terence prendeva coscienza di quello che significavano le sue parole. Candy era sfuggita alla morte per un soffio e, a soffocare o a bruciare al posto suo, ora c'erano due vite innocenti. Vite che si aggiungevano alle altre in pericolo in quel momento.

Candy vide alcune persone uscire tossendo, sorrette dai passanti e capì che non poteva stare con le mani in mano. Era un'infermiera e non si era mai tirata indietro di fronte a chi aveva bisogno di aiuto. Si divincolò dall'abbraccio di Terry e corse verso l'albergo per dare una mano.

"No, Candy! Dove vai?", le gridò dietro lui.

Da quel momento in poi la realtà le parve una sorta di incubo confuso: dopo la fatica del viaggio, i sentimenti contrastanti che le attanagliavano le viscere e il dolore immenso che aveva provocato involontariamente in Terence, l'adrenalina la galvanizzò e lei si mise a correre per controllare i feriti, dare supporto a chi si era preso solo uno spavento e per poco non entrò dentro ad aiutare.

"No, signorina, si fermi! Ci sono già i miei uomini e i pompieri stanno per arrivare!". Sporco di fuliggine, con i vestiti strappati e il fiato corto per aver aiutato a sua volta, con quella divisa doveva essere il direttore.

"Al terzo piano ci sono una donna con un bambino, li avete visti?", chiese concitata.

Sul volto dell'uomo lesse l'orrore: "Oh, signorina, pare che l'incendio sia partito proprio da una delle stanze di quel piano. Le scale sono completamente distrutte e io non credo che...".

Candy lottò per non perdere i sensi e cercò di controllare il respiro mentre il cuore le scoppiava nel petto: "Oh mio Dio", riuscì solo ad articolare, mentre le lacrime cominciavano a scendere.

Doveva esserci lei al loro posto. Un gesto di altruismo aveva condannato quella signora e suo figlio.

"Infermiera, infermiera! Lei è un'infermiera, vero?". Un uomo la stava chiamando e sorreggeva una donna vistosamente incinta. "Può dare un'occhiata a mia moglie, per favore, mentre attendiamo il medico? Ha respirato molto fumo!".

Candy si fece forza, si asciugò gli occhi con il braccio e fece sedere la donna su una delle sedie che erano state portate fuori. "Stia tranquilla. Non ho uno stetoscopio con me, ma non mi sembra che i suoni respiratori siano anomali. Cerchi di respirare con calma e si rilassi, il medico sarà qui a momenti. Di quanti mesi è?".

"Sono... sono entrata nell'ottavo mese. Pensa che il mio bambino starà bene? Siamo in viaggio per affari e mio marito non voleva che mi affaticassi, ma mi sentivo bene e così... Oddio, forse non avrei mai dovuto seguirlo!", la poveretta si portò le mani al volto e si mise a piangere.

Candy ritrovò la sua freddezza, mentre cercava di consolarla: "Stia tranquilla, sono certa che andrà tutto bene".

Fu in quell'istante che si rese conto che Terry era scomparso.

Con le gambe pesanti, si allontanò cauta dalla donna e prese a guardarsi intorno freneticamente. Non lo vedeva da nessuna parte. Ripensò a quella luce così vicina alla follia nei suoi occhi, alle sue lacrime e alla sua disperazione e lo sguardo andò automaticamente a quelle fiamme.

Ripensò a Susanna, che aveva cercato la morte in una gelida serata d'inverno. E vide Terry bruciare nell'incendio dell'albergo che aveva prenotato per venire a dirgli addio.
Gridò il suo nome con tutte le sue forze, accasciandosi a terra.   
- §-
 
Albert lasciò cadere il bicchiere che teneva in mano, sussultando di sorpresa all'entrata della zia Elroy. Era talmente preso dai suoi pensieri che era trasalito solo per il rumore della porta.

"William", lo apostrofò quando l'eco dei vetri che si erano infranti sul pavimento si spense, "da quando in qua bevi whisky?".

Già, da quando in qua, si chiese l'uomo osservando il disastro che aveva appena combinato. Da quando Candy gli aveva detto che forse non amava più Terence, ma intanto era corsa a New York per sicurezza. Da quando la sua vita era in bilico tra la felicità e la più cupa solitudine. Da quando...

"William, ti senti bene?", insistette la donna avvicinandosi.

"Sì, zia, scusami. Ho avuto una giornata molto faticosa e il rumore improvviso mi ha spaventato. Questo distillato di mio padre stava facendo polvere giù in cantina da anni. Ti piacerebbe assaggiarlo?", chiese alla vecchia zia facendole l'occhiolino, tentando di ritrovare la calma.

"Ma William!", ripeté per la terza volta, urtandogli i nervi come non aveva mai fatto.

La realtà era che quella sera era teso come una corda di violino, inutile negarlo. Stava conoscendo un nuovo se stesso: l'Albert innamorato e timoroso di perdere la donna della sua vita e quello che, incapace di dormire, si versava un drink pur di trovare un minimo di riposo.

D'altronde, non potendo scappare in mezzo alla natura selvaggia e ai suoi amati animali, che opzione gli rimaneva?

Si chinò per raccogliere i vetri e asciugare il disastro appena combinato quando sua zia lo chiamò per nome, con lo stesso tono imperativo, per la quarta volta: "Ti prego, zia, ho vissuto in giro per il mondo da solo per anni, posso anche pulire io", rispose al richiamo tentando di essere conciliante.

Gli era bastato ascoltare l'ennesima nota indignata che sottolineava il proprio nome per capire che lo rimproverava di mettersi a pulire personalmente invece di chiamare la servitù.

"Qui non sei in giro per il mondo, ma in casa tua! E come capostipite degli Ardlay devi tenere un comportamento consono", lo ammonì.

In quel momento, scombussolato com'era, Albert provò il desiderio di contrattaccare la zia Elroy e forse lo avrebbe fatto anche in tempi normali: d'altronde, era tornato per assumersi le sue responsabilità, cos'altro pretendeva da lui?

"Sai che quando ho perso la memoria e vivevo con Candy l'aiutavo a cucinare, fare le pulizie e lavare i piatti?", disse in tono discorsivo, gettando i vetri e predisponendosi ad asciugare il pavimento. Aveva volutamente omesso di scendere nel dettaglio e dirle che in realtà la maggior parte di quei compiti li svolgeva da solo mentre lei era al lavoro.

La donna cominciò ad agitare il suo ventaglio e a camminare nervosamente per la stanza: "Hai rischiato di rimanere ucciso per questa tua fissazione di viaggiare, e poi... tu e quella... quell'orfana soli, in una casa. Che indecenza, il capostipite della mia famiglia che si abbassa a fare la sguattera!".

Se inizialmente Albert era rimasto estremamente urtato da come la zia Elroy aveva chiamato Candy, quel paragone tra lui e una sguattera lo fece scoppiare a ridere di cuore: "Oh, dovevi vedermi! Certi giorni indossavo anche il grembiule!", aggiunse senza smettere di ridere.

"William!", ansimò la donna per la quinta volta.

"E comunque preferirei essere semplicemente Albert, avere pochi spiccioli in tasca e togliermi dalle spalle tutto questo", sbottò passando dal riso alla frustrazione nel giro di pochi secondi. Probabilmente era stato l'effetto di quel richiamo che ormai non tollerava più.

Vide la zia Elroy impallidire e, stavolta, tacere. Incapace di sostenere il suo sguardo, colto da una punta di senso di colpa verso la vecchia zia, si diresse alla finestra per guardare fuori.

Albert non sapeva se erano stati quei pochi sorsi di whisky, l'agitazione interiore o la visita di sua zia a farlo diventare così ribelle quella sera. Dentro di sé, stava cominciando ad attuare un cambiamento di registro che avrebbe dovuto portare all'accettazione di Candy quando avesse chiesto la sua mano.

Semmai lei lo avesse accettato.

Ancora una volta, il suo cuore era corso molto più avanti della ragione, mostrandogli un futuro che non sapeva se sarebbe mai arrivato.

"Non dire queste cose, per favore. Se non per rispetto a me, almeno per rispetto al tuo povero padre. Che ti piaccia o no, questa è la tua famiglia e tu devi tenere le redini salde come ha fatto lui. Ero venuta a comunicarti che domani i membri del Consiglio vengono a farci visita per un tea party e ovviamente dovrai presenziare. Questo è tutto. Buonanotte, William".

"Buonanotte, zia Elroy", rispose col tono più tranquillo che gli uscì.

Quando udì la porta chiudersi dietro di sé, mormorò: "Buonanotte, mia dolce Candy".

Invano tentò di scacciare le immagini di lei e Terry soli, a New York e già sapeva che il giorno dopo non avrebbe resistito alla tentazione di chiedere a George di portargli informazioni su di lei nella maniera più discreta possibile.
- §-
 
Abbrustolito dal fuoco e dal furore, ed incrostato di sangue raggrumato, gli occhi accesi come carbonchi, l'infernale Pirro il vecchio Priamo cerca.. Dubita che le stelle siano fuoco, dubita che il sole si muova, dubita che la Verità sia mentitrice, ma non dubitare mai del mio amore.

Le parole dell'Amleto che citavano il fuoco gli risuonarono in testa come fossero un'ovvietà inconfutabile, mentre procedeva a tentoni verso le scale.

D'altronde, sentiva bruciare il fuoco sulla propria pelle mentre, come una creatura dell'inferno, cercava di trovare il proprio Paradiso: lo cercava in Candy, dove non l'avrebbe mai trovato e sarebbe stato dannato in eterno. E lo cercava nella salvezza delle anime innocenti che, forse come omaggio estremo alla donna che amava, voleva consegnarle quale pegno di redenzione.

Redenzione da cosa? Dall'errore più miserabile che avesse fatto in vita sua? Quella notte, in cui aveva deciso di rimanere accanto a Susanna, aveva stretto un patto col Diavolo in persona e ora era condannato per sempre.

E per sempre avrebbe amato Candy, senza ombra di dubbio.

Se i pompieri che si erano arrampicati fino a un certo punto su quelle scale semi distrutte avevano desistito quasi subito, lui sarebbe andato avanti anche se il fumo gli penetrava in gola come una cosa densa e appiccicosa, che lo faceva tossire e gli faceva venire voglia di vomitare.

Ancora qualche passo e il calore fu talmente intenso che Terence poteva sentire la camicia che indossava cominciare a sciogliersi sulle braccia.

Ovviamente non era solo per Candy che lo stava facendo: non poteva accettare che un bambino e la sua giovane madre morissero. E non solo per un mero sentimento di umanità, ma anche perché in qualche modo era come rivivere la separazione da sua madre. Perlomeno, se fossero morti insieme, loro sarebbero stati uniti in eterno.
Si sentiva estremamente coinvolto in quella missione, insomma, per più di una ragione.

Non ultima, che se fosse morto cercando di salvare qualcun altro, non sarebbe stato un vero suicidio.

Mentre si apprestava letteralmente a gettarsi nel fuoco, una delle scale sprofondò sotto i suoi piedi e Terry cominciò a precipitare.

Morire, dormire… nient'altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
- §-
 
"Vi prego, tiratelo fuori da lì, vi supplico!", gridò Candy aggrappandosi a uno dei pompieri. Se Terence fosse morto per colpa sua, non se lo sarebbe mai perdonato.
"Signorina, ci sono decine di persone da salvare. Ma le prometto che cercheremo il suo amico", disse l'uomo trafelato, cercando di tranquillizzarla.

Candy fece qualche passo indietro, osservando orripilata la struttura dell'albergo cominciare a deformarsi mentre le fiamme l'avvolgevano, nonostante i getti d'acqua rivolti in tutte le direzioni. Non capiva come uno spettacolo così disastroso potesse essere anche affascinante: le lingue di fuoco danzavano davanti ai suoi occhi in un moto ipnotico.

"Terry", mormorò come in preghiera.

E finalmente lo vide. Zoppicava e si teneva una spalla, ma era vivo. Senza pensare, gli si gettò fra le braccia piangendo: "Oh, Terence, che paura che mi hai fatto prendere! Perché sei sparito così? Pensavo che fossi morto!".

"Mi dispiace, Candy, ho cercato di arrivare al terzo piano, ma lassù è un inferno e le scale sono distrutte dal fuoco. Temo... temo che non ci sia nulla da fare", rispose lui con voce rotta.

Disperata per quell'epilogo, eppure grata al destino per non aver lasciato che Terry morisse, pianse tutte le sue lacrime abbracciata a lui, desiderando solo di non essere mai partita.
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Terence aprì la porta con movimenti lenti, lasciò entrare Candy e la richiuse meccanicamente. Si sentiva le membra e la mente intorpiditi dalle emozioni violente che aveva appena vissuto, le orecchie gli fischiavano per le urla.

La sua mente vorticava in un ronzio continuo: prima l'attesa, poi finalmente l'arrivo di Candy. Quindi, quelle sue parole così lapidarie e infine... quell'incendio assurdo nel quale aveva appena cercato la morte. Era stato come salire su delle montagne russe particolarmente ripide e passare dal toccare il Cielo a vedersi spalancare le porte dell'Inferno.

Si era aggrappato all'abbraccio di Candy pur sapendo che il suo erano soltanto il sollievo di averlo visto uscire vivo da quell'edificio e il dolore per quelle persone ad averla guidata. Aveva cercato di imprimersi nella mente e nel cuore ogni centimetro del suo corpo tremante, perché era certo che non l'avrebbe mai più sentito così vicino al proprio.

Mai più.

Si guardarono per un istante sospeso che sembrò un'eternità.

"Io", dissero nello stesso momento.

Terence vide il volto pallido e segnato di Candy e si rese conto che era sfinita: "Vai a dormire in camera mia, io starò sul divano".

"No! Dormirò io sul divano, non voglio che tu rinunci alla tua stanza per me", protestò, senza sapere che lui avrebbe rinunciato a ben altro per lei.

"No, Candy. Va bene così, voglio che riposi stanotte. Sei stravolta", le intimò carezzandole leggermente una guancia e rabbrividendo al tocco.

Alla fine lei si arrese e Terence le augurò la buonanotte, mettendosi alla finestra per guardare fuori. Le grida erano cessate, regnava un silenzio di tomba in quella notte terribile. Per un momento ebbe un brivido quando pensò a quello che stava per fare: pensava di aver toccato il fondo a Rockstown ma evidentemente non era così. Là fuori c'erano persone che erano morte in un incendio e tra loro c'era almeno un bambino. E lui, un attore affermato con una carriera stabile, aveva cercato di porre fine alla propria volontariamente. Questa consapevolezza lo turbò: per quanto la sua vita fosse nulla senza Candy, non poteva accettare di cadere così in basso.

Ancora una volta, avrebbe dovuto rialzarsi. Ancora una volta, sarebbe dovuto andare avanti senza di lei. Ma prima aveva bisogno di sapere la verità.  
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... e come dice la somma PCR de Andrew, "i vostri commenti sono il mio stipendio!".

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Capitolo 9
*** Il confronto e l'addio ***


Michael Wilson alzò la testa, confuso: "Scusi? Può ripetere?".

L'uomo era vestito da poliziotto e aveva in mano un taccuino: "Le ho chiesto se per caso ha ancora il registro degli ospiti".

Il direttore dello York Hill guardò i pochi oggetti che aveva salvato dall'incendio del suo albergo e si disse che avrebbe dato quelli e metà della sua vita pur di aver impedito che delle persone innocenti morissero.

"Sì, eccolo qui. Volete identificare i corpi?", chiese.

Il poliziotto davanti a lui lo fissò con uno sguardo gelido che gli mise i brividi: "Non ci sono corpi da identificare. Tutti coloro che occupavano il terzo piano sono... beh, non voglio entrare nei particolari con lei, signor Wilson, ma abbiamo bisogno che lei ci indichi i nomi di chi occupava quelle camere così che possiamo avvisare subito le famiglie".

Wilson deglutì a secco e annuì. Quanto dolore avrebbe portato quel dannato incendio!

"Si sa cosa abbia provocato il fuoco?", chiese senza più forze.

"I nostri uomini stanno lavorando ma i danni sono stati così ingenti che difficilmente risaliremo alle cause precise. Per ora, l'ipotesi più credibile è che tutto sia partito dal tizzone ardente di un caminetto finito su un tappeto".

Il direttore si voltò a guardare i resti fumanti nell'oscurità quasi totale di quella notte maledetta. Probabilmente l'assicurazione avrebbe pagato i danni ma non avrebbe avuto mai il coraggio di ristrutturare quel posto che era costato vite umane. Forse sarebbe semplicemente emigrato altrove, visto che era solo e senza figli. Magari in Inghilterra, per cercare di lasciarsi alle spalle quei terribili momenti.

"Signor Wilson?".

"Sì, mi scusi", alzò di nuovo lo sguardo sul poliziotto che ora gli stava tendendo una mano.

"Lei è stato molto coraggioso a cercare di salvare quelle persone. Ha fatto tutto quello che poteva".

Il poveretto era sull'orlo delle lacrime: quelle parole gli fecero bene e diedero un po' di sollievo al suo cuore tormentato. Si prese la testa fra le mani: "Io... ho cercato di fare di tutto perché ogni stanza fosse a norma, l'hotel è molto piccolo e controllavo sempre che...".

Mentre la frase si spezzava, come la sua voce, l'uomo gli mise una mano sulla spalla, confortante: "Non deve rimproverarsi, se l'incendio non è stato doloso si è trattato di certo di un incidente. Come le ho detto, tutti abbiamo notato lo sforzo che ha fatto".

Wilson tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso, prendendo in mano il registro. Lo porse al poliziotto e, finalmente, accettò di stringergli la mano.

Con quel gesto, stava cercando di iniziare a perdonare se stesso per un errore che non aveva mai commesso.
 
- §-
 
"Candy?", la voce di Terry la fece sussultare. Aveva quasi finito di fare la valigia e si sentiva abbastanza riposata, anche se quella notte aveva avuto diversi incubi.

"Volevo... prendere un treno entro l'ora di pranzo", si giustificò.

"Stavi di nuovo scappando?". Nella voce di Terence non c'era rabbia, ma una profonda rassegnazione. E tanta tristezza.

Candy respirò a fondo: "Terence, ieri non abbiamo avuto modo di parlare. E se sono venuta qui non era solo per accertarmi dei miei sentimenti, ma anche per darti delle spiegazioni".

Lui si limitò a fissarla, come se non avesse le energie per farle domande. Invece, glielo chiese senza preavviso: "Chi è?".

"Quando... quando ci siamo lasciati io ho cercato davvero di andare avanti con la mia vita. Certo, ti pensavo costantemente e il ricordo di te mi ha fatto male a lungo. Poi, quando ti ho visto a Rockstown...", tergiversò.

"Aspetta, allora eri veramente tu!". Il suo viso si ravvivò.

Lei annuì: "Sì, Terry, ero io. Non potevo lasciare che rovinassi la tua carriera con le tue stesse mani. Me ne sono andata solo quando mi sono resa conto che avevi intenzione di ricominciare".

"Tu... eri venuta per me, quindi", le chiese con un'enfasi che le fece male. Non poteva mentirgli, non arrivata a quel punto.

"No, stavo cercando Albert. Trovarti lì... beh, è stato un caso", ammise in un soffio.

Terence aggrottò le sopracciglia: "Albert?".

"Sì, era il periodo in cui aveva perso la memoria. A un certo punto è sparito e in seguito ho capito perché... Ma io non volevo che vagasse da solo, volevo ritrovarlo a ogni costo: è stato lui stesso a mettermi sulle tue tracce. Mi è stato così vicino quando sono stata male per te, non so come avrei fatto senza di lui". Solo ora che lo diceva Candy si stava rendendo conto di quanto grandi fossero i suoi sentimenti già allora.

"Oh, mio Dio, allora è lui! Candy, tu ti sei innamorata di Albert!" La sua era un'affermazione. Aveva capito tutto, anche se glielo aveva confessato in maniera indiretta.
Candy lo guardò con le lacrime che cominciavano a formarsi negli occhi.

"Era tuo amico, ed era anche mio amico!", gridò fuori controllo, facendola ritrarre istintivamente. Dopo qualche istante si riavviò i capelli sulla fronte, chiuse gli occhi e le domandò con voce tremante: "Da quanto tempo... quando hai capito che...".

Candy scosse la testa: "Non lo so, direi che è stata una cosa graduale. Abbiamo vissuto insieme per molto e... ma, Terence, ora che importanza può avere? Ci siamo lasciati anni fa, era già finita".

"No, è qui che ti sbagli!", replicò lui con veemenza. "Io non ho smesso un minuto di amarti e non l'avrei fatto neanche se Susanna fosse vissuta altri cento anni!".

Deglutì e chiuse gli occhi, colpita dalle sue parole: "È la prima volta che lo dici".

"Cosa?"

"Che mi ami". Lei gli aveva detto 'ti ho amato', che era ben diverso. Eppure le fece un certo effetto sentire quelle parole che, alla fine, nessuno le aveva mai riservato in tutta la sua vita.

Terence scosse la testa: "Mi dispiace, forse se te lo avessi detto prima, più chiaramente...", la guardò, l'espressione era quella di un uomo ben poco convinto di ciò che stava affermando.

Candy sedette sul letto, portandosi le mani al viso e Terence si sistemò di fronte a lei. Le prese gentilmente i polsi e poggiò la fronte contro la sua, mentre i suoi occhi s'inumidivano. Rimasero un po' così, mentre Terry le accarezzava leggermente le mani. Non tentò di baciarla, né di abbracciarla, ma gli concesse quella vicinanza perché non le dava fastidio.   

"Terence", riprese Candy cercando di controllare la sua voce, "io ti ho amato per molto tempo dopo che me ne sono andata, ma sapevo che per noi non c'era futuro. Poi è successo qualcosa e mi sono semplicemente resa conto, molto lentamente, che i miei sentimenti stavano cambiando. Ora ti voglio ancora molto bene, ma come a un carissimo amico, come a un fratello...".

"Una volta questi erano i sentimenti che nutrivi per Albert, o sbaglio?", riprese lui con voce dura, staccandosi da quel contatto.

Era la stessa cosa che aveva pensato lei.

"Terry, sarebbe potuto succedere anche se non mi fossi innamorata di nuovo!". Oddio, l'aveva detto anche lei! Aveva appena ammesso ad alta voce di amare Albert!

"Ma è successo! Cosa è accaduto mentre vivevate insieme, eh? Io non ero neanche geloso, mi fidavo di lui!".

"Terence!".

"È stato lui a ritornare da te?! O sei stata tu, alla fine a trovarlo?".

"Terence...".

"Voglio saperlo, Candy!", tuonò lui prendendola per le spalle.

"Lui è mio zio William!", confessò improvvisamente, prima di poterselo impedire, intimorita dalla sua furia. 

"Cosa?", ribatté lui, ora con un filo di voce. "Che storia è questa?".

Candy annuì e gli raccontò brevemente la storia di Neal e l'incontro con il suo prozio grazie a George. Vide la mascella di Terence contrarsi mentre gli diceva del trucco che Neal aveva usato per attirarla in quel luogo isolato. Gli parlò del fidanzamento saltato e di quella rivelazione incredibile sull'identità di colui che credeva un vecchio signore.
"Non l'hai letto sui giornali? Ha fatto una presentazione ufficiale", non poté impedirsi di chiedergli.

"Non leggo i giornali", ribatté, asciutto. Poi riprese il discorso: "Se avessi saputo che Susanna non sarebbe sopravvissuta a lungo, non ti avrei mai lasciata andare via", mormorò.

"Non dire così, l'hai resa felice fino al suo ultimo giorno", gli disse Candy.

"Ma tu mi hai dimenticato! Ti sei innamorata di... del tuo migliore amico, del tuo prozio, del tuo padre adottivo, non so più neanche io come chiamarlo! So solo che vorrei prenderlo volentieri a pugni, adesso". Si alzò, camminando nervosamente per la stanza mentre parlava.

Candy sospirò: avrebbe voluto aggiungere "del mio principe della collina", ma non osò confessargli quel suo piccolo segreto. Gli avrebbe fatto solo più male. "Terence, nessuno dei due sapeva cosa provasse l'altro e comunque non è questo il punto. Il destino ha voluto che tu restassi con Susanna e io...".

"Tu l'hai voluto!", gridò Terence.

"Lo volevi quanto me ma non avevi il coraggio di fare la cosa giusta!", ribatté lei ricordando il suo sguardo eloquente sul tetto dell'ospedale, mentre prendeva in braccio una sconvolta Susanna che lei aveva appena salvato dal suicidio.

"Se avessi...".

Candy si alzò e in due passi gli fu accanto. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma preferì mantenere le distanze: "Ora basta, Terry. Non è con i 'se avessi' che cambieremo le cose. Il passato è passato e non si può modificare. Smetti di tormentarti con quello che sarebbe potuto essere. Hai la tua carriera, hai ritrovato tua madre, hai un futuro luminoso davanti a te se solo...".

"Il mio futuro non è niente senza di te", proruppe Terence con voce rotta, distogliendo lo sguardo.

Rimasero in silenzio per qualche istante, Candy si asciugò le lacrime che stavano già formandosi nei suoi occhi, mentre vedeva Terry lottare per ricacciare indietro le sue: non voleva farlo soffrire, non voleva lasciarlo così, ma non poteva rimandare la sua partenza o sarebbe stato peggio.

"Terence, devo andare".

"Te ne vai di nuovo da me?", la sua era una domanda evidentemente retorica. Una lacrima gli scese sulla guancia e le sue labbra tremavano.

"Non farmi stare in pena per te, Terry, ti prego!". Si sentiva spezzata in due, voleva abbracciarlo e consolarlo, ma non osò.

"Non voglio la tua pietà, Candy. Volevo solo il tuo amore", rispose dandole le spalle.

"Io ti voglio bene!", quasi gli gridò, mentre singhiozzava.

"E io ti amo!", ribatté lui con lo stesso tono, girandosi nuovamente a guardarla.

Candy si sentiva morire. Quell'incontro era andato peggio di quel che credesse. Terence doveva essersi cullato a lungo nel suo sogno d'amore e lei lo aveva distrutto in meno di un giorno: poteva capire come si sentisse.

Terry sedette sul letto, portandosi le mani al viso. Respirava pesantemente mentre si passava le mani tra i capelli e si asciugava il viso con un braccio. Lei lo lasciò ricomporsi senza dire altro: d'altronde non sapeva cosa aggiungere. Quel "ti amo" era giunto tragicamente in ritardo.

"Posso accompagnarti alla stazione?", disse Terence improvvisamente, con voce più composta.

"Ma... Terry, sei sicuro...?", Candy non sapeva se fosse una buona idea.

Lui alzò su di lei i suoi occhi scuri e la fissò con sguardo fermo: "Ti prego, è l'ultima cosa che ti chiedo. Mi sono comportato come un ragazzino geloso, lascia che ci rimanga un ricordo... meno doloroso di questo addio".

Candy annuì, scorgendo il nudo bisogno in quegli occhi che tanto aveva amato. Il viaggio verso la stazione fu silenzioso e Terence pareva finalmente padrone di se stesso, ma a Candy non piacque il gelo che si era creato tra loro.

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Capitolo 10
*** Notizie ***


Albert cadde a sedere pesantemente quando George gli riferì quello che aveva scoperto. Aveva temuto di venire a sapere che Candy e Terence erano stati visti insieme, che la prenotazione di lei in albergo fosse stata prorogata... Non era pronto a scoprire che l'hotel dove alloggiava aveva preso fuoco.

Aveva le mani gelide, che gli tremavano leggermente: quella notizia lo aveva scosso nel profondo, così improvvisa e inaspettata.

"Non avevano", dovette schiarirsi la voce, "non avevano un registro con gli ospiti presenti in quel momento?", chiese a un George teso come una corda di violino.

"Mi hanno riferito che stanotte hanno provveduto a identificare i sopravvissuti con l'aiuto del direttore e sono già stati inviati i primi telegrammi alle famiglie delle vittime", spiegò con un tono pieno di terrore che Albert non gli aveva mai sentito.

Quando alzò gli occhi su di lui, vide che si tormentava le mani.

"Ma noi non abbiamo ancora ricevuto nulla, quindi non sappiamo se lei...". Si era alzato, camminando in tondo, cominciando a fare lo stesso gesto di George per calmare il tremore che l'affliggeva.

Si volse a guardarlo, come cercando nei suoi occhi qualche informazione in più. Improvvisamente capì che c'era dell'altro e che il buon uomo non aveva il coraggio di dirlo: "George, per l'amor di Dio, dimmi che altro c'è!", lo incalzò con tono urgente.

"Ecco...". Senza smettere di tormentarsi le dita, George abbassò gli occhi come cercando le parole: "Mi hanno detto che ci sono molti feriti in ospedale, con ustioni più o meno gravi. Per quanto concerne le vittime però... non sono identificabili se non attraverso il registro".

Albert sentì distintamente il sangue defluirgli dal viso. Dovette sedersi di nuovo: "Vuol dire che non ne è rimasto niente?", chiese con un tono di voce più controllato di quanto sospettasse.

"Esattamente, signore", ammise George.

Doveva controllare la respirazione, tornare di nuovo padrone di se stesso. Candy non poteva essere morta. Il suo corpo non era tra quelli carbonizzati e lui non avrebbe ricevuto quel telegramma così temuto. O forse sì, poteva anche essere ferita e avrebbero avvisato il suo tutore legale. Forse con lei c'era Terry.

L'idea lo illuminò all'improvviso: "Mettiti in contatto con Terence Graham! Avrà un telefono nel suo appartamento? Scopri dove vive, chiamalo!", disse concitato.

Vide distintamente lo sguardo del suo braccio destro diventare di nuovo nitido: probabilmente, colpito dalla notizia, non ci aveva neanche pensato: "Corro!".

E lo fece davvero, volò letteralmente fuori dalla stanza, come non lo aveva mai visto fare.  

Rimasto solo nel suo studio di Chicago, Albert cominciò a pregare in silenzio.
 
- §-
 
"Commissario Johnson, c'è il receptionist dello York Hill che chiede urgentemente di lei". L'uomo alzò gli occhi dal registro, dal quale aveva recuperato i nomi di tutti gli occupanti del terzo piano ore prima. I telegrammi erano già partiti e rifletté che ormai i familiari delle vittime e dei feriti dovevano essere al corrente dell'evento.

"Ha qualche elemento in più rispetto all'accaduto?" Eppure il personale dell'albergo era stato interrogato brevemente la notte prima, anche se era in programma che avrebbero ascoltato e registrato le deposizioni di tutti durante quella giornata.

"Credo proprio di sì, commissario. Pare che potrebbe esserci un errore nel registro", ribatté il poliziotto indicandolo.

Si ritrovò a ricordare che poco prima aveva ricevuto una strana telefonata da un uomo che chiedeva notizie su una delle clienti dell'hotel, ma non conoscendo con certezza la sua identità anche se si era presentato e temendo che potesse trattarsi di un giornalista in cerca di scoop, aveva evitato di dargli a voce una notizia sconvolgente.

Sperava che quella telefonata e l'errore non fossero in qualche modo collegati.

Johnson aggrottò le sopracciglia: "Fallo passare", disse incuriosito.

L'uomo era abbastanza giovane, non doveva avere più di trent'anni. Gli occhi apparivano cerchiati come se non avesse chiuso occhio e il commissario poteva capire perché: "Si sieda, la prego. Vuole che registriamo la sua deposizione, già che è qui?".

"Certo, come vuole", rispose l'uomo con una certa urgenza nella voce, "ma prima mi dica una cosa: è vero che avete già inviato i telegrammi ai parenti delle vittime?".

"Sì, certo, ci sembrava corretto fare del nostro meglio e...".

"Oh, Dio del Cielo!", commentò il tipo davanti a lui cui, nella fretta, non aveva neanche chiesto il nome.

"Ora si calmi, mi dica come si chiama e cosa è successo".

"Mi chiamo David Harris e uno degli ospiti dell'albergo... beh, non era lì al momento dell'incendio".

Il commissario saltò in piedi: "Che cosa? Che vuole dire?!".

David lanciò un'occhiata alla sua scrivania: "Le chiedo scusa, commissario, posso leggere un attimo i nomi degli occupanti del terzo piano? Mi aiuterà a ricordare il cognome".

Con la gola secca e i nervi a fior di pelle, il commissario girò il registro e vide l'uomo scorrere alcuni nomi con un dito tremante: "Ecco, lo sapevo! Non ho avuto modo di avvisare il direttore e abbiamo omesso di cancellarla: la signorina Candice White Ardlay non ha occupato la sua stanza perché è arrivata in ritardo".

Johnson piegò la testa per leggere i nomi della stanza 305: "Vuol dire che non era nella stessa camera con Samantha Moore e suo figlio? Qui ci sono tre nomi!".

Il receptionist sembrò voler incassare l'intera testa nelle spalle, mentre diceva con voce tremante: "Lo so, ma quando non si è presentata dopo ore dalla prenotazione abbiamo pensato che non venisse più. Poi è arrivata la signora con il bambino addormentato in braccio e non ho potuto dirle di no. Ci aveva detto che si sarebbe trattenuta solo per poche ore per far riposare il figlio e quella era l'ultima stanza disponibile, ho pensato che non ci fosse nulla di male, non era la prima volta che un cliente non si presentava".

"E perché a quel punto non avete cancellato il nome della signorina Ardlay?", chiese mentre nella sua mente si stava facendo strada un'orribile verità.

"Pensavamo che alla fine la signora Moore sarebbe andata via e magari nel frattempo sarebbe arrivata la signorina Ardlay, così l'abbiamo semplicemente fatta firmare sotto. Invece, quando finalmente si è presentata la camera era ancora occupata. Mi dispiaceva mandare via quella donna, aveva un bambino e...". L'uomo sembrava sull'orlo delle lacrime.

"Ok, si calmi. Cosa è successo con la signorina Ardlay, non ha rivendicato la sua stanza?".

Harris scosse la testa: "No, ne ha chiesta un'altra e quando le ho detto che l'albergo era pieno sembrava rassegnata. Poi mi sono reso conto che il suo cognome era uno dei più noti e potenti degli Stati Uniti e mi sono affrettato a ritrattare".

Johnson sentì il sangue martellargli nelle tempie: "Una delle famiglie... Ardlay... oh, Signore", invocò a bassa voce realizzando la portata dell'errore. Si costrinse a calmarsi, perché avrebbe volentieri sfogato la sua frustrazione su quel receptionist poco attento.

"La signorina si è arrabbiata molto, diceva che il suo nome non era un buon motivo per disturbare una madre col suo bambino e... e se n'è andata", concluse Harris portandosi le mani al volto.

Il commissario prese a camminare avanti e indietro e alla fine esplose: "E perché diavolo non l'avete cancellata, dunque!".

"Mi hanno... mi hanno chiamato per verificare una prenotazione per il giorno dopo, poco dopo è scoppiato il caos e...". Il poveretto ormai piangeva apertamente e tremava come se si attendesse di essere picchiato.

Johnson batté una mano sul registro, facendolo sussultare ulteriormente. Doveva mantenersi lucido e recuperare il recuperabile. Di certo il telegramma alla famiglia Ardlay era già partito e se veramente la signorina era ancora viva l'avrebbe pagata molto cara per quella disattenzione, anche se non era stata colpa sua: "Sa dov'è andata la signorina dopo?".

"Nossignore", balbettò l'uomo asciugandosi gli occhi.

"E lei è sicuro che non sia mai salita in quella stanza?", chiese.

"Sì".

"E come fa a esserne sicuro se si è allontanato?".

"Perché è rimasto il mio collega a darmi il cambio, e quando sono tornato mi ha confermato che non si era presentato nessun altro".

Respirò profondamente, poi chiamò uno dei suoi sottoposti, dandogli istruzioni di portargli le ricevute dei telegrammi: "Lei resti qui, registreremo la sua deposizione", disse a un ormai distrutto David Harris.

Mentre organizzava le cose per mettersi in contatto con la famiglia Ardlay, cercava disperatamente di ricordarsi il nome dell'uomo che lo aveva chiamato proprio poche ore prima, presentandosi come il segretario di William Albert Ardlay.

Aveva saputo dell'incendio e voleva notizie di una certa Candice, chiamata Candy.
 
- §-
 
Terence aveva ripreso il controllo di se stesso, anche se a fatica. In cuor suo, sapeva che Candy non era più la stessa fin da quando aveva ricevuto da lei quella lettera così fredda. Anzi, a ben pensarci, quel silenzio che l'aveva preceduta era già piuttosto eloquente: Candy non sapeva cosa rispondergli.

Solo adesso permetteva a quelle considerazioni di emergere in tutta la loro, cruda realtà.

Mentre la stazione si materializzava davanti a loro e lui parcheggiava l'auto, le domandò: "Perché hai ricambiato il mio bacio quando sei arrivata, ieri?".

Vide Candy sussultare alle sue prime parole dopo un viaggio passato in silenzio: "Io... io...".

"Volevi provare a te stessa di non amarmi più, non è così?". Leggeva in lei come in un libro aperto, ormai. E quello che capiva gli faceva male.

Lei non rispose, ma guardò in basso, arrossendo.

"Va bene, ho capito. Non fa niente". Si passò una mano nei capelli, come faceva sempre quando era a disagio. Provò l'improvviso desiderio di tagliarli tutti, nell'assurda speranza che anche il suo passato potesse fare la medesima fine: "Ieri notte ho cercato di suicidarmi".

Candy lanciò un piccolo urlo. Aveva una mano davanti alla bocca e lo fissava con gli occhi sgranati. Ancora una volta non disse nulla, gli sembrava paralizzata da quella rivelazione.

"Sono stato un idiota, lo ammetto. Stavano morendo delle persone, non ero riuscito a salvare quella signora col suo bambino che occupava la tua stanza e ti avevo persa. Ora è passata. Non voglio nasconderti nulla, Candy. Né quanto ti amo, né quanto sto male adesso. Ma non mi metterò più a battere i piedi come un bambino immaturo e non ho più intenzione di ripetere un gesto così sconsiderato". Era sincero, il dolore lo aveva accecato momentaneamente e quando si era ripreso era stato a un passo dal supplicarla di rimanere anche se non l'amava.

Ma doveva a se stesso più rispetto, ora lo capiva.

"Candy". Lei stava piangendo e chiedendogli perché. "Mi dispiace, non voglio più che ti preoccupi per me. In realtà... voglio che tu sia felice".

Ancora una volta quella frase. Peccato che lei fosse stata molto brava a trovare la sua felicità, quello che aveva fallito su tutta la linea era lui.

"Terry, non posso lasciarti solo, se so che tu... che tu...".

"Ascoltami", le scostò le mani dal viso e le tenne gentilmente i polsi. Ora toccava a lui essere forte: "È stato l'impulso di un momento, una follia che non ripeterò. Sono devastato, non te lo nascondo, ma non voglio più morire. Non dopo aver toccato con mano quanto è fittizia la vita. Il mese prossimo sarò di scena in giro per l'America e mi hanno persino proposto di recitare in un film con mia madre".

Lei spalancò gli occhi, sembrava stupita e sollevata: "Davvero?".

Terence le sorrise: "Sì e anche se in principio non ero d'accordo a recitare con lei, ora penso che lo farò. Voglio concentrarmi sulla mia carriera, ma tu promettimi una cosa: devi scrivermi. In questo modo ti sentirò più vicina e io ti risponderò".

Lei annuì vigorosamente: "Certo, certo che ti scriverò! Ti racconterò della Casa di Pony e della Clinica Felice e ti farò sapere quando Archie e Annie si sposeranno!".

Terry deglutì, grato che non nominasse altri eventi che includessero Albert. Ma c'era una domanda che gli bruciava sulla lingua e non ebbe il coraggio di fargliela. Mentre arrivavano alla banchina e Candy comprava il biglietto capì che doveva saperlo, per stare in pace con se stesso.

Il treno arrivò e lui s'incollò un sorriso quanto più sincero possibile sulle labbra, mentre continuava a rassicurarla sulle sue intenzioni di andare avanti concentrandosi sulla carriera. L'aiutò a salire sul treno con la valigia: il corridoio era deserto ed era ora di scendere: "Addio Candy", le disse voltandosi immediatamente per non mostrarle gli occhi lucidi.

"Terence!", lo richiamò facendogli fermare il cuore.

Mi dirà che si è sbagliata, che mi ama e che vuole rimanere con me.

Ma non credeva davvero a quei pensieri. Non a una parola.

"Girati, ti prego", gli chiese invece, lasciandolo perplesso.

Lui lo fece e Candy gli volò tra le braccia: "Stavolta voglio salutarti come si deve. Ti voglio bene, Terry", disse piangendo e stringendolo forte.

Stava per ricambiare il suo abbraccio, ma lei si era già allontanata e si stava asciugando gli occhi: "Grazie. Anche io ti... voglio bene, Tarzan Tuttelentiggini", le rispose piegando le labbra in un sorriso.

Anche lei sorrise e lui decise che l'avrebbe ricordata così, almeno finché non l'avesse rivista: e sarebbe accaduto solo quando non avrebbe fatto così male. Non prima.
Fortunatamente si affacciò dal finestrino come si aspettava, così poté farle quella domanda, mentre il treno già cominciava a muoversi.

"Candy! Albert ti ama?".

Lei parve stupita, poi sul suo volto apparve un'espressione che avrebbe pagato oro perché fosse rivolta a lui: "Io... io credo di sì".

"E sa che lo ami?", proseguì affrettando il passo mentre la locomotiva prendeva velocità.

"Io... non ero sicura, non sapevo...". Terence capì.

"Bene, ora lo sai, quindi affrettati a farglielo sapere. Sii felice, Candy!", gridò correndo.

"Anche tu!", furono le ultime parole di lei, portate via dal vento.

Vide il treno allontanarsi e la sua sagoma scomparire del tutto. Era finita. Candy era uscita definitivamente dalla sua vita.

Chiuse gli occhi, mise le mani in tasca e si allontanò senza fretta.

Quella sera avrebbe dovuto esibirsi e in una scena il protagonista sarebbe stato disperato per un amore perduto. Avrebbe regalato al pubblico un'interpretazione quanto mai convincente e lacrime vere.

Pensava che non gli sarebbe bastata l'intera vita per dimenticarla. 
 
- §-
 
George si rigirò tra le mani gelide e tremanti il telegramma che veniva direttamente dal corpo di polizia di Broodway. Era stato tentato di aprirlo, di strapparlo, di cancellarlo come se avesse potuto fare lo stesso con le parole che c'erano all'interno.

Ma sapeva di doverlo dare a William... ad Albert. Quel ragazzino isolato dal mondo che aveva imparato ad amare come un fratellino minore e poi come un figlio.
Il suo cuore sapeva bene che ciò che era scritto in quel telegramma lo avrebbe annientato e odiava il compito che il destino beffardo gli aveva assegnato: ma gli sarebbe stato accanto, lo avrebbe supportato e gli avrebbe dato la forza di continuare.

Come se servisse a qualcosa...

Mentre camminava lungo il corridoio, tormentandosi internamente, cominciò a nascere in lui la speranza che si trattasse di altro. Forse la signorina Candy era solo ferita.

In quel caso non ci avrebbe forse avvertiti l'ospedale stesso?

Oppure avevano cambiato i piani e avevano deciso di avvisare tutti, indifferentemente dalle sorti degli occupanti delle camere.

In quel caso, invece, sarebbero stati i superstiti stessi a chiamare a casa.

Mentre smontava e rimontava ogni ipotesi plausibile, George arrivò alla porta di William, che a quell'ora stava certamente controllando i bilanci. Alzò la mano in un gesto meccanico e si bloccò.

Coraggio.

Gli ci volle veramente tutto il proprio coraggio per bussare e, quando udì la voce serena rispondergli col solito "avanti", gli parve di essere un soldato in procinto di gettare una bomba in una zona di pace.

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Capitolo 11
*** Gelo ***


Il nostro amore non si muove. Testardo come un mulo. Vivo come il desiderio. Crudele come la memoria. Stupido come i rimpianti. Tenero come il ricordo. Freddo come il marmo. Bello come il giorno. Fragile come un bambino.
(Jacques Prevért)


Tutto era gelato, anche il rumore.
(Jules Verne)

 
- § -
- § -
- § -

Inizialmente, Albert non riuscì a guardare il telegramma che George aveva tra le mani. Il suo amico e braccio destro lo teneva tra le dita come fosse un fardello infuocato e lui per un attimo si convinse che gli avrebbe ferito gli occhi.

Quando, un'ora prima, gli aveva confessato che a casa di Terence non rispondeva nessuno, aveva cercato ancora una volta di non perdere la calma, ma ora la lucidità lo stava definitivamente abbandonando.

Prese il telegramma e lo aprì con una frenesia che non gli apparteneva, senza neanche tirare fuori dal cassetto il tagliacarte, usando le dita e le unghie. Un lembo del foglio si strappò, ma solo in cima: le parole erano lì, beffarde, a piantargli un coltello nel cuore a ogni 'stop'.

Morta.

Morta nell'incendio dello York Hill.

Il suo cuore accelerò i battiti e il respiro divenne affannoso, mentre centinaia di puntini neri si affollavano davanti ai suoi occhi. Lui, William Albert Ardlay, capofamiglia e uomo d'affari per dovere ma con lo spirito più libero del vento, stava per perdere i sensi davanti a un telegramma.

Si appoggiò istintivamente al braccio di quel suo tutore che era come un padre per lui e trovò una presa salda e confortevole.

Cercò di articolare qualche parola ma si sentiva come se una corda invisibile lo stesse strozzando: porse a George il telegramma e tentò di ricomporsi, inghiottendo le lacrime. Se fosse crollato ora non si sarebbe più ripreso. Su di lui scese il gelo a ibernare un cuore che rischiava di esplodere in pezzi.

"Signorino William". George aveva la voce rotta e per la terza volta nella sua vita lo vide piangere: la prima era stata quando era morta sua sorella Rosemary; la seconda quando lui era fuggito e aveva trovato Candy sulla collina di Pony, facendolo preoccupare a morte.

A lui non era mai stato permesso un solo attimo di debolezza: ricordava ancora le dure parole dei suoi parenti quando lo avevano visto piangere al funerale della povera sorella. Sei un uomo. Non fare la donnina fragile. Un giorno la guida della famiglia sarà nelle tue mani. Devi essere coraggioso.

Mentre l'uomo accanto a lui scuoteva la testa con gli occhi umidi, lui ritrovò così una voce ferma e stentorea.

"Riunisci la zia Elroy e i membri più stretti della famiglia. Devo avvisarli immediatamente. Poi prepara la macchina, devo... devo andare alla Casa di Pony, voglio incontrare di persona Miss Pony e Suor Lane". A parte quella singola titubanza, nessun'altra emozione traspariva dal suo volto.

George lo fissò per qualche istante, prima di chiedere timidamente se andava tutto bene.

"Sì", rispose asciutto.

Il ghiaccio che aveva eretto come barriera contro il dolore insopportabile durò ancora qualche ora.
 
- § -
 
Candy guardava fuori dal finestrino mentre nel suo cuore si rincorrevano sentimenti contrastanti: aspettativa, emozione, dolore, preoccupazione.

Nella sua vita c'erano due uomini e quel treno rappresentava una sorta di linea di confine tra loro: alle spalle Terence, il suo amore passato e tormentato; davanti a sé Albert, la speranza di una vita radiosa.

Solo qualche anno prima si trovava sullo stesso treno con l'angoscia nel cuore e un dolore che l'aveva persino fatta ammalare. Ora era ben felice della direzione in cui quel mezzo la stava conducendo e si sentì quasi in colpa per questo.

Avrebbe preferito che Terry si fosse innamorato di nuovo, o che soffrisse ancora per Susanna: in quel caso, avrebbe perlomeno potuto consolarlo come amica. Ma il fatto che non avesse mai smesso di amarla rendeva tutto più difficile. Sapeva di dovere a se stessa e a Terence la verità, anche se faceva male, ma avrebbe dato chissà cosa per alleviare il dolore di quel ragazzo che aveva lasciato a New York.

Pregò, in cuor suo, che avesse davvero cancellato in modo definitivo qualunque pensiero malevolo dalla sua testa. Se ne sarebbe accertata personalmente, inviandogli spesso delle lettere, controllando i giornali e magari inviando segretamente George a controllare, anche se si fidava di Terence. Tuttavia, sapeva bene quanto la perdita della persona amata potesse spezzare il cuore e a parte Patty non aveva mai conosciuto nessuno che arrivasse a desiderare di togliersi la vita.

Lei stessa, sia dopo la morte di Anthony che dopo la prima separazione da Terence, pur avendo vissuto i periodi più oscuri della sua esistenza non aveva pensato mai, neanche lontanamente, alla morte. Anzi, come infermiera aveva tentato di colmare il vuoto cercando di rendersi utile agli altri, riempiendolo con azioni che fossero di beneficio per il prossimo.

Chiuse gli occhi, ripensando all'incendio nell'albergo dove avrebbe dovuto alloggiare. Un piccolo hotel a pochi isolati dalla casa di Terry, che aveva scelto per praticità e che aveva rischiato di essere la sua tomba. Pensò alla donna col suo bambino che erano morti al posto suo e a tutti coloro che non ce l'avevano fatta.

Le lacrime le punsero gli occhi: quel dolore non sarebbe mai scomparso, il ricordo di quel giorno probabilmente l'avrebbe accompagnata fino alla fine dei suoi giorni. Proprio come la morte di Anthony e di Stair.

Mentre era così assorta nei suoi pensieri, uno scossone improvviso travolse la carrozza e Candy si ritrovò proiettata in avanti, finendo sul pavimento. Ebbe appena il tempo di vedere persone e bagagli cadere a loro volta intorno a lei, prima di perdere i sensi.
 
- § -
 
 
Elroy Ardlay era sconvolta, e per più di un motivo.

Invece del tea party, suo nipote William aveva indetto una riunione straordinaria con i membri del consiglio e della famiglia che già erano arrivati alla residenza. Era entrato dalla porta con un viso così pallido e tirato che aveva pensato fosse malato.

La sua figura emanava una tensione tale che tutti si erano voltati verso di lui senza dire una parola, preda di uno stupore e di una preoccupazione che potevano tagliarsi con un coltello.

Aveva detto poche parole ed Elroy non aveva quasi riconosciuto la sua voce: era quasi priva di qualsiasi inflessione e rispecchiava una freddezza che non era assolutamente da lui. Molte volte aveva dovuto confrontarsi col suo ribelle nipote, ma altrettante volte lo aveva ascoltato mentre presenziava a riunioni ufficiali. Anche se in misura differente, poteva sempre avvertire chiaramente le note di passione e calore che contraddistinguevano il suo carattere.

Quello che aveva davanti quel giorno, invece, era un fantoccio privo di vita che parlava senza emozioni: "Ho appena ricevuto comunicazione dalla polizia di New York che la mia protetta, Candice White Ardlay, è deceduta a seguito di un incendio nell'albergo in cui alloggiava. Vi prego quindi di scusarmi per oggi e per i giorni a venire, perché sarò molto occupato con l'organizzazione delle esequie, di cui vi darò tempestivo avviso, nonché con la comunicazione del tragico evento ai suoi amici e conoscenti".

L'unico suono che si era sentito era stato quello del grido strozzato di Archibald e della sedia che aveva rovesciato alzandosi. Mentre il brusio dei presenti cominciava a farsi sentire, tra esclamazioni di addolorato stupore, lei aveva visto il nipote più giovane gettarsi su William come se fosse il diretto colpevole dell'accaduto. Gli aveva afferrato la giacca piangendo come un ragazzino, gridando che non poteva essere vero, non poteva essere successo questo proprio alla "loro" Candy.

Aveva distolto lo sguardo, mentre la voce più calda ma sempre molto controllata di William gli parlava di un telegramma che non avrebbe mancato di mostrargli. Ma lo avrebbe fatto al suo ritorno.

"Dove vai?", era finalmente sbottata girandosi per guardarlo.

"Alla Casa di Pony. Devo avvisare quelle povere donne dell'accaduto".

Elroy ci mise un po' a dare la sua risposta caustica, perché gli occhi di William erano così vacui che sembrava morto anche lui: "E non puoi mandar loro un semplice telegramma?".

"No", ribatté con lo stesso tono gelido, "sarebbe un colpo troppo duro. Voglio parlare di persona con loro".

Detto questo, allontanò gentilmente Archibald che stava piangendo come un bambino sul suo petto e se ne andò.

Riportare l'ordine dopo l'accaduto era stato arduo, ma per fortuna i membri più anziani avevano colto il momento delicato e se n'erano andati. Archibald probabilmente si era precipitato dalla sua fidanzata per darle l'amara notizia.

Ora era da sola nella sua stanza e sorseggiava il tè che si era fatta portare per alleviare l'emicrania lancinante che l'aveva colta.

Aveva odiato sinceramente quell'orfana e, nonostante Sarah l'avesse scagionata pubblicamente dai suoi presunti furti e Candice stessa le avesse scritto più di una lettera in passato, non riusciva proprio ad accettarla nella sua famiglia.

Però non poteva dire di non essere rimasta sconvolta da quella terribile notizia e recitò una breve preghiera per l'anima di quella povera ragazza. Alla fine, nessuno sarebbe dovuto morire così giovane, né in quel modo. Ripensò a Rosemary, ad Anthony, a Stair e si chiese se sulla famiglia Ardlay non fosse caduta una maledizione che uccideva le persone a lei più vicine.

Candice non era stata certo la perdita peggiore, ma forse quello era un pensiero troppo crudele, quindi tentò di concentrarsi invece su suo nipote William.

Non si era certo aspettata la reazione esagerata e poco ortodossa di Archibald, ma neanche tanta freddezza. La verità era che quella facciata gelida l'aveva quasi spaventata: poteva essere il preludio a un gesto estremo? No, non era da lui. Oppure indice di una sofferenza che, grazie agli insegnamenti ricevuti fin dalla tenera età, era stato in grado di controllare perfettamente.

La signora Elroy si convinse di questa ultima ipotesi mentre sorbiva con calma il suo tè e il mal di testa cominciava magicamente a sparire.

Eppure, nonostante tutto, il tarlo del dubbio insinuava che William era troppo affezionato a quell'orfana per rimanere indifferente alla sua morte. Sperava solo che non prendesse decisioni inconsulte come scappare un'altra volta in Africa o mettersi di nuovo a fare il vagabondo, perché glielo avrebbe impedito.

A ogni costo.
 
- § -
 
"Signorina, sta bene?", Candy si sentiva stordita mentre apriva gli occhi e udiva il richiamo.

"Cosa... cosa è successo?", chiese mettendosi cautamente a sedere. Le girava un po' la testa ma non credeva di essersi fatta più di un bernoccolo.

"Il treno ha deragliato, abbiamo chiamato i soccorsi per i feriti e allertato gli operai per intervenire sui binari quanto prima, ma probabilmente non potremo ripartire prima di stanotte, forse anche domattina", le spiegò l'uomo che, a giudicare dalla divisa, doveva essere proprio il controllore.

Candy non poteva credere alla sua sfortuna: quel viaggio aveva portato solo dolore e forse, l'unica cosa buona era stata aver potuto parlare con Terence di persona come si era prefissata. Il resto era davvero tutto da cancellare.

Guardando meglio l'uomo, Candy si accorse che aveva un taglio sulla fronte e l'istinto da infermiera prese il sopravvento: "Oh, ma lei è ferito! Io sono infermiera, mi lasci controllare".

Per fortuna, anche lui sembrava essersela cavata con poco: "Non mi sembra profondo, ma dobbiamo disinfettarlo. Ci sono feriti gravi?", chiese sperando non ci fossero morti. Non avrebbe più sopportato la morte di nessuno, quel giorno.

L'uomo scosse la testa: "No, per fortuna, ma alcune di quelle ferite vanno disinfettate, come dice lei. Compresa la sua".

Solo allora Candy si accorse di averne una al braccio destro: probabilmente se l'era causata quando si era portata le braccia alla testa nel tentativo di proteggersi. Era un istinto naturale, come le avevano insegnato al corso da infermiera, era meglio un braccio rotto che una frattura al capo.

Inaspettatamente, mentre pensava a quel principio di sopravvivenza fondamentale che porta le persone a proteggersi la testa con le braccia, le venne in mente Anthony. E poi subito dopo Albert. Il primo era caduto da cavallo di schiena in maniera così repentina da non aver potuto fare nulla per salvarsi. Il secondo era stato sorpreso dall'esplosione di un altro treno e lo spostamento d'aria era stato probabilmente così intenso da fargli perdere la memoria.

Albert era vivo e la stava aspettando, inoltre non era da lei fare pensieri così cupi.

Lei e il controllore si presentarono e il signor Darren la condusse dai feriti consegnandole una cassetta del pronto soccorso: "Prima però si medichi lei stessa, mi raccomando!", le intimò.

Candy gli sorrise e si occupò anche della sua ferita alla fronte.

Ancora una volta, la professione e l'abnegazione verso il prossimo curavano le cicatrici della sua anima e Candy cercò di passare quelle lunghe ore facendo l'infermiera. Cercò di non pensare ad Albert, né al desiderio ardente di dirgli finalmente quello che provava senza più dubbi, né pensieri.
 
- § -
 
George guidava piano, rifacendo la strada al contrario. William gli aveva chiesto di lasciarlo alla Casa di Pony e di occuparsi degli affari, dandogli brevi indicazioni per il funerale di Candy: lui si sarebbe trattenuto lì per riordinare le idee e sarebbe tornato in tempo per le esequie.

Il buon uomo aveva capito perfettamente che aveva bisogno di restare solo e che, quasi sicuramente, non avrebbe dormito all'orfanotrofio ma avrebbe preferito starsene nei boschi circostanti, a contatto con la natura. Era abituato a dormire all'aperto e si era portato la solita sacca da viaggio che per tanti anni l'aveva accompagnato.

All'andata aveva scrutato il suo volto dallo specchietto retrovisore e lo aveva visto con la testa appoggiata a una mano, il gomito sul finestrino. Aveva gli occhi chiusi come se stesse dormendo ma era certo che cercasse solo di dominare il profondo dolore che l'aveva colto.

Inizialmente, George si era chiesto il motivo della bizzarra reazione di William: non aveva versato una singola lacrima per la povera signorina Candy, mentre lui stesso era scoppiato a piangere senza riserve. Poi aveva capito che la rigida educazione che aveva ricevuto aveva modificato la sua personalità e, nonostante fosse sempre stato un uomo estremamente indipendente, la sua impostazione di base rimaneva quella composta e tranquilla.

Sperava che stare in quei luoghi lo avrebbe sciolto un po', o sarebbe rimasto letteralmente avvelenato da quel lutto orrendo. Di certo, la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa.

Si passò una mano sugli occhi, sconvolto. Si era affezionato moltissimo alla signorina Candy e non poteva credere che fosse davvero morta. William gli aveva chiesto di accertarsi che veramente il suo corpo fosse andato completamente distrutto e lui era intenzionato ad andare fino in fondo, anche se la sola idea di occuparsi di un dettaglio tanto macabro gli spezzava il cuore.

Era come se avesse perso una figlia.

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Capitolo 12
*** Lacrime ***


"Le lacrime sono il sangue dell'anima"
(Sant'Agostino)
 
“Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell'anima. E a chi piange, tutti gli angeli sono vicini.”
(Hermann Hesse)
 
 
 

Suor Lane pregava, inginocchiata davanti all'altare, nella cappella che qualche tempo prima gli Ardlay avevano fatto costruire accanto al nuovo orfanotrofio. Aveva sentito i passi sommessi del signor Cartwright, di Tom e di Jimmy allontanarsi qualche minuto prima e ora, accanto a lei, era rimasta solo Miss Pony.

Quanto dolore, in poche ore!

Avevano pregato a lungo per l'anima di Candy, piangendo sommessamente. Il giovane Jimmy aveva preso a pugni il petto del signor Ardlay pregandolo di ridargli il suo capo, come se invece di essere un adolescente fosse tornato bambino; e anche gli altri piccoli che avevano conosciuto Candy avevano pianto senza sosta.

Forse, nei loro lettini, stavano ancora piangendo.

L'unico volto a rimanere composto era stato proprio quello del signor William, anche se si poteva scorgere chiaramente il dolore che lo tormentava. Nonostante la disperazione che le aveva quasi fatto perdere i sensi e che aveva gettato Miss Pony in una sorta di stato catatonico, entrambe si erano rese conto che quell'uomo aveva bisogno dell'aiuto di Dio.

Aiutalo, Signore, illuminalo in questo momento così oscuro.

Nella nebbia del suo dolore, Suor Lane si era accorta dell'amore profondo che quel giovane provava per la loro Candy e, ricordando le parole della ragazza, si ritrovò a chiedere a Dio perché avesse permesso che due anime così affini non avessero avuto il tempo di condividere le loro vite.

Era sempre stata molto devota al Signore e la sua vocazione era sincera e incrollabile. Ma, di fronte alla tragedia che li aveva colpiti quel giorno, nel suo cuore germogliarono i primi, dolorosi dubbi sulla giustizia divina. Candy era giovane, amava il prossimo e aveva davanti a sé un futuro meraviglioso, quando le cose si fossero sistemate un pochino.
"Sia fatta la tua volontà", recitò tra le lacrime, tentando di placare il suo cuore.

Accanto a lei, Miss Pony ripeté quella formula piangendo e Suor Lane continuò la sua preghiera passandole un braccio intorno alle spalle, stringendosi a lei in quel dolore intollerabile. Insieme, con parole diverse, chiedevano al loro Dio di dare a tutti la forza di andare avanti.
- § -
                                                                                        
La Collina di Pony.

Lì l'aveva incontrata la prima volta, lì aveva cominciato a vivere dopo una vita di proibizioni a seguito della sua prima, grande fuga.

Camminò fino a quello che Candy chiamava papà albero come se avesse cento anni e non trenta e toccò il legno solido. Fu come toccare lei, la sua innocenza, le sue risate, le sue corse di bambina.

Cominciò ad ansimare, mentre la sensazione che il petto si riempisse di acqua gli fece pensare che forse stava annegando.

Non piangeva da quando era morta sua sorella Rosemary: il capo della famiglia Ardlay non poteva permettersi di comportarsi come un bimbetto o, peggio, come una femminuccia e doveva essere un esempio di forza e lungimiranza visti i compiti che lo attendevano.

Dopo le ammonizioni degli anziani della famiglia, ricordò, aveva lasciato libero sfogo alle lacrime nella solitudine del suo letto, la notte dei funerali. Non aveva ancora compiuto undici anni. Poi, anche se aveva sviluppato uno spirito ribelle, aveva sempre conservato quell'impostazione ed era diventato l'uomo posato e tutto d'un pezzo che tutti conoscevano.

Raramente mostrava le sue emozioni e comunque aveva imparato a contenerle e a controllarle come si addiceva a un vero uomo e capofamiglia.

Era riuscito a mantenersi freddo fino a quel momento e aveva adempiuto a tutti i suoi doveri: ora il patriarca William lasciava il posto ad Albert, il ragazzino ribelle chiuso nella sua camera a sognare a occhi aperti. O a soffrire in silenzio.

Quella sera, gli parve di essere travolto da tutta quella repressione che gli avevano e che si era imposto. Era come aprire una stanza piena zeppa di pesanti ricordi che ora rischiavano di sommergerlo, cadendogli addosso in maniera scomposta e ferendolo. Si guardò indietro: da quella distanza nessuno lo avrebbe visto o sentito e fece una cosa che non si sarebbe mai sognato di fare neanche da lì a mille anni.

Gridò.

Gridò il nome di Candy, mentre la vista gli si appannava e si stupiva lui stesso della potenza della sua voce. La seconda volta l'urlo fu meno forte e la terza lo costrinse ad accasciarsi a terra. Quella mattina era stato il braccio di George, ora era l'albero a sostenerlo mentre lasciava finalmente uscire tutte le lacrime che non piangeva da vent'anni.
Per la sua adorata sorella. Per il dolce nipote Anthony. Per l'altrettanto amato Stair. E ora, per la sua Candy, morta pochi giorni dopo avergli fatto nascere nel cuore la pur flebile speranza di un futuro insieme.

Ripeté il suo nome tra i singhiozzi, con le spalle che si scuotevano violentemente e le braccia avvolte sul suo stesso corpo, dondolandosi pietosamente in cerca di un abbraccio che non avrebbe mai avuto da nessuno. Istintivamente, si girò verso il tronco e delegò quell'ingrato compito a papà albero. Lui conosceva Candy e lo avrebbe consolato, avrebbe capito.

Ma, mentre piangeva come un bambino, Albert non trovò alcuna consolazione, solo ricordi che infliggevano più dolore al suo cuore martoriato.

Candy che si gettava tra le sue braccia; Candy che rideva con la sua divisa da infermiera; Candy che lo guardava con gli occhi pieni di lacrime; Candy che arrossiva; Candy che cucinava e bruciava la cena.

Sfinito, si lasciò cadere a terra, rannicchiandosi vicino al tronco, chiuse gli occhi e si addormentò immerso nei ricordi, mentre le lacrime si seccavano sulle sue guance. Sopra di lui, avvertì le fronde sussurrare qualcosa nel vento e si lasciò cullare da quel suono.
- § -

Candy guardò l'ultima ambulanza allontanarsi e cadde in ginocchio sull'erba. Si era fatta carico di più feriti possibile prima che arrivassero i medici e aveva ricevuto i complimenti da un paramedico per le sue fasciature di fortuna.

"Grazie a lei nessuna di queste ferite s'infetterà e l'uomo con il braccio rotto non avrà una frattura scomposta!". Lei gli aveva sorriso, felice.

Il controllore l'aveva accompagnata in prima classe, insistendo perché dormisse in una cuccetta. Inizialmente, Candy si era rifiutata, poi si era fatta promettere che avrebbe dato la stessa possibilità anche agli altri. Alla fine, aveva ceduto.

Nel buio della notte, con gli occhi aperti e le mani intrecciate dietro alla nuca, Candy udiva i rumori che provenivano dai binari: se fossero stati fortunati, durante le prime ore della notte sarebbero riusciti già a ripartire.

Cercò di riposare almeno per qualche ora e prese sonno quasi immediatamente, stanca com'era. Sognò che Albert le chiedeva di sposarla.
 
- § -

Quando si svegliò, Albert aveva una coperta addosso e il sole stava sorgendo. Schermandosi con il braccio, si chiese che senso avesse l'inizio di una giornata così bella e sentì tutto il peso delle sue responsabilità sulle spalle: mandare avanti gli affari di famiglia. Occuparsi delle esequie di lei. Rimanere un punto fermo nella casa di Pony, continuando a sostenerla con i lavori di ristrutturazione e per ogni altra necessità.

Ma si sentiva svuotato, privo di forze e voleva solo fuggire da quell'incubo a occhi aperti. Magari in Africa, dove poteva tentare di elaborare quel dolore immenso.

"Per quanto lontano possa fuggire non potrò mai dimenticarti, Candy", mormorò al sole nascente, lasciando cadere le ultime lacrime. Il pianto della sera prima lo aveva liberato dall'oppressione ma rimanevano l'amarezza e la disillusione di una vita che non sarebbe stata mai più la stessa.

Prese la sua sacca, con l'intenzione di starsene qualche giorno nei boschi adiacenti. Per un attimo gli dispiacque non tornare a salutare, ma chi gli aveva portato la coperta avrebbe sicuramente capito.

Miss Pony e Suor Lane erano due donne eccezionali, che avevano cresciuto una donna altrettanto eccezionale.

Mentre camminava, a testa china e con le spalle curve, udì qualcuno che lo chiamava a gran voce.
 
               - § -
 
George si era sempre considerato un uomo posato e responsabile, ma nel giro di poche ore sentiva che la sua vita era stata sconvolta. Certo, non quanto quella del signorino William, ma in maniera del tutto similare.

"Ne è proprio sicuro?".

"Certo! Vede? C'è una nota del mio collega di New York che ha un dichiarazione firmata dal receptionist dell'albergo, un certo... uhm...".

"Non mi interessa il suo nome, mi perdoni, voglio solo sapere se la fonte è certa". Di solito George non era neanche avvezzo a interrompere le persone con fare tanto maleducato, ma quella mattina stava infrangendo tutte le regole, una dopo l'altra.

"Sicuro! Il commissario della centrale...".

Mentre il poliziotto, di cui aveva dimenticato già il nome, spiegava le credenziali del commissario del dipartimento di polizia di Broodway, George capì che c'era solo un modo per avere la sicurezza che la notizia fosse vera. Aveva solo bisogno di un telefono.

Congedò l'uomo, ringraziandolo profusamente, e si precipitò in ufficio dove, con mani tremanti, chiese al centralino di metterlo in contatto con Terence Graham. L'attesa fu lunga e snervante e George si preparò mentalmente a viaggiare fino a New York se non avesse risposto. Finché non l'avesse vista con i suoi occhi preferiva non instillare false speranze in William. E neanche in se stesso.

"Chi è?", rispose una voce assonnata ed evidentemente urtata.

George ringraziò mentalmente tutti i santi del Paradiso.

"Oh, signorino Graham, sono felice che abbia risposto!". Neanche questo era da lui: di solito si presentava in maniera estremamente più sobria. "Il mio nome è George Villers, sono il segretario personale del signor William Ardlay. Mi perdoni per la domanda così diretta, ma ho urgenza di sapere se ha per caso visto la signorina Candy ultimamente". Strinse la cornetta con tanta forza che sentì le nocche scrocchiare.

"Cos'è, uno scherzo?", chiese laconicamente l'uomo dall'altro capo del filo, con un tono spazientito.

George pensò che il poliziotto si era sbagliato, che la signorina Candy era veramente morta e che l'attore ne fosse rimasto altrettanto devastato.

"La prego, signorino Graham. Ieri ci è arrivato un telegramma che ci dava notizie dell'albergo in cui la signorina alloggiava e... siamo molto preoccupati", concluse omettendo la tragica notizia che era stata loro data.

Udì un sospiro attraversare la cornetta e trattenne il proprio.

"Candy ha dormito da me, potete stare tranquilli. Abbiamo visto l'incendio ed è stato orribile, ma è ripartita ieri mattina. Un momento... non è lì a Chicago?".

Mentre George rilasciava il respiro e avvertiva le lacrime pungerli gli occhi, colse la nota di panico nella voce di Terence.

"No, lei...", fu costretto a schiarirsi la voce più volte. "Mi scusi, lei non è qui, forse è andata alla Casa di Pony. Me ne accerterò. Signorino Graham, quindi non è rimasta ferita?".

Con voce triste e malinconica, il ragazzo gli raccontò della prenotazione saltata e del caos che era seguito qualche ora dopo, quando quello stesso albergo era andato a fuoco: a quanto pareva sorgeva proprio a poca distanza dal suo appartamento.

Capì al volo che tra loro due c'era stato un addio: non solo, quindi, la signorina Candice era viva, ma probabilmente aveva fatto la sua scelta.

Cominciò a immaginare il volto del signorino William a quella notizia e gli parve di rinascere: anche lui era felice oltre ogni dire. Era un vero miracolo!

"Ehi, è ancora lì?", la voce del suo interlocutore lo distolse bruscamente dai suoi pensieri.

"Sì, mi perdoni".

"Dicevo, potrebbe avvisarmi quando la vede? A questo punto sono in pensiero anche io. Pensavo avesse fretta di... uhm... raggiungervi".

George annuì vigorosamente, pur sapendo che non poteva vederlo: "Certo! Certo! Lo farò personalmente, glielo prometto!".

"E... signor Villers? Può anche dirmi se Candy è felice, quando mi chiamerà?".

Quella domanda lo commosse. Poteva solo immaginare quanto stesse soffrendo quel poveretto. Provò simpatia per lui, nonostante fosse stato rivale in amore del suo figlioccio e protetto: "Sarà fatto, signorino Graham", rispose con serietà.

Quando riattaccò il telefono, cominciò a cercare velocemente i recapiti della stazione dei treni. Voleva fare le cose per bene, prima di avvisare William.

La telefonata successiva gli fece scoprire che uno dei treni, partiti da New York la mattina precedente, aveva subito un deragliamento e che, per fortuna, non c'erano state vittime. Si appuntò tutti i nomi degli ospedali e ricominciò un altro giro di telefonate. Accidenti, e pensare che c'era così vicino!
 
  - § -
 
Miss Pony lanciò uno sguardo verso la collina, mentre trasportava un sacco con il becchime. Era diretta al pollaio, ma per un attimo era stata tentata di andare a vedere come stesse il signor Ardlay.

Ha dormito lassù, come se volesse sentirla più vicina...

La sua mente tornò alla sera prima quando, dopo aver messo a letto i bambini, Suor Lane aveva espresso il suo desiderio di controllare se quello che era stato il tutore di Candy avesse bisogno di qualcosa.

La poveretta aveva gli occhi gonfi e cerchiati dal tanto piangere e lei non credeva di essere in condizioni migliori. Il dolore le aveva devastate, inoltre doversi occupare dei bambini che facevano tante domande sul Paradiso le aveva davvero sfinite.

Alla fine, erano andate insieme alla porta della stanza e avevano bussato. Non aveva risposto nessuno e, contravvenendo a ogni buona creanza, avevano deciso di aprire la porta con discrezione. Avevano entrambe notato il volto serio e pallido del signor Ardlay e forse era balenato in mente a tutte e due che il dolore poteva averlo fatto sentir male.
In realtà, la stanza era vuota. Il cuore le era saltato nel petto per il timore che avesse fatto gesti avventati.

"C'è solo un posto dove può essere andato", aveva detto Suor Lane con gli occhi che si riempivano di nuove lacrime.

Miss Pony aveva avvertito le proprie pungerle le palpebre: "Ha ragione, Candy ci ha raccontato molte volte di quanto amasse la natura e... quel luogo".

Quando Suor Lane era tornata dalla Collina di Pony senza la coperta, Miss Pony aveva annuito. Le aveva raccontato di averlo trovato rannicchiato in posizione fetale, come un bambino, con il volto che riportava ancora i segni delle lacrime. Aveva posato la lanterna sull'erba e gli aveva semplicemente steso la coperta addosso, pregando per lui mentre tornava.

"Chissà se è ancora lì", chiese all'aria fresca del mattino, mentre si apprestava a raggiungere finalmente il pollaio.

In quel momento, vide una figura avanzare dal lato opposto, dove c'era la strada. Possibile che il signor Ardlay si fosse spostato durante la notte? Attese qualche istante e si rese conto che la sagoma era vagamente femminile: gonna, capelli vaporosi, una valigia...

Miss Pony pensava che avrebbe avuto un attacco di cuore mentre, nella nebbia della mattina, vedeva Candy avvicinarsi a lei.

"Oh, Gesù santissimo del Cielo!", esclamò lasciando cadere il sacco di becchime e facendosi il segno della croce più volte.

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Capitolo 13
*** Confessioni d'amore ***


L’amore vuol sentirsi dire le cose che sa già.
L’amore dev’essere un’eterna confessione.
(Victor Hugo)
- § -
 
 
Doveva essere un'allucinazione.

Candy era morta, non poteva essere lì, davanti a lui che correva e chiamava il suo nome.

Forse era morto anche lui e lei era venuta a prenderlo. Ma se era morto perché sentiva il cuore battere così forte nel petto come se volesse scoppiare fuori?

Lasciò cadere la sacca sull'erba, con le gambe che lo reggevano a malapena, pronto ad andare anche all'Inferno con lei.

Non ebbe tempo di pensare ad altro perché il corpo caldo e vivo di Candy era premuto contro il suo e le sue braccia lo stavano stringendo convulsamente: "Oh, Albert, mi dispiace tanto avervi fatto preoccupare, ma pensavo di prendere il primo treno e...".

Alzò il viso per guardarlo e s'interruppe. Albert vide le sue labbra tremare e gli occhi smeraldo riempirsi di lacrime. Capì immediatamente il motivo: Candy non lo aveva mai visto piangere e doveva essere sconvolta.

"Ca... Candy, scusami, io... io... sei viva! Dio sia ringraziato mille volte, sei viva!". Non poté dire oltre perché la voce gli mancò e l'abbracciò forte, seppellendo il viso bagnato tra i suoi capelli, singhiozzando come aveva fatto quando l'aveva creduta morta solo la sera prima. Ma ora le sue erano lacrime di gioia. Incontenibili come un fiume, accompagnate da parole e lamenti che dovettero sembrarle incoerenti.

"Albert... oh, caro, non fare così. Io non credevo che... mi dispiace, perdonami". Pianse accarezzandogli i capelli.

"Ci hanno comunicato che eri morta nell'incendio", riuscì ad articolare. Gli ci volle un po' per calmarsi quasi del tutto e, quando finalmente riuscì a staccare il viso dal collo di Candy, le asciugò le lacrime con mani tremanti. La sentì solida e viva e ancora una volta temette di sognare.

Lei imitò il suo gesto e si ritrovarono a ridere e a piangere nello stesso istante: "Ma guarda come ho ridotto il mio principe, hai tutti gli occhi gonfi", commentò lei alzandosi in punta di piedi per baciarli.

Quel gesto lo commosse, ma s'impose di ritrovare il controllo e le sussurrò con voce ancora malferma: "Devo dirtelo, Candy. Forse sono un pazzo, ma devo dirti subito quello che non sono riuscito a confessarti quella sera".

"Bert...".

"Ti amo, Candy, ti amo più della mia stessa vita e ora vorrei tanto baciarti. Ma so che tu sei andata da Terry perché avevi bisogno di capire e... io non so se...", incespicò con le parole, perso in un turbine di emozioni che lo confondeva deliziosamente. Poi si perse nei suoi occhi luminosi e nel suo sorriso che gli avevano appena riacceso un'ardente speranza.

Non ebbe tempo di dire altro perché Candy premette le labbra contro le sue, intrecciandogli le mani dietro alla nuca, stringendosi a lui come se non volesse più lasciarlo andare via.

Albert rimase per qualche istante a occhi spalancati, travolto da nuove sensazioni che non credeva avrebbe mai più provato e che gli fecero girare la testa: stupore immenso, gioia, abbandono, desiderio... Capì che, ora che Candy era misteriosamente tornata alla vita, non avrebbe mai più potuto lasciarla, neanche se fosse stata ancora innamorata di Terry.

Da come lo baciava, però, avrebbe scommesso tutto quello che aveva che non fosse così: quella era una muta ma efficace confessione d'amore che gli tolse il respiro.
Sentendosi come un adolescente inesperto, chiuse gli occhi e osò aprire timidamente la bocca per assaporare meglio le sue labbra. Fu di nuovo piacevolmente sorpreso quando lei lo lasciò fare, ricambiando un bacio che stava diventando umido e appassionato.

Quando rimase a corto di fiato e capì che erano già andati troppo oltre, si staccò a malincuore da lei. Candy aveva il volto arrossato, le lacrime ormai asciutte e si era portata una mano al petto ansimando: "È stato... è stato...".

"Meraviglioso", concluse per lei, dandole un ultimo bacio sulla fronte e tirandola giù sull'erba. Non si fidava delle proprie gambe, non gli avevano mai tremato tanto in vita sua. "Ora riposiamoci un po' e raccontami tutto. Penso che dopo tutto questo avrò bisogno di una vacanza". La sua voce era arrochita ma finalmente stabile.
 
- § -
 
Candy raccontò di come fosse arrivata a sera tarda e avesse lasciato la sua camera a quella donna sfortunata; gli parlò del suo profondo senso di colpa e del travagliato viaggio di ritorno con il deragliamento del treno. Non sapeva che da New York le autorità stessero avvertendo le famiglie, altrimenti sarebbe intervenuta per impedire quel tragico pasticcio.

"Quando Miss Pony  mi ha vista pensava di aver assistito all'apparizione di un fantasma e si è fatta il segno della croce", raccontò con un mezzo sorriso. "Sono così spiacente di avervi fatto preoccupare! Non ti avevo mai visto così, Bert...", concluse accarezzandogli quel viso che le era così caro.

Lui divenne serio: "Oggi piangevo di gioia, Candy, ma ieri ero disperato. Devi sapere che all'erede degli Ardlay non è mai stato concesso di lasciarsi andare alle emozioni violente e, anche se ho viaggiato molto e ho sempre cercato di rimanere libero da imposizioni, questa corazza è rimasta parte di me. Mi ha consentito di soffrire meno quando accadevano episodi spiacevoli, ma ora capisco che era solo un'illusione".

Lo vide sdraiarsi sull'erba con le braccia dietro alla testa e mettersi a guardare le nuvole che si rincorrevano, con quegli occhi che sfidavano il colore stesso del cielo.
"Vuoi dire che quando sono morti Anthony e poi Stair tu...".

"Sono rimasto nascosto ma, pur essendo solo con George al mio fianco, non ho mai mostrato neanche a lui il mio dolore. Tenerlo dentro così a lungo, però, col tempo mi ha intossicato e quando mi è arrivato quel telegramma è stato come rompere una diga. Il dolore era incontenibile e ho dovuto fare i conti con sentimenti violenti di cui avevo sempre negato l'esistenza. Però devo dire che un pianto liberatorio, di dolore o di gioia che sia, aiuta ad affrontare meglio le cose e a vederle più lucidamente. Candy, ti ricordi quando ti scrissi che non avevo mai visto nessuno piangere come te, quando eri bambina e Annie era appena andata via? Fu il giorno in cui ti incontrai per la prima volta".

"Certo, so a memoria tutte le tue lettere", rispose lei, commossa.

Albert le sorrise: "Bene, per me era affascinante vedere quei sentimenti espressi con tanta libertà, forse è anche per questo che ho cercato di consolarti, a modo mio".
"Sei più carina quando ridi che quando piangi", citò lei. "Poi, però, mi hai detto che ero carina anche quando piangevo", aggiunse ricordando il pomeriggio in cui aveva scoperto che era il Principe della Collina.

"Ed è così, piccola. Penso che già allora nel mio cuore fossero chiari i miei sentimenti per te ma non volevo... non potevo travolgerti con troppe cose tutte insieme. E anche io dovevo fare ordine dentro di me, e capire se sarebbe stato un bene confessarti una cosa tanto grande".

"È per questo che hai aspettato tanto tempo?", gli chiese con il cuore che accelerava deliziosamente.

"Per quello e perché non sapevo cosa provassi tu per Terence. Sai, Candy, credevo di essere uno spirito libero solo per il fatto di essere andato via da casa e di aver rifuggito il mio nome per tanto tempo. Ma oggi capisco che non è così. Ad avermi davvero reso libero sei stata tu. Eri sempre tu, con i tuoi abbracci, le tue risate, le tue lacrime e le tue decisioni: tu mi hai mostrato cosa significasse davvero essere liberi da catene".

La guardava con qualcosa di simile all'adorazione e Candy provò per lui un amore infinito, che non credeva potesse aumentare così a dismisura di minuto in minuto, solo sentendolo parlare: ora era più che certa di amarlo sopra ogni cosa e provò l'urgenza di dimostrarglielo. Allungò un braccio e delineò i contorni del suo viso: la pelle abbronzata delle guance per i tanti viaggi in Africa, la linea decisa e virile della mascella, fino ad arrivare alle labbra maschili ma così estremamente dolci che avrebbe voluto baciarle di nuovo. Improvvisamente troppo timida per ripetere il gesto audace di poco prima, si limitò ad accostarglisi e a baciarlo su una guancia, mentre tentava di abbracciarlo goffamente.

Lui la lasciò fare per qualche istante, poi la prese per i polsi con un fare gentile ma deciso: "Candy, non pensi che prima di fare il passo successivo tu mi debba qualche spiegazione?". Notò il sorrisetto malizioso, lo sguardo divertito e si allontanò come se lui scottasse.

Che diavolo le era venuto in mente di diventare intraprendente così, all'improvviso? Non erano più ragazzini.

"Scu... scusami. Hai ragione, devo parlarti di me e Terence". Lo sentì distintamente mentre deglutiva e capì di aver sbagliato tutto, di essere partita dalla fine dando per scontato che lui capisse. Lesse nei suoi occhi il bisogno e si affrettò a parlargli con il cuore in mano.          
 
- § -
 
Quando Candy gli disse che era andata direttamente a casa di Terence, dopo aver lasciato la camera alla donna, il cuore che aveva appena ripreso un ritmo normale ricominciò ad accelerare.

Candy e Terence da soli in casa.

Terry era di sicuro profondamente innamorato di Candy e lei ancora in cerca di risposte.

Certo, anche loro due avevano vissuto insieme per molto tempo alla residenza della Magnolia, ma allora era diverso. Non erano stati altro che un'infermiera e il suo paziente, amici perlopiù.

"Lui... mi ha baciata. Mi dispiace, credo di dovertelo dire. Io l'ho ricambiato ma è stato un gesto d'affetto, e... anche l'ultimo esame che dovevo affrontare. Non ho sentito quello che avrei dovuto, l'ho respinto quasi subito".

Aveva la gola secca e, anche se apprezzava la sincerità di lei, gli sembrò di sprofondare. La sua mano artigliò il terreno erboso e si rese conto che stava cercando di sopprimere un altro sentimento a lui praticamente sconosciuto: la gelosia.

Per fortuna, il vecchio autocontrollo funzionava ancora a meraviglia. O quasi.

Cercò di concentrarsi su quelle parole: 'non ho sentito quello che avrei dovuto, l'ho respinto'.

"Gli ho spiegato che i miei sentimenti non erano gli stessi di prima e lui si è arrabbiato molto. Ma, proprio mentre discutevamo, è successo il finimondo. Successivamente, quando siamo tornati a casa sua, non mi ha chiesto più nulla perché ero sconvolta. La mattina dopo ci siamo chiariti e...". La vide interrompersi e spalancare gli occhi in un'espressione che gli sembrò molto vicina al panico.

Cosa gli aveva letto sul viso? Sapeva di avere tutti i muscoli contratti e gli sembrava che le fiamme dell'inferno lo avvolgessero dal collo in su. Albert avrebbe messo la mano sul fuoco sul fatto che tra loro due non fosse accaduto nulla, ma aveva la necessità disperata di sentirlo dalle sue labbra.

Per fortuna fu proprio quello che fece.

"Ho dormito nel suo letto ma...".

Il cuore saltò un battito e gli sfuggì un gemito strozzato: era troppo, gli sarebbe scoppiata una vena di quel passo.

"... ma lui è rimasto sul divano e non ha cercato neanche di sfiorarmi! TelogiuroBertnonèsuccessonienteio...".

La testa gli crollò in avanti, mentre rilasciava il respiro che aveva trattenuto per quasi un minuto intero. Se lei non si fosse sbrigata a dirgli quello che voleva sentire con tutte quelle frasi appiccicate, forse sarebbe morto per ipossia. Gli tremò la voce: "Ok, Candy, va' avanti".

La vide deglutire come per raccogliere i pensieri e gesticolare animatamente: " La mattina dopo abbiamo parlato, mentre facevo la valigia. Mi ha stretto le mani sulle spalle e io...".

Albert la prese gentilmente per il mento, guardandola con intensità: "Candy, capisco che tu voglia essere dettagliata nel tuo racconto ma puoi evitare di raccontarmi tutte le volte in cui Terence ti ha toccata, anche se in modo innocente?".

Candy annuì, sorridendo leggermente: "Era così disperato, Bert, che ho temuto di non riuscire a lasciarlo. Poco dopo, mentre mi accompagnava alla stazione, mi ha confessato di aver tentato di lasciarsi morire nell'incendio della sera prima. È entrato per cercare di salire al terzo piano, dove alloggiavano la signora con suo figlio. Dove dovevo essere io".

Albert avvertì un brivido lungo la schiena mentre realizzava, ancora una volta, quanto Candy fosse stata vicina a morire davvero. E sapere che Terry aveva cercato di togliersi la vita fu altrettanto sconvolgente. Si ripromise che lo avrebbe tenuto d'occhio. Allungò una mano e le asciugò teneramente le lacrime che avevano ricominciato a solcarle le guance: "Lo so, è stato terribile sapere che una donna e un bambino innocente sono morti al posto tuo, ma la colpa non è tua, piccola. Si vede che doveva andare così, per quanto sia ingiusto. E dimmi, come stava Terence quando l'hai lasciato?".

"Sembrava rassegnato, mi ha assicurato che quel pensiero non lo aveva più sfiorato, che aver visto morire tante persone innocenti lo aveva toccato nel profondo e che voleva dedicarsi alla carriera, forse recitare con sua madre in un film come gli hanno proposto. Gli ho creduto, Bert, ma continuo a essere molto preoccupata per lui".

"Anche io", ammise guardando l'orizzonte. Il sole, ora alto nel cielo, gli parve di nuovo meraviglioso. "Stai tranquilla, ci assicureremo insieme che stia bene".

Nonostante tutto, ad Albert mancava ancora qualcosa. Si erano baciati, Candy aveva lasciato Terence. Tutto era piuttosto chiaro. Ma lo era altrettanto nel suo cuore? Fece un respiro profondo, mentre si voltava per accarezzarle i capelli e il viso: "Candy, sei sicura della tua scelta? Sei certa che un giorno il ricordo di Terry non tornerà, prepotente, a esigere il tuo pegno?".

Lei fissò i propri occhi nei suoi e rispose veemente: "Albert! Mi stavo struggendo da mesi perché non capivo come mai non facessi i salti di gioia sapendo che mi amava ancora come prima! Credevo fosse il senso di colpa per la morte di Susanna, invece mi stavo rendendo conto che il mio cuore apparteneva già a te. Non so quando sia successo, ma è come se finalmente avessi ritrovato qualcosa di molto caro che temevo di aver perso. E non era l'amore per Terence, che pure era stato forte. Era l'amore dolce e sereno che mi hai sempre dato e che ricambiavo senza saperlo. Erano le tue braccia calde e sicure in cui rifugiarmi. Erano questi tuoi occhi limpidi in cui voglio perdermi per il resto della mia vita...".

Albert sentì l'ormai familiare fitta al petto e il nodo che si stringeva in gola. Le prese una mano e la baciò intensamente: "Candy...", soffiò avvicinandosi alle sue labbra.

"Mi dispiace di non avertelo detto quella sera, ma non ero ancora pronta. Ora lo so. So che ti amo, Albert. Ti amo tanto", sussurrò lei con voce arrochita dall'emozione, facendogli scoppiare il cuore in petto.

"Non sai per quanto tempo ho atteso di sentirtelo dire. Anche io ti amo. Ti amo immensamente, piccola, dolce Candy", ebbe bisogno di ripeterle in risposta alla sua confessione.

Si abbracciarono e si baciarono, ancora e ancora, i cuori finalmente a briglia sciolta e i dubbi dissipati come foglie al vento.
 
 - § -
 
George aveva guidato come un pazzo e, finalmente, era tornato alla Casa di Pony. Nessun ospedale aveva avuto notizie di una paziente di nome Candice White Ardlay, ma era riuscito a parlare con un capostazione che gli aveva riferito di un'infermiera che si era presa cura dei feriti.

Era riuscito a contattare il macchinista e, quando aveva udito il nome alla cornetta si era accasciato su una sedia. Se era fortunato, alla Casa di Pony avrebbe trovato entrambi, magari si erano già incontrati.

MIss Pony e Suor Lane lo salutarono calorosamente e gli spiegarono che Candy aveva fatto la sua apparizione poco prima, sconvolgendole ma riempiendole di gioia.
"Ho detto a Candy di andare subito a controllare se il signor William fosse ancora alla Collina, perché è lì che ha dormito stanotte. Poveretto, era così triste!", disse Miss Pony tamponandosi le lacrime con un fazzoletto.

"Su, su, non faccia così, la nostra Candy è tornata, Nostro Signore ha fatto un miracolo e io devo chiedergli ancora perdono per aver dubitato di Lui!", concluse la suora in tono allarmato.

George, però, aveva lo sguardo fisso sulla collina: e se Candy stesse ancora cercando il signorino William? Se non l'avesse ancora trovato e lui stesse vagando nei boschi, da solo, in preda al dolore? Doveva accertarsene di persona.

Era sfinito, non aveva dormito che poche ore, dopo essere stato svegliato prima dell'alba da quel poliziotto che aveva cambiato tutte le carte in tavola. Ma doveva fare quell'ultimo sforzo. Si congedò dalle due donne e cominciò a dirigersi di buon passo verso il luogo in cui, per tanti anni, aveva trovato il suo protetto in compagnia di Candy.
Sperava fosse così anche stavolta.

Vide due sagome, sempre più indistinte a mano a mano che gli occhi gli si annebbiavano per la stanchezza e per le lacrime. Si stavano abbracciando e baciando. Sorrise e ringraziò Dio prima di accasciarsi a terra, svuotato di ogni residuo di energia.

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Capitolo 14
*** Dolcezze e dolori ***


Candy strizzò la pezza nella bacinella e l'adagiò sulla fronte di George.

"Miss Pony, Suor Lane, andate dai bambini e dite loro che li raggiungerò il prima possibile. Poi vorrei anche andare a trovare il signor Cartwright e Tom. Loro non sanno ancora niente".

"Non preoccuparti, Candy, se vuoi ci vado io", si propose Albert mentre le due donne uscivano dalla stanza.

"Grazie, ma preferisco che tu resti, in caso George si svegliasse. Credo fosse qui per te".

Lui annuì, sedendosi accanto al letto con un'aria preoccupata: "Forse è il caso che chiami il dottor Martin", disse.

Candy fece un cenno d'assenso: "Lo faremo se quando si sveglia presenta sintomi preoccupanti. Al momento non ha febbre, penso si tratti solo di stanchezza: mi hai detto che ieri ti ha accompagnato qui ed è tornato a Chicago. Potrebbe aver guidato semplicemente per troppe ore, e poi la tensione...". Il senso di colpa le punse di nuovo il petto, anche se non poteva certo immaginare la tragica catena di eventi che avrebbe innescato quel viaggio.

"Chissà cosa ci faceva qui di nuovo, forse voleva darmi tue notizie", disse Albert a bassa voce, "Magari aveva scoperto qualcosa e...".

Un lamento e un movimento provenienti dal paziente lo interruppero. Candy gli fu subito vicina. George aprì gli occhi e li sbatté, come se cercasse di metterla a fuoco: "Si...signorina Candy?", la sua voce uscì a fatica.

"Sì, George, sono io. Sto bene, si sono sbagliati. Ora riposi, la prego". L'uomo fece qualcosa che la commosse nel profondo del cuore: prima le sorrise, poi cominciò a piangere silenziosamente.

"Mi scusi, io... signorino William", disse voltandosi verso Albert.

Lui gli prese una mano: "Va tutto bene, George, ora calmati".

"Ho ricevuto la visita di un poliziotto stamattina presto", spiegò ignorando le sue parole, "ma volevo essere sicuro che fosse tutto vero. Allora ho telefonato al signorino Graham, poi ho chiamato la stazione dei treni e mi hanno detto dell'incidente sui binari. Ho cercato la signorina Candy negli ospedali ma ho scoperto che... che era ancora su quel treno quando è ripartito e allora ho pensato...".

Albert gli fece un sorriso, evidentemente toccato dalle lacrime di quell'uomo così posato ed efficiente che lo aveva cresciuto come un figlio: "Grazie, George, adesso devi solo riposare".

Candy si asciugò gli occhi e confermò: "Sì, George, hai guidato per molte ore. Miss Pony e Suor Lane ti hanno riservato questa stanza dove potrai recuperare le energie. Sei a casa tua. Più tardi verrà a visitarti il dottor Martin".

Il buon uomo si ricompose in fretta e balzò a sedere sul letto: "Oh, no, non posso! Devo annullare i funerali e avvisare i membri del consiglio, mandare un telegramma al signorino Cornwell e...".

Candy rabbrividì alla parola 'funerali'. Qualcuno aveva commesso un fatale errore comunicando la sua morte. E avevano avvisato anche Archie! Era un pasticcio davvero colossale.

"George", lo ammonì Albert con voce ferma, inducendolo a sdraiarsi di nuovo: "hai avuto un crollo nervoso, forse persino un collasso. Devi riposare e mangiare qualcosa. Mi occuperò io di tutto, ti assicuro che mi sento pieno di energie oggi!".

La guardò e lei arrossì, felice e incredula del momento magico che stava vivendo dopo tanto dolore. Albert, il suo Albert finalmente era lì, accanto a lei, ogni dubbio dissipato per sempre.

"Ma... ma...", George non sembrava convinto e si tirò nuovamente a sedere.

"Mi dispiace moltissimo averla fatta preoccupare così tanto, lasci che mi prenda cura di lei", gli disse dolcemente.

L'uomo chiuse gli occhi, ancora visibilmente emozionato: "Signorina Candice, mi dia del tu, la prego. È una cosa che volevo chiederle da tempo. Forse troverà impudente quanto sto per dirle, ma la considero come un'altra figlia, al pari del signorino William".

Quella confessione le sciolse il cuore e non riuscì a trattenersi: lo abbracciò con calore, versando lacrime di gioia sulla sua giacca: "Grazie, grazie...", poté solo dire.
Sentì la mano esitante dell'uomo sfiorarle le spalle e poi batterle leggermente sulla schiena. Lo aveva sicuramente messo in imbarazzo: credeva non avesse condiviso una simile manifestazione d'affetto mai neanche con Albert.

Alzò lo sguardo per sbirciare la sua reazione e scoprì che le sorrideva con gli occhi lucidi: era incredibile quanti uomini fosse riuscita a far piangere in due giorni. Le dispiacque, specie per Terence, che di sicuro non avrebbe avuto abbracci consolatori. Improvvisamente, saperlo solo, senza neanche la vicinanza di Susanna, la rese molto triste. Forse avrebbe dovuto scrivere a Eleanor Baker, ma non sapeva se fosse troppo intraprendente da parte sua.

Intanto doveva guardare al suo futuro, così radioso e pieno d'amore. Ora aveva accanto a sé l'uomo che amava davvero e tante persone che le volevano bene. Però non avrebbe abbandonato Terry, lo avrebbe sempre seguito a distanza col supporto di Albert, per assicurarsi che stesse bene.

Quando finalmente George si fu calmato, nonché scusato profusamente per la sua reazione, Albert balzò in piedi e disse: "Bene, è ora di fare un po' di cose. Candy, passerò dal signor Cartwright e andrò in città a mandare un po' di telegrammi. Avviserò anche il dottor Martin di fare un salto qui. Tu puoi rimanere con George e assicurarti che non fugga? Tanto più che ora prenderò io l'auto". Strizzò l'occhio.

Lei ridacchiò: "Oh, puoi contarci!", ribatté. "Anzi, penso che andrò a prendergli una bella fetta di torta e del tè. Non credo abbia ancora fatto colazione, non è vero?".

"Oh, stia tranquilla, signorina Candy, non voglio recare più disturbo di quanto già...!".

"George", lo interruppe lei cercando di assumere lo stesso tono di Albert e guadagnandosi da quest'ultimo un'occhiata divertita: "vorrei che anche lei... anche tu ti renda conto che fai parte della famiglia. Anche tu per me sei stato quanto di più vicino a un padre io abbia mai avuto, quindi, per favore. Lascia che mi prenda cura di te".

"Lei vuole proprio farmi commuovere ancora, vero?", ribatté lui portandosi le dita all'angolo dell'occhio.

Candy scosse la testa: "No, penso di aver fatto già soffrire abbastanza troppe persone con questo viaggio sfortunato. Ora voglio solo vedervi tutti ridere!", esclamò allargando le braccia come una bambina e facendo scoppiare i due uomini in una risata sincera.

"Esatto, proprio così!", si complimentò.

Accompagnò Albert alla porta e sussultò quando lui le rubò un bacio leggero prima di andarsene: "Pensavo di dover organizzare un funerale, ma impazzisco di felicità al pensiero che invece presto ci sarà una festa di fidanzamento", le mormorò con voce carica di emozioni.

Lei spalancò gli occhi, quasi incredula che tutto ciò stesse accadendo proprio a lei.

"Ne riparleremo, piccola, non voglio affrettare i tempi. Dobbiamo parlare con calma insieme dei nostri piani per il futuro", concluse baciandole una mano.

Non poté ribattere perché stava già andando via e sembrava camminare a un metro da terra. Anche lei si sentiva così e pensò che lo avrebbe sposato quel giorno stesso, se avesse potuto.  
 
- § -
 
Il sipario si chiuse in un tripudio di fiori lanciati dal pubblico, mentre Terence rimaneva inginocchiato a piangere tutte le sue lacrime come da copione. Intorno a lui, i suoi colleghi stavano ricevendo le congratulazioni di Robert e parlavano già di dove sarebbero andati a festeggiare.

Lui voleva soltanto rimanere solo e continuare a piangere per conto suo. Nonostante le parole di rassicurazione dette a Candy, la sua voglia di vivere era pari a zero. Non che avesse intenzioni suicide, non più... almeno per il momento.

Si costrinse a ricomporsi e si alzò da terra, con l'intenzione di filare dritto nel suo camerino.

"Terence, aspetta!". Quel richiamo lo fece sussultare: forse stava impazzendo, perché gli pareva di udire la voce di Candy dappertutto. Invece, quando alzò lo sguardo e vide la figura con occhi e capelli scuri, si rese conto che era solo Karen: dalla prima di Romeo e Giulietta era rimasta nella compagnia. Terence l'aveva sempre considerata un'ottima attrice, non il mero rimpiazzo di Susanna, ed era certo che avrebbe fatto strada comunque.

Quella sera, però, non aveva voglia di parlare con lei, anche se tra loro c'era una discreta amicizia.

"Scusami, ho da fare", la liquidò con più freddezza di quanto avesse voluto.

"Ma...". Si lasciò alle spalle la sua debole protesta e se ne andò dritto al camerino. Una figura incappucciata era lì davanti alla porta, come ad attenderlo.
Terence aggrottò le sopracciglia, urtato: non potevano proprio lasciarlo in pace? Come aveva fatto quella donna a spingersi fin lì? Stava per chiamare la sicurezza quando la figura parlò, chiamandolo per nome. Riconobbe la voce all'istante.

"Ma... mamma?". Credeva che fosse in tournée e non pensava proprio di vederla lì quella sera.

"È da tanto che non ci vediamo, vero? Possiamo entrare solo un attimo? Non vorrei che mi vedesse qualcuno", disse scostandosi un poco il cappuccio dal viso.

"Ma certo", acconsentì aprendo velocemente la porta e richiudendola a chiave alle loro spalle.

Lei si tolse del tutto il travestimento e lo guardò in viso. Istintivamente, lui distolse lo sguardo.

"Tesoro, ma tu hai pianto", esordì come se fosse ancora un bambino piccolo.

"Ma certo, l'ultima scena lo prevedeva. Non eri tra il pubblico?", rise.

Lei gli portò una mano al viso, trasmettendogli un brivido. Nonostante il loro rapporto fosse molto migliorato in quegli anni, non ricordava una carezza simile da sua madre. "Terence, tu sei mio figlio. Capisco perfettamente quando fingi e quando sei triste davvero".

Si sottrasse a quel tocco, sentendosi nudo e vulnerabile, e le voltò le spalle: "Candy mi ha lasciato definitivamente", confessò alla fine.

"Oh, Terence...". Poteva avvertire tutto il dolore trasudare dalla voce della donna.

"Si è innamorata del suo tutore legale, nonché capofamiglia degli Ardlay, ci crederesti?!". Cominciò a ridere e, mentre rideva, le lacrime gli rigavano il viso. Le sentiva scendere e non poteva fare nulla per fermarle.

Quando sentì il tocco delle mani di sua madre sulle spalle lasciò che l'abbracciasse e seppellì il viso nell'incavo tra collo e spalla, arrendendosi a quello sfogo. D'altronde, quante volte da piccolo non aveva potuto piangere tra le braccia di sua madre perché suo padre li aveva brutalmente separati?

"Andrà tutto bene, Terence, ti starò vicina. Sei diventato un uomo e sono sicura che lo supererai". Poteva avvertire la voce rotta di lei e le mani che gli sfioravano gentilmente i capelli.

Terence non rispose. Non voleva rivelarle che non aveva più voglia di vivere, ma che si era ripromesso di farlo e che, soprattutto, lo aveva promesso a lei. Sarebbe stata una strada molto lunga da percorrere, ma avrebbe accettato il supporto di sua madre e forse, piano piano, sarebbe anche riuscito a lasciarsi coinvolgere dai suoi colleghi nelle serate insieme.

Ma non quella sera e neanche la successiva.

Si diceva che il tempo guarisse le ferite, ma la sua era ancora troppo fresca e avrebbe dovuto lavorare duramente perché non s'infettasse e cominciasse a cicatrizzare. 
Purtroppo, la sua infermiera Tuttelentiggini non sarebbe stata al suo fianco per curarlo e sarebbe dovuto guarire da solo.
 
- § -
 
La musica aleggiava nell'aria fresca della sera, mentre alla Casa di Pony si teneva una piccola festa in onore di Candy.

Albert guardò con un sorriso i tavoli imbanditi apparecchiati nel giardino, le lanterne disposte in modo da illuminare il più possibile lo spazio antistante la Casa di Pony e i volti sorridenti dei bambini che giocavano, ballavano e si rincorrevano.

Aveva fatto in modo che tutto fosse perfetto e, anche se dubitava che Archie ed Annie li avrebbero raggiunti con così poco preavviso, fu sollevato al solo pensiero che forse avevano già ricevuto la sua comunicazione.

Ripensò a quando aveva dato l'annuncio della morte di Candy: Archibald era sconvolto e per lui era stato difficilissimo mantenere la freddezza. Aveva sempre avuto il sospetto che suo nipote fosse segretamente innamorato di Candy, ma pensava che ormai fosse acqua passata. Volle pensare che la sua reazione fosse stata quella di un fratello che temesse di aver perduto sua sorella. E lui, quel sentimento, lo capiva alla perfezione.

Vide George che gli si avvicinava e lo scrutò con aria di rimprovero: "Non dovresti essere ancora a letto, tu?".

"La prego, signorino William, non faccia la mamma chioccia con me. Il dottore mi ha visitato e io mi sento davvero meglio. E non le nascondo che il merito è tutto del miracolo al quale abbiamo assistito", disse lui rivolgendo lo sguardo verso Candy, che stava ballando con le mani sui fianchi mentre Tom suonava la fisarmonica e Jimmy batteva le mani a tempo: anche loro due sembravano persone completamente diverse. Da quando avevano scoperto che la loro amica era ancora viva, sembravano rinati.

Tutti amavano Candy e come non poteva essere così? La gioia che esprimeva il suo volto, quel sorriso sincero e contagioso, quella maniera di muoversi così poco da signorina dell'alta società eppure così... spontanea, inebriante, mentre scalciava con i piedi in un ballo sfrenato, sollevando l'orlo della gonna.

"Ehm...", la voce di George che si schiariva la gola lo riportò alla realtà.

"Eh? Oh, scusami, stavi dicendo?".

L'uomo sospirò: "Dicevo che mi dispiace molto interrompere l'aria sognante con cui stava guardando la signorina, ma sarebbe ora di andare. Domattina avrei dovuto incontrare i nostri investitori da solo, ma visto che tutto si è sistemato, grazie al Cielo, sarebbe preferibile che lei presenziasse".

"Avevo l'aria sognante?", chiese con la testa ancora tra le nuvole.

"Sì, sembra proprio un ragazzino alle prese col primo amore".

Albert sbatté le palpebre: "George, così mi fai sembrare uno stupido!", rimbeccò.

L'uomo scosse la testa: "No, non è uno stupido. E sono felice che tutto sia stato solo un tragico malinteso. Mi consenta di dirle che preferisco molto più osservare la sua espressione innamorata che quella... beh, quella che aveva ieri".

Gli mise una mano sulla spalla, commosso dalle sue parole: "Grazie George, davvero. Che ne dici se assaggiamo un po' dei dolci di Miss Pony, ora?".

"Signorino William". Ora il suo tono era di avvertimento.

Albert sospirò: "E va bene, devo dedurre che non riesco proprio a distrarti dai nostri impegni, vero? E devo rassegnarmi al fatto che sarai sempre pronto a ricordarmeli, anche in momenti come questo".

"Sì, signorino William", rispose compito. Era di nuovo il vecchio George, nonostante le emozioni del pomeriggio precedente. Ma Albert era pronto a scommettere che, da quando Candy aveva accettato di dargli del tu e a considerarlo un po' come suo padre, anche in lui qualcosa fosse cambiato profondamente.

"A che ora è la riunione con i soci, domattina?".

"Alle otto e trenta in punto".

Gemette, frustrato: "Quindi di dormire qui non se ne parla e dovremmo arrivare a casa prima di mezzanotte se vogliamo riposare un po', non è vero?".

"Esattamente, signorino William".

"Bene", sospirò, "fammi salutare Candy e gli altri e andiamo via. Però guido io", concluse strizzandogli l'occhio.
 
- § -
 
Quando Candy vide Albert che si avvicinava, capì istintivamente che stava per andarsene di nuovo. Si sentì stringere il cuore, ma si aggrappò alla speranza che il futuro che li attendeva sarebbe stato radioso, da quel momento in poi.

Con discrezione, la portò in un luogo più isolato, attirandosi le proteste dei presenti: "Ve la riporto subito, lasciate che la saluti!", rise lui circondandole la vita con una mano.
Era certa che non ci fosse bisogno di troppe spiegazioni: dagli sguardi delle sue due mamme, dei ragazzi più grandi e persino di quelli più giovani, era evidente che si rendessero conto di quanto le cose fossero cambiate tra lei e il signor William.

Quando finalmente l'oscurità e la luce della luna furono le uniche cose attorno a loro e la musica fu più lontana, Albert la strinse in un abbraccio così coinvolgente che Candy si sentì le gambe farsi di gelatina. La baciò mescolando i loro respiri affannati e le sue mani iniziarono a vagarle sulla schiena, frenetiche.

Che le stava succedendo? Una signorina perbene avrebbe dovuto fermare tutto questo, invece si ritrovò a pregare che non smettesse mai. Contro ogni razionalità, ricambiò il suo abbraccio tracciando carezze curiose sui muscoli guizzanti della sua schiena, stringendosi a lui ancora di più, se possibile.

Un gemito sfuggì alle loro labbra nello stesso momento e Albert sciolse delicatamente quel bacio mozzafiato, lasciandola con la mente annebbiata, le gambe tremanti e un senso di vuoto che desiderava riempire. Non aveva mai provato nulla di simile: dal pomeriggio precedente, in cui si erano dichiarati, era stato un crescendo di emozioni mentali e fisiche che si succedevano con una velocità da capogiro.

Albert le accarezzò il viso dolcemente, anche lui sembrava preda di quegli stessi sentimenti: "Perdonami, non volevo spaventarti".

Spaventarla?

Lo guardò con tanto d'occhi: "Credi che io sia spaventata?", gli chiese, incredula.

Lui ridacchiò, divertito: "In effetti non mi pareva", disse. Poi si fece serio e la scrutò con i suoi occhi che ora, nella sera, sembravano più scuri. "Candy, purtroppo devo andare, anche se vorrei tanto restare qui e non lasciarti più. Quando ti ho ritrovata, la prima cosa che ho pensato è stata fuggire con te, sposarti e mandare al diavolo tutto e tutti".
Candy rabbrividì a quella confessione.

"Ma voglio fare le cose per bene, con te. Non appena avrò terminato gli impegni di lavoro faremo una vacanza a Lakewood con Archie e Annie e daremo a loro e alla zia Elroy il tempo di abituarsi a un nostro imminente fidanzamento. Non che debba chiedere il permesso, ma voglio che il Consiglio degli anziani e la zia stessa imparino a conoscerti per quello che vali, così da non permettersi di dire una sola parola contro di te, quando ti presenterò ufficialmente. Inoltre voglio che tu abbia il tempo di essere la mia fidanzata prima ancora di diventare mia moglie, così come sogna ogni donna", concluse baciandole la mano con tenerezza.

"Oh, Albert, io non ho bisogno di tante cerimonie. Ma capisco che la tua famiglia debba entrare nell'ottica di noi due come coppia e non come tutore e protetta. Spero solo di non dover aspettare troppo tempo", disse facendogli un occhiolino.

Albert parve riflettere per qualche istante: "Io pensavo di aspettare un mese, ma se mi dici così potrei anche diminuire questo periodo di assestamento a quindici giorni...".
Candy spalancò gli occhi e fece un gridolino: "Ma... io credevo che volessi attendere almeno un anno!".

Lui scoppiò a ridere apertamente: il suono di quella risata franca e contagiosa le era mancato, ma finse di dargli un pugno sul braccio: "Mi stai prendendo in giro, vero?", protestò con un mezzo sorriso.

"Oh, no, amore mio! È che non sono capace di aspettare. Non più, ti ho già attesa così a lungo che voglio accelerare i tempi al massimo possibile. Entro quest'anno potresti già essere mia moglie", terminò guardandola di nuovo con gli occhi annebbiati dal desiderio.

Amore mio. Mi ha chiamata amore mio!

Candy si lasciò baciare, dicendosi d'accordo quando ripresero fiato: "Tutto quello che vuoi, principe Bert", mormorò adoperandosi per salutarlo con tutto il calore della propria anima.
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Fine prima parte
Attenzione: come ho detto all'inizio, ho suddiviso la storia in più parti, quindi NON è finita, termina qui solamente la Prima Parte (Travels). Da oggi in poi, comunque, i capitoli successivi saranno pubblicati con cadenza settimanale per due motivi principali: il primo è che saranno più corposi e potrò dare a tutti il tempo di leggerli con calma; il secondo è che voglio dare anche il tempo alla mia beta reader, al momento ferma per lavoro, di continuare con eventuali correzioni.
Prossimo aggiornamento tra 7 giorni esatti

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Capitolo 15
*** Segreti svelati ***


Seconda parte: Together

 
Candy giunse davanti al Cancello delle Rose con il cuore che le batteva forte: era da tanto tempo che non andava a Lakewood.

"Permette, signorina Ardlay?", le chiese l'autista prendendole la valigia.

"Grazie, Thomas, portala pure nella mia stanza", rispose lei con un sorriso.

Si sentiva nervosa come se fosse la prima volta che si recava nella villa degli Ardlay e non era solo dovuto al fatto che avrebbe rivisto Annie e Archie dopo quello che era successo: non vedeva l'ora di rivedere Albert dopo giorni che non l'abbracciava.

Se chiudeva gli occhi poteva ancora rivedersi, seduta con lui sotto papà albero.

Albert era appoggiato al tronco e Candy con la schiena contro il suo torace: le braccia le circondavano la vita in una stretta intima, le loro mani intrecciate.

"La faremo davvero quella vacanza, Annie e Archie vogliono rivederti in carne e ossa", le aveva sussurrato in un orecchio facendole venire la pelle d'oca fino alla base del collo.

Lei si era girata un poco per guardarlo, avvertendo il suo respiro sul viso: "Allora non scherzavi quando dicevi di aver bisogno di una vacanza, l'altro giorno".

Lui scosse la testa: "No, Candy, e credo che ne abbiamo bisogno tutti. E poi, come ti ho detto quella sera, è necessario che cominciamo a farci vedere assieme. Ci sarà anche la zia Elroy".

La sua espressione doveva essere mutata senza che se ne accorgesse, perché lui era scoppiato a ridere stringendola a sé ancora più forte: "Viene soprattutto per sorvegliare i due fidanzatini, credo che non si fidi di me", terminò con aria complice.

"Oh", aveva risposto lei sentendosi avvampare.

Poi lui aveva cambiato repentinamente discorso: "Lo hai già detto a Miss Pony e a Suor Lane?".

Candy capì di cosa parlava: "Albert, il giorno che sei venuto qui e abbiamo fatto quella festa, la sera, penso che tutti abbiano capito che non siamo più solo amici", disse con un sorriso.

"Hai ragione, la mia era una domanda sciocca: in effetti ho notato le occhiate che ci lanciavano. Almeno qui non dobbiamo nasconderci. Beh, un po' sì...". Poi l'aveva baciata con tenerezza, prima ancora che lei potesse sorridere della sua frase ironica. Poteva ancora sentire il suo fiato caldo che si insinuava nella sua bocca e poi la morbidezza della sua lingua che le carezzava le labbra...

"Candy!", la voce di Annie che la chiamava la svegliò da quel dolce ricordo e vide la ragazza correrle incontro con i capelli al vento.

Commossa, abbracciò Annie come se non si vedessero da una vita, invece che solo da poche settimane. La sua sorella acquisita le si strinse singhiozzando come una bambina: "Su, su, mi dispiace avervi fatto preoccupare, ma ora sono qui".

"Bentornata, cara Candy", la voce maschile, rotta dall'emozione, apparteneva ad Archie.

Delicatamente, si allontanò da Annie per abbracciare anche suo cugino. Lo sentì tirare su col naso e singhiozzare piano e qualche lacrima sfuggì anche al suo controllo.
"Coraggio, non fare come Annie, adesso", cercò di sdrammatizzare.

"Hai ragione, scusami, ma è stato orribile", rispose Archie ricomponendosi e asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. "Dai, entriamo in casa, Albert dovrebbe arrivare a minuti".
Con il cuore che accelerava nel petto a quella frase, Candy seguì i due nella stanza di Annie. Sembrava che quest'ultima non si stancasse mai di chiederle se stava bene e di guardarla come se volesse accertarsi che fosse reale.

Archie le guardava da un angolo, con gli occhi ancora rossi per la commozione. Candy gli sorrise, a disagio. Per fortuna non avevano ancora avvisato Patty o sarebbe stato un vero disastro.

"Candy, ma perché non ci hai mandato un telegramma? Albert ci ha detto che... che... ", la poveretta singhiozzava di nuovo e Archie le fece cenno che le avrebbe lasciate sole a parlare, defilandosi con discrezione.

Annie sembrava davvero sconvolta: la guardò negli occhi sorridendole: "Annie, non vi ho scritto perché non avevo idea che stessero avvisando le famiglie delle vittime. Non mi è passata mai neanche per l'anticamera del cervello una cosa simile, specie in quel momento...". Tirò fuori un fazzoletto e si apprestò ad asciugare le sue lacrime, anche se finalmente la ragazza si stava calmando.

"Lo capisco, però... avrebbero potuto accorgersi che la prenotazione era saltata", obiettò Annie prendendo il fazzoletto in mano.

"Io credo che in determinati momenti certe cose possano sfuggire di mente. Il receptionist si è affrettato a comunicare quanto accaduto non appena le acque si sono un po' calmate e per fortuna che se n'è ricordato! Ho avuto modo di parlargli, perché si è voluto scusare telefonicamente con me e con Albert per averci recato involontariamente tanto dolore. Ci ha chiamato persino il Dipartimento di Polizia, il commissario in carica temeva che gli Ardlay l'avrebbero fatto licenziare in tronco!". Candy cercò di farla sorridere.

"Oh, Candy, ero così presa da questo equivoco terribile che non ti ho neanche chiesto... sì, insomma, come è andata".

Candy prese un ansito profondo, cercando le parole: "L'ho lasciato, Annie", riassunse tristemente, "ma è strato straziante. Mi sembrava di vivere un incubo. Il dolore di Terry, la morte di quelle persone... era come se la mia decisione di recarmi a New York per sistemare le cose si fosse rivelata solo un'infinita fonte di sofferenza".

Annie chinò la testa: "Mi dispiace, Candy, per quello che hai vissuto. Quindi Terence l'ha presa molto male?".

"Stava per lasciarsi morire nell'incendio. È entrato per tentare di salvare quella signora e suo figlio e mi ha confessato di aver avuto il desiderio di non uscire più".

Annie emise un gridolino spaventato e lasciò cadere il fazzoletto a terra.

Candy si chinò a raccoglierlo e si mise a fissarlo come se potesse suggerirle come continuare: "Terry mi ha confessato di essersi sentito uno stupido ad averlo pensato e intende andare avanti con la sua carriera, ma sarò sempre preoccupata per lui".

"Ma sei sicura della tua decisione? Voglio dire...".

"Sì, con tutto il cuore", assentì Candy senza esitazioni.

"E... con Albert vi siete parlati?". Annie le fece la domanda con circospezione, come se temesse di essere indiscreta.

Candy si sentì avvampare: si erano parlati e anche baciati! Ma non le avrebbe confessato tanto. Annuì semplicemente: "Però, ti prego, non parlarne con nessuno. Se la zia Elroy dovesse venirne a conoscenza ora...".

"Stai tranquilla, sarò una tomba!", dichiarò Annie, poi si rese conto di ciò che aveva detto e si scusò.

Candy invece scoppiò a ridere di cuore: "Oh, Annie, se penso che Albert stava già organizzando il mio funerale, non so se ridere o piangere!".

"Io direi che non c'è niente da ridere", ribatté Annie con gli occhi di nuovo lucidi.

"Dai, non ricominciare a frignare, adesso! Hai ragione, non c'è nulla da ridere. E io vivrò sempre con questo senso di colpa: è come se avessi scambiato la mia vita con quella di una donna col suo bambino...". Ora era lei che rischiava di mettersi a piangere, passando da un estremo all'altro.

E, incredibilmente, fu Annie e consolarla: "Candy, devi superare questa cosa. Non è stata colpa tua, hai fatto solo una buona azione e ora devi andare avanti con la tua vita".

"Sì, hai ragione". Sospirò, guardando più attentamente quella che considerava sua sorella. "Mi dispiace moltissimo avervi fatto preoccupare, comunque. Annie, è da un po' che volevo chiedertelo, ma poi gli eventi mi hanno travolta... tu stai bene? Ultimamente ti vedo spesso pensierosa... distratta...". A quelle parole, il volto di Annie si adombrò e Candy si rese conto di averci visto giusto.

Nonostante le risate e i discorsi sul suo matrimonio imminente anche la famosa sera del ballo, da qualche tempo notava come un'ombra nel suo sguardo, come se non volesse affrontare l'argomento. A malapena le aveva accennato i dettagli della cerimonia e si rinchiudeva a riccio se tentava di azzardare il tema "corredo".

"Archie non è più lo stesso", disse infatti lei, dopo qualche esitazione. "Quando Albert ci ha comunicato la notizia della tua morte sembrava impazzito, non voleva neanche più starmi accanto".

"Che vuoi dire, Annie? Pensava che io fossi morta, era triste per questo, immagino", tentò di capire Candy.

"Lui... mi ha allontanata. Prima mi ha dato la notizia e ci siamo abbracciati piangendo, ma poi si è rinchiuso nel suo dolore e io nel mio. Per fortuna è durata poco, ma mi ha aiutato a capire delle cose... delle cose che...". Si portò le mani al volto, ricominciando a singhiozzare.

"Annie?", ora Candy era allarmata.

"Io... io credo che sia ancora innamorato di te!", esclamò facendola gelare.
 
- § -
 
Elroy Ardlay aveva appena congedato la sua cameriera quando udì la voce di quella Candy gridare il nome di suo nipote nel giardino.

"Albert!".

Fece una smorfia, stizzita che non lo chiamasse come si conveniva a una signorina dell'alta società. Lo trattava come se fosse suo amico, invece che il suo tutore e se prima poteva essere quantomeno comprensibile visto che non conosceva la sua identità, ora avrebbe dovuto diventare la regola.

Sbirciò dietro i vetri e quello che vide rischiò di farle venire un attacco di cuore fulminante: quella ragazza impudente era letteralmente volata tra le braccia di William e lui aveva ricambiato con gioia evidente quell'abbraccio. La stava addirittura facendo volteggiare!

Elroy socchiuse gli occhi quando si rese conto che i loro volti si stavano avvicinando troppo. Non riusciva a sentire cosa dicessero, così a bassa voce, ma per un attimo giurò che lo sguardo di suo nipote si rivolgesse verso le finestre da dove lei li stava guardando.

Temendo di essere colta in fallo e volendo andare fino in fondo a quella storia, la matriarca si scostò un poco dalla finestra solo per vederli dirigersi, mano nella mano, in un angolo del giardino dove lei non poteva vederli più.

Chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e strinse la mano a pugno, imponendosi la calma. Uscì dalla stanza e scese all'ingresso, dove li vide entrare di lì a poco e ciò la rilassò.

"Buongiorno zia Elroy, felice di rivederla, come sta?", le chiese Candy educatamente, facendo un lieve inchino.

La sua espressione non mutò, ma rispose al saluto con discrezione: "Sto molto meglio quando non sento le grida provenire dal giardino", ribatté lanciando un'occhiataccia a entrambi.

"Dai, zia, non sei felice che Candy sia qui?", tentò di deviare il discorso lui.

Elroy non lo assecondò. "Mi auguro che oltre a smettere di salutare le persone come se fossi una qualsiasi ragazzina di strada, impari anche a evitare di fare viaggi da sola. Se vuoi continuare a far parte della famiglia dovrai viaggiare come si confà a una signora, con una dama di compagnia, evitando alberghi di terz'ordine e segnalando sempre le tue destinazioni. D'ora in avanti non tollero situazioni che possano mettere in discussione il buon nome della famiglia!", puntualizzò.

"Mi... mi dispiace. Prometto che d'ora in poi non farò nulla che possa mettervi in difficoltà". Almeno ebbe la buona creanza di arrossire.

"William, Archibald come sai ha interrotto momentaneamente i suoi studi per seguire gli affari di famiglia. Mi pare che dall'ultimo suo viaggio non abbiate più avuto modo di parlare, perché non lo raggiungi in biblioteca e ne discutete?".

Vide il nipote scoccare un'occhiata a Candice, come se fosse dispiaciuto di non poter stare ancora con lei. Quella reazione la infastidì molto e le provocò una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco.

"Certo, zia, vado subito. A dopo, Candy".

Non le era sfuggita la differenza di tono tra le due frasi: a lei si era rivolto con freddo rispetto, a Candy aveva parlato con un calore che non gli aveva mai sentito nella voce.
 
- § -
 
"Com'è andato il tuo ultimo viaggio di lavoro?", chiese Albert a suo nipote, mentre sorseggiavano un tè in biblioteca. Non gli era piaciuto il modo in cui era stato costretto a salutare Candy, quasi di nascosto, e ancora meno aveva apprezzato l'intervento di sua zia appena rientrati. Ma cercò di concentrarsi su Archie, lui e Candy avrebbero avuto tempo per recuperare. "Mi spiace solo che al tuo rientro tu abbia trovato il caos", concluse riferendosi alla notizia della morte di Candy.

Il ragazzo emise un grugnito di disappunto: "Credevo di morire anch'io e non capivo come tu potessi rimanere tanto freddo". Aveva usato un tono così risentito che Albert ne fu quasi destabilizzato e dimenticò di chiedergli come andassero gli affari.  

Posò la sua tazza sul piattino e cercò di spiegarsi: "Archie, sai che come patriarca degli Ardlay devo mantenere... una facciata, specie davanti al Consiglio, vero?".

"Sembrava che non te ne importasse niente, mentre io... io...", si fomentò senza trovare le parole.

"Tu cosa, Archie?", gli domandò accigliandosi. Stava tornando in lui quel vago sospetto che non gli piaceva per niente.

Il nipote lo liquidò con un gesto: "Lascia perdere, non capiresti". Albert si limitò a guardarlo alzando un sopracciglio con aria perplessa e lui ebbe almeno la buona creanza di mostrarsi imbarazzato: "Scusa, non volevo intendere quello".

Da quando aveva visto la reazione eccessiva di Archie, Albert aveva avuto poco tempo per soffermarsi su quel particolare. Aveva semplicemente pensato che si trattasse del dolore di aver perso una specie di sorella. Ora però si faceva strada nel suo cuore una convinzione diversa e più inquietante. Candy gli aveva raccontato, in un'occasione, che lui e Annie erano finiti insieme ai tempi della Saint Paul School, proprio come era accaduto a Patty e al povero Stair.

"Qualcosa nella tua espressione mi fa sospettare che tu abbia fatto da Cupido", le aveva detto con un sorrisetto malizioso.

"Oh, no, erano destinati a stare insieme", si era schernita lei, ma era chiaro dal suo tono che aveva dato la spinta e fatto la differenza.

Albert si alzò e si mise a sistemare alcuni libri: "Il matrimonio è ormai imminente, ho intenzione di aiutarvi con i preparativi, se vi fa piacere. Candy mi ha detto che hai conosciuto Annie prima ancora che lei venisse a vivere qui con i Lagan", affermò cambiando completamente discorso.

Sbirciò suo nipote con la coda dell'occhio e vide i muscoli del suo volto tendersi: "Sì, io... l'ho incontrata allora. Ma era il periodo in cui Annie non voleva che si sapesse che era stata adottata alla Casa di Pony, così lei e Candy facevano finta di non conoscersi. All'epoca non sapevo cosa nascondessero quelle due, ma poi quando ci siamo ritrovati a Londra ho capito. Annie era stata spinta dalla madre a vergognarsi delle sue origini e temeva che anche io potessi giudicarla".

Albert non si era neanche accorto che stava stringendo con forza lo stesso libro per tutta la durata del breve racconto di Archie. Se fosse stato un oggetto di cristallo lo avrebbe fatto in mille pezzi: "Candy non me ne ha mai parlato", riuscì a dire.

"Lo sai com'è Candy", sorrise Archie amaramente, "non vuole far preoccupare nessuno, specie con storie del passato. Sai, all'epoca io, Stair e Anthony cercavamo di proteggerla come potevamo dalle cattiverie di Eliza e suo fratello, ma non sempre era facile, specie quando si mettevano di mezzo Sarah Lagan e la zia Elroy. Quando s'incontrò con Annie ci eravamo accorti che qualcosa non andava, ma come al solito cercava di nascondere il suo dolore. È stato più o meno in quel periodo che ti abbiamo scritto e per fortuna grazie a te non è arrivata fino in Messico. Mi ricordo ancora le lacrime di Anthony, quando pensava che non l'avrebbe più rivista".

Albert cercò di assorbire tutte quelle informazioni con il cuore che gli accelerava nel petto ad ogni parola: la sofferenza di Candy, l'indifferenza di Annie, l'istinto di protezione e il dolore del suo caro Anthony... Ma c'era una domanda che gli bruciava sulle labbra e pensava fosse giunto il momento di farla: "Anthony... non era l'unico a essere innamorato di lei, vero?", disse in un sussurro appena udibile.

Pensò di dover ripetere quella scomoda richiesta, perché Archie rimase in silenzio per un minuto intero prima di rispondere.

 "No".

Albert mise a posto il libro con un gesto deciso, poi sedette di nuovo di fronte a suo nipote: "Archie, immagino che tutto sia cambiato, col tempo. Oppure no?". Non voleva apparire minaccioso, ma per un attimo fu così che si sentì.

"Anche Stair era innamorato di lei", confessò in un bisbiglio.

Artigliò la poltrona con le mani, incredulo. Eppure non stentava a credere alle sue parole: chi non si sarebbe innamorato di Candy?

"Tutti lo siamo stati, Albert. Fu proprio Stair a dirmi che dovevamo accontentarci di guardarla da lontano: a quell'epoca il suo cuore apparteneva ad Anthony. Successivamente, fu proprio Candy a far incontrare Patty e mio fratello e... a indurmi ad accorgermi di Annie".

Albert era senza parole.

"È terribile da dire, ma penso che inizialmente cercai d'innamorarmi di Annie solo per far felice Candy. Lei è così diversa, così fragile... e col tempo sviluppai una sorta di istinto di protezione", spiegò riferendosi alla sua fidanzata.

"Archie, stai per sposarla. L'istinto di protezione potrebbe non essere sufficiente", si ritrovò a dire, ben sapendo che era stato proprio con quel sentimento che era cominciata la sua storia con Candy.

"Lo so", rispose Archie.

"Mi dispiace, non volevo essere indiscreto. Vorrei solo che tu sia felice e che non ci siano... mai motivi d'incomprensione". Sapeva di essere illogico ma non voleva che qualcun altro, oltre lui, potesse avere pretese su Candy.

Dopo una pausa nella quale Albert credette che l'argomento fosse ormai caduto, Archie gli domandò: "Sei mai stato innamorato, zio William?", domandò calcando sul nome.

La tazza di tè gli cadde quasi dalle mani: "No", mentì senza esitazioni.

"Bugiardo", ribatté in tutta risposta Archie.

"E tu? Di chi sei innamorato ora?", rimbeccò piantando il proprio sguardo nel suo.

Tra loro era appena accaduto qualcosa, anche se non era ben chiaro nemmeno a lui cosa. Albert si ritrovò a pensare ai leoni maschi della savana che si fronteggiavano per il possesso di una femmina: non era un paragone felice, né elegante, ma era quello più calzante.

L'aria era così carica di tensione che Albert pensò di aver esagerato. Poi Archie distolse lo sguardo.

"Non l'ho mai dimenticata del tutto. Non ci riesco. Sposerò Annie, perché a modo mio la amo. Ma non è lo stesso... tipo di amore". Si passò una mano tra i capelli, chiaramente sconvolto per aver dato voce ai suoi dubbi.

Albert chiuse gli occhi, respirando per calmarsi: "Archie, non pensi che dovresti fare chiarezza nel tuo cuore prima di renderla... rendervi infelici?".

"E a che servirebbe? Tanto Candy non mi amerà mai come vorrei. Il suo cuore appartiene a Terence e ora che si sono rivisti... che c'è?".

Si era alzato di scatto, non riuscendo più a fingere. Albert sapeva di potersi fidare di Archie, ma non era sicuro di poterlo fare ancora dopo ciò che gli aveva appena confessato: le cose si stavano mettendo male.

"Archie, non devi stare con Annie solo perché non puoi avere Candy, lo capisci?". Il suo tono era più duro di quello che avrebbe voluto e dall'espressione di suo nipote capì che si era scoperto troppo.

"Albert, ma tu... lo stai dicendo solo per me, vero? Non è che anche tu... non dirmelo, avete vissuto insieme per tanto tempo! Tu sei... Oh, mio Dio!".

"Silenzio, per favore, Archie, non dire altro!", gli intimò avvicinandosi a lui. Fu il suo turno di passarsi una mano tra i capelli, frustrato: "E comunque il punto non è questo".
"Non ci posso credere", stava dicendo con aria allibita.

"Archie!", lo ammonì.

"Non è possibile, Albert, è tua figlia!".

"Non è mia figlia! Insomma, Archie, stavamo parlando di te e Annie, no?".

Il giovane scosse la testa: "Io sto bene, va bene così. Ora che so che è viva posso stare sereno. Spero solo che quell'attorucolo da quattro soldi la renda felice o potrei ucciderlo con le mie mani".

Albert capì che c'era davvero troppa carne al fuoco, ma che doveva anche fare chiarezza rispetto a quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Perché sarebbe accaduto, prima o poi, anche se questo avrebbe significato l'infelicità di altri. Lui e Candy si appartenevano e su questo non aveva dubbi.

"Candy non sta più con Terence. L'ha lasciato. L'ha lasciato per me", disse d'un fiato.

La mascella di Archie cadde così di scatto che Albert pensò, divertito, che fortunatamente era attaccata alla testa o gli sarebbe rotolata via.     

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Capitolo 16
*** Di baci e ferite ***


"Finalmente ti ho trovata!", la voce di Albert le fece battere forte il cuore, come se non la sentisse da tempo. Stava accarezzando i musi di Cesar e Cleopatra.

"Credo che non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto un regalo così prezioso!", ribatté guardandolo con occhi adoranti e ricordando quando condivideva con loro la stalla per volere dei Lagan.

Era molto affezionata a quei due cavalli e riceverli come dono di compleanno da Albert l'aveva riempita di gioia. Adorava prendersi cura di loro quando tornava a Lakewood.
Lui le si avvicinò riempiendola di aspettativa e Candy rimase immobile mentre le sue braccia la circondavano, trasmettendole quel calore che tanto amava. Alzò il viso e incontrò i suoi occhi: li fissò con intensità, mentre gli portava le mani alla schiena e gli chiedeva, senza parole, di baciarla.

Il bacio che si erano scambiati dietro a quel cespuglio non l'aveva soddisfatta perché era stato troppo veloce e sbrigativo, con la zia che poteva vederli in ogni momento.
"Candy", disse lui dolcemente, carezzandole i capelli.

Lei chiuse gli occhi, attendendo quel bacio che non arrivava. Frustrata, li riaprì per vedere la sua faccia che a stento tratteneva una risata. Al limite dell'indignazione, fece per spingerlo via, ma lui la sorprese stringendola ancora più forte, non lasciandola scappare: "Non devi sempre aspettare che ti baci io. Mi pare che la prima volta sia stata tu a prendere l'iniziativa, o sbaglio?".

Era vero, da quel giorno sulla Collina di Pony non si era più azzardata a fare nulla di sconveniente, se non rispondere ai suoi baci.

"Ma... me l'avevi chiesto tu!", si giustificò.

"Te l'ho chiesto perché non sapevo cosa provassi. Ora lo so, quindi mi aspetto che tu sia più libera nell'esprimerti. Non lo siamo sempre stati con le parole? E tutte quelle volte che ti sei gettata fra le mie braccia? Devo pensare che ora che siamo fidanzati hai paura ad avvicinarti se non sono io a indurti?".

Candy lo guardò, perplessa: in fondo aveva ragione, ma sapeva che una donna non poteva permettersi di fare certi gesti e se era capitato non era certa che fosse opportuno ripetersi. Ma, alla fine, quando mai uno di loro due aveva seguito le rigide regole imposte dalla società? Lui aveva sempre viaggiato, libero come il vento e solo ora aveva cominciato ad occuparsi degli affari di famiglia. Lei era scappata da una scuola ed era diventata infermiera.

Il fatto poi che avesse detto quella parola, "fidanzati", la riempì di emozione e le fece perdere le ultime inibizioni, così Candy mandò al diavolo le convenzioni e fece ciò che le dettava il cuore: si strinse ad Albert, alzandosi in punta di piedi per arrivare alla sua altezza e premette forte le labbra sulle sue, intrecciandogli le dita tra i capelli.
La sensazione delle sue labbra fresche e dei capelli setosi tagliati da poco tra le dita la inebriò, ma qualcosa non andava.

Candy si rese conto che lui rimaneva fermo, come assecondandola senza forzarla e lei dovette fare appello a tutto il suo coraggio per imitare quel gesto decisamente più audace che lui aveva fatto altre volte per primo.

Con un po' di timidezza, sporse la punta della lingua fino a sfiorargli le labbra, socchiudendo leggermente le proprie con un brivido. Sapeva di essere inesperta e, nonostante si beasse anche di quel contatto così leggero, si domandò se lo stesse facendo nella maniera corretta.

Non era pronta alla reazione di lui.

Albert aprì la bocca nella sua, inducendola a spalancarla di più e ricambiò con tanto fervore che lei gemette a quell'esplorazione ardente. Non seppe perché lo fece, ma provava una sensazione di beatitudine tale che le parve di sentire il corpo farsi di gelatina, come quella sera alla Casa di Pony. D'istinto, si strinse di più a lui, aggrappandosi per non cadere e anelando qualcosa di più a cui non riusciva a dare un nome.

Fu allora che Albert si allontanò da lei, lasciandole di nuovo il vuoto dentro e fuori.

"Ho.. ho sbagliato qualcosa, vero?", disse tremando ancora per quel bacio così profondo e sperando che le ginocchia non le cedessero.

"No, piccola, non hai sbagliato niente. È per questo che adesso faremo qualcos'altro che non sia baciarci", disse lui con un sorrisetto.

Candy pensò che il viso le avrebbe preso fuoco: "Cio... cioè, cosa intendi?", chiese con il cuore in gola, facendo senza accorgersene un passo indietro.

Era un principio di rossore quello che vide sulle guance del suo principe prima che scoppiasse a ridere di gusto?

"Ma Candy, cosa hai capito? Intendo dire che potremmo fare una cavalcata con Cesar e Cleopatra e poi tornare a casa per cena, che ne dici?".

"Oh", Candy si nascose il viso con le mani, terribilmente imbarazzata. "È che tu mi hai parlato così tanto di libertà che io credevo... credevo...".

"Cosa credevi, Candy?", le chiese avvicinandosi a lei d'improvviso, con una voce suadente che le ricordò quasi Terry quando cercava di metterla in imbarazzo.

"Niente! Non credevo niente!", si affrettò a rispondere.

Albert trattenne un'altra risata, quasi strozzandosi e lei si senti sciocca: "Scusami, Candy, non volevo metterti a disagio", le ravviò i capelli, in un gesto tenero. "Se dipendesse da me ti sposerei oggi stesso e potremmo amarci senza riserve. Ma purtroppo dobbiamo rispettare delle tappe e nessuno sa ancora di noi. A parte...".

Candy, che ancora stava cercando di mettere ordine nei tasselli del suo cervello dove spiccavano le frasi "ti sposerei" e "amarci senza riserve", si domandò confusa chi altri potesse sapere di loro due. Beh, a parte Annie, ovviamente.

Oh, no, Annie doveva averlo detto ad Archie!

"A parte...? Oh, mi spiace, Albert, mi sono confidata con Annie e temo possa averlo detto ad Archie. È così, vero?".

Lui scosse la testa: "No, non è stata lei. Gliel'ho detto io. D'altronde, prima o poi dovevano saperlo, giusto?".

Candy spalancò gli occhi: "Davvero?".

"Davvero. Candy, Archie oggi mi ha detto delle cose che mi hanno preoccupato molto e credo che dovremmo parlarne".

Non poteva crederci, a quanto pareva i due fidanzati si erano confidati lo stesso giorno. Candy sentì la preoccupazione crescere: non poteva essere la stessa cosa di cui aveva parlato con Annie.

"Anche Annie mi ha confessato alcuni suoi timori. Ma le ho risposto che di certo erano sue fantasie infondate e sono riuscita a calmarla! Dimmi di Archie", lo pregò.

"Non qui, potrebbero venire a cercarci e voglio parlare con te senza interruzioni. Allontaniamoci con i cavalli".

Candy s'irrigidì. Non sapeva proprio come dirglielo: "Non posso. Non riesco ancora a... cavalcare da sola".

Albert la fissò dapprima stupito, poi la comprensione calò sul suo volto e i lineamenti si addolcirono in un'espressione di struggente empatia. L'abbracciò, mentre lei sentiva le lacrime pungerle gli occhi: "Verresti a cavallo con me, allora?".

Lei annuì, sapendo che si sarebbe goduta il momento magico in cui sarebbe stata stretta al suo principe, mentre volavano nel vento.

E infatti fu così.

Si ritrovò a riflettere sul fatto che le era accaduto prima con Anthony e le era sembrata una favola meravigliosa; poi aveva corso stretta a Terence e aveva rivissuto un incubo dal quale si era svegliata solo dopo qualche minuto; ora, finalmente, poteva dire di essere nel posto giusto, quello che sarebbe stato il suo per sempre.

D'altronde era sempre stato lui, fin dall'inizio. Quando aveva incontrato Anthony al Cancello delle Rose non l'aveva forse scambiato per il Principe della Collina? E, più tardi, vedendo Terence su quella nave che la stava portando in Inghilterra, non pensava che sotto ai suoi occhi ci fosse il defunto Anthony in persona?

Tutto tornava.

Tutto era cominciato con Albert, in realtà, e il cerchio si sarebbe chiuso con lui.

Candy sperò ardentemente che fosse così e che il destino l'avesse fatta soffrire tanto solo per ricondurla a colui che sarebbe diventato il suo uomo per il resto della vita.

   - § -
 
Quel rumore era infernale, assordante. Rimbombava nella sua testa come un fottuto martello pneumatico.

Terence si mise il cuscino sulla testa, cercando di scacciare il rumore ma non servì a nulla. Ora sentiva anche delle voci, una maschile che gli parve di riconoscere e una femminile.

"Candy?", biascicò nella semi incoscienza e la immaginò fuori dalla sua porta insieme ad Albert. Sbatté le palpebre, cercando di riemergere dalla fitta nebbia che lo circondava e si rese conto che era nel suo letto.

Era buio e si mosse per alzarsi e aprire la finestra: era notte o giorno?

Quando mise i piedi a terra urlò di dolore perché qualcosa gli si era conficcato nella pelle nuda. Ma non vedeva un accidenti, quindi tentò comunque di arrivare alla finestra, imprecando con parole che non si sarebbe mai sognato di poter pronunciare.

Mentre apriva le ante zoppicando, urtò qualcosa con l'altro piede e l'oggetto fece il rumore tipico di una bottiglia che rotola.

Una bottiglia?! Che il diavolo lo portasse all'Inferno, alla luce accecante del giorno che gli ferì gli occhi ne contò almeno una decina sul suo pavimento, alcune intere e altre in frantumi.

Come i frantumi che aveva nel piede e dentro al cuore sanguinante.

I colpi alla porta gli indicarono che qualcuno stava tentando di buttarla giù, così gridò: "Eccomi, arrivo!".

Avrebbe fatto a pugni con Albert e si sarebbe ripreso Candy. Questo gli suggerì una voce malsana nella mente.

Ma non gli servì aprire la porta per rendersi conto che quei due non erano Candy e Albert, dentro di sé lo sapeva già da qualche minuto. Ciononostante fu ugualmente sorpreso nel vedere Robert e Karen sulla soglia.

Le loro facce erano così spaventate che Terence pensò di avere altre ferite, oltre a quella al piede.

"Cristo santo, Terence, credevamo che fossi morto, stavamo per chiamare la polizia!", sbottò il suo capo allargando le braccia.

Karen, invece, lo guardò con un misto di rabbia e sollievo che lo fece quasi sentire in colpa: "Smettila di essere tragico, Robert. Ho solo dormito un po' più del dovuto, che bisogno c'è di fare tutto questo baccano?", si lamentò portandosi una mano alla testa.

"Un po' più del dovuto? Un po' più del dovuto?!", s'intromise la sua collega alzando il tono di un'ottava sulla seconda frase, perforandogli il cervello. Se non avesse preso qualcosa per quel mal di testa pensava che gli sarebbe esplosa.

"Non urlare!", si lamentò portandosi una mano alla fronte.

"Lo sai che giorno è, oggi, grande attore?", chiese abbassando la voce ma non di tanto.

"Che ne so... lunedì?", tentò.

"Mercoledì! È mercoledì, razza di idiota!". Terence aprì gli occhi di scatto.

Mercoledì? Questo significava che erano tre giorni che era rinchiuso nel suo appartamento e non si ricordava un accidenti di niente dalla sera dello spettacolo.

"Karen, ti supplico, cerca di rimettere in sesto questo ragazzaccio e portamelo in ufficio quando non puzzerà più di alcool. Ti è andata bene, Terence, se ti avessero beccato in queste condizioni saresti già in galera! Dobbiamo parlare molto seriamente, io e te". Senza neanche lasciargli il tempo di replicare, se ne andò.

Terence sentiva le viscere contrarsi per il digiuno e il vino ingerito, la testa pulsava maledettamente e la pianta del piede, dove sicuramente si erano infilati decine di pezzetti di vetro, gli mandava fitte regolari lungo tutta la gamba. Cercò di dire qualcosa a Karen, ma lei era sicuramente più fresca e riposata: in un passo fu dentro e si chiuse la porta alle spalle con un tonfo che lo fece sussultare.

"Senti, voglio che tu te ne vada. Mi faccio una doccia e...".

"NO!", gridò lei inviando un'altra, dolorosa, onda sonora al suo povero cervello.

"Mi fai il favore di non urlare?", pregò alzando la voce sulle ultime due parole.

Lei parve colpita da quella semplice richiesta e Terence si accorse, con orrore, che stava per mettersi a piangere. Lei, l'indistruttibile Karen. Pensò che non sarebbe riuscito a sopportare anche questo, aveva altro a cui pensare che una collega sull'orlo delle lacrime.

Invece di piangere, però, la ragazza fece un passo verso di lui e con un gesto lo spostò dalla sua traiettoria, infilandosi nella sua camera. Lo stupore e la sbronza gli avevano rallentato i riflessi in modo allarmante.

"Ma prego, accomodati! Fai come se fossi a casa tua. Entri sempre così nelle stanze degli uomini, tu?", rimbeccò seguendola.

Lei non parve fare caso alla sua insinuazione e, quando entrò in camera da letto sgranò gli occhi e si tappò il naso. Guardando dove metteva i piedi si apprestò a spalancare ancora di più la finestra, lanciandogli sguardi pieni di rimprovero: "Dove hai preso tutte queste bottiglie? Sei andato nei bassifondi per rifornirti al mercato nero? Lo sai che c'è una legge...".

"E tu lo sai che c'è una legge che vieta ai ficcanaso di violare le case altrui?! Chi ti ha dato il permesso di entrare in questo modo nel mio appartamento e di farmi la predica come se fossi mia madre?".

Sua madre. Ricordava vagamente di aver pianto tra le sue braccia, la sera dello spettacolo e poi... e poi... che era successo, poi?

Mentre la sua mente si schiariva con la stessa velocità di un cielo gravido di nuvole prima di una tempesta, Terence si preparò a un'altra sfuriata. Invece la ragazza abbassò la testa, chiaramente colpita.

"Hai ragione, scusami. Eravamo tutti molto preoccupati per te".

Ora la sua voce era più dolce, arresa. Terence sospirò, si ravviò i capelli e zoppicò fino al letto, cominciando a controllare il piede ferito: "Dannazione", imprecò ancora, pizzicando i frammenti di vetro con la punta delle dita e togliendoli delicatamente.

Il materasso che si abbassava accanto a lui gli indicò che Karen si era seduta lì accanto. La ignorò, continuando la sua delicata operazione: "Dovresti andare da un medico", disse con un tono rassegnato.

"Sai già che non lo farò, quindi non sprecare fiato", rispose senza alzare gli occhi.

Con un sospiro, lei si alzò e udì i suoi passi dirigersi in bagno. Poi cominciarono i rumori dei barattoli spostati nell'armadietto dei medicinali: Terence alzò gli occhi al soffitto.
Non aveva bisogno di un'infermiera. Anzi, sì, ma l'unica che avrebbe voluto al suo fianco era ben distante da lui e probabilmente già nelle braccia di un altro uomo. Quel pensiero lo colpì come un pugno al petto e le sue dita, invece di tirare fuori il pezzo di vetro, riuscirono a mandarlo ancora più a fondo.

Non avrebbe pianto più per Candy, men che meno davanti a Karen.

Era stufo di piangere un amore impossibile e di farsi vedere fragile. Di sentirsi fragile.

Karen tornò con una boccetta in una mano e delle pinzette in un'altra. Bastò questo per fargli saltare i nervi: "Smettila di preoccuparti per me!", urlò e con un gesto furioso le colpì le mani, facendo schiantare il medicinale a terra, assieme agli altri vetri.

Ora sì che avrebbe pianto e se ne sarebbe finalmente andata, lasciandolo solo con il suo dolore.

Invece lo schiaffeggiò, nonostante le lacrime che cominciavano a inumidirle gli occhi: "Ascoltami bene, Terence Granchester, o Graham, o quello che diavolo ti pare: non ti guarderò autodistruggerti e mandare all'aria la tua carriera per i tuoi problemi personali, mi hai capito? Robert vuole licenziarti e se non fossimo intervenuti io e gli altri tu staresti ancora su quel letto a ubriacarti, e chissà quando ti saresti accorto che sei caduto in rovina! Quindi ora ti farai togliere i vetri dal piede, poi andrai a farti una doccia, mangerai qualcosa e puliremo questo macello, sono stata chiara?".

Terence era sconvolto. Candy lo aveva sgridato molte volte, magari perché fumava o faceva battute sgradite. E, sì, lo aveva anche schiaffeggiato. Ma non lo aveva mai trattato così duramente, neanche a Rockstown, quando l'aveva visto recitare mezzo sbronzo in quella bettola: si era limitata a guardarlo con infinita tristezza.

Di fronte a quella donna, Terence si sentì come messo davanti alla propria coscienza, la stessa che gli aveva ordinato, solo pochi giorni prima, di rimettersi in riga e di non fare il ragazzino. Dove erano finiti tutti i suoi buoni propositi? Annegati nell'alcool, ancora una volta. Le nubi cominciarono a diradarsi e lui iniziò ad avere sprazzi di ricordi: la telefonata di quel George, la rappresentazione in teatro, le lacrime, sua madre che gli chiedeva decine di volte se sarebbe stato bene, lui che la rassicurava, la riaccompagnava in albergo e poi veniva apostrofato da un gruppo di tipacci in un vicolo per strada.

Tutte quelle bottiglie sparse a terra, gli incubi, altre lacrime... improvvisamente ricordò che aspettava una comunicazione che non era arrivata e si domandò se il telefono avesse squillato a vuoto.

Mentre ancora cercava di fare chiarezza, almeno quel dubbio fu fugato da un telegramma che Karen gli stava tendendo: "Me l'ha dato il portiere. La data è di un paio di giorni fa. Magari è importante". La ragazza si stava asciugando gli occhi e, mentre la sentiva vagare per la stanza tentando di rimettere ordine, strappò la busta.

Ogni promessa è debito. Stop. La signorina Candy sta bene ed è felice. Stop. George Villers.

Terence chiuse gli occhi, piegò la busta e si maledì mentalmente.

"Ho una notizia buona e una cattiva". La voce squillante di Karen lo riportò alla realtà. Non piangeva già più e ora tra le mani aveva bende e disinfettante. Terence la fissò come se avesse due teste.

"Quella buona è che posso medicarti il piede. Quella cattiva è che l'unico antidolorifico che avevi è andato in pezzi, quindi dovrai stringere i denti".

Se anche la sua vita non fosse stata in pezzi, probabilmente Terence sarebbe scoppiato a ridere.

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Capitolo 17
*** Nuovi propositi ***


"Archie prova ancora... dei sentimenti per te", disse Albert guardando l'orizzonte sopra al lago. Erano seduti sull'erba fresca e profumata ed era una giornata così limpida che gli parve di scorgere il panorama sulla riva opposta.

Il sospiro di Candy gli confermò che la conversazione con Annie non era stata molto diversa dalla sua: "Annie aveva proprio questo sospetto", disse infatti.

Il silenzio che seguì fu pesante. Albert raccolse un sassolino e lo fece rimbalzare sul lago una, due, tre volte prima che affondasse sollevando un piccolo schizzo d'acqua. Cercò di riordinare i pensieri e un'idea si fece strada nella sua mente.

"Pensavo che...".

"Io non credevo che Archie...".

Avevano parlato insieme, di nuovo, ma stavolta la coincidenza gli strappò un sorriso: "Prima tu", la incitò voltandosi a guardarla.

Candy abbassò gli occhi, mentre un leggero e delizioso rossore le si diffondeva sulle guance: gli apparve così adorabile che dovette trattenersi dal baciarla in quel preciso istante.

"Volevo solo dire che non credevo che Archie fosse ancora a questo punto. L'ultima volta che ha provato ad affrontare l'argomento eravamo alla Saint Paul School e da allora non l'ha più toccato".

Albert annuì, tornando a guardare il lago: "Sai, Candy, ho avuto modo di osservare mio nipote in questi anni e correggimi se sbaglio: con Annie è sempre stato bene, non è vero?".

Sentì Candy muoversi e protendersi verso di lui mentre rispondeva con enfasi: "Sì! È proprio per questo che non capisco come mai abbia dei dubbi proprio ora, a pochi mesi dalle nozze. Non voglio che Annie soffra per quella che potrebbe essere... beh, una semplice infatuazione. Per me lui è sempre stato come un fratello".

"Anche Anthony e Stair?", le chiese d'impulso, volgendosi un poco verso di lei e alzando un sopracciglio. Dopo averlo fatto, quasi se ne pentì.

Lei parve smarrita mentre la fronte si increspava in un'espressione perplessa: "Cosa c'entrano loro, adesso?".

Cercando con gesti tesi altri sassi nell'erba, Albert le raccontò dei sentimenti che i due fratelli e il suo nipote più diretto avevano nutrito per lei, secondo il racconto di Archie.
Candy ne parve sconvolta.

"Io... io non avevo idea che anche Stair... lui e Patty... Solo con Anthony mi sono resa conto...". Evidentemente imbarazzata, con la faccia tutta rossa e le mani nervose che torcevano l'erba, Candy gli parve ancora la cosa più bella in quel prato.

Doveva toccarla, voleva con ogni fibra del suo essere sentire la consistenza di quella pelle che ora doveva essere calda per il rossore.

Con delicatezza, le mise una mano sul viso e scoprì che aveva ragione. Si chiese dove fosse finita la donna intraprendente che lo aveva baciato almeno un paio di volte. Incontrò il suo sguardo e ne rimase, ancora una volta, abbagliato: "Scusami, non ha più importanza ormai. Però capisco perfettamente perché i miei nipoti ti amassero tutti così tanto. Non smetterò mai di essere grato a ognuno di loro per avermi suggerito di adottarti".  

"Oh, Albert, mi mancano così tanto...", mormorò lei mentre le lacrime cominciavano a brillare.

Dannazione, non voleva farla piangere! Serrò la mascella, a disagio, e le asciugò prima che cadessero, con cura e amore, come aveva sempre fatto: "Non piangere, mi dispiace averti portato alla mente ricordi tristi".

Candy sorrise e, scuotendo la testa, puntualizzò: "Oh, no, sono ricordi bellissimi. Nonostante i Lagan, non dimenticherò mai i giorni spensierati con Archie, Stair e... Anthony".

Albert, a quel nome, provò due sentimenti distinti: gelosia e vergogna. Gelosia perché era chiaro come il sole quanto Candy avesse adorato il figlio della sua cara sorella. Vergogna perché era morto in maniera atroce a soli quindici anni e lui lo amava immensamente.

Candy si ricompose subito e fece aderire la guancia contro la sua mano, approfondendo il contatto e trasmettendogli un piacevole brivido lungo tutto il braccio.

"A quanto pare, però, ti sei sempre preoccupata degli altri anche a costo di ferire te stessa, vero?". Non voleva che ci fosse una nota di rimprovero nella sua voce, ma non riuscì a farne a meno.

"Che vuoi dire?", chiese lei palesemente stupita, scostandosi per guardarlo meglio.

"Candy, tu ti sei preoccupata molto per Annie in passato e lo stesso stai facendo ora. Ma a quanto mi ha raccontato Archie, lei non ha esitato un attimo a metterti da parte per non sfigurare con l'alta società, non è così?".

La mano ricadde, non avendo più il contatto tiepido della guancia di Candy quando lei si volse e distolse lo sguardo, colpita: "Non vedo cosa c'entri ora. Sono cose che appartengono al passato e io non le porto rancore. E nemmeno tu, a quanto mi risulta, sei una persona che lo fa".

Stavolta fu lui a non avere il coraggio di guardarla. Si stupì di quanto fosse cambiato in pochi giorni. Tornò ancora una volta a tormentare il terreno erboso, affondando le unghie fino a strappare alcuni ciuffi. "Infatti non sono così, Candy, ma ora che le cose tra noi sono cambiate e che posso esprimere liberamente i miei sentimenti è come se avessi tutti i nervi scoperti. E mi fa molto più male quando so che qualcuno ti ha ferita, anche se è passato del tempo". L'erba gli volò dalle dita, portata via da un soffio di vento.

Sentì gli occhi di Candy di nuovo su di sé: "Non conoscevo questo lato di te".

"Nemmeno io", ammise allungando un braccio per toccarle i capelli. Come aveva fatto fino a pochi istanti prima con il prato, affondò le dita in quella massa di riccioli dorati, ma con dolcezza. Lei emise un sospiro che gli trasmise quanto avesse gradito quel tocco e Albert, non resistendo oltre, le sfiorò le labbra in un bacio. Leggero, proprio come il vento di quel giorno, un contatto appena accennato molto più gentile di quello che avevano condiviso nelle stalle poco prima. Evitò di spingersi oltre perché temeva di lasciarsi sopraffare dal desiderio di lei che gli cresceva dentro come un fuoco sotto la cenere, pronto ad ardere impetuoso non appena l'avesse smossa.

Altrimenti l'avrebbe baciata senza sosta, solo per recuperare il tempo perduto.

Ma non era ancora finita.

Doveva occuparsi di altro che non fosse Candy e questo lo frustrò. La strada per la loro felicità era ancora troppo lunga. Se Archie e Annie non si fossero più sposati sarebbe scoppiato uno scandalo e la zia Elroy avrebbe dato in escandescenze, prima di mettersi a cercare un'altra ragazza consona per il nipote più giovane. In tutto quel marasma, se lui avesse provato a parlare a lei e al Consiglio delle proprie intenzioni con Candy, sarebbe esplosa una vera bomba.

Sperava che lo scenario non fosse così brutto e cominciò a esporre a Candy la sua idea. Quando terminò, lei lo fissò con tanto d'occhi: forse, dopotutto, quello era un pessimo piano.

"Sì, lo so che è un po' eccessivo, ma è l'unica cosa che mi è venuta in mente. Hai idee migliori?".

Lei parve pensarci su un attimo, inclinando la testa poi fece segno di no col capo: "Direi di no. Certo, sono stati già separati in passato ma.. vale la pena tentare".

"Bene!", esclamò lui rinvigorito. Si alzò in piedi, scacciando i pensieri negativi e le allungò le mani per aiutarla a fare altrettanto.
 
 - § -
 
Annie aveva letto molti romanzi in cui accadevano eventi facilmente prevedibili. Alcuni erano scritti molto bene, altri sembravano tutti uguali, uno la brutta copia dell'altro: nella stragrande maggioranza, c'erano storie d'amore che si concludevano più o meno con un lieto fine.

Quando aveva incrociato Archie nell'atrio, ancora sconvolta per aver finalmente dato voce ai suoi dubbi su di lui, le parve di essere caduta proprio in uno di quei cliché. La protagonista che confessa le sue pene e poi incontra proprio l'oggetto dei suoi timori.

D'altronde, per quanto fosse grande la villa, si trovavano entrambi lì e non si trattava certo di un caso così fortuito. Ciò che le sembrò più sorprendente, però, fu che anche lui sembrava sconvolto.

Si fermò nel bel mezzo della scala, stringendo il corrimano con un gesto involontario: la sensazione del metallo freddo sulla pelle le fece venire un brivido alla schiena.
"Annie", la chiamò lui dal basso con un tono che sembrava stupito e teso al contempo: "Credevo che fossi ancora in camera tua con Candy".

Fece un passo come se volesse raggiungerla, ma rimase dov'era e Annie scese un altro scalino. Temeva quasi che, una volta che si fossero avvicinati e che le scale fossero finite, sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile.

Avevano già avuto una conversazione in merito al loro rapporto più di una volta, ma lei preferiva relegare le sue paure in fondo al cuore tentando di seppellirle come se non avessero peso. Ma era inutile continuare a evitare il chiarimento definitivo: tra qualche mese si sarebbero sposati e allora non avrebbero più potuto tornare indietro.

"È andata nelle stalle a trovare Cesar e Cleopatra", rispose guardandolo negli occhi, rendendosi conto che lui invece cercava di distoglierli. Sapeva che aveva parlato con Albert in biblioteca, ma non capiva come mai quella conversazione lo avesse sconvolto al punto da restarsene lì impalato come se temesse anche lui di avvicinarla. Possibile che provassero gli stessi sentimenti contrastanti? Che con suo zio avesse dato voce ai propri dubbi e ora temesse il confronto con lei?

"Beh, probabilmente sono andati a fare una cavalcata insieme, lei e Albert". Subito dopo, come se gli fosse sfuggito qualcosa di scomodo, si affrettò ad aggiungere: "Di sicuro lo zio voleva darle la possibilità di stare con loro, Candy è innamorata di quei cavalli!". Fece una risatina nervosa e lei scese altri due scalini. Nelle orecchie le rimbombò il suono attutito della moquette sotto le scarpe: era come il rintocco di un orologio che segnava l'avvicinarsi del momento fatale.

"Io, invece, penso che finalmente abbiano ammesso i sentimenti che provano l'uno per l'altra", rispose con tono fermo, cercando ancora una volta il contatto visivo con Archie ed evitando di rivelargli i particolari della sua chiacchierata con Candy. "Ricordi? La sera della festa abbiamo notato entrambi gli sguardi che si lanciavano". 

Finalmente, Archie la guardò e le sorrise: "Credo proprio che tu abbia ragione, Annie". Sembrava più rilassato a parlare di qualcosa invece che stare lì a vederla scendere con lentezza esasperante le scale.

Annie si era sempre considerata più debole di Candy ed era evidente a chiunque la differenza tra il suo carattere chiuso e timido e quello solare e ribelle della sua sorella acquisita. Ora le sembrava molto più plausibile come avesse finito per innamorarsi di uno spirito libero come Albert. Sospettava che, se avesse deciso invece di rimanere con Terence, la loro indole avrebbe finito inevitabilmente per farli discutere.

Per lei era tutto più semplice: non amava ribellarsi, accettava quasi sempre con pacatezza le decisioni e si sottometteva a ciò che la vita le offriva con gratitudine e senza discutere. Ma, ora che si avvicinava il proprio matrimonio, sentiva l'urgenza di risolvere qualsiasi cosa fosse rimasta in sospeso con Archie.

Annie prese un respiro profondo e, ancora una volta, strinse il freddo ottone del corrimano sentendo che anche nel suo cuore la temperatura si stava abbassando. Gettandosi nell'ignoto, scese gli ultimi scalini senza interrompere il contatto visivo con il fidanzato.

"Dobbiamo parlare", disse semplicemente e vide la comprensione calare sul suo volto. Ma fu solo un attimo: scomparve immediatamente, sostituita da uno sguardo perplesso. In realtà, poteva vedere bene come Archie fosse sulla difensiva dal modo nervoso con cui deglutiva, sbatteva le palpebre e faceva persino un altro passo indietro: sembrava quasi intimorito.

Ma lei non sarebbe tornata indietro, non più.  

Non voleva essere una seconda scelta, né l'ombra della donna ideale. Lei era Annie Brighton e si era stancata di far parte di un romanzo pieno di luoghi comuni.
 
- § -
 
Terence si sentiva di nuovo quasi un essere umano. Dopo essersi ripulito e aver ordinato la sua stanza, aveva seguito Karen da Robert Hataway, non prima di aver messo qualcosa nello stomaco.

La ragazza era stata insolitamente silenziosa e non le aveva fatto più alcuna predica, limitandosi a suggerire di chiamare una carrozza o un taxi per evitare che usasse troppo il piede ferito.

I problemi erano cominciati nell'ufficio del suo capo, con un pugno sulla scrivania: "Io ti do di nuovo la mia fiducia e tu mi ripaghi così?!", aveva sbottato stringendo tra le dita il suo sigaro come se volesse stritolarlo.

"Non succederà più, Robert, io...", la sua giustificazione aveva scatenato altre urla. Gli stava tornando il mal di testa e il piede gli pulsava. Voleva solo uscire di lì a comprare un analgesico abbastanza forte, poi tornarsene a casa e bere mezzo litro di caffè per eliminare gli ultimi postumi della sbornia.

"Immagini che scandalo se il primo attore della compagnia Stratford venisse trovato a consumare alcool illegalmente? Hai idea delle ripercussioni su di me, che ti ho accordato...?".

"Ho detto che non succederà più!", quasi aveva gridato Terry, pur di mettere a tacere quella voce tonante.

L'uomo aveva sbattuto le palpebre, chiaramente colpito e infastidito da quella reazione. Ora, mentre lo guardava sedersi di nuovo e riacquistare la calma mentre aspirava dal sigaro, Terence ebbe solo voglia di rimettersi a fumare a sua volta.

Alla faccia dei buoni propositi.

"È sempre per quella ragazza, vero? Mi avevi chiesto un giorno libero: è venuta a trovarti?".

Terence strinse i pugni: non voleva che qualcuno parlasse di Candy e ficcasse il naso nei suoi affari: "Chi è stato a metterti queste idee in testa? Karen?", chiese urtato.

"Non importa, è chiaro come il sole che qualcosa in te non va. Prima era Susanna, ora è di nuovo una questione di cuore o il successo ti ha dato alla testa?".

Sospirò, cercando di controllarsi: "Non sono affari tuoi, Robert".

"Lo sono, maledizione!", esplose di nuovo, sbattendo un altro pugno e facendolo sussultare suo malgrado. "Lo sono dal momento che lavori per me e che se mandi in malora un altro spettacolo qui fallisce tutto! Non sono disposto a ipotecare il futuro della mia Compagnia per un ragazzino capriccioso, per quanto bravo possa essere, mi hai sentito Terence Granchester?".

"Graham, il mio cognome ora è Graham", lo corresse a denti stretti.

"Sì, quello che è!", ribatté Robert agitando le braccia in aria con noncuranza.

Per qualche istante non parlò, limitandosi a camminare avanti e indietro mentre prendeva ampie boccate dal sigaro. Terence era certo che stesse meditando di licenziarlo lì, su due piedi e, sorprendendo se stesso, non  provò alcun rimorso. Magari avrebbe davvero accettato la proposta di quell'impresario che voleva fargli fare un film con sua madre, per quanto l'idea lo allettasse ben poco.

Dopo qualche istante, invece, il suo capo sedette ancora e parlò con voce più calma: "Hai mai pensato di farti aiutare da un professionista, Terry?", gli chiese.

Lui alzò gli occhi per guardarlo, stupito: aveva capito bene?

"Mi stai suggerendo di andare da uno strizzacervelli, Robert?". L'idea gli fece quasi venir da ridere, ma si trattenne.

"Si tratta di un medico specializzato nella... nella mente umana", rispose agitando una mano mentre cercava evidentemente i termini da usare. "Magari ti fa tirare fuori parti di te che non conosci e parlando con lui puoi risalire al disagio...".

"Ne parli come se ci fossi andato a parlare tu, Robert", lo schernì.

"Insomma, non m'interessa come risolvi i tuoi problemi personali, Terence. O ti rimetti in riga o sei fuori. La prossima settimana partiamo per la tournée e ti avviso: al prossimo passo falso ti abbandono e cancello le date addossando a te tutta la responsabilità. Io potrò rialzarmi ma la tua carriera potrebbe finire in quel preciso momento".

Terry strinse i pugni: "Ora passi anche alle minacce?".

"Non è una minaccia, è una promessa".

La loro conversazione terminò lì e Terence decise che per ora avrebbe seguito semplicemente i suoi piani di tornare a casa e bere caffè, non prima di essersi rifornito in farmacia.

Aveva bisogno di stare solo e riordinare le idee. Da quando Candy se n'era andata non aveva avuto modo di rimanere con se stesso molto a lungo, perché lo spettacolo lo aveva tenuto impegnato. Poi, quando finalmente era stato libero di starsene un po' in pace, si era obnubilato la mente con l'alcool.

Per ricostruire la propria vita doveva essere lucido, invece. Ripensò alla distruzione dell'albergo, alla preoccupazione di sua madre e ricordò di aver fatto una promessa a Candy. E a se stesso.

Sospirando, Terence decise che non poteva continuare così: se non si fosse rialzato, la sua vita sarebbe stata rovinata irrimediabilmente. Doveva farsi forza senza cercare surrogati pericolosi e, anche se gli sarebbe costato molto caro riuscirci, s'impose di tentare.

A ogni costo.
 
- § -
 
Archibald Cornwell era sbalordito. Non c'erano altri termini più adatti al suo stato attuale, eppure quell'aggettivo non gli parve ancora abbastanza adeguato. Da quando Annie lo aveva trascinato nella sua stanza, che a sua detta era più vicina, gli era venuto in mente innanzitutto che non era consono che rimanessero da soli in camera, specie con la zia Elroy che li teneva d'occhio solo perché erano prossimi al matrimonio.

Invece erano lì, al centro della sua camera da letto, tra la porta e la finestra.

Aveva avvertito la rabbia che emanava e si era chiesto se per caso non avesse udito la sua conversazione con Albert. Quello sì che sarebbe stato grave! Stava ancora cercando di convincersi che non era successo nulla di simile quando le sue parole lo investirono come una doccia gelata: "La ami ancora, vero?".

Archie era rimasto immobile, deglutendo a secco e con l'espressione di stupore congelata sul volto, senza azzardarsi a muovere un muscolo. Per un attimo vagliò l'ipotesi di scappare, visto che la porta era rimasta accostata, ma sarebbe stato da vigliacchi.

Pensa, pensa!

"Io... uh, di cosa parli, tesoro?", chiese capendo subito che reagire così sarebbe stata una pessima idea.

Infatti lo fu.

"Non chiamarmi tesoro!", urlò Annie facendolo quasi barcollare. Annie urlava. Annie era arrabbiata. Forse, tutto sommato, quella davanti a lui non era Annie.

Aveva stentato a riconoscerla fin da quando si erano incrociati sulla scala e la tensione fra loro era esplosa in un'aria densa di silenzi e frasi di circostanza.

"Tes... Annie, vuoi spiegarmi perché sei così arrabbiata con me?", le chiese cercando di usare un tono fermo e fallendo miseramente.

Lei fece un lungo sospiro, come per contenere la rabbia, si voltò e si posizionò davanti alla grande porta finestra che dava sul balcone guardando fuori. Per un attimo, Archie la immaginò mentre saltava sul primo albero e si calava in giardino come faceva Candy ai tempi della Saint Paul School.

Che pensiero bizzarro!

"Che ne diresti se lo facessi anch'io?", lo sorprese lei ancora una volta. Il respiro gli si mozzò in gola.

Oddio, ha imparato a leggere nel pensiero!

 "Cosa... cosa intendi? Non ti capisco", balbettò sentendo un sudore freddo e viscido colargli lungo le tempie e la schiena.

Lei si girò e sul suo viso non era rimasto nulla della Annie che conosceva: sembrava una maschera di dolore e furia.

"Cosa intendo? Intendo saltare su un ramo e arrampicarmi come fa lei! Essere allegra ed espansiva come lei! È così che ti piacciono le ragazze, vero? Irruente, vivaci! E invece sei finito con me, che sono... sono...". Le sue spalle cominciarono a essere scosse dai singhiozzi e Archie le si avvicinò d'istinto.

Non era affatto preparato alla sua reazione: "Non ti avvicinare!", gridò ancora, schiaffeggiandogli via la mano che stava allungando per toccarla.

"Annie...", tentò con voce conciliante.

"E cos'altro vorresti che fossi, anche più intraprendente come... come in un romanzo rosa, di quelli che si leggono ora?". Archie non si accorse che stava indietreggiando. Dopo quella frase, la nuova Annie aveva cominciato a camminare nella sua direzione a grandi passi e lui ora aveva quasi le spalle al muro.

Ho paura di lei? Cosa può farmi, picchiarmi? Leggermi dentro? Non lo sta forse già facendo?

Rimase così per istanti che gli parvero eterni, mentre Annie, la dolce e timida Annie prima lo guardava con un'intensità a lui sconosciuta, poi gli afferrava il volto e, con uno scatto improvviso, chiudeva la distanza in quello che era il loro primo bacio.

E non era stato lui a prendere l'iniziativa.

La sentì tremare contro di sé, ginocchia contro ginocchia, petto contro petto, mentre pigiava la bocca fresca e morbida sulla sua. E, fosse dannato, lui non riuscì a far altro che rimanere fermo, gelato e con gli occhi spalancati dalla sorpresa, mentre la sensazione del corpo di Annie premuto contro il suo lo inebriava tanto quanto il suo profumo leggero e fruttato.

Perché non ho mai pensato di provare le sue labbra? Non avrei mai creduto che baciarla fosse così... così...

Una voce maschile interruppe bruscamente quell'incanto: "Archie, scusa, io... oh!".

In meno di un secondo Annie era sparita e lui aveva ripreso a respirare. Non si era accorto di aver trattenuto aria nei polmoni dopo aver inalato l'odore delizioso di Annie, né di essersi goduto quel bacio finché lei non lo aveva lasciato libero. Alzò gli occhi su suo zio, che aveva la faccia stravolta.

"Mi... mi dispiace, ma la porta era aperta, non sapevo...", era chiaramente in imbarazzo.

"Non lo sapevo neanche io", riuscì solo a dire passandosi una mano tremante tra i capelli e crollando a sedere su una poltrona.

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Capitolo 18
*** Di risate e decisioni drastiche ***


Elroy Ardlay non capiva cosa fosse tutto quel baccano. Che diamine, le sembrava di stare in casa con quattro bambini anziché con degli adulti fatti e finiti! Prima aveva sentito urlare, poi chiudere e riaprire porte, quindi si era affacciata alla finestra e aveva scorto di nuovo suo nipote William e quella Candy camminare fin troppo vicini.

Si portò una mano alle tempie, massaggiandole un poco mentre li seguiva con attenzione dai vetri: tra l'aria di tragedia che si era respirata qualche giorno prima e quella sottospecie di atmosfera ludica che c'era al momento attuale, la matriarca degli Ardlay non sapeva cosa fosse peggio.

Certo, vedere suo nipote finalmente felice le faceva un immenso piacere e ancora non si capacitava di come non avesse voluto denunciare il corpo di polizia che aveva comunicato loro una notizia tanto tragica senza prima ascoltare adeguatamente tutte le fonti. Era chiaro come il sole il sollievo con cui aveva informato il Consiglio dell'errore, ma di lì ad amoreggiare apertamente con la sua figlioccia ne passava di acqua sotto i ponti!

Strinse le labbra in un gesto di stizza nel rendersi conto di come William le parlava all'orecchio, avvicinandosi fino a sfiorarla.

Inaudito!

Già da tempo si era resa conto che si vedevano sempre più spesso, inoltre William aveva avuto la malsana idea di investire dei soldi in quell'orfanotrofio e Candy di permettersi di scriverle come se fosse sua zia. Insomma, sì, faceva parte della famiglia, ma non certo per sua volontà! Fosse stato per lei, quella Candice White non avrebbe avuto il loro cognome nemmeno per sbaglio.

Eppure... eppure tutti i suoi nipoti sembravano essere caduti sotto al suo incanto. Certo, non poteva negare che fosse molto bella, ma mancava di classe e soprattutto le sue origini erano ignote. Pensò con orrore al momento in cui William avesse avuto la pretesa di farla diventare qualcosa di più che una semplice protetta e si ripeté che no, non poteva accadere, non sotto al suo naso, almeno!

Le mani torsero la gonna e le sopracciglia si aggrottarono ancora di più, se possibile.

Mentre li guardava discutere e ridere nel giardino con tanta complicità, rifletté sul fatto che mancavano ancora una decina di giorni al termine di quell'assurda vacanza forzata e decise che era ora di movimentare un po' le cose con nuovi ospiti.

D'altronde, anche loro erano suoi nipoti.  
 - § -
 
Candy non riusciva a smettere di ridere: era più forte di lei. Guardò la faccia perplessa di Albert, gli occhi spalancati e le sopracciglia un po' inarcate e questo la fece ridere ancora di più.

"Insomma, Candy, comprendo che forse sia una cosa buona, ma non capisco come mai un semplice bacio solletichi la tua ilarità in questo modo!".

"È che... è che penso che l'espressione di Archie in quel momento fosse molto simile alla tua adesso!", rise ancora, tenendosi la pancia e piegandosi in avanti. Fortuna che erano seduti su una panca del giardino, o sarebbe caduta a terra!

Albert s'indicò con il dito: "Perché, che espressione ho?", chiese con genuina sorpresa, sbattendo le palpebre.

"Di uno che non ci capisce più nulla!", disse in un singulto strozzato, asciugandosi l'angolo dell'occhio dove le risate l'avevano fatta lacrimare.

"Oh...", fece lui annuendo lentamente. Bastò la sua espressione poco convinta e ancora molto confusa per provocarle un nuovo accesso di risa. Forse pensava di avere a che fare con una pazza e la stava solo assecondando.

Candy tentò di dominarsi, respirando a fondo e sventolandosi il viso con le mani: "Va bene, va bene, devo sembrarti pazza", si schernì dando voce ai propri pensieri.
"Affatto", riprese Albert con tono dolce, "mi sembri bellissima. Te l'ho sempre detto che sei più carina quando ridi che quando piangi".

Bastò quella frase magica per riportarla in uno stato di calma beatitudine: "Mi piace quando me lo ripeti", mormorò chiudendo gli occhi.

Lui le sorrise: "E a me piacerebbe baciarti, ora, ma temo che la zia Elroy ci possa vedere dalla finestra, quindi credo che dovrò rimandare il mio proposito".

Si limitò a guardarlo e tra loro avvenne una muta conversazione fatta di sguardi e di brevi sospiri. Vide riflesso, nei suoi occhi, il suo stesso desiderio di non avere più alcun ostacolo. Avvicinare i volti, sfiorarsi le labbra, inspirare una il profumo dell'altro, perdersi di nuovo in un bacio.

Ci sarebbe stato il tempo in cui non avrebbero più dovuto nascondersi, ne era certa, ma non ora.

Ora doveva essere paziente.

Candy tentò finalmente di spiegarsi: "Non riesco proprio a immaginare Annie che mette al muro Archie per baciarlo", dichiarò arrossendo un po'. Per quanto si sforzasse, non riusciva davvero a evocare l'immagine della sua timida sorella acquisita che si approcciava al fidanzato in quei termini. Lei stessa si stupiva della propria, recente audacia con Albert.

"Nemmeno io ci sarei riuscito fino a qualche minuto fa", ribatté Albert con il fantasma di un sorriso sul volto, "e a quanto mi ha detto mio nipote neanche lui".

"Devi sapere che fin da piccola lei è sempre stata così timida e chiusa che io le facevo quasi da mamma. Anzi, una volta ho finto persino di essere il suo papà", ridacchiò, imitata da Albert e si portò una ciocca di capelli sul labbro superiore proprio come in quell'occasione. "Un giorno l'ho trascinata a fare un picnic e ho... preso in prestito il vino di Miss Pony. Ci credi che sono riuscita a farlo bere anche a lei?".

L'espressione oltraggiata di Albert le fece venir di nuovo voglia di ridere: "Ma... Candy!".

"Esatto! È la stessa cosa che mi ha detto Annie stessa la sera del ballo, quando... quando...".

Quando le ho detto che non avrei messo il corsetto e che forse avrebbe dovuto farlo anche lei, stava per confessargli, ma si vergognò e arrossì.

Albert ora la fissava con curiosità, un sopracciglio alzato: "Di che diavolo avete parlato tu e Annie? Sei diventata più rossa di una peonia".

Lei lo liquidò con un gesto della mano, distogliendo lo sguardo: "Oh, una sciocchezza da donne, davvero. Solo che lei s'imbarazza a ogni più piccola allusione, per questo non so cosa darei per averla vista in quel momento! Dai, dimmi di nuovo come li hai trovati", insisté curiosa.

Albert si grattò la testa, pensieroso, poi spiegò: "Beh, come ti ho detto Archie era quasi al muro e lei gli stava... come dire, molto attaccata", gli scappò una breve risata.
"Molto attaccata come?", chiese Candy ricominciando a essere solleticata dall'ilarità.

"Guarda, te lo farei vedere io stesso ma siamo troppo vicini alle finestre. Insomma, aveva la faccia di Archie tra le mani", spiegò emulando il gesto nell'aria. La voce gli si spezzò e cominciò a ridere anche lui. "Sembrava... sembrava molto concentrata in quello che faceva e io non sono affatto un gentiluomo a descriverla così!". Più parlava, più veniva scosso dalle risate. "Oh, povero me, mi hai davvero contagiato!", aggiunse, portandosi una mano alla fronte.

"Ma scusa, lui non la ricambiava?", cercò di chiedergli, sghignazzando di nuovo apertamente.

Albert scosse la testa in segno negativo, senza riuscire a smettere: "Non... non credo abbia avuto... neanche il tempo... di capire cosa gli stesse facendo...", singhiozzò rovesciando la testa indietro e ridendo più forte.

"Dai, ora basta! Siamo veramente cattivi a prenderli in giro così!", gli intimò dandogli una spinta giocosa sul braccio, ma senza riuscire a contenersi nemmeno lei.

"Senti chi parla! E poi siamo solo contenti per loro, no? Magari risolvono le cose senza che noi mettiamo in atto subdoli piani stile Lagan!", ribatté Albert sfarfallando le dita delle mani e spalancando gli occhi con aria tragicomica.

"Non paragonarci a loro. Volevamo solo avvicinarli! Ma a quanto pare ci hanno già pensato da soli", ribatté cercando di tornare seria.

"Va bene, basta ridere di loro, hai ragione, siamo due pessimi Cupido", si arrese Albert asciugandosi gli occhi.

Rimasero per un po' in silenzio, riprendendo il controllo. Quando fu sicura di non avere più voglia di ridere, Candy chiese: "Credi che dovrei andare a parlare con Annie?".

Lui si riavviò i capelli con una mano, sbuffando: "Non lo so, è scappata via come una furia e non sono riuscito neanche a capire quanto fosse sconvolta. Di sicuro Archie lo era, mi spiace di averli interrotti". Le sue spalle ricominciarono a sussultare, segno che cercava di trattenere nuove risate. "Forse dovrei parlare con lui, aveva gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma!". Si mise una mano sulla faccia, cercando di trattenersi e fallendo miseramente.

Candy scoppiò di nuovo a ridere di conseguenza: "Ma non si bacia a occhi aperti! Credo che dovrai insegnargli tu che se si bacia una ragazza, o una ragazza ti bacia, gli occhi vanno chiusi!".

"Oh, che lo impari da solo!", fece lui in tono scandalizzato, aggrottando le sopracciglia.

"Albert! Ma cosa hai capito?!", ribatté lei dandogli un colpetto sulla spalla.

Lui l'abbracciò, senza smettere di ridere: "Scherzavo, scherzavo! Oh, Candy, non credevo che avrei mai più riso così tanto", disse a un certo punto, mettendo di nuovo fine alla loro ilarità.

Lei si cullò per un po' nel suo abbraccio, poi mormorò: "Mi piacerebbe rimanere così, ma se ci vedessero...".

Albert alzò gli occhi al cielo: "Che ci vedano, comincia a diventare impossibile per me controllare ogni singola reazione. È come se mi fossi svegliato da un lungo sonno e finalmente mi sia concesso ridere, piangere, amare ed esprimermi liberamente. Proprio come un vagabondo in fuga in Africa".

Candy lo guardò: "Vuoi fuggire di nuovo?", gli chiese preoccupata.

"No", disse lui con tono fermo. "O, almeno, non senza di te. Ho intenzione di prendermi le mie responsabilità, anche se mi concederò qualche libertà. Però se le cose dovessero mettersi male e il Consiglio dovesse impedirci di stare insieme... beh, rinunceresti al ricco prozio William per sposare un vagabondo di nome Albert?".

Candy rimase senza fiato: aveva davvero pronunciato il verbo "sposare"?

Adesso il suo volto arrossato per le risate era così vicino che poteva sentire il respiro tiepido di Albert sulle labbra. Dovette dominarsi per non baciarlo.

"Ti seguirei ovunque", gli disse seria, con il cuore che le batteva all'impazzata, "anche se dovessimo passare la vita a dividere panini".

"Questo mai, piccola. Per quanto squattrinato possa diventare ti offrirò sempre una vita dignitosa", dichiarò allentando la stretta e facendole un elegante baciamano. "Ora che ne dici di rientrare e sondare le acque?".
 
- § -
 
Archie bussò alla porta della zia Elroy con il cuore in subbuglio: avrebbe rivisto Annie e, dopo quello che era accaduto tra loro, non si erano neanche chiariti.
"Avanti!", lo invitò a entrare la nota voce altera.

Con un sospiro, girò la maniglia e non fu sorpreso quando vide Annie che gli dava le spalle. Si voltò solo per un istante, facendo un leggero cenno del capo ma senza guardarlo direttamente negli occhi: qualunque cosa l'avesse animata qualche ora prima, ora era scomparsa.

O sopita.

Accanto a lei c'erano Candy e Albert e non poté fare a meno di notare come quest'ultimo avesse una luce strana negli occhi quando lo vide: Archie non capì se fosse malizia o curiosità, ma sapeva che con lui si sarebbe potuto confidare serenamente, se ne avesse avuto bisogno.

Sedette accanto alla sua fidanzata cercando di mostrarsi tranquillo e si dispose ad ascoltare cosa avesse da dire la zia.

"Volevo avvisarvi che ho invitato qui a Lakewood anche i vostri cugini Eliza e Neil", esordì da dietro il suo scrittoio di mogano, strappandogli un gemito di disappunto che a malapena riuscì a contenere. Scoccò un'occhiata di traverso agli altri e vide volti appena composti.

"D'altronde, William, se la tua idea era quella di una vacanza fuori programma per festeggiare il... ritorno di Candice avresti dovuto pensarci tu stesso", puntualizzò lanciando allo zio uno sguardo gelido.

Lui sorrise, affatto a disagio: "Ho pensato che non si sarebbero scomodati a fare un viaggio così lungo per Candy", rispose calcando sul diminutivo, "ma d'altronde immagino anche che una vacanza, per loro, sia sempre ben accetta, specie considerando che gli affari li cura soprattutto Raymond e non credo siano molto... uhm... impegnati con il lavoro".

Archie avrebbe voluto alzarsi per dare una pacca sulla spalla ad Albert per fargli comprendere quanto fosse d'accordo con lui, ma si trattenne.

La zia Elroy si schiarì la voce, in un chiaro segno che non aveva gradito la risposta: "Bene. Mi aspetto che continuiate a riposarvi e a divertirvi come state facendo ora", lanciò un'occhiataccia a Candy e Albert, "e a mantenere le giuste distanze", concluse spostando gli occhi su di lui e Annie.

Vide il volto della fidanzata andare letteralmente a fuoco e temette che la zia travisasse quel comportamento. Per fortuna, mentre lo baciava non era entrata lei, nella sua stanza, o in quel momento si sarebbero trovati già a parecchi chilometri di distanza l'uno dall'altra.

Sarebbe stato un bene? A questo punto non lo sapeva più. Sperava solo di non dover rinunciare al matrimonio. Perché lui voleva sposare Annie. Come aveva cercato di spiegare ad Albert, l'amore che provava per le due donne era differente: quello per Candy era bello, onirico, ma da tempo l'aveva lasciata andare. Quello per Annie era più dolce, tenero, ma faceva parte del suo presente e, sperava, del suo futuro.

Si potevano amare due donne contemporaneamente? Gli venne in mente il detto: tenere il piede in due scarpe e capì che non era una cosa poi così corretta.

"Bene, Archibald, ammiro la tua devozione, vuoi rimanere a farmi compagnia per il resto del pomeriggio?", stava chiedendo la zia Elroy.

Alzò gli occhi di scatto, rendendosi conto che era così preso dalle sue riflessioni da essere rimasto solo con la zia nella stanza.

"No! Cioè, certo zietta, sono contento di farti compagnia, ma... ehm... se non hai nulla da chiedermi, ho dimenticato di dire una cosa ad Annie. Posso andare?".

L'espressione della zia non era delle migliori e Archie si morse la lingua: "Mi raccomando, ragazzo", lo ammonì e non gli tolse gli occhi di dosso finché non fu uscito.
 
- § -
 
"Avanti", disse Annie rimanendo seduta sul letto, sperando con tutte le sue forze che non fosse Archie.

Candy fece capolino e le concesse un lieve sorriso: "Vieni, Candy, entra".

Annie Brighton indurì il suo cuore, perché non voleva e non poteva far risalire in superficie quello che stava disperatamente cercando di affiorare nel suo animo.

Invidia. Rabbia.

Candy era sempre quella perfetta e adorata da tutti, mentre lei era solo un'ombra fugace o pressoché invisibile. Non sarebbero bastati tutti i baci rubati del mondo e nemmeno decine di arrampicate spericolate sugli alberi per emularla: erano semplicemente diverse come il giorno e la notte.

Ma non voleva odiarla per questo, era infantile e sciocco.

"Non pensare che vogliamo ficcare il naso, Annie, ma... ecco, insomma, Albert mi ha detto cosa è successo e quindi pensavo che magari le cose tra voi...", cominciò torcendosi le mani, a disagio.

"È finita, Candy. Ho deciso di lasciarlo", disse secca, strappandole un ansito di sorpresa.

"Ma... ma...". Candy non fece neanche un tentativo di sederle accanto, rimanendo in piedi come se temesse di avvicinarla.

Annie la guardò con più attenzione. Era l'immagine stessa della felicità, anche se non stava sorridendo: gli occhi le brillavano come poteva accadere solo a una donna innamorata e pienamente ricambiata. Annie pensò che se lo meritava, dopotutto, perché aveva sofferto tanto. Eppure quella punta d'invidia le rosicchiava, incessante, l'anima, corrodendola come se riversasse acido.

"Non c'è altro da dire. Archie non è mai stato davvero mio. Tu l'hai mandato fra le mie braccia e lui mi si è affezionato. Ma più della metà del suo cuore appartiene ancora a te", disse voltandosi verso la finestra. Non poteva più sostenere il suo sguardo senza che Candy le leggesse dentro come in un libro aperto.

"Annie, mi piacerebbe che lottassi per lui. Se sei riuscita a baciarlo, forse...".

Annie si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza. Aveva ancora i nervi a fior di pelle e non voleva una paternale.

"Dimmi una cosa, Candy", la interruppe, non volendo ascoltare oltre, "se Terence avesse insistito con te, tu saresti rimasta?".

Il viso della ragazza tradì lo stupore per quella domanda, poi divenne serio. Candy scosse la testa: "No, Annie, non avrei mai potuto".

"E perché?", la provocò lei, fermandosi a fronteggiarla e volendo che arrivasse da sola alla risposta.

"Perché avrei tradito lui e i miei stessi sentimenti. Oh, Annie, ma per voi è diverso: devi solo dare ad Archie il tempo di fare chiarezza nel suo cuore e...".

"Tempo?!", sbottò con un tono di voce alto e acuto. Fece una breve risata amara. "Quanti anni sono che stiamo insieme? È dai tempi della Saint Paul School che facciamo i fidanzatini e mi ha sempre trattata... con devozione, come se fossi una bambolina fragile a cui fare il baciamano o da mostrare con orgoglio agli eventi. Affetto, educazione. Non ho mai visto l'amore, Candy. Quello che avevi negli occhi tu quando ci parlavi di Terence tanto tempo fa. O quello che vedevo tra Patty e Stair, quando si sono conosciuti. Oppure quello che ora scorre tra te e Albert come una corrente elettrica!".

"Annie...". Sembrava afflitta e questo la urtò ancora di più.

"Ho visto le coppie innamorate in molte occasioni, Candy, e noi non lo eravamo. Archie non ha mai cercato di rubarmi un bacio, come ho avuto l'ardire e la stupidità di fare io. Non ho mai avvertito in lui la passione o il desiderio per me", aggiunse arrossendo, ma volendo dire finalmente ad alta voce ciò che pensava da sempre.

Candy tacque e Annie si asciugò le lacrime, quelle dannate lacrime sintomo di debolezza che odiava versare ancora e che avevano cominciato a scorrerle sulle guance senza che nemmeno se ne accorgesse.

Dopo lunghi istanti, Candy le parlò: "Annie, io credo che l'amore abbia diverse facce. Non è sempre uguale: può essere cauto, passionale o... devoto. Archie è un gentiluomo e tu sei sempre stata una ragazza composta ed elegante, non una scavezzacollo come me. Cosa avresti pensato di lui se ti avesse afferrata e baciata all'improvviso?".

"Io... io penso che mi sarei vergognata da morire", ammise chiudendo gli occhi.

"Esattamente. Il fatto che non abbia mai fatto gesti... avventati può semplicemente significare che ti ama al punto da non volerti mettere in imbarazzo. Ora che gli hai mostrato questo aspetto di te, magari comincerà a essere meno... ingessato e ti esprimerà davvero quello che sente".

Annie riaprì gli occhi, desiderando con ardore che fosse vero: "Candy, il suo cuore non è completamente libero. Una parte è rimasta con te e io non posso accettarlo. Lo capisci? È per questo che ti ho fatto l'esempio di Terry, poco fa. Ne abbiamo parlato e lui me l'ha confessato".

"Oh...", poté solo dire lei, chinando il capo. Ora non avrebbe più potuto confutare la realtà.

Cadde di nuovo il silenzio. Un silenzio scomodo, nel quale la rivalità tra loro si poteva avvertire nell'aria: ma era una rivalità a senso unico, perché Candy non avrebbe mai visto Archie se non come un fratello. Sembrava imbarazzata e a disagio mentre giocherellava con la gonna del vestito.

"Ora vorrei rimanere sola, per cortesia", mormorò cercando di non piangere di nuovo davanti a lei. Per la prima volta, ebbe bisogno di mostrarsi orgogliosa di fronte alla sua sorella acquisita.

Candy non disse nulla, ma camminò verso la porta con un sospiro. Mentre l'apriva, però, disse: "Rimango convinta che Archie sia solo molto confuso. Anche il mio amore per Terry sembrava non dovere finire mai, ma la verità è che crescendo cambiano molte cose".

Annie spalancò gli occhi e, per un attimo, fu quasi convinta delle sue parole. Ma quanto avrebbe ancora dovuto aspettare? E, soprattutto, perché mandare avanti quella farsa se il suo fidanzato era ancora legato a un amore adolescenziale? No, non voleva abbandonarsi a speranze inutili: avrebbe fatto quello che avrebbe dovuto fare molto tempo prima.

Rompere con lui.

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Capitolo 19
*** Ombre e luci ***


Estranei. Quella era la parola adatta.

Da qualche giorno... no, povero illuso che non era altro, da qualche mese lui e Annie erano come estranei. Sembrava che la loro relazione viaggiasse in maniera inversamente proporzionale all'avvicinarsi del matrimonio.

Questo pensava Archibald Cornwell, sdraiato sul divano della sua stanza, con le gambe incrociate una sull'altra e le braccia dietro la nuca, guardando il soffitto come se questo avesse delle risposte.

E inversamente proporzionale a come le cose stavano cambiando tra Candy e Albert.

Era incredibile come, dal momento in cui si era reso conto che lei poteva essere morta, suo zio fosse mutato dal giorno alla notte. Se scavava nella sua memoria, forse, capiva che quel cambiamento era cominciato molto prima, solo che ovviamente lui era troppo occupato con i suoi doveri e la sua fidanzata per accorgersene.

Annie.

L'ombra dei rami si mosse, grigio chiaro contro bianco e lui allungò una mano illudendosi per un attimo di poterla afferrare: ma, al momento, era come cercare di afferrare lei. Un raggio di sole filtrò dalla finestra costringendolo a socchiudere gli occhi e i contorni dell'ombra divennero più netti.

Allo stesso modo, i ricordi recenti divennero più dolorosi.

Durante l'ultima lite, avvenuta proprio il giorno in cui erano arrivati Eliza e Neil, lui si era malamente tradito, chiedendole se avesse udito la conversazione tra lui e Albert.

"Allora è vero!". Ecco, se avesse avuto ancora qualche dubbio, lui gliel'aveva appena fugato. La sua prima reazione era stata di panico e rabbia contro se stesso, poi aveva capito che era meglio così.

Meglio mettere tutte le carte in tavola: sì, provava ancora qualcosa per Candy, inutile negarlo. E sì, amava anche lei, in modo diverso ma non meno profondo.

Se pensava di ricevere un altro bacio da Annie, però, si era sbagliato di grosso: gli aveva dato uno schiaffo così forte con quelle manine candide e curate che Archie si chiese dove avesse imparato a farlo così bene. Di certo, non alla Casa di Pony.

Archie chiuse gli occhi completamente, non sopportando più neanche i raggi del sole.

Le vacanze sarebbero durate ancora qualche giorno, poi lui e Albert sarebbero dovuti tornare a Chicago a occuparsi degli affari di famiglia, Candy alla clinica a lavorare e Annie... a casa con i suoi genitori. Dove, forse, sarebbe rimasta per gli anni a venire.

Sì, perché aveva revocato il matrimonio andando a parlare personalmente con un'indignata zia Elroy e lo aveva fatto senza neanche consultarlo. Lo aveva fatto, oltretutto, mentre c'erano Eliza e Neil sotto lo stesso tetto e non era facile da nascondere una notizia così grossa.

"Ai miei genitori lo dirò di persona", aveva detto quella mattina.

"E a me?! A me, che sono il tuo fidanzato, quando pensavi di dirlo?", si era lamentato lui.

Gli aveva lanciato uno sguardo di ghiaccio: "Non sono fidanzata con un uomo che ha il cuore diviso a metà".

Non aveva nulla da replicarle, se non un complimento per aver riassunto in modo perfetto ciò che provava: il suo cuore era diviso a metà.

La cosa tragica era che non si poteva vivere con mezzo cuore e nessuna delle due metà sarebbe mai stata di qualcuno. Candy apparteneva ad Albert e Annie non voleva più sposarlo.

Archie si girò verso la spalliera, rannicchiandosi quasi in posizione fetale. Fuori, gli uccellini che cantavano sembravano farsi beffe di lui.

Bella, la verità, sì. Peccato che rendesse liberi ma non felici e quella libertà la odiava. La odiava da morire.

Mentre una lacrima solitaria scendeva sulla sua guancia, Archie si ritrovò a pensare a suo fratello Stair: avrebbe dato metà del suo cuore e anche della sua vita per riaverlo accanto a sé.
 
- § -
 
Eliza stava ritta davanti alla porta finestra della sua stanza con la mente che era un turbine di pensieri: Annie e Archie si erano appena lasciati proprio sotto al suo naso e Candy e il prozio si stavano comportando in maniera molto sconveniente.

Era in Florida da poco tempo e già le cose erano cambiate così tanto?

Aveva sempre odiato Candy e questo era rimasto tale e quale a prima. Odiava che tutti l'amassero nonostante fosse orfana e per niente elegante. Odiava che non si perdesse d'animo neanche quando le cose per lei si mettevano davvero male. E odiava che la famiglia Ardlay l'avesse ormai presa sotto la sua ala protettrice e dovesse presenziare ovunque. Insomma, odiava quella specie di perfezione che emanava da Candy che, invece, era un essere imperfetto e senza passato.

Nonostante la lontananza, quel sentimento malevolo non si era affievolito ed Eliza, che per quanto tentasse non aveva mai avuto neanche un corteggiatore che fosse uno, si era resa conto col passare dei giorni di quella strana vicinanza tra suo zio e Candy.

Lui l'aveva adottata e la mostrava al mondo come fosse la cosa più preziosa che avesse. Man mano che passava il tempo e soprattutto li osservava, un terribile sospetto si cominciava a fare strada in lei. Sconvolta, era andata a parlarne con la zia Elroy, che le aveva confessato di aver notato qualcosa di simile a sua volta. Avevano parlato per un po' e lei aveva promesso alla zia che avrebbe fatto di tutto per impedire quell'unione.

"E come pensi di fare? Se abbiamo ragione, William non ci lascerà di certo prendere decisioni al posto suo. L'unica alternativa sarebbe presentargli una donna davvero degna di lui a cui possa legarsi prima di commettere una sciocchezza".

Eliza aveva fatto un sorriso cattivo: "Oh, ma io non pensavo a quello. Troppo complicato. Basterebbe convincere Candy che non è all'altezza del patriarca degli Ardlay".

"Ci avevo pensato anche io", aveva risposto sua zia, "ma con William qui è praticamente impossibile fare qualcosa contro Candice senza che lui intervenga. Avevo in mente di convocarla in un secondo momento e...".

"Lascia fare a me, zietta. Non ho intenzione di perdere il mio tempo, ora che sono qui".

La donna aveva assunto un'espressione preoccupata: "Che intenzioni hai, Eliza? Se i tuoi piani sono come quello che avevi architettato quando rompesti il mio prezioso vaso, ti prego di non fare nulla, nipote".

La ragazza era rimasta colpita e aveva stretto i denti ricordando quell'episodio: "Ma no, zia, queste sono sciocchezze del passato. Ora sono cresciuta e rifletto a lungo prima di agire".

La zia Elroy non era molto convinta e si era raccomandata di non far adirare suo nipote. Però le era parsa attratta irresistibilmente dalla prospettiva di dividerlo un po' da quella Candice, come la chiamava.

Li vide passare nel giardino con uno di quei cavalli che suo zio aveva avuto l'ardire di regalarle per il compleanno: d'altronde, quale dono più adatto per una stalliera come lei?

Eliza osservò attentamente i movimenti dello zio e si rese conto che le stava insegnando ad andare a cavallo... ma com'era possibile? Da che ricordava Candy sapeva come cavalcare anche se, ovviamente, non lo faceva affatto come una vera signora. Rammentava ancora con rabbia e orrore quel giorno di tanti anni prima, quando durante la caccia alla volpe lei e Anthony si erano allontanati... un momento!

La giovane Lagan spalancò gli occhi, mentre una nuova consapevolezza la colpiva come un fulmine.

Possibile che Candy fosse rimasta traumatizzata da quell'evento tanto da non riuscire più a salire su un cavallo da sola? Ora si spiegava come mai lo zio l'avesse fatta salire parlandole a lungo prima di prendere lui stesso le briglie e guidare il cavallo restando in piedi!

"Sono proprio intelligente!", si complimentò da sola, mentre la sua mente elaborava il piano perfetto per dimostrare a quella Candy quanto fosse lontana anni luce dagli Ardlay.
Stavolta non si sarebbe limitata a mezzucci come farla sfigurare a tavola o farle trovare un vestito strappato, la zia poteva essere fiera di lei. Stavolta avrebbe usato le sue paure più recondite per farla desistere definitivamente, o almeno per indurla a cominciare a farlo.

La prospettiva le fece allargare le labbra in un ghigno.

Con un po' di fortuna, prima della fine di quella vacanza, Candy se ne sarebbe tornata alla sua amata Casa di Pony a fare l'infermiera in clinica e sarebbe rimasta solo la protetta dello zio William. A quel punto toccava a zia Elroy trovare una moglie degna di diventare la futura matriarca della sua famiglia.

Non le sarebbe dispiaciuto affatto essere tra le candidate.
 
- § -
 
Candy guardava il tramonto mentre Cleopatra camminava piano, incitata dalle briglie che Albert teneva salde tra le mani. D'improvviso, lui si voltò a guardarla e vide la luce aranciata del sole morente creare dei contrasti incredibili nei suoi capelli biondi.

Mentre le tendeva le briglie con un sorriso d'incoraggiamento, Candy pensò che quello, assieme a molti altri, sarebbe stato uno dei momenti a rimanere scolpito per sempre nel suo cuore. Nonostante le difficoltà e le salite impervie della sua vita, c'erano istanti indelebili che la facevano sentire immersa in una fiaba: Albert, ora, impersonava il suo principe e lei sperava ardentemente di potersi considerare all'altezza di tanta eleganza.

Pensò che Annie fosse più abituata di lei a quel mondo fatto di lussi ed eventi mondani, perché era stata adottata quando era molto piccola, mentre per lei entrare a far parte della famiglia Ardlay come futura moglie di Albert sarebbe stato più...

Ma che stava pensando?!

"Vuoi provare, Candy?", disse Albert.

Lei annuì, fece un respiro profondo per concentrarsi sulle sue azioni attuali e spronò Cleopatra al galoppo, senza perdere d'occhio Albert. Quando fu troppo lontano, la tensione poco a poco si allentò e Candy tornò a vagare con la mente.

Annie aveva appena lasciato Archie e non era riuscita a cavare un ragno dal buco parlando con lei. Avrebbe dovuto cogliere i segnali che le indicavano che la sua "sorellina" aveva dei problemi, invece di concentrarsi solo su Albert e sul suo problema con Terry.

Le erano parsi così affiatati, solo qualche settimana prima, che aveva ignorato i propri dubbi. Avrebbe dovuto essere meno egoista e chiederle prima cosa non andasse: ora, per rimetterli insieme, avrebbero dovuto attuare il piano di Albert che li voleva separare con la scusa del lavoro?

Non era sicura che avrebbe funzionato, tanto più che vivevano sotto lo stesso tetto e s'ignoravano da giorni. La zia Elroy stava sempre nella sua stanza e più di una volta l'aveva sentita discutere con Archie in merito allo scandalo che stava per consumarsi.

Lakewood sembrava piombata nel caos e lei continuava a sognare il suo matrimonio con Albert: era ufficialmente impazzita.

Candy si beò della sensazione del vento che le scompigliava i capelli e ancora una volta si domandò perché, ogni volta che poteva essere felice, il destino ci mettesse lo zampino.

Anche Albert si era detto preoccupato, ma avevano convenuto che forse era il caso di lasciar sbollire la coppia senza intervenire. Candy si era anche offerta di andarsene lei stessa, visto che era indirettamente colpevole di tutto quello che stava accadendo, ma lui si era rifiutato fermamente.

"Candy, non sei tu che te ne devi andare. Il problema è di Archie che deve imparare a fare chiarezza nel suo cuore: se lo riterrà necessario sarà lui a tornare a Chicago o nel Massachusset a studiare".

Invece lui aveva tentato di riavvicinarsi ad Annie ed era lei che aveva fatto le valigie. I genitori l'avrebbero raggiunta a breve per riportarla a casa: sarebbero stati giorni duri e in tutto quel marasma era riuscita a notare gli sguardi sprezzanti di Eliza e quelli inquietanti di Neal.

Però quando stava con Albert che le insegnava a cavalcare di nuovo da sola, come adesso, tutto spariva e Candy si trovava a desiderare che quel mondo fatto solo di loro due diventasse l'unica realtà. Ancora una volta si sentì egoista, ma era davvero un peccato volersi concedere un po' di felicità, dopo tante sofferenze?

Lentamente, tirò le briglie per far girare il cavallo e tornò indietro, verso il suo principe. Era lì, in piedi, che l'aspettava come quel giorno sulla Collina di Pony, con le braccia spalancate per accoglierla non appena fosse scesa.

Un altro momento indimenticabile, si disse ancora una volta Candy, scendendo da cavallo e volando tra quelle braccia.
 
- § -

"Non contare su di me", ribatté secco Neal.

Eliza batté il piede a terra, facendo un verso di disappunto come una bimbetta arrabbiata. Voleva bene a sua sorella, ma in certi momenti odiava il suo comportamento immaturo. Persino lui si era arreso, quando era stato necessario.

"Sei ancora invaghito di lei, come Archie, come tutti! Ammettilo!", strillò.

Neal alzò gli occhi al soffitto: "Non è questo il punto!", si difese cercando di non mostrare la verità. E la verità era che Candy non gli era indifferente. Tutt'altro. In un'altra vita, avrebbe fatto uccidere da un sicario quell'attorucolo da quattro soldi e persino il suo zio William pur di averla. Stentava a credere alle parole di sua sorella che insinuava che tra loro due ci fosse del tenero. Però se anche la zia Elroy aveva quel dubbio, forse...

"E allora quale sarebbe il punto?", la voce stridula di Eliza lo riportò con i piedi per terra.

Sbuffò: "Il punto è che rischiamo che Candy si faccia male sul serio! E se si fa male sul serio ci butteranno in mezzo alla strada!".

"Tu sei più preoccupato che Candy si faccia male che del nostro futuro".

"È un rischio concreto!".

"Non sospetteranno mai di noi, se la prenderanno con il maniscalco!", assicurò lei.

Neal cominciò a camminare per la stanza con il mento poggiato sul dorso della mano, riflettendo.

"Lo zio William farà due più due quando Candy le racconterà che sei stata tu ad indurla a fare una corsa con te a cavallo per vedere chi delle due ha più grazia".

"Io sono una signora e non so nulla di ferratura", ribatté Eliza portandosi le mani ai fianchi con eleganza.

"Nemmeno io sono un esperto, potrei fare del male a quella bestia e Candy...".

"Candy, Candy, Candy! Sono stufa di sentir pronunciare il suo nome, hai capito?!". Neal gesticolò facendole segno di abbassare la voce o li avrebbero scoperti prima ancora di cominciare. "Ascoltami bene: io sarò con Candy e non ci saranno prove contro di me. Tu dovrai distrarre solo lo zio chiedendogli consigli finanziari. Qualunque cosa accada non ci crederebbero mai capaci di manomettere il ferro di un cavallo, nessuno sa che hai imparato a farlo". Adesso camminava anche lei per la stanza, ripercorrendo le fasi del piano con gli occhi spalancati come un'invasata.

E lui continuava a non sentirsi affatto tranquillo.

"Va bene, facciamolo. Ma falle indossare un casco da equitazione", disse preparandosi a un'altra sfuriata.

Eliza gli si avvicinò con una luce tanto malevola negli occhi che Neal pensò seriamente di negarle il suo aiuto. Quello che gli disse, però, fu ancora peggio: "La sai una cosa, fratellino? Se stavolta Candy morisse davvero, avremmo risolto tutti i nostri problemi in un colpo solo. O hai paura che i sensi di colpa ti schiaccino?".

Deglutì, terrorizzato da quella possibilità: "Non sono un assassino, Eliza, trovati qualcun altro", ribatté con voce roca dallo spavento.

Lei lo bloccò per il braccio mentre cercava di allontanarsi: "Avrà il suo stupido casco. Ma tu fai il tuo dovere, o preferisci sottostare ai suoi ordini fra qualche anno? Con tutto quello che le abbiamo fatto in passato non mi stupirebbe se decidesse di mandarci in rovina. Vuoi andare a lavorare nelle miniere, Neal?".

Lui strinse i pugni, arreso. Se solo quella sciocca ragazzina avesse lasciato che la sposasse lui! Invece dovevano correre un rischio simile per evitare il tracollo dei Lagan: "Cosa dirai alla zia se le succedesse qualcosa di serio?".

Eliza si portò le mani al viso, fingendo di piangere e di disperarsi e diavolo se non era una brava attrice! "Oh, zietta, non credevo che sarebbe caduta da cavallo! Ero sicura che avesse perso l'abitudine di cavalcare e la volevo solo mettere in difficoltà, non volevo farle del male!", concluse singhiozzando.

Neil respirò a fondo, ripassando nella mente tutti gli scenari possibili. Continuava a non piacergli quella storia, ma non aveva scelta.

O forse sì.

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Capitolo 20
*** Minacce ***


Terence si accorse che bussavano alla porta solo quando questa cominciò a vibrare come se tentassero di buttarla giù.

Giuro che la uccido.

"Terry! Giù dal letto, pigrone, o la butto giù!".

La stai già buttando giù. E non chiamarmi Terry! LEI mi chiamava Terry.

"Terence Graham, conto fino a tre!".

Vattene al diavolo!

"Uno!".

Aveva sognato di sposarla e di fare l'amore con lei. In modo lento, dolce. Si era svegliato col volto madido di lacrime e sudore quando Albert gliel'aveva strappata dalle braccia e l'aveva portata via, ancora nuda.

"Due!".

"Dannazione, arrivo!", gridò gettando via le coperte e imprecando a denti stretti per non farsi sentire. Dopotutto, nonostante non sembrasse affatto, Karen era sempre una signora.

Raggiunse la porta a piedi nudi, rabbrividendo per il pavimento freddo e quando aprì e la vide, fresca e riposata, quasi la invidiò. Pensava che se si fosse guardato lui, allo specchio, questo si sarebbe rotto per le condizioni in cui versava.

Karen batteva il piede a terra ritmicamente, con le mani sui fianchi e le labbra strette in una linea sottile. Il trucco sugli occhi era perfetto e le conferiva un cipiglio severo.
"Ti do dieci minuti per lavarti, vestirti, fare colazione e renderti presentabile!", comandò contando sulle dita.

"Dieci minuti?! Vuoi scherzare!", ribatté con gli occhi fuori dalle orbite.

"Un quarto d'ora".

"Venti minuti, o invece di radermi  mi taglierò e mi rovinerò il viso", patteggiò accarezzandosi le guance già ispide, sapendo di aver toccato un punto focale.

Karen guardò in aria e allargò le braccia: "E va bene, non sia mai che debba spiegare a Robert perché sei venuto alle prove sanguinando!".

Lui sorrise soddisfatto e lei gli fece sapere che lo avrebbe aspettato nella hall dell'albergo e sarebbe salita entro venti minuti esatti se non lo avesse visto.

Terence si chiuse in bagno e affrontò il tanto temuto specchio. A parte un po' di occhiaie, la barba e i capelli spettinati non era il disastro irrimediabile che temeva.
Almeno esteriormente.

Dentro di sé tutto stava andando in pezzi e lui teneva insieme i frammenti come meglio poteva, attingendo da quella donna irruenta e maleducata che tanto gli ricordava Candy. No, non era corretto: Candy non lo aveva mai trattato così male. Però era anche vero che non aveva mai dovuto salvarlo da un baratro. Per l'esattezza ce lo aveva buttato dentro.

Sua madre Eleanor gli era stata vicino per quanto aveva potuto, gli telefonava e gli scriveva ogni volta che riusciva. Accanto a sé aveva solo il teatro e i suoi colleghi, e tra i suoi colleghi l'unica che aveva accettato di coinvolgere nel suo dramma personale era stata Karen.

Era stata la prima a trovarlo dopo la partenza di Candy e anche l'unica ad aver capito cosa gli fosse accaduto senza che neanche glielo spiegasse. Quella sua indole forte gli ricordava, seppur lontanamente, quella della sua adorata Tarzan Tuttelentiggini.

Terence si era reso conto perfettamente che Karen stava facendo con lui lo stesso che aveva tentato di fare Susanna, tanti anni prima: lo amava e cercava di coinvolgerlo con la scusa del lavoro. Ma, mentre con Susanna non voleva avere nulla a che fare, ora non aveva più nessuna donna da amare liberamente.

No, non era solo quello.

Mentre si strofinava con vigore la faccia con acqua appena tiepida, ricordò quando la povera Susanna lo corteggiava e lo andava a cercare a casa, ma lui si concedeva il lusso di mandarla via perché era forte, deciso, convinto del suo amore per un'altra.

Ora era tragicamente fragile e solo e, sebbene se ne vergognasse, aveva bisogno di spalle solide su cui poggiarsi.

Quelle di una donna che tentava di salvargli non solo la carriera, ma la vita.

Cominciò a radersi con gesti lenti e metodici, come se la sua mano potesse davvero danneggiarlo contro la sua stessa volontà e magari sfigurarlo.

Ovviamente non pensava più al suicidio, ma rischiare di farsi licenziare e lasciarsi annebbiare dai fumi dell'alcool non era forse un suicidio?

Essere o non essere. Dormire. Sognare. Morire.

Candy poteva essere sua solo in sogno, lo sapeva. Averla incontrata ancora una volta per poi vederla andare di nuovo via lo aveva ucciso. E non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere quella promessa che le aveva fatto, non ne era per nulla sicuro.

Per questo aveva chinato la testa, ingoiato il dannato orgoglio e accettato che Karen lo controllasse a vista. Il teatro era tutto ciò che gli era rimasto e quella donna era un salvagente a cui si stava aggrappando con le unghie e con i denti per non annegare.

Sapeva che non era giusto, né per lei né per se stesso e che prima o poi sarebbe andato avanti con le sue gambe. Ma ora no. Ora non era sicuro di farcela. Sapere che un altro essere umano, oltre sua madre, lo apprezzava e teneva alla sua vita era la sua unica salvezza per il momento.

Si fece una doccia per lavare via il sudore notturno, le lacrime e i pensieri. Mentre recuperava dall'armadio i vestiti gettati alla rovescia la sera prima e li infilava distrattamente, cercò di ricordarsi dove aveva messo il copione.

Aprì un cassetto del comodino accanto al letto e s'imbatté nell'ultima, fredda lettera di Candy.

In quel momento era di sicuro tra le braccia di Albert, magari non nuda

o magari sì...

come nel suo sogno, ma di certo felice.

La strappò, la fece in mille pezzi e la gettò nel water, cercando di reprimere il dolore.

Era già un buon inizio.
 
- § -
 
Candy si chiese per l'ennesima volta perché diamine avesse accettato di parlare con Eliza. Annie si era rinchiusa in camera sua a fare le valigie e Archie sembrava un leone in gabbia perché faceva avanti e indietro per tutta la villa senza convincersi a fermarla.

Avrebbe voluto parlare con l'uno o con l'altro, o con entrambi, magari gridando ad Archie di smetterla con quelle sciocchezze, ma non ne aveva avuto il coraggio. Se veramente il ragazzo provava qualcosa per lei, l'unica cosa che le veniva in mente di fare era rendersi meno visibile che poteva.

La zia Elroy era furiosa e, se avesse saputo il vero motivo della separazione, forse l'avrebbe cacciata seduta stante: per fortuna, Annie aveva evitato accuratamente di rivelarglielo.

A un certo punto della mattinata Candy era scesa nel salone principale e aveva trovato Eliza seduta su una poltrona damascata a leggere un libro, come se la stesse aspettando.

"Oh, Candy, ben trovata!", dissimulò con la sua solita falsa aria benevola e amichevole.

"Ciao Eliza, buongiorno", la salutò più educatamente possibile finendo di scendere le scale.

La superò senza più guardarla e si stava già dirigendo verso l'uscita, immaginando di trovare Albert in giardino, ma lei la prese per un braccio e le sibilò in un orecchio: "Vi ho visti mentre vi baciavate vicino alle stalle, l'altro giorno".

Un brivido gelido attraversò il corpo di Candy dalla testa ai piedi e, anche se era tentata d'ignorarla, i campanelli d'allarme suonarono impazziti nel suo cervello e la costrinsero a fermarsi. Chiuse gli occhi per un istante, prima di affrontarla con il tono più fermo e l'espressione più neutra che le riuscirono: "Di cosa diavolo stai parlando, Eliza?".

Lei ignorò la sua domanda e, di sicuro certa di avere tutta la sua attenzione, incrociò persino le braccia, portando quel suo odioso naso dritto in aria e tirando la testa indietro con fare altezzoso. "Pensa che colpo per la zia Elroy: prima Annie e Archie che si lasciano, poi il suo adorato nipote che ci prova con te. Potrebbe persino avere un attacco di cuore! Che ne pensi, infermiera Candy?", le chiese calcando su quel termine.

Eliza non poteva averli visti, stava sicuramente bluffando! E se invece fosse stato vero? La sua mente vorticava alla velocità della luce e sentiva che l'afflusso di sangue al viso la stava già tradendo.

Candy cercò di veicolare la sua agitazione in una dimostrazione di indifferenza: "Bene, allora perché invece di parlare con me non glielo sei già andata a dire? Scommetto che muori dalla voglia di raccontarle questa storia che ti sei inventata fin nei minimi dettagli!", sbottò guardandola con disprezzo.

Lei abbassò un poco la testa per guardarla negli occhi ma la sua risata cattiva non scomparve: "Andiamo, Candy, per chi mi hai presa? Pensi davvero che farei del male alla mia povera zietta senza cercare prima una soluzione alternativa?".

"Io penso solo che tu non veda l'ora di sbattermi fuori di qui. In tal caso, sappi che il sentimento è reciproco. Addio". Con gambe tremanti e chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta, Candy tentò di nuovo di raggiungere l'uscita.

"Il tuo adorato Albert, come lo chiami tu, non è in giardino, adesso", Candy si sentì come se l'avesse schiaffeggiata. "È nel suo studio con quell'inetto di mio fratello a parlare di affari. Il caro zio William non è solo ricco sfondato, ma ci sa fare con gli investimenti e forse Neal imparerà finalmente qualcosa".

Eliza aveva studiato tutto per benino, a quanto pareva, e Candy desiderò solo prenderla a schiaffi fino a farle diventare la faccia più gonfia della cornamusa di Albert. Ma non poteva rischiare che la sua lingua biforcuta li rovinasse prima ancora che avessero modo di parlare personalmente con la zia Elroy. "Insomma, che cosa vuoi da me, stavolta?", dovette arrendersi a chiederle suo malgrado.

Odiò quel sorriso che si allargava sulla sua faccia soddisfatta mentre faceva un paio di passi verso di lei. Candy immaginò che il pavimento le si aprisse sotto i piedi per inghiottirla, così che lei potesse andare da Albert in santa pace.

"Vorrei aiutarti a riflettere, Candy, per farti capire perché non sarai mai una Ardlay, anche se mio zio dovesse avere in mente, che so, di sposarti". La solita luce tagliente le lampeggiò negli occhi.

Candy cercò di ritrovare la calma, pur desiderando solo di allontanarsi dalla sua presenza velenosa. Ma una parte di lei continuava a gridarle che, bluff o no, non poteva permetterle di mettere in giro voci su lei e Albert. "Bene, allora è giunto il momento che anche tu impari a comportarti come una signora e non come una vipera!", esclamò piccata.

"Oh, sei molto gentile a preoccuparti per me, Candy, ma ti ricordo che quella che rischia di infangare il nome degli Ardlay sei tu, visto che non hai una goccia di sangue nobile nelle vene e non si sa nemmeno chi fossero i tuoi genitori. Se nell'ambiente si cominciasse a mormorare che il ricco e giovane prozio William intende portare al matriarcato una come te sarebbe la fine della nostra famiglia".

Non si era aspettata nulla di diverso da Eliza, eppure le sue parole le parvero pesare molto più che in passato. Era certa che Albert non avrebbe permesso a nessuno di trattarla come una poco di buono solo perché era orfana, ma la punta acuminata del dubbio penetrò nel suo cuore.

Era davvero degna di lui? O lo avrebbe costretto a lasciare tutto pur di stare insieme a lei? Immaginò Albert ripudiato dalla sua stessa famiglia e un sapore amaro le salì in bocca. Doveva esserci una soluzione migliore: avrebbe studiato ancora, sarebbe diventata una nobildonna come Annie e si sarebbe meritata la sua posizione ma, soprattutto, l'amore di Albert.

"Insomma, in quale trappola pensi di farmi cadere, Eliza?", domandò, stanca di ragionarci troppo.

"Oh, nessuna trappola, cara mia, solo un piccolo test di eleganza: andiamo a farci una cavalcata. Non c'è bisogno che ti cambi, dovrai cavalcare come una vera signora, all'amazzone. Se non ne sarai in grado, dovrai ammettere la tua sconfitta e rinunciare all'alta società".

Candy strinse i pugni. Quindi li aveva davvero osservati bene e si era resa pienamente conto della sua difficoltà con i cavalli! Non era affatto sicura di riuscire a cavalcare in quel modo da sola e, ancora una volta, immaginò di tappare la bocca a Eliza a suon di schiaffi per poi rispedirla in Florida con il primo treno: "È una sciocchezza, non serve una prova del genere per capire se si è o meno una signora. E a me non interessa l'alta società". Il suo era un tentativo estremo, lo sapeva, e c'era sempre il rischio che parlasse con la prozia. Ma non riuscì a tacere.

Eliza inarcò le sopracciglia, come se fosse stupita: "Ah, no? Quindi tornerai a vivere alla Casa di Pony e rinuncerai ai tuoi sogni romantici con lo zio?".

"Smettila con queste stupidaggini, non ho nessun sogno romantico con Al... con lo zio William!". Quella serpe maledetta le aveva fatto perdere tutta la freddezza, maledizione! E comunque a quanto pareva era piuttosto erudita sul loro reale rapporto.

"Ah-ah", annuì, iniziando a girarle intorno come un disgustoso avvoltoio. "Quindi rischierai che io allerti la zia Elroy solo perché hai troppa paura per cavalcare?", insinuò con uno sguardo diabolico.

Candy chiuse gli occhi e cedette. Cosa poteva accaderle di male? Il giorno prima si era lanciata al galoppo allontanandosi di parecchi metri da Albert e, anche se la posizione all'amazzone non era delle più agevoli, aveva riacquistato una certa padronanza. Che diamine, se poteva arrampicarsi sugli alberi non avrebbe di certo vacillato per una cosa come quella!

Non ora.

"Se faccio questa cosa mi lascerai in pace e la finirai di sparlare di me o dello zio William?". Era l'unica cosa che le importasse. Se Eliza avesse messo bocca e veleno in quel frangente, avrebbe solo distrutto il terreno a qualsiasi futuro.

"Ma certo, Candy!". Non le credette, era certa che l'avrebbe tormentata e ricattata fino a che quella vacanza non fosse finita, pensando forse di farla desistere. Povera illusa! Lei non sarebbe crollata, mai.

Si apprestò a seguirla ma, prima di uscire in giardino, Eliza si voltò verso di lei, beffarda: "Oh, e non dimenticare il casco! La sicurezza prima di tutto!". Scoppiò nella sua odiosa risata e Candy provò il desiderio ardente di strozzarla. Era incredibile come quella ragazza risvegliasse in lei solo sentimenti violenti.

Pensava davvero che avesse bisogno di un casco per cavalcare la sua docile Cleopatra? Come minimo lo aveva riempito di colla o di chissà quale robaccia che l'avrebbe costretta a tagliarsi tutti i capelli! Ma gliel'avrebbe fatta vedere lei: sarebbe stata all'altezza della cavalcata e avrebbe difeso il suo amore con le unghie e con i denti.
 
- § -
 
Annie stava buttando i suoi vestiti in valigia alla rinfusa, rifiutando qualsiasi aiuto da parte dei domestici. Ma come diavolo facevano a piegare gli abiti in maniera così perfetta senza che si rovinassero l'uno sull'altro?

Non le importava più: al diavolo gli abiti, al diavolo i cappelli, i guanti e al diavolo tutte le belle cose di cui i suoi genitori l'avevano sempre circondata.

Per anni aveva adorato l'idea di stare in una famiglia ricca, concedendosi lussi che alla Casa di Pony sembravano un miraggio: i vestiti, il cibo, i viaggi, le amiche... pensava di essere felice, di avere tutto, specie dopo che Archie era diventato il suo fidanzato.

Ora capiva che Candy, che non aveva mai avuto tanta stabilità e si era quasi sempre arrangiata da sola, oggi era molto più felice di lei. Certo, aveva sofferto e aveva perso molte persone che amava, ma tra le due era quella a cui erano rimasti i ricordi e le prospettive migliori.

Ad Annie Brighton cosa rimaneva? Lo spettro di un fidanzamento senza vero amore e una manciata di oggetti costosi.

Si artigliò i capelli con le mani, inginocchiandosi a terra e singhiozzando.

Baciare Archie era stato bello e penoso al contempo: si era sentita, per la prima volta in vita sua, forte, libera... donna. Ma poi si era data della stupida. Archie non era mai stato davvero suo, avrebbe dovuto capirlo prima che la loro relazione andasse così avanti.

"Vuoi la verità, Annie? Ebbene sì, è vero! Non ho mai dimenticato completamente Candy, ma oramai non ha più importanza: per lei sono come un fratello e ho rinunciato da tempo. Tu invece sei qui, mi ami e io ti amo. Quindi cosa c'è di male?". Così le aveva detto, senza alcuna vergogna.

La ragazza non poteva credere alle sue orecchie e lo aveva fissato, oltraggiata: "E tu pensi davvero che io potrei sposarti sapendo che ami anche un'altra donna oltre me?! Ma per chi mi hai presa, Archibald Cornwell?!". Si era sorpresa lei stessa dalla sua furia, ma quella era la nuova Annie.

La vecchia Annie l'aveva uccisa volontariamente nel momento in cui si era resa conto che sarebbe stata infelice. Basta essere fragile. Basta essere timida. Basta dipendere dagli altri. Basta tutto.

Prese uno dei suoi abiti più costosi e lo scagliò al muro con rabbia.

Sarebbe tornata a casa con i suoi genitori, avrebbe riflettuto sulla sua vita e sulle sue passioni. Le piaceva suonare il pianoforte, forse sarebbe andata a studiare al conservatorio. Oppure no, magari si sarebbe dedicata a opere di bene, qualunque cosa dicessero gli altri. O magari avrebbe fatto entrambe le cose.

Sarebbe stata egoista e avrebbe pensato solo a se stessa.

Voleva essere come Candy, finalmente padrona della sua vita e non schiava di lussi e sentimenti che non le sarebbero mai appartenuti.

L'unica cosa difficile sarebbe stata strapparsi Archie dal cuore perché, ora come ora, lo amava disperatamente e rappresentava l'unico sentimento autentico che provasse. Ma non così, non come la seconda donna, la sostituta di un'altra che non era disponibile.

Semmai un giorno si fosse sposata, lo avrebbe fatto con un uomo che la fissasse con lo sguardo adorante che aveva visto Albert rivolgere a Candy. Probabilmente, stando lontana da lei, avrebbe smesso di rappresentare solo la sua sorellina acquisita e di vivere all'ombra di quello che, per tutti gli uomini, sembrava essere un sole accecante.

Lei era Annie Brighton, anzi la nuova Annie Brighton ed era appena rinata.

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Capitolo 21
*** La trappola ***


Eliza adorava far innervosire Candy. Significava che le sue difese stavano crollando e, se avesse continuato così, pian piano sarebbe riuscita a farla andare in crisi e magari a convincerla che aveva ragione lei. Sì, perché sotto alla corazza di donna incrollabile, Candy era un'insicura quando si trattava delle sue origini.

E chi non lo sarebbe stato nelle sue condizioni?

Ma era stato il bluff che aveva ideato con la storia del bacio a essere determinante per il suo piano. Da quando li aveva visti dirigersi verso le stalle guardandosi negli occhi in un modo che le era parso inequivocabile, aveva capito subito che doveva puntare su quello. Con un po' di fortuna, le avrebbe fatto capire che la loro relazione era ben visibile a tutti. La reazione di Candy era stata la ciliegina sulla torta: ora Eliza era certa che si fossero baciati e che le cose fossero quindi andate molto più avanti di quanto pensasse la zia Elroy. Anzi, avendo vissuto insieme a lungo, non si sarebbe stupita se quei due avessero superato il limite della decenza.

Mentre si dirigevano alle stalle, Eliza lanciò sguardi discreti intorno a sé per accertarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi, neanche un servitore di passaggio. Fu fortunata e, quando entrarono, il puzzo di fieno ed escrementi di cavallo le strappò una smorfia. C'erano cose a cui una signorina come lei non si sarebbe mai abituata!

"Non ti dispiace se uso il mio vecchio cavallo, vero?", le chiese accennando a Cesar.

"Purché lo tratti bene ed eviti di frustarlo", rispose Candy secca, sellando Cleopatra con gesti abili.

"Sei brava a sellare i cavalli senza aiuto. Sii buona, visto che sei un'esperta, selleresti anche il mio?", le domandò portandosi l'indice alla guancia con aria innocente. Perché non sfruttare anche quell'occasione per umiliarla?

Lo sguardo che le rivolse era pieno di rabbia, ma anche di una determinazione che per un attimo la stupì: "C'è un solo motivo per cui lo farò, signorina Lagan", disse calcando sul nome con disprezzo. "Questi cavalli sono miei e non voglio che debbano essere toccati più del dovuto da una come te".

Un ringhio d'ira le tremò in gola ed Eliza dovette contenersi a fatica per non insultarla e rovinare tutto.

Dannata orfana!

Strinse i pugni fino a far penetrare le unghie nella carne e i denti finché non li sentì scricchiolare quando quella rozza ragazza senza passato parlò a Cesar: "Coraggio, amico mio, dovrai sopportare per un po' la tua vecchia padrona, ma ti giuro che sarà l'ultima volta!". Gli accarezzò il muso come se si scusasse e lei fu tentata di ucciderla in quel momento. E con le sue stesse mani.

Eliza prese in mano il caschetto senza più guardarla e, tenendo per le briglie il cavallo con l'altra, uscì fuori tra lo scalpiccio ritmico degli zoccoli.

Qualche passò più indietro, Candy salì con qualche difficoltà su Cleopatra ed Eliza non poté fare a meno di trattenere una risata beffarda, finalmente rinfrancata dalla prospettiva: una caduta rovinosa sarebbe stata proprio quello che le ci voleva. Magari si sarebbe persino rotta un braccio o una gamba e si sarebbe depressa più facilmente.
Notò che non si era curata di indossare il casco e aprì la bocca per ricordarglielo, visto che ce n'erano un paio nella stalla. Ma poi una vocina le disse che poteva anche stare zitta, che male c'era? Suo fratello a volte si preoccupava inutilmente.

Per ogni evenienza, Eliza si allacciò il suo e per un solo, assurdo istante, si ritrovò quasi a sperare che Candy la imitasse.

Non morirà per una caduta da cavallo. E, se accadesse, farò finta di piangere al suo funerale.

Si rese conto che dentro di lei qualcosa stava diventando nero come la pece e ne fu esaltata in maniera quasi sensuale. Rabbrividì, pensando che la cattiveria poteva essere molto costruttiva nella vita come negli affari: a essere buoni e altruisti si finiva solo per essere delle vittime.

Come Candy.

E come quella coppia di stupidi che si erano lasciati a pochi mesi dal matrimonio.

Saltò in sella, raccogliendo elegantemente il vestito e notando con stizza che Candy aveva fatto lo stesso. Aveva sperato che si impigliasse nella gonna e facesse una magra figura di fronte a lei, ma tutto sommato era meglio così, almeno potevano iniziare senza perdite di tempo.

"Arriveremo fino al bosco e torneremo. Sarà una specie di gara. Se deciderai di cavalcare come un uomo all'improvviso verrai squalificata, sempre che tu non cada nel tentativo!", concluse scoppiando a ridere.

"Non cadrò, e sarò io a vincere!", dichiarò l'orfana con occhi di fuoco.

"Certo, certo, bla bla bla... andiamo!". Spronò il suo cavallo e vide Candy con la coda dell'occhio che le si allineava pochi istanti dopo sulla sinistra.

"Non vale, dovevi almeno contare fino a tre!", strepitò Candy, ma lei non le prestava più attenzione.

Stava guardando attentamente gli zoccoli anteriori di Cleopatra, in particolar modo il destro. Eliza era certa che prima o poi la bestia si sarebbe impennata, perché era stata lei stessa a intervenire, quella notte.

Non si era certo fidata di quello che aveva fatto suo fratello, non dopo essersi adeguatamente documentata sull'argomento grazie alla biblioteca fornita degli Ardlay.
Quando lo aveva visto spostare il chiodo di pochi millimetri era stata tentata di redarguirlo con durezza, ma poi aveva preferito tacere e tornare nel cuore della notte. Era stata dura, un lavoraccio affatto adatto a una signora, così come non erano adatte a una signora le imprecazioni che aveva lanciato, ma avrebbe pagato.

Oh, se avrebbe pagato!
 
- § -
 
Neal stava sudando freddo, perché sapeva che in quel momento Eliza e Candy sarebbero state sui cavalli. Quando sua sorella avesse scoperto che aveva posizionato il chiodo in maniera che non ferisse la zampa dell'animale, lo avrebbe di sicuro strigliato a dovere, proprio come un cavallo!

Non che non fosse abituato alle scene isteriche della sorella e della madre, ma cominciava a essere stufo.

Candy c'entrava solo marginalmente, sebbene non intendesse farle più male di quanto già gliene aveva fatto in passato. Era stanco di inventarsi piani e intrighi da ragazzino, se doveva usare la sua intelligenza senza scrupoli voleva farlo per diventare più ricco di suo zio William.

Era nauseato dalla prospettiva di vivere all'ombra degli Ardlay e, se Eliza era felice solo nel veder rovinata Candy, lui sarebbe stato soddisfatto quando avesse visto la famiglia Lagan sopraffare e distruggere tutti gli altri, compresi i suoi cari zii.

Da quando Eliza gli aveva instillato il seme del dubbio su Candy e William, inoltre, si sentiva ancora più determinato: chi mai era quell'orfana per rifiutare Neil Lagan e mettere gli occhi sul patriarca degli Ardlay? Il piano di sua sorella gli stava tornando utile, perché aveva imparato delle cose che poteva mettere in atto contro suo zio. Non che le avesse comprese appieno, ma il meccanismo di certi investimenti gli era abbastanza chiaro e, con il supporto di suo padre, gli alberghi in Florida sarebbero stati solo la punta dell'iceberg della loro fortuna.

"Mi stai ascoltando, Neil?", gli chiese l'uomo biondo di fronte a lui, sistemando i fogli che stavano guardando.

"Eh? Oh, certo zio, è tutto molto chiaro. Comincio a capire molte cose che prima ignoravo grazie alle tue spiegazioni", cercò di essere convincente.

Lo zio William si alzò lentamente dalla sedia, inclinando la testa come se fosse in ascolto, poi si voltò di scatto verso la porta-finestra alle sue spalle e strinse i pugni.
Le aveva viste anche Neal, erano appena passate al galoppo.

"Neal, tu...", il tono urgente nella voce dello zio gli indicò che li aveva scoperti e gli fu ancora più chiaro quando si voltò a guardarlo con una muta domanda negli occhi spalancati, illuminati dall'improvvisa comprensione.

Tuttavia, non credeva che avrebbe reagito in quel modo.

"Dannazione, non ha ancora imparato ad andare a cavallo come si deve e lo sta montando in quel modo!". Girò intorno alla scrivania e uscì dalla stanza con la velocità di un fulmine.

"Ma zio, è solo... una cavalcata", concluse a voce più bassa, sapendo che non poteva più sentirlo. Si strinse nelle spalle e uscì dalla stanza fischiettando. Magari lo avrebbe seguito per vedere come rimproverava la sua protetta, cercando segnali di un rapporto più stretto fra loro. O di un'imminente rottura...
 
- § -
 
Candy non si sentiva al sicuro e le punte acuminate del terrore stavano rischiando d'impossessarsi del suo cuore. Ma non voleva cedere davanti a Eliza, rischiando che parlasse davvero con la zia Elroy, soprattutto perché si fidava della sua adorata Cleopatra. Si stava comportando molto bene, anche se da qualche minuto le sembrava che la sua andatura fosse diversa dal solito.

Molto probabilmente dipendeva da quell'assurda posizione da signora, con le gambe da un solo lato e il vestito che le intralciava i movimenti. Avrebbe voluto mettersi comoda a cavalcioni, vestito o non vestito, ed essere libera. Ma, più di ogni cosa, desiderava Albert vicino a sé, a sorriderle rassicurante.

Capì però che non poteva contare sempre su di lui. Su una cosa Eliza aveva ragione: se voleva davvero far parte con onore della famiglia Ardlay, doveva diventare una vera signora.

Una signora indipendente e stabile, che non avesse bisogno di appoggiarsi di continuo al suo uomo, come lo era sempre stata prima che lei e Albert si confessassero i sentimenti reciproci. Quello era il modo con cui Candy intendeva...

"Oh, mio Dio". Il suo ragionamento fu interrotto dalla consapevolezza che Eliza la stava conducendo proprio nel bosco dove era morto Anthony, quello che aveva visitato con Albert tempo prima, affrontando quel dolore insieme a lui. Le rose e i fiori di mirtillo erano ancora lì, in tutto il loro splendore, e quella striscia di terreno dove il ragazzo che aveva amato era caduto...

"Che ti succede, Candy?", le stava gridando Eliza poco più avanti. Non sapeva come avesse fatto a sapere di quel posto, né se ne fosse cosciente, ma era proprio lì che si trovavano.

Candy ebbe appena il tempo di formulare mentalmente una risposta stizzita, quando Cleopatra emise un nitrito che riconobbe come di dolore.

Fu l'inizio di un incubo a occhi aperti.

Il cavallo bianco di Anthony mette la zampa in una tagliola nascosta nell'erba e nitrisce forte.

Si sentì proiettata all'indietro, mentre il suo docile animale sollevava le zampe anteriori.

Anthony perde la presa sulle briglie mentre il cavallo alza la zampa ferita e s'inarca.

Mentre cominciava a cadere, con il baricentro ormai irrimediabilmente spostato, Candy gridò di orrore, sentendo il suo stesso corpo immerso negli istanti precedenti la morte di Anthony.

Il ragazzo biondo dallo sguardo gentile, che solo pochi secondi prima la guardava e le parlava con affetto, grida mentre si accascia di peso a terra, per poi rimanere immobile.

Per sempre.

Tirò indietro le braccia, sporgendo i gomiti nel disperato tentativo di girarsi o lenire il colpo, ma non fece in tempo.

Chissà se lui ha avuto paura, quando ha capito che stava per morire.

Poi ci furono l'impatto e il buio.
 
- § -
 
Albert pensò di vivere in un sogno orrendo.

Gli avevano raccontato più volte come fosse avvenuto l'incidente di Anthony e, mentre guardava cadere Candy da cavallo, fu come se la visione di quel terribile momento si presentasse sotto ai suoi stessi occhi.

La sua amata ragazza, quella che aveva creduto di aver perduto e poi ritrovato, quella a cui finalmente aveva aperto il suo cuore, fu disarcionata per poi cadere di schiena sul prato. Per una frazione di secondo vide il riflesso delle sue braccia, che doveva aver istintivamente piegato per proteggersi, ma l'impatto fu inevitabile.

"CANDY!", gridò con quanto fiato aveva in gola.

Non era molto lontano, ma mentre correva verso di lei gli parve che passassero ore preziose.

L'erba è alta, non ci sono rocce e poi si è protetta con i gomiti. Mi hanno già detto che era morta una volta e non era vero, non morirà ora.

Arrivò da lei con il fiato corto, pur avendo corso per pochi metri e la prima cosa che fece fu far scivolare una mano sul suo collo per sentire se c'era battito. Tremava violentemente, tanto che per un orribile istante non sentì nulla. Poi, misericordiosamente, avvertì la vena pulsare debolmente e gli occhi gli si riempirono di lacrime di gratitudine.

Sbatté le palpebre, scacciandole, concentrandosi su di lei e chiamandola: "Candy, mi senti tesoro? Svegliati, per favore! Candy". Le diede leggeri colpetti sul viso e allungò le braccia per sollevarla, quando una voce interruppe il suo gesto.

"Zio, penso che dovremmo chiedere aiuto a dei medici, non credo sia una buona idea spostarla". Sussultò: non sapeva che ci fosse Neal dietro di lui.

"Hai ragione", convenne. Alzò gli occhi su Eliza, che aveva le mani premute sulla bocca come se non credesse a ciò che vedeva, evidentemente sotto shock, e su Neal, che le lanciava occhiate piene di panico.

Avrebbe avuto modo di parlare con loro e gli avrebbe fatto sputare la verità, oh, sì, ma non ora. Ora la priorità era Candy.

"Neal, Eliza, andate a chiedere aiuto. Confido che torniate entro brevissimo tempo". Piantò su di loro uno sguardo gelido e fu certo che avrebbero eseguito alla lettera.
Albert ebbe la sensazione di attendere lì, chino su Candy priva di conoscenza, per un'eternità. Si concentrò sul suo respiro irregolare chiamandola di tanto intanto e pregando. Pregando Rosemary, pregando Anthony, pregando i suoi genitori e pregando Dio di salvarle la vita.

Finalmente, il medico di famiglia arrivò trafelato, accompagnato da due infermieri e caricarono Candy su una lettiga tenendole fermi il collo e la testa. Stava per seguirli quando si voltò verso il cavallo, sofferente e fermo con una zampa sollevata.

Si sentì diviso in due.

Candy era viva, ma lui doveva sapere. Quando si chinò sulla zampa e tentò di toccarla, Cleopatra emise un verso straziante che gli ferì il cuore: "Calmati, buona, mi occuperò io di te". Come era successo con il leone, anche il cavallo parve rilassarsi al suono della sua voce e lui poté finalmente capire cosa le facesse così male.
Cleopatra era stata ferrata male di proposito. Un grosso chiodo sporgeva dal centro dello zoccolo.

La rabbia e il dolore gli fecero venire voglia di urlare, ma tentò di contenere tutte quelle violente emozioni, trasformandosi di nuovo nel compito zio William. Ma di una cosa era certo: se davvero Neal ed Eliza avevano fatto una cosa tanto ignobile e pericolosa, avrebbero pagato a caro prezzo. E se fosse successo qualcosa di grave a Candy per quella bravata, non avrebbe più risposto delle sue azioni.
 
- § -
 
Era andata meglio di quello che pensasse, allora perché era terrorizzata? Era quello che si provava ad essere andate così vicine dall'uccidere qualcuno?

Improvvisamente tutti le stavano lanciando sguardi taglienti come lame: lo zio William, suo fratello, George e persino la zia Elroy che stava chiedendo trafelata cosa fosse accaduto di grave, stavolta.

Qualcuno la prese per le spalle: "Cosa le hai fatto, dannata serpe, cosa hai fatto a Candy?!". Era Archie, che la stava scuotendo.

Odiò il suono stridulo della propria voce quando rispose: "Io non le ho fatto niente, è stato quello stupido cavallo!".

"Bugiarda!", gridò suo cugino prima di darle uno schiaffo così forte che si ritrovò a terra. Era esterrefatta, Archie l'aveva picchiata!

"Come ti permetti?", strillò portandosi una mano sulla guancia.

Incredibilmente fu Annie a redarguirlo, afferrandolo per un braccio: "Non serve a niente ora, andiamo a sentire come sta Candy!". Eppure, per un attimo, gli occhi della sorellastra di Candy incontrarono i suoi trasmettendole un brivido.

Erano due iceberg.

Sparirono al piano superiore, mentre lei rimaneva a terra nell'ingresso principale, troppo sconvolta anche per alzarsi.

"Insomma, zia Elroy, qualcuno! Aiutatemi, quel selvaggio mi ha picchiato!". Solo una cameriera si degnò di fare capolino e di aiutarla ed Eliza si rese conto che forse, in quel momento, la odiavano tutti.

"Venga, signorina, l'accompagno in camera sua", propose la donna sostenendola per un braccio.

Lei la scacciò malamente: "Non sono stata io, mi avete sentito? È lei che non è in grado di andare a cavallo!", gridò alle scale deserte.

Cercò di calmarsi, mentre la cameriera si ritirava discretamente dicendo qualcosa che non udì. Non sapeva più se sperare che Candy si salvasse o che perisse. Non sapeva più se essere accusata di aver fatto qualcosa di grave le piacesse o meno. E, soprattutto, non capiva come mai persino suo fratello e sua zia si preoccupassero tanto per quella maledetta, dannata, odiosa Candy.

Chi ne sarebbe uscita vittoriosa, se tutti si stavano schierando dalla sua parte?

Non era così che doveva andare: lei era Eliza Lagan, una signora ricca e rispettabile e tutti dovevano amarla e preoccuparsi per lei!

Marciò nella sua stanza con lacrime di rabbia che le pungevano gli occhi, ripetendosi che tutto quello si sarebbe rivelato a suo favore, qualunque fosse l'epilogo. Ma la furia cieca che s'impossessò di lei era incontrollabile e, una volta chiusa la porta, con un gesto del braccio spazzò via tutto quello che aveva sul comodino.

Guardò la propria immagine riflessa nella specchiera, la guancia gonfia e le lacrime che avevano sciolto il trucco e, in un ultimo impeto d'ira, vi lanciò contro la spazzola, incrinando il vetro e mandando in pezzi anche la sua figura.

Fine seconda parte

Come già accennato, la storia si divide in più parti, quindi non è affatto terminata: lo è solo questa seconda tranche.

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Capitolo 22
*** Sospetti ***


Terza parte: Broken
- § -
- § -

Quando il medico uscì dalla stanza di Candy, si alzarono tutti in piedi come fossero un'unica entità. Archie vide persino la zia Elroy pallida e preoccupata e Albert, che era stato tutto il tempo a camminare avanti e indietro, fu il primo a raggiungere il dottore.

"Allora, come sta?".

L'uomo scosse la testa e, per un terribile istante, Archie pensò che fosse morta. Davvero, stavolta.

"La signorina Ardlay è in coma, nonostante mantenga inalterate le funzioni respiratorie. Il colpo alla testa non è stato fatale, ma comunque abbastanza forte da ridurla in questo stato".

Annie, vicino a lui, emise un gemito e d'istinto le strinse un braccio per darle forza, nonché per trarne lui stesso.

"Si sveglierà?", chiese suo zio con voce tremante.

Stavolta il dottore fece una pausa più lunga, come raccogliendo i pensieri e scegliendo le parole: "Signori, purtroppo non ci è dato saperlo".

"Come sarebbe a dire? Lei è un medico o no?", intervenne Archie stringendo i pugni. Voleva colpire di nuovo Eliza, farla confessare e marcire in galera. Ma, soprattutto, rivoleva la sua Candy viva.

"Calmati, Archibald!", lo redarguì la zia Elroy. "La prego, può spiegarsi meglio?".

L'uomo si schiarì la voce: "I casi di coma non sono tutti uguali. Ho visto pazienti risvegliarsi dopo pochi giorni e riprendere la loro vita come se nulla fosse, ne ho visti altri riprendere conoscenza a distanza di mesi e perdere determinate capacità motorie o cerebrali. E... ne ho visti anche morire, purtroppo. Adesso non possiamo fare altro che monitorare con costanza la signorina e alimentarla artificialmente, per questo dobbiamo ricoverarla quanto prima perché non si disidrati".

Archie tentò di inghiottire qualcosa che aveva in gola e, d'improvviso, si trovò Annie avvinghiata al braccio, che singhiozzava. Neal era rimasto in un angolo con gli occhi fissi su una parete e la zia Elroy si era seduta come se non si sentisse bene. Albert riprese a camminare piano, passandosi le mani sul viso e respirando pesantemente.

"Va bene, portiamola subito nel miglior ospedale di Chicago", disse suo zio con voce più ferma di quello che avrebbe creduto. "George, dov'è George?".

"Sono qui, signorino William". Archie lo vide, si era discretamente ritirato in una stanza adiacente: non lo aveva mai visto così pallido.

Insieme al medico, si diressero verso lo studio per telefonare in ospedale e predisporre tutto per il trasferimento di Candy.

I singulti di Annie, al suo fianco, divennero più forti. "Calmati, Annie. Candy è forte, si riprenderà, ne sono sicuro", disse alla sua ex fidanzata stringendola e carezzandole i capelli, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Doveva rimanere stabile per lei, capì. E per Albert, che gli pareva sul punto di crollare.

Perché lui amava Candy.

Guardò Annie, che piangeva e tremava fra le sue braccia e sentì un forte istinto di protezione. Si era mostrata forte e determinata, in quei giorni, ma rimaneva la fragile Annie di sempre.

"Devo mandare un telegramma ai miei genitori. Voglio tornare a Chicago al più presto, verrò con voi", dichiarò asciugandosi gli occhi.

Archie annuì: "Sì, verrò anche io".

Si voltò per guardare sua zia, che continuava a sembrargli troppo preoccupata e a Neal, che pareva catatonico. Possibile che...?

"Io resterò qui con Neal ed Eliza per qualche giorno, voglio organizzare le cose in modo che la servitù sistemi per bene la villa prima della chiusura. Neal, immagino che tu e tua sorella tornerete in Florida".

"Eh? Oh, sì, zia Elroy, penso di sì", rispose lui distratto.

C'era qualcosa in quella conversazione che continuava a non piacergli: non poteva credere, però, che anche la vecchia matriarca fosse invischiata in quello che avevano fatto i fratelli Lagan. Ma quel suo desiderio di rimanere per istruire la servitù...

Annie si sciolse improvvisamente dal suo abbraccio, come se si fosse appena accorta della posizione in cui si trovava e Neal si allontanò borbottando. Anche la zia Elroy annunciò che andava nella sua stanza perché aveva un gran mal di testa.

Archie rimase solo e s'incamminò a sua volta, quando incrociò Albert. Si fronteggiarono per qualche istante, in una muta conversazione in cui sembrarono dirsi molte cose.
"Io... volevo vederla un attimo da solo. Il dottore ha detto che parlarle potrebbe aiutare", disse lui sulla difensiva.

Archie gli sorrise leggermente: "Certo, ne hai tutto il diritto".

Mentre si avvicinava alla porta di Candy, Archie provò l'impulso di parlare: era certo che anche suo zio avesse dei sospetti. "Ho schiaffeggiato Eliza, dice che la colpa è del cavallo".

"Cleopatra aveva un chiodo conficcato nello zoccolo. Qualcuno l'ha ferrata male". La gelida voce di Albert lo colpì, facendogli sbattere le palpebre per l'incredulità.

"Che cosa hai detto?", il suo tono era urgente, affannato dalla rabbia.

"Rimarranno ancora per qualche giorno, per organizzare il viaggio di ritorno. Avrò modo di parlarci", continuò lo zio girando il capo verso di lui, senza scomporsi.

"Io vado a spaccare la faccia a tutti e due!", ringhiò accecato dal dolore, dalla furia e dalle lacrime.

"Fermati, Archie!". Albert non era mai stato così perentorio. Gli aveva persino afferrato un braccio con una discreta stretta.

Si voltò a fronteggiarlo: "Lo sai cosa succederà, vero? Negheranno! Daranno la colpa al maniscalco e noi sappiamo benissimo che ne hanno chiamato uno diverso dal solito per poterlo corrompere!".

"Rifletti, Archie, quando l'avrebbero fatto venire qui, di notte?", gli chiese guardandolo negli occhi.

"E perché no? Quelle due serpi velenose sono capaci di tutto e la fanno sempre franca! Se Candy morisse...".

"Taci, Archie!", lo interruppe, portandosi le mani alle orecchie come se non volesse sentire quella parola.

Si accasciò su una sedia, prendendosi la testa fra le mani e cominciando a piangere silenziosamente, sconfitto. Non gli importava che Albert lo vedesse e non gli importava più di sapere chi tra loro amasse di più Candy. Tutti le volevano bene, a parte i Lagan, e tutti volevano che Candy tornasse tra loro.

Sentì una mano sul capo, paterna e calda. Capì che suo zio stava cercando di consolarlo, a modo suo. Quando alzò il viso bagnato di lacrime su di lui, si stava già voltando per entrare nella stanza di Candy. Fu tentato di seguirlo, ma desistette. Si asciugò gli occhi con il braccio, in un gesto nervoso, tentò di ricomporsi e andò verso la sua stanza, per fare a sua volta la valigia.
- § -
 
Nell'oscurità della sera, Elroy Ardlay rimaneva seduta sulla sua poltrona preferita senza accendere le luci. Aveva congedato la servitù un'ora prima, dichiarando che avrebbe chiamato l'autista quando fossero stati pronti per partire.

Non voleva nessuno intorno.

Quando bussarono alla porta, sapeva che si trattava dei suoi nipoti e una mano strinse inconsapevolmente il bracciolo. Era la resa dei conti.

"Avanti", disse a voce alta.

Eliza fu la prima ad entrare, con disinvoltura, e Neal la seguì più lentamente, chiudendo la porta dietro di sé. La ragazza accese una lampada senza chiedere il permesso e le si parò davanti: "Oh, zietta, guarda cosa mi ha fatto quel bruto di Archibald! Mi rimarrà il segno per sempre!", pianse nascondendosi il viso tra le mani.

Elroy si accigliò, notando che Neal rimaneva in disparte. Dentro di sé si rincorsero sentimenti contrastanti: davanti a lei c'era una nipote che piangeva per un segno sul viso. In un ospedale di Chicago, la protetta di William, che lei non aveva mai potuto sopportare, lottava tra la vita e la morte.

Qualcosa scattò dentro il cuore della donna: sapeva che, durante gli anni, i giovani Lagan avevano fatto di tutto per rendere difficile la vita a Candice, ma non le era mai importato nulla. Quando Sarah aveva ritrattato pubblicamente la storia dei suoi presunti furti, a dire il vero, era rimasta stupita.
Ora il dubbio cominciava ad avanzare, inquietante e inesorabile. Possibile che i suoi nipoti, dal povero Anthony a William, vedessero quello che lei si era sempre rifiutata di riconoscere? Possibile che Candice fosse veramente migliore di quanto avesse mai creduto?

"Cosa hai fatto, Eliza?", chiese senza preamboli.

La ragazza smise di singhiozzare e si accorse che i suoi occhi erano asciutti: "Io non ho fatto niente, zia! Volevo solo insegnarle a cavalcare come una signora!".

"Che cosa hai fatto?", ripeté usando un tono di voce più alto e alzandosi in piedi. Si sentiva affannata e la testa le faceva di nuovo male. Odiava essere presa in giro.
Si rese conto, con piacere, che lo sguardo di Eliza era terrorizzato e la ragazza stava per piangere veramente: "Neal?", si rivolse al nipote, sperando che avesse più giudizio.

"Io...".

"Zia, non crederai alle accuse che mi ha lanciato Archie, vero? Il cavallo si è imbizzarrito da solo, l'ha visto persino lo zio William!".

"Il cavallo aveva un chiodo nella zampa", la voce stentorea li fece trasalire tutti.

"William!", disse stupefatta. "Pensavo che fossi in ospedale con Candice".

"Sono rimasto finché non l'hanno sistemata nella sua stanza e tornerò da lei subito dopo aver chiarito alcune cose", disse lui avvicinandosi. "Ad esempio, chi ha ferrato quella povera bestia in quel modo".

Gli occhi cerulei del nipote, stanchi e segnati dalla preoccupazione, saettarono da Eliza a Neal ed Elroy dovette sedersi di nuovo: "Ma, William, dei cavalli se ne occupano solo lo stalliere e il maniscalco!", obiettò rimettendosi dalla parte dei nipoti più giovani, confusa. Era convinta che avessero spaventato il cavallo, invece ora usciva fuori che era stato ferito.

"Esatto, zio. Penso che dovresti chiedere a loro". La frase di Eliza s'interruppe di colpo, quando William marciò verso di lei facendola indietreggiare. Piantò lo sguardo nel suo e, per un istante, Elroy fu certa che l'avrebbe picchiata anche lui. Aprì la bocca per fermarlo ma lui si limitò a parlare, con i pugni talmente stretti e la voce così gelida che quasi non lo riconobbe.

"I miei dipendenti mi conoscono da tanti anni e io conosco loro. I cavalli sono stati ferrati correttamente il giorno prima che venissimo tutti a Lakewood e io ho piena fiducia in loro. Fino a ieri pomeriggio, Cleopatra cavalcava senza problemi e ora è da un veterinario con una zampa ferita. Oggi pomeriggio Archie mi ha suggerito una cosa interessante: secondo lui, qualcuno ha corrotto un altro maniscalco perché posizionasse male i chiodi nel ferro. Tu che ne pensi, Eliza? E tu, Neal? Tu, che mi hai tenuto lontano da tua sorella con la scusa delle lezioni di economia mentre lei portava Candy a cavalcare, cosa ne pensi?".

Lo vide dirigersi verso il nipote più giovane, che si strinse nelle spalle come se volesse sparire, sudando copiosamente: "Io... io penso che non ci sarebbe stato il tempo", balbettò.

L'espressione contrita di Neal. La faccia allarmata di Eliza. Tutto, in loro, gridava colpevolezza. Elroy si portò una mano alla fronte.

"Ah, no? Io invece dico di sì", riprese William con lo stesso tono controllato e freddo. "I delinquenti, di solito, operano di notte".

"William, non ti permetto di insinuare...!", obiettò prima di potersi trattenere.

"Cosa, zia? Io non sto insinuando nulla. Sto solo parlando con i miei nipoti per cercare di capire chi possa aver commesso un atto che, per legge, viene chiamato 'tentato omicidio'. Non vorrei aprire un'indagine e sollevare un polverone se posso denunciare direttamente il colpevole".

La donna si portò una mano al petto, sentendo che le mancava il respiro. Prima Archie e Annie, ora questo... sentiva che sarebbe potuta morire di crepacuore prima ancora che gli Ardlay crollassero.

"Noi non c'entriamo nulla!", strillò Eliza.

"Stai zitta, Eliza!", la rimbeccò Neal.

"Vi sentite chiamati in causa?", domandò William fingendo stupore. Cominciò a camminare per la stanza, parlando ad alta voce come per ripercorrere meglio il suo ragionamento e la donna non ebbe il coraggio d'interromperlo: "Vediamo, io non sono stato di certo e penso che neanche tu, zia, ti saresti mai abbassata a tanto, anche se Candy non ti è mai stata molto simpatica".

"Non osare neanche dirlo", ribatté stizzita, sentendosi improvvisamente complice. Ricordava ancora la conversazione avuta con Eliza e avvertì un sapore amaro in bocca.

"Quindi rimangono Archie ed Annie che, nonostante abbiano avuto i loro problemi, sono amici di Candy da sempre", continuò camminando con passi controllati, "mentre per quanto riguarda la servitù vale lo stesso discorso fatto per chi si occupa dei cavalli".

"Forse ti fidi troppo della servitù, zio caro. Non lo sai...", la risposta di Eliza fu interrotta dalla mano di William, che calò senza alcuna gentilezza sulla spalla della ragazza.

Elroy soffocò un'esclamazione al pari della nipote: fu certa che, se non fosse stato un gentiluomo, l'avrebbe stretta fino a farle male. 

"Non sono il tuo caro zio, Eliza, sono lo zio William, per te".

La donna si accorse dello sforzo che suo nipote stava facendo per controllarsi. Tolse la mano dalla spalla di Eliza con riluttanza e si voltò verso Neal: "Chi ha fatto una cosa del genere voleva colpire Candy. Che motivo avrebbe la servitù di attaccare una Ardlay? Andrebbe contro i suoi stessi interessi".

"Una Ardlay", borbottò Eliza tappandosi la bocca con una mano quando si rese conto di aver parlato a voce troppo alta.

"Ti prego, Eliza!", disse Elroy sull'orlo della disperazione.

Gli occhi di William divennero di fuoco, sembrarono persino cambiare colore: guardò alternativamente Eliza e Neal e la donna capì che doveva intervenire: "Ora basta, William! Nessuno qui è un assassino e non verrà aperta nessuna indagine per Candice! Si è trattato solo di un terribile incidente, fattene una ragione. Non tollero che tu venga nella mia stanza a insinuare che qualcuno abbia attentato alla vita della tua protetta!". Aveva usato un tono duro, ma non si sentiva affatto sicura.

William puntò gli occhi su di lei: si erano ammorbiditi, ma non di molto e ne fu quasi intimorita.

"Parlerò con il maniscalco degli Ardlay, ma posso dirvi io stesso che per far finire un chiodo nella zampa di un cavallo bisogna posizionarlo male di proposito. Ho lavorato in uno zoo e sono stato a contatto con molti animali, ne so abbastanza per esserne certo".

Con la coda dell'occhio, Elroy vide Neal passarsi le mani tra i capelli in evidente stato di agitazione. Lo vide anche William e si diresse verso di lui.

"Io non l'ho spostato, quel dannato chiodo! Eliza, diglielo anche tu che non siamo stati noi!". Fu come se avesse confessato e quello che accadde dopo le sembrò una specie di incubo.

William lo afferrò per i lembi della giacca, lo sollevò e lo appoggiò al muro facendogli sbattere la testa con un discreto tonfo.

Gridò il suo nome, sull'orlo di uno svenimento, ma lui non sembrò neanche udirla. Si chiese che fine avesse fatto il nipote così docile e spensierato che era cresciuto con lei e George. Bastava toccare Candice per trasformarlo in un animale ferito pronto ad attaccare?

"Ascoltami bene, Neil Lagan. Se succede qualcosa a Candy farò marcire te e tua sorella in galera per il resto delle vostre vite, quanto è vero che mi chiamo William Albert Ardlay! Stavolta avete passato il limite e non avrete sconti. Stavolta ci sono io a difenderla e farò giustizia a ogni costo, vi è chiaro?". Si volse anche verso Eliza e lasciò andare Neil con uno strattone. Il ragazzo cadde a terra di peso, piagnucolando e rannicchiandosi come se fosse stato picchiato selvaggiamente.

"Non azzardarti a toccarla!", pregò Elroy quando lo vide dirigersi verso Eliza, che aveva gli occhi spalancati dall'orrore.

Ancora una volta, lui non diede segno di averla sentita: "In quanto a te, piccola... vipera, ringrazia il Cielo che sono un signore, o la tua guancia destra sarebbe messa molto peggio della sinistra".

Lei lanciò un gridolino, palesemente indignata: "Chiamerò i miei genitori, ti faranno pentire di questo affronto!".

"Eliza!", la rimbrottò esasperata. Forse la ragazza non si rendeva conto dello stato in cui versava suo zio.

"L'unica cosa di cui si dovranno pentire è di avere avuto una figlia cattiva come te", le rispose quasi con tristezza. Poi lanciò uno sguardo disgustato a Neal, che tremava in un angolo: "Hai i pantaloni bagnati, ragazzo".

"William...", tentò Elroy.

Lui si voltò a guardarla: "Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a tutto questo, zia. Sono certo che mi lascerai fare tutte le indagini del caso. Confido che i tuoi nipoti non si allontanino da Lakewood, nel frattempo", concluse chiudendo la porta dietro di sé e andandosene.

Elroy guardò i nipoti Lagan e si chiese, disperata e furiosa, quando le cose fossero precipitate così tanto. Cosa ne avrebbe fatto, ora, di loro? E cosa avrebbe detto ai suoi genitori quando fossero arrivati in città?

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Capitolo 23
*** Trame nell'ombra ***


George ebbe una sorta di dejà-vu. Solo che, invece che alla Casa di Pony, stavolta stava lasciando William in ospedale: non aveva voluto sentire ragioni e aveva deciso di rimanere lì tutta la notte.

Quando era salito in macchina, gli era parso sfinito ed era stato per due minuti buoni con la testa fra le mani, in silenzio, mentre lui attendeva istruzioni per partire. Lo aveva osservato per un po', quindi gli aveva chiesto se andava tutto bene.

"No che non va tutto bene! Non va bene niente!", aveva sbottato sconvolgendolo e abbandonando finalmente quella postura contrita.

"Mi perdoni, ho fatto una domanda sciocca", rispose. In effetti quella domanda retorica se la poteva risparmiare, ma persino lui aveva i nervi a pezzi, anche se non lo dava a vedere.

"Perdonami tu, George, non me la dovevo prendere con te. Possiamo andare ora", la sua voce era più calma ma sembrava stravolto.

"Non si deve scusare, signorino William. Sono momenti difficili per tutti, ancor più per lei", aveva ribattuto mettendo in moto.

Dopo qualche minuto di strada aveva parlato di nuovo: "Prima se ne va a New York da Terry, poi mi comunicano che è morta. Quando finalmente le cose sembrano mettersi bene e riesco finalmente a stringerla fra le mie braccia, succede questo!". George udì distintamente il colpo del pugno sul sedile.

"È riuscito a parlare con i suoi nipoti?", domandò cercando di non far trapelare la curiosità che lo stava rodendo.

"Sì, ma ho perso il controllo. Ho aggredito Neal e... anche Eliza. La zia Elroy aveva gli occhi fuori dalle orbite".

George strinse il volante: "Li ha... aggrediti?".

Ascoltò il racconto di William in silenzio e non riuscì a stupirsi più di tanto. Per quanti anni la signorina Candy aveva dovuto subire le angherie di quei ragazzi? Quello che le avevano fatto, se veramente erano implicati, era al di là di ogni immaginazione più fosca. Chiunque avrebbe perso il senno.

"Sento che sto perdendo me stesso. Da quando mi sono dichiarato a Candy è come se fossi un'altra persona", disse piano, facendogli stringere il cuore.

Era in momenti come quello che sentiva il bisogno di chiamarlo con il nome che più amava, per rimarcargli l'affetto che provava per lui: "Signorino... Albert. Non sta perdendo se stesso, ha solo gettato via quella corazza che indossava da anni. Finalmente può esprimere liberamente quello che pensa senza nascondersi, anche davanti ai suoi familiari".

"Sì, ma ho praticamente sbattuto al muro Neal e... stavo per picchiare anche Eliza!", ribatté fomentandosi.

"Da quel che mi ha raccontato, il signorino Archibald lo ha proprio fatto, invece, e non mi risulta che non sia un gentiluomo".

"Ma io sono il capostipite e...".

"Oh, basta con queste sciocchezze!", esclamò George, poi si morse la lingua. Colse per un attimo l'espressione stupita di William nello specchietto retrovisore e si schiarì la gola. "Volevo dire che è un essere umano, con i suoi pregi, i suoi difetti e le sue emozioni. Una cosa è occuparsi degli affari di famiglia, come fa egregiamente, e un'altra è consentire che chiunque possa calpestare lei o le persone che ama".

Udì il suo sospiro e notò il sorrisetto sbilenco: "Hai ragione anche tu, ma non sono abituato a sentirmi così, è come se fossi più vulnerabile. A volte temo di non riuscire a controllarmi".

"Imparerà", lo liquidò immettendosi in una nuova corsia per sorpassare un'auto molto lenta.

Arrivati in ospedale, George Villers era rimasto per un attimo nei pressi della sua vettura quando William se n'era andato, riflettendo sul compito da svolgere: l'indomani mattina, molto presto, avrebbe contattato il maniscalco e il veterinario perché si confrontassero sulla ferita alla zampa di Cleopatra. Avrebbe fatto in modo che la polizia fosse presente per stilare una relazione sulle impressioni dell'uno e dell'altro sull'accaduto, uno dal punto di vista medico e l'altro da quello pratico per puntualizzare l'origine della lesione.

A quel punto, avrebbe presentato denuncia contro ignoti, chiedendo che venissero raccolte le prime testimonianze sui principali sospettati. Ovviamente, tutto doveva essere fatto con la massima discrezione possibile perché lo scandalo era dietro l'angolo. La signora Elroy aveva deciso di dare ad Archibald e alla signorina Annie del tempo per riappacificarsi, prima di rendere ufficiale la notizia della loro separazione, quindi al momento c'erano davvero troppe cose a bollire in pentola.

Alzò lo sguardo verso le camere illuminate dei pazienti e, prima di andare via, fece una preghiera a Dio perché facesse tornare sana e vitale la signorina Candy quanto prima.
 
- § -
 
Albert osservava i macchinari che nutrivano Candy e monitoravano le sue funzioni vitali, poi spostò lo sguardo sul suo viso pallido.

Solo la sera prima l'aveva stretta fra le braccia e l'aveva sentita vibrare. Ora era ferma e immobile, inconsapevole di ciò che le accadeva attorno.

Allungò una mano per spostare un ricciolo ribelle che le ricadeva su un occhio, quindi fece scivolare le dita lungo la tempia, fino a sfiorare lo zigomo, la guancia e le labbra secche. Con amore infinito, prese un fazzolettino, lo inumidì con un po' d'acqua della brocca e lo passò su quella bocca che aveva spesso baciato.

Candy continuò a rimanere immobile.

Le prese una mano e se la portò sulla guancia, chiudendo gli occhi al contatto con la sua pelle: "Candy, ti prego, apri gli occhi. Dobbiamo fare un mucchio di progetti, ricordi?".
Spinto dalle parole del medico che sosteneva che parlarle potesse essere d'aiuto, cominciò a ricordarle i giorni alla Casa della Magnolia: le risate, le cene insieme, le difficoltà e le visite dei loro amici, passando da un argomento all'altro senza un filo logico preciso.

"Ti ricordi il giorno del pic-nic? C'era anche Stair e mi ha dato una martellata in testa con un giocattolo per farmi tornare la memoria! E tutto questo appena dopo che tu avevi tentato di fare lo stesso facendomi cadere da una sedia", ridacchiò. "E quando ha affumicato le scale e riprodotto il rumore del treno? Pensavo di udire solo io quel suono, invece era un'altra delle sue invenzioni e per poco non ci hanno cacciati!".

Silenzio. Immobilità.

Albert cercò di cambiare approccio: "Ti ricordi la Collina di Pony, amore mio? È lì che ci siamo conosciuti, quando eri solo una bambina ed è lì che ti ho rivelato la mia identità. Sono il tuo Principe della Collina. Puoi chiamarmi così tutte le volte che vuoi, giuro che non ti sgriderò!". La voce gli si spezzò, suo malgrado.

"Torna da me, Candy, che ne sarà di me se mi lasci?". Sopraffatto dal dolore e dallo sfinimento per quella giornata, Albert scoppiò a piangere tenendo stretta la mano inerme di Candy.
 
- § -
 
Le mani di Terence furono prima sulla sua schiena, poi risalirono fino alle scapole e al collo, quindi scesero di nuovo giù, fino alla linea dei fianchi, lasciando scie infuocate ovunque passassero.

Karen sapeva che il ragazzo era ubriaco e si maledisse per non essere stata più attenta. Voleva solo che uscisse a festeggiare con lei e gli altri colleghi e non si era resa conto del numero di drink che si era fatto servire.

A causa delle nuove leggi, se li avessero scoperti non solo avrebbero chiuso il locale ma avrebbero arrestato probabilmente tutti quanti senza tanti complimenti: era stato un miracolo che nessuno li avesse fermati mentre tornavano in albergo e, comunque, Terence era messo peggio di tutti.

Karen aveva sudato freddo quando un poliziotto le aveva chiesto cosa avesse il suo amico e lei si era inventata un'intossicazione alimentare. Per fortuna, il taxi li aveva ricondotti a destinazione prima che altri li vedessero.

Si lasciò sfuggire un gemito quando si rese conto di come il corpo di Terence aveva reagito al contatto con il proprio e s'inarcò contro di lui d'istinto. Questo suo gesto alquanto sconsiderato portò Terry a reclamare le sue labbra con un lamento urgente e Karen non poté fare altro che arrendersi.

No, era tutto sbagliato. Non era così che si comportavano due amici, soprattutto perché lei lo amava ma lui di certo no.

"Terence, ti prego basta, non è giusto...", sospirò in precario equilibrio tra la passione e la ragione.

"Ho bisogno di te". Soffocò le parole nel suo collo e Karen fu certa che le sarebbe stato sufficiente per cedere. "Non lasciarmi, Candy".

Come una seconda pelle, il calore del desiderio si trasformò in gelo e il suo corpo s'irrigidì. Mentre lo spingeva via, lesse negli occhi annebbiati di lui la consapevolezza di quello che aveva appena fatto.

"Io non sono la tua Candy", disse con voce tremante.

Terence si portò una mano alla fronte, chiaramente sconvolto: "Perdonami, non volevo... non so cosa mi sia preso".

Karen fece due passi e gli fu di fronte. Lo afferrò selvaggiamente per le spalle, scuotendolo: "Lo so io cosa ti è preso: la ami ancora ma devi dimenticarla, capito? Lei non ti appartiene mentre io sono qui, viva, innamorata di te da tanti anni! Dio solo sa quanto ho sofferto in silenzio mentre ti vedevo al fianco di Susanna, infelice, incompleto. Mi ero rassegnata al fatto che non mi avresti mai vista come una donna e stasera, come una stupida, ho pensato che...". Scoppiò a piangere, coprendosi il viso con le mani e si odiò per questa dimostrazione di debolezza di fronte a lui.

"Karen...", tentò Terence allungando una mano.

"Non mi toccare!", gridò scacciandolo. Il ragazzo si ritrasse, visibilmente sconvolto. Dopo qualche istante lo afferrò per un polso e lo trascinò in bagno, mentre protestava e le chiedeva che diavolo stesse facendo.

Senza che lui potesse impedirglielo, aprì l'acqua fredda del rubinetto e gli sospinse la testa sotto al getto.

"Ma che ti salta in mente, smettila!", obiettò Terence che, troppo sbronzo per opporsi, mostrava il suo diniego in modo lento e poco energico.

"Lavala via dalla tua testa insieme all'alcool, Terence! Riprenditi la tua vita e guardati attorno! Apprezza quello che hai di bello e importante, non autodistruggerti con il ricordo di una donna che non sarà mai tua!".

Con un gesto deciso, lui si staccò finalmente dalla sua presa e barcollò fino al muro, dove si lasciò cadere a terra singhiozzando pietosamente, con i capelli che gocciolavano sulla camicia ormai zuppa. Incapace di vederlo in quelle condizioni, Karen gli gettò addosso un asciugamano, resistendo all'impulso di stringerlo a sé.

"Asciugati, Terence Graham, e cambiati quei vestiti bagnati. Ci vediamo domattina alle prove".

Si chiuse la porta della stanza alle spalle, combattendo contro le lacrime e maledicendosi per aver creduto, anche solo per un istante, che Terence si sarebbe innamorato di lei.
 
- § -
 
Neal era arcistufo di tutto e di tutti. Si sentiva offeso, umiliato e aveva solo voglia di prendere a pugni quel borioso di suo zio: si era permesso di mettergli le mani addosso, facendogli perdere la lucidità e spaventandolo a morte, causandogli un incidente imbarazzante che sarebbe sempre rimasto marchiato a fuoco nella sua memoria.

Chissà quante risate si sarebbe fatto alle sue spalle, se solo Candy non fosse stata in quelle condizioni.

Si ritrovò immerso in quel turbine di pensieri mentre vagava per la villa senza una meta precisa, girando per i corridoi a casaccio.

Non aveva più avuto il coraggio di guardare in faccia la sua isterica sorella, né sua zia, che per poco non aveva avuto un mancamento quando era giunta la comunicazione che, per ordine di William, nessuno di loro doveva muoversi da Lakewood finché le indagini non si fossero concluse. Probabilmente sarebbero stati interrogati il giorno successivo.

Ora aveva la prospettiva di un dannato interrogatorio e non sapeva come diavolo fosse possibile che il cavallo avesse reagito in quella maniera. Lui aveva appena toccato quel maledetto chiodo e, da quanto aveva appreso, non era sufficiente a innescare un dolore tale da farlo imbizzarrire in quel modo.

Non voleva uccidere Candy. Non voleva uccidere nessuno, non era un assassino e la sola ipotesi di essere accusato di omicidio o tentato omicidio volontario gli faceva tremare i polsi.

Eppure era stato così attento! Solo quella mattina aveva temuto la reazione di Eliza quando avrebbe scoperto che lo zoccolo era praticamente intatto, ora invece si trovava con lo spettro della galera o dei lavori forzati.

Desideroso di scaricare la tensione e di non vedere nessuno, si inoltrò nei sotterranei della villa e arrivò fino alle cantine. Lì trovò, con sorpresa, decine di bottiglie di whisky scozzese e altri distillati che gli Ardlay avevano accumulato negli anni.

Senza pensare, ne prese una a caso e l'aprì, bevendo direttamente dalla bottiglia: "Non male questa roba", borbottò alla cantina deserta.

Possibile che quel dannato chiodo si fosse spostato? O che qualcun altro avesse terminato il suo lavoro imperfetto? Non voleva finire in prigione!

"Maledetta Candy, maledetti tutti!", gridò al limite dell'esasperazione, lanciando la bottiglia contro il muro e mandandola in mille pezzi.

"Neil!", la voce di Eliza lo fece voltare di scatto. Possibile che l'avesse seguito fin lì?

"Vattene, non voglio vedere nessuno!", le gridò aprendo una seconda bottiglia e ricominciando a bere.

"Che diavolo stai facendo, lo sai cosa accadrà domattina? Dobbiamo parlare!". Le rivolse uno sguardo di fuoco, odiando la sua voce stridula e la sua guancia ancora arrossata.

"Di che cosa diamine vuoi parlare?", chiese sentendosi già preda dei fumi dell'alcool. Barcollò fino a lei, brandendo il whisky come fosse un'arma e spargendo il liquido ovunque: "Sei stata tu a concepire questo meraviglioso piano contro Candy e a coinvolgermi e se non mi sbaglio la zia Elroy ha già capito tutto! Ma sai qual è la differenza tra me e te?".

Eliza indietreggiò e lui fu soddisfatto nel vedere la sua espressione terrorizzata: "Neil, mi stai facendo paura!".

"La differenza", continuò, "è che tu sei una donna! Nessuno penserà che hai manomesso quel maledetto ferro, mentre sospetteranno di me!". Neil ebbe un lampo di lucidità e tacque, osservando la sorella. Cosa era appena passato nei suoi occhi? Perché li aveva distolti da lui?

No, non poteva crederci. La sua altezzosa sorella avrebbe fatto stendere a terra un servitore per superare una pozzanghera, non si sarebbe mai abbassata a toccare la zampa di un cavallo e degli attrezzi per...

"Dì un po', sorellina. Mica sarai stata tu, vero?", azzardò con un sorrisetto, prendendo un altro lungo sorso.

"Ma che cosa stai dicendo, sei impazzito?!", strepitò lei divenendo rossa in volto.

Le si avvicinò, quasi sfiorandole il naso: "Mmhhh, non lo so. Devo crederti?".

Eliza si ritrasse, con una mano sul naso: "Vai via, puzzi d'alcool! È così che vuoi ricevere il poliziotto che verrà a interrogarci domani? Se non ti sbattono in galera per il cavallo lo faranno per la legge che vieta il consumo di alcolici! Quindi vatti a ripulire e...".

Qualcosa gli scattò nel cervello, snebbiandogli la mente: "Cosa hai detto?".

"Che puzzi come un mendicante!".

"No, dopo!", insistette.

"Che c'è una legge che vieta... a che stai pensando?".

Sorprendendo persino se stesso, Neil prese Eliza per le spalle e la baciò in fronte.

"Ahh, che schifo!", protestò lei.

"Sorellina, sei un genio del male!".

"Che vai blaterando?!", chiese senza capire.

Lui si allontanò e fece un ampio gesto con il braccio: "Guardati intorno! Cosa pensi che succederebbe se la polizia venisse a sapere cosa tiene in questa cantina il caro zio William?".

Gli occhi di Eliza si spalancarono per la comprensione: "Oh...", sembrava incerta. "Ma si tratta di qualcosa che appartiene alla famiglia da almeno due generazioni, non lo vende mica al mercato nero...".

Neil comprese come, mentre terminava la frase, Eliza si rendesse conto delle implicazioni legate a quella possibilità.

"Certo, non lo vende. Ma la polizia non lo sa e noi potremmo fare in modo che sembri proprio così". Le rotelle nella sua testa cominciarono a girare diabolicamente, mentre vedeva riflesso sul viso gonfio della sorella il suo stesso sorriso cattivo.

"Accidenti, Neal, non sei tanto migliore di me", lo canzonò lei incrociando le braccia.

Neil aggrottò le sopracciglia: "È diverso. Io non voglio fare del male fisico e comunque non mi limito a spostare uno stupido chiodo nello zoccolo di un cavallo. Ho intenzione di fare molto di più: concepirò un piano così perfetto che la famiglia Ardlay sarà rovinata, trascinando con sé anche i Cornwell. E indovina da chi andranno gli investitori? A chi passeranno automaticamente tutti i beni?".

Eliza pareva entusiasta, tuttavia ribatté: "L'aspetto economico è solo una parte del divertimento. Oh, certo, diventeremo ricchi sfondati, ma la cosa più bella sarà vedere quel vagabondo finalmente in rovina! Non mi è mai piaciuta l'idea che uno come lui fosse a capo della nostra famiglia. E, ancora meglio, se quella Candy sopravvive affonderà assieme a lui!".

"Già", disse Neal mentre il suo sorriso si allargava, "la zia Elroy potrebbe essere travolta dagli eventi, ma noi saremo generosi e la accoglieremo a braccia aperte. Così, semmai le fosse rimasta qualche briciola la lascerà a noi Lagan". Alzò la bottiglia verso Eliza, come per brindare.

Cominciarono a ridere, discutendo dei dettagli e Neal si sorprese di come, fino a pochi istanti prima, fosse sull'orlo della disperazione e ora si trovasse ad avere dalla parte del manico non un coltello, ma una spada affilata.

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Capitolo 24
*** Un meccanismo diabolico ***


Eliza chiuse la porta a chiave e si diresse alla grande scrivania su cui troneggiava uno dei telefoni che avevano installato di recente a Lakewood. A parte un paio di librerie alle pareti e un armadio porta-documenti, quella stanza non veniva quasi mai usata e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarla lì.

C'era odore di chiuso e di legno, ma non si curò di aprire la finestra e andò dritta al telefono, tirando fuori dal vestito un bigliettino con il numero che voleva comporre.
Quando finalmente riuscì a farsi passare la linea cercò la diretta interessata, dicendo che era un'amica: "Molly, da quanto tempo! Sono Eliza Lagan, ci siamo conosciute in Florida in occasione dell'apertura di uno dei nostri hotel, ricordi?".

La voce dall'altra parte della linea divenne fredda e circospetta: "Certo che mi ricordo", rispose con un lieve tremito.

Poteva immaginarla, mentre rivoli di sudore le scendevano lungo le tempie e gli occhi nocciola si spalancavano per la sorpresa. Proprio come quel giorno, nella biblioteca della loro villa di Miami, quando aveva scoperto suo padre discutere con uno dei personaggi più loschi che le fosse mai capitato di vedere. La porta era appena accostata ma aveva intravisto l'impermeabile nero e la sciarpa grigia al collo.

Eliza aveva incontrato quello sguardo terrorizzato mentre entrambe si trovavano a passare lì davanti nello stesso, fatale momento e udivano le voci. Nessuna delle due aveva fiatato, ma la giovane Lagan aveva capito subito che il padre della ragazza, uno dei soci della sua famiglia, stava conducendo affari sporchi.

Sfruttando la golosa occasione che poteva tornarle utile in qualunque momento, era rimasta ad ascoltare con le braccia conserte e gli occhi socchiusi, fissando le reazioni sempre meno contenute di Molly Jordan, che si era portata una mano alla bocca per non urlare nel momento in cui furono nominate "partite di droga" e "alcoolici".

Pensava che sarebbe scappata via in lacrime, invece aveva resistito fino alla fine. La porta si era riaperta all'improvviso e ne era uscito solo il signor Jordan. L'altro uomo non c'era più e aveva capito che doveva essere andato via dalla porta-finestra per non farsi vedere.

E com'erano simili a quelli della figlia, quegli occhi spaventati! E quanto potere aveva sentito scorrerle nelle vene mentre entrambi, in una muta comprensione, l'avevano guardata sorridere!

"Tranquilli, non dirò nulla, per ora. Certo, se mio padre venisse a sapere una cosa simile potrebbe prendere decisioni... beh, non molto convenienti per voi", aveva esordito.

"La prego, signorina Lagan, mia figlia è sconvolta, io giuro che...". L'uomo sembrava sull'orlo delle lacrime e il suo sorriso si era allargato: la sua fortuna era immensa, non avrebbe mai creduto possibile di avere a che fare con un tale smidollato!

"Resta inteso che, se in futuro avrò bisogno di un piccolo favore, vi contatterò".

Fino a qualche giorno prima, Eliza aveva persino dimenticato quell'episodio, ma parlando con Neal le era ritornato in mente e quella era l'occasione perfetta. Sarebbe stato pericoloso? Forse, ma d'altronde non si era già spinta abbastanza oltre con Candy? Suo fratello, poi, sembrava così eccitato dall'idea che aveva avuto che, a parte un po' di titubanza iniziale, aveva dovuto ammettere che non c'erano molte altre alternative.

"Sai Molly", le disse guardandosi le unghie ben curate mentre si sistemava la cornetta tra l'orecchio e la spalla. "È venuto fuori da certi documenti che una delle distillerie rimaste ferme per via della nuova legge abbia, tra gli investitori, anche mio zio e tuo padre, che sono stati soci in affari molto tempo fa. Oh, anche il mio papà era coinvolto, ma da quando si occupa di hotel è rimasto fuori dal giro", sottolineò con una nota di cattiveria nella voce.

"E... cosa ti aspetti che facciamo?", domandò la vocina quasi in un pigolio. Musica per le sue orecchie, ormai l'aveva in pugno.

"Sai come vanno queste cose: un'azienda ferma, quote mai ritirate in attesa di tempi migliori... se solo ci fosse qualcuno disposto a smuovere un po' le acque sono certa che quei gentiluomini si metterebbero subito all'opera per riprendere il commercio. Certo, dovrebbero dare una grossa fetta di percentuale a chi li aiuterà a rimettersi in pista, ma è un prezzo piccolo da pagare per ricominciare a dare da mangiare a delle famiglie affamate, non pensi?".

Eliza ridacchiò come se stesse parlando di un ballo da organizzare, invece che di commercio illegale. Le scarse conoscenze di Neal riguardo gli affari di famiglia e un'accurata ricerca nei documenti dello zio William avevano dato più frutti di quanto immaginasse.

"Mio padre non ha più incontrato quell'uomo", ribatté Molly con una voce acuta che le indicò subito il bluff.

"Certo, certo. E mio zio è stato un ingenuo idealista a rimanere azionista della Whisky and Wine Company... ops, ma questa è la verità!".

"Cosa vuoi, Eliza?". Ora il tono era fermo e vagamente minaccioso.

"Voglio che vi serviate delle vostre... conoscenze per incastrare mio zio. Tuo padre dovrà ritirare la sua quota, ovviamente, se non vuole rimanere coinvolto. Farete credere loro che volete rimettere in moto il commercio in maniera del tutto sicura, così che la distilleria ricominci a funzionare".

"E se rifiutano? A chi dovrebbero vendere, poi?". Molly faceva le domande con una sfumatura di ansia che la fece infuriare.

"Non si rifiuteranno se saranno convinti in maniera efficace", ringhiò stringendo forte la cornetta. "Possono vendere a chiunque, inclusi uomini onesti che non si aspettano un dono del genere".

"Non capisco".

Eliza sospirò: "Sai, c'è un'impresa di costruzioni di cui sono proprietari gli Ardlay che ha sede a Londra. Ogni anno, mio zio invia loro a prezzi molto convenienti alcune bottiglie di pregiato Whisky scozzese che fanno parte della riserva che abbiamo a Lakewood. Ovviamente, al momento ha dovuto smettere, ma se una delle sue distillerie in disuso si ritrovasse improvvisamente a fare da tramite per questa consegna e Scotland Yard ricevesse una soffiata...".

Un ansito uscì dalla cornetta del telefono ed Eliza capì di aver fatto centro: "Ma è diabolico! Gli investigatori, tra l'altro, potrebbero valutare la possibilità che tuo zio non sappia nulla dei loro traffici".

La bocca le si stirò in un largo sorriso: "Non se c'è una regolare consegna di materiale con un allegato speciale in casse separate".

"Mi dispiace, ma continuo a non capire come possano collegare la consegna a tuo zio solo perché lui è uno dei soci sostenitori".

"Uno dei maggiori", puntualizzò Eliza. "Semplice, mia cara, perché le bottiglie proverranno dalla solita riserva di Lakewood pur avendo il timbro e la firma della distilleria. Non dovrebbe essere difficile, per la polizia, verificarne la provenienza e fare uno più uno. Ovviamente ci servirà anche un corriere che sappia tenere la bocca chiusa".

Molly rimase in silenzio per qualche istante ed Eliza si domandò se il loro piano non fosse davvero troppo complicato anche per la malavita più organizzata. Dovevano procurarsi un allegato falso e, cosa ancora più rischiosa, organizzare un corriere che da Lakewood imbarcasse il carico sotto adeguato compenso. Per fortuna che, almeno sotto quel punto di vista, i conti che suo padre aveva aperto per lei e suo fratello erano ben forniti.

"Dammi qualche giorno per organizzarmi. Devo parlare con mio padre e capire se è fattibile. Richiamami sabato sera".

"Facciamo venerdì", ribatté lei per farle capire chi teneva le redini.

Quando riattaccò, Eliza sentì una specie di scossa elettrica pervaderle tutto il corpo. Se tutto fosse riuscito alla perfezione, sarebbe stato un successo. 
 
- § -
 
Per Archie erano giorni strani, sospesi in un limbo nel quale nulla era più ciò che era stato.

Sdraiato nel suo letto, tentando invano di prendere sonno in una notte che sembrava come tutte le altre, il giovane lasciò vagare la mente senza poterselo impedire.
Andava in ospedale quasi ogni giorno e lì incontrava Annie con i suoi genitori. Non c'erano state conversazioni tra loro quattro, quindi il giovane Cornwell ignorava se sapessero cosa fosse realmente accaduto, a parte che si erano lasciati.

L'incidente di Candy aveva dato la possibilità alle famiglie di non fare menzione della rottura e, se le cose si fossero protratte, nessuno avrebbe trovato strano che il matrimonio saltasse.

Ma Archie non poteva concepire che Candy rimanesse in quelle condizioni per così tanto tempo o, peggio, che potesse accaderle qualcosa.

Man mano che i giorni passavano, poi, si accorgeva di quanto la mancanza di Annie si facesse pesante.

Possibile che l'avesse amata più di quanto avrebbe mai immaginato e che, come in ogni perdita che si rispetti, se ne rendesse conto solo ora che non l'aveva più al suo fianco? Di sicuro era in pena per Candy, ma lo erano tutti.

Archie si mise un braccio sugli occhi chiusi, sospirando e scalciando via le lenzuola come se gli dessero fastidio.

Vedeva Albert vagare per i corridoi o, più spesso, sedere al suo fianco parlandole come se potesse ascoltarlo. Stava perdendo peso, era sempre più pallido e i suoi occhi erano gonfi per la mancanza di sonno e, sospettava, per le lacrime versate di nascosto.

Provava una pena immensa per lui e aveva cominciato ad aiutare George negli affari degli Ardlay che il patriarca non era più riuscito a seguire correttamente.
Gli era capitato di parlare a sua volta a Candy, raccontandole del loro primo incontro, delle giornate con Anthony e Stair e di quanto fosse importante nella sua vita. Gli era anche capitato di scoppiare in singhiozzi quando si accorgeva che lei non reagiva, ma cercava sempre di farsi forza.

"Candy", mormorò nel silenzio della stanza, sentendo gli occhi bruciare e il respiro accorciarsi.

Lei, che amava teneramente pur sentendo nel suo cuore la mancanza per Annie. Lei, che era sempre stata di una vitalità invidiabile. Lei, che aveva sempre aiutato gli altri.
Se Albert gli era parso dimagrito perché certamente mangiava poco e male, Candy era diventata l'ombra di se stessa, attaccata a semplici flebo e persino i suoi riccioli biondi avevano perso vitalità. Una mattina aveva trovato Albert intento a lavarle la chioma in una bacinella, con il supporto di un'infermiera e si era sentito morire.

Candy era diventata come una bambola di dimensioni naturali che non poteva più prendersi cura di se stessa.

E, più passava il tempo, più la speranza di una ripresa si affievoliva.

Con un gemito di rabbia si mise a sedere di scatto, asciugandosi gli occhi e alzandosi in piedi per camminare, il sonno scivolato via definitivamente come la vecchia pelle di un serpente.

Neil ed Eliza erano stati oggetto d'indagine ma la polizia, per mancanza di prove, stava brancolando nel buio. Avrebbe voluto prenderli per il collo e sbattere le loro teste l'una contro l'altra fino a farli parlare, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla, se non a farsi denunciare a sua volta.

Aveva sondato la situazione con George e l'uomo gli aveva detto che, se nessuno avesse confessato, probabilmente sarebbero stati presto autorizzati a tornare in Florida. Sconvolto, Archie era corso da Albert, sperando che lui potesse intervenire in qualche modo per impedirlo.

"Mi spiace, non posso fare nulla. E, ora come ora, l'unica cosa che m'interessa è che Candy si svegli", aveva dichiarato accarezzandole la testa mentre lei continuava a dormire.

Si sentiva impotente, furioso, colmo di rabbia: possibile che dovessero farla franca? Sbatté un pugno sul muro, tentando invano di sfogare la frustrazione.
Di una sola cosa era certo: se, disgraziatamente, Candy non si fosse mai svegliata, ad andare in carcere sarebbe stato lui, per duplice omicidio volontario.
 
- § -
 
La signora Elroy era inquieta.

Guardava il suo servizio da tè senza vederlo davvero, con gli occhi fissi negli ultimi accadimenti come se li stesse rivivendo in quel preciso istante.

Aveva sempre amato stare a Lakewood, ma quella specie di vacanza che aveva organizzato William si era trasformata in una grottesca prigionia. La polizia andava e veniva, faceva domande ai suoi nipoti e alla servitù, una volta aveva persino bussato alla sua porta.

Lei non si era scomposta, ma era certa che tutta quella situazione non avrebbe fatto bene al suo povero cuore. Il medico di famiglia le aveva intimato di stare a riposo.
Ma il suo riposo, al momento, era solo fisico perché nella sua testa c'era un turbinio di pensieri. Eliza e Neil continuavano a negare il loro coinvolgimento e la ragazza sosteneva di aver solo voluto mettere in difficoltà la protetta di William costringendola a cavalcare all'amazzone: era quello il suo semplice piano.

Elroy rilasciò andare il respiro che aveva trattenuto, strofinandosi la fronte con una mano.

Ovviamente non le aveva creduto, specie dopo aver sbirciato le loro reazioni durante quel confronto con William. E lui, a proposito, non era più tornato alla villa e a quanto pareva gli affari erano seguiti da George e Archibald direttamente a Chicago.

Si era sentita all'improvviso complice di qualcosa di cui non era a conoscenza ed evitò di fare altre domande ai giovani nipoti, che si aggiravano per la villa come anime in pena, discutendo spesso animatamente.

La verità era che non voleva sapere.

Perché se avesse saputo avrebbe dovuto parlare, non poteva certo tacere un fatto così grave. Per un attimo, la sua mente le suggerì che avrebbe potuto lei stessa essere indagata e pensò che, a quel punto, per la vergogna sarebbe semplicemente morta sul colpo.

Lei, la matriarca della famiglia Ardlay.

Allungò un braccio, ma il movimento brusco fece rovesciare la zuccheriera sul vassoio con un tintinnio che le sembrò il rintocco di una campana funebre. Non chiamò la cameriera per raccoglierla, al momento non voleva vedere nessuno, persa nel filo dei suoi ragionamenti.

Non era solo il timore per se stessa a preoccuparla oltremodo e se ne stava rendendo conto in modo sempre più netto. Elroy aveva avuto molto tempo per riflettere e si stava accorgendo di quanta cattiveria albergasse nell'animo di Eliza e Neal: sapeva che avevano un odio viscerale verso Candice, ma tutto ciò era veramente troppo.

Non riusciva a togliersi dalla testa che, per quanto lei stessa desiderasse che quella ragazza orfana uscisse dalla famiglia, specie ora che sembrava essersi avvicinata così pericolosamente a William, non le avrebbe mai augurato la morte.

E la morte l'aveva sfiorata per ben due volte. Anzi, ancora non sapeva come sarebbe andata e i suoi pensieri andarono, ancora una volta, a suo nipote.

Certo, se Candice avesse smesso di esistere il problema sarebbe stato risolto in un lampo, ma a che prezzo? Aveva ben visto l'infelicità e il gelo che erano calati su di lui quando gli era arrivato quel telegramma per sbaglio.

No, la cosa più giusta sarebbe stata che Dio risparmiasse la vita a quella povera sfortunata e che William mettesse la testa a posto, dimenticasse la sua infatuazione e si sposasse con una delle gentildonne che gli aveva presentato più volte.

Doveva essere più fiduciosa. Qualunque cosa avessero combinato quei due scapestrati non sarebbe mai venuta a galla e tutto sarebbe stato dimenticato.
La vita sarebbe andata avanti.

Così sperava Elroy Ardlay mentre sorseggiava il suo tè pomeridiano con la mano che tremava leggermente.
 
- § -
 
Annie guardò il volto pallido di quella che considerava sua sorella e, ancora una volta, pregò per lei con gli occhi pieni di lacrime. Le aveva parlato a lungo, come facevano tutti a turno, dopo aver convinto a fatica Albert a tornare a casa per riposare un po'.

Era incredibile come quel ragazzo così solare e gentile si fosse ridotto. Ormai non riusciva quasi più a distinguere la differenza tra lui e la povera Candy. L'unica cosa che non li accomunava era l'immobilità di quest'ultima, che sembrava quella della morte.

Fuori dalla stanza, udì la voce di Archie e il suo cuore prese a battere più forte. Non sopportava di essere ancora innamorata di lui, ma doveva ammettere che, nonostante le prime reazioni, in quel periodo il ragazzo era molto cambiato: paradossalmente, ora che Candy era in coma, le poche volte che s'incrociavano sembrava trattarla con più affetto di quando erano fidanzati. Era come se si fosse pentito o provasse rimorso, anche se poteva benissimo sbagliarsi.

Il colpo che aveva dato ad Eliza e le sue reazioni di dolore erano stati più che giustificati, dal suo punto di vista. Ma erano anche prove inoppugnabili dei sentimenti che provava per Candy. La amava, ne era certa, e lei sarebbe sempre rimasta la seconda.

Non voleva fare questi pensieri mentre Candy giaceva in un letto di ospedale, ma non poteva farne a meno. Ricordava ancora la conversazione che avevano avuto solo pochi giorni prima e quei sentimenti di oscura gelosia degni di Eliza Lagan che stavano inquinando il suo cuore.

Il senso di colpa le penetrò, affilato, nel petto.

"Candy, vorrei tanto che mi dessi un consiglio, ora. Da quando ho lasciato Archie non abbiamo quasi più parlato", mormorò carezzandole i capelli. Non voleva certo tornare da lui, ma ora come ora avrebbe voluto sfogarsi con Candy, anche se era in qualche maniera la sua rivale. Tutto, anche litigare sarebbe stato meglio che vederla così.

Bussarono alla porta e Annie seppe subito chi era: "Avanti", disse.

Lui entrò, bello e impeccabile come sempre, e dovette distogliere lo sguardo prima di arrossire, accidenti a lei!

"Che ha detto il dottore, oggi?", le chiese con tono pacato.

Scosse la testa: "È come prima. Non è cambiato nulla".

Archie sospirò, si passò una mano tra i capelli e prese una sedia, sulla quale sedette al contrario, le braccia ripiegate sullo schienale e il mento poggiato sopra: "Albert è tornato a casa?".

"Sì, lo abbiamo convinto con grande fatica io e papà. Sono sicura che prima di sera sarà di nuovo qui".

Con lo sguardo posato su Candy, Archie continuò: "Sta rischiando di ammalarsi anche lui. Io cerco di stare dietro a tutto, con George, ma non è facile con il pensiero che lei potrebbe... in ogni momento...", s'interruppe, provato.

"Non dirlo, Archie! Lei non morirà", dichiarò con voce tremante, sentendo le lacrime riaffiorare.

"Se solo potessi far parlare quei maledetti fratelli Lagan!", disse frustrato alzandosi, colpendo la sedia con un pugno e facendola sussultare.

"E anche se fosse? Non servirebbe a riportarla indietro!", ribatté asciugandosi gli occhi.

"No, ma servirebbe per fare giustizia", concluse. "Annie... io vorrei parlarti...".

"No", rispose decisa, alzandosi in piedi. "Non abbiamo più nulla da dirci e non è il momento".

"Ma, Annie", tentò ancora lui raggiungendola.

"Ho detto di no!", si adirò schiaffeggiandogli via la mano che stava avvicinando.

Si fronteggiarono per qualche istante e Annie gli lesse negli occhi uno stupore molto simile a quello che gli aveva visto sul volto quando lo aveva baciato.

"Non sono più quella di prima, Archie. Non dopo aver capito che stavamo sbagliando tutto. Non sarò la tua seconda scelta, te l'ho già detto. Vuoi che ti perdoni? L'ho già fatto, perché la colpa è stata innanzitutto mia, che ho voluto essere così cieca e illudermi che il tuo fosse vero amore".

"Ma il mio era... è amore!", disse in tono di supplica.

Annie deglutì, cercando ancora una volta di non accontentarsi di quelle parole: "Me l'hai spiegato bene, Archie. Io voglio che l'uomo che mi ama desideri solo me, per come sono, con i miei pregi e con i miei difetti. Totalmente, senza riserve. E senza lo spettro di un'altra donna tra noi. Ora scusami". Lo superò mentre usciva, prima che potesse ribattere qualcosa, portandosi la mano alla bocca per sopprimere i singhiozzi.

Voleva solo tornare a casa e non vederlo più.
 
- § -
 
La bara era stata calata nella fossa e lui era pronto a suonare la cornamusa per lei un'ultima volta. Indossava il kilt, come quando l'aveva incontrata e come quando le aveva confessato la sua vera identità sulla collina di Pony.

Ma la melodia non uscì, perché mani invisibili lo stavano strozzando.

Perché sei morta di nuovo, Candy? Io ti amavo...

"Non fare la donnicciola, William! Sii uomo! Suona per la tua Candy!". Quella voce... a chi apparteneva quella voce? Era di uno degli anziani che aveva partecipato al funerale di sua sorella Rosemary, tanti anni prima.

Si guardò le mani, le braccia, le gambe e l'abito e si rese conto di avere di nuovo circa dieci anni. La zia Elroy piangeva in silenzio accanto a lui e c'era anche suo padre.

Ma che diavolo...?

Le fosse erano due e i nomi sulle croci quelli di Candy e di Rosemary, con le rispettive date di nascita e morte. In mezzo a loro c'era un Anthony all'apparenza quindicenne

l'età in cui è morto.

che lo superava già in altezza di alcuni centimetri.

È tutto sbagliato.

Eppure, anche se le date e le età non coincidevano con la realtà, Albert si ritrovò a fissare gli occhi azzurri di suo nipote, appena più scuri dei propri, finché non parlò: "Mi dispiace che sia andata così. Non perdere mai la speranza".

Aprì la bocca, ma ne uscì solo un gemito soffocato.

Quale speranza? Sono morte, non c'è più nulla che io possa fare per loro!

Dietro di sé, udì il suono di due cornamuse: erano Archie e Stair, che davano l'ultimo saluto alle due donne con gli occhi chiusi e un'espressione di dolore sul viso. Abbassò lo sguardo verso l'imboccatura della sua cornamusa e vide cadere una goccia. Due gocce. Tre.

Si svegliò di soprassalto, sentendo un liquido caldo scivolargli lungo tutto il viso, fino al collo. Per poco non cadde dalla poltrona del suo ufficio: era lì che si trovava ed era lì che si era addormentato.

"Che razza di incubo assurdo", borbottò asciugandosi la faccia con un braccio. Il sogno era così vivido che aveva pianto davvero.

In un impeto di superstizione, afferrò il telefono e chiamò l'ospedale, dove gli confermarono che le condizioni della signorina Candice White Ardlay erano stazionarie. Non c'era nessuna novità.

Si rimise appoggiato allo schienale con un sospiro, sentendosi esausto. Prima di tornare da Candy doveva assolutamente mangiare qualcosa o si sarebbe ammalato sul serio. Su una cosa avevano ragione, Archie e gli altri: se fosse finito in ospedale anche lui, non le sarebbe stato di nessun aiuto.

Alcuni fogli sulla scrivania attirarono la sua attenzione. Erano arrivati per posta perché lui li firmasse e riguardavano la vendita di alcune merci per cui doveva dare il consenso. Li lesse distrattamente, rendendosi conto a malapena che mancava l'allegato con la lista dei materiali. Alzò le spalle, fidandosi dei suoi intermediari e non volendo perdere troppo tempo: il giorno dopo avrebbe chiesto ad Archie di occuparsi dei documenti mancanti.

Firmò i fogli e chiamò un segretario perché li inoltrasse all'ufficio competente, poi salì in camera, fece una doccia e scese a cena. Era solo nella sua villa di Chicago e gli parve enorme. Se la questione con i Lagan si fosse rivelata un buco nell'acqua, entro pochi giorni loro se ne sarebbero tornati in Florida e la zia Elroy si sarebbe di nuovo stabilita lì con lui.

Prese svogliatamente un'ultima cucchiaiata di zuppa, mettendo da parte il pane, e maledì il destino.

In quella villa avrebbe voluto andarci a vivere con Candy, quando si fossero sposati. Sarebbe stata la nuova matriarca e quella grande casa vuota si sarebbe presto riempita delle voci dei loro bambini. Ne voleva almeno tre, o forse quattro o anche di più...

Si alzò da tavola, lasciando la cena a metà, gettando via il tovagliolo che aveva sulle gambe con un gesto stizzito. Quei sogni sembravano lontani anni luce.

"Non perdere mai la speranza", gli aveva detto il suo caro nipote in sogno.

Oh, Anthony, se solo potessi crederti!, si disse mentre afferrava la giacca e si dirigeva in auto. Non voleva disturbare l'autista e nemmeno George. Sarebbe tornato in ospedale da solo e avrebbe passato la notte accanto a Candy: quando si fosse svegliata voleva trovarsi con lei.

Perché Candy si sarebbe svegliata e i suoi occhi pieni d'amore sarebbero stata la prima cosa che avrebbe visto.
 
- § -
 
La zia Elroy stava passando davanti allo studio quando udì i rumori provenire dall'interno. Qualcuno stava bisbigliando e ridacchiando.

"Chi c'è là!", disse con voce stentorea, per poi pentirsene subito dopo: e se fossero stati dei ladri che si erano introdotti furtivamente approfittando della scarsità di personale? Dio, non vedeva l'ora che la polizia mettesse fine a quella tortura, che Sarah tornasse a riprendersi i suoi figli o li invitasse a tornare da soli così che lei potesse finalmente andarsene a Chicago.

Sulla porta apparvero Neil ed Eliza e lei piantò gli occhi nei loro, alternativamente: "Cosa stavate facendo nello studio di William?", chiese in tono duro.

"Ecco, noi...", cominciò Neil.

"Zia, noi cercavamo dei documenti che ci ha chiesto Archie al telefono ma non li abbiamo trovati. Domattina lo chiameremo, non ti preoccupare. Vuoi che ti accompagni in camera? Mi sembri stanca", concluse Eliza in tono convincente.

Il suo istinto le urlava che c'era qualcos'altro che stavano tramando, seppure alla fine nessuno avesse indicato loro come colpevoli per l'incidente di Candice. Ma, d'altra parte, stava davvero dubitando della correttezza dei membri della sua stessa famiglia? Nonostante il fastidio e il disagio di quegli ultimi giorni, c'erano dei momenti in cui pensava che l'età e i discorsi di suo nipote le facessero vedere fantasmi dove non esistevano.

Doveva per forza essere così, si stava tormentando inutilmente.

Certo, Neil ed Eliza non erano due santi, capiva bene che il loro comportamento non era mai stato immacolato. Ma quel sentimento di sospetto non la stava portando a nulla.
Forse, dopotutto, Eliza voleva mettere in difficoltà Candice e la poveretta era caduta da cavallo da sola.

Forse, dopotutto, il chiodo era stato messo male da qualcun altro senza intenzione.

E forse, dopotutto, stavano veramente cercando un documento per aiutare Archie che si stava facendo carico da Chicago degli affari di famiglia mentre William a malapena era presente.

Si voltò senza una parola cominciando a salire le scale, pensando che voleva solo prendere il suo calmante per il mal di testa e dormire. Dietro di lei, sentì i passi educati di Eliza seguirla come promesso.

Senza alcun motivo, un brivido le salì lungo la schiena.

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Capitolo 25
*** Ritorno a casa ***


Frannie Hamilton si sentì di nuovo a casa, nonostante fosse al lavoro. Il Santa Joanna sembrava immutato, anche se nessuna delle sue colleghe, a quanto pareva, si trovava più lì: da quello che le avevano riferito molte erano state trasferite, altre erano partite a loro volta come crocerossine volontarie.

I suoi passi risuonarono sordi sul pavimento lucido, nel silenzio della sera. La sala infermiere era deserta e indossò l'uniforme che era riposta nell'armadietto, controllandosi allo specchio con cipiglio attento per verificare che il cappello fosse dritto.

Si predispose al suo turno di notte con uno spirito nuovo, grata per essere sopravvissuta alla guerra e per quel ritorno alla quotidianità, colma di tutte le esperienze accumulate. Certo, ci voleva una freddezza come la sua per sopravvivere indenni anche psicologicamente alle urla, alle morti e al sangue dei campi base, ma ora di sicuro sarebbe stata più forte di prima.

Sorrise leggermente mentre si apprestava a controllare la lista dei suoi primi pazienti di Chicago dopo tanto tempo. Un uomo vittima di un incidente stradale. Un altro coinvolto in una rissa. Una donna che aveva avuto un parto difficile e... un momento!

"Oh, mio Dio", le uscì di bocca prima che potesse trattenersi.

Bastò un nome perché la proverbiale freddezza di cui si era quasi vantata con se stessa pochi istanti prima s'incrinasse. Nella lista dei pazienti figurava Candice White Ardlay, in coma da dieci giorni per una caduta da cavallo.

Ci dev'essere un errore.

Candy le aveva scritto qualche tempo prima, per congratularsi con lei dei riconoscimenti avuti e per confessarle quanto l'ammirasse. Inoltre, le aveva raccontato un mucchio di cose della sua vita. Che diavolo le era successo? Come aveva fatto a cadere da cavallo?

Aveva affrettato il passo mentre si dirigeva nella sua stanza e, per un attimo, si aspettò che la direttrice la redarguisse per la sua fretta come faceva una volta con la sua sbadata collega. Invece non incrociò che un medico e qualche altra infermiera.

Fuori dalla stanza di Candy c'era un ragazzo con lo sguardo triste, seduto su una sedia. Lo aveva già visto? Non ricordava.

"Buonasera, sono l'infermiera Hamilton, vengo a controllare i segni vitali della paziente, c'è qualcuno nella stanza con lei?", chiese nel suo tono più professionale.

Lui alzò lo sguardo stupito, come se non l'avesse neanche sentita arrivare: "Eh? Oh, sì, c'è la mia fid... una nostra amica comune".

Annuì, bussando alla porta e una voce femminile le disse di entrare. Quando la vide, stesa in quel letto e attaccata alle flebo, pensò che avessero commesso un errore con il nome o che lei fosse entrata nella stanza sbagliata: quella non poteva essere Candy.

Frannie aveva visto le vittime della guerra, emaciate e malnutrite, ma non era pronta a vedere un'infermiera, solitamente vitale e in salute, in quelle condizioni. D'altro canto, se era in coma davvero da oltre una settimana non la stupiva che fosse dimagrita tanto. Il volto era cereo, persino le lentiggini che aveva sul naso sembravano sbiadite.
Nonostante il suo carattere forte e le brutture vissute in guerra, le fece male vedere Candy così: non lo avrebbe mai ammesso, ma si era affezionata a quella sbadata impicciona.

Dopo le dovute presentazioni, provvide a controllare il battito cardiaco e a misurare la temperatura. Il suo cuore era molto debole e, anche se di fibra forte, non avrebbe resistito a lungo senza alimentarsi adeguatamente.

Lei però tacque e non lasciò intravedere alcuna emozione sul suo viso. O, almeno, così sperava.

"Infermiera, cosa c'è che non va? Candy sta male?", chiese la ragazza mora alle sue spalle che aveva detto di chiamarsi Annie Brighton.

Frannie si sistemò gli occhiali sul naso con un gesto meccanico e optò per una mezza verità: "Oh no, non c'è nulla di strano nei suoi parametri vitali, considerate le condizioni. Il fatto è che conosco Candy da molto tempo, una volta eravamo colleghe".

Quando si voltò, le parve di leggere sul viso della donna qualcosa di simile alla comprensione: "È strano vederla così, vero? Voglio dire...".

"Sì", rispose, incapace di dissimulare. Stava per dire qualcosa rispetto ai casi assurdi della vita: lei era stata una crocerossina ed era sopravvissuta, mentre Candy lottava tra la vita e la morte. Ma proprio in quel momento la porta si spalancò e il giovane di poco prima entrò con un uomo appoggiato a sé, evidentemente sull'orlo di uno svenimento.

"Infermiera, la prego, ci accompagni da un dottore, mio zio sta male! Credo che abbia la febbre alta!", disse trafelato, mentre la mora si avvicinava con un'esclamazione di stupore.

"Bene, signori, vi accompagno in sala medici, ma abbiate cura di abbassare la voce. Siamo nella stanza di una paziente", disse cercando di riportare la calma.
Con un po' d'imbarazzo, il ragazzo la seguì e lei, una volta accertatasi che l'uomo potesse camminare con il suo sostegno, li condusse dal medico. Ne approfittò per consegnargli anche il foglio su cui aveva appuntato i parametri di Candy, evitando di dirlo ad alta voce per non far agitare i due uomini alle sue spalle.

"Perfetto, signorina Hamilton, esca fuori con questo giovanotto mentre visito il signor Ardlay, poi termini pure il suo giro".

Il signor Ardlay? Un momento...

"Dottore, mi lasci andare da Candy, sto meglio. È stato solo un capogiro", protestò l'uomo cercando di alzarsi. Frannie lo costrinse a rimanere seduto e improvvisamente ricordò dove lo avesse già visto.

Questo è il patriarca degli Ardlay che ha fatto la sua presentazione in tempi recenti! Nonché il paziente della stanza numero zero, l'amico di Candy che aveva perso la memoria! Me lo ha scritto in una delle sue lettere! Ed è anche...

Esitò un istante, fissandolo, poi si riscosse e gli intimò di farsi visitare.

"L'infermiera Hamilton ha ragione, signor Ardlay, tanto più che dobbiamo escludere una forma virale per preservare la salute della signorina Candice, quindi si sdrai sul lettino e lasci che la controlli", intervenne il medico.

Lui parve arrendersi e finalmente Frannie si chiuse la porta alle spalle.

"Accidenti, gliel'avevo detto che a forza di non dormire e non mangiare si sarebbe ammalato!", borbottò il ragazzo passandosi le mani tra i lunghi capelli.

"Sta qui tutte le notti?", chiese sconvolta.

"Oh sì, e se non glielo impedissimo ci starebbe anche tutto il giorno!".

Frannie deglutì. Doveva sapere, a quel punto la curiosità ebbe la meglio sulla sua professione: "Credo che suo zio sia stato nostro paziente quando era senza memoria. Candy era mia collega e all'epoca mi scriveva spesso perché ero al fronte, quindi so tutta la storia. So che si è presa cura di lui".

Lui la guardò con un sorrisetto imbarazzato e lei si morse la lingua: aveva davvero parlato troppo, quello era un comportamento degno di Candy.

"Già, a quei tempi non sapevo neanche io chi fosse veramente. Per tutti era solo il nostro amico Albert", disse con sguardo remoto.

"Mi scusi, non volevo essere indiscreta", disse sperando di non arrossire.

Il suo tutore legale. Lo smemorato che Candy aveva curato con tanta devozione, dichiarando che era suo amico da tanto tempo, e che poi aveva scoperto essere nientemeno che il capostipite di una delle famiglie più importanti di Chicago. Si chiese come fosse possibile che, sulle prime, la sua ex collega pensasse che fossero due persone diverse, poi ricordò che non aveva mai avuto modo di conoscere il suo fantomatico prozio William.

La sua vita doveva essere stata davvero ricca di sorprese!

"Quindi conosceva Candy? Ma certo, ora ricordo! Lei è... il gendarme!". Quella frase la fece ripiombare con i piedi per terra.

"Come scusi?", Frannie pensava di non aver capito bene.

Il giovane si coprì la bocca, evidentemente a disagio: "Mi... mi perdoni. Volevo dire che mi ricordo di lei: è la collega che sgridava sempre Candy quando era in ritardo. Venivamo spesso a trovarla qui in ospedale durante le pause". I suoi occhi si fecero malinconici.

Nonostante l'appellativo, era quasi divertita e gli fece un piccolo sorriso: "Sa, mi hanno chiamata in tanti modi, ma 'gendarme' mi mancava. E mi creda se le dico che è uno degli aggettivi più gentili fra quelli che mi riservano di solito". L'aveva fatto di nuovo: aveva parlato troppo. Lui si limitò a guardarla con gli occhi spalancati, come se non capisse il motivo di così poca gentilezza nei suoi confronti. "Bene, torno a fare il mio giro. State tranquilli per Candy, è in buone mani ed è forte. Buona sera".

Gli voltò le spalle senza guardare la sua reazione, udendo a malapena il suo saluto.

Alla fine, la guerra l'aveva cambiata. Frannie Hamilton stava riconsiderando il contatto umano, che tanto aveva rinnegato a causa di una famiglia che non l'amava. Nascondere sempre e comunque i propri sentimenti non faceva certo di lei un'infermiera più professionale di ciò che era.
 
- § -
 
"Le impronte digitali, capisci?! Hanno preso le impronte digitali di una signorina!", strepitò Eliza facendogli venire un principio di mal di testa. In quel momento, Neil si sentì come la zia Elroy.

Cadde a sedere sulla poltrona alle sue spalle e ruotò la testa da un lato all'altro per allentare i muscoli indolenziti del collo. Troppa tensione durante quegli ultimi giorni, per i suoi gusti.

"Lo hanno fatto anche con me, se ti può consolare. Come se potessero trovare qualche corrispondenza sulle zampe luride di quel cavallo".

"Allora? Pensi che lo zio abbia già firmato quei documenti senza allegati?", cambiò discorso sua sorella guardandolo con una luce impaziente negli occhi. Non la smetteva di camminare avanti e indietro per la sua stanza mordicchiandosi le unghie o gesticolando e lui ebbe l'impulso di dirle di piantarla, una buona volta.

"E che ne so, non sono mica un indovino! Piuttosto, dobbiamo fare molta attenzione alla prossima fase che è cruciale. Bisogna far recapitare due casse di quel whisky senza destare sospetti", riportò la conversazione a temi più urgenti sporgendosi un po' in avanti con le mani sui braccioli.

Eliza lo liquidò con un gesto della mano, finalmente si era fermata: "Oh, tranquillo, la servitù è ridotta all'osso, ci sono solo un cuoco e la cameriera personale della zia che ogni tanto aiuta anche me. Dormono nell'ala più lontana della casa, distanti dalle uscite. Sarà un gioco da ragazzi".

Neil sentì la rabbia montagli dentro: "Dannazione, Eliza, parlo della zia Elroy! Possibile che solo io mi sia accorto di quanto sospetti di noi due? L'altra sera ci ha quasi scoperti!". Sbatté un pugno sul rivestimento morbido e sospirò, frustrato.

Avevano fatto gran parte del lavoro, facendo sparire persino l'allegato con la specifica delle merci.

"Perché diavolo dobbiamo fare questo passaggio?", gli aveva chiesto lui quel giorno, poco convinto.

Eliza aveva alzato gli occhi al cielo: "Perché se l'allegato sparisce la cosa sembrerà ancora più sospetta! Ma devo dirti tutto io?".

Non sapeva bene come operassero le maglie della malavita, ma tutto era filato abbastanza liscio. Ora, però, temeva che si sarebbero arenati proprio sul punto focale del piano.

Guardò sua sorella giocherellare con il braccialetto che aveva al polso, gli occhi fissi sull'oggetto come se stesse pensando a qualcosa che non voleva dire.
Si accigliò.

Finalmente, lei si decise a parlare: "Sai, il medico di recente ha prescritto alla zietta un calmante per i suoi mal di testa".

Deglutì a secco e, improvvisamente, capì. Capì che era stata lei a manomettere quel dannato zoccolo, perché sua sorella, il sangue del suo sangue, non si accontentava più di distruggere la vita delle persone. Era pronta a far loro del male fisicamente fino alla morte.

"Tu sei pazza", dichiarò alzandosi per andarsene.

"Dove vai, imbecille?!", lo redarguì a denti stretti, artigliandogli una spalla con le unghie.

Le schiaffeggiò via la mano: il loro rapporto, che sembrava ricucito dall'interesse comune di rovinare lo zio, si stava per rompere definitivamente.

"Non rischierò la vita della zia come ho fatto con quella di Candy. Non sono un assassino", dichiarò.

"Non l'hai rischiata certo tu la vita di Candy, razza di vigliacco!", ribatté lei con cattiveria, per poi stringere le labbra come se avesse detto troppo.
Aveva ragione, allora.

La prese per le spalle, stringendola con forza: "Come hai fatto? Dimmelo! Tu non sai niente di cavalli!".

Lei sembrava terrorizzata: "Non ho detto che sono stata io!", pigolò istericamente.

"Invece è come se l'avessi detto e io ne sono più che certo! Dimmi come diavolo hai fatto!", s'infuriò lui, volendo finalmente uscire da quell'incubo nel quale tutti sembravano voler puntare il dito su di lui.

"Un libro... l'ho letto in un libro! Lasciami, mi stai facendo male!".

Un libro? Sua sorella era arrivata a tanto? Studiare su un libro e intervenire personalmente? Glielo chiese, senza distogliere lo sguardo gelido da lei.

"Sì, sì, va bene? Ho dovuto bruciare il vestito nel caminetto perché ero piena di fango e quel dannato cavallo ha cominciato a nitrire, così ho dovuto usare un sedativo che tenevamo di scorta! Sono stata costretta a indossare dei guanti per non rovinarmi le mani e ho rischiato di fallire, ma sì, sono stata io, contento? Ma se andrai a raccontarlo in giro non ti crederà nessuno, sei cosciente di questo?".

Neil era senza fiato e senza parole. La signorina viziata, che architettava i peggiori dispetti ed era stata persino la causa dell'espulsione di Candy dalla scuola, si era trasformata in una micidiale macchina vendicativa. Tanto da sporcarsi le mani personalmente.

"Volevi ucciderla? O eri spaventata come sembravi, quando è caduta?", le domandò lasciandola andare, svuotato di ogni energia.

"Volevo farle del male e se fosse morta non mi sarebbe importato molto. Però è vero, per un attimo mi sono spaventata". Eliza abbassò gli occhi, come se si vergognasse di quel sentimento.

"Per un attimo? Solo per un attimo? Non ti sembra di esserti spinta troppo in là con questa tua mania di vendetta?". Neil era davvero esterrefatto e allargò le braccia, esasperato.

"Oh, insomma, avevo preventivato che si rompesse un braccio o una gamba! E comunque ora è acqua passata, dobbiamo pensare al piano in cui tu mi hai coinvolto", ribadì puntandogli contro un dito come un'arma.

Acqua passata: come se Candy fosse salva e in salute, in quel momento.

Una strega. Ecco cos'era sua sorella. E lui, d'altro canto, non era da meno, pur non intendendo colpire fisicamente nessuno.

"Quindi che vuoi fare, avvelenare la zia Elroy con la sua stessa medicina mentre noi organizziamo la consegna?", le chiese ironico, quasi temendo la risposta.

"No, idiota, ma aumenterò un po' la dose in modo che dorma più profondamente".

Neil cominciò a sudare. Non gli piaceva. Per niente. Si sentiva come se si fosse infilato in una strada senza uscita: non poteva avanzare ma neanche tornare indietro.

"E se morisse? Santo Dio, Eliza, se il suo cuore non reggesse?! Leggerai nei libri anche le dosi di medicinale perché non siano letali?", chiese andando nel panico, la gola secca.

"Insomma, smettila di comportarti come un bambino impaurito! Ci siamo dentro fino al collo e dovrai fidarti e basta! Oppure hai un'altra idea per avere la certezza che non ci scopra?".

Tacque, poi tentò: "Se facciamo molto piano e usiamo l'uscita sul retro...".

Eliza lo sorprese con la sua reazione e, per un attimo, temette che volesse uccidere lui. Lo afferrò per il colletto della camicia come aveva fatto suo zio e, anche se non con la stessa forza, strinse tanto che per qualche istante gli mancò il fiato: "Stammi a sentire, fratellino: hai avuto l'idea più geniale che ti sia mai venuta in mente in tutta la tua vita, una che neanche io avrei potuto concepire! Abbiamo preso i nostri contatti con gente che ora si aspetta che tutto vada a buon fine e che quando diventeremo straricchi ci chiederà dei soldi in cambio. Arrivati a questo punto non solo rischieremmo di perdere un'occasione davvero unica, ma anche che qualcuna di quelle persone se la prenda con noi. Lascia che ti ricordi che quella gente potrebbe non maneggiare zoccoli di cavalli, ma armi vere!".

Era vero, che il Cielo li aiutasse. Trafficanti di droga e alcool, non certo persone tranquille. Neil strinse gli occhi, cercando di contenere il panico, ma cominciò a sudare ancora più copiosamente: "Va bene, facciamolo, ma ti prego di essere prudente. Voglio tornare in Florida senza morti sulla coscienza".

Inclusa Candy, stava per dire, ma si trattenne. Era certo che Eliza avrebbe ricominciato con la storia dell'innamoramento e, a dire il vero, attualmente l'unica cosa di cui era innamorato Neil era la propria pelle.

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Capitolo 26
*** Preghiere e speranze ***


Eliza guardò dalla finestra gli uomini che si allontanavano con il loro bottino e sorrise: tutto era andato secondo i suoi piani, non c'era che dire.

Lasciò la luce spenta e fece vagare lo sguardo nella notte stellata, ricordando gli avvenimenti recenti con una punta di orgoglio.

Le venne da ridere a ricordare come Neal si fosse occupato di predisporre la spedizione con loro avendo cura di coprirsi il viso con un fazzoletto.

"Oh, Neal, pensi davvero che sarai più al sicuro così? Quegli uomini hanno già avuto il loro compenso per stanotte".

La sua risata fu spezzata dal ringhio furioso del fratello: "Smettila di ridere! Sai che questa gente, se viene messa alle strette, potrebbe anche confessare chi l'ha assoldata?".

"Calmati, fratellino, non ti arrabbiare", lo blandì con un gesto della mano. "Sai bene che il primo che penseranno di tradire sarà il padre di Molly. Mi sono solo assicurata che tutto andasse secondo i piani".

"Come hai fatto con Candy", ribatté facendola infuriare.

"Smetti di nominarla!".

Lui si passò una mano tra i capelli, pareva sconvolto: "Se questo piano riuscirà sarà stata la vendetta perfetta. Ma se dovesse fallire...".

"Non fallirà", gli disse a denti stretti, afferrandolo per il bavero della camicia, "smetti di fare il bambino e di fartela addosso per la paura!".

A quelle parole un violento rossore salì sul volto di Neal e lui si divincolò dalla sua presa con sdegno. Eliza aveva colto nel segno.

Le voltò le spalle e le chiese con voce dura: "Come sta la zia?".

"Dorme come un angioletto".

"Voglio... voglio vederla", balbettò.

"Stai tranquillo, respira, anzi, russa se proprio lo vuoi sapere! Se vuoi la mia opinione, quel medico avrebbe dovuto darle una dose più alta sin dall'inizio: scommetto che domani non avrà più neanche l'accenno di un mal di testa".

Lui la guardò di traverso, evidentemente poco convinto.

Eliza gli concesse di sapere come erano andate le cose e gli raccontò della sua amorevole offerta di somministrarle la medicina perché la vedeva molto stanca.

Il sorriso si allargò sul viso di Eliza, mentre stringeva la tenda rivivendo la conversazione con la zia Elroy.

"Oh, grazie cara, sei molto gentile. La dose è scritta sulla confezione", le spiegò.

Certo, zia, la dose vecchia, pensò.

Gliene aveva riservata una doppia e, quando la donna fece una smorfia come sentendo un saporaccio, cercò di correre ai ripari: "Oh, che sbadata! Ho dimenticato di allungarla come si deve. Permetti, zia?".

Ripreso il bicchiere, in bagno lo rabboccò con altra acqua. Poi riaprì la boccetta del medicinale e aggiunse qualche goccia d'acqua anche lì, perché il livello del liquido rimanente fosse compatibile con la dose normale di quella sera.

La zia Elroy bevve senza protestare ed Eliza l'aiutò a stendersi. Lanciando un'occhiata all'orologio sul suo comodino, si rese conto che mancava ancora un'ora e mezza all'appuntamento concordato con i corrieri.

"Starò qui con te finché non ti addormenti, se ti fa piacere", le mormorò dolcemente.

"Grazie, Eliza, sei veramente... molto gentile", le rispose chiudendo gli occhi.

Nel giro di mezz'ora era così profondamente addormentata che Eliza poteva sentirla russare leggermente.

"Sogni d'oro, zietta", disse prima di uscire dalla stanza, ben sapendo che non l'avrebbe udita.
 
- § -
 
Albert non aveva più la febbre ma il medico si era raccomandato con lui così tante volte che si era sentito come un bambino piccolo sgridato dal dottore.

"Signor Ardlay, lungi da me permettermi di darle consigli su come condurre la sua vita. Ma come medico devo dirle che la sua salute è ora in equilibrio precario: il suo corpo e la sua mente sono sull'orlo dell'esaurimento. Se continua a non alimentarsi correttamente e a non dormire potrebbe collassare o anche peggio. Capisco che voglia stare accanto alla sua protetta, ma non le sarà di nessun aiuto se si ammala", gli stava ribadendo proprio in quel momento, da dietro la scrivania.

Albert sorrise, scuotendo la testa: "È la stessa cosa che mi dicono tutti. Lei ha ragione, dottor Leonard, ma rimanendo a casa non dormirei lo stesso. Mi conceda di vegliarla stanotte, è da un po' che non lo faccio". Nonostante i giorni che si era concesso per riposare, le ore di sonno erano state scarse ed era sempre attaccato al telefono mentre George lo rincorreva con le medicine per curare la febbre.
Aveva ricominciato a mangiare di più, sforzandosi per guarire prima e tornare in ospedale appena possibile. Ora, perlomeno, la febbre era sparita e non doveva più stringere a morte la cintura dei pantaloni.

Il dottore sospirò: "Bene, non posso certo impedirglielo. Se desidera posso chiedere a un'infermiera di sistemare un letto accanto a quello della paziente perché riposi meglio".
Se non fosse stato il capofamiglia degli Ardlay, Albert era più che certo che non gli avrebbero mai fatto un'offerta del genere. Curioso che qualche anno prima, non sapendo chi fosse, lo avessero relegato nella stanza numero zero e ora gli offrissero persino un letto nella stanza di Candy.

"No, grazie. Starò bene sulla solita sedia accanto a lei".

Il medico fece un altro grosso sospiro guardandolo un po' di traverso: "E va bene, ma cerchi di non arrivare più a certi limiti. Non chieda troppo al suo fisico: è giovane e forte, certo, ma non è invincibile, d'accordo?".

Albert annuì, seriamente intenzionato a seguire quelle indicazioni, poi chiese: "Mi dica, cosa ne pensa di Candy? È sempre stazionaria, vero?".

"Sarò sincero, signor Ardlay. Dopo tutti questi giorni le possibilità che si risvegli senza alcun danno a livello cerebrale sono drasticamente diminuite".

Lui impallidì: "Ma il dottor Johnson ci ha detto di aver visto casi di risveglio anche dopo mesi!".

"Certo, non lo escludo, ma le situazioni in cui il paziente si risveglia senza alcuna conseguenza sono veramente rare. Miracoli, li definirei. A livello medico è più facile che la persona permanga in uno stato vegetativo o semi-vegetativo. Ovviamente si tratta di una corsa contro il tempo, più ne passa e più l'eventuale recupero, se possibile, sarà lungo e faticoso. In alcuni casi non è completo. Mi dispiace doverle dire queste cose, purtroppo ad oggi non possiamo fare altro che monitorarla e pregare".

Albert lasciò cadere la testa fra le mani, con i gomiti sulle ginocchia, prostrato di fronte alla possibilità che per Candy fosse quasi meglio la morte che un risveglio come vegetale. Lei, che amava arrampicarsi sugli alberi e correre per i prati. Lei, che solo poco tempo prima era sfuggita a un tragico appuntamento col destino per il suo buon cuore. Lei, che alla fine lo aveva scelto e preferito a Terence.

Avrebbe dato la sua vita in cambio di quella di Candy.

Sentì dei passi e una mano gli si posò sulla spalla: "Coraggio, signor Ardlay, so che tiene molto alla sua figlioccia. Si vede che le vuole un gran bene".

No, non ci tengo semplicemente. La amo, è una delle ragioni principali per cui mi sveglio al mattino e sono felice di vivere anche se mi trovo costretto a stare in un ufficio. È la mia libertà, la mia Africa, i miei viaggi, l'aria che respiro e il sole che mi scalda la pelle. È la mia Candy.

Albert cercò di dominarsi e non lasciarsi sopraffare dalle emozioni, ma era sempre più difficile. Ringraziò il medico con tono sincero e uscì dalla stanza in fretta, per non mostrargli gli occhi umidi. Ma il dottore doveva averlo notato, perché mormorò un paterno: "Coraggio, figliolo".
 
- § -
 
Di nuovo.

Suor Lane era di nuovo in quella cappella della Casa di Pony a pregare per la loro Candy. Quella bambina che avevano salvato vent'anni prima insieme ad Annie e che, ancora una volta, doveva superare una prova difficile.

Il telegramma arrivato qualche tempo prima aveva lasciato tutti sgomenti, sembrava quasi un brutto scherzo.

"Perché, mio Signore, stai ponendo tutte queste croci sul suo cammino? Ti prego, è una ragazza così giovane...".

"Prendi me, al suo posto", disse la voce di Miss Pony al suo fianco, "io sono vecchia e ho fatto la mia vita. Lei non merita tanto dolore".

Commossa, Suor Lane aggiunse: "Ti offro anche la mia vita, purché tu salvi Candy...".

"E anche la mia".

La donna riconobbe la voce di Jimmy e si voltò: doveva essere passato per controllare che ai bambini non mancasse nulla. Dietro di lui c'era anche il signor Cartwright, che offrì a sua volta la propria vita.

Pregarono a lungo, poi lei e Miss Pony si ritirarono nella stanza dove, qualche tempo prima, Candy aveva confessato loro di provare dei sentimenti nuovi per il suo tutore.
Avevano assistito alla loro gioia quando si erano incontrati al ritorno di lei da New York, quando pensavano fosse morta. Erano tornati dalla Collina di Pony tenendosi per mano e con una luce inequivocabile negli occhi.

"Il signor Ardlay sarà senz'altro sempre con lei e ci terrà informate", disse Miss Pony fissando il fuoco nel caminetto.

Suor Lane annuì: "Povera Candy. Prima ha dovuto sopportare la morte di quel ragazzo, Anthony. Poi, quando finalmente il suo cuore sembrava aver ritrovato la gioia di vivere, quell'attore le ha spezzato il cuore. E adesso... adesso che poteva davvero essere felice...". Si portò una mano al volto, sopraffatta dalle lacrime.

Miss Pony le mise un braccio attorno alle spalle: "Io voglio solo pensare che Nostro Signore le darà la possibilità di esserlo. Non la chiamerà a sé così prematuramente".

"Voglio sperarlo, Miss Pony, voglio sperarlo".
 
- § -
 
Frannie lo aveva notato, anche se era stato impercettibile: un movimento, seppur leggero, delle dita della mano sinistra di Candy.

"Cosa c'è, ha qualcosa che non va?", chiese subito il signor Ardlay allarmato.

"Aspetti un momento, per favore", lo pregò con tono controllato.

Si recò all'armadietto e ne tirò fuori una siringa vuota. Avvicinò l'ago alla pelle della mano di Candy, pungendola leggermente e un paio di dita si contrassero piano.

"Che cosa le sta facendo?".

"Delle prove, signor Ardlay, ma la prego di rimanere in silenzio o dovrò chiederle di uscire". L'uomo ammutolì di fronte a tanta autorità. Per Frannie poteva essere il patriarca degli Ardlay, il presidente degli Stati Uniti o persino il Papa, ma nulla avrebbe cambiato le regole: se il medico aveva accettato di lasciarlo nella stanza mentre lei eseguiva le terapie e controllava i segni vitali non poteva che obbedirgli, però doveva lasciarle fare il suo lavoro.

Si posizionò in fondo al letto e tirò su le coperte, scoprendole i piedi. Ripeté l'operazione con l'ago in quella zona e anche lì le dita ebbero una lieve contrazione.

"Oh, mio Dio!", gemette il signor William alle sue spalle, per poi scusarsi profusamente ma cominciando a camminare per la stanza. L'aveva vista.

"Vado a chiamare il dottor Murray", comunicò uscendo dalla stanza prima che facesse domande. Quando rientrò, lui le era accanto e le stava parlando animatamente, chiedendole se lo sentiva.

Appena la vide rientrare col medico si allontanò, posizionandosi nell'angolo più remoto della stanza ma non dando alcun cenno di voler uscire.

Il dottore eseguì su Candy alcune manovre, controllò i riflessi e le puntò una luce in ogni occhio sollevando le palpebre. Frannie si tenne nei pressi, pronta a intervenire qualora lo richiedesse. La visione periferica le restituì l'immagine dell'uomo biondo che, pur rimanendo composto, stava stringendo i pugni e si mordeva il labbro.

"Questi segnali possono voler dire molto o nulla, ma di sicuro rappresentano una piccola evoluzione. Posso apprezzare deboli ma visibili riflessi", disse infine.

"Questo significa che potrebbe anche svegliarsi?", chiese il signor Ardlay con tono cauto.

"Come accennavo si può trattare dei primi sintomi di un risveglio che può essere molto breve o molto lungo. Oppure la situazione potrebbe rimanere stazionaria".

L'altro sospirò, evidentemente frustrato, passandosi le mani tra i capelli. Frannie, che di solito non si soffermava sulla bellezza fisica, specie se maschile, non poté evitare di pensare che la sua ex collega fosse circondata solo da uomini estremamente affascinanti. Il patriarca degli Ardlay, con la sua figura elegante, era dotato di una bellezza che osava definire abbagliante, seppur virile.

Distolse lo sguardo, a disagio per quei pensieri così poco da lei. La vicinanza costante con la morte, durante i suoi mesi da crocerossina, le stavano facendo decisamente vedere molte cose in maniera diversa. Per un attimo, si domandò se per una come lei esistesse un uomo, da qualche parte, che l'apprezzasse per ciò che era: una donna rigida e fisicamente piuttosto scialba.

Prima di uscire, il dottor Murray raccomandò al tutore di Candy di parlarle il più possibile e di chiamarlo qualora notasse altri tipi di segnali.

Frannie aveva finito il turno, quindi si cambiò e uscì per tornare al suo piccolo appartamento. Mentre era ancora nel cortile, non poté fare a meno di voltarsi, guardando in direzione delle finestre: "Coraggio, Candy", mormorò nell'aria fredda della sera.
- § -
 
Albert le parlò a lungo quella notte, tenendole la mano e stringendola forte, baciandogliela di tanto in tanto.

Le raccontò la loro storia fin dall'inizio, a cominciare dal loro incontro sulla Collina di Pony quando lei era solo una bambina e lui un ragazzino ribelle che era scappato da casa. Passò in rassegna tutte le avventure che sia lei che i suoi amici gli avevano raccontato negli anni, omettendo accuratamente le parti più tristi: l'arrivo dai Lagan, l'amicizia con Anthony, Archie e Stair, i balli, il periodo alla Saint Paul School e la sua fuga.

Ma, soprattutto, si soffermò su un giovane smemorato che credeva di aver perso ogni speranza e l'aveva ritrovata grazie a un'infermiera che si stava diplomando proprio in quel periodo, e che l'aveva accolto in una casa tutta loro.

"È stato il periodo più felice della mia vita, Candy, perché neanche le mie fughe in giro per il mondo mi hanno reso altrettanto libero: libero di amarti, anche se in silenzio, e libero di non sentirmi più solo. Perché c'eri tu con me e quello che abbiamo condiviso è quello che voglio continuare a condividere con te per il resto della mia vita. Voglio che ti svegli e che diventi mia moglie: non m'interessa se ci sono altri problemi da risolvere o se la zia Elroy farà una scenata. Se a casa Ardlay non ci vorranno fuggiremo lontano, io e te, e vivremo dove potremo amarci senza le regole imposte dalla società. Non credevo che un giorno l'avrei detto, Candy, ma per te sono disposto a rinunciare al nome di mio padre e a tutto questo freddo impero che ha più le sembianze di una prigione. Ti amo tanto, Candy...".

Sfinito e col cuore colmo di emozioni, in piena notte William Albert Ardlay crollò addormentato con la testa appoggiata sul letto di Candy, la piccola mano ancora stretta tra le sue.

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Capitolo 27
*** Risveglio ***


Mi trascino fuori dai miei incubi ogni mattina e scopro che non c’è alcun sollievo nello svegliarsi.
(
Suzanne Collins)

La brezza del mattino ha segreti da dirti. Non tornare a dormire.
(Rumi)
- § -
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La prima cosa che provò quando aprì gli occhi fu calore. Non un calore spiacevole, ma qualcosa che la confortava fin nel profondo del cuore.

Il suo cuore.

Lei.

Gli occhi si spalancarono e videro il bianco di un soffitto: c'era una piccola crepa in una angolo, proprio accanto al lampadario rotondo. Le pupille guizzarono di lato verso una flebo, un piano di appoggio con degli strumenti medici sopra e il respiro si fece affannoso, mentre realizzava che nella sua mente c'era una nebbia fitta, claustrofobica, che le toglieva l'aria dai polmoni e minacciava di soffocarla.

La sensazione gradevole svanì all'istante, sostituita dall'orrore.

Si trovava in un ospedale, ma chi era lei?

"Candy?".

Si voltò verso la fonte di quella voce e vide un uomo dagli occhi chiari che le stringeva la mano e che doveva essere addormentato fino a qualche istante prima. Candy capì che il calore proveniva proprio da quella stretta. Istintivamente ritirò la mano come se ora scottasse.

Non sapeva chi fosse lui, né quella Candy.

"Dio mio, Candy, grazie al Cielo!", esclamò lui abbracciandola con trasporto. Sentì il suo volto sul collo e la sensazione umida delle lacrime che stava versando.
Ma lei rimase ferma, gelata, priva di emozioni se non quella di terrore. Quell'abbraccio e quella commozione non le trasmisero assolutamente nulla.

Rimaneva il panico, acido e pungente, dalle viscere alla gola. La paura di annegare nel vuoto, il brivido infinito di una caduta continua senza paracadute. Stava precipitando.
L'uomo dovette accorgersi della sua immobilità e del suo respiro accelerato perché si staccò da lei e la guardò con un'espressione di stupore: "Candy?", chiamò di nuovo.
Lei aprì la bocca per parlare ma non ne uscì alcun suono. Terrorizzata e assetata, ecco come si sentiva.

Con un dito tremante indicò il bicchiere sul comodino e lui si affrettò a versarle dell'acqua, aiutandola a sollevarsi un po' per bere qualche sorso. Poi la guardò con un sorriso incerto: "Vuoi che chiami il medico, Candy?".

L'aveva chiamata di nuovo così: "È questo il mio nome?", riuscì finalmente a chiedere con una voce che non riconobbe.

Una voce ignota, la voce di una sconosciuta.

Il cuore continuava a martellarle nelle tempie ma la sensazione di claustrofobia si stava attenuando. Ora montava la rabbia, ancor più forte del terrore. La rabbia per non riuscire a schiarire la mente.

Sul volto dell'uomo il sorriso scomparve per lasciare il posto a un'espressione di panico: "Tu... non ricordi come ti chiami?".

Scosse la testa: "Cosa ci faccio qui? Chi sono? Chi sei TU?". A ogni domanda la sua voce si alzava di un tono e le lacrime cominciarono a scendere dagli occhi contro la sua volontà. Si sentiva di nuovo soffocare nel nulla. Il ciclo ricominciava da capo.

"Non... non piangere, andrà tutto bene. Chiamo il dottore", si affrettò a dirle asciugandole il viso con una mano gelida.

Lei non poté sopportarlo: "Non mi toccare!", gli gridò disperata. Non voleva la pietà di nessuno. Non voleva l'affetto di nessuno. Non conosceva NESSUNO.

L'uomo ritirò la mano di scatto, guardandola con qualcosa di simile all'orrore. Deglutì un paio di volte, sembrava davvero ferito. Non le importava. Lei soffriva infinitamente di più.

"Vorrei rimanere da sola", disse con un filo di voce, senza smettere di piangere.

"Va bene, ma calmati", rispose l'uomo con gli occhi lucidi e la mascella contratta. "Vado a chiamare il medico".

Uscì dalla stanza e lei fu finalmente sola.

Chiuse gli occhi rigirandosi nella mente vuota quel nome. Candy. Candy. Nero, buio pesto.

Di nuovo le parve di precipitare.

Perché, perché qualunque cosa le fosse accaduta, aveva dimenticato tutto? Che senso aveva risvegliarsi quando il suo passato era stato cancellato? Aveva dei genitori? Aveva degli amici? Chi era? Quanti anni aveva? Quell'uomo così disperato era suo marito? Il suo fidanzato? Suo fratello?

Si portò le mani al viso, artigliandosi la pelle, odiando la sensazione di vuoto e di gelo che l'attanagliava da quando aveva ripreso conoscenza.
- § -
 
Quando Annie arrivò in sala d'attesa e vide Albert e Archie discutere animatamente capì che era successo qualcosa. Si afferrò i lembi del vestito e accelerò il passo.
"Potrebbe essere la stessa amnesia che ha colpito me! Parlerò col dottor Martin", stava dicendo Albert.

"Certo, ti capisco, ma qui ci sono eccellenti neurologi, aspettiamo prima di sentire il loro parere!", ribatté il suo ex fidanzato.

Annie si accasciò sulla panca con un lamento, attirando l'attenzione dei duo uomini. Candy si era risvegliata e non aveva memoria? Aveva capito bene?

Archie fu il primo a correrle accanto: "Annie! Candy è sveglia! La nostra Candy ha ripreso conoscenza!", esultò emozionato.

"Ma Albert ha parlato di amnesia...", mormorò cercando di contenere il turbinio di emozioni che l'avevano colta.

"È così", annuì lui incupendosi.

Scoprì che non si ricordava né come fosse finita lì, né tantomeno il suo nome. Il medico che l'aveva visitata si stava consultando con alcuni colleghi, al momento, per decidere sul da farsi: Candy sapeva a malapena in che anno e in che mese si trovassero e ogni ricordo, lontano o recente che fosse, era stato spazzato via del tutto.
"È terribile", mormorò portandosi una mano alla bocca e avvertendo di nuovo nel cuore le punte acuminate del senso di colpa. Aveva invidiato Candy perché Archie l'amava ancora e prima aveva rischiato di morire, ora questo...

Con sua sorpresa, lui le si accostò e le circondò le spalle con un braccio. Annie ebbe l'impulso di scacciarlo in malo modo, ma poi accettò quel calore di cui non riusciva proprio a fare a meno. Non doveva, non voleva provare quelle emozioni, ma perlomeno tentò di non farle trapelare. Rimase fredda, muovendosi solo per recuperare il fazzoletto che lui le porgeva.

Dopo qualche minuto arrivò uno stuolo di medici: non ebbe dubbi che la presenza di Albert avesse indotto a riunirsi i migliori professionisti dell'ospedale. Tra loro c'era anche il dottor Leonard, che Annie ricordava essere al Santa Joanna da quando Candy lavorava lì come infermiera.
Fu proprio lui a rivolgersi a loro, facendosi portavoce dei colleghi: "Siete tutti parenti della signorina?".

"Siamo la sua famiglia", si sentì dire Annie, attirandosi gli sguardi stupefatti degli uomini accanto a lei. Pensavano forse che sarebbe rimasta in silenzio a piangere come avrebbe fatto fino a poco tempo prima? Per qualche istante lo aveva pensato anche lei, ma il profondo cambiamento che stava avendo atto nel suo animo tormentato la fece sentire più sicura, più intraprendente: era una sensazione che le piaceva e le trasmetteva adrenalina. Era così che si sentiva Candy quando faceva cose avventate come saltare su un albero o scappare da scuola?

Il medico annuì e li invitò a entrare in una grande stanza, dove chiuse la porta alle sue spalle e sedette alla scrivania. Congedò i colleghi e invitò anche loro tre a sedersi: era certa che il proprio nervosismo fosse condiviso anche da Archie e Albert, che sembrava voler stritolare i braccioli della sedia in pelle con le mani.

"Dunque, signori, la signorina Candy, che ho avuto modo di conoscere per le sue brillanti doti di infermiera, ha subìto una commozione cerebrale di entità piuttosto considerevole. Non nascondo che il dottor Murray e i suoi collaboratori siano rimasti piacevolmente sorpresi dal suo risveglio, ma la memoria a lungo termine è stata gravemente intaccata". Spostò il suo sguardo su Albert e tra loro ci fu un eloquente scambio di occhiate.
"La differenza con il caso del signor Ardlay, però, non è solo insita nella natura stessa dell'incidente che ha portato all'amnesia, ma anche nel comportamento anomalo che sta provocando nella paziente", disse infatti.

Annie trattenne il fiato e Archie fece per lei quella domanda: "Cosa intende con 'comportamento anomalo'?".

Il medico prese un respiro, poi chiese ad Albert se ricordasse il periodo in cui aveva perso la memoria. Lui annuì: "Ero afflitto da continui mal di testa quando cercavo di ricordare, ma Candy mi parlava del mio passato e io cercavo di sforzarmi". Fece un sorrisetto nostalgico. "Ricordo che mi rimproverava se mi affannavo troppo e mi diceva di non insistere".

Il dottor Leonard annuì: "E qual era l'atteggiamento del signor Ardlay, in quel periodo? Mi accennava poco fa che voi siete tra le persone che si sono prese cura di lui".

Fu il turno di Annie di parlare: "Beh, a dire il vero lui sembrava quello di sempre, anche se non aveva alcuna memoria del suo passato. Candy ci raccontò che era istintivamente attratto dalla natura, cosa che l'ha sempre caratterizzato. A quel tempo non sapevamo neanche noi la sua vera identità".

"È vero", ammise Archie, "però quando stava con noi a volte aveva un'aria malinconica, si vedeva che gli pesava la sua condizione".

Albert annuì, confermando le loro parole: "Tutto vero. E devo aggiungere che è stata proprio la vicinanza dei miei nipoti e dei miei amici a farmi andare avanti. Senza Candy e loro non penso che avrei avuto la stessa forza di affrontare le cose".

"Bene, il punto è proprio questo. La rabbia e il rifiuto che hanno caratterizzato il risveglio della signorina Candy possono essere considerati anche normali, quello che mi preoccupa è il fatto di non volersi fidare di voi. Da quello che abbiamo potuto osservare in lei... è come se si fosse rinchiusa in se stessa e la sensazione del mio eminente collega è che si rifiuti anche solo di provare a ricordare. Se si tenta di affrontare l'argomento diventa scontrosa, quasi aggressiva".

"Candy... aggressiva?", ansimò Annie: la sua sorellina così forte e spensierata, così allegra e altruista era diventata davvero così?

"Dottor Leonard, forse deve solo imparare a fidarsi di noi. È uscita dal coma solo da poche ore, le cose potrebbero cambiare, non pensa?", chiese Albert.

Il medico fece una smorfia: "Certo, questo è probabile, ma devo anche avvisarvi che vi sono casi in cui la modifica del carattere è permanente. E non è neanche questo l'aspetto più preoccupante. Anche se siamo solo alle prime battute, è già evidente che la paziente preferirebbe rientrare nello stato di coma piuttosto che ricordare. All'apparenza, cercare di rimembrare le provoca dolore: ci ha riferito di vertigini e mal di testa, ma anche di sensazioni molto sgradevoli".

Albert scattò in piedi, impallidendo, e Archie gli fu subito accanto, pallido anche lui. Annie sentì le lacrime bruciarle negli occhi. Fu ancora lei a parlare: "Questo significa che potrebbe andare di nuovo in coma?".

"Dipende tutto dalla paziente, signorina Brighton. Quello che noi tutti ci auguriamo è che con il passare delle ore e dei giorni diminuisca il malessere e le torni la voglia di ricordare, che impari ad avere fiducia in voi e in tutti i suoi cari. Ma, fino a quel momento, non va assolutamente forzata in alcun modo. In questi primi tempi, specialmente, non ricordatele nulla, a meno che non sia lei a chiederlo. E, anzi, sarebbe opportuno che fosse uno solo di voi a prendersene cura assieme a un'infermiera".

"Mi perdoni, dottore, ma non capisco!", esclamò Archie mentre Albert si sedeva di nuovo: sembrava privato di tutte le forze. "Candy è sempre stata piena di vita e non ha alcun motivo per non volersi ricordare di noi. Fino a prima del suo incidente non ci sono stati screzi tra noi, perché non possiamo semplicemente starle accanto?".

"Perché sareste uno stimolo eccessivo per la sua mente. Non conosco i dettagli del vostro rapporto con lei, ma se c'è qualcosa che sta rifuggendo non è soffocandola di attenzioni che l'aiuterete. Ha bisogno di un sostegno discreto, delicato, che le lasci i suoi tempi".

Gelo e silenzio, nel suo cuore così come nella stanza. Archie cadde a sedere pesantemente sulla sedia e i loro occhi s'incontrarono: non c'era bisogno di parole, almeno su quello erano d'accordo. Albert era l'unico che poteva aiutare Candy a uscire da quello stato, così come lei lo aveva aiutato tempo addietro. Il volto del patriarca, però, seppur meno scavato di qualche giorno prima, raccontava una sofferenza e una tensione che non la rassicurarono molto. Nonostante la preoccupazione per Candy, tutti avevano notato che Albert era cambiato.

Annie provò a immaginare come potesse sentirsi dopo aver creduto di averla finalmente ritrovata, per poi dover affrontare una prova enorme come quella. Non era del tutto certa che il solido e pacato uomo che tutti conoscevano non sarebbe crollato sotto a un peso del genere. Aveva affrontato di tutto, nella sua vita, proprio come Candy. Ma avrebbe sopportato di perderla di nuovo?

Per un attimo pensò di occuparsene personalmente, poi il dottor Leonard disse: "Chi di voi si sente in grado di mantenere un equilibrio emotivo di questo genere?".
"Lo farò io", disse subito Albert alzandosi in piedi.

Archie aprì la bocca, ma lei gli mise una mano sul braccio. Se fosse stato necessario loro due sarebbero stati i suoi pilastri e lo avrebbero sostenuto insieme, ma né lei né Archie potevano toccare il cuore di Candy come Albert. 

"Molto bene". Il medico si alzò. "Ovviamente la terremo in osservazione ancora per qualche giorno, poi provvederò a nominare la mia infermiera migliore perché possa supportarla una volta a casa e somministrarle eventuali terapie per il tempo necessario alla sua ripresa fisica completa".

"Vorrei che fosse la signorina Hamilton, se permette", chiese Albert.

Udì Archie borbottare qualcosa a proposito di un gendarme e poi il dottore proseguì: "Va bene, nessun problema se la signorina è d'accordo. La ritengo un'ottima scelta, inoltre è una ex collega di Candy. Signor Ardlay, dove vivrete di preciso e con quante persone?".

Albert parve rifletterci per qualche secondo: "Ho una proprietà qui a Chicago e un'altra in campagna, dove è avvenuto l'incidente. Vivo con mia zia e il mio braccio destro. Qualche servitore e nessun altro".

Il medico sembrò soddisfatto della sua risposta e continuò: "La cosa migliore è che rimaniate in città per i primi tempi. La signorina Candy dovrà venire regolarmente in ospedale per dei controlli, dovremo fare perizie psichiatriche e valutare poco a poco la situazione. Non escludo che tra qualche settimana anche altre persone a lei vicine possano avvicinarla, ma per il momento preferirei che le sia dato spazio".

Guardò nella sua direzione e poi verso Archie. Assicurarono che non avrebbero fatto nulla per nuocerle e che si sarebbero limitati a telefonare ogni tanto per accertarsi delle sue condizioni.

Il dottor Leonard condusse Albert nella stanza di Candy, cominciando a spiegargli alcuni dettagli sulle cure che le avrebbero riservato da quel momento in poi. Annie rimase un po' indietro con il suo ex fidanzato.

"Pensi che Albert riuscirà a sostenere tutto questo? A me sembra sul punto di crollare, francamente", disse lui accigliato.

Lei chiuse gli occhi: "È la stessa cosa che ho pensato io".
 
- § -
 
Si sentiva sperso in un limbo, in una nebbia, oppure in una melassa. Non sapeva bene come definirla, ma era una sensazione estremamente onirica che sembrava rallentarlo come per un torpore costante.

Lavorava, passava in ospedale e organizzava le cose perché la dimora di Chicago fosse pronta ad accogliere Candy al suo ritorno. Dormiva, mangiava, ma era come se tutta la sua vita la stesse vivendo un'altra persona e lui fosse solo un osservatore esterno.

Aveva rivisto Candy sempre in presenza di medici, evitando accuratamente di rimanere da solo con lei, perché temeva di impazzire se fosse accaduto: le avrebbe detto quanto l'amava e avrebbe dovuto vedere i suoi occhi glaciali, oppure ascoltare le parole tristi e sprezzanti di una donna che si era arresa alla sua amnesia.

Guardami, io ero come te, voleva gridarle, ma tu mi hai fatto tornare umano, desideroso di vivere. Si ricordava perfettamente di come avesse voluto sparire semplicemente dalla faccia della Terra, all'inizio, e di come le cure di un'infermiera appena diplomata di nome Candy lo avessero fatto tornare alla vita. Si era innamorato per la seconda volta di lei, poi una terza, quando aveva riacquistato la memoria e gli era tornato in mente che quell'amore conviveva in lui da sempre.

Prima allo stato embrionale, sotto forma di affetto e istinto di protezione poi, da quando l'aveva vista vagare per Londra alla ricerca di una farmacia aperta per il suo amico ferito, di amore maturo. Da quando si erano dichiarati aveva avvertito l'urgenza di unire definitivamente la propria anima e il proprio destino ai suoi, farla diventare sua sposa, sua amante e la madre dei suoi figli.

Il desiderio di lei era diventato un dolore fisico e ora, forse, l'aveva persa per sempre anche se era lì, a pochi passi da lui.

Il bussare insistente alla porta lo fece precipitare nella realtà con un sussulto. In mano stringeva un bicchiere di whisky e gli occhi erano fissi sul muro del suo studio. La sera inoltrata non gli consentiva di vedere oltre la luce dei lampioni, fuori dalla finestra.

"Avanti", disse atono.

George entrò discretamente, come sempre: "Mi perdoni, signorino William, ma la polizia mi ha appena comunicato il suo rapporto finale sull'indagine".

Nell'intero corpo, Albert avvertì un formicolio simile a quello che si sente quando un arto addormentato si stia risvegliando dolorosamente.
"E...?", chiese, portandosi il bicchiere alle labbra, cercando di annegare nell'alcool il leggero tremore della mano.

L'uomo si schiarì la voce, come se non riuscisse a pronunciare l'amara verità: "Purtroppo non ci sono prove a carico dei fratelli Lagan, non possono nemmeno indagare il maniscalco perché l'ultima volta che ha visto il cavallo è stato parecchi giorni prima. L'unica conclusione cui sono giunti è che il chiodo si sia spostato... da solo. I signorini Eliza e Neil sono partiti questa mattina per la Florida, mentre la signora Elroy giungerà qui nella giornata di domani".

Albert respirò profondamente, alla ricerca di un controllo che aveva perso da tempo. La preoccupazione, la mancanza di sonno e di pasti decenti, infine il dolore della nuova perdita erano un nodo velenoso e putrescente all'altezza del petto. Non si era mai sentito così, neanche quando si era ritrovato in situazioni che potevano mettere potenzialmente in pericolo la propria vita, in Africa e nei suoi tanti viaggi.

Stava lentamente perdendo la propria integrità.

Era come se, da quando avesse messo a nudo i propri sentimenti per Candy, prima di fronte a se stesso e poi a lei, avesse trovato l'Albert che avrebbe potuto essere se fosse nato libero. Il nuovo Albert era capace di ridere, piangere, infuriarsi e fare cose che quello vecchio, ancora da qualche parte dentro di sé, non aveva mai neanche lontanamente immaginato. Quell'Albert gli sembrava sempre meno preponderante: si sentiva come il protagonista del romanzo di quello scrittore, scozzese come lui, di nome Stevenson, che descriveva le trasformazioni del dottor Jeckyll in Mr. Hyde e viceversa.

Ora, con le braccia tremanti di rabbia e il respiro corto, si stava rapidamente trasformando in Mr. Hyde: una parte di lui sapeva che George era ancora lì, muto e immobile sulla soglia del suo ufficio ad attendere un suo cenno, ma l'altra si stava alzando di scatto, col bicchiere pieno per metà e lo scagliava dentro al caminetto con un urlo animale scaturito dal profondo delle viscere.

"William...!", articolò George con un ansito, ma William non era William e non era neanche più Albert.

"Quindi la faranno franca ancora una volta, non è vero?! Hanno quasi ucciso Candy, ma siccome non ci sono prove nessuno pagherà per averle rovinato la vita e per averla trasformata in una persona irriconoscibile?". Ansimava violentemente, preda di una furia tale che pensava avrebbe avuto un infarto di lì a poco. Si sentiva come un cane rabbioso con la bava alla bocca, o un leone che stesse per attaccare una preda invisibile.

"Albert...". Ignorò la voce gentile che, se possibile, lo urtò ancora di più.

"Se ne torneranno in Florida, nei loro hotel maledetti, che io stesso ho contribuito a fargli aprire, come se nulla fosse! Continueranno a fare feste, sperperare denaro e tutto mentre Candy non è più la donna che sognavo di sposare e potrebbe rimanere infelice per sempre! Come me!", terminò la frase a denti stretti, senza più voce, afferrando tutto ciò che gli capitava tra le mani dal piano della scrivania e scaraventandolo alla cieca.

Sentiva i capelli incollati agli occhi e alle tempie, il sudore che scendeva a rivoli e sì, forse aveva davvero la schiuma alla bocca come un animale selvatico. Si era trasformato non in Mr. Hyde, ma in una specie di licantropo feroce.

Due forti braccia lo bloccarono, nonostante George fosse meno robusto e meno alto di lui e lo imprigionarono in una sorta di goffo abbraccio contenitivo. Forse gli serviva una camicia di forza.

"Per l'amor di Dio, William Albert Ardlay, torna in te!", lo incitò con voce vibrante, piantando gli occhi scuri nei suoi.

D'improvviso, la vista si snebbiò, poi gli si annebbiò di nuovo, quindi le ginocchia cedettero e cadde di peso sulla sedia, seppellì la faccia tra le mani e si lamentò pietosamente, vergognandosi di se stesso.

"Piangi, Albert, sfogati, ne hai bisogno. Tutto questo è più di quanto chiunque possa sopportare".

Chino sulla sua sedia in pelle, prostrato e svuotato di ogni forza, Albert scacciò via Mr. Hyde, il lupo mannaro e qualsiasi altra creatura si fosse impossessata del suo corpo con lacrime amare.

Fine terza parte
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- § -
 
Osservazioni dell'autrice: Questa non è una storia facile, lo avrete capito. Il titolo la dice... lunga! Spero comunque che continuerete a seguirmi e ad appassionarvi, venerdì prossimo inizia la Quarta Parte!

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Capitolo 28
*** Un nuovo inizio ***


Quarta parte: Memories
 
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore
Dalle ossessioni delle tue manie
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare

E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te

(La cura - Franco Battiato)
 
 

Quella mattina c'era il sole, un sole così luminoso che accecava. Terence fu quasi tentato di guardarlo direttamente, poi si schermò con una mano e lasciò che i suoi raggi indugiassero sul viso filtrando tra le dita, riscaldandolo.

Il sole troppo forte può accecare, ma se ti lasci baciare dolcemente è una carezza gradevole.

Istintivamente pensò a Karen, che aveva la forza di un astro rovente ma lo scaldava a malapena. Non era assolutamente pronto a lasciar andare Candy, l'unico amore della sua vita, ma era appena uscito dall'ufficio del regista e stava cercando di dare una scossa al suo futuro.

Aveva promesso a Tarzan Tuttelentiggini che avrebbe lavorato a un film con sua madre per variare la sua carriera ed era più che determinato a farlo, anche se quel mondo non lo aveva mai attratto più di tanto.  Amava il teatro proprio per il brivido del contatto diretto con il pubblico, l'immediatezza delle emozioni trasmesse e ricevute dalla platea, il margine di errore che doveva sempre essere ridotto al minimo. Il cinema gli sembrava tutto una mera finzione e, soprattutto, non aveva suoni.

Il regista gli stava parlando di nuovissime tecnologie che sarebbero state disponibili a breve e che avrebbero consentito non solo alla musica, ma anche ai dialoghi tra gli attori di essere ascoltati. Anche se ciò fosse accaduto si trattava sempre di una registrazione che si poteva ripetere anche decine di volte, prima di essere impressa su pellicola e che non aveva nulla della spontaneità e dell'adrenalina del teatro.

Sarà una nuova esperienza, una spinta alla mia carriera. Un modo per non pensare a te.

Entro un mese la tournée sarebbe terminata e Terence sarebbe dovuto tornare proprio a Pittsburg per cominciare le riprese, assieme a sua madre. Avrebbe avuto il copione e sarebbero stati finalmente vicini anche nel lavoro.

L'importante era mantenersi occupato e stare lontano dall'alcool, cosa che in quei tempi era altamente consigliabile. Fu tentato di scrivere un telegramma a Candy ma cercò di convincersi che non era il momento adatto: aveva iniziato a leggere i giornali solo per scoprire se il patriarca degli Ardlay avesse annunciato il proprio matrimonio con una ragazza che era stata la sua protetta, ma al momento non aveva visto neanche l'annuncio del fidanzamento.

William Albert Ardlay, che ti succede? Cosa aspetti a renderla felice?

Una parte di sé gli gridò che doveva andare a controllare e che magari c'era anche la possibilità di riprendersela: allora avrebbe mandato al diavolo tutto, anche la sua carriera, e l'avrebbe sposata lui.

Ma Candy non era un oggetto e, soprattutto, non era più innamorata di lui. Era stata piuttosto chiara sui suoi sentimenti, non poteva obbligarla ad amarlo.

Starei con te anche se non mi amassi.

No, non poteva abbassarsi a tanto, accontentarsi degli scarti come un cane. La donna che avesse avuto al fianco avrebbe dovuto amarlo totalmente, indiscriminatamente.

Come Karen...

Ammirava la sua forza e non riusciva a essere infastidito dal suo comportamento fermo, anzi, vi si affidava come un naufrago a un relitto. Ma non andava bene e lo aveva capito quella sera in cui stava per fare l'amore con lei chiamandola Candy. L'aveva ferita e da quel giorno il loro rapporto si era raffreddato, anche se lei non si era allontanata completamente.

Sarebbe mai stato in grado di aprire di nuovo il suo cuore, magari proprio a lei?

Ora, mentre sentiva il sole sul viso, Terence Graham decise che avrebbe fatto un passo alla volta, ma non sarebbe tornato mai indietro. Mai.
 
- § -
 
Candy entrò con circospezione in quella che le avevano detto essere la sua stanza. Quando era stato il momento di salire su quella lussuosa auto guidata da un gentiluomo che era al servizio del suo tutore legale, aveva avuto l'impulso di scappare.

Non voleva un tutore legale, non voleva attenzioni e non voleva intorno quell'infermiera antipatica. Diffidava di tutti, vedeva in ognuno il pericolo di essere costretta a ricordare. E tentare di ricordare le faceva male: non solo fisicamente, la stremava mentalmente, così si era rassegnata al suo limbo infelice ma rassicurante.

Le avevano detto che era orfana e non aveva altra famiglia se non la Ardlay, che era una delle più potenti del Paese, ma troppe cose non le tornavano.

Innanzitutto perché il patriarca era così giovane e l'aveva presa sotto la sua ala protettrice? Le aveva detto che aveva una zia che era l'attuale matriarca e che avrebbe vissuto con loro, ma come mai quel nipote non si era sposato? Nonostante non ricordasse nulla di lui e la sua presenza le inducesse quasi un senso di fastidio, non era certo diventata cieca: era un uomo molto bello ma, invece di farsi una famiglia sua, si dilettava ad adottare giovani donne come lei. Era l'unica o ce n'erano altre? Aveva secondi fini?

La testa le faceva già male per tutte quelle domande che non avrebbe mai posto, quindi seguì il consiglio del medico di non sforzarsi e sperava che anche il signor William sarebbe stato altrettanto ligio nel non farle pressioni. Per fortuna, non erano più rimasti soli e lui non l'aveva mai forzata raccontandole più del necessario.

Arrivati davanti al portone della villa, le avevano dato il benvenuto alcuni servitori, ma nessuna traccia della vecchia zia di cui le avevano parlato. Bene, non voleva vedere nessuno e rintanarsi di nuovo dentro quattro mura, chiudere gli occhi e dormire il più possibile.

Nel sonno, almeno, non avrebbe sofferto.

La stanza era molto lussuosa e grande ed era collegata a una seconda camera per Frannie. Candy storse la bocca quando la vide.

"Non ti piace?", le domandò dalla soglia il signor William.

"È troppo grande, ne vorrei una più piccola, per favore", disse senza vergogna.

"Candy, non ci troviamo in un albergo. Dovresti essere grata al signor Ardlay per quello che ti sta offrendo", intervenne Frannie mandandola su tutte le furie.

"Non l'ho chiesto io di venire qui!", esplose voltandosi a fronteggiarla. Dietro di lei, l'uomo biondo si schiarì la voce.

"Se preferisci puoi scambiare la tua stanza con quella della signorina Hamilton, che è un po' più piccola. Avrai comunque tutte le comodità anche lì".

"No, la prego, signor Ardlay, non potrei mai dormire in una camera come questa...", si lamentò l'infermiera, ma Candy si era già diretta verso la porta. Aprendola, aveva scoperto che non era molto più modesta di quella principale, ma sembrava più raccolta e, soprattutto, aveva un finestra più piccola.

"Questa andrà bene", dichiarò infischiandosene delle proteste di Frannie.

Alla fine, dopo una breve conversazione tra loro due, l'uomo le si avvicinò: "Candy, di qualunque cosa tu abbia bisogno ti prego di farmelo sapere. Ogni tuo desiderio sarà un ordine per me".

Lei lo squadrò dall'alto in basso: "Con quali scopi mi hai adottata, zio William?", non poté impedirsi di domandare, nonostante i buoni propositi. "Vuoi una concubina o ti faccio semplicemente pena perché sono orfana?".

"Candy...", ansimò Frannie portandosi una mano davanti alla bocca, evidentemente turbata da tanta maleducazione.

Non gliene importava nulla. Voleva sapere se era al sicuro e se l'avrebbero lasciata in pace. Quando fosse guarita fisicamente, non era nei suoi piani restare in quella grande casa. Temeva gli spazi aperti, ma odiava in maniera viscerale il lusso e la ricchezza che trasudavano da quelle pareti. Almeno la sua personalità aveva un minimo di punti fermi, pur se non ricordava un accidenti.

Il signor William la stava osservando di nuovo con quegli occhi chiari e profondi con cui l'aveva fissata appena sveglia. Non lo sopportò, perché era come se le leggesse dentro e se si struggesse al contempo.

"Ti ho adottata quando eri molto più giovane", disse con voce appena vibrante di... cosa? Rabbia? Tristezza? Esitò qualche istante come scegliendo le parole adatte a non dirle più dello stretto necessario: "Avevi avuto problemi con la tua prima famiglia adottiva e ho deciso di proteggerti. Non ho mai avuto secondi fini di quel genere e non devi avere paura di me. Non ti farei mai del male, né ti mancherei di rispetto".

Nelle sue ultime parole Candy poté sentire con chiarezza il dolore e una fitta alla testa la fece cadere di peso sul letto. Non sopportava il suo dolore, le dava la nausea, avrebbe osato dire che la terrorizzava.

C'era qualcosa, in quel dolore, che la colpiva nel profondo e che arrivava troppo vicino ai ricordi. Ricordi che non era sicura di poter affrontare.

"Candy, stai bene?". Odiò la sua voce preoccupata.

"Mi hanno detto che mi chiamo Candice", disse tra i denti. "Mi chiami così, signor William", concluse tornando formale.

L'infermiera le fu subito accanto per prenderle i segni vitali e la lasciò fare, perché aveva intimato all'uomo biondo di lasciarle sole. Tutto, pur di non dover più subire la sua presenza.

Quando la porta si chiuse, la pressione alla testa diminuì come d'incanto.
 
- § -
 
George vide William uscire dalla stanza di Candy e appoggiarsi alla porta facendo profondi respiri. Si avvicinò con discrezione, pronto a sostenerlo: "Cosa è successo? È sconvolto".

Lui lo guardò con la faccia stravolta ma si ricompose immediatamente e la sua voce fu abbastanza ferma quando rispose: "Penso che sarà impossibile per me abituarmi a vederla così. È un'altra persona, ho il sospetto che mi odi".

Avrebbe voluto rispondergli che si sbagliava, che la signorina Candy non lo odiava e che si sarebbe presto ricordata di lui e di tutto l'amore che li univa. Ma non avrebbe mai mentito in maniera così spudorata a William, tanto più che non avrebbe creduto neanche a mezza parola: "Deve avere molta pazienza. Anche se è terribile dirlo, dovrà farci l'abitudine, temo".

Lui deglutì, visibilmente preda di emozioni violente che tentava di contenere: George si chiese se la sua sofferenza avrebbe mai avuto fine. Ricordava di averlo visto così solo quando erano morti suo padre, Rosemary e il signorino Anthony, ma la rigida educazione cui era stato sottoposto e la lontananza dalla famiglia non gli avevano mai fatto capire appieno quanta sensibilità ci fosse dietro alla sua facciata fredda e controllata.

Certo, lo sospettava, specie quando gli parlava dei viaggi che voleva fare e dei sogni di libertà che aveva. Lo aveva visto estremamente commosso mentre seguiva di nascosto i funerali del povero Anthony e poi di Stair, ma allora aveva ancora una specie di scorza dura che gli impediva di mostrare ad altri i propri sentimenti.

La signorina Candy aveva tirato fuori il meglio di lui, spaccando finalmente l'armatura che lo circondava ma rendendolo così anche più vulnerabile. Poteva vedere come William cercasse di ripristinarla ogni giorno, ma falliva sempre più spesso e la dimostrazione era la perdita di controllo di qualche giorno addietro, nello studio: neanche da bambino aveva mai pianto così a lungo e in modo così disperato, tanto che George non aveva saputo fare altro che rimanergli accanto con una mano sulla spalla mentre si calmava da solo.

"Credo di non essermi scusato abbastanza per la scenata dell'altra sera, George", disse di punto in bianco come se gli leggesse nel pensiero.

"Non lo dica neanche per scherzo, signorino William. Non c'è nulla di cui debba scusarsi. Ma deve cercare di farsi forza, perché temo che gliene servirà parecchia. Per quello che vale, avrà sempre il mio totale appoggio e la mia discrezione", disse con una punta di emozione nella voce.

William gli concesse il fantasma di un sorriso di gratitudine e si ritenne soddisfatto di averlo un po' tranquillizzato. Se avesse potuto donargli la felicità su un piatto d'argento, lo avrebbe fatto sacrificando una parte della propria vita.
 
- § -
 
Eliza scoppiò a ridere, portandosi il dorso della mano con eleganza davanti alla bocca: "Oh, mamma, avresti dovuto vederla, quella sciocca!".

Non le disse che aveva spostato un chiodo di proposito, perché quel vigliacco di suo fratello non aveva avuto gli attributi per farlo. E non le disse che, cadendo, Candy le aveva ricordato i racconti che le avevano fatto di come Anthony fosse stato disarcionato dal proprio cavallo, anni prima.

Non le disse che aveva avuto paura e si era disperata perché temeva di aver perso la sua posizione privilegiata, specie davanti alla zia Elroy. E, ovviamente, le nascose il fatto che avesse dubitato di lei e di Neal. Omise anche la discussione con lo zio William, perché c'era altra carne al fuoco e non voleva che nemmeno sua madre sospettasse una vendetta.

Certo, il piano era stato così geniale che difficilmente avrebbero sospettato di loro e comunque era meglio non fidarsi di nessuno. Nemmeno dei propri genitori.

"Quindi ora quell'orfana è senza memoria, non è vero?", ribatté sua madre con un sorriso soddisfatto, mentre si sistemava i capelli e si spruzzava qualche goccia di profumo sul collo. Si stavano preparando per una festa di gala in uno dei loro alberghi e ci sarebbe stata un mucchio di gente interessante.

"Sì, pensa che non si ricordava neanche come si chiamava, da quanto ci ha detto la zia Elroy. Lo zio William sarà sconvolto!". E scoppiò di nuovo a ridere.

La donna si voltò a guardarla per un attimo, con aria preoccupata: "Tesoro, sei sicura che nessuno sospetti di te?", le domandò.

Eliza sentì i capelli rizzarsi sulla nuca e capì che le doveva una mezza verità: "Oh, hanno fatto delle indagini e la polizia ci ha rivolto alcune domande, ma era evidente che nessuno di noi c'entrava niente con la sbadataggine di quella contadina! La mia unica colpa è stata quella di sfidarla a cavalcare all'amazzone e questo non può essere considerato un crimine, giusto?".

Lesse il dubbio negli occhi di sua madre. Chiaro, limpido come il cielo della Florida quel giorno. Ma non vacillò e sostenne quello sguardo. Alla fine, le sorrise leggermente: ho capito, non c'è bisogno che lo dici ad alta voce, Eliza. Complimenti, sei riuscita nel tuo intento. Ma non dirlo mai ad anima viva, mi raccomando, specie a tuo padre. Quello le dicevano gli occhi.

"Bene", esordì dopo qualche istante, voltandosi di nuovo davanti allo specchio. "Chiamo Catherine perché venga a sistemarmi questo lavoro orribile che ha fatto e aiuti anche te. Dovrei licenziarla, quell'incapace!".

Oh, mamma, a breve potremo avere un esercito di servitori. Uno per ogni ciocca dei tuoi capelli e apriremo alberghi in tutto il mondo! Ancora qualche giorno, aspettiamo che la merce arrivi e che il meccanismo si metta in moto. Anche se alla fine trovassero un cavillo per rilasciare lo zio e Archie, cosa di cui dubito, il loro nome sarà rovinato in maniera indelebile.

Eliza si sentì onnipotente. Come aveva potuto dubitare di se stessa? La sua anima non era nera, risplendeva di una luce accecante di furbizia e ingegno, anche se aveva interpretato un'idea nata da Neil. Sperava solo che suo fratello non si facesse prendere troppo da stupidi sensi di colpa: quando aveva temuto per la vita di Candy era certa che l'avrebbe tradita.

Per fortuna non lo aveva fatto e si augurò che non lo facesse mai. Non le sarebbe piaciuto doversi occupare anche di lui.
 
- § -
 
Elroy Ardlay scese per la cena con un senso di fastidio, inquietudine e aspettativa. La poca servitù che avevano in casa sussurrava di una signorina Candy che aveva scambiato la propria stanza con quella dell'infermiera arrivata in casa per la riabilitazione. Qualcuno l'aveva udita mentre diceva che non voleva vivere lì. La sua fedele cameriera personale, infine, le aveva riferito di un William completamente sconvolto che a malapena riusciva a sopportare quella situazione del tutto nuova.

Ora, di certo, non stanno insieme a ridere e scherzare.

Quel periodo da incubo a Lakewood per fortuna era finito e Neil ed Eliza erano partiti senza che Raymond e sua madre li raggiungessero. Aveva tirato un sospiro di sollievo, sapendo che erano finite la prigionia, le visite della polizia e quella sensazione di amara inquietudine unita al dubbio che l'aveva colta.

Eliza si era rivelata premurosa come sempre e l'aveva persino accudita quando il suo mal di testa era divenuto insopportabile.

La mattina dopo che mi ha dato lei la medicina il mio mal di testa era peggiorato.

Un altro frammento di quella facciata si era sgretolato, ma Elroy aveva continuato a ignorarlo. Sua nipote non avrebbe osato darle una dose errata di medicinale, così come non si sarebbe sporcata le mani per modificare la ferratura di un cavallo.

Neil era molto nervoso, quando William li ha redarguiti. Tutto in lui sembrava accusare la sorella.

Candice non era morta, ma era un'altra persona e aveva bisogno di cure. E suo nipote, come tutore, aveva organizzato tutte le loro vite intorno a lei: però Elroy non l'avrebbe sopportato a lungo.

Non sapeva ancora come spiegare in pubblico la rottura del fidanzamento di Archibald con quella stupida della signorina Brighton, che aveva avuto l'ardire di andare direttamente a darle la notizia. Non avrebbe mai dimenticato come quella ragazzina, così timida e sprovveduta, le fosse apparsa decisa e consapevole della sua scelta.

"Mi sono resa conto che ci sono delle incompatibilità tra noi e io non potrei mai... essere la moglie ideale per Archie". Quella frase le suonò così sibillina che le aveva chiesto di che natura fossero tali incompatibilità, ma quando la ragazza era arrossita vistosamente aveva capito che c'erano ragioni legate ai sentimenti.

Non le aveva chiesto altro, se non la certezza di aver preso la decisione giusta. Le aveva dato dell'ingrata per aver rifiutato un partito come suo nipote e le aveva chiesto di allontanarsi quanto prima. Lei aveva risposto che lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà, ma poi era successo l'incidente e Annie aveva seguito Archie e gli altri a Chicago per stare accanto alla sorellastra.

Tutte e due dello stesso stampo, una più educata e l'altra selvatica, ma pur sempre due orfane che non saranno mai alla nostra altezza!

Mentre sedeva a tavola e scopriva di essere sola, pensò che nel giro di pochi giorni si era sbarazzata della possibilità che sia Candice che Annie facessero parte della famiglia Ardlay: non era male, anche se alcuni meccanismi dell'accaduto le risultavano ancora oscuri.

Non chiederti come, ma accetta le cose positive che il destino ti offre.

Mentre suonava il campanellino per chiamare la servitù, apparvero Albert e Candice quasi allo stesso momento e lei si ritrovò a trattenere il respiro. Lo sguardo che si erano lanciati era uguale e opposto: fermo ma sfuggente da un lato e colmo di qualcosa che sfiorava l'adorazione dall'altro.

Elroy si voltò, disgustata. Ecco un'altra cosa in comune tra quelle due trovatelle. Entrambe avevano, seppur per motivi diversi, deciso di non avere più nulla a che fare con i suoi meravigliosi nipoti.

Stupide ingrate. Ma peggio per voi e meglio per noi. Molto meglio.

"Dov'è la signorina Hamilton?", chiese per stemperare quella tensione che si tagliava col coltello. Candice l'aveva appena salutata con un cenno della testa sedendosi il più lontano possibile da entrambi.

Bene, molto bene.

"Ha preferito rimanere in camera sua a cenare. Ma non dovresti prima chiedere alla nostra Candy come si sente, visto che è tornata solo oggi dall'ospedale?". Spostò gli occhi su William e vide che erano di ghiaccio e fuoco al contempo.

Cosa si aspettava da lei? Che l'accogliesse a braccia aperte e che le facesse sentire un affetto che non aveva mai provato solo per aiutarla nella sua riabilitazione mentale?

"Da quello che posso vedere, fisicamente è solo un po' dimagrita. In realtà sei tu quello che mi preoccupa: se gli occhi non mi ingannano, hai perso molto più peso di lei", dichiarò mentre un servitore le versava il vino.

"Io sto benissimo, zia. Ero solo molto preoccupato. Candy...".

"Le ho chiesto di chiamarmi Candice!", sbottò lei d'improvviso, alzandosi in piedi e portandosi una mano alla testa come se le dolesse. "E non parlate come se io non ci fossi. Starei bene se solo non vi occupaste di me!".

"Ma come osi...", cominciò, poi incontrò gli occhi di lei e ne rimase sconvolta.

Ricordava Candice come una ragazza scapestrata, ma con lo sguardo sempre luminoso al punto da irritarla con la sua arrogante spensieratezza. Ora, in quello sguardo le parve di vedere sua nipote Eliza quando parlava di lei.

E pensava di aver visto il ghiaccio in quello di William: in Candice c'erano due iceberg.

"Can... Candice, ti prego di scusarmi, mi sono sbagliato. Siediti e mangia con noi, per favore".

Una cameriera servì loro la portata principale e chiese se qualcuno gradiva del pane. Elroy scosse la testa e vide suo nipote fare lo stesso.

"Dovresti mangiare di più, William. Sei l'ombra di te stesso da quando...", le bastò un'occhiata di lui per tacere. Si morse la lingua solo per amor suo e per non farlo arrabbiare di più, ma era bastato qualche minuto a tavola con quella ragazza per farle venire il desiderio di buttarla fuori da casa e rispedirla col primo treno alla sua Casa di Pony.
Mangiarono per un po' in silenzio, gli unici rumori che si udivano erano quelli delle posate sui piatti. Non le sfuggirono gli sguardi che suo nipote lanciava a Candice di sottecchi. Ormai era chiaro come il sole quanto tenesse a lei, Elroy dubitava che si trattasse di semplice amore fraterno o filiale.

Che Dio l'assistesse, il suo ragazzo era innamorato di quella Candice, come lo era stato il suo povero Anthony.

D'un tratto, lei si alzò, lasciando il piatto a metà: "Ho finito, mi ritiro nella mia stanza. Qui... è troppo grande". Sembrava avere il fiatone e William si allarmò immediatamente. Le si avvicinò ma sembrò trattenersi all'ultimo istante.

"Vuoi che ti accompagni o che chiami la tua infermiera?", le chiese con un finto tono distaccato.

Candice sembrava combattuta: si vedeva che aveva bisogno di aiuto, Dio solo sapeva per quale arcano motivo, ma non osava farsi avvicinare da William. Nonostante la perdita di memoria e le criticità caratteriali che le aveva riferito lui, stentava a credere che quella fosse la stessa ragazza di qualche settimana prima.

È come se la vera Candice fosse morta davvero e questo fosse un suo surrogato malvagio.

In quel momento tornò la cameriera con una brocca d'acqua e lei disse: "Ti chiedo scusa, potresti accompagnarmi nella mia stanza? Ho... bisogno di aiuto".

Sembrava che quella richiesta le fosse costata molto, ma stava sudando copiosamente e pareva in preda al panico. La cameriera la fissò per un attimo come a chiederle se poteva assecondare quella richiesta bizzarra e Elroy annuì. Tutto, pur di non averla più davanti.

È perché la odio o perché non sopporto di vederla così cambiata? Che sciocchezza, l'importante è che stia lontana da William. Di lei non mi interessa nulla. Può sparire dalla faccia delle Terra per quanto mi riguarda.

"William, siediti e cena con me", ordinò senza esitare, vedendolo pallido e ancora in piedi.

"Mi dispiace, zia, non ho più fame. E ho delle faccende da sistemare in ufficio", rispose posando il tovagliolo che stava ancora stringendo in una mano.
"A quest'ora?", protestò non mangiando la foglia.

"Mi dispiace. Buona cena, zia", si accomiatò senza aggiungere altro.

Elroy sbatté un pugno sul tavolo, facendo tintinnare l'argenteria. Per un attimo, si chiese perché Candice non fosse semplicemente morta invece di tornare a rovinare le loro vite.
 
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COMUNICAZIONE IMPORTANTE: Per tutto il mese di Giugno, per la gioia di coloro che avranno ancora il fegato... il coraggio... l'ardire... insomma, che vorranno ancora seguirmi,  l'aggiornamento sarà doppio! Venerdì e Martedì salvo contrattempi dell'ultimo minuto. Enjoy! (???).

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Capitolo 29
*** Di tagli e redenzioni ***


Di tagli e redenzioni

Chi era quella sconosciuta che la fissava dallo specchio?

"Va bene così, signorina Candice?", le stava chiedendo la cameriera alle sue spalle. Non sapeva ancora perché avesse accettato di farsi pettinare da lei, ma quando le aveva detto che la signora Elroy aveva chiesto di raccoglierle i capelli perché sembrava una selvaggia si era dapprima ribellata, poi aveva ammesso con se stessa che la sua chioma era davvero fuori controllo e per quanti nastri potesse legarvi non poteva rimanere sciolta a lungo senza diventare un unico nodo.

Non che le importasse davvero, le bastava rimanere rintanata nella stanza in un sonno senza sogni e avere un vestito pulito addosso. Mal sopportava persino le iniezioni di vitamine e Dio solo sapeva cos'altro che le faceva quell'infermiera insopportabile, ma almeno era riuscita a farsi portare i pasti principali nella sua stanza.

Usciva di rado, perché non voleva incontrare né l'arcigna zia, né quell'uomo biondo che sembrava così turbato da lei. E, a dirla tutta, non voleva stare in quei corridoi così grandi troppo a lungo. Quel giorno, però, voleva visitare la biblioteca per prendere qualcosa da leggere: se doveva starsene sveglia durante il giorno, almeno avrebbe distolto la mente dalla sua situazione penosa imparando qualcosa.

Per farlo, però, doveva rendersi presentabile e così aveva permesso a quella ragazza timida e impacciata di raccoglierle i capelli. Ma che diavolo le aveva fatto? Cos'erano quelle code orribili?

"Questi codoni sono di pessimo gusto, li odio!", disse avvertendo la rabbia montarle dentro. Stava per dire: la cosa più brutta che abbia mai visto, ma la verità era che non ricordava più neanche le cose brutte del suo passato.

"Ma... ma signorina, lei ha sempre portato i capelli così!".

Il mondo si fermò, il respiro le si mozzò in gola. Quando riprese, uscì in un sibilo, poi divenne un lamento, quindi un grido. Si artigliò i nastri e li strappò via assieme a qualche ciocca.

"Li odio, li odio, li odio!", gridò continuando ad affondare le mani e a strappare.

"Signorina, la prego, non faccia così", udì vagamente dire la cameriera alle sue spalle.

"Delle forbici, portami delle forbici! Voglio tagliare questi capelli odiosi!", ordinò allungando una mano tremante, aprendo e chiudendo le dita freneticamente, anelando di avere l'oggetto quanto prima.

Dallo specchio, vide la ragazza correre in bagno e tornare con quanto aveva richiesto. Vide anche la porta aprirsi e comparire la sua infermiera, di certo allarmata dalle urla.
 "Se vuole... posso farlo io...". La sua voce tremava e sembrava spaventata a morte.

"No, lo faccio io. Sono capace di farlo", rispose secca, prendendole e tirando una lunga ciocca con l'altra mano. Allargò le forbici perché prendessero tutti i capelli e le richiuse di scatto.

I boccoli biondi caddero a terra e Candy cominciò a ridere. Ripeté l'operazione finché non li ebbe tagliati tutti, senza mai smettere.
- § -
 
Frannie Hamilton era un'infermiera e non una psicologa, ma non era una stupida. E aveva conosciuto Candy. Quando aveva sentito le sue grida si era precipitata a vedere cosa stesse accadendo ed era rimasta di sasso.

Come crocerossina aveva visto arti mozzati e soldati fatti letteralmente a pezzi dalle bombe, ma rimase comunque discretamente sconvolta dalla visione della sua ex collega con lo sguardo folle e le forbici in mano che si tagliava quei boccoli biondi.

Si era sempre concentrata sul proprio lavoro, non curandosi mai del proprio aspetto. D'altronde, sapeva di non essere affatto bella e di avere dei capelli di un colore scialbo e dritti come spaghetti. Si limitava a vedere il lato pratico della questione, raccogliendoli in una comoda coda per lavorare meglio.

Ma si era spesso scoperta a immaginare come sarebbe stato avere dei capelli lunghi, biondi e naturalmente arricciati come i boccoli di Candy. Certo non erano il massimo per un'infermiera e lei non solo non li aveva mai accorciati, ma si ostinava a portarli in due code infantili che la rendevano ancora meno professionale.

Peccato che i suoi pazienti l'adorassero.

Ora, vederla tagliare quella chioma che, se raccolta in modo corretto sarebbe stata l'invidia di ogni donna, le fece provare una piccola fitta al cuore. Era l'ennesima offerta della vita che Candy gettava in un angolo come fosse spazzatura. Proprio come aveva fatto con l'amore di quell'uomo così bello e ricco.

Perché era evidente come il sole di mezzogiorno quanto l'amasse.

Frannie sospirò, stentando a riconoscersi: non era da lei fare pensieri così poco professionali, ma da quando era tornata dal fronte stava avvenendo un cambiamento dentro di sé. Cominciava a essere stufa di fare solo l'infermiera: aveva allontanato la sua famiglia dalla propria vita, facendo pace con quell'aspetto della sua esistenza.
Ma sarebbe dovuta rimanere zitella e acida per sempre?

Non ne era più tanto sicura.

Ora, però, era il caso di occuparsi della sua paziente e tornare l'efficiente Frannie Hamilton.
"Spero tu sia soddisfatta, Candice".

La cameriera parve approfittare di quel momento per chiedere il permesso di andare via e dileguarsi, assicurando che sarebbe tornata per spazzare via quei capelli da terra quanto prima.

"Ora mi sento più leggera", disse fredda, controllando la sua opera nello specchio.

"Certo, ti senti più leggera e non avrai più problemi di acconciatura. Ma rimane il fatto che hai l'amnesia e anche una discreta forma di agorafobia". La vide accigliarsi e puntualizzò: "Hai paura degli spazi aperti. Ho visto pochi casi come il tuo, ma li so riconoscere abbastanza da dirti che hai bisogno di uno specialista".

"Non seguo i consigli medici di un'infermiera". Calcò su quel termine come se avesse parlato di qualcosa che la disgustava e Frannie non poté sopportarlo.

Fu questo a farle commettere un errore imperdonabile.

"È disprezzo quello che avverto nella tua voce?", chiese urtata.

"E se anche fosse, infermiera?", ribadì pronunciandolo di nuovo come se si riferisse all'immondizia.

"Ti ricordo che è grazie a medici e infermiere che ti sei rimessa in piedi e sei viva e in salute", ribatté con freddezza.

Su viso di Candy si delineò un'espressione di palese ribrezzo: "Odio l'odore di disinfettante degli ospedali, odio le iniezioni e odio i medici e le infermiere che puzzano di ospedale!", esclamò come se fosse una bimbetta capricciosa.

 In Frannie ribollì una rabbia cieca: "Tutto questo suona molto sgradevole e controverso detto da un'ex infe...!", s'interruppe appena in tempo, ma non gliela diede a bere.
Candy si voltò di scatto, con gli occhi spalancati dalla sorpresa: "Cosa hai detto?".

Dannazione.

"Dimenticalo", cercò invano di rimediare, ma ormai il danno era fatto. Le aveva dato un'informazione sul suo passato che non avrebbe dovuto darle.

Tutta colpa di quei dannati capelli!

"Stavi per dire ex... infermiera? Come lo sai? Lavoravamo insieme? O te l'ha detto quel William?", chiese con rabbia malcelata.

"Non ha importanza. Non dovevo dirtelo".

"E non dovevi dirmi neanche degli spazi aperti? Posso andare in biblioteca e cercare un libro che ne parli, se la tua enorme esperienza ti fa pensare questo di me. Non voglio vedere nessun dottore, voglio essere lasciata in pace".

"Il mio compito è fare in modo che tu stia bene e ti ristabilisca completamente. Se questo include avvisare il tuo medico curante di eventuali criticità perché lui possa agire di conseguenza, allora lo farò", rispose impassibile.

Candy si alzò e cominciò a camminare verso di lei. Aveva ancora le forbici in mano: "E cosa gli dirai? Che mi sono tagliata i capelli? Che ho la fobia degli spazi aperti e che voglio sempre dormire? Gli dirai che sono pazza, infermiera Frannie Hamilton?". Ormai era a pochi passi da lei e la mano con le forbici si era alzata impercettibilmente: che diavolo di intenzioni aveva?

Senza aspettare oltre, le afferrò il polso e gliele tolse di mano in un gesto veloce, prima che potesse reagire: "È ora dell'iniezione di vitamine", disse cercando di controllare il panico che per un attimo l'aveva avvolta.

"Non voglio iniezioni!", le urlò contro.

In quel momento, il signor Ardlay entrò nella stanza esclamando: "Che sta succedendo?", chiese e quando vide Candy gli occhi gli si spalancarono a dismisura: "Che diamine hai fatto ai capelli?".

"È troppo chiedervi di bussare prima di entrare qui dentro? E perché mi perseguitate?! Fuori, uscite tutti fuori, lasciatemi in pace!". Quella era una crisi isterica in piena regola e Frannie dichiarò che le avrebbe somministrato un calmante.

Una mano le si posò sul braccio e lei avvertì qualcosa di simile a una scossa elettrica. Incontrò gli occhi dell'uomo e lo vide scuotere la testa: "Lasciamola sola", disse serio.
Frannie cercò velocemente di valutare la situazione: ora che non aveva più le forbici, Candy non sarebbe diventata un pericolo per se stessa. Si era accasciata sul letto piangendo e gridando ancora che voleva stare da sola, che andassero tutti al diavolo.

"Saremo nella stanza accanto se avrai bisogno di qualcosa", disse prima di uscire con il signor Ardlay e chiudere la porta alle loro spalle. Il dolore che gli lesse negli occhi la ferì come non avrebbe mai creduto possibile. La verità era che la sofferenza del signor Ardlay non le era più indifferente da quando lo aveva visto in ospedale. E non dipendeva dal fatto che avesse scoperto la vera identità dell'ex paziente della stanza numero zero di cui le aveva scritto Candy anni prima.

Dio, aiutami a essere forte.
- § -
 
"Posso parlare con la signorina Annie Brighton?", chiese Archie alla cameriera che gli aveva aperto la porta.

La donna lo guardò per un attimo con aria titubante, come se non sapesse bene come comportarsi. Lui sudò freddo, temendo che non lo avrebbe fatto entrare. Poi, dietro alle sue spalle, apparve la madre di Annie: "Fallo entrare, Molly", ordinò con voce ferma.

Archie s'inchinò un poco e la salutò, ringraziandola. Quando la cameriera si fu ritirata, incontrò gli occhi della donna e deglutì, a disagio: non gli piacque affatto lo sguardo freddo che gli stava rivolgendo, gli ricordava troppo quello della sua ex fidanzata.

"Mia figlia non mi ha parlato nel dettaglio dei motivi per cui ha deciso di lasciarti. Ma è stata molto chiara su questo punto: è stata una sua decisione. Tuttavia, non posso non notare il cambiamento che è avvenuto in lei e, anche se non lo dà a vedere, la sua sofferenza non passa inosservata né a me, né a mio marito".
Archie chiuse gli occhi, accusando il colpo di quelle parole come un brivido gelido.

Annie soffre per causa mia.

"Immagino che tu sia qui per tentare di convincerla a sistemare le cose fra voi e voglio darti questa possibilità. Sai che il sogno di ogni genitore è vedere la propria figlia sposata con un buon partito e tu eri quanto di meglio potessimo sperare in questo senso. Ho cercato di convincerla più volte che sarebbe dovuta tornare sui suoi passi, per il bene di tutti e per evitare uno scandalo, ma non è servito a nulla. Una parte di me spera che tu riesca nel tuo intento, ma voglio essere più che sicura che tra voi non esistano più attriti, in futuro. E che tu non le manchi di rispetto in nessun modo".

Ecco dove voleva arrivare: deve essere convinta che io abbia tradito Annie o qualcosa del genere.

"Ho tutta l'intenzione di risolvere il nostro rapporto perché tra noi ci sia l'armonia di un tempo. Amo Annie e voglio sposarla e renderla felice", rispose con decisione fissando intensamente la signora Brighton.

"Bene, è nella sua stanza", concluse con aria stanca. Sembrava che la preoccupazione causata da sua figlia l'avesse prostrata.

Archie salì le scale due a due, fomentato da nuove energie. Voleva spiegarsi e Annie avrebbe dovuto ascoltarlo: non avrebbe lasciato che le cose finissero così. Udì i propri passi risuonare sul pavimento lucido ed ebbe timore che, sentendolo arrivare, lei sarebbe fuggita via.

E da dove, dalla finestra?

Sorprendentemente, quel pensiero gli rievocò Candy ma la sua immagine non era più collegata a quella fitta di nostalgia e sofferenza come in passato. Certo, era preoccupato per lei, ma adesso che la sapeva viva, anche se priva di memoria, cominciava a capire molte cose su quelli che erano sempre stati i propri sentimenti.

E aveva tutta l'intenzione di aprirsi con Annie.

Bussò e attese, trepidante. Quando stava per arrendersi al fatto che lei non lo avrebbe ricevuto, udì la sua voce che lo invitava a entrare: dal tono sembrava urtata.

Quando aprì la porta quel sospetto divenne realtà. Annie era seduta al suo scrittoio e gli dava le spalle. Non si voltò ma gli chiese: "Cosa vuoi, Archie?", con un sospiro spazientito.

"Voglio che tu mi ascolti", esordì senza tanti preamboli. La sfumatura decisa e perentoria che aveva impresso nella frase sortì l'effetto desiderato. La ragazza si voltò e finalmente lo guardò.

"Parla", disse secca, senza neanche invitarlo a sedersi. Archie si chiuse la porta alle spalle e si accomodò lo stesso su una poltrona poco distante.

Tutta la determinazione di Archie crollò di fronte a quello sguardo gelido: poteva a malapena sostenere quello di sua madre, ma quello di Annie gli parve addirittura contro natura. Era cambiata, e molto. E la causa di quel cambiamento era lui. Non poteva dire di non apprezzare alcuni lati del suo nuovo carattere, rifletté ripensando a quel bacio rubato a Lakewood, ma la sua freddezza era qualcosa a cui non si sarebbe mai abituato, né intendeva farlo.

"Io... io...", balbettò.

"Tu cosa, Archie? Ti dispiace? Ti sei pentito? Mi ami al punto da volermi sposare? Sì, ho già sentito questa storia. Se non hai nulla di nuovo da dirmi, però, ti pregherei di lasciarmi stare. Sto scrivendo una lettera molto importante", concluse voltandosi di nuovo e rimettendosi a scrivere.

"Santo Cielo, Annie, così non mi faciliti certo le cose!", protestò scompigliandosi i capelli e alzandosi in piedi.

"E perché dovrei rendertele facili? Dovrei rimanere zitta mentre mi rifili le solite scuse? Perdonami, ma la Annie ingenua che conoscevi non è più disponibile!". E, dicendo questo, aprì il cassetto cominciando a cercare rumorosamente qualcosa.

Di nuovo, Archie rimase a bocca aperta davanti a quella dimostrazione di sicurezza. Era abituato a gestire un'Annie docile e remissiva e aveva davanti una specie di leonessa ferita.

Ma doveva reagire, svegliarsi da quel torpore e aprirle il suo cuore prima che fosse troppo tardi. Mentre si accingeva a parlare, però, si rese conto di sentirsi non meno vulnerabile di Albert quando pensava alla nuova Candy: Annie non aveva perso la memoria e ciò rendeva il suo cambiamento ancora più inquietante, se possibile, perché significava che sarebbe rimasta così per sempre.

"Non voglio perderti per un errore, Annie", esordì senza sapere se fosse l'inizio migliore, "e non continuerò a farti le mie scuse senza prima spiegarti il motivo. E il motivo è che ho sbagliato. Aspetta", le intimò vedendo che si era voltata e aveva aperto la bocca per dire qualcosa, "ti prego, lasciami finire perché se m'interrompi non so se sarò in grado di continuare". Odiò il tremore nel suo tono, l'emozione che vibrava dal più profondo del suo essere. Sperava almeno che ciò le indicasse la sua completa sincerità e il suo trasporto.

"Ho sbagliato a interpretare me stesso, i miei sentimenti. Quello che credevo fosse amore per Candy, in realtà era qualcosa di molto diverso. Era l'illusione di restare giovane e spensierato per sempre, come lei... perlomeno, come era fino a poco tempo fa", aggiunse tristemente abbassando gli occhi. Annie taceva e poté vedere un lampo di tristezza passare anche nei suoi.

Non indugiò oltre e proseguì, stringendo i pugni e non osando sedersi: il suo corpo era un fascio unico di nervi e poteva avvertire l'aspettativa emanata dalla figura di Annie. Ora aveva tutta la sua attenzione.

Bene.

"Tanti anni fa, prima di conoscerti, io, mio fratello e Anthony eravamo come dei cavalier serventi per Candy. Lei è arrivata in casa Lagan senza avere mai un briciolo di affetto da nessuno ma, anzi, subendo angherie e cattiverie di ogni tipo. In quel periodo eravamo l'unica famiglia che avesse e cercavamo di proteggerla. Ma, al di là di lei, io mi sentivo vivo, importante: e sai perché? Perché ero circondato dalle persone che più amavo mentre i miei genitori non c'erano. Supportare Candy era diventata una specie missione per noi, ma la verità è che ci divertivamo e vivevamo nella beata spensieratezza giovanile. Almeno finché Anthony non è morto". Archie dovette interrompersi, sentendo un nodo stringersi in gola.

Annie rimaneva in silenzio, guardandolo con un'espressione più morbida.

"Alla Saint Paul School, poco prima di fidanzarmi con te, stavo per confessare i miei sentimenti a Candy: ora so che sarebbe stato un errore, e non solo perché non mi avrebbe mai amato. Soprattutto, non avrei avuto la possibilità di scoprire quanto fossi importante tu".

Annie prese un respiro tremante, sembrava che stesse cercando con tutte le sue forze di non piangere: "Perché mi racconti tutto questo, Archie?".

"Perché voglio farti capire quanto io abbia travisato quello che provavo per Candy! Quando è arrivata la notizia della sua morte era come se fosse morta quella parte spensierata della mia giovinezza che era stata tanto importante per me. E siccome volevo... voglio bene a mia cugina, mi sono illuso che fosse ancora amore. Non avevo capito. Finché tu non mi hai lasciato. So che sembra un luogo comune, ma è stata proprio la tua lontananza a farmi capire quanto tenessi a te".

Gettandolo nel panico e nella confusione più completa, Annie cominciò a ridere. Non era una risata allegra e lo ferì profondamente: stava ridendo davvero di lui? La fissò, sconvolto.

"Quindi? Ora come finisce la storia? Che io mi getto fra le tue braccia e ti perdono, dicendoti 'oh, mio caro Archie, come sono felice di sentirti dire queste parole! Sposiamoci, amore mio!'. Davvero ti aspettavi questo, Archibald Cornwell?!".

Rimase di sasso. Eppure sapeva che aveva ragione. Si era ben reso conto di quanto fosse maturata, veramente si aspettava una resa così facile?

"No, hai ragione. Hai ragione a essere ferita e arrabbiata. Hai tutto il diritto di odiarmi, a dirla tutta", ammise senza più riuscire a sostenere il suo sguardo.

"Bene, allora vattene". Quello però fu come uno schiaffo in pieno volto.

No, non era così che doveva finire.

"Che cosa?", biascicò facendo un passo verso di lei.

"Ti ho detto di andartene!", gridò lei alzandosi di scatto e rovesciando la sedia con un gran fracasso. Ora le lacrime le scorrevano sulle guance.

Ora o mai più.

"No, non me ne vado", disse cercando di dominare il tremore alle mani e il battito impazzito del proprio cuore.

In due passi fu davanti a lei, poteva sentire il suo profumo e avvertire il suo intero corpo vibrare di rabbia e dolore.

"Perché, perché mi fai questo? Perché non mi lasci in pace?!", strillò prendendolo a pugni sul petto, seppellendo il volto nella sua camicia e poi spingendolo via, come se si fosse pentita di quel contatto.

"Perché ti amo", disse con voce tremula, sentendo gli occhi bruciare per le lacrime represse. Gli si stava spezzando il cuore, non credeva che gli avrebbe fatto così male perdere Annie. Devastato, si lasciò cadere in ginocchio davanti a lei, deciso a prostrarsi ai suoi piedi pur di ottenere il perdono. "Ti amo più di quanto mi sia mai illuso di amare Candy. Ti amo come non ho mai amato nessuna. Sei l'unica donna che sia mai stata davvero nel mio cuore in modo così totale. Senza di te... non ho senso neanche io".

La testa china, le lacrime che lo accecavano, Archie lasciò sgorgare qui sentimenti che scopriva di provare troppo tardi.

Sentì il tocco di Annie sul capo e spalancò gli occhi: alzò il viso su di lei, senza curarsi di nascondere le proprie lacrime e fu lieto di scoprire che sorrideva leggermente.
"Alzati, Archie", gli chiese tendendogli le mani.

Lui si asciugò il viso con un braccio ed eseguì, prendendole tra le sue: "Annie...". Lei gli mise un dito sulle labbra.

"Archie, sai quante volte avrei voluto sentire queste parole da te? Quante volte ho sognato una dichiarazione d'amore così semplice invece di ricevere fiori o eleganti baciamano?".

Deglutì, cominciando a comprendere la portata della sua sofferenza durante tutti quegli anni in cui l'aveva amata secondo l'etichetta e non secondo ciò che avrebbe dovuto dettargli il cuore. Come aveva potuto confessarle di avere il cuore diviso a metà? Non lo era mai stato, neanche per un minuto. Forse all'inizio aveva avuto un po' di confusione, ma successivamente si era trattato sempre di due sentimenti distinti che lui aveva mescolato tra loro.

"Mi perdonerai, Annie?", poté solo chiederle, sconfitto, mentre le carezzava con tenerezza il viso. Avrebbe voluto baciarla, anelava il contatto con le sue labbra, ma si trattenne.

Lei sospirò, scostandosi un poco da lui: "Non posso dimenticare tutto da un momento all'altro, Archie. Non posso negare che queste tue parole mi abbiano destabilizzata, ma non posso nemmeno dimenticare la lacerazione che è avvenuta definitivamente in me quando hai confermato i miei sospetti".

"Ma non era vero, te l'ho appena detto!", protestò lui allargando le braccia.

"Ma io non sono una bambola che va a comando, Archie!", rispose con ira. "Ho sentimenti, emozioni e non dimentico come se niente fosse. Possiamo restare amici, possiamo condividere le notizie di Candy e vederci ogni tanto, ma nulla sarà come prima".

Archie sentì la disperazione afferrargli la gola e togliergli il respiro: "Vuol dire... che non torneremo più insieme?", domandò cerando di ricacciare indietro le lacrime.

"Ti prego, Archie, non lo so! Non so niente, lasciami... lasciami ritrovare me stessa e poi potrai chiedermi di trovare noi. Se c'è una lezione che ho imparato da tutto questo è che devo valorizzare di più i miei desideri, a partire da cosa voglio diventare nella vita".

Annie si asciugò gli occhi e gli indicò la lettera: "Voglio studiare al conservatorio, fare qualcosa che amo ed essere egoista. Non appena la situazione di Candy sarà più stabile e definita chiederò a mia madre di spedire questa richiesta".

Archie sospirò, rassegnato: "Allora tanto vale che io rientri all'università quando Albert tornerà a lavorare a pieno regime. Magari stare separati ci farà bene. No, non è corretto: a me farà male, ma aiuterà te a riprendere in mano la tua vita. Io ti aspetterò".

Senza darle tempo di reagire, la prese fra le braccia e la baciò. Il suo primo bacio dato a lei, se escludeva quello che gli aveva rubato a Lakewood. Fu gentile, rispettoso, ma vi impresse tutto l'amore di cui fu capace.

Come temeva, lei lo schiaffeggiò.

"Bene, direi che non abbiamo più nulla da dirci, a questo punto", disse voltandosi per nascondergli quanto fosse arrossita. Archie sorrise: nonostante lo schiaffo, era certo che non le fosse dispiaciuto troppo.

"A presto, Annie", la salutò uscendo dalla stanza e sentendosi un po' più speranzoso.

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Capitolo 30
*** Reminiscenze ***


"Ora chiudi gli occhi, Candice, e dimmi che immagini ti vengono in mente".

Frannie guardò la ragazza eseguire la richiesta dello psichiatra aggrottando le sopracciglia come se si stesse concentrando oppure come se non fosse d'accordo. Teneva pronta una siringa con un calmante, casomai ce ne fosse stato bisogno ma, mentre l'uomo le parlava, la mente volò suo malgrado all'ultima conversazione avuta con il signor William Ardlay.

"Mi dispiace, è stata colpa mia se Candy ha perso il controllo", gli aveva detto riferendosi al suo velato accenno al fatto che fosse stata infermiera.

"No, ha perso il controllo quando la cameriera le ha riferito che portava i capelli legati. Me lo ha raccontato", aveva risposto lui piantandole negli occhi quello sguardo azzurro che le mozzava il fiato.

Non era riuscita a sostenerlo, era persino arrossita, dannazione! Lei, Frannie Hamilton, aveva le classiche farfalle nello stomaco ogni volta che quell'uomo posava su di lei quelle pozze d'acqua cristallina.

Anche mentre ci ripensava, accidenti!

Avevano parlato per un po' e lei cercò, ancora una volta, di ricordare se avesse per caso fatto o detto qualcosa che potesse palesare la sua fragilità al padrone di casa. Sperava che la proverbiale freddezza da infermiera l'avesse aiutata a costruire una facciata sufficientemente credibile per non mostrargli che le sembrava di sciogliersi a ogni istante.

"Odio i cavalli, non voglio parlare di cavalli!". La voce cantilenante e acuta di Candy la riportò alla realtà.

Il dottor Carter le scoccò un'occhiata di avvertimento e lei prese in mano la fiala, pronta ad aprirla e a risucchiarne il liquido con l'ago a un suo cenno. Doveva rimanere presente e smetterla di comportarsi come una ragazzina in piena crisi ormonale.

"Perché li odi, Candice?". La voce del medico era come una carezza vellutata, ma il corpo e la postura di lei tradivano un nervosismo evidente. Ormai era chiaro come il sole che i cavalli erano il nocciolo di tutta la questione.

"La volpe... c'è una volpe. No, no...", piagnucolò come se fosse regredita di un paio di decenni.

"Va tutto bene, Candice, cosa fa la volpe? Ti attacca?", il tono continuava a essere pacato ma Frannie vi colse la determinazione di chi sa che si sta avvicinando al fulcro del problema.

"A... AHHHHHHH!", Candy cominciò a gridare sempre più forte, calcando su quella vocale e lo psichiatra si affrettò a risvegliarla, cominciando a contare a ritroso. Frannie strinse la siringa tra le mani, chiedendosi quale oscuro trauma si potesse nascondere nell'allegra e spensierata collega che lei a malapena aveva sopportato fino a qualche anno prima.

Una volta svegliata dall'ipnosi, Candy cominciò ad ansimare come se le mancasse il fiato. Con gesti veloci e sapienti, Frannie riempì la siringa e la inserì nel suo braccio. Mentre si addormentava lentamente e il respiro tornava regolare, la udì sussurrare un nome.

Frannie sbatté le palpebre, insicura se si trattasse della propria immaginazione.

"L'ha sentita anche lei, vero?", le domandò di riflesso il dottor Carter.

Annuì: "Pensa che possa essere collegato alla sua condizione?".

L'uomo inclinò la testa, pensieroso: "Potrebbe, ma ho bisogno di approfondire le cose. Dovrò anche parlare con il mio collega per capire se possiamo darle altre dosi di tranquillante a ogni seduta, non vorrei che il suo fisico debilitato possa risentirne".

"La paziente ha ripreso peso e, a parte la condizione psicologica, presenta normali livelli ematici dalle ultime analisi effettuate", osservò Frannie.

"Sì, ma questi farmaci, come ben sa, possono dare... dipendenza. E Dio solo sa se le condizioni della signorina Ardlay non la mettono a rischio, in questo senso. Si rifiuta di uscire e dorme per molte ore anche durante il giorno: continuando così potrebbe persino favorire un nuovo coma".

L'infermiera trattenne il fiato a quelle parole e un leggero brivido le percorse la schiena: "Capisco", disse gettando via la siringa e i resti della fialetta nel cestino del bagno.

"Resti con lei, signorina Hamilton, vado a parlare con il signor Ardlay. Sono certo che lo troverò preoccupato fuori dalla porta, dopo averla sentita gridare".

Lei non poté trattenere un sorriso triste: "Ne sono certa anch'io".
 
- § -
 
Luke Robinson passava lo sguardo dalle casse di materiali a quelle con le bottiglie, che aveva appena aperto, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata. Il respiro accelerò, facendogli inalare la nebbia serale di Londra.

Cos'è, uno scherzo?

"Ehi, Robinson! Che ci facciamo con questo carico? Lo lasciamo in mezzo alla strada?", gli gridò uno dei facchini indicando le due grosse casse incriminate.
Lui si voltò a guardarlo con la bocca ancora aperta: "No, aspetta, qualcosa non torna: non c'è la bolla con la specifica dei materiali e...

E in queste due casse c'è così tanto whisky che basterebbe per tre squadre di operai.

"Louis! Louis, dove diavolo sei quando c'è bisogno di te?", chiamò trafelato.

Non voleva neanche guardarle quelle casse di merce, perché dentro c'era qualcosa che avrebbe potuto scoppiargli tra le mani come una bomba. E non erano fuochi di artificio. William Ardlay, o chi per lui, doveva essersi bevuto il cervello.

In senso letterale.

Perché almeno il materiale da costruzione e le attrezzature erano compatibili con quelle che riceveva di solito. E anche il whisky, se non fosse stato per la quantità spropositata e il momento sbagliato per inviarlo.

Chi diavolo è la Whisky and Wine Company?

Mentre prendeva fiato per chiamare il capomastro del cantiere, avvertendo chiaramente l'umidità permeargli la gola come una mano gelida, vide una figura farsi avanti. Il respiro gli si mozzò e al gelo seguirono i brividi.

Siamo fottuti, dannatamente fottuti. E non so neanche perché.

"Polizia di Scotland Yard", si presentò l'uomo con un lungo impermeabile nero. In altri tempi, Robinson gli avrebbe chiesto se per caso non fosse imparentato con Sherlock Holmes, perché sia il cappello che la pipa glielo ricordavano in modo impressionante.

Lui almeno era un personaggio di fantasia. Quello no, quello era un poliziotto vero.

Dio, dammi la forza.

"Io... io...", il dono della parola svanì improvvisamente, facendolo apparire di sicuro ancora più colpevole di quanto non fosse. Ossia per niente.

"Abbiamo ricevuto una segnalazione da Chicago. Pare che si stia verificando uno scambio di merci illegali, ai sensi della legge Volstead, che viola il 18° emendamento, tra la Whisky and Wine Company di proprietà della Ardlay Company e la vostra ditta edile".

Oh, Signore...

"Noi riceviamo solo materiali da costruzione dall'America! C'è un accordo scritto! Gli allegati al contratto...", balbettò senza rendersi più neanche conto che uno di quei maledetti allegati mancava e tra le mani stringeva solo una bolla con un timbro.

L'uomo gliela strappò via senza troppe cerimonie: "Permette?", disse dopo, cominciando a leggere mentre tirava una generosa boccata dalla pipa.

Robinson chiuse gli occhi: metà della sua mente pregava, l'altra metà stava bestemmiando in inglese e in scozzese. Se solo ci fosse rimasto, in Scozia...
Louis scelse proprio quel momento per comparire: "Ehi, che succede qui? Buonasera, agente", esordì col suo tono più amichevole.

"Succede che siamo nella merda fino al collo", gli mormorò a denti stretti mentre il poliziotto alzava due occhi torvi su di loro.

"Aprite quelle casse", ordinò indicandole con la sua dannata pipa. "Nessuno si muova da qui. Credo che vi servirà un avvocato, signori. E non solo a voi".
 
- § -
 
"Perché cavolo mi stai seguendo?", domandò Terence, sapendo già la risposta.

Karen si fermò e i suoi passi nervosi smisero di riecheggiare per la via: "Voglio essere certa che tu non faccia sciocchezze, specie dopo aver firmato quel contratto".

"Non le farò. Ora vattene", le intimò desiderando che non gli desse retta. Ormai era diventato come una sorta di gioco tra loro due. Terence si stava abituando lentamente a vivere con le sue sole forze, imponendosi di fare scelte che lo tenessero occupato ma non era ancora pronto a fare a meno di Karen.

Continuava a mal sopportare il bisogno che aveva di appoggiarsi a una donna, lui, Terence Graham, soprattutto considerando che il loro era un rapporto del tutto platonico.
"Vuoi davvero che me ne vada? Va bene", disse lei con disinvoltura e, in un momento di orrore, udì i suoi passi allontanarsi. Si voltò, seguendola con lo sguardo mentre la notte la inghiottiva, boccheggiando come un pesce cui abbiano appena tolto l'amo dalla bocca.

Non era forse quello che voleva?

Entro pochi giorni non l'avrebbe più rivista, perché il tour si avvicinava al termine e lui avrebbe avuto appena il tempo di fare i bagagli per cominciare le riprese del film.
"Addio Karen", disse alla strada buia mentre una sensazione di panico gli torceva lo stomaco. Continuò a guardarle la schiena, ignaro di ciò che stesse provando: piangeva? Rideva? Provava indifferenza? Certo, la sera dopo l'avrebbe rivista, ma...

Che diavolo succedeva? Perché non svoltava l'angolo e, anzi, indietreggiava?

Lanciando un'imprecazione ad alta voce, Terence cominciò a correre fino a raggiungerla, proprio nel momento in cui un uomo le metteva un panno davanti alla bocca e altri quattro la attorniavano con tutta l'intenzione di portarla nel vicolo.

Stavo davvero lasciando che se ne tornasse in albergo da sola? A quest'ora?!

Senza pensare alle conseguenze, caricò un pugno in direzione del tipo che le teneva il panno sul viso, a malapena consapevole dei lamenti sempre più flebili della donna.
Le conseguenze arrivarono e furono dolorose e peggiori di come le avesse immaginate.

Mentre cercava, da solo, di difendersi da cinque energumeni schivando pugni, allungando calci e tentando disperatamente di non svenire sotto i colpi ricevuti, Terence pensò ad Albert.

Lui se la sarebbe di certo cavata molto meglio di me, fu il suo ultimo pensiero prima di perdere la battaglia con la lucidità. In lontananza, gli parve di udire un urlo.
 
- § -
 
"Chi è Anthony?", gli aveva chiesto il dottor Carter nel suo studio solo un'ora prima.

Il sangue gli si era gelato nelle vene, ma aveva risposto: "Era mio nipote. È morto alcuni anni fa, aveva appena quindici anni".

Il medico aveva chiuso gli occhi, annuendo lievemente e aggrottando le sopracciglia come se stesse facendo un ragionamento: "Devo chiederle scusa, signor Ardlay, ma avrei bisogno di sapere in quali circostanze ha perso la vita il ragazzo".

Albert si era alzato dalla sedia, perché non sopportava di rimanere fermo: un senso d'inquietudine lo aveva colto senza che lui potesse farci nulla. Il ricordo di Anthony gli avrebbe fatto sempre male, anche se fossero passati cento anni: "Stava partecipando a una caccia alla volpe. Il cavallo si è imbizzarrito quando ha visto l'animale, poi ha messo la zampa in una tagliola e... lui è caduto, morendo sul colpo".

Non l'aveva mai raccontato nel dettaglio ad alta voce e farlo lo aveva scosso nel profondo.

"Mi perdoni, vedo chiaramente quanto parlarne sia doloroso per lei, ma mi dica un'ultima cosa: la signorina Candy era forse presente al momento dell'incidente?".

L'espressione del medico sembrava quella di un uomo che avesse finalmente avuto conferma delle sue intuizioni: "Sì, era lì. Mi sta dicendo che la ritrosia di Candy nel recuperare i ricordi deriva da quell'incidente?".

"Lo sospetto fortemente. Mi ha parlato di quanto odiasse i cavalli, di una volpe e quando era già sveglia ha mormorato il nome di Anthony".

Albert aveva chiuso gli occhi.

"Sono sempre la causa della tua infelicità, non è vero, Candy?", bisbigliò mentre le carezzava i capelli corti, guardandola dormire. Pensava di essersi lasciato alle spalle il senso di colpa per aver organizzato quella dannata battuta di caccia, quando era tornato a Lakewood con lei e avevano visitato il luogo maledetto in cui suo nipote aveva perso la vita. Ma ora, quello stesso senso di colpa tornò a pugnalarlo in pieno petto.

Come lo aveva pugnalato il grido che lo aveva fatto correre alla sua porta, prima che lo psichiatra lo intercettasse e gli chiedesse di parlare.
Come lo aveva pugnalato il volto serenamente addormentato di Candy, quando era entrato nella sua stanza di nascosto, come un ladro, e lo aveva visto così simile, nel sonno, a quello che aveva amato e conosciuto.

Ancora non gli era chiaro come la sua presenza le fosse così sgradita, che relazione ci fosse tra lui e il suo presunto trauma legato alla morte di Anthony. Lo stesso dottor Carter aveva promesso che avrebbe approfondito la questione, ma con tutta la delicatezza che sarebbe stata necessaria per non sconvolgere la paziente.

"Cosa devo fare io, nel frattempo? Continuare a nascondermi da te, mia dolce Candy?". Se la sua lontananza fosse stata indispensabile al suo recupero, ebbene, l'avrebbe osservata senza essere visto, rimanendo nell'ombra, come faceva da una vita. Sarebbe stato devastante, ora che si erano avvicinati tanto, ma avrebbe persino rinunciato a lei per il suo bene. Lo aveva già fatto in passato, quando pensava fosse ancora innamorata di Terence e l'aveva guidata da lui inviandole un pacco da Rockstown.

Perché l'amava al di sopra di ogni cosa, anche della propria felicità.

Candy si mosse nel sonno proprio mentre lui stava uscendo dalla stanza e si voltò per un attimo a guardarla.
"Anthony... Al... Albe...".

Il cuore accelerò rimbombandogli nel petto, nelle orecchie, lo sentì pulsare in ogni vena del proprio corpo. Stava per dire il suo nome, dopo aver nominato Anthony?
Mentre rimaneva lì, congelato nell'atto di aprire la porta, Candy scattò a sedere con un grido e si prese la testa fra le mani. Poi si portò una mano alla bocca, scossa da conati sempre più forti e, come se non l'avesse neanche visto, scese dal letto inciampando e corse goffamente verso il bagno.

Era successo tutto così velocemente che Albert restò fermo per un attimo a riflettere su come dovesse comportarsi, prima che il suo istinto di protezione avesse il sopravvento e lo guidasse da Candy.

Dove lo aveva sempre guidato, anche quando non aveva un'idea precisa di dove fosse ma riuscisse sempre a incontrarla.

Quel filo invisibile che ci unisce...

Così era stato alla fine di quella cascata, molti anni prima. Così era stato per le vie di Londra, quando sapeva che si trovava alla Saint Paul School ma non immaginava minimamente che si trovasse per strada di notte.

E così fu ora, mentre lei se ne stava scompostamente inginocchiata sulle piastrelle del bagno con la testa immersa nel water, il corpo che aveva tanto desiderato scosso da singulti strozzati e rauchi.

Anche io ho provato una forte nausea quando ho recuperato la memoria. Cosa hai sognato, Candy?

Con un gesto lento e timoroso, le mise una mano sulla fronte, sostenendola: "Che diavolo vuo....", riuscì a dire prima che la testa le scattasse di nuovo in basso per la forza di un conato.

"Ti sto solo aiutando. La tua infermiera dorme". La sua debole spiegazione non la intenerì, anzi, la fece infuriare di più.

"E che ci facevi qui? Volevi approfittarti di me...", altro conato, altro scatto del corpo che lui sostenne fermamente con le braccia.

"Ti ho già detto che non devi temere nulla da me. Ero qui perché ero preoccupato, so che non lo apprezzi, mi dispiace".

Lei non riuscì a rispondergli per lunghi istanti, troppo presa dal suo malessere. Quando finalmente sembrò non avere più nulla da rigettare, però, lo spinse via con il braccio. Lottando contro il desiderio di aiutarla ad alzarsi, la vide tirarsi in piedi appoggiandosi al muro, far scorrere l'acqua del water e aprire il rubinetto del lavandino per lavarsi la faccia.

La osservò in silenzio, sapendo che si sarebbe infuriata, ma incapace di lasciarla sola. Candy si girò verso di lui e Albert si ritrovò con la bocca secca: la camicia da notte si era bagnata mentre si rinfrescava e le stava appiccicata in alcuni punti del torace, mettendo in evidenza il seno piccolo ma ben formato.

Distolse lo sguardo, a disagio, maledicendosi in silenzio.

"Tra quello che dice e come si comporta non c'è corrispondenza, lo sa, signor zio William?", lo canzonò avvicinandosi e tornando a dargli del lei.

Albert si ritrovò a indietreggiare.

Chi è questa sconosciuta con il viso di Candy? Neanche lo sguardo è più il suo.

"Credo che sia ora che tu torni a letto", dichiarò con voce ferma.

"Le piacerebbe accompagnarmi, William?", disse in tono sensuale attaccando il corpo al suo, prendendogli il volto tra le mani e baciandolo con una velocità che gli impedì di reagire per tempo.

Tutti quei gesti repentini gli fecero girare la testa e, per un attimo, Albert si vide mentre le strappava di dosso quella camicia da notte e la faceva sua contro lo stipite del bagno. Gli ci volle una quantità eccezionale di autocontrollo per staccarla dolcemente da sé e guardarla persino con una dose di rimprovero.

La desiderava come un disperato, ma non era così che doveva essere. Assolutamente. Non mentre lei era senza memoria e stava facendo chissà quale dispetto a lui o a se stessa.

"Questo non è da ragazza perbene, Candice", le disse trattandola come una bambina. Sperava che questo la scuotesse, invece lei cominciò a ridacchiare.

"Oh, scusami, paparino!", disse facendolo rabbrividire e raffreddando all'istante ogni desiderio carnale. Ancora una volta, si chiese chi diamine fosse quella donna. "Stai a vedere che devo fidarmi di te per davvero! Eppure mi sembrava che non ti dispiacesse la mia vicinanza... o forse sì. Magari hai altri gusti", gettò la testa indietro e la sua risata gli ferì le orecchie. Dovette combattere contro se stesso per non tapparsele con le mani.

Candy era davvero morta. Quella davanti a lui era una donna glaciale, rancorosa e irriverente.

"Ti lascio sola, Candice. Buonanotte", poté solo ribattere. Non sapeva come affrontare la sconosciuta in quel bagno.

"Sì, fammi dormire. È tutto quello che voglio. Dormire e non svegliarmi più". Non fu solo il suo tono triste a colpirlo e a farlo tornare sui suoi passi. Fu la determinazione che aveva udito.

Potrebbe tornare in coma, se si ostina a voler dormire tanto e non sono certo che a quel punto si sveglierà di nuovo. Potrebbe lasciarsi morire.

Le parole del dottor Carter gli martellarono il cervello. Albert strinse i pugni e, mentre faceva un passo verso di lei, disse a denti stretti: "Non voglio sentire certi discorsi, Candy. Non voglio che tu muoia". Aveva anche sbagliato il nome e lei ora sembrava furiosa, dannazione!

"Devo chiedere il permesso per morire? Odi tanto quella parola? Non vuoi vedermi morire?! E perché, di grazia?". Il suo tono si stava alzando pericolosamente e i nervi di Albert cominciavano a entrare in risonanza con quelli di lei.

Male, molto male.

"Ho visto morire troppe persone a me care, nella mia vita. Non lascerò che muoia anche tu", le rispose odiando la vibrazione nella sua voce. Rabbia, dolore, impotenza: tutto gli ribollì nel sangue come un veleno.

"E io ti ripeto che voglio morire!", gridò Candy artigliandosi i capelli. "Morire, morire morire!".

Lo schiaffo partì senza che lui se ne rendesse conto. La mano impattò contro la guancia di Candy con una forza che Albert riuscì a controllare solo all'ultimo momento. La litania di lei smise all'istante e con essa defluì anche la marea in tempesta che lo stava sommergendo: a breve, avrebbe avuto bisogno anche lui di uno psichiatra.

"Che diamine succede?", la voce di Frannie fu sufficiente a fargli riprendere una parvenza di controllo.

"Mi spiace, Candice, finché sarai sotto al mio stesso tetto avrò cura che tu stia bene e non parli più di morire. Spero che le cure che stai ricevendo ti aiutino a stare presto meglio. Sono spiacente di averti colpita, ti giuro che non entrerò mai più nella tua stanza. Per favore, infermiera Hamilton, si prenda cura di lei: ha dato di stomaco e credo sia un po' agitata", terminò uscendo senza neanche guardarla.

Ancora scosso per tutte le emozioni violente che Candy aveva suscitato in lui, Albert si diresse a grandi passi nel corridoio e si sentì libero di respirare normalmente solo quando si fu chiuso nella sua camera. Si appoggiò alla porta e si coprì il viso con le mani che gli tremavano.

Quante lacrime dovrò ancora versare per te, Candy? Quanto dolore, prima di riaverti? Quanto tempo prima di arrendermi al destino che non mi vuole al tuo fianco?

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Capitolo 31
*** Vincoli ***


“Se pur sia bello l'amore che è implorato, assai più bello è quell'amore che si concede di propria volontà.”
WILLIAM SHAKESPEARE
 

"Fai piano, per favore, potrebbe rimanermi il segno!", protestò Terence mentre Karen gli premeva un batuffolo d'ovatta sullo zigomo. In realtà quella roba bruciava da morire, ma preferiva non ammetterlo.

"Non fare il bambino, Amleto, o ti porto in ospedale a farti medicare da una vera infermiera!", esclamò la ragazza. Subito dopo ammutolì, cambiando la sua espressione in una più vulnerabile che gli fece quasi tenerezza.

Temeva di certo che parlare di infermiere gli facesse tornare in mente Candy. In effetti fu proprio quello che accadde ma Terence si accorse, con non poca sorpresa, che il ricordo di lei non lo lacerava più in due come prima. Non voleva dirlo ad alta voce, né pensarlo, però col passare dei giorni il dolore sembrava affievolirsi, anche se con inesorabile lentezza.

"Tu come ti senti?", le chiese costringendola a scuotersi. L'effetto del cloroformio era durato solo qualche minuto ma non sapeva quanto ne avesse inalato.

"Come se mi fossi svegliata da un sonnellino pomeridiano. A un certo punto ho trattenuto il respiro", disse mentre riprendeva a disinfettargli la faccia.

Però, mica stupida la ragazza.

Lui sussultò un poco, poi tentò di rilassarsi: "Forse saresti dovuta andare almeno tu in ospedale, sai?", la rimproverò.

Karen si scostò da lui per guardarlo: "Ha parlato quello che potrebbe avere una costola rotta o qualche lesione interna! Sai cosa sarebbe successo se non fossero arrivati quegli agenti, mister 'difendo le donzelle da cinque uomini'?!".

Terence sbuffò: era vero, non era voluto andare in ospedale perché se l'avessero riconosciuto avrebbe attirato tanti di quei giornalisti che Robert lo avrebbe finito di conciare per le feste e magari, come ciliegina sulla torta, gli avrebbero tolto la parte nel film sostenendo che se ne andava in giro a fare a cazzotti.

"Guarda che se l'ho fatto...". Si bloccò, incredulo, vedendo la stoica Karen asciugarsi gli occhi come una bambina. "Perché piangi, ora? Ti senti male?".

"No, stupido! Sono preoccupata per te! Potevano ucciderti, lo sai?", gli gridò piangendo apertamente, grosse lacrime le scendevano sulle guance.

Lui rimase basito: pensava che fosse arrabbiata per quello che era accaduto, non preoccupata per lui. Il suo sguardo si ammorbidì mentre le metteva una mano sul viso con un gesto tenero che non riconobbe come proprio: "Ehi, calmati ora. Sto bene e sono sicuro di non avere niente di rotto. Non è la prima volta che mi capita di fare a pugni".

Ma c'è qualcuno che se la sarebbe cavata molto meglio di me e che mi ha salvato la pelle, una volta. 

Lei fece una cosa che lo destabilizzò ancora: gli si gettò fra le braccia, singhiozzando e stringendolo, urlandogli che era stato uno stupido, che non doveva farlo più. Che sarebbe morta se gli fosse successo qualcosa. Poi cominciò a dargli dei leggeri pugni sul petto, facendolo trasalire.

Il gemito di dolore che gli sfuggì sembrò riportarla alla realtà, perché si staccò da lui e lo guardò con gli occhi spalancati. Grandi occhi scuri brillanti di lacrime.

Non mi ero mai accorto che fosse così bella. O forse sì?

"Scusami, non volevo farti male. Togliti la camicia, così controllo se sei ferito", disse mentre già gli slacciava i bottoni.

Terence le bloccò i polsi e la fissò per un istante, colto dal desiderio improvviso di baciarla. Che fosse dannato, neanche aveva finito di pensarlo che già le sue labbra premevano contro quelle di lei: erano fresche e morbide.

Quello che accadde dopo gli riportò alla mente una scena già accaduta.

Karen lo schiaffeggiò.

Le mie fans farebbero carte false per un bacio e le uniche due donne che ho baciato io mi schiaffeggiano. Sono proprio fortunato, non c'è che dire...

"Messaggio ricevuto, devo smetterla di rubare baci non richiesti", disse ad alta voce come rispondendosi da solo.

Ma Karen non abbassò lo sguardo e, come Candy, anche lei era furiosa: "Dimmi perché l'hai fatto", gli chiese imperativa.

Lui alzò le spalle: "Perché ne avevo voglia", rispose senza pensarci troppo. "Potrei chiederti anche io perché qualche sera fa stessi per cadere ai miei piedi".

Un altro schiaffo, più forte.

"Eh, no, ora basta!", protestò prendendole di nuovo i polsi e fissandola negli occhi. "Non pensi che per questa sera mi abbiano picchiato abbastanza?".

Vide il petto di lei alzarsi e abbassarsi come se fosse in affanno, poi la tensione che sentiva nelle sue braccia diminuì e allentò la presa. Forse avrebbe fatto meglio a non farlo. Karen approfittò di quel momento per affondargli le mani nei capelli e baciarlo a sua volta.

Ora dovrei schiaffeggiarla io?

I suoi pensieri erano confusi, ma non gli impedirono di ricambiarla. Spense la parte del cervello dedicata alla ragione e si godette le labbra morbide di Karen, rabbrividendo al contatto con la sua lingua, cominciando a chiuderle le mani attorno la schiena. Ma lei scelse quel momento per staccarsi da lui, lasciandolo con uno spiacevole senso di vuoto: "Io invece l'ho fatto perché ti amo, Terence Graham, ti amo da così tanto tempo che non ricordo nemmeno quando ho iniziato".

Terence si sentì diviso in due: da una parte l'uomo, che da troppo tempo non teneva una donna fra le braccia, dall'altro il bravo ragazzo con il cuore ancora confuso. Le ferite e i lividi sul viso gli facevano male e se non gli fossero guarite entro pochi giorni non sarebbe bastato un barattolo di cerone a coprirli. Aveva le costole doloranti e lo stomaco gli bruciava, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era che voleva di nuovo le labbra di Karen.

E non solo.

Le accarezzò il viso e lei chiuse gli occhi: "Sei così bella", mormorò ammirato. Era sincero.

"Non è esattamente quello che avrei voluto sentirmi dire", ribatté con un sospiro tremulo.

"Lo so", le rispose. E in quelle due parole riassunse tutto ciò che avrebbe voluto dirle ma che non aveva il coraggio di esprimere.

Lo so, perdonami, per ora non posso darti più di questo. Ti meriti molto di più. Sei una cara amica.

Come attratti da una forza invisibile, si avvicinarono ancora nello stesso momento e ripresero da dove avevano interrotto. Il bacio continuò mentre Karen gli sbottonava la camicia e lui vagava con le mani sulla sua schiena in gesti frenetici, cercando i bottoni e non trovandoli.

Sentì le dita di Karen sul torace e rabbrividì: "Ti fa male qui?", gli chiese sulle labbra.

"Solo un po'", ansimò lui di rimando, "dove diavolo sono i tuoi bottoni?".

Lei ridacchiò, poi si scostò per cominciare a sbottonarsi da sola il vestito a partire dalla scollatura. Bottoni anteriori, quella gli mancava.

Pose una mano sulle sue, fermandola ma desiderando solo che continuasse: "Sei sicura, Karen?", le domandò prima che fosse tragicamente troppo tardi.

Di nuovo, piantò lo sguardo fiero nei suoi occhi: "No, e so che me ne pentirò perché poi non potrò più fare a meno di te. Ma almeno avrò un ricordo indelebile".

Terence si accigliò: "Karen, non credo sia giusto...".

Lei lo zittì con un bacio, poi con un altro e un altro ancora: "No, hai ragione. Sono solo una stupida romantica senza speranza".

"E io mi sto approfittando di te", ribatté lui continuando l'opera che lei aveva appena cominciato.

"Io invece credo che sia il contrario", rise Karen aiutandolo e portandogli le mani là, dove bramava di arrivare già da qualche minuto.

"Keren", sospirò abbassando le labbra su ciò lei gli offriva senza apparenti remore, "sei così bella", ripeté non potendoselo impedire. Gli sembrava che, non potendole dire quel 'ti amo' che lei desiderava, dovesse perlomeno farle capire quanto la considerasse attraente.

Non è solo quello. C'è qualcosa di più, qualcosa che...

Lentamente, la fece stendere sotto di sé, allontanandosi per poterle immergere le mani nei capelli. Non credeva che l'avrebbe mai pensato, ma quei capelli corvini gli piacevano da impazzire.

Vicino al punto di non ritorno, mentre i sospiri diventavano gemiti, Terence decise di aprirle il suo cuore: "Se non ci fossi stata tu accanto a me, non so che fine avrei fatto, Karen", le soffiò in un orecchio.

Il sorriso con cui lei lo ripagò per quelle parole fece cadere ogni barriera residua.
 
- § -
 
Era caduto dalla sedia che Candy gli aveva tolto all'ultimo momento da sotto le gambe per aiutarlo a recuperare la memoria, e adesso gli faceva male tutto: le natiche, la schiena, la testa e persino le spalle.

Che metodo assurdo per ricreare un trauma!

La sua mente annebbiata udiva ancora il colpo della sedia che cadeva e del suo corpo che impattava sul pavimento freddo, in un'eco che non si spegneva.

Io la memoria l'ho recuperata: è Candy che dovrebbe subire uno shock per riavere i suoi ricordi.

Già, uno shock. Qualcosa come un incubo o un bacio dato con forza, con fervore. O uno schiaffo, ad esempio.

Lo sento, sento ancora il rumore dello schiaffo, accidenti a me, è come un martello pneumatico nel mio cervello! Ma no, uno schiaffo non fa questo rumore.

La sera prima non aveva bevuto, ma era rimasto per lunghe ore steso sul letto senza riuscire a prendere sonno, invaso dai sensi di colpa e dal dolore. Allora si era recato nel suo studio, dove aveva occupato la mente col lavoro, preparandosi tutte le pratiche da rivedere con Archie il giorno dopo.

Era crollato sulla scrivania quando stava per albeggiare, colto dallo sfinimento e da un sonno agitato zeppo di sogni confusi.

Si alzò dal pavimento sul quale era caduto, rendendosi improvvisamente conto che i colpi provenivano dalla porta e ora sentiva anche la voce agitata di George che lo chiamava. Aprì la bocca per dirgli di entrare, riuscendo a malapena a stare in piedi a causa delle contratture che lo affliggevano per aver dormito in una posizione assurda, quando l'uomo aprì la porta.

Alle sue spalle c'erano delle persone che lui mise a fuoco a fatica. In quel momento aveva lo stesso desiderio ardente di Candy di dormire, ma per motivi diversi: si sentiva distrutto nel corpo e nello spirito.

"Signorino William, questi poliziotti sono venuti qui per lei e per il signorino Cornwell", disse George facendo strada alle persone appena nominate con una chiara nota di panico nella voce. Aveva persino un fazzoletto in mano e si stava tamponando il sudore dalla fronte.

Albert inciampò nei propri piedi e dovette sostenersi alla scrivania per non cadere. Imprecò tra i denti e Archie scelse quel momento per parlare con tono concitato: "Albert, diglielo tu che non c'entriamo nulla con quel carico!".

Lui si portò una mano alla testa che pulsava come un dente cariato che stia per marcire: "Quale carico, che succede, George? Signori?", passò lo sguardo sui presenti, odiando il fatto di farsi vedere in quelle condizioni. Come minimo aveva le occhiaie, i capelli spettinati e doveva sembrare un vecchio zoppo con la gobba.

"Signori Ardlay e Cornwell, vi preghiamo di seguirci senza fare tante storie".

Albert guardò Archie senza capire: "Di cosa esattamente ci state accusando?", chiese con circospezione.

"Detenzione e commercio illegale di alcool. Avete il diritto di rimanere in silenzio. Potrete consultare i vostri avvocati una volta arrivati in Centrale". L'uomo continuava a recitare i loro diritti, mentre Archie protestava a gran voce e lui riusciva solo a pensare a Candy nell'altra stanza, che sarebbe rimasta sola nella villa con la zia Elroy e i servitori.

Sto ancora sognando? In tal caso, questo è uno degli incubi più vividi che abbia mai fatto...

"Lei permette, vero?", interruppe i suoi pensieri il poliziotto.

Albert guardò le manette, provando un misto d'indignazione e di vergogna: "È proprio necessario?", chiese con durezza.

"Credo proprio di sì". Lanciò un'occhiata a George e tra loro passò una conversazione muta.

Prenditi cura di Candy.

Lo farò.

Non preoccuparti per me, pensa a lei.

Non mancherò.

"Chi?! Chi vi ha detto una stupidaggine simile? Quei liquori sono una reliquia di famiglia, non li abbiamo mai commercializzati!". Archie stava quasi gridando.

"Quali liquori?", domandò al nipote, mentre anche lui veniva ammanettato.

"Hanno fatto irruzione nella cantina di Lakewood, hanno presentato un mandato di perquisizione a uno dei servitori... e sono entrati. Dicono che ne manca una quantità enorme che è arrivata a Londra", spiegò il ragazzo mentre uno degli agenti gli intimava di tacere e di parlare solo se interrogato.

Albert cercò di fare mente locale, ancora estremamente confuso da quella catena assurda di eventi: a Londra c'erano alcune aziende edili sulle quali aveva investito con i Cornwell, che diavolo c'entravano i distillati della villa di Lakewood? Davvero erano finiti lì? Quando, e per mano di chi?

"È stato Neil Lagan, vero?", disse, colto da ispirazione improvvisa: d'un tratto, l'umiliazione che credeva di avergli inflitto quando lo aveva accusato di aver provocato l'incidente di Candy gli suggerì uno dei tasselli mancanti.

L'altro poliziotto si limitò a guardarlo, poi dopo qualche istante rispose: "Non siete voi a dover fare domande, qui. Un giudice ascolterà i testimoni e la vicenda sarà presa in carico da un Tribunale. Nel frattempo la detenzione è una forma preventiva con la quale ci accerteremo che non possiate inquinare le prove. I vostri conti e le transazioni sono stati tutti legalmente sospesi".

Oddio, ma che sta succedendo? Come hanno fatto i Lagan a combinare un guaio di queste proporzioni? Possibile che si tratti davvero di loro due?!

Se solo fosse stato altrettanto crudele e scaltro, a quest'ora Neil e sua sorella sarebbero stati in galera per il tentato omicidio di Candy. Invece non c'erano prove sufficienti e ora dalla parte del torto c'era lui.

"George, avvisa Annie, dille... dille che sono innocente, che lo siamo entrambi! Chiedi alla zia...". Archie sembrava disperato, era sull'orlo delle lacrime.

"Non si preoccupi, signorino Cornwell, penserò a tutto io!", ribatté George, ma guardava lui.

"Signor Villers", lo apostrofò uno degli agenti mentre lo scortava con una certa rudezza alla porta d'ingresso, "lei è tra gli indagati principali, ma per il momento non abbiamo mandati di cattura a suo carico o della signora Elroy Ardlay. Tuttavia, dobbiamo chiedervi di rimanere reperibili in questa casa onde evitare spiacevoli inconvenienti".

George si tamponò di nuovo la fronte con il fazzoletto: "Non ci muoveremo da qui, abbiamo una persona malata di cui occuparci", ribatté in tono fermo.

Candy, finalmente non mi avrai più tra i piedi per un po'.

Uscire da casa con le manette come un criminale fu una delle esperienze più strane che Albert dovette sopportare. Nell'androne incrociò gli occhi sbarrati, dietro agli occhiali, di Frannie a cui raccomandò calorosamente Candy: la ragazza sembrava aver perso tutta la sua freddezza, mentre si metteva una mano sulla bocca come se non credesse a ciò che vedeva.

E poi ci fu la zia Elroy, che era fuori di sé: "William, Archibald! Dove portate i miei nipoti? Come vi permettete di accusare i membri della famiglia Ardlay? Vi farò licenziare tutti!", strillava fuori controllo.

"Signora, la prego di stare indietro", le intimò un poliziotto.

"George", disse Albert senza dover aggiungere altro. In un attimo, il suo braccio destro offriva gentilmente appoggio all'anziana zia che sembrava sul punto di svenire. Le sussurrò qualcosa come cercando di calmarla e quella fu l'ultima scena che vide prima di uscire per salire sulla vettura della polizia di Chicago.

Fuori splendeva un sole caldo e beffardo.
- § -
 
Terence lanciò uno sguardo a Karen, indeciso se parlare o meno. La vide armeggiare nella sua borsetta imprecando perché non trovava qualcosa e si chiese per l'ennesima volta cosa sarebbe accaduto se non fosse stata aggredita mentre si allontanava, se lui non fosse intervenuto e se non avessero deciso di recarsi al suo albergo che era più vicino.

Karen voleva tornare al proprio hotel da sola perché ormai era giorno, ma la sola idea di lasciarla andare gli rivoltava lo stomaco.

Solo ieri la scacciavo malamente quando mi seguiva per controllare che non mi fermassi a bere.

Non voleva scadere in un luogo comune, ma dopo ciò che era successo tra loro sentiva che una parte di lei gli sarebbe appartenuta per sempre. Dannazione, non solo una parte.

Ormai è mia e non so neanche se l'amo.

Davvero la riteneva una sua proprietà solo per quello? O era per un altro motivo, ben diverso? Non era certo la prima donna con cui giaceva, ma era la prima a cui...

"Perché non me l'hai detto?", le domandò a bruciapelo, interrompendo il suo stesso flusso di pensieri.

Lei alzò finalmente la faccia dalla sua borsa e lo guardò inizialmente come se non capisse. Poi la comprensione calò sui suoi occhi: "Perché avrei dovuto? Sarebbe cambiato qualcosa?".

Terence non seppe cosa ribattere: "Non è quello è che... se l'avessi saputo... insomma...".

"Saresti stato più delicato?", ridacchiò Karen. Sembrava davvero divertita.

"Beh, come minimo", ribatté lui a disagio. Non avrebbe mai dimenticato il momento esatto in cui era entrato in lei con l'urgenza e la passione dettati dal momento e l'aveva sentita gridare. Si era reso conto subito che qualcosa non andava e che la sua esternazione non era stata data dal piacere.

"Oppure non mi avresti toccata? Cos'è, pensavi forse che io fossi avvezza ad andare con altri uomini e credevi di avere a tua disposizione un altro terreno già esplorato?".
"Per favore, Karen. Non ti sto dando della libertina e tanto meno lo sono io", disse piccato. Nonostante quello che scrivevano certi giornalacci non era che lui avesse tutte quelle avventure amorose che gli affibbiavano. Soprattutto con Candy sempre nella testa.

"Ma hai pensato che io non fossi vergine", continuò lei senza alcuna vergogna. Non aveva mai conosciuto una ragazza così disinibita e avvezza a parlare di certe cose come se fosse del tutto naturale discuterne con un uomo.

"Sì, beh, ma non per questo voglio dire...".

Karen gli si avvicinò, guardandolo negli occhi: "Terence. Va bene così, l'ho voluto io. Almeno posso dire che sei stato tu il primo. Non so se sarò mai in grado di innamorarmi di nuovo, capisci?".

Accidenti, se la capiva! Le carezzò una guancia, sperando di averle lasciato almeno un bel ricordo. Per fortuna, una volta compresa la sua condizione, era stato in grado di rendere il resto della loro nottata ugualmente bella. Lui era pronto a smettere, preoccupato di averla ferita, invece era stata Karen a guidarlo, come se fosse un ragazzino inesperto. Cosa che, da quel punto di vista, era a tutti gli effetti. Non ricordava di essersi sentito così impacciato neanche la prima volta.

È solo perché non è mai stata di nessun altro o perché ci tieni a lei? Gli chiese una voce nella testa.

"Cosa succederà, ora?", le domandò sentendo che i ruoli si erano invertiti. Non erano forse sempre le donne a fare quella domanda?

Lei allargò le braccia, mettendosi finalmente la borsa a tracolla: "Nulla, ci vediamo alle prove e quando finisce il tour vai a recitare nel tuo film. Disinfetta quella ferita, ha un brutto aspetto. E prepara Robert per telefono, perché se ti vede con quei lividi senza preavviso potrebbe avere un infarto fulminante".

Terence era allibito: se stava soffrendo all'idea che si sarebbero lasciati di lì a poco lo stava nascondendo molto bene.

Mentre stava per aprire la porta, come se nulla fosse, seguì l'istinto e la raggiunse in due rapide falcate. La imprigionò tra il suo corpo e la porta e la baciò: "Ci vediamo stasera", le disse, notando il lieve rossore che aveva sulle guance.

"A stasera", ripeté lei facendogli l'occhiolino e uscendo disinvolta.

Terence rimase per un attimo lì, a fissare quella porta chiusa, chiedendosi che diavolo fosse accaduto nelle ultimo dodici ore.

Ho fatto a botte per una donna e poi me la sono portata a letto. Tutto qui, no?

"Oh, certo, tutto qui, Terry Graham", si disse mentre andava verso il bagno. Guardandosi allo specchio, capì perché Karen gli aveva intimato di chiamare Robert. Altro che cerone, come minimo avrebbe dovuto indossare una maschera.

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Capitolo 32
*** Anime imprigionate ***


Archie sedette su quello che avevano avuto il coraggio di chiamare letto e ringraziò mentalmente il Cielo che almeno, grazie alla loro posizione e a un cospicuo pagamento, potessero godere di celle singole e persino contigue in un'ala quasi del tutto deserta. Mentre veniva scortato lungo il corridoio assieme ad Albert, aveva visto solo un paio di poveri diavoli così anziani che dubitava persino respirassero ancora.

Il puzzo però era insopportabile e non credeva dipendesse solo dal water, che stava praticamente in bella mostra in un angolo accanto al "letto". Si respirava il fetore dell'umidità, della sporcizia e della disperazione.

Lui stesso era disperato: aveva perso Annie e l'ultimo barlume di speranza di riaverla se n'era andato al diavolo con quella follia che gli stava accadendo. Aveva scoccato un'occhiata ad Albert e aveva capito subito che non stava meglio di lui. La preoccupazione per Candy l'aveva letteralmente devastato. Del vecchio ragazzo vagabondo o del compìto zio William non rimaneva praticamente nulla.

Il peso che aveva recuperato quando lei era uscita dall'ospedale sembrava averlo di nuovo abbondantemente perso e profonde occhiaie gli segnavano gli occhi spenti. Se non fosse stato per i capelli ancora biondi, lo avrebbe scambiato per un vecchio con almeno gli anni di quelli che si trovavano nelle celle attigue. Magari a breve sarebbero ingrigiti anche quelli.

Nonostante soffrisse le pene dell'inferno, Archie capì che Albert era arrivato a un limite tale che stava rischiando la sua vita stessa. Stare con una Candy che non era più Candy gli aveva come tolto una parte di vita. Ora che neanche poteva vederla, temeva che si sarebbe semplicemente lasciato morire. Lui almeno aveva ancora una luce, fievole ma accesa, in fondo al tunnel.

"Annie", mormorò portandosi le mani al viso.

Sperava solo che gli avvocati della famiglia Ardlay venissero a capo di quella situazione e li tirassero al più presto fuori da quel letamaio. Il meglio che poteva accadere era prendersi i pidocchi o altri parassiti. Se non fossero morti di peste prima.

"Ehi, Albert, come va da quelle parti? Cinque stelle anche tu?", esordì cercando di tirare su lo spirito di entrambi. In realtà voleva solo urlare di farli uscire di lì finché non avesse finito il fiato.

"Direi che ci fermiamo a quattro", ribatté lui con voce atona. Anche la sua ironia se n'era andata a farsi benedire.

"Andrà tutto bene", disse poi dandosi dell'idiota solo per aver pensato di esprimere un concetto così banale. Il problema era che doveva crederci, o sarebbe impazzito.

"Certo", rispose laconico Albert. Udì il rumore delle molle del materasso e capì che doveva essersi seduto o sdraiato.

"Albert?", lo chiamò, improvvisamente allarmato.

"Mh?".

Avevo ragione, lo stiamo perdendo. Albert ha i nervi a pezzi. Non uscirà vivo di qui. Se usciremo.

"Non mollare, amico", aggiunse con voce tremante. Lui non gli rispose: doveva essersi addormentato.
 
- § -
 
"Questo è inconcepibile!", disse George ad alta voce, contravvenendo di nuovo alla sua regola ferrea di non perdere mai il controllo. Se avesse potuto, avrebbe sbattuto un pugno sulla scrivania.

"Signor Villers, la prego di rimanere tranquillo e di lasciar parlare i vostri avvocati, se non vuole peggiorare la situazione".

Era esterrefatto. La Scott Corporation era sempre stata la punta di diamante tra le imprese edili gestite dalla famiglia e non aveva mai dato problemi. La fornitura di whisky che ogni anno veniva loro inviata era stata prontamente bloccata in virtù delle nuove leggi. Erano persone oneste, che amavano i distillati scozzesi ma lavoravano sodo e gli Ardlay avevano sempre provveduto a mandare loro tutti i materiali migliori, quando servivano, direttamente dall'America. Ora era venuto fuori che mancava persino la lista dei materiali dalla bolla principale.

Come diavolo è potuto succedere? Quei maledetti documenti li ho fatti firmare a William come al solito e non c'era nulla di anomalo.

Non potendo sapere altro e volendo contattare immediatamente gli avvocati, George uscì dalla centrale di polizia con le poche informazioni che aveva. Guidò a velocità sostenuta, sfiorando per un pelo i limiti consentiti e, appena entrato in casa, venne immediatamente intercettato dalla signora Elroy.

Era pallida, ma sembrava di nuovo padrona di se stessa: "Cosa sta succedendo, per l'amor di Dio?", chiese con voce bassa e gelida.

George voleva solo raggiungere l'ufficio e il telefono il prima possibile ma si costrinse a rispondere con educazione alla matriarca: "Pare che i signori William e Archibald siano accusati di aver commerciato whisky scozzese con Londra. Una delle nostre ditte edili ne ha ricevute due casse".

La donna aprì la bocca e si portò una mano alle labbra, come se avesse accusato il colpo o se sapesse qualcosa. George la guardò con circospezione, sperando che gli parlasse. Poteva chiederle lumi e risultare quantomeno sconveniente, quando non era certo neanche lui di aver visto quello che credeva?

Eppure, nel lampo che attraversò gli occhi rugosi della donna, riconobbe la comprensione.

Me lo sarò immaginato, non sono molto lucido.

"Questo non è possibile", dichiarò lei voltandogli le spalle e togliendogli ogni possibilità di scrutarne meglio l'espressione.

"È proprio quello che penso anche io, per questo sto andando in ufficio a chiamare i nostri avvocati e a verificare i documenti".

Devo anche avvisare la signorina Brighton, l'ho promesso ad Archibald.

"Vai e ti prego, fai tutto quello che è necessario. I miei nipoti non devono stare un minuto di più in prigione. Oh, se si venisse a sapere!", la poveretta cominciò a singhiozzare e George fece cenno a una cameriera, che aveva timidamente fatto capolino, di occuparsi della signora.

Quando finalmente fu solo, si precipitò in ufficio, pregando tutti i santi del Paradiso e i membri della famiglia che non erano più tra loro di aiutarlo in quel compito ingrato.
 
- § -
 
Candy si pettinava i capelli con un gesto meccanico. Voleva punire l'uomo biondo e l'aveva fatto, anche se quello sfacciato aveva avuto l'ardire di schiaffeggiarla: lei, una donna! Ma, soprattutto, voleva sapere se davvero poteva fidarsi delle sue buone intenzioni.

Lo aveva baciato solo per quel motivo, no? Certo non ne aveva altri. Non il desiderio di sentire che sapore avessero le sue labbra.

Speziato.

Non la conferma che il sogno che l'aveva fatta stare tanto male fosse solo frutto della sua fantasia.

Un ragazzo biondo di spalle, su un cavallo. Si gira a guardarmi e ha il volto di quello che dovrebbe essere il mio patrigno. Cado e sento lo stomaco rivoltarsi.

Quello che l'aveva sconvolta era stata la sensazione di pace che l'aveva invasa nel fissare i suoi occhi azzurri nel sogno. Non era così che si sentiva in sua presenza.

"Ho sempre pensato che i codoni che portavi fossero di pessimo gusto. Devo dire che questa pettinatura ti sta molto meglio", disse Frannie entrando nella stanza.

Ormai quel lato del suo passato era venuto al pettine come i nodi che cercava di sciogliere in quel momento: era stata una collega di quella ragazza così arcigna. Non voleva sapere altro, le bastava quello per sentirsi disgustata. E spaventata.

Cos'è che mi spaventa?

"Non mi interessa il tuo parere, infermiera Frannie". Gettò via la spazzola con malagrazia, appoggiandosi alla sedia. "Perché non mi dai un po' di quella medicina che mi fa dormire? Voglio rimettermi a letto".

La udì sospirare e camminare nella stanza con passi misurati. Le si accostò e vide la sua immagine riflessa nella specchiera: i loro sguardi s'incontrarono e Candy le restituì un'occhiata gelida che rivaleggiava con la sua.

"Voglio parlare chiaro con te, Candice. Ti sarai accorta che ho omesso fin dal primo giorno di trattarti come una signorina o una paziente speciale, per esempio dandoti del lei. Non sono solita a queste confidenze, ma mi è stato chiesto espressamente dal tuo neurologo e anche dallo psichiatra che ora ti ha presa in cura".

Candy si alzò, nervosa e arrabbiata: "Evadi sempre le richieste in questo modo con gli altri pazienti?", chiese stizzita, sedendosi sul letto e massaggiandosi le tempie.

Lei ignorò le sue parole e continuò il suo odioso monologo: "E sai perché me lo hanno chiesto? Perché era un esperimento".

Alzò gli occhi per incontrare di nuovo quelle lenti dietro le quali celava lo sguardo perennemente serio: "Sono diventata una specie di cavia da laboratorio adesso? Ho già detto che voglio morire e non voglio ricordare nulla!", si ostinò.

"Questi tuoi... capricci", proseguì lei ricominciando a camminare e dandole ancor più sui nervi, "non nascondono del tutto la tua indole originale. A un osservatore esterno e anche al signor Ardlay puoi sembrare una donna completamente diversa, ma la verità è un'altra. Dimmi una cosa, perché non mi hai chiesto di trattarti con più rispetto e distacco?".

"Cosa vuoi che mi importi se mi si dà del tu o del lei?! Non sono questi i miei problemi, sappilo!".

"Invece ti dico che c'è un altro motivo: fa parte della vecchia Candy che tu odi tanto e che preferisci uccidere. Quella Candy non amava le formalità e preferiva le persone semplici".

"Mi chiamo Candice!", gridò sentendo il viso avvampare.

Frannie alzò le braccia, in segno di resa: "Certo, chiamati come vuoi. Se non fosse stato per il signor William e per tutti gli altri non sapresti neanche come farlo. Potresti mostrare perlomeno un po' di riconoscenza".

Candy rise, maliziosa: "Se ti piace tanto il caro William, perché non te lo sposi?".

Era un lieve rossore quello che colorava le guance della ragazza-iceberg davanti a lei? Forse aveva colto nel segno...

"Non dire sciocchezze, io sono qui per lavorare. Ho eseguito le indicazioni dei medici e l'unico errore che ho commesso è stato ricordarti che eri un'infermiera nella tua vita precedente. A breve non avrai più bisogno di me, comunque: fisicamente ti sei ristabilita abbastanza, anche se avresti bisogno di uscire e prendere aria".

Candy si alzò dal letto con uno scatto di nervi improvviso. Le si avvicinò fino a stare a un palmo dal suo naso: "Sarò molto felice quando te ne andrai! Così potrò rimanere sola e fare tutto ciò che voglio. Compreso suicidarmi".

"Bene, perdonami, questo è il mio secondo errore".

"Cos...?".

Un altro schiaffo. Molto più forte di quello che le aveva affibbiato William. Candy ricadde di peso sul letto, gridando frustrata e pronta a restituire il ceffone.
Frannie la placcò per i polsi ed ebbe un dejà-vu.

"Ascoltami bene, Candice Ardlay", disse l'infermiera trattenendola ma senza che il tono risentisse della fatica, "finché io sarò in questa casa tu non ripeterai mai più quella parola. E, soprattutto, imparerai il significato del termine 'gratitudine', che ad ora ti è sconosciuto".

"Non darmi ordini!", gridò dimenandosi e desiderando solo colpirla. "Tu hai la tua bella vita e il tuo gradito lavoro, non sei stata in coma per chissà quanto, perdendo il tuo passato!".

"Se così fosse, desidererei solo ricordarlo, quel passato! Non trascorrerei il mio tempo rifiutando ogni cura e lasciandomi morire!", ora aveva alzato la voce anche lei.

"IO NON VOGLIO RICORDARE LA MORTE!", gridò con quanto fiato aveva in gola. Poi fu buio.
 
- § -
 
Annie fu catapultata fuori dal sogno che stava facendo e che, appena aperti gli occhi, scomparve dalla sua mente come cancellato: ricordava solo che c'era Archie che stava dividendo con lei un dolce.

Aveva udito chiaramente lo squillo del telefono, in lontananza.

Saltò a sedere sul letto come una molla, cercando di udire rumori e voci nelle altre stanze della casa. Per un attimo, le parve di tornare bambina, quando si svegliava in piena notte e andava a dormire accanto a Candy perché aveva avuto un incubo.

Candy...

Il terrore l'artigliò all'improvviso e si ritrovò a stringere in modo convulso la coperta tra le dita. Senza indugi ulteriori, accese la lampada, scese dal letto e andò all'armadio per cercare una vestaglia: in quel momento, sua madre bussò alla porta e l'aprì quasi senza attendere la sua risposta.

La vestaglia le cadde a terra, mentre Annie si portava le mani alla bocca: "Mamma, che è successo?! È... Candy?", chiese tremando nella camicia da notte leggera e non per il freddo.

La donna le fu subito accanto e le posò le mani sulle spalle: "Chiamano dall'ospedale, vogliono parlare con te".

Annie non riusciva a impedire al proprio corpo di scuotersi in forti spasmi, ma cercò dentro di sé la forza che aveva trovato in altre occasioni nell'ultimo periodo.

"Accompagnami in biblioteca, prendo la telefonata da lì". Non era sicura di riuscire ad arrivare lì da sola e si lasciò aiutare da sua madre a indossare la vestaglia.

"Annie, capisco che tu sia affezionata a Candy, ma lei ha già la sua famiglia e non credo che tu...".

"Mamma", il tono era più duro di quello che avrebbe desiderato,"in passato ti ho dato retta, ma ora non voglio più rinunciare a stare accanto a quella che è stata come una sorella per me! Ho già rischiato di perderla una volta e se ha bisogno di me, io ci sarò".

Si chiuse la cinta della vestaglia con le mani gelide, mentre la donna si irrigidiva e faceva un passo indietro. Non le piaceva litigare con sua madre che l'aveva adottata, cresciuta e amata, ma non sopportava più quello che l'aveva indotta a fare in passato. Rinnegare le proprie origini, rinnegare Candy. E in nome di cosa? La storia con Archie era finita comunque. E, nel suo cuore, stava già ridimensionando i sentimenti negativi che aveva nutrito nei suoi confronti quando aveva saputo che era lei il motivo per cui il suo fidanzato era così confuso. D'altronde, non era sempre stato così? Di chi era la colpa se erano rimasti insieme per così tanto tempo nonostante Annie sapesse, o almeno sospettasse, che il suo cuore non fosse libero?

Sentiva la presenza della madre al suo fianco mentre, riprendendo una parvenza di controllo, entrava in biblioteca e prendeva la linea.

"Signorina Annie?", la voce era quella di George.

Strinse la cornetta così forte che sentì le dita scrocchiare e il sudore viscido coprirle il palmo: "Cosa è successo?".

"Sarei venuto da lei domattina per parlarle, ma la signorina Candy ha avuto un collasso e l'abbiamo portata in ospedale. I medici vogliono che qualcuno della famiglia stia vicino a lei quando tornerà a casa".

Nella mente di Annie si accalcarono domande confuse e si portò una mano al viso cercando di capire quale fare per prima: perché dovevi venire da me domattina? Come mai Candy ha avuto un collasso? Se torna a casa vuol dire che sta meglio? Ma, soprattutto, non c'è Albert a casa con lei?

"Arrivo subito", disse invece in modo sintetico, preparandosi a un'altra discussione con sua madre. 
 
- § -
 
Il mal di testa era diventato intollerabile ed Elroy si chiese, ancora una volta, cosa diavolo stesse facendo lì, ma soprattutto cosa avesse fatto di male perché la disgrazia si abbattesse così sulla sua famiglia.

È cominciato tutto per colpa di Candice, come al solito!

Mise a tacere la voce interiore che cercava di gridare che no, era stato nel momento in cui aveva deciso di invitare Eliza e Neil a Lakewood che le cose erano precipitate: se quell'orfana non fosse esistita, d'altronde, non sarebbe successo niente...

...non avrebbero fatto niente contro di lei.

Ma c'era un'altra voce, ancora più in profondità nel suo essere, che non aveva ancora portato a livello conscio. Era come un solletico insolente e fastidioso in un punto imprecisato della schiena dove non riusciva ad arrivare. E dove non voleva neanche avvicinarsi.

"Dunque, mi pare che non siate gli stessi familiari che ho avuto modo d'incontrare quando la signorina è uscita dall'ospedale", stava dicendo il dottor Leonard guardando quel gruppo che ai suoi occhi doveva apparire come stranamente assortito.

Elroy scoccò un'occhiata in tralice a George, che ebbe cura di spiegare che era il braccio destro del signor William e che lui e il signorino Cornwell si trovavano in viaggio di lavoro. Colse lo sguardo di Annie Brighton e capì che non aveva creduto a una singola parola. Evidentemente il signor Villers non aveva ancora avuto modo di parlarle dell'arresto: in realtà, non avrebbe neanche dovuto saperlo visto che non era più la fidanzata di Archibald e meno gente fosse venuta a conoscenza di quell'inghippo, meglio sarebbe stato per tutti.

Perché era solo un problema momentaneo. I suoi nipoti erano innocenti e chiunque li avesse incastrati con l'inganno...

William cala una mano ferma sulla spalla di Eliza, chiedendole di chiamarla solo zio, poi afferra Neil e lo appoggia violentemente al muro

...l'avrebbe pagata.

La donna vide dei punti neri danzarle davanti agli occhi e sbatté le palpebre per scacciarli come quel ricordo.

"Fisicamente la signorina Candice ha ripreso peso e una certa tonicità della muscolatura, ma ha bisogno di uscire e, soprattutto, di cominciare a venire a patti con il suo passato. La signorina Hamilton ci ha riferito degli episodi...", il medico si schiarì la gola, sembrava a disagio.

Elroy inarcò un sopracciglio: si riferiva forse alla sua strana richiesta di essere servita nella sua stanza perché non sopportava la presenza degli altri? O a quel taglio di capelli che, per quanto inadeguato, doveva dire fosse estremamente più gradevole rispetto a quelle code orribili che aveva sempre portato?

"Gli episodi di cui parla il mio collega sono riferibili a piccoli errori da parte di terze persone che, involontariamente, hanno riportato a livello inconscio nella signorina Candy ricordi del passato", era stato il dottor Murray a parlare, "ma forse il mio collega potrà spiegarvi meglio nel dettaglio".

Quella conversazione stava diventando surreale e noiosa: cosa stavano facendo lì, a parlare di Candice, in piena notte, invece che a casa ad occuparsi di far uscire di galera i suoi nipoti? E perché, in nome di Dio, come unica rappresentante della famiglia presente aveva dovuto presenziare al ricovero della protetta di William?

"Sono il dottor Carter, psichiatra di Candice: cercherò di essere breve, così che possiate riportare la paziente a casa, ma avere tutte le delucidazioni del caso. Signorina Brighton, lei sarà presente assieme al signor Villers?".

"Certo", rispose lei con decisione, facendole alzare gli occhi al soffitto. Come se non avesse già abbastanza persone sgradite a ronzarle attorno in casa sua.

"Bene, inizialmente ho chiesto all'infermiera Hamilton di dare a Candice del tu come se si conoscessero da sempre, cercando di cogliere eventuali segnali di sofferenza. Non avendone colti, questa sera, come da accordi presi con me, ha riferito alla sua ex collega qualche dettaglio sulla sua indole prima dell'incidente, rivelandole che era una persona alla quale non interessavano particolarmente le apparenze. Tuttavia, prima di questo evento che l'ha scossa al punto da provocarle un collasso, se ne sono verificati altri: la stessa signorina Hamilton è caduta in errore parlandole del suo passato da infermiera e, prima ancora, una cameriera le ha confessato dettagli sulla pettinatura che ha sempre amato portare. Ciò ha portato a crisi di nervi e accentuato il nervosismo della signorina, inclusi gli istinti suicidi che ha mostrato di avere più di una volta".

"Istinti suicidi!", la signora Elroy pensò che sarebbe svenuta: che razza di mostro aveva sotto al suo stesso tetto? Se avesse fatto qualche sciocchezza avrebbero accusato lei o la sua famiglia di esserne la colpevole?

Non voglio più la responsabilità di quella ragazza sulle spalle!

"Sì, signora, nonché timore degli spazi aperti. Insomma, in parole povere se forziamo troppo la mano per farle ritrovare la memoria rischiamo di farla regredire a uno stato di coma, ma se l'assecondiamo eccessivamente rischiamo che queste sindromi potenzialmente letali causino danni ancora peggiori. Per questo ho tentato con l'ipnosi per aiutarla, ma ci vuole una certa gradualità".

Mentre tutti sembravano pendere dalle labbra dell'uomo, Elroy si alzò e disse con decisione: "Mi rifiuto di riportare in casa mia un soggetto così a rischio. Non voglio alcuna responsabilità del genere, ricoveratela in una struttura adeguata dove possa essere controllata a vista e non se ne parli più!". Si voltò, decisa ad andarsene e mettere finalmente un punto a quella storia, per occuparsi solo dell'unico problema che avesse in quel momento.

"Se lo facessimo segneremmo comunque la sua fine, signora Ardlay", era un tono tagliente, quello che colse nella voce del medico?

"Cosa vuole dire?", domandò Annie, visibilmente spaventata.

"Che ha bisogno di recuperare la memoria avendo vicino le persone che la amano, o perlomeno accettare di avere un passato. Se non lo fa non ritroverà mai la voglia di vivere".

Seguì un silenzio pesante e la matriarca cominciò a pensare che, a breve, sarebbe stata lei a essere ricoverata per un attacco di cuore. Non poteva sostenere tanto. Era troppo. Sedette, portandosi una mano alla testa e George le fu subito accanto: "Signora Elroy?", il tono era preoccupato.

La donna alzò una mano, agitandola leggermente per segnalare che stava bene ma aveva bisogno di un momento. Alzò gli occhi e vide che tutti stavano guardando lei, come in attesa di una risposta.

Dopotutto, forse ancora un po' di autorità mi è rimasta!

Raddrizzò le spalle e si schiarì la voce: "Se Candice deve tornare a casa voglio che, oltre alla sua infermiera, sia presente anche il dottor Carter".

I medici si guardarono tra loro: "Signora Ardlay, con tutto il rispetto: la signorina Frannie Hamilton è una delle nostre migliori infermiere e non possiamo più tenerla a tempo indeterminato fuori dall'ospedale", disse il dottor Leonard. "Lo stesso discorso vale per il mio collega, il dottor Carter. Non ci possiamo permettere...".

"Immagino che si ricordi che la famiglia Ardlay vi elargisce generosi fondi da anni, dottor Leonard". Fece una breve pausa, perché le parole arrivassero all'uomo in tutto il loro significato. "E immagino quindi che possiate permettervi validi sostituti che possano sopperire a questa mancanza. Se devo tenere in casa una donna con i gravi problemi di Candice, voglio essere sicura che sia seguita come se fosse in una struttura dedicata. Con i miei nipoti lontani devo occuparmi di tutte le faccende principali, assieme al signor Villers, quindi non potrò prestarle molta attenzione".

Il dottore chiuse gli occhi e sospirò, poi si scambiò delle occhiate con i suoi colleghi, che annuirono.

"Sta bene, signora Ardlay. Faremo gli ultimi controlli a Candice e potrete andare a casa".

Elroy pensò che i giorni peggiori dovevano ancora venire.

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Capitolo 33
*** Prove di coraggio ***


Frannie si slegò i capelli e lasciò che il vento leggero li accarezzasse. Si tolse anche gli occhiali e li ripose nella tasca della vestaglia.

Sperava di poter finalmente uscire da quella casa, ma la famiglia Ardlay aveva deciso diversamente ed eccola di nuovo lì, in quella stanza troppo grande per lei, con Candy alla porta accanto. Si era scusata con i medici per essere caduta in errore lasciandosi sfuggire un dettaglio che non avrebbe dovuto uscirle di bocca e poi aveva anche confessato loro di averla schiaffeggiata, quando la paziente si era messa a insistere sul desiderio di morire.

"È per questo che abbiamo assecondato la richiesta del signor Ardlay, quando le ha domandato espressamente di occuparsi della signorina Candice: lei è un'ottima infermiera e anche se cade in errore riesce a recuperare in modo brillante. Come medico condanno sempre la violenza, ma quando si verifica una crisi isterica non è raro che le persone più vicine al paziente reagiscano in maniera ferma, come ha fatto lei. Si vede che è stata sua collega e tiene a lei". Le ultime parole del dottor Murray l'avevano fatta sorridere.

Io tenere a Candy.

Sorrise di nuovo di se stessa, pensando che con Candy non era mai andata d'accordo quando era felice e spensierata e non ci sarebbe andata neanche ora che non aveva memoria.

Ma il suo cuore, in quel momento, era stretto in una morsa se ripensava al signor Ardlay e a quello che era accaduto: la signora Elroy si era raccomandata con lei e con tutta la servitù di tenere la bocca chiusa, ma Frannie era certa che la notizia dell'arresto di due membri di un clan così importante difficilmente sarebbe rimasta nell'ombra.
Da parte sua, poteva solo rivedere il suo sguardo duro e vagamente disperato, i suoi occhi di ghiaccio mentre usciva di casa ammanettato con una dignità che nessun uomo in stato d'arresto avrebbe mai mostrato.

William... Albert...

Non sapeva quando o come, ma si era innamorata di lui come un'adolescente sciocca e romantica. L'adone biondo e con gli occhi azzurri l'aveva stregata e non si capacitava di come Candy provasse quasi repulsione per lui, pur non ricordandolo.

Chissà che rapporto avevano veramente... Lui non la guarda come un tutore, né come un fratello.

"Un soldo per i tuoi pensieri". Frannie sussultò a quella voce e fu catapultata nella realtà in modo brusco.

Si voltò e incontro un altro paio di occhi, quelli blu notte del dottor Carter. Il vento scompigliò anche i suoi capelli castani e le parve d'improvviso giovane. Forse anche troppo, per curare un caso come quello di Candy: nonostante avesse più o meno l'età del signor Ardlay, aveva sempre pensato che sarebbe stato più adeguato incaricare un medico più anziano, con qualche anno di esperienza in più.

"Non sa che non è buona educazione entrare nella stanza di una signorina a quest'ora? Sono in vestaglia". Il tono era freddo e distaccato, ma Frannie si sentì quasi in imbarazzo.

"Tecnicamente siamo su un balcone e, purtroppo, venendo dalla stanza della signorina Candice non posso fare a meno di passare da qui. Però possiamo chiedere alla famiglia Ardlay se può ricavare una porta nell'altra camera che dia sul corridoio principale...".

Si volse a guardarlo e nella sua espressione seria notò distintamente un accenno di sorriso: "Sarebbe bastato non venire qui. Come sta la paziente?".

Il dottor Carter sospirò: "Ha il sonno molto agitato e sono riuscito a cogliere di nuovo il nome di quell'Anthony mentre si trovava in piena fase REM: stava quasi per aprire gli occhi per quanto era vivido il sogno".

"Ma domani non lo ricorderà e sotto ipnosi rischia di impazzire. Come si fa a mantenere un equilibrio tra il non forzarla a ricordare e l'indurla a venire a patti col suo passato?", chiese con una nota di frustrazione nella voce.

L'uomo, di solito posato e professionale almeno quanto lei, si passò una mano tra i capelli, in un gesto che aveva visto fare molte volte anche a William Ardlay: "Lo so, non è facile. Ma, come abbiamo riferito anche alla sua famiglia, entrambe le condizioni sono pericolose: prima o poi dovrà ricordare e bisogna innanzitutto condurla verso l'accettazione di questo concetto. Deve affrontare le sue paure".

"La sua famiglia al momento è solo quella Annie Brighton. Non credo che la signora Elroy abbia molto in simpatia Candy", disse sicura che se ne fosse accorto anche lui.
"Questo è più che evidente. Sto anche valutando con molta serietà l'idea di farla viaggiare per tornare all'orfanotrofio dove è cresciuta... me ne ha parlato il signor Ardlay. Rivedere quei luoghi e altre persone care potrebbe aiutarla, ma sarà un passo che faremo successivamente", rispose lui appoggiandosi alla ringhiera e scrutando nella notte che stava volgendo in alba.

Frannie sospirò, mentre un tenue chiarore accendeva il cielo in lontananza ma la luna rimaneva, sfacciata e altrettanto brillante, a occhieggiare tra i rami di un albero. Si chiese se anche la sua vita sarebbe stata così, d'ora in poi: l'infermiera Hamilton sempre presente e professionale con la speranza di un'alba lucente alle sue spalle pronta a farla svanire.

Devo dimenticare quell'uomo: è un sogno impossibile come quello di far incontrare la luna con il sole. L'uno esclude la presenza dell'altra.

"Pensi che lui la ami?", le domandò all'improvviso il dottor Carter facendola sussultare. Si sentì come se le avesse letto dentro.

"Di chi parla?". In realtà aveva già capito.

"Il signor William. Guarda Candy come un uomo innamorato, sta soffrendo tantissimo".

"Dottor Carter...".

"Adrian, per favore".

"Come?", Frannie sbatté le palpebre, mettendolo a fuoco a malapena senza occhiali, ora che si era allontanato un poco da lei.

"Siamo colleghi di lavoro, anche se io sono un medico, ma siamo anche coetanei. Visto che stiamo lavorando a una causa comune potremmo lasciare da parte i formalismi, come hai fatto tu con Candice". Che fosse dannata se seppe perché le stava facendo l'occhiolino.

"Non lo trovo adeguato, dottor Carter", rispose rimettendosi gli occhiali.

"D'accordo, mi scusi, infermiera Hamilton", ribatté lui con un tono leggermente seccato. "Tornando al signor Ardlay, forse è un bene che abbia deciso di partire proprio adesso. Avremo modo di vedere se la paziente sente la sua mancanza".

Frannie vide i primi raggi di un timido sole affacciarsi all'orizzonte e annuì. Quella luce, così vicina eppure così lontana...

"Vorrei andare a riposare un po', dottor Carter. E forse dovrebbe farlo anche lei", dichiarò passandogli davanti per entrare.

"Ha ragione, infermiera Hamilton".

"Può continuare a darmi del tu, se preferisce. Non ho problemi. Buonanotte, anzi... buon riposo, dottor Carter", lo liquidò mentre lui si recava alla porta e lei chiudeva la porta-finestra.

Quando finalmente fu sola, tolse la vestaglia e si mise sotto le coperte, ascoltando nel silenzio se Candy si lamentasse o gridasse. Il sonno, infine, la colse.
 
- § -
 
L'assordante suono metallico di qualcosa che picchiava poco distante dalla sua porta lo scaraventò fuori dal sonno disturbato e delirante. Albert si tirò a sedere con il fiato corto, il cuore che stava per esplodergli nel petto e il sudore che gli scorreva lungo le tempie.

"Che razza di modo per svegliare la gente!", udì dire Archie e d'improvviso si ricordò dove si trovava.

Dannazione, per un attimo lo avevo dimenticato!

Se avesse potuto davvero dimenticare, come gli era già successo una volta! Dimenticarsi il dolore, dimenticarsi la galera, dimenticarsi di lei...

Veramente voglio dimenticarla?

"Avanti, alle docce, signori!", strillava la guardia sbattendo lo sfollagente sulle sbarre di tutto il corridoio: gli risposero grugniti e parolacce.

Albert fece una smorfia e si portò le mani alla testa. Aveva dormito poco e male.

"Ehi, Albert, tutto bene?", gli domandò suo nipote quando finalmente furono fuori. Erano tutti in fila come scolari e seguivano la guardia che continuava a blaterare di non battere la fiacca.

"Non ho apprezzato molto il servizio sveglia e non ho ricevuto la colazione in camera", mormorò per non farsi sentire, accostandosi a lui.

Archie fece un sorriso genuino che per un attimo gli scaldò il cuore: "Sono contento di sentirti fare battute. Credevo di averti perso".

Lui fu commosso da quelle parole: "Lo so, Archie, sto passando momenti difficili da qualche tempo. La galera non è il mio peggior problema, al momento, anche se non vedo l'ora di uscire di qui prima di prendermi i pidocchi".

Il ragazzo scoppiò a ridere e la guardia lo redarguì: "Cosa c'è di tanto divertente, signorino?", ringhiò.

"Io... solo...".

"Forse è contento di poter finalmente vedere tanti uomini nudi!", gracchiò un vecchio con una risata catarrosa che sfociò presto in una tosse convulsa.

"Già", s'intromise un uomo a cui mancavano almeno tre denti, "questi due damerini con la faccia d'angelo non possono che essere dei deviati! Guardate che lineamenti delicati hanno nell'alta società!", e scoppiò a ridere anche lui.

Albert serrò la mascella, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene, ma sapeva che non poteva farci nulla: nonostante il mondo delle carceri gli fosse oscuro, conosceva la strada. E lì non era tanto diverso.

"Cosa?! Ma come ti permetti, idiota! Ora ti faccio vedere io quanto siamo uomini!". Archie era partito per la tangente e lui lo bloccò per un braccio.

"Fermo, Archie, lascia stare", gli sibilò in un orecchio.

"Oh, no, che paura! Ti prego, non farlo, io ho altri gusti!", riprese l'uomo senza denti mentre il vecchio, tra un colpo di tosse e l'altro, annuiva vigorosamente gesticolando e cercando di dire qualcosa.

"Basta, basta, ordine! Andate a lavarvi e smettetela di giocare", riprese il controllo la guardia ricominciando a sbattere lo sfollagente sulle sbarre delle celle ormai vuote.

Archie rimase teso per qualche altro secondo, poi si rilassò: "Dobbiamo uscire di qui. Non mi piace l'idea di condividere degli spazi comuni con questi... uomini".

"Neanche a me diverte l'idea", spiegò lui paziente, "ma dobbiamo ringraziare almeno di avere una cella singola".

Camminarono lungo il corridoio lercio e arrivarono a una curva a gomito dopo la quale c'era un ambiente aperto che doveva essere il bagno. Le piastrelle non erano più bianche da tempo e sul pavimento c'erano liquami di cui Albert preferì non capire la provenienza. Era stato un vagabondo per tanto tempo e aveva sempre vissuto in mezzo alla natura. Ma non si era mai trovato in un ambiente così malsano: quando voleva lavarsi entrava in un torrente o in un laghetto e se faceva molto freddo affittava una stanza, piccola ma pulita. In Africa era stato in una tenda e aveva visto come la miseria potesse essere il primo veicolo d'infezioni, quando non c'era neanche l'acqua corrente per lavarsi le mani. Nel suo piccolo, aveva cercato di insegnare le semplici regole igieniche nei villaggi dove era rimasto, quindi non capiva come in un carcere americano ci potesse essere uno stato di tale abbandono.
Ma non era certo il momento di mettersi a pensare a crociate contro il sistema, ora doveva tenere duro fino a che non fosse uscito di lì e avesse potuto rivedere Candy.

"Togliti i vestiti, signor Ardlay". Albert sbatté le palpebre, credendo di aver capito male. La guardia teneva in mano un lungo tubo di gomma e gli stava chiedendo di spogliarsi lì, davanti a lui?

"Ha paura del tubo!", gracchiò il vecchio con la tosse ricominciando a ridere con versi soffocati.

"Secondo me invece non vede l'ora!", rispose l'altro suscitando altra ilarità.

Albert chiuse gli occhi, respirando a fondo.

Come ho fatto, in meno di ventiquattro ore, a passare da una situazione in cui la mia unica preoccupazione era Candy e ora è la mia stessa incolumità?

"Io li...". Di nuovo, dovette fermare il braccio di Archie.

"Credo sia la prassi, Archie. Stai calmo". Ventiquattro ore prima pensava di essere molto più vulnerabile, invece ora si ritrovava a dover calmare i bollenti spiriti del nipote.

Albert eseguì l'ordine, lasciando gli abiti a terra come gli era stato detto. Dietro di lui, poté sentire Archie gemere: "No, non la mia camicia di seta!".

"Zitto, Archie", gli sibilò a denti stretti. Non voleva che quegli uomini avessero altri motivi per prenderlo in giro.

"Io, però, una botta gliela darei. Dopo tanti anni mi sembrano attraenti persino loro!", disse il tipo sdentato facendogli salire un brivido lungo la schiena nuda.

Dio, aiutaci tu.

"Ora vai in quell'angolo", ordinò la guardia indicando con il tubo.

Mentre s'incamminava, udì ancora le voci beffarde: "Attento alle spalle, bellezza!", "Non raccogliere la saponetta se ti cade a terra, meglio sporco che...".

"Adesso basta voi due!", gridò la guardia.

Mentre il getto d'acqua lo colpiva con una violenza inaudita e Albert lottava per non annegare, riuscì a scoccare un'occhiata ad Archie. Aveva colto la sua preoccupazione per lui, ma capì che era il nipote, ora, quello più vulnerabile: quella vita da carcerato avrebbe potuto spezzarlo.
 
- § -
 
Annie si pettinò davanti allo specchio cercando dentro di sé le forze necessarie ad affrontare quella giornata e le settimane a venire. Dopo averle parlato, George si era precipitato fuori dalla villa diretto dagli avvocati di famiglia per venire a capo di quel guaio colossale che si era creato, raccomandandole sia Candy che la signora Elroy.
Non aveva potuto fare a meno di scoppiare a piangere alla notizia sconvolgente di Archie in prigione, anche se era talmente sopraffatta dalla sorpresa da non essere neanche riuscita ad elaborarla bene.

Che diavolo era successo? Perché? Come? Qualcuno li aveva incastrati? Sospettò che George si facesse le stesse domande, perché era letteralmente scappato.

E lei?

All'improvviso, da ex fidanzata di Archie era diventata colei che doveva sopportare sulle proprie spalle tutto il peso della famiglia Ardlay. Non che le dispiacesse, ma la sensazione di impotenza e disperazione che provava per la sua migliore amica e per Archie le impedivano di essere lucida.

Si sentiva sola in mezzo al caos e non poteva neanche chiedere aiuto a Candy come faceva da piccolina.

Era cambiata da quando aveva deciso di rompere il fidanzamento, oh sì! Ma da lì a doversi occupare di tanti aspetti delicati e in precario equilibrio, ne passava di acqua sotto i ponti: era come se fosse stata messa alla prova per testare la sua resistenza e non sapeva quanto avrebbe retto.

Albert e Archie in prigione. La zia Elroy irritabile e sull'orlo di una crisi di nervi costante. Candy senza memoria da trattare con dolcezza e determinazione.

"Coraggio, Annie, ce la puoi fare!", disse all'immagine dello specchio, raddrizzando stoicamente le spalle e asciugandosi gli occhi, da dove lacrime traditrici erano sgorgate.

Archie... Davvero sei innamorato di me?

Percorse il lungo corridoio fino ad arrivare alla stanza dell'infermiera Frannie e bussò piano, con il cuore che sembrava volerle scoppiare fuori.

Aveva paura di cadere in errore, di dire la cosa sbagliata. Aveva paura di non rivedere più l'uomo che amava.

Non potrò mai più sposarmi con lui, comunque. Non dopo averlo lasciato.

La porta si aprì davanti a lei e l'infermiera con gli occhiali la stava guardando con un'espressione gelida sul volto: "Ho detto: avanti", esordì seccata.

Si era così persa in quel turbine di pensieri che non aveva udito la sua voce: "Mi perdoni, non l'ho sentita", si scusò arrossendo leggermente.

La donna le fece strada, poi la squadrò per un secondo: "Deve sapere due cose prima di entrare in quella stanza, signorina Brighton".

Annie le prestò tutta la sua attenzione.

"Non c'è spazio per i sentimentalismi o le lacrime. Candy è un'altra persona e può diventare violenta, almeno con se stessa".

Dio del Cielo!

"Essere comprensiva e dolce può essere utile se lei si rivela collaborativa, ma se dovesse cominciare a parlare di suicidio o a opporre resistenza, ha il permesso del dottor Carter di essere dura con lei".

Annie deglutì a secco. I medici erano stati chiari, ma quell'infermiera le aveva messo addosso un terrore tale che voleva solo scappare a gambe levate.

No, quella è la vecchia Annie. Devo farmi forza, devo farlo per lei.

"Va bene, ho capito", rispose col tono più risoluto che poté.

Si avvicinò a passo deciso alla porta e bussò ancora: "Chi è?!", fece una voce sconosciuta.

Annie sbatté le palpebre e involontariamente si voltò a fissare Frannie, che le fece un cenno d'incoraggiamento con il capo: "Sono io Cand... Candice, Annie. Sono... una tua amica".

Come aveva fatto Frannie, Candy aprì personalmente la porta e per un attimo lei rimase senza fiato.

Che diavolo hai fatto ai capelli?! E cos'è quello sguardo gelido? Neanche la tua infermiera ha occhi così privi di vita.

"Cosa vuoi da me?", le sibilò quella Candy che non era Candy.

Annie lottò contro le lacrime e contro la voglia folle di abbracciarla e gridarle di tornare in sé e cercò di caricarsi di rabbia: "Non è così che si riceve una persona che dice di essere tua amica, Candice Ardlay. Ora posso entrare?".

Con la coda dell'occhio, vide l'infermiera fare un breve gesto compiaciuto e si gettò nell'ignoto. Sperava di reggere a tutto ciò che l'aspettava.
 
- § -
 
Archie si guardò il pigiama a righe nere con una smorfia di disgusto e ribrezzo: non era neanche tanto pulito, a dirla tutta. La doccia era gelida e quel diavolo di tubo con cui li avevano annaffiati non era stato certo un'acqua termale.

Inorridito dagli uomini che aveva accanto, si era passato il pezzo di sapone sommariamente sul corpo e si era affrettato a rivestirsi prima di prendere un malanno, di essere aggredito o... peggio.

"Attento alle spalle, bellezza!"

Anche Albert si stava rivestendo e notò con orrore le sue costole sporgere dal petto: poteva contarle una ad una.

Chi crollerà per primo?

Lui non era abituato a quella vita neanche lontanamente, al contrario di Albert che aveva vagabondato parecchio prima di concedersi gli agi che per lui erano del tutto naturali. E, anche ora, preferiva starsene sdraiato sull'erba che sprofondato su un divano o in una vasca da bagno moderna.

Ma Albert aveva subìto duri colpi in poco tempo, passando dalle stelle alle stalle con una velocità da capogiro: quando finalmente Candy era tornata e i due si erano dichiarati, lei aveva avuto quel terribile incidente che aveva cancellato completamente la sua personalità.

Archie aveva sofferto per il distacco da Annie ed era felice di averle parlato poco prima che scoppiasse la bomba. Ma non sapeva cosa l'avrebbe atteso al suo ritorno.

Se torneremo mai a casa...

"Sai, quando vivevamo alla Casa della Magnolia io e Candy avevamo dei pigiami a righe uguali. Non come questi, però: erano molto più carini". La voce di Albert era quasi un sussurro. Non sapeva se fosse perché non voleva che lo sentissero o perché fosse solo molto stanco: il cibo che passavano da quelle parti forse era cucinato appositamente per uomini che non avrebbero consumato calorie eccessive. Sperava solo che fosse più commestibile di quanto l'aspetto e l'odore suggerissero.

"Io non ho fatto neanche in tempo a vederlo, il pigiama di mia moglie. Perché non diventerà mia moglie e neanche so se vuole esserlo", disse senza alcun filo logico: era lì da un giorno e già cominciava a vaneggiare.

"Le hai parlato?", gli domandò Albert da dietro il muro.

"Sì, ma non so se mi rivorrà mai. Ho commesso un terribile errore, Albert. Il timore di aver perso Candy per sempre ha fatto venire a galla una verità distorta. Ho sempre mentito a me stesso e me ne sono reso conto solo quando Annie mi ha lasciato. Buffo, eh?".

Albert fece un grugnito come di disappunto: "Piuttosto direi stupido. Innanzitutto non saresti dovuto rimanere con lei se non eri sicuro di amarla totalmente".

Archie si sentì attaccato: "Ma io ero intenzionato a sposarla!".

"Archie, amare una donna significa non dormire la notte perché si pensa solo a lei e, quando ci si addormenta, sognarla ancora e ancora. Significa che lei è il tuo primo pensiero quando ti svegli al mattino. Significa volere il meglio per lei, anche a costo di gettarla tra le braccia di un altro uomo!". Il discorso accorato di Albert si concluse con un sospiro.

"Ed è quello che è successo a te con Candy, vero?", domandò conoscendo già la risposta.

In passato non ho mai sognato Annie, né l'ho pensata così spesso. Ora, invece...

"Se avessi saputo come sarebbe finita sarei stato meno riflessivo e le avrei confessato i miei sentimenti molto tempo fa...", disse piano.

"Quando ti sei accorto di amarla?", volle sapere. Parlare con lui di qualcosa che non fosse il carcere lo aiutava a calmarsi e a comprendere meglio suo zio.

Il silenzio prolungato gli fece temere che Albert si fosse addormentato o non volesse rispondere. Poi, con voce carica di emozione disse: "Credo di amarla da sempre, da quando l'ho incontrata su quella collina. Man mano che la vedevo diventare donna il mio sentimento maturava e oggi darei metà della mia vita per averla al mio fianco per sempre".

Archie sorrise: "Credo che tu abbia descritto più o meno quello che provo io per Annie, anche se per me la rivelazione è arrivata solo ora. Ma adesso devi parlarmi della collina. E della Casa della Magnolia dove vi siamo venuti a trovare quando eri senza memoria con Patty e gli altri. E dei pigiami", concluse con una risatina.

Anche Albert rise piano e cominciò a raccontare. Finché George non fosse tornato con le prime notizie, avevano tutto il tempo del mondo.

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Capitolo 34
*** Errori e strategie ***


Eliza stringeva la cornetta del telefono con un sorriso eccitato e rivolse uno sguardo a suo fratello. Ormai erano passate settimane dalla partenza del carico e lei voleva sapere se tutto era filato liscio: ma dovevano stare attenti.

Quando la cameriera rispose al telefono, fece la sua voce più innocente: "Sono Eliza Lagan, posso parlare con mio zio William, per favore?".

La pausa che seguì le fece battere più forte il cuore. Di fronte a lei, Neal dovette cogliere la luce che le si era accesa negli occhi.

"Mi dispiace, signorina, ma il signor Ardlay è in viaggio per lavoro", rispose la donna con voce leggermente tremula.

"Oh, è in viaggio di lavoro!", ripeté facendo un gesto di vittoria con due dita, mentre Neal agitava i pugni altrettanto allegro. "E dove è andato?", domandò sperando di non spingersi troppo oltre, ma non potendo trattenere la curiosità.

La cameriera divenne nervosa, lo poteva percepire da ogni parola: "Io... io non lo so, non ci è dato conoscere gli spostamenti dei signori".

"I signori?", ribatté Eliza alzando un sopracciglio e cogliendo l'espressione interrogativa anche sul volto di suo fratello.

"Sì, io... ecco, se vuole posso farla parlare con la signora, sua zia è...".

"Dimmi un po', Nancy, lo zio è partito con mio cugino Archie, per caso?". Gli occhi di Neil si spalancarono e la bocca gli si aprì a dismisura.

"Io... non lo so. Vado a chiamarle la signora", disse prima che il rumore forte della cornetta appoggiata senza delicatezza su un piano le facesse allontanare la propria dall'orecchio con una smorfia.

"Anche Archie?", mormorò Neil concitato.

Eliza coprì il telefono con una mano: "Credo proprio di sì, vediamo che dice la zia", ribatté parlando piano.

Tormentò il filo del telefono per minuti interi, finché finalmente udì la zia Elroy dall'altro capo: "Buongiorno, nipote, a cosa devo la tua chiamata?", chiese senza preamboli.
"Oh, zietta, che bello sentirti! Come vanno le cose lì a Chicago?", disse con tono allegro.

"Non ci lamentiamo, Eliza. Abbiamo dovuto assumere un'infermiera per prenderci cura di Candice". Perché la sua voce le sembrava improvvisamente dura? Eliza si accigliò.

"Come sta?", domandò andando dritta al punto.

"È ancora senza memoria, ma non credo che tu abbia chiamato per sincerarti delle sue condizioni. Come mai volevi parlare con William?". Eliza tentò di cogliere le diverse sfumature nella voce della zia ma non era facile: rimprovero? Ansia? Apprensione? Difficile dirlo, senza poterla vedere in viso.

Ignorò i gesti teatrali di suo fratello e usò il tono più innocente e leggero che le uscì: "Zia, stiamo aprendo un nuovo albergo e volevo invitarvi tutti qui per la festa che daremo! Ci sarà un ballo in maschera con tutta l'alta società della Florida e non solo. Pensi che lo zio tornerà entro una decina di giorni? Ti prego, dimmi di sì!", concluse come una bambina che chiede un giocattolo.

Neal le fece un segno col pollice a indicarle che la sua recitazione era stata perfetta.

Eliza udì un sospiro tremulo e si morse il labbro, in attesa: "Io... non lo so, Eliza. Si tratta di un viaggio molto lungo per incontrare nuovi investitori e non credo che William voglia sbrigarsi a tornare per un ballo. Sai com'è fatto".

Facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non urlare di gioia, Eliza affondò l'ultimo attacco. Tanto per essere sicura: "Che peccato! Beh, ora chiamerò a casa di Archie, spero che almeno mio cugino non mi deluda, anche se non gli sto molto simpatica!", ridacchiò.

"Non lo troverai. È partito con William", ribatté la zia con un tono così duro che per un attimo si sentì quasi accusata. Era un pensiero sciocco, tuttavia.

"Ma che peccato! Beh, pazienza. Vieni tu, zietta, ti sento molto tesa: forse hai bisogno di distrarti", concluse affettuosa, mentre Neil coglieva la sua occhiata e sorrideva da un orecchio all'altro.

Quando ci fu di nuovo silenzio, Eliza pensò che fosse caduta la linea: "Pronto? Zia Elroy, ci sei ancora?", chiese preoccupata.

"Non posso venire, Eliza, mi dispiace. Devo occuparmi della casa e con il problema di Candice... devo essere presente, mi capisci? Purtroppo tutte le responsabilità ora sono sulle mie spalle, anche quelle più sgradevoli".

Lei fece una smorfia, anche se sapeva che la zia non poteva vederla: "Già, non fa altro che causare problemi quella Candy! Perlomeno adesso lo zio non vorrà più avvicinarla", commentò acida.

"Sì, certo... Eliza, ora devo lasciarti. Ho un forte mal di testa e mi aspettano degli impegni con la servitù. Congratulazioni per l'hotel", concluse la donna.

"Oh, certo, zietta! Vai pure a riposare. A presto!", la salutò. Mentre stava per riattaccare, però, la voce della zia le trapanò i timpani anche se era bassa.

"Eliza? Come mai hai chiamato tu e non tuo padre o Sarah, per invitarci alla festa?". La voce era così fredda che per un attimo avvertì il gelo persino sull'orecchio.

"Perché faccio parte della famiglia, che domande! E mi fa piacere aiutare nell'organizzazione", rispose cercando di apparire naturale.

La zia sospirò di nuovo: "Bene, arrivederci Eliza".

Quando riattaccò fissò per un attimo la cornetta, avvertendo tutta la tensione accumulata.

"Allora? Sono... partiti entrambi?", le chiese Neil eccitato.

"Sì", rispose riattaccando a sua volta con lentezza.

"E allora cos'è quella faccia?", le domandò circospetto.

"Non so, la zia mi ha dato l'impressione di sospettare qualcosa", esplicitò quel pensiero facendo impallidire suo fratello.

"Come... come puoi dirlo? La zia è sempre stata dalla nostra parte! Tu stessa non mi hai dato peso quando quel sospetto lo avevo io!", protestò lui avvicinandosi.

Eliza si tormentò una ciocca di capelli: "Sì, ma non dimenticare che una sera ci ha beccati nello studio dello zio William a frugare nei suoi documenti. Ed era proprio quella sera", gli ricordò riferendosi a quando avevano sottratto il documento.

"E allora?", fece lui allargando le braccia. "Siamo parte della famiglia, come hai detto tu. Inoltre non farebbe mai nulla per tradirci, anche se dovesse avere un minimo sospetto".

"Già, ma...", Eliza odiò la sua voce tremante e si riprese in fretta, "ora stiamo trascinando giù i suoi cari nipoti e forse persino lei stessa. Sarebbe un motivo sufficiente per tradirci, non pensi?".

Eliza non si aspettava la reazione violenta di suo fratello: la prese per le spalle, stringendole come aveva fatto lo zio William il giorno in cui li aveva accusati di aver provocato l'incidente di Candy.

"Ascoltami bene, sorellina. Io ho avuto l'idea, ma tu l'hai assecondata. Ora non venirmi a dire che hai paura perché non ci credo. Non azzardarti a crollare perché ho in mente di andare fino in fondo. Ammetto che all'inizio avevo quasi paura e comunque non sono mai stato d'accordo con il tuo desiderio di eliminare Candy". Il tono era basso e pericoloso.

"Non sto crollando, lasciami! Anche io voglio andare fino in fondo, ma non posso nasconderti che la zia era... era... E comunque non l'ho uccisa, la tua preziosa Candy".

"No, ma ci sei andata vicino. E ti ripeto che io non sono un assassino, ma uno stratega: quindi ora cerchiamo di fare in modo che la notizia della presunta incarcerazione del patriarca degli Ardlay arrivi ai giornali. Così, anche se dovessero provare la sua innocenza, lui sarà comunque distrutto e noi saremo gli unici degni di rappresentare la famiglia".

Eliza annuì, invidiando per un attimo la sicumera del fratello: pensava fosse lui quello più fifone, ma in quel momento i ruoli si erano invertiti. Lui non aveva parlato con la zia, ma lei sì.

"Bene", disse schiarendosi la voce e liberandosi finalmente della sua stretta, "sono sicura che i nostri uomini conoscano giornalisti in grado di farsi passare informazioni dalla polizia senza troppi problemi. Magari ci costerà un po'... quanto ti è rimasto sul conto?", riprese tentando di riacquistare sicurezza. Se avessero mosso bene quelle ultime pedine, sarebbe stato un successo.
 
- § -
 
"Il carico è arrivato a Londra assieme a una consegna di materiale senza documenti, ma con regolare bolla di accompagnamento timbrata dalla Whisky and Wine Company".
Si prese la testa fra le mani, cercando di ricordare: gli sembrava di essere tornato un amnesico senza passato.

"Ho firmato molti documenti durante le scorse settimane, George, non posso ricordare ogni singola bolla", disse strofinandosi le tempie.

"Hai letto tutti i documenti, vero?", gli chiese il suo braccio destro accigliandosi.

Albert fissò gli occhi sul muro scrostato della sala dedicata agli incontri con i familiari: a parte le tre sedie e un tavolo vecchio e con il legno marcio non c'era altro, neanche una finestra per guardare che tempo facesse in quel momento.

"Come sta Candy?", domandò, invece di rispondere alla sua domanda. Aveva bisogno come l'aria di saperlo. Ne aveva bisogno ancora di più che della sua libertà.

George emise un sospiro rassegnato e Archie ripeté la domanda, inserendosi nella conversazione: "La signorina ha avuto un collasso, qualche giorno fa, ma in ospedale hanno detto che può succedere a causa della sua scarsa forma fisica e dei ricordi che lei tenta di scacciare con tutte le sue forze. Tutto è tornato sotto controllo, non deve...".

Albert si alzò dalla sedia di scatto, facendola rovesciare: "Perché non mi avete avvisato? Come è successo? Come sta ora?", gridò senza fiato.

"Albert, per favore, calmati, allerterai la guardia così!", lo redarguì il nipote alzandosi e prendendolo per un braccio.

"Signorino William, cosa avrebbe potuto fare lei da qui? E comunque si calmi, Candice sta bene e la signora Elroy ha voluto per lei sia l'infermiera Hamilton che il dottor Carter. La seguono praticamente ventiquattro ore su ventiquattro. Inoltre a casa c'è anche la signorina Annie". George sembrava davvero pentito di avergli dato quell'informazione.

"Annie?". Mentre Albert cercava di ritrovare la calma e raccoglieva la sedia, vide Archie stringere i pugni per la tensione.

Non sono il solo ad aver lasciato indietro qualcosa.

Cercò di rimanere tranquillo e di non lasciarsi trasportare dalla preoccupazione quando George raccontò loro di come i medici raccomandassero prudenza, ma al contempo suggerissero di indurla a venire a patti col suo passato.

"Ma è assurdo, come può fare entrambe le cose allo stesso tempo?", chiese quasi a se stesso, socchiudendo gli occhi e scuotendo la testa.

"La signorina Annie è sua amica e cercherà di accompagnarla in questo delicato percorso mentre il dottor Carter proseguirà con le sedute di ipnosi", spiegò George con tono calmo.

"Ma potrebbe avere un altro collasso, o peggio!", esclamò frustrato, alzando di nuovo la voce.

"Se non la spingono un po' potrebbe lasciarsi morire!", ribatté l'uomo con voce ferma e un po' più alta di prima. "William, se davvero vuoi aiutare la signorina Candice dobbiamo farti uscire di qui. Dimmi se hai letto quei documenti".

George raramente passava a dargli del tu: era successo solo quando lui aveva espresso il desiderio di andarsene in Africa e quando era tornato, dopo aver fatto perdere le sue tracce e preoccupare l'intera famiglia.

Il suo corpo tremava, la rabbia e la frustrazione a malapena contenute gli scorrevano nelle vene al posto del sangue. Sentì di nuovo la mano di suo nipote sul braccio e si ricordò che anche lui aveva bisogno di un supporto: ma quando si parlava di Candy perdeva il controllo, non poteva farci nulla.

Devo ritrovare la mia integrità. Devo essere lucido.

"Leggo sempre i documenti prima di firmarli. Però...", aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di ricordare.

"Però?", chiese George alzando un sopracciglio.

Albert si passò le mani sul viso e sugli occhi, come se con quel gesto potesse aiutare i particolari a riemergere: "Era il periodo in cui Candy era in ospedale, ricordo di aver firmato il documento principale dove c'era anche la firma di Archie, ma mi sembra che mancasse l'allegato con la specifica delle merci".

"E l'hai inviato lo stesso senza dire niente?", si sorprese l'uomo di fronte spalancando gli occhi.

"Zio William, non è da te fare questi errori", rincarò la dose Archie guardandolo in tralice. "Allora è tutto lì l'inghippo. Qualcuno ha fatto sparire quell'allegato e inserito una bolla col timbro della distilleria, possibile?".

Albert alzò gli occhi al soffitto: "Lo so, lo so, ma abbiate un po' di comprensione! Non sapevo ancora se Candy sarebbe sopravvissuta! Archie, avresti sbagliato anche tu se Annie fosse stata...". Non terminò la frase: il modo in cui il nipote aveva distolto lo sguardo era più che eloquente. "Mi pare di aver anche pensato di dirtelo, il giorno dopo, ma poi...".

La sua frase si perse in un silenzio pesante.

"E comunque questo non spiega come mai siano arrivate a Londra due casse di whisky senza che noi abbiamo dato il consenso. Partite da Lakewood, peraltro! Dove Eliza e Neal sono stati fino a poco tempo fa", rincarò la dose Archie.

"Ormai è chiaro che tutti sospettiamo di loro, ma mi sfugge tutto il resto: come avrebbero fatto a spedire da lì senza essere scoperti? E come ha fatto la polizia a risalire subito a noi? Significa che qualcuno dell'azienda ci ha additati pur non conoscendo la provenienza esatta delle casse". Confuso, Albert scosse la testa.

"Bene, signorino William, penso che dovrò venire qui con gli avvocati perché possa raccontare loro esattamente cosa è successo e quali sono i suoi dubbi. In tribunale saranno presentate le prove e se c'è una bolla di accompagnamento di cui non siamo a conoscenza potrebbe rivelarsi fondamentale". George era tornato al lei come se nulla fosse.

"Ma, scusami, se l'unica evidenza che ci collega a quel carico è la provenienza da Lakewood, perché noi siamo qui adesso?", domandò Archie, stizzito.

"Perché si tratta comunque di una delle vostre residenze. La Whisky and Wine Company, inoltre, è ancora in parte di proprietà del signorino William, senza contare la somma mensile a titolo di donazione", George scosse la testa. "Infine, sul documento principale con gli accordi economici con la Scott Corporation compaiono comunque le firme Ardlay e Cornwell. Per questo motivo vi hanno reclusi preventivamente e... bloccato i conti".

"Cosa hanno fatto?", Albert era esterrefatto. Poi si ricordò che la polizia aveva già accennato a qualcosa del genere il giorno del suo arresto.

"Si tratta di una procedura assolutamente normale, in questi casi, ma confido che torni tutto nella norma quando vi rilasceranno", dichiarò George prendendo la borsa che aveva con sé e tirandone fuori due sacchetti di carta marrone.

"Sembri molto fiducioso", disse Archie con tono poco convinto, allungando una mano per prendere quello che gli porgeva. Albert fece lo stesso.

"Lo sono, infatti. Tornerò tra qualche giorno con gli avvocati, cercate di stare tranquilli". Albert aprì l'incarto e vide che dentro c'era una grossa fetta del suo dolce preferito. Quella semplice vista fu sufficiente a fargli salire le lacrime agli occhi: non si era reso conto di quanto gli mancasse casa finché non aveva visto quell'incarto.

"È stata la zia a volercelo mandare, vero?", la voce di Archie era incrinata: anche lui si era commosso a quel gesto.

"Sì, è molto preoccupata che non vi nutriate abbastanza, qui. Soprattutto lei, signorino William".

Albert sorrise, chiudendo la busta e strofinandosi gli occhi con due dita in un gesto stanco: "Non è facile mandare giù una zuppa di fagioli vecchi e pane raffermo tutti i giorni, ma ho mangiato di peggio e mi posso adeguare. Quello che sta messo male è Archie, che è abituato ad anatra all'arancia e patate al forno", scherzò guardandolo di traverso.

"Senti chi parla! Non eri tu quello che ieri ha detto che avrebbe dato un braccio per un po' di uova con la pancetta?", rimbeccò lui.

"Touché".

Incontrò gli occhi di George e li vide brillare.

Così voglio vedervi: morale alto. Ne usciremo.

Lo so, ma ho paura.

Anche io, ma farò di tutto, lo giuro sulla tomba di tua sorella e dei tuoi genitori.

Così Albert immaginò che i loro sguardi conversassero. D'altronde lo aveva sempre pensato: nonostante avesse solo una quindicina di anni più di lui, era sempre stato come un padre.

"Bene, signori. Tornerò quanto prima con gli avvocati", cominciò ad accomiatarsi, alzandosi e riprendendo la valigetta.

"George", lo richiamò Archie, "ti prego, dì ad Annie... che la penso".

Lui annuì con un leggero sorriso, poi guardò Albert. Stavolta le parole uscirono dalle sue labbra senza fermarsi nello sguardo: "Assicurati che Candy stia sempre bene e tranquillizza la zia".

"Mi prenderò cura di loro, lo prometto".

George si infilò il cappello, nero come il completo elegante che portava, e uscì dalla stanza. Lui e Archie rimasero per un po' seduti e Albert si accorse che il nipote aveva gli occhi rossi per il pianto trattenuto: stava guardando il dolce e sembrava inebriato dal suo profumo.

"Perché non ce lo mangiamo prima che tornino a prenderci?", propose Albert, dandogli una pacca sulla schiena.

"Pensi che le guardie possano rubarcelo?", chiese lui con espressione quasi oltraggiata.

"Sai che possiamo aspettarci di tutto, qui dentro. Ma se siamo più furbi di loro non ci accadrà nulla. D'altronde è un luogo di detenzione, non una specie di spazio punitivo". Non credeva lui per primo alle proprie parole, ma fece di tutto per essere convincente.

"E che mi dici dei tizi nelle docce? Ho pensato che preferisco rimanere sporco piuttosto che rischiare la pelle o... o... altre cose". Archie arrossì e Albert non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

Meglio prenderla con filosofia.

"Tranquillo, Archie, sono certo che prima che possano rubare la tua virtù lotterai strenuamente", dichiarò tuffando il naso nell'incarto. Il profumo di vaniglia inondò i suoi sensi e Albert diede un grosso morso alla torta assaporando i canditi che erano stati messi all'interno, come piaceva a lui.

Archie lo imitò e rimasero un po' in silenzio, gustandosi il loro dolce. Albert era certo che, finché non si fossero focalizzati sul problema, il senso di oppressione e di rabbia sarebbe rimasto lontano. A parte quel giorno, evitavano accuratamente di affrontare l'argomento: ci sarebbe stato tempo, davanti al giudice, di parlarne per dimostrare la loro innocenza.

E sarebbe andato tutto bene.

L'ultimo boccone di dolce lo fece quasi rinascere e Albert sentì la speranza rifiorire in lui, come se il pieno di zuccheri lo avesse rinvigorito. Accartocciò la carta e centrò il cestino al primo colpo, proprio mentre una delle guardie tornava indietro per riportarli in cella.

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Capitolo 35
*** Scomode verità ***


L'aria del tribunale era soffocante. Quel banco degli imputati era soffocante. I volti dei giurati gli parvero quelli dei membri del Consiglio che volevano che lui fosse un ragazzino serio e invisibile agli occhi del mondo. Ma William Albert Ardlay rimase impassibile e freddo mentre l'avvocato dell'accusa tirava fuori le prove che avrebbero dovuto schiacciare lui e Archie.

O, almeno, ci provò.

Fissò l'ometto, che doveva a malapena arrivare a cinque piedi e mezzo* di altezza ma emanava, con la sua sola presenza, un carisma innegabile: d'altronde, rappresentava lo Stato dell'Illinois che stava cercando di scrollarsi di dosso la responsabilità dell'errore di uno dei suoi cittadini più in vista.

"Signor Ardlay, conosce la Whisky and Wine Company?", gli chiese con la sua voce nasale.

Albert aggrottò le sopracciglia, cominciando a sentire un sapore amaro in gola: "Sì, era una delle mie distillerie, ma è ferma da tempo".

"Mi risulta che le quote della famiglia Cornwell siano state ritirate non appena l'azienda ha chiuso, ma quelle degli Ardlay siano rimaste intatte. E vedo anche un generoso assegno mensile. Cos'è, voleva fare opera di beneficienza?", domandò attirando qualche risata.

Albert serrò la mascella e i pugni, desiderando solo fare a pezzi il banco degli imputati: "Volevo garantire loro una vita dignitosa nonostante il proibizionismo. Hanno delle famiglie da sfamare", rispose con tono duro.

L'avvocato inarcò le sopracciglia nere e folte e assunse un'espressione di stupore che gli fece venir voglia di prenderlo a pugni: "Oh, lodevole da parte sua! Oppure, molto banalmente, pensava che sarebbe potuto tornarle utile avere una base per produrre e smerciare whisky sotto banco. Magari incastrandoli quando le cose fossero diventate pericolose".

"Obiezione!", intervenne il suo avvocato difensore alzandosi in piedi. "Si tratta di una conclusione dettata da una semplice supposizione".

Albert gli lanciò uno sguardo grato e il giudice accolse l'obiezione, chiedendo all'accusa di fornire prove.

"Ne sarò lieto, Vostro Onore".

Mentre l'avvocato dell'accusa armeggiava con la pila di documenti, Albert sentì le mani tremare: sapeva di essere innocente e che qualcuno, forse i suoi stessi nipoti, lo aveva incastrato.

Udì distintamente l'ansito di Archie, seduto di fronte a lui accanto ai loro avvocati, quando l'uomo alzò in aria due fogli: "Questo nella mia mano sinistra è il contratto che lega gli Ardlay e i Cornwell alla Scott Corporation. Nella mia mano destra potete vedere invece una bolla di consegna su cui compare chiaramente il timbro della Whisky and Wine Company. In quest'altro documento, invece...", proseguì cercando ancora, mentre lui sentiva il fiato diventare affannoso per la rabbia mal contenuta. "Questo documento ci è stato fornito dalla polizia di Scotland Yard che ha controllato i numeri di serie delle bottiglie incriminate e ha fatto un controllo incrociato con i nostri agenti riguardo i lotti mancanti nella residenza di Lakewood. A parte l'evidente vuoto sugli scaffali, i numeri coincidono".

"Impossibile! Non c'era nessuno a Lakewood che potesse consegnare quei distillati!", si alzò in piedi, incapace di trattenersi.

"Signor Ardlay, la prego di rimanere seduto e in silenzio!", tuonò il giudice sbattendo il martelletto sulla base.

Respirando a fondo per calmarsi, Albert sedette e attese che l'avvocato della difesa intervenisse, cosa che fece puntualmente, chiedendo il permesso di controbattere, mentre un pallido Archie si portava le mani alla testa.

"Vostro Onore, parto dalla fine: la retata che è stata fatta a Lakewood è avvenuta in un momento in cui solo pochissimi uomini della servitù erano presenti. La villa era disabitata dai padroni da giorni e, non avendo questa bolla delle date, non possiamo escludere che quelle bottiglie siano state prelevate senza consenso da parte dei miei assistiti. Ricordo ai signori giurati, inoltre, che la distilleria in oggetto è attualmente sotto indagine per aver ripreso segretamente la sua attività e nessuno dei suoi componenti ha mai messo piede in quella residenza, né in altre appartenenti ai Cornwell o agli Ardlay. Chi ci assicura che la Whisky and Wine Company non stesse operando in piena autonomia? E come potete essere certi che quelle casse di whisky non siano rimaste nei loro magazzini quale esempio per le produzioni passate? Vi ricordo che si tratta di distillati scozzesi invecchiati da decenni che il mio cliente intendeva far riprodurre fedelmente".

Albert si rilassò alle parole del suo avvocato e scoccò un'occhiata all'accusa. L'ometto si schiarì la gola, superando subito il disagio: "Bene, signori giurati", disse cominciando a passeggiare su e giù con i fogli ancora in mano, "visto che ci stiamo basando su prove circostanziali, lasciate che vi esponga il mio, di ragionamento: qualche settimana fa la villa di Lakewood è stata usata dai suoi proprietari per festeggiare un... uhm... ritorno in famiglia", puntualizzò consultando un documento. "Secondo la servitù erano presenti sia il signorino Cornwell che il signor Ardlay, nonché la matriarca della famiglia e altri nipoti. I due imputati, quindi, avrebbero ben potuto ricevere un corriere cui affidare le casse di whisky e procedere con la solita donazione a prezzo conveniente in favore della Scott Corporation usando la Whisky and Wine Company come semplice prestanome".

"In nome di Dio, perché avrebbe dovuto incastrare una società che voleva solo sostenere affinché sopravvivesse? E con una quota ancora attiva, per di più!", controbatté il suo avvocato, perdendo per un attimo la calma.

"Perché sono in combutta, ecco perché! Il signor Ardlay ha convinto la distilleria a prestarsi al gioco con la promessa di forti somme di denaro, assicurando che nessuno di loro sarebbe stato scoperto! Le ricordo che, nonostante i suoi consiglieri, il capofamiglia degli Ardlay è stato un vagabondo per molti anni e può commettere errori ingenui come usare un prestanome senza ritirare le sue quote!".

"Questa è un'accusa assolutamente infondata!".

"Signori, ordine!", urlò il giudice sbattendo di nuovo con forza il martelletto per troncare quella conversazione e il vociare generale. "Avvocati, vi ricordo che questo non è un confronto fra voi due, d'ora in avanti non tollererò più incursioni dalla difesa finché non sarà il suo turno! Inoltre chiedo all'accusa di presentare testimoni o prove più chiare prima di fare certe affermazioni".

A quella frase, l'ometto dell'accusa sembrò gonfiarsi di sicurezza e s'impettì, trasmettendo ad Albert un brivido di terrore lungo la schiena: "Oh, ma io i testimoni li ho: posso farli entrare, con il suo permesso, Vostro Onore?", chiese facendogli cadere un macigno sulle spalle.
- § -
 
Annie aprì la finestra della camera di Candy per far entrare sole e aria nuova. Dalla specchiera, Candy emise un grugnito di protesta: "Perché l'hai fatto?", chiese spazzolandosi i corti capelli con gesti veloci e rabbiosi. Glieli aveva pareggiati lei stessa, ma continuavano a ricadere in ciocche scomposte sulle spalle e poco più giù, perché alcune erano più arricciate e altre meno. Se avesse potuto, l'avrebbe portata in un salone di bellezza.

"Perché c'è odore di chiuso e tu hai bisogno di respirare aria nuova, te lo stiamo dicendo da tempo", ribatté Annie indicandole l'esterno. "Forse tra qualche giorno potremo trasferirci a Lakewood", aggiunse ricordando le parole del dottor Carter.

Candy sbatté la spazzola sul comodino e si alzò in piedi di scatto: "Io non vengo da nessuna parte!", sbottò voltando le spalle a lei e alla finestra. Forse alla vita stessa.
Annie prese un respiro profondo e incrociò le braccia, facendo qualche passo verso di lei: "Bene, Candice. Che vita vuoi fare, dunque? Pensi di rimanere chiusa in questa stanza per sempre? Non vuoi costruirti un futuro... che so, lavorare, studiare o qualsiasi altra cosa?".

La ragazza che era stata sua amica e sua sorella proruppe in una risata così sguaiata e priva di emozioni che ad Annie si gelò, ancora una volta, il sangue nelle vene: "E cosa dovrei andare a fare, l'infermiera?".

"Io non...". In realtà non aveva parole. Ora Candy incedeva verso di lei, a piccoli passi.

"Sono stata adottata da una famiglia ricca e c'è un uomo, là fuori, che sta praticamente ai miei piedi. Se gli chiedessi di farmi stare in questa stanza per sempre mi regalerebbe tutta la casa. Perché avrei bisogno di lavorare o uscire di qui?", chiese con un sorrisetto sbilenco degno di Eliza Lagan.

Quell'uomo sta rischiando di perdere tutto e questo impero potrebbe crollare da un momento all'altro. Oh, Candy, se solo fossi in te e sapessi, non staresti meglio della povera zia Elroy che giace malata da giorni per il dolore!

"Mi sembrava di aver capito che non volessi nulla da queste persone, Candice. Ora, tutto a un tratto te ne approfitti?". Annie aveva parlato a lungo con il medico di Candy e sapeva quanto dovesse spingersi in là, con lei. Raccontarle che avevano condiviso lo stesso orfanotrofio non aveva dato i frutti sperati, lei si era semplicemente limitata a un'alzata di spalle, così non aveva approfondito l'argomento: perlomeno non aveva avuto altri attacchi di mal di testa. Quindi decise di concentrarsi sul presente.

"Perché non mi lasciate in pace?", gridò scuotendo la testa. "Perché diavolo non mi avete lasciata morire?!".

"Parli sempre di morire, ma mi sembra che tu sia qui, davanti a me! Lo ripeti solo per attirare l'attenzione su di te, Candice? O lo fai per spaventarci? Il tuo gioco non regge più!". Il suo tono era diventato tagliente e questo le costò parecchio. Ma era esattamente il punto a cui voleva arrivare.

"Ma come ti permetti di...?!". Il suo volto era una maschera di rabbia.

"Tu non vuoi davvero morire, Candice, sei solo una bambina capricciosa che non vuole affrontare la realtà perché ne ha una paura del diavolo!", s'infuriò Annie, chiudendo la distanza tra loro e scuotendole le spalle. Poi tentò un affondo finale: "Dove è finita la ragazzina che si arrampicava sugli alberi e mi faceva da mamma e da papà?! Dove è finita la donna che ha affrontato la vita sgomitando e rialzandosi a ogni singola caduta? Ero io quella debole, Candy, non tu!".

"NON CHIAMARMI CANDY!", urlò fuori controllo artigliandosi ancora i capelli.

"Smettila con questa recita!", non si lasciò intenerire e le tolse le mani dai capelli afferrandola per i polsi e guadagnandosi un'occhiata stupefatta.

"Non sto recitando, io... io... odio... la vita...". La furia di poco prima sembrò sgonfiarsi un poco e i muscoli tesi delle braccia di Candy si rilassarono. Annie allentò la presa.

"No, Candice, tu amavi la vita. Per questo non ti sei mai arresa. E noi non ti permetteremo di farlo ora", disse con voce più dolce, cercando di dominare il bisogno di abbracciarla.

"Lasciami sola", sibilò a voce bassa, sedendosi sul letto di peso.

"No". Annie sentiva le lacrime iniziare a pungerle gli occhi e si maledì. Cominciava a capire come mai Albert fosse crollato e sperò che lui e Archie si sostenessero a vicenda lì, dove erano detenuti.

"Ti ho detto di lasciarmi sola!", urlò Candy facendola sussultare. Annie sapeva che nell'altra stanza c'erano l'infermiera Hamilton e il dottor Carter e sperò che nessuno dei due entrasse. Doveva farcela, perché se non ci fosse riuscita lei non ci sarebbero state ipnosi o cure che tenessero: Candy sarebbe stata persa per sempre, forse.

"Quando mi hanno adottata tu eri molto triste, ma non l'hai mai dato a vedere", cominciò a raccontarle.

"Sei sorda?! Ti ho detto di andartene fuori di qui, non voglio sentire le tue stupide storie!". In piedi, con le spalle alla finestra, Annie poteva vedere le mani di Candy tremare e il petto che si alzava e abbassava come fosse in affanno.

"Inizialmente i Brighton volevano adottare te, ma eri uno spirito libero che preferiva restare alla Casa di Pony. Inoltre ci eravamo giurate che non ci saremmo separate. Mai". Annie non poté più impedire alle lacrime di scorrerle lungo le guance, ma pensò che ormai non facesse molta differenza.

Candy si portò le mani alla testa, dondolando avanti e indietro: "Perché devo ascoltarti, perché non fai solo quello che ti ho chiesto e te ne vai?". Ad Annie parve che si fosse quasi arresa suo malgrado, così prese il coraggio a due mani e continuò.

"Ma io volevo tanto una mamma e un papà", disse con voce colma di emozione, portandosi le mani al petto, "così tu hai fatto di tutto per risultare sgradevole ai Brighton, hai persino preso una delle lenzuola bagnate di Slim per mostrare loro che facevi ancora la pipì a letto". Inarcò le labbra in un sorriso a quel ricordo e Candy alzò finalmente la testa per guardarla con qualcosa di molto simile allo stupore.

"Che cosa?!", il suo tono indignato così vicino a quello della vecchia Candy le scaldò il cuore e Annie usò tutto il proprio autocontrollo per non gioirne troppo.

"Oh, sì, l'hai fatto", aggiunse con un'alzata di spalle, asciugandosi il viso. "Alla fine hanno scelto me e quando ti ho detto che mi dispiaceva lasciarti sola... mi hai rassicurata. Volevi che io avessi una mamma e un papà perché lo desideravo tanto, forse anche più di te. Sei stata così coraggiosa, mentre io...". Ricordando le parole della sua madre adottiva che voleva impedirle di sbandierare ai quattro venti le sue origini, inducendola persino a rinnegare Candy, Annie divenne di nuovo triste e smise di parlare, inclinando il viso di lato e mordendosi il labbro.

"Mentre tu... cosa?". La voce di Candy era forte e chiara, ma lei vi colse una sfumatura d'interesse che le fece aumentare il battito cardiaco. Ci stava riuscendo davvero? Stava aprendo un qualche tipo di breccia nel suo cuore e nella sua memoria?

"Io sono stata un'ingrata, Candy", rispose dandole le spalle e raccontandole per sommi capi di come avesse fatto finta di non conoscerla quando si erano riviste a casa dei Lagan. Sapeva che le era stato raccontato da Albert che la sua adozione era sopraggiunta solo a seguito di un comportamento scorretto da parte della sua prima famiglia adottiva, ma evitò di addentrarsi in particolari sgradevoli. Non era certo necessario che si ricordasse di Eliza o di Neal.

"Questi Lagan... cosa mi hanno fatto?", chiese invece lei. Ancora domande, ancora curiosità. Davvero avrebbe dovuto parlarle di loro? Di loro, che forse erano i diretti responsabili di ciò che le era accaduto?

"Loro... non ti volevano bene. Cercavano una dama di compagnia per la loro figlia viziata e ti hanno sempre trattata come una serva". Annie optò per la verità, voltandosi e scrutando con attenzione le reazioni di lei.

Candy si accigliò, facendo una smorfia di disgusto: "E perché diavolo mi hanno mandata in un posto simile? Volevano disfarsi di me perché ero troppo grande e pesavo sul loro bilancio mensile?".

Quella frase stridette nelle orecchie di Annie come un'unghia su un vetro: "No, Candice, sei stata tu a volertene andare perché non volevi più pesare su Miss Pony e Suor Lane. E volevi essere indipendente e fare la tua vita".

Candy ridacchiò. Quella risata di donna altezzosa che tanto aveva imparato a odiare: "Sono stata davvero così idiota? Oppure in quel posto che chiami Casa di Pony non ci davano abbastanza da mangiare e ci frustavano?".

La rabbia cominciò a pervadere Annie, che strinse i pugni e fece un passo verso di lei: "Quelle donne ci amavano tutti come fossimo loro figli! Siamo state cresciute nell'amore e nel rispetto".

"E allora perché ho fatto una cosa tanto stupida?!". Il tono di Candy si era di nuovo alzato e sembrava arrabbiata anche lei.

Annie ritrovò una parvenza di calma: "Perché hai sempre pensato prima agli altri che a te stessa. Sempre. Miss Pony e Suor Lane mi hanno sempre raccontato che tu non ti lamentavi mai con loro, nonostante le sofferenze cui i Lagan ti sottoponevano".

Candy fece un grosso sospiro e rimase in silenzio, come se stesse riflettendo. Annie sedette vicino a lei sul letto, felice che non le chiedesse di nuovo di andarsene o di lasciarla sola. Invece le domandò: "Come è successo che questo prozio William mi ha scovata a casa dei Lagan e ha deciso di adottarmi?".

Come poteva risponderle senza menzionare Archie, Stair e... Anthony? Annie si sentì d'improvviso tirata in due direzioni: Candy stava finalmente mostrando interesse per il suo passato e ascoltava senza mostrare malessere. Ma cosa sarebbe accaduto quando si fossero avvicinate al nocciolo del suo problema attuale?

Il dottor Carter le aveva detto che il suo rifiuto e il suo terrore partivano dall'incidente di Anthony, forse proprio perché lei ne era ancora traumatizzata ed era a sua volta caduta da cavallo. Ancora non era chiaro perché provasse tanto odio per Albert, oltre che diffidenza verso chiunque dicesse di esserle amico, ma forse tutto era collegato in qualche maniera.

"Dunque? Non eri tu che non vedevi l'ora di raccontarmi il mio fantastico passato?", la stuzzicò lei alzando un sopracciglio con aria interrogativa e persino arrogante.

Ti riporterò indietro, Candy, a ogni costo.

"Perché glielo hanno chiesto i suoi nipoti, che ti volevano molto bene e cercavano sempre di proteggerti. Loro abitavano a Lakewood, a quel tempo, e i Lagan fanno parte dello stesso clan Ardlay", le spiegò in maniera sommaria e un po' confusa.

Gli occhi di Candy si restrinsero: "Nipoti", ripeté come se stesse soppesando l'informazione. "Quindi volete portarmi a Lakewood, in quella casa, perché io li incontri e mi ricordi di loro e di tutto il resto?". Sembrava davvero disgustata da quella possibilità.

Ad Annie si strinse il cuore e cercò le parole giuste per darle una risposta. Sperava solo che il dottore e l'infermiera fossero sempre nella stanza accanto per ogni evenienza.
"Loro... non si trovano lì", riprese cercando di controllare il respiro che era sempre più corto. "Archie... Archibald è in viaggio con lo zio William, mentre gli altri... gli altri...". Senza che se lo potesse impedire, le spalle cominciarono a sussultare, la gola si bloccò e Annie fu costretta a seppellire il viso tra le mani. Faceva ancora male pensare a Stair e alla sofferenza di Archie in quel periodo oscuro delle loro vite. Soffriva anche per Anthony, nonostante lo avesse conosciuto appena.

"Che hai da frignare, sono per caso morti?". Di nuovo quel tono. Arrogante, altezzoso, freddo.

Annie rialzò il viso guardandola con rabbia: "Sì, Candy, Stair è morto in guerra e Anthony... è morto cadendo da cavallo!". Voleva essere meno drastica e dirglielo con maggiore delicatezza, ma aveva perso il controllo. Non sopportava più i modi di quella nuova Candy, anche se sapeva che non era tutta colpa sua.

Le sue parole così dure, però, ebbero effetto su di lei che si ritrasse sbattendo le palpebre come se l'avesse appena picchiata forte. "Scu... scusami, non volevo dirtelo così", tentò, ma lei allungò un braccio come a tenerla lontana, mentre si protendeva istintivamente per toccarla.

"Non ti avvicinare". Ora era Candy ad ansimare, violentemente come se stesse per perdere i sensi. "Anthony", ripeté a bassa voce, massaggiandosi le tempie, rannicchiata su se stessa e con i gomiti poggiati sulle ginocchia.

"Candy...", tentò di nuovo allungando una mano fino a sfiorarle la schiena.

Le si rivoltò come una leonessa ferita: "TI HO DETTO DI NON AVVICINARTI E NON TOCCARMI!", gridò mentre Annie si ritraeva con un gemito.

Rimase voltata verso di lei, a guardarla con occhi vacui che cominciarono presto e perdersi come se le vedesse attraverso. Si portò le mani alla testa, spingendole forte ai due lati e la voce che le uscì, flebile e piangente, le ricordò per un attimo quella della vera Candy: "Anthony... Anthony... Albert...".

Le pupille si rovesciarono all'indietro e il corpo si afflosciò come quello di una bambola rotta. L'accolse fra le braccia chiamandola tra i singhiozzi, terrorizzata, accecata dalle lacrime, sentendosi in colpa e fu appena consapevole della porta che si apriva e delle due persone che entravano per soccorrerla.
 
 
- § -
 
Archie camminava avanti e indietro, con i nervi a fior di pelle, mangiucchiandosi le unghie come una ragazzina isterica. Forse, nella stessa maniera di Eliza Lagan mentre pensava a come incastrarli. Infuriato al solo pensiero della cugina, Archie scagliò un pugno nel muro, un gesto decisamente più virile che gli ferì la mano a sangue ma ebbe il potere di scaricare un po' la tensione.

"Non è colpendo il muro che risolverai le cose, Archie", lo redarguì la voce di suo zio dalla cella accanto.

"Beh, solo tu potevi rimanere impassibile davanti a quei due malfattori! Ma l'hai visto il capo della distilleria? Sembrava terrorizzato mentre ti accusava ingiustamente! Sarebbe chiaro anche a un bambino che è stato corrotto", gridò sentendo la rabbia divampare di nuovo.

"Sì, ma è servito all'accusa per fare il suo gioco. Chiunque voglia incastrarci, però, non ha fatto i conti con i nostri avvocati: quando sarà il turno della difesa quell'uomo crollerà, ne sono certo".

Archie fece un sospiro di disappunto: "Già, ma che mi dici del corriere? Sembrava così convinto che fossi stato tu a commissionare il ritiro che oserei dire che è un professionista! Come ha detto? Oh, il signor Ardlay non era presente ma la casa era indubbiamente sua. Mi hanno detto di organizzare due colli e spedirli fino al porto, non so cosa sia successo dopo".

"Archie, sappiamo che si tratta di accuse che si reggono a malapena, ma se la difesa farà le domande giuste anche lui potrebbe tradirsi. Gli chiederà particolari della casa che non può aver visto su un giornale o in fotografia e sentiranno anche la zia Elroy e la servitù, così da confermare che non è stato mai prelevato nulla da quella maledetta cantina!". Ora Albert sembrava agitato.

"Già, ma ti ricordo che il tipo ha sostenuto di aver fatto il ritiro in un giorno in cui non c'era nessuno di noi. Chiunque stia facendo tutto questo sa benissimo quali sono stati i nostri movimenti nelle ultime settimane. Ancora qualche dubbio sui colpevoli?", domandò stizzito.

"Non lo so, Archie, un piano così elaborato ha bisogno di un sostegno e di corruzione di persone... ci dev'essere qualcuno di molto più in alto dei fratelli Lagan".

"Quindi pensi che non siano coinvolti?", domandò alzando la voce di un'ottava.

"Non sto dicendo questo, ma potrebbero aver chiesto il supporto di qualcuno... non molto raccomandabile, se capisci cosa intendo. Se solo potessi parlare con Raymond...". La frustrazione che trasudava gli evocò l'immagine di Albert che si passava le mani tra i capelli.

"Già, ma non puoi. Dobbiamo solo aspettare e sperare che tutto vada per il meglio". Archie si sentiva svuotato, privo di forze e si accasciò seduto sul letto, con i gomiti poggiati sulle ginocchia. Voleva gridare. Voleva piangere. Voleva correre lontano da quell'incubo. Voleva la sua Annie.

"Archie?", sentì Albert chiamarlo ma in quel momento era lui a essere depresso. Non rispose. "Archie, non è arrendendoci che risolveremo le cose. Me l'hai detto tu, una volta. Io credo nella giustizia e so che siamo entrambi innocenti".

Sgonfiato di tutta la rabbia come un palloncino, Archie si sentì di nuovo vulnerabile ed esposto: sembrava che lui e Albert fossero d'accordo per alternarsi in quello stato di sfiducia. Ma che sarebbe accaduto quando entrambi avessero smesso di lottare?

"Mi manca Annie. Voglio solo stringerla fra le mie braccia e sposarla domani stesso", disse in un soffio, guardando le sbarre sdoppiarsi dietro il velo delle lacrime.

"Lo farai, Archie. Usciremo di qui e... realizzerai i tuoi sogni. Te lo giuro". La voce ingrossata di suo zio tradiva una forte emozione e lui capì, dalla sua ultima frase, che era certo di aver perso Candy ma credeva che lui avrebbe ritrovato Annie.

Strozzato dal pianto, Archie non rispose, certo che Albert avrebbe capito. Avrebbe voluto abbracciarlo, dargli speranza e ricevere conforto al contempo. Ma il muro di cemento glielo impedì.
 
 
 
*circa un metro e settanta

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Capitolo 36
*** Confessioni ***


"Che mi venga un colpo!". Terence scattò in piedi urtando il tavolo, rovesciando la tazza di tè e facendo cadere la sedia su cui era seduto a fare colazione.
Non poteva essere vero, doveva per forza trattarsi di un errore.

Terence lesse tutto l'articolo con frenesia, passeggiando per la stanza d'albergo con gli occhi che saettavano da una riga all'altra, solo per scoprire che il magnate degli Ardlay, William Albert, e suo nipote Archibald Cornwell erano stati arrestati per commercio illegale di alcoolici ed erano sotto processo. A quanto pareva, la futura sposa del rampollo dei Cornwell, Annie Brighton, aveva deciso di lasciarlo in seguito allo scandalo mentre la protetta di William...

"Sparita! Candy non può essere sparita!". Terence sedette sul letto, con le gambe malferme, cominciando a leggere avidamente quella parte. Ma non c'erano altre informazioni e lui volle pensare che si fosse solo ritirata alla Casa di Pony.

Ricontrollò più volte l'articolo, cercando di cogliere particolari che gli fossero sfuggiti, ma tutto sembrava nebuloso e assurdo. La sua mente cominciò a lavorare alla velocità della luce, suggerendogli che esistevano giornalisti che si sarebbero inventati qualunque storia pur di fare sensazionalismo e lui lo sapeva bene, visto che gli avevano già affibbiato almeno una decina di fidanzate diverse.

L'istinto gli gridò che doveva andare a controllare, ma era bloccato in città per le riprese del film e non poteva certo andarsene così.

Chiuse il giornale, riflettendo mentre riprendeva a camminare con passi nervosi per la stanza. Ebbe un'idea e si precipitò sul telefono: in breve, era in collegamento con Chicago e chiese di George Villers.

Attese per interi minuti, quando il centralino gli confermò che il destinatario non rispondeva alla chiamata. Riattaccò con un gesto di stizza, passandosi le mani tra i capelli.
Incapace di stare fermo, si recò alla porta, ma ci ripensò e ancora si sedette accanto al telefono, osservandolo come se potesse dargli delle risposte, con i gomiti sulle ginocchia e le mani giunte poggiate sulle labbra strette in una smorfia risoluta.

Stavolta, sua madre rispose dopo pochi squilli: "Tesoro che c'è, tutto bene?", gli chiese con voce preoccupata.

"Sì, mamma, sto bene ma ho bisogno di un favore. Dovresti avvisare il signor Ross che oggi non potrò venire alle riprese e ho bisogno di qualche giorno di permesso", comunicò senza preamboli.

Lei emise un'esclamazione di stupore: "Ma, Terence, abbiamo cominciato da poco, cosa è successo di così grave? Che devi fare? Si tratta per caso di quella ragazza...?", chiese circospetta.

Terence sospirò: "No, non si tratta di Karen. Si tratta di Candy. E di Albert. Leggi i giornali e capirai. Devo accertarmi che vada tutto bene".

"Figliolo...", Eleanor sembrava rassegnata ma lui colse la tensione nella sua voce.

"Lo sai che ho rinunciato a lei e non ho intenzione di tornare indietro. Ma devo sapere che sta bene, mi capisci, vero?". Chiuse gli occhi, mentre si sentiva già proiettato verso la stazione sulla prima carrozza disponibile.

All'orecchio gli arrivò il sospiro di resa di sua madre: "Va bene, ci penso io. Ma tu cerca di non stare via per troppo tempo e chiamami quando sei arrivato. Puoi anticiparmi cosa è accaduto di così grave, per farti correre così?".

Dovette deglutire prima di rispondere: "Pare che Candy sia scomparsa e... Albert e Archie si trovino in prigione". Scostò la cornetta al grido soffocato della donna, quindi aggiunse: "Mamma, ti devo salutare. Ti terrò informata. A presto!".

Recuperò la giacca e corse fuori ricordando come, solo poco tempo prima, si fosse recato alla stazione di un'altra città cercando di scorgere un viso noto e vedendola solo all'ultimo momento. Karen aveva gli occhi asciutti e il viso sorridente leggermente arrossato dalla corsa, ma aveva fatto in tempo a salutarlo prima che se ne andasse.
Senza pensarci due volte, lui l'aveva abbracciata ricordando l'addio che aveva dato a Candy e sentendo il cuore gonfio di una nuova sensazione di perdita imminente.

"Ehi, Terence Graham, non mi diventerai sentimentale, adesso!", aveva riso Karen stringendolo brevemente prima di allontanarsi. L'aveva guardata con attenzione e non gli era mai sembrata più bella, anche se era senza trucco e i lunghi capelli corvini erano un po' spettinati.

"Non ti dimenticherò mai, Karen. Ti giuro che ci rivedremo un giorno". La frase gli era morta sulle labbra quando lei gli aveva posto un dito sulla bocca. Sopra al sorriso solenne, gli occhi erano più brillanti e capì che stava lottando per trattenere le lacrime.

"Non giurare nulla, Terry. Va bene così, anche io sono stata bene con te". Era stato tentato di baciarla e per un attimo si vide mentre lo faceva, mandando al diavolo anche gli ultimi dubbi, ma non lo aveva fatto. Il fischio del treno e il richiamo del capostazione lo avevano indotto a salire mentre continuava a guardarla, sorridendole.

"Arrivederci, dolce e testarda Karen", aveva urlato in mezzo al frastuono, lanciandole un'ultima occhiata.

Terence alzò il braccio con urgenza, chiamando a gran voce una carrozza che passava. Candy sarebbe sempre rimasta nel suo cuore, su quello non aveva dubbi. E, anche se un giorno si fosse innamorato di nuovo, avrebbe sempre avuto l'istinto di proteggerla.

Dal loro addio non si erano più parlati, né scritti e quello che aveva letto, seppure non poteva sapere quanto fosse vero, lo aveva riempito di orrore. Doveva capire, accertarsi che fosse tutto a posto e che lei fosse felice e al sicuro. Con Albert, da sola, con chiunque.

Mentre gridava al cocchiere di recarsi alla stazione più rapido del vento, Terence si ritrovò a pregare e i volti di Candy e di Karen gli si alternarono nella mente lungo tutto il tragitto.
- § -

George si tormentava le mani mentre il dottor Leonard parlava. Non poteva credere a quanto il destino si fosse accanito sugli Ardlay, ultimamente, e pregò che non dovessero abbattersi altre disgrazie su di loro.

"La signora sta riposando, le ho dato un blando sedativo. Occorre però che non venga sottoposta ad altre emozioni o il suo cuore potrebbe risentirne: la sua pressione si è di nuovo alzata a livelli allarmanti, anche se per fortuna non si è trattato di infarto come temevamo".

Con un sospiro profondo, rispose: "Purtroppo stiamo vivendo un momento delicato, come ben saprà. Dottor Leonard, inutile che glielo nasconda, perché è il motivo principale per cui oggi lei è qui: il signor William e il signorino Cornwell sono davvero in stato di reclusione, ma tutto ciò che afferma quel giornalista sconsiderato è assolutamente falso e stiamo lavorando con i nostri avvocati per dimostrarlo".

Il medico alzò una mano, come per interrompere le sue spiegazioni: "Non deve giustificarsi con me, signor Villers. Io sono solo il medico di famiglia e non mi interessano il gossip o i pettegolezzi. Spero solo che tutto si risolva per il meglio".

George annuì, cominciando ad accompagnarlo verso l'uscita e parlando piano per non farsi sentire dalla servitù, per quanto potesse essere utile: "Lo so e la ringrazio per questo. Ma nonostante tutto mi preme essere chiaro con le persone più vicine alla nostra famiglia, specie per chi fa tanto come lei".

Davanti alla porta d'ingresso, il dottor Leonard si calcò il cappello sulla testa e scrutò il volto di George con un cipiglio meno severo di quello che lo caratterizzava di solito: "Per me è un onore servirvi, soprattutto dopo gli errori commessi".

George sapeva che si riferiva al ricovero in ospedale, tanto tempo prima, del signorino William quando era uno smemorato. Il timore che fosse una spia aveva indotto il personale a recluderlo nella stanza numero zero, dove Candy lo aveva trovato e riportato alla vita.

Ora che quella stanza non c'era più e che i rapporti tra il Santa Joanna e gli Ardlay si erano chiariti, il dottor Leonard era diventato una risorsa preziosa, assieme ai suoi colleghi, per tutte le necessità della matriarca quando si trovavano a Chicago e, occasionalmente, persino a Lakewood.

"Il passato è passato, dottor Leonard, le siamo grati per tutto quello che sta facendo per noi". Gli strinse la mano, congedandolo e guardandolo allontanarsi con l'autista che aveva incaricato di riaccompagnarlo in ospedale.

Ebbe appena il tempo di chiudere la porta che una cameriera gli si avvicinò timidamente, tormentandosi il grembiule come lui aveva fatto con le mani poco prima: "Mi perdoni, signor Villers, ma la signora chiede di lei. Si è svegliata all'improvviso e sembrava molto agitata. Dice che è urgente".

George si sentì tirato in tre direzioni diverse: non sapeva se correre da madame Elroy o richiamare indietro il dottore e nello stesso tempo aveva un appuntamento con gli avvocati cui non poteva mancare.  

Ora come ora, sarebbe servito un braccio destro anche a lui.

Alla fine, scelse di seguire la cameriera fino alla stanza e, non appena fu sulla soglia, udì la sua voce affannata che lo chiamava con tono urgente. Congedò la cameriera e si affrettò a entrare.

La donna giaceva sul letto, pallida e provata, e lui provò imbarazzo a entrare in uno spazio così intimo: "Signora, la prego, non deve agitarsi. Se ha bisogno di qualcosa posso chiedere a Catherine e...".

"No!", esclamò lei tirandosi a sedere con fatica. "Devo parlare con te e con nessun altro. Questa storia è andata avanti troppo a lungo ed è ora che ti riveli delle cose... delle cose che...". Nel tentativo di trovare una posizione comoda, la signora Elroy si accasciò di lato e non cadde dal letto solo perché George fu subito al suo fianco.

Contravvenendo a ogni regola che imponeva l'etichetta, provvide personalmente a sistemarle i cuscini e a farla sedere in maniera che fosse comoda, trattenendo il proprio imbarazzo ma anche incuriosito dallo strano comportamento della matriarca.

"Chiudi la porta, per favore. Non deve ascoltarci nessuno. Se non ho inghiottito il medicinale che mi ha somministrato il dottore è solo perché non posso più aspettare: devi sapere e riferire ai nostri avvocati".

Lui eseguì e rimase in piedi a una certa distanza dal letto, ora del tutto allarmato dalle sue parole, ma anche molto in pena per le sue condizioni.
"Signora Elroy, la prego di non affaticarsi troppo, però. Il dottor Leonard si è raccomandato che lei riposi, la sua salute...".

"La mia salute peggiorerà se non usciamo da questo scandalo!", ribatté con un tono molto simile a quello che aveva quando stava bene ed era infuriata. "Prendi una sedia, non si tratta di una cosa breve. Soprattutto ci vorrà molta discrezione perché se una parte del clan Ardlay dovrà crollare non saremo noi, ma i veri colpevoli di tutto. Occorrerà assumere un investigatore privato della massima fiducia che faccia un lavoro certosino nel minor tempo possibile".

George non le staccò gli occhi di dosso mentre prendeva una sedia e vi si accomodava lentamente. Le rughe sulla fronte della donna si approfondirono e minuscole gocce di sudore cominciarono a imperlarle la pelle. In cuor suo, George sperò che quella confessione, di qualunque natura fosse, non si rivelasse fatale per la matriarca.

"Farò tutto ciò che è necessario ma ora, la prego, mi dica quello che sa senza agitarsi", le chiese sentendo il cuore pulsargli nelle tempie.

Per lunghi istanti, la vide fare dei respiri profondi come se stesse per fare un salto da una scogliera ripida e non trovasse il coraggio di affrontarlo. La sua lotta interna doveva essere dolorosa e crudele e lui cominciò a subodorare qualcosa di molto sgradevole. La sua sensazione si acuì facendogli strabuzzare gli occhi quando disse, con voce bassa ma molto chiara: "Si tratta di Neal ed Eliza".

Il silenzio gli ronzò nelle orecchie e ondate di furore gli fecero aumentare ancor più, se possibile, il battito cardiaco. Inconsapevolmente, strinse la stoffa dei suoi eleganti pantaloni neri: "Cosa intende, di preciso?", chiese anelando e temendo la verità nello stesso momento.

La signora Elroy chiuse gli occhi: "Li ho visti nello studio di William, a Lakewood, dove mi hanno riferito che cercavano dei documenti da inviare ad Archibald su sua richiesta. E pochi giorni fa Eliza ha chiamato chiedendo di William e di suo cugino per invitarli a un ballo".

Il respiro divenne affannoso e George dovette fare appello a tutto l'autocontrollo residuo per contenere le sue emozioni: rabbia, gelo, indignazione, stupore... speranza. Davvero i Lagan avevano a che fare con quella storia? Dopo essere stati scagionati dall'incidente avvenuto alla signorina Candice avevano veramente avuto l'ardire di macchinare un piano così complesso? E con il supporto di chi? Di certo non di Raymond, anche se...

"Signora Elroy", disse schiarendosi la voce e cercando di riportare tutto su un piano logico, "per favore, cerchi di partire dall'inizio e di darmi quanti più dettagli ricorda. Se davvero ci sono implicazioni con i signorini Lagan sarà indispensabile parlarne con i nostri avvocati, oltre a fare i necessari approfondimenti".

La donna annuì e a George non era mai parsa così vecchia e stanca. Mentre parlava, l'uomo comprese quanto la distrazione, durante il periodo in cui Candy era stata in coma, potesse essere costata a tutti loro.
 
- § -
 
"Dorme decisamente troppo", esordì Annie sedendo di fronte al dottor Carter e all'infermiera Frannie, mentre si trovavano nella stanza di quest'ultima per fare il punto della situazione. Una parte dei suoi pensieri andò brevemente alla prozia Elroy, per la quale era stato necessario chiamare un medico e sperò che non le accadesse nulla di grave.
La prima pagina dei giornali di quel giorno aveva gettato tutto nel caos ma, per fortuna, le persone che le stavano davanti, così come di certo anche il dottor Leonard, erano lì per occuparsi dei malati e non per giudicare la situazione familiare così compromessa degli Ardlay.

Annie aveva avuto l'istinto di chiedere un calmante quando si era resa conto di come quel giornalista aveva parlato di Archie,

il suo Archie

ma poi Candy aveva avuto un altro eccesso d'ira nel momento in cui dottor Carter aveva tentato di parlarle di nuovo di ipnosi e avevano dovuto sedarla.

Se, fino a poco tempo prima, aveva potuto crogiolarsi nella sua nuova e rifiorita personalità, godendo della propria indipendenza con una punta di egoismo e sognando che le ultime parole di Archie fossero vere, ora Annie era catapultata in una realtà nella quale la priorità era riportare alla vita Candy.

Si stupiva, ogni volta, della forza cui riusciva ad attingere e sperò che non le venisse a mancare all'improvviso.

"Sì, sono d'accordo. Ma vale anche la pena dire che, da un certo punto di vista, è anche normale", rispose al suo dubbio il dottor Carter, poggiando il gomito sul bracciolo della sua poltrona per sostenersi la testa con due dita e scoccando un'occhiata a Frannie.

Pur avendo in testa mille pensieri, ad Annie non sfuggì quello che colse nei suoi occhi mentre guardava l'infermiera e neanche il leggero rossore che le imporporò le guance quando si sentì osservata e chiamata in causa.

Beati loro, chissà che nasca davvero qualcosa di bello. Se solo Archie mi avesse sempre guardata così...

Durante il loro ultimo incontro, forse, nei suoi occhi traboccava persino un sentimento più grande di quello appena nato che brillava in quelli del giovane medico.

Il suono di Frannie che si schiariva la voce la riportò alla realtà: "Penso si riferisca al fatto che il cervello umano, mentre dorme, tende a eliminare le scorie e le tossine che accumula durante il giorno. In questo caso lo stress post-traumatico del coma e della perdita di memoria, nonché i ripetuti stimoli con cui viene sollecitato, sono fonte di forte affanno. Il riposo che Candy cerca potrebbe essere in parte dovuto a questo".

Carter inarcò un sopracciglio, evidentemente colpito, e senza abbandonare la sua postura rilassata disse: "Non avrei saputo dirlo meglio", dichiarò provocandole un rossore maggiore.

Annie cominciò a sentirsi quasi di troppo e balbettò: "Sì, capisco, ma non si era detto che così era peggio?", chiese cercando di uscire dall'imbarazzante situazione.

Il dottore fece un respiro profondo e si alzò in piedi, cominciando a passeggiare per la stanza come se riflettesse, la mano che si accarezzava il mento: "Certo, per quanto il riposo della mente sia necessario al suo corpo, per la signorina Candice equivale ad allontanarsi ancora di più dalla realtà. Anche se non ha mai fatto reali tentativi di suicidio, questa sua negazione costante diverrà comunque la sua rovina: potrebbe sfociare in una depressione che non tarderà a farle venire in mente idee autolesioniste. E non parlo di tagliarsi i capelli".

Annie rabbrividì, giocherellando con le dita, avvertendo ancora sulle proprie spalle il peso di tutta quella situazione: "Allora cosa dovremmo fare? Quando le ho parlato della nostra infanzia, fino a un certo punto sembrava interessata".

"Ma appena è giunta al punto in cui ha ricordato Anthony ha avuto una nuova crisi", concluse per lei Frannie, alzandosi a sua volta.

Annie si sentì osservata e capì che doveva prendere una decisione. Sapeva che la voce di Candy e i nomi che aveva pronunciato poco prima di svenire potevano essere stati uditi dai due, ma se così non fosse stato avrebbe dovuto informarli lei stessa. Si trattava di un argomento molto delicato, che però poteva rappresentare il fulcro del problema stesso.

"Signorina Brighton?", la voce interrogativa dell'infermiera le fece capire che attendevano una sua risposta.

Come posso rivelare loro una cosa così intima? 

"Signorina Brighton", intervenne il dottor Carter avvicinandosi di nuovo, con voce calma ma ferma, "entrambi abbiamo sentito bene che la signorina Candy, in quell'occasione, ha nominato anche il suo tutore. E l'apparente avversione che prova per lui potrebbe essere altrettanto collegata a ciò che è accaduto a quel ragazzo, Anthony. Per il bene della sua amica, la prego di dirci se ha qualcosa da aggiungere che non sappiamo".

Annie si alzò dalla poltrona come se bruciasse e diede loro le spalle, giungendo le mani a pugno come in una preghiera ardente: "Posso contare sulla vostra discrezione e sul segreto professionale?", chiese sapendo già la risposta.

"Naturalmente". Era la voce di Frannie.

Si voltò per fronteggiarli e decise che doveva provare il tutto per tutto: "Ebbene, Candy e lo zio William... Albert... beh, da qualche tempo il loro rapporto andava al di là della semplice amicizia".

Prima di abbassare gli occhi, imbarazzata da quella confessione, notò l'irrigidimento improvviso dell'infermiera. Fu lei a parlare, con voce meno ferma di poco prima: "Vuole dire che avevano stretto una relazione sentimentale?".

"Si conoscono da una vita!", esclamò con fervore, alzando nuovamente gli occhi per fronteggiarla: "Quando lui era privo di memoria hanno vissuto insieme e sono sicura che è stato grazie a lui che Candy ha dimenticato Terence...". Come rendendosi conto che stava rivelando eventi anche fraintendibili come un fiume in piena, Annie tacque, a disagio.

Le espressioni di Carter e Frannie erano contrastanti: mentre lui, poco dietro alle spalle della donna, aveva spalancato gli occhi con una sfumatura di stupore e qualcosa che osò paragonare alla comprensione, l'infermiera aveva i pugni stretti e lo sguardo vacuo.

Che diamine sta accadendo?

Carter superò Frannie, poggiandole per un istante le mani sulle spalle come per superare un ostacolo e le si parò davanti: "Questo è molto importante! Se ricordo bene Anthony era il nipote diretto del signor William: possibile che tra loro ci fosse una somiglianza?".

Annie strinse gli occhi, riflettendo: "L'ho incontrato solo una volta ed è passato tanto tempo, inoltre mi pare di aver visto un dipinto, a Lakewood, e c'era una certa somiglianza, in effetti. Anthony era il figlio della sorella maggiore di Albert, dopo tutto. Ma, la cosa più importante, è che Candy era... innamorata di lui all'epoca", concluse, sperando che quei dettagli facessero luce.

"Quindi Candy potrebbe vedere nel suo tutore un riflesso del ragazzo che aveva amato: è per questo che stava insieme a lui?". Il tono palesemente irritato di Frannie la colpì e Annie spalancò al bocca.

Oh, no, non dirmi che...

"Frannie, la prego di ridimensionare questo concetto: le ricordo che non siamo qui per giudicare la signorina Candy, ma solo per capire come aiutarla". Carter le lanciò uno sguardo duro e Frannie ebbe la buona creanza di arrossire di nuovo.

"Certo, mi scusi", ribatté con un filo di voce.

"Io sono sicura che Candy amasse sinceramente Albert. La loro storia è molto complessa, ma lui le è sempre stato accanto e ho la certezza che lei non lo abbia mai considerato un semplice riflesso di Anthony, anche se potevano somigliarsi fisicamente", disse decisa, facendo un passo verso Carter.

"Quindi, riassumiamo". Il dottore alzò le mani come per chiederle di aspettare, quindi ricominciò a passeggiare per la stanza, gesticolando mentre ripeteva i punti principali: "Una giovane Candy s'innamora di Anthony prima ancora di conoscere il signor Ardlay".

"Credo l'avesse già conosciuto, ma non avevano che un rapporto d'amicizia, direi. All'epoca la loro differenza di età era... più evidente", lo interruppe Annie, ricordando come le avesse parlato di quando era stata salvata dalla cascata.

"Bene", prese atto Carter facendo volteggiare una mano per indursi a proseguire, "ma poco dopo il povero ragazzo muore cadendo da cavallo, esattamente come è accaduto a lei! Anni dopo i suoi sentimenti cambiano e Candice si ritrova a provare qualcosa per il signor William. Dopo la perdita della memoria, i punti focali sui quali qualcosa nella sua mente scatta e s'inceppa sono: la morte di Anthony, il terrore per i cavalli e... la repulsione per colui di cui dovrebbe essere innamorata". Aveva concluso il monologo contando sulle dita, sotto lo sguardo attento di Frannie.

"Possibile che lo ritenga responsabile della morte del ragazzo? Se non sbaglio ci è stato riferito che fu lui a ordinare la caccia alla volpe durante la quale avvenne l'incidente", ipotizzò Frannie.

"No!", esclamò accorata Annie, facendoli voltare entrambi di scatto. Imbarazzata, si ritrasse: "Voglio dire, Candy non sarebbe mai capace di...". La voce le morì in gola. In lei c'era ancora la vecchia Annie ma quella nuova era migliore: nel caso della sua migliore amica, invece, era l'esatto opposto.

Il dottor Carter sospirò, guardandola con aria comprensiva: "Purtroppo dobbiamo accettare qualunque cosa, anche la peggiore in assoluto. Anche se, per sua indole, Candy non proverebbe mai un sentimento così spregevole, il suo inconscio potrebbe averla tradita e portato a galla qualcosa che era rimasto sepolto".

Annie cadde a sedere pesantemente sulla poltrona: "Se così fosse, cosa possiamo fare per lei?".

Il medico si accigliò, pensoso: "Credo che dovremmo insistere su questo punto: la chiave non è tanto nell'incidente del giovane Anthony, quanto nel suo rapporto con il signor William. Dovrei... dovrei approfondire questo argomento con lui".

Il silenzio calò per un attimo nella stanza e fu Frannie a romperlo: "Bene, direi che possiamo domandare al signor Villers di chiedere un incontro per lei. Non penso ci siano problemi". Il tono era freddo e controllato e Annie pensò di aver sognato un suo possibile coinvolgimento con Albert. D'altro canto, anche lei era una donna e non era certo strano che potesse essere rimasta stregata dal suo fascino. Lei stessa, se non fosse stata perdutamente innamorata di Archie, si sarebbe sentita attratta da lui.

Ma che bel momento per fare certe considerazioni, Annie, come se già non avessi abbastanza pensieri!

Scosse la testa al proprio rimprovero, chiedendosi invece se sarebbe stato possibile incontrare Archie: aveva bisogno di vederlo, di appurare che stava bene, di incoraggiarlo a resistere perché presto sarebbe stato scagionato. Ma non sapeva se era pronta ad affrontarlo, non voleva dargli false speranze. Tuttavia...

"Signorina Brighton?", la richiamò Carter scuotendola dai suoi pensieri su Archie.

"Sì? Mi scusi".

"Le stavo chiedendo se è al corrente di dove posso trovare il signor George. Vorrei parlargliene immediatamente".

"Certo! Credo che fosse con il dottor Leonard, che è venuto a visitare la prozia", rispose dirigendosi con lui verso la porta.

"Bene". L'uomo annuì e, prima di uscire, si rivolse a Frannie. Ancora una volta, gli vide negli occhi quella scintilla che le fece pensare a un uomo estremamente interessato: "Infermiera, la prego, resti a tenere d'occhio la paziente. Tornerò presto".

"Va bene, dottor Carter". Ma il volto della donna era di nuovo di pietra. Se provava qualcosa per Albert o per Carter sapeva nasconderlo molto bene, almeno di fronte agli altri.

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Capitolo 37
*** Ostacoli e incontri ***


Comunicazione di servizio: il doppio aggiornamento (martedì e venerdì) continuerà anche per il mese di Luglio! Tornerà ad essere settimanale in Agosto. Fine comunicazione.
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Elroy Ardlay aprì gli occhi e si sentì sfinita. Alla fine era stata costretta a prendere la sua medicina: il dottor Leonard le aveva raccomandato una dose doppia ma questo le aveva provocato un mal di testa colossale.

Si tirò a sedere con fatica, allungando una mano verso il comodino per afferrare la campanella e chiamare la sua cameriera, ma si bloccò a mezz'aria con un verso strozzato.

"Oh, grazie cara, sei molto gentile. La dose è scritta sulla confezione".

"Oh, che sbadata! Ho dimenticato di allungarla come si deve. Permetti, zia?".

"Starò qui con te finché non ti addormenti, se ti fa piacere".

"Grazie Eliza, sei veramente... molto gentile".

"Il corriere ha dichiarato di aver ritirato la merce a Lakewood in un momento in cui c'era solo la servitù, ma nessuno di loro dice di averlo visto".

Il respiro le divenne affannoso e la donna cominciò a vedere sfocato, il mal di testa improvvisamente mutato in un martellare continuo in cui si alternavano le voci di Eliza e di George.

Quella sera Eliza ha voluto darmi la medicina personalmente e ho dormito come un sasso. Ma al mio risveglio mi sentivo proprio come ora.

Il petto le si bloccò, schiacciato da un peso improvviso e devastante che le fece gemere una flebile richiesta di aiuto, un suono disperato che nessuno avrebbe mai potuto sentire. Con l'ultimo barlume di lucidità, travolta alfine dalla mole di eventi che si erano succeduti, la matriarca degli Ardlay si sporse fino a rimanere in equilibrio precario con un braccio sul comodino e il corpo, ancora pesante, bloccato sul letto.

Dio mio, non ora, non prima che io possa...

Sbilanciata, cadde a terra trascinando con sé il mobile e tutto quello che c'era sopra, con un fracasso infernale che lei udì appena prima di perdere conoscenza.
 
- § -
 
Pezzi di iceberg sommersi nel gelo di un mare notturno.

Uno scenario ignoto e appena visibile, pericoloso ma attraente in maniera perversa.

Così le apparivano i frammenti della sua memoria malata, che poteva ma non voleva raggiungere. Che era grata le sfuggissero. Che era terrorizzata di ripescare e rivelare sotto al pelo dell'acqua.

Era una donna senza passato, senza emozioni e senza speranze. Odiava tutto ciò che la circondava, come se la colpa della sua condizione ricadesse senza distinzioni sul mondo esterno e su tutto il genere umano.

Respirando pesantemente, Candy scese dal letto godendosi la penombra forzata della sua piccola stanza e andò in bagno per sciacquarsi la faccia accaldata. Alzò il viso sullo specchio, ancora gocciolante, e si perse per un attimo su quei lineamenti che le apparivano sempre nuovi, non suoi.

Non le appartenevano quegli occhi di un verde intenso. Non le appartenevano quelle stupide lentiggini che le punteggiavano il naso...

"Tarzan. Tarzan Tuttelentiggini!".

Emise un gridolino, portandosi le mani alla testa: e ora di chi diavolo era quella voce arrogante?! Una voce maschile che non era quella di William, ma che non mancò di scuoterla.

"Si chiamano Dolce Candy, perché sono dolci come te".

Gridò più forte, cadendo in ginocchio, piangendo per il dolore che le trapanava il cervello. Udì a malapena il rumore di passi in avvicinamento. Un'altra voce ancora. Così tenera, così... giovane.

"Sei più carina quando ridi che quando piangi".

"NOOOOO!", strillò accucciandosi sul pavimento in posizione fetale, mentre mani esperte l'aiutavano a rialzarsi e la voce, stavolta reale di Frannie, la incitava a stare calma mentre la riportava a letto.

Una volta raggiunto, ritrovò la posizione di poco prima e prese a graffiarsi il cuoio capelluto, strappandosi via ciocche intere di capelli e lamentandosi pietosamente tra le lacrime, domandandosi perché l'ultima che aveva ricordato o solo immaginato le avesse fatto così male.

Era quella di William.

"Ora smettila, Candice!", gridò imperativa Frannie, spostandole a forza le braccia dal capo. Alcune ciocche le erano sfuggite dalla coda e sembrava spaventata.

Lei continuò a dimenarsi, volendosi liberare da quella stretta. "Dammi qualcosa per non sentire queste voci, non voglio sentirle, mi hai capito? Voglio il calmante, voglio...!".

Dietro gli occhiali un po' storti per quella specie di lotta fra loro, vide gli occhi dell'infermiera spalancarsi prima che la inducesse a tacere emettendo un sibilo tra i denti. Incuriosita da quella reazione non prevista, Candy si bloccò all'improvviso, rilassando i muscoli, ancora tesa e nauseata.

Ora le aveva udite anche lei e non erano nella sua testa. Urla, urla di donna. Poi una voce baritonale che sembrava invocare un medico.

Frannie si scostò da lei, guardando verso la porta: "Credo che stia accadendo qualcosa di grave. Vieni con me", le ordinò.

"Io non voglio...!", cominciò, decisa a ribellarsi.

"Tu farai come ti dico io! Questa è la tua famiglia, che ti ha accolta invece di mandarti in un centro psichiatrico e comincerai a mostrare un po' d'interesse per quello che ti succede attorno", alzò la voce lei guardandola con occhi di ghiaccio.

Candy si mise a sedere sul letto, respirando a fatica mentre la testa e lo stomaco le mandavano stilettate a ritmo col battito impazzito del suo cuore. "Non posso uscire, ho paura".

"Mi sembra che per uscire dalla tua stanza a prendere questi libri tu non abbia avuto grosse difficoltà", commentò lei avvicinandosi al suo comodino e disfacendo la pila ordinata di testi, scorrendo i titoli senza apparentemente leggerli.

"Come ti permetti?!", la redarguì alzandosi e togliendoglieli dalle mani.

"No, come ti permetti tu!", ribatté Frannie indicando la porta. "Lì fuori c'è gente che ti vuole bene e che sta facendo di tutto per aiutarti e ti assicuro che non è da tutti avere una fortuna come questa!".

Dietro le urla, dietro alla sua espressione impassibile, Candy scoprì che riusciva a notare qualcos'altro sfigurare il viso serio e composto di Frannie. Non era molto, appena un leggero tremito delle labbra, ma fu sufficiente per indicarle la sua fragilità.

Per la prima volta da quando si era svegliata, Candy provò un sentimento diverso dall'egoistica sofferenza che le ardeva nelle viscere.

Pietà.

Per lei? Per quella signora anziana che non sembrava gradire la sua presenza ma non l'aveva neanche cacciata? Per la ragazza di nome Annie che stava cercando di aiutarla a ricordare? Per il gentile dottor Carter che tentava di guarirla?

Non lo sapeva bene, ma contro ogni sua aspettativa, quell'imprevisto e le parole urgenti di Frannie la scossero: "Va bene, andiamo. Ti seguo", disse tremando.
Come per magia, non appena cominciò a concentrarsi sui suoi passi e sulle voci all'esterno della stanza, la nausea e il mal di testa si affievolirono fin quasi a sparire.
 
- § -
 
Terence arrivò davanti alla villa di Chicago e guardò il vistoso portone stagliarsi sull'imponente edificio.

Quando abbassò gli occhi dall'enorme facciata bianca decorata con fregi e sulla quale spiccavano grandi finestre su entrambi i piani, vide che stava entrando un uomo con un abito elegante e un paio di baffi che gli ricordarono i nobili inglesi: sembrava stremato e camminava curvo, pur mantenendo una certa dignità.  

Sembrava così piegato per via degli ultimi eventi? Era quindi vero ciò che i giornali affermavano? Quella e altre mille domande gli si affollarono nella mente, mentre si avvicinava e cominciava ad essere pressoché certo della sua identità. Tuttavia, non ci fu bisogno di parlare, perché non appena lo vide anche l'uomo sembrò riconoscerlo.

Con un sorriso appena accennato disse: "Buonasera, signorino Graham, cosa la porta qui?", chiese.

"Lei è George Villers, vero?", domandò avvertendo il cuore battere più forte.

L'uomo annuì: "Mi deve perdonare se non la invito a entrare, ma come avrà letto sui giornali il momento è... delicato". Il volto di George appariva trasfigurato e stanco, come se si stesse occupando di una serie di problemi completamente da solo.

Per un istante, Terence fu tentato di andarsene senza dire una parola, ma l'urgenza di sapere come stesse Candy ebbe il sopravvento sul rispetto e sulla buona educazione: "La prego, voglio vederla. In effetti ho letto i quotidiani e... per favore, mi dica che sta bene".

George sospirò: "La signorina Candy sta... bene. Ma non può vederla, al momento. Non è vero che è sparita, però è vero che qualcuno ha giocato sporco e ha incastrato William e il signorino Cornwell. Sono appena tornato da un incontro con i nostri avvocati", disse eludendo in parte la sua richiesta.

Terence si accigliò, concentrato solo su quell'esitazione iniziale: "Sono certo che Albert sia innocente, non ho dubbi sul fatto che sarà presto tutto finito. Ma, tornando a Candy... che significa che non posso vederla?", andò dritto al punto, pur sapendo che forse stava tirando troppo la corda, vista la situazione. Ma non poteva ignorare la voce interiore che gli gridava che qualcosa non fosse del tutto corretto.

Vide George irrigidirsi e fu certo che gli stesse nascondendo qualcosa. Il vento della sera cominciò a rinfrescare e lui era sfinito, affamato e non sapeva neanche dove avrebbe alloggiato. Ma non si sarebbe mosso da lì finché non avesse saputo.

"La prego di non insistere... la signora Elroy è molto malata, oggi ci ha fatto preoccupare seriamente e abbiamo temuto il peggio. Le ho già detto che la signorina Candy sta bene e risiede qui da noi".

Era a pochi passi da lui. Vicina eppure lontana, come sempre. Era la storia delle loro vite. Ma lui ormai si era rassegnato e si fidava di quell'uomo così cortese e paziente. L'istinto continuava a gridargli che c'era altro che gli sfuggiva, ma lo avrebbe scoperto in un modo diverso.

Con un sospiro stanco gli disse: "Va bene, la prego di perdonarmi per la mia inopportuna insistenza. Voglia portare tutto il mio sostengo a Candy e... anche alla signora. Spero si riprenda presto".

George chinò un poco il capo, come se facesse un leggero inchino. Sembrava davvero sollevato. "Se mi avesse telefonato avrei potuto tranquillizzarla senza che affrontasse un viaggio così lungo", disse più conciliante.

Terence scosse la testa: "Non si preoccupi, sono qui per lavoro e averla incontrata mi ha rassicurato di più", mentì.

"Bene, mi ha fatto piacere vederla. Ora, se vuole scusarmi...". Decisamente, George sembrava volergli celare qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che forse non era autorizzato a dire.

Fu per questo che, mentre si voltava per aprire la porta, gli chiese: "Vorrei andare a trovare Albert. Pensa che sia possibile?". L'uomo si girò di nuovo verso di lui, con lentezza.

E glielo lesse, in quegli occhi così stanchi ma bonari, gli occhi di un uomo che ha affrontato mille tempeste ma che è disposto a trascinarsi nella tormenta per il bene della sua famiglia. Perché, capì, la devozione che emanava non era quella di un semplice servitore.

Lesse la conferma ai suoi dubbi.

"Le chiedo solo una cortesia. Domattina provvederò ad avvisare lui e il signorino Cornwell delle condizioni della signora, perché non si preoccupino troppo. Potrebbe recarsi in orario pomeridiano, così che se l'argomento venisse toccato lui ne sia già informato in maniera consona?".

Aveva pensato proprio a tutto. Pur avendo perfettamente capito che avrebbero parlato di Candy, sapeva benissimo che gli avrebbe augurato anche una pronta guarigione per sua zia.

"Nessun problema, George, stia tranquillo. Non so come ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me e... se c'è qualcosa che posso fare io, anche testimoniare a suo favore, la prego di farmelo sapere. Albert è mio amico di vecchia data, dopotutto".

Il sorriso sotto i baffi curati dell'uomo si allargò: "Grazie di tutto cuore, mi consulterò con i nostri avvocati per questo. Buona serata, signorino Graham", si congedò alfine, entrando e chiudendo il portone con un rumore che echeggiò nel silenzio del quartiere residenziale.

Terence si avvicinò e alzò una mano tremante per toccare la parete esterna poco a destra di quell'entrata che gli era stata vietata. Chiuse gli occhi e in quel tocco ruvido e freddo cercò d'imprimere tutto il suo sostegno e l'affetto che gli colmavano il cuore.

Forse stava imparando ad amarla in modo diverso, ma Candy per lui era ancora troppo preziosa.
 
- § -
 
Billy Gonzalez sudava copiosamente mentre l'uomo davanti a lui camminava su e giù per la stanza. Indossava un impermeabile nero e la solita sciarpa grigia avvolta intorno al viso, sopra la quale spuntavano solo due occhi neri come la pece che gli ricordavano tanto le illustrazioni di fine Ottocento con soggetti i vampiri.

Da quando aveva accettato del denaro da lui, che aveva subito inviato alla sua famiglia in Messico, le cose erano precipitate e aveva dovuto commettere una serie di azioni che considerava riprovevoli.

Come tradire il signor Ardlay, che lo aveva sostenuto nonostante la chiusura della distilleria.

Non morivano certo di fame, ma per crearsi un nuovo giro d'affari nel mercato del sidro si era dovuto recare a Chicago e per rimettersi in pista non bastava neanche il generoso assegno mensile di quello che era stato il loro maggiore azionista.

Non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, in tribunale, ma aveva sentito i suoi puntati su di lui per tutto il tempo.

Sapeva che sarebbe stato dannato per tutta la vita per ciò che aveva fatto.

Però ora poteva comprare una casa più grande per sé e sua moglie, e sua figlia avrebbe finalmente ricevuto la dote per sposarsi. Inoltre, i suoi investimenti sarebbero rifioriti.
Ma adesso capì che aveva fatto un patto col Diavolo e, quando il demone in questione gli disse con voce roca e urgente: "Seguimi!" e uscì fuori nella notte insieme a lui, capì che era giunta l'ora di consegnargli la sua anima.
- § -
 
Adrian Carter riattaccò il telefono dello studio e uscì nel corridoio. I suoi passi risuonarono quasi sinistri nel silenzio della sera.

Lei era lì, fuori dalla porta, appoggiata al muro come in attesa.

Quando si voltò verso di lui, incontrò il riflesso dei suoi occhiali e poi il suo sguardo profondo che sembrava trapassarlo senza vederlo davvero.

"Il dottor Leonard dice di monitorarla ogni tre ore per controllare i segni vitali ma è ancora certo che, non trattandosi di infarto, non si verificherà nessuna emergenza", disse riferendo la sua conversazione con il primario del Santa Joanna.

Frannie sospirò, incrociando le braccia: "Non capisco perché non abbia voluto andare in ospedale. Comprendo che siano i principali azionisti della struttura e possano permettersi di decidere, ma lì sarebbe stata più al sicuro".

Lui si strinse nelle spalle: "Lo sai che se il medico avesse sospettato qualcosa di più grave sarebbe stato molto più fermo nelle sue indicazioni. Ma, come tu stessa m'insegni, l'angina pectoris può essere trattata adeguatamente anche con medicinali e alimentazione corretta per ridurre il rischio d'ischemia".

La vide inarcare le sopracciglia, sembrava colpita: "Ne sai molto per essere uno psichiatra", disse infatti lasciando ricadere le braccia sui fianchi.

Adrian le si avvicinò di qualche passo, attratto da quella sua apparente freddezza come una falena da una candela. Avrebbe voluto sciogliere quel ghiaccio che aveva nel cuore passandole una mano sulla nuca e attirandola in un bacio appassionato: non sapeva se Frannie fosse cosciente di avere delle belle labbra.

Fissando lo sguardo proprio sulla sua bocca, cercò di darle una risposta adeguata: "Anche tu conosci i segreti del sonno e l'effetto che ha sul cervello umano, pur essendo solo un'infermiera", ribatté con voce più profonda. "E uno psichiatra deve conoscere le basi della medicina. Inoltre mi piace tenermi sempre aggiornato sulla materia che amo...".

Come se quel verbo fosse stato rivolto a lei e non alla medicina, alzò una mano come in sogno per sfiorarle il mento e si accorse a malapena dell'espressione di lei: oltraggio, panico, stupore... non sapeva. Sapeva solo che le aveva appena toccato la pelle sotto al labbro inferiore con il pollice che lei gli schiaffeggiò via la mano: "Che diavolo stai facendo?", gli chiese in un sibilo.

Lui si ritrasse, chiuse gli occhi e sospirò profondamente: "Niente, infermiera Frannie, mi sono solo illuso per un istante che passare a darci del tu significasse qualcosa. Ma se devo continuare a trattarla come una semplice collega, tanto vale tornare al lei".

Frannie si accigliò, non sembrava affatto toccata da quelle parole: "Come preferisce, dottor Carter. Ora, se vuole scusarmi, mi ritiro nella mia stanza".

Mentre si voltava, con la schiena dritta e la coda di cavallo che le ondeggiava da un lato all'altro, Adrian si vide afferrarla e circondarle la vita con un braccio, prima di darle finalmente quel bacio che anelava da quando l'aveva conosciuta in ospedale.

Chissà come sarebbe stato sentire contro il proprio quel corpo così accuratamente coperto dalla divisa da infermiera, che aveva avuto la fortuna di vedere solo una volta avvolto da una vestaglia leggera. E accarezzare con la sua quella lingua così tagliente, fino ad addolcirla con il suo respiro pieno d'amore.

Aveva compreso l'enorme sofferenza che si celava dietro al cuore all'apparenza duro di Frannie e i pochi sprazzi di umanità che aveva visto in lei non gli erano sfuggiti. Non bisognava essere uno psichiatra per capirlo: quella donna era stata segnata dalla vita molto più che dalla sua esperienza come crocerossina che, anzi, l'aveva di certo resa più forte e sicura nei confronti del mondo.

Ma a cosa valeva quella forza quando si rifiutava di innamorarsi davvero? Come avrebbe potuto superare le sue barriere, ora che Frannie stava combattendo contro un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato e che, con tutta probabilità, si sarebbe rivelato il motivo principale della sua chiusura verso tutti gli altri uomini?
 
- § -
 
"Maledetto proibizionismo. Maledetto Neil! Maledetti tutti! Voglio uscire, devo tornare dalla mia famiglia, mi sentite? Siamo uomini d'onore!". Archie sbatté la mano sulle sbarre della cella accanto, facendolo sussultare. Era da un'ora che lo sentiva camminare senza sosta e aveva cercato di instaurare un dialogo, ma aveva ottenuto solo monosillabi e imprecazioni.

Decisamente, Archie stava perdendo la testa. E non dipendeva solo dalle ultime notizie che avevano ricevuto sulla zia Elroy. George era stato molto chiaro, la donna era strettamente controllata dal medico e dall'infermiera e stava meglio. Però doveva evitare lo stress e quello sarebbe stato più difficile, in un momento simile.

Albert si sentì sulle spalle una responsabilità enorme: doveva uscire da lì anche per la sua famiglia e non solo per se stesso.

"Calmati, nipote, o potrebbero mandarti in isolamento", lo avvisò Albert, seduto sulla branda con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la schiena curva. Aveva sentito parlare di una cella dove gettavano i carcerati particolarmente rumorosi o fastidiosi e non voleva che lo relegassero lì.

Nessuno dei due avrebbe retto a una cosa simile.

Dal canto suo, lui ormai era rassegnato. Sperava solo che i suoi avvocati facessero il possibile per tirarli fuori, prima che il buon nome della sua famiglia fosse del tutto infangato. I giornali stavano già banchettando con la notizia dei due membri del clan Ardlay in galera per aver contravvenuto alle leggi e George avrebbe dovuto fare i salti mortali per riparare quell'errore clamoroso.

Chiunque avesse divulgato la notizia voleva rovinarli e forse si trattava della stessa persona che aveva architettato tutto ciò.
Albert si nascose il viso tra le mani, sperando che la zia Elroy sopportasse stoicamente tutto com'era solita fare, ripetendo ad Archie di smettere di agitarsi. Cominciò a fargli male la testa a forza di pensare.

"Signor Ardlay, ha una visita!", annunciò una guardia sbattendo il suo sfollagente sulle sbarre. Albert alzò gli occhi e si ritrovò davanti Terence. Per qualche istante pensò che si trattasse di un miraggio dovuto alla mancanza di sonno e di cibo decente.

"Ciao, Albert. Ti trovo dimagrito", esordì mentre entrava nella sua cella e la guardia dichiarava che avevano solo dieci minuti.

"Che ci fai qui?", fu l'unica cosa che gli uscì dalle labbra, mentre si alzava come in sogno per guardarlo bene.

"Sei venuto a ridere di noi, vero?!", strillò il nipote dalla sua cella.

"Archie, per favore!", lo ammonì spazientito, provocando borbottii e insulti sempre più indistinti.

"Veramente sono venuto per aiutarti. Ma se non t'interessa...". Fece un gesto con la mano e si girò come se volesse andarsene.

Albert alzò un sopracciglio: "Aiutarmi? E in che modo?". Non lo vedeva da molto tempo e la loro riunione stava avvenendo nel luogo e nel momento sbagliati. Gli sembrava fossero passati mille anni da quando ridevano, spensierati, nella sua capanna allo zoo di Londra.

Lui si strinse nelle spalle, tornando sui suoi passi con le mani in tasca: "Voglio lasciare una dichiarazione nella quale confermo che sei una brava persona. Magari potrei anche testimoniare al processo. Non so a quanto possa servire, in realtà".

Albert si ammorbidì: "Beh, non a molto, temo. Ma grazie per le intenzioni". Nonostante le parole gentili, la distanza che c'era tra loro era abissale. Albert capì che amare la stessa donna aveva scavato un solco profondo che era impossibile colmare. E capì anche che Terence non era lì solo per offrirgli il suo aiuto.

"Non lo faccio solo per te e per l'amicizia che ci lega", disse infatti guardandolo negli occhi con un'espressione intensa. "Lo faccio anche per Candy", concluse come se si aspettasse una spiegazione.

Spiegazione che Albert non seppe da che parte cominciare a dargli: una parte di sé si rimproverava da quando Candy era caduta da quel cavallo ed era certo che l'amico avrebbe fatto lo stesso: "Terence...", cominciò schiarendosi la voce.

"Voglio sapere perché la state nascondendo", lo interruppe. "Il tuo braccio destro mi ha detto che sta bene, ma mi ha impedito di entrare e non credo che sia solo per i problemi che state affrontando adesso. L'hai rifiutata? Soffre perché sei qui? O è malata?". Davanti a quella cascata di richieste, Albert chiuse gli occhi per un istante, assorbendo tutta la sua frustrazione. D'altronde era stato lasciato da Candy e le sue speranze erano morte definitivamente: eppure non riuscì a empatizzare con lui più di tanto.

Non quando tutto il mondo gli stava crollando addosso.

"Candy ha perso la memoria", disse lentamente, "non si ricorda né di me, né di te, né di nessun altro", aggiunse poi sentendosi più implacabile di quello che intendeva. Una volta avrebbe fatto più attenzione alla scelta delle parole, ma aveva superato i suoi limiti parecchio tempo prima e non era più lucido come avrebbe desiderato.

Albert si accorse che Terry era rimasto senza fiato: "Che cosa?", biascicò, pallido come un cencio.

"Stavo per mandarti un telegramma, ma ci ho ripensato", mentì. "Eliza l'ha fatta cadere da cavallo quasi un mese fa", spiegò crollando a sedere sul letto con la testa fra le mani.

"E tu dov'eri, razza di...?". Fece un passo verso di lui, forse con l'intenzione di sferrargli un pugno. Ma si bloccò a metà azione.

"...idiota?", concluse per lui. "Ero nel mio studio e fino al giorno prima stavo cercando di farla cavalcare da sola. Si da il caso che tu le abbia fatto superare il trauma della morte di mio nipote Anthony solo per metà". Si ricordava benissimo di quando Candy gli aveva raccontato della cavalcata forzata alla Saint Paul School. Forse era stato proprio allora che si era innamorata di Terry?

Terence rimase a bocca aperta, chiaramente sconvolto, e Albert distolse lo sguardo.

D'improvviso, senza alcun segnale che lo allertasse, Terry lo sollevò per la collottola e gli centrò lo stomaco con un pugno di discreta potenza. Si rese vagamente conto che, all'ultimo istante, sembrava averla voluta controllare.

Espirò aria con un singulto strozzato e ricadde a sedere, trattenendo a stento i conati. Non aveva immaginato che la sua ostilità si sarebbe palesata con tale violenza.

"Sei impazzito?", riuscì solo a dire boccheggiando, temendo di vomitare quel poco che aveva mangiato.

"Mi dispiace, perdonami. Non avrei dovuto, specie nelle tue condizioni, ma...". Sentì i suoi passi nervosi mentre cercava di riprendere il controllo.

Le mie condizioni...

Se il suo deperimento era visibile anche a Terence doveva essere più grave di quel che pensasse.

"Che ti ha fatto quel matto?! Guardia, guardia!", ci aveva pensato Archie a lanciare l'allarme.

Senza fiato, Albert si limitò a guardare Terence negli occhi e, all'uomo che era accorso per capire cosa fosse successo, riuscì a parlare con voce quasi ferma: "Non è successo nulla, mio nipote è solo molto agitato. Ci lascia parlare? Mi sembra che siano passati ancora pochi minuti".

La guardia imprecò contro i rampolli viziati prima di allontanarsi e lui poté finalmente confrontarsi con il suo amico di un tempo: "Sei ancora innamorato di lei? Bene, mi dispiace per te, non è colpendomi così che la riavrai", disse raddrizzandosi in piedi e cercando di recuperare la compostezza. E, soprattutto, il suo orgoglio. Pensare che, un tempo, era stato lui a dover combattere in una rissa nella quale l'attore rischiava di finire male!

"Albert, sono stato un vigliacco a colpirti, lo ammetto, ma è stato più forte di me. Dopo che Candy mi ha lasciato ero sicuro che sarebbe stata in buone mani", riprese allargando le braccia e passeggiando per la cella. "Mi fidavo di te! Eri il mio amico forte e infallibile, quasi un fratello maggiore e, anche se ti ho odiato quando lei ti ha preferito a me, la convinzione che non potesse scegliere alternativa migliore mi ha fatto andare avanti! Ora scopro che è caduta nella trappola di quella... serpe velenosa senza che tu ti sia accorto di niente?!".

Albert deglutì abbassando gli occhi e in quel gesto impresse tutta la sua costernazione: "Pensi forse che io abbia sofferto di meno? Candy è sempre stata uno spirito libero e ha fatto le sue scelte in piena autonomia. Non mi sono mai dovuto preoccupare di controllarla se non da lontano, con discrezione, perché lei non solo non sapeva chi fossi ma non me lo avrebbe comunque permesso. Ci sono sempre stato per lei quando ne aveva bisogno. Quella mattina Neil mi ha distratto, è vero, ma non potevo immaginare che lui ed Eliza avessero in mente una cosa simile. E Candy sa badare a se stessa".

"Mi pare che dopo la sua partenza da New York il tuo amico George la stesse cercando da me. Quante volte ti sei distratto, Albert?", domandò con tono tagliente, guardandolo in tralice.

Decise di puntare di nuovo gli occhi nei suoi: "A me sembra che tu ti sia distratto per molto più tempo di me, facendola soffrire a lungo, Terence", ribatté evitando di nominare la povera Susanna. "E comunque, pensi che continuando a picchiarmi o ad addossarmi colpe le cose si risolveranno?".

Terence si passò una mano tra i capelli, mordendosi le labbra: "Questa conversazione non va da nessuna parte", concordò. "Dimmi almeno come andavano le cose tra voi prima... prima che...".

"Eravamo felici", rispose senza indugi, il cuore che gli veniva afferrato da una mano gelida al ricordo, "stavamo facendo una vacanza prima di annunciare il fidanzamento a mia zia e al Consiglio". Chiuse gli occhi, sentendoli bruciare.

"E adesso Candy non sarà più di nessuno dei due finché non recupera la memoria", disse con una risatina amara.

"Proprio così, Terence. Proprio così", confermò Albert ricadendo a sedere come se avesse esaurito, con quella conversazione, tutte le energie residue.

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Capitolo 38
*** Nodi al pettine ***


Terence uscì dall'edificio del carcere di Chicago con passi nervosi, la testa piena di frammenti di conversazione.

Gli sembrava di soffocare. Alla fine aveva avuto ragione, era accaduto qualcosa di grave.

Candy aveva perso la memoria e lui voleva solo andare a scovare Eliza in Florida per stringerle il collo fino a strozzarla, guardandola negli occhi mentre soffocava. Albert gli aveva detto che aveva coinvolto la polizia, ma non erano state trovate prove.

"In compenso, i Lagan hanno incastrato noi, ormai ne siamo certi", aveva echeggiato la voce di Archie dalla cella accanto.

Mentre si guardava attorno come se il paesaggio circostante potesse aiutarlo a prendere una decisione, capì che la situazione di Albert e Archie, seppure lo avesse scosso nel profondo, non lo avrebbe mai toccato come l'idea della sua Candy senza memoria.

Si è dimenticata di Albert. Ma anche di me, di noi... tutto il nostro passato è cancellato.

Il marciapiede terminava con un incrocio e lui attese che una carrozza passasse sulla strada per attraversare. Non sapeva dove stesse andando, ma camminare lo aiutava a pensare.

Poteva tornare alla villa e pretendere di vedere Candy. L'avrebbe aiutata lui, come aveva fatto quando voleva farle dimenticare Anthony, ma stavolta avrebbe dovuto faticare molto di più, sollecitandola a ricordare invece che a superare un ricordo spiacevole.

Immaginando lo scenario che lo aspettava, si vide mentre discuteva animatamente con George e con chissà quante altre persone mentre gli ribadivano che no, forzarla era controproducente.

Controproducente.

Albert era stato chiaro, a quanto pareva il medico le aveva affiancato Annie e uno psichiatra per indurla a ricordare senza traumi. Nonostante l'ostilità iniziale, però, sentì che Albert stava addolcendo molto la pillola: i suoi occhi segnati, l'eccessiva magrezza e la postura stanca, nonché la sua reazione a quel pugno che una volta avrebbe incassato senza problemi, gliela dissero lunga sulle sofferenze e sulle preoccupazioni che stava attraversando il suo amico.

Cosa succede a Candy quando cerca di ricordare? Perché non mi ha detto quanto sta male veramente?

Terence si passò una mano tra i capelli, frustrato, scostandosi prima di urtare una coppia che incedeva nella sua direzione.

La rabbia iniziale e la preoccupazione per Candy si alternarono con il timore che Albert non sarebbe uscito indenne da quella esperienza. Quindi i suoi pensieri si spostarono di nuovo su Candy. E su Karen.

Perché non riesco a togliermela dalla testa?!

Senza alcun preavviso, la mente lo riportò alla notte che avevano condiviso. Karen era l'opposto di Candy, fisicamente, e la somiglianza di carattere terminava con la determinazione che avevano in comune. Candy sapeva essere dolce e fragile, Karen crollava di rado ed era appassionata. Gli si era donata senza riserve, regalandogli la sua virtù senza cedere, entrandogli dentro l'anima mentre lui prendeva possesso del suo corpo.

Non era stata l'avventura di una notte. Lui l'avrebbe ricordata per sempre e lei sarebbe rimasta marchiata dal primo uomo che non sarebbe stato suo marito.

A meno che...

"A meno che, cosa?!", si rimproverò bloccandosi in mezzo alla strada. Lo stridio dei freni e un clacson strombazzante gli indicarono che stava rischiando la vita a forza di pensare.

Si tolse di mezzo con lunghe falcate, tornando sul marciapiede e udendo a malapena le maledizioni del guidatore.

A Chicago c'era Candy, il suo antico amore ormai perduto per il quale non poteva fare un accidenti di nulla. C'era Albert, che stava affrontando un processo durante il quale avrebbe testimoniato volentieri semmai lo avessero chiamato. Perché non lo odiava, anche se era suo rivale. E, a ben vedere, adesso non erano neanche più rivali. Dannazione, era in pena per lui e persino per quello stupido damerino di Archibald!

Sto ufficialmente impazzendo.

Il rumore delle scarpe sul terreno gli fece capire che era entrato in un parco senza accorgersene. Immerso nel verde, circondato da alberi sui quali Candy non si sarebbe più arrampicata per chissà quanto tempo, Terence capì che non aveva niente da fare lì.

Era semplicemente impotente, inutile, persino di troppo.

Doveva tornare al suo stupido film mentre, in un altro luogo ancora, una donna che aveva amato per una sola notte continuava a tornargli in testa sempre più spesso.
Con un grosso sospiro, Terence s'incamminò in albergo, dove avrebbe preso i bagagli per andarsene. Avrebbe mantenuto i contatti con quel George, che era stato così gentile, e si sarebbe tenuto a distanza.

Il suo posto, dopotutto, non era quello.
 
- § -
 
Neil stava rimirando la sua auto nuova, accarezzandone le linee arrotondate, la carrozzeria lucida color rosso mattone e il volante in pelle come se stesse toccando un'amante. Se le cose fossero continuate ad andare così bene, un giorno avrebbe potuto persino aprire un autosalone. Anzi, che diamine, avrebbe fondato un'intera catena automobilistica a suo nome!

Sotto lo stupore generale della sua famiglia, i giornali avevano palesato la prossima rovina degli Ardlay, segnandone il nome in un modo che difficilmente sarebbe stato riscattato. Suo zio e suo cugino sarebbero rimasti in carcere e, anche se per puro miracolo ne fossero usciti, la credibilità che avevano un tempo sarebbe stata annientata.
Candy era senza memoria e, quando la prozia Elroy fosse a sua volta caduta in rovina, non sarebbe rimasto nulla degli antichi bagliori.

E, infine, William Albert sarebbe rimasto solo e sconfitto, diventando un vagabondo senza dote a tutti gli effetti. Avrebbe pagato caro il suo affronto mentre Neil vinceva tutta la posta in gioco. Magari sarebbe tornato indietro per far innamorare finalmente Candy di sé: nelle sue condizioni non si sarebbe certo ricordata cosa le aveva fatto patire in passato.

E, se non l'avesse amato, l'avrebbe manipolata, obbligata, finché non fosse diventata finalmente sua moglie. Le sue labbra, i suoi capelli, il suo corpo, tutto gli sarebbe appartenuto senza limiti.

Un sorriso lascivo s'incurvò sul viso diventando un ghigno famelico.

I passi frettolosi e i richiami di quella gallina di sua sorella interruppero i pensieri gradevoli e, quando la vide, agitata e con i capelli spettinati, capì che era successo qualcosa di molto grave. Strinse la mascella e chiuse la mano, ancora sulla carrozzeria, a pugno: "Cosa diavolo succede?", ringhiò cercando di non urlare.

"L'hanno... ucciso, vogliono... altri soldi", ansimò lei col viso sudato e rosso per la corsa.

Neal espirò tutto il fiato che aveva in gola e cominciò a sentire una pressione intollerabile alla testa, mentre le tempie presero a pulsargli al ritmo del suo cuore impazzito.
Avevano ucciso lo zio William? Chi? Come? Soldi? Ma loro non avevano assunto degli assassini!

Senza alcuna delicatezza, afferrò Eliza per le spalle e quasi la gettò in macchina, guardando con ansia le finestre della villa che davano sulla strada. Se li avessero visti, o addirittura sentiti, sarebbe stata la loro fine. Prima ancora di ascoltarla, doveva allontanarsi il più possibile da lì.

Incontrò gli occhi enormi e spaventati di Eliza e pregò che non avesse lanciato l'allarme mentre era ancora in casa: "Mi ha chiamato quell'uomo, Neal! La cameriera pensava...".

"Stai zitta!", sputò con i denti serrati, correndo al volante e mettendo in moto quella meraviglia che ora era diventata un semplice mezzo per non farsi scoprire seduta stante. Neal rilasciò la frizione troppo velocemente e il motore si spense. "Dannazione!", imprecò sbattendo una mano sul volante e riprovando.

Le ruote stridettero in protesta alla partenza veloce e lui sperò di non schiantarsi da qualche parte, accecato dal sudore, dall'adrenalina e dal terrore. Eliza emise un urlo quando, alla fine, inchiodò in una via di campagna pressoché deserta.

Si voltò allora verso di lei, che tremava e piagnucolava e di nuovo la prese per le spalle, scuotendola: "Chi hanno ucciso, lo zio? CHI?!", gridò con urgenza.

"N... no, lui è in c... carc....", riuscì ad articolare, inceppandosi.

Fuori di sé e determinato a farla parlare, Neal le mollò uno schiaffo, facendola urlare ancora. Con sua sorpresa, lei non si infuriò ma cominciò a piangere più forte, palesemente sotto shock. Questo lo rese ancora più cieco d'ira.

"CHI?!". La voce, alta e baritonale, non sembrava più nemmeno la sua. Il cuore gli martellava ancora più forte nelle tempie, facendogli temere che il capo sarebbe esploso.
Erano complici di un assassinio. Erano loro, adesso, quelli rovinati.

Eliza ansimava come se stesse per avere un attacco di cuore e le labbra le tremavano al pari del resto del corpo: "Il p... proprietario... d... della... di... distilleri...a". Ogni parola era un singulto e per un secondo Neal si preoccupò seriamente per la sorella. Non l'aveva mai vista in quelle condizioni. Non seppe nemmeno come stesse mantenendo la freddezza, anche se una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco gli stava facendo venir voglia di vomitare.

"P... perché lo hanno fatto?", chiese combattendo contro un conato e grato per essere ancora seduto sul sedile. Le gambe gli erano diventate insensibili. Forse, a breve, sarebbe stato vittima dello stesso incidente che aveva avuto nella villa di Lakewood, dopo la lite con lo zio.

"Hai i pantaloni bagnati, ragazzo".

Eliza si portò una mano al petto e Neil pensò che sarebbe morta sul colpo prima di potergli parlare. Allora l'unico colpevole sarebbe stato lui. Voleva dirle di calmarsi, di respirare, ma stava lottando per inghiottire un sapore acido che gli bruciava la gola.

"Il... nostro contatto ha detto che era pericoloso... che all'udienza si è visto che mentiva. Temeva che... potesse confessare. Allora... lo hanno u... ucciso, ma hanno fatto in modo che... sembrasse un... incidente, gli hanno iniettato... non ricordo...Vogliono essere pagati... per questo o... diranno tutto!".

Con uno scatto improvviso, Neal si gettò fuori dalla macchina ed emise un verso strozzato e gutturale, rilasciando un fiotto bruciante che imbrattò la ruota anteriore della sua bella auto nuova. Sentiva i gemiti di sua sorella che piangeva alle sue spalle e vomitò di nuovo, inginocchiato a terra, con le mani affondate nell'erba umida e nel fango.
Quando il mostro che gli stava strizzando le viscere allentò la presa, Neal tentò di controllare la respirazione e si aggrappò allo sportello per tirarsi in piedi. Ricadde sul sedile, gettò la testa all'indietro e chiuse gli occhi davanti ai punti neri che gli danzavano davanti come mosche velenose pronte a cavargli le orbite.

Deglutì più volte, poi affrontò di nuovo Eliza, che sembrava sul punto di svenire, accasciata contro il sedile del passeggero. Valutò se schiaffeggiarla di nuovo ma ebbe pietà. "Credevo che avessimo a che fare con dei semplici trafficanti di alcoolici".

"Lo pensavo anche io, Neal!", disse con tono isterico, riprendendo colore all'improvviso. "Quando ho parlato con Molly non... non mi ha detto...". Il volto le divenne di nuovo pallido.

"Ma tu gliel'hai chiesto?!", ringhiò Neal posando di nuovo le mani sulle spalle della sorella senza alcuna gentilezza. Proprio come aveva fatto lo zio William a Lakewood.
Solo che lui cominciò a scuoterla piantandole le dita nella carne.

"Mi... mi fai male!", ora la sua voce era di nuovo stridula e spaventata.

"Glielo hai chiesto o no?!", urlò fuori di sé, maledicendosi per non aver provveduto di persona a quella parte del piano. Se quelle persone erano disposte a uccidere c'era solo un motivo.

E, se fosse stato vero, tanto valeva suicidarsi subito.

Rabbrividì a quell'eventualità e l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio, poi Eliza fugò anche l'ultimo dubbio. "No", ammise con il tono sbiadito di chi non ha più voce.

"Aahhhhh, dannazione! Merda! Stramerda!", gridò, fuori controllo, prendendo a pugni il volante, il cruscotto, lo sportello e desiderando prendere a pugni lei. Sputò parolacce e persino bestemmie fin quando ricominciò a vedere nero, allora si prese la testa fra le mani, respirando pesantemente come se stesse cavalcando una prostituta in uno dei bordelli di Miami.

Con la coda dell'occhio vide Eliza fissarlo con sguardo vacuo, le mani premute sulla bocca come quando Candy era caduta da cavallo. Alla fine, era riuscita ad uccidere davvero qualcuno, anche se in modo indiretto.

"Sono sicuramente della mafia", dichiarò con voce roca ma più ferma di quanto si aspettasse.

Interruppe il grido di Eliza con un altro ceffone, maledicendosi perché il segno sarebbe stato visibile e avrebbe dovuto coprirlo. "La colpa è tua, sorellina cara", le spiegò con voce tremante per la rabbia repressa, alzando un dito ammonitore: "Se ti fossi preoccupata di approfondire le cose con la tua amichetta, forse ci saresti arrivata persino tu, con questo cervellino bacato!", concluse piantandole quel dito sulla testa.

"Basta, mi fai male!", pianse lei rannicchiandosi.

Per un attimo, Neal si rivide ragazzino, vicino alla sorellina minore spaventata per un temporale. La sua mano, quella notte, si era allungata per farle una carezza e per indurla a dormire nel suo letto assieme all'orsacchiotto che stringeva al petto.

Quel ricordo di un'innocenza ormai perduta per sempre lo colpì come una pugnalata e Neal finalmente capì.

Capì perché le persone intorno a lui cercassero la rettitudine e l'amore. Capì perché Candy era così forte e generosa e perché, una notte, avesse difeso un essere spregevole come lui da un branco di delinquenti. Capì che amarla era l'unica cosa che l'avesse mai reso umano.

Ma, soprattutto, capì di essere perso per sempre.

Davanti agli occhi spalancati e pieni di lacrime di Eliza, Neal fu sommerso dall'onda potente del rimorso e si afferrò i capelli in un gesto disperato, singhiozzando in maniera penosa e cominciando a piangere come un bambino.

"Neal?", ora la voce di Eliza sembrava di nuovo quella di una bambina impaurita e, senza pensarci su, la strinse in un abbraccio che chiedeva conforto, perdono, pietà.

Dio, perdonami perché ho peccato. Non c'è redenzione per me.

Singhiozzò tra i suoi capelli sentendola irrigidirsi, desiderando solo di poter tornare indietro nel tempo e negli anni, quando erano ancora due ragazzini innocenti e potevano sistemare le cose.

Ora era troppo tardi.
- § -
 
George crollò sulla poltrona del suo studio con un sospiro pesante. Aveva bisogno di un attimo per ricaricare le energie o si sarebbe ammalato anche lui.

Nonostante la mole di collaboratori discreti che aveva, erano sempre troppo pochi per seguire la catena di eventi che si stavano verificando come piaghe, uno dietro l'altro.

Billy Gonzalez era morto e non avrebbe più testimoniato contro nessuno. Quindi non potevano sperare di convertire la sua vera versione a loro favore. Nonostante quella morte urlasse a gran voce che qualcosa non quadrava, le cause erano state dichiarate naturali: l'uomo, messo alle strette e rischiando a sua volta la prigione, si era semplicemente suicidato in un vicolo con una dose letale di droga.

Nessuno lo aveva visto. Nessuno sapeva perché si fosse presentato a Chicago per presenziare al processo senza la sua famiglia, che ora era distrutta e con un peso maggiore che gravava sulle spalle.

George tirò fuori un fazzoletto dal taschino della giacca e si deterse il sudore. Come minimo, lì c'era in ballo la mafia o qualche altra organizzazione che non si accontentava di smerciare alcool, ma pretendeva di prendere il controllo della malavita con meri atti di terrorismo. Mercenari che accrescevano il loro potere eseguendo con freddezza ed estrema efficacia ogni missione, in attesa di poter controllare il territorio.

Davvero i Lagan erano dietro ad affari così torbidi? Come potevano aver preso contatti con gente disposta ad uccidere? George cominciava a nutrire seri dubbi, nonostante le parole della signora Elroy: se davvero era così non sarebbe stato difficile smascherarli, grazie ai contatti che aveva nel Paese, ma cominciava a temere che Neal ed Eliza avessero solo mosso delle pedine pensando di avere il controllo e ora si ritrovassero con qualcosa di più grande di loro.

Era invischiata anche Sarah? Oppure persino Raymond? No, lui non aveva motivi per voler rovinare gli Ardlay.

"Ma, in nome del Cielo, quei due hanno sempre avuto tutto dalla vita e dalla famiglia, perché avrebbero commesso un'azione così deplorevole?", chiese alla stanza vuota, piegando la schiena fino a coprirsi il volto con le mani.

Durante gli anni, George Villers aveva dovuto affrontare molte difficoltà per dimostrare che era veramente degno della fiducia che il padre di William gli aveva dato un giorno. Ma, a parte eventi dolorosi come la morte di Rosemary e del giovane Anthony, il resto avrebbero dovuto essere meri compiti da eseguire per conto del patriarca che considerava come un figlio, o un fratello minore. Invece aveva dovuto occuparsi degli affari per conto suo e più di una volta era stato terribilmente preoccupato, mentre viaggiava da solo per il mondo: il momento peggiore era stato il periodo in cui, smemorato, aveva fatto perdere le sue tracce tanto che lo avevano dato persino per morto.
La cosa più azzardata che gli era capitata di fare era stata dover rapire la signorina Candy quando i Lagan, sempre loro, avevano deciso che doveva andare a vivere in Messico. E quello era stato uno degli ordini migliori che avesse avuto il piacere di eseguire: alla fine, lei aveva portato la luce in casa Ardlay e nel cuore solitario di William.
Con lei, dopo tante peripezie, era iniziato un periodo d'oro e con lei stava volgendo tragicamente al termine. Da quando era arrivato quel maledetto telegramma dove comunicavano per sbaglio la sua morte, era iniziato un declino vertiginoso e il destino si era accanito su tutti loro.

Un gemito pietoso gli sfuggì dalle labbra e lacrime bollenti gli ferirono le palpebre ancora chiuse dietro le mani.

Stava per crollare anche lui.

Un leggero bussare lo costrinse a ricomporsi in tutta fretta, respirare di nuovo a fondo e mantenere ferma la voce, cosa che gli riuscì a malapena: "Avanti".

Quando la porta si aprì e vide gli occhi spalancati e spaventati della cameriera che gli annunciava una telefonata dal carcere, George capì che le cose sarebbero peggiorate non appena avesse alzato la cornetta.
 
- § -
 
L'ora d'aria per lui era quasi una tortura.

Ogni volta che usciva fuori si sentiva come un uccello intrappolato in una gabbia di cemento. Poteva vedere le cime degli alberi, i tetti di alcune case e sentire il profumo del vento e della natura.

Tutto a portata di mano, ma irraggiungibile. Come Candy, come la felicità stessa.

Allungò la sua, di mano, socchiudendo gli occhi, appena conscio delle risate e delle parolacce degli uomini intorno a sé, e la portò al centro del sole, schermandosi con le dita appena aperte per lasciarlo filtrare: bastava chiuderle per non vederlo più.

"Albert, cosa ci facciamo qui?", chiese la voce triste di Archie, poco distante da lui.

"Aspettiamo la prossima udienza del processo. George si sta occupando di parlare con gli avvocati", rispose asciutto lasciando ricadere il braccio.

"Ma perché metterci dentro?! Non potevano lasciarci, che ne so, ai domiciliari?", ribadì, spazientito, superandolo e avvicinandosi al muro di cinta. Dietro di loro, gli altri detenuti scherzavano facendo battute oscene sulle donne, sui rampolli o sulle guardie. Oppure giocavano a palla lanciando imprecazioni.

"È come vivere costantemente nella strada. Colpevole o no, chi sta qui diventa come loro e perde ogni dignità assieme alle speranze. Forse dovrebbero prevedere dei piani di recupero perlomeno per chi commette crimini minori", commentò, cercando di eludere la risposta di Archie e di trovare una logica nel degrado che lo circondava.

Archie si girò con le mani in tasca e lo sguardo spaventato: anche lui aveva perso peso e nel completo a righe del carcere sembrava un bambino spaurito, invece che il brillante uomo d'affari che stava diventando quando lavoravano fianco a fianco. "Diventeremo come loro?", domandò con voce rotta.

Albert rimase per un attimo fermo a guardarlo e, nella sua mente, passarono come un treno in corsa le immagini degli ultimi anni della sua vita. Come era passato dallo stare in cima a una meravigliosa collina con la donna che amava, confessandole che era il suo adorato principe, a ritrovarsi in un carcere con abiti luridi e ridotto quasi alla fame?
Per anni aveva dovuto nascondersi e aveva anche rischiato grosso, come quando era stato sorpreso nella capanna nei boschi di Lakewood e gli avevano quasi sparato addosso, ignorando chi fosse davvero.

Ma mai, mai aveva perso l'integrità e la speranza. O la libertà.

Quell'Albert, ora, era stato piegato da eventi che sembravano volerlo spezzare una volta per tutte. La sua vita stava andando alla deriva senza che lui avesse più il controllo.

"Non lo so", rispose alla fine, non sapendo davvero che altro dire.

Non sopportando oltre lo sguardo disperato di suo nipote, s'incamminò verso la zona interna dove, in quella giornata di sole, non c'era nessuno. Archie non lo seguì e lui aveva così tanto bisogno di starsene per un po' da solo che capì troppo tardi il suo errore.

Albert intuì il pericolo prima ancora che l'uomo con i denti marci gli si avvicinasse, soffiandogli il suo alito mefitico sulla guancia: "E così tu sei il rampollo che cerca di farci concorrenza, vero?".

"Non so di cosa stai parlando", ribatté lui senza perdere la calma. Quella calma che con Candy credeva perduta per sempre l'aveva ritrovata lì, all'inferno. Forse aveva ragione Archie quando diceva che si era arreso, che non gli importava più di vivere.

Se solo Candy si ricordasse di me...

"Attento, biondino, non scherzare. Il mio capo diventerà presto molto più influente di te: e se io riesco a togliergli dai piedi i pesci piccoli come te, la sua gratitudine potrebbe tornarmi comoda, capisci cosa intendo?".

Lo scatto metallico gli arrivò alle orecchie forte e chiaro, mentre sentiva la mano dell'uomo vicina alla gamba. Da quelle parti doveva trovarsi l'arteria femorale.

"Non ti conviene uccidere un Ardlay. Potresti scoprire che io sono innocente e che ti sei messo nei guai con le tue stesse mani". Non credeva avrebbe avuto tanta freddezza a un passo dalla morte. S'impedì di pensare di nuovo a Candy.

Il malvivente rise con la faccia ancora attaccata al suo orecchio, mandandogli zaffate nauseabonde che gli fecero venire i conati: li trattenne a stento, stringendo i denti: "Innocente tu? Un morto non diventa innocente neanche se lo è davvero".

Fu un attimo.

Albert abbassò la mano sul polso dell'uomo e si girò per dargli una ginocchiata all'addome. Quello cadde a terra di peso e lui gli fu sopra, pronto a disarmarlo.

Ce l'avrebbe fatta anche contro gli altri tre uomini che erano spuntati all'improvviso se non fosse stato indebolito da mesi di preoccupazioni, digiuno e insonnia.

Non pensavo che sarei morto per te, Candy. Non così perlomeno.

L'istinto di sopravvivenza non gli permise di arrendersi tanto facilmente. Avrebbe venduto cara la pelle. Aveva due uomini che gli tenevano le braccia e un terzo sulla schiena e si scosse con violenza, scalciando per farli cadere a terra.

Non aveva le forze di una volta, il fisico era tragicamente troppo indebolito. Non era più il ragazzo vagabondo che faceva a pugni per difendersi. O per difendere un amico.

Terry. Prenditi cura di Candy.

Gli arrivò un pugno sullo zigomo e sentì l'osso incrinarsi. Grugnì di dolore, impedendosi di urlare per mero orgoglio. Restituì il favore mirando al sopracciglio. Si voltò velocemente per assestare un calcio, ma aveva il fiato corto.

L'uomo a terra intanto si era alzato e rideva a crepapelle, col coltello stretto in mano: Albert lo tenne d'occhio mentre cercava di difendersi dagli altri come poteva.
Qualcuno lo prese per un braccio e lui contrasse i muscoli per non perdere l'equilibrio e caricare un destro, ma un dolore lancinante e acuto lo investi alla gamba destra, bloccando lo slancio. Albert inciampò sui propri piedi mentre guardava a sinistra e vedeva il primo malvivente con l'arma ancora in mano, che rideva più forte.

Sbatté le palpebre, mentre la vista gli si appannava e sentiva un liquido denso e caldo colargli lungo la coscia.

"Io non ti ho fatto niente, ho seguito il tuo consiglio!", lo beffeggiò mostrandogli la lama bianca e scintillante.

Mentre cadeva a terra, udì un rumore come di risucchio e il dolore gli ottenebrò il cervello, costringendolo a gridare. Ebbe appena il tempo di vedere uno dei tre aggressori brandire un secondo coltello, vermiglio e brillante, lordo del proprio sangue.

Ma no, non lo stava brandendo: lo stava riponendo in una sacca mentre faceva cenno agli altri di ritirarsi.

"V... gh...", che stava per dire? La vita gli scorreva via a fiotti, le tenebre lo stavano già avvolgendo. Il corpo cadde sdraiato da solo, senza che lui sentisse altro che un fuoco bruciargli la gamba e il fianco.

Dopotutto, avrei voluto vederti ancora una volta.

Liquido sulla gamba, liquido sulle guance, brividi.

Ho freddo. Rosemary? Posso avere una coperta in più?

"Ca... ndy...", udì dalla propria voce prima di arrendersi all'oblio.

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Capitolo 39
*** Limbo ***


Arrivati a questo punto, dicesti, o si va oltre o non ci si vede mai più.
Non capivi che il bello era proprio quel punto,
era rimanere nel limbo delle cose sospese,
nella tensione di un permanente principio,
nel nascondiglio di una vita nell'altra.

Michele Mari
 

Le fronde dell'albero si muovevano al ritmo del vento. Candy strinse forte la parte inferiore della finestra, sporgendosi appena per guardare le radici, ben piantate nel terreno, e il tronco robusto e nodoso, fino a risalire di nuovo sui rami che si protendevano verso il cielo.

Veramente io mi arrampicavo così in alto?

Il dolore pungente alle tempie divenne un pulsare sordo, ma tutto sommato sopportabile. Concentrarsi sull'albero era meno doloroso che cercare di ricordare le voci. Le voci facevano male non solo alla testa, ma anche al cuore, le inducevano un panico che le aveva già fatto perdere i sensi in più di un'occasione. E le facevano pensare alla morte.

Lui le accendeva una sensazione di attrazione e terrore insieme. Aveva sfidato se stessa a baciarlo, quella notte, molto più di quanto volesse sfidare lui.

Lui, che ora giaceva ferito in ospedale, forse in punto di morte.

Pensavano che dormissi ma li ho sentiti.

Quella specie di iceberg di Frannie aveva la voce che tremava e il dottor Carter aveva dovuto intimarle di abbassarla. Poi il mormorio era diventato indistinto e non aveva capito se stesse piangendo o no.

Una folata di vento la costrinse a chiudere gli occhi, ma non chiuse la finestra. Quella era la sua terapia giornaliera e stavolta voleva andare fino in fondo.

Hanno detto che è stato accoltellato in carcere. Altro che viaggio di lavoro!

Una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco le fece accelerare i battiti del cuore. Era preoccupata per lui? Di certo non aveva sentito la stessa emozione quando aveva saputo che a sentirsi male era stata la vecchia signora Elroy: quando era andata a vedere cosa fosse successo, nel trambusto generale, avevano parlato d'infarto e lei non aveva reagito.

Ero un'infermiera...

Dalla biblioteca aveva preso dei libri di medicina, ma non le avevano dato le risposte che sperava. Molte di quelle nozioni le erano semplicemente sconosciute o troppo complicate da comprendere appieno. Se le aveva imparate, nella sua vita precedente, le aveva dimenticate, come tutto il resto.

William Albert Ardlay... Albert...

Emise un gemito di dolore. La testa adesso sembrava scoppiarle: era bastato rivolgere il pensiero a lui. E anche alle altre voci. Quella che la chiamava Tarzan, l'altra che parlava di qualcosa chiamato Dolce Candy.

Mi chiamo Candice!

Ogni volta che cercava di ricordare era una tortura. Possibile che si trattasse degli stessi ragazzi che Annie le aveva detto essere morti?

D'altronde era per quello che aveva desiderato dormire e persino morire, per non soffrire più. Alla fine, non stava facendo soffrire anche chi le stava intorno, con il suo comportamento anomalo?

Mi hanno detto che la mia personalità è cambiata, che sono un'altra persona.

Si era svegliata in quel letto d'ospedale senza un passato ed era come se fosse appena nata. Non concepiva in alcun modo di essere diversa e fin da subito non aveva avuto la minima curiosità di conoscere gli eventi della sua vita prima dell'incidente.

Odiava quando il dottor Carter cercava di farla regredire con l'ipnosi. Era come se si addormentasse relativamente tranquilla e si risvegliasse urlando in preda agli incubi. A quel punto, il medico aveva dichiarato che doveva fare prima un lavoro di preparazione su se stessa e abituarsi all'idea di avere un passato, nonché cominciare a guardare il mondo esterno senza paura.

"Bene, i dieci minuti sono passati", disse all'albero davanti a sé prima di chiudere le imposte.

Si sentiva più rilassata, ora che la finestra era chiusa. Sì, bastava chiudere tutte le finestre, anche quelle interiori, per non soffrire più. Candy sedette sul letto, si tolse le scarpe e vi si sdraiò. La sensazione di pace l'avvolse mentre chiudeva gli occhi e si lasciava scivolare nel sonno.
 
- § -
 
"Nonno William?".

Nonno William?!

"Lui è mio zio, vero? Il fratello di mia madre".

La luce era accecante e Albert lo riconobbe solo dalla voce: era Anthony e, ancora una volta, il sogno aveva poco senso a livello cronologico, perché si stava rivolgendo a suo padre, William C. Ardlay, che non aveva mai conosciuto, e il ragazzo aveva circa quindici anni.

L'età in cui è morto...

Morto? Ma allora... un barlume di lucidità lo attraversò e lui volse lo sguardo su se stesso. La sensazione fu la cosa più strana che avesse mai provato, perché sembrava che il suo stesso corpo facesse parte di quella luce, non che vi fosse solo immerso.

Era in un mondo bianco e abbacinante, dove la voce di Anthony era distorta da una sorta di eco. E dove lo fu anche quella di suo padre mentre gli rispondeva: "Sì, è lui". Le parole successive furono inghiottite dall'eco che parve amplificarsi e Albert colse solo la parola "figliolo".

"Padre...", mormorò non capendo bene se l'avesse detto o solo pensato. Ovunque si trovasse era come fluttuare nell'aria: non provava dolore

...dovrei provarne?

né sofferenza. Gli sembrava di non avere peso e di trovarsi esattamente dov'era giusto che fosse, perché aveva di fronte due delle persone più importanti della sua vita che non vedeva da tempo. Se quello era il Paradiso, si sentiva davvero in pace.

Incontrò gli occhi tristi di Anthony e quelli seri di suo padre, di una tonalità così simile alla propria che avvertì la netta sensazione di essere tornato a casa, in famiglia, dopo un lungo viaggio. Tuttavia... perché lo fissavano in quel modo? Non ricordava di essersi mai sentito meglio. Anzi sì, mentre si trovava a contatto con la natura, nei boschi di Lakewood, in Africa...

"Devi farti forza, figlio mio", colse il tono dell'uomo pervaso da una certa urgenza, nonostante l'eco.

Forza? Ma io sto benissimo!

Forse le pensò soltanto, quelle parole, ma di sicuro gli arrivarono perché scambiò uno sguardo con Anthony; sul suo viso, eternamente giovane, si disegnò una smorfia di panico.

Fu per mero istinto che Albert guardò in basso in quel momento.

E si vide.

Vide il proprio corpo, quello che pensava fare parte della luce, quello che a malapena avvertiva intorno alla propria anima monda di ogni sofferenza terrena.

Lo vide e non provò orrore nel riconoscersi, steso in un letto, circondato da tubi e flebo, col volto sofferente e pallido, gli occhi chiusi. Una presenza accanto al suo letto fu l'unica cosa che lo incuriosì: dalla sua posizione sopraelevata poteva vedere solo i capelli castano chiaro, quasi biondi, nei quali erano affondate due mani.

Solo quando alzò lo sguardo in quello strano mondo di luce e vide il volto stravolto di Stair, capì di chi si trattava. "Mio fratello è molto in pena per te. E non solo lui".

Stava muovendo le labbra per rispondergli? Aveva ancora delle labbra? No, non era verosimile, visto che aveva lasciato il proprio corpo laggiù. E come era possibile che i due mondi fossero separati eppure collegati come se ci fosse una specie di finestra? Doveva trattarsi di un sogno, oppure...

Le immagini dei suoi cari stavano svanendo e Albert allungò un braccio, se così poteva definirlo, verso di loro. Voleva parlare con Stair. Voleva abbracciare Anthony e suo padre. Voleva... voleva capire di chi fosse quella sagoma in lontananza, spersa nel bagliore etereo, con i capelli così lunghi e chiari.

Solo rivolgendole il pensiero, fu come proiettato all'istante più vicino e nella mente spiccò la figura di un dipinto che aveva ammirato tante volte.

"Madre...", bisbigliò. Non pensava che l'avrebbe mai incontrata, visto che era morta alla sua nascita. Eppure era lì, di fronte a lui, e il suo sorriso dolce e materno gli fece salire le lacrime agli occhi, in quel corpo inesistente che non poteva avere né lacrime, né occhi.

La donna si stava avvicinando a lui, la lunga veste candida che le vorticava intorno come se si trattasse di un angelo. E il volto, bello e luminoso, cambiò appena mentre avveniva: divenne quello di Rosemary.

Voglio restare qui con te. Con voi. Ti prego.

Come poteva avvertire il calore delle lacrime e della sua mano sulla guancia? Come poteva perdersi nello sguardo dolce così simile a quello che gli rivolgeva quando era solo un bambino? E come poteva sentire la consistenza morbida di quello che gli stava ponendo sulle spalle?

"...quando ridi che quando piangi...". Quelle parole. Quelle parole furono come un fulmine che abbagliò i suoi sensi ancor più di quanto avesse fatto la luce fino a quel momento.

Chi aveva detto quella frase prima di lei?

O dopo di lei...

Perché l'aveva già sentita, ne era certo! Se solo avesse potuto udire meglio la sua voce, senza quella distorsione dovuta all'eco. Era come se la luce stessa fosse tanto forte da inghiottire persino i suoni.

E i ricordi.

Le mani di Rosemary erano sulle sue spalle e, finalmente, Albert capì che gli stava drappeggiando attorno una coperta.

Ho freddo. Rosemary? Posso avere una coperta in più?

Un coltello, una spada, o forse un pugnale. Al petto. No, alla gamba. Con quel ricordo tornò il dolore e Albert si sentì precipitare.

Candy. Rosemary e mia madre somigliano a Candy. No, è lei che somiglia a loro. E Candy è laggiù, dove ho lasciato il mio corpo sofferente.

La sorella aprì la bocca per parlare, le ombre dei suoi genitori, di Anthony e persino di Stair erano macchie luminose dietro di lei e, nonostante i ricordi terreni, Albert protese le braccia

o la mente

verso le loro presenze confortanti.

Era come se fosse tirato in due direzioni opposte. Totalmente opposte. Un limbo tra sogno e realtà. O tra la vita e la morte.
 
- § -
 
"Come sarebbe a dire che l'udienza è stata rimandata?", esclamò la matriarca battendo un pugno sul tavolo al quale era seduta.

George si schiarì la voce, a disagio. Era dietro alla scrivania che aveva occupato William fino a poco tempo prima, girato verso di lei, e non doveva lasciar trapelare alcuna emozione. Quel vigore che la signora Elroy stava dimostrando era confortante, considerando che avevano temuto per lei fino a poco prima che accadesse l'incidente a suo nipote, ma i medici stessi si erano detti sbalorditi dalla sua fibra forte.

Sperava che a William bastasse la sua, di fibra, però le prove che aveva dovuto attraversare erano state così dure che adesso era lui quello in pericolo di vita. Persino la signorina Candy, quando era entrata in coma, aveva respirato in maniera autonoma. Per lui, invece, avevano dovuto ricorrere alla respirazione artificiale.

Il patriarca, il ragazzo che aveva praticamente cresciuto, era stato accoltellato come un delinquente qualsiasi non mentre era in viaggio, come suo solito, ma in un carcere statale. Qualcuno avrebbe pagato caro per quello.

"George, mi stai ascoltando, in nome del Cielo?! Spiegami questa storia!".

L'uomo alzò gli occhi su di lei, cercando con tutte le sue forze di mantenere la compostezza che aveva sempre avuto. Nonostante la guarigione e il recupero, il dottor Leonard aveva sconsigliato di metterla al corrente di quell'ennesima tragedia. Sperava di non doverglielo mai confessare, perché avrebbe significato solo una cosa.

E la morte di William era un evento che non voleva prendere neanche in considerazione.

"Stiamo terminando di controllare le fonti, signora, gli investigatori che sono in Florida...", spiegò tormentando una penna che aveva in mano.

"Non mi interessa se le nostre indagini non sono ancora concluse!", tuonò lei alzandosi in piedi e prendendo in mano il foglio che riassumeva i punti cruciali della sua testimonianza. "Io devo far sapere al giudice che mio nipote è stato raggirato! Non mi perdonerò mai di aver atteso tanto per palesare i miei dubbi", gemette poggiando le mani sul tavolo in mogano e chinando la testa.

George deglutì, cercando di non fare emergere in lui sentimenti contrastanti. Se davvero aveva avuto dei sospetti perché aspettare? Davvero aveva tanto in considerazione Neal ed Eliza da tardare in una testimonianza così importante che avrebbe potuto salvare il suo unico nipote diretto?

Quella mancanza gli stava costando la vita.

"Purtroppo i ritardi nei tribunali sono all'ordine del giorno, signora Ardlay, sono certo che quanto prima potremo testimoniare tutti. Non possono emettere verdetto senza aver ascoltato la difesa. Nel frattempo sto lavorando con gli avvocati per far uscire il signorino Archibald, che è il meno coinvolto nella faccenda". Il suo tentativo di distrarla con quella buona notizia funzionò e lui fece un sospiro di sollievo interiore.

"Sarebbe meraviglioso avere di nuovo Archibald qui a casa", disse con voce rotta. Nonostante tutto, la granitica signora Elroy poteva anche commuoversi. "E che mi dici dei giornali?", chiese con gli occhi appena lucidi.

"Abbiamo in pubblicazione nei prossimi giorni un articolo nel quale si specifica che le indagini sono ancora in corso e che stiamo cercando di dimostrare l'innocenza della famiglia. Ci dichiariamo estranei a quella che risulta, in modo evidente, essere una manipolazione atta a screditare il buon nome degli Ardlay". Si alzò in piedi anche lui e riuscì persino a sorriderle.

"Bene, molto bene. Però lo scossone vibrerà a lungo su di noi", aggiunse con tono rassegnato. "Anche se un giorno tutto finisse per il meglio e William e Archibald fossero dichiarati innocenti in via definitiva, la macchia resterà indelebile. A meno che non si rendano pubblici i nomi dei responsabili". Lo sguardo della signora si indurì e George, per una volta, fu d'accordo con lei.

"Direi che è l'unica soluzione possibile. Credo che anche William sarà d'accordo: se qualcuno vuole trascinarlo nel fango, dovrà pagarne le conseguenze o il seme del dubbio rimarrà per sempre".

La signora annuì e si voltò per uscire. George vide la schiena dritta, il portamento fiero e il passo sicuro. Capì che nulla avrebbe abbattuto mai quella donna e che, nonostante tutto, William le somigliava molto più di quanto pensasse.

Aveva appena abbassato lo sguardo sulla scrivania quando udì la donna dire in tono basso e minaccioso: "Se dovesse chiamare di nuovo Eliza, per favore, dai ordine preciso che non mi venga passata la telefonata. Preferisco che sia una cameriera o tu stesso a parlarle. Non sono certa di poter fare finta di niente".

Neanche io, avrebbe voluto dirle, ma poté solo darle una risposta affermativa e augurarle un buon pomeriggio. Quando la porta si chiuse, come per uno strano scherzo del destino il telefono squillò e George sussultò all'indietro, inciampando sulla poltrona e cadendovi a sedere.

Il cuore accelerò i suoi battiti. Eliza. L'ospedale che comunicava una tragica notizia. Oppure l'investigatore che dichiarava che i Lagan erano innocenti.

Toccava a lui scoprirlo, si disse allungando un braccio tremante fino alla cornetta.
 
- § -
 
Frannie stava rimettendo in borsa i medicinali che voleva riportare all'ospedale quando bussarono alla porta: "Avanti", disse in tono meccanico.

"Sei pronta?", chiese Adrian entrando con passo disinvolto. Sembrava un marito che chiedesse a sua moglie se potevano uscire a cena.

"Sì, ma dobbiamo aspettare che torni la signorina Brighton", ribatté chiudendo la borsa con uno scatto e posandola sul letto.

Lui alzò un sopracciglio, perplesso: "E dove è andata?".

Frannie si strinse nelle spalle: "A fare spese in città con una delle cameriere. Presumo che non trovandosi a casa sua avesse bisogno di qualcosa".

"E...?". Non disse altro ma fece un cenno col mento in direzione della stanza attigua.

"Dorme, ma l'ho sentita aprire la finestra per dieci minuti come stabilito. Ho ritenuto che le sia costato parecchio, quindi l'ho lasciata riposare". Adrian annuì e cominciò a fare qualche passo verso di lei.

D'istinto, si ritrasse. Non voleva ripetere la scena nel corridoio, quando si era permesso di toccarla. Non voleva più che quell'uomo sperasse in qualcosa che non sarebbe mai accaduto. E, soprattutto, non voleva permettere a se stessa di provare emozioni sbagliate: già ne aveva abbastanza cui far fronte.

"Perché hai paura di me, Frannie?". Alla fine, erano tornati a darsi del tu. Ma rimanevano sempre e solo colleghi. Anzi, lui era il medico e lei l'infermiera.

"È un'affermazione ridicola", rispose voltandogli le spalle.

Lo udì sospirare e fare qualche passo alla sua destra. Non parlò subito, ma quando lo fece le provocò un brivido di rabbia: "Vuoi continuare a crogiolarti in un sogno impossibile? Oppure ti concederai la possibilità di avere qualcosa di tangibile?"

"Non so di che stai parlando", disse a denti stretti, udendolo avvicinarsi.

"Sì, che lo sai, Frannie Hamilton!". Senza che lei potesse prevedere una mossa così repentina, lui l'aveva afferrata per le spalle e l'aveva indotta a voltarsi in un movimento che le fece girare la testa.

Incontrò gli occhi che sembravano un mare in tempesta e nella sua mente si sovrapposero quelli chiari e placidi di William. William, che amava Candy. William, che stava rischiando di morire in un ospedale vicino al carcere. William, l'uomo di cui si era perdutamente innamorata senza poterci fare nulla.

"Lasciami", ansimò odiando il tono remissivo della sua voce.

 "Il suo cuore non è tuo, Frannie, non lo sarà mai! Il mio, invece", si portò la sua mano al petto perché ne sentisse il battito forte e ritmico, "il mio invece è già tuo", concluse chiudendo la distanza tra loro in quello che era il suo primo bacio.

Le accaddero una moltitudine di cose, in quegli istanti pure così brevi. Sentì la morbidezza delle sue labbra e la ruvidezza del mento non sbarbato di recente; sentì il respiro solleticarle il naso e muoverle una piccola ciocca sfuggita alla coda; ma, soprattutto, sentì le sue mani allentare la presa dalle spalle e scenderle più delicate sulle braccia per poi passarle dietro la schiena, là dove la vita si restringe. La stava attirando a sé e avvertì il suo corpo tonico, il corpo di un uomo, attaccato al suo in un modo indecente eppure così elettrizzante che ne fu incuriosita.

Quando lui aprì la bocca sulla sua per approfondire quel bacio, Frannie si risvegliò dal suo shock e lo spinse via, schiaffeggiandolo con forza.

Ansimavano entrambi, anche se era certa che i motivi fossero ben diversi.

"Esci subito di qui", gli disse in un ringhio.

Il suo sguardo azzurro, ora, era rassegnato e colpevole: "Frannie...".

"Esci! Di! Qui!", scandì alzando la voce e pregando che Candy non li udisse.

Lui eseguì senza fiatare, le spalle un po' curve.

Quando fu sola, si passò rabbiosamente le mani sulla bocca, desiderosa di cancellare quel bacio, lamentandosi e gemendo fino a comprendere che in realtà stava piangendo.
Piangeva la mancanza di un affetto stabile nella sua vita, a cominciare dalla sua stessa famiglia. Piangeva la donna che non era mai stata e che forse non sarebbe mai divenuta. Piangeva il destino beffardo che l'aveva fatta innamorare di un uomo che non l'avrebbe mai guardata se non come l'infermiera Hamilton, e che forse ora era già morto. E piangeva perché una parte molto lontana di lei aveva appena toccato quella che poteva essere la felicità, ma non aveva il coraggio di accettarla.
 
- § -
 
Terence pensò che non avrebbe mai più toccato un telefono in vita sua. I telefoni portavano solo cattive notizie, rifletté in modo irrazionale.

All'improvviso si pentì di averne installato uno prima ancora di disfare gli scatoloni nel suo nuovo appartamento. Si pentì di essersi trasferito per accettare di lavorare in un film che non gli apparteneva. Diavolo, si pentì persino di essere tornato da Chicago così in fretta!

La sua vita sarebbe sempre stata una catena infinita di pentimenti e rimorsi.

"Che cosa è successo?", gli chiese sua madre guardandolo con gli occhi spalancati dal panico.

"George mi ha detto che Albert è stato accoltellato. Rischia di morire", rispose a voce bassa, sentendo tutto il peso di quella dichiarazione.

"Oh, no!", ansimò lei lasciandosi cadere sul divano: anche se non lo conosceva, doveva essere rimasta ugualmente colpita.

In carcere lo aveva preso a pugni e lo aveva accusato perché era stato accecato dalla gelosia e dalla preoccupazione. Ora Candy era sempre senza memoria e lui poteva morire. Non era giusto.

Si passò le mani sul viso, strofinandole come per schiarirsi la mente.

"Non posso fare altro che starmene qui e aspettare. Mamma, perché tutti quelli che mi passano vicino vengono sfiorati dalla tragedia? Candy, Susanna, ora anche Albert", domandò guardando davanti a sé, verso la vetrata di una finestra ancora senza tende.

"Figliolo, non dipende certo da te quello che è successo", protestò Eleanor, accigliandosi.

Lui scattò in piedi: "Certo che dipende da me! Susanna è rimasta senza una gamba per salvarmi e poi è morta, di certo indebolita da quell'incidente".

"Susanna è morta di influenza spagnola, Terry", lo interruppe con tono ammonitore, alzandosi a sua volta.

"E Candy è andata via da me per permettermi di stare con lei!", continuò ignorando la puntualizzazione. "Se non fosse accaduto nulla a Susanna, oggi lei starebbe con me e non avrebbe perso la memoria per colpa di quella serpe velenosa!", concluse tirando un calcio a uno scatolone e provocando un'ammaccatura evidente.

"Terry...".

"Avrei voluto picchiare Albert ancora più forte perché lo ritenevo colpevole di quanto le è accaduto, per disattenzione, per ingenuità, non lo so... e invece il vero colpevole sono io che non ho saputo tenerla al mio fianco!", continuò cominciando a perdere il filo logico.

"Quindi anche il fatto che il tuo amico Albert sia in carcere è colpa tua?", gli domandò sua madre ponendosi di fronte a lui con le mani sui fianchi.

"Io... non lo so, magari era distratto perché pensava a Candy ed è stato incastrato per questo... Ok, sto davvero divagando. Ho perso la ragione, forse". Terence andò alla finestra passandosi una mano tra i capelli, cercando di schiarirsi la mente perché diventasse limpida come quel vetro.

Sentì Eleanor sospirare alle sue spalle: "Ora ti dico io come sono andate le cose, Terry, e ti prego di ascoltarmi con attenzione". Quel tono da madre che rimprovera il figlio piccolo lo fece sorridere un poco, suo malgrado. "Quello che è successo a Susanna non è stato altro che un incidente, una fatalità terribile ed è stata una sua decisione gettarsi su di te per salvarti la vita. Non avresti fatto lo stesso anche tu?".

Con un sospiro, lui annuì e la donna continuò: "Bene. Il fatto che Candy abbia deciso di lasciarti a Susanna è stata lo stesso una decisione presa in tutta coscienza da lei e dubito che tu avresti avuto il coraggio di allontanarti, dopo ciò che è accaduto, anche se su questo ci sarebbe da discutere... Ma, con il senno di poi, posso dire che almeno gli ultimi anni della sua vita quella poveretta li ha vissuti felicemente".

"Non l'ho mai amata e lei lo capiva benissimo", sussurrò con tristezza.

"Lo so, ma alle volte la felicità può avere sfumature diverse e sono certa che averti al suo fianco le bastava. Una donna merita di più, questo è certo, ma anche in questo caso c'è il libero arbitrio. Per quanto riguarda Candy, invece... ecco, non sono sicura che sarebbe andata bene tra voi due".

Terence si voltò all'improvviso, con la bocca aperta per lo stupore: "Che stai dicendo? Io l'amavo e da quel che so anche lei mi amava! Perché, altrimenti, sarebbe scappata da scuola per imbarcarsi clandestinamente e venire a cercarmi?!".

Eleanor fece un passo verso di lui: "Figlio mio, sono certa che fino a un certo punto lei ti amasse con tutto il cuore. Non ho dubbi, su questo. Ma mi hai raccontato che poi ha cominciato a vivere con quell'Albert, prima ancora di scoprire la sua vera identità, o sbaglio?".

Lui scosse la testa, allargando le braccia: "Sì, ma solo perché lo conosceva da tanti anni e lui aveva perso la memoria e voleva aiutarlo! Me l'ha confessato subito e io non ho pensato mai, neanche per un attimo, che tra loro potesse esserci qualcosa di diverso".

Eleanor puntò un dito verso di lui: "Esatto, Terence, e forse anche loro la pensavano alla stessa maniera. Ma un'amicizia che dura da tanto tempo e la vostra lontananza hanno fatto il resto".

Terry aggrottò le sopracciglia, urtato da quella dichiarazione: "Vuoi dire che il fatto che io non fossi corso subito da lei ha fatto morire i sentimenti che provava per me? Ti ricordo che alla prima di Romeo e Giulietta lei era a New York e se non fosse...".

"Aspetta, Terry", lo interruppe di nuovo con un gesto della mano. "Prima ancora di questo dobbiamo chiederci quanto le cose tra voi stessero già cambiando. Potrebbe anche essersi innamorata di Albert mentre vivevano insieme ed essere confusa. Ti sei mai chiesto come mai abbia rinunciato a te con tanta facilità, senza neanche provare a lottare?".

Il gelo scese nel cuore di Terence, che si ritrovò a deglutire più volte cercando di assorbire il senso di quelle parole. Fu solo dopo parecchi istanti che dichiarò: "Lo ha fatto perché è sempre stata molto generosa e altruista. E sono certo che abbia continuato a soffrire".

Eleanor annuì e gli si avvicinò fino a mettergli le mani sulle spalle: "Terence, io non so cosa sia accaduto nel cuore di Candy, né quando sia cominciato il suo cambiamento. Ma posso dirti che quando l'ho incontrata a Rockstown, dopo che ti abbiamo visto in quel teatro itinerante...".

"Le hai parlato?", esclamò di punto in bianco, portando lui stesso le mani sui gomiti di sua madre con urgenza: "Cosa ti ha detto?!".

Eleanor si liberò con lentezza dalla sua stretta: "Terence, lei è andata avanti con la sua vita. Era molto dispiaciuta di averti visto in quelle condizioni ma, come donna, posso indovinare che il suo cuore fosse già libero... oppure occupato da qualcun altro. Ti vedeva come un caro amico di cui preoccuparsi".

Terence le voltò di nuovo le spalle, ricordando la sua conversazione con Candy: "Stava cercando Albert. Lui... aveva recuperato la memoria e mi aveva visto. Ha tentato di riavvicinarci".

L'ansito di sorpresa di sua madre gli indicò che non se lo aspettava: "Deve amarla davvero molto per aver fatto una cosa simile per lei", commentò.

"Anche io l'amavo, dannazione! E ancora adesso...". S'interruppe, stringendo i pugni.

Eleanor lo costrinse a voltarsi: "Terence, io credo che tu stia facendo quello che forse ha fatto Candy all'inizio: ti stai aggrappando a un sentimento che è stato bello e vivo in passato, ma che ora sta venendo pian piano sostituito da qualcos'altro".

Sentendosi come se fosse nudo di fronte a sua madre, abbassò lo sguardo: "Di che stai parlando?".

Lei sorrise, alzandogli il viso con il dorso della mano sotto il mento: "Non so bene cosa sia successo tra te e Karen, ma posso dirti che ho notato quanto avessi bisogno di lei, finché era al tuo fianco. Anche da lontano, anche al telefono, capivo dalla tua voce che avevi trovato un equilibrio nuovo".

"Le nostre strade si sono separate. È stata... una storia che non poteva avere seguito", disse cercando d'ignorare la sensazione di mentire.

Eleanor alzò le mani, in segno di resa: "Oh, se lo dici tu". Fece una lunga pausa, poi cercò di nuovo il suo sguardo: "Terry, figlio mio, sei ancora molto legato a Candy, questo è certo. E sei anche in pena per uno dei tuoi migliori amici di sempre, come è giusto che sia. Ma liberati dei fantasmi del passato e lascia che il tuo cuore ti parli senza catene. Non portarti il peso del senso di colpa o di qualunque altra cosa sia morto e sepolto. La vita va avanti ed è giusto che tu ti conceda la possibilità di essere felice. Non ripetere i miei errori, non lasciar andare ciò che è tuo".

Terence spalancò gli occhi, con una consapevolezza che gli trafisse il petto, la testa e l'anima: "Ciò... che è... mio".

Le mani di Karen sulla sua schiena, mentre lo guardava e gli chiedeva di baciarla, di non smettere. Di prendere il suo bene più prezioso. Le sue braccia che gli portavano la testa al seno, quando nel suo calore si era perso nell'estasi ed era finalmente crollato. Le dita che gli affondavano nei capelli e le sue gambe che ancora lo stringevano come se non avesse più voluto lasciarlo andare.

Ma lo aveva salutato, come se niente fosse, salvo poi raggiungerlo alla stazione prima che partisse. Quell'abbraccio, quell'addio...

"Bene, vuoi che ti aiuti con questi pacchi, Terry?", interruppe i suoi pensieri Eleanor, cominciando ad aprirne uno.

Ancora sconvolto dai suoi stessi sentimenti, lui la fermò: "No, non ce n'è bisogno. Ho assunto una persona che mi aiuti a mettere un po' di ordine, arriverà domani. Per stasera dormirò così, in mezzo al caos", ridacchiò, grato di potersi concentrare su qualcos'altro.

"Bene, allora io vado. Fammi sapere se hai notizie del tuo amico, va bene?", si raccomandò lei prima di baciarlo su una guancia e andarsene.

Terence rimase solo e andò verso la sua stanza con passi stanchi. Si gettò sul letto di peso, in posizione prona, girando un poco il viso sul cuscino. Il profumo di Karen divenne un ricordo così vivido che gli parve di sentirlo, pungente ma dolce come quello dei fiori selvatici, così diverso da quello fruttato di Candy.

Vide i visi delle due donne, altrettanto differenti: l'una mora e dalla pelle bronzea e l'altra bionda con la pelle chiara e le sue buffe lentiggini sul naso.

"Mia dolce Tarzan senza memoria, vorrei tanto sostenerti, ora". Il sentimento era agrodolce, lontano dal desiderio che lo coglieva quando si ricordava di Karen. Forse cominciava a capire cosa avesse provato Candy quando si era innamorata di Albert.

Albert. Il suo amico, il suo fratello maggiore, quello che aveva fatto a pugni per lui e che in carcere aveva trattato così male, pur offrendosi di aiutarlo. Ora non avrebbe più potuto.

Ora, avrebbe potuto farlo solo Dio.
 
- § -
 
Archie teneva la testa bassa mentre il direttore del carcere, un uomo di mezza età con una pancia prominente e due grossi baffi neri, gli riferiva le ultime decisioni.
"Le consentiremo ancora di rimanere al fianco di suo zio, durante il giorno, ma ho deciso di prolungare l'arco di tempo per darle modo di aiutarlo nella guarigione", disse e lui alzò la testa di scatto.

"Davvero?", chiese sentendo rinascere una nuova speranza. Sapeva anche che George e gli avvocati stavano facendo di tutto per far uscire almeno lui dal carcere, forse concedendogli i domiciliari. Ma, al momento, l'idea di poter vegliare Albert lo sollevava ancora di più.

L'uomo annuì, lisciandosi i baffi: "Certo, i medici hanno riferito che udire una voce amica durante il coma può aiutare".

Archie prese un respiro profondo, grato al direttore, ma non mancò di chiedere: "E che mi dice degli uomini che lo hanno aggredito?".

Le grosse sopracciglia si strinsero in un cipiglio e lui si alzò, portandosi su un lato della scrivania, un braccio ripiegato dietro la schiena e l'altra mano poggiata sul piano colmo di documenti: "Li abbiamo messi in isolamento e sono oggetto di nuova indagine. Si trovano qui per commercio illegale, ma ora ci sono tutti gli estremi perché il giudice possa incriminarli per tentato omicidio".

La gratitudine di Archie sparì d'improvviso, sostituita da un sentimento di rabbia: era da quando aveva messo piede nell'ufficio del direttore che voleva chiederglielo, ma la notizia che sarebbe potuto stare più a lungo al fianco di Albert lo aveva distratto.

"Come è possibile che avessero un coltello? Non dovrebbe essere un carcere di massima sicurezza, questo?", domandò con tono duro e accusatorio. Avrebbe anche voluto chiedergli come mai nessuno facesse nulla per insegnare un po' di sana, buona educazione ai carcerati, ma omise quel particolare.

La reazione dell'uomo non lo sorprese più di tanto: d'altronde, lui era il capo e Archie un semplice detenuto, anche se di buona famiglia. "Signor Cornwell, la prego di abbassare il tono. L'estrema sorveglianza del mio carcere", cominciò sottolineando il termine di possesso, "lo rende uno dei più affidabili del Paese. Purtroppo sono certo che il livello di delinquenza di determinati soggetti a volte possa farli diventare tanto scaltri da consentire loro di eludere persino la sicurezza e questo include anche i visitatori esterni. Non abbiamo occhi ovunque, anche se ci piacerebbe, e facciamo tutto il possibile perché eventi del genere non si verifichino mai".

Ma sono accaduti, avrebbe voluto urlare, e ora la vita di Albert è appesa a un filo.

"Bene", lo congedò l'uomo, di nuovo rilassato, "domattina sarà scortato dalle guardie fino in ospedale e potrà rimanere tutto il giorno. Spero vivamente che il signor Ardlay possa riprendersi al più presto".

Mentre andava via, negli occhi dell'uomo Archie notò finalmente una nota di panico. Il direttore sapeva che la loro era una famiglia importante e influente e che, nonostante tutto, potevano rappresentare un grosso problema per lui e il suo carcere se il patriarca fosse morto. E questo, a prescindere dalla loro colpevolezza.

Tutti i tasselli andarono al loro posto: era per quel motivo che gli stavano facendo quella concessione così grande.

Mentre lo riaccompagnavano in cella, Archie udì le risate, i pianti e le male parole degli occupanti nelle celle vicine. Per l'ennesima volta guardò verso quella vuota che era stata di Albert: era rimasta così come l'aveva lasciata, con la branda rifatta e una giacca a righe nere appesa a un chiodo.

Guardandola, cominciò a pregare. 

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Capitolo 40
*** Determinazione ***


Eliza sentiva il tanfo delle fogne e le sue belle scarpe italiane affondavano, a ogni passo, in una melma che poteva anche essere solo fango, eppure sapeva pregna di altri liquami innominabili.

Quello non era solo il quartiere più malfamato di Miami, ma anche il più lurido.

Con sua grande sorpresa, però, non le importava che le scarpe o i lembi del suo vestito si rovinassero, perché stavano rischiando la vita, lei e Neil.

Lui aveva perso la testa, qualche giorno prima, ma nemmeno Eliza poteva dirsi lucida. Ancora non sapeva come avessero fatto a nascondere a sua madre l'enormità del disastro che incombeva su di loro, però benedì il fatto che lei fosse troppo impegnata con gli eventi sociali e suo padre perennemente in viaggio per individuare nuove location per i loro alberghi.

Toccava a loro due rimediare al disastro, semmai fosse ancora possibile, o il futuro di tutti sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, in una strada come quella. O, nella peggiore, sei piedi sotto terra.

Rabbrividì e si strinse al braccio di Neal che lanciò un urlo sorpreso: "Dannazione, non farlo mai più!", sibilò. Ormai passava dalle dimostrazioni di affetto improvvise agli accessi di rabbia. Stava perdendo chiaramente la ragione.

"Ho... paura", disse tremando, pensando che anche a lei stava accadendo lo stesso.

"Anche io, dannazione!", ribatté stringendola a sé con un braccio mentre continuavano a camminare. Neil alzò lo sguardo ed Eliza lo imitò. Le insegne sembravano tutte uguali, ma quando videro quella dell'ex armeria dondolare con un cigolio appesa a un supporto di legno, capirono di essere arrivati.

Ora ansimavano entrambi, sapendo che dovevano entrare. Eliza pregò che ne uscissero vivi. Neil la spinse un poco mentre avanzava e dentro di lei il terrore le offuscò i sensi: davanti alla porta, si paralizzò e con uno scatto si volse per scappare via.

Non voleva morire. Le dispiaceva per suo fratello, ma lei non sarebbe morta.

La mano di Neal sul polso bloccò il suo slancio e lei fu proiettata contro il suo petto, con un gemito frustrato: "Lasciami andare, ti prego! Non vuoi che la tua sorellina muoia, vero? Tu sei un uomo, sei più bravo di me in queste cose, sono certa...".

Lui la scosse così forte che i denti le sbatterono: "Tu entrerai con me! Sei quella che ha fatto l'errore più grosso e ora ti prenderai le tue responsabilità!". Le goccioline di saliva la raggiunsero sul viso e lei si pulì, disgustata. La carta della sorellina inerme non aveva funzionato.

"Moriremo, moriremo tutti e due in questa fogna puzzolente!", gemette cominciando a piangere, aggrappandosi a Neal.

"Non moriremo! Gli daremo i suoi soldi e saremo fuori dal giro. Se la difesa scagionerà lo zio William, pazienza. Adesso stiamo lottando per uscirne indenni, ricordi?".

Lo guardò con gli occhi spalancati, vedendo riflesso nel viso contratto di Neil lo stesso dubbio che la stava soffocando. Avevano parlato e gridato una notte intera prima di decidere che non potevano fare altro che assecondare le richieste di quelle persone, delinquenti o mafiosi che fossero. Non avevano scelta. Patteggiare o persino denunciarli equivaleva a morte certa. Sapeva di persone che erano sparite senza lasciare ai loro cari nemmeno un corpo su cui piangere.

Quel vicolo, quella bottega abbandonata e persino l'oceano potevano diventare la loro tomba. Ma, se fossero fuggiti, li avrebbero trovati ovunque fossero.

"O...ok", annuì tremando come se avesse la febbre alta.

"Ok", ripeté lui aprendo la porta.

La bottega era piccola, rimanevano un bancone di legno marcio e una porta sbilenca che dava in quello che doveva essere un piccolo magazzino. Il resto era polvere, sporcizia e buio, perché le finestre unte e opache non lasciavano quasi filtrare la luce.

L'uomo vestito di scuro si confondeva con il resto, ma lo individuò subito e dall'ansito mal trattenuto di Neal capì che lo aveva visto anche lui.

"Chiudete la porta", disse con voce cavernosa. Neil eseguì, però lei non riuscì a staccarsi dal suo braccio mentre lo faceva.

Rimasero entrambi addossati a quella porta, come se così fossero più vicini alla fine di quel tunnel, alla libertà, alla vita. L'uomo avanzò verso di loro con una mano tesa: "I miei soldi".

Neil si agitò mentre cercava il denaro nella tasca dei pantaloni, proprio sul lato dove lei lo stava quasi stritolando, e la allontanò con malagrazia. La mazzetta di banconote gli cadde con un piccolo tonfo e lui la raccolse. Ora che i suoi occhi si erano abituati alla semi oscurità, Eliza poté vedere il sudore colargli lungo la tempia. Sentì il proprio inzupparle l'abito e ne avvertì l'odore pungente.

La grande mano del tipo afferrò i soldi e li fece sparire nella tasca interna del suo impermeabile. Stupidamente, Eliza si chiese se, coperto com'era, non sentisse caldo. Lei sentiva caldo e freddo al contempo, tremava e sudava. Scrutò ancora il losco figuro e capì quanto, quel lontano giorno in cui lo aveva intravisto in una stanza a parlare col padre di Molly, lo avesse sottovalutato.

Quell'uomo era un assassino e loro erano soli.

"Adesso", la voce di Neil gracchiò e se la schiarì prima di riprovare: "Adesso siamo pari, vero?".

Il locale maleodorante si riempì di un suono così sgradevole e sinistro che Eliza quasi si tappò le orecchie. Quando vide sussultare le spalle dell'uomo, però, si accorse che era il suono della sua risata.

Stava ascoltando la risata del Diavolo in persona.

Eliza si rannicchiò di nuovo contro Neal, le spalle contro la porta d'uscita, piangendo in silenzio. Il corpo di suo fratello era teso e sentiva chiaramente il suo petto alzarsi e abbassarsi per il fiato corto.

Gridarono a una sola voce quando il diavolo vestito di nero abbatté una mano sulla spalla di Neal ed Eliza sentì un liquido caldo colarle lungo le gambe: capì che la vescica le aveva ceduto.

Altro che la stanza ben illuminata di Lakewood, con la zia Elroy seduta col ventaglio in mano e lo zio William furioso che sembrava contenersi a malapena. Si ritrovò a rimpiangere la sua vita precedente e i sentimenti di vendetta che li avevano condotti dritti all'inferno.

Neal gemeva, stava piangendo anche lui.

"Ragazzini ingenui e stupidi", li canzonò l'uomo senza mollare la presa. "Una volta che fate parte della nostra grande famiglia siete marchiati a vita, proprio come il caro signor Jordan, che non avete avuto il piacere di conoscere: ha provato a ribellarsi e ora sfoggia una bellissima benda come quella che hanno i pirati", disse sogghignando ancora.

Eliza si portò una mano alla bocca per soffocare un urlo e, con suo sommo orrore, il tipo si rivolse a lei direttamente: "Che c'è, ragazzina, hai paura che possa cavare un occhio anche a te? O che magari prenda la tua virtù?", disse in tono lascivo e pericoloso, portandole una mano sulla guancia e facendole venire l'impulso di vomitare.
"Sei carina, ma non abbastanza per i miei gusti". La mano le scese sul corpetto e l'uomo fece una cosa che la riempì di gelo e ribrezzo allo stesso tempo. Le palpò il seno, un gesto che non avrebbe mai immaginato di dover sopportare nemmeno da suo marito, semmai ne avesse avuto uno. Lo fece come se stesse valutando la consistenza di un cuscino.

Con un verso schifato si ritrasse e fu sorpresa di sentire la voce forte di Neal gridare: "Non toccare mia sorella!". 

Quando il pugno partì, Eliza fu convinta che li avrebbe uccisi, o che avrebbe tramortito lei per violentarla, prima. Invece centrò il naso di Neal e sentì chiaramente lo schiocco dell'osso che si rompeva.

"No!", gridò terrificata e impietosita, coprendosi gli occhi. Voleva scappare, fuggire via, prendere la prima nave ed emigrare in un luogo remoto della Terra dove non l'avrebbero più cercata. Ma le gambe non rispondevano ai comandi e non seppe se fu per la paura che la stava divorando o per l'impossibilità di lasciare solo suo fratello.

Il suo unico fratello.

Lui, che la voleva difendere e ora era inginocchiato a terra mentre fiotti di sangue cadevano sul pavimento e sulla sua camicia, mentre si lamentava di dolore e terrore, cercando di alleviarlo con le mani e sussultando ogni volta che tentava di toccarsi quel disastro sanguinante che era stato il suo naso.

"Non darmi ordini, ragazzo. Se voglio fottermi tua sorella posso farlo anche ora. E se voglio posso anche uccidervi. Ma potreste ancora servirmi. Vostro zio è in galera e chi ci era d'intralcio è cibo per vermi. Se non volete diventarlo anche voi, piccoli impertinenti, tenete chiuse le vostre bocche con mammina e papino o ci sarà un funerale di massa, fra qualche giorno. Magari uno dei vostri preziosi alberghi potrebbe prendere fuoco o qualche avventore non soddisfatto del servizio potrebbe decidere di metterci una bomba. Le possibilità sono tante. Adesso sparite".

Il lungo monologo terminò ed Eliza non poté credere di essere ancora viva.

Uscirono fuori così velocemente che dovette strizzare gli occhi alla vista del sole e si ritrovò a ringraziare il Cielo di sentirselo ancora sul viso. Camminarono senza dirsi una parola, superando le catapecchie, le rovine di botteghe fantasma e passando vicino a personaggi su cui non voleva soffermare lo sguardo neanche un secondo: le bastavano i commenti volgari e talvolta incomprensibili che ferivano le sue orecchie abituate solo all'eleganza e alla compostezza.

Preferì concentrarsi sul terreno lurido e su quanto la sporcizia l'avrebbe obbligata a gettare via tutto ciò che indossava.

Neil crollò improvvisamente in ginocchio, con la mano sulla faccia. Eliza si accorse che il sangue era ancora copioso.

"Credo che sto per vomitare o svenire. O anche tutte e due le cose", disse con voce nasale e lei desiderò solo chiudere gli occhi e svegliarsi da quell'incubo.
 
- § -
 
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu Archie che piangeva.

"Albert! Oh, Dio, sei sveglio?".

E la prima cosa che sentì fu una nausea insopportabile. Lo stomaco si contrasse facendolo sussultare ed ebbe appena il tempo di udire Archie dire: "Qui, Albert, coraggio, ti tengo io".

L'odore e il rumore che fece il liquido nel secchio gli provocarono un nuovo conato, più forte del primo. Si lamentò pietosamente, senza fiato, con la gola in fiamme.
Archie lo sostenne con un braccio e lui si ricordò all'improvviso di quando aveva sostenuto Candy in maniera molto simile, un milione di anni prima, al suo risveglio da un incubo.

Crollò sul letto, come se quello sforzo gli fosse costato tutte le energie residue. Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la stanza era buia e non c'era nessuno.
No, un momento, qualcuno c'era.

Era sempre Archie, seduto su una sedia poco lontano, che guardava la luce della luna provenire da una finestra. Si voltò a guardarlo: "Ti viene ancora da vomitare?".

Lui scosse la testa: "Mi dispiace", gracchiò così piano che quasi non si udì neanche da solo.

Ma il nipote parve averlo capito, perché gli si avvicinò e scosse la testa: "Non dispiacerti. Preferisco assisterti da vivo che vederti morire. Ho pensato che non ti saresti più svegliato. A casa sono tutti preoccupati".

Casa. Candy.

Non era rimasto nulla del mondo di luce nel quale gli era parso di fluttuare fino a quel momento: alla sensazione di non avere più un corpo si era già sostituita quella di essere imprigionato in un involucro pregno di dolore e sofferenza. E non solo fisica.

"Ho bisogno di bere", disse sperando che Archie lo comprendesse. Con sua sorpresa, lo fece e di nuovo Albert si ritrovò a ricordare quando aveva porto il bicchiere a Candy, una volta svegliata dal coma.

"Solo un paio di sorsi o potresti rigettarla. Il medico ha detto che devi andarci piano dopo una settimana intubato".

Intubato? Settimana?

La cognizione temporale era qualcosa che sfuggiva al suo controllo: ad Albert parve di essere sempre vissuto accanto ai suoi cari in attesa di raggiungerli in via definitiva. Si rese conto che era stato davvero a un passo dalla morte ma di non aver provato che pace a quell'idea. Ciononostante, non credeva fosse passata addirittura una settimana dall'aggressione.

La sua espressione dovette essere esaustiva, perché Archie spiegò: "Ti hanno preso per i capelli, zietto, hai perso quasi due litri di sangue e... ti hanno fatto non so quante trasfusioni, poi hai smesso di respirare da solo ed è per questo che ti hanno intubato quasi subito. Ti hanno estubato solo poche ore fa, per questo prima... prima...". Archie singhiozzava e si stropicciava gli occhi come un bambino e ciò lo commosse profondamente.

Alzò un braccio per posargli una mano sul capo e si stupì di quanto gli costasse sollevarlo: "Archie...".

"Scusami, ho pensato che saresti morto, stavolta. Ti prego, non farlo. Non lasciarci, Albert, la zia ne morirebbe. Non potremmo andare avanti senza di te".

Albert girò il capo perché non vedesse le sue lacrime e capì tante cose. Capì che stava vivendo solo in funzione di Candy e non poteva più permetterselo. Capì che la sua famiglia aveva bisogno di lui e che doveva lottare per uscire fuori di lì e per riprendere in mano le redini. Lei era viva e, anche se non sarebbe mai stata sua, era ora che uscisse da quel guscio.

Fino ad allora era stata tutta una favola idilliaca, inframmezzata da momenti tragici che aveva superato. La corrispondenza con Candy, la rivelazione della sua identità di zio William prima e di Principe della Collina poi. La dichiarazione d'amore, i baci, i progetti...

Ora la vita vera stava esigendo il suo pegno, mordendolo, graffiandolo e persino piantandogli un dannato coltello nella coscia. Ma lui era abbastanza uomo da accettarlo. Aveva sempre creduto di essere forte, invece con Candy si era riscoperto debole come solo un innamorato poteva esserlo. La amava ancora, avrebbe pianto ancora per lei e l'avrebbe desiderata per tutto il resto della sua vita.

Tuttavia doveva recuperare quella facciata esteriore che gli consentiva di fare il suo dovere di capofamiglia. Doveva ricostruirsi dall'interno, pezzo dopo pezzo, dopo che i sentimenti per la sua Candy lo avevano sbriciolato come un muro di gesso. Doveva usare una lega di acciaio se voleva affrontare la vita.

Sì, aveva davvero desiderato morire, perdersi nelle presenze confortanti di suo padre, sua madre, Anthony e Stair, ammesso che fossero davvero le loro anime che aveva visto e non meri sogni allucinatori. Ma sarebbe stato egoista tanto quanto andarsene in giro per il mondo evitando di prendersi le proprie responsabilità. Ed era qualcosa che non poteva più permettersi, con o senza Candy al proprio fianco.

Girò il volto composto verso il nipote e gli disse: "Voglio uscire di qui", riuscì a dire imprimendo un po' più di forza nella voce.

"Beh, dovrai strapparti il catetere e un paio di aghi dal braccio, allora", ridacchiò lui riprendendo il controllo e scherzando.

"Oh, povero me!", esclamò imbarazzato, cominciando a ridere a sua volta. "Grazie, Archie. Se non ci fossi stato tu, qui, non so se ce l'avrei fatta".

"Ma io non ho fatto niente, se non controllare che non facessi brutti scherzi, vegliarti e passarti un secchio qualche ora fa".

Albert scosse la testa, sentendosi un relitto. Anche il suo orgoglio era in mille pezzi e aveva un bisogno disperato di ricostruire persino la propria dignità.

"Comunque... ecco...", Archie si morse il labbro, come se volesse dire qualcosa e temesse di farlo.

Albert si volse di scatto a guardarlo: "Che succede, c'è qualcosa che non mi hai ancora detto? Come sta Candy? E la zia?".

Nulla da fare, lei sarebbe stata sempre in cima a ogni suo pensiero.

"Oh, no, loro stanno bene. C'è sempre Annie a casa con lei e la zia e anche il medico con quell'infermiera".

"Allora cosa c'è?", domandò cominciando a tossire. Dannazione, se gli bruciava la gola! Archie gli porse il bicchiere e lui bevve un altro sorso, anche se l'avrebbe scolata tutta.

"Domani esco. Mi hanno rilasciato perché non ci sono prove tangibili e io non ho azioni in sospeso con la distilleria". Sembrava dispiaciuto, lui invece sorrise.

"Bene, ne sono contento. Vai anche tu a casa, ti prego. Abbi cura di Candy, della zia e degli affari. George...".

"Accidenti, Albert, rimarrai qui da solo!", gridò lui, di nuovo disperato. Anche Archie aveva i nervi a pezzi.

"Non fa niente", rispose chiudendo gli occhi e sentendosi di nuovo stanco. Inorridiva all'idea di rimanere solo, ma gli sarebbe servito per testare le forze interiori.

"Ma tu...". Archie gli sembrò regredito all'età di un bambino, così vulnerabile con gli occhi lucidi e le labbra tremanti. Gli fece quasi tenerezza.

"Archie, ascoltami. Ora sei l'uomo di casa Ardlay e devi essere forte. Io ho intenzione di uscire di qui e non intendo solo dall'ospedale: non resterò in galera e ti giuro che quando uscirò ci finiranno i Lagan. Mi dispiace per Raymond, ma i suoi figli non la passeranno liscia, né per quello che hanno fatto a Candy, né per quello che hanno fatto a noi".

"Così voglio sentirti parlare!", esclamò lui con le lacrime agli occhi ma un'espressione di trionfo nella voce, il pugno chiuso come in segno di vittoria: "Se sapessi da quanto tempo volevo sentire questa determinazione in te! Promettimelo!".

"Te lo prometto, nipote", disse mentre si lasciava abbracciare e gli permetteva di singhiozzare contro la sua spalla.

Ce la farò. Devo farcela. Per Candy, per la mia famiglia. Dimostrerò la mia innocenza e tornerò a casa.
 
- § -

"Raccontami di Anthony", disse Candy guardando fuori dalla finestra aperta.

Annie trattenne il respiro, alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduta. Non solo la sua amica e sorella stava respirando aria fresca, anche se da dentro a una stanza, ma le chiedeva qualcosa del suo passato che era così vicino al trauma che aveva subito che per un secondo titubò.

Quando si voltò a guardarla da sopra a una spalla, aveva uno sguardo determinato che le ricordò la vecchia Candy.

Il dottor Carter le aveva chiesto di assecondarla e di raccontarle quanti più eventi potesse, escluso l'argomento focale che la faceva agitare tanto. Ora lei le stava chiedendo proprio quello.

"Candice, sei sicura che...?", domandò torcendosi le mani.

Candy si voltò di nuovo a guardare fuori: "Sì. Voglio sapere perché quando ho quelle crisi, il nome di questo Anthony si sovrappone a quello di William. O Albert, o come diavolo si chiama".

Annie prese un respiro profondo e scavò nei recessi della sua memoria. Conosceva a grandi linee la storia di Anthony e suo zio da ciò che le era stato riferito e ricordava il ragazzo più giovane a malapena, ma avrebbe cercato di fare di tutto per farle capire cosa avessero in comune i due oltre alla parentela.

Candy li aveva amati entrambi.

"Anthony era... il nipote di William... di Albert", spiegò Annie usando il nome con cui lo chiamavano tutti. Ora che sapevano che se la sarebbe cavata, l'atmosfera in casa era più rilassata e Annie era molto nervosa, perché era certa che a breve Archie li avrebbe finalmente raggiunti.

Mise da parte i sentimenti contrastanti e il tumulto nel suo cuore per scrutare le reazioni di Candy, anche se di spalle.

"Vuol dire che William ha un fratello o una sorella di cui non conosco l'esistenza?", domandò tornando distaccata.

Annie cominciò a camminare per la stanza, a piccoli passi per cercare di non fare troppo rumore. Temeva che, se fosse accaduto, il fragile equilibrio che si era appena creato si sarebbe spezzato. Tuttavia, non riuscì a rimanere ferma perché era tesa come una corda di violino.

"Albert aveva una sorella che purtroppo è morta molto giovane. Se non ricordo male si chiamava... Rosemary. Quando venne a mancare, Anthony era solo un bambino". Fece un'altra pausa e vide le sue spalle alzarsi come per un sospiro.

"Continua, non farti pregare. Voglio sapere come l'ho conosciuto e come è caduto da cavallo". La voce era ancora fredda, il tono quasi duro. Annie sospettò che fosse una sorta di barriera protettiva.

Cercò di riassumere tutto con un tono calmo e controllato: "Quando i Lagan ti hanno adottata hai conosciuto Anthony, che viveva poco distante. Come ti ho spiegato, fanno tutti parte del clan Ardlay. Lui e gli altri... Archie e Stair, ricordi? Ti ho parlato anche di loro. Beh, hanno scritto al prozio William, che allora non conoscevano personalmente. Gli hanno chiesto con tutto il cuore di adottarti per allontanarti da casa Lagan, dove non ti trattavano come meritavi. Così hai cominciato a vivere a Lakewood". Ora veniva la parte difficile e Annie dovette prendere fiato.

Vide il corpo di Candy dondolare piano avanti e indietro, come se stesse combattendo contro se stessa e pensò, anzi, sperò le avrebbe chiesto anche di Archie e Stair, più nello specifico. Invece disse solo: "Cosa gli è successo?".

"C'è stata...", s'interruppe per deglutire, "una caccia alla volpe. Mi hanno raccontato che eravate a cavallo e vi eravate allontanati insieme. Lui... il suo cavallo ha avuto un incidente e lui è stato sbalzato a terra. È... morto... sul colpo". La voce si ruppe e, anche se non lo aveva conosciuto bene, visse il trauma che Candy doveva aver avuto.

Candy s'ingobbì come se stesse avendo un conato, respirò per un attimo in modo pesante e Annie non capì se piangesse o si stesse sentendo male. Combattendo contro l'impulso di soccorrerla, la guardò con i nervi e i muscoli tesi.

"Quindi è caduto proprio come è successo a me?", chiese con voce incrinata.

"Sì", confermò in un soffio.

Ci fu una pausa molto lunga, nella quale perlomeno Candy non diede segno di crisi. Era un passo in avanti davvero enorme, di cui avrebbe informato immediatamente il dottor Carter.

"Ero innamorata di lui?", domandò Candy di punto in bianco.

Annie non poté fare altro che confermare di nuovo.

"Secondo te perché la mia mente associa Anthony ad Albert? E non dirmi che è perché erano parenti, sono certa che ci sia dell'altro".

Lei aprì la bocca, annaspando. Che diavolo doveva risponderle? Che era innamorata di Albert? Era lì che erano già giunte? Decise di provare con una mezza verità: "Beh, loro... si somigliano molto, anche se Albert è più grande. Suppongo che dipenda da questo".

Candy si voltò di scatto: "Non prendermi in giro!", l'aggredì e Annie vide gli occhi spalancati e iniettati di sangue. Capì che ascoltare quella storia le era costato uno sforzo enorme e che la curiosità stava avendo il sopravvento sui suoi timori.

Per sua fortuna, in quel momento bussarono e Annie ringraziò il Cielo che il dottor Carter avesse scelto, consapevole o meno, di interromperle proprio in quel momento.  
Annie ne approfittò per uscire dalla stanza, congedandosi più velocemente che poté. Aveva bisogno di stare da sola.

A breve avrebbe rivisto Archie: era felice, perché finalmente era uscito da quell'incubo. Ma non sapeva come si sarebbe comportata con lui, visto che avrebbero vissuto nella stessa casa.

Una parte di lei fu grata che dovessero concentrarsi su Candy e non sui loro sentimenti. Non sapeva se fosse ancora pronta ad affrontarli.
 
- § -
 
Jorge Ruiz aveva una fitta rete d'informatori e le voci che gli erano arrivate non erano affatto confortanti. Sapeva che il gioco cui avevano deciso di partecipare i ragazzi Lagan era pericoloso, ma se erano davvero coinvolti con quell'organizzazione mafiosa, neanche la polizia avrebbe potuto aiutarli.

E tentare di scoprire tutte le carte per salvare gli Ardlay rischiava di metterli in una situazione di pericolo maggiore.

Mentre si appoggiava al muro del vicolo e si accendeva l'ennesima sigaretta, fallendo i primi due tentativi di dare fuoco al cerino, Jorge capì che era in una situazione di stallo.
L'alternativa sarebbe stata addossare tutta la colpa a Neal ed Eliza, ma era poco credibile che avessero fatto tutto da soli. Incluso uccidere quel povero diavolo che aveva testimoniato al processo.

No, la chiave di tutto non poteva che essere una e una sola, rifletté soffiando fuori il fumo in una nuvola: dovevano offrire protezione alla moglie di Billy Gonzales e portarla a testimoniare. Ma, ancora una volta, sarebbe dovuta intervenire la polizia.

Si sentiva stretto in un cerchio che stava per stritolarlo e capì che doveva confrontarsi con George Villers il prima possibile per prendere una decisione definitiva.
Non aveva molto tempo. Di quel passo, a breve Raymond Lagan e sua moglie avrebbero scoperto tutto e non poteva garantire che a quel punto sarebbero sopravvissuti a lungo.

La scomparsa dei Lagan avrebbe significato perdere il collegamento più importante con la soluzione di tutta quella storia.

Sperava solo che l'FBI fosse più ben disposta e meno corrotta degli agenti di Miami. Se ricordava bene, però, uno dei capi della polizia di New York aveva un piccolo conto in sospeso con William Ardlay. Un certo commissario Johnson, se la mente non l'ingannava.

Con un gesto repentino, accartocciò il mozzicone tra le dita e lo gettò via. Doveva cercare subito un telefono.

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Capitolo 41
*** Ritorni e scoperte ***


Archie ricevette l'abbraccio della zia Elroy e ne fu commosso. Quella donna, all'apparenza fredda e controllata, era capace di un gesto di affetto caldo e confortante. Rivedere finalmente l'ingresso di casa dopo essere stato in galera, anche se solo per poco, e persino la servitù e tutti i volti conosciuti lo aveva davvero rinfrancato.

Stretto nell'abbraccio della zia, Archie rifletté che uno simile lo aveva ricevuto solo da sua madre, un'ora prima, quando era passato a salutare i suoi genitori prima di recarsi a villa Ardlay.

"Come stai, zia? Mi hanno detto che hai avuto qualche problema di salute", le chiese senza lasciarla.

La voce della zia gli arrivò soffocata: "Sto molto meglio, ora che almeno tu sei tornato a casa".

Archie chiuse gli occhi, pensando ad Albert che avrebbe dovuto fare la sua riabilitazione in carcere. Sapeva che ci sarebbe stato un medico a visitarlo costantemente, per assicurarsi che recuperasse le forze dopo l'ospedale. Ma sarebbe stato sufficiente? E se fosse stato di nuovo aggredito?

"Bentornato signorino Cornwell", disse George interrompendo di colpo i suoi pensieri foschi. La zia Elroy  sciolse l'abbraccio, asciugandosi con discrezione gli angoli degli occhi e Archie incontrò quelli scuri e gentili dell'uomo.

"Grazie, George. Per tutto". Gli tese la mano e la strinse con vigore.

"Io non ho fatto nulla, gli avvocati hanno avuto il merito di trovare la via giusta per scagionarla in via definitiva", spiegò lui.

Archie annuì: "Ora dobbiamo tirare fuori Albert... prima possibile". Cercò di non far trasparire i suoi timori, visto che la zia non sapeva nulla.

Dopo quella frase si rese conto che, proprio lei, assumeva un'espressione dura e si voltava verso George: "Era previsto che testimoniassi in tribunale giorni fa, ma per motivi a me ancora incomprensibili, il giudice ha rinviato l'udienza a data da destinarsi. Ci sono delle cose che devi sapere, Archibald".

Sbatté le palpebre, confuso: "Cosa dovrei sapere?", chiese senza capire.

"Forse dovremmo spostare questa conversazione nello studio", propose George e Archie si rese conto che erano ancora all'ingresso, con la servitù presente.

"D'accordo", rispose annuendo, "ma vorrei prima salire a vedere Candy, se per voi non è un problema". In realtà aveva ancora più bisogno di vedere Annie. Respirare il suo profumo. Sentire la sua voce. Leggere nei suoi occhi cosa provasse per lui.

La zia fece una smorfia e George invece un pallido sorriso: alcune cose non sarebbero mai mutate, rifletté Archie.

"Bene", disse sua zia con il suo solito tono controllato, "tieni presente che Candice è molto cambiata e... beh, il dottor Carter ti spiegherà tutto".

Mentre saliva al piano superiore, Archie poté sentire il battito del proprio cuore rimbombargli nel petto e nelle orecchie, affannandogli il respiro. Mille emozioni diverse si stavano susseguendo nel suo animo, sommergendolo come onde di marea: il desiderio ardente di rivedere Annie; il timore reverenziale di scoprire una Candy diversa; il senso di inadeguatezza per il compito che lo attendeva; il ricordo costante del volto di Albert, pallido ma determinato. E, non ultima, la curiosità sempre più morbosa di sapere cosa sua zia Elroy avesse da comunicargli di così importante.

Sollevò il braccio davanti alla porta, girando il polso e flettendo le dita per bussare con le nocche. Chiuse gli occhi, esitò, deglutì un paio di volte e lo fece.
Dopo la reclusione, il suo futuro sembrava dipendere tutto da quel semplice gesto.
 
- § -

Terence lasciò le mani dell'attrice bionda portandosi un braccio alla fronte in un gesto teatrale, poi si volse verso la seconda attrice alle sue spalle. Era mora come Karen ma non le somigliava per niente, così come quella che aveva poco prima davanti era molto diversa da Candy.

Entrambe gli parvero più alte, più formose, più... perfette. Eppure erano l'emblema della sua vita.

Forse fu l'esitazione del momento per quel pensiero così improvviso, ma il regista cominciò a urlare: "Stop, STOP! Graham, che diavolo stai combinando?!".

Terry imprecò internamente, odiando sempre di più quel set. Il fatto che non potesse esprimersi a voce era una tortura che sopportava sempre meno e non capiva come potesse sua madre recitare in quel modo così assurdo.

Incontrò il suo sguardo preoccupato dietro le macchine da presa e capì che quell'esperienza insieme a lei non gli era già più utile. Gli mancava troppo il teatro.

Con la mia partner più brava.  

Gli mancava recitare le battute a memoria, imprimervi i suoi sentimenti, calarsi nei panni del suo personaggio.

Fare coppia con colei che era la mia metà.

"...un'espressione così seria! Stai dicendo addio a Dorothy per gettarti fra le braccia di Catherine, nei tuoi occhi devono bruciare il rimorso e la passione!". I suoni e le grida del regista tornarono e la bolla di ricordi scoppiò.

Gli lanciò un'occhiata e lui dovette leggere qualcosa di terribile nei suoi occhi, perché le sopracciglia si unirono in un cipiglio ancora più profondo.

Stava per lasciare tutto, seduta stante. Stava per prendere un treno e tornare da Candy, poi da Karen o forse solo a casa a schiarirsi le idee. Gli sembrava di impazzire.
"Terry". La voce di sua madre era bassa e vi colse una sfumatura di supplica.

Devo restare per lei, non posso fare il bambino.

Guardò il viso bello della donna che gli aveva dato la vita e che aveva ritrovato, la donna che con la sua vicinanza e il suo affetto aveva contribuito a farlo uscire dal tunnel nel quale era entrato il giorno in cui Candy lo aveva lasciato di nuovo.

"Bene", disse con tono deciso. Per un attimo si sentì come in quel teatro itinerante, con Candy che lo fissava da lontano piangendo per la sua performance terribile. Ora erano gli occhi di Eleanor a muovergli qualcosa dentro. Si volse verso l'attrice mora, di cui fosse dannato se ricordava il nome vero: "Bene, Karen, sono pronto a gettarmi fra le tue braccia", disse prima di mordersi la lingua a sangue.

Merda.

"Si chiama Catherine, ed è la donna della tua vita!", tuonò il regista alle sue spalle.

Si voltò per affrontarlo con un mezzo inchino: "Chiedo scusa, ma tanto ci saranno i sottotitoli. Che importanza ha che io sbagli nome?".

Terence riuscì a chiudere la mente ancora una volta per non udire gli epiteti coloriti che il regista gli stava lanciando, ma poté dire con una certa sicurezza che stesse cianciando di attori viziati e di budget troppo alto. In realtà era più in pensiero per l'espressione di sua madre.

Sul suo volto, ora, poteva leggere tutte le domande e le affermazioni che erano scaturite in lei dopo quel lapsus scellerato.

Stasera non mi darà tregua, quando torneremo a casa.

Per fortuna non vivevano assieme, così poteva ritirarsi nel suo appartamento con la scusa di essere stanco.

Forse.
 
- § -

Le dita della mano destra strofinarono la fronte in una specie di massaggio. I dolori lancinanti dei primi giorni avevano lasciato il posto a un dolore pulsante e sordo, più o meno sopportabile, che sembrava non svanire mai.

Candy alzò anche l'altra mano e prese a massaggiare entrambe le tempie, gli occhi sempre chiusi e il capo poggiato sul cuscino, le gambe per metà fuori dal letto.
Il dottor Carter si era raccomandato di prendere almeno dieci minuti di aria ogni giorno, alla finestra od ovunque desiderasse e l'aveva fatto.

Le aveva detto di diminuire i sonnellini e l'aveva fatto a spese di quel mal di testa continuo.

Poi le aveva chiesto quando sarebbe stata pronta a fare un'altra seduta di ipnosi regressiva o persino di andare a Lakewood, in mezzo alla natura. Dove tutto era cominciato.
"Io e l'infermiera Frannie verremmo con lei, Candice", le aveva assicurato come se fosse quello il suo problema maggiore.

Aveva chiesto al medico del tempo per pensarci e lo stava ancora facendo, in quel preciso momento. Ma odiava pensare. Odiava il desiderio di ricordare che, sempre più spesso, si affacciava nella sua mente. Odiava non potersi semplicemente addormentare e smettere di respirare. E odiava non avere il coraggio di togliersi da sola quella vita inutile che era costretta a vivere.

Stretta nella morsa dei dubbi e del dolore, si sentiva intrappolata.

La storia di Anthony l'aveva sconvolta a tal punto che ora rimpiangeva di aver chiesto ad Annie di raccontargliela. Eppure, nonostante tutto, dentro di lei rimaneva non un dubbio, ma IL DUBBIO.

Perché Anthony e William erano collegati in qualche maniera?

Ormai era certa di essere stata innamorata di Anthony e il calore che aveva avvertito come prima cosa al suo risveglio, assieme a quella sorta di attrazione-repulsione che sentiva per il suo tutore le indicavano che le stavano nascondendo la verità.

Si era spinta molto oltre, tentando persino di sedurlo, seppure in maniera maldestra. Però, ripensando a quell'episodio e al suo comportamento prima che lo arrestassero, si stava rendendo conto che quello che inizialmente era solo un sospetto non poteva che essere la realtà.

Erano o erano stati innamorati.

Quel concetto le esplose nel cervello come una certezza inconfutabile e dovette mettersi a sedere, la mano destra premuta sulla bocca.

Odiava vomitare ogni volta che si spingeva troppo oltre, ma il dolore alle tempie divenne tale che si diresse in bagno afferrando i due lati del wc e sporgendosi mentre lo stomaco sussultava impietoso.

Le sue mani mi sostengono, contro la mia volontà, e sento la sua pelle calda e confortante. Il tremore è impercettibile ma capisco da quello quanto il suo cuore batta forte.

"All'inferno!", gridò lasciando andare il conato e facendo uscire un misero filo di saliva. Misero, come lei.

"Candy!". La voce di Annie dietro di sé le rimandò un'immagine che le fece strabuzzare gli occhi. Forse stava impazzendo, perché le sembrò di vederla proiettata sulle piastrelle del bagno, per tutta la lunghezza del muro di fronte.

 La bambina dai capelli neri corre verso di me, piangendo, e io l'accolgo fra le braccia. Mi dice che Miss Pony vuole vedermi e lei ha paura che mi sgridi.

Candy cadde in ginocchio e, finalmente, vomitò.

Mentre era impegnata a ricomporsi e a sciacquarsi il viso, sentì distrattamente la presenza di Annie, vicina ma discreta, forse pronta ad aiutarla.

"Erano giorni che non ti succedeva. Hai per caso ricordato qualcosa?".

Voleva chiederle chi fosse Miss Pony, ma si trattenne. Forse gliel'aveva già nominata, ma non ricordava bene. In realtà, ne aveva davvero abbastanza dei ricordi, per quel giorno.

"Ti ho detto di non chiamarmi con quel nome ridicolo", ribatté invece, bevendo un sorso d'acqua.

Con sommo disappunto, si accorse che nella sua stanza era entrata un'altra persona. Non era il dottor Carter e nemmeno Frannie.

Era un ragazzo con i capelli lunghi quanto i suoi in quel momento. Sulla faccia aveva un'espressione contrita, come se non volesse neanche trovarsi lì.
"E lui chi diavolo è, adesso?", domandò seccata.

"Mo... molto piacere Cand... Candice, io mi chiamo Archibald Cornwell e sono il fid... il... insomma, un amico", terminò balbettando come un idiota.

Candy lo guardò a bocca aperta: non le era sfuggita l'occhiataccia che gli aveva lanciato Annie mentre cercava di articolare quella frase sconclusionata.

Non seppe se mettersi a ridere o infuriarsi. Optò per una via di mezzo.
"Bene, benvenuto Archibald Cornwell", disse con un ironico tono pomposo, "io sono la malata di mente di questa casa e non so chi accidenti tu sia. Piaciuto lo spettacolo di poco fa?".

Mentre Annie rimaneva quasi impassibile, il volto del ragazzo subì una trasformazione tale che pensò che sarebbe davvero scoppiata a ridergli in faccia: prima si accigliò, poi le sopracciglia schizzarono in alto, quindi la bocca si aprì e ne uscì un suono strozzato. Quando la richiuse sentì lo schiocco dei denti.

"Io... io", cercò di dire ma Annie lo bloccò con un gesto.

"Archie, per favore, limitati alle presentazioni o a qualche ricordo, se Candice vuole. Ne abbiamo già parlato, ricordi?".

Candy avrebbe dovuto irritarsi, perché si sentiva una specie di cavia da esperimento con cui non parlare direttamente se non nel modo giusto e, per la prima volta, odiò essere malata. Tuttavia quel nome le riportò subito il collegamento: "Tu sei Archie di Lakewood, quello che conosceva Anthony", disse.

Di nuovo, vide la mascella del ragazzo aprirsi a dismisura: "Ti ricordi di me?", esclamò con voce rotta dallo stupore.

"Non si ricorda di te, gliene ho parlato io. Insomma, anche tu dimentichi le cose adesso? Te l'ho detto cinque minuti fa!". Annie si girò verso di lui con le mani sui fianchi e a rimanere sbalordita, ora, fu Candy.

"Non mi hai detto che le hai parlato di me!", rispose lui piccato.

"Ma certo che sì! Ho fatto il tuo nome assieme a quello di Stair e Anthony", spiegò come se stesse avendo a che fare con un bambino piccolo particolarmente disattento.
Stavano davvero litigando davanti a lei?

"Beh, forse me l'hai detto mentre ero distratto", le rispose Archie accigliandosi di nuovo.

Annie, che ora le dava le spalle, allargò le braccia in un chiaro gesto esasperato: "E da cosa eri distratto, di grazia?", chiese alzando un po' la voce.

Candy si schiarì forte la gola, richiamando l'attenzione. Erano pur sempre nella sua stanza e il mal di testa, che poco prima di era attenuato grazie all'ennesimo capriccio del suo stomaco in fiamme, stava tornando a tutta forza.

I due si voltarono a guardarla e notò l'imbarazzo e il rossore sui loro volti. Li fissò alternativamente, poi domandò: "Ma, scusate, voi siete mica fidanzati?".

Archie guardò il soffitto e Annie abbassò il capo verso il pavimento, tormentandosi le mani.

"Sì, beh...", iniziò lui, ma si sovrappose il "no" di Annie.

Candy sospirò. Ora sì che era arrabbiata: "Insomma, non me ne importa niente se state insieme o se avete una crisi matrimoniale, io ora voglio riposare, quindi fatemi il piacere di andarvene", dichiarò superandoli in pochi passi e aprendo la porta per sottolineare le sue intenzioni.

"Ma... ma". Quel ragazzo non faceva che balbettare, santo Dio!

"Ho detto fuori!", alzò la voce, battendo un piede a terra.

Annie fu saggia. Prese sotto braccio l'amico, o il fidanzato, o quello che era e gli borbottò che era meglio così. Quando uscirono, Candy si lasciò cadere sul letto.

Ne aveva davvero abbastanza di tutte quelle persone. Se solo non avesse avuto il terrore degli spazi aperti, sarebbe scappata quella notte stessa.
 
- § -
 
Annie si appoggiò allo schienale della poltrona della sua camera con un sospiro profondo.

Era stata una giornata lunga e piena di emozioni, a cominciare dal ritorno di Archie. Anzi, a dirla tutta era stata quella l'emozione più grande.

Quando aveva bussato alla stanza di Frannie, anche se sapeva che era lui, non aveva avuto il coraggio di alzare gli occhi dalle sue dita intrecciate, che si tormentava nel tentativo di scaricare la tensione.

La sua voce, Dio quanto le era mancata la sua voce! Si stava presentando al dottor Carter e a Frannie, spiegando che era lì per aiutare Candy come era desiderio di suo zio.
Quando finalmente i loro occhi si erano incontrati, non si erano detti altro che un "Ciao". Il suo, basso e tremante, quello di Archie colmo di emozione.

Non potevano fare altro, non erano soli, ma Annie notò gli sguardi interrogativi del medico e dell'infermiera. Fu quest'ultima a chiederle di spiegare ad Archie come stessero le cose con Candy.

Archie le sedette di fronte, occhi incatenati negli occhi, e gli aveva fatto un piccolo riassunto di cosa lei sapesse e che comportamento doveva tenere in sua presenza.
Purtroppo era andato tutto storto.

Avevano trovato Candy in preda a uno dei suoi attacchi di nausea e anche a livello emotivo non era in uno dei suoi momenti migliori.

Incredibilmente, mettersi a discutere con lui davanti alla sua amica e sorella non aveva fatto altro che avvicinarli, tanto che persino lei, ignara di tutto, aveva chiesto se fossero fidanzati.

Annie si passò due dita sulle labbra, ricordando gli unici due baci che si erano scambiati. Il primo glielo aveva rubato lei, il secondo glielo aveva rubato Archie e si era meritato uno schiaffo.

Come sarebbe stato un bacio vero, di quelli cui leggeva nei libri o vedeva nei film, con i corpi intrecciati e le labbra intente al medesimo scopo?

Sospirò gettando la testa indietro, chiudendo gli occhi e schizzando in piedi come una molla un istante dopo: stavano bussando alla porta e lei immaginava benissimo chi fosse.

Credeva che quel confronto non sarebbe arrivato mai?

Illusa!

"A... a... Avanti!", balbettò maledicendo la propria voce tremante.

Archie entrò e lei notò subito che era dimagrito. Non tanto quanto aveva visto deperire Albert, ma di sicuro stare in carcere non gli aveva fatto bene. Come aveva potuto non notarlo quel pomeriggio? Forse era troppo nervosa e stava cercando di concentrarsi su Candy.

Ora, però, l'aspetto sofferto dell'uomo che ancora amava disperatamente la colpì con la forza di un maremoto.

"Oggi non ti ho neanche chiesto come sta Albert", le uscì di bocca mentre si voltava per smettere di guardarlo. No, non era per niente pronta a confrontarsi con lui.
La ferita era aperta e pulsava ancora, sanguinando.

Vide il suo riflesso nel vetro della finestra, sbiadito come lo era il ricordo del loro rapporto: "Non sta affatto bene, ma perlomeno sembra voler reagire. Mi auguro di cuore che non subisca altri incidenti, perché temo sia giunto al limite fisico. Al momento sta facendo riabilitazione in prigione, ma non è certo l'ambiente più adatto".

Nonostante cogliesse sul viso contratto di Archie la delusione per quella domanda elusiva, non poté fare a meno di preoccuparsi per Albert. Se avesse potuto contribuire a far guarire Candy per renderli entrambi felici, lo avrebbe fatto a ogni costo.

"Quando ci sarà la prossima udienza?", domandò distogliendo gli occhi anche dal riflesso di Archie, concentrandosi sul muro bianco.

"La prossima settimana, quando sarà in grado di presenziare. La zia Elroy non sa nulla di quello che gli è accaduto e, anche se lei sta molto meglio, preferiamo non dirglielo per il momento, onde evitarle altri dispiaceri". Archie rimaneva in piedi, sembrava teso e Annie capì che non era solo perché era lì con lei.

Incapace di rimandare oltre, si voltò: "Che succede? C'è qualcosa che non mi hai detto?". Lo conosceva troppo bene e capì subito che stava nascondendo altre notizie. Sperò solo che non fosse nulla di grave.

Archie la fissò con uno sguardo profondo che la fece sentire nuda e capì, capì che di qualsiasi cosa stesse per parlarle aveva bisogno di lei, del suo sostegno, del suo amore.
"George mi ha confessato di aver parlato con la zia. Lei sospetta che dietro a tutto questo ci siano Neil ed Eliza", disse a voce bassa, con una serietà che non gli aveva mai sentito.

Sconvolta, Annie si portò una mano alla bocca, ansimando per la sorpresa: "Come... come hanno fatto? Cosa...?". Non riusciva neanche a formulare le domande, tanto era lo stupore. Sapeva quanto fossero malvagi, ma non pensava avrebbero avuto l'ardire e soprattutto l'intelligenza di arrivare a tramare qualcosa di così estremo.

Archie stava scuotendo la testa: "Non so molto altro, ma George ha mandato un suo corrispondente in Florida, a fare delle indagini. Stiamo aspettando che torni con delle notizie per farlo presenziare all'udienza. Se non tornerà in tempo, la zia Elroy sarà la sola a testimoniare e allora il giudice potrebbe decidere qualsiasi cosa".

Il silenzio cadde tra loro, pesante. Annie vide nello sguardo tormentato del suo ex fidanzato il senso di colpa, semmai ci fosse colpevolezza nell'essere uscito di prigione prima di Albert, nonché il timore che il loro zio e amico potesse subire ancora quella situazione.

Doveva consolarlo, rassicurarlo, dire qualsiasi cosa... ma non le venne in mente nulla di sensato. Inoltre, si rese conto che il trauma di essere stato rinchiuso aleggiava ancora sul suo volto contratto.

Fece qualche passo e allungò le mani tremanti per prendere le sue: "Andrà tutto bene. Noi, con l'aiuto del dottor Carter e di Frannie, guariremo Candy. E quando Albert tornerà a casa... perché tornerà, si ritroveranno e saranno felici...". Come noi, stava per dire. Ma no, non lo erano più. Forse, non lo erano mai stati davvero.

Alzò gli occhi su quelli color miele di Archie e li vide lucidi, la bocca contratta in una smorfia come se stesse cercando di trattenere le lacrime: "È stato brutto, Annie. Essere rinchiusi, con altri uomini che nella migliore delle ipotesi vogliono solo farti del male, ti distrugge dentro, demolisce ogni tua certezza, ogni tua parvenza di orgoglio. Sei alla mercé di qualcuno che ti ritiene colpevole fino a prova contraria, in un sistema dove la tua dignità cessa di esistere. Credevo di essere un uomo, Annie, di essere forte. Ma alla fine è stato Albert a sopportarlo meglio di me, nonostante tutto, e io non sono quasi stato in grado di fare niente per lui. Niente!". Le lacrime gli scorrevano lungo le guance e lui cercava disperatamente di asciugarle con le mani, ma tutto quello che si era tenuto dentro sembrava un fiume in piena.

Piangendo con lui, Annie lo strinse in un abbraccio sincero, sentendo il suo ansito sorpreso, il suo corpo irrigidirsi e poi aggrapparsi a lei nascondendo il volto nel collo. Dopo pochi istanti si staccò, marciò verso il muro e vi abbatté un pugno così forte che temette si fosse rotto le nocche.

"Avevano ragione, sono solo un rampollo viziato e sensibile! Albert è molto più uomo di me. Lui ha vissuto in strada! Persino mio fratello ha avuto più coraggio ed è andato in guerra. Forse avrei dovuto andarci anche io, di certo sarei stato più forte...".

"Non dirlo mai più!", sbottò lei stringendo i pugni e smettendo di piangere. Archie la guardò, gli occhi ancora rossi ma asciutti, la rabbia che lasciava il posto alla perplessità.
Voltò la testa di lato, abbassando gli occhi: "Sono un vigliacco senza spina dorsale. Stare nel lusso non tempra gli uomini, Annie. È come se in quell'inferno io abbia visto uno ad uno tutti i miei limiti. Mi preoccupavo delle camicie di seta. Dei miei studi. Di fare bella figura in società. E invece non sono neanche stato capace di discernere due sentimenti così distinti dentro di me. Ti ho persa senza averti mai avuta davvero".

Annie fu sorpresa del cambiamento di Archie ma, d'altronde, non era stata lei la prima a cambiare? Lo stesso Albert sembrava un altro da quando si era avvicinato a Candy.

L'amore ci cambia. Tutti.

Ebbe l'impulso di accostarsi ancora a lui, di toccarlo, ma capì che la sua lotta interiore col proprio orgoglio era ancora troppo fresca. Sospettò che si odiasse solo per aver pianto di nuovo davanti a lei.

Partì da quello, per fargli capire cosa ne pensasse davvero: "Archie, un uomo sensibile non è un debole, significa solo che ha dei sentimenti. Ora, posso capire che alcuni siano più nobili di altri: la tua preoccupazione per Albert e per le sue condizioni non è come quella che potevi provare quando ti sentivi minacciato personalmente dagli altri uomini che erano con voi, ma il fatto che tu le distingua e ti metta in discussione vuol dire che hai imparato qualcosa. E, francamente, quale uomo non crollerebbe in galera? Non voglio giustificare nessuno e non so nulla di quello che ti è accaduto, ma sospetto che ognuno reagisca a modo suo. Magari anche quelli che vi hanno minacciati hanno avuto paura e poi si sono trasformati in delinquenti. Tu, nonostante tutto, ne sei uscito migliore e non è vivendo per strada o andando in guerra che maturerai. Puoi farlo anche rimanendo al sicuro, qui... con me".

Gli occhi di Archie si spalancarono mentre lei si metteva una mano sulla bocca, conscia di quello che aveva appena detto.   
   
Lui sembrò ritrovare la calma, come per magia, e le pose le mani sulle spalle trasmettendole un brivido. Pensò che l'avrebbe baciata, che le avrebbe parlato per scusarsi e chiederle di tornare con lui. Ma non lo fece.

Nel suo sorriso sereno, lesse che anche Archie non era ancora pronto.

Quella trasformazione interiore cui stava facendo fronte era ancora in atto e aveva bisogno innanzitutto di ritrovare se stesso e la tranquillità stabile in cui affondare le proprie radici. Gli lesse questo e molto altro negli occhi, mentre le baciava con delicatezza la fronte e la ringraziava.

Rimase ferma dov'era, chiudendo gli occhi per imprimersi nella mente il suo tocco gentile. Archie uscì, forse per affrontare i suoi fantasmi da solo. Ma era sicura che, almeno adesso, avrebbe avuto una certezza in più: quella del suo sostegno costante.

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Capitolo 42
*** Di crisi e lumache striscianti ***


Sarah Lagan si sentiva esausta, svuotata di ogni energia. Abbandonata sulla sua poltrona preferita, era prostrata con la schiena curva in avanti e le mani sul viso: era la prima volta in vita sua che sentiva di essere debole.

Sconfitta.

Le ci erano voluti tutta la sua forza di volontà e un calmante molto forte per riprendersi dalla visita che le aveva fatto il signor Ruiz quasi un'ora prima.
Le era crollato tutto addosso. Tutto.

Sapeva che stava accadendo qualcosa, che Eliza non si era limitata a far cavalcare quella sciocca di Candy all'amazzone e che suo figlio Neal era più nervoso del solito. Ma aveva preferito ignorare quelli che pensava fossero segnali di ragazzate.

Ragazzate. Altro che ragazzate! I suoi figli avevano preso contatti con la mafia americana!

Le mani gelide le tremarono mentre cercava una postura più comoda, appoggiandosi allo schienale e prendendo un lungo respiro. Pensò che una cosa del genere avrebbe fatto venire un attacco di cuore a Raymond o alla zia Elroy, ma in realtà temeva seriamente che sarebbe venuto a lei.

Come? Come avevano potuto spingersi così oltre?!

Per anni era stata complice dei piani più fantasiosi e malvagi ai danni di colei che, ai suoi occhi, era solo un'orfana immeritevole. All'inizio aveva creduto davvero che fosse una ladra, ma poi col passare del tempo si era resa conto che, vero o no, Neil ed Eliza stavano facendo un ottimo lavoro per sbarazzarsene ed era stata loro felice complice. Stavano persino per mandarla in Messico, liberandosi della sua presenza sgradita!

Ma quel prozio William, che tutti credevano un vecchio in punto di morte, aveva cambiato le carte in tavola e l'ombra costante di Candy aveva pervaso le loro vite. Aveva causato la morte di Anthony Brown e, più tardi, aveva rifiutato il suo unico figlio maschio.

Pazza ingrata.

Serrò gli occhi, ferita da quel sole beffardo che la stava accecando e con un gesto stizzito si alzò e chiuse le tende. Chiamò la sua cameriera e le chiese di avvisare i suoi ragazzi che doveva parlare con loro.

Subito.

Sedette di nuovo, col cuore che le martellava nel petto e nelle tempie. Non era la vendetta contro Candy che li stava condannando, rifletté, ma contro quello stesso zio William che si era rivelato giovane e di bell'aspetto. Forse persino infatuato della sua protetta.

Quando aveva letto sui giornali che era in carcere per traffici illeciti assieme ad Archie, il seme del dubbio le aveva artigliato le viscere. Ma no, si era detta, Neil non si sarebbe mai vendicato del rifiuto di Candy coinvolgendo il patriarca degli Ardlay e poi quella mocciosa non aveva una relazione con quell'attore di Broodway? Non era tornata da New York dopo che l'avevano creduta morta?

Sarah era confusa, cercava di capire cosa avesse potuto spingere i suoi figli a comportarsi in maniera così sconsiderata e pericolosa sancendo di fatto la loro fine. Ma la realtà era che non trovava un solo, dannato motivo valido.

Non Candy, non la vendetta contro un patriarca indesiderato. Nulla poteva giustificarli.

Quando entrarono nella stanza, coi volti pallidi e spaventati, Dio la perdonasse ma Sarah desiderò che non fossero mai nati.
 
- § -
 
"Candice White Ardlay, non ti ipnotizzerò subito. Voglio prima che tu mi parli", disse con calma il dottor Carter seduto su una sedia di fronte a lei che dava le spalle alla finestra della sua stanza. Il rischio che rientrasse nel suo stato di coma era molto alto quando facevano quelle sedute e l'unico modo per tenerla vigile era impedirle di stare stesa a letto.

La sedia di Candy era scomoda perlomeno come la propria e si rese conto, dalla sua postura, che la ragazza era tesa e si tormentava le mani.

"Cosa vuole che le dica?", chiese con tono brusco.

Adrian sorrise, cercando di essere conciliante: "So che di recente hai parlato con Annie. Ti è venuto in mente qualcosa? Mi hanno riferito che hai avuto uno dei tuoi attacchi di nausea".

Candy fece una smorfia, distogliendo lo sguardo: "Forse ho mangiato qualcosa che era andato a male", disse secca.

"Candice...", la redarguì con gentilezza, senza smettere di sorridere. "Sappiamo benissimo che quando ti succede è perché la tua mente si avvicina ai ricordi. Ma tu li scacci o li rifiuti perché qualcosa del tuo passato ti spaventa a morte. Non vuoi dirmi cosa hai ricordato questa volta?".

Lei fece un lungo sospiro, continuando a torcersi le mani e muovendo un piede sul pavimento con un leggero tamburellare. Carter attese paziente, senza dire altro, certo che avrebbe riempito il silenzio.

"Chi è Miss Pony?", chiese di punto in bianco. "Mi sembra che Annie l'abbia già nominata, una volta, mentre mi parlava del passato".

Carter sussultò e cercò nei recessi della sua memoria quel nome. Per fortuna si era fatto raccontare nei dettagli la storia della sua infanzia da Annie e, almeno fino a un certo punto, sapeva in che terreno si stesse muovendo. Sperava ardentemente che George gli comunicasse presto che poteva vedere il signor Ardlay per poter approfondire alcuni aspetti che era certo fossero vitali.

Era sicuro che ci fossero risposte che né la signorina Brighton, né il signor Cornwell potevano dargli.

"Si tratta di una delle due donne che ti ha allevata alla Casa di Pony". Rispose scrutando le sue reazioni.

Candy ebbe un leggero sussulto: "L'orfanotrofio. Si chiamava così, me l'ha raccontato sempre Annie", disse come rimettendo assieme dei pezzi di un puzzle. Con tutta probabilità si trovavano in campo neutro.

"Hai avuto un ricordo in cui compare questa signora?", chiese.

"Annie era piccola e correva da me", spiegò, gli occhi annebbiati come in un sogno. "Diceva che Miss Pony voleva vedermi. Piangeva. Io invece ridevo e mi trovavo... fuori dalla Casa di Pony, sull'erba".

Candy tacque. Evidentemente quel ricordo le era comparso nella mente come un lampo ed era davvero un bene, significava che c'erano nubi che stavano scomparendo. Continuò su quella strada.

"Già", riprese in tono discorsivo, "mi hanno riferito che è un posto molto bello, immerso nel verde e con un grande albero e una collina da cui si gode una vista...".

S'interruppe. Candy aveva spalancato gli occhi e si era portata le mani alla testa. Perché adesso era sconvolta? Cominciò a respirare in maniera pesante, dondolandosi avanti e indietro.

"No, no, no, NO!", ansimò come se la sua testa le stesse riproponendo qualcosa che non voleva ricordare.

Carter lottò contro l'impulso di lasciar perdere e decise che se non avesse spinto un po' avanti le cose sarebbero rimasti allo stesso punto ancora a lungo. Un pezzo del mosaico si trovava alla Casa di Pony.

"Cosa c'è in quell'orfanotrofio che ti sconvolge tanto, Candice? Cosa è successo lì? Si tratta di un episodio di quando eri piccola?", chiese col cuore che gli batteva forte. Era un professionista, ma quella ragazza così giovane era un caso che lo colpiva nel profondo.

"Non è la casa, è... la collina! Non voglio ricordare la collina!", gridò scuotendo la testa con le mani piantate sulle tempie, sudando.

Adrian si concentrò per ritrovare la calma. Era il momento di portarla indietro, di scavare a fondo anche se significava rischiare una regressione. Anche il dottor Murray era stato chiaro: si trovavano a un bivio.

Frannie entrò nella stanza, le urla di Candy erano il segnale che avevano concordato. Se nella vita privata il loro rapporto era poco meno di un disastro, a livello professionale erano una squadra perfetta. Controllò i segni vitali e annuì mentre Candy si ritraeva, conscia di quello che stava per accadere.

"No, vi prego", piagnucolò come se stessero per torturarla.

"Mi spiace, Candice, ma lo facciamo per il tuo bene. Ora conterò da dieci a zero...", iniziò con voce bassa e lenta.

"NON VOGLIO RICORDARMI DI LUI! DI LORO!".

Ignorando quel "loro", Carter continuò, scorgendo il cipiglio stupefatto di Frannie: "...e quando avrò terminato regredirai fino al momento in cui ti trovavi su quella collina".

Un altro urlo acuto, mentre cominciava il conto alla rovescia. Frannie le sentì il polso e lo guardò: "Centoventi", sillabò con le labbra senza usare la voce. Era un battito cardiaco molto accelerato, ma ancora nei limiti.

Annuì e arrivò a zero. Candy si afflosciò sulla sedia, gli occhi chiusi, le sopracciglia ancora aggrottate e il sudore che le colava sulla fronte.

"Dove ti trovi, Candy?", le chiese chiamandola col suo nome di sempre.

Lei prese un respiro e un lieve sorriso le increspò le labbra: "Sono su papà albero", disse con una voce infantile.

Lanciò uno sguardo interrogativo a Frannie, poi capì: "Si tratta del grande albero della Casa di Pony?".

"Sì", ridacchiò lei, "mi sono arrampicata un'altra volta".

Adrian sorrise di rimando: "Quanti anni hai?".

La bocca di Candy si storse in una smorfia di dolore: "Ho sei anni e sono corsa sulla Collina di Pony perché Annie mi ha abbandonata. L'hanno adottata i Brighton. Sono salita sull'albero per vederla andare via".

Carter annuì, le mani giunte davanti alle labbra: "La sua partenza ti ha ferita molto, vero?", chiese.

"Sì... eravamo come sorelle", emise un piccolo singhiozzo.

Adrian chiuse gli occhi. Sapeva che c'era dell'altro, ma non capiva come mai Candy fosse andata così indietro nel tempo: che avesse conosciuto Anthony quando era così piccola? Ricordava che lo aveva incontrato anni dopo.

"Chi c'è sulla collina con te?", domandò.

Candy s'irrigidì, raddrizzando la schiena e afferrandosi i lembi del vestito: "Il mio... principe. Suona... sta suonando le lumache. Strisciano".

Carter sollevò un sopracciglio, confuso ma anche un po' divertito: "Un principe che suona delle lumache? Curioso. Si tratta di Anthony, Candy?".

Il respiro divenne affannato, pesante, e Candy scosse la testa a destra e a sinistra, emise un lamento che risuonò come un: "Nnnnn...".

"No? E chi è? È qualcuno che non vuoi ricordare per qualche motivo? Chi è il tuo principe?", insistette, rendendosi conto che era vicino alla verità.

Candy s'inarcò sulla sedia rischiando di cadere e Frannie la sorresse: "Credevo che fosse lui!", gridò. "Erano due gocce d'acqua!". Le lacrime le scorrevano sulle guance.
Ma Carter non si arrese, non poteva. Non arrivati a quel punto: "Chi? Chi somigliava tanto ad Anthony da indurti a credere che fosse quel principe?".

Lei si artigliò la testa e aprì gli occhi di scatto, risvegliandosi nonostante lui non l'avesse indotta a farlo. La sua mente era così sconvolta che si era ritirata spontaneamente dall'ipnosi. Frustrato, Adrian segnalò a Frannie di controllarle i segni vitali ma Candy la scacciò in malo modo, in preda a una crisi isterica.

"ALBERT!", urlò la ragazza crollando in avanti, svenuta, Frannie che la sorreggeva e si voltava verso di lui.

Eccolo il tassello mancante, il ponte tra William e Anthony che andava oltre la somiglianza fisica e la parentela stretta: Candy lo aveva incontrato da ragazzina e aveva in effetti scambiato Anthony per lui! Per quello che chiamava principe. Tutto combaciava. Annie non gli aveva forse riferito che con Albert si conoscevano da una vita?

Adrian aiutò Frannie a stendere Candy sul letto e la controllarono con attenzione. Nonostante tutto era solo svenuta, per fortuna non era in coma.

"Sospetto che in lei convivano due forze uguali e opposte", disse esplicitando i suoi pensieri a Frannie, che le stava sistemando la coperta.

Alzò su di lui lo sguardo da dietro gli occhiali: "Nel senso che vorrebbe ricordare ma al contempo lo teme?", chiese con il suo solito tono controllato.

Carter non avrebbe mai smesso di stupirsi di lei: aveva l'intuito di un medico, come le aveva ripetuto più volte. Era uno dei suoi lati che ammirava di più. Quell'intelligenza brillante che ai suoi occhi la rendeva stupenda.

Si accorse che il cipiglio dell'infermiera stava diventando irritato e cercò di mutare il proprio sguardo adorante in uno più professionale: "Esattamente, Frannie. Deve esserci qualcosa nel rapporto con William che la attrae e la terrorizza. Per questo vorrei parlare con lui, ma non ho ancora avuto modo di incontrarlo in prigione. A proposito, abbiamo sue notizie?".

Si morse la lingua, ma non poté impedirsi di farle quella domanda: il signor Ardlay sembrava essere la chiave di tutto.

Frannie distolse lo sguardo, diventando di nuovo vulnerabile: "Sta facendo riabilitazione in cella con un medico dell'ospedale dove è stato ricoverato. Si sta riprendendo perché pare che ci sarà un'udienza tra qualche giorno".

Carter annuì, facendole cenno di uscire: "Controllala tra un'ora e se non si sveglia fallo tu o chiedi alla signorina Annie. È ora che parli col signor Ardlay, ho temporeggiato fin troppo. Così potrò verificare anche di persona il suo stato di salute attuale e tranquillizzare... la sua famiglia".

Frannie si morse un labbro, con un'espressione di speranza disegnata in volto. Anche lei voleva essere tranquillizzata, ne era certo: "Ricordati che la signora Elroy non sa nulla".

"Sì, lo so. Mi riferivo a George e a suo nipote Archibald", concluse chiudendo la porta della stanza di Candy alle loro spalle e non togliendole gli occhi di dosso: "Lo ami così tanto?", non poté impedirsi di chiederle.

Lei gli voltò le spalle e Adrian fu certo che avrebbe negato o ripetuto che non erano affari suoi. Invece mormorò: "Temo di sì. Ma non ho alcuna possibilità e sto cercando di togliermi dalla testa questa stupida illusione infantile".

La sua sofferenza era palpabile come una nebbia fitta e, anche mentre Frannie sistemava i medicinali che potevano servirle sul suo comodino con gesti fermi e controllati, Carter poté notare il tremolio delle sue mani.

Se solo avesse potuto alleviare il suo dolore col proprio amore!

Se solo ogni volta che le si avvicinava Frannie non lo avesse respinto così duramente!

Forse era ora anche per lui di togliersi dalla testa quell'illusione.
 
- § -
 
Terence guardò sua madre andare via dalla finestra e si stupì, ancora una volta, delle sue ultime parole prima di lasciarlo solo nel suo nuovo appartamento: "So che ti aspettavi una ramanzina da me dopo l'incidente con il nome dell'attrice. Ma non ti dirò nulla, Terry, ne abbiamo già parlato a sufficienza. E mi sembra che tu ti stia rendendo conto da solo delle tue priorità, dico bene?".

A dire la verità Terence era piuttosto confuso. Tutto stava accadendo in modo troppo veloce anche per i suoi gusti: da quando la sua preoccupazione per Candy era quella di un caro amico e non di un uomo disperatamente innamorato quale era stato lasciato di recente?

E da quando il pensiero di Karen si faceva così pressante che la vedeva in ogni dannata donna mora incontrasse, sbagliando persino il nome della protagonista del suo film?
No, non era corretto: quell'attricetta di cui non avrebbe imparato il nome neanche in un anno di riprese non somigliava affatto a Karen. Aveva solo i capelli scuri, neanche della stessa sfumatura profonda dei suoi. E sospettava che non fossero nemmeno così setosi e lisci al tatto.

Stupendosi di se stesso, Terence si sorprese a chiudere gli occhi inalando il profumo che ricordava come se lo stesse annusando in quel momento. Aveva immerso le mani nelle ciocche e catturato le sue labbra con urgenza, con desiderio, e non perché voleva semplicemente una donna.

Voleva lei.

Non Candy o una ragazza qualunque.

Karen.

Quella che lo sgridava e lo induceva ad andare alle prove quando era troppo ubriaco e stanco per alzarsi dal letto. Quella che lo amava in maniera incondizionata e gli donava la sua verginità senza chiedergli nulla in cambio.

Si lasciò cadere sul divano con un sospiro e, per un istante fervido e chiaro, si vide indossare la giacca e andare alla stazione. Non per raggiungere Chicago ma New York, dove Karen doveva trovarsi. La sua mano si contrasse persino nel gesto di sollevarsi per afferrare il capo dall'attaccapanni ma, alla fine, Terence rimase seduto lì.
Doveva finire il film e mantenere i suoi impegni, per sua madre e per se stesso. E, soprattutto, voleva essere sicuro di quello che gli stava accadendo. Non voleva più soffrire per un amore impossibile, né illudere una donna con quello che non poteva darle.

Quella lontananza gli stava facendo capire molte cose, prima fra tutte che Candy sarebbe sempre rimasta un punto importante della sua vita. Ma in modo diverso. Ci sarebbe sempre stato per lei, però non come aveva sognato in passato.

E ci sarebbe stato anche per il suo amico Albert, che per fortuna sapeva fuori pericolo.

Forse doveva scrivere a Karen, pensò d'improvviso. O telefonarle. Dannazione, anche se odiava i telefoni poteva sentire la sua voce!

Già, ma dove l'avrebbe trovata? Forse Robert era in contatto con lei, visto che faceva parte della sua compagnia. Alzò la cornetta ma si rese conto che era molto tardi.

La rimise giù e accavallò le gambe.

"Ti amo, Terry", aveva ansimato Karen mentre lui le regalava l'estasi dopo il dolore.

"Oh, al diavolo!", esclamò afferrando la cornetta e componendo il numero di Robert Hataway. Sperò solo che non gli riattaccasse in faccia.
 
- § -
 
Quando Albert vide entrare il dottor Carter nella cella sentì il cuore accelerare nel petto: era successo qualcosa a Candy? Aveva recuperato la memoria? Oppure era di nuovo in coma?

Si alzò di scatto e decine di puntini neri gli danzarono davanti agli occhi, costringendolo a sedersi di nuovo sulla branda. Mentre la guardia ribadiva che avevano dieci minuti e chiudeva a chiave, lo vide avvicinarsi e tendergli la mano con un sorriso.

"Come sta, signor Ardlay? La prego, resti seduto, è un po' pallido".

Lui ricambiò la stretta sentendosi molto debole ma si tranquillizzò. Se era così sereno non poteva essere nulla di grave.

"Me la sono vista brutta, ma eccomi qui. George mi aveva accennato che voleva parlarmi, ma poi non l'ho più vista: come vanno le cose con Candy?", andò dritto al punto facendo allargare il suo sorriso.

Il medico prese una vecchia sedia poggiata in un angolo e si sedette, accavallando le gambe: "Mi scusi se vengo così all'improvviso, ma ci sono sviluppi cui devo dare un senso se voglio aiutare la signorina Candy".

Di nuovo, Albert schizzò in piedi, ignorando il senso di svenimento che lo colse per quel gesto repentino: "Sta ricordando?", chiese senza fiato.

Carter si alzò e gli si avvicinò: "Per favore, non mi sarà di nessun aiuto se perde i sensi, non trova? Ha visto il medico oggi?", domandò. Sembrava sinceramente preoccupato.
Albert tornò a sedersi, invitandolo a fare lo stesso e scusandosi: "Sì, stanno cercando di darmi dei pasti più sostanziosi per aiutarmi nella riabilitazione fisica. Oltre alla zuppa di fagioli hanno aggiunto anche delle cose chiamate uova, ci crede?", disse alzando un sopracciglio.

L'uomo scoppiò a ridere e l'atmosfera si rilassò un poco. Albert pensò che il giovane medico si stesse facendo carico di tutta la famiglia e non solo di Candy, perché disse: "Intanto mi preme riportarle quanto mi ha chiesto il signor Villers: la signora Elroy sta così bene da non vedere l'ora di partecipare all'udienza della prossima settimana".

"Mi fa piacere sentirlo", disse sollevato. La sua vecchia zia aveva una fibra davvero forte e sperava che quell'udienza fosse definitiva. Ancora non sapeva come si fossero organizzati gli avvocati della difesa, chi avrebbero convocato oltre alla zia Elroy, ma confidava che avrebbe avuto notizie prima di presentarsi in aula.

Finalmente, Carter affrontò l'argomento che gli stava più a cuore: "Dunque, signor Ardlay...", cominciò.

"Albert, la prego. Se dobbiamo parlare di Candy e visto che lei è così cortese, mi chiami Albert. Direi che non sono più vecchio di lei, giusto?".

La risata sincera e franca del ragazzo risuonò di nuovo: "Va bene, ma solo se lei mi chiama Adrian. Penso che siamo praticamente coetanei".

Lui annuì e si dispose ad ascoltarlo.

"Dunque, Albert, voglio farle un riassunto molto chiaro. Candice ha ancora una personalità molto controversa e dentro di lei ci sono sentimenti contrastanti: da un lato sta emergendo la curiosità di ricordare", disse allargando le braccia e foggiando le mani a coppa come se sostenesse due pesi, "mentre dall'altro quegli stessi ricordi la terrorizzano al punto da avere vere e proprie crisi".

Albert si tese per schizzare di nuovo in piedi e si trattenne all'ultimo momento, notando lo sguardo di avvertimento di Adrian: "Mi sta dicendo che ora lei vuole ricordare? Non parla più di...", s'interruppe, incapace di dire quella parola riferendosi a lei.

"Io penso che gli istinti suicidi che hanno caratterizzato una delle sue fasi peggiori fossero dettati proprio da questo dualismo, da questa confusione piuttosto che dall'incapacità a ricordare che, comunque, permane in ogni caso. Ma Candy contribuisce a bloccare questo processo e vorrei scoprire perché, rivedendo con lei i punti focali della sua storia che ho avuto modo di conoscere in queste settimane".

Albert annuì, attento.

"Dunque, Candy cresce in un orfanotrofio con la signorina Brighton. Al momento è a conoscenza della Casa di Pony e le sono stati detti i nomi delle donne che le hanno allevate: in particolar modo, ricorda Miss Pony perché ha avuto un breve flash di quando era piccola, anche se non so se rimembri le sue sembianze".

Deglutì, cercando di non interromperlo, chiudendo per un attimo gli occhi, colpito: Candy stava ricordando il suo passato. Dio onnipotente, stava accadendo davvero!

"Continuando in ordine cronologico: in una seduta di ipnosi Candy mi racconta del suo addio ad Annie. Si è arrampicata su un albero, che ha chiamato affettuosamente 'papà', e ha ricordato una collina. La Collina di Pony". Si fermò perché forse aveva notato l'emozione sul suo viso. "Tutto questo dice qualcosa anche a lei?".

"È stato...", si schiarì la voce, "è stato quel giorno che l'ho incontrata per la prima volta", disse in un sussurro.

Fu Carter a schizzare in piedi muovendo la sedia con un forte rumore, sorprendendolo oltre ogni dire: "Lo sapevo! Ecco perché ha avuto una crisi proprio in quel punto!", esclamò indicandolo.

Albert sbatté le palpebre e si alzò a sua volta, ma molto lentamente: "Le ha parlato di me?", domandò col cuore che gli rimbombava nelle orecchie.

Con gentilezza, Adrian lo costrinse a sedersi di nuovo ponendogli le mani sulle spalle, avvicinò la sedia e lo fece anche lui, ritrovando la calma: "Mi ha parlato di un principe che somigliava al suo primo amore, Anthony. Ha detto che suonava... delle lumache", concluse in tono quasi interrogativo, inarcando un sopracciglio.

Albert si nascose il viso tra le mani in un gesto repentino quanto istintivo, cercando disperatamente di non scoppiare a piangere davanti ad Adrian. La sua Candy gli aveva parlato di lui, anche se lo aveva fatto mentre era sotto ipnosi, si era ricordata del suo Principe della Collina! E lui che le aveva scritto in più di una lettera che quel nomignolo gli dava i brividi!

"Albert...? Tutto bene?", gli stava chiedendo Carter ponendogli una mano sulla schiena.

"Mi perdoni, è che non me l'aspettavo", confessò strofinandosi gli occhi con il pollice e l'indice, ricomponendosi quanto poteva. Deglutì un paio di volte e poi spiegò: "Avevo diciassette anni ed ero scappato di casa: le risparmio i particolari. Stavo suonando la mia cornamusa e Candy era lì, che piangeva. Quando mi ha visto pensava che venissi da un altro pianeta e ha detto che il suono dello strumento le ricordava delle lumache striscianti". Sorrise al ricordo.

"Oh, adesso è chiaro", disse Adrian annuendo con vigore."Quindi ha conosciuto lei molto prima di suo nipote Anthony, in realtà".

"Sì", confermò Albert.

"Bene, andiamo avanti", proseguì lo psichiatra con evidente interesse. "Candy conosce i suoi nipoti a Lakewood, ma Anthony perde la vita durante una caccia alla volpe che lei ha ordinato... assiste all'incidente e anni dopo s'innamora di lei".

Albert sbatté le palpebre, a disagio. Nel cervello gli risuonarono due informazioni importanti e inquietanti: "Cosa... chi le ha detto che io e Candy...", boccheggiò.

Il dottor Carter alzò una mano: "Stia tranquillo, abbiamo dovuto farci spiegare cosa ci fosse davvero tra voi dalla signorina Brighton, ma il segreto professionale e l'etica ci impediscono di parlarne in giro".

Albert si passò le mani tra i capelli, frustrato: "Era nostra intenzione parlarne a tutti a tempo debito, ma poi è successo questo e...", s'interruppe, molto più interessato alla prima parte della sua frase. "Mi spieghi una cosa: perché ha sottolineato che la caccia alla volpe l'ho ordinata io? Candy se lo è forse ricordato?".

"No", Adrian sembrava a disagio e distolse lo sguardo. "Albert, stiamo cercando di capire come mai Candy associ la sua idea a quella del suo defunto nipote e ci siamo detti che non potevano essere solo la somiglianza fisica e la vostra parentela le motivazioni principali. Candy ha quasi una sorta di repulsione nei suoi confronti, quindi ci siamo domandati se, per caso...".

Lui deglutì, avvertendo il ghiaccio nel cuore. Ricordava ancora quel pomeriggio a Lakewood, tanto tempo prima, quando avevano chiarito proprio quel punto dove era accaduta la tragedia: "Candy si è sentita a lungo in colpa per la morte di Athony", iniziò con voce velata, "e un giorno mi ha chiesto di riportarla sul luogo dell'incidente. Piangendo, ha ribadito questo concetto e io le dissi... che ero stato io a ordinare quella caccia alla volpe per presentarla in società, anche se all'epoca non sapeva fossi io lo zio William. Mi sono preso la responsabilità dell'accaduto". Si prese la testa fra le mani, mentre la consapevolezza gli crollava sulle spalle come un macigno.

Sentì la mano gentile di Adrian sulla spalla ma non si mosse. Era devastato. "Albert, non possiamo avere la certezza che Candy, a livello inconscio, associ il trauma della morte di Anthony a lei, né che la ritenga davvero colpevole. Se in passato non l'ha fatto non c'è motivo perché cominci ora".

"Ma ha avuto lo stesso incidente, nello stesso dannato punto!", esplose guardandolo negli occhi, sentendo i propri bruciare.

Adrian parve colpito da quell'ulteriore rivelazione: "Albert, mi perdoni se glielo domando", gli chiese dopo qualche istante passato a ricambiare il suo sguardo, "quanto era... stabile la vostra relazione, prima che accadesse tutto questo?".

Albert lottò per rimanere calmo e lucido. Si era ben ripetuto tante volte che la sua priorità era uscire da quel posto e riprendere le redini della famiglia. Ma ora, sapere che forse stava davvero perdendo Candy per sempre lo lacerava in due, lo svuotava nuovamente di ogni volontà: "Era un sentimento che avevamo appena cominciato a condividere. Lei è stata a lungo innamorata di un altro uomo".

Adrian inarcò un sopracciglio, in attesa: "Se la sente di...?".

Prendendo il coraggio a due braccia, Albert cominciò a raccontare.

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Capitolo 43
*** Conseguenze e rimorso ***


Neil Lagan era steso su un fianco e fissava il riflesso della luna sui vetri.

Si sentiva come se nel suo corpo ci fosse un'altra persona, completamente diversa e a lui ignota. Quegli ultimi giorni erano stati devastanti e avevano sancito la loro fine.
Aveva visto Eliza disperarsi, urlare, strapparsi i capelli e sua madre, dapprima sconvolta, reagire poi con una compostezza di cui non la credeva capace, anche se era pallida come fosse morta. Aveva mandato un telegramma al loro padre curandosi di non anticipargli nulla, ma sarebbe arrivato l'indomani assieme alla polizia e a quel tipo che era andato a parlare con Sarah rivelandole tutto.

Poche ore e tutto sarebbe finito.

Poche ore e avrebbero avuta salva la vita, ammesso che la polizia non fallisse, a costo della libertà.

Niente più auto lussuose, donne, alberghi da aprire e niente più sole della Florida. Con quello che credevano il piano perfetto lui e sua sorella avevano corrotto tutto, distruggendo anni di sacrifici e impegni.

Suo padre lo avrebbe ucciso.

Deglutendo a vuoto, Neil lasciò le lacrime brucianti scorrergli sul volto e, sorprendentemente, pensò a Candy.

Lei, così libera. Lei, così solare. Lei, così gentile nonostante tutto. Lei, che ora non aveva memoria per colpa di Eliza. E sua.

La invidiò, la desiderò, voleva sentire la sua voce, voleva che gli dicesse parole di conforto, voleva...

"Maledizione!", soffocò le parole nel cuscino, singhiozzando, arreso alla mole di eventi che li avevano travolti. Doveva solo ringraziare il Cielo che fossero tutti vivi ma non gli bastava.

Non era pronto ad affrontare quel futuro oscuro che lo attendeva. Che attendeva tutti. Non poteva sopportare gli sguardi pieni di odio che gli aveva lanciato sua madre e che gli avrebbe lanciato suo padre.

Mentre il pianto si placava, a poco a poco, in Neil cadde una calma inquietante, mentre la consapevolezza di quello che doveva fare risplendeva chiara e limpida come quella luna.

Si tirò a sedere accarezzando la seta del lenzuolo come se fosse la pelle di una donna, come aveva toccato la sua auto solo qualche giorno prima. Il tocco carezzevole si trasformò in uno strattone e Neil strappò via il tessuto dal letto, fissandolo per qualche istante.

Cominciò ad arrotolarlo con gesti sapienti, come se lo avesse sempre fatto e, di nuovo, gli venne in mente Candy che arrotolava le lenzuola per fuggire dalla finestra.

Lui, però, non aveva alcuna intenzione di fuggire. Non dalla finestra, perlomeno.
 
- § -
 
Adrian si stava togliendo la giacca, pronto a infilarsi il pigiama quando udì bussare piano alla porta. Prima ancora di invitare il misterioso visitatore, sapeva di chi si trattasse e cosa volesse.

Con un sospiro, cominciò a slacciarsi i polsini della camicia e si tolse il panciotto e fu così che lo trovò Frannie, in piedi in mezzo alla stanza.

"Scusami se sono venuta a quest'ora...", cominciò. Da che la conosceva, Frannie non era mai stata in imbarazzo.

Continuando a slacciare il polsini con nonchalance rispose alla domanda che non aveva posto: "Il signor Ardlay è molto provato, inutile nascondertelo. È dimagrito a livelli allarmanti e non sarà certo la riabilitazione in carcere a rimetterlo in sesto come si deve. Spero che esca di lì prima possibile. Inoltre abbiamo parlato di Candy e del sospetto che abbiamo che lei lo ritenga responsabile della morte di Anthony e non credo gli abbia fatto bene sentirlo. Mi è dispiaciuto tanto lasciarlo in quelle condizioni, ma non avevo scelta: almeno ora so tutta la storia". L'ultimo bottone saltò via e Adrian imprecò. Sì, era stato sincero in maniera brutale, ma aveva alternative? Aveva senso indorarle la pillola?

Alzò per un attimo gli occhi su Frannie e si rese conto che stava per piangere.

Si bloccò.

Quella era davvero Frannie? Quella che si stava portando una mano al viso e si appoggiava a una sedia fino a cadervi sopra, prostrata da un dolore che non era suo? Era la fredda, enigmatica e professionale Frannie Hamilton, ex crocerossina che era sopravvissuta a tutti gli orrori della guerra?

Adrian strinse i denti, la mascella era contratta e i pugni si chiusero: "Frannie", disse con il tono più dolce che gli uscì.

Lei singhiozzava penosamente, si era tolta gli occhiali e sembrava tentare con tutte le sue forze di ricomporsi. Cosa doveva fare? Lui, uno psichiatra abituato a dare sollievo alle persone, non sapeva se prendere fra le braccia la donna che amava per consolarla, rischiando di nuovo un suo rifiuto, o se rimanere lì, fermo come un idiota a guardarla struggersi per un altro uomo.

Lasciò che si riprendesse da sola, certo che il suo stesso orgoglio fosse ferito da quella dimostrazione di debolezza estrema.

"Scusami, non so cosa mi è preso", disse con voce rotta, asciugandosi gli occhi. "Neanche al fronte mi è mai capitato di crollare così. Non è da me".

"Lo so che non è da te, anche se non ti conosco da tantissimo", sospirò sedendosi sul letto, improvvisamente svuotato di ogni energia, "ma, Frannie, la tua reazione è tipica di una donna innamorata. Sei in pena per quell'uomo e vorresti stare con lui per confortarlo adesso, o sbaglio?".

Frannie scuoteva la testa, una mano tra i capelli: "Mi ero ripromessa di non pensarci più, di rassegnarmi. Ma non riesco a impedirmi di...", all'improvviso alzò lo sguardo per fissarlo, come rendendosi conto di qualcosa che le era sfuggito fino a quel momento. "Io non dovrei fare questa conversazione con te. Tu sei un medico e io un'infermiera, non siamo due amiche che spettegolano".

Adrian fu quasi divertito e dovette mordersi le guance per non ridere. Allargò le braccia e disse: "Beh, almeno mi consideri un'amica con cui spettegolare, in fondo in fondo. È già un passo avanti, non trovi? Magari è un buon segno", concluse ironico.

"Adrian, per favore", ora il suo tono era tornato freddo.

La liquidò con un gesto: "Sì, lo so, lo so, stavo solo scherzando. Non cercherò più di convincerti che il mio cuore batte solo per te. E comunque non si decide da un momento all'altro di smettere di amare qualcuno: non è come una flebo che si toglie da una vena. Io lo so bene, credimi".

Si scambiarono uno sguardo imbarazzato e lei si alzò, pulendosi gli occhiali e rimettendoli sul naso come se nulla fosse accaduto. Solo la voce un po' incrinata gli indicava che era ancora preda di forti emozioni: "Mi dispiace per questa scena penosa, non si ripeterà più", dichiarò andando verso la porta.

Per un attimo, Adrian si vide raggiungerla in due passi, sbatterla su quella porta e imprigionarla contro il suo corpo, baciandola e accarezzandola finché non avessero avuto più fiato. E finché le sue ferite non si fossero rimarginate.

"Frannie", la richiamò invece, rimanendo ben fermo dove si trovava. Lei si voltò a guardarlo, gli occhi ancora scintillanti. "Ti sono amico, puoi sfogarti con me tutte le volte che vuoi".

Lei gli regalò un leggero sorriso, piccolo e stentato, ma sincero: "Grazie, Adrian". Poi uscì.

Un amico. Quello sarebbe rimasto sempre per lei.

Si sdraiò sul letto con tutte le scarpe, sfinito. Doveva concentrarsi su Candy, adesso. Voleva fare bene il suo lavoro per rendere felici almeno le altre persone di quella casa.
 
- § -
 
Era stato solo un tonfo, nulla di allarmante.

Qualcosa era caduto: un libro, una sedia, un oggetto qualunque.

Ma nel silenzio di quella serata orribile, a Sarah Lagan parve il rumore scoppiettante di un fucile che spari per uccidere un animale indifeso. Sedendosi sul letto si portò una mano al petto, ansimando allarmata da quel paragone così infelice che le era passato per la mente.

Rabbrividì nella sua camicia da notte e andò alla finestra per guardare fuori ripercorrendo, suo malgrado, gli accadimenti del pomeriggio.

"Cosa avete fatto? COSA AVETE FATTO, per l'amor di Dio?!", aveva gridato artigliandosi i capelli.

"Ma... mamma, io credevo che... quegli uomini... Molly...". Accecata dalla rabbia, aveva dato uno schiaffo a sua figlia, che era caduta a terra con un urlo costernato e piangeva istericamente.

Non l'aveva mai picchiata in vita sua.

"E tu, figlio degenere! Come hai potuto partecipare a questa pazzia! Sei suo fratello maggiore!", si voltò verso il suo unico erede maschio che aveva una calma glaciale negli occhi, certamente dettata dal fatto che era sconvolto, sotto shock.

"Non sapevo ci fosse di mezzo la mafia. Credevo fossero delinquenti comuni. Li ha contattati Eliza", aveva detto con voce roca, da uomo.

"Come osi dare tutta la colpa a me?! L'idea di incastrare lo zio è stata tua!", Eliza si era rialzata e si era aggrappata ai suoi vestiti, urlando come un'invasata mentre lo strattonava e lui la fissava con sguardo vacuo.

"State zitti, tacete! Vorrei non avervi mai messi al mondo, ci avete rovinati!". E, mentre lo diceva e incontrava gli occhi sgranati dei frutti del suo ventre, si rendeva conto della portata di quello che aveva appena detto ad alta voce.

Come era fatta una famiglia felice? Era ricca? Povera? Era composta da genitori onesti e figli devoti?

Credeva che la sua fosse perfetta, invece era solo un ammasso putrido e marcescente di bugie e cattiverie mai dette, nascoste, concesse e incoraggiate.

Per Sarah Lagan l'unica cosa importante erano la posizione e i soldi, perché altrimenti si sarebbe sposata con Raymond? Non certo per quella sciocchezza chiamata amore.

Amore. Ho provato qualcosa di simile quando ho avuto i miei bambini tra le braccia, appena nati, prima che cominciassero a crescere e a somigliarmi.

Sbatté le palpebre, sconvolta: erano i suoi figli, Dio santo! Dovevano somigliarle!

Li aveva cresciuti bene e protetti, persino coccolati e aveva dato loro quanto più poteva di quell'immensa ricchezza cui aveva diritto. Era orgogliosa dell'intelligenza brillante di Eliza, mentre Neil... beh, Neil cercava spesso di ottenere ciò che voleva con delle scorciatoie e, a parte quando si era fissato con quell'orfana, cosa c'era di male?

Un verso strozzato, maschile, chiaro come il tonfo di poco prima. Un verso di dolore.

Con un'esclamazione di terrore, Sarah sentì un brivido percorrerle tutta la schiena rimandandole il battito del proprio cuore nelle orecchie. Sudore gelato le scorreva sulle tempie.

Le gambe si mossero da sole e, in preda a un istinto primitivo, si recò senza indugi nella stanza di Neil correndo, spalancando la porta e cercando di articolarne il nome.
Il suo grido salì dalle viscere e risuonò nella camera, mentre il pensiero assurdo che avesse indovinato la caduta di una sedia qualche minuto prima le illuminava la mente, assieme all'orrore dell'immagine davanti ai suoi occhi.
 
- § -
 
George non riusciva a prendere sonno.

Era stato talmente impegnato, in quei giorni frenetici, che era riuscito a vedere William una volta sola, intubato e privo di conoscenza. Aveva pianto di sollievo quando il signorino Cornwell gli aveva telefonato per comunicargli che era sveglio e stava bene, ma la gioia era durata poco.

Il processo era in corso e gli avvocati non erano riusciti a concordare i domiciliari, sicché William doveva fare la riabilitazione in ospedale e poi in carcere.

Il che era una pessima notizia.

Da Archibald aveva appreso che entrambi avevano avuto alti e bassi durante la loro permanenza a causa delle condizioni stesse di reclusione, di uomini senza scrupoli che li minacciavano di continuo e soprattutto per via della preoccupazione che li attanagliava.

L'influenza degli Ardlay era drasticamente scesa di livello e il giudice aveva rigettato l'istanza, concedendo al signorino Cornwell di uscire di prigione per mancanza di prove più concrete, ma non consentendo a William di potersi riprendere in una struttura adeguata o a casa.

Davanti alla legge era ancora colpevole di traffico illecito.

George si alzò dal letto e si passò una mano tra i capelli, ricordando le parole di Archibald.

"Albert sembra l'ombra di se stesso. Nonostante stia cercando disperatamente di recuperare le energie mentali e fisiche, il rancio del carcere è pessimo e lui è ancora molto preoccupato per Candy. Ricordi che ha cominciato a dimagrire quando lei ha avuto l'incidente? Beh, dopo quello che gli è successo sembra quasi uno scheletro...".

Nella sua vita, sia lui che la famiglia Ardlay avevano dovuto sopportare molte disgrazie: a cominciare dalla morte di William senior, per poi arrivare a quella, per lui particolarmente dolorosa, della giovane Rosemary.

I suoi occhi pieni d'amore per il suo bambino e per suo marito. Le sue ultime parole per il suo fratellino minore...

George non si era mai più innamorato di nessun'altra allo stesso modo, quindi capiva molto bene quanto stesse soffrendo all'idea di aver perso Candy. Non l'aveva visto così sconvolto neanche quando il destino si era accanito ancora ed Anthony era morto a soli quindici anni: in quel caso, il pensiero di dover dare conforto a Candy gli aveva dato la forza necessaria a superare il suo dolore.

Ma ora cosa gli rimaneva?

Era in carcere, la donna che amava non aveva memoria, probabilmente lo detestava e forse a breve sarebbe stato rovinato.

Colto da un senso di urgenza improvviso, George uscì dalla stanza indossando solo una vestaglia da camera e si recò nel suo studio. Voleva ricontrollare i documenti del processo personalmente e la prima cosa che avrebbe fatto la mattina dopo appena sveglio, semmai avesse dormito, sarebbe stata contattare Jorge Ruiz.

Qualche giorno prima lo aveva chiamato perché voleva sapere chi fosse il commissario di polizia che aveva comunicato la falsa morte di Candy, ma quando gli aveva chiesto la motivazione lui aveva detto che prima doveva lavorarci, poi la linea era caduta.

Maledette linee telefoniche! Sembra che in Florida le abbiano allacciate degli incompetenti!

Non sapeva se dipendesse dagli apparecchi dai quali di solito il suo corrispondente chiamava o dai cavi di pessima qualità, ma ogni telefonata era costellata da statiche e rumori di ogni genere.

Mentre apriva la pila di documenti e li sfogliava rileggendoli per l'ennesima volta, si augurò che Archibald non stesse facendo nulla di avventato. Quando gli aveva raccontato dei sospetti della signora Elroy si era agitato tanto che credeva sarebbe saltato sul primo treno per andare a prendere i Lagan personalmente e non sarebbe stata affatto una buona idea.

L'ideale era coglierli con le mani nel sacco.

Perché Ruiz ha voluto il nominativo di quel commissario di New York? A che diavolo gli serve? Vuole coinvolgere la polizia dell'intero continente? Non che sia una mossa malvagia, visto che ha un conto in sospeso con gli Ardlay, ma...

Lo squillo del telefono per poco non gli fece volare i fogli dalle mani. Con un verso di stupore si portò la mano al petto, pregando Dio che non fosse un'altra brutta notizia.

Se è successo qualcosa a William penso che potrei semplicemente lasciarmi morire anche io.

Alzò la cornetta con una mano gelida e tremante e dalle scariche che gli arrivarono all'orecchio capì chi era: "Sono il tuo omonimo del Sudamerica, è già tramontato il sole, lì da voi?".

"Da qualche ora, Ruiz, e se la memoria non m'inganna lì siete avanti nel tempo di soli sessanta minuti. La prego di parlare, adesso". La sua pazienza era al limite: l'uomo era molto bravo ma, forse proprio per la sua intelligenza brillante, aveva sviluppato un'arroganza che riusciva a dare sui nervi persino a lui.

"Li abbiamo in pugno", disse secco.

George aprì la bocca, trattenendosi a stento dal gridare di gioia perché avrebbe svegliato tutti. Batté una mano sulla scrivania, serrando la mascella: "Portameli prima del processo", chiese passando al "tu" senza pensarci.

L'esitazione dell'uomo dall'altro capo del telefono gli arrivò sotto forma di mugugno contrariato.

Oh, no, cosa c'è che non va, adesso?

"Dovevamo partire domattina ma è sopraggiunto un piccolo imprevisto", continuò Ruiz con un tono calmo e controllato che lo urtò ancora di più.

"Un piccolo imprevisto? Di che si tratta?", riprese lui staccando un poco la cornetta dall'orecchio all'ennesima scarica. L'esaltazione di poco prima si trasformò rapidamente in rabbia. Perché doveva dargli le notizie col contagocce?

"Beh, ecco, a quanto pare il signorino Neil ha tentato il suicidio e ora si trova in ospedale", rispose in tono discorsivo, come se parlasse del tempo soleggiato previsto per l'indomani.

Per fortuna, la poltrona era proprio lì vicino o George sarebbe caduto a terra.

Quando tutto si fosse risolto, soprattutto se si fosse risolto, avrebbe preteso una lunga vacanza. Non era sicuro che i nervi gli avrebbero retto ancora a lungo.

"Ruiz, la prego, mi dia dettagli", chiese con voce tesa, ritornando alla formalità.

Le scariche sulla linea ripresero più forti di prima e George si ritrovò a imprecare mentalmente e, forse, anche ad alta voce senza rendersene conto. Prima che la comunicazione s'interrompesse in via definitiva, però, poté udire le parole "impiccarsi" e "speranza", che cozzavano l'una contro l'altra come lo stridio di un gesso su una lavagna.

Guardò la cornetta come se potesse dargli delle risposte, poi riattaccò con gesti lenti, cercando di riportare il respiro e il battito cardiaco a un livello normale.

Neil Lagan aveva tentato d'impiccarsi e l'unica cosa cui riusciva a pensare era che potesse sopravvivere per testimoniare al processo, perché entro pochi giorni si sarebbe presentata la difesa. Si sentì una persona orribile, ma l'unica speranza che aveva era che William, il suo figlioccio, suo fratello, il figlio dell'unico amico vero che avesse mai avuto nella sua vita, tornasse a casa e fosse finalmente felice.

Allora, forse, lo sarebbe stato anche lui.
 
- § -
 
Archie vide l'alba sorgere da dietro la finestra e, per un attimo, si chiese come fosse possibile. Da qualche tempo, appena apriva gli occhi vedeva un muro bianco oppure veniva svegliato dal clangore metallico di uno sfollagente sulle sbarre.

Rabbrividì, tirandosi le coperte fin sul naso, pensando che quel rumore lo avrebbe accompagnato fino alla morte.

Eppure aveva passato momenti peggiori di quello: il suo unico fratello era morto in guerra e, per quanto ne sapeva, il suo corpo decomposto giaceva in fondali marini lontani migliaia di chilometri. Bastava quel pensiero a rendere la sua relativamente breve permanenza in carcere una specie di vacanza scomoda.

Ma Archie sapeva che non era solo quello.

La prigione distruggeva le certezze e l'orgoglio: potevi startene nudo dentro a una doccia assieme ad altri uomini che volevano aggredirti come avevano fatto con Albert, oppure vivere col timore di subire le attenzioni sbagliate. O, ancora, rischiare di morire di fame o di malattia.

Archie aveva sempre creduto che il carcere fosse un luogo in cui gli uomini dovessero redimersi, rendendosi conto dei propri errori, ma ormai pensava che fosse solo un luogo di punizione dove, nella migliore delle ipotesi, se ne usciva sopravvissuti, peggiorati o traumatizzati.

E lui non aveva neanche il tempo di pensare ai propri traumi.

Doveva riportare indietro Candy, assieme ad Annie e al dottor Carter e doveva riprendere le fila della propria vita. Voleva ricominciare a studiare e poi sposare quella che era stata la sua fidanzata... se l'avesse mai riconquistata.

Il giorno prima era stato tentato di prenderla fra le braccia, dirle quanto l'amasse, ma era stato capace solo di piangere e vittimizzarsi.

Idiota. Si era sentito un lombrico, proprio come quel bastardo di Neil.

Maledetto, lui e sua sorella, e anche la sua intera famiglia: se non fosse stato perché temeva di compromettere i piani di George per tirare fuori Albert di prigione, sarebbe andato in Florida per riempirlo di pugni.

Possibile che sua zia Elroy non avesse detto nulla fino a quel momento?

Sedette sul letto, ormai sveglio, e si alzò per scostare le tende e vedere il sole sorgere. Per un attimo sognò che nel suo letto ci fosse anche Annie, profondamente addormentata. Sarebbe bastato voltarsi per vederla: la pelle chiara del suo viso che spiccava tra le ciocche di capelli corvini disposte in maniera scomposta sul cuscino.

Deglutì a vuoto, immaginandola nuda e in attesa che lui l'amasse.

Si batté un pugno sulla fronte, maledicendo quei pensieri così poco casti. Neanche con Candy aveva mai avuto fantasie simili e si chiese come avesse fatto a scambiare un amore platonico e meramente spirituale in quello vero che unisce un uomo a una donna.

Di Annie, ora lo capiva, amava tutto: la sua sensibilità che sapeva anche diventare determinazione, la sua eleganza, i modi gentili, l'allegria pacata. E gli occhi limpidi sul viso di porcellana, le labbra rosse che non aveva mai pensato di baciare, la pelle morbida del collo che...

"Okay, ora basta, Archibald Cornwell, stai veramente esagerando", si schernì con un sorrisetto. Doveva smetterla di pensare ad Annie come se fosse già sua moglie e mettere ordine nella sua vita.

Altrimenti sarebbe stato come invitarla in una casa disordinata e piena di povere e ragnatele.

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Capitolo 44
*** Rivelazioni ***


Albert fissò il piatto con un'espressione di disgusto.

Cercò di ricordare quando vagabondava e gli capitava di saltare anche più di un pasto, prima di poter lavorare per procurarselo oppure usare parte dei soldi che aveva per comprare solo un sandwich. E ricordò quel sandwich, che un giorno aveva diviso con Candy chiedendole di condividere tutto, anche i suoi problemi.

Candy. Possibile che nel tuo inconscio tu mi incolpi davvero di quello che ti è accaduto e... che è accaduto ad Anthony, anche se non ricordi tutta la dinamica?

Giocò con la forchetta rompendo il rosso delle due uova che gli avevano riservato quella mattina, chiedendosi se quella intorno fosse davvero pancetta o qualche altro tipo di carne mal conservata: il colore e l'odore non erano certo invitanti, ma Albert sapeva che c'era qualcosa che non andava in lui.

E non si trattava solo della ferita che era ormai quasi del tutto rimarginata sulla sua gamba e di quelle nella sua anima.

Era da quando Candy si trovava in coma in ospedale che le sue abitudini alimentari erano diventate disordinate e inadeguate allo stile di vita che conduceva. Con il dottor Carter avevano parlato soprattutto di Candy e degli eventi importanti che avevano caratterizzato la sua vita, incluso l'incontro con Terence.

Ma, proprio poco prima che la guardia arrivasse a ricordare loro a gran voce che i dieci minuti erano scaduti, Adrian lo aveva guardato e gli aveva nominato un collega del secolo precedente, un certo William Withney Gull, che per ironia della sorte si chiamava proprio come lui e che, assieme a un altro medico francese, aveva scoperto l'esistenza di una malattia nervosa chiamata anoressia.

Albert aveva alzato un sopracciglio, perplesso. Certo, era esaurito e provato da mesi di eventi catastrofici che avevano sconvolto la sua vita, ma lui non era tipo da malattie psichiatriche. Neanche Candy, se non fosse che aveva perso la memoria.

"Si tratta di una patologia scoperta piuttosto di recente che colpisce principalmente le donne che temono di ingrassare o hanno avuti traumi importanti. Ma, nel suo caso, potrei quasi azzardare una diagnosi che riguarda invece la perdita di controllo su determinati eventi. Purtroppo non ho modo di approfondire questi aspetti con lei, nell'immediato, ma la prego di sforzarsi a mangiare un po' di più anche se in apparenza il cibo non la attrae come una volta. È di vitale importanza, Albert".

Appena ebbe ricordato quelle parole, si portò la forchetta alla bocca, cercando di trarre conforto da un sapore noto e sapido. Masticò con deliberata lentezza e poi, quasi per autodifesa, inghiottì aiutandosi con un sorso d'acqua.

Rimase per qualche istante fermo, respirando a fondo e combattendo contro i conati che volevano salirgli alla gola.

Sono sicuro che è colpa di questo cibo disgustoso che servono qui.

Fissò il piatto pieno, scoraggiato: era solo al primo boccone e già sentiva lo stomaco gonfio come se avesse mangiato un tacchino intero. Provò a pensare a quella portata che tante volte gli era capitato di gustare, specie da quando aveva ripreso il controllo della famiglia, ma non gli venne l'acquolina in bocca come si aspettava.

Quando uscirò di qui e potrò mangiare qualcosa di più decente mi passerà.

Albert si mise una mano tra i capelli, frustrato, e rimase abbastanza stupito quando si rese conto che qualcuno gli era rimasto impigliato tra le dita. Ricordò che gli era successo anche i primi tempi in cui era senza memoria, quando era dimagrito, a detta di Candy, e la debolezza aveva minato il suo corpo.

Devo essere forte e in salute per Candy. E per la mia famiglia.

Se lo era ripetuto più volte mentre lei era in coma in ospedale e forse si sarebbe anche costretto a farlo se non fosse accaduto di tutto. Gli tornarono in mente persino le parole della zia Elroy, che non faceva che ripetergli che mangiava troppo poco come se fosse tornato bambino.

Entro qualche giorno ci sarebbe stato il processo e lui doveva essere in forze, non aveva tempo per i disturbi alimentari.

Da quanto tempo mi trascino questo problema?

Albert sospirò, riprendendo la sua lotta anche se lo stomaco era chiuso e si contorceva come se volesse rimandare su persino la cena della sera prima.

Per l'ennesima volta da quando tutta quella storia era iniziata, si chiese dove fosse finito il vecchio Albert che conosceva. Era come se, proprio come Candy, avesse perso di nuovo la memoria di se stesso.
 
- § -
 
"Ciao Karen, sono io, Terence", disse quando alfine, dopo giorni di esitazione, trovò il coraggio di chiamarla. Non sapeva bene neanche lui cosa cercasse, voleva solo sentire la sua voce e fare chiarezza dentro di sé.

"Te... Terence! Cosa è successo?". Il suo evidente stupore lo fece quasi vergognare. "Come hai avuto il mio numero?".

Grato per quella domanda che gli offriva una diversione, rispose: "Ho chiesto a Robert. So che metterete in scena Troilo e Cressida e tu hai avuto la parte. Congratulazioni".
La voce di Karen esitò ancora: "Gra... grazie, Terence".

Per qualche istante calò un silenzio imbarazzante. Una domanda gli bruciava sulle labbra e il bisogno di sentire ancora la sua voce lo consumò.

"Chi... chi hanno scelto per la parte di Troilo?", domandò, avvertendo gli artigli della gelosia affondare nel suo cuore. Nella tragedia originale i due protagonisti del titolo consumavano un'ardente storia d'amore.

Poté quasi vederla, mentre aggrottava le sopracciglia perfette: "Perché me lo chiedi?".

"Io... io... sono solo curioso. Questo film che sto girando non mi dà le soddisfazioni del teatro". Era una risposta quasi del tutto vera, dopotutto.

La risatina roca di Karen rilassò l'atmosfera e gli fece venire un brivido lungo la schiena. Avrebbe dato non sapeva cosa per abbracciarla e baciarla, spegnendo quel suono con le sue labbra: "Comunque per Troilo Robert ha scelto Liam. Ti ricordi di lui, vero?".

"Sì...", rispose con un disappunto così chiaro che Karen dovette per forza notarlo. Liam era entrato nella compagnia di recente ed era subito stato chiaro a tutti quanto sospirasse per Karen. Sapere che avrebbe dovuto fare coppia con lui gli attorcigliò lo stomaco in una morsa.

Pensò che, nella tragedia shakespeariana, Cressida avrebbe tradito Troilo con Diomede: e lui chi era in tutta quella storia? L'amante o il tradito? Quasi si mise a ridere per il paragone assurdo che la sua mente aveva appena sfornato. Karen era stata la sua donna solo una volta e non era la sua fidanzata.

"Terry?", sentire il suo diminutivo pronunciato dalla voce di Karen lo riscosse.

"Karen, io...", cominciò, ma lei lo interruppe.

"Ho letto sui giornali quello che è successo agli Ardlay. So che Candy è sotto la loro tutela". Terence scavò nei recessi della memoria ed effettivamente ricordò di averle parlato del suo cognome e del fantomatico prozio William. Ma non le aveva mai rivelato che Candy lo aveva lasciato per lui.

"Candy ha perso la memoria. Viveva con loro", disse all'improvviso, senza motivo.

"Che cosa?!". Quell'esclamazione vigorosa, così tanto da Karen, lo fece quasi ridere di cuore se non fosse stato che la situazione era tragica. Le spiegò per sommi capi tutta la storia e la sentì soffocare più volte esclamazioni di stupore. "Sembra quasi la trama di una tragedia anche questa. Mi dispiace molto per entrambi". Era sincera, capì.

E lo fu anche lui: "Quando l'ho saputo sono andato a cercarla. In realtà ero andato a trovare William... cioè, Albert, per chiedergli come stesse Candy e lui mi ha detto che è caduta da cavallo". Evitò la parte in cui lo aveva preso a pugni, irrazionalmente, per una reminiscenza di gelosia.

"Quindi l'hai vista?". Cosa vibrava nella voce ora più pacata di Karen? La stessa gelosia che aveva provato lui poco prima? Semplice curiosità? Entrambe le cose?

"No, non hanno lasciato che entrassi. Mi hanno detto che la sua situazione è molto delicata, così sono tornato a Pittsburg per continuare le riprese". Omise di rivelarle anche dell'incidente di Albert e del suo impulso a prendere di nuovo un treno per Chicago, nella speranza di approfittarne anche per tentare di nuovo di incontrare lei.

Sentì la domanda aleggiare tra loro ancor prima che Karen la pronunciasse e, quando finalmente la udì, ne fu quasi sollevato: "La ami ancora, vero?".

Quella era la sua occasione. Il primo passo per chiarire finalmente il suo cuore e capire cosa avrebbe provato a dire ad alta voce quella verità che aveva tenuto custodita gelosamente dentro di sé fino ad allora: "Io l'ho amata molto, Karen". Rubò quasi le stesse parole che Candy gli aveva scritto e sperò che, nonostante fosse stato poco esplicito, Karen cogliesse il senso di quello che voleva dire.

"Capisco", rispose invece, quasi atona.

"Karen, io...".

"Scusami Terry, ma fra un'ora ho le prove e devo prepararmi. Salutami tua madre".

"Karen, io vorrei rivederti", riuscì finalmente a dire, di getto.

Quando lei non rispose, Terence pensò che avesse riagganciato, invece chiese con un mormorio quasi impercettibile, come se temesse la risposta: "Perché?".

Perché ho bisogno di te. Perché mi sei diventata più necessaria dell'aria che respiro, non so da quando. Perché... mi sto innamorando di te come non mi sono mai innamorato neanche di Candy. Perché l'intensità del sentimento che sta crescendo nel mio cuore mi spaventa e mi attrae irrimediabilmente.

Tutte quelle parole gli rimasero strozzate in gola e si diede dell'imbecille. L'unica cosa che gli venne in mente furono dei versi: come uomo era un disastro, così ripiegò sulle sue doti di attore: "Madamigella, per quella sacra luna che inargenta le cime di quegli alberi, giuro…".

"Oh, non giurare sulla luna, l’incostante luna che si trasforma ogni mese nella sua sfera, per paura che anche il tuo amore si dimostri, come la stessa luna, mutevole", ribatté lei, puntuale. "Terry, ti sei confuso: questa è Romeo e Giulietta ed è una tragedia che abbiamo recitato insieme tanto tempo fa. Inoltre ti ho già detto anche come Karen di non fare promesse".

"Mi vuoi dunque lasciare così mal soddisfatto?", citò di nuovo, incapace di esprimersi con parole sue.

"Terence, la vita non è una recita. Io sono una donna, prima ancora di essere un'attrice. Se davvero... se davvero vuoi dirmi qualcosa, fallo quando potrai usare delle parole che ti appartengano e non quelle di una tragedia di Shakespeare. A presto".

Terence sentì la comunicazione interrompersi e, con essa, anche tutte le sue speranze di spiegarsi. Che diavolo gli era preso? Perché con Candy era riuscito ad esprimersi, anche se con colpevole ritardo, e con Karen no?

"Dannazione!", imprecò riattaccando a sua volta il telefono e scoccando un'occhiata all'orologio. Era ora che anche lui andasse sul set. Non vedeva l'ora che quell'impegno finisse, una volta per tutte.

Non ne poteva più di quel film.          
                                                   
- § -
 
I sogni erano arrivati ed erano rivelatori. A volte le davano la nausea fino a farla sentire male, altre volte il mal di testa esplodeva fino a trascinarsi tutto il giorno.

Mentre apriva la finestra e, per la prima volta, prendeva una boccata d'aria con piacere, si ripeté che ricordare era doloroso. Eppure si sentiva come una falena attratta dalla luce, quella luce che era la sua memoria.

Ormai sapeva della Casa di Pony, della sua infanzia con Annie della quale sognava e ricordava momenti nitidi, inoltre aveva fatto ordine nella catena di eventi successivi grazie ai suoi racconti. Ciononostante, le immagini e le voci erano come lampi nella nebbia senza apparente filo logico.

Ultimamente ricordava anche degli sprazzi di ciò che Carter le riportava alla mente con l'ipnosi. Prima non le rimaneva nulla, se non l'emicrania costante. Ma, nel mezzo di quel turbine confuso, una sola persona spiccava e rimaneva costante.

Lui.

Lui, che aveva incontrato sulla Collina di Pony dandogli il nomignolo di Principe. Lui, che nei suoi sogni associava al suo primo amore ma che invece era suo zio, ben più grande di Anthony. Perché, una volta appurato che semplicemente si somigliavano nell'aspetto, non riusciva a scinderli nel suo cuore?

Era come se i sentimenti di dolcezza e disperazione per Anthony che riecheggiavano in lei entrassero in risonanza con William. Possibile che, piccola com'era, su quella collina si fosse invaghita di quel tipo che suonava uno strano strumento?

Fissando lo sguardo sugli uccelli che volavano tra i rami dell'albero che troneggiava davanti alla finestra, Candy fece una smorfia e tentò di fare chiarezza. Ok, poteva anche essere, per quanto assurdo le suonasse: una bambina che ha appena perso la sua sorellina acquisita rimane incuriosita da un tizio vestito da scozzese e fa sogni romantici finché non viene adottata.

Poi arriva l'incontro con un ragazzo della sua età che muore in un incidente a cavallo, facendola soffrire così tanto che forse il trauma le rimane. E viene rinnovato da un incidente molto simile che la vede vittima.

Più tardi, quella bambina che tutti si ostinano a chiamare Candy e non Candice, scopre che il tutore che l'ha salvata dalle grinfie della sua perfida famiglia adottiva è nientemeno che lo zio del ragazzo che amava e che, guarda caso, aveva incontrato prima di lui.

Fine della storia.

Scosse la testa, portandosi una mano alla fronte. C'erano troppe lacune ed era normale che fosse così: aveva perso la memoria.

Per l'ennesima volta, analizzò i suoi sentimenti verso il patriarca della famiglia e ammise con se stessa che non era ribrezzo o rifiuto quello che provava per lui: era timore. Ma non per lui come persona, calmo e pacato com'era, se non per ciò che dentro di lei pareva aprirsi ogni volta che lo vedeva o lo pensava.

Possibile che quello che il suo cuore immaturo aveva provato per lui quando aveva solo sei anni si fosse riproposto tempo dopo? E che lei avesse sofferto per quello che doveva essere un amore impossibile, visto che si trattava del suo tutore legale?

Immaginò tanti scenari: lei che si sentiva in colpa per aver tradito il ricordo di Anthony; lei che trovava William tra le braccia di un'altra e cercava di dimenticare il suo dolore; William che la illudeva e poi la lasciava perché non era degna di diventare la moglie di una famiglia così importante, visto che era orfana.

Il mal di testa peggiorò e Candy smise di fare supposizioni che parevano non portarla da nessuna parte. Nel silenzio della stanza, rotto solo dal cinguettare tra le fronde, udì delle voci nell'altra camera e chiuse piano la finestra.

Sapeva che spesso parlavano di lei alle sue spalle, temendo di riversarle addosso più informazioni di quelle che ritenevano utili, volendole dare il suo tempo. Ma, già da un po', Candy era così incuriosita che si ritrovava ad origliare, anche se le sarebbe costato avere un altro attacco di vomito.

Lo fece anche stavolta e riconobbe le voci di Annie e di quel suo strambo amico, o fidanzato.

"...come è possibile? Lo amava così tanto!". Quella era Annie.

Chi amava chi?! Si riferisce mica a...

"...era da poco... inoltre...". Accidenti, mentre la voce femminile di Annie, anche se bisbigliava, riusciva a sentirla più chiaramente, quella baritonale di Archie era così bassa che si ritrovò ad attaccare l'orecchio alla parete.

Per un po' parlarono di Carter e Frannie che li avrebbero raggiunti a breve, così avrebbero potuto discuterne.

Candy stava per staccare l'orecchio dal muro, ma poi Annie disse: "Candy potrebbe svegliarsi all'improvviso e sentirci, meglio se suggeriamo di andare in un'altra stanza. Voglio spiegare bene al dottor Carter quello che penso".

Quindi non li avrebbe sentiti parlare? Frustrata, Candy si appoggiò di nuovo alla parete, ormai rassegnata a non poterne sapere di più, quando la voce di Archie riprese: "...capisco cosa vuoi dire, ma.... inconsciamente... mai parlato". Dannazione, perché non alzava la voce?

Lo fece Annie: "Anche se non ne hanno mai parlato io sono certa che Candy non lo colpevolizzerebbe mai per una cosa simile!".

E, mandandole una stilettata dritta al cuore, aumentò il tono anche Archie: "All'epoca tutti sapevamo che era stato il prozio William a ordinare la caccia alla volpe! Ce lo disse la zia Elroy!".

Zitto, Candy potrebbe sentirti. Smettila, magari Candy neanche se lo ricorda, il suo subconscio avrà cancellato quell'informazione. Ma si ricorda di te, di quando eravate piccole, e di Miss Pony.

Ormai le voci erano indistinte e lei stava perdendo la lotta con la nebbia dei sensi che venivano a mancarle.

Ecco qual era il tassello mancante. Ecco cosa legava William ad Anthony, in fondo al suo cuore.

Non uno stupido paragone tra un'infatuazione infantile e un primo amore. Quella paura, quel timore di lui...

In realtà, anche se inconsapevolmente, il suo tutore aveva ucciso l'uomo che amava.

- § -
 
George aveva chiesto espressamente di vedere Albert nella stanza riservata agli incontri ma, quando entrò, pensò che avessero sbagliato e mandato un detenuto diverso.
Lo riconobbe solo perché lo conosceva da una vita: i capelli erano così chiari che sembravano bianchi invece che biondi, ed era tanto magro che la divisa del carcere pareva non contenere altro che ossa.

E i suoi occhi, quegli occhi così determinati e sereni, erano scavati e solcati da occhiaie viola. Possibile che in due settimane si fosse ridotto così e dopo giorni avesse ancora l'aspetto di un uomo in coma?

"William!", espirò senza potersi impedire di trattenere il proprio stupore.

"Non dirmi anche tu che sono dimagrito o mi metto a urlare come una ragazzina. Ti assicuro che mi sforzo di mangiare ogni orribile schifezza mi propongono in questo ristorante rinomato e che il medico del carcere è venuto a controllarmi anche stamattina: il mio cuore batte e la mia pressione è solo un po' più bassa della media, quindi saltiamo questa parte e vieni al sodo. Dimmi dell'udienza".

Dopo quel monologo, George non poté esimersi e cercò di non chiedersi nemmeno perché non gli avesse domandato di Candy. Forse la conversazione avuta qualche giorno prima con Carter lo aveva soddisfatto?

"Bene", si schiarì la voce, riordinando i pensieri e tentando di non concentrarsi sul suo aspetto malato mentre gli sedeva di fronte. "In effetti ci sono delle novità. Il mio contatto in Florida ha finalmente trovato un legame tra la malavita e i Lagan".

La mascella dell'uomo si contrasse e una scintilla di rabbia gli attraversò lo sguardo: "Dannazione, Archie aveva ragione fin dall'inizio. E io che credevo non fossero capaci di arrivare a tanto!".

George si spostò sulla sedia, a disagio, non trovando una posizione comoda: "C'è dell'altro, signorino William, e non le piacerà. A quanto pare Neil ed Eliza non hanno preso contatti con dei semplici trafficanti di alcool, coinvolgendo la distilleria... forse, senza saperlo, si sono rivolti alla mafia".

La mascella di William cadde e gli occhi si spalancarono, rivelando ancora di più le guance scavate: "Che COSA?!", esclamò stringendo i lembi dei pantaloni all'altezza delle ginocchia.

George annuì, cercando di rimanere calmo: "La mia reazione e quella del signorino Archie sono state le medesime e ancora non sappiamo come dirlo alla signora Elroy. Anche lei non sospettava un coinvolgimento così... pericoloso".

William si appoggiò allo schienale, come se l'espressione d'incredulità di poco prima gli avesse tolto ogni energia e si passò una mano tra i capelli, nel gesto frustrato che lo caratterizzava: "I Lagan sono legati alla nostra famiglia, se la cosa non viene gestita nel modo giusto ci finiremo tutti, in carcere".

"Non se i signorini Lagan testimonieranno prendendosi tutta la responsabilità", suggerì raddrizzando la schiena.

Lui allargò le braccia: "Ma non lo faranno mai!", protestò.

George si permise di sorridere, anche se non voleva dargli false speranze: "Stiamo facendo in modo che lo facciano, invece, anche con il supporto della polizia. Spero solo che non ci siano ritardi e che possano essere qui per il giorno dell'udienza assieme alla signora Elroy".

Mentre gli raccontava il piano di Ruiz, vide espressioni di incredulità, preoccupazione, speranza e timore dipingersi in successione sul viso di William. Tacque per qualche istante, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani intrecciate davanti alla bocca, come se riflettesse e riordinasse tutte le informazioni. Infine chiese: "Perché hai detto che temi ritardi? Immagino che l'operazione sia molto delicata e non scevra da rischi...".

"Certo, ma non è per questo che l'ho detto. Il signorino Neil ha tentato di suicidarsi e si sta riprendendo in ospedale. Confidiamo che per domani o al massimo dopodomani sia in grado di viaggiare", disse alfine, scrutando le reazioni di William.

Con sua sorpresa, sul suo volto si delineò qualcosa che somigliava al dolore e si alzò quasi di scatto. Poggiò una mano sulla sedia, dandogli le spalle, e quando parlò la sua voce era ferma ma triste: "Quindi Neil si è reso conto del danno che ha provocato a sé e a tutti noi, inclusa la sua stessa famiglia".

"Immagino di sì, signorino William", confermò chiudendo gli occhi.

"Perché le persone passano la loro vita tentando di fare del male agli altri?", chiese senza voltarsi, mandandolo per un attimo in confusione. "Non ho mai ritenuto Raymond capace di atti tanto bassi e non oso pensare al dolore che avrà accusato a una notizia del genere. Mi chiedo se la stessa Sarah sia coinvolta. Eppure hanno avuto sempre la protezione della zia Elroy, una posizione, soldi e quei maledetti alberghi".

Quando si voltò, il suo viso era duro e contratto: "Li ho odiati sinceramente dopo quello che hanno fatto a Candy, a me, a tutti. Eppure vuoi sapere una cosa strana?".
George gli fece cenno di continuare, accogliendo quello sfogo pacato.

"Dopo quello che mi hai detto provo pietà, almeno per Neil. Un uomo dovrebbe prendersi le responsabilità delle sue azioni, per terribili che siano state, ma lui non ne ha avuto la forza. Però adesso dovrà farlo e questa sarà una punizione peggiore del carcere".

Sospirò, alzandosi e facendo un passo verso di lui: "Sa, signorino William? Lei mi conosce bene, sa quanto io sia stato sempre molto discreto. Non mi sono mai azzardato a darle consigli se non veramente oculati e tesi a migliorare la sua posizione. Ma non mi sento di condividere la pietà che sente per lui. Ho visto la sua sofferenza e quella della signorina Candy e non posso perdonare chi ferisce la mia famiglia".

William gli sorrise con dolcezza e George, suo malgrado, sentì le lacrime bruciargli gli occhi. Lottò disperatamente per inghiottirle e pensò che il ragazzo di fronte a sé dovette averlo capito, perché gli mise una mano sulla spalla e disse in tono ironico: "Beh, sei capitato in una famiglia un tantino sfortunata, ma apprezzo la tua sincerità. In caso dovessimo affondare ti do comunque il permesso di fuggire ovunque desideri", concluse strizzandogli l'occhio.

"Oh, non fuggirei mai da casa Ardlay, neanche se il tetto dovesse crollare!". Il suo tentativo di portare il discorso su un tema più leggero fallì, ma fece ridere di cuore William e lui lo imitò subito dopo.

Perlomeno, adesso, una speranza concreta di tirarlo fuori di lì e farlo tornare quello di sempre ce l'aveva.
 
- § -

 
Comunicazione di servizio: come già accennato, nel mese di agosto l'aggiornamento tornerà ad essere una volta sola a settimana, ogni venerdì. Buone vacanze!

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Capitolo 45
*** La resa dei conti ***


Frannie si svegliò con il cuore che le batteva forte.

I sogni della notte precedente e gli eventi degli ultimi giorni le si riversarono addosso, schiacciandola su quel letto e al contempo sollecitando in lei l'urgenza di alzarsi prima possibile.

Si tirò a sedere e vide l'alba tingere di rosa il cielo primaverile, chiedendosi come mai il mondo sembrasse tanto calmo e sonnolento mentre dentro di lei si scatenavano i turbini di una tempesta.

Aveva sognato William. William che attraversava tutto il suo corpo con le mani e che le dedicava baci ardenti sulla pelle nuda e sulle labbra.

Aveva avvertito il fuoco della passione bruciarle dentro ma, in quella realtà onirica, non si era rimproverata dandosi della scolaretta in preda a una tempesta ormonale. No. Lo aveva ricambiato, toccandolo e baciandolo a sua volta.

Ma quando le loro labbra si erano incontrate di nuovo, non erano quelle dell'uomo biondo che la stavano facendo impazzire: erano quelle di Adrian. E, cosa ancora più sconvolgente, non lo aveva respinto ma si era stretta a lui con maggior fervore, sentendo il proprio corpo divorato dalle fiamme della lussuria.

"Ti amo, Frannie", le aveva detto il medico con gli occhi scuri annebbiati e il suo viso era cambiato più volte, passando da quello di Adrian a quello di William, finché non aveva aperto di scatto le palpebre.

Si portò una mano al petto, dove il cuore faticava a riprendere il suo ritmo normale e decise che doveva solo ricominciare a lavorare in ospedale per riprendersi da quelle sciocchezze sentimentali. Sì, lavorare sodo, inforcare i suoi occhiali, indossare la sua divisa come una corazza e continuare a fuggire da un futuro che non sarebbe mai stato.
Perché William non era suo e non lo sarebbe mai diventato. E perché Adrian era solo un collega e, forse, un amico.

Dovevano guarire Candy, ma lei era sempre meno indispensabile, anche se le cose si erano ulteriormente complicate da quando aveva scoperto per caso un altro elemento del suo passato e aveva inasprito il suo comportamento.

Aveva assistito all'ultima seduta di ipnosi e scoperto, con orrore, che si rifiutava di regredire. Ormai era convinta che William fosse l'unico responsabile della morte del suo Anthony e nessun tentativo di Adrian aveva funzionato.

Perlomeno aveva diradato i suoi sonnellini diurni e apriva sempre più spesso la finestra. A breve, i calmanti di Frannie o il controllo dei suoi parametri vitali non sarebbero più stati necessari e lei sarebbe finalmente uscita da quella casa.

Lontana da un amore impossibile e da un altro che non prendeva neanche in considerazione.

Mentre si vestiva con gesti lenti, si chiese come mai la sua testa le avesse proposto un sogno simile, visto che per lei Adrian non era che un collega e, suo malgrado, confidente.

La casa cominciò a riempirsi di piccoli rumori lontani che solo grazie al silenzio lei poté cogliere: porte che si aprivano, servitori che si mettevano all'opera nelle cucine, la stanza padronale in cui si stava aprendo una finestra.

Quello era il giorno del processo e c'era un fermento che si poteva cogliere persino nell'aria che stava respirando. Sapeva che stavano attendendo con ansia qualcuno, ma non si era arrischiata a chiedere di più, visto che non era sua competenza.

Pregava solo, in cuor suo, che quando William fosse tornato a casa lei si trovasse già fuori di lì. E, combattendo contro il proprio cuore, si augurò anche che Candy non lo facesse soffrire e ritrovasse presto se stessa.
 
- § -
 
Eliza pensò di vivere in un incubo a occhi aperti.

Sulle guance le bruciavano ancora gli schiaffi di suo padre, negli occhi riviveva al rallentatore le sue grida, le sue lacrime, la sua disperazione. E l'immobilità di sua madre, pallida come se fosse morta.

Immobile, come Neal dopo che lo avevano sedato e curato. Suo fratello aveva tentato d'impiccarsi nella sua stanza e rifletté che, in effetti, era stato quando aveva gridato chiedendo aiuto che sua madre aveva usato la voce l'ultima volta.

Nemmeno Neal aveva più proferito molte parole, come se la mancanza di ossigeno al cervello, seppur breve, gli avesse obnubilato la ragione in via definitiva.

Eliza aveva subìto ogni evento come una spettatrice riluttante, desiderando solo sparire dalla faccia della Terra. Se avesse potuto rimettere indietro le lancette della sua vita non avrebbe mai chiamato Molly e, forse, avrebbe dato a Neal del pazzo per volersi mettere contro gli Ardlay.

Ma l'occasione era troppo succosa e quando Neal aveva vacillato lei era stata ferma. E viceversa. Si erano alternati in un gioco pericoloso e mortale, nel quale pensavano di essere gli unici vincitori. Ma, nell'ombra, colei che meno di tutti avrebbe dovuto sospettare di loro si era alfine mossa.

Non aveva dubbi che la fautrice della catena di eventi che avevano portato alla comparsa di quel Ruiz fosse stata sua zia Elroy.

Forse la notizia riportata dai giornali l'aveva sconvolta a tal punto e toccata tanto da vicino che i suoi dubbi erano venuti a galla. Forse non avrebbero dovuto coinvolgere i giornalisti. Forse, dopotutto, avrebbe dovuto chiedere a Molly chi diavolo fossero davvero gli uomini con cui aveva contatti suo padre.

Ma con i forse non avrebbe riportato indietro il tempo.

Eccola, nella carrozza con i vetri oscurati e la polizia di scorta, tenere gli occhi bassi come faceva tutta la sua famiglia. Suo padre, sua madre, suo fratello. Tutti condannati. Tutti finiti, per sempre.

Mentre avvertiva la carrozza fermarsi e si sentiva traghettata verso l'Inferno, Eliza capì che una volta entrata in quel tribunale non sarebbe più stata libera e fu colta da un attacco di panico.

"NOOOO!", gridò divincolandosi sul predellino, con l'assurdo impulso di scappare, nascondersi a costo di vestirsi come una stracciona e vagabondare come suo zio aveva fatto in passato.

Sentì delle mani afferrarla per le braccia, bloccarla e dirle di smetterla. La voce di suo padre le gridò qualcosa ma lei non capì, non capiva più niente.

Non poteva vivere lontana dal lusso e dai balli, dai vestiti, dall'alta società. Ma non si era appena detta disposta a fare la barbona per strada? Forse era la libertà che anelava ancora più della ricchezza.

Sull'orlo dello svenimento, accecata dalle lacrime, riuscì comunque a cogliere le espressioni rassegnate di Neal e sua madre e, poco distante, gli occhi di George Villers fermi e colmi d'odio.
 
- § -
 
Elroy Ardlay entrò in tribunale impettita e dignitosa come si conveniva a una matriarca, cercando d'ignorare le domande scandalose e i flash di giornalisti e fotografi.
"I signori Lagan sono qui", le disse George a bassa voce, accostandosi quel tanto che bastava a farsi sentire. Avvertì l'emozione vibrare nel suo tono e cercò di contenere la propria.

Sapeva che tutto era nelle mani degli avvocati difensori, che nulla era stato preparato e che tutto si giocava sulle confessioni che avrebbero strappato a Neil ed Eliza. Quando, la sera prima, si era dimostrata perplessa sulla volontà dei suoi nipoti di testimoniare contro i loro stessi interessi, George le aveva detto una frase che le aveva gelato il sangue nelle vene: "Lo faranno per forza, ne va della loro stessa vita".

Non le aveva dato altre spiegazioni, dicendo che lo avrebbe scoperto in tribunale e ora speranza e curiosità si mescolavano in una tensione che minacciava di spezzare il suo autocontrollo. A breve, avrebbe rivisto anche il suo caro nipote e sperava non fosse troppo provato dalla prigione.

Sedette al suo posto, tra George e Archibald, e nella fila di lato scorse la famiglia Lagan al completo. Raymond teneva gli occhi fissi davanti a sé, pallido, mentre Sarah e i figli avevano il capo chino. Sembrava che nessuno di loro avesse il coraggio di guardarla, anche se sapevano di certo che era appena entrata.

Per un momento, fu tentata di andare da loro e tuonare una domanda secca per avere spiegazioni, scuotendo quei nipoti ingrati finché non avessero finalmente rivelato perché avevano commesso un atto così ignobile.

Ma non lo fece. Non solo perché non poteva, ma anche perché sarebbe stato sciocco e improduttivo.

Con discrezione, aprì un ventaglio per nascondere il proprio nervosismo e lo strinse con mano tremante mentre annunciavano l'entrata dell'imputato.

Suo nipote, il patriarca, l'unico figlio vivente del suo caro fratello William. L'uomo che sarebbe dovuto essere a capo della famiglia, sposato con una donna del suo rango e darle degli eredi.

Una figura esile, troppo esile per essere la sua, fece la sua comparsa dalla porta, con le manette alle mani e Elroy aprì la bocca per protestare, protendendosi verso George. Poi la guardò meglio ed ebbe un mancamento.

"Signora...?", la voce allarmata dell'uomo al suo fianco la richiamò, mentre la sua mano la sosteneva. Sbatté le palpebre, con la vista annebbiata.

"Quello è...?", ansimò quasi senza voce.

"Sì, signora", rispose George come se la capisse alla perfezione.

William sembrava l'ombra sbiadita e paradossale di se stesso. Dall'ultima volta che lo aveva visto non era solo più pallido ed emaciato, ma aveva perso più di trenta libbre*, perlomeno. Sembrava un sopravvissuto alla guerra.

"Oh, mio Dio", gemette senza poterselo impedire, nascondendosi il viso tra le mani. Le pareva di aver appena visto un uomo moribondo o un fantasma.

"Lo riporteremo a casa, glielo giuro", dichiarò George con voce vibrante, seppure stesse sussurrando.

"Ma che cosa gli è successo? Lo hanno ridotto pelle e ossa in questo postaccio! Lui... è malato!". Il ventaglio tremava nella sua mano.

"Mi dispiace", disse l'uomo chiudendo gli occhi. "Non volevamo farla preoccupare ma... è reduce da una delicata operazione...".

"È stato accoltellato, zia", esordì Archie mozzandole il fiato in gola. "Ora sta meglio, ma se l'è vista brutta. Gli uomini che lo hanno aggredito sono in isolamento. E George dice bene, lo tireremo fuori di qui".

Il tribunale girava. Il mondo girava. Tutto, intorno a lei si muoveva. Elroy non voleva svenire proprio in quel momento perché avrebbe significato rinviare il processo a chissà quando. Incapace di parlare, rimase con la bocca aperta per lo stupore, tentando con somma disperazione di ricomporsi per il bene di suo nipote, capendo finalmente perché avessero aspettato tanto per quella seduta in tribunale.

Con le lacrime che le salivano agli occhi, incontrò quelli azzurri di William per un solo, intenso istante e lui le sorrise. Elroy non poteva comunicare con lui e dirgli ciò che aveva nel cuore, così si limitò a ricambiare quel sorriso, chiedendo mille volte perdono a lui e al suo defunto padre per aver aspettato tanto a parlare.
 
- § -
 
"Chiamo a testimoniare Raymond Lagan", disse la voce chiara dell'avvocato, mentre il giudice gli faceva cenno di accomodarsi per il giuramento.

Albert lesse sul volto dell'uomo tutto il peso di ciò che i suoi figli gli avevano riversato addosso. Pensava di aver provato pietà per Neil, ma non aveva ancora visto Raymond: per lui sentì pena autentica.

Lo immaginava, di ritorno da un viaggio, essere messo al corrente di ciò che avevano elaborato i frutti dei suoi stessi lombi e doversi assumere una responsabilità che era sua solo per il fatto di averli generati. Non ebbe alcun dubbio che lui non fosse a conoscenza delle loro manovre e si chiese come, una volta appurata la sua estraneità agli eventi, sarebbe potuto andare avanti con la sua vita.

"Signor Lagan, quest'oggi avevamo preventivato di chiamare a testimoniare per prima la signora Elroy Ardlay, matriarca della famiglia, ma la sua presenza qui, assieme a quella dei suoi figli e di sua moglie, ci consente di andare subito al sodo senza addentrarci nei sospetti che la signora ha nutrito nei confronti dei suoi nipoti durante le scorse settimane. Può dirci cosa le hanno raccontato i signori Neal ed Eliza quando è tornato dal suo viaggio di lavoro in Messico?".

Albert si accigliò, stupito che l'avvocato andasse dritto al punto senza neanche spiegare come i Lagan fossero collegati agli Ardlay. Probabilmente faceva parte della sua strategia di colpire subito il giudice. Anche se era mortificato per Raymond, la speranza gli germogliò nel cuore e scoccò un'occhiata a sua zia, che sembrava molto tesa.
"Mi hanno detto di aver ordito un piano contro il patriarca degli Ardlay, ovvero l'imputato, per incastrarlo e renderlo colpevole di traffici illeciti".

Un mormorio si levò tra i giurati, ma i volti di Sarah, Neil ed Eliza rimasero chini. Lei singhiozzava piano. Albert capì che avevano dovuto omettere le minacce e il programma di protezione per concentrarsi sul suo caso e ciò gli fu confermato dalle successive parole dell'avvocato che, dopo una pausa a effetto, riprese: "Proprio così, signori giurati. Avete sentito bene. Il mio cliente, mister Ardlay, è stato incastrato e coloro che hanno testimoniato contro di lui sono stati appositamente corrotti per dire il falso, contrariamente a quanto giurato sulla sacra Bibbia". Il tono diventava sempre più vibrante.

"Obiezione!", echeggiò l'avvocato dell'accusa, alzandosi in piedi e maneggiando con frenesia i fogli con i documenti del processo tra le mani. "L'avvocato sta deliberatamente fornendo dichiarazioni su testimoni che oggi non sono presenti!".

Albert vide il sorrisetto dell'avvocato mutare in un'espressione trionfale che, sulle prime, non capì: "Avrei voluto ardentemente che i suoi clienti fossero qui, collega, ma lei sa benissimo che non è possibile. Uno di loro è in galera per aggressione e rapina a mano armata, mentre l'altro... è morto in circostanze misteriose".

Il mormorio divenne un concerto di ansiti strozzati e Albert si rese conto a malapena che un verso di stupore era uscito anche dalla propria gola: Billy Gonzalez era morto?! Perché George non glielo aveva detto?

"Non capisco come questi eventi, estranei al processo, possano dimostrare l'innocenza del signor Ardlay!", protestò l'avvocato dell'accusa mentre il giudice imponeva l'ordine sbattendo forte il martelletto.

La difesa fece un passo verso di lui, voltando le spalle al collega: "Sa una cosa? Ha ragione. Per i suoi testimoni saranno fatte delle indagini a parte e verrà appurato in seguito quanto gli eventi che hanno portato alla morte di uno e all'arresto dell'altro siano effettivamente collegati a questa vicenda. Ora come ora, mi preme solo far uscire di prigione il mio cliente e riscattare il suo nome".

La mente di Albert lavorava a tutta velocità, dandogli un senso di vertigine. Qualcuno aveva ucciso Gonzalez? Per quanto ne sapeva, se ciò fosse stato vero, casomai sarebbe stata la difesa la prima sospettata. E il falso corriere, se veramente era falso? Si trattava di un delinquente comune?

S'impose di smettere di distrarsi con quelle domande e cercò di seguire quello che stava accadendo.

"Signor Lagan", riprese l'avvocato, lisciandosi i baffi perfetti che gli ricordavano tanto quelli di George, "i suoi figli le hanno detto a chi si sono rivolti per orchestrare tutto questo?".
Il silenzio che seguì gli fece pensare che, se fosse caduto un capello, forse se ne sarebbe sentito il rumore. Albert si ritrovò a trattenere il fiato.

La voce di Raymond era roca, lontana, come se neanche lui si rendesse ben conto di cosa stesse accadendo: "Pensavano di avere a che fare con dei trafficanti di alcool. Invece hanno scoperto che si trattava di un'organizzazione mafiosa". Ci fu una specie di boato e a nulla valsero i tentativi del giudice di riportare la calma. Ormai la bomba era stata lanciata e lui, invece di sentirsi sollevato dalla libertà che ormai vedeva chiara come una giornata assolata, si ritrovò a guardare con le labbra strette Raymond Lagan che, alfine, crollava sotto la sua stessa rivelazione.

Strofinandosi gli occhi con il pollice e l'indice per fermare le lacrime, implorò: "Non sapevano chi fossero quegli uomini, non lo avrebbero mai fatto se lo avessero saputo. I miei figli non conoscono i pericoli di quel mondo". Il suo era un tentativo estremo di riscattarsi o di difenderli? Albert non lo sapeva, ma ne fu commosso. Immaginò di trovarsi al suo posto e rabbrividì.

Il suo stesso avvocato sembrò toccato dalla reazione sincera di quell'uomo distrutto. Con molta calma, disse: "La ringrazio, signor Lagan, la sua introduzione è stata di certo illuminante per questa corte". Fece un ampio gesto come per indicarla, poi il suo tono tornò duro: "Chiamo a testimoniare Neil ed Eliza Lagan. Signor giudice, mi permetta di interrogarli coralmente".

"Glielo concedo, purché si rispetti l'ordine".

Albert si appoggiò meglio allo schienale, sfinito. Le manette tintinnarono quando mosse le braccia e lui pensò che avrebbe voluto dormire e svegliarsi solo a processo finito. Sapeva perché si sentiva così stanco e capì che la prima cosa che avrebbe dovuto fare una volta uscito sarebbe stata parlare col dottor Carter o con chiunque potesse aiutarlo.

Si era infilato in un tunnel mortale ed era più che deciso a uscirne.
 
- § -
 
"Può dirci in che modo la famiglia Lagan è collegata alla famiglia Ardlay?". Neil pensò, stupidamente, che con la sua prima domanda l'avvocato volesse metterlo a proprio agio.

Capì, subito dopo, che voleva solo mettere le cose in chiaro perché la corte sapesse con chi avevano a che fare, chi avesse avuto l'ardire di compiere un crimine del genere.
Mentre rispondeva, si ritrovò con l'impulso quasi insostenibile di dare una gomitata a sua sorella, che piangeva piano al suo fianco: "Mia madre, Sarah, è la figlia di primo letto del marito di Elroy Ardlay, deceduto prematuramente. La mia prozia è la sorella di William Ardlay senior, il padre dello zio... dell'imputato".

L'avvocato annuì, come se avesse superato una sorta di esame: "Quindi, signori, capite bene che i Lagan devono aver sofferto a lungo di questa parentela... come potrei dire? Non proprio diretta con gli Ardlay. Ho avuto modo di confrontarmi con i membri della famiglia dell'imputato e mi sono stati riferiti comportamenti riconducibili a un sentimento d'invidia".

"Obiezione!", strepitò l'avvocato dell'accusa, trapanandogli i timpani. Che stesse zitto, a quel punto, visto che non sarebbe servito a nulla obiettare: "Queste supposizioni personali esulano dal caso", concluse.

Il giudice batté il martelletto ancora una volta: "Accolta. La prego, si riferisca solo ai fatti concreti".

L'uomo non si fece pregare e tornò alla carica: "Signorino Lagan, a chi è venuta l'idea di rovinare il mio cliente, il signor William Albert Ardlay, e perché?".

La domanda era così lunga e complessa che Neil dovette scegliere bene le parole, cercando di ricordare le indicazioni che aveva ricevuto per non divagare troppo. Ma il suo desiderio ardente di redimersi lo costrinse a dilungarsi quel tanto che bastava a liberare la propria anima tormentata: "L'idea è stata mia. Volevo vendicarmi di lui per avermi umiliato in un'occasione. E volevo acquisire la supremazia e il controllo di tutti i suoi beni. Non credevo che le cose mi sarebbero sfuggite di mano... e non volevo che fosse la mia famiglia a pagare: mi riferisco a mio padre e mia madre, che non ne sapevano nulla. Mi dispiace".

Era sincero. Nonostante l'avvocato della difesa e lo stesso George gli avessero più volte ripetuto, in quelle ore frenetiche che lo separavano dalla testimonianza, di pronunciare parole di pentimento per risultare più credibile, gli erano davvero sgorgate dal cuore. Specialmente quelle che, sperava, avrebbero scagionato i suoi genitori.
Li guardò, con il rimorso che minacciava di sommergerlo a ogni istante: sua madre singhiozzò piano e suo padre era mortalmente pallido. Sapeva che aveva picchiato Eliza ma aveva risparmiato lui perché era appena uscito dall'ospedale.

Aveva cercato e non trovato la morte per timore di quello che lo aspettava e aveva capito che era rimasto in vita per un motivo: liberare chi era innocente. Quel prozio che aveva sempre visto come un semplice vagabondo e che sembrava essere lui stesso in punto di morte. E quella prozia di cui quel giorno aveva incontrato una volta sola gli occhi e sembrava avergli riservato mille rimproveri.

Perché? Dopo tutto quello che ho fatto per voi. Dopo avervi sempre difesi e presi sotto la mia ala protettrice. Perché?

La pace lo pervase, così come la disperazione sembrava essersi impadronita di Eliza.

Raccontò di come si fosse affidato a lei non per colpevolizzarla, ma per raccontare semplicemente quella verità che lo avrebbe reso altrettanto libero. Incatenato in un carcere ma libero di vivere e di redimersi. Libero di proteggere la sua famiglia almeno da una morte orribile per mano della mafia. Libero di lasciarsi morire, se avesse voluto, dopo aver alleggerito la sua coscienza.

Forse i sentimenti di rabbia e d'invidia verso William Ardlay non sarebbero mai cessati del tutto e gli avrebbero continuato a rosicchiare un angolo del cervello come topi voraci. Però il vecchio Neil timoroso, vigliacco e desideroso di avere tutto ciò cui anelava aveva cessato di esistere quando si era reso conto di aver rovinato la sua vita e quella di chi gli stava intorno. Allora era maturato di colpo e aveva capito che la responsabilità di salvare il salvabile era sua. Sperava solo che Eliza avrebbe fatto lo stesso. Per la sua stessa pace interiore, che valeva molto più di qualsiasi gioiello.
 
- § -
 
Eliza avrebbe voluto colpire suo fratello a ogni parola che pronunciava. Sapeva che erano in ballo le loro stesse vite, ma non capiva come potesse raccontare tutto con tanta leggerezza e senza alcuna remora. Non una volta la sua voce aveva tremato, non una volta aveva visto il sudore o le lacrime scendergli sul volto.

Quell'idiota non aveva paura di rimanere ucciso dalla mafia, visto che aveva persino tentato di suicidarsi, era pentito per davvero!

Ma non lei.

Lei era una signora, lei era Eliza Lagan e non poteva rimanere chiusa in un carcere: aveva bisogno di tutte le cose belle che la circondavano, della sua casa lussuosa, dei servitori e di avere sempre gioielli e bei vestiti. Sarebbe morta dentro un carcere.

Ma sarebbe morta anche fuori.

Era in trappola, aveva già delle sbarre che la stavano incastrando. Le vedeva, erano di ferro, spesse e gelide.

"Signorina Eliza? La prego di rispondere", la incalzò l'avvocato. Che accidenti le aveva chiesto? Vedeva le sbarre ovunque e tentò di scacciarle con le mani.

Era colpa di Candy. Sì, quell'orfana maledetta aveva portato il maleficio nelle loro vite da quando aveva messo piede in casa! Prima era morto Anthony, poi le aveva rubato Terence, persino la morte di Stair doveva essere collegata a lei! Infine aveva cercato di rubarle anche la sua posizione nella famiglia adescando il patriarca prima ancora che si presentasse ufficialmente.

Davvero pensavano che lei si fosse bevuta la storia del vagabondo amico di sempre che era rimasto senza memoria? Avevano vissuto insieme! E chissà fin dove si era spinta la loro relazione, magari adesso lei portava persino un bastardo nel suo ventre.

"Signorina Lagan!", la voce dell'avvocato era urgente, stizzita e anche un tantino perplessa.

"È colpa sua, di quella Candy! Se non ci fosse stata lei non sarebbero accadute tante tragedie! Lei si voleva impossessare di tutto il patrimonio e ha circuito lo zio William, lo ha sedotto!". Ormai parlava a ruota libera, senza riflettere, le sbarre sempre fisse davanti agli occhi assieme all'immagine disgustosa di quella ragazza.

"Eliza, smettila!". Era la voce di Neal e la stava trattenendo con la forza mentre si divincolava.

"Non ti permetto di parlare così della mia protetta!", tuonò lo zio William che non sembrava neanche più lo zio William, ma un malato terminale. Si voltò verso di lui e scoppiò a ridere, il seme della follia che la stava già portando lontano e annebbiando la visione delle sbarre.

"La tua protetta!", lo canzonò. "Dì la verità, ci sei andato a letto, zio caro? Sognavi di sposarla e di farci dei figli?! È per questo che quando è caduta da cavallo hai cercato di dare la colpa a me e Neal? Ti abbiamo sottratto il tuo strumento di piacere incestuoso?".

"Taci, Eliza! Stai dicendo un mucchio di sciocchezze!", la voce, forte e stentorea, contrastava con il fisico magro e la carnagione pallida, ma lei non era più spaventata. Non dalle urla del giudice e da quelle, sempre più confuse, delle persone intorno a lei. Mani che la strattonavano, braccia che la incatenavano e tentavano di trascinarla via.

"Doveva morire come ha fatto morire Anthony! Era quello che doveva succedere fin dall'inizio e c'ero quasi riuscita, dannazione, c'ero quasi riuscita a cancellare quella dannata orfana dalla faccia della Terra!". La parte razionale, sempre più lontana e flebile, le urlò che le sue parole equivalevano a una confessione ma ormai cosa aveva da perdere? Anche se l'avessero accusata di aver fatto cadere Candy da cavallo, il motivo per cui era lì l'avrebbe tenuta in galera molto più a lungo.

E Candy non c'entrava niente, realizzò stupita. Si era infilata in quel guaio da sola.

Ma almeno si era liberata, aveva gridato la verità! Ora tutti sapevano che razza di relazione malata avessero quei due e il buon nome degli Ardlay sarebbe comunque affondato. Aveva comunque vinto!

Prima di perdersi nell'oscurità, Eliza udì la propria voce ridere e piangere. Udì qualcuno gridare di chiamare un medico. E udì sua madre chiamarla "figlia mia!" col pianto nella voce. Mentre perdeva i sensi, desiderò tornare piccola o, meglio, tornare nel suo grembo per perdersi nell'abbraccio confortante di un mondo lontano da quello reale.
Perché quel mondo, ormai, non le apparteneva più.
 
- § -
 
*circa 15 Kg

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Capitolo 46
*** Di ritorni e addii ***


Quando Albert varcò la soglia di casa pensò di sognare. Gli sembrava di mancare da decenni e che il giorno del processo, la comunicazione della sua liberazione e tutto quello che era accaduto fossero parte di un incubo che si era concluso.

Era appoggiato ad Archie, troppo indebolito per camminare da solo, e la servitù si stava inchinando con devozione. George e la zia Elroy erano in mezzo a loro e Albert poté vedere le lacrime brillare negli occhi di entrambi.

Fu la zia a parlare, aprendo le braccia: "Bentornato, figlio", disse con voce commossa, chiamandolo come non lo chiamava da quando era piccolo.

Si lasciò stringere dalle sue braccia, cullandosi nel calore quasi materno che proveniva da lei, sentendola singhiozzare piano e udendo il pianto commosso delle cameriere e dei servitori che mormoravano a turno un "bentornato" sincero.

"Non piangere, zia. Va tutto bene, sono a casa, adesso", disse con voce roca, controllando a malapena la propria emozione. In realtà, tutto quello che voleva fare era salire in camera sua e dormire. Il pensiero fisso di Candy era come una ferita aperta, ma sapeva che non poteva mostrarsi a lei in quelle condizioni, indebolito nel corpo e nello spirito: non le sarebbe stato di alcuna utilità.

Quando finalmente la zia si fu ricomposta cominciò a dare ordini con voce ferma, esigendo che si preparasse il pranzo, ma lui la bloccò esprimendo il desiderio di riposare, prima. Incontrò gli occhi di George e capì che lo avrebbe accompagnato.

"Albert, il dottor Carter mi ha chiesto di poterti parlare, appena possibile. Posso mandarlo da te quando avrai riposato?". Si volse a guardare Archie e gli sorrise, grato.
"Certo, digli che può salire tra un paio d'ore. Dovrebbero essermi sufficienti".

Lui annuì: "Sono felice che tu sia qui. Anche Annie voleva salutarti, ma ha preferito restare con Candy".

Il nome di lei gli provocò una stilettata al cuore. Cosa sarebbe accaduto quando l'avrebbe rivista? Davvero stava rimandando quel momento solo per non farsi vedere malato e fragile? O temeva che la teoria di Carter fosse vera?

Salutò brevemente e assicurò che tutto sarebbe andato bene, d'ora in poi. Sapeva che George, che ora camminava al suo fianco verso la scala, stava sistemando le ultime cose perché gli Ardlay fossero, alfine, scagionati completamente. Ci sarebbero state comunicazioni ufficiali e, forse, persino un evento e l'incontro con i membri anziani del Clan.

Ma ora era sfinito, il sonno lo stava avvolgendo come se la stanchezza di quelle ultime settimane gli si fosse riversata addosso tutta insieme. Come se in carcere e in ospedale non avesse mai dormito. Rabbrividì, pensando a Candy che voleva dormire e rischiava il coma e sperò di non essere giunto a un punto simile.

A metà scalinata dovette fermarsi per appoggiarsi al corrimano, con il fiato corto.

George lo guardò con il volto contratto dalla preoccupazione ma non fece altro che offrirgli il braccio. Albert titubò e l'uomo disse: "Stia tranquillo, signorino William, non ci guarda nessuno".

Grato e impossibilitato a rifiutare la sua offerta, Albert si sostenne a lui come fosse una donzella che viene accompagnata al ballo, ma capì che non era quello il motivo principale per cui si vergognava: farsi vedere in quelle condizioni pietose dalla sua famiglia era l'ultima cosa che desiderava.

Quando era stato trasportato a Chicago senza memoria era sicuramente deperito, ma non aveva mai toccato quel limite. Innanzitutto Candy era stata con lui fin da subito e comunque non si trovava certo in una prigione.

Inoltre, in quell'occasione aveva perso forse poco più di *undici libbre. In quel momento non aveva intenzione di confrontarsi con una bilancia, perché temeva che se lo avesse fatto lo avrebbero ricoverato di nuovo.

E lui voleva stare a casa.

Arrivò davanti alla porta della sua stanza col fiatone e dovette appoggiarsi alla porta prima di entrare. George non lo lasciò e, anzi, lo accompagnò a letto: "Desidera cambiarsi, signorino William?", chiese tentando di rimanere freddo ma trasmettendogli tutta la preoccupazione che lo affliggeva.

Albert valutò seriamente la possibilità di farsi aiutare a indossare degli abiti più comodi, forse persino una vestaglia da camera che lo scaldasse, ma la sua dignità fu più forte: "No, grazie. Credo che mi butterò sul letto così come sono. Più tardi farò una doccia e mi cambierò".

George annuì e Albert si chiese se sarebbe stato davvero in grado di fare tutte quelle cose senza svenire. Pensò che, se fosse rimasto in carcere ancora qualche giorno, una mattina l'avrebbero potuto trovare morto.

Mentre udiva appena la voce di George dire: "Buon riposo, signorino William, sono contento che sia qui" e il rumore della porta che veniva chiusa, la coscienza stava già svanendo e Albert si addormentò profondamente non appena poggiò la testa sul cuscino.
 
- § -
 
Adrian Carter aveva appena chiuso dietro di sé la porta della stanza di Archibald, dopo aver preso accordi con lui per quanto riguardava le prossime mosse. Avevano discusso della possibilità di chiamare un altro medico che supportasse William ma, per il momento, Adrian aveva preferito monitorare entrambi da solo perché la questione era piuttosto delicata.

La perdita della memoria di Candy e il suo comportamento dopo l'incidente erano strettamente collegati ad Albert e il disturbo alimentare di quest'ultimo aveva di certo a che fare anche con Candy. Ovviamente, nel suo caso avevano giocato anche altri fattori, non ultima la preoccupazione per i suoi cari e l'umiliazione subita a causa di altri. La notizia di una famiglia legata agli Ardlay che aveva incastrato il capofamiglia era su tutti i giornali, ma la polizia si stava muovendo, a detta di Archie, con molta cautela nell'ambito di un programma di protezione generale.

La malavita poteva allungare i suoi tentacoli su chiunque e finché l'intera rete non fosse stata scoperta non potevano rischiare di rivelare troppi particolari. Per fortuna, la confessione di uno dei nipoti di Albert lo aveva scagionato completamente e riportato a casa, ma si mormorava che la sorella fosse crollata e si trovasse reclusa in un ospedale psichiatrico.

Ad Adrian non interessavano i pettegolezzi, tantomeno i nomi di coloro che avevano creato quello scandalo: la sua priorità era che sia William che Candy ricominciassero a vivere.

Bussò alla porta della stanza di Frannie, con l'intenzione di chiederle se era disposta a seguirlo nella riabilitazione del patriarca e, quando entrò, si rese conto che stava preparando la valigia.

"Stai scappando?", chiese ironico, temendo di non essere molto lontano dalla verità.

"Vedila come ti pare. Qui non ho più motivo di restare", rispose lei asciutta, piegando un asciugamano e riponendolo con cura sopra a una pila di vestiti.

"Potrei aver bisogno di un'infermiera per il signor Ardlay", tentò.

Quando si voltò, immaginò subito ciò che stava per uscire dalle sue labbra: "Trovati un'altra infermiera, Adrian. Io non sono in grado di prendermi cura di lui".

Lui camminò per la stanza, senza guardarla, facendo un ultimo, disperato tentativo di far leva sul suo orgoglio professionale: "Ma come? L'inflessibile e professionale Frannie Hamilton, che è stata crocerossina durante la guerra, si arrende davanti a un paio di occhi chiari?".

"Smettila, per favore! Sì, va bene? Che sorpresa! L'occhialuto gendarme è una donna con un cuore che batte e si è innamorata dell'uomo sbagliato. Non mi sento in grado di stargli vicino senza che le mie mani tremino e la mia anima venga sopraffatta. Non potrei nemmeno mettergli una flebo o prendergli la temperatura e questo è tutt'altro che professionale! Ma è il mio unico limite e ti chiedo di rispettarlo!". La voce vibrava di rabbia e i gesti concitati gli fecero capire che aveva tentato di reprimere i suoi sentimenti fin troppo.

Chiuse gli occhi, sconfitto: "Mi dispiace, Frannie. Non volevo costringerti a rimanere. Ho capito, non ti obbligherò di certo: torna pure al Santa Joanna. Vorrà dire che ci rivedremo lì quando il mio lavoro sarà finito".

Rivederla, anche solo come collega, gli sarebbe bastato. Doveva bastargli.

"Non vado al Santa Joanna", disse chiudendo la valigia con uno scatto, la voce fredda. "Vado in Francia. C'è ancora bisogno di infermiere. Molti soldati che hanno combattuto hanno sviluppato patologie a lungo termine e alcuni ospedali sono ancora in fase di ricostruzione".

La tristezza pervase il cuore di Adrian, il gelo calò sul petto e il senso di perdita lo avvolse come un manto oscuro: "Quindi preferisci andare lontano per dimenticare, Frannie?".
"I miei motivi personali non ti riguardano", dichiarò allontanandosi anche da lui, sempre di più.

Sapeva che era irrazionale, specie per un uomo di scienza come lui ma, proprio come Frannie, non poteva impedirsi di provare dei sentimenti. La prese delicatamente per le spalle, chiudendo la distanza tra loro: "Resta con me, ti prego. Io ti amo", supplicò.

Lei distolse lo sguardo: "Adrian, per favore, ne abbiamo giù parlato", lo allontanò con un gesto ma lui l'afferrò di nuovo. Desiderava solo toccarla e prolungare quell'istante in eterno.

"Lo so che non mi ami e non m'importa. Lasciami essere tuo amico, io ti aspetterò". Era la sua ultima possibilità di non perderla.

Frannie, allora, fece qualcosa che lo lasciò di stucco. Si tolse gli occhiali e con essi sembrò spogliarsi anche della sua freddezza. Gli prese le mani e lo guardò dritto negli occhi, facendogli desiderare solo di baciarla e non lasciarla andare mai più. Invece rimase immobile, godendosi quel momento magico solo per loro due.

"Adrian", anche la sua voce suonò più dolce, "nella mia vita non ho avuto mai nessuno che mi amasse, neanche la mia stessa famiglia. Sono dovuta andare avanti da sola, costruendomi una corazza che mi aiutasse a vivere senza mai avere il sostegno di nessuno, contando sulle mie forze sempre e comunque. Volevo fare l'infermiera e l'ho fatto. Per me è diventata una missione, l'unico scopo, ed è per questo che sono partita al fronte. Quando sono tornata mi sono chiesta se, da qualche parte nel mondo, ci fosse qualcuno che mi avrebbe mai amata: me, la scialba e rigida infermiera Hamilton".

"Per me sei la donna più bella del mondo, perché il tuo fascino viene irradiato dalla tua anima. E non sei affatto scialba, anzi... i tuoi capelli, il tuo sguardo, il tuo corpo...", fu tentato di accarezzarla, ma la mano rimase sospesa a mezz'aria e lei vi intrecciò la sua in un gesto di confidenza che forse sarebbe rimasto l'unico.

"È meraviglioso sapere che un uomo come te mi apprezza e mi ama, davvero. Sono lusingata ma so che non è un 'grazie' quello che vuoi da me. E io non posso che offrirti questo. Contro la mia volontà e la mia stessa logica, il mio cuore appartiene qualcuno che non sarà mai mio. Mi dispiace che sia andata così. Non sai che darei per potermi innamorare di te".

Adrian sentì gli occhi bruciare e inghiottì le lacrime, conscio che quello sarebbe stato un addio: "Frannie", articolò con voce rotta, stringendo la mano che era intrecciata con la sua e avvicinandola a sé con l'altra dietro la schiena.

Sorprendendolo, con il volto arrossato e gli occhi chiusi, Frannie si sporse su di lui e lo baciò dolcemente. Gli sfiorò le labbra con una tenerezza struggente e una lacrima infida gli scese sul viso a quel contatto. Quando si staccò, vide che anche lei stava piangendo: "Perdonami, Adrian. Cerca di essere felice. Addio".

Quasi correndo, prese la valigia e uscì dalla stanza, chiudendo la porta senza fare troppo rumore.

Adrian rifletté che Frannie era entrata nella sua vita allo stesso modo: in punta di piedi, in silenzio. Nella medesima maniera gli era penetrata nel cuore, nella pelle, e non credeva l'avrebbe mai dimenticata. Come uno sciocco, si ritrovò a sperare che un giorno l'avrebbe rivista.

Si volse a guardare quella porta, soffocando un singhiozzo e asciugandosi gli occhi con il dorso della mano: "Addio, amore mio", disse alla stanza, ora vuota come il suo cuore ferito.
 
- § -
 
"È tornato, vero?". Annie sussultò. Candy era rimasta così in silenzio che si era quasi addormentata sulla poltrona. Avevano parlato a lungo, poi lei si era rinchiusa nel mutismo.

Non aveva voluto sentire ragioni, non voleva discuterne. Il fatto che lo zio William avesse ordinato la caccia alla volpe per lei era sufficiente a condannarlo. A nulla erano valse le spiegazioni di Annie sui costumi e le abitudini che lui non aveva mai condiviso, sul fatto che l'avesse sempre amata come una sorella e come un'amica.

"Magari anche come una donna, o sbaglio?", aveva sbottato lei, sorprendendola.

"Io... io...", Annie non sapeva che risponderle, fin dove spingersi. La verità era che anche lei ne sapeva poco: per quanto la riguardava la loro storia era piuttosto recente, anche se affondava le radici in un passato lontano.

"Ho perso la memoria ma non sono stupida. Dimmi, lo ricambiavo? Stavamo per sposarci?", aveva domandato, incalzandola.

Annie aveva chiuso gli occhi, determinata: "Da quello che so non l'hai mai incolpato di nulla e gli hai sempre voluto un gran bene. Qualunque altra cosa dovresti chiederla a lui".

In quel momento, Candy aveva le mani poggiate sulla toeletta e la guardava dal riflesso dello specchio, attendendo la sua risposta.
"Sì, è tornato", le disse.

Lei si era raddrizzata, camminando per la stanza come se stesse pensando: "Forse dovrei affrontarlo. O forse dovrei semplicemente ignorare tutto questo e andarmene di qua. Non mi avete sempre detto che ero una persona molto indipendente? Che ho sempre desiderato vivere la mia vita senza restrizioni?".

Annie era sbalordita: Candy voleva davvero andarsene? Ma se era a malapena in grado di uscire da quella stanza!

"Sì, ma è diverso! Sei senza memoria, temi gli spazi aperti e...".

"Chiederò al dottor Carter di guarirmi dall'agorafobia".

"E noi siamo la tua famiglia!", quasi gridò Annie, con rabbia. Non poteva accettare che Candy se ne andasse così, senza neanche tentare di recuperare il suo intero passato.
"La mia famiglia?". Candy restrinse gli occhi, come assaporando quelle parole e cercando di decidere se le piacevano o meno. "A quanto mi risulta la mia famiglia mi ha abbandonata su una collina appena nata. Sono un'orfana. E anche tu".

Annie, che era rimasta seduta, si alzò di scatto con il desiderio di schiaffeggiarla. Non sopportava quelle sue uscite cattive, le ricordavano troppo Eliza: "Sei cresciuta in mezzo a persone che ti amano e gli Ardlay ti hanno adottata!", ribadì evitando di parlare di sé.

"Il mio patrigno o tutore è innamorato di me! E io lo odio!", sbottò lei facendole defluire il sangue dal viso.

Candy che odiava Albert. Ogni volta che lo diceva, o si riferiva a lui in termini simili, qualcosa le si torceva nel cuore. Perché un amore così bello, così sofferto, così cresciuto nel silenzio degli anni doveva finire in quella maniera?

Le venne in mente Archie e tutto quello che avevano passato e si sentì fortunata: era ancora in tempo a recuperare le cose con lui e, forse, gli avrebbe parlato quella sera stessa. Se davvero lui si era reso conto di amarla totalmente, lei non avrebbe chiuso quella porta.

Chiudere la porta all'amore aveva fatto soffrire Candy più di una volta, anche se in realtà non era mai stata colpa sua.

"Tu non lo odi, Candy. Lui c'è sempre stato per te. E tu per lui", disse mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

"No, no, NO!", esclamò lei mettendosi le mani sul capo, scuotendo la testa come se stesse avendo una delle sue crisi. Poi si calmò, riflettendo e accadde quello che aveva temuto: "Io so solo che l'ho incontrato per caso da piccola e che poi mi sono innamorata di suo nipote. E che poco prima del mio incidente eravamo... cosa? Fidanzati? Amanti? Innamorati clandestini? Ma nel frattempo cosa è accaduto?! Quando ci sarebbe stato per me? Mi ha adottata e abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto?".

L'urgenza con la quale Candy le stava facendo tutte quelle domande la misero in difficoltà. Cosa poteva raccontarle? Che in realtà il prozio William non era altri che un vagabondo che le era stato amico fin da quando era ragazzina e che le aveva mentito? Avrebbe sicuramente peggiorato le cose! E se fosse saltata direttamente al momento in cui anche lui aveva perso la memoria e avevano vissuto insieme avrebbe potuto trarre le conclusioni sbagliate.

"Candy, non posso parlarti io di queste cose. Dovete risolverle tra voi, non è giusto", disse seria, asciugandosi gli occhi. "Lascia che si riprenda da tutta questa storia che gli è piombata addosso e parlane con lui e con il dottor Carter. Te l'ho già suggerito, ricordi?".

Candy fece un verso stizzito: "Vigliacca!", sbottò. "Di sicuro tu ne sai molto e non hai il coraggio di parlarmene".

Annie allargò le braccia, esasperata: "Ma se fino a poco tempo fa avevi delle crisi non appena si parlava del passato! Ora non vedi l'ora di conoscerlo? E cosa pensi di fare se te ne vai? Dici cose senza senso!".

"Sono stufa di vivere in questo limbo!", scattò lei, sedendosi sul letto e prendendosi la testa fra le mani.

"E pensi che fuggendo o trattando male le persone che ti amano ne uscirai prima?", rimbeccò Annie inginocchiandosi davanti a lei e prendendola per le spalle. "Reagisci, Candy, il tuo passato non è così doloroso da non poterlo ricordare! Hai sofferto ma hai vissuto anche tanti momenti felici! Ti ricordi di Patty? Lei era innamorata di Stair e lui è morto in guerra! Ora vive in Florida con sua nonna e si strugge ogni giorno perché non lo rivedrà mai più!".

"Perché mi racconti tutto questo? Anche il mio Anthony è morto!", protestò Candy, scostandosi da lei con rabbia.

"Ma tu hai amato di nuovo! Hai superato la sofferenza e...". Annie tacque e capì che stava andando troppo oltre. Avrebbe rischiato di parlarle di Terry e non sapeva se fosse giusto farlo.

"Adesso capisco", riprese Candy a voce bassa. "Credevo di essermi innamorata di quel William perché gli somigliava. Ora tutto mi è chiaro".

Annie scosse la testa con vigore: "No, non è così. Sono certa che non è così".

"E te ne ho mai parlato, cara Annie? O è solo una tua supposizione?", le domandò con tono aggressivo.

La porta si aprì in quel momento e Candy sbottò: "Non si bussa più?!".

"Perdonami, Candy, ma vorrei parlare con Annie. Me lo permetti? Oltretutto, urlando in questo modo non arriverai da nessuna parte". Il tono di Archie, la sua postura... tutto indicava ad Annie che il ragazzo aveva preso delle decisioni ed era pronto a riprendere le redini della sua vita. Non sembrava neanche più a disagio davanti a Candy. "Mi spiace, non volevo origliare ma gridavate così forte che ho sentito tutto. E sono d'accordo con Annie: qui tutti ti vogliamo bene e siamo la tua famiglia. Con questo tuo comportamento capriccioso e ostruttivo fai del male innanzitutto a te stessa. E a chi ti ama. Annie?".

Lei rimase per un attimo incantata a guardare quel ragazzo, che fino a poco prima le era sembrato così fragile, diventare pacato e deciso come ricordava di aver visto solo Albert. Probabilmente era addirittura arrossita.

Si alzò e si scusò con Candy.

"Ma sì, andate pure a tubare, piccioncini. Io non scapperò, almeno non stasera. Divertitevi!", disse sdraiandosi sul letto e mettendosi le braccia dietro la nuca.

Quando chiusero la porta, Archie le chiese: "Sei sicura che possiamo lasciarla sola?".

Annie si strinse nelle spalle: "Non scapperà certo dalla finestra come faceva una volta. Potremmo avvisare il dottor Carter, magari possono parlare della sua curiosità rispetto alla storia con Albert e decidere il da farsi".

Archie la guardò con serietà e la costrinse ad allontanarsi fino ad arrivare alla porta della stanza che era stata di Frannie, come se non volesse rischiare di farsi sentire: "Annie, c'è un problema con Albert. Il dottor Carter sta andando a parlare con lui e credo voglia approfondire alcuni aspetti... psicologici".

Annie aggrottò la fronte. Aveva sognato di parlare con Archie di loro due, invece usciva fuori un altro problema: "Parli di Candy, vero?", chiese sperando di aver capito male.
Lui scosse la testa: "No, Annie. Pare che da tempo Albert si rifiuti di mangiare. Tu non lo hai visto, ma io sì. La zia Elroy stava per sentirsi male l'altro giorno, in tribunale. È l'ombra di se stesso".

Annie si portò una mano alla bocca e soffocò un'espressione di stupore. Senza parlare, lo seguì in un'altra stanza.
 
- § -
 
"Albert?". Qualcuno lo stava chiamando, ma le palpebre erano così pesanti che non ne volevano sapere di aprirsi.

"William Albert Ardlay, si svegli!", tuonò la voce più vicina.

Con un grugnito di disappunto, si voltò verso lo scocciatore e cercò di aprire gli occhi per vederlo. Si sentiva la testa e le membra così pesanti che pensò fossero di piombo: "Che c'è, è ora di andare alle docce?", chiese confuso.

"No, è ora di mangiare".

Albert mise a fuoco qualcosa che non avrebbe mai creduto di vedere, suggerendogli che forse si trattava di un sogno. Il dottor Carter, lo psichiatra di Candy, era in piedi di fianco al suo letto con un vassoio di cibo tra le mani.

E non erano né fagioli né uova. Dall'odore avrebbe detto che era arrosto.

Il suo stomaco brontolò ma gli mandò messaggi contraddittori. Lo colse una specie di nausea che si contrapponeva al vuoto che avvertiva.

"Perché è salito lei con la cena?", chiese mettendosi a sedere mentre lui poggiava il vassoio sul comodino.

"Perché voglio parlarle e sincerarmi di quanto riesce a mangiare. Ho dovuto discutere con la cuoca, con una cameriera e anche con sua zia Elroy, ma alla fine mi hanno concesso questo piccolo strappo alla regola. Però ho dimenticato il grembiule", concluse facendo l'occhiolino.

Albert ridacchiò: gli piaceva quell'Adrian, aveva un carattere molto simile al suo, sempre spensierato e pronto a sdrammatizzare. Almeno fino a qualche tempo prima.
"Grazie, Adrian. Immagino saprà che non riuscirò a finire tutto", disse lanciando un'occhiata ai piatti.

"Mi stupirebbe il contrario, viste le dimensioni ridotte che deve aver assunto il suo stomaco. Ma la prego, prima di tutto vorrei conoscere il suo peso".

Albert sbatté le palpebre e guardò dove gli indicava Carter. Accanto all'armadio c'era effettivamente una bilancia: "E quella?".

"L'ho fatta portare qui mentre dormiva", spiegò mentre lui cercava di alzarsi, con non poca fatica. Scoccò un'occhiata all'orologio sul comodino e rimase stralunato.
"Credevo che avrei dormito solo un paio d'ore!", esclamò sentendosi colpevole. Chissà da quanto tempo lo aspettava il povero Adrian.

"Non si preoccupi, Albert. È normale nelle sue condizioni. Ora, per favore, salga sulla bilancia e cerchi di ricordarsi quanto pesava prima di vivere questa brutta avventura".

Le mie condizioni.

"La verità è che non lo so. Non è che controllassi il mio peso prima... anzi, forse non l'ho mai fatto in vita mia", dichiarò obbedendo comunque al medico.

Quando l'ago si fermò, Carter gli si accostò e vide la sua mascella contrarsi: "Sa almeno quanto è alto?".

"Dottor Carter... Adrian, se sta cercando di fare una proporzione perfetta tra il mio peso e la mia altezza posso dirle senza problemi che, a occhio e croce, sospetto di aver perso almeno ventidue libbre**. Forse anche trentadue o trentatré***. È così rilevante, adesso?". Albert si passò una mano tra i capelli, frustrato e anche un po' infastidito dalle sue domande. Chiuse il pugno quando si rese conto che gli erano rimasti di nuovo tra le dita.

Gli occhi del medico passavano dalla sua mano alla bilancia e lui capì che non poteva nascondergli nulla. Si era ripromesso di affrontare la questione, ma non voleva sentirsi messo sotto a una specie di microscopio. Certo, il valore che aveva letto sulla bilancia sarebbe stato adeguato per una signora un po' sovrappeso e non per un uomo della sua età, ma era certo che avrebbe recuperato in fretta, ora che si trovava a casa.

Peccato che abbia cominciato a mangiare male prima ancora di finire in galera.

Si riscosse da quei pensieri e sedette sul letto, prendendo diligentemente il vassoio: "Che profumino invitante! Mia zia deve aver mobilitato l'intera cucina, per l'occasione".

"Già, lo sospetto anche io", disse Adrian sedendosi dall'altra parte della stanza. Albert gliene fu grato. Non sarebbe stato molto a suo agio sapendo che lo controllava a vista.
Prima di assaggiare l'arrosto provò la zuppa, che era ancora calda. Gli aromi delle verdure e dei legumi gli inondarono le narici e, al primo boccone, le sue papille gustative sembrarono rinascere.

"È bello sentire di nuovo i sapori di casa", disse commosso.

"Oh, quella zuppa è deliziosa. Io ne ho prese due porzioni, a cena", ribatté lui sorridendo.

"Quindi ha già mangiato?", chiese assaggiando l'arrosto.

"Sì, ho chiesto espressamente che per questa sera le fosse concesso di mangiare da solo mentre discutevamo. Spero non le dispiaccia".

"No, tutt'altro. Non avrei potuto rispondere a tutte le domande che mi sarebbero state rivolte. Credo di avere bisogno di una buona notte di sonno prima di ricominciare con la mia vita", aggiunse bevendo un sorso d'acqua.

Fece un respiro profondo. Lo stomaco fece una capriola e Albert lottò per mantenere il contenuto al suo posto.

"Come sospettavo", disse Carter alzandosi e andando alla finestra.

"Di cosa parla?", chiese guardando il contenuto quasi intatto dei piatti.

"Albert, è arrivato a un punto tale che il suo stomaco si è rimpicciolito alle dimensioni di quello di un bambino piccolo. Ma lei è un uomo adulto e, se gli occhi non m'ingannano, la sua altezza sfiora i ****sei piedi. Ora è come se lei fosse un'automobile di ultima generazione con un piccolo motore che non può farla muovere. Capisce cosa intendo?".

Sospirò: "Sì, ho capito perfettamente". Un singhiozzo gli sfuggì dalle labbra, come se avesse mangiato un bue intero.

"Ha voglia di vomitare?", gli domandò scoccandogli un'occhiata di traverso.

Albert fece una smorfia: "In effetti sì, ma mi tratterrò".

"Beh, buona fortuna", ridacchiò Adrian. Poi, seriamente: "Non ho nemmeno più un'infermiera che possa metterle una flebo per reidratarla, quindi ce la dovremo cavare da soli se non vogliamo che finisca in ospedale".

Albert posò il vassoio e si alzò, massaggiandosi lo stomaco ribelle e cercò di camminare per indurre il cibo a rimanere giù, accostandosi a lui: "Frannie è andata via?", chiese, incuriosito.

"Sì. La signorina Candy non aveva più bisogno di un'infermiera e lei... se n'è andata in Francia a lavorare come volontaria". Il suo tono era così cupo che ad Albert venne in mente che c'era dell'altro. Gli occhi tristi e l'espressione provata di Adrian erano quelli di un uomo che abbia ricevuto una delusione d'amore.

Aprì la bocca per chiedergli lumi quando lui si riscosse, voltandosi a guardarlo: "Bene, Albert, mi dica quando ha cominciato ad alimentarsi in maniera così scorretta da arrivare a questo".

Albert chiuse gli occhi, pronto a confidarsi: "Credo proprio che tutto sia cominciato quando Candy ha avuto l'incidente. Ero preoccupato e avevo poco tempo da dedicare a me stesso. Quando lei è tornata a casa sono stato arrestato e, invece di nutrirmi meglio, ho ricevuto un vitto degno... di un carcere".

Adrian fece un sorrisetto sbilenco: "Bene, forse dopotutto non sarà così complicato riportarla indietro".
 
- § -
 
* circa 5 chili
** circa 10 chili
*** circa 15 chili
**** circa un metro e ottantacinque

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Capitolo 47
*** Decisioni e pentimenti ***


"Ho deciso che tornerò a studiare", disse Archie guardandola negli occhi. Erano nella sua stanza e sedevano uno di fronte all'altra, su due poltrone identiche.

Annie strinse i braccioli e si protese verso di lui: "Vuoi tornare nel Massachussets?", chiese con una nota d'allarme nella voce.

Lui annuì: "Mi manca almeno un altro anno per laurearmi e intendo presentarmi alla sessione autunnale".

Annie poteva avvertire sentimenti contrastanti agitarsi nel suo cuore, ma cercò di rimanere razionale: "Candy ha bisogno di noi", disse a voce bassa, fissandosi i piedi.

"No", dichiarò Archie alzandosi in piedi e camminando per la stanza, i suoi passi che risuonavano sul pavimento implacabili come le sue parole, "Candy non ha bisogno di noi, adesso. Candy ha bisogno di Albert e del suo medico per ritrovare se stessa. Io, come hai ben visto, non sono stato molto utile. Anzi, è colpa mia se adesso è convinta di odiare mio zio".

"Non è colpa tua, stavamo parlando e lei ci ha sentiti! Casomai la responsabilità è di entrambi", puntualizzò alzandosi anche lei, incapace di rimanere ferma.

"Beh, la cosa importante è che io devo riprendere in mano la mia vita. Durante l'estate riscatteremo il nome degli Ardlay e dei Cornwell e poi tornerò da dove avevo lasciato. Annie, tu non volevi andare al conservatorio, o fare beneficienza, o qualunque altra cosa mi avessi detto?". Sembrava davvero interessato alla programmazione del loro futuro.

Un futuro nel quale sarebbero stati separati.

Annie era stufa di parlare, però. Non voleva più discutere delle loro vite e del loro rapporto.  Si ricordò di ciò che aveva detto a Candy su Stair e Patty e di quello che lei e Archie avevano perso e, invece di rispondere alle domande del suo ex fidanzato, gli chiese: "Baciami, per favore".

Gli occhi di lui si spalancarono, la bocca si schiuse e un sussurrò gli sfuggì dalle labbra: "Cosa hai detto?".

Annie, colta da un'ondata di emozioni violente, sentendo che lo stava perdendo, si lasciò andare a quello che le dettava il cuore. Chiuse la distanza tra loro, poggiandogli le mani sul torace e protendendo il viso verso di lui: "Ti ho chiesto... di baciarmi", ripeté con le guance che le andavano a fuoco.

Il suo sguardo divenne languido, come se si stesse arrendendo. Le sue palpebre di socchiusero: "Annie", le soffiò sul viso.

Sentì il suo respiro caldo accarezzarle le labbra e, d'istinto, se le leccò con la punta della lingua. Quel gesto fu come un incentivo, perché Archie non perse altro tempo: le prese il volto tra le mani, i pollici a sfiorare i lati della sua bocca e la baciò.

Fu travolgente.

Le bocche si aprirono quasi nello stesso momento e, nonostante la sua inesperienza, Annie si affidò ad Archie e al proprio istinto, esplorando e lasciandosi esplorare, avvertendo mille scosse elettriche ogni volta che le loro lingue si toccavano un una carezza umida.

Le mani di Archie lasciarono il suo viso per scendere sulla schiena e i loro corpi furono ancora più incollati quando la strinse forte all'altezza della vita, per poi scendere sui fianchi.

Annie si staccò per riprendere fiato e lo chiamò per nome.

Lui ripeté il suo e tutto ricominciò, in una giostra di emozioni e tocchi che le fece tremare le gambe.

Era quella la passione? Era quello l'amore di cui tante volte aveva letto nei libri? Ed era così che cominciava quell'atto così intimo da poter essere condiviso solo da un marito e da una moglie? Se così fosse stato, non poteva certo essere spiacevole, perché tutto ciò che desiderava era che le mani di Archie, che ora le accarezzavano in modo sensuale la schiena, venissero a contatto con la pelle nuda.

E, Dio del Cielo, non stava proprio tentando di sbottonarle il vestito, mentre il bacio tornava esigente e più ardente di prima, facendoli ansimare?

"Annie", gemette lui nella sua bocca.

"Non ti fermare, Archie", lo implorò domandandosi che fine avessero fatto le sue buone maniere e tutti gli insegnamenti che le aveva dato sua madre.

Tutto svanito, cancellato, arso dal fuoco che divampava attraverso il corpo e le dita di Archie che, nel frattempo, avevano finalmente trovato la sua schiena nuda. Il suo tocco la incendiò e lei si strinse al ragazzo allacciandogli le braccia dietro alla nuca sentendolo, tutto il suo essere, che la desiderava tanto quanto lei desiderava lui.

Stavano letteralmente bruciando e lei era pronta a concederglisi senza riserve.

Invece, lui si staccò di scatto, voltandole le spalle e appoggiandosi al muro col respiro corto: "Basta, Annie! Quello che stiamo facendo non è giusto. Dobbiamo fermarci".

"Ma tu mi ami e io ti amo! Lo so, non siamo sposati, ma... non mi importa. Archie, non credevo che l'avrei mai detto, ma io... sono pronta a saltare le tappe. Possiamo sposarci quando hai finito l'università, o anche prima. Potrei venire con te!", aggiunse come se avesse avuto un'illuminazione.

"No, Annie!", quasi gridò lui, lasciandola di stucco. Poi si addolcì, passandosi una mano sui capelli e avvicinandosi di nuovo a lei: "Annie, sarebbe molto facile per me fare l'amore con te qui e ora. Non desidero altro. Ma ti mancherei di rispetto e ti amo troppo per farlo".

"Archie", ansimò lei, ancora sconvolta dalle sensazioni inedite che stava provando, turbata fin nel profondo del suo essere.

"Dammi solo qualche istante, Annie", riprese lui, cercando di controllare il respiro.

Si era lasciata andare davvero come una donnetta qualsiasi e non come una signorina dell'alta società, quale era sempre stata. Ma non era cambiata proprio perché si era stancata di tutte quelle convenzioni? Ora, mentre guardava Archie tentare di ricomporsi dopo quello scambio appassionato che doveva averlo scombussolato almeno quanto lo era lei, Annie capì l'enormità di quello che stavano per fare.

Un atto di unione che li avrebbe uniti per sempre. Un salto così enorme che non poteva essere fatto prima di aver chiarito le cose tra loro.

"Mi dispiace, Archie. Non so cosa mi sia preso... Prima, parlando con Candy del rapporto tra lei e Albert, ho ripensato a Patty e...". Si morse il labbro, vedendolo raddrizzarsi e voltarsi con sguardo serio. "Scusami, non volevo ricordati qualcosa di doloroso".

Archie scosse la testa: "Ti è venuto in mente che lei e Stair non potranno mai più essere felici, non è così?", finì per lei, carezzandole una guancia con dolcezza.

"Sì", rispose sentendo gli occhi bruciare. "Vedo intorno a me tanti amori che sarebbero potuti diventare meravigliosi, rendere felici le persone... e che invece sono finiti in maniera tragica o non trovano il modo di sbocciare". Alzò il viso per guardarlo, lasciando le lacrime libere di esprimere l'emozione violenta che la stava struggendo, lasciando che lui le asciugasse mentre l'ascoltava con attenzione. "Ero così certa di averti perso, che quando mi hai confessato quello che avevi capito di provare per me ho provato rabbia. Sì, rabbia, perché mi sentivo tirata in due direzioni diverse: volevo ritrovare me stessa, riscattare la mia vita lontana da te e d'improvviso mi ritrovavo di nuovo a desiderare disperatamente il tuo amore. Poi è successo... tutto questo e non ho avuto più tempo per pensare a nulla".

Riprese fiato, prese le mani di Archie e si sedette senza lasciarle. Lui posò un ginocchio a terra, rimanendo alla sua altezza come un innamorato che stia per fare una dichiarazione importante: "Ora sono qui, Annie. Sono qui per te. Ti amo più della mia stessa vita, senza più dubbi né incertezze. Anzi, una certezza ce l'ho: voglio costruire un futuro per noi, ma senza bruciare le tappe. Voglio fare tutto per bene, capisci?".

Lei gli sorrise, un'altra lacrima che si staccava dalle sue ciglia per aver sentito di nuovo quelle parole uscire dalle sue labbra: "Sì e ti sono grata per essere così. Io stessa desidero mettere ordine nella mia vita ma nello stesso tempo non voglio aspettare troppo. Il destino è così imprevedibile e ogni giorno rischiamo di perdere chi amiamo per una guerra, per una malattia, per un imprevisto... non voglio che tutto diventi un'attesa infinita, Archie. Ti aspetterò se il tuo desiderio è finire gli studi prima di prendere le redini della famiglia con Albert, ma non metterci troppo, va bene?".

Lui la baciò con tenerezza, asciugandole anche quell'ultima lacrima, poi alzò la mano destra senza abbandonare al sua posizione semi inginocchiata: "Giuro sul mio onore che porterò a termine gli studi e poi annuncerò di nuovo il nostro fidanzamento. Ti sposerò ancor prima che la zia Elroy possa avere il tempo di dire 'Archibald!'!", concluse in un'imitazione così fedele della prozia che Annie scoppiò a ridere di cuore.

"Grazie, Archie. E io nel frattempo vedrò di fare qualcosa per me stessa, anche se credo che il mio compito con Candy non sia ancora concluso. Mi sta facendo un mucchio di domande, ma penso che a breve non sarò più io a doverle rispondere".

Archie si tirò in piedi e l'aiutò ad alzarsi: "Sei stata molto coraggiosa con lei e sono certo che i suoi progressi maggiori li deve a te. Ora tutto è nelle mani del dottor Carter e di Albert. Spero solo che si riprenda abbastanza da poter affrontare tutto questo".

Annie si accigliò: "Che gli è successo? A cena non è sceso e la zia Elroy sembrava davvero preoccupata. Ancora non si è ripreso dalla ferita che gli hanno inflitto in carcere? Mi hai accennato a un problema psicologico, ma...".

Archie sospirò, stringendola in un abbraccio affettuoso che la fece rabbrividire e desiderare di rimanere in quella posizione ancora a lungo: "No, la ferita è guarita, grazie a Dio, ma lui come ti ho spiegato è molto deperito e ha... sviluppato un disturbo alimentare che gli impedisce di nutrirsi a dovere. Carter se ne sta già occupando".

"Un... disturbo alimentare?", ribatté lei, stupita. "Ma, Archie, da quel poco che so è qualcosa che affligge alcune donne con problemi di linea. O comunque soggetti psicologicamente fragili".

"Sì, ma lui è stato a lungo travolto dalle preoccupazioni per Candy e il carcere non l'ha di certo aiutato. Sono settimane, se non mesi che non ha tempo o voglia di mangiare come si deve, e sospetto che l'appetito gli sia andato via a causa del dolore e dei pensieri".

Annie chiuse gli occhi, crogiolandosi nel calore che emanava il petto di Archie e cullandosi con il battito del suo cuore. Quel cuore che ora gli apparteneva davvero: "Spero tanto che un giorno possano essere felici. Se lo meritano più di chiunque altro".

"Lo spero anche io, Annie, lo spero anche io", mormorò carezzandole i capelli, il mento poggiato sulla sua testa.
 
- § -
 
Elroy Ardlay guardava con attenzione Albert che consumava la sua colazione come se si stesse concentrando su un compito molto difficile.

Il dottor Carter era accanto a lui e mangiava in silenzio, non prestandogli attenzione, mentre Archibald ed Annie avevano preferito tenere compagnia a Candice che, come al solito, aveva chiesto di poter fare colazione nella sua stanza.

Erano tutti insieme sotto allo stesso tetto ma, come sempre per colpa di quell'orfana, sembravano eternamente divisi. Beh, non era del tutto corretto. Nell'ultimo periodo, a dividerli erano stati i Lagan.

Con un brivido che le correva lungo la schiena, Elroy rivisse con orrore il giorno del processo che, anche se era stato determinante per la liberazione di William, le aveva svelato fino a che punto Neil ed Eliza avessero tramato alle loro spalle.

Erano riusciti a coinvolgere la mafia e forse un uomo che era a capo di una delle loro vecchie aziende era morto proprio per mano sua. Archibald e George le avevano spiegato, per sommi capi, che era stato attuato un programma di protezione perché i Lagan arrivassero sani e salvi in tribunale ed era stato coinvolto anche il commissario di polizia che aveva comunicato l'erronea morte di Candy per stringere il cerchio attorno ai malviventi che avevano la loro base in Florida.

Quando aveva scoperto che gli Ardlay erano stati sul punto di restare coinvolti nelle maglie oscure e pericolose della mafia, si era sentita mancare. Era stata portata in ospedale, subito dopo l'udienza, dove le avevano trovato la pressione alta ma, a quanto pareva, non correva rischi.

A patto che la sua vita rimanesse tranquilla e priva di eventi traumatizzanti.

Aveva lottato con tutte le sue forze per cercare di non pensare più a Sarah e ai suoi figli, a Neil in carcere, a Eliza in una casa di cura psichiatrica e a Raymond che, insieme a sua moglie, si trovava in detenzione domiciliare in attesa di accertamenti e anche per la loro stessa sicurezza.

Un giorno, avrebbe parlato con loro due. Avrebbe raccontato dei movimenti sospetti che aveva notato nei due ragazzi e forse si sarebbe anche detta costernata per non averne parlato prima che le cose precipitassero.

Ma non ora.

Ora il suo nipote diretto, l'unico figlio rimasto in vita dell'amato fratello, aveva molto più bisogno di lei. Inoltre, doveva occuparsi di rimettere in piedi l'immagine della famiglia nel più breve tempo possibile.

"La colazione non è di tuo gradimento, William?", disse riscuotendosi dai suoi pensieri e pulendosi la bocca con il tovagliolo. Lei e Carter avevano finito.

"No, zia, ti assicuro che è tutto molto buono. Sto riscoprendo sapori che non credevo avrei potuto provare di nuovo a breve. Il fatto è che... mi sento già pieno", rispose lui con un sorrisetto contrito.

Scoccò un'occhiata al toast rimasto e alla tazza di tè bevuta per metà: "Una fetta di pane e mezza tazza di infuso non saranno certo sufficienti a coprire le tue ossa sporgenti. Hai intenzione di sfilare a Parigi, prossimamente?".

Lui ridacchiò ed Elroy fu quasi commossa nel sentire di nuovo la risata franca e dolce di suo nipote: "Occorre che io proceda con gradualità per ordine del dottore, seguendo quello che mi dice lo stomaco. Giusto, Adrian?", disse facendo l'occhiolino al medico.

Lei li guardò, stupita: in apparenza, quei due avevano stretto amicizia: "Con gradualità?".

Il dottor Carter si alzò da tavola, posando il tovagliolo vicino al piatto vuoto: "Signora Ardlay, mi consenta di spiegarle la situazione di suo nipote dal punto di vista medico: quando sono andato a visitarlo in prigione e ho parlato con lui, la prima cosa che mi è venuta in mente è stato un disturbo alimentare di scoperta abbastanza recente, denominato 'anoressia nervosa'".

"Non ne ho mai sentito parlare", intervenne stupita. Le poche volte in cui aveva tempo di leggere, Elroy prediligeva testi storici o riguardanti i suoi antenati, non certo quelli di medicina moderna.

"Certo", annuì Carter passeggiando per la stanza, "si tratta perlopiù di qualcosa che riguarda le donne che non si sentono a loro agio con il proprio corpo". Tra Albert e Carter passarono sguardi divertiti, come se avessero fatto qualche battuta proprio su quella peculiarità della patologia. A Elroy, però, non veniva affatto da ridere.

"Ebbene?", incalzò trattenendosi appena dal battere un pugno sul tavolo.

Il medico si schiarì la voce e continuò: "Naturalmente, nel caso di Albert, che è un uomo forte e sano, le cose sono un po' diverse e i fattori scatenanti sono stati ben altri. In primis, mi ha raccontato di aver attraversato un periodo molto frenetico e pieno di preoccupazioni quando la signorina Candice ha avuto l'incidente. A tutti è capitato di sentirci chiudere lo stomaco o di avere poco tempo per nutrirci a sufficienza quando una persona cara è malata".

"In effetti già allora mi accorsi che William era molto dimagrito, ma speravo migliorasse una volta che Candice fosse tornata a casa. Invece ti ho visto poche volte a tavola, con la scusa del lavoro o... di lei", terminò senza potersi impedire di usare un tono infastidito.

"Lo so, zia, mi rendo conto di aver trascurato me stesso facendoti preoccupare e me ne scuso. Ti giuro che mi ero reso conto di essermi indebolito ed era mia intenzione cercare di rimediare per essere presente per tutti voi. Ma poi...", s'interruppe, chiudendo gli occhi e chinando il capo.

Una fitta di senso di colpa si irradiò nel petto di Elroy e la donna fu costretta ad alzarsi, portandosi il tovagliolo alla bocca per contenere le sue emozioni e dando le spalle a suo nipote.

Forse convinto che la sua reazione fosse dovuta al ricordo del triste periodo del carcere, Carter riprese a parlare dietro di lei: "Purtroppo la vita del carcere non è facile per nessuno e anche il signorino Archibald ci ha raccontato di non essere riuscito più di una volta a mandare giù quello che veniva proposto, mangiando solo per sostentarsi e placare i morsi della fame. Inoltre la compagnia non era certo delle migliori e Albert... William ha avuto la sorte peggiore. Già indebolito a causa degli accadimenti passati, ha subito un'aggressione che la sua famiglia ha preferito tacerle per evitarle ulteriori preoccupazioni".

La mano strinse il fazzoletto e la donna lo premette forte sulla bocca per soffocare un singhiozzo, gli occhi stretti per impedire alle lacrime di uscire.

"Se non si mangia a sufficienza per molto tempo, non solo gli organi soffrono indebolendo il soggetto, ma lo stomaco stesso non riesce più a trattenere il cibo perché si riduce di dimensione. A quel punto le opzioni sono due: l'alimentazione artificiale d'emergenza, che William ha avuto finché era in stato comatoso, e quella tradizionale poi. Quest'ultima deve però essere attenta e seguita da un medico, perché dovrà risultare nutriente ma non eccessiva o causerà un rigetto. So che il medico della prigione ha imposto delle variazioni adatte ad Albert, monitorandolo di continuo, ma stando a casa le cose andranno di certo meglio".

A quanto pareva la lunga e chiara spiegazione di Carter era terminata, ma lei non riusciva ancora a voltarsi. Era sopraffatta, annientata. Cosa aveva causato il suo silenzio? Stava per portare alla morte William per non aver espresso subito i suoi dubbi, e per che cosa? Per difendere quei due sciagurati?!

"Zia?". William aveva dovuto accorgersi delle spalle che le tremavano e sentì i suoi passi avvicinarsi. Quando la toccò leggermente, chiamandola di nuovo, la donna crollò e si gettò fra le sue braccia.

"Oh, William, perdonami! Perdonami, figlio mio! Era da quando ci trovavamo a Lakewood che mi ero resa conto che quei due stavano combinando qualcosa di strano ma non credevo... non sapevo...". Il pianto non la lasciò parlare. Elroy Ardlay, la matriarca controllata e fredda, che aveva versato lacrime discrete ai funerali di Anthony e Stair, si era appena resa conto della portata che il suo silenzio aveva avuto sugli eventi e del rischio che avevano corso.

"Calmati, zia, non fare così, è tutto passato ora". La voce dolce di William le ricordò quella di suo fratello e questo la fece solo piangere più forte.

"Mi sono lasciata trascinare dalle loro moine, ignorando la cattiveria che albergava in loro! Anche quando Eliza mi ha detto di voler allontanare Candice da te...". I muscoli del corpo di suo nipote s'irrigidirono e lui smise di carezzarle la schiena. Lo sentì trattenere il respiro e capì che aveva parlato troppo. Ma non aveva potuto farne a meno. Aveva bisogno di confessare, così come aveva visto confessare Neil in tribunale cercando il suo sguardo e il suo perdono.

Albert la scostò da sé, offrendole il proprio fazzoletto e rinunciando quando vide che stava già usando il tovagliolo che aveva tra le mani: "Ora basta, non ti fa bene agitarti così", disse cercando di essere gentile.

Ma non le sfuggirono l'espressione seria e glaciale che illuminava i suoi occhi chiari, né la linea contratta della mascella come se volesse impedirsi di aggiungere altro o fare domande. Elroy si accorse anche che erano soli: il dottor Carter doveva essersi defilato con discrezione.

"Sto bene, non preoccuparti per me. Voglio alleggerire la mia coscienza perché, semmai mi accadesse qualcosa, anche Dio possa perdonarmi", disse asciugandosi gli occhi con cura.

William tacque. Non le disse di non fare certi discorsi, né che l'avrebbe perdonata. Ma era pronta ad assumersi le responsabilità delle sue azioni. Sedette, invitandolo a fare lo stesso, e cominciò: "Come ben sai non ho mai sopportato la presenza di Candice e a Lakewood mi sono resa conto che tra voi le cose stavano diventando troppo... ambigue".

"Zia", il suo tono di voce le indicò che era pronto a negare o a dare spiegazioni, ma lei alzò una mano.

"Non ho intenzione di affrontare l'argomento ora, William", lo interruppe tornando al suo equilibrio di sempre. Tuttavia, fu con emozione malcelata che gli parlò dell'intenzione di Eliza di portarla a cavallo e del comportamento anomalo che avevano avuto sia lei che Neal per tutto il periodo in cui lei era rimasta in ospedale, menzionando anche la sera in cui la nipote le aveva dato la medicina.

Per tutto il tempo, William rimase perfettamente immobile, contraendo i pugni o la mascella quando arrivava in un punto focale del racconto e spalancando gli occhi non appena seppe che erano stati nel suo studio.

Alla fine, si sentì svuotata di un peso.

Senza dire una parola, lui si alzò e andò alla finestra. Elroy rimase seduta sulla sua sedia e non poté trattenersi dal chiedergli: "Potrai mai perdonarmi, William?".

Con le mani intrecciate dietro la schiena, i capelli biondi che gli sfioravano le spalle e la postura aristocratica nonostante la perdita di peso, ancora una volta William le fece pensare a suo fratello.

"Sai, zia, tutto quello che mi hai raccontato mi fa pensare solo che tu sia stata vittima del tuo stesso amore per i tuoi nipoti. Non potevi credere che i Lagan, che tu hai sempre accolto sotto la tua ala protettiva, ci stessero giocando un tiro tanto sinistro, per quanto abbiano peccato d'ingenuità. Devi aver sofferto molto quando ti sei resa conto che i tuoi sospetti avevano un fondamento e non ti giudico per aver atteso tanto a parlarne con George, anzi, ti ringrazio di averlo fatto perché altrimenti le cose sarebbero potute andare molto peggio".

Elroy chiuse gli occhi e li asciugò di nuovo con il tovagliolo: "Grazie, nipote, grazie per aver compreso i miei sentimenti".

"Però, zia, il tuo errore di giudizio è quello che mi causa più sofferenza. Perché per un tuo reiterato errore di giudizio hai assecondato Eliza in un piano nel quale Candy avrebbe potuto rimanere uccisa: e per quale motivo? Perché non ti sei mai soffermata a capire chi fosse veramente, al di là delle sue origini. Non hai mai riflettuto sul fatto che fosse molto più nobile dei tuoi nipoti che, anzi, hanno fatto di tutto per farle del male".

Strinse le labbra, sentendo la rabbia invaderla. C'era sempre e solo lei nei suoi pensieri!

Si voltò a guardarla con espressione triste e contrita: "Posso sopportare di finire in galera, di ricevere un'aggressione e di dovermi riabituare a mangiare come un bambino. Ma non posso sopportare la sofferenza di Candy, saperla ferita e senza memoria, rinchiusa in un mondo che non è più il suo, priva di quell'allegria e voglia di vivere che tanto... la caratterizzavano".

Mentre parlava, Elroy capì che alla fine aveva omesso di dire ciò che pensava davvero. La voglia di vivere che tanto amavo. Quelle erano le parole che si era rimangiato all'ultimo istante?

"Il dottor Carter e la signorina Brighton si stanno prendendo cura di lei e fino all'altro giorno c'era anche quell'infermiera. Mi hai lasciato una bella responsabilità sulle spalle: Candice avrebbe avuto bisogno di una struttura adeguata alle sue condizioni". Non voleva e non doveva sentirsi in colpa più del dovuto.

"Candy ha bisogno della sua famiglia. E la sua famiglia siamo noi", riprese con tono fermo.

"Ora che è maggiorenne non dovresti ritirare la richiesta di essere il suo tutore, o sbaglio?", chiese alzando gli occhi su di lui.

William si voltò di nuovo verso la finestra: "Sì", soffiò come se gli dispiacesse.

"Finché lo sarai puoi decidere per lei, ma poi dovrà trovare la sua strada", dichiarò.

"Io non ho mai preso decisioni al posto suo. È sempre stata libera di fare la sua vita".

"È proprio questo il punto! William, quella ragazza è scappata da una scuola prestigiosa dove tu l'avevi mandata con il chiaro intento di educarla e si è messa a lavorare come una qualsiasi donna del popolo!", incalzò battendo il palmo della mano sul tavolo.

Voleva solo scusarsi con lui per non aver parlato prima, non mettersi a discutere di Candice!

"Ha fatto un lavoro nobile e mi ha salvato la vita, casomai te ne fossi dimenticata! E tu l'hai ripagata assecondando i piani vendicativi di Eliza e facendole rischiare la sua, di vita! Ricordi cosa stava per dire tua nipote in tribunale prima che la portassero via? Com'è che ha detto? Voleva cancellarla!". Il suo tono si era alzato e lui si era voltato completamente, avvicinandosi e sovrastandola.

Quasi intimorita, si alzò anche lei: "Mi dispiace, William, non sapevo che quella sciagurata avesse in mente... idee omicide. Mi ha parlato di una corsa a cavallo e non ci ho visto nulla di pericoloso. È ovvio che se avessi saputo le sue reali intenzioni non glielo avrei mai permesso. Volevo solo che Candice uscisse dalle nostre vite e facesse la sua lontana da te".

Era sincera. Non poteva desiderare certo la morte di una persona, anche se la odiava. Ma non voleva neanche che costituisse una potenziale minaccia.

La mascella di William si contrasse ancora una volta, indicandole che stava inghiottendo altre parole. "Vai a riposare, zia", disse lasciando la stanza.

Su Candice non sarebbero mai stati d'accordo, quello era indubbio. Ma, almeno, William l'aveva perdonata per tutto il resto. Sperò che fosse sufficiente per far tornare l'armonia in famiglia.
 
- § -
 
Frank Johnson era sempre stato un uomo d'onore, dedito al suo lavoro e devoto alla famiglia. Durante la sua carriera aveva sempre cercato di imparare dai propri errori, pagandone le conseguenze e prendendosi le sue responsabilità.

Quando quel Diaz lo aveva chiamato per dargli informazioni importanti riguardo un'associazione mafiosa che operava in Florida, per un attimo era stato tirato in due diverse direzioni: in una suonavano mille campanelli d'allarme che gli ricordavano che la sua giurisdizione era ben lontana; nell'altra, spiccava l'orgoglio di lavorare per sradicare quello che si stava rivelando, sempre di più, un problema enorme nella società.

Poi l'uomo gli aveva spiegato che sarebbe stato un buon modo per redimersi dopo aver inviato un telegramma sbagliato alla famiglia Ardlay e tutto gli era tornato in mente. Aveva raggruppato i suoi uomini migliori e, assieme ad altri agenti del posto, avevano ideato una retata da attuare non appena i testimoni chiave del processo fossero stati portati al sicuro.

Tutto era filato più che liscio e, a quell'ora, anche il patriarca doveva essere tornato a casa. Aveva letto dello scandalo dai giornali e aveva subito nutrito dei dubbi sulla veridicità della notizia.

E ora eccolo qui, nel quartiere più malfamato di Miami dove, in apparenza, il pesce grosso aveva il suo covo e muoveva le fila.

La schiena appoggiata al muro, la pistola stretta fra le mani, anche se non era più un giovanotto, Johnson aveva scelto di stare in prima linea. Non era la prima volta e, a Dio piacendo, non sarebbe stata neanche l'ultima.

Il grosso della retata era nella mani degli altri agenti, tra cui uno dei suoi migliori sottoposti che aveva chiesto coraggiosamente di essere al suo fianco.

Uno sparo.

Quello era il segnale e Johnson si sporse dalla sua posizione per sbirciare nell'oscurità della notte: "*Se fué por allà, hijo de puta!", gridò una voce.

Quello doveva essere uno degli agenti del suo collega. Anche se, di certo colto dall'agitazione, aveva parlato nella sua lingua natia, capì che il bersaglio si era appena dileguato.

Con cautela uscì dal nascondiglio, maledicendo lo spazio troppo aperto e guardandosi attorno con frenesia, dove ora vedeva le luci delle torce dei suoi colleghi illuminare l'area. Scattò verso la parete di un'altra abitazione in disuso e vi si poggiò con la schiena, i sensi all'erta.

Un fruscio proveniente da sopra la sua testa attirò la sua attenzione e Johnson si rese conto che veniva dalle fronde di un albero. Alla sua sinistra e dietro la casa continuava a udire i richiami degli agenti che si erano lanciati all'inseguimento e capì di essere solo.

Respirando pesantemente, con la luce fioca di un unico lampione soffocata dallo stesso albero, alzò lo sguardo e puntò la pistola.

Il fuggitivo lo aveva sentito arrivare? Aveva con sé un'arma e stava per fare fuoco? In una manciata di secondi, capì che doveva prendere una decisione e la prese: "Sei sotto tiro!", gridò esponendosi del tutto.

Catherine, perdonami se morirò. Abbi cura di te e dei nostri figli.

I rumori dell'inseguimento cessarono e il silenzio divenne quasi inquietante. Poteva sentire solo il ronzare del sangue che gli pulsava nelle orecchie e il proprio respiro, che tentava disperatamente di tenere sotto controllo.

Non voleva sparare a vuoto o rischiare di ucciderlo prima che venisse interrogato, ma non sapeva se il malvivente ci vedesse meglio di lui, dalla sua posizione sopraelevata, o le fronde gli coprissero la visuale.

Era una situazione molto rischiosa.

Una mano lo sfiorò e Johnson ringraziò tutti gli anni di addestramento e il suo autocontrollo perché riuscì a non gridare. Si voltò, invece, con la pistola spianata solo per incontrare gli occhi spalancati del suo agente, le mani alzate e una torcia spenta in mano.

Abbassando l'arma, gli indicò l'albero e lui annuì. A gesti, concordarono le successive, semplici mosse. Johnson alzò tre dita della mano sinistra e, in un silenzioso conto alla rovescia, le abbassò una ad una.

Mentre la portava al calcio della pistola per impugnarla meglio, il ragazzo accendeva la torcia e la puntava in alto.

Ci giochiamo tutto.

Fu uno di quei momenti in cui i secondi parevano ore, ma i suoi occhi allenati individuarono subito la punta di una scarpa e tirò il grilletto mirando in quella direzione: se era fortunato, la pallottola gli avrebbe centrato in pieno il piede o una caviglia.

Il colpo, però, gli parve stranamente amplificato e si rese conto che anche l'altro aveva sparato.

Negli istanti successivi, si rese conto di tre cose: il braccio sinistro gli bruciava come l'inferno, il suo agente aveva emesso un verso strozzato e il fascio di luce si stava spostando in basso rivelando un uomo vestito di nero che cadeva finalmente dall'albero.
- § -
 
* "È scappato di là, figlio di p*****a!".

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Capitolo 48
*** La condanna e il perdono ***


Il debole non è mai capace di perdonare. Il perdono è una caratteristica del forte.
(Mahatma Gandhi)
 

Albert riattaccò il telefono e incontrò lo sguardo interrogativo di George, che lo fissava con un sopracciglio alzato.

"Li hanno presi, l'incubo è finito", disse con l'emozione che gli vibrava nella voce. L'uomo di fronte a sé cadde a sedere e lui continuò: "Il commissario Johnson mi ha raccontato che durante la retata principale lui e uno dei suoi agenti sono rimasti feriti, ma per fortuna non è nulla di grave. La rete mafiosa si estendeva fino in Messico, ci credi?! Ma grazie agli sforzi di tutti quanti ora quegli uomini sono in prigione e forse non ne usciranno più".

"Sbaglio o in Florida è prevista la pena capitale? Se quegli uomini hanno ucciso qualcuno...", George s'interruppe, giocherellando con una penna sulla scrivania.

Albert appoggiò la schiena sulla poltrona: "Non lo so, mi pare di sì. Però, anche se così fosse, continuo a considerarlo un atto non dissimile dall'omicidio volontario. Credo che uomini come quelli debbano essere giudicati solo da Dio, anche se rinchiusi in carcere fino a quel giorno".

L'uomo annuì: "Sono d'accordo, signorino William. Vogliamo mettere in ordine questi documenti e andare a pranzo?".

Albert gli sorrise. Da qualche giorno, gli pareva di riuscire a mandare giù una quantità maggiore di cibo e si sentiva rinvigorito nel corpo e nello spirito. Sospettò che i pensieri peggiori gli fossero venuti in mente non solo perché era in carcere o in pena per Candy, ma anche perché il suo cervello non aveva più ricevuto il nutrimento necessario a fronteggiare la vita come aveva sempre fatto.

Candy.

Gli bastava ricordarla, però, per tornare malinconico. Su consiglio di Carter aveva evitato di vederla da quando era tornato, perché voleva approfondire prima il suo problema dell'agorafobia e poi affrontare insieme la questione della morte di Anthony di cui, a quanto pareva, lo riteneva colpevole.

"Sta pensando di nuovo a lei, non è vero?". Sbatté le palpebre, conscio degli occhi attenti di George dall'altra parte della scrivania.

Albert poggiò i gomiti sul piano di lavoro e il mento sulle mani intrecciate: "Non la vedo da prima di finire in prigione ed è a pochi passi da me. Non credevo che avrei sentito così tanto la sua mancanza, non mi era mai capitato in passato".

"Credo che sia normale", ribatté lui poggiando a sua volta le mani sulla scrivania. "Una volta che un uomo mette a nudo il proprio cuore tutto cambia. E lei, signorino William, è cambiato profondamente grazie a Candy".

Mentre gli uscivano di bocca, Albert si rese conto che le sue parole sarebbero suonate ambigue: "Grazie a Candy o a causa di Candy, George?".

Le sopracciglia aggrottate del suo amico di sempre confermarono il suo sospetto: "Non fraintendermi, non ho usato quel termine per colpevolizzarla o qualcosa del genere. Candy è stata una vittima degli eventi proprio come tutti noi. O dei Lagan. O del destino, non lo so. Ma il cambiamento che ha operato in me non sempre ha avuto sfaccettature positive: mi ha messo davanti a uno specchio, completamente a nudo, richiamando in superficie lati del mio carattere che non avevo la più pallida idea di possedere. Se non l'avessi conosciuta sarei stato meno felice, meno completo e forse sarei rimasto quello di sempre, col lato ribelle man mano meno preponderante a causa dei miei doveri. Ma ho anche scoperto cose che non mi piacciono: sono arrivato a odiare delle persone perché le hanno fatto del male. Credo di aver odiato un po' lo stesso Terry, quando le spezzò il cuore. Ho scoperto una fragilità che mi ha portato quasi ad autodistruggermi. E mi rendo anche conto di avere tutta una serie di insicurezze che non ti sto qui a elencare, innanzitutto il dubbio di aver messo in pericolo Candy io per primo".

"Lei, signore?", gli occhi di George si spalancarono per lo stupore.

Annuì, chiudendo gli occhi: "Ti ricordi quanti dubbi avevo prima di confessarle i miei sentimenti? Ebbene, forse avrei dovuto capire i segnali del destino già quando mi è arrivato il telegramma inviato da New York. Rivedendola, sulla Collina di Pony dove tutto è cominciato, avrei dovuto essere meno prudente e presentarla subito come la mia fidanzata. Non sono mai stato fatalista e ho sempre tenuto i piedi ben piantati per terra, ma continuo a pensare che se avessi subito chiarito le cose con lei agli occhi di tutti, non sarebbe mai più finita nelle mire di Eliza e tutto questo non sarebbe successo".

Sospirò a fondo, come se tutti quei ragionamenti lo avessero sfinito. Se li era rigirati nella mente per giorni e, anche se non l'aveva detto a sua zia e aveva impedito a Carter di rivelarlo, quei sensi di colpa nei confronti di Candy avevano avuto un ruolo tutt'altro che marginale nel suo rapporto col cibo. Se le preoccupazioni ne erano state la causa scatenante maggiore, l'auto-privazione inconscia aveva inciso abbastanza da farlo giungere al limite.

Ma quello era un segreto che avrebbe tenuto per se stesso.

George si alzò dalla sedia prendendo in mano gli ultimi documenti e riponendoli con cura in una cartellina di pelle: "Non possiamo stabilire come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse tanto quanto non possiamo tornare indietro nel tempo per cambiarle a nostro piacimento".

"Ma se Candy fosse diventata subito la mia fidanzata, né Neil, né Eliza, né nessun altro si sarebbe mai azzardato a farle del male!", scattò lui alzandosi e battendo un pugno sulla scrivania. Un altro gesto impulsivo che, una volta, non si sarebbe mai attribuito.

"Se io avessi confessato i miei sentimenti a Rosemary, lei mi avrebbe visto con occhi diversi prima di incontrare Vincent?". La furia di poco prima si sgonfiò quando incontrò lo sguardo di George.

Era la prima volta che ne parlava ad alta voce, in tutti quegli anni, e Albert ne fu davvero toccato.

I suoi occhi si ammorbidirono, leggendo in quelli scuri di fronte a sé un'emozione che il ricordo di Rosemary avrebbe sempre illuminato.
L'uomo li distolse, come per impedirgli di guardare troppo a fondo nella sua anima, ma Albert sapeva quanto l'avesse amata.

"Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose e se ci soffermiamo a pensarci rischiamo solo di rimanere imbrigliati nei ricordi", concluse con voce bassa.

"Ma, nonostante tutto, tu non l'hai dimenticata, non è vero?", chiese in tono gentile, inclinando un po' la testa.

George alzò di nuovo lo sguardo su di lui e ribatté, deciso: "No. E forse non lo farò mai. Ma cerco di non struggermi chiedendomi cosa sarebbe accaduto se... se...".

Mentre George cercava le parole giuste, qualcuno bussò alla porta e si ricompose in un batter d'occhio: "Avanti", rispose Albert.

Una cameriera entrò e s'inchinò con deferenza: "Mi scusi, signor Ardlay, il signor Raymond Lagan e sua moglie chiedono di parlare con lei".

Cercò d'impedire alla sua mascella di spalancarsi per lo stupore, ma le mani si strinsero in due pugni e lo stesso George sembrava allibito. Si guardarono per un istante e non ci fu bisogno di parole.

La cameriera rimase in attesa finché Albert, con un grosso sospirò, disse: "Falli entrare". Sapeva che sarebbe giunto il momento del confronto, ma non credeva sarebbe arrivato così presto.
 
- § -
 
Raymon Lagan aveva deciso di recarsi da William non appena aveva ricevuto la notizia dell'arresto di tutti i componenti del clan mafioso, incluso il pezzo grosso che aveva avuto contatti con i suoi figli.

Aveva chiesto e ottenuto dal giudice il permesso di allontanarsi dai domiciliari, che stava scontando nella loro residenza di Chicago, per poter andare a casa degli Ardlay. Non a testa alta, come avrebbe fatto una volta, ma con la schiena curva, stringendo il braccio della sua riluttante moglie che continuava a dire fosse una pessima idea.

"È una cosa che faremo insieme, Sarah", aveva detto con durezza.

"Ma Eliza ha bisogno di me! Voglio andare da lei!", aveva risposto con le lacrime agli occhi.

"Eliza è catatonica! Non si rende neanche conto che sei lì, davanti a lei!", aveva urlato battendo un pugno sulla scrivania.

Sarah si era portata un fazzoletto alla bocca, piangendo apertamente: "Ma potrebbe farlo, se continuo a parlarle: è pur sempre la mia bambina".

Raymond si era preso la testa fra le mani. Se la loro bambina, come ancora la chiamava sua moglie, fosse uscita da quello stato e si fosse ripresa, sarebbe passata dall'ospedale psichiatrico alla galera e non era sicuro che quella fosse una valida alternativa.

Quando entrò e vide William Ardlay alla sua scrivania, seduto con le mani intrecciate, avvertì tutto il peso degli eventi crollargli sulle spalle. Abbassando la testa e cominciando a singhiozzare come un bambino, Raymond Lagan cadde in ginocchio davanti a quel giovane patriarca che aveva rischiato di affondare, ma si era ripreso e non aveva perso un briciolo della sua dignità.

La propria era a terra, come le sue ginocchia, sciolta in quelle lacrime che gli bruciavano gli occhi e le guance.

Udì a malapena Sarah che lo chiamava e cominciava a piangere piano, in piedi al suo fianco. Il rumore di una poltrona che veniva spostata e dei passi sul pavimento gli indicarono che lui si stava avvicinando.

Sentì una mano posarsi sulla schiena, l'altra scendergli lungo il braccio come per sostenerlo: "Alzati, Raymond. Ti prego". La voce era gentile, quasi commossa e ne fu colpito.
William lo aiutò a rialzarsi, mentre lui cercava con frenesia il suo fazzoletto nel taschino della giacca per ricomporsi. Quando fu in piedi rimase a testa china, ancora accecato dalle lacrime che cercava di asciugare con quel fazzoletto, una mano andò alla spalla dell'uomo che ancora si prodigava a sostenerlo.

Strinse la mano sul tessuto della giacca mormorando: "Perdonami, William, io non sapevo nulla, io...".

"Non ho nulla da perdonarti, Raymond. So che non è stata colpa tua. L'ho sempre sospettato". Quelle parole lo alleggerirono tanto che pianse più forte, soffocando il dolore e il sollievo nel fazzoletto, mentre sentiva Sarah al suo fianco fare lo stesso. Sospettò che, nel suo caso, fosse l'umiliazione a farla piangere.

"George, per favore, fai portare del tè", ordinò William senza muoversi. Non si era nemmeno reso conto che l'altro uomo fosse lì nella stanza.

"Certo, signorino William. Con permesso". La porta si richiuse e Raymond finalmente si azzardò ad alzare gli occhi sul patriarca. Per un attimo non riconobbe, nell'uomo così magro e dal viso scavato, lo stesso che aveva presenziato all'apertura dei loro hotel. Anche se lo aveva ben visto in tribunale il giorno dell'udienza, solo ora che gli era accanto si rendeva conto appieno di quanto fosse minato nel fisico.

William Albert Ardlay aveva occhi limpidi e fieri, l'espressione serena, ma sembrava si stesse appena riprendendo da una lunga malattia: "Coraggio, accomodatevi. Non restate in piedi".

Ricomponendosi come poteva, Raymond condusse sua moglie al divanetto alle loro spalle. Sarah soffocava i singhiozzi nel fazzoletto e sembrava non avere consolazione. Lui non si sentiva in grado di dargliene.

William rimase in silenzio, in piedi davanti a loro e lo sentì muoversi per prendere una sedia e accomodarsi poco distante. Il fatto che non rimanesse in piedi confermò a Raymond che non voleva tentare di sovrastarli in alcun modo. Tutto, in lui, emanava rispetto e pacatezza. Eppure la sofferenza era scolpita, indelebile, nei suoi lineamenti, come doveva esserlo nei propri.

Raymond lo guardò negli occhi e chiese: "Come sta la signorina Candice?". Mai l'aveva chiamata così, abituato a lei come ad una ragazzina adottata che poi era passata sotto l'ala protettrice degli Ardlay. Quando gli avevano raccontato del suo incidente causato soprattutto da Eliza, capì quale tragico errore di giudizio avesse fatto in passato.

Pensava che i suoi figli facessero i dispetti a quella ragazzina perché non era loro simpatica e, che Dio lo perdonasse, aveva creduto a sua moglie quando gli aveva raccontato dei suoi presunti furti e comportamenti scorretti.

Il fatto che non fosse quasi mai a casa non lo scagionava da tutto il male che le era stato fatto senza che lui intervenisse.

"Candy è seguita da un medico molto bravo, ma ancora non ha recuperato la memoria e non sappiamo se accadrà mai". Sospirò, accavallando le gambe. "Però l'importante è che stia bene con se stessa e su questo sono molto fiducioso".

Raymond annuì e si accorse, con sollievo, che Sarah si stava asciugando le ultime lacrime e riponendo il fazzoletto. Aveva sempre lo sguardo basso.

"Neil mi ha raccontato cosa hanno fatto... lui ed Eliza. E poi anche tutto il resto...".

"Come sta Eliza, a proposito?". La genuina curiosità nella sua voce, mentre lo interrompeva, lo colpì.

Inaspettatamente fu sua moglie a rispondere, con voce roca: "È rinchiusa in un ospedale psichiatrico, non risponde più agli stimoli e deve essere assistita di continuo! Non sta bene per niente!". Il tono d'accusa fu così netto che Raymond si voltò a guardarla con rimprovero.

Gli occhi di William divennero di ghiaccio e in quel momento esatto arrivò la servitù con il tè a spezzare la tensione.

Che tornò palpabile non appena la porta fu richiusa.

Il patriarca degli Ardlay si alzò con gesti lenti e andò al tavolo dove c'era il bricco fumante. Ne versò tre tazze, prese in mano la sua e restò in piedi a sorseggiarla per qualche istante, facendo loro cenno di servirsi.

Raymond si alzò e prese una tazza per sé e ne porse una alla moglie, che l'accolse con mani tremanti. Per fortuna non sembrava intenzionata a dire altro, ma Raymond sapeva che la risposta di William non si sarebbe fatta attendere e tacque a sua volta.

"Anche se sono il tutore legale di Candy, non so cosa si provi davvero ad avere dei figli", cominciò sedendo al tavolo e aggiungendo dello zucchero. "Ma posso immaginarlo: deve trattarsi di un amore struggente, disinteressato, che prescinde da qualsiasi comportamento scorretto". Si voltò a guardarli, gli occhi ammorbiditi. "Un amore indiscriminato come quello che dovete provare voi per Eliza e Neil".

"William...", tentò Raymond.

"Ed è giusto che sia così", continuò alzandosi e cominciando a camminare, come se dovesse contenere una forte emozione. "Ma mi perdonerete se io non riesco a sentire empatia verso chi ha distrutto la vita di Candy e ha quasi fatto lo stesso con la mia e con quella di tutti noi".

"Se tu non avessi adottato quell'orfana e l'avessi lasciata a noi, forse ora...". Raymond non la lasciò finire e la schiaffeggiò. Lei s'interruppe con un gridolino, portandosi una mano alla guancia e guardandolo scioccata.

"Taci, Sarah! Se tu avessi educato i nostri figli al rispetto e alla devozione per la famiglia, ora non saremmo a questo punto! Perdonala, William, perdonami per averti causato tutti questi problemi. Non mi basterà tutta la vita per riscattarmi dopo quello che ti ho fatto", continuò guardando il patriarca, che era rimasto immobile a fissarlo. "So di essere rovinato e che il mio nome non verrà mai riscattato. Ma lascia che riscatti il tuo prendendomi tutta la responsabilità assieme ai miei scellerati figli". L'emozione nella voce gli impedì di dire altro.

William sedette di nuovo e cominciò a girare il tè. Vide che gli tremava un po' la mano e capì che stava facendo uno sforzo sovrumano per mantenere i nervi saldi. Sperò vivamente che Sarah stesse zitta o aprisse la bocca solo per scusarsi.

Il patriarca prese un sorso, poggiò la tazza e fece un lungo sospiro: "Raymond, a te non ho nulla da rimproverare, te l'ho già detto. Sei un uomo nobile, che ha sempre lavorato e che ha l'unica colpa, in tutta questa storia, di non essere stato abbastanza presente per rendersi conto di ciò che accadeva a casa. Anche mio padre era così, io e mia sorella non lo vedevamo quasi mai, ma siamo comunque cresciuti nell'amore e nel rispetto per il prossimo".

Si alzò, avvicinandosi: "Sarah", chiamò facendola sussultare. Cercò di rimanere composto, perché il suo tono di voce era talmente diverso da quello gentile di poco prima che si domandò se non volesse colpirla anche lui. Sapeva che non lo avrebbe mai fatto, ma se avesse perso le staffe lo avrebbe giustificato.

Capì che voleva un confronto con lei e, dopo avergli scoccato uno sguardo grato, si alzò con la scusa di aggiungere dello zucchero a sua volta e rimase in piedi vicino al tavolino. Sua moglie spostò gli occhi da lui a William, come se non capisse perché l'avesse lasciata da sola di fronte a lui.

Raymond si rese conto che, qualunque cosa fosse accaduta in futuro, il maggior tempo che avrebbe trascorso a casa gli sarebbe stato molto utile per farle capire molte cose fondamentali sulla vita e sul matrimonio.

"William, io... neanche io ne sapevo nulla! Non penserai mica che abbia aiutato Eliza e Neil a contattare quei... quei...". I suoi occhi erano spalancati in qualcosa che sembrava terrore.

"Sai una cosa? Voglio crederti. Neanche tu saresti stata così... imprudente da fidarti del primo malvivente incontrato per strada. La tua colpa è un'altra ed è quella che ti ha appena ricordato tuo marito. Hai cresciuto i tuoi figli nel vizio e nell'impertinenza, dando loro l'impressione che tutto fosse dovuto solo per il fatto di far parte di un clan con un nome che, a dirla tutta, non è neanche strettamente collegato agli Ardlay".

Sarah emise un gridolino di sorpresa, sembrava davvero ferita e Raymond annuì. William aveva appena espresso a parole quello che aveva sempre saputo.

"I tuoi figli non valgono insieme neanche la punta di un'unghia di quell'orfana, come la chiami tu, mi capisci? Non sono degni di respirare la sua stessa aria perché Candy White Ardlay, questo è il suo nome, ricordalo bene, ha un cuore pieno di tutti quei buoni sentimenti che fanno di lei una persona speciale. È altruista, onesta e antepone sempre il bene degli altri al proprio ed è per questo che tutti la amano".

Sarah scattò in piedi e Raymond si allarmò, pronto a intervenire: "Anche tu, vero? Eliza mi aveva detto che volevi farne la nuova matriarca, prima... prima di....", singhiozzò ma si riprese. "La zia Elroy non sarà mai d'accordo su questo, voglio parlare con lei!".

Raymond si rese conto, con orrore, che sua moglie si stava muovendo come se volesse uscire e fece per avvicinarsi con lo scopo di fermarla. Se avesse saputo che aveva perso la ragione quasi al pari di Eliza, non l'avrebbe mai portata con sé e si rese conto che conosceva Sarah meno di quel che pensasse. Quante cose si era perso durante le sue lunghe assenze?

"Tu non parlerai con la zia!", tuonò William con un tono così profondo e perentorio che lei si bloccò sul posto.

Si girò a guardarlo, con gli occhi pieni d'odio, e Raymond decise d'intervenire: "Sarah, hai perso il senno, per caso? Come osi parlare così al patriarca! Invece di fargli le tue scuse!".

"Io non sapevo nulla di quello che stavano facendo Eliza e Neal! E neanche loro erano a conoscenza della portata...", cominciò strillando, fuori controllo.

"Vuoi forse dire che non sapevano che stavano rischiando di uccidere una persona manomettendo lo zoccolo di un cavallo? Che non erano a conoscenza del fatto che rivolgersi alla malavita per distruggere la reputazione di un uomo avrebbe mandato in galera degli innocenti?! Che non sapevano che le loro azioni avrebbero mandato all'aria il lavoro di una vita del loro padre? È questo che mi stai dicendo, Sarah Lagan?!".

Raymond non conosceva William da molto tempo, dato che la sua presentazione ufficiale risaliva a pochi anni prima. Ma fu certo, da ciò che gli era stato riferito e da quello che aveva potuto intuire sul suo carattere, che non era solito urlare a quel modo, specie nei confronti di una donna.

Ansimava come se avesse fatto una corsa e i pugni erano così contratti che pensò li avrebbe sbattuti al muro o su sua moglie. Pregò che Sarah stesse finalmente zitta o quella visita sarebbe finita molto male.

L'effetto che il suo schiaffo non aveva sortito parvero farlo quelle parole e Sarah si mise a sedere, la testa china e le mani strette sulla gonna: "Ho desiderato non averli messi al mondo". La sua voce era così flebile che Raymond pensò di aver capito male, ma gli occhi di William che si spalancavano per lo shock gli indicarono che aveva capito benissimo. "Che Dio mi perdoni, ho desiderato che non fossero mai nati dopo aver saputo che... che...", singhiozzò ricorrendo di nuovo al fazzoletto e tentando di parlare ancora. William la fissava in silenzio, l'espressione ancora tesa. "Li ho cresciuti dando loro quello che pensavo si meritassero e non posso, non riesco a paragonarli a que... a colei che tu tanto ammiri. Per me rimarranno sempre due mondi diversi. Ma ora tutto è perduto. Non hanno colto l'opportunità che avevano e adesso siamo tutti persi per sempre. Per sempre!". Il pianto la vinse e il patriarca chiuse gli occhi, sospirando e tornando a guardarlo.

"Raymond, spero capirai la mia reazione, così come capirai che posso perdonare solo te che sei sinceramente pentito per qualcosa di cui, oltretutto, non hai responsabilità diretta". Poi si volse un'ultima volta verso Sarah, il suo sguardo ora appariva disgustato: "Non provo pena per te, Sarah. Spero che almeno Dio vi perdoni".

"Avrei dovuto prestare più attenzione alla mia famiglia", disse e William annuì. In maniera tacita, gli stava addossando quell'unica, grande colpa. "William", riprese poi, "so che a breve ci sarà una riunione con il clan. Vorrei formalmente fare le mie scuse pubbliche e scagionare gli Ardlay".

"Ma Raymond, così noi...", cominciò Sarah, mentre ancora piangeva.

"Taci, donna!", la interruppe subito, urlando quasi quanto aveva fatto il patriarca poco prima. "Non abbiamo nulla da recuperare, l'hai detto tu stessa. Riporterò personalmente la famiglia in piedi, se mai vi riuscirò, con le mie sole forze".

Fu allora che William gli si accostò, parlando a bassa voce come se non volesse che Sarah lo udisse: "Hai chiuso la catena di alberghi, vero?", chiese.

Scosse la testa: "Non potevo fare altrimenti, lasciarli aperti nelle mani dei direttori sarebbe stato inutile visto che siamo tutti agli arresti. Neal è stato trasferito nel carcere dove... beh, dove siete finiti tu e Archibald. Penso che rimarremo tutti qui fino al processo, poi forse lo riporteranno in Florida". Chiuse gli occhi, sentendo il sudore che gli colava sulle tempie. Avrebbero potuto recludere per vent'anni suo figlio, nella peggiore delle ipotesi, e anche a Eliza se fosse tornata in sé.

William lo guardò e disse, in un sussurro: "Dovranno entrambi avere modo d'imparare la lezione". Quella frase gli fece capire che sperava soprattutto che, una volta fuori, entrambi fossero già cambiati in meglio.

"Lo spero anche io", rispose con le lacrime agli occhi. "Nonostante tutto sono sangue del mio sangue. Non voglio vederli... completamente distrutti...", concluse stringendo le palpebre e sentendo le guance inumidirsi.

"Moriranno se rimangono rinchiusi!", sbottò Sarah. "Non avrei mai dovuto desiderare che non nascessero, Dio mi sta punendo!". E, così dicendo, ricominciò a piangere.

"Sono loro stessi che ti hanno punita per non essere stata una buona madre", intervenne una voce a Raymond nota. Alzò gli occhi per incontrare lo sguardo duro della zia Elroy e si avvicinò a lei con l'intenzione di farle un baciamano e scusarsi, ma lei si scostò: "Non osare toccarmi, Raymond. Da oggi non fate più parte della famiglia!", continuò con tono duro.

"Zia, Raymond...", ma il tentativo di William fu messo a tacere dalla matriarca.

"So quello che è successo e ritengo entrambi responsabili! Avete tutti tradito la mia fiducia, non vi siete resi conto di come i vostri figli fossero gravemente deviati e questo è inaccettabile". Ogni parola era una pugnalata, ma era anche la verità.

Sarah si alzò e fu lei a inginocchiarsi, stavolta ai piedi della prozia Elroy: "Ti prego, zia, perdonaci! Non lasciarci sul lastrico, se io avessi saputo...".

"Stai zitta!", le intimò alzando la voce. "Ringrazia il Cielo che sono una signora e che i tuoi figli non sono qui, altrimenti vi schiaffeggerei tutti! Avete gettato nella vergogna il nome degli Ardlay e dovreste marcire tutti in carcere per esservela fatta fare da loro sotto gli occhi, specialmente tu!".

Sarah crollò con le mani sul pavimento, piangendo in maniera penosa, e Raymond capì che era ora di andarsene. Aiutò la moglie ad alzarsi, sentendosi come un profugo di guerra che cerchi di trascinare via quello che rimaneva della sua famiglia dalle bombe e si volse solo una volta verso William, che stava in piedi con le sopracciglia aggrottate e i pugni contratti: "La mia offerta resta valida. Verrei da solo a fare il mio intervento e non avrei nulla da pretendere. Non mi basterà il resto della mia vita per ripagarvi di ciò che Neil ed Eliza vi hanno fatto. Zia Elroy...". Tenendo ancora un braccio intorno alla vita di Sarah, che pareva far fatica a stare in piedi, si inchinò profondamente di fronte al viso contratto della donna.

Mentre usciva dalla stanza, nessuno provò a fermarlo e Raymond capì di essere solo. Non si aspettava il perdono di William e gli sembrava già tanto. Sperava solo che, da quel momento in poi, la sua vita non gli rendesse conto ogni singolo giorno degli errori commessi.
 
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Elroy Ardlay marciò verso il nipote, che era impallidito e sembrava sull'orlo dello svenimento: "William!", lo chiamò mentre si appoggiava al tavolino del tè e si portava una mano alla fronte.

"Va tutto bene, zia, tranquilla. Il fatto è che non mi aspettavo una loro visita e sono dovuto ricorrere a tutto il mio sangue freddo per non fare qualcosa di sconsiderato nei confronti di Sarah", disse lui mettendosi a sedere. Lei lo imitò e si versò una tazza di tè.

"Perché non mi hai mandato a chiamare?", chiese.

"E per che cosa?", ribatté il nipote allargando le braccia. "Per farti assistere all'umiliazione di Raymond e farti udire le parole sconclusionate di Sarah, il cui unico scopo era tentare di farci pena?".

"A me non ha fatto pena neanche Raymond, a dirla tutta", ribatté sorseggiando dalla tazza.

"Zia, Raymond è quello che ha meno colpa di tutti, in questa storia, ed era davvero dispiaciuto. Non me la sono sentita di infierire: è un uomo finito. Ma è stata dura sopportare i piagnistei di Sarah. Capisco che sia in pena per i figli, ma non ha ancora ben chiaro quale sia il suo ruolo in tutto questo". William si passò una mano tra i capelli mentre parlava, poggiando il gomito sul tavolo.

"Sei troppo buono", disse Elroy posando la tazza. "Raymond doveva essere più presente e controllare sua moglie e la sua prole".

Suo nipote fece un sorrisetto triste: "È strano sentirti parlare così di Neal ed Eliza, fino a poco tempo fa erano i tuoi pupilli".

Si appoggiò allo schienale, pulendosi discretamente gli angoli della bocca con un tovagliolo: "So riconoscere i miei errori a differenza di Sarah, come hai avuto modo di vedere". Lo sguardo intenso di William le suggerì che c'era un errore che ancora non aveva riconosciuto, ma preferì ignorare quel segnale. "E non voglio che i Lagan mettano mai più piede qui dentro, né in nessun'altra delle nostre proprietà! Chiederò ufficialmente che vengano estromessi dal clan".

William si alzò, poggiando entrambi i palmi delle mani sul tavolino: "Zia, occorre scindere gli oneri dei vari componenti di quella famiglia. Avrai ben capito che, per svariati motivi, non ho mai nutrito nei loro confronti particolare... trasporto. Ma ho sempre visto in Raymond una vittima degli eventi: come mio padre ha viaggiato molto per lavoro, per necessità o per colpa che sia, e non è sua completa responsabilità ciò che accade tra le mura domestiche mentre lui è assente. Odio dirlo, ma suppongo che persino Sarah sia stata giocata dai suoi stessi figli, che a loro volta hanno peccato tragicamente d'ingenuità".

"Li stai giustificando?!", sbottò alzandosi per guardarlo meglio. Aveva di certo ripreso peso, ma era ancora ben lontano dall'essere in forma.

"Certo che no! Sto solo dicendo che non è Raymond che deve pagare. Si è proposto di ribadire pubblicamente la nostra estraneità agli eventi quando riuniremo il clan con i giornalisti e ho intenzione di accettare il suo aiuto".

"Ma William!".

"È inutile accanirsi, zia. Vuoi estrometterli dal clan? Sono anche d'accordo. Ma, per il resto, la legge farà il suo corso e chi dovrà pagare lo farà, inclusi Raymond e Sarah. Sospetto che lei stia rischiando di seguire la stessa sorte di sua figlia perché, nonostante tutto, ha detto una frase che mi ha fatto venire i brividi". Il volto pallido divenne d'improvviso serio.

"Cosa ha detto?", chiese, domandandosi se ci fosse di peggio che chiedere in ginocchio di non essere mandata sul lastrico dopo tutto quello che aveva combinato.

"Che ha desiderato non averli mai messi al mondo", mormorò.

Elroy chiuse gli occhi: dunque aveva sentito bene quando era entrata. "Mi spiace, nipote, ma non mi stupisce". Lui rimase impassibile a guardarla. Capì che la proverbiale freddezza degli Ardlay era presente in entrambi ma in misura molto differente: "Anche se devo dire che mi sarei vergognata più di me stessa. Alla fine, Neil ed Eliza sono la copia esatta della loro stolta madre. E lo sono stata anche io a non rendermene conto, dopo aver vissuto con loro sotto lo stesso tetto. Meglio tardi che mai", concluse, sapendo che avrebbe sempre avvertito quella punta spiacevole di senso di colpa opprimerle il petto.

"Ora basta, zia. Non voglio più recriminare o attribuire colpe a nessuno. Voglio lavorare per riportare in pista la famiglia e riprendermi la mia vita. E...". La frase rimase sospesa, mentre lui chiudeva gli occhi.

Sapeva perfettamente a chi stesse pensando.

"Andiamo a pranzo, nipote", suggerì chiudendo il discorso ed evitandone altri che si sarebbero potuti rivelare sgradevoli.
 
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Comunicazione di servizio: in via del tutto eccezionale il prossimo aggiornamento avverrà mercoledì, in quanto mi assenterò per una decina di giorni e non potrò postare il capitolo successivo prima del 10-11 settembre.

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Capitolo 49
*** Turbamenti ***


Karen cercò di concentrarsi sulle battute, ma all'ennesimo richiamo di Robert dovette arrendersi all'evidenza: era troppo distratta per lavorare.

"Insomma, che diavolo ti prende? Stai ancora pensando a Romeo? Questa è Troilo e Cressida, se non te ne fossi resa conto!", sbottò il regista, allargando le braccia col copione in mano.

"Lo so, mi dispiace, ma non mi sento bene. Vorrei chiederti il pomeriggio libero, se possibile", disse sospirando.

Robert emise una specie di sospiro dal naso, cosa che le fece pensare a un cavallo sul punto d'imbizzarrirsi. Le si avvicinò tanto che poté sentire il suo alito che sapeva di tabacco masticato sulla faccia: "Di' un po', Karen, non sarai mica incinta?".

Lei spalancò gli occhi e fece un salto all'indietro, guardandosi attorno nel timore che i colleghi potessero aver sentito quello che le aveva appena chiesto il suo principale: "Che diavolo stai dicendo?", sbottò a denti stretti.

Il regista si strinse nelle spalle: "È inutile che ti agiti tanto, qui quasi tutti se lo sono chiesto. Ci siamo accorti di quanto vi siate avvicinati durante l'ultima tournée, prima che Terence se ne andasse per recitare in quel film. Ci siamo sbagliati?".

Karen sentì il sangue affluirle al cervello: era furiosa, allibita, scioccata. "Come vi permettete di parlare della mia vita privata alle mie spalle? E che ne sapete di me e Terence?!".

"Quindi non è vero che avevate una relazione romantica?", chiese Liam, alzando un sopracciglio.

"Fatti gli affari tuoi!", ribatté alzando ancora di più la voce. "Fateveli tutti quanti! Non ho nessuna relazione romantica e non sono incinta, dannazione!", gridò togliendosi la parrucca e sbattendola a terra. "Ci vediamo domattina, ciao Robert!".

Senza aspettare una risposta, né dare altre spiegazioni, uscì dal palco e camminò a grandi passi fino al camerino, sentendo risuonare i propri tacchi prima sul legno e poi sulla moquette. Aprì la porta con uno strattone e se la richiuse alle spalle, appoggiandosi contro e scivolando lentamente a terra.

Si passò le mani tra i capelli, lasciando finalmente uscire le lacrime, singhiozzando per la frustrazione.

L'ultima telefonata di Terry non aveva fatto altro che crearle nuove illusioni e farla soffrire ancora di più. C'era davvero una speranza che si fosse innamorato di lei? Perché, allora, non lo diceva con chiarezza? Era solo l'intesa fisica a farlo parlare o qualcosa di più profondo?

Si passò le mani sul viso, asciugandosi gli occhi con rabbia, odiando quella sua fragilità. Per un solo istante, pensò che se fosse davvero rimasta incinta almeno avrebbe avuto qualcosa che le ricordasse il suo unico amore, ma per fortuna non c'era alcuna possibilità che si trovasse all'improvviso nelle condizioni di dover lasciare la recitazione per allevare un figlio senza padre.

Voleva che lui le lasciasse il suo ricordo indelebile e l'aveva fatto.

Lo sognava ogni notte, in ogni dannato sogno era fra le sue braccia e baciava le sue labbra. Ma tale sarebbe rimasto tutto.

Un sogno.

Si alzò togliendosi gli abiti di scena e recuperando i suoi vestiti. Desiderò con tutto il cuore poter cambiare i sentimenti proprio come stava facendo con quegli abiti.
 
- § -
 
Fai finta di non sentirla, guarda davanti a te.

"Tesoro, mi senti, vero? Sono io, la tua mamma! Ti prego, Eliza, parlami! Ti ho fatto l'acconciatura che tanto ami".

Lo specchio che la mano tremante le aveva messo davanti le rimandò l'immagine di una ragazza dai capelli rossi perfettamente curati, ma con gli occhi vacui come due grandi pozze d'acqua piovana.

Non ammirarti, rimani impassibile.

Lo specchio si abbassò e sua madre prese a piangere. Eliza la odiò. Cosa aveva da piangere?! Lei era libera, maledizione, il giudice forse non l'avrebbe nemmeno rinchiusa, dato che lei e Neal avevano raggiunto la maggiore età ed erano responsabili delle loro azioni.

"Figlia mia, perdonami per non esserti stata vicino quando avevi più bisogno di me! Se solo mi fossi accorta di quello che tu e tuo fratello stavate facendo, io...", si voltò e la prese per le spalle, come se le fosse d'improvviso venuto in mente qualcosa d'importante. "Io avrei potuto aiutarvi! Vi avrei suggerito un modo migliore per distruggere Candy e prendere il suo posto".

Prendere il suo posto?!

"William avrebbe potuto sposarti e saresti stata la nuova matriarca! Avresti superato di grado persino la zia Elroy, ci pensi? Ti avrei detto come avresti potuto sedurlo e incastrarlo, sei bella e ci saresti riuscita!"

Pensi che io non ci abbia pensato, stupida di una madre?! Ma lui non aveva occhi che per Candy! Dovevo eliminarla oppure, nella migliore delle ipotesi, infilarmi nel letto del patriarca con l'inganno. Era questo che volevi? Allora perché non l'hai detto subito?

"Perché avete dovuto fare una cosa simile? Perché non siete stati attenti? Tuo fratello rischia l'ergastolo!".

Quelle parole la colpirono come la coltellata che non aveva ricevuto in quella casa putrida di Miami. Neal poteva morire in carcere. E lei anche.

No, non se rimango catatonica.

"Eliza, parlami, non voglio che resti così", supplicò.

Fu tentata di gridarle che era una pazza. Sì, Sarah Lagan era una pazza, non lei che era stata tanto furba da continuare a fingere di esserlo per evitare la galera. Voleva davvero che uscisse da quello stato per andare a consegnarsi nelle mani della giustizia?

La donna chinò il capo, continuando a parlare come se lei potesse sentirla.

E in effetti ti sento, che divertente!

"Tuo padre è andato a prostrarsi ai piedi di quel vagabondo, ma io no! Io vi ho difesi!", disse con gli occhi che le brillavano di lacrime e follia.

Sì, certo, come no. Se mi concentro bene forse riesco persino a crederti.

"Mi sono umiliata io stessa, ma davanti alla zia Elroy e sai una cosa? Ora fa la dura, ma sono certa che vi vuole bene come una volta!".

Sì, mamma, hai davvero bisogno di un ricovero coatto anche tu.

"Signora, dovrebbe uscire, dobbiamo fare il bagno alla signorina", disse la voce nota dell'infermiera dalla porta. Dentro di sé, Eliza tirò un sospiro di sollievo.

Quella era la parte meno divertente, ma poteva sopportarla. Doveva farsi spogliare e muoversi meccanicamente mentre la lavavano e provvedevano alla sua igiene, aprire la bocca e masticare se le avvicinavano del cibo: se solo le avessero portato delle pietanze più gustose!

Un giorno fuggirò da qui, statene certi.

E, in attesa di quel giorno, Eliza Lagan sarebbe rimasta catatonica.
 
- § -
 
"Oggi faremo una cosa nuova, Candice", disse il dottor Carter con tono allegro.

Lei lo guardò con sospetto: le stava parlando come a una bambina stupida cui si voglia imporre qualcosa usando il gioco.

"Che fine ha fatto la tua infermiera del cuore? Si è congelata definitivamente?", chiese dandogli del tu come avevano stabilito da qualche tempo. 'Per aumentare la fiducia tra noi', le aveva detto. Come se quello potesse aiutarla a sentirsi meglio.

Stentava ancora a credere di essere stata una donna amichevole e altruista. Forse indipendente, visto che non vedeva l'ora di andarsene da quella specie di villa-prigione, ma la sua anima era pervasa di continuo dal dubbio e dal timore.

Voleva conoscere alcuni aspetti del suo passato, ma temeva di avvicinarsi ad altri e si era convinta che ci fosse qualcosa di oscuro, oltre alla morte di quell'Anthony, che le impediva di rimanere serena. Cos'altro le era successo di così brutto da bloccare determinati ricordi, provocandole un senso di rifiuto non appena vi si avvicinava?

Più ci pensava, più era certa che William Ardlay avesse qualcosa a che vedere con tutto ciò. Di sicuro era successo qualcosa tra loro due, oltre al fatto che aveva ordinato una maledetta caccia alla volpe.

"È andata a lavorare in Europa come volontaria. Era un'ottima collega", rispose Carter distogliendola dai suoi ragionamenti.

Candy alzò un sopracciglio: "Oh, sì, davvero brava", lo liquidò con un gesto. "Se vuoi ipnotizzarmi di nuovo per convincermi che il mio patrigno è un santo, ti dico subito di no".

Lui scosse la testa: "Non faremo questo, anche se prima o poi dovremo affrontare anche tale aspetto. No, usciremo fuori".

Un'emozione contrastante le attanagliò le viscere: terrore, ma non come quello che la coglieva quando la sorprendevano i ricordi. Era più una sensazione di debolezza e di vertigine, simile a quella che aveva avuto appena sveglia. Stare in uno spazio aperto le dava l'impressione di cadere, di essere fragile e leggera come una piuma in mezzo a una tempesta di vento.

Ma provava anche speranza. Quella di potersi muovere da sola e scegliere il suo destino in autonomia.

"Non ti preoccupare, non andremo molto lontano. Ci limiteremo al parco qui vicino". Doveva aver notato la sua titubanza, perché il tono era più serio e conciliante.
"Sì, voglio provarci", disse come se glielo avesse chiesto.

Ordinò alle sue gambe di muoversi mentre il medico apriva la porta e le faceva cenno di uscire dalla sua piccola stanza: "Procederemo per tappe, partendo dai luoghi che ti sono familiari. Cominciamo arrivando alla biblioteca e da lì scenderemo le scale per raggiungere la porta principale. Va bene?".

Candy annuì, tesa, sentendosi come se dovesse seguire una guida turistica in una città sconosciuta. E, in effetti, non le venne in mente alcun luogo familiare.

Camminavano piano, senza fretta, fianco a fianco e Carter cercava di distrarla parlandole delle sue intenzioni di renderla abbastanza sicura di sé da portarla alla famosa Casa di Pony o ovunque ci potessero essere ricordi da recuperare.

Troppo concentrata sul suo respiro e sui suoi piedi, lei non si soffermò troppo su quel futuro che non sapeva se desiderare o meno. Per quanto la riguardava, poteva andarsene fino in Africa e ricominciare una nuova vita con un nome fittizio e sarebbe stata a posto con se stessa.

L'Africa... curioso che le fosse venuto in mente un continente tanto lontano. Forse perché era completamente diverso dalla civilizzata America.

Tra il chiacchiericcio di Carter e le sue divagazioni, infine arrivarono vicino alla soglia della biblioteca, dove lei era entrata molte volte per prendere dei libri da leggere. Toccò la porta come per segnare un obiettivo raggiunto, ma aveva il fiato corto come se avesse corso.

D'improvviso, volle testare fino a che punto poteva cavarsela da sola e si girò verso Carter: "Vorrei provare a girare l'angolo del corridoio per arrivare alle scale principali. Può rimanere un po' indietro, per favore?".

Lui fece un sorrisetto sghembo e soddisfatto che non avrebbe fatto se avesse saputo che i motivi che la spingevano a fare quello sforzo erano molto diversi dai suoi.
Prendendo fiato per darsi coraggio, iniziò ad avvicinarsi a quella curva. Un passo dopo l'altro, contandoli, guardandosi le punte dei piedi e pensando alla propria libertà fuori da quella casa.

All'angolo chiuse gli occhi e fu allora che accadde.

Si scontrò con qualcuno che veniva dal verso opposto, cadendogli direttamente fra le braccia. Non ebbe quasi bisogno di guardarlo, perché era come se il suo corpo ne avesse riconosciuto il calore.

 Albert, sei proprio tu!

Anthony... Anthony è morto!

Oh, Albert, io e Terry ci siamo lasciati!

La testa le stava esplodendo. In quel calore, in quelle braccia erano celati ricordi slegati ma chiari nei quali era lei a gettarvisi spontaneamente. E chi era Terry?

Tarzan Tuttelentiggini.

Candy gridò, scostandosi e perdendo l'equilibrio, ma lui fu lesto a riprenderla: le sue mani erano strette sui gomiti, impedendole di cadere e gli occhi celesti la fissavano spalancati.

Com'è cambiato!

Rimase lì, paralizzata, con gli strascichi di quei pensieri che le braccia di William Albert le avevano evocato. Si rese conto di due cose: in passato lo aveva chiamato col suo secondo nome e, al momento, sembrava l'ombra di se stesso, magro e con le guance scavate.

Un senso di tristezza le sferzò l'anima, ma passò subito, sostituito da quella paura atavica e dal ricordo, molto più recente, che lei odiava quell'uomo.

"Non mi toccare!", gli urlò divincolandosi dalla sua stretta.

 "Candice?", la voce di Carter la raggiunse alle spalle e lei cercò si staccare lo sguardo dall'uomo che aveva di fronte, che sembrava calamitarlo di continuo.

Cosa c'è che non va in me?

"Mi dispiace, ci siamo scontrati", disse con un tono amichevole e più rilassato di quanto i suoi lineamenti sconvolti volessero farle credere. "Ciao Adrian, andate a fare una passeggiata?".

"Sì, è proprio così", rispose lui porgendole il braccio. Vi si appoggiò perché non si fidava delle proprie gambe tremanti.

"Sono felice di rivederti in salute, Candice", fu l'unico commento che le rivolse, con cortesia e fermezza. Eppure in quegli occhi...

"Non posso dire lo stesso di te", ribatté guardandolo in modo significativo.

"Ho passato momenti migliori", si schernì con una risatina, abbottonandosi la giacca nera come se non volesse mostrarsi a lei.

Era caldo. E ossuto. Direi che ho potuto quasi contargli le costole. In carcere devono averlo ridotto alla fame.

"Bene, noi proseguiamo fino al parco, se la paziente se la sente. Ci vediamo più tardi a pranzo", lo salutò Carter portandola con sé sottobraccio.

Mentre si allontanava da William con lui, come una ragazza al fianco del suo fidanzato, Candy sentì all'improvviso di stare nel posto sbagliato.

Quello giusto lo aveva occupato solo poco prima.
 
- § -
 
Caro Albert,
come stai? Ho saputo che di recente, per te come anche per Archie, l'incubo è finalmente finito. Mi dispiace non essere più venuto a trovarti, specie dopo che ci siamo lasciati in quel modo, e mi dispiace averti colpito: mi sono comportato come un bambino che rivendichi un giocattolo che non è più suo. Parlando con George ho saputo quello che ti è successo e, credimi, sono stato sul punto di prendere un altro treno per venire a Chicago. Ma lui mi ha suggerito di lasciar perdere, perché eri privo di conoscenza e quando finalmente ti sei ripreso ho immaginato che foste troppo indaffarati col processo.
Un giorno ci rincontreremo e mi racconterai, se vorrai, chi ha osato fare un gesto tanto ignobile da coinvolgere la tua famiglia in qualcosa di così assurdo. Ma sono certo che vi riscatterete a breve, so che è stato annunciato un evento.
Albert, non verrò di nuovo a cercare Candy, anche se avrei una gran voglia di riabbracciarla, perché so che non sarebbe un bene per lei che è ancora confusa e senza memoria. Non voglio neanche disturbare di nuovo il signor Villers, che è stato tanto gentile con me in questi mesi di telefonate e improvvisate.
Ma, ti prego, dimmi se sta bene, che speranze ci sono che recuperi il suo passato e se posso fare qualcosa oltre a starmene qui ad aspettare. Farei qualunque cosa per la mia signorina Tuttelentiggini e no, non devi essere geloso.
Le voglio bene, e molto, ma per me è un capitolo chiuso. Mi sto innamorando seriamente di un'altra donna, ma questo è un discorso troppo lungo che magari faremo un'altra volta...
Abbi cura di te, dei tuoi cari e... di Candy.
Un abbraccio.
Il tuo amico Terence

Terry firmò la sua lettera e la chiuse, poi la inserì nella busta su cui aveva già vergato l'indirizzo e la mise nella tasca della giacca. Quando uscì, l'aria tiepida della tarda primavera lo investì e la respirò a pieni polmoni.

Era un idiota.

Poteva imparare a memoria un copione e scrivere una lettera nella quale esprimeva ciò che sentiva, ma non poteva dirlo direttamente alla donna che stava imparando ad amare.

Si disse che dipendeva dal fatto che doveva ancora fare chiarezza nel suo cuore, che ancora non era certo di volersi impegnare. Eppure, non poteva ignorare quel senso di vuoto che lo attanagliava ogni giorno di più: gli mancava la sua voce, la sua presenza spesso invadente, il suo sguardo e anche i suoi capelli, la sua pelle profumata di pesca...

Con un sospiro impaziente, entrò nell'ufficio postale cercando di concentrarsi sulla spedizione della lettera e non sui suoi pensieri romantici. Un signore lo richiamò in malo modo quando fu il suo turno e non si mosse.

Se fosse andato avanti così, presto si sarebbe dimenticato le battute. A dire il vero era già successo un paio di volte e per fortuna che non si trovava in teatro ma davanti a una macchina da presa, o sarebbe stato un disastro.

Ancora un mese, solo un mese e sarebbe stato libero da quelle maledette riprese. Avrebbe tenuto fede al suo impegno e non si sarebbe mai più avvicinato a un set cinematografico, di certo non finché i film fossero rimasti muti.

Doveva tornare in teatro e ricominciare ad allenare la mente, provare il brivido e l'adrenalina mentre si calava nei panni di chiunque altro non fosse il se stesso insicuro e fragile.

Uscì dall'ufficio postale e guardò il cielo terso. Chissà se Candy e Karen stavano guardando lo stesso cielo, chissà cosa stavano facendo. Provava ancora una fitta di dolore per la sua Tuttelentiggini, avrebbe voluto abbracciarla, dirle quanto le voleva bene e ricordarle i giorni spensierati alla Saint Paul School, che mai gli erano sembrati più lontani.

E voleva Karen, al suo fianco. Per sempre.

Quella consapevolezza lo accecò: non aveva pensato che forse non era ancora pronto a un impegno a lungo termine, solo qualche minuto prima?
In quel momento di confusione estrema, Terence capì che aveva proprio bisogno della scossa di qualcuno. Qualcuno come Candy o Karen, ad esempio.
 
- § -
 
Adrian lasciò sedere Candy sulla panchina. Aveva gli occhi chiusi e il respiro era corto, ma tutto sommato se la stava cavando bene: "Complimenti, Candice, è andata meglio di quanto pensassi", le disse, soddisfatto.

"Mi sento come se fossi fatta di gelatina", ribatté lei con una smorfia, "e potessi volare via da un momento all'altro".

Carter sorrise: "Non succederà, te lo assicuro. Apri gli occhi e guarda verso destra". Il tono di voce era quello calmo e pacato di quando la ipnotizzava, ma non aveva intenzione di farlo. Non se poteva aiutarla mentre era a livello cosciente.

Candy strinse gli occhi ancora più forte, poi lentamente li aprì, scossa da un brivido che non gli sfuggì.

"Cosa vedi?", le domandò sempre a voce bassa.

"Un albero", rispose tremante. Non sembrava più la stessa ragazza arrogante e fredda, ora somigliava più a una bambina spaventata. E, da quello che gli avevano raccontato, non lo era mai stata.

"Concentrati sui particolari. Cosa vedi, innanzitutto?", il tono era carezzevole.

"Il tronco", rispose più ferma.

"Vedi la sua stabilità? Le radici affondano nel terreno e il fusto è solido. Sentiti come quel tronco: salda sulla terra, ancorata al pavimento erboso".

Candy respirava più calma, ora.

"Come va?", le chiese.

"Direi... meglio", le mani si strinsero per un attimo sulla gonna e poi si rilassarono. "I rami vanno verso il cielo, le fronde si muovono al vento. Sono libere ma è solo un'illusione. In realtà sono fermamente vincolate da quel tronco". Sembrava infastidita, ora.

"E tu ti senti vincolata come quelle fronde?", le domandò appoggiandosi allo schienale. Lei lo imitò, allentando la tensione nei muscoli dell'intero corpo.

"Voglio imparare a essere libera per vivere la mia vita", dichiarò aggrottando le sopracciglia.

Carter tacque per un istante, lasciando che le emozioni fluissero in lei, quindi la avvertì: "Puoi scappare anche molto lontano, Candy, ma il tuo passato ti raggiungerà sempre. Prima o poi ricorderai, ovunque tu sia".

"Non puoi esserne certo", sbottò lei.

"Sta già accadendo, Candy. Quando abbassi la guardia, nel sonno, o se sei preda di emozioni violente come quella di poco fa, le tue barriere si possono abbassare", spiegò scrutando con attenzione i lineamenti del viso. La bocca si contrasse.

"Anche se ero impaurita non ho avuto alcun ricordo", si difese voltandosi a guardarlo, "quindi ti sbagli".

"Non mi riferivo alla nostra uscita. Ma al tuo scontro con Albert, nel corridoio".

Candy risucchiò aria tra i denti e trattenne il respiro. Il volto si arrossò ma non per l'imbarazzo, intuì, la sua era rabbia autentica: "L'unica emozione violenta che ho avuto è stata il fastidio di trovarmelo davanti", sibilò.

"Ho visto come lo guardavi e ti ho sentita urlare. Hai ricordato qualcosa". Adrian abbandonò il tono pacato in favore di uno più serio e fermo, seppur gentile.

Una folata di vento mosse i capelli di Candy, che stavano già ricrescendo, e la linea contratta delle sue labbra strette gli suggerì che si sentiva scoperta. Nonostante tutto, Adrian capiva come mai Albert si fosse innamorato di lei: era veramente molto bella, con quelle lentiggini sbarazzine che di certo le avrebbero donato di più se avesse sorriso più spesso.

Anche se il suo cuore apparteneva a una mora con gli occhiali e il fascino meno appariscente, era un uomo e sapeva riconoscere la bellezza autentica.

"Chi è Terry? Lo conosci?". La sua domanda lo spiazzò. Non aveva ammesso di aver ricordato qualcosa ma era come se l'avesse fatto.

Adrian cercò nei recessi della propria, di memoria, tornando alla conversazione avuta con Albert. Gli aveva parlato di Anthony e dell'attore Terence Grandchester che si faceva chiamare Graham, avendo rinunciato al cognome nobiliare di suo padre.

Terry... Terence... possibile?

"Cosa ti è venuto in mente di questo Terry?", chiese aggirando la domanda per capire se stavano parlando della stessa persona.

Candy si voltò di nuovo a guardare l'albero, come cercando in lui la forza: "A volte sento delle voci nella mia testa e... ho capito di chi sono. Quello che parla delle rose è Anthony, so che le coltivava e mi ha dedicato una qualità che dicono sia molto bella". Tacque per un attimo, deglutendo come se le facesse male, come se il sentimento che la legava a lui fosse tangibile. Era un aspetto che avrebbe dovuto approfondire. "Poi c'è la voce di quel William, che mi dice che sono più carina quando... rido che... quando piango". L'esitazione e l'emozione forte che fecero vibrare la sua voce gli indicarono quanto era tesa. Ma, come al solito, lei passò oltre ignorando il fulcro di tutto il problema. "Infine c'è una terza voce, credo sia questo Terry. Mi chiama con un nome del tipo... signorina Tuttelentiggini".

Il dubbio gli rimase, ma Carter tentò: "Sei stata innamorata di un certo Terence Graham, o Grandchester".

Le sopracciglia si aggrottarono di nuovo: "Terence... Terry...". Le mani salirono alle tempie e lei riprese a respirare pesantemente, sull'orlo di una crisi isterica. Adrian riconobbe i segnali. Stava avendo le stesse reazioni che aveva con Anthony e con Albert.

E l'unica cosa in comune che avevano loro tre era che avevano occupato il suo cuore, in tempi diversi.

Non c'entravano niente la morte, il trauma dei cavalli e la presunta colpevolezza di Albert: la sofferenza per la separazione doveva essere alla base del suo rifiuto.

Ma Albert era lì per lei poco prima che le accadesse l'incidente! Qualcosa gli sfuggiva, ma non poteva pensarci adesso, perché Candy era in preda ai conati e stava gridando, attirando l'attenzione di alcune persone lì intorno.

Adrian l'aiutò ad alzarsi e, con non poca fatica, cominciò a sussurrarle parole confortanti all'orecchio, inducendola a calmarsi mentre la riportava verso casa.

Nonostante ciò, Candy non vomitò e non svenne come accadeva le prime volte e fu abbastanza collaborativa da consentirgli di riportarla nella sua stanza. Quello era un segnale importante che stava imparando a gestire la sua sofferenza.

Lui, da parte sua, era vicino alla soluzione dell'enigma e intendeva cercare una conferma a ogni costo.
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Comunicazione di servizio: come già preannunciato, il prossimo aggiornamento ci sarà dopo il 10 settembre.

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Capitolo 50
*** Il pianto del cielo ***


"Dobbiamo attraversare acque amare
per raggiungere la dolcezza"
Bram Stoker, Dracula.
 

Il cielo minacciava tempesta.

Era incredibile come, dopo giorni di sole primaverile, all'improvviso l'autunno sembrasse volersi impadronire della stagione più mite.

Eppure non faceva freddo, ma Candy lo sentiva fin nelle ossa.

In realtà, lo sentiva da quando si era svegliata in quel letto di ospedale, come se la nebbia fitta che aveva nella testa le penetrasse fin dentro l'anima. Era una nebbia che però, a tratti, la sfiorava con mani seducenti e la faceva rabbrividire contro la sua volontà.

Come le braccia di quell'uomo tra le quali era caduta nel corridoio.

Per un breve, intenso istante, aveva provato la medesima sensazione confortante dei suoi primi attimi del risveglio. Quel calore, quel luogo speciale dietro cui batteva un cuore...

Il ricordo vago e confuso di Anthony tornò a pugnalarla e, ancora una volta, mentre chiudeva la finestra da cui erano entrate folate di vento tiepido, si chiese dove si trovasse quel William mentre suo nipote moriva cadendo da cavallo.

E dove si trovasse quando era caduta lei.

Se davvero era stato il capostipite degli Ardlay che aveva voluto la caccia alla volpe, come mai non era stato più attento? Le avevano raccontato che lei e Anthony si erano allontanati da soli, staccandosi dal resto del gruppo. Possibile che nessuno si fosse curato di andarli a cercare finché non era stato troppo tardi? E poi, che idea terribile quella di cacciare una volpe innocente!

Delle circostanze del proprio incidente non aveva ancora parlato in maniera approfondita ma, ancora una volta, l'unica cosa cui poteva pensare fu che lui, come suo tutore, o patrigno, o quel che diavolo era, avrebbe dovuto impedirlo.

Addossargli tutta la responsabilità delle sue disgrazie le donava un fittizio senso di calma che riusciva ad accettare quasi sempre.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Candy guardò il cielo plumbeo con una punta di nostalgia: le uscite sempre più frequenti con Carter la stavano davvero aiutando, ormai l'agorafobia si stava allontanando da lei e ogni volta si sentiva più sicura di sé.

Il medico aveva sottolineato come, pur fuggendo lontano, i suoi ricordi avrebbero potuto raggiungerla in qualunque momento. Era vero, certo, ma stare in quella casa stava diventando soffocante: aveva un bisogno disperato di allontanarsi da quelle persone che facevano parte del suo passato, soprattutto da lui.

Da quell'Albert che la turbava nel profondo mandandola completamente in tilt.

Voleva recuperare la serenità e lì non ci sarebbe riuscita.

Ormai sapeva abbastanza cose della sua vita. Incluso il fatto che aveva amato un ragazzo di nome Terence. Quello era un altro ricordo che cercava di mantenere sotto la superficie inconscia che rappresentava una sorta di zona di comfort: provare a ricordarlo le faceva male quasi quanto interrogarsi su William.

Quasi.

Un tuono lontano le indicò che la tempesta era vicina.

Candy strinse i pugni, cominciando a maturare dentro di sé una decisione irrevocabile. Annie era in un'altra stanza a discutere con Archibald e il medico, il suo tutore forse nel proprio ufficio e la fantomatica zia Elroy sembrava tentare di evitarla come la peste.

Le avevano detto che era solita arrampicarsi sugli alberi e che, in più di un'occasione, era fuggita da una finestra.

Era pronta a farlo, ora che tutti erano occupati? Ma, soprattutto, era pronta a cavarsela finalmente da sola?
 
- § -
 
"La separazione dalla persona amata", disse Archie con un tono basso e malinconico. Inconsciamente, lo sguardo andò su Annie che gli regalò un leggero sorriso.
Carter aveva un'aura di malinconia, mentre spiegava la sua teoria, che gli fece capire quanto si sentisse a sua volta coinvolto. Possibile che... no, non poteva certo essersi innamorato del gendarme e ora sentirne la mancanza! Oppure sì?

Eppure nei suoi occhi lesse gli stessi sentimenti che traboccavano in lui quando era lontano da Annie, in carcere, i medesimi che avevano fatto soffrire tanto Candy quando era tornata da New York e si era dovuta separare da Terence.

"Mi avete raccontato tutti che la sua vita è cominciata con un abbandono, seppure abbia incontrato sulla sua strada persone amorevoli e amici che l'hanno cresciuta con dedizione estrema", l'uomo si alzò dalla poltrona sulla quale era seduto e camminò per la stanza. Dalla finestra non entrava più la luce del sole e il temporale sembrava imminente.

Annie si alzò per accendere una lampada che era sul comodino: "È sempre stata felice, finché non l'hanno adottata i Lagan", spiegò tornando al divanetto dove si era accomodato lui, ma restando in piedi.

"E, anche lì, la sua forza d'animo l'ha portata a reagire, nonostante le angherie e le avversità", Carter lanciò un'occhiata nella loro direzione, un sopracciglio sollevato come a chiedere conferma.

Annuirono entrambi: "Quando stava con noi sembrava dimenticarsi che viveva in una stalla e che quella che doveva essere la sua famiglia, in realtà, la odiava".
Il medico unì le dita delle mani fin quasi a giungerle e se le portò vicino al labbro inferiore, misurando la stanza con lunghi passi. La malinconia era già stata sostituita da un tono professionale: Archie si chiese se non si fosse sbagliato.

"Ed è lì che incontra nuovi amici e s'innamora di Anthony. Archie, com'era il rapporto tra i due ragazzi?", gli chiese, portandolo indietro nel tempo.

Lui sorrise, ricordando quei momenti con tenerezza e nostalgia: "Oh, Candy aveva una luce diversa negli occhi, quando appariva Anthony! E anche lui sembrava felice. Sono certo che, se le cose fossero andate in modo diverso, lui e Candy...", lasciò la frase in sospeso, lanciando un'occhiata significativa al medico.

"Facciamo un salto in avanti", disse poi continuando a camminare, mentre il vento cominciava a far vibrare i vetri.  "Candy conosce Terence mentre è alla Saint Paul School di Londra, dico bene?".

Archie era stupito: ne aveva forse parlato con Albert? Mentre ci pensava, Annie intervenne, facendo un passo verso Carter: "A essere precisi l'ha incontrato sulla nave che l'avrebbe portata in Inghilterra. Mi ha raccontato che si è trattato di un incontro breve, ma lei ne era rimasta colpita perché all'inizio lo aveva scambiato per Anthony, che era morto da poco".

Con un dito poggiato sul mento, il medico aggrottò le sopracciglia: "Sì, giusto, Albert mi ha raccontato quella parte. Se però parliamo dell'attore che è diventato famoso negli ultimi anni non vedo somiglianza... beh, almeno con William, che dovrebbe invece avere tratti simili al suo defunto nipote".

Anche Archie era confuso: quella parte della storia, a dirla tutta, non la conosceva affatto. Come aveva potuto Candy scambiare uno come Terence per il dolce Anthony?
Scuotendo la testa, Annie spiegò: "Infatti Candy mi disse che si è trattato solo di un momento. Lui era di spalle e i suoi capelli sono di un colore del tutto diverso da quelli degli Ardlay. Credo che in lei ci fosse ancora quella ferita aperta. Dopotutto, lo zio William l'aveva mandata a Londra a studiare proprio con l'intenzione di lenire il suo dolore e allontanarla da quei luoghi".

Un tuono risuonò in lontananza e Carter annuì: "Da quello che mi ha raccontato Albert, la relazione tra Terence e Candy non è mai stata conclamata. Erano più che altro buoni amici e lui li conosceva entrambi: quando erano a Londra e lui lavorava in uno zoo si era reso conto che c'era un legame speciale tra loro. Ma la vera svolta è arrivata tempo dopo, quando lui e Candy vivevano insieme e lei gli parlava di questo Terry, che lui non ricordava perché aveva perso la memoria".

Archie si alzò per accendere un'altra lampada: fuori era sempre più buio.

"Quando è tornata da New York, mio fratello era appena partito per la guerra ed eravamo tutti sconvolti, così non ci siamo resi subito conto di ciò che era accaduto tra Candy e Terry. Ma aveva la febbre alta e Albert si è preso cura di lei", spiegò tornando verso il divano, dove Annie si era di nuovo seduta.

"Albert mi ha detto che ha sofferto molto e più di una volta l'ha sorpresa a piangere per lui. La loro storia è finita a causa di un'altra donna, l'attrice Susanna Marlowe, morta di recente. A quanto pare aveva perso la gamba per salvare Terence e lui è rimasto al suo fianco, spinto dalla stessa Candy. Si è trattato di un atto di grande coraggio da parte di entrambi". Il tono di Carter era diventato quasi triste, come se provasse davvero empatia per quella storia sfortunata. Aveva le mani in tasca e le spalle un po' curve. "Ma voi l'avete vista andare avanti con la sua vita?".

Archie guardò Annie: dovevano rivelare altri segreti di famiglia se volevano raccontare il resto di quella storia.

"La verità è che a quell'epoca lavorava molto, specie dopo che Albert le ha intestato la Casa di Pony e ha aperto una clinica lì vicino. Ma si scambiavano delle lettere e...". Annie fu interrotta da Carter, che alzò una mano per intromettersi nel discorso.

"Ok, aiutatemi a capire. Dunque, i primi due uomini di cui lei si è innamorata sono usciti dalla sua vita in modo più o meno tragico e traumatico. Albert, con cui stava cominciando a nascere qualcosa, non l'ha mai delusa. O sbaglio?".

Stavolta fu Annie a cercare i suoi occhi e lui a rispondere: "Dottor Carter... Adrian, se dobbiamo essere sinceri noi ricordiamo in maniera netta il loro bellissimo rapporto quando vivevano insieme e lui era senza memoria, poi non sappiamo bene cosa sia cambiato o maturato, in quella relazione. Devo anche dirle che nessuno di noi, nemmeno Candy, all'epoca sapeva che Albert e lo zio William fossero la stessa persona".

Gli occhi di Carter si riempirono di comprensione: "Oh, bene, ora è molto più chiaro. Albert in cella mi aveva parlato soprattutto del loro primo incontro da ragazzini e di Terence. Ma come è possibile che lui non si fosse rivelato?".

"Beh, vede... Albert è diventato il capofamiglia quando era poco più che un bambino. La zia Elroy e il Consiglio lo hanno tenuto letteralmente nascosto finché non fosse stato pronto per prendere le redini della famiglia. Ma lui era comunque presente, nonostante tutti i suoi viaggi, e spesso si trovava al fianco di Candy. Quando lo hanno portato al Santa Joanna senza memoria stava tornando dall'Africa perché aveva saputo che lei era fuggita dalla Saint Paul School e stava studiando per diventare infermiera...". Archie s'interruppe, conscio di star riversando troppe informazioni tutte insieme.

Adrian scosse la testa, sorridendo: "Beh, non si può dire che sia una storia facile o poco complicata, ma ho afferrato il concetto. Albert, il ragazzo della collina e lo zio William sono diventati una sola entità all'improvviso e con il tempo la loro relazione è mutata in qualcosa di più profondo, anche se non sappiamo i particolari. Ci siamo?".
"Sì", dissero lui ed Annie all'unisono.

"Bene, quindi mi sfugge ancora qualcosa della psiche di Candy. Posso capire che stia male al ricordo di Anthony o di Terence, rifiutando di ricordarsi del tutto di loro. Ma perché provare quasi repulsione per Albert, con cui invece le cose stavano andando bene? Forse è accaduto qualcosa che non so nei giorni precedenti l'incidente?".

Archie cominciava ad amare quella conversazione, perché ogni volta che Carter faceva una domanda su cui lui o Annie avevano dubbi, i loro sguardi s'incrociavano come fossero sincronizzati. Erano passati dal lasciarsi a capirsi con una sola occhiata e questo gli fece desiderare con ancor più ardore di averla accanto senza perdere altro tempo: la loro intesa era incredibile.

"In quei giorni eravamo tutti a Lakewood", cominciò Annie, "e Candy mi aveva già confessato di provare dei sentimenti nuovi per Albert. Se devo essere sincera non abbiamo prestato molta attenzione a loro, perché avevamo... altri problemi e poi sono arrivati i Lagan. Ma sembravano molto affiatati e spesso andavano a cavalcare insieme".

Ad Archie non era sfuggita la tensione che aveva fatto stringere le mani sul vestito ad Annie, quando aveva parlato dei loro problemi. Ma venne anche colto dalla rabbia per gli eventi successivi: "Quella maledetta di Eliza", sbottò, "se non l'avesse portata a cavalcare da sola tutto questo non sarebbe successo!".

Carter alzò un sopracciglio: "Sospettate che il suo incidente sia stato di origine dolosa?".

"Sì", continuò con veemenza, "lei e suo fratello meritano di rimanere...".

"Archie",  lo interruppe Annie e lui la vide scuotere la testa.

Si ammorbidì e capì che, per quanto si fidassero del buon medico, non dovevano certo scoprire tutti i segreti più torbidi della loro famiglia. Bastava concentrarsi su Candy. "Mi scusi, tutto questo esula dal motivo principale per cui lei è qui".

Lui gli sorrise: "Stia tranquillo, non è neanche mia intenzione chiedervi resoconti dettagliati, a meno che non siano collegati con la psiche di Candy. E, più che la ragazza che l'ha indotta a cavalcare, qui è implicato Albert. Che, da quel che mi riferite, non l'ha mai delusa, perlomeno non in quello specifico momento".

"Ma per colpa mia che non sono stato attento a parlare, ora lei sa che lui ha ordinato la caccia alla volpe nella quale è morto Anthony. Forse nella sua mente confusa e priva di memoria è quella la terza delusione d'amore", tentò Archie.

Carter annuì con vigore e un tuono più forte esplose poco lontano: "È proprio il concetto al quale ho girato intorno per molto tempo, ma l'istinto mi suggerisce che mi sfugge qualcos'altro. Tutti i traumi di Candy sono avvenuti prima che perdesse la memoria e, sempre prima che ciò accadesse, in apparenza lei era venuta a patti con quella caccia alla volpe. Albert mi ha raccontato che c'è stato un chiarimento, nel quale ognuno di loro ha avuto sensi di colpa poi dissipati. Quindi, perché tornare indietro? Possibile che la smemoratezza abbia, in qualche modo, modificato la personalità di Candy al punto da farla tornare inconsciamente indietro, tanto da rivalutare qualcosa di già consolidato?".

Archie si grattò la testa, pensieroso: "Se devo essere sincero comincio un po' a perdermi in questi ragionamenti", disse. "In realtà è come se le avessi instillato io quell'idea, senza volerlo".

"Può darsi", ribatté lui allargando le braccia, "ma ha detto anche una cosa giusta, Archie. Questi ragionamenti sono davvero troppo complicati per una donna che ha perso la memoria, anche se i segreti del cervello umano rimarranno misteri difficilmente spiegabili dalla medicina ancora a lungo. Nonostante ciò, io propendo per qualcosa di più semplice, di più immediato che muove i sentimenti di Candy".

"Ma allora... cosa può farle così paura o darle fastidio, in Albert, tanto da indurla a evitarlo o persino a odiarlo?", chiese Annie, con una punta di esasperazione.

Carter parve riflettere per lunghi istanti, poi si voltò verso di loro. Quando espresse la sua teoria, lui e Annie si guardarono per l'ennesima volta.
 
- § -
 
Doveva mettersi alla prova e quella era la sua occasione per farlo. Avrebbe preparato una piccola borsa e sarebbe scappata: se poi il coraggio le fosse mancato, avrebbe sempre fatto in tempo a tornare indietro.

Ma prima doveva capire da dove uscire.

Quando aprì la finestra, una forte folata di vento la costrinse a schermarsi con una mano, perché le schiaffeggiò il viso e i capelli. L'albero era lì, a pochi metri da lei, ma non c'era modo di arrivarci, a meno di fare un salto acrobatico che forse solo un gatto o una scimmia avrebbero potuto compiere. La soluzione più facile sarebbe stata calarsi dal primo piano.

Si affacciò valutando l'altezza e le gambe le tremarono. Forse l'agorafobia si era attenuata, ma ora aveva le vertigini. Rimase affacciata finché le prime gocce di pioggia non cominciarono a bagnarle il volto e la punta delle dita strette sul davanzale, allora decise di chiudere la maledetta finestra e passare al piano B.

Che non poteva che essere passare dalla porta principale, sperando di non incrociare nessuno.

Valeva la pena rischiare? Forse sarebbe stato meglio fuggire di notte, ma le venne in mente che avrebbero chiuso il portone e i cancelli a chiave e lei non voleva certo scavalcare o mettersi a cercare le chiavi.

Si sentiva in trappola.

Facendosi coraggio, uscì dalla sua stanza stringendo la piccola borsa che aveva preparato mentre stava ancora facendo congetture, infilandoci dentro solo qualche cambio di biancheria e la sua spazzola: i vestiti sarebbero stati troppo voluminosi e quello che indossava era pulito.

Attraversò la stanza che era stata di Frannie, sentendo sui vetri l'urlo del vento e il picchiettare sempre più insistente della pioggia. Mentre apriva la porta che dava sul corridoio, fu illuminata dal lampo cui seguì un tuono fragoroso.

Sembrava non ci fosse nessuno in giro.

Con passi lenti e cercando di fare meno rumore possibile, Candy andò verso le scale e, poco prima di giungere vicino alla porta della biblioteca, udì qualcosa. Di colpo, s'irrigidì e si fermò.

C'era un suono che proveniva da una stanza chiusa poco distante e lei lo riconobbe come quello di un pianoforte. Per un istante si chiese se fosse Annie, che sapeva amare molto quello strumento, ma la voce maschile che cantava sommessamente fugò quel dubbio, gelandola sul posto.

Albert mi sta portando a Lakewood e mentre guida si mette a cantare una vecchia canzone scozzese. Non pensavo avesse una voce così bella.

Si portò le mani alla testa. Quella canzone. Quella voce.

Inginocchiandosi sul pavimento, cercando di modulare il respiro e contenere la crisi da sola, rimase imbrigliata tra l'uscita dall'altro lato del corridoio e quel canto malinconico che proveniva dalla stanza della musica.

Puoi scappare anche molto lontano, Candy, ma il tuo passato ti raggiungerà sempre. Prima o poi ricorderai, ovunque tu sia.

Avrebbe sempre fatto così male? Forse, se avesse finalmente fatto chiarezza nel suo cuore, annullando quel contrasto continuo tra odio e attrazione, sarebbe stato tutto più semplice.

Doveva capire, analizzare i suoi sentimenti. Anthony. Terry. Albert. Tutto sarebbe dovuto tornarle.

Ma, per farlo, doveva entrare in quella stanza. Ora.
 
- § -
 
Albert batteva sui tasti come se volesse imprimervi tutta la sua frustrazione. La canzone gli sgorgò dalle labbra, seguendo la melodia, senza che neanche se ne accorgesse.

Era da tempo che non suonava il piano e non pensava che fosse così facile ricordare dove mettere le dita, che sembravano trovare da sole la strada giusta. Quando aveva finito di lavorare, con largo anticipo sulla sua tabella di marcia, aveva lasciato lo studio ed era stato allora che la stanza della musica lo aveva attratto in maniera irresistibile.
Trascinato dalla melodia, stava sfogando su quello strumento e con la sua voce tristezza e incertezze.

Candy era stata per pochi istanti fra le sue braccia e lo aveva malamente respinto. Aveva cominciato a uscire e ne era lieto, ma si stava allontanando sempre più da lui. Sentì che la stava perdendo in via definitiva e doveva farsene una dannata ragione.

Per quanto ancora poteva struggersi per Candy, attendendo col cuore in gola che si ricordasse di lui? Perché doveva continuare a infliggere quel danno a se stesso? Era un uomo e doveva accettare la realtà, andare avanti con la sua vita. Se l'era ripetuto tante di quelle volte che ormai aveva smesso di dare retta persino a se stesso: di certo, era pessimo a seguire i propri consigli.

Gli bastava vederla per veder crollare tutti i buoni propositi, neanche fosse un ragazzino innamorato.

Ma era così che si sentiva, lui, l'incrollabile e libero William Albert Ardlay. Per quanto tentasse di ricostruirsi, tutto si sbriciolava non appena pensava a Candy, come un castello di sabbia eretto male.

Sospettò che anche l'esperienza in carcere non lo avesse aiutato molto nel processo, ma ormai non aveva più importanza: si sarebbe concentrato sulla risalita degli Ardlay e sul comunicato ufficiale che sarebbe avvenuto a breve.

Spingendo con il diaframma, prese una nota più alta ma le dita scivolarono sui tasti e la melodia stonò per un breve istante. In quel preciso momento, la porta di aprì sull'unica persona che non credeva di vedere.

La stonatura divenne una specie di cacofonia quando le sue mani si abbandonarono sul pianoforte alla cieca e lui spalancò gli occhi, incredulo: "Candy", mormorò maledicendosi per averla chiamata nel modo sbagliato.

Ma lei non parve essersene accorta ed entrò quasi con circospezione, come se stesse cercando di convincersi che fosse una buona idea.

Ora, nel silenzio, si sentivano solo il rumore della pioggia e occasionali tuoni.

Candy lo guardava con occhi carichi d'odio.

Pensava che lo detestasse da quando si era svegliata, ma la verità era che non aveva mai visto un'espressione così netta sul suo viso. Quel viso bello dove le lentiggini spiccavano sulla pelle di porcellana e che lui avrebbe solo voluto riempire di baci e carezze.

Il volto tanto amato.

E la bocca, stretta da un'emozione tanto forte da assottigliare le labbra fino a farle sparire.

"Tu", esalò con un disprezzo che gli pugnalò il cuore. Sarebbe bastata quella singola parola a ucciderlo, ma quella che una volta era stata Candy continuò, implacabile: "Tu hai ucciso Anthony! Tu sei la causa del mio trauma e della perdita della mia memoria!".

A ogni frase il tono si alzava e a ogni parola il pugnale diveniva una spada che lacerava vasi sanguigni e organi vitali. Albert si sentì come se lo stesse davvero ferendo nella carne viva. Il coltello che aveva ricevuto nella coscia era stato una carezza, al confronto.

D'improvviso, accecato dal dolore ma anche dalla rabbia, strinse i pugni e disse nel tono più pacato e fermo che gli riuscì: "Non è vero". Una frase banale, quasi infantile forse, ma di cui era davvero convinto.

Perché lo era, giusto? Per anni aveva vissuto con quel peso sul cuore ed era stato proprio durante una gita a Lakewood con Candy che aveva affrontato i fantasmi di quel passato.

"Hai organizzato una maledetta caccia alla volpe e lui è morto cadendo da cavallo!", gli gridò avvicinandosi di un passo. Ancora un po' e avrebbe potuto stringerla fra le braccia. Ma mai, mai Candy era stata così vicina eppure distante. Neanche quando lui si trovava in un altro continente.

"Dovevo presentarti alla famiglia e quella era una tradizione", spiegò a voce più bassa. "Dio solo sa se non ho sognato milioni di volte di tornare indietro nel tempo e non prendere quella decisione. Ma non è possibile. Non più".

"Una tradizione?!", ripeté lei con un sorriso cattivo. "Una tradizione mortale che ha ucciso il tuo unico nipote, il figlio di tua sorella defunta, il ragazzo di cui mi ero innamorata! Tu me l'hai tolto per sempre!".

Un fulmine squarciò il cielo e il tuono esplose, quasi la natura stessa volesse sottolineare la gravità di quelle affermazioni.

"Io volevo solo... renderti felice". La voce rotta, l'oppressione che gli schiacciava il petto, Albert disse così piano quelle parole che non fu sicuro che Candy le avesse udite nel frastuono della pioggia finché non parlò di nuovo, colpendolo definitivamente a morte.

"Non mi hai reso felice. Non c'eri neanche al momento del mio incidente? Sono sicura che anche se oggi sono senza traccia della mia memoria la colpa è tua e io... IO TI ODIO! Ti odio con tutto il mio cuore, William Ardlay!".

Un altro rombo di tuono, la vista che si offuscava, gli occhi spalancati come per vedere meglio nella nebbia dell'incredulità. E, infine, Candy che gli finiva di stritolare il cuore facendolo esplodere in mille pezzi sanguinolenti.

Albert fece un paio di passi indietro, vacillando senza fiato, come se si trovasse di fronte a un essere demoniaco e non alla donna che amava.

Candy lo odiava, Candy lo aveva appena ucciso.

Incapace di trattenere dentro di sé quel dolore lacerante, Albert appoggiò una mano al muro, chinò la testa, prostrato, e lasciò che le lacrime bollenti si staccassero dagli occhi ancora spalancati per l'orrore e gli rigassero il viso.

Odiava mostrarsi debole davanti a una Candy completamente diversa, ma non riusciva a trattenerle così come non poteva più sopportare le fitte lancinanti che lo torturavano ancora e ancora. Da morti non si dovrebbe smettere di soffrire? Ma lui, povero illuso che non era altro, aveva un corpo vivente e ad essere morte erano solo la sua anima e le sue speranze.

Fu costretto a rimanere appoggiato al muro ancora qualche istante per cercare di controllare il tremito che lo affliggeva nelle braccia e nelle gambe, nonché il respiro spezzato dai singhiozzi silenti che cercava di reprimere, fallendo miseramente.

Quando si sentì in grado di camminare di nuovo, si diresse barcollando come un ubriaco verso la porta.

Doveva uscire di lì.

Doveva allontanarsi dalla donna che non sarebbe mai stata sua e che lo odiava tanto da avergli riversato addosso un veleno letale.

Accecato dalle lacrime, afferrò il pomello della porta al secondo tentativo e quasi urlò dalla sorpresa quando sentì delle dita sfiorargli il viso, come per asciugarle.
Con un verso stupito si girò per incontrare gli occhi lucidi di Candy e dovette sbattere le palpebre a lungo per metterla bene a fuoco.

"Stai... piangendo a causa mia?", gli chiese mentre l'umidità si accumulava illuminandole lo sguardo e si riversava in una scia lungo le guance.

"E tu? Per chi stai piangendo?", le chiese con voce soffocata. "Per Anthony?".

Candy scosse la testa, piano, portandosi le mani al capo come se le dolesse. "No", disse con tono stupito, forse non rendendosi conto di ciò che le stava accadendo. "Il tuo dolore... il tuo dolore mi ferisce. Mi fa male. Io...".

La donna che gli aveva gridato poco prima quanto lo detestasse ora stava asciugando le sue lacrime, come lui stesso aveva fatto con lei tante volte in passato. Il gesto lo sorprese e lo commosse, lo lasciò senza parole e gli fece venir voglia di abbracciarla.

Invece rimase lì, impalato, a fissarla senza sapere bene cosa aspettarsi.

Candy strinse gli occhi, spingendo le mani sulle tempie: "Cosa mi sta succedendo? Io dovrei odiarti e invece... cosa mi hai fatto?".

Albert si strinse nelle spalle, incapace di proferire parola, e rimase immobile mentre lei alzava di nuovo il viso per guardarlo come se vedesse qualcosa di stupefacente. Deglutendo a fatica, si rese conto che lo guardava con compassione, persino con dolcezza.

Non era possibile, non poteva essere cambiata così di colpo solo per averlo visto piangere!

Eppure... eppure ecco che le sue mani riprendevano ad accarezzarlo con un tocco lieve, tenero, che gli fece salire altre lacrime agli occhi, poi chiuderli per perdersi nel suo calore: "Candy", invocò prendendo con delicatezza una di quelle mani e portandosela alle labbra, baciandola con nostalgia struggente.

Avrebbe dato dieci anni della propria vita perché quel momento non finisse mai.

Candy ansimava e piangeva, non cercava di allontanarsi. "Dio mio", esalò guardandolo ancora negli occhi, "io non ti odio... io non riesco a odiarti... credevo... in realtà... in realtà...".

Albert le fece un lieve cenno col capo per indurla a parlargli senza remore, le proprie mani che si abbassavano senza lasciare le sue.
"In realtà...?", il suo fu quasi un sussurro.

"Albert", sentire quel nome dalle sue labbra, pronunciato in modo così dolce, portò nuove lacrime di gioia e lui sentì il bisogno di baciarla. Stava per farlo, ma Candy si accasciò tra le sue braccia, svenuta, forse preda di emozioni troppo contrastanti e forti.

"Candy", mormorò prendendola in braccio e adagiandola sul divano.

Sedette accanto a lei, stringendo la sua mano tra le proprie. Sarebbe dovuto andare a chiamare il dottor Carter, ma voleva assaporare ancora per un po' quel momento.
Candy non lo odiava. Candy si era lasciata toccare. Candy poteva ancora essere sua.

Fuori, come accadeva nei romanzi, il temporale stava diminuendo d'intensità mentre la sua speranza rinasceva.
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I prossimi aggiornamenti, come prima, avverranno sempre di venerdì.

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Capitolo 51
*** Nuove e vecchie prospettive ***


"Luke Robinson e gli uomini del cantiere sono stati scagionati, abbiamo appena ricevuto la notizia da Londra, non sarà necessario presenziare al processo", spiegò George scorrendo i documenti tra le mani per essere certo di ricordarsi tutto.

"Bene", ribatté William alzandosi dalla poltrona e battendo due dita sulla scrivania, in un gesto deciso. "Quindi prima del comunicato ufficiale non dobbiamo fare altro? Sono stati convocati tutti i giornalisti? E... oh, Archie dovrebbe venire almeno il giorno prima così possiamo fare un briefing degli argomenti da trattare". Parlava e camminava con un'energia tale che George ne fu piacevolmente sorpreso: William sembrava davvero rinato e lui sapeva benissimo perché.

Le labbra gli s'incurvarono in un lieve sorriso, che scomparve quasi subito. Ora avrebbe dovuto aggiornarlo sui Lagan: "Il signor Raymond vuole sapere se può presentarsi come aveva già espresso il desiderio di fare".

Forse rinvigorito dagli ultimi accadimenti, William mutò la sua espressione in una più seria ma rimase con le spalle dritte e quella postura che tanto gli ricordava quella dei suoi tempi migliori. E di suo padre. Il peso recuperato, inoltre, lo stava ridefinendo anche fisicamente.

"Raymond può venire qui lo stesso giorno di Archie, ma da solo. Su questo non transigo. La volta scorsa ho dovuto fare appello a tutto il mio autocontrollo per non buttare fuori casa sua moglie", concluse con una smorfia.

"Stia tranquillo, signorino William, ha già comunicato che non è sua intenzione portarla con sé. Inoltre, la signora ha ottenuto dal giudice il permesso per recarsi più di frequente a trovare i figli in carcere e all'istituto psichiatrico", spiegò sedendo sulla poltrona di fronte alla scrivania e posandovi sopra i fogli.

Lui sporse le labbra, pensieroso, un dito sul mento come se cercasse le parole. Fece due passi e lo guardò, gli occhi ridotti a due fessure: "A che punto è il processo, per loro?".

George si schiarì la voce: "I nostri avvocati hanno chiesto l'ergastolo per il signorino Neil e il massimo controllo per la signorina Eliza finché non si ristabilisce".

Vide con chiarezza i piccoli muscoli ai lati della mascella contrarsi e l'uomo di fronte a sé si lasciò ricadere sulla sua poltrona presidenziale con un sospiro: "Le accuse di associazione mafiosa sono molto gravi, specie se accoppiate alla chiara intenzione di incastrare terze persone. Eliza, inoltre, ha come capo d'imputazione anche il tentato omicidio di Candy, anche se non so bene come possa essere considerata la manomissione di un chiodo".

George alzò un sopracciglio: "In tribunale si è scoperta ma non ha parlato della modalità con cui ha attuato questo tentativo, se così verrà in effetti considerato dalla legge. Dovremo coinvolgere il maniscalco e il veterinario, nonché recuperare il fascicolo delle indagini avviate all'epoca...". William aveva alzato la mano per interromperlo.

"Va bene, ho capito. Ci penseremo quando sarà necessario, se lo sarà. Notizie della situazione medica di Eliza?", domandò senza alcuna emozione nella voce, come se stesse parlando di affari.

"Non è ancora uscita dallo stato catatonico e la signora Lagan si lamenta che non sia seguita a dovere dai medici", disse con tono altrettanto professionale.

Le labbra di William s'incurvarono per un istante: "Credo che Sarah troverebbe da ridire anche se domani Eliza si svegliasse all'improvviso e i giudici dichiarassero lei e Neil innocenti. L'unico segno di destabilizzazione che ho visto in lei è stata quella frase che ha rivolto ai suoi stessi figli... un momento di debolezza che non ha coinciso col suo comportamento attuale".

"Penso che la signora sia molto provata da quello che è accaduto, ma non possa comunque fare a meno di difendere la sua prole, se posso esprimere un mio parere", ribatté George con diplomazia.

William si appoggiò allo schienale, girando la sedia verso la finestra per scrutare fuori mentre diceva: "Io credo che rinnegare i propri figli sia contro natura, George. Per quanto si possano dire cose cattive o essere in collera, alla fine credo prevalga sempre il richiamo del sangue. Io non ho figli e non so se avrò mai l'occasione di averne, ma sono certo che siano anche il prodotto dell'amore e dell'educazione che ricevono. Una parte di me ritiene Sarah responsabile anche più di loro due per tutto quello che è accaduto. Forse persino Raymond, che è stato così lontano da non rendersi conto di quanto le cose stessero andando alla deriva a causa degli insegnamenti della loro madre".

George assorbì il senso di quelle parole, ricordando come William senior fosse stato una figura paterna per lui: "Sono d'accordo", riprese. "Ma credo anche che, arrivati a una certa età, siamo tutti responsabili delle nostre azioni e delle nostre scelte. E anche in grado di riconoscere gli errori dei nostri genitori, così come il bene dal male", terminò voltando i palmi delle mani per indicare i due termini opposti.

"Sì, anche tu non hai torto", ribatté William alzandosi di nuovo. Quel giorno sembrava non riuscire a star fermo. Si posizionò in piedi davanti alla finestra, dandogli le spalle. "Spero che abbiano quello che meritano, nulla di più e nulla di meno. Entrambi".

George capì che il discorso era chiuso e si azzardò a chiedere: "Quindi... ehm... la partenza per Lakewood è fissata per il giorno dopo la rassegna stampa?".

Quello che si voltò con un sorriso quasi sognante disegnato sul volto era davvero il William dei vecchi tempi. Anzi, ad essere precisi era quello dei tempi in cui aveva appena stretto una relazione amorosa con la signorina Candy: "Sì. Adrian ha detto che posso anche portarla alla Casa di Pony, quando vorrà".

George ricambiò il suo sorriso: anche se la ragazza non aveva ancora recuperato la memoria, il fatto che le cose tra loro due si fossero sistemate al punto che potessero viaggiare persino insieme rendeva William davvero felice. E lui, finalmente, si sentiva più rilassato vedendolo così. Ma doveva avvisarlo delle implicazioni che si sarebbero create.

"Lo ha già detto alla signora Elroy?", chiese cercando di partire da lontano.

"No", ribatté lui semplicemente, girandosi di nuovo verso la finestra.

"William". Ora il suo tono era più fermo e suonava come un avvertimento.

Lui fece un sospiro rumoroso, avvicinandosi: "Non può impedirci di andare da soli, io sono pur sempre il suo tutore e lei la mia protetta, anche se è maggiorenne".

George si limitò a fissarlo senza cambiare espressione. Lui allargò le braccia e guardò verso il soffitto: "Oh, santo Cielo, George, non siamo neanche fidanzati! Cosa vuoi che pensino mia zia o il resto del mondo? Sto aiutando la mia figlia adottiva nel suo recupero dopo l'incidente che l'ha lasciata senza memoria. Quando abbiamo vissuto insieme senza sapere a vicenda chi diavolo fossimo avrebbero potuto scoprirci in ogni momento e, credimi, quella sì che era una situazione che poteva apparire compromettente!".

George cercò di fare mente locale e intrecciò le mani sulla scrivania: "E infatti non mi ha raccontato che i vicini si sono lamentati al punto che, una volta recuperata la memoria, lei è dovuto andare via dopo poco tempo?".

William chiuse gli occhi per un attimo e gli parlò col tono che si usa per spiegare qualcosa di molto complicato a un bambino piccolo: "George, innanzitutto è stato il padrone di casa a pensare male di noi all'inizio. In secondo luogo, i vicini hanno cominciato a chiacchierare quando mi hanno visto con te". Gli angoli della sua bocca tremarono come se stesse trattenendosi dal ridere.

George spalancò gli occhi, incredulo. Non era sicuro di aver capito bene: "Cosa?", domandò.

William scoppiò in una delle sue fragorose risate, che non gli aveva sentito fare da quando Candy aveva avuto l'incidente: "Indovina un po'? Pensavano che avessi affari loschi con la malavita!".

In modo meno plateale, anche George rise, abbassando il capo e scuotendolo: "Allora forse non fummo abbastanza discreti. Quindi fu quello il motivo che la spinse, alla fine, a lasciarla?".

William tornò serio: "Sì, non potevo compromettere Candy più di quanto non avessi già fatto".

"Ah-a", fece lui cercando di evitare almeno di puntargli contro il dito indice. "E ora pensa che la signora Elroy non possa temere la stessa cosa?".

"Non credo si preoccupi molto della reputazione di Candy. Piuttosto potrebbe soffermarsi sulla mia, che comunque sono sempre il suo tutore". Albert riprese a camminare, irrequieto.

"Quindi ho ragione a supporre che potrebbe avere da ridire sul fatto che sarete soli a Lakewood con solo qualche servitore a tenervi compagnia?", domandò guardandolo mentre si passava ripetutamente le mani tra i capelli, forse riflettendo.

Di colpo si fermò, come se avesse avuto un'idea. Infatti schioccò le dita come un ragazzino: "Mi accompagnerai tu".

Lui trasalì: "Io? Signorino William... e gli affari? Dopo la dichiarazione pubblica, con i conti finalmente sbloccati, le cose riprenderanno a pieno regime e poi ci sono gli investitori da ricontattare e...".

William annuì: "A maggior ragione. Non è la prima volta che lavoriamo da lì, no? Certo, per arrivare a un ufficio postale, qualora sia necessario, occorrerebbe fare un po' di strada in auto, ma abbiamo i telefoni. Potrai lavorare negli uffici della villa e se avrai bisogno di qualcosa da me ti basterà bussare alla mia porta".

George cominciò a pensare che fosse davvero una buona idea. "Bene, le suggerirei di parlarne con sua zia quanto prima, se mi posso permettere, così non dovremo fare altro che preparare i bagagli", acconsentì.

Anche se la signorina Candy non avesse recuperato a pieno la memoria, era certo che la vicinanza di William avrebbe fatto bene a entrambi, anche se non era lui il medico. Sperò che quella sorta di vacanza servisse per ripristinare un minimo di serenità nelle loro vite.
 
- § -
 
Adrian Carter fissava Candy già da qualche minuto.

Camminava nel parco con circospezione, ma si era allontanato un poco e lei sembrava sempre meno nervosa.

Aveva fatto passi da gigante, però era certo che la strada per il recupero completo della memoria fosse ancora lunga.

Quando Albert si era presentato con Candy svenuta tra le braccia, due settimane prima, aveva subito pensato che avesse avuto una crisi dovuta a un loro incontro fortuito o voluto da lui.

Invece, il patriarca degli Ardlay gli aveva detto che era stata lei a entrare nella stanza del pianoforte, udendolo cantare.

"Vuole dire che è entrata di sua spontanea volontà?", chiese spalancando gli occhi per la sorpresa, mentre si sincerava dei battiti regolari di Candy sentendole il polso.
Albert annuì: "Sì. È probabile che abbia riconosciuto la canzone che le cantai qualche anno fa, in occasione di una nostra gita a Lakewood".

"E poi che è successo?", chiese allontanandosi un poco dal letto. Era da un po' che Candy non perdeva addirittura i sensi, a causa di una delle sue crisi, così sospettò che ci fosse stato uno scambio importante tra loro.

Albert strinse i pugni e si allontanò fino a dargli le spalle: "Mi ha gridato quanto mi odiasse. Ha detto che sono stato io a uccidere Anthony". L'emozione vibrava nella sua voce.
Adrian sospirò, scuotendo la testa: "Mi dispiace. Le prometto che lavoreremo su questo e...".

"Non è stato allora che è svenuta", lo interruppe lui voltandosi di nuovo a fissarlo.

Carter alzò un sopracciglio: "No?".

L'uomo guardò ancora fuori dalla finestra dove i primi, pallidi raggi di sole filtravano attraverso le nubi che si andavano diradando: "Ha visto il mio dolore e le è accaduto qualcosa. Mi si è avvicinata tremando, come se nella sua mente due sentimenti opposti stessero combattendo tra loro. Ha asciugato le mie lacrime e ha cominciato a piangere anche lei, chiedendosi e chiedendomi cosa le stesse accadendo, cosa le avessi mai fatto".

Carter trattenne il respiro. Erano davvero a un passo dal vero cuore di Candy e dal ripristino della sua memoria?

"Ha detto che in realtà non mi odiava, ma che invece... non è riuscita a finire, perché allora è svenuta", continuò lui. Si volse ancora per mostrare un sorrisetto: "Mi ha lasciato sul più bello, no?".

Adrian si batté le mani sulle ginocchia, rialzandosi: "Bene, direi che Candy è andata molto avanti ma si è tirata indietro all'ultimo momento. Il mio sospetto è che il prossimo salto sarà quello che le riporterà la memoria e ciò, ovviamente, include il venire a patti con i propri sentimenti per lei. Ma quello che mi ha raccontato coincide con i sospetti che ho avuto io".

"Ovvero?". Interessato, Albert fece qualche passo verso di lui.

"Non è il trauma, o peggio, l'odio a impedirle di ricordare. Di sicuro avere nel suo inconscio eventi dolorosi tra cui lo stesso incidente, così simile a quello di Anthony, è stato uno degli elementi determinanti. Ma quello che io credevo il fulcro del problema non è che una sorta di... conseguenza, se così vogliamo dire. In realtà lei teme l'amore o l'innamoramento, perché è convinta che possa portare solo dolore".

Albert spalancò occhi e bocca per lo stupore: "Ma io non le ho mai dato motivo di dubitare del nostro rapporto, anche se era appena iniziato", protestò.

Carter si mise le mani in tasca: "Non dico che non sia vero, ma si metta nei suoi panni: il suo primo amore, in età giovanile, muore per una caduta da cavallo che ha avuto una dinamica sorprendentemente simile alla propria. Quindi s'innamora una seconda volta e tutto finisce a causa di un'altra donna, anche se le motivazioni sono più che comprensibili. Non appena il suo cuore si apre per la terza volta ha un incidente...". Tacque, vedendo che Albert annuiva, comprendendo il ragionamento.

"Visto così, tutto torna. Però devo rettificare... il suo primo amore sono stato io, almeno da quello che mi ha raccontato. Aveva sei anni quando ci siamo visti sulla Collina di Pony la prima volta". Carter ridacchiò al suo sguardo sognante e Albert arrossì leggermente. Forse si era reso conto di essersi lasciato un po' andare.

"Bene, Albert, io non conosco nei minimi dettagli la vostra storia, se non qualche elemento sparso: a un certo punto lei ha perso la memoria e avete vissuto insieme, poi c'è stata la scoperta della sua identità... insomma, da quel che ho capito dai racconti della signorina Annie e di suo nipote vi sono state dinamiche molto complesse che è inutile che conosca io. Non appena potrò rendermi conto che Candy è in grado di gestire le sue crisi e viaggiare la affiderò a lei. Andate alla Casa di Pony, andate a Lakewood, o ovunque vi sia traccia del suo passato. Parlate, cercate di far tornare i ricordi insieme". Mentre parlava, Adrian si rese conto dell'emozione e della speranza che gli illuminavano il viso.

"Non ci sono pericoli di... ricadute?", chiese.

Adrian scosse la testa: "Sono quasi certo di no, ma me ne assicurerò forzando un po' la mano io stesso, in questi giorni. Ormai è lei a voler sapere e lo dimostra il fatto che sia entrata nella sua stanza senza che nessuno glielo abbia chiesto, confessandole la sua lotta interiore".

"Pensi che dovrei provare ad arrampicarmi?", domandò Candy alzando gli occhi sul grande albero e distogliendolo dai suoi pensieri.

Carter scoppiò a ridere: "Questo devi deciderlo tu!", rispose stringendosi nelle spalle.

Candy rimase per un attimo con la testa rovesciata all'indietro, come valutando sul serio quell'opportunità. Aggrottò le sopracciglia e disse: "Ora capisco", mormorò così a bassa voce che lui intuì le sue parole dal labiale.

Le si accostò, certo che stesse ricordando qualcosa: "Cosa capisci, Candice?", domandò con tono leggero.

"Scimmietta. Tarzan Tuttelentiggini. Ecco perché mi chiamava così, quel Terry. Probabilmente mi arrampicavo sugli alberi anche davanti a lui". Carter deglutì, a disagio. In quei giorni non era la prima volta che lo nominava. Aveva già stabilito che doveva suggerire ad Albert di parlarle anche di lui, che faceva parte comunque del suo passato e del suo trauma attuale.

"Vi siete amati molto, almeno dai racconti che mi sono stati fatti, ma alla fine la vita vi ha separati". Decise di non darle informazioni ma di parlarle comunque dei sentimenti che aveva provato. Faceva parte delle prove che stava facendo per capire quanto Candy fosse diventata resistente ai ricordi.

Mani alle tempie, occhi socchiusi, capo che si abbassava.

Ma nessuno svenimento.

Osò pensare che, al massimo, avesse una leggera nausea: se fosse perché aveva fatto grandi progressi ma anche perché ormai la storia con Terence era finita non poteva saperlo, tuttavia il suo occhio clinico non registrò la reazione esagerata di alcuni giorni prima.

Sorrise un poco, finché le sue parole lo gelarono: "Forse dovrei incontrare lui, invece di andarmene in giro con il mio tutore. Per avere tutti i pezzi del mosaico".

I pensieri di Carter andarono al viso pieno di speranza di Albert e, in modo decisamente assurdo, volarono a Frannie che gli aveva spezzato il cuore ed era lontana. Non era un Cupido, ma un medico, e le sue vicissitudini personali non avrebbero dovuto influenzarlo.

Cercò, quindi, di essere più distaccato possibile quando le disse: "Candice, ne abbiamo già parlato: Albert, il tuo tutore, che tu stessa hai detto di non odiare, era il tuo presente quando hai avuto l'incidente. Stavi vivendo con lui, avevate maturato sentimenti ben diversi da quelli che legano un padre e una figlia o più banalmente due amici. Il tuo trauma è legato al timore di innamorarti, come ti ho spiegato, ed è solo parlando con lui che potrai recuperare a pieno la memoria. Ma puoi, anzi, devi fargli tutte le domande che vuoi su Terry. Successivamente potreste anche decidere di andarlo a trovare, o invitarlo qui".

Candy si appoggiò al tronco con una mano, ormai dimentica del suo proposito di poco prima: "Non sono sicura che ritrovare la memoria sia la cosa migliore, per me. Se davvero il mio timore è legato al fatto di innamorarmi ancora di un uomo, potrebbe rimanere anche dopo e William... Albert rimarrebbe comunque solo".

Carter cercò di controllare il respiro. Aveva preso troppo a cuore quella storia, non c'era dubbio: "Candice, non devi recuperare la memoria per far felice Albert. Devi farlo per te stessa, a costo di deluderlo! Non vuoi ricordarti anche di tutti i tuoi amici? Delle donne che ti hanno cresciuta?".

"Posso imparare a conoscerli da capo! O cambiare vita e andarmene altrove! Se poi la mia memoria tornerà meglio, altrimenti so già tutto quello che mi serve". Le sue spalle tremavano e Carter capì che dentro di lei c'era una nuova lotta.

"Hai tanta paura di scoprire quanto lo ami da voler rinunciare a tutto, inclusa la tua felicità?", domandò tentando, ancora una volta, di rimanere neutrale. In fondo, le stava solo dicendo la verità.

"E come fai a sapere che la mia felicità è con lui? Ho avuto l'incidente mentre ero con lui e potremmo aver avuto degli screzi di cui non sono a conoscenza che...".

"Non ho mai detto che la tua felicità debba per forza essere con lui, Candice", la interruppe gentilmente, avvicinandosi a lei fino a porle le mani sulle spalle. "La tua felicità sarà avere la possibilità di scegliere cosa fare con Albert e con tutto il resto della tua vita avendo indietro i tuoi ricordi! Non lasciare che ci siano lati oscuri, dai questa possibilità a se stessa".

E ad Albert, pensò, ma lo tenne per sé.

Lei sospirò: "Non sono certa di riuscirci. Potrebbero volerci anni e non credo che lui possa portarmi in vacanza per tanto tempo", disse chiudendo gli occhi.

Carter annuì: "Ci daremo un limite massimo e ci scriveremo. Scambieremo anche delle telefonate e potrete entrambi parlare con me per ogni evenienza o dubbio. Io sono sempre il tuo medico, Candice".

Fu solo un attimo, ma durò abbastanza perché Adrian si sentisse a disagio: Candy lo guardò negli occhi con un'intensità tale che desiderò ci fosse Frannie al suo posto. "I tuoi occhi sono simili ai suoi".

Internamente, Adrian si tese mentre chiedeva: "Intendi a quelli di Albert?", chiese sapendo che non era affatto così.

"No, a quelli di Terry".
- § -
 
Albert si chiuse alle spalle la porta della stanza di sua zia facendo un respiro profondo: era stata una conversazione lunga e articolata, ma non era quella ad averlo lasciato sfinito.

Si stava ancora dando dell'idiota per essersi lasciato trasportare dalle illusioni come un ragazzino stupido.

Per fortuna, quando quel pomeriggio aveva parlato con Adrian, era tornato coi piedi ben piantati per terra. O, almeno, era quello che sperava.

Non che prima camminassi a *nove piedi da terra. Ma comunque meglio che ripiombare negli abissi sotterranei del dubbio.

Che diavolo aveva pensato, sciocco che non era altro?, si chiese camminando a grandi passi verso la sua stanza e aprendola di scatto.

Candy non mi si è buttata fra le braccia giurandomi amore eterno. E quando ha provato a dirmi qualcosa di più si è sentita male: sarebbe evidente persino a Neil che ricordare le è impossibile, per il momento.

Non sapeva se Candy non volesse o non potesse, ma Carter aveva propeso per entrambe le cose.

E poi gli aveva detto di Terry.

Candy lo aveva sognato, aveva sprazzi di memoria in cui sentiva la sua voce e vedeva i suoi occhi, tanto che li aveva rivisti in quelli del proprio medico, seppure non fossero proprio identici.

Con gesti stizziti contro il destino malevolo e la sua stessa ingenuità, Albert si slacciò la cravatta tirandola malamente e rischiando di strozzarsi, tolse la giacca gettandola su una sedia e si buttò sul letto con tutte le scarpe.

Al diavolo, dovrò parlarle di lui! Mi sembra di essere tornato ai tempi di Rockstown...

All'epoca, con i sentimenti già chiari nel suo cuore, sperava di potersi liberare facendo felice lei: non era forse quello lo scopo della propria vita?

Rendere felice Candy.

Con un sospiro spazientito, Albert gettò via le scarpe con i piedi e si diresse in bagno seminando i vestiti a casaccio sul pavimento. Da quando si sforzava di mangiare di più e aveva riacquistato peso gli sembrava di non riuscire più a star fermo, aveva energie da vendere e di certo avrebbe cercato di coinvolgere Candy in qualche escursione a Lakewood.

Appena ho cercato di rendere felice anche me stesso è successo il disastro. Forse anche io dovrei perdere di nuovo la memoria!

Aprì l'acqua della doccia al massimo del calore sopportabile, risucchiando aria tra i denti quando, per poco, non si ustionò. La regolò lievemente e rimase sotto il getto, massaggiandosi i muscoli contratti col sapone.

Cosa avrebbe fatto se lei gli avesse chiesto di tornare da Terry? Avrebbe dovuto assecondarla, su quello non c'erano dubbi. Aveva concordato con Adrian che l'avrebbe aiutata a recuperare la memoria anche se avesse significato perderla definitivamente e lo avrebbe fatto.

Certo, se Terence si stava davvero innamorando di un'altra donna, come gli aveva scritto in una lettera recente, Candy non avrebbe avuto alcuna possibilità e avrebbe sofferto di nuovo.

Se solo ti ricordassi di me, dell'amore che ci legava!

Il desiderio egoistico di averla per tutta la vita accanto, a ogni costo, in quella casa, a Lakewood, tra le sue braccia, nel suo letto e persino sotto quella dannata doccia, lo pungolò con forza.

Ringhiò di rabbia, tirando un pugno al muro.

Adrian gli aveva chiesto se sarebbe stato abbastanza forte da sopportare quella prova con Candy.

Lui aveva risposto di sì, che, come sempre era stato, sarebbe andato all'inferno per lei.

Sotto l'acqua bollente di quella doccia, nudo nel corpo e nei sentimenti, Albert capì che era proprio lì che era diretto.
- § -
 
* circa tre metri

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Capitolo 52
*** Di lettere e mani tese ***


Annie sperava di rivedere Candy prima che partisse per Lakewood con Albert. Quando Carter aveva detto a lei e ad Archie che potevano lasciarla alle sue cure, ognuno era tornato a casa propria e lei cominciava a sentire la mancanza di entrambi.

Bugiarda, è Archie quello che ti manca di più, o vuoi negarlo?

Aveva trovato un'insegnante di pianoforte che le dava lezioni private e si stava dando da fare con diverse associazioni di beneficienza, eppure non era felice come quando stava con Archie.

Perlomeno, anche se non ero del tutto soddisfatta del nostro rapporto, lo avevo vicino.

Tirò fuori dal cassetto l'ultima lettera di Patty e la rilesse, chiedendosi se dovesse fare quel salto o meno.

Carissima Annie,
sono contenta che le ultime notizie su Albert e su tutta questa storia siano finalmente buone! Non avevo dubbi che, alfine, la giustizia avrebbe trionfato. Puoi stare tranquilla, non parlerò neanche con i miei genitori dei torbidi traffici dei Lagan, anche se da quanto mi hai raccontato mi pare che a breve dovrebbe essere reso ufficiale. A proposito, spero di riuscire a venire per quel giorno: il signor William... insomma, Albert mi ha chiesto di essere presente perché mi considera parte della famiglia e questo mi ha commossa nel profondo. Credo che mi veda ancora come la fidanzata di suo nipote, e Dio solo sa se Stair non mi manca ogni singolo giorno...
Ma sto cercando di andare avanti con la mia vita, studiando e rimboccandomi le maniche. Nonna Martha sta tentando di presentarmi dei ragazzi e non c'è nulla che io le dica che la convinca a smettere. Però ti confesso che ho conosciuto un ragazzo che mi ricorda tanto il carattere di Stair, anche se fisicamente non gli somiglia affatto: ha i capelli rossi e origini scozzesi, ci crederesti? È appassionato di astronomia e, non so perché, ogni volta che c'incontriamo mi parla di tutti i misteri del firmamento anche per ore di seguito! Devo dire che mi affascina. La materia, non lui. Oh, va bene, forse anche lui, ma non farmi domande finché non sarò pronta a parlartene io, d'accordo?
Comunque voglio venire a Chicago anche per rivedere Candy. Albert pensa che rivedermi possa farle bene e aiutarla a ricordare. Spero solo di non combinare pasticci o mettermi a piangere quando la vedrò così cambiata! Annie, mi hai raccontato che è come se fosse morta e quella fosse un'altra persona e ti giuro che, se potessi, mi trasferirei lì per supportarla e farla tornare quella di una volta, così come una volta ci mettemmo tutti d'impegno per aiutare lo stesso Albert. Ti ricordi che tempi? Ma, forse, come mi hai scritto nell'ultima lettera, l'unico che può farlo è colui che le è sempre stato accanto... sono certa che, anche se nessuno di voi me l'ha mai detto in maniera esplicita, tra quei due stia nascendo qualcosa. O è già nato e non vogliono farlo sapere, soprattutto ora.
Cara Annie, penso tanto anche a te... so che tu e Archie siete arrivati a un punto in cui volete allontanarvi un po', quindi ho pensato che potessi venire qui in Florida a svernare da me nei prossimi mesi, che ne dici? Qui c'è sempre bisogno di un'anima pia che faccia opere di beneficienza e conosco un ottimo insegnante di pianoforte, che dà lezioni a una mia compagna di corso.
Pensaci, potremmo parlare insieme ai tuoi genitori che, anche se ormai siamo tutte maggiorenni, vorranno sapere che starai bene.

Un abbraccio e, spero, a presto

Patty

Annie si poggiò alla spalliera della sedia con un sospiro, abbassando le mani per riporre la lettera. In Florida sarebbe stata molto più lontana da Archie e non era quello che voleva davvero. Ma, d'altronde, se lui se ne fosse tornato in Massachussets per riprendere gli studi interrotti, che differenza avrebbe fatto?

Certo, rimanendo a Chicago avrebbero potuto viaggiare per vedersi, di tanto in tanto, ma quell'anno sabbatico che si dovevano concedere sarebbe sempre stato lì a dividerli.
Si alzò dalla sedia e uscì dalla camera per raggiungere il suo pianoforte nella stanza della musica: suonare la scaricava e l'aiutava a pensare.

Ero io quella che voleva allontanarlo. Sono stata io a dirgli che ero troppo ferita, schiaffeggiandolo dopo che mi ha baciata. Poi cosa faccio? Gli dico persino che sono disposta a concedermi a lui! Devo essere impazzita...

Le mani danzarono sui tasti, riempiendo quelle mura della sua melodia preferita: dolce, struggente, ritmata. Proprio come i suoi sentimenti. Un gioco di contrasti che si rincorrevano come note capricciose per dare vita a una musica unica, che sembrava composta proprio da lei.

Non aveva mai avuto un'intesa così profonda con Archie e non dipendeva solo dal fatto che finalmente lui avesse fatto chiarezza, dichiarandole di amarla sopra ogni cosa: la lontananza, il timore di perderlo e tutto ciò che aveva disperatamente represso erano usciti sottoforma di una passione traboccante.

Voleva sposarlo, lo avrebbe fatto l'indomani stesso, se avesse potuto.
Voleva suonare solo per lui, condividere la giornata, i pasti, comparire al suo fianco agli eventi sociali come sua moglie. Dare e ricevere baci, carezze... avere dei figli...

Non ho mai pensato a certe cose, anche da fidanzati sapevo che ci sarebbe voluto tempo prima del matrimonio.

Eppure, l'illusione di essere la sua fidanzata e aver fatto marcia indietro in maniera così brusca non aveva fatto che accelerare quel processo e ora voleva solo bruciare tutte le tappe.

A quest'ora, forse, saremmo già stati sposati.

Annie terminò la melodia e chiuse il pianoforte con un gesto lento. Si voltò udendo il lieve cigolio della finestra, che si apriva un poco di più con una folata di vento. La tenda si gonfiò, svolazzando in un tripudio di stoffa rossa ricamata, poi ricadde.

Era come l'altalena dei propri sentimenti.

Trovo paragoni in tutto, devo leggere meno romanzi.

"Soprattutto meno romanzi d'amore", disse a bassa voce, mordendosi il labbro.

La sua vita non era un romanzo e lei non avrebbe fatto pazzie. Soprattutto perché, per fare una pazzia come quella che aveva in mente, avrebbero dovuto essere in due.
 
- § -
 
Raymond Lagan sentì bussare alla sua stanza e richiuse l'armadio dove aveva appeso la giacca per il giorno dopo.

"Avanti", disse voltandosi. Pensava di immaginare cosa sarebbe accaduto e, infatti, la cameriera veniva ad annunciargli che, prima di cena, il signor Ardlay desiderava vederlo nel suo ufficio.

Anche se sapeva che era lì per sistemare le cose e che peggio di così non sarebbe potuta andare, si ritrovò ad avere le mani fredde e sudate e le gambe tremanti mentre seguiva la donna fino all'ufficio presidenziale.

Pur sapendo di non essere il diretto colpevole, avrebbe sempre avvertito la soggezione e il rammarico pugnalarlo allo stomaco.

Aprendo la porta, trovò un'immagine migliorata del William che aveva lasciato solo poche settimane prima. George era in piedi accanto a lui e lo invitò ad accomodarsi di fronte alla scrivania.

Il patriarca degli Ardlay si alzò per stringergli la mano attraverso il piano di lavoro: "Benvenuto, Raymond, spero che la stanza che ti ho fatto assegnare sia di tuo gradimento", disse con gentilezza.

Una gentilezza che continuava a non sentire di meritare: "Sarei stato bene anche in una più modesta, non devi preoccuparti. Ti trovo... davvero bene".

Lui sorrise, sedendosi e invitandolo di nuovo a fare lo stesso. Raymond pensò che gli avrebbe parlato di ciò che avrebbe dovuto dire il giorno successivo, invece la sua prima domanda lo sorprese: "Raymond, devi perdonarmi se mi permetto di entrare nel privato dei tuoi affari, ma vorrei sapere quanto è stabile la tua attuale posizione economica".
Sembrava quasi imbarazzato. Lui, che aveva rischiato tutto a causa dei suoi scellerati figli, era imbarazzato.

"William, io me la caverò...", cominciò avvertendo il sangue affluirgli al viso. Sapeva che stava mentendo e non poteva dissimularlo. Era praticamente a un passo dalla rovina e aveva venduto anche l'ultimo hotel.

Lui alzò una mano, poggiando i gomiti sulla scrivania e protendendosi in avanti: "So che il giudice ha scagionato in via definitiva te e Sarah e che la sentenza per Neil è prossima. Se dovessero trasferirlo per consentirgli di seguirvi in Florida dovrete anche cercare una nuova clinica per Eliza, laggiù".

Raymond deglutì a secco e si sentì trapassato dagli occhi celesti del capofamiglia degli Ardlay. Con un sospiro, ammise: "Non torneremo in Florida, William. Ho venduto l'albergo e... anche la casa di Miami". Gli costò molto dirlo, ma forse si meritava anche quell'ultima umiliazione.

"Che cosa?", scattò lui, sorpreso. "Ma... Raymond, vi hanno sbloccato i conti e anche se non avete più l'appoggio degli Ardlay so che gli affari andavano a gonfie vele, prima che...", fece un gesto con la mano, roteandola in aria per dare a intendere che non voleva ripetersi.

"Io...". Non riusciva a parlare, non poteva spiegargli cosa ne aveva fatto degli ultimi soldi in suo possesso.

"Mi dispiace, non volevo metterti in difficoltà", disse William raddrizzandosi sulla poltrona. "George", chiamò come se quel discorso fosse chiuso.

Come in sogno, Raymond vide l'uomo passare un foglio al suo principale. Lui lo lesse per un attimo con gli occhi socchiusi, come se stesse controllando che tutto fosse corretto, poi lo poggiò sulla scrivania, girandolo perché potesse visionarlo.

Il cuore prese a martellargli nelle tempie mentre metteva a fuoco le parole 'trasferimento fondi' e si rendeva conto degli zeri dopo la prima cifra. E quello non era il suo nome?

Scuotendo la testa, sentendosi ubriaco, Raymond boccheggiò: "Non capisco". Non voleva, non poteva capire.

"Si tratta di un prestito", spiegò William con tono professionale. "È una somma che ti dovrebbe essere sufficiente a ripristinare almeno un paio di alberghi e a ricomprare anche una piccola casa per te e tua moglie. Me lo restituirai entro dieci anni, come è scritto nella postilla, ma ti prometto che non ti verrò a cercare se ti ci vorrà di più. L'unica cosa che non posso fare è far tornare il nome dei Lagan agli splendori di una volta, né associarlo di nuovo a quello del mio clan. Ma sono certo che, con le tue gambe, potrai garantire una vita decorosa alla tua famiglia".

Il nodo che aveva in gola si strinse così forte che Raymond pensò che avrebbe smesso di respirare. Capì che, anche stavolta, si sarebbe sciolto in lacrime davanti a William, finendo di distruggere l'immagine di uomo controllato e freddo che aveva costruito negli anni. E, diavolo, pensava di esserlo veramente!

Invece, il macigno che lo aveva colpito lo aveva costretto a ricominciare tutto da capo: avere fiducia nei suoi famigliari e nelle sue doti di uomo di affari, ricomporre la sua vita fatta a pezzi e considerare l'idea di cercarsi un lavoro qualunque pur di tirare avanti.

"Ho usato gli ultimi soldi che avevo per pagare il direttore del carcere", fu quello che gli uscì dalle labbra, mentre cercava di tamponarsi gli occhi con un fazzoletto preso dal taschino. La sua espiazione sarebbe passata attraverso la verità.

William annuì e Raymond capì che gli Ardlay avevano dovuto fare la stessa cosa per proteggere lui e Archie quando erano finiti loro, in galera.

"È un mondo spietato", i suoi occhi ora sembravano di acciaio, "e trovo assurdo che un uomo, per rimanere tale e mantenere la sua integrità fisica e spirituale, debba pagare quella che dovrebbe essere un'istituzione detentiva. Molti non hanno la stessa fortuna e sospetto siano gli stessi che sono stati tanto arroganti da pensare di potermi uccidere appena ho abbassato la guardia".

Raymond trattenne un ansito: avevano cercato di ucciderlo? Ricordava di averlo visto molto dimagrito sia in tribunale che a casa, forse zoppicava un po'...
"Cosa ti è successo?", domandò incuriosito.

William si appoggiò una mano sulla gamba destra: "Mi hanno piantato un coltello di circa quindici centimetri così vicino all'arteria femorale che sono stato intubato per due settimane. Quando mi sono svegliato avevo in corpo più sangue dei donatori che mio", disse con una calma che lo sorprese.

"Diamine, non sapevo che potessero... arrivare a tanto! Da quello che mi ha raccontato Neil i pericoli erano... beh, altri...". Imbarazzato, si mise a guardare il fazzoletto prima di riporlo.

"Sono entrambi pericoli che possono uccidere un uomo. Capisco come mai tu abbia voluto fare un sacrificio tanto grande per tuo figlio", aggiunse con voce pacata, le mani ora intrecciate sotto al mento.

Ricordava ancora la voce supplicante di Neil, che lo implorava di aiutarlo perché quei bastardi che erano in cella con lui avevano cercato di... prestargli attenzioni particolari fin dal primo giorno. Le grida, la promessa di soldi alla guardia che era arrivata a sedare la rissa che ne era seguita erano state le uniche cose che lo avevano salvato. Raymond aveva prelevato dal proprio conto tutto ciò che aveva e lo aveva consegnato al direttore del carcere e alle guardie la mattina dopo, quindi si era affrettato a vendere tutto perché altrimenti non sarebbe arrivato neanche alla fine del mese portando qualcosa in tavola.

Sarah aveva strepitato come una iena e aveva dovuto usare parole molto dure ed esplicite per farle capire cosa stesse rischiando il loro unico figlio maschio in quella cella. Doveva solo ringraziare di avere dei genitori che non lo avessero diseredato.

Guardando quella cifra sul foglio, Raymond capì che rappresentava la sua manna dal cielo, qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile nemmeno in un migliaio di anni: "Perché lo fai?", chiese a bassa voce, carezzandone i lembi come si accarezzerebbe il sogno di una rinascita.

"Perché ho stima di te", rispose subito William, "e so che non avresti mai permesso una cosa simile, se fossi stato presente. Si tratta solo di un prestito, comunque".

Cercava di minimizzare, ma la verità era che lo stava salvando dalla strada. Con molta cura, Raymond piegò il foglio in due e lo rimise sulla scrivania: "Ti ringrazio dal profondo del mio cuore, ma non posso accettare".

Lui lo guardò con le sopracciglia aggrottate: "Non era mia intenzione essere indiscreto o umiliarti, Raymond, voglio aiutarti sinceramente, proprio come ho fatto per la famiglia del proprietario della mia distilleria. Siete entrambi vittime di qualcosa che non avete causato voi e anzi, a dirla tutta, Gonzalez ha fatto l'errore di prestarsi a qualcosa che è contro la legge, ricominciando a produrre alcoolici e poi testimoniando il falso in tribunale, anche se per difendere i suoi cari. In ogni caso, lui non meritava la morte e tu non meritavi la rovina. Lascia che ti allunghi almeno una mano".

Raymond intrecciò le dita tra loro, tormentandosele per qualche istante, riflettendo in fretta: poteva davvero permettersi il lusso di rifiutare? Al momento, con quello che gli era rimasto poteva pagare l'istituto di Eliza per un solo mese ancora, poi non sarebbe neanche stato in grado di acquistare un tozzo di pane. Gli rimaneva la casa di Chicago, ma non era sufficiente e le pareti non si potevano mangiare.

Anche se avesse trovato un lavoro da lavapiatti, come si mormorava avesse fatto William stesso mentre era senza memoria, avrebbe dovuto costringere a lavorare anche Sarah, o Eliza sarebbe rimasta catatonica in casa, senza cure né assistenza. Non si trattava di avere lo stile di vita di prima, si trattava di garantirsi la vera e propria sopravvivenza, cosa che in tutta la sua vita non aveva mai preso neanche lontanamente in considerazione.

Fu quest'ultimo pensiero a farlo cedere.

"Va bene, William, accetto la tua generosa offerta, ma mi basta un terzo di quella cifra, anche meno". Lo guardò negli occhi, finalmente a testa alta.

"Ne sei sicuro, Raymond? Puoi pensarci, se vuoi".

Scosse la testa, con un lieve sorriso, il primo da quando era accaduto tutto quel caos: "Ho più di un motivo per non volere da te tutti quei soldi. Il primo, il più importante, è che sono convinto che tu abbia tutto il diritto di lasciarmi sul lastrico senza dovermi niente... no, lasciami finire", s'interruppe alzando una mano quando lo vide aprire la bocca per protestare. "Il secondo è che voglio restituirti questo prestito molto prima di dieci anni, forse anche la metà. L'ultimo è che voglio andare avanti con le mie sole forze e, che Sarah sia d'accordo o no, desidero ricostruire in piena autonomia la mia fortuna. L'appoggio degli Ardlay è sempre stato una certezza incrollabile per me e dopo tutto quello che è successo sento il bisogno di mettermi in discussione come uomo d'affari, contando su me stesso e su nessun altro. Un po' quello che hai fatto tu quando te ne sei andato in giro per il mondo", concluse allargando quel sorriso. Non credeva che un giorno avrebbe rivalutato tanto William, era un uomo persino migliore di quello che aveva immaginato.

Si alzarono quasi nello stesso momento, suggellando l'accordo con una vigorosa stretta di mano: "Ora capisci perché ho così tanta stima di te? Mi hai appena dimostrato di essere un uomo d'onore", disse.

Peccato che non fosse stato più presente per i suoi figli, per insegnare anche a loro un po' di quell'onore. Forse, in quel momento, non si sarebbero trovati tutti in quella situazione. Anzi, ne era certo.

William diede qualche breve istruzione a George per le modifiche al documento e lui sparì nello studio adiacente per lavorarci subito.

"Bene", disse il patriarca guardandolo di nuovo, "ora vogliamo parlare della tua dichiarazione di domani?".
 
- § -
 
La porta si richiuse ed Eliza rimase sola.

Un sorriso beffardo le si disegnò sul volto e, finalmente libera di muoversi, ruotò le spalle e inclinò la testa da un lato e dall'altro per sciogliere i muscoli.
Quando si alzò, le gambe tremavano ed erano alquanto malferme: fare la bambola era davvero faticoso, non c'era che dire!

E poi, che diavolo le avevano messo, addosso? Una camicia da notte talmente brutta e, ora che la guardava meglio, anche logora e sporca, che la zia Elroy sarebbe inorridita!

Oh, cara, vecchia zia Elroy! Non so se potrò rivederti mai più!

Una specie di risata viscerale le salì dallo stomaco, come un conato acido. In realtà, una volta che fosse fuggita da lì non avrebbe più rivisto nessuno. Né il suo sfortunato fratello incarcerato, né i suoi altrettanto sfortunati genitori.

Sfortunati? Certo, forse ad avere due figli come noi. Ma è irrilevante, lo abbiamo fatto a fin di bene per tutti! Non è certo colpa nostra se quella Molly non ha parlato chiaro!

"Ma tu gliel'hai chiesto?!", ringhiò di nuovo la voce di Neal nella sua testa.

"Mi... mi fai male!"

"Glielo hai chiesto o no?!"

"Non è colpa mia!", gridò stridula, scuotendo la testa e affondando le mani nei capelli che, solo quella mattina, sua madre le aveva pettinato con amore.

Sua madre, che le prometteva che tutto sarebbe andato bene, che la supplicava ogni maledetto giorno di svegliarsi senza rendersi conto delle conseguenze.

Idiota! Stai zitta e fingi con me se vuoi salvarmi! Era stata più volte sul punto di strillarle.

Eliza si avvicinò alla finestra con le sbarre e cominciò a sentire le lacrime bruciarle dietro le palpebre. Non poteva provare alcun senso di colpa, sarebbe stato assurdo. E non le sarebbe mancato nessuno della sua famiglia.

Alla fine, la sua mente geniale avrebbe trovato il modo di rimuovere quelle sbarre e calarsi dalla finestra o di fuggire in qualche altro modo. Tutti, tutti sarebbero rimasti indietro e lei avrebbe trionfato.

Certo, per un bel po' avrebbe dovuto nascondersi

forse per tutto il resto della tua miserabile vita

o vestirsi da vagabonda e tingersi i capelli come quell'idiota incosciente del patriarca degli Ardlay.

Vivendo per strada ed elemosinando... peggio: lavorando per sopravvivere!

"Zitta, zitta, zitta!", cercò di attutire il gridolino isterico, stavolta, o avrebbero potuto udirla. E allora, addio copertura!

La luce fioca della lampada mandava un lampo giallastro e lo specchio rovinato e graffiato le restituì un'aria malata. Se solo avesse avuto un po' di trucco con sé! Ma le impedivano di tenere qualunque cosa in quella stanza schifosa, come se una catatonica potesse mettere disordine!

O tentare di suicidarsi, come aveva fatto Neil.

Lei no, lei amava troppo la vita per fare un gesto così stupido. E se la sarebbe ripresa, quella vita. Doveva saltare sulla prima nave, magari come clandestina, e andarsene in Europa. L'Inghilterra, la Francia... Parigi!

Gli occhi si spalancarono e lei vi colse una luce nuova: Parigi era la capitale della moda! Ora che la guerra era finita, lei avrebbe potuto dare i suoi preziosi consigli in una boutique o persino diventare una modella, con il bel corpo che aveva. Chi l'aveva detto che lavorare sarebbe stato brutto? Oh, certo, solo finché le cose non si fossero stabilizzate, poi avrebbe aperto la sua catena di abbigliamento esclusivo e sarebbe stata lei a dirigere tutto!

La risata viscerale tornò, i lineamenti del volto erano contratti da una gioia folle.

Tuo padre ha venduto tutto per pagare il carcere e proteggere Neil, non ci è rimasto niente! Ma ora io e lui siamo scagionati e Raymond non mi può negare di andare dalla zia Elroy per chiederle aiuto!

A lei non interessava molto la parte della prozia che, ne era certa, non si sarebbe lasciata circuire una seconda volta.

Oh, mammina, sei così ingenua, alle volte! O forse sei veramente tu quella che sta impazzendo, qui?

A Eliza interessava la parte in cui parlava della protezione di Neil: che diavolo intendeva? Doveva pagare degli avvocati per tirarlo fuori di lì,

semmai ci riusciranno

visto che i veri colpevoli erano già in un carcere di massima sicurezza e non in cella con lui!

Cosa poteva accadergli mai, in galera? Dietro a sbarre forse così simili a quelle della sua stanza attuale?

Fuggirò da questa topaia. Forse dovresti provarci anche tu, fratellino, in certi romanzi sembra così facile!

Parigi l'aspettava e comunque lei non poteva certo fare domande a sua madre! Doveva guardarsi intorno, capire gli spostamenti notturni e diurni del personale e studiare un piano di fuga.

Da una stanza adiacente, la solita voce cominciò a urlare frasi in russo o in qualche altra lingua che non aveva mai sentito. Doveva essere quasi mezzanotte, quella donnaccia era puntuale come la morte!

Rannicchiandosi sulle coperte puzzolenti e sciupate, Eliza cominciò a dondolarsi e a cantarsi da sola una specie di ninna nanna.

Quella che le cantavano le tate quando era piccola.

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Capitolo 53
*** Ricordo di un amico ***


Patty osservava tutto ciò che le accadeva intorno come in sogno. Le sembrava di mancare da Chicago da una vita e, soprattutto, di riconoscere a malapena le persone che la circondavano, anche se molte erano facce familiari.

A partire da Candy.

Aveva dovuto asciugarsi gli occhi più volte quando aveva visto quella donna dai capelli corti fino alle spalle, con lo sguardo severo e un cipiglio perplesso nel momento in cui gliel'avevano presentata. Come se non la conoscesse. Come se non le avesse mai affidato una piccola tartaruga, a Londra, un milione di anni prima. Come se non fosse più la ragazza allegra e spensierata che saltava sugli alberi dai balconi per andarsene in giro indisturbata a trovare il suo Terry o l'amico che lavorava allo zoo.

E quel suo amico, quel prozio William così diverso eppure così uguale all'Albert del Blue River e della Casa della Magnolia... aveva parlato con tono deciso, tradendo solo per alcuni attimi la forte emozione nel ricordare i momenti di dolore e incredulità vissuti in carcere da lui e Archie e in casa dalla sua preoccupata zia. Raymond Lagan era intervenuto con le lacrime agli occhi e quell'uomo, più magro di come lo ricordava, lo aveva incoraggiato a parlare senza vergogna.

Ma Patty capiva come mai si vergognasse dei suoi figli! Avevano quasi ucciso Candy e l'avevano ridotta a una sconosciuta, quindi si erano rivolti alla malavita per rovinare gli Ardlay. Si sussurrava che fossero coinvolti addirittura esponenti della mafia, ora assicurati alla giustizia.

Vide Annie scambiare alcune parole con Archie, dietro al tavolo da buffet dove tutti si avvicendavano con discrezione e parlavano a bassa voce. Ogni tanto i giornalisti chiedevano ai componenti della famiglia di posare per una foto, inclusi gli anziani, oppure facevano delle domande e prendevano appunti.

Non c'era musica, anche se era stata allestita la sala da ballo, perché non era una festa. C'erano soprattutto molte sedie e tavoli con documenti che George, il braccio destro di Albert, a volte si prodigava di consultare per dare informazioni più dettagliate a chiunque le chiedesse.

Patty si sistemò gli occhiali sul naso e fissò le grandi finestre, cui erano state appese tende candide e sottili, che lasciavano entrare la luce del giorno illuminando la stanza come se fosse una sorta di grande ufficio stampa con una tavolata di cibo per rifocillare gli avventori.

Con la coda dell'occhio, scorse Candy seduta in un angolo con un uomo che le era stato presentato come il dottor Carter, il suo psichiatra. Era un giovane molto affascinante, con gli occhi molto simili a quelli di Terence e, a pensarci bene, se avesse avuto i capelli più scuri avrebbe persino osato dire che c'era una certa somiglianza. Lei sembrava rilassata in sua presenza e ancora non si era avvicinata né ad Annie, né agli altri, tantomeno ai giornalisti che, sospettò, sia il dottore che Albert preferivano tenerle a distanza.
Patty si avvicinò al tavolo per posare il bicchiere di champagne ancora pieno, scrutando Candy come se potesse, all'improvviso, trovare in lei qualcosa della sua vecchia amica. Una mano sulla spalla la fece sussultare: "Patty, sono io. Scusa, ti ho spaventata?".

Si portò una mano al petto, sorridendo e voltandosi a incontrare lo sguardo preoccupato di Annie: "No, tranquilla. È che... mi sembra tutto così strano e irreale... così diverso dal giorno della presentazione ufficiale di Albert!".

Lei annuì, con un sospiro: "Lo so. Abbiamo tutti passato momenti bui e non è facile abituarsi a...", scoccò un'occhiata significativa a Candy che aveva assunto un'espressione seria e, di nuovo, il cuore le si strinse.

"Domani partiranno per Lakewood?", chiese cercando di capire meglio la situazione.

Annie la invitò a sedersi su due poltrone poco dietro di loro, in un punto un po' defilato. Visto il chiacchiericcio sommesso ma continuo, non dovette abbassare troppo la voce quando le spiegò con tono calmo: "Lei e Albert sono innamorati da... non sanno neanche loro quanto tempo, in realtà. Forse da quando vivevano insieme in quell'appartamento, o forse da prima. Fatto sta che stavano mantenendo segreta la loro relazione aspettando il momento giusto per renderla ufficiale. Neanche la zia Elroy sapeva nulla".

Patty superò rapidamente quel poco di stupore iniziale alla conferma che Candy e Albert avessero una storia: anche se distante, aveva già subodorato qualcosa del genere dalle lettere di Candy e di Annie. Quindi commentò: "Immagino che volessero aspettare soprattutto per lei, non è vero?".

L'amica annuì: "Già, specie perché poi c'è stata quella discussione tra me e Archie e c'era davvero troppa carne al fuoco. Col senno di poi, mi sento quasi in colpa per aver deciso di troncare proprio allora. Forse, se non avessimo causato problemi, lui si sarebbe fatto avanti con sua zia e...". Annie assunse un'espressione triste, guardando verso i due.

Patty le mise una mano sul braccio: "Non rimproverarti, Annie, non potevi conoscere le loro intenzioni, inoltre hai agito come credevi fosse meglio, no?", tentò di rincuorarla.

"Forse hai ragione", ammise con un sospiro.

"E... adesso... come va tra voi due? Sempre come mi hai scritto nell'ultima lettera?", tentò con discrezione, sporgendosi un poco per guardarla.

"Sì, non è cambiato niente. Il nostro legame è ancora... più forte di prima, ma lui è intenzionato a terminare gli studi. A dirla tutta, anche se mi costa ammetterlo, lo ammiro molto per questa sua decisione". Patty notò che Annie era arrossita ancor prima di dichiarare quanto lo ammirasse, ma soprassedette e non fece altre domande.

Sospirò profondamente, giocherellando con la gonna: "Hai deciso se vuoi venire con me o meno?", chiese girandosi un po' per scrutarla meglio.

Annie si morse il labbro inferiore e fece vagare gli occhi per la stanza, come cercando un appiglio. Sembrava molto combattuta e Patty cominciò a scusarsi per la sua intromissione quando disse, a voce bassa: "Non voglio allontanarmi da Chicago. Nel mio cuore c'è ancora una speranza che...".

"Scusate?", una voce sconosciuta le interruppe con gentilezza. Quando Patty alzò gli occhi incontrò quelli blu del dottor Carter, accanto al quale c'era anche Candy. "Perdonateci, non volevamo interrompere la vostra conversazione", aggiunse contrito.

Si alzò in piedi e guardò Annie, che fece lo stesso e si affrettò a rispondere: "Oh, no, non avete interrotto nulla. Stavamo solo... chiacchierando". Eppure le sembrò che Annie stesse arrossendo di nuovo. Patty si ripromise di riprendere quella conversazione, appena possibile.

"Candice ha espresso il desiderio di parlare con la sua amica Patricia, vorrebbe...".

"Vorrei sapere qualcosa in più di Stair. Grazie, ma posso anche parlare da sola", intervenne lei, glaciale, affondandole quel ghiaccio nel cuore.

Carter le lanciò un'occhiata nella quale Patty lesse con chiarezza il rimprovero. Le parve un insegnante che cerchi di disciplinare una ragazzina impertinente. Fu quell'ultima considerazione su Candy che la ferì, anche più del ricordo di Stair. Era proprio quello che era diventata: una donna fredda, senza peli sulla lingua, che poco o nulla si curava dei sentimenti degli altri. E l'aveva capito solo dalle lettere di Annie e dalle poche ore passate a osservarla.

Se davvero Albert era innamorato di lei solo la metà di quanto immaginava, doveva soffrire terribilmente.

"Non c'è problema", rispose con voce più ferma di quanto si aspettasse. Sentiva gli occhi di Annie puntati su di lei e la mano che le sfiorava la sua in un muto sostegno.

"Andiamo nella mia stanza, Candice?", le pareva così strano chiamarla così...

Lei annuì e la seguì senza una parola.
 
- § -
 
Albert vide Candy e Patty allontanarsi dalla sala principale e distolse lo sguardo dal suo interlocutore, un giornalista del New York Times molto interessato alla storia della sua figlioccia.

"Pensa che potrei intervistarla brevemente?", chiese con una nota di timidezza nella voce.

"No", rispose asciutto. "Mi spiace, ma le sue condizioni sono molto delicate, come ho già avuto modo di dire ai suoi colleghi, e non è possibile sottoporla a una pressione eccessiva".

Il giovane si portò la penna sulle labbra per un istante e Albert pensò che l'avrebbe mordicchiata come era solito fare lui quando era nervoso, invece l'abbassò e disse: "E con il suo medico? So che per una questione etica non può dirmi molto, ma...".

"Senta...", Albert stava per perdere la pazienza, ma si fermò per lasciarlo continuare quando alzò una mano per chiedere di ascoltarlo.

"Non voglio essere indiscreto, signor Ardlay, ma se è vero quello che ha insinuato il signorino Cornwell e lo sono anche le parole della signorina Lagan al processo...".

"E cosa ha insinuato il signorino Cornwell?", domandò guardandolo di traverso e posando il bicchiere che, se avesse ancora tenuto in mano, avrebbe rotto tanto lo stava stringendo.

"Beh, che secondo lui è stata Eliza Lagan a causare l'incidente, con l'aiuto di suo fratello", concluse l'uomo ritraendosi un po', forse intimorito dalla sua rabbia ormai evidente.

Albert trattenne un'imprecazione tra i denti per un soffio e in suo aiuto venne proprio Raymond, che si accostò tra loro due e il tavolo: "Chiedo scusa se m'intrometto, ma se sta parlando di mia figlia la prego di chiedere a me".

Gli lanciò uno sguardo grato: "Non sei tenuto a dare informazioni mentre c'è un processo in corso". Girò di nuovo gli occhi verso il giornalista, che si strinse nelle spalle. "E le supposizioni di mio nipote non hanno ancora una base dimostrata, quindi la prego, signor...?". Aveva dimenticato il suo nome e voleva che quella riunione finisse prima possibile. Gli stava venendo un'emicrania colossale a furia di dare spiegazioni a tutti.

"Mi chiami solo Roger. Per quanto riguarda il dottor Carter, invece...?".

"No", risposero a una voce lui e il diretto interessato, che era arrivato a dargli manforte alla sua destra.

Il giornalista allargò le braccia, ridendo: "Caspita, non credevo che mi sarei trovato a dover fronteggiare ben tre gentiluomini solo per scrivere un articolo!".

Albert stava per rispondergli qualcosa, anche se non sapeva bene cosa, ma Adrian lo precedette: "Per quanto mi riguarda, Roger, sa che ho un segreto professionale da mantenere, quindi non posso che confermarle quello che di sicuro già le è stato riferito. La signorina White Ardlay ha subito un trauma cranico a seguito di un incidente e ha perso la memoria. Sto lavorando duramente, col supporto dei suoi familiari, affinché possa ritrovare il suo passato. In compenso si trova in buone condizioni fisiche", concluse con voce calma e discorsiva.

"Pensa che queste informazioni le bastino per scrivere il suo articolo, Roger?", chiese Albert cercando di contenere il più possibile il tono ironico. Sapeva benissimo che non gli avevano detto nulla di nuovo.

"Oh, sì, moltissimo", ribatté infatti lui, allontanandosi con aria stizzita. "Con permesso".

Albert fece un lungo sospiro: "Sembra quasi che siano tutti più interessati a Candy che non alla nostra dichiarazione d'innocenza", disse riprendendo il bicchiere e portandoselo alle labbra.

"Devo ringraziarti ancora una volta", disse piano Raymond facendolo voltare per guardarlo. "Avresti potuto confermare i sospetti di tuo nipote o, peggio, raccontare delle condizioni attuali di Eliza. Se quello che ha detto mia figlia al processo è vero, dovranno pagare anche per l'incidente di Candice".

La mano di Albert tremò leggermente mentre abbassava di nuovo il flute. Raymond non si era reso conto che, dietro quel 'non hanno ancora una base dimostrata' c'erano anche le sue, di supposizioni, e non solo quelle di Archie. Erano, anzi, divenute certezze in tribunale, con l'unica differenza che i giudici ancora non erano a conoscenza di quel maledetto chiodo nella zampa del cavallo.

Stimava davvero Raymond, altrimenti non lo avrebbe aiutato, ma tutta la tensione accumulata in quella mattinata lo aveva snervato, quindi fu con poca gentilezza che rispose: "Oh, ne sono certo. Perdonatemi, vado a parlare un attimo con Macdonald", tagliò corto dirigendosi verso uno dei membri più anziani del clan.

In realtà non aveva bisogno di parlare con lui, né con nessun altro. Si sentiva come se fosse saturo di elargire la sua facciata falsa e controllata al mondo intero mentre voleva, come Archie, gridare che sì, avevano rovinato la vita alla sua Candy e anche a lui; che quell'ingrata di Eliza era sempre stata una serpe velenosa pronta a mordere tutti; e che Candy non era la sua figlioccia, ma la donna che amava più della sua stessa vita e che, un giorno, aveva sognato di sposare.

Ma non voleva, né poteva coinvolgere Raymond o Adrian nel suo terremoto interiore, quello che era iniziato come un violento sisma il giorno in cui aveva deciso di dichiararsi a lei.

Superò Macdonald, George, la zia Elroy e tutti coloro che erano sul suo cammino, muovendosi a grandi passi verso una delle porte-finestre, ignorandoli se tentavano di rivolgergli la parola.

Il benessere dei primi tempi dopo la scarcerazione era stato solo un'illusione, costellato dal difficile recupero psicofisico, dagli incubi notturni in cui lo accoltellavano di nuovo in una stanza lurida e dal bisogno sempre più pressante di riavere Candy.

Arrivato al ballatoio che circondava quella parte della villa, si appoggiò con tutte e due le mani alla ringhiera di pietra e chiuse gli occhi, respirando a fondo per riprendere il controllo e calmare il battito impazzito del proprio cuore.

Non era possibile che per tornare l'uomo calmo e integro di un tempo dovesse appoggiarsi a Candy, anche se l'amava tantissimo, semplicemente non poteva accettarlo. Era sempre stato un'anima libera da imposizioni come da legami e il suo orgoglio gli impediva di far dipendere il proprio benessere da una donna che, forse, non sarebbe mai stata sua.

Era un concetto che si era ripetuto migliaia di volte nella sua testa e c'erano momenti in cui, pur avendo il cuore ancora ferito e dolorante, gli pareva davvero di avere il controllo della propria vita. Ma quando qualcuno infilava il dito nella piaga riprendeva a sanguinare come e più di prima.

"Devo imparare a vivere con te ma senza di te, Candy", disse offrendo il viso accaldato al gentile vento primaverile.

Sarebbe andato con lei a Lakewood perché doveva e voleva guarirla, ma avrebbe seguito il consiglio di Adrian sul limite di tempo da darsi: scaduto quel termine, se non ci fossero stati progressi l'avrebbe lasciata andare. Che Dio l'aiutasse, ma se Candy, con la memoria o senza, non l'avesse più voluto, avrebbe continuato con la propria vita come avevano fatto lei stessa e Terence dopo che si erano detti addio a New York.

Aveva ancora un po' di tempo e l'avrebbe sfruttato.

Poi, magari, sarebbe tornato in Africa per leccarsi le ferite finché non fossero diventate solo cicatrici.
 
- § -
 
Candy vide Patricia, o Patty, come si voleva far chiamare, tirare fuori qualcosa dalla valigia e trasportarlo come se si trattasse di una reliquia preziosa o un piccolo animale spaventato.

In realtà, quando le si avvicinò e aprì le mani vide che era un carillon, minuscolo ma veramente ben fatto.

Lo guardò senza capire, poi alzò lo sguardo verso la ragazza, che aveva gli occhi lucidi: "Questo lo ha fatto Stair prima di partire per la guerra. In realtà lo aveva regalato a te, ma tu me lo consegnasti dopo i suoi funerali".

Rimase immobile, accigliandosi e avvertendo qualcosa di sgradevole nel petto: "Perché mi ha fatto un regalo del genere, visto che eri tu la sua ragazza?", domandò.

Il volto di Patty si contrasse in una smorfia di dolore: "Perché ti voleva bene... come a una sorella...". Detto ciò, scoppiò a piangere allontanandosi da lei e sedendosi sul letto, dove la sua valigia era ancora aperta.

Candy rimase in piedi, con i pugni stretti, senza poter fare nulla per quella ragazza che soffriva così tanto. Eppure la mancanza di empatia che la caratterizzava stava diminuendo sempre di più e lei aveva sempre maggiori difficoltà a padroneggiare quei sentimenti di dolore che la coglievano quando li vedeva negli altri.

Era successo con William... con Albert, ed era stato come spingersi oltre un dirupo e precipitare. Era una sensazione simile a quella che aveva quando ricordava, ma più violenta e profonda. E mentre il suo cammino verso la comprensione degli altri avanzava, il timore fisico degli spazi aperti diminuiva, come se prima si fosse imprigionata nel suo corpo e nella sua testa e ora cercasse davvero di uscirne.

Sperava solo che il tempo che avrebbe passato con Albert non la sconvolgesse troppo, perché quell'uomo aveva toccato corde così profonde nel suo essere che era come ritrovarsi nuda tra le sue braccia.

Quel paragone la colpì come uno schiaffo, restituendole un'immagine che non seppe se la facesse inorridire o rabbrividire di desiderio.

Cercò di concentrarsi sulle lacrime di Patty e, come le era accaduto con quelle di Albert, anche se non con la medesima intensità, sentì di non poterle sopportare. Di volerle fermare. Di volere che lui, la sua amica, chiunque smettesse all'istante di soffrire.

Le si avvicinò in pochi passi, sedendole accanto e mettendole una mano sulla spalla. Patty sussultò al suo tocco gentile e girò verso di lei il viso madido e senza gli occhiali, che aveva tolto e stava tenendo in mano. Sembrava stupita mentre cercava con affanno un fazzoletto.

Candy frugò nella sua tasca e le porse il proprio: "Mi dispiace", le disse. "Non... non volevo farti soffrire", disse esitando, alzando una mano a carezzarle i capelli mentre lei si asciugava gli occhi.

"Candy!", esclamò stupita, chiamandola con quell'odioso nomignolo cui, ormai, si stava quasi abituando. D'altronde, anche Patricia si faceva chiamare Patty... "Oh, Candy!", ripeté abbracciandola di slancio.

Lei si gelò e, mentre con un gesto quasi meccanico si sforzava di restituirle un abbraccio di conforto, vide sul letto quel piccolo carillon e non resistette all'impulso di aprirlo per sentirne il suono.

Un torrente in piena la investì. Nostalgia, dolore, malinconia, dolcezza, tutto si riversò in lei.

Questa è la mia ultima invenzione... il carillon della felicità...

Le sue labbra pronunciarono quelle parole silenziosamente, mentre la ragazza stretta a lei continuava a singhiozzare più forte, forse a causa di quel suono.

Ogni volta che ti senti triste aprilo e ascolta il suono, ti sentirai subito felice.

Non si era accorta di averlo detto ad alta voce, né che le lacrime scendevano anche sulle sue guance, staccandosi finalmente dagli occhi.

Patty smise di piangere di colpo e si allontanò per guardarla, le loro espressioni di stupore dovevano essere identiche. Candy si portò le mani alla testa, colta di nuovo da un dolore lancinante.

"Stai bene? Ti sei ricordata di lui?", le stava chiedendo con la voce ancora rotta.

"Io... io... ricordo queste parole, ma nulla di più. Questa musica...". Strinse gli occhi, cercando di contenere la nausea, il capo ancora chino tra i palmi delle mani.

Sentì la ragazza muoversi per prendere l'oggetto e chiuderlo, poi l'afferrò con gentilezza per il polso e glielo consegnò: "Te lo restituisco. Tienilo finché non recupererai la memoria, per favore e... anche dopo. In fondo, Stair l'ha regalato a te".

"Ma... ma", voleva protestare, dirle che doveva tenerlo lei che ne era stata innamorata, ma Patty stava già scuotendo la testa.

"Io ho molti altri ricordi del mio Stair, incluse un paio di marionette con le nostre sembianze". Ridacchiò a quella confessione. "Inoltre, devo andare avanti con la mia vita e questo ti appartiene. Sono certa che anche lui avrebbe voluto che lo avessi tu, in questo momento". E le richiuse le dita sul carillon, suggellandone il possesso.

Candy deglutì altre lacrime, chiedendosi come fosse possibile provare dolore per la morte di un ragazzo di cui ricordava a malapena qualche frase: "Te la senti... di parlarmi di lui?", chiese con molta più gentilezza di quanto non avesse fatto poco prima in quella sala.

Quando la guardò, Patty sorrideva, anche se gli occhi erano rossi. Inforcò di nuovo gli occhiali e giunse le mani in un gesto deciso, pronta a cominciare.

Lei l'ascoltò avidamente.
 
- § -
 
George chiuse il portabagagli dell' auto, dove aveva riposto le ultime valigie, sotto lo sguardo stizzito della signora Elroy.

Sapeva che non le andava affatto a genio quella vacanza che William stava per fare con la signorina Candice, ma stavolta era pronto a spalleggiare quello che considerava come un figlio. E fu mentre controllava che tutto fosse in ordine anche all'interno della vettura che la signora parlò.

"Continuo a pensare che Candice abbia bisogno di un'accompagnatrice. Abbiamo appena rimesso piede in società con tutte le carte in regola e rischiamo che comincino a parlare di questa specie... di fuga romantica!". Quelle ultime parole le soffocò in un fazzoletto come se si trattasse di un tosse stizzosa da dover sopportare.

L'uomo s'impose la calma che, in quell'ultimo periodo, era stata messa davvero a dura prova: "Con tutto il rispetto, signora Ardlay, si tratta di un viaggio meramente terapeutico per la signorina Candice, caldeggiato dal suo stesso psichiatra. Qualora i giornalisti dovessero inventare storie di fantasia sarà mia cura occuparmene di persona".

I lineamenti della donna si contrassero in un'espressione di disgusto: "Mio nipote ha preso troppo a cuore questa ragazza orfana che, tra l'altro, è già maggiorenne e non dovrebbe più neanche essere sotto la sua tutela. Con tutto quello che è accaduto, poi, William dovrebbe rimanere qui a seguire gli affari, invece di dare adito a voci inopportune sul suo conto!".

George evitò di rispondere alla prima parte della sua osservazione, perché si trattava di un argomento molto delicato che solo William poteva affrontare. Poco prima dell'incidente avevano parlato della possibilità di annullare l'adozione in vista di un futuro fidanzamento ma, ovviamente, era un elemento che avrebbe tenuto per sé. Cercò, invece, di tranquillizzare la matriarca sul secondo punto.

"A Lakewood seguiremo gli affari come se ci trovassimo qui, di questo non deve preoccuparsi e il signorino Cornwell sarà un ottimo tramite con Chicago. Per quanto riguarda la reputazione del signorino William non vedo problemi, perché oltre a me saranno presenti anche il cuoco e la servitù". George sapeva benissimo dove volesse andare a parare la signora Elroy, che di certo si era accorta di quanto fossero cambiate le cose tra Candice e suo nipote, nonostante avessero cercato di nasconderlo. Non solo, ma bastava guardare negli occhi William per leggere con chiarezza cosa ci fosse nel suo cuore.

La signora Elroy si accigliò: "Non dubito certo dell'integrità di mio nipote, George. È Candice a rendermi nervosa, con questo strano... carattere che ha sviluppato da quando ha perso la memoria. Chi mi assicura che ora non voglia ingraziarselo per mettere le mani sulla fortuna degli Ardlay? Potrebbe... sedurlo o peggio", concluse girando il volto imbarazzato e distorto ancora dalla rabbia.

George strinse i denti e i pugni, cercando di respirare a fondo e di non mostrare nulla del suo tumulto interiore. Solo quando fu certo di essere padrone di se stesso parlò: "Signora Elroy", iniziò, quindi si schiarì la voce per eliminare la leggera vibrazione che l'affliggeva, "la signorina Candice ha espresso più volte il desiderio di fare la sua vita, a quanto mi è stato riferito, e non è mai stata molto felice di stare qui. Inoltre, come avrà di certo notato anche lei, non ha mai sviluppato nei confronti di William quei sentimenti di affetto e di amicizia che aveva prima. Francamente non troverei molto plausibile, in questo scenario, che la signorina Candy possa attuare quello che lei teme".

La matriarca tirò fuori il ventaglio e vi nascose dietro il volto, senza più poter aggiungere altro, se non un "Ingrata" appena sussurrato che cozzava persino con la sua affermazione precedente. George tirò un sospiro di sollievo, ma si sentì in dovere di lanciare un'ultima osservazione, con tono carico di emozione: "Vorrei inoltre permettermi di ricordarle quanto Candice sia stata fondamentale nella vita di William quando è stato lui a trovarsi solo e privo di memoria. Sono certo che lui stesso le ha espresso il suo desiderio di ricambiare questa cura con grande devozione".

Finalmente, gli occhi della donna si ammorbidirono. Solo un po', ma per George fu sufficiente. S'inchinò, chiese permesso e rientrò in casa per vedere se ci fosse bisogno di lui in riunione e se William volesse comunicargli un orario per la partenza.

Fine quarta parte.

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Capitolo 54
*** Arrivi e partenze ***


Quinta parte: Remember me

Cosa rimane dentro noi
Questa celeste nostalgia
Questo saperti da sempre ancora
Ancora mia
Mia
(....)
Dentro di me non muori più
Azzurra, celeste nostalgia
Qualche parola affettuosa
È un po' poco, però per noi forse no
Amore mio grande, amica mia
Cara celeste nostalgia
Un'ora, un giorno, una vita
Che cosa vuoi che sia
Resti mia
Amore mio grande, amica mia
Cara celeste nostalgia
Un′ora, un giorno, una vita
Che cosa vuoi che sia
(Celeste nostalgia - Riccardo Cocciante)
 
 
Arrivi e partenze

"Eeeeee stop!", urlò il regista con un gesto teatrale della mano, che sventolò in aria da sinistra verso destra. Gli attori e gli scenografi irruppero in un applauso generale, cui Terence si unì più per il sollievo che tutto fosse finalmente finito.

Era troppo preso dai pensieri che gli turbinavano già in testa sul futuro per accorgersi di una delle attrici secondarie che, fosse dannato se aveva mai imparato il suo nome, gli saltò al collo strillando come una pazza e dicendo che era ora di festeggiare.

Terence incontrò gli occhi divertiti di sua madre e afferrò con gentilezza e fermezza i polsi di quella specie di piovra, allontanandola da sé: "Perdonami, bellezza, ma ho delle cose da fare".

Lei si scostò di un passo e lo fissò accigliata, come se le avesse appena rivolto un insulto: "Dì un po', che problema hai? Non ti piace festeggiare con i tuoi colleghi o non ti piaccio io?".

Nel marasma generale che si era creato, Terence vide qualcuno tirare fuori una bottiglia di champagne e ripensò ad Albert e a quello che aveva passato a causa del proibizionismo. Il regista gli diede una pacca sulla spalla e gli fece i complimenti, mentre alcuni collaboratori cominciarono a discutere su quale locale fosse il migliore per andare a bere qualcosa senza rischi.

Stringendo i pugni, Terence cercò d'impedire alla sua lingua di spiegare loro quanto fossero idioti, ma tacque perché non voleva nuocere all'amico usando il suo esempio in quella che poteva diventare una discussione accesa. Inoltre voleva evitare paternali che gli avrebbero solo fatto perdere tempo.

Doveva rimettere in ordine la sua vita, ora che aveva onorato il suo impegno. Soprattutto, doveva decidere cosa fare con Karen.

"Allora?!". L'attrice bionda senza nome, che aveva interpretato una cameriera nel film, batté un piede a terra come una bambina capricciosa e lui cercò di trattenersi dallo scoppiarle a ridere in faccia.

"Terry...?", la voce di Eleanor gli arrivò da dietro le spalle, leggera come un soffio. Voleva forse dirgli di ignorarla? Oppure di risponderle velocemente e andarsene?
Fece un paio di passi verso la ragazza, deciso a giocare un po'. D'altronde, da tempo gli mancava un po' di sano divertimento. Le mise le mani sulle spalle, avvicinandosi al suo volto e calamitando più di uno sguardo. Il regista fischiò persino.

Erano tutti degli idioti, ormai ne aveva la certezza.

L'attrice aveva un rossore diffuso sul volto e tutta la sua baldanza sembrava essersi sciolta nell'imbarazzo che l'affliggeva. In silenzio, lo fissò con occhi sgranati mentre lui le avvicinava le labbra all'orecchio per sussurrarle con tono seducente: "Vuoi sapere se non mi piace festeggiare con voi o non mi piaci tu?", riformulò la sua domanda. Il brivido che l'attraversò a quel leggero contatto non gli sfuggì.

Il silenzio ora era totale, tutti sembravano attendere la sua risposta e Terence ne fu molto felice.

"Beh, non mi piace nessuna delle due cose", dichiarò staccandosi da lei e guardandola in viso. La sua espressione mutò in indignazione così di colpo che Terence scoppiò a ridere, mentre intorno si levavano proteste come se si trattasse del finale di un film non atteso o persino sgradevole.

"Andiamo, mamma, ti offro il pranzo", disse porgendole il braccio e notando i suoi occhi ridenti. Capì che, nonostante la sua irriverenza, lei non poteva essere più d'accordo.
A differenza sua, però, Eleanor salutò tutti con cortesia, pur se sovrastata dalle urla della giovane attrice cui aveva appena dato il benservito. Metà delle sue frasi non sarebbero state bene neanche in bocca a una donna di strada.

"Sono felice di andarmene di qui", disse a sua madre quando furono fuori.

Eleanor si girò per guardarlo: "Sai una cosa, figliolo? Questa volta lo sono anche io. Lavorare con te e vedere tutte quelle donzelle sospirarti vicino ogni giorno mi riempie d'orgoglio, ma è anche piuttosto impegnativo. Qualcuna di loro mi ha chiesto persino d'intercedere, ci crederesti?".

Terence spalancò gli occhi mentre faceva cenno a una carrozza di fermarsi: "Cosa?! E me lo dici ora?".

Lei si strinse nelle spalle e accettò il suo aiuto per salire sul predellino, tenendosi elegantemente il vestito con una mano: "Non volevo darti altri pensieri".

Sedette accanto a lei e disse: "Dai, raccontami tutto, voglio proprio farmi due risate!", la incitò.

Dopo aver chiesto al cocchiere di portarli nel miglior ristorante della città, Terence pensò che non poteva trovare un modo migliore per festeggiare che passare un po' di tempo spensierato con sua madre.

Lo avrebbe aiutato a calmarsi, a mettere ordine nel suo cuore, forse. E, magari, a prendere finalmente una decisione.
 
- § -
 
Durante tutto il tragitto verso Lakewood, Candy rimase silenziosa.

Si limitò a guardare fuori, lasciando che la mente le desse qualche informazione, ma non accadde. Neanche all'entrata, davanti a un portale enorme circondato da un tripudio di rose bellissime di ogni colore esistente. Nemmeno al portone principale, quando alfine scesero dall'auto.

"Stai bene?", le stava chiedendo Albert e sospettò che, dietro quella domanda, ci fosse una muta richiesta.

Vuole sapere se ho ricordato qualcosa.

Lei annuì e vide un lampo di comprensione nei suoi occhi chiari.

Carter glielo aveva anticipato. Il fatto di essere così vicina al luogo dell'incidente, e forse ad alcuni dei suoi ricordi più cari, avrebbe potuto farle chiudere ancora di più la mente.
Il timore di ricordare poteva diventare molto forte e innescare un effetto paradosso che l'avrebbe allontanata ancor di più dal suo obiettivo.

Albert ha il compito di convincermi che non devo avere paura. Come se fosse facile. Come se, fino ad oggi, quello che ho ricordato fosse piacevole.

George e Albert consegnarono i bagagli ai servitori, alcuni dei quali le lanciarono occhiate curiose veloci come lampi. Dovevano averli istruiti perché la trattassero con una certa distanza.

Una folata di vento li investì e alcuni petali le volarono tra i capelli. Petali bianchi, candidi come...

Le ho chiamate Dolce Candy, perché sono dolci come te.

Ne prese uno in mano, guardandolo e vedendovi riflesso quello che doveva essere il viso di Anthony.

Come immaginavo. Sei molto più carina quando ridi che quando piangi.

Sbatté le palpebre, confusa. Perché in passato aveva sentito quella voce come se fosse di Albert? Era stato Anthony a dire quella frase, nella sua mente. La testa le faceva di nuovo male e Candy chiuse gli occhi.

Fino a poco fa avevo un vuoto confortante, ma mi è bastato vedere uno di questi petali per sentire di nuovo le voci.

Lo gettò via con stizza. Doveva richiudere quella porta a chiave, non poteva lasciar entrare neanche uno spiffero.

"Vorrei andare a riposare", disse desiderando solo un letto dove dormire. Stava regredendo, lo sapeva, specie dopo essersi esposta tanto parlando con Patty. Ma quello era un territorio doloroso che forse non l'avrebbe portata al ripristino della memoria.

Lakewood invece era una specie di campo minato, per lei.

Albert la guidò a gesti verso la sua stanza senza dire nulla. Non capiva se fosse per timore di sconvolgerla o perché non sapeva proprio cosa dirle. Quando furono davanti alla porta, però, l'afferrò con gentilezza per le spalle e la trafisse con il suo sguardo ceruleo, mozzandole il fiato per un istante.

Dannazione! Mille volte dannazione!

Idealmente, chiuse mille chiavistelli a doppia mandata cercando di concentrarsi solo sulle sue parole e non su quel tono così dolce e su quegli occhi magnetici: "Candice, ti lascerò riposare perché ne hai bisogno. Ma non potrai rinchiuderti in camera tutto il giorno, lo sai, vero? Dobbiamo intervenire sui tuoi ricordi, poco alla volta. Siamo qui per questo".

Chiuse le palpebre e, così facendo, almeno lui sparì dal suo campo visivo. Poteva sentirne ancora il profumo maschile che le ricordava vagamente il legno degli alberi e cercò di trattenere il respiro: "Lo so. E tu non devi anche lavorare?", chiese cercando di deviare il discorso.

Il suo sospiro frustrato le rimandò il calore del respiro sul viso.

Accidenti a te! E a me...

"Sì, ma posso iniziare domattina. Verrò a bussare alla tua stanza quando è ora di pranzo. Riposa, Candy".

Gli occhi le si spalancarono contro la sua volontà, come due tapparelle. Quel tono delicato, il viso ora così vicino al suo... che diavolo voleva fare?! Riprendendo a respirare prima di diventare paonazza e dare adito a fraintendimenti, Candy ebbe il tempo di accorgersi dell'esitazione, breve ma visibile, che gli attraversò i bei lineamenti quando le posò un bacio leggero sulla fronte.

Prima che potesse reagire, forse sconvolto dal suo stesso gesto, Albert girò i tacchi e se ne andò.

Candy si affrettò ad aprire la porta e a richiudersela alle spalle, poggiandovisi contro e portando una mano al petto dove le parve di poter afferrare il cuore in procinto di fuggire.

Poteva trovarsi in una stalla o nella migliore suite degli Stati Uniti, ma non si concentrò né sul letto a baldacchino né sull'armadio che occupava tutta la parete laterale, di certo colmo di vestiti, vedendoli senza guardarli davvero.

Ma quel pensiero fugace rifluì con la velocità di un fulmine: tutta la sua attenzione era rivolta verso quel punto della fronte che bruciava come se vi avessero appena avvicinato un tizzone ardente.
 
- § -
 
Albert guardava fuori dalla finestra il sole che stava tramontando: adorava quel momento della giornata, perché il suo ufficio era esposto a sud e da lì poteva apprezzare il cammino dell'astro nel cielo durante le ore.

La mano destra, che teneva la penna, faceva piccoli movimenti facendola ticchettare sul legno ritmicamente, come seguendo i suoi pensieri.

Candy lo chiamava di nuovo Albert e aveva imparato ad avere con lui un rapporto di cordiale amicizia. Era un grosso passo avanti, no?

Una volta la nostra amicizia era mille volte più affettuosa di così.

Pur con le sue riserve, l'aveva seguito a Lakewood e, quando l'aveva baciata sulla fronte, non si era ritratta. Perlomeno, non nei secondi appena successivi. Come se una parte di lui temesse una sua reazione, era scappato come un vigliacco con la coda tra le gambe.

A pranzo avevano parlato della villa e del cibo. Argomenti neutrali, terreno sicuro.

Chiuse gli occhi, sospirò e la penna sbatté più forte. Chi aveva paura di chi, adesso? Possibile che i timori di Candy avessero contagiato anche lui? Eppure sapeva bene di avere poco tempo, perché non lo aveva sfruttato?

Se lei mi rifiutasse... se non si ricordasse mai di me...

Ma no, la sua paura era anche un'altra, ben peggiore: e se lei, alfine, avesse recuperato la memoria solo per dirgli che non lo amava più? Carter non si era sbottonato su quelli che potevano essere i suoi sentimenti più reconditi, perché erano talmente personali e imprevedibili che non si era azzardato a fare alcuna teoria.

Tutto era possibile e Albert capì che, mentre lei era senza memoria e poteva risultare plausibile quel rapporto distaccato, se si fosse ricordata all'improvviso tutto per poi lasciarlo di nuovo... sarebbe stata la fine.

Perché non riesco ad accettarlo, nonostante tutti i miei buoni propositi?

Si alzò con movimenti lenti dalla poltrona, raggiungendo la porta-finestra per vedere meglio i riflessi degli ultimi raggi posarsi sull'erba e tra le fronde degli alberi, sul roseto di Rosemary e di Anthony.

Perché l'amo più della mia stessa vita e non potrò mai accettarlo. Non dopo aver sognato il futuro insieme a lei.

Con un nodo che gli stringeva la gola, Albert affondò le mani nelle tasche e cercò disperatamente di raccogliere tutto il proprio coraggio. Pensava di essere una quercia che avesse sopportato le mille intemperie della vita: la perdita di persone care, la difficoltà di trovare il suo posto nel mondo...

Ora si sentiva un albero vecchio e stanco, anche se aveva poco più di trent'anni, con radici poco profonde e pronto a crollare alla prossima tempesta.

Odiava essere così, non lo era mai stato e, anche se il motivo era più che valido, continuava a ripetersi che doveva reagire. Trovare quella forza e quel coraggio, nonché la serenità che lo avevano sempre contraddistinto e fare quello che doveva.

Devo cercare di riportarla indietro e lei sarà libera di decidere della sua vita, come è sempre stato.

D'altronde, perché essere così pessimista? Se Adrian l'aveva affidata a lui come l'unico che potesse aiutarla davvero, significava che il loro legame poteva essere ancora saldo. Non doveva perdere la fiducia in se stesso e doveva combattere per lei e con lei.

Tanto per cominciare le avrebbe raccontato la loro storia come si doveva, inclusa la parte in cui era lui ad essere uno smemorato.

E avrebbe iniziato proprio quella sera.
 
- § -
 
Patty chiuse la valigia e, proprio mentre stava per metterla a terra, sentì bussare: "Avanti", disse riavviandosi i capelli.

Annie entrò, seguita da Archie, e lei sorrise vedendoli insieme. Nonostante tutto, erano sempre una bella coppia.

"Siamo venuti a salutarti, ci spiace che tu vada via così presto", le disse la sua amica avvicinandosi, sancendo definitivamente la sua decisione di non seguirla.

Patty le fece l'occhiolino: "Devo tornare all'Università e voi alle vostre occupazioni, purtroppo non è stata una vacanza. Ma mi ha fatto molto piacere essere qui e vedere con i miei occhi che tutto si è sistemato: ho passato giorni di vera angoscia".

Archie si accostò ad Annie: "Sarai sempre la benvenuta, anche a noi ha fatto molto piacere rivederti, dopo tanto tempo".

Per qualche istante rimasero a guardarsi in un silenzio complice, poi Annie disse: "Senti, Patty, noi volevamo chiederti di Candy. Dopo che vi siete allontanate non ho avuto modo di parlarti e insomma... vorremmo entrambi sapere...".

Sedette sul letto, invitandoli a fare altrettanto sulle poltrone damascate di fronte a lei. Giocherellò un attimo con lei dita, cercando le parole adatte a spiegare le sue sensazioni: "Non vi nascondo che sia stato molto strano parlare con lei", iniziò a bassa voce.

"Quando ti ha chiesto di Stair in quel modo...", intervenne Annie con tono contrito.

"Non è stata quella la parte peggiore. Anche quando sono da sola mi capita di piangere per Stair... in realtà, ciò che mi ha fatto più male è stato vederla così cambiata. La vecchia Candy non avrebbe usato quel tono e sarebbe stata molto più delicata. Ma è quello che ha fatto dopo".

I due si guardarono, stupiti: "Dici davvero?", chiese Archie con gli occhi spalancati, protendendosi dalla poltrona con le mani strette sui braccioli.

Patty annuì: "Quando ho tirato fuori il carillon della felicità le è bastato vederlo per cambiare atteggiamento. Mi ha vista con le lacrime agli occhi e si è persino scusata per il suo comportamento... poi lo ha aperto e sentendo la musica...", s'interruppe, ancora preda di forti emozioni. Candy, Stair...

"Cosa è accaduto quando ha sentito la musica? Si è ricordata qualcosa?", chiese Annie dolcemente, alzandosi per andare accanto a lei.

Patty si asciugò l'angolo dell'occhio infilando un dito sotto agli occhiali: "Sì, ha mormorato una frase che deve averle detto Stair il giorno in cui le ha dato il carillon. Annie, io... gliel'ho restituito. Sono certa che l'aiuterà a ricordare e che anche lui... anche lui...". Non c'era nulla da fare, anche se era passato del tempo il ricordo di Stair le avrebbe sempre fatto male.

Annie l'abbracciò e lei posò la testa sulla spalla dell'amica, cercando di ricomporsi. Incontrò gli occhi lucidi di Archie che, comunque, le stava sorridendo e gli restituì il gesto: "Mi spiace, Archie, sono ancora così... fragile...".

Lui scosse la testa e tirò leggermente su col naso: "Non preoccuparti, cara, credo che continueremo tutti a reagire così ancora molto a lungo quando parleremo di mio fratello. Sono certo anche io che vorrebbe che la sua invenzione torni nelle mani di Candy, ora che ne ha bisogno".

Patty si scostò un poco da Annie per recuperare l'ennesimo fazzoletto della giornata: "Io sono sicura che nel suo cuore c'è ancora la vecchia Candy e se lei e Albert si amavano tanto quanto erano amici... beh, sono molto fiduciosa. Cosa dice il suo medico?".

Annie si passò il dorso della mano sugli occhi: "Il dottor Carter è andato via oggi, lui e Albert hanno parlato a lungo nel suo studio per fare il punto della situazione prima della partenza. Io sono quella che le è stata più vicina, in questi ultimi tempi, con Archie non è andata altrettanto bene". Si voltò a guardarlo e lui girò la testa, imbarazzato.

Patty ricordava che, in una delle lettere, Annie le aveva spiegato che Candy lo aveva sentito parlare della caccia alla volpe e da quel giorno aveva colpevolizzato Albert per la morte di Anthony. Si chiese come le cose tra loro fossero cambiate tanto in meglio da concedersi persino di allontanarsi insieme.

"Comunque, prima di partire per Lakewood, Albert ci ha confermato che starà con lei e le racconterà il suo passato. Forse la porterà addirittura in visita alla Casa di Pony".
Annie s'interruppe per un attimo, mordendosi il labbro inferiore come se stesse per dire qualcosa di scomodo. "Però se le cose non dovessero cambiare affatto nelle prossime settimane, allora sarà lei a decidere cosa fare della sua vita", concluse infatti, facendola trasalire.

"Vuoi dire... che Candy potrebbe anche decidere di andarsene per sempre?", chiese spalancando gli occhi.

Annie e Archie annuirono lentamente.

"Ma... ma non sta bene con la sua famiglia? Capisco che il suo carattere sia molto cambiato e non si ricordi di voi, però...".

"Patty", intervenne Archie, "come Annie ti avrà scritto, Candy ha espresso più volte il desiderio di andarsene. I primi tempi nessuno ci faceva caso più di tanto, perché era appena uscita dall'ospedale ed era sconvolta, ma poi con Carter abbiamo chiarito che, forse, è l'unico aspetto della nostra vecchia amica a non essere mutato. Candy è ancora uno spirito libero e, superato del tutto il timore degli spazi aperti, la decisione spetta solo a lei. Come è sempre stato".

La ragazza chiuse gli occhi e chinò il capo: "Quindi se non si ricorda dell'amore per Albert e di tutto il resto della sua vita non ha più motivi per rimanere".

Alzò lo sguardo e incontrò quello triste di Annie: "Proprio così. E noi non potremo fare altro che sostenerla, nel bene e nel male".

Patty ripensò a quella Candy ribelle e spensierata che aveva conosciuto, pronta a prendere in autonomia le sue decisioni ovunque l'avessero portata, ma anche a tornare a casa nel momento del bisogno o solo per ritrovare i propri affetti. Se la nuova Candy fosse rimasta tale, forse non l'avrebbero più rivista, a meno che non si ricordasse di loro.
Quanto poteva volerci, a quel punto? Mesi? Anni? Albert era stato smemorato per due anni ma era rimasto con i suoi amici, accettando il loro amore e il loro aiuto. E se non avesse mai ricordato nulla?

Mentre, alla fine, si congedava da Archie e Annie raccomandando loro di stare bene e di tenerla sempre informata, Patty sentì di aver perso un'altra persona importante della sua vita.

 
               - § -
 
 
Candy fissò le lingue di fuoco sollevarsi nel caminetto fino a svanire in una serie di scintille. Albert sedeva alla sua destra e se ne stava con le gambe accavallate e un bicchiere in mano. Alla sua offerta di bere qualcosa lei aveva rifiutato: non ricordava se avesse mai assaggiato alcool in vita sua, ma temeva che potesse far abbassare le sue difese esponendola più del necessario.

E lei aveva bisogno di mantenere il controllo.

Era riuscita a rimandare quella conversazione fino ad allora, ma ora stava per iniziare e lei ricominciò a sentire quell'ambivalenza spiacevole che la spingeva a fuggire da un lato e a pendere dalle labbra di quell'uomo dall'altro.

"Il giorno che ci siamo incontrati su quella collina ero scappato di casa. Avevo 17 anni ed ero stufo di rimanere recluso in attesa di diventare il patriarca del clan degli Ardlay", cominciò lui con lo sguardo remoto puntato sull'ipnotica danza delle fiamme. "Questa è la versione molto sintetica della mia vita, un giorno se lo vorrai entrerò nei dettagli, ma non credo t'interessi".

"Vuoi dire che ti hanno rinchiuso in casa per tutta la vita?", chiese voltandosi verso di lui e alzando un sopracciglio. La luce del fuoco si rifletteva sui suoi capelli e sul suo viso rendendolo ancora più bello e lei dovette distogliere lo sguardo per non rimanerne abbagliata.

Doveva concentrarsi e per farlo non doveva guardarlo: ascoltare la sua voce calda e dolce era già una tortura.

"Fino a un certo punto sì, poi me ne sono andato in giro per il mondo vivendo come un vagabondo perché volevo essere libero prima che mi richiamassero per prendermi le mie responsabilità: è per questo che quando ti ho adottata non ci siamo conosciuti. E non ero presente nemmeno quando è morto Anthony. Almeno, non come il tuo zio William".

Candy si accigliò e i loro sguardi s'incontrarono, non poté farne a meno: "Che vuol dire che non eri presente come mio zio? E poi non mi hai adottata come padre?".

Albert rise, mandandole in fiamme anche il viso. Accidenti a lei e a quando il suo cuore aveva reagito alle sue lacrime! Il fatto che tutti volessero proprio che lei si affezionasse ad Albert, incluso lui stesso, non significava che per lei sarebbe stato un bene. Significava ricordare e soffrire di nuovo.

Sì, perché ogni volta che si ricordava qualcosa del suo passato o aveva dei lampi in cui sentiva delle voci, l'assalivano la tristezza e la nostalgia più profondi. Le persone a cui teneva di più le aveva perse. E se ricordarsi del suo amore per Albert l'avesse esposta di nuovo alla sofferenza?

Il fatto era che più gli stava accanto, più si sentiva invadere dal desiderio di provarci, perché non era detto che le cose dovessero sempre andarle storte. Quel timore atavico che le impediva di recuperare, volontariamente ma anche involontariamente, il proprio passato era come una morsa che le si stringeva attorno appena provava ad avere qualche dubbio.

Non erano più solo il mal di testa o la nausea, ma il terrore stesso di vivere il futuro. Si chiese se si fosse mai sentita così in vita sua.

"Sono il tuo tutore, non è proprio come se fossi mia figlia. In realtà tutti mi chiamano prozio William. Finché non mi sono presentato pensavate tutti che fossi un vecchio decrepito in punto di morte", disse divertito.

Candy deglutì, imponendosi di non fare nessun paragone tra quella visione distorta e la realtà che aveva di fronte. Tornò a guardare il fuoco.

"E per rispondere alla tua prima domanda... ci siamo incontrati molte volte nel corso degli anni. Persino a Londra, quando come zio William ti ho mandata a studiare alla Saint Paul School insieme ad Archie e Stair, dopo la morte di Anthony. Solo che tu mi conoscevi come Albert il giramondo".

Scattò in piedi in un gesto veloce, colta da una furia cieca e lo affrontò: "Vuoi dire che ci siamo incontrati ma ti sei preso gioco di me senza mai raccontarmi la verità?
Nascondendomi la tua vera identità per... anni?!". I suoi occhi spalancati dallo stupore non la intenerirono, stavolta.

Ecco perché aveva tanta paura, almeno un motivo l'aveva trovato: quell'uomo le aveva sempre mentito!

Lui si alzò per fronteggiarla, assumendo un'espressione ferma ma pacata: "Calmati, Candy... Candice. Dimmi come vuoi che ti chiami".

Lei sbuffò: "Cambi discorso, eh? Chiamami come ti pare, ma dimmi la verità".

Lui si avvicinò al caminetto e posò il bicchiere pieno per metà sul ripiano, appoggiandovisi con l'altra mano: "Ho dovuto nasconderlo a tutti. Non potevo rischiare che si sapesse chi fossi prima del tempo. Non è stato facile neanche per me".

Candy era sbalordita e i lineamenti le si contrassero in una smorfia oltraggiata: "E ti fidavi così poco dei tuoi nipoti e... di me da non voler condividere quel segreto neanche non noi?!".

Quelle parole parvero colpirlo perché si raddrizzò e sbatté le palpebre come cercando di metterla a fuoco. Sembrava davvero interdetto e lei si sentì soddisfatta: per una volta lo aveva lasciato senza parole pur non ricordandosi nulla: "Io... io non potevo. C'erano troppe implicazioni legate alla situazione e se avessi rischiato che le voci girassero prima del tempo...".

Determinata ad andare a fondo, Candy decise di sfruttare quell'esitazione e gli si avvicinò combattendo contro se stessa: "Non ti fidavi neanche di me, Albert?", gli chiese con un tono quasi risentito. In realtà era solo arrabbiata, ma voleva che si sentisse colpevole.

Lui deglutì vistosamente, facendo andare su e giù il pomo d'Adamo e serrando la mascella, mostrandole i tratti virili del volto contratti.

Una volta, quando si era messa in testa di capire i suoi sentimenti e anche i propri, lo aveva baciato, per poi seppellire quella scena nei meandri più reconditi della sua mente già difettosa. Ora si chiese se avrebbe avuto la forza di non ripetersi.

"Ho cercato di supportarti sempre, lasciandoti fare le tue scelte e guardandoti da lontano per essere certo che non ti accadesse nulla", disse con una dolcezza che non la commosse.

Nonostante l'attrazione fisica, era abbastanza furiosa da mantenersi fredda: "Tutte belle parole, zio William. Adesso capisco cosa m'impedisce di ricordarmi che ero innamorata di te: sei sempre stato un bugiardo".

"No! Non è così, Candy, io...". Le sue parole dovevano averlo atterrito, sembrava disperato.

"Vorrei andare a dormire, adesso. Buonanotte, zio William", ribadì quel nome girando i tacchi sui suoi occhi sgranati. Sembrava sbalordito e aveva allargato le braccia in un gesto d'impotenza, la bocca aperta come se le parole vi fossero rimaste intrappolate.

Perlomeno, grazie a quella confessione, lei era ancora al sicuro.

 
- § -
 
 
Comunicazione di servizio: Dalla prossima settimana ricomincerò con il doppio aggiornamento, che avverrà quindi ogni martedì e venerdì.

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Capitolo 55
*** Intenzioni e speranze ***


Attenzione: contenuti un po' forti sul finale, che potrebbero urtare la sensibilità.

Intenzioni e speranze

"Questi investitori hanno fatto sapere che vorrebbero aspettare ancora un po' per rimettersi in gioco, d'altronde l'annuncio ufficiale è stato appena pubblicato e circa il 75% dei nostri soci ci ha già dato fiducia". George lanciò un'occhiata a William da sopra la pila di fogli e lo vide apparentemente in ascolto, con il mento poggiato su una mano e il cipiglio di un uomo molto concentrato. Sedeva alla scrivania di traverso, con le gambe accavallate e un piede si muoveva a scatti.

"La Scott Corporation è tornata in pista a tutti gli effetti, grazie anche alle nostre segnalazioni. La Whisky and Wine Company ha chiuso in via definitiva, ma la famiglia sta ricevendo il nostro assegno mensile quale supporto per sopravvivere dopo la morte del capofamiglia", continuò. Un altro sguardo gli rivelò occhi socchiusi e la mano, ora chiusa a pugno, così premuta davanti alla bocca che quasi sollevava la base del naso. "La moglie di Gonzales si è profusa in scuse, confermando che non sapeva nulla, proprio come i suoi figli. Billy aveva solo riferito di dover viaggiare per lavoro. Ora stanno cercando di reinventarsi come industria pasticciera, pare che lei sia molto brava a fare dolci. Nella sua ultima lettera dice che non ha parole per ringraziarti. E, Albert, sai, pensavo quasi di tagliarmi i baffi".

Finalmente, George ottenne l'effetto desiderato e dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere quando William staccò il pugno dal viso e lo guardò a bocca aperta, sbattendo le palpebre incredulo: "Cosa hai detto?!", esclamò.

Lui si limitò ad alzare un sopracciglio: "Vedo che alfine ho ottenuto la sua attenzione, signorino William. Ho l'impressione che tempo fa abbiamo avuto una conversazione molto simile".

Lui si alzò, frustrato, infilandosi una mano tra i capelli, ricominciando a camminare in quel modo nervoso che riusciva spesso a far quasi agitare anche lui: "Scusami, George, hai ragione. Per assurdo, quando eravamo a Chicago e cercavo di evitare Candy mi concentravo di più. Qui mi è pressoché impossibile".

"Qui oppure ora?", domandò lui capendo le sue motivazioni.

William si fermò, poggiò la schiena al muro e prese a tormentarsi il labbro inferiore tirandolo con pollice e indice: "È che...", sospirò, frustrato, "è che ogni cosa che dico riesce a rigirarmela contro! Se prima le dicevo che tenevo a lei ero una specie di pervertito, ora che le racconto di averle dovuto nascondere la mia identità per anni, ma le sono comunque stato vicino, mi accusa di non avere fiducia in lei! Mi farà diventare pazzo!", concluse portandosi entrambe le mani ai lati della testa per poi allontanarle, come a sottolineare le sue parole.

George fece scorrere i fogli uno sull'altro con il pollice, suddividendoli per cercarne uno: "Allora è meglio che lei non le racconti che avete vissuto insieme nella stessa casa per due anni mentre era senza memoria". Trovò il documento e lo tirò fuori con cura, posandolo sulla scrivania il cui proprietario aveva ora uno sguardo stralunato.

"Ma... ma... Adrian mi ha detto che dovrei...".

George sorrise e scosse la testa: "Non dicevo sul serio, signorino William, la mia era piuttosto una provocazione. Voglio dire che non può prevedere le reazioni di Candy, né edulcorare la realtà onde evitare discussioni. Credo che, come le ha suggerito il suo medico, le debba semplicemente la verità nuda e cruda".

Lui si strinse nelle spalle, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni: sembrava un adolescente insicuro, cosa che non era mai stato in vita sua e gli si strinse il cuore. "Rischio di perderla per sempre e il mio lato egoista vorrebbe che non accadesse mai".

Aveva parlato come se avesse vergogna di quello che diceva e ciò lo ferì ancora di più. Per la prima volta in tanti anni, George si stava ritrovando sempre più spesso a dover essere per William quella figura paterna che aveva perso troppo presto. Non che lui avesse avuto modelli diversi da William senior stesso, ma gli anni di esperienza in più e l'affetto che nutriva per quel ragazzo lo guidavano in maniera naturale.

"Quello che prova è comprensibile. In passato si è sacrificato molte volte per la signorina Candice e le ha espresso il suo amore più devoto quando le ha inviato un vestito da Rockstown...". Gli occhi seri dell'uomo di fronte a sé gli dissero che se lo ricordava molto bene e non lo avrebbe dimenticato finché fosse stato vivo. "Nonostante sia doloroso, dovrà continuare a farlo. Anteporre il bene di Candy al suo è la prova d'amore più alta che le può dare, anche se significherà perderla".

"Ma sono stufo, George, capisci? Stufo!", tornò a sedersi, prendendosi la testa fra le mani. "Per anni ho represso quello che provavo per lei, dicendomi che no, non era giusto, forse persino immorale! Certo non potevo considerarmi suo padre ma abbiamo più di dieci anni di differenza, lei mi ha sempre visto come un amico e fino a poco tempo fa era innamorata di Terry... Non appena decido di saltare finalmente il burrone mi ritrovo appeso con una mano alla roccia e una serie di piccoli topi mi rosicchiano le dita per farmi precipitare...". Quelle ultime parole le disse con voce velata, come se stesse cercando un ricordo lontano.

Quando alzò gli occhi per guardarlo, dovette leggere lo sconcerto nei suoi, perché si affrettò ad aggiungere: "Mi è tornato in mente ora. È l'incubo che faccio quasi tutte le notti. Tu non sogni mai di cadere, George?".

"Oh, ho sognato molto di peggio, mi creda", disse cominciando a camminare lui stesso per la stanza. "Signorino William, spero che mi perdonerà se mi sono permesso, ma prima di partire ho chiesto al dottor Carter di darmi aggiornamenti sulla sua situazione". Gli scoccò un'occhiata voltando il capo a sinistra.

"Gli hai chiesto di me?", domandò socchiudendo gli occhi, confuso.

"Sì", rispose in tono basso. "Nonostante il segreto professionale ha capito molto bene il rapporto che ci lega e sono riuscito a farmi dare il quadro generale per poterle essere di supporto. Anzi, mi ha proprio chiesto di tenerla d'occhio e di avvisarlo qualora noti qualcosa come una sua nuova perdita di peso".

William si alzò in piedi e andò alla porta-finestra, dandogli le spalle: "Non sono un bambino, George, so che problemi ho avuto e cerco di affrontarli ogni giorno. Non comincerò a darti preoccupazioni adesso. Ammetto che in più di un'occasione ho perso il controllo davanti a te, ma quello che ti ho raccontato non è nulla di più di un incubo notturno e il mio voleva essere un paragone. Ti assicuro che cercherò di ridimensionare le mie reazioni". La voce era calma e controllata, quasi come un tempo, ma lui non si lasciò ingannare dalla sua marcia indietro. Sapeva che stava facendo uno sforzo enorme, come sapeva anche che un altro uomo non ne sarebbe uscito con tanta facilità.

"Signorino William, il dottor Carter mi ha solo dato conferma di qualcosa che già supponevo: lei è stato vittima di un forte esaurimento nervoso e di un disturbo alimentare non indifferente. Il fatto che abbia comunque reagito bene, alla fine, non significa che sia invincibile".

Le spalle sussultarono: "Ho solo mangiato di meno in carcere", protestò lui debolmente.

George avanzò verso il caminetto per regolare l'orologio che vi era posato sopra: "Ha cominciato a nutrirsi di meno quando la signorina Candy ha avuto l'incidente e la situazione si è esacerbata col tempo e le situazioni. Ora si vede che sta meglio, ma deve prestare attenzione alla sua salute per non andare incontro a ricadute che possono rivelarsi pericolose. Se parlare con me o sfogare le sue frustrazioni la fa star meglio, lo faccia. Io non mi tirerò indietro e le darò sempre tutto il mio appoggio", concluse riposizionando l'orologio con cura e chiudendo gli occhi.

Per quasi un minuto intero nessuno dei due parlò e George si concentrò sulla lancetta dei secondi che scandiva il tempo.
"Grazie, George. Non sai quanto significhi per me averti al mio fianco in ogni situazione", gli disse piano, con voce appena incrinata.

L'uomo decise che era ora di spezzare quel momento intenso e commovente, quindi batté le mani con fare pratico e tornò sui suoi passi: "Bene, che ne dice di proporre alla signorina Candice una visita alla capanna nel bosco?".

William si girò per guardarlo da sopra una spalla: "Ma... e il lavoro?".

"Me la posso cavare benissimo almeno per un paio di giorni, ma l'avviso che se non torna entro quel termine sarò costretto a venirla a prendere come ho sempre fatto".
Finalmente William sorrise, scuotendo la testa: "Va bene, George, saremo puntuali. E... grazie".

Titubò solo per un breve istante, poi annullò la distanza tra loro e lo strinse con un braccio, come si farebbe con un padre. George lottò contro lacrime insidiose che gli appannavano la visuale. Diede un paio di pacche alla schiena del suo figlioccio e si schiarì la voce: "Non si dimentichi di portarla sulla barca del signorino Stair, l'aveva riparata di nuovo, vero?".

"Sì, e se finiremo ammollo potrebbe non essere così male", rispose William staccandosi da quel goffo abbraccio e ridacchiando, una nuova luce a illuminargli gli occhi.
George, soddisfatto, ricambiò il sorriso: era proprio quella speranza che voleva leggervi.     
                                                                      
- § -
 
Elroy Ardlay camminava con passi nervosi per la stanza, ripassando con la mente tutti gli ultimi avvenimenti. William non aveva voluto darle retta e lei era rimasta sola nella villa di Chicago.

Di nuovo.

Archibald era tornato a casa sua e si sarebbe fatto vivo solo quando gli affari avrebbero richiesto la sua presenza in ufficio: si era ben accorta degli sguardi che gli aveva lanciato la signorina Brighton e già quello era qualcosa di molto sbagliato che però lei poteva risolvere.

Prese in mano il campanello e lo suonò per chiamare la sua cameriera. Mentre l'attendeva, si sistemò lo scialle sulle spalle e rifletté sulla decisione di suo nipote di non denunciare il direttore del carcere. Avevano osato tentare di uccidere il patriarca degli Ardlay e, a parte assicurarsi che i colpevoli fossero puniti a dovere, né lui né Archibald avevano ritenuto opportuno fare altro.

"È inutile, zia, il direttore ci ha assicurato che i controlli sono raddoppiati e comunque ormai è qualcosa che appartiene al passato", le aveva detto William, asciutto.

"Ma come, dopo tutti i soldi che abbiamo sborsato per garantire la vostra sicurezza?!", aveva sbottato lei.

Il nipote l'aveva guardata con uno sguardo strano, che lei non era riuscita a decifrare, il volto si era anche leggermente arrossato o era la sua immaginazione?  

"Abbiamo avuto due celle singole e nessun altro ci ha mai dato altri... problemi", aveva risposto dandole le spalle. Così, il discorso era caduto senza che potesse fare altro.

Bussarono alla porta ed Elroy tuonò il suo "avanti" con tono urgente. "Ce ne hai messo di tempo! Fammi preparare la carrozza, per favore, devo uscire".

La cameriera, con due occhi spaventati, fece un breve inchino e disse: "Sissignora!", avviandosi a passo svelto.

Distolse gli occhi dalla porta e aprì l'armadio per cercare il soprabito. Aveva fretta e si sarebbe occupata da sola di indossarlo, per quella volta.

E poi, continuò a pensare, cos'era quella storia di perdonare tutti come se non fossero stati responsabili del periodo passato in prigione? La famiglia di quel Gonzales doveva essere in cima alla lista e prendersi le sue responsabilità per aver permesso che quell'uomo testimoniasse contro suo nipote! Certo, lui era morto e aveva saputo che era stato riaperto il fascicolo per verificare eventuali collegamenti con l'organizzazione criminale che aveva supportato i Lagan...

Il pensiero dei Lagan le fece stringere in petto quella sensazione mista di rabbia, senso di colpa e incredulità che la coglieva sempre. Lei non sarebbe stata così tenera con Raymond: peggio, sospettava che William si fosse persino profuso in qualche tipo di aiuto per quel povero diavolo che, se non era stato il diretto colpevole, era comunque caduto in rovina sotto l'azione di quegli stessi figli che non aveva saputo educare.

Mentre si sistemava il cappellino davanti allo specchio e usciva dalla stanza, Elroy sperò che a Sarah non venisse mai in mente di presentarsi alla sua porta, specie ora che William non c'era, o rischiava seriamente di compiere azioni non degne di una signora del suo calibro.

All'uscita, le due cameriere s'inchinarono e l'aiutarono a salire sulla carrozza.
"Dove la porto, signora Ardlay?", le chiese il cocchiere sporgendosi per guardarla.

"A casa dei Brighton", disse decisa. Perlomeno, quello era qualcosa che avrebbe potuto risolvere da sola.
 
- § -
 
Sarah Lagan si guardò allo specchio, sistemandosi con cura l'acconciatura. Odiava non poter più contare sulla servitù, ma si disse che quella sarebbe stata una delle ultime volte che avrebbe dovuto accontentarsi.

Raymond pensava davvero che se ne sarebbe stata a casa buona buona mentre la loro vita andava a rotoli? Credeva sul serio che l'elemosina che William gli aveva fatto sarebbe stata sufficiente a rimettere le cose a posto? Oh, certo, per Raymond era stato un atto di generosità estrema, come quello di non insistere con i propri avvocati per mandare in galera anche loro! Ma Sarah vi vedeva solo lo sfregio di un uomo che voglia chiudere un capitolo e non saperne più della loro famiglia.

Forse aveva comprato il silenzio e il rispetto di Raymond, ma non il suo.

Avevano bisogno di avvocati in gamba per far uscire suo figlio dal carcere e dare ad Eliza dei medici bravi che la facessero tornare come prima. Se Neil ed Eliza avessero spiegato per bene che non sapevano di avere a che fare con un'organizzazione mafiosa, era sicura che avrebbero al massimo avuto i domiciliari e sarebbero potuti tornare tutti in Florida, ripartendo da zero.

Spruzzandosi del profumo, Sarah pensò che doveva informarsi sui migliori legali specializzati in diritto penale in circolazione a costo di girare da sola in città. Per fortuna, il loro cocchiere sarebbe rimasto fino alla fine del mese e aveva ancora un po' di tempo.

"Dove ho messo la borsa?", borbottò ad alta voce, controllando sul letto e poi sulla toeletta.

Guardò l'ora: se si fosse sbrigata, sarebbe arrivata dalla zia Elroy prima che venisse servito il pranzo e, nella migliore delle ipotesi, avrebbe potuto essere invitata e gustare dei piatti di una vera cucina, dopo giorni di pasti pronti.

Quando tutto fosse finito, avrebbe assunto uno chef francese!

"Dove stai andando, moglie?". La voce, fredda e tagliente come un rasoio affilato, la congelò sul posto, mentre ancora cercava la borsa.

Non aveva mai avuto paura di suo marito, sempre troppo occupato con gli affari, e si voltò a fronteggiarlo a testa alta: "Ho bisogno di vedere una persona". Perché non gli aveva detto semplicemente chi? Non era certo per via di quegli occhi di ghiaccio che sembravano volerla trapassare, né per il fatto che stesse avanzando quasi minaccioso verso di lei.

"E chi, di grazia? Non intendi la zia Elroy, vero?", domandò incrociando le braccia e fermandosi proprio davanti alla toeletta, impedendole di raggiungere la porta.

Sarah sbatté le palpebre, incredula. Sapeva di dovere obbedienza a suo marito, ma lì c'era in gioco l'interesse dell'intera famiglia ed era suo compito farlo ragionare.
"Io... voglio scusarmi con lei e chiederle di riammetterci nel clan", disse cercando d'impedirsi di fare un passo indietro.

Vide distintamente una vena pulsare sulla tempia di Raymond, l'intenso rossore della rabbia affluirgli al volto e gli occhi spalancarsi come due persiane: "Tu non farai niente del genere!", tuonò abbastanza forte da farla sussultare.

Sarah deglutì, aveva la gola secca: "Ascoltami, Raymond, sarò gentile, te lo prometto. Neil ha bisogno di essere seguito dai migliori avvocati ed Eliza da medici che...".

"I tuoi figli hanno bisogno di pagare per quello che hanno fatto!", stavolta l'urlo fu seguito da un pugno sulla sua toeletta. Le boccette di profumo tintinnarono e una spazzola cadde a terra con un rumore forte.

E non poté impedirsi di fare quel passo indietro.

Ciononostante, l'indignazione la pervase ed ebbe la meglio. Stringendo i pugni disse, con una voce stridula che riconobbe a malapena come propria: "Ma sono anche i tuoi figli, Raymond".

"Sei stata tu a crescerli in questo modo e te ne assumerai le responsabilità insieme a me!", continuò seguitando a camminare per farla indietreggiare.

"Ho fatto del mio meglio e lo sai! Neanche io sapevo cosa stessero combinando, ma ora hanno bisogno di noi e giuro sulla mia stessa vita che farò tutto ciò che è in mio potere perché le cose tornino come un tempo", disse decisa, impedendosi di fare un altro passo.

"Tu non farai un bel niente", gridò Raymond colpendola così forte che cadde di peso a terra, la metà superiore del corpo che impattava sul lato del letto.
Gridando pietosamente, stordita da quel colpo che era il primo che riceveva dal suo composto ed elegante marito, Sarah cercò di alzare gli occhi su di lui e vide una maschera di furia.

"Tu", le disse indicandola con un dito che sembrava volesse penetrarle nella carne come un coltello, "non hai trasmesso il benché minimo valore nelle teste dei tuoi figli. Sono cresciuti illudendosi che tutto fosse loro dovuto, incluso il rispetto! Ma sai una cosa? Il rispetto si guadagna con l'umiltà! Eravamo nel clan di una delle più potenti famiglie scozzesi emigrate in America grazie ai lontani gradi di parentela e, anche se non eravamo potenti come loro, avevamo una posizione, ricchezze... rispetto!".

"E tu saresti disposto a rinunciare a tutto questo per un errore che non abbiamo commesso?! Perché invece di prostrarti ai piedi di quel vagabondo non gli hai chiesto di ragionare con un po' di buon senso? Sarebbe bastata una sua parola per ridarci il prestigio che la zia Elroy ha voluto toglierci, invece hai accettato la loro decisione chinando la testa come... come un vigliacco!", gridò con furia cieca, tentando di rialzarsi, una mano premuta sulla guancia in fiamme.

"Taci, donna!". Stavolta il colpo fu talmente forte che Sarah sentì il labbro spaccarsi sui denti e il sangue colare sul mento. Ricadde di peso direttamente sul letto, piangendo più forte.

Ricordò quando Eliza le aveva raccontato di essere stata schiaffeggiata da suo cugino Archie e poi persino da suo fratello. Era quello il destino delle donne? Essere malmenate dagli uomini per ogni errore o presunto tale?

Senza poterselo impedire, Sarah continuò a piangere, sentendosi di nuovo impotente come poco prima di scoprire Neal mezzo impiccato con un lenzuolo nella sua stanza.
"Lacrime di coccodrillo", la derise suo marito. Lo sentiva camminare per la stanza e lei non ebbe neanche la forza di tirarsi su, le mani sul viso e gli occhi serrati dal dolore. "Avrei dovuto cominciare ad avere i miei sospetti quando hai deciso di adottare Candice dalla Casa di Pony e mi hai raccontato che si metteva a rubare gioielli. Anche in quell'occasione, William è stato più che caritatevole perdonando le vostre insulse accuse e pretendendo solo la rivelazione pubblica del vostro errore. Ci ha permesso di sfruttare i fondi della famiglia per aprire degli alberghi, mandandoci in Florida pur di mantenere il nostro posto nel clan, allontanandoci allo stesso tempo. E Neil ed Eliza che fanno? Prima attentano alla vita della sua protetta, poi si azzardano a incastrarlo per chissà quale vendetta!".

Sarah intuì che si era avvicinato dai passi e dalla voce e, senza smettere di singhiozzare, tentò di alzarsi a sedere sul letto. Sentiva il labbro gonfiarsi e il sapore del sangue in bocca le diede la nausea.

"Io... non lo sapevo", balbettò.

"Perché eri troppo preoccupata di te stessa per vedere più in là del tuo stesso naso!", gridò sporgendosi su di lei con una mano poggiata sul materasso. "Invece di occuparti della casa e dei ragazzi passavi forse il tuo tempo a imbellettarti e a provare acconciature nuove pensando al prossimo ballo?!".

Il suo viso si era avvicinato tanto che poteva sentire il suo fiato leggermente alcoolico e minuscole goccioline di saliva raggiungerle le guance.

Tremando, in preda al terrore, Sarah balbettò: "Volevo... che tutto fosse all'altezza del nostro nome, che quando fossi tornato potessi trovare...".

"Cosa?! Una moglie ignara delle macchinazioni dei suoi stessi figli e la mia rovina servita su un piatto d'argento?! Questo mi hai fatto trovare, razza di essere inutile e viziato!". Raymond si era proteso ancora di più su di lei, un ginocchio era quasi attaccato alle sue gambe ripiegate e le bloccava il vestito e i movimenti, mentre le mani le stringevano tanto le spalle che temette volesse fratturarle le ossa.

Orripilata da quel Raymond che non aveva mai visto, cercò di ricordarsi quando mai lo avesse visto perdere così il controllo e capì che non lo conosceva affatto. Il loro era stato un matrimonio combinato e senza amore, ma le aveva dato la possibilità di diventare una vera signora. Ora, però, non era altro che una donna come tutte le altre, in una posizione persino peggiore di quella Candice.

Capì che c'era un'ultima arma che poteva usare contro quell'uomo che conosceva così poco e se la giocò: "Raymond", articolò a fatica, sentendo altro sangue colarle dal labbro rotto, "ricominciamo tutto da capo, vuoi?". Alzò le mani tremanti portandogliele al petto, cercando d'insinuarle tra i bottoni della sua camicia e tentando goffamente di slacciarla. Non aveva mai compiuto un atto del genere in vita sua.

Lui abbassò lo sguardo oltraggiato su quelle mani, poi la fissò di nuovo, come se non capisse. Le sue, di mani, strinsero più forte e quasi poté sentire le scapole scricchiolare.
S'impose di continuare: "Lasciami parlare con la zia", tentò di usare un tono seducente, mentre il suo tocco scendeva più in basso. E ancora di più. "Sono sicura che ci vuole ancora bene e noi non possiamo lasciarla sola... dovremmo...".

"Non mi toccare, mi disgusti!", urlò spingendola via così forte che batté il capo contro la testiera del letto, mille punti luminosi che si accendevano dietro le palpebre chiuse.
Sull'orlo di uno svenimento, avvertì il peso del marito sul materasso svanire, i suoi passi veloci e la porta che si chiudeva.

E il rumore di una chiave che girava nella toppa.

Sarah spalancò gli occhi, sorpresa: l'aveva chiusa dentro?! Aveva osato chiuderla dentro la sua stessa stanza?

Barcollando come un'ubriaca, corse verso la porta e cominciò a sbattervi i pugni: "Raymond! Fammi uscire, Raymond! Non puoi farlo! Ti prego, parliamone! Eliza ha bisogno di me!".

Batté i pugni e chiamò il marito per più di un minuto, poi si accasciò a terra, senza più forze.

Suo marito era contro di lei, contro i suoi figli e persino contro se stesso. Perché avrebbe dovuto lavorare per mantenerli e... orrore, forse avrebbe costretto anche lei a farlo.
Colma di paura, ribrezzo, rabbia e frustrazione, Sarah si rannicchiò contro la porta piangendo tra le mani chiuse sul viso gonfio.

Non poteva arrendersi, non l'avrebbe mai fatto. Se Raymond avesse voluto impedirle di agire, avrebbe dovuto ucciderla.

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Capitolo 56
*** Il secondo amore ***


Sarà la nostalgia
Sarà che l'estate vola via
Sarà ma sono qua
Un uomo che vive per metà
Sarà la nostalgia
Sarà che ti penso ancora mia
Sarà quel che sarà
Ma tu che ne sai
Di che sarà

Le nostre passeggiate
L'ombra delle tue risate

Le emozioni che
Nascevano con te
Mi mancheranno e tu
Sei come un nodo in gola
Che non scende giù


(Sarà la nostalgia - Sandro Giacobbe)

***
Mi ritorni in mente, bella come sei
forse ancora di più
Mi ritorni in mente, dolce come mai
come non sei tu
un angelo caduto in volo, questo tu ora sei
in tutti i sogni miei
Come ti vorrei, come ti vorrei...

(Mi ritorni in mente - Battisti-Mogol)
 
 
 
Attenzione: contenuti un po' forti e MOLTO delicati anche in questo capitolo: i Lagan non hanno finito di litigare :-p. Se urtano la vostra sensibilità NON leggete quella parte e passate direttamente alla successiva.
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Il secondo amore

Albert uscì nel giardino con la borsa a tracolla: non aveva bisogno di portare con sé molte cose e quelle più importanti erano lì dentro, come era sempre stato quando girava per il mondo.

Una sacca, le proprie gambe e la sua puzzola.

Piccola Poupee, quanto mi manchi.

Gli sembrava la vita vissuta da qualcun altro, qualcosa di lontano e onirico, irraggiungibile come le nuvole bianche che si rincorrevano in quel cielo azzurro.

Alzò il viso per ricevere i raggi del sole e il venticello leggero. Di sicuro apprezzava molto di più quei momenti all'aperto dopo essere stato in una cella per settimane. E in coma, attaccato a un respiratore.

Fece qualche passo e si ritrovò vicino a quella panchina dove aveva confessato il suo amore a Candy e dove, poco dopo, avevano riso fino alle lacrime parlando di Annie che aveva baciato Archie.

Con un sospiro, decise che era ora di smetterla di piangersi addosso temendo il peggio. Lei era nel giardino, in mezzo alle rose, e le guardava sfiorandole con mani esitanti.
Le sue Dolce Candy volute da Anthony.

Se fossi sopravvissuto l'avresti resa felice. Forse, a quest'ora, lo sareste stati entrambi. Forse, Candy sarebbe già stata madre.

Non credeva che sarebbe mai stato possibile, ma non provò affatto gelosia a quel pensiero. Pensò che quel desiderio egoistico che l'aveva afflitto fino al giorno prima stesse svanendo, sostituito dalla brama di vedere di nuovo la vecchia, cara Candy sorridere felice a tutti.

In piedi tra i fiori, sembrava una ninfa dei boschi che fosse stata cacciata dalle fate: bella da fare male, con l'abito color rosa antico che le fasciava il corpo di donna, aveva il viso contratto in una smorfia di dolore che disegnava una ruga profonda sulla sua fronte.

Le labbra, serrate come se sentisse un cattivo sapore, si strinsero ancora di più quando lo videro.

Non mi odi. Forse il tuo cuore è ancora desideroso di noi. Ma non riesci a lasciarti andare. E allora, piccola Candy, un giorno di ricorderò il nostro incontro. Quello di cui parli con tanto distacco.

Le si avvicinò e allungò un braccio, senza potersi impedire di sfiorarle il viso con le nocche in una carezza leggera. Sul volto pallido le lentiggini erano quasi scomparse, ma gli occhi brillavano: "Stai bene?".

"Sì", rispose irrigidendosi al suo tocco e chiudendo le palpebre.

"Le rose ti ricordano Anthony, vero?", chiese a voce bassa.

Lei si scostò un poco, guardandole: "Non posso dire di ricordarmi di lui, ho nella testa solo l'immagine vaga di questo ragazzo che va a cavallo. E il dolore che associo al suo volto".

Albert annuì e sentì il bisogno di chiederle: "Credi ancora che sia colpa mia quello che è successo?".

Lei prese una Dolce Candy per il gambo e la raccolse stringendo le dita senza curarsi delle spine. La smorfia di dolore fu inevitabile: "Se tu avessi preso una decisione diversa non sarebbe accaduto. Ma non ho più intenzione di passare il mio tempo ad addossarti colpe. Prenderò atto dei tuoi comportamenti passati senza sforzarmi di capirli. Hai sempre detto che hai agito per il mio bene. Anche se non sono d'accordo sulle tue scelte, non posso farci più nulla".

Alzò un sopracciglio, non capendo appieno la sua risposta: "Quindi continuerai a non odiarmi?", domandò quasi con tono scherzoso.

"Non ci riuscirei neanche se volessi", rispose lei tranquilla, annusando la rosa e alzando gli occhi per fissarlo. "Ora ho fatto chiarezza dentro di me e posso al massimo essere in collera. Odiare... disperde troppe energie".

Anche se la sua ultima frase sembrava più una scusa, Albert si ritenne soddisfatto. "Vogliamo andare?".

Candy fece un sospiro profondo e lo seguì.
 
- § -
 
Eliza ascoltava avidamente mentre apriva la bocca in un gesto meccanico e masticava di malavoglia quella specie di minestra disgustosa che le stavano propinando.
Se avesse potuto, l'avrebbe risputata proprio sulla faccia dall'infermiera e al diavolo se non era un gesto da signora.

Ma era troppo interessata a quello che la tipa, sovrappeso e con gli occhi troppo vicini, stava dicendo alla sua collega più giovane che stava rassettando la stanza.
"Stasera ho promesso a mio marito che saremmo andati a teatro, vorrei staccare un'ora prima, potresti coprirmi, Nancy?".

La suddetta Nancy sbatté il cuscino sbuffando e allargando le braccia: "Diane, è la terza volta questo mese! E mi devi ancora due ore! Sai che se se ne accorge la capo infermiera poi ci andiamo di mezzo entrambe?".

"Sì, lo so!", obiettò l'altra, quasi sbattendo il cucchiaio nella ciotola. Eliza avrebbe voluto infilarglielo in gola. "Ma se non mantieni vivo un matrimonio, sai cosa fanno poi gli uomini?".

Nancy le lanciò un'occhiataccia: "Certo che lo so, perché pensi che io sia single?".

Eliza pensò per un attimo che fosse un miracolo che una come Diane avesse un matrimonio da tenere solido e una come Nancy, che era abbastanza carina, fosse rimasta sola. Si sentiva davvero molto vicina alla sua situazione: gli uomini dovevano proprio essere ciechi!

"Oh, e dai, questa è l'ultima volta, te lo giuro!", pregò come una ragazzina capricciosa, giungendo le mani grassocce e voltandosi a mezzobusto.

Diane rimboccò con cura le coperte: "Anche se volessi non potrei. Devo restare comunque per sostituire Julie del piano inferiore, che è a casa malata. Ho già i miei straordinari".

Diane si illuminò tutta e fece un gesto così repentino che per poco non gettò a terra la ciotola. Non sarebbe stata una grande perdita: "Meglio così allora! La mia sostituta arriva alle nove in punto, come si chiama? Quella nuova...". Si mise a schioccare le dita per ricordare.

"Eliza, come la nostra paziente", rispose quella con aria stanca. Ma che coincidenza terribile... lo stesso nome di un'infermiera!

"Sì, lei!", continuò Diane puntando il dito, mentre la minestra si freddava diventando di certo più disgustosa. "Ecco, basterà che tra le otto e le nove tu faccia la spola un paio di volte con il mio piano per controllare che sia tutto ok, poi sarai libera di fare i tuoi straordinari al piano di sotto, che ne pensi?".

Il cuore di Eliza accelerò nel petto. Ora sperava ardentemente che l'altra infermiera accettasse quella proposta, anche se le sembrava da irresponsabili.

"Non posso farlo, Diane! Insomma, se se ne accorge Bertha...".

Diane strinse gli occhi e la interruppe: "Bertha non si è neanche accorta che ti sei intrattenuta con il paziente schizofrenico della stanza numero quindici, un mese fa. E l'altro giorno".

Oh, ma che notizia! Quelle due erano meglio di un romanzo rosa!

Con la coda dell'occhio, Eliza vide Nancy irrigidirsi e avvicinarsi a grandi passi verso la collega. Pensò che l'avrebbe picchiata, invece le mise le mani sulle spalle e sibilò: "Come ti permetti di insinuare certe cose davanti a una paziente?!".

"Sono certa che non andrà a riferirlo a nessuno". Il tono di sufficienza contrastava con lo sguardo malizioso.

"E comunque non è successo niente! Mi stava solo raccontando la sua storia!". Le mani non mollarono la presa.

"Certo, tesoro, come dici tu. Allora affare fatto?", concluse la sua amica alzandosi in piedi.

Eliza cercò di rimanere immobile e di mantenere lo sguardo vacuo di una catatonica, ma aveva il respiro corto: nella sua mente stava già prendendo forma un piano geniale.
"È l'ultima volta", ribadì Nancy raddrizzandosi e dirigendosi verso il bagno.

"Certo, è quello che ho detto!", rispose Diane sedendosi di nuovo e adoperandosi per darle un altro boccone.

Eliza si trattenne a stento dal ghignare, invece aprì la bocca e accettò quella robaccia cercando di non farsi venire la nausea. E, soprattutto, concentrandosi sulla sua prossima libertà.
 
- § -
 
Sarah Lagan strinse il laccio della vestaglia con mani tremanti. Finalmente si sentiva in ordine, anche se i capelli bagnati erano ancora avvolti in un asciugamano e non ci sarebbe stata nessuna cameriera a sistemarli.

In quel momento non le interessava. Aveva solo bisogno di raccogliere i cocci della propria vita e, forse, cominciare ad accettare le cose.

Aveva camminato nervosamente per la stanza maledicendo il fatto di non avere un telefono per poter almeno parlare con la zia Elroy a distanza, mettendo comunque in conto un suo rifiuto di risponderle all'apparecchio.

Aveva cercato più volte di richiamare l'attenzione del marito bussando alla porta e chiamandolo ed era rimasta in attesa quando lo aveva sentito tornare nella sua stanza, attigua alla propria. Ne aveva udito i passi pesanti, le imprecazioni, e aveva capito che era ubriaco.

Non si era mai presentato a casa in quelle condizioni.

Il rumore di oggetti gettati a terra e alle pareti e le parolacce la terrorizzarono per qualche minuto, prima che girasse finalmente la chiave per andare da lei.
L'uomo che aveva davanti a sé era uno sconosciuto con i capelli ingrigiti dal tempo e dalle preoccupazioni, la camicia sbottonata e sporca e i piedi nudi sotto ai pantaloni sgualciti.

Chiuse gli occhi, ricordando.

"Raymond, che ti è successo?" Gridò indietreggiando, come se non l'avesse già abbastanza terrorizzata qualche ora prima.

"Lo sai che se rivendessi il whisky che ho bevuto saremmo di nuovo quasi ricchi?!", biascicò barcollando.

Sarah deglutì e tacque. Forse, se si fosse sfogato, poi l'avrebbe lasciata in pace. Nella migliore delle ipotesi avrebbe persino dimenticato di chiudere a chiave la porta.
"Ma rischio di finire in galera se lo faccio!", disse con una grossa risata. "Proprio come è successo a quel poveraccio di William che non ha mai fatto del male a una mosca e ha rischiato di morirci, dentro quella fogna. E sai chi è stato a incastrarlo?", chiese alzando un dito come per interrogarla.

"Raymond, ti prego... forse se fai un bagno caldo...". Anche se non aveva detto nulla di male, fu raggiunta dal terzo schiaffo della giornata. E poi dal quarto, che la fece finire a terra, riaprì la ferita e cominciò a farle pulsare anche l'altra guancia.

Era di nuovo sul pavimento a piangere, udendo le parole confuse e sconclusionate del marito, sperando che la smettesse prima di sfigurarla per sempre.

"Ma lui ha un cuore nobile e mi ha dato dei soldi invece di prendermi a pugni! Questi sono i colpi che non hanno ricevuto Neil ed Eliza da lui, che è un grande uomo! Non vi permetterò di rovinare altre persone, diventerò anche io un grande uomo, capito, moglie?".

Cadde in ginocchio di fronte a lei e le si avvicinò: "Hai capito, moglie?!", ripeté la domanda tra i denti stretti.

Sarah annuì, tremando di nuovo violentemente, temendo che le parole avrebbero portato altri colpi e così dolorante che non aveva comunque le forze di fare altro.
"Brava, moglie, brava. Devi obbedirmi, sai?". Raymond si protese su di lei, avanzando con le mani ai lati del suo corpo, soffiandole il suo alito alcoolico nelle narici e rischiando di farle venire dei conati.

"Volevi sedurmi, prima, vero? Era questo che volevi?", domandò staccando le mani da terra e mettendogliele addosso, sul corpetto, tra le gonne, facendosi strada senza alcuna gentilezza.

Raymond l'aveva violentata una volta sola e forse sarebbe rimasta anche l'unica nella sua vita. Forse, dopo essere crollato addormentato sul letto della sua stanza, dove si era trascinato alla fine della sua performance, lo aveva persino dimenticato.

Ma lei ne sarebbe rimasta segnata per sempre.

Mentre si faceva strada nel suo corpo con la forza aveva chiamato il nome di un'altra donna, forse quella che aveva amato e con la quale non si era sposato. Lei aveva soffocato le urla di dolore piangendo in silenzio, sperando che finisse tutto al più presto.

Erano stati gli istanti più lunghi della sua vita.

Sfinita, si lasciò cadere sul letto, l'asciugamano che aveva sulla testa si sciolse un poco ma Sarah non ci fece caso.

L'errore dei suoi figli, che lei non aveva seguito a sufficienza, si era concluso con la violenza, con la malattia e con la galera.

Sarah si chiese se, alla sua età, potesse rimanere di nuovo incinta e quel pensiero la fece rabbrividire e sperare allo stesso tempo.

Che sarebbe accaduto se avesse ricominciato da capo con una nuova creatura? Aveva davvero imparato qualcosa da quell'esperienza o era ancora fermamente convinta di essere dalla parte della ragione?

Non lo sapeva, davvero. Ora voleva solo dormire e riposare. Il suo intero corpo le sembrava un tizzone incandescente pervaso dal dolore.

Eppure, il sonno arrivò, benefico e misericordioso.
 
- § -
 
Quando arrivarono davanti alla capanna, Albert si fermò prima di entrare e Candy lo guardò, stupita.

"Beh, che succede? Ci hai ripensato?", chiese perplessa.

Lui scosse la testa: "No, ma mi chiedevo... puoi aspettare un attimo qui, per favore? Devo controllare una cosa".

Si strinse nelle spalle: "Fai pure". In realtà non le importava molto di quella specie di fuga nella natura. Non che non le piacesse stare in mezzo al verde, ma era ancora troppo combattuta tra desiderio e timore: cosa ci sarebbe stato lì, in quella casetta, che potesse evocarle ricordi?

Se lo chiese mentre vedeva il suo tutore sbirciare dalle finestre mettendo le mani ai lati del volto per schermarsi dalla luce e se lo chiese mentre socchiudeva appena la porta con circospezione.

"Candy, vorrei sottoporti a un esame prima di entrare", disse con un sorrisetto enigmatico sulle labbra.

Lei rimase di stucco. Che diavolo voleva fare, adesso? Senza attendere una sua risposta, aprì la porta e la invitò ad avvicinarsi all'uscio.

Non era pronta a quello che accadde dopo.

Daini, scoiattoli, castori e persino alcuni uccellini uscirono dalla capanna circondandola come se la conoscessero. Era talmente basita che rimase perfettamente immobile, non sapendo bene se avere paura o meno di tutti quegli animali: "Che diavolo è, uno...?".

Cos'è questo, uno zoo?

Ah ah ah! Tutti vogliono essere tuoi amici!

"...zoo?", concluse, folgorata da quello scambio di battute che si era acceso come un cerino nella sua testa, mandandole una serie di fitte dolorose lungo le tempie.

Albert si limitò a fissarla, il sorriso che ancora gli tremava sulle labbra: "Erano i miei unici amici prima d'incontrare te", disse sparendo all'interno.

Candy alzò una mano tremante e la pose sul capo morbido del docile daino, che rispose al gesto leccandola. Si guardò attorno e si rese conto che le sembrava mancasse qualcuno all'appello... però, anche se si sforzava, non riusciva a ricordare chi fosse.

Cercando di farsi strada tra gli animali, seguì Albert che stava aprendo le imposte delle finestre. Un tavolo e un caminetto erano le uniche cose, assieme a una piccola dispensa, presenti in quella parte della casa.

"Quindi quelli... erano tutti i tuoi amici?", domandò cercando di fare una domanda indiretta.

"Una volta avevo anche una puzzola. Ma è morta anni fa, in Africa", concluse con un tono triste.

Candy si accigliò, camminando in quello spazio angusto con circospezione: "Non so se è più singolare il fatto che avessi una puzzola per amica o che ti trovassi in Africa", disse accasciandosi su una sedia e prendendosi la testa fra le mani. Aveva di nuovo una leggera nausea.

I passi di Albert che si muovevano per la stanza e il rumore delle ante di legno le indicarono che stava controllando quello che avevano da mangiare: "Fa parte della storia che non ti ho ancora raccontato, ma non credo sia il momento giusto. Vuoi che cucini qualcosa?".

Alzò il capo per guardarlo: "Tu sai cucinare?", domandò esterrefatta.

"Molto meglio di te", ribatté lui tornando a sorridere.

In un impeto di rabbia, Candy si sporse sulla sedia: "E come fai a sapere che io...?!".

"Ti racconterò anche questo", la interruppe, enigmatico, tirando fuori pentole e scodelle, scatole di quelle che dovevano essere conserve e persino delle uova.

Mentre lui controllava le confezioni di latta, lei prese in mano un uovo e lo studiò per un attimo: "Da quanto tempo è qui?", chiese circospetta.

Albert posò un barattolo e ne prese un altro, studiando l'etichetta: "George ha rifornito la dispensa pochi giorni fa. Ehi, andiamo a lavarci le mani prima di metterci all'opera".
Candy sbatté le palpebre e socchiuse gli occhi, posando l'uovo con un gesto tanto repentino che non lo ruppe per poco.

Candy, ben tornata! Vai a lavarti le mani, la cena è pronta!

Con un respiro profondo, si poggiò con i palmi sul bancone e strinse le palpebre. Un tocco caldo le si posò sulla schiena, carezzandola piano come se volesse farle passare il malessere.

"Mi dispiace. Tutto questo è necessario, ma andremo per gradi, va bene?", disse la sua voce tranquilla.

"Dov'è il bagno?", domandò con urgenza.

Lui la guidò senza dire nulla, le chiese solo se aveva bisogno di aiuto ma Candy scosse la testa: "Lasciami sola, per cortesia", lo pregò.

La porta si richiuse lentamente e lei rimase per lunghi minuti davanti al lavandino, prendendo respiri profondi e lottando contro la nausea. Il disagio fisico era solo una parte del suo diniego nel ricordare.

Poteva sopportare il mal di testa. Poteva sopportare la nausea.

Ma non poteva sopportare quella sensazione lancinante di sentirsi esposta a qualcosa che le appariva come troppo grande da sostenere. Adrian l'aveva chiamato paura dell'amore. Per lei era il terrore di soffrire ancora e ancora.

Cosa doveva fare? Farsi raccontare tutta la storia e se era convinta lasciarsi andare ai ricordi, altrimenti chiudere la sua testa con un lucchetto? Davvero funzionava così?
Mentre si sciacquava le mani e il viso, Candy si rese conto che, per quanto ci provasse, non riusciva a trattenere indietro le voci o le immagini come faceva all'inizio: una parte di lei stava già accettandole.

Tremò al pensiero e si disse che, alla fine, sapere prima non sarebbe stato poi tanto male. Ma avrebbe cominciato chiedendo di Terence.

Quando tornò in cucina, Albert stava armeggiando con una padella, rompendo le uova e muovendosi nella piccola cucina come se in vita sua non avesse fatto altro. Sapeva di aver già vissuto qualcosa di simile. Ma quando e, soprattutto, dove?

E non aveva appena deciso di chiedere di Terry?

"Stai meglio?", le chiese lui voltandosi a guardarla.

"Sì e dopo mangiato vorrei che mi raccontassi della mia storia con Terence", disse prima di fare altri passi indietro. Voleva che tutte le carte fossero in tavola, costasse quel che costasse.

Percepì perfettamente il momento in cui Albert s'irrigidì e i suoi occhi divennero di ghiaccio. Ma non abbassò lo sguardo, rimanendo a fissarlo come se lo stesse sfidando a dirle di no.

Allora se ne sarebbe andata davvero e avrebbe chiesto a qualcun altro che fosse disposto a parlarle.

"Ma certo, come desideri, Candy", rispose invece lui stirando le labbra in un sorriso che le sembrò quasi vero.

Il pranzo era ottimo e si svolse nel più completo silenzio. Stupita, avrebbe voluto fare altre domande ma si trattenne. Invece squadrò Albert rendendosi conto che sembrava di nuovo in forma e aveva riacquistato un po' di peso.

Pulendosi la bocca, e di certo sentendosi osservato, le chiese: "Che c'è?".

Candy si voltò dall'altra parte: "Niente, è che... non sembri più uno scheletro con dei vestiti addosso", disse timidamente.

Albert la sorprese scoppiando a ridere e quel suono le provocò una strana fitta di nostalgia: "Beh, non ti sarà sfuggito che non ho passato dei bei momenti, Candy. Per fortuna il dottor Carter è stato tanto gentile da darmi dei consigli e quando ha saputo che mi piaceva cucinare mi ha suggerito di farlo per me stesso non appena ne avessi avuto l'occasione. Mi... sarebbe stato utile per ricominciare ad apprezzare il cibo", concluse con un tono che lasciava intendere che non voleva approfondire quell'argomento.

Cosa voleva dire? Che in carcere non si era nutrito volontariamente? Candy cercò d'impedirsi di fare altre domande perché non era di quello che avevano bisogno. Né lei, né Albert.

"Bene", fece lui alzandosi, "mentre sparecchiamo comincerò a raccontarti, ma fermami se ti senti poco bene, d'accordo?".

Lei annuì e, posando i piatti nel lavello, si lasciò trasportare dalla voce gentile e bassa di Albert che le raccontava del suo secondo amore.

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Capitolo 57
*** Il secondo incontro ***


Il secondo incontro

Quando gli annunciarono la visita di Annie, Archie era seduto alla sua scrivania e stava cercando di riprendere le fila dei suoi studi di economia su un libro. Per fortuna il lavoro con Albert lo aveva formato molto e ora gli sembrava di trovarsi su un terreno familiare, dove ogni cosa era naturalmente conseguenza dell'altra.

Mentre attendeva l'arrivo della sua ex fidanzata, però, non riuscì a rimanere seduto e cominciò a passeggiare chiedendosi cosa volesse dirgli di così importante: quando era stato lui ad andarla a trovare a casa era stato per chiedere il suo perdono.

Annie gli sembrò bellissima, con il suo semplice abito azzurro che le lasciava scoperte le caviglie e un nastro intonato tra i capelli sciolti.

"Ciao", disse in tono contrito e lui capì subito che era successo qualcosa.

"Annie", le si fece incontro, accigliandosi, sembrava sull'orlo delle lacrime.

Lei prese un respiro profondo, si morse il labbro in un modo che gli fece venir voglia di baciarla e mormorò: "La zia Elroy è venuta a trovarmi".

Archie s'irrigidì e le prese le mani: "Non restare in piedi, ti prego. Siediti e dimmi cosa è successo. Sembri sconvolta".

Lei obbedì e sedette composta su una sedia, la schiena dritta e la postura affatto rilassata.

"La vecchia Annie non sarebbe venuta qui a parlarti e avrebbe solo accettato le cose. Ma dopo tutto quello che è accaduto tra noi non mi tirerò indietro". Sembrava quasi parlare a se stessa, con le mani che tormentavano i lembi del vestito.

"Parla chiaro, per favore... è qualcosa di grave? Ti ha offesa?". Archie si sentì ribollire il sangue.

Lei prese un profondo sospiro, chiuse gli occhi e disse: "Mi ha detto che non devo più avvicinarmi a te e, se possibile, neanche alla sua casa".

La mascella gli cadde e gli occhi gli si spalancarono: "Che cosa?!".

"Sembrava fuori di sé, Archie", riprese in tono agitato. "Ha detto che ha già rischiato di perdere i suoi nipoti e che Candy ha irretito William. E non vuole che io lo faccia con te, specie dopo averti lasciato volontariamente! Dice... dice che la prima volta ha sbagliato ad accettare la nostra relazione e ha avuto ragione a dubitare della mia buona fede. E che io e Candy...".

Il cuore gli rombava nelle orecchie e il sangue gli affluì al cervello. Fu con voce vibrante di rabbia che chiese: "Tu e Candy cosa, Annie?". Gli tremavano persino le mani.

"Io e Candy saremo sempre delle orfane ingrate che non sapranno mai come è una signora dell'alta società", concluse chinando di nuovo il capo.

Archie scattò in piedi e batté un pugno sulla scrivania: "Una signora dell'alta società, eh? Come Eliza Lagan, per esempio?!". Stava quasi gridando, come se la zia Elroy si trovasse lì, davanti a lui, al posto di Annie.

"È la stessa cosa che le ho detto io!", esclamò alzandosi a sua volta.

Lo stupore attenuò un poco la rabbia: "Davvero gliel'hai detto?". Quando annuì, mosse persino un pugno in segno di vittoria. "Brava Annie, hai fatto proprio bene!".

"Sì, ma lei ha risposto che... quella è tutta un'altra storia!", continuò imitando la voce della zia.

Archie rise di gusto, nonostante l'ira. Si rese conto che gli bastava stare con lei per sentirsi vivo, felice. Non solo aveva scoperto di amarla davvero, ma Annie aveva lasciato cadere anche certe sue inibizioni dovute alla timidezza e questo lo attraeva ancora di più, se possibile.

"Come è finita?", chiese con tono più serio.

Annie alzò le spalle: "Se n'è andata dicendomi che stare con Candy mi ha fatto male, perché sono diventata come è lei adesso. Ha anche aggiunto che sarei dovuta passare sul suo cadavere se mi fossi azzardata ad avvicinarti di nuovo. Quando mi ha chiesto cosa volessi in cambio le ho chiuso la porta in faccia".

La mascella gli cadde di nuovo: "Allora non se n'è andata, l'hai... l'hai cacciata?".

Annie arrossì: "Tecnicamente era sulla soglia della porta...".

Archie scosse la testa, sul punto di scoppiare a ridere di nuovo: "Oh, Annie... sei incredibile. Ma secondo te come ha fatto ad accorgersi che noi... sì, insomma, abbiamo fatto pace?".

Lei fece un sorrisetto: "Pensi davvero che la gente sia cieca? Soprattutto una donna furba come lei?".

"Già...", mormorò.

Il silenzio che seguì fu scomodo e a un certo punto Annie chiese: "Quindi... che facciamo?".

Archie si passò una mano tra i capelli, frustrato: "In realtà non c'è molto che possiamo fare. D'altronde lei non vive qui con me e noi siamo maggiorenni".

"Ma se ti metti contro di lei potrebbe cercare di cacciarti dal clan come ha fatto coi Lagan!", protestò la ragazza.

Lui sedette tranquillamente alla scrivania: "Ora che Albert è a capo della famiglia è lui a prendere certe decisioni. Annie, la zia adesso conta molto meno di lui: potrebbe persino decidere di mandarla via di casa, lo sai?".
Annie cadde a sedere sul bordo del letto, una mano davanti alla bocca: "Ma non credo che sia capace di...".

"Certo che no", ribatté stringendosi nelle spalle, "ma se lei tira troppo la corda farà comunque valere la sua autorità".

Annie prese a mordicchiarsi un'unghia, guardando per terra e muovendo un piede in un gesto nervoso: "Allora lasciamo le cose così? Potremo ancora vederci?".

Archie sedette sul letto vicino a lei e la prese fra le braccia, in un gesto spontaneo: "Ci vedremo tutte le volte che vorremo e, anche se i miei genitori o i tuoi dovessero opporsi, noi saremo più forti. E se la zia Elroy si permetterà di insistere informeremo Albert. Va bene?". Si scostò un poco per guardarla e il suo volto arrossato e gli occhi brillanti gli indicarono che era d'accordo con lui.

Senza attendere risposta, la baciò. Lentamente, con dolcezza, insinuandosi nella sua bocca fresca dopo aver delineato i contorni delle labbra che lei aprì quasi subito.
Lasciò vagare le mani sulla sua schiena, mentre lei imitava i suoi gesti con i palmi aperti sul suo petto.

"Ti amo, Annie", mormorò quando si staccò per riprendere fiato e lei, per tutta risposta, avvicinò di nuovo le labbra alle sue.

Gemette in protesta quando si staccò, ma la felicità lo invase nel momento in cui disse: "Ti amo anche io, Archie. Nessuno ci separerà mai".

"Nessuno", ripeté baciandola di nuovo. Senza rendersene conto, l'abbracciò più stretta e la tirò giù con sé. Annie si puntellò con le mani sul suo torace, mentre il bacio continuava più intenso di prima.

Gli girava la testa, il corpo di Annie premuto contro il suo e le loro lingue che giocavano tra loro gliela fecero quasi perdere. Ubriaco di desiderio, si accorse a malapena che lei si era allontanata.

"Scusami, non avrei dovuto", stava dicendo sistemandosi i capelli e il vestito, il volto deliziosamente arrossato.

Archie sospirò, un po' frustrato, e si tirò a sedere: "Scusami tu. Forse è meglio se d'ora in poi ci vediamo nella sala principale. Le camere da letto sono pericolose", rise.

"Oh, Archie!", ribatté lei dandogli una leggera spinta e sorridendo. "E comunque la colpa è mia. Non avrei dovuto farti certi discorsi...".

Lui si alzò in piedi, affondando le mani nelle tasche: "Se non fossi stato così idiota a quest'ora forse saresti già mia moglie", disse guardando fuori dalla finestra.

Udì i suoi passi e un istante dopo le braccia di Annie erano allacciate alla sua vita: "Dimentichiamolo, Archie. In qualche modo è stato utile per farti capire... per farci capire meglio qualcosa di noi due".

Mentre si voltava per baciarle le mani con devozione, Archie pensò che l'avrebbe sposata anche il giorno successivo. Ma si era ripromesso di aspettare e di diventare l'uomo che meritava.

Quando la salutò, giurò a se stesso che si sarebbe impegnato con tutte le sue forze e, se fosse riuscito a laurearsi l'anno successivo, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata scegliere la data delle nozze.

Un anno, però, gli sembrava già maledettamente lontano.
 
- § -
 
Albert vide le lacrime negli occhi di Candy e si disse che, quando lo aveva visto disperato nella stanza della musica a Chicago, ne aveva versate molte di meno. Certo, la storia d'amore tra lei e Terry era stata straziante e lui non aveva omesso le parti più drammatiche.

Voleva che tutto fosse chiaro, che lei avesse tutti gli elementi del suo passato ben evidenti.

Sospettava che se la memoria fosse tornata non sarebbe stato di certo perché conosceva o meno determinate questioni del suo passato, ma da quello che aveva appreso grazie ad Adrian, la verità l'avrebbe indotta meglio a lasciarsi andare.

O a bloccarsi definitivamente.

Non c'era molto che potessero farci, né lui né Candy. In realtà, lei aveva più potere di chiunque altro su se stessa e ora che la vedeva asciugarsi gli occhi con il fazzoletto che le aveva porto, tirando su con il naso come una bambina, non poté fare a meno di dirle: "Vorrei tanto vederti felice", come aveva fatto tanto tempo prima, quando lei si era addormentata piangendo in mezzo ai giornali in cui si parlava di Terence.

Quella frase, però, in apparenza non le portò alcun ricordo.

"Credo che non lo sarò mai. Ma in questo caso non è colpa tua", terminò con voce nasale, fissando il caminetto spento. "La cosa assurda sai qual è?".

Lui fece cenno di no.

"È che di quello che mi hai raccontato non mi ricordo un accidenti di niente! A parte quel suo modo... di chiamarmi, il tuo racconto mi evoca solo emozioni di dolore e null'altro. Un po' come accade per Anthony. È come se il mio cuore riconoscesse il mio passato ma si rifiutasse di mostrarlo del tutto alla mia testa. Buffo, no?".

Buffo o meno, Candy non stava ridendo.

"Solo io ti faccio venire la nausea e l'emicrania?", domandò cercando di stemperare la tensione ma volendo approfondire quell'aspetto.

Candy si alzò in piedi: "All'inizio mi è successo anche con Terry. Oggi... oggi tutto è stato molto lieve. Avverto solo la disperazione".

Albert fece un grosso sospiro, chiedendosi se fosse una buona idea procedere. Poi si disse che l'aria aperta non poteva certo farle male. Batté le mani sulle gambe e si alzò anche lui: "Candy, andiamo a fare una passeggiata? C'è un bel sole".

Lei si voltò a guardarlo, gli occhi rossi ma asciutti: "Prima voglio sapere una cosa".

Era seria e sembrava tesa: "Certo, tutto quello che vuoi".

"Ero ancora innamorata di lui? Voglio dire, so che ci siamo lasciati e che poi quella Susanna è morta... ma come sono finita con te? Non per... insomma...". Incredibilmente, Candy gli parve quasi imbarazzata. Si trattava di un'evoluzione interessante che davvero non si aspettava.

"Ripiego? Questo intendi?", chiese col tono leggero di poco prima. "No, Candy. Hai chiarito le cose con lui e... sei tornata da me. Ma questa parte potremo affrontarla in un altro momento. Ora sei sconvolta".

Lei lo guardò per qualche istante, come se fosse indecisa sul da farsi. Albert capì che se solo lei avesse dato cenno di volerne sapere di più in quel preciso istante, lui glielo avrebbe raccontato, terminando una volta per tutte quell'agonia. Nella migliore delle ipotesi non avrebbe ricordato nulla, nella peggiore sarebbe fuggita non appena avesse saputo che aveva vissuto con lui, da sola, per due anni.

Non era pronto a illudersi con qualcosa di meglio.

"Va bene, andiamo. In effetti ho bisogno d'aria", acconsentì superandolo e aprendo la porta. Come se li avessero attesi, gli animali si fecero loro incontro e lui li accarezzò uno ad uno. Candy si limitò a fare un paio di carezze al daino, col quale sembrava aver stretto amicizia.

"Andiamo al fiume. C'è una piccola barca che voglio farti vedere", disse con il cuore che cominciava ad accelerargli in petto.

Mentre camminavano, fianco a fianco e in silenzio, Albert si ritrovò a pregare Stair.
 
- § -
 
Carissima Karen, come stai? Lunedì ci sarà la prima del mio film e vorrei... "No, non va bene!". La lettera finì accartocciata e Terence la lanciò distrattamente alle sue spalle.
Sua madre si schiarì la voce ma lui la ignorò.

Ciao, Karen, come va? Mi chiedevo se ti piacerebbe... "Ahhh, non va bene neanche così!". Altro cartoccio lanciato a caso.

"A-EHM!", fece sua madre un po' più forte.

Lui le scoccò un'occhiata torva, incontrando il sopracciglio inarcato e vedendola con le mani sui fianchi, il piede che batteva a terra: "Non proporti mai come sceneggiatore, Terry, saresti un disastro", commentò.

Mia dolce Karen, ricordo ancora... "Al diavolo, ci rinuncio!", esclamò alzandosi e facendo a pezzi l'ultimo foglio, lasciandoli poi cadere sul pavimento pieno di carta.

"Di' un po', offrirai un supplemento alla povera Bessy per tutto questo caos o devo aiutarti a mettere a posto?", chiese Eleanor spostando alcuni cartocci col piede.

Terence si passò una mano tra i capelli: "Mamma, potrei rimanere un po' da solo, per favore?", chiese. Amava il nuovo rapporto che si era instaurato con sua madre, ma la cosa stava diventando a tratti soffocante.

"Certo, tesoro, come vuoi. Volevo solo portarti lo stufato che ha cucinato la mia cuoca... quella donna pensa che dopo aver lavorato a un film io abbia bisogno di ingrassare almeno venti libbre*!". La vide andare in cucina e posare il sacchetto che aveva preparato.

Per un attimo i loro sguardi s'incontrarono e lei socchiuse gli occhi, come riflettendo.

Oh, no, ti prego, non farlo...

Non voleva una predica e non voleva parlarle di Karen. Sedette alla scrivania e tirò fuori altri fogli. Ebbe appena il tempo di intingere la penna nell'inchiostro che lei pigolò, facendolo trasalire: "Oh, Terry, ho dimenticato che devo fare una telefonata urgente, posso approfittare del tuo apparecchio, per favore?".

Alle labbra gli salirono decine di imprecazioni, mentre si portava di nuovo la mano tra i capelli con un sospiro frustrato: "Certo", biascicò senza poter trattenere un sospiro irritato.

Lei si accomodò vicino al tavolino e compose un numero. Quando la sentì chiedere di Karen si girò di scatto con tutta la sedia e rischiò di cadere. Furioso, le fece un gesto concitato con due dita che saettavano da un lato all'altro del collo.

Eleanor alzò gli occhi al soffitto e, prima che potesse farle cenno di riagganciare, parlò: "Oh, ciao Karen, come stai? Sono Eleanor Baker!".

Con un gemito di scoramento, Terence si portò una mano sulla faccia, sbirciando tra due dita sua madre come se potesse impedirsi anche di sentirla. O di farla parlare.
"Sì, abbiamo finito le riprese da poco, è stato davvero incredibile!".

Sì, incredibile come un dopo sbronza chino sul gabinetto.

"La prima ci sarà lunedì prossimo e tu sarai mia ospite!", cinguettò facendo ampi gesti con le braccia, neanche potesse vederla.

Terence si ritrovò a deglutire. Cosa doveva sperare? Che dicesse di sì o di no? E lui che avrebbe detto se l'avesse vista?

"Certo, lo immagino... beh... naturalmente! Fantastico, tesoro, ci sarà la créme de la créme di Pittsburg. Oh, lo so, ma è una bella occasione anche per te. Il regista?".

Terry cercò di fare lo sguardo più supplichevole che gli riuscì e, per fortuna, Eleanor colse almeno quel messaggio: "Diciamo che puoi aspirare a molto meglio, tesoro... sì, so quello che ho detto. Certo, una trama incredibile... in ogni senso".

Terence scosse la testa: gli veniva quasi da ridere.

"Va bene, a presto allora, fai buon viaggio!". Quando riattaccò, Terence aveva le mani sudate e il cuore che sembrava un tamburo africano.

"Mamma, io...".

"Oh, Terry, mi raccomando, scalda un po' quello stufato, credo che ormai sia freddo. Ma com'è tardi! Devo andare, buona giornata!". E, prima che potesse dire altro, gli soffiò un bacio dalle dita e se ne andò, lasciandolo a bocca spalancata e con un palmo di naso.
 
- § -
 
"E questa che diavolo è?", chiese Candy alzando un sopracciglio, vedendo una specie di cigno di legno galleggiare sull'acqua.

Albert rise di cuore: "Questa è una delle invenzioni più belle di Stair. Hai parlato di lui con Patty, giusto?", chiese chinandosi per controllare la bizzarra imbarcazione, saggiandone il bilanciamento.

Si avvicinò alla riva fino a toccare la testa di quell'animale finto e le sfuggì un sorriso: "Era bravo. Anche quel carillon che ho io è quasi perfetto. Peccato sia morto così giovane... ". Per qualche istante rimasero entrambi in silenzio e lei poté vedere la composta malinconia sul viso di Albert.

Sentiva per quel giovane dei sentimenti di profondo affetto, quasi fraterni e di sicuro meno tormentati di quelli che caratterizzavano Anthony, Terry e... Albert stesso. Il dolore era uguale eppure diverso, restava la consapevolezza di aver perso qualcun altro di davvero prezioso.

Albert scavalcò l'argine, allargando le braccia per rimanere in piedi in quella barchetta che sembrava troppo piccola per la sua altezza e, poggiando una mano sul bordo e chinandosi un poco, le allungò il braccio per aiutarla.

I lineamenti sorridenti e distesi,

Poupee viene tutti i giorni a schiacciare un pisolino in barca.

gli occhi colmi di aspettativa come quelli di un ragazzino che stia per salire su una giostra.

Funziona tutto, tranne il getto d'acqua.

Mentre afferrava quella mano tesa avvertendo una specie di scossa elettrica, Candy gettò un'occhiata all'ugello posto sul capo del cigno e la cosa non sfuggì ad Albert.

"Funziona tutto, tranne il getto d'acqua", disse lentamente, fissandola con intensità. Aveva capito il suo ricordo alla perfezione, era diventata davvero trasparente.

In quello spazio così ridotto stare lontani non era possibile, così cercò di rilassarsi nonostante il cuore le battesse forte come un tamburo e le mani le sudassero tanto da doverle strofinare sul vestito. Albert si posizionò di fronte a lei e Candy dovette distogliere lo sguardo perché avvertì con chiarezza la nausea e l'incipit di un altro mal di testa.

Indietro, ricordi, state indietro! Non voglio ricordare così vicina a lui, mi sento... oh, mi sento così vulnerabile!

Si rannicchiò su se stessa, spaventata dall'intensità di quella memoria che voleva sommergerla ma che lei cercava di deviare come il corso di quel fiume così gentile che scorreva.

Non puoi fuggire per sempre. Lo so. Se lui è il tuo destino devi accettarlo. Ho paura!

"Candy, hai freddo?". Sussultò come se, invece di averla sfiorata, Albert l'avesse colpita con uno schiaffo come quella notte nella sua stanza.

"No", rispose brusca, aderendo così tanto alla coda del cigno da rischiare di ribaltarsi, non fosse stato per il contrappeso di lui.

Per un po' navigarono dolcemente tra la vegetazione e gli alberi rigogliosi, i prati in fiore e gli uccellini che cantavano: se non fosse stata nelle sue condizioni, avrebbe potuto pensare di essere appena caduta in una specie di fiaba. Ma, invece di immaginare folletti e fate, Candy sentiva la minaccia dei ricordi avvolgerla sbucando dalle fronde e dall'acqua come un essere vivo e oscuro, fatto d'ombra.

A un certo punto arrivarono a una biforcazione e Albert si affrettò a usare un corto remo per prendere la strada di destra. Candy udì un rumore molto forte in lontananza a drizzò la testa, in ascolto: "Che cos'è?", chiese sapendo già la risposta.

"Una cascata", rispose lui con tono calmo. Ma, nella tensione dei tendini del collo, lei vide che era nervoso.

Vuole farmi cadere da una cascata per provocarmi uno shock?

No, era una cosa troppo stupida e pericolosa, senza contare che avrebbero rischiato di annegare in due. E, dopo qualche minuto, Candy si accorse che il forte rumore d'acqua si era in effetti allontanato un poco.

Respirò l'aria pulita e tiepida della primavera a pieni polmoni e si riempì le narici del profumo dei fiori. Pensò che nessuno era tanto dolce e struggente come quello della rosa Dolce Candy.

Oh, Anthony, mi ricordo a malapena di te, ma fa così male... Forse, se mi conoscessi ora, non creeresti delle rose con quel nome.

Il pensiero le sembrò bizzarro ma le sgorgò naturale dal cuore. Coloro che erano morti, per assurdo, non la facevano sentire altrettanto in pericolo. Forse perché ormai quella sofferenza era ineluttabile e non ne avrebbe provata altra peggiore.

Con Terence e Albert, invece...

"Siamo arrivati", disse quest'ultimo accostando la barca all'argine e tendendole di nuovo la mano per scendere.

Stupita, Candy si era appena resa conto, in mezzo ai suoi pensieri, che erano giunti a una radura poco sotto alla cascata di cui aveva udito il rumore poc'anzi e che ora si trovava proprio lì vicino. Rimase a guardarla, incantata, poi si decise a scendere, accettando l'aiuto di Albert perché le tremavano le gambe.

"Dove siamo?", domandò pentendosi subito dopo di averlo chiesto, ma sapendo che lo avrebbe scoperto comunque.

"Nel luogo del nostro secondo incontro".

***
 
* circa dieci chili

Comunicazione di servizio: per chi lo volesse, ho creato un gruppo privato su Facebook per questa fanfiction. Potete scrivermi in privato per il link ^_^

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Capitolo 58
*** Baci e disillusioni ***


Bella
La parola Bella è nata insieme a lei
Col suo corpo e con i piedi nudi lei
È un volo che afferrerei e stringerei
Ma sale su l'inferno a stringere me


(.......)

Bella
È il demonio che si è incarnato in lei
Per strapparmi gli occhi via da Dio, lei
Che ha messo la passione e il desiderio in me
La carne sa che paradiso è lei
C'è in me il dolore di un amore che fa male
E non m'importa se divento un criminale
Lei
Che passa come la bellezza più profana
Lei porta il peso di un'atroce croce umana

(Bella - Cocciante-Plamondon-Panella)

***
E ti bacio la bocca bagnata di crepuscolo.


(Pablo Neruda)

Baci e disillusioni

Candy lo stava fissando, accigliata: sembrava di nuovo combattuta e poteva capirlo da come stringeva i pugni e prendeva respiri profondi. Senza dire nulla, gli diede le spalle e fece qualche passo nella radura, avvicinandosi all'albero.

Albert lo prese come un segno e cominciò a parlare lentamente, a voce bassa, pronto a interrompersi se fosse stato necessario: "Quella sera mi ero accampato qui e avevo acceso un fuoco. Dalla cascata ho udito delle grida e ho visto una piccola barca precipitare: dentro c'era una ragazzina".

Lei pose una mano sul tronco, come appoggiandosi per sostenersi, e lui si ritrovò a deglutire, a disagio. Ricordava qualcosa o stava continuando a lottare contro se stessa?

Stiamo spingendo sull'acceleratore come non abbiamo mai fatto, lo so. Ma è l'unica maniera di riportarti da me.

"Ero io, vero?", domandò guardando in alto, verso le fronde. Una leggera folata di vento le mosse i capelli che a malapena toccavano le spalle: lui li aveva portati anche più lunghi dei suoi.

Eppure non gli era mai apparsa così bella come in quei giorni dolorosi. E così inarrivabile.

"Sì", rispose immobile, ritto in piedi proprio come l'albero accanto al quale si trovava Candy. "Eri scappata da casa dei Lagan e io ti ho tirata fuori dal fiume prima che affogassi. Ti ho messa vicino al fuoco e... quando hai ripreso i sensi e mi hai visto sei svenuta di nuovo per lo spavento".

Il tono divertito o il senso di quello che aveva detto fecero voltare Candy, che lo squadrò con aria guardinga. Poi si voltò del tutto: "Mi stai prendendo in giro?", domandò piuttosto seccata.

Albert rilassò le spalle e fece qualche passo nella sua direzione, gesticolando: "No, perché dovrei?".

"Cosa avevi mai di così spaventoso? Un corno sulla fronte?", ridacchiò incrociando le braccia e guardandolo dall'alto in basso e viceversa.

Si strinse nelle spalle, rabbrividendo un poco al suo esame visivo: "No, ma avevo la barba, i baffi e un paio di occhiali scuri. Inoltre anche i miei capelli avevano una tonalità diversa. Penso di averti fatto paura per questo, hai detto che sembravo un pirata".

L'espressione di Candy mutò prima in una di stupore, poi le sue labbra tremarono e, portandosi una mano alla bocca, alla fine scoppiò a ridere apertamente. Rise così tanto che si chinò tenendosi la pancia.

E Albert si beò di quel suono cristallino, sincero, meraviglioso, che gli era mancato come l'ossigeno stesso. Mentre lei rideva di cuore a lui venne quasi da piangere per la gioia.

Non farti illusioni, trova di sicuro buffa la tua storia.

Attese che lei smettesse di ridere e la guardò con tenerezza mentre si asciugava gli angoli degli occhi, più bella che mai col viso arrossato dalle risa: "Ti sei travestito così bene che spaventavi le ragazzine innocenti! Sei proprio un bel tipo, tu", concluse. "E poi cos'è successo?".

Albert si mise le mani in tasca, camminando mentre raccontava: "Ti ho portata nella mia capanna e ti ho rifocillata. Il giorno dopo sei tornata a casa".

"Aspetta un attimo, vuoi dire che ho dormito da te e avevo... quanti anni avevo?". Ora sembrava quasi indignata.

Esasperato, Albert allargò le braccia: "Santo Cielo, Candy, avrai avuto tredici anni! Ma perché mi vedi come una specie di persona perversa, te ne ho mai dato motivo? A quel che mi risulta sei stata tu, un po' di tempo fa, a baciarmi senza preavviso".

Aveva colto nel segno. Candy era arrossita fino alla radice dei capelli e si stava di nuovo allontanando verso l'albero.

Ora o mai più.

"Perché l'hai fatto?", chiese con un tono duro. "Fino a poco tempo fa mi odiavi, quindi perché comportarti in maniera così sciocca? Non te l'ho mai chiesto, ma ora vorrei saperlo".

La mano di lei artigliò la corteccia: "Perché volevo essere sicura che non rappresentassi un pericolo per me", dichiarò con voce tremante.

"Non ti credo, Candy. Non poteva essere solo quello". Di nuovo, l'avvicinò. Non voleva e non poteva darle tregua. "Stavi chiarendo qualcosa a te stessa. Già allora sentivi di non odiarmi veramente? Hai finto per tutto questo tempo facendomi impazzire? Rispondimi, Candy!". Strinse i pugni sui lembi della propria giacca per impedirsi di afferrarla per le spalle e scuoterla.

"Io non lo so!", gridò voltandosi a fronteggiarlo, sembrava disperata. "Non ti sopportavo, non sopportavo che tu fossi così gentile con me e che non mi fossi... del tutto indifferente. Volevo fare una prova su me stessa, volevo capire cosa... cosa provassi davvero". Si portò le mani ai lati della testa, scuotendola.

Respirando con un leggero affanno, Albert alzò una mano per sfiorarle una guancia, chiudendo quasi del tutto la distanza tra loro: "E cosa provavi? Cosa provi per me, Candy?".

"Io... io...". Lei sembrava arresa, il viso proteso verso il suo, le loro labbra a pochi pollici di distanza.

Albert attese. E attese. Rimasero fermi a guardarsi mentre i loro respiri si mescolavano sempre più rapidi.

Candy chiuse gli occhi e lui aprì la mano, girandola per posarla più fermamente sul lato del suo volto, usando il pollice per tracciare il labbro inferiore di Candy. Studiando con attenzione il linguaggio del corpo di lei, si azzardò ad allungare il braccio dietro la sua schiena, portandola più vicino a sé.

Quando emise un lieve gemito e schiuse di più la bocca, Albert non poté sopportare oltre e accettò quell'invito, qualunque cosa significasse. Sigillò le labbra sulle sue, inspirando a fondo come se fosse stato sott'acqua per mesi e ora risalisse finalmente in superficie a riprendere fiato.

Non fu un bacio impegnativo, ma labbra su labbra, bocche appena schiuse, movimenti quasi impercettibili, però gli parve di rinascere e morire al contempo.

Dio, quanto ti amo, Candy! Come posso aver pensato di rinunciare a te? Sei la stessa aria che respiro...

Mentre era ancora indeciso se accarezzarla con la propria lingua, bramoso di approfondire quel bacio, lei alzò una mano e la portò al suo petto, facendolo quasi sussultare. La mano strinse la camicia prima con titubanza, poi con più forza, infine si aprì e lo allontanò con una spinta.

Lui barcollò per un istante e anche Candy perse per un attimo l'equilibrio, sotto il suo stesso slancio. Si fronteggiarono,  ansimanti, lei con uno sguardo troppo simile a quando sembrava odiarlo.

Dal Paradiso all'Inferno. Oh, Candy...

"Era proprio questo che volevo evitare! Non posso sentirmi attratta da te, non voglio!", gridò esasperata, poggiando la schiena sull'albero.

"Ma perché, Candy, perché?!", gridò, frustrato e amareggiato.

"Perché non ho memoria del mio passato e non è così che deve andare!", ribatté lei usando lo stesso tono.

"Allora lascia che i ricordi ti raggiungano, Candy, non li temere! In passato hai sofferto ma con me eri felice! Non è mai accaduto nulla di brutto tra di noi!".

"Mi hai mentito per tutta la vita!".

"Dovevo farlo!".

"Non hai avuto fiducia in me! E io... io... non voglio ricordare e innamorarmi di nuovo per rischiare di rimanere ancora delusa...". La voce di Candy si abbassò fino a diventare un sussurro e lei scivolò a terra, le lacrime che le rigavano ormai le guance.

Albert fece un profondo sospiro, le si accostò e si sedette accanto a lei: "Lo dici perché è quello che ti ha rivelato Carter sulla tua condizione o perché ne sei convinta?".

"È quello che sento", singhiozzò stringendosi una mano al petto. "Tutti quelli che ho amato... li ho persi! Anthony è morto. Terence mi ha lasciata per un'altra donna. Persino Stair, che era mio amico, è morto in guerra... Non voglio più provare affetto per nessuno, Albert, nemmeno per te!".

Lui chinò la testa, sconfitto, e si appoggiò al tronco mentre Candy piangeva sempre più piano e tentava di riprendere il controllo. Avrebbe voluto consolarla ma non voleva rischiare di abbracciarla di nuovo sconvolgendola, temendo di non riuscire più a lasciarla andare.

Attese che i suoi singhiozzi cessassero quasi del tutto, poi parlò: "Mia madre è morta nel darmi alla luce e mio padre quando avevo solo otto anni. Ho vissuto con zia Elroy e mia sorella finché lei non si è sposata e ha avuto Anthony. Poi, quando lui era ancora un bambino, anche Rosemary è morta e io ho cominciato a studiare lontano da casa, con solo George al mio fianco. Lui è stato come un padre per me e quando ti ho incontrata per la prima volta su quella collina era disperato: pensava fossi fuggito. Cosa che, in parte, ho fatto".

Nonostante guardasse verso il cielo, fissando le nuvole bianche che si rincorrevano pigre, avvertì la tensione nel corpo di Candy e capì che lo stava ascoltando. Così proseguì: "Poco dopo che ci siamo incontrati qui, Archie, Stair e Anthony mi hanno scritto chiedendomi di adottarti e non ci ho pensato due volte, sapendo quanto stavi male con i Lagan". Deglutì, cercando di contenere le emozioni. "Il Clan Ardlay per presentare i nuovi membri ha sempre organizzato eventi come la caccia alla volpe. Forse, all'epoca, ero ancora molto sotto l'influenza di mia zia e la reminiscenza delle mie radici mi ha fatto prendere la decisione sbagliata, considerando che io amo gli animali e non farei mai loro del male. Invece ho fatto del male al mio unico nipote, causando la sua morte. E ho fatto del male a te".

Albert chiuse gli occhi che bruciavano per le lacrime represse, tentando disperatamente di non versarne davanti a lei. Non voleva farle pena, voleva solo che lei ricordasse.
Candy tirò su col naso e quando lui fu di nuovo in grado di parlare lo fece, con voce appena spezzata: "Quando ci siamo rivisti eri disperata, così ho pensato che sarebbe stata una buona idea mandarti a studiare a Londra per allontanarti un po' da quei luoghi".

"E anche questa è una tradizione di famiglia?", domandò lei con un tono abbastanza tagliente.

Finalmente, si voltò a guardarla. Si stava asciugando gli occhi e sembrava arrabbiata: "Sì, ma in quel caso si trattava di un'esperienza che reputavo potesse tornarti utile. E poi ero a Londra anche io per lavoro. Ho conosciuto Terence poco dopo di te e siamo diventati amici. A Londra lavoravo anche in uno zoo e spesso mi venivate a trovare insieme a Patty e ai miei nipoti".

Lei cominciò ad annuire lentamente, come assimilando quel racconto: "Che storia complicata... Vuoi dirmi che anche tu, alla fine dei giochi, hai perso delle persone care ma hai continuato ad andare avanti? A prendere decisioni che reputavi giuste per me? È questa la lezione che mi stai dando?".

Albert era frustrato dall'altalena di sentimenti cui lo stava sottoponendo e sentiva i nervi messi a dura prova. Capì che per lei non doveva essere molto diverso: "Non voglio darti lezioni, Candy, solo farti capire che gli eventi drammatici possono accadere, anche uno dietro l'altro, non dandoti tregua. Ma non si può rinunciare ad amare il prossimo per questo".

Io ti amo ancora...

Candy fece un respiro esasperato, chiuse gli occhi e si appoggiò a sua volta al tronco con la schiena: "Cosa è successo dopo Londra?", domandò come se le importasse ben poco.

"Tu e Terence siete stati espulsi dalla scuola per colpa di Eliza, come ti ho già accennato. Sei scappata per raggiungerlo qui in America e... quando ci siamo rincontrati tu eri un'infermiera quasi diplomata e io avevo perso la memoria".

Candy scattò in piedi a una velocità così repentina che quasi non ne colse i movimenti. I suoi furono più lenti mentre la imitava per fronteggiarla meglio.

"Mi stai... di nuovo prendendo in giro?", sibilò lei guardandolo di sottecchi.

Albert scosse la testa e continuò a raccontare.
 
- § -
 
Eliza tremava, nonostante fosse rannicchiata su se stessa e cercasse di far aderire al suo corpo nudo il lenzuolo lercio più possibile.

"Che dite, starà dormendo?".

"Non lo so, ma ricordati che dopo tocca a me indossare il suo vestito!".

"Questo cappellino sarebbe più bello senza fiori!".

Il rumore della stoffa che veniva lacerata le spezzò l'anima. Era come se, dopo aver ucciso la sua vecchia vita, quelle donne stessero facendo scempio del cadavere.

Ed è tutta colpa tua, Molly!

Cercò di ridurre il respiro a un ritmo più regolare, ma il freddo e la paura la stavano facendo ansimare come un cavallo lanciato al galoppo. Per fortuna, quelle oche stavano facendo tanto baccano da sovrastarlo.

Come è potuto succedere, avevo programmato tutto così bene!

Era filato tutto liscio finché non era uscita in cortile: allora ogni cosa era andata in malora.

Il corridoio è vuoto e la luce sfarfalla, dev'essere difettosa. Mi sembra di stare in uno di quei manicomi del secolo scorso di cui ho letto in romanzi macabri. Tengo le scarpe in mano per fare meno rumore possibile e, uscendo dalla mia camera, calcolo mentalmente il percorso da lì fino alla stanza dove si cambiano le infermiere: ce n'è una su ogni piano e io sfreccio lì muovendomi veloce come un felino.

Mi chiudo la porta alle spalle e mi metto subito in cerca di un'uniforme della mia taglia. La trovo e mi guardo allo specchio per essere sicura di non essere riconosciuta.
Mi faccio coraggio, prendo un respiro profondo e mi avvio verso le scale: l'infermiera del piano di sotto è salita cinque minuti fa e dubito che si farà viva prima del prossimo cambio turno. Comunque non nell'immediato.

Lasciando alle spalle la maledetta luce intermittente, mi immergo in quella fissa e vagamente giallastra del piano terra. Da dietro una porta sento qualcuno piangere e da un'altra gemere. Decido di non soffermarmi troppo a pensare a cosa possano avere quelle anime tormentate: non mi riguarda e non mi interessa.

Nancy sta uscendo da una terza stanza e rimango a metà della rampa, attaccandomi al muro con le spalle, il cuore batte forte e rivoli di sudore m'imperlano le tempie. Credevo sarebbe stata nel suo spazio dal lato opposto all'uscita, da dove avrebbe solo visto un'infermiera da lontano che usciva in giardino nel suo momento di pausa.
Ho riflettuto molto su questo punto e mi sono detta che indossare il cappotto e l'abito con il quale sono entrata sarebbe stato rischioso, perché avrebbero potuto riconoscermi. Ma il vestito è nascosto sotto alla divisa e almeno quello potrò portarlo con me.

Ora, il costoso cappotto che le avevano concesso di riprendere alla clinica prima di essere arrestata era stato trattenuto dalle guardie all'entrata, mentre l'abito stava passando di mano in mano alle detenute della sua cella, che glielo avevano tolto di dosso con la forza.

"Ma è vero che è scappata da un manicomio?", una voce roca, profonda come quella di un uomo. Forse era una fumatrice.

"Quindi è pazza?!", voce e risatina stridule.

Eliza batteva i denti e le lacrime erano bollenti sul viso che sentiva altrettanto gelato.

Nancy entra in una stanza, non prima di essersi guardata intorno con circospezione. È il mio momento. Che lei s'intrattenga pure con il suo amante schizofrenico, io me ne vado per sempre di qui per fare la modella o la creatrice di moda! Ah ah ah!

Cammino velocemente andando verso l'uscita, verso la libertà, l'aria frizzantina della sera mi rinfresca il viso. Oh, che splendida sensazione!

"Infermiera!", la voce di una donna mi paralizza e, curiosamente, mi viene in mente suor Grey della Saint Paul School. Quando mi giro, impietrita e tremante, vedo proprio una suora ma non è suor Grey. Cammina con passi pesanti, la corporatura massiccia e le labbra contratte all'ingiù in una smorfia come di disgusto.

"Io... sono nel mio momento di pausa e volevo prendere una boccata d'aria. Fa così caldo qui dentro!", cerco di assumere un tono e una postura rilassate e vedo la suora strizzare gli occhi come se non ci vedesse. Dal taschino cerca di tirare fuori qualcosa per qualche istante prima che io possa vedere che si tratta di un paio di occhiali. Li pulisce borbottando qualcosa e capisco che sono stata fortunata.

MOLTO fortunata.

Questa donna non ci vede bene e deve avermi scambiata per quella Nancy di cui ora, senza volerlo, sto coprendo la scappatella.

"Bene, mi raccomando, rientri in orario!", dice inforcandoli.

"Certo, sorella", rispondo voltandomi velocemente prima che mi metta a fuoco.

Sono fuori! Sono davvero fuori! Ora, se riesco a farmi aprire il cancello da una guardia con la scusa che devo comprare una medicina per mia madre malata...

"Ehi, Nancy! Ancora dietro a quello schizzato della stanza quindici?". L'uomo si avvicina a grandi passi, uscendo dal gabbiotto di guardia e io indietreggio.

Com'era la parola che ripeteva Neal? Merda, merda, merda!

"Lasciami uscire, per favore", rispondo tremando e cercando di nascondere il mio viso dalla luce del lampione.

"Vuoi uscire?". Anche se non lo vedo, l'uomo sembra davvero perplesso e continua ad avvicinarsi pericolosamente.

"Sì, devo... comprare delle medicine. Mia madre, sai...".

Le mani. Le sue mani. Le sento sulle spalle e io mi dimeno, lamentandomi come un animale in trappola. Ma lui è più forte, riesce a voltarmi e io chino ancora di più la testa.
Non serve a niente.

"La madre di Nancy è morta tanti anni fa e tu sei un'imbrogliona!".

Da lì in poi, tutto era stato una confusione di urla, proteste, suppliche e lo strenuo tentativo di mostrarsi di nuovo catatonica. Lo schiaffo di una suora aveva posto definitivamente fine alla sua copertura.

Era spacciata.

Altro che Parigi e sfilate di moda! La polizia era andata a prenderla ed era stata trasferita nel carcere femminile di Chicago, dove era iniziata la sua discesa all'Inferno.
Nuda e inerme nel suo letto sporco, Eliza cominciò a capire cosa avesse spinto Neal a tentare il suicidio.
 
- § -
 
"Un sorriso, prego!". L'ennesimo fotografo che lo voleva accanto all'attrice principale gli fece quasi perdere il senno.

A denti stretti, mostrando più un ghigno contrariato che il sorriso che gli avevano chiesto, Terence fece di nuovo scivolare il braccio intorno alla vita della sua finta innamorata.
"Potresti sforzarti di sembrare più allegro?", le sibilò lei attraverso il proprio sorriso, senza neanche voltarsi.

"È la quindicesima foto che ci fanno, comincio ad avvertire una paresi facciale", ribatté lui alla stessa maniera.

"Un bacio, datevi un bacio!", li sollecitò il tipo da dietro la macchina, sporgendosi un poco per farsi sentire.

Terence prese un respiro profondo, incrociò per un attimo lo sguardo imbronciato dell'altra coprotagonista che si era innamorata di lui e si domandò, per l'ennesima volta, come potesse essere sempre circondato da tutte le donne tranne che da quella che...

"Ma quella non è Karen Kleiss?", domandò qualcuno facendogli scorrere nelle vene adrenalina rovente.

Si scostò di scatto dal viso della protagonista, che aveva già chiuso gli occhi e proteso leggermente le labbra e si guardò attorno con frenesia.

"Ehi!", fecero a una voce la donna e il fotografo.

"Scusate", disse facendosi largo tra la folla di colleghi e paparazzi per andare verso la voce che aveva udito. S'imbatté in sua madre, che gli chiese cosa fosse successo. La prese per le spalle, guardandola con intensità: "Dov'è Karen?", le domandò.

Il sorriso raggiunse gli occhi di Eleanor che gli fece un cenno con un dito. Terence seguì la direzione che indicava e gli si mozzò il respiro in gola.
Come era potuto succedere?

Come aveva fatto, in appena poche settimane di lontananza, a innamorarsi di lei a tal punto da sentirsi come un adolescente alle prese con la prima cotta? Non sapeva neanche che dirle, gli sembrava così bella che temeva di rimanerne abbagliato, guardandola troppo. Non aveva forse pensato, una volta, che Karen non era come il sole che per lui rappresentava Candy?

Ora quel sole non solo lo accecava e lo illuminava, ma stava rischiando di bruciarlo. E non solo il corpo, ma gli occhi, il cuore e l'anima stessa.

Colto da un desiderio primordiale, percorse a grandi passi gli ultimi metri che lo separavano da Karen e lei ebbe appena il tempo di accorgersi della sua presenza che lui la stava stringendo fra le braccia e baciando.

Il flash e lo schiaffo arrivarono nello stesso momento.

Eh, no, basta!

Quella storia di essere schiaffeggiato ogni volta che baciava la donna che amava lo stava seriamente stancando.

"Sei impazzito, forse? Ci hanno fatto una foto!", protestò lei piantandogli addosso due occhi di ghiaccio.

"Pazienza, volevano una foto con la protagonista del film e invece ne avranno una con te", disse con un sorrisetto. "Sei ancora più bella di quanto ricordassi".

"Oh, per l'amor del Cielo, Terry!", s'indignò lei fuggendo.

Come un'orda affamata, i giornalisti li seguirono scattando altre foto e facendo domande a raffica.

"Siete fidanzati?", "Signor Graham, come mai ha baciato la signorina Karen invece della sua fidanzata?".

Fidanzata? Fidanzata?! Da quando quell'attrice era la sua fidanzata?!

 "Signorina Kleiss! Quello schiaffo significa che non ricambia i sentimenti di Terence?".

In quel marasma lui cercava di farsi largo ignorando le urla del regista, i commenti allusivi dei colleghi e persino i richiami di sua madre. Come una falena attirata dalla luce, poteva solo seguire la scia rossa del vestito di Karen fino all'uscita.

"Terence, Karen!". Stavolta, la voce di Eleanor era perentoria ed entrambi si fermarono, fissandosi per qualche istante.

Negli occhi di lei poté vedere il dolore.

No, non era questo che volevo. Karen, lascia che ti spieghi, che ti dica...

"Il film sta per iniziare, rientriamo? Potrete parlare dopo", concluse Eleanor in tono conciliante.

Come due bambini colti in un litigio, chinarono il capo e s'incamminarono, Terence che ogni tanto la guardava di sottecchi.

Forse complice il fatto che la prima stava per avere inizio, tutto il caos di poco prima sembrava sotto controllo e l'attenzione generale era rivolta all'entrata della sala cinematografica.

"Se vuoi fare un altro film con me, Graham, d'ora in poi ti consiglio di evitare queste manifestazioni di affetto inopportune", gli ringhiò il regista all'orecchio mentre facevano il loro ingresso in sala.

Le luci erano basse e nel buio non colse del tutto la sua espressione, ma era certo che fosse adirata. Si voltò verso di lui, piegandosi un poco per rispondergli: "Ma io non voglio fare un altro film con te. Torno a teatro".

Colse solo l'ansito strozzato di sorpresa, poi si accomodò nel posto accanto a sua madre e a poche poltrone di distanza da Karen.

Una volta usciti da lì le avrebbe parlato, fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto.  

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Capitolo 59
*** Di occasioni e treni persi ***


Di occasioni e treni persi

"Siete tornati pre...", la frase di George fu interrotta da una mano alzata di William mentre inseguiva la signorina Candy, che sembrava una furia sul punto di esplodere.

Quando aveva sentito aprirsi la porta d'ingresso, George aveva pensato che qualcuno stesse cercando di buttarla giù ed era corso a vedere chi fosse il malintenzionato.
Invece era Candice che avanzava a grandi passi con William, il quale le stava dietro con la borsa ancora in mano. Il patriarca gliel'aveva lasciata distrattamente, poi aveva detto ad alta voce rivolto a lei: "Ti stai comportando come una bambina, Candy".

"Mi chiamo Candice!", protestò voltandosi dal fondo della rampa di scale, che pareva avere tutta l'intenzione di fare due a due tenendosi i lembi della gonna. Cosa che, in effetti, iniziò a fare.

"Pensavo che avessimo superato questa fase del nome!", si lamentò lui standole dietro. "George, per favore, puoi far portare la valigia nella stanza di Can... dice?", terminò affrettandosi a seguirla.

"Me la porto da sola!", strillò lei come avrebbe fatto davvero una bambina.

Vedendola riscendere e avanzare verso di lui di gran carriera, per un attimo si strinse la valigia al petto, balbettando: "Se mi permette posso farlo i...".

"No!", rimbeccò strappandogliela di mano e cominciando a portarsela dietro.

"Almeno falla portare a me, visto che è pesante", protestò William.

Per tutta risposta, la lasciò sul pavimento come fosse un sacco di patate: "Sai una cosa? Non mi serve la tua elemosina, lavorerò e mi comprerò i vestiti da sola!".

Riprese la sua marcia verso le scale seguita da William, che gli lanciò una breve occhiata accennando alla borsa: "Senti, parliamone con calma! Non mi rivolgi la parola da ieri sera e non è litigando che risolveremo...".

"Risolvere? Mi parli di risolvere?! Non c'è niente da risolvere, zio William dei miei stivali!", sbottò lei facendogli spalancare gli occhi per lo stupore. Persino lui si ritrasse per un attimo come se lo avesse schiaffeggiato.

Aveva sentito spesso, dai racconti di William, di come fosse cambiata la signorina Candice, ma sentirle in bocca certe parole era un'esperienza che gli mancava. Lei, sempre così gentile e dolce. Lei, che lo chiamava Cavaliere Bianco e lo aveva abbracciato quando era tornata da New York e lui era collassato alla Collina di Pony.

Provando per lei quell'amore filiale di cui le aveva anche parlato con commozione, poté capire come vederla in quelle condizioni sconvolgesse tutti quelli che la conoscevano.
George non poté fare altro che rimanere lì impalato, dopo aver raccolto la valigia, guardando William discutere con lei e ricominciare a seguirla, per la terza volta, su per le scale.

"Candy...".

"Candice!".

"Certo, come vuoi. Ascolta, non puoi mandare tutto all'aria per questo, ti ho già spiegato che ho avuto i miei motivi...".

"I tuoi motivi?! Come quando mi hai fatto credere di essere un vagabondo e hai ordinato una stupida caccia alla volpe?!".

"Anche queste cose le avevamo superate, mi sembra!".

Si gridavano l'un l'altro mentre avanzavano sulle scale e Candy si agitava tanto che George temette seriamente potesse cadere da un momento all'altro. Lei diceva una frase voltandosi a mezzo busto e lui, come una specie di Romeo sfortunato, le stava dappresso con le braccia allargate, impotente e arrabbiato mentre le rispondeva.

Il balletto andò avanti senza che nessuno dei due desse cenno di curarsi della servitù che poteva udirli. Dalle cucine, infatti, fece capolino il cuoco. George agitò una mano e la testa per comunicargli che era tutto sotto controllo.

Strinse la borsa come traendo coraggio e si decise a fare qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter fare negli anni passati e fino a quel momento.

Li seguì.

Man mano che si allontanavano nel corridoio del piano superiore, poteva udire i passi fare rumore sul pavimento e le voci affievolirsi.

"D'altronde, ho la valigia della signorina Candy... Candice", disse a se stesso a bassa voce.

La realtà era che voleva fare qualcosa, persino intervenire se si fosse reso necessario, a costo di farsi insultare da lei. Non poteva sopportare di vedere il suo ragazzo soffrire a quel modo e la ragazza solare di una volta trasformata in una furia senza motivo apparente.

William doveva averle raccontato di quando aveva perso la memoria. Possibile che il fatto di aver vissuto insieme a lui l'avesse sconvolta a tal punto?

No, doveva esserci qualcos'altro ed era fermamente intenzionato a scoprirlo.

Arrivato in cima alle scale sentì una porta chiudersi forte, poi riaprirsi e richiudersi ancora: "Come ti permetti di entrare in camera mia, screanzato? Non viviamo più insieme!", disse la voce attutita della signorina Candy.

"Hai forse paura di me?", rispose William con tono più basso.

"Mi hai baciata contro la mia volontà già una volta! E chissà cosa è successo in quella casa mentre eri senza memoria!".

"Ancora con questa storia?! E poi senti da quale pulpito...!", risata nervosa. "Ti ricordo, cara mia, che sei tu che mi hai baciato a tradimento, a Chicago. Quando è successo nel bosco mi sembravi più che consenziente!".

Ma senti senti...

"Ti sbagli!".

"Oh, non credo proprio...".

"Insomma, cosa vuoi?! Esci subito dalla mia stanza!".

"No!", tuonò William, che sembrava davvero arrabbiato, adesso.

"Lo sapevo, lo sapevo che stavo sbagliando a fidarmi di te, sapevo che la memoria non tornava per un motivo valido! Mi hai abbandonata anche tu!".

Oh, no...

"Non ti ho abbandonata, Candy! Ho dovuto farlo per salvare la tua reputazione!". Decisamente non aveva mai sentito William urlare così, se non quella sera, a Chicago, dopo che gli aveva riferito che i Lagan non sarebbero stati accusati del tentativo di omicidio nei confronti di Candice.

 "Se non fossi venuta io da te, avrei dovuto sposare quel... quel...".

"Neal", suggerì lui a voce più bassa. "No, non sarebbe successo. Sarei venuto a saperlo...".

"E quando, visto che eri sparito dalla mia vita come tutti? Dopo che mi avesse sposata? O quando gli avessi dato il primo erede?!".

"La mia presentazione ci sarebbe stata a breve e avrei...". All'improvviso, William era sulla difensiva.

"La TUA presentazione! Il TUO nome, la TUA famiglia, le TUE perdite, il TUO desiderio di libertà! Senti anche tu quanto suona egoistico, William Ardlay? Mi pare che nella TUA vita tu abbia dimenticato un po' troppe volte che esistono anche gli altri!".

Oh, mio Dio...

Il silenzio che seguì gli indicò che Candy aveva colpito e affondato. Non sapeva come William le avesse raccontato la sua vita, ma lei aveva distorto gravemente le cose, rinfacciandogli una realtà che non esisteva.

La risposta fu sommessa e pregna di un tale dolore che gli si strinse il cuore. Dovette avvicinare quasi l'orecchio alla porta per udirla: "Tutto quello che ho fatto da un certo punto in poi è stato solo per il tuo bene, Candy...".

Chiuse gli occhi, sconfitto. Se quella era la fine delle loro speranze, avrebbe raccolto i cocci di William per i prossimi anni.

"Sì, l'ho già sentita questa. Ora, per favore, lasciami sola".

George si allontanò velocemente, pronto a scusarsi con William per avere origliato in modo così sfacciato ma, quando uscì, lui lo degnò a malapena di uno sguardo e gli prese di mano la borsa.

Si voltò di nuovo, con aria stanca, per bussare: "Candice, la tua va...".

La porta si aprì di scatto, lei allungò una mano con il viso contratto in una smorfia per riprendersela e, prima ancora che William potesse aprire bocca, gli chiuse l'uscio a pochi centimetri dalla faccia. Lui sussultò appena, con gli occhi chiusi.

Vi poggiò la fronte, le mani con i palmi aperti sulla porta come se volesse trasmetterle i suoi sentimenti attraverso il legno.

George provò una pena immensa.

William fece un respiro profondo e cominciò a camminare verso lo studio: sembrava essere invecchiato, tanto camminava curvo.

"Posso... fare qualcosa, Albert?", lo chiamò col suo nome e lui si fermò.

Voltò appena il capo e poté vedere solo parte del suo profilo: "No, l'unico che può convincere Candy a restare, adesso, è Adrian. Se non ci riesce neanche lui significa che l'ho persa definitivamente. Forse avrei dovuto raccontarle qualche bugia, invece della verità, a quest'ora non saremmo a questo punto".

Riprese a dirigersi verso lo studio del primo piano senza dire altro ma George, da dove si trovava, poté udire i singhiozzi sommessi della signorina Candy.

Perché, mio Dio, perché tanta sofferenza? Eppure sono certo che, se solo lei volesse, potrebbe ricordarsi di lui e di noi tutti...

Ma gli apparve evidente che Candice non voleva affatto.
 
- § -
 
Terence si sentiva un'anima in pena e aveva già litigato due volte con sua madre. Tutto era cominciato dopo la visione del film che, nonostante le sue basse aspettative, non era così male come immaginava.

D'altronde, se Eleanor Baker aveva successo al cinema un motivo ci doveva essere e quel regista, anche se abbastanza fuori dagli schemi e per nulla simpatico, sapeva come valorizzare le capacità degli attori, anche quelli meno dotati.

La sua sorpresa era stata di breve durata perché, una volta usciti dalla sala, era ricominciato l'assedio dei giornalisti e lui voleva solo trovare Karen e spiegarsi con lei. Ma, nella confusione generale e sotto l'insistenza del regista che voleva per forza che rilasciasse interviste e posasse per foto, l'aveva persa di vista.

Quando alla fine la folla si era diradata e gli ultimi avventori stavano lasciando il cinema, Terence aveva individuato Eleanor che parlava con un fotografo e le aveva chiesto: "Dov'è?".

Lei gli aveva messo una mano intorno alle spalle, portandolo in un angolo appartato: "Abbiamo chiacchierato insieme poco fa, ma è tornata in albergo perché il viaggio l'ha stancata molto. Mi ha detto che il film le è piaciuto e di salutar...".

"Ma che vuoi che m'importi di cosa pensa del film?! Perché l'hai lasciata andare via?!", aveva ribattuto lui con rabbia.

Il viso bello ma accigliato della madre gli aveva ben fatto presagire la sfuriata successiva: "Ascoltami bene, Terence Graham", aveva sibilato con tono pericoloso, "Karen è mia ospite e se non l'avessi invitata io tu saresti ancora lì a stracciare lettere mai scritte, struggendoti come un adolescente intimorito! Se veramente sei innamorato di lei, muovi le gambe e vai a dirle la verità, evitando scene come quella di prima".

Il suo dito lo aveva colpito, implacabile, sul torace a ogni singola frase.

"Ma l'ho solo baciata!", si era difeso.

"Esattamente! Quello viene dopo, prima devi dichiararti. Possibile che ti debba dire tutto io?".

Se solo sapessi, mamma, quanto abbiamo bruciato le tappe...

Quello pensava, mentre andava dalla sua camera alla porta d'ingresso come un'anima in pena. Perché non trovava il coraggio di andare in quell'albergo e fare quel salto?

D'istinto, si diresse verso la scrivania e aprì il cassetto dove aveva riposto la risposta di Albert alla sua lettera: gli parlava di Candy e dei suoi progressi, ma non solo. Sedette sulla sedia a rileggere la parte che gli interessava, come se stesse parlando con il suo amico in quel preciso momento:

 ...il dottor Carter dice che Candy ha sviluppato una specie di timore nel lasciarsi andare a sentimenti amorosi ed è per questo che il passato è bloccato nella sua mente. Amare vuol dire sofferenza, ricordare significa rivivere quel dolore. Mi spiace dirti queste cose, non voglio instillarti sentimenti di colpa, so come andarono le cose con Susanna e posso dirti, nonostante abbia visto Candy soffrire molto in quel periodo, che capisco perfettamente le ragioni che ti hanno portato a fare quella scelta. Credo che ognuno di noi l'avrebbe fatta.

Terence chiuse gli occhi e sospirò: il destino era stato strano. Se non fosse rimasto con Susanna e avesse davvero chiesto a Candy di sposarlo allora, senza darle la possibilità di comprare quel maledetto biglietto di ritorno, come sarebbe andata a finire? Sarebbero stati comunque infelici? Lei avrebbe scoperto, troppo tardi, di amare un altro uomo?

Col senno di poi, Terence si stava convincendo sempre di più che lui e Candy non si erano mai conosciuti davvero a fondo: il loro rapporto era stato adolescenziale, tormentato, più simile a una tempesta che a una vera storia d'amore. I sentimenti, da soli, non erano bastati a tenerli uniti e forse non lo avrebbero fatto neanche se Susanna non avesse avuto l'incidente.

Ma era inutile continuare a fare tutte quelle supposizioni, come Candy stessa aveva avuto modo di dirgli durante il loro ultimo incontro. Il passato era passato e ora...

...non sai quanto mi faccia piacere sapere che ti stai innamorando di nuovo. Voglio darti un consiglio, prendilo come quello di un fratello maggiore che ha maturato un po' più esperienza di te, almeno nell'ultimo periodo: se è davvero così non lasciarti sfuggire la possibilità di essere felice. Alle volte basta aprire un attimo la mano per farsi portare via quella felicità da una folata di vento.

Terence alzò la propria, di mano, chiusa a pugno: "Basta aprire un attimo la mano...",

“Per Amore non c'è ostacolo di pietra, e ciò che Amore può fare, Amore tenta”, così diceva Shakespeare. D'altronde, io sono sempre stato Romeo e lei era la mia Giulietta.

"... per farsi portare via...".

"La felicità è un dono e il trucco è non aspettarla, ma gioire quando arriva". Questo non è Shakespeare, ma Dickens. Hanno capito tutti tranne me, idiota che non sono altro!

La mano si aprì e Terence spazzò via dubbi e timori. Candy era senza memoria, ma lui si ricordava benissimo cosa era accaduto negli ultimi mesi e non l'avrebbe ignorato, mai più.

Afferrò la giacca dall'attaccapanni e volò in strada in cerca di una carrozza o di un taxi. Gli sembrò di stare lì, con un braccio alzato a saltellare come uno stupido per un tempo infinito, quando finalmente un cocchiere si fermò.

"Mi porti al Resort Inn", chiese con le mani che gli tremavano e l'aspettativa che gli faceva accelerare deliziosamente il battito cardiaco. Per fortuna sua madre era stata abbastanza gentile da dirgli dove alloggiava Karen, anche se non aveva mancato di fargli notare quanto fosse stato fin troppo indeciso.

Gli aveva urlato, attraverso la cornetta, che se voleva continuare a comportarsi come un'anima in pena sarebbe stato meglio evitare anche il teatro, o avrebbe rischiato di mandare a monte anche la sua carriera di attore.

Quello era stato il secondo litigio nel quale, a dirla tutta, lui aveva risposto solo a monosillabi: Eleanor aveva ragione.

Gettò i soldi della corsa letteralmente in grembo al cocchiere, il quale andò via borbottando un "che modi!", che udì appena. Si precipitò alla reception, dove chiese dei lei e, ancora una volta, ebbe il sospetto che il tempo si dilatasse all'infinito mentre l'uomo compìto sfogliava con gesti lenti il maledetto registro.

Stava per intimargli di sbrigarsi quando le sue parole lo gelarono: "Mi spiace, ma la signorina Kleiss ha lasciato l'albergo un'ora fa".

"Che cosa?!", esclamò lui sbattendo le mani sul bancone, protendendosi verso quell'uomo quasi potesse fare qualcosa come riavvolgere il tempo.

"È andata via", ripeté accigliandosi.

Terence trattenne a stento l'impulso di scavalcare il bancone e afferrarlo per i lembi della sua ridicola giacca rosso mattone: "Dove, dove è andata?!", domandò sapendo che il receptionist poteva anche non esserne a conoscenza.

La fortuna, però, gli sorrise: "Ha chiesto un'auto per andare alla stazione centrale, ma è tutto quello che...".

"Grazie!", gridò mentre volava, letteralmente, di nuovo in strada. Avrebbe offerto dieci volte la corsa in taxi a chi gli avesse permesso di giungere a destinazione alla velocità della luce.
 
- § -
 
Il treno era in ritardo e Karen si chiese, ancora una volta, perché avesse accettato quell'invito da Eleanor. Davvero aveva pensato che Terence le avrebbe detto quello che avrebbe voluto sentirsi mormorare al chiaro di luna, neanche fossero davvero in un teatro o su un set cinematografico?

Lei, così realista e poco avvezza al romanticismo, non poteva sul serio aver sognato un finale da romanzetto rosa.

"Stupida illusa!", borbottò sistemandosi la valigia accanto ai piedi, mentre sedeva sulla panca e lanciava un'altra occhiata all'orologio. Ne aveva abbastanza di quella città e di quelle illusioni, magari avrebbe raggiunto sua madre in Europa, dove era andata in viaggio, e si sarebbe fatta una meritata vacanza.

Magari avrebbe davvero incontrato qualcuno che l'avesse apprezzata per quella che era.

Terence le aveva rubato un altro bacio senza dirle nulla ma, soprattutto, l'aveva fatto davanti a tutti come se fossero fidanzati. Una cosa era stata darsi a lui lontano dai riflettori e mettendo bene in chiaro le cose, un'altra sarebbe stato rendere pubblico qualcosa che non si sarebbe mai verificato.

Di nuovo, ripensò alla sua telefonata sibillina, di nuovo rifletté che Terry doveva essere solo molto confuso.

Eppure...

Il fischio del treno la fece voltare di scatto. Finalmente stava arrivando.

Non mi ha cercata dopo la prima, quindi è tutto molto chiaro. Devo smetterla di pensarci.

Si asciugò una lacrima furtiva, riflettendo che non era tipo da piangere facilmente e che l'aveva fatto solo con Terence. Si alzò, afferrando la valigia e guardò, come in sogno, il treno entrare in banchina e sbuffare mentre si fermava.

Senza voltarsi indietro, col cuore che pesava più della sua valigia leggera, Karen salì sul mezzo e cercò il proprio posto.

"Karen!".

Quella voce...

No, aveva di sicuro un'allucinazione. Oppure quell'idiota voleva ricambiare il saluto che lei gli aveva fatto quando era partito per Pittsburg. All'ultimo momento, naturalmente.

"Kaaaaren!".

Aprì il finestrino e lo vide che correva come un matto, chiamandola come se ne andasse della sua vita. Il cuore le fece un balzo, ma cercò di mantenere la calma.

Un saluto, è solo un saluto.

"Sono qui, Romeo", lo apostrofò con una risatina. "Smettila di urlare, stai di nuovo attirando l'attenzione di tutti".

Lui la raggiunse e le prese le mani: "Karen, ti prego, non te ne andare", ansimò, senza fiato.

"Di' un po', sei venuto a piedi?", gli chiese ignorando la sua richiesta. Aveva smesso con le illusioni, no?

Terence scosse la testa: "Quel... dannato taxi... ha bucato una ruota a metà strada... quando sono arrivato... mi hanno detto che il treno era in ritardo, per... fortuna". Deglutì, cercando di normalizzare il respiro ma senza lasciarle le mani, che stringeva forte.

"Terence, se hai fatto tutta questa strada per me...".

"Sì! Non posso lasciare che tu te ne vada così, devo parlarti, devo dirti...". Il fischio del treno lo interruppe e lui imprecò tra i denti.

"Grazie per essere venuto a salutarmi, sono felice che il film sia andato bene. Ora lasciami, ti prego, il treno sta per partire", lo supplicò. Non voleva soffrire ancora per lui. Non voleva averlo vicino e perdersi nei suoi occhi, desiderare la sua bocca e quelle mani...

"No, non ti lascerò mai più!", ringhiò. E quelle mani scesero poco al di sopra della vita, afferrandola con forza mentre il motore del treno rombava intorno a loro e il capostazione gridava qualcosa. Terence la tirò via e lei, d'istinto, gli si aggrappò al collo per non cadere ed ebbe persino l'impulso di spingersi in avanti sporgendosi di più.
Se il treno fosse partito, sarebbero finiti entrambi sotto ai binari in quella posa pericolosa e assurda.

Incredibilmente, lui fu così veloce che i piedi si staccarono dal pavimento del treno e ricaddero a terra nel giro di pochissimi, pazzeschi istanti. Karen si girò per vedere il finestrino aperto, dal quale lei si era sporta poco prima, solo per accertarsi che non stesse sognando.

Ora mi bacerà senza spiegarsi e io avrò perso il treno...

Invece, nonostante il suo volto fosse così vicino che avvertiva il suo respiro sulle labbra, Terence si limitò a fissarla con intensità.

"Perché, Terence, perché hai fatto una cosa tanto stupida?", domandò di nuovo sull'orlo delle lacrime.

"Lo stupido sono io, a non avertelo detto prima. Ti amo, Karen Kleiss, ti amo come non ho mai amato nessuna donna nella mia miserabile vita".

Era strano che, mentre il mondo si fermava insieme al suo respiro, il cuore invece sembrasse voler fuggire dal torace e il treno si muovesse alle loro spalle.

Boccheggiò e a Terry dovette sembrare molto simile a un pesce. Molto romantico, davvero. "Cosa hai detto?", pigolò con una vocina che non riconobbe come propria.

"Che ti amo", ripeté lui con l'espressione più seria e intensa che gli avesse mai visto in viso, "e voglio stare con te tutta la vita".

Tutti i suoi buoni propositi divennero foglie al vento. Terence le aveva detto quello che desiderava sentirsi dire, senza mezzi termini, con sincerità cristallina e lei pensava che sarebbe scoppiata dalla gioia. Gli sorrise, con le lacrime che ormai le scendevano sul viso: "Oh, Terence... dici sul serio?", domandò incredula, le mani ancora allacciate al suo collo, quelle di lui che erano scivolate dietro la schiena dopo averla strappata letteralmente via dal finestrino.

"Non sono mai stato più serio in tutta la mia vita. Perdonami se ti ho fatto aspettare tanto, sono stato un vigliacco", rispose con voce vibrante, prima di asciugarle le lacrime con i pollici.

"Mi hai... sempre detto che ero bella e pensavo che...".

"Oh, sì che lo sei. Ma non è solo questo. Amo tutto di te. La tua forza, la tua sincerità, questo sole che splende nella tua anima e ti rende così unica, così... mia...". Le sfiorò il naso col proprio, carezzandolo con la punta e Karen chiuse gli occhi, commossa, attendendo il suo bacio.

Quando capì che non lo avrebbe fatto, li riaprì e lo fissò: "Perché non mi baci?", gli chiese sospettando la risposta.

"Perché ho paura che tu mi prenda a schiaffi e mi spezzi il cuore. Dopo tutto quello che ti ho fatto...".

Infatti...

C'era solo una cosa da fare, tappargli la bocca con la propria prendendo l'iniziativa. E lo fece, tra i fischi delle persone intorno a loro, le urla del capostazione che parlava di gesti pericolosi e polizia e lo sferragliare del treno che si allontanava.

"Anche io ti amo, sciocco", bisbigliò quando si staccò per riprendere fiato.

"Karen, amore mio...". Le prese il volto tra le mani e reclamò ancora la sua bocca, chiedendole di aprirla con il tocco della lingua, deliziandola e accendendola di desiderio...

L'incanto fu interrotto da un pensiero improvviso e Karen si irrigidì, facendo allontanare Terry per guardarla: "Che succede?", domandò ansimando come se avesse corso di nuovo.

"La valigia! Ho lasciato la valigia sul treno!", esclamò gesticolando verso il mezzo che era diventato un puntino fumante all'orizzonte.

Terence scoppiò a ridere e Karen batté un piede a terra: "Non è divertente! Avevo tutto nella borsa... soldi, vestiti, biancheria...", si morse il labbro, rendendosi costo di quello che aveva appena detto.

Lui smise di sghignazzare e le si avvicinò guardandola con intensità tale che le tremarono le gambe: "Non ti servirà nulla di tutto ciò, a casa mia".

E, così dicendo, la prese sottobraccio e la scortò fuori dalla stazione.

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Capitolo 60
*** Tempesta ***


Remember, I will still be here
As long as you hold me, in your memory
Remember, when your dreams have ended
Time can be transcended
Just remember me I am the one star that keeps burning, so brightly,
It is the last light, to fade into the rising sun
I’m with you
Whenever you tell, my story
For I am all I’ve done
Remember, I will still be here
As long as you hold me, in your memory
Remember me I am that warm voice in the cold wind, that whispers
And if you listen, you’ll hear me call across the sky
As long as I still can reach out, and touch you
Then I will never die
Remember, I’ll never leave you
If you will only
Remember me Remember me…
Remember, I will still be here
As long as you hold me In your memory
Remember, when your dreams have ended
Time can be transcended
I live forever
Remember me Remember me Remember… me…

Josh Groban - Remember Me

 

(Ricorda, sarò ancora qui
Finché mi tieni, nella tua memoria
Ricorda, quando i tuoi sogni sono finiti
Il tempo può essere trasceso
Ricordati solo di me sono l'unica stella che continua a bruciare, così brillante,
È l'ultima luce, a svanire nel Sol Levante
Sono con te
Ogni volta che parli, La mia storia
Perché io sono tutto quello che ho fatto
Ricorda, sarò ancora qui
Finché mi tieni, nella tua memoria
Ricordati di me sono quella voce calda nel vento freddo, che sussurra
E se ascolti, mi sentirai chiamare attraverso il cielo
Finché potrò ancora raggiungerti e toccarti.
Allora non morirò mai
Ricorda, non ti lascerò mai
Se solo lo vuoi
Ricordati di me ricordati di me…
Ricorda, sarò ancora qui
Finché mi tieni nella tua memoria
Ricorda, quando i tuoi sogni sono finiti
Il tempo può essere trasceso
Io vivo per sempre
Ricordati di me ricordati di me ricorda ... di me…)

Per ascoltarla su Youtube inserite la stringa: watch?v=cph3FT0cUek

 
 
Attenzione, in questo capitolo è presente una scena rating T/M con contenuti abbastanza espliciti.

Tempesta

Albert fissava Candy passeggiare per il cortile godendosi il sole estivo da dietro un vetro. Ormai gli sembrava di vederla sempre come se stesse dietro a una vetrata, anche se erano a pochi passi di distanza dentro casa. Lo stesso calore della sua esistenza era qualcosa che avvertiva appena, come se tutto il meglio della vita gli fosse precluso.
D'altronde, era sempre stato così.

Certo, aveva avuto la sua libertà e aveva viaggiato, fuggendo o delegando le proprie responsabilità per anni, ma la più grande felicità, ora lo capiva, non era in Africa, nella soddisfazione altruista di aiutare il prossimo; non era nel brivido di decidere, dall'oggi al domani, dove andarsene senza freni; non era nel concludere un affare con successo e riprendersi con orgoglio il posto che gli spettava nella società e nel clan.

No, la felicità per lui era stata incontrare Candy e offrirle una spalla su cui piangere quando era morto Anthony; era stata nel rivederla a Londra e invitarla ad andarlo a trovare allo zoo. Ma, soprattutto, era stata nel vivere con lei per due anni e innamorarsene di nuovo, anche se spesso faticavano ad arrivare alla fine del mese.

Era stato felice quando, dopo averle donato la Casa di Pony, era stato costretto a viaggiare ma avevano mantenuto una fitta corrispondenza e si erano rivisti occasionalmente; ed era stato felice quando, alfine, aveva deciso di rivelarle i suoi sentimenti.

Aveva accarezzato la gioia elettrizzante di essere il suo fidanzato, in attesa di annunciarlo i via ufficiale a tutti, sviluppando con lei una nuova complicità che gli faceva solo pregustare quello che sarebbe arrivato dopo.

I baci, gli abbracci, le risate condivisi erano stati un sogno bellissimo dal quale era stato costretto a risvegliarsi bruscamente.

Albert mise una mano su quel vetro, sentendo il calore sul palmo mentre la vedeva senza poterla, né volerla raggiungere. Ricordò che una scena simile l'aveva vissuta tempo prima, il giorno in cui le aveva rivelato la sua identità di zio William: allora, lei stava tornando alla Casa di Pony con il sorriso sulle labbra e le illusioni erano ancore vive nel proprio cuore.

E ripensò a quanto fosse stato vicino a concludere quella vacanza solo per averle raccontato del periodo in cui aveva perso la memoria. Era stato solo grazie ad Adrian, che li aveva raggiunti in tutta fretta, che Candy si era convinta a rimanere.

Ma, quel poco che era riuscito a guadagnarsi da lei il giorno in cui gli aveva confessato di non odiarlo, ora sembrava essere svanito. Certo, non parlava più di odio, né lo evitava volutamente, ma aveva indossato una maschera di fredda indifferenza e cortesia che, se possibile, gli faceva ancora più male.

L'odio può mutare in amore. L'indifferenza uccide i sentimenti. Questa era la sua convinzione, forse errata, ma troppo vicina alla realtà per ignorarla.

Aprì la porta finestra, facendo qualche passo nel giardino. Candy stava accarezzando le rose come tracciandone i diversi colori con le dita: non erano mai state così belle, così dolorosamente simili alle tinte accese e appassionate dell'amore.

Albert prese un respiro profondo, allargando le braccia per accogliere i raggi del sole su di sé. Faceva caldo, ma lui aveva issato una lastra di ghiaccio intorno al suo cuore o, almeno, ci stava provando come un disperato.

Ricordò la conversazione con lo psichiatra.

"Perché restare qui, Adrian? Lei ormai ha deciso che non vuole ricordarsi di me, dopo quello che ha saputo", domandò al medico rimanendo con la schiena appoggiata alla porta dello studio. Non volevano che Candy li sentisse, ora che sembrava più tranquilla.

"Perché lei decide fino a un certo punto, Albert. Certo, può rifiutare l'idea di recuperare la memoria al punto da bloccarsi davvero, ma la mente umana non è una scienza esatta. Sospetto, anzi, che la rabbia che prova ora le renda ancora più difficile andarsene via, perché la lega in maniera più indissolubile a te", rispose enigmatico.

Lui aggrottò le sopracciglia: "Ma se è furiosa, come fa a...".

"Vuol dire che ci tiene", replicò asciutto, alzando le spalle come fosse ovvio, "e quindi si arrabbia. I suoi sentimenti verso di te sono molto forti e l'ha capito quel famoso pomeriggio. Il fatto che provi delusione nello scoprire eventi del suo passato vuol dire che si tratta di qualcosa d'importante".

"Anche quando le ho raccontato di Terence ha pianto, dimostrando di tenerci", gli fece notare andandosi a sedere.

"Non posso sapere con certezza a chi di voi tenga di più, Albert, o a se si sia affezionata a Annie o ad altri. Ma una cosa la so: amore e rabbia sono facce della stessa moneta. Se una cosa la lascia indifferente vuol dire che non le interessa. Credo sia così un po' per tutti, no?".

Il giorno dopo, Carter se n'era andato e Candy aveva cominciato a provare o a simulare proprio l'indifferenza. E lui, per autodifesa, aveva iniziato a fare lo stesso. Forse era un idiota infantile o forse era stato molto furbo, fatto sta che era difficile capire chi dei due stesse davvero fingendo.

Spiegarle era stato inutile. Supplicarla sembrava indisporla. Baciarla era stato come fare un viaggio vertiginoso su una montagna russa con destinazione finale l'Inferno. Non gli restava che emularla e parlarle con calma quando lei lo tollerava.

Albert era stato allenato per tutta la vita a nascondere i propri sentimenti e ora, dopo tanto tempo, ci stava riuscendo di nuovo. Al momento, la sua facciata sembrava reggere bene, ma non sapeva per quanto tempo avrebbe resistito senza incrinarsi prima ed esplodere in mille pezzi poi.

Alle volte si sentiva come una bomba ad orologeria.

Vedendola lì, così bella e serena nel suo abito estivo del colore stesso dei suoi occhi, capì che il tentativo di estirparsela a forza dal cuore sarebbe sempre fallito miseramente finché le fosse stato accanto.

Gli parve assurdo, ma una parte di sé non vedeva l'ora che tutto si compisse, così avrebbe potuto tentare di lasciarsela alle spalle, provare a dirle davvero addio. Aveva ancora degli assi nella manica e se li sarebbe giocati a breve sperando, ma senza troppe illusioni, che funzionassero.

Voleva solo che lei fosse pronta a dargli un po' di fiducia.

"Pare che sia prevista una tempesta tropicale nelle prossime ore, potremmo esserne sfiorati", disse George alle sue spalle.

Albert si voltò: "Per favore, puoi dire al cuoco e al resto della servitù che possono andare via? Ho intenzione di lasciare Lakewood entro due o tre settimane al massimo, qui ce la possiamo cavare da soli".

L'espressione di George rimase composta, ma Albert capì che era rimasto colpito dalla sua richiesta da come le sue sopracciglia si erano inarcate e le mani, che stringevano il giornale aperto, si erano abbassate: "Pensa di terminare la vacanza su consiglio del dottor Carter?", chiese con una nota di allarme nella voce.

Lui chiuse gli occhi per un istante: "Adrian aveva parlato della fine dell'estate e, anche se manca ancora più di un mese, mi sembra che abbia poco senso continuare così. Non appena il tempo si rimetterà la porterò alla Casa di Pony e poi la lascerò andare".

L'uomo rimase in silenzio, fissandolo con intensità: "Ne è sicuro?", chiese dopo un po'. "Le ricordo che lei ha impiegato due anni per recuperare la memoria".

Albert diede infine voce ai suoi pensieri: "Quando ho cominciato questo percorso con Candy mi sono scioccamente illuso che raccontarle la verità fosse sufficiente a sbloccarle i ricordi, o almeno a convincerla che non fossero così negativi. Ma non avevo fatto i conti con la sua volontà, con le sue interpretazioni del passato e... con i suoi sentimenti. Mi è più che chiaro che lei non vuole ricordarsi di me e non posso certo costringerla. Ho fatto tutto quello che potevo tranne una cosa, ma ho aspettato... fino ad ora".

Si voltò ancora verso di lei, cercando di fissarsi nella mente e nell'anima l'immagine di Candy tra i fiori, perché era certo che gli sarebbe rimasta solo quella: "Credo di capire perché abbia atteso, signorino William", disse George a bassa voce.

Continuando a guardarla, Albert disse: "La amo immensamente, George, e ho rimandato perché la volevo vicino. Non ero ancora pronto a fare quest'ultima prova per vederla fallire e andare via da me. Ho fatto qualcosa di simile quando ho recuperato la memoria e non ho avuto il coraggio di allontanarmi subito".

Nonostante la freddezza che riusciva a mostrare a lei, Albert sentì un nodo stringersi alla gola e smise di parlare. Se fosse crollato ora, non avrebbe avuto il coraggio di andare avanti.

E doveva farlo.

"Un giorno, lei potrebbe tornare", mormorò George posandogli una mano sulla spalla, come confortandolo.

Albert deglutì forte per riuscire a rispondere, ma la voce gli uscì comunque incrinata: "Non so se potrò esserci, allora. Ora sono io che ho paura di innamorarmi di nuovo", concluse con un sorriso amaro.

"Ma lei l'ama ancora, giusto? E allora coraggio, la speranza è l'ultima a morire!". Albert si girò finalmente a guardarlo e lesse un lampo di fiducia vera nei suoi occhi. Aveva capito cosa volesse fare? Ci credeva davvero?

"Bene, vado a dare ordine al cuoco e agli altri di lasciare la villa quanto prima, così da permettere loro di fare rientro prima della tempesta. Vuole che vada anche io?", chiese chiudendo il giornale.

Albert ci pensò su. Dio solo sapeva se non aveva bisogno di una mano amica, ma se voleva fare le cose per bene doveva essere solo: "Sì, se non ti dispiace. Ti terrò aggiornato".

Lui s'inchinò un poco e rispose, guardandolo dritto negli occhi: "Ci conto".

I loro sguardi comunicarono come sempre e, come sempre, Albert seppe che lui sarebbe stato al suo fianco. Anche se avesse perso la donna che amava, non sarebbe certo rimasto solo al mondo.

Ma, allora, perché era esattamente così che si sentiva?
 
- § -
 
Terence fece scivolare la mano sinistra sulla spalla nuda della sua amante indugiando sul braccio morbidamente abbandonato in grembo e poi scendendo lungo il fianco destro con lentezza, fino a raggiungerne l'incavo.

Karen gli sorrise: "Mi fai il solletico", mormorò guardandolo con occhi luminosi.

Terence ricambiò il suo sorriso: "E così?", chiese avventurandosi dove nasceva la collina generosa della sua natica.

Lei, di rimando, emise un verso simile alle fusa di un gatto e lui continuò a torturarla, scendendo verso la coscia e tirandosi a sedere per arrivare alla gamba e alla caviglia.
"Così no...", disse lei alla fine, con un lungo sospiro soddisfatto.

Terence era seduto e si sosteneva con il braccio destro ma, in un gesto repentino, si posizionò con le gambe ai lati del corpo ancora sdraiato sul fianco di Karen. Lei fece per girarsi ma lui la bloccò: "No, resta così", la pregò.

Karen obbedì, chiudendo gli occhi, così si abbassò sfiorandole con una scia di baci la gamba, risalendo a ritroso dalla caviglia, rifacendo al contrario il percorso precedente senza fretta, fermandosi ancora sul fianco.

"Ti prego, smettila...", gemette lei con un tono che voleva intendere l'esatto contrario.

"*Mi vuoi dunque lasciare così mal soddisfatto?", citò lui col respiro un po' accelerato, il desiderio che stava di nuovo impossessandosi delle sue viscere nonostante l'avesse avuta solo pochi minuti prima.

"E qual soddisfazione potresti avere tu, stanotte?", ansimò la sua Giulietta mentre lui finalmente si appoggiava puntellandosi sui gomiti e usava una mano per catturarle un seno morbido.

"Lo scambio del voto fedele del tuo amore insieme al mio", riprese rauco, ricordando quante volte quella frase l'aveva ripetuta vestito di tutto punto sul palcoscenico e ritrovandosi ora a bearsi di quel contatto pelle a pelle.

"Ti ho già dato il mio prima ancora che fossi tu a chiederlo: eppure mi piacerebbe che il momento di dartelo non fosse già passato. Oh, Terry...", s'inarcò contro di lui, girandosi completamente e disattendendo la sua richiesta di poco prima, abbassando la mano per cercarlo.

"Vorresti forse riprendertelo? E perché amore mio?", nonostante l'eccitazione del momento, Terence le allontanò la mano, ridendo per la piega che quella tragedia aveva preso nel loro letto. "Stiamo trasformando Romeo e Giulietta in una commedia erotica, amor mio".

"Solo per poter essere prodiga, e dartelo di nuovo. Eppure altro non desidero se non ciò che già possiedo", ribatté lei con tono urgente, allacciandogli le gambe sui fianchi per tirarlo più vicino a sé. "Proporremo a Robert di cambiare qualcosa, la prossima volta che andremo in scena", disse prendendogli il volto tra le mani per baciarlo.

Terence accettò la sua passione con un lamento di disappunto: "Hai rovinato il mio capolavoro, guastafeste", ringhiò entrando in lei senza più tergiversare.

Karen accolse la sua invasione con un gemito profondo che lo incendiò, lo consumò, lo portò alla follia.

Non era la prima volta che facevano l'amore per una giornata intera, ma era come se non ne avessero mai abbastanza. C'era molto tempo perduto da recuperare.
Tracciò con le mani le strade che conosceva a memoria con frenesia, tenerezza e follia, assaggiando il collo e la bocca e mordicchiando i capezzoli eretti per lui.

"Terence!". Quel grido e il capo rovesciato all'indietro gli indicarono che era il momento di darle di più e lui aumentò il ritmo lasciandosi sfuggire gemiti rochi di piacere, sentendola raggiungere il suo culmine nel momento in cui si abbassava per catturarle le labbra.

Mentre i suoni dell'estasi ancora vibravano nel loro bacio, lui raggiunse la propria in un grido breve, intenso, profondo. Spostò il capo sul lato del collo di lei per respirare, ansimando contro la pelle morbida.

"Ti ho già detto che ti amo, oggi?", boccheggiò nel suo orecchio.

"Me l'hai detto e me l'hai dimostrato", rispose Karen allo stesso modo.

Terence si accoccolò contro di lei, carezzandole i capelli, perdendosi nei suoi occhi, sentendosi finalmente vivo dopo tanta sofferenza.

"Karen, io...". L'insistente bussare alla porta li congelò sul posto.

"Aspettavi visite?", chiese Karen con una nota di panico.

"No", mormorò lui, "ma forse, se facciamo finta di...". Il suono aumentò.

"Dannazione!", imprecò lui afferrando un asciugamano e legandoselo alla vita come meglio poté. "Arrivo, arrivo!", gridò.

Karen si coprì con il lenzuolo e si tirò a sedere: "Terry! Mica vorrai andare ad aprire così!", esclamò senza riuscire a trattenere una risata.

"Pensi che chiunque sia mi dia il tempo di farmi una doccia e rivestirmi?", ribatté lui indicando l'ingresso col pollice e allargando le braccia.

Con passi rabbiosi, si diresse verso la maledetta porta e l'aprì. Sbiancò quando si trovò davanti sua madre che, nel vederlo praticamente nudo come l'aveva partorito, spalancò la bocca.

"Ma... mamma, è che... stavo per fare la doccia e...". Terence si sentì come un ragazzo colto in flagrante, il che gli parve assurdo e comico allo stesso tempo.

Eleanor alzò una mano, liquidandolo quando si scostò per farla entrare: "Non voglio interrompervi, Terry, sono solo venuta a salutarti di presenza visto che il telefono è staccato da ore".

Scoccò un'occhiata all'apparecchio e rifletté che, forse, era ora di rimettere la cornetta al suo posto e uscire da quel letto. E se fosse venuto in mente a qualcun altro di presentarsi alla sua porta?

"Mi... mi dispiace", fu l'unica risposta che gli uscì dalle labbra. La verità era che si vergognava come un ladro di farsi vedere così da sua madre.

"Oh, non dispiacerti, ma cercate di... fare attenzione. I figli sono meravigliosi, ma sempre nell'ambito del matrimonio. Pianificate la vostra vita, per quanto potete, secondo le priorità, che siano esse lavorative o di coppia", disse con un sorriso.

"Mamma...", quello stupito ora era lui. Non credeva che sua madre sarebbe stata così comprensiva e... moderna, ma d'altronde non era lei quella ad aver avuto un figlio senza neanche essere sposata?

"Sono venuta a salutarti... beh, ovviamente salutami anche Karen a questo punto", ridacchiò. "Parto per una tournée domani mattina presto e non tornerò prima di tre mesi. So di lasciarti in buone mani".

"Eleanor, aspetti!". Terence si raggelò nell'udire la voce di Karen ma, quando si voltò, la vide vestita di tutto punto. Lei sì che era stata più furba di lui...

"Oh, tesoro, ben trovata, come stai?", disse sua madre senza varcare la soglia ma allungandole una mano. Terence si fece da parte, cercando di calcolare se avrebbe fatto in tempo anche lui a mettersi qualcosa di decente addosso, ma rinunciando quando capì che Eleanor non si sarebbe trattenuta a lungo.

Lei gliela strinse con fervore: "Non so ancora come ringraziarla per avermi invitata quel giorno, se non fosse stato per lei...".

La donna scosse la testa: "Oh, no, ti prego, non devi ringraziarmi. E, soprattutto, non farmi commuovere perché devo correre a una conferenza stampa e ho appena rifatto il trucco. Ci rivedremo al mio ritorno e Terence sarà vestito, d'accordo?", suggerì ridendo.

"Questo è poco ma sicuro", borbottò lui sentendosi avvampare e scompigliandosi i capelli, a disagio.

"Bene", fece sua madre battendo le mani, "vi lascio alle vostre... occupazioni, ci sentiamo per telefono!".

Eleanor chiuse la porta dietro di sé e Terence corse per raggiungerla: "Mamma, aspetta!". Inciampò in qualcosa e per poco non cadde. La risata convulsa di Karen gli indicò che era l'asciugamano.

"Non credo sia il caso di salutarla così, Terry", suggerì lei raggiungendolo e porgendogli ciò che gli era caduto.

"Accidenti, che vergogna! Non credo che andrò mai più ad aprire una porta in vita mia", commentò allungando un braccio per riprendersi l'asciugamano.

Karen ritirò la mano, impedendoglielo: "Così impari a darmi retta. Sarebbe bastato chiedere chi era e domandarle di aspettare che ti vestissi".

Terry si accigliò, protendendosi per riavere il maltolto: "Sì, hai ragione. Ora me lo ridai? Sono nudo come un verme".

"No", disse lei facendogli la linguaccia e correndo via: "Dovrai venire a prendertelo!", esclamò scappando come una ragazzina dispettosa.

"Ma brutta...!". Terence la inseguì e saltò all'ultimo istante per evitare una sedia che aveva rovesciato per rendergli più difficile il gioco.

Arrivati in camera da letto, lei gli sventolò davanti l'asciugamano come se fosse un torero e lui il toro: "Molto divertente, Karen Kleiss, dovrei incornarti, ora?".

"Bene, provaci!", lo stuzzicò lei continuando a sfuggirgli.

E, mentre fingeva di non riuscirci ma alla fine la placcava bloccandola sul letto, riempiendole il viso di baci e provvedendo a toglierle di nuovo il vestito, Terence capì che non avrebbe mai più potuto fare a meno di lei.

Forse era ora di chiederle di sposarlo.
 
- § -
 
Le finestre gemevano come se il vento volesse spezzarle e il pomeriggio era mutato in notte nel giro di poche ore. E non era ancora ora di cena.

Erano soli in casa e questo la sconvolgeva. Candy continuò a non capire come Albert avesse potuto fare una cosa simile, facendola sentire così... così...

Vulnerabile, persa, intrappolata...

Chiudendosi la porta della propria stanza alle spalle, decise di andarlo a cercare per affrontarlo e cominciò dallo studio. Mentre vi si dirigeva a passo deciso, Candy si disse che gli avrebbe chiesto di tornare a Chicago non appena fosse passata la tempesta, così che lei potesse decidere del proprio futuro.

Ne aveva abbastanza di tutta quella storia e, anche se Carter l'aveva convinta a restare, il panico non l'aveva mai abbandonata.

Lo studio era deserto e Candy sospirò, frustrata. Una folata di vento fece spalancare la porta finestra facendo volare un giornale e alcuni fogli e lei si affrettò a richiuderla lottando per un po' contro la forza del vento.

Ci mancava solo la tempesta tropicale!

Sbuffando, Candy fece per uscire da quella stanza per cercarlo altrove, quando un piede s'impigliò nel giornale. Lo raccolse con stizza e lanciò un'occhiata alla pagina che, con incredibile fatalità, le stava restituendo la foto di Terence Graham, l'attore che aveva amato.

La fitta alla testa arrivò, forte e chiara, e lei gridò, lasciando cadere il quotidiano. Rimase così, con le mani sulle tempie, respirando con affanno nel tentativo di riprendersi e di dominare quel vago senso di nausea.

Quando si sentì meglio, lo raccolse di nuovo con le mani e le gambe che le tremavano e dovette sedersi per leggere.

Terence Graham e la sua fidanzata Karen Kleiss erano le due stelle della celebre compagnia Stradford.

"Terence è rimasto con Susanna finché non è morta. Ha mantenuto la sua promessa e anche la sua carriera è tornata ad essere brillante".

"E dopo, Albert, che è successo? Non mi ha più cercata?".

"So che ti ha scritto. E qualche tempo dopo sei andata da lui a New York per dirgli addio...".

"Non hai perso tempo, vero?", disse con rabbia, stringendo la carta tra le mani contratte, cercando di immaginare quel bel volto rivolgersi a lei chiamandola Tarzan Tuttelentiggini.

Quando Albert le aveva raccontato del periodo in cui avevano condiviso l'appartamento, aveva fatto cenno alla sua sofferenza per Terry e a come, per evitarle ulteriore dolore, avesse cercato di nascondere tutti i giornali che parlavano di lui in quel periodo.

Furiosa e con la pagina ancora stretta in mano, Candy continuò a cercarlo nelle altre stanze, tornando al primo piano per bussare alla sua e, infine, dirigendosi verso le cucine. Albert era lì, apparentemente intento a preparare qualcosa di molto elaborato.

Sulla tavola c'erano taglieri con verdure affettate, patate da pelare e qualcosa che doveva essere arrosto con delle erbette adagiate sul vassoio: sembrava pronto per essere infornato. Albert canticchiava ai fornelli girando il mestolo in una pentola e, a vederlo così, se non fosse stata tanto tesa sarebbe scoppiata a ridere. Aveva persino il grembiule, neanche fosse una massaia!

"Non ti togli quel vizio di nascondermi i giornali, vero?", esordì facendolo voltare in un sussulto.

"Candy, mi hai spaventato!", esclamò girandosi ad abbassare il fuoco prima di coprire la pentola con un coperchio e avanzando verso di lei.

Cercò di concentrarsi sulla propria rabbia e non su quel ridicolo grembiulino rosa con i volant: "Cos'è, pensavi che sarei rimasta sconvolta? Beh, avevi ragione. Lo sono", disse sventolando la pagina.

Albert la prese e la guardò, accigliandosi: "Dove l'hai trovata?".

"Nel tuo studio!", quasi gridò.

Lui la guardò con stupore che le parve quasi sincero: "Candy, non sapevo ci fosse questa notizia in quel giornale! Lo ha comprato George perché parlava della tempesta che sta arrivando e deve averlo lasciato lì".

"Vuoi dire che non ne sapevi nulla?", domandò dubbiosa, mentre lui si avvicinava al tavolo per cercare qualcosa.

"Certo che no, Candy. Ma dove diavolo ho messo quel coltello?".

Candy sospirò, guardò la foto per un attimo e riabbassò la mano: "È proprio un bel ragazzo e anche lei è bella. Sai se la conoscevo?", domandò. Qualcosa di doloroso le si stava aprendo al centro del petto.

La mascella di Albert si contrasse e, per un attimo, lo vide irrigidire le braccia mentre finalmente trovava ciò che cercava: "Non lo so, ma suppongo sia nella compagnia da parecchio, da come ne parlano".

Nella sua mente si affollarono mille pensieri e li espresse tutti ad alta voce, carezzando la foto con due dita: "Chissà quanto mi ha amata veramente, se ha sofferto dopo che l'ho lasciato e... quante donne ha avuto e avrà. Sarò stata una delle tante?".

"Ahi!", l'esclamazione di dolore di Albert le fece alzare la testa di scatto. Aveva lasciato cadere il coltello con cui pelava le patate e si teneva un dito sanguinante con l'altra mano.

Senza riflettere, gli si avvicinò, afferrò uno straccio e lo avvolse intorno alla ferita, esercitando una leggera pressione: "Così fermeremo l'emorragia. Ora mettilo sotto l'acqua fredda", gli intimò spingendolo verso il lavandino della cucina.

Lui si limitò ad eseguire scoccandole occhiate curiose e perplesse: "Sei ancora un'ottima infermiera, a quanto vedo", disse mentre metteva il dito sotto al getto freddo con un lieve sussulto.

Candy sbatté le palpebre, scosse la testa confusa e disse solo: "Credo siano nozioni alla portata di tutti, non pensi?". In realtà non ne era sicura. Le vennero in mente disinfettanti e suture e si chiese se ne avessero in casa. Perché, comunque, si stava preoccupando tanto per un taglietto?

"Il sangue si è quasi fermato", dichiarò Albert chiudendo l'acqua e avvolgendo il dito in uno straccio pulito. La stava guardando con un'intensità tale che temette potesse leggerle dentro: un minuto prima stava ripensando a Terence, ora voleva solo cercare una benda e strappare quel giornale.

"Dove sono le bende?", domandò distogliendo lo sguardo.

Continuò a sentire il suo addosso che sembrava bruciarle la pelle, quando rispose: "Nel bagno del piano terra, sai dov'è?".

Lei annuì e uscì da quella cucina accompagnata dal gemito costante del vento e dal picchiettare delle prime gocce di pioggia sulle finestre dei corridoi. Se il rumore non fosse stato molto più forte e la tempesta più violenta, avrebbe detto di essere tornata nella sala della musica di Chicago, quando aveva capito...

Cosa, cosa ho capito? Che non odio Albert è che mi è tutt'altro che indifferente? Che sono terrorizzata dai miei ricordi perché temo di dover sostenere sentimenti più grandi di me che mi potrebbero deludere a morte?

Anche lui avrebbe potuto lasciarla o, peggio, avrebbero potuto impedire loro di stare insieme, visto che quella arcigna prozia non la poteva sopportare.

Cercò nell'armadietto dei medicinali facendo quasi cadere tutto, tanto le tremavano le mani. Alla fine afferrò una benda e del disinfettante e ritornò in cucina, dove Albert stava cercando di continuare il suo lavoro con le patate nonostante lo straccio voluminoso.

"Vieni qui", gli disse con il tono più freddo che le riuscì.

Lui obbedì e Candy continuò a ripetersi che era una semplice ferita, anche se discretamente profonda, quella su cui stava posando il cotone imbevuto di alcool; che era solo il dito indice di Albert e non la mano che l'aveva stretta mentre la baciava come se la sua vita dipendesse da lei, quello che stava fasciando con gesti che le sembravano così naturali e familiari.

Sei ancora un'ottima infermiera.

"Fatto", disse facendo l'errore di alzare gli occhi su di lui.

E, diamine, i loro sguardi rimasero incatenati troppo a lungo

Terence chi...?!

e Albert si stava impercettibilmente avvicinando troppo a lei

Sono una donna come le altre, uomini come loro possono averne a decine ai loro piedi. Soprattutto lui che è così...

e il rumore dell'acqua che bolliva era troppo forte, ma fu solo quando il coperchio cadde che l'incanto si spezzò.

"Accidenti!", esclamò lui precipitandosi a spegnere il fuoco.

Intenzionata a fare qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse pensare, Candy si mise a cercare un altro grembiule e, non trovandolo, gli chiese: "C'è solo quel ridicolo coso rosa che hai addosso tu o in questa cucina esistono altri grembiuli? Voglio aiutarti".

Albert la squadrò con espressione divertita: "Questo ridicolo coso rosa, come lo chiami tu, somiglia molto a quello che avevo a casa nostra quando vivevamo insieme. E per rispondere alla tua seconda domanda sì, ci dovrebbero essere altri grembiuli in quel cassetto, ma ti ricordo che sei sempre stata una pessima cuoca".

Candy s'infuriò davvero: "Quindi pensi che io non sia in grado di mettere questo arrosto in forno senza prendere fuoco?", chiese andando a prendere il vassoio.

Lui alzò un sopracciglio, con aria di sfida: "Devi solo aggiungere del sale, il forno è già acceso. Non dimenticare di coprirti le mani prima di metterlo a cuocere o potresti ustionarti".

"Lo so!", rimbeccò lei eseguendo quanto chiesto.

Mentre Albert ricominciava a canticchiare ai fornelli e lei si occupava dell'arrosto, si chiese se, in quella casa, avessero mai vissuto un'armonia simile e quanto sarebbe durata se lui non se ne fosse andato una volta recuperata la memoria.

Scacciò il pensiero con decisione, perché la testa aveva ripreso a farle male. E sembrava volerle scoppiare.
 
* citazioni da Romeo e Giulietta di Shakeaspeare

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Capitolo 61
*** Il sentiero per Oz ***


Ho capito che
Per quanto io fugga
Torno sempre a te

Che fai rumore qui
E non lo so se mi fa bene
Se il tuo rumore mi conviene
Ma fai rumore, sì
Ché non lo posso sopportare
Questo silenzio innaturale
Tra me e te

(Fai rumore - Diodato)
***
Che non si muore per amore
è una gran bella verità.
Perciò dolcissimo mio amore,
ecco quello, quello che da domani mi accadrà.
Io vivrò senza te,
anche se ancora non so
come io vivrò, senza te.
Io senza te.
Solo continuerò, e dormirò,
mi sveglierò, camminerò,
lavorerò, qualche cosa farò,
qualche cosa farò, sì, qualche cosa farò.
Qualche cosa di sicuro io farò.
Piangerò... sì, io piangerò.
E se ritorni nella mente
basta pensare che non ci sei
che sto soffrendo inutilmente,
perché so, io lo so, io so che non tornerai.
(Io vivrò senza te- Mogol-Battisti)

 
 
Il sentiero per Oz

Il cavallo bianco trottava mentre il suo occupante teneva le redini con mani ferme.

Candy vedeva solo le sue spalle, l'abito attillato da cavallerizzo e quei capelli biondo grano perfettamente tagliati corti.

Quando parlò, la sua voce le provocò un'ondata di nostalgia tale che sentì i brividi percorrerle l'intero corpo: "Voglio farti vedere una cosa, Candy".

Il tono era dolce, delicato, quello di un angelo.

Un angelo...

"Dove stiamo andando, Anthony?", si ritrovò a chiedere. Anche lei era a cavallo e vestiva con un completo da equitazione.

La giornata era piena di sole e il profumo dell'erba fresca le invadeva le narici.

Finalmente lui si voltò per guardarla e Candy sentì un misto di amore, stupore, disperazione. Il cuore pulsava a una velocità tale che ne avvertiva il tamburellare fino in gola e nelle orecchie.

"Vedrai", rispose facendole un sorriso che le fece salire le lacrime agli occhi.

Anthony, mio dolce Anthony...

Il cavallo fece uno scatto in avanti, si allontanò e Candy si stupì perché riusciva a stargli dietro nonostante non avvertisse accelerare il movimento del proprio.

Quando arrivarono nella radura, una sensazione di orrore cominciò a salirle come un fiotto acido nello stomaco, bruciandole la gola. Non poteva muoversi, non poteva gridare, poteva solo vedere.

Provò a chiudere gli occhi ma le palpebre rimanevano incollate sulle orbite, aperte come finestre, mostrandole l'inguardabile.

Anthony venne sbalzato giù dal cavallo, poi il suo corpo cambiò e divenne il proprio. Il grido, feroce e acuto, uscì dalle sue viscere senza che lei se ne accorgesse e, pochi istanti dopo, era a terra insieme a lui.

Il ragazzo era di nuovo nelle sue sembianze naturali e giaceva a faccia in giù, immobile. Candy gridò il suo nome, ma le rispose solo il silenzio.

Intorno a lei, il sole era scomparso e la pioggia la stava inzuppando.

Non era ancora finita.
 
- § -
 
Albert non riusciva a dormire e non era solo per la tempesta che la natura stava scatenando.

Ripensò alla cena che aveva preparato e mangiato con Candy e gli sembrò un bellissimo sogno che era terminato troppo presto. Stare con lei e condividere quei semplici gesti era stato quasi catartico: si sentiva come se avesse annaspato per mesi alla ricerca della cima e ora fosse finalmente sul punto più alto della montagna che gli era costata tanta fatica.

Fissando le fronde degli alberi fuori dalla finestra, piegate quasi in orizzontale, Albert strinse le coperte con le dita e cominciò a pensare a come sarebbe stato far innamorare quella Candy così... diversa nella quale albergavano vaghi echi dell'originale.

Perché li vedeva, oh, se li vedeva!

Avvertiva quegli echi nella sua dedizione nel medicare la ferita, nella sua ironia pur esasperata durante i loro battibecchi culinari e persino in quello sguardo incollato al proprio quando i loro occhi s'incrociavano.

Non aveva più dubbi: quella Candy poteva innamorarsi di lui. Forse non voleva, ma era sulla buona strada e lui ci sarebbe riuscito.

Si trattava sempre della stessa ragazzina che aveva incontrato su quella collina, salvato dalla cascata e adottato. Un giorno, se e quando la memoria fosse tornata, avrebbe riavuto anche la sua spensieratezza.

Ma ora...

Sono disposto ad accettarla così com'è, purché possa starle accanto.

Quella consapevolezza lo aveva accecato d'improvviso, come la folgore. Il dilemma era uno ed enorme: lei sarebbe stata altrettanto disposta ad accettare lui?

Cosa devo fare perché tu ti senta libera di amarmi, Candy?

Il rumore di una porta che sbatteva lo mise in allerta e Albert si ritrovò in piedi, fuori dal letto e dai propri pensieri, in un solo istante. C'era qualcosa di anomalo in quello che aveva sentito e, quando il boato si ripeté, Albert capì che si trattava della porta principale.

Uscì dalla stanza in pigiama, a piedi nudi, e mentre si dirigeva senza fiato verso le scale vide qualcosa che lo gelò: la camera di Candy aveva l'uscio spalancato.

Mormorò il suo nome, incredulo, cominciando a tremare. Senza pensarci due volte, entrò e accese la luce, solo per trovarla vuota: le coperte erano state gettate da un lato, quasi Candy si fosse alzata di fretta come aveva appena fatto lui.

Ansimando e passandosi le mani tra i capelli, fece una veloce ricerca negli armadi, poi guardò sul pavimento e scoprì, con orrore, che era uscita quasi sicuramente in camicia da notte e senza scarpe sotto la tempesta.

"Dio... oh, mio Dio, Candy! CANDY!", gridando come un invasato, maledicendosi per aver mandato via tutti, corse per le scale perdendo l'equilibrio sugli ultimi due scalini e cadendo a sedere. Si rialzò continuando a chiamare il suo nome verso la porta spalancata che sbatteva sotto l'ululato incessante del vento e solo quando fu nel giardino si rese conto del fango che gli arrivava alle caviglie.

Imprecando a denti stretti e tremando ancora più forte a causa della temperatura che era precipitata, Albert si costrinse a rientrare per vestirsi. Se fosse stato vittima dell'ipotermia rischiava di non poter salvare Candy, ovunque se ne fosse andata.

Di nuovo nella propria stanza, si strappò letteralmente il pigiama di dosso, infilò un maglione e un paio di pantaloni alla cieca e cercò, per qualche interminabile secondo, gli stivali, così inusuali in quella stagione. Completò l'abbigliamento improvvisato con una giacca dotata di cappuccio per ripararsi dalla pioggia e volò di nuovo fuori.
Se avesse saputo volare per davvero, sarebbe uscito direttamente dalla finestra, invece dovette sprecare secondi preziosi per scendere le scale un'altra volta.

In mezzo alla furia degli elementi, la pioggia che lo accecava, il vento che gli rendeva difficile persino respirare e il boato dei tuoni che lo assordava, valutò con frenesia se usare il cavallo.

La vita di Candy vale molto di più.

Sperando che l'animale fosse in grado di sopportare tutto ciò, corse verso le stalle e si avviò, al galoppo, in mezzo alla tempesta.

La chiamò, cambiando direzione più volte, avvertendo gli artigli del panico affondargli nel petto e nelle viscere, gridando quel nome amato fino a che la gola gli fece male e rimase quasi senza voce.

Potrebbe non essere uscita affatto e tu sei un idiota.

Allora perché la stanza era vuota e la porta aperta?

Hai guardato nelle altre stanze?

No, ma so che è qui fuori, da qualche parte, maledizione!

All'improvviso, un fulmine colpì un albero e Albert si rese conto del pericolo mortale che stavano correndo entrambi. Fisso, instupidito, l'albero poco distante prendere fuoco mentre cercava di calmare il cavallo che nitriva e s'impennava.

"Un piccolo sforzo, ti prego! Solo un ultimo sforzo!", gridò all'animale protendendosi su di lui per farsi sentire.

Tirando le redini viscide d'acqua, lo diresse dove sperava di trovare Candy. Non gli venne in mente altro e, in effetti, fu lì che la trovò.

In camicia da notte, fradicia. E a faccia in giù.

"CANDY!", come in un dejà-vu crudele, si precipitò verso di lei per sentirne il battito, pensando confuso che, con tutta quell'acqua, poteva persino essere affogata. Immaginò di doverla rianimare, invece la sentì respirare e tremare nonostante fosse svenuta e si tolse l'impermeabile con gesti frenetici, mettendoglielo sul tessuto leggero e ormai trasparente.

La caricò a cavallo di peso, tenendola stretta e avvolgendola il più possibile col proprio corpo, cercando di trasferirle quanto più calore possibile, sperando che la temperatura non prettamente invernale fosse sufficiente a non averla congelata.

Sbagliò strada un paio di volte prima di ritrovare l'ingresso e si ritrovò a dover schivare alberi caduti e rami: fu per una specie di miracolo che nessun elemento li colpì, con quel vento.

La mano di Dio, di Stair o di Anthony avevano protetto la loro corsa verso casa impedendo che succedesse qualcosa di peggio che essere fradici fin nelle ossa.

Con Candy in braccio, Albert si diresse nella prima stanza disponibile del piano terra e, battendo i denti per il freddo e la paura, la adagiò sul letto buttandole addosso tutte le coperte che trovò, strofinandogliele addosso e cercando di svegliarla. Meditò se usare del whisky da versarle sulle labbra quando lei aprì finalmente gli occhi: "Anthony", mormorò guardandolo come se non lo vedesse bene.

Albert riuscì solo ad abbracciarla, scoppiando a piangere per il sollievo senza poterselo impedire, stringendola a sé e ringraziando Dio.
 
- § -
 
Candy non aveva più freddo. Il bagno l'aveva rinfrancata e addosso aveva un pigiama di flanella con cui, a dire la verità, cominciava ad avere quasi caldo.

Nonostante la tempesta infuriasse ancora, la temperatura era risalita un poco, complici forse tutte quelle nuvole dense e l'estate nel pieno del suo splendore, almeno fino al giorno prima. In casa all'asciutto, di certo, si stava molto meglio che fuori sotto l'acqua.

Scese le scale per dirigersi in cucina e prendere un bicchiere di latte: mentre lo scaldava, la corrente saltò all'improvviso e lei rimase al buio.

"Ci mancava solo questa", mormorò. Un lampo accecante da dietro la finestra illuminò la cucina a giorno e lei poté almeno terminare l'operazione spegnendo il fuoco e cercando a tentoni una sedia.

Si stava chiedendo se ci fossero delle candele da qualche parte quando Albert le arrivò alle spalle tenendone una in mano in un piccolo porta candela: "Credevo fossi scappata di nuovo", disse con un tono che le indicò che, in realtà, era abbastanza sicuro del contrario.

Senza voltarsi a guardarlo, prese un sorso di latte e ribatté: "Non sono scappata. Credo di aver camminato nel sonno".

Il silenziò che le restituì fu abbastanza eloquente. Albert non se lo aspettava. Udì il rumore delle sue ciabatte mentre posava la candela sul tavolo e un altro tuono esplose intorno a loro: "Ho scaldato troppo latte, se ne vuoi. Pensi che le finestre reggeranno?", domandò voltandosi a guardarlo.

Il volto era contratto e segnato dalla preoccupazione e il senso di colpa s'impadronì di Candy. Vederlo così sconvolto a causa sua l'aveva scossa nel profondo, di nuovo.

"Se hanno retto fin'ora abbiamo buone probabilità. Ho controllato le imposte anche nelle altre stanze e, a parte la porta finestra dello studio che traballa un po', non credo ci saranno molti danni", spiegò alzandosi per prendere una tazza e versare il latte. "Almeno finché non ci cade un albero in casa", concluse dopo aver preso un sorso a sua volta.
I rumori della tempesta, per qualche minuto, furono gli unici che udirono e Candy s'impose di non voltarsi più a guardare Albert. Guardarlo le stringeva il cuore, le faceva venire voglia di abbracciarlo come aveva fatto lui quando l'aveva riportata a casa e non poteva permetterselo.

Il timore di soffrire era sempre più forte dei ricordi e dell'impulso di lasciarsi andare. Cosa avrebbe potuto offrirgli, comunque, se non l'illusione della donna che era stata un tempo? Non era più sicura di niente, se non della confusione che l'affliggeva.

Sapeva che lui voleva farle delle domande su ciò che era accaduto, ma ammirò il fatto che le lasciasse il tempo di parlare, in paziente attesa: "Ho sognato Anthony", confessò infine.

"L'ho immaginato quando mi hai chiamato con il suo nome", mormorò lui con voce roca.

"Stavolta nel mio sogno l'ho visto bene. Credo persino si trattasse del frammento di un ricordo... stava cadendo da cavallo ma vedevo cadere anche me stessa. Non so quando ho cominciato a camminare nel sonno, né perché sia arrivata fin nel bosco", confessò.

"Perché è lì che è successo", disse lui secco, facendola voltare di scatto per guardarlo.

La verità era che si era ritrovata nel letto, dove pensava di essere rimasta, completamente zuppa e con Albert che la stringeva piangendo e, se non le avesse raccontato ciò che aveva fatto, non lo avrebbe mai ricordato: "Nell'incubo... era giorno, ma poi diventava tutto buio e iniziava a piovere. La tempesta più forte dev'essere cominciata mentre mi trovavo lì", rifletté. Quando si era coricata, qualche ora prima, c'era vento ma non pioveva così tanto.

"Se io mi fossi addormentato e non avessi visto la porta della tua stanza aperta...". Abbassò il capo, portandosi la tazza alle labbra con mani tremanti e Candy capì che stava lottando contro le proprie emozioni.

Sentì un nodo stringersi in gola e tentò di stemperare quel momento razionalizzando l'accaduto: "Fino ad oggi non mi risulta di essere mai stata sonnambula. Credo che sia la prima volta, no?".

Albert annuì, tirando leggermente su col naso: "Sì, né Adrian né la tua infermiera mi hanno mai riportato episodi simili mentre eravamo a Chicago. Penso che ci siamo beccati il raffreddore", concluse pizzicandosi le narici con due dita.

Candy pensò che poteva anche essere vero, lei stessa aveva un leggero mal di gola: "Quindi ora mi chiuderai a chiave nella mia stanza?", domandò con tono ironico, finendo di bere.

Lui la fissò per lunghissimi istanti, la luce della candela tremolò e le finestre gemettero sotto la mano implacabile del vento. I tuoni e il rumore della pioggia erano un unico suono cacofonico e inquietante.

"No, Candy. Ti lascio libera".

Gli occhi le si spalancarono per lo stupore e non riuscì ad articolare alcuna risposta. Aveva capito che il tentativo voluto da Adrian sarebbe durato almeno fino alla fine dell'estate.

Albert si alzò, come se non potesse stare fermo a guardarla per un altro secondo e cominciò a camminare per la stanza tanto quanto la poca luce glielo permetteva: "Domani chiamerò Adrian al telefono, se non sono saltate le linee, e gli chiederò un consulto sul tuo episodio di sonnambulismo. Gli riferirò anche le mie intenzioni. Candy, vorrei fare un ultimo tentativo: ne abbiamo parlato spesso, si tratta della Casa di Pony, dove sei cresciuta".

"La Casa di Pony", mormorò socchiudendo gli occhi per cercare di ricordare come fosse fatta. Poteva solo immaginarla dai racconti di Annie e dello stesso Albert.

"Sì", continuò lui portando la propria tazza nel lavabo e cominciando a sciacquarla. "E vorrei anche portarti dal dottor Martin, ti ho parlato di lui, vero? Era una cosa che ho pensato di fare fin dall'inizio ma non c'è mai stata occasione".

Candy cercò di ricordarsi di quel medico: "È quello che gestisce la Clinica Felice dove lavoravo? Non è stato grazie a lui che hai recuperato la memoria?", chiese alzandosi e portando anche la sua tazza.

"Dai a me, faccio io. Sì, è proprio lui: è un tipo davvero in gamba ma devo dire che ho recuperato la memoria da solo, alla fine. L'altro giorno non mi hai fatto finire di spiegare. In realtà anche io ho avuto qualche riserva e forse è per questo che ci ho messo tanto tempo".

Candy si accigliò: "Che tipo di riserve avevi? C'era qualcosa che non volevi ricordarti?".

Albert finì di lavare le tazze e le appoggiò sul bancone ad asciugare. Alzò lo sguardo su di lei e, ancora una volta, Candy si sentì affogare in quegli occhi celesti: "Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe accaduto se mi fossi ricordato del mio passato e fossi stato costretto a separarmi da te. Ti ho detto che quando ho recuperato la memoria ho dovuto andarmene perché i vicini avevano cominciato a parlare... bene, in realtà ho omesso un altro particolare".

Candy sentì il dolore e la rabbia inumidirle gli occhi: "Un'altra bugia?", chiese, maledicendo la propria debolezza.

Lui poggiò le mani al bancone e chinò la testa: "Non ho avuto il coraggio di confessarti che avevo recuperato la memoria, perché non riuscivo a staccarmi da te. Così ho cominciato a lavorare tutto il giorno, col supporto di George, tornando a casa la sera. Il mio gioco non ha retto a lungo, hanno pensato... che avessi legami con dei malviventi perché andavo in giro ben vestito".

"E a me cosa raccontavi? Che lavoravi di nuovo in uno zoo?", domandò con tono alterato.

Albert le diede le spalle, come se fosse imbarazzato: "Sono stato uno stupido ma non ho potuto farne a meno. Avevo bisogno di te... ma non potevo mostrarti i miei veri sentimenti, non in quel momento. Non sapevi neanche che ero il tuo tutore".

Candy era stata furiosa con lui per le menzogne che le aveva raccontato, per le cose che le aveva tenuto nascoste. Ora veniva fuori che, quando era andato via, si ricordava già del suo passato da chissà quanto tempo ed era stato accanto a lei come William Albert Ardlay senza che se ne accorgesse.

Mentre camminava verso la finestra, affascinata dalla natura in rivolta, le venne in mente un libro che aveva letto quando era a Chicago, chiusa nella sua stanza, e parlò ad alta voce per cambiare argomento: "In quella tua biblioteca, a Chicago, ho trovato una specie di favola per bambini. Si intitolava 'Il mago di Oz'. All'inizio mi sembrava una storia stupida, ma poi devo dire che la trama mi ha intrigata e l'ho letta in pochi giorni: c'è questa ragazzina, Dorothy, che vola con tutta la sua casa fino in un mondo magico a causa di un tornado. Un tornado vero, non una tempesta come questa".

Mise una mano sul vetro sentendo la vibrazione della pioggia trasmettersi al palmo. I passi di Albert che si avvicinavano non le impedirono di continuare: "Purtroppo la strega buona che incontra sul suo cammino non può aiutarla a tornare a casa", proseguì, "ma le suggerisce di seguire il percorso di mattoni gialli per arrivare nella città incantata di Oz, dove il potente mago può aiutarla nel suo intento. Durante il percorso, incontra degli amici con cui deve affrontare dure prove prima che lui la riconduca finalmente da dove è venuta".

Le mani di Albert le si posarono sulle spalle e lei non lo scacciò. La rabbia e la delusione, il timore e la frustrazione non le impedirono di godere di quel tocco caldo e leggero: "E tu, Candy? Stavi forse seguendo il tuo percorso di mattoni gialli per cercare aiuto dove tutto è cominciato? Vorrei tanto essere io a ricondurti a casa, amore mio...".

Un singulto strozzato le uscì dalla gola. Perché l'aveva chiamata così? Sentiva il suo naso e le sue labbra tra i capelli, in una carezza leggera, il respiro caldo un po' affannato: "Albert, mi dispiace. Io... non riesco a ricordarmi di te", disse con voce rotta.

Lui si staccò all'improvviso: "Non riesci o non vuoi?", chiese ad alta voce. Si girò per guardarlo: ora era lui a essere arrabbiato. "Ti ho detto che ti lascerò libera se anche la visita alla Casa di Pony non funzionerà, ma non puoi continuare a evitare il tuo passato per sempre. Prima o poi ti raggiungerà!".

Lei chiuse gli occhi: "Lo so, me l'ha detto anche Adrian. Ma finché mi sentirò turbata e tu continuerai a raccontarmi bugie...".

"Non ti ho mai detto bugie per ferirti, Candy!". Ora stava urlando e la sua voce sovrastò il rombo dell'ennesimo tuono. "Si può mentire anche a fin di bene e sai una cosa? La verità non ti ha fatto certo meglio!".

Candy si portò le mani al petto, improvvisamente spaventata dalla sua furia: "Cosa vuoi dire?".

"Che a New York, quando sei andata da Terence, ti sei dovuta scontrare con la dura realtà delle cose e, nonostante vi amaste, avete deciso di rinunciare a tutto per il bene di Susanna Marlowe. In quel caso non c'è stata nessuna bugia, nessun sotterfugio, tutto è avvenuto alla luce del sole, in piena consapevolezza!". Allargò le braccia e si mise a rovistare nei cassetti, da dove tirò fuori altre candele.

"In quel caso è stato diverso. Susanna era lì e, se ricordo bene il tuo racconto, sono stata io a salvarla perché voleva suicidarsi. Non c'era modo per Terry di nascondermi la verità", rispose stringendo i pugni.

"Mi piacerebbe sapere se te ne ha parlato subito o se ha aspettato che salissi su quella terrazza per salvarla. Quando sei partita per raggiungerlo non ne sapevi nulla... ma non è questo il punto", continuò a voce più contenuta, usando la fiamma della candela accesa per le altre che aveva in mano. "Il punto è che, anche se ti ho nascosto la mia identità e ho omesso alcune cose della mia vita, non ti ho mai mentito".

"Omettere è la stessa cosa che mentire!", protestò Candy allontanandosi dalla finestra.

"Può darsi, ma non avevo scelta e comunque non ti ho mai nascosto la cosa più importante. Ossia, quanto tenessi a te. Ti sono sempre stato amico, ho cercato di sostenerti anche se eravamo distanti e quando sei fuggita da scuola mi sono precipitato a Chicago per ritrovarti... o, almeno, quello era il piano. A casa ci sono tornato, però sei stata tu a trovare me". I lineamenti, prima tesi per la rabbia, tornarono ad addolcirsi.

Candy girò la testa di lato, non voleva sentire altro. Ma lui non solo continuò, le pose anche le mani sulle spalle standole di fronte, questa volta: "Candy, io sono quello che ti ha fatto meno male di tutti. Accusami di quello che vuoi: della caccia alla volpe, di essere stato un egoista a girare per il mondo, di non aver messo al corrente della mia vera identità almeno te, di aver recuperato la memoria e avertelo tenuto nascosto e anche di essermene andato all'improvviso... Ma non accusarmi di non averti amata perché, anche se in modi diversi col passare del tempo, l'ho sempre fatto".

"Albert...". Si sentiva di nuovo inerme, di nuovo sul punto di precipitare da un burrone.

Lui la strinse a sé, le labbra che le sfioravano la fronte mentre parlava con urgenza febbrile: "Diamoci una possibilità, Candy, lascia che ti ami così come sei. La memoria tornerà oppure no. Non mi importa, non voglio vivere senza di te".

Cosa sarebbe successo se si fosse lasciata finalmente cadere? Sarebbe stata davvero felice o si sarebbe pentita?

"Avevi detto che mi avresti lasciata andare, dopo la Casa di Pony", fu l'unica cosa che riuscì a dire, arrendendosi al timore, rannicchiandosi di nuovo dentro il proprio vuoto mentale.

Le braccia si allentarono e il suo corpo protestò a quella perdita, ma non si mosse. Albert si allontanò per guardarla negli occhi, alzandole il viso con due dita: "È davvero questo, che vuoi? Che ti lasci andare?".

"Sì", disse senza titubare. "Voglio trovare la mia strada da sola. Allontanarmi da tutto e da tutti. Forse, solo così troverò il coraggio di ricordare, un giorno. Starti vicino... mi rende debole, mi fa fare solo passi indietro", confessò.

Il volto di Albert divenne di pietra, mentre faceva a sua volta un altro passo indietro. E poi un altro. "Ti chiedo scusa, Candy. Mi sono lasciato trasportare come uno stupido e non sono stato coerente. Non credo di esserlo più da un po'...", disse come parlando a se stesso, passandosi una mano tra i capelli.

"Io...".

"Prendi una candela e vai a dormire: è molto tardi", disse afferrandone una e camminando fino all'uscita. "Buonanotte", fu l'ultima parola che uscì dalle sue labbra. Quelle stesse labbra che, poco prima, le bruciavano sulla pelle della fronte.

Poteva benissimo essere attrazione fisica, si disse, o un affetto dettato dalle cure che le prodigava. Tante volte Candy aveva cercato di analizzare il proprio cuore tentando di rinnegare quel sentimento che cresceva ogni giorno di più. E più cresceva, più lei si ritrovava a scappare man mano che scopriva dai suoi racconti eventi che la disturbavano.
Sentiva che tutta la sua vita era stata una menzogna.

I suoi genitori l'avevano rifiutata e chi l'aveva cresciuta non l'aveva generata. Il suo primo amore di bambina era sparito per anni per poi diventare suo amico spacciandosi per un vagabondo; gli altri che aveva amato li aveva persi e persino quella che doveva essere una sorella per lei era stata così egoista da rinnegarla pur di fare bella figura in società.

Albert era stato davvero quello che le aveva fatto meno male di tutti? E allora perché rappresentava il desiderio e il dolore più grande al contempo? Avrebbe mai superato quella delusione?

Sì, decisamente allontanarsi per fare ordine nella sua testa l'avrebbe aiutata. Candy prese la sua candela e cominciò a salire le scale, accompagnata dall'ululato del vento e dal ticchettio incessante della pioggia: si sentiva sfinita ed era stata davvero fortunata che non le fosse caduto un ramo addosso o peggio.

Albert mi ha salvato la vita, come fece alla cascata.

Quel pensiero la fece bloccare con la mano sulla porta della sua stanza.

Mi ama, ma non sono pronta a ricambiarlo, anche se mi salvasse la vita altre mille volte.

Infilandosi sotto le coperte, avvolta dal torpore fisico e mentale, Candy si addormentò con l'immagine del viso di Albert vicino al suo. I suoi occhi chiari e luminosi pieni d'amore. Il suo sorriso dolce e sincero. La sua voce calda che la chiamava per nome con tenerezza.

Nel sonno, ricambiò il suo abbraccio respirando il suo profumo speziato e maschile ma, dopo qualche istante, il vuoto la inghiottiva e lei spalancava la bocca in un urlo muto.

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Capitolo 62
*** L'ultima spiaggia ***


L'ultima spiaggia

"Il fatto che forse si sia innamorata di te non preclude che possa rifiutare l'idea fino al punto da fare del male persino a se stessa, pur di non ammetterlo", disse Carter al telefono confermando i suoi sospetti.

Albert sedette pesantemente sulla poltrona, strofinandosi gli occhi con due dita. Non era stata la leggera influenza che aveva afflitto anche Candy a tenerlo sveglio di notte, ma la consapevolezza che ormai i giorni insieme a lei erano contati: "Quindi sei d'accordo con me sul fatto che sia ora di fare un ultimo tentativo?", chiese a quel medico che ormai era diventato suo amico, tanto da essere passati a darsi del tu in modo automatico.

"Hai capito meglio di me, che non sono presente, che Candy è arrivata a un punto limite. Da qui in poi o accetta i ricordi, oppure li rigetta ed è quest'ultimo il suo desiderio. Non ha ancora raccolto coraggio sufficiente, nonostante i tuoi sforzi, a lasciar fluire la sua memoria. Sospetto, da quanto mi hai raccontato, che sia la stessa cosa che è accaduta a te quando temevi di doverti separare da lei, come infatti è successo, vero?".

"Sì, sono stato senza memoria per due anni. Ora so che la mia volontà ha avuto un grosso impatto sulla tempistica. Se solo potessi convincere Candy che con me sarebbe felice...". Chiuse gli occhi, poggiandosi allo schienale.

Il tono di Adrian divenne quasi triste: "Ci hai provato, Albert, ci hai provato al punto che lei ora sente persino qualcosa per te. Ma non basta e lo sai. La Casa di Pony potrebbe scatenare sentimenti diversi in lei, legati alla sua infanzia ed è un tentativo che consiglio assolutamente. Ma dopo...".

Dopo... c'è ancora una cosa legata a noi che devo fare. La vera, ultima spiaggia.

"Va bene, è chiaro. Oggi sistemerò le ultime cose qui a Lakewood e partiremo in serata: ho avvisato già l'orfanotrofio che siamo in arrivo, di preparare i bambini". Sperava che nessuno di loro rimanesse traumatizzato nel vedere Candy così cambiata, in special modo Jimmy che era rimasto così sconvolto quando l'avevano creduta morta: lui, forse, era già abbastanza grande da sopportarlo.

Io continuo a non farlo, invece...

Salutò Adrian e riagganciò, voltandosi con tutta la poltrona per guardare fuori dalla porta finestra. Una volta, tanto tempo prima, una ragazza timida aveva bussato a quella stanza e parlato allo zio William, ringraziandolo di quello che aveva fatto per lei. Nel riconoscerlo come il suo amico di sempre aveva quasi perso i sensi per l'emozione e avevano passato una vacanza indimenticabile.

Quei giorni forse non torneranno più e questa, con tutta probabilità, è l'ultima volta che verrò a Lakewood. Ci sono troppi ricordi che mi legano a te, Candy.

S'impose di non farsi prendere dalla malinconia, di non darsi per vinto fino all'ultimo e si alzò dalla sedia raccogliendo il proprio coraggio. Doveva controllare che lei avesse preparato i bagagli, poi sarebbero partiti.
 
- § -
 
Annie lo vide seduto sulla riva del laghetto, che tirava nervosamente sassi sul pelo dell'acqua. Li faceva rimbalzare in una mano e poi li lanciava in orizzontale, con gesti precisi.

I suoi capelli lunghi venivano mossi dal vento e il fisico asciutto era ben visibile sotto agli abiti di seta leggera.

Gli si avvicinò in pochi passi, tenendo l'ombrellino da sole con una mano e portandosi l'altra al petto per evitare che il cuore le schizzasse via: era innamorata di lui come se lo vedesse per la prima volta.

E succedeva tutte le volte che s'incontravano.

"Sei qui!", esclamò lui avvertendo la sua presenza e alzandosi in piedi per correrle incontro.

Senza pensarci due volte, lasciò andare l'ombrellino e si gettò fra le sue braccia, lasciando che l'afferrasse e la facesse volteggiare come una bambina. Annie rise, felice come non lo era mai stata.

La loro era poco più che una relazione clandestina, a ben vedere, anche se sua madre sospettava già da tempo che le cose tra loro fossero ricominciate. Il grosso scoglio era la prozia che, pur non avendo poi tutta quella voce in capitolo, una paio di volte aveva fatto leva sul buon nome del suo clan.

Come si erano ripromessi, avevano evitato di scomodare il patriarca, che doveva essere impegnato con Candy a Lakewood secondo le ultime notizie, ma d'altronde non avevano intenzione di sposarsi a breve. Archie doveva finire un anno di università, laurearsi e poi avrebbero annunciato di nuovo il fidanzamento.

Il patto era quello.

Peccato che, se prima era stata lei sola a mostrare delle perplessità sui tempi, ora anche Archie cominciava a dare segni d'insofferenza. La verità era che, dopo essere stati a un passo dallo sposarsi, quella battuta d'arresto sembrava una voragine insuperabile.

"Lasciare l'università per sposarti mi sembrava la scelta migliore, all'epoca, ma ora che posso recuperare voglio farlo: a quel punto sarò completo", le aveva spiegato.

Annie ricambiò il bacio del suo fidanzato con fervore, avendo ormai imparato quella danza sublime tra labbra e lingue e affondò le mani nella sua chioma morbida, mentre lui si adoperava a stringerla facendo scivolare le sue lungo la schiena, fin dove nasceva la curva delle natiche.

"Ti ricordi quello che mi hai detto a Chicago mentre eravamo nella mia stanza?", ansimò lui staccandosi un poco per parlarle. "Quando non volevi che mi fermassi?".

"Sì", ridacchiò lei, in imbarazzo.

"Beh, sarò sincero: mi è sempre più difficile farlo, adesso. E ringrazia che ci troviamo in un luogo pubblico o ti farei la proposta più indecente che tu abbia mai ricevuto". Lo disse con un'intensità tale, seppure con un mezzo sorriso, che Annie si sentì bruciare.

Lo spinse via giocosamente, cercando di riprendere il controllo: "Archibald Cornwell, hai avuto la tua occasione. Ora porta pazienza o sarò costretta a chiamare la zia Elroy per difendere la mia virtù!".

Archie raccolse la battuta con uno sguardo amaro: "Ti ha infastidita di nuovo?".

Lei scosse la testa: "No, per fortuna, ma continuo a sospettare che abbia delle spie", disse con aria cospiratrice.

Il ragazzo si guardò attorno: "Già, e potrebbe essere chiunque. Quel vecchietto che finge di leggere il giornale seduto su quella panchina laggiù, la donna che porta a spasso il cane dietro di te e persino quel bambino che...".

"Archie, non esagerare!", lo redarguì prendendolo a braccetto e dirigendosi con lui verso il lago, non prima di aver recuperato l'ombrellino.

"Hai avuto notizie di Candy?", domandò lui mentre camminavano senza fretta. Ormai Candy non era più un argomento tabù e Annie sapeva bene che Archie la considerava una sorella.

"Albert non ti ha fatto sapere nulla?", ribatté lei sorpresa.

Lui scosse la testa: "Non so cosa stiano combinando a Lakewood, ma o è qualcosa di estremamente positivo, oppure...".

Annie sospirò: "So che Albert voleva portarla alla Casa di Pony, prima o poi, chissà se ci sono già andati".

Il ragazzo fece spallucce: "Io credo che se non si è ricordata nulla fino adesso, non lo farà certo lì, Annie".

Si voltò per guardarlo: "E perché mai? Lì siamo cresciute insieme, c'è tutto il suo passato!".

Si fermarono e Archie ricambiò il suo sguardo, era molto serio: "Se ho capito bene quello che ci ha riferito il dottor Carter, il blocco mentale di Candy dipende in larga parte dal sentimento che la lega ad Albert. Finché lei non accetta la loro relazione come qualcosa di positivo, non ricorderà il resto. E sono lì praticamente da soli dall'inizio dell'estate".

"Forse hai ragione", ammise lei abbassando gli occhi.

"Ehi, magari noi stiamo qui a preoccuparci e loro se la stanno spassando alle nostre spalle in segreto! Forse si sono persino sposati senza dirci nulla!", riprese con tono allegro, alzandole il volto con un dito.

Lei sorrise, di rimando: "Sarebbe bello crederlo, ma dubito che Albert terrebbe nascosta una cosa simile, almeno a te".

Il sorriso si spense sul viso di Archie: "Sì. Forse hai ragione. Oh, a proposito: ho avuto notizie dai nostri avvocati sui Lagan, invece. A quanto pare, dopo il tentativo di fuga, Eliza è piantonata nel carcere femminile. Il processo è già iniziato, ma per il momento non trapela nulla di concreto. Pare, però, che gli avvocati di Raymond stiano facendo di tutto per dimostrare che lei e Neal non sapessero di avere a che fare con la mafia".

"Ma questo è assurdo!", ribatté lei accigliandosi. "Anche se fosse, si sono rivolti a dei delinquenti e hanno cercato di commerciare illegalmente degli alcoolici, incastrando te e Albert!".

"Lo so", disse lui passandosi una mano tra i capelli, "ma la difesa sta puntando molto sul fatto che i due fratelli non conoscono bene quel mondo. L'unico atto di furbizia degno di nota è stato quello di Eliza che si è finta catatonica per non finire in galera, altrimenti temo avrebbero persino invocato l'incapacità d'intendere e di volere", concluse con una smorfia.

"Mi chiedo dove sia la giustizia, a questo punto. Non possono passarla liscia", protestò ricominciando a camminare per scaricare la tensione. "E poi c'è anche quello che hanno fatto a Candy".

"Non la passeranno così liscia, infatti", riprese Archie seguendola. "Qualche anno in galera o ai domiciliari non glielo toglie nessuno, ma se viene escluso il legame consapevole con la mafia se la caveranno meglio di quanto speriamo e la cosa che mi fa più rabbia è che Raymond sta pagando gli avvocati grazie al prestito che gli ha fatto Albert".

"CHE COSA?!", esclamò Annie fermandosi di nuovo e alzando la voce, tanto da attirare l'attenzione degli altri.

Archie si guardò intorno e si mise un dito sulla bocca, facendola arrossire: "Quando Raymond è andato a scusarsi pubblicamente con Albert, assumendosi le responsabilità dei suoi ingrati figli maggiorenni, lui lo ha praticamente salvato dalla strada offrendogli quel tanto che bastava per rimettersi in pista. Da quello che mi ha raccontato, però, Raymond si è accontentato di una cifra minima con cui ha riaperto un albergo in Florida e grazie al quale i suoi guadagni sono di nuovo rifioriti. In realtà, sono quelli i soldi che sta usando per tirare fuori di galera il prima possibile Eliza e Neil".

"Lo trovo ingiusto lo stesso! Albert non doveva essere così clemente con quell'uomo, anche se non è stato lui direttamente a...". Mentre parlava, Annie si rendeva conto del ragionamento che doveva aver fatto il patriarca.

Archie annuì: "Albert mi ha raccontato che è stato l'unico a scusarsi davvero e ad assumersi una responsabilità che neanche gli competeva. Lo ha sempre ammirato, anche se è d'accordo sul fatto che abbia del tutto fallito nell'educazione dei figli, essendo assente da casa per lunghi periodi. Devo dire che non ha tutti i torti, perché Raymond ha dimostrato di potersi davvero risollevare con le sue sole forze".

"Sono tutti bei concetti, ma così gli sta dando la possibilità di rimettere in libertà quei due fra qualche anno e magari lavorare con il padre!", protestò lei, più debolmente.
Lui si strinse di nuovo nelle spalle: "Io non sarei stato tanto buono, te lo confesso. Ma se non avesse avuto quei soldi, sono certo che Raymond si sarebbe comunque rimboccato le maniche e avrebbe lottato per quei due scellerati. Magari si sarebbe affidato agli avvocati concessi dallo Stato e il risultato sarebbe stato il medesimo".

Annie sospirò, frustrata. Sperò davvero che pagassero il giusto prezzo per quello che avevano combinato: "È vero quello che si dice? Che Neal abbia tentato il suicidio poco prima del processo?", chiese.

"Sì. Spero che ciò significhi che ha preso coscienza della gravità delle sue azioni. E comunque c'è un altro motivo per cui difficilmente il giudice confermerà l'ergastolo chiesto dagli Ardlay", continuò in tono cupo.

"Ovvero?", domandò Annie guardandolo negli occhi.

"Beh, pare che il pezzo grosso che hanno catturato in Florida, messo sotto torchio e desideroso di evitare la pena capitale, abbia confessato che gli sembrava di avere a che fare con due bambini stupidi e viziati che non avevano la minima idea di che razza di bomba stessero maneggiando", disse acido.

Annie sospirò: "Albert lo sa?".

"Non lo so, ma è troppo concentrato su Candy per pensare ad altro. Di sicuro deciderà se prendere in mano la situazione o andare avanti con la sua vita. E io propendo per quest'ultima ipotesi. Diamine, persino io voglio farlo, anche se chiedo giustizia".

Si fermarono davanti al lago, guardandone la superficie calma e brillante: se solo il futuro fosse stato così davvero!

Forse si sono persino sposati senza dirci nulla!

Annie sbatté le palpebre, ripensando a quella frase che aveva detto Archie poco prima e alzò il viso per guardarlo.

"Che c'è?", chiese lui sorridendole.

Lei ricambiò quel sorriso, i brutti pensieri e le preoccupazioni relegati in un angolino della sua mente: "Niente. Mi daresti un altro bacio?".

"L'accontento molto volentieri, signorina Brighton", ribatté lui prendendole il volto tra le mani ed eseguendo con passione.
 
- § -
 
Candy guardò lo stuolo di persone in attesa e ne rimase intimorita. C'erano due donne, una più anziana e l'altra era una suora.

Miss Pony. E suor Lane, proprio come mi hanno riferito.

E, dietro di loro, almeno una dozzina di ragazzini di tutte le età che la guardavano come se fosse un'extraterrestre.

"Bentornata, Candy", disse con voce commossa la suora, asciugandosi un angolo dell'occhio.

Si irrigidì: se la sofferenza degli altri ora la toccava di più, non fu lo stesso con l'emozione di quella donna. Non aveva memoria di loro e, per quanto la riguardava, quella era la prima volta che vedeva tutti. Inoltre, nessuno a parte Albert e Patty aveva mai mostrato commozione di fronte a lei e questo la spiazzava.

"Grazie", disse freddamente e senza sorridere. Fu ben conscia del tempo che sembrava essersi congelato, come se in quella parola avesse incluso un soffio gelido.

Alle sue spalle, Albert si schiarì la voce: "Ben trovate, signore, è un piacere rivedervi".

"Oh, signor William, ma che maleducata! Come sta?".

Candy cercò d'ignorare il giro di convenevoli, concentrandosi invece sui bambini. Gli occhi sgranati e incuriositi la innervosirono, così disse: "Non ditemi che vi conoscevo tutti".
Qualcuno annuì, altri sembravano sull'orlo delle lacrime.

Oh, no, vi prego...

"Come stai, capo?", un ragazzo, che era già adolescente, fece un passo avanti con la mano tesa.

Lei alzò un sopracciglio: "Capo?".

"Sì, eri il nostro capo. Poi ho fatto le tue veci quando te ne sei riandata e ora... beh, siamo in fase di votazione da quando Dustin è stato adottato. Oh, io sono Jimmy", si presentò.

Lei gli strinse la mano e si sorprese della sua forza: "Piacere, Jimmy", disse cercando di sorridergli ma fallendo. In realtà, preferì molto di più quell'approccio sobrio alle lacrime.

"Stai... bene con i capelli corti", ribatté squadrandola e accennando col mento.

Quell'osservazione la fece ridere davvero: "Beh, grazie, una volta qualcuno mi ha detto che portavo una pettinatura bizzarra!".

Il loro scambio finì lì, perché le due donne che l'avevano cresciuta li invitarono a entrare per un tè e lei si ritrovò dentro a una stanza dove troneggiava un grande tavolo pieno di dolci e cibo. Candy aveva sempre mangiato quello che le veniva proposto, soprattutto chiusa nella sua stanza, e non aveva mai visto un banchetto del genere.

Lo avevano preparato per lei?

Tutte quelle attenzioni la sconvolsero, ma perlomeno nessuno la riempì di domande. Miss Pony le si avvicinò con gentilezza: si era limitata a salutarla, anche lei con commozione, e a guardarla in silenzio fino a quel momento.

"Candy, so che non ricordi il tuo passato, figliola, ma abbiamo preparato tutti i piatti che ti sono sempre piaciuti. Sentiti libera di assaggiare quello che vuoi".

Il volto rugoso era sorridente e dolce e lei provò una specie di vertigine. Sentiva di non riuscire a reagire come avrebbe fatto con Frannie o con Annie e non solo per una questione di età. Non aveva mai provato un sentimento di vero rispetto neanche per la prozia Elroy, a dirla tutta.

"Grazie ", disse cercando di essere meno fredda. La verità era che erano passati solo pochi minuti e già dentro di sé avvertiva un tumulto che somigliava a un terremoto.

Le lacrime di Suor Lane. La mano tesa di Jimmy. La gentilezza di Miss Pony.

Si ritrovò di nuovo sospesa in quel confine tra desiderare il distacco e l'impossibilità di provarlo, proprio come era accaduto davanti alla sala della musica di Chicago, quando aveva sentito Albert suonare e cantare. Solo che per arrivare a quel punto con lui ci erano voluti mesi, lì in quella Casa di Pony era bastato qualche minuto.

La testa le girò e le fece male.

Mio Dio, ricorderò tutto mentre sono qui... davvero sta per accadere?

"Stai bene?", la voce di Albert la raggiunse e il vortice si richiuse su se stesso, inghiottendola.

Stavo per precipitare. Ho tanta paura di ricordarmi di lui, di scoprire quanto... tengo a lui, che...

"Sì. Sono solo stanca", disse massaggiandosi una tempia. Pessimo errore. Albert sapeva che il mal di testa era un sintomo di ricordi ma, stranamente, non le disse nulla. Non le fece altre domande, tantomeno la forzò.

"Bene, allora mangiamo!", aggiunse facendole l'occhiolino.

Mentre mangiava e trovava davvero tutto delizioso, specie la torta al cioccolato, una bambina di circa dieci anni le si avvicinò. Candy si domandò se i bambini grandi non avessero più difficoltà ad essere adottati. D'altronde, a lei non era accaduto quando ne aveva tredici o giù di lì?

"Candy, ti ricordi quando mi hai guarita alla Clinica Felice, l'anno scorso?", chiese timidamente.

La Clinica Felice? Sì, gliene avevano parlato...

Candy aggrottò le sopracciglia: "No, mi dispiace", rispose cercando di mantenere un tono gentile: per quanto si sentisse a disagio, non poteva certo prendersela con una bambina. La testa, però, le pulsava ancora.

"Io... avevo il morbillo e la febbre non passava. Tu mi hai vegliata tutta la notte, e la mattina dopo il dottor Martin...".

Il dottor Martin? Quello da cui vuole farmi visitare Albert?

"Milly, tesoro, non disturbare la nostra Candy, ti abbiamo spiegato che non può ricordare certe cose, no?". Suor Lane si chinò per parlarle e non le sfuggì lo sguardo contrito che le rivolse.

Ecco, succede di nuovo. Poco fa non sopportavo che si commuovesse per me e ora vorrei solo tranquillizzarla. Sta andando tutto troppo veloce... Non sono pronta...

Si sentiva vulnerabile, cominciava di nuovo ad avvertire la nausea e quello spazio intorno a lei sembrava di colpo enorme.

Sto regredendo a qualche settimana fa...

Con un grande sforzo di volontà si alzò e ricordò le parole di Adrian. Sei stabile come quel tronco. I ricordi non ti faranno male. Non esistono solo quelli brutti, ma anche quelli belli. Tu hai radici forti per sopportarli.

Fece un respiro profondo, cercando di tornare padrona di se stessa. Bastava impedire all'ondata dei ricordi di sopraffarla e poteva sopportare anche l'affetto di quelle persone. Era una sensazione strana, una barriera che cominciava a controllare in maniera volontaria.

Perché non la lascio semplicemente cadere? Perché non mi concedo la possibilità di amare un'altra volta?

Scoccò un'occhiata ad Albert che stava ridendo a qualcosa che aveva detto Jimmy.

Albert, che le aveva mentito sulla sua identità e su un mucchio di altre cose.

Avevo rotto da tempo con Terence, eppure... e se mi fossi invaghita di Albert solo perché è bello e gentile? Se, nonostante lui lo neghi,  fosse stato una specie di ripiego per me?

Sapeva che quello che le urlava con sempre più insistenza il suo cuore non poteva corrispondere a quell'ipotesi, ma se il loro era un amore sincero era stato costruito su bugie ed omissioni. Certo, poteva sempre accettarlo e buttarsi a capofitto.  

Oppure rimango nella mia beata ignoranza per tutta la vita e vivo serena. Magari mi innamoro di qualcun altro di cui mi fido di più...

Guardò di nuovo Albert che scherzava con i bambini e comprese finalmente appieno fino a che punto tutto girasse intorno a lui, come se ci fosse un filo invisibile che la legasse a quell'uomo.

Poteva fare finta di non vederlo, persino ignorarlo. Ma non lo avrebbe mai reciso.

Non aveva scampo, prima o poi avrebbe dovuto affrontare i suoi fantasmi.

O fuggire.
 
- § -
 
Elroy Ardlay guardava il sole morente dietro gli alberi e si sentì invasa da una sensazione di tristezza.

Quando, qualche giorno prima, George era ritornato senza William e le aveva riferito le sue ultime decisioni, aveva pensato che fosse impazzito del tutto.

Perché fare una cosa tanto sciocca come rimanere da solo con quell'orfana, dando adito a voci indiscrete, e poco prima di una tempesta tropicale, per giunta?! Le linee telefoniche, poi, non avevano funzionato per un giorno intero e lei aveva potuto tirare un sospiro di sollievo solo quando aveva sentito la vivida voce del nipote alla cornetta.
"Va tutto bene, zia, ci sono stati alcuni danni ma nulla di irreparabile", le aveva riferito.

"Hai la voce di uno che si sia beccato il raffreddore", aveva ribattuto secca.

"Sì, ma non è nulla di grave, abbiamo... solo risentito un po' dell'umidità". Quella risposta sibillina non le era bastata, né piaciuta, ma non aveva potuto chiedere altro perché William l'aveva salutata velocemente.

Certo, deve tornare da lei. Dalla fonte di ogni nostro problema.

In realtà, sapeva che il comportamento di Candy era solo un effetto collaterale di ciò che aveva combinato colei che aveva sempre considerato una nipote e che ora, da quello che sapeva, era in carcere come suo fratello.

Fingersi catatonica e tentare la fuga. Chissà se William lo sa.

Non aveva domandato a George se avesse riferito gli ultimi accadimenti al patriarca, ma era certa che non lo avesse fatto: a quanto pareva, la sua priorità sarebbe stata Candy, anche se non fino alla fine dell'estate come aveva preventivato.

Se sono fortunata, entro pochi giorni William finalmente si arrenderà all'evidenza e le lascerà fare la sua vita. Allora possiamo ricominciare tutti a vivere in modo normale.

Certo, a quel punto avrebbe avuto bisogno di tirarsi su e magari avrebbe espresso persino il desiderio di fare un viaggio. In ogni caso, al suo ritorno lei avrebbe ricominciato a organizzare balli ed eventi per presentargli le dame più belle e desiderabili dell'alta società: dopotutto, era pur sempre un uomo, prima o poi si sarebbe innamorato di nuovo e, se il destino le avesse sorriso, entro pochi anni avrebbe potuto finalmente veder nascere degli eredi.

Tutta quella storia sarebbe rimasta una macchia indelebile nella sua mente, ma anche un incubo dal quale svegliarsi per andare incontro a eventi più lieti.

Andrà tutto a posto, una volta che Candy sarà uscita dalle nostre vite e quella Annie si sarà arresa.

Rientrando in casa, la matriarca si sentì di nuovo ottimista.

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Capitolo 63
*** Speranze nell'oscurità ***


O mio Signore
In questo mondo
Io non ho avuto tanto
Eppure sono contento
Sono contento

O mio Signore
Io ti ringrazio
Di ogni cose che ho avuto
Grazie per tutto quello
Che tu hai fatto per me, per me

Però se questa sera
Posso farti una preghiera
Fa che domani
Fa che domani
Lei ritorni da me

(......)
Fa che domani
Fa che domani
Lei ritorni da me

(Oh, mio Signore - Vianello-Mogol)
***
When the night has come
And the land is dark
And the moon is the only light we'll see
No, I won't be afraid
Oh, I won't be afraid
Just as long as you stand, stand by me

 
So darling, darling
Stand by me, oh stand by me
Oh stand, stand by me
Stand by me

 
If the sky, that we look upon
Should tumble and fall
And the mountain should crumble to the sea
I won't cry, I won't cry

No, I won't shed a tear
Just as long as you stand, stand by me

 
And darling, darling
Stand by me, oh stand by me
Oh stand now, stand by me
Stand by me

 
(Stand by me - Ben E. King)
 
(Quando cadrà la notte
e la terra sarà buia
E la Luna è l'unica luce che vedremo
no, non avrò paura
oh, non avrò paura
finché tu sarai con me, sarai con me

Quindi cara, cara
stai con me, oh stai con me
oh stai, stai con me, stai con me

Se il cielo che noi guardiamo
dovesse crollare e cadere
e le montagne dovessero sbriciolarsi nel mare
non piangerò, non piangerò
no, non verserò una lacrima
finché tu sarai con me, stai con me

Quindi cara, cara
stai con me, oh stai con me
oh adesso stai, stai con me
stai con me

Quindi cara, cara
stai con me, oh stai con me
oh adesso stai, stai con me, stai con me
Ogni volta che sei in difficoltà non vuoi stare con me
oh stai con me, non vuoi stare adesso
stai con me)

 
 
Speranze nell'oscurità

Donald Martin lasciò cadere l'anello magico con cui stava giocherellando nel suo momento di pausa e rimase a fissare le due persone sulla soglia: sapeva che Candy e Albert sarebbero arrivati a breve, ma non si aspettava di vederli così presto.

Si alzò dalla sedia, andando loro incontro, un po' frastornato nel riconoscere ben poco della sua efficiente infermiera in quella donna così seria e con i capelli tagliati fino alle spalle.

"Salve. È un piacere rivedervi, come state?", chiese facendoli accomodare.

"Bene, grazie. A quanto pare la tempesta qui non ha fatto grossi danni", disse Albert guardandosi intorno. Anche Candy lo stava facendo, ma con aria più circospetta che interessata.

"Abbiamo dovuto riparare quella finestra, ma per fortuna ci è venuto ad aiutare Tom", spiegò indicando il vetro nuovo alle sue spalle.

"A proposito, come va alla fattoria?", chiese avvicinandosi per guardare l'operato.

Donald si strinse nelle spalle: "Meno male che i giornali hanno avvisato, altrimenti credo che avrebbero perso la maggior parte del bestiame. Tom dice che le mucche hanno muggito per ore e i cavalli scalpitato come se fossero spaventati a morte".

Albert tornò sui suoi passi: "Beh, sono contento che sia tutto a posto. Più tardi passerò a trovarlo. Ti ho parlato di lui, Candy?".

Lei scosse la testa. Sembrava molto tesa: "No, ma me ne hanno parlato Jimmy e suor Lane. Dicono che... è stato Tom a sentire me e Annie piangere, quando ci hanno trovate".

Nella stanza calò il silenzio e Donald si diresse all'armadietto dei medicinali dove teneva il suo asso nella manica. Chissà se avrebbe avuto l'effetto desiderato!

"Albert, figliolo, che ne dici di assaggiare del buon whisky con me?". Vedendolo impallidire, gli fece l'occhiolino, sperando che capisse. "Oh, so quello che hai passato, ho letto i giornali, ma questo è a uso personale. Mio uso personale, nello specifico", sottolineò scoccando un'occhiata a Candy.

La ragazza si accigliò, ma non disse nulla. Fu il suo ex paziente a parlare, con tono stupito: "Ma non è ancora mezzogiorno! Forse è un po' presto per iniziare a bere...".

"Uhm, non hai tutti i torti. Che ne pensa la mia vecchia infermiera?", domandò apertamente.

Candy, che ancora si stava guardando attorno, lo fissò: "Penso che un medico che beve sul lavoro dovrebbe vergognarsi. Quante volte le ho detto...", s'interruppe, sbattendo le palpebre.

Donald sorrise e bloccò con un gesto della mano Albert, che aveva emesso un ansito strozzato e stava per dire qualcosa: "Quante volte mi hai detto... cosa?".

"Niente", scattò lei, sembrava furiosa. "Non mi ricordo niente, non so perché mi è uscita quella frase. Possiamo uscire di qui? Fa molto caldo".

L'espressione delusa di Albert gli strinse il cuore. "Peccato, mi sarebbe piaciuto parlare con te", tentò.

Lei strinse i pugni, guardando verso l'uscita con tale intensità che l'uomo al suo fianco le disse: "Vai pure avanti, Candy, ti raggiungo fra poco".

Non se lo fece ripetere due volte e se ne andò: era stata lì dentro per pochi minuti ma Donald già aveva chiara la situazione. Candy non aveva alcuna intenzione di ricordare.
"Da quanto tempo è in queste condizioni?", domandò ad Albert accennando con il mento all'entrata.

"Da quasi sei mesi", ribatté lui passandosi una mano tra i capelli e sedendosi su una sedia con un movimento che trasudava stanchezza.

"E tu da quanto non fai un pasto decente?", chiese alzando un sopracciglio.

Lui lo guardò dritto negli occhi: "Se mi avesse visto qualche settimana fa sarebbe stato peggio, mi creda".

Donald fece un respiro profondo. Per fortuna quella era una giornata tranquilla, tanto più che in estate i malanni diminuivano drasticamente. Prese a sua volta una sedia e vi si mise a cavalcioni al contrario, poggiando le braccia sullo schienale: "Bene, che ne dici di raccontarmi più nel dettaglio le cose?".

E Albert lo fece.
 
- § -
 
Tom vide la Clinica Felice in lontananza e tirò le redini del cavallo per rallentare. Proprio lì fuori, c'era una donna con i capelli biondi.

Sulle prime non la riconobbe.

Tutto in lei, dalla lunghezza della chioma alla postura, era sbagliato. Persino l'abito che indossava era di un verde troppo scuro e non brillante come le piaceva, eppure...
Eppure era Candy, la bambina che lui aveva sentito piangere quando era poco più di un poppante, insieme ad Annie. Le si accostò al trotto e la guardò dall'alto.

Lo sguardo... il suo sguardo gelido...

"Candy... sei proprio tu?". Gli sembrava una persona completamente diversa da quella che aveva accompagnato alla stazione di gran carriera solo alcuni mesi prima.

Sapevo che era cambiata, ma non ero pronto a questo.

"E tu chi sei?", gli chiese accigliata.

Tom si ritrovò con la gola secca. Candy era arrivata il giorno prima, da quel che gli avevano riferito, e si domandò come avessero reagito gli altri, specialmente Jimmy.
Facendosi coraggio, scese dal cavallo e le tese la mano, presentandosi. Il viso di Candy si rilassò un poco: "Tu sei quello che ci ha trovate alla Casa di Pony", disse stupendolo.

"Te lo ricordi?", chiese spalancando gli occhi.

Lei scosse la testa: "No, ma me l'hanno raccontato". Si appoggiò sul muretto esterno della clinica e cominciò a massaggiarsi le tempie come se le dolesse la testa.
"Sei qui perché stai poco bene? Vuoi che ti accompagni dal dottor Martin?", domandò chinandosi e mettendole una mano sulla spalla.

"No, vengo da lì dentro. Il dottore sta parlando con Albert e io avevo bisogno d'aria", spiegò con gli occhi chiusi, senza smettere il suo movimento circolare con le dita.
"Oh...", fece lui poco convinto.

Albert si sta occupando di lei?

Non sapeva cos'altro dirle. Avrebbe voluto abbracciarla, chiederle tante cose, ma rimase lì, imbarazzato e a disagio come uno sciocco.

Fortunatamente, qualche istante dopo uscirono proprio il dottore e Albert, traendolo d'impaccio. Si salutarono con cenni brevi e Albert gli strinse la mano, chiedendogli come stava suo padre: "Sta bene, ma lavora troppo. A volte vorrei tenerlo legato con il lazo...".

Il lazo...

"Ehi, Candy, ti andrebbe di provare?", le domandò, colto da ispirazione improvvisa.

Lei alzò la testa e lo fissò per un attimo come se avesse qualcosa in faccia: "Non dirmelo... lo facevo in passato, vero?".

Tom alzò le spalle: "Sì, ed eri anche molto brava! Ma se non ti va non importa". Senza darle modo di protestare, tirò fuori da sotto la sella il suo lazo e cominciò a farlo roteare in aria. Si guardò attorno, individuò un ramo basso già spezzato e lo afferrò, tirando.

Il dottor Martin batté le mani e Albert sorrise a Candy: "Vuoi tentare anche tu?", le domandò. "Solo per vedere se ti riesce ancora".

Lei si alzò: "Mi fate sentire come una bambina idiota a cui state proponendo un gioco. Dai qua, vediamo un po' se vi faccio divertire", disse allungando una mano.

Tom le diede volentieri la corda e lei la studiò per un po' prima di alzare il braccio destro per imitare i suoi movimenti. Sulle prime, il cappio sembrò prendere vita come ai vecchi tempi, ma poi perse velocità e Candy tentò un lancio maldestro che finì sull'erba. Abbassò la mano, non sembrava molto frustrata e disse: "A quanto pare ho dimenticato anche come funziona il lazo. Mi spiace, non ho superato l'esame".

"Non volevo metterti sotto esame, Candy. Tentavo solo di aiutarti", disse in tono contrito. "Perdonami".

Lei rimase a guardarlo senza espressione, trasmettendogli un brivido lungo la schiena: "Non fa niente. Ora possiamo tornare a casa, per favore? Ho un po' di mal di testa", chiese rivolta ad Albert.

Quest'ultimo annuì, li salutò e l'accompagnò all'auto parcheggiata poco distante. Una volta, Candy avrebbe fatto la strada che la separava dalla Casa di Pony a piedi, correndo senza scarpe.

Si accostò al dottor Martin, che li guardava andare via a sua volta: "Lei che ne pensa?".

L'uomo sospirò e chiuse gli occhi: "I miei colleghi di Chicago e i suoi amici hanno fatto tutto quello che era in loro potere. Ma se Candy si rifiuta di ricordare non c'è modo di aiutarla".

Tom era stralunato: "Perché dovrebbe rifiutare di ricordarsi di noi?", domandò allargando le braccia in un gesto esasperato.

"Ho parlato un po' con Albert, prima. Si tratta di una situazione complessa che riguarda i suoi sentimenti", Martin si voltò per squadrarlo, "ma il segreto professionale m'impedisce di approfondire con te".

"Come? Come sarebbe a dire?! Io sono praticamente suo fratello maggiore! E poi so che c'è stata Annie con lei, a Chicago", protestò seguendolo mentre si accingeva a rientrare.

L'uomo gli mise una mano su un braccio e rispose in tono comprensivo: "Figliolo, so che tieni a Candy. Tutti lo facciamo, ma credimi se ti dico che l'unica che può tirarsi fuori da questa nebbia è proprio lei. Nemmeno Albert ci è riuscito".

"Ha a che fare con Terence?", chiese cominciando ad avere dei sospetti.

Il dottore si limitò a scuotere la testa: "Sì e no. Tom, avremo modo di parlare, un giorno, e magari la nostra Candy sarà di nuovo la stessa. Ma per ora sappi che questa gita alla Casa di Pony rappresenta l'ultimo baluardo prima della resa. Se la sua memoria non tornerà sarà libera di seguire la sua strada e noi dovremo rispettare la sua scelta".

Il ragazzo strinse i pugni: "Vuole dire che se ne andrà via? Senza ricordarsi del suo passato?".

Martin si bloccò sulla soglia: "Ne ha tutto il diritto, Tom. Lo faceva già prima e lo farà ora, se vorrà. In questo non è cambiata molto".

Furono le sue parole di commiato. Nonostante apparisse evidentemente triste per quelle conclusioni, sembrava davvero serio e determinato.

Tom rimase lì davanti, con il lazo in mano e il cavallo che brucava l'erba alle sue spalle, come se una parte del suo mondo gli stesse crollando addosso.

Con estrema lentezza, si voltò giocherellando nervosamente con la cima della corda, l'impulso di lanciarla lontano e mettersi a gridare. Ma non fece nulla di tutto ciò e si limitò a rimontare a cavallo tornando piano verso la fattoria.

In cuor suo, cominciò a pregare che in Candy si compisse un miracolo dopo tanta sofferenza.
 
- § -
 
"Buonanotte, bambini. Fate sogni d'oro", disse Candy dall'uscio della stanza, richiudendo piano la porta sui loro mormorii di saluto.

Aveva cercato di sforzarsi di essere comprensiva e materna, per dare a quei bambini innocenti la sensazione di avere ancora quella specie di sorella maggiore che mancava loro: in realtà, quello era il suo addio.

Qualunque cosa fosse accaduta, almeno avrebbero avuto un bel ricordo di lei: poteva deludere le persone adulte che la circondavano, ma quei piccoli non avevano certo colpa dei suoi problemi.

Tornò nella sala comune, dove Miss Pony e suor Lane stavano sorbendo un tè insieme ad Albert.

"Come è andata?", chiese la donna più anziana.

"Si stanno addormentando. La corsa di stasera deve averli sfiniti", disse sedendosi e versandosi il liquido caldo in una tazza.

Di nuovo, calò tra loro quel silenzio carico di significati e sfumato d'imbarazzo che caratterizzava i loro incontri: "Mi dispiace", disse all'improvviso. Ed era sincera. Erano bastati due giorni perché si rendesse conto che doveva a quella gente almeno un cenno di scuse.

"E per cosa ti dispiace, tesoro?", chiese suor Lane in tono dolce.

Candy strinse la tazza tra le mani, sapendo che stava per riversare su di loro una decisione che forse già immaginavano, ma che forse avevano sperato fino all'ultimo che non prendesse. Con un profondo respiro disse: "Vorrei partire entro dopodomani al massimo", mormorò.

I tre volti si adombrarono, Albert impallidì, ma rimase imperturbabile, almeno all'apparenza.

"E dove andrai? Candy, nelle tue condizioni...", tentò Miss Pony.

"Sono perfettamente in grado di lavorare. Farò la cameriera o la lavapiatti, mi arrangerò. Forse riprenderò persino gli studi di infermieristica. Vi prometto... che se un giorno mi ricorderò di tutti voi tornerò per dirvelo". Bevve un sorso dalla tazza, sperando che nessuno di loro tentasse di fermarla.

"Permettimi di aiutarti, per favore", s'intromise invece Albert. "Anche se legalmente sei maggiorenne vorrei che continuassi ad essere una Ardlay".

"No", disse senza esitazioni. "Voglio essere libera da qualsiasi legame e, anzi, ti prego di firmare i documenti necessari affinché io torni ad essere... com'è che mi chiamavo, prima? Candice White".

Lo vide, il dolore negli occhi dell'uomo, ma cercò di concentrarsi sulla sua decisione. Non ci sarebbero stati passi indietro, inutili e non costruttivi.

"Anche in passato mi hai fatto questa richiesta. Ora capisco che è quello che hai sempre voluto... va bene, Candy. Appena tornerò a Chicago avrò cura di occuparmi di tutto, non dubitarne. Però consentimi almeno di darti un minimo di sostegno economico finché non ti sarai sistemata. Consideralo un prestito, se preferisci, anche se vorrei fosse diverso. Non puoi partire senza neanche un dollaro in tasca". Il suo tono vibrava di qualcosa che somigliava alla supplica, ma Candy dovette ammettere che non aveva tutti i torti.

Lui, forse, era abituato a dormire sotto le stelle e magari anche lei aveva fatto cose simili in passato, ma non poteva nemmeno gettarsi a capofitto nel mondo senza paracadute così, all'improvviso. Aver superato l'agorafobia era stato già un vero miracolo. Forse avrebbe scritto a Carter per ringraziarlo, strada facendo.

"D'accordo, vada per il prestito, zio William", disse in tono semiserio. In qualche modo, aveva bisogno di porre quella distanza tra loro già da adesso. Provava una fitta di nostalgia nell'immaginarsi lontana da lui, ma era necessario o non ne sarebbe davvero mai uscita.

Da sola, con i propri sentimenti, avrebbe fatto il suo percorso a ritroso, toccando le tappe di cui aveva bisogno fino a che non fosse stata pronta. Ma le serviva aria da respirare e non il senso soffocante di qualcosa che non era sicura di desiderare o di non temere.

"Non ci hai ancora detto dove andrai...", insisté suor Lane.

Candy capì che non poteva più eludere quella domanda e pensò che non aveva nemmeno senso preoccuparsi del fatto che Albert fosse presente. Doveva la verità a tutti loro, nel bene e nel male: "Vorrei andare a New York".

Alzò lo sguardo per studiare le loro reazioni e vide la comprensione sui loro volti: "Intendi... da Terence?", indovinò la donna anziana.

Candy annuì: "Su quel giornale che ho trovato a Lakewood c'è scritto che risiede lì con la sua compagnia teatrale... e con la sua fidanzata", spiegò rivolgendosi ad Albert. "Non ho intenzione di creargli problemi, ma voglio capire cosa proverei a rivederlo, si tratta di una parte del mio passato che ancora non ho affrontato. Poi me ne andrò altrove, anche se non ho deciso ancora dove".

In realtà, Candy aveva pensato di spingersi fino in Europa, più lontano possibile da lì: anche se non poteva fuggire per tutta la vita dai propri ricordi, poteva evitare fisicamente alcuni luoghi e ricostruirsi altrove. Se e quando avesse provato nostalgia, allora avrebbe deciso di tornare.

Albert si alzò dalla sedia, che fece un rumore un po' troppo forte, come se fosse stato troppo veloce: "Scusatemi, mi ritiro nella mia stanza, ora. Buonanotte signore", disse con un leggero ed elegante inchino. Poco prima di uscire, con una mano già sulla maniglia, aggiunse: "Candy, potrei portarti in un ultimo posto domani, prima che tu decida di andartene?". La voce non era ferma e lei capì che quello era il suo tentativo estremo di farle ricordare e tenerla con sé.

Esitò, con la tazza stretta fra le mani tremanti. Forse lo doveva sia a lui che a se stessa. "Va bene", disse infine, e vide le sue spalle rilassarsi.

Quando la porta fu chiusa, si aspettò che una delle donne le dicesse qualcosa in proposito, ma si limitarono a guardarsi tra loro e a rivolgerle un sorriso sincero, anche se pregno di emozioni.

"Candy, ricordati sempre che questa è casa tua", disse suor Lane. "Puoi tornare qui ogni volta che lo desideri, come hai sempre fatto".

"Sì, e noi e i ragazzi ti accoglieremo sempre a braccia aperte", terminò Miss Pony asciugandosi discretamente una lacrima.

Il loro dolore la raggiunse e non fu affatto piacevole. Allo stesso tempo, si rendeva conto di quanto l'amassero, al punto di anteporre la sua felicità alla loro preoccupazione. Fu una consapevolezza che le scaldò il cuore e che le diede rinnovato coraggio.

"Grazie", rispose alzandosi anche lei per andare a dormire. "Ci vediamo domani".

Mentre usciva da quella stanza, Candy capì che era pronta a spiccare il volo da quelle particolari radici e forse lo era sempre stata. Finalmente, era libera di essere quella nuova se stessa con in più un bagaglio di ricordi che, attraverso i racconti di quelle persone, avrebbero fatto maggiore chiarezza sul suo futuro.

Un futuro che sperava luminoso e senza ombre.
 
- § -
 
Sta succedendo di nuovo e io non posso farci niente.

Albert guardò il soffitto con le braccia piegate dietro la nuca, riflettendo seriamente sulla possibilità di rinunciare al suo tentativo. In realtà era una cosa che gli girava in mente già da tempo, ma voleva aspettare che lei fosse pronta, che accettasse la sua compagnia o si sarebbe trattato di qualcosa di fine a se stesso.

Ora che con Candy tutte le carte erano scoperte, non gli restava che quello. Albert sospettò che sarebbe servito a ben poco, arrivati a quel punto, ma voleva dire di aver davvero tentato il tutto per tutto, senza riserve.

Sono un naufrago disperato che cerca di galleggiare aggrappandosi a un tronco marcio.

Nel remoto caso in cui si fosse davvero ricordata di lui in quel modo, comunque, non sarebbe certo dipeso dal singolo evento: sarebbe stato come chiudere un cerchio, un percorso prestabilito da terminare così come era iniziato.

Fuori dalla Casa di Pony, la notte aveva avvolto tutto nel suo manto e Albert vi perse lo sguardo. Senza rendersene conto, cominciò a pregare. A pregare i suoi cari che non c'erano più e quel Dio che più volte lo aveva ricondotto da Candy quando sembrava impossibile. A pregare di non perdersi in quella notte che pareva eterna e di avere la forza di affrontarla senza tremare per il freddo se non ci fosse stato nulla da fare.

Se mi concedi quest'ultimo miracolo, non Ti chiederò altro per il resto della vita. La renderò felice ogni singolo giorno...

Alla fine, le notti insonni e la tristezza di quella che forse era una perdita imminente ebbero la meglio e Albert si addormentò. I suoi sogni furono agitati e colmi di un addio infinito a Candy, dove lei si voltava per non tornare più indietro.

Si svegliò con i primi raggi del sole e ripensò a quello che aveva visto sorgere sulla Collina di Pony in quel mattino in cui non aveva più speranza di vederla. Si ripeté, mentre si sciacquava il viso nella bacinella e si vestiva senza fretta, che sarebbe stato come le altre volte.

Candy era sempre stata uno spirito libero come lui ed era un motivo ulteriore per rispettare quella scelta.

Vuole rivedere Terence. Quanto è saldo il legame con quella Karen? E se volesse ritentare con lei e le cose tra loro si sistemassero?

Se anche fosse accaduto, non poteva farci nulla. La felicità di Candy valeva tutte le lacrime del mondo. Valeva la propria infelicità, la propria solitudine. Sarebbe stato crudele in ogni caso, ma l'importante era che lei vivesse serenamente.

Dio, dammi la forza. Dopo aver sfiorato il Paradiso tornerò in Purgatorio. O all'Inferno.

Rabbrividì, pensando che sua zia gli avrebbe intimato di sposarsi e continuare la tradizione di famiglia con un'altra donna che non fosse quella che amava. Albert seppe che, piuttosto, avrebbe rinunciato a tutto, anche al proprio nome, esattamente come nella tragedia di Romeo e Giulietta pur di non ingannare se stesso. Anche Rosemary aveva fatto la medesima scelta, un giorno.

Il dovere era una cosa, i sentimenti un'altra.

Ma non era il momento di pensare al futuro: aveva un presente di cui occuparsi. Raccogliendo tutto il suo coraggio, prese la borsa e uscì dalla stanza, diretto alla Clinica Felice.

Mancava poco al suo primo e ultimo appuntamento con Candy.

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Capitolo 64
*** Il primo incontro ***


Yesterday
All my troubles seemed so far away
Now it looks as though they're here to stay
Oh, I believe in yesterday
Suddenly
I'm not half the man I used to be
There's a shadow hangin' over me
Oh, yesterday came suddenly
Why she had to go, I don't know, she wouldn't say
I said something wrong, now I long for yesterday
Yesterday
Love was such an easy game to play
Now I need a place to hide away
Oh, I believe in yesterday

(Ieri, tutti i miei guai sembravano lontanissimi,
Adesso sembrano quasi che stiano di casa qui,
Oh io credo in ieri.
Improvvisamente, non sono l'uomo che ero,
C'è un'ombra che sta sopra di me.
Oh ieri è venuto improvvisamente.
Perche lei se n'è dovuta andare?
Non so, non l'ha voluto dire.
Ho detto qualcosa di sbagliato,
Ora bramo ieri.
Ieri, l'amore era una facile partita da giocare,
Ora, ho bisogno di un posto dove nascondermi lontano da tutti,
Oh, io credo in ieri)
 
(Beatles - Yesterday)
 
***
 
Hello darkness, my old friend
I've come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence
In restless dreams I walked alone
Narrow streets of cobblestone
'Neath the halo of a street lamp
I turned my collar to the cold and damp
When my eyes were stabbed by the flash of a neon light
That split the night
And touched the sound of silence
 
(Ciao tenebre, mie vecchie amiche
Sono venuto a parlare di nuovo con voi
Perché una visione dolcemente strisciante
Ha lasciato i suoi semi mentre dormivo
E la visione che è stata piantata nel mio cervello
Rimane ancora
Nel suono del silenzio
Nei sogni inquieti ho camminato da solo
Strette strade di ciottoli
Sotto l'alone di un lampione
Ho alzato il bavero contro il freddo e l'umido
Quando i miei occhi furono trafitti dal lampo di una luce al neon
Che spaccava la notte
E ha toccato il suono del silenzio)
 
(Paul Simon -The sound of silence)

***
 
 
Durante la lettura, consiglio l'ascolto di entrambe le canzoni, di cui non ho potuto inserire il link sul sito: Yesterday dei Beatles e The Sound of Silence nella versione di Simon & Garfunkel. Ve lo dico perché sono quelle che ho ascoltato io mentre scrivevo :-)  

 
Il primo incontro

Il dottor Martin bussò alla stanza e gli rispose la voce agitata di Albert: non ricordava di averlo mai visto così nervoso. Persino quando era senza memoria trasmetteva un senso di serenità e pacatezza che s'irradiava alle persone che aveva intorno.

Ora, vestito di tutto punto con quel kilt scozzese e la cornamusa che gli tremava nella mano, sembrava un ragazzino al primo appuntamento. Non era mai stato padre, ma provò un moto d'affetto verso di lui e si avvicinò per aggiustargli la giacca e il mantello: "Ti sei ricordato di quella cosa?".

Sul viso di Albert si disegnò per un attimo il panico e abbandonò la sua postazione davanti allo specchio per frugarsi nelle tasche. Donald alzò gli occhi al soffitto: il giorno prima sembrava così organizzato, quando gli aveva riferito di volersi cambiare lì alla clinica per evitare che i bambini curiosi potessero seguirlo, che ora gli sembrava impossibile che si fosse dimenticato un passaggio così importante.

Finalmente, emise un sospiro di sollievo: "Eccolo, ce l'ho", disse tirando il medaglione fuori dalla tasca dello sporran. Pensò che somigliava a uno sposo che tema di aver perduto il proprio anello nuziale, ma lo tenne per sé. Chissà se un giorno la scena si sarebbe ripetuta in quel senso...

L'uomo si ritrovò a sperarlo ardentemente.

"Bene, ora ricordati due cose importanti", disse mettendoglisi di fronte e guardandolo con attenzione dal basso in alto, visto che lo superava di parecchio in altezza.

"Quali?", fece lui con una nota d'ansia.

"Primo, rimani calmo e non farti troppe illusioni. Secondo, respira o morirai d'ipossia", rispose contando sulle dita.

"Allora sono tre cose", ridacchiò Albert cercando di stemperare la sua stessa tensione. Diamine, si stava innervosendo anche lui! "Calmo, nessuna illusione e... respirare", concluse prendendo aria a lungo.

"Ok, ok, non andarmi in iperventilazione, però", si raccomandò dandogli dei colpetti sul petto. "Io torno dai miei pazienti, ma sarò qui ad aspettarti. Puoi farcela".

Albert annuì e uscì dalla Clinica Felice a testa alta. Donald lo vide avviarsi verso la Collina di Pony, dove gli aveva raccontato tutto fosse iniziato, camminando eretto come un soldato che stia andando al fronte.

Sperò solo che trovasse la forza di andare avanti se tutto fosse andato storto. Non gli era mai parso un uomo vulnerabile, ma non poté fare a meno di pensare che sarebbe bastato un rifiuto di Candy a farlo andare in mille pezzi.

E, forse, era proprio un rifiuto quello che stava per affrontare.
 
- § -
 
Candy respirò l'aria pulita della collina godendosi il venticello leggero. Cominciava a sospettare il motivo per cui Albert le aveva chiesto di vedersi proprio lì e iniziò a sentirsi un po' agitata.

È stato qui che ci siamo conosciuti, ma io ero solo una bambina.

Forse voleva parlarle più nel dettaglio di quello che era successo, farle vedere qualche altro luogo lì vicino e in lei ricominciarono a rincorrersi timori e aspettative. Di nuovo, provò il brivido di trovarsi sull'orlo di quel precipizio, a fissare un abisso che poteva emettere una luce abbagliante come un'oscurità profonda.

E lei non era pronta a farsi inghiottire da nessuna delle due cose.

Aveva bisogno di stare sola con se stessa per trovare quel coraggio e, per un istante, pensò che fosse meglio fuggire subito. Se era fortunata, Albert non l'avrebbe trovata.
Risoluta, incapace di soffermarsi a pensare che sarebbe praticamente scappata senza bagagli e senza soldi, scattò in piedi e cominciò a camminare con passi veloci, ma un suono poco distante la fece bloccare.

La cornamusa... le famose lumache che strisciano... oh, no...

Era ancora in tempo per andarsene, forse lui non l'avrebbe seguita e avrebbe capito. Ma allora perché i piedi rimanevano fermi sul terreno e il corpo sembrava gelato in quella posizione?

Devo andarmene di qui, ora! Questa melodia... questa melodia è...

Non era triste, ma c'era qualcosa di struggente che le fece salire, suo malgrado, le lacrime agli occhi. Il ricordo era così vivido che l'accecò: Annie se n'era andata e lei stava gridando e piangendo ad alta voce, sfogando tutta la sua frustrazione lì, dove pensava di essere sola.

Incapace di reggersi sulle gambe, appoggiò la spalla al grande albero.

Papà albero.

Scivolò giù, in un pianto silenzioso, sentendosi spezzare il cuore ma senza altre immagini da evocare. Il ricordo si era fermato lì e rimaneva il dolore, nudo e crudo. Albert adesso era vicino, la cornamusa le indicava che li separavano solo pochi passi.

Non riuscì ad alzare gli occhi su di lui, troppo concentrata su quella sensazione di disagio che la stava inondando, ma qualcosa attirò la sua attenzione.

Un tintinnio, leggero e quasi impercettibile, in mezzo al suono forte dello strumento. Aprendo gli occhi scoprì che a terra, vicino alla sua mano, c'era una specie di medaglione con una campanella attaccata: sembrava un fiore su cui si fosse posata un'aquila. Sopra spiccava la lettera "A".

Candy lo fissò senza capire, l'onda che l'aveva appena travolta di nuovo in agguato dietro di lei. Allungò una mano per toccarlo e la ritrasse come se scottasse. Quando finalmente alzò gli occhi, vide Albert vestito come uno scozzese: aveva smesso di suonare e la stava guardando con infinita dolcezza.

"Ragazzina, sei molto più carina quando ridi che quando piangi".

Non respirava più, non ce la faceva. Il nodo le stringeva forte la gola e nuove lacrime le scesero sulle guance. Non poteva sopportare quel volto pieno di tenerezza e speranza, quegli occhi lucidi e quel sorriso incerto un secondo di più.

Con un altro scatto improvviso, si tirò in piedi prendendo in mano l'oggetto che doveva aver lasciato cadere lui.

"Adesso che hai ricreato la scenetta del nostro primo incontro ti senti soddisfatto?", chiese più duramente di quanto avesse voluto. Era furiosa con lui per averla voluta forzare a quel modo. Ed era furiosa con se stessa perché la sua espressione, simile a quella di un uomo che abbia ricevuto un pugno nello stomaco, la stava ferendo più di ciò che era consentito.

"Io... io...", tentò lui. Le parve di nuovo di trovarsi di fronte all'Albert vulnerabile di Chicago e questo la scosse ancora di più.

"Tu che cosa?! Pensavi davvero che con questa pagliacciata sarebbe cambiato tutto di colpo? Beh, mi dispiace deluderti, ma non funziona! Mi sento come se tu mi avessi buttata di peso in un fiume per insegnarmi a nuotare!", gridò asciugandosi gli occhi con rabbia e sbattendogli in mano il medaglione.

Per un attimo, pensò che lui avrebbe di nuovo gettato via quella maschera composta mostrandogli il suo dolore e temette che ciò l'avrebbe fatta vacillare ancora di più. Invece, la sua espressione divenne dura: non l'aveva mai guardata in quel modo.

"Hai ragione, Candy, ma sai una cosa? Non volevo lasciare nulla d'intentato. Ora so che quella che ho davanti non è più la stessa ragazzina che ho incontrato quando ero un adolescente. Ormai sei una donna e puoi fare le tue scelte, anche se non hai memoria". Si rimise in tasca il piccolo oggetto e fece un passo indietro.

Si sta allontanando lui da me...?

"Mi dispiace, Albert. Ho bisogno di trovare la mia strada, non sono più la tua Candy... la vostra Candy. Ti sono grata per esserti occupato di me, davvero. Ma ora devi lasciarmi andare". Le emozioni si erano affievolite e, tra lei e quell'uomo così bello dagli occhi di ghiaccio, stava riuscendo ad innalzare quel muro che le consentiva di riprendere il controllo.

"Non ho mai voluto trattenerti con la forza, Candy. Mai. Ti chiedo perdono se mi sono comportato come un ragazzino immaturo qualche volta, neanche io conoscevo questo lato di me. Ti chiedo solo una cosa: sii felice, perché conta solo questo per lo stupido sentimentale che hai davanti, capito?". Lo aveva detto con una serietà che la spiazzò.

Mi ama a tal punto anche lui? Perché allora mi ha sempre mentito?

O protetta.

Perché il suo amore non mi ha guarita?

Ho troppa paura della verità...

Voci contrastanti si rincorrevano nella sua testa, cominciando a sbriciolare il muro. Ricomponendolo, frantumandolo e ancora erigendolo più alto di prima.

Che cosa mi sta succedendo?

Fu lui a trarla d'impaccio, tendendole la mano in un gesto di fredda cortesia: "Addio, Candy. Salutami Terence, se lo rivedi", disse fulminandola con lo sguardo.

Lei strinse quella mano ignorando la scossa elettrica che parve attraversare i loro palmi.

Albert le rivolse un'ultima, intensa occhiata e se ne andò davvero.

L'aria, prima densa di quella musica

le lumache che strisciano

ora era silenziosa.

Candy era libera, aveva preso la sua decisione e non avrebbe più rivisto nessuno che non desiderasse vedere. Neanche lui.

Il cuore era leggero, ma le gambe pesanti e per un attimo temette di cadere.

Era questo che volevi, no?

Sì.

Non provare pena per lui. Gli hai dato la possibilità di provarci. L'hai data a te stessa. Non sei pronta, basta pensarci.

Ormai lui era così lontano che sembrava un puntino più scuro nel verde brillante della natura. Come al rallentatore, Candy cominciò a sua volta a camminare verso la Casa di Pony: avrebbe atteso che fosse passato quel dannato mal di testa e poi sarebbe partita. Non era certa che sarebbe riuscita a rimanere fino al giorno dopo, non con Albert sotto lo stesso tetto.

Hai paura di lui o di te stessa?

Basta!

Colma di rabbia, pervasa da una nausea crescente, Candy ridiscese dalla collina e tornò a casa per l'ultima volta.
 
- § -
 
Albert afferrò il berretto e se lo tolse con stizza, gettandolo a terra con malagrazia.

Sono un idiota romantico e illuso!

Aveva pensato davvero che inscenare il loro primo incontro sulla Collina di Pony come in un film strappalacrime l'avrebbe riportata indietro? E che ripeterle la frase magica avrebbe avuto un effetto altrettanto magico su di lei?

Bene, nulla di più lontano dalla realtà: non era né una specie di mago, né un principe azzurro che sveglia la sua principessa con un bacio.

Era un mero idiota.

Ridacchiò nervoso mentre, con gesti altrettanto secchi, procedeva a togliersi le scarpe, i calzini e quel kilt che aveva portato sperando potesse funzionare come una sorta di veste dotata di poteri soprannaturali.

Infilò i suoi soliti pantaloni comodi e una camicia e, proprio mentre la stava abbottonando, imprecando perché aveva sbagliato a combinare i bottoni con le asole corrispondenti, bussarono alla porta.

"Chi è?!", domandò in un ringhio, mordendosi la lingua subito dopo.

Di certo non è Candy che si getta fra le mie braccia dicendomi che si ricorda di me. Imbecille.

Infatti era il dottor Martin, che lo squadrò dalla testa ai piedi: "Devo dedurre che non è andata come speravamo, sulla vostra collina", disse in tono neutro.

"Non è più la nostra collina", rispose furioso e forse persino infantile, riuscendo finalmente a chiudere la camicia e afferrando la giacca, che indossò lasciandola aperta.

L'uomo guardò la cornamusa che aveva poggiato su una sedia e sedette su un'altra: "Quindi non c'è altro da fare, vero?".

Un'altra risatina scomoda. In realtà voleva solo urlare, piangere e battere i pugni al muro come un ragazzino: "Direi di no". Albert si rese conto del tono che stava usando e cercò di moderarlo: "Mi scusi, sto sfogando su di lei la mia frustrazione".

"Non preoccuparti, ragazzo. Sono deluso quanto te. Ora che farai?", gli domandò mentre lui riponeva il kilt nella sacca da viaggio senza troppa cura, con gesti secchi e rabbiosi. Si sentiva davvero un adolescente deluso.

"Ora me ne torno a Chicago a continuare con i miei doveri e la mia vita, mentre lei se ne va a cercare Terence e poi si mette a girare il mondo. La storia della nostra vita, no?", disse cominciando a sentire la gola stringersi.

Dannazione!

Il buon dottore si limitò a osservarlo mentre richiudeva la borsa. Stava cercando disperatamente di trattenere le sue emozioni come aveva fatto il giorno in cui George era entrato nel suo studio per annunciargli con quel telegramma che Candy era morta, ma fu tradito da una singola lacrima che asciugò in fretta, nella speranza che lui non se ne accorgesse.

Dopo tutto quello che avevano passato e le illusioni che aveva nutrito, la corazza era definitivamente rotta. Ci sarebbe voluto tempo, molto tempo per ricostruirla davvero e tornare a una parvenza di normalità.

"Albert...", tentò il dottor Martin, ma lui scosse la testa.

"Me la caverò, stia tranquillo. Ho passato di peggio. D'altronde, Candy è viva e sta bene, almeno a livello fisico. Un giorno, magari, la rivedremo". Si mise la sacca sulla spalla. "Grazie per tutto quello che ha fatto, dottor Martin. Tornerò a trovarla".

Gli regalò il fantasma di un sorriso e lui ribatté: "Sicuro di non aver bisogno di un goccio di whisky, prima di partire?".

Titubò un solo istante, prima di rispondere: "No, grazie. Devo guidare e devo... restare lucido". Ci sarebbe mancato solo che si mettesse al volante con la mente annebbiata dall'alcool provocando un incidente.

Avrebbe rischiato la galera. O la morte.

Sperava solo che nessuno lo notasse mentre andava a riprendere la macchina. Gli dispiaceva scappare di nuovo come un ladro, ma non voleva vedere nessuno. Non voleva rispondere a nessuna domanda, né scorgere la compassione nei volti degli altri.

Voleva restare solo e raccogliere i cocci, sperando di non impiegare troppo tempo a rimetterli insieme. Aveva una famiglia a cui pensare e un'azienda da gestire.
 
- § -
 
Candy sentiva gli occhi di tutti addosso a sé e, se non fosse stato per quel malessere che le faceva venir voglia di vomitare, sarebbe andata via subito. La macchina di Albert era ancora parcheggiata lì vicino ma lui, per fortuna, non c'era.

Non ancora.

"Va tutto bene, tesoro?". Suor Lane?

"Ehi, capo, hai la faccia di una che abbia visto un fantasma!". Jimmy?

Confusa e stordita, forse persino febbricitante, Candy accelerò il passo e arrivò in tempo nella nuova ala della casa dove c'era il bagno. Si chinò sul water, come non le capitava ormai da tempo e svuotò dolorosamente lo stomaco, mentre sembrava che la testa si spaccasse in due.

Maledizione a lui e a quell'idea geniale che aveva avuto! Ecco il risultato!

Mentre si lavava il viso con l'acqua fredda, sentì una presenza all'entrata del bagno e vide Miss Pony in piedi, con un asciugamano tra le mani. Glielo porse e lei lo prese senza dire una parola: "Vai a riposare nella tua stanza, Candy. Hai bisogno che chiamiamo un medico?".

Scosse la testa, lentamente. Le pulsava dalle tempie alla nuca: "Appena mi sentirò meglio andrò via. Forse addirittura entro stasera".

Le rughe sul volto gentile della donna s'incresparono dietro gli occhiali in un'espressione di profonda tristezza: "Sei sicura di quello che stai facendo, piccola Candy? So che ne abbiamo parlato, ma...".

"Sono sicura", l'interruppe lei. "La prego, Miss Pony. Ho preso la mia decisione e non tornerò indietro. Vi verrò a salutare prima di partire", concluse uscendo e superandola.
"Va bene", la udì dire a bassa voce, sconfitta.

Si chiuse nella stanza che le avevano assegnato e si gettò di peso sul letto, sfinita come se non avesse dormito affatto la notte precedente.

In un gesto istintivo, tirò fuori dalla valigia lì accanto quel piccolo carillon, dono del suo amico Stair, e lo aprì. Il suono, leggero e confortante, la accompagnò però in un sonno tormentato.

L'obliò la risucchiò, l'abbracciò con mani gelide nonostante la stagione calda, l'avvolse in carezze sgradite. Il tempo divenne relativo mentre perdeva lentamente la coscienza di se stessa.

Si sentì come se stesse per morire.

"Staremo sempre vicine e non ci lasceremo mai!" Mi dice un'Annie bambina mentre corriamo mano nella mano lungo i prati della Casa di Pony.

Sono felice, spensierata. Sono tornata bambina anche io e tutto è bello.

Da quassù potrò vedere Annie mentre va via più a lungo, penso arrampicandomi su Papà Albero con una velocità che fa gridare di terrore Miss Pony e suor Lane.

Annie se n'è andata e io sono seduta sulla Collina di Pony con la testa fra le ginocchia, piangendo amaramente e desiderando avere a mia volta una mamma e un papà. Invece, poco dopo arriva lui.

Lui.

"Ehi, piccola, che ti succede?".

"E tu chi sei? Un fantasma oppure un marziano?".

"Lo sai, piccola? Sei più carina quando ridi che quando piangi".

Il ragazzo è seduto su un lato del cancello, appollaiato pigramente a guardarmi. Lo chiamo "principe", strappandogli una risata sincera.

Oh, Anthony, anche se non sei tu il Principe della Collina, com'è dolce provare queste emozioni nel mio cuore, come è bello innamorarmi di te e perdermi nei tuoi occhi profondi! Anthony...

Il fiume... dove porterà il fiume? Ho deciso di salire sulla barca, desidero tornare alla Casa di Pony, non voglio rimanere un minuto di più in casa Lagan.

La corrente! La cascata! Non voglio morire! Acqua, buio, luce. Un volto coperto da barba e baffi, occhiali scuri.

Lui.

Lui mi ha salvato la vita.

"Anche tu sei senza casa come me, Albert?". Sono felice, lo sento così vicino! "Sono contenta di avere incontrato qualcuno come me!".

"Se per caso volessi rivederti... che devo fare?". Gli chiedo.

"Quando soffia il vento del sud, metti un messaggio in una bottiglia... capito? Se ti capita di essere triste manda la bottiglia!".

Il bosco, la radura, i cavalli. Anthony si volta verso di me e sorride. Poi accade. Il cavallo s'imbizzarrisce e lui cade, il suo volo sembra infinito ed è la stessa cosa che è accaduta a me quel giorno: ho rischiato di morire proprio come lui.

Forse lo sono e tutta la mia vita fino ad oggi è stata un inferno nel quale sono precipitata.

"Anthony ti piaceva, vero Candy?", mi chiede Albert mentre piango fra le sue braccia.

Il suo calore è confortante. Anche senza che io lo abbia cercato, lui è venuto per me e mi sta consolando, mi sta salvando di nuovo.

Lui...

Sono a Londra. Terence... Terence è ferito e io devo trovare una farmacia. Vago per le vie buie e sento che lui mi chiama.

Lui, di nuovo lui...

Albert mi vede, mi riconosce, volo ancora fra le sue braccia. È meraviglioso che sia qui proprio ora che ho bisogno di aiuto!

Lo zoo Blue River, dove lavora, le gite con Terry, Patty e gli altri... La Scozia, la sua lettera che mi parla dell'Africa.

L'Africa...

Ho una divisa da infermiera, devo ancora diplomarmi e nel corridoio spingono una barella. Il malato è Albert, sembra morto, è vittima di un'esplosione... è senza memoria.

Quando si volta per guardarmi, la prima volta che entro nella sua stanza e lui è sveglio, il suo sguardo freddo mi colpisce al cuore. Voglio aiutarlo, voglio stargli vicino. Non voglio che se ne vada, ma lui scappa dall'ospedale e lo cerco, continuamente, disperatamente.

Lui non si ricorda di me e vuole fuggire per ritrovare se stesso. Come volevo fare io.

Ma riesco a convincerlo a restare e la casa in cui viviamo è piccola ma piena del suo calore. Lui cucina, è bravo in tutto e si prende cura di me in ogni modo possibile...

Lui...

Sono tornata da New York... ho la febbre, sono disperata perché Terence e io ci siamo lasciati e...

Tu...

Le tue braccia sono il mio rifugio. Sento la tua voce, mentre mi addormento fra le lacrime, che sussurra: "Vorrei tanto vederti felice...". Le tue mani calde mi accarezzano il viso, asciugando il mio pianto.

Il leone... un leone è fuggito e mi sta per attaccare. Ti metti in mezzo, mi salvi di nuovo la vita, vieni ferito e io tremo al solo pensiero che avresti potuto...

Tu... sempre tu...

Mi sono fatta incastrare da Neal, mi ha attirata fuori città con l'inganno. Sono a piedi, è notte e non so come tornare a casa. Ho paura. Ma tu sei lì, ancora una volta sulla mia via, e dormo fra le tue braccia, al sicuro.

Le voci dei vicini mi feriscono, parlano di te come di un delinquente ma io so che non è vero e ti difendo. Poi scompari e sono disperata. Sono sola, mi manchi tanto...

Tu... tu... sei sempre stato tu.

Il mio prozio William. Il mio Principe della Collina. Il mio Albert, che c'è sempre stato per me. L'uomo del quale mi sono innamorata senza neanche accorgermene.

Le tue lettere, le tue visite dopo un lungo viaggio, i tuoi regali per il mio compleanno... La sera di quel ballo quando mi hai confessato i tuoi sentimenti come un ragazzo dolcemente timido.

Io, che come una stupida me ne vado a New York per essere sicura di ciò che il mio cuore già sa. Ma lo devo a Terry, glielo devo...

Il nostro incontro, di nuovo sulla collina. Le tue lacrime, il nostro primo bacio, l'inizio di un sogno che diventa un incubo. 

Questa donna non sono io. Ho paura di te... di te! Il mio caro Albert, colui che è sempre stato nell'ombra ma mi ha sempre sostenuta, colui di cui temevo quel sentimento così forte che mi faceva vacillare.

Ma il mio reale timore era perderti.

Perderti come ho perso Anthony. Perderti come ho perso Terry. Se avessi perso te avrei perso anche la voglia di vivere.

Ora lo so. Ora lo capisco.

Invece ti ho addossato colpe che non avevi, la mia mente malata e distorta ha attribuito a te responsabilità che non avevi. Persino la morte di Anthony, per la quale abbiamo pianto insieme quel giorno...

Dio... Dio mio, cosa ti ho fatto... Albert, Albert!

Candy aprì gli occhi di scatto. Fuori c'era il sole. Un sole troppo alto per essere quasi pomeriggio.

Si precipitò fuori dal letto e guardò freneticamente dalla finestra.

L'auto di Albert non c'era più.

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Capitolo 65
*** Di colline, lacrime e corse a perdifiato ***


E adesso andate via
Voglio restare solo
Con la malinconia
Volare nel suo cielo
Non chiesi mai chi eri
Perché scegliesti me
Me che fino a ieri
Credevo fossi un re

Perdere l'amore
Quando si fa sera
Quando tra i capelli
Un po' d'argento li colora
Rischi di impazzire
Può scoppiarti il cuore
Perdere una donna
E avere voglia di morire

Lasciami gridare
Rinnegare il cielo
Prendere a sassate
Tutti i sogni ancora in volo
Li farò cadere ad uno ad uno
Spezzerò le ali del destino
E ti avrò vicino

(......)
E vorresti urlare
Soffocare il cielo
Sbattere la testa
Mille volte contro il muro
Respirare forte il suo cuscino
Dire è tutta colpa del destino
Se non ti ho vicino

Perdere l'amore
Maledetta sera
E raccogli i cocci
Di una vita immaginaria
Pensi che domani
È un giorno nuovo
Ma ripeti non me l'aspettavo
Non me l'aspettavo

(Perdere l'amore - Massimo Ranieri)

***
Domandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuore
Come la neve non fa rumore

E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere
Se poi è tanto difficile morire
E stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me
Ma nella mente tua non c'è

Capire tu non puoi
Tu chiamale se vuoi emozioni

(Emozioni - Battisti- Mogol)
 
 
Mentre scrivevo ho ascoltato le seguenti canzoni della colonna sonora dell'anime di Candy Candy, vi consiglio di cercarle su Youtube e metterle in sottofondo quando leggete le parti che riguardano Albert, ma in questo ordine: Camino a la esperanza, Takeo Watanabe (per il primo paragrafo) - Un muy triste adios, Takeo Watanabe (per il terzo paragrafo). Grazie!

***
Di colline, lacrime e corse a perdifiato

Aveva guidato fino alla prima cittadina, da dove aveva mandato un telegramma a George.

Sto tornando a Lakewood da solo. Non cercarmi per un po'. Mi farò vivo appena possibile. Dammi solo un po' di tempo.

Sapeva che lui avrebbe capito, non serviva spiegare altro.

Aveva comprato qualcosa da mangiare, intenzionato a dirigersi verso la villa subito dopo. Ma l'incarto era rimasto sul sedile del passeggero, intatto, e lui tamburellava con le dita sul volante senza avere il coraggio di prendere quella direzione.

Voleva correre da lei, tornare indietro, accertarsi che fosse davvero finita.

Prima ancora di rendersi conto di quello che stava facendo, aveva avviato l'auto e stava sfrecciando di nuovo alla volta della Casa di Pony.

Come un pazzo, irrazionalmente.

Si era infilato in uno sterrato tra i boschi, aveva abbandonato la vettura ed era sceso a piedi, diretto nell'unico luogo dove avrebbe potuto togliersi ogni dubbio residuo.

Semmai ci sia, qualche dubbio. L'unico dubbio che ho è sulla mia sanità mentale.

La Collina di Pony.

Lì, dove aveva fallito, dove l'aveva persa e ritrovata tante volte. Dove si erano dati l'ultimo addio con una fredda stretta di mano.

Non c'era nessuno, nemmeno lei.

Sei già andata via, Candy? O sei dentro a quella casa laggiù, a preparare le tue valigie? Ti stai ricordando di me o stai pensando a quando rivedrai Terence? E io, dannazione, perché sono di nuovo qui?

Doveva andarsene, doveva farlo subito. Il sole stava già iniziando la sua discesa. E lui la propria.

Albert voltò le spalle alla Casa di Pony, ma l'istinto e il cuore lo tradirono e lanciò un'ultima occhiata dalla spalla come se potesse vederla.

Era già accaduto.

L'avrebbe chiamato e si sarebbe gettata fra le sue braccia, baciandolo e dicendogli che lo amava.

Ma no... Candy non era lì con lui. Non lo sarebbe stata mai più, anche se era viva: se ne sarebbe andata in giro per il mondo, forse avrebbe amato qualcun altro e lui non l'avrebbe mai avuta fra le sue braccia com'era stato per quel breve, fugace periodo.

Il più intenso, il più importante e profondo della sua vita.

Mai.

Mai avrebbe dimenticato il sapore dolce delle sue labbra, il suo respiro tremante e la sua tenera timidezza da ragazzina. Mai avrebbe potuto provare sensazioni così sublimi solo ascoltando il suono della sua voce accanto a sé, sapendola innamorata di lui. E di lui solo.

Era stato padrone del suo cuore per un brevissimo istante e la sua felicità aveva toccato picchi inimmaginabili.

Ma era finita, doveva lasciarla andare, essere lieto della serenità che avrebbe trovato, anche se lontano da lui.

Come era sempre stato.

Il vento gli accarezzò il viso come Candy non avrebbe mai fatto, con la dolcezza di un'amante. E portò via le sue lacrime, quelle lacrime che non poteva più trattenere e che lasciò scorrere libere sul suo volto, aprendo le braccia per accogliere il refolo assieme alla tristezza, sperando che potesse portarla un po' via, insieme al pianto.

Ma non accadde e lui lo lasciò semplicemente fluire fuori di sé, sapendo che quel dolore non sarebbe mai finito davvero, che nessuno lo avrebbe mai asciugato.

"Addio, amore mio", mormorò con voce tremante, inspirando l'aria tiepida dell'estate e il profumo dei fiori che gli ricordava la sua pelle.

Prostrato, cadde in ginocchio, posò le mani sul terreno e singhiozzò per lunghi minuti, senza consolazione, come un disperato qualsiasi.

Si ricompose a stento, passandosi un braccio sugli occhi.

Non credevo che avrebbe fatto così male. Oh, Candy...

Chinando la testa, volse per la terza volta le spalle alla Collina di Pony e se ne andò. Nessuno lo chiamò. Nessuno gli disse che era un errore, che in realtà c'era una speranza.

Candy era viva ma la speranza era morta.

Camminò finché le gambe non gli fecero male, pianse finché non ebbe più lacrime da versare, pensò finché non ebbe più ricordi da ricordare.

Infine, decise che era ora di tornare a casa. Alla sua vita fredda, ai suoi impegni di patriarca.

Era il suo destino e sarebbe stato abbastanza uomo da rialzarsi ed accettarlo.

Era il suo destino, quello che non era Candy.
 
- § -
 
Candy per poco non si scontrò con suor Lane. Rimase a fissarla un attimo, con il cuore che le batteva quasi fuori dal petto e il respiro affannoso.

Suor Lane, Miss Pony... vi chiedo perdono...

"Dov'è, dov'è Albert?!", gridò, posando le mani sulle spalle della donna, sapendo benissimo che avrebbe dovuto dirle mille altre cose, abbracciarla e darle spiegazioni.

Pensò che aveva fatto qualcosa del genere tanti anni prima, quando aveva capito che Terence era andato a trovarla alla Casa di Pony e si erano mancati per un soffio.

La donna sbatté le palpebre, confusa: "Credo che se ne sia andato ieri verso l'ora di pranzo... ma che ti succede, stai bene? Hai dormito per quasi ventiquattr'ore, hai avuto la febbre e...".

E nel frattempo lui è andato via, magari partito per chissà dove, dopo che l'ho trattato così male! Oh, Dio...

Candy capì che la marea di emozioni che stava provando doveva essere condivisa con qualcuno che avrebbe capito e, senza pensarci più, si gettò fra le braccia della donna: "Oh, suor Lane, mi dispiace, mi dispiace così tanto avervi fatto preoccupare!".

Sentì la donna irrigidirsi e poi emettere un gridolino: "Candy...? Tu... hai recuperato la memoria?".

Strozzata dai singulti, con la mente leggera come una piuma che si libra in aria, lei annuì tra le lacrime: "Sì, sì! Mi ricordo di tutto, mi ricordo di voi, dei bambini... di tutti voi!", gemette singhiozzando.

"Oh... oh, mio Dio ti ringrazio! Candy... Candy!". La strinse forte, piangendo a sua volta. Non l'aveva mai sentita piangere così. E mentre aveva ancora il viso sepolto nella spalla di suor Lane, accecata dalle lacrime, sentì un rumore forte di qualcosa che si frantumava a terra e l'esclamazione di stupore di Miss Pony. La chiamò per nome, si strinse in quell'abbraccio e si unirono altre voci, braccia più minute, gridolini, salti, urla di gioia.

Era immersa in un abbraccio collettivo tra le sue madri e i bambini della Casa di Pony e il cuore vuoto si colmò di un amore così grande che pensò potesse esploderle. Ma non aveva paura, lo accolse con una gioia che le riempì l'anima.

Tuttavia non poteva rimanere lì ferma a lungo: c'era qualcosa che doveva fare e doveva farla subito, prima che fosse troppo tardi.

"Vi prego", pianse appoggiandosi alle due donne e cercando un sostegno, "sapete dove è andato? Io... lo amo tanto!".

Loro sorrisero fra le lacrime. "Mi dispiace, tesoro mio, non è venuto a salutarci. È andato via ieri e non abbiamo idea di dove sia. Forse a Chicago...".

Candy cercò di riprendere il controllo: "Perdonatemi, vi prego, perdonatemi tutti. Vi giuro che tornerò prestissimo, che vi racconterò tutto. Ma ora ho bisogno di un telefono. Non ne avevamo fatto installare uno?", chiese trafelata.

"Sì, ma la nostra linea ha avuto problemi dopo la tempesta di qualche giorno fa e il tecnico ha riparato solo quello della Clinica Felice, sarà da noi tra qualche...". Suor Lane le dovette leggere nello sguardo e la consapevolezza calò anche sul suo volto.

"Bambini, potreste chiedere a Tom di raggiungermi alla clinica con il calesse, quando verrà a portarvi il latte? Credo che avrò bisogno di un passaggio alla stazione". Loro urlarono un "sì" così forte e chiaro che scoppiò a ridere.

Quanto tempo era che non rideva così? Quante cose si era persa a causa di quella personalità malamente distorta che si era impossessata di lei come un'entità malvagia?
Con le ali ai piedi, tornò nella sua stanza solo per afferrare le proprie cose e riporre con cura il carillon di Stair nella borsa.

Grazie, amico mio. Il tuo carillon fa sentire davvero felici e guarisce da ogni male.

Uscì dalla Casa di Pony e corse. Corse come non aveva mai fatto in vita sua.
 
- § -
 
Il silenzio.

A Lakewood lo aveva accolto il silenzio.

Il giardino delle rose era di una bellezza struggente ed era pregno di ricordi così come del profumo stesso delle rose.

Le Dolce Candy di Anthony.

Albert lo superò velocemente, senza più guardarsi indietro, senza attardarsi nell'aria tiepida della notte e smise persino di respirare per non avvertire quell'aroma carico di nostalgia.

Con mani tremanti, tirò fuori le chiavi e aprì la porta principale, che emise un breve cigolio. Sinistro, come il benvenuto della villa vuota.

Odiò persino il rumore dei propri passi sul pavimento, sulle scale, nel corridoio del piano superiore, dove si trascinò con la lentezza di un uomo anziano con una vita sulle spalle. Il sacco gli pesava enormemente e Albert realizzò, d'improvviso, che non mangiava nulla da quella mattina.

Il vecchio zio William fa i capricci e si rifiuta di nuovo di mangiare...

Ci avrebbe ripensato l'indomani. Alla luce del sole, forse, le cose avrebbero assunto contorni meno tristi. Oppure sarebbero stati vividi come i ricordi, accecandolo.

Buttò la sacca sul pavimento della sua stanza chiedendosi se doveva tirare fuori il kilt e riporlo nell'armadio perché non si rovinasse. Ma rinunciò.

Non mi servirà nell'immediato. Anzi, forse non lo indosserò più.

Sì, erano pensieri infantili, da bambino immaturo. E, sì, lo era anche il fatto che stesse dirigendosi verso lo studio per versarsi un bicchiere di whisky a digiuno, sapendo benissimo l'effetto che gli avrebbe fatto.

Ma era solo in casa sua, non doveva guidare e voleva solo che la sua mente si spegnesse e smettesse di proporgli le immagini di Candy felice, Candy che danzava alla Casa di Pony alla luce della luna tenendosi l'orlo del vestito con le mani, Candy che piangeva fra le sue braccia, Candy che lo baciava nelle stalle...

Mandò giù il primo sorso e la gola arse. Arsero gli occhi che, incredibilmente, trovarono altre lacrime da versare.

Non è più Candy la piagnucolona, qui, sono diventato io. Tornerò mai a essere quello di una volta?

Si portò la bottiglia in camera e la poggiò sul comodino, quindi si stese sul letto, con la schiena poggiata sulla testiera, sorseggiando quella specie di veleno.

Ma non fece scenate da ubriaco o da uomo disperato qual era, cominciando a gridare o a lanciare oggetti, come aveva avuto l'impulso di fare. Il torpore lo raggiunse al secondo bicchiere e lui si rannicchiò sulle coperte, ancora vestito, con una lacrima che scivolava lungo il naso e cadeva sul cuscino.

Il suo sonno fu tormentato come quello della notte precedente ma stavolta, a ogni addio di Candy, lui precipitava in un baratro buio e fetido.
 
- § -
 
Il dottor Martin pensò di avere le allucinazioni: guardò la bottiglia di whisky e cominciò a sospettare che, forse, avevano ragione a dirgli che non doveva bere durante il lavoro.
Eppure, mentre riponeva gli strumenti che aveva appena usato per suturare una ferita a un piccolo paziente con un ginocchio sbucciato, alzò gli occhi verso la finestra per un istante e la vide per davvero.

Candy stava correndo con una borsa a tracolla che le sbatteva addosso nel movimento frenetico e non aveva nulla della Candy del giorno prima, sembrava piuttosto...

Oh, santi Numi, possibile?

Inciampando sul tavolino basso al centro della stanza, il poveretto si precipitò verso l'entrata, spalancando la porta mentre lei lo chiamava a gran voce.
"Candy!", articolò senza fiato.

Un secondo dopo, lei lo stava stritolando in un abbraccio così forte che non ricordò di averne mai ricevuto uno simile, neanche dalla sua fidanzata di qualche decennio prima.
Titubante, alzò una mano per darle leggere pacche sulla schiena: "Candy, che ti è successo?", domandò immaginandolo, ma non osando sperare tanto.

"Albert... è qui? Lo ha visto? La macchina non c'è più... Un telefono, mi fa usare il suo telefono?", ansimò inframmezzando le parole con respiri tremuli, gli occhi erano rossi.

Il dottor Martin le afferrò le mani gelide e cercò di calmarsi a sua volta: tra lei e Albert gli stavano seriamente facendo rischiare un infarto.
"Ci siamo visti ieri ma è andato via dopo...", non ebbe il coraggio di continuare perché Candy abbassò la testa e prese a singhiozzare. Gli strinse forte le mani, come traendone forza.

"Ho fatto stare male tutti quanti... Come stava, come stava il mio Albert quando l'ha visto?", chiese come una supplica.

Non se la sentì di mentirle: "Ragazza mia, non posso dirti che non fosse provato. Era furioso, frustrato, sull'orlo delle lacrime... devi raggiungerlo, ti ama più della sua stessa vita. Ha rinunciato a te pur di vederti felice, anche perché non gli avevi lasciato altra scelta. Ma la sua sofferenza era palpabile".

Candy gli lasciò le mani e nascose il viso nelle proprie, piangendo più forte, sconsolata: "Sono stata una stupida, una vera stupida... come ho potuto... come ho...?".

Commosso, il medico pescò un fazzoletto dal taschino della camicia e glielo porse: "Ora calmati, Candy, non ti fa bene affliggerti così. Non è stata affatto colpa tua: la modifica della personalità in caso di perdita di memoria è una conseguenza abbastanza diffusa, anche se gli studi in merito sono limitati. L'importante è che ora tu sia tornata fra noi", concluse sorridendole.

Lei annuì, asciugandosi gli occhi e ridandogli il fazzoletto: "Voglio telefonare a Chicago e sapere se è lì. Oddio, sto tremando, no so neanche se riuscirò a parlare!".

"Vuoi che ti dia un calmante o preferisci un po' della mia speciale medicina?", le chiese tra il serio e il faceto.

La sua reazione lo riempì di gioia e lo fece ridere di cuore: "Nessuna delle due, grazie. E, riguardo alla sua medicina, come la chiama lei, stia attento! Ora che la vera Candy è tornata saprà sempre più spesso di acqua di fiume!".

"Oh, povero me!", proruppe in una risata. "Vai a telefonare a quel povero ragazzo, adesso, corri!".

Ma Candy lo sorprese ancora una volta e, prima di correre via quasi saltellando, gli scoccò un bacio sulla guancia e mormorò un sincero "grazie" che gli sciolse il cuore.
Con un verso di disappunto, Martin si trovò a dover usare a sua volta il fazzoletto mentre la guardava allontanarsi.
 
- § -
 
George stava studiando i documenti della banca quando la cameriera bussò alla porta. Aveva sentito squillare il telefono ma non voleva interrompere il suo lavoro: non sapeva bene per quanto tempo avrebbe dovuto occuparsi degli affari di famiglia da solo, ma non era quello a preoccuparlo.

Ad avergli fatto cadere un peso sul cuore era stato il telegramma di William che poneva fine a ogni speranza di riavere tra loro la signorina Candy, almeno nel breve periodo.
Saperlo solo e quasi certamente disperato a Lakewood non gli andava giù neanche un po', ed era sua intenzione sbrigare gli affari più urgenti per raggiungerlo ed accertarsi che stesse bene.

Non aveva mai fatto una cosa simile, neanche quando gli aveva annunciato che se ne sarebbe andato in Africa. Ma quello era un altro William. Il William che, nonostante i colpi della vita, aveva gambe forti e spalle solide, oltre a una missione importante: proteggere una ragazzina orfana di cui si sarebbe poi perdutamente innamorato.

In pochi mesi, aveva visto quel William soccombere sotto ai bombardamenti implacabili di un destino avverso che pareva davvero essersi accanito. Soprattutto, quel destino aveva toccato la sua sfera più profonda, strappandogli in modi diversi quello che di più prezioso aveva nella vita e che non erano certo le ricchezze materiali.

Sapeva che, con il tempo, si sarebbe rialzato e avrebbe continuato ad andare avanti per la sua strada, come aveva sempre fatto, ma era anche sicuro che non sarebbe mai più stato lo stesso.

A meno che non si compisse un miracolo.

Quando la cameriera gli annunciò che al telefono c'era la signorina Candice che aveva bisogno di parlargli con urgenza, George alzò la testa di scatto, la bocca spalancata, la penna che rotolò lungo la scrivania e cadde sul pavimento.

Cosa stava osando sperare? Con tutta probabilità lo chiamava per parlargli dei documenti dell'adozione, che già erano stati parzialmente compilati e mancavano solo della firma di William. Forse, prima di andarsene in giro per il mondo, desiderava completare quell'aspetto.

Eppure, fu con il cuore che gli rimbombava nelle orecchie che alzò la cornetta e rispose in maniera così composta che sembrava stesse parlando a uno dei loro investitori.
"George! Ti prego, dimmi dov'è Albert!", quasi gli gridò in un orecchio, facendolo sobbalzare.

Colto alla sprovvista e sommerso da una marea di emozioni diverse, George rimase senza parole. Provò a formulare la risposta ma emise un verso quasi strozzato.
"Ti prego, mio Cavaliere Bianco, dimmi se Albert è lì!", aggiunse lei con il pianto nella voce, spazzando ogni dubbio residuo.

Solo la vecchia Candy lo chiamava Cavaliere Bianco. E la vecchia Candy era tornata.

"Lui", si schiarì la voce, rendendosi conto a malapena che stava cominciando a piangere. Perché anche lui era un essere umano con dei limiti. E quei limiti li aveva superati a sua volta da un po'. "Si trova a Lakewood, da solo. Vuole che la venga a prendere?", si propose, cercando di controllare il tremito violento della voce e della mano che stringeva sulla cornetta.

"No, no, grazie George, sto per prendere un treno, sarà più veloce". Di certo era così, ma era anche sicuro che volesse stare sola con lui, in quel momento, e ne aveva tutte le ragioni. "George?", lo chiamò con una breve risatina.

"Sì, signorina Candy?", rispose asciugandosi gli occhi.

"Stavolta non devo passare dal retro, vero?".

George scosse forte la testa, ben sapendo che non poteva vederlo, ma di nuovo privo di voce. Alla fine, riuscì a dirle: "Entri dalla porta principale, lo trovi e lo renda felice. Non sa quanto mi fa piacere riaverla di nuovo tra noi...".

"Grazie, grazie, George... ti voglio bene! A presto!".

Sopraffatto dalla commozione, l'uomo crollò a sedere sulla poltrona. Rise in mezzo a lacrime di gioia e sperò ardentemente che nessuno entrasse in quel momento.
Invece, con suo sommo imbarazzo e disappunto, la cameriera era ancora sulla porta e si stava soffiando rumorosamente il naso. Aveva di certo assistito a tutta la conversazione.

"Mi... mi perdoni, ma quando ho sentito la signorina con quel tono di voce che non udivo da tanto tempo non ho saputo resistere alla tentazione e...".

George si ricompose velocemente e alzò una mano per interromperla: "Massimo riserbo, mi raccomando. Si tratta di un momento molto delicato e sarà William a dettare i tempi. La signora Elroy per ora non deve sapere nulla".

"Va bene", annuì quella ritirandosi con un inchino e chiudendo la porta.

George prese un respiro profondo e guardò fuori dalla finestra: era una giornata meravigliosa e quel sole sembrava intenzionato a splendere anche sul loro futuro, adesso.
Per la prima volta dopo il buio dell'inverno, George sentì che era davvero estate piena.
 
- § -
 
Candy si perse nell'ennesimo abbraccio, quello di Tom, che l'aveva vista smemorata per poco, ma che era ugualmente emozionato all'idea che fosse tornata quella di sempre.
Ma non era più tempo per le lacrime, anche se amava tutti loro: adesso Tom doveva portarla alla stazione e non per andare a New York, ma a Lakewood.

Lì c'era l'uomo della sua vita, colui che aveva sofferto forse più di tutti, colui a cui voleva dedicare il resto della propria esistenza da quel momento in poi. Senza riserve, senza barriere, sfidando la società, il mondo e il cielo stesso.

Voleva perdersi fra le sue braccia e non lasciarlo più, vivere l'emozione traboccante di quell'amore che era quanto di più bello e folgorante avesse mai provato in vita sua. Non il sentimento dolce e platonico per Anthony; non la passione giovanile per Terence; ma l'amore maturo di una donna che desiderava unire anima e corpo all'unico che potesse davvero renderla completa.

Quello che c'era sempre stato per lei.

Una parte di sé comprendeva come, senza memoria e con la personalità cambiata, avesse temuto l'intensità di quel sentimento. Ma sapeva che Albert l'amava e che non c'era ostacolo che non potessero superare insieme, quindi vi si abbandonò tremando per l'aspettativa, desiderando essere già lì con lui.

Eppure, mentre Tom spronava i cavalli al galoppo e attraversavano il paese, Candy si rese conto che c'era un'ultima cosa da fare prima di prendere quel treno.

 "Tom, fermati un attimo!", lo pregò quando vide una panetteria aperta.

Lui la guardò stralunato, poi tirò le redini e fermò i cavalli, facendo stridere le ruote: "Che succede?", gli chiese.

"Devo andare a comprare una cosa, aspettami qui un secondo", disse mentre saltava giù e correva verso il negozio.

Quando tornò, lui le stava rivolgendo uno sguardo interrogativo: "Andiamo, Tom, sbrighiamoci. Devo arrivare da Albert quanto prima o mi scoppierà il cuore", disse sorridendo.
Mentre si lanciavano di nuovo al galoppo e lui le scoccava occhiate comprensive, Candy seppe che, stavolta, la sua corsa verso la stazione sarebbe stata l'ultima prima di una vita radiosa.

Fine quarta parte



Sì, certo che c'è una quinta parte e inizierà il prossimo venerdì, con il consueto aggiornamento ;-)

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Capitolo 66
*** Insieme ***


Quinta parte: Give me your love
Io non so parlar d'amore
L'emozione non ha voce
E mi manca un po' il respiro
Se ci sei c'è troppa luce
La mia anima si spande
Come musica d'estate
Poi la voglia sai mi prende
E si accende con i baci tuoi

(.....)
Tra le mie braccia dormirai serenamente
ed è importante questo sai per sentirci pienamente noi
un'altra vita mi darai che io non conosco
la mia compagna tu sarai fino a quando so che lo vorrai.
 
(Io non so parlar d'amore - Adriano Celentano)
---
La senti questa voce
chi canta è il mio cuore
amore amore amore
è quello che so dire
ma tu mi capirai

I prati sono in fiore
profumi anche tu
ho voglia di morire
non posso più cantare
non chiedo di più

La prima cosa bella
che ho avuto dalla vita
è il tuo sorriso giovane, sei tu.
Tra gli alberi una stella
la notte si è schiarita
il cuore innamorato sempre più
sempre più

(La prima cosa bella - Nicola di Bari)
 
 
Le musiche dell'anime di Candy Candy che ho ascoltato mentre scrivevo il capitolo, e che vi consiglio caldamente sono tutte di Takeo Watanabe: "Anthony mio" - "Cita en el jardin de las Rosas" - "El principe de la Colina" - "Naturaleza eslplendida" - "Juventud en Londres". In questo ordine.
 
Insieme

Albert non pensava che quella mattina sarebbe riuscito ad alzarsi dal letto, fare una doccia, vestirsi, mangiare e compiere altre azioni così banali e quotidiane.
Invece lo fece, costringendosi a recuperare il proprio equilibrio: d'altronde era lì per struggersi e piangere la perdita della donna amata o per ricomporre i pezzi, sparsi ovunque, di se stesso?

L'esplosione c'era stata, forte e quasi mortale, ma lui era ancora vivo e doveva occuparsi delle sue ferite.

Si sentiva ancora come se la sua anima viaggiasse fuori dal corpo e lui fosse un semplice spettatore, ma era riuscito persino a raggiungere il roseto per occuparsi personalmente di alcuni cespugli, tagliando rami secchi e annaffiando.

Nel pomeriggio, decise che era ora di un'escursione nel bosco, a contatto con la natura. La natura non l'avrebbe mai abbandonato e sarebbe stata qualcosa da cui trarre forza.
Arrivato in una radura, Albert sedette sull'erba fresca e profumata, sentendo sotto di sé la morbidezza compatta del terreno. Era una sensazione che gli era mancata e che gli evocava libertà, serenità.

Serenità.

Per un attimo si sentì il vecchio Albert, quello che vagabondava con la sacca su una spalla e la sua puzzola sull'altra, girando per il mondo con l'illusione di essere davvero libero.

Libero nel corpo, incatenato nello spirito. E nel cuore.

Le catene dell'educazione rigida, del destino legato al suo cognome e l'amore per lei che cresceva ogni giorno di più, suo malgrado, beffandosi della ragione.

Fuggivo ma ero sempre al punto di partenza.

Alzò il volto e lo offrì al tiepido sole, con gli occhi chiusi, beandosi della sua carezza confortante, sentendosene quasi commosso. Colto da un impulso improvviso, scattò in piedi, fissò l'albero alle sue spalle, scrutando ammirato il tronco nodoso, i rami frondosi...

Sorrise, immaginando Candy che si arrampicava lassù e lo attendeva, con il vestito strappato mentre anche lui strappava la propria camicia nel tentativo di raggiungerla.
Era accaduto anni o secoli prima? Era stato il giorno in cui aveva rivelato alla società la sua vera identità e poi era fuggito subito per respirare, dopo quell'impegno breve ma soffocante.

Ti avevo chiesto di aspettarmi e l'hai fatto. Poi abbiamo preso la barchetta di Stair e siamo caduti nel torrente, ti ho portata nella capanna nel bosco e...

Mentre i ricordi lo sommergevano, Albert si arrampicava, ansimando per lo sforzo. Doveva davvero rimettersi in forma, non c'era dubbio. Afferrò un ramo e perse la presa, quindi ritentò con un grugnito di disappunto. Finalmente, facendo leva col piede in una cavità del tronco, si issò e si mise a cavalcioni.

Una volta trovato l'equilibrio, allargò le braccia e prese un respiro profondo, chiudendo ancora gli occhi. Le foglie sussurrarono nel vento gentile portandogli alle narici il loro odore fresco, così simile eppure diverso da quello dell'erba.

Sto ritrovando me stesso.

Aveva appena formulato quel pensiero quando la vide.

No, era un'allucinazione, ne era certo. Candy era diretta a New York o in procinto di partire, non poteva certo essere quella figura lontana che si avvicinava correndo, chiamandolo per nome.

Quello è il sogno che ho fatto a occhi aperti ieri sulla Collina di Pony, ora sono sveglio e vigile e lei...

Ciononostante, si affrettò a scendere dall'albero, come se il suo corpo già sapesse quello che la mente si rifiutava di ammettere, non precipitando giù quasi per miracolo, tanto gli tremavano gambe e mani, scivolose per il sudore.

"Dio mio...", sussurrò restando vicino al tronco in piedi, appoggiandovisi, i sensi all'erta e il battito cardiaco che accelerava a livelli allarmanti.

Prima che potesse decidere come reagire, lei gli era di fronte, con le spalle che si alzavano e si abbassavano per il fiato corto dovuto alla corsa.

Incapace di emettere suoni, Albert scosse la testa e sbatté le palpebre come per scacciare un fantasma.

O una visione. Devo aver bevuto più del dottor Martin nei suoi giorni peggiori.

Poi lei piantò gli occhi verdi nei propri e il suo cuore tremò: non c'era più la freddezza che li caratterizzava da quando aveva perso la memoria, gli parve di cogliere quasi una nota di dolorosa nostalgia. Di nuovo, gli ricordò la ragazza di una volta e... anche sua sorella Rosemary.

Come vorrei restare così per sempre! Sognando, immaginando che...

Albert la guardò, ansimando per la mancanza d'aria, come se anche lui avesse corso.

Il silenzio tra loro era assoluto e temette che se l'avesse rotto si sarebbe svegliato di nuovo in un mondo dove lei non gli era accanto. Forse avrebbe dovuto farlo, invece di concentrarsi sull'emozione palpabile che si stava delineando sul viso di Candy. E che stava per travolgere anche lui come un maremoto.

Non devo farmi illusioni...

"Oggi è una giornata bellissima, perfetta per un pic-nic", disse con voce rotta, facendolo sussultare.

Cercando di articolare una risposta, boccheggiò prima di riuscire a risponderle con tono simile: "Sì, hai ragione...".

Sto rispondendo a un sogno o a un'allucinazione. Non può essere reale. Non può...

"Sai", continuò lei in tono ancor più malfermo, cercando qualcosa nelle tasche del vestito, "ho portato qualcosa ma...". Tirò fuori un pacchetto avvolto in un tovagliolo e Albert si ritrovò a fissarla con il cuore in gola e le gambe tremanti.

"Cosa hai portato?", domandò con la voce arrochita e incerta, trattenendosi a stento dal circondarla con le sue braccia. Sapeva che, se l'avesse fatto, lei sarebbe semplicemente svanita.

Come in un sogno...

Candy sembrò cercare di trattenere le lacrime quando disse: "Non avevo abbastanza soldi e ho comprato un solo sandwich. Però possiamo dividerlo, se vuoi".

Il mondo si fermò e Albert smise di respirare.

Forse, dopotutto, non è un sogno...

L'onda della consapevolezza lo travolse, ma fu con tono calmo e controllato, appena un po' vibrante, che le rispose, ponendo le mani sulle sue: "Certo, è bello condividere le cose".

Le lacrime cominciarono a brillare e a scorrere sul volto di Candy che, con un sorriso disse: "E io e te abbiamo promesso di condividere tutto".

"Le gioie e i dolori", dissero a una voce, quella di Albert ormai spezzata, il mento che tremava per lo sforzo di controllarsi.

Come se fossero passati solo pochi giorni e non mesi, Candy si gettò tra le sue braccia, proprio come faceva ogni volta che si incontravano o aveva bisogno di essere consolata. Albert accolse il calore del suo corpo rabbrividendo dalla testa ai piedi, qualcosa nel suo petto che esplodeva, qualcosa che gli stringeva un nodo in gola e, soprattutto, qualcos'altro di molto importante che tornava finalmente al suo posto.

"Albert... oh, Albert, mi dispiace! Mi ricordo tutto, tutto! Io... ti ho fatto soffrire così tanto!", piangeva lei aggrappandosi alla sua maglietta, disperata.

Ma Albert non poteva parlare, si limitò a stringerla a sé il più possibile, soffocato e accecato dalle lacrime che gli scorrevano lungo il viso e cadevano tra i capelli di lei, nei quali si immerse, respirò.

"Candy", riuscì alla fine ad articolare singhiozzando.

Aumentò la stretta sul suo corpo, aggrappandosi a lei, sentendola scossa dai suoi stessi singhiozzi.
Entrambi sembravano incapaci di fare altro che muovere le mani uno sull'altra per stringersi, come se volessero fondersi in un'unica entità.
 
- § -
 
Incollata ad Albert, Candy si rese appena conto che stavano cadendo in ginocchio senza mai lasciarsi un istante, come se le gambe avessero ceduto nel medesimo momento per la forza di quell'amore che esplodeva di nuovo, rifiorendo dopo un lungo inverno.

Mentre piangeva, sopraffatta dalle emozioni e dai ricordi, dal senso di colpa e dal sollievo, sentiva il cuore di Albert accelerare, batterle nell'orecchio. Lo strinse convulsamente a sé, chiedendogli perdono e ripetendogli che lo amava e si ritrovò quasi soffocata tra le sue braccia.

Albert, il suo Albert che l'abbracciava, che suonava la cornamusa, che la faceva volteggiare e poi la baciava.

Albert senza memoria.

Albert che la guardava con dolore mentre lei lo scacciava e lo respingeva, Albert che rideva, che piangeva e che divideva un panino a metà con lei.

Un incubo, sono finalmente sveglia dopo un incubo.

Desiderosa di vederlo in viso, Candy si scostò da lui e gli passò le mani sulle guance, asciugando e baciando quelle lacrime e Albert fece lo stesso. Bevvero il sale, cercarono le labbra l'una dell'altro e si persero nella riscoperta del loro calore reciproco.

Quanto, quanto ti ho fatto soffrire, amore mio?

La strinse di nuovo forte e lei avrebbe voluto protrarre all'infinito il calore che la stava invadendo stando così tra le sue braccia.

Piangeva con lei di gioia, di amore represso e di gratitudine, capì leggendogli dentro: perché erano due anime affini, due cuori infine uniti, due destini saldamente intrecciati nonostante tutto.

Voleva baciarlo ancora e alzò il viso verso di lui. Gli parve di rivedere l'Albert di qualche tempo prima, profondamente commosso di rivederla.

Sulla nostra collina, quella mattina luminosa...

"Sono più carina quando rido che quando piango, vero?", gli chiese.

"Ora sei carina anche quando piangi", ribatté lui e, tra le lacrime, scorse il suo viso sorridente nel pianto come un arcobaleno mentre la pioggia ancora cadeva.
E, con quell'ultimo scambio di battute, il cerchio era chiuso.

Senza indugi, avvicinò ancora di più il volto al suo e fu come se le labbra dell'uno calamitassero quelle dell'altra: si incollarono e si aprirono, perfettamente sincronizzate, e Candy pensò che avrebbe voluto essere un corpo unico col suo per potergli stare ancora più vicina di quanto già non fosse.

I singhiozzi si inframmezzarono ai gemiti per la gioia sublime di essere finalmente insieme e lei pensò che se l'avesse presa lì, su quel prato, in quel momento, gli si sarebbe concessa senza riserve. Dopo quella lontananza forzata, dopo quell'incubo in cui aveva vissuto standogli accanto senza poterlo toccare, vittima della sua stessa mente, nulla le sembrava più immorale di rimanere separata da Albert.

All'improvviso, sentì che lui la stava inclinando sull'erba, mentre spostava i suoi baci sul collo e vi affondava il viso. Candy era pronta a sottomettersi a quella passione traboccante quando lui smise, circondandole la vita con le braccia e ricominciando a singhiozzare più forte poco al di sotto del suo seno.

"Albert...", mormorò con un lieve sorriso, alzandosi a sedere e abbassandogli la testa sulle gambe. Lui si lasciò guidare, piangendo nel suo grembo come un bambino, mentre lei gli carezzava con tenerezza i capelli.

Quando era tornata da New York, aveva visto piangere Albert per la prima volta e non era ancora abituata a quel lato fragile di lui. Quel lato fragile che le aveva donato un momento di lucidità nella sala della musica di Chicago, consentendole perlomeno di scacciare via l'odio irrazionale.

Persino quando era uno smemorato non lo aveva mai visto crollare a tal punto. Adesso, però, sembrava non riuscire più a smettere.

"Pensavo di averti persa di nuovo per sempre", singhiozzò spezzandole il cuore.

"No, no, amore mio, sarò sempre con te, te lo giuro. Non ti lascerò mai più", cercò di rincuorarlo. Quante volte lei aveva pianto fra le sue braccia, cercando consolazione? Ora toccava a lei rassicurare quell'uomo di solito incrollabile.

Albert si staccò dalle sue gambe, passandosi un braccio sugli occhi e sul naso: la sua faccia era un disastro, rossa e bagnata come doveva esserlo la propria, d'altronde. Lui prese un fazzoletto dalla tasca e cominciò ad asciugarle il viso con una tenerezza e una devozione tali che Candy ricominciò a piangere.

"No, ti prego, Candy, ho solo questo e deve bastare per tutti e due", disse con una risata roca.

Rise anche lei, asciugandosi gli occhi con le mani e fissandolo per un attimo: "Credo che tu debba soffiarti il naso, William Albert Ardlay", dichiarò cercando di impostare la voce come quella della zia Elroy.

Ridendo ancora e con evidente imbarazzo, lui eseguì, per poi riporre il fazzoletto in tasca e procedendo ad accarezzarle le ultime lacrime con la punta delle dita: "Sono presentabile, ora?", le domandò ancora un po' tremante.

"Sei bellissimo, mio Principe", rispose lei lasciandosi cullare da un altro abbraccio.

"Penso che sia ora che riprendiamo il controllo o rischiamo di annegare. Scusami per aver pianto sul tuo bel vestito, Candy. Non sono riuscito a controllare l'emozione, mi pare ancora di sognare", mormorò baciandole il capo.

"Se non ricordo male ti dovevo una camicia. Ora siamo pari", rise lei alzando il viso e cercando di nuovo il contatto con la sua bocca.
Fu un bacio salato, passionale, senza freni e senza vergogna. Sensuale, affamato. Pieno di sospiri e di "ti amo" biascicati tra le labbra.

Saliva, lacrime, respiro bollente, tutto le invadeva i sensi e Candy offrì di nuovo il collo ad Albert che, con un gemito, lo prese. E la bocca, e le braccia, le mani, i corpi uniti.
"Candy...". Il tono era disperato ma invocava controllo.

Lei gli prese il viso tra le mani e mandò i sani principi a farsi friggere: "Sono tua, Albert. Ora che mi ricordo tutto voglio vivere davvero".

Gli occhi che tanto amava erano annebbiati non più dalle lacrime, ma dalla passione e lui non si lasciò pregare. La sua bocca si aprì e gli schiuse la propria come un fiore.
Le girava la testa, si sentiva debole e fragile e quando sentì il peso del suo corpo gravare e muoversi contro il suo, scostò d'istinto le ginocchia una dall'altra per fargli spazio.
Quel semplice gesto fece aumentare l'intensità delle carezze di Albert, che respirava pesantemente mentre la sua mano si insinuava, incerta, sotto la gonna.

Candy si sentì cadere, risucchiare nell'oscurità mentre il suo mondo era ancora pieno di gemiti e ansiti e la sua pelle bruciava. Un attimo dopo aveva perso i sensi.
 
- § -
 
Albert ebbe una vertigine. Un momento prima stava quasi per fare l'amore con Candy su un prato, quello dopo veniva artigliato dalla paura e cercava di svegliarla.
Il desiderio ardente venne sostituito dal gelo del terrore.

Ma Candy era solo svenuta, forse per lo shock del ritorno della memoria e per la corsa fin lì: era accaduto anche a lui e, anzi, nel suo caso lei era riuscita persino a prendere un treno.

Avrebbe avuto modo di domandarle come fosse successo. Avevano tutto il tempo del mondo, adesso.

"Non credevo di farti addirittura svenire con le mie carezze, amore mio", mormorò dolcemente, ripromettendosi di ripeterglielo quando si fosse svegliata.
Con delicatezza, la prese tra le braccia e la portò nella capanna del bosco.

Se Candy non avesse perso i sensi l'avrei fatta mia senza esitazioni. Stavo per farlo. Non deve più accadere, non ora. Non così.

La depose sul letto e aprì le finestre per far entrare più aria. Candy si agitò e mormorò qualcosa che non comprese.

D'improvviso, Albert fu attanagliato da una certezza: si sarebbe risvegliata di nuovo senza memoria e quell'intermezzo sarebbe stato dimenticato. Invece, lei sbatté le palpebre e gli regalò un sorriso così grande che dovette sforzarsi di non mettersi a piangere di nuovo dalla gioia.

Invaso dal sollievo, le sedette accanto: "Ti senti bene?", domandò prendendole una mano e baciandogliela.

"Sì, scusa se ti faccio ancora preoccupare. Ho corso così tanto che ho dimenticato di mangiare qualcosa... a pensarci bene mi sono addormentata ieri pomeriggio, quindi...", la vide aggrottare le sopracciglia, come se stesse conteggiando da quante ore non metteva nulla nello stomaco.

Albert scoppiò a ridere e fu come scacciare gli ultimi fantasmi: era allegro ed era vicino a Candy e ora le avrebbe preparato un pranzetto coi fiocchi: "Non dire altro, vado in cucina e ti servo qui. Resta a letto, siamo intesi?".

Inaspettatamente, lei arrossì: "Albert, io... quello che ho detto prima...". Sembrava combattuta e lui, che si era già alzato, tornò sui suoi passi, fissandola con attenzione, cercando i suoi occhi che si erano abbassati.

"Ehi, guardami, amore mio. Eravamo entrambi a un passo dal cielo per la gioia di ritrovarci e stavamo per perdere la testa, prima che svenissi. Non dico che sia un male, né che sia sbagliato: sai quanto io odi le convenzioni, proprio come te. Siamo liberi, Candy, ma proprio per questo possiamo anche decidere di attendere il momento giusto. Forse sarò pazzo ma sono convinto che la cosa più bella sarebbe che accadesse quando saremo marito e moglie. E lo saremo presto, non commetterò lo stesso errore che feci quando tornasti da New York. Potrei sposarti oggi stesso alla chiesetta del paese vicino ma voglio regalarti il matrimonio che meriti". Poi, come colpito da un dubbio, titubò e s'interruppe, perso negli occhi brillanti e stupefatti di lei: "Candy tu... vuoi sposarmi, vero...?".

Albert si rese conto che lei stava boccheggiando. Apriva e chiudeva la bocca, emetteva dei suoni e le lacrime avevano ricominciato a scenderle sul viso. Sulle prime non capì se fosse per la troppa felicità o perché era andato così veloce che l'aveva sconvolta.

Poi gli si gettò al collo con un impeto tale che cadde di schiena dall'altro lato del letto, Candy sopra di lui che singhiozzava sul suo collo.

Esalò il respiro che stava trattenendo e le carezzò la schiena con delicatezza, in attesa che parlasse, consolandola e cullandola contro di sé, cercando di non concentrarsi sulla loro posizione poco innocente.

Sono tua, Albert. Ora che mi ricordo tutto voglio vivere davvero.

Represse un brivido e lei finalmente si staccò un poco per dire: "Certo che voglio sposarti, Albert! Lo voglio, lo voglio con tutte le mie forze, lo voglio con tutto il mio amore!".

"Oh, Candy", le rispose tirandosi a sedere per abbracciarla meglio. Non si sarebbe mai stancato di stringerla a sé, di sentire il calore e la dolce sensazione del suo corpo contro il proprio. Tuttavia, il seme del dubbio continuava a germogliare contro ogni logica. "Volevi andare di nuovo da Terence, ieri", gli sfuggì prima che potesse impedirselo.
Lei smise di piangere all'istante e sciolse l'abbraccio per guardarlo in faccia. Sembrava perplessa, quindi assunse un'espressione divertita e ridacchiò, cosa che lo fece sentire un po' stupido.

È appena tornata da me e sono già geloso. Meno male che stavo per riprendere il controllo di me stesso...

Non c'era nulla da fare, Candy sarebbe stata sempre la sua più grande debolezza e lui aveva bisogno come l'aria di sapere, prima ancora di cucinarle quel pranzo che voleva gustare assieme a lei, prima ancora di baciarla di nuovo per accertarsi che fosse reale. E fu con nudo bisogno che la guardò, cosa che lei dovette percepire, perché smise di ridere e parlò con serietà.

"Albert, ho scelto te molto, molto tempo fa. Non dubitare mai di questo. Ciò che ti ho confessato sulla Collina di Pony, quel giorno al mio rientro da New York, è ancora valido. Anzi, oggi i miei sentimenti sono ancora più forti, più intensi... era questa intensità che temeva l'altra me, perché aveva paura di perderti come era già accaduto con Anthony e... con Terry. Ora so che è una stupidaggine. Come era una stupidaggine fuggire per vederlo mentre ero ancora smemorata ben sapendo che, anche in quelle condizioni, provavo qualcosa per te".

"Mi amavi... mi amavi davvero anche mentre non ti ricordavi nulla? Era vero, quindi?", domandò con un filo di voce.

Candy annuì: "Non è stato facile combattere contro il mio cuore. Non ricordavo le cose importanti che erano accadute tra noi e ho distorto in modo orribile la realtà. Non potevo lasciarmi andare e mi odiavo per questo. Sono arrivata persino a incolparti per qualcosa... qualcosa che...", si portò una mano al viso, ricominciando a piangere.

Gliela prese delicatamente, asciugandole gli occhi: "Shhhh... basta, Candy, è passato. Ci siamo chiariti qualche tempo fa, in quella stessa radura, ricordi? Ora non ha più importanza, non eri in te".

"Ma ti ho fatto soffrire così tanto! Sei persino stato in prigione a causa dei Lagan e io non ti ho offerto il minimo supporto, anche se ti vedevo dimagrito e incapace di alimentarti, e... Dio, Albert, dobbiamo parlare di così tante cose!", gemette scuotendo la testa e portandosi le mani alle tempie nel gesto che faceva quando aveva l'emicrania.
"Ne parleremo a tempo debito, ma il passato è passato". Albert rifletté che non sapeva nemmeno se Candy fosse a conoscenza che aveva rischiato la vita, in quel carcere. La cicatrice sulla gamba non era molto diversa da quella che gli era rimasta sul petto a causa del leone e comprese che non poteva nascondergliela a lungo: un giorno sarebbero stati marito e moglie e lei l'avrebbe semplicemente scoperta.

"Prima però voglio dirti una cosa, mio principe", continuò, stupendolo con un tono determinato e dolce. "Per quanto riguarda Terry... oggi sono sicura che, anche se fossi rimasta con lui, prima o poi il mio cuore mi avrebbe riportata da te. Lo avrei fatto soffrire perché la verità è che sono nata per te e l'amore per lui non sarebbe potuto durare a lungo. Siamo troppo diversi, ci conosciamo troppo poco, mentre tu... tu sei stato l'unica costante nella mia vita. Da sempre".

Albert, che già si sentiva scoppiare il cuore, a quella confessione si sentì quasi mancare. Rimase letteralmente senza parole e dovette apparirle molto buffo, perché lei sorrise e gli stampò un bacio sulle labbra prima di aggiungere: "Ora posso avere quel pranzo succulento di cui mi parlavi prima?".

"Certo, amore mio", disse alfine, abbracciandola con trasporto. "Grazie per queste parole. Mi rinfrancano di tutta la sofferenza e le notti insonni e i dubbi e... devi smetterla di farmi commuovere o diventerò un principe pappamolla!", scherzò tirando su col naso e allontanandosi per guardarla con gli occhi umidi.

Lei rise di cuore, rovesciando la testa all'indietro: "Oh, Albert, adoro questo tuo lato sensibile! Ma voglio che tu sia sempre felice".

In un'ultima carezza, mentre si alzava dal letto, mormorò: "Lo sono, amore mio. E sono sicuro che lo saremo per sempre, io e te".

Sentendosi leggero come il vento, caldo come il sole e saldo come le radici di una quercia millenaria, Albert canticchiò mentre cucinava il pranzo più dolce della sua vita.

- § -
 
Su, su, strizzate quei fazzoletti e svuotate quei secchi... sniff... 
 
Fanart-Albert-e-Candy-commissione-Moira

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Capitolo 67
*** Un nuovo mattino ***


Bésame, bésame mucho
Como si fuera esta noche la última vez
Bésame, bésame mucho
Que tengo miedo a perderte, perderte después

(...)
Quiero tenerte muy cerca
Mirarme en tus ojos, verte junto a mí
Piensa que tal vez mañana
Yo ya estaré lejos, muy lejos de ti


(Baciami, baciami tanto
Perché ho paura di perderti
Di perderti, poi

(...)
Voglio sentirti molto vicino
Guardarti negli occhi
Vederti accanto a me
Pensa che forse domani sarò lontano
Molto lontano da te)


(Bésame mucho - Consuelo Velázquez)
 
***
L'aurora dipinge il sole
Il mondo coperto dal blu
Mi sveglio è un nuovo mattino
E il primo pensiero sei tu

(...)
É un nuovo mattino che nasce
Io nasco di nuovo con te
Sei anche tu come un mattino
Dipingi il sole negli occhi miei
Dove non sei e solo notte
Dove tu sei nasce l'amor


(Mattino - Leoncavallo-Pallavicini-Albano)


 
Un nuovo mattino

Candy si svegliò con i raggi del sole che le baciavano il viso. Quando aprì gli occhi e vide Albert addormentato accanto a lei, il cuore si gonfiò a tal punto d'amore che avrebbe voluto toccarlo, sfiorarlo con le labbra, perdersi fra le sue braccia... ma rimase immobile a guardarlo, desiderosa di imprimersi la sua immagine nell'anima.

I capelli dorati spettinati, gli occhi chiusi sotto le sopracciglia ben delineate, il naso dritto che scendeva su labbra carnose per un uomo, ma a loro modo estremamente virili. Amava tutto di lui, ogni singolo lineamento, persino quella piccola fossetta che gli increspò il mento quando fece una smorfia nel sonno.

Avevano parlato fino a notte inoltrata e lei aveva appreso, tra le lacrime, tutte le macchinazioni di Eliza e Neal che avevano causato l'arresto suo e di Archie. Ma, soprattutto, aveva scoperto quanto era stata davvero vicina a perderlo, senza essersene resa conto, a causa di quell'agguato in carcere di cui lei non si era preoccupata più di tanto, da smemorata.

Le ci erano voluti lunghi minuti per smettere di singhiozzare e aveva invocato il suo diploma da infermiera per convincerlo a fargli vedere la cicatrice. Albert si era rifiutato, era arrossito come un ragazzino, ma alla fine si era abbassato i pantaloni quel tanto che bastava per mostrarle la ferita.

Aveva allungato una mano per toccarla, concentrandosi sul lato medico della cosa, ma lo aveva sentito tendersi. Si vergognava un po' di essersi praticamente offerta a lui su quel prato, il pomeriggio precedente, e continuava a pensare a cosa sarebbe davvero accaduto se lei non avesse perso i sensi proprio in quel preciso istante.

In realtà, temeva di aver dato ad Albert l'impressione sbagliata e si era messa in discussione, ma lui aveva persino ribattuto che la colpa era sua, che avrebbe dovuto mantenere il controllo. Lo scambio era finito in parità, senza imbarazzo, ma con la consapevolezza di un desiderio che avrebbero espresso a pieno quando fossero stati sposati.

Ora, guardandolo così abbandonato al sonno, così simile a un ragazzino, così vulnerabile, Candy si sentì struggere: ripensò alla sua sofferenza, alle sue lacrime, a quella fragilità che non sospettava minimamente in lui e che, se possibile, glielo rendeva ancora più caro.

La loro conversazione era continuata fino a ridursi a un bisbiglio e, dalla cucina dove avevano mangiato insieme ridendo e scherzando, si erano spostati in camera da letto. L'idea era che lei dovesse riposare e lui stendersi sul divano o persino su un tappeto nell'altra stanza, ma alla fine si erano ritrovati tutti e due su quel letto con una spontaneità che non aveva bisogno di spiegazioni.

Le emozioni, i dolori, gli eventi fino ad allora nascosti erano emersi a poco a poco e si erano raccontati come se stessero parlando di due persone diverse che si erano conosciute in un passato lontano. Poco alla volta, avevano ripercorso le tappe di quei mesi, condividendo quello che non avevano potuto condividere e scoprendo tutto ciò che mancava per ricomporre le parti mancanti delle rispettive esperienze.

Man mano che le stelle si accendevano nel cielo dietro la finestra e che la luna saliva a illuminarli un po' di più, le parole diventavano stanche, le palpebre sbattevano e, stringendosi le mani e sorridendosi, si erano addormentati senza nemmeno accorgersene.

La prima notte serena dopo tanto dolore.

Emozionata, turbata e immersa nel profumo dolcemente muschiato di Albert, Candy si avvicinò a lui e gli sfiorò le labbra con gentilezza, schioccandovi sopra silenziosi baci, minuscoli e pieni di tenerezza. Mentre lo faceva, rimase folgorata dal cielo terso nei suoi occhi, ora aperti.

Le mani di lui le salirono al viso, sfiorandolo come fosse una porcellana preziosa, e imitò il suo gesto, soffiandole l'alito caldo sul viso e spostando i baci sulle guance, sul naso, sulla fronte.

In un gesto repentino, mentre lei si muoveva per ricambiarlo con un abbraccio, lui l'anticipò e la strinse forte come il giorno prima, immergendo il volto tra il collo e la spalla.
"Ho sognato che era un sogno...", disse con voce rotta.

"No!", esclamò con veemenza, intrecciandogli le mani dietro la nuca. "Sono qui e ti amo. Sono qui... e sono tua".

"Sei mia? Sei mia, Candy?", chiese lui col respiro affannato di chi si sia svegliato da un incubo. "Sei qui, fra le mie braccia...".

Il suo tono era lo stesso di qualcuno che voglia accertarsi di una realtà in cui non crede. Lo rassicurò, gli ripeté che lo amava e si scostò per baciarlo davvero.

Certo, si ricordava della loro decisione. Sapeva benissimo che l'impulso di un momento avrebbe potuto vanificare la promessa reciproca che si erano fatti di attendere il loro matrimonio. Ma come rifiutare il suo tocco così dolcemente audace che scendeva lungo il fianco?

Come resistere all'impulso di toccargli il torace, passando le dita su ogni singolo muscolo, fosse anche solo per accertarsi che avesse rimesso su un po' di carne sulle costole? E come impedirsi di incollare i loro corpi in una sorta di danza esotica mentre gli ansiti diventavano gemiti?

E come non arrendersi alla sensazione così squisitamente ardita di scoprire, nel suo abbraccio, che le sembrava di bruciare di desiderio?

"Candy... vuoi diventare mia moglie adesso?", le soffiò nell'orecchio in un sospiro.

La consapevolezza la avvolse e lei capì che c'erano confini ancora sconosciuti che andavano oltre il suo controllo. E molto oltre quello di Albert.

"Mi spiace... è così bello baciarti che...", sussurrò staccandosi un poco.

"Se ci hai ripensato non mi oppongo", aggiunse in tono seducente.

Candy sospirò: "Ti confesso che ieri mi sono lasciata trasportare dal momento... in realtà un po' di paura ce l'ho, ma non di te... e non è la stessa paura di quando non mi ricordavo nulla. Il fatto è che... insomma...".

Lui la trasse d'impaccio con una carezza tra i capelli. Giocherellò con i suoi riccioli, stendendoli e rilasciandoli: non le dispiaceva averli accorciati, ma doveva confessare che forse così era persino troppo. "Penso sia normale, per una donna. Nulla di strano. Se però vogliamo arrivare fino in fondo alla promessa di aspettare, da oggi vige una nuova regola: evitiamo di dormire nello stesso letto".

Lei fece un piccolo verso di disappunto e lui proseguì, sorridendo ma in tono serio: "Ti ho aspettata per tanto tempo, Candy, ho desiderato così a lungo che ricambiassi il mio amore che non concepisco più il fatto di doverti stare lontano per metà. Ti voglio, anima e corpo, più di quanto abbia mai voluto o desiderato qualcosa in vita mia. Ma ti amo e ti rispetto, quindi aiutami a non sbagliare. Il mio cuore è tuo e sono fatto di carne e ossa".

Commossa dalle sue parole, Candy gli sfiorò il naso con il proprio, si concesse un ultimo, minuscolo bacio e si alzò: "Preparo io la colazione", propose.

"Candy?", Albert sembrava allarmato.

"Che c'è, hai paura che dia fuoco alla cucina?", chiese un po' imbronciata.

Lui sedette sul letto e si mise a cercare le pantofole con i piedi, un gesto così quotidiano e intimo che si sentì come se fossero già sposati.

"Non è questo, è che qui sono rimaste ben poche provviste. Nella villa, invece, avremo più cose da mangiare. Inoltre dimentichiamo una cosa fondamentale", disse alzandosi in piedi.

"Che altro ho dimenticato?", domandò sbattendo le palpebre, confusa.

Lui sorrise: "Lo abbiamo dimenticato entrambi, credo volutamente. Ti sei resa conto che ci sono persone che non sanno affatto che tu hai recuperato la memoria?".

Annie, Archie... la zia Elroy! Candy spalancò la bocca e Albert, indovinando i suoi pensieri, l'abbracciò ponendole un bacio sul capo: "Tranquilla, nessuno ci impedirà mai di stare insieme. E se la prozia avrà da ridire ti porterò con me in Africa e vivremo lì".

"Spero non ci sia bisogno di allontanarti dalla tua famiglia", protestò lei stringendosi al suo petto.

"Sei tu la mia famiglia. Mancano solo dei pezzi di carta da firmare e la benedizione di Dio", concluse avvolgendola con le sue braccia, mentre si dirigevano fuori, verso il sole.
 
- § -
                
Archie lanciò un'esclamazione di gioia e si mise a saltellare per strada, attirandosi gli sguardi perplessi dei passanti.

Albert aveva fatto bene a inviargli il telegramma direttamente agli uffici della banca, dove passava la maggior parte delle ore del giorno a occuparsi degli affari di famiglia: il risultato, però, era stato una sua fuga davanti agli investitori e la manifestazione di felicità con cui stava dando spettacolo.

Ma non gli importava nulla.

Candy aveva recuperato la memoria e lui la sua più cara amica, solo questo contava. Rilesse più e più volte quelle righe per essere sicuro di non essere caduto in errore, ma Albert era stato molto chiaro.

Candy ha recuperato la memoria. Stop. È con me a Lakewood. Stop. A breve altre notizie. Stop.

Doveva andare da Annie, doveva farglielo sapere subito! Ma non poteva lasciare la riunione... che dilemma! La macchina scura che accostò fu provvidenziale.
Archie si precipitò alla portiera, dalla quale stava uscendo un impeccabile George nel suo abito nero completo di cappello.

"Signorino Cornwell, non dovrebbe essere...?", cominciò, ma lui lo interruppe.

"Guarda! Albert mi ha scritto! Candy si ricorda di noi, devo andare a dirlo ad Annie! Oh, ti prego, potresti continuare tu, per oggi? Eravamo a buon punto ma da quando ho letto questo...". Riversò frasi sconclusionate sul poveretto che prima lo guardò perplesso, quindi sorrise.

"Ho già avuto il piacere di scoprire questa lieta notizia. Vada pure a informare la signorina Brighton, del resto mi occupo io", ribatté composto, con l'accenno di un sorriso. Gli occhi luminosi, però, lasciavano intravedere la gioia immensa anche in quell'uomo solitamente così imperturbabile.

"Grazie... grazie!", disse abbracciandolo di slancio, non rendendosi conto di quello che stava facendo finché non si ritrovò avvinghiato a lui.

Il poveretto gli batté una mano sulla schiena con titubanza: doveva averlo messo in imbarazzo.

"Scusa... scusa e grazie!", quasi gridò allontanandosi e salutandolo con il braccio proteso in alto. "A dopo!".

Archie corse. Corse fino a casa di Annie, con il fiato corto e le lacrime agli occhi, senza avvertire la stanchezza o preoccuparsi di cercare una carrozza. Aveva tante energie che avrebbe continuato a correre fino a Lakewood.

Quando la cameriera di casa Brighton gli aprì, per poco non abbracciò anche lei: "La prego, chiami Annie, è una questione di estrema urgenza!".

La donna parve spaventata e fece un passo indietro, la mano sul petto e gli occhi sgranati: "La signorina sta prendendo lezioni di piano, non posso disturbarla...".

Ignorando la seconda parte della frase, Archie urlò un 'grazie' concitato e si precipitò sulle scale, facendo finta di non sentire i richiami alle sue spalle. Fece i gradini due a due, cercando di ricordarsi dove diavolo fosse la stanza del pianoforte, ma fu guidato dalle note forti di Mozart. Cos'era, il Concerto in Do maggiore? Non aveva importanza, perché stava già bussando alla porta e chiamando la fidanzata a gran voce.

La musica cessò e lui si ritrovò davanti un'Annie sconvolta mentre già la stava aprendo e lei stava facendo lo stesso dall'altro lato.

"Candy ha recuperato la memoria! È tutto finito!", gridò.

Annie si portò le mani alla bocca soffocando un urlo e gli occhi le si riempirono di lacrime. Archie non attese oltre e la sollevò in aria, baciandola e facendola volteggiare, ridendo con lei mentre ancora le scendevano le lacrime sulle guance.

"Cos'è tutto questo baccano?!", intervenne una voce femminile che riconobbe subito come la madre di lei.

Archie mise subito giù la ragazza e incontrò il suo sguardo severo. Dalla stanza aperta dove c'era il pianoforte, un'occhiata simile lo stava folgorando da dietro un paio di occhiali dalla montatura sottile: se la signora Brighton e l'insegnate di musica di Annie avessero avuto armi da fuoco al posto degli occhi, lui sarebbe già stato cadavere.
Ma non gli importava nulla.

"Mamma, è arrivata una bellissima notizia! Candy ha recuperato la memoria, Archie è venuto a dirmelo e...".

"Ne sono molto lieta, ma non è questo il modo di presentarsi", fu la gelida risposta della donna. "Archibald Cornwell, avresti potuto attendere al piano di sotto che la lezione di Annie finisse. Inoltre non tollero queste urla da mercato nella mia casa!".

Archie strinse i pugni, incapace di replicare a quella ramanzina stile zia Elroy e guardò il volto costernato di Annie, che ora si stava scusando con la testa china. "Vi chiedo perdono", intervenne. "Sono spiacente, la colpa è tutta mia. Ero così felice che ho dimenticato le buone maniere. Vogliate scusarmi", concluse facendo un leggero inchino alle due donne.

La madre di Annie s'impettì: "Bene. Annie, tesoro, ti prego di terminare la tua lezione. Archibald, tu invece seguimi, per cortesia, desidero parlarti".

Imprecando internamente, immerso in quel silenzio composto e surreale dopo la gioia di poco prima, Archie cominciò a comprendere cosa Candy e suo zio intendessero quando parlavano di voler fuggire dalle regole.

Seguì la signora Brighton in un piccolo studio nello stesso corridoio e lei lo fece accomodare su una poltrona in stile Luigi XIV finemente decorata. Ebbe l'impulso di alzarsi quando la vide rimanere in piedi e porgergli il fianco, mettendosi davanti alla finestra.

Il fatto che volesse restare in quella posizione e che non lo guardasse negli occhi gli evocò una sensazione molto spiacevole. E, infatti, non aveva torto.
"Archibald, so benissimo che tu e mia figlia vi state di nuovo frequentando". Archie s'irrigidì e, d'istinto, raddrizzò la schiena e affondò le dita nei braccioli.

"Signora Brighton...", tentò col suo tono più controllato.

"Lasciami finire, per favore", lo interruppe. "Annie e io viviamo spesso da sole perché mio marito è di frequente in viaggio d'affari. Allevare una figlia che ho adottato non è stato facile, ma ho sempre cercato di fare tutto ciò che è in mio potere per farla felice. E anche suo padre, quando è presente. L'amiamo come fosse davvero nostra e vogliamo solo il meglio per lei".

Certo, come quando le avete impedito di abbracciare la sua sorellina acquisita che ha avuto la sfortuna di fare la serva in casa Lagan. E tutto solo per fare bella figura.

"Tuttavia, alle volte occorre prendere decisioni dolorose per il bene di chi amiamo. E lo scandalo che dareste nel riproporre un fidanzamento dopo aver rotto il precedente sarebbe troppo grave e danneggerebbe sia la nostra famiglia che la tua". La donna aveva un'espressione severa, che colse nel suo profilo.

"La mia famiglia adora Annie. E non vogliamo pagare per un errore...".

"Questo errore vi è costato caro!", sbottò voltandosi verso di lui, rivolgendogli finalmente lo sguardo. "Su questo sono d'accordo con la signora Elroy. Il vostro matrimonio è saltato e... ci sono stati avvenimenti che non possiamo ignorare".

La zia Elroy... avvenimenti... 

La mente di Archie lavorava a pieno regime, cercando di mettere ordine in quelle parole e la consapevolezza lo illuminò come un fulmine.
"Sta parlando... del periodo che io e Albert abbiamo passato in prigione?", chiese alzando il tono.

Lei non rispose, ma si limitò a fissarlo con occhi di ghiaccio.

"Non posso crederci!", esclamò alzandosi in piedi, stufo di rimanere su quella specie di patibolo elegante. "Signora Brighton, la legge ha fatto il suo corso e c'è stato un processo. L'annuncio ufficiale ha ripristinato il prestigio degli Ardlay e quello dei Cornwell, mentre per quanto concerne la zia Elroy...".

"Ci sono macchie che non possono essere cancellate e la gente continuerà a fare ogni sorta di congetture!".

"...odia Candy da quando è venuta a vivere a Lakewood perché era solo un'orfana! E purtroppo, anche l'adozione da parte di una famiglia prestigiosa per lei non cancella quella macchia, se mi passa il suo paragone! Ai suoi occhi, sia lei che Annie vengono dalla Casa di Pony, è per questo che sta facendo di tutto per approfittare di questo errore e che inizialmente si era opposta persino al matrimonio!".

"Non voglio più ascoltarti!".

Archie non credeva che avrebbe mai litigato con una donna dell'alta società, men che meno con la madre di Annie. Ma non poteva più sopportare di essere interrotto e offeso senza dire la verità.

"Bene", concluse in tono più pacato. "In tal caso mi ritiro e mi scuso di nuovo se ho alzato la voce. Ma mi creda, signora Brighton: io e Annie ci amiamo e lotteremo per questo sentimento che abbiamo riscoperto".

La vide accigliarsi e contrarre le labbra in una smorfia di rabbia, ma non le diede modo di replicare, congedandosi. Mentre camminava a grandi passi, furioso tanto quanto era stato felice poco prima, udì il suono del pianoforte che Annie stava suonando e le fece una tacita promessa.

Qualunque cosa accada, Annie, non rinuncerò a te. Mai.

Con quella consapevolezza, uscì di casa Brighton animato da un turbine di emozioni diverse.
 
- § -
 
Elroy Ardlay gettò il telegramma sulla scrivania con un gesto di stizza.

Meraviglioso! E lei, povera illusa, che pensava che le cose sarebbero finalmente andate al loro posto!

Stava già organizzando un grande evento per il mese successivo per presentare a William le migliori donne dell'alta società, certa che per quella data Candice sarebbe stata ben lontana da tutti loro. Invece ora veniva fuori che aveva recuperato la memoria e che sarebbe tornata con lui a Chicago entro pochi giorni!

Questo significava due cose: quello scellerato di suo nipote era a Lakewood completamente solo con lei, fatto gravissimo ai limiti della decenza, e a breve avrebbe avuto di nuovo quell'orfana tra i piedi!

No, stavolta non gliel'avrebbe fatta passare liscia: era guarita, era maggiorenne e non aveva più alcun motivo per avere a che fare con gli Ardlay!

Camminando nervosamente per la stanza, la matriarca rifletté che era appena riuscita a stringere una sorta di alleanza con la signora Brighton per tenere lontana almeno Annie, con la scusa che era sconveniente riproporre un fidanzamento rotto, che si presentava l'ennesimo problema.

Certo, in quel caso aveva dovuto anche fare leva sul buon nome delle famiglie, argomento per il quale entrambe avevano un debole.

"Mettiamola così, signora Brighton: a lei non va a genio che sua figlia sposi un uomo che, seppur innocente, ha dovuto passare delle settimane nel penitenziario di Stato; a me non va a genio che un membro del clan Ardlay sposi una donna di origini sconosciute", le aveva detto un pomeriggio, raccogliendo tutto il suo coraggio per rivangare eventi così spiacevoli.

Le era bruciato dover usare l'incarcerazione di suo nipote come motivazione, specie perché il loro buon nome era stato ampiamente reintegrato, ma non aveva avuto altra scelta.

Sapeva che, una volta tornato, William avrebbe fatto i capricci e puntato i piedi, ma poteva sempre fare appello alla sua salute cagionevole e all'età avanzata per provocare in lui la giusta dose di pena e convincerlo a fare un matrimonio alla sua altezza.

Crollando a sedere sulla sua poltrona preferita, però, Elroy si disse che non poteva fare finta di non conoscere bene suo nipote: quando si metteva in testa una cosa... o una persona, in quel caso, era difficile convincerlo del contrario. Anzi, impossibile.

Il tempo le era contro e il fato di nuovo avverso.

Aveva già perso malamente i Lagan, non avrebbe permesso che accadesse lo stesso con il patriarca della famiglia.

Certo, non aveva la sicurezza matematica che si fosse invaghito di lei, anche se il sospetto era forte e rasentava la certezza. Ma doveva sperare che il baratro che si era aperto fra loro nel periodo in cui lei era senza memoria fosse stato sufficiente a smorzare qualsiasi velleità nei confronti di quella ragazzina.

Ma ora erano soli nella villa di Lakewood, senza nemmeno la servitù. E aveva detto che sarebbe tornato con lei.

Elroy si ritrovò a pregare tutti i suoi antenati che la sostenessero in quella prova difficile che era prossima a dover affrontare.

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Capitolo 68
*** Confronto ***


Confronto

"Io davvero non ti capisco! Non siamo stati già divisi a sufficienza?! Non abbiamo sofferto abbastanza?", si lamentava Albert seguendola passo passo, mentre lei faceva le valigie nella sua stanza, andando dall'armadio al letto. Stava scegliendo poche cose, prediligendo abiti comodi o adatti per quando sarebbe tornata a Chicago.

Candy sistemò un paio di scarpe col tacco più basso e si voltò a guardarlo: "Amore mio, si tratta di pochi giorni. Siamo stati lontani per mesi!", ribatté fermandosi un attimo di fronte a lui e posandogli le mani sul torace.

Lui s'impossessò subito della sua vita avvolgendovi intorno le braccia e stringendosela contro: "Non voglio più passare un singolo istante lontano da te, Candy", disse con serietà, gli occhi socchiusi in due fessure.

"Bert, questo non è da te e lo sai", ribatté con un tono di dolce rimprovero, inclinando un poco la testa.

Albert inspirò profondamente, sciogliendo l'abbraccio e passandosi una mano tra i capelli: "Molte cose non sono più da me da parecchio tempo. Non sono quello di una volta. Lasciarti andare mi costa tantissimo...".

Candy poteva capirlo molto bene, lei stessa era abbastanza riluttante a quell'idea. Ma sapeva che era suo dovere sistemare alcune cose prima di trasferirsi quasi del tutto a Chicago, o ovunque lui l'avesse voluta portare.

"Albert... guardami, per favore", richiamò la sua attenzione ponendogli le mani sulle braccia, costringendolo a voltarsi perché aveva cominciato a passeggiare per la stanza: "Voglio solo mantenere la promessa che ho fatto a Miss Pony, Suor Lane e i bambini, che mi hanno vista in quelle condizioni. Inoltre desidero controllare che le cose alla Clinica Felice siano in ordine e che il dottor Martin non abbia bisogno di nulla. E poi è meglio se tu e la zia Elroy parlate prima per conto vostro, non credo le faccia piacere rivedermi".

Lui serrò la mascella: "Non devi temere la sua reazione, Candy, io non permetterò...".

Candy ridacchiò, scuotendo la testa: "Non ho paura della zia Elroy, Albert! E non hai sentito la prima parte del mio discorso? Tesoro, fammi sistemare solo le cose e poi verrai a prendermi, va bene? Ti giuro che nel giro di una settimana saremo di nuovo insieme!".

"Una settimana", ripeté lui in tono tragico. Prima che lei potesse sottolineare la sua esagerazione, però, chiuse la distanza tra loro con un bacio così passionale ed esigente che le sfuggì un gemito di sorpresa. Lo ricambiò con ardore, senza sottrarsi alla dolce esplorazione della sua lingua e dei suoi denti che le mordicchiavano il labbro inferiore: "Sei sicura di non averci ripensato?", le domandò senza staccarsi troppo, riprendendo a baciarla e soffocando la sua domanda.

"Di che parli?", chiese quando le lasciò un po' di spazio per esprimersi.

Un altro bacio, schioccato a bocca chiusa: "Di quello che mi hai chiesto nella radura".

Candy arrossì, scostandosi un poco da lui: "A... Albert... io per te sarei disposta a tutto, lo sai. E ti amo e voglio diventare tua moglie, però come ti ho spiegato...ho bisogno di tempo per...".

"Tempo, tempo... è tutta la vita che ti aspetto, amore mio!", ansimò Albert cercandole ancora le labbra, afferrando con le sue di nuovo il labbro inferiore e tirandolo dolcemente prima di passare a quello superiore. Poi, come se avesse ripreso il controllo o perlomeno una parvenza, si appoggiò con la fronte sulla sua, le sfiorò il naso col proprio e le sorrise: "Scusami, Candy, non so che diavolo mi sia preso. Mi sei diventata più necessaria dell'aria che respiro, mi hai del tutto stregato".

Candy rimase affascinata da quella confessione e fu con grande emozione che rispose, col cuore in mano e gli occhi incatenati ai suoi: "Io sono tua, te l'ho già detto. E anche se non siamo ancora sposati ti appartengo, amore mio, non dubitarne mai. Conterò i minuti e le ore perché neanche io voglio più stare lontana da te, credimi".

Gli accarezzò quel viso che adorava, riconoscendo nei suoi lineamenti ora il ragazzo vulnerabile che aveva bisogno di lei, ora l'uomo libero e deciso che aveva il controllo della propria vita: ogni suo aspetto non faceva che gonfiarle il cuore di un amore traboccante.

"Va bene", disse baciandole le dita della mano, stringendola tra le sue, "hai ragione, mi sto comportando come un bambino. Non posso né voglio toglierti i tuoi spazi perché sei uno spirito libero e nessuno meglio di me può capirlo. Ma d'ora in poi saremo liberi insieme, non ci sono più ostacoli alla nostra felicità".

"No, nessuno", confermò lei baciandolo un'ultima volta prima di terminare quello che stava facendo.

Mentre Albert annunciava che andava a controllare di aver chiuso tutte le finestre delle stanze al piano inferiore, Candy ebbe il forte presentimento che, quando fossero tornati di nuovo a Lakewood, sarebbero già stati marito e moglie.
 
- § -
 
George accolse William con un grosso sorriso, che si spense non appena vide che era solo.

"Ho lasciato Candy alla Casa di Pony, vuole sistemare delle cose", sospirò, chiudendo la portiera dell'auto e avanzando verso l'entrata, "e, a dire il vero, anche io devo rivedere delle questioni lasciate in sospeso".

George capì cosa volesse intendere: era come se la sua vita fosse rimasta relegata in un limbo da quando la signorina Candice aveva perso la memoria. Anzi, le vite di tutti loro.

A parte gli affari di famiglia più urgenti, non si erano più occupati di cercare nuovi investitori, anche se la grossa battuta d'arresto dovuta all'incarcerazione non lo avrebbe certo permesso. E poi c'era anche il particolare del processo contro i Lagan, del quale voleva discutere con lui.

Mentre si dirigevano verso lo studio, cominciando ad affrontare proprio quel discorso, comparve la signora Elroy e George si fece un po' da parte per lasciarli parlare.
"Sono felice di rivederti, zia. Come stai?", la salutò lui baciandole la mano.

"Come vuoi che stia, dopo aver assistito al tuo ennesimo comportamento sconsiderato?!", borbottò lei con un'espressione di rimprovero. "Vedo che perlomeno hai desistito dalla tua decisione di portare qui quella ragazza".

William non si scompose e le disse con un gran sorriso: "Candy starà qualche giorno alla Casa di Pony per sistemare delle faccende, poi andrò a prenderla personalmente. Lasciami discutere un attimo con George e ti raggiungo per un tè. Dobbiamo parlare".

"Puoi scommetterci che dobbiamo parlare, William!", ribatté lei voltandosi e andandosene senza aggiungere altro.

George prevedeva una tempesta in arrivo che avrebbe fatto impallidire persino quella tropicale di qualche giorno prima e, dal sospiro di William, capì che era del suo medesimo avviso.

Giunti in studio, il patriarca prese posizione dietro la scrivania, cominciando a scorrere i documenti senza in apparenza guardarli davvero: "Aggiornami", esordì.
George si preparò mentalmente. Sapeva che la gioia per il recupero della memoria della signorina Candy occupava ogni angolo dei suoi pensieri, ma capì che si stava sforzando di riprendere le redini delle varie situazioni perché nulla fosse più lasciato al caso.

"Gli avvocati della difesa stanno cercando di patteggiare", cominciò sapendo che era quello che voleva sapere, "e si parla di dieci anni, anche se abbiamo cercato di spingere sull'ergastolo. Purtroppo, uno dei testimoni chiave ha confessato che i Lagan non avevano idea di avere a che fare con la mafia e questo ha giocato a loro favore".

Vide la mascella di William contrarsi, mentre si portava un pugno chiuso davanti alla bocca. La aprì come per dire qualcosa e la richiuse. Strinse le palpebre e, quando parve riprendere il controllo, chiese: "Cosa sarebbe accaduto se Raymond si fosse rivolto a degli avvocati forniti dallo Stato?".

George deglutì: aveva capito alla perfezione la sua domanda. Grazie al prestito che aveva fatto al signor Lagan, egli aveva potuto far riprendere il suo giro di affari e guadagnare abbastanza da trovare avvocati di sua scelta.

Per fortuna, poté rispondere con sincerità perché aveva previsto un'eventualità del genere e si era informato per bene: "Ho avuto modo di discuterne proprio con rappresentanti legali dello Stato, nonché con i nostri: non sarebbe cambiato nulla. La legge parla chiaro e lo stesso testimone che ha scagionato completamente lei e il signorino Cornwell ha confessato in vostro favore e dei Lagan in cambio della sospensione della pena capitale. Non c'era modo di fare altrimenti. La pena massima prevista per i due ragazzi è quella, magari da integrare con lavori socialmente utili in un momento successivo o se dovessero uscire prima per buona condotta".

Le spalle di William si rilassarono, come se si fosse tolto un grosso peso dalle spalle. Ciononostante, si aspettava anche la seconda domanda: "E per quanto riguarda l'incidente di Candy?".   

George camminò lentamente fino alla finestra: "La signorina Eliza ha confessato cercando di risparmiarsi qualche anno di galera, ma non è servito a molto...".

"Aspetta un attimo! Non era catatonica e ricoverata in una struttura religiosa per malati di mente?", chiese raddrizzandosi sulla sedia.

Si volse per guardarlo: "Ha tentato di fuggire, qualche tempo fa, e forse ha finto fin dall'inizio. Non appena l'hanno scoperta, l'hanno rinchiusa nel carcere femminile dove è stata messa sotto torchio e le è stato anche chiesto dell'incidente provocato alla signorina Candy. Sotto la promessa di scontarle la pena, ha ammesso di aver spostato il chiodo e il giudice sta decidendo se accettare o meno il capo di accusa di tentato omicidio voluto dai nostri avvocati".

William rilasciò un lungo respiro e si prese la testa tra le mani, i gomiti sulle ginocchia e la schiena piegata. Sembrava riflettere, vittima di un tormento interiore che lo stava consumando: "Non...", cominciò, poi s'interruppe e giunse le mani davanti alle labbra serrate. "Dovrei lasciar perdere e andare avanti con la mia vita, visto che le cose sono sistemate. Ma non posso. Ho già fatto un atto di fede aiutando Raymond perché sentivo che era giusto, ma non sono pronto a perdonare sua figlia e neanche Neil. Non posso e lui lo sa bene".

"Non credo che lui voglia questo, in effetti", rispose George avvicinandosi e ponendogli una mano sulla spalla. "Non so come andrà a finire questa storia, signorino William, ma lasci che i nostri avvocati procedano come abbiamo stabilito. È giusto che quei ragazzi abbiano la punizione che meritano".

Lui alzò il volto per guardarlo: "Sì, hai ragione. Sono un essere umano anche io e, per quanto odi la violenza e il rancore, semplicemente non posso accettare che chi ha sbagliato resti impunito".

"Bene", gli sorrise lui, "quindi ora possiamo parlare di investimenti?".

"Prima vorrei chiederti una cosa: riusciresti a combinarmi un incontro con Neal al carcere? Voglio parlare con lui da uomo a uomo. Devo chiudere anche questo cerchio".
Negli occhi limpidi di William, George lesse la determinazione. Quella stessa determinazione che aveva suo padre quando si trattava di fare giustizia: "Va bene, me ne occuperò di persona", rispose annuendo.

Era certo che quel confronto fosse ancora più necessario della punizione stessa.
 
- § -
 
Annie prese un lungo respiro.

Puoi farcela, non è la prima volta. Candy te lo ha insegnato.

Ricontrollò il nodo che aveva fatto alla ringhiera e valutò se fosse stretto abbastanza da sostenere il suo peso. Si augurò che anche i nodi intermedi con cui aveva unito le lenzuola lo fossero e, con un brivido lungo la schiena, si accinse a scavalcare il balcone.

Non guardare giù... non guardare giù...

Una folata di vento la fece vacillare e temette di cadere solo per lo spostamento d'aria. Ovviamente non accadde e Annie rimase per qualche istante con i piedi ben piantati sul bordo e le mani strette al parapetto, prima di cominciare a spostarle sulla sua corda improvvisata.

Si aggrappò e, con le gambe tremanti, spostò il proprio peso verso il basso, un piede per volta. Quando a sostenerla non rimasero che le mani, abbracciò le lenzuola intrecciandovi le gambe con un gridolino soffocato.

Se mi sentono è la fine...

Respirò pesantemente, ondeggiando a mezz'aria e non osando diminuire la stretta rassicurante. Ma non poteva rimanere lì appesa, doveva scendere. Così, schiuse un poco una mano per iniziare a scivolare, continuando a sostenersi con l'altra e con le gambe.

Strinse la prima mano in un punto più basso e si lasciò andare. Le lenzuola frusciarono tra le pieghe del vestito corto che aveva scelto per la sua impresa e lei portò più in basso anche l'altra mano: aveva guadagnato almeno *tre piedi e si sentì più fiduciosa.

Ripeté l'operazione un'altra volta ma le gambe la tradirono e si ritrovò appesa solo con le braccia, a un passo dal precipitare. Un piede ondeggiò nel vuoto e Annie perse una scarpa: era così sopraffatta dal terrore che non riuscì a emettere che un sibilo ansimante, il cuore che le scoppiava nel petto.

Il suo errore fu guardare in basso: fu colta dalle vertigini e si sentì in trappola.

Pensa a Candy, pensa a Candy!

Candy faceva le evoluzioni più folli sui rami alti di papà albero, aggrappandosi solo con le gambe e mettendosi a testa in giù proprio come una scimmietta. Lei era solo al primo piano e il terreno non era lontanissimo, anche se le parve per un attimo davvero troppo distante.

Riprendendo il controllo sulle sue emozioni, Annie si riposizionò sulla corda e, con gesti dettati dalla disperazione più che dall'attenzione, finalmente toccò terra.
Si accosciò con una mano sul petto, tentando di riportare la respirazione e il battito cardiaco a livelli normali e fissando il balcone dal quale era appena scesa. Poi recuperò la scarpa, la infilò velocemente e corse via.

Archie la stava aspettando all'angolo della strada come avevano stabilito per telefono.

Pensava che chiamarlo di nascosto fosse l'impresa più difficile, ma non aveva fatto i conti con la fuga.

"Annie! Pensavo che non saresti più venuta!", disse lui abbracciandola.

"Ho avuto qualche difficoltà a uscire, ma è tutto a posto", disse con un risolino nervoso.

"Non ti hanno scoperta, vero?", domandò guardandola negli occhi.

"No. Sono scappata dalla finestra".

L'espressione di Archie fu impagabile: la bocca si spalancò e gli occhi parvero schizzargli fuori dalle orbite: "Annie, sei impazzita?! Potevi ucciderti!".

Lei gli fece l'occhiolino: "Ho avuto una buona maestra", disse sorridendo.

"Ma non è la stessa cosa!", ribatté lui prendendola per le spalle. "Candy è abituata ad arrampicarsi ovunque e tu non sei come lei! Sei cresciuta in una casa dove la cosa più pericolosa che hai fatto è stata salire su un cavallo!".

Annie avvertì un'ondata di ribellione: "Cosa vuoi dire con questo, Archie? Che non posso competere con lei?". Mentre lo disse, si rese conto di quanto fosse infantile la sua gelosia in quel momento.

Eppure la reazione di Archie andò al di là di ogni più fervida immaginazione. Le prese il volto fra le mani facendola vibrare dalla testa ai piedi, inchiodò su di lei gli occhi colore del miele e disse con intensità: "Annie, io ti amo proprio perché sei diversa da lei. Con le tue fragilità, con la tua nuova forza interiore, con questo spirito ribelle che però non offusca la tua naturale eleganza. Tu sei unica così come sei, sei Annie, la mia Annie e morirei se ti accadesse qualcosa".

Prima che, commossa ed emozionata, potesse dire qualcosa, lui la baciò premendo prima le labbra sulle sue, poi cercando l'interno della sua bocca in modo così esigente che le girò la testa. Si arrese e ricambiò il bacio, gemendo di disappunto quando lui lo ruppe.

"Dai, andiamo, ho la macchina parcheggiata nella strada qui dietro. Sbrighiamoci prima che ci trovino". E, prendendola per mano, corse con lei nella notte fino alla loro prossima meta.

Le sembrava di vivere un sogno così bello che rimase a lungo senza parole.
 
- § -
 
Albert era sempre stato contrario alle regole imposte dalla sua famiglia e odiava in modo viscerale dover sottostare a delle rigide formalità. Ma aveva troppo rispetto per sua zia e, a modo suo, l'amava. Rappresentava l'unico parente in vita che gli era rimasto e in più di un'occasione l'aveva fatta preoccupare in modo serio.

Mentre si dirigeva nella sua stanza sentì dapprima la tensione attanagliargli le viscere, seguita da una calma glaciale.

Non era lì per chiederle il permesso, né per cercare di convincerla a tutti i costi, anche se la sua intenzione era quella di conciliare il più possibile le cose.

Entrò e la vide in piedi vicino alla finestra, mentre la cameriera versava il tè nelle tazze. Lo accolse con un cenno del capo e congedò la donna quando ebbe finito.
La porta si richiuse dietro di loro e, finalmente, furono soli. Nessuno dei due però si sedette, né proferì parola. Quel tè non lo avrebbero mai bevuto.

Il confronto era iniziato solo con degli sguardi e Albert, per un momento, si sentì come quando era un ragazzino e aveva di fronte la severa zia che lo rimproverava per un comportamento che reputava scorretto.

In quelle occasioni, la sua ribellione emergeva sotto forma di risate o di scuse ma, essendo solo un bambino, non poteva certo fare molto di più. Adesso era diverso.
Lui era il patriarca e sua zia meritava di certo il rispetto e l'amore, ma non la sua arrendevolezza.

Prese un grosso respiro e si gettò, dicendolo senza mezzi termini: "Io e Candy ci sposeremo".

Nonostante la carnagione scura, la zia impallidì in maniera visibile e Albert fece un passo verso di lei per sostenerla. La donna alzò una mano, impedendogli di toccarla, e sedette da sola sulla sua poltrona preferita.

Non voleva che si sentisse male per colpa sua, ma non poteva farci niente.

"William, dimmi che ho capito male o che è uno scherzo di cattivo gusto", mormorò con la mano su una tempia.

Lui deglutì, a disagio. Era pronto a rinunciare a tutto, persino al suo stesso nome, ma doveva a quella donna una possibilità. E anche a se stesso e a Candy.

"Zia, Candy è stata sotto la mia ala protettiva per molti anni, ma sai meglio di me che, nonostante la differenza di età, non potrei mai essere davvero suo padre", cominciò prendendo il discorso alla larga per studiare le sue reazioni.

"Non è l'età che mi preoccupa", tuonò infatti lei battendo un pugno sul bracciolo imbottito, d'improvviso rinvigorita. "Cosa dirà la gente quando annunceremo che il capofamiglia degli Ardlay sposerà l'orfana che aveva adottato?! Ci attireremo la vergogna per tutte le prossime generazioni e andremo in rovina perché non saremo più credibili nella società!", concluse senza fiato.

Albert chiuse un attimo gli occhi: la donna sembrava sull'orlo di un attacco di cuore e s'impose di restare calmo, attingendo a tutto il suo proverbiale autocontrollo. Le si avvicinò, accosciandosi fino a prenderle una mano: "Cara zia...".

"Non chiamarmi cara zia!", esclamò lei ritirando la mano.

Albert si rialzò, esasperato. Aveva provato a ragionare con lei, ma non era servito a nulla: "Va bene! Zia! Ascolta, non voglio che tu stia male a causa mia, ma devo dirtelo: non voglio più sentire quell'aggettivo quando ti riferisci a Candy. Né da te, né da nessun altro. Candy non è UN'ORFANA. Candy è una persona, una donna dai sentimenti nobili che ha avuto la sfortuna di essere abbandonata quando era piccolina. È cresciuta...".

"È cresciuta in un orfanotrofio, William!", lo interruppe la zia Elroy con voce esasperata, protendendosi verso di lui.

"È cresciuta con due donne che l'hanno circondata di amore ed educata e oggi è una donna gentile e altruista!", continuò sovrastando la sua voce e alzando un po' il tono. "E ti assicuro che il suo cuore è più puro di quello della tua cara Sarah Lagan o dei suoi figli, che al momento sono in carcere per aver tentato di rovinarci!".

Lei lo guardò per un istante con la bocca semiaperta e gli parve che avesse smesso di respirare: era così evidentemente sconvolta che per un attimo se ne dispiacque, ma non poté fare a meno di proseguire. D'altronde le stava solo dicendo la verità: "Tu sei stata testimone di molte ingiustizie subite da Candy da parte di quella che doveva essere la sua famiglia adottiva, eppure hai taciuto. Immagina una bambina che spera di avere due genitori amorevoli, come li ha avuti Annie Brighton, e che invece si ritrova a dover fare da zerbino a due ragazzini capricciosi e a una donna che, pur di difendere i propri figli, la relega nelle stalle coi cavalli!".

"William!".

"Immagina", proseguì alzando un dito per puntualizzare meglio i suoi pensieri e riuscendo solo a sentirsi più minaccioso, "immagina che questa ragazzina si adatti comunque alla vita che le viene offerta, pur di non creare problemi e, anzi, si prende colpe che non le appartengono senza fiatare. E immagina che, nonostante questo, il suo cuore rimanga puro e la sua abnegazione per il prossimo ne sia persino rinnovata. Immagina che finalmente le capiti di trovare degli amici e che poi venga spedita in Messico non appena le sembra di ricominciare a essere felice. Per fortuna a quel punto sono intervenuto io, grazie ai miei nipoti".

"Anthony è morto a causa sua!", gridò la zia con voce rotta. Albert si gelò e si rese conto che era un tentativo tanto estremo quanto disperato di convincerlo di qualcosa che non esisteva. E vide anche la sua espressione contrita, mentre si accorgeva di averla detta grossa.

Albert non la perdonò per questo: "Anthony è morto a causa mia!", ribatté e la voce gli si spezzò. Non pensava che avrebbe dovuto rivivere ancora quell'incubo. Credeva che, dopo tutto quello che era successo, si fosse alfine perdonato. Invece il senso di colpa, per quanto irrazionale, attanagliava ancora il suo cuore e forse lo avrebbe fatto sempre.
Rimase a fronteggiare sua zia, che ora lo fissava con gli occhi pieni di lacrime: "William", ripeté visibilmente addolcita.

Lui capì che aveva scorto i suoi occhi lucidi e si affrettò a ricomporsi, respirando a fondo e passandosi le mani sul viso.

"Non è stata colpa tua. Dio mi perdoni per quello che ho detto", continuò lei. "La caccia alla volpe è una tradizione della nostra famiglia da secoli e se proprio vogliamo trovare un colpevole, quella sono io". La zia piangeva e Albert le fu subito vicino. Alzò gli occhi su di lui e fece una cosa che lo commosse profondamente: iniziò ad accarezzargli i capelli. Non riceveva una carezza così da un familiare da quando era morta sua sorella Rosemary. Le labbra gli tremarono e una lacrima sfuggì al suo controllo.
La zia Elroy vi passò sopra le dita fredde: "Cosa ti ha fatto quella donna, William? Sei così cambiato!".

"Mi ha insegnato cosa significhi amare senza riserve e non tradire mai i propri sentimenti, zia", rispose con voce soffocata. 

Era bastato nominare il dolce Anthony per cambiare in modo drastico i toni di quella conversazione e Albert non credeva si trattasse solo del dolore provocato dal suo ricordo. Lo considerò quasi un segno divino.

La zia scosse la testa, continuando a piangere: "Mi dispiace, William, le tue sono belle parole, ma io non posso cambiare opinione su quella... su Candy così, di punto in bianco".

Albert apprezzò il suo tentativo di chiamarla per nome e si rialzò, non prima di averle baciato una mano: "Non pretendo che tu cambi idea da un giorno all'altro, ma dalle una possibilità. So che Sarah era come una figlia ed Eliza e Neil come dei nipoti, ma loro ci hanno traditi. Candy invece ti ha sempre rispettata".

La donna alzò la testa di scatto, con gli occhi ora asciutti che mandavano lampi: "Non aveva altra scelta, visto che le ho dato un tetto sulla testa e non l'ho spedita in un centro psichiatrico quando era senza memoria".

Albert sedette di fronte a lei, guardandola negli occhi: "Quando ero io senza memoria, lei ha fatto lo stesso e molto di più per me, o te lo sei scordato?".
Si fronteggiarono per lunghi istanti, poi la zia Elroy distolse lo sguardo: "Bene, ora siamo pari. E smettila di elencarmi i pregi di Candice, tu potresti solo essere di parte", commentò.

"Lo erano anche Anthony e Stair? Lo è Archie? E non tirarmi fuori la storia che lei è una donna e noi uomini, perché non regge: Candy era poco più di una bambina quando è arrivata qui". Con questo, sperava di aver eliminato ogni obiezione.

Si alzò di nuovo in piedi, in attesa di un verdetto che per lui aveva un valore solo affettivo. Gli sarebbe dispiaciuto perdere la zia Elroy dopo aver intravisto in lei quel lato umano che pareva aver perduto.

"Dimmi una cosa, William. Perché lei, con tutte le donne del tuo rango che potresti avere? È per gratitudine? Sì, dev'essere così... lei si è occupata di te e hai confuso i tuoi sentimenti", gli disse stringendo un fazzoletto tra le mani.

Albert scosse la testa: "No, zia, non è così. Non credermi tanto ingenuo. Ho incontrato Candy quando era solo una bambina e ho avuto modo di vederla crescere e diventare una donna mentre girovagavo per il mondo. Ho visto la sua forza e i suoi valori e quello che ha fatto per me è stato solo l'ennesima prova di quanto il suo cuore sia puro. Qualsiasi altra donna, inoltre, mi sposerebbe per convenienza, mentre noi lo faremo per amore".

"In società non c'è posto per l'amore", ribatté lei secca, alzandosi in piedi e guardando fuori dalla finestra, vanificando il suo discorso a cuore aperto.

Albert si passò la mano tra i capelli, l'ennesimo gesto di frustrazione. Sperava di non dover arrivare a quello, ma nonostante l'emozione di poco prima erano di nuovo in una fase di stallo: "Va bene, zia. Mettiamola così: io sposerò Candy e questo è imprescindibile. Se per te ciò è motivo di vergogna sono pronto a rinunciare al patriarcato stasera stessa, faccio la valigia e vado con lei lontano da qui. Oppure accetti la cosa e possiamo rimanere tutti uniti. Sta a te decidere".

"Forse non ci hai pensato a sufficienza, William!", disse lei tra i denti, in quello che gli apparve come un ultimo, disperato tentativo di dissuaderlo.

"L'ho amata in silenzio per anni!", esclamò esasperato. "Ho lasciato che facesse la sua vita lontana da me finché non ho più potuto tacere e quando ho finalmente scoperto che mi ricambiava ho rischiato di perderla di nuovo, per ben due volte! Ho sofferto le pene dell'Inferno sapendo di averla vicina ma senza alcun ricordo di tutto quello che avevamo passato insieme, o pensi forse che il mio stato di prostrazione sia dipeso solo dalla permanenza in carcere e dalle preoccupazioni?!".

La vide chiudere gli occhi, poggiando una mano al muro. Sembrava molto combattuta e Albert sperò che si aprisse almeno una piccola breccia nel suo cuore.

"Non voglio convincerti, zia. Ho già l'alternativa e te l'ho ben spiegata. Voglio solo che tu capisca che non sono mai stato tanto convinto di desiderare qualcosa in vita mia", concluse.

Il silenzio cadde di nuovo e Albert non volle romperlo. Nonostante sapesse di essere nel giusto, comprese la lotta interiore di sua zia, quella rigidità che la caratterizzava non sarebbe semplicemente svanita per le sue belle parole.

"Lasciami sola, William. Ho bisogno di riflettere", disse a voce così bassa che la udì appena.

Aveva bisogno di tempo per accettare che il suo unico nipote diretto sposasse una donna che lei non approvava o, peggio, che se ne andasse con lei rinunciando al suo cognome.

"Tuo padre non approverebbe. Come non avrebbe approvato il matrimonio di tua sorella con quel marinaio". Le sue parole ebbero il potere di fargli montare di nuovo la rabbia, ma lei lo interruppe prima che potesse ribattere: "Vai a dormire, William. Ne riparleremo".

Con un leggero inchino, Albert mormorò: "Buonanotte, zia" e uscì per dirigersi nella sua stanza.

E, nonostante la situazione dei Lagan, nonostante la discussione con zia Elroy e nonostante il disappunto, non poté fare a meno di sentirsi felice.
Candy era sua e presto avrebbero condiviso le loro vite. Per sempre.
- § -
 
* circa un metro

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Capitolo 69
*** Di fughe e discussioni ***


Di fughe e discussioni

"Non è così che ti abbiamo educata, Annie!". Candy non aveva mai visto Miss Pony tanto arrabbiata. "E anche tu, Candy! Invece di rimproverarla e avvisare la sua famiglia le hai dato ospitalità nella tua stanza assieme al signor Cornwell!", concluse rimanendo senza fiato, quasi strozzandosi.

Abbassarono entrambe gli occhi, ma fu lei a prendere la parola: "Non potevo fare altro, era notte fonda! E poi Annie ha dormito con me nel mio letto, mentre ad Archie abbiamo dato una coperta ed è rimasto sul pavimento".

Omise che si erano abbracciati e avevano pianto a lungo, saltellando come ragazzini che si ritrovino dopo tanto tempo. In realtà, avevano parlato fino all'alba e non solo di lei e della sua amnesia, ma anche di loro: quello che aveva scoperto l'aveva sconvolta.

Miss Pony si stava pulendo gli occhiali e rivolse un'occhiata a suor Lane come chiedendo supporto. La donna non tardò a intervenire: "Annie, Candy, non dubitiamo della vostra buona fede, né di quella del signor Archibald, che sappiamo essere un gentiluomo. Ma non solo dormire tutti in quella stanza è sconveniente per principio morale, il fatto stesso che loro due siano scappati di sera per venire qui di nascosto è completamente sbagliato!".

"Ma loro si amano e i Brighton e la signora Elroy...!", tentò lei.

"Non ci sono scuse che tengano, Candy!", il suo tono era duro.

Si era appena riunita a loro e già le faceva disperare. Annie fece un passo avanti: "Non rimproveratela, la colpa è mia", disse sconvolgendola. Di solito, quando erano piccole, quella scena vedeva lei farsi avanti, non Annie. "Io e Archie ci assumiamo tutta la responsabilità di quello che abbiamo fatto, ma volevamo vedere Candy e anche chiederle un consiglio".

"Bene, potevate venire qui di giorno, alla luce del sole e avvisando le vostre famiglie", rispose Miss Pony asciugandosi la fronte con un fazzoletto e sedendosi su una sedia.

Candy guardò Annie e quest'ultima ammise: "Ha ragione, Miss Pony, ma eravamo disperati. Siamo maggiorenni, però stanno facendo di tutto per dividerci".

Sbirciò le due donne di sottecchi, mentre riprendevano il controllo. Suor Lane camminava per la stanza con le mani strette tra loro, la schiena dritta e la postura rigida, mentre Miss Pony stava ancora combattendo con le lenti dei suoi occhiali, per cui sembrava che nessun fazzoletto andasse bene.

Prese la mano di Annie, che si volse verso di lei e le sorrise leggermente: "Ho avvisato i Brighton e i Cornwell. Per fortuna il telefono funziona di nuovo. Tua madre è molto in collera con te, Annie". Era Suor Lane, che infine si era fermata per fissarle.

Annie distolse lo sguardo: "Mi dispiace, non volevo mettervi in difficoltà. Andrò via oggi stesso".

"No, Annie!", non riuscì a trattenersi Candy.

La voce perentoria di suor Lane che la richiamava la fece sussultare: "La signora Brighton ha acconsentito a farti rimanere per un altro giorno, così che tu possa stare con Candy, ma domani dovrai tornare a casa".

La speranza le si disegnò in volto: "Davvero?", chiese.

"Sì, manderanno una macchina a prenderti", concluse spegnendo il suo sorriso.

Candy capì che saperla lì con Archie non andava affatto a genio alla madre di Annie e comprese che doveva intervenire. Avrebbe scritto ad Albert, anzi no, lo avrebbe chiamato dallo studio del dottor Martin, per essere sicura di parlargli con calma. Così non solo poteva spiegargli la situazione e indurlo a intervenire almeno con la zia Elroy, ma anche sentire la sua voce.

Determinata a fare qualcosa, ma desiderosa di farsi perdonare, chiese scusa a Miss Pony e suor Lane e disse loro che sarebbe andata alla Clinica Felice di lì a poco.
Mentre faceva la strada di corsa, come una volta, la mancanza di Albert le punse il cuore come una stilettata. Ancora non riusciva a credere di essere stata in quei luoghi con lui e di averlo trattato così male. Si volse a guardare la Collina di Pony e un nodo le strinse la gola.

"Adesso che hai ricreato la scenetta del nostro primo incontro ti senti soddisfatto?".

"Oh, amore mio...", mormorò nel vento, lasciando scorrere le lacrime.

Quando finalmente arrivò a destinazione capì che, prima d'indossare la sua divisa da infermiera ancora una volta, avrebbe dovuto chiamarlo. Se avesse ascoltato il suo cuore, sarebbe corsa da lui in quel preciso istante, lasciando lì persino Annie ed Archie.
 
- § -
 
Elroy Ardlay si accomodò sulla sedia del balconcino passandosi una mano sugli occhi: aveva dormito poco e male.

Ciò che aveva vissuto a causa dei Lagan era nulla in confronto alla prospettiva di quello che sarebbe accaduto di lì a poco e che sarebbe durato per il resto dei suoi giorni. Purtroppo, quello che temeva si era avverato e la dura verità era che non poteva davvero farci nulla.

Non c'erano sotterfugi o inganni che tenessero, perché il coltello dalla parte del manico ce l'aveva William. Se avesse rifiutato Candy, lui avrebbe rinnegato il proprio nome, se l'avesse accettata, avrebbe dovuto sopportare la vergogna per tutta la vita.

Il profumo della natura le invase le narici in un caldo refolo estivo e la donna comprese che doveva fare una scelta. Se William avesse davvero voluto essere duro con lei avrebbe semplicemente deciso di mandarla via, e ne aveva il titolo: invece, pur di non discutere e concedere a tutti un minimo di armonia, aveva scelto le due opzioni meno drastiche, anche se non si trattava certo di passeggiate salutari.

In entrambi i casi, aveva mantenuto il rispetto per lei e di questo doveva dargliene atto.

Poteva, ora, essere così spietata da lasciare che andasse via di casa? Di convincerlo non ci sarebbe stato verso, nel suo sguardo c'era la stessa scintilla che aveva avuto Rosemary e la storia si stava dolorosamente ripetendo.

Gli Ardlay erano destinati a mescolare il loro sangue con persone di basso rango.

Con un verso di disappunto, si alzò bruscamente dalla sedia afferrando la ringhiera di ferro battuto, stringendo le mani e chiudendo gli occhi, sentendo il sudore colarle lungo le tempie.

Stava per prendere una decisione che non le sarebbe piaciuta, ma d'altronde era riuscita a uscire con onore da una situazione ben peggiore, dalla quale aveva temuto di non riprendersi più.

Quando aprì gli occhi fu consapevole che dalla sua risposta a William sarebbe dipeso il corso delle vite di tutti e si sentì rovesciare sulle spalle una responsabilità tale che si sentì, per la prima volta, quasi sopraffatta.

E, per la prima volta, davvero vecchia.
 
- § -
 
Neil Lagan sbatté le palpebre, credendo di avere le allucinazioni.

Quando gli avevano detto che c'era una visita per lui, credeva di doversi confrontare di nuovo con suo padre e l'idea non gli sorrideva affatto: non sopportava di vedere nei suoi occhi il rimprovero, ma meno che mai voleva sentire che sarebbe rimasto lì dentro per i prossimi dieci anni della sua vita, o giù di lì.

Nel momento in cui lo zio William entrò, vestito con il suo abito elegante e il viso appena un poco scarnito, capì che quella poteva essere la sua ultima occasione ed era intenzionato a sfruttarla. Nonostante tutto, il desiderio di essere libero era più forte dell'orgoglio e della consapevolezza dei suoi errori.

La guardia richiuse la pesante porta di ferro, annunciando che avevano quindici minuti. Udendolo, Neil alzò un sopracciglio con aria interrogativa.

"Ho chiesto che ci concedessero almeno cinque minuti più del normale", spiegò lui sedendosi sulla sedia sbilenca e invitandolo a fare altrettanto.

Circospetto, ma non volendolo contrariare, obbedì. Preferì non parlare, per studiare a fondo le sue intenzioni e lo guardò mentre fissava le pareti intorno a loro: "È strano trovarsi qui come visitatore. Devo dire che comunque questo posto non mi manca affatto".

Neil strinse i pugni, furioso. Si sentiva preso in giro e non andava bene: era nervoso, affamato e voleva solo respirare di nuovo aria pura, invece del puzzo dei suoi compagni di cella: "Perché sei venuto a trovarmi?", domandò cercando di mantenere un tono controllato.

Finalmente, William si degnò di guardarlo: "Ero curioso di capire cosa stesse passando per la testa a te e a tua sorella quando avete deciso di rovinarci la vita", disse piano, socchiudendo gli occhi.

Neil deglutì e non poté sostenere il suo sguardo: "Non potevo sopportarlo", mormorò in un sibilo.

"Cosa, cosa non potevi sopportare, Neil?", riprese lui con voce dura, ogni parvenza d'ironia sostituita da una rabbia mal contenuta.   

"Non potevo sopportare che tu avessi tutto quello che non avevo io", spiegò alzandosi in piedi e stringendo i pugni. Avrebbe solo voluto colpirlo.

William si alzò e lo sovrastò con la sua altezza di svariati pollici. Per un attimo, si sentì di nuovo come quando si erano confrontati nella villa di Lakewood, dopo l'incidente di Candy: "A cosa diavolo ti riferisci?! Dannazione, Neil, avevate tutto! Una posizione, soldi, fama e una catena di alberghi aperta con il supporto del nostro clan! Cos'è che ti mancava così tanto?".

"Io...", stava per sputargli addosso tutto il suo odio ma tentò di dominarsi. "Tu sei sempre stato a vagabondare in giro per il mondo. Poi un bel giorno ti presenti e prendi in mano tutto il potere, decidendo delle nostre vite!".

Lo zio lo guardò esterrefatto e Neil si domandò che cosa avrebbe provato a spaccargli quella bella faccia in quel preciso momento: "Ero predestinato fin da piccolo e non devo certo giustificare la mia presenza o la mia assenza a uno come te", ribatté l'uomo di fronte a sé allargando le braccia. "Ho ereditato la mia posizione legittimamente da mio padre, non sono sbucato dal nulla come sostieni!".

"Noi eravamo i nipoti prediletti della zia Elroy e tu dovevi essere solo un vecchietto che a breve ci avrebbe lasciato campo libero per diventare la famiglia più importante", confessò in tono più basso. A quel punto non aveva senso mentire. Sperò solo che la sincerità avrebbe pagato.

"E avete mai pensato che oltre a voi c'erano anche i Cornwell?", domandò William con voce vibrante.

"Archie stava per sposare Annie Brighton contro la volontà di nostra zia e a quel punto tutti i favori sarebbero stati nostri. Avevamo tutte le carte in regola per diventare più potenti di voi". Sedette di nuovo, voltando il capo altrove, conscio di essersi ripetuto quella verità in testa un mucchio di volte e di essere già giunto alla conclusione di aver sbagliato tragicamente il tiro.

"Il potere", sbottò lo zio William e Neil udì i passi nervosi nella stanza. Tenne gli occhi chiusi, colmo d'ira e di rimorso al contempo. "Quel potere di cui parli non equivale a essere felici! Ma capisco che per delle persone che dentro sono vuote, e non hanno in mente altro valore che quello del denaro, questo tipo di felicità sia l'unica cui si possa aspirare".

Gli stava davvero facendo la morale? Come osava? "Se è per questo ti sei preso persino Candy. Era chiaro come il sole quanto vi foste avvicinati...".

All'improvviso, i passi si avvicinarono rumorosamente e lui si ritrovò da seduto a mezz'aria, una mano che gli stringeva la collottola di quell'assurda divisa da carcerato e il fiato mozzo. Gli occhi di William sembravano braci ardenti e il volto era contratto in una smorfia di rabbia tale che sembrava essere posseduto dal Diavolo in persona: "Quindi è stato per questo che avete tentato di ucciderla, maledetti idioti?!". Gocce di saliva gli schizzarono sul viso, i denti erano stretti e le labbra arricciate in una maschera di furia.

Non pensava che lo zio avrebbe osato fargli del male dentro a un carcere, tuttavia capì che nominare Candy avrebbe potuto costargli la vita. Di certo gli stava costando l'ultimo barlume di speranza: "Io... non volevo, ha fatto tutto Eliza! Ho solo finto di spostare quel dannato chiodo, il resto lo ha fatto tutto da sola!".

Con un verso di stizza, William lo lasciò andare quasi gettandolo a terra, dove cadde scomposto, tossendo per la mancanza d'aria: "Siete nel posto che vi meritate! Perlomeno qui non potrete fare del male né a Candy né al resto della mia famiglia", riprese squadrandolo come se fosse sterco di cavallo.

"Io ero innamorato di lei, è stata l'unica... cosa giusta della mia vita", disse vergognandosi per la sua debolezza.

Quelle parole parvero avere uno strano effetto su di lui, perché la rabbia sembrò scemare e si sedette, piegandosi fino a fronteggiarlo: "Hai tentato il suicidio per amore o solo perché sei un vigliacco, Neil Lagan?", domandò scettico.

"Non mi sarei mai messo nei guai uccidendo una persona, tantomeno Candy. E volevo solo togliere di mezzo  gli Ardlay in modo pulito. Non sapevamo che quel tipo che ha contattato Eliza fosse invischiato con la mafia". Si rialzò dal pavimento, deciso a non farsi guardare dall'alto in basso da lui, riprendendo posto sulla sedia.

"In modo pulito? Ti pare onorevole quello che hai cercato di fare insieme ad Eliza?", domandò William rialzandosi e gesticolando con un braccio per sottolineare l'assurdità della situazione.

"No", ammise. Decise che, se non avesse fatto quel salto ora, non lo avrebbe potuto fare mai più. "Zio William, ti prego, tirami fuori di qui, ritira le tue accuse! Ti ho confessato tutto e sono pronto redimermi! Dammi la possibilità di dimostrarti che sono degno di prendermi le mie responsabilità! Mio padre rischia di morire di crepacuore se...".

"Tuo padre morirebbe di crepacuore sapendovi lì fuori a danneggiare altre persone!", lo interruppe, poi strinse gli occhi, fissandolo con attenzione. "Davvero pensi che io ti aiuterei a uscire di qui? Sei serio, Neil Lagan? Non credevo che fossi stolto fino a questo punto".

"Ma come ti permetti?", disse tra i denti. "Mi pare di essermi comportato in modo corretto dicendoti...".

"Mi hai solo confermato quello che sapevo già, anche se devo confessare che non credevo sareste arrivati tanto in basso. Non sembrate neanche i figli di Raymond", dichiarò.

Fu in quel momento che Neil capì di essere perso e si concesse il lusso di lanciare l'ultima cattiveria: "Tu che parli tanto di felicità... neanche tu l'avrai mai, zio William. Candy non si ricorda nemmeno chi sei e cosa ci fai nella sua vita!", disse con un sorriso cattivo.

Incredibilmente, il viso di William si distese in un sorriso tanto sincero che non sembrava più la stessa persona di un minuto prima: "Qui ti sbagli, caro Neil. Candy ha recuperato la memoria e presto sarà una Ardlay a tutti gli effetti, perché diventerà mia moglie".

Qualcosa di più amaro della bile gli salì in gola e lui dovette ricacciarlo indietro a fatica, con un verso strozzato: "Stai mentendo!", gridò come una ragazzina, odiando il suono stridulo della sua voce.

"Oh, no, affatto", riprese lui tranquillo, ricominciando a misurare la stanza a grandi passi. "E ti dico anche un'altra cosa, Neil Lagan: forse un giorno sia tu che tua sorella uscirete di qui", gli si accosciò ancora davanti e nei suoi occhi vide di nuovo ardere il fuoco, "ma non potrete mai, mai più permettervi di avvicinarvi a Candy. Non solo perché a quel punto sarà già la matriarca, ma perché non ve lo consentirò io. Se solo oserete, un giorno lontano, porre su di lei anche solo il vostro pensiero, vi farò rimpiangere di non aver avuto l'ergastolo. Sono stato chiaro?".

A differenza di poco prima, il tono era basso e pericoloso e Neil capì che non conosceva affatto quell'uomo come credeva. Aveva visto il suo lato violento una sola volta, ma pensava fosse dovuto allo shock per quanto era accaduto: dalle descrizioni che aveva sentito in giro e da quel poco che lo conosceva, l'ex smemorato zio William era una persona pacata e amante della natura.

Invece, lui aveva appena conosciuto l'uomo capace di uccidere per la donna di cui era innamorato e, al confronto, quello che provava lui per Candy era poco più di un capriccio. Nonostante ciò, il fatto di saperli felici mentre lui era rinchiuso a marcire là dentro per anni lo logorava e gli faceva desiderare di nuovo la morte.

"Questa conversazione è stata molto illuminante. Ora so che non c'è modo che questa esperienza ti cambi. Non so come la pensa Eliza, ma sospetto che ti somigli molto, in questo. D'altronde, è stata capace di fingersi una malata di mente per tentare di fuggire", disse con tono disgustato.

"Almeno lei ha avuto il fegato di provare ad uscire di scena in modo migliore del mio", commentò quasi a se stesso.

William gli si mise di fronte, guardandolo forse per l'ultima volta: "La parte umana di me prova pena nei vostri confronti, Neal. Ma non riesco a lasciare spazio alla pietà: mi dispiace solo per Raymond, che ha avuto la sfortuna di mettere al mondo dei figli disgraziati come voi. Addio".

Lo vide bussare alla porta per farsi aprire e lanciargli un'ultima occhiata dalla spalla, come se volesse chiudere quel capitolo della sua vita.

Neil fu tentato di augurargli di essere infelice, di avere dei figli storpi o una moglie che lo tradisse. Ma era stufo di tutto quel veleno che soffocava lui per primo.

Rimase in silenzio, guardandolo andare via, odiandolo e nello stesso tempo chiedendosi se, un giorno, sarebbe riuscito a riscattarsi quel tanto che bastava da avere un minimo del suo valore.
 
- § -
 
Albert era appena tornato a casa con un turbinio di pensieri che si accalcavano uno dietro l'altro: da un lato era ancora sconvolto dopo la conversazione con Neal, anche se non si aspettava nulla di tanto diverso da quello che si erano detti, dall'altro era curioso di sapere cosa avesse deciso sua zia, che ancora non aveva avuto modo di vedere quel giorno.

Ma, soprattutto, desiderava ardentemente avere Candy fra le sue braccia e sapere che li dividevano ancora giorni e miglia lo faceva fremere d'impazienza.

Non credeva sarebbe mai stato così dipendente da una donna, ma con tutto quello che aveva passato il bisogno di lei era diventato impellente come respirare.

Quando la cameriera gli annunciò che era in attesa al telefono, si precipitò nello studio ordinando che nessuno lo disturbasse per la prossima mezzora. Come un adolescente impaziente, prese la chiamata senza neanche sedersi alla scrivania.

"Albert, sono io", la sua voce gli penetrò nel cervello e gli trafisse il cuore, neanche fossero lontani da anni.

"Candy, tutto a posto? Vuoi che venga a prenderti?". Il suo tono doveva essere ridicolo, perché lei scoppiò a ridere di cuore e quello fu comunque il più bel suono che si ritrovò a udire quel giorno.

Era davvero senza speranza, completamente in sua balìa e quella consapevolezza lo fece gioire e rabbrividire al contempo. Cominciava quasi a capire il diniego della vecchia Candy a lasciarsi andare a un sentimento tanto potente: la prospettiva di perdere una persona che si amava a tal punto equivaleva semplicemente a morire.

"Bert, no, tranquillo, è tutto a posto. In realtà sono dal dottor Martin ma volevo parlarti di Archie e Annie: sono qui e... hanno un piccolo problema", disse lei.

Albert si sedette sul bordo della scrivania, spostando dei fogli: "Archie e Annie sono lì insieme? Immagino volessero rivederti: ho mandato un telegramma per avvisare lui, qualche giorno fa".

"Sì, ma in realtà... ecco, oltre a volermi vedere... diciamo che la loro è stata una specie di... fuga romantica", aggiunse ridacchiando ancora.

"Che cosa?!", sbottò lui saltando in piedi e facendo cadere una penna e un timbro, imprecando sottovoce e chinandosi a raccoglierli con la cornetta ancora premuta sull'orecchio.

"Che è successo?", domandò lei che doveva aver sentito il rumore.

"Nulla, nulla... spiegami un po' questa cosa", chiese dandosi dello stupido: era così preso dai suoi problemi che aveva ignorato i comportamenti dei due ragazzi. Ora gli erano chiare molte cose: quando li vedeva parlottare senza litigare o le rare volte in cui Archie parlava di Annie... tutto riportava a un'unica conclusione.

"Sono tornati insieme, Albert. Ma la zia Elroy e la signora Brighton si oppongono alla loro relazione", confermò Candy in tono più serio.

Quando gli raccontò come stavano le cose, Albert si accigliò e provò empatia verso suo nipote. Perché le coppie che si amavano dovevano subire sempre le angherie altrui? E la zia Elroy... oh, l'avrebbe sentito!

"Di' loro di non preoccuparsi, sistemerò tutto io. Posso parlare con la zia e se volete tenterò di farlo anche con i Brighton", si offrì senza indugio, domandandosi subito dopo quanto fosse corretto.

"Grazie, tesoro, sapevo di poter contare su di te!", esultò lei come una bambina, riempiendogli il cuore. Avrebbe dato non sapeva cosa per abbracciarla in quel momento.
"Sai che farei qualsiasi cosa per te... e, diamine, voglio molto bene anche ad Archie ed Annie, lo sai", ribatté guardando fuori.

Candy parve esitare per qualche istante, quindi chiese: "Hai poi parlato...uhm... con la zia Elroy di noi?".

Albert sospirò: "Sì, ma non devi preoccuparti di questo. Le ho dato due possibilità e sto aspettando che prenda una decisione. In ogni caso la mia è presa e non tornerò indietro. Quando verrò a prenderti sarà per farti restare, qui o ovunque decideremo di andare, non dubitare di questo", disse in tono fermo.

"Oh, Bert...", Candy sembrava turbata.

"Candy... tu mi ami, vero?", le domandò con voce profonda e, quando lei confermò senza indugi, aggiunse: "Allora fidati di me. Non lascerò che il destino e le persone ti portino di nuovo via".

Il silenzio che seguì fu colmo di significato. Si salutarono proprio come avrebbero fatto due fidanzatini dopo il loro primo appuntamento e non come due persone che si conoscevano praticamente da tutta la vita.

Albert si lasciò cadere sulla sedia, stirando le membra ed emettendo un verso soddisfatto: era così felice che neanche la rabbia provata poco prima poteva cancellare la sua gioia.

Quando bussarono alla porta invitò il visitatore a entrare con voce forte, alzandosi in piedi: era George.

"Signorino William, la signora Elroy chiede di vederla in biblioteca", annunciò.

"Molto bene, arrivo subito", rispose affrettandosi verso la porta.

L'uomo lo squadrò: "Da come saltella sembra che sia stato alla Casa di Pony, invece che in carcere dal signorino Neal".

Albert ridacchiò, poi gli mise le mani sulle spalle e disse in tono cospiratorio, come se fosse un segreto: "Il mio cuore è alla Casa di Pony, in effetti!". Gli fece l'occhiolino e uscì dalla stanza.

Il confronto con la zia era vicino, ma non gli importava nulla: qualunque cosa gli avesse detto, Candy era sua e lo sarebbe stata comunque. Cascasse il mondo.
 

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Capitolo 70
*** Nuove prospettive ***


Nuove prospettive

Annie si appoggiò all'albero e, quando sentì i passi dietro di sé, capì che si trattava di Archie. Gli allungò una mano per indurlo a sedersi accanto a lei e lasciò che la baciasse: nonostante il suo spirito ribelle e la promessa di Candy di parlare con Albert, le lacrime cominciarono a scenderle sulle guance senza che lei potesse farci niente.

"Annie... che succede, tesoro?", chiese lui staccandosi e passandole le mani sul volto, asciugandolo teneramente. Lei gliele afferrò, singhiozzando.

"Perché è andato tutto così storto, Archie? Se solo io non ti avessi mai lasciato... a quest'ora... adesso io e te saremmo...".

"Non dire così", la sua voce era ferma. "Guardami, Annie: la colpa è mia". Le prese il viso fra le mani e inchiodò gli occhi ai suoi, serio come non l'aveva mai visto. "Se io non avessi avuto quei dubbi sciocchi, inducendoti a reagire, non sarebbe accaduto nulla. Ma è servito a rendermi conto di quanto mi stessi sbagliando. Sono certo che le cose si sistemeranno e che lo zio William riuscirà a convincere la zia Elroy a lasciarci in pace".

Annie tirò su col naso, carezzando il dorso della mano di Archie con il pollice: "E mia madre? Se si mette in testa una cosa...".

"Siamo maggiorenni e possiamo decidere delle nostre vite!", la interruppe lui. "Annie, finirò l'università e ti sposerò, anche se dovesse mettersi in mezzo il demonio in persona".

"Archie!", esclamò lei ridendo.

"Così voglio vederti. Devi sempre sorridere, amore mio. Ora baciami, per favore". E Annie lo baciò. Con trasporto, con passione, chiedendosi di nuovo come avrebbe fatto a stare un intero anno separata da lui.
 
- § -
 
La sensazione era quella di un dejà-vù, ma Albert non si era mani sentito così sereno in vita sua: sapeva che, comunque fosse andata, lui avrebbe avuto il controllo della propria vita e, soprattutto, avrebbe avuto Candy con sé.

La zia era in piedi davanti allo scrittoio e gli dava le spalle. Apparentemente aveva qualcosa in mano, ma fu solo quando la sentì singhiozzare che lo sguardo gli cadde sul bicchiere.

Sbattendo le palpebre alla vista del liquido ambrato, Albert fu certo di avere le allucinazioni: "Zia, ma... ma... stai bevendo whisky?".

"La colpa è tua!", sbottò lei voltandosi per fronteggiarlo. Nonostante le sue parole, non sembrava ubriaca... forse un po' alticcia.

"M... mia?", balbettò lui, troppo sorpreso per aggiungere altro.

"Sì, tua", sottolineò lei indicandolo con il bicchiere, "perché se non mi avessi messa di fronte a una decisione così assurda non sarei tanto agitata! Alla mia età e con i miei problemi!", si lamentò passeggiando per la stanza.

Da parte sua, Albert cercò con tutte le sue forze di restare serio. Vedere la zia Elroy tanto sconvolta da essere obbligata ad annegare le sue preoccupazioni nell'alcool gli solleticava l'ilarità come poche altre cose.

"Zietta...".

"Non chiamarmi zietta!", tuonò prendendo un sorso a fior di labbra e facendo una smorfia tanto disgustata che l'aria gli uscì dal naso in una specie di rumorosa risata.
"Stai ridendo di me, William?", il tono indignato fu ancora più divertente e lui si portò una mano davanti alla bocca.

"Ti chiedo scusa, zia, ma non ti avevo mai vista con un bicchiere in mano: è il distillato di papà, vero?", chiese cercando di contenersi per non farla infuriare di più.

"Sì, ne abbiamo qualche bottiglia anche qui. Devo però confessarti che dopo quello che è successo a te e ad Archibald comincio a odiare gli alcoolici". Sembrava più calma e si sedette su uno dei divani a ridosso della parete, annusando dal bicchiere come se cercasse di cogliere un aroma in particolare.

"Anche io ho passato questa fase, ma sappiamo benissimo di chi è la colpa di tutto", ribatté lui, omettendo che solo pochi giorni prima stava cercando, proprio nel whisky, l'oblio di cui aveva bisogno.

 "Non me lo ricordare", sibilò lei ripetendo il finto sorso di poco prima. Doveva avere le labbra che andavano a fuoco, poco abituata com'era.

"Quindi, zia", esordì cercando di arrivare al punto, "deduco che la decisione ti sia costata parecchio", disse girando intorno a un tavolino basso e mettendosi di fronte a lei.
"Siediti, William", gli intimò con tono aspro e lui avvicinò una poltrona imbottita per accomodarsi. "E sia, accetterò la vostra unione", disse in tono solenne, un rivolo di sudore lungo la tempia.

Albert sbatté le palpebre e aprì la bocca per lo stupore: aveva sentito bene? Non aveva forse immaginato che potesse davvero accadere? Ma una cosa era pensarlo, un'altra sentirlo dalla voce chiara seppur altera della zia Elroy, che dopo aver parlato aveva la bocca talmente serrata che non capì se fosse a causa dell'alcool o perché desiderava rimangiarsi la frase.

"Grazie, zia, ne sono davvero...", cominciò.

"Tuttavia", lo interruppe alzando un dito, "mi occuperò personalmente di redarguirla qualora ci faccia sfigurare davanti alla famiglia. Non tollero che la tua futura... moglie... lavori in un ospedale".

Albert deglutì: quello era un problema. Cercò di contrattare: "Può perlomeno occuparsi della Clinica Felice? Si tratta di quella che ho provveduto a ristrutturare assieme all'orfanotrofio. Grazie anche al medico che vi lavora ho recuperato la memoria".

La donna si portò una mano alla fronte come se avesse un forte mal di testa: "Va bene, ma santo Cielo...".

"E magari in futuro...", tentò.

"Non tirare troppo la corda, William", lo ammonì senza alzare la testa ma puntando su di lui uno sguardo che aveva qualcosa di terrificante. Albert sospettò che avesse fatto un sacrificio enorme solo accettandola al suo fianco e rinunciò. Era certo che Candy avrebbe compreso.

"Inoltre", proseguì lei alzandosi in piedi e abbandonando infine il bicchiere sulla mensola del caminetto, "la sua educazione sarà prioritaria e richiederà del tempo. Se intendete annunciare il fidanzamento entro l'anno potrei cominciare a provvedere con un'istitutrice, così che entro un anno e mezzo, massimo due...".

"No", gli uscì di bocca prima che potesse impedirselo. Nella sua testa lampeggiava solo la parola "anno" e non era compatibile con quello che aveva previsto.

"Come, scusa?", chiese la zia con genuina sorpresa, aggrottando le sopracciglia in un cipiglio che non lo spaventò neanche un po'.

Albert prese un grosso respiro e spiegò: "La mia intenzione è sposare Candy entro la fine dell'estate. Il fidanzamento verrà annunciato quando rientrerà a Chicago assieme a quello di Archie ed Annie. L'unica differenza è che loro probabilmente rimanderanno il matrimonio a dopo la laurea di Archie e...".

"Ma cosa ti salta in mente!?", alzò la voce lei battendo un pugno sul tavolo dove c'era un vaso cinese che per poco non cadde. "Non si organizza un matrimonio in due mesi e a così poca distanza da un fidanzamento! E cosa c'entrano Archibald con quella...!?".

Fu sufficiente che posasse su di lei lo sguardo perché la donna terminasse il suo monologo: "Zia", disse con tono calmo ma gelido, "lascia che ti esponga come io desidero che vengano fatte le cose: Candy tornerà fra pochi giorni e daremo una festa intima con gli amici più cari e i parenti più stretti. Archie ed Annie hanno sistemato le cose fra loro e nessuna strana... macchinazione può cambiare questa realtà. Ho anche pensato di chiedere un colloquio con i signori Brighton per intercedere in favore di Archie, se lo vorrà".

"Non è onorevole lasciarsi e riproporre un fidanzamento dopo così poco tempo! Inoltre, sua madre si è opposta alla loro unione dopo che Archibald è stato in carcere", spiegò riprendendo il bicchiere in mano. Era davvero sconvolta, ma lui si sentiva calmo come non gli capitava da mesi.

"Immagino che lei sia contraria per quel motivo inesistente così come tu sei contraria perché Annie non ha origini nobili. D'altronde, è praticamente sorella di Candy, ma dalla sua ha l'adozione di una famiglia di prestigio", disse senza scomporsi, accavallando le gambe e osservando il viso tormentato di sua zia.

"Non puoi chiedermi di accettare due cose così... così spiacevoli nello stesso tempo!", si lamentò portandosi una mano alla fronte.

"Sai cos'è spiacevole, zia?". Albert si alzò e una punta di rabbia cominciò a farsi strada nel suo petto. "Il fatto che tu abbia cercato di convincere Annie e sua madre che sarebbe stato conveniente per entrambe impedire questa unione! Pensi forse che i due ragazzi non si parlino? Non ti credevo capace di arrivare così in basso".

"Questa unione non porta alcun beneficio a nessuna delle due famiglie", insistette lei, voltando la testa di lato e riprendendo a sorseggiare il suo drink, o almeno a tentare di farlo.

"La felicità di due persone non ti sembra un beneficio sufficiente? Ti pare davvero poco?", chiese sconvolto. Sapeva che i matrimoni combinati di quei tempi erano normali, ma era un concetto che lui non aveva mai concepito.

"La felicità, l'amore", elencò accompagnando ogni parola al gesto di alzare il bicchiere come in un brindisi di beffa. "Non è questo il mondo delle famiglie importanti come la nostra! Tu e tua sorella avete gli stessi ideali sconclusionati".

Albert sospirò: "Zia, com'era la mamma?", chiese all'improvviso, lasciandola senza parole a fissarlo come se le avesse chiesto di scolare un'intera bottiglia di whisky invece che un bicchiere.

"Perché me lo chiedi, ora? Cosa c'entra?", domandò, gelata sul posto.

"Neanche lei aveva la tua approvazione? Hai litigato con tuo fratello nonostante lui fosse il capofamiglia?". Sapeva che stava tirando molto la corda, ma voleva arrivare alla radice del problema e farle capire, in maniera inequivocabile, quanto si sbagliasse.

La zia Elroy tornò con aria mesta sulla sua poltrona senza lasciare il bicchiere, ma si limitò a guardarlo. "Anche se fosse, non potevo certo intromettermi: era lui ad avere il potere decisionale, pur se più giovane di me", ammise.

"Ebbene, quando è nata Rosemary cosa hai provato, zia? E quando sono nato io?". Non gli costava poco ricordare che sua madre era morta dandolo alla luce, ma sperava di aprire definitivamente quella breccia nel cuore della donna, quella che aveva visto nel momento in cui lo aveva accarezzato con tanta tenerezza.

"Lo sai benissimo, William!", disse stizzita, prendendo un sorso troppo grande per lei e tossicchiando.

"No, non lo so. Voglio sentirlo da te!", s'impuntò avvicinandosi e sovrastandola.

La donna sbatté le palpebre, come se stesse lottando contro le lacrime, quindi confessò: "Vi ho amati immediatamente. Sei soddisfatto?".

"Sì", rispose con un sorriso. Non aggiunse altro ma guardò sua zia combattere contro le sue emozioni a suon di sorsi di whisky più o meno reali. A un certo punto, decise che era abbastanza e le tolse il bicchiere di mano con gentilezza. "Zia", riprese con un sorriso, addolcito dalla sua battaglia interiore, "non fissarti sui preconcetti e sulla posizione. Ogni tanto segui il tuo cuore. Se un giorno dovessi trovarti fra le braccia un figlio di Archie o... mio, non lo ameresti a prescindere da chi è sua madre?".

Mentre lo chiedeva, avvertì un brivido corrergli lungo la schiena: dopo i giorni di sofferenza e la notte oscura appena superati, la possibilità concreta di avere un figlio da Candy gli faceva vibrare l'anima con un'emozione così sconosciuta e potente che si sentì quasi sopraffatto.

Si concentrò su sua zia, beandosi di quella sensazione che poteva essere davvero dietro l'angolo e la vide annuire.

Era fatta, aveva la zia Elroy dalla sua parte.

Si alzò e cominciò a camminare verso il tavolo per posare il bicchiere, indeciso se bere quel whisky al posto suo o meno, visto l'orario ancora prematuro, quando lei parlò: "Il matrimonio...", disse con voce sconfitta.

"Vogliamo un matrimonio bello e indimenticabile, ma non secondo i canoni che immagini tu. Parlerò con Candy, credo che possa desiderare persino sposarsi alla Casa di Pony", disse con aria sognante.

La zia Elroy si mise una mano sul viso facendo un gemito come di dolore alla menzione dell'orfanotrofio, poi rizzò la testa: "Volete sposarvi in capo a due mesi e non sapete ancora dove volete farlo?!".

Albert la guardò con attenzione, aggrottando le sopracciglia e concentrandosi per un attimo sulla loro ultima conversazione. In effetti Candy aveva accettato di tutto cuore di sposarlo, ma...

"Se devo essere sincero, zia... ehm... non mi sono proposto ufficialmente, ma so già che lei è d'accordo", ammise con un po' d'imbarazzo.

"Non le hai ancora proposto il fidanzamento ufficiale?!", scattò in piedi lei, come se d'improvviso quella fosse la priorità.

"Calmati, zia", disse ridendo e avvicinandosi di nuovo, "ti assicuro che abbiamo avuto modo di parlare molto a Lakewood e lei...".

Lo sguardo assassino che gli stava rivolgendo spense le sue parole: "William, siete stati soli in quella villa per settimane! Sia prima che dopo che Candice recuperasse la memoria!".

Capì dove voleva andare a parare la donna e le mise le mani sulle spalle: "Zia, sono io, William Albert, con chi credi di parlare? Non ti fidi dell'educazione che ho avuto e che hai contribuito tu stessa a darmi?", domandò comprendendo, improvvisamente e dolorosamente, che rischiava di costargli anche piuttosto cara, da quel punto di vista.

Lei fece una smorfia: "Certo che mi fido di te, ma le voci...", cercò di riparare, però si vedeva che era sollevata.

"Nessuno sa nulla, quindi puoi stare tranquilla. La reputazione mia e di Candy sono salve", concluse alzandosi.

"William". La voce della zia Elroy lo raggiunse quando era quasi alla porta.

Si voltò guardandola da sopra una spalla: "Sì?".

"Sono contenta che tu sia tornato... quello di una volta", disse con il fantasma di un sorriso.

Albert chinò il capo e chiuse gli occhi, ricambiandolo: "Ti sbagli, non sono quello di una volta: sono profondamente cambiato. Ma posso dirti che, alla fine dei giochi, oggi sono felice. Davvero felice".

Lei non rispose e lui si richiuse quella porta alle spalle come fosse l'ultimo frammento del passato triste che aveva appena trascorso.
Ora aveva una sola priorità: trovare l'anello giusto e proporsi a Candy.
 
- § -
 
"Allora, Candy, quando ti farà la proposta ufficiale il tuo ragazzo?", disse il dottor Martin alle sue spalle, facendole perdere la presa sul contenitore di siringhe che aveva in mano. Per fortuna si era posizionata sopra a un ripiano, quindi nessuna cadde a terra.

"Beh, veramente... lui mi ha chiesto già di sposarlo, ma non abbiamo parlato dei tempi", ammise portandosi una mano chiusa al mento e voltandosi per guardarlo.
L'uomo scoppiò in una fragorosa risata: "Oh, ragazza mia, sei diventata più rossa di una primula! Eppure lo conosci da una vita, o sbaglio?".

"Sì, certo, ma prima eravamo solo amici", ribatté con gli occhi bassi. Era così bello parlare di Albert come fosse il suo fidanzato, eppure si sentiva in imbarazzo come una bimbetta al primo amore. Cosa che, in effetti, era il suo Principe della Collina.

Ripensò al giorno in cui lui, con il suo kilt, l'aveva raggiunta proprio ai piedi di papà albero dove si erano incontrati la prima volta per cercare di farle ricordare il suo passato. L'aveva trattato così male, anche in quell'occasione, che solo il pensiero le fece salire di nuovo le lacrime agli occhi.

Sentiva nel petto un'oppressione che non aveva mai sperimentato e capì che desiderava la presenza di Albert come non aveva mai desiderato neanche quella di Terence: davvero aveva pensato di riuscire a stargli lontana come aveva fatto in passato?

"Ehi, tesoro, ho forse detto qualcosa di male? Accidenti, dovrei imparare a tenere questa vecchia boccaccia chiusa!", si rimproverò il dottore portandosi una mano sulla nuca, chiaramente in difficoltà.

Candy si asciugò le lacrime con le dita e scosse la testa, regalandogli un sorriso: "No, non è colpa sua, stia tranquillo. È che non credevo che mi sarebbe mancato così tanto. Ero così convinta e intenzionata a tornare qui per sistemare le ultime cose, che pensavo sarebbe sopravvenuta l'abitudine. Invece non riesco a fare a meno di desiderare di essere fra le sue braccia...". Concluse la frase mordendosi le labbra: cosa aveva appena detto al dottor Martin?!

La seconda, grassa risata che udì aumentò il suo imbarazzo. Davvero geniale parlare del lato romantico del loro rapporto proprio a lui! "Beh, non c'è nulla di male, puoi tornare al tuo colorito roseo, cara infermiera! E puoi anche tornare da lui: la tua sostituta non è brava come te, detto fra noi, ma le indicazioni che le hai dato la miglioreranno di certo".

Candy sgranò gli occhi, nel petto un misto di speranza, aspettativa e senso di colpa: "Ma non posso! C'è da organizzare la campagna delle vaccinazioni per i nuovi nati, sistemare le cartelle degli abitanti dei paesi vicini con i dati aggiornati e...".

"Candy", disse lui serio, posandole le mani sulle spalle, "come pensi che abbia fatto a tirare avanti in questi mesi in cui non ci sei stata? Non è la prima volta che ti assenti per un periodo e, anche se dovessi decidere di non lavorare più qui perché ti sposerai, sappi che me la caverò egregiamente. L'unico problema è che mancherai sia a me che ai tuoi pazienti, specie ai più piccoli".

Lei fissò il volto rubicondo e sorridente di quell'uomo così generoso che, sulle prime, non aveva neanche considerato un vero medico. Certo, aveva il suo lato eccentrico, ma era una delle persone migliori che avesse incrociato sul suo cammino: "Grazie, dottor Martin, ci penserò. Comunque non andrò via prima che lo facciano anche Annie e Archie".

Mentre li nominava, Candy sperò che Albert avesse intercesso per loro con la zia Elroy. E che fosse arrivato a un accordo per quanto riguardava lei stessa: lo aveva visto determinato come non mai e non aveva più parlato di prendere tempo perché la prozia si abituasse all'idea.

Di colpo, Candy si rese conto che le cose fra loro erano accelerate in maniera vertiginosa dopo quanto avevano passato e questo non poté che farle piacere. D'altronde, persa nella gioia di essere di nuovo accanto a lui con tutto il suo amore, non si era sentita persino pronta per fare un passo tanto impegnativo quanto deliziosamente folle?

Ancora adesso, si chiedeva da dove avesse preso tanta audacia e come potesse avvertire, dentro di sé, sia la vergogna che una sensazione di profonda giustizia. Mai, nella sua giovane vita, aveva immaginato qualcosa che andasse al di là di un semplice bacio, che fossero quelli rubati di Terence o quelli colmi di passione di Albert.

C'era un mondo nascosto al quale non osava avvicinarsi ma che, come infermiera, sapeva fare parte della normale evoluzione di una coppia sposata. Come avrebbe affrontato quella tappa così delicata con Albert? L'avrebbe guidata impedendole di combinare un disastro? Come doveva comportarsi una donna, secondo le regole della buona creanza? Poteva sentirsi libera di esprimersi con lui, come aveva sempre fatto?

"E adesso a cosa stai pensando?". La voce divertita del dottor Martin la fece ripiombare nella realtà. Aveva di nuovo il viso in fiamme.

"Niente! A niente! Devo andare a controllare il paziente con il gesso, mi scusi", si defilò uscendo dalla stanza seguita dalle ennesime risate di cuore.

Che sciocca a pensarci ora, e proprio in quel momento! Sarebbero di certo passati mesi prima che avvenisse il matrimonio e lei poteva prepararsi mentalmente... come si sarebbe preparata? Con chi avrebbe parlato di una cosa del genere? Se solo Annie si fosse già sposata!

Bussò alla porta dell'uomo col braccio rotto e gli regalò uno dei suoi più calorosi saluti, quindi gli spiegò che doveva procedere con una fasciatura per tenerlo più comodamente al collo, prima di rimandarlo a casa. Lui accettò di buon grado.

Mentre provvedeva con gesti che aveva già compiuto altre decine di volte, però, la mente tornò su Albert e Candy ripensò alle sensazioni inedite che provava ogni volta che lui la stringeva e la baciava.

E alla notte che avevano passato a parlare e dormendo vicini...

"Sei mia? Sei mia, Candy. Sei qui, fra le mie braccia...".

Albert si era risvegliato da un incubo: le era apparso così fragile, così profondamente innamorato di lei! Lei lo aveva baciato e accarezzato e si era stretta a lui...

"Candy... vuoi diventare mia moglie adesso?"

Stava per superare quel limite? Era così facile che ciò avvenisse?

"Da oggi vige una nuova regola: evitiamo di dormire nello stesso letto".

Potesse bruciare fra le fiamme dell'Inferno, Candy desiderava con tutto il suo cuore e il suo corpo condividere lo stesso letto con Albert per tutto il resto della sua vita.
"Ehm... infermiera, è sicura che la fasciatura debba essere così stretta?", la voce titubante del paziente la fece di nuovo tornare al presente.

Con orrore, si rese conto di aver allacciato la fascia lasciando così poco spazio al braccio ingessato, che il poveretto ce l'aveva appeso praticamente sotto al mento. Diamine, aveva persino fatto un fiocco al nodo dietro alla nuca!

"Oh, mi scusi!", esclamò piena di vergogna portandosi una mano alla bocca e affrettandosi a sistemare quel disastro.

Il paziente sbottò a ridere, rovesciando la testa all'indietro: "Non si preoccupi, lei è così carina e simpatica che può farmi tutti i fiocchetti che vuole!", commentò imbarazzandola ancora di più.

Certo, anche in passato aveva combinato piccoli, grandi guai attirandosi i rimproveri della dottoressa Mary Jane, ma ora era diverso. Era troppo distratta da Albert e forse sarebbe stata una buona idea seguire il consiglio del dottor Martin e tornare indietro con Annie e Archie, il giorno successivo.

Magari gli avrebbe fatto una sorpresa.

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Capitolo 71
*** Gelosie ***


“Chi non è geloso non ama.”
Sant'Agostino
 
 
Gelosie

Archie arrivò alla Collina di Pony e si mise ad ammirare il panorama: era davvero bellissimo. Valutò se provare ad arrampicarsi sul grande albero ma rinunciò. Non era allenato a quel tipo di evoluzioni e voleva evitare incidenti, specie in un momento così delicato della sua vita.

L'aria tiepida della sera estiva gli scompigliò i capelli e gli diede un senso di beatitudine profonda. Appoggiò la schiena al tronco, sedendosi sull'erba, e chiuse gli occhi. Quando sentì dei passi, la chiamò per nome.

"Mi spiace, sono io... se vuoi vado a chiamarla", disse la voce di Candy.

Alzò lo sguardo e le sorrise: "No, non importa. Mi sono accorto degli sguardi di Miss Pony e Suor Lane quando si rendono conto che siamo stati da soli da qualche parte. Capisco che non approvino la bravata che abbiamo fatto e non mi scuserò mai abbastanza con loro".

Lei gli sedette accanto, guardandolo negli occhi: "Non preoccuparti, Archie, sono certa che nonostante tutto capiscano quanto sia forte l'amore che vi lega, altrimenti non vi avrebbero concesso un altro giorno. A proposito! Ho telefonato ad Albert, questa mattina, e mi ha promesso che avrebbe parlato con la zia Elroy per cercare di sistemare le cose".

"Sì, lo sapevo, me l'ha detto Annie oggi pomeriggio. Quella che mi preoccupa è sua madre, ma con lei devo parlare io. Dobbiamo ricominciare tutto da capo, Candy, e poi io dovrò stare via almeno un anno per andare all'università. Mi sembra un tempo infinito", concluse con tristezza.

Candy sospirò, si abbracciò le ginocchia e guardò verso la luna che splendeva davanti a loro: "Non sai quanto ti capisco. Io e Albert siamo stati praticamente divisi per tanti mesi e lui non voleva neanche che io venissi qui. Il problema è che anche a me manca e domani ho intenzione di partire con voi per raggiungerlo: mi daresti un passaggio?".

Archie annuì: "Certo, nessun problema. Annie invece tornerà con sua madre e l'autista... potrei parlarle domani stesso!", s'illuminò.

Candy fece un gran sorriso: "Questa sì che è un'ottima idea! Potreste annunciare il vostro nuovo fidanzamento non appena tornate a Chicago, così partirai per il Massachussets più a cuor leggero!".

"Sì! E la prima cosa che farò al mio ritorno sarà annunciare il nostro matrimonio!". Archie si sentì di nuovo infervorato e fece un sospiro che doveva essere di sollievo. In realtà quel periodo di attesa gli sembrava ancora senza fine, proprio come la volta piena di stelle sopra di loro.

Voleva guardare quel cielo con Annie ed era certo che anche Candy avesse in mente di volerlo fare con Albert.

"Archie?", lo chiamò quasi timidamente. "Ora è... tutto a posto? Voglio dire, tra voi si è sistemato tutto e mi chiedevo... sì, insomma, poco prima del mio incidente Annie mi ha parlato di voi...". Nonostante la scarsa luce lunare, la vide arrossire un poco ed evitare il suo sguardo.

Le mise una mano sulla spalla, sorridendo: "Cara Candy, mi dispiace molto di averti coinvolta in quell'equivoco. Ma sarò sincero: a quel tempo era davvero convinto di essere ancora innamorato di te".

Mettere a nudo i suoi sentimenti lo imbarazzò molto, ma doveva a Candy la piena sincerità. Si era voltata di scatto, spalancando gli occhi: "Archie, ma...!".

Lui scosse la testa, interrompendola: "Ora so che mi sbagliavo, che forse si trattava del sentimento immaturo di un ragazzo che non aveva compreso appieno i suoi reali sentimenti. Quando mi dicesti che Annie teneva a me, alla Saint Paul School, ti ricordi?". Lei annuì. "Allora ero deciso a scoprire se potevo darmi la possibilità di amarla. Il mio errore fu paragonarla sempre a te".

Il cipiglio di Candy trasudava rimprovero e lui incassò la testa nelle spalle: "Sì, lo so, è stato idiota da parte mia. Il problema è che mi sono accorto di quanto il mio cuore avesse fatto passi da gigante solo dopo che lei ha avuto il fegato di lasciarmi", confessò.

"Allora è vero quello che dicono sulla lontananza delle persone che si amano", ribatté lei tornando a guardare il cielo.

"Già. A svegliarmi è stato proprio quel suo atto di ribellione, che mi ha mostrato una Annie matura, consapevole. Ma, nello stesso tempo, ho riscoperto la sua sensibilità, la sua eleganza, la sua finezza e quel lato così deliziosamente infantile che...".

Candy ridacchiò e lui s'interruppe, certo di essere diventato più rosso del sole del tramonto di un paio di ore prima, tanto si sentiva avvampare: "Direi che non ci sono più dubbi". Puntò su di lui il dito indice e proclamò con voce tonante: "Archibald Cornwell, sei ufficialmente cotto e stracotto, innamorato perso della mia sorellina!".

Lui scoppiò a ridere, grato e felice per quell'uscita così da Candy. Realizzò solo in quel momento quanto gli fosse mancata e quanto la considerasse davvero come una sorella anche lui.

Per un po' rimasero in silenzio, mentre le risate si spegnevano, poi Archie riprese: "E per quanto riguarda voi? Vi siete innamorati mentre eravate in quell'appartamento, non è vero? Scusami, non voglio essere indiscreto, ma già all'epoca sembravate così... una coppia!". Non lo aveva mai detto ad alta voce, ma era certo che tutti lo avessero pensato. Si ricordava bene la preoccupazione negli occhi di Albert quando Candy era tornata, disperata e febbricitante da New York, dopo aver lasciato Terence.
E si ricordava dell'armonia in quel piccolo appartamento, del pic-nic quando ancora Stair era vivo...

"Sì, oggi posso dire che è così", interruppe lei i suoi ricordi. "E forse, se non avessi mai incontrato Terry, sarebbe accaduto prima. Quando eravamo a Londra scappavo da scuola solo per andare allo zoo a incontrare Albert ed era il periodo in cui i miei sentimenti per Terry stavano cambiando...". Candy parlava come se stesse comprendendo ciò che provava allora in quel preciso istante e lui tacque, non volendola interrompere. "Ma io ero solo una ragazzina e lui mi sembrava già adulto... e lo spirito ribelle di Terence...".

"Candy...?", la chiamò guardandola, mentre lei perdeva il proprio sguardo nell'orizzonte e si portava le mani intrecciate alla bocca.

"Sì, ora lo so. Ho amato Terence ma, come ho avuto modo di dire anche ad Albert, era un fuoco che prima o poi ci avrebbe bruciati. È sempre stato lui, è sempre stato Albert il mio destino... il mio principe...". S'interruppe di botto, come se si fosse resa conto che stava parlando troppo. "S... scusami, Archie, non so cosa mi sia preso. Dev'essere il ritorno della memoria che mi ha resa così... così...".

"Così assolutamente te stessa?", le domandò lui protendendosi per asciugarle una lacrima, e poi un'altra, quindi passandole il fazzoletto che aveva in tasca. "Perché sei venuta qui se ti manca tanto?".

"Perché era quello che voleva fare la vecchia Candy. Ma ora mi rendo conto che ce n'è una nuova di zecca che sta prendendo il sopravvento", disse asciugandosi gli occhi. "Sono stata per tanto tempo separata da lui, ma non avevo mai provato una nostalgia così struggente. È come se non avessi aria da respirare", spiegò tirando su col naso.

Archie restrinse le palpebre: "Esattamente", confermò annuendo piano. "Credo si chiami... com'è che lo hai definito? Essere innamorati cotti".

Lei rise tra le lacrime, riprendendo il controllo: "Piuttosto direi che è l'amore maturo, quello che ti farà battere il cuore per tutta la vita. L'altro ti completa a tal punto che non puoi più farne a meno".

E allora Archie capì. Capì che era persino folle pensare che sarebbe potuto rimanere più di un anno lontano da lei. Che non solo l'indomani avrebbe parlato con la signora Brighton, ma che sarebbe stato anche disposto a sposare subito Annie e a portarla con sé.

Era assurdo, era da pazzi: uno studente universitario con una moglie? Senza una posizione precisa, anche se faceva parte di uno dei clan più potenti degli Stati Uniti? Non era stato lui a dirsi convinto che voleva offrirle il meglio? Ma il meglio non sarebbe stato una laurea. Dannazione.

"Tutto bene?", chiese Candy agitandogli una mano davanti agli occhi.

Archie l'afferrò, quasi selvaggiamente e le chiese con fervore: "Ti prego, Candy, augurami buona fortuna! Ho appena deciso che domattina chiederò la mano di Annie a sua madre!".

Lei emise un gridolino di gioia, poi disse: "Ma Annie lo sa?".

"No, come non sa che voglio sposarla prima di partire per il Massachussets".

"Che COSA?!".

"L'ho deciso adesso! Oh, Candy, parlare con te mi ha aperto gli occhi!", confessò, esaltato come non mai.

"E allora fallo, ma trova cinque minuti per dirlo prima alla diretta interessata o potrebbe svenire per l'emozione!", rise lei, finalmente serena.

"Oh, ma certo che lo farò, sicuro che lo farò!", esclamò abbracciandola con fervore.

In quel momento, un gridolino soffocato gli giunse alle orecchie. Perplesso, si staccò da quell'abbraccio fraterno, guardando Candy che aveva la medesima espressione in viso e poi voltandosi per incontrare gli occhi spalancati di Annie e la mano premuta sulla bocca.
 
- § -
 
Albert si svegliò con un verso gutturale che gli risaliva in gola e capì subito che stava cadendo.

Dal letto, per la precisione, sbattendo lo zigomo e la fronte sul comodino lì a fianco.

"Dannazione!", imprecò, chiedendosi quanti risvegli del genere dovesse ancora sopportare.

Il maledetto incubo lo aveva fatto disperare e non era il primo. Mentre si rialzava strofinandosi con una mano la parte lesa, comprese che non sarebbe stato neanche l'ultimo. Albert aveva letto, su alcuni libri di psicologia, di sindromi post-traumatiche molto forti nei reduci di guerra che potevano portare anche ad avere degli incubi.

Ovviamente la sua situazione era ben diversa, e non si sarebbe mai sognato di paragonare la partecipazione a un conflitto con quello che gli era capitato. Ma era pur vero che, dopo che gli avevano comunicato la falsa morte di Candy, lei aveva avuto l'incidente ed era stata senza memoria e lui si era persino ritrovato sbattuto in galera, beh... qualunque essere umano, anche il più equilibrato, avrebbe accusato i colpi.

Se aveva recuperato appieno per quanto riguardava l'alimentazione, tornando quasi al suo peso forma, l'insonnia e gli incubi continuavano a perseguitarlo quasi ogni notte. Persino dormirle accanto non aveva impedito che accadesse.

Andò in bagno per sciacquarsi il viso sudato con acqua fresca e gli venne in mente che aveva avvisato tutti tranne Adrian Carter. Se non fosse stata notte, lo avrebbe chiamato subito. Forse era persino il caso che facesse un'ultima chiacchierata con Candy, anche se la sapeva accanto al pur competente dottor Martin.

Tornando in camera, Albert seppe perfettamente cosa doveva fare: ora che aveva la benedizione della zia Elroy doveva parlare anche con Miss Pony e Suor Lane. Avrebbe fatto un'improvvisata alla Casa di Pony, cercando di trattenere l'impulso irrefrenabile di sposarla nella cappella attigua l'indomani stesso.

Il tempo di annunciare il fidanzamento, vedere Carter e attendere l'arrivo di Patty dalla Florida e il matrimonio sarebbe avvenuto. Magari non sarebbero terminati gli incubi, ma di certo il futuro da sogno era a portata di mano.
 
- § -
 
Annie pensava che si trattasse di un incubo, invece era reale.

Archie e Candy erano seduti sull'erba, vicini, lui le aveva afferrato le mani, guardata con intensità e abbracciata. Non aveva la più pallida idea di cosa si stessero dicendo, ma aveva colto da lontano i toni vibranti.

Bugie... solo bugie... e lei non è innamorata di Albert?

"Annie!", la chiamò correndole incontro, il panico disegnato in volto.

"Non ti avvicinare", rispose tremando e non per il freddo, nonostante fosse uscita a piedi nudi e in camicia da notte proprio nella speranza d'incontrarlo e parlargli da sola prima della partenza della mattina dopo.

Cosa aveva pensato? Cosa si era messa in testa di proporgli, lei che era una donna? Ma, soprattutto, come aveva potuto credergli?

Era sincero. Non ho mai visto tanta passione nei suoi occhi.

E allora? Possibile che il ritorno alla normalità di Candy avesse, ancora una volta, cambiato i suoi sentimenti?

"Annie, per l'amor di Dio...!", supplicò lui, facendo un passo avanti. Lei ne fece uno indietro.

"Non nominare invano Nostro Signore!", strillò isterica, non sapendo cos'altro dire.

"Annie, hai frainteso tutto!", la voce di Candy la raggiunse e lei, accecata com'era dalla rabbia, la guardò con furore.

"Vi stavate abbracciando! Volete forse negarlo?", esclamò girando il capo da uno all'altra. Non sapeva se fosse gelosia irrazionale, non sapeva se avesse davvero frainteso. Sapeva solo che i vecchi sentimenti le erano esplosi nel petto trasformandola di nuovo nella Annie insicura di una volta.

"Era un abbraccio fraterno, Annie, stavamo parlando di te! E di Albert", concluse voltandosi verso Candy, che annuì con vigore.

Lei continuò a fissare Archie e Candy, ansimando e sentendo le lacrime riempirle gli occhi: "Ho visto come vi guardavate, come le hai preso le mani, come l'hai stretta a te! Non sembrava affatto un... un...". Scossa dai singhiozzi, Annie si coprì il viso con le mani, incapace di continuare.

Si sentiva il cuore spezzato, si sentiva presa in giro e, nonostante tutto, in lei ardeva il desiderio di essere davvero caduta in errore.

Pianse finché non sentì le mani, calde e ferme di lui ai lati delle braccia. Pronunciò il suo nome con un dolore tale che le ferì l'anima: "Non mi toccare!", strepitò divincolandosi, ma lui la prese con forza, scuotendola. I suoi occhi sembravamo mandare lampi fiammeggianti.

"Ora basta, Annie! Possibile che dopo tutto quello che ci siamo detti tu ancora non ti fidi di me?! E di tua sorella? Come puoi dubitare di quello che provo, come puoi ancora avere dei moti di gelosia simili? Non ci eravamo forse chiariti?!". A ogni frase la scuoteva un po' più forte e lei sentì i denti sbattere tra loro, mentre si accorgeva che gli occhi di Archie stavano diventando lucidi.

"Ma, io... io...". Sconfitta e tremante, desiderosa di credergli, perse momentaneamente l'uso della parola.

"Annie, Archie mi ha abbracciata perché ha preso una decisione molto importante che ha voluto condividere con me. Eravamo così felici che...", Candy si stava avvicinando a loro e Annie riuscì finalmente a esprimersi.

"Quale? Che decisione?! Di cosa eravate felici?". Le sue domande sembravano quasi minacciose e Archie s'irrigidì.

"Vuoi proprio saperlo, Annie?", le chiese in tono vibrante.

"Sì, voglio saperlo", confermò cercando di rimanere calma, stringendo i pugni.

Come in un sogno al rallentatore, Archie s'inginocchiò di fronte a lei, le prese una mano e piantò gli occhi nei suoi. Dietro di lui, con la coda dell'occhio, poté scorgere Candy portarsi le mani alla bocca con un'espressione di sincera emozione.

Ma prestò ad Archie tutta la sua attenzione quando le disse: "Annie Brighton, vuoi farmi l'onore di diventare mia moglie?".

Annie emise un urlo strozzato e la mano le salì alle labbra. Lacrime bollenti ripresero a scenderle sulle guance e non riuscì a fare altro che piangere. E piangere. Singhiozzò a lungo, avvertendo vagamente le braccia di Archie circondarla e i richiami allarmati di Candy.

Il buio l'avvolse e anestetizzò i suoi sensi. Quando si risvegliò era mattina, si trovava nel suo letto e splendeva il sole.
 
- § -
 
 
"Karen! Karen!", chiamò Terence sventolando il telegramma ed entrando nel suo camerino come una furia.

"Terry!", strillò lei coprendosi come poteva. Era mezza nuda e non poté fare altro che rimettersi il vestito di scena appoggiato sopra al corsetto, ancora mezzo sbottonato.

Lui la fissò, incredulo: "Che razza di problemi ti fai? Eri nuda nel mio letto fino a poche ore fa!".

"Chiudi quella dannata porta e tappati la bocca!", gli intimò con i denti stretti, lasciando andare l'abito e prendendo i suoi vestiti. Gli diede le spalle e gli chiese di aiutarla con i lacci.

Terence posò il telegramma sulla toeletta e si apprestò a fare quanto richiesto: "Sei sicura che non vuoi che faccia l'esatto contrario?", le soffiò in un orecchio, avvertendo subito la sua pelle d'oca sulle labbra lì, all'altezza del collo.

Lei sospirò: "Siamo nel camerino del teatro, Terence!", sibilò, ma sentiva il corpo vibrare del suo stesso desiderio.

Ancora non si capacitava come potesse essersi così perdutamente innamorato dopo Candy. Già, Candy! In un gesto repentino, riprese il telegramma.

"Guarda qua", disse inducendola a voltarsi e a leggere, "Albert mi ha scritto che Candy ha recuperato la memoria, non è meraviglioso?".

Karen lo fissò con gli occhi spalancati, come se fosse incerta e Terence capì che stavano riemergendo in lei dubbi spiacevoli. "Oh, ne sono felice, Terry", disse infatti, senza grande entusiasmo, con un sorriso che era appena un accenno.

Si stava già voltando ma lui la trattenne per il mento: "Ehi, guardami negli occhi, Karen", le disse in tono fermo. "Cosa c'è?".

"Niente, vorrei vestirmi. Ho freddo", disse divincolandosi dalla sua presa e iniziando a infilarsi la camicetta.

Terence sbuffò. Possibile che le donne fossero così gelose? Non che lui avesse una grande esperienza in merito, ma gli sembrava di essere stato abbastanza chiaro con Karen. E non solo fisicamente.

"Albert ha detto di tenerci pronti, perché a breve ci sarà una festa di fidanzamento", tentò, sperando che almeno quel particolare fugasse ogni dubbio.

"Bene, è una bella notizia. Mi hai detto che si conoscono da un mucchio di tempo quei due, vero?", disse lei col tono atono di poco prima, tirandosi su la gonna con un fruscio, trasmettendogli di nuovo l'impulso di strappargliela via senza tanti complimenti.

"Sì, Candy lo conosce da molto più tempo di me...". Nella sua mente era abbastanza chiaro cosa questo significasse. Candy apparteneva a un altro uomo, né lui aveva voglia di rivendicarla come sua. Perché non era lei che amava, non più. E da parecchio.

"Ok, bene... dov'è la mia borsa?", fece Karen smarrita, guardandosi intorno. Il suo viso, di solito allegro, sembrava contratto nello sforzo di trattenere le lacrime.

Terence capì che aveva fallito nel momento in cui lei, avendo infine trovato la borsa, tirò su col naso così rumorosamente che sembrava aver preso un raffreddore estivo. Gli dava le spalle e lui guardò il soffitto e allargò le braccia.

Dannazione, avrebbe voluto dirglielo quella sera, portandola nel loro ristorante preferito, non in quel camerino! Ma non aveva scelta.

"Karen, volevo chiederti di uscire, stasera, ma temo che dovrò cambiare piani", iniziò cominciando a frugarsi nelle tasche. Per un attimo temette sul serio di averlo perso. Lo aveva comprato d'impulso dopo aver letto il telegramma, trascinato dalle emozioni che trasudava quel semplice pezzo di carta: "Candy ha recuperato la memoria. Stop. Siamo felici. Stop. A breve fidanzamento. Stop".

Non che non ci avesse già pensato, ma la mera realtà era che non aveva trovato il tempo: voleva che fosse speciale e, soprattutto, voleva farlo di nascosto da lei. Ma, ora che vivevano praticamente insieme e lavoravano fianco a fianco ogni giorno, gli era stato impossibile.

"Certo, capisco benissimo. Non fa niente, Terence, sarà per un'altra volta. Magari per il fine settimana vado a trovare mia madre...". In due passi l'aveva raggiunta, presa per le spalle e voltata, solo per incontrare quegli occhi scuri brillanti di lacrime non versate.

"Dove pensi di andare, sciocchina?", le disse mentre lo guardava perplessa. Le prese una mano e ci mise sopra la scatolina nera. "Oh, già!".

Karen guardò la scatola e poi lui che si abbassava per stare su un ginocchio. Si schiarì la gola e disse con voce teatrale, aprendola dalla sua mano per rivelare l'anello di brillanti: "Ti chiedo di trascorrere la vita al mio fianco, di essere il mio secondo io e la mia migliore compagna sulla Terra".

Lei boccheggiò per qualche istante e Terence divenne nervoso. Possibile che lei non fosse pronta? Che avesse accelerato troppo i tempi? Poi, guardando l'anello sorrise, abbassò gli occhi ancora lucidi su di lui e fece una breve risata, ma non capì se di gioia o di scherno. Terence avrebbe voluto sprofondare. Invece, fu con voce vibrante di emozione che rispose: "Hai letto i libri di Charlotte Bronte?", riferendosi alla sua proposta.

"Beh, sì, che c'è di male?", ribatté accigliandosi.

Karen scosse la testa: "Certo che lo voglio, ma... sei sicuro?", domandò sconvolgendolo. Non era così che aveva immaginato quel momento, ma forse parte della colpa era sua.

Terence si alzò, prese l'anello dalla scatola e, mentre glielo metteva al dito cercò delle parole sue per spiegarsi: "Non sono mai stato tanto sicuro di qualcosa, Karen. O forse sei tu che hai dubbi?", le domandò carezzandole il viso, scostandole i capelli.

"Avevo paura che tu... il telegramma... sembravi così felice", spiegò lei guardandosi il dito con un'espressione d'intensa meraviglia.

"Sono felice perché i miei due migliori amici possono finalmente godersi il loro futuro. E perché presto lo faremo anche noi. Anzi, che ne dici di batterli sul tempo?", propose.

"Ma Candy...", insisté lei e la zittì con un bacio.

"Quello è il mio passato. L'ho lasciata andare mesi fa. Sei tu l'unica donna che voglio. E ora ripetimelo", le chiese con urgenza.

Lei sorrise, infine rilassata, una lacrima si staccò dai suoi occhi: "Sì, Terry, lo voglio. Lo voglio più di ogni altra cosa al mondo!", gridò gettandogli le braccia dietro la nuca.
Terence tirò un sospiro di sollievo, stringendola a sé, mormorandole ancora quanto l'amasse e posandole baci leggeri sul collo.

"Chiudi la porta a chiave", gli disse con la voce colma di passione. I suoi sensi s'incendiarono all'istante, complici la gioia e l'aspettativa di averle appena chiesto la mano.

"Agli ordini, mia signora", rispose eseguendo il compito e apprestandosi di nuovo a spogliarla.
 
- § -
 
"Lo avevo spiegato ad Archie che se non l'avesse detto prima a te saresti svenuta", disse Candy mentre Annie si pettinava con gesti nervosi davanti allo specchio.

Le era stata accanto per tutta la notte, dormendo vicino a lei e vegliandone il sonno agitato dopo lo svenimento sulla collina. Quando si era svegliata, le si era praticamente gettata fra le braccia, scusandosi con tanto accoramento che Candy temette che avrebbe perso i sensi di nuovo.

Avevano parlato a lungo, strette come quando erano bambine e Annie le aveva confessato, non senza vergogna, della gelosia che l'aveva attanagliata persino quando era in ospedale. Lei aveva asciugato le sue lacrime con un sorriso comprensivo: "Annie, sarei stata gelosa anche io se, a un passo dal matrimonio, il mio fidanzato mi avesse detto che amava un'altra donna. Stai tranquilla, ora, e preparati, che fra poco arriva tua madre".

L'angoscia dell'abbaglio della sera precedente, però, non sembrava averla abbandonata, tanto più che con Archie non si era ancora chiarita. Avevano sperato entrambe che i due avessero il tempo di parlarsi da soli, ma il rombo del motore mise fine anche a quell'ultimo barlume di luce.

Annie si alzò di scatto e impallidì: "E adesso?", disse stringendo la spazzola fra le mani come se volesse spezzarla.

Candy la raggiunse: "Che vuol dire 'e adesso'? Ora esci di qui e, insieme ad Archie, parli con tua madre", le rispose. La vecchia Annie aveva decisamente ripreso il sopravvento.

"Ma lui... mi vorrà ancora dopo quello che ho fatto?", domandò infatti, con una vocina spaurita. No, quella non era neanche la vecchia Annie: era la Annie di cinque anni che aveva paura persino della pioggia.

Candy sospirò e le mise le mani sulle spalle: "Annie, abbi fiducia in Archie e in tua madre, ma soprattutto in te stessa. Vuoi che venga anche io?", le chiese inclinando la testa e sistemandole una ciocca ribelle, elettrizzata dai tanti colpi di spazzola dati con gesti veloci.

Lei parve rifletterci seriamente, poi scosse la testa: "No, devo cavarmela da sola. Ti ringrazio, Candy". Detto questo, l'abbracciò con trasporto e lei ricambiò con fervore.
"No, sono io che ringrazio te per aver avuto tanta pazienza con me mentre ero senza memoria. Ti ho fatto penare, vero?", chiese staccandosi da lei per guardarla.

Annie ridacchiò, asciugandosi due lacrime traditrici con il dorso della mano: "Non quanto io ho fatto penare te in tutta la mia vita".

Risero, complici e quasi serene come un tempo, con le fronti una contro l'altra, sentendosi ancora più sorelle che in passato.

"Ora vai, e in bocca al lupo!", le disse Candy inducendola a uscire.

Annie si voltò a guardarla con le dita incrociate e gli occhi brillanti, quindi lasciò la stanza a testa alta.

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Capitolo 72
*** Proposta ***


Proposta

Albert guidava e cantava per le vie di campagna come se stesse facendo una gita particolarmente divertente. In realtà, quello era il viaggio della sua vita.

Breve, ma intenso.

Avrebbe chiesto a Candy di sposarlo sulla Collina di Pony, anche se senza kilt, e poi sarebbero andati da Miss Pony e Suor Lane a chiedere ufficialmente la sua mano. Nella sua mente, i tempi erano chiari: fidanzamento immediato e matrimonio prima che finisse l'estate, proprio sulla loro collina, se lei avesse voluto.

Era uscito di casa con un sorriso così largo che pensava gli avrebbe diviso la faccia in due, e George e la zia Elroy l'avevano guardato rispettivamente con aria divertita e con il contegno di chi stia fissando un idiota.

Non gli importava nulla, ora quel sorriso si era trasformato in un canto e la sua voce baritonale gli sembrava anche ben impostata.

Aveva parlato con Adrian al telefono, prima di partire, e avevano avuto una lunga conversazione nella quale gli aveva domandato se il fatto di passare dalla disperazione più cupa alla gioia più sublime potesse essere sintomo di schizofrenia: lui era scoppiato a ridere, confermando che era solo l'amore a compiere tali miracoli, non certo la malattia mentale.

Mentre parlava, però, il suo orecchio allenato aveva colto quasi una nota malinconica e si era domandato se, per caso, non fosse coinvolto in prima persona in una storia d'amore tormentata.

Ora, però, si trovava nella sua piena fase egoistica ed era certo di meritarsela. Prima di partire era andato nell'ala della casa dove si conservavano i cimeli di famiglia e aveva prelevato quanto gli serviva: non era stata una scelta facile, ma alla fine era stato guidato dal proprio cuore.

D'altronde, si trattava di un mero simbolo e non era il suo valore economico la cosa fondamentale, ma quello affettivo.

Albert si immise nello stesso tratto sterrato dove aveva lasciato la macchina solo qualche giorno prima, in preda al folle desiderio di riavere la sua Candy contro ogni logica. Ora vi tornava sapendo che quella logica non serviva, perché si era compiuto un miracolo.

Quando infine parcheggiò davanti alla Casa di Pony, il cuore gli batteva così forte nel petto che temette sarebbe scoppiato. Prese un respiro profondo e accolse a braccia aperte i bambini che ormai lo conoscevano e gli andavano incontro per salutarlo.

Il sorriso si spense quando incontrò gli sguardi delle due madri putative di Candy, perplessi e allarmati.

Oh, no, che diavolo è successo, adesso?

"Dov'è Candy?", disse con aria tesa. Era sicuro che il sangue gli fosse defluito dal volto, rendendolo pallido.

Fu un bambino, che se non ricordava male si chiamava James, con un dito dentro la bocca e i grandi occhi scuri sgranati su di lui che gli rispose: "Candy è andata via poco fa".

Albert spalancò i suoi, di occhi, e per poco non cadde in ginocchio per la frustrazione.
 
- § -
 
Archie non parlò per buona parte del viaggio. Sentiva la presenza di Candy accanto a sé ma era invaso da emozioni troppo intense e violente e non si fidava della propria voce: voleva solo gridare, piangere e accelerare fino a sentire il vento sferzargli il viso. Stordirsi, dimenticare quanto era stato stupido qualche mese prima.

Se non ci fosse stata Candy con lui su quella macchina, forse avrebbe commesso qualche sciocchezza.

La sua passeggera, d'altronde, dovette capire molto bene quei sentimenti, perché non lo forzò a parlare e, forse, anche lei stava ripercorrendo gli ultimi eventi della mattinata appena trascorsa.

"Non vi comporterete come bambini capricciosi!", tuonò la signora Brighton rivolta a entrambi. "Il fatto che siate maggiorenni non vi da il diritto di giocare così con il buon senso!".

"Ma, mamma, la colpa è stata mia!", cominciò Annie, e Archie si sovrappose.

"No, la colpa è stata mia, però voglio rimediare! La prego, mi lasci sposare Annie prima di partire!".

"Non darò mai il consenso a qualcosa di così folle! Quale vergogna sarebbe sciogliere un fidanzamento per poi annunciare un matrimonio poco dopo? E mentre si dovrebbe pensare a studiare per ottenere una laurea e una posizione!". La donna strinse con tale veemenza l'ombrellino da sole chiuso che Archie fu sicuro che lo avrebbe rotto.

"È certa che si tratti solo di questo? La notizia della rottura del nostro fidanzamento sui giornali non doveva neanche uscire, come quella dell'incarcerazione. Non è, forse, a causa di quest'ultima che lei oggi ha così tante remore?", le domandò socchiudendo le palpebre.

Vide la verità nello sguardo fermo della donna, nel leggero fremito delle labbra e in quel lieve sbattere di palpebre che accompagnò quei segnali, seppur minimi.

"Non voglio più parlarne. Le cose potrebbero cambiare quando avrai preso la tua laurea, non prima. Andiamo, Annie", ordinò incamminandosi verso la macchina, mentre l'autista si affrettava ad aprirle la portiera.

"Io non vengo". La voce ferma di Annie li fece trasalire entrambi. Era lì, in piedi, ferma, con i pugni chiusi e la testa china. Archie poté vedere lo sguardo colmo di rabbia che le rivolse e ne rimase sconvolto. Era davvero la sua Annie, quella?

"Che cosa hai detto?!". La donna fece un passo verso di lei, con la bocca spalancata.

"Mi hai sentita. Io resto qui e sposerò Archie, che tu lo voglia o no!", dichiarò fronteggiandola.

La signora Brighton alzò una mano e, con un gesto fluido e persino elegante, la schiaffeggiò. Annie emise un verso strozzato e Archie la imitò. Dietro di lui, poté sentire anche l'ansito di Candy, che doveva essere rimasta sulla soglia a guardarli.

La sua fidanzata non si scompose più di tanto e, con una mano sulla guancia, continuava a lanciare occhiate di fuoco alla madre adottiva.

"Ti ho cresciuta con tutto l'amore che una vera madre avrebbe potuto darti, ho cercato di inculcarti i valori importanti che sono indispensabili per una signorina dell'alta società e tu mi ripaghi con un gesto ribelle? Dov'è la Annie remissiva e dolce che conoscevo?". La voce della donna vibrava di rabbia ed emozione. "Me lo sarei aspettata da Candice, non da te". Quell'ulteriore puntualizzazione gli fece fare un involontario passo avanti, ma la mano di Candy lo bloccò per il polso. Stava scuotendo la testa.

"Non puoi impedirmi di essere felice! Io e Archie stavamo per sposarci e ci siamo lasciati per un malinteso che abbiamo risolto. Quello che è successo a lui e ad Albert è stato colpa dei Lagan e lo sai benissimo anche tu, visto che eri presente alla comunicazione ufficiale!", ribatté, infervorata.

"Questo non cambia il fatto che c'è un tempo per tutto! Ora verrai a casa con me e riprenderai le tue attività di volontariato, se vorrai, le lezioni di piano e tutto ciò che si conviene a una donna del tuo calibro".

"Non mi interessa essere parte della tua società, mamma! Voglio solo essere libera di...".

Archie le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla. Annie s'interruppe all'istante e lo fissò: "Basta, Annie. Ha ragione tua madre, devi andare con lei". Gli era costato molto, ma capì che era la cosa giusta da fare.

"Ma, Archie, noi...!". Gli occhi le si riempirono di lacrime e sentì pungere i propri. Cercò di essere forte per entrambi e le sorrise.

"Andrò nel Massachusset per laurearmi e ne riparleremo al mio ritorno. Così potrò chiedere la tua mano senza più ombre nella mia vita", disse lanciandole un'occhiata e leggendo un'approvazione parziale sul volto della donna. Capì che avrebbe comunque dovuto lottare, anche se avesse preso quella maledetta laurea. Ma non voleva che Annie rovinasse il suo rapporto con i genitori a causa del loro desiderio, seppur legittimo.

Annie abbassò la testa, lacrime amare le scorrevano sul viso. Voleva solo abbracciarla, baciare e asciugare quelle lacrime e portarla via con sé nell'angolo più remoto del mondo. Ma si limitò a inchinarsi e baciarle la mano: "Verrò a salutarti prima di partire".

"Archie...", singhiozzò lei rischiando di far crollare le ultime difese come un muro di cartone.

"Vai con tua madre, Annie", disse con voce soffocata, inghiottendo il grosso nodo che aveva in gola.

Si guardarono per lunghi istanti, durante i quali la signora Brighton non smise di fissarli, come una sentinella in solerte attesa. "Vai", insistette spingendola dolcemente per le spalle, sentendo il cuore strapparsi in mille pezzi.

Lei si allontanò da lui come al rallentatore, camminando all'indietro, singhiozzando senza dire nulla e il loro addio si concluse con la sua fuga precipitosa verso la vettura, come se anche lei temesse di non riuscire a resistere alla tentazione di gettarsi fra le sue braccia per sempre.

Si voltò verso di lui e continuò a guardarlo dal finestrino finché l'auto non fu troppo lontana perché potesse scorgerla, attraverso il sottile velo delle lacrime. Sentì di nuovo la mano di Candy sulla spalla mentre crollava a terra, senza più forze, udendola confusamente mentre gli chiedeva perché...

Ma entrambi sapevano che aveva solo fatto quanto necessario. Non c'erano alternative.

Archie frenò all'improvviso e Candy si voltò a guardarlo: "Tutto bene?", gli chiese.

Lui respirò pesantemente, poggiò la fronte sul volante e disse: "Mi lasceresti qualche minuto, per favore?".

"Ma certo", rispose lei con dolcezza. Quando sentì il rumore della portiera che si apriva la fermò.

"No, vado via io. Torno... torno presto". Non sapeva neanche lui perché non volesse semplicemente sfogarsi con la sua più cara amica. La verità era che voleva rimanere solo. Annegare nel dolore e poi riemergere, per quanto possibile, senza condividerlo con anima viva.

Si addentrò nel bosco e sedette contro il tronco di un albero, portandosi le mani al viso. Dietro le palpebre chiuse strettamente, rivide il volto di Annie e pianse lacrime amare su quell'immagine per qualche minuto prima di sentire un clacson e un forte stridio di freni.

Alzò il capo, si asciugò gli occhi e guardò verso la strada. Una seconda vettura aveva accostato dietro la sua e ne era sceso un uomo: sembrava così di corsa che pareva fosse inseguito da tutti i diavoli dell'Inferno.
 
- § -
 
Candy si stava arrovellando il cervello per trovare una soluzione che potesse far tornare insieme Annie e Archie senza scontentare la signora Brighton e già si vedeva nell'atto di andarle a parlare, magari assieme ad Albert e, perché no? Insieme alla zia Elroy, se alla fine avesse acconsentito finalmente alla loro unione.

D'altronde, se quello che Annie e Archie le avevano riferito era vero, era stata anche una sua responsabilità se ora la mamma di Annie era poco propensa al matrimonio.
Mentre rifletteva mordicchiandosi l'unghia del pollice, appoggiata alla portiera chiusa della macchina di Archie e si chiedeva se fosse il caso di lasciarlo solo o andarlo a consolare, udì il rombo di un motore lontano.

Si voltò appena in tempo per vedere la Ford nera di Albert arrivare a tutta velocità sulla stradina stretta e le lampeggiarono in mente solo due domande: che cosa ci facesse lì e perché diamine non rallentasse.

Vide la testa bionda alla guida e il cuore accelerò a sua volta, ma d'istinto Candy si allontanò dalla macchina, le mani premute sulla bocca mentre il suono del clacson si spandeva nell'aria.

La Ford inchiodò con un gran gemito delle gomme e slittò sullo sterrato nel momento in cui Albert sterzò bruscamente per evitare la vettura di Archie. Candy lanciò un gridolino coprendosi gli occhi con le mani, non prima di avere colto l'espressione di panico sul viso del fidanzato.

Sbirciò tra le dita e lo vide scendere correndole incontro: "Candy! Stai bene?".

Lei sbatté le palpebre. La terra sollevata dalle ruote della macchina di Albert si stava posando e si sentiva sconvolta: "Che razza di domanda è?! Da quando in qua guidi in questo modo? Mi hai fatto prendere un bello spavento, lo sai?!", gridò chiudendo la distanza e battendogli i pugni sul petto per rimproverarlo e scaricare la tensione.

Lui la guardava senza dire nulla, i capelli spettinati dalla recente performance e gli occhiali dalle lenti azzurre un po' storti: "Io... scusa, volevo raggiungerti alla Casa di Pony e farti una sorpresa, ma a quanto pare abbiamo avuto la stessa idea", disse contrito.

Candy sentì che stava per scoppiare a piangere per il sollievo e la gioia. Smise di prenderlo a pugni e alzò le mani tremanti per togliergli gli occhiali: "Stupido, non c'era bisogno di correre così. Non scappo mica, sai?", disse con voce colma di emozione.

Albert le fece un sorriso che sciolse ogni sua riserva e le carezzò la guancia col dorso della mano: "Mi dispiace, non vedevo l'ora di rivederti", mormorò.

Candy ricambiò il sorriso e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si alzò in punta di piedi e premette le labbra sulle sue. Lo sentì irrigidirsi per la sorpresa, ma subito dopo stringerla in un abbraccio e ricambiarla con ardore.

Labbra aperte, lingue in esplorazione, mani che vagavano sulle schiene. Il tripudio di emozioni che accompagnava i loro baci era al completo e fu solo con uno sforzo di volontà che Candy si rese conto che non erano soli e che era il caso di separarsi.

Fu lei a prendere l'iniziativa, attirandosi un gemito di protesta da parte di Albert. Con le braccia ancora allacciate al suo collo gli soffiò nell'orecchio: "C'è Archie qui vicino".

"Oh, già!", saltò su lui staccandosi, riluttante, e guardandosi intorno. "A proposito, dov'è andato? Avete qualche problema alla macchina?".

Lei scosse la testa: "No, è solo che...".

"Ciao, zio William", li raggiunse la sua voce. Archie uscì da dietro un albero, con un sorrisetto disegnato sulle labbra.

"Ma bene", esordì Albert mettendosi le mani sui fianchi, "oltre a prendermi in giro ci spii anche?".

Archie ricambiò la sua ilarità ridacchiando brevemente mentre si avvicinava, ma a Candy fu subito evidente che aveva pianto: "Non era mia intenzione, ma quando sei arrivato a tutta velocità temevo che potessi travolgere la mia povera macchina con Candy ancora dentro".

Candy vide il volto di Albert diventare più serio: anche lui si era reso conto dell'estrema tristezza del nipote e, in poche battute, Archie riassunse quello che era accaduto.
Il suo fidanzato sospirò: "Mi dispiace molto, Archie, ma se può essere d'aiuto sappi che la zia Elroy si è convinta a darvi la sua benedizione".

Candy trattenne il respiro. Era felice per quello che aveva appena detto Albert, ma... e per quanto riguardava loro due? Stavano per tornare a Chicago in anticipo rispetto ai giorni stabiliti e lei non sapeva neanche come comportarsi con la zia!

"Questa è una notizia fantastica! Ma il problema ora è sua madre. Come ti ho spiegato non ha intenzione di darci il permesso prima che io mi sia laureato. E, per quanto la cosa ci faccia soffrire, non possiamo metterci contro di lei", concluse tristemente, abbassando gli occhi.

"Ma potremmo parlarle tutti insieme e coinvolgere anche la zia Elroy!", intervenne Candy fomentandosi.

Albert cominciò a scuotere la testa: "Il fatto che la zia abbia dato il consenso non significa che abbia voglia di esporsi fino a questo punto. Inoltre, se la signora Brighton ha già parlato con loro due non credo sia una buona idea intromettersi".

"Ma, Albert, non ti eri detto disposto a confrontarti con lei?", insistette Candy, guardandolo con le mani giunte quasi in preghiera.

Lui sorrise: "Certo, ma questo era prima che si vedessero. Visto che la loro conversazione non ha avuto effetto, non c'è altro che possa fare io".

"Oh, ma... sono maggiorenni ormai e...".

"Basta, Candy, va bene così. Ho accettato la decisione della signora Brighton, altrimenti non avrei mai mandato via Annie. Sono abbastanza uomo da sopportarlo, anche se non si direbbe in questo momento", si schernì con una risatina scomoda.

"Archie...". Non poteva accettare che due anime gemelle rimanessero divise così. Se fosse stata costretta lei a farlo con Albert, non l'avrebbe sopportato.

"Bene, direi che è ora che torniamo tutti a casa, no? Coraggio, Archie. So cosa significa, credimi. Forse sono l'ultima persona che può farti la morale, ma posso dirti che hai preso una decisione corretta. Quando tornerai potrai lottare per lei". Gli mise una mano sulla spalla e lui lo guardò, grato.

"Vi sono riconoscente per tutto quello che avete cercato di fare, davvero. E ora che ho avuto modo di vedervi insieme devo confessare che siete una splendida coppia. Mi avete mostrato uno scorcio di quello che sarà la mia vita con Annie, un giorno".

Si salutarono tra abbracci e promesse di rivedersi prima che lui partisse e, su quel punto, vide Albert fare una faccia strana, quasi maliziosa. Possibile che avesse in mente qualcosa, nonostante i buoni propositi?

Archie guidò davanti a loro ma Albert se la prese comoda e ammirarono per un po' la natura lì intorno, cosicché lui sparì presto dalla vista.

Nel silenzio complice che li avvolgeva, Candy aveva una domanda che le bruciava sulle labbra.

"Albert".

"Candy".

Risero: l'abitudine di parlare nello stesso momento, a quanto pareva, non l'avevano affatto perduta. Albert rallentò fino ad accostare vicino a una radura piena di margherite bianche, viola e rosa. Candy non aveva il coraggio di parlare e lo seguì quando lui le porse una mano per scendere.

Fecero qualche passo in quel prato variopinto, poi lui si fermò e la guardò con un'intensità tale che Candy sentì sciogliersi le viscere: "Prima di uscire di casa, questa mattina, ho preso qualcosa che avevo intenzione di darti già qualche mese fa, quando ti ho rivista tornare da me, sulla Collina di Pony", cominciò con voce carica di emozione. "Allora ero così sconvolto che non credevo di poterti davvero avere al mio fianco. Anche dopo che mi hai confessato di amarmi, nonostante ci comportassimo già come fidanzati, dentro di me qualcosa urlava a gran voce che era tutta un'illusione, che se non avessi seguito le tappe giuste ti avrei persa. Ora so che mi sbagliavo di grosso e che ti stavo per perdere proprio a causa di questa titubanza iniziale".

"Albert...", sussurrò guardandolo con dolcezza, rapita dal suo tono, dai suoi occhi e dalle sue mani che le carezzavano la schiena trasmettendole brividi su brividi.

"Stavolta non commetterò lo stesso errore ed è per questo che ciò che ci siamo detti quella mattina, quando per l'ennesima volta sei tornata nella mia vita, non rimarranno solo parole e promesse a lungo". Mise una mano in tasca, tirandone fuori una scatolina rossa e Candy tremò.

Albert prese un respiro profondo poi, come avrebbe fatto un vero principe per chiedere in sposa la sua principessa, si abbassò su un ginocchio e aprì la confezione, rivelando una pietra preziosa di un verde luminoso. Le lacrime le salirono agli occhi senza che lei potesse impedirlo.

"Candice White", disse lui con tono appena incrinato dall'emozione, "mi faresti l'onore di sposarmi prima che l'estate finisca?".

Candy voleva rispondergli, ma la gola era chiusa, l'emozione la stava sommergendo. Aveva detto la fine dell'estate? Doveva per forza essere un sogno! Erano veramente lì, in mezzo a quel tripudio di profumi e di colori a promettersi che sarebbero diventati marito e moglie di lì a neanche due mesi?

Sul volto teso di Albert cominciò a leggere l'allarme quando la vide piangere senza dire una parola, così si affrettò a gridare: "Sì! Sì! Certo che lo voglio!". La sua espressione si distese e con un sorriso luminoso si dispose a infilarle l'anello all'anulare che gli stava già porgendo.

Si rialzò per baciarla con la delicatezza di un fiore che si schiude, con una dolcezza che la fece struggere e rabbrividire ancora una volta, le mani foggiate a coppa sulle guance.

"Ti amo, Candy, grazie per avermi reso l'uomo più felice del mondo", soffiò con gli occhi semiaperti.

"E io amo te, mio bel principe. La mia vita ti appartiene".

Quelle parole suggellarono il patto d'amore di due anime che finalmente si ritrovino e il bacio prima delicato divenne esigente, appassionato, ardente, colmo di tutti quei sentimenti trattenuti e poi esplosi, del desiderio e dell'aspettativa. E, soprattutto, colmo di loro due.

Candy e Albert.    

Interruppero il bacio poco a poco, ansimando leggermente, sorridendo come ragazzini. La risata di Albert divenne sempre più forte e con un gesto repentino la afferrò per i fianchi, strappandole un urletto sorpreso e la fece volteggiare a lungo.

Lei rise di rimando, poi rovesciò il capo indietro ed esclamò: "Albert, mi gira la testa!", ma non smise di ridere.

"Anche a me!".

Alla fine di quella specie di giostra improvvisata, quasi caddero a sedere, riprendendo fiato, poi lui indicò l'anello: "Ti piace?", le chiese.

Lei lo guardò: "È bellissimo, Albert, sembra attirare la luce dell'intero universo! Però sai che mi sarebbe bastato molto meno".

Lui le riavviò i capelli sulla fronte con due dita e Candy chiuse gli occhi godendosi quel tocco leggero: "Lo so, ma questo anello era di mia madre e volevo che lo avessi tu. È un diamante verde e si tratta di una pietra così rara che difficilmente si riesce a trovare su un anello in vendita. Mi è stato raccontato che mio padre amava tanto la mamma che lo cercò ovunque per regalarle un gioiello unico. Mi piace pensare che voglia simboleggiare un amore altrettanto raro e prezioso. Proprio come il nostro. Inoltre è del colore dei tuoi occhi".

"Oh, Albert, grazie, grazie amore mio. Tutto questo... mi sembra di sognare!", disse cercando di non ricominciare a piangere.

"Beh, allora siamo in due", scherzò lui poggiando la fronte sulla sua.

In quel momento, Candy si ricordò cosa voleva chiedergli: "A proposito! E la zia Elroy?".

Albert la fisso con un sorrisetto malizioso: "Secondo te?".

"Non dirmi che l'hai convinta!", esclamò con gli occhi spalancati per lo stupore.

"Tu sottovaluti le mie doti persuasive", scherzò impettendosi.

"Dai, dimmi come hai fatto", lo incalzò lei incrociando le gambe e disponendosi ad ascoltarlo.

Lui fece spallucce: "Le ho semplicemente dato due opzioni: o ti accettava o me ne sarei andato".

"Che cosa?!". Si protese come se non avesse sentito bene.

"Beh, cosa ti aspettavi? Era quello che ti avevo detto che avrei fatto. Inoltre le ho fatto capire che se per lei è importante che il nome degli Ardlay continui la sua linea, non è fondamentale il lignaggio della donna che sposerò, perché amerà comunque i suoi nipoti".

Il cuore prese a martellarle nel petto: dei figli, dei figli suoi e di Albert! Era qualcosa di così enorme, con implicazioni così variegate che pensò davvero di star per perdere i sensi.

Lui dovette accorgersene, perché le chiese se stava bene: "Sì, è tutto a posto. Solo che pensavo a quanto la mia vita sia cambiata radicalmente nel giro di pochi giorni. Sono passata dalla disperazione più cupa, dalla schiavitù della mia mente alla libertà di amarti senza riserve. È... è davvero meraviglioso", concluse portandosi le mani al cuore.

Albert le prese quelle mani e le strinse nelle sue, più grandi e calde: "Vale lo stesso per me. Pensavo di dover ricominciare tutto da capo, di essere finito e di dovermi ricostruire. Invece ora c'è tanta gioia dentro di me che potrei gridarla al mondo intero per condividerla con tutti!".

Risero insieme, i loro nasi si sfiorarono e ripresero a baciarsi prima che lui continuasse: "Ho parlato con Miss Pony e Suor Lane. Ero così desideroso di raggiungerti che la mia richiesta deve essere suonata come: mi concedete di sposare Candy entro poche settimane? Le poverette si sono guardate come se fossi impazzito. Ero con una mano sulla portiera, pronto a schizzare via, e una sul petto come se volessi trattenere il cuore dietro le costole. Hanno fatto appena in tempo a dirmi di sì, che ne erano felici, che sono corso via come un fulmine sorridendo a trentadue denti. Penso di essermi comportato da vero maleducato, non era così che volevo propormi a loro".

Candy era già scoppiata a ridere a metà racconto e si affrettò a tranquillizzarlo: "Stai tranquillo, hanno subìto follie ben peggiori da me: credo abbiano pensato che siamo molto simili".

"Ed è per questo che ci capiamo a meraviglia", rise lui avvicinandosi per baciarla di nuovo.

Non seppe come accadde, né perché. A un certo punto, Albert si staccò bruscamente da lei come se si fosse scottato. Erano caduti sull'erba, uno sull'altra, proprio come era successo giorni prima. Lei aveva accolto il suo peso su di sé per abbracciarlo meglio e perché lui potesse avvolgere le sue braccia intorno alla vita e farle viaggiare lungo i fianchi, anche se non aveva abbassato la mano fin sotto le sue gonne come aveva fatto la prima volta.

Seppe solo che i loro corpi erano incollati mentre si baciavano con ardore e che un secondo dopo lui si era alzato e le aveva dato le spalle: "Dovremmo tornare a casa, o rischiamo che faccia buio prima che arriviamo", le disse con una voce roca che non gli aveva mai sentito.

O forse sì: era successo il giorno in cui era tornata e quando si erano baciati sul letto la mattina dopo.

Senza chiedere o osare lamentarsi, Candy gli diede semplicemente la mano e lo seguì fino alla macchina.

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Capitolo 73
*** Di conversazioni e inviti ***


Di conversazioni e inviti

Elroy Ardlay stringeva così forte il ventaglio che pensò lo avrebbe spezzato in due. Sapeva di aver preso l'unica decisione possibile, come sapeva che le parole di William avevano colpito nel segno.

Se un giorno dovessi trovarti fra le braccia un figlio di Archie o... mio, non lo ameresti a prescindere da chi è sua madre?

Era stato già così, perché aveva amato teneramente il suo sfortunato Anthony nonostante fosse figlio di un marinaio, come prima aveva amato lo stesso William, anche se non approvava la moglie che aveva scelto il suo defunto fratello.

Con Candice, che sarebbe arrivata a breve in quel lato tranquillo del giardino sotto un pergolato chiuso decorato di rose e tulipani così come aveva richiesto, le cose sarebbero state diverse.

Di lei non si sapeva nulla: era stata una bambina abbandonata da piccola, forse indesiderata o persino rinnegata dallo stesso genitore che l'aveva lasciata in quella Casa di Pony. Chissà quali torbide storie nascondeva il suo passato. Poteva essere figlia di un carcerato, di un assassino o persino di una prostituta.
Rabbrividì al pensiero che il sangue nobile degli Ardlay si mescolasse con chissà quali altre origini nefande.

Ma non è solo questo, vero?

Quella era una parte importante del problema, ma c'era qualcos'altro: lei stava perdendo autorità. Naturalmente sapeva che quando si fosse instaurato in famiglia William, che era il patriarca, lei avrebbe avuto un potere decisionale sempre secondo al suo, ma in questo caso era stato pari a zero.

E non solo per la questione fondamentale della sua futura moglie, ma anche per quello che riguardava Archibald e quell'altra orfana.

Due in famiglia... che tragedia!

Ma, ancora una volta, il fatto di sentirsi vecchia e senza più autorità non era sufficiente per puntare i piedi: forse, fosse stata più giovane e intraprendente, avrebbe davvero lasciato che William rinunciasse al suo cognome. A quel punto le sarebbe bastato obbligare Archibald a contrarre un matrimonio con tutti i crismi e il gioco era fatto.

"La felicità di due persone non ti sembra un beneficio sufficiente? Ti pare davvero poco?".

La felicità e l'amore. Due cose incompatibili con il prestigio. Ma che, alla fine, l'avevano piegata in via definitiva. Sì, perché se la prospettiva di vedere il nipote più giovane infuriarsi e soffrire a causa della signorina Brighton non le sorrideva, sapere che William sarebbe rimasto per sempre l'ombra di se stesso era semplicemente intollerabile.

Nonostante tutto, non era cieca.

Si era ben resa conto che la sua intenzione di ignorare il comportamento riprovevole dei fratelli Lagan aveva contribuito a peggiorare le cose per lui dal punto di vista legale e umano, finché per fortuna tutto si era risolto. Ma aveva anche capito che la sua sofferenza era dovuta in minima parte alla permanenza in carcere.

Il vecchio William ne sarebbe uscito con qualche acciacco, ma avrebbe ripreso la sua vita senza problemi e magari persino senza quella ferita quasi mortale alla gamba. Quello che aveva avuto davanti negli ultimi mesi, però, era un uomo prostrato dalla perdita di qualcosa di tanto importante che lo aveva indebolito, aveva distrutto il suo autocontrollo e la sua integrità e forse addirittura distratto al punto da ricevere quella coltellata.

Non vedeva lacrime sul suo volto da quando era una ragazzo ed era morta sua sorella e, a parte durante la conversazione avuta nella sua stanza dopo che avevano nominato Anthony, molte volte le era capitato di incrociarlo per i corridoi della villa, magari dopo essere stato da Candice, con gli occhi rossi o gonfi.

Quel nipote che poteva piangere e gioire come un ragazzino, ora lo sapeva, era sempre esistito e Candice lo aveva fatto emergere come nessuno era riuscito prima d'ora, neanche la stessa libertà che aveva inseguito sino in Africa.

Essere se stessi fino in fondo, con le proprie fragilità e le proprie forze: possibile che fosse davvero quello il modo giusto di vivere? E che, in tutti quei decenni di esistenza, lei stessa si fosse negata cose simili?

La società di fine Ottocento le aveva mandato chiari segnali, era cresciuta in un certo modo e non aveva mai avuto il minimo dubbio che fosse quello corretto.
Ma ora, mentre udiva quel leggero ed educato bussare alla porta a vetri da parte di una ragazza che era l'antitesi stessa di ciò che doveva essere una signora dell'alta società, cominciavano a emergere sentimenti contrastanti ai quali non sapeva dare nome.

"Avanti", disse, e qualche istante dopo comparve il viso punteggiato di lentiggini di quella Candice, i capelli tagliati corti che ormai toccavano morbidamente le spalle e gli occhi...

...così simili a quelli della mia Rosemary, seppur di colore diverso...

... seri ma limpidi, senza alcuna traccia della ragazza scontrosa e priva di memoria.

Ora capisco cosa abbia notato in lei come prima cosa William.

"È un piacere rivederla, zia Elroy, mi permetta di ringraziarla di tutto cuore per quello che ha fatto per me mentre ero priva di memoria". La voce incrinata, l'inchino profondo.

Eliza non ha mai avuto un tono così sincero e affettuoso con me.

Elroy sbatté le palpebre, colpita. L'aveva mai ringraziata allo stesso modo per quanto aveva fatto per William per ben due anni? E lei, che l'aveva tenuta in casa per pochi mesi, affidata completamente alle cure di un medico e di un'infermiera... A malapena s'incontravano per caso nei corridoi!

"Ti prego, Candice, non c'è bisogno. Siediti, per favore". Il tono era stato più brusco di quanto desiderasse ma per un attimo si sentì al limite dell'imbarazzo.
La ragazza ubbidì, posizionandosi su una sedia di vimini di fronte a lei, le mani in grembo che si torcevano leggermente.

Prese un respiro profondo, cercando le parole, quindi esordì: "Innanzitutto lascia che io ti ringrazi formalmente e come si conviene per ciò che tu hai fatto per William quando era nelle tue medesime condizioni. Dai suoi racconti ho avuto modo di comprendere quanto le tue intenzioni fossero sincere nei suoi confronti e non dettate da secondi fini".

Lo sguardo di Candy si addolcì, divenne colmo di un amore così intenso che quasi l'abbagliò e lei ammise: "Conosco Alb... William da quando ero una bambina e lui c'è sempre stato per me. Ho fatto solo quello che mi ha dettato il cuore. Gli ho sempre voluto bene".

Quelle parole furono musica per le sue orecchie, tuttavia domandò: "E sei comunque certa che non sia questo tuo senso di gratitudine ad averti confusa? Non è che lo hai, per caso, scambiato con l'amore?". Esprimere quel concetto così profondo per lei era strano, visto che l'amore nei matrimoni combinati non era previsto, ma si adeguò a quella che era la realtà dei fatti.

Il sorriso sul viso di Candy si allargò e l'espressione fiera e sicura non avrebbe lasciato adito a dubbi anche se fosse rimasta in silenzio: "No. Sono certa di essere innamorata di lui, zia Elroy. Lo amo con tutta la mia anima e voglio davvero condividere la mia vita con lui". Aveva persino chiuso gli occhi, che fino a poco prima erano fissi nei suoi e si era portata le mani al cuore.

L'ultimo dubbio, semmai ci fosse stato, era fugato.
"Allora avrai la mia benedizione", disse in tono compito.

La reazione di Candice le indicò dolorosamente che era davvero tornata quella di una volta: saltò su dalla sedia e la abbracciò con un trasporto tale che temette di cadere.
"Grazie, zietta, grazie! Sono così felice!".

Quell'abbraccio, quelle lacrime, quell'affetto disinteressato. Neanche Rosemary o lo stesso William erano mai arrivati a manifestazioni simili.

Questa è l'orfana senza una goccia di sangue blu.

Alzò le braccia tremanti come se volesse abbracciarla o darle dei colpetti sulla schiena, ma le ritrasse per tempo: "Candice, per favore, controllati!", disse in tono severo.

"Scu... scusi, zia Elroy", si ritrasse lei tornando velocemente al suo posto.

"Dovremo lavorare a lungo sul tuo comportamento, anche dopo che sarai sposata. Se fosse stato per me, questo matrimonio si sarebbe tenuto almeno fra un paio d'anni, per darti il tempo d'imparare tutto ciò che è necessario per presentarti in società come consorte del patriarca della famiglia Ardlay, ma William non ha voluto sentire ragioni!", concluse, stizzita. Poi la guardò, un'idea che si faceva strada nella sua testa: "Di' un po', non è che tu lo convinceresti ad attendere?", chiese.

L'espressione di Candice divenne quella di una persona che voglia rifiutarsi categoricamente ma non sappia come dirlo. "Zia, io... io...", iniziò con la supplica negli occhi e le mani che tormentavano la gonna.

"Oh, va bene, ho capito! Sei ansiosa quanto lui", la liquidò con un gesto della mano e il sollievo che vide in lei fu evidente come il sole quel giorno. "Non tollererò che tu sia motivo di vergogna, Candice. Ho già avuto i miei batticuori a causa dei Lagan e delle preoccupazioni".

"Non la deluderò, zia Elroy. Sono pronta a fare tutto ciò che è necessario per essere degna di Albe... di William!".

Elroy alzò gli occhi al cielo e la congedò senza dirle altro.

Quando uscì, non poté impedirsi di sorridere leggermente: a dirla tutta, non credeva che in fatto di buone maniere Candice avesse bisogno di grandi lezioni, se solo avesse avuto cura di tenere a bada il suo carattere irruento.

Ma non glielo avrebbe confessato per nulla al mondo.
 
- § -
 
Albert chiuse l'ennesimo invito in una busta e lo mise insieme agli altri. Era nervoso perché sapeva che Candy stava parlando con la zia Elroy, ciononostante stava lavorando alacremente perché tutto fosse pronto per la festa di fidanzamento che si sarebbe tenuta di lì a tre settimane.

Prese carta e penna per scrivere l'ennesimo invito ma si fermò: per quello avrebbe atteso lei. Ormai aveva la certezza dei suoi sentimenti, ma non era sicuro che le facesse piacere rivederlo.

Si appoggiò allo schienale tamburellando con le dita sulla scrivania, riflettendo ancora su quanto fosse cambiata la sua vita in così poco tempo, del miracolo con cui era stato graziato dopo tanta sofferenza. Era meraviglioso avere di nuovo Candy al suo fianco, sapere che lo amava con la stessa intensità e che ricambiava le sue manifestazioni d'amore in modo così...

Chiuse gli occhi, tornando con la mente ai loro baci, ai loro abbracci, a quei contatti così profondi che alle volte sembravano davvero il preludio di due amanti che volessero unire i loro corpi e le loro anime.

Aveva cominciato a desiderare Candy molto tempo prima, quando ancora gli sembrava quasi immorale anche solo vederla con occhi diversi da quelli di un fratello maggiore o di un amico. Era qualcosa che andava al di là del semplice bisogno fisico di averla, si trattava piuttosto di qualcosa di mistico: accarezzarla, scoprire i segreti più reconditi della sua pelle con le labbra e con le mani, attraversare il suo corpo per imprimerle a fuoco su ogni pollice il proprio amore.

Perché voleva che Candy lo sentisse, quell'amore, come fosse qualcosa di tangibile e reale e non solo uno sguardo o una parola. Ogni volta che le era vicino e i loro baci diventavano più impegnativi, però, non poteva impedire al proprio corpo di reagire e, anche se lei era stata più che disposta a darsi durante il loro incontro a Lakewood, continuava a essere convinto che sarebbe stato un errore assecondarla in quel momento.

Suo malgrado, aveva fatto marcia indietro innanzi a quel senso di libertà e di giustizia dettati dall'ebbrezza di ritrovarsi dopo tanto tempo ed era la medesima cosa che aveva fatto lei: anche se, in realtà, continuava a essere convinto che non sarebbe stato un peccato amarsi al di fuori del matrimonio, voleva che tutto fosse perfetto. Che lei avesse ciò che meritava.

Girò la sedia verso la porta-finestra, guardando la natura circostante con un senso di pace enorme, sperando che la sua inesperienza come uomo non rendesse ciò che doveva essere indimenticabile una specie di piccolo disastro.

D'altronde, con chi si poteva confidare?

Aveva pensato a George, ma era un uomo anche più riservato di lui ed era certo che studiando un po' in biblioteca avrebbe trovato dei testi che gli dessero qualche suggerimento prezioso. Non che ci contasse molto, a dire il vero, perché quelli che non si occupavano della mera anatomia umana erano semplicemente ai limiti della decenza e non c'era una via di mezzo tra ciò che già conosceva e il comportamento corretto da adottare.

Rise di se stesso a quella considerazione, scuotendo la testa: era un uomo di mondo, che era stato nelle situazioni più estreme e aveva persino affrontato gli artigli di un leone e l'esplosione di un treno, ma aveva bisogno di prepararsi per non deludere sua moglie la prima notte di nozze.

Certo, per lui era motivo di orgoglio poter dire che non si era mai abbassato a frequentare certi luoghi che per altri signorotti dell'alta società erano convenzionali quanto una sala da tè, o che non avesse mai scambiato i piaceri carnali con l'amore. Anche quelle scelte facevano parte, paradossalmente, del suo spirito ribelle e, in maniera più prosaica, della necessità di non compromettersi per via del nome che portava.

Ma, d'altra parte, quella inesperienza per lui stava diventando motivo di preoccupazione latente. Che accade a due sposini che sanno solo come funziona la fisiologia umana?
Il risultato poteva essere esilarante o imbarazzante a seconda dei punti di vista, ma Albert non avrebbe lasciato che quel particolare offuscasse la sua felicità. L'importante era concentrarsi sull'obiettivo, evitare situazioni potenzialmente compromettenti come quella che si era verificata quando si era proposto a lei e tutto sarebbe filato liscio.

Certo, quello non significava che dovessero stare lontani uno dall'altra, ma...

Ma quel giorno, sentirla di nuovo sotto di sé, su quel prato pieno di margherite, ubriaco di gioia e del suo profumo più forte ancora di quello dei fiori, aveva risvegliato in lui istinti primordiali che temeva di non riuscire a tenere a bada.

Si era staccato da lei con un impeto che era l'esatto opposto dei suoi desideri più ardenti, ma era stato necessario, prima che Candy potesse rendersi conto di quanto la desiderasse.

Il modo in cui bussarono alla porta lo strappò dalle sue riflessioni: "Entra, Candy", disse sapendo bene che era lei.

Il suo bel viso era illuminato da una miriade di emozioni diverse: gioia, stupore, impazienza e gli parve bellissima. Così bella che non sembrava neanche vera. Così bella che, se avesse allungato una mano per toccarla, forse sarebbe semplicemente svanita.

Il viso rosso e accaldato per la corsa, la mano sul petto, ansimante... come poteva pensare di starle lontano e fare pensieri del tutto casti quando avrebbe solo voluto baciarla ovunque arrivasse la sua bocca?

"Ehi, che è successo? Problemi con la zia Elroy?", chiese tentando di stemperare tutte quelle emozioni.

"Oh, Albert, mi ha accettata davvero! Ha detto che dovrò studiare molto e voleva persino che ti convincessi ad aspettare di più per il matrimonio, ma devo aver fatto una faccia tale che...".

Non ce la fece più e scoppiò a ridere di cuore, come non gli capitava da tempo. Era così bello riavere la Candy irruenta e vivace di una volta che l'avrebbe ascoltata per tutto il giorno.

"Scusami, ma sei un fiume di parole! Però il senso l'ho colto", disse facendole l'occhiolino.

"Albert, sei impossibile!", sbuffò lei gonfiando le guance.

Era una ragazzina eppure era una donna. Era un'infermiera perfetta eppure possedeva quel lato infantile che la rendeva irresistibile. Si alzò e, in due passi, l'aveva stretta in un abbraccio che mandava direttamente al diavolo i suoi buoni propositi di poco prima.

"Candy, ti adoro quando sei così", disse annusando il profumo di rose che proveniva dai suoi capelli.

"Così come?", chiese lei con la voce un po' soffocata dal suo petto.

"Così... te stessa", ribatté e capì che non avrebbe resistito un istante di più senza baciarla.

Lei gli si arrese, come sempre, e lui giocò con le sue labbra e con la sua bocca facendo in modo che la schiudesse per poi ritirarsi. Continuò a stuzzicarla finché lei, con un gemito di disappunto, non prese l'iniziativa e lo sorprese, agganciandogli una mano alla nuca e baciandolo profondamente come doveva essere.

Spalancò gli occhi e la assecondò con dovizia, domandandosi come avrebbe fatto a seguire i suoi stessi consigli quando lei era così spontanea.

Fu Candy stessa a staccarsi da lui, risparmiandogli l'onere di farlo prima di perdere di nuovo la testa.

"Sono così felice, Albert! Mi sembra ancora un sogno... ma forse te l'ho già detto, vero?", disse lei con voce rauca.

Lui gli rispose con lo stesso tono incrinato: "E io ti ho già risposto che siamo in due a sognare".

Albert la baciò sulla fronte e la vide sbirciare la sua scrivania: "Stavi lavorando?".

"In realtà...". Prima che potesse risponderle, ebbe il flash improvviso di se stesso, a quello stesso piano di lavoro, che riceveva la notizia dello scagionamento dei Lagan, mentre Candy si era appena risvegliata senza memoria.

"Albert...?", la voce di lei gli fece scacciare subito quel brutto ricordo.

"Volevo dire che stavo scrivendo alcuni inviti importanti per la festa di fidanzamento. E volevo chiederti un parere". Si voltò a guardarla, sorridente ma anche serio.

"Ovvero?", domandò avvicinandosi alla scrivania e sfiorandone il legno lucido con una mano. Quel semplice gesto gli parve poter esorcizzare qualunque pessimo ricordo potesse evocare quel banale oggetto di arredo.

"Non so se invitare Terry e Karen", disse d'un fiato, come se fosse appena riemerso da un'apnea.

Lei lo fissò, stupita: "Albert, hai ancora dubbi sui miei sentimenti?". Era andata dritta al punto con una veemenza tale che lo fece sentire un idiota.

"Beh, in realtà non sapevo...". Doveva avere l'aria colpevole, perché lei si accigliò. Nonostante ciò, non tolse la mano dalla scrivania e, continuando a guardare tra i documenti e i fogli, parlò con tono serio ma dolce.

"Sai, vedere questo ambiente così tuo, così intimo... è diverso dal vedere l'Albert che se ne va in giro con una sacca e la sua puzzola. Ogni volta che ci siamo incontrati qui o a Lakewood ho avuto modo di scoprire il vero William. Eppure siete la stessa persona! Ti confesso che per un periodo è stato difficile per me distinguervi, anche se tu hai sempre fatto di tutto per rimanere l'uomo spensierato che ho imparato ad amare". Albert rimase in silenzio, rapito da quella confessione così sincera e spassionata. "Ma ora so che è solo un lato di te e che tu sei sempre il mio Albert, anche quando indossi quei vestiti eleganti. Perché desideri comunque fuggire appena possibile. Eppure...". S'interruppe e arrossì.

Albert fece un passo verso di lei: "Eppure?", la indusse a continuare con un sorriso e un cenno del capo.

"Eppure anche vederti così serio e composto, dietro la tua scrivania... mi fa sentire altrettanto fortunata. Perché hai un fascino completamente diverso ma non meno magnetico di quando stai con me in mezzo alla natura".

Candy era arrossita e lui era rimasto senza parole: aveva parlato di fascino e di magnetismo? Stava cominciando a capire dove volesse andare a parare con quel discorso dopo che avevano nominato Terence, ma non resistette alla tentazione di scherzare un po' con lei.

"E, dimmi, Candice White, nonché futura signora Ardlay, è per questo mio fascino magnetico che hai deciso di sposarmi?", chiese impettito.

Lei gli si avvicinò con aria quasi civettuola: "Diciamo che è parte del motivo...", ribatté con un mezzo sorriso, un po' divertita e un po' imbarazzata.

"E l'altra parte è...?", insistette lui, abbassando il volto verso il suo.

"Oh, lo sai!", disse ridendo e spingendolo via scherzosamente. "Piuttosto, perché hai detto futura Ardlay? Non sei più il mio tutore ufficiale, vero?".

Lui sospirò: "No e, anzi, ti farò firmare dei documenti al più presto. D'altronde è necessario se vuoi riprendere il cognome come mia moglie fra due mesi o poco più. Però, Candy, ridendo e scherzando non hai più risposto al mio dubbio di prima. Voglio dire, ho ben chiare le tue certezze, ma non so se faccio bene...".

"Dimmi una cosa", lo interruppe lei, "Terence è davvero fidanzato con quella Karen?", chiese.

"Sì. In una delle sue ultime lettere mi ha confessato che si stava innamorando di nuovo", le rispose senza preamboli.

Candy annuì lentamente: "Quindi vi siete scritti? Non lo sapevo".

"Se è per questo mi ha anche preso a pugni in carcere", confessò.

Lei spalancò gli occhi: "È stato qui mentre eri in prigione e io senza memoria? Non mi hai detto neanche questo!".

Albert si sentì in colpa. Le aveva taciuto tutto ciò che riguardava Terence, la notte in cui si erano parlati, e ora se ne stava pentendo.
"Devi perdonarmi, Candy. Sono solo un uomo debole e, da quando ti ho confessato i miei sentimenti, anche più insicuro di quanto pensassi io stesso. Credo che ogni volta che si parlerà di Terence, anche fra molti anni, qualcosa vibrerà sempre dentro di me", disse carezzandole il viso con tenerezza. "Questo è uno dei motivi per cui ti ho ridato quel diario, anche se quello principale è che si tratta di qualcosa che ti appartiene".

Lei gli prese la mano e la baciò, facendogli venire la pelle d'oca: "E io non l'ho più aperto e non ho più intenzione di farlo. Anzi, te lo ridarò. La mia storia con Terence l'ho raccontata allo zio William, tanto tempo fa, e rimane un ricordo. Comunque, tornando a noi... Posso capirti da un lato, sai? D'altronde ho pianto la nostra separazione fra le tue braccia a lungo, quando eravamo alla Casa della Magnolia. Non so bene quali fossero i tuoi sentimenti all'epoca, ma...".

"Mi stavi già diventando più indispensabile dell'aria che respiravo, ma non osavo portare questo sentimento a livello cosciente. Ero uno smemorato senza passato, cosa avrei potuto offrirti? Inoltre, tu eri innamorata di un altro...".

"Hai detto bene. Ero. Quando sei sparito mi sono resa conto subito di quanto fossi stata cieca e mi ci è voluto altro tempo per venire a patti con me stessa. Ora però basta, abbiamo già sofferto abbastanza, piccolo Bert", concluse con decisione.

Sentirla di nuovo pronunciare quel nomignolo lo commosse profondamente e dovette schiarirsi la voce per chiederle: "E allora? Lo scriviamo insieme, questo invito?".

"Certo che sì. L'unico mio dubbio era legato al fatto che potesse soffrire rivedendomi, ma ora che so che il suo cuore appartiene a Karen sono serena".

Nel suo sorriso e nel suo sguardo fermo, Albert si sentì rinascere di nuovo. Prese la penna e le fece cenno di accomodarsi alla scrivania. Lei eseguì con una sorta di timore reverenziale e lui le mise davanti un foglio: "Allora, Candy, cosa vogliamo scrivergli? Ti avviso che ha già ricevuto un telegramma da parte mia, qualche giorno fa...".

"Oh, Albert, così mi hai rovinato la sorpresa!", disse lei facendo il broncio e causandogli un'altra risata spontanea.

Mentre Candy cominciava a scrivere la sua lettera per Terence, nella quale gli annunciava della loro festa di fidanzamento, Albert pensò che era l'uomo più fortunato del mondo.
 

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Capitolo 74
*** Passi verso la felicità ***


La gioia è la nostra fuga dal tempo

(Simone Weil)
 
 
Passi verso la felicità

Patty entrò nel salone dove era stata solo qualche settimana prima con sentimenti di gioia e speranza. Avrebbe rivisto la vera Candy, quella che era stata una cara amica, e soprattutto l'avrebbe vista finalmente felice.

Camminò attraverso i gruppetti di persone, riconoscendo e salutando qualcuno, attraverso le tavole maestosamente imbandite, i camerieri e le cameriere che le offrivano dolci e champagne che lei rifiutò con gentilezza e si beò della vista delle deliziose decorazioni fatte quasi tutte di Dolce Candy intrecciate.

Ma dov'erano i due fidanzati?

Vista l'atmosfera gradevole ma rilassata, capì che ancora non erano arrivati, così si attardò ad ascoltare la musica eseguita da un paio di violinisti in un angolo della stanza. Il resto dell'orchestra sembrava in attesa.

"Patty!". Riconobbe la voce di Annie e si girò per abbracciarla. Notò subito la tristezza sul suo viso smunto e pallido. "Sei arrivata ora?".

"Circa mezz'ora fa. Il treno era un po' in ritardo", ammise. "Ma tu come stai?", chiese sospettando già la risposta.

Annie abbassò gli occhi: "Beh, vedi... io e Archie non ci sposeremo così presto come avevamo immaginato". Le spiegò tutto quello che era successo, conducendola dove c'erano meno persone. Patty era costernata. Davvero la prozia e la madre di Annie avevano cospirato fino a quel punto? E ora che Albert era intervenuto in favore della sua famiglia...

"Tesoro, mi dispiace tanto... però si tratta solo di aspettare che Archie si laurei, no?", chiese mettendole una mano sulla spalla.

"Io ho paura che mia madre possa trovare delle scuse anche dopo, a dire il vero. Inoltre non sono pronta a stare di nuovo lontana da lui per tutto questo tempo". Annie aveva sul viso un'espressione di sofferenza tale che Patty ne fu commossa. "A volte penso che...".

"Attenzione, signore e signori!". La voce forte della zia Elroy le interruppe e lei si accorse di due cose: Archie era dal lato opposto della sala e guardava verso di loro, in particolar modo verso Annie, mentre la signora Brighton era letteralmente a metà strada tra i due, come una sorta di sentinella silenziosa.

E dalla cima delle scale cominciarono a spuntare due figure.

Patty si sentì lacerata in due: da un lato il dolore per la sua amica che era in piedi accanto a lei, dall'altro la felicità che la pervadeva nell'attesa di rivedere Candy al fianco del suo vero amore.

Annie sorrise, guardando nella sua stessa direzione, mentre la matriarca annunciava i nomi del nipote e della sua fidanzata. Non c'era quasi più traccia della sofferenza di poco prima, Annie la mascherò molto bene o comunque doveva essere così lieta per Candy che l'aveva accantonata in un angolo del proprio cuore.

La musica cambiò e divenne un sottofondo delicato, gli archi sembravano accompagnare i passi sulle scale di quella che pareva la coppia perfetta: Albert, nel suo completo bianco, la figura statuaria e affascinante, e Candy, con un abito color rosa antico che le fasciava il corpo e terminava con una gonna larga.

Sul suo volto e nei suoi occhi vide di nuovo la vecchia scintilla, nonostante i capelli più corti morbidamente raccolti con un nastro del medesimo colore del vestito, e sentì le lacrime offuscarle la vista.

"Oh, Candy", mormorò, desiderando correre ad abbracciarla ma attendendo con pazienza.

Annie le prese la mano: "Sono bellissimi insieme, vero? Chi l'avrebbe detto che alla fine si sarebbero fidanzati?".

"Credo che il sospetto lo abbiamo avuto tutti, qualche anno fa", ridacchiò lei asciugandosi gli occhi, scostando un poco gli occhiali.

"Già, penso proprio di sì", ribatté Annie con voce rotta. Anche lei, ora, aveva le lacrime agli occhi.

Mentre i due scendevano, Candy stretta al braccio del suo accompagnatore, con la coda dell'occhio vide qualcosa che la fece trasalire.
Credeva di essersi sbagliata ma no, non era caduta in errore: Terence Grandchester, ora Graham, aveva appena fatto il suo ingresso nella sala. E non era solo.
 
- § -
 
Candy si sentiva sospesa a mezz'aria, sulla classica nuvola rosa di cui si parlava nei romanzi d'amore. Non era da lei essere tanto sdolcinata, ma in quel momento era immersa in una bolla romantica che le offuscava i sensi.

Stretta al braccio di Albert, bello e radioso come non mai, con il viso arrossato per la gioia e l'imbarazzo, lo sentiva parlare e nel frattempo registrava con lo sguardo le persone che aveva intorno.

La sua quasi sorella Annie e il caro Archie, che dovevano nascondere la loro sofferenza, ma sembravano davvero felici per lei; la dolce Patty, che non vedeva l'ora di abbracciare e con la quale voleva scusarsi prima di restituirle qualcosa di molto importante; e Terence, al fianco di Karen, sorridente e sereno come non lo aveva visto il giorno del loro addio.

Candy voleva stringere tutti a sé e trasmettere loro parte della gioia che traboccava dalla propria anima.

"Vi ringrazio di tutto cuore per essere qui oggi, per partecipare a un evento così importante e fondamentale", stava dicendo Albert con la sua voce baritonale eppure dolce.
"Come sapete, sono stato lontano dalla famiglia per molto tempo e anche dopo aver preso le redini abbiamo dovuto affrontare tutti un periodo oscuro e molto complicato. Non sto qui a ricordarvi l'evento che si è svolto poco più di un mese fa in questa stessa casa: allora, gli Ardlay hanno avuto modo di riscattare il loro nome. Oggi, io sono qui per riscattare anche il mio cuore".

Con un movimento fluido, Albert sciolse la stretta solo per avvolgerle un braccio sul fianco, tirandola contro di sé in un gesto persino troppo intimo per essere mostrato in pubblico. Il cuore le arrivò in gola.

"Tutti conoscete Candice White, che per molti anni è stata sotto la mia protezione. E molti di voi sanno che, a causa di un incidente che le è occorso alcuni mesi fa, è stata a lungo senza memoria". Si alzò qualche mormorio: forse Albert aveva fatto in modo che la notizia non trapelasse più di tanto e alcuni non lo sapevano, pur avendola vista di recente. "Oggi Candice ha recuperato completamente i suoi ricordi e mi ha reso l'uomo più felice di Chicago... e del mondo intero accettando di diventare la mia fidanzata e mia moglie entro la fine dell'estate".

Il mormorio divenne un brusio di stupore e si alzò persino qualche applauso, ma Albert alzò la mano libera, senza mai allentare la stretta su di lei, per interromperlo.

"Non voglio che passi un messaggio sbagliato: ho adottato Candice quando ero molto più giovane e volevo proteggerla dalla sua famiglia adottiva di allora, che non la trattava come meritava. Ma tra noi ci sono poco più di dieci anni di differenza e la nostra amicizia è diventata sempre più salda nel tempo. Vi risparmio i particolari dell'evoluzione del nostro rapporto che, se permettete, appartengono solo a noi".

Le fece l'occhiolino e nel mormorio si distinse qualche risatina composta.

"Ma qualche giorno fa i documenti con cui Candice era sotto la mia protezione sono stati firmati perché lei tornasse ad essere libera e indipendente, come si conviene anche alla sua maggiore età. Tornerà ad essere una Ardlay solo quando esprimeremo i nostri voti davanti a Dio".

Stavolta, Albert non impedì all'applauso di partire e la tensione si allentò nel suo petto. Dal sospiro che sentì provenire da lui capì che anche il suo fidanzato si era tolto un peso, vedendo l'approvazione brillare negli occhi di tutti: "Vuoi dire qualcosa?", le chiese accostandosi al suo orecchio.

Lei spalancò gli occhi, in imbarazzo: "Oh, no, io non...".

"Segui il tuo cuore", mormorò.

"Io... io...". Si ricordò il giorno della sua presentazione, quando ancora Anthony era vivo, l'imbarazzo che aveva provato e, nonostante ciò, la spensieratezza con cui si era lanciata. Ma ora era diverso. Adesso sarebbe diventata la nuova matriarca e la responsabilità le gravava sulle spalle come un macigno. Lo sguardo severo della zia Elroy, che incontrò suo malgrado, peggiorò le cose.

Fu Albert a trarla d'impaccio: "Lasciate che ringrazi questa donna così speciale che ho al mio fianco", disse e poi, rivolgendosi a lei direttamente, piantandole gli occhi nei suoi: "Candy, con la tua dolcezza, la tua spensieratezza e la tua devozione mi hai salvato quando credevo di essere perso. Hai portato luce nella mia vita quando pensavo ci sarebbe stata solo oscurità. Hai rimesso ordine dove stava regnando il caos. E mi hai regalato una nuova dimensione legata al concetto di libertà solo rimanendo al mio fianco. Grazie, amore mio, grazie per voler condividere la tua vita con me".

Candy vide i suoi occhi lucidi e sentì pungere i propri, mentre cercava di parlare nonostante il groppo in gola: "Albert", lo chiamò con il suo nome di sempre come lui aveva fatto con lei, "sono io che ringrazio te. Perché tu sei sempre stato lì per me quando ne avevo bisogno, anche da lontano. E la tua voce e le tue braccia mi consolavano e mi sorreggevano quando ero triste. Tu mi hai salvata molte più volte, quando cadevo e mi rialzavo a malapena. E non mi hai abbandonata neanche quando ero più vulnerabile e non ricordavo nulla di te... di noi...". Prese un profondo respiro, scostandosi per stringergli le mani. "Spero di essere all'altezza del mio compito, farò di tutto per essere una moglie degna di te. Il mio cuore ti appartiene già. Ti amo, Albert".

Il sorriso sul volto di lui si allargò e, mentre l'applauso si rinnovava e i commenti entusiastici si sovrapponevano, le asciugò discretamente un paio di lacrime e la baciò sulla fronte. Sapeva che avrebbe voluto la stessa cosa che bramava lei, ovvero baciarla davvero, labbra contro labbra, ma non potevano dare spettacolo fino a quel punto, così cercò semplicemente di riprendere il controllo delle proprie emozioni mentre alcuni membri del clan si avvicinavano per congratularsi con loro.

"Complimenti, William, c'è voluto del tempo ma devo dire che ne è valsa la pena. Lo sapevo, io, che la tua bella infermiera ti aveva rubato il cuore", disse un uomo che riconobbe come mister Campbell: era stato al ricevimento di beneficienza durante il quale Albert le aveva confessato per la prima volta i suoi sentimenti.

"Diciamo che abbiamo avuto modo di chiarirci per bene in questi mesi", rispose lui diplomatico, mentre lei accettava l'elegante baciamano dell'uomo.

Dietro di lui, un uomo più anziano dall'aria severa, con un grosso paio di baffi che le ricordò il signor Mc Gregor e un cilindro in testa a renderlo più minaccioso, si accostò.
"Devo dedurre dalle tue parole, William, che questa signorina che hai intenzione di sposare abbia origini ignote", disse con voce altisonante.

Il brusio intorno a loro cessò: gli avventori che avevano udito quelle parole che nessuno aveva detto ad alta voce, ma che di sicuro molti avevano pensato, si voltarono verso di loro e Candy si rese persino conto che qualche giornalista stava scattando delle foto e prendendo appunti.

D'improvviso, l'atmosfera di felicità e di serenità che l'aveva avvolta si era dissipata e la fredda realtà era piombata su di lei. Cosa si aspettava? Che tutti sarebbero stati contenti di accettarla senza mai menzionare le sue origini? Sapeva che quel momento sarebbe arrivato e ne aveva anche parlato con Albert, ma ignorava che sarebbe accaduto tanto presto.

Come quella volta in cui si era presentato di punto in bianco mentre lei rifiutava Neil, Albert divenne di ghiaccio: gli occhi, la postura, i lineamenti del volto. Non c'era traccia dell'uomo fragile che aveva pianto fra le sue braccia, né di quello spensierato che se ne stava a piedi nudi sul ramo di un albero scherzando con lei.

Quello era William Ardlay, il patriarca potente e sicuro. Sentì di nuovo il suo braccio avvolgerla intorno alla vita e stringerla persino più forte.

Guardò verso il suo interlocutore che, con quel cilindro, era persino più alto di lui di qualche pollice e disse in tono fermo: "Sa, mister Glenn, mi fa piacere che lei abbia sollevato la questione adesso, così posso chiarire le cose una volta per tutte anche davanti a questi gentili giornalisti, oltre che al clan e alla mia famiglia".

Se prima il brusio non si era del tutto placato, ora il silenzio era totale e non si sentiva volare una mosca. Tutti avevano capito che il momento era solenne e che il patriarca stava per dire qualcosa che sarebbe rimasto marchiato a fuoco negli anni.

Candy si distrasse solo il tempo necessario per scorgere il padre di Anthony in un angolo della sala e per ripromettersi che lo avrebbe salutato come si conveniva quanto prima.

Alzò il viso verso Albert, il cui profilo era duro ma al contempo rilassato: "Sì, è vero. Candy non conosce le proprie origini: è cresciuta in un orfanotrofio chiamato Casa di Pony, circondata dall'amore di due donne straordinarie che le hanno insegnato i valori più importanti: umiltà, devozione, amore, rispetto. Accolgono bambini che non hanno avuto la fortuna di avere dei genitori che si occupino di loro e lo fanno con tanta dedizione che ho deciso di supportare quel luogo in ogni modo possibile, perché anche io so cosa significa crescere orfani di madre. E anche di padre".

"Ma nel tuo caso è diverso, William...", il tentativo dell'uomo di interromperlo andò a vuoto, perché lo sguardo di Albert divenne più duro e lo fece tacere senza dire nulla.

"Ritengo che le origini nobili di una persona abbiano un valore molto scarso, se comparate con le qualità che vi ho appena elencato", proseguì come se nulla fosse, "e credo che sia ben chiaro a tutti quanto le differenze tra una famiglia con un buon nome che non possieda il minimo scrupolo e una ragazza che ha affrontato la vita con le sue sole forze siano marcate". Si riferiva ai Lagan, Candy udì persino qualcuno nominarli a bassa voce in tono di consenso.

"Candy non ha mai avuto alcun interesse diverso da quello meramente umano nei miei confronti, mi ha sempre rispettato e ha una nobiltà d'animo tale che poche donne dell'alta società possono vantare. Escluse le presenti, ovviamente, altrimenti non sarebbero qui stasera", concluse con un inchino affascinante, facendo ridacchiare qualcuna di quelle donne. Candy scoccò loro un'occhiata: era invidia quella che leggeva nei loro occhi?

La voce di Albert, però, tornò seria quando aggiunse: "Per cui prego sia lei, mister Glenn, che chiunque altro in questa sala di non sottolineare mai, mai più, le origini di Candy come se fossero qualcosa di cui avere imbarazzo. Quale patriarca degli Ardlay, mi sento orgoglioso e onorato di avere l'amore di una donna con il cuore così grande come il suo, non potevo sperare di meglio dalla vita".

E, così dicendo, le piantò un bacio sulla guancia così vicino alle labbra che fu certa dello scandalo che ne sarebbe seguito. O forse no. Eppure, il flash dei fotografi e le esclamazioni divertite intorno a loro erano la prima dimostrazione delle reazioni della società dell'epoca nei confronti di quel loro amore così fuori dagli schemi.

"Bravo, Albert, ben detto!". Era la voce di Archie.

"Bravo!", cui si unirono le voci di Annie, Patty e l'applauso sincero del signor Brown, di George, di Terence e Karen e persino il lento annuire della zia Elroy. Quest'ultima si schiarì la voce nel momento in cui Albert la baciò, ma sembrava approvare davvero ogni singola parola.

Il signor Glenn s'irrigidì, sentendosi in minoranza, e girò i tacchi senza dire altro, di sicuro travolto dall'approvazione generale.

"Mi dispiace, Candy. Tutto bene?", le chiese Albert, preoccupato. Lei annuì.

"Tranquillo, sono così felice che nulla può intaccare la mia gioia. Va tutto bene, amore mio". Lui le carezzò una guancia e un fotografo chiese loro di rimanere così in posa.

Ridendo come due ragazzini lo accontentarono, il mondo intorno a loro che spariva.
 
- § -
 
Albert sapeva che quella serata sarebbe stata impegnativa sotto molti punti di vista, ma si sentiva sereno. Aveva detto quello che pensava a Glenn e ribadito il concetto più volte.

Ma, soprattutto, aveva ballato con lei davanti a tutti, tenendola stretta con la consapevolezza che, agli occhi della gente, loro erano una coppia e che a breve si sarebbero sposati. Anche se era stato disposto a fuggire fino in Africa con Candy, non poteva negare che avere la possibilità di offrirle una vita più comoda lo rendesse più sereno.

Candy aveva appena salutato Patty, così lui si era ritirato discretamente quando le amiche si erano abbracciate, commosse, e lei le aveva dato un piccolo oggetto per poi vederselo restituire.

"Stair l'ha regalato a te. Continuo a desiderare che lo tenga tu", stava dicendo la ragazza e Albert capì che parlava del piccolo carillon che suo nipote le aveva donato prima di morire.

Con un sospiro, si voltò per incontrare lo sguardo di Terence: i saluti tra loro erano stati un po' frettolosi e anche con Candy c'era stato solo un discreto baciamano. Albert sapeva che, probabilmente, i due avevano bisogno di parlarsi come si conveniva dopo il loro addio e, se da un lato la gelosia irrazionale faceva ancora una volta capolino, dall'altro non voleva negare loro la possibilità di chiarirsi come amici.

"Dove hai lasciato la tua bella fidanzata?", gli chiese Albert portandosi il bicchiere di champagne alle labbra, guardandosi attorno.

"Uno dei tuoi simpatici parenti ha chiesto di ballare con lei e ho dovuto accettare. Perlomeno non c'è il rischio che metta gli occhi su di lei, visto che potrebbe essere suo padre", disse prendendo a sua volta un sorso dal proprio calice.

Albert rise, ricordando come gli fosse accaduto qualcosa di simile con un semplice complimento fatto da Campbell a Candy, qualche tempo prima: "Che effetto ti ha fatto rivederla?", gli domandò con tono leggero.

Terence seguì il suo sguardo per individuare Candy che abbracciava con trasporto Vincent Brown e poi cominciava a ballare con lui: "Sai, Albert, quando mi ha lasciato, qualche mese fa, credevo che ne sarei morto. Pensavo che la mia vita fosse finita perché il suo sorriso e le sue lentiggini erano la cosa più luminosa e importante che potessi concepire nel mio futuro".

Impercettibilmente, Albert strinse le dita sul bicchiere.

"Quando ho saputo che era sparita e che tu eri in carcere non ho potuto fare a meno di precipitarmi qui. Ti ho persino preso a pugni e me ne scuso di nuovo".

"Ti ho già perdonato", ribatté con un sorrisetto sbilenco, ma con i nervi ancora un po' tesi.

"Ma già all'epoca qualcosa stava cambiando, in me", proseguì Terence rilassando ancora di più i lineamenti e voltandosi per individuare Karen. Ancora una volta, Albert si sentì uno sciocco. "Stavo cominciando a innamorarmi di Karen, ma l'affetto che provavo e che provo ancora per Candy rimane immutato, seppur di natura completamente differente. Rimane quell'istinto di protezione, nonché il desiderio che sia veramente felice. Oggi posso dire con certezza che tu preserverai con cura il suo sorriso e le darai quello che io non ho potuto mai offrirle".

I lineamenti ora distesi in un sorriso sincero, Albert si volse verso il suo vecchio amico e gli tese la mano: "E io posso dire con certezza che hai trovato la tua strada e la tua felicità. Non so esprimerti quanto questo mi faccia piacere: anche Candy era in pensiero per te".

Terence ricambiò il sorriso: "La nostra Candy è sempre preoccupata per gli altri, vero?".

"Sì, è così... Terence, credo che voi due abbiate bisogno di parlare un po' da soli, come due vecchi amici. Pensi che la tua fidanzata possa infastidirsi se do il mio consenso a farvi ballare?", chiese indicandola con il bicchiere.

"Non credo, visto che le ho chiesto di sposarmi solo pochi giorni fa". Albert si voltò a guardarlo con aria stupita: non credeva che fossero arrivati già a  quel punto anche loro.
"Farò con lei questo ballo e le parlerò, comunque. Tu controlla che Karen non s'intrattenga con uomini al di sotto dei cinquant'anni", terminò facendolo scoppiare a ridere.
Mentre Terence si allontanava, Albert vide una figura familiare tra gli avventori: con tutta la confusione della serata, non l'aveva individuato prima, ma gli si avvicinò a grandi passi e lo salutò.

"Adrian! Che piacere rivederti!", esordì stringendogli la mano.

"Albert, tu e Candy siete in ottima forma, il piacere è tutto mio. E non solo dal punto di vista medico. Per me è un onore che abbiate pensato anche a me", disse sorridendo e ricambiando la stretta con vigore.

"Avrei voluto invitare anche l'infermiera Hamilton, ma non siamo riusciti a trovare il suo indirizzo attuale: so che si trova in Europa per lavoro, al momento". Inaspettatamente, quelle parole spensero l'espressione di Adrian e nei suoi lineamenti lesse la malinconia. Forse, persino il dolore. Ancora una volta, si chiese cosa gli fosse sfuggito in quel periodo in cui Candy era senza ricordi. Possibile che...

"Sì, credo che la sua abnegazione per il mestiere d'infermiera sia più forte di qualunque ostacolo. È una donna del tutto devota al suo lavoro, che difficilmente metterà radici". Il tono era ammirato eppure cupo.

Albert titubò: poteva approfondire qualcosa di così delicato con un uomo che, pur essendo diventato suo amico di recente, non conosceva certo da tanto tempo? Si limitò a guardarlo e a dirgli: "Anche io ero sempre in giro per il mondo, prima di conoscere Candy. Credo che ognuno di noi debba seguire la sua strada, dopotutto".

Non si stupì quando Adrian quasi sussurrò: "E dire che ho provato a diventare parte di quella strada... ma ho fallito miseramente".

In lui, Albert vide la lotta interna tra l'uomo e il professionista. Capì che anche un medico affermato come lui poteva avere le sue debolezze e non se ne sorprese: d'istinto, gli offrì una spalla amica, comprendendo bene quello che provava: "Non me ne sono mai reso conto, distratto com'ero da Candy, ma sono certo che anche dietro a quell'aria professionale si nasconda il cuore di una donna. Non demordere, Adrian, Frannie potrebbe tornare e cambiare idea".

Lui fece una risatina scomoda: "Prima deve liberare il suo cuore", disse mordendosi subito dopo il labbro come se si fosse pentito di aver parlato troppo.

Albert sbatté le palpebre: l'infermiera dal viso austero aveva davvero sentimenti amorosi per un uomo? Non lo disse ad alta voce, ma stentava a crederlo. Si disse che non era da lui avere quei preconcetti, ma era un po' come immaginare la zia Elroy abbassare le barriere, come pure aveva mostrato di saper fare.

"Io... non sapevo...", cominciò imbarazzato.

"Frannie era innamorata di te", disse secco, scolando d'un fiato il proprio champagne e strozzandogli il respiro in gola.

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Capitolo 75
*** Chiacchiere nella notte ***


Chiacchiere nella notte

Karen vide Terry allontanarsi con Candy e non poté fare a meno di provare una fitta di gelosia. Quando il capofamiglia degli Ardlay le si affiancò, però, fu contagiata dal senso di pace e calma che emanava. Se lui era sereno, perché doveva preoccuparsi lei?

Insomma, avevano parlato a lungo e Terence le si era proposto. Non sarebbe stato un amore del passato a destabilizzarla, considerando che era stata proprio lei a tirarlo fuori da quel particolare baratro.

"Vuole ballare?", le propose William Ardlay inarcando un sopracciglio con aria interrogativa.

"Perché no?", rispose facendo spallucce e posando il proprio calice.

Mentre volteggiavano al ritmo cadenzato della musica, Karen si rese conto di quanto fosse bello quell'uomo: laddove Terence aveva un fascino deciso e persino arrogante che le scioglieva le viscere, lui sembrava quasi una specie di creatura angelica dai tratti virili.
Non che fosse il suo tipo, ma capiva perché molte donne presenti si fossero letteralmente mangiate le mani sapendo che non fosse più disponibile. E credeva che la sua posizione sociale e le sue ricchezze fossero solo parte dei motivi.

"L'idea di farli parlare un po' da soli è stata mia, spero non le dia fastidio", disse conducendola nel ballo come se non avesse mai fatto altro nella vita.

"Se devo essere sincera un po' sì, ma capisco che devo razionalizzare i miei sentimenti, visto che sto per diventare sua moglie. E che Candy sta per sposare lei", rispose mentre evitavano un'altra coppia.

"Vuole sapere la verità? Vederli insieme provoca sensazioni contrastanti anche a me ma, come dice lei, sto imparando a... razionalizzare", disse con un leggero sorriso.

Karen si guardò per un attimo attorno e non le sfuggirono alcune occhiate, specie da parte dei giornalisti: "Non è preoccupato che la stampa possa dare un'interpretazione errata a questo... come dire? Scambio di coppie?", concluse ridacchiando.

William rise di cuore, una risata affascinante che fece crollare le sue ultime preoccupazioni: se davvero Candy era innamorata di lui, doveva esserne letteralmente stregata. "Ho invitato solo i corrispondenti di giornali di ottima reputazione, che sanno di doversi attenere ai fatti reali senza inventare... strane storie. Penso che abbia avuto modo anche lei di vedere che danno può fare una notizia scritta in maniera errata, io l'ho vissuto sulla mia pelle".

Karen si ricordava bene quello che era accaduto alla famiglia Ardlay poco tempo prima: "Oh, non me lo dica: mi hanno attribuito più fidanzati di quanti sono i miei anni! Comunque deve essere stato orribile quello che vi è successo. Ma apprezzo molto la vostra tenacia nel rientrare in società a testa alta, spero che ormai tutto sia sistemato".

La musica finì e lui la sciolse dalla sua presa per il ballo, facendo un lieve inchino: "Sì, ora il futuro della mia famiglia è luminoso, come mi auguro possa diventare anche per lei e Terence. So che a breve partirete per un nuovo tour".

Karen sorrise, sentendo la felicità riempirle il petto: "Sì, per questo vogliamo sposarci entro l'autunno. Per quel periodo dovrebbe tornare anche Eleanor Baker, sua madre. Potremo recitare da marito e moglie ed è un sogno che si avvera per me... Oh, ma sto parlando come una ragazzina infatuata! Mi offra da bere, sia gentile, così le racconto la mia, di storia".

William le offrì il braccio e la condusse al tavolo dove servivano le bevande: sperava di non aver fatto una gaffe parlando di voler bere, viste le motivazioni per cui era finito ingiustamente in prigione, ma lui sembrava sempre rilassato e sereno.

Con gli occhi sognanti di una ragazzina, mettendo per un po' da parte il suo spirito pragmatico, Karen cominciò a raccontare a William Ardlay come aveva conosciuto Terence e come si era innamorata di lui, omettendo ovviamente i particolari più personali.

L'uomo rise di cuore quando citò l'episodio del finestrino del treno e lei rimase sbalordita quando le raccontò di come aveva conosciuto Terry a Londra, aggiungendo particolari che le erano ignoti: il fidanzato non le aveva mai detto che William aveva fatto a pugni per difenderlo e si ripromise di prenderlo opportunamente in giro, per quello.

L'atmosfera si rilassò e i due si ritrovarono a parlare come vecchi amici, mentre i rispettivi fidanzati di certo avevano una conversazione simile a poca distanza da loro.
 
- § -
 
Terence ammirava il cielo stellato con Candy, un senso di pace interiore sempre più profondo: "Non sono abituato e vederti con i capelli diversi dal solito", disse per rompere il ghiaccio, "ma in compenso le tue lentiggini non sono sparite come la tua memoria".

Lei fece una faccia oltraggiata e lo prese a pugni sul petto, come ai tempi della Saint Paul School: "Terence, sei sempre il solito!", lo rimproverò mentre lui scoppiava a ridere.
"Ci sono cose che non cambieranno mai, vero?", disse allontanando con gentilezza quella furia.

"Già... e ci sono cose che invece sono mutate profondamente. Terry, sei felice, vero?". Eccola, la Candy che conosceva, che si preoccupava del benessere di tutti.

"Lo sono, Tarzan Tuttelentiggini. A volte penso al momento in cui ti ho lasciata a quella stazione e mi sembra che si tratti della vita vissuta da un'altra persona", ammise appoggiandosi alla balaustra e scrutando di nuovo nella notte.

Lei imitò il suo gesto: "Conoscevo Karen di fama, ma non pensavo che sarebbe stata proprio lei a rapire il tuo cuore. Devo dire che siete una coppia bellissima, sono così felice per voi!".

Terence chiuse gli occhi: "Lei è stata quella che mi ha salvato da me stesso. Nonostante i miei buoni propositi è stata dura accettare che tu ti fossi innamorata di un altro, di uno dei miei migliori amici, per giunta! Karen mi ha fatto capire che davo poco valore a me stesso e che, se solo avessi accettato la realtà e avessi guardato più in là del mio naso, mi sarei accorto di quanto potesse diventare semplice aprire di nuovo il mio cuore. Avevo al mio fianco una donna meravigliosa che mi adorava e ho rischiato di lasciarmela sfuggire. Stavo per ripetere l'errore fatto con te".

"Terry...". Non gli sfuggì il tono triste con quella sfumatura di rimprovero.

Eppure, la curiosità ebbe il sopravvento: "Candy, ormai so che il mio cuore appartiene senza ombra di dubbio a lei e ricordo anche che mi dicesti che non sarebbe stato con i 'se avessi' che avrei superato quel momento così difficile. Ma dimmi la verità, cosa pensi sarebbe successo se fossimo rimasti insieme, se tutto quello che è accaduto con Susanna non si fosse mai verificato? Se con quel biglietto di sola andata fossi diventata mia moglie?".

Candy rimase in silenzio per lunghi minuti, come elaborando una risposta, e lui attese con pazienza: "Se devo essere sincera, Terence... è come se mi chiedessi cosa sarebbe successo se Anthony non fosse morto e noi non ci fossimo mai incontrati, o lo avessimo fatto in tutt'altra circostanza. Il destino, a volte, prende strade imprevedibili e, per quanto noi ci sforziamo di immaginare futuri alternativi, la verità è che non lo sapremo mai". Si volse a guardarlo, il viso sorridente: "Ma una cosa la so e l'ho detta anche ad Albert, qualche giorno fa. Penso sia giusto condividerla anche con te adesso. Credo fermamente che il mio cuore mi avrebbe riportata da lui, prima o poi: in quel periodo era senza memoria e, nonostante la mia sofferenza, non potevo pensare di lasciarlo solo a Chicago. Credo anche che, se ci fossimo frequentati più a lungo, ci saremmo resi conto di essere troppo diversi e al contempo troppo simili per risultare compatibili".

Terence rimase colpito da quelle parole. A dire il vero, non si aspettava una risposta così diretta: "Se devo esserti sincero tutto questo ferisce il mio ego maschile, ma spiegami in cosa saremmo stati incompatibili. Mi sembra che, amore a parte, tutto sommato ci divertissimo insieme. Ti riferisci al fatto che ti prendo sempre in giro?".

Candy si mise a ridere: "Oh, no, figurati, anche Albert lo fa, seppur in modo diverso. Voglio dire che tu hai una carattere molto possessivo e sarebbe stato difficile far coincidere le tue continue tournèe con il mio lavoro da infermiera. Inoltre, entrambi abbiamo un'indole forte che ci avrebbe portato a discutere".

"Se è per quello anche Karen ha un carattere simile, ma in modo del tutto diverso dal tuo. Lei riesce a tenermi testa anche senza picchiarmi e al momento mi basta un suo sguardo per capire che devo fare marcia indietro. Non c'è niente da ridere!", protestò quando lei cominciò a farlo tenendosi addirittura la pancia.

"Beh, allora sei davvero innamorato, non ci sono dubbi!", singhiozzò tra le risate.

"Sì, lo sono", ammise con sincerità, "oggi non so cosa farei senza Karen. Ma ricordati che ti voglio molto bene e che per qualunque cosa puoi contare su di me".

"Lo stesso vale per me, grazie Terry". E, nella spontaneità innocente che da sempre l'aveva contraddistinta, Candy lo abbracciò di slancio. Fu una stretta piena di affetto, molto diversa da quell'addio doloroso che si erano dati a New York. Ma la ricambiò con fervore, sapendo che aveva in Candy a sua volta un'amica preziosa.

Quando alzò gli occhi la gola gli si seccò: Albert e Karen erano sulla soglia del giardino e li guardavano, tenendosi a braccetto. Entrambi avevano uno sguardo che difficilmente riusciva a interpretare, vista la poca visibilità.

Candy dovette percepire il suo irrigidimento perché si staccò e guardò indietro, portandosi una mano alla bocca ed emettendo un'esclamazione contrita.
"Non è come pensate, non è...". Avevano parlato nello stesso momento, gesticolando come due ragazzini colti con le mani nella marmellata.

La situazione aveva qualcosa di comico e Terence si distese quando vide Albert scoppiare a ridere, così lo provocò: "Ma tu che ci fai a braccetto con la mia fidanzata? Ti avevo chiesto di controllarla, non di sedurla".

La risata si spense e Albert e Karen si guardarono, suscitando in lui una sfumatura di gelosia che sapeva essere assurda, ma non riuscì a bloccare quell'emozione sgradevole: cos'era tutta quella complicità?

"Beh, Terry, mi annoiavo di là e ho voluto fare amicizia con il tuo amico. Gli ho raccontato tutto di noi", disse Karen staccandosi da Albert e camminando verso di lui per raggiungerlo in quella maniera sensuale che lo faceva impazzire.

Lui sentì tutti i colori salirgli al viso. Tutto? Tutto cosa?! Per fortuna, lei raggiunse il suo orecchio per sussurrare: "Tranquillo, ho evitato i particolari scandalosi".

La voce di Albert lo riscosse: "Bene, mi fa piacere che abbiate potuto parlare tra voi. Ci spiace essere piombati qui, ma nonostante io abbia fatto un'attenta selezione, anche il giornalista più serio può diventare... uhm, come dire? Creativo". Mentre Karen si agganciava al suo, di braccio, posandogli una mano sul petto e provocandogli un'ondata intensa di calore e desiderio, Candy tornava al fianco di Albert. Si scambiarono un sorriso, con il quale probabilmente suggellarono che era tutto a posto tra loro e che non c'era nessun malinteso sull'abbraccio di poco prima.

"Karen, mi piacerebbe conoscerti meglio. La tua fama ti precede e si vede che sei una donna eccezionale. So già che farai felice Terence", disse Candy afferrando il bicipite di Albert e poggiandosi a lui in maniera decisamente più casta.

"Oh, mi piacerebbe molto, Candy. Sarebbe bello farci una chiacchierata tra donne, magari anche prima del tuo matrimonio". Karen concluse la proposta con un occhiolino e Terry la osservò, stupito: che diamine le frullava in quel cervellino?

Fu il turno di Candy di arrossire, anche se balbettò qualche convenevole. Albert li invitò a seguirli nella sala per continuare a ballare.

"Vi raggiungiamo presto", rispose lui, poi guardò di nuovo Karen, gli occhi ridotti a due fessure. "Perché vuoi parlare a Candy prima che si sposi?".

"Ma è ovvio, per darle dei consigli sulla sua prima notte di nozze! Non dirmi che non hai notato quanto quei due siano ingessati, anche se si vede lontano un miglio che si adorano", rispose lei senza alcuna vergogna.

"Ma, Karen, siamo a un ballo di gala! Che smancerie pensi possano mettersi a fare, davanti a tutti?", chiese sconvolto.

La mano di lei si infilò tra i bottoni della sua camicia, toccando la pelle del torace e cominciando a fargli perdere la testa. Tuttavia, si concentrò sulla sua risposta, o almeno ci provò: "Intendo dire che non sono certo avanti come noi", rise incollandosi a lui e intrappolandolo contro la balaustra.

Terence le passò sensualmente le mani lungo la schiena e scese fino al limitare delle curve più prosperose, resistendo all'impulso di arrivare più giù nel timore che potessero vederli: "Non mi provocare, piccola strega, è la festa di fidanzamento di due dei miei migliori amici, evitiamo di offrire spettacoli piacevoli solo per  noi".

"Sei sicuro? La natura è così rigogliosa, qui", disse roca al suo orecchio, aderendo ancora più strettamente al suo corpo e facendolo reagire all'istante.

"Ti stai vendicando per il tempo che ho passato con un'amica che non amerò mai come amo te adesso?", domandò prima di abbassare la bocca sul suo collo.

"No, è solo che la lontananza... e la musica... e lo champagne... e ti amo...".

Terminate le parole coerenti, Terence si premunì di spegnere il fuoco che ardeva in loro. Dopotutto, Karen aveva ragione: la natura in quel giardino era rigogliosa e, soprattutto, c'erano alberi più comodi e nascosti di quella balaustra...
 
- § -
 
Annie avvertì con chiarezza il suo nuovo spirito ribelle ribollirle nel sangue e rischiare di farla esplodere lì, davanti a tutti. Come era possibile che una donna adulta e maggiorenne dovesse stare attenta a dove camminava o con chi ballava per non rischiare le occhiatacce di sua madre?

Aspettare di potersi fidanzare con Archie era già una tortura, ma se le era precluso anche avvicinarsi a lui di qualche passo diventava quasi folle!

Ormai era sempre più convinta che sua madre stesse maturando la decisione di allontanarla in via definitiva da lui per non creare scandali: era perché aveva rotto stupidamente il fidanzamento mesi prima? O perché, pur innocente agli occhi del mondo, Archie era finito in prigione per un breve periodo? Non lo sapeva e non le importava. Che fosse per uno dei due motivi, per entrambi o per un altro ancora, un giorno avrebbe semplicemente smesso di obbedirle e...

"Annie, tutto bene?". Candy e Albert le si avvicinarono e, come era già accaduto, non poté fare a meno di notare quanta gioia e quanto amore emanassero.

"Sì, tutto bene, grazie. Mi sento solo un po'... controllata", non poté fare a meno di confessare, scoccando un'occhiata a sua madre.

Albert alzò lo sguardo, come per cercare qualcuno: "Candy, se vuoi parlare un po' con Annie vi lascio sole. Però dal prossimo ballo in poi non ti permetterò di cambiare cavaliere", concluse con tono tragicomico.

"Non preoccuparti, Albert, non c'è bisogno. Dopotutto è la vostra festa", ribatté lei.

I loro sguardi s'incontrarono e Annie vide la stessa complicità che caratterizzava lei e Archie. Ora sì che il loro amore si somigliava. Ora sì che avrebbero potuto davvero essere due coppie meravigliose senza fraintendimenti. Se solo...

Quando lui si allontanò, Candy la condusse a un divano un po' defilato della sala e le chiese se voleva qualcosa da bere. Annie scosse la testa.

"Annie, mi dispiace per come sono andate le cose. Ma capisco anche che Albert non voglia mettersi contro tua madre scavalcando Archie...", cominciò lei.

"Candy", la interruppe, "quello che avete tentato di fare e che avete ottenuto con la zia Elroy è bellissimo. Non solo ora tu potrai essere felice con Albert, ma quando Archie tornerà dall'università non dovrò più preoccuparmi di lei. Davvero, lo apprezzo molto e, anzi, non ho ancora avuto modo di ringraziare come si deve il tuo fidanzato", concluse facendola arrossire e abbassare lo sguardo. "Ma è così: ora tocca a noi due. Mia madre è solo una mia preoccupazione e, tutt'al più, di Archie. Si sono già parlati e lei è irremovibile".

Candy sospirò rumorosamente: "Allora temo che dovrai pazientare almeno un altro anno per fidanzarti con lui. Annie, mi dispiace che tu e lui oggi siate qui a festeggiare noi due... senza poter...".

Annie le prese le mani e la guardò negli occhi: "Non dirlo neanche per scherzo, Candy, sono felicissima per voi e sono certa che anche Archie lo è. Sono io a dovermi sentire in colpa per aver travisato la vostra chiacchierata fuori dalla Casa di Pony, quella notte". Lei aprì la bocca per parlare, ma lei non glielo lasciò fare. "No, fammi finire, per favore. Sia io che lui abbiamo commesso degli errori e ci prendiamo la piena responsabilità, non voglio che nulla intacchi questo momento magico tra voi. In passato sono stata una ragazzina egoista e capricciosa, ma ora voglio solo la tua felicità: ve la siete guadagnata e meritata entrambi, quindi godetevela anche per noi, va bene? Me lo prometti?".

Candy aveva le lacrime agli occhi, ma annuì con fervore e lei la strinse in un abbraccio: "Brava, la mia sorellina", disse cercando di inghiottire il pianto.
"Sai, Annie, è la prima volta", disse lei poco dopo, staccandosi per asciugarsi gli occhi.

"La prima volta... di cosa?", domandò.

"La prima volta che sei molto più forte di me. Anzi no", si corresse. "Sei stata molto forte anche quando ero senza memoria. Ricordo che un paio di volte ho pensato che fossi parente di Frannie, per la tua tenacia".

Risero insieme, ricordando brevemente quei momenti.

"Sai Candy", si decise quindi a confessare, "sospetto che mia madre non ci darà il permesso di sposarci neanche dopo".

Sul volto dell'amica si disegnò prima lo stupore, quindi il dolore: "Ma, Annie, sei sicura?".

Le luci si abbassarono e Annie benedì quel momento perché così Candy non poteva vedere le lacrime nei suoi occhi e preoccuparsi. La musica era romantica ed evidentemente dedicata ai due fidanzati. Si sforzò di sorriderle mentre Albert tornava per ballare con lei.

Non sapeva se lui avesse avuto una conversazione simile con Archie, seppe solo che lo cercò con lo sguardo: era seduto dal lato opposto della sala e la guardava a sua volta attraverso il grande tavolo al centro.

Mentre Albert e Candy danzavano immersi nella loro bolla di felicità, loro si parlarono silenziosamente con lo sguardo, sognando di fare lo stesso.
 
- § -
 
Albert volteggiava con Candy fra le braccia e si sentiva forte. Vivo. Invincibile.

Lui, che era un solitario. Lui, che aveva vissuto in mezzo al nulla per anni. Lui, che si era spinto fino alla selvaggia Africa ed era tornato affrontando mille pericoli e rimanendo alfine vittima dell'esplosione di un treno.

Era morto e rinato grazie a una donna minuta, dai capelli d'oro e gli occhi color malachite che riflettevano il verde del diamante che aveva al dito.

Tutto scompariva e c'erano solo loro in mezzo a quel salone, nella penombra, a ballare e a fissarsi come se il mondo non esistesse.

La mano sinistra le toccava la vita sottile e le dita erano allargate per avvolgerle il più possibile la schiena, mentre la destra era intrecciata con la sua, il calore tra i palmi gli mandava scosse elettriche lungo il braccio.

Attratto irresistibilmente dalle labbra rosse di Candy, Albert mandò al diavolo le buone maniere e le sfiorò con le proprie: "Ti amo", soffiò sulla sua bocca, sentendo il corpo di Candy vibrare contro il proprio e avvertendo il desiderio stordirlo nonostante non fossero soli.

La risposta focosa di Candy lo sbalordì, ma lui non si preoccupò di cosa potessero pensare gli ospiti: dopotutto erano fidanzati. Le mani di lei serpeggiarono fino alla nuca, avvolgendolo in un abbraccio e lui si piegò stringendola dietro la schiena.

La musica non cessava, il brusio delle voci cresceva.

L'invasione della lingua di lei nella sua bocca lo fece letteralmente impazzire e, dimentico di dove si trovavano, ricambiò con fervore, aderendo a lei fino a strapparle un gemito.

"Candy", gli sfuggì, con voce profonda, una sensazione di potente lussuria che rischiava di portarlo decisamente oltre ogni limite della decenza.

Persino oltre il limite che stavano per superare nei boschi di Lakewood.

Un limite che sfiorò seriamente quando una piccola mano gli si infilò nella camicia, strappandogli i bottoni.

E non erano più nella sala da ballo, ma in una specie di mondo parallelo dove la musica copriva i loro respiri affannati, il sudore che scendeva lungo le tempie di lei mentre invocava, inarcandosi: "Prendimi" e lui si stringeva contro il suo corpo, mostrandole con orgoglio e nudo bisogno l'evidenza del proprio desiderio.

Un rumore forte come uno sparo lo bloccò e le urla delle persone intorno a loro gli indicarono che erano sempre state lì, a osservarli. Ma non era importante.

Nulla lo era più.

Perché ora Candy si era staccata da lui con un verso strozzato e gli occhi andavano, stupefatti e spalancati, dal suo viso alla chiazza rossa che si allargava sul suo petto.
Un urlo muto gli mozzò il fiato quando allungò le mani verso Candy per prenderla mentre cadeva, gli occhi rovesciati, il sangue che fluiva via da lei come era fluito dalla sua gamba.

E, mentre la vita scorreva via a fiotti dalla sua Candy, che aveva perso e ritrovato più volte, Albert capì che stavolta l'avrebbe davvero perduta per sempre. Perché Candy stava morendo dissanguata fra le sue braccia e le urla degli ospiti si mescolarono alle proprie in una cacofonia che, per quanto rumore facesse, non l'avrebbe tenuta in vita abbastanza a lungo per dirle addio.

Albert si rizzò a sedere di scatto, prendendo un respiro come un singulto dopo una lunga apnea forzata. Boccheggiò, ansimò, gemette di panico guardandosi attorno come se fosse braccato  e cercasse un nemico invisibile nell'oscurità che lo avvolgeva nel suo abbraccio.

Poteva sentire il rumore di un temporale estivo, i fulmini e i tuoni che si avvicendavano nel cielo dietro la finestra.

Quando ebbe ripreso una parvenza di controllo sul proprio respiro e sul proprio corpo, Albert allungò un braccio per accendere la luce della lampada sul comodino, ma l'interruttore scattò a vuoto.

A quanto pareva, la corrente era saltata a causa del temporale, proprio come era successo a Lakewood. Quella volta, però, la natura si era scatenata con più violenza e Candy...

"Candy!", ansimò ricordando il suo sogno.

Senza riflettere, aprì il cassetto del comodino e, a tentoni, trovò una candela e i cerini. Tentò di accenderla, ma la mano gli tremava ancora e ci riuscì solo al secondo tentativo. Facendosi luce, uscì nel corridoio e giunse davanti alla porta della sua stanza, deciso ad aprirla per controllare che lei stesse bene.

Ma si fermò quando le dita strinsero il pomello.

Doveva ragionare, doveva riprendere il controllo. Il sogno era stato vivido, ma di quello si trattava: di un mero incubo.

Poggiò la fronte alla porta, cercando di placare il battito del proprio cuore impazzito, certo che Candy lo avrebbe udito da dietro la porta. Se fosse entrato lì dentro, avrebbe davvero toccato il fondo.

E Albert non si sarebbe fatto sconfiggere dai traumi del passato, sarebbe stato forte come sempre.

Non poteva spaventarla e rendersi ridicolo. Anche se, ne era certo, sarebbe stata ben felice di confortarlo, come una madre che consoli il proprio bambino dopo un incubo.
L'orgoglio e la certezza che Candy stesse dormendo placidamente dopo la bella serata passata insieme lo convinsero in via definitiva e lui le augurò la buona notte col pensiero.

Si stava recando verso le scale, deciso a scendere in cucina per bere qualcosa di fresco per riaddormentarsi, quando una voce maschile, bassa ma pienamente percettibile nel silenzio, lo fece voltare: "Se non usi un porta candela, la cera bollente ti ustionerà una mano".

Adrian lo fissava con un sorrisetto, in pigiama, anche lui con una candela in mano.

"C'è del succo d'arancia nel frigorifero della cucina, vuoi farmi compagnia?", propose Albert ricambiando il sorriso.

"Avete anche un frigorifero, qui?", fece lui stupito, seguendolo per le scale.

"Veramente ne abbiamo due", rispose facendogli strada.

La prima goccia di cera gli raggiunse un dito e Albert imprecò sottovoce, causando la risata divertita dello psichiatra.

Forse, una chiacchierata fra uomini era proprio quello che gli serviva per ritrovare la serenità.   

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Capitolo 76
*** Di confidenze e risate in cucina ***


Di confidenze e risate in cucina

"Ho conosciuto Frannie qualche anno fa, al Santa Joanna".  Adrian stava fissando il bicchiere che aveva in mano, seduto al tavolo della cucina assieme ad Albert. Gli era estremamente grato per averlo voluto ospitare, quella notte: dopo avergli accennato di lei, durante la festa, non era sicuro di potersi rimettere alla guida, specie dopo che improvvisi nuvoloni avevano cominciato a oscurare la luna e le stelle.

Ma l'insonnia doveva aver colpito anche il patriarca e Adrian dovette ammettere di esserne quasi lieto, perché poteva concedersi, una volta tanto, uno sfogo con qualcuno che lo capisse, smettendo i panni di medico.

"Poi lei è partita come crocerossina e non ci siamo più visti", continuò, "ma io non ho mai smesso di pensare a quegli occhi di ghiaccio dietro le lenti. La postura severa, il portamento rigido ma professionale. Tutto in lei mi affascinava: c'era una parte di me che voleva disperatamente sciogliere quel ghiaccio per scoprire la donna che si nascondeva sotto a tanta freddezza".

Albert si limitò a guardarlo in silenzio, con aria incoraggiante, sorseggiando il suo succo d'arancia fresco di frigorifero.

"Quando finalmente abbiamo avuto la possibilità di stare un po' vicini per via della vicenda di Candy, all'inizio ero troppo concentrato su di lei per accorgermi dei segnali che stavano portando al mutamento di Frannie. Ma, alla fine, non ho potuto fare a meno di notarli: qualcosa nella sua armatura si era incrinato. E non per merito mio", concluse chiudendo gli occhi e chinando la testa.

Albert si alzò all'improvviso, con un sospiro, e andò ad armeggiare in una credenza alta finché non ne tirò fuori una bottiglia che riconobbe come whisky. La poggiò sul tavolo e disse: "Visto che parliamo di donne direi che dobbiamo correggere questo succo. Di solito sono contrario all'alcool, specie dopo quello che mi è successo, ma non disdegno di assaporare il distillato scozzese di mio padre, quando è necessario".

Adrian accettò la generosa correzione, sorridendo e vedendolo fare lo stesso. Era certo che la sua sortita in piena notte avesse delle motivazioni di cui l'avrebbe messo al corrente a breve.

"Mi dispiace", disse all'improvviso, mettendo la bottiglia da un lato.

"E di cosa?", chiese Adrian, alzando un sopracciglio.

Lui si strinse nelle spalle: "Di aver indirettamente portato scompiglio... nei tuoi piani".

"Non è colpa tua e lo sai", ribatté prendendo un sorso della bevanda. "Penso che per uno come te fare strage di cuori sia all'ordine del giorno e non mi stupisce che Frannie si sia sciolta proprio davanti a William Albert Ardlay".

"Oh, no, ti prego! Apprezzo il complimento ma non dirmi che tu pensi di essere da meno! E comunque non limitiamoci a relegare l'innamoramento di una donna al mero aspetto fisico: anche se siamo entrambi dotati di un fascino irresistibile, mi piace pensare che si guardi anche a quello che abbiamo dentro...", si schernì lui ridendo di gusto.

"Accidenti, e io che speravo che invece lei si fosse soffermata proprio su quello, tanto da non vedere che anima buona sono io!", scherzò lui facendo tintinnare il bicchiere contro quello di Albert in una sorta di goffo brindisi.

"Hai ragione", disse lui bevendo un sorso, mordendosi il labbro come se stesse riflettendo, "in effetti non ha potuto conoscere molto di me. Questo significa che il mio fascino l'ha abbagliata tanto da renderla cieca ai tuoi pregi interiori".

La serietà di quel momento sospeso venne interrotta da una risata collettiva, che abbassò la tensione e contribuì a rilassare l'atmosfera, complice anche il whisky.
"Comunque, scherzi e autocelebrazioni a parte... avete mai parlato?", chiese Albert, tornato serio.

"Sì", rispose Adrian, asciutto, "e l'ho persino baciata. Ma non c'è stato nulla da fare. Alla fine è semplicemente scappata pur di...". S'interruppe, maledicendosi perché aveva davvero parlato troppo.

Infatti, il senso di colpa si dipinse sul volto del suo interlocutore, misto allo stupore: "Vuoi... vuoi dire che è andata fino in Europa... a causa mia?!", chiese esterrefatto.

"Ti ho già detto che non è colpa tua. Casomai sua. Mia. Insomma, potevo pensarci prima ad avvicinarla e a corteggiarla, non limitarmi a confessarle qualcosa che non ho mai avuto il coraggio di dirle proprio in quel periodo", spiegò gesticolando.

"Se avessi saputo che sarebbe finita così non le avrei chiesto di occuparsi di Candy. Ma era una sua collega e la conosceva bene e, come hai rimarcato tu, la sua professionalità è ineccepibile. Però io ho avuto modo di stare a contatto con voi per poco tempo a causa di quella vacanza fuori programma", concluse Albert con una smorfia.

"Il cuore di una donna è un mistero che neanche uno psichiatra come me può risolvere con facilità. Ho sempre pensato che i sentimenti prescindano più spesso di quanto pensiamo dal cervello umano... ne è la conferma che Candy, pur essendo smemorata e associandoti al suo trauma, alla fine avesse cominciato a innamorarsi di nuovo di te", spiegò tamburellando con le dita sul tavolo.

"Già... e dire che mi ha fatto letteralmente impazzire con quel suo comportamento ambivalente. Sembrava volersi gettare fra le mie braccia e il momento dopo mi respingeva come se fossi il diavolo in persona. Non mi sono mai sentito così destabilizzato in vita mia. Con Candy ho perso me stesso", ribatté lui guardando verso la finestra, sui vetri della quale le gocce di pioggia s'infrangevano sonoramente.

La luce delle candele tremò e Adrian si risolse infine a chiedere: "Cosa è successo per farti fuggire dalla tua stanza ed esitare davanti alla sua? Per un attimo, prima di vederti andare verso le scale, ho temuto persino di aver interrotto qualcosa...".

Lui ridacchiò, in imbarazzo: "No, figurati. Ho solo... ho spesso questi incubi...". Si interruppe, come se fosse indeciso o impacciato.

"Albert, hai mai sentito parlare dei disturbi dovuti ai traumi?", chiese lui, sapendo che si trattava di un uomo che amava leggere e documentarsi, specie su ciò che lo riguardava da vicino.

"Sì", ammise riluttante, "ma so anche che si tratta di qualcosa che hanno riscontrato nei reduci di guerra. Io ho vissuto tanti momenti terribili nella mia vita: non ho mai conosciuto mia madre, ho perso mio padre quando avevo solo otto anni e mia sorella qualche anno dopo. Per non parlare dei miei nipoti... Anthony, Stair... Ho avuto un incidente quasi mortale e ho perso la memoria per due anni. Ma mi sono sempre rialzato e ho combattuto persino quando ero un ragazzino con una responsabilità enorme sulle spalle. Rischiare di perdere Candy mi ha devastato, certo, però...".

"Fermati un secondo", lo bloccò lui con una mano alzata. Aveva sospettato che Albert non avesse avuto vita facile, ma non certo fino a quel punto! In realtà era quasi senza parole. "Pensi forse di essere invincibile? Di avere poteri soprannaturali o persino doti onnipotenti?".

Albert sbatté le palpebre: "No, certo, ma...".

"Ascoltami: tutti noi abbiamo i nostri alti e bassi nella vita e chi, come te, ha un carattere forte ed è abituato a forgiarsi fin da piccolo ha di certo una tolleranza maggiore. In psicologia viene chiamata resilienza. E tu hai sicuramente avuto sempre questa dote, da quanto mi racconti. Ma esiste un punto di rottura per tutti. E quale momento peggiore se non quello in cui siamo più vulnerabili? Innamorarti di Candy, abbassare le difese e poi subire tutta una serie di situazioni così pesanti ti ha senz'altro provato ed ecco comparire effetti collaterali come disturbi alimentari, incubi... e debolezze che prima non avevi, suppongo".

Albert lo ascoltava con grande interesse, annuendo lentamente: "Avevo immaginato qualcosa del genere, ma non l'avevo mai sentito espresso ad alta voce... in questi termini. In pratica sono come una diga rotta?", disse alzando un sopracciglio e col fantasma di un sorriso sulle labbra.

"Oh, ti stai ricostruendo molto bene. Vedo che hai ripreso peso e il fatto che tu possa essere più sensibile agli incubi o ad altri sentimenti che prima affrontavi con serenità fa parte del cambiamento che c'è stato. Non si è mai quelli di prima, dopo uno o addirittura più eventi traumatici, ma l'importante è continuare ad affrontare la vita dosando forza e debolezza", spiegò muovendo le mani come i piatti di una bilancia.

Albert si passò una mano tra i capelli: "Sai, quando ho lasciato Candy alla Casa di Pony credendo che non l'avrei più rivista, mentre era ancora senza memoria... pensavo di aver toccato il fondo. La mattina dopo, però, stavo già tentando di rialzarmi. Era come se, avendola avuta accanto per tanti mesi, la speranza di riaverla non mi consentisse di concentrarmi mai su me stesso. Ma, una volta fatto il salto, fossi più consapevole di dover semplicemente andare avanti con la mia vita. Poi lei è tornata... ma questa è un'altra storia", finì di raccontare con un sorrisetto.

"E allora a maggior ragione perdona te stesso per le tue debolezze. Hai degli incubi? Ti capita di commuoverti come una ragazzina davanti a cose che prima non ti sfioravano nemmeno? Accettalo. Accettalo e affrontalo. Lavora su quello che davvero ti pesa e inficia sulle tue attività quotidiane, ma non ti punire per ogni piccola debolezza. La sensibilità umana è delle donne come degli uomini. Non giocare anche tu a fare l'uomo di ghiaccio, come fa la mia Frannie". La sua Frannie... era la prima volta che la chiamava così e fu lui a sentire un'emozione calda e intensa salirgli al cuore.

Albert circondò il bicchiere con entrambe le mani, fissando il liquido al suo interno: "Per anni sono stato io quello a cui Candy si appoggiava quando era triste. Ho asciugato le sue lacrime anche alla morte di Anthony e quando ha lasciato Terence... ero abituato a seppellire in fondo al mio cuore qualunque sentimento egoistico. Ma ora che finalmente siamo insieme sento di desiderare tutto: la felicità, i suoi sorrisi, i suoi sguardi...". Albert si fermò, forse conscio di essere sul punto di dire qualcosa di imbarazzante.

"Ti capisco bene, credimi. Anche se so dare ottimi consigli io sono il primo a essere un idiota". In un paio di sorsi, Adrian finì il suo drink e incontrò lo sguardo stupefatto di Albert: "Sai una cosa? Mi ha sempre affascinato l'idea di lavorare in Europa. Penso che partirò, un giorno di questi!", disse puntando l'indice, con cui ancora teneva il bicchiere, contro di lui.

Albert sbatté le palpebre e poi scoppiò a ridere: "Questa sì che è una grande notizia!", esclamò alzandosi e riprendendo la candela.

Adrian lo imitò: era ora di dormire, l'indomani avrebbe preso decisioni davvero importanti. Ma, mentre si avviavano verso le rispettive stanze, non resistette all'impulso di dirgli un'ultima cosa: "Oh, per quanto riguarda gli incubi... sono certo che spariranno quando ti addormenterai abbracciato a tua moglie".

Gli fece l'occhiolino e gli parve di cogliere un leggero rossore sulle guance. Ridendo sommessamente, Adrian gli augurò la buonanotte e tornò nella sua camera.
 
- § -
 
Candy scese al piano di sotto sbadigliando: aveva dormito proprio bene, tuttavia le emozioni della sera prima le avevano fatto prendere sonno molto tardi. Mentre era ancora in dormiveglia, tra l'altro, le era parso di udire dei passi nel corridoio, ma poteva benissimo trattarsi di un sogno.

Giunse al piano inferiore strofinandosi un occhio con la mano e stava per recarsi nella sala della colazione quando vide una piccola folla davanti alla cucina: la zia Elroy borbottava animatamente dietro al suo ventaglio, mentre il cuoco e alcune cameriere sembravano profondersi in scuse tra inchini e mani giunte.

Sbatté le palpebre e si avvicinò: "Che sta succedendo?", chiese d'impulso.

"Buongiorno anche a te, Candice!", rimbeccò la zia squadrandola con severità.

Arrossendo, rispose: "Mi scusi... buongiorno a tutti", s'inchinò profondamente.

Quando si rialzò, la donna rispose alla sua domanda: "Pare che il tuo fidanzato si sia messo in testa di cucinare la colazione al posto del cuoco e di farsi aiutare persino da un ospite. Che indecenza! Che disonore!".

Mentre lei alzava gli occhi al soffitto, quasi sull'orlo di una crisi di nervi, Candy cercò di soffocare la risata che le solleticava la gola. Si tirò su le maniche e si avvicinò: "In questo caso non posso stare con le mani in mano!".

Fece qualche passo per entrare, tra gli sguardi sconvolti della servitù e quello quasi assassino della zia Elroy, ma una voce alle sue spalle fece la stessa domanda che aveva posto poco prima. Si volse per sorridere a Patty e augurarle il buongiorno, quindi la prese per mano trascinandola all'entrata: "Ti ricordi quando cucinavamo tutti insieme alla Casa della Magnolia?".

"Certo che me lo ricordo!", disse con le labbra a sua volta incurvate in un sorriso.

"Bene, preparati a rivivere l'atmosfera!", disse enigmatica, facendole l'occhiolino ed entrando con lei, senza lasciarle il polso.

Dietro di loro, la zia Elroy tuonava contro una futura matriarca che a malapena dava il buongiorno, contagiava con la sua maleducazione persino ospiti di solito impeccabili e si abbassava a cucinare come il suo stolto fidanzato.

Il mio fidanzato... Albert.

La cucina della villa era piena di profumi e di pentole in ebollizione e gli chef di eccezione erano due uomini. Quello del suo cuore aveva un grembiule intero, bianco ma macchiato di qualcosa che sembrava marmellata: stava spalmando con un coltello su alcune fette di pane collocate in diversi piatti posti in fila. Dietro di lui, di spalle, c'era una figura che sembrava proprio il suo psichiatra, con cui la sera prima aveva ballato una sola volta. Girava con un mestolo il contenuto di una pentola e stava assaggiando.

"Insomma, volevate divertirvi da soli, voi uomini, vero?", esordì, accigliata e con le mani sui fianchi.

Albert alzò gli occhi e Carter si voltò di scatto. Lei, però, fu irresistibilmente attratta verso quei due spicchi di cielo e udì solo la sua voce pronunciare il proprio nome, mentre faceva il giro del tavolo e si avvicinava per baciarla, un braccio avvolto intorno alla vita.

Nonostante fossero fidanzati e di fronte a due persone amiche, Candy si sentì in imbarazzo: era la prima volta che la baciava in pubblico e rispose a malapena.
"Albert, ti prego!", sibilò divertita, ridacchiando mentre lui si staccava con espressione delusa.

"No, ma fate pure! Qui posso cavarmela anche da solo", disse in tono sagace Carter, mentre Patty ridacchiava.

"Sei solo invidioso perché non ti ho salutato allo stesso modo", ribatté Albert scusandosi con la sua amica e facendole un elegante baciamano.

"Oh, Cielo!", imprecò Adrian guardando in aria come la zia Elroy e riprendendo a cucinare. Candy gli si avvicinò e sbirciò i fornelli per capire come muoversi per aiutare.

"Dai, Albert, lasciate che vi aiutiamo!", propose Patty tirandosi su le maniche.

"Beh, ma...", fece lui portandosi una mano alla nuca e scoccandole un'occhiata.

"William Albert Ardlay, continui ad aver paura della mia cucina?", sbottò Candy impettendosi e gonfiando le guance.

"No, amore mio, ma non vorrei che sporcassi il tuo bel vestito", tentò lui fingendo imbarazzo.

"Bugiardo, non ti fidi di me, ammettilo!".

"Beh, ti ricordo che quando vivevamo insieme hai persino sostenuto di essere stata attaccata da una padella, o era una pentola?".

Patty e Carter li stavano guardando, spostando il capo da uno all'altra come se stessero assistendo a una partita di tennis.

"Mi ha attaccata davvero!", quasi gridò Candy.

Albert alzò un sopracciglio, la squadrò per qualche secondo e poi scoppiò a ridere fragorosamente, seguito dagli altri due. "Bene, se sei convinta allora metti un grembiule e spalma la marmellata sui toast già imburrati, io controllo il pudding. Adrian, come procede con le frittelle?".

"Non ho ancora avuto modo di sbattere le uova", si scusò lui alzando il mestolo.

"Ci penso io", si propose Patty afferrando un grembiule dalla spalliera di una sedia.

Candy rimase, ancora una volta, affascinata da come Albert si muoveva in cucina: sembrava immerso nel suo ambiente naturale, come nel verde e decisamente più che nel suo ufficio. Emanava un carisma da capo chef con la sua solita camicia nera a maniche arrotolate e il grembiule allacciato in vita: non c'era nulla di ridicolo in lui, né c'era stato quando quello stesso grembiule era rosa confetto.

Invece gli ho detto proprio qualcosa del genere, un giorno, quando ero una smemorata.

Cominciò a pensare che voleva solo saltargli al collo e baciarlo, poi avvertì una fitta di senso di colpa. Se in passato Albert cucinava per farle piacere, di recente aveva ricominciato a farlo per uscire da un tunnel che gli impediva di alimentarsi a sufficienza. Non avrebbe mai dimenticato il loro incontro dopo la sua uscita dal carcere quando, in quel corridoio, gli era quasi caduta fra le braccia e lo aveva visto ancora più magro di quando occupava la stanza numero zero del Santa Joanna.

Né avrebbe scordato il loro scambio nella cucina di Lakewood, durante la tempesta, quando Albert le aveva detto che l'avrebbe lasciata libera, ma poi le aveva anche confessato di volerla riportare indietro, sulla sua personale strada di ritorno a Oz...

Discretamente, si asciugò una lacrima dall'angolo dell'occhio, mentre raccoglieva altra marmellata di lamponi dal vasetto con il coltello e la disponeva sui panini.

Patty, che era accanto a lei a sbattere rumorosamente le uova, le mormorò con il suo solito tono dolce: "Candy, tutto bene?".

"Sì, scusa, stavo solo ricordando il passato con un po' di malinconia", mentì. "Mi spiace che Annie non sia qui con noi".

Il viso dell'amica s'intristì: "Già... poverina, mi dispiace tantissimo per lei e Archie. Spero che possano tornare insieme al più presto".

Avevano parlato piano e quasi non sentì la presenza alle sue spalle: "Candy, cara, sono davvero felice di conoscerti finalmente per quella che sei, ma credo che tu abbia da correggere ancora qualche aspetto legato... uhm... alle quantità".

"Eh?". Si girò per incontrare lo sguardo perplesso del dottor Carter e poi tornò a guardare i suoi toast: aveva messo almeno metà vasetto di marmellata su uno solo. "Oh, povera me!".

Le risate di tutti la raggiunsero di nuovo e lei li imitò con gioia. Era davvero bello poter vivere spensierata come una volta.

"Il problema di Candy è che si distrae, ma secondo me se non lo facesse sarebbe bravissima", spiegò Albert mentre soffiava sul pudding per assaggiarlo.

"Oh, allora non è nulla per cui io possa aiutarla", ribatté Adrian ridacchiando e tirando fuori il bacon da tagliare.

Lavorarono tutti insieme, tra battute e risate, e lei riuscì a mostrare con orgoglio i suoi panini con la marmellata, mentre Albert sfornava un pudding che strappò un applauso a tutti e Patty e Adrian terminavano frittelle e bacon spadellando come due professionisti.

Candy si portò una mano al viso, delusa: "Non arriverò mai ai vostri livelli, sono proprio una frana! Persino Adrian è più bravo di me", commentò sporgendo il labbro inferiore.
Lui fece spallucce: "Beh, vivendo da solo mi piace arrangiarmi in cucina, è solo questione di abitudine".

"Credo che sia la stessa cosa che mi ha detto Albert... eppure anche io ho vissuto lontana da casa per un mucchio di tempo", ribatté contando i piatti e cercando un vassoio.

"Sì ma non mi risulta che alla Saint Paul School fossi tu a cucinare", disse il fidanzato facendole l'occhiolino.

"Oh, Albert, sei impossibile!", lo redarguì dandogli un colpetto sul torace.

"Bene, piccioncini, mentre voi vi divertite noi chiediamo alle cameriere di aiutarci con queste pietanze, che ne dice, dottor Carter?", intervenne Patty guardandolo con un sorriso.

L'uomo annuì e le porse il braccio. Uscirono insieme dalla cucina e un'idea cominciò a farsi strada nella mente di Candy: "Quei due starebbero proprio bene insieme. Dio solo sa quanto Patty meriti di essere felice! E se Carter vive da solo...", disse a bassa voce.

"Hanno entrambi il cuore occupato, Adrian perlomeno", confessò Albert usando lo stesso tono, accostandosi a lei mentre si asciugava le mani con uno strofinaccio.
"Come?", alzò gli occhi su di lui.

La guardò seriamente per qualche istante, come se stesse decidendo se parlarle o meno: "Archie mi ha riferito di alcune lettere che si sono scambiate con Annie: pare che Patty abbia conosciuto un bravo ragazzo all'università dove studia per diventare insegnante, ma per ora si tratta di una frequentazione solo amichevole. Per quanto riguarda Adrian, invece... beh, è innamorato di Frannie".

Candy si portò una mano alla bocca.

"Ne parliamo più tardi, va bene? Ora andiamo a fare colazione prima che si freddi tutto e che la zia Elroy si metta a urlare davvero!".

Prendendo a braccetto Albert, Candy si chiese quante altre cose le erano sfuggite durante il periodo in cui era stata senza memoria. Le sembrava di dover recuperare una vita intera e non solo pochi mesi.

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Capitolo 77
*** Sentenza ***


Sentenza

"Ma quanto ci stanno mettendo, santo Cielo?", si lamentò tra i denti Elroy Ardlay agitando forte il ventaglio. Nella boutique faceva un caldo infernale e Candice e Annie Brighton erano dentro quella stanza delle prove da almeno un'ora.

Aveva ben spiegato alla commessa che tipologia di abito da sposa si aspettava per garantire il prestigio degli Ardlay, ma temeva che quelle due potessero deviare l'attenzione della donna verso modelli affatto adatti alla futura matriarca.

E molte cose non erano adatte, a cominciare dal luogo in cui quello scapestrato di suo nipote aveva deciso di celebrare le nozze. Un orfanotrofio! Una collina! Ci sarebbero stati almeno un'altra decina di luoghi infinitamente più adeguati solo a Lakewood, diamine!

Per non parlare del viaggio di nozze... William aveva organizzato tutto con la futura moglie e, invece di partire direttamente per la Scozia, aveva dato ordine di preparare proprio la villa di Lakewood in modo che non ci fosse neanche la servitù, come aveva fatto quando Candice era senza memoria. Avrebbero passato qualche giorno lì e poi in un appartamento di Chicago dove pareva avessero soggiornato durante il periodo in cui vivevano assieme: suo nipote aveva affittato l'intero stabile pur di non essere disturbato!

Tutte quelle assurdità estrose e vagamente romantiche erano quanto più lontano ci fosse dal prestigio del clan, sperava solo che si riuscisse a mantenere segreta almeno la prima parte di quella luna di miele fuori da ogni canone ragionevole.

Finalmente, il rumore della porta che si apriva le indicò che l'attesa era terminata. Stava per alzarsi, sperando di non farsi venire un mal di testa peggiore solo guardandola, ma rimase senza parole.

Candice avanzò verso la sala d'attesa avvolta in un abito dalla scollatura abbastanza ampia per l'epoca, ma la gonna era drappeggiata fino ai piedi, vaporosa e in balze che conferivano alla figura d'insieme eleganza e movimento.

Il lungo velo era appuntato in modo da scendere parallelo allo strascico, pur terminando all'altezza della schiena. Elroy immaginò che, con qualche fiore fresco fra i capelli e un bel bouquet, potesse diventare quasi una figura fiabesca.

Suo malgrado ne fu commossa e le venne in mente Rosemary, non solo per la reale somiglianza fisica: Candice emanava una sorta di luce propria dagli occhi, dal volto e dall'intera figura, di certo proveniente dall'immensa felicità che provava.

Si ritrovò a pensare a come avrebbe reagito William vedendola. Era più che certa che sarebbe rimasto anche lui a gola asciutta.

"Le piace... zia Elroy? Ho scelto un modello un po' diverso da quello proposto da lei, spero di non aver osato troppo", disse arrossendo.

Deglutì un paio di volte prima di chiudere gli occhi e dire laconica: "Va bene".

Un'espressione di puro sollievo si dipinse sui volti di Candice e Annie, che si sorrisero a vicenda.

La commessa iniziò a esporre a voce tutti i modelli di scarpe che sarebbero stati perfetti per quel vestito e poi nominò anche la biancheria intima per la luna di miele.
Vide distintamente il rossore diffondersi sul volto della ragazza, che abbassò gli occhi chiedendo se fosse davvero necessario.
"Certo che è necessario", intervenne facendo un passo avanti. "Una signora deve sempre essere in ordine per suo marito".

Non che le sorridesse l'idea di aiutare quella ragazza imbranata nella scelta della sua biancheria, ma d'altronde non poteva neanche contare sulla sua amica che neanche era arrivata all'altare. Non aveva più avuto modo di parlarle di nuovo a quattr'occhi da quando aveva lasciato Archibald ma, da quanto gli aveva riferito William, sua madre non aveva dato il consenso a farli sposare prima della laurea del nipote.

Nonostante fosse stata convinta controvoglia ad acconsentire alla loro nuova unione, doveva dire che era lieta di quella battuta d'arresto perché andava a meraviglia con i suoi piani.

"È un vero peccato che tu abbia deciso di non sposare Archibald quando ne hai avuta la possibilità. A quest'ora potevi consigliare tu a Candice i capi migliori". Non lo disse ad alta voce, ma non si sarebbe certo presa lei anche la responsabilità di farle il famoso discorso prematrimoniale: visto che la Brighton non era disponibile, ci avrebbero pensato le sue ex tutrici dell'amata Casa di Pony... anche se, a ben ricordare, forse una delle due era una suora...

No, non era certo sua figlia, non avrebbe affrontato con lei alcun argomento imbarazzante, era già tanto che le consigliasse i capi di quella boutique.

Vide le espressioni contrite delle ragazze a quella sua osservazione, ma nessuna delle due disse nulla. Annie distolse lo sguardo e Candice si accigliò, assumendo d'improvviso quasi un'aria accusatoria. Cosa pretendeva?

"Questo corsetto con reggicalze riprende perfettamente la tonalità di bianco del vestito, starebbe benissimo sotto all'abito che ha scelto, signorina", commentò la commessa intrecciando fra loro le mani ben curate e sorridendo in maniera eccessiva per una signora.

"Sì, sono d'accordo", dovette ammettere Elroy.

Terminati gli acquisti, risalirono in auto e accompagnarono a casa Annie Brighton. Candice, che era rimasta silenziosa per tutto il tempo, il viso ancora arrossato, esordì: "Zia Elroy, pensa che possa restare un po' con Annie e tornare a casa più tardi?".

La squadrò con aria severa, chiedendosi di che diamine dovessero parlare e rispose nascondendo il viso dietro al ventaglio: "Dovresti chiederlo alla tua ospite. Non ha lezione di piano o altre incombenze di cui occuparsi?".

La ragazza, che era a sua volta rimasta molto sulle sue, parve illuminarsi: "Oh, no, non ho nulla di urgente da fare. Mi piacerebbe molto se Candy potesse venire un po' a casa mia!".

Erano proprio come due bambine, non c'era che dire. Si fece promettere da Candice che non avrebbe tardato e di telefonare quando avessero dovuto mandare l'autista e le congedò.

Nell'aria calda di agosto, ripensò a Candice con l'abito da sposa e al portamento umile ma composto; ai suoi sforzi per diventare una signora dell'alta società pur andando a lavorare quasi tutti i giorni in quella clinica vicino all'orfanotrofio; al suo imbarazzo di fronte a un corsetto con il reggicalze e alla sua espressione di disappunto quando aveva redarguito Annie Brighton. Era senza alcun dubbio una donna che sfuggiva a ogni normalità per i dettami di quei tempi e capì perché William avesse scelto proprio lei.

Lui stesso era un ribelle che però, quando serviva, sapeva svolgere in maniera eccellente il proprio lavoro e avere un contegno degno del patriarca degli Ardlay. Doveva ammettere che Candice, pur avendo ancora molto da imparare, somigliava molto a lui sotto tutti quegli aspetti.

Il sole che si avviava nella sua discesa in quel cielo terso le sembrò di buon auspicio e, mentre arrivava davanti alla sua residenza e scendeva dall'auto aiutata da una cameriera apparsa prontamente, annusò l'aria pregna dell'odore del verde e dei fiori e si sentì quasi in pace.

Alla fine, era certa che tutto sarebbe andato bene e che avrebbe persino dimenticato le radici di quella Candice quando avesse avuto fra le braccia il loro primo erede.
 
- § -
 
George non pensava che sarebbe arrivato quel giorno, persino prima del matrimonio, ma evidentemente, visto che i Lagan avevano avuto legami con la mafia, il motore della giustizia aveva accelerato in modo notevole.

In piedi vicino a William, gli stava riassumendo le decisioni del giudice, spiegandogli i dettagli della sentenza mentre lui era seduto con le gambe accavallate e la sedia presidenziale girata di lato. Un gomito era poggiato sulla scrivania e la mano chiusa quasi a pugno sulla bocca, come se si fosse imposto di ascoltare impedendosi di parlare.
Il profilo era teso, ma era più che certo che, qualunque cosa gli avesse riferito, non avrebbe voluto concentrarsi su altro che il suo matrimonio imminente. Alle volte, mentre preparavano gli inviti e si occupavano insieme di alcuni aspetti burocratici, aveva l'impressione che William volesse parlargli di qualcosa ma non avesse il coraggio di farlo.
Lo sorprendeva a guardarlo con gli occhi a mezz'asta e l'espressione pensierosa, poi scuoteva la testa e passava ad altro. George sperava che, di qualunque argomento si trattasse, lo mettesse al corrente se era necessario al corretto svolgimento del giorno più importante della sua vita.

"I dieci anni sono il massimo della pena che sono riusciti a patteggiare i nostri avvocati. Inoltre, la signorina Lagan avrà ulteriori cinque anni da scontare in lavori socialmente utili per aver tentato di ferire la signorina Candice. L'accusa di associazione mafiosa, come previsto, è decaduta nel momento in cui il testimone chiave ha parlato. I signori Lagan torneranno in Florida entro l'autunno per gestire i due alberghi che hanno riaperto e torneranno periodicamente per incontrare i loro figli nelle rispettive carceri".

William chiuse gli occhi e sospirò forte, poi si alzò di slancio, facendo ondeggiare le braccia e misurando la stanza a lunghi passi: "Bene", esordì battendo forte le mani, "quindi questo è l'epilogo. Per aver tentato d'incastrare il patriarca degli Ardlay e un altro membro del clan, nonché aver cercato di assassinare la futura matriarca se la caveranno con un periodo tra i dieci e i quindici anni. Dico bene?".

George capiva bene la rabbia di William. L'aveva provata persino lui, ma cercava di guardare con distacco alla situazione e, soprattutto, gli spiegò ciò che avevano puntualizzato gli avvocati: "In realtà non è proprio così, se vogliamo essere precisi".

Lui si voltò, sorpreso: "Ah, no? Bene, illuminami, per favore". Lo chiese in tono educato e con il sorriso sulle labbra ma sapeva che doveva avere un vero e proprio tumulto di sentimenti dentro di sé. Poteva vederlo da come serrava i pugni e la mascella e da come continuava a camminare senza, in apparenza, trovare pace.

George si schiarì la voce: "Quello che hanno fatto i Lagan è principalmente riferibile all'infrazione del diciottesimo emendamento", lo interruppe alzando una mano quando aprì la bocca per dire qualcosa, "il che significa che contattare la distilleria, inviare merce a Londra e operare come se dietro le quinte ci fossero stati gli Ardlay o i Cornwell non è punibile in alcun modo, soprattutto perché al processo il signorino Neil ha parlato chiaramente delle sue intenzioni di incastrarvi e gli è stato riconosciuto il merito della confessione. E, di fatto, non sono state prodotte firme false, vi sono solo un prelievo non autorizzato di whisky dalla villa di Lakewood da membri che comunque appartenevano al clan e l'omissione di alcuni timbri e documenti. Lo stesso tentato omicidio, come lo chiama lei, alla futura matriarca è stato visto piuttosto come un danno provocato a un cavallo con intenti lesivi nei confronti della protetta già maggiorenne di un Ardlay. Nonostante le urla sconclusionate della signorina Eliza al processo, non sono state usate armi, né veleni o violenza fisica. Di certo il fatto che siate stati ingiustamente arrestati lei e il signorino Cornwell è stato preso in considerazione dalla corte, che infatti ha accordato il massimo della pena possibile, oltre a un cospicuo risarcimento da parte dello Stato che equivale a...".

"Non voglio alcun risarcimento. Chiudiamola qui", disse lui secco, fermandosi finalmente davanti alla porta-finestra, le mani intrecciate dietro la schiena all'altezza dei reni.
"Scusi?", chiese spalancando gli occhi.

"Non voglio soldi dallo Stato. Chiedi che vengano dati in beneficienza... anzi, fallo come prima cosa domattina. Predisponi quel denaro perché vada agli enti che sosteniamo in parti uguali o a seconda delle necessità del momento".

Fu il suo turno di sospirare: "Come desidera, signorino William".

Lui rimase in silenzio, a guardare fuori il sole che tingeva di arancione la natura circostante per lunghi minuti. Stava per domandargli se voleva che se ne andasse quando parlò a voce così bassa che stentò a udirlo: "Oggi Candy andava a cercare il vestito da sposa. Fra poco più di un mese sarà mia moglie e voglio pensare che questa sia l'unica giustizia che valga davvero qualcosa. La nostra famiglia può di nuovo fare affari a testa alta e i colpevoli di tutta la vicenda sono in galera". Si voltò, i lineamenti di nuovo rilassati. "Ti mentirei se ti dicessi che non vorrei che entrambi pagassero molto di più, ma non voglio diventare un uomo rancoroso e ancorato ai princìpi. Voglio solo godermi la mia vita al fianco di chi amo".

George sorrise: "Ero certo che la pensasse così. A proposito, l'attrice Eleanor Baker ha confermato la sua presenza al matrimonio e anche il signor Vincent Brown: hanno fatto in modo di spostare i loro impegni di lavoro come promesso in modo da partecipare".

"Bene, ne sono felice", disse lui avvicinandosi di nuovo alla scrivania. "George, posso farti una domanda?". Disse all'improvviso, con quell'espressione incerta che aveva già visto.

"Certo, William, mi chieda pure ciò che desidera", rispose, lieto che si stesse sbottonando.

"Dopo... dopo Rosemary, ti sei più innamorato?". La voce era malferma, il tono incerto e teso, George fu sicuro che temesse di essere stato indiscreto.

In realtà si aspettava tutto tranne una domanda simile, ma suppose che William avesse validi motivi per porla.
"Vede, signorino William, ci sono sentimenti che difficilmente possono lasciare libero il cuore di un uomo. Sono così importanti che restano lì, assieme ai ricordi indelebili che riguardano quella persona e non c'è tempo che possa lenire il dolore", spiegò cercando di non far tremare la propria, di voce.

"Perdonami", disse lui, contrito. "Non avrei mai dovuto chiedertelo..". Eppure, capì che aveva avuto bisogno di farlo per un motivo ben preciso che avrebbe scoperto a breve.

"Non deve scusarsi. Sappia però che la vita ci riserva molte sorprese e, anche se gli impegni con la famiglia sono sempre stati la mia priorità, qualche anno fa ho avuto modo di incontrare una donna che stavo per sposare. Ero già pronto a domandarle il permesso di allontanarmi per un periodo". Quella confessione lo aveva alleggerito come non pensava possibile. L'aveva portata dentro per troppo tempo.

"Ma... George, perché non me l'hai mai detto?! Insomma, potevo darti del tempo libero, occuparmi io degli affari...!". William sembrava davvero sconvolto dalla rivelazione.
Stupidamente, George aveva pensato che William lo avrebbe giudicato per essersi innamorato di una donna che non fosse sua sorella e, altrettanto stupidamente, si era persino giudicato da solo. A lungo. Così a lungo che, alla fine, lei se n'era andata.

Così rispose con estrema sincerità: "Perché il nostro rapporto è terminato a causa di un altro uomo che le ha fatto la proposta prima di me. La verità è che io ho titubato e forse, alla fine, è stato meglio. Ora lei starà vivendo con qualcuno che non ha ombre nel suo passato".

Lui aggrottò le sopracciglia: "Mi dispiace, George, non ne avevo idea".

"Non si preoccupi, è una cosa che fa parte del passato", assicurò annuendo con aria serena.

William si passò una mano tra i capelli e ricominciò a camminare: "Veramente ti avevo fatto questa domanda perché mi servivano... dei consigli da una persona fidata che fosse stata innamorata. Ma mi rendo conto che non mi sono mai occupato del tuo benessere e dei tuoi sentimenti. Sono stato un egoista e ti ho persino riversato addosso tutti i miei problemi come se tu non ne avessi mai avuti. Forse, dopotutto, quella volta Candy aveva ragione...", concluse quasi parlando a se stesso.

George non sapeva a cosa si riferisse, ma scosse la testa con vigore: "Non deve dire così, signorino William. Suo padre mi ha salvato da un destino ignoto e forse oscuro e quando ho avuto la fortuna di entrare a far parte della sua famiglia per me è stato un evento che andava oltre ogni mia più rosea aspettativa. Poter incontrare la signorina Rosemary, anche se guardandola da lontano, mi ha permesso di arrivare a un livello superiore di felicità e poter poi servire lei....", dovette interrompersi per deglutire uno scomodo nodo che gli si stava formando in gola. "Non riuscirò mai a esprimere a fondo la mia gratitudine. Poter lavorare per il clan per me sarà sempre motivo di gioia, a prescindere dai disastri della mia vita sentimentale".

Sorrise, riflettendo i propri occhi lucidi in quelli di William, che gli si avvicinò per stringerlo in un abbraccio da uomini, con una sola mano, dandogli vigorose pacche sulla schiena.

"Promettimi solo una cosa: se un giorno dovesse ricapitarti... non esitare a parlarmene. E non perché io voglia entrare nella tua vita privata, ma per darti la possibilità di vivere la tua relazione con i giusti tempi".

"Lo prometto, signorino William", acconsentì ricambiandolo con una pacca leggera all'altezza della spalla: era lieto di sentire carne e muscoli e non ossa, anche se già a livello visivo erano evidenti il suo recupero fisico e quello mentale. "Ora vuole dirmi qual era lo scopo della sua domanda? Mi sembrava importante".

"Ecco, io...". Ebbe appena il tempo di notare un leggero rossore salire al suo viso che bussarono alla porta: una cameriera annunciava che la cena era in tavola e che la signora Elroy e la signorina White erano in sala da pranzo ad attenderli.

Mentre si avviavano accompagnati da uno dei tramonti più belli che avesse mai visto, George sperò che quella conversazione fosse solo rimandata. Cominciava ad avere dei sospetti su quanto William volesse domandargli e, seppure non fosse particolarmente ansioso di rispondergli, capì che non c'era nessun altro che potesse farlo.

E non c'era nulla che non volesse fare per quel ragazzo che considerava come un figlio.
 
- § -
 
Annie infilò la camicia da notte con gesti lenti e metodici, abbottonandola solo a metà, lasciando scoperta una porzione di pelle per non soccombere al caldo torrido.
Si gettò sul letto di schiena, allargando le braccia e guardando il soffitto, senza avere il coraggio di spegnere ancora la luce: anche stanotte, il sonno avrebbe tardato a venire.
Non era invidiosa di Candy, ma sinceramente felice per lei. Aveva pensato che quel pomeriggio avesse voluto trattenersi per parlarle del suo matrimonio imminente invece, come era tipico di lei, le aveva chiesto come stesse.

Annie capì che era preoccupata quasi di farle un torto sposandosi così velocemente, quando lei doveva attendere Archie come minimo per un altro anno.

L'aveva rassicurata, dicendole che entrambi avevano già sofferto troppo e che la situazione sua e di Archie era ben diversa. Era stata lei a lasciarlo, dopotutto, e la causa era stata un malinteso che doveva comunque risolversi, prima o poi.

"Candy, se l'avessi sposato sapendo che nel suo cuore albergava ancora la confusione non sarei stata felice. E neanche lui. È meglio che sia andata così. Quando ci sposeremo non ci saranno ombre". Ci credeva davvero, mentre lo diceva, e ne era convinta tutt'ora.

Ma l'attesa era bruciante, su questo non aveva alcun dubbio.

Annie si girò su un fianco, ricordando che avevano parlato più intimamente di amore per i rispettivi fidanzati. Era stata lei a indurla a raccontare come fosse stato il loro incontro dopo il recupero della memoria, visto che non avevano mai avuto occasione di approfondire l'argomento.

Quando Candy le confessò, arrossendo fino alla radice dei capelli, cosa avesse proposto ad Albert su quel prato, Annie rimase sconvolta nell'apprendere che lei non aveva fatto nulla di così diverso con Archie.

Ne avevano parlato, a bassa voce nel timore che potessero udirle e, come sorelle, avevano espresso dubbi e timori, desideri e speranze. Candy si era detta stupita che la sua timida Annie fosse cambiata tanto, ma poteva capire quanto essere innamorata così profondamente potesse portare una donna a non rispettare i rigidi canoni imposti dalla società.

Annie aveva ben capito che l'imbarazzo provato non escludeva il fatto che Candy avesse necessità di approfondire l'argomento, perché il suo matrimonio era ormai imminente e lei non aveva che poche indicazioni scientifiche su cosa sarebbe davvero accaduto durante la sua prima notte di nozze.

"Sai", aveva aggiunto con aria complice, "Karen mi ha proposto di... farci una chiacchierata prima che io mi sposi. Credo che lei e Terry... insomma...".

Doveva avere sul viso lo stesso rossore di Candy, mentre si portava una mano alla bocca con un verso strozzato: "Ma... ne sei certa? Te l'ha detto lei?".

L'amica si stava tormentando l'orlo del vestito: "No, ma... mi sembrava così evidente che si riferisse a quello! E poi mi sono accorta che sono spariti per diverso tempo e quando sono tornati nella sala lei aveva...uhm... delle foglie tra i capelli".

La risata le era uscita, imbarazzata ma viscerale: "Davvero?".

Avevano riso insieme, contemplando sul serio la possibilità che Candy parlasse con Karen, ma trovandolo improbabile, visto che la loro ultima tournée sarebbe terminata giusto qualche giorno prima del matrimonio e forse si sarebbero viste proprio in quell'occasione.

"Non ti preoccupare", l'aveva rassicurata Annie, "sono certa che andrà tutto bene. Albert è un uomo molto gentile e affettuoso, comprenderà il tuo disagio e... ti saprà guidare".
Il momento teso si era ammorbidito ed erano passate ad argomenti più leggeri, finché non si era fatto quasi il tramonto e Candy era dovuta andare via.

Sola nella sua stanza, in quella notte estiva così calda e bella, Annie si sentì preda di una malinconia ardente e guardò fuori dalla finestra come se i suoi pensieri potessero raggiungere Archie per l'intensità con cui glieli stava rivolgendo. Avrebbe voluto telefonargli, sentire la sua voce rassicurante. O, meglio, stare fra le sue braccia, ricevere i suoi baci, le sue carezze, sapere che si sarebbe risvegliata accanto a lui...

Le lacrime cominciarono a scenderle sul viso e lei abbracciò il cuscino, rannicchiandosi in posizione fetale come se fosse regredita di almeno quindici anni.
Mentre singhiozzava senza conforto, capì che non avrebbe mai potuto attenderlo tanto a lungo senza che il suo cuore si spezzasse, perché non le era mai mancato così tanto. Era certa che per lui fosse lo stesso.

Si addormentò con un barlume nel cuore. Era solo una fiammella che temeva di alimentare ma che, ogni giorno che passava, illuminava sempre di più il suo cammino.

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Capitolo 78
*** Dolci timori ***


Dolci timori

Vento. Leggero, carezzevole.

Lo sentiva soffiare all'esterno, gentile come il sussurro benaugurante di una voce sommessa. Anzi, forse di più voci.

Candy scostò la coperta leggera e scese con i piedi nudi sul pavimento di legno di quella che era stata la sua stanza alla Casa di Pony per tanto tempo: era la sua ultima notte da ragazzina.

Domani sarebbe diventata la moglie di Albert e una donna fra le sue braccia.

Sospirò con il cuore colmo di aspettativa e timore, ma nessun dubbio albergava in lei, solo la certezza di una felicità così grande da rischiare di farla esplodere in qualunque momento.

Mise una mano sul vetro fresco, scrutando nella natura notturna, e rispose al vento con due nomi.

"Anthony, Stair, vorrei tanto che foste qui anche voi...", sussurrò con le lacrime che si stavano formando nei suoi occhi: erano tutto ciò che mancava alla pienezza della sua gioia che, nonostante tutto, traboccava nel suo animo.

Non vedeva Albert da una settimana e le sembravano mesi: sarebbe arrivato da Chicago direttamente la mattina dopo, assieme a tutti gli altri ospiti, e ad aiutarla a indossare il suo abito da sposa sarebbero state Miss Pony e Suor Lane, come era giusto che fosse. Loro erano le sue madri e i bambini l'avrebbero supportata con i fiori e le decorazioni.
Era molto grata al suo fidanzato per averle concesso la libertà di decidere per una cerimonia accanto alle persone che amava, e lui stesso appariva davvero entusiasta all'idea di sposarla proprio sulla collina dove si erano incontrati la prima volta. Non poteva essere diversamente da così.

E sapeva che, come quel giorno, lui avrebbe indossato il kilt.

Ne avevano discusso a lungo e Albert era apparso così restio, all'inizio, che non ne aveva capito subito il motivo. Poi si era ricordata del suo disastroso tentativo di farle recuperare la memoria proprio in quel modo e la tristezza e il rimorso l'avevano attanagliata.

"Da quel giorno è rimasto nella mia borsa e non ho avuto più il coraggio di tirarlo fuori", le aveva confessato con lo sguardo oscurato dalla malinconia. "Sciocco da parte mia, vero?".

Candy aveva scosso la testa: "No, non è sciocco, Bert", lo aveva rassicurato. "So bene quanto tu sia razionale e affatto fatalista, ma ci sono situazioni e persino oggetti che possono evocare ricordi spiacevoli. Non voglio forzarti, ma oggi ti propongo di far tornare il tuo kilt un ricordo piacevole, indossandolo quando ci scambieremo i voti di matrimonio".

Lui le aveva sorriso, carezzandole dolcemente la guancia, facendole chiudere gli occhi: "Sai che non è proprio lo stesso di quando ci siamo incontrati, vero? A diciassette anni non avevo ancora finito di crescere", ridacchiò.

"Oh, lo immagino. Ma è simbolico che tu mi sposi proprio con un kilt e sono certa che, se non fosse accaduto quello spiacevole episodio, saresti d'accordo con me". Lo aveva guardato intensamente, perdendosi per l'ennesima volta nei suoi occhi limpidi come il cielo.

"Sì, in effetti sono d'accordo con te...", aveva sospirato. "Candy, non mi hai mai detto se è stato dopo quell'episodio che ti è tornata la memoria. So che hai dormito molte ore e quando ti sei risvegliata hai recuperato i tuoi ricordi, ma...".

Lei ci pensò su per qualche istante: "Io voglio credere che sia stata la spinta di cui avevo bisogno, anche se è arrivata in ritardo. Ero già sulla buona strada e, in realtà, il tuo piano ha funzionato".

Il sorriso che si era allargato sul volto di Albert le fece dimenticare persino i sensi di colpa: "Allora direi che non c'è nessun dubbio. Farò sistemare il kilt perché sia impeccabile per quel giorno".

Poi si erano baciati. Come sempre, tutto era partito da un tenero sfiorarsi di labbra, da un saggiarsi morbido e quasi esitante, poi tutto era diventato una frenesia di bocche e lingue, mani premute sulla schiena e ansiti a malapena trattenuti.

Non si sarebbero rivisti fino al giorno del matrimonio e quel saluto aveva avuto un retrogusto dolceamaro. Il preludio di due amanti.

Come due assetati, si erano assaporati l'un l'altro senza mai averne abbastanza, cercando di imprimere, in quell'ultimo bacio da fidanzati, tutta l'aspettativa e la speranza del futuro che li attendeva.

"Ti amo", le aveva sussurrato col fiato corto, tenendole in mento con due dita. "Non so come diavolo farò a stare senza di te per tutti questi giorni senza vederti, senza parlarti, senza toccarti...".

"Lo stesso è per me", era stata la sua sincera risposta, "ma quando ci rivedremo sarà per sempre".

Candy però aveva letto nel suo cuore ciò che le gridava anche il proprio: ogni volta che tutto sembrava andare nel migliore dei modi, avveniva qualcosa a sconvolgere le loro vite. Nel suo caso erano stati la morte di Anthony, la separazione da Terence, la scomparsa di Albert dalla Casa della Magnolia, il suo incidente e il calvario della propria mente senza ricordi.

Tremando, Candy si domandò se veramente potesse lasciarsi andare alla felicità o se doveva temere che qualche altro evento imprevisto la offuscasse.

No, non sarebbe accaduto. Tutto sarebbe andato bene: poteva sentirlo nel mormorio del vento che le portava i sussurri delle persone amate, nel battito forte del proprio cuore, nella sensazione bruciante sulla pelle che non vedeva l'ora di essere sfiorata dalle mani gentili di suo marito.

Candy s'irrigidì: cosa sarebbe accaduto l'indomani a quell'ora? Sarebbe già stata nuda fra le sue braccia? Lui l'avrebbe già condotta in quei sentieri sconosciuti ove l'anima e il corpo si uniscono, alfine, in una cosa sola?

Di nuovo, fu sopraffatta da paura e desiderio quasi nello stesso istante. Non avrebbe avuto modo di parlare con nessuno e non avrebbe certo avuto il coraggio di chiedere a Miss Pony di farle il discorso...

"Prima di tutto devo dormire, o domani avrò le occhiaie!", si disse tornando a letto e disponendosi per dormire.

Si girò e si rigirò, ma era così piacevolmente agitata che il sonno arrivò molto, molto tardi.
 
- § -
 
Albert si sentiva immerso in una bolla di impazienza e gioia folle che poteva descrivere solo come un fascio bruciante di nervi. Era salito nella sua stanza con l'intenzione di riposare, ma gli fu pressoché impossibile: così, in pigiama, era sceso in cucina per scaldare un po' di latte ma, invece del whisky, aveva usato il miele per correggerlo. Voleva dormire ma essere lucido eppure, quando terminò la sua bevanda, si pentì di quella scelta fin troppo rigorosa.

Era persino più agitato di prima. Aveva già fatto la rampa di scale per due volte: se non fosse stata notte si sarebbe messo a correre nel parco, come minimo.

Decise invece di deviare verso lo studio per ricontrollare, per qualcosa come la ventesima volta, i documenti da lasciare a George perché potesse occuparsi degli affari durante la sua luna di miele.

La luna di miele...

Mentre li rileggeva senza realmente concentrarsi, immaginando come sarebbe stato rivedere Candy nel suo abito da sposa, dannandosi perché temeva che forze oscure inesistenti impedissero la loro unione, nonché per motivazioni molto più prosaiche e intime, bussarono alla sua porta e per poco i documenti non gli caddero sparpagliandosi sul pavimento.

"Avanti", disse con un respiro profondo. Non fu troppo sorpreso di vedere George, anche lui rigorosamente in pigiama, esitare prima di entrare. "Anche tu ancora sveglio?", lo apostrofò con un sorriso teso.

"La sua agitazione di stanotte è tale che mi stupisco non siano intervenuti anche la signora Elroy e la servitù", ribatté lui alzando un sopracciglio.

Albert si passò una mano tra i capelli: "Mi dispiace, ho fatto molto rumore?", chiese in imbarazzo.

"No", disse George avvicinandosi e accomodandosi su una sedia, "ho semplicemente avvertito le vibrazioni della sua anima fin nella mia stanza".

Lo fissò per un attimo, stupefatto, poi scoppiarono a ridere insieme.

Caro, vecchio, George...

"Signorino William, in realtà da giorni mi sembra distratto, pensieroso. E non mi riferisco alla chiara emozione di sposarsi tra meno di dodici ore. Ha qualche preoccupazione?".

Albert sussultò: aveva detto dodici ore? Così tante? Così poche? La sua mente vagava da un estremo all'altro.

Si focalizzò sugli occhi preoccupati di quello che era sempre stato come un padre per lui e, dopo un attimo di esitazione, sedette alla scrivania e intrecciò le mani sul piano, riflettendo: "In effetti... c'è qualcosa che mi preoccupa. Ma non si tratta di lavoro", disse lentamente.

Poteva davvero fare con lui quella conversazione iniziata settimane prima e mai terminata?

George gli sorrise in modo rassicurante: "Bene, se posso esserle utile per risolvere le cose... sa che può fidarsi di me".

Cominciò a giocherellare con una penna, sentendosi avvampare come un ragazzino e maledicendosi per questo. Non sapeva davvero da che parte cominciare.

"Domani sposerò Candy", cominciò. "E... Ebbene, insomma... non sono certo...", si alzò di scatto, dandogli le spalle, sconfitto dalla vergogna.

"Non sa come deve comportarsi con lei?", terminò George per lui con tono gentile.

"È alquanto imbarazzante, no? Alla mia età...", disse ridendo di se stesso, certo che lo stesse facendo anche lui, pur se non in modo palese.

"Oh, no, lo definirei... uhm... lodevole. Non si preoccupi, vedrò fornirle qualche consiglio perché possiate entrambi passare una luna di miele serena e soddisfacente". Non credeva alle sue orecchie: anche se gli dava le spalle, ora era sicuro che non sorridesse, ma fosse sul serio intenzionato a supportarlo. Davvero si era aspettato qualcosa di meno da George? Mentre ancora se lo chiedeva, mordendosi il labbro inferiore, lui continuò: "Signorino William. Albert, voltati per favore. La prima regola è eliminare la vergogna".

Lui si girò a fronteggiarlo, con gli occhi spalancati: quando lo chiamava Albert e gli dava del tu significava che la conversazione era davvero confidenziale. E, attualmente, quello era il picco di confidenza più alto mai raggiunto. Ora sentiva davvero il volto in fiamme e ne fu frustrato.

"Allora tu continua a eliminare il 'lei' e a chiamarmi Albert", gli propose mentre si dirigeva verso un armadio e ne tirava fuori una bottiglia di whisky scozzese della collezione di suo padre. George alzò un sopracciglio.

Se non è questo il momento di un whisky...

"La polizia mi ha permesso di tenerli purché non li commerci, cosa che non ho mai avuto intenzione di fare", spiegò stringendosi nelle spalle e offrendogli un bicchiere. Aveva davvero bisogno di quel drink e forse anche George, che non sembrava comunque essersi scomposto più di tanto.

Sedette di nuovo di fronte a lui e lo sorseggiarono insieme, con la scrivania a dividerli.

"Dunque, Albert, perdonami se ti posso sembrare un ficcanaso, ma la prima cosa che devo sapere è quale sia la tua esperienza attuale, inclusa quella con la signorina Candy".

Lui si strozzò con il liquore e lo risputò, spruzzandolo sulla scrivania, con gli occhi fuori dalle orbite. Certo era che non si aspettava una domanda così diretta.

"Devo dedurre che qualcosa sia successo", dichiarò Georges con calma serafica.

Con un ultimo colpo di tosse, il pugno chiuso davanti alla bocca, Albert annuì freneticamente: "Sì, ma non quello che pensi. E non ho avuto altre... fidanzate". Sarebbe stato molto divertente se i giornali avessero riportato la notizia della prematura scomparsa del patriarca degli Ardlay per essersi strozzato con un sorso di whisky, specie dopo ciò che gli era accaduto a causa dei Lagan. Un vero spasso.

"Certo, altrimenti non saremmo qui a parlare, no?".

"No", ammise lui riavviandosi i capelli con un gesto nervoso. "George, mi dispiace...".

Lo bloccò con un gesto della mano. Non sapeva esattamente di cosa gli dispiacesse, se di essersi intrattenuto con Candy o di averlo coinvolto in quella conversazione, ma non gli importava. "Avrai avuto modo di capire meglio come è fatto il corpo di una donna". Non era una domanda.

"Sì, più o meno", rispose evitando il suo sguardo.

"Più o meno?", chiese perplesso, inarcando il sopracciglio.

"Solo fino a un certo punto. Sai bene che gli abiti delle signore sono... come dire... abbondanti". Roteò una mano in aria per esprimere meglio il concetto. La sua voce era un po' roca a causa dell'alcool che gli aveva irritato la gola quando era andato di traverso. Svuotò il bicchiere con un sorso e se ne servì dell'altro.

"Vorrei che restassi lucido, Albert". Lui abbassò il braccio, stava già per portarselo alla bocca.

"Certo, certo", acconsentì.

George si schiarì la voce: "Dunque, cosa sai esattamente di come è fatta una donna? Albert, guardami: ti sto chiedendo quali parti della sua anatomia conosci per esperienza diretta".

Albert deglutì, sentendosi dannatamente come un adolescente alle prime armi: l'educazione troppo rigida aveva rischiato davvero di trasformarlo in una specie di monaco.

"Per essere chiari, George", cominciò prima di avere un nuovo accesso di tosse e portarsi la mano davanti alla bocca. "Per essere chiari, con Candy si è trattato solo di carezze. Baci, soprattutto baci", precisò quando ebbe ripreso il controllo. "E... abbiamo dormito insieme, ma con i vestiti addosso, una volta sola".

"Uhm... davvero un po' poco", commentò lui distrattamente, tamburellando con le dita sulla scrivania.

"Ma, George! Sei serio?", gli domandò perplesso.

"Intendo dire che stai partendo quasi da zero e che sarà difficile... di' un po', hai letto qualche libro scientifico?", chiese illuminandosi.

"Ma certo! Georges, forse stai sopravvalutando un po' il mio livello di ignoranza in materia: quello che mi manca è... la pratica", concluse passandosi una mano sulla bocca, quasi volesse nascondere quelle parole così schiette.

"Davvero pensi che la pratica sia così importante? Non è sufficiente che tu sia a conoscenza della teoria?", gli domandò George in tono così compìto che quasi gli venne da sorridere.

"Santo cielo, George, mi sembra di stare di nuovo in un'aula di tribunale! Fai le domande come un avvocato dell'accusa", sbottò tra il serio e il faceto. "E non sei stato tu quello che mi ha appena detto che... è un po' poco...". Gesticolò, confuso.

Lui si strinse nelle spalle: "Te l'ho detto perché pensavo che la non avessi idea dei fondamenti: di certo è stato sciocco, da parte mia. Se la teoria non ti è oscura, il resto sarà puro istinto".

Puro istinto. Ma che bella notizia...

"Io... io non...", sbuffò infilando di nuovo le dita fra i capelli, frustrato oltre ogni dire per non riuscire a dar voce ai suoi timori. Albert si sedette ancora, tormentando il bicchiere e desiderando berlo tutto d'un fiato.

Come indovinando i suoi pensieri, George gli disse: "Ti concedo un sorso". Mentre lo faceva, lui aggiunse: "Tranquillo, è normale, diventerai più disinibito col tempo. In questo momento è come se avessi quattordici anni o giù di lì".

"A quattordici anni pensavo solo a nascondermi e a ricevere l'educazione che mi veniva imposta. Credo di non aver mai avuto neanche tempo per concentrarmi... su certe cose".

"Lo so, è per questo che stiamo parlando. Quindi?", lo incalzò.

Albert ci mise qualche secondo per rispondere, come se stesse cercando le parole: "Io... questo è il problema principale. Non so cosa fare per lei. Il meccanismo dell'accoppiamento mi sembra così freddo, così... scientifico nei libri, che non colgo alcuna reale emozione. Un po' come avviene nelle specie animali che mi è capitato di vedere allo zoo o in Africa. È come se, alla fine, tutto si riducesse a un divertimento esclusivamente maschile atto a fare figli", mormorò mentre gli saliva un nuovo rossore al volto.

George sospirò: "Facciamo un passo indietro, Albert. Quali erano le reazioni della signorina Candice durante le vostre... carezze e baci d'amore? Bada che neanche per me è facile parlare di lei in questi termini, ma voglio solo aiutarti". In effetti lo vide cominciare a sudare un poco.

Albert chiuse gli occhi, ricordando che gli aveva persino chiesto di farla sua su un prato poco distante dalla villa di Lakewood. E non era escluso che lo facesse proprio lì, l'indomani o nei giorni a venire. Quel pensiero gli fece venire la pelle d'oca.

"Diciamo che non ha mai avuto di che lamentarsi. Direi che non si rendeva nemmeno conto... di cosa scatenava dentro di me. A volte ho dovuto prendere l'iniziativa di allontanarmi da lei per non spaventarla e andare oltre". Lo confessò guardando oltre George, in un punto sul muro dietro di lui, come se sopra vi fossero impresse le immagini vivide di loro due su quel prato di margherite, o su quel letto a Lakewood...

"Questo è perché una donna è predisposta a provare sensazioni gradevoli tanto quanto l'uomo, anche se in maniera differente. Eviterò di farti una lezione di anatomia, ma sarà sufficiente che vi parliate seguendo un linguaggio verbale e non verbale... capisci cosa intendo?". Si vedeva che George era teso ad affrontare un argomento simile e che la sua pacatezza di poco prima era solo una facciata, e per questo apprezzò ancora di più il suo sforzo.

Una domanda, però, gli bruciava sulle labbra ed era, forse, la più importante di tutte: "Ma... non le farò del male? Ho letto che... insomma...", gesticolò senza sapersi spiegare.

"Come hai detto tu la biblioteca degli Ardlay contiene meri testi scientifici, Albert, la realtà è ben diversa. Non posso assicurarti che tua moglie non proverà affatto dolore, ma questo dipenderà molto da te", spiegò. Albert evitò di confessargli che per le mani gli erano capitati ben altri testi che aveva subito richiuso perché andavano all'estremo opposto.

"Dovrò essere molto delicato con lei", mormorò con un sorriso sognante.

"Esatto, e dovrai fare in modo che sia lei a guidarti, in una certa misura. Dovrai distoglierla dal dolore... con il piacere".

Albert aveva in mente una mappa mentale molto precisa delle parti del corpo di Candy che voleva scoprire e toccare, sperava solo che lei avrebbe gradito. Eppure il desiderio di renderla sua moglie in ogni senso del termine era un altro scoglio che lo metteva in allarme.

"E se non vi riuscissi? Se non fossi in grado di... di... attendere che lei...". Eccolo, il secondo problema. Alle volte si scopriva a desiderarla tanto che avrebbe semplicemente voluto immergersi nelle acque ghiacciate del Polo Nord.

"Hai imparato l'autocontrollo per tutta la vita. E ami la signorina Candy. Confido che sarai un amante paziente e tenero. In ogni caso, non temere di parlare con lei di ciò che provi, sii sempre sincero e ricorda che non dovete per forza partire dalla fine. Potete continuare la vostra scoperta uno dell'altra prima di arrivare all'atto vero e proprio. Prendetevi i vostri tempi con serenità, nessuno vi corre dietro".

Albert rimase in silenzio, si sentiva molto più rilassato: "Sai, George, più che della spiegazione in sé... forse avevo proprio bisogno di questa rassicurazione. Ora so che non devo avere paura, ma fidarmi di noi... di lei".

George annuì: "Ben detto, Albert. Hai qualcos'altro da chiedermi?".

"In realtà sì". Alzò su di lui uno sguardo malizioso, che doveva contrastare parecchio con l'immagine del ragazzo timido e impacciato di poco prima: "Come fai a sapere tutte queste cose?".

Il rossore salì repentino al volto del poveretto, che rispose velocemente: "A questa domanda non ho intenzione di rispondere, signorino William. Buonanotte", dichiarò tornando al 'lei' e al suo vecchio nome, uscendo dalla stanza prima che potesse ribattere.

A quell'uscita, Albert non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

Parlare, seguire l'istinto... avrei dovuto pensarci da solo. Ma era una discussione da uomo a uomo necessaria.

Cominciando a immaginare scenari in cui lui la toccava in decine di modi diversi catturando la sua pelle e le sue labbra come aveva sognato tante volte di fare, Albert si diresse nella sua stanza pensando che quello non gli avrebbe certo conciliato il sonno.
 
- § -
 
Questo capitolo è uno di quelli a cui ho rimesso mano più volte in un anno (l'altro lo scoprirete a breve): volevo creare un Albert fedele al personaggio originale ma che, proprio per questo, fosse rimasto lontano da determinati comportamenti "libertini", se così vogliamo dire: un uomo che non cerca una donna per il semplice gusto di farlo, ma perché è innamorato. E lui si è innamorato molto presto di Candy. Quindi dovevo bilanciare l'uomo di mondo che ha affrontato di tutto nella propria vita e quello inesperto in questioni amorose. Il tutto, con un George ancora più riservato che dovrebbe supportarlo. Una fatica...! Spero che il risultato rispecchi comunque i personaggi, perché a questo punto solo voi potrete dirlo!

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Capitolo 79
*** Coronamento di un sogno ***


I see trees of green
Red roses too
I see them bloom
For me and you
And I think to myself
What a wonderful world

I see skies of blue
And clouds of white
The bright blessed day
The dark sacred night
And I think to myself
What a wonderful world

The colors of the rainbow
So pretty in the sky
Are also on the faces
Of people going by
I see friends shaking hands
Saying how do you do
They're really saying
I love you

I hear babies cry
I watch them grow
They'll learn much more
Than I'll ever know
And I think to myself
What a wonderful world
Yes, I think to myself
What a wonderful world
Ooh, yes

 
***
 
(Vedo alberi di verde
Anche rose rosse
Le vedo fiorire
Per me e per te
E penso tra me e me
Che mondo meraviglioso
Vedo cieli blu
E nuvole bianche
Il luminoso giorno benedetto
L'oscura notte sacra
E penso a me stesso
Che mondo meraviglioso
I colori dell'arcobaleno
Così belli nel cielo
Sono anche sui volti
Delle persone che passano
Vedo amici che si stringono la mano
Dicendo come stai
In realtà stanno dicendo
che ti amo
Sento piangere i bambini
Li guardo crescere
Impareranno molto di più
di quanto io non saprò mai
E penso a me stesso
Che mondo meraviglioso
Sì, penso tra me e me
Che mondo meraviglioso
Ooh, sì)

(What a wonderful world - Louis Armstrong)

 
 
Coronamento di un sogno

Candy si guardò al grande specchio che avevano predisposto per lei nella stanza dove si stava preparando e si emozionò proprio come quando aveva scelto quell'abito.

"No, cara, ti prego, non piangere! Non credo che sarei capace di ritoccarti il trucco e Annie si è già allontanata per prendere posizione sulla collina!", la supplicò Miss Pony.

Ricacciò indietro le lacrime deglutendo con vigore e respirò a fondo: "Mi... mi tremano le gambe", disse con voce rotta.

"È normale, tesoro, stai per sposare l'uomo che ami! Ricordo che io ho provato qualcosa di molto simile quando ho deciso di dedicare la mia vita a Dio, anche se si tratta di due sentimenti diversi", intervenne Suor Lane, mettendosi dietro di lei per sistemarle il velo.

Candy controllò che i fiori di rudbeckia fossero ben fissati sulla sua chioma: i capelli, ormai, le superavano le spalle di un paio di dita. Sarebbe piaciuta quella semplice acconciatura ad Albert? Avrebbe apprezzato l'abito di tulle e organza così elegante ma al contempo etereo come una nuvola?

Non era mai stata vanitosa, ma quel vestito doveva simboleggiare la loro unione e lei voleva, come pensava desiderasse ogni sposa, che fosse perfetto. Aveva anche indossato i gioielli di famiglia che la zia Elroy le aveva dato in vece di Albert: si era detta assolutamente d'accordo con la sua decisione e Candy aveva sospettato che non fosse solo per una mera questione di tradizione.

Aveva gli occhi lucidi mentre le consegnava la collana e il bracciale di smeraldi appartenuti alla madre di suo nipote e, prima di lei, a sua nonna. Li indossò con orgoglio pensando che fossero semplici ma luminosi, proprio come la Collina di Pony.

"Riflettono il colore dei tuoi occhi", commentò Suor Lane alle sue spalle, appuntandole meglio il velo perché non coprisse i fiori.

Candy provò a fare qualche passo con le scarpe dal tacco più alto di quanto fosse normalmente avvezza e sperò di poterle indossare a lungo senza troppi problemi.
"Posso chiamare i bambini?", domandò Miss Pony avvicinandosi a sua volta.

Lei strinse i lembi del vestito, a disagio. Aveva rimandato quel momento per vergogna, per mancanza di tempo e per tutta una serie di scuse con se stessa che non riusciva più a formulare. La verità pura e semplice era che, pur avendo una felicità traboccante nel cuore, il timore di non essere in grado di affrontare quella sera si stava facendo sempre più pressante.

Non sapeva cosa aspettarsi. Non sapeva se poteva chiedere. Non sapeva se erano sufficienti le sue conoscenze da infermiera e temeva alcune voci, piuttosto sgradevoli a dirla tutta, che aveva udito in società.

"Tesoro, cosa c'è? Parla liberamente". Suor Lane sembrava averle letto dentro.

"È che... è che... Annie non si è più sposata e io non sapevo con chi parlare...". La voce le tremò e capì che doveva controllarsi prima di mettersi a piangere e rovinare il trucco. "Non so cosa devo fare", disse in un mormorio che dovette suonare alquanto indistinto.

Dallo specchio, vide le sue mamme guardarsi esterrefatte. "Ma, tesoro, la tua prozia non ti ha parlato o ha trovato una giovane parente che potesse farlo per lei?", domandò Suor Lane. Nonostante fosse una serva di Dio, riusciva ad affrontare certi argomenti con maggior disinvoltura della più anziana Miss Pony. Tuttavia, sapeva bene che nessuna delle due aveva mai avuto un marito, quindi non poteva far altro che esprimere il suo timore.

"No", disse. "Immagino che per lei sia stato già un grande sforzo accettarmi come moglie di Albert e consegnarmi quei gioielli", spiegò.

Le donne si guardarono di nuovo, a disagio, e Candy capì che si era lasciata sopraffare dalle emozioni: "Perdonatemi, mi dispiace, non avrei dovuto farvi preoccupare... Dopotutto sono un'infermiera...". Cercò di rassicurarle, ma loro la conoscevano da sin troppo tempo.

"Candy, tesoro mio", iniziò Miss Pony, "anche se non possiamo aiutarti, una cosa te la voglio dire: non devi avere paura. Tuo marito ti ama e saprà... saprà prendersi cura di te", concluse sorridendo con un rossore appena accennato sulle guance.

"Io... temo di deluderlo, di non essere...". Pur essendosi ripromessa di non farle stare in pena, non poté fare a meno di esprimere quel particolare timore, tormentandosi le mani.

"Piccola mia, voi due vi conoscete da tanto tempo", intervenne Suor Lane, "non credi che sia più facile parlarne con lui? Io sono sicura che il signor Albert sarà come sempre un uomo paziente e comprensivo. Solo questo conta. I... doveri coniugali sono solo una parte del matrimonio".

"Esatto!", disse con fervore Miss Pony. "Quello che contano sono l'amore e la dedizione che avrete uno per l'altra. Non c'è nulla che non possiate affrontare insieme".

Finalmente, Candy sorrise e le abbracciò con trasporto. "Lo amo tanto! Sono così contenta che vorrei solo fosse tutto perfetto. Voglio davvero renderlo felice ed essere felice con lui. Abbiamo sofferto tanto!".

"Quando due anime gemelle sono affiatate come voi non c'è nulla che possa intaccare questa intesa, sotto nessun punto di vista, capisci, tesoro?", aggiunse Miss Pony sistemandole una ciocca ribelle. "Sii sempre te stessa e rimani al suo fianco nelle gioie e nei dolori, come dice nostro Signore, e tutto andrà bene".

Già, proprio come si erano promessi tante volte, ancora prima di ammettere quanto forti fossero i sentimenti che albergavano nel loro cuore.

Si era davvero preoccupata che Albert non capisse? Che la... potesse costringere a fare qualcosa di sgradevole senza che prima si parlassero? Le sue paure non svanirono, ma si ridimensionarono grazie alle parole confortanti delle sue mamme. D'altronde, Albert era più grande di lei di qualche anno e, anche se non le piaceva immaginarlo con altre donne, era certa che avrebbe saputo come guidarla.

Lui avrebbe saputo cosa fare.

Con il cuore più leggero, si dispose a uscire dalla stanza e recarsi da papà albero, sulla Collina di Pony, per sposare l'uomo che amava.
 
- § -
 
Sulla Collina di Pony il leggero vento di fine estate era ancora caldo e accarezzava gli steli d'erba, facendoli frusciare assieme alle fronde di papà albero in una sinfonia carezzevole e deliziosa.

Albert posò lo sguardo sull'arco di fiori, riccamente decorato con Dolce Candy provenienti dal giardino di Lakewood e di rudbeckia, colti nelle campagne circostanti proprio quella mattina. Alle sue spalle, il sacerdote era già dietro all'altare allestito per l'occasione mentre di fronte a sé, in direzione della Casa di Pony dove stava guardando nervosamente da minuti interi, c'erano due file di sedie che ospitavano gli invitati.

Gli sembravano passate ore e Candy ancora non si vedeva. Senza alcun senso logico, ripensò a lei senza memoria che lo aveva lasciato solo su quella collina e che non era tornata indietro per fermarlo il giorno in cui se n'era andato.

Doveva calmarsi, chiudere gli occhi e respirare profondamente: Candy sarebbe arrivata e non l'avrebbe più abbandonato. Ne era certo.

Tuttavia, proprio mentre il panico cominciava ad attanagliargli le viscere in una morsa e un rivolo di sudore freddo gli accarezzava insidioso una tempia, Albert vide delle figure in lontananza.

Una era bianca, eterea, meravigliosa e ne poteva distinguere la luminosità già da dove si trovava.

I mormorii cessarono e tutte le teste si voltarono in quella direzione, come se gli avessero letto in volto che la sposa, alfine, stava arrivando.

Il cuore prese a battere forte contro il torace mentre un'emozione, che aveva tante volte immaginato e solo ora provava davvero, lo stava letteralmente sommergendo con una potenza tale da stringergli la gola in un nodo di pura commozione.

Sbatté le palpebre più volte, gli occhi che bruciavano mentre metteva a fuoco la sua Candy vestita da sposa con un abito che sembrava essere stato fatto apposta per lei, al braccio di Vincent Brown e con le sue mamme ai due lati. Tra i capelli aveva intrecciato rudbeckia e rose e, con il bouquet in mano, sembrava una ninfa dei boschi. Incedeva piano, con lo sguardo puntato nel suo e vide il brillio delle lacrime come fossero rugiada su una foglia di ninfea.

Si asciugò con discrezione l'angolo dell'occhio destro e tentò di trattenere le sue emozioni traboccanti allungandole una mano per accoglierla accanto a sé, nel luogo dove sarebbe sempre rimasta da quel momento in poi.

Candy lo fissò con qualcosa di simile all'adorazione e lui le sfiorò leggermente una guancia con le nocche, tentando di non stringerla a sé e baciarla come avrebbe voluto: sulle labbra piene aveva messo appena un filo di rossetto e le guance erano imporporate da qualcosa che poteva essere cipria o emozione in egual misura.

"Mio Principe della Collina", mormorò con voce rotta.

Le sorrise: "Mia amata Candy", ribatté prima che il parroco si schiarisse la voce per officiare la cerimonia, interrompendo un momento che avrebbe voluto diventasse eterno.

Albert pronunciò i suoi voti e udì quelli di Candy sentendo a malapena il resto della breve predica. Non c'erano gli invitati, certamente commossi e con i fazzoletti in mano dietro di loro; non c'erano le voci dei bambini che ridacchiavano a bassa voce nominando spesso la loro Candy con un misto di eccitazione e pura gioia infantile. C'erano solo loro due, che si scambiavano le fedi e si guardavano negli occhi immersi in quel momento così pieno, così magico che sembrava appartenere a una favola.
Quando, infine, il sacerdote gli diede il permesso di baciare la sposa, Albert sentì un calore invaderlo dal centro del torace fin sul viso e si chinò per sfiorare le labbra di quella che ora era sua moglie. Lo fece con dolcezza, con tenerezza, come se potesse svanire al suo tocco, ma vi impresse tutto l'amore che provava.

Occhi chiusi, respiro contro il suo respiro, il fremito di lei e poi il suono della cornamusa di Archie, anche lui in kilt. Fu il primo a fare loro le congratulazioni quando quel bacio delicato finì, seguito da Annie e Patty, commosse fino alle lacrime.

Guardava Candy muoversi e ricevere gli abbracci, ma lanciargli occhiate piene di gioia e aspettativa: se avesse potuto, sarebbe fuggito con lei in quel preciso istante. Si guardò persino attorno, mentre lei era distratta da un'ondata di piccoli urlanti che le si attaccavano al vestito chiedendole di essere abbracciati a loro volta.

Individuò George e la zia Elroy che si stavano avvicinando e capì che era in trappola: nessuna fuga romantica, nessun colpo di testa. Quel giorno avrebbe seguito le regole.

"Beh, congratulazioni", la mano sulla spalla e la voce nota lo fecero trasalire perché non si aspettava che Terence si fosse avvicinato. Karen gli era accanto e sorrideva.

"Bene, mi siete arrivati alle spalle senza che me ne accorgessi", commentò con un sorriso, voltandosi per salutarli come si conveniva.

"Stavamo studiando le tue mosse per sorprenderti! Confessalo, stavi cercando una via di fuga, ho ragione?", disse Terence facendo ridacchiare la fidanzata.

Albert spalancò gli occhi: "Come diamine hai fatto a capirlo?".

Lui lanciò un'occhiata a Karen che d'improvviso arrossì e ribatté, enigmatico: "Diciamo che ho l'occhio allenato".

Sbatté le palpebre, ma mentre cercava di comprendere il senso delle sue parole, Candy comparve al suo fianco, facendogli perdere il filo del proprio ragionamento.

Dopo i convenevoli e un misterioso occhiolino da parte di Karen, Terence disse con grande serietà: "Mi raccomando, Tuttelentiggini, abbi cura del mio amico giramondo. E tu non azzardarti a far soffrire Candy o dovrai vedertela con me". Detto questo, come per controbilanciare quell'intensa dimostrazione di amicizia, baciò Karen in maniera decisamente meno casta di quanto non si fosse azzardato a fare lui con Candy davanti all'altare.

La guardò e nei suoi occhi dovette leggere il suo desiderio di emularli, perché un lieve rossore le salì alle guance.

"Noi vi seguiamo a ruota fra un paio di mesi. Spero sarete tornati dalla luna di miele", annunciò Karen quando il fidanzato la lasciò andare.

"Ma certo! Staremo via per poco più di un mese, vero Albert?", disse Candy.

Lui annuì: "Sì, torneremo prima che l'autunno diventi rigido e comunque avremo modo di viaggiare insieme durante le mie trasferte", sottolineò stringendola a sé con un braccio.

Sua moglie. Candy era sua moglie. Poteva stringerla senza timori, proprio come faceva Terence con Karen pur non avendola ancora sposata.

"William, Candice". La voce altera della zia Elroy li raggiunse e si voltarono nello stesso momento, mentre la coppia si allontanava per dare loro modo di parlare. "Lasciate che vi faccia le mie congratulazioni. Sono certa che questo matrimonio darà prestigio alla nostra famiglia, specie se Candice continuerà a studiare per diventare una vera signora".

"Zia...", iniziò con tono di avvertimento.

"Ma sei già sulla buona strada, quindi non ne dubito", concluse facendoli sorridere, entrambi più sollevati. "Spero anche di vedere presto un erede...".

"Zia...", ripeté Albert in tono più alto, vedendo Candy arrossire.

"Va bene, va bene, dovevo dirvelo, sapete quanto è importante che il nome degli Ardlay rimanga solido anche in futuro", li liquidò con un gesto della mano. "Ora volete dirmi dove si terrà la festa principale? Questa collina mi sta spezzando la schiena e vorrei sedermi poggiando su un pavimento solido".

Candy indicò alla zia l'edificio principale, dove era stata allestita la sala più grande ma, soprattutto, una porzione di giardino per servire il pranzo di nozze. Con una smorfia poco convinta, la donna si incamminò seguita dalla sua cameriera personale e loro rimasero per qualche istante da soli.

"Sei felice?", le chiese prendendole il volto tra le mani e preparandosi a baciarla.

Lei chiuse gli occhi a quel tocco: "Che domande, ho sposato il mio Principe della Collina, l'uomo che mi è stato accanto per tutta la vita nei momenti più difficili, colui che mi fa battere il cuore come nessun altro! Come potrei non esserlo?".

Le labbra incurvate in un sorriso, Albert sfiorò il naso col suo: "Ti amo", soffiò prima di catturarle la bocca in un bacio vero, appassionato, quello che poco prima avrebbe voluto darle.

Stretto a lei sulla loro collina, sposati e con i fantasmi del passato finalmente lontani, Albert si sentì completo, in pace con il mondo intero.

Dopotutto, anche se fossero arrivati un po' in ritardo alla festa non ci sarebbe stato nulla di male.
 
- § -
 
Annie si sentiva quasi un'estranea nel suo stesso corpo. Era nel luogo in cui era cresciuta, anche se quell'ala era stata costruita dopo assieme alla cappella per volere di Albert, circondata da tante persone che amava ed era il matrimonio di quella che aveva sempre considerato una sorella.

Eppure era immersa in una specie di torpore nel quale l'unica costante che la facesse uscire da quella nebbia era Archie. Come al rallentatore, vedeva Candy e Albert ballare al centro della sala, mentre l'orchestra chiamata appositamente da Chicago suonava, i loro occhi pieni d'amore che si fissavano con un'intensità tale che sembravano emanare luce propria; vedeva i bambini estasiati ballare in mezzo alle altre coppie improvvisate, inclusi Patty e George; ma, soprattutto, vedeva lui in un angolo, con i suoi genitori a fare da barriera, che parlavano tra loro a bassa voce proprio nel suo campo visivo.

Per un attimo le parve che le loro labbra dicessero parole che lei comprese nonostante il rumore e la distanza.

Mai più. Separati. Tutto il possibile.

Improvvisamente colta dal panico, Annie si ricordò che Archie sarebbe partito entro pochi giorni. Non c'era più tempo di mettersi a pregare e chiedere le motivazioni, quasi sempre futili: doveva prendere una decisione e doveva prenderla ora.

"Vuoi ballare?". La voce alle sue spalle la fece gridare. Annie era certa che chiunque avesse parlato avesse letto i suoi pensieri e stesse per riferirli ai suoi genitori.

Ma, quando si voltò, vide solo Tom, sul viso un'espressione esterrefatta: "Scusami, ti ho spaventata?", chiese chinandosi su di lei.
Si alzò di scatto dalla sedia che si rovesciò: "No, tranquillo", disse in tono affettato, i nervi tesi.

Tom si abbassò lentamente per tirare su la sedia: "In realtà sembra che tu abbia visto il diavolo in persona. So che è da un po' che non ci incontriamo e, da quello che ho letto sui giornali, hai avuto qualche problema con il tuo fidanzato".

"Non è più il mio fidanzato", disse cominciando a piangere. Non era previsto, quel pianto la sorprese come un temporale estivo e si mise una mano sulla bocca fuggendo fuori, dove c'erano solo alcuni ospiti che, per fortuna, parvero degnarla appena di uno sguardo.

Annie corse fino a un faggio, sotto al quale crollò a sedere, le mani tra i capelli e i singhiozzi che le squassavano il petto. Quando sentì dei passi sull'erba e una mano sulla spalla, capì che era il suo vecchio amico.

Non le disse nulla, limitandosi a quel contatto e a qualche lieve carezza sulla schiena. Apprezzò la sua vicinanza, ma anche il fatto che non cercasse di consolarla con frasi fatte che l'avrebbero solo fatta sentire peggio.

Quando le parlò, si sorprese a smettere quasi di piangere per ascoltarlo: "Sai, me lo ricordo quel giorno, quando Suor Lane e Miss Pony vi hanno portate a casa, vi avevo sentite piangere proprio io. Ero solo un bimbetto, ma ogni volta era come se arrivassero altri fratellini e sorelline con cui giocare. E voi due eravate così diverse tra voi! Eppure, man mano che crescevamo, trovavamo tanti modi per divertirci... ti ricordi quando nevicava e ci prendevamo a pizzicotti per rimanere svegli e aspettare che diventasse tutto bianco?".

Annie si sorprese a ridere fra le lacrime, annuendo e asciugandosi gli occhi con un fazzoletto mentre Tom si sedeva accanto a lei, la schiena contro il tronco.

Era incredibile quanta serenità le stesse trasmettendo solo ricordandole il passato.

"Sono stato molto in pena per Candy e vederla senza memoria mi ha colpito profondamente. Forse solo tu puoi comprendere quanto vederla felice oggi per me equivalga quasi al coronamento di un sogno. Però adesso sono preoccupato per te: mi rendo conto di aver sottovalutato quello che ho letto sui giornali e comunque non ti sei più fermata tanto a lungo da farci una chiacchierata". Sospirò guardando davanti a sé, staccò uno stelo d'erba e se lo mise tra le labbra.

Non le chiese nulla, ancora una volta le lasciò semplicemente il suo spazio, esponendo dei dati di fatto. Annie osservò il suo profilo, l'immancabile cappello da cow boy anche con il vestito della festa e si rese conto di quanto fosse diventato affascinante il suo fratello acquisito. Ebbe quasi l'impulso di chiedergli come mai non si fosse ancora trovato una fidanzata, ma si trattenne: non sapeva nulla di lui, questa era la verità, e neanche si sentiva in diritto di chiederglielo.

Non più di quanto Tom avesse fatto domande a lei.

"Sono stata io a lasciare Archie, ma non perché sia andato in prigione. È... è successo prima". Si ritrovò a confessare tutta la storia a Tom, raccontandola per la prima volta nella sua interezza a voce alta. Fino ad allora, solo Candy ne conosceva tutti gli aspetti.
Ma aveva bisogno di parlare con un amico fidato, di gettare via tutte le incertezze, i dubbi, gli abbagli, incluso quello che aveva preso poco dopo che Candy aveva recuperato la memoria: fu con somma vergogna che gli confessò la sua insensata scenata di gelosia di fronte all'atteggiamento fraterno di Archie e Candy ma, di nuovo, lui non disse nulla e rimase solo ad ascoltare.

Alla fine le chiese: "Quindi, adesso, che hai intenzione di fare?".

Annie rimase per lunghi istanti a fissare quel bel profilo in apparenza rilassato, gli occhi persino chiusi. Si tormentò le mani, mentre il vento gentile le si insinuava fra i capelli come tante volte avevano fatto le mani di Archie.

Non poteva opporsi al volere dei suoi genitori, anche se era maggiorenne. Loro l'avevano adottata e non meritavano la sua ribellione. Le avevano dato quella seconda possibilità che raramente la vita concedeva.

Fu allora che prese la sua decisione definitiva.

E la comunicò a Tom.
 
- § -
 
Candy era persa negli occhi e nel volto di Albert. Tutto girava e girava e forse si stavano librando nell'aria, tra le nuvole.

Ma il loro ballo da sogno s'interruppe ed entrambi furono costretti a raggiungere gli altri invitati per ricevere le congratulazioni, ringraziarli per la loro presenza e gustare con loro le prelibatezze del banchetto.

Quel giorno, però, Candy si sentì egoista come mai le era accaduto in vita sua: voleva solo godersi ogni momento possibile con suo marito, ripetersi nella mente quei due termini per convincersi che era tutto reale e forse anche per convincere lui, che la guardava spesso con un'espressione di dolce incredulità.

Ogni volta doveva impedirsi di baciarlo e rassicurarlo, stringendolo a sé e ripetendogli che sarebbero stati insieme per sempre.
"Candy, la zia Elroy vuole che faccia un discorso", le mormorò all'orecchio mentre lei posava il flute con lo champagne sul tavolo.

"Devo parlare anche io?", domandò un po' spaventata, ricordando la festa di fidanzamento.

"Solo se lo vorrai", ribatté posandole le labbra sulla tempia. E lei capì che per Albert avrebbe parlato in pubblico anche ore intere.

Si posizionarono in giardino, da un lato della tavolata su cui era stata appena adagiata la torta nuziale di cinque piani, meravigliosamente decorata con fiori e panna. Albert le prese la mano e, mentre si preparava a parlare, Candy poté vedere quasi le stesse persone che erano presenti a Chicago per l'annuncio del loro fidanzamento: i componenti del clan Ardlay sembravano tutti fuori dal loro ambiente naturale, l'aria un po' spaesata ma tutto sommato serena. Rivide con piacere il viso rubicondo e sorridente del signor Campbell e notò l'assenza di quel mister Glenn che l'aveva messa in difficoltà: ne fu davvero lieta.

Si concentrò su coloro che conosceva meglio e che, a parte la zia Elroy, ancora un po' sulle sue, avevano espressioni gioiose e interessate, mentre si predisponevano ad ascoltarli. Le dispiaceva un po' che Adrian non fosse presente, ma sperò con tutto il cuore che avesse raggiunto Frannie e l'avesse convinta a dargli una possibilità.

Intercettò gli occhi di Annie e Archie e vi lesse, discreto e ben celato agli altri, il dolore di essere separati. Sorrise di rimando al dottor Martin, che le fece un occhiolino divertito; a Vincent Brown, che l'aveva accompagnata all'altare come un vero padre e aveva augurato commosso a lei e ad Albert di avere una vita piena di gioia; a Eleanor Baker, bellissima come sempre; a Terence e Karen, cui augurò silenziosamente con tutta l'anima di essere felici tanto quanto loro: non avrebbe mai dimenticato quanto fosse stata in pensiero per Terry. Aveva promesso di scrivergli, dopo il loro doloroso addio, ma la perdita della memoria le aveva fatto perdere ogni contatto con lui. Era davvero contenta che, nel frattempo, avesse trovato qualcuno da amare e con cui condividere la sua vita. Dio solo sapeva quanto se lo meritasse, dopo tanta sofferenza.

Miss Pony e Suor Lane, commosse e sorridenti, cercavano di tenere a bada i bambini che erano irresistibilmente attratti dal dolce, così come fino a poco prima lo erano stati dal suo lungo strascico. Jimmy la guardava con un misto di orgoglio e adorazione e fu lei a fargli l'occhiolino, sorprendendolo, mentre il signor Cartwright, alle sue spalle, gli dava leggere pacche paterne: sarebbe rimasto sempre lui il capo simbolico della Casa di Pony, in sua assenza.

E scorse Tom, al fianco di suo padre e del signor Marsh che, forse per la prima volta in vita sua, vide in abiti eleganti e non vestito da postino.

Tutti i suoi amici e la sua vita erano lì, di fronte a lei. Accanto, aveva l'uomo con cui era predestinata a condividere tutti gli anni a venire, fin da quando era solo una bambina.

"Io e mia moglie", esordì prendendola improvvisamente per le spalle con un braccio e attirandola a sé in un gesto di possesso, "vi siamo grati con tutto il nostro cuore per essere qui oggi. Alcuni di voi hanno già avuto modo di conoscere la nostra storia, in quanto presenti al fidanzamento, altri semplicemente l'hanno vissuta in prima persona. Questo luogo è molto speciale per entrambi, perché rappresenta quasi la cornice di quello che fu il nostro primo incontro, nonché la prima vera casa della mia Candy".

L'aveva chiamata 'la mia Candy'... quel semplice aggettivo detto ad alta voce davanti a tutti le fece provare un'emozione così forte che sentì le lacrime salirle agli occhi.

"A tal proposito voglio ringraziare in particolar modo due persone molto speciali, senza le quali forse non l'avrei mai conosciuta. Miss Pony, Suor Lane... non vi sarò mai grato abbastanza per esservi prese cura di Candy con tanto amore. E di continuare a farlo per tanti bambini che, un giorno, potranno avere un futuro luminoso quanto il nostro". S'inchinò, sollevando qualche mormorio stupito persino tra i pochi giornalisti che stavano scattando le loro foto.

Il patriarca degli Ardlay si stava inchinando davanti a due donne che gestivano un orfanotrofio, comunicando chiaramente quanto considerasse prezioso il loro lavoro.

Quel gesto commosse le due donne fino alle lacrime e le sue madri non poterono far altro che ribadire la loro gioia.

Fu in quel momento che capì che doveva, anzi, voleva dire qualcosa che aveva nel cuore già da tanto tempo e che una volta aveva espresso in una delle sue lettere per Albert. Gli strinse la mano, per segnalargli che desiderava intervenire e lui le sorrise, incoraggiandola.

"Anche se un giorno i miei genitori hanno deciso che non potevano tenermi con sé, sono loro grata per avermi lasciata proprio qui, alla Casa di Pony. Le mie due mamme, come ha già avuto modo di esprimere mio marito, sono state le donne che mi hanno allevata, insegnato i valori della vita, amata e, sì, anche sgridata quando ce n'è stato bisogno", disse facendo ridacchiare qualcuno. "Ma è grazie a loro che ho avuto modo di affacciarmi alla vita con coraggio, anche se spesso con un pizzico d'imprudenza". Tacque per qualche istante, chiudendo gli occhi, quindi li riaprì e riprese, cercando di controllare le proprie emozioni: "Sono grata ai miei genitori di avermi lasciata qui perché ho incontrato persone speciali che mi sono state amiche e con cui ho condiviso lacrime e sorrisi. Annie, Tom, Jimmy, tutti i bambini della Casa di Pony, il signor Steve, il signor Cartwright, il signor Marsh...", si voltò per guardare Albert, gli occhi che ormai le bruciavano per il pianto trattenuto, "...e, infine, sono grata ai miei genitori per avermi abbandonata qui perché ho incontrato te, che mi sei sempre stato vicino quando ero in giro per il mondo e le difficoltà sembravano avere il sopravvento. Ti amo tanto, Albert", concluse lasciando cadere le lacrime, che lui asciugò prontamente, stringendola a sé mentre partiva un applauso spontaneo.

Candy perse la cognizione del tempo, seppe solo che tagliò e mangiò la torta con Albert, il quale non mancò di scherzare sulla sua proverbiale golosità e gliene spalmò persino un po' sul naso, scoppiando a ridere; che ebbe modo di chiedere ad Annie come stesse e che lei le rispose, con occhi tristi, di essersi rassegnata e di non preoccuparsi: "È il tuo giorno, Candy, goditelo. Io starò bene"; che ricevette l'abbraccio di Eleanor Baker, ballò con George, Vincent, Archie, Jimmy e Tom prima di chiedere lei stessa, tra le risate di tutti, al dottor Martin di scendere in pista.

E che, quando il sole stava già cominciando la sua discesa, Albert le si avvicinò da dietro la schiena, trasmettendole un brivido e le sussurrò: "Scappiamo".

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Capitolo 80
*** In fuga d'amore ***


Vivere
Per amare
Amare
Quasi da morire
Morire
Dalla voglia di vivere

Amare
Dare l'anima alla vita
Morire
Dalla voglia di vivere
Con la voglia di vivere


(Vivere per amare - Cocciante-Plamondon-Panella)
 
 
 
In fuga d'amore

Albert correva su per la Collina di Pony stringendo per mano Candy, mentre nell'altra aveva la cornamusa. Lei, invece, stava tenendo le sue scarpe e al contempo il lembo del vestito per non inciampare.

"Non dirmi che non riesci a starmi dietro!", le gridò ridendo.

"Prova tu a correre con una gonna che ti arriva fin sotto i piedi e delle scarpe in mano!", ribatté ridendo a sua volta.

Come due ragazzini, con le mani intrecciate e il volto arrossato, giunsero fino in cima, ansimando e appoggiandosi a papà albero. Albert ne toccò il tronco ringraziando la vita perché, nonostante avesse pianto e conosciuto la disperazione proprio sotto alle sue fronde, oggi poteva dire di essere diventato infinitamente felice in quello stesso luogo.
Si volse a guardare Candy e vide il volto di lei rovesciato verso l'alto, mentre si mordeva il labbro inferiore in un gesto infantile e sensuale al contempo. Cercò di non concentrarsi sul nervosismo che lo stava attanagliando, misto al desiderio, al pensiero che entro poche ore l'avrebbe tenuta fra le sue braccia come moglie. Invece le chiese: "Non lo stai pensando davvero...", disse, divertito.

Candy fece un gesto di frustrazione: "Se non fosse che mi dispiace rovinare l'abito giuro che lo farei. Ci credi che da quando ho recuperato la memoria sarò salita su un albero sì e no tre volte?", disse con tono così serio che Albert si sforzò di non ridere.

"Se non fosse che ci troviamo così vicini alla Casa di Pony e a un centinaio di invitati, tra cui dei bambini, ti suggerirei di toglierlo e arrampicarti fin dove desideri", ribatté con voce un po' roca.

Forse aveva osato troppo, perché lei lo fissò con il volto in fiamme, ma un sorriso che le curvava in su le labbra: "Albert, da quando in qua fai proposte così... così...". Mosse una mano, non sapendo bene che aggettivo usare. 

"Ardite? Indecenti?", concluse per lei inarcando un sopracciglio. "Da quando sei mia moglie, Candy. E comunque a Lakewood avrai vestiti comodi e tanti alberi su cui arrampicarti... e anche in Scozia, quando ci arriveremo".

Lei gli si avvicinò di qualche passo: "Non voglio stare tutto il giorno a salire sugli alberi, anche se stai certo che lo farò. Voglio godermi ogni momento come tua moglie, Albert, starti accanto ogni minuto possibile".

Gli occhi erano colmi di un'emozione intensa e quelle parole avevano mille significati diversi che la sua testa non riusciva ad elaborare: si immaginava solo con Candy fra le braccia per molto, molto tempo. E fu senza perderne altro che le mise le mani sulle guance e la attirò in un bacio ardente, esigente, che lei ricambiò intrecciandogli le sue dietro la nuca.

Doveva ancora suonare per lei. Dovevano arrivare a Lakewood. Se così non fosse stato, l'avrebbe semplicemente amata lì, sotto a papà albero, dopo averle sfilato il vestito da sposa. L'attesa era una delizia e un tormento, un piacere che aumentava e un dolore che pulsava.

Con il viso nell'incavo del collo niveo e profumato di lei, riprese fiato e sussurrò: "Facciamo strisciare di nuovo le lumache?".

Candy rise: "Hai detto qualcosa di simile al ballo di beneficenza, quando mi hai confessato che mi vedevi con occhi diversi".

Lui risalì con piccoli baci dal collo alla mandibola di lei e rispose: "Vedo che ha recuperato in pieno la memoria, signora Ardlay".

"Ne dubitava, zio William?", rispose guardandolo con aria maliziosa.

Albert ebbe per un attimo il flash di Candy senza memoria che lo chiamava in quel modo e deglutì: "Saresti così gentile da non chiamarmi più così? Mi fai sentire vecchio", le chiese cercando di assumere un tono scherzoso.

"Come desideri, maritino mio", rispose ridendo.

"Va già molto meglio!", commentò scoccandole un sonoro bacio sulle labbra e chinandosi per riprendere la cornamusa.

Candy fece qualche passo indietro, poggiò le mani sul petto e chiuse gli occhi. Albert portò la canna alla bocca e soffiò, dando vita alla loro melodia. Quella che li aveva fatti conoscere. Quella con la quale sperava di riaverla al suo fianco, fallendo miseramente. Quella che Archie aveva intonato per loro mentre la baciava dopo aver detto "sì". Quella che ora stava suonando solo per lei, sua moglie.

L'emozione lo avvolse, lo cullò, gli strinse la gola come se la stesse sposando di nuovo nel giro di poche ore: era come se quella fosse la loro cerimonia, intima e privata, che nessuno avrebbe mai interrotto.

Quando terminò aveva la vista appannata e vide Candy asciugarsi gli occhi, altrettanto commossa. Il destino tornava da loro, luminoso e sempre identico, e fu con voce incrinata che le disse ancora: "Sei più carina quando ridi che quando piangi", accogliendola ridente e piangente fra le braccia, stringendola a sé e redimendo finalmente quel momento delle loro vite che solo una volta lo aveva deluso.

Quando rialzò il volto su di lui, le asciugò gli occhi con i pollici: "E ora...", cominciò, enigmatico.

"E ora?", chiese lei, sorridendogli.

"E ora, come al solito, arriva George. Ma stavolta è venuto a prendere entrambi", disse voltandosi in una direzione ben precisa.

"Signori Ardlay", fece lui con un profondo inchino, apparendo puntualmente, "la macchina è pronta per portarvi a Lakewood".

Albert scoppiò a ridere: "Credo che questa sia la prima volta che vieni qui senza interrompere nulla".

"Ho seguito alla lettera le sue istruzioni di presentarmi circa cinque minuti dopo il cessare del suono della cornamusa", ribatté in tono compìto.

Sul volto di Candy si dipinse il panico: "Ma non salutiamo gli altri? Siamo scappati quassù senza dire nulla e...".

"Stai tranquilla, gli invitati sanno benissimo che gli sposi fuggono senza preavviso per andare in luna di miele", spiegò prendendola di nuovo per mano e guidandola verso l'auto.

Lei si rimise le scarpe, appoggiandosi al suo braccio: "Beh, se pensi che non faremo torto a nessuno...".

"Ho avvisato che sarei andato via per portarvi a Lakewood, se questo la fa stare più tranquilla, signora Ardlay", spiegò George.

"Oh no, ti prego, George, continua a chiamarmi con il mio nome... voglio dire, sono felice di essere la signora Ardlay, ma non servono tutti questi formalismi se siamo soli", lo pregò Candy raccogliendo lo strascico per camminare meglio.

"È la stessa cosa che gli ripeto anche io da anni", disse a bassa voce, chinandosi verso di lei con aria cospiratrice, venendo inondato dal profumo di fiori.

Inebriato da Candy, col cuore traboccante di gioia e aspettativa, Albert salì in macchina con lei mentre George guidava a velocità costante.

Non troppo veloce, per godersi il panorama della natura che scorreva intorno a loro.

E non troppo piano, per raggiungere il Paradiso le cui porte già spalancate erano quelle del giardino delle rose di Lakewood.
 
- § -
 
Candy era appoggiata al petto di Albert e poteva sentire il battito regolare del suo cuore. Il suo braccio destro l'avvolgeva intorno alla vita e la mano le poggiava sulla gamba, mentre la macchina procedeva tranquilla per la campagna, verso Lakewood.

Non erano mai stati in una posizione così intima tanto a lungo, né in presenza di altri, anche se George era concentrato sulla strada. E quelle scosse elettriche che avvertiva diramarsi dalla gamba fin negli angoli più lontani del proprio corpo erano molto simili a quelle che aveva provato tante volte mentre si baciavano e si accarezzavano, anche se non stavano facendo nessuna delle due cose.

Una parte di lei voleva godere di quel calore e addormentarsi fino all'arrivo, complice la stanchezza di aver dormito poco la notte precedente, ma l'altra era così presa dall'adrenalina che era sveglia e vigile.

Durante il ricevimento aveva incontrato gli occhi di Karen un paio di volte, ma non c'erano stati né il tempo, né il modo di fare quella famosa chiacchierata che le aveva promesso la sera della festa di fidanzamento. Candy capì che forse non ce n'era bisogno: non aveva forse deciso, la mattina stessa grazie alle parole rassicuranti di Miss Pony e Suor Lane, che si sarebbe semplicemente fidata di Albert?

Capì che le sarebbe bastato assecondare i loro desideri, il loro istinto, parlargli dei suoi timori e tutto sarebbe andato bene. Ma i buoni propositi erano una cosa, la realtà era diversa: sentiva i nervi a fior di pelle e aveva voglia di fuggire e di restare così fra le sue braccia nello stesso tempo.

Sospirò, cercando di riprendere il controllo e sentì il mento di lui muoversi sulla cima della sua testa, mentre si voltava per guardarla: "Tutto bene?", le domandò.

"Sì", rispose rannicchiandosi contro di lui.

Incredibilmente, la coscienza l'abbandonò e sonnecchiò davvero come aveva immaginato di fare ma, come se il suo cuore e il suo corpo riconoscessero la strada, aprì gli occhi proprio mentre George fermava l'auto vicino all'entrata.

Il sonno e la stanchezza le scivolarono di dosso come una seconda pelle e Candy sentì le mani fredde e sudate, le gambe tremare. Si diede della stupida e si predispose a scendere appoggiandosi alla mano che Albert le porgeva. Mise il piede in fallo e inciampò, cadendogli di nuovo sul petto. Per la prima volta in vita sua si ritrasse, come scottata, ma lui non diede segno di accorgersi della sua reazione esagerata e le domandò, ancora una volta, se andasse tutto bene.

"Sono solo inciampata", si schernì con un risolino nervoso.

Lo sguardo di Albert divenne interrogativo ma, ancora prima che potesse parlare, intervenne George: "Tutto è stato predisposto secondo le sue indicazioni, signor William. Avete scorte di cibo a sufficienza e una macchina vicino all'entrata per quando vorrete recarvi a Chicago. Se avete bisogno di qualsiasi cosa prima che vi accompagni al porto per prendere la nave non dovete far altro che avvisare".

Candy guardò il suo Cavaliere Bianco, così elegante e gentile e, di slancio, lo abbracciò come le era già capitato di fare. Dopo il primo momento di imbarazzo, lui si rilassò. "Grazie", gli mormorò in un orecchio prima di dargli un bacio sulla guancia, facendolo arrossire.

"Di... di nulla signora... Candy", concluse rendendola felice.

"A-ehm... vuoi che ti baci anche io, George, o ti accontenti di mia moglie e di un grazie di cuore?", intervenne Albert schiarendosi la voce e facendola scoppiare a ridere.
"Direi che i ringraziamenti sono più che sufficienti... o forse no", terminò con aria misteriosa, facendo qualche passo verso suo marito.

Sotto i loro occhi stupefatti, George passò un braccio dietro la schiena di Albert, battendovi un po' la mano, in un mezzo abbraccio in cui sembrò riversare tutto l'affetto per il suo protetto. Candy ne fu commossa e anche suo marito rimase piacevolmente sorpreso.

"Sono davvero lieto per voi, vi meritate questa felicità", disse con voce incrinata.

"Grazie, George, davvero di tutto cuore. Sei parte della famiglia, lo sai", ribatté Albert.

I due uomini si guardarono con devozione e complicità e lei capì quanto il loro rapporto andasse al di là del lavoro o della semplice amicizia. Erano come fratelli, come padre e figlio. Sapeva quanto il loro legame fosse forte, ma non aveva mai avuto modo di vederli così affiatati.

Con un ultimo cenno del capo, George risalì in macchina e partì per tornare a Chicago.

Ora erano soli.   
 
- § -
 
Archie sentiva la testa ronzare.

La musica e lo champagne erano stati gradevoli e non era mai stato così felice per Candy e Albert: si meritavano quella gioia immensa e aveva partecipato con tutto il proprio cuore alla cerimonia.

Ma ora era il momento del dolore, della debolezza, del rimpianto.

Aveva visto Annie solo da lontano e, ormai, al pari di lei si era convinto che i suoi genitori non le avrebbero mai permesso di avvicinarlo. Forse perché era stato in prigione, nonostante avesse ampiamente dimostrato la sua innocenza agli occhi della legge. Forse perché non volevano scandali. O, forse, perché avevano trovato un partito persino migliore di lui.

"Dirò a tua madre che non abbiamo mai rotto pubblicamente il fidanzamento, che quella notizia uscita sul giornale è opera dei Lagan come tutto il resto!", le aveva detto, disperato, in un raro e breve momento in cui erano riusciti a scambiare due parole.

"E pensi che io non lo abbia fatto?", gli aveva risposto con gli occhi pieni di tristezza. Doveva aver pianto di recente e lui voleva solo prenderla fra le braccia e consolarla a suon di baci e carezze, dirle che tutto sarebbe andato bene, al suo ritorno.

Ma ora sapeva che nulla sarebbe andato bene, e che sua madre aveva fatto solo credere loro che avrebbe preso in considerazione un nuovo fidanzamento dopo la sua laurea.

Archie era ormai convinto di averla persa per sempre.

Con un braccio sugli occhi, steso sul letto, sapeva che avrebbe dovuto occuparsi della valigia che lo aspettava su una sedia ma mai, come ora, era stato tanto riluttante ad allontanarsi da Chicago.

Da lei.

Pensava di aver visto in Albert un uomo distrutto che cercava con tutte le sue forze di andare avanti, dopo aver quasi certamente perso la donna della sua vita. E credeva di essere stato molto più fortunato di lui per essere potuto uscire prima di galera e riavvicinare Annie.

Ora sapeva che il destino si era appena rovesciato e ad essere caduto in rovina era lui.

In quel preciso momento, Albert era un uomo rinato e forse stava già tenendo fra le braccia sua moglie, prodigandole amore, carezze, passione.

Archie non aveva potuto fare nulla di tutto ciò per la sua Annie, ma non era lei la colpevole. A fare un grave errore di valutazione era stato lui, e la cosa peggiore era che glielo aveva persino confessato, sperando che lei lo capisse.

Era stato un ragazzino ingenuo e immaturo e ora era un uomo solo.

Si alzò a sedere, gettando le gambe di lato e mettendosi a frugare nel comodino. Dal cassetto tirò fuori il fazzoletto che Annie gli aveva porto di nascosto quel pomeriggio: sopra c'era ancora il suo odore e, forse, c'erano anche le sue lacrime.

Era tutto ciò che gli sarebbe rimasto, ne era certo.

Lo strinse tra le mani, avvicinandolo alle narici e aspirandone il profumo con il respiro tremante.

"Annie", mormorò nel silenzio della stanza, la musica che gli rimbombava nella testa assieme alle risate di gioia.

E la morte che gli scendeva, lenta e inesorabile, nel cuore.
 
- § -
 
Quando Albert infilò le chiavi nella toppa, dovette girare gli occhi per assicurarsi che Candy fosse davvero lì, vicino a lui: l'ultima volta che aveva aperto quella porta era solo e disperato.

Con un palmo sul solido legno diede una spinta perché si spalancasse e, prima che sua moglie potesse accennare a entrare, la prese in braccio con un gesto fluido, strappandole un gridolino e una risata.

Seguendo la tradizione, entrò in casa con lei e la baciò prima di metterla a terra, stringendola a sé più a lungo possibile.

"Albert, dovevo pesare una tonnellata con questo vestito addosso! È un vero miracolo che tu non sia inciampato sullo strascico!", rise con le mani ancora sulle sue spalle.
"Non sarai mai un peso per me, amore mio", le disse serio, sfiorandole una guancia con le nocche.

Lei si lasciò andare al suo tocco e per un attimo gli sembrò che tremasse. Tra i due, pensò che Candy dovesse essere quella più nervosa. Eppure, fu con una certa disinvoltura che le propose: "Vuoi vedere la nostra stanza?".

Gli sorrise e, nella penombra delle luci a parete, riuscì comunque a percepire la sua tensione: "Se preferisci andiamo prima in cucina. Scommetto che la mia golosona ha ancora fame!", propose facendole l'occhiolino, sperando di metterla a suo agio.

Candy scosse la testa: "No, a dire il vero non vedo l'ora di togliermi queste scarpe... il momento in cui abbiamo corso sulla collina è stato l'unico in cui i miei poveri piedi mi hanno ringraziata", ammise.

"Bene, signora Ardlay, vuole che la prenda di nuovo in braccio o preferisce appoggiarsi a me per fare le scale?", chiese.

Lei apparve più rilassata: "Mi porga solo il braccio, sir Ardlay, sono pronta a inerpicarmi per la rampa!", esclamò indicando pomposamente davanti a loro.

Risero insieme e, passo dopo passo, raggiunsero l'ultimo piano. Albert la condusse oltre una porta dietro la quale c'era una delle ali più belle della casa: il salottino era stato, per sua precisa richiesta, arredato in maniera piuttosto rustica e davanti al grande caminetto c'era un tavolo di legno. Il resto della mobilia, che consisteva solo in un armadio portavivande e in qualche sedia, era dello stesso materiale grezzo della sua casetta del bosco.

"Albert, ma sembra... sembra proprio la tua capanna qui vicino!", disse infatti Candy, entrando e guardandosi attorno meravigliata.

"È esattamente così che volevo che fosse. Ti piace?", chiese richiudendo la porta alle sue spalle.

"Tantissimo, Albert, è davvero bellissima, la adoro!".

Lieto che Candy fosse rilassata ed allegra, si predispose ad accendere il fuoco e, mentre era chinato, disse con tono casuale: "La nostra camera da letto è dietro quell'altra porta. Puoi vederla, se lo desideri".

Concentrato sul suo compito, sentì i suoi passi esitanti, il rumore della porta che veniva aperta e il suo ansito di stupore: "È stupenda", mormorò con voce morbida, tornando accanto a lui.

Aveva optato per una stanza semplice, con un grande letto a baldacchino con lenzuola di raso, un armadio, un paio di comodini e un comò fronte letto di fattura più elegante rispetto al salottino. Nella sua semplicità, era certo che l'avrebbe apprezzato.

Albert si alzò per guardarla e si accorse che lei invece si stava fissando le scarpe: "Credo proprio che ora le toglierò", disse scendendo dai tacchi e calciandole via.

Nel caminetto, il fuoco crepitava ma tra di loro il calore era già acceso da tempo.

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Capitolo 81
*** Di fuoco e miele ***


Questo capitolo contiene scene abbastanza esplicite, nonostante io abbia cercato di usare sempre un linguaggio "leggero" e non eccessivo. Pertanto, il rating vira verso il rosso. Se siete sensibili a questo tipo di letture non leggete, se invece non vedevate l'ora di vedere Candy e Albert godersi un po' il loro amore dopo tanti capitoli, enjoy!
Questo capitolo mi è costato sudore e lacrime di sangue (un po' come la camera verde menta che Albert costruisce per Candy, per chi ha letto il romanzo XD), perché rendere plausibile un momento del genere tra due personaggi che sono eterei come una Principessa e un Principe Disney è davvero, davvero, DAVVERO, DAVVERO COMPLICATO. Spero quindi di non averli snaturati, ma resi anche reali. Buona lettura!

 
- § -
- § -
 
 
Nessuno ha come me
Le sue mani addosso a te

Angelo e vita mia
Segreto nero
Nella notte mia
Io ti guardai
E nel fuoco in fiamme andai

La nostra pelle sia
Incendio su di noi
Io ti amerò
Fino a perdere la mia vita

Sarai
Il destino che prende me

Sarò
Il destino che prende te


(La voluttà - Cocciante - Plamondon - Panella)

***
E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Tra le tue braccia calde anche l'ultima paura morì

Io e te
Vento nel vento
Io e te
Nodo nell'anima
Stesso desiderio di morire e poi rivivere
Io e te


(Vento nel vento - Battisti - Mogol)
 
 
 
Di fuoco e miele

Candy abbassò lo sguardo sui propri piedi, ancora coperti dall'abito, e Albert vide il suo volto arrossato. Poteva essere per il fuoco del caminetto? Non lo sapeva, ma sapeva che aveva una gran voglia di baciarla. Mentre lei scendeva finalmente dai tacchi, che a sua detta le stavano massacrando i piedi, lui le passava le mani tra i riccioli biondi, carezzandole la nuca, i lati del capo dove incontrò la pelle morbida dei lobi delle orecchie e, alfine, il viso.

Lo alzò con gentilezza verso di sé, guardandola con intensità prima di avvicinarsi e chiudere la distanza tra loro in un bacio esigente, colmo di tutto l'amore che, da quel momento in poi, poteva e potevano esprimere liberamente.

Perché ora erano marito e moglie e non c'era limite all'esplorazione delle sue labbra. Ora poteva far vagare la punta della lingua all'interno della bocca di Candy solleticandola, assaggiandola, gustandola e ritraendola per suggerle avido le labbra senza timore di doversi separare perché altrimenti sarebbero andati troppo oltre.

Ora, davanti a Dio, era loro diritto andare oltre.

Col respiro un po' affannato, ma affatto intenzionato a smettere la sua dolce scoperta della bocca di Candy, Albert inspirò direttamente sulle sue labbra, staccandosi solo di pochissimo e quel gesto gli riportò il profumo della sua pelle e il suo stesso alito fruttato.

Fu come respirare un afrodisiaco che lo costrinse a stringerla a sé, facendo vagare le mani dietro la sua schiena, premendo un poco i palmi dove nasceva la curva della sua vita stretta per avvicinarla al suo corpo, che cominciava ad esigere qualcosa di più di quel bacio, pur delizioso.

Sentiva Candy vibrare come se stesse tremando e lo interpretò come un segnale della sua passione, non più di nervosismo. Con un gesto deciso, aprì ancora di più la bocca, divorando quasi la sua, aumentando la stretta finché ogni centimetro di lei non fu contro di sé. Nonostante il vestito, poteva sentire i fianchi e le gambe aderire ai propri.
Stava per sollevarla da terra per portarla meglio alla sua altezza quando lei si irrigidì e si divincolò un poco, staccandosi da lui, lasciandolo confuso  e ansimante.

"Devo... andare a togliermi questo vestito", disse come se anche lei avesse corso. Fece una risatina quasi isterica: "Non erano solo le scarpe a essere scomode", aggiunse allontanandosi verso la porta della camera da letto.

"Va bene. Io ti aspetto qui", rispose lui con tono basso, tentando di riportare indietro l'onda di marea che lo stava sommergendo.

"Torno subito", concluse lei velocemente, chiudendosi la porta alle spalle.

Scappando da lui e da quel desiderio che lo stava distruggendo.

Candy era l'unica donna che avesse mai tenuto tra le braccia. Sapeva di essere inesperto, ma ora aveva la certezza di aver sbagliato tutto. Nonostante i libri letti, nonostante i consigli, nonostante lo avesse immaginato migliaia di volte.

Doveva di certo averla spaventata, o forse lei non era ancora pronta. Non importava, l'avrebbe aspettata ancora.

Ma l'aveva attesa così tanto, tanto a lungo...

Con un sospiro rassegnato, si versò due dita di whisky e sedette sulla poltrona accanto al fuoco, immaginandola mentre si toglieva da sola quel meraviglioso vestito da sposa che aveva sognato di sbottonarle lui.

Almeno era sua. Almeno l'amava. Il resto sarebbe venuto dopo.
 
- § -
 
Candy prese un respiro profondo, sconvolta dalle sensazioni che quel bacio, ancor più di quelli che si erano scambiati in passato, aveva suscitato in lei.

Quel calore, quell'emozione che dal cuore le pungeva il petto fino a irradiarsi lungo ogni singolo nervo del suo corpo e arrivava nei luoghi più remoti e sconosciuti...

Affondò il volto arrossato tra le mani, combattendo tra desiderio e timori ai quali non sapeva dare nome. Temeva di essere sopraffatta da emozioni così violente e sconosciute tanto da perdere il controllo.

I dubbi e le paure tornarono tutti in una volta, suo malgrado, mentre si toglieva i gioielli e li riponeva in uno dei cassetti del comodino.

Era un'infermiera e aveva studiato l'anatomia umana. Conosceva i meccanismi dell'accoppiamento fra uomo e donna e, da quello che era riuscita a capire, quell'atto era piacevole solo per l'uomo. Doveva essere funzionale alla nascita di un figlio, nel suo caso di un erede per gli Ardlay, anche se sapeva che Albert l'avrebbe amata persino se fosse stata sterile.

Non solo, ma una donna difficilmente provava piacere, tutt'altro: era destinata a sentire dolore dalla prima notte di nozze fino alla nascita del figlio, godendo solo della dolcezza di tenerlo fra le braccia dopo averlo messo al mondo.

Una parte di lei sapeva già da molto tempo quanto queste informazioni fossero pessimistiche in maniera eccessiva, perché aveva avuto modo di sperimentare tutt'altro a cominciare dal loro primo incontro dopo aver riacquistato la memoria, quando era stata persino pronta a donarsi a lui.

Avevano dormito insieme, Albert l'aveva stretta forte la mattina dopo e allora aveva compreso quanto desiderio e timore fossero altrettanto intrecciati, anche se era lontana anni luce dalle paure che aveva da smemorata. 

Ogni volta che Albert la teneva tra le sue braccia e la baciava, Candy provava emozioni potenti, travolgenti, che le apparivano come il preludio di qualcosa di così bello che non poteva essere descritto a parole. Davanti a quel caminetto, mentre la stringeva e la baciava con chiare intenzioni, si stava lasciando andare seguendo l'istinto del proprio corpo e questo l'aveva destabilizzata al punto che era fuggita.

I segnali contrastanti tra pelle e cervello la stavano mandando in tilt e Candy si rese conto che, mentre lei era lì a combattere contro i suoi timori da ragazzina inesperta, suo marito era nella stanza accanto, di certo a struggersi per lei.

Quanto ancora avrebbe dovuto farlo soffrire? Non aveva sopportato già abbastanza? E lei non gli era stata abbastanza lontana? Non era forse ora che si godessero un po' di dolcezza?

Ma Candy era intimorita e confusa, non sapeva se avrebbe dovuto avere paura della loro prima notte o solo della portata di quello che si stava negando al momento.
L'impossibilità di slacciare da sola i bottoni di quel vestito, incantevole ma impossibile da togliere, la costrinse a prendere una decisione obbligata. Col cuore che batteva come impazzito, socchiuse la porta e chiamò Albert perché l'aiutasse.
 
- § -
 
"Albert, potresti aiutarmi coi bottoni? Non riesco a slacciare il vestito da sola", disse Candy facendogli quasi cadere il bicchiere di mano.

Si volse di scatto e la sua figura mezzo girata, con le braccia protese verso la schiena mentre cercava di raggiungere i bottoni, gli parve la cosa più sensuale del mondo.

"S...sì, certo", disse tremando e cercando stupidamente un posto dove posare il bicchiere, senza trovarlo. Optò per il tavolo in mezzo alla stanza, che sembrava farsi beffe di lui, così imponente e massiccio che era impossibile non notarlo.

Candy dovette vedere il suo nervosismo, perché fece un leggero sorriso, col volto arrossato.

Albert lottò per ritrovare la calma ed entrò nella camera da letto con sua moglie, riacquistando parte della sua proverbiale freddezza. Freddezza che andò a farsi benedire quando allungò le mani sulla pelle seminuda della schiena di Candy. Cercando di controllare il tremito delle dita, tolse dall'asola il primo bottone, ma si rese quasi subito conto che i capelli di lei, ora lunghi fino alle spalle, avrebbero reso l'operazione più difficile, senza contare che avrebbe potuto tirarli senza volerlo.

Inclinando un poco il capo, affascinato, afferrò con delicatezza la ciocca per passargliela oltre la spalla, scoprendo in parte il collo candido. Cos'era, un sospiro quello che le era sfuggito dalle labbra? Non ne era sicuro, ma le sue s'incurvarono in un sorriso quando ricominciò l'operazione, con deliberata lentezza.

A ogni bottone, sentiva che Candy rabbrividiva un po', irrigidendosi e poi rilassandosi di nuovo. Rimase concentrato sui segnali del suo corpo, cercando d'ignorare i propri che gli gridavano di abbracciarla e baciarla in quel preciso istante, senza indugiare oltre.

Man mano che scendeva e si avvicinava alla curva dove terminava la schiena, Albert faticava sempre di più a mantenere il suo sangue freddo e iniziò, invece, a sentire un caldo infernale.

Per fortuna, il suo compito s'interruppe prima che perdesse la testa del tutto e, schiarendosi la voce visto che lei non si muoveva, disse: "Ho finito". Dovette schiarirla di nuovo perché risuonò arrochita.     
 
Candy, che aveva abbassato un poco la testa come per facilitargli il compito, si raddrizzò all'improvviso e, voltandosi verso di lui con le braccia sul vestito per non farlo scivolare giù, balbettò: "G... grazie. Scusa ma... non me ne ero accorta, il tuo tocco era così gentile che mi sembrava quasi un massaggio".

Albert si accigliò: rilassarla con un massaggio non era proprio quello che si era prefissato, ma una parte di sé ne era felice. Almeno l'aveva messa a suo agio.

"Bene, ora torno di là ad aspettarti mentre ti metti più comoda". Si voltò per uscire, senza soffermarsi a pensarci troppo su. Avevano tutto il tempo del mondo per la luna di miele.

Fu quasi sorpreso quando lei lo bloccò per un braccio, l'altra mano sempre salda sul corpetto dell'abito da sposa slacciato.
"Perché sei così?", domandò d'improvviso, guardandolo con curiosità.

Albert deglutì, non capendo cosa volesse dire: "Così.... come?".

Lei abbassò gli occhi: "Così... gentile. Così paziente. Questa è la nostra prima notte di nozze e tu dovresti voler... io dovrei essere... Insomma, come moglie ho degli obblighi".

Le sopracciglia si aggrottarono e un sentimento di ribellione lo pervase. Fece un passo verso di lei e le pose le mani sulle spalle, con fare fermo ma non intimo: "Candy, ascoltami bene. Tu non hai alcun obbligo, mi hai capito? Alcun obbligo verso di me, né verso chiunque altro. Io e te siamo sempre gli stessi Albert e Candy di Londra, di Lakewood, della Casa della Magnolia e mai, MAI ti costringerei a fare qualcosa che tu non voglia, è chiaro?".

Candy lo guardava con gli occhi spalancati: "Ma, Albert, io...".

"Sei mia moglie perché ti amo e tu mi ami", continuò stringendo un po' di più la presa, "ma questo non significa che il nostro rapporto sia cambiato. Io ti rispetterò sempre, Candy, e anche se mentirei dicendoti che non ti desidero qui e ora, sappi che sono disposto ad aspettarti per tutto il tempo che ti è necessario. Nessuno ci costringe a seguire delle regole o un rigido protocollo, capisci? L'amore fisico è solo un'espressione dei nostri sentimenti e avverrà quando entrambi saremo pronti".

Gli occhi verdi di Candy divennero brillanti e, in breve, s'inumidirono di lacrime. Era commossa o si sentiva in colpa? Albert stava per chiederglielo, quando lei fece una cosa che gli mozzò il fiato in gola: lo abbracciò, chiamandolo per nome, lasciando la presa sull'abito e stringendosi a lui mentre quello cadeva.

Ora la sentiva contro di sé, singhiozzante, con solo il corsetto addosso.

In modo timido e senza alcuna intenzione di approfittare di quella situazione, Albert le cinse la schiena, ripetendosi che era la sua Candy che piangeva e aveva bisogno di conforto. Null'altro.

Era difficile ignorare la sua pelle candida e il fatto che, all'altezza delle cosce, quell'unico capo di abbigliamento terminasse con un reggicalze. Albert non ne aveva mai visto uno e, indossato da Candy, gli sembrò così sensuale che dovette distogliere lo sguardo e concentrarsi sul muro di fronte per impedire al suo corpo di reagire.

La desiderava come un disperato. Desiderava Candy da tanto di quel tempo che di sicuro l'avrebbe spaventata solo con la forza dei suoi pensieri. Con gentilezza, e per impedire che accadesse altro a rendere evidente quanto la voleva, la scostò da sé, asciugandole gli occhi: "Perché piangi? Non ti ho detto che sei più carina quando ridi che quando piangi?", mormorò con tutta la dolcezza di cui era capace.

Questo sembrò commuoverla anche di più: "Oh, Albert, tu sei così buono e comprensivo con me! E io invece non faccio che causarti sofferenza. Io...". Solo allora Candy si accorse delle sue condizioni e, con un gridolino, si affrettò a tirarsi su l'abito.

Albert chiuse gli occhi, cominciando di nuovo a voltarsi per andarsene. Non voleva la sua compassione. L'amava più della sua stessa vita, ma non era per compassione che doveva accadere.

Di nuovo, la sua mano gelida lo afferrò per il polso e la sua risolutezza vacillò. Come poteva impedirsi di cedere all'istinto quando lei metteva così a dura prova i suoi nervi?
"Ti prego, resta. Io... non è che non voglio, anzi... Sono solo spaventata". Ogni singola parola sembrò esserle costata molto, specialmente la parte in cui confessava che non era che non volesse.

Anzi.

Albert deglutì a secco: "Candy, io...". Adesso era lui a non sapere cosa dire.

Candy alzò il volto e lo guardò, la determinazione che tanto amava era un faro fisso nei suoi occhi verdi mentre lasciava ricadere il vestito ai suoi piedi, rimanendo immobile e seminuda senza titubanze. L'unica cosa che tradiva il suo nervosismo era il rossore diffuso sul suo viso.

"Insegnami a non avere paura. Dimostrami che ho ragione, che può essere bello e che... non è un dovere, ma un atto d'amore. Io ti amo, Albert". La sua voce vibrava un poco, e Albert vi riconobbe non solo la consapevolezza, ma anche una sfumatura di desiderio che lo fece cedere.

Sorrise e le si avvicinò di nuovo, sfiorandole il viso con gentilezza, in una carezza tenera che la fece sorridere a sua volta. Candy chiuse gli occhi, in apparenza abbandonata al suo tocco: "Anch'io ti amo, Candy. Sentiti libera di fare ciò che desideri. Di chiedermi ciò che vuoi. E di fermarmi se...".

Forse aveva davvero titubato troppo o forse Candy aveva alfine fatto il salto decisivo per superare i suoi timori, tant'è che non lo lasciò finire ma gli gettò le braccia al collo e lo baciò, lasciandolo basito. Bastò poco perché, da labbra contro labbra, il bacio divenisse di nuovo un'esplorazione vorace.

Stavolta, però, lottando duramente contro i propri istinti, Albert lasciò che fosse ancora lei a prendere iniziative, limitandosi ad allacciarle le braccia dietro la schiena.

E l'iniziativa non tardò.

Candy lo accarezzò lungo le braccia e poi portò con timidezza le mani ai bottoni della giacca, emulando i gesti che poco prima lui aveva fatto col suo abito da sposa. Non capendo più niente, Albert si ritrovò di nuovo ad ansimare assieme a lei, riprendendo fiato e poi ricominciando il bacio, trovandosi all'improvviso a torso nudo.

Lei si scostò un poco, lasciandolo stordito e bramoso di ricominciare, ma solo per sfiorargli le cicatrici lasciate dal leone, tanto tempo prima. Laddove gli artigli avevano impresso lunghi segni ormai sbiaditi, Candy imprimeva invece un tocco carezzevole che gli fece ribollire il sangue e aumentare il battito cardiaco alle stelle.

Quando decise di sostituire le labbra alle mani, Albert rovesciò la testa all'indietro ed emise un lieve gemito senza poterselo impedire.

Era ora di riprendere il controllo.
 
- § -
 
Il coraggio, il desiderio di lui che le offuscava i sensi e la determinazione a essere finalmente la donna che Albert meritava guidarono i gesti di Candy, facendola diventare intraprendente.

Baciarlo, allacciargli le braccia dietro al collo e poi togliergli la parte superiore del kilt come aveva segretamente sognato di fare tante volte fu più facile di quanto pensasse. Anche ora, mentre seguiva affascinata le linee quasi parallele sul suo bel torace definito che adesso vedeva con occhi diversi, Candy si sentì quasi onnipotente. Specie quando provocò quella reazione in lui.

Un gemito di evidente piacere che la sconvolse, le indusse un leggero timore ma, soprattutto, l'accese spazzando via quasi ogni incertezza.

Quasi. Perché quando lui l'attirò fra le braccia per baciarla di nuovo usando le mani nel chiaro tentativo di slacciarle il corsetto, si sentì liquefare: la pelle, le gambe e quel luogo segreto cui non aveva mai osato pensare in termini intimi con un uomo, tutto prese fuoco.

Un fuoco ardente e liquido al contempo. Acqua e fiamme.

Fu lei a rovesciare la testa indietro, trattenendo a stento un lieve lamento di gioia, sentendo le scie umide che le labbra di Albert lasciavano sul suo collo mescolando la saliva al respiro bollente e sempre più rapido e le dita si muovevano convulse, continuando la loro opera.

"Candy, che devo fare?", ansimò scendendo dove nascevano i suoi seni.

"Continua ad amarmi, mio principe", gli rispose senza titubare.

Finalmente il corsetto era aperto e Albert, che era giunto a baciarla quasi sul petto, si raddrizzò per chiederle il permesso di proseguire. Lei rimase un attimo rigida, ancora una volta divisa tra desiderio e timore. Alla fine annuì e si lasciò spogliare da suo marito.

Lanciandole di tanto in tanto sguardi interrogativi, Albert si chinò per slacciarle anche il reggicalze. Fallì, ritentò e lei si ritrovò ad aiutarlo con un leggero sorriso, i brividi che le facevano venire la pelle d'oca a ogni tocco delle dita.

Teneva il corsetto fermo con una mano e continuò a tenerlo così anche mentre lui le abbassava le calze in un gesto lento ma carico di erotismo che aumentò il respiro di entrambi. La sensazione delle mani carezzevoli di Albert sulle sue cosce e poi lungo le gambe la stava letteralmente facendo impazzire.

Quando lui si rialzò, un poco affannato, Candy chiuse gli occhi, lasciò andare il corsetto e sentì il tessuto scivolare via, lasciandole scoperta quella parte del corpo così sua, così proibita, da cui sapeva solo dovessero nutrirsi i bambini appena nati.

"Oh, Candy...", udì la voce di Albert rotta, commossa come se stesse piangendo. Riaprì gli occhi per guardarlo e si rese conto che erano l'eccitazione e l'ammirazione a rispecchiarsi nei suoi occhi, generalmente così chiari, ora offuscati da qualcosa di quasi selvaggio.

Senza chiederle a voce un permesso che gli avrebbe comunque dato, avvicinò le sue mani con una specie di timore reverenziale, incontrando per un istante il suo sguardo. Lei annuì, trattenendo l'impulso a coprirsi, il pudore che minacciava di bloccarla proprio in quel momento fondamentale.

Il tocco delle mani calde di Albert sul suo seno devastò gli ultimi brandelli di ragione. Di nuovo, rovesciò la testa, gemendo il suo nome, portando addirittura le proprie, di mani, sui polsi di lui perché la toccasse in maniera più profonda.

E lui lo fece, gemendo a sua volta, estasiato, mentre le catturava le labbra ancora e ancora. Massaggiò prima con tenerezza, sfiorandole i capezzoli e facendole trattenere il fiato perché anelava di più. Poi li prese a pieni palmi, saggiandoli, impastando la carne dell'intero seno, uno con una mano, uno con l'altra e Candy si morse il labbro per non gridare.

In un impulso che non seppe descrivere, sentendosi pulsare il cuore ovunque e specialmente tra le gambe, Candy si strinse ancora di più contro suo marito, lasciandogli appena lo spazio per continuare quella fervente esplorazione.

Fu allora che lo sentì.

Sentì quanto era rigido e caldo e pronto per lei, sotto al tessuto del kilt.

Scattò all'indietro, ritirandosi di nuovo mentre si malediva, avvertendo l'eccitazione spezzarla quasi in due, ma lasciandosi vincere dalla paura di quella novità così assoluta ed erotica.

Cadde a sedere sul letto di peso, col respiro mozzato e i suoi occhi si riempirono dell'immagine di Albert con le braccia ancora semi spalancate, il viso arrossato, il petto nudo che si alzava e abbassava come se avesse fame d'aria: "Candy...?", la chiamò con tono deluso.

"Mi... mi dispiace", balbettò. "Il fatto è che... tu... non ero pronta a... non sapevo...". Lanciò un'occhiata rapida tentando disperatamente di farsi capire e si diede dell'idiota. Certo che lo sapeva, lo aveva ben studiato. Ma una cosa era vedere dei libri di scienze molto schematici, un'altra era avere Albert lì, davanti a lei, eccitato e tremante a causa sua.

O grazie a lei.

Inaspettatamente, quel pensiero la inorgoglì. E la rese ancora più bramosa. Era la prima volta che vedeva il suo Albert dolce e protettivo in quel modo.

Albert respirò in maniera pesante per qualche istante e Candy capì che gli era sempre più difficile riprendere il controllo.

"Io... ti stavo baciando, Candy, ti stavo toccando... Dio, se vuoi che mi fermi lo farò, ma dovrai lasciarmi fare una doccia gelata, a questo punto", disse con una risatina nervosa.

"No!", lo interruppe. Deglutì, la gola di nuovo secca mentre lo guardava. E lo desiderava. "Devo solo abituarmi. Non voglio che smetti, ti prometto che non scapperò più". Terminò la frase imponendosi di fissare il proprio sguardo proprio dove si trovava il mistero che la stava facendo impazzire di lussuria e timor panico.

"Sei... sicura, Candy? Non so se potrò fermarmi, poi. Ti desidero... così tanto...", soffiò con un sospiro.

"A... avvicinati. Voglio... vorrei...". Toccarti? Esplorarti? Non sapeva cosa fare, di preciso, ma sapeva che lo avrebbe reso felice e che presto avrebbe desiderato lo stesso da lui.

Con lentezza esasperante, Albert si avvicinò e i suoi ansiti colmi di aspettativa la fecero sentire di nuovo forte. Stava conducendo il gioco: un gioco di cui conosceva a malapena le regole, ma che a breve non le avrebbe fatto più paura.

La mano di Albert scese sulla sua, la prese con tenerezza e la baciò: "Io ti amo, Candy, non voglio che tu ti senta costretta. Ma sappi che il mio cuore e il mio corpo... sono comunque tuoi. Ti appartengo totalmente".

Candy gli rivolse un sorriso che lui ricambiò con dolcezza. Più fiduciosa, allungò le mani sui bordi del kilt, imponendosi di avere il coraggio necessario ad abbassarlo lungo i suoi fianchi. Chiuse gli occhi e pensò che era lui, il suo Principe della Collina, quello che un giorno si era presentato a lei vestito così quando era ancora una bambina. E che, più tardi, lo aveva indossato di nuovo come uomo. Il suo amico, suo fratello, colui di cui si sarebbe innamorata perdutamente. Ora suo marito e il suo amante. Quel kilt, che era quasi il simbolo dell'evoluzione del loro amore, adesso doveva essere rimosso perché lei diventasse donna e lo potesse infine vedere nella sua interezza.

Cadde con un fruscio e Candy fu quasi delusa nel rendersi conto che Albert aveva la biancheria intima. Ciò non le impedì di rendersi conto di quanto fosse... così... dotato e bramoso e... Il rossore le salì al volto e il cuore accelerò fino a limiti che non credeva possibili. Ancora sentì tra le proprie, di gambe, quel fuoco liquido che le fece desiderare di unire il corpo al suo. Di avere quel contatto, inguine contro inguine.

Sapeva che non doveva vergognarsene, che l'educazione rigida che aveva avuto era alla base di tutti i suoi timori e di quelle fughe ridicole. Così decise di fare l'ultimo salto e allungò una mano per sfiorare prima la cicatrice sulla coscia poi, prima che il velo di dolore al ricordo di quanto accaduto potesse prendere il sopravvento, decise finalmente di toccarlo attraverso la stoffa, tremando per le emozioni contrastanti.

Sentì Albert prendere un respiro a denti stretti e trattenerlo, poi rilasciarlo in un gemito gutturale quando lo sfiorò prima con gentilezza, come in una carezza, quindi, incoraggiata dalla sua reazione, imitando i gesti di lui quando le stava toccando i seni.

Non era affatto pronta alla reazione di suo marito. Mosse leggermente i fianchi verso di lei, ripetendo il suo nome e l'afferrò per le spalle, rimanendo in piedi anche se avvertiva le sue gambe tremare.

"Fermati, basta, Candy", la supplicò in un ultimo gemito, con voce rotta.

Lei lo fece, ma non tolse la mano: "Ti... scusa, ti ho fatto... male?", domandò alzando gli occhi verso il suo volto contratto e sudato.

"No, anzi, però... così bruceremo le tappe. Prima tocca a te...". Candy poté vedere lo sforzo che stava facendo per controllarsi e nella sua testa esplosero quelle parole.
Prima tocca a te.

Cosa le sarebbe toccato? Le sue mani? Oppure direttamente...

Non ebbe tempo di chiederselo perché, con un'urgenza frenetica, Albert la fece sdraiare sul letto ricominciando a baciarla e a toccarla con devozione e amore, tenendo il suo corpo a una certa distanza ma standole comunque abbastanza vicino da passarle le mani ovunque. Sui seni, cui alternò le labbra facendola gemere, sui fianchi, sulle gambe e...

Lo chiamò, inarcandosi contro la mano di Albert che era affondata nel tessuto toccandole il punto più sensibile. Qualcosa di potente, di inaspettato cominciò a gonfiarsi dentro di sé come una marea turbolenta. Prima toccava a lei. Ora capiva a cosa si riferisse Albert. Ma voleva di più, estremamente di più. Si mosse contro quella mano, credendo che sarebbe esplosa come una bomba oppure precipitata attraverso il materasso per l'intensità con cui il corpo sembrava staccarsi dall'anima e unirsi a quella di lui.

Albert smise di baciarla e di toccarla, strappandole un gridolino di protesta che non seppe neanche di aver emesso. Ma la delusione lasciò posto allo stupore: le stava togliendo l'ultimo capo che aveva addosso, lasciandola nuda e inerme contro quelle sensazioni dirompenti.

Rimase per un attimo a guardarla estasiato e Candy avvertì la vergogna inframmezzarsi ancora alle ondate pulsanti di desiderio. Non guardarmi, abbracciami, scaldami col tuo amore. Toccami, ti supplico, ma non le uscirono parole, solo ansiti e gemiti.

Lui parve capirla perché si sdraiò di nuovo accanto a lei ricominciando le sue carezze sulle gambe, sul seno, sui fianchi e persino sulle natiche. Ovunque, tranne dove sembravano concentrarsi tutte le sensazioni. Si mosse verso di lui, intenzionata ad incollarglisi come pochi minuti prima per sentirlo di nuovo contro di sé. Tutto, pur di avere quel sollievo cui non sapeva dare nome. Quello che una donna difficilmente avrebbe dovuto provare e che, in realtà, un nome ce l'aveva.

Una scossa di elettricità le pervase il corpo dall'attaccatura dei capelli fino alla punta dei piedi quando le dita di Albert s'insinuarono dove lei voleva, alfine, massaggiando, sfiorando, esplorando ed entrando in un'invasione dolce e prorompente allo stesso tempo.

Suoni sconosciuti proruppero dalla sua gola, frasi incoerenti nelle quali il nome di Albert compariva spezzato, inframmezzato da sospiri, suppliche, spasmi. E le sue mani erano tra i capelli biondi di lui, scompigliandoglieli e scendendo verso le spalle e le braccia solide e muscolose. Adorava la sensazione della pelle maschile sotto i suoi polpastrelli e la consistenza soda dei suoi muscoli!

E l'esplosione avvenne, lacerandola e strappandole un grido acuto. Era come una spirale infinita, crescente, che irradiava le sue punte affascinanti e lussuriose dal centro del corpo fino agli angoli più lontani, come un fuoco d'artificio che si espande nel cielo.

L'onda si ritrasse con lentezza esasperante, lasciandola a tremare e ansimare mentre la mano di Albert allentava la presa, diminuiva i movimenti e si staccava da lei. Gli occhi, prima chiusi, si aprirono sul volto arrossato del marito che la fissava con un sorrisetto che osò definire soddisfatto.

Era imbarazzata ma felice e si domandò come fosse possibile che le altre donne, la maggior parte perlomeno, avessero timore di una cosa simile. Forse il loro timore era legato invece alla consapevolezza di non avere la possibilità di provare sensazioni così dirompenti?

Una parte di sé, però, comprese quanto timore e desiderio fossero legati: era qualcosa che rischiava di far perdere se stessi, soprattutto se avveniva con la persona amata. Una sublime emozione, quasi una vertigine, simile a quella dell'anima che si allontani dal proprio corpo.

Desiderosa di regalare quell'attimo di eternità anche ad Albert, Candy si accoccolò contro di lui, ancora una volta imitando i suoi gesti. Presa dall'adrenalina del momento, decise che era il suo turno di spogliarlo del tutto.

Voleva vederlo. Voleva sentirlo e che lui sentisse lei.

Albert protestò debolmente mentre Candy rimaneva impietrita ed estasiata di fronte a ciò che aveva appena scoperto. Seppe che era arrossita e a dire il vero poté vedere la stessa reazione sul viso di Albert. Cercò di dire qualcosa per spezzare quella tensione, indecisa se toccarlo di nuovo o chiederglielo prima.

"Avevo letto... che sotto al kilt non si indossa nulla", fu la grossa sciocchezza, pur documentata, che le uscì di bocca.

Aveva rotto l'incanto, spezzato quella tensione carica di lussuria e desiderio, ma in compenso la sua frase fece ridere il suo principe.

"Non potevo presentarmi al matrimonio senza biancheria intima, Candy", disse tra le risate. "E, anche se tecnicamente è così che si porta il kilt, sono concesse... variazioni, specie se fai parte di una famiglia importante e vuoi evitare incidenti imbarazzanti nonostante la spilla di sicurezza".

Candy seppellì il viso tra le mani, cominciando a ridere a sua volta e capì che Albert non era arrabbiato con lei per quella stupidaggine detta in un momento poco consono. Sbirciò tra le dita, imprimendosi nella mente la parte del corpo di lui che stava imparando a conoscere solo in quel momento, domandandosi come avrebbe potuto accoglierla dentro di sé.

Desiderando che accadesse, ma spaventata dal dolore che poteva causarle.

Era di questo che parlavano le altre donne? Era per quel motivo, così imponente e sfacciatamente proteso verso di lei che avrebbe sanguinato? Di certo sarebbe stato diverso che con le dita di Albert. Eppure...

Come indovinando i suoi pensieri, Albert le si avvicinò fino a stendersi su di lei: "Candy", mormorò scostandole i capelli dalla fronte. Poté finalmente sentire ogni centimetro della sua pelle coincidere con quella di lui, seni contro torace, gambe contro gambe e... i suoi fianchi...

"È così... così... grande per me...", soffiò prima di poterselo impedire.

Lui, che le stava sfiorando il collo con le labbra, allontanò un poco il viso per guardarla. Le parve di nuovo arrossito: "Devo prenderlo come un complimento?", ridacchiò prima di continuare. "Non ti farei mai del male, Candy. Ti preparerò bene per me...", mormorò con voce sensuale, mandandola di nuovo in tilt.

Istintivamente abbassò la mano, in una carezza intima che strappò a suo marito l'ennesimo gemito.

"Non così, Candy", soffiò con voce roca. "Voglio che accada dentro di te", concluse sconvolgendola.
 
- § -
 
Albert sapeva bene cosa stava accadendo, eppure non lo sapeva. Nonostante i discorsi di George, temeva ancora che non sarebbe stato perfetto come meritava Candy e come lui stesso anelava.

Fino ad allora aveva solo immaginato come sarebbe potuto essere, ma la verità era che non sapeva davvero come il suo corpo e la sua mente avrebbero reagito ora che potevano amarsi interamente.

Ad esempio, non sapeva che baciandola così sul collo, mentre ascoltava il gemito a malapena trattenuto da Candy, avrebbe sentito il desiderio di rifarlo ancora e ancora solo per riascoltarlo, come il dolce suono di un canto sconosciuto che si voglia assaporare come si deve.

Non sapeva che sentire le sue piccole mani vagare sulla schiena avrebbe reso ancor più dolorosa l'attesa, aumentato il battito cardiaco e affannato il suo respiro già corto. E non sapeva che le proprie, di mani, si sarebbero animate contro la sua volontà per il bisogno impellente di massaggiarle le spalle, così che la sua bocca potesse scendere sulle clavicole fino a...

"Candy, che devo fare?", ansimò mentre ormai era all'attaccatura del seno e avvertiva un sapore simile al miele sulle labbra.

"Continua ad amarmi, mio principe".

Le parole smisero lì.

La lotta con il corsetto fu dura e penosa, ma la vinse e, pian piano, conquistò le gambe flessuose e poi i suoi seni sodi senza stoffa di mezzo. Li assaggiò, li carezzò, li massaggiò e si beò della sensazione di Candy finalmente arresa ed eccitata tra le sue braccia.

Gli si strinse con un'audacia che non credeva possibile, mentre ancora la gloria della pelle piena del primo seno che toccava in vita sua lo stava facendo impazzire, mandandogli dolorose ondate all'inguine. Fu proprio agganciandosi a lui che Candy dovette sentirlo.

La sua reazione terrorizzata lo lasciò con le braccia vuote e un senso di frustrazione tali che ne fu quasi infastidito. Ma non voleva spaventarla, quindi tentò di capire cosa volesse realmente, spiegandole il perché di quella reazione del suo corpo. Sapeva che era la sua prima volta, ma lei non sapeva che era lo stesso per lui e si stava controllando sempre con maggior fatica.

Per fortuna, Candy non lo mandò a fare un'inutile doccia gelata, ma gli spiegò qualcosa che aveva già immaginato. Ciononostante era insicuro sul da farsi e non si aspettava che lei lo traesse d'impaccio con quella velocità.

Quando la mano di lei si allungò per toccarlo, Albert fu certo che tutto sarebbe finito in pochi secondi, specie nel momento in cui iniziò a fargli quello che solo pochi istanti prima stava facendo col suo seno. Dolorosamente e con uno sforzo di volontà immane per dominare una discesa che era già iniziata, cercò di ritrarsi da un'emozione violenta che si sarebbe compiuta senza una vera unione.

"Prima tocca a te...", ansimò deciso a fare le cose per bene, anche se era quasi certo che lei fosse pronta per lui tanto quanto lo era per lei.

Candy si lasciò guidare e sì, scoprì già attraverso il tessuto della sua biancheria intima quanto lo volesse. Cercando di allungare un po' quel momento meraviglioso per godersi i lineamenti contratti e desiderosi di lei, scelse di toglierle l'indumento e di guardarla per un attimo.

Voleva scoprire ogni centimetro del corpo di Candy, incluso il giardino più segreto dove avrebbe presto conosciuto la gloria più profonda. Ma prima voleva donarle qualcosa che lei, quasi sicuramente, non aveva mai provato.

Non voleva farla soffrire, ma portarla all'apice senza troppa fretta. Candy lo supplicò con lo sguardo e con il linguaggio del corpo mentre con le mano ritrovava i suoi seni, le cosce tornite e il ventre piatto. Quando, alla fine, si decise ad accontentarla, sentì che la medesima scossa elettrica che attraversò il corpo della moglie stava attraversando anche lui.

Si poteva provare piacere toccando la propria anima gemella e non se stessi?

Ebbene, Albert ci andò davvero vicino, ma non per questo si arrese e decise di concentrarsi su quello che stava facendo, scoprendo ogni piega e ogni più piccola conformazione dell'intimità di Candy, inserendosi in lei con gentilezza e immaginando come sarebbe stato farlo con la parte del suo corpo che pulsava sempre di più.
L'estasi di Candy lo portò a un livello superiore di gioia e di lussuria che andava oltre il proprio piacere fisico. Non era la stessa cosa, eppure lo soddisfò nel profondo, facendolo sentire completo e orgoglioso.

Lei lo guardò, imbarazzata, e lui le sorrise. Ancora una volta, lo sorprese con la sua audacia dopo tanta titubanza. Candy lo stava finendo di spogliare, avendo di certo imparato da lui e volendo mettere subito in pratica quello che le aveva fatto.

La sua volontà vacillò, ma lasciò che lo guardasse, ricacciando indietro il proprio, d'imbarazzo, e facendola abituare a quella parte del proprio corpo così tesa e inelegante. Ma Candy sembrava ammirata e Albert si rilassò e si agitò al contempo. Se l'avesse toccato non era certo di poter più rispondere di se stesso, si sarebbe semplicemente arreso.
Candy si morse il labbro, come se fosse indecisa, e il momento restò sospeso finché lei non disse: "Avevo letto... che sotto al kilt non si indossa nulla".

Nonostante l'eccitazione che rischiava di sommergerlo e mandare all'aria tutti i suoi piani di una prima volta perfetta, Albert avvertì l'ilarità solleticargli la gola e scoppiò a ridere. Benedì l'uscita divertente ma puntuale di sua moglie, perché lo aiutò a diminuire un po' la tensione e a fargli tornare la speranza di fare l'amore con lei come avrebbe voluto.
Tuttavia, mentre le parlava della differenza tra convenzioni e buona creanza, specie in una famiglia come la Ardlay, Albert capì che non avrebbe potuto più aspettare e che la sua facciata sarebbe presto crollata di fronte al bisogno impellente di possederla, lì e ora.

Si stupì del proprio autocontrollo che, infatti, andò in mille pezzi nel momento in cui lei lo abbracciò. Lo scambio di battute sui timori di Candy rispetto alle dimensioni del suo corpo non lo distrasse molto e si dedicò a baciarla gustandosi ancora la sua pelle morbida.

Adorava la sua pelle.

L'istinto ebbe il sopravvento e Albert assecondò il desiderio di aderire completamente a lei, sentendo nei suoi ansiti soddisfatti che gradiva quel contatto proprio come lui. Annebbiato, stordito e bramoso, riuscì comunque a fermare la sua mano che lo stava facendo gemere in modo incontrollabile: "Voglio che accada dentro di te", ansimò.
E stava per farla sua, ma si ricordò che lei doveva essere più che pronta, che era la sua prima volta e che aveva bisogno di altro tempo. Solo qualche istante, gridò dentro di sé, abbassando le labbra per lasciarle scie umide e infuocate di baci dai seni all'ombelico, indugiando prima di arrivare più in basso, prendendo una scorciatoia, per prepararla alla sua invasione, che Candy parve gradire anche più di prima.

Nel bacio più intimo che potesse darle, Candy invocò il suo nome artigliandogli i capelli e Albert si perse nel sapore e nella passione della moglie. La trascinò fino al limite ma non proseguì, perché finalmente era giunto il momento di unirla a sé.

Con un gemito roco e un ansito di soddisfazione lo fece, puntellandosi sui gomiti e scivolando in lei quasi senza difficoltà. Fu un momento incredibile, potente, che gli accelerò il battito cardiaco a livelli quasi intollerabili e rischiò, ancora una volta, di porre termine a tutto nel giro di un soffio d'istanti: era dentro Candy e il solo pensiero lo portò davvero a un passo dalla fine.

Sospirò forte, concentrandosi per non esplodere e implodere al contempo per la gioia. Trattenne con tutte le forse residue l'urgenza perché voleva che si abituasse a lui e si fermò poco prima di provocarle dolore.

Non voleva farle male prima di averla guardata, studiata, preparata. Non aveva che pochi istanti prima dell'eternità.

Lì, su quel grande letto morbido, mentre nulla più li separava e ogni centimetro dell'uno aderiva perfettamente all'altro, mentre la vibrazione colma di aspettativa di entrambi minacciava di sommergerlo con la sua intensità, d'improvviso Albert ebbe paura.

Paura di non essere all'altezza, di provocarle dolore, di lasciare che il corpo comandasse sul cuore, che l'inesperienza lo portasse a sbagliare quello che doveva essere l'attimo perfetto.

"Candy, io...", cominciò, tremando per il desiderio e il timore, immergendo lo sguardo in quello di lei che aveva trattenuto il respiro quando l'aveva presa e sembrava tutt'altro che infastidita.

Possibile che ora fosse lui quello timoroso?

"Mi fido di te, amore mio, sii ancora il mio principe", disse lei piena di fiducia, quasi commuovendolo.

Lui scosse la testa: "Non so se potrò essere il principe che sogni".

"Perché?", rispose lasciando trasparire stupore e delusione, sfiorandogli il viso con le dita.

"Perché... anche per me... è la prima volta", sussurrò, la sensazione di essere dentro di lei che lo stava facendo impazzire nonostante la titubanza.

Gli occhi di Candy si trasformarono in un modo che, sulle prime, non decifrò: sorpresa, dolcezza e infine commozione fu quello che lesse nelle lacrime nascenti.

"Sono... davvero la prima?", gli chiese con un'innocenza e una gioia così pure che ogni suo timore svanì all'istante, come una manciata di neve che si sciolga al sole.

Albert annuì, carezzandole la guancia: "Insegnami. Insegnami ad amarti, Candy. E nel frattempo impara quanto ti amo".

La conversazione tornò muta di parole e pregna di ansiti mal trattenuti. Incertezze, momenti sospesi, attese trepidanti, esplorazioni inedite.

Si mosse piano contro di lei, dondolando gentilmente e beandosi delle espressioni che mutavano sul volto di sua moglie.

Albert temeva ancora che il corpo così a lungo bramato di Candy gli facesse perdere la ragione e non rispettare i suoi tempi ma scoprì, con meraviglia e orgoglio, che gli bastava leggere nei lineamenti del suo volto per accordarsi a lei come uno strumento che suonasse in sincrono.

Si rese conto che poteva vedere con chiarezza i suoi desideri e le sue sensazioni, così capì che stavano facendo insieme ogni singola scoperta. Assieme sperimentarono i misteri dell'unione più profonda, attimi di sublime comunione tra spirito, cuore e pelle. Assieme furono complici di quei secondi in bilico tra prima e dopo, laddove una barriera fisica era diventata un confine che separava l'amore platonico dall'appartenersi completamente.

La superò, in un movimento più frenetico e fluido, avvertendo nel gemito di Candy l'ambivalenza delle sensazioni che stava provando.

Come un vero principe, lui riuscì ad attenderla sulle rive di quel mare speciale fatto di desideri e grida, del viso di lei trasfigurato dalla passione e da quelle labbra che chiamavano il suo nome in un sussulto. La osservò rapito, estasiato, fino a che fu libero di esprimersi, ancora profondamente commosso da ciò che le aveva appena donato.
La seconda estasi di Candy lo aveva avvolto e poteva sentirne gli spasmi stringerlo in un abbraccio intimo che non lasciava alcun dubbio su quanto si meritasse, alfine, di rilasciare la propria passione dentro di lei.

Eppure la mente gli giocò un brutto scherzo, suggerendogli che no, non poteva, non doveva, ancora non era arrivato per lui il momento di raccogliere quel frutto che tanto anelava. Proibito, bellissimo, temeva potesse sfuggirgli di mano.

Fu lei stessa a condurlo, come le aveva chiesto poco prima, abbassando le mani, ora deliziosamente maliziose, sulle natiche per tenerlo ancora più stretto, facendole risalire per la schiena e intrecciandovi anche le gambe.

In un attimo la mente si perse, all'improvviso, come per una luce accecante e dovette rovesciare la testa e stringere gli occhi per non impazzire alla sua vista, i tendini del collo tesi come corde di violino. Poi, mentre ancora stava accadendo e il suo corpo sembrava spezzarsi in una sorta di pazza discesa senza smettere di muoversi con urgenza, capì che doveva guardare la sua Candy, invocare il suo nome e incollare alle sue labbra il proprio grido strozzato per farle comprendere quanto prezioso fosse quell'istante eterno in cui cadeva e moriva per rivivere.

Aveva creduto di riconoscere ciò che avrebbe provato, ma quell'unione completa si era rivelata sublime come se le loro stesse anime si fossero alfine incontrate.

La sentì sussultare sotto di lui, dentro di lui e intorno a lui e comprese di averle regalato una parte di quell'attimo eterno.

Staccarono le labbra per respirare e Albert si stupì di essere ancora lì, su quel letto con lei e non sperso in un mondo parallelo e fatato. Respirarono uno sulla bocca dell'altra, si sfiorarono ancora, poi lui affondò il volto sul suo collo, grato ed emozionato.

"Ti amo", dissero nello stesso, perfetto momento.

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Capitolo 82
*** Dall'alba al tramonto ***


Attenzione: anche la prima metà di questo capitolo contiene scene abbastanza esplicite.

 
Dall'alba al tramonto

Candy aprì gli occhi sentendo il respiro regolare di Albert che dormiva abbracciato a lei. I bei lineamenti del viso erano rilassati, la bocca aveva il fantasma di un sorriso e il suo braccio sinistro la imprigionava per la vita anche nel sonno.

Rimase a guardarlo incantata per un tempo indefinibile ricordando, non senza un leggero imbarazzo, come quell'uomo, suo marito, l'avesse adorata, accarezzata e baciata fino a farle perdere se stessa.

Come aveva potuto avere paura di fare l'amore con Albert?

Era stato così gentile, premuroso, tenero, appassionato... e le aveva donato qualcosa che dubitava molti uomini potessero donare alle loro mogli: la sua prima volta. La stessa che lei gli aveva riservato.

Era incredibile come un uomo in apparenza così pacato e sereno nascondesse una vena tanto passionale. Quel lato focoso di Albert l'aveva rapita, coinvolta, facendole scoprire qualcosa di molto simile in se stessa.

Gli scostò una ciocca ribelle di capelli dalla fronte e lui mugugnò, stringendola ancora di più a sé. Avvertì tutta la solidità dei suoi pettorali, dell'avambraccio e... si accorse distintamente di quanto la desiderasse anche se era ancora mezzo addormentato.

Senza più provare vergogna, Candy avvertì a sua volta il desiderio di lui crescerle nel petto, nelle viscere, in ogni angolo del corpo. Le mani gli andarono al torace, risalirono lungo la nuca e scesero per le spalle. Candy abbassò la mano destra, intenzionata a darsi a una piacevole esplorazione e bastò quel gesto perché lui si svegliasse del tutto, gli occhi offuscati dal sonno e dall'amore, chiamandola per nome e posizionandosi su di lei, scostandole la mano con delicatezza.

Ricordò con quanta tenerezza le avesse chiesto come stava, prima di darle teneri baci sul viso, la notte precedente. Candy si era detta sorpresa di non aver provato quasi alcun dolore, ma solo la meraviglia e la devozione di un'estasi così completa e perfetta che non credeva immaginabile potesse esistere.

Ora c'era qualcosa di magico nel lasciarsi trasportare, senza più freni, nella luce appena accennata dell'alba, in bilico tra sonno e veglia, ma con i sensi perfettamente all'erta.
Si rese conto che c'era qualcosa di diverso in quella seconda volta: era come una nuova prima volta. Tutto accadde in maniera più veloce, meno attenta, ma ugualmente coinvolgente. Era come se stessero insieme da anni. Il loro amore era già più esperto, si conoscevano a memoria e non avevano bisogno di parlarsi per dettare i tempi.
Laddove la sera prima tutto era stato attento e controllato, ora era disinvolto e sferzante. Colse il lato selvaggio di se stessa e di Albert e si stupì di come le medesime sensazioni li avvolgessero nello stesso istante.

Lo strinse a sé convulsamente, desiderando che non la lasciasse più. Il volto di lui era affondato nel suo collo e sentiva il respiro ardente dell'uomo mentre ripercorreva ogni angolo del suo corpo ancora e ancora, riconducendola di nuovo su quel baratro dal quale sarebbe discesa volando.

Non credeva potesse accadere più di una volta, ma le mani e il corpo di Albert uniti al suo erano come una vibrazione continua, un'ondata di marea che rifluiva per poi tornare impetuosa, sconvolgendola, spezzandola in maniera deliziosa.

Alla fine si arrese, stremata, mentre lui le dava piccoli baci sul viso e sul collo, ritirandosi leggermente quando si accorse della sua stanchezza.
"Non ti ho nemmeno detto buongiorno", disse con voce roca, ridacchiando.

"Oh, sì che me l'hai detto, fidati!", rise lei a sua volta.

"Mhhh, che ne pensi se ci diciamo buongiorno così tutte le mattine?", propose lui scendendo con la mano sul suo fianco con lentezza esasperante, reclamando ciò che ancora non aveva avuto.

"E buon pomeriggio, e buonasera, e... buonanotte...". Non credeva che sarebbe riuscita a sentire ancora una volta il suo corpo richiedere la presenza di lui, era come una giostra infinita.

E non credeva che Albert si sarebbe rivelato ancora così passionale di punto in bianco. Entrò di nuovo, senza permesso, con il ringhio di un leone e lei rovesciò la testa all'indietro, in resa totale.

Non misurò il tempo, non contò i baci, tutto divenne relativo in un turbine dove lui sembrava non avere più riserve, né timore di farle male. Tenero, poi impetuoso. Lento, poi veloce. Candy si ritrovò a pregarlo senza vergogna e lui l'accontentò, riportandola là dove non credeva più di riuscire ad arrivare.

Gridò e lui gridò con lei solo pochi istanti dopo, affondando nel suo corpo in una maniera che le fece quasi provare dolore. Si sentiva come se fossero davvero tutt'uno, connessi in profondità non solo nel corpo ma anche nel cuore.

Sentiva battere quello di Albert forte tra i suoi seni. Rimasero per molto tempo abbracciati a riprendere fiato e, con riluttanza, Candy accettò che a un certo punto lui si allontanasse, ma solo per abbracciarla con il petto contro la sua schiena.

Il dolce torpore dell'amore che si erano appena scambiati li condusse di nuovo nel sonno e, quando aprì ancora gli occhi, Candy vide che il sole era già alto.

Sbatté le palpebre, avvertendo la solidità del corpo di Albert contro il proprio, le gambe intrecchiate alle sue, il respiro che le solleticava il collo tra i capelli.

Lo sguardo, però, le andò al pavimento, dove il suo abito da sposa e il kilt erano abbandonati in un groviglio che sembrava lo stesso dei loro due precedenti occupanti. Ridacchiando tra sé all'idea di abiti che si uniscano in un abbraccio intimo, si staccò piano dalla presa di ferro di Albert e si apprestò a scendere dal letto quando si accorse di essere nuda.

Ovviamente.

Seduta sul letto, dando le spalle a suo marito, a sua volta a malapena coperto da un lenzuolo fin poco più su della vita, Candy valutò il da farsi. Optò per sgattaiolare in bagno, dove si rinfrescò e si avvolse in un asciugamano.

In punta di piedi, rientrò nella stanza: Albert era ancora nella medesima posizione, la faccia semi affondata nel cuscino e il braccio proteso sul letto dove poco prima c'era lei. La tentazione di ritornare esattamente da dove era venuta era allettante e quanto mai forte, ma si costrinse ad aprire un armadio, scostando alcuni abiti e cercando una stampella libera ove sistemò con cura il suo bellissimo abito da sposa.  

Tentò disperatamente di farlo entrare nell'armadio, ma era un'impresa impossibile, così si risolse a trovare un altra sistemazione, quando udì la voce di lui alle sue spalle, che la fece sussultare e quasi cadere il vestito: "Cosa stai facendo?".
 
- § -
 
Carter aveva ragione: dormire abbracciato a Candy aveva cancellato gli incubi, almeno per quella notte. Rimanevano la gioia infinita di averla finalmente fra le braccia e il desiderio di lei che, come una droga deliziosa, continuava a rinascere in lui a ogni minimo risveglio.

Aveva imparato a conoscere già le reazioni del corpo di Candy ed era stato così facile assecondare i loro desideri quando, ancora in dormiveglia, l'aveva sentita accarezzarlo e scendere con la mano fin dove il proprio, di corpo, gli urlava ancora di prendere possesso di lei!

Candy si era sciolta, liquefatta, aveva preso fuoco fra le sue braccia e Albert si era accorto che non avevano ancora parlato. Ma la conversazione era durata il tempo di un buongiorno, perché aveva bisogno di lei. Un bisogno disperato che lo fece comportare quasi come un selvaggio. Tuttavia il fatto che sua moglie apprezzasse anche quel lato di lui, lo incendiò al punto che riuscì a trattenersi solo per poco tempo prima di rivendicare la propria, esplosiva estasi nel corpo morbido di Candy.

Si erano addormentati ancora abbracciati, ma la coscienza lo aveva portato a livelli quasi vigili quando la sentì muoversi per alzarsi dal letto. Con gli occhi semichiusi, la vide recarsi in bagno e furono solo l'immenso torpore e la consapevolezza che forse Candy aveva necessità di qualche minuto di privacy a convincerlo a non alzarsi per seguirla. Richiuse gli occhi, deliziosamente stanco e, quando li riaprì, vide Candy dargli le spalle, il corpo avvolto solo in un asciugamano, protesa quasi fin dentro l'armadio mentre cercava forse di appendere il suo abito da sposa.

Quel piccolo capo di spugna le copriva a malapena le natiche e le cosce erano del tutto scoperte: anche se l'aveva vista nuda, l'idea di spogliarla lo incendiò di nuovo e il suo corpo reagì per l'ennesima volta.

Gli era bastato fare l'amore con Candy un paio di volte per avere bisogno di lei di continuo, come un assetato.

"Cosa stai facendo?", le chiese sorridendo, alzandosi su un gomito e puntellando la mano chiusa a pugno sulla guancia, senza smettere di guardarla anche quando si voltò.

"Albert! Mi dispiace, ti ho svegliato. Io... stavo solo cercando di mettere a posto il mio vestito da sposa perché non si rovinasse. E vorrei farlo anche con il tuo kilt", disse indicando il groviglio verde in terra.

Lui scoppiò a ridere, divertito e col cuore gonfio all'idea che Candy si stesse comportando proprio come una moglie premurosa: "Hai ragione, amore mio, abbiamo lasciato un gran disordine, vero?", disse scendendo dal letto per raggiungerla.

Fece finta di non notare quanto lei arrossisse vedendolo avanzare disinvolto e completamente nudo. Divertito, le mise le mani selle spalle, trattenendosi a malapena dallo sciogliere semplicemente l'asciugamano che la copriva, e indicandole un piccolo attaccapanni a parete.

Sapeva che era troppo in alto per lei, ma sapeva anche che avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Così, quando Candy si alzò in punta di piedi cercando di infilare la stampella sul supporto di legno, lui la imprigionò col proprio corpo tra sé e il muro e le prese la gruccia dalle mani, procedendo al posto suo.

Respirando un po' affannati, si baciarono in quella stessa posizione, lei voltò di poco il viso raggiungendo le sue labbra poco sopra la spalla.

Albert non attese oltre e la prese in braccio come aveva fatto la sera prima, deponendola di nuovo sul loro letto.

Senza fretta, fece scendere le mani in carezze ardenti lungo l'asciugamano, poi lei si staccò, titubante. "Albert... c'è una cosa che... vorrei provare", disse con voce impacciata.

Lui si fermò, le scostò i capelli dal viso e la guardò intensamente, offuscato dal desiderio di lei: "Cosa, amore mio?". Stavano scoprendo entrambi nuovi orizzonti, ma era la prima volta che gli chiedeva qualcosa a voce e non con i gesti.

"Io... vorrei, ecco... provare a baciarti come... come ieri tu... hai fatto con me". Mentre faceva questa richiesta, arrossì così tanto che dovette nascondere il volto tra le mani.
Albert era perplesso e sbatté le palpebre. Si erano baciati tante volte in maniera profonda, anche da fidanzati, e non riusciva a capire cosa intendesse: "Vuoi dire così?", sussurrò catturando le sue labbra e cominciando a far vagare la lingua nella bocca di lei, facendola gemere dolcemente.

"No", rispose lei con voce soffocata, "adoro questi baci ma... mi riferivo a un altro tipo di bacio", concluse esitante, gli occhi ancora chiusi come se non riuscisse a guardarlo.
Il sangue gli salì in testa con una velocità tale che pensò gli si sarebbero rizzati i capelli. Se prima era immerso in quel momento dolce e teso che è il preludio dell'amore con la donna amata, ora sentiva mille campanelli di allarme suonargli nella mente.

"Candy, io non so se sia una cosa... giusta per una donna", subito dopo averlo detto si morse la lingua e capì il suo errore.

Candy si accigliò: "Ti pare così sconveniente? Come quando una donna decide di lavorare o di vivere da sola?".

Albert scosse la testa, cercando di spiegarsi: "No, sai benissimo che la tua libertà per me ha sempre contato tanto quanto la mia. Ho sempre assecondato ogni tuo desiderio di indipendenza perché in questo siamo uguali, io e te. Mi riferivo al fatto che... non so, mi sembra quasi di... profanare qualcosa di puro e... sto dicendo un mucchio di sciocchezze, non è così?", rise quando si rese conto che stava sorridendo anche lei.

Fu allora che Candy lo stupì e lo obbligò a ricorrere di nuovo a tutto il suo proverbiale autocontrollo, perché semplicemente pose una mano proprio sul soggetto del loro discorso, un po' meno esitante del giorno prima, accarezzandolo con gesti meno imbarazzati: "È sempre di una parte di te, Albert, e anche se sto morendo di vergogna, so che si tratta della tua pelle, della tua carne... e se posso renderti felice quando sei dentro di me, tanto quanto tu lo fai con me... non vedo perché non posso ricambiare un bacio così speciale come quello che mi hai riservato tu".

Prima che, boccheggiando come un pesce fuor d'acqua, potesse articolare una risposta, lei si stava già adoperando in quel bacio. Dalla gola uscì un inelegante rantolo contro la sua volontà e la testa divenne così pesante che dovette poggiarsi sulla testiera del letto.

Non era un semplice bacio, Candy stava facendo anche qualcos'altro con le mani, mimando quello che accadeva quando erano uniti e la bocca scivolò finché non ne avvertì la cavità umida che poco prima stava esplorando con la propria lingua. Era in continuo movimento intorno a lui, assaggiava, baciava...

"Candy fermati!", le gridò facendola misericordiosamente bloccare.

Con un verso strozzato si ritirò da lei, appena in tempo, dandole le spalle.

"Albert? Scusami, forse non dovevo...". Respirando pesantemente, rannicchiato su se stesso e ancora in preda a violenti spasmi, alzò una mano per chiederle di dargli solo qualche istante.

Quando infine tutto fu sotto controllo, si voltò a mezzo busto con un sorrisetto imbarazzato: "Ti ricordi cosa ti avevo detto ieri, quando mi stavi... accarezzando?" .

Lei sembrò pensarci un attimo, confusa, poi il rossore le salì di nuovo al viso e distolse lo sguardo: "Che volevi che accadesse... dentro di me", mormorò. "Mi dispiace", aggiunse con aria così colpevole che si diede dell'idiota.

"Candy, non prendertela, non è successo niente! Voglio dire... beh, in effetti qualcosa è successo ma...", non riuscì a impedirsi di ridere, perché la situazione aveva un innegabile lato comico. "Ma non è grave. Sospetto che faccia parte del gioco e non mi dispiacerebbe esplorare con te ognuno di questi lati sconosciuti. Hai detto tu stessa che siamo liberi, no?".

Candy annuì: "Siamo marito e moglie, non penso sia un peccato, vero?", chiese un po' più rilassata.

Albert si alzò e camminò verso il bagno, facendole l'occhiolino: "L'unico peccato è che adesso devo fare una doccia, ma possiamo sfruttare questo piccolo inconveniente a nostro favore".

Candy capì al volo: si alzò e lo seguì.
 
- § -
 
Annie si recò nella sala da tè dove sua madre e suo padre l'attendevano per presentarle degli amici comuni. Si costrinse a indossare uno dei suoi abiti più belli, aiutata dalla sua cameriera personale, lasciando persino che la truccasse.

"È proprio necessario?", protestò mentre la donna le incipriava le guance e il naso, facendole solo venire voglia di starnutire.

"Sono precisi ordini della signora. È davvero bellissima!", ribatté allontanandosi un po' e battendo le mani.

Ora il sospetto che dietro quell'incontro ci fosse qualcos'altro era diventato una certezza e, mentre si dirigeva con passi nervosi verso la stanza, non si curò neanche di provare a sorridere.

"Entra, cara, accomodati!", la salutò sua madre.

Ma gli occhi di Annie erano fissi sulle persone che erano intorno al tavolo, ove alcuni servitori si affaccendavano per versare la bevanda e servire vassoi di dolci. Accanto a suo padre sedeva un uomo di mezza età, con capelli e baffi bianchi e un completo nero molto elegante. Di fianco a lui c'era un ragazzo con i capelli scuri, pettinati all'indietro e impomatati con qualcosa come tre dita di brillantina, dei baffetti sottili che le ricordarono la brutta copia di quelli di George: il viso era troppo rotondo e giovane e l'effetto di quel look stonava decisamente con la sua figura fin troppo affettata.

Stringendo i pugni, salutò nel modo più educato possibile, accomodandosi accanto a sua madre e sentendo gli occhi scuri del ragazzo su di sé. Avrebbe voluto urlare e scappare via.

"Annie, questo è il signor Connor Taylor: siamo soci in affari e abbiamo fatto alcuni ottimi investimenti a Londra, durante uno dei miei ultimi viaggi", spiegò suo padre. L'uomo di fronte a lei si alzò per farle un elegante baciamano e lei si mise in piedi per permetterglielo. "E lui è suo figlio Jacob. Studia economia in una delle più prestigiose università di Londra, ma sta pensando di trasferirsi negli Stati Uniti per frequentare quella di Chicago".

Annie roteò gli occhi su di lui e tentò di trattenere il disgusto provocato dalle sue labbra sul dorso della mano. "Incantato, signorina Brighton. La sua bellezza mi porta a una decisione obbligata: sono certo che mi troverò benissimo nell'istituto di Chicago", disse con un sorrisetto che aveva una sfumatura persino lasciva.

Si rimise a sedere pulendosi discretamente il dorso della mano sull'abito e rispose: "Oh, la ringrazio molto, ma non dovrebbe prendere una decisione così importante con tanta leggerezza. Sa, anche il mio fidanzato studia all'università, ma nel Massachussets".

Il gelo calò nella stanza e, per qualche secondo, Annie poté avvertire solo il battito accelerato del proprio cuore nelle orecchie, il tintinnio di una tazzina che veniva posata e l'ansito mal trattenuto di sua madre.

"Ma Annie!", esclamò quest'ultima.

"Non avevo capito che la signorina fosse fidanzata", borbottò il signor Taylor.

"Non lo è più, infatti", disse subito freddamente suo padre, guardandola con occhi di ghiaccio. Uno sguardo che lei sostenne per qualche istante prima di abbassarlo. "Ma, sapete, il cuore di una fanciulla ha bisogno di tempo per abituarsi alla fine di un amore", disse rivolgendosi agli uomini con aria complice.

Lo sguardo successivo che incontrò fu quello di sua madre, e poi ancora quello di Jacob. Quest'ultimo prese un sorso dalla sua tazzina, quindi disse: "Ho letto dello scandalo che ha coinvolto gli Ardaly: davvero una brutta storia! Pare fosse coinvolto anche quell'Archibald Cornwell... era lui il suo fidanzato, non è vero?".

Annie strinse così forte i pugni sotto al tavolo che sentì le unghie affondare nella carne: "Sì, proprio lui. E lo scandalo è stato responsabilità dei Lagan: immagino avrà anche letto le dichiarazioni ufficiali che sono state fatte dal clan Ardlay successivamente". Il tono cercava di essere controllato, ma vibrava come la sua voce.

"Ma certo, conosco di fama quel clan scozzese, oggi è uno dei più potenti degli Stati Uniti", intervenne il padre di Jacob, lisciandosi i grossi baffi e posando la sua tazzina. "Mi pare che i figli di Lagan abbiano avuto una condanna ma, se non erro, una delle aziende che hanno usato nei loro loschi traffici era comunque di proprietà degli Ardlay".
Intervenne suo padre, mentre il respiro le diventava affannoso e la testa prendeva a girarle forte: "In effetti, anche se hanno dimostrato la loro innocenza, rimangono di sicuro una delle famiglie più controverse, pur essendo molto potenti. Il patriarca è sempre stato un uomo con un estro e un senso di libertà molto accentuati e spesso ha trascinato con sé anche il resto dei membri. Non dubito che la sua decisione di non ritirare le quote da quella distilleria abbia avuto una qualche ragione sentimentale, che però ha contribuito a creare una zona d'ombra sulla loro reputazione".

"Come puoi parlare così di Albert?", scattò su Annie prima di poterselo impedire, facendo scostare rumorosamente la sedia. Otto paia d'occhi la guardarono esterrefatti, cui si aggiunsero quelli delle cameriere: "William Albert Ardlay e Archibald Cornwell sono stati raggirati da una famiglia senza scrupoli e senza particolari legami di sangue con il clan e la loro unica colpa è stata voler sostenere una famiglia rimasta senza lavoro nel profondo sud dell'America!".

"Annie, siediti, per favore!", tuonò suo padre.

Si trovava a un bivio: da un lato l'obbedienza, dall'altro la ribellione. Ricordò quando i Brighton erano giunti alla Casa di Pony, con l'intento di adottare Candy. Anche in quel caso era stata un ripiego perché la sua sorella adottiva non voleva andarsene? In realtà, sua madre le aveva ripetuto più volte che aveva preferito sin da subito il suo carattere più pacato e remissivo.

E, infatti, avevano cercato in tutti i modi di plasmarla, di renderla una vera signora quasi senza una volontà propria. Tutto questo, ora, le si stava ritorcendo contro: il cambiamento era iniziato quando aveva deciso di lasciare Archie e si sarebbe concluso, ancora una volta, con lui.

Sedette al suo posto, senza più dire nulla, imponendosi di non ascoltare le scuse affettate di sua madre e i commenti caustici degli uomini.

Il tè di quel pomeriggio era irrimediabilmente avvelenato e lei ne stava già subendo gli effetti.
 
- § -
 
Elroy Ardlay si godeva gli ultimi scampoli di quel sole di fine estate sulla terrazza della villa di Chicago, ripensando alla festa di matrimonio del giorno prima come a uno dei momenti più insoliti della sua intera vita.

Sperava solo che i giornali si astenessero dal fare commenti poco gentili sul bizzarro patriarca che, come ultimo atto della sua vita di stranezze, si era sposato in un orfanotrofio inchinandosi persino davanti alle donne che avevano allevato sua moglie.

Fece un respiro profondo, accomodandosi sulla poltrona che aveva fatto predisporre con orientamento a occidente per beneficiare dei raggi del tramonto e sperò che nessuno avesse assistito al suo arrivo in quella Casa di Pony: non sarebbe stato carino se avessero sparlato della matriarca degli Ardlay che si nascondeva dietro il proprio autista perché era stata attaccata da un cane San Bernardo.

"Si chiama Mina, è il cane che Candy ha adottato quando il suo padrone è morto. L'aveva assistito lei, pensando inizialmente che si trattasse dello zio William: era un uomo molto solo", aveva raccontato il nipote accucciandosi per accarezzare la bestia e facendosi leccare una mano.

"William, per l'amor del Cielo! Ti insudicerai tutto il kilt!", aveva protestato lei sporgendosi da dietro la schiena dell'uomo, indignata fino all'inverosimile.
Lui si era stretto nelle spalle e si era rialzato, poi erano arrivati i bambini e le era tornato il mal di testa.

Il resto della cerimonia era stato una specie di strano sogno, nel quale si era trovata costantemente in bilico tra l'indignazione e lo stupore per il genuino divertimento degli invitati, nonostante il luogo poco ortodosso.

Aveva visto la gioia più pura negli occhi di William e la devozione e l'amore in quelli di Candice: non c'era alcun dubbio che fossero fatti l'uno per l'altra, ma la strada per l'accettazione, da parte sua, era ancora in salita.

Certo, Candice era elegante, se voleva educata e persino aggraziata, ma sarebbe stata in grado di gestire una casa e degli affari delicati come quelli del loro clan? In quel preciso momento, a parte l'evidente anzianità che giocava in suo favore, quale moglie del patriarca aveva persino più potere di lei stessa.

"William, fratello mio, dammi la forza", implorò stringendo gli occhi e sentendosi d'improvviso sola. Ripensò alle parole del nipote, quando le aveva parlato di pronipotini che avrebbe certamente amato.

Aprendo gli occhi sul tramonto che la inondava quasi bagnandola con la sua luce aranciata, Elroy cominciò a sperare, sempre più ardentemente, che i piccoli eredi arrivassero presto ad allietare gli ultimi anni della sua vita.

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Capitolo 83
*** Imprevisti ***


E ora che ne sarà del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla.
Un imprevisto è la sola speranza.
Ma mi dicono ch’è una stoltezza dirselo.

(Eugenio Montale)

***
La vita è sempre trionfo dell’improbabile e miracolo dell’imprevisto.
(Henri de Lubac)
 

Imprevisti

Karen afferrò i bordi del water e la testa scattò in avanti quando il primo conato la raggiunse, trasmettendole un sapore acido su per la gola. Il disgusto fu tanto che bastò un altro conato perché la colazione finisse lì dentro.

Imprecando tra i denti, attese che quell'incombenza ripugnante terminasse il suo corso e la facesse di nuovo respirare normalmente, quindi si tirò indietro i capelli con una mano e andò al lavabo del bagno per sciacquarsi la bocca e il viso. Si guardò allo specchio e vide guance pallide e occhi cerchiati.

Era la terza mattina che vomitava l'anima, ma non aveva detto niente a Terry. Se i suoi sospetti erano fondati, erano nei guai entrambi. In grossi guai.

Cosa mi è venuto in mente di nasconderci allegramente tra gli alberi, quella sera? Pensavo forse che non sarebbe bastata una singola svista perché accadesse?

Doveva andare subito dal medico e avere conferma, allora... allora cosa avrebbe fatto? Sarebbe scappata nell'Europa dell'Est, dove sapeva che certe pratiche erano state legalizzate? Rabbrividì al solo pensiero. No, non era certo lei tipo da fare scelte simili, soprattutto nella sua situazione sentimentale attuale.

Mentre si tamponava il viso umido con un asciugamano e tornava nella sua stanza, Karen immaginò tutti gli scenari possibili: la tournée sarebbe andata a monte oppure Terence sarebbe partito con un'altra attrice, proprio poco dopo averla sposata.

Che ironia, io ho rimpiazzato Susanna quando le accadde l'incidente e ora qualcuno mi deve rimpiazzare per un altro tipo d'incidente...

Era un paragone azzardato, ma rendeva l'idea. Aveva sognato a lungo di lavorare con Terence come sua moglie, tornare a casa o in albergo insieme dopo il teatro essendo una coppia davanti alla legge e a Dio.

E tutto era sfumato a causa della loro poca attenzione. Sì, perché l'idea era stata sua, ma la scappatella sotto l'albero l'avevano fatta in due.

E meno male che volevo insegnare qualcosa a Candy! Lei, almeno, era in abito bianco. Io non potrò indossare neanche quello.

Tutto a un tratto, la portata di quella probabilità, con tutte le sue implicazioni, le si rovesciò addosso come un'ondata e Karen crollò a sedere sul letto con le mani sul viso, cominciando a singhiozzare. Aveva appuntamento col medico entro un'ora, con Terence entro due e con le prove in teatro quasi subito dopo.

Le dita si contrassero, allontanò le mani dal voltò ed emise un grido. Liberatorio, frustrato.

Stai raccogliendo ciò che hai seminato. Anzi, ciò che avete piacevolmente seminato.

La sua carriera era rovinata. Robert avrebbe avuto un infarto fulminante e Terence... Terence non sapeva come avrebbe reagito. Non avevano mai parlato di figli, non per l'immediato futuro, perlomeno: avevano ancora molti anni di carriera davanti e lo stop sarebbe dovuto essere programmato.

Invece, ora, si trovava quasi certamente incinta alla vigilia del suo matrimonio e di una delle più importanti tournée della sua vita.

Con un gesto stanco si alzò e appoggiò una mano sul muro, dove era appeso un calendario: lo sfogliò, lo studiò come se avesse una dannata risposta e, nonostante già sapesse la verità, si ritrovò a sperare in un'intossicazione alimentare coi fiocchi.
 
- § -
 
Candy entrò nella cucina di Lakewood attirata dai profumi di ciò che Albert stava preparando: uno dei suoi splendidi arrosti, una zuppa e qualcosa di dolce che cuoceva nel forno.

Lui era piegato proprio lì, sbirciandone probabilmente la cottura, e Candy, ancora una volta, si sorprese di quanto il loro rapporto si fosse evoluto in pochi giorni di matrimonio: non credeva che la loro intesa mentale, la loro sinergia perfetta, sarebbe stata anche fisica fino a quei livelli.

Arrossì fissando il tavolo occupato per metà da ciotole e stoviglie. La sera prima lui l'aveva amata lì sopra, con le mani ancora sporche di farina, e lei aveva giocato con la marmellata di mirtilli spalmandogliela sul torace, prima di darsi a un piacevole assaggio. E per fortuna che avevano avuto cura di spegnere i fornelli o la villa di Lakewood avrebbe di certo preso fuoco insieme a loro. E non in senso figurato.

Era stato tutto breve ma intenso, frutto di un'urgenza esacerbata dal desiderio di ribadire quanto si appartenessero l'un l'altra ovunque e in qualunque occasione.

Dopo averla tenuta fra le braccia con immensa dolcezza, Albert le aveva chiesto all'orecchio dove le sarebbe piaciuto intrattenersi con lui la volta successiva e lei aveva riso, scandalizzata: "Ma, Albert, pensavo che avessimo già superato i limiti della decenza! Certe cose non dovrebbero essere confinate in una camera da letto?".

Le aveva fatto un occhiolino: "Prima cosa: noi siamo al di fuori degli schemi convenzionali; seconda cosa, siamo completamente soli; terza cosa: voglio farti mia in ogni angolo del mondo", finì per sussurrarle all'orecchio con una sensualità tale che si era sentita di nuovo sciogliere le viscere.

Non credeva che Albert avesse quel lato così irresistibile e avevano convenuto che entrambi lo avevano scoperto insieme. Era una complicità così profonda, proprio perché basata su un sentimento tanto imponente, da renderli davvero completi.

Candy si sorprese a fissare la schiena di Albert fin giù, alle natiche ben definite sulle quali non si era mai soffermata tanto in vita sua, e sentì il fuoco salirle al volto.
"Ti piace il panorama?", chiese lui all'improvviso, guardandola da sopra una spalla.

"Io... io... volevo solo aiutarti!", balbettò impacciata.

Lui rovesciò la testa all'indietro e rise, rise come solo Albert sapeva ridere, con quella spensieratezza da ragazzino affascinante che era come una calamita per lei. Gli si avvicinò e si baciarono senza indugi.

"Vuoi davvero aiutarmi?", le chiese lui con voce calda, uno sguardo così intenso negli occhi che si sentì bruciare il viso, il collo, l'intero corpo.

"S-sì", rispose colma di aspettativa.

"Bene", riprese con un sorrisetto, passandole una mano tra i capelli e facendola scivolare con lentezza esasperante fino alla nuca, posandole la fronte sulla propria: "Hai mai fatto la maionese?".

Candy, che era già con gli occhi chiusi e il respiro corto, riuscì solo ad emettere uno stupido: "Eh?", spalancandoli come se l'avessero appena buttata giù dal letto durante un sogno meraviglioso.

Albert si scostò da lei per guardarla: "Sì, una maionese. Sai? Tuorli d'uovo, olio e...".

"So cos'è una maionese, cosa credi?", ribatté lei altezzosa, alzando il naso all'insù come avrebbe fatto Eliza e allontanandolo da sé con una piccola spinta.

"Bene, allora apri il frigo, dovrebbero esserci delle uova", disse lui con fare pratico, afferrando un mestolo per mescolare il contenuto della pentola sul fuoco. "Olio e aceto sono sulla mensola vicino alla finestra".

Mentre si metteva al lavoro e cercava un cucchiaio per sbattere energicamente il composto, Candy guardò proprio da quella finestra. Tempo prima, avevano assistito alla furia della natura attraverso quei vetri e lei era tormentata da sentimenti che cozzavano l'uno con l'altro.

Di nuovo, si ritrovò a pensare a quanto avessero sofferto, specialmente Albert che aveva piena coscienza di cosa stesse accadendo a loro due.

La sua voce alle proprie spalle la riportò coi piedi per terra: "Ieri mi stavi raccontando qualcosa a proposito di Karen e Terence, vero?".

Mentre combatteva con le uova per dividere i rossi dai tuorli senza far finire nel recipiente anche il guscio, Candy rispose: "Sì, ma ora mi rendo conto che forse non dovevo".

Lui rise di nuovo: "Dai, non dirmi che ti senti a disagio a parlarmi di queste cose! Non eri forse divertita all'idea di loro che tornavano alla nostra festa di fidanzamento con le foglie e i rametti tra i capelli?".

"Sono cose private, mi hai fatto solo bere troppo vino a cena!", ribatté piccata, vergognandosi per aver sciolto la lingua in quel modo. E non solo quella, pensò ricordando la loro performance di poco dopo.

L'alito caldo di Albert nell'orecchiò la fece sobbalzare e per poco non lanciò in aria la ciotola con i tuorli: "È che pensavo a quanto tu invece ami arrampicarti sugli alberi...".

"Ma Albert!", gridò lei più rossa dei tuorli stessi, facendolo ancora ridere di cuore.

Eppure, mentre si destreggiavano fra maionese impazzita e arrosto bruciacchiato per la distrazione, Candy pensò che non si era mai sentita così libera in vita sua.
 
- § -
 
Archie chiuse la valigia e rimase per un attimo con le mani poggiate sopra, la schiena china e i capelli che gli ricadevano davanti al viso.

L'addio ad Annie, la sera prima al telefono, era stato straziante. Si erano promessi che si sarebbero scritti e sentiti all'apparecchio, che si sarebbero... tenuti in contatto.
Proprio come due conoscenti e non come due fidanzati che erano stati a un passo dall'altare.

Avvertendo il dolore immenso di lei, era stato proprio Archie a fare un passo indietro, cercando di mostrarsi freddo e tranquillo, ma quando aveva riattaccato la mano con cui teneva la cornetta fino a pochi secondi prima bruciava come il fuoco.

Sapeva che, molto probabilmente, fra loro era appena finita e non poteva farci niente. I Brighton non avrebbero permesso alla loro unica figlia di rendersi ridicola tornando con un uomo che lei stessa aveva lasciato, men che meno con uno che, pur di buona famiglia, era stato in galera.

Non c'era nulla che potesse cambiare quella realtà.

Si raddrizzò, passandosi le dita fra i capelli in un gesto nervoso. Serviva a qualcosa recriminare ancora sugli errori del passato? Struggersi e infliggersi altra sofferenza e sensi di colpa?

L'errore era stato fatto. Da lui, da Annie, da entrambi.

Una lacrima gli bruciò nell'occhio, si raccolse appannandogli la vista e scese sulla guancia tracciando una linea di confine fra il passato e il futuro. Un futuro senza Annie, senza l'unica donna che avesse mai amato veramente, che non avrebbe mai tenuto fra le braccia.

"Sii felice, Annie", mormorò alla stanza vuota, accingendosi a prendere in mano una valigia che pesava in maniera intollerabile, rifiutando l'aiuto di servitori da cui non voleva farsi veder piangere.

Mai il futuro gli era parso così oscuro. Neanche in prigione, dove una luce di nome Annie lo aveva illuminato con i raggi intensi della speranza.
 
- § -
 
Terence squadrò Karen e capì subito che qualcosa non andava in lei. Si era seduta al tavolo e si torceva le mani come se avesse sulle labbra qualcosa da dire e non trovasse il coraggio di farlo.

"Ehi, cosa è successo?", le domandò. Era pallida e sembrava trattenere a stento le lacrime. Terence sentì un brivido gelido lungo la schiena. Per un attimo, ebbe una reminiscenza di quando Candy lo aveva lasciato e si ritrovò a temere che Karen facesse lo stesso. Non l'avrebbe sopportato, non stavolta.

"Io... Terence, mi dispiace. Credo che non potrò partire per la tournée, dovrò abbandonare la recitazione per un periodo... piuttosto lungo", esordì lei mozzandogli il respiro.

Non aveva detto che non lo avrebbe sposato, ma che non avrebbe recitato. L'iniziale sollievo fu sostituito da una sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco: "Karen... sei malata?", domandò d'impulso, ma in quel preciso istante arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni. "Può darci qualche altro minuto, per favore?", gli chiese, nervoso.

"Avrei bisogno di un bicchiere d'acqua, per cortesia". Si diede dello stupido: forse avrebbe dovuto pensarci lui. Gli parve che ora la fidanzata stesse persino sudando. Quando l'uomo tornò col bicchiere, lo bevve d'un fiato come fosse un whisky col quale volesse stordirsi.

Quello servirebbe a me...

Allungò un braccio per posarle una mano sulla fronte, certo che avesse la febbre, ma lei scosse la testa, allontanandolo con delicatezza: "Non sono malata, Terence. Sono incinta".

La consapevolezza di quelle parole lo avvolse lentamente. Dapprima, Terence aggrottò le sopracciglia come se non capisse, poi spalancò gli occhi per lo stupore, quindi frugò nella sua mente alla ricerca del dove e del quando una cosa del genere potesse essere accaduta.

In realtà, c'era stata più di un'occasione in cui la passione aveva preso il sopravvento sulla ragione, ma gliene venne in mente una in particolare ed era certo di non sbagliarsi.

Galeotta fu la festa di fidanzamento tra Candy e Albert.

L'ironia, però, non fu sufficiente a farlo sentire meglio e, teso come una corda di violino, disse tra i denti: "Usciamo di qui". Ci sarebbe solo mancato che qualcuno li riconoscesse e ascoltasse i loro discorsi.

Karen si lasciò condurre fuori, aggrappandosi al suo braccio come se temesse di cadere. Lui la sorresse forte, conducendola in un parco adiacente dove, all'ombra di un albero e seduti su una panchina, rimasero in silenzio per lunghi minuti.

"È stato quella sera, vero?", chiese guardando davanti a sé e desiderando ardentemente una sigaretta che non aveva. Pensò addirittura di andarsene a procurare qualcuna, ma di quei tempi era davvero una pessima idea, proprio come avere delle quote ancora investite in una distilleria...

"Non posso saperlo con certezza, ma credo di sì. Il periodo coincide", mormorò lei a testa china, le mani strette sulla gonna.

Fu allora che Terence si accorse di non averle fatto la domanda più importante: "Sei stata da un medico? Come stai... state?". Era così strano parlare al plurale! Immaginare che nel ventre di Karen si stesse formando una piccola vita proprio in quei momenti, di nascosto ai loro occhi...

"Il dottore mi ha visitata poco fa. Dice che è tutto nella norma", disse alzando gli occhi su di lui e rivolgendogli un timido sorriso, per poi aggiungere: "Terry, mi dispiace".

"E di cosa?", le domandò, conscio del fatto che si trattasse di una responsabilità condivisa.

"Io... mi sono comportata come una sciocca, quella sera. Non so perché l'ho fatto", mormorò.

Terence, nonostante il turbine di emozioni contrastanti che lo sommergevano, rimase stupefatto: da quando in qua Karen si scusava per una cosa simile? Doveva davvero essere sconvolta per assumersi un carico simile sulle spalle da sola.

"Io penso che tu l'abbia fatto per un motivo ben preciso", cominciò guardandola seriamente. Quando la vide socchiudere la bocca come a chiedergli qualcosa che non capiva, aggiunse: "È perché sono irresistibile", terminò riavviandosi i capelli in un gesto affascinante.

Karen si mise a ridere: "Stupido!", lo rimbeccò dandogli una leggera spinta. Almeno aveva spezzato un poco la tensione e l'aveva fatta ridere.

Ciò non toglieva che erano in un guaio di dimensioni epiche. Che avrebbero detto a Robert? Che ne sarebbe stato della tournèe e del contratto che avevano firmato? Cosa avrebbero scritto i giornali?

Il panico iniziò ad avvolgerlo e sudore freddo a scendergli dalle tempie. Era stato così preoccupato di tranquillizzare lei che adesso era lui ad aver bisogno di rassicurazioni.

"E comunque potevi stare più attento", disse lei d'improvviso, strappandolo dai suoi pensieri.

"Cosa?", fece Terence sbattendo le palpebre, incredulo. Non che avesse torto, ma...

"Hai sentito bene, io ti avrò provocato ma tu non hai fatto attenzione".

"Santo Dio, Karen, eravamo appoggiati a un albero, al buio e con i vestiti arrotolati addosso, cosa pretendi?".

"E non è stata nemmeno la prima volta!", continuò lei con l'espressione a metà tra il serio e il faceto. Pareva che avesse ripreso il suo vecchio smalto e ora desiderasse solo prenderlo in giro. "Devo ricordarti anche la volta sotto la doccia o nel camerino del teatro?".

"Va bene, va bene, ho capito! Ti ricordo che non ero da solo, mia cara, e non è che tu mi abbia dato tutto il tempo di... Ma adesso che fai, piangi?". Dove aveva letto che le donne in gravidanza passavano da un estremo all'altro in poco tempo?

Così, però, era troppo persino per lei. Un secondo prima aveva menzionato la loro performance nel camerino del teatro, di gran lunga più soddisfacente di quella recitata sul palco, quello dopo nascondeva il viso tra le mani e singhiozzava.

"Karen", mormorò stringendola a sé e cullandola. Forse era stata proprio la menzione del teatro a farla crollare definitivamente.

"Cosa faremo, adesso, Terence? Cosa faremo?", chiese, soffocata nel suo abbraccio.

"Ssst... andrà tutto bene", disse a bassa voce, baciandole i capelli, tentando disperatamente di riordinare i pensieri.

Se solo avesse potuto crederci anche lui...
 
- § -
 
Le labbra scesero sul collo morbido, gustando il sapore dolce della pelle di Candy che, con le braccia allacciate intorno alle spalle e le gambe intrecciate sui suoi fianchi, glielo offriva con gioioso abbandono.

La teneva saldamente per la vita con il braccio destro, mentre col sinistro si puntellava sul legno solido del tronco.

E ardeva, Albert, ardeva e si consumava contro il corpo di Candy, come se non si fossero già amati solo una manciata di ore prima.

"Albert", la sua era un preghiera e per lui non c'era nulla di più sublime che assecondarla, dannato e in Paradiso al contempo, trascinandola con sé lungo quel sentiero che nulla aveva di peccaminoso se non godersi ogni singolo respiro, ogni singolo gemito, ogni singolo bacio, oppure quel contatto così profondo che non era mai abbastanza profondo, che voleva essere una fusione fin nell'anima.

Che, in realtà, lo era da sempre.

La gloria e il brivido li scossero in un unico richiamo disperato uno dell'altra e le gambe gli cedettero. Ma non smise di muoversi contro di lei, neanche mentre cadeva in ginocchio stringendola più forte perché lo seguisse fin sull'erba, imprigionata fra lui e quella quercia immersa nella vegetazione, dove alfine avevano deciso di dare vita a quel malizioso intento su cui avevano solo apparentemente scherzato.   

Lei si era arrampicata con la sua solita agilità, spostandosi da un ramo all'altro proprio come una scimmietta. Era di nuovo la sua Candy, aveva pensato commosso, e si era affrettato a raggiungerla in poche mosse. Era riuscito a catturarla, a stringerla a sé, mentre lei rideva divertita, ripetendogli che no, non era proprio il caso di fare gli amanti equilibristi.

Allora erano tornati al piano originario, ma prima si era adoperato per adorarla il più possibile sospeso al ramo più basso, tra terra e cielo. Quando erano stati a un passo dall'impazzire l'aveva semplicemente aiutata a scendere e non avevano perso tempo.

Erano soli, erano sposati, erano vivi e felici. In quei luoghi avevano conosciuto tante gioie e qualche dolore. Ora sarebbe diventato il loro Eden.

"Stai bene?", le domandò scostandole i capelli dalla fronte, con un braccio poggiato a terra e l'altro che ancora la stringeva per la vita.

"E me lo chiedi anche? Ti rendi conto che abbiamo ancora i vestiti addosso?", chiese lei ridacchiando.

"Mi pare che anche in cucina non ti sia dispiaciuto. E non mi riferisco a quando hai fatto la maionese per l'arrosto".

La sua risata cristallina riempì l'aria e lui la imitò. Si ricomposero in fretta e Albert si alzò in piedi, tendendole una mano: "Facciamo una passeggiata?", propose.

La capanna, il fiume, la buffa barchetta di Stair, tutto sembrava diverso con Candy al suo fianco. Era come ridipingere un quadro sbiadito con colori brillanti dove c'erano solo risate, baci e speranza.

Quando rientrarono a casa, Albert tirò fuori il grammofono, spolverandolo con cura prima di scegliere alcuni dischi jazz e di musica classica. Ballò con lei nel salone di Lakewood: senza ospiti, senza spettatori, senza regole. Durante un cambio di disco, Albert si ritrovò a fissare una copertina, incuriosito.

"Candy, hai mai ballato il tango?", le chiese togliendolo dalla custodia.

"Direi proprio di no", rise, "ma so che è un ballo del sud che... uhm... non è visto molto di buon occhio nell'alta società".

Albert tirò su le spalle con noncuranza: "Beh, qui ci siamo solo noi due. Vogliamo fare una prova? Se non ricordo male basta stare molto, molto stretti", le disse facendole l'occhiolino.

Candy sorrise, un leggero rossore le imporporò le guance e, alle prime note, Albert la strinse proprio come promesso.

Danzarono, impacciati e divertiti dalla loro stessa incapacità, trascinati dal ritmo, improvvisando passi e casquet, volteggiando fino a farsi girare la testa. Quando la musica finì, salirono nella loro stanza mano nella mano. 
 
- § -
 
Si strinse le mani l'una contro l'altra, guardando fuori dalla finestra come se fosse in bilico tra il gettarsi di sotto e il non farlo.

Annie dondolava con tutti i muscoli del corpo tesi, scrutando nella sera appena nata come se potesse scorgere un segnale nella prima stella o in quella luna pallida che si mostrava sfacciata nonostante i raggi del sole illuminassero ancora parzialmente l'orizzonte.

"Non voglio separarmi da lui! Vi ho capiti, sapete? Non mi farete sposare Archie neanche quando tornerà laureato e con una posizione!", gridò Annie davanti ai volti esterrefatti dei suoi genitori. Non aveva atteso neanche che la servitù finisse di ritirare i piatti dalla tavola, cercando un minimo di privacy.

"Annie Brighton!", l'apostrofò sua madre scattando in piedi, pallida e con le labbra contratte. "Non mi sembra di averti educata così! Cos'è questa piazzata mentre ancora non siamo arrivati al dolce?".

Lei l'aveva semplicemente ignorata, chiudendo gli occhi e cercando lo sguardo di suo padre: "Non voglio sposare quel Jacob!", pregò.

L'uomo si limitò a fissarla con sguardo gelido: "Calmati, figliola, non ti obbligherò a sposare Jacob se non è di tuo gradimento, anche se lo riterrei per te il partito migliore. Conoscerai altri giovani degni di...".

"No!", lo interruppe lei sull'orlo dell'esasperazione. "Voglio decidere io chi sposare, non potete farlo per me!".

I due la guardarono come se avessero davanti la vittima di una possessione satanica e una fitta di senso di colpa le artigliò lo stomaco. Non era più la giovane Annie remissiva, ma neanche la Candy vivace e ribelle: era una specie di furia della natura e stava decisamente perdendo il controllo delle sue emozioni.

Spaventata, eccitata, incuriosita e atterrita da quella nuova se stessa tornata a tutta forza dopo un periodo di apparente calma, si aspettò e ricevette lo schiaffo di sua madre. Pensava che suo padre l'avrebbe raggiunta prima: avevano dato vita a una specie di gara ridicola avvicinandola a grandi passi nello stesso momento.

"Ragazzina ingrata", le sibilò la donna, gli occhi lucidi di lacrime e la pelle terrea.

Quella frase la riportò coi piedi per terra e la rabbia scemò, lasciandola tremante di adrenalina. Incapace di sostenere gli occhi delusi, stupiti e persino spaventati dei suoi genitori, Annie chinò la testa. Ma fu con tono deciso che disse: "Voi mi avete adottata e mi avete cresciuta come una figlia. Non vi potrò mai esprimere la gratitudine e l'amore che provo per voi, anche se ora non sembra. Ma non vi posso permettere di decidere della mia vita o di farmi sposare qualcuno che non amo. Preferisco ritirarmi in convento, piuttosto!".

La madre si portò la mano alle labbra soffocando un urletto, grosse lacrime si staccarono dai suoi occhi perfettamente truccati. Suo padre la prese per le spalle, consolandola.

Poi la guardò in modo non dissimile da poco prima: "Sei stata fidanzata a lungo con Archie Cornwell e hai deciso spontaneamente di allontanarti da lui. All'inizio io e tua madre abbiamo pensato che fosse un problema momentaneo, ma poi abbiamo discusso e convenuto che sia stato meglio così. Quel ragazzo fa parte del clan degli Ardlay, di certo uno dei più potenti, ma che ha anche i membri dal carattere più controverso che si sia mai visto in una famiglia di quel lignaggio. Ne è un esempio proprio il patriarca, che ha adottato e poi sposato la sua stessa protetta, una ragazza che se avessimo adottato al posto tuo non sarebbe certo andata in giro a fare l'infermiera", disse con un certo disprezzo che la ferì. "E tutte le sue decisioni, di cui l'ultima goccia è stata quella di lasciare le sue quote in una distilleria in questo momento storico! Non mi stupisce che abbia trascinato nel suo errore anche Archibald. E ti ricordo che gli stessi Lagan facevano parte del clan prima che li escludessero: l'unica decisione sensata che abbia mai preso William Ardlay!".

Annie ascoltava suo padre unendo finalmente tutti i tasselli del mosaico. Non era solo perché Archie era stato in galera o si erano già lasciati una volta: i suoi genitori temevano che in quella famiglia ci fosse una specie di tara che induceva i suoi componenti a comportarsi in maniera anomala.

Gli stava per raccontare quanto i Lagan fossero marci dentro fin da ragazzini, come Candy si fosse sempre comportata in modo molto più umano di loro pur essendo una ribelle e in che modo Albert fosse cresciuto per desiderare tanto la libertà. Ma era certa che a suo padre non sarebbe importato molto e, forse, tante di quelle cose le sapeva già.

Aveva perso, anche l'ultimo tentativo di ribellione era andato a vuoto.

"Sapevo che stare a contatto con quella Candy e la sua famiglia prima o poi l'avrebbe cambiata! Da piccola era così dolce e remissiva!", pianse sua madre appoggiandosi al marito, disperata come se stesse parlando di una figlia morta.

"Vai in camera tua. Hai fatto piangere tua madre e mi hai fatto infuriare come non mi era mai capitato in vita mia. Ne avevamo già parlato a sufficienza e stasera hai superato il limite. Essere diventata maggiorenne non ti da il diritto di trattare così la famiglia che ti ha dato una casa e una posizione. Vai e rifletti sui tuoi errori, figlia. Ne riparleremo tra qualche giorno".

Era l'epilogo. Annie s'inchinò come uscendo dal palco di un teatro, la conversazione a tavola cominciata con toni pacati che si era appena trasformata in una grottesca tragedia familiare.

Spalancò gli occhi di scatto. E, in quella sera di fine estate, Annie Brighton prese la sua decisione definitiva.

Ci aveva provato davvero a ragionare con i suoi genitori, pensò aprendo lentamente la porta finestra e facendo alcuni passi esitanti sul balconcino del secondo piano della sua bella stanza piena di bei vestiti e mobili sfarzosi.

Ma non era servito a nulla perché la sua felicità era altrove, a qualche miglio da lei, e si stava allontanando con un'automobile che l'avrebbe portata ancora più lontana.
Sorrise, allargò le braccia e chiuse gli occhi respirando forte.

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Capitolo 84
*** Fuori dall'eclissi ***


Every now and then I get a little bit lonely
And you're never coming 'round
(Turn around) every now and then I get a little bit tired
Of listening to the sound of my tears
(Turn around) every now and then I get a little bit nervous
That the best of all the years have gone by
(Turn around) every now and then I get a little bit terrified
And then I see the look in your eyes
(Turn around, bright eyes) every now and then I fall apart
(Turn around, bright eyes) every now and then I fall apart

And I need you now tonight
And I need you more than ever
And if you only hold me tight
We'll be holding on forever
And we'll only be making it right
'Cause we'll never be wrong
Together we can take it to the end of the line
Your love is like a shadow on me all of the time (all of the time)
I don't know what to do and I'm always in the dark
We're living in a powder keg and giving off sparks
I really need you tonight
Forever's gonna start tonight
Forever's gonna start tonight

Once upon a time I was falling in love
But now I'm only falling apart
There's nothing I can do
A total eclipse of the heart
Once upon a time there was light in my life
But now there's only love in the dark
Nothing I can say
A total eclipse of the heart


***
Ogni tanto mi sento un po' sola
E tu non vieni mai a trovarmi
(Girati) ogni tanto sono un po' stanca
Di ascoltare il suono delle mie lacrime
(Girati) ogni tanto sono un po' nervosa
Che il meglio di tutti gli anni sia passato
(Girati) ogni tanto sono un po' terrorizzata
E poi vedo lo sguardo nei tuoi occhi
(Girati, occhi luminosi) ogni tanto crollo
E ho bisogno di te ora stasera
E ho bisogno di te più che mai
E se solo mi stringi forte
Ci aggrapperemo per sempre
E faremo solo la cosa giusta
Perché non sbaglieremo mai
Insieme possiamo arrivare al capolinea
Il tuo amore è come un'ombra su di me tutto il tempo
Non so cosa fare e sono sempre al buio
Viviamo in una polveriera e facciamo scintille
Ho davvero bisogno di te stasera
Stanotte comincerà l'eternità
Stanotte comincerà l'eternità
Una volta mi stavo innamorando
Ma ora sto solo cadendo a pezzi
Non c'è niente che io possa fare
Un'eclissi totale del cuore
Una volta c'era luce nella mia vita
Ma ora c'è solo amore nel buio
Niente che io possa dire
Un'eclissi totale del cuore
 
 (Total eclipse of the heart - Bonnie Tyler)
 
 
Fuori dall'eclissi

"Albert, mi hai mai odiata per come mi comportavo?", mormorò Candy nella penombra della stanza, la mano pigramente posata sul suo torace dove c'era solo una leggera peluria chiara e quasi invisibile.

Le dita, che le stavano sfiorando il braccio nudo dall'alto in basso, con una lentezza che le faceva venire la pelle d'oca, smise il suo movimento di colpo e suo marito volse il capo verso di lei. L'altro braccio la strinse ancora di più: "Come ti viene in mente una cosa simile?", chiese aggrottando le sopracciglia.

"Sono stata odiosa. Ogni tanto mi vengono in mente delle scene, dei momenti... e, anche se so che ne abbiamo parlato tante volte, continuo a sentirmi così in colpa", ammise respirando intensamente il profumo della sua pelle, sulla quale un leggero strato di sudore inebriava i suoi sensi con un sentore di muschio e legno affatto sgradevole.

Albert riprese il movimento sul suo braccio con l'intera mano, ma non rispose. Candy, che stava ormai scivolando nel sonno, pensò che non avrebbe più risposto. Invece, nel silenzio della stanza interrotto solo da qualche grillo fuori dalla finestra, udì la sua voce bassa e un po' roca.

"Ci sono stati dei momenti in cui ho odiato me stesso, piuttosto. Non mi ero mai sentito così vulnerabile come quando ho pensato di averti perso: ho vissuto per tanto tempo in un limbo che nemmeno alla morte di mio padre, di mia sorella e quando ho perso la memoria ho mai conosciuto. Anzi, quell'ultimo periodo forse è stato uno dei più felici della mia vita. Sentirti così distante, così fredda, comprendere quanto tu mi detestassi mi rendeva... debole, come se avessi perso uno dei capisaldi della mia vita. E non potevo accettarlo, perché ho sempre contato su me stesso e su nessun altro, neanche sul mio nome, tanto più che per la maggior parte del tempo ho vissuto come un vagabondo. Amarti mi ha aperto il cuore. In ogni senso", ridacchiò, come se fosse a disagio, "e ho scoperto parti di me che pensavo fossero nuove, ma in realtà erano rimaste sepolte da anni di limitazioni. Ho dovuto cercare di rialzarmi laddove volevo solo lasciarmi travolgere dalla vita e non accettavo che proprio io, William Albert, mi fossi ridotto così".

"Oh, Albert... mi dispiace tanto...", gli disse baciandolo sulla cicatrice che aveva sul torace. Non poteva credere che lo stesso uomo che aveva affrontato un leone stesse rischiando di soccombere a causa sua.

"Non è colpa tua, Candy. La colpa è mia, che credevo di essere un uomo forte e quasi invincibile: in realtà tu lo sei stata molto più di me", continuò voltandosi verso di lei per sorriderle, sciogliendole le viscere solo con quel gesto, come tutte le volte.

"Io? Ma se ero sempre a piangere fra le tue braccia e nelle tue lettere mi firmavo 'Candy la piagnucolona'!", protestò.

Lui rise piano: "Ma piangere non è sintomo di debolezza. L'ho capito a mie spese. Ti aiuta a mandare via il dolore e a ricostruirti, se possibile. In realtà il mio problema è che non avevo la forza, né la volontà di farlo. E, anche se andavo avanti, mi sentivo una specie di automa. Entrambi abbiamo dovuto fare i conti con la perdita di persone care ed entrambi le abbiamo piante, a modo nostro. Fino a un certo punto io sono stato più forte perché tu eri una ragazzina che aveva subìto solo angherie e io un adulto, è vero, ma già quando ho perso la memoria sei stata tu a guidarmi e a ridarmi fiducia. Non te l'ho mai detto ma... prima che mi costringessi a venire a vivere con te ho persino pensato che avrei preferito morire".

"Oh, no, Albert!". Lo strinse nascondendo il viso nell'incavo tra il suo collo e la spalla perché non vedesse i suoi occhi lucidi.

"È stato solo un momento, Candy, volevo solo vagabondare e ritrovare me stesso. Ma tu già allora mi hai salvato. Forse è stato proprio a quel tempo che, pur avendo ritrovato la memoria, ho cominciato ad appoggiarmi a te. Eri sempre nei miei pensieri, eri il motivo per cui mi imponevo di andare avanti con i miei affari anche se odiavo stare rinchiuso in ufficio e per il quale invece cercavo ogni momento libero per venirti a trovare. Eri il motivo stesso per cui volevo essere un bravo capofamiglia e sentirmi... degno di te".

Tacque per un istante, sospirando come se si stesse rendendo conto del senso delle sue parole mentre le diceva. Candy non poté fare a meno di tornare a guardare il profilo di quell'uomo straordinario che era cambiato così profondamente sotto ai suoi occhi. E rimanerne, ancora una volta, abbagliata.

"Perderti e avere a che fare con la nuova te mi ha messo di fronte ai miei limiti, ed erano limiti che comprendevo e giustificavo, visto quanto ti amo, ma che non potevo accettare. Quel giorno, quando sulla Collina di Pony mi sono messo il kilt ed è andato tutto storto, ero arrabbiato, non lo nego. Ora capisco che non lo ero con te, ma con me stesso: ho usato il nostro ricordo più bello, quello del primo incontro, per indurti a fare qualcosa che in realtà non volevi. E anche se tu sei convinta che sia stata proprio quella la scintilla che ti ha fatto tornare la memoria quella notte, io penso che alla fine sarebbe accaduto comunque".

Albert chiuse gli occhi, come se riflettesse.

"Io continuo a essere convinta che sia stata proprio questa tua determinazione a farmi ricordare. Sì, è vero, anche se restavi all'apparenza indifferente e distaccato nei miei confronti stavo comunque sviluppando la consapevolezza dei miei sentimenti, ma sono certa che vederti sulla Collina di Pony come la prima volta sia stato decisivo".

Lui si sollevò un po' per baciarla: "Bene, signora Ardlay, diciamo che abbiamo ragione entrambi. Ricordati solo che ti amo e mai, neanche per un momento, ti ho odiato, piuttosto ci sono state volte in cui avrei voluto catturarti fra le mie braccia, così, e baciarti... così...".

Candy si cullò nelle sensazioni sublimi che la bocca e le carezze di Albert le suscitavano. Era certa che, se non fossero stati così assonnati, avrebbero finito per fare l'amore un'altra volta.

Invece fu con voce dolce che lui le sussurrò in un orecchio: "Buonanotte, Candy", posando la testa sul cuscino senza smettere di abbracciarla contro di sé.

"Buonanotte, Albert", mormorò di rimando. Il giorno dopo sarebbero partiti per la Casa della Magnolia, ma prima c'era un'ultima cosa che voleva fare lì a Lakewood. Sperava solo che lui fosse d'accordo.
 
- § -
 
Aveva le allucinazioni, ne era certo. Guidare di notte, senza autista, fino al confine di Stato e alla prima tappa del suo viaggio non era stata una buona idea.
Glielo avevano ben detto persino i suoi genitori che era una follia andarsene da solo fino in Massachussets con un mezzo privato, quando poteva prendere un treno o due.

Ma Archie non li aveva ascoltati.

Voleva essere indipendente, provare il brivido di avere la libertà di muoversi con la sua auto nei fine settimana, persino di fuggire, se era necessario, senza doversi affidare a orari o locomotive. Se non poteva avere Annie, tanto valeva fare come Albert e vivere senza regole ferree.

Non sapeva se si sarebbe davvero recato all'università, né se avrebbe voluto continuare a curare gli affari del clan. Suo zio era il patriarca, lui no.

Spinse il freno con tale foga, quando sentì per la terza volta la voce di Annie, che il motore si spense e lui fu sbalzato sul volante, non finendo contro il parabrezza per puro miracolo. Si voltò senza scendere dalla macchina e capì che neanche lo scalpiccio dei cavalli era un sogno a occhi aperti.

Lei si sporgeva dal finestrino della carrozza e, per un attimo, si ricordò della vettura di Albert che aveva quasi travolto la sua mentre stava tornando a Chicago con Candy.

"Annie!", esclamò a bassa voce, gli occhi fuori dalle orbite.

Per fortuna, la carrozza rallentò la sua corsa e Annie sparì dentro solo per aprire la portiera e volare giù senza aiuto, cominciando a correre nella sua direzione.

D'istinto, le corse incontro come aveva visto fare ai due protagonisti dell'ultimo film di Eleanor Baker e, proprio come loro, s'incontrarono a metà strada, lungo la via quasi deserta illuminata dai lampioni. Lì accolse il corpo di lei e, per non cadere nel suo slancio folle, la sollevò da terra stringendola in un abbraccio appassionato e girando su se stesso.

Sentiva il suo respiro affannoso sul collo, le braccia di lei allacciate intorno.

A fiato corto a sua volta, Archie la mise giù lentamente per guardarla in viso ed era bellissima come sempre. La pelle di porcellana era arrossata sulle guance per la corsa e l'emozione, facendola apparire come una bambina, e le labbra socchiuse gli fecero venire una voglia ardente di baciarla.

"Annie, cosa ci fai qui? Sai che ore sono?! I tuoi genitori ci uccideranno!", disse trafelato, prendendola per le spalle.

"Non mi importa!", quasi lo interruppe, alzando le mani per stringergli le braccia in una morsa. "Non mi importa perché io resterò con te. Rinuncio a tutto, Archie. Al nome, alla posizione, anche alla mia dignità! Non voglio separarmi da te!".

"Annie!", ripeté il suo nome incredulo, colmo di una speranza deliziosa ma sentendosi spezzato in due dalle implicazioni.

"Ti prego, Archie, tienimi con te. Se mi ami non mi respingere. Non sono nulla se non posso decidere della mia vita. E tu sei l'unico futuro possibile", aggiunse portandogli le mani al viso.

Lui chiuse gli occhi, pervaso da un'emozione così profonda che voleva solo lasciarsi andare e dirle mille volte sì. Invece si impose di riflettere, di rimanere lucido, nonostante non gli fosse affatto facile. Deglutì e disse: "Tesoro, proprio perché ti amo così tanto non posso permetterti di fare una sciocchezza simile. Anche se diventassi mia moglie potresti pentirtene, avere nostalgia della tua famiglia e persino sensi di colpa nei loro confronti, senza contare che saresti sempre la ragazza  che è scappata di casa agli occhi degli altri".

Annie lo fissò con una serietà e una determinazione che lo destabilizzarono: pensava davvero di aver visto tutto della metamorfosi di Annie, in quegli ultimi mesi? Illuso!
"Ci ho pensato a lungo e ho parlato tanto con i miei genitori, ma non è servito a nulla", disse senza lasciare la presa appassionata sulle sue braccia. "Non posso garantirti che non mi mancheranno o che non mi sentirò mai in colpa nei loro confronti, perché forse sarà inevitabile. Ma sai una cosa? Mi sentirei una derelitta se fossi costretta a sposare un uomo che non amo e passerei la vita a odiarli, che sarebbe peggio. O forse sei tu che non vuoi sposare una ragazza scappata di casa?", concluse con un leggero sorriso triste.

Archie rimase senza parole, a bocca aperta, la gioia che esplodeva come una supernova facendogli persino salire le lacrime agli occhi: "Diavolo, sì, certo che la voglio sposare!". E mentre lo diceva la stringeva forte e le baciava le guance, Annie che faceva altrettanto, e ridevano e piangevano e le loro bocche finalmente si cercarono.
Si fusero in un abbraccio che era solo labbra, lingue, mani che andavano su e giù per la schiena, sospiri e 'amore mio' sussurrati nella notte.

Pensava di aver cominciato un'avventura ardita prendendo la sua auto e andandosene da solo. Invece, la più grande e meravigliosa avventura della sua vita gli era appena volata fra le braccia.
 
- § -
 
"Adesso guarda bene, Patty: vedi l'Orsa Minore?", disse Duncan indicando con il dito un punto lontano nel cielo.

Lei gli si accostò e strizzò gli occhi per guardare meglio: "Sì, la vedo", mormorò con un sorriso.

"Ecco, quella stella così luminosa indica il nord ed è...".

"...la Stella Polare", terminò per lui. "Dimmi qualcosa che non so", lo incitò con una leggera gomitata sul fianco.

Duncan si voltò piantando su di lei gli occhi verdi dietro alle lenti dei grandi occhiali, i capelli rossi che ondeggiavano al vento.

No, non somigliava a Stair. Persino gli occhiali erano diversi. Ma c'era quella scintilla che gli illuminava gli occhi quando parlava del cielo e delle sue costellazioni che era la medesima di lui quando aveva una nuova invenzione in testa.

Si volse di nuovo, scrutando nella volta scura mentre nel suo cuore si accalcavano una miriade di emozioni diverse, numerose almeno come quelle stelle. Nostalgia, dolore, desiderio di rinascita, timidezza, devozione...

"Sai che la luce degli astri non è quella che vediamo in questo momento? Persino il Sole ci rimanda la sua luce dopo otto minuti", disse con voce bassa e appassionata. Il suo profilo era perfetto, lineare, il naso dritto e un leggero incavo sul mento a renderlo ancora più affascinante.

Stair balla con me alla Festa di Maggio e i nostri occhiali si scontrano. Ha degli occhi bellissimi, non me n'ero mai accorta.

"Sì, avevo letto qualcosa di simile", rispose cercando di mantenere ferma la voce.

"Si chiamano anni luce proprio perché sono gli anni che impiega una stella a farci pervenire i suoi raggi. Molte di quelle che vediamo stasera potrebbero essere morte da tempo".

E tra quelle stelle, di certo, ce n'era una che continuava a mandarle la sua luce anche se era morta, benché lei facesse mille sforzi per non rimanerne abbagliata.

La stella è morta, ma continua a illuminarmi. È qui, davanti ai miei occhi ancora adesso.

La sua Stella Polare, l'unica che ancora le facesse battere il cuore ogni volta che la vedeva: la luce divenne un prisma, si sdoppiò, si triplicò e la sensazione calda e umida delle lacrime sulle guance le indicò che non era ancora pronta a lasciarla morire.

"Patty...", fu il sussurro stupefatto e dolce di Duncan, che le pose una mano sulla guancia con tenerezza struggente.

"Mi... mi dispiace, scusami", disse appoggiando la guancia a quella mano e lasciando che la consolasse. Si sentì come doveva essersi sentita Candy tante volte fra le braccia di Albert, quando ancora il suo cuore apparteneva a Terence. Sperava solo che l'epilogo, per lei, sarebbe stato il medesimo.

"Perdonami, non volevo farti piangere. Forse dovrei raccontarti piuttosto come nasce una stella", aggiunse muovendo il pollice per asciugarle le lacrime.

"Questo sì che sarebbe interessante", disse lei ridendo nel pianto, cercando di trattenerlo.

"Pensi ancora a lui, vero?", rispose invece, serio e addolorato.

Patty non poté fare altro che annuire. Duncan sapeva e capiva, ma Duncan era anche profondamente innamorato di lei e non l'avrebbe aspettata per tutta la vita.

"Sai", continuò senza smettere di carezzarle una guancia, "una stella per nascere ha bisogno che ci siano elementi in equilibrio quasi perfetto. Gli elementi gassosi, idrogeno ed elio, si agitano finché vengono irresistibilmente attratti in un unico nucleo. La forza gravitazionale è... altissima".

Il viso di lui era a pochi pollici dal suo. Anche lei era attratta da Duncan, proprio come l'idrogeno e l'elio, ma irrazionalmente le sembrava di tradire il proprio cuore. Di tradire Stair.

"E poi che succede?", chiese avvicinandosi ancora un po' e chiudendo gli occhi. Lo sentì deglutire.

"A causa di queste forze la pressione e la temperatura aumentano tanto che cominciano ad avvenire reazioni nucleari", la voce era roca e i loro nasi si toccavano, "ma la stella non collassa perché libera energie e luce e si controbilancia mostrandola a noi".

Patty dovette fare solo un altro leggerissimo movimento per sfiorare le labbra morbide e fresche di Duncan. Non voleva usarlo, non voleva illuderlo e non voleva che pensasse che lei lo vedesse come un ripiego: "Dovrai avere molta pazienza con me, Duncan. Ma se non vorrai aspettarmi lo capirò".

"Beh, direi che questo è già un buon inizio, no? Un minuto fa piangevi e ora mi stai baciando", sussurrò sporgendo le labbra per farlo di nuovo, in un contatto fugace che le diede i brividi.

"Mi piaci, Duncan, ti voglio bene. Ma devi lasciarmi il tempo di fare chiarezza nel mio cuore. Di imparare a emettere la mia luce senza più ricadere nell'ombra. Non ti meriti nulla di meno". Ed era vero. Era un ragazzo straordinario, sensibile e, soprattutto, così paziente da farla sentire in colpa.

"Non preoccuparti, Patricia", disse posando la fronte sulla sua, ponendole entrambe le mani sul viso, "posso aspettare ancora qualche anno terrestre prima di trasformarmi un una gigante rossa e poi in una nana bianca e collassare sotto ai miei stessi sentimenti. Tu, nel frattempo, continua a orbitare da queste parti".

Patty scoppiò a ridere di cuore, come solo lui riusciva a farle fare: "Seguirò l'orbita meno eccentrica possibile, te lo giuro. Ma tu continua ad... attrarmi, così non mi perderò negli abissi dell'universo".

"Ti terrò stretta ma non troppo, come La Terra con la Luna", le soffiò sulla fronte prima di posarvi un bacio.

"Ma giurami che se un giorno ti stancherai me lo farai sapere. Non voglio mai farti soffrire, Duncan", ribatté con fervore, scostandosi per guardarlo.

Lui aggrottò le sopracciglia, leggermente più scure del colore brillante dei capelli: "Ehi, hai dimenticato le metafore con l'universo!", protestò facendola di nuovo ridere.

"Non me ne sono venute, mi dispiace", disse scuotendo la testa.

Duncan la strinse in un abbraccio timido: "Va bene, diciamo che tu sei la mia stella e orbiterò intorno a te finché non rischierò di bruciarmi. Allora ti manderò un avvertimento... Al diavolo, anche io ho finito le idee!".

Risero insieme, abbracciati sotto alla volta celeste e Patty, per la prima volta da quando Stair era morto, si ritrovò a chiedergli di lasciar andare il suo cuore, di aiutarla a essere felice senza mai smettere di vegliare su di lei.

Era più che certa che era quello che avrebbe voluto.
 
- § -
 
Erano a cavallo, quasi fianco a fianco, e Albert poteva vedere i capelli di Candy volteggiare nell'aria ogni volta che lo superava.

Con un urlo d'incitamento, lui indusse il proprio destriero a raggiungerla per poterla di nuovo vedere in viso e scambiare con lei uno sguardo complice. Voleva solo che si fermasse per poterla baciare, ma Candy sembrava intenzionata a proseguire la cavalcata senza aspettarlo.

La sua risata cristallina fu portata via dal vento nel momento in cui lo superò di nuovo. E, di nuovo, lui fece ondeggiare le briglie e si chinò sull'animale per farlo correre più forte.

"Candy!", la chiamò con una nota d'allarme, quando si accorse che era davvero troppo lontana. Nonostante fosse ancora al galoppo, lei sembrava volare e divenire sempre più irraggiungibile.

Gridò il suo nome, col sapore acido del panico in gola e le mani che gli diventavano gelide. Al suo urlo disperato, lei finalmente si voltò e, con orrore, si rese conto che i suoi lineamenti erano identici a quelli di Rosemary e poi diventavano quelli di Anthony.

Albert sapeva cosa sarebbe accaduto, come sapeva che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Spettatore impotente, con gli occhi e la bocca spalancati per l'orrore e le grida bloccate in gola, la vide cadere da cavallo, quando questo s'impennò, e impattare con violenza sul terreno.

"CANDYYYY!". Il corpo si protese in avanti, le braccia si mossero alla cieca, mentre le gambe rimanevano incollate ai fianchi del cavallo.

Albert si ritrovò sudato e ansimante, seduto sul letto, gesticolando come un cieco che cerchi disperatamente di afferrare qualcosa. O qualcuno.
Dalla gola gli uscivano solo versi gutturali.

"Albert! Che succede?!". Girò la testa di scatto e la vide, in piedi accanto al letto, con una coperta piegata tra le mani.

Senza riflettere, si alzò e la strinse così forte che lei si lamentò: "Tesoro, mi stai soffocando".

La lasciò andare col respiro ancora un po' corto, la fronte viscida di sudore: "Scusami... mi dispiace, è... credo sia stato solo un sogno", disse infilando le dita tra i capelli e dandole le spalle, cercando di riprendere il controllo. Quel controllo che sperava di aver ritrovato, ma che a volte difettava.

Era certo che gli incubi fossero spariti, ma probabilmente ci sarebbe voluto del tempo.

Sentì Candy muoversi vicino a lui e posare la coperta ai piedi del letto, poi abbracciarlo da dietro. Afferrò le sue mani con urgenza, stringendole e portandosele alle labbra: "Non volevo spaventarti".

"Invece l'hai fatto. Credevo ti stessi sentendo male. Ti è già successo? Hai parlato di questi incubi con Carter?". Si voltò per fronteggiarla.

"Non è nulla, passeranno. Ma tu non fuggire più dalle mie braccia in piena notte, siamo intesi?", le chiese fin troppo seriamente.

Candy lo guardò con una certa accondiscendenza: "Ero solo andata a prendere un'altra coperta perché fa un po' fresco la notte. Ma tu sei in un bagno di sudore".

Albert si passò una mano sul viso, a disagio: "Hai ragione, vado a fare una doccia e torno a letto".

Lei sorrise in modo enigmatico e, sotto ai suoi occhi stupefatti, si sciolse la vestaglia che indossava per rivelare quella che sembrava una piccola camicia da notte di pizzo trasparente, di un nero velato che lasciava intravedere un corpetto del medesimo colore. Il reggicalze era coordinato ma su una delle gambe, all'altezza della coscia, spiccava una specie di nastro rosso.

Albert non pensava che il suo corpo avrebbe reagito solo guardandola, ma era esattamente quello che gli stava accadendo e ne fu alquanto imbarazzato.

Si poteva passare dall'orrore per un incubo terribile al desiderio con una tale velocità?

Fu lei ad avvicinarsi, ancheggiando in un modo che gli fece quasi perdere il controllo. Teneva il capo chino e non sembrava molto a suo agio.

"Io... non so se sia stata una buona idea, ma Annie e quella commessa hanno insistito così tanto che... insomma, mentre dormivi ho pensato di indossarla per mostratela domattina". Alzò lo sguardo su di lui, "Sono ridicola, vero?".

"Ridicola?", rispose lui con voce quasi spezzata. In un gesto repentino, la strinse al proprio corpo, gemendo di lussuria quando furono a contatto. Scese con le labbra al livello del suo orecchio, sussurrandole: "Ti sei resa conto di quello che mi hai fatto solo mostrandoti a me?".

Sentì muovere la sua testa mentre annuiva e prese un respiro profondo: "Sei la donna più bella che io abbia mai visto, Candy, perché il tuo splendore è nel tuo corpo così come nella tua anima", aggiunse cominciando a baciarle il collo, esplorando quel capo con le mani e approfondendo il contatto per toccare la sua pelle attraverso la stoffa.

"Non avevi avuto un incubo e dovevi fare una doccia?", chiese lei con voce profonda.

"La farai con me. Dopo che ti avrò spogliata ne avrai bisogno anche tu, credimi. L'incubo già non me lo ricordo più", mentì.

Certo, la sua mente era annebbiata e calamitata dal corpo di Candy, ma la paura che albergava nel suo cuore era qualcosa con cui, prima o poi, avrebbe dovuto scendere a patti. Non poteva essere preda dei timori e degli incubi per tutta la vita.

Candy era sua, fremeva sotto alle sue mani che ora le stavano liberando il seno per catturarlo con le labbra e non sarebbe accaduto nulla a turbare la loro felicità.

Entrò in lei sentendosi in un porto sicuro, mentre l'acqua della doccia scorreva tiepida sui loro corpi intrecciati e sorridevano amandosi appassionatamente, senza fretta, sospesi tra sospiri e vapore.

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Capitolo 85
*** Superare gli ostacoli ***


Superare gli ostacoli

"No". Quella semplice parola negativa la sconvolse e Candy sbatté le palpebre, convinta di non aver capito bene.

"Come hai detto, scusa?", chiese ad Albert, mentre chiudeva il forno e prendeva un panno pulito.

"Non cavalcherai da sola fino al bosco. Se proprio vuoi arrivarci possiamo montare lo stesso animale o persino andarci a piedi".

Candy rimase senza parole. Non lo aveva mai visto così deciso, né era mai stato così duro e categorico con lei. Capiva bene le sue motivazioni, ma non le condivideva affatto. Rimase a osservarlo in silenzio venendolo muoversi per la cucina, afferrando stoviglie e facendo tintinnare pentole in gesti secchi assolutamente non da lui: si vedeva che era nervoso e lei afferrò un mestolo prima che lo facesse cadere con un "maledizione" sussurrato tra i denti.

"Albert, parliamo", gli disse con un tono che non ammetteva repliche, piantando gli occhi nei suoi.

"Devo controllare il soufflé prima che si sgonfi", disse lui evitando quello sguardo.

Era già con una mano sulla maniglia dello sportello, ma lei vi pose sopra la sua, impedendoglielo: "Se apri il forno allora sì, che si sgonfierà. Lo so persino io che riesco a bruciare le frittate".

Di nuovo, cercò il contatto visivo e lui lo stabilì, pur esitante: "Sì, è vero, ma sai fare un ottimo pane", ribatté con un leggero sorriso.

L'armistizio, se mai c'era stata una breve lotta, era stato sancito con quelle parole. Ma sapeva di aver vinto una battaglia e non la guerra. Sedettero a tavola a sorseggiare il caffè appena fatto e lei si scoprì a guardare le tazze, come studiandole: "Spero che alla Casa della Magnolia ci siano ancora quelle con le nostre iniziali. Voglio prenderle".

"Comprerò l'intero stabile anziché affittarlo, se ti fa piacere", disse in un tono quasi urgente.

Candy gli regalò un sorriso: "Grazie dell'offerta, ci penserò. Albert, sai che non sono i beni materiali che m'interessano, ma la mia libertà, come è sempre stato per te".

"Candy...", tentò d'interromperla.

"No, per favore, lasciami finire", lo pregò. "Non credere che non capisca i tuoi timori. Io stessa ho dovuto venirci a patti sia dopo la morte di Anthony, che prima di perdere la memoria che... adesso. Vuoi la verità? Mi tremano le gambe all'idea di cavalcare di nuovo Cleopatra, ma proprio per questo voglio farlo a ogni costo. Se mi lascio trascinare dai traumi e dalle paure rischio di bloccare la mia vita e non sarei io. E neanche tu sei così, lo sappiamo entrambi, ne abbiamo parlato solo ieri sera".

Albert si mise a fissare il caffè, poi chiuse gli occhi: "Stanotte ho sognato che cadevi di nuovo da cavallo. Nei miei incubi, di solito... vieni ferita a morte ogni volta in un modo diverso. E ogni volta mi sveglio come se non avessi più aria da respirare. So di essere irrazionale e scioccamente superstizioso. Mai, mai una volta ho creduto a sciocchezze simili. Ma alcuni incubi sono troppo simili alla realtà per non farmi venire i brividi".

Candy voleva solo abbracciarlo e rassicurarlo, tuttavia comprese che quello era il suo percorso personale e lei poteva solo tranquillizzarlo: "Non saremo più quelli di prima, Albert. Come tutte le cose anche questa ci ha segnato. Però adesso siamo insieme", disse in modo accorato, posando una mano sulla sua, "e insieme possiamo superare tutto. Ci siamo riusciti quando eravamo solo amici e c'incontravamo quasi per caso. Sono certa che ora sarà anche meglio".

Lui intrecciò le dita con le sue e si avvicinò per posarle un bacio sulla fronte: "Come dicevo ieri... a volte sei davvero tu la più forte, tra i due".

Il soufflé si rivelò così buono che non ne avanzò molto e decisero che avrebbe fatto parte del loro pranzo al sacco mentre si recavano a Chicago. Dopo colazione, indossarono il loro completo da equitazione e raggiunsero le stalle: Candy fu felice di vedere quanto la sua cavalla fosse in forma.

"La zampa è guarita perfettamente, per fortuna non era una ferita grave. Ora corre come se non fosse mai accaduto nulla", disse Albert mentre sellava Cesar e sistemava i finimenti anche a Cleopatra.

Quando fu il momento di montare, vide Albert fare un gesto come se volesse avvicinarsi per aiutarla, ma il braccio ricadde e il piede destro, che si era spostato in avanti, si riunì al sinistro. Suo marito era ritto in piedi accanto al suo cavallo, con le briglie strette in una mano e i muscoli di sicuro tesi sotto al suo completo color rosso mattone.
"Grazie", gli disse per quella muta dimostrazione d'incoraggiamento.

Accarezzò il muso setoso di Cleopatra, ammirando le ciglia lunghe e gli occhi dall'espressione cosi dolce da sembrare umana, quindi si appoggiò sulla sella con le mani e infilò il piede nella staffa sinistra, facendo forza nella gamba per issarsi.

Sto salendo all'amazzone ed Eliza mi guarda con un sorriso cattivo. Ma sono certa che con Cleopatra non mi succederà nulla di male. Il vestito m'intralcia nei movimenti, però non mi scoraggio: mi sono allenata con Albert e ormai non ho più paura.

Un rivolo di sudore le scese lungo la tempia e Candy si ritrovò sospesa su un piede mentre la gamba destra ruotava per andare dall'altro lato. Si sbilanciò e si aggrappò forte alle briglie per non perdere del tutto l'equilibrio. Sentì distintamente l'ansito strozzato di Albert, ma non si arrese: se fosse caduta solo cercando di salire sarebbe stato davvero ridicolo.

Doveva focalizzare la mente sul presente e non sul passato. Aveva recuperato la memoria grazie al suo Principe della Collina, aveva riscoperto l'amore ardente che univa le loro anime, lo aveva sposato e aveva fatto l'amore con lui perdendosi nelle braci della loro passione reciproca.

Era una donna completa e avrebbe superato ogni ostacolo. Posizionandosi con la schiena dritta, inspirò profondamente e guardò davanti a sé: "Vai, Cleopatra!", la incitò partendo subito al galoppo, un senso di leggerezza liberatoria che la pervadeva dalla testa ai piedi.
 
- § -
 
Robert crollò a sedere sulla sua poltrona con una mano sulla fronte. Si tolse gli occhiali e prese a pulirli con il lembo della camicia, la bocca ancora aperta per l'affanno.

Karen non riusciva a ricordare neanche la metà delle espressioni colorite, al limite della decenza, che aveva riservato loro prima che Terence dicesse un sonoro: "Ora basta!", non urlato ma con tono abbastanza alto da indurlo a smettere.

D'improvviso, terminò di ripulire le lenti e, con lo sguardo ancora basso e mostrando loro il suo profilo sconvolto, alzò la mano destra puntando un dito tremante nella loro direzione: "Sai quanto mi costerà trovare una tua sostituta in così poco tempo, Karen? Eravamo d'accordo che vi avrei concesso due settimane per la luna di miele e adesso mi trovo con almeno un anno senza la mia attrice principale!". Aveva cominciato la frase in tono basso e vibrante per terminare con un urlo e un pugno sulla scrivania, facendola sussultare sulla sedia.

Finalmente li fronteggiava, gli occhi erano di fuoco.

"Non è qualcosa che avevamo...", cominciò.

"...programmato?!", terminò per lei. "Oh, ma certo, sono sicuro che è la stessa cosa che ha detto tua madre a quel poveraccio del suo regista poco più di vent'anni fa!", strepitò rivolto a Terence.

"Non ti permetto di nominare mia madre! Né di trattare così la mia fidanzata!", ringhiò Terence scattando in piedi.

Robert fece altrettanto e puntò di nuovo il dito, ma stavolta direttamente su di lui: "Ti ho dato milioni di possibilità, Terence Granchester. Ma questa è la goccia che fa traboccare il vaso! Hai messo incinta la nostra attrice di punta prima di una tournée".

Lui appoggiò le mani sulla scrivania, quasi minaccioso, e Karen si ritrovò a stringersi le pieghe del vestito in un gesto nervoso. Sperava solo che non finissero per picchiarsi.
"Innanzitutto il mio nome è Graham: ho rinunciato al titolo nobiliare tempo fa", puntualizzò lui con voce tesa, "secondo poi siamo venuti a dirtelo subito proprio per permetterti di organizzarti...".

"E perché non dirmelo direttamente nel momento in cui avete deciso di combinare questo pasticcio qualche settimana fa?!", urlò lui avvicinandosi, nonostante la superficie solida che li divideva.

Karen si portò una mano al lato della testa: le stava venendo un'emicrania colossale e non era certo colpa degli ormoni.

I due urlarono l'uno contro l'altro ancora per un po', prima che lei si decidesse ad alzarsi a sua volta e gridare. Gridare davvero. Aprì la bocca e fece un urlo così forte che li vide tapparsi le orecchie.

Era stufa, davvero stufa.

Aveva fatto... anzi, avevano fatto un errore, d'accordo. Ma se ne stavano prendendo la responsabilità e, anche se era certa che i giornali l'avrebbero fatta a pezzi, al momento voleva solo starsene un po' in pace e in silenzio, a riordinare le idee e a rimettere insieme i pezzi della sua vita stravolta.

"Ascoltami bene, Robert: sai com'è la questione? Io e Terence ci amiamo, stiamo per sposarci e abbiamo avuto... un incidente di percorso. No, non mi piace chiamarlo incidente. Non dopo che ho sentito battere il suo cuore". Mentre lo diceva, Karen realizzò che dentro di sé portava davvero un piccolo essere vivente che avrebbe avuto le fattezze sue e di Terry.

Quel pensiero, improvviso come una folata di vento in pieno viso, divenne la consapevolezza preponderante nel suo cuore e dovette lottare per non scoppiare a piangere dall'emozione.

"Robert...", s'intromise di nuovo Terence.

"Fammi finire, per favore", lo interruppe Karen alzando una mano. "Quindi adesso non ti resta che prendere atto della cosa e smetterla di urlare come una ragazzina che non abbia ricevuto l'autografo dal suo attore preferito".

"Ma come ti...?!". Indignato, gli occhi fuori dalle orbite.

"Robert...", di nuovo Terry.

"Ci sono molte colleghe che vorrebbero prendere il mio posto, ad esempio quella... come si chiama... Allison?", suggerì schioccando le dita, nel tentativo di ricordare.

"Vuoi per caso...". Robert era accigliato.

"Non voglio insegnarti il mestiere, ma mi sono accorta che ripeteva le battute a memoria, quindi potrebbe essere...".

"Robert...".

"Ma insomma, vuoi stare zitto?!", lo redarguì voltandosi finalmente verso il fidanzato. "Sto cercando di tirare Robert fuori dai pasticci, per quanto il suo modo di fare...".

"Insomma, Karen, gli ormoni ti rendono loquace o ti diverti ad agitarti nelle tue condizioni? Mi fai comunicare a Robert che deve cercare un sostituto anche per me o intendi parlare tu per tutto il tempo?!".

"Che cosa?!", lei e Robert lo dissero a una voce. Lei sussurrando, lui gridando come un invasato, quasi scavalcando la scrivania.

Rimase a guardare Terry negli occhi, senza più proferire parola, il labbro che le tremava e le lacrime che cominciavano a minacciare di uscire. Lui le sorrise con lo sguardo e, in parte, anche con le labbra, come a dirle di non preoccuparsi, che aveva preso la sua decisione.

Non farlo, avrebbe voluto dirgli, e glielo comunicò col pensiero prima di aprire bocca per dirlo.

Ma Robert la interruppe prima ancora che emettesse suono: "Tu... non stai dicendo sul serio, vero?! Non mi lascerai nella merda, Terence Grand...  Graham?!".

"Per prima cosa ti prego di moderare il linguaggio davanti a una signora", continuò mentre lei non riusciva a staccargli gli occhi di dosso ed era costretta a sedersi di nuovo per non svenire. "Come seconda cosa, ti confermo quello che ho detto: mi ritiro dalle scene, almeno finché non sarà nato mio figlio".

"Terence...", mormorò e fu certa che avrebbe davvero perso i sensi. Udiva vagamente le urla isteriche di Robert, cui si contrapponeva la voce ferma e calda di Terry.

E allora capì.

Capì quanto fosse stata fortunata a trovare un uomo come lui, che all'inizio non sembrava avere occhi che per Candy. Capì quanto la vita potesse cambiare da un giorno all'altro, ma non per forza si trattasse di qualcosa di negativo. La loro carriera era forse distrutta, ma erano una famiglia. Mio figlio, aveva appena detto Terence. Nostro figlio, pensò lei.

"... i miei avvocati vi faranno visita molto presto!", colse queste parole gridate a gran voce da Robert e i colori tornarono al loro posto. Forse, dopotutto, non sarebbe svenuta.

"Il primo a rimetterci saresti tu. Immagina, Robert... immagina i giornali che si affezionano all'idea di noi due con un bambino, felicemente sposati, che raccontiamo di essere stati cacciati dalla compagnia per mere questioni burocratiche e contrattuali. E immagina di pagare altri due attori che non saranno mai apprezzati come noi, che magari entro un anno o due potremmo anche tornare per sostituirli", disse Terence con voce più pacata, di certo convinto delle sue motivazioni tanto da non dover più alzare il tono.

Aveva detto due anni? Voleva stare lontano dalle scene così a lungo? Karen non sapeva se fosse un bluff, né se volesse solo evitare problemi. Sapeva solo che si sentiva colma di una felicità così nuova e brillante che pensava sarebbe esplosa.

Quando la prese per mano per portarla via, mentre Robert mugugnava e borbottava come una pentola di fagioli in ebollizione ma palesemente sconfitto, lei gli si appoggiò alla spalla e uscirono insieme senza fretta.

"Perché l'hai fatto, Terry?", gli chiese piano.

"Veramente avevo già in mente di farlo da quando me l'hai detto. Ho provato a immaginarmi al fianco di un'altra attrice subito dopo averti sposata e, soprattutto, lontano da te... e da lui", concluse ponendole una mano sulla pancia e facendole di nuovo salire le lacrime agli occhi. "Non è ancora nato e già lo amo. Non commetterò lo stesso errore di mio padre, non starò lontano da lui neanche per un istante, dovesse costarmi la carriera!".

"Oh, Terence!", esclamò gettandogli le braccia al collo.

Rimase così, a respirare il suo profumo maschile e a bearsi della stretta del suo futuro marito, lasciando scorrere le lacrime.

"Sei felice?", le domandò posandole un bacio sulla tempia.

Lei si asciugò gli occhi con il dorso della mano: "Sì, ma sono anche un po' preoccupata. Saremo in grado di dargli un futuro senza lavorare? Che ne sarà di noi? Ti confesso che ormai non sono più tanto preoccupata per la mia carriera, ma per come dovrò comportarmi quale... genitore".

"E lo dici a me?", disse Terry in un risolino, prendendola sottobraccio. "Io direi di cominciare a vivere giorno per giorno, un passo alla volta. A iniziare dalla colazione: non hai fame?".

Karen ridacchiò a sua volta: "A dire il vero, passata la nausea mi è venuto una specie di buco allo stomaco...".

"Bene", fece lui ponendole una mano sulla pancia, un gesto che stava cominciando ad amare immensamente. "Cosa desiderate mangiare?".

E, mentre glielo diceva, Karen si sentì, per la prima volta dopo tanto tempo, davvero più leggera.
 
- § -
 
Le rose multiflora e i fiori di mirtillo punteggiavano ancora il prato coi loro colori accesi. Come nel suo sogno, Candy era corsa con il cavallo lontana da lui ma non era caduta, né aveva vacillato un solo istante, se non al momento di montare Cleopatra.

Albert aveva osservato, in silenzio, sua moglie superare le paure e affrontare i suoi fantasmi e si diede mentalmente dello stupido per non averla sostenuta abbastanza ed essersi lasciato trasportare dai propri timori.

Infondati, inutili, persino dannosi.

Anche se avesse avuto altri incubi, non se ne sarebbe curato e non si sarebbe mai più lasciato influenzare. Mentre la vedeva abbassarsi per sfiorare e annusare quei fiori, quindi inginocchiarsi per dire di certo una preghiera per l'anima di Anthony, decise di avvicinarsi per imitarla.

Cercò di non pensare a quanta sofferenza fosse concentrata in quel luogo e recitò a mente la sua personale preghiera per il nipote tanto amato.

Rimasero in silenzio, con le palpebre abbassate e le mani giunte, le parole non erano necessarie. Quando rialzò il viso su di lui, Candy aveva gli occhi asciutti: era la prima volta che non piangeva ricordando Anthony, era davvero diventata più forte.

"Stai bene?", le chiese sorridendole e aiutandola ad alzarsi.

Lei annuì: "Albert, prima di partire da Lakewood vorrei andare a salutare Anthony e Stair nei luoghi di sepoltura e... tornare nella tua capanna nel bosco. Ah, vorrei anche rivedere la barchetta di Stair: l'ultima volta ha tenuto benissimo!".

Lui sbatté le palpebre, sorpreso da tutte quelle richieste: "Candy, stai cercando di esorcizzare dai brutti ricordi tutti i luoghi in cui ti ho portata quando avevi perso la memoria?", le domandò senza preamboli.

Candy abbassò lo sguardo, in imbarazzo: "Beh, ci tenevo a rivederli ora che siamo finalmente sposati e felici, ma se pensi che non sia il caso...".

"No, no, non volevo dire quello", si affrettò ad aggiungere, "ma pensavo che abbiamo avuto quasi la stessa idea. D'altronde, non ci siamo sposati alla Casa di Pony? E la nostra prossima tappa non è la Casa della Magnolia? Vorrà dire che arriveremo un po' più tardi, non abbiamo una tabella di marcia da seguire".

Risalirono a cavallo e, stavolta, si limitarono a un trotto leggero, stando affiancati: "Se vogliamo pranzare alla capanna credo che dovremmo passare prima da casa a prendere un po' di provviste. Abbiamo lasciato il pranzo al sacco in cucina, stamane", le disse dopo che ebbero superato una fila di alberi per arrivare a una radura, il fiume che cominciava a gorgogliare sotto di loro.

"Ma io non pensavo di fermarmi a mangiare", disse rivolgendogli uno sguardo enigmatico.

Albert la fissò, incredulo: non si era ancora abituato a quel lato intraprendente di Candy e ogni volta rimaneva a bocca asciutta e gola riarsa: "E cosa pensavi di fare?", domandò in tono non del tutto fermo.

Lei fece spallucce: "Oh, non so, potremmo andare prima in barca e vedere se finiamo di nuovo ammollo e poi andare alla capanna per toglierci i vestiti e farli asciugare davanti al caminetto". 

Prima che lui potesse anche solo formulare una risposta di senso compiuto, Candy partì al galoppo e Albert poté cogliere solo un leggero rossore imporporarle le guance.

"Eh, no, non mi lascerai così, signora Ardlay!", esclamò afferrando le redini e spronando Cesar per seguirla. "Candy, potresti essere più chiara, per favore?", urlò, divertito, non ottenendo altra risposta che una linguaccia quando la affiancò.

Gli aveva praticamente proposto di rivivere il giorno in cui aveva scoperto la sua identità ed erano caduti nel fiume: allora l'amava già, ma asciugarsi davanti a quel camino era diventata una necessità. Qualunque pensiero poco meno che casto gli avesse attraversato la mente in quei momenti era stato prontamente bloccato e l'idea che ora non ci sarebbero state più regole né inibizioni a dividerli lo riempiva di un desiderio tale che fu per mero miracolo che non l'afferrasse di forza, trascinandola giù dal suo cavallo, per amarla su quel prato.

Ma chi era lui per non accontentare quei piccoli vezzi che stava già imparando ad amare? Non era stato lui, solo il giorno prima, a fermarsi con Candy sotto le fronde di un albero?

Con un sorriso malizioso, Albert si chiese come avrebbe reagito quando avrebbe scoperto un piccolo particolare che aveva lasciato tale e quale proprio alla Casa della Magnolia. E non si trattava delle loro tazze con le iniziali.
 
- § -
 
Quando Annie si svegliò, avvolta tra le lenzuola che le si erano intrecciate fin nelle gambe, la consapevolezza dell'accaduto la travolse riempiendola di sentimenti di gioia, eccitazione e imbarazzo estremo.

Soffocò un urletto nella mano quando vide Archie placidamente addormentato accanto a lei, con la sua parte di lenzuolo che a malapena gli copriva il fondoschiena. Il corpo scolpito, i capelli color cenere spettinati sul volto, che nel sonno sembrava così giovane, la pelle chiara e i muscoli definiti ma non eccessivi, la cui vista terminava nei fianchi stretti e negli addominali piatti... tutto le gridava di abbracciarlo ancora e ancora, senza pensarci troppo su.

"Annie...", borbottò allungando un braccio e catturandola per primo contro di lui. I volti erano a un soffio di distanza e Archie aprì gli occhi lentamente, come mettendola a fuoco. Poteva già sentire quanto la desiderasse anche attraverso le coperte e un intenso calore le pervase le guance. Era solo vergogna? Oppure...

"Ciao", le disse con un sorriso, carezzandole una guancia.

"Archie...", disse lei in imbarazzo, avvertendo suo malgrado il proprio corpo reagire a quel contatto.

Si sfiorarono le labbra come assaggiandosi, con tocchi veloci e morbidi, quindi le bocche si cercarono con maggior urgenza e lei si ritrovò, ancora una volta, stretta a lui con la sensazione che la pelle si liquefacesse a ogni tocco, a ogni carezza, strappandole ansiti e gemiti che sembravano incitare lui ad aumentare il ritmo.

"Archie, per favore, dobbiamo parlare...", lo pregò cercando la forza di staccarsi per guardarlo.

La verità era che, dalla sera prima quando si erano fermati in albergo e avevano preso due stanze separate, non erano riusciti a stare lontani se non per il tempo che lei aveva impiegato a posare la sua piccola borsa sul letto e notare l'arredamento molto essenziale: erano ufficialmente in fuga e dovevano mantenere un profilo basso, scegliendo hotel molto semplici.

Lui aveva bussato alla sua porta chiedendole se voleva mangiare qualcosa ma, alla sua risposta affermativa, nessuno dei due si era mosso. Archie vicino alla porta, lei in piedi accanto al proprio letto. Quando era successo che si erano volati fra le braccia in un groviglio di arti così disordinato e urgente che erano praticamente caduti sul materasso? E come era successo che si erano spogliati a vicenda senza vergogna, senza dire nulla se non i reciproci nomi, ansimando e baciandosi come amanti che non consumino il loro amore da anni?

E come aveva potuto Archie, nonostante tutto, essere con lei tanto delicato, premuroso e tenero da farle provare solo un lieve dolore per poi condurla a una gloria così immensa che sperava non finisse mai?

Era stato tutto così magico e imponente, così giusto, che aveva spento la mente alle domande e agli avvertimenti e si era semplicemente concessa ad Archie, prendendo e ricevendo senza remore.

Ma ora, alla luce del sole, capiva che dovevano mettere in chiaro delle cose, e non sarebbe stata la sua mano che le carezzava i fianchi in modo così seducente, mentre reclamava di nuovo la sua bocca, né la sensazione sublime di essere a un passo dall'averlo di nuovo dentro di sé in quell'unione perfetta a impedirle di parlare.

"Non potremmo discuterne dopo?", mormorò lui col fiato corto e Annie scosse la testa, imponendosi a sua volta di riprendere il controllo. Sbuffando con un sorriso frustrato,  le domandò: "Ti sei pentita?". Il tono era serio, nonostante il sorriso.

"No!", si affrettò a rispondere lei, "come puoi pensarlo?".

"Infatti non lo pensavo, volevo solo capire cosa ci fosse di così importante da interrompere un risveglio che poteva essere paradisiaco", disse in tono malizioso, tirandosi a sedere e appoggiandosi alla spalliera del letto.

Lei fece altrettanto: "Archie, innanzitutto voglio che tu sappia che la mia presenza accanto a te non deve stravolgere i tuoi piani".

"Annie, posso essere un uomo sposato e studiare, nessuno me lo impedisce, a meno che non sia uscita una legge stanotte", rispose lui facendole svolazzare le classiche farfalle nello stomaco: un conto era immaginare il loro immediato futuro, un altro era sentirlo dire così spontaneamente dalle sue labbra.

"Davvero mi vuoi sposare?", chiese con la voce che tremava e la sensazione di essere sul punto di scoppiare a piangere dalla gioia.

"Annie!", fece lui con espressione stupita: "Pensavi forse che dopo aver ricevuto il miracolo di averti al mio fianco e... insomma, aver condiviso il letto con te non avessi intenzione di farlo subito? È dal momento in cui ti ho vista dal finestrino di quella carrozza che ci penso e se troviamo degli abiti adatti in giornata potremo farlo persino entro oggi! A meno che tu non abbia...".

"Archie!", gridò lei prima che potesse pronunciare altre parole. Che voleva dire? Ripensamenti? Dubbi? Non aveva importanza, perché non aveva nulla di tutto ciò e poté solo saltargli al collo e abbracciarlo mentre lasciava libere le lacrime.

Lui la cullò contro di sé, chiedendole di non piangere, dicendo che preferiva fare l'amore con lei che vederla così. E Annie si asciugò gli occhi e gli sorrise, lasciandosi di nuovo trasportare dalla meravigliosa sensazione dei loro corpi che si univano, certa che nulla sarebbe stato semplice, ma di certo tutto avrebbe brillato di luce propria se solo fossero rimasti insieme.

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Capitolo 86
*** Luna di Magnolia ***


Attenzione, questo capitolo contiene scene piuttosto esplicite.
 
Perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi la passione.”
APULEIO
***
“Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia 
bocca arriverà fino al cielo,
ciò ch'era addormentato sulla tua 
anima.”
PABLO NERUDA
 
 
Luna di Magnolia

La Casa della Magnolia era esattamente come la ricordava: non un mobile era stato spostato, si rese conto mentre la esplorava stanza per stanza. Non il tavolo e le sedie della sala principale, né le tendine rosa alle finestre o la piccola libreria nell'angolo, e neanche i pensili della cucina.

"Albert, mi sembra di tornare indietro nel tempo!", disse battendo le mani, cominciando a volteggiare fino ad arrivare al piccolo bagno: persino quello non era cambiato, lo specchio era il medesimo.

"La differenza è che ho fatto pulire l'appartamento e che la dispensa è piena", disse lui facendole l'occhiolino e aprendo le ante di uno dei pensili.

L'orologio a muro le indicò che era già passata l'ora di cena e lei si propose di cucinare. Alla fine, la gita nella barca di Stair si era rivelata una specie di piccola macchina del tempo e la malinconia aveva avuto il sopravvento verso la fine della traversata. Quando erano giunti alla capanna, gli animali che vivevano lì intorno sembravano aver riconosciuto il loro odore e li avevano seguiti in casa finché, tra una battuta di spirito di Albert e un ricordo divertente da parte sua, non erano diventati ospiti e spettatori di troppo e loro si erano semplicemente chiusi nella piccola camera da letto, tralasciando il pur allettante spazio davanti al caminetto dove non c'era neanche un tappeto.

"Dovremmo comprarne uno", le aveva detto Albert arrotolando un dito su uno dei suoi riccioli, tenendola ancora stretta contro il suo corpo.

"Perché, quante volte hai intenzione di tornare qui?", gli aveva chiesto passandogli una mano sul torace.

"Tutte le volte che avrò voglia di scappare via con la mia bella mogliettina", era stata la sua risposta prima che il proprio stomaco brontolasse spezzando ignobilmente il momento romantico.

Avevano consumato il pranzo al sacco con la macchina già in moto, sui sedili e pronti a partire prima che facesse notte. Decisamente il cambio di programma aveva fatto perdere loro qualche ora.

"Se dobbiamo tornare al passato devo cucinare io", ribatté Albert trascinandola di nuovo nel presente.

"E io devo farmi attaccare dalle padelle?", rise lei. "Oh, no, ti prego, fatti almeno aiutare!".

Lui la guardò perplesso, mentre si lavava accuratamente le mani e le asciugava su uno degli asciugamani puliti messi apposta nel bagno.

Alla fine, non senza qualche punzecchiatura e battuta, avevano cucinato insieme e lei aveva adorato farlo sapendo che erano sposati. Era una continua prima volta.
La prima volta che si erano trovati a dormire insieme, dopo che l'aveva resa donna; la prima volta che si erano risvegliati; la prima volta che avevano programmato una giornata...

Non avere alcun servitore era così bello e rendeva le cose così intime e spontanee, come erano sempre state, che Candy si ritrovò a pensare che non si sarebbe più abituata a vivere circondata dai lussi e dalle comodità: in realtà, le bastava avere Albert vicino e il suo lavoro per essere felice. Null'altro.

Espresse il pensiero ad alta voce, mentre Albert girava una frittata nella padella con un gesto fluido del polso che non le sarebbe riuscito neanche di lì a dieci anni: poteva fare un'iniezione con mano ferma, effettuare una fasciatura, ma non girare una frittata.

Perlomeno il pane in forno sembrava crescere bene...

"Potremmo comprare una casa a Chicago o persino a metà strada con La Clinica Felice, così entrambi avremo la possibilità di andare al lavoro con gli autisti senza allontanarci troppo", propose aprendo il frigo per cercare qualcosa.

"Sarebbe davvero un sogno, ma temo che la zia Elroy non sarà affatto d'accordo. La faremo infuriare", sospirò richiudendo il forno.

Albert richiuse invece il piccolo frigo, così raro in case piccole e popolari come quella, eppure aggiunta gradita in quell'estate così calda. In mano aveva una bottiglia di quello che sembrava champagne.

"Tesoro, sai che lei non ha mai deciso della mia vita, per quanto la rispetti. Inoltre ricordati una cosa: la matriarca ora sei tu e come mia moglie hai più potere decisionale di lei. Non ti nascondo che l'opinione pubblica potrebbe quantomeno additare come bizzarra una scelta simile, ma francamente non me ne importa nulla. Viviamo come desideriamo e infischiamocene delle regole", dichiarò cominciando ad aprire la bottiglia con gesti decisi.

Candy sbatté le palpebre, sconvolta. Era la prima volta da quando si erano sposati che si soffermavano sulla sua posizione rispetto alla società: lei più importante della zia Elroy? Non riusciva proprio a capacitarsene! "Ma... non abbiamo un'immagine da preservare? Insomma, sei... siamo Ardlay", disse cercando di entrare davvero nell'idea.

Lui lasciò la bottiglia su un piano di lavoro e le si avvicinò: "Amore mio, non mi fraintendere: siamo due ribelli, ma so di avere delle responsabilità e proprio per il bene di tutti non intendo sottrarmi, pur se mi accontenterei di un lavoro... normale. Tuttavia tu continuerai a prestare servizio alla Clinica Felice come volontaria e io sono comunque quello che ha vagato per il mondo fino ai suoi trent'anni o giù di lì, quindi chi c'impedisce di concederci qualche capriccio stravagante?", le fece l'occhiolino cercando due bicchieri nelle mensole. "Toh, guarda che ho trovato!".

Si avvicinò: erano le loro tazze e lei le prese saltellando di gioia, come fossero una reliquia: "Oh, che bello, le useremo domattina e le metteremo in valigia! Voglio portarle ovunque!", disse eccitata.

Albert rise di cuore: "Preferisci berlo qui lo champagne?", propose divertito.

"Oh, meglio di no! Sai bene che non reggo molto bene le bollicine e qui dentro ne entrerebbero fin troppe!". Per Candy, quello fu l'ultimo pensiero coerente. Dopo, fino alla mattina successiva, tutto rimase avvolto nella nebbia più fitta per parecchie ore...
 
- § -
 
Albert non si era reso conto che avevano svuotato la bottiglia fino a quando, verso la fine della cena, non si era ritrovato a girarla in verticale per far uscire le ultime gocce nel bicchiere di Candy.

Certo, avendo fatto un pranzo molto leggero avevano lo stomaco abbastanza pieno dall'abbondante cena da assorbire bene uno o due bicchieri in più, ma quello valeva per lui, che si sentiva appena un po' brillo, non per sua moglie che era abituata a bere a malapena.

Perché non era stato più attento a lei? Non che fosse una bambina, ma doveva essersi accorto da come ridacchiava di continuo e da quanto le si erano arrossati il naso e le guance che aveva superato il suo limite. Alla fine, il singhiozzo fu il segnale definitivo.

"Oh, no", esclamò dandosi una manata sulla fronte, mentre posava la bottiglia vuota e la vedeva ridere di cuore. Era bella da togliere il fiato comunque, ma lui si preoccupò che potesse sentirsi male.

"Mi porti a letto, maritino mio?", biascicò gettandoglisi addosso e quasi cadendo dalla sedia.

"Direi che è la cosa migliore da fare", acconsentì tenendola strettamente per le braccia e cercando di alzarsi con lei. "Ma sei sicura di non voler prima fare una doccia o sciacquarti la faccia?". Albert pensò che un po' d'acqua fresca avrebbe in parte cancellato la sbronza.

Lei ridacchiò, passandogli le mani sotto la camicia: "Sì, facciamo prima la doccia, l'ultima volta è stato così... esaltante!", concluse allargando le braccia mentre faceva un passo indietro, sbilanciandosi. Albert l'afferrò al volo prima che inciampasse sulla sedia e rovinasse a terra.

Dannazione, ma come ho fatto a non accorgermi che stava bevendo troppo?!

Intenzionato a farle quella doccia anche se avrebbe significato bagnarsi assieme a lei senza potersi lasciar andare, Albert cominciò a spogliarla con gesti studiati, cercando di trascinarla in bagno mentre lei aveva chiare intenzioni ben distanti dal rinfrescarsi.

Non era facile tenere lontane le sue mani che cercavano di toccarlo e di spogliarlo, ma alla fine riuscì a rimanere abbastanza lucido da aprire il getto su di lei e da distogliere lo sguardo mentre l'immagine di Candy con la testa rovesciata all'indietro e le mani a coppa come per raccogliere l'acqua, assieme al suo corpo nudo e sinuoso nel vapore, rischiavano di fargli commettere qualche sciocchezza.

Non voleva assecondarla mentre era in quelle condizioni, non lo riteneva corretto.

"Hai... finito?", chiese senza voltarsi, quando la sentì diminuire il getto.

"No, sto aspettando te. Hai ancora tutti i vestiti addosso, signor Ardlay". La sua voce non era più quella di una donna che abbia bevuto troppo: di certo l'acqua tiepida aveva fatto il suo lavoro, ma la carica di sensualità che emanava gli fece quasi perdere il controllo.

"Candy, credo che tu abbia bisogno di riposare", disse cercando un asciugamano per coprirla. "Domani, se vorrai potremo fare la mghhhh...!". A sorpresa, lei gli era saltata al collo e lo stava baciando con avidità, intrecciandogli le mani sulla nuca, affondando le dita tra i capelli, incollandosi a lui e cominciando persino a sbottonargli la camicia ormai zuppa.

"Ma io voglio farla adesso la doccia con te, Albert!". Il tono da bambina indispettita contrastava con quello sensuale di poco prima, ma a lui girava già la testa. E non certo per lo champagne.

"Tesoro", iniziò schiarendosi la voce, "non credo che nelle tue condizioni sia opportuno...". Ma Candy aveva ricominciato a cercare le sue labbra e Albert si arrese alla piacevole invasione della lingua di lei, ai suoi gesti quasi frenetici mentre lo liberava dalla camicia e cominciava ad attaccare i pantaloni.

Averla nuda contro di sé che cercava di spogliarlo mise fine a ogni lotta interiore e Albert, semplicemente, si arrese al delizioso attacco della moglie. Finì di spogliarsi ed entrò nella doccia con lei, aprendo l'acqua e cercando, con l'ultimo barlume di razionalità, di rimetterla sotto al getto per schiarirle le idee e darle modo di rendersi conto di quello che stava facendo.

Nonostante fosse pronto ad appoggiarla al muro e a possederla come già era successo qualche giorno prima, l'idea che potesse fare l'amore con lui con la mente annebbiata non gli sorrideva più di tanto.

È come se fosse senza memoria. E io voglio che ricordi tutto... ogni singola carezza, ogni bacio...

Erano marito e moglie e forse poteva anche sorvolare su quei pensieri tanto rigidi, ma non voleva che ci fossero mai zone d'ombra tra loro.

Candy aveva preso possesso della sua parte più sensibile, facendolo gemere senza controllo e lui si stava adoperando ad accarezzarle i seni umidi d'acqua quando lei, senza mollare la presa, gli disse in un orecchio: "Andiamo a letto".

Quel tono, ancora più sensuale e urgente di poco prima, lo fece ringhiare di desiderio e dovette toglierle la mano a forza per evitare di terminare la loro piacevole performance in quello stesso istante. Non seppe con quale sanità mentale, ma riuscì a rimediare due asciugamani abbastanza grandi e altri più piccoli per avvolgersi e asciugarsi anche i capelli, quindi, tra baci e passi scomposti, giunsero alla porta della camera.

Albert se la richiuse alle spalle con Candy attaccata addosso che ve lo spingeva contro e stava per mandare tutto al diavolo insieme a quegli asciugamani ormai inutili, visto che l'acqua era praticamente evaporata per il calore che emanavano naturalmente i loro corpi.

Ma Candy lo prese per mano e si voltò, rimanendo allibita: "Albert...?". Dal timbro capì che la sbronza era sotto controllo, ma ancora a quei livelli che la rendevano totalmente disinibita. Non che gli dispiacesse, a quel punto. Di certo aveva fatto di tutto per portarlo al limite del sopportabile e avrebbero terminato ciò che lei aveva iniziato in modo così appassionato a ogni costo.

"Cosa, amore mio?", domandò temendo già la risposta.

"Come faremo a dormire qui? Ci sono i nostri vecchi letti a castello e, per quanto possa essere bello rivederli... uhm...", sembrava perplessa e fissava i letti con reale delusione.

Lui la abbracciò da dietro e le parlò nell'orecchio: "Ho volutamente lasciato tutto così, perché in questo modo potremo stare più stretti uno all'altra".

Sperò ardentemente che Candy fosse d'accordo e non lo mandasse a dormire nella cuccetta in alto: anche se di solito quella era riservata a lei, non ce la vedeva a salire sulla scaletta e dormirci senza rischiare di cadere di sotto, viste le condizioni in cui versava.

"Oh, Albert", fu l'appassionata risposta di lei che rovesciò la testa sulla sua spalla avvolgendo le braccia sulle sue e cercando di nuovo le sue labbra.

Lui la girò verso di sé con un ringhio più forte e la guidò in un bacio ardente, mentre cominciava a condurla verso i letti.
Gli asciugamani caddero a terra, c'inciamparono mentre camminavano alla cieca e Albert sbatté il gomito contro la scaletta, con un mugugno di protesta. Sentendo le mani di lei percorrerlo con urgenza sulle spalle, sul torace, per tornare nuovamente dove il desiderio lo stava facendo pulsare di vita propria, si affrettò a porle una mano sulla cima del capo per abbassarla fin nella cuccetta inferiore senza sbattere la testa.

"Candy", invocò mentre la stendeva sotto di sé e si adoperava a massaggiarle un seno, scendendo sui fianchi e arrivando direttamente alla meta finale per capire quanto fosse pronta per lui. Il gemito prolungato di lei e le proprie dita gli indicarono che era uno di quei momenti in cui la tenerezza e il desiderio cullati senza fretta non erano l'approccio giusto.

Era un momento di passione ardente, forse esacerbata dall'alcool, che magari solo in una fase successiva avrebbe richiesto un incontro meno frettoloso.

Con somma gioia, sapendo che ogni unione sarebbe stata sempre diversa dalla precedente, si preparò a entrare in lei con un gesto fluido quando Candy lo fermò, scostandosi un poco e mettendogli la mano sul petto.

Dimmi che non ti viene da vomitare proprio adesso, Candy... giuro che non ti darò mai più un goccio di champagne!

Ma non era pallida e non aveva il volto di chi si stesse sentendo male. Candy aveva disegnato in viso un sorrisetto malizioso e gli occhi le brillavano di una luce vivida, rendendo il verde più intenso.

"Stavolta lascia fare a me", propose e, il palmo aperto sul torace, lo spinse di lato fino a che lui non ebbe la testa sul cuscino. La guardò con la bocca spalancata, il desiderio che lo stava consumando, gli occhi annebbiati dalla passione mentre si posizionava su di lui come se lo avesse sempre fatto, aiutandosi con una mano e appoggiandosi sul letto di fianco a lui con l'altra.

In pochi istanti era dentro di lei, il suo peso leggero che gli gravava addosso in maniera deliziosamente erotica, i capelli che gli facevano il solletico sul viso mentre lo baciava senza che lui potesse far altro che stringerla in un abbraccio, ricambiando il bacio e cercando il suo seno.

A metà bacio Candy gemette, si raddrizzò e gridò inarcandosi all'indietro e Albert le fece scivolare le mani sui seni fino a girare intorno ai fianchi, respirando pesantemente mentre lei prendeva il ritmo facendo con lui l'amore in quel modo così nuovo e disinibito.

Cavalcato da sua moglie come un purosangue, Albert gemeva con lei, muovendo i fianchi e cercando di assecondarla senza soccombere all'urgenza.

Strinse i denti, soffocando un grugnito nella trepidante attesa della gloria di sua moglie, che non tardò ad arrivare in un urlo che emulò, scattando a sedere perché aveva bisogno di stringerla ancora più forte. Dovette rimanere piegato per non sbattere contro il letto superiore e fu l'occasione per affondare il respiro ardente sul petto di lei, dove sentì il cuore battere come un tamburo africano.
Ricaddero sul letto, mentre le carezzava i capelli e lei gli si accoccolava sul petto. Pensò che si sarebbero addormentati così, ma quella notte fu molto più lunga e appassionata di quanto si aspettasse. E, per Albert, lasciare il letto a castello fu definitivamente la scelta migliore che potesse fare.
 
- § -
 
Candy cominciò a svegliarsi con la gradevole sensazione di essere sdraiata su qualcosa di caldo e solido, che profumava di sapone e legna. Una leggera peluria le solleticò il naso e si rese conto che era il torace di suo marito, che si alzava e si abbassava in maniera ritmica.

Aveva dormito praticamente sopra ad Albert.

E, per la precisione, nella cuccetta inferiore dei loro letti a castello della Casa della Magnolia. Frammenti della sera precedente le tornarono alla mente e si ritrovò con il viso bollente per la vergogna.

Che diamine aveva combinato, in nome del Cielo?

Ricordava vagamente di aver bevuto troppo champagne mentre cenavano e le risate, i baci, gli sguardi complici... La mente cominciò a snebbiarsi, come se avesse di nuovo perso la memoria e la stesse riacquistando.

Candy si spostò dalla sua posizione confortevole e sedette sul bordo del piccolo letto, imbarazzata a morte anche se aveva in testa solo immagini confuse. Ma che immagini! Possibile che avesse preso iniziative simili?! Non che volesse fare la santarellina, ormai erano sposati ed erano in piena fase esplorativa, ma c'era sempre un limite alla decenza!

Chissà cosa avrebbe pensato di lei, Albert!

Si volse a guardarlo e si rese conto che russava leggermente, la bocca semiaperta e i capelli spettinati come fili d'oro sparsi sul viso. Era bello come sempre, tuttavia non si era svegliato con i suoi movimenti e si domandò se non avesse bevuto troppo anche lui.

Candy ne approfittò per sgusciare in bagno a darsi una rinfrescata, quindi si affacciò di nuovo sbirciando dalla porta socchiusa e vide che Albert aveva a malapena cambiato posizione, spostando il corpo su un fianco.

Decise che avrebbe tentato di preparare la colazione e si mise all'opera per organizzare una bella padellata di uova e pancetta: se la notte prima avevano fatto solo la metà delle cose che ricordava, ne avrebbe avuto bisogno!

Di nuovo, si sentì avvampare dalla vergogna e dovette seppellire il viso tra le mani in un gesto quasi disperato, mentre si adoperava per non bruciare le uova. Tornò in camera con un vassoio al quale aveva aggiunto anche succo d'arancia, toast e caffè in abbondanza, e fu proprio mentre entrava che Albert, finalmente, si svegliò.

La mise a fuoco sbattendo le palpebre più volte, poi sbadigliò stirandosi platealmente, come un felino di quelli che aveva visto al Blue River: "Ma che sorpresa! Buongiorno!", disse riferendosi alla colazione.

"Buongiorno, tesoro! Ho pensato... che sarebbe stato carino portartela a letto, visto che di solito cucini quasi sempre tu. Mi spiace, non volevo svegliarti, dormivi così bene", tentò, evitando il suo sguardo.

Lui si tirò a sedere e mosse la testa da un lato all'altro come per stirarsi i muscoli intorpiditi del collo, quindi si passò una mano sul viso e, con la voce ancora arrochita dal sonno, ammise: "Effettivamente mi sento un po' stanco, ma...". Chinò il capo, posandosi una mano sulla fronte, cominciando a ridacchiare.

Candy posò il vassoio sulla cuccetta superiore e si mise le mani sui fianchi: "Senti, lo so che non mi sono comportata come una signora, ieri sera, ma non c'è bisogno di...". A quelle parole, Albert rovesciò la testa all'indietro cominciando a ridere forte, tenendosi addirittura la pancia: "Oh, ti prego! Dimmi cosa c'è di tanto divertente! Io... mi ricordo solo alcune cose... e ti assicuro che non ho perso di nuovo la memoria!", lo rimbeccò gonfiando le guance.

Lui si asciugò un occhio con l'indice e la guardò: "Tranquilla, te lo dico subito cosa c'è di tanto divertente. Vuoi che cominci da quando hai praticamente cercato di violentarmi sotto la doccia o da quando hai approfittato di me stendendomi a forza nella cuccetta? E devo ricordarti quando hai proposto di andare sul letto superiore perché così non avremmo rischiato di sbattere la testa e saremmo stati.... com'è che hai detto? Più liberi? Abbiamo rischiato di cadere un paio di volte, però. C'è stato un momento in cui ti ho presa al volo mentre chiamavi a gran voce un certo Principe della Collina!".

Mentre Albert si piegava di nuovo in due dalle risate e si batteva persino una mano sulla gamba, senza fiato, Candy sentiva che si sarebbe messa a piangere per la vergogna. Quali altre sconcezze aveva commesso sotto i fumi di quel dannato champagne? Certo, amava Albert e lo desiderava, ma non era così che intendeva comportarsi con lui, come una specie di selvaggia! Adesso capiva come mai il poveretto fosse praticamente prosciugato dalla fatica: lo aveva sottoposto a una specie di maratona senza freni inibitori!

"Io non volevo comportarmi così, mi dispiace", piagnucolò davvero sull'orlo delle lacrime.

Vedendola in quelle condizioni, Albert cercò di dominarsi e scese dal letto per abbracciarla: "Dai, Candy, non te la prendere! A me non è dispiaciuto, te lo assicuro! E comunque la colpa è mia, non dovevo farti bere tutto quello champagne".

"Avrei dovuto accorgermene da sola, tu non c'entri niente. Ho rovinato la nostra cena...?", chiese guardandolo.

Lui la fissò maliziosamente: "Se per rovinare intendi trascinarci in una notte di sesso sfrenato... direi di sì, l'hai rovinata benissimo", sussurrò baciandola con uno schiocco sonoro sulle labbra.

"Dai, smettila di prendermi in giro!", protestò dandogli una spinta e coprendosi ancora il viso con le mani.

"Ma non ti sto prendendo in giro! E comunque sono contento di aver affittato l'intero stabile, credo che altrimenti non avresti avuto neanche il coraggio di salutare i vicini, stamattina", concluse ricominciando a sussultare per le risate.

"Oh, no!", esclamò lei voltandosi di scatto, gli occhi sgranati.

"Oh, sì! E non ti dico quante volte l'hai ripetuto urlando!", rise lui abbracciandola forte.

"Ma perché non mi hai fermata? O almeno indotta a... a... insomma, moderarmi?", domandò dandogli dei piccoli pugni sul petto.
"E perché? Quando mi sarebbe ricapitata un'occasione del genere? Pensi forse che io sia stato lì con le mani in mano e la bocca chiusa? Certo, ho avuto qualche difficoltà a prendere iniziative e a un certo punto ho temuto che volessi addirittura legarmi, ma...". Non c'era nulla da fare, Albert era davvero divertito dalla piega che avevano preso le cose e riprese a ridere più forte. Così, alla fine, anche lei sorrise scuotendo la testa.

"Non farmi più bere in quel modo, se vedi che sto esagerando fermami, per favore. Va bene non avere inibizioni, ma così è troppo. Sono pur sempre una signora! E non fare quella faccia! No, non dirmi cos'altro ho fatto, ti prego!", lo supplicò mettendosi una mano sugli occhi e sventolando l'altra.

"Quindi non vuoi sapere che, quando finalmente speravo di poter dormire un po', hai di nuovo deciso che volevi... provare a baciarmi come ho fatto io con te in più di un occasione?". Il sorriso sbilenco e leggermente trasognato le fece tornare in mente quel particolare momento.

E ricordò anche che non si era limitata a un bacio e qualche carezza audace, né che si era fermata quando lui l'aveva pregata, con somma disperazione, di farlo prima che fosse troppo tardi. Di nuovo, non poté fare a meno di arrossire al pensiero che si fosse spinta così oltre nella loro relazione a soli pochi giorni di matrimonio, ma se non era espressione di amore e fiducia quella, cos'altro poteva essere?

"Bene, amore mio, ora ti prego solo di una cosa...", disse tornando serio e puntandole contro gli occhi azzurri come due armi impossibili da evitare.

Non poteva crederci, non voleva pensare che lui... certo, si era a malapena rimesso i pantaloni del pigiama, ma...

"Fammi mangiare la tua colazione o potrei morire d'inedia. Non so tu, ma io ho una fame da lupi!". Stavolta fu il suo turno di ridere e, tra una presa in giro e un complimento per le uova ben cotte, Candy fece colazione con suo marito, ripromettendosi di non bere più tanto champagne in vita sua.

Beh, magari solo un pochino ogni tanto...
 
- § -
 
Frannie Hamilton tirò su il lenzuolo per coprire il corpo ormai freddo e rigido dell'ex soldato, mentre i singhiozzi della moglie le trapanavano le orecchie e il cuore.

"Sono spiacente, signora Dubois, purtroppo l'infezione post-operatoria era troppo estesa", disse a bassa voce come se quella semplice realtà potesse in qualche modo darle sollievo.

Quel pover'uomo era sopravvissuto ai bombardamenti, ma aveva subìto tante di quelle operazioni alle gambe, amputate d'emergenza in un ospedale da campo, che quando era sopraggiunta l'ennesima infezione a uno dei moncherini il suo corpo si era semplicemente arreso.

Non poteva avere più di trent'anni e la moglie era incinta di sette mesi.

Chissà se avevano pensato che quel bambino potesse essere il loro riscatto per una vita così complicata, se lo vedevano come una specie di dono o di miracolo nonostante la disabilità di lui. Fatto sta che, ora, quella creatura non ancora nata, la cui madre si stava disperando su una sedia dell'ospedale, non avrebbe mai conosciuto suo padre.

Frannie sentì un dolore acuto al petto e le lacrime bruciarle negli occhi, e capì di aver raggiunto un punto limite. Uscì di fretta, scusandosi con la donna, lasciandole il tempo di dire addio al suo uomo e si diresse a grandi passi verso la sala delle infermiere che, a quell'ora, doveva essere vuota.

Incrociò poche colleghe e un paio di medici e, quando finalmente si richiuse la porta alle spalle, entrò nel piccolo bagno, si appoggiò al lavandino coi palmi delle mani e pianse a lunghi singhiozzi, togliendosi gli occhiali.

Le bombe che fischiavano e poi esplodevano. Le fughe precipitose, talvolta abbandonando i feriti che non si potevano salvare. Le luci spente presto per non allertare il nemico troppo vicino. E poi il puzzo di urina, di feci, di sangue, di morte, di malattia e di disperazione.

Era tornata a Chicago solo per scoprire che la sua vecchia collega era priva di memoria e per donare gli ultimi stralci del suo cuore martoriato dalla solitudine all'unico uomo che non l'avrebbe mai nemmeno considerata.

Quanto ancora doveva fuggire per trovare la pace?

Lamentandosi pietosamente e passandosi un braccio sugli occhi, Frannie capì che nessuna donna poteva immolarsi al lavoro come lei senza avere neanche un po' di dolcezza nella sua vita. Tornare in un appartamento vuoto, non avere mai delle braccia che la stringessero o qualcuno che la facesse davvero sentire un essere umano...

...o una donna desiderabile, come ha tentato di fare Adrian...

Tanto valeva diventare una suora missionaria. Non voleva certo lasciare la professione che amava, ma cominciava davvero a non poterne più. Si sentiva un guscio vuoto.

Aprì l'acqua fredda e si sciacquò la faccia con vigore, cercando di riprendere il controllo e respirando forte.

A quest'ora sono in viaggio di nozze...

Un leggero bussare alla porta interruppe subito quel pensiero e lei si ritrovò a decidere se far entrare o meno il visitatore nella stanza, come se equivalesse a farlo entrare in via definitiva anche nella propria vita.

Non voglio illuderlo. Ma gli ho mai dato davvero una possibilità?

"Avanti!", disse con voce ferma, rimettendosi gli occhiali e sistemandosi i capelli.

D'altronde è venuto fin qui per me. Lavoriamo di nuovo insieme, anche se in reparti diversi, e più di una donna gli ha già messo gli occhi addosso. Cosa perdo ad accettare un suo invito?

"Ciao", la salutò riavviandosi i capelli, che erano notevolmente cresciuti.

"Hai già finito il turno?", gli domandò a mo' di saluto, scoccandogli solo un'occhiata prima di andare all'armadietto per fingere di cercare qualcosa.

Al diavolo! Non c'è nulla di male, in fondo siamo amici, no?

In realtà non aveva il coraggio di guardarlo perché si stava arrovellando alla ricerca delle parole giuste. Avrebbe dovuto dirgli: sì, accetto uno dei tuoi tanti inviti ad andare a cena? Oppure aspettare che lui glielo riproponesse come faceva praticamente ogni sera alla fine del turno?

"Sì...". La sua risposta, sussurrata con incertezza, e i suoi occhi, solitamente fissi su di lei, che sembravano volerle sfuggire, attirarono finalmente la sua attenzione.

Si girò a guardarlo e lui si accigliò: "Hai pianto?", le chiese, dimostrandole ancora una volta quanto la osservasse.

"No, affatto. A te invece che è successo? Sembri nervoso". Gli aveva mentito, ma ora i suoi sensi erano all'erta. Era certa che volesse dirle qualcosa.

"Senti, Frannie, non so come dirtelo, ma...", titubò, facendosi scrocchiare le nocche e camminando per la stanza.

Lo sapevo...

"Ho chiesto a Marianne di uscire", disse stabilendo di nuovo un contatto visivo con lei e gelandola sul posto.

Frannie rimase ferma, il cuore accelerò e poi diminuì i battiti. Il suo temperamento freddo, dopotutto, funzionava ancora e riuscì a non esprimere alcuna emozione evidente: "Sono felice per te". Allora perché la voce le tremava?

Stupida, pensavi che ti avrebbe aspettata per tutta la vita? 

"È tutto quello che hai da dirmi?", domandò lui stravolto, allargando le braccia.

"E cos'altro dovrei dirti? Buona fortuna, ti meriti una donna che ti ami", disse sbrigativa, ricominciando a cercare in un cassetto. Gli occhi ripresero a bruciarle e lei si morse il labbro sperando che uscisse di lì il prima possibile.

Non voleva che le leggesse in viso la delusione. Non voleva che pensasse che era innamorata di lui e soffriva per quello, perché di fatto non era neanche così.

Frannie Hamilton voleva concedersi una possibilità di aprire il suo cuore, ma l'aveva appena persa. Non poteva nemmeno pretendere che lui nel frattempo non guardasse altre donne.

Nessuno mi guarderà mai più con quegli occhi. Nessuno.

Sentiva nettamente la tensione dell'uomo dietro di sé, anche se era fermo e in silenzio. Quando parlò, lo fece a bassa voce: "Bene, allora... non abbiamo più niente da dirci, Frannie. Ci vediamo domani".

"A domani", rispose senza voltarsi.

La porta si chiuse. In tutti i sensi. E Frannie capì che, nel tono deluso e quasi urtato di Adrian, erano racchiusi i cocci dell'ultima speranza appena infranta: ed era stata lei a frantumarla.

"Addio, Adrian, grazie di tutto", mormorò con la testa china, come se lui fosse appena morto al pari del soldato nell'altra stanza.

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Capitolo 87
*** Scozia ***


Scozia

Candy sentiva la brezza carezzarle il viso e insinuarsi tra i capelli e respirò a fondo l'aria salmastra. Era passato davvero tanto tempo da quando era salita su una nave l'ultima volta, e la sensazione di essere sospesa tra cielo e mare era davvero elettrizzante.

In realtà, non aveva mai avuto modo di sperimentarla con serenità, perché la prima volta stava ancora soffrendo per la morte di Anthony, mentre la seconda aveva viaggiato per quasi tutto il tempo come clandestina.

In entrambe le traversate, la sua costante era stata Terence: su una nave lo aveva incontrato, scambiandolo per Anthony, e con lo stesso mezzo era scappata da scuola per raggiungerlo.

Terence, che aveva lasciato definitivamente temendo di condannarlo a una sofferenza che non avrebbe mai superato. Terence, che invece aveva trovato la donna della sua vita in Karen e che, di lì a un mese, avrebbe sposato.

Terence era ormai nel suo passato, ma sarebbe in eterno stata grata alla vita per averlo incontrato, perché nel cuore le sarebbero sempre rimaste le risate, gli scherzi, le prese in giro e quei batticuori deliziosamente adolescenziali che avevano caratterizzato quel loro strano rapporto mai decollato davvero.

"Tesoro, prenderai freddo qui sul ponte". Il cuore accelerò come le ali di una libellula, come se fosse la prima volta che udiva quella voce così calda e gentile: eppure era stata una costante nel corso della sua intera vita.

Ma ogni volta era come la prima volta.

Si voltò per sorridere a suo marito, cui ora apparteneva anima e corpo, e con il quale si prospettava un futuro radioso che le faceva solo venir voglia di gridare per la gioia.

"Volevo godermi la brezza, è così piacevole!", disse inspirando a fondo e accettando le sue lunghe braccia che la stringevano da dietro.

"Mi dispiace che la permanenza in Scozia sia di breve durata, ma sono certo che ti piacerà e non vedrai l'ora di tornarci", disse lui guardando l'orizzonte da sopra la sua testa.

"Quando ci sono stata in vacanza, anni fa, sono rimasta incantata dai suoi panorami", disse Candy spostando lo sguardo sui flutti.

Le braccia di Albert la strinsero impercettibilmente più forte: "È stato durante le vacanze estive della Saint Paul School". La sua voce sembrava velata da una qualche emozione che Candy non riuscì a capire. Possibile che...?

"Albert...?", mormorò alzando la testa verso di lui per guardarlo. Sul volto aveva un leggero sorriso.

"Sai, in quel periodo stavo già maturando l'idea di andare in Africa. Non riuscivo a stare fermo in un posto e c'era ancora un po' di tempo prima della mia presentazione ufficiale. Così ho deciso di fare qualcosa che difficilmente avrei potuto ripetere, una volta diventato il patriarca". La voce era bassa e calma.

Dopotutto, forse, si era sbagliata...

"E stare un po' lontano da te mi avrebbe schiarito le idee... non immagini neanche la lotta interiore che ha cominciato ad agitarsi dentro di me quando ti ho rivista a Londra e mi sono reso conto che ti stavi innamorando di un altro. Ma che potevo fare? Ero il tuo tutore legale e tu eri così giovane...".

Candy lo fissò a bocca aperta: non era vera e propria gelosia, quindi, quella che aveva colto nella sua stretta, ma i ricordi di un passato dolceamaro. Per quanto tempo doveva averla amata in silenzio! Per quanto tempo aveva dovuto reprimere quei sentimenti! E, dopo, quanta sofferenza gli aveva causato...

Capì come mai quel lato fragile e insicuro di Albert alle volte uscisse fuori in maniera più preponderante: aveva inseguito così a lungo il suo sogno d'amore con lei che non lo biasimava affatto. Il senso di colpa e il desiderio di rassicurarlo ancora e ancora divennero una cosa sola, e Candy si voltò completamente per abbracciarlo forte, seppellendo il viso nel suo petto.

"Ti amo, ti amo tanto. Non dubitarne mai, amore mio. Ormai nulla ci separerà più". Forse potevano sembrare frasi fatte o parole scontate, ma v'impresse tutta la sua passione e sentì distintamente il cuore di Albert aumentare i suoi battiti.

Sorridersi e baciarsi sul ponte della nave che li stava portando in Scozia fu facile e, altrettanto facile, fu godersi ogni singolo giorno della traversata, cullati dalle onde del mare fino al loro arrivo.   
 
- § -
 
Cari mamma e papà,

vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per non essere stata la figlia che desideravate. Vi chiedo perdono per non avervi mai espresso, con sufficiente fervore, la mia gratitudine per avermi adottata e per avermi voluto dare una vita bella, comoda, agiata e piena di tante cose meravigliose. Soprattutto d'amore. Non so esprimervi quanto io vi ami, anche se ora di certo ne dubitate.
Ma se davvero mi avete voluto solo metà del bene che io ho sentito distintamente, saprete anche che l'amore non ha controllo. L'amore è un sentimento irrazionale, disinteressato, anche egoista. E magari è così che vi sarò sembrata: irrazionale, egoista, ma anche ingrata e chissà quante altre cose!

In realtà sono solo innamorata. Sono innamorata di Archibald Cornwell da tanto, tantissimo tempo e non potevo rinunciare a lui, perché è il mio futuro, la mia felicità. A un certo punto mi avete messa di fronte una scelta e io l'ho semplicemente fatta: non perché vi ami di meno, non perché non vi sia grata.

Tuttavia preferisco vivere con l'uomo che amo piuttosto che essere rinchiusa in una gabbia dorata. Voglio continuare ad essere vostra figlia con tutto il cuore, ma capirò se deciderete di disconoscermi dopo quanto vi confesserò... Mamma, papà, ho sposato Archie. Ora sono ufficialmente Annie Cornwell.

Ci stiamo dirigendo verso il Massachussets mentre vi scrivo e sarò accanto a mio marito mentre prenderà la sua laurea, poi torneremo a Chicago perché lui possa continuare a lavorare negli affari della famiglia Ardlay.
Dentro di me, spero che vorrete riavermi come vostra figlia, perché sarei orgogliosa di essere ancora una Brighton, oltre che una Cornwell. Però questa decisione spetta solo a voi.

Sono felice, in questo momento sto aspettando il ritorno di Archie dalle lezioni e mi sento come se stessi vivendo sopra a una nuvola... Qui c'è un'ottima scuola di musica e forse la frequenterò, per continuare a prendere lezioni di pianoforte.
Mamma, papà... mi mancate, non c'è giorno in cui non vi pensi e spero possiate comprendere questo mio gesto avventato, questa mia fuga scandalosa. Lo spero con tutto il cuore.

Come ho già detto vi amo moltissimo.

Vostra Annie.

La signora Brighton rilesse la lettera di sua figlia per l'ennesima volta. Sì, perché quella era sua figlia, nel bene e nel male.
Non aveva idea di cosa significasse portare una nuova vita nel ventre, né le sarebbe mai stato possibile. Ma sapeva cosa significasse amare qualcuno in maniera disinteressata e irrazionale, come Annie stessa scriveva.

Quella bambina così timida e remissiva era appena diventata una donna che sapeva bene cosa volesse dalla vita. Tanto bene che aveva fatto un gesto così estremo che neanche in mille anni l'avrebbe creduto possibile.

Per l'ennesima volta, si domandò se avesse sbagliato tutto con lei.

Eppure le aveva ben fatto capire come una signorina dell'alta società dovesse comportarsi per essere amata e rispettata, chi dovesse evitare e con chi si dovesse intrattenere maggiormente. Archibald Cornwell era di sicuro un buon partito, un ragazzo educato, affascinante e persino ricercato da molte altre signorine.

Ma era d'accordo con suo marito quando diceva che il clan degli Ardlay, con quella storia della distilleria, si era definitivamente rovinato, seppur non del tutto per sua mano.

Ora era sposata con il suo Archie, sarebbe stata via almeno un anno e forse sarebbe tornata a casa con un figlio già al seguito.
La donna poggiò i gomiti sullo scrittoio e lasciò cadere la testa fra le mani, prostrata.

Cosa doveva fare? Suo marito aveva parlato di diseredarla, ma non le era parso molto convinto. Sospettava che amasse anche lui troppo sua figlia, per fare un gesto simile.

Cosa avrebbero dovuto scegliere, arrivati a quel punto? Il loro buon nome o la loro unica bambina?
 
- § -
 
"Albert, ma è meravigliosa!". Candy sembrava una ragazzina che si trovasse davanti un nuovo parco giochi.

Sapeva che non era tanto la casa con la sua maestosità ad attrarre sua moglie, quanto piuttosto la natura in cui era immersa, il bosco poco distante e il fiume che scorreva proprio lì davanti.

Si mise a correre, poi a un certo punto mollò la valigia sul prato e saltò sul ramo basso di uno degli alberi che sorgevano tutto intorno alla villa. Con mosse fluide che aveva imparato ad affinare negli anni, Candy volò da un ramo all'altro guadagnandosi pienamente il soprannome che le aveva dato Terence.

"Tarzan Tuttelentiggini", ridacchiò Albert scuotendo la testa e riproponendosi di darle un suo nomignolo personale.

"Ehm, mi scusi, signore". Si era completamente scordato dell'autista, che pareva avere il fiatone a forza di stare loro dietro.
"Posso portare in casa almeno le vostre", fissò davanti a sé con gli occhi spalancati, interrompendosi un secondo, "valigie...?", terminò.

Senza poterselo impedire, scoppiò a ridere. Era certo che il pover'uomo si stesse chiedendo se quella era davvero la signora Ardlay, la matriarca che aveva preso il posto della sua prozia Elroy. Se fosse stata presente avrebbe avuto un arresto cardiaco, come minimo.

"Non ti preoccupare, Donald, tu vai pure a parcheggiare l'auto. Abbiamo viaggiato leggeri e posso prendere io anche la valigia che mia moglie ha lasciato laggiù".

"Ne è sicuro, signore?", chiese con una sfumatura scandalizzata. Albert lo capiva: era al servizio della sua famiglia, anche se principalmente in Scozia, da tanti anni e pensava fosse la prima volta che vedeva una cosa del genere.

"È meravigliosa, vero?", disse rivolto a Candy che, con un grande balzo, era tornata sull'erba e stava correndo verso la porta principale.

Donald sbatté le palpebre, perplesso: "Credo che non mi sia mai capitato, in tanti anni di onorato servizio, di vedere una signora così educata che però riesce a correre con una valigia in mano e fare... quello che sta facendo. Con tutto il rispetto, mister Ardlay".

"Candy è così, per questo è speciale. Può comportarsi come una vera signora ma saltare da un albero all'altro con l'entusiasmo di una ragazzina".

Ed è anche per questo che l'amo più della mia stessa vita...

"Bene, se permette allora vado a riprendere la vettura sul viale. In casa è tutto predisposto come avete richiesto". L'uomo si congedò con un inchino e Albert riprese la sua valigia, fermandosi alcuni passi più in là per raccogliere anche quella di Candy.

Si era fermata davanti al grande ingresso e lo stava guardando, ammirata, ma in viso aveva anche un'espressione quasi malinconica: "Sai, mi ero abituata a stare da sola con te. Oh, non fraintendere, Donald è una persona squisita e sono certa che anche Miss Emily e Miss Amelia lo sono, ma... era così bello cucinare insieme e fare tutte le faccende di casa da soli!".

Albert lasciò una delle valigie per circondarle le spalle con un braccio: "Lo so, Candy, provo i tuoi stessi sentimenti, sono sincero. Ma ho voluto anche vedere il lato pratico delle cose: a Lakewood e alla Casa della Magnolia ci siamo fermati solo pochi giorni e, anche se non era tutto perfettamente in ordine, c'è chi se n'è occupato dopo che siamo andati via. Qui dovremo fermarci più a lungo e la casa è grande: visto che siamo in luna di miele, una cuoca e una cameriera, oltre al nostro prezioso autista che ci è venuto a prendere al porto, mi sembravano il minimo per goderci la vacanza senza pensieri".

Candy si voltò e gli rivolse uno di quei sorrisi per cui avrebbe ringraziato Dio eternamente: "Hai ragione, Albert, come sempre!".
Lui alzò un sopracciglio: "Quindi vuoi dire che ho sempre ragione?", scherzò riprendendo la valigia.

"Quasi sempre", disse lei facendogli l'occhiolino e alzando una spalla in modo scherzoso.

"Oh, adesso è 'quasi sempre'!", finse d'indignarsi. "Comunque ti comunico che noi saremo ai piani superiori nell'ala esposta più a oriente, mentre ai nostri gentili collaboratori ho riservato il piano inferiore dell'ala opposta. Ciò significa che se dovessi di nuovo bere troppo champagne e vorrai ancora attentare alla mia virtù, non avrai nulla da temere", concluse cominciando a ridere perché lei aveva iniziato a tempestarlo di pugni sulla spalla, arrossendo e protestando, ripetendo che non avrebbe mai più fatto figure simili e che, semmai avesse avuto in mente qualcosa, lo avrebbe fatto da lucida e con discrezione.

Quella era la sua Candy. Vivace, sensibile, piena di vita e di sorprese.

E così sarebbe stata la sua vita da quel momento in poi. Ne era certo.
 
- § -
 
Cari Candy e Albert, come state?

Siamo certi che vi stiate godendo la luna di miele, come è giusto che sia! La Scozia è meravigliosa, a prescindere dalle origini di famiglia, e non può che essere lo scenario perfetto per due spiriti liberi come voi.

Candy si girò per guardare Albert, perplessa: "L'hanno scritta insieme! Annie e Archie hanno scritto questa lettera insieme!", disse con fervore, come se a lui non fosse evidente.

"Lo vedo anche io, tesoro, so leggere", rise stringendola un po' di più a sé.

Erano seduti su uno dei rami più alti di una betulla, le cui foglie già cominciavano a tingersi dei colori autunnali. Stavano leggendo fianco a fianco la lettera proveniente dal Massachussets, i volti vicini, come due ragazzini incuriositi da una favola.

Di certo, la nostra luna di miele è un po' diversa... sì, avete capito bene. Ci siamo sposati. Io, Annie, sono scappata di casa, un gesto che da tempo meditavo di fare: Candy, forse tu puoi capirmi. Avevo compreso che i miei genitori non mi avrebbero mai permesso di sposare Archie, per tutta una serie di motivazioni che non ti sto a raccontare, e ho semplicemente fatto la mia scelta.
E io, Archie, non potevo credere al miracolo di Annie che mi correva incontro e che mi confessava di voler condividere il resto della sua vita con me, contro tutto e contro tutti. Così è successo: ha scritto ai suoi genitori ma ancora non sappiamo se la riaccoglieranno quale loro figlia. Lei dice di essere serena e convinta della sua decisione, ma in cuor mio so che spera di averli sempre al suo fianco, nonostante tutto.

E ora siamo qui, tra studio e casa, vivendo semplicemente come avete fatto voi due alcuni anni fa, alla Casa della Magnolia. È incredibile quanto, nonostante le abitudini, ci si adegui a tutto pur di stare insieme, godendo di gesti quotidiani come preparare una cena, uscire a fare spese, leggere un libro davanti al fuoco...

Candy strinse la mano di Albert, incontrando il suo sorriso complice: oh, li capivano benissimo, molto più di quanto potessero mai immaginare!

Ci dispiace avervi avvisato così, all'improvviso, e non avervi avuto con noi nel momento più bello. Ma sappiamo che comprenderete che è stata una cerimonia talmente essenziale che a malapena c'erano un paio di testimoni che abbiamo conosciuto grazie al sacerdote che ha officiato la cerimonia.

Ma, al di là degli abiti e della festa che non c'è stata (e che, un giorno, avremo modo di fare con voi), la gioia era tanta che non ci abbiamo neanche fatto caso. La vera bellezza era dentro di noi e brillava di luce propria.

Candy, Albert... sappiamo che parteciperete alla nostra gioia e che non ci condannerete per questa scelta estrema. Nessuno meglio di voi può capire quanto il destino, a volte, c'imponga di cogliere al volo la felicità prima che questa ci sfugga dalle mani.

Con amore

Annie e Archie Cornwell

Candy si asciugò gli occhi con il dorso della mano, profondamente commossa, e si portò la lettera sul cuore: "Sono così contenta per loro, Albert! Non è romantico quello che hanno fatto?".

Lui annuì, prendendo un profondo respiro: "Non è stata una scelta facile e purtroppo le voci che scateneranno potrebbero essere poco lusinghiere. Ma, da parte mia, farò di tutto perché possano vivere il loro matrimonio con serenità. Se, quando tornerà a Chicago, Archie vorrà ancora occuparsi degli affari del clan, lo accoglierò a braccia aperte".

"Non ne ho mai dubitato, amore mio", ribatté lei accoccolandosi tra le sue braccia, godendo del calore del corpo di suo marito e di quegli ultimi scampoli di sole prima del tramonto.
 
- § -
 
Elroy Ardlay si avvolse più strettamente lo scialle attorno al collo, abbandonando il capo sul cuscino della sedia a dondolo del patio. L'aria era fresca ma ancora gradevole e lei stava cercando di fare un bilancio il più ragionevole possibile della sua vita.
La sua vita stravolta.

Perdere delle persone care era stato devastante, specie i suoi nipoti più giovani. Ma veder minata la stabilità stessa della famiglia aveva messo a dura prova i suoi nervi già indeboliti da anni di problemi e lutti.

Due orfane nella sua famiglia: una che era persino stata adottata prima di andare in moglie a William, l'altra che, ignorando ogni regola dettata dal buon senso e dalla buona creanza, era scappata di casa come una donnetta qualsiasi per sposare un membro del loro clan, uno dei suoi nipoti più brillanti.

Quando aveva ricevuto la lettera della signora Brighton aveva pensato che sarebbe stata vittima di un infarto, specie perché aveva letto, tra le righe, che il suo amore di madre era pressoché intatto. E che quindi, molto probabilmente, l'avrebbe accolta di nuovo in famiglia.

Perlomeno avrà un cognome degno di Archibald...

Invece non era successo niente. Non le era venuto neanche il tanto temuto mal di testa e, alla cameriera che l'aveva vista sconvolta e le aveva chiesto se volesse un tè, aveva risposto in segno negativo.

Se ci pensava bene, quelli che l'avevano delusa di più e che davvero le facevano rivoltare lo stomaco erano i Lagan. Quel loro gesto imperdonabile di distruggerli non valeva i dieci anni di galera, ma molti di più e, nonostante avesse tentato di affrontare più volte l'argomento con William, si era dovuta arrendere all'evidenza che la giustizia aveva fatto il suo corso e loro dovevano semplicemente accettarla.

Cosa le rimaneva, dunque?

Era tra i membri più anziani del clan, ma il futuro del nome degli Ardlay era nelle mani dei nipoti più giovani e delle rispettive mogli, entrambe senza un passato e con gesti quantomeno discutibili alle spalle.

Stringendo le mani sui braccioli, Elroy capì che non voleva passare gli anni che le rimanevano da vivere immersa in una bolla di stizza e di rimpianti. Cosa ci sarebbe stato di male a godersi un po' quella stramba famiglia che, dopotutto, poggiava su basi solide di amore e rispetto?

Un leggero sorriso le si disegnò sul volto, distendendo le rughe della fronte ed Elroy chiuse gli occhi. Forse, dopo una vita di affanni, il segreto era semplicemente quello di seguire il flusso della corrente. E magari, dopo tutto, anche lei poteva essere felice.
 
- § -
 
Adrian non era uno stupido: aveva capito perfettamente che Frannie aveva qualcosa di diverso, in quegli ultimi giorni, e non poteva fare a meno di illudersi che dipendesse dalla sua relazione con Marianne.

Ma faceva di tutto per non rimanere sola con lui e, le rare volte in cui aveva provato ad affrontare l'argomento, trovava sempre qualcosa da fare. Sapeva che era professionale e devota al suo lavoro, ma gli parve che avesse raddoppiato i suoi sforzi.
La motivazione continuava ad essergli oscura.

Possibile che si fosse resa conto di provare qualcosa per lui proprio adesso che aveva deciso di darsi una seconda possibilità con un'altra donna? No, impossibile, ricordava benissimo la sua espressione ferita, dietro alle lenti, quando le aveva riferito del matrimonio tra Candy e Albert.

E allora cos'era?

"Tesoro, sei distratto?". La voce di Marianne lo riportò sulla pista da ballo, nel locale dove aveva deciso di passare la serata. Lo stava fissando con quegli occhi del colore della notte, le labbra brillanti come rubini e la bellezza tanto abbagliante che si diede dell'idiota per quello che stava per fare.

"Mi dispiace, Marianne, non possiamo continuare così", le disse fermandosi in mezzo alla sala e stringendola per le spalle. Una coppia li urtò.

"Cosa?!", fece lei ad alta voce.

"Vieni, spostiamoci di qui", le propose circondandola con un braccio e facendola sedere al loro tavolo. Le luci forti, la musica e le risate allegre gli cominciarono a diventare insopportabili e Adrian capì il suo errore. Ci aveva provato, davvero.
Ma aveva fallito miseramente.

Così come il cuore di Frannie era forse ancora imbrigliato nei sentimenti non corrisposti nati a Chicago, il suo era imprigionato in lei. Bel triangolo amoroso avevano creato...

"Stai ancora pensando a quell'infermiera, vero?", sbottò lei sistemandosi il foulard intorno al collo, lanciandogli lampi con gli occhi.

"Marianne", cominciò lui, a disagio, cercando le parole giuste, "tu sei una donna bellissima, un medico eccezionale...".

"Oh, per l'amor del Cielo, risparmiami i complimenti e le frasi fatte da romanzetto per donnette stupide!", sbottò battendo un discreto pugno sul tavolo, facendolo sussultare.

"Scusa, hai ragione", ammise. "Ma ti comunico che è quello che penso davvero e credo anche che tu...".

"Che io mi meriti un uomo che mi ami davvero, non è così? E la fase successiva prevede che tu mi lasci qui, sola e piangente, a struggermi per un rapporto che non ha funzionato, giusto?".

Adrian sbatté le palpebre: se non fosse stato innamorato perdutamente di Frannie, avrebbe potuto davvero dire di aver trovato pane per i suoi denti. Quella donna, pur essendo un'ostetrica, aveva la tenacia e l'intuito di una psicologa esperta.

Sorrise, sinceramente ammirato: "Avevo visto giusto. Sei davvero una donna speciale, e ti prego di credermi se ti dico che il mio cuore sarebbe stato tuo se non fosse ancora occupato. Non cambiare mai".

Quelle parole parvero colpirla e lui fu certo che, perlomeno, adesso Marianne gli credesse. Si alzò con un gesto fluido, a testa alta, e gli fece cenno di avvicinarsi.

Vuole darmi un bacio d'addio, forse?

"Bene, quindi adesso è il momento in cui io ti lascio libero, giusto?", disse con un'emozione indefinibile che le incrinava la voce. Adrian pensò che stesse sforzandosi di non piangere. O di non gridargli il suo disprezzo. O entrambe le cose.
Invece gli diede uno schiaffo così forte e improvviso che la testa gli scattò di lato e qualcuno si voltò a guardare. Doveva accorgersi da come aveva stretto le labbra e teso i muscoli della spalla che sarebbe accaduto.

Incassò il colpo senza dire nulla, in fondo se lo meritava. Non si mise neanche una mano sulla guancia offesa, ma si girò di nuovo per incontrare i suoi occhi che sì, effettivamente brillavano di lacrime non versate.

Alla fine, è pur sempre una donna. Forte, eccezionale, ma anche fragile, a modo suo.

"Perdonami, Marianne", le disse alzando una mano per farle un'ultima carezza.

Lei si scostò, facendo un passo indietro: "Buona fortuna, dottor Carter", disse uscendo dal locale a grandi passi, lasciando dietro di sé il profumo di violette che non aveva mancato comunque di fargli girare la testa in più di un'occasione.

Ma io preferisco l'odore del disinfettante, il viso stravolto da una notte di guardia, i capelli leggermente spettinati e gli occhiali severi su quello sguardo così fermo... Oh, Frannie...

Colto da un'urgenza che, ora lo capiva, aveva da quando aveva deciso di partire per l'Europa, Adrian corse a sua volta fuori da quel posto come se fosse inseguito da un'orda di diavoli. Sapeva che era la serata libera di lei e aveva intenzione di bussare a casa sua e consegnarle il suo cuore su un piatto d'argento.

Se l'avesse rifiutato di nuovo, allora sì che avrebbe preso la prima nave e sarebbe tornato in America. Ma non prima di aver lottato un'ultima, disperata volta.

La sua sorpresa, nel trovarla accanto alla sua auto parcheggiata in un vicolo poco distante, fu enorme. Così enorme che dovette aprire e chiudere gli occhi più di una volta per convincersi che fosse reale.

Era appoggiata allo sportello e, sentendolo arrivare, aveva alzato il viso per guardarlo.

"Sei solo?". In quella domanda potevano esserci tanti di quei significati che Adrian non seppe bene cosa risponderle.

Sì, sono solo, lei se n'è appena andata. Sì, sono solo, per tutta la vita lo sono stato. Sì, sono solo e forse tu mi lascerai così, senza neanche provare ad avvicinarti a me.

Annuì, facendo qualche passo per vederla meglio alla luce del lampione. Si stringeva uno scialle intorno al corpo ed era una delle rare volte in cui non indossava l'uniforme da infermiera, ma un semplice vestito scuro e accollato.

"Ho visto... Marianne correre via. Non so bene perché sono venuta sin qui, ma... ". Vederla vulnerabile, girare gli occhi con un leggero rossore a imporporarle il volto, fu più che sufficiente per lui.

Chiuse la distanza fra loro e alzò una mano per sfiorarle una guancia: lei non si spostò come aveva fatto Marianne, ma abbassò le palpebre accettando il suo tocco.

"Non potevo rimanere con lei e ingannarla. Ho tentato, Frannie, ho cercato davvero di innamorarmi di un'altra, ma non mi è possibile. Sei tu l'unica donna che desidero", mormorò con ardore quelle frasi, che Marianne avrebbe chiamato 'banali' e 'fatte' ma... oh, come esprimevano bene ciò che sentiva in quel momento!

Frannie emise un singhiozzo, afferrandogli il polso e stringendolo, e Adrian non ebbe il coraggio di muoversi, né di fiatare: "Neanche io voglio ingannarti, Adrian. Mi sono accorta che sono solo una donna e che non voglio rimanere sola", disse con voce spezzata, le lacrime che cominciavano a scendere sul suo viso ancora chino. "Non riesco ancora a ricambiare il tuo amore, ma ho un sentimento di affetto profondo per te. Nessun uomo mi aveva mai visto come una donna e so che questo non basta per creare un rapporto di coppia, ma...".

Era più che sufficiente, almeno per ora. Adrian le pose sul viso anche l'altra mano, costringendola gentilmente a guardarlo e le asciugò le lacrime coi pollici. Poi le tolse gli occhiali e se li mise nel taschino, mentre finalmente lei lo fissava con un certo stupore. Quindi, foggiando a coppa il volto di Frannie, le sfiorò appena le labbra con le proprie per capire quale sarebbe stata la sua reazione.

E la sua reazione non tardò ad arrivare.

Gli gettò le braccia al collo, ricambiandolo con un fervore che non si aspettava, lasciandosi guidare da lui mentre approfondiva il bacio, inducendola a schiudere la sua bocca per lasciarsi esplorare e ricambiando il gesto a sua volta.

Si staccarono solo perché il respiro affannoso ricordò loro che avevano bisogno di ossigeno.

"Ti farò innamorare di me, Frannie. Se solo tu me lo concedi, io sarò paziente e ti aspetterò. Diamoci questa possibilità, vuoi?", le disse passandole una mano tra i capelli, arrivando alla nuca e sciogliendoli dall'elastico.

Lei chiuse gli occhi e sospirò: "Mi piaci, Adrian, sei un uomo così gentile e speciale che io...".

"Non dire altro, per favore. Godiamoci il momento. Il resto verrà dopo". Detto questo, la baciò di nuovo, con devozione, con fervore, intrecciandole le mani nei capelli. "Adoro i tuoi capelli. Non legarli più quando sei con me, per favore", gemette stringendosi a lei.

Frannie gli fece vagare le mani sulla schiena, trasmettendogli un calore che s'irradiava in tutto il corpo e che divenne fuoco incandescente quando disse, con voce bassa e sensuale, un tono che non aveva mai usato: "Fammi diventare donna. Dammi le ali per volare e apri il mio cuore all'amore vero".

Si scostò da lei per guardarla meglio: era davvero la Frannie fredda e professionale che aveva conosciuto? Ed eccoli, il suoi capelli spettinati dal vento e le sue guance rosee per l'emozione, ciò che la rendeva più giovane e più matura allo stesso tempo: "Sei sicura, Frannie? Non penserai a lui mentre sei fra le mie braccia?".

"Lui è stato solo un sogno romantico e platonico. Noi siamo qui, in carne ed ossa. E siamo un uomo e una donna. Insegnami, Adrian, insegnami come lasciarmi andare". La sua era quasi una preghiera e lui diede un calcio ai dubbi, alle convenzioni e a tutti i princìpi che gli avevano inculcato sin da piccolo.

La fece salire in macchina e la portò nel suo appartamento, dove la spogliò dei suoi abiti e delle sue ultime remore lentamente, con dedizione. E, come gli aveva chiesto, la rese donna amandola con tutto il cuore.

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Capitolo 88
*** Nella buona e nella cattiva sorte ***


La sorte appaga i nostri desideri, ma a modo suo, per poterci dare qualcosa al di là dei desideri stessi.
 
Johann Wolfgang Goethe
 
***
 
Nella feroce morsa delle circostanze
non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.
 
William Ernest Henley
 

Nella buona e nella cattiva sorte

Candy bussò con discrezione alla stanza della sposa e quando Karen le rispose entrò, curiosa di sapere come mai avesse cercato proprio di lei.

In realtà, tutto le era apparso un po' fuori della norma, in quel matrimonio, a cominciare dal luogo discreto: una tenuta di campagna in una zona fuori città. E poi non aveva visto molti invitati, se non quelli che dovevano essere i parenti di Karen e, naturalmente, Eleanor Baker.

"Grazie per essere venuta, Candy. Con mia madre non si può ragionare e non volevo che mi rovinasse il giorno più bello con una discussione inutile: sono certa che tu sarai molto più comprensiva".

Sbatté le palpebre, senza capire a cosa si riferisse, vedendola di spalle alla sua specchiera. Ma quando si alzò, voltandosi verso di lei, spalancò gli occhi comprendendo finalmente i motivi che avevano spinto Karen e Terence a stare non solo lontani dai riflettori, ma anche dai fasti e dalla confusione.

Con un'emozione intensa nel petto, vide il ventre tondeggiante spuntare in modo abbastanza evidente sotto il vestito di cotone e seta stile impero. Non un abito da sposa e nemmeno bianco, ma color oro e tanto bello nella sua semplicità da essere pressoché perfetto su di lei.

"Oh, no, dovrei essere io quella commossa!", protestò Karen avvicinandosi.

"Scusami, non so cosa mi prende", mentì asciugandosi gli angoli degli occhi, "è che sono davvero felice per voi. Avete avuto il dono più bello ancora prima di coronare il vostro sogno d'amore".

Karen cominciò a tirarsi su i capelli, infilandosi una forcina tra le labbra e facendole cenno di aiutarla: "Oh, io lo chiamerei piuttosto un momento di passione sfrenata alla festa del tuo fidanzamento! Però, dopo il primo attimo di sconforto, devo dire che non posso darti torto: è davvero il dono più bello".

Con la mente tornò a quei momenti durante la festa, alle immagini di Terence e Karen un po' spettinati e con qualche foglia tra i capelli. E l'intento suo e di Albert di emularli, a Lakewood... Era quella la libertà di amarsi che li accomunava, non c'era dubbio, anche se i suoi amici non avevano atteso il matrimonio per viverla.

Mentre si adoperava per crearle un'acconciatura alta lasciandole delle ciocche a ricadere morbidamente sulle spalle, Candy vide dallo specchio il viso luminoso, gli occhi che brillavano e si riconobbe in quell'espressione piena di gioia e di consapevolezza.

"E tu lo hai già detto a tuo marito?", le chiese lei con noncuranza, facendole cadere di mano tutte le forcine.

"Cosa...? Come...?". Possibile che Karen avesse capito tutto solo vedendola commossa? Quella ragazza era più acuta di quanto credesse! Però, ora che ci pensava, anche la madre di Terence, quando l'aveva salutata, le aveva riservato un sorriso luminoso.

Magari era uno scherzo della sua immaginazione, oppure era davvero prerogativa di chi era madre: ci si riconosceva a un solo sguardo.

"Tesoro, sul tuo viso leggo come in un libro aperto. Se ben ricordi, al tuo fidanzamento mi ero proposta di parlare con te... a proposito, come è andata poi la luna di miele?". Karen si stava incipriando le guance mentre lei raccoglieva le forcine e rischiava di farle cadere tutte di nuovo.

Candy era sempre stata libera, addirittura sopra le righe, ma Karen stava almeno dieci passi davanti a lei. Impersonava l'emancipazione femminile ai massimi livelli, e non perché fosse incinta al suo stesso matrimonio. Riusciva a parlare di argomenti in apparenza delicati con una disinvoltura che nessuna donna poteva eguagliare.
"Siamo molto felici, Karen, e per rispondere alla tua prima domanda... no, non gliel'ho ancora detto. Volevo esserne sicura e sono andata dal medico solo stamattina, ma non volevo che Albert diventasse apprensivo proprio oggi".

Karen si rimirò allo specchio e la ringraziò per averla aiutata con i capelli: "Sai, Candy, c'è un altro motivo per cui ti ho chiesto di venire al posto di mia madre. In realtà... è come se prendessi da te il testimone. Tu hai occupato il cuore di Terry per tanto tempo e forse hai conosciuto una parte di lui che io non conoscerò mai". Si alzò, guardandosi allo specchio, mentre lei la aiutava a sistemare le spalline del vestito perché le maniche a sbuffo avessero il volume desiderato.

"Ti assicuro che, anche se è maturato parecchio, non è poi cambiato molto. Ma tu di certo hai avuto la parte più adulta di lui. Io ho dovuto subire i suoi 'Tarzan Tuttelentiggini' per troppo tempo", sbuffò.

Karen si chinò per prendere un paio di orecchini che erano semplici fili d'oro: immaginò fossero dono di sua madre, ma evitò di domandarglielo: "Io ti sono grata, Candy. Perché penso che se Terence oggi è l'uomo sensibile e appassionato che è lo deve in parte al fatto che ti ha conosciuta. Quando lo vedevo soffrire per te ti ho odiato, non lo nascondo, e volevo solo che ti dimenticasse. E quando finalmente lo ha fatto... mi sono resa conto che ero stata davvero una stupida. Il destino lo creiamo noi, giorno per giorno, e tu avevi già fatto la tua scelta".

Rimase ad ascoltarla, in silenzio, mentre saliva coraggiosamente su un paio di scarpe persino più alte di quelle che aveva indossato al suo, di matrimonio: "La nostra storia non è mai cominciata davvero, e si è spenta in via definitiva quando Susanna ebbe l'incidente. Non so se all'epoca lo conoscessi bene, ma già allora io sono andata avanti con la mia vita e avevo rinunciato a lui".

La sposa si volse per fissarla: era davvero bellissima. "Ho guardato Terence da lontano per tanto tempo, Candy, e oggi posso dire che la mia attesa è stata ben ripagata. Mi piacerebbe che trovassimo il tempo per diventare amiche, adesso. Vorrei sentire direttamente da te cosa combinasse alla Royal Saint Paul School ", concluse con un occhiolino complice.

"E io te lo racconterò volentieri", rise lei mentre bussavano alla porta. "Chi è?", chiese in vece di Karen.

"Candy, perdonami", le arrivò la voce ovattata di Albert da dietro l'uscio, "non per mettervi fretta, ma lo sposo è molto... impaziente".

"Puoi dirgli che arrivo subito e di non fare il bambino, per favore?", ribatté Karen alzando un po' il tono per farsi sentire.

Albert acconsentì con una risata e Candy fece per uscire, così da avvisare il padre di Karen di andarla a prendere per accompagnarla all'altare. Sulla porta, però, ebbe un ripensamento e si voltò per guardarla. Senza pensarci, tornò da lei per abbracciarla, ben attenta a non sciuparle l'abito: "Siate felici, Karen. Sono contenta che Terence abbia trovato una donna come te ".

Lei la liquidò velocemente: "Oh, insomma, ricordati che anche io sono in pieno squilibrio ormonale, non farmi piangere o combinerò un disastro!", si schernì accennando al trucco.

La lasciò con un sorriso e quando raggiunse Albert in Chiesa, in attesa che la sposa attraversasse la navata, si strinse al suo braccio guardando le spalle rigide di Terence. La sua vita era tutta lì: l'amore appassionato della gioventù in attesa della sua futura moglie, l'uomo del suo destino accanto a lei, il segreto del loro amore che cresceva nel proprio ventre.

"Cosa doveva dirti Karen?, le domandò Albert chinandosi un poco per parlarle all'orecchio.

Lei sorrise: "Quando arriverà lo vedrai da te".
 
- § -
 
La neve cadeva leggera e creava un manto che diventava via via più bianco e compatto. Se avesse continuato così, avrebbero avuto un Natale gelido, di lì a tre settimane.
E, di sicuro, gelo era la parola adatta.

Albert sapeva che la resilienza era ormai la qualità che caratterizzava la propria vita e quella della sua famiglia, ma non per questo si era abituato a tutti i colpi che il destino continuava a infliggere loro.

"Perché non vai da lei?", la voce della zia Elroy era morbida, persino dolce. Forse era la prima volta che le sentiva usare un tono del genere riferendosi a Candy.

"Perché non vuole vedere nessuno. Neanche me", rispose senza staccare gli occhi dallo spettacolo ipnotico della neve che volteggiava fino a terra.

La donna sospirò e il rumore dietro di sé gli indicò che si era seduta sulla poltrona: "William, capisco che quello che è successo sia un duro colpo. E non pensare che io voglia entrare in merito a questioni così personali. Ma questo è il momento in cui dovreste essere più uniti".

Albert poggiò la fronte sul vetro freddo, incapace di risponderle. La verità era che non riusciva a insistere con lei, non voleva imporle la sua presenza, anche se moriva dalla voglia di stringerla fra le sue braccia.

Tanto tempo prima era stato in grado di abbracciarla e consolarla, quando era morto Anthony e in tante altre occasioni nelle quali Candy sembrava inconsolabile: ora non era sicuro di avere la forza di affrontare il suo dolore, così simile al proprio.

Nonostante tutto quello che avevano passato lo avesse distrutto e poi ricostruito, c'erano ancora eventi davanti ai quali lui era un semplice uomo che non aveva il pieno controllo. Poteva solo farsi forza e sostenere sua moglie: ma non era in grado di aiutarla se lei non lo desiderava.

Avrebbe semplicemente rispettato la sua volontà.

E lo aveva fatto, per giorni interi, dormendo nella stanza attigua e accontentandosi di sentirla piangere di notte con una mano poggiata sulla porta come se potesse trasmetterle il suo calore. Si sentiva come un fantasma che non poteva toccarla, per quanto tentasse.

Forse Candy non voleva vederlo perché si sentiva irrazionalmente in colpa? O perché lui gli ricordava ciò che aveva perso?

"La perdita l'abbiamo subita di entrambi, amore mio", mormorò sul vetro, appannandolo con le sue parole.

"Come, William? Hai detto qualcosa?", domandò la zia alle sue spalle.

Senza dire nulla, finalmente Albert decise che era ora di superare l'immagine di Candy che gli gridava di lasciarla sola, di andarsene, che non voleva la vedesse in quelle condizioni. Mentre camminava per il corridoio che il chiarore della neve illuminava quasi di luce propria, decise di ignorare la fitta di dolore nel ricordarla divincolarsi dalle sue braccia e gettarsi sul letto, piangendo senza alcuna consolazione.

Bussò alla porta della loro stanza, ma non ottenne risposta, quindi l'aprì. Quello era il loro spazio speciale, quello in cui la sera, quando tornava dal suo ufficio, chiudevano fuori il resto del mondo e potevano ridere, scherzare, chiacchierare e fare l'amore come Candy e Albert.   

Senza inibizioni, senza regole.

Lì avevano parlato per ore di Karen e Terence, di Annie e Archie, di Patty e Duncan e persino dei mal di testa della zia Elroy, dei balli di beneficienza che avevano e avrebbero dato... e lì, Candy gli aveva confessato quel dolce segreto che si era appena tramutato in un incubo.

"Candy, non respingermi, per favore. Hai bisogno di me... e io di te", disse con voce tremante, deglutendo dolorosamente.

Era stesa sul letto, girata per metà verso la finestra, i capelli scomposti sparsi sul cuscino e sulla fronte.

"Candy... tesoro, rispondimi", continuò in tono disperato.

Gli occhi rimasero spalancati, fissi verso la finestra, luminosi di lacrime che stavano per essere versate.

Senza più esitazioni, raggiunse il letto e vi sedette, voltandosi verso di lei. Si sfilò le scarpe e si stese accanto a Candy. Con infinita dolcezza, Albert allungò una mano per carezzarle la guancia e quello fu come un segnale per lei di lasciarsi andare. Sentì l'umidità bagnargli le dita e le si fece un po' più vicino, affondando il naso tra i suoi capelli.
"Piangi, amore mio, piangi per il nostro bambino", mormorò con voce incrinata, senza smettere di accarezzarla.

"Non riesco ad accettarlo, Albert, non ci riesco", pianse lei poggiando il capo sul suo petto, allungando l'altra mano per stringere la sua.

Quel gesto lo commosse profondamente. Non si sentì più respinto, lei aveva appena acconsentito ad essere consolata di nuovo.

"Lo so, non lo accetto neanche io. Ma dobbiamo andare avanti, Candy... Noi avremo un figlio, un giorno, lo so", mormorò intrecciando le dita con le sue e abbassando l'altra mano per stringerla in vita.

Candy alzò il viso madido su di lui e Albert tentò di sorriderle anche se la vista gli si appannava, il bruciore al petto saliva in gola e il respiro accelerava. Quando lei riprese a piangere più forte aggrappandosi disperatamente a lui, però, si arrese.

Le labbra si contrassero in una smorfia, il dolore uscì in risonanza con quello di sua moglie e, dove una volta c'erano stati gemiti pregni di passione, ora risuonavano i loro pianti sommessi e composti.
 
- § -
 
Annie era nervosa. Sapeva che, qualunque cosa fosse accaduta, suo marito sarebbe stato al suo fianco e l'avrebbe sostenuta e che la loro vita sarebbe semplicemente andata avanti.

Ma tornare a Chicago dopo quasi un anno di assenza, senza sapere se aveva ancora una casa e dei genitori, era frustrante.

Mentre Archie guidava silenziosamente, scoccandole un'occhiata di tanto in tanto, lei guardava fuori dal finestrino con il viso sulla mano e il gomito appoggiato alla portiera. I suoi amici e persino Miss Pony e Suor Lane erano tutti felici per lei, anche se queste ultime non avevano mancato di scriverle quanto il suo comportamento fosse stato a dir poco avventato. Non poteva biasimarle, erano ancora convinte che parlare fosse sempre l'unica soluzione e che il rispetto verso i propri genitori prescindesse da qualunque cosa.

Ne era stata convinta anche lei. Fino all'ultimo istante. Fino al momento in cui aveva di nuovo arrotolato le lenzuola e si era lanciata nell'avventura più grande della sua vita dal balcone della propria stanza di Chicago.

"Vuoi che ci fermiamo a mangiare qualcosa?", propose Archie e lei si rese conto che era quasi ora di pranzo. Erano in viaggio da tre giorni e, nonostante le tappe, si sentiva stremata. Certo, non tanto quanto doveva esserlo lui... chissà che faccia avrebbe fatto se gli avesse proposto di insegnarle a guidare, così da potergli dare il cambio!

"Guarda laggiù, quel localino sembra molto accogliente!", gli disse indicando un ristorante con un delizioso pergolato.

Mentre scendevano dall'auto e lui le apriva la portiera, Annie ripensò all'idea che aveva avuto di regalargli una festa di laurea degna di essere chiamata tale, e si augurò che tutto fosse pronto per il giorno stabilito. Non che i loro personali festeggiamenti fossero stati da meno, ma Archie si meritava decisamente di meglio.

"Tesoro, sembri proprio con la testa fra le nuvole, oggi", le fece notare mentre le versava il vino nel bicchiere e aspettavano i loro piatti. Avevano optato per un tavolo all'aperto, visto che la temperatura era gradevole e il profumo di fiori della campagna circostante era inebriante.

Per poco non fece cadere il bicchiere mentre se lo portava alle labbra: "Cosa? Oh, no, sono solo stanca!".

Lui si accigliò, guardandola con attenzione: "Non mentirmi, Annie. Sei preoccupata perché non sai come reagiranno i tuoi genitori, vero?".

In realtà, la sua mente vagava da quel pensiero fisso a quello, più prosaico, della festa a sorpresa, ma non le fu difficile annuire e ammettere la mezza verità: "L'ultima volta che mi ha scritto, mia madre ha detto che avremo modo di parlare di persona, quindi mi aspetto che ci convochino insieme, prima o poi".

Il cameriere che portava loro le insalate li interruppe e mangiarono per un po' in silenzio. Poi Archie posò la forchetta e disse lentamente: "Qualunque cosa accada, Annie, ormai sei mia moglie e non mi interessa che il tuo primo cognome sia Brighton o nessuno. Ti presenterò in società con orgoglio e a testa alta!".

Le sue parole la commossero nel profondo: le voci di corridoio e qualche articolo scandalistico volevano addirittura che fossero scappati insieme in qualche località del sud America, ma la presenza di Archie all'università aveva gettato nella confusione persino i giornali, ai quali si erano ben guardati dal lasciare dichiarazioni, cercando di rimanere il più possibile nell'ombra.

Per fortuna, l'influenza degli Ardlay aveva impedito che altre supposizioni molto fantasiose finissero ancora nero su bianco e Annie sperava ardentemente che nessun giornalista si intrufolasse nella festa privata che si sarebbe tenuta a Lakewood.

"Grazie, amore mio, non sai quanto queste tue parole mi facciano sentire più leggera. Per quanto mi riguarda, cercherò di essere sempre una brava moglie e continuerò a prendere lezioni di piano e di buone maniere!", si fomentò sporgendosi verso suo marito che le sedeva di fronte.

"Non ne hai bisogno, Annie, sei già perfetta così", ribatté lui prendendole la mano attraverso il tavolo.

"Ma guarda che strana coincidenza!", la voce maschile li fece sussultare entrambi e, quando Annie alzò il viso, non poté credere ai suoi occhi.

Terence Graham li stava fissando con un'espressione stupita: in braccio aveva un bambino che non poteva avere più di due mesi e al suo fianco c'era quella che doveva essere sua moglie.

"Accidenti quanto è piccolo il mondo!", commentò Archie alzandosi, mentre lui faceva le presentazioni. Candy le aveva scritto che Terry si era fidanzato ed era in procinto di sposarsi, ma curiosamente nessun giornale aveva riportato la notizia del matrimonio, né della nascita del loro primogenito.

Scoprì che tutti e quattro avevano avuto validi motivi per mantenere un profilo basso, e quello di Terence e Karen stava dormendo beatamente fra le braccia di suo padre: Annie lo guardò con un misto di tenerezza e desiderio. Lei e Archie avevano stabilito che non potevano pensare ai figli finché lui avesse dovuto studiare, ma ora di fatto era laureato, e perciò...

Scoccò un'occhiata a suo marito, che stava ridendo per qualcosa che aveva detto l'attore e pensò che gliene avrebbe parlato alla prima occasione.

"Chiediamo un tavolo più grande per mangiare tutti insieme", propose attirando consensi entusiasti.

"Allora, come mai da queste parti anche voi? In gita con il piccolo... come si chiama, a proposito?", chiese Archie spezzando un panino a metà.

"Lui è James Charles Graham", disse Karen riprendendo il bambino che stava cominciando a svegliarsi e a piangere, "io e Terence abbiamo scelto un nome per uno. Io ho scelto il primo perché è quello di mio padre: dovevo farmi perdonare in qualche modo per essermi fatta mettere incinta prima di sposarmi...", spiegò alzando le spalle, con una disinvoltura che fece arrossire lei e rimanere a bocca aperta suo marito.

Terence si schiarì la gola, interrompendo il momento d'imbarazzo: "Per quanto riguarda il motivo del nostro viaggio, invece, siamo partiti col treno da New York, ma visto che abbiamo perso la coincidenza e James non ama molto i treni abbiamo affittato una macchina. Andiamo a Chicago proprio per una festa....".

Annie spalancò gli occhi cercando il contatto visivo con Terence: aveva detto a Candy che poteva invitare chi voleva, nell'ambito della famiglia, ma non credeva che avrebbe invitato proprio loro e che si sarebbero persino incontrati poco prima dell'arrivo. Per fortuna, Terence capì i suoi ammiccamenti e fu lesto a cambiare la frase, prima che Archie, impegnato con la sua bistecca, alzasse gli occhi su di loro: "... una festa di beneficienza".

"Una festa di beneficienza? E siete partiti con il bambino da New York?", chiese lui, stupito.

Karen alzò gli occhi al cielo e intervenne, cullando il piccolo che ora piangeva apertamente: "Oh, sai com'è, Archibald, anche se ormai saremo fuori dal giro per un bel po', la compagnia Stradford si muove e ogni tanto ci sono degli eventi a cui partecipano gli attori". Incrociò il sopracciglio alzato di Terence e si affrettò ad aggiungere: "E gli ex attori".

"Quindi a quel punto sarete costretti a uscire allo scoperto e a dare la bella notizia ai giornali", commentò Archie roteando la forchetta in aria con un sorriso.

"Sì", fece Karen.

"No", ribatté Terry nello stesso momento.

Annie si portò una mano alla fronte, mormorando un "oh, no" che per fortuna passò inosservato.

"Scusate, mi allontano per allattare questo piccolo mangione!", intervenne Karen, provvidenziale, e la discussione cadde momentaneamente lì.

Mentre Archie tornava alla sua carne stringendosi nelle spalle e lei affondava il cucchiaio nella zuppa, Terence sorseggiò il vino, poi tornò a guardarli.

"Candy ha inviato una lettera a Karen, qualche mese fa, ma poi non abbiamo avuto più notizie. Sapete come stanno lei e Albert?".

Quella domanda interruppe il loro pasto e tre paia d'occhi s'incrociarono. Seri, consapevoli.

"Voi... avete saputo...?", iniziò Archie con tono mesto.

Lui annuì, muovendo il bicchiere con un movimento lento e circolare, guardando il liquido rosso come ipnotizzato: "Sapete anche voi com'è Candy, non vuole mai far preoccupare nessuno, ma Karen si era accorta della sua gravidanza, benché al nostro matrimonio fosse solo allo stadio iniziale e quando lei le ha scritto chiedendole come procedesse... beh, non ha potuto farle a meno di raccontarle il triste epilogo", spiegò.

Annie sospirò: "Con me si è sfogata perché sono come una sorella, ma mi ha anche detto che stava superando il brutto momento grazie ad Albert e persino alla zia Elroy".

"Candy è una combattente e anche un'infermiera, sono certa che la ritroveremo serena come suo solito", sopraggiunse Karen tenendo il bambino appoggiato alla spalla, battendogli piano sulla schiena per fargli fare il ruttino.

Di nuovo, Annie si commosse e si ripeté che doveva parlare con Archie della possibilità di avere un figlio.

"Quindi andrete a trovarla", s'intromise Archie prendendo in mano il suo bicchiere.

Annie ricominciò a sudare freddo: "Beh, mi sembra evidente! Ti pare che vanno a Chicago senza farle visita?", disse guardando significativamente la coppia.

"Già, e dovrete anche presentarle questo giovanotto! Karen, pensi che possa tenerlo un pochino io?".

Annie si ritrovò a guardare suo marito con il bimbo, dapprima piangente e poi tranquillo fra le braccia. Lo fissava con una tenerezza tale che capì subito quanto sarebbe stato felice di dirle di sì.

In cuor suo, sperò che tutto sarebbe andato per il meglio: per loro, per Candy e anche per Terence e Karen e per la loro carriera futura. Quell'incontro e quel viaggio sembravano davvero l'inizio di una nuova vita per tutti.

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Capitolo 89
*** Festa a sorpresa ***


Attenzione: questo capitolo contiene una scena dai contenuti piuttosto espliciti


Festa a sorpresa

Candy uscì dalla cucina ridendo e dando ai cuochi e alle cameriere le ultime istruzioni perché la festa a sorpresa per la laurea di Archie fosse esattamente come la voleva Annie.

Nonostante la stanchezza per i giorni di lavoro alla Clinica Felice, che aveva ridotto a tre alla settimana, le lezioni della zia Elroy su come controllare la casa le stavano tornando davvero utili. Adesso sapeva come organizzare un evento perché fosse all'altezza del loro nome e come contattare gli invitati nel modo in cui si conveniva alla matriarca.

Certo, aveva dovuto scrivere solo a Patty, Terence e Karen e pochi altri, ma la verità era che, quando tornava alla Casa di Pony, alle volte Miss Pony, Suor Lane, Tom, Jimmy e tutti gli altri la riconoscevano a malapena finché non decideva di arrampicarsi su un albero con suo marito o di mettersi a correre a piedi nudi sull'erba.
Era diventata una vera signora, anche se aveva ancora molto da imparare, eppure non aveva perso il suo spirito libero e giocoso, un po' come Albert che sapeva concludere affari importanti con uomini del calibro di Rockfeller, ma anche mettersi a giocare con bambini e animali senza curarsi dell'etichetta.
Era quella la loro forza: rimanere sempre loro stessi.

Mentre tornava in camera, pensò che i momenti difficili non erano mancati. Così come le risate, con suo marito aveva condiviso il dolore e le lacrime per la perdita del loro primo bambino, di cui avevano sognato l'arrivo per settimane, prima che accadesse l'impensabile.

Era stata per giorni in una sorta di limbo, divisa tra senso di colpa, dolore e desiderio di rimanere da sola senza riuscire nemmeno ad aggrapparsi ad Albert: temeva di condurlo verso un'ulteriore sofferenza, come se non potesse provarla anche standole lontano, e di non riuscire a contenere la propria.
Invece, piangere fra le sue braccia e condividere i dolori al pari delle gioie, proprio come si erano promessi ancor prima di fidanzarsi, era stato l'unico modo per cominciare a rivedere la luce.

Il ricongiungimento con Albert aveva coinciso anche con la prima conversazione davvero intima ed emozionale con la zia Elroy che, certamente provata da quell'evento almeno quanto loro, aveva capitolato e aveva bussato discretamente alla porta della sua stanza quando sapeva che era sola e Albert al lavoro.
Il ricordo di quel pomeriggio le s'insinuò nella mente senza il suo permesso.

"Candice, posso entrare?". La voce della zia Elroy dietro alla porta la stupì. In realtà, a parte Albert, Candy non aveva molta voglia di vedere altre persone, ma la lasciò entrare per educazione.

Per la prima volta in vita sua, la zia sembrava a disagio e si sedette su una poltrona accanto al letto, come se si sentisse di troppo. Quel gesto e quella postura la incuriosirono e la distrassero dal proprio dolore e Candy si ritrovò a chiederle se voleva un tè o una tisana: il salottino attiguo era ben attrezzato e l'unica stanza cui si poteva accedere da lì era quella di Albert, che lui aveva utilizzato solo durante quei giorni difficili.

La donna scosse la testa e si mise a tormentare l'orlo del proprio vestito: "Candice, so che io e te non abbiamo mai avuto modo di parlare molto, se non di buone maniere e del modo migliore di trattare con la servitù", disse senza guardarla, un leggero velo di sudore che le imperlava la fronte nonostante fosse inverno e il caminetto ancora spento.

"Zia Elroy", tentò lei.

"Ciononostante voglio che tu sappia che sono ben consapevole sia del tentativo di Eliza di nuocerti che della sofferenza che ha attanagliato te e mio nipote durante il periodo in cui eri senza memoria. Non credevo che un giorno mi sarei vergognata di quella che credevo una nipote, al pari di suo fratello Neal, e che invece...  sarei stata orgogliosa di te, la moglie di mio nipote". La voce della zia era carica di emozione e Candy sentì un nodo stringersi in gola, perché mai aveva udito da lei un tale trasporto e una tale sincerità. Persino quando l'aveva ringraziata per essersi presa cura di Albert, prima del loro fidanzamento, era riuscita a rimanere fredda e composta.
"Tu, Candice, hai sempre avuto un cuore nobile", continuò, "come se le tue origini modeste ti avessero indotta ad affrontare il mondo in maniera meno prevenuta, tirando fuori il meglio che solo poche persone hanno nell'animo. In questo sei molto simile al mio William... e anche a mio fratello, seppure lui fosse più ligio a certe regole".

Candy assecondò il desiderio della zia di aprirsi e mormorò solo un timido "grazie", soffocando le lacrime che stavano già per traboccare dagli occhi.

"Candice", la chiamò a un certo punto, alzando su di lei gli occhi sorprendentemente lucidi: "anche io ho avuto un lutto come il tuo".

Quella confessione la colpì come uno schiaffo e lei la fissò con le palpebre spalancate: "Oh, zia...!". Non poteva dire altro.

"Sono stata sposata per qualche anno, ma Dio non mi ha mai concesso di essere madre. Poco dopo avere scoperto di aspettare finalmente il mio bambino, mio marito è morto in un tragico incidente e io l'ho perso per il dolore". La zia Elroy distolse lo sguardo, nascondendo il viso in un fazzoletto, e Candy non poté fare a meno di inginocchiarsi al suo fianco, stringendole una mano gelida tra le sue, dando libero sfogo alle lacrime.

Non si aspettava una cosa simile, non sapeva nemmeno se Albert ne fosse a conoscenza. Solo più tardi, parlandone con lui, scoprì che in effetti quella storia era stata appena accennata, come se parlarne poco servisse a rinchiudere il dolore nell'apparente maschera di freddezza della prozia.

"Non avevo che i miei nipoti e questo mi ha resa spesso iperprotettiva ed eccessivamente severa. Ma oggi posso dire di avere trovato in te un'altra nipote, e bada che non lo dico perché condivido con te questa croce, ma perché sento che è la verità". Mentre piangeva, Candy sentì la mano tremante della zia Elroy sul capo e volse su di lei lo sguardo.

"Zia, mi dispiace, mi dispiace tanto. Non sapevo che anche tu...". Quell'improvvisa confidenza non parve darle fastidio e la donna le sorrise, negli occhi brillavano nuove lacrime.  

"Figlia mia, una donna nasce per soffrire: spesso è costretta a sposare un uomo che non ama, poi deve mettere al mondo dei figli e talvolta è destinata a vederli morire. Ma se è forte e affronta il suo avvenire con coraggio, può anche essere felice e io sono certa che tu e William avete tutte le carte in regola per donarvi reciprocamente la gioia. Un giorno sarai madre e lui padre, mentre io sarò di nuovo prozia e il cerchio si chiuderà. Sii forte come sei sempre stata e goditi la fortuna di avere tuo marito al tuo fianco".

Aveva pianto con la zia Elroy per lunghi minuti, prima che lei decidesse che era abbastanza e la lasciasse di nuovo sola con i suoi pensieri.

Ciò non aveva lenito la paura, né la sofferenza, e c'era voluto del tempo prima che Candy accettasse di arrendersi di nuovo alla possibilità di mettere al mondo un altro figlio.
Tirando fuori il vestito che avrebbe indossato, Candy si posò una mano sul ventre già arrotondato e decise che era passato un tempo più che sufficiente. Nascondere ad Albert la sua gravidanza era stato complicato, specie quando le nausee mattutine rischiavano di diventare evidenti: ma doveva dire che i suoi impegni lo portavano ad alzarsi quasi sempre così presto che non aveva avuto tempo di accorgersi del suo malessere.

Quando il dottor Martin glielo aveva confermato, tre mesi prima, aveva pianto in preda alla gioia, alla speranza e al terrore. Andare al lavoro era stato terapeutico per lei, perché la rassicurava ogni mattina in cui poteva farsi visitare e le dava il coraggio per affrontare la giornata a casa con meno timori.

Per assurdo, era durante i suoi giorni liberi che stava più in ansia e aveva dovuto inventare decine di scuse con Albert per non arrampicarsi più sugli alberi ed evitare attività pericolose nei boschi, ma fortunatamente la stagione rigida e gli impegni di lavoro erano stati provvidenziali.

Stavolta andrà tutto bene, me lo sento. Deve andare bene. Dopo la festa glielo dirò.

Quella sera avrebbe rivisto Annie, Archie, Patty, Terry e Karen e il calore della sua famiglia le avrebbe dato forza ulteriore per andare avanti con la sua vita. Se Dio avesse voluto, entro la primavera dell'anno successivo avrebbe avuto fra le braccia il figlio suo e di Albert.
 
- § -
 
Archie era senza parole.

Aveva capito che qualcosa bolliva in pentola nel momento stesso in cui Annie gli aveva proposto di andare a Lakewood a trovare Candy e Albert, che si trovavano lì per una breve vacanza.

"Tesoro, magari vogliono stare da soli, saremmo di troppo!", aveva protestato mentre lei già si cominciava a truccare e a sistemare i capelli.

"Oh, Archie, dopo un anno che non li vediamo saranno contenti di rivederci, ne sono più che sicura!", aveva risposto lei con noncuranza.

Da quando aveva messo piede al Cancello delle Rose, tutto gli era parso strano: il silenzio che sembrava avvolgere la villa, le lanterne che erano state posizionate di proposito per illuminare il giardino fino all'entrata e persino Annie che aveva aperto la porta principale correndo all'improvviso davanti a lui, senza neanche bussare.

Lo aveva fatto lentamente, sporgendosi dentro come per sincerarsi di qualcosa, quindi l'aveva spalancata ed era entrata camminando all'indietro: lo avevano accolto un boato, della musica e persino alcuni palloncini!

Gli abbracci e la gioia per il loro ritorno si erano mescolati alle congratulazioni per la sua laurea e lui si era ritrovato, commosso e un po' imbarazzato, a rivedere tutta la sua famiglia riunita. Persino gli occhi della zia Elroy erano luminosi e più morbidi quando guardava Annie: "Mi sono sbagliata sul suo conto tanto quanto mi sbagliavo su Candice. Potrai mai perdonarmi, figliolo?", aveva detto con voce leggermente tremante.

Archie si era limitato a rimanere stupito e a stringerla in un abbraccio, prima che Albert dicesse loro che era tempo di danzare e non di piangere.

Così, mentre ballava con la zia Elroy, Archie passò in rassegna le altre coppie: i padroni di casa sembravano volteggiare in un mondo tutto loro, parlando con quella complicità che solo gli anni e l'amore sincero riescono a indurre. Dai gesti e dal labiale si rese conto che stavano proprio discutendo di quanto fosse riuscita bene quella festa, ed era sicuro che lui le stesse facendo i complimenti.

Annie stava ballando con George, sempre impeccabile con il suo completo scuro e i baffi ben curati, ma con in viso l'espressione rilassata dell'uomo d'affari che non abbia preoccupazioni: sperava di poter affiancare lui e Albert quanto prima.

I suoi genitori sembravano più affiatati di un tempo e, nonostante pensò di averli fatti penare non poco con la sua decisione di sposarsi lontano da casa, mentre ancora stava studiando per giunta, sapeva che lo avevano già perdonato e adoravano Annie.

Ma chi lo lasciò più sorpreso fu Patty. Parlando brevemente con Candy aveva scoperto che Duncan era solo suo amico ma, chissà per quale motivo, aveva pensato bene di chiedergli di accompagnarla in quel viaggio assieme ai suoi genitori. Sapeva che avevano stabilito di consentire agli ospiti di portare chi volessero, ma non avrebbe mai immaginato che Patty portasse un ragazzo.

Annie gli aveva parlato di lui, perché nelle sue lettere la ragazza le aveva confidato di aver trovato in Duncan una persona speciale con la quale sperava di poter aprire di nuovo il suo cuore. Anche se non avevano mai approfondito l'argomento, Archie si sorprese ad essere sinceramente felice per lei: per quanto il ricordo di suo fratello fosse sempre presente in lui, non voleva certo che Patty rimanesse ancorata alla sua memoria per tutta la vita. Sospettava comunque che Candy e la stessa Annie avessero insistito un po' con lei perché lo portasse a Lakewood per conoscerlo, adducendo al fatto che non ci fosse nulla di male se erano compagni di università.

E, se fossero stati fiori, sarebbero sbocciati.

"Permette, signora Ardlay?", la voce da perfetto gentiluomo di Terence fece terminare il suo turno di ballo con la zia, che passò con grazia tra le braccia del mancato Duca di Grandchester chiedendogli come si fossero conosciuti con Candice e William.

"Auguri!", sillabò mentre lui gli rivolgeva un sorrisetto contrito, forse rendendosi conto che si era appena messo nei guai da solo.

"Abbi cura di mia moglie e non stringerla troppo", lo apostrofò allontanandosi e lasciandogli Karen in quel valzer morbido.

Entrambi alzarono gli occhi al soffitto: "È sempre così geloso o solo quando partecipa a un ballo?".

"Oh, non sai cosa ha fatto quando il medico mi ha portata in corsia perché stavo per partorire! Pretendeva di entrare e ha persino fatto appello al nome che aveva rinnegato!", ribatté lei roteando le pupille con fare tragico.

Archie scoppiò a ridere: "Immagino la scena! A proposito, dove avete lasciato il piccolo?".

"Candy ha predisposto delle tate che se ne occupino e che mi vengano a chiamare se reclama troppo: ha pensato davvero a tutto", disse accennando a lei, che stava alla loro destra sempre allacciata ad Albert.

Stava per ribattere qualcosa sull'efficienza di Candy, quando nella sala calò il silenzio: le coppie si erano voltate per guardare qualcuno che entrava e i musicisti si fermarono all'improvviso.

Annie, che stava ballando con Duncan e intrattenendo con lui una conversazione che gli era apparsa, per il breve momento in cui li aveva scorti, più una sorta di interrogatorio, si portò le mani alla bocca come se non potesse credere ai suoi occhi.      

Archie lasciò ricadere pesantemente il braccio con cui stava tenendo Karen per il fianco ed ebbe una reazione molto simile.

I signori Brighton erano appena entrati.

Lanciò un'occhiata allarmata a Candy, che sorrideva in preda a un'evidente emozione e capì. Capì che era intervenuta, intercedendo per lei e probabilmente aprendo il suo grande cuore ai genitori di Annie perché perdonassero la loro unica figlia.

Fu sua madre a fare qualche passo esitante verso Annie, per poi avvicinarsi a lei con decisione e chiuderla in un abbraccio che ricambiò con fervore, cominciando a piangere e a chiamarla, come avrebbe fatto una bambina piccola.

Con gli occhi che gli bruciavano per quel momento così intenso, Archie si accorse che anche il signor Brighton stava incedendo e avvolgendo tra le sue, di braccia, la moglie e Annie, in un quadro familiare così perfetto che partì un applauso spontaneo, pieno di lacrime e di sospiri commossi.

 "Tieni, ragazzo sensibile", disse Karen facendolo sussultare. In mano aveva un fazzoletto e glielo stava porgendo, ma anche lei si stava asciugando gli occhi con il dorso della mano.

"Grazie, non mi serve", disse altezzosamente, guadagnandosi un'occhiata perplessa.

Passato il momento commovente, i signori Brighton si avvicinarono a lui e Archie si ricompose, irrigidendosi.

"Io...", cominciò, pronto a difendere il loro matrimonio senza remore. Ma non ce ne fu bisogno. Il padre di Annie gli diede una vigorosa stretta di mano e la signora accettò il suo educato baciamano.

"Perdonatemi se vi interrompo", intervenne Albert posandogli una mano sulla spalla, ma volendo includere tutti in quel gesto: "Se volete parlare con calma, in biblioteca ci sono poltrone e bevande già predisposte. Potete accomodarvi quando desiderate".

Da perfetto padrone di casa, Albert li scortò nella stanza e li lasciò soli. Lì, Archie si accorse che non c'era bisogno di grandi spiegazioni perché era tutto molto lineare e semplice: i Brighton si erano resi perfettamente conto che la loro figlia era in una fase di ribellione che non riuscivano più a controllare, tanto che aveva preso una decisione drastica.

"Sono sincera, non credevo che vi amaste al punto da sposarvi in segreto... no, Archibald, lasciami finire. So che Annie è stata quella che ha preso l'iniziativa, ma non puoi negare che, alla fine, questa decisione l'avete presa insieme. C'erano molti motivi per i quali io e mio marito non eravamo d'accordo con questa unione, alcuni che riteniamo ancora validi, altri che forse avevano bisogno di una riflessione ulteriore...". Sospirò, guardando Annie che le sedeva accanto sul divano che stavano condividendo.

Lui, seduto sulla poltrona di fronte a loro, si sentiva quasi un estraneo, ma era un pensiero davvero sciocco, perché in realtà tutto si stava sistemando alla velocità della luce.
"Archibald, Annie...", intervenne il signor Brighton, "ormai non ha più importanza, perché siete sposati davanti a Dio e noi vogliamo bene alla nostra Annie", disse abbracciandola. "Non nego che siamo stati molto in collera con lei e che non sapevamo cosa fare. Candice... la signora Ardlay, che un giorno di tanti anni fa volevamo adottare, ci ha aperto gli occhi, aiutandoci a comprendere che ci sono cose più grandi e importanti dell'etichetta e della buona creanza. E non nego che vedo questi motivi riflessi nei suoi e nei vostri occhi".

Annie si alzò, cambiando posizione e raggiungendolo e lui fece altrettanto, prendendole le mani e guardandola negli occhi. Ora gli sembrava che tutto fosse davvero al proprio posto: "Io amo sinceramente vostra figlia, e anche se non vi ho chiesto in via ufficiale la sua mano... vi domando il permesso di continuare a renderla felice per il resto delle nostre vite", disse serio, rivolto a entrambi.

I due coniugi si alzarono a loro volta, guardandosi negli occhi e poi fissando loro con un sorriso: "Dovrai vedertela con me, giovanotto, se non rendi felice la mia bambina!", disse il signor Brighton con tono fermo, facendolo quasi sudare freddo.

E mentre il ghiaccio finiva di sciogliersi, Archie ringraziò mentalmente Candy, Dio e chiunque avesse contribuito a risolvere una questione che sembrava destinata a rimanere complicata e spinosa. E giurò che avrebbe davvero reso felice Annie. Ogni giorno della sua vita.
 
- § -
 
Albert si slacciò il papillon e i primi bottoni della camicia, togliendosi la giacca e lasciandola scivolare su una sedia, mentre Candy provvedeva ad allentare i polsini del suo abito rosso a motivi floreali che aveva sognato di toglierle per tutta la sera.

Le discussioni riguardanti la bella serata e il ricongiungimento di Annie con i suoi genitori si erano esaurite: ora erano di nuovo, solamente, Candy e Albert nell'intimità della loro stanza.

E, infine, venne il momento tanto agognato nel quale lei, proprio come aveva fatto con il suo abito da sposa mesi prima e come faceva ogni sera quando lui era in casa e nessuna cameriera saliva in camera per aiutarla, si voltava con il viso verso di lui dandogli la schiena, le mani protese sui bottoni in una chiara richiesta di supporto.
In due passi, mentre si apriva ulteriormente la camicia, la raggiunse e cominciò con quel compito delizioso, facendole scivolare l'abito ai piedi in un bisbiglio e cominciando ad adoperarsi con i lacci del corsetto subito dopo: "Non sei troppo stanca, stasera?", le sussurrò avvicinandosi all'orecchio.

Era da qualche tempo che, nonostante la ritrovata intimità, sua moglie si addormentava prima del solito. Se lui rientrava tardi, addirittura, la trovava già nel mondo dei sogni e in un paio di occasioni aveva preferito usare la stanza attigua per non svegliarla.

Albert sapeva che per sua moglie tornare alla normalità dopo quanto le era accaduto era stato un processo lungo e doloroso e l'aveva vissuto assieme a lei con pazienza e amore, ma da un po' gli sembrava che le cose fra loro fossero di nuovo regredite. Candy preferiva fare l'amore con lui in modo totalmente diverso, tanto che, dalla fine di quella primavera, gli aveva permesso di entrare in lei solo un paio di volte.

Aveva cercato di chiederle cosa ci fosse che non andava, se avesse dolore, se fosse ancora triste per la perdita del loro bambino, ma lei aveva sempre dato risposte vaghe, cercando di distrarlo con le sue carezze e con gli approcci totalmente nuovi che avevano imparato a sperimentare insieme.

Gli rimanevano mille dubbi, ma non voleva insistere, né forzarla, pur se spesso si ritrovava a pensare che si sarebbero meritati una seconda luna di miele per ritrovare una connessione che stava già vacillando.

"No, amore mio, non sono stanca. Stasera ti desidero... completamente", disse lei con voce roca, voltandosi a fronteggiarlo e lasciando cadere il corsetto, incollandogli al petto il seno nudo e più pieno di quanto ricordasse.

Con gli occhi annebbiati dalla passione, Albert si rese conto che l'ultima pausa era stata piuttosto lunga e non era sicuro che avrebbe mantenuto pazienza e sanità mentale per molto, specie dopo quelle parole. Nonostante adorasse i modi estrosi con cui avevano imparato a darsi piacere a vicenda, gli mancava terribilmente perdersi in lei fino a toccarle l'anima.

Cercando di essere più tenero possibile, fece scivolare le mani sul seno di Candy, strappandole un lungo gemito di assenso. Sì, erano decisamente più... pieni e non capiva se dipendesse dalla golosità di lei che nell'ultimo periodo era aumentata fino a farle divorare anche due fette di torta in un solo pasto o dal desiderio a lungo represso che esaltava ogni sensazione.

La liberò della sottoveste e della biancheria intima con gesti lenti e calcolati ma, quando la depose sul letto e la vide nuda e pronta per lui, quasi si strappò di dosso i propri vestiti.

"Volevo farlo io", disse lei, imbronciata, mentre Albert le si posizionava accanto.

"Troppo tardi", disse rauco sul suo collo, circondandole la vita con il braccio sinistro e abbracciandola da dietro, spingendosi contro di lei per sentire la morbidezza delle sue curve contro il proprio corpo che fremeva in attesa.

Anche se dentro di lui la passione gli gridava a gran voce di averla subito e completamente come lei aveva suggerito, Albert si prese tutto il tempo per accarezzarla come era solito fare, girandola verso di sé solo dopo aver percorso con la mano la strada infuocata che dai seni scendeva sulle cosce, le gambe, le caviglie, per poi risalire fin dove lei s'inarcava per indicargli che era più che pronta per lui.

Allora, appoggiandosi su un gomito e sovrastandola, ricominciava il viaggio da capo usando anche le sua labbra, partendo dalla bocca, proseguendo sul collo morbido dove sentiva pulsare il sangue come impazzito per poi catturare il seno.

"Albert, non farmi più aspettare", lo supplicò interrompendo la discesa che lo aveva portato a tracciare piccoli cerchi con la lingua intorno al suo ombelico.

Alzò la testa, sbattendo le palpebre per guardarla: il viso arrossato, il respiro accelerato e le labbra socchiuse, stava allungando le braccia per stringerlo contro di sé. E chi era lui, per non accogliere quella supplica tanto accorata?

Si posizionò su di lei con cautela, senza interrompere il contatto visivo, indugiando laddove voleva solo entrare con un'unica spinta: "Sei sicura...?", domandò tra gli ansiti.
Per tutta risposta, lei gli afferrò i fianchi con le gambe e concluse la loro unione strappandogli un gemito strozzato e spazzando via incertezze, dubbi e domande.

Fu sorpreso di sentirla stringersi attorno a lui e sussultare solo dopo poche spinte, invocando il suo nome mentre gli affondava le unghie nella schiena. Colto alla sprovvista da quell'urgenza e da quella passione dopo tanti mesi di titubanze, Albert si lasciò andare, concedendosi di raggiungere il proprio, esplosivo piacere nel corpo della moglie senza trattenersi oltre.

"Candy", disse quasi in un ringhio, perdendosi poi in gemiti sconclusionati mentre tutto il suo essere veniva risucchiato e rilasciato in lei.

Incredibilmente, mentre era ancora scosso dai suoi stessi spasmi, avvertì chiaramente l'estasi di sua moglie ripetersi e intensificò i movimenti per darle maggior piacere. Esausti e allacciati in quello che forse era stato il loro abbraccio amoroso più breve da quando si erano sposati, ripresero una respirazione normale solo dopo alcuni minuti.
"Dovremmo organizzare ricevimenti del genere più spesso", disse con voce ancora roca, scostandole dalla fronte un ricciolo sudato.

Lei si mise a ridere, rovesciando la testa all'indietro: "Sì, sono d'accordo, ma ti assicuro che non è stato il ballo a rendermi più... intraprendente, stasera".

Alzò un sopracciglio: "Ah, no?", chiese carezzandole una spalla e puntellandosi su un gomito per guardarla.

Lei scosse la testa, sul viso un'espressione dolce e sorridente: "No, è perché finalmente sono serena, Albert, e posso dirti il mio piccolo segreto".

Lui rimase in silenzio, guardandola e non capendo: "Un segreto, amore mio?".

"Mi dispiace che in questi ultimi mesi non siamo stati... molto uniti, ma avevo un valido motivo per... per... voler stare attenta", cominciò.

La gola gli divenne all'improvviso secca, mentre la comprensione scendeva su di lui come una luce accecante: "Candy, vuoi dire che tu... sei...?".

Il sorriso si allargò sul viso di sua moglie, gli occhi verdi ora brillavano come il diamante che le aveva regalato per il loro fidanzamento: "Sì, amore mio. Ormai sono incinta di più di tre mesi e non ci sono pericoli. Tutto va a gonfie vele".

D'impulso, l'abbracciò seppellendo il volto nell'incavo del suo collo, ponendole una mano sul ventre: "Ma perché non me l'hai detto prima?! Diamine, avrei evitato... avrei capito... Candy, dovevo saperlo!".

Lei lo staccò gentilmente per guardarlo, accarezzandogli il viso e i capelli: "Non potevo... non volevo illudere me stessa e te. Non di nuovo. Volevo essere sicura e nello stesso tempo continuare ad essere tua moglie".

Mentre le asciugava le prime lacrime con un movimento leggero del pollice, Albert sentiva i suoi stessi occhi riempirsi delle proprie: "Capisco, tesoro, ma avremmo potuto affrontarlo insieme, parlarne, fare... maggiore attenzione". La voce si stava incrinando e lui deglutì forte. Era felice, confuso, spaventato e colmo di nuova speranza.

"In realtà il medico mi ha detto fin dal primo giorno che bastava attendere un solo mese per sicurezza, ma io sono stata eccessivamente prudente ed è per questo che... insomma, mi sono inventata... lo sai...". Nonostante le lacrime, Candy ridacchiò e lui fece altrettanto, baciandole la fronte.

"Credevo fossi ancora riluttante per quel motivo, amore mio. Per questo non volevo forzarti più di tanto. Da oggi in poi, però, devi essere sempre sincera con me e non parlo solo dell'aspetto fisico. Ricordi? Dobbiamo condividere tutto, anche i timori", le disse riprendendo il controllo delle proprie emozioni, ma sentendosi esplodere il cuore in petto dalla gioia.

"Te lo giuro, Bert. Mi dispiace aver fatto di testa mia, ma ora sono certa che andrà tutto bene. E se avrò paura te lo dirò e tu sarai qui per tranquillizzarmi, vero?".

"Certo, certo amore mio. Grazie per...". Credeva di aver recuperato la fermezza, ma il nodo in gola lo tradì e la voce gli si spezzò: "... per avermi fatto questo dono. Ne avremo cura ogni giorno e presto lo terremo fra le nostre braccia".

E mentre Candy gli posava sul viso madido di lacrime le dita tremanti per asciugarle amorevolmente, Albert capì quanto la sofferenza per la perdita del loro primo bambino e la felicità per l'arrivo del secondo miracolo lo avessero invaso oltre ogni sua aspettativa. Nonostante tutto, la maschera di freddezza che ricostruiva per mantenere l'equilibrio poteva spezzarsi con estrema facilità quando era con Candy.

E, davanti a lei, non si vergognava di mostrarsi fragile ed emozionato tanto quanto non aveva problemi a mostrarsi nudo. Nel corpo, come nell'anima.

Quando sentì sua moglie singhiozzare sul suo petto, Albert capì che era il momento di tornare a sorridere e, passandosi una mano sugli occhi, disse quello che aveva in mente già da un po': "Ora capisco perché il tuo seno sembrava più... grande".

Lei alzò il viso bagnato su di lui. Non piangeva più e sembrava oltraggiata: "Vuoi dire che di solito è... piccolo?", chiese.

"No, Candy, certo che no, ma non puoi negare che la differenza si vede. Beh, si sente anche". Divertito, la vide asciugarsi gli occhi con il polso e tirarsi a sedere per saggiare da sola quella parte del suo corpo.

Vederla fare quel semplice gesto ebbe il magico potere di eccitarlo di nuovo: "In effetti hai ragione", ammise pizzicandosi i capezzoli e quasi strappandogli un gemito, come se lo avesse fatto lui stesso: "E sono anche più sensibili".

Si morse il labbro inferiore, roteando gli occhi su di lui. Non c'era bisogno di altre parole ma, mentre riprendevano, con più calma e dedizione, da dove avevano lasciato, Albert le soffiò in un orecchio: "Faremo molta più attenzione, ma non smetteremo di amarci".

E amarsi fu quello cui si dedicarono per buona parte della notte. 

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Capitolo 90
*** Di reietti e nuove speranze ***


Di reietti e nuove speranze

Una reietta della società.
Ecco cosa sarò quando finalmente uscirò di qui. Se non mi ammazzano prima come hanno tentato di fare con lo zio William.

Eliza doveva sempre far finta di dormire per poter stare un po' in pace con i suoi pensieri e, anche in quei casi, non era raro che la buttassero giù dalla branda in malo modo.
Nonostante i suoi genitori avessero pagato per evitare che le facessero qualcosa di male, non era poi tanto sicura che le guardie avessero veramente occhi dovunque. E lo testimoniavano i lividi, le tirate di capelli, a volte gli schiaffi.

Le era capitato di sentirsi come Candy quando cercavano di metterla in difficoltà o le affibbiavano colpe che non aveva.

Lei non è stata mai costretta a bere la sua stessa urina dal water... né a dormire sul pavimento senza lenzuola.

Rannicchiata come sempre in quei momenti di disperazione, Eliza Lagan pensò che non sarebbe mai sopravvissuta per dieci anni in quell'inferno, e la prospettiva di uscire prima per buona condotta per fare opere di beneficienza le sembrava quasi un miraggio che bramava ogni giorno di più.

Della sua arroganza non era quasi rimasto nulla, perché ogni volta che aveva tentato di reagire o di usare il proprio nome per difendersi aveva ricevuto insulti e persino sputi.

Anche Terence, una volta, l'ha fatto...

Una signorina perbene come lei non doveva finire così, era semplicemente abominevole! Eppure non pensava che sua madre se la passasse meglio: l'ultima volta che era andata a trovarla, per avvisarla che sarebbero ripartiti per la Florida, aveva un livido sullo zigomo.

Avrebbe preferito essere picchiata da suo padre anche lei, piuttosto che rimanere lì.

Le lacrime le salirono agli occhi e cominciò a singhiozzare il più silenziosamente possibile, scossa da una disperazione che le occludeva la gola come una mano che la stesse strozzando.

Non più balli di gala. Non più gioielli e bei vestiti. Non più giovanotti che le facevano il baciamano. Tra dieci anni ne avrebbe avuti più di trenta e sarebbe stata zitella e sola, forse costretta a lavorare negli hotel dei suoi genitori come sguattera o governante.

Reietta, rifiuto della società, zitella.

Aveva pensato al suicidio più di una volta, ma tremava alla sola idea di infliggersi danno, ammesso che trovasse la maniera di farlo, visto che i controlli erano serrati. Doveva forse sperare che le sue compagne di cella la ferissero seriamente nonostante le raccomandazioni della sua famiglia?

Vigliacca. Persino Neal ha tentato...

Pensare a suo fratello la fece piangere più forte.

"Che c'è, la signorina sta frignando di nuovo? Oh, ma che seccatura! Forse dovremmo trovarle un uomo per tirarle su il morale!", rise sguaiatamente la prima voce dietro di lei.
"Ma che dici?! Qui non ci sono uomini! Dovrà attendere di uscire per farsi dare una bella ripassata!", rincarò la dose la seconda voce alle sue spalle.

Cercando di farsi ancora più piccola, Eliza ripensò al viso sconvolto di Neal, al suo abbraccio terrorizzato, al grido di sua madre quando lo aveva scoperto mezzo impiccato nella sua stanza. E a quando la loro unica preoccupazione era mettere nei guai Candy. O, ancora, quando erano più piccoli e lui le concedeva di dormire nel suo lettino perché era spaventata dai temporali.

C'era mai stata dolcezza nella sua vita? Probabilmente sì, ma l'aveva persa tutta, ignorata, snobbata.

E ora avrebbe dato parte della propria vita per un abbraccio di sua madre.

Stufa di nascondersi, Eliza Lagan cominciò a singhiozzare forte, coprendosi il viso con le mani, versando lacrime amare sul suo passato, sul presente e anche sul futuro oscuro che l'attendeva. Non sentiva più neanche le voci cantilenanti che la prendevano in giro, né le spinte, né le mani che le tiravano via la coperta e la trascinavano sul pavimento prima che una guardia tuonasse loro di smetterla.

Restò lì, a piangere come una bambina, sognando il giorno in cui avrebbe rivisto almeno la luce del sole.
 
- § -
 
Neil usò la forchetta per fare un altro segno sul muro, affondando con la punta arrotondata e inutile nella pietra cedevole.

"Ehi, damerino, quella serve per mangiare, non per scrivere lettere d'amore sul muro", lo apostrofò l'uomo che puzzava di pesce marcio sputando a terra.

Lui fece una smorfia e lo ignorò: per fortuna, grazie all'intervento tempestivo di suo padre, aveva smesso di prestargli attenzioni più sgradite.

Accanto a lui, qualcuno fece una battuta e le risate sguaiate riempirono l'aria, già soffocante di quella cella, di suoni che ferivano le orecchie e l'orgoglio.

Ormai era abituato ad essere deriso, ma sapeva che un giorno sarebbe arrivata la rivalsa. Un giorno, sarebbe uscito da quel buco fetido per andare in Florida con suo padre e sarebbe diventato un uomo d'affari tanto abile che quella sgradevole parentesi sarebbe stata dimenticata.

Avrebbe contato i giorni, cercando di farsi scivolare addosso le ore, e ogni volta che ne fossero passati trecentosessantacinque li avrebbe cerchiati. Quello sarebbe stato il primo anno. Non doveva pensare al fatto che avrebbe dovuto ripetere la medesima operazione per dieci volte, oppure sarebbe semplicemente impazzito. Perso il senno. La speranza.

Era sempre stato un vigliacco, Neil Lagan, ma lì dentro la vita lo stava indurendo. Non aveva più gli abiti eleganti di prima, ma una specie di pigiama pieno di pidocchi. Non aveva più i capelli ben curati, ma gli si appiccicavano agli occhi e gli si annodavano finché qualcuno non decideva che era ora di dare un colpo di rasoio e far prendere aria alla testa. La barba gli pungeva dopo diversi giorni, ma faceva parte della sua nuova corazza.

A volte pensava a suo padre e sua madre, beatamente emigrati in Florida per far riprendere la loro attività. E li odiava, perché a loro non era successo nulla e, anzi, quel pazzo dello zio William aveva persino aiutato suo padre a non finire con il sedere per la strada.

"Ho ripagato il mio debito, non gli devo più nulla. Lui è un grande uomo, Neal, e noi non abbiamo che da imparare da uno come lui: e non mi riferisco agli affari".

Aveva trattenuto un conato di vomito. Sapeva di aver commesso una bassezza, ma non avrebbe mai provato ammirazione per nessuno, specie per qualcuno che aveva avuto vita facile come lui. Si era permesso di vagare come uno zingaro per più di vent'anni prima di salire ai vertici della società e ora si godeva fasti, lusso e... Candy.

Non sapeva perché continuasse con quella specie di ossessione, ma c'erano notti in cui sognava di tenerla fra le braccia e toccarla nel modo più lascivo con cui un uomo può permettersi di toccare una donna. Altre, in cui sognava solo il suo viso arrabbiato o sorridente. Altre ancora, in cui ripercorreva la notte nella quale gli aveva salvato la pelle, mettendosi contro quegli uomini che lo avevano aggredito.

Se fossi stato un uomo migliore, forse...

A quell'ora, probabilmente, era a Chicago o a Lakewood, magari in attesa del primogenito di William Albert Ardlay o forse avevano già un marmocchio urlante che aveva rubato il cuore della vecchia prozia Elroy.

Infilò la forchetta sotto al materasso e si portò le mani sotto alla testa, chiudendo gli occhi.

"Ehi, Lagan, pensi alla tua bella che se la starà spassando con un altro?".

Quelle parole gli fecero salire la bile allo stomaco e, prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo, Neal scattò in piedi e caricò il pugno contro quell'animale che sembrava marcio dentro così come lo era fuori. L'omone si spostò con un'agilità che non avrebbe mai sospettato e lui finì direttamente tra le braccia di un inquilino di cella dai pettorali definiti pieni di cicatrici.

"Potevi dirlo subito che hai cambiato idea! Come preferisci che...". Con un urlo di disgusto, si spinse via da quel corpo fetido di sudore e umori che preferiva non identificare.

"Preferisci me, forse?", gracchiò un vecchio senza denti. "Se devo essere sincero, quelli che sono passati qui prima di te erano più belli, ma anche tu non sei da buttare via!".
Lottò brevemente per liberarsi e per evitare di vomitargli addosso, chiedendosi a chi diavolo si riferisse. Non gli importava, voleva fare una doccia e lo chiese a gran voce, sporgendosi dalle sbarre.

"Non è ora della doccia, ragazzino viziato. Non creare problemi o potrei dimenticare che tuo padre mi ha pagato!", tuonò la guardia lanciandogli uno sguardo di ghiaccio.
Neal tacque. Tutto, ma non quello. Tutto, ma non l'ultima briciola di dignità che gli era rimasta. Non avrebbe mai dimenticato la scena nelle docce, quei due sconosciuti. Le urla, le suppliche, i gemiti e quei corpi maschili allacciati...

Con un verso gutturale, Neal si sporse sul water afferrandolo per i bordi e, nauseato dal puzzo di urina, vomitò una seconda volta.

"Mi sa che gli hai fatto schifo!", commentò sarcastico l'uomo muscoloso. "Penso che preferisse me!".

"Ma se ti ha cacciato come una donnicciola!", rimbeccò l'altro.

Spegni il cervello. Spegni il cervello, per l'amor di Dio! Pensa a tuo padre, pensa a Candy. Fingi di essere catatonico come ha fatto tua sorella.

Mentre si riposizionava sulla branda ricontrollando i segni sul muro come se potessero essere aumentati rispetto a qualche minuto prima, Neal si chiese se avrebbe davvero mai rivisto sua sorella.
 
- § -
 
Karen si sentiva presa in esame dagli occhi attenti di Robert. Continuava a squadrarla come se volesse spogliarla con gli occhi, tanto che, a un certo punto, Terence sbottò: "Ti assicuro che non ha un grammo di grasso dove non serve, l'ho provato di persona".

"Terry!", lo redarguì tra i denti, voltandosi per guardarlo.

"Oh, non ne dubito! Ma siete sicuri che non vi verrà in mente di sfornare un altro marmocchio fra qualche mese, magari per sbaglio?", li apostrofò sedendosi finalmente dietro la scrivania e inarcando il sopracciglio dietro agli immancabili occhiali scuri.

Lei e Terence si alzarono dalle sedie nello stesso momento, come se fossero sincronizzati: una cosa era darsi la possibilità di riprendere le loro carriere, un'altra era ricevere insulti gratuiti su quella che era la luce delle loro vite.

"No, scusate... va bene, va bene, come avete detto che si chiama il vostro... bambino? Jack?", tentò, alzandosi di nuovo e gesticolando animatamente.

"Si chiama James Charles Graham", scandì Terence con voce baritonale, prima ancora che lei potesse aprire bocca, "e ti informo che abbiamo ricevuto richiesta d'ingaggio da un'altra compagnia, il mese scorso, ma abbiamo preso tempo perché hai insistito fino allo sfinimento. Non sei l'unico a dare ultimatum, Robert. Azzardati di nuovo ad apostrofare così nostro figlio o noi due e ti ritroverai con una concorrenza spietata che rischia di farti chiudere i battenti prima che tu abbia il tempo di ripetere la parola 'marmocchio'".

Karen era a bocca aperta: conosceva Terence da tantissimo tempo e sapeva perfettamente quanto amasse lei e il loro bambino. Ma non lo aveva mai visto difenderli come un vero leone furioso farebbe con la sua famiglia.

Robert sembrava sconvolto e si stava profondendo in scuse balbettanti che non necessitavano certo di un intervento da parte sua. Con un sospiro, Karen si limitò ad aggiungere: "Robert, in qualunque momento possiamo fare marcia indietro e non c'è contratto che tenga. So che non ti sei mai sposato e non hai figli, ma immagino che tu abbia imparato a rispettare il prossimo".

Quell'uomo era sempre stato molto sopra le righe e lei stessa non era certo una donna che si sarebbe definita convenzionale, per l'epoca. Ma c'erano dei limiti che persino lei cercava di non superare.

"Va bene, va bene, ho capito. Vi chiedo scusa, ho davvero esagerato. Posso solo chiedervi come pensate di organizzarvi con lui? La tournèe durerà mesi, lo lascerete a casa?", domandò con i gomiti poggiati sulla scrivania.

Karen incontrò gli occhi di Terence e si sorrisero: "James verrà con noi, naturalmente. Le tate ci seguiranno e staranno con lui mentre noi ci troveremo alle prove o in teatro. Non sarà facile, ma di certo sarà una bella avventura".

Cercò la sua mano e Karen si sentì completa, mentre la stringeva. Robert annuiva, palesemente perplesso, ma capì che non osava ribattere.

Lei era stata la prima a disperarsi, quando aveva scoperto di essere incinta. Terence aveva reagito meglio, ma era chiaro come il sole quanto si sentisse disorientato. La gravidanza, la nascita e poi la dolcezza e la tenerezza di avere quella creatura fra le braccia. Le notti insonni, la stanchezza, le lacrime, le risate. E, infine, la decisione di tornare sul palco nonostante tutto.

Terence aveva detto bene: era un'avventura, una piccola sfida essere attori in quel tempo con un bambino piccolo al seguito. Persino Eleanor Baker, che aveva avuto modo di tenere fra le braccia il suo primo nipotino, sembrava trasportata dal loro stesso entusiasmo un po' timoroso.

Lei aveva rinunciato alla carriera solo per vedersi strappato Terry quando era ancora piccolo. Quindi l'aveva ripresa vivendo nel rimpianto di non averlo avuto accanto.
Per lei quella soluzione era il compromesso perfetto e un po' folle per unire le due cose. Forse non avrebbe funzionato e avrebbero dovuto lasciare tutto a metà. O forse si sarebbero stupiti di riuscire a far coincidere a meraviglia lavoro e genitorialità.

Un giorno lontano, Terence Graham si disperava per un'altra donna. Oggi le sorrideva complice, il viso disteso e giovane, e una luce negli occhi che era solo per lei.
 
- § -
 
Frannie guardò il volto deluso di Adrian e dovette distogliere lo sguardo.

Per fortuna, lui non era tipo da anelli e dichiarazioni in ginocchio, altrimenti pensò che si sarebbe sentita peggio.

"Perché no?", chiese con voce composta, il volto serio ora a pochi centimetri da lei.

Frannie andò verso la finestra di quello che era diventato il loro appartamento e scostò la tenda color mattone che le copriva la visuale. Non le interessavano le persone che passeggiavano per la strada, né il movimento leggero del vento che s'insinuava tra le fronde degli alberi del parco di fronte all'abitazione, dove frotte di bambini giocavano a rincorrersi.

Potrei diventare madre anche io, un giorno...

"Perché è ancora troppo presto, e il lavoro...".

"Il lavoro, il lavoro, il LAVORO!". A ogni 'lavoro', il tono di Adrian diventava più spazientito e alto e lei sentì distintamente i suoi passi nervosi dietro di sé rimbombare per il salotto. "Quanti colleghi sposati abbiamo, Frannie? Soffermiamoci sulla prima parte della tua frase, piuttosto".

"Adrian...", tentò, chiudendo gli occhi e preparandosi alla loro prima, vera lite. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma non era preparata ad affrontarlo. Gli voleva molto bene e l'ultima cosa che voleva fare era ferirlo.

"È ancora troppo presto", ripeté lui in tono basso, prendendola d'improvviso per le spalle e girandola verso di sé. "Pensi ancora a lui? Sei ancora infatuata di Albert Ardlay?". Gli occhi blu brillavano di rabbia e gelosia, la mascella era contratta.

"Non dire sciocchezze, sai benissimo che l'ho superato da tempo". Ed era vero. Si era trattato di un fuoco ardente ma abbastanza breve da lasciarla solo con un vago senso di nostalgia per il suo primo amore neanche tanto giovanile.

"E allora cos'è? Cosa t'impedisce di condividere la tua vita con me, Frannie? Pensi forse che mi basti questa... specie di fidanzamento basato su una relazione meramente fisica?", le chiese scuotendola.

Lei si divincolò, furiosa e anche imbarazzata: "Continui a dire cose senza senso! Sai benissimo che non è così, in ospedale sanno tutti che siamo una coppia. Una coppia emancipata, aggiungo io, che condivide il letto ma non sente il bisogno di suggellare il proprio rapporto con un documento ufficiale".

"Tu non ne senti la necessità", la accusò puntandole un dito contro, allontanandosi da lei di qualche passo e riavviandosi i capelli, infilandoci le dita in mezzo con un gesto stizzito quanto affascinante. 

"Adrian, non ti ho mai promesso che saremmo andati così avanti. Ho ancora bisogno dei miei spazi!", rivendicò allargando le braccia.

Lui fece una risata amara: "I tuoi spazi! Parli come una di quelle... suffragette!", la apostrofò agitando una mano come se stesse parlando di qualcosa di poco conto.

"E tu parli come un maschilista fatto e finito! Non credevo fossi così ancorato alle regole". Si avvicinò a lui, girando intorno al tavolino basso dove una pila di documenti relativi ai pazienti di Adrian attendeva di essere firmata e portata in ospedale.

Lui era entrato in quella stanza, li aveva gettati lì sopra e poi le si era avvicinato con finta noncuranza: "Che ne diresti di sposarmi?", aveva proposto con le mani in tasca, girato per metà e con un'espressione incerta sul viso.

Ora capiva che Adrian si era aspettato un suo rifiuto, ma non sembrava comunque intenzionato ad accettarlo.

"Eri tu quella delle regole, Frannie. Del rigore, della freddezza. Ma solo quando si tratta del tuo lavoro". Il tono di Adrian vibrava di rabbia e lei chiuse gli occhi. Non lo aveva mai visto così. "Quando hai deciso di lasciarti finalmente andare come donna ho sperato davvero che ti saresti ammorbidita sotto tutti gli aspetti, ma no. L'infermiera ha sempre il sopravvento su di te, su di noi. Parli di libertà. Io direi piuttosto che hai ancora dei dubbi su quello che provi".

Deglutì, sconfitta. "Non sono mai stata... con un uomo, prima. Non so bene come ci si debba sentire per desiderare tanto il matrimonio. D'istinto posso dirti che mi serve... più tempo".

Adrian chiuse la distanza tra loro con una rapidità che le fece girare la testa e la strinse intorno ai fianchi, avvicinando il volto al suo abbastanza da poterla baciare. Ma non lo fece e lei poté sentire sul viso il suo alito caldo che sapeva di caffè: "Se William Albert ti avesse afferrata così, quando eri a Chicago, e ti avesse baciata così...".

Lo fece, e fu quasi il morso di un affamato, a cui si dovette arrendere aprendo la bocca e accettando l'invasione rovente della sua lingua. Ma non pensò affatto a William Ardlay, no. Le vennero in mente le immagini della notte appena passata, mentre il suo corpo sussultava in un'estasi potente proprio mentre lui la stava baciando in quel modo e lei aveva gridato nella sua bocca.

"... e ti avesse chiesto di sposarlo, che gli avresti risposto?", terminò staccandosi ma non allentando la presa sulla sua vita.

"Smettila di parlare di lui, ti ho già detto che non c'entra niente!", protestò sentendosi sciogliere sotto la sua presa d'acciaio.

Lui le prese il viso con una mano, dapprima con rudezza, poi divenne più delicato e fu struggente come una carezza: "Io ti amo, Frannie Hamilton, voglio dividere ogni respiro della mia vita con te. Avere dei figli, una famiglia. Qui, in America, in Australia, ovunque vorrai. Non siamo più ragazzini, non abbiamo tempo per i giochi. Ti ho aspettata per troppo tempo, Frannie, ti ho osservata da lontano ancora prima che partissi come crocerossina e quando sei tornata mi era già chiaro cosa ci fosse nel mio cuore. Adesso tocca a te decidere prima che io mi stanchi di attenderti".

"Cos'è, un ultimatum?", chiese, indignata.

"Chiamalo come vuoi. Mi hanno proposto di lavorare in giro per l'Europa a partire dal prossimo mese e speravo di farlo con mia moglie. Ma vedo che tu non sei d'accordo, quindi ti lascio pensare", concluse lasciandola sbalordita.

"In giro... per l'Europa? E quando pensavi di dirmelo?!", sbottò.

"Te l'ho detto oggi!", ribatté lui cominciando a uscire dal salotto e Frannie si ritrovò a seguirlo lungo il corridoio fino alla camera da letto.

"Sì, ma...". Non sapeva più cosa dire. Per la prima volta in vita sua, Frannie era senza parole: tutto stava andando troppo velocemente, e che diavolo stava facendo Adrian?

"Ma cosa, Frannie? Direi che ci siamo divertiti, io e te. Era un'avventura che volevi? Un amante? Bene, lo stupido che hai qui davanti lo è stato, ma non si accontenta più". Con orrore, lo vide aprire il suo armadio, tirare fuori alla rinfusa vestiti e giacche e infilarli in una grande valigia.

"Dove vai?", chiese con voce più stridula di quanto avesse voluto.

"Me ne vado in albergo e ti lascio l'appartamento. Anzi, te lo regalo! Ho capito perfettamente, Frannie, non sono un idiota. Puoi vivere qui mentre io sarò in viaggio, e se mai tornerò...". Si passò una mano sul capo, interrompendo per un attimo il movimento frenetico tra l'armadio e il letto, che ora era un groviglio di pantaloni e camicie. Frannie poté sentire distintamente il profumo che esalava dai suoi abiti. Maschile, mischiato alla colonia che lui amava tanto.

"Se mai tornerò me ne cercherò un altro. Non credo comunque che potrei vivere di nuovo qui". Frannie vide i suoi occhi brillare di lacrime trattenute e per un attimo sostenne il suo sguardo, sentendosi come se le stessero strappando qualcosa dal petto. Ma non riuscì a ribattere nulla, le parole e i sentimenti rimasero strozzati in gola.
In fondo, non era cambiata poi molto se non riusciva a esprimere quello che provava.

Adrian sbatté le palpebre e distolse lo sguardo, forse lottando per non piangere davanti a lei, e Frannie sentì il suo corpo intorpidirsi, mentre lo osservava come in sogno infilare quegli abiti in valigia senza piegarli e chiuderla con un gesto secco.

Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì solo un verso strozzato e finalmente lui la guardò di nuovo. Le si avvicinò, fissandola con un'intensità tale che temette e al contempo sperò di affogare nelle due pozze azzurre dinnanzi a lei.

"Non mi hai mai detto che mi ami, Frannie. Mai una volta", mormorò alzando una mano come per sfiorarle il viso. Chiuse le palpebre, anelando quel tocco, ma quando le riaprì lui era già sulla soglia. "Addio, Frannie". La porta d'ingresso sbatté, facendola sussultare.

Congelata al suo posto, aveva risposto a ogni sua frase con il silenzio, confermandogli di certo i suoi dubbi. Come si faceva a venire a patti con sentimenti che non sapeva nemmeno di provare? Come poteva ancora fare il paragone tra quello che era scoccato nel suo cuore davanti a William Ardlay e la fiamma che la consumava quando era fra le braccia di Adrian? Il primo aveva aperto il suo cuore, il secondo lo aveva incendiato.

Era quindi quello l'amore vero? Quando ci si sentiva spezzare il corpo in due se l'altro se ne andava e lasciava solo una casa vuota e il suo profumo ad aleggiare?
Mentre crollava sul letto, singhiozzando e piangendo sconfortata, Frannie si chiese perché fosse tanto insicura da voler a tutti i costi analizzare i suoi sentimenti. Non era una dose di medicinale da iniettare a un paziente, né un parametro vitale da controllare con somma cura.

Era il suo istinto, la sua pelle, il desiderio di chiacchierare con lui della giornata appena trascorsa e di condividere i giorni e le notti. Quella scintilla che l'aveva indotta a rimanergli accanto e a concedersi ad Adrian senza più pensare a nulla.

Ma il matrimonio era un impegno che durava tutta la vita, sarebbe stata in grado di assumersi una responsabilità del genere? Lei, che era stata crocerossina e aveva visto la morte e la guerra. Lei si spaventava all'idea di legarsi all'unico uomo che l'avesse mai fatta sentire una donna completa.

Alzandosi lentamente, con gesti meccanici, sistemò il copriletto che si era sgualcito dopo l'assalto di Adrian con la valigia e i vestiti. Si asciugò gli occhi e chiuse quella porta dietro di sé, sapendo che avrebbe dormito in un'altra stanza e non in quella.

Tornò in salotto, soffocando gli ultimi singhiozzi col dorso della mano sotto al naso, e fissò lo sguardo sulla pila di documenti di Adrian. Li aveva dimenticati lì.
"Sei sempre il solito distratto", disse con voce rotta e, mentre li prendeva in mano, ebbe una folgorazione.

Rimase lì, ancora piegata per metà, con i fogli tra le mani che le tremavano fuori controllo e le ricaddero con un tonfo sordo.
Come aveva potuto essere così stupida e cieca?

Se lo stava ancora chiedendo quando corse fuori come se il Diavolo in persona la stesse inseguendo. Uscì dal portone e fece le scale con una foga tale che il nastro che le teneva i capelli si sciolse facendoli svolazzare dietro di lei. Giunta alla fine della breve scalinata, si guardò attorno freneticamente e lo vide, in lontananza, fare cenni a una carrozza perché si fermasse.

"Adrian", articolò senza voce, vedendolo salire come al rallentatore. La carrozza partì nel momento in cui lei raggiungeva il marciapiede e finalmente riusciva a gridarlo, quel nome.

Respirò a fatica per lunghi istanti, cercando di riprendersi dalla corsa, e la carrozza, che aveva fatto solo pochi piedi, rallentò fino a fermarsi. Lui ne uscì guardandola perplesso e Frannie non perse tempo.

Da dove si trovava disse, noncurante delle persone che potevano udirla: "Ora l'ho capito. È la mia famiglia. Sono loro quelli che mi fanno paura. Io... non li ho mai visti felici".
Adrian la fissò con un'espressione di stupore e cominciò a camminare verso di lei, lentamente.

"Dannazione, Adrian, lo psichiatra sei tu! Ma ci sono arrivata da sola!", protestò, piangendo e ridendo, vedendolo allargare le braccia e gettandovisi dentro in pochi passi.
"Me ne hai parlato così poco e con tanta riluttanza che io... ero talmente geloso di Albert che non ci ho pensato. Sono troppo coinvolto per fare il medico con te, Frannie", disse emozionato, infilandole le mani tra quei capelli che tanto le aveva detto di amare.

Lei, con il viso affondato nel suo petto, sentiva il suo cuore accelerare al ritmo del proprio: "Mi sforzerò di superarlo, ma ho bisogno di te... e non come specialista".

Adrian la cinse in un abbraccio, le labbra erano all'altezza del suo orecchio sinistro e le mandavano scosse elettriche lungo tutto il collo: "Ti concederò del tempo supplementare per superarlo. Ma non troppo".

Lei rise tra le lacrime: "Hai la testa fra le nuvole, hai lasciato tutti i documenti a casa".

"E tu me li hai riportati?". Come poteva una domanda così banale suonare tanto sensuale?

"No, me li sono dimenticati". E rise, Frannie, rise di cuore fra le lacrime, lasciando che lui allentasse la stretta per guardarla negli occhi, perdendosi ancora una volta nei suoi.
"Chi dei due ha la testa fra le nuvole, dunque?".

Conscia del terremoto interiore che l'aveva appena scossa, Frannie capì che era facile. Facile come respirare, se solo si lasciava andare il proprio cuore senza timori. Facile come aprire le labbra e sillabare quelle due semplici, potenti parole: "Ti amo".

Quello che vide sul suo volto la ripagò di tutti gli anni di sofferenze, privazioni e incertezze che aveva vissuto fino ad allora.

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Capitolo 91
*** Epilogo ***


E siamo giunti alla fine di questo lungo... lungo cammino. Voglio ringraziare di cuore tutti coloro che mi hanno seguita fino a qui, commentando ogni singolo capitolo (avete una pazienza e una costanza invidiabili!), coloro i quali hanno partecipato alle discussioni sul mio gruppo Facebook, i lettori silenziosi o quelli che a un certo punto della strada si sono arresi. Ringrazio chi ho emozionato e fatto arrabbiare, chi mi ha criticata o sottolineato i pregi. E ringrazio, ancora una volta, la mia beta Tiger Eyes per aver corretto tutti i refusi. Spero che anche l'epilogo sia di vostro gradimento: anche a me dispiace che la storia sia terminata, ci sono davvero molto affezionata... e vi dico ancora una cosa: venerdì pubblicherò un capitolo di "ritagli", scene scritte e mai inserite. Un abbraccio a tutti e alla prossima fanfiction!



 
EPILOGO

- § -
 
Maggio 1922

Lei era lì, sulla Collina di Pony.

Sedeva sotto a papà albero, che l'aveva vista crescere e ora, con le sue fronde rigogliose, la proteggeva mentre allattava la loro bambina.

Albert si era cambiato in una delle stanze della Clinica Felice, proprio come aveva fatto più di un anno prima nella speranza di ritrovare la donna della sua vita nella sconosciuta che si rifiutava di innamorarsi di lui mentre era senza memoria.

"Come sto?", aveva chiesto al buon medico.

"Mi sembri molto più rilassato dell'ultima volta. Di sicuro respiri meglio e sprizzi gioia da tutti i pori". Era scoppiato a ridere, rimembrando come all'epoca gli avesse ricordato di respirare perché sembrava sull'orlo di una crisi di nervi.

E lo era! Soprattutto dopo che le cose erano andate tristemente a rotoli.

Aveva preso la sua cornamusa e intonato la loro canzone, avvicinandosi piano mentre sentiva il pianto della loro bambina già da lontano. Man mano che avanzava, però, il pianto era diventato un piagnucolio sommesso e lui aveva visto Candy cullare Rose mormorandole qualcosa.

Durante una pausa tra una strofa e l'altra, aveva udito chiaramente la frase: "Arriva papà".

Rallentando i propri passi, Albert si beò dell'immagine materna della sua Candy con l'abito primaverile verde e bianco, che guardava con amore immenso la loro primogenita. Si riempì gli occhi e il cuore, suonando con più emozione e, quando terminò, si accucciò vicino a Candy fissando il visino ora mezzo addormentato e persino sorridente della neonata.

"Piccola, sei molto più carina quando ridi che quando piangi", le sussurrò col cuore gonfio d'amore. Candy alzò lo sguardo su di lui, commossa, e si affrettò ad aggiungere: "Ovviamente lo stesso vale per te", carezzandole una guancia con il dorso della mano.

Lei sorrise e mormorò: "Non credevo che un giorno avresti detto questa frase a un'altra e io non sarei stata gelosa".

Risero piano, per non svegliare la loro bambina, e lui le sedette accanto, appoggiandosi a sua volta a papà albero e circondandole le spalle con un braccio, attirandola un po' contro di sé mentre osservavano Rose che si addormentava serena.

Avevano volutamente scelto quel nome e non Rosemary, perché volevano fare omaggio all'adorata sorella di Albert, ma al contempo rendere unica quella figlia che era nata dal loro amore così speciale.

"Quando sarà grande la porteremo in giro per il mondo insieme agli altri sette od otto figli che avremo", disse lui con aria sognante.

Candy alzò gli occhi spalancati su di lui: "Sette... otto? Albert, anche io voglio una famiglia numerosa, ma non ti sembra di esagerare? Sembrerò una specie di pallone aerostatico per i prossimi quindici anni, così, altro che viaggiare!".

"Non dire sciocchezze", ridacchiò, "tu saresti bella e desiderabile anche se fossi sempre incinta. Anzi, la gravidanza ti rende ancora più speciale ai miei occhi... è così magico sapere che dentro di te cresce il frutto del nostro amore!".

Sfiorò il naso di Candy col proprio, mentre lei chiudeva gli occhi, e le pose un bacio sulle labbra leggero come le ali di una farfalla.

"Grazie per le tue parole, amore mio. Vedrò di accontentarti, ma sarà necessario trovare un compromesso sul numero", rise anche lei, baciandolo di nuovo.
Si godettero la vicinanza l'uno dell'altra, ascoltando solo il soffio gentile del vento e il respiro ritmico e dolce di Rose.

"Albert... a volte mi chiedo quanto durerà questa felicità", disse Candy d'improvviso, facendogli raddrizzare la testa che aveva poggiato al tronco e sbattere le palpebre.

"Che intendi?", le domandò.

"Voglio dire... ogni volta che ho sfiorato la felicità mi è sempre sfuggita di mano nei modi... più impensati e dolorosi. E, anche se ormai mi sembra di averla raggiunta pienamente, temo sempre che possa accadere qualcosa che spezzi questo incanto". Candy parlava guardando alternativamente lui e la loro bambina.

Albert si riappoggiò al tronco e la strinse più forte: "Candy, c'è stato un periodo della mia vita in cui anche io mi sono chiesto se veramente potevo rilassarmi o avrei dovuto aspettarmi qualche altro colpo basso dal destino. Io, che sono sempre stato pragmatico e che ti ho sempre insegnato a guardare avanti e ad essere ottimista. Ci sono momenti in cui a tutti capita di crollare sotto ai colpi della vita ed è successo anche a me. Ma sono quelli i momenti in cui impari a essere più forte. A te è capitato quando sei andata a vivere con i Lagan, quando è morto Anthony e quando hai perso Terence. Io ho dovuto fare i conti con la morte di maggior parte della mia famiglia e poi con il fatto di averti quasi perduta. Lo scorso anno ci siamo dovuti entrambi confrontare con il lutto del nostro bambino mai nato. Ma per quanto siamo caduti a fondo, per quanto ci sia sembrato di non poter più risalire, alla fine lo abbiamo sempre fatto. E se ogni volta che siamo felici stiamo lì a preoccuparci di cos'altro possa accadere... beh, non lo saremo mai. Godiamoci il presente e affrontiamo i problemi solo quando arrivano. Solo così saremo sereni".

Sul viso di porcellana di Candy si disegnò finalmente un sorriso e ad Albert parve che illuminasse l'intera collina: "Sapevo che parlare con te mi avrebbe fatta stare meglio. È sempre stato così, anche in passato".

Albert le toccò il naso col proprio: "E spero che continui a essere così anche in futuro", sussurrò baciandole la punta e poi cercando di nuovo le sue labbra.

Intorno a loro tre, la natura parve sospirare.
 
- § -
 
Ottobre 1927

Carissima Candy,

quante notizie nella tua ultima lettera! Ho vissuto così tante emozioni tutte insieme che quando Duncan mi ha vista in lacrime, mentre leggevo, pensava che fossero cattive nuove! In realtà devo confessarti che ero già a conoscenza della seconda gravidanza di Annie, mi ha persino detto che teme possano essere di nuovo gemelli perché, nonostante sia solo al quinto mese, si sente già enorme. Ma mi ha confermato che Archie non sta più nella pelle dalla gioia e Alice e Alistair cominciano già a fare mille domande sul nuovo fratellino.

Sono molto felice anche per Terence e Karen, hanno preso una decisione molto coraggiosa rinunciando alla carriera per seguire la crescita dei loro figli. Immagino che, dopo le prime tournée con i loro due bambini al seguito, non solo si siano resi conto che era troppo complicato, ma credo anche che il manager volesse attori più stabili nel tempo. Tutto sommato, per quel poco che lo conosco, non ce lo vedo Terry a rimanere fermo troppo a lungo, anche se ora ha una compagnia tutta sua. Qualche giornale ha scritto che la sua intenzione è riprendere a calcare le scene, quando i ragazzi saranno abbastanza grandi, chissà che non sia vero?

Certo che mi ricordo di Frannie! Non che abbia avuto modo di conoscerla a fondo, ma quando mi è capitato di incrociarla, le volte che venivo a trovarti in ospedale, mi ha sempre dato l'impressione di una donna molto sola e riservata. Non avevo idea che avesse sposato il tuo ex psichiatra e avesse messo su famiglia. La vita ci riserva sempre un'anima gemella, non c'è nulla da fare!

Ma la notizia che mi ha lasciata davvero senza parole è stata quella della tua seconda attesa. Eri così preoccupata di non riuscire più ad avere questa gioia, tra i lunghi viaggi di Albert e l'impegno di voler crescere Rose praticamente senza aiuti! E invece, hai visto? Dio ci riserva miracoli quando meno ce lo aspettiamo. E te lo dice una che fino all'anno scorso credeva di non poter mai vivere una felicità simile: oh, lo so che sono ancora relativamente giovane e che due anni di matrimonio non erano tantissimi, ma eravamo così impazienti! Ormai Bryan è un ometto che gironzola per casa e se non stiamo attenti si infila negli armadi per giocare a nascondino. Un giorno ti racconterò dello spavento che ci ha fatto prendere quando ha deciso di sfuggire alla tata per arrampicarsi sulla scala che porta in soffitta. La poveretta soffre di vertigini e a malapena si affaccia da un balcone, figurati seguire una piccola peste dai capelli rossi su per una botola...

Candy, goditi ogni istante di questa gravidanza benedetta e non preoccuparti dei borbottii della tua prozia: anche se fosse un'altra femmina continuerete a provare finché non avrete un maschio e se non accadrà... gli Ardlay non possono avere una matriarca? Certo, il problema sarà il cognome, ma in caso di necessità c'è sempre l'opzione di Alistair Cornwell.

A volte mi capita ancora di pensare a Stair... il mio primo amore. Ma non come prima, con sofferenza, quasi con rabbia: è più la struggente nostalgia per aver perso una bella persona che un giorno, da ragazza, ho amato. Credo che, semplicemente, certe perdite lascino un segno indelebile ed è quello che la perdita di Stair ha fatto con tutti noi, un po' come quella di Anthony: è ingiusta, prematura, crudele. Ma fa parte della vita, purtroppo, e la vita va avanti.

Candy, ti prego, fammi sapere come procede e quando nascerà  il tuo bambino (o bambina!). Se siamo fortunate, potremmo dare alla luce i nostri figli nello stesso mese.
Un forte abbraccio a te e a tutta la tua famiglia!

Patty O'Bryan Roy
 
Febbraio 1932

Albert si asciugò il viso con l'asciugamano e si guardò allo specchio: aveva due profonde occhiaie per la mancanza di sonno, le guance scavate, la fronte corrugata, un pallore diffuso sul volto e... non erano un paio di capelli bianchi quelli che spuntavano sulla fronte? Li appiattì con la mano e li tirò via con due dita: non era pronto ad abbandonare i suoi capelli biondi proprio ora che stava per nascere il suo terzo figlio e non sarebbe invecchiato prima di essere un buon padre come lo era per Rose ed Emily.

Pensò che ci sarebbero stati inevitabilmente momenti della sua vita in cui gli undici anni di differenza che aveva rispetto a Candy gli sarebbero pesati, ma Albert si sentiva sempre giovane dentro e cercava di rimanere attivo, oltre a non esagerare col lavoro per non essere mai troppo assente da casa.

Quel giorno, però, mentre la neve cadeva incessante, si sentì sfinito e non tanto per la stanchezza, ma per la paura che gli torceva lo stomaco in una presa d'acciaio. Uscì dal bagno e ripercorse il corridoio fino alla stanza dove Candy era in travaglio da quasi trentasei ore e incrociò il dottor Leonard.

"Ci sono novità?", chiese con un'ansia malcelata nella voce.

L'uomo scosse la testa: "La dottoressa Moore sta facendo il possibile, ma sua moglie è stremata e temiamo che non sia in grado di spingere quando verrà il momento...".

Aveva fatto tutto il possibile per rimanere lucido e non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, anche quando era rimasto solo, perché temeva di finire in pezzi. Ora, davanti al volto tirato del bravo medico di famiglia, Albert lottò per non lasciarsi travolgere da tutto: dal battito impazzito del proprio cuore, dal respiro strozzato in gola, dal viso che ardeva e dal sudore che, nonostante la neve fuori dalle finestre, gli scendeva in rivoli dalla fronte e dalle tempie.

Appoggiò una mano al muro, preda di un mancamento: "Tutto bene?", chiese la voce allarmata di Leonard.

Lui si morse un labbro e annuì, tentando di mantenere ferma la voce mentre chiedeva: "E se...", se la schiarì, scuotendo la testa, "e se non riesce a spingere dovrete fare un cesareo, giusto?".

"Sì", ammise lui, cupo. "A quel punto l'ideale sarebbe procedere in ospedale, ma la tempesta di neve ha reso molte strade impraticabili e rischieremmo di non arrivare in tempo. Il battito del bambino è già... diminuito, quindi la situazione si dovrà sbloccare al massimo in un paio d'ore. Abbiamo comunque tutti gli strumenti necessari per intervenire".

Albert studiò il volto del medico e vi lesse quello che non avrebbe mai voluto leggere. Gli avrebbe anche chiesto chi voleva che scegliesse tra i due, se le cose si fossero messe male? Oppure lo avrebbe domandato direttamente a Candy? Se così fosse stato, era certo che l'avrebbe persa. Stavolta per sempre.

Voleva suo figlio, ma voleva anche sua moglie. Non era disposto a rinunciare a nessuno dei due.

"La prego, faccia tutto quello che è in suo potere. Non... non voglio...". La voce gli si spezzò, i lineamenti del viso si contrassero contro la propria volontà e Albert girò il volto per non mostrare le proprie lacrime al medico.

Sentì una pacca sulla spalla: "Non deve neanche chiedermelo. Faremo tutto ciò che l'esperienza ci consente, dopodiché saremo nelle mani di Dio". Il tono incrinato del dottor Leonard non lo rassicurò affatto e Albert capì che, alla fine, l'ondata di terrore lo aveva travolto nonostante l'esperienza.

Sua madre era morta di parto. Sua sorella era già molto malata quando aveva dato alla luce Anthony. Le donne della sua famiglia erano tutte morte prematuramente e, sebbene sapesse che era illogico fare il paragone con Candy che non aveva certo il loro stesso sangue, non poteva fare a meno di essere, ancora una volta, irrazionale.

"Torno di là, lei cerchi di dormire un po'", borbottò il dottore allontanandosi a grandi passi.

Incapace di trattenersi oltre, Albert si morse il pugno e scivolò lentamente a terra, soffocando i singhiozzi sulle nocche, portandosi le mani sulla testa e artigliandosi i capelli, respirando pesantemente nel tentativo di ricomporsi. Ma era davvero troppo.

Quando Candy gli aveva detto di aspettare il loro terzo bambino, l'aveva fatta volteggiare fra le sue braccia e avevano riso e pianto assieme. Non gli importava se fosse stato il maschio che tanto anelava la zia Elroy, per loro era soltanto carne della loro carne, una creatura che avrebbero amato comunque più delle loro stesse vite.

E, se non avessero mai avuto un maschio, tanto meglio: non l'avrebbero mai ricoperto di quella responsabilità cui spesso lui stesso aveva desiderato rifuggire.

Mentre era ancora per terra a piangere più silenziosamente possibile, udì la voce allarmata della zia Elroy: "William, per l'amor di Dio, cos'è successo?".

Regredendo di quasi quarant'anni, Albert si alzò in piedi barcollando e semplicemente si aggrappò a lei, non riuscendo a fare altro, singhiozzando contro il corpo fragile della donna, che a malapena riuscì a circondarlo con le braccia.

"Il dottor Leonard... dice che forse dovranno fare un cesareo... qui", articolò a fatica.

Sentì le dita della donna affondargli nella pelle della schiena: "Oh, no...".

Quanti anni erano che non abbracciava così sua zia? E che lei lasciasse andare a sua volta le emozioni che provava? Ricordava qualcosa di simile quando era morta Rosemary, ma era durato il tempo di un battito di ciglia.

Ora, stettero per lunghi minuti in quella posizione, riprendendo il controllo a malapena. Albert sapeva che anche per lei era un déjà-vu e sarebbe voluto essere maggiormente di aiuto. Ma, quando infine riuscì a staccarsi da lei con il viso affondato in un fazzoletto, sua zia si stava già asciugando gli occhi con il proprio.

"Non è così che aiuteremo Candice", esordì con voce roca.

"Lo so", rispose.

Si erano capiti alla perfezione. Ma la verità era che non c'era nulla che potessero fare per aiutarla. Se non pregare.

"Ho sentito Archibald mezz'ora fa. Dice che le bambine chiedono del fratellino, ma stavano già andando a dormire", aggiunse la donna ritrovando quasi completamente la compostezza. C'erano momenti in cui invidiava la forza di sua zia. Quella forza che a lui veniva a mancare quando si trattava di Candy e dei suoi figli. Eppure la ritrovò, seppure non poteva prevederne la durata. Sfinito nel fisico e nello spirito, temeva che avrebbe di nuovo vacillato.

"Abbiamo fatto bene a mandarle dai Cornwell. Qui avrebbero avvertito l'aria tesa". Candy aveva avuto le prime contrazioni la mattina precedente e c'era stata subito un'atmosfera colma di eccitazione e aspettativa. Atmosfera che era drasticamente mutata quando, dopo dodici ore, i medici avevano comunicato loro che il canale del parto non era ancora aperto a sufficienza e che il bambino non era nella posizione corretta.

Avevano discusso a lungo, con Candy stessa, se andare subito in ospedale o attendere che le cose si sistemassero magari quella sera e, viste anche la neve e la notte imminenti, era stato stabilito di rimanere a casa.

Aveva messo a letto Rose ed Emily, quasi promettendo loro che con il nuovo giorno avrebbero visto finalmente il loro fratellino o sorellina. Ma, quando ciò non era avvenuto e le cose avevano cominciato ad assumere sfumature allarmanti, erano partiti alla volta dell'ospedale alle prime luci dell'alba solo per rendersi conto, con sommo orrore, che la strada era bloccata per un albero caduto e che per rimuovere il grosso tronco ci sarebbe voluto anche un giorno intero. La neve che continuava a cadere, il vento gelido e le urla di dolore di Candy avevano portato a un ritorno precipitoso alla villa.

A quel punto, Albert aveva accompagnato le bambine da Archie e Annie, che per fortuna non abitavano lontano. Le aveva baciate e lasciate alle cure dei Cornwell col sorriso sulle labbra, ma già sulla via del ritorno aveva avvertito le dita gelide del panico afferrarlo per la gola, specie quando per poco la macchina non era uscita fuori strada a causa della neve e del ghiaccio.

Candy avrebbe partorito a casa, ormai non aveva più dubbi. Per fortuna avevano personale medico a sufficienza e attrezzature adeguate, ma non sarebbe mai stata la stessa cosa che in ospedale. E, ancora per fortuna, si trovavano a Chicago e non a Lakewood, dove sarebbero rimasti bloccati per altri giorni. Se vendere la villa dopo il crollo della borsa era equivalso quasi a strapparsi un pezzo di cuore, oggi poteva dirsi fortunato di aver sistemato gli affari finanziari in quel modo, perché avrebbero potuto decidere di far nascere il bambino lì, come era già successo per Rose ed Emily.

Ma ora, dopo un giorno e mezzo, tutto sembrava voler andare terribilmente storto.

Seguì la zia Elroy in una stanza degli ospiti dove avevano appeso un piccolo crocifisso e lei fece qualcosa che lo sorprese oltre ogni limite: si inginocchiò sul tappeto, poggiò i gomiti sul letto e iniziò a pregare.

"Proteggi, mio Dio, la nostra Candice e il mio pronipote. Concedi a lui di venire al mondo circondato dall'amore della sua famiglia e a lei di essere nuovamente madre", disse con una voce calma e piena di emozioni che non le aveva mai sentito prima.

Commosso, Albert imitò sua zia, che sembrava così forte e così fragile al contempo, e cercò le sue parole guardando il Cristo sul crocifisso, rivolgendosi a lui con tono fervente: "Mio Dio, so di non essere mai stato molto dedito alla preghiera. Ma credo in Te e voglio innanzitutto ringraziarti per aver messo Candy sulla mia strada, anche se questo penso di averlo fatto almeno un migliaio di volte". Deglutì, chinando il capo come per mostrare tutta la propria umiltà. "Oggi ti chiedo di porre la Tua benevola mano sulla mia famiglia, di far nascere il mio bambino e di salvare mia moglie. Non voglio altro...".

Tirando su col naso, prostrandosi con le mani giunte strettamente una dentro l'altra, gli occhi chiusi per non far scendere altre lacrime, Albert udì la zia Elroy dire: "Ascoltaci, oh Signore. Ascolta le nostre preghiere e compi la tua opera, ti supplichiamo".

"Amen", rispose lui di rimando.

Fu l'ultimo momento quasi silenzioso, poi Albert venne risucchiato in un vortice di voci, passi veloci, porte spalancate e richiuse in faccia, grida che sembravano provenire da lui, altre da sua zia.

"Non può entrare ora, deve aspettare fuori!". Chi era? Una delle infermiere o l'ostetrica? Albert seppe solo che il suo pugno impattò sul muro con tanta ferocia che si stupì di non essersi spaccato le nocche.

"William!", quella era la zia Elroy, ne era quasi certo.  

Camminava nervosamente avanti e indietro davanti alla stanza, udendo le grida sempre più forti di Candy, i toni concitati dei medici che le dicevano di spingere, cara, solo un altro po'. Mentre i suoi passi risuonavano sul pavimento, stringeva le mani giunte davanti alle labbra serrate, come se stesse pregando e imprecando al contempo, impedendosi di parlare, respirando in lunghe boccate.

Candy lanciò un urlo che fece sussultare anche la zia Elroy e lui si vide proiettato di nuovo oltre quella stramaledetta porta, ma rimase fermo al suo posto, bloccandosi per cogliere ogni più piccolo sussurro nella stanza chiusa.

Smise persino di respirare.

Ma lo accolse un silenzio improvviso, irreale, troppo lungo. Estremamente lungo.

Sono morti, sono morti entrambi. Li ho persi, crescerò da solo le mie bambine.

Quel pensiero orribile gli trapanò il cervello con una chiarezza tale che le lacrime si staccarono dai suoi occhi come se fossero già consapevoli di una verità che ancora non gli era stata detta.

"Fatelo respirare, per l'amor di Dio!", tuonò il dottor Leonard e Albert cadde in ginocchio, mentre la zia Elroy si accasciava su una sedia con un verso strozzato.
Gli occhi spalancati, decine di puntini neri che gli danzavano davanti allo sguardo appannato, Albert si sentì svuotato di ogni energia.

Dunque è vero...

Qualcosa come un gemito cominciò a sgorgargli dalla gola, pronto a diventare il grido di dolore di una bestia ferita a morte, ma venne interrotto a metà da un pianto. Un suono bellissimo, forte, che lo portò a dondolarsi avanti e indietro per un paio di volte prima di poggiare le mani a terra per rialzarsi. Barcollò come un ubriaco, ma era in piedi quando l'infermiera uscì finalmente con suo figlio in braccio.

I passi della zia, le parole della donna... sentiva i suoni ma non ne capiva il senso. Era calamitato solo dalla piccola figura avvolta nelle coperte, la testolina piena di fili dorati, quelle che sembravano piccole lentiggini sul naso.

Candy? Candy è...?

"È un maschio, signor Ardlay, congratulazioni!". Alzò il viso, incredulo, sull'infermiera che sorrideva e poi vide la zia Elroy asciugarsi gli occhi.

"Il nostro erede maschio, tua moglie ha fatto un miracolo, William, guarda quanto è bello!", disse commossa.

Certo che è bello, somiglia a lei! Ma, a proposito, come sta mia moglie? Perché non sento la sua voce? Oh, adoro mio figlio! Però adesso ditemi come sta lei. Non è morta, vero? Sta bene, giusto?

Ma nessuna di quelle parole gli uscì di bocca, perché le lacrime lo accecavano, anche mentre stringeva a sé il suo bambino, i singhiozzi lo scuotevano e dolcezza, sollievo e terrore si mescolavano in un'unica, cocente emozione al centro del petto.
 
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Settembre 1947

Albert raggiunse sua moglie sul ponte della nave, stringendosi il bavero del cappotto. Faceva davvero freddo, anche se l'autunno era entrato solo da pochi giorni, ma aveva assecondato la richiesta della sua famiglia di spostarsi con la nave invece che con l'aereo che continuava ad apparire, almeno alle donne, una diavoleria troppo pericolosa.
A lui non importava impiegare dei giorni in più per arrivare in America, anche se mancava da così tanti anni che aveva svariate persone da riabbracciare. A cominciare da sua zia Elroy, ormai tanto anziana, quasi centenaria, che era un bene che stessero rientrando per rivederla. E poi suo nipote Archie con la moglie e i figli...

"I ragazzi si sono addormentati?", chiese lei senza smettere di guardare l'orizzonte.

"Come angioletti", rispose passandole una mano intorno alle spalle e stringendola un po' a sé. "Come hai fatto a capire che ero io?".

"Ti ho riconosciuto dai passi", ridacchiò.

"Non hai freddo?", le domandò sentendo l'onda della nostalgia pervadergli il petto. Una volta, tanti anni prima, si era ritrovato nella medesima situazione, facendo il percorso inverso e dicendo quasi le stesse parole.

"Mi stavo godendo la brezza", rispose lei voltandosi finalmente a guardarlo, fermandogli il cuore in petto mentre il ricordo sembrava divenire realtà riavvolgendo il tempo.

Albert poggiò il mento sul capo di sua moglie, annusandone il profumo fresco e ammirando i capelli che, al contrario dei suoi, non avevano ancora neanche un filo grigio. "Forse però è meglio rientrare, sta tirando molto vento".

Lei rimase immobile nel suo abbraccio, passandogli un braccio dietro la schiena e stringendolo un po' più forte. Avvertì chiaramente i singhiozzi soffocati provenire dal suo corpo minuto. Odiava vederla soffrire, ma si aspettava quella reazione già dal giorno prima, a dirla tutta.

"Staranno bene, non è vero?", chiese con voce soffocata, cercando più consolazione che rassicurazione.

"Candy, ne abbiamo già parlato. Rientreremo non appena avremo sistemato gli affari e, se loro vorranno, potranno sempre raggiungerci e rimarremo più a lungo. In quel caso avremo sempre George a occuparsi delle cose in Scozia: è rimasto a casa apposta". Come aveva sempre fatto, Albert le diede quel calore e quel conforto che amava donarle fin da quando era una bambina.

E lei vi si abbandonò, tirando forte su col naso e affondando il viso nel suo petto: "Lo so, so che non sono più bambine e che io ho fatto di peggio, da giovane, ma...".

"Signora Ardlay", la apostrofò scostandola un po' da sé per guardarla in viso, un viso senza neanche una ruga dove occhieggiavano ancora alcune lentiggini, "se inizia a parlare di giovinezza come una cosa passata, comincerò a pensare di essere un vecchio decrepito", si lamentò.

Candy rise asciugandosi gli occhi e lui fu felice di averla un po' sollevata: "Perché, zio William, nonché nonno Albert, pensa forse di essere giovane?".

"Preferivo quando mi chiamavi Principe della Collina", gemette guardando in aria.

"Ma tu sei sempre il mio Principe della Collina. E lo sarai anche quando avrai ottant'anni e camminerai curvo su un bastone", aggiunse avvicinando il volto al suo e alimentando il desiderio di baciarla.

Pensò che l'avrebbe desiderata allo stesso modo anche a novanta, di anni, se mai ci fosse arrivato.

"Scordati che io cammini curvo su un bastone, dottoressa Ardlay. Eppure nell'ospedale dove si è laureata avrebbe dovuto imparare che la giovinezza viene da dentro", le sussurrò cercando e trovando le sue labbra, perdendovisi come se fosse il loro primo bacio.

"In effetti adesso mi sento davvero giovane", ribatté lei aderendo di più al suo corpo, segnalandogli che era davvero ora di rientrare in cabina o l'avrebbe presa lì, sul ponte della nave, in piena notte.

Stringendola a sé, cominciò a condurla verso la loro stanza: "Allora perché non ci comportiamo da giovani fino in fondo e facciamo qualcosa di trasgressivo?".

"Albert!", lo rimproverò lei spingendolo giocosamente, ma seguendolo fin dove lui voleva.

La spogliò con calma, con devozione, conoscendo a memoria tutti i sentieri e le curve, lasciando che lei stessa lo toccasse come le piaceva, prendendosi il tempo necessario per quel loro amore solo apparentemente quieto e controllato dopo tanti anni.

Più tardi, mentre lei giaceva ancora fra le sue braccia, le mormorò all'orecchio: "Rose ha un marito meraviglioso e dei figli di cui occuparsi, ed Emily sta studiando sodo. Non faranno in tempo a sentire la nostra mancanza che saremo tornati".

Lo so", disse lei con un sospiro, "ma per me saranno sempre le mie bambine. E anche quei due scapestrati che dormono nella stanza in fondo saranno sempre i miei bambini. A proposito, Anthony ti ha più parlato di quella ragazza...?".

Albert fece una smorfia maliziosa, carezzandole distrattamente una mano con il braccio col quale l'avvolgeva: "Penso che se non fosse perché voleva rivedere la zia Elroy, sarebbe rimasto anche lui. Immagino che si scriveranno decine di lettere, un po' come facevamo noi, ti ricordi?".

"Sì", rise, "non ci eravamo neanche dichiarati e già civettavamo senza rendercene conto".

"Oh, io me ne rendevo conto benissimo", dichiarò alzando il mento.

Candy si girò nel suo abbraccio per fronteggiarlo: "Come sarebbe a dire? Albert, mi stavi corteggiando di nascosto?".

Lui si mise a ridere: "Parla la ragazza che mi riferiva di non riuscire a dormire e che mi raccontava con emozioni che trasudavano a ogni riga tutti i nostri incontri alla Casa di Pony o a Lakewood!".

Il sorriso di Candy si spense un poco: "Lakewood... chissà chi ci abita, adesso. A volte sogno ancora il Giardino delle Rose e quella tua casetta in mezzo al bosco piena di animali... oh, e che fine avrà fatto la barchetta di Stair?".

Albert la baciò sulla testa: avrebbe mentito se avesse detto che a lui tutte quelle cose non mancavano neanche un po': "Dispiace tanto anche a me, tesoro, ma sai benissimo che all'epoca abbiamo rischiato la bancarotta. Successivamente ho pensato molte volte di ricomprarla, ma ormai avevamo deciso di trasferirci in Scozia e la zia non poteva allontanarsi troppo dalla città, con i suoi problemi di salute".

"Sì, lo so...", mormorò lei abbassando il capo e giocherellando con un dito sul suo petto, trasmettendogli piacevoli brividi. "Ricordi quando la voleva ricomprare Raymond Lagan, l'anno in cui Neil è uscito di prigione ed Eliza ha cominciato a lavorare come volontaria?".

Albert strinse la mascella, la sensazione languida causata dal tocco gentile di Candy si trasformò in un accenno di rabbia: "Sì, me lo ricordo. E devo confessarti che da una parte sono felice che non l'abbia fatto. Non avrei sopportato che loro due vi mettessero piede".

Candy sospirò, non contraddicendolo. D'altronde, di sicuro ricordava bene quanto lui la sofferenza che avevano attraversato a causa dei fratelli Lagan, quella che era iniziata come una serie di malvagi dispetti a una ragazzina adottata come dama di compagnia e finita con un tentativo di omicidio e uno atto a incastrare lui...

"Beh, non ci sarebbero andati quasi mai, comunque. Alla fine la loro fortuna in Florida è cresciuta a dismisura nonostante tutto, e pare che Neil sia diventato un bravo uomo d'affari", commentò sua moglie con tono freddo.

"Neil è un bravo uomo d'affari tanto quanto Eliza era felice di fare la volontaria negli orfanotrofi e nelle case di cura", ribatté con stizza, guardando di fronte a sé e stringendola di più al suo corpo. La mano affondò nei capelli, che ora portava fino a metà della schiena e che non avevano perso quelle onde ribelli che tanto amava.

"Non possiamo sapere quanto si siano pentiti, credo che dieci anni di carcere cambino chiunque", commentò cercando i suoi occhi.

Lui si perse nei due smeraldi di sua moglie e non riuscì a non sorridere. Quegli stessi occhi che avevano Emily e Craig. Quelli che, un giorno di quasi quarant'anni prima, lo avevano rapito per la loro limpida sincerità.

"Forse hai ragione, ma per me oggi l'importante è che nessuno come i Lagan venga più a turbare la nostra felicità. Ce la siamo sudata abbastanza direi, no?", aggiunse carezzandole una guancia con le nocche. Le palpebre di lei tremarono al suo tocco e capì che era in bilico tra sonno e veglia.

"Sì, è vero... ne abbiamo passate tante, ma alla fine eccoci qui... tornando a casa con due dei nostri figli. Riabbracceremo la zia, Annie, Archie, Patty, Suor Lane... Tom e Jimmy... se siamo fortunati potremmo incontrare anche Terry e Karen... e tutti i loro ragazzi...". Cullata dal suo abbraccio e probabilmente anche dalla prospettiva di rivedere tutte le care persone che stava elencando, Candy si addormentò e Albert sorrise.

"Buonanotte, amore mio", mormorò baciandola sulla fronte, cominciando ad arrendersi al sonno a sua volta.

Se pensava a quante volte era stato sul punto di perderla, inclusa la notte in cui aveva dato alla luce William Anthony, gli sembrava di essere morto e rinato continuamente. Quando, sette anni prima, gli aveva detto di essere di nuovo incinta, credeva che il suo cuore si sarebbe fermato.

Aveva giurato che non l'avrebbe più esposta a un rischio simile, anche se i medici non avevano dato indicazioni che dovesse smettere di avere figli, ma se prima era convinto di volerne tanti, alla fine avevano concordato che tre erano più che sufficienti. E, nel caso, avrebbero sempre potuto adottarne qualcuno alla Casa di Pony.

Mentre scivolava nel sonno, sulle labbra aleggiò il fantasma di un sorriso ricordando l'ansia, la trepidazione ma anche la gioia per quel bambino che aveva deciso di fare loro una sorpresa a un'età abbastanza insolita per una donna. Parlando con Candy, qualche mese dopo, mentre il ventre le si arrotondava a vista d'occhio, aveva scoperto il suo piccolo trucco e l'aveva rimproverata amorevolmente.

Diventata medico, la moglie non aveva più parlato di voler avere dei figli, ma una sera si era fatta trovare con la stessa camicia da notte che aveva indossato durante la loro luna di miele: dopo tre gravidanze, il suo corpo aveva delle curve più accentuate ma, se possibile, era ancora più bella e desiderabile.

Albert non ci aveva messo molto a perdere la testa e le aveva creduto quando Candy gli aveva sussurrato, tra gli ansiti, di non preoccuparsi perché ormai aveva superato i quarant'anni e c'erano pochissime probabilità che potesse verificarsi una nuova gravidanza.

In realtà, come gli aveva confessato successivamente, era ben conscia che le possibilità erano tutt'altro che azzerate e che non le sarebbe dispiaciuto avere un altro bambino.
Per fortuna le cose erano andate piuttosto bene, anche se Craig Albert aveva passato alcuni giorni in ospedale perché era nato leggermente prematuro. La gioia dei suoi fratelli era stata immensa e, finalmente, avevano potuto presentare il nuovo membro a tutta la famiglia.

Albert chiuse gli occhi, cullato dal corpo e dal respiro regolare di Candy, e le immagini di loro sei che correvano lungo la Collina di Pony lo colpirono con una nitidezza tale che pensò di aver avuto una chiara visione del futuro. Spalancò per un attimo le palpebre, certo che sarebbe accaduto, poi le richiuse, arrendendosi al torpore, felice come poche volte lo era stato nella sua vita.
 
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Candy sbatté le palpebre e mise a fuoco il viso addormentato di suo marito. Il respiro caldo le solleticava la fronte e l'ombra di un sorriso aleggiava sulle labbra ben delineate e virili.

Era incredibile quanto Albert, seppure con qualche piccola ruga sul viso e alcuni fili d'argento tra i capelli ancora biondi, potesse ancora essere bello alla soglia dei sessant'anni. Il corpo era ancora scolpito da tanti anni in mezzo alla natura e, anche se viaggiava spesso per lavoro o stava in ufficio lunghe ore, non mancava mai di coinvolgerli in una gita fuori porta per rigenerarsi.

Ripensò a quando avevano deciso di trasferirsi in Scozia per seguire gli affari senza doversi separare continuamente: la decisione non era stata scevra da sofferenze, perché avevano dovuto lasciare molte persone care, ma l'importante era restare uniti, ovunque e comunque.

In quella casa in mezzo al verde, davanti alla quale sussurrava il fiume Avon, Candy aveva passato con la sua famiglia anni meravigliosi. Poco dopo il loro arrivo, Albert si era dovuto recare fino a Londra e ne era tornato con un quadro che lei non si sarebbe mai stancata di ammirare. La coincidenza che aveva voluto che suo marito lo trovasse proprio lì era pari a una su un miliardo, ma il destino, come era solita ripeterle la compianta Miss Pony, alle volte è imprevedibile.

E così, nel loro salotto scozzese troneggiava il dipinto di uno dei bambini più dolci che ricordasse di aver incontrato alla Casa di Pony, Slim, di cui non aveva notizie da tantissimo tempo. Eppure, il dipinto era arrivato fino a lei per mezzo di Albert, che aveva riconosciuto subito il loro posto speciale, la loro Collina di Pony.

Quando lui era fuori casa e i ragazzi dormivano, adorava starsene lì a rimirarlo, procedendo sulla strada dei ricordi mentre passava in rassegna dei suoi tesori contenuti nel portagioie intarsiato che le aveva regalato poco prima di vendere la villa di Lakewood: "È nella mia famiglia da generazioni. Mia nonna e mia madre ci mettevano i loro gioielli, ma tu puoi metterci quello che desideri".

E lei lo aveva riempito con il suo passato: lettere, ritagli di giornali, il piccolo carillon di Stair che si era rotto e Albert aveva riparato in un baleno, ricordi bellissimi o meno lieti, ma che rappresentavano il collage intero della meravigliosa avventura che era stata la sua vita fino a quel momento.

Quella vita che stavano ancora tessendo e che finiva sempre per portarla fra le braccia dell'unico uomo che avesse mai amato. Albert, colui che una volta l'aveva fatta ridere con la sua cornamusa quando si era sentita sola; Albert, che l'aveva salvata da una cascata; Albert, che le era sempre stato accanto nella sofferenza della morte di Anthony, nella sua fuga notturna a Londra e in mille altre occasioni.

"Quando ho perso la memoria mi hai salvato tu", le aveva confessato un giorno, con la voce colma di emozioni.

"E tu hai ricambiato milioni di altre volte", aveva ribattuto lei, ripensando anche a quando aveva fatto i salti mortali per farla tornare se stessa.

Quell'uomo meraviglioso, che le era stato tanto devoto da aver persino tentato di riavvicinarla a colui che credeva fosse ancora nel suo cuore. Ma, in quel cuore, il suo principe era uno e uno solo e ora la stava abbracciando più stretta borbottando il suo nome nel sonno.

Gli sfiorò le labbra con un bacio: "Dormi, amore mio, è ancora notte. Domani sarà un altro giorno meraviglioso". E, così dicendo, Candy si accoccolò ancora più stretta al suo petto e si addormentò di nuovo.
 

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Capitolo 92
*** Extra: Ritagli ***


Extra: Ritagli

Queste scene le avevo pensate ma mai inserite: la prima è un incontro mai avvenuto tra Albert e Archie dopo una crisi di Candy senza memoria: nella fanfiction non ha trovato spazio ed era superflua, anche perché presuppone che le cose tra Archie e Annie siano state sistemate da Albert e non è così.
Quindi ce ne sono altre che avevo scritto per i capitoli precedenti al matrimonio, una sorta di gita a Lakewood prima del grande evento. In questa occasione, Candy e Albert si sono di nuovo ritrovati a mollo dopo essere stati sulla barca di Stair, ma l'epilogo è MOLTO diverso e molto più ardito. Infatti, le scene sotto descritte sono piuttosto esplicite. Alla fine, ho deciso di eliminare questa parte perché non mi sembrava in linea con i personaggi, che comunque hanno deciso di attendere fino al matrimonio, così non l'ho inclusa.

Ve le propongo come extra di ciò che sarebbe potuto accadere se... Ovviamente, non vi è una precisa collocazione temporale tra i paragrafi, perché sono ritagli slegati fra loro che andavano incastonati nei capitoli, quindi non cercate un susseguirsi logico. Anche lo stile è molto più immaturo rispetto ai capitoli successivi.
Buona lettura! (spero)
 
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Albert e Archie

Un movimento al suo fianco indicò ad Albert che non era solo. Inspirò profondamente, cercando di trovare la forza di reagire: di certo quella situazione non era la stessa di quando l'aveva creduta morta. Ma dover riportare Candy indietro da quell'abisso gli parve arduo come resuscitarla.

Perché Candy non era più se stessa. Candy era una sconosciuta triste e scontrosa, esattamente come era diventato lui durante i primi giorni di amnesia. La differenza tra loro era che Albert aveva accettato, seppur con difficoltà, l'aiuto e il sostegno di un'infermiera che credeva di non aver mai visto in vita sua.

Lei non voleva avere accanto nessuno e rifiutava qualsiasi forma di aiuto.

"Si è addormentata", disse Archie, sedendosi sull'erba accanto a lui. Quella sera il cielo era limpido e bellissimo, e Albert desiderò che al suo fianco ci fosse la sua fidanzata, per poterle indicare le costellazioni. "Non te la devi prendere, sai che non si ricorda di nessuno di noi. Il dottore ha detto che le sue reazioni...", tentò il nipote mettendogli una mano sulla spalla.

"So benissimo cosa ha detto il medico", sbottò lui.

"Albert...".

"Non ho bisogno di conforto".

"Ti stai comportando come lei", insisté Archie con tono fermo ma odiosamente comprensivo.

Albert fece una risata amara: "Sai cosa significa aspettare per metà della tua vita che la persona che ami si avvicini a te? E quando poi, finalmente questo accade, continuare a perderla per i malefici intrecci del destino?". Si voltò a guardarlo, furibondo.

"Albert...".

Si alzò in piedi, il suo corpo ora tremava di rabbia mal contenuta: "Prima ho pensato che fosse morta, poi ho dovuto occuparmi di te e Annie e adesso lei perde la memoria e non sa più chi diavolo sia io! Anni della sua vita cancellati, sentimenti spazzati via nel giro di pochi secondi!".

Suo nipote si era alzato in piedi e lo fronteggiava con un'espressione di immenso dolore: "Non piangere, Albert", disse con dolcezza.

"Non sto piangendo!". Ne era davvero convinto. Poi si ricordò che aveva imparato di nuovo a farlo solo qualche tempo prima e forse per lui era ancora una reazione sconosciuta, incontrollabile. Si asciugò il viso con rabbia, maledicendo la propria debolezza.

"Senti, mi dispiace di avervi creato dei problemi, ma ora dobbiamo pensare a Candy, giusto?", disse in tono conciliante.

"Scusami, non volevo incolparti dei miei problemi. La realtà è che io e Candy siamo stati davvero felici di aver sistemato le cose", tentò di spiegare.

Archie scosse la testa: "Non importa, non devi scusarti. Posso solo immaginare come ti senti, ma ti prego, non arrenderti. Tu sei lo zio William, l'incrollabile e forte patriarca degli Ardlay. Riavremo la nostra Candy se c'impegniamo tutti, ne sono sicuro".

"E se lei non dovesse più ricordarsi di nulla e rimanesse così? Che ne sarà di me...". C'era stato un tempo in cui stare lontano da lei era difficile ma sostenibile. E c'era stato anche un tempo in cui pensava che avrebbe dovuto continuare a guardarla da lontano affogando il suo amore nelle fughe in mezzo alla natura. Ma non ora.

Ora aveva toccato con mano la felicità e Candy era a un passo da lui, dalla sua vita, dal suo futuro.

Non credeva che avrebbe sopportato di perderla adesso, eppure era proprio quello che stava accadendo. Cominciava ad avere una vaga idea di quello che aveva provato Terence quando lei l'aveva lasciato.

"Non è da te essere così pessimista! Se non dovesse più ricordare la farai innamorare di nuovo di te, la riconquisterai da capo!". Archie sembrava fomentato da una forza a cui avrebbe attinto volentieri.

In quel momento, William Albert Ardlay si sentiva debole e senza speranza. Si rese conto che aveva riposto ogni briciolo di energia in Candy e di lui rimaneva ben poco.
"Pensava che il suo fidanzato fosse un ragazzo castano con gli occhi blu", confessò con un filo di voce.

Udì l'ansito mal trattenuto di Archie: "Vuoi dire che...".

"Mi ha chiesto di vederlo, per potersi ricordare il suo passato", continuò ignorandolo.

"Oh..", fu tutto quello che poté ribattere il nipote.

"L'ho persa, Archie, l'ho persa di nuovo". Sconfitto, annientato, sapendo che il giorno dopo avrebbe dovuto inviare quel telegramma a Terence e sparire, Albert si copri il viso con una mano e pianse amaramente.

Quando sentì la presa forte del nipote che, con un gesto brusco lo costringeva ad appoggiarsi alla sua spalla, lo lasciò fare, mettendo da parte ogni imbarazzo e sfogandosi liberamente.

Archie gli batté piano una mano sulla schiena, ripetendo con voce rotta che sarebbe andato tutto bene. Ma dal suo tono capì che stava mentendo persino a se stesso.

 
- § -
 
Candy e Albert

Albert cercava di non guardarla, oppure di farlo con lo stesso spirito fraterno con cui l'aveva guardata tanto tempo prima, nella medesima situazione. Quel giorno, Candy aveva scoperto che lui ero lo zio William ed erano saliti sulla stessa barchetta di Stair che li aveva mandati a mollo.

La storia si era ripetuta ed entrambi erano coperti solo da due asciugamani. Tra qualche settimana si sarebbero sposati. Lui sentiva il desiderio insinuarsi nel proprio corpo come un dolore costante, in sincronia col suo battito cardiaco sempre più accelerato, e poteva avvertire la tensione provenire anche da Candy.

L'aria era pregna di una passione a malapena contenuta.

Troppo tempo a desiderarla, troppi anni a sognarla e gli era sempre mancato il coraggio di toccare altre donne. Chiuse gli occhi, maledicendo le poche nozioni che aveva appreso dai libri di medicina e la sua inesperienza.

Ma capì che desiderava averla ora. La bramava come un assetato vorrebbe un bicchiere d'acqua per non morire.

"Candy". Non riconobbe la propria voce e si spaventò lui stesso del suono rauco e carico di tensione che gli uscì.

Lei si voltò a guardarlo, ma non sembrava spaventata. Che Dio l'aiutasse, era rossa in volto e pareva pronta a baciarlo.

"Posso abbracciarti?", disse in un ansito a malapena trattenuto.

Il panico lo avvolse e si sentì spezzato in due.

"Non lo so, Candy", rispose lentamente.

Le mani di lei, che già si stavano avvicinando, si bloccarono a metà: "Perché?", chiese con aria innocente.

Chiuse gli occhi, tentando con disperazione di dominarsi e d'ignorare il desiderio ardente che pulsava nel suo corpo. "Perché non so cosa potrei fare se mi tocchi".

Candy spalancò gli occhi, il rossore divenne più brillante, ma non si fermò: "Ma io vorrei... anche io... so che non dovrei... però...".

"Tu vorresti... cosa?", le chiese prendendole i polsi per allontanarla ma al contempo per avere un contatto con lei. Voleva portarle le mani ovunque, sentirsele addosso su ogni centimetro di pelle, fin dove quell'urgenza gridava a gran voce e fare lo stesso con lei.

"Toccami, Albert, accarezzami, abbracciami. Non sopporto di stare così distante da te", lo pregò chiudendo gli occhi.

Indeciso, inesperto e terrorizzato da quello che poteva accadere, ma anche arrivato a un limite di sopportazione da cui non riusciva a tornare indietro, Albert tremò.
Lentamente, cercando così di imporsi un minimo di autocontrollo, l'attirò a sé, baciandole il lato del mento e scendendo sul collo.

Appena la sfiorò, lei emise un ansito così spontaneo e sensuale che non capì più niente e tutta la delicatezza andò al diavolo.

Guidato dai gemiti di Candy e dalle sue mani insinuate tra i capelli, le rubò prima un bacio appassionato, quindi le portò una mano sulla gamba e riprese a salire e scendere sul suo corpo, senza soffermarsi sui particolari, ma assaporandolo con un istinto primitivo che non doveva essere tanto romantico come avrebbe dovuto.

Lui, che aveva amato una donna solo nei suoi sogni più arditi e al risveglio aveva le braccia vuote. Lui, che era stato così solo per tanti anni da non poter soddisfare i suoi desideri più elementari se non in altrettanta solitudine.

Dalla posizione seduta ora si trovavano entrambi sulle ginocchia per poter approfondire le carezze e, nel momento in cui Candy gli si incollò improvvisamente, lui spalancò gli occhi quando sentì quel contatto così intimo, risucchiando aria in un sibilo. Lei si scostò per un secondo, stupita da ciò che doveva per forza aver sentito.

"Dobbiamo... fermarci, Candy", sospirò, ma lei scosse la testa in un chiaro diniego.

"Non voglio", piagnucolò.

Le mani di Albert si animarono di nuovo, mentre ricominciava il suo viaggio impetuoso cercando perlomeno di tenerla abbastanza distante da sé per non perdere del tutto il poco controllo rimasto.

A Candy non sembrava dispiacere, non cercò di rallentarlo o di fermarlo, lasciava che le mani e la bocca vagassero dove preferiva, anche se sembrava volerlo indurre in quel luogo nascosto dove lui stesso ardeva perché lo toccasse.

La accontentò, sperando di diminuire un po' il fuoco nelle sue vene, ma quando la udì gemere a quel contatto così intimo il fuoco divenne una specie di inferno. Scoprì con gli occhi, con la bocca e con le mani la passione traboccante della donna che amava e i suoi sensi furono magnetizzati da quell'unico scopo: darle ciò che chiedeva, senza distrarsi con la pelle delle sue gambe, del suo collo o con la rotondità del suo seno.

Si sentì un po' primitivo e capì che non era quello il modo giusto per fare l'amore, ma d'altronde non era quello che stavano facendo. Stavano assecondando un bisogno basilare che era solo parte del loro sentimento, tuttavia forse era giusto fare questo passo prima che arrivassero le nozze e si comportassero come due adolescenti inesperti.
Voleva che la luna di miele fosse perfetta, ma per farlo doveva imparare più cose, prima fra tutte dominarsi e scoprire come lei reagiva.

Candy gridò e si contorse e il termine dominarsi fu il primo ad andare all'inferno. Era pronto a fuggire da lei perché non si accorgesse di quanto anelava raggiungere quell'estasi che le aveva appena donato allo stesso modo. Quando la vide finalmente rilassarsi e accarezzargli i capelli e il collo provò ad alzarsi, tentando di fuggire per occuparsene da solo e non coinvolgere Candy in qualcosa che riteneva potesse esserle sgradito.

Con sua somma sorpresa, lei lo attirò più vicino, ancora ansimante, e lo guardò. Lo guardò interamente, mutando la sua espressione in qualcosa che non riuscì a decifrare: timore? Disgusto? Sorpresa? Desiderio?

Cercò di articolare qualche parola e persino di coprirsi, ma lei allungò una mano tremante fino a sfiorarlo nell'unico punto che voleva tenere distante da lei anni luce. Un suono gutturale gli sfuggì dalla gola e tentò nuovamente di allontanarsi prima che accadesse l'irreparabile. Se quando si trovava da solo lo coglieva una sorta di brivido interiore, con Candy lì vicino a lui, in carne e ossa, non aveva idea di cosa avrebbe potuto provare.

L'idea lo eccitava e lo terrorizzava al contempo: non voleva spaventarla.

"Vorrei... anche io... lasciami...". Perfetto, Candy non riusciva a dire frasi complete e lui non riusciva a fare altro che respirare come se fosse in costante fame d'aria. Il loro corpi stavano parlando al posto delle corde vocali.

"Ti prego... Candy". Ti prego, non farlo, non è giusto. Ti prego, fallo. Ora, subito.

Non seppe mai cosa realmente volesse dirle, ma seppe come lei aveva inteso quelle parole. Chiuse entrambe le mani su di lui e Albert pensò che sarebbe morto. Di vergogna, di piacere, non riuscì a capirlo, ma si sentì completo.

L'istinto prese il sopravvento e si sorprese a guidarla coprendo le sue mani con le proprie, tra suoni incoerenti e talvolta inquietanti che gli apparvero molto meno sensuali di quelli che aveva emesso lei poc'anzi. Si sentiva una specie di uomo delle caverne ma non gliene importava niente. Aveva fame, aveva sete e doveva mangiare e bere, così come aveva nutrito e saziato lei.

La guardò, aveva il volto arrossato e decise di baciarla. Bastò quell'ulteriore contatto e le loro mani frenetiche in movimento perché una sensazione lancinante lo afferrasse per le viscere, si concentrasse al centro del suo corpo e lo inducesse a stringersi a lei come se dovesse aggrapparsi per non cadere.

Potente, primitiva, devastante. Era come l'esplosione di quel treno che lo aveva quasi ucciso, ma stava avvenendo dentro di lui e non alle sue spalle. Non sapeva come descrivere quello che gli stava succedendo tra le mani di Candy, ma il suo grido fu a malapena attutito dalla pelle morbida del collo di lei che, si accorse con stupore, lo stava baciando nel medesimo punto, vicino alla gola. Era così concentrato su quella nuova, imponente sensazione, che non se n'era nemmeno accorto.

Crollò sul pavimento, esausto, riuscendo finalmente a capire perché paragonassero così spesso l'atto sessuale alla morte. E quello non era stato neanche un atto vero e proprio.

Pensò di scusarsi con lei, ma capì dai suoi occhi luminosi e dal suo sorriso che era soddisfatta di ciò che gli aveva appena restituito.

"Albert, noi... cosa abbiamo fatto?", gli domandò timidamente.

Lui le accarezzò i capelli, con dolcezza. Ora che tutto era finito, si sentiva rilassato e pronto a tornare tenero e pacato. Questo lo spaventò, perché non voleva che fosse sempre così: voleva scoprire con pazienza il corpo di Candy e lasciare che lei lo facesse col proprio. Voleva che avessero il tempo di esplorarsi senza focalizzarsi subito sulla meta finale. Albert cercò di convincersi che, forse, era solo la loro prima volta in quel territorio sconosciuto e magari a poco a poco avrebbero imparato.

Perlomeno, riuscì a risponderle perché conosceva un minimo di teoria: "Non quello che farebbero un marito e una moglie per avere un figlio, ma è stato ugualmente bello". 
Rimasero così per un po', chiacchierando prima di decidere di ricomporsi e tornare a casa. Albert pensò che, nonostante tutto, anche Candy fosse troppo imbarazzata per parlarne ancora o per domandargli se volesse rifarlo in futuro.
 
- § -
 
Il viso sembrò andarle a fuoco, mentre ricordava gli eventi del pomeriggio precedente. Sapeva bene che non avrebbe dovuto spingersi così avanti con Albert, ma tutto era accaduto in modo così naturale che non si era resa conto di quanto le carezze fossero diventate intime finché non aveva sentito la sua mano risalirle la gamba.

Da lì in avanti, tutto era stato puro istinto e lei aveva cercato un contatto più stretto incollando il bacino a quello di lui.

Era stato allora che si erano guardati, con un misto di confusione e aspettativa.

Tutto quello che era accaduto dopo quel bacio era stato una scoperta alla quale non si erano sottratti, perché semplicemente non ne avevano avuto la forza, nonostante fosse convinta che lui sarebbe stato pronto a interrompere tutto a una sua parola.

Candy era cresciuta con due religiose ed era stata in una scuola dove la sola voce di Suor Grey faceva tremare i muri. Eppure eccola lì, nella casetta in mezzo al bosco, con addosso solo la coperta e la biancheria a esplorare il corpo del suo fidanzato e a lasciare che lui la esplorasse. I baci si erano spostati e le mani si erano animate, in una muta conversazione che era, via via, diventata più accesa.

La sua bocca e le sue mani erano ovunque...

A Candy non era sfuggita l'esitazione che aveva colto Albert e si chiese, per un assurdo momento, se fosse la prima volta che toccasse una donna. Poi si diede della stupida: lui era molto più grande di lei e aveva viaggiato in tutto il mondo, di certo aveva avuto altre donne.

Cercò di abituarsi a quell'idea, dicendosi che l'importante era che si amassero qui e ora. Il passato era passato.

Le sensazioni che aveva provato lasciandosi toccare e toccando lui erano state così enormi che credeva il suo cuore sarebbe scoppiato. Non credeva che dare ad Albert ciò che aveva ricevuto l'avrebbe fatta sentire così completa, così piena d'amore. Non sapeva neanche da dove cominciare ma l'aveva fatto e si domandò cosa sarebbe accaduto se avessero compiuto quell'atto assieme, nello stesso momento. In modo diverso.

Oh, no, sono passati solo pochi giorni e già vorrei che fossimo di nuovo soli... sto proprio perdendo la testa!

"Albert, noi... cosa abbiamo fatto?", ricordò di avergli chiesto senza fiato, mentre rimanevano con le gambe intrecciate, ancora ansimanti, davanti al fuoco. Nonostante fosse un'infermiera, per lei c'erano misteri ancora irrisolti che stava scoprendo in quel preciso istante.

Lui l'aveva guardata con dolcezza: "Non quello che farebbero un marito e una moglie per avere un figlio, ma è stato ugualmente bello".  
 
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Albert si rivide mentre scopriva il primo corpo di donna della sua vita. Era il corpo di Candy, ed era stato meraviglioso rendersi conto di così tante cose senza averle mai conosciute prima, come se ci fosse una strada tracciata che sapevano come seguire.

Le sue mani si erano dirette là, dove la sentiva sussultare e dove, un giorno, sarebbe dovuto entrare in modo completamente diverso per renderla madre: trasportarla dentro attimi di pura estasi gli aveva donato una sensazione di onnipotenza che non aveva mai provato in vita sua. Ora sapeva come renderla felice in ogni modo possibile.

Devota, incuriosita e desiderosa di fargli provare le medesime sensazioni che l'avevano appena vinta: ecco come gli era apparsa la sua Candy, mentre un leggero rossore tradiva appena un po' d'imbarazzo. Con stupore e una certa punta di timore, aveva guidato le mani timide di lei temendo di commettere una specie di sacrilegio.
Fu come se gli avesse dato fuoco con un cerino. Con la mente annebbiata, aveva posto le proprie mani sulle sue e, quando lei lo aveva baciato sul collo, lui aveva fatto lo stesso.

Non avrebbe mai dimenticato la sensazione della pelle morbida di Candy sotto le sue labbra mentre lei lo portava dritto in quella catarsi di cui aveva solo letto accenni in qualche libro.

Si era sentito colpevole eppure in gloria, ma lei sembrava così felice che avevano parlato un po' prima che le chiedesse se voleva andare a darsi una rinfrescata.
Lei si era diretta verso la piccola stanza da bagno, avvolta nella coperta intorno a quel corpo che ancora non conosceva perfettamente, ma che anelava di scoprire in ogni suo morbido angolo.

Albert si nascose il viso tra le mani, chiedendosi se quella sua inesperienza lo avrebbe tradito in luna di miele.
 
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GRAZIE

Rinnovo i miei ringraziamenti a chi mi ha sempre commentata, anche all'ultimo capitolo: sono felice che abbiate apprezzato l'epilogo e spero vi abbia fatto piacere leggere questi piccoli ritagli. Un abbraccio, ci vediamo alle prossime fanfiction, rimanete sintonizzate!

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