La Primavera perduta

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Festa della Primavera ***
Capitolo 3: *** L'Ombra del Nord ***
Capitolo 4: *** La scelta di Mairon ***
Capitolo 5: *** La caduta dei Lumi ***
Capitolo 6: *** La Guerra dei Poteri ***
Capitolo 7: *** Il lungo sonno ***
Capitolo 8: *** L'Isola dei Lupi Mannari ***
Capitolo 9: *** La Guerra d'Ira ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La Primavera perduta

 

 

-Prologo:

 

   Fu nell’infanzia di Arda che si consumò la Prima Guerra tra i Valar – le Potenze ordinatrici – e Melkor, l’Oscuro Signore del caos e della distruzione. E per molto tempo sembrò che la vittoria dovesse arridere a quest’ultimo, perché le terre erano aride e desolate. Ma già i primi germi di vita covavano nei mari, protetti da Ulmo. Le prime forme di vita erano così microscopiche che Melkor non le notò nemmeno; ma erano tenaci e resistenti. Così, lentamente e quasi in sordina, la vita si diffuse nei mari, nutrendosi della luce solare, del calore che filtrava dai fondali e del respiro tossico dei vulcani. E in cambio cominciò a produrre il prezioso ossigeno. Nel vedere i mari e il cielo farsi sempre più azzurri, Melkor schiumò di rabbia. Scatenò terremoti ed eruzioni vulcaniche, ma ciò non bastò a distruggere quelle forme di vita ancestrali. Anzi, ottenne solo di selezionare le più resistenti, accelerandone l’evoluzione. Proprio come gli aveva detto Eru Ilúvatar nelle Aule Atemporali, prima di creare il Mondo: «Nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in me; e nessuno può alterare la Musica a mio dispetto. Poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere mio strumento»[1].

   Ma questo Melkor non volle mai accettarlo. E purtroppo gli eventi successivi fecero vacillare gli stessi Valar, perché sembrava che davvero il Ribelle ostacolasse in eterno i loro disegni e con essi il volere d’Ilúvatar. Non appena la vita si fece più grande e complessa, divenne anche più vulnerabile. Melkor ebbe gioco facile a spazzarla via con eruzioni vulcaniche, piogge di meteoriti e bruschi sbalzi climatici. Più volte la vita fu quasi annientata; ma ogni volta sopravvivevano abbastanza kelvar e olvar[2] da permettere un nuovo inizio. E ogni volta l’evoluzione, saggiamente governata dai Valar, escogitava forme nuove e sorprendenti. Creature sempre più evolute e reattive prendevano il posto di quelle estinte, equipaggiate con nuovi strumenti per l’attacco e la difesa, nonché comportamenti più raffinati.

   Nacquero così occhi, pinne e una corda dorsale che divenne la lisca; si aggiunsero mandibole sempre più poderose e in taluni casi una corazza esterna. Ai molli invertebrati delle Ere più antiche si erano affiancati i pesci. Quando Melkor prosciugò le lagune in cui molti di questi pesci vivevano, alcuni di essi svilupparono polmoni per sopravvivere in mancanza d’acqua. Divennero anfibi, e con gli insetti iniziarono la colonizzazione delle terre emerse. Grandi foreste primordiali tinsero il mondo di verde, governate da Yavanna, la Regina della Terra. In quel tempo i Valar si dilettarono a far crescere gli aracnidi, gli insetti e i vermi fino a dimensioni che in seguito non furono mai più eguagliate. Ma il tempo scorreva e anche l’era carbonifera giunse al termine.

   Nuove specie si affermarono, colonizzando l’entroterra. Erano rettili, ormai; la loro pelle spessa e scagliosa e le loro uova dal guscio duro consentivano molta più autonomia dall’acqua. Alcuni si diversificarono ulteriormente: il cervello s’ingrandiva, il corpo imparava a produrre il calore da sé anziché riceverlo passivamente dal Sole. Vedendo le creature farsi sempre più scaltre e sofisticate, Melkor rinnovò i suoi assalti. E stavolta fu guerra aperta contro i Valar, fino all’ultimo respiro. Perché Melkor non era solo: molti dei Maiar – gli spiriti minori – che già avevano seguito i suoi temi dissonanti nella Musica primordiale, si erano schierati dalla sua. Nelle prime ere se n’erano stati spesso torpidi, sparpagliati per la Terra in tumulto; ma ora Melkor li aveva radunati, traendone un esercito di demoni. Terremoti ed eruzioni vulcaniche tornarono a squassare il mondo senza pace; le piante arsero, le bestie perirono. Ancora una volta le fatiche dei Valar rischiarono d’essere vanificate.

   In quell’ora di estremo bisogno, il soccorso giunse da oltre i confini di Arda. Perché non tutti gli Ainur avevano accolto l’invito di Ilúvatar a entrare nel Mondo, conoscendo il prezzo da pagare: che la loro potenza fosse contenuta e limitata in esso, fino al termine della sua esistenza. Piuttosto che confinarsi nel Piccolo Regno, come lo chiamavano, molti avevano preferito restare nelle Aule Atemporali con Ilúvatar. Dopotutto era quello il loro luogo d’origine; lì avevano dimorato fin dall’inizio, da quando il Creatore li aveva tratti dalla propria mente. Perché legarsi alla materia del Mondo, quando potevano restare con Ilúvatar, godendo della Sua luce e sapienza? Attorno a Lui potevano ancora radunarsi e intonare canti, sebbene nessuna musica potesse più eguagliare l’Ainulindalë, dopo la partenza di tanti dei loro. Ma in quelle regioni di puro spirito, gli Ainur potevano pur sempre percepire i clamori e i lamenti del Piccolo Regno. E nell’udire l’ennesima battaglia, che minacciava di vanificare gli sforzi dei suoi fratelli incarnati, uno degli Ainur non seppe più resistere. Ultimo della sua stirpe, si congedò da Ilúvatar e scese nel mondo. Qui assunse forma fisica, come i suoi fratelli avevano già fatto da tempo. E poiché era uno dei Valar, la più alta gerarchia di Ainur, fu una forma possente.

   Fu così che Tulkas, il Lottatore, si gettò nella mischia. Non essendo ancora state inventate armi, egli combatté a mani nude, rivelandosi il più vigoroso di tutti i Valar. I suoi tremendi colpi aprirono crateri e valli montane. La sua collera scatenò venti impetuosi, che spazzarono tenebre e nubi davanti a lui. La sua risata sovrastò il boato dei vulcani e i gemiti della terra. Davanti a quell’assalto inaspettato, i demoni si dispersero come foglie al vento. Allora Melkor stesso ebbe paura e volse in fuga. Inseguito per tutta Arda, non trovò un nascondiglio che gli paresse abbastanza solido. Così non gli restò che abbandonare, per il momento, la sua forma incarnata. Tornò un puro spirito, seppur consumato dall’odio e dalla vergogna per lo smacco subito. In quella forma era imprendibile, ma la luce dei Valar continuava a pungerlo e la risata di Tulkas lo rendeva ancor più furioso. Così Melkor abbandonò Arda, rifugiandosi nelle Tenebre Esterne, e il mondo ebbe finalmente pace.

 

   Ora che la guerra era finita, Tulkas rimase con i suoi fratelli e li aiutò nel difficile compito di rimodellare il mondo e le sue creature, usciti molto provati dall’ultimo scontro. Sette specie su dieci si erano estinte sulla terraferma; e più di nove su dieci nel mare. Malgrado tutti gli sforzi di Yavanna, che ne escogitava sempre di nuove quando non si poteva salvare le vecchie, stavolta servì molto tempo prima che la Terra guarisse dalle ferite.

   Infine risorse una moltitudine di piante, dai piccoli muschi alle torreggianti felci arboree. Nuove bestie colonizzarono gli ambienti: correvano nelle pianure, si abbeveravano a fiumi e laghi, si aggiravano nelle ombre delle foreste. Per la maggior parte erano rettili, che tornavano a diffondersi ancor più di prima. Alcuni continuarono a evolversi: presero ad allattare i loro cuccioli e infine a partorirli, senza più deporre le uova. Erano nati i mammiferi. Ma non c’erano ancora i fiori ad abbellire le foreste, né gli uccelli a solcare il cielo; e non c’erano nemmeno i Figli d’Ilúvatar, sebbene il loro avvento fosse profetizzato.

   Dovendo riplasmare il Mondo, i Valar tentarono per l’ultima volta di realizzare la splendida visione che avevano cantato nell’antica Musica. Con grande sforzo, radunarono le terre emerse in un’unica massa, che in ere più tarde gli Uomini avrebbero chiamato Pangea. Ci fu così un solo continente e un unico, immenso oceano. I Valar cercarono di appianarne le asperità, ma le forze geologiche messe in moto per riunire le masse continentali erano potenti: non poterono impedire la formazione di parecchie catene montuose. La più aspra formava un vasto semicerchio al Nord, separando le terre verdi dai deserti di ghiaccio. Erano rilievi vulcanici, ancora giovani e fiammeggianti; più tardi furono detti Ered Engrin, i Monti di Ferro.

   Le altre catene montuose furono più regolari e simmetriche, grazie agli sforzi dei Valar. Erano quattro in tutto, due nell’emisfero boreale e due in quello australe. Le due nordiche partivano dai Monti di Ferro e si snodavano dritte verso Sud: erano gli Ered Luin (Monti Azzurri) a occidente e gli Orocarni (Monti Rossi) a oriente. Quanto alle Montagne Nebbiose, che nelle Ere successive avrebbero costituito una formidabile barriera per gli spostamenti, non si erano ancora sollevate. Nell’emisfero meridionale c’erano le altre due catene montuose, in pratica dei prolungamenti di quelle settentrionali, fatta salva la zona pianeggiante fra i tropici. Così i Monti Grigi sorgevano a occidente e i Monti Gialli a oriente, delineando con gli omologhi settentrionali una sorta di grande rettangolo.

   Questo modellamento delle forme di Arda fu dovuto in massima parte ad Aulë, il Signore delle Rocce e dei Metalli, che più tardi fu detto il Fabbro dei Valar. Avrebbe dovuto essere Melkor a occuparsene, se non si fosse volto al male. Pur possedendo in parte i poteri di tutti i suoi fratelli, infatti, Melkor era votato soprattutto al dominio della materia solida. Ma poiché le cose erano andate altrimenti, l’immane compito ricadeva interamente sulle spalle di Aulë. Mai, in seguito, Aulë dovette faticare quanto aveva fatto nelle Ere primordiali. Per sua fortuna poté contare sull’aiuto di Tulkas, sempre pronto a prestare la sua gran forza, e su molti Maiar che condividevano il potere su rocce e metalli. Tra questi vi erano alcuni tra i Maiar più forti, di poco inferiori ai Valar stessi. Il più grande era Mairon, il cui nome significava Ammirevole, perché tutti lodavano il suo ingegno e le sue opere.

   S’è detto che le quattro catene montuose delimitavano una grande pianura rettangolare. Questo entroterra, così lontano dal mare e circondato da rilievi che bloccavano i venti, rischiava di desertificarsi. I Valar indirizzarono quindi il corso dei fiumi verso il centro, dove essi confluirono nel Grande Lago. Era la più vasta distesa d’acqua dolce del mondo, ma era poco profondo; la sua forma ovale lo faceva somigliare a un immenso occhio. E la pupilla dell’occhio era un’isola circolare, che i Valar trassero dal fondale. La chiamarono Almaren, cioè Dimora Beata, poiché la elessero loro casa.

   Fino ad allora, infatti, gli Ainur non avevano avuto fissa dimora: andavano ovunque servisse la loro opera, da soli o in piccoli gruppi. In genere ogni Vala era circondato da un corteo di Maiar suoi aiutanti, scelti tra gli spiriti a lui più affini. Gli spostamenti, anche di grande portata, non erano difficili: tutti gli Ainur potevano tornare allo stato di puro spirito, muovendosi da un capo all’altro di Arda quasi istantaneamente. Ma col trascorrere delle Ere, i Maiar e persino i Valar si accorsero che ciò diventava sempre più difficile. Che fosse per l’abitudine ad abitare un corpo solido, o per i poteri profusi nel modellare la Terra, fatto sta che erano sempre più impastoiati nella materia. Per gli spostamenti cominciarono quindi a cambiare forma, mantenendosi però incarnati: scendevano negli abissi marini come grandi pesci, correvano nelle pianure come rettili bipedi o quadrupedi, s’innalzavano nell’aria come rettili alati. Giunti a destinazione, riprendevano la forma umanoide più consueta, che avevano elaborato basandosi sui ricordi della Visione con cui Ilúvatar aveva mostrato i propri Figli. Ma anche queste trasformazioni erano diventate più gravose, col tempo. E avendo osservato che gli animali avevano spesso una tana a cui ritornare, i Valar decisero che anche loro meritavano di avere finalmente una dimora stabile.

   Furono Manwë e Varda, sovrani dei Valar, a volere che Almaren sorgesse al centro delle terre emerse, così che non ci fossero luoghi privilegiati e altri svantaggiati. Al loro avvento, i Figli d’Ilúvatar sarebbero vissuti equidistanti dagli Ainur, beneficiando in parti uguali dei loro doni e della loro sapienza. Questo fu il primo proposito dei Valar, benché gli eventi successivi lo guastassero irrimediabilmente.

   Melkor, infatti, rimuginava nella Tenebra Esterna. Non aveva dimenticato Arda, né la sconfitta subita per mano dei suoi simili. Vedendo che sotto la loro guida il Mondo rifioriva, egli fu preso dalla smania di rovinarlo; ma non di distruggerlo completamente, perché sognava ancora di dominarlo. Per questo osò compiere un’impresa che condizionò per sempre il destino di Arda e dei suoi popoli, sebbene lui stesso ancora non lo prevedesse interamente. Ricorrendo a tutti i suoi poteri, bloccò la rotazione terrestre, di modo che le terre emerse restassero prigioniere di una notte perpetua. Ora non gli restava che osservare dall’alto la morte delle piante, private della luce, e infine quella degli animali.

   Sgomenti per l’interminabile oscurità, i Valar inviarono il loro messaggero Eönwë a trattare con Melkor. Non ci furono parole, fra i due; non potevano essercene, nello spazio privo d’aria. Comunicarono trasmettendosi i pensieri, come facevano anticamente, quando dimoravano con Ilúvatar.

   «In nome di Manwë Signore dell’Aria, di Varda Regina delle Stelle e di tutti quanti i Valar, te lo comando: restituisci al Mondo la sua luce!» intimò Eönwë.

   «Che c’è, avete forse paura del buio?». Il pensiero di Melkor fluì come una fredda risata. «Ma sì, potrei prendere in considerazione la vostra richiesta, da signore misericordioso quale io sono. Alle mie condizioni, sia ben chiaro. Primo: che mio fratello Manwë si sottometta e mi restituisca il governo di Arda, da lui ingiustamente usurpato. Secondo: che Tulkas sia esiliato nella Tenebra al posto mio. Terzo: che Varda sia la mia regina. Oppure Arien: quella piccola Maia è molto stuzzicante. Quasi quasi potrei prendermele entrambe...» aggiunse l’Oscuro Signore, beffardo.

   «Resta nel tuo regno di vuoto e di tenebre» tagliò corto Eönwë. «Non riuscirai mai a spegnere la luce del Mondo». Si ritrasse e tornò verso Arda, disgustato.

   «Vedremo» ripose Melkor.

 

   Eönwë annunciò a Valar e Maiar, radunati ad Almaren nel buio, che l’avversario non intendeva cedere e anzi si faceva beffe di loro.

   «E così se la ride? Ma piangerà, quel maledetto, quando l’avrò tra le mani!» ringhiò Tulkas, facendo scrocchiare le nocche.

   «Non avresti nulla da stringere» rispose cupamente Oromë, l’altro Vala guerriero. «Per adesso si aggira nelle vacuità dello spazio come spirito incorporeo, e lo resterà finché ne avrà voglia. Cioè finché tutta la vita creata da Yavanna sarà avvizzita».

   «No!» gemette la Regina della Terra. «Vi prego, non lasciate che Melkor distrugga un’altra volta le mie opere! Fate qualcosa!». Si rivolse al marito Aulë: «Non puoi imporre alla Terra di riprendere la sua rotazione? Magari con l’aiuto dei Signori del Cielo...» aggiunse, lanciando un’occhiata speranzosa a Manwë e Varda.

   «Ahimè, lo sai che i miei poteri non uguagliano quelli di Melkor» sospirò Aulë. «Ho spostato i continenti, ho sollevato isole, ho scolpito montagne; ma non oso smuovere il pianeta. Un piccolo errore ed esso si rovescerebbe dal suo asse, o uscirebbe dall’orbita; sarebbe la rovina totale».

   «Io stesso esito a ingaggiare Melkor in una simile battaglia, che rischia d’annientare Arda» disse Manwë tristemente. «Forse verrà il giorno in cui ripristineremo la rotazione terrestre; ma dovranno trascorrere ancora molte Ere d’oscurità».

   «Allora Melkor ha vinto?!» chiese incredula Vána, sorella minore di Yavanna.

   «No; Melkor non può vincere» rispose Varda con decisione. Di tutti gli Ainur, lei sola aveva conservato pura la Luce primigenia d’Ilúvatar, che splendeva ancora sul suo volto e in tutta la sua persona. Ora che dilagavano le tenebre, quella luce divina fluiva da lei, filtrando attraverso le sue vesti, tanto da rischiarare l’adunata.

   «Come intendi agire, Signora della Luce?» chiese Ulmo, che aveva abbandonato l’usuale dimora negli abissi per partecipare al dibattito.

   «Darò al Mondo due nuovi lumi, che Melkor non possa eclissare» decise Varda. «Due Lumi che splenderanno sulle terre emerse, creando un giorno immutabile. La cieca notte sarà bandita per sempre».

   Quest’annuncio creò stupore e meraviglia tra gli Ainur, ma anche una certa perplessità. «Siete certa, mia regina, di voler bandire il riposo notturno?» chiese Irmo, il Maestro delle Visioni e dei Sogni. «Come dormiranno gli animali? E come riposeranno i Figli d’Ilúvatar, quando verrà il loro tempo?».

   «Ci saranno sempre angoli ombrosi sotto gli alberi, nelle caverne o nelle dimore che i Figli edificheranno» rispose Varda. «Non è una decisione che prendo a cuor leggero, io che amo sopra ogni cosa la bianca luce delle stelle. Ma sento che Melkor vuole pervertire la vita di Arda. La gran luce respingerà lui e i suoi demoni, impedendogli di spadroneggiare sulla Terra».

   «Ma dove sorgeranno questi Lumi, e come saranno fatti?» chiese Estë, Signora del Riposo e della Guarigione, che condivideva le perplessità del marito Irmo.

   «Data la forma delle terre emerse, per illuminarle il più possibile dovremo porre i Lumi nella Pianura Centrale» rispose Varda. «Saranno uno a nord e l’altro a sud del Grande Lago, così che le loro luci si mescolino proprio qui dove sorge la nostra beneamata isola» stabilì. «E saranno alti; più alti di qualunque montagna passata o futura. Così la loro luce oltrepasserà i monti, anche se alle loro pendici si creeranno ugualmente angoli ombrosi, fonte di riposo» aggiunse, per accontentare Irmo ed Estë.

   «Dunque stiamo parlando di pilastri» intervenne Aulë, eccitato all’idea di una nuova opera. «Sì... credo di poterli innalzare. Vedrete, saranno una bellezza: la loro cima sovrasterà le nubi, si spingerà fino a Ilmen, dove l’aria è più rarefatta. Ma per quanto riguarda la fonte di luce in sommità...» esitò.

   «Quella sarà compito mio» disse Varda con decisione. I suoi occhi mandarono uno sfavillio così intenso che pochi persino tra gli Ainur riuscirono a reggerlo.

 

   I due pilastri furono innalzati nella zona centrale della Pianura, equidistanti dalle catene montuose. I Valar, infatti, si preoccupavano ancora della simmetria di Arda e volevano accertarsi che la luce giungesse ovunque. Un pilastro sorgeva a nord del Grande Lago e l’altro a sud, ben distanziati in modo da illuminare tutta la piana e in particolare Almaren. Erano di durissimo granito bianco, meravigliosamente scolpito da Aulë come immani colonne; ma ai loro piedi furono ammassati grandi ghiacciai, per riflettere e diffondere la luce che doveva sfavillare in cima. Come stabilito dai Valar, l’altezza di queste opere superò ampiamente ogni altro rilievo di Arda. I pilastri svettavano ben oltre le nebbie e le nubi, fino alla regione di Ilmen, dove l’aria più pura e rarefatta svapora verso il vuoto esterno.

   Sulla sommità dei pilastri, incastonate nella roccia, furono poste le Lanterne vere e proprie. Erano immensi globi di cristallo trasparente e cavo, che furono colmati di... luce. Fu Varda a crearla, facendola sgorgare dalle proprie mani, mentre intonava il più bel canto che mai si udì entro Arda, il più vicino alla Musica delle origini. Ma né gli Elfi (che mai videro i Lumi), né i Maiar, e nemmeno gli altri Valar seppero mai di che si trattasse esattamente. Fatto sta che le Lanterne erano colme di un fluido luminosissimo, più leggero e impalpabile dell’acqua, ma più denso di un gas. Ed era più caldo che fiamma, tanto da apparire ribollente: il cristallo delle lanterne ne fu reso incandescente.

   Manwë consacrò ambo i Lumi, rendendo la loro luce ancor più viva e potente. «Questa Luce» disse, «è figlia della Luce d’Ilúvatar, che precedette la Caduta. Qui risiede ogni arte, ogni intelletto, ogni creatività; ed è cosa molto buona e giusta».

   La luce, però, non era uguale nei due Lumi: nell’atto creativo Varda l’aveva scissa in due sfumature. I fluidi furono immediatamente separati dalle sue ancelle, Ilmarë e Arien, cosicché nemmeno una goccia andò mischiata né perduta. Avvenne così che il Lume settentrionale brillò di luce bianco-azzurra e per questo fu detto Illuin, “Cielo Azzurro”. Quello meridionale diffuse invece una luminosità aurea e perciò fu detto Ormal, “Alto Oro”.

 

   Non appena i Lumi iniziarono a brillare, spazzando via la lunga notte, tutta la natura ebbe un fremito. Le piante rinsecchite sussultarono e buttarono nuove, tenere gemme, che si schiusero a vista d’occhio. Le felci arboree, le conifere e le prime latifoglie divennero allora più alte e rigogliose che in ogni altra epoca. Gli alberi più belli in assoluto sorsero nei pressi dei Lumi, facendo loro da verde corona; ma nonostante la stazza prodigiosa, non erano che spilli a paragone degli immani pilastri.

   In quella natura rigogliosa, anche gli animali uscirono dal letargo, ricominciando a crescere e moltiplicarsi. Certi rettili raggiunsero in quell’era dimensioni stupefacenti, mai più eguagliate dalle creature terrestri. E attorno a loro era tutto un rincorrersi di creature grandi o piccole, forti o agili. Molti erbivori svilupparono lunghi corni e vistose creste ossee, oppure dure corazze dorsali e poderose mazze d’osso in fondo alla coda. Ne avevano bisogno per difendersi dai predatori, anch’essi sempre più grandi. E sebbene alcuni Maiar fossero inquietati dalla ferocia dei grandi carnivori dai denti aguzzi, Manwë spiegò che anch’essi rientravano nel grande ciclo della natura.

   L’Era dei Rettili, comunque, non fu dominata solo ed esclusivamente da queste creature. I piccoli mammiferi si tenevano ancora in disparte, ma in compenso nuove forme andarono evolvendosi: becchi, penne, ali. I primi uccelli planarono dagli alberi, lanciando alte strida, e infine contesero i cieli ai rettili alati più antichi. Nel sottobosco, intanto, comparvero i primi fiorellini, ancora piccoli e pallidi. Le loro foglioline biancastre, ma soprattutto il loro profumo, attirarono molti insetti ronzanti, che si cibarono del loro nettare e li impollinarono: era nata una simbiosi destinata a durare nelle Ere.

 

   Per quanto la natura fosse ovunque rigogliosa, in nessun luogo era più ricca che nelle regioni centrali di Arda, dove la luce dei Lumi si amalgamava. Lì il Grande Lago scintillava come argento liquido e i suoi fondali rilucevano di perle. L’isola di Almaren sorgeva dall’acqua come un verde smeraldo. Su di essa i predatori erano banditi e tutte le creature vivevano in pace.

   Ma gli Ainur non avevano ancora concluso le loro fatiche. Anzi, la rinnovata luce diede loro nuovo slancio creativo. Così Almaren, che era già un giardino paradisiaco, divenne anche un cantiere in cui gli Immortali innalzavano le loro dimore, progettate per l’eternità. Aulë e i suoi aiutanti edificarono grandi palazzi di marmo candido. Dalle rocce trassero altresì i metalli, in particolare l’oro e l’argento, che con la loro lucentezza deliziavano gli Ainur. Sorsero così regge marmoree dalle molte torri, con cupole rivestite d’argento e oro. Le loro pareti erano incrostate di gemme preziose, cristalli e perle, oltre che decorate da bassorilievi e affreschi, specialmente attorno ai grandi portali e alle finestre. Questi primi capolavori dell’arte mostravano non solo la lunga lotta contro Melkor e le fatiche che avevano reso la Terra un giardino di delizie, ma anche molti eventi che dovevano ancora verificarsi. Tra i Valar, infatti, ve n’erano due che avevano il dono della profezia: Námo e Vairë, signori della Morte e del Destino. Le profezie di Námo furono così tradotte su pietra, legno o altri supporti da Aulë, mentre Vairë cominciò ad abbellire gli interni con i suoi arazzi. Gli Ainur stessi indossarono abiti sempre più sontuosi, facendone un segno di decoro e un modo per esprimere ancor meglio la loro personalità.

   Intanto continuavano a fervere i lavori. Mentre il resto del mondo era dominato dalla natura incontaminata, ad Almaren sorsero monumenti rivestiti di metalli preziosi, che riflettevano i Lumi in toni così accecanti che solo gli occhi degli Immortali potevano tollerarli. Le strade e le scalinate marmoree scintillavano, essendo cosparse di polvere di diamanti, che faceva scintillare le vesti degli Ainur e i loro calzari. Grandi fontane di cristallo creavano complessi giochi d’acqua: gli spruzzi raggiungevano l’altezza dei palazzi e ricadevano poi su alberi e aiuole. La musica dell’acqua si fondeva a quella del vento tra le fronde. E tutte queste cose – l’acqua, il cristallo, le gemme, le perle, l’oro e l’argento – rifrangevano e moltiplicavano vicendevolmente la propria luminosità.

   La gioia degli Ainur cresceva di giorno in giorno, perché le loro dimore si facevano sempre più belle e tutto il mondo circostante era un giardino in fiore. Sentivano approssimarsi la fine delle loro fatiche, quando avrebbero potuto riposarsi tra le delizie che avevano creato. E non vedevano l’ora che giungessero i Figli d’Ilúvatar, per condividere tale felicità con loro. Ma se avessero riflettuto meglio sulle profezie di Námo, avrebbero compreso che la lotta con l’Oscurità non era affatto terminata... anzi, sotto molti aspetti era appena agli inizi.

 

 

-Commento:

   Questo mio racconto s’ispira ai capitoli iniziali del Silmarillion, incentrati sulla lotta di Valar e Maiar contro il ribelle Melkor. Siamo agli albori di Arda, quando terre e mari sono simmetrici e Almaren, il regno paradisiaco dei Valar, è al centro di tutto. In seguito tale simmetria viene guastata: i Valar emigrano nella terra occidentale di Valinor. Tutta la successiva storia di Arda è un lento, struggente allontanarsi di Valinor dalle terre mortali: i monti Pelóri, i Mari Ombrosi, le Isole Incantate, i ghiacci dell’Helcaraxë sono barriere fisiche sempre più insormontabili. I Valar si trincerano nel loro regno e in un certo senso abdicano alla missione di governare il Mondo. Difatti la narrazione li abbandona per concentrarsi su esseri sempre più umili: gli Elfi, gli Uomini (con la parentesi di Númenor) e infine gli Hobbit. Alla fine della Seconda Era, il mondo cambia addirittura forma: le Terre Imperiture sono portate «oltre le Sfere del Mondo», dove solo le navi elfiche possono recarsi, percorrendo la “Via Diritta”. Noi poveri mortali siamo invece condannati a percorrere il Mondo Incurvato fino a circumnavigarlo. La Terra, ahinoi, è una sfera da cui non possiamo più fuggire. Ma non è sempre stato così, ci dice Tolkien...

   Uno degli aspetti più intriganti del Silmarillion è proprio l’impianto geocentrico. In onore alle antiche mitologie, la Terra è inizialmente piatta e immobile. Il Sole e la Luna (che appaiono solo a narrazione inoltrata) sono piccoli e le girano attorno. La Terra diventa sferica solo dopo che i Númenoreani tentano d’invadere Valinor, nell’errata convinzione di conquistarsi l’immortalità.

   S’è detto che Sole e Luna arrivano tardi. Essi sono infatti l’ultimo frutto dorato di Laurelin e l’ultimo fiore argenteo di Telperion, i Due Alberi che illuminavano Valinor, mentre il resto del Mondo era debolmente rischiarato dalle stelle. Da questi Alberi miracolosi derivano anche i tre Silmaril, i gioielli per cui Elfi e Uomini guerreggiano contro l’Oscuro Signore. Persino l’Albero Bianco di Gondor e la Fiala di Galadriel ne sono lontani “eredi”.

   Ma la cosa più interessante è che nemmeno Telperion e Laurelin sono le prime fonti di luce del Mondo. In origine c’erano Illuin e Ormal, le due Lamps (tradotto con Lampade nella prima edizione italiana; ma io ho preferito il termine Lumi, che suona meno tecnologico). Il tema della luce e dei suoi progressivi decadimenti è centrale nel Silmarillion. La luce, sempre divisa in argentea e dorata (con una predilezione per la prima), è infatti un vero protagonista dell’opera.

   Tolkien descrisse dettagliatamente i Due Alberi, ma purtroppo non fece mai lo stesso con Illuin e Ormal. Eppure i Lumi sono più antichi, quindi dovrebbero rispecchiare maggiormente i propositi originali dei Valar. In effetti c’è qualche indizio della loro superiorità:

-          Illuin e Ormal illuminavano tutta Arda, mentre Telperion e Laurelin illuminano solo Valinor, essendo assai più piccoli. I Lumi inoltre erano al centro di Arda simmetrica, mentre gli Alberi si trovano nella terra occidentale di Valinor, cinta da montagne così alte da bloccare del tutto la loro luce.

-          Illuin e Ormal erano sempre accesi, mentre gli Alberi si alternano nell’illuminare Valinor, secondo un ciclo di dodici ore; solo nell’ora mediana le loro luci si mescolano. Più tardi, col Sole e la Luna, c’è un ulteriore decadimento: la luce lunare è debole e quindi si crea l’alternanza giorno-notte. Emerge qui l’idea della Storia come “decadenza” dalla condizione originale di grazia, esemplificata dal fatto che c’è sempre meno luce nel mondo.

 

   La mia storia si apre quindi nella Primavera di Arda, un vero “mondo alieno” rispetto alla Terra di Mezzo sfigurata delle ere successive. Nel prologo ho descritto le fasi più arcaiche di Arda, amalgamandole con alcuni elementi della vera preistoria terrestre e suggerendo che le estinzioni di massa siano coincise con gli scontri fra Melkor e i Valar. Ovviamente non c’è modo di far combaciare la cronologia di Arda con quella terrestre, quindi mi sono tenuto un po’ nel mezzo. In particolare ho spesso accennato all’esistenza di “grandi rettili” all’epoca di Almaren, suggerendo che sia da collocare nel Mesozoico, l’età dei dinosauri (ecco quanto sono antichi gli Ainur!).

   Ma gli aspetti cosmologici mi hanno costretto a prendere posizione. L’idea di una terra piatta che “si appallottola” a fine Seconda Era, senza che la crosta terrestre vada in pezzi, è difficile da digerire. Com’è difficile accettare l’impianto geocentrico, col Sole e la Luna che sono piccoli vascelli condotti in cielo da Arien e Tilion. Per quanto sia poetico, ciò cozza irrimediabilmente con l’idea che Arda sia la nostra Terra. Lo stesso Tolkien dovette farci i conti e nei suoi ultimi anni abbozzò una versione alternativa che retrodatava il Sole e la Luna a prima degli Alberi, avvicinandosi quindi alla realtà eliocentrica del sistema solare. Questo però gli creò nuovi problemi, perché un caposaldo della sua mitologia era che la luce di Sole e Luna sia “corrotta” dal male, mentre solo nei Silmaril splende incontaminata la Luce degli Alberi. Nella nuova versione, la luce più antica era quella del Sole, mentre la Luna non emetteva luce propria ed «era stata creata da Melkor come una brutta copia di Arda». La luce solare fu comunque corrotta da Melkor, che in una bozza giunge persino a violentare Arien, la Maia del Sole. La luce pura delle origini sopravvisse negli Alberi e poi nei Silmaril, mentre Illuin e Ormal non erano mai esistiti: si trattava solo di un mito diffuso tra gli Uomini (!).

   Si capisce perché Tolkien non ufficializzò mai questa nuova versione, di cui infatti non c’è traccia nel Silmarillion. Dire che i Lumi erano “solo un mito” apre un vaso di Pandora, perché allora tutto il libro può essere considerato nient’altro che un mito. Cosa che effettivamente è... ma una storia deve favorire la sospensione dell’incredulità nei lettori; non può ammettere d’essere una finzione.

   Nell’approcciarmi a questo paradosso, ho deciso di seguire la vera struttura eliocentrica del sistema solare. La mia conclusione è la seguente: le proporzioni e posizioni di Terra, Luna e Sole corrispondono in linea di massima alla realtà. L’era dei Lumi e quella degli Alberi corrispondono a un periodo in cui Melkor ha bloccato la rotazione terrestre, ponendo Arda in blocco mareale col Sole affinché l’unico continente resti sempre al buio. Ammetto che l’idea ha dei difetti: l’oceano sempre illuminato dal Sole dovrebbe bollire e vaporizzarsi, mentre il continente sempre in ombra dovrebbe congelarsi (a meno che i Lumi emettano anche calore). Su questo punto chiedo ai lettori di chiudere un occhio, in nome della sospensione dell’incredulità che il genere fantasy esige.

 


[1] Cit. dal Silmarillion, Ainulindalë.

[2] Animali e piante.

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Capitolo 2
*** La Festa della Primavera ***


-Capitolo I: La Festa della Primavera

 

   Quando Manwë, Signore dell’Aria e Re degli Ainur, annunciò una grande festa per celebrare la riuscita edificazione di Arda, tutte le schiere degli Immortali si misero in agitazione. Un mormorio emozionato corse tra i Maiar, gli spiriti minori, e anche i grandi Valar sorrisero compiaciuti. Per eoni avevano lavorato incessantemente al difficile compito di domare i tumulti primordiali del mondo, rendendolo una dimora accogliente per se stessi e per i Figli d’Ilúvatar. Le loro fatiche erano state accresciute dalla ribellione di Melkor, che avrebbe dovuto essere la loro guida e si era invece rivelato il più implacabile nemico. Molti Ainur avevano disperato di poter realizzare quanto avevano cantato nella Musica primordiale, e poi osservato in visione. Ma ora, finalmente, era tempo di cogliere i frutti delle loro fatiche; di dedicarsi alle feste e al riposo.

   «C’è un altro lieto annuncio che ho il piacere di darvi» disse Manwë, la cui voce stentorea risuonava per tutta Almaren. «Il nostro grande amico Tulkas, difensore di Arda, ha chiesto la mano di dama Nessa, ed ella ha accettato. Pertanto in questa Festa della Primavera si celebrerà anche il loro sposalizio!».

   Tulkas si fece avanti gongolando, sotto scroscianti applausi. Era biondo di capelli e roseo d’incarnato, come un gran bambinone, ma nessuno dimenticava che era stata la sua gran forza a mettere in fuga Melkor. Anche nel carattere Tulkas era fanciullesco: si curava poco del passato o del futuro, e a volte si lasciava trascinare dalle emozioni, ma era un amico leale. Nessa si fiondò tra le sue braccia, rapida come una freccia, e quasi lo avvolse in una nube di capelli scuri. Anche lei era gaia e spensierata: molte delle creature più agili e variopinte di Arda erano opera sua.

   Quando si baciarono, Eönwë soffiò in una tromba d’oro e anche Oromë, fratello di Nessa, fece udire Valaróma, il suo corno da caccia. Il popolo dei Maiar diede in esclamazioni festanti, e non solo quelli radunati sui prati di Almaren: dal Grande Lago emersero infatti gli spiriti delle acque. Lo stesso Ulmo s’innalzò torreggiante fra loro, con l’elmo crestato di schiuma e la cotta rilucente di squame. Portò alla bocca il suo gran corno, Ulumúri, ricavato da una conchiglia bianca, e vi soffiò con forza. Il suono profondo e misterioso era però impregnato di un’insondabile malinconia.

   Ora che Tulkas si sposava con Nessa, Ulmo sarebbe rimasto uno dei pochissimi Valar ancora senza una compagna. La maggior parte delle Potenze aveva formato coppie già dalle ere arcaiche dei tumulti di Arda e della guerra con Melkor. Manwë stava con Varda, Aulë con Yavanna, Irmo con Estë, Oromë con Vána. Persino il fosco Námo si era trovato una sposa, Vairë la Tessitrice. Ormai di tutte le Valier ne restava una sola nubile, ma ben difficilmente si sarebbe mai impegnata con chicchessia. Si trattava infatti di Nienna la Piangente, ben riconoscibile in mezzo alla folla variopinta: era l’unica vestita a lutto, che singhiozzava nel fazzoletto. Nienna era uno spirito molto sensibile. All’inizio dei tempi, quando Melkor aveva guastato la Musica, ne aveva sofferto tanto che il suo canto si era mutato in lamento assai prima che terminasse. Questo pianto era stato intrecciato nei temi del Mondo prima che avesse inizio e perciò l’avrebbe permeato per tutta la sua durata.

   «Suvvia, non pensi di poter alleggerire un po’ il tuo cuore?» le chiese suo fratello Irmo. «Ormai le ferite che Melkor ha inferto al mondo sono state sanate. E poi, Tulkas e Nessa si sposano... non succede tutti i giorni che due Potenze intreccino i loro destini per l’eternità» aggiunse, lanciando un’occhiata furtiva e dubbiosa a Ulmo. No, proprio non ce lo vedeva, a invaghirsi di sua sorella.

   «M-ma io n-non sto – sigh! – piangendo di dolore!» singhiozzò Nienna. Il suo viso fece brevemente capolino dal fazzoletto. Era di un pallore estremo, enfatizzato dal contrasto con i capelli corvini. Gli occhi a mandorla, neri come giaietto, grondavano lacrime.

   «No? Ehm, sarebbe la prima volta... di che piangi, allora?» chiese Irmo, sorpreso e un po’ imbarazzato.

   «Ma di gioia, no? Adoro i lieti fini... sono così... commoventi! Buaaahhh!» singhiozzò Nienna, tornando a seppellire il volto nel fazzoletto fradicio. Irmo alzò gli occhi al cielo, chiedendosi da quale parte della mente d’Ilúvatar fosse scaturita sua sorella.

 

   Poco distante, nella folla dei Maiar, c’era un altro viso rabbuiato: quello di Mairon, il braccio destro di Aulë. Era uno dei Maiar maggiori, assieme ad Eönwë. Aveva l’aspetto di un uomo imponente; alto e magro, ma con le spalle larghe, lunghi capelli color fiamma e acutissimi occhi grigi. Essendo legato al fuoco, alle rocce e ai metalli, Mairon aveva lavorato incessantemente con il suo maestro Aulë per plasmare le forme di Arda, erigere le dimore degli Ainur e fabbricare un’infinità di oggetti utili. Non c’era segreto, nella scienza dei fabbri, che Aulë non avesse trasmesso al suo talentuoso aiutante; e spesso diceva che senza di lui non sarebbe riuscito a sopperire all’assenza di Melkor. A Mairon questi complimenti facevano molto piacere; ma riteneva che i suoi lunghi e leali sforzi fossero stati sottovalutati dagli altri Ainur.

   Ora, però, era un’altra questione a pungerlo; qualcosa di ancor più personale. Guardò verso Manwë e Varda, che si erano riseduti sui loro troni all’aperto, e la vide: Ilmarë, ancella di Varda, la più bella Maia mai scaturita dalla mente d’Ilúvatar. A vederla pareva una sorella più giovane della Regina delle Stelle, tale era la sua bellezza. Ma invece di avere i capelli corvini, come Varda, li aveva di una sfumatura argentea così chiara che sembravano bianchi. Bianca era la sua veste, argentea la cintura; fra le chiome aveva fili di perle intrecciate. E il volto... Mairon distolse lo sguardo, perché Ilmarë si era accorta d’essere fissata. Ma continuò a figurarsela nella mente.

   Come tutti gli Ainur incarnati, Ilmarë aveva scelto un aspetto confacente al suo spirito, che lo rispecchiasse il più possibile. Mentre i Valar – e anche gran parte dei Maiar – avevano sembianze imponenti e maestose, Ilmarë era piccola ed esile, quasi come una ragazzina. Ma al pari degli altri, la sua memoria risaliva a prima della creazione di Arda e la sua saggezza era quella di chi ha parlato con Ilúvatar.

   Mairon lanciò un’altra occhiata furtiva a Ilmarë e la vide congedarsi rispettosamente da Varda, per unirsi alla folla dei Maiar. Terminate le acclamazioni, questi si dedicavano ormai a musiche e canti, oppure si dividevano in piccoli gruppi e si allontanavano conversando. Mairon sentì il cuore sobbalzargli: Ilmarë veniva sorridendo verso di lui! Era raro che lo facesse. Quando lui le aveva confessato il suo amore, tanto tempo prima, lei si era detta lusingata e confusa dai troppi complimenti, prima di pronunciare la temuta risposta: «Perché non restiamo amici?». Da allora, Mairon aveva la sensazione che Ilmarë cercasse d’evitarlo, per non dover affrontare di nuovo l’argomento. Però adesso gli veniva incontro così radiosa! Come reagire, cosa dirle? Mairon aveva la bocca secca. Per uno come lui, che trascorreva gran parte del tempo sottoterra a disquisire di leghe e metalli con gli altri fabbri, non era semplice avere una conversazione brillante con una dama.

   «Eccoti, mio diletto! Dov’eri finito ultimamente?» esclamò Ilmarë, spalancando le braccia.

   Mairon si bloccò, sbigottito; poi pensò di ricambiare l’abbraccio, inaspettato quanto gradito. Ma in quella Eönwë, che gli stava dietro, lo superò e strinse Ilmarë tra le forti braccia. Era verso di lui che l’ancella si dirigeva così raggiante, si disse Mairon, allontanandosi umiliato. Ma fatti pochi passi si fermò, cercando d’ascoltare la loro conversazione.

   «Stavo solo pattugliando i confini delle Grandi Terre, mia adorata» disse Eönwë, con voce calda e rassicurante. «Ultimamente gli animali stanno diventando troppo aggressivi. Molti dei grandi rettili sono diventati mostri, grevi di corna e zanne, che tingono la terra di sangue ben oltre il dovuto. E anche le creature più piccole stanno diventando moleste. Sei stata in qualche stagno, di recente? Sono diventati paludi fetide, ostruite da erbacce e limo, vivai di mosche...» si lamentò.

   «Cosa vedo, il grande Eönwë spaventato da qualche mosca!» ridacchiò Mairon, inserendosi nella conversazione. «Cos’è, temi di spettinarti i riccioli? O d’infangarti i calzari?» chiese in tono leggermente beffardo. Ora che erano vicini, il contrasto anche fisico fra i due non avrebbe potuto essere più evidente. Entrambi avevano i capelli biondi, ma quelli di Mairon erano lunghi e lisci, mentre Eönwë li aveva corti e riccioluti. Se il primo era pallido, per il tempo trascorso nelle fucine sotterranee, il secondo era abbronzato dai raggi del sole, cui si esponeva mentre transitava per le regioni più lontane di Arda, non sottoposte alla notte perenne.

   «Sei il solito buontempone» rispose Eönwë, bonario. I suoi occhi azzurro cielo incontrarono quelli grigi di Mairon, ma se ne distolsero subito. «Io, però, parlavo sul serio. C’è qualcosa di cattivo all’opera. Se venissi con me, te lo farei vedere...» disse, agitando le ali come per spiccare il volo. Essendo l’araldo e il messaggero di Manwë, Eönwë si era incarnato in una forma leggermente diversa dagli altri Ainur. Dalla schiena gli fuoriuscivano due maestose ali, dalle grandi penne marrone/dorate. Durante la Visione di Arda, prima che Ilúvatar creasse il Mondo, aveva visto creature con ali del genere levarsi a volo e non le aveva più dimenticate; ma solo di recente i Valar avevano favorito l’evolversi dei primi uccelli.

   «Ehi, piano!» protestò Mairon, schermandosi con le braccia, per impedire che le grandi penne lo colpissero. «Non hai bisogno di trascinarmi in uno dei tuoi viaggi, ti credo sulla parola. Ma che intendi con qualcosa di cattivo? Cioè, intendi dire cattivello o proprio cattivo-cattivo?».

   «Intendo perfido» rispose Eönwë con decisione. «Non percepivo tanta malvagità, nelle creature, da quando Moru la Tessitenebra generò la stirpe dei ragni» aggiunse, abbassando la voce e assumendo un’aria da cospiratore. Evidentemente non voleva che i suoi interlocutori riferissero ad altri la notizia.

   «Ma è terribile!» esclamò Ilmarë, portandosi una mano alla bocca. «Devi avvertire immediatamente Manwë, e Oromë, e Tulkas... insomma, tutti!» squittì spaventata.

   «E guastare la festa? Non so... fatichiamo da così tanto tempo che ci serve una pausa ristoratrice, prima di metterci in caccia» obiettò Eönwë. «Inoltre non vorrei rovinare le nozze di Tulkas e Nessa. Anche loro si sono dati tanto da fare, e ora che sono così felici, beh, non vorrei fare il guastafeste» disse un po’ a disagio.

   «Ma se le cose sono gravi come dici...» insisté Ilmarë.

   «A proposito, che idea ti sei fatto sulle possibili cause?» chiese Mairon.

   «Uhm, non sono sicuro. Potrebbe essere qualche Maia, di quelli che si schierarono con Melkor nella Guerra» rispose Eönwë cautamente. «Se ricordate, al termine del conflitto molti di loro non seguirono Melkor nella Tenebra Esterna. Devono annidarsi ancora da qualche parte, nei territori più esterni, dove la luce dei Lumi non giunge... cioè proprio dove si concentrano i mostri...».

   «Ma quali Maiar? Pensi a qualcuno in particolare?» chiese Mairon.

   «Difficile a dirsi. È passato così tanto tempo, dall’ultima volta che li ho visti, che mi sono praticamente dimenticato di loro» sospirò Eönwë.

   «C’erano i fratelli di Arien... i Valaraukar, gli Spiriti del Fuoco» ricordò Mairon.

   «E c’era Moru, come hai detto poco fa» aggiunse Ilmarë. «Ricordo che verso la fine della Guerra si faceva chiamare Ungwë Liantë, la Tessitrice di Tenebre. Si ribellò persino a Melkor, perché non voleva altro padrone che se stessa, e scomparve al Sud. Lei era oscura abbastanza!» rabbrividì.

   Eönwë non sembrava convinto. «Non so... i Valaraukar e Ungwë Liantë sono pericolosi, ma sono anche primitivi nei loro comportamenti, direi quasi bestiali. Possono fare i mostri, uccidere gli animali, ma non ce li vedo a trasformarli in quel modo. Quello è un lavoro per menti più raffinate».

   «C’erano molti altri Maiar corrotti: Fankil, Langon, Ulbandi...» ricordò Mairon, contando sulle dita. «Questi pasticci con le creature potrebbero essere opera d’ognuno di loro, o anche di tutti loro assieme. Ehi, forse è proprio così... si sono accordati per rovinare la Primavera di Arda!» esclamò, colto dall’intuizione. «Immaginate: visto che il loro padrone è fuori gioco, si sono riuniti da qualche parte e hanno concertato come rovinarci la festa. Così si sono spartiti il territorio; ognuno di loro si è trovato una tana da qualche parte, lontano dai Lumi, e ha allestito la sua piccola fucina degli orrori. Se così fosse, sarebbe un lavoraccio stanarli e sconfiggerli tutti, uno per uno».

   «Diabolico! Potresti proprio aver ragione» disse Eönwë, impressionato. «Come ti è venuto in mente?».

   «Beh, è quello che farei io, se fossi nemico della Luce... cosa che non avverrà mai» disse Mairon, arrossendo leggermente. Si era accorto che negli occhioni blu di Ilmarë c’era una certa ammirazione per le sue abilità deduttive. «Sapete, non è difficile prevedere le azioni dei malvagi» continuò, in tono falsamente modesto. «Loro agiscono sempre col metro delle loro brame e ciò li rende prevedibili. Noi, invece, seguiamo logiche altruistiche... che loro non capiranno mai» concluse.

   «Sì, sì» tagliò corto Eönwë. «Mi hai dato da pensare, adesso cercherò di scoprire se è davvero così. Consulterò qualche Maia esperto in animali... non so, Melian oppure Aiwendil... e vedremo di scoprire da dove sbucano».

   «Lascia stare Aiwendil; è uno sciocco, quello» raccomandò Mairon. «Da quando Irmo ha inventato i papaveri, non fa che fumarseli».

   «Allora andrò da Melian. Anche lei s’interessa delle terre lontane da Almaren, tanto che a volte l’ho incrociata nei miei viaggi» disse Eönwë.

   «Fate attenzione, molti di quei Maiar erano pericolosissimi» raccomandò Ilmarë. «Potreste portare con voi qualche altro guerriero... magari Tilion» suggerì. Tilion, il cacciatore dall’arco d’argento, era il principale aiutante di Oromë e uno degli Ainur più votati al combattimento, il che si era rivelato utilissimo ai tempi della Guerra.

   «Buona idea... ma oltre a Melian e Tilion non porterò altri, perché la nostra dev’essere una compagnia piccola e rapida» disse Eönwë. «Inoltre non voglio che chi festeggia qui ad Almaren si preoccupi, vedendo molti di noi andarsene. A presto, amore... divertiti alla Festa!» concluse, baciando Ilmarë. Poi diede un’occhiata obliqua a Mairon, come a dire: «Non soffiarmi la ragazza mentre sono via», e con due potenti battiti d’ala s’innalzò nel cielo terso.

   Fra Mairon e Ilmarë scese un silenzio imbarazzato. «E così, uhm, voi due state insieme» disse infine il fabbro.

   «Sì, da un po’ di tempo» annuì Ilmarë, fissando il suolo. Al posto della ghiaia, c’erano diamanti e altre pietre preziose o semipreziose. «Ti dispiace?» sussurrò la Maia.

   «I miei sentimenti per te non sono cambiati. Anzi, i tuoi tentativi d’evitarmi li hanno acuiti» confessò Mairon. Di norma era un tipo riservato; parlare in questo modo dei suoi sentimenti era insolito per lui, e molto imbarazzante.

   «Mi spiace... non volevo farti soffrire, dico davvero» disse Ilmarë. «Siamo sempre stati amici, fin da quando i nostri spiriti hanno cominciato a esistere nel Vuoto. Sei come un fratello, per me... non vorrei mai che questo stato di cose cambiasse» disse, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.

   Termini come “fratello” e “sorella”, beninteso, erano imprecisi, trattandosi di Ainur. Erano tutti scaturiti dalla mente d’Ilúvatar, quindi in un certo senso erano tutti fratelli e sorelle. Ma alcuni di loro erano stati creati nello stesso istante e con poteri affini, perciò usavano questi termini per definire la loro vicinanza spirituale. Così Melkor e Manwë, gli Ainur più antichi e potenti, erano considerati fratelli. Námo, Irmo e Nienna erano anch’essi della stessa “famiglia”, quella dei Fëanturi, i Signori di Spiriti. Yavanna e Vána erano considerate sorelle e anche Melian era loro congiunta. Nessa era la sorella di Oromë. I Valaraukar, spiriti del fuoco volti al male, erano anticamente fratelli di Arien. Di simili esempi ce n’erano a bizzeffe. Questa peculiare vicinanza “fraterna” impediva agli Ainur di formare coppie, infatti tutti gli sposalizi erano sempre avvenuti fra Valar o Maiar che non fossero “apparentati”.

   «Noi non siamo fratelli» disse Mairon. «Non siamo stati creati assieme, né i nostri poteri sono simili. Guardami: io sono un umile fabbro, mentre tu danzi fra le stelle...» mormorò, cercando di abbracciarla.

   «M-ma io, per quanto ti abbia caro, non ti amo in quel modo... ora scusami, credo che la mia signora Varda mi stia chiamando col pensiero» disse Ilmarë, divincolandosi. Se ne andò di corsa, fuggì letteralmente dall’abbraccio di Mairon, verso il podio di Manwë e Varda... che di certo non l’avevano chiamata, nemmeno col pensiero. Era una scusa, Mairon lo sapeva. Restò solo in mezzo alla piazza che andava svuotandosi, in preda all’amarezza e alla vergogna. Si chiese dove aveva sbagliato.

 

   Meditabondo, Mairon prese a passeggiare per le vie scintillanti di Almaren, pensando alla prossima mossa. Era tentato di approfittare dell’assenza di Eönwë per attirare l’interesse di Ilmarë, ma si rendeva conto che non era un atteggiamento nobile; inoltre la Maia era già stata chiara.

   «Salute, Mairon! Perché sei così corrucciato? Non hai udito l’annuncio di Manwë?» chiese una voce familiare.

   Mairon alzò lo sguardo e vide Curumo, un Maia di ordine inferiore. Represse un moto di fastidio. Curumo non si era mai distinto per le sue azioni, né in tempo di pace, né durante la guerra con Melkor. Lo si poteva definire un attendista. Però era abile a lusingare tutti e a farsi confidare i segreti. Passava per saggio, ma quel poco di saggezza che aveva non era farina del suo sacco. Spesso ronzava intorno alla fucina di Aulë, fingendo d’essere utile e cercando di carpire qualche segreto; ma il fabbro divino non gli aveva mai confidato nulla d’importante.

   «Ho udito eccome; e ne sono lieto» disse Mairon. «Ma dopo aver tanto lavorato per il benessere altrui, mi chiedo se non abbia trascurato il mio».

   «Cosa ti turba? A me puoi dirlo, senza timore che si sappia in giro. E chissà che io non sappia consigliarti» si offrì Curumo. Al solito, i suoi modi erano aristocratici e un tantino leziosi. All’inizio dei tempi, quando aveva scelto in che forma incarnarsi, si era molto impegnato per trovarne una che gli paresse all’altezza: alla fine aveva un po’ copiato da Mairon. Era quindi alto e pallido, con lineamenti nobili e lunghe chiome (scure, anziché bionde). Il suo abbigliamento era sempre impeccabile: lunghe vesti bianche, senza un granello di polvere.

   «Apprezzo la disponibilità, ma... un’altra volta, magari. Quali che siano i miei grattacapi, li posso gestire» rispose Mairon, cercando d’essere diplomatico.

   «Certo, non l’ho mai messo in dubbio!» sorrise Curumo, dandogli una pacca sulla spalla. «In fondo tu sei Mairon l’Ammirevole, che rivaleggia con gli stessi Valar per conoscenze e poteri! A proposito, metteresti una buona parola per me con Aulë? Sai che smanio di lavorare nella sua – nella vostra – fucina. Ho tante belle idee e progetti che potrebbero interessarvi, se aveste la pazienza d’esaminarli. Per esempio, mi sono sempre chiesto: perché usare i vulcani come altiforni, quando si possono costruire tante belle fornaci e impianti meccanizzati, che fanno un lavoro più preciso in metà del tempo? Ho progettato parecchi ingranaggi e penso che potrei passare alla fase sperimentale...».

   Curumo parlò per un bel pezzo, senza che Mairon gli prestasse grande attenzione. Finalmente arrivò la salvezza, sotto forma di un altro Maia di basso rango: Olórin. Era simile a Curumo, ma aveva i capelli argentei e occhi più gentili. I suoi abiti grigi erano assai meno eleganti (a tratti persino consunti), perché era uno spirito giramondo. Mentre la maggior parte dei Maiar restava presso il proprio signore, infatti, Olórin era sempre in giro per le vaste distese di Arda. In teoria era direttamente al servizio di Manwë e Varda, ma in pratica trascorreva molto tempo coi Fëanturi: era consigliere di Irmo, il Maestro delle Visioni e dei Sogni. Era anche uno dei pochi che andassero a trovare Nienna nella sua dimora solitaria. Cosa ci trovasse d’interessante, Mairon proprio non lo immaginava.

   «Mio caro amico, ti stavo cercando» esordì Olórin, rivolto a Curumo. «Irmo ha convocato me, te e Aiwendil per aiutarlo a sistemare i suoi giardini, in previsione della cerimonia nuziale e del banchetto».

   «Non sia mai che Dama Nessa posi i suoi piedini su prati men che lucidati!» rispose Curumo, infastidito per essere stato interrotto nel suo monologo, e ancor più dalla noiosa incombenza che gli toccava. «E Tulkas di che abbisogna? Dobbiamo portargli il pranzo?».

   «Quello verrà per ultimo, dopo gli altri preparativi» rispose Olórin. «Ma non disprezzare il cibo, amico mio. Se Eru ha voluto che incarnandoci dovessimo mangiare e bere, c’è un buon motivo. Banchettare assieme crea legami e rinsalda le amicizie».

   Mairon, che ascoltava distrattamente, aspettando il momento buono per defilarsi, si chiese se non fosse il caso di prendere Ilmarë per la gola. Chissà che le piaceva, esile com’era? Buffo, lui non aveva mai considerato il cibo importante, ma sembrava che per gli altri lo fosse. «Quindi... che ci sarà in tavola?» chiese, meravigliandosi di fare una domanda così frivola.

   Olórin sorrise enigmatico. «Molti amano sapere prima che cosa verrà in tavola; ma coloro che si sono affaticati nei preparativi desiderano mantenere il segreto, perché la sorpresa ingrandisca la lode» disse.

   «Oh». Mairon fece per andarsene, ma poi ristette. «Dimmi... tu che vai molto in giro, hai l’impressione che ultimamente gli animali si siano fatti troppo aggressivi?» chiese.

   «In effetti sì; l’hai notato anche tu?» rispose Olórin, un po’ meravigliato. Non si aspettava che Mairon, il quale usciva raramente dalla fucina, avesse una conoscenza aggiornata delle terre lontane da Almaren.

   «Sì... quale pensi che sia la causa?» chiese Mairon, in tono volutamente più leggero rispetto ai suoi timori. Voleva sentire il parere di Olórin, che era considerato uno dei Maiar più saggi, ma non voleva nemmeno dare l’idea di pendere dalle sue labbra. In fondo, Olórin e Curumo erano spiriti di rango inferiore...

   «Ne discutevo giusto ieri con Nienna» rispose Olórin, meditabondo. «Lei dice che quando Melkor guastò la Musica, col suo motivo discordante, creò uno squilibrio che non può più essere corretto finché il Mondo vive. La violenza di certe creature potrebbe esserne la conseguenza. Io, però, mi chiedo se non ci sia qualche oscuro intento all’opera...».

   Mairon l’interruppe, non volendo ripetere la conversazione già avuta con Eönwë e Ilmarë. Gli bastava sapere che Olórin la pensava come lui. «Passi molto tempo con la Signora del Pianto» disse, resistendo alla tentazione di chiamarla “la vecchia zitella”. «Mi sono sempre chiesto cosa ti attiri laggiù. Voglio dire... non è la persona più allegra del mondo».

   «Molti non vedono oltre le sue lacrime e per questo l’accusano di essere la meno utile fra i Valar» rispose Olórin, comprensivo. «Ma ella non piange per sé; e coloro che la odono apprendono la pietà, e a perseverare nella speranza. Se mai qualcosa dovesse angustiarti, va’ da lei: ti arrecherà forza di spirito e trasformerà il tuo dolore in saggezza».

   Colpito, Mairon ringraziò per il consiglio e si congedò. Mentre Curumo seguiva a malincuore Olórin, per occuparsi dei noiosi preparativi, Mairon continuò la sua passeggiata. E quasi controvoglia, i piedi lo portarono verso la casa di Nienna.

 

   Nienna dimorava in un angolino di Almaren, lontano dagli svettanti palazzi degli altri Valar e dalle ridenti abitazioni dei Maiar. Vista dall’esterno, la sua casa era una pagoda a sette piani, ciascuno provvisto di un tetto con gli angoli curiosamente arricciati all’insù. Ma gran parte della dimora era sotterranea. Mairon non ne sapeva molto, perché non aveva collaborato a scavarla.

   «Avanti, discepolo di Aulë» disse una voce dall’interno, prima che Mairon toccasse il pesante batacchio dell’ingresso. Il portone si aprì da solo e senza un cigolio davanti al visitatore.

   «Ehm... i miei rispetti, Dama Nienna» disse Mairon, che davanti a sé vedeva una stanza austera e in penombra. Fece un respiro profondo ed entrò. La porta si richiuse alle sue spalle, sempre da sola e in silenzio.

   Mairon avanzò, incerto. I pochi mobili erano molto bassi, compreso il tavolo, e non c’erano sedie. Evidentemente ci si doveva accomodare sul pavimento, che era coperto di stuoie. Alcuni divisori in carta, abbelliti da disegni stilizzati, separavano la stanza in ambienti più piccoli. A lato, una scala portava ai piani superiori. Ma la voce di Nienna veniva dai sotterranei: «Scendi pure, Mairon».

   Il Maia aggirò circospetto una bacinella d’argento colma d’acqua (in realtà di lacrime) e trovò la scala che conduceva sottoterra. La scese di buon passo, ma servì parecchio prima che arrivasse in fondo. Alcune fioche lanterne, poste a intervalli regolari, gli rischiararono la via. Sbucò infine in un salone sotterraneo, la cui vastità lo riempì di meraviglia. La casa di Nienna sorgeva presso la spiaggia: un ambiente così sterminato doveva allungarsi per un buon tratto sotto il fondale del Grande Lago.

   Era un’aula fosca, colma d’oscurità e di echi, tutta scolpita nel basalto nero. Molti pilastri squadrati reggevano il soffitto a volte, decorato da un motivo ad ali di pipistrello. Il pavimento era rivestito di giaietto; quando Mairon vi mise piede, i suoi passi risuonarono amplificati. Il Maia si guardò attorno, cercando Nienna. Difficile dire dove fosse, perché la luce era fioca: veniva da un braciere di ferro nero, in cui baluginavano poche gocce della luce liquida d’Illuin. Qua e là tra le colonne pendevano drappi neri, così impalpabili da sembrare null’altro che vapori.

   «Benvenuto nelle aule di Fui» disse Nienna, sbucando alle spalle di Mairon da dietro un pilastro. Il Maia sobbalzò e si girò di scatto, trovandosi la Valië a pochi passi. Come al solito, Nienna era vestita a lutto e priva d’ornamenti. Aveva uno scialle semitrasparente, che si era parzialmente arrotolata attorno alle braccia, così che quando le sollevò parve dispiegare due grandi ali scure.

   «Questo silenzio dev’essere molto diverso dal trambusto della tua fucina» proseguì la Piangente. «Spero tu possa apprezzarlo. Io adoro la quiete e la solitudine; sono balsami per il mio spirito. Ma queste aule, e quelle adiacenti di Mandos, non resteranno per sempre vuote come le vedi ora. Qui verranno i Figli d’Ilúvatar, quando la morte li coglierà».

   «La morte?» chiese Mairon, perplesso. «Gli animali e le piante muoiono, ma noi siamo immortali. Eru ci ha voluti così. Stai dicendo che questi suoi... figli, per i quali ci siamo affaticati, saranno più simili agli animali che a noi?».

   «Gli saranno cari proprio per la loro fragilità» corresse Nienna. «Sai, il valore delle creature non si misura con la loro longevità. Ma i Figli Maggiori saranno simili a noi sotto molti aspetti. Vecchiaia e malattie non li toccheranno, sebbene essi saranno fatti della carne del mondo, e potranno quindi perire di morte violenta. In tal caso, i loro spiriti verranno alle aule di Mandos» spiegò, riferendosi al dominio del fratello.

   «E i Figli Minori, invece, verranno qui da te?» chiese Mairon, ancora turbato dalla cupezza del luogo.

   Nienna annuì. «Sì, i figli degli Uomini verranno qui a udire il proprio destino, condotti dalla moltitudine di sciagure che la dissonanza di Melkor ha creato nel Mondo. Saranno condotti da fame e malattie, da stragi e colpi assestati nell’oscurità, dagli incendi e dal freddo pungente, da innumerevoli disgrazie, dall’angoscia o dalla propria follia. I pochi fortunati che scamperanno a tutto questo, alla fine verranno ugualmente a me, vinti dal lento sfacelo del tempo. Questa sarà la loro sorte, invero molto dura e amara. Noi Valar lo sappiamo da tempo, ma pochi tra voi Maiar ne sono consapevoli. Olórin lo è; lui è uno dei pochi a farmi visita. È stato Olórin a consigliarti di venire, non è così?» chiese la Valië.

   «S-sì, ha detto che se mai avessi un’angoscia, potrei confidartela e ricevere i tuoi consigli» rispose Mairon. «Ma i miei guai impallidiscono, se penso al fato dei Figli d’Ilúvatar. Proprio non ci sarà scampo per loro, una volta scesi in queste aule?».

   «Ci sono misteri che Uno solo conosce» rispose Nienna. «Il nostro sapere è incompleto, persino se ci riuniamo a concilio per sommare le nostre conoscenze. Ma Námo ha sussurrato che ad alcuni Primogeniti sarà concesso di reincarnarsi. Il loro spirito sarà infatti strettamente legato ad Arda; la separazione dal corpo non sarà naturale per la loro stirpe».

   «E i Secondogeniti, invece?» chiese Mairon.

   «La loro natura sarà diversa; il loro spirito non sarà fatto per risiedere a lungo in Arda» rispose Nienna. «Ecco perché nemmeno io potrò trattenerli a lungo. Dopo averli radunati qui, dovrò lasciarli andare».

   «Andare... dove?» chiese Mairon, sempre più meravigliato.

   «Oltre. Fuori» rispose Nienna, enigmatica. S’incamminò lungo la navata principale, seguita dall’ospite. I due procedettero muti per un lungo tratto; il silenzio era rotto solo dal suono dei loro passi. Giunsero infine alla parete di fondo, in cui si aprivano tre imponenti finestre ad arco, velate da sottili tendaggi neri. Mairon avvertì una leggera brezza e un sibilo: era l’aria che filtrava da Fui verso... l’esterno.

   «Cosa c’è fuori?» sussurrò il fabbro, sentendo un brivido in tutta la persona, come se una mano gelida gli afferrasse la spina dorsale.

   «Tu lo sai» rispose Nienna. «È da lì che provieni. È da lì che veniamo tutti noi. Prega Eru di tornarci con onore, quando sarà il momento».

   Lentamente, come se fosse sott’acqua, Mairon sollevò un lembo della tenda e sbirciò. Chiunque non fosse stato della stirpe divina degli Ainur sarebbe morto all’istante. Mairon era un Maia dei più possenti, quindi non morì; ma non si sentì nemmeno vivo. Perché le tre finestre davano sul Nulla. Non c’era luce dall’altra parte. Non c’era materia né energia. Alto e basso, caldo e freddo non avevano il minimo significato. Non era qualcosa che si potesse definire in termini terrestri, se non procedendo per negazione.

   «Avevo dimenticato... cosa fosse il Vuoto» rantolò Mairon, indietreggiando. Il velo nero ricadde, chiudendo la finestra.

   Kúma, il Vuoto Atemporale, esisteva prima della Creazione di Arda, prima della Grande Musica, prima della nascita degli Ainur. Un tempo, Ilúvatar vi dimorava solo. Cosa vi accadesse prima di allora (posto che prima avesse un significato), nemmeno la saggezza dei Valar poteva dirlo. Era quello l’approdo finale degli Uomini; e se i virtuosi fossero ammessi nelle magioni d’Ilúvatar, era un segreto celato a chiunque dimorasse entro i confini di Arda.

 

   «Allora, a cosa devo la tua visita?» chiese Nienna, quando ebbero lasciato Fui. Erano risaliti nella casa della Valië, e per quanto l’arredamento fosse austero, a Mairon parve una reggia dopo ciò che aveva visto sottoterra.

   «Ecco... vi sembrerà una faccenda di poco conto, mia signora, a paragone delle grandi questioni di Arda che voi amministrate con le altre Potenze. Ma per me, è qualcosa che non mi dà pace...» cominciò Mairon, esitante.

   «Parlane liberamente, secondo ciò che ti dice il cuore» lo invitò Nienna. «Ma intanto siediti, così che possa offrirti qualcosa».

   «Mia signora, non è il caso. Voi siete una Valië, io solo un Maia; dovrei essere io a servirvi» disse subito Mairon.

   «Sei anche mio ospite. Prego, siediti» insisté Nienna.

   Mairon si arrese e sedette a gambe incrociate davanti al basso tavolino, mentre Nienna preparava una bevanda calda. «Tutta Almaren è in festa per le nozze di Tulkas e Nienna» cominciò il Maia. «Tuttavia ci sono Ainur che non sembrano avere un’anima gemella... e altri che, pur ritenendo d’averla trovata, sono da questa respinti. Io non capisco... la prima cosa che Eru ci disse, dopo averci creati, era che ci amava. Eppure alcuni di noi sembrano condannati alla solitudine...».

   «Alcuni di noi non abbisognano di un compagno, per trovare la loro completezza» rispose Nienna. «Così è per me, per Ulmo... e anche per Melkor» aggiunse.

   «Ricordo che, all’alba dei tempi, Melkor si rivolse a Varda... e lei lo scacciò, percependone la malvagità» obiettò Mairon. «Credo che, da allora, egli la odi e la tema più di quant’altri Eru abbia creato. Però mi domando: perché alcuni di noi amano – nel modo più sincero e onesto – qualcuno, e ne sono respinti? So che l’amore non può essere a senso unico, ma mi domando... perché deve far soffrire tanto?! Sto forse sbagliando qualcosa?» chiese, sempre più disperato. Aveva perfino smesso di parlare al plurale, ammettendo che parlava di sé.

   Nienna si asciugò una lacrima (non smetteva mai di versarne) e offrì al Maia una bevanda calda e fumante, versandola dal bricco in una tazza. «Assaggiala, viene da una pianta che Yavanna ha appena inventato» disse, ignorando le concitate domande che il Maia le aveva appena rivolto. «Si chiama tè. L’ho offerto a Olórin, nella sua ultima visita, e lui ha gradito molto. Spero ti piaccia allo stesso modo».

   La Valië riempì la tazza fino all’orlo. Mairon stava per prenderla, ma Nienna continuò a versare il tè. Con la massima calma, lasciò che si spargesse sulla tovaglia candida, sotto lo sguardo sempre più meravigliato del fabbro.

   «Mia signora... non vedete che la tazza è già colma? Non può contenere altro tè!» le fece notare.

   «Anche tu sei colmo... di te» rispose gentilmente Nienna, sollevando le sopracciglia nerissime, che spiccavano sul volto cereo. «Forse devi svuotarti un po’, prima di capire le esigenze e le motivazioni della dama che ti respinge». Smise di versare la bevanda e si accomodò sul pavimento, dall’altra parte del tavolino.

   «Conosco già le sue motivazioni!» ribatté Mairon, irritato. «Lei ama un altro. Uno che lavora molto meno di me, ma si dà più arie da bellimbusto. Non so come farle aprire gli occhi; deve capire che non è il suo tipo!» aggiunse con veemenza. Batté i pugni sul tavolino, facendo scricchiolare le corte gambe; altro tè macchiò la tovaglia.

   «Se colei che ami ha fatto la propria scelta, devi rispettarla. Se rispetti la persona, rispetti anche le sue decisioni; così c’insegnano le rette leggi di Eru» disse Nienna, facendosi severa.

   «Ma perché, in tutta Almaren, io devo essere il solo a cui è negata la felicità?!» insistette Mairon, ormai disperato.

   «Se vuoi lezioni di corteggiamento, è ad altri che devi rivolgerti» disse Nienna. «Ma se desideri conoscere le cause profonde dell’infelicità e dell’ingiustizia, sappi che questa è pur sempre Arda Corrotta. La Musica concepita da Eru è stata contaminata da Melkor, col suo tema discordante. E le disarmonie rimbalzano tra loro, rinforzandosi a vicenda, accrescendosi in modo caotico».

   «Non posso credere che Melkor sia così potente da avvelenare i nostri rapporti, specialmente ora che è bandito da Arda» rispose Mairon. «Se lo fosse, allora i Lumi e tutta Arda sono costruiti sulla sabbia».

   «C’è anche un’altra spiegazione al rifiuto della tua dama» rispose Nienna.

   «E sarebbe?» chiese Mairon, piegandosi in avanti tutto ansioso.

   «Il libero arbitrio che Eru ha concesso a tutte le sue creature: Valar, Maiar e i Figli non ancora nati» rispose la Piangente. «Senza l’arbitrio, saremmo tutti dei burattini. Invece abbiamo una volontà nostra. Possiamo persino rinnegare il Padre, come ha fatto Melkor. Ma non possiamo annullare l’arbitrio altrui, nemmeno quando ci fa soffrire. Quando Eru ci creò, eravamo tutti uguali ai Suoi occhi; e l’incertezza del nostro destino è Sua volontà».

   Mairon avrebbe voluto rispondere che, dopo quanto aveva sentito sulle sciagure degli Uomini, questo decantato arbitrio gli sembrava fin troppo condizionato. Ma era inutile continuare su questo tono, perché si trattava di discorsi generali che non lo aiutavano granché nel suo problema specifico con Ilmarë. E malgrado le esortazioni di Nienna, lui non era ancora disposto ad arrendersi. Vuotò la tazza con poche sorsate.

   «Vi ringrazio dei consigli e dell’ospitalità, dama Nienna. E grazie anche per il tè... dite a Yavanna che stavolta si è superata» disse rispettosamente, per poi congedarsi. Aveva cento pensieri per la testa e non riusciva a sbrogliarli. Decise che gli serviva un luogo isolato e tranquillo in cui riflettere. Un posto in cui non giungesse il trambusto dei preparativi della Festa. Uscendo dalla pagoda di Nienna, vide Illuin che splendeva lontano al Nord, e seppe dove andare.

 

 

-Commento:

   Dopo le lunghe fatiche dei Valar, Manwë annuncia la Festa della Primavera di Arda. Nella stessa occasione, Tulkas sposa Nessa: è l’ultima coppia Vala a formarsi. I Valar ancora single (Ulmo, Nienna e il rinnegato Melkor) resteranno tali in eterno.

   In quest’epoca arcaica, i popoli di Arda non esistono ancora. Gli unici esseri senzienti in circolazione sono gli Ainur. Sopra di loro c’è Ilúvatar, che però risiede «oltre le Sfere del Mondo». Abbiamo così tre livelli ontologici: Ilúvatar, i Valar e i Maiar. Ma per simpatizzare con i protagonisti di una storia, il lettore deve potersi riconoscere in loro. Ora, non è facile identificarsi con degli esseri immortali, più antichi del Mondo, immensamente saggi e benevoli. Già all’epoca del teatro greco, il pubblico si appassionava più alle vicende degli eroi (che soffrivano come tutti i mortali), piuttosto che a quelle degli dèi. Dove c’è l’immortalità, non può esserci vera tragedia.

   La mia soluzione è stata scegliere come protagonisti i Maiar, cioè gli spiriti di rango inferiore. Nel Signore degli Anelli i pochi Maiar presenti (Sauron, Saruman, Gandalf, il Balrog) sono pur sempre assai più potenti degli altri popoli, persino degli Elfi. Ma nella Primavera di Arda, quando i Valar camminano visibili nel Mondo e anche la presenza d’Ilúvatar è più percepibile, ecco che i Maiar sono “l’ultima ruota del carro”. Ho enfatizzato il fatto che siano spesso chiamati a eseguire compiti ingrati e che, essendo dopotutto i meno saggi fra gli spiriti “angelici”, abbiano un comportamento più simile al nostro (compresi sotterfugi e gelosie).

   I Maiar che compaiono in questo racconto sono tratti dal Valaquenta, la seconda parte del Silmarillion. Va detto che la maggior parte dei Maiar lì citati ha un ruolo del tutto marginale nei capitoli seguenti. Ilmarë in particolare non compare affatto nel resto dell’opera. Ciò si deve al carattere di “collage” e incompiutezza del Silmarillion: a volte certi personaggi erano più approfonditi nei Racconti Ritrovati, ma con caratteristiche incompatibili rispetto alle successive riscritture. Per esempio, quelli che nel Silmarillion sono i Maiar nei Racconti Ritrovati erano spesso i figli dei Valar. Quando Tolkien modificò i Valar, rendendoli meno “dèi pagani” e più “angeli”, abbandonò l’idea che avessero figli.

   Nel mio racconto ho assegnato ai Maiar i nomi in forma “alto-elfica” (Quenya), che è la più antica conosciuta. Ma nel Signore degli Anelli sono noti con altri nomi, attribuiti loro successivamente. Ecco le corrispondenze, tenendo conto che i personaggi più giramondo hanno molti nomi, collezionati nel corso delle Ere:

-          Mairon » Sauron (chiamato anche Gorthaur e Annatar)

-          Curumo » Curunír » Saruman

-          Olórin » Mithrandir » Gandalf

-          Aiwendil » Radagast

-          Valaraukar » Balrog

-          Moru » Ungwë Liantë » Ungoliant

   Il protagonista del mio racconto è proprio Mairon/Sauron. Nel Signore degli Anelli è il Signore Oscuro, la massima incarnazione del Male. Ma nel Silmarillion scopriamo che fu corrotto dal primo Oscuro Signore, Melkor/Morgoth, assai più potente di lui. Sfortunatamente non viene mai spiegato quando e come Melkor tiri Sauron dalla sua, sebbene si tratti di un fatto decisivo per il destino di Arda e dei suoi popoli. La prima volta che Sauron è citato nel Silmarillion, è già il braccio destro di Melkor e governa la sua roccaforte di Angband. Più avanti leggiamo che Sauron mantenne a lungo la capacità di mutare aspetto, apparendo all’occorrenza bello e nobile, tanto da ingannare chiunque eccetto i più accorti. È solo con la Caduta di Númenor che Sauron perde questa capacità: la sua nuova spoglia è «un’immagine di malvagità e odio resi visibili». Dopo la perdita dell’Unico Anello, Sauron perde anche questa forma e rimane uno spirito senza corpo.

   Il progressivo abbruttimento di Sauron dipende dal fatto che mentre gli Ainur buoni hanno ancora accesso alla Fiamma Imperitura con cui Ilúvatar li ha creati, e possono quindi “ricaricarsi”, ciò è negato ai malvagi, che hanno quindi una “scorta limitata” di poteri. Più li consumano, legandosi alla materia, più s’indeboliscono. Ecco perché Gandalf risorge dopo lo scontro col Balrog, mentre il demone non ci riesce (e più avanti nemmeno Saruman può farlo).

   Tuttavia la capacità mimetica di Sauron è notevole se confrontata non solo con quella degli altri demoni, ma perfino con quella del suo padrone. L’ultima volta che Morgoth riesce a fingersi bello e buono è durante il Meriggio di Valinor. Dopo aver distrutto gli Alberi diviene un «buio Signore, alto e spaventevole. In tale forma poi sempre rimase». Addirittura, tutte le volte che in seguito Morgoth viene ferito, non riesce a guarirsi (per esempio resta zoppicante dopo il duello con Fingolfin). La spiegazione è che Morgoth si era precocemente legato alla materia di Arda e aveva disperso il suo potere nelle creature malefiche che aveva creato. Sauron evita a lungo di “disperdersi” così, ma poi riversa gran parte dei suoi poteri nell’Unico Anello: sarà la sua rovina.

   Nella mia storia ho dato anche un’altra spiegazione alla “longevità” di Sauron. Ho ipotizzato che Melkor lo corrompa non all’inizio dei tempi – come aveva fatto con gli altri Maiar – ma solo più avanti, quando il mondo ha già una certa età (sebbene Elfi e Uomini non siano ancora apparsi). Questo spiega come mai Sauron si ritrovi con più “autonomia di carburante” rispetto al suo padrone. Ovviamente devo anche spiegare come faccia Sauron, “ultimo arrivato”, a diventare subito il più fidato servo di Melkor: questo lo si vedrà nel prossimo capitolo.

 

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Capitolo 3
*** L'Ombra del Nord ***


-Capitolo II: L’Ombra del Nord

 

   Seduto su una delle balze più alte del pilastro d’Illuin, Mairon poteva vedere sotto di sé tutta Arda, nel fulgore della sua Primavera. Non c’erano scale che portassero fin lassù, e persino una creatura alata avrebbe avuto difficoltà a spingersi così in alto, quindi Mairon aveva dovuto abbandonare temporaneamente la forma solida e spostarsi come puro spirito. Come tutti gli Ainur, chi più chi meno, cominciava a trovarlo difficile, ma per il momento ne era ancora in grado. Una volta giunto sulla cengia rocciosa, aveva ripreso la consueta forma umanoide.

   L’aria era rarefatta, a quell’altezza, e molto fredda. Non poteva che essere così. Quando Manwë aveva regolato l’atmosfera di Arda, l’aveva divise nelle Tre Arie: Vilna, Ilwë e Vaitya. La più bassa e densa era Vilna, respirata da tutti gli esseri viventi. Qui avevano sede i fenomeni atmosferici: brezze e uragani, nebbie e nubi, pioggia e neve e grandine. Sempre qui volavano le creature alate. L’aria intermedia era Ilwë, dove galleggiavano le nubi madreperlacee più alte e l’ozono proteggeva la vita di Arda. Infine c’era Vaitya, tersa e fredda, dove sfrecciavano le stelle cadenti. Le montagne del Mondo non superavano Vilna; solo i Lumi si spingevano fino alle estreme propaggini di Vaitya. Ancor più su c’era Ilmen, uno strato assai rarefatto, ma più ampio delle Tre Arie messe assieme. Qui balenavano le aurore polari, con le loro tinte cangianti e le forme di sogno. Gradualmente, Ilmen sfumava nella Tenebra Esterna.

   Il gelo di Vaitya era mortifero per la maggior parte degli esseri viventi, tuttavia Mairon non se ne accorgeva. Anzi, sentiva come una fiamma che lo rosolava dall’interno. In alto sopra di lui, il globo contenente la liquida luce d’Illuin sfolgorava come sempre, ancorato alla roccia. Sotto, il pilastro scendeva a precipizio per novanta chilometri e sebbene s’ingrossasse progressivamente con una serie di balze rocciose, l’impressione prospettica era che restasse sempre uguale. Laggiù lontano, il pilastro forava le tenui nubi e andava a fondersi con un massiccio montuoso ricoperto di ghiacciai, che ne riflettevano la luce.

   Dalla sua posizione privilegiata, Mairon poteva osservare quasi tutte le terre emerse, riunite nel supercontinente. C’erano vari ambienti, ma le foreste predominavano nettamente, perché i poteri benefici dei Valar facevano sì che il clima fosse quasi ovunque caldo e umido, con piogge abbondanti che favorivano una crescita rigogliosa. La differenza da una stagione all’altra era ridottissima. Gli inverni, dove si facevano sentire, erano brevi e miti; ma erano del tutto banditi dall’area tropicale che gli Ainur avevano eletto a dimora.

   Guardando a meridione, Mairon poteva così vedere le dense foreste che coprivano il mondo come una distesa di smeraldi, punteggiata dal bianco delle nubi. I fiumi, simili a nastri d’argento, nascevano dalle catene montuose – ben ordinate e parallele – e irrigavano la Pianura Centrale, per gettarsi nella distesa scintillante del Grande Lago. Lì la luce bianco-azzurra d’Illuin si fondeva con quella dorata di Ormal, che svettava molto più a Sud, la base avvolta da un’aurea bruma. E al centro del Lago, come una fulgida gemma, risplendeva Almaren... dove avrebbe potuto vivere come il più beato dei beati, pensò Mairon, se solo Ilmarë avesse ricambiato il suo amore. Invece, stando così le cose, a lui solo era negata la felicità, sebbene fosse il maggiore dei Maiar – dopo Eönwë – e si fosse prodigato per tutti. Questa situazione lo faceva impazzire. Laggiù ad Almaren c’erano canti e danze, accompagnati dal suono di molti delicati strumenti; ma lui era troppo giù di corda per la musica. C’erano tavole colme di manicaretti, il cui profumo faceva venire l’acquolina in bocca anche ai Valar; ma lui aveva un nodo allo stomaco.

   Amareggiato, Mairon distolse lo sguardo da Almaren e girò intorno al pilastro, per guardare nella direzione opposta, verso Nord. Quella era la regione più tormentata di Arda, perché nemmeno i Valar erano riusciti a renderla simmetrica e speculare al Sud. Là i Monti di Ferro disegnavano un lungo arco che divideva le terre verdeggianti dal Deserto Settentrionale, una landa fredda e desolata. A sud di queste montagne, specialmente nella loro parte occidentale, si trovavano alcuni altopiani coperti di conifere. Erano terre selvagge, in cui gli Ainur raramente si spingevano.

   Mairon aguzzò la vista, ricordando che era in quelle zone impervie che, secondo Eönwë, piante e animali portavano i segni di un oscuro volere. I suoi occhi si strinsero, le pupille s’ingrandirono, e dalla semplice vista materiale Mairon passò alla Vista mentale. Era una qualità che, oltre a sire Manwë, ben pochi Ainur possedevano: la capacità di “vedere” mentalmente le cose più lontane, là dove nessun occhio poteva spingersi. Certo, la cosa funzionava meglio se ci si trovava in una zona soprelevata; e quale torre di vedetta migliore che uno dei Lumi? Da lassù, in cima al Mondo, Mairon spinse la sua Vista più in là di quanto lo stesso Manwë avrebbe potuto, standosene nel suo palazzo ad Almaren, novanta chilometri più in basso. Quel che vide lo turbò profondamente.

   I Monti di Ferro erano in tumulto, come non capitava da parecchio tempo. Molte delle loro cime si erano spaccate e vomitavano fiumi di lava, che ardevano le foreste alla loro base. Da ovest a est, i Monti sembravano una bocca rossa e famelica, che esalava fiamme e fumo ed era pronta a serrarsi sulla fragile Primavera. Le turbolenze si concentravano nella parte centrale della catena montuosa, dove il grande arco si spingeva più a sud. Lì, a metà strada fra i Monti Azzurri e quelli Rossi, le esalazioni vulcaniche ristagnavano e la terra tremava.

   Mairon si accorse con sgomento che tutto ciò non poteva essere imputato a un fenomeno naturale. No, con la sua Vista percepiva distintamente che laggiù era all’opera un potere malefico. Non avvertiva tanta oscurità da... dall’ultima battaglia contro Melkor. Era possibile, si chiese Mairon, che il loro grande Nemico fosse rientrato quatto quatto nel Mondo, senza che nemmeno i Valar se ne avvedessero? Ma erano distratti dai festeggiamenti, rifletté, e forse avevano dimenticato quanto fosse insidioso Melkor.

   «Devo avvertirli» si disse Mairon. «Quelle montagne rigurgitano di Male e io sono il solo che ne abbia intuito la portata. Mi spiace guastare la festa, ma... mi ringrazieranno!». Si spinse sull’orlo del dirupo e sollevò le braccia, pronto a tornare puro spirito per raggiungere Almaren alla velocità del pensiero. Ma in quella fu trattenuto da una voce.

   «Dove corri, Mairon? Da coloro che ti tengono al guinzaglio come la loro bestiolina?» chiese una melliflua voce femminile.

   «Chi sei?!» chiese il fabbro, girandosi di scatto. Tenne le braccia alzate davanti a sé, con le dita che sfrigolavano, percorse da fiammelle. Era pronto a scagliare una palla di fuoco contro qualunque aggressore.

   «Una volta ero tua amica. Che c’è, non mi riconosci? Hai paura? Mi sa che gli ozi di Almaren hanno rammollito anche te!» disse la voce, beffarda. Un’ombra si mosse lungo la liscia parete d’Illuin, facendo nuovamente sobbalzare Mairon, e corse a nascondersi in un angolo buio. Trovandosi così vicini alla luminaria, la luce era intensissima e i ripari pochi; ma una nicchia nella parete creava una macchia d’oscurità in cui l’essere poteva acquattarsi.

   «Fatti avanti, chiunque tu sia, e vedrai quanto mi sono rammollito» disse Mairon, facendo guizzare il fuoco sui palmi delle mani.

   «La luce... è troppo intensa...» gracchiò l’essere. Una mano pallida e affusolata emerse dall’oscurità. Aveva unghie lunghissime e appuntite, color ferro, che sembravano lame. Non appena la mano fu esposta alla luce d’Illuin, si coprì di spaventose ustioni. La proprietaria gemette per il dolore e la ritrasse subito. «Poco male» disse. «Il potere sta nelle tenebre, e presto ce ne saranno molte».

   «Quella voce... non è possibile!». Era diventata più stridula, però Mairon la riconosceva ancora. «Nieliqui, sei tu?» chiese, addentrandosi nella zona buia, sotto una cornice di roccia che schermava il bagliore del Lume. Un tempo, Nieliqui era una delle più soavi fanciulle Maiar entrate in Arda. Mairon ricordava di averla intravista più volte danzare al crepuscolo, presso gli stagni primordiali, e di averla trovata incantevole. Ma poi, al culmine della Guerra, Nieliqui si era schierata con Melkor; e gli era divenuta così fedele da seguirlo nel suo esilio.

   «Non chiamarmi così!» stridette la Maia, stizzita. «Nieliqui era una patetica serva! E di chi? Di Oromë e Vána, due dei Valar più inutili che ci siano! Oltre a sellare il destriero di Oromë e potare le aiuole di Vána, non avevo molto da fare».

   Mairon le si avvicinò. Man mano che i suoi occhi si abituavano al buio, riusciva a distinguere meglio la sagoma della Maia. Era più alta e magra di come la ricordava. «E allora come devo chiamarti?» le chiese.

   «Thuringwethil è il nome datomi da Melkor» sibilò la Maia. «Questo è ciò che sono».

   «La Donna d’Ombra Segreta... ma fammi il piacere!» rise Mairon. Poi ricordò come la sua mano era stata scottata dalla luce purissima d’Illuin e tornò serio. «Se è questo che hai guadagnato, seguendo Melkor nella Tenebra Esterna, facevi meglio a rimanere Nieliqui» disse.

   «Bisogna pur sacrificare qualcosa, per ottenere qualcos’altro» rispose Thuringwethil. «Non mi pento d’essermi schierata con Melkor. È il più potente degli Ainur, il più sapiente, il più astuto. È lui che dobbiamo seguire, non Manwë, quell’imbelle usurpatore!».

   «Taci!» gridò Mairon, scagliandole contro una sfera di fuoco. Thuringwethil la scansò con riflessi inumani e sembrò dissolversi nell’ombra. «Dove sei, vigliacca?!» chiese Mairon, facendo sfrigolare le mani. «Quello non era che l’inizio; mi sto appena scaldando!».

   «So io come farti scaldare, bello!» ridacchiò Thuringwethil, materializzandosi alle spalle di Mairon e passandogli gli artigli fra i capelli. Gli scese fino alla guancia, graffiandogliela.

   «Ma che hai?!» protestò Mairon. Si girò di scatto e l’afferrò per i polsi, bloccandola. Ora riuscì a vederla meglio: era ancora bella, ma di una bellezza stregata e inquietante. Aveva lineamenti affilati e lunghe orecchie a punta, che facevano capolino dai neri capelli scarmigliati, lunghi fin quasi a terra. Sul viso esangue spiccavano le labbra, rosse e carnose, e gli occhi scuri come il carbone. Tutto in lei era bianco, nero o rosso sangue. La Maia si divincolò con forza sorprendente, ma non riuscì a liberarsi.

   «Perché mi provochi, quando sai che sono più forte di te?» chiese Mairon, autoritario. «E che intendevi, quando hai parlato del diffondersi delle tenebre? È meglio che rispondi, perché se non lo fai a me, lo farai a Manwë!» intimò, mentre i graffi sulla sua guancia si rimarginavano a vista d’occhio.

   «Ma sì, corri a nasconderti sotto le sottane di Manwë!» sghignazzò la Maia. «Dimmi, lui e Varda stanno ancora insieme? Quando me ne andai, erano la coppia più noiosa del mondo; e non credo che l’età li abbia migliorati».

   «Se continui su questo tono, ti aspettano giorni amari» avvertì Mairon.

   «Dici? Eppure sei – slurp – così dolce!» rispose Thuringwethil, tirando fuori una lingua lunghissima, con cui leccò il sangue dalla sua guancia. Sotto al sangue la ferita si era ormai rimarginata, perché i Maiar potevano guarirsi quasi istantaneamente. Mairon, però, fu sorpreso dal gesto. Osservando Thuringwethil che si leccava le labbra, notò che i suoi canini erano molto lunghi e affilati.

   «Ma che ti è successo? Cosa sei diventata?!» chiese Mairon, dispiaciuto di vederla in quello stato, e anche un po’ spaventato dal suo comportamento.

   «Sono la prima di molti» rispose Thuringwethil, con un lampo rosso negli occhi. «Oggi devo accontentarmi delle bestie per placare la mia sete, ma quando verranno i Figli d’Ilúvatar, mi nutrirò del loro sangue. E così facendo, trasmetterò loro parte dei miei poteri. Melkor lo ha previsto. Mi ha detto che in tal modo sarò la progenitrice di una moltitudine d’esseri alati e succhiatori di sangue... i Vampiri! Ma perché ciò accada, deve calare la Notte».

   «Perdi tempo dietro ai deliri di Melkor? Quel malvagio ti sta usando, e nel frattempo ti ha corrotta!» esclamò Mairon, agghiacciato.

   «Corruzione è la parola cantata dai deboli per descrivere il naturale desiderio di potere che essi stessi negano» rispose la vampira, «e malvagio è il termine che gli ignoranti appioppano a chi sfrutta tutto il proprio potenziale. Ma se vuoi discutere a fondo di queste e altre cose, ti suggerisco di farlo direttamente con Melkor».

   «Lui è qui?!» sobbalzò Mairon. Scaraventò Thuringwethil contro la parete rocciosa e si guardò attorno con ansia, come se temesse di vederlo sbucare dal nulla.

   «Caspita, il mio Re ti fa proprio paura!» disse la vampira, rialzandosi un po’ dolorante. «Io invece me la rido del tuo; già questo ti fa capire chi ha più autorità. Devo dire che mi deludi... il Mairon che conoscevo era il più audace dei Maiar, e chi mi ritrovo? Un galoppino, un servo impaurito. Se è a questo che portano tutte le virtù di cui cianciano i Valar, sono ben lieta di aver seguito Melkor».

   «Volevo sapere se il tuo padrone è qui su Arda» precisò Mairon, cercando di ridarsi un contegno. «Sai, l’ultima volta che l’ho visto, scappava da Tulkas. Ha abbandonato Arda e voialtri che lottavate per lui. Non credevo che sarebbe tornato... ma forse gli è passata la paura di Tulkas, e ha bisogno di qualche altra sberla per ricordare chi è il più forte. Sì, considerando che mi ha inviato te, credo proprio che sia tornato» disse, lanciando un’occhiataccia alla vampira. «E visto che i Monti di Ferro sono in subbuglio, non fatico a capire dove si è rintanato. Bene, ora ti lascio. Ci rivedremo presto... sul campo di battaglia» concluse, pronto a tornare ad Almaren.

   «Ah, vedo che hai recuperato la grint... ehi, aspetta!» gridò Thuringwethil, rincorrendolo. Gli afferrò una mano. «Se non ti piacciono gli scherzi, sarò seria: che crimine abbiamo commesso a tornare? Non è giusto che una parte degli Ainur siano esiliati nell’oscurità, mentre gli altri festeggiano. Abbiamo diritto alla nostra parte!».

   «Se aveste lavorato come noi; invece avete fatto di tutto per rovinare i nostri sforzi» obiettò Mairon, liberandosi dalla stretta.

   «Ma quella lotta è stata necessaria. Senza le catastrofi naturali e le conseguenti estinzioni, Arda sarebbe rimasta popolata dalle prime, rozze forme di vita. Non ci sarebbe stato spazio per la bellezza che è venuta dopo. Vedi, un po’ di conflitto è indispensabile per evolvere. Aulë avrebbe innalzato i Lumi, se Melkor non avesse celato il Sole?».

   «Uhm, non credo...» ammise Mairon a malincuore. «Ciò non toglie che i propositi di Melkor sono ostili; l’hai ammesso tu stessa. E per quanto un po’ di sconquassi possano anche essere necessari, non credo che sia questo il momento. Arda ha bisogno di pace...».

   «E tu di cos’hai bisogno?» chiese la vampira, facendo un ultimo tentativo di trattenerlo.

   «Che intendi?».

   «Hai sentito bene. Cos’è che vuoi, cos’è che meriti, e che i Valar non ti danno? Magari un vulcano tutto tuo, per impiantarci la tua fucina, ed emanciparti un po’ da Aulë? O un ruolo di comando sui Maiar inferiori? Pensaci... i Valar cianciano d’armonia e uguaglianza, ma intanto loro comandano, e tu devi servirli come se fossi l’ultimo degli spiritelli. Con Melkor, invece... lui è il Re, certo, ma ricompensa bene chi si dimostra forte e scaltro».

   «Cos’è, cerchi di corrompermi? Fatica sprecata. Ciò che voglio, non possono darmelo né i Valar, né il tuo caro Melkor!» si lasciò sfuggire Mairon.

   «Questa poi! Sei ancora più ambizioso di quanto pensavo!» sorrise Thuringwethil, mettendogli un braccio intorno al collo. «Ora però non puoi tenermi sulle spine... suvvia, levati questo fardello! Se non puoi parlarne nemmeno ai Valar, a che ti serve la loro compagnia? Confidati con me! Fa’ conto che sia ancora Nieliqui, e che stiamo passeggiando al crepuscolo, in una foresta d’equiseti...» disse, sfiorandogli le labbra con un bacio.

   Mairon stava per farle notare che lei stessa aveva rinnegato quel nome, ma poi volle vedere la sua reazione, nell’apprendere che si era infatuato di un’altra. «Ciò che desidero è l’amore di Ilmarë, la più soave delle Maiar» disse con cura, godendosi l’espressione della vampira. «Ma finché lei non ricambierà il sentimento, nessuno può farci niente» concluse.

   Thuringwethil parve molto contrariata di avere una rivale. Storse la bocca, facendo balenare i canini, ma poi tornò a sorridere smagliante. «Tutto si può fare, con la giusta... persuasione. E Melkor è un maestro in questo campo. Perciò lascia che sia lui a farci i conti. Seguimi nel suo dominio e parlaci; allora vedrai dove sta di casa il potere» assicurò.

   Mairon rifletté a fondo. La linea d’azione più prudente era rifiutare l’offerta e tornare subito ad Almaren, riferendo le sue scoperte. Ma se prima avesse visitato la fortezza di Melkor, avrebbe potuto fornire ai Valar informazioni molto più dettagliate sulle sue forze, le sue difese e i suoi piani. Sarebbe stato un eroe, il salvatore di Arda! Persino Ilmarë avrebbe dovuto ammettere che era il più coraggioso, e si sarebbe dimenticata di Eönwë.

   Già, ma se non fosse uscito dalla tana dell’Oscuro Signore?

   Il rischio era grosso. Melkor era pur sempre il maggiore degli Ainur e aveva molti seguaci. Se gli fossero saltati addosso tutti insieme, lui non avrebbe avuto scampo. Ma in fondo, che potevano fargli? Se l’avessero imprigionato, o torturato, lui poteva sempre diventare immateriale. A quel punto nemmeno Melkor avrebbe potuto trattenerlo. Se lo avessero ucciso, idem: non avrebbero fatto altro che liberare il suo spirito, e lui sarebbe tornato ad Almaren, per crearsi una nuova spoglia. In quel caso la faccenda sarebbe stata più lunga e complicata, e i suoi poteri avrebbero potuto risentirne. Ma per diventare eroi bisogna pur rischiare, si disse Mairon; e lui era ben deciso a diventarlo agli occhi di Ilmarë.

   «Ci sto» disse. «Portami dal tuo padrone, e vedremo se è in gamba come dici».

   «Non te ne pentirai» assicurò Thuringwethil, con un sorriso sinistro. Ma quando dovette esporsi alla luce d’Illuin esitò. «Ci aspetta un lungo viaggio... e io resisterei meglio a questa luce pestilenziale se tu mi aiutassi» ammise.

   «Che devo fare?».

   «Tu lo sai... solo un sorso, per placare la mia sete...» disse la vampira, leccandosi le labbra. Visto che Mairon esitava, cercò di tranquillizzarlo: «Non ti succederà niente. Il mio morso contagia solo le creature inferiori».

   A Mairon non piaceva per niente questa piega degli eventi, e le parole della vampira non valevano certo a rassicurarlo. D’altra parte, vederla così vulnerabile alla luce gli dava l’impressione di essere molto più forte di lei e di poterla quindi controllare in ogni circostanza. «E sia; ma solo un sorso!» concesse, tirandosi su la manica.

   «Non chiedo altro!» gongolò Thuringwethil, gettandosi sul suo polso. Gli affondò i canini nelle vene e prese a succhiare il sangue. Mairon provò un dolore intenso, bruciante, ma resistette.

   «Basta così» disse dopo qualche momento. Ma la vampira non ne volle sapere, anzi gli piantò i denti ancora più a fondo. «Ho detto basta!» ripeté Mairon. Ancora niente da fare. La testa cominciava a girargli per la massiccia perdita di sangue. Decise di passare alle vie di fatto. Puntò la mano libera contro il ventre di Thuringwethil e sprigionò una palla di fuoco. Fu più debole di quanto avrebbe voluto, ma comunque efficace. La vampira fu scagliata indietro, con la veste scura che andava a fuoco. Dovette rotolarsi a terra per spegnere le fiamme.

   «La prossima volta non farmi ripetere gli ordini» disse Mairon con calma. «E adesso muoviamoci, detesto perdere tempo».

   «Come vuoi» acconsentì Thuringwethil. Si rimise in piedi e dopo una breve esitazione si espose alla luce. Sulla sua pelle cadaverica comparvero alcune bolle e ustioni, ma si riassorbirono all’istante. «Ah, non ho mai bevuto nulla di così nutriente!» trillò, saltellando fin sull’orlo dell’abisso.

   Mairon la seguì, mentre la ferita al polso si rimarginava. Entrambi guardarono giù, all’impressionante parete rocciosa che scendeva precipite attraverso le Tre Arie, fino alle rocce e ai ghiacci della base.

   «Siamo in cima al mondo... goditi la vista, finché puoi!» sogghignò Thuringwethil, accompagnandosi con un gesto teatrale. «Ora seguimi, e vediamo se riesci a starmi dietro! Ah-ah-aaahhhhh!». Con un grido incredibilmente stridulo, la vampira si gettò nel vuoto, le braccia aperte e i lunghi capelli neri scompigliati dalla caduta. Mairon esitò per un istante. Poi, vedendola rimpicciolire sempre più, temette di smarrirla. E le si buttò dietro.

 

   Caddero per chilometri e chilometri, mentre l’aria si faceva sempre più densa, assordandoli col suo fischio. Mairon riusciva a stento a tenere gli occhi aperti, ma sapeva di non dover perdere di vista la sua guida. Inclinando il corpo in avanti, riuscì a cadere con maggior velocità, fino a raggiungere Thuringwethil. Tutti e due, inoltre, cadevano con una traiettoria inclinata, per non sfracellarsi contro le balze rocciose, visto che il diametro del pilastro cresceva man mano che si avvicinavano alla base.

   «Ah, questa è vita!» gridò Thuringwethil, sempre in caduta libera.

   «N-non sarebbe il caso d-di rallentare?» chiese Mairon, che vedeva il suolo sempre più vicino.

   «Le mollezze di Almaren ti hanno reso pusillanime?! T’insegno io come ci si diverte! Il primo che rallenta è un Verme Mangiaterra! Ah-ah-ah-ah-ahhh!» rise istericamente la vampira. S’inclinò in avanti per cadere a freccia, obbligando Mairon a imitarla. Precipitarono ancora per un bel pezzo, arroventati dall’attrito dell’aria, e passarono attraverso le nubi. Quando uscirono da quella nebbia lattiginosa, erano vicinissimi alla base del pilastro.

   A quel punto Mairon temette davvero di sfracellarsi. Preso dal panico, si trasformò: il suo corpo si coprì di penne scure, le gambe si fecero corte e secche, le braccia divennero ali, le labbra si allungarono trasformandosi in duro becco. Al disopra dei ghiacciai, ora, volteggiava un maestoso cormorano, che lanciava il suo richiamo per fermare la compagna, ancora in caduta libera.

   All’ultimo istante anche Thuringwethil si trasformò, ma non divenne un uccello, e nemmeno un rettile alato. Le sue dita si allungarono a dismisura, mentre pelle semitrasparente cresceva fra esse. Il suo corpo divenne tozzo e si coprì di una peluria nerastra. Gli occhi rimpicciolirono, le orecchie crebbero, il naso divenne una sorta di grugno porcino. La Maia si era trasformata in un gigantesco pipistrello. I raggi d’Illuin ora non la bruciavano più come prima, essendo schermati dalle nubi, ma erano pur sempre fastidiosi. Poco male... presto sarebbe stata al sicuro nel sottosuolo.

 

   Il cormorano e il pipistrello intrecciarono una breve danza a mezz’aria, ancora scossi dall’emozione della caduta. Poi Thuringwethil partì decisa verso nord e Mairon la seguì, sbattendo le ali a tutta forza per non restare indietro. Sorvolarono foreste vergini e acque cristalline, pianure e colline. Più si spingevano a nord, più aumentavano le gibbosità del terreno, mentre le foreste decidue lasciavano il posto a quelle più scure di conifere. Davanti a loro, i Monti di Ferro erano sempre più grandi; le loro cime vomitavano colonne di fumo, rosseggianti all’interno e incorniciate da fulmini. Vedendoli così vicini e udendo il loro cupo brontolio, Mairon ebbe paura. Ma andarsene adesso voleva dire rinunciare al suo piano, oltre che fare la figura del codardo. No, si disse, ormai era arrivato troppo avanti; non restava che proseguire. Sotto di lui, la terra era sempre più desolata: fiumi di lava avevano arso la vegetazione e ucciso o fatto fuggire gli animali, lasciando solo un deserto di polvere asfissiante. Qua e là i vapori sotterranei si sfogavano da fessure della roccia, mentre le spaccature più grandi lasciavano intravedere il bagliore della lava. Il mondo era tutto così, ricordò Mairon, prima che gli Ainur lo modellassero in eoni di fatiche. Si chiese perché Ilúvatar, che l’aveva creato, avesse lasciato a loro quel compito massacrante.

   «Adesso puoi dirmi dove stiamo andando di preciso?» chiese Mairon. Ormai erano così vicini alla base dei Monti che potevano vedere le colonne di fumo e le fontane di lapilli dal basso.

   «Vedrai... non aspettarti i morbidi giacigli e i viali fioriti di Almaren» rispose Thuringwethil, volandogli a fianco. «Qui i picconi scavano la roccia, il martello batte giorno e notte sull’incudine, e molti strumenti in ferro prendono forma. È un po’ come la fucina di Aulë... solo, migliore!».

   Ormai le nubi tossiche coprivano il cielo e i raggi d’Illuin, freddi e lontani, giungevano molto radenti. La vampira prese ancora più slancio e Mairon, nella sua forma alata, le tenne dietro. Poco alla volta, attraverso le esalazioni, prese forma davanti a lui la fortezza dell’Avversario.

   Era la prima volta che Melkor sceglieva una dimora, avendo osservato da lontano i Valar e i Maiar che si costruivano le loro. In massima parte l’aveva scavata nei monti e sotto di essi, per sfruttarne i ricchi giacimenti di ferro. Erano così sorte miniere buie e profonde, grandi fucine dai fuochi sempre accesi, armerie colme di strumenti di morte, prigioni e camere di tortura. Sulle prime, Melkor non aveva voluto innalzare strutture, per non rendersi visibile. Ma ora che i suoi piani procedevano, non aveva resistito all’orgoglio. Abbarbicata alle rocce, aveva così preso forma una massiccia struttura in ferro. La sua mole era immensa, le sue forme opprimenti, per schiacciare il visitatore e farlo sentire una nullità. C’era un torrione squadrato che emergeva dalle rocce sulfuree, come una zanna nerastra da rosse gengive. Un monumentale cancello d’acciaio occupava gran parte della base, mentre la sommità stava ancora crescendo. Addossate a questa, altre strutture minori prendevano forma. L’insieme era disarmonico, come qualcosa che crescesse alla rinfusa su se stesso, avvinghiandosi alla roccia con griffe metalliche. Le poche aperture – qualche finestra in alto e gli scarichi per le scorie alla base – rosseggiavano come occhi malefici. C’erano sentinelle insonni, là dentro, che certo avevano scorto i due visitatori; e c’era un volere più oscuro d’ogni altro, che impregnava ferro e pietre, traboccando dai labirinti sotterranei.

   Mairon comprese che la costruzione dei torrioni era ancora all’inizio e si chiese quale sarebbe stato il risultato finale; ma soprattutto lo inquietava il pensiero dei sotterranei. Quanto aveva scavato in profondità Melkor? Più di Aulë, probabilmente; più di Námo e Nienna. Quel luogo malefico e tentacolare avrebbe potuto inghiottirlo per sempre.

   «Benvenuto a Utumno!» esultò Thuringwethil, e Mairon si sentì perduto.

 

   Atterrarono davanti al grande cancello, stanchi per il lungo viaggio, e ripresero le sembianze umanoidi. Si trovavano su una stretta lingua di roccia: davanti a loro torreggiava l’ingresso di Utumno, mentre ai lati c’erano strapiombi. Lì erano gettati i materiali di riporto degli scavi e i residui di lavorazione delle fucine.

   Un boato salì dalle profondità della terra: Utumno salutava i visitatori e li invitava a entrare. Il pesante cancello scricchiolò e cominciò ad aprirsi, con un orrendo cigolio metallico. Ne uscì una zaffata d’aria densa e rovente, oltre al rumore di molti picconi e martelli al lavoro. Mairon rifletté che Melkor aveva più seguaci del previsto, e li aveva messi a lavorare alacremente.

   «Perché indugi sulla soglia? Se hai dei timori, lasciateli dietro; questo non è luogo in cui entrare da pavidi» avvertì Thuringwethil. Adesso che erano innanzi alle soglie infernali, il suo atteggiamento era cambiato. Aveva smesso di scherzare e anzi s’era fatta solenne. Forse sapeva d’essere sorvegliata e non voleva sgarrare, pensò Mairon.

   «Questo non è luogo in cui entrare affatto, se non si è invitati» disse una voce untuosa dall’interno. «E come può esserlo, questo molle abitante di Almaren? Qui non c’è amore per la tua genìa». Dalle tenebre dell’interno emerse un altro Maia, deformato nelle fattezze di un demone. Il suo cranio glabro era incoronato da grosse corna ritorte e la sua pelle aveva un colorito verdastro.

   «Suvvia, Langon, sii più cortese. Lo stimato Mairon è qui su richiesta di Sire Melkor in persona» intervenne Thuringwethil.

   «E avrà il fegato di oltrepassare la soglia? Ne dubito!» rise Langon; una risata fredda e senza gioia.

   «Questo è il massimo che Melkor può permettersi come usciere? Dev’essere a corto di seguaci. Fatti da parte, portinaio!» disse Mairon sprezzante, varcando i cancelli infernali. Subito fu circondato da giganteschi rettili carnivori, dalle enormi fauci irte di denti. Ruggivano e si spintonavano fra loro, come impazienti di banchettare. Il più grosso, dal muso allungato come un coccodrillo e una grande cresta sul dorso, si fece avanti.

   «A cuccia, lucertola spinosa! Sono qui per parlare col tuo padrone!» gridò Mairon, scagliando un potente getto di fuoco dalle mani, che bruciacchiò il muso della creatura. Quella ruggì di rabbia ancor più che di dolore, ma indietreggiò, imitata dalle altre.

   «Sapevo che non avevi perso i tuoi talenti» gli disse a mezza voce Thuringwethil, sorridendo soddisfatta.

   «Molto bene... sarà Melkor a decidere la tua sorte» disse Langon, lanciando uno sguardo bieco a Mairon. «Seguitemi, tutti e due; vi scorterò alla sala del trono». Mentre il pesante cancello si richiudeva come una mandibola alle loro spalle, i tre Maiar si addentrarono nelle tenebre di Utumno.

 

   Per quanto Mairon avesse lavorato d’immaginazione durante il viaggio, la realtà di Utumno superò ampiamente le sue più fosche previsioni. L’architettura esterna, per quanto monumentale, non era che una pallida avvisaglia di ciò che si annidava nel sottosuolo. Gli sbarramenti interni erano tali e tanti che Melkor doveva averli progettati in previsione di un attacco dei Valar; e c’era da credere che potesse davvero resistere alle Potenze. Mairon fu scortato oltre immani cancelli d’acciaio e ponti sospesi su abissi fiammeggianti, superò gallerie e scale sempre in discesa, mentre l’aria si faceva irrespirabile e le tenebre s’infittivano.

   Anche il frastuono aumentava: non solo i colpi di piccone e di maglio, o il cigolio dei macchinari, ma anche i ruggiti e i lamenti d’infinite creature che venivano deformate e stravolte per mezzo di lente arti crudeli. Mairon tese le orecchie, perché in mezzo ai versi degli animali gli sembrava di udire, a tratti, anche le grida di qualche Maiar. Molti spiriti minori dimoravano lontano da Almaren e certuni non davano notizie di sé da parecchio tempo. Mairon si rese conto che Melkor poteva benissimo averli catturati, e se erano abbastanza deboli c’era la possibilità che non riuscissero più a sfuggirgli. Il pensiero dell’eternità di agonia a cui erano sottoposti gli gelò il sangue. Ma doveva essere forte, si disse, e non lasciar trapelare il suo turbamento, o sarebbe stata la fine anche per lui.

   Sbirciando nei saloni illuminati dal fuoco, quando ci passavano a fianco, Mairon vide molte creature così deformate da essere quasi irriconoscibili, assieme ad altre di cui proprio non immaginava l’origine. C’erano ragni e scorpioni giganteschi, rettili d’ogni forma e misura, mentre il pavimento brulicava di serpenti. Ovunque ronzavano sciami d’insetti succhiasangue, mentre altri parassiti infestavano le creature più grandi. Le bestie più forti sbranavano le più deboli; spesso erano i custodi ad aizzarle allo scontro, tormentandole con lunghi raffi e forconi metallici. Certe creature erano incatenate e frustate selvaggiamente, forse per domarle; il loro sangue macchiava pavimento e pareti.

   Ma non erano solo gli animali ad essere corrotti; anche le piante e i funghi subivano pericolose metamorfosi. Nascevano così le piante carnivore e quelle infestanti, muffe e funghi parassitici, oltre a innumerevoli piante velenose, molte delle quali avevano foglie e bacche difficilmente distinguibili da quelle buone, così da ingannare chi se ne cibasse.

   Dopo una discesa che a Mairon parve interminabile, i tre Maiar giunsero a un ultimo cancello di ferro nero. Langon prese il massiccio battente e bussò tre volte. Un cupo gong dall’interno lo autorizzò ad aprire. «Quando gli sarai innanzi, prostrati ai piedi di Melkor» sussurrò Thuringwethil a Mairon, mentre il portone si spalancava. «Per nessuna ragione devi voltargli le spalle, né interromperlo. Parla solo se interrogato».

   Entrarono nella sala del trono, che era più profonda e tetra di ogni altra. Pochi bracieri diffondevano una luce sanguigna, che riverberava sulle armi appese alle pareti. Scure colonne di basalto reggevano l’alto soffitto, delineando una lunga navata dalle arcate acute. Fra una colonna e l’altra era radunata la corte infernale di Melkor: demoni dalle forme ributtanti e dall’animo ancora più lurido, che un tempo avevano cantato al cospetto d’Ilúvatar e ora riverivano ben altro signore. Quando videro Mairon, presero subito a parlottare malignamente fra loro. Immondi invertebrati zampettavano a terra, addensandosi in macchie scure sempre in movimento. I serpenti si arrotolavano intorno alle colonne, mentre centinaia di pipistrelli pendevano dal soffitto. Al confronto di quella sala, pensò Mairon, le aule di Fui erano un luogo di ristoro.

   Il trono di Melkor sorgeva in fondo alla navata, su una piattaforma rialzata, protendendosi da un pilastro ferrigno irto di punte. L’Oscuro Signore se ne stava lì, in tutto il suo tenebroso potere, coperto da un’armatura nera, come se fosse fuso al suo trono e alla reggia; come se tutto promanasse fisicamente da lui. Reggeva senza sforzo un colossale maglio, al tempo stesso arma e scettro: Grond, il Martello dell’Oltretomba. La lunga permanenza nella Tenebra Esterna l’aveva cambiato. I suoi occhi erano pozzi d’oscurità, completamente neri e freddi, privi di qualunque scintilla vitale. Eppure la sua antica maestà non era ancora del tutto dissolta: gli aleggiava intorno come un gelido manto regale. E ad essa si prostravano i suoi sudditi, Maiar che aveva attratto nei giorni della sua grandezza e che continuavano a servirlo nella degradazione, o che aveva corrotto in seguito, con promesse e menzogne.

   Sette di questi demoni circondavano il suo trono, come spaventose guardie del corpo. Erano i Valaraukar, i fratelli di Arien; ma nelle sozze tenebre di Utumno avevano assunto anch’essi sembianze demoniache. Sembravano fatti di lava semisolida, più incandescente nella bocca e negli occhi, e avevano criniere fiammeggianti. Le ali da pipistrello, gli artigli affilati e le corna ritorte gli davano sembianze ferine. Erano armati di tutto punto: il loro capitano Gothmog impugnava una grande ascia, mentre gli altri avevano mazze, lance e spade fiammeggianti. Tutti erano muniti di letali fruste di fuoco, a una o più code, ed erano pronti a scattare a un cenno del loro tenebroso signore.

   «Mio signore Melkor, Padrone della Terra, vi annuncio la visita di un abitante di Almaren» esordì Langon, nel suo tono più viscido e servile. «Egli è giunto in compagnia di Thuringwethil, che afferma di averlo condotto su vostro ordine. Quale trattamento decretate per l’uno e l’altra?» chiese, inginocchiandosi davanti a Melkor. La vampira lo imitò, prostrandosi ancor più a terra. Mairon, però, malgrado l’ammonimento ricevuto e la paura che lo attanagliava, rimase caparbiamente in piedi. Inchinarsi a Melkor avrebbe comportato riconoscerne l’autorità, e questo non poteva farlo, perché il Vala caduto si considerava signore di tutta Arda e non della sola Utumno.

   «Che Thuringwethil riprenda il suo posto, ora che ha portato a termine il mio ordine» esordì Melkor, la voce profonda come un boato di terremoto. «E che Mairon sia accolto come un ospite gradito, sebbene egli mi abbia voltato le spalle, schierandosi coi miei nemici. Sì, Mairon, il tuo arrivo è invero di mio gradimento, malgrado i tuoi gravi errori, perché ti dà la possibilità di correggerti. Non è forse misericordia, la mia? Invece di schiacciarti, come potrei, ti offro la mia amicizia, e un potere quale i Valar negheranno sempre ai loro servi» aggiunse, protendendosi in avanti. «I tempi, infatti, sono maturi affinché io riprenda il dominio di Arda. Come avrai constatato, mio buon Mairon, il potere congiunto dei Valar può forse ritardare i miei piani, ma giammai frustrarli. Io forgiai il destino del Mondo al tempo della Grande Musica, e tutto quanto esso contiene presto o tardi si piega al mio volere. Perciò tutti voi che vivete in Almaren, ignari e indolenti, dovrete presto fare una scelta: riconoscere questa realtà o patire le conseguenze della vostra cieca ostinazione».

   «Sei molto fiducioso nelle tue possibilità di vittoria» commentò Mairon. «Ma i tuoi pari, che vivono in Almaren, ritengono che tu sappia portare solo oppressione e sofferenza. E da quel che ho visto nel tuo regno, non posso dargli torto. Dunque come puoi pretendere di guidarci? Sapresti solo rovinare i nostri sforzi e con essi il disegno di Eru...».

   «Eru? Chi è Eru?» chiese Melkor, beffardo.

   «Lo sai benissimo; non hai certo dimenticato il Padre di Tutto che risiede oltre le Sfere del Mondo...» cominciò Mairon.

   «Di ciò che è Fuori non mi curo» rispose Melkor. «L’importante è che io sono il Signore di questo Mondo. Tutto ciò che risiede in esso è di mia proprietà ed esiste solo in quanto io lo consento. Tutti coloro che vi abitano appartengono a me, e possono vivere solo se io accordo loro questa grazia. Ma per coloro che negano questa verità, la grazia sarà la morte; ed essi la imploreranno a lungo».

   «Nemmeno tu puoi uccidere gli Ainur» rispose Mairon, augurandosi di non scoprire il contrario.

   «Posso stanarli, imprigionarli, corrodere i loro corpi col ferro e il fuoco ed esporre il loro nudo spirito alla forza del mio volere» ammonì Melkor. «Posso ridurli in una condizione di tale debolezza e terrore, che essi non saranno più capaci di manifestarsi in forma visibile nel Mondo. Non sarà la morte... ma forse è peggio!» concluse, abbandonandosi a una gelida risata.

   «È per farmi questo che mi hai convocato?» chiese Mairon, cercando di nascondere la sua paura. La sicurezza dell’Oscuro Signore era così granitica, e i suoi servitori così numerosi, che opporsi a lui sembrava impossibile.

   «Al contrario, voglio salvarti dal rovinoso sentiero per il quale sono avviati i Valar e i loro accoliti» rispose Melkor. «Le loro scellerate azioni contro l’unico, legittimo Re di Arda saranno presto punite. Ciò che mi hanno rubato tornerà mio per sempre; ma io sarò generoso con quanti mi avranno servito».

   «Sarai generoso finché ci sarà bottino da spartire» obiettò Mairon. «Una volta saccheggiata Almaren, che farai? Ci obbligherai a faticare come schiavi nelle tue miniere?» chiese, alludendo ai colpi di piccone e ai lamenti che si udivano in lontananza.

   «Mi deludi, Mairon» disse Melkor, scuotendo tristemente il capo. «Pensi in modo così ristretto... a tua parziale discolpa c’è il fatto che i Valar tengono voi Maiar nell’ignoranza, per dominarvi meglio. Lascia che io disperda, almeno in parte, la nebbia di bugie che hanno intessuto attorno a te. Rifletti: che bisogno avrete voi Maiar di lavorare, quando verranno i Figli d’Ilúvatar? Maggiori o Minori, non fa differenza: essi saranno di rango inferiore a noi, essendo figli del Mondo, nati dalla rozza materia, come le bestie. Per il loro stesso bene, dovranno obbedirci. Lavoreranno per noi... ci adoreranno... ci faranno sacrifici. E così, tutti noi – finanche l’ultimo dei Maiar – saremo una casta privilegiata. Saremo dèi, padroni della vita e della morte!» esultò, levando alte le braccia. La sua corte infernale diede grida di giubilo e i Valaraukar fecero schioccare le fruste di fiamma.

   «Ma perché tutto ciò funzioni, dovrò essere io al comando» riprese Melkor, zittendo i suoi cortigiani con un cenno. «Se lasciassi fare al mio sciocco fratello Manwë, lui finirebbe di certo per appassionarsi a quelle bestioline, costringendovi a faticare per i loro comodi. Sareste schiavi due volte: dei Valar e dei Figli!».

   Queste parole fecero un certo effetto su Mairon. Non aveva mai riflettuto su come sarebbero andate le cose, una volta apparsi i Figli, ma il quadro tracciato da Melkor gli parve pericolosamente realistico. Già adesso i Valar erano così appassionati a piante e animali da obbligare i Maiar a prendersene costantemente cura. Come si sarebbero comportati, all’apparire dei nuovi abitanti di Arda? Mairon si vide costretto a correre dietro a quegli esseri piccoli e fragili, senza più un momento da dedicare ai suoi progetti. No, neanche per sogno! Era molto più logica – e più allettante – la visione proposta da Melkor, in cui erano i Figli a servire i Maiar.

   «Mio Signore, siete fin troppo generoso a chiamarli Figli» disse una Maia, facendosi avanti. Mairon la riconobbe: era Ulbandi, una delle prime servitrici di Melkor. Anche lei aveva perso il bell’aspetto di un tempo; ora aveva serpenti al posto dei capelli. «Siamo noi gli unici Figli d’Ilúvatar, poiché nascemmo prima d’ogni altra cosa. I futuri abitanti di Arda saranno talmente inferiori a noi, che a malapena potremo distinguerli dalle bestie. E come con le bestie, potremo selezionare i ceppi più obbedienti... ci sarà molto da divertirsi...» disse, sorridendo malignamente.

   «Sì, ognuno di voi potrà fare ciò che vuole nel proprio feudo, a patto di riconoscere la mia suprema autorità» promise Melkor. «Che ne pensi, mio buon ospite?» si rivolse a Mairon.

   «Ammetto che i tuoi discorsi sembrano sensati» rispose questi a malincuore. «Ma è da tanto che aspettiamo l’avvento dei Figli, e chissà quanto tempo ci vorrà ancora. Io mi domando come pensi di amministrare il Mondo nel frattempo. Conosci il proverbio: meglio un uovo oggi che un dinosauro domani...».

   «Non hai dunque udito le mie parole? Io concederò le regioni di Arda in feudo ai miei servi più meritevoli» dichiarò Melkor. «In tal modo, un semplice Maia potrà avere quello che oggi è il dominio di un Vala. Bando all’immobilismo, che i forti abbiano ciò che meritano! Ad esempio tu, Mairon, potresti avere gran parte del dominio di Aulë. E il buon Ossë, che ha risposto alla mia chiamata, erediterà il regno di Ulmo: l’oceano sconfinato!» aggiunse, facendo segno all’interpellato di venire avanti.

   Meravigliato, Mairon vide Ossë emergere dalla folla dei servi di Melkor. Era diverso da loro: alto e nobile, anche se torvo, con una luce indomabile negli occhi. Poteva anche collaborare con Melkor, se lo riteneva vantaggioso, ma non sarebbe mai stato suo servo. Aveva la pelle azzurra e i lunghi capelli, simili ad alghe ancora umide, di un blu scuro. Indossava un gonnellino di argentea maglia metallica, lucente come squame. Sebbene fosse fuori dal suo elemento, tutti percepivano che il suo potere era formidabile.

   In effetti Ossë, il Signore delle Tempeste, era il maggior vassallo di Ulmo. Solo la sua sposa Uinen, Signora delle Bonacce, sapeva raffrenarne l’indole violenta. Nelle ere più antiche, Ossë aveva spesso sconvolto i mari con furiose tempeste. Anche se non si era mai schierato apertamente con Melkor, di fatto lo aveva aiutato, creando sconquasso. Ma alla fine della Guerra sembrava essersi rabbonito, soprattutto grazie a Uinen, che aveva sposato in quel periodo. Così, quando i Valar avevano radunato tutte le terre emerse in un’unica massa continentale, Ulmo aveva preso Ossë e Uinen con sé nel Grande Lago, per controllarli meglio. E sebbene l’Abitatore del Profondo si recasse spesso nell’Oceano, Ossë era diffidato dal farlo. Ma evidentemente le acque dolci e tranquille del Lago stavano strette al turbolento Maia.

   «Non pensavo di trovarti qui» ammise Mairon, rivolgendosi al collega. «Di solito voi spiriti delle acque siete indifferenti alle questioni politiche. Ve ne state in profondità, senza forma, ed emergete così di rado...».

   «Stanno per succedere grandi cose; sarebbe sciocco ignorarlo» rispose Ossë. «Le sponde del Lago sono anguste per me, che ero solito calarmi nei più profondi abissi. Laggiù vive ancora un’eco della Grande Musica. Quello è il dominio a cui ambisco, per condividerlo con la mia sposa».

   Nel profondo del suo cuore buio, Melkor fremette di disgusto al solo udire la parola condividere. Se Ossë ragionava ancora in quei termini, non aveva capito minimamente la logica dell’Ombra. Meglio così, si disse Melkor: sarebbe stato più facile controllarlo. Di lui non poteva fare a meno, purtroppo: essendo così legato agli elementi solidi, aveva sempre avuto difficoltà a dominare il Mare. Non potendo opporsi direttamente a Ulmo, non restava che mandargli contro Ossë e confidare nello sconquasso.

   «Uinen sa che sei qui?» chiese Mairon.

   Il Signore delle Tempeste scosse i lunghi capelli blu. «Non occorre che lo sappia; non voglio che si preoccupi vanamente per cose che ormai sono in movimento e non possono essere fermate. Sarà meglio metterla di fronte ai fatti compiuti. Protesterà per un po’, ma alla fine capirà che ho agito anche nel suo interesse».

   Pensando a Ossë e Uinen che scalzavano Ulmo e signoreggiavano su tutto l’Oceano, Mairon si chiese se anche lui e Ilmarë avrebbero potuto fare qualcosa di simile, nei propri elementi. Lui poteva sostituire Aulë nel dominio della terra, mentre Ilmarë avrebbe soppiantato Varda nei cieli. Che idea, approfittare del ritorno di Melkor per spodestare i Valar! Invece di servire in eterno, avrebbero potuto comandare: prima sui Maiar inferiori, poi anche sui Figli d’Ilúvatar. Fu la sfrenata fantasia di un istante, prima che la ricacciasse a forza nell’angolo più profondo della sua mente.

   «Ebbene, Mairon? Non è forse una generosa offerta, la mia?» incalzò Melkor, vedendolo tentennare.

   «Non posso negarlo, ma... mi domando cosa ti aspetti esattamente in cambio» mormorò l’interpellato. «Fin qui hai fatto discorsi vaghi. “Riprendere il dominio di Arda” non significa nulla, finché i Valar siedono in trono. Dunque cosa intendi fare, di preciso? Prendere d’assalto Almaren?». Si disse che voleva saperlo solo per poterli avvertire, non perché l’offerta gli interessasse. Riuscì quasi a crederci.

   Un fremito percorse la corte infernale e alcuni demoni guardarono il loro signore scuotendo la testa. Non volevano che Melkor rivelasse i suoi piani, prima d’avere la certezza che Mairon era dei loro. Ma l’Oscuro Signore ignorò i consigli e si protese verso l’ospite. «Un assalto è inevitabile, ma non contro Almaren, che sarebbe difesa dai suoi abitanti. No... ho altri obiettivi, assai più vulnerabili. Sai, di tutte le opere dei miei stolti fratelli, quelle che più mi hanno colpito sono i Lumi» rivelò. «Quali manifestazioni d’orgoglio, due pilastri che svettano fino al cielo! E che assurdità condannare il mondo a un giorno perenne, senza che vi sia mai il riposo della notte! Come avrai notato, la luce intensa ferisce molti dei miei seguaci. Dunque è mia intenzione porre fine a questa minaccia. La superbia dei Valar sarà livellata: i Lumi devono cadere!» sentenziò.

   A quelle parole i demoni esultarono, ma l’ospite vacillò per l’incredulità e l’orrore. «Vuoi spegnere la luce del Mondo? Sarebbe un cataclisma!» protestò. «Terre e mari saranno sconvolti, la stessa Almaren potrebbe venir distrutta. Il fluido incandescente delle lanterne incendierà le foreste... e una volta estinte le fiamme, Arda resterà al buio. Nemmeno tu puoi volere una cosa del genere!».

   «Oh, sì che posso... e lo farò» garantì Melkor. «Così i Valar saranno spezzati nell’orgoglio. E se vorranno che il mondo abbia di nuovo luce, dovranno sottomettersi a me. Solo io, infatti, posso ripristinarne la rotazione, così che il Sole sorga e tramonti come faceva un tempo. Sarà l’alba di un nuovo ordine, il mio!».

   Mairon cercò di raccapezzarsi. Come poteva quel folle aspettarsi la sua collaborazione? I loro obiettivi erano diversi, anzi contrapposti. Melkor voleva il caos, la distruzione. Lui, invece, desiderava che tutte le cose fossero bene in ordine. Eppure le ultime parole del Ribelle lasciavano intendere che potesse esserci un punto d’equilibrio. «Dopo ogni distruzione, anche grave, c’è una rinascita. E in questo nuovo ordine, forse le cose saranno migliori... se non per tutta Arda, almeno per me» si disse il Maia. «Ma... ma quindi, come dovrei aiutarti?» balbettò.

   «È semplice» rispose Melkor. «Perché l’attacco sia efficace, i Lumi devono essere abbattuti simultaneamente. Ma io non posso farlo, perché sono troppo lontani e in mezzo c’è Almaren» ammise con livore. «Dunque mi occuperò di un solo Lume, quello del Nord. Nello stesso momento, i miei servitori useranno i loro poteri combinati per abbattere quello del Sud. Il mio timore è che, anche unendo le forze, non riescano ad abbattere l’immane pilastro prima che i Valar siano su di loro» rivelò, passando un’occhiata sprezzante sulla sua corte. Evidentemente non aveva molta stima dei suoi seguaci, che ringhiarono e sibilarono come belve, ma non osarono protestare. «Ma se tu, Mairon, unisci il tuo potere ai loro, sono certo che basterà» riprese. «Insieme rovescerete Ormal e poi tornerete qui, compiendo un ampio giro attorno al Lago. Questa mia fortezza vi proteggerà dalla rappresaglia dei Valar, che peraltro saranno troppo occupati a salvare ciò che possono dei loro tesori per darvi la caccia. Qui resteremo al riparo dai tumulti, finché lancerò ai Valar il mio ultimatum: sottomettersi o restare al buio!».

   Era un piano folle, si disse Mairon, ma poteva anche funzionare. Dopotutto i Lumi erano abbastanza lontani da Almaren e non avevano sorveglianza. Però gli ripugnava distruggere un’opera così eccelsa. «Io che ho aiutato Aulë a scolpire i pilastri, ora dovrei contribuire ad abbatterli?!» protestò.

   «In futuro ci saranno altre opere, anche più gratificanti» suggerì Melkor. «E tu avrai grande autorità, poiché sarai il mio luogotenente, superiore a ogni altro mio servitore. Rifletti: vuoi rimanere in eterno il numero quindici ad Almaren, soggetto ai Valar e ad Eönwë? O non preferisci essere il numero due qui a Utumno, soggetto a me solo? E più ancora del due, perché sto pensando di scavare una seconda fortezza lungo questi monti, e potrei affidartela interamente, se mi servirai bene nei tempi a venire» lo tentò.

   Mairon dovette ammettere tra sé che l’offerta era allettante. Si trattava di un’incredibile opportunità d’ascesa... l’unica che gli si sarebbe mai presentata, in effetti. Se l’avesse rifiutata, sarebbe rimasto inchiodato al suo posto per sempre. Ma guardandosi attorno, il Maia si chiese se avrebbe tollerato dimorare in quel luogo orrendo, in mezzo ai demoni, costretto a eseguire i crudeli ordini di Melkor. Sarebbe stato lontano dai suoi cari... lontano da Ilmarë! A meno che...

   «Mi offri molto, sire di Utumno» disse il fabbro con voce raschiante. «Ma per unirmi alla tua corte dovrei abbandonare tutti i miei progetti, le mie opere... e anche le persone care. Ecco perché ti chiedo qualcos’altro, in cambio della mia lealtà. Io non voglio... non posso separarmi da Ilmarë. Perciò, se dovrò dimorare qui, chiedo che anche lei lo faccia!». Era stato davvero lui a fare una simile richiesta? Mairon aveva l’impressione che qualcun altro avesse parlato con la sua bocca. Nel momento in cui pronunciò quella pretesa immorale, ne provò vergogna; ma ormai le parole erano uscite e non potevano tornare indietro.

   Udendo questo, Melkor sogghignò sul suo trono d’ossidiana e anche i demoni della sua corte ridacchiarono o parlottarono fra loro. Solo Thuringwethil sembrava contrariata al pensiero che la sua rivale fosse condotta lì. Mairon si maledisse per aver rivelato il proprio desiderio davanti a tutti. Come poteva essere stato così avventato? Ora che conoscevano il suo punto debole, potevano usarlo contro di lui. Era proprio vero che l’amore rende ciechi... posto che fosse amore, e non bramosia...

   «Silenzio!» ordinò l’Oscuro Signore, mettendo a tacere i suoi accoliti. Poi si rivolse a Mairon, in tono affabile. «La tua richiesta è comprensibile, amico mio. Ilmarë è una creatura leggiadra... la più bella tra le Maia, oserei dire. Sareste una splendida coppia. Ma Ilmarë non è dei nostri, e ho ragione di credere che sia troppo accecata dalla lealtà per cambiare schieramento. Dunque, se e quando i Valar si piegheranno al mio ultimatum, esigerò che ella ci sia consegnata in ostaggio. E allora sarà tua per sempre. Nessun altro dei miei sudditi potrà toccarla... io stesso mi asterrò dal farlo» promise. Ma il Vala caduto non si era mai sentito in dovere di rispettare le sue promesse, e quella non faceva eccezione.

   «In cambio di tutto questo, però, esigo un’obbedienza assoluta!» aggiunse Melkor, paralizzando Mairon col suo sguardo prima che questi potesse ribattere. «E come prima prova della tua lealtà, ti ordino d’osservare i Valar, per confermare che siano distratti e ignari della mia presenza. Accertati di come stanno le cose e poi torna qui a riferire. Se tutto andrà bene, l’attacco ai Lumi si terrà durante le nozze di Tulkas e Nessa».

   «Dunque devo tornare ad Almaren in veste di spia e traditore» commentò Mairon, cominciando già a vedere il lato più spiacevole dell’accordo. Se Ilmarë avesse saputo cosa stava facendo... e prima o poi l’avrebbe scoperto... ne sarebbe stata disgustata. Di certo l’avrebbe odiato.

   «I traditori sono i Valar, che si sono ribellati alla mia autorità!» tuonò Melkor. Batté al suolo il manico di Grond, con tale vigore da far tremare la sala del trono, dalla prima all’ultima colonna. I demoni si rattrappirono e i pipistrelli lasciarono il soffitto, sciamando via. «Rammenta che fui io il primo a introdurre un tema originale nella Grande Musica, anziché seguire pedissequamente quello prefissato. Dunque se anche tu desideri forgiare il tuo destino, anziché seguire in eterno la strada tracciata da altri, devi passare dalla mia. E poco importa se, per la caduta dei Lumi, Arda subirà danni. Insieme possiamo rimodellarla secondo il nostro volere, rendendola anche meglio di prima!» proclamò. «Ebbene, sei pronto a giurarmi eterna fedeltà?!».

   «Io... ho bisogno di tempo per decidere...» mormorò Mairon, confuso e turbato. Era una risposta penosa, dopo che si era spinto tanto in là nelle trattative.

   «E allora pensaci, ma non troppo a lungo, se non vuoi che ti tratti come i miei imbelli e oziosi fratelli!» avvertì Melkor. «Ti do una luna di tempo. Se allo scadere di questo periodo tornerai da me con un rapporto dettagliato sui Valar, vorrà dire che accetti l’accordo. In tal caso presterai giuramento innanzi a me e alla mia corte, dopo di che muoveremo contro i pilastri. Ma se non ti farai vedere, allora capirò che mi hai tradito. E non credere che, per questo, i Lumi saranno al sicuro! In un modo o nell’altro li abbatterò e i Valar dovranno sottostare al mio volere. Ora va’! I Valaraukar ti scorteranno all’uscita!». Così dicendo lo congedò con un gesto imperioso.

   Approfittando dell’occasione per andarsene, Mairon fece un rapido inchino e si ritirò. I demoni infuocati lo accompagnarono come una sinistra scorta. Il fabbro non si fidava di loro, ma confidò che non avrebbero trasgredito l’ordine di portarlo fuori. In loro compagnia rifece la lunga strada già percorsa, stavolta risalendo le scalinate. Il suo sguardo era basso, perché stava riflettendo sul partito da prendere.

   «Saresti un folle a rifiutare l’offerta dell’Oscuro Signore!» disse a un tratto Gothmog. «Egli ti ha offerto un potere smisurato. Mai aveva promesso tanto a chicchessia!».

   «E oltre a promettere, egli mantiene?» chiese Mairon.

   «Noi che lo abbiamo servito fedelmente fin dai primordi, ora siamo i suoi grandi Capitani!» rivendicò Gothmog. «Se farai altrettanto, sta’ pur certo che metterà a frutto i tuoi talenti».

   «Sì, con Melkor nessuna strada è preclusa» aggiunse un altro Valaraukar, le cui fiamme ardevano più chiare. «È più astuto lui che tutti i Valar messi assieme!».

   Mairon rimase colpito dal fatto che i seguaci di Melkor avessero ancora tanta stima di lui. Anzi, più che stima era una sorta di venerazione. Pareva che tra loro ci fossero ancor meno dissidi di quanti ce n’erano tra i Maiar di Almaren... dunque poteva essere quella la strada per l’ordine da lui tanto bramato? Incerto, il fabbro condusse il resto della risalita senza più parlare. Nelle orecchie però gli giungevano il frastuono interminabile delle fucine e i lamenti delle creature torturate in Utumno. In quel luogo accadevano cose a cui non avrebbe mai voluto prender parte, poco ma sicuro.

   Giunti finalmente al grande cancello, Mairon alzò gli occhi al cielo con sollievo, sebbene questo fosse oscurato dai fumi degli Ered Engrin. Inspirò una gran boccata d’aria, che per quanto appestata era assai migliore di quella che aveva respirato nel sottosuolo. «Beh, io vado... grazie della compagnia!» disse ai demoni.

   «Ci rivedremo, Mairon» rispose Gothmog. «Spero solo che per allora ti schiererai dalla parte giusta, cioè quella vincente!» aggiunse, accennando alla fortezza dietro di sé.

   Non osando controbattere, Mairon preferì andarsene finché poteva. Spiegò le braccia e si trasformò, riprendendo l’aspetto di un cormorano. In quella guisa spiccò il volo e si allontanò con tutta la velocità delle sue ali. I Valaraukar lo osservarono allontanarsi, prima di ritirarsi negli abissi di Utumno. L’immenso cancello ferrigno calò cigolando dietro di loro, fino a serrarsi con un rombo di tuono.

 

   Molto più giù, nella sala del trono, Langon si accostò al suo signore. «Sire, ritenete saggio permettere a Mairon di andarsene libero, prima di avervi prestato giuramento? Potrebbe avvertire i Valar, che in tal caso porrebbero delle guarnigioni a proteggere i Lumi...» disse in tono servile.

   «È un rischio che devo correre» rispose duramente l’Oscuro Signore. «Del resto le nostre manipolazioni di kelvar e olvar renderanno presto noto il mio ritorno. Per quanto i Valar siano ciechi, anche loro si accorgeranno del mio potere all’opera e verranno a cercarmi. Mairon è una pedina troppo importante: devo portarlo dalla nostra, anche a rischio di svelarmi anzitempo».

   «E se non si convertisse?» insisté Langon.

   «Allora sarà schiacciato con gli altri» promise l’Oscuro Signore. La sua mano sfrigolò attorno al manico di Grond, tanto da arrossarne il metallo.

 

 

-Commento:

   La scena d’apertura mi ha permesso di descrivere più nel dettaglio uno dei due Lumi, la cui altezza smisurata lo porta al limite superiore dell’atmosfera. Le Tre Arie – Vilna, Ilwë e Vaitya – sono nominate nei Racconti Ritrovati, anche se lì si parla di un mondo piatto, mentre nella mia versione Arda è sempre stata sferica.

   Thuringwethil è un personaggio minore del Silmarillion, che appare nella storia di Beren e Lúthien. È descritta come un vampiro che fa da messaggera tra Angband (la fortezza di Morgoth) e Tol-in-Gaurhoth (l’Isola dei Lupi Mannari controllata da Sauron). Lúthien assume le sue sembianze per infiltrarsi ad Angband, scendendo fino alla sala del trono. Ho pensato che la vera Thuringwethil fosse il personaggio adatto per contattare Mairon e introdurlo presso la “corte infernale” di Melkor. Tolkien non dice espressamente che fosse allergica alla luce, né che bevesse sangue, ma l’ho trovato logico, trattandosi dei classici attributi dei vampiri. Il fatto che Mairon si trasformi in cormorano, durante i suoi voli, è un riferimento a Paradiso Perduto di Milton in cui Lucifero a un certo punto si trasforma proprio in questo volatile.

   Utumno è la prima fortezza di Melkor, localizzata sotto i Monti di Ferro, anche se la sua esatta collocazione non è mai stata chiarita (per cui non sappiamo dove si trovi rispetto alla mappa della Terza Era). Tolkien non ha mai specificato se, come Angband più tardi, abbia anche delle strutture in alzato oltre alla parte sotterranea. Qualcosa le ho dato, anche se non molto, visto che a questo punto della storia la sua ubicazione è ancora segreta. L’ho immaginata come una sorta d’Inferno dantesco, anche se gli unici abitanti per ora sono i demoni, perché i Figli d’Ilúvatar devono ancora sorgere e quindi anche Orchi e Troll sono là da venire.

   Tolkien accenna al fatto che, subito prima di distruggere i Lumi, Melkor avesse degli informatori tra i Maiar di Almaren. Ho immaginato quindi che Mairon/Sauron sia tra questi, anche se per ragioni di semplicità narrativa ho contratto i tempi. In realtà non è facile capire perché Sauron sia passato al servizio di Melkor, dato che i loro scopi non sono affatto uguali come parrebbe a prima vista. Melkor è più nichilista, volendo guastare l’opera dei Valar, mentre Sauron è in cerca dell’ordine ossessivo (anche se alla fine della Terza Era ormai è parecchio nichilista anche lui). La risposta potrebbe stare in un’ipotetica “distruzione e ricostruzione” vagheggiata da Melkor, che in realtà è interessato solo alla prima, come anche nella possibilità per Sauron di “far carriera” al suo servizio: ad Almaren è uno tra molti, a Utumno sarebbe secondo solo a Melkor. Avendo immaginato che Mairon sia ossessionato da Ilmarë, inoltre, ne ho concluso che anche questa sia una molla per il suo tradimento.

   Tolkien non ha mai specificato in che modo Melkor distrusse i titanici Lumi, che tra l’altro si suppone fossero parecchio distanti fra loro. Ho immaginato che possa distruggerne solo uno alla volta e pertanto mandi i suoi seguaci ad abbattere l’altro nello stesso momento. Ma per essere certo che ci riescano, deve aggiungere la forza di Mairon alla loro; da qui la necessità di corromperlo. In realtà alla fine di questo capitolo Mairon non ha ancora preso una decisione; ma le cose stanno per precipitare, come vedremo nel prossimo.

 

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Capitolo 4
*** La scelta di Mairon ***


-Capitolo III: La scelta di Mairon

 

   Per tutto il volo di ritorno, Mairon fu pensieroso. La proposta di Melkor era perfida, il suo piano folle; pertanto doveva informarne al più presto i Valar. Se avessero presidiato i Lumi, avrebbero impedito la catastrofe. Sì, appena tornato avrebbe fatto rapporto. Ma allora perché... perché aveva tirato in ballo Ilmarë? Perché fare a Melkor quella richiesta indegna, che lui certo gli avrebbe rinfacciato davanti a tutti, se fossero giunti allo scontro? Possibile che in quel sotterraneo semibuio e maleodorante avesse pensato, anche solo per un istante, d’accettare la proposta? Tutto sembrava così diverso, ora che era di nuovo all’aperto e alla luce. Gli veniva quasi da chiedersi se quel colloquio era avvenuto realmente. Ma guardandosi indietro, e vedendo le nubi temporalesche che indugiavano su Utumno, si disse che era tutto fin troppo vero.

   La vista del Grande Lago, con Almaren al centro, fu un balsamo per il suo spirito confuso e impaurito. Appena fu nella città dei Valar riprese forma umanoide. Guardandosi attorno, notò un gran andirivieni di Maiar. Certo, quegli sconsiderati stavano ancora preparando la cerimonia nuziale! Doveva avvertirli del pericolo che incombeva su di loro. No, anzi, doveva andare dritto filato da Manwë e Varda.

   «Ah, eccoti! Dov’eri finito?!» chiese una voce brusca alle sue spalle. Girandosi, Mairon s’imbatté nel viso poco gradito di Eönwë.

   «Ero... in giro» rispose il fabbro, accompagnandosi con un gesto vago. Non aveva voglia di confidarsi a lui per primo; temeva che l’araldo andasse da Manwë, arrogandosi il merito delle sue scoperte.

   «Come sarebbe, in giro?» si accigliò Eönwë. «Dove sei stato, di preciso?».

   «Te l’ho detto, ho esplorato le zone più lontane di Arda» rispose Mairon. «Sia tu che Olórin mi avete detto che c’è un potere malefico all’opera, quindi ho voluto sincerarmene. Effettivamente è come dite, ho visto parecchia oscurità. Ma scusa, perché me lo chiedi? Non sono forse libero di aggirarmi come preferisco?» chiese, sulla difensiva.

   «Certo che sei libero... ero solo sorpreso di vederti così conciato» spiegò l’araldo.

   «Come sarebbe... oh!» esclamò il fabbro. Si era passato una mano sulla guancia e ora che l’aveva ritirata la vide annerita. Doveva avere il viso sporco di fuliggine, dopo la sua discesa negli abissi di Utumno. Anche i capelli solitamente in ordine erano sporchi e scarmigliati, e l’abito di buona fattura era macchiato. I calzari, poi, erano da buttare. «Capisco cosa intendi... sì, nella mia indagine mi sono calato in qualche posto poco pulito» ammise. «Ma dimmi, cos’è tutta questa agitazione?» chiese, guardandosi attorno. Quelli che sulle prime gli erano parsi i soliti preparativi per la festa gli apparivano ora atteggiamenti ben più concitati. Molti seguaci di Yavanna correvano da tutte le parti con campioni di piante e funghi, o con animaletti chiusi in gabbia.

   «Stiamo trovando sempre più prove del potere malefico di cui parlavamo» spiegò Eönwë. «Yavanna stessa è appena tornata dal Sud con notizie allarmanti sulle creature. Tutti coloro che hanno trovato qualcosa fuori posto devono farle rapporto. E tu, hai visto niente che dovresti riferirci?» chiese, squadrandolo con aria severa e – così parve – ostile.

   Mairon era sul punto di vuotare il sacco, ma quell’atteggiamento di Eönwë lo irritò oltre misura, tanto che reagì col sarcasmo. «Fare rapporto a Yavanna? Dimmi, la Vista di Manwë s’è per caso appannata? E Varda sta perdendo il suo Udito? Se c’è qualcosa che non va, perché non hanno ancora stanato Melkor, come facevano all’epoca della Guerra?» incalzò.

   Eönwë si risentì per quell’atteggiamento caustico, ma stranamente divenne più calmo. «Per adesso il Nemico si nasconde. Ma i sospetti gravano sui Monti di Ferro, che sono coperti di scure nubi e agitati da eruzioni vulcaniche» disse.

   «E allora perché non siete già lì, a dar battaglia al Nemico?!» sbottò Mairon.

   «Pazienta... dobbiamo prima scoprire i suoi piani» rispose Eönwë. «Tutti noi abbiamo lavorato a lungo e duramente per abbellire Arda; non ci lasceremo trascinare facilmente in un’altra guerra che potrebbe sconvolgerla, vanificando tutto il nostro operato. Forse è proprio questo che Melkor vuole: scatenare guerre devastatrici ogni volta che le nostre fatiche giungono a compimento. Così potrebbe ritardare indefinitamente l’avvento dei Figli d’Ilúvatar, o colpirli nella loro infanzia per distruggerli prima del loro fiorire» ragionò.

   «E allora che possiamo fare?» chiese Mairon.

   «Vegliare e vigilare; la resa dei conti verrà» rispose Eönwë. «Per adesso Manwë ha decretato che andremo avanti con la festa nuziale. Non vuole rovinare questo momento di gioia per gli sposi. Quando la festa sarà conclusa, allora ci metteremo in caccia».

   «Sempre che non sia troppo tardi» mormorò il fabbro. «Ma lungi da me criticare le scelte del Re di Arda, quindi... farò come dici. Festeggerò e mi riposerò. Poi riprenderemo il discorso da dove l’abbiamo lasciato» disse. E si allontanò, senza far parola di ciò che aveva scoperto.

 

   Inquieto, Mairon tornò alla fucina sotterranea. Aulë e i Maiar non c’erano, in quel periodo di festa, e nemmeno lui aveva lavori in corso, quindi poteva meditare in solitudine. «Cosa sto aspettando? Perché non sono ancora andato da Manwë e Varda?» si chiese, passeggiando tra le fornaci spente e le incudini. Possibile che stesse davvero prendendo in considerazione l’offerta di Melkor? A quell’idea ebbe un moto di ribrezzo. No, non avrebbe mai tradito i Valar e i suoi compagni Maiar!

   D’altro canto non vedeva altro modo per avere Ilmarë. Ma poi, l’avrebbe avuta davvero schierandosi con Melkor? Magari i Valar si sarebbero rifiutati di consegnarla. E anche se l’avessero fatto, Ilmarë lo avrebbe odiato a morte. Non era certo così, che voleva averla. No, era una follia! Doveva subito fare rapporto alle Potenze, e chissà che questo non lo aiutasse a far colpo su di lei. Già, ma se restava nei ranghi e poi Ilmarë lo rifiutava ugualmente? Se alla fine avesse sposato Eönwë? Mairon sentiva che non avrebbe retto alla delusione e all’umiliazione. Doveva fare un estremo tentativo di conquistarla onestamente. Doveva dichiararsi e chiederle una risposta definitiva.

   Presa questa decisione, il fabbro si mise al lavoro con la rapidità e la precisione che l’avevano reso celebre tra gli Ainur. Riattivò la fornace vulcanica, prese dell’oro puro e lo sciolse; poi lo lavorò con tutta l’abilità di cui era capace. Tra le sue mani si delineò una delle forme più semplici, eppur più affascinanti che vi fossero: un anello. Un anello d’oro puro, che Mairon incantò affinché si adattasse perfettamente al dito d’Ilmarë. E in questo anello, il Maia infuse tutto l’amore, la dolcezza, le speranze che lo animavano al pensiero della sua dama. Fu l’amore a guidare le sue mani, l’amore a indurlo a non interrompere il lavoro nemmeno per un istante, finché non gli parve perfetto. E al culmine dell’opera, Mairon cantò con voce possente la sua suprema speranza:

 

Un Anello per trovarla, un Anello per onorarla,

un Anello per amarla e giammai abbandonarla.

 

   Ed eccolo lì, il suo capolavoro, che sfavillava sul palmo della sua mano sudata, ancora caldo per la lavorazione! Mairon lo osservò da tutte le angolazioni, per sincerarsi che fosse privo di difetti. Era pronto a fonderlo e ricominciare daccapo, se vi avesse scorto la minima imperfezione. Ma non ne vide, così lo immerse in acqua per raffreddarlo completamente e poi lo lucidò con un panno, sino a farlo sfavillare.

   Fatto questo, il Maia si dette una rassettata, perché voleva apparire al meglio. Si lavò, si ripulì i capelli, indossò la sua veste migliore. Infine lasciò la fucina e andò in cerca della sua amata, portando con sé il dono. Non trovandola presso la reggia di Manwë e Varda, in cui Ilmarë prestava servizio, chiese dove fosse. Fu Amillo, il cantore dei Valar, a rispondergli: «L’ho vista uscire poco fa. Diceva che avrebbe sistemato il pergolato di rose presso cui Tulkas e Nessa si sposeranno».

   «Grazie» disse Mairon, e si affrettò al luogo indicato. Il cuore gli batteva forte, come non accadeva da tempo, e il suo respiro era affannoso. Finalmente giunse al luogo della cerimonia e la vide: Ilmarë stava sistemando alcuni drappi di una seta celeste e impalpabile, che Varda e lei stessa avevano tessuto. «Ilmarë!» la salutò.

   «Oh, ben arrivato!» lo accolse la fanciulla. Vedendola sorridere, Mairon si sentì le gambe molli. Era così adorabile quando sorrideva, con quelle fossette ai lati della bocca e quello sfavillio negli occhi! «Se sei qui per la cerimonia, sei decisamente in anticipo! Come vedi, stiamo ancora allestendo il giardino» spiegò Ilmarë.

   «Non sono qui per quello. Io... volevo parlarti. Di una cosa molto importante» esalò Mairon.

   «Certo, dimmi tutto» lo invitò Ilmarë. Interruppe il lavoro e gli venne incontro con premura. Aveva percepito la sua tensione, il suo assoluto bisogno d’alleggerirsi il cuore da una pena. «In me troverai una confidente fidata» promise.

   «Ne sono certo» mormorò Mairon. E le s’inginocchiò davanti.

   «Ma cosa fai?! Alzati, ti prego!» lo esortò Ilmarë, confusa e imbarazzata da quel gesto.

   «Mi alzerò solo dopo averti fatto una domanda, e aver udito la tua risposta» rispose il fabbro.

   «Dimmi, allora» fece la fanciulla, vedendo che non c’era altro modo.

   «È presto detto. Ilmarë, mia dama, luce dei miei occhi, gioia del mio cuore, dimmi: vuoi sposarmi?» chiese Mairon, offrendole l’anello. Rimase in quella posa: inginocchiato, col pegno nuziale levato verso di lei.

   Ci fu un lungo silenzio... troppo lungo, per i gusti di Mairon. Ilmarë lo fissava ammutolita. Quando finalmente parlò, le sue parole non furono quelle sperate. «Oh, Mairon... è uno scherzo, vero? Ti stai prendendo gioco di me?».

   «No, mia adorata. Non sono mai stato più serio in vita mia... e speravo che anche tu prendessi la cosa con la dovuta serietà...» rispose il fabbro, presagendo il peggio.

   «Sì, ora mi avvedo che è necessario. Dunque lo farò» disse Ilmarë. Prese fiato e ricominciò. «Mairon, io ti voglio molto bene. Mi sei caro fin da quando iniziammo a esistere nel Vuoto, fin da quando cantammo al cospetto d’Ilúvatar. Ma, mio dolce amico, non mi sei caro in quel modo. Quel posto nel mio cuore è occupato da Eönwë. Credevo fosse chiaro, ma... se hai ancora dei dubbi, te lo confermo una volta per tutte. Questa è la mia scelta, che ti chiedo di rispettare. In effetti, credo che io ed Eönwë ci sposeremo a breve» rivelò.

   Seguì un lungo silenzio. Siccome Mairon non faceva motto, ed era ancora inginocchiato con l’anello in mano, Ilmarë gli richiuse le dita. Poi lo costrinse gentilmente a rialzarsi. «Saremo sempre tuoi amici, ma dovrai cercare altrove la tua compagna di vita. Ci sono molte Maiar ancora libere che ti ammirano e che di certo ricambierebbero le tue attenzioni... è a una di loro che devi consegnare quest’anello» consigliò.

   «Io non voglio darlo a una di loro» mormorò Mairon con voce roca. «Amo solo te e... non credo che riuscirei ad amare qualcun’altra».

   «Allora la tua sorte sarà invero amara» concluse Ilmarë, addolorata. «Perdonami, io non vorrei mai darti un dolore, ma la mia risposta è questa e non cambierà. Ora devo andare» disse, e fuggì da lui, lasciando gli addobbi a metà.

   Mairon rimase immobile nel giardino vuoto, con l’inutile anello in mano. Aveva tentato il tutto per tutto... e aveva fallito. La risposta d’Ilmarë era stata così decisa, così categorica che non poteva aspettarsi alcun cambiamento. La fanciulla aveva ragione, la sua sorte sarebbe stata amara. Fu allora che accadde la peggior cosa che poteva succedere. Ci fu un frullio d’ali ed Eönwë gli atterrò a fianco, come se non aspettasse altro che farsi beffe di lui.

   «Ehi, che facevi con Ilmarë? Non cercherai mica di soffiarmi la promessa sposa, vero?» chiese scherzosamente l’araldo. «Ti ricordo che, secondo le leggi d’Ilúvatar, una donna non può avere più di un marito per volta!».

   Eönwë non immaginava di aver colpito così a fondo su una piaga aperta. Furioso per la vergogna e l’umiliazione, Mairon si ritirò senza controbattere; ma negli occhi gli balenò per la prima volta un minaccioso lampo giallo. Tornò rapidamente nella sua fucina, senza nemmeno fermarsi a rispondere a quanti gli chiedevano dove andasse così aggrondato. Lì giunto, la devastò per sfogarsi. Scaraventò le incudini contro le pareti, spezzò gli attrezzi da lavoro tra le mani, gridando come un forsennato. Infine prese l’anello e lo distrusse, semplicemente sciogliendolo con il calore della sua mano, che in quel momento ardeva come il fuoco.

   «Ah, stolto che sono stato!» inveì. «Giuro che mai più forgerò anelli! Perlomeno, non anelli nuziali!» si corresse. «E ora che mi resta da fare? Rinchiudermi qui per sempre, a smangiarmi il cuore mentre Eönwë...». Non riusciva neanche a pensarci. Cos’aveva quel bellimbusto, che a lui mancava? Non era altro che uno spaccone, che si vantava del suo ruolo d’araldo di Manwë, ma in realtà aveva fatto ben poco di utile. «Non come me, che mi sono spaccato la schiena per eoni, per il bene di tutti!» si disse Mairon. «Diamine, persino l’armatura di Eönwë è opera mia!». E allora perché Ilmarë non se ne avvedeva? Come poteva farla ragionare? E soprattutto, come poteva farlo prima che sposasse il bellimbusto?

   La risposta germogliò da sé nella sua mente. Melkor poteva renderlo possibile. Melkor aveva promesso di dargli Ilmarë, in cambio della sua collaborazione. Certo, questo l’avrebbe resa ancor più ostile... ma se giocava bene le sue carte, poteva far sì che fosse l’Oscuro Signore a prendersi tutto il biasimo.

   Presa la decisione, il fabbro non perse tempo a metterla in pratica. Lasciò la sua fucina, senza curarsi di rimetterla in ordine, e appena fu in superficie riprese l’aspetto da cormorano. Abbandonò Almaren, sorvolando le acque scintillanti del Lago e poi la verdeggiante Pianura Centrale, diretto a nord. Aggirò il pilastro d’Illuin e continuò il volo, senza concedersi sosta, finché i Monti di Ferro giganteggiarono davanti a lui. Memore del precedente viaggio con Thuringwethil, sapeva dove andare. Raggiunse i cancelli di Utumno e vi si fermò davanti, riprendendo la forma umanoide. Allora vi batté sopra un gran colpo, facendoli risuonare. «Aprite! Devo parlare col vostro sire!» ordinò.

   E i raschianti cancelli si aprirono. Ne uscì Langon, sempre con quel sorriso beffardo sulle labbra. «Torni prima del previsto» lo accolse. «È forse accaduto qualcosa di grave?».

   «Sì e no» borbottò Mairon. «Sono pronto a giurare fedeltà a Melkor, in cambio di una piccola correzione al nostro accordo».

   «Bada che un patto con Melkor non si cambia in base all’umore del momento!» avvertì l’usciere. «Ma vieni, comunque. Siamo sempre pronti ad accogliere nuovi adepti!». Così dicendo si fece da parte, invitandolo a entrare. E Mairon entrò, con la decisione di chi non ha più nulla da perdere.

 

   «Ebbene, Mairon, hai deciso in fretta!» lo accolse Melkor. «Meglio così... odio perdere tempo. Poiché sei qui, deduco che riconosci la mia autorità e sei pronto a prestare giuramento».

   «Lo sono... Signore dei Destini di Arda» proclamò Mairon, gettandosi ai suoi piedi. «Ti riconosco come mio solo e unico padrone. Ti servirò fedelmente sino alla fine dei tempi, al meglio delle mie capacità. Possa io vagare in eterno nel Vuoto, se vengo meno al mio impegno!».

   «Ti ho udito, e così sia!» disse solennemente l’Oscuro Signore. Batté al suolo il manico di Grond, traendone un rimbombo cavernoso. «Accogliete il vostro nuovo fratello, il mio luogotenente!» si rivolse ai demoni. La corte infernale proruppe in una cacofonia di suoni indescrivibili, a stento riconoscibili come festeggiamenti. I Valaraukar avvamparono, lieti a modo loro per quel prezioso acquisto, che accresceva considerevolmente il potere dell’Ombra.

   «In cambio, mio signore, ti chiedo una cosa sola» disse Mairon, appena il tumulto si fu placato. Dammi Ilmarë... ma fa’ in modo che non mi odi! Falla rapire da qualcun altro dei tuoi servi, e poi consentimi d’intervenire per mitigare il suo trattamento. Poco a poco le farò capire i vantaggi della nuova condizione. Forse ci vorrà del tempo, ma alla fine avrai un’altra seguace!».

   «Un’altra seguace, dici?» rimuginò Melkor, che era sempre in cerca di spiriti dell’aria, altrimenti difficili da ghermire. «Sì... soddisferò volentieri la tua richiesta. Avrete entrambi un posto d’onore tra le mie schiere. Tutti vi rispetteranno, non è così?!» si rivolse alla corte infernale, e i demoni annuirono. In cuor suo, l’Oscuro Signore era compiaciuto che Mairon avesse già cominciato a ordire inganni, perché questo indicava che aveva davvero voltato le spalle alla Luce.

   «Dunque è il momento d’affinare il piano» riprese Melkor. «Come dicevo, io da solo abbatterò il Lume del Nord. E i miei servitori più forti, combinando i loro poteri, faranno lo stesso con quello del Sud. Mairon comanderà il gruppo... mi aspetto grandi cose da te» disse, posandogli sopra il suo terribile sguardo. Sembrava che l’Oscuro Signore non avesse palpebre, o se le aveva, non le sbatteva mai.

   «Ai tuoi ordini, mio sovrano» annuì l’interessato.

   «I Valaraukar ti accompagneranno, per attizzare le fiamme una volta che la luminaria sarà rovesciata. Poi ci saranno altri, che ti aiuteranno col pilastro: Langon, Fangli, Ulbandi...» elencò Melkor. Appena un demone era nominato, si faceva avanti e s’inginocchiava davanti al suo sire. «Thuringwethil farà da messaggera, avvisandomi che la vostra schiera ha avuto successo. Ossë infine attenderà nel Grande Lago, e non appena i pilastri saranno rovesciati renderà ancora più violente le ondate che sommergeranno Almaren. I Valar saranno sorpresi nel bel mezzo della loro allegria, com’è giusto che sia!».

   «Un piano astuto, mio signore» riconobbe Mairon, per quanto sotto sotto fosse atterrito al pensiero di ciò che stava per accadere. «Ma per quanto riguarda Ilmarë...».

   «Tranquillo, non ho scordato la tua colombella!» lo canzonò Melkor. «Di lei si occuperanno altri due nuovi acquisti. Venite, cacciatori!».

   Al richiamo dell’Oscuro Signore, due Maiar che fino ad allora erano rimasti acquattati nelle ombre si fecero avanti, finché le fiamme dei bracieri e dei Valaraukar li illuminarono. Mairon riconobbe Makar e Meássë, due esseri barbarici che nella Prima Guerra avevano parteggiato ora per Melkor e ora per i Valar, godendo della battaglia in sé più che del suo esito. Siccome al momento dell’ultimo scontro erano coi Valar, era stato loro concesso di restare in Arda, anche se non erano molto graditi agli abitanti di Almaren. Questo non era un problema per loro, dato che non amavano gli agi dell’isola: preferivano scorrazzare indisturbati in terre lontane, cacciando i sauri più feroci. Rossi di capelli, indossavano rozzi abiti di cuoio con inserti metallici. Makar aveva una spada falciforme, mentre sua sorella Meássë impugnava una lancia; entrambi avevano poi lunghi pugnali.

   «Vi presenterete ad Almaren come ospiti del matrimonio, ricordando che avete diritto a essere accolti» li istruì Melkor. «Ma non appena i pilastri rovineranno, approfitterete della confusione per impadronirvi d’Ilmarë».

   «Ah, non c’è niente di meglio di un bel rapimento per ravvivare la giornata!» approvò Makar.

   «Badate però a non torcerle un capello... lei spetta a Mairon» ammonì Melkor.

   «Certo, sire... mi assicurerò che alla servetta non sia fatto alcun torto» promise Meássë, lanciando un’occhiataccia al fratello. Era uno strano sguardo, in cui Mairon lesse una sfumatura di gelosia. Decise di non approfondire la natura del loro rapporto.

   «Una volta presa, la porterete qui, dove siamo ben pronti a riceverla!» sogghignò Melkor. «E quando i Valar s’inchineranno a me, anche voi avrete la vostra parte. Vi spetterà quello che oggi è il dominio di Oromë».

   «A quel giorno, maestà» augurò Makar.

   «Che venga presto» completò Meássë.

   «Oh, questo è certo» assicurò l’Oscuro Signore. «Le nozze di Tulkas e Nessa sono imminenti. Tu, Mairon, tornerai ad Almaren per non destare sospetti. Subito dopo la cerimonia ti recherai presso la base di Ormal, dove incontrerai il resto della schiera. Rovescerete il Lume del Sud mentre io abbatterò quello del Nord. Per Almaren, stretta tra i due cataclismi, non ci sarà scampo. Il vecchio mondo sarà cancellato dai crolli rovinosi, dagli incendi e dall’inondazione. Un nuovo mondo sorgerà dalle ceneri, e noi regneremo!».

   A quelle parole i demoni andarono in visibilio. I Valaraukar fecero schioccare le fruste e anche Makar soffiò in un corno, traendone un suono cavernoso. Mairon osservò quella bolgia, stentando a credere di farne parte... ma le cose erano andate così. Avrebbe forgiato il suo destino, anziché seguire supinamente la strada tracciata da altri, e in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto ciò che voleva. «E se Eönwë oserà mettersi ancora sulla mia strada, peggio per lui!» pensò, mentre i suoi occhi ardevano di una luce sulfurea.

 

 

-Commento:

   Tornato ad Almaren, Mairon è dilaniato tra la fedeltà ai Valar e i suoi desideri personali. L’attendismo dei Valar, peraltro, gli dà l’idea che abbiano meno mordente di Melkor, il quale invece decide e agisce in fretta. Ma il fabbro sarebbe ancora disposto a restare al suo posto, se solo Ilmarë lo ricambiasse.

   Veniamo così alla scena dell’anello nuziale, che ovviamente ho modellato come contraltare alla celeberrima scena in cui Sauron forgia l’Anello del Potere. Se in quell’Anello, molto successivo, Sauron aveva riversato la sua malizia e la sua volontà di dominio, in quest’anello di gioventù egli riversa i suoi buoni sentimenti... che vanno in fumo non appena l’anello è respinto da Ilmarë e distrutto dal suo artefice. In realtà non bisogna pensare che stavolta ci sia stato un vero e proprio travaso di poteri, e che Mairon abbia effettivamente “perso” qualcosa; è più una delusione psicologica. Delusione, però, che lo rende estremamente vulnerabile all’offerta di Melkor. E così il nostro anti-eroe torna fatalmente a Utumno, per giurare fedeltà all’Oscuro Signore, l’unico che sembra in grado di accontentarlo.

   Ho approfittato di quest’ultima scena per inserire altri due personaggi dei Racconti Ritrovati che sono stati espunti dalle versioni successive. Parlo di Makar e Meássë, due barbarici “dèi della guerra” che sembrano costituire una strana “fazione di Melkor” tra i Valar. Nei Racconti erano in linea di massima dalla parte del bene, anche se a conti fatti non combinavano molto. Nella mia versione sono “degradati” a Maiar, sebbene di alto rango, e tengono un po’ i piedi in due staffe, coerentemente con la loro passione per la guerra in quanto tale. Le pedine sono ormai in posizione; tutto è pronto per il cataclisma che sfigurerà per sempre il volto di Arda.

 

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Capitolo 5
*** La caduta dei Lumi ***


-Capitolo IV: La caduta dei Lumi

 

   «Tulkas Astaldo, possente difensore di Arda, desideri unirti a Nessa nel sacro vincolo del matrimonio, per amarla e onorarla sino alla fine del mondo?» chiese Manwë, che officiava la cerimonia.

   «Lo voglio!» rispose prontamente Tulkas, con la sua squillante voce giovanile.

   «E tu Nessa, signora dei boschi e della selvaggina, desideri unirti a Tulkas nel sacro vincolo del matrimonio, per amarlo e onorarlo sino alla fine del mondo?» tornò a chiedere Manwë.

   «Lo voglio!» confermò Nessa, con la stessa fermezza.

   «Allora, nel nome del Padre Eru, io dichiaro le vostre vite intrecciate» disse solennemente Manwë, alzando la mano destra in gesto benedicente. «Puoi baciare la sposa» concluse sorridendo all’indirizzo di Tulkas.

   Il Vala non se lo fece ripetere. Lui e Nessa si baciarono sotto una pioggia di petali fatti cadere da Vána, che era anche la testimone della sposa. Tutto il popolo di Almaren applaudì lieto, tranne Námo, signore della Morte e del Destino, che rimase impassibile come al solito. Gli spiriti dell’aria svolazzarono sopra di loro, levando un canto celestiale. Quelli dell’acqua emersero dal Lago poco lontano, aggiungendo le loro voci, e anche quelli della terra si unirono al coro. Mai si era visto tanto gaudio, dacché gli Ainur si erano radunati ad Almaren. Eppure, anche in quel momento, vi erano alcuni che per scelta o necessità non si abbandonavano alla gioia.

   Dal suo angolo lontano in cui aveva assistito alla cerimonia, Mairon increspò le labbra in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso, ma somigliò più a una smorfia. Perché lui e Ilmarë non potevano essere felici e spensierati come Tulkas e Nessa? Perché Eönwë aveva voluto mettersi fra loro? Ma ben presto l’araldo avrebbe avuto la punizione che meritava, si disse il fabbro. Rimase al suo posto per il tempo strettamente necessario, simulando la contentezza. Ma non appena la folla cominciò a defluire verso le grandi tavole all’aperto in cui era stato imbandito il banchetto nuziale, cercò di defilarsi.

   «Ehi, amico, dove vai? La tavola è da quella parte!» lo redarguì uno degli ospiti.

   Mairon si girò di scatto, trovandosi davanti il vecchio Iarwain. Era un tipo strano, dissimile da ogni altro Maia. Si era incarnato nelle sembianze di un uomo basso e tarchiato, con una lunga barba castana e occhi azzurro cielo che spiccavano nel viso rubizzo. Anche in quel giorno di festa vestiva in modo rozzo, con degli enormi stivaloni, abiti color del bosco e una casacca azzurra. Aveva anche un cappello su cui era apposta una penna. «So bene dov’è il banchetto, ma mi sovviene un impegno urgente» disse Mairon, cercando di levarselo di torno.

   «Più urgente che onorare gli sposi con risate, canzoni e buona compagnia?» insisté il seccatore.

   «Temo proprio di sì» rispose Mairon. «Ma tu va’ pure... divertiti anche per me» lo invitò.

   «Lo farò» promise Iarwain, lanciandogli una strana occhiata penetrante. «Mi divertirò al posto tuo, oggi come nei giorni a venire». Prima che Mairon potesse replicare, saltellò verso la tavola, canticchiando fra sé un ritornello insensato, pieno di suoni onomatopeici.

   Mairon scosse la testa. Aveva rinunciato da tempo a capire certi Maiar... posto che quello svitato fosse davvero un Maia, perché non sembrava appartenere alla schiera di alcun Vala. Se ne stava per conto suo, apparendo solo ogni tanto per ammorbare gli ascoltatori con le sue filastrocche e le sue battute di dubbio gusto. «Almeno per stavolta me lo risparmierò» si disse Mairon, e lasciò la congrega.

   La sua mossa non sfuggì a Eönwë, che lo teneva d’occhio da un po’ di tempo. «Guarda, guarda... il nostro Mairon si sottrae ai festeggiamenti» commentò con Ilmarë. «Forse dovrei seguirlo e chiedergliene ragione».

   «Non farlo!» lo trattenne la fanciulla. «Sono io, la ragione. Lui mi ama, qualche giorno fa me l’ha detto in modo esplicito. Io gli ho spiegato che non posso contraccambiare, e così facendo l’ho ferito. Temo che vedere la felicità degli sposi sia come mettere sale nella piaga, per lui».

   «Uhm, capisco» borbottò l’araldo, aggrottando la fronte. «Ma non assumerti la colpa del suo dolore. In casi come questi, la colpa non è di nessuno. O forse è mia. Negli ultimi tempi ci sono andato pesante con lui... avrei dovuto essere più diplomatico. Mairon è un tipo suscettibile; prendendolo in giro l’ho solo esacerbato».

   «Gli passerà» disse Ilmarë, più come augurio che come certezza. «Tra un po’ lo vedremo di nuovo sprofondato in chissà quale progetto. Il lavoro, se lo si ama, è la miglior medicina; e lui ne ha bisogno».

   In quella si fecero avanti Makar e Meássë. Nemmeno in quel giorno festoso avevano rinunciato alle loro vesti barbariche, anche se avevano dovuto deporre le armi quando avevano messo piede su Almaren. «Salute a voi!» disse Makar.

   «Oh, chi vedo! Ne è passato di tempo, dalla vostra ultima visita» commentò Eönwë. «Temevo che non sareste venuti nemmeno per il matrimonio».

   «Sai che le mollezze di quest’isola non fanno per noi... ma non potevamo darla buca al buon vecchio Tulkas, in questo giorno così importante per lui» rispose Meássë.

   «Siete entrambi i benvenuti. Venite, avrete un posto d’onore alla tavola di Tulkas» garantì Ilmarë, e li accompagnò verso la mensa imbandita.

   Eönwë stava per seguirli, ma fu trattenuto da Oromë. Il grande cavaliere, che in quel giorno era testimone dello sposo, aveva l’aria corrucciata. «Aspetta un attimo» disse.

   «Sì, mio signore?» chiese Eönwë.

   «Tutti noi Valar, chi più chi meno, avvertiamo un pericolo incombente. Abbiamo cercato di non farlo pesare per non guastare la festa, ma... bisogna tenere gli occhi aperti. In particolare non mi fido di Makar e Meássë. Troppo a lungo hanno scorrazzato negli angoli più selvaggi del mondo, abituandosi alla caccia e alla rapina. Li terrò d’occhio, e vorrei che tu facessi altrettanto».

   «Certamente, Signore delle Foreste» promise Eönwë. Stava per confidare che anche l’atteggiamento di Mairon non gli piaceva, ma non volle sparlare di quello che, fino a poco tempo prima, era stato suo amico. Si disse che Mairon era solo depresso e che ben presto si sarebbe consolato con qualche nuovo progetto, come diceva Ilmarë. Poi seguì gli altri Immortali al banchetto, sedendo in modo da avere sempre in vista Makar e Meássë.

 

   Giunto sulla spiaggia, Mairon si preparò a partire per la sua tremenda missione. Per un attimo esitò e si volse indietro, richiamato dalle musiche e dalle risate della festa. Poteva ancora fermarsi... poteva correre dai Valar e confessare tutto. Forse non era troppo tardi per salvare i Lumi. Già, ma se i Valar non gli avessero creduto? Se gli avessero rimproverato di averli avvertiti solo all’ultimo momento? Se lo avessero messo in ceppi per il suo tradimento? Anche senza giungere a questi estremi, restava il fatto che tornare indietro significava perdere Ilmarë. Quindi poteva solo andare avanti. Rassegnato, Mairon si volse verso il lago. E vide emergere Ossë, che s’inerpicò su uno scoglio.

   «É il momento» disse solenne il Signore delle Tempeste.

   «Direi di sì» convenne Mairon.

   «Non ti sarai pentito?».

   «Io... no, certo che no!» si difese il fabbro, temendo che l’altro facesse la spia presso Melkor. «Ma resta il fatto che quest’atto avrà terribili conseguenze su Arda. Davvero terribili!». Non osando dire altro, si mutò in cormorano e spiccò il volo. Si diresse a Sud, dove brillava Ormal, scomparendo in breve alla vista.

   Ossë rimase per un poco dov’era, rimuginando su quelle parole. Anche lui sentiva crescere la tensione, con l’avvicinarsi del cataclisma. E nemmeno la promessa di Melkor poteva levargli di mente il timore d’aver esagerato. Davvero sarebbe stato capace di sommergere quella splendida isola con flutti tempestosi? E per cosa, poi... per ingrandire il suo dominio? Ma quando mai Arda avrebbe rivisto tanta bellezza, se il potere andava a Melkor?

   «Ti stavo cercando» disse la sua sposa Uinen, emergendo dalla spuma delle onde in tutto il suo splendore. Indossava una sottile veste bianca, che essendo bagnata aderiva alle forme del corpo. I capelli argentei erano adorni di perle e coralli. Gli venne incontro camminando sull’acqua, con passo sicuro come se fosse sulla terraferma, finché gli fu accanto. «Sei stato taciturno negli ultimi tempi, tanto da farmi credere che tu mi stia evitando di proposito» disse la Signora delle Bonacce. «E ora ti sottrai persino ai festeggiamenti! Insomma, che ti succede? A me puoi dire tutto, sono la tua sposa» gli ricordò.

   «Sì, sei la mia sposa» convenne Ossë. «E io vorrei offrirti di più che questo misero stagno. Il mio cuore anela al Mare sconfinato!».

   «Un giorno ci torneremo» promise Uinen.

   «Proprio di questo vorrei essere sicuro» borbottò Ossë, evitando il suo sguardo. «Vedi, mia diletta, credo che stia per avvenire un grande... cambiamento nel mondo. Sapendo questo, ho preso accordi per far sì che a noi due spetti il meglio».

   «Tu hai preso accordi... anche per conto mio?!» si allarmò Uinen. «Male facesti a parlare in mio nome, dovevi prima informarmi! Ma ora dimmi, e sii sincero: con chi ti sei accordato?» chiese ansiosamente.

   «Lo saprai tra poco...».

   «No, io voglio saperlo adesso! O il nostro antico legame sarà scisso per sempre!» minacciò Uinen, in un raro scatto di collera. «Rammenta che fui io a impetrare il perdono di Ulmo nei tuoi confronti. Infatti il bando del Signore dell’Oceano non ricade su di me. Potrei tornare negli abissi anche ora... se resto qui nel Lago è solo per starti accanto! Ma in cambio esigo sincerità da parte tua. La esigo! Perciò rispondi: con chi hai preso accordi?!». Restò a fissare il marito, in attesa della risposta.

 

   Uscito per la prima volta dopo tanto tempo da Utumno, Melkor si accostò al Lume del Nord, il più vicino alla sua roccaforte. Alzò lo sguardo e mirò la luce bianco-azzurra d’Illuin, bramandola e detestandola al tempo stesso. Ah, se solo avesse potuto prenderla con sé, in modo da esserne l’unico depositario! Ma poiché ciò non era possibile, l’avrebbe estinta per sempre. Sì, questo avrebbe fatto; e Arda sarebbe piombata nelle tenebre.

   «La luce è transitoria... il buio è eterno!» proclamò l’Oscuro Signore, levando il suo poderoso martello. Chiamati a raccolta tutti i suoi poteri, dette un tremendo colpo contro il basamento roccioso del pilastro d’Illuin. Malgrado la sua forza divina, sapeva bene che né quel colpo, né cento come quello sarebbero bastati ad abbatterlo. Ma i suoi attacchi erano più che colpi di martello... erano il modo per incanalare la sua volontà. E il suo volere si spargeva nel pilastro, come nel suolo sottostante, facendoli tremare. Ad ogni colpo, una scossa di terremoto squassava tutta la regione. Gli alberi tremarono mentre uccelli e rettili alati abbandonavano i loro rami, mettendosi in salvo. La selvaggina fuggì nel sottobosco. Ad ogni colpo, grandi crepe si ramificavano nel pilastro roccioso. La potenza dei Valar lo teneva in piedi, e la potenza di un Vala lo avrebbe abbattuto.

   L’Oscuro Signore non dubitava di farcela. La sua sola ansia riguardava i suoi accoliti, che in quel momento dovevano occuparsi del Lume meridionale. Avrebbero avuto la forza necessaria ad abbatterlo? Tutto dipendeva dal fatto che Mairon partecipasse o meno. Che ironia... Melkor non si fidava mai di nessuno, ma ora doveva confidare almeno in Mairon. Doveva aver fede nel suo egoismo, nella sua brama d’avere Ilmarë a ogni costo. «Sì, questa è una fiducia che posso nutrire» si disse Melkor, continuando a martellare Illuin con tutte le sue forze. Doveva finire prima che i Valar, allarmati, gli fossero addosso.

 

   Ormal, il Lume del Sud, brillava di calda luce dorata in un paesaggio non meno rigoglioso dell’altro emisfero. Il suo pilastro era scolpito in foggia diversa dall’altro, perché ogni opera dei Valar era unica. Giunto nei pressi della base, Mairon sorvolò il territorio, in cerca dei suoi aiutanti. Aguzzando la sua Vista, li scorse: erano piccole macchie scure contro il verde intenso dell’erba. I Valaraukar l’avevano bruciacchiata, anche se per il momento si astenevano dal provocare un vero e proprio incendio. Scorgendolo a sua volta, Gothmog levò la sua ascia fiammeggiante e lanciò un richiamo.

   Mairon calò a grandi cerchi, fino ad atterrare tra loro, e una volta lì riassunse prontamente forma umanoide. «Ah, quanto t’invidio!» mugugnò Langon. «Vorrei poter cambiare forma con la facilità con cui lo fai tu!».

   «Non ci riesci più?» si stupì Mairon. Anche Thuringwethil gli aveva accennato a questa difficoltà, ma ora il fabbro si rese conto che quasi tutti i demoni avevano lo stesso problema. Erano intrappolati nelle loro forme mostruose e non riuscivano più a cambiarle. Com’era potuto accedere? Doveva esserci una ragione profonda che riguardava il rapporto tra fëa e hröa, anima e corpo. Forse dipendeva dal fatto che, avendo chiuso il proprio cuore a Eru, non potevano più attingere al potere rigenerante della Fiamma Imperitura. Erano condannati ad andare avanti con la forza che avevano, che poteva solo diminuire col trascorrere delle Ere, finché un giorno lontano si sarebbe prosciugata del tutto. Mairon si chiese con un tremito se gli sarebbe accaduto lo stesso. Si promise di stare molto attento: avrebbe risparmiato le forze, anziché sperperarle come facevano Melkor e i suoi demoni. In quella avvertì un boato lontano e sentì la terra tremargli sotto i piedi.

   «Ebbene, conti di metterti all’opera?» chiese Fangli, uno dei pochi demoni ad aver conservato un bell’aspetto e il potere di mutarlo a piacimento. «Non odi i rimbombi di Grond? Questo è l’Oscuro Signore all’opera con Illuin. È il segnale che anche noi dobbiamo darci da fare!».

   Mairon alzò la testa fin quasi a rovesciarla all’indietro, per osservare la sommità del Lume. Sentì una fitta di rimpianto al pensiero di dover distruggere quel capolavoro che lui stesso aveva contribuito a foggiare. Ma si era spinto troppo avanti, non poteva fermarsi ora. «Ebbene, facciamolo!» disse. Si chinò e pose le mani a terra, percependo tutti gli strati del suolo, dall’humus superficiale fino alla dura roccia e ancora più giù, al magma incandescente degli abissi. La crosta di Arda non era tutta d’un pezzo: si era fratturata all’epoca della Prima Guerra. I Valar stessi avevano successivamente smosso le placche, per radunare tutte le terre in un unico continente. In seguito avevano ridotto al minimo l’attività tettonica, per permettere alla Terra di fiorire; ma ora Mairon avrebbe suscitato un nuovo terremoto. «Aiutatemi, su!» disse, non volendo essere l’unico a spendere le sue forze.

   Poiché quelli erano gli ordini di Melkor, i demoni posarono a loro volta le mani o le zampe a terra e incanalarono la loro volontà. Molti di loro mormorarono lunghi incantesimi, in una lingua che ormai si era parecchio discostata dal Valarin: il Linguaggio Nero. Poco alla volta le loro voci si fusero in una sola nenia, lenta e ripetitiva. Mairon resistette un poco, ma infine anche lui si accodò al sortilegio. Il loro potere combinato calò nelle viscere della terra, sommuovendole. Un sordo brontolio salì dal suolo, che tremò sempre più forte. Alcuni macigni caddero giù dalle pendici del pilastro, piombando tutt’intorno alla congrega. Uno addirittura schiacciò un demone minore; ma neanche allora gli altri si fermarono. Continuarono a tessere il maleficio, mentre la terra tremava e la sommità di Ormal oscillava sempre più, facendo baluginare la lanterna.

 

   Nel bel mezzo della loro allegria, gli Immortali videro Uinen piombare tra loro. «Tradimento!» annunciò la Maia. «Non state lì a festeggiare, quando il Grande Nemico è tornato all’opera! Melkor è in Arda, e trama la nostra rovina!».

   «Melkor?!» esclamò Tulkas, alzandosi così in fretta da rovesciare la tavola imbandita che aveva davanti. «Dove si trova quel rinnegato? Dimmelo, così potrò conciarlo come merita!».

   «Lui è...» cominciò Uinen, ma in quella si udì un lontano boato, che fece tremare il suolo e increspò le acque del Lago.

   «È presso Illuin» disse Varda, che aveva chiuso gli occhi per concentrarsi sul suono. «Sta colpendo il pilastro... lo vuole abbattere!».

   «Presto, allora, dobbiamo fermarlo! Alle armi, popolo immortale!» chiamò Manwë. La sua voce risuonò per tutta Almaren e anche oltre, sulla distesa del Lago. «I più veloci raggiungano Melkor e cerchino di trattenerlo fino all’arrivo degli altri!».

   «Non basterà» avvertì Varda, che aveva sempre gli occhi chiusi e percepiva quanto stava accadendo a distanza. «C’è un secondo attacco in corso, contro Ormal. Sono i seguaci di Melkor... sono numerosi e colmi di perfidia. Odo le loro voci... odo...». D’un tratto i suoi occhi si spalancarono, colmi di dolore e incredulità.

   «Cosa, mia regina? Chi c’è con loro?» la pressò Manwë, mentre il suolo tremava sempre più forte.

   «Mairon» disse Varda con amarezza. «S’è schierato col nostro antico Avversario, dandogli l’opportunità di abbattere ambo i Lumi nello stesso momento».

   «No! Non Mairon... lui non farebbe mai una cosa del genere!» gridò Ilmarë, angosciata. «Mia signora, dev’esserci un errore... lui non potrebbe...».

   «Sono certa di ciò che dico» disse la Signora delle Stelle. «Qualunque cosa ci fosse nell’animo di Mairon, Melkor l’ha pervertito, ponendolo al suo servizio. E ora temo per te, mia fedele ancella. L’Oscuro Signore deve avergli promesso qualcosa in cambio di un tale tradimento. Tu che lo conoscevi meglio di tanti altri, dimmi... cos’è che Mairon desidera più di tutto al mondo?».

   A quelle parole, Ilmarë rimase congelata dall’orrore. Si coprì la bocca con le mani, in un gesto più eloquente di una risposta. Al suo fianco, Eönwë si maledì per aver sottovalutato i segnali di Mairon.

   «Ti ringrazio dell’avvertimento, anche se tardivo. Ma tu come hai saputo dell’attacco?» chiese intanto Manwë a Uinen.

   La Signora delle Bonacce tentennò, non volendo compromettere il marito. A sollevarla dall’imbarazzo giunse Ossë in persona. «Gliene ho parlato io. Melkor mi aveva chiesto di collaborare all’attacco, ma... non me la sento» confessò.

   «E che aspettavi a dircelo, eh?! Ora potrebbe essere troppo tardi!» ringhiò Tulkas. Lo agguantò per il collo, sollevandolo senza sforzo.

   «Urgh! Aspetta... so delle cose che potrebbero servirvi...» rantolò il Signore delle Tempeste.

   «Allora parla, ma fa’ in fretta!» intimò il Vala lottatore.

   «Melkor ha cercato nuovi seguaci... ha fatto promesse anche a Makar e Meássë...» rivelò Ossë.

   Era da quando Varda aveva percepito il tradimento di Mairon, indovinandone anche il prezzo, che i gemelli cacciatori stavano cercando di defilarsi dalla congrega degli Immortali. Non avrebbero mai potuto rapire Ilmarë, ora che tutti erano sul chi vive. Avevano quasi lasciato la radura quando si trovarono il passo sbarrato da Oromë ed Eönwë. «Altolà, voi non andate da nessuna parte!» ammonì il Vala cacciatore.

   Makar e Meássë si scambiarono una breve occhiata d’intesa, poi scattarono in avanti. Ci fu una breve colluttazione, al termine della quale si trovarono a terra, immobilizzati dagli avversari. «Temevo che in voi albergasse il tradimento» disse Oromë. «Qual era la vostra missione, eh? Rispondete!» intimò, serrando le braccia di Makar dietro la schiena con tale forza che quasi gliele stroncò.

   «Dovevamo... rapire la servetta!» confessò Makar, accennando a Ilmarë.

   «Per Melkor?!» chiese Eönwë, strattonando allo stesso modo la sua prigioniera. Ma in cuor suo aveva già intuito che non era così.

   «No, per Mairon. É ossessionato da lei, vi ha traditi solo perché in cambio sperava di averla!» rivelò Meássë.

   «E voi lo avreste reso possibile!» tuonò Oromë, spaventoso nella sua collera.

   «Che ci volete fare? È la nostra natura... siamo fatti per la battaglia e il saccheggio!» si difese Makar. «Qualcuno rimprovera ad Aulë di forgiare, o a Yavanna di curare le piante? E allora perché noi non possiamo seguire la nostra vocazione?».

   «Se c’è battaglia tra noi e Melkor, voi dovete scegliere una volta per tutte da che parte stare!» decretò Manwë. Al suo cenno, Oromë ed Eönwë lasciarono andare i prigionieri. Anche Tulkas mollò Ossë, più a malincuore.

   «D’ora in poi esigo la vostra completa lealtà, o vi tratteremo come i demoni di Melkor!» intimò il Signore dell’Aria. Uno dopo l’altro, i tre riottosi promisero. «Bene... comincerete aiutandoci contro questa minaccia» disse Manwë.

   «Sì, ma affrettiamoci!» pregò Aulë, sentendo i rimbombi sempre più forti. «I miei poveri pilastri non reggeranno ancora lungo!».

   «Temo che ormai siano condannati» disse però Varda. «Siamo stati incauti a farli così lontani, così elevati... e a lasciarli così indifesi. Che ci serva di lezione!».

   «Se mi affretto, forse...» disse Eönwë, in procinto di spiccare il volo, ma la Signora delle Stelle lo trattenne con un gesto.

   «Da solo non puoi fermare l’attacco» disse Varda tristemente. «Gli Anni dei Lumi sono finiti e la Grande Oscurità incombe. Non resta che salvare il salvabile, in previsione del giorno lontano in cui il mondo avrà di nuovo luce».

 

   Fu allora che Illuin cedette di schianto; le vibrazioni si propagarono in tutta l’ossatura del mondo, favorendo il crollo anche di Ormal. La caduta dei Lumi fu un cataclisma che segnò la rovina del mondo antico. Gli immani pilastri si ruppero alla base, ma nell’abbattersi a terra andarono completamente in pezzi. Dalle lanterne frantumate colò la luce liquida, che appiccò il fuoco alle foreste primordiali. Gran parte degli animali trovò la morte negli incendi o nella lunga oscurità che fece seguito, tanto che i grandi rettili si estinsero. Con tutto questo, la simmetria delle terre emerse fu deturpata al punto che mai più i Valar furono in grado di ripristinare i loro antichi progetti.

   Illuin crollò verso oriente, scavando un immenso cratere oblungo. Per ordine di Manwë, Ulmo e Ossë vi riversarono l’acqua del Grande Lago, per spegnere gli incendi che altrimenti avrebbero consumato le foreste. Le acque dolci del Lago ribollirono a contatto col fuoco, creando un’immane colonna di vapore asfissiante. Ci vollero molte settimane per colmare il cratere, ma infine l’operazione fu portata a termine. Quando i venti di Manwë dispersero le fitte brume, risultò evidente che gli incendi si erano estinti e quella parte di boschi che non erano stati sommersi si erano salvati. Nell’emisfero settentrionale si era così formato un vasto mare interno, che fu chiamato Helcar. Le sue coste orientali giungevano fin quasi a ridosso degli Orocarni, i Monti Rossi. Molti torrenti scendevano dalle montagne per riversarsi nel nuovo bacino o nelle piccole lagune che lo bordavano. Il prezzo da pagare fu che il Grande Lago si era del tutto svuotato, lasciando Almaren come una piccola oasi in mezzo a un deserto.

   Diversamente andarono le cose al Sud, dove non ci fu niente che potesse arrestare gli incendi conseguiti al crollo di Ormal. Il pilastro crollò verso sud-est, scavando anche in questo caso un vasto cratere. La luce liquida si versò come lava dalla lanterna infranta, incendiando le foreste. Le fiamme, ulteriormente attizzate dai Valaraukar, arsero incontrollate per mesi. Il danno fu così grave che gli splendidi boschi non ricrebbero mai più: al loro posto si formò il Deserto di Harad. Per molto tempo quella parte del mondo rimase così, ma col passare delle ere il cratere di Ormal entrò in comunicazione col Mare Orientale, inondandosi: era nata la Baia di Ormal. Ma anche se nelle ere successive sorsero molte poderose catene di montagne, come i Pelóri e i Monti Brumosi, nessuna vetta si avvicinò mai più alle proporzioni degli antichi pilastri, che sopravvivevano solo nei canti e nella memoria degli Immortali.

 

   Di tutto questo, gli Ainur divennero consapevoli solo gradualmente, man mano che gli effetti del cataclisma si rivelavano. Ma nell’immediato non ci furono altro che confusione e terrore. La terra sussultava e si spaccava per le vibrazioni, al punto che tutti i palazzi dei Valar e le dimore dei Maiar crollarono, lasciando solo macerie. Anche le grandi sale sotterranee di Aulë, Námo e Nienna rovinarono, lasciando un suolo sconvolto e pieno di crateri. Il cielo era oscurato dalle polveri dei pilastri frantumati, dalle ceneri degli incendi e dai vapori delle acque ribollenti. Ma sul travaglio di terre e mari si levò la voce possente di Manwë, che chiamava a raccolta le sue schiere. Gli Immortali mossero contro Melkor, sperando almeno di catturare il responsabile della catastrofe.

   Melkor però si aspettava una reazione del genere. Non appena vide crollare Illuin corse subito a Nord, per rifugiarsi negli abissi di Utumno, dove si riteneva al sicuro. Mentre correva si guardava indietro, ridendo nel vedere il risultato delle sue malefatte. Ma quando si accorse che i Valar lo inseguivano, con Oromë e Tulkas in testa, smise di ridere. Accelerò ancora la sua fuga, raggiungendo i Monti di Ferro e i cancelli di Utumno che lo attendevano spalancati. Non appena li varcò, questi si richiusero alle sue spalle; appena in tempo. Tulkas batté il pugno sulla formidabile cortina d’acciaio, facendola risuonare sinistramente, ma senza riuscire ad abbatterla.

   «Dobbiamo superare l’ostacolo, aiutami!» chiese il Vala lottatore al suo collega cavaliere.

   «No, amico mio... non siamo equipaggiati per sostenere un assedio» disse tristemente Oromë. «Ascolta il richiamo di Manwë: la nostra forza è richiesta altrove, per salvare dalla rovina ciò che ancora può essere salvato».

   «E quindi Melkor resterà impunito?!» chiese Tulkas, incredulo.

   «Solo per il momento. Il suo tempo verrà!» promise Oromë, lanciando un’occhiata di sfida al cancello. Dall’altra parte venne però la risata di Melkor, che si considerava vincitore. I Monti di Ferro avvamparono, oscurando ancor più il cielo. Ai due Valar non restò che tornare indietro, scornati. Sopra le loro teste, Thuringwethil volteggiò nel cielo rabbuiato, recando al suo padrone la conferma che anche il Lume del Sud era stato abbattuto e gli incendi dilagavano incontrollati.

 

   «Ben fatto, Mairon! Sapevo di poter contare su di te!» si congratulò Melkor, quando il Maia si presentò al suo cospetto. Come da ordini, lui e i demoni avevano attizzato gli incendi al Sud per poi fare un ampio giro attorno all’area disastrata e rientrare a Utumno.

   «Ho solo eseguito il tuo piano» disse Mairon, che in realtà se n’era già pentito, avendone constatato la portata incredibilmente distruttiva. Il mondo era in tumulto, con mari interni che si formavano e il Lago che si prosciugava, terremoti e incendi. Il cielo era coperto da una cappa impenetrabile di ceneri e polveri, ma anche se non fosse stato così, avrebbe regnato l’oscurità, dato che i Lumi erano caduti. Quanto tempo e quanti sforzi sarebbero serviti a rimodellare il mondo?! Mairon non voleva neanche pensarci; ma cominciava a capire che molte terre desolate sarebbero rimaste tali. In mezzo a tanta rovina, c’era una sola cosa che poteva confortarlo. «Mio signore, ho fatto come avevi ordinato. Ora ti chiedo di rispettare la tua parte dell’accordo, consegnandomi Ilmarë» disse tutto d’un fiato.

   «Ah, già... Ilmarë» fece Melkor, tamburellando sul bracciolo del trono. «Mi duole informarti che, se tu hai eseguito gli ordini, altrettanto non si può dire di Makar e Meássë. Quei due incapaci non hanno fatto ritorno da Almaren... si saranno fatti catturare, posto che non mi abbiano addirittura tradito. Il risultato è che Ilmarë non si trova in mano mia».

   A quella notizia, Mairon si sentì cadere il mondo addosso. «Che cosa?! Io... ho abbandonato Almaren e rinnegato i Valar... ho voltato le spalle a Eru stesso, pur di averla! E ora mi dici che non è qui?! Dobbiamo attaccare i Valar, prenderla con la forza!» dette in escandescenze.

   «Calma, amico mio... non precipitiamo le cose» disse Melkor, che in realtà se la rideva nel vederlo in quello stato. «Anche se non tutto è andato come previsto, abbiamo inferto un duro colpo ai nemici. Thuringwethil mi conferma che Almaren è un cumulo di rovine e i suoi abitanti sono rimasti senza dimora. Questo, sommato agli altri disastri, li renderà più cedevoli. Tra poco invierò loro il mio ultimatum, chiedendo che riconoscano la mia supremazia. Chiederò anche la consegna d’Ilmarë, contento?».

   «E se... non si piegassero?» mormorò Mairon.

   «Allora li colpirò ancora e ancora, finché non si spezzeranno!» promise l’Oscuro Signore. E questa, a differenza delle altre, era una promessa che intendeva mantenere.

 

   Di lì a poco gli Immortali, che si accampavano tra le rovine di Almaren, ricevettero l’ultimatum di Melkor. L’annuncio fu portato da Thuringwethil, che aleggiò sopra le loro teste come un araldo di sventura.

   «La distruzione dei Lumi e della vostra oziosa dimora è opera di Melkor, da voi ingiustamente esiliato, che ora è tornato per riprendere possesso di Arda!» annunciò la vampira. «Sottomettetevi, riconoscete la sua supremazia, e sarete risparmiati. In caso contrario, subirete ulteriori rappresaglie! E sarà tutta Arda a farne le spese!» minacciò.

   «Di’ al tuo oscuro padrone che non ci sottometteremo mai a lui!» ribatté Eönwë, salendo alla sua altezza con pochi battiti d’ala.

   «Non parlo con te, buffone pennuto, ma al tuo capo!» sghignazzò Thuringwethil, accennando a Manwë sotto di loro. «Digli che avete una luna per decidere. Ah, un’altra cosa... Melkor vuole che gli consegnate quella servetta sfiziosa, Ilmarë, come ostaggio».

   «Melkor?! O non piuttosto Mairon?!» gridò Eönwë, sguainando la spada.

   «Sono una messaggera e un’ambasciatrice, non posso essere colpita!» avvertì Thuringwethil, ritraendosi spaventata.

   «Allora vattene, prima che il Signore dell’Aria nella quale tu voli perda la pazienza!» tuonò Manwë. Per quanto lui fosse molto più in basso, la sua voce parve vicinissima alla vampira. «Dì’ al mio scellerato fratello che non gli cederò mai Arda... perché non è nelle mie facoltà. Io sono il custode di Arda, non il suo proprietario; sono qui come vicario di Eru. Pertanto mi assicurerò che essa non giaccia sempre nelle tenebre, ma sia una casa accogliente per i Figli d’Ilúvatar. E di certo non gli consegnerò Ilmarë, né alcun altro dei nostri!».

   Ciò detto, Manwë soffiò sul palmo disteso della mano. Il lieve soffio si tramutò in un vento impetuoso, che respinse la vampira come se fosse una foglia secca. A stento Thuringwethil riuscì a restare in volo senza precipitare, e capì che se avesse voluto Manwë l’avrebbe facilmente abbattuta. Non appena fu tornata in assetto si allontanò a gran velocità da Almaren, portando al suo signore la risposta dei Valar.

 

   «Dunque il mio ottuso fratello non si piega» commentò Melkor quand’ebbe udito. «Forse non ha ancora compreso l’entità del danno... diamogli un po’ di tempo». In realtà era riluttante ad attaccare le rovine di Almaren, perché sapeva che la potenza dei Valar era pur sempre formidabile.

   Dal suo posto d’onore accanto al trono, Mairon rifletté cupamente. Se conosceva i Valar, non si sarebbero mai piegati all’ultimatum. Dunque che fare? Magari un’incursione notturna? Ma avrebbe dovuto chiedere il permesso a Melkor, che invece sembrava incline a giocare nel lungo periodo. Più il tempo passava, più aveva la sensazione che Ilmarë gli scivolasse via tra le dita. Che crudele ironia... aveva tradito i Valar solo per avere la sua amata, e ora l’aveva persa comunque. Non gli restava che consolidare la sua posizione lì, nella vaga speranza che il futuro offrisse nuove occasioni. Con questi cupi pensieri il fabbro si congedò da Melkor, per andare ad attrezzare la sua nuova fucina nelle profondità di Utumno.

   «Va’ pure» disse l’Oscuro Signore. «I miei servi hanno l’ordine di procurarti tutto il necessario. E chiamami, quando avrete finito. Ho qualche segreto da insegnarti, in fatto di forgiatura, che nemmeno Aulë conosce».

   Mairon lasciò la sala del trono, ma si era allontanato di poco che si accorse d’essere seguito da Fangli, uno dei demoni più melliflui. In particolare era uno dei pochi che avevano ancora un bell’aspetto e vestivano elegantemente. «Non affliggerti per Ilmarë» gli disse Fangli. «Quell’ancella è sempre stata una perdita di tempo... non l’avresti mai convertita alla nostra causa. Adesso, poi, Makar e Meássë avranno confessato che volevano rapirla per darla a te. Come credi che abbia reagito? Ti odierà a morte!» rise.

   «Tu morirai, se continui su questo tono!» ringhiò Mairon. Agguantò Fangli per il bavero e lo sbatté contro il muro, sollevandolo da terra.

   «D’accordo... ora calmati, cercavo solo di consigliarti per il tuo bene» disse Fangli, senza scomporsi. Quando Mairon lo lasciò andare, si dette una rassettata. «Comunque se vuoi consolarti, in attesa della prossima occasione con Ilmarë, ti suggerisco di guardarti intorno. Anche qui ci sono delle Maiar mica male» disse con una strizzatina d’occhi.

   «Ad esempio? Ulbandi, con la sua chioma di serpenti?» fece Mairon ironico. Non voleva nemmeno avvicinarsi a quell’obbrobrio.

   «Meglio di no... pare che abbia una tresca con sire Melkor in persona» rivelò Fangli. «Ma ci sono altre che già adesso s’interessano a te. Non l’hai notato?». Accennò all’ingresso della sala del trono, da cui Thuringwethil stava uscendo proprio in quel momento, avendo terminato la sua ambasceria.

   Vedendosi osservata, la vampira scambiò uno sguardo ardente con Mairon. Per un attimo cercò di darsi una rassettata: si passò le dita artigliate tra le chiome nere e si lisciò la scura veste sdrucita. Poi oltrepassò in fretta i due Maiar, scomparendo nelle tenebre del corridoio.

   «Buona fortuna!» disse Fangli, facendo ancora l’occhiolino a Mairon, e se ne andò a sua volta.

   Il fabbro sbuffò. Se avesse voluto sostituire Ilmarë con qualcun’altra sarebbe rimasto ad Almaren, invece di trasferirsi in quella fogna maleodorante, piena di demoni schifosi e di demonesse ancora più orrende.

 

   Passò il tempo, mentre Arda era ancora in preda ai tumulti. L’ultimatum di Melkor scadde, ma i Valar non si arresero e l’Oscuro Signore non si decideva ad attaccarli, temendo gli esiti di una battaglia in campo aperto. Accadde così che gli Immortali fecero qualcosa di diverso e inaspettato, ma decisivo per le Ere a venire: traslocarono.

   Dalla caduta dei Lumi le zolle tettoniche si erano riattivate, così che stavano nascendo vulcani e anche intere catene montuose. I Valar impressero forti spinte laterali a queste zolle, tanto che il supercontinente si spezzò in tre. Il troncone più grosso fu quello centrale, che prese il nome di Grandi Terre e, in epoche più tarde, Terra di Mezzo. Qui si trovavano i Monti di Ferro con Utumno, il Mare Interno di Helcar e il Deserto di Harad, oltre alle quattro catene montuose più antiche. Il Grande Lago prosciugato fu invaso dalle acque salate del Mare quando i continenti si divisero, formando il Golfo di Belfalas. Il continente orientale prese il nome di Rómenor, ma per molte ere rimase disabitato, così che non trova spazio in questi racconti. Fu nel continente occidentale, infatti, che gli Immortali si trasferirono. Ilmarë naturalmente andò con loro, affossando le ultime speranze di Mairon. Ora la fanciulla era definitivamente fuori dalla sua portata.

   Il continente, detto Aman, fu rapidamente spinto dai Valar verso ovest, per allontanarsi il più possibile dal dominio di Melkor. Come risultato delle potenti spinte laterali, le sue coste si corrugarono, finché tutto il territorio si trovò circondato dalle montagne. Furono dette Pelóri e in breve divennero le montagne più alte della Terra. Le loro pendici esterne erano ripide e dirupate, per respingere qualunque assalto, mentre quelle interne scendevano dolcemente nella piana centrale. E fu in questa piana che le Potenze crearono il loro secondo reame: Valinor, ancor più bello del primo. Manwë e Varda s’insediarono in cima al Taniquetil, la più alta vetta delle Pelóri e dunque del mondo, posto esattamente sull’equatore. Da lì spingevano la loro Vista e il loro Udito soprannaturali sulle Grandi Terre, superando le tenebre; gli uccelli erano i loro messaggeri. Ulmo risiedeva invece nelle profondità dell’Oceano, come aveva fatto sin dai primordi. Aulë, Námo e Nienna si scavarono di nuovo delle dimore sotterranee, del tutto simili alle precedenti. I Valar rimanenti, come quasi tutti i Maiar, si costruirono delle magioni, radunandole nella città che fu detta Valmar, alle falde del Taniquetil. Il suono delle sue campane d’oro risuonava per tutta la pianura. Più nell’entroterra vi erano anche i Giardini di Lórien, incantevole dimora d’Irmo ed Estë; i Boschi di Oromë in cui il Vala e i suoi seguaci si esercitavano nella caccia; e i fertili Campi di Yavanna in cui cresceva il grano dorato. A poca distanza dalla costa sorgeva anche Tol Eressëa, l’Isola Solitaria, ovvero ciò che restava dell’antica Almaren.

   Già durante la prima costruzione di Valinor si rese necessario illuminare il reame, poiché dalla caduta dei Lumi tutte le terre emerse giacevano nella notte perenne. Fu così che Yavanna e Nienna salirono sul colle di Ezellohar e vi crearono Telperion e Laurelin, i Due Alberi di Valinor. Somigliavano un po’ agli antichi Lumi, poiché Telperion splendeva d’argento e Laurelin d’oro, e da entrambi stillavano rugiade luminose. Erano magnifici, una gioia e un ristoro per tutto il popolo di Valinor. Ma per quanto fossero assai più imponenti d’ogni altro albero mai esistito, non erano minimamente comparabili a Illuin e Ormal, coi loro pilastri svettanti fino ai limiti dell’atmosfera. E a peggiorare le cose, i Due Alberi non si trovavano al centro di un supercontinente pianeggiante, che permettesse alla loro luce di diffondersi ovunque. Erano invece in Valinor, e illuminavano solo questo, anche perché la barriera delle Pelóri impediva allo splendore di filtrare oltre. Le spiagge stesse di Aman erano buie e fredde, poiché la luce non vi giungeva. E nemmeno un raggio poteva varcare la distesa sempre crescente del Mare per portare un po’ di conforto alle Grandi Terre.

   Anche sotto un altro aspetto gli Alberi erano inferiori ai Lumi: invece di brillare entrambi in modo fisso e immutabile, si alternavano in base al loro ciclo di fioritura. Il ciclo completo d’ogni Albero poteva essere suddiviso in dodici periodi: per sette di essi l’Albero fioriva, giungendo a piena luminosità, mentre nei restanti cinque periodi i fiori restavano chiusi e non emettevano luce. Queste “ore degli Alberi” corrispondevano ciascuna a sette ore solari. Dodici ore degli Alberi formavano quindi un “giorno degli Alberi”, lungo ben 84 ore solari. Come s’è detto, gli Alberi non sbocciavano in sincronia, ma si alternavano. Solo due volte al giorno le luci si mescolavano, con sommo diletto degli abitanti, perché ogni Albero s’illuminava un’ora prima che l’altro esaurisse il suo splendore. Mille di questi lunghi giorni formavano un anno valiano, corrispondente a 9,582 anni solari; e cento anni valiani costituivano un’era dei Valar.

 

   Così ebbe inizio il Computo del Tempo a Valinor, e a lungo gli Immortali vissero in pace, quasi dimentichi del resto del mondo. Questo si trovava ancora in potere di Melkor: era immerso nell’oscurità perpetua e stretto nella morsa di un’era glaciale. Da Utumno uscivano creature mostruose che infestavano le terre: serpenti, grandi ragni, lupi mannari, pipistrelli vampiri. Esseri senza nome presero a rodere la terra alle radici, mentre mostri marini pieni di tentacoli insidiavano il dominio di Ulmo. Ad alcune bestie mostruose furono persino date le ali, per sfidare Manwë nel suo elemento.

   In quest’epoca oscura, pochi degli Immortali visitavano le Grandi Terre. Ulmo si recava talvolta sulle coste, e così facevano i suoi vassalli Ossë e Uinen. Attraverso le acque dei fiumi riuscivano a percepire molto di ciò che accadeva nell’entroterra. Yavanna venne a porre il suo incantesimo su tutta la vita vegetale, per evitare che avvizzisse. Il Sonno di Yavanna permise all’ecosistema di sopravvivere, sia pure in forma quiescente. E molti semi furono gettati nel buio dalla Regina della Terra, in attesa del giorno in cui la luce sarebbe tornata a farli germogliare.

   Ma il Vala più attivo di tutti era Oromë, che si spingeva nell’entroterra, accompagnato dai suoi aiutanti più fidati. Anche Eönwë si univa spesso a queste cacce selvagge, nella speranza d’imbattersi in Mairon e chiudere i conti. Insieme davano la caccia ai mostri usciti da Utumno, riportando sempre la vittoria; ma una volta passati le terre si riempivano di nuovo d’oscurità e terrori. Volendo ostacolare le loro cavalcate, Melkor innalzò addirittura un’aspra catena montuosa, gli Hithaeglir o Monti Brumosi. Ma Oromë non si perse d’animo e infranse la barriera, creando quella che molto tempo dopo fu nota come Breccia di Rohan. Allora l’Oscuro Signore si spaventò, temendo che da Valinor giungesse un assalto in piena regola; e riprese il suo vecchio progetto di costruire un avamposto.

   Questa roccaforte fu detta Angband ed era del tutto simile a Utumno, anche se più piccola; ma era progettata per crescere nel tempo. Sorgeva sempre lungo i Monti di Ferro, ma assai più a ovest, così da costituire un baluardo contro gli assalti da Valinor. Si trovava quindi tra i Monti Azzurri e il Mare, a nord di quello che fu poi detto Beleriand. Quando fu il momento di designare il comandante di Angband, tre Maiar si fecero avanti: Fangli, Gothmog e Mairon. Quest’ultimo però rivendicò il suo primato, perché era stanco di vivere all’ombra di Melkor e anelava a un dominio tutto suo, come da gran tempo gli era stato promesso.

   «È stato grazie a me se Ormal è caduto e i Valar sono dovuti fuggire all’Ovest!» disse Mairon, innanzi all’Oscuro Signore e alla sua corte. «E mi pare di averti servito fedelmente, sire, negli innumerevoli anni che si sono succeduti da allora. Già in antico mi promettesti che, se mai avessi costruito una seconda fortezza, l’avresti assegnata a me. Poiché il mio desiderio per Ilmarë è ancora inappagato, ti chiedo di soddisfare almeno quest’altra promessa».

   «Te lo concedo» disse Melkor, che effettivamente lo trovava il più adatto al compito. «Finora mi hai servito bene; continua a farlo e non avremo problemi. Ti assegnerò parte delle mie schiere, affinché Angband sia ben difesa e possa reggere un assalto dall’Ovest. Ricorda però che io sono il tuo Signore: io ti ho dato Angband e io posso riprendermela, se il tuo operato mi deludesse» ammonì.

   «Non accadrà, sire» promise Mairon, inchinandosi. In cuor suo esultò, perché dopo tanto tempo il suo padrone aveva mantenuto almeno una delle promesse. Chissà che, in futuro, non esaudisse anche l’altra. E avere una fortezza tutta sua solleticava il suo ego, che era solo cresciuto in quegli eoni trascorsi nell’oscurità. Anche il suo aspetto era cambiato: non aveva ancora perso l’antica bellezza, ma aveva cominciato a vestire abitualmente una massiccia armatura in ferro, che era come una piccola replica della nera corazza di Melkor. Dall’Oscuro Signore aveva appreso molte stregonerie e malefici, che gli davano l’impressione d’essere più potente che mai. Si era anche fabbricato un’arma, una poderosa mazza ferrata, che portò con sé nel suo nuovo dominio.

 

   I giorni di Angband furono esaltanti, perché finalmente Mairon poteva dare ordini e anche amministrare le punizioni, senza avere costantemente il fiato di Melkor sul collo. Thuringwethil faceva la spola con Utumno, ma in quest’epoca statica non c’era granché da riferire e lo stesso Melkor non aveva molti ordini da dare. Mairon poteva quasi illudersi d’essere lui il Signore Oscuro. Molti dei demoni più potenti, come i Valaraukar, lo avevano seguito nella nuova dimora ed erano ai suoi ordini. Meglio ancora, molti dei più antipatici – come Fangli e Langon – erano rimasti a Utumno e non potevano più dargli fastidi.

   Nelle loro profonde fucine vulcaniche, Mairon e i suoi accoliti forgiavano armi e altri strumenti di guerra, in previsione dell’inevitabile resa dei conti coi Valar. In altri momenti Mairon si permetteva di banchettare, o di sedere in trono per amministrare le faccende di routine. Aveva cercato di dare un certo stile alla sua fortezza, e in particolare alle sue stanze private, discostandosi dallo squallore opprimente di Utumno. Cercava di basarsi sui ricordi dell’antica Almaren, ormai sbiaditi nella sua memoria. Ma i demoni non erano il massimo per creare belle opere e non sembravano capire neanche la necessità di provarci. Dopo i primi frustranti tentativi, Mairon rinunciò a istruirli. Le uniche cose belle che possedeva erano quelle che si faceva da sé. Ma ogni tanto, nell’osservarle, lo assaliva la malinconia di ciò che aveva perso. E nei momenti peggiori gli tornavano in mente un volto e una voce... quelli d’Ilmarë. Aveva cercato di dimenticarla, ma non c’era niente da fare: gli tornava in mente nei momenti più impensati, magari a distanza di anni o persino secoli da una volta all’altra.

   Quando ciò accadeva, Mairon abbandonava i sotterranei di Angband e si ritirava in cima a un picco degli Ered Engrin. Da lì innalzava lo sguardo alla volta stellata. Aveva notato che in certe notti, specialmente sul finire dell’estate, il cielo era solcato da scie luminose. Non erano stelle cadenti, come credevano gli ingenui... era Ilmarë che scagliava le sue lance di luce. Mairon glielo aveva visto fare in epoche remote e ancora si dilettava nell’osservarla. Non aveva mai cessato di stupirsi per quel talento, che nessun’altro Ainu possedeva, nemmeno i grandi Valar. Ilmarë stava forse cercando di dirgli qualcosa con quel gesto? E se sì, che cosa? Che non lo considerava ancora perso per sempre e gli tendeva la mano? O al contrario lo sfidava a misurarsi sul campo di battaglia, per piantargli una di quelle lance nel petto e chiudere i conti? Mairon non lo sapeva. Per uno spirito della terra come lui era difficile innalzarsi nell’aria, come faceva Ilmarë. Ultimamente anche lui cominciava ad avere qualche difficoltà a cambiare aspetto. Poteva ancora trasformarsi in volatile, ma non si azzardava a volare troppo alto. E di certo non poteva tornare puro spirito, per trasvolare sul Mare e superare le Pelóri, in cerca della luce del Reame Benedetto.

   «No... ti ho persa per sempre, beata terra d’Aman» mormorò una notte in cui l’aria era particolarmente tersa e le lance di luce cadevano numerose. «Ti ho persa per sempre... Ilmarë, amore mio» disse, mentre le lacrime gli solcavano le guance. Non immaginava che, invece, le loro strade erano destinate a incrociarsi di nuovo.

 

 

-Commento:

   Eccoci arrivati al cataclisma che sfigura per sempre il volto di Arda, guastandone l’originale simmetria e instaurando quella polarità est-ovest che la caratterizzerà d’ora in poi. I Lumi sono distrutti da Melkor durante una festa; stessa cosa accadrà molto più tardi con gli Alberi. Sembra proprio che i Valar non abbiano imparato a sorvegliare i loro beni più preziosi!

   Nei Racconti Ritrovati i due Lumi (chiamati Ringil ed Helkar) sono costruiti da Melkor stesso, prima che la sua malvagità diventi palese. I Valar si fidano a porre le lanterne luminose in cima, ma poi scoprono che il “cristallo indistruttibile” dei pilastri non è altro che banalissimo ghiaccio. Il calore delle lanterne lo fonde, provocando il cataclisma; l’Era dei Lumi dura quindi pochissimo. Dai ghiacci disciolti dei pilastri si formano però due Mari Interni, assai più duraturi. Presso una baia di quello settentrionale si desteranno in seguito i primi Elfi, creati da Ilúvatar.

   Nella successiva versione del Silmarillion i due Lumi (ora chiamati Illuin e Ormal) sono innalzati dai Valar in dura roccia. Viene quindi meno l’idea del tranello di Melkor e i Valar stessi risultano meno ingenui. L’Era dei Lumi dura più a lungo e termina quando Melkor abbatte entrambi i pilastri, in un modo mai specificato. Curiosamente Tolkien mantenne il dato secondo cui al posto del pilastro settentrionale si forma un mare interno, presso cui si risveglieranno gli Elfi. Questo mare però non può più essere formato dal ghiaccio disciolto, dato che nella riscrittura i pilastri sono rocciosi. Entrambe le versioni, comunque, concordano sul fatto che la “luce liquida” uscita dalle lanterne infrante provochi incendi e desertificazione.

   Volendo descrivere il cataclisma più nel dettaglio, ho immaginato che Melkor non possa distruggere ambo i pilastri simultaneamente. Quindi si occupa solo di quello settentrionale, martellandolo con Grond (che è citato come sua arma solo molto più tardi, ma nulla vieta di pensare che lo brandisse già ai tempi di Utumno). Per distruggere il pilastro meridionale serve un team di demoni, capitanati da Mairon. Ho immaginato che Ossë si redima all’ultimo momento, avvertendo i Valar del pericolo, ma ormai è tardi per impedire il cataclisma. L’unico effetto positivo è che Makar e Meássë sono bloccati prima di poter rapire Ilmarë. Dunque questa parte del piano fallisce: Melkor e Mairon non vedranno la fanciulla neanche da lontano.

   Ciò non toglie che i Lumi siano abbattuti, provocando immani sconvolgimenti. Ho cercato di spiegare come mai la caduta d’Illuin formi un mare interno e al tempo stesso perché il Grande Lago scompare, immaginando un travaso d’acque, frutto anche del tentativo di spegnere gli incendi. Infatti al Sud, dove l’acqua non arriva, i roghi proseguono e l’area si desertifica. Anche Almaren è terremotata, ma i Valar non cedono all’ultimatum di Melkor, il che provoca un secondo cataclisma. Il supercontinente si spezza in tre: d’ora in poi Valinor non farà che allontanarsi dalle Grandi Terre, fino addirittura a essere trascinata “oltre le Cerchie del Mondo”.

   Ho riassunto questa parte, perché mi premeva soprattutto raccontare la vicenda dal punto di vista di Mairon. Il nostro anti-eroe ha tradito i Valar spinto dall’ossessione per Ilmarë e naturalmente la perde, trovandosi con un pugno di mosche. Non gli resta che “far carriera” tra le forze dell’Oscurità, arrivando effettivamente a coronare l’altro suo sogno, una fortezza tutta sua in cui dettar legge. Passano gli eoni, mentre la Terra di Mezzo si avvicina sempre più all’assetto che conosciamo, ma la storia di Mairon e Ilmarë è tutt’altro che finita...

 

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Capitolo 6
*** La Guerra dei Poteri ***


-Capitolo V: La Guerra dei Poteri

 

   I Valar sedevano a consiglio nel Máhanaxar, l’Anello della Sorte, dove i loro troni erano posti in cerchio alle porte di Valmar e nella piena luce dei Due Alberi. Ascoltavano Oromë ed Eönwë, che facevano rapporto dopo uno dei loro viaggi nelle Grandi Terre. I due spiegarono come le loro cacce fossero in definitiva inutili, perché Utumno e Angband generavano più mostri di quanti loro potessero abbattere. «Presto il mondo ne sarà sommerso, se non estirpiamo il male alla radice» concluse il Vala cacciatore.

   Dopo di lui si fece avanti Yavanna, anche lei reduce da una visita alla Terra di Mezzo. «Ascoltate, possenti di Arda!» esordì. «Da quando entrammo nel Mondo, la nostra suprema speranza è stato l’avvento dei Figli d’Ilúvatar. È per loro che abbiamo dato ordine alle terre, per loro che abbiamo creato piante e animali, anche se tanta parte dei nostri sforzi è stata rovinata. Ma ora sento che il loro arrivo s’avvicina, pur non potendone indicare il momento esatto. E il loro destino sarà di risvegliarsi nelle Grandi Terre, non già qui ad Aman. Dunque li lasceremo dimorare nell’oscurità di Melkor, mentre noi abbiamo luce? Li lasceremo in preda ai demoni e ai mostri, mentre noi abbiamo pace? Consentiremo che Melkor li faccia schiavi e li costringa ad adorarlo?!» incalzò.

   «Giammai!» gridò Tulkas, dando un gran pugno sul bracciolo del suo seggio. «Liberiamo il mondo da quel demonio, prima che sia tardi! Da troppo tempo siamo in ozio, ed egli lo scambia per debolezza e timore! Ma se lo affrontiamo tutti assieme, vedrete che lo sconfiggeremo!».

   Tutti allora guardarono Manwë, ma questi accennò a Námo, il Signore della Morte e del Destino, ormai detto Mandos dal nome della sua dimora. E Mandos parlò: «I Figli Maggiori d’Ilúvatar stanno invero per destarsi. Ma non illudetevi di farli crescere in un giardino vigilato. Il loro destino è di giungere nella tenebra e conoscere le asprezze del mondo. Quando i loro occhi si apriranno, vedranno per prima cosa le stelle. Sempre le ameranno; e sempre invocheranno Varda nell’ora del bisogno».

   Il dibattito proseguì, perché alcuni Valar erano restii a scatenare un conflitto che avrebbe sconquassato ulteriormente il mondo. Le più contrarie erano Vána e Nessa; questo metteva in grande imbarazzo i rispettivi mariti, Oromë e Tulkas. Anche Aulë era combattuto. Da un lato sperava che, risvegliandosi gli Elfi, anche i Nani da lui plasmati fossero autorizzati a svegliarsi da Ilúvatar. D’altro canto temeva le nuove ferite che la titanica lotta avrebbe inferto alla Terra. Quanto a Makar e Meássë, i più ansiosi di combattere, non potevano sedere a raduno coi Valar e quindi dovevano accontentarsi di osservare da lontano, mordendosi le mani per l’impazienza.

   Dopo aver meditato sulle parole di Mandos, Varda si allontanò dal concilio. Salì sul Taniquetil e guardò a oriente, dove le Grandi Terre giacevano sotto le tenebre. I fumi esalavano costantemente dai Monti di Ferro, oscurando il cielo con una cappa greve che nascondeva la Luna e le stelle. Allora la Signora della Luce sfoderò i suoi poteri: i miasmi vulcanici furono dispersi nello spazio o sospinti nell’altro emisfero, per precipitare a terra. Dopo innumerevoli anni, il cielo tornò limpido e punteggiato di stelle. Allora Melkor e i suoi demoni si avvidero che gli astri avevano cambiato posizione, formando nuove costellazioni. Una in particolare, formata da sette stelle fulgenti, era sospesa al Nord come una sfida a Melkor. Fu detta Valacirca, la Falce dei Valar, ed era segno che la resa dei conti si avvicinava. Allora l’Oscuro Signore tremò sul trono infernale.

   Ma a Valinor, quando le Potenze ebbero lasciato l’Anello del Destino, Ilmarë si avvicinò a Eönwë. «Nessuna notizia di Mairon?» gli chiese.

   «Niente... si rintana ad Angband, come fa il suo padrone a Utumno» rispose l’araldo. «Non dirmi che pensi ancora a lui?».

   «Melkor lo irretì con l’inganno. Forse la verità potrebbe riportarlo da noi» disse l’ancella.

   «Melkor lo irretì solleticando la sua brama di potere e di possesso» corresse Eönwë. «Gli promise te, l’hai forse dimenticato? Certo non vorrai soddisfare quella brama!».

   «No» fremette Ilmarë. «Ma la resa dei conti si avvicina. Presto o tardi lo incontreremo in battaglia... allora che faremo?».

   «Distruggeremo gli schiavi di Melkor» rispose Eönwë, scuro in volto. «Se Mairon resterà tra questi, allora distruggeremo anche lui».

 

   Fu allora, quando le nuove costellazioni splendettero sulle Grandi Terre, che i Figli Maggiori d’Ilúvatar si destarono. I primi 144 Elfi aprirono gli occhi presso Cuiviénen, una laguna del Mare Interno di Helcar. La prima cosa che videro furono le stelle, che da allora in poi brillarono sempre nei loro occhi. E la prima cosa che udirono fu il gocciolio musicale dell’acqua sulla roccia, poiché molti torrenti scendevano dagli Orocarni per gettarsi nella laguna; ragion per cui i loro animi furono sempre inclini alla musica.

   Tre Padri degli Elfi si destarono prima di ogni altro: Imin, Tata, Enel. Videro accanto a sé le loro promesse spose – Iminyë, Tatië, Enelyë – che giacevano dormienti sull’erba, e subito ne furono affascinati. Così le svegliarono e nello sforzo di comunicare con loro inventarono le prime semplici parole. Poi le tre coppie si alzarono e si misero in cammino, esplorando l’ambiente circostante. Man mano che scoprivano altri Elfi addormentati li destavano, e ciascuna coppia si pose a capo di una schiera. Dai quattordici “compagni di Imin” vennero i Vanyar, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, versati nella poesia. Dai cinquantasei “compagni di Tata” vennero i Noldor, dai capelli neri e gli occhi grigi, versati nella metallurgia e all’occorrenza nella guerra. Dai settantaquattro “compagni di Enel” vennero infine i Teleri, dai capelli argentei o castani. Da questi ultimi discesero sia gli Elfi Silvani della Terra di Mezzo, nomadi o stanziali, sia i carpentieri e marinai delle coste.

   Per molto tempo i Primogeniti dimorarono presso il luogo del loro risveglio, osservando tutte le cose con curiosità e ammirazione. Presero a formare discorsi e dar nome a tutto ciò che scorgevano, cominciando ben presto a intessere i primi canti. E chiamarono se stessi Quendi, “gli Oratori”, perché fino a quel momento non avevano incontrato altre creature dotate di parola. Ma le splendide voci che Ilúvatar aveva dato ai Quendi divennero la rovina per alcuni di loro, poiché Melkor fu il primo tra i Valar ad avvedersi della loro comparsa. Allora inviò i suoi servi più veloci e terribili, in forma di cavalieri neri, a rapire gli Elfi e trascinarli vivi a Utumno. Dopo i primi attacchi, avendo visto sparire i loro compagni, i superstiti si fecero cauti. Impararono a nascondersi silenziosamente nei boschi, vivendo nel perenne timore dei Cacciatori. Fu un bene per loro; e si sarebbero nascosti ancor meglio se avessero immaginato l’atroce sorte dei loro sventurati compagni.

 

   «Mi hai convocato, mio signore?» chiese Mairon, inchinandosi davanti al trono dell’Oscuro Sire. Quelle convocazioni a Utumno erano rare, ma quando si verificavano, il Maia doveva affrettarsi.

   «Sì, mio buon Mairon... c’è una grossa novità!» disse Melkor, compiaciuto. «Thuringwethil ti avrà riferito che il tempo è giunto: i Figli del Mondo si sono destati, finalmente!».

   «Me l’ha detto, ma io ancora non li ho visti» rispose Mairon. «Mi sembra di capire che siano pochi e si nascondano nelle selve, come animali».

   «Sì, sono bravi a nascondersi... ma non tanto da sfuggire ai miei servi» annuì l’Oscuro Signore.

   «Come... come sono, di preciso?» osò chiedere Mairon. Era strano: per ere interminabili li aveva attesi con trepidazione, e ora che finalmente erano arrivati, non sapeva cosa aspettarsi né come comportarsi.

   «Te li mostrerò... è il motivo per cui ti ho convocato!» disse Melkor, più allegro di quanto Mairon l’avesse mai visto. Lasciò il trono e guidò il suo luogotenente per corridoi e gallerie, fino a un profondo salone debolmente illuminato dal fuoco. Da lì giungevano lamenti strazianti: grida di dolore, singhiozzi, suppliche smozzicate. Era una litania che saliva e scendeva, ma non s’interrompeva mai.

   «Guarda, Mairon... ammira i Figli d’Ilúvatar, in tutto il loro splendore!» disse Melkor, indicando l’interno. Mairon guardò... e avrebbe voluto cavarsi gli occhi, perché non aveva mai visto né immaginato nulla di simile.

   Il salone era un carnaio in cui i primi Elfi erano torturati, sfigurati, mutilati all’inverosimile dai demoni di Melkor. Alcuni, ormai prossimi alla morte, erano sommariamente curati al solo scopo di prolungare la loro agonia. E non erano solo torture fisiche, ma anche mentali. Alcuni Elfi erano incatenati in modo tale che, trascinandosi in avanti, arrivassero a un palmo di distanza da cibo e acqua; e con quella visione tormentosa erano lasciati deperire. Altri erano torturati col ferro e col fuoco davanti ai loro cari, che imploravano i demoni di fermarsi, ma ottenevano solo di eccitarli ancora di più. Altri ancora erano sbranati da lupi, orsi e tigri dai denti a sciabola, mentre gli aguzzini ridevano e scommettevano su chi sarebbe sopravvissuto più a lungo. Tra una tortura e l’altra, gli infelici erano lasciati appesi a catene o chiusi in gabbie, dove soffrivano anche il gelo intenso di quei sotterranei. Il pavimento era imbrattato dal loro sangue, in parte rappreso.

   «Cosa... cosa state facendo?!» chiese Mairon con un filo di voce.

   «Faccio buon uso dei Figli che Ilúvatar mi ha gentilmente messo a disposizione!» sogghignò Melkor. «Gioisci, amico mio, perché le nostre schiere stanno per aumentare! Presto avremo molti schiavi a disposizione, per sbrigare i lavori peggiori. Avremo degli adoratori che ci riveriranno come dèi. E naturalmente avremo dei soldati da lanciare contro i Valar. Prima dobbiamo solo piegare queste creature, per renderle più obbedienti. E voi obbedirete, vero?!» chiese, piantando il suo sguardo terribile sull’Elfo più vicino.

   «Io... v-voglio tornare a casa...» mormorò il poveretto, che aveva la mente sconvolta dalle torture.

   «Ma tu sei a casa!» rise l’Oscuro Signore. «Io sono il vostro signore e padrone. Tutti voi mi appartenete, e mi obbedirete nella vita e nella morte! Ora inginocchiati, bestia, e adorami!».

   «No, ti prego... basta...» gemette l’infelice.

   «Inutile parassita!». Melkor lo agguantò per il collo, sollevandolo da terra, e lo bruciò vivo col calore che emanava dalla sua mano, riducendolo a un ammasso carbonizzato. Poi lo gettò in mezzo ad altri Elfi incatenati alla parete, che si ritrassero spaventati. «E voi, riconoscete il vostro padrone?!» chiese l’Oscuro Signore. Con il cadavere del compagno che sfrigolava ancora tra loro, gli Elfi s’inginocchiarono e prestarono omaggio.

   «Lo vedi? Non è difficile» disse Melkor, di nuovo rivolto a Mairon. «Naturalmente dovremo farli riprodurre più volte, per selezionare i ceppi più obbedienti, come abbiamo già fatto con le bestie. Dobbiamo instillare in loro l’odio contro i Valar, e contro i loro parenti ancora liberi; ma dobbiamo anche istruirli quel tanto che basta affinché si fabbrichino gli strumenti da guerra. Sarà uno spasso!» disse, passando lo sguardo sulle vittime agonizzanti. Vedere quegli esseri che soffrivano e infine si spezzavano gli dava la gioia più intensa e più genuina che avesse mai provato in vita sua. Per la prima volta, l’Oscuro Signore si sentiva realmente felice.

   «Mio signore... è proprio necessario?» mormorò Mairon. «Voglio dire, sembrano così deboli... non so quanto ci saranno utili, anche come schiavi».

   «Sarà certo meglio che non averne affatto!» rispose Melkor bruscamente. «Che c’è, ti senti forse in colpa? Rifletti su questo: tormentando i Figli d’Ilúvatar, noi facciamo soffrire Eru stesso. Mi senti, Padre?!» tuonò il Maligno, alzando gli occhi alla pesante volta di pietra che nascondeva il cielo. «Hai creato questi esseri solo per darli a me! E io ne farò ciò che voglio! Gli insegnerò a odiarti, come ti odio io! E allora che farai, tu che dicevi di amarli? Cosa t’inventerai, per redimerli e riscattarli? Rispondi! Perché sei muto?! Non hai il potere di fermarmi, o non vuoi farlo?!».

   Ma Eru non parlava al Ribelle e ai suoi seguaci, che peraltro non comprendevano minimamente i Suoi piani.

   «Come vedi, mio buon Mairon, tutto procede a meraviglia» disse Melkor, riavendosi dalla sfuriata. «Voglio che tu prenda un po’ di queste canaglie e le porti ad Angband. Continua il nostro lavoro e tienimi aggiornato sui progressi. Col tempo potremo scambiarci degli esemplari, per combinare il meglio che avremo ottenuto».

   «S-sì, mio signore» esalò Mairon. Era tentato di ribellarsi, ma cosa avrebbe ottenuto, oltre a finire a sua volta sugli strumenti di tortura? E se avesse aspettato di tornare ad Angband per dichiarare la sua ribellione, gli altri Maiar non l’avrebbero seguito: erano troppo fedeli a Melkor. Al massimo poteva tornare alla sua fortezza e, una volta lì, darsi alla fuga. Ma cos’avrebbe combinato poi, solo nel vasto mondo, braccato sia dalla Luce che dall’Ombra? Dove avrebbe trovato scampo? Forse... no, i Valar non lo avrebbero mai riaccolto. Lo avrebbero scacciato, o peggio ancora, lo avrebbero incatenato nelle Aule di Mandos per l’eternità. Non poteva tollerarlo. «Come desiderate... proseguirò i vostri esperimenti sui Quendi» promise.

   «I Quendi?» chiese Melkor.

   «Sì... Thuringwethil mi ha detto che i Figli chiamano se stessi così. Nella loro lingua infantile significa “Oratori”» rispose Mairon, un po’ sorpreso di doverlo spiegare.

   «Ma essi non sono gli unici oratori» corresse l’Oscuro Signore. «E da quando in qua gli schiavi hanno diritto a usare la loro lingua e i loro nomi? D’ora in poi questi miserabili saranno detti Orchi!» proclamò Melkor, e la sua orrenda risata fece tremare il salone.

 

   Così dunque i primi ceppi di Orchi proliferarono a Utumno e Angband, rendendo quei luoghi ancora più colmi d’orrore e disperazione. Ma se Melkor vegliava, i Valar certo non dormivano. Oromë s’imbatté nei Quendi ancora liberi durante una delle sue cavalcate. Essi dapprima lo fuggirono, credendolo uno dei Cacciatori pronti a ghermirli; ma poi si avvidero della luce che emanava da lui e osarono parlargli. Oromë li amò fin dal primo istante poiché, sebbene la loro venuta fosse da tempo profetizzata, ora che li aveva davanti gli parvero qualcosa di nuovo e inaspettato. Attraverso di loro comprendeva un’altra sfaccettatura d’Ilúvatar, che altrimenti sarebbe rimasta celata anche ai Valar. Per qualche tempo dimorò con loro, proteggendoli dai servi di Melkor e narrando degli splendori di Valinor oltre il Mare. Poi decise che, per difenderli meglio, doveva esortare una volta di più i suoi fratelli ad attaccare Melkor.

   Oromë lasciò quindi gli Elfi e se ne tornò in tutta fretta a Valinor, dove le Potenze si riunirono a concilio. Giunse anche Ulmo dalle profondità del Mare e i Maiar si accalcarono attorno, in ascolto. Il Cacciatore riferì le sue scoperte, insistendo sulla necessità di affrontare il male alla radice. Poi, mentre i Valar ancora discutevano, tornò subito dagli Elfi per continuare a vigilarli.

   Tutti volevano dire la loro, ma Manwë interruppe bruscamente il dibattito e si ritirò a meditare sul Taniquetil. Qui, in intima comunicazione con Ilúvatar, chiese consiglio sul da farsi. E non era passato nemmeno un giorno dei Valar che egli tornò all’Anello della Sorte, dove tutti attendevano con ansia il suo verdetto.

   «La volontà d’Ilúvatar si è manifestata! Egli desidera che noi riprendiamo il dominio delle Grandi Terre a qualsiasi prezzo, liberando i Quendi dal male che li opprime!» proclamò Manwë con voce stentorea.

   «Ah, finalmente! Non è quello che ho sempre detto?» si rallegrò Tulkas, dandosi una gran manata sulla coscia.

   «Speriamo che il mondo non vada ancor più in pezzi...» mormorò invece Aulë, angustiato.

   «Questa guerra non è solo per la salvezza degli Elfi, ma anche dei Nani che tu hai tratto dalla roccia e degli Ent che io ho tratto dal suolo» gli ricordò Yavanna. «Saranno tutti distrutti o stravolti, se non fermiamo l’Oscuro Signore».

   «Anche questo è vero» convenne Aulë, e corse ad armarsi con gli altri.

   Poco lontano, Eönwë andò a congedarsi da Ilmarë. «Ci siamo, anima mia. È il momento che abbiamo atteso per tutto questo tempo» le disse.

   «E tu devi proprio andare?!» chiese l’ancella.

   «Non posso esimermi. Sono l’araldo di Manwë, dovrò essere in prima linea» rispose Eönwë. «Ma ti prometto che starò attento. Melkor non mi avrà».

   «E cosa conti di fare con Mairon?» tornò a chiedere Ilmarë.

   «Te l’ho detto, è diventato una gravissima minaccia» disse tristemente l’araldo. «Hai sentito Oromë: anche Mairon nella sua fortezza sta pervertendo i Figli d’Ilúvatar. Li tortura, li stravolge nel corpo e nello spirito, fino a trasformarli in schiavi depravati. Possiamo perdonargli ogni altro peccato, ma non questo» disse con decisione.

   «No, non possiamo» convenne l’ancella dopo un breve silenzio. «Ebbene, non me ne starò oziosa mentre tu e gli altri combattete per salvare i Figli d’Ilúvatar. Verrò con voi!» dichiarò.

   «Ne sei certa?» s’inquietò Eönwë. «Io mi sono tenuto in esercizio cacciando con Oromë, ma tu non hai molta esperienza...».

   «Non sottovalutare i miei poteri!» avvertì Ilmarë. Trasse dal nulla una lancia di pura luce e la scagliò contro le Pelóri, dove detonò con la potenza di una folgore. Parecchi Immortali si girarono, sorpresi dal gesto. «Ricorda che anch’io scaglio le mie lance ogni estate, come ammonimento contro il tiranno del Nord» aggiunse l’ancella.

   «D’accordo, ma... rammenta che prima di affrontare Melkor a Utumno dovremo espugnare Angband» avvertì Eönwë. «E lì c’è Mairon, che è sempre stato ossessionato da te. Approfitterà dell’occasione per cercare di rapirti...».

   «Non riuscirà nemmeno a sfiorarmi. Io posso innalzarmi nell’aria, mentre lui è sempre più confinato al suolo» ribatté Ilmarë.

   «E reggerai la vista dello scempio che ha inflitto ai Figli d’Ilúvatar?» chiese ancora Eönwë, che pur avendo grande rispetto dei suoi poteri era preoccupato per lei.

   «Se tu sarai con me, reggerò» sospirò l’ancella.

   «Così sia» disse l’araldo, seppellendo la sua ansia, senza però estinguerla. Dopo di che dovette seguire Tulkas, che dirigeva l’allestimento delle operazioni di guerra.

   Ilmarë si recò invece dalla sua signora Varda. «Mia regina, tutti i Maiar atti al combattimento si stanno preparando. Vi chiedo licenza di partire anch’io» disse.

   «Se è ciò che ritieni giusto, non posso trattenerti» rispose la Signora delle Stelle. «Ma bada a non tentennare, quando ti troverai davanti Mairon. Temo che l’amore, ormai, abbia abbandonato per sempre il suo cuore. In lui resta semmai una sconcia brama, che farà di tutto per soddisfare» avvertì.

   «Allora farò giustizia con questa!» disse Ilmarë, traendo dal nulla un’altra lancia luminosa. Il suo sguardo era duro e gelido come il ghiaccio.

   «Ci proverai... ma non sottovalutare gli inganni del Nemico» ammonì Varda. «Fa’ molta attenzione, figliola. Se ti spingerai troppo avanti, nel furore della battaglia, potrei non rivederti più!». Così dicendo l’abbracciò, prima che l’ancella si congedasse.

 

   Nei giorni successivi, tutta Valinor fremette di preparativi. Aulë si recò nella sua fornace sotterranea e il suolo rimbombò dei suoi colpi di martello. Quando ne uscì, il Fabbro dei Valar reggeva una smisurata catena, corredata di quattro ceppi. «Questa bloccherà Melkor» disse. «Si chiama Angainor. È fatta di tilkal, un metallo incantato di mia creazione».

   «Tilkal?» chiese Eönwë, stupito da quel nome di cui non immaginava il significato.

   «È un acrostico derivante dai metalli che la compongono: tambë, ilsa, latuken, kanu, anga, laurë» spiegò l’artefice. Rame, argento, stagno, piombo, ferro e oro: questi i metalli che aveva amalgamato e incantato, rendendoli più duri del diamante. La catena aveva un colore verde chiaro, mutevole sotto la luce, ed era così pesante che Aulë la reggeva a stento con l’aiuto dei suoi collaboratori. «Questa impedirà a Melkor di cambiare forma, o anche di abbandonare del tutto la sua spoglia per fuggire» proseguì il Fabbro. «Ma bisognerà pur sempre mettergliela!».

   «A questo ci penso io» disse Tulkas, scrocchiandosi le nocche.

   «Se andate in guerra, anche noi vogliamo partecipare!» disse Makar, facendosi avanti con Meássë. Dopo la magra figura che avevano fatto all’epoca della caduta dei Lumi, i Valar li avevano presi con sé a Valinor per sorvegliarli. Da allora si erano sempre comportati bene e avevano persino accompagnato Oromë in alcune delle sue cacce, tanto che ormai potevano aggirarsi liberamente per il paese.

   «E sia, dato che ci serve il massimo della potenza» disse Tulkas. «Ma badate a voi... questa è la vostra ultima possibilità! Traditeci ancora e farete compagnia a Melkor nelle Aule di Mandos» avvertì.

   «Vi terrò d’occhio» aggiunse Eönwë.

 

   Così finalmente i Valar uscirono dal loro regno vigilato, suonando trombe e corni. L’Esercito dell’Ovest era condotto da Manwë in persona, che procedeva su un carro da guerra azzurro come il cielo, trainato da tre candidi destrieri chiamati Cirro, Cumulo e Strato. Il Signore dell’Aria impugnava un grande arco, le cui frecce giungevano sempre a bersaglio e colpivano con la potenza delle folgori. Accanto a lui c’era l’araldo Eönwë, armato di spada, che non aveva bisogno di cavalcatura in quanto si sosteneva in volo con le sue ali poderose. Anche Ilmarë si teneva accanto a loro, brandendo una lancia di pura luce. Oromë cavalcava il suo fedele Nahar, il destriero bianco dagli zoccoli dorati, e impugnava una lancia d’acciaio. Aveva anche spada e pugnale, in previsione del corpo a corpo. Su un altro cavallo, dal manto argenteo, procedeva Tilion, il cacciatore dall’arco infallibile. Anche Makar e Meássë galoppavano, lanciando alte grida, ed erano armati di tutto punto. Tulkas invece veniva a piedi, perché era il più veloce nella corsa. Mentre tutti gli altri indossavano corazze forgiate da Aulë, lui aveva una semplice tunica di cuoio e una cintura d’ottone, perché la sua pelle era invulnerabile. Non aveva armi, solo guanti cerchiati di ferro per colpire più duro. I Fëanturi montavano un carro scuro, con due destrieri: Mandos dirigeva quello nero e Lórien quello grigio pomellato. Centinaia di Maiar seguivano galoppando o talora correndo. Tra i primi vi erano Curumo e Olórin, armati di spada e bastone. Aulë, in ritardo perché aveva indugiato troppo alla fucina, si mosse per ultimo: la sua arma non era altro che il suo gran martello di fabbro.

   Giunti alla spiaggia di Aman, i Valar incontrarono Ossë, che li caricò su un poderoso vascello approntato per l’occasione. Lui stesso si mise al timone, rivestito da un’armatura argentea, mentre Uinen stava a prua e manteneva calme le acque. Il vascello spiegò le vele candide e sfrecciò in avanti, sospinto dai venti di Manwë. Una moltitudine di rapaci lo contornava, come anche molti uccelli marini. Lo precedeva Ulmo, sul suo carro sottomarino tirato per l’occasione da feroci orche, e soffiava nel suo corno di conchiglie.

   Così le Potenze solcarono velocemente il Mare, schivando le isole, e sbarcarono nel Beleriand settentrionale. Appena a terra Oromë squillò il suo corno, che riecheggiò tra le montagne, dette da allora Ered Lómin, i Monti Echeggianti. Quindi gli Immortali marciarono verso nord-est, senza che alcun nemico osasse sbarrar loro la strada. Attraversarono l’altopiano nebbioso dello Hithlum e varcarono gli Ered Wethrin, le Montagne dell’Ombra, discendendo nella piana settentrionale. I Monti di Ferro erano davanti a loro, scuri e avvolti da esalazioni. Utumno, la fortezza di Melkor, era molto più a oriente; ma per prima cosa dovevano sbarazzarsi dell’avamposto di Angband. Il che significava affrontare Mairon.

 

   Dalla sua torre d’osservazione su un picco montano, Mairon vide l’Esercito dell’Ovest che marciava contro di lui. Allora si sentì perduto, perché le imponenti fortificazioni di Angband gli parvero d’un tratto misera cosa, innanzi alla furia dei Valar. Cosa potevano, lui e gli altri difensori, contro i Signori dell’Ovest? Non erano alla loro altezza; né potevano affidarsi alla marmaglia degli Orchi. Ma lui non poteva certo abbandonare la sua fortezza senza combattere. Forse Melkor... no, non c’era da contare sul suo aiuto. Si sarebbe rintanato a Utumno, finché i Valar non fossero stati sopra di lui.

   Per rispettare le formalità, Mairon inviò Thuringwethil a Utumno con la notizia che il nemico si avvicinava. «Spero che almeno lei si salvi» pensò, osservandola volar via con tutta la rapidità delle sue ali. Poi si apprestò all’inutile resistenza. Schierò al meglio le sue forze, dai Valaraukar infuocati ai Boldog. Questi ultimi erano Maiar dell’ordine più infimo, che si erano incarnati in forme simili agli Orchi, diventandone i primi Capitani. C’erano anche molte bestie, soprattutto lupi mannari e pipistrelli vampiri. E naturalmente c’erano gli Orchi veri e propri. Per la maggior parte combattevano appiedati, salvo alcuni che montavano i lupi. Erano equipaggiati alla meno peggio con armi in ferro, e molti avevano armature dello stesso metallo. Mairon aveva cercato di farne un esercito addestrato, ma malgrado i suoi sforzi erano ancora pericolosamente indisciplinati. Si erano preparati a lungo, combattendo fra loro, ma non avevano mai affrontato una vera guerra: questo era il loro battesimo del fuoco.

   Non osando affrontare i Valar lontano dalla sua fortezza, Mairon tenne le proprie forze entro i cancelli di Angband. Fu davanti a quei cancelli che si piantò Eönwë, lanciando il suo ultimatum: «Udite, servi dell’Ombra! I Signori dell’Ovest sono qui per porre fine alle vostre malefatte. Se vi arrendete, sarete tratti a Valinor per essere giudicati. Sconterete tre ere di prigionia nelle Aule di Mandos, ma se al loro scadere Manwë avvertirà in voi il pentimento, vi sarà data l’ultima occasione di redimervi. Se invece persevererete nel male, allora le vostre spoglie mortali saranno distrutte. I vostri spiriti torneranno, nudi e tremanti, al cospetto di Melkor, per subire il tormento del suo disprezzo; oppure vagheranno in eterno nelle terre desolate. A voi la scelta! In ogni caso, questa rocca malvagia sarà abbattuta e i suoi abissi saranno purificati dal fuoco dei Valar. Ebbene, Mairon, cosa rispondi?!». All’ultimo momento Eönwë non aveva resistito, e anziché rivolgersi genericamente ai servi di Melkor aveva interpellato il suo ex amico.

   Ci fu un lungo silenzio. Dal suo elevato posto di vedetta, Mairon osservò l’Esercito dell’Ovest, trovandolo ancora più possente di quanto temeva. Osservò uno dopo l’altro i suoi antichi compagni, stentando talvolta a riconoscerli, perché era passato un tempo incommensurabile e alcuni avevano mutato aspetto. D’un tratto un bagliore accanto al carro di Manwë attirò la sua attenzione. Che fosse... no, impossibile!

   Sforzando al massimo la sua Vista, Mairon osservò quella guerriera splendente, sebbene la luce intensa gli ferisse gli occhi ormai avvezzi all’oscurità. La riconobbe: era Ilmarë. La fanciulla si accorse del suo sguardo e lo fissò a sua volta, ma i suoi occhi erano così splendenti di collera e sdegno che Mairon ne fu ferito e dovette distogliere lo sguardo. Si prese la testa fra le mani, chiedendosi che fare... e capì che non aveva scelta. Aveva già l’armatura; indossò anche l’elmo irto di punte e impugnò la sua gran mazza ferrata. Poi scese nelle profondità di Angband, per dare ordini ai suoi. Se doveva perire, ebbene, lo avrebbe fatto combattendo; e magari si sarebbe preso la soddisfazione di trascinare qualche nemico con sé. Magari proprio Eönwë, colui che odiava più di tutti.

   Davanti ai cancelli, l’araldo attendeva ancora una risposta. Invece delle parole giunse un rullo di tamburi che saliva dalle profondità della terra. I Monti di Ferro avvamparono, riversando fiumi di lava sulla pianura; i fulmini scoccarono contro l’Esercito dell’Ovest. Così ebbe inizio l’Assedio di Angband, prima battaglia della Guerra dei Poteri. Fu una guerra combattuta in primo luogo per salvare gli Elfi; eppure gli Elfi non vi presero parte, essendo ancora pochi e disarmati. Anzi ne seppero ben poco, salvo che il suolo tremava sotto i loro piedi, le acque erano sommosse e al Nord ardevano immani fuochi.

 

   Al primo assalto di Mairon seguì la reazione dei Valar; e fu una guerra d’elementi. Alcuni Immortali, come Aulë, potevano camminare sulla lava senza subirne danno; ma per proteggere anche gli altri Manwë alitò sulla roccia incandescente, che subito si raffreddò. Ora che il magma solidificato occludeva i condotti vulcanici, i Monti di Ferro cominciarono a esplodere, devastando Angband. Mairon evocò fulmini contro i Valar, che si protessero con scudi e incantesimi; ma il Signore dell’Aria scagliò folgori ben più potenti contro la fortezza. Intanto gli Immortali più forti, come Aulë e Tulkas, scagliavano intere rupi contro il torrione principale di Angband. E Ilmarë, dal canto suo, bersagliava il cancello con le sue lance di luce, nel tentativo di sfondarlo. Ogni impatto era un lampo accecante, che spaventava i demoni e ancor più gli Orchi asserragliati all’interno. Mairon si rese conto di temerla più di ogni altro avversario.

   Infine Tulkas si fece avanti fino al cancello, passando indenne attraverso la cascata d’olio bollente che gli Orchi gli rovesciavano addosso. Radunata tutta la sua forza divina, colpì il cancello col suo pugno d’acciaio, facendolo risuonare. Sette volte compì quel gesto, con forza sempre uguale. Ogni volta i cardini scricchiolavano e i demoni appostati all’interno si ritraevano spaventati. Al settimo colpo, i cardini saltarono e il massiccio portone d’acciaio cadde all’interno, schiacciando decine di Orchi. Allora una pioggia di frecce avvelenate investì Tulkas; ma Oromë gli fu accanto e lo protesse col suo gran scudo rotondo.

   «Con me, paladini dell’Ovest!» tuonò Eönwë, conducendo alla carica il grosso delle truppe di Valinor.

   Allora i due eserciti vennero a cozzo. Per la prima volta gli Orchi si trovarono di fronte i Valar e i Maiar nel pieno della loro furia; e ne furono annichiliti. Le loro schiere tenebrose furono consumate da fuoco e folgori; tuttavia continuarono a gettarsi all’assalto, perché una morte rapida era preferibile al tornare indietro dai loro padroni.

   I Valaraukar e gli altri demoni furono avversari più ostici, ma neanche loro potevano veramente reggere il confronto coi Valar, o coi Maiar di rango più elevato. Nella mischia si distinsero Makar e Meássë, che trucidarono una quantità indescrivibile di demoni, riscattando la loro antica colpa. Ridevano nel combattere, e risero ancora di più vedendo che le loro braccia si erano insanguinate fino ai gomiti, perché erano pur sempre spiriti barbarici, che godevano della violenza. Accanto a loro, Tilion trafiggeva un mostro dopo l’altro con le sue infallibili frecce, che foravano anche le corazze più dure. Mandos imperversava, brandendo una falce adamantina: a ogni colpo tagliava in due un demone. Lórien invece aveva il potere di confondere i nemici con allucinazioni così realistiche che essi lottavano tra loro, credendo di affrontare i Valar. Eönwë lottava con una spada per mano, e quel giorno abbatté così tanti demoni da meritarsi l’appellativo di “miglior spadaccino di Arda”. Anche Aulë si rivelò un potente guerriero: i suoi colpi di martello aprivano voragini nel pavimento, in cui Orchi e mostri sprofondavano.

   E c’era Ilmarë. L’ancella di Varda era trasfigurata nella sua furia: scagliava le sue lance a ripetizione, trucidando un demone dopo l’altro. In particolare trafisse al cuore Ulbandi, una delle più potenti demonesse, il cui spirito fu bandito e da allora cessò di tormentare il mondo. «Mairon! Dove sei, Mairon?!» tuonò Ilmarë. Nella sua impazienza, dimenticò l’avvertimento di Varda: scavalcò il corpo di Ulbandi e si spinse più avanti d’ogni altro Immortale.

   «Sono qui, Ilmarë» disse Mairon, apparendole tutto rivestito nella sua corazza. «Quanto tempo è passato... non speravo di rivederti. Sei ancora bellissima».

   «Tu invece sei diventato una serpe!» gridò Ilmarë. «Non sei più Mairon l’Ammirevole... dovresti essere chiamato Sauron, l’Aborrito! Sei solo uno schiavo di Melkor, e come tale sarai trattato!». Evocò l’ennesima lancia luminosa e si accinse a scagliarla.

   «Uccidimi, allora!» la sfidò Mairon, trafitto da quelle accuse. Lasciò cadere la mazza ferrata, poi si levò l’elmo, mostrando il viso. Per quanto fosse corrucciato, non aveva ancora perso l’antica bellezza. Nei suoi occhi ardeva una luce gialla, che però si spense mentre ammirava Ilmarë. «Se non posso avere l’amore da te, allora avrò la morte. Ben venga!» disse, aprendo le braccia per fare da bersaglio. Non stava bluffando; era davvero convinto che Ilmarë l’avrebbe finito. La fissò in volto, perché voleva morire con quell’immagine negli occhi.

   La Maia esitò, brandendo la lancia; infine la scagliò. L’asta luminosa sibilò nell’aria... e si piantò nella parete rocciosa alle spalle di Mairon. Questi fremette, perché si aspettava di riceverla nel petto. Guardò l’asta risplendente, ancora infissa nella roccia, e poi Ilmarë. Non era possibile che avesse mancato il bersaglio... dunque lo aveva graziato.

   «Un tempo fosti grande tra noi» disse Ilmarë. «Lo saresti ancora, se solo avessi l’umiltà di venire a chiedere perdono. Guarda Ossë: lui l’ha fatto ed è nuovamente al servizio di Ulmo. Persino Makar e Meássë hanno posto la loro furia al servizio di un fine costruttivo. Perché non puoi farlo anche tu? Cosa ti trattiene?!» chiese, con le lacrime agli occhi.

   «Oh, Ilmarë... credevo di vedere più lontano di tutti, ma sono stato cieco...» mormorò Mairon, facendo un passo in avanti. Si sarebbe arreso? Sì, era quello che voleva. In quella però udì la voce tonante di Eönwë.

   «Ilmarë, torna indietro! È pericoloso!» gridava l’araldo, lottando per venirle a fianco. In quella però i sette Valaraukar lo circondarono, avvolgendolo nelle loro fruste di fiamma. In tal modo riuscirono a bloccargli le braccia lungo i fianchi, immobilizzandolo. Le fruste infuocate sfrigolavano contro l’armatura del Maia, che faceva sforzi convulsi per liberarsi; i demoni non l’avrebbero trattenuto a lungo.

   A quella vista, Mairon sentì rinascere tutto l’antico rancore che gli portava. Era stato lui a soffiargli Ilmarë, lui a condannarlo a quell’eternità di tenebre e solitudine. Doveva pagare. Il bagliore sulfureo si riaccese negli occhi del Maia, ed egli decise d’approfittare della temporanea vulnerabilità del suo rivale. Agguantò la lancia di luce che Ilmarë gli aveva scagliato, estraendola dalla parete, e la scagliò con tutte le sue forze contro il petto di Eönwë.

   «No!» gridò Ilmarë, avvedendosi del pericolo. Non aveva il tempo di evocare un’altra lancia, né di liberare il suo amato dalle fruste dei demoni. Perciò fece l’unica cosa che le restava: si frappose, ricevendo il colpo in pieno petto. La lancia luminosa le perforò la leggera armatura, trafiggendola da parte a parte. Per un attimo la fanciulla rimase in piedi, fissando Mairon con espressione tradita; poi si accasciò con un sospiro, unica vittima tra le schiere dell’Ovest. Col venir meno dei suoi poteri, anche la lancia perse energia e si dissolse.

   «NO!» gridò Eönwë, che aveva visto tutto. Con uno sforzo titanico girò su se stesso, sollevando i Valaraukar da terra e facendoli girare attorno a sé. I demoni guairono e uno dopo l’altro dovettero mollare le fruste, venendo scagliati lontano. A quel punto si ritirarono in abissi profondi, perché i Valar avevano sbaragliato gli altri demoni e stavano per piombare su di loro.

   E: «NO!» gridò anche Mairon, vedendo la sua amata cadere per colpa sua. Le si precipitò accanto, per esaminare le sue condizioni. Ilmarë giaceva come morta, con il corpo trafitto; eppure perdeva pochissimo sangue. Forse non tutto era perduto. Il suo spirito, che era forte, stava rigenerando il corpo; e certo Ilúvatar le avrebbe permesso di risvegliarsi. Ma Mairon doveva evitare che l’amata subisse altri colpi, in quel marasma; e voleva anche portarla via con sé. C’erano molte cose che voleva dirle, non appena si fosse risvegliata. Così la prese tra le braccia, sollevandola senza sforzo.

   Per un attimo Mairon rimase fermo in quella posa. I suoi occhi incrociarono quelli di Eönwë, che lottava furiosamente per raggiungere la sua amata. Il signore di Angband non aveva la minima intenzione di aspettarlo. Fuggì nella galleria e da lì attraverso un passaggio segreto, che gli dette un poco di respiro dall’inseguimento. Sentiva il boato della battaglia sopra di sé e sapeva che, senza la sua guida, il suo esercito si sarebbe rapidamente disperso; ma che importava? Anche se fosse rimasto nella mischia, non avrebbe potuto cambiarne l’esito. La battaglia era persa, lo aveva sempre saputo; ed era probabile che con essa finisse anche il suo servaggio presso Melkor. Meglio così... ne aveva abbastanza di quel crudele padrone. L’unica cosa che gli importava, ormai, era mettersi in salvo con Ilmarë. Quel dolce peso tra le braccia gli ricordava i suoi peccati, ma al tempo stesso gli pareva la sua unica speranza di redenzione.

   Mairon si calò fin nelle viscere della terra, attraverso gallerie segrete che lui solo conosceva. Le aveva scavate proprio per approntarsi una via di fuga, nel caso tutto fosse perduto. Il suolo tremava per la violenza dello scontro soprastante; più volte il Maia temette che la volta gli crollasse addosso, seppellendolo con la sua amata. E a un certo punto vi fu davvero un crollo, ma alle sue spalle. Meglio così: gli Immortali avrebbero fatto ancor più fatica a seguirlo.

 

   Dopo quella che gli parve un’eternità, Mairon emerse in superficie. Si trovava ormai a una certa distanza da Angband, sul versante settentrionale dei Monti di Ferro. Davanti a lui si stendeva la piatta desolazione di Dor Daidelos, la regione del freddo perenne. Il suolo era ricoperto di ghiaccio e dal nord spirava un vento gelido, che gli coprì i capelli di brina. L’uscita della galleria si trovava a ovest di Angband, non a est, come sarebbe parso più logico per chi volesse ritirarsi in fretta a Utumno. Mairon infatti non voleva riparare nella fortezza del suo padrone; non ne aveva mai avuta intenzione, perché sapeva che Melkor non tollerava i fallimenti. A quel punto preferiva nascondersi altrove, in attesa di vedere l’esito della Guerra.

   Quanto all’Assedio di Angband, l’esito era ormai scontato. Con la caduta dei demoni, la potenza dei Valar poté calare nelle viscere della terra, purificando sale e gallerie dagli orrori che le infestavano. Gli Orchi furono sterminati, salvo quei pochi che fuggirono tramite qualche pertugio. Anche a quella distanza, Mairon vide i fuochi e i fulmini che avvolgevano la sua fortezza, riducendola a un ammasso di rovine fumiganti. Udì un boato sempre più forte e sentì tremare la terra, mentre le volte di Angband crollavano, seppellendo gli ultimi demoni e Orchi sotto strati così massicci di detriti che ci sarebbero voluti secoli per scavarli.

   «Sono stato fortunato a cavarmela» si disse Mairon. Poi ricordò che la fortuna non c’entrava; era stato graziato da Ilmarë. Allora posò lo sguardo su di lei. La fanciulla era ancora priva di sensi, anche se la sua ferita aveva smesso di sanguinare. Che fare adesso? Doveva fuggire ancora più lontano, o cercare un posto in cui adagiarla e prestarle soccorso? Dopo averci riflettuto un po’, Mairon la posò delicatamente a terra, maledicendo di doverla deporre sul freddo ghiaccio, anziché su un giaciglio. Dopo di che pose le mani sulla sua ferita, cercando di ricordare qualche incantesimo di guarigione. Un tempo ne conosceva molti, ma ormai li aveva scordati quasi tutti. Da tanto usava i suoi poteri per ferire e uccidere, anziché per curare. Alla fine riuscì a borbottare qualche formula smozzicata, che ebbe scarso effetto.

   Udendo il boato di un nuovo crollo da Angband, Mairon rialzò la testa e osservò preoccupato i resti della sua fortezza. Si aspettava che gli Immortali si lanciassero al suo inseguimento: dopotutto lo avevano visto fuggire con Ilmarë. Quantomeno Eönwë non avrebbe smesso di cercarlo. E lui non era altrettanto veloce, negli spostamenti... non ora che doveva portare Ilmarë con sé. «Forse dovrei lasciarla qui... loro la troveranno e la cureranno meglio di come potrei fare io» si disse Mairon. Ma non sopportava l’idea di abbandonarla, ora che l’aveva ritrovata dopo così tanto tempo. Perciò la riprese in braccio e si allontanò di nuovo, anche se con ogni probabilità stava solo ritardando l’inevitabile.

   Giunto a una piccola caverna che si apriva all’estremità occidentale dei Monti di Ferro, Mairon vi entrò con Ilmarë. Adagiò di nuovo a terra la sua amata, sempre priva di sensi. Tornato all’entrata, riuscì a sollevare il ghiaccio – con difficoltà, non essendo il suo elemento – per sigillare l’ingresso. Erano in salvo, per il momento. Non c’erano torce, ma il corpo d’Ilmarë era sempre circonfuso da una tenue luminosità, che riverberava sulle pareti di ghiaccio della grotta. In quel chiarore, Mairon poté ammirarla. Aveva quasi dimenticato cosa fosse la bellezza, dopo tanto orrore e squallore. Aveva quasi dimenticato cosa fosse l’amore. «Destati, mia adorata... t’imploro» le sussurrò, ma Ilmarë rimase pallida e fredda.

 

   «Insomma, dobbiamo trovarla! A costo di mettere a soqquadro tutto il Nord!» sbraitò Eönwë. Ora che la battaglia era finita, e le Potenze si erano radunate davanti all’ingresso crollato di Angband, il pensiero d’Ilmarë era pressante. Aveva visto Mairon fuggire con la fanciulla priva di sensi tra le braccia e... non voleva neanche pensare a cosa le avrebbe fatto quel mostro.

   «Siamo tutti in pena per lei» disse Oromë. «Ma ora che Angband è distrutta, non possiamo attardarci. Il nostro scopo è espugnare Utumno e incatenare Melkor. Se perdiamo tempo a inseguire i fuggitivi, il nostro nemico principale ne approfitterà per macchinare nuove diavolerie. Potrebbe anche abbandonare Utumno per nascondersi altrove, nel qual caso sarà stato tutto inutile».

   «Mi spiace dirlo, ma è vero» convenne Tulkas. «Non possiamo vanificare questa vittoria con un ritardo che comprometterà il resto della guerra».

   «Bene, allora, voi andate!» sbottò Eönwë. «Datemi solo un paio di compagni fidati con cui proseguire le ricerche».

   «Tu non capisci» disse Manwë tristemente. «Abbiamo avuto qualche difficoltà a espugnare Angband; a Utumno ci attende un avversario cento volte più forte. Ci servono tutti i nostri guerrieri, nessuno escluso. Non possiamo rinunciare al più grande spadaccino di Arda».

   «Ma...».

   «Già ho dovuto inviare un distaccamento con Olórin e altri a Cuiviénen per vigilare sugli Elfi» lo interruppe Manwë. «Non mi priverò di altri combattenti. La nostra strada va a Utumno; è la mia ultima parola» decretò.

   Ci furono alcuni momenti di silenzio. Per la prima e unica volta in vita sua, Eönwë fu sul punto di trasgredire a un ordine di Manwë e fare di testa sua. «Che ne sarà di Ilmarë?» sussurrò, gli occhi appannati di lacrime.

   «Se la sua ferita è grave come sembrava, il suo spirito ne abbandonerà la spoglia» rispose Manwë. «Allora volerà a Valinor, dove riacquisterà un nuovo corpo. La grazia d’Ilúvatar è con lei, dunque non le sarà negata questa possibilità».

   «Sarà davvero così?» chiese Eönwë, rivolgendosi con ansia a Mandos. Questi guardò Manwë, che con un cenno lo invitò a rispondere.

   «Profonda è la ferita della carne, ma più profonda ancora quella dello spirito» rivelò il Giudice dei Valar. «Passerà molto tempo prima che Ilmarë desideri aggirarsi in forma visibile nel Mondo». E non disse altro.

   Eönwë chinò il capo, affranto. «Aspetterò» disse. «Ma nel frattempo non ci sarà gioia per me, neanche se riusciremo ad abbattere Utumno e incatenare Melkor».

   «Andiamo, allora!» tuonò Tulkas. «Non vedo l’ora di mettere le mani addosso a quel demonio!». Accanto a lui, Makar e Meássë si scambiarono un sorriso, pregustando una battaglia ancor più sanguinosa di quella appena conclusa.

   «Sì, andiamo» si riscosse Manwë. «E che il nome d’Ilmarë, la stella caduta, sia il nostro canto di vittoria!».

 

   Come paventato, l’Assedio di Utumno fu assai più lungo e duro; davanti alle sue porte si combatterono numerose battaglie. La Terra di Mezzo ne fu scossa e danneggiata, anche a grande distanza. Tra i ghiacci dell’Helcaraxë all’estremo nord e il Grande Golfo meridionale si aprirono molte baie minori, come quella di Balar. Gli altopiani del Beleriand si sollevarono ulteriormente e da essi il fiume Sirion scese con un nuovo corso. Alcune foreste arsero e certi mammiferi di grossa taglia si estinsero.

   Eönwë combatté senza risparmiarsi in quell’ultima battaglia: con le sue mani trucidò Langon, al termine di un terribile duello sulle soglie di Utumno. Un altro potente demone, Fangli, fu ferito dalle frecce di Tilion e fuggì a Oriente; di lui si persero le tracce. Infine le porte di Utumno vennero infrante e i sotterranei scoperchiati. Anziché contrattaccare, Melkor si rifugiò nella voragine più profonda. Quando lo videro, i Valar si meravigliarono di quanto fosse decaduto dal suo antico potere. Dell’entità capace di abbattere i Lumi e sconvolgere il mondo restava ben poco; al suo posto c’era solo un tiranno in armatura, che tremava alla loro vista. Ciò che più di tutto lo aveva indebolito era stata la creazione degli Orchi e delle altre creature oscure, perché aveva dovuto infondere molto del suo potere in loro.

   «Mio povero, sciagurato fratello» disse Manwë con tristezza. «Hai disperso il tuo potere nelle sostanze del mondo, lo hai frazionato nei tuoi schiavi. Ora non te ne resta per affrontarci».

   «Poco male» rispose Melkor. «Ora per distruggermi dovreste distruggere il Mondo».

   «Non ti distruggeremo» disse Manwë. «Ma ti metteremo in condizione di non nuocere».

   Allora Tulkas si fece avanti, in veste di campione dei Valar. Melkor cercò di colpirlo con Grond, ma il Lottatore schivò agilmente tutti i colpi. Alla prima occasione gli afferrò il martello per il manico, con la mano sinistra, e lo tenne fermo, mentre caricava il colpo con la destra. Un solo pugno bastò a scagliare indietro l’Oscuro Signore, spaccandogli i denti. Allora Tulkas gettò lontano Grond, non volendo impugnare quell’arma malvagia. Si avventò su Melkor, che si stava rialzando, e con l’aiuto di Aulë lo avvolse nella catena Angainor, forgiata allo scopo. Mani e piedi dell’Oscuro Signore furono serrati nei ceppi. A quel perfido contatto, il verde tilkal divenne rosso e sfrigolò, ma resistette. Melkor fu trascinato via, così incatenato, e il mondo ebbe pace per lungo tempo. Molti dei suoi servitori però rimasero acquattati nei profondissimi sotterranei di Angband e Utumno, mai completamente purificati dai Valar. Altri ancora fuggirono nelle tenebre e vagarono per luoghi desolati, in attesa della rivincita. Tra questi vi era Mairon, con sommo dispiacere di Eönwë, che aveva sperato di ritrovarlo a Utumno.

   Ora che la Guerra era terminata, i Valar portarono Melkor a Valinor, legato mani e piedi, con gli occhi bendati. Lo trascinarono fino all’Anello della Sorte, benché ancora urlasse e si dibattesse. Qui l’Oscuro Signore giacque a faccia in giù ai piedi di Manwë; allora cambiò tono. «Perdonami, fratello!» si umiliò. «Ero in preda alla follia, ma ora è passata. Slegami, così che io possa aiutarti a guarire le ferite che ho inferto al mondo!».

   «Puoi riportare in vita i Quendi che hai ucciso? Puoi riavvolgere il fiume del tempo e salvarli dalle immonde torture che gli hai inflitto? Certo che no! Allora non sprecare il fiato» lo gelò Manwë. «Sarai rinchiuso per tre Ere nelle Aule di Mandos, da cui nessuno può fuggire. Solo allo scadere di questo tempo la tua causa sarà ridiscussa e potrai invocare di nuovo il perdono» decretò.

   Così fu fatto. Le grida di Melkor si affievolirono mentre Oromë e Tulkas lo trascinavano via, per tacere del tutto quando le porte di Mandos gli si chiusero dietro. Poi i Valar tennero di nuovo concilio, per decidere come amministrare il Mondo ora che l’Ombra si era attenuata; e i pareri furono discordi. Alcuni – in primo luogo Ulmo – ritenevano che i Quendi dovevano essere lasciati liberi di aggirarsi a loro piacimento nella Terra di Mezzo, così che grazie ai loro talenti questa rifiorisse. La maggior parte, però, temeva per la loro incolumità nel mondo infido, appena rischiarato dalle stelle. E poiché amavano gli Elfi, avrebbero voluto averli presso di sé, per godere della loro compagnia e al tempo stesso istruirli.

   «Noi li inviteremo» decise Manwë, «ma gli lasceremo piena libertà di seguire il nostro invito o di rifiutarlo. Quelli che bramano la Luce degli Alberi potranno goderne per sempre. Gli altri, quelli che sceglieranno il Crepuscolo della Terra di Mezzo, saranno parimenti accontentati».

   «Così è destinato» disse Mandos, lapidario.

 

 

-Commento:

   In questo capitolo si verificano grandi eventi, primo fra tutti il risveglio degli Elfi. Nel Silmarillion ciò avviene quando Varda crea (o per meglio dire “riaccende”) le stelle, usando le rugiade argentee di Telperion. Siccome nel mio racconto ho adottato una visione eliocentrica, mi sono tenuto nel vago, dando l’idea che Varda abbia semplicemente disperso i fumi che appestavano l’atmosfera, rendendo visibili gli astri. Il fatto che siano apparse nuove costellazioni come la Falce dei Valar (cioè il Grande Carro o Orsa Maggiore) può dipendere semplicemente dal fatto che, essendo passato molto tempo, le stelle hanno cambiato assetto.

   Col risveglio degli Elfi si verifica, fatalmente, la creazione degli Orchi. Tolkien in realtà cambiò più volte idea sull’argomento. Nei Racconti Ritrovati leggiamo che Melkor li trasse «dalle calure e dalle melme del sottosuolo», come ci ha mostrato anche Peter Jackson nella versione cinematografica del Signore degli Anelli (in quel caso è Saruman che lo fa a Isengard, ma si suppone che segua le stesse modalità). Nel Silmarillion però leggiamo che gli Orchi nacquero dalla manipolazione degli Elfi, dato che Melkor non ha il potere di creare vita autonoma. Negli ultimi anni Tolkien avanzò una terza ipotesi: che gli Orchi discendessero dai Boldog, cioè Maiar malvagi d’infimo ordine che si erano incarnati in forme orchesche. Io ho seguito la versione del Silmarillion, che mi pare la più drammatica, soprattutto se consideriamo quanto ciò sia un affronto che Melkor compie contro Ilúvatar. In un certo senso è l’apice della rivolta che aveva iniziato nell’Ainulindalë, il suo tentativo di sostituirsi al Creatore. E Mairon gli si accoda, per quanto riluttante, allontanandosi sempre più dalla grazia.

   Arriviamo così alla scoperta degli Elfi da parte di Oromë, che innesca la Guerra dei Poteri contro Melkor. Volendo espandere il ruolo d’Ilmarë, ho immaginato che anche lei prenda parte al conflitto, scagliando le sue “lance di luce”. Eönwë è inquieto, poiché teme che la sua amata non avrà la fermezza necessaria ad abbattere Mairon. Tuttavia non cerca di fermarla, perché a differenza di Mairon rispetta le sue scelte. La descrizione del pittoresco esercito dei Valar che muove all’assalto delle fortezze di Melkor è ispirata ai Racconti Ritrovati.

   L’attacco contro Angband è apocalittico, sebbene sia solo un pallido preludio di ciò che accadrà con Utumno. Ma poiché la mia storia s’incentra su Mairon, ho descritto questa battaglia in modo più approfondito, immaginando che ogni Vala combatta col suo stile e tutti collaborino ad abbattere la fortezza. Qui però si consuma la tragedia, perché effettivamente Ilmarë non ha cuore di uccidere Mairon, sebbene sia proprio lei a chiamarlo Sauron in segno di disprezzo. Gli offre la possibilità di redimersi, ma ancora una volta Mairon rovina tutto, perché nel tentativo di colpire Eönwë trafigge proprio la sua amata. Non gli resta che fuggire col suo corpo inanimato tra le braccia e nascondersi lontano, mentre i Valar abbattono Angband e poi devono affrettarsi a Utumno, dove li attende la battaglia principale.

   Alla fine Melkor è incatenato con Angainor e gettato nelle Aule di Mandos, come leggiamo nel Silmarillion. Ma non tutto il male è distrutto, tanto che gli Elfi sono invitati a Valinor per proteggerli dai pericoli ancora in circolazione. E nella mia versione il prezzo della vittoria è ancora più elevato, perché Mairon è fuggito con Ilmarë; ne vedremo gli effetti nel prossimo capitolo.

 

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Capitolo 7
*** Il lungo sonno ***


-Capitolo VI: Il lungo sonno

 

   «Datevi da fare, vermi!» sbottò Mairon, passeggiando tra i suoi Orchi intenti al lavoro. Da quando i Valar si erano ritirati all’Ovest, portando con sé gran parte del popolo elfico, lui era rimasto padrone della Terra di Mezzo nord-occidentale. Ma era un dominio di cui non sapeva che farsene. I suoi soli sudditi erano luridi Orchi, ottusi Troll e qualche altra creatura oscura, come i lupi mannari. Erano ben misere briciole delle sue schiere, quel poco che era sopravvissuto alla collera dei Valar, nascondendosi in tane sotto i monti.

   In teoria c’erano anche i sette Valaraukar, ma loro si erano rintanati in una profonda caverna sotterranea e rifiutavano di muoversi. I loro fuochi parevano estinti, così che somigliavano a morti ammassi di pietra. In realtà la vita covava ancora in loro, ma erano quiescenti. Si sarebbero risvegliati solo al ritorno del loro Signore, Melkor... che poteva anche non verificarsi mai. Pochissimi altri Maiar erano sopravvissuti alla distruzione di Angband e Utumno, e ora lentamente si stavano radunando sotto il vessillo di Mairon. Tra questi c’era Thuringwethil, fuggita chissà come dalla rovina di Utumno. Nel rivederla, Mairon aveva provato qualcosa di vagamente simile al sollievo, ma non lo aveva dato a vedere, anzi l’aveva redarguita per essere scappata.

   Così Mairon era padrone di un regno in rovina. Per qualche tempo si era aggirato esaminando i danni, che erano ingenti. Poi, più per combattere la noia che per vera convinzione, aveva dato inizio alla ricostruzione. Aveva messo i suoi servi al lavoro, anche se le operazioni procedevano a rilento, senza la sferza di Melkor. Orchi e Troll facevano spesso più danni che altro, e Mairon stesso non si applicava ai progetti come avrebbe dovuto. A volte i lavori si fermavano per mesi interi, senza apparente motivo.

   In realtà c’era anche una ragione pratica per fare le cose così alla chetichella: Mairon non aveva scordato la furia dei Valar e temeva che, se si fosse dichiarato apertamente, le Potenze sarebbero tornate per finire il lavoro. Così preferiva starsene rintanato nel sottosuolo, dando l’impressione che Angband fosse ancora un cumulo di rovine. E in effetti un visitatore che si fosse spinto fino ai cancelli crollati avrebbe visto ben pochi segni di vita. Semmai sarebbe stato sorpreso dalla quantità di scheletri d’Orchi che giacevano sparpagliati sul campo di battaglia, con le loro armi e armature che lentamente arrugginivano. Solo varcando la soglia avrebbe sentito il battere dei picconi che saliva dal basso, punteggiato dallo sferzare di fruste e dalle grida degli Orchi colpiti. L’Angband sotterranea tornava a crescere come un formicaio, mentre la parte in alzato rimaneva in rovina.

 

   Come ogni giorno, Mairon concluse il suo giro d’ispezione. Non c’erano molte novità... aveva strangolato un paio di capomastri Orchi incapaci, sostituendoli con altri che probabilmente avrebbero fatto la stessa fine, e aveva discusso brevemente della possibilità di rimettere in funzione alcune fornaci. Tutte questioni poco interessanti. Era ben altro, che gli stava a cuore.

   Ora che l’ispezione era terminata, cominciava la parte più dolce e al tempo stesso più dolorosa della giornata. Ancora rivestito della sua armatura con l’elmo puntuto, che usava per spaventare gli Orchi, il Maia si guardò attorno furtivo, accertandosi che nessuno lo seguisse. Poi varcò un cancello che solo lui era autorizzato ad aprire e se lo richiuse accuratamente dietro, sigillandolo con nove lucchetti. Facendosi luce con una torcia, scese per una ripida scalinata, che rimbombava a ogni suo passo.

   Giunse così alla più profonda e inaccessibile di tutte le caverne. Era qui che aveva rinchiuso il suo più grande tesoro, il suo perenne tormento. «Buongiorno, tesoro» disse in tono colloquiale. «Come ti senti, oggi? Qualche miglioramento?».

   Non ci fu risposta... non c’era mai. Mairon c’era abituato, ma soffrì lo stesso. Allora dette inizio al suo piccolo rito quotidiano. Girò intorno al giaciglio che occupava il centro della grotta, accendendo una dopo l’altra le sottili candele che lo attorniavano. Ve n’erano a decine, quasi tutte inclinate e mezze sciolte. Alcune erano innestate su grossi candelabri arrugginiti, altre erano posate direttamente al suolo. Il pavimento era ingombro dei mozziconi di quelle consumate. Poco alla volta le pallide fiammelle crearono un lucore crescente, che rischiarò la spelonca. In quel bagliore irreale, il giaciglio divenne pienamente visibile. Le coperte, un tempo candide, erano ormai ingiallite e sdrucite. Le tarme le avevano corrose e i ragni avevano tessuto le loro tele ovunque. Mairon si disse che era tempo di fare pulizia... non poteva lasciare che la sua amata riposasse in quello squallore.

   Sul letto giaceva infatti Ilmarë, immersa da tempo immemorabile in un sonno simile alla morte. Da quel giorno, cioè, in cui lui l’aveva colpita accidentalmente. La ferita si era da tempo rimarginata, senza lasciare traccia. Il suo cuore batteva, i polmoni respiravano, eppure Ilmarë non si destava. I suoi occhi divini rimanevano chiusi; non potevano vedere Mairon inginocchiato accanto a lei. Le sue orecchie rimanevano sorde alle parole d’amore e di scuse che lui le sussurrava. I capelli argentei le facevano corona, spandendosi a ondate sul letto e scendendo fin quasi al pavimento, perché continuavano lentamente a crescere. E il suo incarnato rimaneva pallido, come quello di un cadavere; ma Ilmarë non era morta.

   «Ritorna da me, mia adorata... t’imploro, ritorna da me!» sussurrò Mairon con voce roca. Da quant’era che ripeteva quotidianamente quel rituale? Secoli, millenni? Non lo voleva sapere. Le aveva provate tutte per farla risvegliare, ma invano. Le aveva parlato a lungo, ricordando i tempi lontani della loro giovinezza, prima che l’Ombra li dividesse. Aveva usato su di lei quei pochi poteri curativi che gli restavano, cercando di renderle le forze e farla destare. Ma i suoi sforzi si erano sempre rivelati vani, condannandolo all’infelicità perpetua. E dire che era anche a causa d’Ilmarë se lui rimaneva così inattivo nella Terra di Mezzo: nel caso si fosse risvegliata, non voleva apparirle come il nuovo Signore Oscuro... sebbene ormai in gran parte lo fosse.

   Ma il tempo passava e la fanciulla rimaneva inerte. Era come se non volesse destarsi, malgrado lui l’avesse perfettamente guarita nel corpo. Forse averlo combattuto era stato troppo, per il suo spirito. Forse la fanciulla preferiva l’incoscienza e l’oblio alla dura realtà. Ma allora come poteva aiutarla?! Forse i Valar avevano la risposta. Magari Lórien, il Signore dei Sogni, o Estë la Guaritrice avrebbero saputo risvegliarla. Mairon però non osava andare a Valinor per chiedere il loro aiuto. Temeva che le Potenze lo avrebbero incatenato e rinchiuso per l’eternità nelle Aule di Mandos, con la sola compagnia di Melkor. E così facendo, gli avrebbero portato via Ilmarë per sempre. Adesso almeno ce l’aveva sotto gli occhi: poteva ammirarla, poteva parlarle. Poteva persino togliersi il guanto di ferro, tendere la mano nuda e sfiorarle la guancia, come stava facendo ora. Sentendo la sua pelle vellutata, si disse che non poteva rinunciare a quel contatto.

   Trascinato dall’emozione, Mairon si tolse anche l’elmo irto di punte, posandolo a terra. Inginocchiato accanto alla sua amata, si chinò su di lei per baciarla nel sonno. Stava per posare le labbra sulle sue, quando si bloccò. Gli pareva d’essere di nuovo in piedi davanti a lei, mentre tutt’attorno infuriava la battaglia, e di vedere la sua espressione tradita. La voce d’Ilmarë gli rimbombò nella mente, chiara come nel momento in cui gli aveva parlato: «Sei diventato una serpe! Non sei più Mairon l’Ammirevole... dovresti essere chiamato Sauron, l’Aborrito! Sei solo uno schiavo di Melkor, e come tale sarai trattato!».

   A quel ricordo, il Maia vacillò e si ritrasse. Indossò di nuovo il pesante elmo e il guanto di ferro. Attorno a lui, alcune candele cominciavano a spegnersi; la caverna tornava a riempirsi di ombre. «Hai ragione, mia adorata; non sono più Mairon» ammise il Maia. «Sono Sauron, e tale resterò per il resto dei miei giorni infelici». Sì, quel nome dispregiativo gli calzava a pennello.

   Rialzatosi, Sauron spense le candele una a una, alitandoci sopra. Poi riprese la torcia, che ardeva ancora, e risalì la ripida scalinata, abbandonando la dimora del suo tesoro. Richiuse accuratamente la porta blindata, sigillandola con i nove lucchetti.

   «Non hai ancora smesso di amarla?» chiese una voce alle sue spalle.

   Irritato e imbarazzato per essere stato sorpreso in quel momento privato, Sauron si girò di scatto. E si trovò davanti Thuringwethil, in forma umana ma avvolta nelle ali grinzose da vampiro, coi neri capelli scarmigliati che arrivavano fin quasi a terra. «La cosa non ti riguarda!» la redarguì.

   «Perché perdi il tuo tempo dietro quel corpo inerte? Perché la veneri come se fosse un idolo?» insisté la vampira. «Lei non merita la tua devozione! Se anche si svegliasse, come credi che ti tratterebbe? Ti aspetti forse di ricevere il suo amore? Macché... avrai solo odio e disprezzo!».

   «É ciò che merito» disse Sauron.

   «No, tu meriti molto di più!» gridò Thuringwethil, avvicinandosi con occhi ardenti. «Io ti sono sempre stata leale, lo sai. Ti ho sempre ammirato. Ti ho sempre... amato, sì!» confessò.

   «Non so che farmene del tuo amore» ribatté Sauron. «Nel mio animo non ci sarà mai spazio per un’altra».

   «Vuoi dunque farmi soffrire in eterno, come lei ha fatto soffrire te?!» esclamò la vampira, indicando la porta oltre la quale giaceva Ilmarë.

   A quelle parole, Sauron rimase interdetto. Non l’aveva mai vista in questi termini, ma in effetti il suo spregio per Thuringwethil doveva esasperarla, come Ilmarë aveva fatto con lui. «Sai com’è... al cuore non si comanda...» disse in tono più indulgente.

   «Hai ancora un cuore?!» lo irrise la vampira. «Ah, che inguaribile romantico! Ah, povero Mairon...!».

   «Mi chiamo Sauron!» ringhiò lui, e la rabbia fu tale da fargli sfrigolare l’armatura. «E sono il tuo Signore» aggiunse. L’agguantò per il collo e la sbatté contro la parete rocciosa. «Cosa devi dire al tuo Signore?».

   «Salve, Sauron, Re della Terra!» gracchiò Thuringwethil, spaventata dalla sua forza. «Quali sono i tuoi ordini?».

   «Avverti gli Orchi di armarsi. Tra poco scenderemo in guerra!» decise il Maia.

   «Contro chi?».

   «Contro gli Elfi Silvani, in particolare i Sindar. Troppo a lungo hanno infestato i boschi del Doriath, e ora Thingol e Melian osano proclamarsi signori del Beleriand!».

   «Melian è una potente Maia...» avvertì Thuringwethil, che la temeva.

   «Io sono più forte. La sconfiggerò e la trascinerò qui in catene!» dichiarò Sauron. Era stanco di signoreggiare sugli Orchi; voleva gli Elfi come sudditi. E chissà che Melian non potesse aiutarlo a risvegliare Ilmarë, si disse, lanciando un’ultima occhiata al portone. Dopo di che si allontanò a grandi passi.

 

   Il mondo era cambiato, mentre i servi di Melkor se ne stavano rintanati tra le rovine di Angband, tremebondi dopo la sconfitta subita. Oromë aveva guidato gli Elfi in una Grande Marcia dalla nativa Cuiviénen fino a Valinor, ma non tutti avevano risposto al richiamo. Alcuni, i Riluttanti, erano rimasti dov’erano. Altri ancora si erano messi in marcia, ma strada facendo si erano talmente innamorati della Terra di Mezzo da decidere di restarvi. Delle tre schiere – Vanyar, Noldor e Teleri – fu soprattutto l’ultima, la più consistente, a frammentarsi in gruppi che presero nomi diversi. I primi a fermarsi furono i Nandor, che sostarono nelle grandi foreste intorno al fiume Anduin. Da loro discesero i Silvani di Bosco Atro e i Galadhrim del Bosco d’Oro. Una volta entrati nel Beleriand, i Teleri conobbero nuove scissioni. Così i Laiquendi o Elfi Verdi si stabilirono nell’Ossiriand, i Sindar o Elfi Grigi nel Doriath e i Falathrim o Carpentieri sulle coste. Ciò che restava dei Teleri attraversò il Mare, come già avevano fatto i Vanyar e i Noldor, e dimorò nello splendore di Valinor.

   Tra gli Elfi rimasti nella Terra di Mezzo, i più potenti erano certamente i Sindar. Il loro re Elwë Singollo – poi detto Elu Thingol – era originariamente il signore di tutti i Teleri: era stato a Valinor e aveva visto la luce nobilitante dei Due Alberi. Ancor più elevata era la regina Melian, che apparteneva al popolo dei Maiar. Dal loro connubio, l’unico mai avvenuto tra le due stirpi, era nata Lúthien, la più soave fanciulla del mondo. Ammaestrati da Melian, i Sindar avevano abbandonato per primi l’antico stile di vita nomade. Con l’aiuto dei Nani di Belegost e Nogrod avevano scavato la cittadella sotterranea di Menegroth, facendone la più grande meraviglia a est del Mare. Anche i Falathrim fondarono delle città, lungo la costa: Brithombar ed Eglarest. In quel tempo c’era ancora amicizia tra Elfi e Nani, e di questo si avvantaggiavano ambo i popoli, con fruttuosi baratti. Thingol inoltre si era ingrandito nell’orgoglio, proclamandosi Signore del Beleriand, e tutte le genti elfiche gli inviavano tributi. I suoi forzieri si stavano così riempiendo di tesori, tra cui le favolose perle di Balar, offerte da Círdan. Era un bottino troppo ghiotto per il novello Oscuro Signore: così la guerra fu inevitabile.

   I primi a scendere nel Beleriand furono lupi mannari e altre bestie feroci. Poco alla volta anche gli Orchi si fecero avanti, dapprima cauti e guardinghi, poi sempre più spavaldi. Sauron però non li guidò di persona: affidò il comando ad alcuni Boldog – demoni incarnati in forme orchesche – e si accontentò di dirigere tutto da Angband. Voleva prima di tutto saggiare la forza dei suoi nemici. Gli Orchi presero così a scorrazzare, saccheggiando gli accampamenti degli Elfi nomadi, che però erano lesti a nascondersi nelle foreste. E ancora gli eserciti di Sauron non osavano attaccare Menegroth, né le due città dei Carpentieri.

   Allarmato dalle notizie degli attacchi, Thingol comprese che per il suo popolo era indispensabile procurarsi armi e apprendere le tecniche di guerra. I primi armamenti furono acquistati dai Nani, che erano già versati in quest’arte, essendo fin dagli albori un popolo guerriero. Da loro i Sindar appresero la metallurgia, e fu in quel periodo che a Belegost furono inventate le cotte di maglia di anelli intrecciati. E fu allora che Telchar il Fabbro visse e operò a Nogrod. Dalle sue mani uscirono Angrist, il pugnale che avrebbe strappato un Silmaril dalla Corona Ferrea di Morgoth, e Narsil, la spada che più tardi avrebbe tagliato l’Anello dal dito di Sauron.

   Così i Sindar si armarono e si organizzarono per la guerra, coalizzandosi con le altre genti elfiche. Non ci furono grandi battaglie in campo aperto, ma piuttosto una serie di agguati alle schiere degli Orchi che marciavano rumorosamente nelle foreste. Allora, per la prima volta, gli arcieri elfici si fecero onore in battaglia e divennero temuti dalle creature dell’Oscurità. Il contrattacco fu così efficace che in breve tempo gli invasori furono sgominati. Orchi, Troll e lupi restarono sul terreno o furono ricacciati urlanti negli abissi di Angband. Ma gli Elfi non dimenticarono il pericolo corso. Negli arsenali di Thingol si accumularono armi di ogni sorta, assieme a scudi ed elmi e cotte di maglia lucenti. Grazie agli incanti degli artefici questi armamenti non arrugginivano, ma restavano sempre affilati e rilucenti, pronti a essere usati non appena il male si fosse ripresentato.

 

   «Miserabili inetti... come avete fatto a farvi sconfiggere?!» chiese Sauron, vedendo tornare i suoi Orchi decimati.

   «I Sindar sono diventati potenti» si giustificò un Boldog. «Sono armati di tutto punto e hanno impenetrabili cotte di maglia. Anche i Silvani sono pericolosi, coi loro lunghi archi di tasso e i loro agguati tra gli alberi. E quando ci siamo ritirati sui Monti Azzurri non abbiamo trovato salvezza, ma solo le asce dei Nani...».

   «Incapaci! E voi sareste le truppe di Angband?!» ringhiò l’Oscuro Signore. In un attacco d’ira levò la mazza e con un colpo fece saltare via la testa del Boldog. Gli Orchi fuggirono terrorizzati. Allora il Maia ricadde sul suo trono, portandosi stancamente una mano alla fronte. «Come siamo caduti in basso!» si lamentò.

   «Non dovresti uccidere i Boldog. Ormai non ce ne restano molti» avvertì Thuringwethil, uscendo dalle ombre tra le colonne.

   «Lo so... cercherò di non farlo più» promise Sauron. «Ma sono così inutili! A stento li distinguo dai comuni Orchi. Chissà se anche noi ci ridurremo così».

   «Mio signore, hai bisogno di distrarti» gli suggerì la vampira. «Da quanto non superi i cancelli di Angband? Dovresti uscire un po’ da qui!» consigliò.

   «Intendi che dovrei mettermi in testa alle mie truppe?».

   «No, intendo che dovresti viaggiare e vedere altre regioni della Terra di Mezzo, come faccio io» spiegò Thuringwethil. «Ci sono molte lande che potresti reclamare. Lì vivono solo pochi Elfi Scuri, divisi in tribù... non avresti difficoltà a soggiogarli. E chissà che non trovi il luogo adatto a costruirti un’altra fortezza!».

   «Uhm, non hai tutti i torti» ammise Sauron. «Ma non voglio allontanarmi a lungo dal mio tesoro!» aggiunse, alludendo a Ilmarë.

   «La camera è ben sigillata, puoi anche metterci delle guardie. Nessuno disturberà la tua bella addormentata» disse la vampira con una smorfia.

   «Nemmeno tu?!» fece l’Oscuro Signore, lanciandole un’occhiataccia.

   «Nemmeno io» promise Thuringwethil.

   «Sarà meglio... ne va della tua vita» avvertì Sauron. Poi si riscosse e lasciò il trono. «Seguirò il tuo consiglio. Andrò a oriente, in cerca di nuove opportunità. Cercherò terre da conquistare, popoli da soggiogare e magari qualche altro Maia fuggito da Utumno che ancora si nasconde».

   «E a chi lascerai il comando, in tua assenza?» chiese Thuringwethil, speranzosa. Con i Valaraukar ancora in letargo, la lista dei candidati era breve.

   «A te, mia cara» disse l’Oscuro Signore, sfiorandole i capelli. «Finora mi hai sempre servito bene. Fallo ancora, e al ritorno potremo... uhm... parlare di noi». Ciò detto si allontanò, senza darle il tempo di rispondere.

 

   Presa la decisione, Sauron la mise in pratica con la rapidità che gli era consueta. Lasciò Angband da solo, perché non voleva essere rallentato dai suoi scagnozzi. Deposta la corazza, cambiò aspetto, divenendo un volatile. Aveva temuto di non riuscirci più, invece scoprì con gioia di non essere arrugginito in quest’arte. Però non gli riuscì di farsi cormorano, né alcun altro pennuto. Divenne invece un pipistrello vampiro, simile a Thuringwethil, ma ancor più massiccio. Volò come un’ombra scura sotto la Luna, lasciandosi alle spalle le desolazioni del Nord. L’esperienza del volo e la vista del panorama gli dettero un certo entusiasmo; non si sentiva così bene da eoni.

   Sorvolati i Monti Azzurri, l’Oscuro Signore vide spalancarsi innanzi a sé le distese boscose dell’Eriador. Era una terra vergine, pressoché disabitata. Perché non occupava quella? C’era molto legname con cui alimentare le sue fucine. Avrebbe potuto fare grandi cose... la sua mente divagò, tornando all’era remota in cui s’illudeva di riplasmare il mondo, facendolo ancor più bello della Primavera di Arda. Quel sogno si era infranto da tempo. Anche volendo, non aveva più il potere per intraprendere un’opera così titanica. Ma non era neanche detto che dovesse vivere per sempre nello squallore, circondato da schiavi che lo odiavano. Chissà, chissà...

   Sempre più eccitato, Sauron proseguì il volo. Superò i Monti Brumosi, sotto i quali già sorgeva Khazad-dûm, prima e più venerabile dimora dei Nani. Ah, i Nani, il popolo di Aulë! Cos’aveva pensato il suo antico maestro, quando aveva dato loro vita? Forse era animato dal desiderio di porre in essere cose sue proprie. «Non è forse lo stesso desiderio di Melkor? Non è forse il MIO desiderio? Allora perché noi siamo banditi, mentre Aulë siede ancora in trono con le altre Potenze?!» si chiese. Ma in cuor suo, conosceva la risposta. Aulë si era rimesso al volere d’Ilúvatar e aveva chiesto perdono per la sua trasgressione. Loro no.

   Fu davvero un lungo viaggio, intervallato da soste in cima ai monti. Malgrado l’enorme distanza percorsa, Sauron si sentiva rinvigorito. Per settimane intere andò sempre più a oriente, osservando ogni cosa con interesse. Superò la valle dell’Anduin e i vasti boschi che lo attorniavano, in cui cantavano i Nandor. Per un attimo dimenticò l’odio che nutriva per gli Elfi, e le loro canzoni gli parvero belle. Si spinse ancora più a est, costeggiando il Mare Interno di Helcar che aveva iniziato a prosciugarsi. Dell’antico pilastro non restava nulla, nemmeno il basamento. Sauron provò una fitta di dolore, ricordando l’antica bellezza d’Illuin e Ormal, di Almaren e di tutta Arda nella sua Primavera. Perché se n’era discostato, perché?! Era davvero troppo tardi per pentirsi?

   Superato anche il Mare Interno, il Maia sorvolò la laguna di Cuiviénen, dove gli Elfi sordi al richiamo di Oromë si aggiravano ancora, sebbene fossero rimasti in pochi. Oltrepassò gli Orocarni, i monti dell’Est... era un’eternità che non lo faceva...  e finalmente davanti a lui si spalancò la vasta pianura di Palisor, che più tardi fu detta Hildórien. Era una terra incantevole, irrigata da quattro fiumi e resa fragrante dall’esotica vegetazione. Per un attimo Sauron credé d’essere miracolosamente tornato indietro nel tempo, all’epoca della Primavera di Arda. Se solo ci fossero stati i Lumi! Invece, come al solito, c’erano solo la Luna e le stelle. Nondimeno, era una terra incantevole: la più bella che avesse visto nel suo lungo viaggio.

   Siccome il sorvolo degli Orocarni lo aveva molto stancato, Sauron planò in cerca di un luogo in cui atterrare e ritemprare le forze. Scese in una valletta erbosa e qui riassunse forma umanoide, ammantata in vesti scure. Si avvicinò a un fiume e vi si dissetò, portandosi l’acqua alla bocca nel cavo delle mani. Allora si sentì ancor meglio. Era tentato di restare a lungo in quella zona... se non fosse che aveva un regno a cui tornare e un tesoro da vigilare. Fu allora che udì uno scricchiolio alle sue spalle: il suono di un piede che calpesta un rametto.

   L’Oscuro Signore si voltò di scatto, pronto a difendersi. Si trovò di fronte un Elfo Scuro munito d’arco, con una freccia incoccata contro il suo petto. «Fermo, o sei morto!» intimò l’Elfo. «Avvicinati, fatti vedere. Uhm, non ti conosco. Chi sei tu?».

 

   Sauron dovette pensare in fretta. In forma umanoide, senza l’armatura, era piuttosto vulnerabile. Quella misera freccia poteva ferirlo gravemente, forse persino ucciderlo, quindi gli conveniva rispondere. Ma non poteva certo dire la verità. «Mi chiamo Thû» s’inventò lì per lì. «Sono uno Stregone» aggiunse, sapendo che gli Elfi Scuri non avevano ben chiaro cosa fossero i Maiar.

   «Uno Stregone?» s’insospettì l’Elfo. «E per cosa usi i tuoi poteri?».

   «Vorrei saperlo» sospirò Thû (così lo chiameremo). «Una volta credevo di avere uno scopo, un destino, ma ora... è tutto così incerto. Sto cercando una nuova strada» ammise. «Puoi deporre l’arco, per favore? E dirmi il tuo nome?».

   L’Elfo lo studiò ancora per qualche attimo, infine seguì l’invito. Abbassò l’arco e ripose la freccia nella faretra. «Sono Nuin, l’Elfo Scuro» si presentò. «Vivo di caccia e raccolta, lontano dai miei simili».

   «Lontano? E perché?» s’incuriosì Thû. Quasi tutte le volte che aveva parlato con gli Elfi, era stato mentre li torturava per trasformarli in Orchi. Quella conversazione normale era insolita, ma non sgradevole. In un certo senso, era una boccata d’aria fresca.

   «Perché sono rimasto solo» rispose cupamente Nuin. «Un tempo vivevo con la mia famiglia e molti altri compagni presso le chiare acque di Cuiviénen, dove il nostro popolo si destò. Poi quasi tutta la nostra gente seguì il Grande Cacciatore all’Ovest. Diceva che li avrebbe condotti in una terra d’eterna luce, ma noialtri non ci fidammo. Già erano venuti dei Cacciatori a ghermire molti dei nostri, e non li abbiamo più visti».

   «Mi dispiace molto» disse Thû, ben sapendo che fine avevano fatto.

   «Noi Riluttanti eravamo pochi, ma vivevamo ancora piuttosto bene» proseguì Nuin. «Un giorno, però, i miei parenti più prossimi furono sbranati da una tigre dai denti a sciabola. Uccisi la belva a colpi di freccia, ma il mio cuore era spezzato. Così abbandonai il resto del mio popolo e varcai le montagne, in cerca di nuovi orizzonti. Il lungo cammino mi ha condotto qui, in questa terra benedetta da bei fiumi e frutti spontanei. Qui il mio cuore ha trovato pace e ristoro, al punto che non vorrei più lasciarla. È così anche per te?».

   «Forse» rispose il Maia. «In realtà, ho una terra a cui fare ritorno... ma non subito. Penso che starò qui per un poco, almeno il tempo di ritemprarmi».

   «Allora... benvenuto a Palisor, Thû» disse Nuin, offrendogli la mano. «È così che ho chiamato questa terra».

   «Palisor... mi piace» convenne il Maia, e gli strinse la mano.

 

   Nuin e Thû si aggirarono per mesi nella terra di Palisor, trovandovi ristoro. Il Maia si fece raccontare tutto ciò che l’altro sapeva, sia su Cuiviénen che su questa nuova terra. Lui però fu sempre parco d’informazioni sul proprio conto, non volendo spaventare l’Elfo Scuro. Uno strano piano cominciava a prendere forma nella sua mente: tornare ad Angband, prendere Ilmarë e portarla lì, nella speranza che quella terra benedetta l’aiutasse a destarsi. Certo, sarebbe stato un po’ difficile a farsi, data l’enorme distanza; ma non impossibile. In altri momenti, Thû si accontentava di accompagnare Nuin nelle sue battute di caccia. Diversamente dalla quasi totalità dei Quendi, che erano vegetariani, l’Elfo Scuro integrava a volte la sua dieta con piccola selvaggina. Thû si fabbricò a sua volta arco e frecce, e per qualche tempo cacciarono assieme.

   Fu durante una di queste battute di caccia che accadde qualcosa d’inaspettato, ma di capitale importanza. Si erano recati assai più a oriente di quanto avessero mai fatto prima, sulle tracce di un cervo. Seguendo le orme fresche, attraversarono una fitta macchia d’alberi – meli, melograni, palme da datteri, fichi – fino a sbucare in una grande vallata rotonda, attraversata da uno dei quattro fiumi di Palisor. In cielo brillavano le stelle, come sempre, e anche una falce di luna. Il fiume mormorava sotto quella luce argentata. E a terra, sdraiati sull’erba, giacevano dei dormienti.

   Alcuni erano soli, altri riuniti in coppie abbracciate. Tutti quanti parevano immersi in un sonno profondissimo, tanto che non uno si svegliò quando i visitatori passarono tra loro. Cosa più sconcertante, erano tutti completamente nudi. Sotto certi aspetti parevano Elfi, perché erano giovani e ben fatti; nessuno aveva tracce di malattie o decadimento fisico. Eppure non erano Elfi: avevano una corporatura lievemente più pesante e orecchie lisce, senza quella piccola punta che caratterizzava i Quendi. I maschi, inoltre, avevano peluria sulle guance, anche se le loro barbe erano assai più corte di quelle dei Nani.

   «Ma dove siamo capitati? Chi è questa gente?!» bisbigliò Nuin.

   «Non saprei... li avevi mai visti?» chiese Thû.

   «Io? Macché! È la prima volta che mi spingo così a oriente, te l’ho detto!» disse l’Elfo, sempre sussurrando.

   «Uhm... forse ho capito chi sono» mormorò il Maia. «Se è così, abbiamo fatto una scoperta d’incalcolabile valore».

   «Davvero? Dimmi!» lo esortò Nuin.

   Thû esitò, ma poi decise di vuotare il sacco. «Come sai, io sono uno Stregone. Sono a conoscenza di molti segreti... di antiche verità sul mondo. Una di queste profezie parla dell’avvento dei Figli d’Ilúvatar. Voi, gli Elfi, siete i Primogeniti. Ci sono anche i Nani, gli Adottivi. Ma è stato detto che un giorno sarebbero apparsi i Figli Minori. Credo che siano loro... credo siano gli Uomini. Eru li ha tratti dalla terra, ma non li ha ancora destati».

 

   Per lunghi momenti ci fu silenzio. Infine Nuin si riscosse e si schiarì la voce. «Se è come dici... e sono incline a crederti... allora abbiamo davvero fatto una scoperta inestimabile. Come saranno? Somiglieranno a noi?».

   «Chi può dirlo? I Nani sono diversi da voi. Questi Uomini potrebbero essere diversi ancora» mormorò Thû. Avevano ripreso a passeggiare tra loro, osservandoli.

   «Mi chiedo quando si sveglieranno» mormorò Nuin. «Ehi, forse dovremmo farlo noi! Saremo i primi esseri che vedranno! Saremo le loro guide, i loro maestri, affinché imparino a vestirsi e a sfamarsi! Ci pensi?!» chiese tutto eccitato.

   Il Maia ci pensava, eccome. Una parte di lui era eccitata dalla scoperta. Avrebbe potuto signoreggiare sulla neonata razza degli Uomini... certo sarebbero stati sudditi più gradevoli degli Orchi. Poteva persino essere benevolo con loro, e forse guadagnarsi l’assoluzione dei Valar... e di Eru stesso. Ma un’altra parte di lui provava una strana inquietudine. Sebbene quei primi Uomini fossero ancora dormienti, Thû presagiva che avrebbe avuto difficoltà a capirli e a controllarli. Forse, anzi, avrebbe trovato in loro dei formidabili avversari. In tal caso, la prudenza consigliava di ucciderli tutti prima che si destassero. Già, ma poteva sterminare i Figli Minori prima ancora che rivelassero il loro carattere? Era così confuso...

   «No, fermo!» disse il Maia, vedendo che Nuin era in procinto di svegliare uno degli Uomini. «Il Potere che li ha creati potrebbe essere ancora qui all’opera, attorno a noi. Non credo che dobbiamo affrettare le cose. Aspettiamo che si destino da soli. E poi è stato detto che i Secondogeniti saranno risvegliati da una gran luce...».

   «Una luce come quella?!» chiese Nuin, indicando con dito tremante l’orizzonte.

   Thû guardò in quella direzione e rimase di stucco. Un bagliore rosato si diffondeva a oriente, scacciando la lunghissima notte. Le nubi sfilacciate si accesero di tinte dorate, mentre le stelle e la falce di luna impallidivano sopra di loro. Ci fu una brezza e tutta la natura fremette, scrollandosi di dosso il Sonno di Yavanna. Allora i fiori si aprirono e gli insetti ronzarono. Un gallo cantò lontano, salutando l’alba.

   «Non è possibile...» mormorò il Maia. Dopo incalcolabili eoni, aveva praticamente scordato l’esistenza del Sole. Eppure l’astro diurno era sempre stato al suo posto: era la Terra che aveva smesso di girare, per la perfida volontà di Melkor. Così i Valar avevano dovuto creare i Lumi e poi gli Alberi. Ma ora la rotazione era ripresa, ripristinando l’antica alternanza giorno-notte, segno che grandi cose erano accadute a Valinor.

   «Insomma, cos’è quella luce? Tu la conosci?!» incalzò Nuin, sopraffatto da quei prodigi.

   «È Anar, il Sole» rispose Thû. «Non ti farà male, anzi! Riscalda e illumina» disse, osservando il disco accecante mentre sorgeva. Voleva bagnarsi nella sua luce... ma fissandolo ne fu abbagliato. Non era abituato a una luce così intensa. Distolse lo sguardo, ma si accorse che i raggi lo indebolivano ugualmente. «È così, dunque?! Sono a tal punto nemico della luce?!» si disperò.

   «Ehi, che ti succede? Stai male?» si preoccupò l’Elfo, ma il Maia lo respinse bruscamente, gettandolo a terra. Barcollando mezzo accecato, Thû incespicò accidentalmente nel corpo di un Uomo. Questo si scosse, sbadigliò e parve sul punto di svegliarsi. Thû arretrò subito, col risultato d’inciampare in un altro Uomo, che si agitò a sua volta. Intanto il disco solare s’innalzava: il cielo a oriente era un lago d’oro e la crescente luce inondava la vallata.

   «Devo andare» disse il Maia, dolorante.

   «No, aspetta!» lo pregò Nuin, che si era rialzato. «Insieme possiamo far del bene a questa gente...».

   «Io gli farei del male, ecco perché devo andarmene!» ringhiò Thû. «Tu però resta, sei vuoi. Insegnagli a sopravvivere e a parlare... sì, devono parlare. Vedremo cosa ne verrà fuori».

   «Ma tu...».

   «Io non sono quello che pensi!» rivelò il Maia. «Ho fatto del male e ne farò ancora... è nella mia natura. Addio, Elfo Scuro. Serba un bel ricordo di Thû, se puoi: sarai l’unico!». Ciò detto, Sauron abbandonò la forma umanoide, per la prima volta da quand’era giunto a Palisor. Davanti agli occhi sbigottiti di Nuin divenne un mostruoso pipistrello dalle ali nere, che volò verso occidente, fuggendo l’odiata luce del Sole.

   Nel frattempo i Figli Minori si destavano, mirando la prima alba. Da allora in poi, il sorgere del Sole li avrebbe sempre animati di speranza. E Nuin l’Elfo Scuro rimase tra loro, per trasmettergli il linguaggio e altri rudimenti di civiltà.

 

   Il viaggio di ritorno di Sauron fu ancor più veloce dell’andata. Il Signore Oscuro volava soprattutto di notte, mentre durante il giorno cercava di nascondersi, anche se col passare del tempo si riabituò alla luce intensa. La testa smise di girargli e gli occhi di lacrimare. Ma era nemico della luce, ormai di questo era certo. E purtroppo, di luce ce ne sarebbe stata tanta d’ora in poi. Se persino lui avvertiva un certo malessere, come avrebbero reagito i suoi schiavi? Gli Orchi, i Troll e le altre creature oscure sarebbero state capaci di marciare e combattere in piena luce? Sauron non lo sapeva e questo lo preoccupava.

   Attraversate le Grandi Terre da un capo all’altro, il Maia tornò finalmente in vista di Angband. E qui lo attendeva una sorpresa, perché i Monti di Ferro erano in tumulto. Cenere e lapilli erompevano dalle loro cime; il fumo saliva a insozzare il cielo luminoso, per riportare l’oscurità. Era una buona idea, ma... chi l’aveva messa in pratica? A parte lui, non c’era più nessuno che avesse un tale potere sui vulcani. Forse i Valaraukar, se si erano risvegliati dal lungo letargo.

   Atterrato davanti ai cancelli sfondati, Sauron ebbe una nuova sorpresa: gli Orchi erano al lavoro come mai prima d’ora. Rimuovevano le macerie, portavano altri blocchi di pietra, ricostruivano tutta la corte interna sotto le sferzate dei loro capi. Anche i Troll erano impiegati come macchine da costruzione, sebbene capissero appena gli ordini più semplici. Ma la cosa oltraggiosa fu che gli uni e gli altri continuarono imperterriti il lavoro, senza inchinarsi al suo arrivo, come avrebbero dovuto.

   «Beh, che succede?!» chiese Sauron, visto che lo ignoravano. «In altre circostanze mi compiacerei di vedervi così operosi, ma chi vi ha dato gli ordini?».

   «Sono stato io» disse una voce tonante dall’interno. Sembrava... no, impossibile!

   Passi pesanti fecero tremare la terra, e stavolta gli Orchi si affrettarono a levarsi dai piedi. Tre piccole luci baluginarono entro i cancelli di Angband, a grande altezza da terra. Finalmente il loro possessore uscì, rivelandosi nella luce malata del giorno. Simile a torre, coperto di ferro, Melkor – ora detto Morgoth – guardò dall’alto in basso il suo servo. Sulla sua Corona Ferrea erano incastonati i Silmaril, da lui rubati a Valinor dopo che aveva ucciso i Due Alberi.

 

   Sulle prime Sauron rimase senza parole. Era convinto che il suo terribile padrone non sarebbe mai riemerso dalle Aule di Mandos. Invece eccolo lì, più minaccioso che mai, e quale tesoro lo incoronava! Al Maia non restò che prostrarsi a terra. «Mio signore... ero certo che sareste tornato...» mormorò.

   «Certo?!» tuonò Morgoth. «A me pare il contrario! Avevi un solo dovere: ricostruire questa fortezza e ricomporre i miei eserciti, così che al ritorno io trovassi le mie forze apparecchiate. Hai avuto millenni per farlo... e cos’hai combinato?! Angband cade ancora a pezzi!» ringhiò. Dette un calcio a una colonna rovesciata, facendola rotolare via; parecchi Orchi rimasero schiacciati.

   «Mio signore... temevo che se avessi dichiarato apertamente il mio ritorno, i Valar sarebbero tornati a finire il lavoro» confessò Sauron. «Così ho fatto in modo che la fortezza paresse abbandonata. Ma se esaminate i sotterranei, vedrete che lì ho intrapreso grandi opere. I vostri eserciti sono di nuovo numerosi...».

   «Non quanto mi occorre!» sbuffò Morgoth. «I Noldor si sono gettati al mio inseguimento, dopo che ho ucciso il loro Re e razziato i Silmaril. Presto saranno qui, condotti da Fëanor, e vi sarà battaglia. Ci resta pochissimo tempo per ricostruire Angband. Sono deluso, Mairon... veramente deluso».

   «Mio signore, potete chiamarmi Sauron» disse il Maia, pallido come un cadavere.

   «Che nome grazioso! Ti si addice!» rise l’Oscuro Signore. «Bene, Sauron... come dicevo, sono assai contrariato dalla tua inerzia. Gli Orchi mi hanno riferito che li hai gettati allo sbaraglio contro le truppe di Thingol, che li hanno respinti con gravi perdite. La loro sconfitta è la tua sconfitta, caro il mio luogotenente. Ma più grave ancora... ho udito che ti sei arrogato i titoli di Signore Oscuro e Re del Mondo. Quei titoli sono miei, e lo saranno sino alla fine dei tempi. Chiunque li reclami è mio nemico, e sconterà la mia collera!». Così dicendo afferrò Sauron per il collo e lo sollevò da terra, strangolandolo. I Valaraukar – ora detti Balrog – apparvero dietro Morgoth e lo osservarono all’opera, senza intervenire.

   «Aspetta, mio signore... ho fatto una scoperta che certo t’interesserà!» boccheggiò Sauron, sperando di comprarsi la salvezza. «È qualcosa che cambierà il mondo per sempre... che ti darà un vantaggio su tutti i nemici!» rantolò.

   «Sentiamo, che sarebbe questa scoperta mirabolante?!» chiese Morgoth, allentando la stretta quel poco da permettergli di parlare.

   «Il tempo è giunto... con la luce del Sole, si sono destati i Figli Minori» rivelò Sauron. «Li ho visti coi miei occhi. Sono in una lontana terra d’oriente... io so dov’è, ti ci posso guidare. Così ne farai ciò che vorrai!».

   «I Figli Minori!» tuonò Morgoth, colpito. Scaraventò il luogotenente contro la parete e rimase a riflettere. «Li avevo quasi dimenticati. Ilúvatar disse che avrebbe fatto loro strani doni: libero arbitrio, mortalità. Ebbene, se tu li hai visti, dimmi dove sono! Non posso permettere che restino liberi. Getterò la mia Ombra su di loro, affinché siano miei schiavi dal primo all’ultimo giorno delle loro misere vite!».

   Udendo questo, Sauron rialzò la testa. Sebbene fosse spaventoso nella sua collera, Morgoth gli pareva più debole di quanto lo avesse mai visto. Certo aveva speso molto potere per guastare il Meriggio di Valinor. Altro ancora ne avrebbe speso per corrompere gli Uomini e ricostituire le sue armate. «Se continua così, verrà il giorno in cui sarà più debole di me!» gongolò Sauron nel profondo del suo cuore. Ma esteriormente non ne diede segno. «Mio signore... se vi conduco dagli Uomini, deporrete la collera nei miei confronti? Sarò di nuovo il vostro luogotenente?» chiese, rialzandosi.

   L’Oscuro Signore rimuginò a lungo. Avrebbe voluto schiacciare quel servo impudente, ma si rese conto che non poteva rinunciare a lui. Aveva già perso fin troppi Maiar nella Guerra dei Poteri; doveva conservare i pochi che gli restavano. «E sia!» disse infine. «Portami dagli Uomini e riavrai il tuo antico ufficio. Ma non deludermi mai più!» ammonì.

   «Certo che no, mio signore... grazie, mio signore...» disse Sauron, in atteggiamento servile. Ecco: per comprarsi la salvezza, aveva condannato un’intera razza. Era davvero un abominio, come gli aveva detto Ilmarë. Un nemico della luce. Prese posto accanto al suo padrone, pronto a eseguirne gli ordini.

   «Partiremo quanto prima, ma non potremo trattenerci a lungo in Oriente, perché presto i Noldor saranno qui» disse Morgoth, meditabondo. «Angband dev’essere pronta a sostenere un assedio. Innalzerò tre picchi vulcanici, i Thangorodrim, e ricostruirò il cancello...».

   «Mio signore... se ci sarà guerra aperta, i Valar non interverranno?» osò chiedere Sauron.

   A quelle parole, l’Oscuro Signore scoppiò in una risata gelida. «No, vecchio mio, quegli stolti non si alzeranno dai loro troni dorati!» garantì. «Ho seminato zizzania tra loro e i Noldor, che sono partiti in violazione degli ordini. Fëanor e i suoi figli hanno pronunciato un giuramento d’odio contro chiunque li ostacoli nella riconquista dei Silmaril. Così, quando i Teleri si sono rifiutati di concedergli le navi per attraversare il Mare, li hanno massacrati per rubarle. E in tal modo sono piombati sotto la Maledizione di Mandos. Qualunque cosa facciano si ritorcerà contro di loro e anche le maggiori prodezze saranno vane. Il tradimento, e il sospetto di tradimento, li metteranno gli uni contro gli altri, affrettandone la fine. E dall’Ovest non giungerà alcun aiuto, perché i Valar non si curano più della Terra di Mezzo. Le hanno ridato luce, sì... ma la loro collera contro i Noldor li tratterrà dal battersi in loro favore. Stavolta nessuno potrà fermarmi! La Terra di Mezzo e i suoi popoli saranno miei; come mie sono queste gemme!» disse, indicando i Silmaril incastonati nella corona. La sua orrenda risata echeggiò nell’anticamera infernale, e da lì sulle terre che stavano per piombare nel terrore e nella disperazione.

 

 

-Commento:

   Questo capitolo copre un lunghissimo arco temporale: le tre ere delle Catene di Melkor, più quella in cui Melkor è libero a Valinor e può seminare zizzania. Dovevo spiegare perché Sauron rimane in larga misura inattivo, mentre il suo padrone è in catene. Il vero motivo è che Tolkien elaborò la trama principale dei Tempi Remoti prima ancora d’inventare Sauron, che infatti nella Prima Era ha un ruolo assai ridotto (compare solo nella storia di Beren e Lúthien, più qualche citazione sparsa). Io però volevo immaginare un motivo pratico per cui Sauron si astiene dallo scendere apertamente in guerra contro i Popoli Liberi che muovono i primi passi nel mondo. Da un lato c’è la paura che i Valar tornino a finire l’opera; ma ho immaginato anche un motivo assai più profondo e personale.

   La scena di Sauron inginocchiato davanti al giaciglio d’Ilmarë, in struggente contemplazione, è stata la prima a definirsi, quando ho deciso di scrivere questo racconto. Le ultime tracce di bontà in lui si consumano come le candele che lo attorniano, e infatti alla fine scende in guerra contro Thingol, venendo peraltro sonoramente respinto.

   È a questo punto che s’inserisce il Risveglio degli Uomini, un tema che Tolkien ha sempre lasciato in ombra (descrive più a fondo quello degli Elfi). Tuttavia un abbozzo ermetico e mai completato nei Racconti Ritrovati accenna alla storia dell’elfo Nuin e del “mago” Tû (o Túvo), i quali s’imbattono nei primi umani addormentati subito prima dell’alba che li risveglia. Ho quindi immaginato che questo strano “mago” non sia altri che Mairon/Sauron, in un momento di profonda pena, quando è più che mai prossimo al pentimento. Ma con la prima alba, i raggi del Sole lo feriscono, segno che ormai è irrimediabilmente votato all’Ombra, e non gli resta che fuggire.

   Nei Racconti come nel Silmarillion, la prima alba deriva dal fatto che i Valar hanno creato il Sole dall’ultimo frutto dorato di Laurelin, così come hanno creato la Luna dall’ultimo fiore argenteo di Telperion. Sole e Luna sono quindi la terza e definitiva fonte di luce del mondo, dopo i Lumi e gli Alberi. La loro luce però è degradata, essendo contaminati dal veleno di Ungoliant, il ragno demoniaco che ha aiutato Melkor a distruggere gli Alberi. Nella mia versione eliocentrica, Sole e Luna sono quelli che conosciamo, dunque molto più grandi e antichi; la Luna c’è sempre stata a rischiarare la notte, mentre il Sole non si vedeva solo in quanto Melkor aveva bloccato la rotazione terrestre. Ma con la distruzione degli Alberi, i Valar hanno finalmente radunato le forze, rimettendo la Terra in rotazione.

   Tornato ad Angband, Sauron scopre che il suo antico padrone è tornato e sfugge alla punizione per la sua “pigrizia” solo rivelandogli dove si trova la neonata stirpe degli Uomini, il che permetterà a Morgoth di corromperla. Intanto stanno arrivando gli Elfi Noldor, decisi a riconquistare i Silmaril che l’Oscuro Signore ha rubato. È l’inizio della Guerra delle Gemme, in cui i Popoli Liberi saranno fatalmente sopraffatti dalle forze del male, a dispetto del loro eroismo.

 

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Capitolo 8
*** L'Isola dei Lupi Mannari ***


-Capitolo VII: L’Isola dei Lupi Mannari

 

   Altrove si narra la triste storia della Guerra delle Gemme, in cui i Popoli Liberi si trovarono intrappolati tra la Maledizione di Mandos e la perfidia di Morgoth. Qui si dirà principalmente ciò che attiene Sauron, che dopo il ritorno dell’Oscuro Signore aveva ripreso il ruolo di luogotenente.

   I Noldor vinsero le prime battaglie, pur avendo perduto il loro grande condottiero Fëanor, perché le armate di Morgoth non si erano ancora moltiplicate. Dopo la terza grande battaglia assediarono Angband, e il mondo ebbe pace per quattrocento anni. In questo periodo i Noldor fondarono splendidi regni nel Beleriand e strinsero alleanza con le altre stirpi elfiche che vi abitavano, primi fra tutti i Sindar. Inoltre Melian la Maia ricorse al suo potere per avvolgere i boschi del Doriath con un’invisibile barriera d’incantesimi: la Cintura di Melian, che nessuno poteva oltrepassare contro la sua volontà.

   Dopo trecento anni dal ritorno dei Noldor giunsero anche gli Uomini, distinti in tre stirpi, che divennero le Tre Case degli Amici degli Elfi. Erano questi il popolo di Bëor, dagli occhi grigi e i capelli scuri; quello di Haleth, dalla corporatura tarchiata e i capelli castani; e quello di Marach – poi detto di Hador – dagli occhi azzurri e i capelli biondi. Dagli Elfi appresero molte arti e molta sapienza, sebbene l’Ombra di Morgoth gravasse sempre sul loro cuore, rendendoli inquieti.

   Alcuni uomini infatti, saputo dell’Assedio, si spaventarono e si pentirono d’essere entrati nel Beleriand; avrebbero voluto tornare a oriente. Tra i capi degli scontenti c’erano Bereg della Casa di Bëor e Amlach nipote di Marach. Fu allora convocata un’assemblea delle Tre Case, per decidere il da farsi. E come spesso accadeva, Morgoth ne fu informato, perché le sue spie erano ovunque, anche nei giorni dell’Assedio. Allora l’Oscuro Signore convocò i demoni che gli restavano, tra cui Sauron.

   «Non bastavano gli Elfi; ora anche gli Uomini, nella loro insolenza, sfidano il mio potere!» disse Morgoth. «Ma il loro cuore è debole, come sempre sarà, e i loro pareri discordi. Già ora il dissenso serpeggia tra loro e alcuni vorrebbero tornare sui loro passi. È questo che dobbiamo incoraggiare. Uno di voi li spronerà, uno che abbia ancora il potere di mutare forma e mimetizzarsi tra loro». Il suo sguardo cadde naturalmente su Sauron.

   «Sarò lieto di recarmi tra gli Uomini, per seminare il dubbio e spingerli alla fuga» disse l’interpellato.

   «Va’ dunque, e non deludermi» comandò Morgoth.

   Con quell’ordine, Sauron lasciò Angband in forma di pipistrello, volando di notte per sfuggire alla sorveglianza delle Aquile di Manwë. Giunse nell’Estolad, la regione in cui gli Uomini erano accampati e tenevano il loro raduno. Qui cambiò di nuovo forma, per mimetizzarsi come gli era stato ordinato. Assunse l’aspetto di Amlach e, dopo aver brigato per impedirgli di partecipare alla riunione, si presentò al suo posto. La discussione si tenne attorno al fuoco, presso un rozzo accampamento di tende. Osservando gli Uomini ancora così primitivi, Sauron si chiese se avrebbero mai costituito una minaccia. Sembrava impossibile, eppure vi era in lui uno strano timore, come una premonizione di cose a venire.

   Il primo a parlare fu Bereg: «Abbiamo viaggiato a lungo, nella speranza di sfuggire ai pericoli della Terra di Mezzo. I nostri passi sono stati sempre rivolti a Occidente, perché avevamo udito dire che lì abitano gli dèi. Ora però abbiamo scoperto che gli dèi risiedono oltre il Mare e che a noi non è permesso raggiungerli. Al loro posto, qui c’è il Signore della Tenebra con i suoi Orchi. I Signori degli Elfi li tengono assediati, e ciò è bene; ma sarebbe incauto farci trascinare nella loro guerra. Pensiamo dunque agli affari nostri, o meglio ancora, torniamo da dove siamo venuti!».

   Gli replicò Boromir, suo parente stretto: «I mali da cui siamo fuggiti provengono dal Re Tenebroso, ed egli mira al dominio di tutta la Terra di Mezzo, da una sponda all’altra. Non c’è posto in cui saremo liberi dalla persecuzione, specialmente se egli dovesse rompere l’Assedio. Dunque non ci resta che sconfiggerlo qui, o almeno aiutare gli Elfi a tenerlo confinato. Forse è proprio per questo, per dar loro manforte, che il Fato ci ha condotti in questa terra remota».

   «Ci pensino gli Elfi al loro assedio! Le nostre vite sono già abbastanza brevi, anche senza che le gettiamo in guerra!» sbottò Bereg, che come molti Uomini invidiava la longevità dei Primogeniti.

   Gli animi si scaldavano; Sauron capì che era il momento d’intervenire. Non sarebbe stato difficile spaventare quegli ignoranti superstiziosi, che poco sapevano di Morgoth e nulla dei Valar. Allora si levò alla luce del fuoco, simile in tutto e per tutto ad Amlach, un capo rispettato. «Tutto ciò che sappiamo del Re Tenebroso ci è stato detto dagli Elfi. Ma che prove abbiamo delle loro parole? Nessuna!» disse in tono sferzante. «Nel nostro lungo viaggio abbiamo attraversato molte terre, alcune belle e altre meno; mai però abbiamo visto traccia degli dèi. Se hanno plasmato il mondo, perché ora si nascondono? Io dico che non c’è nessuna Luce oltre il Mare! Gli Elfi però li abbiamo ben visti. Sono loro che vogliono dominare la Terra di Mezzo; loro che ci stanno riducendo a vassalli e servitori. Se sono in guerra contro gli Orchi, per un motivo o per l’altro, che se la sbrighino da soli! Non ci lasceremo mandare in prima linea, come carne da macello; perché è questo che vogliono realmente da noi! Piuttosto valichiamo le montagne e torniamo nelle terre dei nostri padri. C’è abbastanza spazio, nel mondo, se gli Elfi ci lasceranno in pace!».

   Allora gli astanti tacquero, colpiti, e in molti di loro nacquero diffidenza e paura per gli Elfi. Fu così che, al termine della riunione, alcuni capi annunciarono l’intenzione di andarsene con le loro schiere. Soddisfatto, Sauron lasciò l’Estolad, convinto che la partenza dei primi gruppi avrebbe istigato anche gli altri Uomini ad andarsene. Ma le cose non andarono come pensava, perché aveva commesso l’imprudenza di non uccidere il vero Amlach. Quando egli tornò fra i suoi, udì le parole che gli erano state attribuite e le rinnegò. Negò anzi di aver partecipato al dibattito, e questo creò non poca confusione, perché attorno a lui c’erano molti che in quella notte credevano di averlo visto e udito.

   Allora Boromir, l’amico degli Elfi, riprese la parola: «Se non credevate al Re Tenebroso, credeteci adesso! Questo è certamente uno dei suoi inganni. I suoi emissari cercano di dividerci e farci andare via, perché ci temono! O almeno, temono che la nostra forza si aggiunga a quella degli Elfi».

   Ma Bereg trovò ancora da ribattere: «Diciamo piuttosto che ci odiano, e la prossima volta potrebbero dimostrarlo in modo più letale. Andiamocene, finché siamo in tempo! Se ci lasciamo invischiare in questa guerra di stregoni, non ce ne verrà niente di buono!». Di conseguenza prese i suoi seguaci – un migliaio della schiera di Bëor – e li guidò di là dai monti, di nuovo nell’Eriador. Di loro si perse traccia nelle storie di quei tempi. Ma il grosso della schiera rimase, e così le altre due Case. E Amlach, che ormai riteneva di avere una contesa personale con l’Oscuro Signore, partì verso il nord e si mise al servizio di Maedhros, il maggiore dei figli di Fëanor. Da allora in poi, sempre più spesso, i giovani capi degli Uomini prestarono servizio presso i Signori degli Elfi, ricevendo una preziosa istruzione che poi trasmettevano al loro popolo. E così l’alleanza tra Uomini ed Elfi, anziché estinguersi, si consolidò.

   «La tua opera è servita a ben poco!» si lamentò Morgoth con Sauron, quando seppe come procedevano le cose.

   «Il cuore degli Uomini è incostante» si difese l’interpellato. «Quando li lasciai, volevano partire; poi hanno cambiato di nuovo idea».

   «Allora dovremo essere più persuasivi» disse l’Oscuro Signore. «I miei piani sono quasi completi, la fine dell’Assedio si avvicina. Gli Elfi saranno annientati e se gli Uomini si ostineranno a combattere con loro, ne pagheranno il prezzo. Se avrai ancora a che fare coi mortali, sii implacabile!» raccomandò.

   «Lo sarò, mio sire» promise Sauron, inchinandosi.

 

   Fu così che, nell’anno 455 della Prima Era del Sole, Morgoth ruppe l’Assedio di Angband. Le sue armate, che ora contavano anche i draghi sputafuoco, si diedero al saccheggio del Beleriand. Uno a uno, i regni degli Elfi e le signorie degli Uomini caddero in rovina. Cadde anche Fingolfin, il Re Supremo dei Noldor; ma solo dopo aver duellato con Morgoth in persona, infliggendogli sette ferite e lasciandolo azzoppato. Da allora l’Oscuro Signore non uscì più dalla sua fortezza, affidandosi interamente ai suoi servitori per condurre la guerra.

   Poco tempo dopo la rottura dell’Assedio, Sauron fu convocato dal suo padrone. «Conosci l’isola di Tol Sirion» gli disse Morgoth. Non era una domanda, ma un’affermazione.

   «Sì, è quell’isolotto che giace nell’alto corso del fiume» confermò Sauron. «Finrod Felagund vi ha costruito una torre di guardia, affidandola a suo fratello Orodreth. La chiamano Minas Tirith». Uno strano brivido lo percorse, come il presagio di battaglie a venire.

   «La torre di guardia degli Elfi diverrà la mia torre di guardia» disse Morgoth. «Conquistala e sarà tua da governare».

   «Ai tuoi ordini, sire» disse Sauron, che non vedeva l’ora di emanciparsi un poco da lui, come aveva fatto anticamente fondando Angband. Ora però non si trattava di creare dal nulla un nuovo reame, bensì di conquistare una fortezza preesistente.

   Radunate le truppe, Sauron vi si mise in testa, guidando personalmente l’assalto. Sotto la guida di Morgoth era ormai divenuto abilissimo con gli incantesimi, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Negromante. In quel periodo, inoltre, si stava particolarmente interessando all’allevamento e alla selezione dei lupi mannari. Se in passato aveva obbedito all’Oscuro Signore quasi con riluttanza, ora invece lo faceva con passione, per sfogare la rabbia che gli bruciava dentro. La segreta con Ilmarë era sigillata negli abissi di Angband ed egli non osava più farvi visita, per timore di dispiacere a Morgoth.

   Tol Sirion era una rupe solitaria, simile a un gigantesco masso rotolato giù dalle montagne nella gola tra i Monti dell’Ombra e le alture del Dorthonion. Attorno alle sue pendici scorreva, da una parte e dall’altra, il fiume Sirion, che in tal modo le faceva da fossato. Su quella rupe sorgeva il fortilizio degli Elfi, con mura e torri vigilate. Giunto sulle sponde del fiume, Sauron gettò un incantesimo di terrore sui difensori, prima ancora che la battaglia avesse inizio. Poi scatenò l’assalto, condotto con Orchi e Troll, forniti di macchine d’assedio. I difensori avevano alzato il ponte levatoio, ma gli attaccanti formarono rapidamente un ponte di barche e in tal modo giunsero fino ai cancelli. Quando il portone cedette sotto i colpi d’ariete, Sauron lo varcò per primo, sbaragliando i difensori con tremendi colpi di mazza. Le sue truppe lo seguirono, dandosi al saccheggio e al massacro. Vennero inoltre i lupi mannari, a frotte, guidati dal mostruoso Draugluin, loro signore e progenitore. Le belve si gettarono sugli Elfi, facendoli a pezzi, mentre Thuringwethil e la sua genìa di vampiri li attaccavano dal cielo. Nessun rinforzo venne ai difensori, perché tutti gli altri popoli elfici si erano trincerati nei loro confini e gli Uomini erano impotenti contro tanto orrore.

   Così gli Elfi furono massacrati o costretti alla fuga e Sauron il Negromante piantò il suo vessillo sulla torre più alta di Minas Tirith. Allora ne fece una torre di guardia per Morgoth, una minaccia per chiunque transitasse. La bella Tol Sirion divenne un luogo maledetto e prese il nome di Tol-in-Gaurhoth, l’Isola dei Lupi Mannari, che vi si radunavano in gran numero. Nessuna creatura vivente poteva passare da quella valle senza che Sauron la scorgesse dall’alto della sua torre.

   «Hai di nuovo la tua fortezza, sire» disse Thuringwethil, accostandosi alle spalle di Sauron mentre questi osservava il panorama dalla finestra della torre più alta. Le tre vette del Thangorodrim erano visibili in lontananza, simili a pugnali sotto una scura nube.

   «È piccola... ma è casa» disse lui, voltandosi. Si trovò la vampira davanti e, che fosse l’ebbrezza della vittoria o i suoi gusti meno schizzinosi di un tempo, la trovò bella. «Festeggiamo!» disse, abbracciandola.

   «Sì, festeggiamo!» gongolò lei, vedendo avverarsi il suo antico sogno, e lo avvolse nelle ali da pipistrello.

 

   Passarono alcuni anni e il potere di Morgoth si estese nel Beleriand, calando da Nord come un inverno perenne. L’altopiano del Dorthonion era ormai devastato; gli Elfi erano periti o costretti alla fuga, e così anche gli Uomini della Casa di Bëor. Restava solo una piccola banda di fuorilegge, capitanata da Barahir, signore del casato. Questi aveva salvato il re degli Elfi Finrod Felagund da un’imboscata, guadagnandosi la sua eterna gratitudine e un anello come pegno dell’alleanza. Avrebbe potuto rifugiarsi presso di lui, nel regno del Nargothrond; invece restava nel Dorthonion e con la sua banda attaccava i servi di Morgoth, guadagnandosi grande fama. Di conseguenza, l’Oscuro Signore comandò a Sauron di trovare la banda di Barahir e annientarla.

   «Ah, gli Uomini... me lo sentivo che sarebbero diventati una spina nel fianco!» si disse il Negromante, ma obbedì. Si recò nel Dorthonion e impose un maleficio sulle case semidistrutte degli abitanti, così che se qualche superstite le avesse visitate, sarebbe stato attirato all’interno dalla visione dei propri cari. Poi istruì i suoi Orchi e lupi mannari affinché restassero appostati nelle vicinanze, pronti a ghermire i visitatori. E se ne tornò alla sua fortezza, in attesa degli eventi.

   Non passò molto che un membro della banda di Barahir, Gorlim l’Infelice, visitò i ruderi della sua casa e cadde vittima del sortilegio. Gli parve di vedere sua moglie Eilinel, col viso scavato dal dolore e dalla fame, che lamentava d’essere stata abbandonata. Ma quando corse da lei, la visione scomparve e il poveretto fu circondato dagli sgherri di Sauron. Torturato, rifiutò di rivelare l’ubicazione del rifugio della sua banda. Ma quando promisero di liberarlo e restituirgli sua moglie, Gorlim vacillò. Allora lo condussero a colpi di frusta fino a Tol-in-Gaurhoth, dove lo gettarono ai piedi di Sauron.

   «Guarda, guarda... un uomo di Barahir!» disse il Negromante. «La vostra piccola banda ci ha dato un sacco di fastidi, ma ora mi dicono che vuoi venire a patti con me. Ebbene, qual è il tuo prezzo?».

   «Rivoglio mia moglie Eilinel... e voglio essere rimesso in libertà con lei» rispose Gorlim, persuaso che anche lei fosse prigioniera.

   «Ah, gli Uomini... vi accontentate di poco, in cambio del tradimento!» sogghignò Sauron. «Bene, avrai ciò che chiedi; e ora parla!» ordinò, fissandolo col suo sguardo infuocato, che piegava facilmente la volontà dei mortali.

   Gorlim avrebbe voluto tirarsi indietro, ma non ebbe la forza di opporsi. Così rivelò che i suoi compagni erano accampati presso Tarn Aeluin, un laghetto d’alta quota, nella parte orientale del Dorthonion. «Ti ho detto tutto... ora rendimi mia moglie e liberaci!» implorò l’uomo.

   Ma Sauron rise, beffandosi di lui. «Povero sciocco! Non era tua moglie che vedesti, ma solo un fantasma creato dalla magia allo scopo di attirarti in trappola. Eilinel è morta. Non te la prendere... sarebbe morta comunque. Presto o tardi, che differenza fa? Non siete che mortali».

   A quelle parole, Gorlim si lasciò cadere al suolo, scosso dai singhiozzi.

   «Tuttavia voglio essere magnanimo ed esaudire la tua preghiera» riprese il Negromante. «Ti riunirai alla tua sposa e sarai libero dal mio servizio». Ciò detto lo fece squartare, e con i suoi pezzi adornò le mura della fortezza.

   Così il nascondiglio dei fuorilegge fu scoperto; gli Orchi piombarono nottetempo su di loro e li massacrarono. Si salvò solo Beren, figlio di Barahir, che in quei giorni si era allontanato per spiare i movimenti di truppe nemiche. In sogno il giovane vide i corvi che stavano appollaiati, fitti come foglie, sugli alberi nudi presso il lago, coi becchi gocciolanti sangue. Poi, sempre in sogno, scorse una forma che emergeva dalla nebbia: era Gorlim, che gli rivelò la propria disgrazia e lo esortò a correre per avvertire gli altri.

   Svegliato di soprassalto, Beren si affrettò quanto poteva; ma giunto al lago vide concretizzarsi l’incubo. Suo padre e gli altri erano morti e i corvi banchettavano coi loro resti. Il giovane disperse gli uccellacci e seppellì i propri compagni, giurando vendetta. Ma tutto ciò che poté fare fu inseguire gli Orchi, ucciderne il capo e recuperare l’anello di Barahir. Poi, braccato più di prima, dovette abbandonare il Dorthonion. Il suo cammino tormentato lo portò oltre i Monti di Terrore e la Valle dell’Orrenda Morte, e poi ancora più a sud, oltre la Cintura di Melian, nel regno vigilato del Doriath, dove lo attendeva l’incontro fatale con Lúthien...

 

   Una sera d’autunno di qualche anno dopo, Sauron notò una piccola compagnia di Orchi che marciavano frettolosamente verso Nord, senza fermarsi a fare rapporto, come avrebbero dovuto. Insospettito, gli spedì contro i suoi lupi mannari, affinché li traessero al suo cospetto. «Andate!» disse. «Portatemi quegli Orchi che avanzano furtivi, quasi con paura, e non vengono a recarmi notizia delle loro azioni».

   Sauron restò in attesa, mentre in lui cresceva il sospetto, finché i dodici viandanti gli furono portati innanzi nella sala del trono. Se erano Orchi, erano ben strani: più alti e dritti del normale, avevano occhi chiari anziché iniettati di sangue. Per il resto, erano talmente imbacuccati nelle armature e nelle pellicce di lupo che non si vedeva molto del loro aspetto. Si guardavano attorno spauriti, mentre i mannari li fiutavano e ringhiavano astiosi. Anche Draugluin, il lupo più tremendo di tutti, che stava accucciato accanto al trono del Negromante, ringhiò e fece per alzarsi; ma il padrone lo trattenne con un gesto. «Dove siete stati? Che avete visto? Su, parlate!» ordinò ai visitatori.

   «Abbiamo fatto sortite ai confini del Nargothrond» rispose quello che pareva il comandante. «Abbiamo versato il sangue degli Elfi. Ne abbiamo uccisi trenta, non uno di meno, e abbiamo gettato i loro corpi in un pozzo buio. Ora laggiù banchettano i corvi e stride il gufo».

   «Ma davvero?» fece Sauron, ben sapendo che gli Orchi solevano ingigantire le loro gesta per vantarsi. «Ditemi la verità, schiavi di Morgoth! Che accade a Nargothrond? Ci siete entrati?».

   «Osammo solo spingerci fino al confine. Udimmo che Re Felagund governa ancora» rispose l’Orco – se era un Orco.

   «A me risulta che sia stato spodestato, e che Celegorm abbia ora il potere» fece il Negromante, sempre più insospettito.

   «No, non è vero. Se Felagund si è allontanato, avrà lasciato Orodreth come reggente» ribatté il capobanda.

   «Avete l’udito fino, voi che nemmeno avete varcato i confini!» li derise Sauron. «Come vi chiamate? Ancora non me l’avete detto».

   «Io sono Nereb, questo è il mio secondo Dungalef» rispose l’interpellato, accennando al compagno più vicino. «Gli altri dieci sono guerrieri scelti del mio reggimento. Stiamo marciando per eseguire un incarico importante e urgente. Boldog il capitano ci attende ad Angband per udire il nostro rapporto».

   «Boldog, eh? Mi risulta che sia stato ucciso qualche tempo fa, mentre combatteva ai confini del Doriath!» lo gelò il Negromante. «Non lo sapevate questo? Ma del Doriath almeno avrete udito. Laggiù vive quella bella fata, Lúthien. Bella è d’aspetto, bella e chiara; Morgoth la vorrebbe assai nella sua reggia! Mandò Boldog a prenderla, ma egli fu ucciso; strano che non lo sappiate, se era il vostro comandante».

   «Quando partimmo, era ancora vivo...» cercò di giustificarsi Nereb, ma i suoi occhi si erano riempiti d’orrore e disgusto quando aveva udito le intenzioni di Morgoth.

   «Perché quel cipiglio? Perché non ridi pensando al tuo padrone che arricchisce il suo tesoro con una nuova gemma?» lo incalzò Sauron. «Insomma, chi servite voi, la Luce o l’Ombra? Chi compie le opere più grandi? Chi è il Re dei re terreni, che riempie d’oro i servi leali e punisce i traditori? Chi ha spogliato d’ogni gioia gli avidi dèi dell’Ovest? Ripetete i vostri giuramenti, orchi di Morgoth! Non chinate il capo!».

   Invece di ripetere i loro blasfemi voti di fedeltà all’Oscuro Signore, gli Orchi rimasero in silenzio. Poi Dungalef si fece avanti, con inusitata audacia. «Noi serviamo Morgoth, non Sauron. Chi sei tu, per trattenerci dalla nostra missione? Ti abbiamo detto ciò che contava; ora dobbiamo proseguire» affermò.

   «Pazientate! Non resterete a lungo... ma prima voglio ristorarvi con una canzone!» sogghignò il Negromante. Posò su di loro gli occhi ardenti, concentrando il suo volere maligno, così che non vedessero altro e non potessero distogliere lo sguardo. Poi intonò un canto di stregoneria: trafiggere, lacerare, violare. E svelare, scoprire, tradire. A quelle parole, le cinghie delle armature si slegarono e le piastre metalliche caddero dai corpi dei visitatori, svelandone il vero aspetto. Non erano sudici Orchi, ma Elfi travestiti, con l’aggiunta di Beren. E si trattava di Alti Elfi dell’Ovest, di stirpe Noldor. Sauron tuttavia non poté riconoscerli dalla fisionomia. Sospettava... ma non ne aveva la certezza... che il capo della comitiva fosse Finrod Felagund in persona, il re del Nargothrond, capo della dorata Casa di Finarfin. A quel pensiero gongolò sul suo trono; ma aveva sottovalutato l’avversario.

   Il re degli Elfi – perché di lui si trattava – si fece avanti, opponendo la sua limpida voce a quella roca del Negromante. Si tenne così la contesa tra Sauron e Felagund, in cui non si usarono armi, bensì canti di potere; e in questi il Re era assai esperto. Cantò di resistenza alla tirannia, di segreti custoditi, d’animi forti che si levavano come torri inconquistabili. E fede mantenuta, libertà, fuga. Disse di forme che cambiano e mutano, di trappole eluse, di carceri aperte, di catene infrante.

   I canti oscillarono avanti e indietro, echeggiando nel salone. Gli Orchi, quelli veri, si coprivano le orecchie ogni volta che la voce di Finrod prendeva il sopravvento; ma tornavano ad ascoltare bramosi quando il Negromante riprendeva forza. Anche Thuringwethil osservava tutto, appesa a testa in giù alla volta del salone nella sua forma vampiresca. Avrebbe potuto gettarsi sugli Elfi e straziarli con zanne e artigli, ma si trattenne, perché confidava nella superiorità di Sauron.

   Barcollante, indebolito, Felagund ancora resisteva, riversando nelle sue parole tutta la magia e la potenza degli Elfi. Ed ecco, parve di udire gli uccelli canterini del Nargothrond che cinguettavano nel buio, mentre oltre il Mare le onde si rovesciavano sulle bianche spiagge di Aman, cosparse di perle:

 

Nai hiruvalyë Valimar,

nai elyë hiruva, namarië!

 

   A quelle parole, che evocavano una bellezza lontana e irraggiungibile, Sauron si sentì trafitto da un rimpianto inconsolabile. Quasi senza rendersene conto, passò dal Linguaggio Nero all’elfico, ammettendo il suo rimpianto per il Paradiso che aveva perduto:

 

Sí man i yulma nin enquantanuva?

Sí vanwa ná, rómello vanwa, Valimar!

 

  Ma ben presto il Negromante si ricompose. Non poteva vacillare davanti ai suoi sottoposti: non poteva apparire debole o poco fedele a Morgoth. Così il suo canto riprese forza e divenne ancora più oscuro. S’infittì il buio: a Valinor scorreva rosso il sangue, accanto al Mare, dove i Noldor uccidevano i marinai per derubarli delle loro bianche navi. Gemeva il vento, ululavano i lupi, volavano i corvi. Stridevano i ghiacci alle bocche del mare. E intanto soffrivano atrocemente gli schiavi in Angband, mentre ardevano i fuochi e rombavano i tuoni. La Maledizione di Mandos incombeva sui Noldor fuggiaschi. A quelle parole, che gli ricordavano il peccato di cui tutti gli Esuli erano macchiati, Finrod perse la speranza e con essa la forza di lottare. Cadde innanzi al trono di Sauron, abbattuto, perdente.

   «Bene, bene... abbiamo un visitatore illustre, uno che osa sfidarmi!» commentò il Negromante, applaudendo ironicamente. «Ora dimmi il tuo nome e quello dei tuoi compagni!» intimò. Era ormai convinto di avere davanti a sé Felagund in persona, ma non poteva informare Morgoth senza prima averne la certezza assoluta. L’Elfo però era semisvenuto e non rispose. E nemmeno i suoi compagni tradirono il loro signore, benché Sauron li trafiggesse con lo sguardo, cercando di spezzare la loro volontà; nessuno, nemmeno Beren il mortale.

   «Ancora mi sfidate, eh?!» esclamò Sauron, montando in collera. «Bene, sappiate allora la vostra sorte. Giacerete in catene nelle mie segrete e perirete di una morte orrenda, se non vi si scioglierà la lingua. Ogni notte manderò un lupo a divorare uno di voi, davanti ai compagni incatenati e impotenti. I superstiti giaceranno tra i brandelli dei compagni, finché non verrà il loro turno. Tu, misero Uomo mortale, sarai il penultimo. E tu, che mi hai sfidato con la tua voce» aggiunse all’indirizzo di Felagund, «tu perirai per ultimo!».

   Al cenno di Sauron, gli Orchi trascinarono i dodici prigionieri nei sotterranei. Qui essi furono avvinti con catene che ulceravano le carni, venendo lasciati senza cibo né acqua. Di quando in quando, due occhi si accendevano nel buio. Allora c’erano ringhi feroci, grida di terrore, e poi un suono di lacerazione, uno sbavare condito da schizzi di sangue. Ma nessuno degli Elfi tradì il suo signore; nessuno parlò.

 

   Ritiratosi in cima alla sua torre, Sauron meditava. Erano passati dieci giorni dall’arrivo degli Elfi, e ancora non conosceva la loro identità né la loro missione, sebbene fossero stati quasi tutti sbranati. Quella notte aveva inviato un mannaro a divorare l’Uomo mortale; dopo di che sarebbe rimasto solo il sire elfico. «Perché indugio? Quello è Felagund... nessun altro mi avrebbe tenuto testa così a lungo» si disse il Negromante. Stava per inviare Thuringwethil ad Angband con la notizia del prezioso ostaggio, quando udì un canto che proveniva da fuori. Era una voce femminile, che si levava soave nel cuore della notte.

   Sauron si levò di colpo dal suo seggio, avvolgendosi nel manto nero con cappuccio, e si recò alla finestra. Ascoltò a lungo quel canto e sorrise, intuendo a chi apparteneva. Riuscì anche a scorgerla: una piccola figura avvolta in un manto scuro, che sedeva sull’orlo del ponte levatoio abbassato. «Ah, piccola Lúthien! Cosa ti ha attirata qui da me, che nemmeno ti cercavo?» mormorò tra sé. «Morgoth, mi dovrai un ricco premio quando questa gemma si aggiungerà al tuo tesoro!».

   Soddisfatto, il Negromante inviò un lupo mannaro affinché la portasse dentro, trascinandola per i capelli. Dall’alto della sua torre, osservò la belva che si accostava sbavante alla fanciulla indifesa... ma le cose non andarono come previsto. Un’enorme forma canina emerse dall’ombra, afferrò il mannaro per la gola e lo uccise in un baleno, gettandone la carcassa giù dal ponte. Poi si ritirò, con la velocità con cui era apparsa.

   «E quello cos’era?!». Sorpreso e indispettito, Sauron convocò un altro mannaro con la sola forza del pensiero e lo spedì sul ponte. Anche questo finì come il precedente. Ancora e ancora, i lupi furono uccisi da quella bestia indomabile, che appariva e spariva nell’ombra. Le loro carcasse si accumularono, ingolfando le acque del Sirion.

   «E se provassi a inviarglieli tutti assieme, anziché uno alla volta?» suggerì Thuringwethil, accostandosi al Negromante.

   «Gli invierò Draugluin!» disse questi, lasciando la finestra. «È il più forte dei miei mannari. Se non lo vince lui, nessun’altro potrà». Spedita la belva con un ordine del pensiero, Sauron scese dalla sua torre. Si recò nel salone delle udienze, accomodandosi sul trono. Thuringwethil gli era sempre accanto, silenziosa e avvolta nelle ali grinzose. Da fuori intanto giungevano i ruggiti e gli ansiti della lotta belluina. Questo scontro durò assai più a lungo dei precedenti, e Sauron cominciava a pensare che il suo campione avrebbe prevalso. Ma infine lo vide arrivare, con la coda fra le gambe e la gola lacerata.

   «Huan è qui!» disse Draugluin nella lingua dei mannari, e crepò ai piedi del padrone.

   «Huan!» ripeté il Negromante, scattando in piedi.

   «Lo conosci?» chiese Thuringwethil.

   «Era il segugio prediletto di Oromë, negli antichi giorni» rammentò il Maia. «È una creatura immortale, che mai dorme e mai si stanca. Sì, avevo udito che aveva seguito gli Esuli nell’esilio. Mi risultava che appartenesse a Celegorm il Cacciatore, ma si direbbe che abbia cambiato padrone».

   «Ora ha una padroncina!» rise la vampira. «Allora, come ce ne sbarazziamo?».

   «C’è una profezia, secondo cui Huan di Valinor morrà solo dopo essersi scontrato col più formidabile lupo mannaro del mondo» ricordò Sauron. «Draugluin era il secondo, ed è stato ucciso...».

   «Non resta che Carcharoth, il mastino di Morgoth!» disse Thuringwethil. «Vado subito  a convocarlo».

   «No!» la fermò Sauron con gesto perentorio. «Se chiedo l’aiuto di Morgoth per sconfiggere un... un cane, sembrerò debole. Devo occuparmene io».

   «Ma la profezia...».

   «La compirò io stesso. Non ho perso le mie abilità trasformiste, lo sai» sogghignò il Negromante.

   «Già... è una delle cose che amo di te!» ridacchiò la vampira. Per un attimo tornarono ad abbracciarsi e a baciarsi; poi entrarono in azione.

   «Mentre io sistemo Huan, tu pensa a Lúthien» ordinò Sauron, mentre si trasformava. «Mi raccomando, non sciuparle la pelle; varrebbe di meno!».

   «Ci proverò» promise Thuringwethil, spiccando il volo.

 

   Così il Negromante uscì dai cancelli della sua fortezza, nella forma del lupo più grande e demoniaco che si fosse mai visto. I suoi occhi ardevano di una luce gialla e mortifera, perforando come torce le tenebre della notte. Lungo era il pelo scuro, affilati gli artigli; nelle ampie fauci scintillavano le zanne acuminate, da cui stillava un veleno mortale. Il suo fiato si levava come un vapore pestilenziale. A quella vista, il canto di Lúthien venne meno e gli occhi le si appannarono per il terrore.

   Poiché Huan non era in vista, Sauron si slanciò dapprima contro la fanciulla, sebbene ancora non volesse ucciderla, nella speranza che gli valesse di più come ostaggio. Le era quasi addosso quando il segugio di Valinor emerse dalle ombre e lo attaccò. Sauron si volse rapidissimo per affrontarlo, ma in quella Lúthien gli gettò un lembo del suo manto nero sul muso, sussurrando una breve formula. Il manto sfrigolò, a contatto col lupo demoniaco, ma anche Sauron incespicò per un attimo, perché in quel mantello Lúthien aveva intessuto un potentissimo incantesimo del sonno.

   Poi il lupo e il segugio furono uno sull’altro, e fu un vortice di zanne e artigli. I loro ruggiti si levarono sotto le stelle mentre attaccavano e fingevano, si giravano intorno, mordevano e graffiavano, cadevano e si rialzavano.

   Lúthien si ritrasse, perché non poteva fare altro per aiutare il suo fedele amico a quattro zampe. In quella però una sagoma scura coprì la luna. Thuringwethil le piombò addosso dall’alto, accompagnandosi con una risata stridula e maniacale. «Cos’abbiamo qui? Un delicato fiore degli Elfi? Non saresti dovuta venire... qui non c’è amore per la tua razza!» stridette la vampira, agguantandola per i capelli.

   «Vengo per Beren l’Uomo, colui che amo» rispose Lúthien, senza nemmeno cercare di liberarsi. Era ancora avviluppata nel suo manto scuro, greve d’incantesimi.

   «Tu ameresti... un Uomo? Un sudicio mortale dalla vita breve? Ragazza, sei più pazza di me!» sghignazzò Thuringwethil. Ritenendo di averla ormai in suo potere, gettò la testa all’indietro e si abbandonò alla risata. Fu un errore, perché Lúthien trasse da sotto il mantello uno stiletto di mithril, il vero-argento che si estraeva solo a Khazad-dûm. Quello stiletto era stato benedetto da sua madre, Melian la Maia, affinché fosse esiziale a tutte le creature dell’Oscurità. E approfittando della distrazione dell’avversaria, Lúthien glielo piantò nel cuore.

   La risata di Thuringwethil si trasformò in uno strillo d’agonia. La vampira abbassò lo sguardo, incredula, sullo stiletto che le usciva dal petto. Il sangue nero le sgorgò abbondante dalla ferita, come anche dalla bocca, facendo sfrigolare il mithril. Cercò di volar via, ma le forze le vennero meno ed ella si accasciò, agitando vanamente le ali grinzose. «Mairon...!» gemette, rivolgendo un’ultima occhiata al suo amato.

   A quel richiamo, il lupo Sauron interruppe la lotta e si girò verso di lei. Vide lo stiletto di mithril conficcato nelle sue carni e capì che era spacciata. «Nieliqui!» gridò, ricorrendo al suo antico nome. In preda all’orrore e alla furia, stava per lanciarsi su Lúthien, stavolta con l’intento di sbranarla. Ma quella breve distrazione gli fu fatale, perché Huan gli affondò le zanne nel collo e lo sbatté al suolo. Lì lo tenne fermo, benché il Maia facesse sforzi disperati per liberarsi. Con le zanne del segugio che gli affondavano nella gola, Sauron – ridotto all’impotenza – vide la sua amata accasciarsi al suolo senza vita. Percepì il suo spirito che abbandonava le spoglie da vampiro e seppe, con la preveggenza dei Maia, che mai più si sarebbe reincarnata. Era troppo debole, troppo consumata dall’Oscurità. Avrebbe dovuto attingere al potere della Fiamma Imperitura; ma Ilúvatar negava questo privilegio a coloro che lo avevano rinnegato.

   Per la seconda volta, Sauron si vide derubato del suo amore. Ma la morte di Thuringwethil fu ancora più sconvolgente in quanto era chiaro che ormai anche i Figli d’Ilúvatar avevano la capacità di uccidere i Maiar. Lui stesso era a un soffio dalla morte e non sapeva proprio come liberarsi. Ah, se solo ci fosse stato un modo per ancorarsi al mondo materiale, così da resistere alla perdita del corpo e – col tempo – ridarsi una spoglia e un potere! Magari un oggetto incantato, qualcosa di piccolo e poco appariscente, da portare sempre con sé...

   Il dolore lo distrasse dalle sue riflessioni. Poiché in forma di lupo non riusciva a liberarsi, mutò aspetto: divenne un serpente, poi altre bestie ancora. Ma per quante forme tentasse, non c’era modo di liberarsi dalle zanne di Huan senza abbandonare del tutto il suo corpo. Nessun sortilegio o arma, nessun veleno o arte demoniaca poteva ferire quel segugio che un tempo aveva cacciato a Valinor. Spossato e quasi dissanguato, Sauron riassunse forma umanoide. Il suo spirito stava per abbandonarne la cupa spoglia quando, alzando gli occhi, vide Lúthien incombere su di lui.

   «Demone oscuro, fatto di menzogne e inganni, tu morrai qui, e il tuo spirito tornerà tremante alla tana del tuo padrone, per affrontarne il disprezzo!» disse la fanciulla. «La tua anima nuda si lamenterà e delirerà in eterno nelle tenebre, se non mi consegni la tua fortezza e non mi riveli come dissipare gli incantesimi che vi hai tessuto!».

   Allora Sauron si arrese. Con respiro incerto e scosso dai brividi, rivelò come sciogliere gli incanti, tradendo la fiducia di Morgoth. Lúthien ascoltò attentamente, poi spalancò le braccia e ripeté le formule ad alta voce, appellandosi ai poteri ereditati da Melian.

   In quella il sole si levò sopra le montagne, illuminando la vallata. Il massiccio di Tol Sirion tremò, come scosso da un terremoto. La cittadella ne fu diroccata: caddero le torri, si spaccarono le mura, mentre il fiume spumeggiava più fragoroso. Gufi e pipistrelli abbandonarono la fortezza, stridendo lugubremente, e attraversarono rapidi l’aria mattutina, in cerca di nuove tane nel folto delle foreste senza sole. Gemendo e ululando, i lupi rimanenti fuggirono a frotte, senza più attaccare Huan e Lúthien. Anche gli Orchi barcollarono, come se d’un tratto fossero ciechi e sordi. Sentendo venir meno il potere del loro signore, e vedendolo così umiliato e in ostaggio sul ponte, si dettero a una fuga disordinata. Per ultime emersero delle forme pallide e lacere, che avanzavano carponi, proteggendosi gli occhi accecati dall’improvvisa luce. Erano i prigionieri, liberati dall’oscurità delle segrete e riemersi in quel sole che non speravano più di rivedere. Le catene si erano sciolte dai loro corpi e le celle si erano aperte nel momento in cui Sauron aveva rinunciato alla sovranità dell’isola.

   «Io ho rispettato la mia parte dell’accordo» rantolò allora il Maia, all’indirizzo di Lúthien. «Tu rispetta la tua!».

   «Non vedo Beren» rispose però la fanciulla, osservando i prigionieri.

   «Lo troverai nella segreta più profonda... forse è troppo debole per uscire con le sue forze» disse il Negromante, sperando invece che il mannaro lo avesse già ucciso.

   Al cenno di Lúthien, Huan gli lasciò con riluttanza la gola. Allora Sauron si trasformò di nuovo, assumendo le fattezze di un mostruoso pipistrello, più grande e orribile di Thuringwethil. Dette un’ultima occhiata alla sua amata, che giaceva cadavere, col sangue acido che aveva corroso la lama di mithril. Poi spiccò il volo e fuggì, gocciolando sangue nero dalla gola lacera. Abbandonò la valle del Sirion e fuggì sull’altopiano del Dorthonion, per nascondersi dalla collera di Morgoth, che certo sarebbe stata grande nell’apprendere la sua ignominiosa sconfitta.

   Da allora i boschi del Dorthonion furono detti Taur-nu-Fuin, la Foresta sotto l’Ombra, perché vi dimoravano esseri immondi e i viandanti non facevano ritorno. Sauron se ne stette a lungo acquattato, leccandosi le ferite e piangendo Thuringwethil. Il suo odio per Elfi e Uomini divenne smisurato; ma per molto tempo non osò lasciare il suo buio rifugio.

 

   I prigionieri di Tol Sirion si affollarono attorno a Lúthien, levando le mani con reverenza mentre la ringraziavano per averli liberati. Ma la fanciulla stette immobile, osservando il cancello da cui ancora Beren non usciva. «Oh, Huan... dovremo cercarlo tra i morti?!» chiese con le lacrime agli occhi. Assieme al segugio di Valinor varcò i cancelli e si calò nei sotterranei, ancora intrisi di dolore e fetore. Qui si aggirò a lungo, chiamando Beren. Ma fu Huan a percepire la traccia olfattiva dell’uomo, guidando Lúthien da lui.

   Beren giaceva ancora nella segreta, sebbene le catene si fossero sciolte. Era muto, immobile; non alzò la testa neanche quando i suoi salvatori entrarono. Teneva tra le braccia il corpo di Finrod Felagund, il più fedele degli amici. Il re degli Elfi era morto difendendolo dal lupo che avrebbe dovuto sbranarlo quella notte: aveva spezzato le catene, uccidendo il mannaro a mani nude, ed era spirato per le ferite riportate nella lotta.

   Allora Lúthien si gettò su Beren, stringendolo tra le braccia, e lo chiamò a lungo. Poco alla volta l’uomo riemerse dall’abisso della disperazione, sbatté gli occhi e la riconobbe. Restarono a lungo abbracciati, raccontandosi tutto ciò che era accaduto da quando il fato li aveva separati. Infine Beren prese il corpo di Felagund e lo portò via dalla scura segreta. Seppellirono il re degli Elfi sulla cima del colle di Tol Sirion, l’isola che era stata sua e che si levava purificata nell’aria del mattino. E sebbene in seguito l’ombra di Morgoth tornasse ad allungarsi su quelle terre, la verde tomba di Finrod rimase inviolata sino alla fine dell’Era, quando tutto il Beleriand fu sommerso dai flutti.

   Ma l’avventura a Tol-in-Gaurhoth non fu vana, perché grazie alle arti magiche di Lúthien, Beren rivestì la spoglia di Draugluin, assumendone del tutto l’aspetto. Lúthien stessa indossò la pelle di Thuringwethil, prendendone le fattezze. E fu con quegli spaventosi travestimenti che i due portarono a termine la loro missione, calandosi nell’inferno di Angband e riemergendone con un Silmaril.

 

   Per qualche tempo, l’impresa di Beren e Lúthien ridette animo ai difensori del Beleriand. Elfi, Uomini e Nani si coalizzarono per respingere le armate di Morgoth e sulle prime riuscirono a ricacciarle ad Angband. Ma nell’anno 472 ebbe luogo la Nirnaeth Arnoediad, la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, in cui grazie al tradimento degli Uomini giunti più di recente dall’Est Morgoth uscì vittorioso e i Popoli Liberi furono sbaragliati. Da allora fu un susseguirsi di tragedie. Gli Orchi scorrazzarono indisturbati nel Beleriand e gli ultimi regni degli Elfi furono saccheggiati. Alcuni, come Nargothrond e Gondolin, caddero sotto le armate di Morgoth. Altri, come il Doriath, conobbero la rovina per via del Giuramento di Fëanor, che obbligava i suoi figli a riconquistare i Silmaril a ogni costo, anche quand’erano in mano agli amici. Vi furono così due massacri di Elfi ad opera di Elfi, prima nel Doriath, poi nell’accampamento dei profughi alle foci del Sirion.

   Entro l’anno 540, Morgoth controllava tutto il Beleriand e gli ultimi esuli dei regni distrutti si accampavano sull’isola di Balar o lungo le coste meridionali. I Popoli Liberi erano allo stremo: l’unica speranza veniva da oltre il Mare...

 

 

-Commento:

   Sono stato incerto se scrivere o no questo capitolo, dato che ricalca l’avventura di Beren e Lúthien a Tol-in-Gaurhoth senza aggiungere granché di nuovo. Le uniche differenze sono che la vicenda segue il punto di vista di Sauron, e che ho mostrato la morte di Thuringwethil (che curiosamente Tolkien non descrive: si limita a dire che Huan esce dalla fortezza trascinando la spoglia del vampiro). Dopo molte riflessioni ho deciso di scriverlo comunque, perché fin qui avevo riferito la storia di Sauron piuttosto nel dettaglio, e mi pareva strano saltare proprio la principale vicenda che lo vede protagonista durante la Guerra delle Gemme.

   La riunione degli Uomini in cui Sauron cerca di convincerli a lasciare il Beleriand, affinché non prestino aiuto agli Elfi, è citata nel capitolo XVII del Silmarillion. Qui Tolkien non specifica chi sia il finto Amlach che cerca di spaventare gli altri. Dato che altrove Sauron è presentato come un abile mutaforma, capace d’imitare chiunque, ho immaginato che anche questa missione gli vada addebitata. Sarebbe la prima volta che si scontra con gli Uomini, ottenendo peraltro uno scarso successo.

   L’episodio di Tol-in-Gaurhoth è importante sotto molti aspetti: oltre a essere la premessa necessaria per la riconquista del Silmaril è anche l’inizio della contesa tra Sauron e la stirpe che da Beren e Lúthien avrà origine, e che proseguirà coi re di Númenor, Elendil e Isildur, i re di Arnor e Gondor, giù giù fino ad Aragorn. Ai fini del mio racconto, questo capitolo era necessario da un lato per mostrare come Sauron stia diventando un mostro irredimibile e dall’altro come perda Thuringwethil, l’ultimo affetto che gli restava. Per la morte della vampira mi sono tenuto sul classico, una lama d’argento (anzi di mithril!) nel cuore. Ho immaginato che constatare la facilità con cui un Maia può essere ucciso stimoli Sauron a riflettere su come “ancorarsi” alla vita; questo lo porterà, molto tempo dopo, a forgiare l’Unico Anello.

   Un aspetto poco chiaro, nel Silmarillion, sono i rapporti tra Morgoth e Sauron dopo che questi è stato scacciato da Tol-in-Gaurhoth. Non è chiaro cioè se Sauron sia ancora agli ordini del Signore Oscuro, o se si nasconda per sfuggire alla punizione. Tolkien dice solo che rimase nella Taur-nu-Fuin, riempiendola d’orrore, dopo di che non lo nomina fino al termine della Guerra d’Ira. Di nuovo, la vera ragione è semplicemente che Sauron come personaggio fu aggiunto quando il resto della trama era già delineato. Io ho pensato che, a rigor di logica, Morgoth non gli avrebbe perdonato facilmente il fiasco e che quindi Sauron debba nascondersi fino al termine dell’Era.

 

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Capitolo 9
*** La Guerra d'Ira ***


-Capitolo VIII: La Guerra d’Ira

 

   Incredulo, Eärendil si rivolse all’alta figura apparsagli sulle scale di Tirion, la città degli Elfi che aveva raggiunto dopo lunghe peregrinazioni nei mari. Era un essere alto, dai capelli biondi, rivestito di una corazza scintillante; dalla schiena gli fuoriuscivano due ampie ali marrone-dorate. Era certamente un Maia; lo aveva salutato in toni magniloquenti e ora lo osservava benevolo, mentre la polvere di diamanti scintillava sulle sue vesti e sui calzari.

   Il Marinaio s’inchinò davanti a lui, riconoscendolo come Eönwë grazie ai canti e ai racconti di sua madre Idril. «Non giungo per me stesso, ma per dar voce a tutti coloro che soffrono il giogo di Morgoth nelle Terre Mortali. Giungo per parlare a nome di Elfi e Uomini, il cui sangue scorre misto nelle mie vene. E sì, giungo anche per i Nani figli di Aulë, i Pastori di Alberi e tutte le altre genti. Se il cuore delle Potenze non è del tutto chiuso a queste sofferenze, io t’imploro, conducimi da loro, sì che possa presentare la mia preghiera».

   «Tale è appunto il mio scopo» annuì Eönwë. «Da molto attendevo il tuo arrivo. Seguimi, presto, all’Anello della Sorte in cui i Valar si stanno già radunando a consiglio. Il cuore mi dice che stavolta saranno mossi a pietà... quella pietà che il Nemico non comprende, e dunque non può prevedere. Se sarà così, anch’io ti accompagnerò nella Terra di Mezzo, per fare giustizia!» promise. E insieme si avviarono verso il Máhanaxar.

 

   Era una sera come tante nella Taur-nu-Fuin, la scura foresta che cresceva sull’altopiano del Dorthonion. Un tempo quei boschi d’abeti e larici erano stati di grande bellezza, sebbene gli inverni vi fossero rigidi; ma tutto era cambiato con l’estendersi del potere di Morgoth, e ancor più da quando Sauron li aveva eletti a propria dimora. Ora i tronchi giacevano senza foglie, morti e rinsecchiti. Là dove la vegetazione ancora resisteva, il bosco si era fatto scuro e infido; le piante producevano lunghe spine e foglie velenose. Le acque dei rigagnoli erano contaminate, tanto che berle avrebbe causato follia; ma non c’era più nessuno che percorresse quella landa spettrale, salvo le creature dell’Ombra. Tra un albero e l’altro si allungavano grandi ragnatele, tessute dalla mostruosa progenie di Ungoliant.

   Non appena l’ultimo raggio di sole svanì a occidente, gufi e civette si levarono in volo, stridendo lugubremente. Fu poi la volta dei pipistrelli, che cominciavano la loro caccia notturna. Infine una figura umanoide emerse dalle profondità della foresta. Sauron il Negromante era ancora lì, da quando Huan e Lúthien lo avevano umiliato e scacciato da Tol-in-Gaurhoth. Non osava tornare ad Angband, dal suo terribile padrone, né mettersi in proprio, ora che l’ombra di Morgoth aduggiava tutto il Beleriand. Avrebbe dovuto passare i Monti Azzurri, come aveva fatto in passato, e cercarsi un nuovo dominio nelle regioni orientali del mondo, dove gli Uomini si andavano moltiplicando. Ma qualcosa lo tratteneva. Il Maia raggiunse l’orlo di un dirupo, da cui la vista spaziava a settentrione. Là, oltre il deserto dell’Anfauglith cosparso di ossa, s’innalzavano i torrioni di Thangorodrim. Sotto di essi si ramificava il labirinto sotterraneo di Angband, dove migliaia di schiavi tra Elfi e Uomini faticavano nelle miniere, sotto le sferzate degli aguzzini, finché fame e freddo non ponevano fine alle loro miserie. E c’era anche... lei.

   Era da tanto che Sauron non pensava a Ilmarë. Nei giorni di Tol-in-Gaurhoth, quando si accompagnava a Thuringwethil, l’aveva quasi dimenticata; ma dopo la morte della vampira il ricordo del suo primo amore era riaffiorato. «Amore... che sogno infantile!» si disse il Negromante, respingendo il pensiero con rabbia. Non esisteva l’amore; c’era solo il desiderio di possesso. Questa era la verità che i Valar negavano a parole, pur mettendola in pratica col loro atteggiamento egoista; la verità che invece Morgoth gli aveva insegnato ad accettare.

   Fu allora che lo sguardo di Sauron indugiò verso occidente e qualcosa attirò la sua attenzione. Una strana luce si levava nel cielo. Pareva una stella, ma era più luminosa di ogni altra. Ed era nuova... mai prima d’ora si era levata, di questo il Negromante era certo. Con i suoi sensi di Maia, avvertì che la nuova luce era più pura e più santa di quella del Sole.

   «Un Silmaril!» comprese. La cosa era inaspettata e foriera di grandi cambiamenti. Se il Silmaril che Beren e Lúthien avevano tratto da Angband era tornato a Valinor, era perché qualcuno ce l’aveva portato. Doveva essere stato quel marinaio mezzosangue, Eärendil, con sua moglie Elwing, la nipote di Lúthien. Solo loro potevano aver realizzato l’impresa. Dunque i Valar non li avevano colati a picco, come facevano con le altre navi. Aveva senso... le Potenze certo bramavano di riavere il Silmaril. Ma allora perché lo avevano scagliato nel cielo, dov’era visibile a tutti ma al tempo stesso fuori dalla portata di chiunque? Perché non lo avevano rinchiuso tra i loro tesori? Era forse un segno che stavano per giungere a reclamare le altre due gemme? Dunque la resa dei conti si avvicinava?

   In quella Sauron udì un profondo boato che proveniva dai Thangorodrim. Anche Morgoth aveva percepito la nuova luce e certo ne aveva intuito l’origine. Un tempo il Signore Oscuro si sarebbe facilmente levato nello spazio, a ghermire quel lucente tesoro; ma da tempo aveva perso la capacità di abbandonare la sua forma incarnata, o anche soltanto di alterarla. Le sette ferite infertegli da Fingolfin in duello lo marchiavano ancora, ed egli si trascinava sul piede zoppo. Le sue mani erano ustionate dai Silmaril, da quando li aveva incastonati nella corona, e il suo viso era sfregiato dagli artigli di Thorondor. Sì, l’Oscuro Signore era un patetico relitto... aveva riversato tutta la sua potenza nelle sostanze del mondo e nelle sue creature, senza tenerne per sé. Sauron invece aveva conservato gran parte delle sue forze... sebbene non tutte... tanto che cominciava a chiedersi se avrebbe potuto sfidare il suo antico padrone, strappargli il titolo di Signore Oscuro. Se i Valar avessero davvero scordato la Terra di Mezzo, allora sì, lo avrebbe fatto. Ma quella luce che si levava sempre più alta in Occidente cambiava tutto. Se i Valar stavano arrivando, allora le forze dell’Ombra dovevano unirsi per respingerli.

 

   Nell’anno 545 della Prima Era del Sole, l’esercito dell’Ovest sbarcò finalmente sulle coste del Beleriand. Giunse con una flotta di navi bianche, così numerose e fitte da parere uno stormo di cigni che volassero a pelo d’acqua. A bordo c’erano Oromë e Tulkas, schierati in battaglia come avevano fatto negli antichi giorni, con le coorti dei Maiar guerrieri. Ecco dunque Eönwë armato di spada, Tilion col suo arco, Makar e Meássë che non vedevano l’ora di gettarsi nella mischia, e tutti gli spiriti minori. Ma stavolta anche gli Elfi di Valinor combattevano al loro fianco. C’erano i biondi Vanyar, condotti da Ingil figlio di Ingwë, che marciavano sotto uno stendardo bianco. E c’era quella parte dei Noldor che non si era recata in esilio, ma era rimasta a Tirion, governata da Finarfin. Quanto ai Teleri, avevano fornito le navi e le avevano equipaggiate con i loro marinai migliori. Tuttavia, memori del Massacro di Alqualondë, non vollero versare il sangue per coloro che li avevano decimati; così rimasero sulle navi e nessuno di loro mise piede sulle terre mortali.

   Lo sbarco ebbe luogo a Eglarest, uno degli antichi porti di Círdan, saccheggiati anni prima dagli Orchi. Qui i servi di Morgoth erano al lavoro per allestire una nera flotta che invadesse l’isola di Balar, l’ultimo rifugio dei Popoli Liberi, dove Gil-galad e Círdan resistevano precariamente. Mai prima d’allora le forze del male avevano costruito navi e sfidato i flutti, ma le circostanze lo richiedevano, perché Morgoth non tollerava che vi fosse chi non era suo schiavo. E non erano solo gli Orchi al lavoro, perché quasi tutti gli Uomini giunti dall’Oriente negli ultimi tempi avevano giurato fedeltà all’Oscuro Signore. I cantieri fervevano di lavoro; la Flotta Nera era quasi completata e l’esercito che avrebbe dovuto riempirla era già accampato fuori città.

   Ma Ulmo emerse dall’acqua, tremendo nella sua collera, e levò il suo tridente. Lo immerse nei flutti ed ecco, il Mare si gonfiò in una gigantesca ondata, che sommerse le navi coi carpentieri al lavoro e squassò i porti. Mentre i superstiti fuggivano nell’entroterra per dare l’allarme, le navi di Valinor attraccarono ai moli diroccati. Gli armati ne scesero in fretta, schierandosi per la battaglia. Avevano appena approntato il muro di scudi che l’esercito di Morgoth gli fu addosso.

   Allora ebbe luogo la Battaglia di Eglarest, primo scontro della Guerra d’Ira. E fu una clamorosa vittoria per le armate dell’Ovest, perché nessuno degli avversari le aveva mai affrontate prima: non gli Orchi, nessuno dei quali era tanto vecchio da ricordare la Guerra dei Poteri, e certo non gli Uomini giunti di recente. L’esercito oscuro fu spazzato via e i pochi superstiti fuggirono ad Angband, portando la notizia che i Grandi Nemici dell’Ovest erano sbarcati.

   Approfittando della tregua, i Valar completarono lo sbarco, portando a terra anche i cavalli, i carri e le provviste. Cominciarono subito a costruire un accampamento fortificato, mentre altre navi giungevano dall’Ovest, con il resto delle truppe. Malgrado l’iniziale vittoria, quella sera non ci furono canti né festeggiamenti. Per respingere l’esercito di Morgoth, infatti, le truppe di Valinor avevano dovuto versare il sangue di molti Uomini, e questo pesava sul loro animo.

   Nei giorni seguenti Eönwë volò a Balar, dove prese contatto con Gil-galad e Círdan, rivelandogli che i Signori dell’Ovest erano giunti a sfidare Morgoth. «Siamo qui per liberarvi dalla sua tirannia» promise. «Ma le sue armate di Orchi sono cresciute a dismisura. E ahinoi, anche molti Uomini mortali sono proni alla sua volontà e combattono per lui. Non sta ai soccorritori chiedere l’ausilio di coloro che erano venuti a salvare, ma devo dirvelo: chiunque tra voi se la senta ancora di combattere, sarà il benvenuto tra le nostre schiere».

   «Io verrò, assieme alla gente della mia Casa» promise Gil-galad. Così nelle settimane successive vi fu un gran viavai dall’isola di Balar alla terraferma. Gli Elfi si riunirono ai loro congiunti d’oltremare, che non vedevano dai tempi dell’Esilio. Anche i superstiti fra gli Uomini delle Tre Case fedeli ebbero sentore dei grandi eventi che erano in moto. Poco alla volta lasciarono le foreste e le terre desolate in cui avevano cercato scampo dalle persecuzioni e si unirono alle schiere dell’Ovest, venendo da queste equipaggiati con le armi migliori. Un mese dopo lo sbarco, le coste da Eglarest alla Baia di Balar erano in mano alle forze della Luce, che avevano costruito molti accampamenti e si preparavano a marciare nell’entroterra. Ma di tutto questo, Morgoth era informato; e malgrado tutto aveva ancora qualche asso nella manica.

 

   Mentre le coste del Beleriand risuonavano delle trombe di Valinor e degli inviti a unirsi, un analogo appello corse nell’entroterra. I servi di Morgoth furono richiamati da tutti gli angoli oscuri del mondo per difendere il suo regno. In via straordinaria, l’Oscuro Signore promise il perdono anche a quei servi che in precedenza lo avevano deluso ed erano fuggiti per nascondersi alla punizione. Fu così che Sauron fece ritorno ad Angband.

   «Quanto tempo» lo accolse Morgoth nella sua sala del trono. «L’ultima volta che udii tue notizie, seppi che eri stato sconfitto da un cane e da una fanciulla» lo derise, ricordandogli l’umiliazione di Tol-in-Gaurhoth.

   «Se parli del cane che ha ucciso il tuo lupo Carcharoth e della fanciulla che ti ha fatto addormentare col canto, sì da rubarti un Silmaril, ebbene lo ammetto: furono loro a scacciarmi» ribatté Sauron.

   «Insolente! Dovrei strapparti quella lingua forcuta!» ringhiò l’Oscuro Signore. La sua mano corse al martello Grond, ma all’ultimo rinunciò a impugnarlo. «Non c’è tempo da perdere, presto i Valar marceranno nell’entroterra. Dobbiamo fare terra bruciata sul loro cammino e presidiare i guadi lungo il Sirion. Quel fiume sarà la nostra linea di difesa».

   «Mio signore, il Sirion è sotto il potere di Ulmo e non li tratterrà a lungo. Ben presto i Valar giungeranno alle nostre porte. Già in passato espugnarono questa fortezza... stavolta come li tratterremo?» chiese il Negromante.

   «In passato non avevamo i draghi!» ribatté Morgoth. «Sebbene Glaurung sia perito per mano di Túrin, e altri siano caduti a Gondolin, il loro numero è tornato a crescere. Ve n’è uno, in particolare, che supera tutti gli altri per ardore e potenza. Si chiama Ancalagon, e presto sarà il flagello dei Valar!» sogghignò. Come evocato, il drago fece udire il suo ruggito dai sotterranei in cui era rinchiuso; e la sala del trono ne tremò.

 

   Ora che l’Esercito di Valinor si era schierato, ingrossandosi con l’afflusso degli ultimi difensori della Terra di Mezzo, iniziò la sua marcia. L’armata si divise in tre schiere, comandata una da Oromë, una da Tulkas e l’ultima da Eönwë. I tre eserciti marciarono attraverso il Beleriand in rovina, e ovunque passassero, la natura rifioriva attorno a loro. L’erba germogliava, gli alberi rinsecchiti aprivano nuove gemme e boccioli. Le tre armate raggiunsero il Sirion in altrettanti punti del suo corso; e qui si fermarono.

   Morgoth infatti aveva ammassato ingenti forze presso i guardi. Vi erano Orchi e Troll, come di consueto, e lupi mannari in grande quantità. Vi erano poi draghi simili a Glaurung, vale a dire che si muovevano su quattro zampe e sputavano fuoco. E vi erano gli Uomini dell’Est, in numero assai superiore a quanto i Signori dell’Ovest avessero previsto. Il fervore con cui quegli Uomini si batterono per l’Oscuro Signore, immolandosi per lui, fu qualcosa che gli Immortali non scordarono mai. Il primo tentativo di varcare il fiume fu fermato su tutti e tre i campi di battaglia. In realtà i Valar e i Maiar avrebbero potuto tirare dritto, ma gli Elfi e gli Uomini al loro seguito sarebbero stati massacrati, e questo non potevano permetterlo. Così i tre eserciti si accamparono. E lì rimasero, contendendo il fiume alle armate di Morgoth con frequenti attacchi. La guerra-lampo divenne una guerra di logoramento. Una guerra che si trascinò per quaranta lunghi anni.

   In tutto questo tempo, Sauron fu attivo sul campo di battaglia più meridionale, quello che lo opponeva a Eönwë; ma stette bene attento a non esporsi troppo. Accanto a lui c’erano sempre i Balrog e i draghi a dargli manforte e coprire le sue ritirate. Giunse più volte nei pressi di Eönwë: i due si videro e si scagliarono dardi, anche se non arrivarono mai al corpo a corpo. Erano però a portata di voce e ne approfittarono per scambiarsi accuse e recriminazioni.

   «Ma guarda, Manwë mi ha spedito contro il suo trombettiere!» disse Sauron, la prima volta che s’incontrarono. «Ti annoiavi tra le mollezze di Valinor? Mi ero quasi convinto che voialtri vi foste del tutto scordati della Terra di Mezzo!» lo provocò.

   «Da quando colpisti Ilmarë, non è passato giorno senza che ci pensassi» disse però Eönwë. «A lungo ho bramato di ritrovarti. Ora ti trovo, e vedo che sei sempre lo schiavo di Morgoth».

   «E tu lo schiavo dei Valar!» rimbeccò Sauron. «Il mio padrone però s’indebolisce; verrà il giorno in cui potrò soverchiarlo. I tuoi padroni, invece, ti domineranno in eterno!».

   «Non c’è tirannia sotto i Valar. Il loro potere è pace, è una gioia che si respira di continuo come l’aria» ribatté Eönwë. «Tu potevi esserne partecipe. Potevi avere la beatitudine, invece hai scelto l’orrore. Perché?!».

   «Perché qui ho più potere» rispose il Negromante. Scagliò una lancia sopra il fiume, cercando di trafiggere l’araldo, ma questi si protesse con lo scudo scintillante. La lancia vi rimbalzò e si perdette nell’acqua.

   «Tutto il potere dell’Ombra non ti salverà dalla tua sorte» avvertì Eönwë.

   «Vedremo» disse Sauron, e per il momento si ritirò.

 

   Quarant’anni durò la guerra di logoramento, durante la quale l’esercito di Valinor soffrì frequenti attacchi. Le truppe di Morgoth attraversavano il fiume in altri punti e poi assalivano nottetempo gli accampamenti dell’Ovest, cercando d’incendiarli col fuoco dei draghi. Gli assalti furono respinti e numerosi draghi rimasero sul terreno; ma si vociferava di un orrore ancora più grande. Molti reparti di Valinor, inviati in avanscoperta oltre il Sirion, non avevano fatto ritorno. Certe notti, però, le vedette avevano intravisto a grande distanza il fuoco balenare dal cielo verso la terra; cosa questa che né draghi né Balrog potevano fare. Anche le Aquile furono decimate in attacchi notturni e le superstiti confermarono che il pericolo veniva dal cielo. Poco alla volta gli Immortali compresero che Morgoth aveva escogitato un nuovo orrore, dando ai draghi le ali, per renderli ancora più mortiferi. Il nome di Ancalagon cominciò a circolare tra gli abitanti della Terra di Mezzo; ma i racconti su di lui erano confusi e parziali. Il rettile non si era ancora mostrato chiaramente alla luce del giorno, segno che Morgoth lo teneva come arma segreta.

   Dopo decenni di lotta, le forze dell’Ombra cominciarono ad assottigliarsi. Un’enorme quantità di Orchi, Troll e Uomini malvagi era perita negli scontri; i loro scheletri circondavano il fiume e ne intasavano le acque. Allora le forze di Valinor ripresero animo. Nel corso di una singola giornata, le tre schiere attaccarono, riuscendo finalmente a varcare il fiume. Gli accampamenti nemici furono distrutti; le truppe di Morgoth si ritirarono a nord con gravi perdite. Era cominciata la campagna finale.

   Nel corso dei due anni successivi, le schiere di Valinor marciarono verso il Nord, liberando le terre che attraversavano. Procedevano a rilento, per via dei frequenti attacchi nemici. Ogni territorio doveva essere accuratamente bonificato dalle forze del male, prima di proseguire, così che queste non potessero attaccare gli Immortali alle spalle. Gli Orchi inoltre avevano fatto terra bruciata, così che i rifornimenti per le truppe dovevano affluire da grande distanza. Era penoso osservare quelle terre, un tempo floride, ridotte in quello stato. Tutte le città degli Elfi erano in rovina; anche i villaggi degli Uomini erano stati saccheggiati da tempo. Il suolo stesso scricchiolava sinistramente, perché il potere di Morgoth era ormai venuto a contatto con quello dei Valar. Spesso si aprivano voragini nel terreno, da cui uscivano fumo e fiamme. Dalle coste giungevano notizie ancor più preoccupanti: il Mare aveva iniziato a invadere l’entroterra, segno che tutto il Beleriand cominciava a sprofondare sotto le immani forze geologiche.

   «Mi chiedo se col nostro attacco salveremo il Beleriand... o se lo manderemo in pezzi» disse una volta Eönwë, durante una riunione coi capi delle altre schiere.

   «Morgoth non esiterebbe a trascinare questa terra nella sua rovina» disse Oromë. «Ma persino questo non sarebbe un prezzo troppo elevato, in cambio della sua definitiva sconfitta».

   «Affrettiamoci, allora!» disse Tulkas. «Sono stufo di contendere al Nemico ogni palmo di terra. Puntiamo dritti sulla sua roccaforte e facciamola finita!».

   «Pazienta ancora un poco» lo esortò Oromë. «Dobbiamo bonificare queste terre, se non vogliamo che alla fine di tutto gli Orchi e altre male creature tornino a moltiplicarsi».

   «Temo che questo sia inevitabile» disse però Eönwë. «La potenza di Morgoth è quasi tutta fluita nei suoi servitori. La sua volontà agirà per loro tramite, anche se la sua forma incarnata sarà rimossa dal mondo».

   «Nondimeno, un grande male sarà rimosso e i Popoli Liberi avranno sollievo per qualche tempo» disse Oromë. «Procediamo, dunque! Non manca molto alla resa dei conti».

   «Vorrei solo che Ilmarë fosse con noi» sospirò Eönwë. Forse era quella, la causa del suo pessimismo. L’aveva persa da un tempo così incalcolabile che ormai non sperava più di rivederla in forma incarnata. Solo qualche volta l’aveva intravista attraverso Olórë Mallë, il Sentiero dei Sogni; ma Ilmarë era lontana e non rispondeva ai suoi appelli. Al risveglio, Eönwë si sentiva più abbandonato che mai.

   «Abbi fede, amico mio» disse allora un Maia, facendosi avanti. Era Olórin, il più saggio del suo popolo. «Ilmarë ancora vive, anche se dorme il lungo sonno. Ma molte cose saranno smosse, quando il potere dei Valar e quello dell’Avversario giungeranno all’estremo scontro. Se una volta ad Angband percepirai la sua vicinanza, chiamala!» raccomandò.

   «Lo farò» promise Eönwë. «E farò giustizia di colui che l’ha ridotta in quello stato».

 

   Si giunse così allo scontro finale, sul deserto di Anfauglith, davanti alle porte di Angband. Le tre schiere di Valinor si riunirono in un solo possente esercito, che marciò sulla piana, alla volta dei Thangorodrim. Valar e Maiar erano in prima fila; seguivano Elfi e Uomini. Si fermarono solo per un attimo davanti allo Haudh-en-Ndengin, il Tumulo del Massacro eretto dopo la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, per portare rispetto ai caduti. Infine lo oltrepassarono e giunsero davanti ai cancelli di Angband.

   Davanti a loro era schierato l’ultimo e più grande esercito di Morgoth. C’erano Sauron, i Balrog e i demoni minori. C’erano draghi a quattro zampe, lupi mannari e altre creature dell’Oscurità. Vi erano infine Orchi, Troll e Uomini malvagi, in quantità incredibile, considerando le perdite che avevano avuto nei quarantadue anni di guerra. Fu Sauron a farsi avanti, in veste di messaggero.

   «Benvenuti, miei signori» esordì in tono beffardo. «Come vedete, la stirpe degli Uomini combatte lealmente al nostro fianco. Voi avete le Tre Case, o quel poco che ne resta; ma tutti gli altri sono con noi. Essi venerano Morgoth, riconoscendolo come loro Signore, e sono lieti di dare la vita per lui. Ecco come usano il libero arbitrio che Ilúvatar gli ha donato! E quindi vi si pone davanti una scelta difficile: se volete salvare i Figli Minori d’Ilúvatar... dovrete sterminarli» disse con maligno compiacimento.

   «Vade retro, schiavo di Morgoth!» disse però Eönwë. «Non è più tempo per dibattiti e ripensamenti. Quest’oggi si decide il destino del Mondo».

   «Arrivate tardi, come sempre. I giochi ormai sono fatti. Che Morgoth trionfi o cada, il suo volere impregnerà Arda per sempre!» disse Sauron, e si ritirò. Anche Eönwë tornò nel suo schieramento. Di lì a poco squillarono le trombe e i corni. Le due immense schiere si gettarono l’una contro l’altra e vennero in urto, mentre il terreno sotto di loro scricchiolava e si fendeva, e c’erano crolli nei monti.

   Fu l’ultimo scontro, il più cruento. Entrambe le parti miravano alla vittoria totale. I Balrog si fecero avanti con le loro fruste di fiamma, ma Oromë e Tulkas li annientarono, estinguendo il loro fuoco con la lancia, la spada o la nuda forza delle mani. Un solo Balrog  sprofondò in uno degli abissi che ormai si spalancavano un po’ ovunque e non fu più visto. Le brulicanti legioni degli Orchi si consumarono come erbaccia in un incendio, quando non furono spazzate via come foglie morte da un vento ardente. Le creature oscure furono uccise o gettate nei crepacci. E gli Uomini che adoravano Morgoth combatterono e morirono in suo nome, come Sauron aveva annunciato.

   Allora, vedendo che i suoi eserciti erano allo sbando e il nemico già picchiava sui cancelli, Morgoth tremò e non osò uscire di persona. Tuttavia scatenò la sua ultima arma, la più micidiale. La piana di Anfauglith tremò e si spaccò, i Monti di Ferro vomitarono fiamme, i Thangorodrim furono avvolti dai fulmini. I cancelli di Angband si aprirono ed ecco uscirne i draghi alati, che mai prima d’ora si erano visti alla luce del sole. Il loro assalto fu una tempesta di fuoco che nemmeno i Valar poterono fermare. L’Esercito dell’Ovest fu avvolto dalle fiamme, e in quelle fiamme perirono molti Elfi e Uomini coraggiosi. Le loro armature, forgiate a Valinor e benedette dagli Immortali, si sciolsero sui corpi carbonizzati. I Maiar stessi furono ricacciati indietro, ustionati e doloranti. Scagliarono frecce e lance contro i draghi, mirando al loro ventre molle, e in tal modo riuscirono ad abbatterne alcuni. Ma persino la lancia di Oromë rimbalzò sulle scaglie di Ancalagon senza nuocergli.

   Infastidito dall’attacco, il drago nero investì con un colpo di coda il Cavaliere dei Valar, disarcionandolo e gettandolo a terra. In un lampo fu su di lui per finirlo. Tulkas si slanciò sul compagno caduto, afferrò il drago per le fauci e con uno sforzo formidabile gliele tenne aperte. Allora il drago alitò una fiammata rovente; persino il Vala ne fu ustionato. Con uno scarto Ancalagon si liberò dalla presa e con pochi colpi d’ala tornò in aria, per flagellare di nuovo l’armata di Valinor. Oromë e Tulkas si scambiarono un’occhiata disperata: avevano affrontato Ancalagon con tutta la loro forza divina, e non era bastato. Davanti alla furia di quel nero demonio, anche gli dèi cadevano.

   In quella il sole tramontò nel cielo rosso sangue. Nelle tenebre punteggiate dagli incendi le truppe di Morgoth ripresero animo, mentre i campioni dell’Ovest indietreggiavano. Era un arretramento che rischiava di trasformarsi in una rotta irrimediabile. In quella però si udirono i richiami delle Aquile ed esse vennero a stormi, insieme a tutti gli uccelli forti d’ala. Erano condotti da Thorondor, il Signore delle Aquile; e in groppa a Thorondor c’era Eärendil. I rapaci si gettarono sui draghi, malgrado questi ne abbattessero molti col fuoco, e gli strapparono gli occhi con gli artigli, rendendoli pazzi di dolore e vulnerabili ai successivi attacchi degli Immortali. Nessuno, però, riuscì ad avvicinarsi tanto ad Ancalagon da accecarlo. La battaglia proseguì per tutta la notte, con grandi stragi da ambo le parti. In quella confusione non c’era modo di sapere chi stesse prevalendo; solo la prossima alba avrebbe rivelato il vincitore.

 

   Messo davanti alla disfatta, esausto e con gli occhi pieni d’orrore, Eönwë cadde in ginocchio sulla terra riarsa. Vi passò sopra le mani, osservando la polvere che gli scorreva tra le dita. Poi alzò gli occhi al cielo buio, dove anche le stelle erano oscurate dai fumi velenosi.

   Poco lontano, Sauron lo vide e fremette di gioia malefica. Si fece strada tra gli Elfi, abbattendoli a destra e a manca con poderosi colpi della sua mazza ferrata. Era deciso a raggiungere Eönwë e abbatterlo, approfittando del suo sconforto. La loro lunga contesa sarebbe finita, finalmente.

   In quella però Eönwë notò un piccolo squarcio nella cappa fumosa, da cui vide splendere una stella; forse proprio quel Silmaril che i Valar avevano scagliato nel cielo in segno di speranza. Allora l’araldo levò le mani nell’estrema preghiera: «Ilmarë, se puoi sentirmi, destati dal lungo sonno e torna da me! Per lunghe ere ti ho attesa, sognando di rivivere la felicità di un tempo. Non lasciarmi solo, ora che il mio animo è triste fino alla morte. Eru, Padre di Tutto, accogli la mia supplica! Non abbandonare i Tuoi figli all’ombra del Male. Soccorrici nel dolore, confortaci nella pena. Fa’ che i cuori a lungo divisi possano ricongiungersi. Ma sia fatta la Tua volontà, non la mia!».

   In quel preciso momento, negli abissi di Angband, dietro una porta ferrea che non veniva aperta da secoli, qualcosa si mosse. Le cortine sbrindellate si sollevarono, lacerando le ragnatele che le coprivano. La polvere si sollevò a sbuffi, mentre il respiro di colei che giaceva sul letto si faceva più rapido e intenso. Infine gli occhi chiusi da ere immemorabili si riaprirono. E fu la luce.

 

   Le sorti della battaglia continuavano a oscillare, con l’Esercito dell’Ovest che ora veniva respinto e ora riguadagnava terreno, mentre fra i Thangorodrim infuriava la battaglia aerea tra draghi e rapaci. D’un tratto vi fu un boato più profondo di tutti. Un’esplosione di luce scosse il torrione centrale, infrangendone la dura superficie rocciosa, e qualcosa ne scaturì. Parve allora che una stella aleggiasse sul campo di battaglia, così fulgida che tutte le creature dell’Ombra si coprirono gli occhi o distolsero lo sguardo. Solo Sauron osò fissarla; e ciò che vide lo lasciò di stucco. Perché la stella vivente era Ilmarë, più lucente e terribile di quanto l’avesse mai vista. Era sorretta da due ali di pura luce; nelle sue mani prese forma una lancia scintillante.

   Vedendola, Ancalagon ruggì di collera e le alitò contro le sue fiamme, ma esse s’infransero contro una bolla di luce bianca che avvolgeva la Maia. Allora il drago, che volava più in alto, calò su di lei per azzannarla e travolgerla. Ilmarë non si scompose; impugnò saldamente la lancia di luce, prese la mira e la scagliò nel momento in cui le ali del drago si sollevavano, scoprendogli il petto.

   La lancia percorse il cielo come una saetta e giunse a bersaglio. Si piantò nel petto di Ancalagon, forandone le scaglie, e vi entrò per tutta la sua lunghezza, trapassandogli il cuore. Il drago nero lanciò un ruggito agonizzante, che assordò tutti coloro che combattevano sotto di lui. Schiumò, si rivoltò e cercò d’innalzarsi, sbattendo le ali come per artigliare l’aria. Infine le forze lo abbandonarono ed esso precipitò dal cielo, come una meteora avvolta dal fuoco. Impattò contro il torrione centrale dei Thangorodrim, già indebolito, e lo fece tremare. Le crepe si ramificarono, accompagnate da schianti e boati, finché la torre-montagna si rovesciò su un fianco e franò. Nella sua rovina investì e abbatté uno dei torrioni laterali. Il loro crollo travolse un’ampia parte dell’esercito di Morgoth, ancora addossato alla fortezza. A quel punto anche il terzo e ultimo torrione, indebolito dalle vibrazioni, cedette e rovinò al suolo.

   In quella sorse il sole, pallido attraverso i fumi della battaglia. L’Esercito dell’Ovest dette un possente urlo di trionfo per la caduta dei Thangorodrim e si lanciò nell’assalto finale. Oromë era di nuovo in sella e Tulkas gli correva a fianco; entrambi avevano già rimarginato le ferite. Davanti alla loro carica, le truppe di Morgoth cedettero definitivamente. Gli Orchi e gli Uomini malvagi furono calpestati, o gettati nei crepacci, o fuggirono. Anche i draghi sbandarono, dopo la caduta del loro campione: le folgori dei Valar li abbatterono, tanto che solo due di loro riuscirono a fuggire, così che la loro progenie tormentasse il mondo per lunghi anni ancora. Quando tutte le creature nate dalla perfidia di Morgoth furono sbaragliate, i Valar varcarono i cancelli di Angband e scesero nelle profondità della terra, per sconfiggere una volta per tutte il loro antico nemico.

   Sentendoli arrivare, Morgoth si mostrò ancora una volta pusillanime. Si rifugiò nella più profonda delle sue segrete, e quando la volta fu scoperchiata sopra di lui, inondandolo di luce, invocò pace e perdono. Grond giaceva a terra, inutilizzato, perché l’Oscuro Signore era ormai così debole da non riuscire a brandirlo. «Fratelli miei... quanto tempo è passato!» disse. «Avete versato molto sangue e conquistato una grande vittoria; potete essere fieri di voi stessi. Ora perché non discutiamo come spartirci questo mondo, affinché ciascuno abbia ciò che merita?».

   «Avrai ciò che meriti, eccome!» disse Oromë, e con un sol colpo di spada gli troncò le gambe all’altezza delle ginocchia. L’Oscuro Signore cadde faccia a terra e la Corona Ferrea rotolò con clangore sul pavimento. Allora Tulkas fu sopra di lui e lo incatenò con Angainor, che già un tempo lo aveva gravato. Le mani gli furono poste nei ceppi di tilkal ed egli fu a tal punto avvoltolato che il suo capo stava piegato fino alle ginocchia sanguinolente. Tulkas estrasse i due Silmaril rimanenti dalla corona, poi la spezzò su un lato, piegandola per aprirla. La pose attorno al collo di Morgoth e la richiuse a forza, spingendogli le punte acuminate in profondità nelle carni: la corona era divenuta un collare da schiavo. Morgoth gridò come quel demonio che era, ringhiò, sbavò, maledisse tutti i suoi nemici; infine lo zittirono con una mordacchia. Tulkas lo trascinò a viva forza fino in superficie, dove il suo corpo martoriato fu esposto alla vista dei suoi schiavi. Allora anche gli ultimi fedeli lo abbandonarono, dandosi a una fuga disordinata.

 

   Sbigottito, Sauron aveva assistito a ogni cosa: il ritorno d’Ilmarë, la caduta di Ancalagon, il crollo dei Thangorodrim e da ultimo la sconfitta di Morgoth. Allora, strano a dirsi, sentì una gran gioia. Il suo vecchio padrone era finalmente in catene e lui era libero dal servaggio. Stava per andarsene, quando una luce intensa lo costrinse a schermarsi gli occhi. Ilmarë calò dall’alto e gli atterrò davanti, fissandolo con sommo disgusto. «Ammira il tuo padrone» gli disse, indicando il corpo martoriato di Morgoth. «Tu non finirai meglio di lui».

   «Ilmarë... mia adorata!» mormorò Sauron. Si levò l’elmo puntuto e cercò di ammirare i suoi occhi, finalmente aperti dopo incalcolabili eoni; ma erano così luminosi che non riuscì a fissarli. Dovette distogliere lo sguardo. «Sapessi come ho sofferto per te... quanto ti sono stato accanto, mentre eri in quel sonno di morte...» confessò.

   «Lo so; ho udito tutto ciò che mi dicevi» fu l’inaspettata risposta.

   «Allora sai che ti amo!» si riscosse Sauron. «Vieni con me: cominceremo una nuova vita, lontano sia dai Valar che da Morgoth. Saremo liberi, finalmente!». Cercò di abbracciarla, ma lei si ritrasse con sdegno.

   «Liberi? Tu non sarai mai libero» disse la fanciulla, con occhi sfavillanti. «Sarai sempre schiavo del tuo odio e della tua brama di potere».

   «No, io posso cambiare, posso...!» fece Sauron, ma in quella Eönwë gli fu davanti.

   «Ora che Morgoth giace in catene, tu lo accompagnerai» disse l’araldo.

   «Non mi sono mai piegato davanti a te e non lo farò adesso!» ringhiò il Negromante, brandendo di nuovo la sua mazza. Stavano per venire allo scontro, quando Ilmarë si frappose. «Vuoi colpirmi ancora, Sauron? Vuoi che la storia si ripeta?» chiese la fanciulla.

   «Io... no, non voglio» mormorò il Maia, ricordando l’eternità di dolore e rimorso che l’antico incidente gli aveva provocato. Mollò la mazza ferrata e cadde in ginocchio. «Oh, mio antico e inestirpabile amore! Potrai mai perdonarmi per ciò che ti ho fatto?!» le domandò.

   «Posso perdonarti per il male che hai fatto a me» rispose Ilmarë. «Ma non per quello che hai arrecato a innumerevoli altri innocenti. Il loro sangue grida ancora giustizia».

   «Ebbene, che ne sarà di me?» chiese Sauron, in preda alla vergogna.

   «Tu puoi scegliere di rinnegare Morgoth e le sue seduzioni, o di seguirlo sul suo rovinoso cammino» rispose Eönwë. «Bada a te! Rifiutasti di pentirti dopo la caduta dei Lumi, e di nuovo dopo la Guerra dei Poteri. Questa è la tua terza possibilità di redenzione e sarà l’ultima. Rifiutala e seguirai il tuo padrone Morgoth nel Vuoto».

   «Io... accetto l’offerta» mormorò il Negromante. Il suo viso era esangue ed egli fissava il suolo in preda alla vergogna, senza azzardarsi a guardare in viso gli interlocutori. Del resto, non avrebbe retto lo sguardo d’Ilmarë.

   «In tal caso, abiura la tua lealtà all’Oscuro Signore!» ordinò l’araldo.

   «Io... rinnego Morgoth e le sue seduzioni» disse Sauron a denti stretti. «Rinnego tutto ciò che ho fatto per suo ordine. Mi riconosco colpevole per pensieri, parole e opere. Non merito il vostro perdono, tuttavia lo imploro. E giuro sul Padre Eru che dedicherò il resto della mia esistenza a fare ammenda».

   «Ti ho udito, e ti ha udito anche Eru» disse Eönwë. «Sii fedele a questo proposito, o il Vuoto sarà davvero il tuo destino».

   «Dunque ora cosa mi aspetta?» tornò a chiedere Sauron.

   «Sarai condotto a Valinor e giudicato dalle Potenze» rispose l’araldo. «Poiché i tuoi crimini sono stati molti ed efferati, puoi aspettarti di giacere a lungo nelle Aule di Mandos. E seguirà un periodo di servaggio ancora più lungo. Ma se ti comporterai bene, un giorno potrai aggirarti libero a Valinor, com’è ora per Makar e Meássë, che hanno fatto ammenda dei peccati».

   «Così sia» disse il Negromante. Alzò per un attimo lo sguardo su Ilmarë e la vide accanto a Eönwë. Allora sentì che, persino se i Valar lo avessero infine perdonato, lei comunque gli si sarebbe sempre negata. E in lui crebbe un dolore senza speranza, misto al rancore per Eönwë, che lo aveva umiliato davanti a lei. A che scopo fare ammenda, se i suoi desideri sarebbero rimasti per sempre inappagati?

 

   La Guerra d’Ira era finita e il regno malefico di Angband giaceva in rovine. Dalle profonde miniere e dalle carceri emerse una moltitudine di schiavi che avevano perduto ogni speranza. Si guardarono intorno, alla luce del giorno, e videro un mondo che era cambiato per sempre.

   Lo scontro di poteri era stato così immane che tutto il Beleriand ne era squassato. I Monti di Ferro furono livellati, lasciando solo scarsi resti nella porzione più orientale del loro arco. La lunga era glaciale provocata da Morgoth era finita, ma lo scioglimento dei ghiacci settentrionali peggiorò le cose. Il Mare si rovesciò con fragore all’interno delle coste, seppellendo vasti territori. Allora anche tra i vincitori ci furono confusione e paura, ed essi dovettero ritirarsi a oriente. Nell’arco di pochi anni, le acque salirono inesorabili a sommergere tutto il Beleriand, per il quale Elfi e Uomini avevano duramente lottato. I superstiti della battaglia furono costretti a varcare i Monti Azzurri in cerca di scampo; ma i Monti stessi furono parzialmente sommersi. La loro catena fu infranta e il fiume Lhûn s’incanalò nell’apertura, formando un ampio estuario.

   L’inabissamento del Beleriand generò un immane contraccolpo: i territori a oriente si sollevarono. Il Mare Interno di Helcar si prosciugò quasi del tutto, lasciando pochi rimasugli, come il mare di Rhûn e quello di Núrnen. Dalle acque affiorò la terra vulcanica che, mille anni dopo, avrebbe preso il nome di Mordor, divenendo il terzo e ultimo regno del Male.

   Allora Eönwë rivolse ai figli di Fëanor superstiti – Maedhros e Maglor – un discorso analogo a quello fatto a Sauron, invitandoli a pentirsi e tornare a Valinor per essere sottoposti a giudizio. Sulle prime i principi parvero accettare; ma il loro giuramento li indusse a un’ultima scelleratezza. Approfittando della grande confusione dovuta al cataclisma, s’intrufolarono nell’accampamento di Valinor. Giunti nottetempo alla tenda in cui erano custoditi i Silmaril, trucidarono le guardie Vanyar e s’impadronirono delle due gemme. Allora tutto l’accampamento insorse contro di loro, che si prepararono a morire lottando; ma Eönwë trattenne i suoi.

  «Basta così» disse l’araldo. «Troppo sangue è stato sparso per quelle gemme. Si avvicina il momento in cui esse troveranno le dimore cui erano destinate. E saranno proprio i figli di Fëanor gli involontari esecutori della Sorte. Lasciateli andare».

   Increduli, i due principi fuggirono senza incontrare resistenza; ma non avevano riflettuto a fondo sulle parole di Eönwë. Appena si sentirono a distanza di sicurezza, presero un Silmaril a testa, come a spartirsi l’eredità paterna. Ma non appena li ebbero tolti dalla teca di cristallo, scoprirono che il tocco li ustionava, segno che il loro diritto sulle gemme era decaduto in seguito alle loro malefatte. Allora Maedhros, in preda alla disperazione, si gettò con la sua gemma in una delle voragini infuocate che in quei giorni costellavano il Beleriand prossimo al collasso. Maglor invece gettò la sua gemma nel Mare ruggente, mentre questo s’avanzava a coprire il Beleriand. Da allora in poi vagò sulle coste, cantando il suo dolore e il suo rimpianto, senza tornare più tra i suoi simili, finché svanì dalla storia. Così i Silmaril trovarono le loro dimore nei tre elementi del mondo; e lì rimarranno fino all’Ultima Battaglia, quando Arda sarà schiantata e ricomposta.

 

   «Siamo pronti a salpare, mia diletta» disse Eönwë, affacciandosi nella tenda che condivideva con Ilmarë. In un attimo la fanciulla gli fu accanto. Guardarono il Mare, finalmente calmo dopo tre anni di tumulti. Tutti loro si erano ritirati nel Lindon, l’unica parte del Beleriand non sommersa dalle acque. Ora gli Elfi Vanyar e Noldor sarebbero tornati nelle Terre Imperiture, e molti Sindar li avrebbero seguiti. Anche i Noldor esuli erano stati perdonati: gli era concesso di stabilirsi a Eressëa in vista di Valinor. Ma c’erano anche dei prigionieri da trascinare all’Ovest: in primo luogo Morgoth, che sarebbe stato espulso nel Vuoto, e poi anche Sauron, in attesa di giudizio.

   Eönwë e Ilmarë si recarono nella grotta sulle pendici dei Monti Azzurri in cui Sauron era stato rinchiuso in quegli anni di cataclismi. Dovevano prelevarlo, per portarlo a bordo della loro nave. Con loro venne una robusta scorta di Maiar, nel caso in cui il Negromante opponesse resistenza.

   «Hai più parlato con lui, dopo il giorno della vittoria?» chiese Ilmarë.

   «Non molto... sai com’è, sono stati anni tremendi» disse Eönwë, che si era adoperato senza posa per mettere in salvo i superstiti del Beleriand nei territori ancora emersi. «Ho solo scambiato qualche breve parola, quando lo abbiamo rinchiuso qui. Ha chiesto pergamena, penna e inchiostro per scrivere. Credo che volesse lasciarti un messaggio, prima d’essere giudicato dai Valar».

   «Qualunque cosa voglia comunicarmi, può dirmela a voce» notò Ilmarë.

   «Forse si vergogna troppo» ipotizzò Eönwë. Levò la mano verso la porta che sigillava l’ingresso della grotta e pronunciò l’incantesimo che la dischiuse. I pesanti battenti si aprirono da soli, permettendo ai Maiar d’entrare.

   «È tempo di salpare, vecchio mio!» annunciò Eönwë. Ma dalle ombre non giunse alcuna risposta. «Non fare scherzi... rispondi!» ordinò l’araldo. Inquieto, sguainò la spada.

   «Guarda!» disse Ilmarë, indicando più avanti. Le catene con cui il Negromante era stato avvinto alla parete giacevano ancora attaccate alla roccia, ma erano vuote.

   «Lui dov’è?!» esclamò Eönwë, guardandosi attorno con raddoppiata ansia.

   «Si sarà fatto serpente e sarà strisciato via da qualche buco» sospirò Ilmarë. «Ha ancora questo potere, se ben ricordi. C’erano degli incantesimi che avrebbero dovuto trattenerlo, ma dev’essere riuscito a infrangerli».

   «Vergogna a noi, che lo abbiamo sottovalutato!» gemette Eönwë. «Per la nostra colpevole negligenza, il mondo potrebbe cadere sotto una nuova Ombra!».

   Ilmarë non disse nulla, ma si accostò alla parete con infisse le catene. Aveva notato una pergamena, posata a terra. La raccolse, la srotolò e la lesse al bagliore da lei stessa emanato.

 

   Mia amata Ilmarë,

   se stai leggendo queste righe significa che sono riuscito a fuggire prima che mi portassero a Valinor. Lo so, avevo un’ultima occasione per redimermi, e ancora una volta ho dato le spalle alla Luce. Ma il fatto è che se anche i Valar mi perdonassero, non potrei tollerare di vivere nella loro terra, vicino a te, eppur da te separato. Torna nel Regno Beato, vivi lieta per sempre. A te sola, di tutte le creature d’Ilúvatar, auguro ogni bene. Per quelli come me, invece, non c’è gioia né ristoro, solo un’eterna guerra col mondo. Ho lasciato l’inferno di Angband, ma lo porterò sempre con me, perché sono io l’inferno. Compiangimi, se puoi. O meglio ancora, dimenticami.

   Per sempre tuo,

   Mairon

 

   «Ebbene?» chiese Eönwë.

   «Sauron ha fatto la sua scelta, e non può più essere revocata» sospirò Ilmarë. Stracciò la lettera e ne disperse i frammenti. «Vieni, lasciamo queste contrade di dolore e pianto. Non possiamo fare più nulla, qui. Torniamo a casa».

   E lasciarono la grotta a braccetto.

 

 

-Commento:

   Tolkien è sempre stato parco di dettagli nel descrivere la Guerra d’Ira. Leggendo il Silmarillion si ha l’impressione che sia stata rapida, consistendo in pratica di un’unica grande battaglia davanti ai cancelli di Angband. Ma dalle informazioni frammentarie delle raccolte si evince che invece il conflitto sia durato oltre quarant’anni, attestandosi per lungo tempo sul fiume Sirion. Ho quindi descritto questo scenario, in cui l’avanzata dell’Esercito dell’Ovest subisce una lunga battuta d’arresto. Ne ho approfittato per introdurre il drago Ancalagon, come una forza spaventosa ma ancora celata nella notte, perché altrimenti la sua unica apparizione sarebbe stata nella battaglia finale in cui viene abbattuto.

   Come indicavo nel precedente commento, non è chiaro se Sauron sia ancora al servizio di Morgoth dopo essere stato scacciato da Tol-in-Gaurhoth. Tuttavia Tolkien scrive che, all’indomani della Grande Battaglia, Sauron fece atto di contrizione davanti a Eönwë. Questo implica che in un primo momento fosse stato catturato, e prima ancora che si trovasse sul campo di battaglia. Quindi ho immaginato che Morgoth emani una sorta di “condono generale” per i servi che lo hanno deluso, richiamandoli ad Angband per una strenua difesa del reame.

   Nel Silmarillion Eärendil partecipa alla Grande Battaglia sulla sua nave Vingilot, prodigiosamente resa volante dai Valar. Io però ho sempre avuto difficoltà a figurarmi una scena del genere, con la nave che fluttua a mezz’aria senza alcun sistema di propulsione. Tra l’altro, un’imbarcazione in legno con le vele di tela è quanto di più infiammabile esista, quindi sarebbe un bersaglio assai vulnerabile per i draghi alati sputafuoco! Di conseguenza ho preferito immaginare che Eärendil combatta in groppa a Thorondor, che gli conferisce più agilità, e che il Silmaril sia stato gettato in orbita dai Valar anziché “navigare nel cielo” su Vingilot.

   E ora veniamo al grosso cambiamento. Nel Silmarillion è Eärendil ad abbattere Ancalagon il Nero, in un modo non specificato. Così a logica viene da pensare che lo abbia colpito con una freccia o una lancia, per evitare che il drago arrivasse a contatto con la sua nave. Ma nella mia versione il momento saliente della battaglia è il risveglio d’Ilmarë dal suo lungo sonno. Sentivo che a questo punto la Maia doveva fare qualcosa di decisivo per le sorti dello scontro, quindi ho stabilito che fosse lei ad abbattere Ancalagon con una delle sue “lance di luce”. Per la sconfitta di Morgoth, mutilato e incatenato, mi sono attenuto invece al Silmarillion.

   Come accennavo, Tolkien scrive che dopo la battaglia Sauron si sottomise a Eönwë, abiurando le sue malefatte. Poi però «quando Eönwë se ne andò, ecco che egli si nascose nella Terra di Mezzo; e ricadde nel male». Da queste scarne indicazioni si ha l’impressione che Eönwë lo avesse lasciato a piede libero, senza nemmeno curarsi di scortarlo a Valinor. È un atteggiamento francamente irresponsabile, considerando le conseguenze drammatiche per gli abitanti della Terra di Mezzo. Ho preferito immaginare che Sauron sia incatenato in una grotta, nel periodo di cataclismi geologici in cui il Beleriand viene sommerso, ma che riesca a liberarsi e fuggire prima che tornino a prenderlo per portarlo a Valinor. Lascia solo una lettera d’addio a Ilmarë, in cui spiega le ragioni di quest’ultimo voltafaccia. I giochi sono fatti, e il resto è storia nota.

 

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


-Epilogo:

 

   Ecco, dunque. L’inganno finale dei miei nemici è rivelato. Non hanno voluto usare l’Anello. Non hanno voluto il potere, la vittoria, l’immortalità. Hanno preferito inviare il mio Tesoro là dove può essere distrutto. Preferiscono perdere tutto e svanire con me, privando il mondo d’ogni magia, pur di vedermi annientato.

   Vorrei sfogarmi, ma non ho bocca per gridare, né mani per colpire. Posso solo attendere e sperare. Volate, miei fedeli Nazgûl. Volate più veloci del vento. Solo voi, ormai, potete salvare il mio Tesoro. Se solo il vostro Capitano fosse qui... ma è caduto sui campi del Pelennor. Com’è caduto il Balrog di Moria... povero relitto di un’era in cui eravamo i padroni della Terra di Mezzo. Come cadrò io stesso, se l’Anello viene disfatto.

   Come ho potuto essere così cieco? Credevo di avere tutto sotto controllo, e invece... ho permesso che si formasse una Compagnia votata a distruggere il mio Tesoro! Ho permesso al nemico d’infiltrarsi nel mio reame, ho guardato lontano mentre avrei dovuto dedicare tutte le mie forze alla sorveglianza dei confini. Ho permesso a quelle insignificanti creature di raggiungere la Voragine del Fato e ora la mia sorte è appesa a un filo.

   Eppure sentivo che il mio potere cresceva, giorno dopo giorno. Perché non ho capito che l’Anello si era tanto avvicinato? Io, Sauron il Grande, Signore degli Anelli, sono stato... ingannato. Ingannato da uno Stregone cencioso, che un tempo avrei spazzato via con un sol gesto; da un Re senza corona, ultimo avanzo di una stirpe decaduta; e da un Hobbit. Un Hobbit! Piccoli, insulsi, stolti abitatori di colline e prati... come avete osato sfidarmi? E tu, infimo Portatore, come sei giunto sino alle fucine della mia antica potenza, senza perire o cadere sotto l’influsso del mio grande Anello? Il dominio assoluto non significa niente per te? E voi, che vi chiamate Saggi: l’avete lasciato andare?! Elrond, Galadriel, Gandalf... avete voltato le spalle al Potere, l’avete mandato a distruggere, condannando anche voi stessi. Folli!

   Ahimè, sento che l’Anello si avvicina ai Fuochi da cui lo trassi. I miei Nazgûl arriveranno in tempo, o il mio capolavoro sarà distrutto? Posso solo attendere... questa è l’ora del Fato.

 

   Dolore. Un’atroce, folle esplosione di dolore. Se avessi un corpo, penserei che me l’hanno squartato. Se avessi un cuore, penserei che me l’hanno strappato via. Invece hanno fatto di peggio. Hanno distrutto il mio Tesoro, il mio capolavoro, la fonte dei miei poteri... hanno distrutto il mio stesso spirito. Chi è il Signore degli Anelli, senza più Anelli magici? Niente, non sono più niente.

   Non è... giusto. I miei piani erano così perfetti, così dettagliati. Avrei dovuto vincere. Del resto, chi mai poteva sfidarmi, in quest’epoca di decadenza? Gli Elfi sono quasi tutti fuggiti dai Porti Grigi, per non tornare mai più. I Nani sono rinchiusi nelle viscere della terra, decimati dai miei servi. E gli Uomini... sono deboli, corruttibili. Non hanno mai saputo resistere al potere degli Anelli. Spesso non ho neanche dovuto tentarli; la maggior parte di loro si danna da sé. Si accaniscono contro i propri simili, inventano sempre nuovi modi per tormentarli, massacrarli, provando gioia nel farlo. Eppure... quei pezzenti Signori dei Cavalli di Rohan hanno sconfitto Saruman. E gli uomini di Gondor hanno distrutto il mio grande esercito. Il Signore di Morgul avrebbe dovuto portarmi la testa dell’ultimo erede d’Isildur, invece è perito per mano di una scudiera e di un Hobbit... un’altra di quelle miserabili creature! Ora tutti i miei nemici sono qui, battono ai cancelli del mio regno. Dovrei affrontarli, punire la loro insolenza, ma non ne ho più la forza. Mi sto... spegnendo.

   La mia fortezza, la mia bella e terribile torre, sta crollando. Sento che si disgrega sotto di me. Ho costruito le sue fondamenta col potere dell’Anello; ora che è fuso, diventano polvere. Il mio mondo si sta disfacendo. I miei servi si uccidono o sono uccisi, i miei alleati si disperdono ai quattro venti. Secoli di paziente attesa, di accurati preparativi... secoli passati a ricostruire faticosamente la potenza di Mordor... sono stati vani. L’Anello è morto, e io con lui. Poveri Nazgûl, anche voi ho perso, siete svaniti nelle ombre. Chi rimarrà per raccogliere la fiaccola di Signore Oscuro?

   Eccola, la Terra di Mezzo. Così bella, così ricca... doveva essere mia! Sono io il più potente! Ma ora, senza l’Anello, sono meno di un fantasma. La mia Vista si offusca, il mio Fuoco si spegne... ho tanto freddo. È questa la fine? Io, che forgiai l’Anello del Potere per dominarli tutti; io che sfidai il fulmine di Manwë nel tempio di Númenor; io che abbattei Gil-galad ed Elendil... oggi perisco per mano di un Hobbit. La Terra di Mezzo non sarà mia. E tu, misero erede di quell’Isildur che osò colpirmi... tu regnerai su Arnor e Gondor, con la Stella del Vespro al tuo fianco? Che siate maledetti, voi Uomini dell’Ovest! Ma soprattutto che sia maledetto tu, Portatore dell’Anello! Possa non trovare mai pace né sollievo su questa terra!

   Mi sto dissolvendo, lo sento. Quel che resta del mio spirito abbandona Arda. No, non voglio andare... no... NOOO!

 

   Le tenebre infinite mi avvolgono. Questo è il Vuoto... lo stesso Vuoto in cui cominciai a esistere. Ma Eru non permette a chi l’ha rinnegato di fare ritorno alle Aule Atemporali. Sono scacciato nell’Oscurità eterna. Nienna mi aveva messo in guardia... e anche Eönwë e Ilmarë. Perché non li ho ascoltati, quando potevo?!

   Oh, Ilmarë... cosa darei per avvertire ancora la tua presenza! Aspetta, percepisco qualcosa. Un’altra coscienza si avvicina alla mia. Sei tu, mia adorata...?

   «Hai fallito, Sauron». La voce perentoria risuona nella mia mente. È carica di disprezzo; di certo non è Ilmarë. Ma allora di chi si tratta? Possibile che sia... lui? Dopo tanto tempo?

   «Chi parla?» chiedo col pensiero, cercando di riabituarmi a quell’esistenza larvale.

   «Come, non mi riconosci? Prostrati innanzi a me. Io sono il tuo Padrone, anche se hai cercato di dimenticarmi».

   «Padrone!». Il mio è un grido di terrore. C’è un solo essere nell’Universo che io temo, a parte Eru, ed è qui. Melkor, il mio antico Signore, mi ha raggiunto... no, sono io che l’ho raggiunto nel Vuoto.

   «Credevi d’essere più potente di me, Sauron? Credevi di poter rivendicare la mia corona, di poter vincere là dove io stesso ho fallito? Povero illuso!». La sua risata è come mille tempeste di ghiaccio, come eoni di tenebrosa solitudine. Avevo dimenticato cosa vuol dire sentirsi piccolo di fronte all’unico, vero, eterno Signore del Male.

   «Perdonami, mio Signore. Io... ho fatto del mio meglio per estendere nuovamente la tua Ombra. Ho anche diffuso il tuo culto a Númenor, e poi presso gli Uomini di Rhûn e Harad. Sai che è la verità!». Per Melkor, le mie scuse devono suonare patetiche... come quelle che Saruman rivolgeva a me, attraverso la Pietra Veggente, quando era asserragliato dagli Ent nella sua stessa torre. E infatti, Melkor ha per me la stessa pietà che io ho avuto per lo Stregone.

   «Il tuo meglio non è stato sufficiente. E non parlo solo della stoltezza con cui hai permesso a quelle insignificanti creature di distruggere il tuo prezioso Anello. Il tuo errore, mio povero Sauron, è stato in primo luogo forgiare quell’oggetto. Hai legato il tuo spirito, il tuo potere, il tuo intero destino a un oggetto che, per quanto resistente, era comunque passibile di distruzione. Ora paghi il prezzo della tua sconsiderata cecità».

   «Almeno io ho forgiato gli emblemi del mio potere. Tu hai saputo solo rubarli ad altri!». Non avrei dovuto osare tanto. L’ira di Melkor mi trafigge, spolpando quel poco che resta del mio spirito.

   «Parli dei Silmaril, vero? Quelli erano solo ornamenti per la mia corona. Vedi, mio incauto servitore, anch’io ho forgiato un Anello... che tuttavia non è un misero cerchietto d’oro. No, Arda intera è il mio Anello. Il mio potere permea ogni cosa: ogni granello di sabbia, ogni goccia d’acqua, ogni filo d’erba. IO SONO ARDA! La mia volontà continua tuttora a guidare i miei servi, indirizzandoli a frustrare i desideri dei Valar. Capisci, dunque? Finché Arda esiste, io esisto. E un giorno vi farò ritorno, e tutto quanto vi si trova sarà finalmente mio, per sempre. Ma tu non avrai parte in tutto questo». Ancora quella risata, fredda e buia come il Vuoto. So che per me è finita, ma ho ancora una domanda da rivolgere al mio antico e terribile Maestro.

   «Cosa farai se i Valar vorranno impedirtelo? Cosa farai se... Lui te lo impedirà?».

   «Nemmeno Ilúvatar può distruggermi senza cancellare il Mondo con tutto ciò che contiene!» ringhia l’Oscuro Signore. «Non oserà annientare il frutto della Musica e della sua creazione. Ma se anche lo facesse, sarei contento di portarmi via tutto ciò che Lui ha realizzato!». La collera di Melkor è gelida mentre pronuncia quella tremenda sentenza.

   «Non puoi avere tutto, come non l’ho avuto io». Non so da dove mi venga il coraggio per rivolgermi così al mio Padrone. Ma in fondo, cos’altro posso perdere? Cos’altro può portarmi via? «Non avrai le anime dei Figli d’Ilúvatar che ti hanno rifiutato. E non avrai neppure la Fiamma Imperitura, il potere creativo che hai sempre cercato, perché è tutt’uno con Ilúvatar». Alle mie parole, Melkor grida. Per un attimo, il suo urlo riempie tutto il Vuoto.

   «Forse io non avrò tutto, ma di certo tu non avrai nulla. Né il potere, né la luce, né la vendetta. E di certo non l’amore della cara Ilmarë, che vive beata a Valinor con Eönwë, senza più pensarti. Il tuo fuoco si è estinto. Ora hai davanti a te l’eternità: la passerai solo, in esilio nel Vuoto. Starai peggio di me; e finché c’è qualcuno che soffre più di me, io ho motivo di gioire!».

   Detto questo, Melkor scompare, diretto verso altre regioni del Vuoto. Ma in lui non ho percepito alcuna gioia crudele... solo odio, frustrazione e un’infinita sofferenza. Ecco cos’è il mio grande Maestro. Ecco dove mi ha condotto. E io a mia volta ho condotto all’abisso coloro che mi hanno seguito. Abbiamo perso tutti. Su un’unica cosa Melkor aveva ragione: sono stato uno stolto. Ma la mia più grande stoltezza è stata fidarmi di lui, seguirlo passo dopo passo nel sentiero che mi ha fatto perdere la Primavera di Arda... che mi ha fatto perdere Ilmarë. E ora che il mio fuoco è estinto, io non sono più nulla.

 

 

FINE

 

 

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