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HERE IS NO WHY Glitter burned
by restless
thoughts of being forgotten… ~
Capitolo 1 ~ The
Beautiful People/*
Il
marciapiede scorre fluido sotto i miei occhi. Un passo
dopo l’altro, tra pozzanghere di acqua fangosa. Alla mia
destra l’estensione
grigiastra del fiume Cedar, che si snoda come un serpente dalla pelle
iridescente. Scarpe di tela sdrucite ai piedi, quando sarebbe stato
più logico
indossare tutt’altro. L’Iowa
non è la Bassa California. Qui
piove frequentemente, copiosamente. L’avevo
dimenticato. Un
pesce fuor d’acqua, ecco quello che sono. Un
ottimo inizio, non c’è che dire. Ho
chiesto al tassista di fermarsi a metà strada tra
l’aeroporto e la destinazione finale della nostra corsa. L’auto
sembrava andare troppo veloce, mentre a me mancava
sempre di più il respiro. “Ha
l’ombrello? A breve
diluvierà…”, mi ha avvertito
l’uomo alla guida, un sessantenne dall’aspetto
cordiale. “Non
ha importanza”, ne ho liquidato i dubbi con una
mancia generosa, un ringraziamento e un saluto frettolosi. Se
il tassista mi ha riconosciuto deve aver pensato che
ero il solito eccentrico made in Hollywood. Gente strana gli attori, in
fondo,
no? La
destinazione di cui sopra corrisponde ad un indirizzo
urbano. Quello
di casa. O
meglio, di quella dove ho vissuto fino al trasferimento
in California. Siamo
a Cedar Rapids. È
qui che sono nato. Ed
è che qui che sono di ritorno. Il
volo da Los Angeles l’ho passato ascoltando una lunga
serie di playlist a tema, create da me nel tempo libero. Sono un
melomane che
asseconda senza vergogna la propria passione per la musica.
L’iPod che ho
sempre con me, e con il quale gioco a fare il DJ, lo dimostra
chiaramente. Il
paesaggio offerto dal
finestrino dell’aeromobile ha catturato più volte
la mia attenzione. Lasciato
alle spalle il deserto del Colorado, l’Iowa si è
palesato distintamente sotto
forma di campi di grano e frumento, intervallati qua e là da
vigneti coltivati.
C’è
turbolenza e accolgo con sollievo
l’annuncio dell’atterraggio ormai prossimo. Non
ho paura di volare, ma
sono agitato, consciamente ora, e desidero nient’altro che
stabilità sotto i
piedi. “Dove
la porto, signore?”. Prima
di rispondere, ho dovuto
riflettere per un qualche istante. Non
sull’indirizzo, che
ricordo perfettamente. Il
dubbio che mi assale
riguarda mio padre. Vivrà
ancora lì? Di
fatto non lo so e se si
fosse trasferito altrove, non saprei come cercarlo. Ammetto
di conoscere molto
poco Cedar Rapids o chi, suppongo e spero, la abiti ancora. Dopo
diciassette anni passati
a Los Angeles, credo di potermi ormai considerare un homie./** Rifletto
su tutto e niente
mentre cammino costeggiando il fiume. Ho
bisogno di una sigaretta
che accendo con gesti fin troppo collaudati. Musica.
Tabacco. Caffeina. Tre
droghe molto diverse tra
di loro e da cui sono allo stesso modo dipendente. Caffè
quando mi prendo una
pausa o studio per la prima volta con un copione. Nicotina
per calmarmi. Musica
sempre, per esprimere e
filtrare tutto il resto. Un
figlio alle prese con il
proprio padre. Perché
sono così nervoso? Passo
a salutarlo, vedere come
sta. Non
è un’abitudine per me, ma nemmeno
un’ascesa al
patibolo. E
allora perché rimango a bagnarmi sotto la pioggia
anziché essere già da lui? Forse
la natura del nostro rapporto, inesistente,
è
un buon punto di partenza per delineare questo ritratto di famiglia un
po’
sbiadito. La
decisione di tornare a casa è stata figlia di un
impulso. Dall’oggi al domani mi sono ritrovato a cliccare su
“conferma acquisto
volo” e ad essere ringraziato dalla compagnia aerea per
l’ottima scelta. Perché
proprio adesso? Perché
non un mese fa o un anno fa? Non
è normale non ricordare l’ultima volta in cui si
è
incontrato o sentito il proprio padre. Il
bisogno di vederlo ha reso perplesso me per
primo. Ancora
di più, quando ho realizzato che eravamo pronti al
decollo e stavo partendo senza aver accennato nulla né a mia
madre né a mia
sorella. Ho
un ottimo rapporto con entrambe. Credo
di poter dire che sanno tutto di me e viceversa. Di
sicuro non ho mai dovuto mentire sulla meta o le
motivazioni alla base dei miei viaggi. Questa volta però
è
diverso. Non
sono in volo per una destinazione esotica. Non
sto andando ad un concerto. Non
mi hanno invitato ad una festa esclusiva. Di
fatto, non so che diavolo stia facendo qui, a cento
metri dalla staccionata dell’abitazione che riconosco
immediatamente. Non
lo so davvero. Suppongo
di aver taciuto su Cedar Rapids perché so già
che sarà un fallimento. Il
genere di cosa da tenere per sé. Di
un granchio preso cinematograficamente parlando, sarei
il primo a ridere, coinvolgendo senza problemi mia madre, Hannah e Zach. Ma
qui si tratta di mio padre e il discorso cambia. Non
c’è nulla da ridere. Anche
il dolore altrui tornerebbe a galla alla minima
menzione di lui. È
troppo pericoloso. Che
sia tornato in Iowa, dopo il divorzio, è stata una
scelta concorde alle proprie origini, fatta da un uomo che ha sempre
amato
molto lo Stato in cui è nato. I ritmi di una vita con delle
certezze di fondo e
poca frenesia, poco rischio. Avevo
sei anni quando ci siamo trasferiti in California. Mia
madre credeva, dimostrando un’indubbia fiducia in me,
che potessi fare mia una qualche carriera artistica, magari in
pubblicità, e Los
Angeles era il luogo migliore per provarci. Vedevano
la vita in maniera diversa, i miei, per questo
la loro separazione non è stata sorprendente,
bensì il risultato di una
parabola personale discendente, influenzata da obiettivi e aspirazioni
in buona
sostanza opposti. La
gradualità delle circostanze, l’abitudine
all’assenza
di mio padre, man mano sempre più marcata…
è stato naturale considerare mia
madre come l’unico punto di riferimento solido nella mia
vita, proprio lei che
aveva abbandonato la concretezza dell’Iowa per il sogno
volubile della
California. Cinquanta
metri. Ho
le spalle completamente bagnate. Accelero
il passo. Il
quartiere è cambiato, gentrificato. Villette
a schiera su ambo i lati della strada. La
pavimentazione del marciapiede è interrotta in maniera
modulare da aiuole nel
mezzo delle quali si erge il fusto imponente dei cedri che ricorrono
nella
topografia cittadina. La resina cola lenta dalla corteccia, oggi come
allora.
Ne percepisco tutto ad un tratto l’odore. Attraverso
le strisce portandomi sull’altro lato del
viale. Numeri
dispari. Il
mio domicilio è appunto segnalato da una cifra
così. Venti
metri. Cammino
e registro attivamente dettagli vecchi e nuovi.
Ad esempio, cosa ne è diventato del primo piano del palazzo
in fondo alla
strada, vicino l’intersezione che conduce in pieno centro
cittadino. Un
tempo ospitava uno degli esercizi commerciali dei
miei. L’insegna
luminosa di un supermarket in franchising
testimonia che la nostra deli/***
non esiste più. Riaffiora
al palato il sapore
corposo dei sandwich al pastrami e quello piccante della torta al
rabarbaro. Passavo
i pomeriggi tra quegli
odori, la preparazione dei tanti cibi sul menù studiato da
mia madre, mentre
ero alle prese con i primi compiti di scuola, seduto al tavolo che dava
su una
piccola area giochi. Sono
ricordi che mi pesano
addosso come piombo. La
mano raggiunge d’istinto il taschino del giubbotto di
jeans, alla ricerca del bistrattato pacchetto di Clove,
ma freno l’impulso di accenderne un’altra. Sono
praticamente arrivato. Fradicio,
teso e con una grande voglia di mangiarmi le
unghie. Ho promesso ad Ellen/**** che avrei smesso, ma è un
vizio radicato. Ho
delle mani oggettivamente brutte: unghie cortissime e pellicine spesso
sanguinanti. Non c’è una sola persona che non se
ne sia accorta guardando “Il
Signore degli Anelli”. Sconfiggo
la tentazione di girare i tacchi e tornare in
aeroporto così come sono venuto. Anonimo
e insignificante, sotto la pioggia che tamburella
sull’asfalto così come fanno i dubbi nella mia
testa. Prendo
tempo ed osservo l’abitazione dall’esterno. È
uguale ad allora. Ulteriori
ricordi si aggiungono ai precedenti. Mi rivedo correre
dietro Zach come un’ombra fastidiosa e poi giocare con Hannah
sugli scalini del
portico. A mia sorella piacevano le bambole allora. Punk lo
è diventata
crescendo. Anche
il colore delle mura è lo stesso. Il
giardino invece è diventato sempreverde –
maschile, in
un certo senso. I
fiori di cui si occupava mia madre sono scomparsi. Imbocco
il vialetto d’ingresso. Intravedo
la luce accesa attraverso la vetrata di quello
che era, a memoria, il salotto. Troverò
senza dubbio qualcuno in casa, ma di chi si
tratti davvero, lo scoprirò soltanto se mi riceveranno. Non
ho letto il nome del proprietario sulla cassetta
della posta. Non
lo leggo nemmeno vicino il portone. Sono
al riparo dal temporale finalmente, sotto il portico
di legno bianco, ben tenuto. Pitturato di recente. Ho
le gambe molli e lo stomaco in subbuglio quando premo
il campanello. Fotogrammi
di un Halloween quasi preistorico. Gli amici
del quartiere che ci visitavano giocando a dolcetto e scherzetto e
specularmente, io le loro case, con la stessa domanda sulle labbra:
“Trick or
treat?”. La
porta si apre senza che venga chiesto chi è. Ed
eccolo lì, sullo stipite. Warren
Wood. Mio
padre. “Elijah?”. La
voce è roca, familiare, così come il viso,
segnato in
maniera distinta dal passare degli anni, rimanendo però
riconoscibilissimo.
L’immagine del cinquantenne che ho davanti si soprappone a
quella del
trentacinquenne delle polaroid custodite in vecchi album che nessuno
sfoglia
più. “Elijah…”. Un
tono interrogativo prima e attestante l’attimo
successivo. Warren
non dissimila minimamente la propria sorpresa nel
vedermi comparire dal nulla. Avrà
mai letto di me sui giornali, visto qualche film in
cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto
artistica?
Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti
dal tempo? “Hi,
Dad”. Lo
saluto come se lo avessi visto il giorno prima. Senza
dichiarazioni plateali di amore filiale. Lui
nemmeno me ne offre. Fa
soltanto un passo indietro. Un
modo di invitarmi ad entrare, credo, eppure quanto
percepisco è l’esatto contrario. Non
smette di fissarmi. Dai
vestiti bagnati alle mani
mangiucchiate e strette a pugno, in una posa passivo-aggressiva che non
riesco
a controllare. Sono metaforicamente pronto a colpire se provocato. Rifiutato. Il
borsone da viaggio che ho imbarcato è capiente e
Warren sembra studiarlo con attenzione, ipotizzare uno scenario che
nemmeno io
ho ben chiaro. Aver portato diversi vestiti con me non vuol dire che ho
fatto
chissà quali calcoli riguardo
la
durata della mia visita. Rimarrò un giorno? Tre giorni? Una
settimana? È questo
il problema? Non mi vuole tra i piedi troppo a lungo? Tutto
rimane nella mia testa, ma l’irritazione che provo
è gridata a pieni polmoni dalla rigidità con cui
respiro, la serietà con cui ne
sostengo lo sguardo. È
qui che mio padre accenna un sorriso. Un
pugno in pieno stomaco. Non
me lo aspettavo. Non
so come interpretarlo. È
inaspettatamente cordiale quando riapre bocca: “Entra
in casa. Ti prenderai un malanno se rimani lì
fuori”. Lo
seguo nell’atrio senza proferire parola, lucido quanto
basta per notare che la carta da parati è scomparsa dalle
pareti, sostituita da
una vernice pastello. Mi
impongo di modulare diversamente il respiro, come se
si trattasse di un esercizio di recitazione. Mi
impongo anche di dimostrarmi meno nervoso, fragile,
davanti all’uomo che sono venuto a cercare dopo dieci anni di
telefonate,
lettere e visite mancate. Come
rapportarsi con un genitore assente? Come
rapportarsi con un figlio assente? Nessuno
dei due ha le idee troppo chiare. Forse
se fossi stato più loquace o affettuoso vedendolo
uscire sul pianerottolo. Forse
se avessi finto tutto quanto non sono riuscito ad
esprimere, poggio il borsone a terra, notando la pozza
d’acqua che si è formata
ai miei piedi. Dovrei
cambiarmi. Non
ho intenzione di ammalarmi. Obbligare
mio padre ad occuparsi di me in quel modo. Mi
sposto però in cucina, una stanza perfettamente in
ordine e dall’aspetto accogliente. Il
bollitore elettrico è acceso. Qualcosa
di caldo da bere. Non è una cattiva idea. Mi
tolgo il giubbotto greve di pioggia e lo appendo ad
una sedia. Mio
padre mi raggiunge allora, uscendo da quella che
ipotizzo essere rimasta la lavanderia. Mi lancia un asciugamano che
afferro al
volo e con cui mi tampono come meglio posso i capelli. Mi
siedo nel momento esatto in cui vedo offuscarsi i
contorni della credenza appartenuta alla mia bisnonna. I limoni che
decorarono il
copritavolo perdono altrettanto improvvisamente forma, diventando un
ammasso
indistinto di giallo. “Un
tè, Elijah?”. Scuoto
la testa, rimettendo a fuoco la stanza. “Un caffè.
Preferirei un caffè”, rispondo educato e
incredibilmente a disagio. Warren
annuisce, versando due cucchiai di Nescafé in una
tazza. A quel punto aggiunge l’acqua e allinea sul tavolo
tovaglioli di carta, cucchiaini,
una zuccheriera, del latte. Senza
fronzoli, ma perfetto dal punto di vista formale. “Zucchero?”,
inquisisce, fissandomi diritto negli occhi.
Suppongo siano lucidi. Sto bramando una doccia, un letto e un viaggio
di
ritorno a casa. Quella vera, a Venice, in prossimità del
mare, con mia madre e
quella monella appiccicosa di Hannah per vicine e confidenti. “Due
zollette, grazie”. Visto che siamo giocando ai
gentiluomini, faccio anch’io la mia parte. “Latte?”. “No,
I like it black”. Prendo
il mug che mi viene porto. Mi
tremano impercettibilmente (o quasi) le mani. Freddo,
nervosismo, stanchezza. Avrei
un milione di motivazioni da addurre. Il
caffè ha un buon sapore. Non ne avevo mai bevuto tra
quelle mura. Osservo
mio padre tagliare una fettina di limone per il proprio
tè. È
l’unica frivolezza che si concede per alterarne il
sapore. Non
lo sapevo. Ne
ignoro i gusti in toto o comunque, nei miei ricordi lo
vedo più spesso con una birra in mano, accompagnando una
pizza o della carne
alla brace. Senza
volerlo, Warren imita i miei gesti, rivolgendo i propri
pensieri alla tazza che tiene tra le mani. Ben
salde, le sue. Curate.
Nessun
segno evidente di lavoro manuale propriamente
detto. Dopo
il trasferimento in California aveva iniziato ad
occuparsi di vendite. Come
si sia reinventato qui a Cedar invece, non l’ho mai
saputo. “Ti
dispiace se accendo una sigaretta?”. Mio
padre fa cenno di no. Mi
guardo intorno, allora, alla ricerca di un
portacenere. Lo
avvisto sulla credenza. Ha
l’aria di non essere mai stato usato prima. Un
souvenir delle Bahamas – ceramica dipinta ad olio con
maestria. “Posso?”,
chiedo ancora una volta facendo sfoggio di
buone maniere, ignorando se ci sia un legame affettivo tra Warren e il
posacenere. “Puoi…”. La
risposta è quanto di più breve e asciutto potessi
aspettarmi, ma il tono equivale a un attacco personale. Vi
trovo insito un rimprovero. Il
solito
rimprovero. Difatti. “…
ma suppongo che potresti darci un taglio con quel
veleno”. Non
gli do tempo di aggiungere altro. “Affrancati
la paternale”, lo blocco
immediatamente. Non
ha il diritto di farmi la morale. Come
genitore non è mai andato oltre la facciata ed è
a
quella che lo relego adesso. Quelle
che fisso quando poggio sul tavolo il pacchetto sono
due iridi impenetrabili. Il
muro contro muro mi fa accendere l’ultima sigaretta
rimasta come se nulla fosse, aspirando vorace la prima boccata dal
retrogusto
di mentolo. Da lì alterno il tabacco al caffè,
divenuto tiepido. Osservo
estraniato la nube di nicotina che esce dalla
finestra socchiusa, mentre mio padre finisce il proprio tè
con sorsate lunghe e
fin troppo misurate. Fuori
impazza una pioggia torrenziale. “Devo
uscire. Hai bisogno di qualcosa?”. “No…
niente”. Warren
mi trafigge con uno sguardo che mi inchioda al
muro. “Fai
come se fossi a casa tua, mentre sono
via”. È
il suo turno di delimitare i campi adesso, di
specificare il ruolo che ho io nella sua vita. La
comparsa. Un
ospite che non si manda via per mera cortesia. Non
cedo alla tentazione di gridargli contro che,
maledizione, questa è casa mia. Non
rispondo alla provocazione. Mi
ripeto che la mia vita, quella vera, è a Los Angeles e
che lui non ne fa parte. Spengo
la cicca nel souvenir. Il
volto sorridente di una delle bahamensi rimane
sfregiato dal fuoco. _________ /* Brano dei
Marilyn
Manson; /**Slang
losangelino per
indicare una persona del posto; /*** Deli
è il diminutivo “Delicatessen”,
negozio di specialità alimentari di origine straniera (le
cosiddette
“prelibatezze”), assimilabile a una salumeria nella
quale si vendono anche
sandwich e/o pasti caldi; /****
Host del programma cult negli USA “The Ellen Degeneres
Show”. _________ L'angolo
dell'autrice...
"Il
protagonista di
questa storia è Elijah Wood e il suo rapporto con la
famiglia, gli amici, il
successo. Detto così sembra tutto molto semplice, ma questa
storia è intensa.
Contiene tante e tante sensazioni e proprio come nella
realtà, e come da
titolo, si fa ben vedere che non sempre c'è un
“perché” alle cose. Raccontata
in prima persona, riesce nell'intento di desiderare di farsi leggere
fino alla
fine".
Questo
è stato il commento lusinghiero di Erika alla mia
storia, classificatasi al secondo posto del XV concorso di scrittura a
tema indetto
sul sito (“Fanfic su celebrità”). Forse
non è proprio il tipo di racconto che ci si
aspetterebbe trattandosi di un personaggio famoso, ma l’idea
è nata per caso, dopo aver letto quest’intervista, e
ho seguito la cosiddetta Musa. Se
dovessi riassumerne la trama con un paio di frasi
direi che si tratta di un tuffo nel passato che non ha la pretesa di
risolvere
nulla, né l’ipocrisia di addolcire con della
retorica semplicistica situazioni
emotivamente complesse. L’ispirazione
me l’hanno fornita su un piatto d’argento
gli Smashing Pumpkins. Il
titolo è tratto da una loro canzone e riassume alla
perfezione l’incapacità di spiegare il crearsi di
determinate circostanze. È
lecito chiedersi il perché, ma non sempre si otterranno
delle risposte. I
titoli dei singoli capitoli anche corrispondono a
quelli di tracce musicali, citate da Elijah qua e là e che
hanno un legame
reale con la sua persona (ma non sempre con quanto narrato nel capitolo in sé). Terminata
la pubblicazione della storia condividerò una
playlist così da ricrearne il mood anche sonoramente. Non
c’è nulla di dinamico nella narrazione, al punto
da
poterla definire una non-azione. Molto
di quanto accade, avrete notato, passa per la testa
e il cuore dei personaggi. Grazie
per aver letto questo primo capitolo e a presto, -N
Osservo
l’auto che esce dal vialetto e mi ritrovo solo tra
mura familiari e sconosciute insieme. Con
uno sforzo strenuo, tale è la pesantezza di membra
ridicolmente intorpidite, mi trascino in salotto. Il
camino è accesso. Le fiamme danzano cangianti
nell’ampio
focolare. La
casa è ben riscaldata. Se
ho freddo, la ragione è un’altra. I
vestiti bagnati, certo, ma il grosso viene da dentro. Ho
un nodo in gola. Deglutisco
per mandarlo giù, come un boccone amaro. Trovo
l’iPod in una tasca laterale del borsone. Il
tessuto impermeabile lo ha protetto dalla pioggia. Seleziono
la modalità di riproduzione casuale su una
playlist altrettanto casuale. Più
che ascoltare qualcosa in particolare, sento la
necessità di cancellare il silenzio che mi circonda. Mi
siedo sul tappeto intessuto con motivi indiani noti. È
posto ai piedi del camino. Ginocchia
strette al petto e testa incollata alle stesse. Sono
terribilmente stanco. La
musica riempie gli auricolari e mi libera la testa da
ogni singolo pensiero. Fluttuo. Gli
Smashing Pumpkins hanno segnato la mia adolescenza. Nessuno
come Billy Corgan ha saputo esprimere il disagio,
l’alienazione, la rabbia e lo
struggimento di chi, come me, cresceva negli anni ‘90. Non
trovo strano che molti di quei testi siano ancora
attuali. Il
malessere ha una natura quasi banale, che lo rende universale,
indifferente al passare delle decadi. Glitter burned
by restless
thoughts of being forgotten./** La
canzone va avanti, ma non
la sto ascoltando più. Sono
queste parole a colpirmi. Fanno
emergere in me una paura
smisurata. Che
non ho mai contemplato apertamente
fino a questo preciso istante. Non voglio essere
dimenticato. È
per questo che sono tornato
a Cedar Rapids. Io non voglio che Warren
mi dimentichi. La
nebbia si squarcia, ma non chiarisce
nulla riguardo quello che sento davvero, seppellito da anni di
distacco, nei
quali ho genuinamente creduto di non avere bisogno di mio padre. C’è
una cornice sulla mensola del camino. Ho
messo via l’iPod e sollevato lo sguardo per caso su di
essa. Sono
miope, è risaputo, ma riducendo gli occhi a due
fessure riesco a discernere cinque figure dai capelli castani. Il
mare sullo sfondo. Santa…
Monica? Mi
rimetto in piedi. Voglio
osservare volti e paesaggio da presso. Siamo
proprio noi. La
famiglia al completo, ritratta in un torrido
pomeriggio californiano. Warren
con un braccio intorno alle spalle di Debra, Zach
che tiene per mano Hannah ed infine io, intento a finire il mio gelato.
Sorridiamo
tutti in direzione dello zio Turk. Noi ragazzini ci assomigliamo
tantissimo. Gli
occhi azzurri tipici dei Wood e la pelle resa ambrata dal sole. Andavamo
spesso al molo. Ci
piaceva salire sulla ruota panoramica, osservare la
città e l’Oceano da lassù. Sono
passati circa dieci anni da allora. Zach
viveva ancora con noi. Anche
mio padre. Fino
a una normalissima mattina di novembre, quando,
senza che avvertissimo la gravità delle circostanze, ci ha
salutati ed è stato
per sempre. Dad left us. Mia
madre non ha mai elaborato sul perché e noi figli ci
siamo dati una risposta da soli, tenendo conto delle nostre
età, tutte differenti,
e le capacità critiche conseguenti. Rimetto
la cornice sulla mensola e mi guardo intorno alla
ricerca di altre fotografie. Non
ce ne sono. Vedo
solo soprammobili e quadri in numero adeguato. Azzarderei
col dire che mio padre vive da solo. Il
che, certamente, non esclude che abbia una compagna. È
un pensiero strano. Anche
da separati, continuo a pensare ai miei genitori
come a una coppia. Deb
& Ren, come erano soliti rivolgersi l’un
l’altro. Forse
perché negli ultimi mesi trascorsi insieme non li
ho mai sentiti litigare, gridarsi addosso insulti e parolacce,
accusarsi di mancanze
vere o presunte. Le
commissioni da fare non impegnano mio padre a lungo. Lo
sento rientrare mentre maledice la pioggia. Fuori
è buio pesto. Leggo
l’ora sull’orologio appeso al muro: sono le 19:15. “Elijah?”. Una
stecca di Cloves viene lanciata in mia direzione. La afferro con prontezza di riflessi degna di
un ricevitore
degli Hawkeyes. Eppure
sono confuso. Ho
finito le sigarette proprio sotto gli occhi di mio
padre, d’accordo, ma perché comprarmene altre,
dopo lo scambio verbale che
abbiamo avuto? Ha
già smesso di preoccuparsi per la mia salute? È
un gesto derisorio? Provocatorio? Sta
facendo uno sforzo per accettare la mia posizione riguardo
il tabagismo? “Grazie…”,
biascico, stringendo la stecca bordeaux tra le
mani. “Credevo
ti fossi messo comodo”, continua lui, scomparendo
in cucina con le buste della spesa. “Comodo?”,
lo seguo, non capendo. “Sì…
con dei vestiti asciutti addosso, dopo esserti fatto
una doccia”. “Vado…
adesso”, annuisco, ora che ho il suo permesso, in
un certo senso. “Puoi
sistemare le tue cose nella vecchia camera. Ham
balls e sweet corn vanno bene per cena?”. Qui
riemerge l’indole culinaria
di mio padre. Ha
appena nominato due piatti della
cucina locale che non mangio da moltissimo tempo. Comfort
food a tutti gli
effetti. Vanno
più che bene, ma non riesco
ad andare oltre un laconico: “Quello che vuoi”. Ho
voglia di prendermi a pugni. Tra
i due, quello che ci sta provando di più al momento
è
paradossalmente Warren. A
cui sembra, in effetti, bastare il mio farfugliare per iniziare
a cucinare mentre a me non resta che salire al piano superiore. La
scala che lì conduce era meno angusta nei miei ricordi. Forse
perché non sono più un bambino ed ho in spalla un
borsone
voluminoso. Ventotto,
ventinove… Avevo
l’abitudine di contare gli scalini. Lo
faccio anche adesso. Il
numero trentacinque corrisponde al pianerottolo e qui allungo
in automatico la mano verso la parete alla mia destra, trovando subito
l’interruttore. Il
corridoio si rischiara di una luminosità soffusa. Avanzo
fino alla seconda porta e ruoto la maniglia con un
misto di interesse e aspettativa. Ci siamo. Davanti
ai miei occhi si apre la stanza che condividevo
con Zach. Mi
aspettavo un ripostiglio pieno di cianfrusaglie,
invece tutto è come allora: l’armadio, le
scrivanie, il televisore, i letti separati
dai comodini. Mancano sono le suppellettili, ma è normale.
Mia madre aveva
imballato tutto, durante il trasloco, spedendo gli scatoloni in
California. L’assenza
di oggetti d’arredo produce una strana eco. I
passi rimbombano, così come il tonfo del borsone quando
lo faccio cadere a terra. Non
c’è polvere sulle superfici. L’ambiente
è arieggiato. Qualcuno
fa le pulizie regolarmente. Lo
stesso accade con il locale prospiciente, un tempo regno
incontrastato di Hannah. I
mobili qui sono infantili, con ante e cassetti di legno
colorato. Non c’è la TV. Quando siamo partiti mia
sorella aveva tre anni e
guardava i cartoni in salotto con la babysitter, mentre io e Zach
litigavamo per
il telecomando in camera nostra. Mio
fratello ha sette anni più di me ed è andato via
di
casa presto. Abbiamo
un ottimo rapporto adesso, da adulti. Con
l’accappatoio in mano, mi dirigo in fondo al corridoio.
Il
bagno è la stanza più facile da trovare in
qualsiasi
abitazione. Contrariamente
al resto della casa, qui c’è stato un
ammodernamento
evidente. Le
piastrelle blu degli anni ‘80 sono state sostituite da
eleganti tessere mosaico verde acqua. Il
box doccia con il resto dei sanitari è altrettanto
nuovo. Lo
specchio affisso sul lavabo mi rimanda una faccia dal pallore
spettrale. Ho
gli occhi simili a due fari, cerchiati da far paura. Le
labbra ridotte ad una linea sottile. Un’emoticon
fin troppo seria. Getto
i vestiti nel
portabiancheria e mi infilo sotto la doccia, investito in pieno
dall’acqua piacevolmente
calda. Appoggio
i palmi contro le maioliche opache di umidità e
abbasso la testa. I
muscoli di collo e schiena si rilassano un po’ alla
volta ed io con loro. È
qui che prendo ad insaponarmi il corpo e i capelli,
detergendo ogni centimetro di pelle esposta. I
gusti di mio padre in fatto di bagnoschiuma non sono
cambiati. Utilizza
ancora lo stesso prodotto, dallo stesso profumo,
nonostante la formulazione negli anni sia stata migliorata, diventando
più amica
dell’ambiente e della pelle. Riapro
l’acqua sciacquando via schiuma e… come
definirlo/a? Nostalgia…
ecco, nei confronti di tutto e niente. Tale
e quale alla nostra famiglia. Un
microcosmo essenziale, prima; il grande nulla, poi. Le
gambe mi cedono, incapaci di sostenere il peso amaro della
verità. Con
la schiena incollata alle mattonelle, scivolo sulle
ginocchia e sollevo la testa, rivolgendola verso il getto
d’acqua che continua
a cadere. Forse
mi aspetto di cancellare delle lacrime che però non
vengono. Non
è quel tipo di dolore. __________ /* Brano dei
Queens of
the Stone Age; /** Parole della
canzone che dà il
titolo alla storia.
L’odore
di cibo mi solletica le narici non appena scendo le
scale. In
cucina trovo Warren con indosso un grembiule. Sta
controllando la cottura di carne e mais che deve
giudicare quasi ultimata perché aziona il grill, impostando
il timer su 5’. Non
scambiamo meno una parola mentre affetta dei pomodori
ben maturi, seguiti da una carota a julienne. La
maestria con cui maneggia il coltello è la stessa di
un tempo; forse anche migliore. Il
mondo della cucina, il mercato degli agricoltori, le
materie prime da toccare con mano, l’alchimia delle
ricette… da piccolo il mio
super segreto era fingermi figlio di maghi perché tali mi
sembravano i miei genitori,
alle prese con misteriose masse lievitate e barattoli di spezie e aromi
dai
colori e i profumi più svariati. Le
prime nozioni di geografia le ho imparate così, facendo
domande senza fine sul dove, dove, dove. OK, let’s hear you out, spark
plug…/** era solita sorridere mia
madre, quando decidevo di passare in rassegna tutti i singoli
ingredienti, allineati
in ordine alfabetico su una mensola lunghissima. Afghan saffron
(Asia)…, Australian acacia (Oceania)…, Cayenne
pepper (South America)…, Indian turmeric (Asia)…,
Madagascar vanilla (Africa)… recitavo con grande serietà. Very good, little man…
giungeva altrettanto spesso l’approvazione di
Warren. Era stato lui a regalarmi una versione semplificata
dell’atlante da cui
non mi separavo mai. Un
altro ricordo molto caro legato al cibo riguarda le
feste di compleanno, un grande motivo di vanto per noi bambini
perché Deb si superava
sempre, creando torte che facevano l’invidia dei nostri amici. E
a proposito di dolci, nemmeno questa sera sembrano
mancare. Il vassoio appoggiato sulla credenza è avvolto
nella carta di Sykora
Bakery, la nota pasticceria del Czech Village. Non
posso fare a meno di chiedermi che valore abbia tutto
questo. Se
mio padre sia davvero felice di vedermi o se l’attenzione
ai dettagli sia soltanto finzione. È
più prudente pensare che la mia presenza in città
non significhi
nulla per Warren. Se
rimango con i piedi ben saldi a terra, quando cadrò
farà
meno male. Al
momento, quello che portiamo avanti è un dialogo muto. Io
mi sento assalire da dubbi di ogni tipo, mentre lui appare
calmo in maniera quasi innaturale. Forse,
se sapesse perché sono davvero qui, tradirebbe una
qualche emozione. Forse,
se avessi il coraggio di confessarglielo, non mi
muoverei come un equilibrista incerto. Ho paura di non contare niente per
te e che un giorno mi
dimenticherai. È così anche
per te? Mi
siedo a tavola senza offrirmi di aiutarlo. Le
gambe sono ridotte a gelatina e non mi fido nemmeno delle
mie mani. Le
infilo nelle tasche della felpa, nascondendone il tremito. Warren
nel frattempo apparecchia, padrone incontrastato
della situazione. Pochi
attimi ancora e mi mette davanti un piatto di
polpette. Il
vassoio con le pannocchie abbrustolite e la ciotola
con l’insalata vengono invece posti al centro della tavola.
Burro, pane di
segale e acqua completano il quadro. Dijon mustard
(Europe). Se
avessi ancora sei anni, proclamerei con orgoglio nome e provenienza
della
spezia utilizzata per la salsa agrodolce, ma ormai ne ho ventiquattro e
una
lingua annodata in grado di produrre soltanto:
“Thank… you”. Iniziamo
a mangiare e cerco più volte di trovare un argomento
che favorisca la conversazione. Non
ci riesco. Saremmo
circondati dal silenzio più assoluto se non fosse
per la voce della giornalista della CNN. Il TG sta giungendo al termine
ed è il
momento delle notizie su costume, moda e… cinema. Deglutisco
malamente alla
menzione di “Sin City”, film in cui ho recitato ed
attualmente nelle sale. L’ansia
è fin troppa con mio
padre seduto di fronte. L’affluenza
di pubblico è numerosa, ammicca la
reporter. Una
buona notizia. Quando
i propri sforzi vengono premiati o riconosciuti
positivamente, narcisismo e vanità fanno sempre capolino
nell’animo di un
attore. Anche
il più modesto. In
questo caso, mi rende orgoglioso che il mio
personaggio stia sorprendendo la critica. Kevin
colpisce perché è l’anti-Frodo per
antonomasia: un killer
muto, sadico e antropofago. Il
servizio va avanti, mostrando lo spezzone di una scena
dove sono presente. Un’ombra
fuligginosa che veste degli occhiali bianchi e
si muove in maniera dinoccolata, animalesca. L’espressione
spaventosamente pacifica. Risulto
inquietante anche a me stesso. Il
filmato si conclude con questo cammeo ed è stato piuttosto
Elijah-Wood-centrico. Bevo
un sorso d’acqua quasi a preparare la voce per le
risposte che darò adesso a Warren. Se
solo arrivassero delle domande. Il funambolo, ferito a morte anche
nell’orgoglio, cade infine
dalla corda. Venderei
l’anima per un commento, anche il più retorico. La
venderei due volte per una critica negativa. Mi
aiuterebbe a capire che cosa c’è che non va. Che
cosa c’è di sbagliato in me, al punto da non
meritare
assolutamente nulla da parte dell’uomo
che mi ha generato. Non
so come riesca a prendere dal vassoio uno scotcheroo/***,
senza rimanerne nauseato. Mangiarlo
addirittura. L’idea
del dessert mi era sembrata così entusiasmante prima. Ho
una maschera di ferro sul viso. Greve
come tutto quello che provo. Ma
se non altro non si spezzerà. Mi
alzo ed inizio a sparecchiare. Mi
obbligo a farlo, mentre Warren carica la lavastoviglie. La
mossa successiva è quella di uscire sul portico e
accendermi una sigaretta. Il
temporale si è trasformato in gocce che ormai scendono
sparse, quasi pigre. L’odore
di resina giunge rinverdito, intenso come non
mai. What am I doing here? È
la stessa domanda di prima, ma con un significato
completamente diverso. Oramai
so che sono tornato per ricucire un rapporto, ma se
l’altra persona non è interessata, che senso ha
rimanere? Quante
volte ancora mi dovrà rifiutare prima che me ne
vada? Rientro
in casa dopo la seconda Clove e tiro diritto per
le scale. Passo
dal bagno per lavarmi i denti e da lì in camera. Mi
sembra chiaro che Warren non gradisca la mia compagnia
che quindi non gli imporrò. Rovisto
nella tasca del borsone cercando il cellulare, il
contatto con il mondo esterno. Il
primo messaggio che leggo è quello di Hannah. Dovrei
chiamarla, ma preferisco risponderle con un SMS
che è un po’ bugia e un po’
verità. All is good.
Winding down. Will call in a couple of
days. x “Elijah?”. Warren
bussa educatamente alla porta, il che mi fa vedere
rosso perché è stato così dannatamente
formale per tutto il tempo. E ho capito,
ormai, capitoalla perfezione
che mi vede come un estraneo. Non c’è
bisogno di ricordarmelo in continuazione. “Avanti…”. Mio
padre entra in camera, nascosto da una torre fatta di
lenzuola, coperte e cuscini. “Per il letto”, dice,
poggiando il tutto sulla
scrivania più vicina. “Hai bisogno di una
mano?”. “No…
I can manage”. Warren
sembra voler commentare con qualcosa, ma poi decidere
per tutt’altro: “Il dinosauro
funziona ancora…”. È
un congedo a tutti gli effetti il suo e io mi ritrovo a
fissare Dino, il vecchio televisore a tubo catodico. Era stata Hannah a
scegliere quel nome, del tutto stravagante, perché
l’apparecchio le ricordava,
forse per il colore, un dinosauro illustrato su “Childcraft”./**** Mi
chiedo perché Warren non lo abbia buttato. È
un modello ormai anacronistico e se lo ha tenuto per motivi
affettivi, questi devono necessariamente escludermi. Mio
padre non è una cattiva persona. Solo
incapace di donarsi agli altri. È
una differenziazione che sento il dovere di fare, ma che
non cambia il risultato per chiunque si trovi al di fuori della sua
area di percezione. I’m
miles away from it. ____________ /* Canzone
degli Stone Roses; /** Spark plug
(candeletta o candela d’accensione) è il
soprannome dato
dalla madre ad Elijah da bambino per indicarne la vivacità; /*** Biscotto
preparato con burro d’arachidi, cereali Rice Krispies e
butterscotch
(= toffee o mou); /****
L’equivalente americano dell’Enciclopedia
“I Quindici”. Chi è stato
bambino tra gli anni ‘70 e ‘90, la
ricorderà senz’altro. 😉
Vorrei
pensare a ieri sera come a un picco in negativo dal
quale si può soltanto recedere, ma mi rendo conto che non lo
è stato. Il
nostro è un copione logoro, senza colpi di scena. Warren
non è mai stato completamente presente nella mia
vita. Laddove
lui abbracciava, mia madre stritolava. Laddove
lui sorrideva, lei scoppiava a ridere in maniera fragorosa. Laddove
lui era assenza, lei era presenza. Warren
era il sole d’inverno. Deb,
l’incarnazione della canicola estiva. I
ruoli
sono gli stessi anche adesso.
Che
mio padre abbia ancora oggi un rapporto civile soltanto
con Zach perché è stato l’unico figlio
che ha voluto per davvero? Il
dubbio è lecito. Io
e Hannah siamo arrivati rispettivamente sette e dieci
anni dopo di lui. A
volte penso che i miei genitori, alle prese con una
relazione stanca, abbiano messo al mondo altri figli con
l’illusione di riavvicinarsi. Forse
è stata Deb a volerci – lei non ha mai fatto
mistero
del suo amore. Forse
Warren stesso ci ha voluti per un po’, prima di confrontarsi
con una famiglia dalle esigenze sempre più numerose,
culminate in un trasloco
frettoloso, un nuovo lavoro e tanto altro ancora che non corrispondeva
affatto ai
suoi desideri. Ipotizzo…
ipotizzo tante cose, forse troppe, perché non
ho mai chiesto apertamente nulla a nessuno. Io
non temo soltanto di essere dimenticato da mio padre. Temo
anche di sentire, per bocca di mia madre, che la mia
nascita altro non sia stata che un piano B. Mi
spiegherai tutto così, ma quanto male fa il mero pensiero.
Lo
specchio
mi rimanda due occhi vitrei.
La
lotta contro i propri demoni è spossante, ti succhia
l’anima.
Mirror mirror
on the wall, do I look like my father at all?/**
Quanto c’è
di Warren in me?
In che
modo la sua assenza ha formato chi sono?
È soltanto
sotto la doccia che riesco a bloccare il flusso di pensieri che mi
martella la
testa.
Quando scendo
dabbasso trovo la casa immersa nel silenzio più assoluto.
Il cappotto
di Warren non è più appeso nell’atrio.
Sono le
10:00 ed è molto probabile che sia uscito per andare a
lavorare.
Un post-it
attaccato al frigorifero me lo conferma.
Inizio
a preparare la colazione: pancakes ai mirtilli, irrorati
con una cascata di sciroppo d’acero.
Con in mano una tazza di caffè, mi sembra di
riconnettere finalmente con il mondo.
Sto pensando
a come trascorrere la giornata.
Non ho voglia
di uscire e non mi sembra male l’idea di rilassarmi leggendo
qualcosa.
Sono seduto
fuori, con la prima sigaretta della giornata penzolante tra le dita,
quando un’auto
entra nel vialetto. Spento il motore, la donna al volante scende
dall’abitacolo
coprendosi la testa con il cappuccio dell’impermeabile.
Cammina
velocemente sotto la pioggia e si accorge di me soltanto sugli scalini
del
portico, rivelando interamente il proprio viso, un ovale olivastro
dall’espressione
gioviale.
“Buongiorno…
tu devi essere… Elijah?”.
L’osservazione
mi spiazza. Il modo in cui la sconosciuta dice il mio nome ha un che
di…
personale, credo, che va al di là del semplice riconoscermi
come attore.
“Sì…”,
confermo. “E lei è…?”.
“Ana Suarez,
mi occupo delle pulizie”.
“Oh, lieto
di conoscerla”, le porgo la mano.
La
stretta della donna è energica e cordiale. “Il
piacere è mio”.
“Prego…”,
le faccio cenno di entrare. “Le va una tazza di
caffè?”.
“Molto
volentieri”.
In
cucina
chiacchieriamo un po’ meglio e scopro che si occupa della
casa da diversi anni
e che viene due volte a settimana.
“Hai
dormito nella vecchia stanza?”.
“Sì…”.
“Mi
dispiace
di non averla preparata a dovere”.
“Sono
arrivato senza preavviso”.
La
donna annuisce. “Ho conosciuto tuo fratello qualche tempo fa.
Anche lui era di
passaggio in città. Avete gli stessi occhi e la stessa
gentilezza”.
Non
posso che sorridere di fronte a quel complimento.
Zach
è
sempre stato un esempio da seguire per me.
Ana
inizia
a pulire partendo dal piano superiore, mentre io passo in rassegna i
libri in
salotto. Sono indeciso tra due titoli e alla fine scelgo quello che
penso possa
riservare più sorprese.
La
lettura
mi coinvolge talmente tanto che non mi accorgo delle ore che passano.
Sono
le
13:30 quando Ana annuncia di aver terminato. In effetti, le rimane
soltanto da programmare
la lavatrice, dopodiché ci salutiamo.
La
pizza surgelata con cui pranzo è veloce e tutto sommato
nemmeno male.
Il
resto del pomeriggio lo passo con il naso immerso nuovamente nelle
pagine
stampate, fermandomi soltanto per appuntare le canzoni per una playlist
ispirata
dalla trama.
Mio
padre rincasa dopo le 19, fedele a quanto scritto sul post-it.
“Ehi…”, mi
saluta con quello che non è esattamente un sorriso ma
nemmeno un’espressione
ostile.
“Ciao…”,
metto da parte il libro.
“How
was your day?”.
“Good…
relaxing.
How was yours?”, sollevo la schiena dal divano su cui sono
sdraiato. Sembra un
principio di conversazione e mi sembra maleducato non riconoscerlo.
“Oh…
the usual, you know?”, fa spallucce Warren, rivelando un viso
stanco.
“Which
would be…?”, paleso a quel punto la mia ignoranza
sul tema.
“Ho
una
ditta… specializzata
in lavori di imbiancatura,
cartongesso… things like that”.
Annuisco
nei confronti di una scelta per certi versi logica. Mio padre
è sempre
stato bravo con i lavori manuali. “Come vanno gli
affari?”.
“Piuttosto
bene, ma a volte i clienti non sono puntuali con i pagamenti, il
che comporta una serie di problemi a cascata”.
“Non
deve essere facile”.
“No,
specialmente quando hai fornitori ed operai da pagare a tua volta. Ad
ogni modo, non credo esista nessun lavoro al mondo completamente privo
di stress…”.
“No…”,
confermo, pensando al mio in maniera particolare. “Ho
cucinato dello
stufato per cena. Ti va?”.
“Certo,
dall’odore direi che promette bene”.
In
cucina è lui ad apparecchiare ed affettare il pane, mentre
io controllo la
carne che mi pare effettivamente cotta a puntino. Ho aggiunto del
peperoncino
piccante e della paprika dolce, così da bilanciarli in una
versione “a modo mio”
del gulasch ungherese.
Come
la
sera precedente mangiamo condividendo più silenzio che
parole, tuttavia il
clima è disteso. Concludiamo la cena con due
caffè preparati con la macchinetta
italiana di cui Warren sembra un estimatore entusiasta.
“Ho
conosciuto Ana Suarez oggi”.
Annuendo,
il viso di Warren assume un’espressione che oserei definire
rara e che cozza non
poco con l’anaffettività che gli ho sempre
attribuito. “Vive ad un isolato da
qui, vicino al Riverside Park”.
Mi
mordo la lingua per impedirmi di approfondire il discorso.
“È cambiato molto il
quartiere negli anni?”.
“Abbastanza”,
beve un sorso di caffè mio padre. “Hanno
ristrutturato molti edifici,
coinvolgendo anche la mia ditta”.
“I
vicini invece?”.
“C’è
stato un esodo di massa a Des Moines e altrove”.
“Anche
Mr. Chapman si è trasferito?”, ridacchio, pensando
all’anziano edicolante del
chiosco tra la 2nd Avenue e la 13th
Avenue. Con noi bambini
era sempre gentile e spesso ci regalava dei marshmallow per gli
s’mores.
“No,
lui no”, scuote la testa Warren. Gli occhi, chiari proprio
come i miei, sono
divertiti. “Sono passato da lui questa mattina. Sul giornale
c’è un articolo sul
tuo ultimo film”.
Warren
ha sempre comprato la Gazette; quello che è eccezionale
è che stia toccando l’argomento
cinema per la prima volta, dopo tantissimi anni, con me.
“Sin
City?”, deglutisco con qualche difficoltà. Sento
l’ansia depositarsi, pesante
come piombo nello stomaco.
“Sì,
citano soprattutto te”.
“Oh…”,
cerco di sembrare quanto più neutrale possibile, ma penso di
avere le guance
letteralmente in fiamme adesso. Anche in TV si era parlato di me,
appena ventiquattro
ore fa, ma forse Warren aveva la mente da tutt’altra parte al
punto da non aver
sentito nemmeno una parola.
“Hang
on a sec…”, sparisce in salotto, rientrando subito
dopo con una copia del
quotidiano in questione. Forse era nella tasca del cappotto
perché la carta è raggrinzita
dalla pioggia. Non le pagine centrali dedicate allo spettacolo
comunque, che
Warren allarga sul tavolo a mo’ di tovaglia. E poi inizia a
leggere:
“Elijah
Wood is chilling as Kevin, an entirely silent character who is visually
arresting and deadly (...)
In the movie, Kevin is a
clean-shaven Elijah Wood with some
funky glasses that, in combination with his seemingly lifeless eyes,
will creep
you out for weeks to come. The
actor couldn’t have asked for a better role than the one he
received in Sin City. Any chance of his being typecast as Frodo has
been
thankfully demolished. The
villain of this tale, he never says a word
but he’s eerie as hell: the half-smile, the swift movements,
the somewhat
stooped shoulders. You
know how they say it’s always the quiet ones? Well, they
don’t
know what they’re talking about until they’ve seen
Kevin”.
“Wow…”, non
posso che commentare con gli
occhi spalancati. È un regalo inaspettato quello che mi
è stato appena fatto.
“Mi
piacerebbe vederlo al cinema”.
“Sì?”.
“Sì…”. __________________ /*
Brano degli Arcade Fire; /**
Variazione della frase che si legge in “Biancaneve”
per bocca di Grimilde: “Mirror
mirror on the wall, who’s the fairest of them all?”.
“Allora le confermo la
prenotazione del suo volo di ritorno, Mr. Wood.
Faccia buon viaggio”.
È la voce cortese di
un’impiegata dell’AmericanAirlines a
parlare dall’altro lato del telefono.
“La ringrazio, signorina.
Arrivederci”.
Chiudo con uno scatto secco
la valigia che ho appena terminato di preparare e non posso fare a meno di
girarmi per l’ennesima volta intorno e vedere se ho lasciato qualcosa in giro.
Sembra di no o almeno sono tutte cose che inserirò tranquillamente nello zaino.
Passandomi una mano tra i
capelli mi affaccio alla finestra e mi accendo una sigaretta. Il davanzale è
abbastanza grande da permettermi di sederci su comodamente ed, infatti, poggio
il sedere sul marmo bianco e piego le gambe,
incollando la schiena alla parete. Quello che vedo è una pioggerellina sottile.
In effetti, non ha fatto altro che piovere da quando
sono a Cedar. Se non tutta la giornata, almeno per
buona parte di essa sempre. La nuvola di fumo
azzurrino incontra la parete vitrea coperta da un po’ di vapore acqueo. Il
termosifone qui accanto sprigiona un bel calore. Ci vorrebbe una
tazza gigante di caffè tra le mani, ma non se
ne parla di schiodarmi da qui ed andare in cucina. Goccioline in vena di fare
jogging scivolano divertendosi lungo l’esterno della finestra, monitorate dal
mio sguardo attento.
Ho praticamente
davanti agli occhi il cortile sul retro della casa. Ed
ecco lì il canestro. È l’oggetto che mi riporta alla mente un episodio tanto
poco usuale quanto divertente. Probabilmente una delle immagini che conserverò
dentro di me come testimone di questa specie di vacanza e che trascina con sé comunque tutto il peso della frustrazione per quella che, in
fondo, è stata un’eccezione. È questo il punto. Eccezione. Ovvero,
cosa che accade raramente, se non mai.
È stato anche il caso di me
e mio padre che ci siamo divertiti a giocare una partita di basket. Domenica pomeriggio e dopo una mattinata nella quale c’eravamo solo
scontrati in casa dandoci apparentemente fastidio a vicenda. Lui è
uscito appena dopo pranzo, per andare non so dove. Io mi sono ritrovato murato
dentro per il quarto giorno consecutivo.
Sono tranquillamente un tipo
casalingo alle volte, anzi adoro fare maratone cinematografiche in casa oppure
semplicemente rilassarmi e dormire; il punto è che qui mi sento in trappola.
Non ci sono dvd in abbondanza per
fare maratone - uscire ad affittarli implicherebbe il rischio di farsi
riconoscere e al momento non è proprio quello che desidero - non riesco
a rilassarmi, né tanto meno a dormire serenamente. Inoltre non ci sono né Hannah, né mia madre con le quali
litigare o chiacchierare.
Una prigione appunto. Che mi sono cercato da solo, d’accordo.
Sono uscito quindi in cortile per sentirmi forse meno
oppresso e mi è venuto voglia di dare un’occhiata al
ripostiglio. Un tempo c’erano i nostri giocattoli conservati in degli
scatoloni. Molti sono rimasti qui anziché essere stati spediti in California. È
quindi con quella strana sensazione di aspettativa che
precede di solito ogni tuffo nel passato, per via di oggetti che ci sono stati
cari, che mi incammino verso il garage ed entro nella stanza adibita a
sgabuzzino.
C’è un ordine che quasi sorprende. Polvere ovviamente
e ragnatele qua e là, ma il rischio di trovarsi di fronte una Shelob è più che remoto. Avrei comunqueSting con me, quindi saprei come difendermi, mi dico
scuotendo la testa e chiedendomi fino a che punto Frodo mi sia rimasto dentro.
Abbastanza direi. Non tanto da impedirmi di muovere oltre, ma
quel che basta per farmelo considerare uno dei miei ruoli preferiti. In
assoluto e per sempre.
Ricordavo degli scatoloni imballati alla perfezione da
mia madre e chiusi con delle strisce di nastro
isolante nero. Se non sono stati buttati devono essere
di sicuro qua, mi dico iniziando a guardarmi intorno. Non ci vuole molto
effettivamente. Eccoli! Non so perché, ma ho la
certezza che siano loro, sebbene l’aspetto anonimo dato dall’unione del cartone
marrone richiuso con del nastro isolante altrettanto anonimo, potrebbe benissimo smentirmi.
Avevo ragione, che vi dicevo. Sono tre in tutto e
collocati su un tavolo, l’uno sull’altro. Con una certa
fatica, visto che in altezza mi doppiano quasi, riesco ad escogitare un metodo
per prenderli e al contempo evitare che mi crollino addosso. Non ho
ancora fatto un’assicurazione sulla vita come quelle alla J.Lo.
Non posso permettermi di rimanere schiacciato o sfregiato per via di un
quintale di oggetti, insignificanti per i più. Salgo
quindi sul tavolo, sperando che tenga il mio peso e prendo il primo scatolone,
appoggiandolo così vicino i miei piedi. Faccio la stessa cosa con il secondo,
allineandolo di fianco al precedente e saltando scendo così dal tavolo,
trovandomeli tutti e tre di fronte.
Sei un genio, Lij… è il
complimento con il quale mi gratifico al volo. L’autostima va sempre tenuta
viva, sapete com’è…
Inizio dall’ultimo. Sorridendo al ricordo, leggo il
mio nome sulla superficie cartacea. Elijah. È la
calligrafia di mia madre, elegante e sinuosa, con una specie di mio ritratto di
fianco. Un ragazzino con due occhi grandissimi sul volto, un sorriso simpatico,
un po’ di spazio tra gli incisivi – Beh, grazie mamma, questo distrugge la mia autostima, mi dico muovendo
involontariamente la lingua sui denti ed individuando appunto il piccolo gap.
Sono certo che non lo abbia fatto per prendermi in giro. È quella strana,
cieca, forma di amare delle madri, per le quali anche i difetti dei propri
figli diventano pregi. Lei dice di aver sempre adorato il mio sorriso, simile a
quello di uno sdentato. Beh, grazie ancora, Deb. Qui
la mia autostima svanisce del tutto, nell’immensità dell’universo - ed infine
un cappellino sulla testa. Tutto sommato il disegno è…
uh… grazioso e, chiudendo un attimo gli occhi, rivedo appunto mia madre quel
giorno lì, pronta ad imballare le cose per il trasferimento imminente.
Era estate. Un pomeriggio d’estate. Caldo ed un po’
sonnolento. Era in cortile con me, Hannah e Zach a ronzarle intorno, cercando di aiutarla e finendo
invece col farle rallentare le operazioni, sebbene la ricordi
più divertita che scocciata da quel nostro cicaleccio. Come sarà la nuova casa?
E la scuola? E il nuovo
acquario? E le nostre nuove camere? Prenderemo un
altro cane? etc. etc. Mocciosi irritanti, mi dico,
mentre avverto la bella sensazione di tranquillità di quelle ore invadermi in
pieno, via via che i dettagli vengono in superficie.
La rivedo piegata sulle ginocchia ed intenta ad
imballare il mio scatolone, un prendisole di cotone verde chiaro indosso, i
capelli, un tempo di media lunghezza e ondulati, raccolti in una crocchia
sommaria e disordinata sulla testa, lo sguardo concentrato e poi quel
pennarello in mano, a scrivere il nome e distinguere così ogni scatola
dall’altra, in base al contenuto.
Un bel ricordo.
Uno dei diecimila altrettanto belli e che custodisco
con affetto di lei.
Proseguo con lo sguardo sul secondo scatolone. Hannah. Certo... mi
dico, di fronte all’ovvietà della scoperta.
Inciampavamo ogni secondo nei suoi giocattoli in giro per casa. Anche qui c’è una sorta di mini ritratto. Una
ragazzina con un vestitino e i capelli legati in due trecce basse. È
vero. Han era vestita proprio così quel giorno. Inizio promettente per quella che poi si è rivelata essere una
sorta di maschiaccio otto volte su dieci, ma è una delle altre persone che amo
di più al mondo, esattamente così com’è. I nostri litigi e prese in giro
sono solo parte del nostro carattere. Difficilmente mi
vedrei stare lì ad abbracciarla ogni tre secondi, con la bocca sempre piena di
complimenti. No. Il bello sta nel prenderci in giro, offenderci e via di
seguito. Almeno la maggior parte delle volte. Paradossalmente abbiamo la
capacità di essere sempre lì per l’altro nei momenti “seri”. La adoro anche per
questo.
Terzo scatolone. Qui le cose si complicano. Essendo
l’ultimo della fila e quello in cima a tutti gli altri, è ricoperto di polvere.
Non so di quanti anni onestamente, può essere che siano stati spostati nel
corso del tempo, ma lo strato grigiastro è compatto. Non riesco a leggere il
proprietario dei giocattoli. Passo allora una mano sulla superficie e vedo
spuntare di nuovo la silhouette schizzata di Hannah.
Classico… borbotto tra me e me. Il sospetto che avesse il doppio dei miei giocattoli, è così confermato. In
fondo era l’unica bambina in casa, è normale che
venisse un po’ considerata la principessa e via di seguito. Dunque Hannah batte Elijah… Che ne è dei giochi di Zach, invece? Ricordo come ci avesse preso in giro, dall’alto dei suoi dodici
anni. “Io non ho più bisogno dei giocattoli”, mi riecheggia nella
memoria la sua voce da bambino e l’espressione da grande che aveva
raffigurata sul volto. Ed effettivamente, buona parte dei suoi giochi erano passati a me e non giocava più con i robot o le
macchinine da un pezzo.
Interrompo il flusso di pensiero e mi guardo in giro,
in cerca di un qualche paio di forbici o magari un coltello, per incidere il
nastro isolante e vedere così quali… uh… tesori sono nascosti in quelle
scatole.
Mi dirigo verso il ripiano di cemento sul quale
abbondano cacciaviti, bulloni e quant’altro, un mini-ferramenta insomma. Frugando un po’ tra gli oggetti,
scorgo una specie di taglierino e afferratolo mi riavvicino alle scatole. Il
materiale plastico emette una sorta di scricchiolio, mentre la lama vi penetra
incidendolo con precisione. Ci siamo.
Avverto una specie di tensione sconosciuta.
Un’emozione fortissima che se ne parlassi in giro di
sicuro verrei preso per il culoa vita. Tipo da Sean, Dom e Billy
che appenderebbero dei manifesti. “Quando
crescerai, Lij man?”. Prevedo già un tipo di commento
del genere...
Forse hanno ragione, ma
accidenti che male c’è?
Dunquedunque…
Mi riproietto davvero nel
passato, al punto da risentire l’odore dei fiori in giardino sotto il caldo
inclemente del sole estivo e il ronzare di calabroni ed api isteriche intorno
ai roseti. Incredibile come dei piccoli dettagli aprano poi
un mondo. Ne aveva parlato Proust
a suo tempo e sebbene qui non si tratti di un biscotto, direi che l’effetto è
lo stesso. Sottolineo che Letteratura è sempre stata
la mia materia preferita a scuola, da qui la mia erudizione, d’accordo?
Guardo con un misto di orgoglio
e nostalgia la statuina in miniatura di LukeSkywalker, celeberrimo capitano dell’Enterprise
di quel film culto che è Star Wars. La mia prima vera passione cinematografica e i primi modellini di
una collezione che tuttora ingrandisco ed arricchisco, se ne ho l’occasione.
In effetti sono un patito per queste cose. Lo
testimonia anche la stessa collezione del genere su tutto quello che merchandising de “Il Signore degli Anelli”.
Dio… che ossessionato… magari perdente ed
assolutamente idiota.
Geek è il termine adatto.
Sono il re in assoluto e tutto ciò che è geeky ben mi si addice.
Sorrido di fronte quell’omino
dipinto e perfettamente conservato intatto nonostante il tempo. Continuo
nell’esplorazione e m’imbatto in alcuni album di figurine completi. Ovviamente
quello di Star Wars spicca sugli altri, ma ce n’è
diversi, a testimonianza di quali fossero i cartoni
animati o gli eroi dei ragazzini come me negli anni ’80. Ricordo
perfettamente le gare che si facevano a scuola. Le confabulazioni
durante gli intervalli, la ricerca della figurina mancante per la quale si
sarebbe venduto tranquillamente il proprio pranzo, il visionare forsennato dei
pacchi di doppioni degli amici, così pieni di promesse
agli inizi e così insignificanti alla fine se non possedevano la figurina tanto
ambita.
Wow… se non era divertimento quello… trovo anche
robot, modellini di automobili, un Monopoli
appartenente alla preistoria, con i dollari ormai ingialliti dal tempo, più o
meno come il televisore che ho in camera da letto, ma fa tutto parte di quel
periodo che credevo di aver rimosso e che invece adesso riesco ad inquadrare
meglio per via di particolari che tornano alla luce.
C’è anche un pallone da basket.
Un attimo… c’è ancora il canestro appeso di fuori?
Onestamente non ci ho fatto caso, ma Zach era sempre ad allenarsi o giocare con i suoi amici. A
me sembra di ricordare che fosse pesantissimo per me
quel pallone. Rimbalzava da solo, d’accordo, ma non era certo uno di quelli
leggerissimi con cui si gioca a pallavolo d’estate al
mare. Anzi, una volta me lo sono proprio beccato in faccia per via di uno
strano rimbalzo sul ferro del canestro.
Era stato Tim a tirare dalla
zona dei tre punti, ma il lancio non aveva centrato il canestro. Proprio no. La mia faccia doveva essergli sembrata più appetibile
per qualche strano motivo. Un male cane, le lacrime brucianti e spontanee che
mi erano scese dagli occhi, per via della sorpresa e
del dolore, il rossore sulla pelle pulsante del viso. Ero seduto a terra, un
noiosissimo libro delle vacanze sulle ginocchia e, anziché studiare in casa,
avevo preferito il giardino sul retro, l’ombra del castagno e i commenti,
infarciti di slang che faceva tendenza all’epoca, di mio fratello e del suo
gruppo di amici che si dedicavano alla solita
partitella pomeridiana. Ho avuto un livido sul volto per un
bel po’, ma almeno nessuno mi ha preso in giro. La mia espressione
sofferente deve avergli dovuto suggerire un qualche
atteggiamento di cameratismo nei miei confronti. Non ricordo perché sia stata
messa tra le mie cose questa palla, ma va bene così.
La afferro saggiandone la superficie rugosa sotto i
polpastrelli. È arancione scuro e divisa idealmente in spicchi per via del
disegno che riporta. Un orgoglioso stemma dei Lakers.
Ancora leggibile. Una specie di segno del destino, visto il
nostro trasferimento proprio a Los Angeles.
Prendo a farla rimbalzare. Perfetta. Non va nemmeno
gonfiata e se di fuori c’è ancora il canestro, oppure lo trovo in giro, di
sicuro faccio due tiri. Zach mi ha insegnato in
California, quando ero diventato un po’ più robusto dello scricciolo che ha
fatto il suo debutto nel video dell’icona trash/punk
degli anni ’80, voglio dire, la geniale Paula Abdul.
Che volete… si deve pur iniziare da qualche
parte…
Curioso poi, non posso fare a meno
di aprire le scatole di Hannah. Mi trovo di fronte
un’infinità di bambolotti e peluche che probabilmente non amava più, altrimenti
sarebbe stato impossibile farglieli abbandonare. Sono
perfettamente imballanti nel cellophane e nessun insetto sembra averli
danneggiati. Chissà che faccia farebbe rivedendoli adesso…
Mi sa che ho preso una mezza decisione, anzi direi
proprio di sì…
Cerco in giro dell’altro nastro isolante e risigillo i cartoni, portando fuori con me solo la figura
in miniatura di Skywalker – Hamill,
la mia supposta minaccia cinematografica e, facendo rigirare la palla tra le
mani, esco in cortile. Gli occhi mi vanno sul muro del garage, sopra la porta.
È lì che era il canestro. Era appunto. La sua presenza però è testimoniata da
una specie di sagoma triangolare, sulla parete altrimenti tinteggiata di
bianco, laddove un tempo poggiava la base del
tabellone. Anche i due fori che indicavano la posizione
degli stop che lo sorreggevano sono visibili.
È stato tolto, quindi. Calcolando che il dinosauro e i
nostri giocattoli sono ancora qui, non vedo il perchè debba
dubitare di trovare il canestro conservato ancora in qualche angolo. Con questa
convinzione mi dico che potrebbe essere in soffitta,
visto che nel ripostiglio non l’ho visto. Prima di rientrare in casa però,
prendo a palleggiare un pochino e poi provo a fare un tiro, concentrandomi su
un ideale obiettivo. Leggera flessione delle gambe, braccio
piegato in direzione, polso che carica, lancio che parte e traiettoria
parabolica che colpisce in pieno il triangolo dai bordi nerastri sfumati,
dipinto sul muro dall’azione perenne del tempo. Non so se avrei fatto canestro, ma c’ero quasi. Magari avrei preso il
ferro e la palla sarebbe rimbalzata in faccia a mio padre, sbucato
improvvisamente dall’angolo della casa in un fortuito quanto appropriato… uh…
intervento divino.
Scuotendo l’idea al pensiero, continuo a seguire la
traiettoria della sfera che sbatte contro uno dei
roseti del giardino. Non posso fare a meno di stringermi nelle spalle e
contrarre il volto nell’espressione tipica di chi è nei guai. “Cazzo…”. Aspetto quasi l’usuale: “Accidenti, Lij! Zach! Piantatela di
prendervela con i miei fiori!”, esasperato e puntuale come un orologio svizzero
di Debbie. Mia madre.
Beh, nessuno mi rimprovera questa volta, ma il reagire
da moccioso colto in flagrante è duro a morire. Fortunatamente le rose non sono
ancora fiorite, sicché quelle che hanno avuto la peggio sono state le foglie
appena nate e magari qualche spina. Recupero la palla,
notando che il roseto sembra ancora in piedi e che, da un lato, la superficie
marrone/arancione si è graffiata appunto contro qualche spino.
“Zach mi ammazza…”, è il mio
primo pensiero. Anzi no, mi correggo. Zach mi ammazzerebbe se fosse qui,
ma non c’è, quindi me la scampo. Pensiero decisamente
più gradito.
Volete dunque sapere il perchè questi cimeli del
passato si sono conservati intatti?
Presto detto a questo punto. Perché
nessun rompicoglioni li ha disturbati o bistrattati
per quindici anni. E non mi sembra poco. Con
cinque minuti ho fatto un disastro. Figurarsi se fossi stato
anche con Han e Zach.
Poggio il pallone sulla poltrona vicino la porta sul
retro ed entro in casa. Direzione soffitta dunque. Prima però mi fermo in
camera e poggio la statuina sul letto. Un tempo era su una delle mensole
accanto a LeiaOrgana e
agli altri personaggi. Proprio lì, e sotto di loro un poster
gigante di PatrickEwing,
cestista mito di quegli anni per Zach.
Salgo la breve rampata di scale che conduce in
mansarda. Sebbene non sia mai stata sistemata a dovere e si sia
appunto trasformata in soffitta-ripostiglio, un luogo dove conservare
gli abiti per i cambi di stagione e cose simili insomma, non ha comunque
l’aspetto tipico della stanza cupa, tutta ragnatele e polvere soffocante. La
luce funziona perfettamente e tutto è disposto con una certa cura. Credo che
anche questo sia opera di Claire. Di sicuro ci è passata, magari qualche mese fa, ma c’è passata.
Ecco il canestro.
Mi avvicino toccandolo quasi con riverenza.
Accidenti, credevo di essere
molto meno legato a questi oggetti o ai ricordi che fanno riemergere in
superficie. Non me lo sarei mai aspettato, eppure vedendo la base metallica con
il simbolo appunto dei Lakers in giallo e viola, mi
torna in mente il giorno nel quale Zachera rientrato con papà, un sorriso entusiasta sul volto,
questo canestro qui in mano e il casino per montarlo, nel nostro caos
caratteristico.
Poi ancora, forse un paio di anni
dopo, quando non era più nuovissimo, rivedo Zach in
cortile che lo aveva staccato e lo osservava, intento ad avvitare i bulloni che
sostenevano il cesto. Lo aveva anche ridipinto e il giallo era così forte da dare agli occhi. Aveva giocherellato con il cacciavite e,
utilizzandolo come fosse stato un pennarello, aveva scritto il suo nome in
stampatello, nell’angolino in alto. Io ero
inginocchiato davanti a lui e lo guardavo con la tipica ammirazione dei
fratelli minori. Mi ha porto il giravite, invitandomi così ad imitarlo.
Premetto che avevo cinque anni, ma andando all’asilo stavo
imparando a leggere e scrivere. Cose semplicissime e basilari. Tipo il mio
nome. Le guance però mi bruciavano, un po’ per l’emozione di imitare davvero mio
fratello, credo, un po’ perché ero effettivamente teso. Di solito scrivevo con
mia madre che mi ronzava intorno ed annuiva orgogliosa e con la sua tipica
spontaneità di fronte ai miei progressi.
Non mi sentivo teso con lei.
Con Zach era un po’ diverso.
Volevo renderlo orgoglioso di me. La mano mi tremava,
ma concentrandomi al massimo e sentendo il suo sguardo addosso
tutto il tempo, iniziai a delineare tre lettere, per poi tornarci di
nuovo sopra, e rendere l’incisione più netta.
Una volta terminato, sollevai il
volto tesissimo, sentendo il labbro inferiore tremarmi senza che potessi fare a
meno di evitarlo. Se Zach avesse detto anche una sola
parola negativa, per quanto scherzosa, sarei scoppiato
in lacrime penosamente e l’idea di essere un buono a nulla rispetto a lui, mi
avrebbe accompagnato per diverso tempo. Quello che vidi fu invece un sorriso,
credo di orgoglio, simile a quello con il quale
spessissime volte mi gratificava la mamma, se ce n’era motivo, e poi un: “E
bravo, Lij…”, allegro e con tanto di botta affettuosa
e rude, certamente, di mano sulla spalla. Cosa che mi riempì
d’orgoglio, sebbene l’emozione mi avesse effettivamente tagliato la lingua ed
impedito di replicare. Mi ero limitato ad osservare le nostre due firme,
l’una sopra all’altra, spiccare su quel mare di giallo che ancora odorava di
vernice fresca.
“Devo proprio trovarlo quel cane”, disse poi Zach, guardandomi serio in viso. L’espressione
interrogativa che misi su lo fece spiegare meglio,
mentre si metteva in piedi, con l’intenzione di riappendere il canestro. “Il
cane che ha spaventato il gatto, che ti ha mangiato la lingua”, cantilenò con
una smorfia da idiota sul volto, che mi fece scoppiare a ridere spontaneamente,
dimenticando un po’ la tensione del momento e ritrovare le parole.
“Sei uno scemo, Zach”.
“E tu un nano”.
Colpito e affondato.
Già da piccolo. Ma non è un
male. Se già in famiglia evidenziano i tuoi difetti,
quando sarà il mondo all’esterno a palesarli, anche nei modi più offensivi,
potrai dire di essere preparato. Non che sia mai stato preso in giro
pesantemente per la mia altezza, ma non ho mai frequentato normalmente l’HighSchool. Dopo la St. Patrick'sCatholicSchoolsono stato educato a casa, con un
tutore, quindi non saprei se in un ambiente “normale” e con la fase della
crescita pressoché stabilizzata, il mio metro e settanta mi avrebbe reso
oggetto di prese per culo o
precluso delle attività, magari sportive, tanto per dirne una.
I ragazzini sono di una perfidia unica
quando decidono di rendere un malcapitato il loro zimbello preferito. MaZach lo faceva senza astio
come, in effetti, me lo testimoniarono dopo, il suo sorriso da canaglia e la
mano a scompigliarmi i capelli con affetto.
“Allora Lij, che te ne
sembra?”, chiese riferendosi al canestro. Adesso come adesso avrei risposto:
“Pacchiano e kitsch, in un certo senso”. Insomma, quei due colori insieme erano
quantomeno vistosi, ma allora me la cavai con un: “E’
perfetto. Un giorno mi insegnerai a giocare, vero Zach?”, sentendo l’emozione e l’aspettativa tornare.
La prima, per il fatto di essere interpellato da
quello che per me era, ed è ancora oggi, sotto tanti punti di vista, un mito.
Con i loro anni in più, Zach e il gruppo di amici che gironzolava per casa, tra feste e compleanni
vari, i discorsi sulle ragazze e tutto il resto erano una sorta di icona, dal
basso dei miei scarsi cinque anni e della mia altezza ovviamente.
La seconda, perché mi piaceva giocare con lui e la
pallacanestro mi sembrava divertente. Vedevo le partite in tv e avevamo un
videogioco nel quale ero bravino. Non avevo ancora
preso la pallonata in faccia, comunque…
“Certo, Lij man! Contaci”, era stata la risposta spontanea di lui, passandomi
una mano dietro la spalla e stringendomela incoraggiante. “Quando
saremo sicuri che il pallone non ti schiacci, giocheremo insieme”. Era un po’
una presa in giro, ma nascondeva un fondo di verità della quale non pensai
nemmeno un attimo di dubitare. Ed avevo, infatti,
ragione. Lo spavento che Zach prese il pomeriggio del
tiro sulla mia povera faccia, era veritiero. Credo avesse ricordato le prese
per il culo varie che
vertevano sul peso della palla e sulla fragilità del mio fisico, ancora più che
esile.
È accedendomi una sigaretta
che prendo in mano il canestro e senza propriamente pensarci su, passo la punta
delle dita sui solchi ormai arrugginiti che ancora spiccano sul giallo, qua e
là macchiato dalla ruggine del tempo. I nostri nomi sono ancora qui.
ZACH, sopra.
LIJ, sotto.
Scendo le scale con in mano
il...tesoro… deformazione professionale
immagino, pensando a Gollum… ed è uscendo sul retro
che vedo mio padre rientrare con l’auto e parcheggiarla nella rimessa. La
portiera sbatte chiudendosi e Warren si avvicina con
una busta in mano.
Rimango impassibile sotto il suo sguardo semi
indagatore e poi mi sorride, come se l’immagine di me con la sigaretta praticamente per metà andata a puttane, visto che non l’ho
più tirata, quel canestro in mano e la maglietta di cotone bianca un po’ sporca
qua e là per via delle visite nei ripostigli vari, sia divertente.
“Lo hai trovato”, mi dice a mo’ di saluto.
“Mi va di fare due tiri”.
“Dovrai rimontarlo”.
“Direi di sì” e così getto la cicca ormai quasi sul
punto di ustionarmi le dita per terra, la spengo e raccolgo per buttarla nella
pattumiera, a due metri da dove mi trovo.
Inizio a trafficare cercando una scala e suppongo, un
trapano e delle viti per fissarlo. Non mi accorgo che mio padre è nel frattempo
entrato in casa e riuscito. “Ti do una mano”, sobbalzo, quasi sentendolo
parlare. Non so se dirgli sì o no, ma evidentemente scambia il mio silenzio per
un assenso e, miracolosamente, gli attrezzi che cercavo saltano fuori. Lo vedo
trotterellare quindi in cortile, posizionare la scala
e chiamarmi. “Dov’è il canestro, Elijah?”.
Lo raggiungo allora, porgendogli l’oggetto in
questione e lo vedo sistemarlo in due nanosecondi. Quel
trapano senza fili e più che efficiente e lui evidentemente abituato a questo
tipo di lavoretti. “Che te ne sembra?”, mi
chiede, quando il rumore infernale è messo a tacere.
“Sta bene”, annuisco. Effettivamente è così. E’ quello
il suo posto.
Prendo allora la sfera ed inizio a palleggiare, gambe
che molleggiano e poi prendo la mira per il primo tiro. Non va lontanissimo
dall’obbiettivo, recupero la palla e ritento, ci siamo quasi, terzo tentativo, ok canestro. Scopro stranamente che mi andava di muovere un
po’ il sedere, dopo quattro giorni di ibernazione
mentale e fisica. Provo da tre, e la infilo, mio padre recupera il rimbalzo e
mi rilancia la palla. Non mi sono accorto di avere uno spettatore. Provo
ancora, da due e ancora canestro e di nuovo rimbalzo per mio padre. È così che
quasi casualmente si unisce al gioco ed iniziamo a portare avanti una
partitella, in una scena piuttosto classica, per una famiglia americana classica.
Ovvero quella che noi non siamo mai stati.
Ma lascio da parte i se e i ma, divertendomi a giocare. Le regole sono tacite ed universali, non c’è bisogno di ripeterle.
Stiamo portando avanti un uno contro uno, seguendo una
versione casalinga dello street-basketball, così tanto in voga ultimamente.
Mi padre non è male, tutto sommato.
Io non sono MichaelJordan,
ma sono agile proprio per via di quell’altezza che mi
manca, e bravo da tre. Una specie di JohnStockton, viva la modestia, insomma. So solo che quando
arriviamo a 100 è ormai quasi notte e solo il fatto che siamo in movimento, ci impedisce di congelarci. La temperatura è rigida e c’è
anche una specie di nebbiolina tutt’intorno, specie
sull’erba del prato che traspira copiosamente, creando quella coltre
lattiginosa.
Lo batto 100 – 97.
Un buon risultato, che la dice lunga però sul fatto
che ce la siamo battuta davvero. Wow, scarica di adrenalina
più che positiva e un po’ dell’umore nero mandato a farsi fottere.
“Bella partita!”, si congratula mio padre, dandomi una
pacca sulle spalle, in maniera…uh… paterna, appunto. È uno strano groviglio
quello che mi stringe le viscere, ma non toglie il fiato in negativo. È come
quel giorno con Zach. La soddisfazione di averlo
sorpreso positivamente, se non reso orgoglioso. “Ho avuto il maestro migliore”,
annuisco sorridendo e rientrando in casa dopo di lui.
“Lo vedo”, argomenta ancora, versandosi un bicchiere
d’acqua e chiedendomi con lo sguardo se ne voglio anch’io.
In effetti, sto morendo di sete e sento già il sudore
gelarsi addosso, per quanto i locali siano ben
riscaldati.
“Zach è stato un buon
maestro, ma anche tu un buon allievo, direi”, mi dice
con uno di quei mezzi complimenti dei suoi, porgendomi un bicchiere colmo.
Cerco di evitare che la mano mi tremi, facendo
sfracellare il vetro in mille pezzi sul pavimento e sollevo lo sguardo in sua
direzione, cercando una sincerità che leggo schietta nei suoi occhi. Sorrido
così di nuovo, non apertamente come prima, ma sento che il clima miracolosamente
complice, o almeno quasi tale, rimane immutato.
“Converrà farci una doccia subito”, osserva
lui pratico, riponendo la bottiglia in frigo.
“Prima tu”, dico mettendo il bicchiere nel lavello.
“Non c’è problema”, nega. “Anche
il bagno nel sottoscala è funzionante”.
“Va bene”, dico allora. Effettivamente avevo dato per
scontato che non funzionasse.
“Sali tu”, mi invita,
lasciandomi così il bagno di sopra. Sarei lì lì per
replicare il contrario, quando mi dico che sarebbe da
idioti litigare sul bagno, per un eccesso di cavalleria. Un bagno è un bagno. La dimensione della doccia è identica e l’acqua calda
da ambo le parti. A che serve accapigliarsi per cedere
un posto che poi di fatto migliore dell’altro non è?
L’acqua bollente è una manna dal cielo.
Rimango sotto il getto a lungo, sentendo i muscoli rispondere arrendevoli e non
ancora atrofizzati per via dell’acido lattico ristagnante che domani mi farà
camminare piegato in due. Nessun dubbio al riguardo. Faccio sport più per
divertimento che per passione o in maniera costante e di solito rollerblading. Qui ho utilizzato una serie di muscoli
diversi invece, che di solito rimangono a sonnecchiare. Avrò
le braccia a pezzi, rimugino asciugandomi.
La sorpresa però maggiore l’ha riservata la serata, quando
mio padre mi ha detto che aveva tolto il canestro per
evitare così che la pioggia finisse col distruggerlo e che non aveva mai
pensato di buttarlo. È stata la conferma di quello che immaginavo, ho annuito,
mandando giù una cucchiaiata di gelato. Abbiamo praticamente
cenato solo con questo. Ho afferrato allora che era uscito a comprarne appositamente, e ci siamo ritrovati un po’ come due scapoli
senza guida femminile che vivono di un regime alimentare tutt’altro
che sano. L’Häagen-Dazs al caffè
è uno dei migliori. Non so come sia possibile che abbia scelto proprio questo,
ma forse non è stata una decisione difficilissima, se ha cercato di indovinare
i miei gusti. Sono un caffeinomane
convinto, quindi l’associazione è logica per un buon 90%.
Volpe che sono…
Come ti spieghi allora i
successivi quattro giorni di clima tornato nel semimutismo, freddezza,
distacco?
Al diavolo!
Io non sono
un ragazzino idiota, poteva affrancarselo lo sforzo di giocare con me e
comprarmi il gelato. Non ho più due anni, non ho
bisogno di essere viziato per un paio d’ore e poi rimesso nel dimenticatoio. Perché accidenti quel pomeriggio e quella sera sono sembrati
così stramaledettamente perfetti, come avrei detto all’età di cinque anni,
abbagliato più dall’aspetto delle cose, che dalla sostanza intrinseca?
Scusate se non riesco a postare regolarmente a
distanza di pochi giorni=(
So quanto sia noioso
aspettare i capitoli nuovi di una storia che si sta seguendo.
Ad ogni modo, questa era la quinta parte. Ce ne
sono ancora quattro da postare,per un totale di nove.
Come sempre un ringraziamento a Sonya, Sheila, Elentari,
Olivia, Raina, Laila e Fefe90 (sono lieta che tu stia leggendo questa ficcy
nonostante ti piacciano altri attori^^).
A dire il vero la mia passione / ossessione per Elijah è piuttosto scemata negli ultimi mesi (voglio dire
lo apprezzo ancora come attore, ma non ho più degli attacchi
quando lo vedo LOL) quindi non saprei se adesso come adesso scriverei
ancora una ficcy su di lui, ma avete ragione su un
punto, ad ogni modo. Neanche allora avrei potuto scrivere una ff con una protagonista femminile (sicura mia
auto-proiezione per quanto inconscia tra l’altro) a rubargli la scena. Ho
dovuto obbligatoriamente creare un nuovo plot, e mi fa piacere che lo stiate apprezzando. Temevo esattamente il contrario, LOL ;)
Capitolo sei e come sempre i miei più vivi ringraziamenti :)
Capitolo sei e come
sempre i miei più vivi ringraziamenti :)
Avete visto Elijah a
Venezia? Non so come sia il film che ha interpretato, ma il libro da cui è
stato tratto ‘Everything is Illuminated’ è davvero particolare e ben scritto.
Se non lo avete letto, ve lo consiglio.
Al prossimo post,
Neeva
~ Capitolo sei ~
Silent Alarm
Ho
perso un intero pomeriggio a rimuginare e null’altro. Non mi sono reso conto
che è praticamente ora di cena e che in teoria toccava a me arrangiare qualcosa,
visto che mio padre è rientrato ad orari impossibili nei giorni passati. Mi ha
detto che sta facendo degli straordinari e che quindi prima delle 21 di
rincasare non se ne parla.
Masticando
un’imprecazione, prendo a scendere alla volta del piano inferiore, pensando a
cosa si possa improvvisare in dieci minuti.
08:50
PM
La
sveglia in cucina mi dice chiaramente che devo tirare dalla manica una sorta di
jolly, altrimenti sarà ben difficile mettere in tavola qualcosa prima di
un’ora. Non è tanto per me, visto che tutto quel pensare e la morsa che ho alla
bocca dello stomaco mi rendono praticamente inappetente, ma credo che lui
rientrerà affamato.
Mi
affido al congelatore, tirando fuori delle patate già tagliate e pronte per
essere gettate in friggitrice, poi dei petti di pollo impanati e risolvo la
questione del contorno optando per dell’insalata mista. Di meglio proprio non
riesco ad fare.La voglia di cucinare
poi è ai minimi storici. Organizzando la carne in una pirofila da infilare in
forno, subito a palla e già intorno agli 80 gradi, e aprendo la busta con le
patate, ho la conferma di non avere per niente fame. Anzi, posso parlare
benissimo di nausea, accidenti. L’odore dell’olio che sfrigola è un colpo
basso, ma butto dentro una bella manciata di patatine, la porzione per una
persona comunque. L’insalata frena un po’ il desiderio di rimettere e, sebbene
finisca con il triturarla grossolanamente anziché tagliarla come si deve, alla
fine sembra decente.
L’uscio
di casa che si apre mi indica che non sono più da solo.
Perfetto.
Voglia
di vedere mio padre pari a zero, ma sono a casa sua.
Suppongo
quindi sia inevitabile.
“Elijah…”.
“Ciao…”,
biascico a malapena, sentendo una rabbia violenta nei suoi confronti. Come il primo
giorno. Vedersi chiudere la porta in faccia non è mai piacevole, specialmente
se a farlo è tuo padre e adesso non riesco a stringermi nelle spalle ed
incassare il colpo come ho fatto praticamente per tutta una vita. “E’ quasi
pronto”, aggiungo però, stanco di pensare e scartando l’idea di uno scontro
verbale che mi vedrebbe crollare e uscirne sconfitto, se non la pianto di
essere patetico e sensibile all’inverosimile.
Adesso.
In questo fottutissimo istante.
Piantala!
Odio il
ruolo di ragazzino infelice. Non lo sono mai stato. Ciò che adesso mi sembra
incredibile è come qui avverta tutto in maniera amplificata, al punto che una
partita a basket si trasforma in una specie di avvenimento eccezionale ed una
cena consumata in silenzio, il simbolo del fallimento totale di una parte della
mia esistenza.
A Los
Angeles ho una percezione diversa delle cose.
Meno
dilatata, meno negativa.
Più
giusta e meno perturbabile.
Al diavolo!
Che
discorso assurdo potremmo intavolare?
Una
roba del tipo: “Allora papà, prima che tu ti metta a tavola, posso rubarti due
minuti? Sì? D’accordo allora: Perché non ti sei mai curato di noi? Sii però
conciso e il meno brutale possibile. Non credo che sentirmi dire che non ti
importa un accidente di me mi sarebbe d’aiuto…”.
Andiamo, èassurdo… e la sola idea di una sua risposta mi taglia in due le
gambe. So per certo che non si allontanerebbe troppo da quanto ho ipotizzato.
Può essere che gli importi, ma non lo ha mai dimostrato. Mai. E io non riesco a
crederci. Va oltre le mie possibilità. Sarò ottuso probabilmente o almeno da
questo punto di vista, la mia percezione si limita ad un determinato campo.
Oltre non riesce ad andare. È inconcepibile per me il perché si sia allontanato
da noi. L’ho sempre tollerato e accettato, guardando avanti, ma qui non posso
fare a meno di riflettere e, ancora di più, se avevo dei dubbi nel comprendere
quest’atteggiamento, adesso sono triplicati.
Voglio
tornarmene a casa.
Quanto
prima.
Domani, mi tranquillizzo rivedendo
davanti agli occhi la villetta e la sabbia della costa pacifica, bagnata dalle
onde dell’oceano.
È lì
che voglio tornare.
Domani.
Sento
mio padre trafficare con le stoviglie e quando mi volto, vedo che ha
apparecchiato per due. Come nulla fosse, porto in tavola l’insalata e le patatine
e poi gli servo il piatto con il pollo. È allora che mi guarda corrucciando la
fronte. “Hai già mangiato?”.
“Non ho
fame”, rispondo brusco, afferrando nervoso l’accendino. Dopo il primo tiro di Clove riesco a guardalo in faccia.
“Torno a casa”.
Casa.
Quella vera.
La mia.
Mettiamo i puntini sulle /i/.
Lo vedo
guardarmi di nuovo in maniera interrogativa e, dopo praticamente una settimana,
ne osservo bene il volto. Non ci assomigliamo per niente. Non ci siamo mai
assomigliati. Diversi in tutto. Lineamenti, caratteri e vite. Tre elementi che
non si sono mai incontrati direttamente, solo sfiorati e senza che questo
comportasse cambiamenti sostanziali, e da un lato e dall’altro.
Ma non
sono venuto qui per cambiare le cose.
È stato
un istinto che adesso posso chiamare senza più dubbi stupido. Un farsi del male, nel quale le colpe sì sono imputabili a
lui, ma anche alla mia paura infinita che, anziché farmi impiantare un litigio
come si deve, almeno per chiarire così tutti punti oscuri una volta tanto, mi
fa scappare quando non riesco più a vederci chiaramente. Odio gli alti e i
bassi nelle relazioni. Ho sempre cercato di mettere le cose in chiaro nella mia
vita privata, da ogni punto di vista, non mi piace prendere in giro né tanto
meno esservi preso. E questo caos, questo frenare gli istinti più normali e
naturali per chissà quale ragione oscura, non fa per me.
“Te ne
vai?”.
“Domani”.
Domani.
Vedo
che bene un sorso d’acqua per poi riprendere. “Non posso certo trattenerti”.
“Né ne
hai troppa voglia”, mi faccio sfuggire, buttando fuori una nuvola di fumo e
alzandomi per prendere una lattina di birra dal frigo.
Sbronza.
Una
bella e sana sbronza, ecco quello che ci vuole. Ci fosse Dom, sarei a cavallo,
almeno dieci giri di Jägermeister o Baileyssarebbero assicurati. Dovrò cavarmela da solo in
questo caso. Staccare un po’ davvero. Con la mente. Il cervello sembra
impazzito e non riesco a tenerlo a bada.
“Vuoi vivere con me, Elijah? Sei tornato per vedere se
poteva andare?”, mi chiede con il volto che mostra il suo dubbio e anche un
certo dispiacere per quello che ho detto, sebbene il tono risulti quasi irato.
Sul momento però mi concentro più sull’espressione del viso e non me ne importa
un cazzo. Che soffra anche lui una volta tanto.
“No”, nego deciso, con una luce ironica nello sguardo,
come se avesse detto la più grande delle idiozie. “Non mi è mai passato per la
mente niente del genere”.
Incassa anche questo secondo colpo, il confronto con mia
madre è tanto schiacciante quanto taciuto e facile ad intuirsi, ma lo vedo
allontanare il piatto ancora colmo di patate per metà. Non credo di essere
stato particolarmente duro, ma evidentemente non sono l’unico a star male per
questa situazione, o meglio non-situazione, diversamente da quello che credevo.
“A che ora?”, chiede, buttando buona parte della cena
nella pattumiera, cosa che mi fa irrigidire sulla sedia immediatamente. Odio
gli sprechi. Quello che percepisco però maggiormente è la mia sofferenza, che
soffoca ogni altro sentimento.
Pura, sana, egoistica sofferenza.
Intima e così complessa da risultare difficile
l’afferrarne il senso e le contraddizioni intrinseche.
Provo la strana voglia di scusarmi per essere stato così
lapidario pur non gridando o alzando la voce, ma poi vengo frenato dal ricordo
penoso della sua assenza, sul fatto che non ci sia mai stato né a sostenermi,
né a negarmi il suo consenso.
Nulla di nulla.
Non riesco a schiodarmi da questa dimensione, privata ed
egocentrica.
Sopravvivrà.
Così come farò io, dopo essermi leccato le ferite.
“Ho l’aereo alle 11 e qualcosa”.
“Non posso accompagnarti in aeroporto”.
“Lo so, già”, sorrido amaro. “Figurati se puoi prenderti
un paio d’ore di permesso o almeno provarci”.
Silenzio.
“Insomma, che diavolo vuoi da me?!”.
È un grido.
All’improvviso.
La voce che esprime un’esasperazione che mai mi sarei
immaginato e allo stesso tempo del fastidio, immagino per quello che è l’essere
messo di fronte alla verità.
Il punto è che una verità scomoda.
Che fa male e ci fa rendere conto di essere mortalmente
imperfetti.
Le circostanze a volte ci mettono di fronte a quello che
neghiamo.
E a volte il caso distrugge la routine tranquilla della
nostra esistenza, sotto forma di un figlio che viene da dove lo credevamo
lontanissimo, appositamente per darci sui nervi.
Per quanto lo abbiamo allontanato, ritorna.
Come dell’olio che galleggia sempre nell’acqua, per
quanto tentiamo di miscelarlo con la stessa.
Come una macchia di caffè su una tovaglia. L’alone opaco
rimane sempre se lo si osserva con occhio attento. L’unico modo per eliminarlo
è un trattamento d’urto ed innaturale, che cancellerà sì la macchia, ma
rovinerà anche il tessuto.
È quello che sta succedendo a noi.
La macchia di caffè è stata sempre lì, sebbene il tempo
abbia contribuito a renderla, anno dopo anno, meno visibile e per questo ci ha
illusi che sia in realtà scomparsa del tutto.
Basta un raggio di sole per rendersi conto del contrario.
E questo è infine giunto.
Dalla California, con tutto il suo carico di dubbi,
incertezze e sentimenti pronti ad esplodere e creare altre macchie, altrettanto
impossibili a cancellarsi.
“Niente. Non voglio assolutamente niente!”, lo guardo con
gli occhi che suppongo lancino letteralmente fulmini, la voce dura e la nausea
che aumenta. “Niente”, alzo la voce a mia volta, spegnendo il mozzicone con
rabbia e alzandomi, fronteggiandolo direttamente. “Non ti sto accusando di un
accidente. La mia era solo una comunicazione di servizio. Punto. Nulla di più.
Se hai voluto leggerci qualcosa di diverso sono fatti tuoi. Tuoi e basta! Non
me ne frega un cazzo”, sputo fuori a raffica, in un misto di verità e bugia che
mi fa sentire male, anche se lo penso in parte, in fin dei conti. Sono
sentimenti poco chiari e poco nobili, ma non sono un essere sovrannaturale. C’è
in me del buono e del cattivo. L’angelo a tuttotondo di cui parla la stampa è
evidentemente falso. Non bastano due occhi azzurri e un volto da ragazzino a
fare di una persona un santo. E in questo momento mi sento ben lontano
dall’esserlo.
Mi chiudo a chiave in camera, in un gesto infantile,
sbattendo la porta con violenza.
Viva
l’infantilismo.
Afferro il cellulare buttandomi sul letto sulla pancia.
Freno in tempo, quando mi rendo conto di aver composto il
numero di Hannah.
Ho voglia di sentirla e l’istinto ha agito per me.
Premo però il tasto per l’interruzione di chiamata.
Non le ho sentite per niente.
Né lei, né Deb.
Essendo passata una settimana, è un fatto storico.
Tre sms in tutto e piuttosto scarni nel testo da parte
mia.
Vorrei che fossero qui a farmi sentire benvoluto e meno
inutile. Speciale, in quel modo ironico nel quale ci riescono benissimo. Mi
mancano da morire. È penoso lo stato di incertezza nel quale sono piombato, fa
male dentro, e mi fa avvertire un bruciore sotto le palpebre chiuse che adesso
però mi imbarazza, anziché indicarmi che ho semplicemente voglia di sfogarmi.
Al diavolo le
lacrime. Non se ne parla, mi dico alzandomi di scatto e poggiando il telefono sul comodino. Sento
sotto le dita la carta lucida di una foto. Non ricordando sul momento di cosa
si tratti, la prendo in mano e mi trovo di fronte il volto sorridente ed
emozionato di una diciassettenne dalla lunga chioma rossiccia e un po’
scompigliata, che mi abbraccia timidamente.
È un’immagine di freschezza e semplicità assolute, che si
oppone come un lastra di vetro trasparente e pulito contro un cielo
marrone-violaceo, sporco di smog e saturo di anidride carbonica.
Sento sfuggirmi un sorriso al ricordo di lunedì
pomeriggio, quando avevo l’umore sotto i tacchi e mi ero completamente
dimenticato di Claire e Marti.
Il chiacchiericcio
allegro della donna mi aveva sollevato parzialmente l’umore cupo, mentre si
dedicava alle pulizie di casa, e quando poi nel tardo pomeriggio avevo sentito
suonare di nuovo la porta, avevo cercato di mettere su una maschera se non
raggiante, almeno di cortesia. Era di nuovo lei, seguita dalla ragazza.
Di fronte a quel
sorriso titubante ed emozionato, mi sono ritrovato a ricambiare spontaneamente,
leggendo ammirazione pura in quegli occhi nocciola.
“Elijah, ti
presento Marteena”, ha annunciato Claire gioviale, spingendomi così
implicitamente a porgere la mano alla ragazza, ancora in silenzio.
“Piacere di
conoscerti, Marti”.
“Il piacere è mio,
Elijah”, mi sono sentito rispondere in un chiaro accento newyorchese, voce
appena tremante.
Le ho invitate in
casa, offerto loro qualcosa da bere e, dopo una mezz’ora, Claire ha detto che
doveva andare. Anche Marti si è allora alzata e l’ho vista come farsi coraggio
per chiedermi l’autografo, suppongo. Invece sono stato io a precederla
dicendole di potere rimanere con me il pomeriggio, non avendo nulla di speciale
da fare, che potevamo fare due chiacchiere e vedere un dvd. La sorpresa sul
volto di Marteena è stata decisamente indescrivibile, ma l’ho fatto perché mi
sentivo onestamente di poter stare bene con lei e forse anche alleviare quella
specie di solitudine che sentivo dentro.
E così è stato che effettivamente
l’ho conosciuta un po’ meglio, abbiamo parlato dei miei film, di come le
andavano le cose a scuola, visto un dvd e mangiato del gelato. La foto l’ha
scattata Claire quando è tornata indietro, ormai ad ora di cena.
Ed eccola qui.
Una polaroid.
Abbiamo fatto più di uno scatto. Ne ho anche una con Mrs.
Marcano.
Dopo le foto ed altre due chiacchiere se ne sono andate,
entrambe ringraziandomi e Marteena rubandomi un abbraccio affettuoso e
riconoscente. Non ho mai trascorso del tempo così privatamente con una fan, men
che meno poi a casa mia, ma Marti è stata carina e spontanea. Stranamente
matura dai suoi discorsi, forse anche intimidita dal tutto. Mi ha fatto la
promessa solenne di mantenere acqua in bocca, pur dicendomi che un po’ si sente
come il barbiere di Re Mida, volendo gridare ai quattro venti non che il re ha le orecchie d’asino! ma che Elijah Wood è in città! E credo l’abbia
mantenuta, altrimenti avrei avuto qualche paparazzo o curioso beccato a
sbirciare tra l’inferriata del cancello.
Gli occhi mi vanno su una t-shirt piegata su una sedia. È
stata un suo regalo. Ho trovato il pacchetto poggiato sul letto. Forse è stata
Claire a metterlo lì dal mattino, non saprei dirlo esattamente perché non sono
salito in camera prima di sera. Non me lo aspettavo assolutamente però. C’era
anche un bigliettino semplice e scritto di suo pugno. Cosa che mi ha strappato
un altro sorriso e portato il giorno dopo a trovare il numero di casa di
Marcano sull’elenco per ringraziarla. A rispondermi è stata Claire. Da idiota
non ho pensato che una diciassettenne è a scuola dal mattino al pomeriggio e
così non ho potuto parlarle direttamente.
“E’ la tua misura,
Elijah?”.
“Sì. E’ perfetta”.
“Marteena ne sarà
contenta. Era incerta sui tuoi gusti, sul colore…”.
“E’ perfetta,
Claire. L’azzurro è il mio colore preferito”.
L’unico diversivo allegro, grazie al quale mi sono
sentito di valere un po’ più di zero e in grado di farmi staccare da
quest’ultima quattro giorni penosa, culminata con lo sfogo di stasera.
Bip… bip…
>>Lijah, ne
ho pieni i coglioni. Per oggi ti lascio in pace, ma se domani non chiami o ti
fai vivo, ti tartasserò a morte e verrò comunque a sapere dove diavolo sei
andato a finire, dovessi scomodare la polizia o setacciare tutti i tabulati del
LAX/*è una promessa è_é
È l’ultimo messaggio di Han.
Minaccioso e comico al punto giusto.
_____________________________
La testa mi sta scoppiando. Praticamente ho chiuso occhio
quando era già l’alba.
Adesso sono le 07:25 AM
Devo alzarmi, è inutile rigirarmi ancora sotto le
coperte, divelte poi tra l’altro. Che non ne abbia nessuna voglia, passa in
secondo piano. Mi sollevo così mettendomi a sedere sul letto. La testa mi va da
un lato e dall’alto come se appartenesse ad un fantoccio. Ed è un po’ tale che
mi sento. Ogni volta che sono forzato a fare qualcosa controvoglia, mi sento
tale.
Voglio tornarmene a casa, ma l’idea di rendermi
presentabile, chiamare un taxi e posare il culo su un aereo, mi sembra al di là
di ogni possibilità effettiva. Mormoro un’imprecazione, mentre mi passo una
mano tra i capelli. Spettinarli più di quello che sono è umanamente
impossibile. La t-shirt che indosso è allo stesso modo arricciata e davvero, le
coperte da un lato e le lenzuola dall’altro, la dicono lunga sulle ultime otto
ore.
Il sonno non è arrivato.
Nonostante non abbia più rimuginato su nulla ad un certo
punto, non sono riuscito a dormire.
Come se fosse troppo faticoso anche abbandonarsi al più
normale dei riposi.
Il pavimento è gelido sotto i piedi nudi, ma non ho
voglia di trovare le ciabatte e così esco sbadigliando dalla camera e mi chiudo
in bagno. Mi dà il benvenuto il riflesso di un fantasma e reprimo a stento
l’istinto di distruggere quell’immagine con un pugno ben assestato.
È sotto la doccia che inizio a riprendere contatto con il
mondo all’esterno. Il flusso dell’acqua che scende nella vasca sembra indicarmi
che la giornata sta davvero iniziando. Segna una linea di divisione netta da
quello che è stato praticamente un prolungamento delle ventiquattro ore
precedenti. Ci siamo. Voltiamo pagina e torniamo a quello che è sempre stato in
un certo senso. Come sapevo già in partenza comunque. L’obiettivo di questo
viaggio non era il cambiamento. E l’esito è stato più che cristallino. Il
carico di amarezza non è però per questo inferiore o meno soffocante. L’acqua è
calda, ma ho la pelle d’oca e non riesco a spiegarmelo. Qualcosa di gelido mi
rimane dentro e non riesco ad allontanarlo, o a scioglierlo. Una specie di lama
conficcata nella schiena. Normalmente accosterei questa reazione alla paura, ma
non è questo il caso. Non ho paura, almeno non di un qualcosa di concreto.
Quello che mi spaventa è a livello più personale. Probabilmente è la
possibilità di essere dimenticato da mio padre, per quanto il nostro rapporto
sia già inesistente, che mi fa sentire questo groppo in gola che punge
fastidiosamente.
Ci sono ottime possibilità che Warren metta davvero una
pietra sul capitolo Elijah, dopo questa settimana.
Facendo un bilancio, c’è poco da salvare.
Un pomeriggio piacevole su sette d’indifferenza, conta
come una goccia nell’oceano.
Nulla.
Mi avvolgo un asciugamano intorno ai fianchi e asciugo con
una salvietta i capelli. Dovrei forse radermi, ma non ne ho voglia, passo a
domani. Prendo a lavarmi i denti con cura meticolosa, al punto che quando mi
rendo conto di essere ancora lì con lo spazzolino in bocca, non riesco a capire
se siano passati i canonici tre minuti o magari una fottuta mezz’ora.
Mi sposto allora in camera, afferrando al volo un paio
dei boxer, dei calzini, dei jeans, la t-shirt di Marti, sulla quale infilo una
felpa con zip e cappuccio e metto appena un po’ di gel sui capelli, modellandolo
con le mani di fronte lo specchio in bagno ed evitando i miei occhi per
concentrarmi solo sui ciuffi corti e scuri che prendono la piega che voglio,
senza troppi patemi.
Raccatto quanto di mio c’è in bagno e completo la
valigia. La statuina di Luke Skywalker viene messa per ultima dentro, il resto
nello zaino e dopo aver aperto infine le imposte e la finestra, rimango un po’
lì, godendo dell’aria mattutina sulla faccia. È rigida e simile a delle
frustate, ma contribuisce a farmi uscire dalla bolla di sapone che mi ospita
dalla sera precedente. Potrebbe essere l’ultima volta che vengo qui. L’ultima
volta che dormo in questa stanza, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Gli elenchi delle ultime cose sono appunto infiniti.
Scendo in salotto con lo zaino in spalla e il trolley saldo nelle mani, mentre
percorro le scale. Poggio momentaneamente le mie cose qui e mi dirigo in
cucina. Mio padre siede a tavola, sta leggendo il quotidiano locale, la tv
accesa con le breaking news per
sottofondo e l’odore del caffè appena fatto nell’aria.
Non mi saluta, ma percepisco il suo sguardo su di me,
sebbene lo eviti dirigendomi verso lo scolapiatti per prendere un mug e versarmi un po’ di intruglio
ancora caldo. Il primo sorso mi fa rivoltare lo stomaco. Il contrasto con il
sapore del dentifricio è insopportabile. Continuo però a mandarlo giù,
avvicinandomi alla finestra e osservando il giardino da lì. Il cielo sembra
sgombro da nubi, ma è di un grigio un po’ strano. Un colore insolito in
primavera e, soprattutto, visto l’aria nient’affatto umida.
Termino il caffè, dando un’occhiata all’orologio.
Sono le 08:45 AM
Chiamo allora un taxi, dando all’operatore l’indirizzo di
casa e mi viene detto che sarà qui tra dieci minuti.
Dieci minuti.
Altri 600 secondi e
fuori di qui.
Butto un’aspirina in un bicchiere, con la speranza che la
testa si alleggerisca un po’ e la pressione all’altezza delle tempie
martellanti, la smetta di torturarmi. Lo sguardo di mio padre mi sta seguendo costantemente,
al punto che sbotto con un: “Che diavolo hai da guardare?”, prima di afferrare
il bicchiere colmo di acqua per metà e mandare giù quella mistura salata in un
sorso solo. In pratica ho ancora lo stomaco vuoto, visto che il caffè non si
può dire contenga chissà quali proprietà nutritive, zucchero escluso. Almeno
questo però non mi farà stramazzare al suo per un calo ipoglicemico. È da
coglioni uscire di casa senza mettere niente sotto i denti ed in prospettiva di
un viaggio, non lunghissimo d’accordo, ma è pur sempre un sottoporsi a tensione
e stress estranee a quella che può essere considerata una giornata tipo. Magari
prendo qualcosa in aeroporto. Se non vomito la bile che ho in corpo prima.
Non ottengo risposta, solo uno sguardo fisso, che diventa
meno chiaro attraverso il soffio di fumo che ho appena tirato fuori dalla
sigaretta accesa. Il terzo elemento per una colazione perfetta e salutare.
Il suono del citofono indica l’arrivo del taxi. Rispondo
al ricevitore e, spegnendo la Clove
ancora intatta per una buona metà, indosso il giubbotto di jeans,
abbottonandolo con le mani che mi tremano, sebbene impercettibilmente e senza
che possa fare nulla per darci un taglio. Infilare l’ultimo fottuto bottone
nell’asola è quasi una sfida che va al di là delle mie attuali capacità e
risolvo lasciandolo aperto. Al diavolo,
borbotto mettendomi lo zaino in spalla e tirando fuori il manico mobile della
valigia.
Me ne sto andando dunque. Sono solo nell’atrio e sebbene
l’intenzione sia quella di girare i tacchi ed uscire subito, non riesco a non
guardarmi indietro e abbracciare con lo sguardo le stanze. Non l’ho fatto
quando sono uscito dalla camera da letto, ma qui sono spinto da qualcosa che mi
parte da dentro. Non so se è un addio. Può darsi che torni qui tra tre anni,
come tra due mesi, come mai. Nonostante le ultime risposte, non è che le cose
siano cambiate così tanto in negativo, per il semplice fatto che non c’è mai
stato un positivo. Quindi con un secondo termine di paragone assente, il
giudizio rimane sospeso.
Sarebbe ipocrita dire che sto bene e che è tutto normale.
È onesto dire che non é andata peggio delle altre volte.
Quello che non capisco è che necessità ci fosse di venire
qui e riviverlo.
L’animo umano dovrebbe rifuggire da quello che lo fa
soffrire.
La mente ci prova in tutti i modi a dimenticare gli
episodi che ci feriscono, giungendo anche ad auto-ingannarsi.
Perché allora io abbia riportato alla luce
volontariamente delle ferite è invece contraddittorio e insensato.
Inutile imbellettare le cose se sono misere.
È disillusione, quella che sento.
Unita ad amarezza e una specie di… uh… nostalgia?
Nostalgia per cosa,
accidenti?
La rabbia di dieci minuti fa è scemata com’è venuta.
Improvvisa e bruciante.
Cattiva consigliera, visto l’astio con cui mi ha portato
a parlare.
È un insieme strano, che al momento mi impregna da capo a
piedi e che avrà bisogno del suo tempo per andarsene oppure essere
metabolizzato.
È quello che ho sempre provato pensando alla relazione
con mio padre.
La differenza sta nel fatto che adesso è tutto più
vivido.
Come se qualcuno avesse smosso delle braci morenti,
facendole all’improvviso rivivere per via dell’ossigeno che torna ad
alimentarle.
Chi è quel qualcuno?
Io, per qualche assurdo motivo.
Dovrei solo accettarlo, anche se non è così facile.
Potrei capire se fossi nato da una storiella qualunque. Se non fossi stato
voluto e avessi sorpreso mio padre con la notizia del mio concepimento, ma
accidenti, loro erano sposati e da anni. Hanno avuto tre figli. Non è logico
pensare che un minimo di volontà e desiderio di mettermi al mondo ci sia stato,
in qualche modo? Accettare che tuo padre è incapace di stabilire un legame con
te nonostante queste premesse, è dannatamente difficile.
Il taxi suona.
Ha ragione.
È lì fuori da ormai dieci minuti.
“Elijah…”.
La voce di mio padre mi blocca, quando sono già a metà
del vialetto.
Sento lo stomaco contorcersi, ma non so se sia per via di
quella specie di colazione che ho buttato giù o se è indice del fatto che ho
già deciso di voltarmi e fronteggiarlo.
Magari tutti e due.
Mi volto lentamente osservandolo sullo stipite della
porta. Non riesco a capire cosa gli passi per la testa, ma lo stesso potrei dire
di me. Fisso lo sguardo sul cemento sotto i miei piedi, come a riordinare i
pensieri o almeno seguire un flusso di pensiero coerente in tutto quel marasma
ingarbugliato.
Vedo la sua ombra chiarissima vicino alla mia e allora
sollevo il mento a fissarlo direttamente negli occhi. Mi forzo a parlare, anche
se è come mi avessero cucito la bocca o come se stessi parlando in qualche
idioma sconosciuto, poco sicuro ed incerto sui vocaboli da scegliere. È tornato il cane, che ha spaventato il
gatto, che mi ha rubato la lingua…
“Non ero venuto con l’intenzione di giocare al figlio
problematico”.
È questo quanto riesco a formulare. Sono onesto, non è
per questo se sono venuto a Cedar, ma non so se sia adatto ad un congedo o
comunque a quanto sta avvenendo adesso, chiamiamolo pure come ci pare.
“Non lo sei”.
Mi mordo il labbro inferiore, mostrando la mia
insicurezza in questo frangente.
Nessun ti voglio
bene o sono orgoglioso di te.
Chiunque lo avrebbe detto, immagino.
Non lui.
Devo smetterla di
volerlo diverso.
Me lo ripeto all’infinito, dopo aver voltato le spalle
senza nessun’ulteriore parola.
Stando qui ho solo avuto conferma di quello che già
sapevo.
Jeez… sono in ritardissimo... ;__;
Senza perdermi in chiacchiere ecco il settimo capitolo. A proposito! Qualcuna
di voi è riuscita a vedere ‘Ogni cosa èilluminata’? È uscito nelle sale più o
meno venti giorni fa ed sta avendo delle buone critiche :)
~ Capitolo Sette ~
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Il
caldo del pomeriggio californiano mi dà il benvenuto una volta messo piede sul suolo fermo del Terminal 4 del LAX.
Vengo bloccato da un gruppetto di ragazze che si
avvicinano simil-discretamente, come timorose di
vedermi scappare. Mi chiedono se possono scattarmi delle foto e poi firmare
degli autografi. Annuisco, cercando di sorridere quanto più possibile disteso
di fronte l’obiettivo e le congedo, prendendo poi le valigie che nel frattempo
sfilano sul nastro mobile, dopo un tempo inverosimilmente breve. Me la svigno
velocemente, imboccando l’ascensore che conduce ai parcheggi al coperto. Ho
lasciato la macchina qui; ricordo però a malapena dove sia. Uh… dovrei avere
nel portafoglio la ricevuta del pagamento con su anche
il numero del blocco. Hmph…
dopo aver lottato con le cose che ho nello zaino, riesco infine ad afferrarlo e
muovermi così alla volta dello spazio P6.
La vedo
da lontano ed è con sorriso che saluto la mia Mini Cooper.
Il primo oggetto che mi indica che sono tornato in un
terreno familiare. Apro le portiere con il telecomando a distanza e stipo la
valigia nel portabagagli. Una volta nell’abitacolo respiro l’odore noto e
piacevole della pelle dei sedili e della menta dell’Arbremagique. Lo ha scelto Hannah, superfluo dirlo, ma piace anche a me. E’ per questo che è ancora lì appeso allo specchietto
retrovisore, insieme ad un peluche a forma di mini koala. Un souvenir
dall’Oceania.
Metto
in moto, prendendo gli occhiali da sole nel cruscotto.
Li indosso trovando lì per lì strano osservare il tutto attraverso le lenti
scure, in questo seminterrato che buio lo è già di suo, nonostante la luce
all’esterno. Afferro allora il cellulare per accenderlo e trovarvi due
tentativi di chiamata e qualche messaggio. Rispondo sinteticamente,
ma ancora una volta snobbo volontariamente mia sorella e mia madre. Voglio
fargli una sorpresa, ma ho bisogno ancora di qualche minuto per riordinare le
idee. Accendo allora lo stereo, mettendolo su una radio locale che fa buona
musica a mio parere e, allacciata la cintura di sicurezza, mi accingo a
lasciare l’aeroporto.
Prendo la 405 in direzione Nord e per
un po’ mi concentro totalmente sulla guida, trovandomi incappato nel solito ingorgo di
macchine. Qui è sempre ora di punta per un motivo o per un altro. Guidare mi
rilassa, la tensione al collo e alla schiena si fa meno pressante.
In aereo stavo praticamente
morendo. Avendo passeggeri di fianco e di dietro, contrariamente all’andata,
non ho potuto sdraiarmi come avrei voluto e l’arrivo a Denver mi è sembrato
lunghissimo. Sono sceso con i crampi allo stomaco, rifugiandomi prima in bagno
per darmi una rinfrescata e poi sedendo al tavolino di un bar, per ordinare una
specie di brunch.
Lo sbalzo di pressione per via della differenza delle atmosfere mi ha messo
davvero lo stomaco sottosopra, facendomi maledire quello che avevo
mandato giù già a fatica di mio. Mettere piede a Los Angeles è
stato una specie di sogno fattosi realtà. Non ho mai avuto problemi a
volare, ma è pur vero che poche volte sono salito su un aereo in quelle
condizioni e con la nausea a farmi girare la testa. Adesso va meglio. Davvero.
L’abitacolo è caldo per via dei raggi di un sole
piuttosto cocente per essere un pomeriggio primaverile e rimango praticante con
indosso solo la T-shirt
di Marteena, che si sta rivelando utilissima. Suppongo le farebbe piacere saperlo. Senza quasi
accorgermene svolto a sinistra, un chilometro prima di raggiungereInglewood, prendendo così la 42. E’ solo una volta arrivato a Playa del Rey che mi accorgo di aver deviato. Venice,
è praticamente vicinissima. Più o
meno due miglia a nord.
Parcheggio in prossimità di una spiaggia poco pullulante
di persone e scendo a fare due passi. Ormai sono qui, tanto vale che passi
un’oretta in tutta tranquillità. Il mare è un po’ agitato e il vento soffia
inaspettatamente forte. È ormai pomeriggio inoltrato e, avvicinandosi il
tramonto, la temperatura ne risente immediatamente. Torno allora in macchina
afferrando il giubbotto di jeans e le cloves che avevo dimenticato. Cosa impossibile a credersi, ma non ho voglia di fumare. Le tengo nel caso in cui mi torni
all’improvviso, mi dico come giustificandomi con me stesso.
Decido di togliere le scarpe ed i calzini, sentendo la
sabbia fredda ed asciutta sotto i piedi. Mi trasmette una strana tranquillità.
Vagare così in spiaggia come un randagio in cerca d’affetto mi è sempre
piaciuto. Aiuta a sedare i nervi. La risacca del mare è ipnotica e mi piace da
morire quest’ora del giorno. Quella
che precede il crepuscolo vero e proprio. Quando la linea dell’orizzonte
inizia a cambiare colore, sfumandosi in tonalità sempre diverse, man mano che passano i minuti. E questo sembra
uno di quei pomeriggi beati in un certo senso.
Poca gente in giro e poco
chiasso. Solo il fruscio dei miei jeans a contatto con la
rena dorata e il freddo del vento a tagliarmi quasi il volto. Adesso
gelido lo è per davvero. E guardando l’orologio mi
rendo conto che sono due ore che passeggio. Non ho incontrato nessuno
miracolosamente. È raro poter godere di qualche
momento di assoluto anonimato a Los Angeles e, sebbene non sia in uno dei
quartieri centrici, non ricordo davvero da quanto debba passeggiare
completamente da solo, se si esclude la compagnia dei miei pensieri.
Le mani sono intirizzite e una volta
tornato sul marciapiede, faccio quasi fatica a rimettere i calzini e le
scarpe, tanto è vero che le lascio slacciate, stringendo solo pigramente le
stringe per raggomitolarle poi all’interno delle sneakers. C’è una specie di
chiosco ad una decina di metri da dove sono. L’idea di una bevanda calda non mi
sembra malvagia e così, mi avvicino al bar ambulante avendo pienamente davanti
agli occhi l’immagine del lungomare con la sua cementata, liscia ed adatta per
i rollerblade,
nonché alberi di palma piuttosto alti, piantati a
distanza identica gli uni dagli altri.
“Una cioccolata calda”, mormoro alla signora sulla
quarantina che mi chiede cosa desidero. Annuisce con un sorriso e dopo qualche
minuto poggia sul bancone un bicchierone, tipo quelli della Coca Cola, colmo per tre quarti di
cioccolato semi-denso, l’esatta consistenza che le ho
chiesto, e fumante. Le do cinque dollari aspettando
che mi faccia il resto e poi la saluto continuando a camminare, in direzione
opposta al parcheggio. C’è un giornalaio appena dopo qualche metro.
L’attenzione è catturata da alcune cartoline in bella vista su degli
espositori.
Mi viene in mente Marteena e
penso che potrebbe essere un modo per ringraziarla della t-shirt. Sono sicuro
che Claire le abbia rapportato
per filo e per segno la nostra conversione telefonica, ma mi è dispiaciuto non
poter parlare direttamente con lei. Rimango un po’ lì a fissare gli scorci
immortalati nei diversi formati da post-card e ne scelgo proprio uno di Venice. Una visuale del mare, ripreso
esattamente in un’altra ora che mi piace particolarmente. Quella
immediatamente successiva all’alba. I colori del cielo sono indefiniti, un
arcobaleno di sfumature che mantengono anche su carta quella loro
caratteristica intrinseca di tonalità momentanea e colta sul punto di morte,
per trasformarsi in quella successiva.
Porgo dunque la cartolina al giornalaio che me la rende
all’interno di una bustina di carta ed insieme ad
alcuni spiccioli di resto. A questo punto mi volto indietro e rientro in
macchina, finendo di bere la cioccolata, riflettendo su quello che potrei
scrivere. Il concetto alla base è un grazie, ma non
retorico, direi tutt’altro. Allo stesso modo però
eccedere con le parole potrebbe far intender qualcosa che non
è affatto, e creare illusioni oppure ferirla, non rientra affatto in
quello che voglio fare.
Prendo una penna dallo zaino e rimango a guardare lo
spazio bianco da riempire. È mordicchiando il cappuccio della biro che
l’ispirazione viene, e riempio con facilità il rettangolino
che ho davanti. Rileggo poi un paio di volte e mi dico
che ho trovato le parole giuste. Il primo obiettivo raggiunto dopo una
settimana di caos. Los Angeles ha una buona influenza
su di me, a quanto sembra. Passo poi a scrivere l’indirizzo sulla destra della
superficie. L’ho letto sull’elenco, quando ho cercato il suo numero di casa e
lo ricordo senza troppi dubbi. Sono un attore. Ho una memoria affidabile.
Marteena Marcano,
23 OakSt.
CedarRapids,
IA
52498
Ho bisogno di un francobollo. Voglio imbucarla subito,
non mi va che mi passi di mente. C’è una tabaccheria al di là della strada e di fianco una casella per imbucare
le lettere. Esco dunque di nuovo dall’auto, attraverso
il corso e imbuco la cartolina, dopo aver comprato oltre al francobollo delle
altre sigarette e un pacchetto di gomme da masticare. Altra
cosa di cui sono dipendente.
Il sole è quasi del tutto sceso ormai. I lampioni che
illuminano il viale, già da un po’, adesso si vedono benissimo. Sarò a casa tra
venti minuti, sperando in poco traffico. Mi rimetto così in macchina prendendo
la 1 all’incrocio con la 42 e facendo così la cosa più logica, quello cioè che avrei dovuto fare già tre ore fa se non avessi
smesso di prestare attenzione alla strada che stavo prendendo. Poco male comunque. Guidare mi piace, ancora di più con un bel cd ad
accompagnarmi e le luci della prima sera tutt’intorno.
Un cartello sul quale spicca la scritta in bianco VENICE, mi dice
che sono arrivato.
Dopo qualche centinaio di metri, infatti, vedo il profilo della mia casa e spingo il tasto del comando
a distanza, entrando così agevolmente nel cancello completamente aperto. Lascio
la macchina in cortile e scendo riempiendomi letteralmente gli occhi dei
dettagli del giardino e della facciata della villetta nella quale vivono mia
madre ed Han. La dependance
che ospita me invece è appena più in là. Ci andrò
dopo. Adesso voglio rivedere loro.
Vengo però bloccato dal saluto festoso di Rascal e Levonne, i miei due collies. “Hey…”, li saluto rispondendo al loro saltellare allegro e
accarezzandogli la testa. Ecco un’altra cosa che mi è mancata.
Come diavolo si fa a vivere senza animali
domestici di nessuna sorta?
La luce dell’ingresso è accesa, la vedo attraverso il
vetro opaco delle lastre che decorano qua e là il legno del portone principale.
Mia madre c’è di sicuro. Su Hannah non ci metterei la
mano sul fuoco, ma va comunque bene così. Prendo solo
lo zaino, le chiavi e il cellulare, praticamente
superfluo negli ultimi giorni.
Si può vivere senza?
Direi di sì.
Mi dirigo così verso casa, seguito dai due cani
scodinzolanti e festosi. Entro allora nell’atrio, venendo
accolto dall’odore di qualcosa che cuoce in forno. La stretta in gola che sento
dopo aver messo piede solo nell’ingresso, è tale da stendermi al tappeto.
Accidenti, sono emotivo è vero, ma questo sta avendo del patologico. Cerco di
calmare i battiti forsennati che mi stanno sfondando la cassa toracica, e
appoggio lo zaino a terra. Lo specchio che ho di fronte mi mostra un ragazzo di
ventiquattro anni con due occhi al momento troppo grandi e troppo lucidi sul
volto pallido e tirato. Hmph….
Se volevo ingannarle raccontando loro quanto sia stata fantastica questa
vacanza e quanto mi sia divertito e quanto mi abbia fatto bene staccare e bla, bla, bla…
direi che sono proprio sulla strada sbagliata.
“Lij?”, sento allora chiamare
la voce di Debbie, per vederla poi fare capolino dal
salotto. “Elijah, sweetie”, ripete con un bel
sorriso sul volto, felice di rivedermi, cosa che accentua paradossalmente il
mio malore. Il suo tono affettuoso è una specie di balsamo per le mie orecchie,
ma si sta rivelando allo stesso modo rovinoso.
Eppure mi impongo di far finta
di niente.
Devo leccarmi le ferite e lo farò in privato.
Solo gli idioti si tirano la zappa sui piedi come ho
fatto io.
Ecco perché non mi va che mia madre o Hannah
mi vedano patetico, voglio dire, di più di quello che
in realtà già sento di essere, ed in piena paranoia post-Cedar.
Da copione allora ruoto gli occhi in un’espressione
scocciata da ragazzino che si sente grande e che odia essere coccolato. Lo
faccio sempre, quando mia madre inizia a vezzeggiarmi come un poppante. La vedo
avvicinarsi ancora con quel bel sorriso e mi abbraccia, brevemente ma piena di
calore. Un bacio sulla guancia a darmi il benvenuto e il mio: “Mamma, non ho
più dieci anni!”, simil lamentoso. Potrei anche far finta di pulirmi la guancia, tanto per rendere il tutto più
drammatico.
Per questa volta passi, mi dico forzando il miglior sorriso che ho adesso tra
il mio repertorio e baciandola a mia volta.
Questa è davvero casa mia.
Non ci sono dubbi.
Ad indicarmelo è la tensione alle spalle che, nonostante
questa specie di disagio che sto vivendo, è scomparsa.
AncheHannah
sembra in vena di dolcezze perché sbuca dal piano superiore, buttandosi a
capofitto giù per le scale e mi getta le braccia al collo, abbracciandomi a
lungo, salutandomi con un: “Heyaugly… beenmissingya so bad”.
Mostro… c’è sempre chi tiene alta la
mia autostima in casa, anzi se dovessi peccare di divismo, la lingua di mia
sorella mi riporterebbe tra i comuni mortali in un nanosecondo.
“Voi no”, dico ironico, facendole scoppiare a ridere.
“Non sai recitare, Lij. Lo dico sempre io!”, tira fuori la linguaccia Hannah.
Mi forzo di frenare il fiume di parole che sento
all’improvviso ostruirmi la gola. Vorrei raccontargli tutto, ma alla fine mi dico di no. Cerco così di
alleggerire l’umore cupo prendendo in giro Han. “Cosa dovrei comprarti questa volta, sentiamo?”.
“Mmh?”.
“Tutto questo entusiasmo nel
vedermi , Han…”, spiego. “Di cosa hai bisogno?”.
“Oh! Non avevo capito”, esclama
lei cadendo dalle nuvole.
Sì, come no…
“Se proprio ci tieni, Lij. Ho visto dei vestiti niente male in centro. Se vuoi gentilmente finanziare…?”.
Appunto.
Vestiti? Credevo una macchina o qualcosa del genere.
Ovviamente nego però.
“Scordatelo”.
“Sei il solito coglione, Elwood”, mi fa notare. Un’espressione buffa sul visetto dai
lineamenti più che carini e piuttosto simile a quello
di nostra madre, se la piantasse di sperimentare tinte improbabili e make up da circo o MardiGras Parade/*.
“E tu la solita sanguisuga”.
“Ok, pulcini. Basta così”, cinguettaDebbie
sorridendo serafica, sapendo come i suoi appellativi ci facciano ruotare
contemporaneamente gli occhi dalla disperazione, e passandomi una mano sulle
spalle. “Che ne dici di sgranocchiare qualcosa, Elijah?”.
Dio. Sono rientrato da meno di dieci minuti e mi sono
sentito chiamare in diecimila modi diversi. Non riesco a credere di non aver
sentito quasi per niente il mio nome durante l’ultima settimana. Pochissime
volte. Come se mio padre lo avesse addirittura dimenticato,
afferrandosi a malapena al mio primo nome. Senza diminutivi né
nomignoli. È una sensazione strana e scomoda, un rospo che mi è difficile da inghiottire,
e immerso in queste considerazioni non ho ancora risposto a mia madre.
“Sweetie?”.
Sorrido cercando di allontanare l’angoscia e focalizzarmi
sul senso della sua richiesta. Anziché fingermi
infastidito, lascio che la dolcezza e la nota di preoccupazione insite nella
sua voce mi riempiano con il loro solito calore. “Magari”, annuisco con lo
stomaco chiuso, ma al contempo desideroso di sgranocchiare qualcosa che elimini
il sapore amaro che ho in bocca.
Dell’altra cioccolata forse. Non so se potrebbe compiere
il miracolo.
“Vieni in cucina. Hannah ha
cercato di impastare una torta. È quasi pronta. Avrai l’onore di assaggiarla”.
“Neanche morto”, nego aspettando la reazione fulminea e
logica di mia sorella.
“Idiota”, sbotta, infatti, lei, secondo quel rituale da
pantomima che per me equivale a normalità e a casa e che mi è mancato come non
mai.
__________________
/* Sfilata allegorica di che si tiene il giorno di Carnevale, Martedì
Grasso appunto, a New Orleans, Louisiana. Viene anche eletto
un Re per l’occasione. Una specie di mastro cerimoniere. Di
solito personaggi famosi, tra cui Elijah.
Posto il penultimo capitolo con un altro ritardo
dei miei. Scusatemi :( Purtroppo la vita reale incombe
e ho dovuto lavorare e spostarmi in diecimila posti. La ff
non era sul mio portatile e quindi non ho potuto aggiornare come avrei voluto.
Ringrazio di nuovo tutte per i commenti e le
e-mail (cercherò di rispondere a tutte quanto prima).
:)
Quando
riapro di nuovo gli occhi, faccio un po’ a fatica a capire dove sono.
Istintivamente mi sarei aspettato di vedere tutt’intorno
delle pareti bianche e spoglie ed accanto a me un letto vuoto, invece tutt’altro ambiente mi circonda. Pareti color crema, sulle quali spiccano acquerelli di buona
fattura, credenze tirate a lucido sulle quali sono poggiate diverse cornici e
vasi di fiori freschi, un camino imponente in un angolo, un’ampia finestra che
dà su un giardino e dalla quale filtra la luce chiara del mattino.
Sono le 10.
Mi giro sbadigliando
sul divano gigante e morbido che ha funto da letto per le mie ossa doloranti.
Mi stringo addosso la coperta che qualcuno mi ha steso
sopra con affetto o mosso dalla pietà, non saprei, e cerco di riprendere
contatto con la realtà. Sono a casa, o meglio nel salotto di mia madre.
Ieri sera sono
crollato senza che me ne accorgessi. Ho aspettato che Hannah tirasse fuori dal forno il
suo capolavoro culinario, per assaggiarlo e chiacchierare un po’ con loro, tra
una presa in giro ed un’altra.
Ho rifiutato la cena,
sentendomi effettivamente sazio, nonostante non avessi fatto
nessun pasto propriamente detto nelle precedenti sedici ore e, lasciandole alle
prese con la preparazione del loro pollo con patate, sono andato appunto in
soggiorno, sdraiandomi sul divano e dando un’occhiata alla televisione, senza
troppa attenzione.
Devo aver fumato un
paio di sigarette, prima di rannicchiarmi su un lato e cedere all’invito del
sonno, le palpebre pesantissime e i rumori in casa che divenivano sempre più
sfumati alle mie orecchie.
Non credo di aver
sognato nulla.
O
almeno nulla che ricordi.
Gli esperti dicono che si sogna sempre qualcosa, anche se poi al mattino
si ha l’impressione contraria.
Deb e Hannah non mi hanno bombardato di
domande. Almeno da Han mi sarei aspettata una battuta
sul fatto che sono tornato subito a casa dopo la sua minaccia telefonica, ma
nulla del genere. Ho come l’impressione che già sappiano
e al contempo non sappiano però che approccio fare, oppure è stata la mia
faccia a scoraggiarle, parlando per me. E' evidente che non sia andato in
nessuna località tropicale. Di abbronzatura nemmeno
l’ombra, piuttosto un pallore che non ha nulla che vedere con la carnagione
chiara che ho dalla nascita.
Metto i piedi a
terra, sentendo il tessuto ruvido dei jeans un po’
come insopportabile a questo punto. Sono un modello comodo, ma dormirci non è
stato proprio l’ideale. Ho anche indosso la maglietta di Marti e la felpa.
Qualcuno mi ha invece tolto le scarpe. Non ricordo di essere stato io.
Soffocando
uno sbadiglio, mi stiracchio un po’ la schiena anchilosata e dopo essermi
passato le mani sul volto, come a ricomporre in maniera più armoniosa e meno
disastrata i lineamenti che mi ritrovo, mi alzo.
I passi sono
pressoché felpati per via dei calzini e mi piace sentire il fresco del marmo
sotto i piedi.
È solo adesso che mi
accorgo della musica che c’è in giro per casa. Tenuta troppo bassa per provenire dallo stereo di Hannah,
comunque. Le possibilità si riducono allora solo ad una seconda possibilità.
Inequivocabile. Vorrei davvero fare una classifica e vedere quante madri al
mondo sono amanti dei WhiteStripes
e ascoltano regolarmente i loro CD al mattino.
Beh, la mia fa parte
di questa categoria.
Chefigata è?
Mi dico soffocando un
sorriso ed affacciandomi in cucina.
Debbie
è lì, canticchiando tra sé e sé la canzone che sta andando, seduta su uno degli
sgabelli in cucina, l'attenzione concentrata nella lettura di un catalogo di
vendite per corrispondenza, mi sembra di capire.
“Morning”,
la saluto.
“Lijah…
ben alzato”, mi risponde sorridendomi allegra, il volto pieno di calore. Se ha notato lo stato disastroso nel quale mi trovo, non ha
fatto nulla per palesarlo. Anzi, mette di fianco il giornale e mi invita a sedermi lì accanto. “Ti ho svegliato?”, chiede quando le sono vicino, riferendosi alla musica.
“No… Mi piacciono i
tuoi gusti”, le dico con un sorriso divertito sulle labbra. "E poi mi andava di pulire il pavimento", scherzo
vedendola abbassare la testa in direzione dei miei piedi.
"Molto gentile,
dolcezza", anche lei sorride di nuovo, aspettandosi la solita lamentela
sui nomignoli, prima di domandarmi se ho dormito bene. Faccio, infatti, una
smorfia eloquente prima di risponderle. “Mmh…”, cerco
di spiegarmi. “Ho dormito come un sasso, ma non mi sento proprio riposato”.
“Che
ne dici di qualcosa da mangiare?”.
“Sì… ho fame”. È
vero, sento lo stomaco vuoto ed ho voglia di fare colazione.
“D’accordo”, si alza
lei. “Preparo io”, mi dice mettendo a tacere sul
nascere le mie proteste. Non mi va che si sbatta per
me. Posso prepararla anche io la colazione, ma lei è irremovibile. “Andiamo, Lij, lo sai che mi piace fare la parte della chioccia, non
vorrai privarmi di questo piacere?”, mi chiede con un sorriso tra lo zuccheroso
e l’ironico, che mi fa scuotere la testa.
“Certo che no…”, la
prendo in giro allora, alzandomi e dandole un bacio su una guancia. “Grazie…”,
aggiungo serio, rispecchiandomi nei suoi occhi altrettanto inquisitori
all’improvviso. È uno sguardo che mi mette a disagio. È un po' come se fossi
nudo di fronte a lei e, nonostante sia mia madre, non mi sento esattamente
rilassato.
Deve capirlo, perché
mi sorride di nuovo solare. “Che ne dici di fare
colazione in veranda? C’è un bel sole. Ti porto qualcosa fuori”.
Mi sembra un’ottima
idea. Infatti, annuisco per poi uscire dalla cucina e
raggiungere il retro della casa. Un angolo che mi piace moltissimo, praticamente con la spiaggia a meno di venti metri e un
primo piano dell’oceano che toglie il fiato per come si estende vasto e
apparentemente senza frontiere. L’isola di Catalina e quella di San Clemente
sono un po’ più a sud, all’altezza di San Diego e non visibili da qui.
Sarebbero le uniche porzioni di terra a poter interrompere idealmente da qui
l’estensione dell’Oceano Pacifico.
Le acque sono
sfumate, una massa di colori brillanti che si amalgamo su un nastro di azzurro liquido. Rimango in piedi con le mani appoggiate
sulla ringhiera che separa il portico-veranda dalla spiaggia vera e propria. Trovo in tasca un pacchetto di sigarette, piuttosto provate
dalla notte sul divano, eppure miracolosamente intere. È così che me ne accendo una, avvertendo il calore del sole inondarmi il
volto e fissando lo sguardo sull’orizzonte e sul lembo di spiaggia deserto, a
mo' di lucertola.
Mi volto dopo un po'
per sedermi sul divanetto di vimini, imbottito con dei cuscini azzurri, senza
pensare a nulla in maniera particolare. Mia madre spunta dalla porta finestra con in mano un vassoio.
“Eccoci
qui, kiddo”, annuncia continuando a fare la chioccia.
“Hai cucinato per un
esercito”, mi forzo a sorridere, appoggiando il vassoio che mi porge sul tavolinetto anch’esso di vimini.
“Sei sempre stato un foodie, o no?”, mi prende in giro lei.
Annuisco solo,
addentando una brioche appena sfornata dal microonde.
“Appunto”, si auto-risponde lei, vedendomi mangiare con quella fame. “Inoltre non hai proprio un aspetto riposato, Lij. Faresti bene a rifocillarti e... uh… ad iniziare da
capo”.
L’ultima osservazione
rende difficile mandare giù il sorso di spremuta d’arancia che sto bevendo. Di
colpo mi sembra di avere davanti davvero un quintale di cibo e la nausea mi
assale. Deglutisco malamente, sentendo le lacrime
bruciarmi come acido gli angoli degli occhi. Quel suo iniziare da capo, è dovuto ad un riferimento tanto preciso quanto tacito. Mi
sento come in una teca di vetro. All’improvviso vedo tutto come filtrato dal
vetro e i rumori sono attutiti, come se qualcuno avesse abbassato di colpo il
volume.
Lo stesso volto di
mia madre torna a mettermi a disagio, ma cerco di far finta di nulla e prendo
una fragola dalla ciotola che ho di fronte. Inevitabilmente
però abbasso lo sguardo, cercando di riguadagnare il mio autocontrollo.
Sento Debbie sospirare e, anziché sedere sulla poltrona come mi aspettavo, la vedo con la coda dell’occhio rientrare in
casa. Le sono grato per questo tatto, ma prima o poi
dovrò gettare fuori il rospo che ho ingoiato. Meglio il prima possibile a
questo punto. Continuo a mangiare per inerzia, spazzolando anche buona parte
dei pancakes e tutto il mug
di caffè ormai tiepido, senza sentirmi però per
niente meglio.
“Lij,
sto uscendo”.
Sollevo il volto in
sua direzione, annuendo. “Hannah?”, chiedo non
vedendo mia sorella a far chiasso in giro.
“E’ uscita con Jack, credo…”.
“JackOsbourne?”.
“Suppongo di sì.
Andavano in centro a comprare delle iguane, se non sbaglio”.
“Iguane?”.
Mia madre sorride di
fronte al mio sconcerto. L’idea di
una lucertola gigante in casa non mi esalta per niente.
“Non Han”, mi spiega. “E' Jack che ne
vuole una”.
Ok.
Questo è già più chiaro. Gli Osbourne sono eccentrici
al punto giusto per questo tipo di fantasie. Nessuna sorpresa dunque se oltre a
dieci cani che girano per casa, vogliano aggiungerci anche qualche malcapitato
animale esotico.
“Ci vediamo… tra un
po’ allora”, aggiunge lei, titubando.
Faccio
un cenno affermativo con la testa, senza guardarla direttamente, ostinandomi a
fissare il piatto prima colmo di pancakes.
“Lij…?”.
Sento la sua voce
ricca di preoccupazione e mi fa sentire un idiota. Insomma, non voglio che stia
anche lei male anche lei. Ma perché accidenti non sono
nella dependance, anziché infestare le ore altrimenti tranquille delle altre
persone?
Il tintinnio delle
chiavi dell’auto poggiate sul tavolinetto, mi indicano che mi si è seduta accanto.
“Va tutto bene, Mom. Davvero”, tiro fuori, senza nessuna convinzione.
“Non sono stupida, Elijah”, mi risponde lei con un'inflessione di severa
riprovazione nella voce.
Ha ragione.
Chi diavolo voglio prendere in giro?
Faccio meglio a dirle
di non aver voglia di parlarne anziché arrampicarmi sugli specchi.
Ma
forse voglio parlarne.
Paradossalmente.
Essere
patetico che sono.
“Anche
se non voglio obbligarti a parlare, se non ti va”, sento che aggiunge, con una
nota di tristezza evidente tra le sue parole e confermata dallo sguardo che
incrocio voltando il viso verso di lei.
Riesco a sostenerlo
per un po’ e poi nego con la testa. “Ho voglia di parlarne invece…
ma non so da dove cominciare”, mi stringo nelle spalle, mentre un
brivido mi attraversa la schiena, testimoniando il mio disagio.
Lei rimane un po’ in
silenzio, per poi sospirare ed aiutarmi a suo modo, andando diretta al punto. “Perché sei andato a Cedar?”.
“Non lo so…”.
Debbie
annuisce, mostrandomi la sua solita comprensione.
“E’ stato un impulso…
che ho seguito. Non credo ci fosse una motivazione
vera e propria dietro. O almeno non sono riuscito
ancora a venirne a capo…”.
“Com’è andata?”.
“Non peggio del
solito… ma era da tantissimo che non vivevo tanta contraddizione. Continui cambiamenti di punti di vista e di sentimenti, voglio
dire…”.
“Avete litigato?”.
“Più
o meno, ma solo gli ultimi due giorni. Abbiamo alzato la voce, ma non ci
siamo accusati di nulla in concreto, né ci siamo detti di odiarci o di
andarcene al diavolo. La solita…”, mi interrompo,
perché risulta penoso dire quella parola, indifferenza, riesco a completare,
forzandomi.
Mia madre sospira
ancora, come se stesse trovando le parole adatte a rispondermi. È troppo
sincera per mentirmi o per rassicurami circa il
comportamento standard di mio padre. E io non mi
aspetto che lo faccia. Odio chi cerca di banalizzare gli eventi con delle frasi
retoriche. Rimane quindi in silenzio, continuando a guardarmi dispiaciuta per
non riuscire a sollevarmi il morale.
“Non voglio che tu
pensi che sia andato a Cedar perché senta la sua
mancanza, mamma. O far intendere che tu non mi abbia
amato abbastanza… non è mai stato così. Tutto il contrario, te lo assicuro. È
solo che non riesco a capire perché si comporti così, è la sua indifferenza che
mi ferisce non la sua non presenza. Io e te abbiamo
vissuto sedici mesi lontani quando ero in Nuova Zelanda, eppure ho avvertito il
fatto che tu ci fossi, sempre, sebbene solo dall’altro lato del telefono e non
accanto a me fisicamente. Parlo di interesse ed
affetto, non di chilometri vicino o lontano”.
Debbie
annuisce comprendendo quello che voglio dire. Il fatto che non abbia dato
un’interpretazione sbagliata al mio ritorno a Cedar è quasi un sollievo. L’idea che avrei potuto
ferirla in qualche modo non mi aveva sfiorato nemmeno
per un attimo, così preso a non rispondere ai suoi tentativi di comunicazione
come ero.
Da perfetto coglione, mi accorgo solo ora che devo averle fatte
preoccupare e adesso, ancora di più, facendomi beccare in questo stato fisico,
ma soprattutto emotivo, prossimo al collasso. È ovvio che abbiano capito dove
diavolo sia andato a finire. Tutto quel voler nascondere è risultato
più eloquente di ogni possibile spiegazione.
“Ero inquieta.
Pensavo che fosse successo qualcosa di… peggiore”, risponde
a questo punto lei, come dosando le parole.
“Avrei
quasi voluto fosse stato così. Almeno ci sarebbe stato un distacco
netto. La situazione rimane invece pressoché immutata e molto
più difficile a sostenersi”, dico, portandomi una mano alla bocca,
pronto a distruggere quel mezzo centimetro di unghia che è ancora su ogni dito.
“Lijah…”,
mi richiama lei indicandomi con un gesto del capo quello che sto facendo. Non
riesco però a smettere e devo mostrare una qualche espressione particolarmente
disperata, senza che lo voglia davvero, perché vedo che il suo sorriso di ammonimento, volto a prendermi in giro bonariamente,
scompare lasciando il posto ad una maschera di preoccupazione ed amarezza. “Lij…”, ripete abbracciandomi stretto, senza che mi renda
conto di aver ricambiato a mia volta, appoggiando la fronte sulla sua spalla e
lasciando che mi accarezzi la schiena come è solita
fare quando io e Hannah crolliamo miseramente davanti
a lei, necessitando il suo sostegno.
Mi sento come un
ragazzino di cinque anni alle prese con una qualche delusione che sembra
insormontabile, ma quel cullarmi affettuoso e silenzioso, mi permette di
controllare quella valanga di emotività che tentava di
venire fuori sotto forma di lacrime di delusione che riesco così a cacciare
indietro, nascondendo quelle che nell’ultimo minuto avevano reso la mia vista
sfocata e tremolante.
Sento la sua tempia
premuta contro la mia testa e il suo respiro ronzarmi dolcemente vicino
l'orecchio. Non so come ci riesca, ma aiuta a calmarmi, come il ritmico
modulare di una qualche ninnananna. Quei respiri regolari… rilassati e sereni.
Mi sono sentito
spesse volte chiedere perché vivessi ancora a Los Angeles con lei o quantomeno
così vicino a lei. Ed io mi sono sempre chiesto di
rimando, perché me lo chiedessero oppure che diavolo ci fosse di strano. Forse
lo è visto dall’esterno, ma lei ed Han sono la mia
vera famiglia, le persone con cui sono cresciuto
giorno dopo giorno. L’esperienza dell’appartamento a NYC è stato un mezzo
fallimento, visto che stavo pagando solo l’affitto senza viverci davvero, ma
non posso farci nulla se per via del mio lavoro la California
risulta molto più centrale del New Jersey. Sono stato preso in giro da Jay perché è lei ad occuparsi ancora delle mie lavatrici e
altre situazioni da sit-com simili, ma ci ho riso su
anche io. Lo so che è patetico da un certo punto di vista, per via delle
battute sul porn and chocolate
oppure di nuovo sulla biancheria, quando mi sono sentito chiedere se avessi
riportato a casa un carico per la lavatrice equivalente a sedici mesi di abiti smessi e in attesa di essere lavati, ma so con
certezza che nessun'altra persona in questo momento
avrebbe potuto capirmi così al volo, senza troppi giri di parole. Di solito lo
fanno anche i miei migliori amici, ma questa è una questione troppo privata,
della quale parlo rarissimamente. Ho bisogno di lei in una parola. Ed eccola qui a prendersi cura di me.
“Vuoi che ti prepari
un bagno?”, mi chiede scompigliandomi i capelli e sollevandomi il volto per
guardarmi direttamente. C’è ancora qualche traccia umida sulle mie guance, che provvede ad asciugare con le mani, senza accennarvi
minimamente.
“No”, nego grato per
quella sua discrezione. “Tornerò nella guest-house e mi farò una doccia lì”.
“Come vuoi”, annuisce
allora sorridendomi dolce e stampandomi in bacio sulla fronte. “Io esco",
mi annuncia, come chiedendomi se voglio che rimanga ancora qui con me.
Mi dico
che è meglio che inizi di nuovo da capo, come mi ha suggerito lei in precedenza
e cerco di scrollarmi addosso il torpore, organizzando mentalmente le prossime
ore. Annuisco allora, prendendo in mano il vassoio e riportandolo in cucina,
per poi seguirla fuori casa, prendere la valigia che era ancora in macchina ed
entrare nel mio appartamento.
Chiedo scusa per il ritardo atroce con il quale pubblico l’ultimo
capitolo, ma per una serie di complicazioni non ho potuto farlo prima
Chiedo scusa per il ritardo atroce con il quale pubblico l’ultimo capitolo,
ma per una serie di complicazioni non ho potuto farlo prima. So che questo è
stato un po’ il leit-motiv di tutta la pubblicazione, ma vi assicuro
che non è dipeso da me.
Come sempre, grazie per i commenti, le e-mails, i
complimenti e anche le ‘critiche’ (non c’è nessun bisogno di scusarsi, hika86. De gustibus,
no?) Tutto aiuta a migliorarsi. Vi lascio con l’ultimo capitolo, dunque.
Buona lettura e ancora grazie a tutte :) (Suni, sono lieta che tu abbia trovato la storia realistica
:D).
“Hey…”, Debbie
si volta, distogliendo così lo sguardo dalla stessa rivista del mattino.
“Scusa…”, dico soffocando una risata.
“Hmph… Lij,
se non vuoi che compri niente da questo catalogo, faresti bene a dirmelo
anziché rompermi ogni due secondi!”, sbotta lei fingendosi esasperata e
inarcando un sopracciglio con fare interrogativo.
Io continuo a ridere di fronte a quell’espressione.
“Buon pomeriggio anche a te”, la prendo in giro abbassandomi e baciandola su
una guancia.
“Mmh… ritenta”, ribatte lei
ancora finto inflessibile.
“Stai abusando della mia dose di carinerie
quotidiana, Debbie”, sottolineo
guardandola falsamente truce.
“Ci ho provato”, si stringe lei nelle spalle, prima di
abbagliarmi letteralmente con un sorriso dei suoi. “Ti trovo meglio, sweetie”, mi dice
arruffandomi i capelli che ho cercato di sistemare dopo la lunghissima doccia
che mi sono concesso.
“Mamma…”, brontolo rassegnato, ma trattenendo un sorriso,
mentre le do le spalle e prendo del succo d’ananas dal frigo.
“E’ un complimento, Elijah”,
dice lei.
“Lo so”, ricambio il sorriso, prima di bere un sorso.
“Sei a secco di provviste?”.
“Mmh?”.
“Sei venuto a bere qui”, si chiarisce indicando il
cartone ancora aperto e appoggiato sul ripiano.
“Sono venuto per te”,
ribatto.
Ed è qui che la vedo illuminarsi.
Non so a che ora sia rincasata. Forse mezzogiorno.
Quando sono rientrato nel mio
appartamento, ho aperto subito tutte le imposte e mi sono svestito,
abbandonando gli abiti lungo il percorso, per entrare nel box-doccia. Mi sono
sentito un po’ meglio dopo. Almeno lo sporco del giorno precedente e parte della
stanchezza sono andati via cancellati dal sapone e risucchiati nelle tubature,
insieme allo stesso getto d’acqua tiepido. Con indosso l’accappatoio, chiuso da
un nodo approssimativo in vita, mi sono rasato,
notando che un po’ delle occhiaie erano scomparse. Lo stomaco non mi faceva
male come nei giorni passati, parte della tensione latente era andata
altrettanto via.
Mi sono vestito prendendo una t-shirt a caso dall’armadio
e poi un paio di jeans sdruciti. A piedi scalzi ho percorso la strada verso l’ingresso,
raccattando i vestiti per terra, e sono andato in ripostiglio mettendo su una
lavatrice, con alcuni degli abiti che non ho fatto in
tempo a lavare a Cedar. Insomma, capita a volte che
me la faccia anche io.
La casa è in ordine, se si eccettuano i CD sparsi sul
tavolo del salotto e un paio di copioni che sto visionando, sottolineati
qua e là. È così che di solito li studio. Evidenziando le
parti che mi convincono con un colore e quelle che invece mi lasciano perplesso
con un altro. Al momento questi due mi sembrano piuttosto buoni. Non li
ho portati appresso con me e non li riprendo in mano da almeno dieci giorni. Coleen, la mia agente, non mi ha contattato in questo arco di tempo, rispettando il mio volere, ma suppongo
che riceverò una sua telefonata tra oggi e domani.
Mettendo su un CD di MilesDavis, mi dico che ho ancora del
sonno arretrato da smaltire e così, lascio le persiane aperte a metà, creando
un specie di penombra, e mi stravacco sul divano del salotto. Mi sono alzato
verso le quattro del pomeriggio, finalmente riposato e senza nessuna brutta
morsa alla bocca dello stomaco. Credo mi abbia fatto bene parlare un po’ con Deb, almeno per alleggerire parte dell’angoscia ed esternare
ad alta voce i miei dubbi. Mi piacerebbe essere su un’isola deserta e gridare
così a squarciagola, nulla di particolare, solo gridare, in maniera
liberatoria, magari riuscirei ad archiviare del tutto così gli ultimi otto
giorni.
Il frigo è parzialmente vuoto, così
bevo solo dell’acqua. Devo fare la spesa, forse Han avrà voglia di accompagnarmi. Vado di là a
chiederglielo, mi sono detto, ed è così che infilate un paio di sneakers al volo, esco di casa. I
fiori nel giardino stanno sbocciando. Anzi, molti lo hanno già fatto. Molti
roseti anche qui. A distanza di una settimana mi trovo di fronte un angolo
della casa notevolmente diverso. Ieri sera non ci avevo fatto
caso. Neanche stamattina a dire il vero, ma ho come la sensazione che
mia madre abbia finito da poco di metterlo a posto.
“Hai fatto un bel lavoro in giardino”, le dico, infatti,
versando anche a lei un bicchiere di succo, tornando al presente.
“Grazie. Piace anche a me. Ho cambiato i vasi ai roseti,
aggiunto della terra e modificato un po’ la disposizione”.
“Dov’è Han?”,
chiedo a questo punto. “A dirla tutta c’è poco e niente in casa… piantala di annuire e farmi quella faccia alla te lo avevo detto io”, la ammonisco
facendole una smorfia. “E volevo portarla con me a
fare compere. È una patita del genere, non dovrebbe
darmi buca”.
“Credo di no. È tornata esaltata dall’incontro con l’iguana, ma
sorprendentemente non ha cominciato a blaterare di volerne portare una in
casa”.
“Magari ha anche lei un po’ di sale in zucca…sorprendentemente”.
“Lij…”, mi guarda lei
soffocando un sorriso. “Non è carino quello che dici di Hannah”.
“Lo so”, confermo, rimettendo il succo in frigo e uscendo
in cerca della mia pestifera sorella. “Hey, Han…”, la chiamo affacciandomi
dalla porta finestra.
“Elijah…”, mormora lei
rispondendo al saluto, con un sorriso che mi sembra un po’ tirato sul volto
truccato leggermente dal mattino.
“Tutto bene?”, le chiedo sedendo sulla poltroncina di
fronte a lei, al di là deltavolinetto
sul quale ci sono le sue cose. Una specie di diario sul quale
spicca la sua calligrafia.Non mi
risponde, e la vedo distogliere lo sguardo. “Han?”,
ripeto sorpreso di trovarla così giù di morale. Di solito rientra in casa
sempre al massimo dell’eccitazione dopo aver passato delle ore con quell’esaltato, appunto di Jack e
compagnia. Questo atteggiamento non è affatto da lei
invece.
Hannah ama le arti e la letteratura. È
tanto eccentrica quanto poetica; scrivere poesie, infatti, è una delle sue
passioni. Forse è in piena fase creativa e le sto dando fastidio interrompendo
che so, magari l’immedesimazione che sta cercando di portare avanti.
Rimango così in silenzio, osservandone il volto e lo
sguardo lontano a vagare sul moto dell’oceano. Prendo una sigaretta dal suo
pacchetto e l’accendo iniziando a fumare senza proferire parola.
Dopo un po’ è lei a rivolgermi la parola. “Come ti senti,
Lij?”, chiede con un sorriso un po’ più convincente
sul viso.
La scruto alla maniera di mia madre, vale a dire fisso e
in profondità, in un modo che mi mette sempre a disagio e che so mette anche
lei a disagio, ma che è superefficace per far emergere in superficie quello che
non va o si cerca di nascondere. “Io meglio”, rispondo un po’ lapidario e senza
troppo calore nella voce. “Tu come
stai?”, puntualizzo sul tu.
“Uh… bene. Mi sono divertita con Jack”.
Sguardo vago e titubanza iniziale.
Equivalgono a bugia nel mio vocabolario.
Mi riferisco al fatto che stia bene.
“Ti sto dando fastidio, Han?”,
chiedo spegnendo la sigaretta.
“No…”, nega lei con espressione sorpresa sul volto,
mentre si accende quella che sarà la quindicesima paglia del pomeriggio, in
base al numero di mozziconi spenti nel portacenere. È troppo. Anche per lei che è una discreta nicotinomane.
Osservo che le mani le tremano un po’, mentre tiene la
sigaretta. Che accidenti le è successo? Mi ripeto
avvertendo ora nettamente la sua difficoltà. È diventata pallida sotto il
trucco. La t-shirt rossa che indossa rende il contrasto ancora più netto,
mentre i capelli biondissimi, sembrano un tutt’uno
con quel pallore evidentemente innaturale.
“A me non sembra”, le dico senza muovermi dalla poltrona.
“Stai tremando, Han. Che diavolo
è successo?”, sbotto privo di gentilezza e fissandola direttamente negli occhi.
“Niente…”, mi ripete negando e stringendosi nelle spalle,
come incapace di dirmi cosa le sta passando per la testa e nient’affatto
confortata dal mio tono di voce. “Davvero, Lij.
Tecnicamente… non è successo niente”.
“Tecnicamente?
Non capisco, Han”, dico
addolcendo la sfumatura dura usata in precedenza.
“Sono solo pensieri”.
“Che tipo di pensieri?”, insisto
maledicendo la mia invadenza, ma voglio aiutarla.
“Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale
la pena farne una tragedia…”, mi dice spegnendo la sigaretta fumata per
metà e passandosi poi un braccio sugli occhi lucidi. Neanche questo è normale. Hannah non è una da cedere facilmente alle lacrime.
Rimango in silenzio cercando di capire cosa abbia voluto dirmi e poi all’improvviso è un pugno in pieno
stomaco che mi toglie il respiro.
Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale la pena farne
una tragedia…
Mi riconosco in quello che ha detto. E
l’argomento non può essere che uno. Anche io lo
liquido così la maggior parte delle volte.
“Hannah…”, la chiamo allora
vedendola piangere, praticamente senza emettere un
fiato, mentre si alza e afferra il ferro della ringhiera con violenza, le
nocche delle mani bianche e lo sguardo rivolto ancora una volta all’oceano. Non
riesco a vederla così, mentre mi dà le spalle, cercando di non farmi ripiombare
a mia volta in quel tipo di pensieri. “Hey… andiamo, Han”, le mormoro con una nota di preoccupazione a farmi
incrinare la voce, prima adamantina e senza nessun’inflessione
riconducibile a debolezza.
Questo la fa voltare e guardarmi come se si sentisse in colpa. “Scusami, Lij…
davvero… ma… lo odio… lo odio… odio l’idea che sia
completamente disinteressato a noi… odio l’idea che possa dimenticarci come se
non fossimo niente per lui…”, mi dice guardandomi in volto e mostrandomi per un
attimo i suoi occhi incupiti dalla rabbia.
“Han…”, mormoro ancora
sfiorandole una delle mani strette come una morsa. “Non c’è niente di cui
scusarsi”, le rispondo accarezzandole una guancia umida di lacrime e accennando
un sorriso triste.
“Sì invece. Accidenti, Lij! Tu
sei tornato distrutto da Cedar e stai cercando di
dimenticare e io sto qui a comportarmi da idiota… dicendoti quanto
odi nostro padre, come fosse una novità. Mi dici come può esserti
d’aiuto questo?”, mi chiede arrabbiata, ma con se stessa, lo so bene, e le mani
di nuove chiuse a pugno, sebbene adesso le braccia siano abbandonate lungo i
fianchi.
“Mi dispiace, Han… suppongo che
se avessi finto meglio ieri sera adesso staremmo ridendo al tuo racconto
sull’iguana di Jack”, dico con lo stesso sorriso mesto
sul volto, forse appena più allegro e per questo ancora più insopportabile.
“Sei un’idiota, Elwood. Il mio era un discorso serio”, ribatte lei con quella stessa fiamma
distruttiva negli occhi, ma con il corpo più rilassato.
“Mi dispiace...”, ripeto, abbandonando ogni tentativo di risollevarle
il morale, essendo il mio piombato di nuovo ai minimi storici ed abbracciandola
con dolcezza. La sento ricambiare subito, mentre le lacrime continuano a
scenderle silenziose sul volto. “E’ una situazione penosa, Han… ma non è colpa nostra”,
le dico accarezzandole i capelli e sentendomi all’improvviso infelice e
incredibilmente vuoto. Come se l’atmosfera densa e pesante di Cedar si fosse trasferita all’improvviso qui, in quella che
in teoria è la sorridente California. Già… non oggi a quanto sembra.
Capisco Hannah. Completamente e
so che lei ha sempre affrontato la questione WarrenWood con molta più rabbia di me. In una scala ideale, lei
sarebbe al primo posto, io al secondo e Zach al terzo. Tre atteggiamenti per
affrontare un’unica questione in sospeso e che potrebbe benissimo trascinarsi
così per tutta la vita. Lo è stata a lungo, nulla al momento indica che
potrebbe cambiare in positivo. Mi chiedo poi se
sarebbe del tutto immune da strascichi. No,
sono onesto con me stesso. Azzerare tutto è un’impresa impossibile.
Sento il mio corpo irrigidirsi per la tensione, senza che
possa fare nulla per evitarlo e fallendo penosamente nel tentativo di
rilassarmi. Avverto allora le mani di Han
accarezzarmi la schiena, come ad aiutarmi. Il fatto che sia
diventato una specie di statua colma di rabbia allo stesso modo, non le
è passato inosservato.
La tengo così stretta a me a lungo, anzi è meglio dire che lo facciamo reciprocamente. È questo quello che intendevo. Ci siamo l’uno per l’altro nei momenti
che contano. Ciò non vuol dire che abbiamo poteri
magici, io avverto ancora nettamente la frustrazione per questo lato della mia
esistenza, ma almeno ci si sente meno soli, supportati da persone che farebbero
letteralmente di tutto per te, e tu per loro.
Spero che Zach venga qui per il fine settimana. Vive a San Diego normalmente, ma
torna a Los Angeles spesso, un paio di weekend al mese.
Ho voglia di parlargli, sentirmi prendere in giro e di giocare al fratello
minore sfigato, stupendomi della sua inquantificabile saggezza. Adesso però sono io il maggiore
ed Hannah ha bisogno di uno sfogo che sto cercando di conciliare nel miglior modo possibile.
Dopo un po’ è lei a staccarsi e guardarmi sollevando
appena il mento. Sì, sono più alto di lei. Almeno
questo… mi sorride asciugandosi le lacrime e rispondo allo stesso modo,
continuando a tenerla abbracciata.
“Devo essere un disastro…
voglio dire il mascara sciolto e tutto il resto…”, butta lei con una smorfia a
renderla simpatica.
“Beh… non più del normale”,
la prendo in giro guardandola uccidermi con lo sguardo e pizzicarmi dietro la
schiena, in maniera feroce.
“Questa me la paghi”, la minaccio, allontanandomi
istintivamente per via del dolore, vedendola continuare ad asciugarsi le
lacrime con le mani, mentre continuano a cadere, nonostante stia ridendo.
“Non ci penso proprio”, nega lei dirigendosi circospetta
in direzione del divano e cercando un fazzolettino per rimediare al disastro.
È un’immagine che mi fa ridere.
Possibile che le
donne si preoccupino del loro aspetto fisico praticamente
in ogni situazione?!
“Puoi continuare con la mia maglietta”, le dico
avvicinandomi e facendole notare la macchia di bagnato mista a mascara blu e
ombretto sulla stessa tonalità, spiaccicata sul tessuto immacolato della mia
t-shirt.
“Oddio…”, sorride lei. “Non me ne ero
accorta, Lij… davvero. Scusa…”.
“Andiamo Han, basta con le
scuse”, le dico sedendo a mia volta sul divano. “E’ un’offerta da cogliere al
volo. Sai quante ragazze vorrebbero essere al tuo posto?”.
“Oh… tantissime immagino, sex-god”, mi guarda di traverso,
trattenendo un sorriso.
“Esattamente…”, annuisco.
“Diventerà un casino”, nega lei indicando la maglietta di
cotone.
“Lo è già. E poi è vecchissima, sis. Nessun
problema”.
“Se è così allora…”, la vedo annuire
con un luccichio malizioso negli occhi. “Posso anche soffiarmici
il naso, Lij?”, inquisisce giocando all’innocentina.
“Provaci e ti spedisco da Jack e
la sua iguana”, tuono velenoso, mentre sento che mi abbraccia di nuovo,
sorridendo e strofinando il muso contro la mia t-shirt.
“Si chiama, Tricksy”, mi dice
tornando a guardarmi, apparentemente meno angosciata di prima. L’umoresista piano pianorisollevando.
“We wants it, we
needs it. Must have the Preciousss.
They stole it from us. Sneakylittlehobbitses. Wicked, tricksy, false!”, recito automaticamente una
battuta di AndySerkis/*.
“Esattamente”, annuisce lei. “Abbiamo recitato quella
frase come in preda al delirio in quel negozio”.
“E non vi hanno cacciato fuori a calci?!”,
chiedo mentre l’immagine di lei e Jack in preda all’allucinazione mi si dipinge
come più che plausibile nella testa.
“No, Lij. Ci hanno
riconosciuto. Jack ha la fama di essere un tipo particolare ed io sono la
sorella di un famoso attore, nonché protagonista de Il Signore degli Anelli, quindi sono
autorizzata a ripetere le battute del copione quante volte voglio. Ti ho mai
parlato di lui? Lo chiamiamo Elwood, anche se io
preferisco Monkey,
mi sembra più adatto”, butta lì con la sua faccia di bronzo.
“Ma davvero? Ti ho invece mai
parlato di mia sorella? La chiamiamo Plague oppure Typhoon a seconda il grado di nocività che irradia”.
“Un tipino calmo”.
“Assolutamente. Una specie di monaca”, confermo
con un’alzata di sopracciglio beffarda, facendola sorridere spontaneamente.
“Hey… sembrate divertirvi”,
dice mia madre sbucando all’improvviso e raggiungendoci con
in mano un vassoio con tre coppe colme di macedonia.
“Sì”, annuisce subito
Han, sorridendo e prendendo uno dei recipienti.
“Tu non ne vuoi, Lij?”, mi
chiede allora Debbie porgendomi la mia coppa. Ananas,
fragole e qualcos’altro che al momento non riconosco.
Forse pesca. La vedo corrucciare il viso per una frazione infinitesimale,
quando i suoi occhi cadono sull’esempio di arte
moderna che spicca sul cotone prima immacolato della maglietta.
“Hannah ha sperimentato una
nuova tecnica di pittura su tessuto”, le rispondo con un’occhiata di intesa. La vedo riprendersi al volo e sorridere poi a Han, che nel frattempo ha sollevato il volto dalla propria
merenda.
“Sembra… interessante”, si salva in corner Deb, prendendo a sua volta una coppa e mangiando la sua
macedonia.
Per un po’ stiamo in silenzio, anche se ho l’impressione
che ci stiamo comunque raccontando quello che è
accaduto qualche attimo prima. Empatiaviene chiamata. So per certo che è un qualcosa che
esiste. E non una parola sterile come quelle che ho
sentito nominare innumerevoli volte senza trovarne mai un corrispettivo nella
realtà sensibile.
I sentimenti risultano sempre
più concreti di quello che concreto è per definizione.
Suona come un paradosso, ma ha un suo fondo di verità
scientifica.
“A proposito, Lij…” chiede poi
mia madre. “Questa mattina sono arrivati tre pacchi da Cedar,
con un corriere a domicilio. Il mittente sei tu o sbaglio?”.
“Sì. Li ho spediti io”.
Hannahsi irrigidisce
al mio fianco, ma al contempo sento il suo sguardo curioso su di me.
“Non so che dirvi. È qualcosa che ho trovato a… casa”, articolo inghiottendo con
difficoltà. “A me ha fatto piacere e visto che riguarda anche Han, ho pensato che potesse interessarle”.
“Sono per me, Lij?”, chiede mia
sorella mettendosi in piedi e poggiando eccitata la coppa vuota sul tavolino,
che rischia quasi di rotolare a terra.
“Due di loro”, le dico afferrandola al volo, registrando
nel frattempo lo sguardo inorridito di mia madre. Nessun
dubbio, infatti, che si sarebbe sfracellata rovinosamente a terra, sotto
l’indifferenza incredibile di mia sorella in questo momento. “Uno è
mio”, sottolineo.
“D’accordo… mi sembra giusto”, annuisce lei, pregandomi
con lo sguardo di muovere il sedere ed andare a vedere di cosa si tratta.
“Sono piuttosto pesanti, Elijah”,
interviene Deb, trattenendo un sorriso. “Il povero
corriere per poco non rimaneva bloccato da un colpo della strega alla schiena”.
“Lo so. È stato un casino imballarle, ma il corriere
dell’agenzia che ho contattato è venuto a domicilio, così nulla di più
semplice. È stato lui a trasportarle”, spiego con un
sorriso.
“Schiavista”, butta lì Hannah
scuotendo la testa.
“Ha avuto il suo bel compenso. Non l’ho
sfruttato”, puntualizzo.
“Sì, come no. E la sua povera
schiena? Ho sentito di un caso fulminante di colpo della strega in Iowa all’inizio della settimana, vero
mamma?”, continua lei tra lo scettico e l’ironico.
“Non erano due?”, le tiene il gioco l’altra, in un’ideale
alleanza contro il sottoscritto.
“Dai andiamo”, dico alzandomi praticamente
spintonato da Han.
“Sono in salotto Lij. Non ci
hai fatto caso questa mattina”.
In salotto?
Uh… ero più che rincoglionito appena sveglio, a quanto sembra. Avessi incontrato un elefante seduto a tavola
facendo colazione con una tonnellata di noccioline, credo che lo avrei salutato come niente fosse…
Guardo Hannah, mentre traffica
con forbici e taglierini vari per avere la meglio
sull’imballaggio. Sembra la curiosità in persona, ma mi chiedo all’improvviso
se abbia fatto bene a spedire il tutto qui. In fondo è
l’esempio più evidente di un passato che ci vede protagonisti di un conflitto
perenne, ogni volta che torna in superficie.
Le sue esclamazioni di sorpresa invece prendono a
riempire la stanza tra un grido ed un altro. Il volto è raggiante e divertito, nonché stupito man mano che sfilano davanti ai suoi occhi i
quintali di bambole, vestitini e peluche racchiusi nelle due scatole
indirizzate a lei.
“Mamma, guarda… Lij… oddio, non
mi ricordavo proprio di avere questo bambolotto”.
Commenti simili si alternano, facendomi sorridere.
Sembra che la mia sorpresa stia riuscendo in pieno.
Anche Deb appare sorpresa positivamente, osservando i
giochi e i disegni che aveva fatto sulla superficie
cartacea.
“Questa sarei io?”, chiede, infatti, Hannah
indicando la bambinetta che la rappresenta. Mia madre
annuisce, mentre prende a raccontarle i dettagli di quel pomeriggio che io
ricordo benissimo.
Hannah aveva solo tre anni. E’
plausibile che non ricordi nulla invece. Mi tengo un po’ a distanza,
semplicemente sollevato dal fatto che sembrino tutte e due allegre e che
abbiano abbandonato almeno per qualche minuto il clima denso di riferimenti
poco piacevoli che aleggiava in veranda meno di un attimo fa.
Hannah prende a scartare anche il mio
di pacco, ridendo di fronte al ragazzino disegnato a mano e prendendomi in
giro. “Sei proprio tu, Elwood.
Nulla da dire. Occhi giganti…”.
“…sorriso da sdentato…”, aggiunge maliziosamente mia
madre e con la consueta nota di dolcezza. Quel rimarcare ti voglio bene, all’infinito che mi fa sorridere a mia volta,
sorpreso in continuazione da quanto affetto sia capace
di dare Deb. Tantissimo. Sempre. In qualsiasi circostanza.
“Hey, eri già un patito di Star Wars a
cinque anni?!”, commenta Hannah
di fronte agli album di figurine e alla miniatura di Leia.
“Dov’è Luke?”, chiede poi continuando a frugare tra i
miei, sottolineomiei,
giocattoli come fossero suoi.
Il suono del telefonino, mi fa distogliere gli occhi da
quella scena confusionaria e piena di esclamazioni di
sorpresa e prese in giro a mio indirizzo, si capisce. Il cellulare è il mio.
Non ricordavo di non averlo portato nell’altro appartamento, anzi ne avevo proprio dimenticato l’esistenza.
Lo afferro evitando che cada a terra… stupida vibrazione, e mi siedo su un bracciolo del divano, continuando comunque ad
osservare Hannah e Debbie, intente a catalogare le varie Barbie che sono riemerse dal
passato. Non so chi delle due sia più entusiasta.
“Sì?”, rispondo alla chiamata.
“Elijah”, risponde la voce
allegra della mia agente.
“Coleen, ciao”.
“Tornato a casa?”.
“Ieri sera”.
“Com’è andata la vacanza?”.
“Diciamo… uh… che ce ne sono state di migliori…”.
“Speravo di trovarti un po’ meglio”.
“Sto bene, solo qualche pensiero che mi sta distruggendo
il cervello”.
“Non devi parlarmene, Lij. Sono
certo non ne abbia nessuna voglia”. È l’intuito unito
al tatto che ammiro particolarmente in lei. Ne fa uso in continuazione e, anche
questa volta, non si smentisce.
“Grazie, Lee. In effetti, se posso archiviarlo quanto prima è meglio”.
“Parliamo di… impregni improrogabili allora…”, ride
mettendomi a mio agio.
“Sì… cosa bolle in pentola?”.
E così la sento spiegarmi praticamente
il programma dei miei prossimi quindici giorni. Continuo a sorridere
dell’immagine ludica di Han e Debbie
affascinate da quei cimeli, mentre con la testa registro gli elementi focali
del suo resoconto.
Dunque…
New York.
Tribeca
Festival.
Seconda proiezione di Hooligans dopo la prima alSXSW.
Si ritorna al lavoro…
“D’accordo, Lee. Ci vediamo in
aeroporto allora”.
“Perfetto Lij. Ci incontriamo al solito cafè.
Buona serata”.
Chiudo la comunicazione e dopo vari tentativi riesco a far distogliere l’attenzione di Hannah
dai suoi giochi, senza risparmiami di prenderla in giro e le chiedo se le va di
uscire a fare la spesa. Mi dice di sì, chiedendomi cinque secondi per il
trucco, come negarglielo, mentre io
torno a casa per cambiarmi la maglietta e prendere le chiavi della Mini.
Inutile dire che mi fa aspettare
dieci minuti e la vedo correre trafelata, inseguita da Rascal
e Levonne, per poi saltare in macchina e mettere del
lucidalabbra utilizzando lo specchietto del sedile passeggero. Facendo finta di
ignorare questa sua mania, faccio retromarcia e apro il cancello.
Automaticamente metto su un CD. Stiamo un po’ in
silenzio, nessuno dei due ha voglia di parlare ora che l’eccitazione per i
giocattoli è passata e i ricordi tornano ad essere i macigni che sono sempre.
Vorrei dirle che forse non siamo stati dimenticati e
che non lo saremo mai. Del resto quei giocattoli ne sono
la testimonianza, no? Io so anche del canestro e del televisore… ma non riesco
a convincere me stesso. Figurarsi se ci riuscirei con Hannah…
La strada sfila veloce davanti agli occhi e le luci della
sera brillano in quantità indefinita. Los Angeles e i suoi boulevard sono famosi anche per questo.
Da Mellon Collie and The Infinite Sadness,
sfilano delle canzoni bellissime che sono state colonna sonora della mia vita a
lungo e che sembrano esserlo ancora .
The useless
drag of another day/ The endless drags of a death rock boy/ Mascara sure and
lipstick lost/Glitter burned by restless thoughts Of being forgotten/ And in
your sad machines/You’ll forever stay/Desperate and displeased - with whoever
you are/And you’re a star/Somewhere - he pulls his hair down - over a frowning
smile/A hidden diamond you cannot find/A secret star that cannot shine over to
you
May the king of gloom be forever doomed/And in your sad machines/You’ll forever
stay/Burning up in speed/Lost inside your dreams, of teen machines/The useless
drags, the empty days/The lonely towers of long mistakes/To forgotten faces and
faded loves/Sitting still was never enough/And if you’re giving in, you’re
giving up/’cause in your sad machines/You’ll forever stay/Burning up in
speed/Lost inside the dreams of teen machines
Una canzone che ci fa riflettere, ancora in silenzio,
concentrati entrambi su quel pensiero logorante.
Ci vorrà del tempo primo di tornare ad accantonarlo e
pensare di nuovo con indifferenza a quanto ci ha fatto cedere entrambi, senza
che potessimo opporci.
Svolto in direzione di Santa Monica e parcheggio di
fronte al solito 7-11/**.
James mi saluta con
l’abituale calore: “Lij, man.What’s up?” e rimango a fare
due chiacchiere con lui nei pressi della cassa, mentre Han
gira per i vari reparti riempiendo uno di quei cestini che si trovano
normalmente nei supermercati. La raggiungo dopo qualche minuto, trovandola
indecisa di fronte lo stand con i biscotti per la
colazione. Quasi sgomento vedo che il cesto è
pressoché vuoto. Hannah ama comprare cianfrusaglie,
il fatto che abbia solo preso del succo di frutta e degli yogurt fino ad ora,
mi suggerisce il fatto che nonostante abbia gradito la
sorpresa dei pacchi, l’umore più privato non è cambiato per nulla da quando
eravamo in veranda.
Trattengo a stento un sospiro di frustrazione e provvedo a
comprare le cose di primissima necessità. Del resto ripartirò tra tre giorni, non ha senso riempire la dispensa per
lasciare le cose lì ad ammuffire. Chiedo adHan se vuole qualcosa in particolare, ma nega con la testa,
rimanendo silenziosa. Anche James
la squadra, sorpreso di vederla così taciturna, mentre imbusta i viveri.
Con un’occhiata eloquente gli faccio intendere che è un po’ giù e lui annuisce
con sorriso di comprensione ed un’occhiata preoccupata in direzione di mia
sorella.
Non so cosa provi Jamie per
lei, ma spesse volte mi sono trovato a pensare che Hannah
gli piaccia, sebbene non si sia mai fatto avanti o almeno che io sappia. La
conosce di riflesso, nel senso che è mia sorella e mi accompagna spesso in
giro, e non so cosa ne pensi lei di lui onestamente.
“Ci vediamo allora, J”, lo saluto prendendo in mano una
delle buste.
“Ciao Lij. Vado al cinema
questa sera. Ti dirò poi che ne penso di Sin
City”.
“Vedi di non stroncarmi…”.
“Questo non dipende da me, ma da come hai recitato”, mi
prende in giro ed ottenendo come risultato un sorriso
disteso da parte di Han che mi guarda allo stesso
modo, ironica.
“Andiamo, sis”, la invito prima che possa iniziare a criticarmi. Odio
vedere i miei film con i miei familiari.
Non c’è nulla di più imbarazzante. Un’esperienza allucinante, lo giuro. I loro
commenti quando vogliono divertirsi a farmi a pezzi
sono più che acidi, per quella legge alla quale mi riferivoprima ed in base alla quale è meglio che ti stronchino prima in
famiglia che altrove. Almeno sei preparato.
“Ciao James”.
“Ciao Han”.
Abbiamo preso a camminare lentamente una volta
all’esterno.
“Ciao James… CiaoHan…”,
imito cinguettando, con un’espressione sognante nello sguardo, facendo
voltare mia sorella. Quello che è sconvolgente è che anziché darmi del coglione, arrossisce, poco ma
arrossisce, ed è solo per via dell’illuminazione artificiale dei lampioni che
le guance appaiono appena rosate. Mi ritrovo allora un po’ senza parole. Non mi
va più di prenderla in giro adesso. Insomma la giornata è stata abbastanza di merda e non è dell’umore adatto per rispondermi a tono.
Difatti non so se per il disagio o semplicemente l’umore
sotto i tacchi con il quale è entrata nel 7-11, è tornata ad abbassare lo sguardo sul marciapiede,
rimanendo praticamente muta.
“Un gelato, Han?”, mormoro
allora a bassa voce, come se temessi di disturbarla. L’aria non è caldissima,
ma un gelato in teoria non si rifiuta mai.
“Sì…”, annuisce tornando a guardarmi, uno sguardo un po’
confuso e forse colpevole negli occhi. Non so quanto c’entri Jamie in questo, ma quello che so è che non ce l’ho con lei per non avermi detto niente. Insomma non è
che debba sentirsi obbligata a raccontarmi vita , morte
e miracoli. La privacy è privacy. Le sorrido
incoraggiante, facendole capire che è tutto a posto, che non me la sono presa,
ed entriamo al Creamyland.
La vedo avvicinarsi al bancone che mostra una quantità infinita di gusti e
aspetto che ordini, riflettendo sul fatto che forse se mi trovassi io nella sua
situazione, se cioè fossi interessato a qualcuna e non
gliene avessi parlato un po’ colpevole mi sentirei, visto il livello di
confidenza che abbiamo. Ma non posso sindacare sulle
sue emozioni private o sulle sue scelte in quel senso. Io non vorrei che
nessuno lo facesse a sua volta con me.
Dopo qualche attimo, la vedo voltarsi con una coppa media
in mano, con tanto di panna e cialda biscottata per decorazione e, pagato il
conto, usciamo di nuovo in strada. Non so perché non
ci siamo rimessi subito in macchina dopo essere usciti dal 7-11. Forse avevamo voglia di stare un po’ all’aperto. Come se l’ambiente chiuso della Mini e Mellon Collie ci avessero un po’ soffocati.
Hannah è ancora silenziosa, ma vedo che
sta mangiando coscienziosamente il suo gelato. “Ne vuoi, Lijah?”,
mi chiede dopo un po’ indicandomi la coppetta. In altre occasioni l’avrei
punzecchiata, dicendole che di solito una cosa si
offre prima di averla finita per metà, ma adesso mi limito solo a scuotere il
capo negativamente, sorridendole con dolcezza.
Mi fa male vederla così giù, quale che sia
il motivo adesso. Ne scruto la figuretta magra e ben
disegnata, coperta da un paio di pantaloni blu a vita bassa, una maglietta di
cotone amaranto e poi un giubbotto di jeans, avvitato e solo parzialmente
abbottonato. È carina e mi fa stranamente tenerezza.
“Che c’è?”, la sento chiudermi
all’improvviso, mentre si volta a guardarmi, un’espressione curiosa e
interrogativa sul volto. “Ho del gelato in faccia?”, inquisisce gettando in un
cestino la coppetta vuota e strofinandosi un dito con la mano, come a togliere
una qualche goccia di gelato.
“No…”, nego trattenendo un sorriso. “E’ tutto a posto, Han”, la rassicuro, passandole un braccio intorno alle
spalle e stringendola appena. Lei fa lo stesso allora, facendomi
scivolare un braccio dietro la schiena e appoggiandomi la testa contro la
spalla. Le sfugge un sospiro, ma più che di
frustrazione sembra di sollievo, come se dimostrasse di aver trovato un qualche
conforto. Le stringo allora ancora una volta le spalle, un po’ meno oppresso a
mia volta, e continuiamo a dirigerci verso l’auto.
Il boulevard
davanti a noi, illuminato da luci al neon e Los Angeles che si prepara ad
un’altra nottata delle sue, sullo sfondo.
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/* Anche se è superfluo puntualizzarlo è l’attore che ha dato vita a Gollum /Sméagol
/** Minisupermarket che vendono un po’ tutto, anche
giornali, dvd, sigarette, si occupano di servizi di
sviluppo foto, etc. Aperti sette giorni su sette, undici ore al
giorno. Da lì appunto il nome Seven-Eleven