Here Is No Why

di Neeva
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Beautiful People ***
Capitolo 2: *** No One Knows ***
Capitolo 3: *** I Wanna Be Adored ***
Capitolo 4: *** Rebellion (Lies) ***
Capitolo 5: *** Cocoon ***
Capitolo 6: *** Silent Alarm ***
Capitolo 7: *** Back Home ***
Capitolo 8: *** Pale Blue Eyes ***
Capitolo 9: *** Jumbled up ***



Capitolo 1
*** The Beautiful People ***


HERE IS NO WHY
Glitter burned by restless thoughts of being forgotten…
 
~ Capitolo 1 ~
The Beautiful People/*
 
Il marciapiede scorre fluido sotto i miei occhi. Un passo dopo l’altro, tra pozzanghere di acqua fangosa. Alla mia destra l’estensione grigiastra del fiume Cedar, che si snoda come un serpente dalla pelle iridescente. Scarpe di tela sdrucite ai piedi, quando sarebbe stato più logico indossare tutt’altro.
 
L’Iowa non è la Bassa California.
 
Qui piove frequentemente, copiosamente.
 
L’avevo dimenticato.
 
Un pesce fuor d’acqua, ecco quello che sono.
 
Un ottimo inizio, non c’è che dire.
 
Ho chiesto al tassista di fermarsi a metà strada tra l’aeroporto e la destinazione finale della nostra corsa.
 
L’auto sembrava andare troppo veloce, mentre a me mancava sempre di più il respiro.
 
“Ha l’ombrello? A breve diluvierà…”, mi ha avvertito l’uomo alla guida, un sessantenne dall’aspetto cordiale.
 
“Non ha importanza”, ne ho liquidato i dubbi con una mancia generosa, un ringraziamento e un saluto frettolosi.
 
Se il tassista mi ha riconosciuto deve aver pensato che ero il solito eccentrico made in Hollywood. Gente strana gli attori, in fondo, no?
 
La destinazione di cui sopra corrisponde ad un indirizzo urbano.
 
Quello di casa.
 
O meglio, di quella dove ho vissuto fino al trasferimento in California.
 
Siamo a Cedar Rapids.
 
È qui che sono nato.
 
Ed è che qui che sono di ritorno.
 
Il volo da Los Angeles l’ho passato ascoltando una lunga serie di playlist a tema, create da me nel tempo libero. Sono un melomane che asseconda senza vergogna la propria passione per la musica. L’iPod che ho sempre con me, e con il quale gioco a fare il DJ, lo dimostra chiaramente.
 
Il paesaggio offerto dal finestrino dell’aeromobile ha catturato più volte la mia attenzione. Lasciato alle spalle il deserto del Colorado, l’Iowa si è palesato distintamente sotto forma di campi di grano e frumento, intervallati qua e là da vigneti coltivati.
 
C’è turbolenza e accolgo con sollievo l’annuncio dell’atterraggio ormai prossimo.
 
Non ho paura di volare, ma sono agitato, consciamente ora, e desidero nient’altro che stabilità sotto i piedi.
 
“Dove la porto, signore?”.
 
Prima di rispondere, ho dovuto riflettere per un qualche istante.
 
Non sull’indirizzo, che ricordo perfettamente.
 
Il dubbio che mi assale riguarda mio padre.
 
Vivrà ancora lì?
 
Di fatto non lo so e se si fosse trasferito altrove, non saprei come cercarlo.
 
Ammetto di conoscere molto poco Cedar Rapids o chi, suppongo e spero, la abiti ancora.
 
Dopo diciassette anni passati a Los Angeles, credo di potermi ormai considerare un homie./**
 
Rifletto su tutto e niente mentre cammino costeggiando il fiume.
 
Ho bisogno di una sigaretta che accendo con gesti fin troppo collaudati.
 
Musica. Tabacco. Caffeina.
 
Tre droghe molto diverse tra di loro e da cui sono allo stesso modo dipendente.
 
Caffè quando mi prendo una pausa o studio per la prima volta con un copione.
 
Nicotina per calmarmi.
 
Musica sempre, per esprimere e filtrare tutto il resto.
 
Un figlio alle prese con il proprio padre.
 
Perché sono così nervoso?
 
Passo a salutarlo, vedere come sta.
 
Non è un’abitudine per me, ma nemmeno un’ascesa al patibolo.
 
E allora perché rimango a bagnarmi sotto la pioggia anziché essere già da lui?
 
Forse la natura del nostro rapporto, inesistente, è un buon punto di partenza per delineare questo ritratto di famiglia un po’ sbiadito.
 
La decisione di tornare a casa è stata figlia di un impulso. Dall’oggi al domani mi sono ritrovato a cliccare su “conferma acquisto volo” e ad essere ringraziato dalla compagnia aerea per l’ottima scelta.
 
Perché proprio adesso?
 
Perché non un mese fa o un anno fa?
 
Non è normale non ricordare l’ultima volta in cui si è incontrato o sentito il proprio padre.
 
Il bisogno di vederlo ha reso perplesso me per primo.
 
Ancora di più, quando ho realizzato che eravamo pronti al decollo e stavo partendo senza aver accennato nulla né a mia madre né a mia sorella.
 
Ho un ottimo rapporto con entrambe.
 
Credo di poter dire che sanno tutto di me e viceversa.
 
Di sicuro non ho mai dovuto mentire sulla meta o le motivazioni alla base dei miei viaggi.
 
Questa volta però è diverso.
 
Non sono in volo per una destinazione esotica.
 
Non sto andando ad un concerto.
 
Non mi hanno invitato ad una festa esclusiva.
 
Di fatto, non so che diavolo stia facendo qui, a cento metri dalla staccionata dell’abitazione che riconosco immediatamente.
 
Non lo so davvero.
 
Suppongo di aver taciuto su Cedar Rapids perché so già che sarà un fallimento.
 
Il genere di cosa da tenere per sé.
 
Di un granchio preso cinematograficamente parlando, sarei il primo a ridere, coinvolgendo senza problemi mia madre, Hannah e Zach.
 
Ma qui si tratta di mio padre e il discorso cambia.
 
Non c’è nulla da ridere.
 
Anche il dolore altrui tornerebbe a galla alla minima menzione di lui.
 
È troppo pericoloso.
 
Che sia tornato in Iowa, dopo il divorzio, è stata una scelta concorde alle proprie origini, fatta da un uomo che ha sempre amato molto lo Stato in cui è nato. I ritmi di una vita con delle certezze di fondo e poca frenesia, poco rischio.
 
Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti in California.
 
Mia madre credeva, dimostrando un’indubbia fiducia in me, che potessi fare mia una qualche carriera artistica, magari in pubblicità, e Los Angeles era il luogo migliore per provarci.
 
Vedevano la vita in maniera diversa, i miei, per questo la loro separazione non è stata sorprendente, bensì il risultato di una parabola personale discendente, influenzata da obiettivi e aspirazioni in buona sostanza opposti.
 
La gradualità delle circostanze, l’abitudine all’assenza di mio padre, man mano sempre più marcata… è stato naturale considerare mia madre come l’unico punto di riferimento solido nella mia vita, proprio lei che aveva abbandonato la concretezza dell’Iowa per il sogno volubile della California.
 
Cinquanta metri.
 
Ho le spalle completamente bagnate.
 
Accelero il passo.
 
Il quartiere è cambiato, gentrificato.
 
Villette a schiera su ambo i lati della strada. La pavimentazione del marciapiede è interrotta in maniera modulare da aiuole nel mezzo delle quali si erge il fusto imponente dei cedri che ricorrono nella topografia cittadina. La resina cola lenta dalla corteccia, oggi come allora. Ne percepisco tutto ad un tratto l’odore.
 
Attraverso le strisce portandomi sull’altro lato del viale.
 
Numeri dispari.
 
Il mio domicilio è appunto segnalato da una cifra così.
 
Venti metri.
 
Cammino e registro attivamente dettagli vecchi e nuovi. Ad esempio, cosa ne è diventato del primo piano del palazzo in fondo alla strada, vicino l’intersezione che conduce in pieno centro cittadino.
 
Un tempo ospitava uno degli esercizi commerciali dei miei.
 
L’insegna luminosa di un supermarket in franchising testimonia che la nostra deli/*** non esiste più.
 
Riaffiora al palato il sapore corposo dei sandwich al pastrami e quello piccante della torta al rabarbaro.
 
Passavo i pomeriggi tra quegli odori, la preparazione dei tanti cibi sul menù studiato da mia madre, mentre ero alle prese con i primi compiti di scuola, seduto al tavolo che dava su una piccola area giochi.
 
Sono ricordi che mi pesano addosso come piombo.
 
La mano raggiunge d’istinto il taschino del giubbotto di jeans, alla ricerca del bistrattato pacchetto di Clove, ma freno l’impulso di accenderne un’altra. Sono praticamente arrivato.
 
Fradicio, teso e con una grande voglia di mangiarmi le unghie. Ho promesso ad Ellen/**** che avrei smesso, ma è un vizio radicato. Ho delle mani oggettivamente brutte: unghie cortissime e pellicine spesso sanguinanti. Non c’è una sola persona che non se ne sia accorta guardando “Il Signore degli Anelli”.
 
Sconfiggo la tentazione di girare i tacchi e tornare in aeroporto così come sono venuto.
 
Anonimo e insignificante, sotto la pioggia che tamburella sull’asfalto così come fanno i dubbi nella mia testa.
 
Prendo tempo ed osservo l’abitazione dall’esterno.
 
È uguale ad allora.
 
Ulteriori ricordi si aggiungono ai precedenti. Mi rivedo correre dietro Zach come un’ombra fastidiosa e poi giocare con Hannah sugli scalini del portico. A mia sorella piacevano le bambole allora. Punk lo è diventata crescendo.
 
Anche il colore delle mura è lo stesso.
 
Il giardino invece è diventato sempreverde – maschile, in un certo senso.
 
I fiori di cui si occupava mia madre sono scomparsi.
 
Imbocco il vialetto d’ingresso.
 
Intravedo la luce accesa attraverso la vetrata di quello che era, a memoria, il salotto.
 
Troverò senza dubbio qualcuno in casa, ma di chi si tratti davvero, lo scoprirò soltanto se mi riceveranno.
 
Non ho letto il nome del proprietario sulla cassetta della posta.
 
Non lo leggo nemmeno vicino il portone.
 
Sono al riparo dal temporale finalmente, sotto il portico di legno bianco, ben tenuto. Pitturato di recente.
 
Ho le gambe molli e lo stomaco in subbuglio quando premo il campanello.
 
Fotogrammi di un Halloween quasi preistorico. Gli amici del quartiere che ci visitavano giocando a dolcetto e scherzetto e specularmente, io le loro case, con la stessa domanda sulle labbra: “Trick or treat?”.
 
La porta si apre senza che venga chiesto chi è.
 
Ed eccolo lì, sullo stipite.
 
Warren Wood.
 
Mio padre.
 
“Elijah?”.
 
La voce è roca, familiare, così come il viso, segnato in maniera distinta dal passare degli anni, rimanendo però riconoscibilissimo. L’immagine del cinquantenne che ho davanti si soprappone a quella del trentacinquenne delle polaroid custodite in vecchi album che nessuno sfoglia più.
 
“Elijah…”.
 
Un tono interrogativo prima e attestante l’attimo successivo.
 
Warren non dissimila minimamente la propria sorpresa nel vedermi comparire dal nulla.
 
Avrà mai letto di me sui giornali, visto qualche film in cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto artistica? Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti dal tempo?
 
“Hi, Dad”.
 
Lo saluto come se lo avessi visto il giorno prima.
 
Senza dichiarazioni plateali di amore filiale.
 
Lui nemmeno me ne offre.
 
Fa soltanto un passo indietro.
 
Un modo di invitarmi ad entrare, credo, eppure quanto percepisco è l’esatto contrario.
 
Non smette di fissarmi.
 
Dai vestiti bagnati alle mani mangiucchiate e strette a pugno, in una posa passivo-aggressiva che non riesco a controllare. Sono metaforicamente pronto a colpire se provocato.
 
Rifiutato.
 
Il borsone da viaggio che ho imbarcato è capiente e Warren sembra studiarlo con attenzione, ipotizzare uno scenario che nemmeno io ho ben chiaro. Aver portato diversi vestiti con me non vuol dire che ho fatto chissà quali calcoli riguardo la durata della mia visita. Rimarrò un giorno? Tre giorni? Una settimana? È questo il problema? Non mi vuole tra i piedi troppo a lungo?
 
Tutto rimane nella mia testa, ma l’irritazione che provo è gridata a pieni polmoni dalla rigidità con cui respiro, la serietà con cui ne sostengo lo sguardo.
 
È qui che mio padre accenna un sorriso.
 
Un pugno in pieno stomaco.
 
Non me lo aspettavo.
 
Non so come interpretarlo.
 
È inaspettatamente cordiale quando riapre bocca: “Entra in casa. Ti prenderai un malanno se rimani lì fuori”.
 
Lo seguo nell’atrio senza proferire parola, lucido quanto basta per notare che la carta da parati è scomparsa dalle pareti, sostituita da una vernice pastello.
 
Mi impongo di modulare diversamente il respiro, come se si trattasse di un esercizio di recitazione.
 
Mi impongo anche di dimostrarmi meno nervoso, fragile, davanti all’uomo che sono venuto a cercare dopo dieci anni di telefonate, lettere e visite mancate.
 
Come rapportarsi con un genitore assente?
 
Come rapportarsi con un figlio assente?
 
Nessuno dei due ha le idee troppo chiare.
 
Forse se fossi stato più loquace o affettuoso vedendolo uscire sul pianerottolo.
 
Forse se avessi finto tutto quanto non sono riuscito ad esprimere, poggio il borsone a terra, notando la pozza d’acqua che si è formata ai miei piedi.
 
Dovrei cambiarmi.
 
Non ho intenzione di ammalarmi.
 
Obbligare mio padre ad occuparsi di me in quel modo.
 
Mi sposto però in cucina, una stanza perfettamente in ordine e dall’aspetto accogliente.
 
Il bollitore elettrico è acceso.
 
Qualcosa di caldo da bere. Non è una cattiva idea.
 
Mi tolgo il giubbotto greve di pioggia e lo appendo ad una sedia.
 
Mio padre mi raggiunge allora, uscendo da quella che ipotizzo essere rimasta la lavanderia. Mi lancia un asciugamano che afferro al volo e con cui mi tampono come meglio posso i capelli.
 
Mi siedo nel momento esatto in cui vedo offuscarsi i contorni della credenza appartenuta alla mia bisnonna. I limoni che decorarono il copritavolo perdono altrettanto improvvisamente forma, diventando un ammasso indistinto di giallo.
 
“Un tè, Elijah?”.
 
Scuoto la testa, rimettendo a fuoco la stanza. “Un caffè. Preferirei un caffè”, rispondo educato e incredibilmente a disagio.
 
Warren annuisce, versando due cucchiai di Nescafé in una tazza. A quel punto aggiunge l’acqua e allinea sul tavolo tovaglioli di carta, cucchiaini, una zuccheriera, del latte.
 
Senza fronzoli, ma perfetto dal punto di vista formale.
 
“Zucchero?”, inquisisce, fissandomi diritto negli occhi. Suppongo siano lucidi. Sto bramando una doccia, un letto e un viaggio di ritorno a casa. Quella vera, a Venice, in prossimità del mare, con mia madre e quella monella appiccicosa di Hannah per vicine e confidenti.
 
“Due zollette, grazie”. Visto che siamo giocando ai gentiluomini, faccio anch’io la mia parte.
 
“Latte?”.
 
“No, I like it black”.
 
Prendo il mug che mi viene porto.
 
Mi tremano impercettibilmente (o quasi) le mani.
 
Freddo, nervosismo, stanchezza.
 
Avrei un milione di motivazioni da addurre.
 
Il caffè ha un buon sapore. Non ne avevo mai bevuto tra quelle mura.
 
Osservo mio padre tagliare una fettina di limone per il proprio tè.
 
È l’unica frivolezza che si concede per alterarne il sapore.
 
Non lo sapevo.
 
Ne ignoro i gusti in toto o comunque, nei miei ricordi lo vedo più spesso con una birra in mano, accompagnando una pizza o della carne alla brace.
 
Senza volerlo, Warren imita i miei gesti, rivolgendo i propri pensieri alla tazza che tiene tra le mani.
 
Ben salde, le sue.
 
Curate.
 
Nessun segno evidente di lavoro manuale propriamente detto.
 
Dopo il trasferimento in California aveva iniziato ad occuparsi di vendite.
 
Come si sia reinventato qui a Cedar invece, non l’ho mai saputo.
 
“Ti dispiace se accendo una sigaretta?”.
 
Mio padre fa cenno di no.
 
Mi guardo intorno, allora, alla ricerca di un portacenere.  
 
Lo avvisto sulla credenza.
 
Ha l’aria di non essere mai stato usato prima.
 
Un souvenir delle Bahamas – ceramica dipinta ad olio con maestria.
 
“Posso?”, chiedo ancora una volta facendo sfoggio di buone maniere, ignorando se ci sia un legame affettivo tra Warren e il posacenere.
 
“Puoi…”.
 
La risposta è quanto di più breve e asciutto potessi aspettarmi, ma il tono equivale a un attacco personale.
 
Vi trovo insito un rimprovero.
 
Il solito rimprovero.
 
Difatti.
 
“… ma suppongo che potresti darci un taglio con quel veleno”.
 
Non gli do tempo di aggiungere altro.
 
“Affrancati la paternale”, lo blocco immediatamente.
 
Non ha il diritto di farmi la morale.
 
Come genitore non è mai andato oltre la facciata ed è a quella che lo relego adesso.
 
Quelle che fisso quando poggio sul tavolo il pacchetto sono due iridi impenetrabili.
 
Il muro contro muro mi fa accendere l’ultima sigaretta rimasta come se nulla fosse, aspirando vorace la prima boccata dal retrogusto di mentolo. Da lì alterno il tabacco al caffè, divenuto tiepido.
 
Osservo estraniato la nube di nicotina che esce dalla finestra socchiusa, mentre mio padre finisce il proprio tè con sorsate lunghe e fin troppo misurate.
 
Fuori impazza una pioggia torrenziale.
 
“Devo uscire. Hai bisogno di qualcosa?”.
 
“No… niente”.
 
Warren mi trafigge con uno sguardo che mi inchioda al muro.
 
“Fai come se fossi a casa tua, mentre sono via”.
 
È il suo turno di delimitare i campi adesso, di specificare il ruolo che ho io nella sua vita.
 
La comparsa.
 
Un ospite che non si manda via per mera cortesia.
 
Non cedo alla tentazione di gridargli contro che, maledizione, questa è casa mia.
 
Non rispondo alla provocazione.
 
Mi ripeto che la mia vita, quella vera, è a Los Angeles e che lui non ne fa parte.
 
Spengo la cicca nel souvenir.
 
Il volto sorridente di una delle bahamensi rimane sfregiato dal fuoco.
 
_________
 
/* Brano dei Marilyn Manson;
/**Slang losangelino per indicare una persona del posto;
/*** Deli è il diminutivo “Delicatessen”, negozio di specialità alimentari di origine straniera (le cosiddette “prelibatezze”), assimilabile a una salumeria nella quale si vendono anche sandwich e/o pasti caldi;
/**** Host del programma cult negli USA “The Ellen Degeneres Show”.
 
_________
 
L'angolo dell'autrice...


"Il protagonista di questa storia è Elijah Wood e il suo rapporto con la famiglia, gli amici, il successo. Detto così sembra tutto molto semplice, ma questa storia è intensa. Contiene tante e tante sensazioni e proprio come nella realtà, e come da titolo, si fa ben vedere che non sempre c'è un “perché” alle cose. Raccontata in prima persona, riesce nell'intento di desiderare di farsi leggere fino alla fine".

Questo è stato il commento lusinghiero di Erika alla mia storia, classificatasi al secondo posto del XV concorso di scrittura a tema indetto sul sito (“Fanfic su celebrità”).
Forse non è proprio il tipo di racconto che ci si aspetterebbe trattandosi di un personaggio famoso, ma l’idea è nata per caso, dopo aver letto quest’intervista, e ho seguito la cosiddetta Musa.
Se dovessi riassumerne la trama con un paio di frasi direi che si tratta di un tuffo nel passato che non ha la pretesa di risolvere nulla, né l’ipocrisia di addolcire con della retorica semplicistica situazioni emotivamente complesse.
L’ispirazione me l’hanno fornita su un piatto d’argento gli Smashing Pumpkins.
Il titolo è tratto da una loro canzone e riassume alla perfezione l’incapacità di spiegare il crearsi di determinate circostanze. È lecito chiedersi il perché, ma non sempre si otterranno delle risposte. 
I titoli dei singoli capitoli anche corrispondono a quelli di tracce musicali, citate da Elijah qua e là e che hanno un legame reale con la sua persona (ma non sempre con quanto narrato nel capitolo in sé).
Terminata la pubblicazione della storia condividerò una playlist così da ricrearne il mood anche sonoramente.
Non c’è nulla di dinamico nella narrazione, al punto da poterla definire una non-azione.
Molto di quanto accade, avrete notato, passa per la testa e il cuore dei personaggi.
Grazie per aver letto questo primo capitolo e a presto,
-N
 

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Capitolo 2
*** No One Knows ***


~ Capitolo 2 ~
No One Knows/*
 
Osservo l’auto che esce dal vialetto e mi ritrovo solo tra mura familiari e sconosciute insieme.
 
Con uno sforzo strenuo, tale è la pesantezza di membra ridicolmente intorpidite, mi trascino in salotto.
 
Il camino è accesso. Le fiamme danzano cangianti nell’ampio focolare.
 
La casa è ben riscaldata.
 
Se ho freddo, la ragione è un’altra.
 
I vestiti bagnati, certo, ma il grosso viene da dentro.
 
Ho un nodo in gola.
 
Deglutisco per mandarlo giù, come un boccone amaro.
 
Trovo l’iPod in una tasca laterale del borsone.
 
Il tessuto impermeabile lo ha protetto dalla pioggia.
 
Seleziono la modalità di riproduzione casuale su una playlist altrettanto casuale.
 
Più che ascoltare qualcosa in particolare, sento la necessità di cancellare il silenzio che mi circonda.
 
Mi siedo sul tappeto intessuto con motivi indiani noti.
 
È posto ai piedi del camino.
 
Ginocchia strette al petto e testa incollata alle stesse.
 
Sono terribilmente stanco.
 
La musica riempie gli auricolari e mi libera la testa da ogni singolo pensiero.
 
Fluttuo.
 
Gli Smashing Pumpkins hanno segnato la mia adolescenza. Nessuno come Billy Corgan ha saputo esprimere il disagio, l’alienazione, la rabbia e lo struggimento di chi, come me, cresceva negli anni ‘90.
 
Non trovo strano che molti di quei testi siano ancora attuali.
 
Il malessere ha una natura quasi banale, che lo rende universale, indifferente al passare delle decadi.
 
Glitter burned by restless thoughts of being forgotten./**
 
La canzone va avanti, ma non la sto ascoltando più.
 
Sono queste parole a colpirmi.
 
Fanno emergere in me una paura smisurata.
 
Che non ho mai contemplato apertamente fino a questo preciso istante.
 
Non voglio essere dimenticato.
 
È per questo che sono tornato a Cedar Rapids.
 
Io non voglio che Warren mi dimentichi.
 
La nebbia si squarcia, ma non chiarisce nulla riguardo quello che sento davvero, seppellito da anni di distacco, nei quali ho genuinamente creduto di non avere bisogno di mio padre.
 
C’è una cornice sulla mensola del camino.
 
Ho messo via l’iPod e sollevato lo sguardo per caso su di essa.
 
Sono miope, è risaputo, ma riducendo gli occhi a due fessure riesco a discernere cinque figure dai capelli castani.
 
Il mare sullo sfondo.
 
Santa… Monica?
 
Mi rimetto in piedi.
 
Voglio osservare volti e paesaggio da presso.
 
Siamo proprio noi.
 
La famiglia al completo, ritratta in un torrido pomeriggio californiano.
 
Warren con un braccio intorno alle spalle di Debra, Zach che tiene per mano Hannah ed infine io, intento a finire il mio gelato. Sorridiamo tutti in direzione dello zio Turk. Noi ragazzini ci assomigliamo tantissimo. Gli occhi azzurri tipici dei Wood e la pelle resa ambrata dal sole.
 
Andavamo spesso al molo.
 
Ci piaceva salire sulla ruota panoramica, osservare la città e l’Oceano da lassù.
 
Sono passati circa dieci anni da allora.
 
Zach viveva ancora con noi.
 
Anche mio padre.
 
Fino a una normalissima mattina di novembre, quando, senza che avvertissimo la gravità delle circostanze, ci ha salutati ed è stato per sempre.
 
Dad left us.
 
Mia madre non ha mai elaborato sul perché e noi figli ci siamo dati una risposta da soli, tenendo conto delle nostre età, tutte differenti, e le capacità critiche conseguenti.
 
Rimetto la cornice sulla mensola e mi guardo intorno alla ricerca di altre fotografie.
 
Non ce ne sono.
 
Vedo solo soprammobili e quadri in numero adeguato.
 
Azzarderei col dire che mio padre vive da solo.
 
Il che, certamente, non esclude che abbia una compagna.
 
È un pensiero strano.
 
Anche da separati, continuo a pensare ai miei genitori come a una coppia.
 
Deb & Ren, come erano soliti rivolgersi l’un l’altro.
 
Forse perché negli ultimi mesi trascorsi insieme non li ho mai sentiti litigare, gridarsi addosso insulti e parolacce, accusarsi di mancanze vere o presunte.
 
Le commissioni da fare non impegnano mio padre a lungo.
 
Lo sento rientrare mentre maledice la pioggia.
 
Fuori è buio pesto.
 
Leggo l’ora sull’orologio appeso al muro: sono le 19:15.
 
“Elijah?”.
 
Una stecca di Cloves viene lanciata in mia direzione.
 
La afferro con prontezza di riflessi degna di un ricevitore degli Hawkeyes.
 
Eppure sono confuso.
 
Ho finito le sigarette proprio sotto gli occhi di mio padre, d’accordo, ma perché comprarmene altre, dopo lo scambio verbale che abbiamo avuto?
 
Ha già smesso di preoccuparsi per la mia salute?
 
È un gesto derisorio?
 
Provocatorio?
 
Sta facendo uno sforzo per accettare la mia posizione riguardo il tabagismo?
 
“Grazie…”, biascico, stringendo la stecca bordeaux tra le mani.
 
“Credevo ti fossi messo comodo”, continua lui, scomparendo in cucina con le buste della spesa.
 
“Comodo?”, lo seguo, non capendo.
 
“Sì… con dei vestiti asciutti addosso, dopo esserti fatto una doccia”.
 
“Vado… adesso”, annuisco, ora che ho il suo permesso, in un certo senso.
 
“Puoi sistemare le tue cose nella vecchia camera. Ham balls e sweet corn vanno bene per cena?”.
 
Qui riemerge l’indole culinaria di mio padre.
 
Ha appena nominato due piatti della cucina locale che non mangio da moltissimo tempo.
 
Comfort food a tutti gli effetti.
 
Vanno più che bene, ma non riesco ad andare oltre un laconico: “Quello che vuoi”.
 
Ho voglia di prendermi a pugni.
 
Tra i due, quello che ci sta provando di più al momento è paradossalmente Warren.
 
A cui sembra, in effetti, bastare il mio farfugliare per iniziare a cucinare mentre a me non resta che salire al piano superiore.
 
La scala che lì conduce era meno angusta nei miei ricordi.
 
Forse perché non sono più un bambino ed ho in spalla un borsone voluminoso.
 
Ventotto, ventinove…
 
Avevo l’abitudine di contare gli scalini.
 
Lo faccio anche adesso.
 
Il numero trentacinque corrisponde al pianerottolo e qui allungo in automatico la mano verso la parete alla mia destra, trovando subito l’interruttore.
 
Il corridoio si rischiara di una luminosità soffusa.
 
Avanzo fino alla seconda porta e ruoto la maniglia con un misto di interesse e aspettativa.
 
Ci siamo.
 
Davanti ai miei occhi si apre la stanza che condividevo con Zach.
 
Mi aspettavo un ripostiglio pieno di cianfrusaglie, invece tutto è come allora: l’armadio, le scrivanie, il televisore, i letti separati dai comodini. Mancano sono le suppellettili, ma è normale. Mia madre aveva imballato tutto, durante il trasloco, spedendo gli scatoloni in California.
 
L’assenza di oggetti d’arredo produce una strana eco.
 
I passi rimbombano, così come il tonfo del borsone quando lo faccio cadere a terra.
 
Non c’è polvere sulle superfici.
 
L’ambiente è arieggiato.
 
Qualcuno fa le pulizie regolarmente.
 
Lo stesso accade con il locale prospiciente, un tempo regno incontrastato di Hannah.
 
I mobili qui sono infantili, con ante e cassetti di legno colorato. Non c’è la TV. Quando siamo partiti mia sorella aveva tre anni e guardava i cartoni in salotto con la babysitter, mentre io e Zach litigavamo per il telecomando in camera nostra.
 
Mio fratello ha sette anni più di me ed è andato via di casa presto.
 
Abbiamo un ottimo rapporto adesso, da adulti.
 
Con l’accappatoio in mano, mi dirigo in fondo al corridoio.
 
Il bagno è la stanza più facile da trovare in qualsiasi abitazione.
 
Contrariamente al resto della casa, qui c’è stato un ammodernamento evidente.
 
Le piastrelle blu degli anni ‘80 sono state sostituite da eleganti tessere mosaico verde acqua.
 
Il box doccia con il resto dei sanitari è altrettanto nuovo.
 
Lo specchio affisso sul lavabo mi rimanda una faccia dal pallore spettrale.
 
Ho gli occhi simili a due fari, cerchiati da far paura.
 
Le labbra ridotte ad una linea sottile.
 
Un’emoticon fin troppo seria.
 
Getto i vestiti nel portabiancheria e mi infilo sotto la doccia, investito in pieno dall’acqua piacevolmente calda.
 
Appoggio i palmi contro le maioliche opache di umidità e abbasso la testa.
 
I muscoli di collo e schiena si rilassano un po’ alla volta ed io con loro.
 
È qui che prendo ad insaponarmi il corpo e i capelli, detergendo ogni centimetro di pelle esposta.
 
I gusti di mio padre in fatto di bagnoschiuma non sono cambiati.
 
Utilizza ancora lo stesso prodotto, dallo stesso profumo, nonostante la formulazione negli anni sia stata migliorata, diventando più amica dell’ambiente e della pelle.
 
Riapro l’acqua sciacquando via schiuma e… come definirlo/a?
 
Nostalgia… ecco, nei confronti di tutto e niente.
 
Tale e quale alla nostra famiglia.
 
Un microcosmo essenziale, prima; il grande nulla, poi.
 
Le gambe mi cedono, incapaci di sostenere il peso amaro della verità.
 
Con la schiena incollata alle mattonelle, scivolo sulle ginocchia e sollevo la testa, rivolgendola verso il getto d’acqua che continua a cadere.
 
Forse mi aspetto di cancellare delle lacrime che però non vengono.
 
Non è quel tipo di dolore.
 
__________
 
/* Brano dei Queens of the Stone Age;
/** Parole della canzone che dà il titolo alla storia.

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Capitolo 3
*** I Wanna Be Adored ***


~ Capitolo 3 ~
I Wanna Be Adored/*
 
L’odore di cibo mi solletica le narici non appena scendo le scale.
 
In cucina trovo Warren con indosso un grembiule.
 
Sta controllando la cottura di carne e mais che deve giudicare quasi ultimata perché aziona il grill, impostando il timer su 5’.
 
Non scambiamo meno una parola mentre affetta dei pomodori ben maturi, seguiti da una carota a julienne.
 
La maestria con cui maneggia il coltello è la stessa di un tempo; forse anche migliore.
 
Il mondo della cucina, il mercato degli agricoltori, le materie prime da toccare con mano, l’alchimia delle ricette… da piccolo il mio super segreto era fingermi figlio di maghi perché tali mi sembravano i miei genitori, alle prese con misteriose masse lievitate e barattoli di spezie e aromi dai colori e i profumi più svariati.
 
Le prime nozioni di geografia le ho imparate così, facendo domande senza fine sul dove, dove, dove.
 
OK, let’s hear you out, spark plug…/** era solita sorridere mia madre, quando decidevo di passare in rassegna tutti i singoli ingredienti, allineati in ordine alfabetico su una mensola lunghissima.
 
Afghan saffron (Asia)…, Australian acacia (Oceania)…, Cayenne pepper (South America)…, Indian turmeric (Asia)…, Madagascar vanilla (Africa)… recitavo con grande serietà.
 
Very good, little man… giungeva altrettanto spesso l’approvazione di Warren. Era stato lui a regalarmi una versione semplificata dell’atlante da cui non mi separavo mai.
 
Un altro ricordo molto caro legato al cibo riguarda le feste di compleanno, un grande motivo di vanto per noi bambini perché Deb si superava sempre, creando torte che facevano l’invidia dei nostri amici.
 
E a proposito di dolci, nemmeno questa sera sembrano mancare. Il vassoio appoggiato sulla credenza è avvolto nella carta di Sykora Bakery, la nota pasticceria del Czech Village.
 
Non posso fare a meno di chiedermi che valore abbia tutto questo.
 
Se mio padre sia davvero felice di vedermi o se l’attenzione ai dettagli sia soltanto finzione.
 
È più prudente pensare che la mia presenza in città non significhi nulla per Warren.
 
Se rimango con i piedi ben saldi a terra, quando cadrò farà meno male.
 
Al momento, quello che portiamo avanti è un dialogo muto.
 
Io mi sento assalire da dubbi di ogni tipo, mentre lui appare calmo in maniera quasi innaturale.
 
Forse, se sapesse perché sono davvero qui, tradirebbe una qualche emozione.
 
Forse, se avessi il coraggio di confessarglielo, non mi muoverei come un equilibrista incerto.
 
Ho paura di non contare niente per te e che un giorno mi dimenticherai.
 
È così anche per te?
 
Mi siedo a tavola senza offrirmi di aiutarlo.
 
Le gambe sono ridotte a gelatina e non mi fido nemmeno delle mie mani.
 
Le infilo nelle tasche della felpa, nascondendone il tremito.
 
Warren nel frattempo apparecchia, padrone incontrastato della situazione.
 
Pochi attimi ancora e mi mette davanti un piatto di polpette.
 
Il vassoio con le pannocchie abbrustolite e la ciotola con l’insalata vengono invece posti al centro della tavola. Burro, pane di segale e acqua completano il quadro.
 
Dijon mustard (Europe). Se avessi ancora sei anni, proclamerei con orgoglio nome e provenienza della spezia utilizzata per la salsa agrodolce, ma ormai ne ho ventiquattro e una lingua annodata in grado di produrre soltanto: “Thank… you”.
 
Iniziamo a mangiare e cerco più volte di trovare un argomento che favorisca la conversazione.
 
Non ci riesco.
 
Saremmo circondati dal silenzio più assoluto se non fosse per la voce della giornalista della CNN. Il TG sta giungendo al termine ed è il momento delle notizie su costume, moda e… cinema.
 
Deglutisco malamente alla menzione di “Sin City”, film in cui ho recitato ed attualmente nelle sale.
 
L’ansia è fin troppa con mio padre seduto di fronte.
 
L’affluenza di pubblico è numerosa, ammicca la reporter.
 
Una buona notizia.
 
Quando i propri sforzi vengono premiati o riconosciuti positivamente, narcisismo e vanità fanno sempre capolino nell’animo di un attore.
 
Anche il più modesto.
 
In questo caso, mi rende orgoglioso che il mio personaggio stia sorprendendo la critica.
 
Kevin colpisce perché è l’anti-Frodo per antonomasia: un killer muto, sadico e antropofago.
 
Il servizio va avanti, mostrando lo spezzone di una scena dove sono presente.
 
Un’ombra fuligginosa che veste degli occhiali bianchi e si muove in maniera dinoccolata, animalesca.
 
L’espressione spaventosamente pacifica.
 
Risulto inquietante anche a me stesso.
 
Il filmato si conclude con questo cammeo ed è stato piuttosto Elijah-Wood-centrico.
 
Bevo un sorso d’acqua quasi a preparare la voce per le risposte che darò adesso a Warren.
 
Se solo arrivassero delle domande.
 
Il funambolo, ferito a morte anche nell’orgoglio, cade infine dalla corda.
 
Venderei l’anima per un commento, anche il più retorico.
 
La venderei due volte per una critica negativa.
 
Mi aiuterebbe a capire che cosa c’è che non va.
 
Che cosa c’è di sbagliato in me, al punto da non meritare assolutamente nulla da parte dell’uomo che mi ha generato.
 
Non so come riesca a prendere dal vassoio uno scotcheroo/***, senza rimanerne nauseato.
 
Mangiarlo addirittura.
 
L’idea del dessert mi era sembrata così entusiasmante prima.
 
Ho una maschera di ferro sul viso.
 
Greve come tutto quello che provo.
 
Ma se non altro non si spezzerà.
 
Mi alzo ed inizio a sparecchiare.
 
Mi obbligo a farlo, mentre Warren carica la lavastoviglie.
 
La mossa successiva è quella di uscire sul portico e accendermi una sigaretta.
 
Il temporale si è trasformato in gocce che ormai scendono sparse, quasi pigre.
 
L’odore di resina giunge rinverdito, intenso come non mai.
 
What am I doing here?
 
È la stessa domanda di prima, ma con un significato completamente diverso.
 
Oramai so che sono tornato per ricucire un rapporto, ma se l’altra persona non è interessata, che senso ha rimanere?
 
Quante volte ancora mi dovrà rifiutare prima che me ne vada?
 
Rientro in casa dopo la seconda Clove e tiro diritto per le scale.
 
Passo dal bagno per lavarmi i denti e da lì in camera.
 
Mi sembra chiaro che Warren non gradisca la mia compagnia che quindi non gli imporrò.
 
Rovisto nella tasca del borsone cercando il cellulare, il contatto con il mondo esterno.
 
Il primo messaggio che leggo è quello di Hannah.
 
Dovrei chiamarla, ma preferisco risponderle con un SMS che è un po’ bugia e un po’ verità.
 
All is good. Winding down. Will call in a couple of days. x
 
“Elijah?”.
 
Warren bussa educatamente alla porta, il che mi fa vedere rosso perché è stato così dannatamente formale per tutto il tempo. E ho capito, ormai, capito alla perfezione che mi vede come un estraneo. Non c’è bisogno di ricordarmelo in continuazione.
 
“Avanti…”.
 
Mio padre entra in camera, nascosto da una torre fatta di lenzuola, coperte e cuscini. “Per il letto”, dice, poggiando il tutto sulla scrivania più vicina. “Hai bisogno di una mano?”.
 
“No… I can manage”.
 
Warren sembra voler commentare con qualcosa, ma poi decidere per tutt’altro: “Il dinosauro funziona ancora…”.
 
È un congedo a tutti gli effetti il suo e io mi ritrovo a fissare Dino, il vecchio televisore a tubo catodico. Era stata Hannah a scegliere quel nome, del tutto stravagante, perché l’apparecchio le ricordava, forse per il colore, un dinosauro illustrato su “Childcraft”./****
 
Mi chiedo perché Warren non lo abbia buttato.
 
È un modello ormai anacronistico e se lo ha tenuto per motivi affettivi, questi devono necessariamente escludermi.
 
Mio padre non è una cattiva persona.
 
Solo incapace di donarsi agli altri.
 
È una differenziazione che sento il dovere di fare, ma che non cambia il risultato per chiunque si trovi al di fuori della sua area di percezione.
 
I’m miles away from it.
 
  ____________
/* Canzone degli Stone Roses;
/** Spark plug (candeletta o candela d’accensione) è il soprannome dato dalla madre ad Elijah da bambino per indicarne la vivacità;
/*** Biscotto preparato con burro d’arachidi, cereali Rice Krispies e butterscotch (= toffee o mou);
/**** L’equivalente americano dell’Enciclopedia “I Quindici”. Chi è stato bambino tra gli anni ‘70 e ‘90, la ricorderà senz’altro. 😉

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Capitolo 4
*** Rebellion (Lies) ***


~ Capitolo 4 ~
Rebellion (Lies)/* 
 
Vorrei pensare a ieri sera come a un picco in negativo dal quale si può soltanto recedere, ma mi rendo conto che non lo è stato.
 
Il nostro è un copione logoro, senza colpi di scena.
 
Warren non è mai stato completamente presente nella mia vita.
 
Laddove lui abbracciava, mia madre stritolava.
 
Laddove lui sorrideva, lei scoppiava a ridere in maniera fragorosa.
 
Laddove lui era assenza, lei era presenza.
 
Warren era il sole d’inverno.
 
Deb, l’incarnazione della canicola estiva.

I ruoli sono gli stessi anche adesso.

Che mio padre abbia ancora oggi un rapporto civile soltanto con Zach perché è stato l’unico figlio che ha voluto per davvero?
 
Il dubbio è lecito.
 
Io e Hannah siamo arrivati rispettivamente sette e dieci anni dopo di lui.
 
A volte penso che i miei genitori, alle prese con una relazione stanca, abbiano messo al mondo altri figli con l’illusione di riavvicinarsi.
 
Forse è stata Deb a volerci – lei non ha mai fatto mistero del suo amore.
 
Forse Warren stesso ci ha voluti per un po’, prima di confrontarsi con una famiglia dalle esigenze sempre più numerose, culminate in un trasloco frettoloso, un nuovo lavoro e tanto altro ancora che non corrispondeva affatto ai suoi desideri.
 
Ipotizzo… ipotizzo tante cose, forse troppe, perché non ho mai chiesto apertamente nulla a nessuno.
 
Io non temo soltanto di essere dimenticato da mio padre.
 
Temo anche di sentire, per bocca di mia madre, che la mia nascita altro non sia stata che un piano B.
 
Mi spiegherai tutto così, ma quanto male fa il mero pensiero.

Lo specchio mi rimanda due occhi vitrei.

La lotta contro i propri demoni è spossante, ti succhia l’anima.

Mirror mirror on the wall, do I look like my father at all?/**


Quanto c’è di Warren in me?


In che modo la sua assenza ha formato chi sono?


È soltanto sotto la doccia che riesco a bloccare il flusso di pensieri che mi martella la testa.


Quando scendo dabbasso trovo la casa immersa nel silenzio più assoluto.


Il cappotto di Warren non è più appeso nell’atrio.


Sono le 10:00 ed è molto probabile che sia uscito per andare a lavorare.


Un post-it attaccato al frigorifero me lo conferma.


Inizio a preparare la colazione: pancakes ai mirtilli, irrorati con una cascata di sciroppo d’acero.


Con in mano una tazza di caffè, mi sembra di riconnettere finalmente con il mondo.


Sto pensando a come trascorrere la giornata.


Non ho voglia di uscire e non mi sembra male l’idea di rilassarmi leggendo qualcosa.


Sono seduto fuori, con la prima sigaretta della giornata penzolante tra le dita, quando un’auto entra nel vialetto. Spento il motore, la donna al volante scende dall’abitacolo coprendosi la testa con il cappuccio dell’impermeabile.


Cammina velocemente sotto la pioggia e si accorge di me soltanto sugli scalini del portico, rivelando interamente il proprio viso, un ovale olivastro dall’espressione gioviale.


“Buongiorno… tu devi essere… Elijah?”.


L’osservazione mi spiazza. Il modo in cui la sconosciuta dice il mio nome ha un che di… personale, credo, che va al di là del semplice riconoscermi come attore.


“Sì…”, confermo. “E lei è…?”.


“Ana Suarez, mi occupo delle pulizie”.


“Oh, lieto di conoscerla”, le porgo la mano.


La stretta della donna è energica e cordiale. “Il piacere è mio”.

“Prego…”, le faccio cenno di entrare. “Le va una tazza di caffè?”.

“Molto volentieri”.

In cucina chiacchieriamo un po’ meglio e scopro che si occupa della casa da diversi anni e che viene due volte a settimana.

“Hai dormito nella vecchia stanza?”.

“Sì…”.

“Mi dispiace di non averla preparata a dovere”.

“Sono arrivato senza preavviso”.

La donna annuisce. “Ho conosciuto tuo fratello qualche tempo fa. Anche lui era di passaggio in città. Avete gli stessi occhi e la stessa gentilezza”.

Non posso che sorridere di fronte a quel complimento.

Zach è sempre stato un esempio da seguire per me.

Ana inizia a pulire partendo dal piano superiore, mentre io passo in rassegna i libri in salotto. Sono indeciso tra due titoli e alla fine scelgo quello che penso possa riservare più sorprese.

La lettura mi coinvolge talmente tanto che non mi accorgo delle ore che passano.

Sono le 13:30 quando Ana annuncia di aver terminato. In effetti, le rimane soltanto da programmare la lavatrice, dopodiché ci salutiamo.

La pizza surgelata con cui pranzo è veloce e tutto sommato nemmeno male.

Il resto del pomeriggio lo passo con il naso immerso nuovamente nelle pagine stampate, fermandomi soltanto per appuntare le canzoni per una playlist ispirata dalla trama.

Mio padre rincasa dopo le 19, fedele a quanto scritto sul post-it. “Ehi…”, mi saluta con quello che non è esattamente un sorriso ma nemmeno un’espressione ostile.

“Ciao…”, metto da parte il libro.

“How was your day?”.

“Good… relaxing. How was yours?”, sollevo la schiena dal divano su cui sono sdraiato. Sembra un principio di conversazione e mi sembra maleducato non riconoscerlo.

“Oh… the usual, you know?”, fa spallucce Warren, rivelando un viso stanco.

“Which would be…?”, paleso a quel punto la mia ignoranza sul tema.

“Ho una ditta… specializzata in lavori di imbiancatura, cartongesso… things like that”.

Annuisco nei confronti di una scelta per certi versi logica. Mio padre è sempre stato bravo con i lavori manuali. “Come vanno gli affari?”.

“Piuttosto bene, ma a volte i clienti non sono puntuali con i pagamenti, il che comporta una serie di problemi a cascata”.

“Non deve essere facile”.

“No, specialmente quando hai fornitori ed operai da pagare a tua volta. Ad ogni modo, non credo esista nessun lavoro al mondo completamente privo di stress…”.

“No…”, confermo, pensando al mio in maniera particolare. “Ho cucinato dello stufato per cena. Ti va?”.

“Certo, dall’odore direi che promette bene”.

In cucina è lui ad apparecchiare ed affettare il pane, mentre io controllo la carne che mi pare effettivamente cotta a puntino. Ho aggiunto del peperoncino piccante e della paprika dolce, così da bilanciarli in una versione “a modo mio” del gulasch ungherese.

Come la sera precedente mangiamo condividendo più silenzio che parole, tuttavia il clima è disteso. Concludiamo la cena con due caffè preparati con la macchinetta italiana di cui Warren sembra un estimatore entusiasta.

“Ho conosciuto Ana Suarez oggi”.

Annuendo, il viso di Warren assume un’espressione che oserei definire rara e che cozza non poco con l’anaffettività che gli ho sempre attribuito. “Vive ad un isolato da qui, vicino al Riverside Park”.

Mi mordo la lingua per impedirmi di approfondire il discorso. “È cambiato molto il quartiere negli anni?”.

“Abbastanza”, beve un sorso di caffè mio padre. “Hanno ristrutturato molti edifici, coinvolgendo anche la mia ditta”.

“I vicini invece?”.

“C’è stato un esodo di massa a Des Moines e altrove”.

“Anche Mr. Chapman si è trasferito?”, ridacchio, pensando all’anziano edicolante del chiosco tra la 2nd Avenue e la 13th Avenue. Con noi bambini era sempre gentile e spesso ci regalava dei marshmallow per gli s’mores.

“No, lui no”, scuote la testa Warren. Gli occhi, chiari proprio come i miei, sono divertiti. “Sono passato da lui questa mattina. Sul giornale c’è un articolo sul tuo ultimo film”.

Warren ha sempre comprato la Gazette; quello che è eccezionale è che stia toccando l’argomento cinema per la prima volta, dopo tantissimi anni, con me.

“Sin City?”, deglutisco con qualche difficoltà. Sento l’ansia depositarsi, pesante come piombo nello stomaco.

“Sì, citano soprattutto te”.

“Oh…”, cerco di sembrare quanto più neutrale possibile, ma penso di avere le guance letteralmente in fiamme adesso. Anche in TV si era parlato di me, appena ventiquattro ore fa, ma forse Warren aveva la mente da tutt’altra parte al punto da non aver sentito nemmeno una parola.

“Hang on a sec…”, sparisce in salotto, rientrando subito dopo con una copia del quotidiano in questione. Forse era nella tasca del cappotto perché la carta è raggrinzita dalla pioggia. Non le pagine centrali dedicate allo spettacolo comunque, che Warren allarga sul tavolo a mo’ di tovaglia. E poi inizia a leggere:

Elijah Wood is chilling as Kevin, an entirely silent character who is visually arresting and deadly
(...)

In the movie, Kevin is a clean-shaven Elijah Wood with some funky glasses that, in combination with his seemingly lifeless eyes, will creep you out for weeks to come.

The actor couldn’t have asked for a better role than the one he received in Sin City. Any chance of his being typecast as Frodo has been thankfully demolished.

The villain of this tale, he never says a word but he’s eerie as hell: the half-smile, the swift movements, the somewhat stooped shoulders.

You know how they say it’s always the quiet ones? Well, they don’t know what they’re talking about until they’ve seen Kevin”.

“Wow…”, non posso che commentare con gli occhi spalancati. È un regalo inaspettato quello che mi è stato appena fatto.

“Mi piacerebbe vederlo al cinema”.

“Sì?”.

“Sì…”.
__________________

/* Brano degli Arcade Fire;

/** Variazione della frase che si legge in “Biancaneve” per bocca di Grimilde: “Mirror mirror on the wall, who’s the fairest of them all?”.

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Capitolo 5
*** Cocoon ***


~ Capitolo cinque ~

~ Capitolo cinque ~

Cocoon

 

“Allora le confermo la prenotazione del suo volo di ritorno, Mr. Wood. Faccia buon viaggio”.

È la voce cortese di un’impiegata dell’American Airlines a parlare dall’altro lato del telefono.

 

“La ringrazio, signorina. Arrivederci”.

Chiudo con uno scatto secco la valigia che ho appena terminato di preparare e non posso fare a meno di girarmi per l’ennesima volta intorno e vedere se ho lasciato qualcosa in giro. Sembra di no o almeno sono tutte cose che inserirò tranquillamente nello zaino.

 

Passandomi una mano tra i capelli mi affaccio alla finestra e mi accendo una sigaretta. Il davanzale è abbastanza grande da permettermi di sederci su comodamente ed, infatti, poggio il sedere sul marmo bianco e piego le gambe, incollando la schiena alla parete. Quello che vedo è una pioggerellina sottile. In effetti, non ha fatto altro che piovere da quando sono a Cedar. Se non tutta la giornata, almeno per buona parte di essa sempre. La nuvola di fumo azzurrino incontra la parete vitrea coperta da un po’ di vapore acqueo. Il termosifone qui accanto sprigiona un bel calore. Ci vorrebbe una tazza gigante di caffè tra le mani, ma non se ne parla di schiodarmi da qui ed andare in cucina. Goccioline in vena di fare jogging scivolano divertendosi lungo l’esterno della finestra, monitorate dal mio sguardo attento.

 

Ho praticamente davanti agli occhi il cortile sul retro della casa. Ed ecco lì il canestro. È l’oggetto che mi riporta alla mente un episodio tanto poco usuale quanto divertente. Probabilmente una delle immagini che conserverò dentro di me come testimone di questa specie di vacanza e che trascina con sé comunque tutto il peso della frustrazione per quella che, in fondo, è stata un’eccezione. È questo il punto. Eccezione. Ovvero, cosa che accade raramente, se non mai.

 

È stato anche il caso di me e mio padre che ci siamo divertiti a giocare una partita di basket. Domenica pomeriggio e dopo una mattinata nella quale c’eravamo solo scontrati in casa dandoci apparentemente fastidio a vicenda. Lui è uscito appena dopo pranzo, per andare non so dove. Io mi sono ritrovato murato dentro per il quarto giorno consecutivo.

 

Sono tranquillamente un tipo casalingo alle volte, anzi adoro fare maratone cinematografiche in casa oppure semplicemente rilassarmi e dormire; il punto è che qui mi sento in trappola. Non ci sono dvd in abbondanza per fare maratone - uscire ad affittarli implicherebbe il rischio di farsi riconoscere e al momento non è proprio quello che desidero - non riesco a rilassarmi, né tanto meno a dormire serenamente. Inoltre non ci sono né Hannah, né mia madre con le quali litigare o chiacchierare.

 

Una prigione appunto. Che mi sono cercato da solo, d’accordo.

 

Sono uscito quindi in cortile per sentirmi forse meno oppresso e mi è venuto voglia di dare un’occhiata al ripostiglio. Un tempo c’erano i nostri giocattoli conservati in degli scatoloni. Molti sono rimasti qui anziché essere stati spediti in California. È quindi con quella strana sensazione di aspettativa che precede di solito ogni tuffo nel passato, per via di oggetti che ci sono stati cari, che mi incammino verso il garage ed entro nella stanza adibita a sgabuzzino.

 

C’è un ordine che quasi sorprende. Polvere ovviamente e ragnatele qua e là, ma il rischio di trovarsi di fronte una Shelob è più che remoto. Avrei comunque Sting con me, quindi saprei come difendermi, mi dico scuotendo la testa e chiedendomi fino a che punto Frodo mi sia rimasto dentro. Abbastanza direi. Non tanto da impedirmi di muovere oltre, ma quel che basta per farmelo considerare uno dei miei ruoli preferiti. In assoluto e per sempre.

 

Ricordavo degli scatoloni imballati alla perfezione da mia madre e chiusi con delle strisce di nastro isolante nero. Se non sono stati buttati devono essere di sicuro qua, mi dico iniziando a guardarmi intorno. Non ci vuole molto effettivamente. Eccoli! Non so perché, ma ho la certezza che siano loro, sebbene l’aspetto anonimo dato dall’unione del cartone marrone richiuso con del nastro isolante altrettanto anonimo, potrebbe benissimo smentirmi.

 

Avevo ragione, che vi dicevo. Sono tre in tutto e collocati su un tavolo, l’uno sull’altro. Con una certa fatica, visto che in altezza mi doppiano quasi, riesco ad escogitare un metodo per prenderli e al contempo evitare che mi crollino addosso. Non ho ancora fatto un’assicurazione sulla vita come quelle alla J.Lo. Non posso permettermi di rimanere schiacciato o sfregiato per via di un quintale di oggetti, insignificanti per i più. Salgo quindi sul tavolo, sperando che tenga il mio peso e prendo il primo scatolone, appoggiandolo così vicino i miei piedi. Faccio la stessa cosa con il secondo, allineandolo di fianco al precedente e saltando scendo così dal tavolo, trovandomeli tutti e tre di fronte.

 

Sei un genio, Lij… è il complimento con il quale mi gratifico al volo. L’autostima va sempre tenuta viva, sapete com’è…

 

Inizio dall’ultimo. Sorridendo al ricordo, leggo il mio nome sulla superficie cartacea. Elijah. È la calligrafia di mia madre, elegante e sinuosa, con una specie di mio ritratto di fianco. Un ragazzino con due occhi grandissimi sul volto, un sorriso simpatico, un po’ di spazio tra gli incisivi – Beh, grazie mamma, questo distrugge la mia autostima, mi dico muovendo involontariamente la lingua sui denti ed individuando appunto il piccolo gap. Sono certo che non lo abbia fatto per prendermi in giro. È quella strana, cieca, forma di amare delle madri, per le quali anche i difetti dei propri figli diventano pregi. Lei dice di aver sempre adorato il mio sorriso, simile a quello di uno sdentato. Beh, grazie ancora, Deb. Qui la mia autostima svanisce del tutto, nell’immensità dell’universo - ed infine un cappellino sulla testa. Tutto sommato il disegno è… uh… grazioso e, chiudendo un attimo gli occhi, rivedo appunto mia madre quel giorno lì, pronta ad imballare le cose per il trasferimento imminente.

 

Era estate. Un pomeriggio d’estate. Caldo ed un po’ sonnolento. Era in cortile con me, Hannah e Zach a ronzarle intorno, cercando di aiutarla e finendo invece col farle rallentare le operazioni, sebbene la ricordi più divertita che scocciata da quel nostro cicaleccio. Come sarà la nuova casa? E la scuola? E il nuovo acquario? E le nostre nuove camere? Prenderemo un altro cane? etc. etc. Mocciosi irritanti, mi dico, mentre avverto la bella sensazione di tranquillità di quelle ore invadermi in pieno, via via che i dettagli vengono in superficie.

 

La rivedo piegata sulle ginocchia ed intenta ad imballare il mio scatolone, un prendisole di cotone verde chiaro indosso, i capelli, un tempo di media lunghezza e ondulati, raccolti in una crocchia sommaria e disordinata sulla testa, lo sguardo concentrato e poi quel pennarello in mano, a scrivere il nome e distinguere così ogni scatola dall’altra, in base al contenuto.

 

Un bel ricordo.

Uno dei diecimila altrettanto belli e che custodisco con affetto di lei.

 

Proseguo con lo sguardo sul secondo scatolone. Hannah. Certo... mi dico, di fronte all’ovvietà della scoperta. Inciampavamo ogni secondo nei suoi giocattoli in giro per casa. Anche qui c’è una sorta di mini ritratto. Una ragazzina con un vestitino e i capelli legati in due trecce basse. È vero. Han era vestita proprio così quel giorno. Inizio promettente per quella che poi si è rivelata essere una sorta di maschiaccio otto volte su dieci, ma è una delle altre persone che amo di più al mondo, esattamente così com’è. I nostri litigi e prese in giro sono solo parte del nostro carattere. Difficilmente mi vedrei stare lì ad abbracciarla ogni tre secondi, con la bocca sempre piena di complimenti. No. Il bello sta nel prenderci in giro, offenderci e via di seguito. Almeno la maggior parte delle volte. Paradossalmente abbiamo la capacità di essere sempre lì per l’altro nei momenti “seri”. La adoro anche per questo.

 

Terzo scatolone. Qui le cose si complicano. Essendo l’ultimo della fila e quello in cima a tutti gli altri, è ricoperto di polvere. Non so di quanti anni onestamente, può essere che siano stati spostati nel corso del tempo, ma lo strato grigiastro è compatto. Non riesco a leggere il proprietario dei giocattoli. Passo allora una mano sulla superficie e vedo spuntare di nuovo la silhouette schizzata di Hannah.

 

Classico… borbotto tra me e me. Il sospetto che avesse il doppio dei miei giocattoli, è così confermato. In fondo era l’unica bambina in casa, è normale che venisse un po’ considerata la principessa e via di seguito. Dunque Hannah batte Elijah… Che ne è dei giochi di Zach, invece? Ricordo come ci avesse preso in giro, dall’alto dei suoi dodici anni. “Io non ho più bisogno dei giocattoli”, mi riecheggia nella memoria la sua voce da bambino e l’espressione da grande che aveva raffigurata sul volto. Ed effettivamente, buona parte dei suoi giochi erano passati a me e non giocava più con i robot o le macchinine da un pezzo.

 

Interrompo il flusso di pensiero e mi guardo in giro, in cerca di un qualche paio di forbici o magari un coltello, per incidere il nastro isolante e vedere così quali… uh… tesori sono nascosti in quelle scatole.

 

Mi dirigo verso il ripiano di cemento sul quale abbondano cacciaviti, bulloni e quant’altro, un mini-ferramenta insomma. Frugando un po’ tra gli oggetti, scorgo una specie di taglierino e afferratolo mi riavvicino alle scatole. Il materiale plastico emette una sorta di scricchiolio, mentre la lama vi penetra incidendolo con precisione. Ci siamo.

 

Avverto una specie di tensione sconosciuta. Un’emozione fortissima che se ne parlassi in giro di sicuro verrei preso per il culo  a vita. Tipo da Sean, Dom e Billy che appenderebbero dei manifesti. “Quando crescerai, Lij man?”. Prevedo già un tipo di commento del genere...

 

Forse hanno ragione, ma accidenti che male c’è?

Dunque dunque

 

Mi riproietto davvero nel passato, al punto da risentire l’odore dei fiori in giardino sotto il caldo inclemente del sole estivo e il ronzare di calabroni ed api isteriche intorno ai roseti. Incredibile come dei piccoli dettagli aprano poi un mondo. Ne aveva parlato Proust a suo tempo e sebbene qui non si tratti di un biscotto, direi che l’effetto è lo stesso. Sottolineo che Letteratura è sempre stata la mia materia preferita a scuola, da qui la mia erudizione, d’accordo?

 

Guardo con un misto di orgoglio e nostalgia la statuina in miniatura di Luke Skywalker, celeberrimo capitano dell’Enterprise di quel film culto che è Star Wars. La mia prima vera passione cinematografica e i primi modellini di una collezione che tuttora ingrandisco ed arricchisco, se ne ho l’occasione. In effetti sono un patito per queste cose. Lo testimonia anche la stessa collezione del genere su tutto quello che merchandising de “Il Signore degli Anelli”.

 

Dio… che ossessionato… magari perdente ed assolutamente idiota.

Geek è il termine adatto.

Sono il re in assoluto e tutto ciò che è geeky ben mi si addice.

 

Sorrido di fronte quell’omino dipinto e perfettamente conservato intatto nonostante il tempo. Continuo nell’esplorazione e m’imbatto in alcuni album di figurine completi. Ovviamente quello di Star Wars spicca sugli altri, ma ce n’è diversi, a testimonianza di quali fossero i cartoni animati o gli eroi dei ragazzini come me negli anni ’80. Ricordo perfettamente le gare che si facevano a scuola. Le confabulazioni durante gli intervalli, la ricerca della figurina mancante per la quale si sarebbe venduto tranquillamente il proprio pranzo, il visionare forsennato dei pacchi di doppioni degli amici, così pieni di promesse agli inizi e così insignificanti alla fine se non possedevano la figurina tanto ambita.

 

Wow… se non era divertimento quello… trovo anche robot, modellini di automobili, un Monopoli appartenente alla preistoria, con i dollari ormai ingialliti dal tempo, più o meno come il televisore che ho in camera da letto, ma fa tutto parte di quel periodo che credevo di aver rimosso e che invece adesso riesco ad inquadrare meglio per via di particolari che tornano alla luce.

 

C’è anche un pallone da basket.

 

Un attimo… c’è ancora il canestro appeso di fuori? Onestamente non ci ho fatto caso, ma Zach era sempre ad allenarsi o giocare con i suoi amici. A me sembra di ricordare che fosse pesantissimo per me quel pallone. Rimbalzava da solo, d’accordo, ma non era certo uno di quelli leggerissimi con cui si gioca a pallavolo d’estate al mare. Anzi, una volta me lo sono proprio beccato in faccia per via di uno strano rimbalzo sul ferro del canestro.

 

Era stato Tim a tirare dalla zona dei tre punti, ma il lancio non aveva centrato il canestro. Proprio no. La mia faccia doveva essergli sembrata più appetibile per qualche strano motivo. Un male cane, le lacrime brucianti e spontanee che mi erano scese dagli occhi, per via della sorpresa e del dolore, il rossore sulla pelle pulsante del viso. Ero seduto a terra, un noiosissimo libro delle vacanze sulle ginocchia e, anziché studiare in casa, avevo preferito il giardino sul retro, l’ombra del castagno e i commenti, infarciti di slang che faceva tendenza all’epoca, di mio fratello e del suo gruppo di amici che si dedicavano alla solita partitella pomeridiana. Ho avuto un livido sul volto per un bel po’, ma almeno nessuno mi ha preso in giro. La mia espressione sofferente deve avergli dovuto suggerire un qualche atteggiamento di cameratismo nei miei confronti. Non ricordo perché sia stata messa tra le mie cose questa palla, ma va bene così.

 

La afferro saggiandone la superficie rugosa sotto i polpastrelli. È arancione scuro e divisa idealmente in spicchi per via del disegno che riporta. Un orgoglioso stemma dei Lakers. Ancora leggibile. Una specie di segno del destino, visto il nostro trasferimento proprio a Los Angeles.

 

Prendo a farla rimbalzare. Perfetta. Non va nemmeno gonfiata e se di fuori c’è ancora il canestro, oppure lo trovo in giro, di sicuro faccio due tiri. Zach mi ha insegnato in California, quando ero diventato un po’ più robusto dello scricciolo che ha fatto il suo debutto nel video dell’icona trash/punk degli anni ’80, voglio dire, la geniale Paula Abdul.

 

Che volete… si deve pur iniziare da qualche parte…

 

Curioso poi, non posso fare a meno di aprire le scatole di Hannah. Mi trovo di fronte un’infinità di bambolotti e peluche che probabilmente non amava più, altrimenti sarebbe stato impossibile farglieli abbandonare. Sono perfettamente imballanti nel cellophane e nessun insetto sembra averli danneggiati. Chissà che faccia farebbe rivedendoli adesso…

 

Mi sa che ho preso una mezza decisione, anzi direi proprio di sì…

 

Cerco in giro dell’altro nastro isolante e risigillo i cartoni, portando fuori con me solo la figura in miniatura di SkywalkerHamill, la mia supposta minaccia cinematografica e, facendo rigirare la palla tra le mani, esco in cortile. Gli occhi mi vanno sul muro del garage, sopra la porta. È lì che era il canestro. Era appunto. La sua presenza però è testimoniata da una specie di sagoma triangolare, sulla parete altrimenti tinteggiata di bianco, laddove un tempo poggiava la base del tabellone. Anche i due fori che indicavano la posizione degli stop che lo sorreggevano sono visibili.

 

È stato tolto, quindi. Calcolando che il dinosauro e i nostri giocattoli sono ancora qui, non vedo il perchè debba dubitare di trovare il canestro conservato ancora in qualche angolo. Con questa convinzione mi dico che potrebbe essere in soffitta, visto che nel ripostiglio non l’ho visto. Prima di rientrare in casa però, prendo a palleggiare un pochino e poi provo a fare un tiro, concentrandomi su un ideale obiettivo. Leggera flessione delle gambe, braccio piegato in direzione, polso che carica, lancio che parte e traiettoria parabolica che colpisce in pieno il triangolo dai bordi nerastri sfumati, dipinto sul muro dall’azione perenne del tempo. Non so se avrei fatto canestro, ma c’ero quasi. Magari avrei preso il ferro e la palla sarebbe rimbalzata in faccia a mio padre, sbucato improvvisamente dall’angolo della casa in un fortuito quanto appropriato… uh… intervento divino.

 

Scuotendo l’idea al pensiero, continuo a seguire la traiettoria della sfera che sbatte contro uno dei roseti del giardino. Non posso fare a meno di stringermi nelle spalle e contrarre il volto nell’espressione tipica di chi è nei guai. “Cazzo…”. Aspetto quasi l’usuale: “Accidenti, Lij! Zach! Piantatela di prendervela con i miei fiori!”, esasperato e puntuale come un orologio svizzero di Debbie. Mia madre.

 

Beh, nessuno mi rimprovera questa volta, ma il reagire da moccioso colto in flagrante è duro a morire. Fortunatamente le rose non sono ancora fiorite, sicché quelle che hanno avuto la peggio sono state le foglie appena nate e magari qualche spina. Recupero la palla, notando che il roseto sembra ancora in piedi e che, da un lato, la superficie marrone/arancione si è graffiata appunto contro qualche spino.

 

Zach mi ammazza…”, è il mio primo pensiero. Anzi no, mi correggo. Zach mi ammazzerebbe se fosse qui, ma non c’è, quindi me la scampo. Pensiero decisamente più gradito.

 

Volete dunque sapere il perchè questi cimeli del passato si sono conservati intatti?

 

Presto detto a questo punto. Perché nessun rompicoglioni li ha disturbati o bistrattati per quindici anni. E non mi sembra poco. Con cinque minuti ho fatto un disastro. Figurarsi se fossi stato anche con Han e Zach.

 

Poggio il pallone sulla poltrona vicino la porta sul retro ed entro in casa. Direzione soffitta dunque. Prima però mi fermo in camera e poggio la statuina sul letto. Un tempo era su una delle mensole accanto a Leia Organa e agli altri personaggi. Proprio lì, e sotto di loro un poster gigante di Patrick Ewing, cestista mito di quegli anni per Zach.

 

Salgo la breve rampata di scale che conduce in mansarda. Sebbene non sia mai stata sistemata a dovere e si sia appunto trasformata in soffitta-ripostiglio, un luogo dove conservare gli abiti per i cambi di stagione e cose simili insomma, non ha comunque l’aspetto tipico della stanza cupa, tutta ragnatele e polvere soffocante. La luce funziona perfettamente e tutto è disposto con una certa cura. Credo che anche questo sia opera di Claire. Di sicuro ci è passata, magari qualche mese fa, ma c’è passata.

 

Ecco il canestro.

Mi avvicino toccandolo quasi con riverenza.

 

Accidenti, credevo di essere molto meno legato a questi oggetti o ai ricordi che fanno riemergere in superficie. Non me lo sarei mai aspettato, eppure vedendo la base metallica con il simbolo appunto dei Lakers in giallo e viola, mi torna in mente il giorno nel quale Zach era rientrato con papà, un sorriso entusiasta sul volto, questo canestro qui in mano e il casino per montarlo, nel nostro caos caratteristico.

 

Poi ancora, forse un paio di anni dopo, quando non era più nuovissimo, rivedo Zach in cortile che lo aveva staccato e lo osservava, intento ad avvitare i bulloni che sostenevano il cesto. Lo aveva anche ridipinto e il giallo era così forte da dare agli occhi. Aveva giocherellato con il cacciavite e, utilizzandolo come fosse stato un pennarello, aveva scritto il suo nome in stampatello, nell’angolino in alto. Io ero inginocchiato davanti a lui e lo guardavo con la tipica ammirazione dei fratelli minori. Mi ha porto il giravite, invitandomi così ad imitarlo. Premetto che avevo cinque anni, ma andando all’asilo stavo imparando a leggere e scrivere. Cose semplicissime e basilari. Tipo il mio nome. Le guance però mi bruciavano, un po’ per l’emozione di imitare davvero mio fratello, credo, un po’ perché ero effettivamente teso. Di solito scrivevo con mia madre che mi ronzava intorno ed annuiva orgogliosa e con la sua tipica spontaneità di fronte ai miei progressi.

 

Non mi sentivo teso con lei.

Con Zach era un po’ diverso.

 

Volevo renderlo orgoglioso di me. La mano mi tremava, ma concentrandomi al massimo e sentendo il suo sguardo addosso tutto il tempo, iniziai a delineare tre lettere, per poi tornarci di nuovo sopra, e rendere l’incisione più netta.

 

Una volta terminato, sollevai il volto tesissimo, sentendo il labbro inferiore tremarmi senza che potessi fare a meno di evitarlo. Se Zach avesse detto anche una sola parola negativa, per quanto scherzosa, sarei scoppiato in lacrime penosamente e l’idea di essere un buono a nulla rispetto a lui, mi avrebbe accompagnato per diverso tempo. Quello che vidi fu invece un sorriso, credo di orgoglio, simile a quello con il quale spessissime volte mi gratificava la mamma, se ce n’era motivo, e poi un: “E bravo, Lij…”, allegro e con tanto di botta affettuosa e rude, certamente, di mano sulla spalla. Cosa che mi riempì d’orgoglio, sebbene l’emozione mi avesse effettivamente tagliato la lingua ed impedito di replicare. Mi ero limitato ad osservare le nostre due firme, l’una sopra all’altra, spiccare su quel mare di giallo che ancora odorava di vernice fresca.

 

“Devo proprio trovarlo quel cane”, disse poi Zach, guardandomi serio in viso. L’espressione interrogativa che misi su lo fece spiegare meglio, mentre si metteva in piedi, con l’intenzione di riappendere il canestro. “Il cane che ha spaventato il gatto, che ti ha mangiato la lingua”, cantilenò con una smorfia da idiota sul volto, che mi fece scoppiare a ridere spontaneamente, dimenticando un po’ la tensione del momento e ritrovare le parole.

 

“Sei uno scemo, Zach”.

E tu un nano”.

 

Colpito e affondato.

 

Già da piccolo. Ma non è un male. Se già in famiglia evidenziano i tuoi difetti, quando sarà il mondo all’esterno a palesarli, anche nei modi più offensivi, potrai dire di essere preparato. Non che sia mai stato preso in giro pesantemente per la mia altezza, ma non ho mai frequentato normalmente l’High School. Dopo la St. Patrick's Catholic School sono stato educato a casa, con un tutore, quindi non saprei se in un ambiente “normale” e con la fase della crescita pressoché stabilizzata, il mio metro e settanta mi avrebbe reso oggetto di prese per culo o precluso delle attività, magari sportive, tanto per dirne una.

 

I ragazzini sono di una perfidia unica quando decidono di rendere un malcapitato il loro zimbello preferito. Ma Zach lo faceva senza astio come, in effetti, me lo testimoniarono dopo, il suo sorriso da canaglia e la mano a scompigliarmi i capelli con affetto.

 

“Allora Lij, che te ne sembra?”, chiese riferendosi al canestro. Adesso come adesso avrei risposto: “Pacchiano e kitsch, in un certo senso”. Insomma, quei due colori insieme erano quantomeno vistosi, ma allora me la cavai con un: “E’ perfetto. Un giorno mi insegnerai a giocare, vero Zach?”, sentendo l’emozione e l’aspettativa tornare.

 

La prima, per il fatto di essere interpellato da quello che per me era, ed è ancora oggi, sotto tanti punti di vista, un mito. Con i loro anni in più, Zach e il gruppo di amici che gironzolava per casa, tra feste e compleanni vari, i discorsi sulle ragazze e tutto il resto erano una sorta di icona, dal basso dei miei scarsi cinque anni e della mia altezza ovviamente.

 

La seconda, perché mi piaceva giocare con lui e la pallacanestro mi sembrava divertente. Vedevo le partite in tv e avevamo un videogioco nel quale ero bravino. Non avevo ancora preso la pallonata in faccia, comunque

 

“Certo, Lij man! Contaci”, era stata la risposta spontanea di lui, passandomi una mano dietro la spalla e stringendomela incoraggiante. “Quando saremo sicuri che il pallone non ti schiacci, giocheremo insieme”. Era un po’ una presa in giro, ma nascondeva un fondo di verità della quale non pensai nemmeno un attimo di dubitare. Ed avevo, infatti, ragione. Lo spavento che Zach prese il pomeriggio del tiro sulla mia povera faccia, era veritiero. Credo avesse ricordato le prese per il culo varie che vertevano sul peso della palla e sulla fragilità del mio fisico, ancora più che esile.

 

È accedendomi una sigaretta che prendo in mano il canestro e senza propriamente pensarci su, passo la punta delle dita sui solchi ormai arrugginiti che ancora spiccano sul giallo, qua e là macchiato dalla ruggine del tempo. I nostri nomi sono ancora qui.

 

ZACH, sopra.

LIJ, sotto.

 

Scendo le scale con in mano il...  tesoro… deformazione professionale immagino, pensando a Gollum… ed è uscendo sul retro che vedo mio padre rientrare con l’auto e parcheggiarla nella rimessa. La portiera sbatte chiudendosi e Warren si avvicina con una busta in mano.

Rimango impassibile sotto il suo sguardo semi indagatore e poi mi sorride, come se l’immagine di me con la sigaretta praticamente per metà andata a puttane, visto che non l’ho più tirata, quel canestro in mano e la maglietta di cotone bianca un po’ sporca qua e là per via delle visite nei ripostigli vari, sia divertente.

 

“Lo hai trovato”, mi dice a mo’ di saluto.

 

“Mi va di fare due tiri”.

 

“Dovrai rimontarlo”.

 

“Direi di sì” e così getto la cicca ormai quasi sul punto di ustionarmi le dita per terra, la spengo e raccolgo per buttarla nella pattumiera, a due metri da dove mi trovo.

 

Inizio a trafficare cercando una scala e suppongo, un trapano e delle viti per fissarlo. Non mi accorgo che mio padre è nel frattempo entrato in casa e riuscito. “Ti do una mano”, sobbalzo, quasi sentendolo parlare. Non so se dirgli sì o no, ma evidentemente scambia il mio silenzio per un assenso e, miracolosamente, gli attrezzi che cercavo saltano fuori. Lo vedo trotterellare quindi in cortile, posizionare la scala e chiamarmi. “Dov’è il canestro, Elijah?”.

 

Lo raggiungo allora, porgendogli l’oggetto in questione e lo vedo sistemarlo in due nanosecondi. Quel trapano senza fili e più che efficiente e lui evidentemente abituato a questo tipo di lavoretti. “Che te ne sembra?”, mi chiede, quando il rumore infernale è messo a tacere.

 

“Sta bene”, annuisco. Effettivamente è così. E’ quello il suo posto.

 

Prendo allora la sfera ed inizio a palleggiare, gambe che molleggiano e poi prendo la mira per il primo tiro. Non va lontanissimo dall’obbiettivo, recupero la palla e ritento, ci siamo quasi, terzo tentativo, ok canestro. Scopro stranamente che mi andava di muovere un po’ il sedere, dopo quattro giorni di ibernazione mentale e fisica. Provo da tre, e la infilo, mio padre recupera il rimbalzo e mi rilancia la palla. Non mi sono accorto di avere uno spettatore. Provo ancora, da due e ancora canestro e di nuovo rimbalzo per mio padre. È così che quasi casualmente si unisce al gioco ed iniziamo a portare avanti una partitella, in una scena piuttosto classica, per una famiglia americana classica.

 

Ovvero quella che noi non siamo mai stati.

 

Ma lascio da parte i se e i ma, divertendomi a giocare. Le regole sono tacite ed universali, non c’è bisogno di ripeterle. Stiamo portando avanti un uno contro uno, seguendo una versione casalinga dello street-basketball, così tanto in voga ultimamente.

 

Mi padre non è male, tutto sommato. Io non sono Michael Jordan, ma sono agile proprio per via di quell’altezza che mi manca, e bravo da tre. Una specie di John Stockton, viva la modestia, insomma. So solo che quando arriviamo a 100 è ormai quasi notte e solo il fatto che siamo in movimento, ci impedisce di congelarci. La temperatura è rigida e c’è anche una specie di nebbiolina tutt’intorno, specie sull’erba del prato che traspira copiosamente, creando quella coltre lattiginosa.

 

Lo batto 100 – 97.

 

Un buon risultato, che la dice lunga però sul fatto che ce la siamo battuta davvero. Wow, scarica di adrenalina più che positiva e un po’ dell’umore nero mandato a farsi fottere.

 

“Bella partita!”, si congratula mio padre, dandomi una pacca sulle spalle, in maniera…uh… paterna, appunto. È uno strano groviglio quello che mi stringe le viscere, ma non toglie il fiato in negativo. È come quel giorno con Zach. La soddisfazione di averlo sorpreso positivamente, se non reso orgoglioso. “Ho avuto il maestro migliore”, annuisco sorridendo e rientrando in casa dopo di lui.

 

“Lo vedo”, argomenta ancora, versandosi un bicchiere d’acqua e chiedendomi con lo sguardo se ne voglio anch’io.

 

In effetti, sto morendo di sete e sento già il sudore gelarsi addosso, per quanto i locali siano ben riscaldati.

 

Zach è stato un buon maestro, ma anche tu un buon allievo, direi”, mi dice con uno di quei mezzi complimenti dei suoi, porgendomi un bicchiere colmo. Cerco di evitare che la mano mi tremi, facendo sfracellare il vetro in mille pezzi sul pavimento e sollevo lo sguardo in sua direzione, cercando una sincerità che leggo schietta nei suoi occhi. Sorrido così di nuovo, non apertamente come prima, ma sento che il clima miracolosamente complice, o almeno quasi tale, rimane immutato.

 

“Converrà farci una doccia subito”, osserva lui pratico, riponendo la bottiglia in frigo.

 

“Prima tu”, dico mettendo il bicchiere nel lavello.

 

“Non c’è problema”, nega. “Anche il bagno nel sottoscala è funzionante”.

 

“Va bene”, dico allora. Effettivamente avevo dato per scontato che non funzionasse.

 

“Sali tu”, mi invita, lasciandomi così il bagno di sopra. Sarei lì per replicare il contrario, quando mi dico che sarebbe da idioti litigare sul bagno, per un eccesso di cavalleria. Un bagno è un bagno. La dimensione della doccia è identica e l’acqua calda da ambo le parti. A che serve accapigliarsi per cedere un posto che poi di fatto migliore dell’altro non è?

 

L’acqua bollente è una manna dal cielo. Rimango sotto il getto a lungo, sentendo i muscoli rispondere arrendevoli e non ancora atrofizzati per via dell’acido lattico ristagnante che domani mi farà camminare piegato in due. Nessun dubbio al riguardo. Faccio sport più per divertimento che per passione o in maniera costante e di solito rollerblading. Qui ho utilizzato una serie di muscoli diversi invece, che di solito rimangono a sonnecchiare. Avrò le braccia a pezzi, rimugino asciugandomi.

 

La sorpresa però maggiore l’ha riservata la serata, quando mio padre mi ha detto che aveva tolto il canestro per evitare così che la pioggia finisse col distruggerlo e che non aveva mai pensato di buttarlo. È stata la conferma di quello che immaginavo, ho annuito, mandando giù una cucchiaiata di gelato. Abbiamo praticamente cenato solo con questo. Ho afferrato allora che era uscito a comprarne appositamente, e ci siamo ritrovati un po’ come due scapoli senza guida femminile che vivono di un regime alimentare tutt’altro che sano. L’Häagen-Dazs al caffè è uno dei migliori. Non so come sia possibile che abbia scelto proprio questo, ma forse non è stata una decisione difficilissima, se ha cercato di indovinare i miei gusti. Sono un caffeinomane convinto, quindi l’associazione è logica per un buon 90%.

 

Volpe che sono…

 

 

Come ti spieghi allora i successivi quattro giorni di clima tornato nel semimutismo, freddezza, distacco?

 

Al diavolo!

 

Io non sono un ragazzino idiota, poteva affrancarselo lo sforzo di giocare con me e comprarmi il gelato. Non ho più due anni, non ho bisogno di essere viziato per un paio d’ore e poi rimesso nel dimenticatoio. Perché accidenti quel pomeriggio e quella sera sono sembrati così stramaledettamente perfetti, come avrei detto all’età di cinque anni, abbagliato più dall’aspetto delle cose, che dalla sostanza intrinseca?

 

_____________________________________________________

 

Scusate se non riesco a postare regolarmente a distanza di pochi giorni  =(

So quanto sia noioso aspettare i capitoli nuovi di una storia che si sta seguendo.

Ad ogni modo, questa era la quinta parte. Ce ne sono ancora quattro da postare,  per un totale di nove.

 

Come sempre un ringraziamento a Sonya, Sheila, Elentari, Olivia, Raina, Laila e Fefe90 (sono lieta che tu stia leggendo questa ficcy nonostante ti piacciano altri attori^^).

 

A dire il vero la mia passione / ossessione per Elijah è piuttosto scemata negli ultimi mesi (voglio dire lo apprezzo ancora come attore, ma non ho più degli attacchi quando lo vedo LOL) quindi non saprei se adesso come adesso scriverei ancora una ficcy su di lui, ma avete ragione su un punto, ad ogni modo. Neanche allora avrei potuto scrivere una ff con una protagonista femminile (sicura mia auto-proiezione per quanto inconscia tra l’altro) a rubargli la scena. Ho dovuto obbligatoriamente creare un nuovo plot, e mi fa piacere che lo stiate apprezzando. Temevo esattamente il contrario, LOL ;)

 

A presto!

Neeva

 

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Capitolo 6
*** Silent Alarm ***


Capitolo sei e come sempre i miei più vivi ringraziamenti :)

Capitolo sei e come sempre i miei più vivi ringraziamenti :)

Avete visto Elijah a Venezia? Non so come sia il film che ha interpretato, ma il libro da cui è stato tratto ‘Everything is Illuminated’ è davvero particolare e ben scritto. Se non lo avete letto, ve lo consiglio.

Al prossimo post,

Neeva

~ Capitolo sei ~

Silent Alarm

 

Ho perso un intero pomeriggio a rimuginare e null’altro. Non mi sono reso conto che è praticamente ora di cena e che in teoria toccava a me arrangiare qualcosa, visto che mio padre è rientrato ad orari impossibili nei giorni passati. Mi ha detto che sta facendo degli straordinari e che quindi prima delle 21 di rincasare non se ne parla.

 

Masticando un’imprecazione, prendo a scendere alla volta del piano inferiore, pensando a cosa si possa improvvisare in dieci minuti.

 

08:50 PM

 

La sveglia in cucina mi dice chiaramente che devo tirare dalla manica una sorta di jolly, altrimenti sarà ben difficile mettere in tavola qualcosa prima di un’ora. Non è tanto per me, visto che tutto quel pensare e la morsa che ho alla bocca dello stomaco mi rendono praticamente inappetente, ma credo che lui rientrerà affamato.

 

Mi affido al congelatore, tirando fuori delle patate già tagliate e pronte per essere gettate in friggitrice, poi dei petti di pollo impanati e risolvo la questione del contorno optando per dell’insalata mista. Di meglio proprio non riesco ad fare.  La voglia di cucinare poi è ai minimi storici. Organizzando la carne in una pirofila da infilare in forno, subito a palla e già intorno agli 80 gradi, e aprendo la busta con le patate, ho la conferma di non avere per niente fame. Anzi, posso parlare benissimo di nausea, accidenti. L’odore dell’olio che sfrigola è un colpo basso, ma butto dentro una bella manciata di patatine, la porzione per una persona comunque. L’insalata frena un po’ il desiderio di rimettere e, sebbene finisca con il triturarla grossolanamente anziché tagliarla come si deve, alla fine sembra decente.

 

L’uscio di casa che si apre mi indica che non sono più da solo.

 

Perfetto.

 

Voglia di vedere mio padre pari a zero, ma sono a casa sua.

 

Suppongo quindi sia inevitabile.

 

“Elijah…”.

 

“Ciao…”, biascico a malapena, sentendo una rabbia violenta nei suoi confronti. Come il primo giorno. Vedersi chiudere la porta in faccia non è mai piacevole, specialmente se a farlo è tuo padre e adesso non riesco a stringermi nelle spalle ed incassare il colpo come ho fatto praticamente per tutta una vita. “E’ quasi pronto”, aggiungo però, stanco di pensare e scartando l’idea di uno scontro verbale che mi vedrebbe crollare e uscirne sconfitto, se non la pianto di essere patetico e sensibile all’inverosimile.

 

Adesso.

In questo fottutissimo istante.

Piantala!

 

Odio il ruolo di ragazzino infelice. Non lo sono mai stato. Ciò che adesso mi sembra incredibile è come qui avverta tutto in maniera amplificata, al punto che una partita a basket si trasforma in una specie di avvenimento eccezionale ed una cena consumata in silenzio, il simbolo del fallimento totale di una parte della mia esistenza.

 

A Los Angeles ho una percezione diversa delle cose.

Meno dilatata, meno negativa.

Più giusta e meno perturbabile.

 

Al diavolo!

 

Che discorso assurdo potremmo intavolare?

Una roba del tipo: “Allora papà, prima che tu ti metta a tavola, posso rubarti due minuti? Sì? D’accordo allora: Perché non ti sei mai curato di noi? Sii però conciso e il meno brutale possibile. Non credo che sentirmi dire che non ti importa un accidente di me mi sarebbe d’aiuto…”.

 

Andiamo, è assurdo… e la sola idea di una sua risposta mi taglia in due le gambe. So per certo che non si allontanerebbe troppo da quanto ho ipotizzato. Può essere che gli importi, ma non lo ha mai dimostrato. Mai. E io non riesco a crederci. Va oltre le mie possibilità. Sarò ottuso probabilmente o almeno da questo punto di vista, la mia percezione si limita ad un determinato campo. Oltre non riesce ad andare. È inconcepibile per me il perché si sia allontanato da noi. L’ho sempre tollerato e accettato, guardando avanti, ma qui non posso fare a meno di riflettere e, ancora di più, se avevo dei dubbi nel comprendere quest’atteggiamento, adesso sono triplicati.

 

Voglio tornarmene a casa.

Quanto prima.

 

Domani, mi tranquillizzo rivedendo davanti agli occhi la villetta e la sabbia della costa pacifica, bagnata dalle onde dell’oceano.

È lì che voglio tornare.

Domani.

 

Sento mio padre trafficare con le stoviglie e quando mi volto, vedo che ha apparecchiato per due. Come nulla fosse, porto in tavola l’insalata e le patatine e poi gli servo il piatto con il pollo. È allora che mi guarda corrucciando la fronte. “Hai già mangiato?”.

“Non ho fame”, rispondo brusco, afferrando nervoso l’accendino. Dopo il primo tiro di Clove riesco a guardalo in faccia. “Torno a casa”.

 

Casa.

Quella vera.

La mia.

Mettiamo i puntini sulle /i/.

 

Lo vedo guardarmi di nuovo in maniera interrogativa e, dopo praticamente una settimana, ne osservo bene il volto. Non ci assomigliamo per niente. Non ci siamo mai assomigliati. Diversi in tutto. Lineamenti, caratteri e vite. Tre elementi che non si sono mai incontrati direttamente, solo sfiorati e senza che questo comportasse cambiamenti sostanziali, e da un lato e dall’altro.

 

Ma non sono venuto qui per cambiare le cose.

 

È stato un istinto che adesso posso chiamare senza più dubbi stupido. Un farsi del male, nel quale le colpe sì sono imputabili a lui, ma anche alla mia paura infinita che, anziché farmi impiantare un litigio come si deve, almeno per chiarire così tutti punti oscuri una volta tanto, mi fa scappare quando non riesco più a vederci chiaramente. Odio gli alti e i bassi nelle relazioni. Ho sempre cercato di mettere le cose in chiaro nella mia vita privata, da ogni punto di vista, non mi piace prendere in giro né tanto meno esservi preso. E questo caos, questo frenare gli istinti più normali e naturali per chissà quale ragione oscura, non fa per me.

 

“Te ne vai?”.

“Domani”.

 

Domani.

 

Vedo che bene un sorso d’acqua per poi riprendere. “Non posso certo trattenerti”.

“Né ne hai troppa voglia”, mi faccio sfuggire, buttando fuori una nuvola di fumo e alzandomi per prendere una lattina di birra dal frigo.

 

Sbronza.

 

Una bella e sana sbronza, ecco quello che ci vuole. Ci fosse Dom, sarei a cavallo, almeno dieci giri di Jägermeister o Baileys sarebbero assicurati. Dovrò cavarmela da solo in questo caso. Staccare un po’ davvero. Con la mente. Il cervello sembra impazzito e non riesco a tenerlo a bada.     

 

“Vuoi vivere con me, Elijah? Sei tornato per vedere se poteva andare?”, mi chiede con il volto che mostra il suo dubbio e anche un certo dispiacere per quello che ho detto, sebbene il tono risulti quasi irato. Sul momento però mi concentro più sull’espressione del viso e non me ne importa un cazzo. Che soffra anche lui una volta tanto.

 

 

“No”, nego deciso, con una luce ironica nello sguardo, come se avesse detto la più grande delle idiozie. “Non mi è mai passato per la mente niente del genere”.

 

Incassa anche questo secondo colpo, il confronto con mia madre è tanto schiacciante quanto taciuto e facile ad intuirsi, ma lo vedo allontanare il piatto ancora colmo di patate per metà. Non credo di essere stato particolarmente duro, ma evidentemente non sono l’unico a star male per questa situazione, o meglio non-situazione, diversamente da quello che credevo.

 

 

“A che ora?”, chiede, buttando buona parte della cena nella pattumiera, cosa che mi fa irrigidire sulla sedia immediatamente. Odio gli sprechi. Quello che percepisco però maggiormente è la mia sofferenza, che soffoca ogni altro sentimento.

Pura, sana, egoistica sofferenza.

Intima e così complessa da risultare difficile l’afferrarne il senso e le contraddizioni intrinseche.

 

 

Provo la strana voglia di scusarmi per essere stato così lapidario pur non gridando o alzando la voce, ma poi vengo frenato dal ricordo penoso della sua assenza, sul fatto che non ci sia mai stato né a sostenermi, né a negarmi il suo consenso.

Nulla di nulla.

Non riesco a schiodarmi da questa dimensione, privata ed egocentrica.

 

 

Sopravvivrà.

Così come farò io, dopo essermi leccato le ferite.

 

 

“Ho l’aereo alle 11 e qualcosa”.

 

“Non posso accompagnarti in aeroporto”.

 

“Lo so, già”, sorrido amaro. “Figurati se puoi prenderti un paio d’ore di permesso o almeno provarci”.

 

Silenzio.

 

 

 

 

“Insomma, che diavolo vuoi da me?!”.

 

 

È un grido.

All’improvviso.

La voce che esprime un’esasperazione che mai mi sarei immaginato e allo stesso tempo del fastidio, immagino per quello che è l’essere messo di fronte alla verità.

 

 

Il punto è che una verità scomoda.

Che fa male e ci fa rendere conto di essere mortalmente imperfetti.

 

 

Le circostanze a volte ci mettono di fronte a quello che neghiamo.

E a volte il caso distrugge la routine tranquilla della nostra esistenza, sotto forma di un figlio che viene da dove lo credevamo lontanissimo, appositamente per darci sui nervi.

Per quanto lo abbiamo allontanato, ritorna.

 

 

Come dell’olio che galleggia sempre nell’acqua, per quanto tentiamo di miscelarlo con la stessa.

Come una macchia di caffè su una tovaglia. L’alone opaco rimane sempre se lo si osserva con occhio attento. L’unico modo per eliminarlo è un trattamento d’urto ed innaturale, che cancellerà sì la macchia, ma rovinerà anche il tessuto.

 

 

È quello che sta succedendo a noi.

La macchia di caffè è stata sempre lì, sebbene il tempo abbia contribuito a renderla, anno dopo anno, meno visibile e per questo ci ha illusi che sia in realtà scomparsa del tutto.

Basta un raggio di sole per rendersi conto del contrario.

E questo è infine giunto.

Dalla California, con tutto il suo carico di dubbi, incertezze e sentimenti pronti ad esplodere e creare altre macchie, altrettanto impossibili a cancellarsi.

 

 

“Niente. Non voglio assolutamente niente!”, lo guardo con gli occhi che suppongo lancino letteralmente fulmini, la voce dura e la nausea che aumenta. “Niente”, alzo la voce a mia volta, spegnendo il mozzicone con rabbia e alzandomi, fronteggiandolo direttamente. “Non ti sto accusando di un accidente. La mia era solo una comunicazione di servizio. Punto. Nulla di più. Se hai voluto leggerci qualcosa di diverso sono fatti tuoi. Tuoi e basta! Non me ne frega un cazzo”, sputo fuori a raffica, in un misto di verità e bugia che mi fa sentire male, anche se lo penso in parte, in fin dei conti. Sono sentimenti poco chiari e poco nobili, ma non sono un essere sovrannaturale. C’è in me del buono e del cattivo. L’angelo a tuttotondo di cui parla la stampa è evidentemente falso. Non bastano due occhi azzurri e un volto da ragazzino a fare di una persona un santo. E in questo momento mi sento ben lontano dall’esserlo.

 

 

Mi chiudo a chiave in camera, in un gesto infantile, sbattendo la porta con violenza.

Viva l’infantilismo.

Afferro il cellulare buttandomi sul letto sulla pancia.

Freno in tempo, quando mi rendo conto di aver composto il numero di Hannah.

Ho voglia di sentirla e l’istinto ha agito per me.

Premo però il tasto per l’interruzione di chiamata.

 

 

Non le ho sentite per niente.

Né lei, né Deb.

Essendo passata una settimana, è un fatto storico.

Tre sms in tutto e piuttosto scarni nel testo da parte mia.

Vorrei che fossero qui a farmi sentire benvoluto e meno inutile. Speciale, in quel modo ironico nel quale ci riescono benissimo. Mi mancano da morire. È penoso lo stato di incertezza nel quale sono piombato, fa male dentro, e mi fa avvertire un bruciore sotto le palpebre chiuse che adesso però mi imbarazza, anziché indicarmi che ho semplicemente voglia di sfogarmi.

Al diavolo le lacrime. Non se ne parla, mi dico alzandomi di scatto e poggiando il telefono sul comodino. Sento sotto le dita la carta lucida di una foto. Non ricordando sul momento di cosa si tratti, la prendo in mano e mi trovo di fronte il volto sorridente ed emozionato di una diciassettenne dalla lunga chioma rossiccia e un po’ scompigliata, che mi abbraccia timidamente.

 

 

È un’immagine di freschezza e semplicità assolute, che si oppone come un lastra di vetro trasparente e pulito contro un cielo marrone-violaceo, sporco di smog e saturo di anidride carbonica.

Sento sfuggirmi un sorriso al ricordo di lunedì pomeriggio, quando avevo l’umore sotto i tacchi e mi ero completamente dimenticato di Claire e Marti.

 

 

Il chiacchiericcio allegro della donna mi aveva sollevato parzialmente l’umore cupo, mentre si dedicava alle pulizie di casa, e quando poi nel tardo pomeriggio avevo sentito suonare di nuovo la porta, avevo cercato di mettere su una maschera se non raggiante, almeno di cortesia. Era di nuovo lei, seguita dalla ragazza.

Di fronte a quel sorriso titubante ed emozionato, mi sono ritrovato a ricambiare spontaneamente, leggendo ammirazione pura in quegli occhi nocciola.

“Elijah, ti presento Marteena”, ha annunciato Claire gioviale, spingendomi così implicitamente a porgere la mano alla ragazza, ancora in silenzio.

“Piacere di conoscerti, Marti”.

“Il piacere è mio, Elijah”, mi sono sentito rispondere in un chiaro accento newyorchese, voce appena tremante.

Le ho invitate in casa, offerto loro qualcosa da bere e, dopo una mezz’ora, Claire ha detto che doveva andare. Anche Marti si è allora alzata e l’ho vista come farsi coraggio per chiedermi l’autografo, suppongo. Invece sono stato io a precederla dicendole di potere rimanere con me il pomeriggio, non avendo nulla di speciale da fare, che potevamo fare due chiacchiere e vedere un dvd. La sorpresa sul volto di Marteena è stata decisamente indescrivibile, ma l’ho fatto perché mi sentivo onestamente di poter stare bene con lei e forse anche alleviare quella specie di solitudine che sentivo dentro.

E così è stato che effettivamente l’ho conosciuta un po’ meglio, abbiamo parlato dei miei film, di come le andavano le cose a scuola, visto un dvd e mangiato del gelato. La foto l’ha scattata Claire quando è tornata indietro, ormai ad ora di cena.

 

 

Ed eccola qui.

Una polaroid.

Abbiamo fatto più di uno scatto. Ne ho anche una con Mrs. Marcano.

 

 

Dopo le foto ed altre due chiacchiere se ne sono andate, entrambe ringraziandomi e Marteena rubandomi un abbraccio affettuoso e riconoscente. Non ho mai trascorso del tempo così privatamente con una fan, men che meno poi a casa mia, ma Marti è stata carina e spontanea. Stranamente matura dai suoi discorsi, forse anche intimidita dal tutto. Mi ha fatto la promessa solenne di mantenere acqua in bocca, pur dicendomi che un po’ si sente come il barbiere di Re Mida, volendo gridare ai quattro venti non che il re ha le orecchie d’asino! ma che Elijah Wood è in città! E credo l’abbia mantenuta, altrimenti avrei avuto qualche paparazzo o curioso beccato a sbirciare tra l’inferriata del cancello.

 

 

Gli occhi mi vanno su una t-shirt piegata su una sedia. È stata un suo regalo. Ho trovato il pacchetto poggiato sul letto. Forse è stata Claire a metterlo lì dal mattino, non saprei dirlo esattamente perché non sono salito in camera prima di sera. Non me lo aspettavo assolutamente però. C’era anche un bigliettino semplice e scritto di suo pugno. Cosa che mi ha strappato un altro sorriso e portato il giorno dopo a trovare il numero di casa di Marcano sull’elenco per ringraziarla. A rispondermi è stata Claire. Da idiota non ho pensato che una diciassettenne è a scuola dal mattino al pomeriggio e così non ho potuto parlarle direttamente.

 

 

“E’ la tua misura, Elijah?”.

“Sì. E’ perfetta”.

“Marteena ne sarà contenta. Era incerta sui tuoi gusti, sul colore…”.

“E’ perfetta, Claire. L’azzurro è il mio colore preferito”.

 

 

L’unico diversivo allegro, grazie al quale mi sono sentito di valere un po’ più di zero e in grado di farmi staccare da quest’ultima quattro giorni penosa, culminata con lo sfogo di stasera.

 

 

 

Bip… bip…

 

 

>>Lijah, ne ho pieni i coglioni. Per oggi ti lascio in pace, ma se domani non chiami o ti fai vivo, ti tartasserò a morte e verrò comunque a sapere dove diavolo sei andato a finire, dovessi scomodare la polizia o setacciare tutti i tabulati del LAX /*  è una promessa è_é

 

 

È l’ultimo messaggio di Han.

Minaccioso e comico al punto giusto.

 

 

_____________________________

 

 

 

La testa mi sta scoppiando. Praticamente ho chiuso occhio quando era già l’alba.

Adesso sono le 07:25 AM

Devo alzarmi, è inutile rigirarmi ancora sotto le coperte, divelte poi tra l’altro. Che non ne abbia nessuna voglia, passa in secondo piano. Mi sollevo così mettendomi a sedere sul letto. La testa mi va da un lato e dall’alto come se appartenesse ad un fantoccio. Ed è un po’ tale che mi sento. Ogni volta che sono forzato a fare qualcosa controvoglia, mi sento tale.

 

 

Voglio tornarmene a casa, ma l’idea di rendermi presentabile, chiamare un taxi e posare il culo su un aereo, mi sembra al di là di ogni possibilità effettiva. Mormoro un’imprecazione, mentre mi passo una mano tra i capelli. Spettinarli più di quello che sono è umanamente impossibile. La t-shirt che indosso è allo stesso modo arricciata e davvero, le coperte da un lato e le lenzuola dall’altro, la dicono lunga sulle ultime otto ore.

 

 

Il sonno non è arrivato.

Nonostante non abbia più rimuginato su nulla ad un certo punto, non sono riuscito a dormire.

Come se fosse troppo faticoso anche abbandonarsi al più normale dei riposi.

 

 

Il pavimento è gelido sotto i piedi nudi, ma non ho voglia di trovare le ciabatte e così esco sbadigliando dalla camera e mi chiudo in bagno. Mi dà il benvenuto il riflesso di un fantasma e reprimo a stento l’istinto di distruggere quell’immagine con un pugno ben assestato.

 

 

È sotto la doccia che inizio a riprendere contatto con il mondo all’esterno. Il flusso dell’acqua che scende nella vasca sembra indicarmi che la giornata sta davvero iniziando. Segna una linea di divisione netta da quello che è stato praticamente un prolungamento delle ventiquattro ore precedenti. Ci siamo. Voltiamo pagina e torniamo a quello che è sempre stato in un certo senso. Come sapevo già in partenza comunque. L’obiettivo di questo viaggio non era il cambiamento. E l’esito è stato più che cristallino. Il carico di amarezza non è però per questo inferiore o meno soffocante. L’acqua è calda, ma ho la pelle d’oca e non riesco a spiegarmelo. Qualcosa di gelido mi rimane dentro e non riesco ad allontanarlo, o a scioglierlo. Una specie di lama conficcata nella schiena. Normalmente accosterei questa reazione alla paura, ma non è questo il caso. Non ho paura, almeno non di un qualcosa di concreto. Quello che mi spaventa è a livello più personale. Probabilmente è la possibilità di essere dimenticato da mio padre, per quanto il nostro rapporto sia già inesistente, che mi fa sentire questo groppo in gola che punge fastidiosamente.

 

 

Ci sono ottime possibilità che Warren metta davvero una pietra sul capitolo Elijah, dopo questa settimana.

Facendo un bilancio, c’è poco da salvare.

Un pomeriggio piacevole su sette d’indifferenza, conta come una goccia nell’oceano.

 

 

Nulla.

 

 

Mi avvolgo un asciugamano intorno ai fianchi e asciugo con una salvietta i capelli. Dovrei forse radermi, ma non ne ho voglia, passo a domani. Prendo a lavarmi i denti con cura meticolosa, al punto che quando mi rendo conto di essere ancora lì con lo spazzolino in bocca, non riesco a capire se siano passati i canonici tre minuti o magari una fottuta mezz’ora.

 

 

Mi sposto allora in camera, afferrando al volo un paio dei boxer, dei calzini, dei jeans, la t-shirt di Marti, sulla quale infilo una felpa con zip e cappuccio e metto appena un po’ di gel sui capelli, modellandolo con le mani di fronte lo specchio in bagno ed evitando i miei occhi per concentrarmi solo sui ciuffi corti e scuri che prendono la piega che voglio, senza troppi patemi.

 

 

Raccatto quanto di mio c’è in bagno e completo la valigia. La statuina di Luke Skywalker viene messa per ultima dentro, il resto nello zaino e dopo aver aperto infine le imposte e la finestra, rimango un po’ lì, godendo dell’aria mattutina sulla faccia. È rigida e simile a delle frustate, ma contribuisce a farmi uscire dalla bolla di sapone che mi ospita dalla sera precedente. Potrebbe essere l’ultima volta che vengo qui. L’ultima volta che dormo in questa stanza, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Gli elenchi delle ultime cose sono appunto infiniti.

 

 

Scendo in salotto con lo zaino in spalla e il trolley saldo nelle mani, mentre percorro le scale. Poggio momentaneamente le mie cose qui e mi dirigo in cucina. Mio padre siede a tavola, sta leggendo il quotidiano locale, la tv accesa con le breaking news per sottofondo e l’odore del caffè appena fatto nell’aria.

 

 

Non mi saluta, ma percepisco il suo sguardo su di me, sebbene lo eviti dirigendomi verso lo scolapiatti per prendere un mug e versarmi un po’ di intruglio ancora caldo. Il primo sorso mi fa rivoltare lo stomaco. Il contrasto con il sapore del dentifricio è insopportabile. Continuo però a mandarlo giù, avvicinandomi alla finestra e osservando il giardino da lì. Il cielo sembra sgombro da nubi, ma è di un grigio un po’ strano. Un colore insolito in primavera e, soprattutto, visto l’aria nient’affatto umida.

 

 

Termino il caffè, dando un’occhiata all’orologio.

Sono le 08:45 AM

Chiamo allora un taxi, dando all’operatore l’indirizzo di casa e mi viene detto che sarà qui tra dieci minuti.

 

 

Dieci minuti.

Altri 600 secondi e fuori di qui.

 

 

Butto un’aspirina in un bicchiere, con la speranza che la testa si alleggerisca un po’ e la pressione all’altezza delle tempie martellanti, la smetta di torturarmi. Lo sguardo di mio padre mi sta seguendo costantemente, al punto che sbotto con un: “Che diavolo hai da guardare?”, prima di afferrare il bicchiere colmo di acqua per metà e mandare giù quella mistura salata in un sorso solo. In pratica ho ancora lo stomaco vuoto, visto che il caffè non si può dire contenga chissà quali proprietà nutritive, zucchero escluso. Almeno questo però non mi farà stramazzare al suo per un calo ipoglicemico. È da coglioni uscire di casa senza mettere niente sotto i denti ed in prospettiva di un viaggio, non lunghissimo d’accordo, ma è pur sempre un sottoporsi a tensione e stress estranee a quella che può essere considerata una giornata tipo. Magari prendo qualcosa in aeroporto. Se non vomito la bile che ho in corpo prima.

 

 

Non ottengo risposta, solo uno sguardo fisso, che diventa meno chiaro attraverso il soffio di fumo che ho appena tirato fuori dalla sigaretta accesa. Il terzo elemento per una colazione perfetta e salutare.

 

 

Il suono del citofono indica l’arrivo del taxi. Rispondo al ricevitore e, spegnendo la Clove ancora intatta per una buona metà, indosso il giubbotto di jeans, abbottonandolo con le mani che mi tremano, sebbene impercettibilmente e senza che possa fare nulla per darci un taglio. Infilare l’ultimo fottuto bottone nell’asola è quasi una sfida che va al di là delle mie attuali capacità e risolvo lasciandolo aperto. Al diavolo, borbotto mettendomi lo zaino in spalla e tirando fuori il manico mobile della valigia.

 

 

Me ne sto andando dunque. Sono solo nell’atrio e sebbene l’intenzione sia quella di girare i tacchi ed uscire subito, non riesco a non guardarmi indietro e abbracciare con lo sguardo le stanze. Non l’ho fatto quando sono uscito dalla camera da letto, ma qui sono spinto da qualcosa che mi parte da dentro. Non so se è un addio. Può darsi che torni qui tra tre anni, come tra due mesi, come mai. Nonostante le ultime risposte, non è che le cose siano cambiate così tanto in negativo, per il semplice fatto che non c’è mai stato un positivo. Quindi con un secondo termine di paragone assente, il giudizio rimane sospeso.

 

 

Sarebbe ipocrita dire che sto bene e che è tutto normale.

È onesto dire che non é andata peggio delle altre volte.

Quello che non capisco è che necessità ci fosse di venire qui e riviverlo.

 

 

L’animo umano dovrebbe rifuggire da quello che lo fa soffrire.

La mente ci prova in tutti i modi a dimenticare gli episodi che ci feriscono, giungendo anche ad auto-ingannarsi.

Perché allora io abbia riportato alla luce volontariamente delle ferite è invece contraddittorio e insensato.

Inutile imbellettare le cose se sono misere.

 

 

 

È disillusione, quella che sento.

Unita ad amarezza e una specie di… uh… nostalgia?

Nostalgia per cosa, accidenti?

La rabbia di dieci minuti fa è scemata com’è venuta.

Improvvisa e bruciante.

Cattiva consigliera, visto l’astio con cui mi ha portato a parlare.

 

 

È un insieme strano, che al momento mi impregna da capo a piedi e che avrà bisogno del suo tempo per andarsene oppure essere metabolizzato.

È quello che ho sempre provato pensando alla relazione con mio padre.

La differenza sta nel fatto che adesso è tutto più vivido.

Come se qualcuno avesse smosso delle braci morenti, facendole all’improvviso rivivere per via dell’ossigeno che torna ad alimentarle.

 

 

Chi è quel qualcuno?

Io, per qualche assurdo motivo.

 

 

Dovrei solo accettarlo, anche se non è così facile. Potrei capire se fossi nato da una storiella qualunque. Se non fossi stato voluto e avessi sorpreso mio padre con la notizia del mio concepimento, ma accidenti, loro erano sposati e da anni. Hanno avuto tre figli. Non è logico pensare che un minimo di volontà e desiderio di mettermi al mondo ci sia stato, in qualche modo? Accettare che tuo padre è incapace di stabilire un legame con te nonostante queste premesse, è dannatamente difficile.

 

 

Il taxi suona.

Ha ragione.

È lì fuori da ormai dieci minuti.

 

 

“Elijah…”.

La voce di mio padre mi blocca, quando sono già a metà del vialetto.

 

 

Sento lo stomaco contorcersi, ma non so se sia per via di quella specie di colazione che ho buttato giù o se è indice del fatto che ho già deciso di voltarmi e fronteggiarlo.

Magari tutti e due.

Mi volto lentamente osservandolo sullo stipite della porta. Non riesco a capire cosa gli passi per la testa, ma lo stesso potrei dire di me. Fisso lo sguardo sul cemento sotto i miei piedi, come a riordinare i pensieri o almeno seguire un flusso di pensiero coerente in tutto quel marasma ingarbugliato.

Vedo la sua ombra chiarissima vicino alla mia e allora sollevo il mento a fissarlo direttamente negli occhi. Mi forzo a parlare, anche se è come mi avessero cucito la bocca o come se stessi parlando in qualche idioma sconosciuto, poco sicuro ed incerto sui vocaboli da scegliere. È tornato il cane, che ha spaventato il gatto, che mi ha rubato la lingua…

 

 

“Non ero venuto con l’intenzione di giocare al figlio problematico”.

È questo quanto riesco a formulare. Sono onesto, non è per questo se sono venuto a Cedar, ma non so se sia adatto ad un congedo o comunque a quanto sta avvenendo adesso, chiamiamolo pure come ci pare.

 

 

“Non lo sei”.

 

 

Mi mordo il labbro inferiore, mostrando la mia insicurezza in questo frangente.

Nessun ti voglio bene o sono orgoglioso di te.

Chiunque lo avrebbe detto, immagino.

Non lui.

Devo smetterla di volerlo diverso.

Me lo ripeto all’infinito, dopo aver voltato le spalle senza nessun’ulteriore parola.

Stando qui ho solo avuto conferma di quello che già sapevo.

 

 

Punto.

Voltiamo pagina e torniamo a casa.

Per davvero.

 

 

_______________

 

 

/* Los Angeles International Airport

 

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Capitolo 7
*** Back Home ***


Jeez… sono in ritardassimo

Jeez… sono in ritardissimo... ;__; Senza perdermi in chiacchiere ecco il settimo capitolo. A proposito! Qualcuna di voi è riuscita a vedere ‘Ogni cosa è illuminata’? È uscito nelle sale più o meno venti giorni fa ed sta avendo delle buone critiche :)

 

~ Capitolo Sette ~

Back Home

 

Il caldo del pomeriggio californiano mi dà il benvenuto una volta messo piede sul suolo fermo del Terminal 4 del LAX. Vengo bloccato da un gruppetto di ragazze che si avvicinano simil-discretamente, come timorose di vedermi scappare. Mi chiedono se possono scattarmi delle foto e poi firmare degli autografi. Annuisco, cercando di sorridere quanto più possibile disteso di fronte l’obiettivo e le congedo, prendendo poi le valigie che nel frattempo sfilano sul nastro mobile, dopo un tempo inverosimilmente breve. Me la svigno velocemente, imboccando l’ascensore che conduce ai parcheggi al coperto. Ho lasciato la macchina qui; ricordo però a malapena dove sia. Uh… dovrei avere nel portafoglio la ricevuta del pagamento con su anche il numero del blocco. Hmph… dopo aver lottato con le cose che ho nello zaino, riesco infine ad afferrarlo e muovermi così alla volta dello spazio P6.

 

La vedo da lontano ed è con sorriso che saluto la mia Mini Cooper. Il primo oggetto che mi indica che sono tornato in un terreno familiare. Apro le portiere con il telecomando a distanza e stipo la valigia nel portabagagli. Una volta nell’abitacolo respiro l’odore noto e piacevole della pelle dei sedili e della menta dell’Arbre magique. Lo ha scelto Hannah, superfluo dirlo, ma piace anche a me. E’ per questo che è ancora lì appeso allo specchietto retrovisore, insieme ad un peluche a forma di mini koala. Un souvenir dall’Oceania.

 

Metto in moto, prendendo gli occhiali da sole nel cruscotto. Li indosso trovando lì per lì strano osservare il tutto attraverso le lenti scure, in questo seminterrato che buio lo è già di suo, nonostante la luce all’esterno. Afferro allora il cellulare per accenderlo e trovarvi due tentativi di chiamata e qualche messaggio. Rispondo sinteticamente, ma ancora una volta snobbo volontariamente mia sorella e mia madre. Voglio fargli una sorpresa, ma ho bisogno ancora di qualche minuto per riordinare le idee. Accendo allora lo stereo, mettendolo su una radio locale che fa buona musica a mio parere e, allacciata la cintura di sicurezza, mi accingo a lasciare l’aeroporto.

 

Prendo la 405 in direzione Nord e per un po’ mi concentro totalmente sulla guida, trovandomi incappato nel solito ingorgo di macchine. Qui è sempre ora di punta per un motivo o per un altro. Guidare mi rilassa, la tensione al collo e alla schiena si fa meno pressante.

 

 

In aereo stavo praticamente morendo. Avendo passeggeri di fianco e di dietro, contrariamente all’andata, non ho potuto sdraiarmi come avrei voluto e l’arrivo a Denver mi è sembrato lunghissimo. Sono sceso con i crampi allo stomaco, rifugiandomi prima in bagno per darmi una rinfrescata e poi sedendo al tavolino di un bar, per ordinare una specie di brunch. Lo sbalzo di pressione per via della differenza delle atmosfere mi ha messo davvero lo stomaco sottosopra, facendomi maledire quello che avevo mandato giù già a fatica di mio. Mettere piede a Los Angeles è stato una specie di sogno fattosi realtà. Non ho mai avuto problemi a volare, ma è pur vero che poche volte sono salito su un aereo in quelle condizioni e con la nausea a farmi girare la testa. Adesso va meglio. Davvero.

 

 

L’abitacolo è caldo per via dei raggi di un sole piuttosto cocente per essere un pomeriggio primaverile e rimango praticante con indosso solo la T-shirt di Marteena, che si sta rivelando utilissima. Suppongo le farebbe piacere saperlo. Senza quasi accorgermene svolto a sinistra, un chilometro prima di raggiungere Inglewood, prendendo così la 42. E’ solo una volta arrivato a Playa del Rey che mi accorgo di aver deviato. Venice, è praticamente vicinissima. Più o meno due miglia a nord.

 

 

Parcheggio in prossimità di una spiaggia poco pullulante di persone e scendo a fare due passi. Ormai sono qui, tanto vale che passi un’oretta in tutta tranquillità. Il mare è un po’ agitato e il vento soffia inaspettatamente forte. È ormai pomeriggio inoltrato e, avvicinandosi il tramonto, la temperatura ne risente immediatamente. Torno allora in macchina afferrando il giubbotto di jeans e le cloves che avevo dimenticato. Cosa impossibile a credersi, ma non ho voglia di fumare. Le tengo nel caso in cui mi torni all’improvviso, mi dico come giustificandomi con me stesso.

 

 

Decido di togliere le scarpe ed i calzini, sentendo la sabbia fredda ed asciutta sotto i piedi. Mi trasmette una strana tranquillità. Vagare così in spiaggia come un randagio in cerca d’affetto mi è sempre piaciuto. Aiuta a sedare i nervi. La risacca del mare è ipnotica e mi piace da morire quest’ora del giorno. Quella che precede il crepuscolo vero e proprio. Quando la linea dell’orizzonte inizia a cambiare colore, sfumandosi in tonalità sempre diverse, man mano che passano i minuti. E questo sembra uno di quei pomeriggi beati in un certo senso.

 

 

Poca gente in giro e poco chiasso. Solo il fruscio dei miei jeans a contatto con la rena dorata e il freddo del vento a tagliarmi quasi il volto. Adesso gelido lo è per davvero. E guardando l’orologio mi rendo conto che sono due ore che passeggio. Non ho incontrato nessuno miracolosamente. È raro poter godere di qualche momento di assoluto anonimato a Los Angeles e, sebbene non sia in uno dei quartieri centrici, non ricordo davvero da quanto debba passeggiare completamente da solo, se si esclude la compagnia dei miei pensieri.

 

 

Le mani sono intirizzite e una volta tornato sul marciapiede, faccio quasi fatica a rimettere i calzini e le scarpe, tanto è vero che le lascio slacciate, stringendo solo pigramente le stringe per raggomitolarle poi all’interno delle sneakers. C’è una specie di chiosco ad una decina di metri da dove sono. L’idea di una bevanda calda non mi sembra malvagia e così, mi avvicino al bar ambulante avendo pienamente davanti agli occhi l’immagine del lungomare con la sua cementata, liscia ed adatta per i rollerblade, nonché alberi di palma piuttosto alti, piantati a distanza identica gli uni dagli altri.

 

 

“Una cioccolata calda”, mormoro alla signora sulla quarantina che mi chiede cosa desidero. Annuisce con un sorriso e dopo qualche minuto poggia sul bancone un bicchierone, tipo quelli della Coca Cola, colmo per tre quarti di cioccolato semi-denso, l’esatta consistenza che le ho chiesto, e fumante. Le do cinque dollari aspettando che mi faccia il resto e poi la saluto continuando a camminare, in direzione opposta al parcheggio. C’è un giornalaio appena dopo qualche metro. L’attenzione è catturata da alcune cartoline in bella vista su degli espositori.

 

 

Mi viene in mente Marteena e penso che potrebbe essere un modo per ringraziarla della t-shirt. Sono sicuro che Claire le abbia rapportato per filo e per segno la nostra conversione telefonica, ma mi è dispiaciuto non poter parlare direttamente con lei. Rimango un po’ lì a fissare gli scorci immortalati nei diversi formati da post-card e ne scelgo proprio uno di Venice. Una visuale del mare, ripreso esattamente in un’altra ora che mi piace particolarmente. Quella immediatamente successiva all’alba. I colori del cielo sono indefiniti, un arcobaleno di sfumature che mantengono anche su carta quella loro caratteristica intrinseca di tonalità momentanea e colta sul punto di morte, per trasformarsi in quella successiva.

 

 

Porgo dunque la cartolina al giornalaio che me la rende all’interno di una bustina di carta ed insieme ad alcuni spiccioli di resto. A questo punto mi volto indietro e rientro in macchina, finendo di bere la cioccolata, riflettendo su quello che potrei scrivere. Il concetto alla base è un grazie, ma non retorico, direi tutt’altro. Allo stesso modo però eccedere con le parole potrebbe far intender qualcosa che non è affatto, e creare illusioni oppure ferirla, non rientra affatto in quello che voglio fare.

 

 

Prendo una penna dallo zaino e rimango a guardare lo spazio bianco da riempire. È mordicchiando il cappuccio della biro che l’ispirazione viene, e riempio con facilità il rettangolino che ho davanti. Rileggo poi un paio di volte e mi dico che ho trovato le parole giuste. Il primo obiettivo raggiunto dopo una settimana di caos. Los Angeles ha una buona influenza su di me, a quanto sembra. Passo poi a scrivere l’indirizzo sulla destra della superficie. L’ho letto sull’elenco, quando ho cercato il suo numero di casa e lo ricordo senza troppi dubbi. Sono un attore. Ho una memoria affidabile.

 

 

Marteena Marcano,

23 Oak St.

Cedar Rapids,

IA

52498

 

 

Ho bisogno di un francobollo. Voglio imbucarla subito, non mi va che mi passi di mente. C’è una tabaccheria al di là della strada e di fianco una casella per imbucare le lettere. Esco dunque di nuovo dall’auto, attraverso il corso e imbuco la cartolina, dopo aver comprato oltre al francobollo delle altre sigarette e un pacchetto di gomme da masticare. Altra cosa di cui sono dipendente. 

 

 

Il sole è quasi del tutto sceso ormai. I lampioni che illuminano il viale, già da un po’, adesso si vedono benissimo. Sarò a casa tra venti minuti, sperando in poco traffico. Mi rimetto così in macchina prendendo la 1 all’incrocio con la 42 e facendo così la cosa più logica, quello cioè che avrei dovuto fare già tre ore fa se non avessi smesso di prestare attenzione alla strada che stavo prendendo. Poco male comunque. Guidare mi piace, ancora di più con un bel cd ad accompagnarmi e le luci della prima sera tutt’intorno. Un cartello sul quale spicca la scritta in bianco VENICE, mi dice che sono arrivato.

 

 

Dopo qualche centinaio di metri, infatti, vedo il profilo della mia casa e spingo il tasto del comando a distanza, entrando così agevolmente nel cancello completamente aperto. Lascio la macchina in cortile e scendo riempiendomi letteralmente gli occhi dei dettagli del giardino e della facciata della villetta nella quale vivono mia madre ed Han. La dependance che ospita me invece è appena più in là. Ci andrò dopo. Adesso voglio rivedere loro.

 

 

Vengo però bloccato dal saluto festoso di Rascal e Levonne, i miei due collies. “Hey…”, li saluto rispondendo al loro saltellare allegro e accarezzandogli la testa. Ecco un’altra cosa che mi è mancata. Come diavolo si fa a vivere senza animali domestici di nessuna sorta?

 

 

La luce dell’ingresso è accesa, la vedo attraverso il vetro opaco delle lastre che decorano qua e là il legno del portone principale. Mia madre c’è di sicuro. Su Hannah non ci metterei la mano sul fuoco, ma va comunque bene così. Prendo solo lo zaino, le chiavi e il cellulare, praticamente superfluo negli ultimi giorni.

 

 

Si può vivere senza?

Direi di sì.

 

 

Mi dirigo così verso casa, seguito dai due cani scodinzolanti e festosi. Entro allora nell’atrio, venendo accolto dall’odore di qualcosa che cuoce in forno. La stretta in gola che sento dopo aver messo piede solo nell’ingresso, è tale da stendermi al tappeto. Accidenti, sono emotivo è vero, ma questo sta avendo del patologico. Cerco di calmare i battiti forsennati che mi stanno sfondando la cassa toracica, e appoggio lo zaino a terra. Lo specchio che ho di fronte mi mostra un ragazzo di ventiquattro anni con due occhi al momento troppo grandi e troppo lucidi sul volto pallido e tirato. Hmph…. Se volevo ingannarle raccontando loro quanto sia stata fantastica questa vacanza e quanto mi sia divertito e quanto mi abbia fatto bene staccare e bla, bla, bladirei che sono proprio sulla strada sbagliata.

 

 

Lij?”, sento allora chiamare la voce di Debbie, per vederla poi fare capolino dal salotto. “Elijah, sweetie”, ripete con un bel sorriso sul volto, felice di rivedermi, cosa che accentua paradossalmente il mio malore. Il suo tono affettuoso è una specie di balsamo per le mie orecchie, ma si sta rivelando allo stesso modo rovinoso.

Eppure mi impongo di far finta di niente.

Devo leccarmi le ferite e lo farò in privato.

Solo gli idioti si tirano la zappa sui piedi come ho fatto io.

Ecco perché non mi va che mia madre o Hannah mi vedano patetico, voglio dire, di più di quello che in realtà già sento di essere, ed in piena paranoia post-Cedar.

 

 

Da copione allora ruoto gli occhi in un’espressione scocciata da ragazzino che si sente grande e che odia essere coccolato. Lo faccio sempre, quando mia madre inizia a vezzeggiarmi come un poppante. La vedo avvicinarsi ancora con quel bel sorriso e mi abbraccia, brevemente ma piena di calore. Un bacio sulla guancia a darmi il benvenuto e il mio: “Mamma, non ho più dieci anni!”, simil lamentoso. Potrei anche far finta di pulirmi la guancia, tanto per rendere il tutto più drammatico.

 

 

Per questa volta passi, mi dico forzando il miglior sorriso che ho adesso tra il mio repertorio e baciandola a mia volta.

Questa è davvero casa mia.

Non ci sono dubbi.

Ad indicarmelo è la tensione alle spalle che, nonostante questa specie di disagio che sto vivendo, è scomparsa.

 

 

Anche Hannah sembra in vena di dolcezze perché sbuca dal piano superiore, buttandosi a capofitto giù per le scale e mi getta le braccia al collo, abbracciandomi a lungo, salutandomi con un: “Heya uglybeen missing ya so bad”.

 

 

Mostro… c’è sempre chi tiene alta la mia autostima in casa, anzi se dovessi peccare di divismo, la lingua di mia sorella mi riporterebbe tra i comuni mortali in un nanosecondo.

 

 

“Voi no”, dico ironico, facendole scoppiare a ridere.

 

 

“Non sai recitare, Lij. Lo dico sempre io!”, tira fuori la linguaccia Hannah.

 

 

Mi forzo di frenare il fiume di parole che sento all’improvviso ostruirmi la gola. Vorrei raccontargli tutto, ma alla fine mi dico di no. Cerco così di alleggerire l’umore cupo prendendo in giro Han. “Cosa dovrei comprarti questa volta, sentiamo?”.

 

 

Mmh?”.

 

 

“Tutto questo entusiasmo nel vedermi , Han…”, spiego. “Di cosa hai bisogno?”.

 

 

“Oh! Non avevo capito”, esclama lei cadendo dalle nuvole.

 

 

Sì, come no…

 

 

Se proprio ci tieni, Lij. Ho visto dei vestiti niente male in centro. Se vuoi gentilmente finanziare…?”.

 

 

Appunto.

Vestiti? Credevo una macchina o qualcosa del genere.

Ovviamente nego però.

 

 

“Scordatelo”.

 

 

“Sei il solito coglione, Elwood”, mi fa notare. Un’espressione buffa sul visetto dai lineamenti più che carini e piuttosto simile a quello di nostra madre, se la piantasse di sperimentare tinte improbabili e make up da circo o Mardi Gras Parade/*.

 

 

E tu la solita sanguisuga”.

 

 

Ok, pulcini. Basta così”, cinguetta Debbie sorridendo serafica, sapendo come i suoi appellativi ci facciano ruotare contemporaneamente gli occhi dalla disperazione, e passandomi una mano sulle spalle. “Che ne dici di sgranocchiare qualcosa, Elijah?”.

 

 

Dio. Sono rientrato da meno di dieci minuti e mi sono sentito chiamare in diecimila modi diversi. Non riesco a credere di non aver sentito quasi per niente il mio nome durante l’ultima settimana. Pochissime volte. Come se mio padre lo avesse addirittura dimenticato, afferrandosi a malapena al mio primo nome. Senza diminutivi né nomignoli. È una sensazione strana e scomoda, un rospo che mi è difficile da inghiottire, e immerso in queste considerazioni non ho ancora risposto a mia madre.

 

 

Sweetie?”.

 

 

Sorrido cercando di allontanare l’angoscia e focalizzarmi sul senso della sua richiesta. Anziché fingermi infastidito, lascio che la dolcezza e la nota di preoccupazione insite nella sua voce mi riempiano con il loro solito calore. “Magari”, annuisco con lo stomaco chiuso, ma al contempo desideroso di sgranocchiare qualcosa che elimini il sapore amaro che ho in bocca.

 

 

Dell’altra cioccolata forse. Non so se potrebbe compiere il miracolo.

 

 

“Vieni in cucina. Hannah ha cercato di impastare una torta. È quasi pronta. Avrai l’onore di assaggiarla”.

 

 

“Neanche morto”, nego aspettando la reazione fulminea e logica di mia sorella.

 

 

“Idiota”, sbotta, infatti, lei, secondo quel rituale da pantomima che per me equivale a normalità e a casa e che mi è mancato come non mai.

 

 

__________________

 

/* Sfilata allegorica di che si tiene il giorno di Carnevale, Martedì Grasso appunto, a New Orleans, Louisiana. Viene anche eletto un Re per l’occasione. Una specie di mastro cerimoniere. Di solito personaggi famosi, tra cui Elijah.

 

 

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Capitolo 8
*** Pale Blue Eyes ***


~ Capitolo otto ~

 

~ Capitolo otto ~

Pale Blue Eyes

 

Posto il penultimo capitolo con un altro ritardo dei miei. Scusatemi :( Purtroppo la vita reale incombe e ho dovuto lavorare e spostarmi in diecimila posti. La ff non era sul mio portatile e quindi non ho potuto aggiornare come avrei voluto.

Ringrazio di nuovo tutte per i commenti e le e-mail (cercherò di rispondere a tutte quanto prima).

:)

 

Quando riapro di nuovo gli occhi, faccio un po’ a fatica a capire dove sono. Istintivamente mi sarei aspettato di vedere tutt’intorno delle pareti bianche e spoglie ed accanto a me un letto vuoto, invece tutt’altro ambiente mi circonda. Pareti color crema, sulle quali spiccano acquerelli di buona fattura, credenze tirate a lucido sulle quali sono poggiate diverse cornici e vasi di fiori freschi, un camino imponente in un angolo, un’ampia finestra che dà su un giardino e dalla quale filtra la luce chiara del mattino.

 

Sono le 10.

 

Mi giro sbadigliando sul divano gigante e morbido che ha funto da letto per le mie ossa doloranti. Mi stringo addosso la coperta che qualcuno mi ha steso sopra con affetto o mosso dalla pietà, non saprei, e cerco di riprendere contatto con la realtà. Sono a casa, o meglio nel salotto di mia madre.

 

Ieri sera sono crollato senza che me ne accorgessi. Ho aspettato che Hannah tirasse fuori dal forno il suo capolavoro culinario, per assaggiarlo e chiacchierare un po’ con loro, tra una presa in giro ed un’altra.

Ho rifiutato la cena, sentendomi effettivamente sazio, nonostante non avessi fatto nessun pasto propriamente detto nelle precedenti sedici ore e, lasciandole alle prese con la preparazione del loro pollo con patate, sono andato appunto in soggiorno, sdraiandomi sul divano e dando un’occhiata alla televisione, senza troppa attenzione.

 

Devo aver fumato un paio di sigarette, prima di rannicchiarmi su un lato e cedere all’invito del sonno, le palpebre pesantissime e i rumori in casa che divenivano sempre più sfumati alle mie orecchie.

Non credo di aver sognato nulla.

O almeno nulla che ricordi.

Gli esperti dicono che si sogna sempre qualcosa, anche se poi al mattino si ha l’impressione contraria.

 

Deb e Hannah non mi hanno bombardato di domande. Almeno da Han mi sarei aspettata una battuta sul fatto che sono tornato subito a casa dopo la sua minaccia telefonica, ma nulla del genere. Ho come l’impressione che già sappiano e al contempo non sappiano però che approccio fare, oppure è stata la mia faccia a scoraggiarle, parlando per me. E' evidente che non sia andato in nessuna località tropicale. Di abbronzatura nemmeno l’ombra, piuttosto un pallore che non ha nulla che vedere con la carnagione chiara che ho dalla nascita.

 

Metto i piedi a terra, sentendo il tessuto ruvido dei jeans un po’ come insopportabile a questo punto. Sono un modello comodo, ma dormirci non è stato proprio l’ideale. Ho anche indosso la maglietta di Marti e la felpa. Qualcuno mi ha invece tolto le scarpe. Non ricordo di essere stato io.

 

Soffocando uno sbadiglio, mi stiracchio un po’ la schiena anchilosata e dopo essermi passato le mani sul volto, come a ricomporre in maniera più armoniosa e meno disastrata i lineamenti che mi ritrovo, mi alzo.

 

I passi sono pressoché felpati per via dei calzini e mi piace sentire il fresco del marmo sotto i piedi.

 

È solo adesso che mi accorgo della musica che c’è in giro per casa. Tenuta troppo bassa per provenire dallo stereo di Hannah, comunque. Le possibilità si riducono allora solo ad una seconda possibilità. Inequivocabile. Vorrei davvero fare una classifica e vedere quante madri al mondo sono amanti dei White Stripes e ascoltano regolarmente i loro CD al mattino.

 

Beh, la mia fa parte di questa categoria.

Che figata è?

Mi dico soffocando un sorriso ed affacciandomi in cucina.

 

Debbie è lì, canticchiando tra sé e sé la canzone che sta andando, seduta su uno degli sgabelli in cucina, l'attenzione concentrata nella lettura di un catalogo di vendite per corrispondenza, mi sembra di capire.

 

Morning”, la saluto.

 

Lijah… ben alzato”, mi risponde sorridendomi allegra, il volto pieno di calore. Se ha notato lo stato disastroso nel quale mi trovo, non ha fatto nulla per palesarlo. Anzi, mette di fianco il giornale e mi invita a sedermi lì accanto. “Ti ho svegliato?”, chiede quando le sono vicino, riferendosi alla musica.

 

“No… Mi piacciono i tuoi gusti”, le dico con un sorriso divertito sulle labbra. "E poi mi andava di pulire il pavimento", scherzo vedendola abbassare la testa in direzione dei miei piedi.

 

"Molto gentile, dolcezza", anche lei sorride di nuovo, aspettandosi la solita lamentela sui nomignoli, prima di domandarmi se ho dormito bene. Faccio, infatti, una smorfia eloquente prima di risponderle. “Mmh…”, cerco di spiegarmi. “Ho dormito come un sasso, ma non mi sento proprio riposato”.

 

Che ne dici di qualcosa da mangiare?”.

 

“Sì… ho fame”. È vero, sento lo stomaco vuoto ed ho voglia di fare colazione.

 

“D’accordo”, si alza lei. “Preparo io”, mi dice mettendo a tacere sul nascere le mie proteste. Non mi va che si sbatta per me. Posso prepararla anche io la colazione, ma lei è irremovibile. “Andiamo, Lij, lo sai che mi piace fare la parte della chioccia, non vorrai privarmi di questo piacere?”, mi chiede con un sorriso tra lo zuccheroso e l’ironico, che mi fa scuotere la testa.

 

“Certo che no…”, la prendo in giro allora, alzandomi e dandole un bacio su una guancia. “Grazie…”, aggiungo serio, rispecchiandomi nei suoi occhi altrettanto inquisitori all’improvviso. È uno sguardo che mi mette a disagio. È un po' come se fossi nudo di fronte a lei e, nonostante sia mia madre, non mi sento esattamente rilassato.

 

Deve capirlo, perché mi sorride di nuovo solare. “Che ne dici di fare colazione in veranda? C’è un bel sole. Ti porto qualcosa fuori”.

 

Mi sembra un’ottima idea. Infatti, annuisco per poi uscire dalla cucina e raggiungere il retro della casa. Un angolo che mi piace moltissimo, praticamente con la spiaggia a meno di venti metri e un primo piano dell’oceano che toglie il fiato per come si estende vasto e apparentemente senza frontiere. L’isola di Catalina e quella di San Clemente sono un po’ più a sud, all’altezza di San Diego e non visibili da qui. Sarebbero le uniche porzioni di terra a poter interrompere idealmente da qui l’estensione dell’Oceano Pacifico.

 

Le acque sono sfumate, una massa di colori brillanti che si amalgamo su un nastro di azzurro liquido. Rimango in piedi con le mani appoggiate sulla ringhiera che separa il portico-veranda dalla spiaggia vera e propria. Trovo in tasca un pacchetto di sigarette, piuttosto provate dalla notte sul divano, eppure miracolosamente intere. È così che me ne accendo una, avvertendo il calore del sole inondarmi il volto e fissando lo sguardo sull’orizzonte e sul lembo di spiaggia deserto, a mo' di lucertola.

 

Mi volto dopo un po' per sedermi sul divanetto di vimini, imbottito con dei cuscini azzurri, senza pensare a nulla in maniera particolare. Mia madre spunta dalla porta finestra con in mano un vassoio.

 

Eccoci qui, kiddo”, annuncia continuando a fare la chioccia.

 

“Hai cucinato per un esercito”, mi forzo a sorridere, appoggiando il vassoio che mi porge sul tavolinetto anch’esso di vimini.

 

“Sei sempre stato un foodie, o no?”, mi prende in giro lei.

 

Annuisco solo, addentando una brioche appena sfornata dal microonde.

 

“Appunto”, si auto-risponde lei, vedendomi mangiare con quella fame. “Inoltre non hai proprio un aspetto riposato, Lij. Faresti bene a rifocillarti e... uh… ad iniziare da capo”.

 

L’ultima osservazione rende difficile mandare giù il sorso di spremuta d’arancia che sto bevendo. Di colpo mi sembra di avere davanti davvero un quintale di cibo e la nausea mi assale. Deglutisco malamente, sentendo le lacrime bruciarmi come acido gli angoli degli occhi. Quel suo iniziare da capo, è dovuto ad un riferimento tanto preciso quanto tacito. Mi sento come in una teca di vetro. All’improvviso vedo tutto come filtrato dal vetro e i rumori sono attutiti, come se qualcuno avesse abbassato di colpo il volume.

 

Lo stesso volto di mia madre torna a mettermi a disagio, ma cerco di far finta di nulla e prendo una fragola dalla ciotola che ho di fronte. Inevitabilmente però abbasso lo sguardo, cercando di riguadagnare il mio autocontrollo.

 

Sento Debbie sospirare e, anziché sedere sulla poltrona come mi aspettavo, la vedo con la coda dell’occhio rientrare in casa. Le sono grato per questo tatto, ma prima o poi dovrò gettare fuori il rospo che ho ingoiato. Meglio il prima possibile a questo punto. Continuo a mangiare per inerzia, spazzolando anche buona parte dei pancakes e tutto il mug di caffè ormai tiepido, senza sentirmi però per niente meglio.

 

Lij, sto uscendo”.

 

Sollevo il volto in sua direzione, annuendo. “Hannah?”, chiedo non vedendo mia sorella a far chiasso in giro.

 

“E’ uscita con Jack, credo…”.

 

Jack Osbourne?”.

 

“Suppongo di sì. Andavano in centro a comprare delle iguane, se non sbaglio”.

 

“Iguane?”.

 

Mia madre sorride di fronte al mio sconcerto. L’idea di una lucertola gigante in casa non mi esalta per niente.

 

“Non Han”, mi spiega. “E' Jack che ne vuole una”.

 

Ok. Questo è già più chiaro. Gli Osbourne sono eccentrici al punto giusto per questo tipo di fantasie. Nessuna sorpresa dunque se oltre a dieci cani che girano per casa, vogliano aggiungerci anche qualche malcapitato animale esotico.

 

“Ci vediamo… tra un po’ allora”, aggiunge lei, titubando.

 

Faccio un cenno affermativo con la testa, senza guardarla direttamente, ostinandomi a fissare il piatto prima colmo di pancakes.

 

Lij…?”.

 

Sento la sua voce ricca di preoccupazione e mi fa sentire un idiota. Insomma, non voglio che stia anche lei male anche lei. Ma perché accidenti non sono nella dependance, anziché infestare le ore altrimenti tranquille delle altre persone?

 

Il tintinnio delle chiavi dell’auto poggiate sul tavolinetto, mi indicano che mi si è seduta accanto.

 

“Va tutto bene, Mom. Davvero”, tiro fuori, senza nessuna convinzione.

 

“Non sono stupida, Elijah”, mi risponde lei con un'inflessione di severa riprovazione nella voce.

 

Ha ragione.

Chi diavolo voglio prendere in giro?

Faccio meglio a dirle di non aver voglia di parlarne anziché arrampicarmi sugli specchi.

Ma forse voglio parlarne.

Paradossalmente.

Essere patetico che sono.

 

Anche se non voglio obbligarti a parlare, se non ti va”, sento che aggiunge, con una nota di tristezza evidente tra le sue parole e confermata dallo sguardo che incrocio voltando il viso verso di lei.

 

Riesco a sostenerlo per un po’ e poi nego con la testa. “Ho voglia di parlarne invece… ma non so da dove cominciare”, mi stringo nelle spalle, mentre un brivido mi attraversa la schiena, testimoniando il mio disagio.

 

Lei rimane un po’ in silenzio, per poi sospirare ed aiutarmi a suo modo, andando diretta al punto. “Perché sei andato a Cedar?”.

 

“Non lo so…”.

 

Debbie annuisce, mostrandomi la sua solita comprensione.

 

“E’ stato un impulso… che ho seguito. Non credo ci fosse una motivazione vera e propria dietro. O almeno non sono riuscito ancora a venirne a capo…”.

 

“Com’è andata?”.

 

“Non peggio del solito… ma era da tantissimo che non vivevo tanta contraddizione. Continui cambiamenti di punti di vista e di sentimenti, voglio dire…”.

 

“Avete litigato?”.

 

Più o meno, ma solo gli ultimi due giorni. Abbiamo alzato la voce, ma non ci siamo accusati di nulla in concreto, né ci siamo detti di odiarci o di andarcene al diavolo. La solita…”, mi interrompo, perché risulta penoso dire quella parola, indifferenza, riesco a completare, forzandomi.

 

Mia madre sospira ancora, come se stesse trovando le parole adatte a rispondermi. È troppo sincera per mentirmi o per rassicurami circa il comportamento standard di mio padre. E io non mi aspetto che lo faccia. Odio chi cerca di banalizzare gli eventi con delle frasi retoriche. Rimane quindi in silenzio, continuando a guardarmi dispiaciuta per non riuscire a sollevarmi il morale.

 

“Non voglio che tu pensi che sia andato a Cedar perché senta la sua mancanza, mamma. O far intendere che tu non mi abbia amato abbastanza… non è mai stato così. Tutto il contrario, te lo assicuro. È solo che non riesco a capire perché si comporti così, è la sua indifferenza che mi ferisce non la sua non presenza. Io e te abbiamo vissuto sedici mesi lontani quando ero in Nuova Zelanda, eppure ho avvertito il fatto che tu ci fossi, sempre, sebbene solo dall’altro lato del telefono e non accanto a me fisicamente. Parlo di interesse ed affetto, non di chilometri vicino o lontano”.

 

Debbie annuisce comprendendo quello che voglio dire. Il fatto che non abbia dato un’interpretazione sbagliata al mio ritorno a Cedar è quasi un sollievo. L’idea che avrei potuto ferirla in qualche modo non mi aveva sfiorato nemmeno per un attimo, così preso a non rispondere ai suoi tentativi di comunicazione come ero.

 

Da perfetto coglione, mi accorgo solo ora che devo averle fatte preoccupare e adesso, ancora di più, facendomi beccare in questo stato fisico, ma soprattutto emotivo, prossimo al collasso. È ovvio che abbiano capito dove diavolo sia andato a finire. Tutto quel voler nascondere è risultato più eloquente di ogni possibile spiegazione.

 

“Ero inquieta. Pensavo che fosse successo qualcosa di… peggiore”, risponde a questo punto lei, come dosando le parole.

 

Avrei quasi voluto fosse stato così. Almeno ci sarebbe stato un distacco netto. La situazione rimane invece pressoché immutata e molto più difficile a sostenersi”, dico, portandomi una mano alla bocca, pronto a distruggere quel mezzo centimetro di unghia che è ancora su ogni dito.

 

Lijah…”, mi richiama lei indicandomi con un gesto del capo quello che sto facendo. Non riesco però a smettere e devo mostrare una qualche espressione particolarmente disperata, senza che lo voglia davvero, perché vedo che il suo sorriso di ammonimento, volto a prendermi in giro bonariamente, scompare lasciando il posto ad una maschera di preoccupazione ed amarezza. “Lij…”, ripete abbracciandomi stretto, senza che mi renda conto di aver ricambiato a mia volta, appoggiando la fronte sulla sua spalla e lasciando che mi accarezzi la schiena come è solita fare quando io e Hannah crolliamo miseramente davanti a lei, necessitando il suo sostegno.

 

Mi sento come un ragazzino di cinque anni alle prese con una qualche delusione che sembra insormontabile, ma quel cullarmi affettuoso e silenzioso, mi permette di controllare quella valanga di emotività che tentava di venire fuori sotto forma di lacrime di delusione che riesco così a cacciare indietro, nascondendo quelle che nell’ultimo minuto avevano reso la mia vista sfocata e tremolante.

 

Sento la sua tempia premuta contro la mia testa e il suo respiro ronzarmi dolcemente vicino l'orecchio. Non so come ci riesca, ma aiuta a calmarmi, come il ritmico modulare di una qualche ninnananna. Quei respiri regolari… rilassati e sereni.

 

Mi sono sentito spesse volte chiedere perché vivessi ancora a Los Angeles con lei o quantomeno così vicino a lei. Ed io mi sono sempre chiesto di rimando, perché me lo chiedessero oppure che diavolo ci fosse di strano. Forse lo è visto dall’esterno, ma lei ed Han sono la mia vera famiglia, le persone con cui sono cresciuto giorno dopo giorno. L’esperienza dell’appartamento a NYC è stato un mezzo fallimento, visto che stavo pagando solo l’affitto senza viverci davvero, ma non posso farci nulla se per via del mio lavoro la California risulta molto più centrale del New Jersey. Sono stato preso in giro da Jay perché è lei ad occuparsi ancora delle mie lavatrici e altre situazioni da sit-com simili, ma ci ho riso su anche io. Lo so che è patetico da un certo punto di vista, per via delle battute sul porn and chocolate oppure di nuovo sulla biancheria, quando mi sono sentito chiedere se avessi riportato a casa un carico per la lavatrice equivalente a sedici mesi di abiti smessi e in attesa di essere lavati, ma so con certezza che nessun'altra persona in questo momento avrebbe potuto capirmi così al volo, senza troppi giri di parole. Di solito lo fanno anche i miei migliori amici, ma questa è una questione troppo privata, della quale parlo rarissimamente. Ho bisogno di lei in una parola. Ed eccola qui a prendersi cura di me.

 

“Vuoi che ti prepari un bagno?”, mi chiede scompigliandomi i capelli e sollevandomi il volto per guardarmi direttamente. C’è ancora qualche traccia umida sulle mie guance, che provvede ad asciugare con le mani, senza accennarvi minimamente.

 

“No”, nego grato per quella sua discrezione. “Tornerò nella guest-house e mi farò una doccia lì”.

 

“Come vuoi”, annuisce allora sorridendomi dolce e stampandomi in bacio sulla fronte. “Io esco", mi annuncia, come chiedendomi se voglio che rimanga ancora qui con me.

 

Mi dico che è meglio che inizi di nuovo da capo, come mi ha suggerito lei in precedenza e cerco di scrollarmi addosso il torpore, organizzando mentalmente le prossime ore. Annuisco allora, prendendo in mano il vassoio e riportandolo in cucina, per poi seguirla fuori casa, prendere la valigia che era ancora in macchina ed entrare nel mio appartamento.

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Capitolo 9
*** Jumbled up ***


Chiedo scusa per il ritardo atroce con il quale pubblico l’ultimo capitolo, ma per una serie di complicazioni non ho potuto farlo prima

Chiedo scusa per il ritardo atroce con il quale pubblico l’ultimo capitolo, ma per una serie di complicazioni non ho potuto farlo prima. So che questo è stato un po’ il leit-motiv di tutta la pubblicazione, ma vi assicuro che non è dipeso da me.

Come sempre, grazie per i commenti, le e-mails, i complimenti e anche le ‘critiche’ (non c’è nessun bisogno di scusarsi, hika86. De gustibus, no?) Tutto aiuta a migliorarsi. Vi lascio con l’ultimo capitolo, dunque.

 

Buona lettura e ancora grazie a tutte :) (Suni, sono lieta che tu abbia trovato la storia realistica :D).

Neeva

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~ Capitolo nove ~

Jumbled up

 

Mom…”.

 

Hey…”, Debbie si volta, distogliendo così lo sguardo dalla stessa rivista del mattino.

 

“Scusa…”, dico soffocando una risata.

 

HmphLij, se non vuoi che compri niente da questo catalogo, faresti bene a dirmelo anziché rompermi ogni due secondi!”, sbotta lei fingendosi esasperata e inarcando un sopracciglio con fare interrogativo.

 

Io continuo a ridere di fronte a quell’espressione. “Buon pomeriggio anche a te”, la prendo in giro abbassandomi e baciandola su una guancia.

 

Mmh… ritenta”, ribatte lei ancora finto inflessibile.

 

“Stai abusando della mia dose di carinerie quotidiana, Debbie”, sottolineo guardandola falsamente truce.

 

“Ci ho provato”, si stringe lei nelle spalle, prima di abbagliarmi letteralmente con un sorriso dei suoi. “Ti trovo meglio, sweetie”, mi dice arruffandomi i capelli che ho cercato di sistemare dopo la lunghissima doccia che mi sono concesso.

 

“Mamma…”, brontolo rassegnato, ma trattenendo un sorriso, mentre le do le spalle e prendo del succo d’ananas dal frigo.

 

“E’ un complimento, Elijah”, dice lei.

 

“Lo so”, ricambio il sorriso, prima di bere un sorso.

 

“Sei a secco di provviste?”.

 

Mmh?”.

 

“Sei venuto a bere qui”, si chiarisce indicando il cartone ancora aperto e appoggiato sul ripiano.

 

“Sono venuto per te”, ribatto.

 

Ed è qui che la vedo illuminarsi. Non so a che ora sia rincasata. Forse mezzogiorno.

 

Quando sono rientrato nel mio appartamento, ho aperto subito tutte le imposte e mi sono svestito, abbandonando gli abiti lungo il percorso, per entrare nel box-doccia. Mi sono sentito un po’ meglio dopo. Almeno lo sporco del giorno precedente e parte della stanchezza sono andati via cancellati dal sapone e risucchiati nelle tubature, insieme allo stesso getto d’acqua tiepido. Con indosso l’accappatoio, chiuso da un nodo approssimativo in vita, mi sono rasato, notando che un po’ delle occhiaie erano scomparse. Lo stomaco non mi faceva male come nei giorni passati, parte della tensione latente era andata altrettanto via.

 

Mi sono vestito prendendo una t-shirt a caso dall’armadio e poi un paio di jeans sdruciti. A piedi scalzi ho percorso la strada verso l’ingresso, raccattando i vestiti per terra, e sono andato in ripostiglio mettendo su una lavatrice, con alcuni degli abiti che non ho fatto in tempo a lavare a Cedar. Insomma, capita a volte che me la faccia anche io.

 

La casa è in ordine, se si eccettuano i CD sparsi sul tavolo del salotto e un paio di copioni che sto visionando, sottolineati qua e là. È così che di solito li studio. Evidenziando le parti che mi convincono con un colore e quelle che invece mi lasciano perplesso con un altro. Al momento questi due mi sembrano piuttosto buoni. Non li ho portati appresso con me e non li riprendo in mano da almeno dieci giorni. Coleen, la mia agente, non mi ha contattato in questo arco di tempo, rispettando il mio volere, ma suppongo che riceverò una sua telefonata tra oggi e domani.

 

Mettendo su un CD di Miles Davis, mi dico che ho ancora del sonno arretrato da smaltire e così, lascio le persiane aperte a metà, creando un specie di penombra, e mi stravacco sul divano del salotto. Mi sono alzato verso le quattro del pomeriggio, finalmente riposato e senza nessuna brutta morsa alla bocca dello stomaco. Credo mi abbia fatto bene parlare un po’ con Deb, almeno per alleggerire parte dell’angoscia ed esternare ad alta voce i miei dubbi. Mi piacerebbe essere su un’isola deserta e gridare così a squarciagola, nulla di particolare, solo gridare, in maniera liberatoria, magari riuscirei ad archiviare del tutto così gli ultimi otto giorni.

 

Il frigo è parzialmente vuoto, così bevo solo dell’acqua. Devo fare la spesa, forse Han avrà voglia di accompagnarmi. Vado di là a chiederglielo, mi sono detto, ed è così che infilate un paio di sneakers al volo, esco di casa. I fiori nel giardino stanno sbocciando. Anzi, molti lo hanno già fatto. Molti roseti anche qui. A distanza di una settimana mi trovo di fronte un angolo della casa notevolmente diverso. Ieri sera non ci avevo fatto caso. Neanche stamattina a dire il vero, ma ho come la sensazione che mia madre abbia finito da poco di metterlo a posto.

 

“Hai fatto un bel lavoro in giardino”, le dico, infatti, versando anche a lei un bicchiere di succo, tornando al presente.

 

“Grazie. Piace anche a me. Ho cambiato i vasi ai roseti, aggiunto della terra e modificato un po’ la disposizione”.

 

Dov’è Han?”, chiedo a questo punto. “A dirla tutta c’è poco e niente in casa… piantala di annuire e farmi quella faccia alla te lo avevo detto io”, la ammonisco facendole una smorfia. “E volevo portarla con me a fare compere. È una patita del genere, non dovrebbe darmi buca”.

 

“Credo di no. È tornata esaltata dall’incontro con l’iguana, ma sorprendentemente non ha cominciato a blaterare di volerne portare una in casa”.

 

“Magari ha anche lei un po’ di sale in zucca…sorprendentemente”.

 

Lij…”, mi guarda lei soffocando un sorriso. “Non è carino quello che dici di Hannah”.

 

“Lo so”, confermo, rimettendo il succo in frigo e uscendo in cerca della mia pestifera sorella. “Hey, Han…”, la chiamo affacciandomi dalla porta finestra.

 

Elijah…”, mormora lei rispondendo al saluto, con un sorriso che mi sembra un po’ tirato sul volto truccato leggermente dal mattino.

 

“Tutto bene?”, le chiedo sedendo sulla poltroncina di fronte a lei, al di là del tavolinetto sul quale ci sono le sue cose. Una specie di diario sul quale spicca la sua calligrafia.  Non mi risponde, e la vedo distogliere lo sguardo. “Han?”, ripeto sorpreso di trovarla così giù di morale. Di solito rientra in casa sempre al massimo dell’eccitazione dopo aver passato delle ore con quell’esaltato, appunto di Jack e compagnia. Questo atteggiamento non è affatto da lei invece.

 

Hannah ama le arti e la letteratura. È tanto eccentrica quanto poetica; scrivere poesie, infatti, è una delle sue passioni. Forse è in piena fase creativa e le sto dando fastidio interrompendo che so, magari l’immedesimazione che sta cercando di portare avanti.

 

Rimango così in silenzio, osservandone il volto e lo sguardo lontano a vagare sul moto dell’oceano. Prendo una sigaretta dal suo pacchetto e l’accendo iniziando a fumare senza proferire parola.

 

Dopo un po’ è lei a rivolgermi la parola. “Come ti senti, Lij?”, chiede con un sorriso un po’ più convincente sul viso.

 

La scruto alla maniera di mia madre, vale a dire fisso e in profondità, in un modo che mi mette sempre a disagio e che so mette anche lei a disagio, ma che è superefficace per far emergere in superficie quello che non va o si cerca di nascondere. “Io meglio”, rispondo un po’ lapidario e senza troppo calore nella voce. “Tu come stai?”, puntualizzo sul tu.

 

“Uh… bene. Mi sono divertita con Jack”.

Sguardo vago e titubanza iniziale.

Equivalgono a bugia nel mio vocabolario.

Mi riferisco al fatto che stia bene.

 

“Ti sto dando fastidio, Han?”, chiedo spegnendo la sigaretta.

 

“No…”, nega lei con espressione sorpresa sul volto, mentre si accende quella che sarà la quindicesima paglia del pomeriggio, in base al numero di mozziconi spenti nel portacenere. È troppo. Anche per lei che è una discreta nicotinomane.

 

Osservo che le mani le tremano un po’, mentre tiene la sigaretta. Che accidenti le è successo? Mi ripeto avvertendo ora nettamente la sua difficoltà. È diventata pallida sotto il trucco. La t-shirt rossa che indossa rende il contrasto ancora più netto, mentre i capelli biondissimi, sembrano un tutt’uno con quel pallore evidentemente innaturale.

 

“A me non sembra”, le dico senza muovermi dalla poltrona. “Stai tremando, Han. Che diavolo è successo?”, sbotto privo di gentilezza e fissandola direttamente negli occhi.

 

“Niente…”, mi ripete negando e stringendosi nelle spalle, come incapace di dirmi cosa le sta passando per la testa e nient’affatto confortata dal mio tono di voce. “Davvero, Lij. Tecnicamente… non è successo niente”.

 

Tecnicamente? Non capisco, Han”, dico addolcendo la sfumatura dura usata in precedenza.

 

Sono solo pensieri”.

 

Che tipo di pensieri?”, insisto maledicendo la mia invadenza, ma voglio aiutarla.

 

Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale la pena farne una tragedia…”, mi dice spegnendo la sigaretta fumata per metà e passandosi poi un braccio sugli occhi lucidi. Neanche questo è normale. Hannah non è una da cedere facilmente alle lacrime.

 

Rimango in silenzio cercando di capire cosa abbia voluto dirmi e poi all’improvviso è un pugno in pieno stomaco che mi toglie il respiro.

 

Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale la pena farne una tragedia…

 

Mi riconosco in quello che ha detto. E l’argomento non può essere che uno. Anche io lo liquido così la maggior parte delle volte.

 

Hannah…”, la chiamo allora vedendola piangere, praticamente senza emettere un fiato, mentre si alza e afferra il ferro della ringhiera con violenza, le nocche delle mani bianche e lo sguardo rivolto ancora una volta all’oceano. Non riesco a vederla così, mentre mi dà le spalle, cercando di non farmi ripiombare a mia volta in quel tipo di pensieri. “Hey… andiamo, Han”, le mormoro con una nota di preoccupazione a farmi incrinare la voce, prima adamantina e senza nessun’inflessione riconducibile a debolezza.

 

Questo la fa voltare e guardarmi come se si sentisse in colpa. “Scusami, Lij… davvero… ma… lo odio… lo odio… odio l’idea che sia completamente disinteressato a noi… odio l’idea che possa dimenticarci come se non fossimo niente per lui…”, mi dice guardandomi in volto e mostrandomi per un attimo i suoi occhi incupiti dalla rabbia.

 

Han…”, mormoro ancora sfiorandole una delle mani strette come una morsa. “Non c’è niente di cui scusarsi”, le rispondo accarezzandole una guancia umida di lacrime e accennando un sorriso triste.

 

“Sì invece. Accidenti, Lij! Tu sei tornato distrutto da Cedar e stai cercando di dimenticare e io sto qui a comportarmi da idiota… dicendoti quanto odi nostro padre, come fosse una novità. Mi dici come può esserti d’aiuto questo?”, mi chiede arrabbiata, ma con se stessa, lo so bene, e le mani di nuove chiuse a pugno, sebbene adesso le braccia siano abbandonate lungo i fianchi.

 

“Mi dispiace, Han… suppongo che se avessi finto meglio ieri sera adesso staremmo ridendo al tuo racconto sull’iguana di Jack”, dico con lo stesso sorriso mesto sul volto, forse appena più allegro e per questo ancora più insopportabile.

 

“Sei un’idiota, Elwood. Il mio era un discorso serio”, ribatte lei con quella stessa fiamma distruttiva negli occhi, ma con il corpo più rilassato.

 

“Mi dispiace...”, ripeto, abbandonando ogni tentativo di risollevarle il morale, essendo il mio piombato di nuovo ai minimi storici ed abbracciandola con dolcezza. La sento ricambiare subito, mentre le lacrime continuano a scenderle silenziose sul volto. “E’ una situazione penosa, Han… ma non è colpa nostra”, le dico accarezzandole i capelli e sentendomi all’improvviso infelice e incredibilmente vuoto. Come se l’atmosfera densa e pesante di Cedar si fosse trasferita all’improvviso qui, in quella che in teoria è la sorridente California. Già… non oggi a quanto sembra.

 

Capisco Hannah. Completamente e so che lei ha sempre affrontato la questione Warren Wood con molta più rabbia di me. In una scala ideale, lei sarebbe al primo posto, io al secondo e Zach al terzo. Tre atteggiamenti per affrontare un’unica questione in sospeso e che potrebbe benissimo trascinarsi così per tutta la vita. Lo è stata a lungo, nulla al momento indica che potrebbe cambiare in positivo. Mi chiedo poi se sarebbe del tutto immune da strascichi. No, sono onesto con me stesso. Azzerare tutto è un’impresa impossibile.

 

Sento il mio corpo irrigidirsi per la tensione, senza che possa fare nulla per evitarlo e fallendo penosamente nel tentativo di rilassarmi. Avverto allora le mani di Han accarezzarmi la schiena, come ad aiutarmi. Il fatto che sia diventato una specie di statua colma di rabbia allo stesso modo, non le è passato inosservato.

 

La tengo così stretta a me a lungo, anzi è meglio dire che lo facciamo reciprocamente. È questo quello che intendevo. Ci siamo l’uno per l’altro nei momenti che contano. Ciò non vuol dire che abbiamo poteri magici, io avverto ancora nettamente la frustrazione per questo lato della mia esistenza, ma almeno ci si sente meno soli, supportati da persone che farebbero letteralmente di tutto per te, e tu per loro.

 

Spero che Zach venga qui per il fine settimana. Vive a San Diego normalmente, ma torna a Los Angeles spesso, un paio di weekend al mese. Ho voglia di parlargli, sentirmi prendere in giro e di giocare al fratello minore sfigato, stupendomi della sua inquantificabile saggezza. Adesso però sono io il maggiore ed Hannah ha bisogno di uno sfogo che sto cercando di conciliare nel miglior modo possibile.

 

Dopo un po’ è lei a staccarsi e guardarmi sollevando appena il mento. Sì, sono più alto di lei. Almeno questo… mi sorride asciugandosi le lacrime e rispondo allo stesso modo, continuando a tenerla abbracciata.

 

“Devo essere un disastro… voglio dire il mascara sciolto e tutto il resto…”, butta lei con una smorfia a renderla simpatica.

 

“Beh… non più del normale”, la prendo in giro guardandola uccidermi con lo sguardo e pizzicarmi dietro la schiena, in maniera feroce.

 

“Questa me la paghi”, la minaccio, allontanandomi istintivamente per via del dolore, vedendola continuare ad asciugarsi le lacrime con le mani, mentre continuano a cadere, nonostante stia ridendo.

 

“Non ci penso proprio”, nega lei dirigendosi circospetta in direzione del divano e cercando un fazzolettino per rimediare al disastro.

 

È un’immagine che mi fa ridere.

Possibile che le donne si preoccupino del loro aspetto fisico praticamente in ogni situazione?!

 

“Puoi continuare con la mia maglietta”, le dico avvicinandomi e facendole notare la macchia di bagnato mista a mascara blu e ombretto sulla stessa tonalità, spiaccicata sul tessuto immacolato della mia t-shirt.

 

“Oddio…”, sorride lei. “Non me ne ero accorta, Lij… davvero. Scusa…”.

 

“Andiamo Han, basta con le scuse”, le dico sedendo a mia volta sul divano. “E’ un’offerta da cogliere al volo. Sai quante ragazze vorrebbero essere al tuo posto?”.

 

“Oh… tantissime immagino, sex-god”, mi guarda di traverso, trattenendo un sorriso.

 

“Esattamente…”, annuisco.

 

“Diventerà un casino”, nega lei indicando la maglietta di cotone.

 

“Lo è già. E poi è vecchissima, sis. Nessun problema”.

 

Se è così allora…”, la vedo annuire con un luccichio malizioso negli occhi. “Posso anche soffiarmici il naso, Lij?”, inquisisce giocando all’innocentina.

 

“Provaci e ti spedisco da Jack e la sua iguana”, tuono velenoso, mentre sento che mi abbraccia di nuovo, sorridendo e strofinando il muso contro la mia t-shirt.

 

“Si chiama, Tricksy”, mi dice tornando a guardarmi, apparentemente meno angosciata di prima. L’umore si sta piano piano risollevando.

 

We wants it, we needs it. Must have the Preciousss. They stole it from us. Sneaky little hobbitses. Wicked, tricksy, false!”, recito automaticamente una battuta di Andy Serkis/*.

 

“Esattamente”, annuisce lei. “Abbiamo recitato quella frase come in preda al delirio in quel negozio”.

 

“E non vi hanno cacciato fuori a calci?!”, chiedo mentre l’immagine di lei e Jack in preda all’allucinazione mi si dipinge come più che plausibile nella testa.

 

“No, Lij. Ci hanno riconosciuto. Jack ha la fama di essere un tipo particolare ed io sono la sorella di un famoso attore, nonché protagonista de Il Signore degli Anelli, quindi sono autorizzata a ripetere le battute del copione quante volte voglio. Ti ho mai parlato di lui? Lo chiamiamo Elwood, anche se io preferisco Monkey, mi sembra più adatto”, butta lì con la sua faccia di bronzo.

 

Ma davvero? Ti ho invece mai parlato di mia sorella? La chiamiamo Plague oppure Typhoon a seconda il grado di nocività che irradia”.

 

“Un tipino calmo”.

 

“Assolutamente. Una specie di monaca”, confermo con un’alzata di sopracciglio beffarda, facendola sorridere spontaneamente.

 

 

 

Hey… sembrate divertirvi”, dice mia madre sbucando all’improvviso e raggiungendoci con in mano un vassoio con tre coppe colme di macedonia.

 

 “Sì”, annuisce subito Han, sorridendo e prendendo uno dei recipienti.

 

“Tu non ne vuoi, Lij?”, mi chiede allora Debbie porgendomi la mia coppa. Ananas, fragole e qualcos’altro che al momento non riconosco. Forse pesca. La vedo corrucciare il viso per una frazione infinitesimale, quando i suoi occhi cadono sull’esempio di arte moderna che spicca sul cotone prima immacolato della maglietta.

 

Hannah ha sperimentato una nuova tecnica di pittura su tessuto”, le rispondo con un’occhiata di intesa. La vedo riprendersi al volo e sorridere poi a Han, che nel frattempo ha sollevato il volto dalla propria merenda.

 

“Sembra… interessante”, si salva in corner Deb, prendendo a sua volta una coppa e mangiando la sua macedonia.

 

Per un po’ stiamo in silenzio, anche se ho l’impressione che ci stiamo comunque raccontando quello che è accaduto qualche attimo prima. Empatia viene chiamata. So per certo che è un qualcosa che esiste. E non una parola sterile come quelle che ho sentito nominare innumerevoli volte senza trovarne mai un corrispettivo nella realtà sensibile.

 

I sentimenti risultano sempre più concreti di quello che concreto è per definizione.

Suona come un paradosso, ma ha un suo fondo di verità scientifica.

 

“A proposito, Lij…” chiede poi mia madre. “Questa mattina sono arrivati tre pacchi da Cedar, con un corriere a domicilio. Il mittente sei tu o sbaglio?”.

 

“Sì. Li ho spediti io”.

 

Hannah si irrigidisce al mio fianco, ma al contempo sento il suo sguardo curioso su di me.

 

“Non so che dirvi. È qualcosa che ho trovato a… casa”, articolo inghiottendo con difficoltà. “A me ha fatto piacere e visto che riguarda anche Han, ho pensato che potesse interessarle”.

 

“Sono per me, Lij?”, chiede mia sorella mettendosi in piedi e poggiando eccitata la coppa vuota sul tavolino, che rischia quasi di rotolare a terra.

 

“Due di loro”, le dico afferrandola al volo, registrando nel frattempo lo sguardo inorridito di mia madre. Nessun dubbio, infatti, che si sarebbe sfracellata rovinosamente a terra, sotto l’indifferenza incredibile di mia sorella in questo momento. “Uno è mio”, sottolineo.

 

“D’accordo… mi sembra giusto”, annuisce lei, pregandomi con lo sguardo di muovere il sedere ed andare a vedere di cosa si tratta.

 

“Sono piuttosto pesanti, Elijah”, interviene Deb, trattenendo un sorriso. “Il povero corriere per poco non rimaneva bloccato da un colpo della strega alla schiena”.

 

“Lo so. È stato un casino imballarle, ma il corriere dell’agenzia che ho contattato è venuto a domicilio, così nulla di più semplice. È stato lui a trasportarle”, spiego con un sorriso.

 

“Schiavista”, butta lì Hannah scuotendo la testa.

 

“Ha avuto il suo bel compenso. Non l’ho sfruttato”, puntualizzo.

 

“Sì, come no. E la sua povera schiena? Ho sentito di un caso fulminante di colpo della strega in Iowa all’inizio della settimana, vero mamma?”, continua lei tra lo scettico e l’ironico.

 

“Non erano due?”, le tiene il gioco l’altra, in un’ideale alleanza contro il sottoscritto.

 

“Dai andiamo”, dico alzandomi praticamente spintonato da Han.

 

“Sono in salotto Lij. Non ci hai fatto caso questa mattina”.

 

In salotto?

Uh… ero più che rincoglionito appena sveglio, a quanto sembra. Avessi incontrato un elefante seduto a tavola facendo colazione con una tonnellata di noccioline, credo che lo avrei salutato come niente fosse…

 

Guardo Hannah, mentre traffica con forbici e taglierini vari per avere la meglio sull’imballaggio. Sembra la curiosità in persona, ma mi chiedo all’improvviso se abbia fatto bene a spedire il tutto qui. In fondo è l’esempio più evidente di un passato che ci vede protagonisti di un conflitto perenne, ogni volta che torna in superficie.

 

Le sue esclamazioni di sorpresa invece prendono a riempire la stanza tra un grido ed un altro. Il volto è raggiante e divertito, nonché stupito man mano che sfilano davanti ai suoi occhi i quintali di bambole, vestitini e peluche racchiusi nelle due scatole indirizzate a lei.

 

“Mamma, guarda… Lij… oddio, non mi ricordavo proprio di avere questo bambolotto”.

Commenti simili si alternano, facendomi sorridere.

Sembra che la mia sorpresa stia riuscendo in pieno.

Anche Deb appare sorpresa positivamente, osservando i giochi e i disegni che aveva fatto sulla superficie cartacea.

“Questa sarei io?”, chiede, infatti, Hannah indicando la bambinetta che la rappresenta. Mia madre annuisce, mentre prende a raccontarle i dettagli di quel pomeriggio che io ricordo benissimo.

 

Hannah aveva solo tre anni. E’ plausibile che non ricordi nulla invece. Mi tengo un po’ a distanza, semplicemente sollevato dal fatto che sembrino tutte e due allegre e che abbiano abbandonato almeno per qualche minuto il clima denso di riferimenti poco piacevoli che aleggiava in veranda meno di un attimo fa.

 

Hannah prende a scartare anche il mio di pacco, ridendo di fronte al ragazzino disegnato a mano e prendendomi in giro. “Sei proprio tu, Elwood. Nulla da dire. Occhi giganti…”.

 

“…sorriso da sdentato…”, aggiunge maliziosamente mia madre e con la consueta nota di dolcezza. Quel rimarcare ti voglio bene, all’infinito che mi fa sorridere a mia volta, sorpreso in continuazione da quanto affetto sia capace di dare Deb. Tantissimo. Sempre. In qualsiasi circostanza.

 

Hey, eri già un patito di Star Wars a cinque anni?!”, commenta Hannah di fronte agli album di figurine e alla miniatura di Leia. “Dov’è Luke?”, chiede poi continuando a frugare tra i miei, sottolineo miei, giocattoli come fossero suoi.

 

Il suono del telefonino, mi fa distogliere gli occhi da quella scena confusionaria e piena di esclamazioni di sorpresa e prese in giro a mio indirizzo, si capisce. Il cellulare è il mio. Non ricordavo di non averlo portato nell’altro appartamento, anzi ne avevo proprio dimenticato l’esistenza.

 

Lo afferro evitando che cada a terra… stupida vibrazione, e mi siedo su un bracciolo del divano, continuando comunque ad osservare Hannah e Debbie, intente a catalogare le varie Barbie che sono riemerse dal passato. Non so chi delle due sia più entusiasta.

 

“Sì?”, rispondo alla chiamata.

 

Elijah”, risponde la voce allegra della mia agente.

 

Coleen, ciao”.

 

“Tornato a casa?”.

 

“Ieri sera”.

 

“Com’è andata la vacanza?”.

 

“Diciamo… uh… che ce ne sono state di migliori…”.

 

“Speravo di trovarti un po’ meglio”.

 

“Sto bene, solo qualche pensiero che mi sta distruggendo il cervello”.

 

“Non devi parlarmene, Lij. Sono certo non ne abbia nessuna voglia”. È l’intuito unito al tatto che ammiro particolarmente in lei. Ne fa uso in continuazione e, anche questa volta, non si smentisce.

 

“Grazie, Lee. In effetti, se posso archiviarlo quanto prima è meglio”.

 

“Parliamo di… impregni improrogabili allora…”, ride mettendomi a mio agio.

 

“Sì… cosa bolle in pentola?”.

 

E così la sento spiegarmi praticamente il programma dei miei prossimi quindici giorni. Continuo a sorridere dell’immagine ludica di Han e Debbie affascinate da quei cimeli, mentre con la testa registro gli elementi focali del suo resoconto.

 

Dunque

 

New York.

Tribeca Festival.

Seconda proiezione di Hooligans dopo la prima al SXSW. 

 

Si ritorna al lavoro…

 

“D’accordo, Lee. Ci vediamo in aeroporto allora”.

 

“Perfetto Lij. Ci incontriamo al solito cafè. Buona serata”.

 

 

Chiudo la comunicazione e dopo vari tentativi riesco a far distogliere l’attenzione di Hannah dai suoi giochi, senza risparmiami di prenderla in giro e le chiedo se le va di uscire a fare la spesa. Mi dice di sì, chiedendomi cinque secondi per il trucco, come negarglielo, mentre io torno a casa per cambiarmi la maglietta e prendere le chiavi della Mini.

 

Inutile dire che mi fa aspettare dieci minuti e la vedo correre trafelata, inseguita da Rascal e Levonne, per poi saltare in macchina e mettere del lucidalabbra utilizzando lo specchietto del sedile passeggero. Facendo finta di ignorare questa sua mania, faccio retromarcia e apro il cancello.

 

Automaticamente metto su un CD. Stiamo un po’ in silenzio, nessuno dei due ha voglia di parlare ora che l’eccitazione per i giocattoli è passata e i ricordi tornano ad essere i macigni che sono sempre. Vorrei dirle che forse non siamo stati dimenticati e che non lo saremo mai. Del resto quei giocattoli ne sono la testimonianza, no? Io so anche del canestro e del televisore… ma non riesco a convincere me stesso. Figurarsi se ci riuscirei con Hannah

 

La strada sfila veloce davanti agli occhi e le luci della sera brillano in quantità indefinita. Los Angeles e i suoi boulevard sono famosi anche per questo.

 

Da Mellon Collie and The Infinite Sadness, sfilano delle canzoni bellissime che sono state colonna sonora della mia vita a lungo e che sembrano esserlo ancora .

 

 

The useless drag of another day/ The endless drags of a death rock boy/ Mascara sure and lipstick lost/Glitter burned by restless thoughts Of being forgotten/ And in your sad machines/You’ll forever stay/Desperate and displeased - with whoever you are/And you’re a star/Somewhere - he pulls his hair down - over a frowning smile/A hidden diamond you cannot find/A secret star that cannot shine over to you


May the king of gloom be forever doomed/And in your sad machines/You’ll forever stay/Burning up in speed/Lost inside your dreams, of teen machines/The useless drags, the empty days/The lonely towers of long mistakes/To forgotten faces and faded loves/Sitting still was never enough/And if you’re giving in, you’re giving up/’cause in your sad machines/You’ll forever stay/Burning up in speed/Lost inside the dreams of teen machines

 

 

Una canzone che ci fa riflettere, ancora in silenzio, concentrati entrambi su quel pensiero logorante.

Ci vorrà del tempo primo di tornare ad accantonarlo e pensare di nuovo con indifferenza a quanto ci ha fatto cedere entrambi, senza che potessimo opporci.

 

Svolto in direzione di Santa Monica e parcheggio di fronte al solito 7-11/**.

 

James mi saluta con l’abituale calore: “Lij, man. What’s up?” e rimango a fare due chiacchiere con lui nei pressi della cassa, mentre Han gira per i vari reparti riempiendo uno di quei cestini che si trovano normalmente nei supermercati. La raggiungo dopo qualche minuto, trovandola indecisa di fronte lo stand con i biscotti per la colazione. Quasi sgomento vedo che il cesto è pressoché vuoto. Hannah ama comprare cianfrusaglie, il fatto che abbia solo preso del succo di frutta e degli yogurt fino ad ora, mi suggerisce il fatto che nonostante abbia gradito la sorpresa dei pacchi, l’umore più privato non è cambiato per nulla da quando eravamo in veranda. Trattengo a stento un sospiro di frustrazione e provvedo a comprare le cose di primissima necessità. Del resto ripartirò tra tre giorni, non ha senso riempire la dispensa per lasciare le cose lì ad ammuffire. Chiedo ad Han se vuole qualcosa in particolare, ma nega con la testa, rimanendo silenziosa. Anche James la squadra, sorpreso di vederla così taciturna, mentre imbusta i viveri. Con un’occhiata eloquente gli faccio intendere che è un po’ giù e lui annuisce con sorriso di comprensione ed un’occhiata preoccupata in direzione di mia sorella.

 

Non so cosa provi Jamie per lei, ma spesse volte mi sono trovato a pensare che Hannah gli piaccia, sebbene non si sia mai fatto avanti o almeno che io sappia. La conosce di riflesso, nel senso che è mia sorella e mi accompagna spesso in giro, e non so cosa ne pensi lei di lui onestamente.

 

“Ci vediamo allora, J”, lo saluto prendendo in mano una delle buste.

 

“Ciao Lij. Vado al cinema questa sera. Ti dirò poi che ne penso di Sin City”.

 

“Vedi di non stroncarmi…”.

 

“Questo non dipende da me, ma da come hai recitato”, mi prende in giro ed ottenendo come risultato un sorriso disteso da parte di Han che mi guarda allo stesso modo, ironica.

 

“Andiamo, sis”, la invito prima che possa iniziare a criticarmi. Odio vedere i miei film con i miei familiari. Non c’è nulla di più imbarazzante. Un’esperienza allucinante, lo giuro. I loro commenti quando vogliono divertirsi a farmi a pezzi sono più che acidi, per quella legge alla quale mi riferivo  prima ed in base alla quale è meglio che ti stronchino prima in famiglia che altrove. Almeno sei preparato.

 

“Ciao James”.

 

“Ciao Han”.

 

Abbiamo preso a camminare lentamente una volta all’esterno.

 

Ciao JamesCiao Han…”, imito cinguettando, con un’espressione sognante nello sguardo, facendo voltare mia sorella. Quello che è sconvolgente è che anziché darmi del coglione, arrossisce, poco ma arrossisce, ed è solo per via dell’illuminazione artificiale dei lampioni che le guance appaiono appena rosate. Mi ritrovo allora un po’ senza parole. Non mi va più di prenderla in giro adesso. Insomma la giornata è stata abbastanza di merda e non è dell’umore adatto per rispondermi a tono.

 

Difatti non so se per il disagio o semplicemente l’umore sotto i tacchi con il quale è entrata nel 7-11, è tornata ad abbassare lo sguardo sul marciapiede, rimanendo praticamente muta.

 

“Un gelato, Han?”, mormoro allora a bassa voce, come se temessi di disturbarla. L’aria non è caldissima, ma un gelato in teoria non si rifiuta mai.

 

“Sì…”, annuisce tornando a guardarmi, uno sguardo un po’ confuso e forse colpevole negli occhi. Non so quanto c’entri Jamie in questo, ma quello che so è che non ce l’ho con lei per non avermi detto niente. Insomma non è che debba sentirsi obbligata a raccontarmi vita , morte e miracoli. La privacy è privacy. Le sorrido incoraggiante, facendole capire che è tutto a posto, che non me la sono presa, ed entriamo al Creamyland. La vedo avvicinarsi al bancone che mostra una quantità infinita di gusti e aspetto che ordini, riflettendo sul fatto che forse se mi trovassi io nella sua situazione, se cioè fossi interessato a qualcuna e non gliene avessi parlato un po’ colpevole mi sentirei, visto il livello di confidenza che abbiamo. Ma non posso sindacare sulle sue emozioni private o sulle sue scelte in quel senso. Io non vorrei che nessuno lo facesse a sua volta con me.

 

Dopo qualche attimo, la vedo voltarsi con una coppa media in mano, con tanto di panna e cialda biscottata per decorazione e, pagato il conto, usciamo di nuovo in strada. Non so perché non ci siamo rimessi subito in macchina dopo essere usciti dal 7-11. Forse avevamo voglia di stare un po’ all’aperto. Come se l’ambiente chiuso della Mini e Mellon Collie ci avessero un po’ soffocati.

 

Hannah è ancora silenziosa, ma vedo che sta mangiando coscienziosamente il suo gelato. “Ne vuoi, Lijah?”, mi chiede dopo un po’ indicandomi la coppetta. In altre occasioni l’avrei punzecchiata, dicendole che di solito una cosa si offre prima di averla finita per metà, ma adesso mi limito solo a scuotere il capo negativamente, sorridendole con dolcezza.

 

Mi fa male vederla così giù, quale che sia il motivo adesso. Ne scruto la figuretta magra e ben disegnata, coperta da un paio di pantaloni blu a vita bassa, una maglietta di cotone amaranto e poi un giubbotto di jeans, avvitato e solo parzialmente abbottonato. È carina e mi fa stranamente tenerezza.

 

Che c’è?”, la sento chiudermi all’improvviso, mentre si volta a guardarmi, un’espressione curiosa e interrogativa sul volto. “Ho del gelato in faccia?”, inquisisce gettando in un cestino la coppetta vuota e strofinandosi un dito con la mano, come a togliere una qualche goccia di gelato.

 

“No…”, nego trattenendo un sorriso. “E’ tutto a posto, Han”, la rassicuro, passandole un braccio intorno alle spalle e stringendola appena. Lei fa lo stesso allora, facendomi scivolare un braccio dietro la schiena e appoggiandomi la testa contro la spalla. Le sfugge un sospiro, ma più che di frustrazione sembra di sollievo, come se dimostrasse di aver trovato un qualche conforto. Le stringo allora ancora una volta le spalle, un po’ meno oppresso a mia volta, e continuiamo a dirigerci verso l’auto.

 

 

Il boulevard davanti a noi, illuminato da luci al neon e Los Angeles che si prepara ad un’altra nottata delle sue, sullo sfondo.

 

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/* Anche se è superfluo puntualizzarlo è l’attore che ha dato vita a Gollum /Sméagol

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