The space between a gilded cage and a poisoned soul

di _Recneps
(/viewuser.php?uid=956874)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
 
Luci soffuse. Corpi sudati. Urla. Il respiro pesante e il sapore metallico del sangue. Ris sorride con la testa china, percependo le spinte di mani estranee. Si lascia cullare per un momento dall’agitazione di quelle dita che le premono sulla schiena, reclamando voraci altro di quel becero spettacolo. I capelli castani le ondeggiano di fronte al viso, improvvisamente troppo pesanti per riuscire ad alzare lo sguardo verso la voragine infernale che continua a inseguire come un cane rabbioso. Le mani sono indolenzite e le gambe – troppo fragili, cazzo, sempre troppo fragili – attraversate da spasmi: uno spaventapasseri crocefisso, sferzato da raffiche inclementi. Un corpo che la supplica di smetterla, ma un corpo che vorrebbe solo mettere a tacere.
Lei sorride ancora e inizia a sentire i pensieri confondersi in un vortice, perdendo lentamente il senso di ciò che la circonda: il rosso delle corde che delimitando quel sudicio palcoscenico; il rumore dei passi della sua carnefice, quella che si è scelta con cura, come tutti i predatori che ha lasciato cadere nelle proprie trame, nei propri miseri intenti; la musica soffusa che proviene dal salone accanto, ignaro di quanto accade oltre la porta di ferro battuto, oltre le tende di velluto, oltre le mani che accarezzano corpi inebriati dall’alcol, sguardi che si cercano per amarsi, vite dolcemente cullate da una notte che rende invincibili ed eterni. Ris non le invidia più, quelle esistenze che cercano sprazzi di gioia illusoria e felicità terrena, quei suoi simili pieni di paure e che, nonostante tutto, continuano a vedere il buono. Ris non ha bisogno di sentirsi invincibile: vuole perdere, perdere fino a stramazzare a terra. Che quel dolore taccia, taccia per sempre, sommerso da lividi e punti di sutura. Che arrivi il colpo di grazia: oh ti prego, fallo ora.
Le palpebre si fanno sempre più pesanti, ma lei solleva comunque gli occhi lucidi, stremati, verso l’espressione confusa della ragazza che ancora tiene la guardia alta, come se Ris potesse – volesse – colpirla da un momento all’altro. 
La combattente ha la fronte sudata e i capelli biondi strisciano alla base del collo, appiccicati come serpi. Illusa: pensava realmente di trovarsi al cospetto di una valida avversaria che l’avrebbe messa a dura prova, o che almeno ci avrebbe provato.
Ris non trattiene una risata amara quando si rende conto, per l’ennesima volta, di aver vinto la sua battaglia personale, incomprensibile agli occhi affamati che la circondano.
La vista inizia a farsi sfocata: il sangue cola copioso dal sopracciglio lacerato, impedendole di vedere con chiarezza l’ingenua rivale abbassare le braccia lungo i fianchi, ora consapevole di essersi messa in gioco per una vittoria che le era stata regalata fin dall’inizio.
Ris fa un semplice cenno con la mano, incoraggiandola al colpo finale. Brama il momento in cui il suo corpo si stenderà sfinito a terra, incapace di sentire o reagire. Lei, così brava ad addomesticare quello sprovveduto istinto di sopravvivenza, vince ancora la sua medaglia, la cintura di chi non teme la sconfitta, il dolore fisico, l’umiliazione, l’incertezza di risvegliarsi e non ricordare, l’eventualità di non riaprire un paio di occhi stanchi, intossicati e ormai folli.
Percepisce le conseguenze del suo raggiro riempire l’aria cupa di quel luogo abbandonato, una scossa elettrica che la diverte ancora di più mentre annega nel bruciore dei colpi incassati, nella confusione dei volti che si sovrappongono, nel vuoto che sfigura la percezione di spazio e tempo.
Le arriva dritto sotto il mento, quel destro misericordioso.
Inizia a indietreggiare malferma e chiude gli occhi ancora prima di lasciarsi cadere, mentre la folla di avvoltoi esplode in un boato. Avverte urla che si sovrappongono e imprecazioni concitate. Le sembra anche di sentire il suo nome prorompere come un tuono, prima che delle mani frenino il suo crollo. Conosce quella presa, l’unica di cui si fida e l’unica a cui ha provato ad aggrapparsi, riconoscendone le buone intenzioni che nega al resto del mondo.
Dita esperte le sollevano le palpebre per assicurarsi che sia ancora cosciente. Lo è, più o meno.
Lo è tanto da riconoscere il volto furente, terrorizzato e deluso di Bruce.
La prima volta che ha scorto quei lineamenti duri e al tempo stesso rassicuranti era ridotta nelle stesse condizioni: lividi, dolore e sangue. In quella notte, però, non era stata lei a cercare la sua disfatta: aveva conosciuto la sofferenza di chi perde parte della propria anima, sottratta con la violenza di un male primordiale. Era stata soccorsa da Bruce, consapevole di essere stata uccisa per poi venir rigettata nella vita.
E ora si sente sollevare nello stesso modo, trovando in quel riparo di carne e ossa il via libera per le lacrime di cui si vergogna, le stesse che protestano per poter liberarsi dalla trappola di un paio di occhi tumefatti.
Tempo e spazio rimangono inafferrabili, ma il battito frenetico del cuore che avverte tra le mura di quel petto su cui è abbandonata le suggerisce che sta tornando a casa. Forse non è nemmeno il termine giusto a cui dovrebbe pensare, ma è sicuramente ciò che più si avvicina all’idea di una famiglia, di un affetto che non si è ancora stancato di proteggerla, di spronarla, di raccoglierla dalla sua miseria, di credere nella sua forza. Un amore senza definizioni e testardo. Sguardi, carezze e parole che ogni giorno tornano a lavorare su quell’armatura in cui ancora vacilla, troppo spaventata per affrontare quel mondo che si è tinto di disgusto in una notte ormai lontana e sempre troppo vicina.
Perde e riacquista coscienza di continuo, in una lotta sfiancante che non vorrebbe nemmeno portare avanti.
Vede il tettuccio della macchina e riconosce l’odore dei rivestimenti in pelle. Scorge il mondo e i lampioni che illuminano le strade scorrere oltre il finestrino, mentre il profumo di Bruce riempie l’abitacolo, cullandola.
Un attimo – o minuti, ore – dopo percepisce dei colori e un odore familiare, le forme della sua palestra, il cigolio dei gradini di legno che portano all’appartamento di Bruce, il ramo confortevole su cui Ris ha ricostruito il suo nido fin dalla sua ingiusta resurrezione.
Lui si prende cura di lei, come sempre.
Ris non ha bisogno di rimanere all’erta. Il sospetto e la paura tacciono.
Riesce a tenere gli occhi aperti e lo guarda compiere movimenti automatici, entrambi seduti sulle piastrelle fredde del bagno. La testa poggia al bordo della vasca e il suo volto esangue non si piega nella minima smorfia quando il disinfettante si infiltra tra le ferite.
Bruce non la guarda negli occhi, sfinito dall’ennesima delusione. Non lo ammetterebbe mai, ma Ris la vede: lì, in agguato tra le sfumature nocciola dei suoi occhi. Eppure, non si ferma un secondo. La controlla con la precisione di chi è cresciuto prendendosi cura dei propri lividi, passando poi a ripulire le sconfitte di chi passa sotto la sua ala. Ma lei ci è rimasta, sotto quell’ala.
Da tre anni saltella su quel ring senza un orario da controllare, senza dover tornare a casa in tempo per la cena. Lui la allena con la determinazione di un coach che fa a pugni con l’affetto e l’amore troppo simili a quelli di un padre. Quando lotta con i suoi allievi, Bruce la osserva con la speranza di vederla trionfare e la paura che si ferisca, un timore che non aveva mai assaporato e con cui deve ancora prendere le misure. Un’angoscia che lo costringe a negarle lo stesso trattamento che riserva al resto degli scapestrati che bazzicano nella palestra che porta il suo nome: lei lo supplica di organizzarle un incontro, uno di quelli veri, e lui nega, nega e nega ancora.
Ora Ris lo guarda colpevole: lui prova a salvarla fin da quella notte e lei cerca continuamente di cancellare la sopravvivenza che le è stata concessa; o quantomeno di renderla silente. Perché è così dura la risalita, così abbagliante, così rumorosa, così caotica. E lui continua a spingerla un gradino dopo l’altro, impedendole di tornare indietro. Ma lei ci ricasca, qualche volta: arretra di qualche passo quando non la vede, quando è distratto, quando sa che può fregarlo.
Ma, come in quel momento, lui torna a raccoglierla e le dà un’altra spinta.
La riaggiusta come meglio può, la ripulisce dal sangue, la rinfresca con del ghiaccio, le prende la mano e l’accompagna di nuovo su quel gradino.
Non si arrende, nemmeno alle tre di notte dell’ennesima ricaduta: la stende tra le lenzuola di quella camera improvvisata che ha ancora le sembianze di uno sgabuzzino per sacchi da boxe e le passa una mano tra i capelli.
Si accorge, tuttavia, di essere più debole delle altre volte. Fa per voltarsi e rifugiarsi nel suo ufficio fino all’alba, per distrarsi tra conti e programmi lasciati in sospeso, ma si rende conto di non farcela. La guarda dal suo metro e ottantatré, le braccia che penzolano ai lati del corpo e le palpebre a trattenere con forza delle lacrime che non riesce più a soffocare. Poi sente quelle dita sottili avvolte da cerotti prendergli la mano. Lei tiene ancora gli occhi chiusi e Bruce si sente libero di lasciarsi andare. Mentre un pianto silenzioso solca sentieri umidi sul suo viso, si siede accanto al letto, poggiando il capo sul materasso e avvicinando la mano di Ris alle sue labbra. Le lascia un bacio che sa di “ricominciamo domani” e si addormenta in una posizione che il giorno dopo lo farà imprecare.
Le lacrime smettono di correre, ma la sua mano rimane intrecciata alla promessa chi si è fatto, alla vita che non vedrà crollare, alla lotta di cui non ammetterà alcuna sconfitta.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Capitolo Uno
 

Kade è al tappetto e Ris lo guarda vittoriosa dall’alto, incurante del bruciore che pervade ogni fascio muscolare. Il suo mentore sorride e lei scoppia a ridere nonostante non le sia rimasto un briciolo di fiato. Lo libera e poi inizia a saltellare sul tatami, mentre il vecchio Ryu lascia cadere il moccio a terra per applaudire.
«Ottimo lavoro», si complimenta Kade rialzandosi e cercando di mascherare l’orgoglio che ne piega le labbra.
Ris stampa un bacio sulla fronte dell’anziano custode, incapace di frenare quel moto di gioia e la frenesia della vittoria.
«Kade, un consiglio: lascia il Dojo alla nostra Lama e unisciti a me nell’arte del moccio prima che ti si spezzi la schiena.»
Ryu punta un dito al maestro d’arti marziali in un avvertimento che non fa altro che aumentare l’ilarità di Ris, ora sdraiata a terra con le braccia e le gambe spalancate, esausta, sudata e incredibilmente dolorante.
Kade raccoglie i capelli in un codino basso e dà una pacca sulla spalla di Ryu: «Ah, ah. Tutto per lasciare il duro lavoro al sottoscritto mentre te ne scappi a fare il decimo sonnellino della giornata.»
Gli occhi a mandorla del vecchio custode si assottigliano in un’espressione indignata: «Charice, la prossima volta assicurarti che nessuno riesca a raccoglierlo da terra», ribatte indispettito con il suo accento orientale.
Ris – Charice solo per Ryu, che proprio non ne vuole sapere dei diminutivi – alza un pollice in segno affermativo.
«E ora, ingrato di uno, andrò a farmi un sonnellino.»
Kade scuote la testa sogghignando e il loro vecchio amico se ne va con un’elegante uscita di scena, lasciando il moccio abbandonato a terra.
Ris si solleva puntellandosi sui gomiti.
Kade, incorniciato da una nerissima barba leggermente trasandata, la studia pensieroso e Ris riconosce immediatamente lo sguardo che quell’ultima settimana l’aveva assediata di domande: mi vuoi dire qualcosa, lo so, pensa incoraggiandolo con un’occhiata di sfida.
«Cercherò di convincerti in tutti i modi», premette con cautela, conoscendo la testardaggine della sua allieva e avendo ormai fatto l’abitudine a quel guscio di metallo che cerca di far schiudere da ormai due anni.
Lei alza un sopracciglio, perplessa. Kade può comunque intravedere il primo accenno di preoccupazione: così letale, eppure ancora così spaventata.
«Ho bisogno di un aiutante sul set di un’importante produzione cinematografica e penso che insieme potremmo fare un buon lavoro. Ho già ingaggiato un paio di stuntman per le controfigure di qualche attore, ma mi serve una mano per tutta la fase preparatoria: la creazione delle coreografie per le scene di lotta, l’implemento degli oggetti di scena e l’istruzione di stunt e artisti. Insomma, una mole immensa di lavoro per la quale mi saresti misericordiosamente preziosa.»
Ris non vuole riconoscerlo, ma avverte una familiare sensazione di vertigine affondarle gli artigli nello stomaco. No, lei non è fatta per quelle cose, non è fatta per il mondo oltre il Dojo e la palestra di Bruce, non è fatta per le scoperte, per i salti nel vuoto, per i sentieri sconosciuti.
Vuole solo rimanere aggrappata alle sue certezze, a quei due pilastri che reggono la sua anonima ed ordinata esistenza: semplice, lineare e perfettamente prevedibile. Si destreggia a malapena tra quel poco che ha, lasciandosi continuamente scivolare tra le dita anche gli impieghi più banali, come se da tempo si fosse dimenticata come funziona il mondo reale e come si affrontano gli ostacoli quotidiani, quelli che farebbero ridere la maggior parte della gente.
Non vuole svolte, non vuole il rischio di un terremoto, che qualcuno scorga i passi ancora malfermi. Non le interessa il resto della vita, i rapporti che nega per diffidenza, il cammino che si rifiuta di intraprendere per stanchezza e paura, una paura che sopprime portando il suo corpo all’estremo, qualche volta cadendo nella tentazione di lasciare che altri lo sfigurino, proprio nel momento in cui qualcosa di primordiale torna a graffiarla.
Non credeva nemmeno di resistere a quei suoi ultimi cinque anni, quelli in cui Bruce ha tentato in tutti i modi di spingerla verso la vita, cercando di farle riscoprire il piacere di farne parte. La verità è che non ci è riuscita, che l’unica cosa che ha imparato è come salvaguardare sé stessa, rimanendo confinata in una teca nemmeno sfiorata dagli eventi che si susseguono e che provano a coinvolgerla e a stravolgerla, fallendo miseramente. Una teca in grado di proteggerla, ma non sufficiente a renderla stabile sulle assi sospese di quella sua seconda esistenza. Ed è qui che arriva Kade, scelto per essere forgiata come la spada che non permetterà ad altri di sottrarle i frammenti che le rimangono, per impedire che mani estranee conoscano il potere di annientarla e per dimenticare la fragilità che in una notte lontana e sempre troppo vicina ha permesso che qualcuno le strappasse parte di sé, una linfa di cui non sente più il sapore.
Nelle profondità della sua carne è così fottutamente terrorizzata, così impotente. Ma il suo involucro è acciaio puro.
Lama.
«Ris, lo sai, faccio questo lavoro da anni e ti conosco abbastanza bene da sapere che saresti impeccabile. E poi, ti divertiresti un mondo. Pensaci: insieme a coreografare combattimenti scenici, preparare stunt e attori, lavorare a stretto contatto con tutto ciò che permette la magia che vediamo in uno schermo. Ris, avanti, concediti di assaporare qualcosa di nuovo.»
Non si è nemmeno accorta che nel frattempo Kade si è inginocchiato davanti a lei.
Sa che non lo farà, che non accetterà, che risponderà un secco no e che tornerà a rifugiarsi nella sua teca.
«Non dovrai nemmeno spostarti, le riprese sono qui ad Atlanta», continua lui come se semplici motivazioni logistiche la sfiorino minimamente.
Ogni sera torneresti comunque da Bruce.
Chiude gli occhi con forza a quel pensiero. No, no e poi no.
«Avresti un’altra cinquantina di allievi a cui chiedere e tutti sicuramente più qualificati di me.»
«Sai che non è vero.»
«So che sarei un disastro: combatto per me stessa e per nessun’altro, evito come la peste qualsiasi tipo d’interazione e non ho la pazienza per istruire qualcuno che non è del mestiere», ribatte lei sulla difensiva, tramutando il suo viso in una maschera granitica.
«Hai il genio per costruire insieme a me qualcosa di cui andresti fiera, e ti piacerebbe, ti piacerebbe da matti.»
I suoi occhi, neri come la pece, non la lasciano nemmeno per un secondo.
Si sente braccata.
Sospira e per la prima volta le monta una rabbia così estranea, di una sfumatura che non l’aveva ancora incendiata. 
Codarda.
Una bambina impaurita e sciocca, nascosta nell’illusione di un’armatura.
Debole.
Si crede così forte, ma il solo pensiero di fare un passo oltre la porta di quella palestra e di quel Dojo la paralizza. Continua a vivere, impedendosi di farlo. Si fa pena e la rabbia cresce.
Abbassa leggermente la testa, sfuggendo agli occhi di chi crede ancora in lei, e si alza lentamente.
«Ci vediamo domani, Kade.»
Si dirige verso gli spogliatoi, incassando il colpo dell’ennesima delusione con cui continua a ferire gli unici che non lo meriterebbero.
Come al solito usa quella Lama pugnalando sé stessa, chi le dimostra quotidianamente di amarla, le opportunità che non si dà, quelle a cui nega il potere di farle vedere oltre la coltre di nero petrolio che le avvelena anima e corpo.
 
 
 
«Stai diventando vecchio per i film d’azione», lo punzecchia Emma spiandolo dallo stipite della porta, «mi preoccuperò di assumere una badante per il tuo ritorno in carrozzella.»
Tom sorride mentre chiude la valigia, poi le mima un “vaffanculo” amorevole e le strizza l’occhio.
Emma entra scalza nella sua stanza e si lascia cadere a peso morto sul letto matrimoniale, così paradossalmente estraneo rispetto ai materassi in piuma d’oca che l’hanno ospitato in varie parti del mondo, tra le pareti di anonime camere d’hotel prive degli odori di casa, di Londra e di una vita lontana.
Si alza guardandosi intorno: non dovrebbe mancare nulla.
In realtà, manca sempre qualcosa e non ha mai a che fare con gli spazi vuoti del suo borsone e del suo trolley.
Afferra il cuscino che sua sorella continua a lanciare per aria come la dodicenne pestifera che ancora le si cuce perfettamente addosso e poi la colpisce, solleticando la pazienza del can che dorme. Lei inizia a scalciare indispettita e Tom scoppia a ridere, bloccandole una caviglia e sventando ogni tentativo di vendicarsi. Trentaquattro e ventinove anni, eppure così bambini quando il mondo concede loro di fermare per un attimo il tempo e tornare Tom ed Em, ignari delle strade che li separeranno, di quanto rimpiangeranno persino il dispotismo di Sarah, la maggiore, e di quanto sarà tremendamente complicato trovare biscotti alla cannella che si avvicinino anche solo di una nota a quelli delle abbuffate domenicali a casa di nonna.
«Mi ricordi per quale motivo sei qui ad importunarmi quando ho un aereo tra meno di tre ore?»
A dir la verità non gli interessa nemmeno la risposta, gli basta solo che sia così.
«Perché casa tua è decisamente più lussuosa della mia», risponde mettendosi seduta e togliendo disgustata una matassa di capelli biondi dalla bocca, «e poi perché il mio lavoro da sorella minore è mandarti in tilt quando hai già nervi a fior di pelle.»
Gli schiocca un’occhiata provocatoria mentre Tom alza gli occhi al cielo. Recupera il borsone lasciato sulla cassapanca e lo appoggia accanto alla valigia abbandonata su quello stupido tappetto che odia, il regalo di un’ex che l’aveva fatto sudare freddo il giorno del suo trentaduesimo compleanno: simulare gioia e autentica sorpresa si era rivelata un’impresa titanica. Perché non l’aveva mai ammesso? E soprattutto, perché non se n’è ancora sbarazzato? Semplice: Tom vive nel terrore che anche il più piccolo gesto possa malauguratamente trasmettere scortesia, maleducazione o ingratitudine. Buttare quel terribile tappetto nonostante un tradimento? No, non sembrava proprio carino o elegante. Meglio tenerlo e farsi accecare ad ogni suo ritorno: dai colori sgargianti e dall’umiliazione del tradimento.
Se qualcuno se lo domandasse, Tom Hiddleston non si limita a mandare giù anche i rospi più disgustosi, oh no, lui se li prepara con maestria, li condisce e imbandisce una cena a lume di candela: lui e la sua cavalleria. Sì, insomma, quella che sa tanto di stupidità e masochismo.
«Non sono nervoso», ribatte con le sue brillanti abilità recitative.
E invece sì, lo è. Nonostante la fama internazionale, Tom non è proprio capace di abituarsi alle lodi e alla pioggia di nuovi ruoli che lo spaventano più di quanto vorrebbe ammettere: la sua ansia da prestazione se la tiene stretta e la custodisce con cura.
Emma si alza dal letto, poggia una mano sulla spalla del suo detestato ed amato spilungone – sarebbe imbarazzante ammettere che non si è sollevata sulle punte dei piedi solo per dignità – e finge un’espressione addolorata: «Ti prego, dimmi che non dovrò vederti con acconciature strane, corna, mantelli di pelle o altro che mi impedirebbe di guardare il film prima di un adeguato percorso terapeutico.»
Lui la guarda dall’alto e poi fanno capolino due fossette: «Cara Em, il tuo fratellone farà strage di cuori: total black, una moto niente male, un pizzico di stronzaggine e nessuna parrucca o tinta aberrante.»
Emma aggrotta le sopracciglia e inclina il capo pensierosa, poi strabuzza gli occhi: «No, Tom, no. Il sex-symbol dal passato tormentato che fa a botte nel weekend per esorcizzare la sua incapacità di legarsi romanticamente non lo posso reggere.»
Lui la guarda con la bocca leggermente socchiusa e poi scoppia a ridere al cospetto del terrore sincero che dipinge la smorfia di Emma.
«Non prendermi in giro!» esclama lei colpendolo alla spalla, «azzardarti ad uscire con una roba del genere al cinema e il cavolo che pago pure il biglietto.»
Lui si piega a raccogliere borsone e trolley, continuando a ridacchiare incredulo. No, non riuscirebbe proprio a immaginarsi nella parte, ma la tentazione di far passare a sua sorella qualche ora d’incubo è dolorosamente irresistibile. Fa per dirigersi verso la porta e accanto allo stipite si volta quel tanto che basta per il colpo di grazia: «Troppo tardi Em. Il biglietto te lo pago io, tranquilla.»
Si lascia alle spalle un’espressione sbigottita e lascia che i corridoi siano gli unici testimoni della sua risata.
«E ora muoviti o ti lascio qui a marcire per mesi!», urla poi avvicinandosi all’ingresso.
Estrae il telefono dalla tasca anteriore dei jeans giusto in tempo per intercettare il messaggio di Jen: Chiamami quando atterri.
Una manciata di semplici parole e un cuore. Tom si mordicchia il labbro inferiore, prima di ricevere la seconda notifica: Ps: stamattina hai lasciato la giacca di pelle in cucina. Ora sai quale sarà la tua prima fermata al ritorno da Atlanta, Sherlock.
Dopo tre mesi di frequentazione fatica ancora a comprendere l’origine di quel nomignolo. Probabilmente è un vizio delle neo-coppie – quindi siamo una coppia? –, un modo per correre ai ripari nel timore che la sfilza di cene, spettacoli teatrali e pomeriggi in campagna si dissolvano senza lasciar traccia del loro passaggio. Forse per creare qualcosa di speciale e di unico, quasi per dare la parvenza che no, ormai quel rituale di chiamate notturne e messaggi terribilmente espliciti deve superare lo scoglio del quarto mese e trovare il piedistallo da cui osservare compiaciuto la fine che avrebbe potuto fare: una delle tante storielle sepolte ancor prima di nascere. Insomma, per il resto del mondo è Tom, per Jen – e solo per Jen – è Sherlock.
E chapeau: in tutto ciò vi dev’essere sicuramente del genio o Tom non si sentirebbe ancora più in dovere di lasciarle un bacio sulla spalla ogni volta che lei lo punzecchia con quel soprannome mentre lo guarda con un sorriso di scherno, nascosta fino alla vita dalle lenzuola e accarezzata dalle luci dell’alba.  
Quando poi realizza di poter ancora sfruttare mezz’ora di sonno, di solito Tom volta appena il capo sul cuscino e si ritrova a sperare che sia solo una fase, che prima o poi Sherlock torni a Scotland Yard salutandolo con un cenno della pipa.
Tentenna al cospetto delle due notifiche lampeggianti e non sa perché, ma si dice che risponderà dopo, che ora non ha proprio tempo, che comunque la chiamerà appena atterrato. Forse si arrabbierà e allora le dirà che avrebbe voluto portarla con sé, che già le manca terribilmente, che le porterà una sorpresa al suo ritorno.
Dovrebbe chiedersi perché sta pianificando le sue conversazioni come se avesse bisogno di prendere carta e matita e appuntarsi qualche nota, ma si dice che probabilmente è una sindrome da attore: quella da copione. Sospira e si sistema il borsone sulle spalle, spegne le ultime luci e lancia un nuovo avvertimento spazientito a sua sorella.
Emma lo raggiunge saltellando su un piede mentre cerca di infilarsi le scarpe. Le apre la porta mentre lo supera con un’occhiata che farebbe accapponare la pelle a qualsiasi uomo: «Ti consiglio di rimanerci ad Atlanta.»
 
 
 
La mezzanotte si avvicina e le luci della palestra sono ancora accese. Ris se ne accorge non appena si lascia alle spalle l’ennesima svolta, nascosta dal cappuccio della felpa e da un borsone decisamente troppo pesante. All’uscita dal Dojo si era lasciata cullare dalla brezza di inizio ottobre, finendo per macinare molti più chilometri di quelli necessari: sperava che camminando senza meta la sua frustrazione si sarebbe prima o poi arresa alla stanchezza, ma tra i risultati ottenuti si conteggiano solo una vescica sanguinante e una serie infinita di imprecazioni trattenute tra i denti.
Si avvicina all’ingresso e molla il borsone a terra, piegandosi alla ricerca delle chiavi. Moka – il randagio ormai conosciuto dal quartiere come la mascotte della Morales’ – si avvicina, frugando con il muso nelle tasche della tuta di Ris, impaziente di ricevere il suo vizio quotidiano.
Dopo aver lasciato una manciata di biscottini ai piedi della brandina rossa – ricambiata da una dose decisamente esagerata di saliva – Ris scorge Bruce dalla vetrata.
È di spalle, la maglietta grigia è visibilmente impregnata di sudore e con colpi precisi ed inclementi colpisce ritmicamente un sacco da boxe.
Sono ormai settimane che lo sente allenarsi a notte fonda mentre lei non riesce a far altro che rigirarsi tra le lenzuola, lanciando occhiate preoccupate ad una sveglia che consuma ferocemente secondi, minuti ed ore.
Ultimamente le cose non vanno bene per la palestra e nonostante Bruce non gliene parli, lei lo avverte come la punta di un pugnale che le si rigira tra le scapole.
Entra e si sfila le scarpe ancor prima di abbandonare borsone e giacca di jeans. Nonostante la lontananza, è comunque in grado di percepire la musica provenire dalle cuffie di Bruce: ci sarà pure un motivo se a quarant’anni si ritrova pericolosamente vicino alla stessa capacità uditiva di Ryu, più simile ad un fossile che ad un essere umano vivo e vegeto.
Tentenna per qualche secondo, pensando che probabilmente se ne dovrebbe solo andare a letto, lasciarlo ai suoi sfoghi e sperare che il mattino dopo non le stampi un bacio sulla fronte in procinto di addormentarsi tra i suoi capelli, sfinito.
Poi le si illuminano gli occhi: è passato decisamente troppo tempo dall’ultima volta in cui uno dei due è riuscito ad atterrare l’altro nel protrarsi di una stupida sfida nata cinque anni prima.
Incapace di arrendersi alla tentazione di riprendersi la rivincita delle passate umiliazioni, si avvicina silenziosa alla preda. Deve ammettere di aver subito molte più sconfitte di quante ne vorrebbe ricordare, colta di sorpresa anche nei momenti meno opportuni.
La schiena dolorosamente premuta sul pavimento e la solita lezioncina di Bruce due immagini indelebili: “I sensi, Ris. Che te ne fai di tutta questa spaventosa tecnica se non sai usare l’unico vantaggio che hai sull’avversario?”
Un passo dopo l’altro si approssima al bersaglio, pregustando il trionfo che potrà finalmente ritorcere contro il suo mentore. Le ampie spalle si muovono ritmicamente, assestando un colpo dietro l’altro, e Ris trattiene il sorriso della vittoria mentre si prepara a servirsi indebitamente dei trucchi di Kade.
La sua mano saetta in avanti quando Bruce scarica l’ennesimo colpo, lasciandole lo spazio per infilarsi e bloccare l’articolazione della spalla.
Tuttavia, qualcosa va storto: il braccio di una preda non abbastanza ingenua si chiude improvvisamente sul suo polso, bloccandone ogni movimento. In men che non si dica si ritrova a terra con il sorriso strafottente di Bruce alla portata di un gancio perfetto, ma la frustrazione le impedisce anche solo di grugnire un vaffanculo tra le smorfie di dolore.
Lui si toglie le cuffie rialzandosi trionfante e lei rimane sdraiata sul pavimento, certa che la sua schiena un giorno le presenterà un conto salatissimo.
«Non potevi né sentirmi né vedermi», constata semplicemente puntellandosi sui gomiti, «mi spieghi come cazzo hai fatto?»
Lui la guarda dall’altro mentre si leva la maglietta bagnata di sudore, poi ride e si siede a terra respirando con affanno: «Il tuo profumo.»
Ris allarga le braccia in un’espressione di totale incredulità: «Ok, hai vinto, mi arrendo.»
Lui le lancia addosso la sua maglia, provocando una reazione a dir poco disgustata: «Lo sai che non mollo, quindi se non vuoi continuare ad essere umiliata ti conviene affilare le lame.»
Ris alza gli occhi al cielo, esibendosi nella sua famosa “faccia da prendere a schiaffi” tanto rimproverata da suo padre fin dai tempi delle proibite scorribande adolescenziali. Sì, il brillante avvocato Sanders, lo stesso di cui Ris attende impaziente la discesa agli inferi e l’espiazione di una buona dose di peccati.
Bruce si lascia cadere sulla schiena, rilassando i muscoli e beandosi del contatto con le fredde assi del parquet. Guarda verso il soffitto per poi passarsi una mano sul volto, esausto.
I lineamenti affilati e l’ombra che torna a rivestirli le conferma quanto sia preoccupato e tormentato.
Non è mai stata cieca nemmeno di fronte alle piccole cose: una buonanotte appena accennata che si perde tra le scartoffie del suo ufficio, una risposta irritata quando il telefono squilla una volta di troppo, l’iscrizione dell’ennesimo allievo che viene stracciata.
Per questo motivo non è ancora riuscita a dirgli di aver perso il lavoro alla gelateria da più di una settimana, di aver provato a cercare altro ricevendo in cambio solo sguardi di sufficienza.
«Bruce», lo chiama piano, mettendosi a gambe incrociate.
Lui volta il capo appena, guardandola dal basso, in attesa. I capelli leggermente cresciuti sono appiccicati alla fronte, le lunghe ciglia nascondono il color mogano dei suoi occhi e il petto imperlato di sudore si alza ed abbassa ritmicamente.
Lei tentenna, sentendosi già colpevole per non averlo ammesso prima.
Se potesse vedere la sua stessa espressione, probabilmente si confonderebbe per un cerbiatto terrorizzato.
Bruce si scioglie lentamente in un sorriso cauto, stendendo l’espressione corrucciata di poco prima.
«Lo so già.»
Ris boccheggia, più in cerca di una risposta per sé stessa che per controbattere.
«Oh, avanti. È a due isolati da qui e ci passo davanti sì e no tre volte a settimana. Pensavi che non mi sarei accorto che l’hanno praticamente smantellata?»
Non è arrabbiato e questo semplicemente perché Bruce non è fisicamente in grado di tenerle il broncio.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirt-»
«Tranquilla», la interrompe allungando una mano verso il suo ginocchio per rassicurarla, «troverai qualcos’altro.»
Ed è in quel preciso istante che l’immagine di Kade irrompe prepotentemente tra i sensi di colpa di Ris.
Ha letteralmente a portata di mano l’occasione di dare sollievo ai conti della palestra e invece, proprio come una bambina capricciosa, si ostina a passare da un negozio all’altro, da un bar a un ristorante, in cerca di una paga misera e un minimo impiego, ricevendo solo porte in faccia e ben poca considerazione.
Per una volta in cui ha la possibilità di ripagare tutti i sacrifici di chi le ha fatto spazio nella propria vita, concedendole una nuova esistenza e accarezzandola con un amore che nemmeno pensava di meritare, si tira indietro come una codarda, un’ingrata.
Si fa così pena mentre il peso di quella scelta si tinge di un amaro biasimo, mentre la sua ala continua a proteggerla dalle preoccupazioni che lo tormentano e dai motivi della sua insonnia.
Quell’uomo testardo che ora le schiocca un bacio sulla fronte e le augura la buonanotte con la dolcezza di un padre, che si allontana verso un appartamento in cui le ha fatto trovare una casa quando non era altro che uno scheletro rannicchiato su un marciapiede sudicio, sfregiato dalla pioggia.
Come può fagli questo?
Rimane appollaiata sul parquet della palestra per un tempo indefinito, tenendo i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani infilate nei lunghi capelli castani.
Sbuffa, combattendo il senso di spaventosa vertigine che teme non riuscirà mai a mettere a tacere, per poi puntare lo sguardo verso la foto di lei e Bruce appesa alla parete con un banalissimo pezzo di nastro adesivo. Sorride quando si rende conto di quanto sia terribilmente fuori luogo circondata da tutte le medaglie, i trofei e gli attestati patinati.
Che qualcuno – qualsiasi divinità o entità ne abbia il coraggio – mi assista da lassù.
Si alza con uno scatto, convinta di poter ingannare i suoi pensieri muovendosi più velocemente. In realtà, la paura continua a scavarle nello stomaco anche quando recupera il telefono dal borsone e cerca il contatto di Kade.
Due semplici messaggi e una montagna di maledizioni mai pronunciate nella storia dei secoli:
Ti odio, ma sì.”
“Un’unica condizione: non sono tenuta a socializzare amorevolmente con nessuno.”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Capitolo Due
 
Giorno diciasette ai Pinewood Studios di Atlanta, ore 23.45: Ris è di nuovo a terra, il ginocchio di Kade premuto sul braccio piegato all’altezza del petto e una mano – paradossalmente gentile rispetto a quello che potrebbe apparire – attorno al collo.
«Ok, direi che ci siamo», afferma annuendo leggermente col capo.
Grazie al cielo.
Kade la libera e le porge una mano: «Ma vorrei rivedere la sequenza iniziale, c’è qualcosa che non mi convince nell’entrata della seconda sentinella.»
Ris scioglie i capelli castani che ora le sfiorano a malapena le spalle: le erano bastate giusto le prime due ore di progettazione scenica per capire che avrebbe fatto meglio a optare per un taglio drastico, inorridita al pensiero di vedere altre ciocche impigliate tra i vestiti del suo maestro, sparse sul tatami dello studio 3 o attorcigliate ai prototipi delle armi.
Appoggia le mani sulle ginocchia malferme e prende respiri profondi prima di ribattere: «Kade, non so se te ne sei accorto, ma siamo rimasti solo noi due. Come pensi di ripassare una scena che vede dalle sei alle sette controfigure?»
Lui la ignora e si allontana per recuperare due aste di legno abbandonate sul materasso delle cadute.
Le fa roteare con espressione corrucciata, camminando a piedi scalzi in cerchio: Ris è sicura che non le risponderà per altri dieci minuti, troppo immerso a fantasticare sulle dinamiche che hanno rivisto e stravolto infinite volte.
Sospira percorrendo con lo sguardo lo stabile ormai vuoto, illuminato da un unico faro sopra le loro teste e comunque sufficiente a rendere dolorosamente visibile l’imbarazzante disordine che nessuno dei due avrà la forza di ripulire: oggetti di scena sparsi sul tappetto, imbragature appese alle enormi spalliere, scatoloni di cartone e panche in ferro utilizzati per ricreare maldestramente il contesto di ogni singola sequenza.
Ris non può negare di averci ormai fatto il callo, anche se è perfettamente consapevole di non aver nemmeno assaporato ciò che teme realmente. Dopotutto non sono stati altro che giorni di intensa preparazione con Kade, rigorosamente confinati tra le pareti dello studio 3 con giusto una manciata di stuntman ormai avvezzi all’ambiente cinematografico. Per sua somma gioia, nessuno dei professionisti si era rivelato particolarmente propenso a spendere energie in altro che non fossero cadute, acrobazie e perfette esecuzioni. D’altronde, Kade si era trasformato in una micidiale macchina da guerra, totalmente dedito a rendere imbeccabili le coreografie che sceneggiatori e registi non facevano altro che lodare, ormai certi che avrebbero ingranato alla perfezione quando il resto di quel complesso motore si fosse messo in azione. E, tuttavia, il suo patologico perfezionismo aveva mostrato misera clemenza tra le pause di una scena e l’altra: il tempo di una battuta, di una domanda o di uno scambio che avrebbero costretto Ris a palesare le sue ridicole capacità d’interazione sociale veniva puntualmente reso ostaggio di un “ricominciamo” misericordioso.
Il resto del mondo se n’era rimasto fuori, a serpeggiare – isterico, decisamente isterico – tra i sentieri degli imponenti studios, e Ris aveva ringraziato il cielo per quella temporanea concessione.
Ogni tanto Kade le indicava volti lontani, snocciolando nomi di attori con cui aveva già lavorato in passato e assicurandole che le sarebbero andati a genio. Ris, ovviamente, si limitava a mostrare tutto il suo scetticismo con una smorfia, ricambiata da una spallata e da un’esclamazione esasperata.
«Ho solo bisogno di rivedere le dinamiche del primo scontro», risponde all’improvviso Kade lanciandole uno dei bastoni, «quindi tu farai la sentinella e io Tom.»
Ris guarda con occhi spalancati l’asta che stringe miracolosamente in una mano, bloccata grazie ad un’esagerata dose di fortuna prima che potesse colpirla in faccia e trasformare quella nottata in uno scenario a dir poco tarantiniano.
«Sei completamente impazzito? Vuoi per caso uccidermi?» gracchia spazientita, «e poi chi cazzo è Tom?»
Lui rotea gli occhi al cielo, lasciando cadere i due borsoni dalla panchina poco lontana e trascinandola fino al centro della stanza, proprio di fronte ad una Ris prossima all’esaurimento.
«Ris, Tom è Jerome, il protagonista. Te l’avrò detto almeno cinquanta volte.»
«Non puoi alternare i nomi dei personaggi e degli attori a tuo piacere e aspettarti che dopo dieci ore di allenamento e una misera mela nello stomaco io possa afferrare al volo.»
Lui alza entrambe le mani in segno di resa per poi farle un cenno e incoraggiarla a salire sulla superficie che dovrebbe simulare il davanzale di una finestra.
Lei solleva solo un piede, continuando a guardarlo truce.
«Ok, ho afferrato. Questa è l’ultima», le concede recuperando l’asta e mettendosi in posizione, «ma sappi che da domani sarà anche peggio, che probabilmente ci toccherà stravolgere tutto e che rischierai un episodio isterico ogni due ore, ma no, non puoi fare la stronza e rischiare che qualche stellina hollywoodiana se ne risenta, intesi?»
Ed ecco che l’eden dei primi diciassette giorni si approssima al suo tramonto.
«Kade, hai bisogno di una camomilla per caso?»
«Ah! Proprio questo», risponde lui puntandole un dito con eccessiva euforia, «da domani lascialo sulla Ford Bronco e riprenditelo alla fine della giornata.»
«Il sarcasmo?»
«E qualunque altra cosa sia inclusa nel pacchetto.»
Ris si appoggia al bastone: quella notte si rivelerà più lunga del previsto.
Sa di star esibendo la famosa “faccia da prendere a schiaffi” coniata dall’avvocato Sanders e fieramente sfoggiata da quel lontano passato più per sfregio che per altro, ma proprio non riesce a non maledirsi per aver accettato la proposta di Kade e per non essersi impuntata nella ricerca di un’altra gelateria.
«Avanti, me la puoi promettere una manciata di sorrisi?» chiede poi tramutando la sua espressione in una supplica a dir poco ridicola.
Ris si morde il labbro inferiore cercando di trattenere una risata, lasciandosi poi addolcire da quello sguardo da cane bastonato brillantemente studiato.
«Cercherò di essere il più paziente e gentile possibile e non farò la bacchettona intransigente, ma non posso assicurarti niente sul mutismo selettivo oltre i convenevoli di circostanza e le istruzioni da impartire mentre ribalto qualcuno al tappetto.»
Kade valuta la sua concessione assottigliando gli occhi e passando una mano sulle guance ricoperte da corta barba nera, poi annuisce leggermente.
Si scambiano uno sguardo d’intesa e tornano in posizione. Ris ricostruisce velocemente la sequenza, ripercorrendo i singoli movimenti e sforzandosi di immaginare nella stanza i vari elementi della scena.
Kade fa lo stesso, ma prima di iniziare a scandire i tempi, una risata affiora tra le sue labbra sottili.
Ris lo guarda perplessa, per poi concludere che probabilmente anche gli ultimi barlumi di lucidità sono andati a farsi benedire.
«E ora cosa c’è? Cos’ho fatto?»
«Niente», risponde lui continuando a sogghignare in modo decisamente troppo divertito, «ma mi duole ricordarti che da domani, Ris, sarai tu quella che verrà continuamente ribaltata al tappeto.»
Giorno diciassette ai Pinewood Studios di Atlanta, un orario indefinito tra mezzanotte e l’una e poche ore all’inizio della preparazione atletica con gli attori: Ris valuta la possibilità di unirsi all’arte del moccio di Ryu.
 
 
 
È sicuro di essersi addormentato solo una ventina di minuti fa, giusto il tempo di rigirarsi un paio di volte tra le lenzuola e lasciare che le parole di Jen si confondessero in modo surreale a quelle di un Sherlock Holmes senza fissa dimora, accovacciato su una panchina a piedi scalzi e avvolto da un cappotto lurido in cui nascondere il bottino riemerso dal cestino dell’immondizia lì accanto. I “mi manchi” e i “devo essere gelosa della co-protagonista?” si erano lentamente dissolti per assumere la forma di scorbutiche imprecazioni e lanci di lattine decisamente poco sobri verso i passanti. La controfigura disperata del famoso e brillante investigatore si era poi alzata a braccia spalancate, rivolgendo al cielo un sermone delirante sull’ipocrisia della razza umana, puntando tremante le coppie felici ferme a guardarlo con occhi spalancati e i ragazzini impegnati ad alimentare la fame dei social network. Infine, il flash del cellulare di un dodicenne e l’accenno di quella che si sarebbe sicuramente rivelata una sfilza di improperi per nulla consoni ad un impeccabile gentleman inglese, se solo Tom non si fosse svegliato di soprassalto, ferito dai raggi di un sole decisamente troppo splendente per i suoi canoni londinesi.
Mezzo nudo e immerso tra le lenzuola fino alla vita, guarda con occhi ancora assonnati la figura slanciata che si staglia sul panorama oltre l’immensa vetrata della sua camera d’hotel.
«Sveglia, bella addormentata», incoraggia la voce eccessivamente squillante di Michael mentre si premura di sottrarre entrambi i cuscini in cui si rifugia Tom con un lamento, lasciando che il suo bel visetto si scontri con il materasso, «siamo già in ritardo e non vorrei prendermi una bella strigliata solo perché ieri notte hai fatto sesso telefonico fino alle quattro.»
Ancora sdraiato a pancia in giù, Tom mormora un “vaffanculo” per poi sollevarsi sui gomiti e afferrare il cellulare sul comodino.
Strabuzza gli occhi quando legge l’orario.
«Non potevi semplicemente dirmi che sono le fottutissime nove del mattino?» urla spazientito mentre Michael alza il bicchiere in cartone del caffè con un sorriso sghembo.
«Buongiorno anche a te, principessa.»
Tom trattiene altre imprecazioni e scivola dal suo confortevole giaciglio per racimolare dal pavimento i primi vestiti che gli capitano sotto tiro. Michael – per quale motivo indossa degli occhiali da sole? – si appoggia all’angolo della scrivania su cui è abbandonato il pc aperto di Tom, dondolando una gamba mentre con l’indice sblocca il salvaschermo.
«Oh, mi deludi Hiddleston», schiocca la lingua sul palato e indica lo sfondo del computer, «mi aspettavo un tenero selfie di coppia, cos’è questa tristissima tinta unita?»
Tom lo guarda con aria spazientita e decisamente confusa mentre si allaccia i jeans neri: «Mi spieghi perché sei così interessato alla mia vita sentimentale?»
«Lo sai che amo il gossip.»
«No, tu ami essere inopportuno.»
«Si, hai ragione. A quando il primo pargolo?»
Tom alza gli occhi al cielo, si infila una maglia a maniche corte e si avvicina con due falcate alla scrivania, sottraendo il pc dalle grinfie del suo collega: «Tre mesi Michael, pensi che dopo tre mesi di frequentazione sia in arrivo un pargolo? Non so nemmeno come si chiama il suo porcellino d’india.»
«Un porcellino d’india?»
«E se non ricordo male due tartarughe di terra.»
Gli occhiali da sole falliscono miseramente nel celare il cipiglio che si dipinge sul viso di Michael: «Ma che diamine di animali domestici sono? Ti scongiuro, per Natale regale un golden retriever.»
Tom si chiede per quale motivo stia ancora dando corda all’unico essere vivente in grado di far vacillare la sua proverbiale pacatezza, per poi sottrargli il bicchiere di caffè ed esaurirne il contenuto sotto un’espressione prima sorpresa e immediatamente dopo indispettita.
«Non ti facevo così ribelle e sfrontato, signorino.»
Tom gli rifila un dito medio mentre si volta per scomparire nel bagno.
Si sciacqua il viso con acqua gelida ed evita di guardarsi allo specchio per timore di veder riflesso il volto del suo sogno, la copia trasandata e iraconda dell’illustre investigatore di Scotland Yard.
«E poi mi spieghi da quando i nomignoli sono diventati così di moda?» si ritrova a domandare in modo da farsi sentire al di là della porta.
Non sa nemmeno per quale motivo lo chiede e no, non gli interessa nemmeno ricevere una risposta; spera solo di non dover passare il resto delle sue notti in compagnia della follia di Sherlock.
Finisce di prepararsi mentre Michael risponde con un sermone sul fatto che quella dei nomignoli è un’arte per poche persone dotate: insomma, non è per tutti gestire la perfetta dose di sarcasmo, tingerla di una punta di provocazione e rivestirla di brillante originalità.
«Io, ad esempio, posso considerarmi campione olimpionico», conclude allargando le braccia per sottolinearne l’ovvietà. Tom si limita a scuotere la testa rassegnato, recuperando un paio di scarpe finito sotto il letto. Le infila velocemente e mentre le allaccia fissa uno sguardo pensieroso sull’espressione rilassata e canzonatoria dell’amico: «Sherlock, ad esempio. Che ne pensi?»
Michael si toglie gli occhiali da sole e si appoggia alla parete bianco panna, studiando con sopracciglia aggrottate l’assurdità di quella domanda.
«Tom, sicuro vada tutto bene? Sai, il sesso telefonico può essere tremendamente insoddisfacente se si è alle prime armi», incalza simulando un’autentica preoccupazione, «e da quanto vedo sembra proprio che le conseguenze possano rivelarsi disastrose.»
«Dio, non vedo l’ora di prenderti a pugni oggi pomeriggio.»
Michael balza in piedi colmando la stanza di una risata complice. Afferra la giacca del collega e gliela getta non appena lo vede alzarsi e recuperare le ultime cose abbandonate sulle lenzuola sfatte.
«Penso che saremo proprio due nemesi perfette.»
«Ci puoi giurare.»
Escono dalla stanza e si affrettano lungo il corridoio, ma prima che Tom possa chiamare l’autista, Michael lo blocca con il tintinnio di un paio di chiavi.
«Amico mio, ho già liberato Tony da tutti i suoi impegni», spiega con un sorriso sornione richiamando l’ascensore.
«Dimmi che non hai comprato una Lamborghini per il tragitto di cinque chilometri che ci divide dagli studios.»
«Ma mi credi così idiota?»
«Devo rispondere sinceramente?»
Le porte dell’ascensore si chiudono alle loro spalle.
«Ho semplicemente noleggiato un gran bel gioiellino per il resto del nostro soggiorno», ribatte scoccandogli un’occhiata soddisfatta mentre si sfila per l’ennesima volta gli occhiali da sole, «sono sicuro che riusciremo a fare colpo almen-»
Un’occhiata truce è più che sufficiente per interromperlo nel bel mezzo delle sue farneticazioni.
«Ok, va bene, tu non devi fare colpo su nessuno, ma io ne ho tutto il diritto e Cristo, un’entrata d’effetto potrebbe seriamente aiutarmi con la costumista dal caschetto biondo», riprende roteando le chiavi con l’indice. Gli lascia una pacca sulla spalla mentre abbandona con lunghe falcate l’ascensore, poi si volta con un ghigno divertito: «Ammettilo, l’hai notata anche tu.»
Sì, l’aveva notata, ma no, non poteva ammetterlo.
Si dirigono verso l’ingresso e l’espressione di Tom si tramuta lentamente in una maschera d’incredulità.
«Non sto realmente guardando una Cadillac del ‘62, vero Michael?»
Lui lo ignora, lasciandosi andare a una sfilza di esclamazioni mentre l’usciere ridacchia divertito.
«Richard, non credi sia di una bellezza quasi commovente?» gli chiede entusiasta mentre si avvicina alla sua nuova bambina e lascia un bacio sul tettuccio lucido.
«Assolutamente sì, signor Fassbender, un vero gioiello.»
Michael punta un dito verso il suo complice con fare soddisfatto: «Tu sì che te ne intendi amico, non come la palla al piede qui accanto.»
Fa un cenno verso Tom, ancora impalato sul grande tappetto dell’ingresso.
Richard trattiene un risolino, per poi salutare educatamente l’altro ospite. Tom, dal canto suo, lo prega di non chiamarlo signor Hiddleston.
«Muoviti manico di scopa! Ho una biondina da conquistare.»
Lo guarda con fare rassegnato e si avvicina all’auto d’epoca, accomodandosi sul sedile del passeggero.
Michael – elettrizzato tanto quanto un bambino ai cancelli di Disneyland – abbandona il viale dell’hotel e si immette nel traffico di Atlanta, diretto agli studios.
«Ah, quasi dimenticavo», abbassa leggermente gli occhiali per lanciare uno sguardo di lato «che mi dicevi su Sherlock?»
Tom tentenna, lasciando che la brezza di metà ottobre entri dal finestrino e lo convinca a lasciar decadere quello stupido discorso. Poi si dice che non ha alcuna importanza, che è una domanda come un’altra e che tanto nemmeno ascolterà gli sproloqui dell’amico.
«Come nomignolo. Che senso ha Sherlock? Perché? Ho l’aria da Sherlock?»
Da quando conosce Michael, pensa di non aver mai avuto l’onore – o la sfortuna – di assistere ad un silenzio tanto assordante.
Continua a guidare con un’indecifrabile smorfia in volto, poi si volta
«Dio, ma chi cazzo è che ti chiama Sherlock? Non dirmi la dama del porcellino d’india e delle tartarughe ninja.»
«Tartarughe di terra», lo corregge appoggiando un gomito sulla portiera e abbandonando il capo sul palmo della mano.
«Appunto.»
 
 
 
Ris non sa cosa sia la sindrome del lunedì mattina. Bruce, al contrario, non perde mai occasione di manifestare apertamente la sua incontenibile insofferenza: una tazza stracolma di caffè amaro, la mezz’ora di religioso silenzio al cospetto di una doppia porzione di uova strapazzate, l’ombra trasandata di un accenno di barba, gli squilli del telefono che non ricevono risposta prima della sua doccia mattutina – bollente, rigorosamente bollente – e un buongiorno senza risposta, a volte ricambiato da un mugugno o da un rigido cenno del capo.
Quel lunedì 23 ottobre, invece, i ruoli s’invertono e Ris si ritrova a studiare il porridge alla cannella che cola dal cucchiaio con l’espressione di un condannato al rogo. È certa che il suo stomaco tenterà in tutti i modi di ricacciarlo su per l’esofago non appena varcherà i cancelli degli studios, costringendola a piegarsi dietro una roulotte non appena Kade proverà a trascinarla baldanzoso verso lo studio 3, elettrizzato all’idea di presentarle il cast.
Valuta la possibilità di rimanere a stomaco vuoto, ma la prospettiva di svenire nel bel mezzo di una dimostrazione, sotto lo sguardo di una qualche damerino hollywoodiano e rischiando che Kade si prenda un infarto, la entusiasma ancora meno di un innocente rigetto al riparo da occhi indiscreti.
Il cappuccio della felpa nera le copre il capo mentre si sforza di mandar giù almeno un paio di cucchiate di porridge. Fa una smorfia di disgusto non appena si accorge di aver utilizzato il latte alla mandorla e di aver evidentemente esagerato con le dosi di cannella.
È appollaiata sullo sgabello dell’angolo cucina, proprio accanto al salottino che né lei né Bruce trovano mai il tempo di sfruttare. La televisione, comunque, non si accenderebbe neanche grazie ad un’intermediazione divina e il divano in pelle bianca – del cui rivestimento rimane ben poco – ha sicuramente conosciuto epoche migliori. Prima che riuscissero a ricavare una piccola camera nell’ex sgabuzzino degli attrezzi da boxe, Ris si era ritrovata a passare le sue notti insonni in compagnia del vecchio divano, procurandosi un mal di schiena cronico che credeva l’avrebbe costretta ad una riabilitazione.
Dalla vetrata che getta sulla palestra ancora deserta Ris si accorge che Bruce non è né nel suo ufficio né impegnato a sistemare le ultime cose per le prime lezioni della mattinata.
Lancia uno sguardo all’orologio appeso alle sue spalle: 9.00
Aggrotta le sopracciglia e si volta verso la porta della camera di Bruce, intercettando proprio nello stesso momento un sorriso smagliante lontano anni luce dal solito malumore del lunedì mattina.
Quando si avvicina le abbassa il cappuccio per stamparle un bacio tra i capelli sciolti e Ris viene travolta dal profumo del dopobarba. Lo guarda sospettosa: la pelle è liscia come quella di un bambino, i lineamenti del viso rilassati, i capelli tirati indietro ordinatamente e c’è qualcosa sul fondo di quello sguardo, un bizzarro luccichio che si sposa alla perfezione con la bocca rosea stampata a mezza luna, incapace di mantenere la solita espressione seriosa.
«Sono le nove», dice semplicemente senza nascondere tutta la perplessità che la disorienta.
Lui si appoggia al bancone, proprio accanto a lei, per preparare le sue preziose miscele proteiche.
Che fine ha fatto la porzione umanamente sconsigliata di caffè?
«Stamattina ho un appuntamento con dei rifornitori per la nuova attrezzatura, quindi ho spostato gli allenamenti al pomeriggio.»
«Devono essere proprio degli ossi duri se pensi di poterli corrompere con un mare di colonia e l’unico paio di pantaloni buoni che ti ritrovi», considera lei con fare vago e un’occhiata di sbieco pregna di sottintesi.
Lui ridacchia e butta giù in un sorso il suo disgustoso beverone.
«Beccato.»
Ris si alza con un sorrisetto vittorioso e getta il resto del porridge.
«Dove la porti prima di andare al tuo famoso appuntamento?»
«In realtà viene anche lei con me.»
«A scegliere sacchi da boxe? Tu sì che hai una visione alternativa del romanticismo.»
Mentre Ris risciacqua scodella e posate, Bruce l’affianca per sottrarle il getto d’acqua.
«Ok, va bene. Non devo incontrare nessun rifornitore.»
Quel sorriso sornione la irrita, e non poco.
«Devo tirare a indovinare o hai intenzione di sputare il rospo?»
Bruce si allontana per recuperare le chiavi della macchina e raccogliere la giacca abbandonata sul bracciolo del divano, poi si volta prima di lasciare l’appartamento: «Lo sai che sono superstizioso. Non dirò nulla fino a che la cosa non andrà in porto.»
Fa per abbassare la maniglia della porta e lasciarla lì impalata, ma si blocca schioccando le dita e puntandola di nuovo: «Quasi dimenticavo: buona fortuna con i damerini.»
Le strizza l’occhio e scompare definitivamente. Ris si affaccia alla vetrata per vederlo scendere i gradini e affrettarsi verso l’ingresso della palestra, lo stesso da cui sbuca improvvisamente la coda alta di Camryn. Bruce si illumina come ogni volta e la accoglie in un bacio mentre lei ridacchia sulle sue labbra.
La cura con cui le accarezza il viso e si perde in quei lineamenti perfetti continua a lasciare un’inspiegabile nota di amarezza nello sguardo di Ris, che ancora non sembra esser riuscita a comprendere la potenza di quei gesti. La avverte chiaramente, quasi dolorosamente, ma i suoi granitici venticinque anni di vita le impediscono di dargli un senso, o almeno uno che vada oltre l’unica realtà che lei sia mai riuscita a conoscere nelle mani e nelle parole d’altri: crudele e spietata avidità. Primordiale. Bestiale.
“Dio, sei così bella”.
Parole che tingono d’amore le attenzioni e le carezze che le capita così spesso di osservare da lontano, intrufolandosi per pochi secondi nelle vite di perfetti sconosciuti e rimanendone inevitabilmente scottata.
Parole che in quel momento, mentre osserva la mano di Bruce poggiarsi sul fiano di Camryn per accompagnarla fuori dalla palestra, le si riversano addosso con la ferocia di un artiglio.
Si appoggia al piano della cucina nel momento in cui sente le ginocchia cedere e la testa iniziare a vorticare.
Le sembra di avvertire un odore familiare, ancora dolorosamente vivo. Quelle parole ne sono pregne, le stesse che, invece, quando abbandonano le labbra di Bruce si tingono di una colonia profumata per avvolgere con dolcezza la sua Camryn.
Quindi perché lei si sente soffocare? Perché le intenzioni di quell’ammissione si macchiano di una sostanza viscida? Perché non riesce a ripulirsene?
Inizia a sudare, una sensazione di nausea la ripiega sul bancone.
No, non può, non più.
La suoneria del telefono le fa sollevare il capo con uno scatto.
Ignorando i brividi di sudore freddo, si catapulta verso il tavolino del salotto, sposta un paio di riviste e recupera il cellulare per rispondere a Kade: la sta aspettando in strada con la sua Ford Bronco.
In una frazione di secondo, Ris viene nuovamente catapultata nella frenesia del suo presente e per la prima volta si ritrova a ringraziare le stupide preoccupazioni che ora la strappano a quelle parole ancora così amare, intinte nel veleno di un lontano passato, ma sempre troppo vicino.
Chiude la telefonata e non si dà il tempo d’interrogarsi oltre, pensa solo a Kade, al borsone abbandonato accanto alla porta d’ingresso, alle chiavi con cui chiudere la palestra, a lasciare una carezza tra il pelo arruffato di Moka, alla voce di Bruno Mars che aleggia nell’abitacolo della Ford Bronco.
Si appoggia con un sospiro al sedile, lasciando che i suoi muscoli si rilassino, che il suo viso si distenda, cullato dai raggi di un sole caldo e gentile.
La voce di Kade – di cui coglie una sottile nota d’agitazione – l’accompagna nel tragitto snocciolando vecchi aneddoti da set che in qualsiasi altro momento le avrebbero fatto storcere il naso, portandola di nuovo a ripetersi che no, lei non è fatta per quell’ambiente, per quel mondo di stelle hollywoodiane.
Tuttavia, si ritrova ad apprezzare il suono della sua risata e le acute esclamazioni quando gli torna alla mente “quella famosa volta in cui…”
Quasi le viene da sorridere. Forse lo è, un pizzico fortunata; o perlomeno le basta crederlo in quel momento. È una sensazione nuova, ma se fosse abbastanza coraggiosa ringrazierebbe di star viaggiando verso i Pinewood Studios di Atlanta, di non trovarsi da sola a vagare nell’appartamento di Bruce, di avere così tanti pensieri e paure per la testa, immensamente piccoli rispetto all’opprimente incombenza di quelle parole nuovamente costrette nei meandri più sommersi dei suoi ricordi.
Si sente quasi invincibile: che sarà mai una routinaria preparazione atletica? Sforzarsi di portare un pizzico in più di pazienza e magari fingere due sorrisi?
È vero, non è per nulla brava a interagire con altri che non siano Kade o Bruce; le situazioni di socialità la mettono a disagio; odia conoscere persone nuove; finisce quasi sempre per simulare la sua rigidità e il suo senso d’inadeguatezza con fare altezzoso e un’espressione seriosa inscalfibile, conquistandosi l’antipatia dei molti. Ma manderà giù tutto, lo farà per il suo lavoro, per rendere fiero Kade, per aiutare Bruce e perché se non avesse le sue arti marziali, i suoi allenamenti sfiancanti e la possibilità di portare il suo corpo fino alle fiamme, sarebbe ancora preda di qualcosa che non solo la spaventa, ma la atterrisce con bestiale prepotenza.
Venti minuti passano più veloci del previsto e gli imponenti studios, immersi in un’immensa distesa verde, appaiono all’orizzonte.
Si avvicinano ai cancelli per le solite procedure di riconoscimento, mettendosi in coda.
Ris abbassa il finestrino e appoggia il braccio sulla portiera, tamburellando le dita in attesa.
Coglie il suo riflesso nello specchietto laterale, per poi alzare un sopracciglio perplessa.
Si volta alla sua sinistra: «Kade, non me ne intendo molto, ma quella dietro di noi non è una Coupe de Ville del ’62?»
Lui lancia un’occhiata allo specchietto retrovisore per poi scoppiare a ridere.
«Oh, adorerai azzuffarti con Michael.»
 
 
 
«Dico solo che potrebbe essere un amico molto intimo, sai, di quel tipo con cui condividi il bagnetto da poppante.»
Michael si umetta le labbra con l’ennesimo caffè della giornata mentre tamburella le dita sul tavolo della mensa e annuisce con lo sguardo perso in un punto indefinito dello stabile.
Tom, seduto di fronte a lui con le braccia incrociate al petto e un cipiglio, pensa che se anche si allontanasse in silenzio, chiedendo al primo estraneo di prendere il suo posto, Michael continuerebbe comunque ad esporre le sue tesi come una mitragliatrice.
È sicuro che al di là di quel paio di occhi color ghiaccio si stia tenendo un vero e proprio comizio – l’arringa finale di un brillante avvocato – ed è anche convinto che stia riscontrando un imbarazzante successo nonostante l’assurdità delle argomentazioni.
«Sì, hai decisamente ragione, non saprei trovare spiegazione più razionale ad un passionale bacio con la lingua.»
Michael gli schiocca un’occhiata scocciata.
La Cadillac Coupe de Ville del ‘62 avrebbe sicuramente fatto il suo figurone, se solo la spavalderia del suo compare non si fosse imbattuta in una costumista dal caschetto biondo disperatamente avvinghiata ad un aitante tecnico delle luci.
Michael schiude le labbra, probabilmente per ribattere con l’ennesima idiozia, ma il suono di un ringhio frustrato e di un vassoio sbattuto poco gentilmente lo blocca con una mano a mezz’aria.
Tom ne è sollevato nonostante il viso di Ana, ora seduta alla destra di Michael, non sembri promettere una conversazione amorevole.
La bocca a cuore è piegata in una smorfia e i capelli mori sono raccolti in una coda a dir poco disordinata.
Si appoggia con un sospiro allo schienale della panca, fissando torva l’insalata al centro del vassoio blu.
«Sono proprio curioso di sapere quale sia la tua temperatura corporea», indaga sarcasticamente Michael, scorrendo lo sguardo sulla tenuta sportiva dell’attrice, evidentemente immune alla brezza di quella mattina.
«Ho appena finito il primo allenamento con la squadra degli stunt», risponde lei afferrando una forchetta in plastica e facendola roteare senza neanche sfiorare il suo piatto, «e penso che non arriverò viva al termine delle riprese. Ringrazio il cielo di potermi risparmiare alcune scene grazie alla mia preziosa controfigura.»
Tom, ormai abituato a lavorare con Kade per le produzioni Marvel, si lascia scappare un sorrisetto in ricordo dell’intensa preparazione atletica a cui si era dovuto sottoporre per costruire finemente il suo compagno d’avventure Loki.
«Te lo concedo, Kade è un osso duro d’altri tempi.»
Lei alza lo sguardo lentamente, per poi ridacchiare sarcastica e puntargli la forchetta: «Oh no, Kade è una dolce creatura celestiale se messo a confronto con la tizia che mi ha letteralmente sfiancata dopo solo dieci minuti dal mio ingresso in palestra.»
«Mh, descrivimela.»
Michael non perde tempo, probabilmente alla disperata ricerca di nuovi impieghi per le entrate d’effetto della sua Cadillac.
«Una macchina da guerra.»
«Intendevo fisicamente.»
Ana alza gli occhi al cielo e lo ignora, poi si rivolge nuovamente a Tom: «Buona fortuna per questo pomeriggio, maledirai di essere stato scelto come protagonista. Ah, e prima o poi ce le daremo di santa ragione.»
Sì, la loro storia d’amore non sarebbe sbocciata prima di una buona ora e mezza di odio reciproco e tentativi di ammazzarsi a vicenda.
Michael sembra pensieroso e Tom è quasi totalmente certo che non abbia nulla a che fare con il timore che la preparazione dei combattimenti scenici possa trasformarlo in un mucchietto d’ossa scricchiolanti.
«Bionda o mora?»
 
 
 
Ris se ne sta supina sul tatami dello studio 3, godendosi il misericordioso silenzio di quei venti minuti di pausa. Segue distrattamente le linee che separano le assi del soffitto e per la prima volta avverte la stanchezza di quella caotica giornata, incapace di impedire ai propri muscoli di rilassarsi e trovare sollievo nella brezza che entra dal portone socchiuso.
Sente le palpebre farsi pesanti e si stupisce di quanto possa essere ipnotizzante perdersi tra le trame di una volta in legno. Tuttavia, la chiamata di Bruce le vortica ancora in testa.
La mano destra poggia sull’addome scoperto, stringendo tra le dita il cellulare che è rimasta a fissare per cinque minuti interi al termine della telefonata.
L’ha chiamata per chiederle a che ora sarebbe tornata a casa e per dirle che l’avrebbe aspettata con una porzione di sushi per quattro persone.
Non lo fa mai.
Da quando l’aspetta per cena? Da quando la chiama a lavoro? Da quando il suo tono si sforza di nascondere qualcosa che cerca evidentemente di straripare? Da quando Ris avverte quel presentimento negativo, come se una serpe si stesse arrampicando silenziosa per colpirla lì dove la carne è più tenera?
Non riesce a lasciarla andare: stringe quella sensazione tra le fauci come un cane rabbioso.
E la frustrazione cresce.
Forse è solo paranoica, forse in quel momento – esausta ad attendere l’ultima sessione di allenamento – è troppo vulnerabile per permettersi certe riflessioni: le cose più insignificanti potrebbero trasformarsi in incubi di fumo e un semplice particolare potrebbe insidiarsi come un parassita sotto la pelle ancora imperlata di sudore.
Vorrebbe solo abbassare le palpebre e lasciarsi cullare dai passi cadenzati dei pochi collaboratori rimasti che le camminano attorno.
Vorrebbe solo che la familiare angoscia annidata tra i polmoni le concedesse una briciola di ossigeno, quel tanto che basta per recuperare una lucidità a cui tenersi aggrappata, sforzandosi di addomesticare la fame che la consumerebbe senza pietà.
Ha bisogno che il suo corpo torni a piegarsi sotto la tirannia degli sforzi a cui lo costringe quotidianamente, che la voce di Kade saturi ogni possibilità di pensare ad altro, che un attore o una nuova controfigura la faccia spazientire, costringendola a ricominciare da zero, a ripetere le stesse sequenze infinite volte, ad impedire che il suo corpo trovi sosta e che l’angoscia torni a farsi viva quando l’acido lattico abbandona i muscoli in fiamme.
«Ris! Lieto di presentarti gli ultimi allievi della giornata.»
E no, Ris non avrebbe mai pensato di ringraziare con sollievo l’ennesima entrata in scena di due novelli combattenti.
 
 
 
«Oh avanti, non sembro un hippy», protesta Kade mentre fa segno a Tom di precederlo all’ingresso dello studio 3.
Michael, invece, si affretta alle loro spalle farfugliando qualcosa sul “fottuto freddo” di quelle sei del pomeriggio.
Non lo vede da circa tre anni – fin dalle riprese del sequel di Thor – e Tom non ha potuto far altro che ironizzare per circa un quarto d’ora sul nuovo aspetto studiatamente trasandato di Kade, lo stesso sbarbatello che gli aveva insegnato a roteare un pugnale senza infilzare accidentalmente nessuno e che non perdeva mai occasione per torturarlo con la storia della discutibile capigliatura di Loki.
«Dico solo che con un bella treccina e un paio di margherite faresti il tuo figurone», rimbecca passandogli una mano con fare amichevole tra i capelli sciolti – perfettamente lisci – che gli arrivano fino alle spalle.  
«La barba comunque è un tocco di classe», lo supporta Michael superandoli con due falcate e stringendo le braccia scoperte attorno al petto.
Kade annuncia la loro entrata con un sorriso smagliante mentre una ragazza poco lontana si alza per andargli incontro.
Tom non è riuscito ad afferrare il nome, forse Vis o Lis.
«Ragazzi, vi presento la mia Lama prediletta», dice Kade aprendo un palmo per indicarla, «Ris, loro sono Tom e Michael. E prima che tu possa lanciarmi un’occhiata furente, aggiungo: Jerome e Maverick.»
Lei si avvicina rivolgendo a Kade un sorriso sghembo e poi fa scorrere lentamente lo sguardo sui due attori, limitandosi a un cenno del capo per entrambi.
Le buone maniere di Tom protestano per quella mancata stretta di mano, ma qualcosa nell’espressione seriosa e nell’atteggiamento sfuggente della ragazza lo costringe a tentennare, per poi decidere semplicemente di lasciar perdere. Le rivolge comunque un mezzo sorriso prima che lei possa voltarsi, intenzionata a seguire la scia di Kade verso il centro della palestra.
Michael, tuttavia, sembra essere di tutt’altro avviso e la blocca allungando un braccio, il palmo aperto: «Piacere di conoscerti, Ris. E non farti ingannare dai quarant’anni, usa pure l’artiglieria pesante: ti lascerò a bocca aperta.»
Tom trattiene una risata quando il sorriso ammiccante dell’amico viene ricambiato da un sopracciglio inarcato e una muta espressione canzonatoria.
Con la mano ancora sospesa a mezz’aria, Michael sembra darsi dell’idiota per la prima volta, insicuro della prossima mossa.
Tom si ritrova ad inclinare leggermente il capo, incuriosito da quello scenario assolutamente inedito.
Ris continua a studiare il gesto con finta espressione pensierosa, per poi concedergli una tregua.
Allunga la mano e la stringe delicatamente: «La mia artiglieria pesante non è per tutti, magari prima riscaldati con l’altro vecchietto laggiù.»
Fa un cenno quasi impercettibile verso Kade e si allontana.
Tom si porta una mano alla bocca per soffocare una risata ed evitare così che l’amico – ancora impalato con il palmo aperto e una smorfia confusa sul volto – possa indispettirsi e colpirlo con un pugno sulla spalla.
Lo supera con una pacca di conforto: «Qualcosa mi dice che ci sarà da divertirsi.»


 
 
 
Rec’s
That’s it: secondo capitolo di una storia che nasce da una mente decisamente fantasiosa e incline a mettere per iscritto bizzarre combinazioni di parole. Perché no, a tenerle nell’intimità delle mie folli elucubrazioni proprio non ci riuscivo.
E quindi eccomi qui a tessere una vera e propria montagna russa che probabilmente verrà filata giusto da me medesima e dallo sguardo assonnato del mio gatto.
Un avvertimento per i preziosi lettori che hanno deciso di dare una chance a questa spirale informe: tendo ad esagerare con il cinismo e la tragicità. Vi chiedo perdono in anticipo.
In ogni caso, ringrazio chi ha dato giusto una sbirciata, chi si è spizzicato anche il resto, chi accoglierà anche ciò che manca.
Ringrazio chi vorrà lasciarmi due paroline, una critica o un’osservazione: tutto sacrosanto e immensa fonte di gioia
Ringrazio chi rimarrà nel silenzio e magari si chiederà cosa succederà nei prossimi episodi.
Alla prossima,
-Rec

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


Capitolo Tre
 
 
 
Erano bastati cinque giorni di allenamento per ricredersi e realizzare che no, non ci sarebbe stato da divertirsi.
Erano bastati cinque giorni di allenamento per rispondere alla videochiamata di Emma con un semplice “ricordi la badante di cui mi parlavi? Possiamo includere nel pacchetto anche un letto ortopedico?”
Erano bastati cinque giorni di allenamento per arrivare ad un passo dalla scorbutica irascibilità del suo amico Sherlock, il fantasma trasandato dei suoi sogni.
Erano bastati cinque giorni di allenamento per scoprire che anche lui era in grado di lasciarsi sfuggire più di un’imprecazione al giorno – per l’esattezza circa una ventina tra le sei e le otto di sera – e di lanciare sguardi torvi ad altri che non fossero il suo riflesso nello specchio (e Michael, con Michael ci è sempre riuscito benissimo).
L’unico motivo per cui Tom non si è ancora arreso all’ipotesi per cui avrebbe fatto meglio ad accettare la parte di un thriller giudiziario è la possibilità di godere, come in quel momento, delle pene del suo collega.
La schermata granitica di Ris non lo inganna: sa perfettamente che in realtà si sta divertendo come non mai a ridurlo in un cumulo di cenere. Non che con lui si sia mai dimostrata più clemente, ma è pronto a scommettere che le battutine e i punzecchiamenti di Michael non le siano particolarmente graditi, così come tutto ciò che non sia un “ciao” senza fronzoli all’inizio e alla fine di ogni sessione.
Ris assomiglia tanto al suo Sherlock, se non fosse per il mutismo perenne che rende ancora più irritante quello sguardo di sufficienza. Non potrebbe immaginarla alle prese con un sermone e una lezioncina morale delirante, ma non fatica a vedere lo stesso disprezzo con cui guarderebbe un paio di coppiette felici e probabilmente il resto degli esseri viventi, fatta eccezione per vegetali e animali. Insomma, chiunque sia in grado di respirare e parlare allo stesso tempo ha la probabilità del 99% di non rientrare nelle sue grazie. Kade, invece, si conquista l’esclusivo 1%.
Non ha ancora trovato spiegazione scientifica sufficientemente sensata, ma è una realtà che difficilmente potrebbe essere confutata, sicuramente non quando l’ormai familiare espressione di immobile sfregio si addolcisce di una luce totalmente inaspettata non appena Kade la coinvolge in uno scambio di battute tra una dimostrazione e l’altra.
Li ha osservati attentamente: quando combattono insieme qualcosa di estremamente lontano dalla Ris che ha conosciuto in quei cinque giorni fa capolino tra le pieghe di una bocca sollevata a mezzaluna. Il suono della sua risata, poi, è così estraneo alla freddezza con cui istruisce Tom durante le sessioni.
Ammette di averle riservato uno sguardo truce più di una volta, di aver trattenuto un paio di maledizioni alla richiesta di ripetere per l’ennesima volta gli stessi movimenti, di aver pensato che se è così frustrante cercare di intrattenere un’innocente conversazione negli sprazzi di respiro, allora non ne vale nemmeno la pena. Riconosce di essersi imposto di essere più stronzo a sua volta e di aver considerato che dev’essere un incubo aver a che fare con lei nella vita di tutti i giorni. Confessa, infine, di essersi sentito un vero infame la maggior parte delle volte e di aver avvertito la pungente inadeguatezza di quelle conclusioni semplicistiche solleticare il suo sesto senso, la sua innata curiosità e la sua cocciutaggine.
Ecco perché Tom – per quanto in certi frangenti lo faccia imbestialire – cerca ancora di strapparle una risata tra un sorso d’acqua e l’altro, di aprire un innocente scambio di battute nelle rare pause concesse, di gettare l’esca per una spiccia conversazione quando entrambi abbandonano lo studio 3, appena prima di imboccare le rispettive strade.
Ecco anche perché Tom non riesce a dire a Jen che quel Sherlock proprio non gli va giù, che non sembra ancora saggio presentarla alla sua famiglia, che forse dovrebbero vedere come vanno le cose prima di prenotare quel mese di vacanza a Malta.
E infine, ecco perché Tom non si è ancora sbarazzato di quel terribile tappeto arancione e verde che lo attende a casa, così come non si è nemmeno minimamente scomposto quando ha scoperto di esser stato tradito. Al contrario, si è colpevolizzato fino a perderci la testa, interrogandosi giorno e notte. Che cosa le aveva fatto mancare? Cosa aveva sbagliato? L’aveva fatta soffrire così tanto da spingerla tra le braccia di uno sconosciuto? L’aveva trascurata? Non le aveva fatto abbastanza regali? La portava fuori a cena troppo poco spesso? Aveva capito che in realtà le stava mentendo e che no, suo fratello proprio non riusciva a sopportarlo? Perché sì, le colpe non potevano che essere sue e no, non aveva il diritto di incazzarsi per le sue stesse mancanze. Forse lo meritava. Doveva essere più dolce, più romantico, più intraprendente, più gentiluomo. Semplicemente: più.
Quando Michael termina con una precisione a dir poco micidiale gli ultimi passaggi, finendo per bloccare Ris tra la parete e un’asta di legno, Tom lo vede scalpitare in attesa che lei gli conceda almeno un cenno di approvazione.
Illuso.
Inaspettatamente, Ris alza gli occhi al cielo e prima di appoggiare una mano sul petto dell’avversario e farlo indietreggiare, si lascia scappare un risolino per poi cercare di incastrarlo nuovamente tra le labbra.
Michael sorride compiaciuto e si allontana per esibirsi in un ridicolo balletto. Ris, ovviamente, lo ignora.
Tom realizza che è giunto il momento della sua tortura quotidiana e balza giù dal materasso delle cadute, aspettando con una smorfia esasperata che Michael termini di pavoneggiarsi e abbandoni il tatami dello studio 3.
«Bambi, ammettilo, sono stato divino.»
Sì, Michael la chiama Bambi: dice che ha gli occhi da cerbiatto
«Di divino trovo solo la tua ingenua convinzione.»
Tom trova che sarebbe più appropriato Bagheera: quelli sono decisamente gli occhi della pantera che si è mangiata il cerbiatto per colazione.
«Stasera sei più tagliente del solito.»
Michael si avvicina a Tom e recupera una bottiglia d’acqua dal suo borsone.
«Vedi allora di portarti garze e cerotti per le prossime volte.»
Sì, i resti di Bambi sono ancora ben visibili tra le fauci insanguinate.
Insomma, come può essere un cucciolo di cerbiatto? La verità è che lei non è Bambi, tanto quanto lui sa di non essere Sherlock.
Forse lo dirà a Jen. No, meglio di no. È solo una fase.
Michael alza le mani in segno di resa.
«Ragazzi, vi abbandono al vostro allenamento», dice poi caricandosi il borsone in spalla e puntando un dito verso Ris, «e vacci piano con Tom qui, che è gracilino e ha il cuore tenero.»
Tom, per tutta risposta, fa appena in tempo a raccogliere l’asta in legno per colpirlo sul braccio.
Lui si limita ad un sorrisetto sghembo, gli strizza l’occhio e si allontana baldanzoso.
«Oh avanti, neanche mi difendi», contesta Tom rivolgendosi a Ris, seduta a terra accanto a lui. La guarda dall’alto e incrocia le braccia al petto quando realizza che lo ignorerà anche in quel frangente.
Si leva la felpa con tutta la calma del mondo, allaccia nuovamente i capelli in una coda bassa, si versa dell’acqua nel palmo della mano e si bagna il viso. Alcune gocce tracciano una scia che le scorre lungo il collo, sfiora le clavicole e viene assorbita dal tessuto del top sportivo che indossa.
Tom ancora attende una risposta, un minimo di considerazione, ma si riscopre solo nuovamente indispettito.
«Andiamo», ordina asciutta lei, alzandosi e volgendogli le spalle.
Ok, al diavolo le buone maniere e al diavolo la sua cocciutaggine, la sua smisurata pazienza e la sua ingiustificata comprensione. Che la sua benedetta anima caritatevole si prenda due ore di vacanza.
La raggiunge senza preoccuparsi di lasciar trasparire tutta l’ostilità di cui è capace.
Nonostante si ritrovi in un campo di battaglia totalmente inesplorato, decide che giocherà con le sue stesse carte. Sì, Tom Hiddleston sta per mettere al bando tutto ciò che di Tom Hiddleston si è sempre tenuto stretto: una scaletta di spunte ordinata, rigida e tremendamente confortevole.
«Se devo prendere appuntamento per poter ricevere una risposta magari avvertimi», sibila raggiungendola al centro del quadrante.
Lei lo guarda realmente per la prima volta, forse sorpresa da quell’improvviso guizzo poco gentleman londinese. Le lunghe ciglia sono ancora inumidite e le labbra carnose lucide, rianimate da un rosa intenso che contrasta con il pallore del volto.
Ris si limita semplicemente ad alzare entrambe le sopracciglia nell’ennesima espressione di sufficienza.
«Ripassiamo la prima parte dello scontro con Ana, poi-»
«Avanti, ora mi stai prendendo in giro.»
E in realtà Tom sa perfettamente che non è così. Ris ha venticinque anni e si comporta come un’adolescente perennemente frustrata e inspiegabilmente infuriata con un mondo già sentenziato e condannato, come se poi avesse realmente i motivi per quell’inscalfibile stronzaggine. Cristo, è solo una bambina maleducata e questa volta Tom non si accuserà di essere superficiale o infame: Ris è così e basta, e in quel momento non ha tempo, forza o motivi per cercare spiegazioni alternative.
Forse è ora di dare una possibilità al cappotto lurido del suo Sherlock onirico e sfilare per una tribuna di specchi con la sfrontatezza che non si è mai concesso: se solo non fosse per le toppe e i residui di foglie autunnali, probabilmente si rivelerebbe persino un ottimo acquisto.
Ris si allontana trattenendo un sospiro e recupera i prototipi di due pugnali.
Gliene porge uno e lui rimane a braccia incrociate, impedendosi di cedere.
«Allora? Non mi sembra sia arrivata voce di nessun appuntamento, quindi perché ti stupisci? Mi stupisco io, che già ho perso quindici minuti del nostro allenamento per questo teatrino», rimbecca indispettita.
Lui si apre in un sorriso incredulo, passandosi la lingua sul labbro inferiore e distogliendo lo sguardo per sventare ogni rischio di piantarla lì e tornarsene in hotel.
Afferra il pugnale e si mette in posizione.
Che sia così allora: un “ciao” senza fronzoli all’inizio e al termine di ogni sessione, un religioso silenzio intervallato dalle solite istruzioni e poi via, ognuno per la sua strada.
Iniziano con la sequenza che Tom ormai conosce a memoria e che Ris, tuttavia, gli farà ripetere fino all’esaurimento.
Si susseguono affondi, salti, torsioni e prese in un loop infinito.
Tom, per la prima volta, sporca i movimenti a causa della stizza che ancora lo infiamma, incapace di mantenere l’impeccabile linea delle altre volte. Tuttavia, si riscopre perfettamente concentrato: non gli sfugge alcun passaggio, tiene il ritmo senza apparente difficoltà e Ris non lo corregge mezza volta.
Alla fine, comunque, si ritrova con le spalle a terra, preso totalmente alla sprovvista.
Quello scontro non dovrebbe terminare in quel modo: la scena prevede che Jerome blocchi a terra Ivory – interpretata da Ana – puntandole un pugnale alla gola e soffiandole a due centimetri dal volto tutto il suo disprezzo.
Allora perché Ris è a cavalcioni su di lui e gli blocca le spalle a terra con entrambe le mani?
Non può letteralmente muoversi.
La confusione dei primi secondi non perde tempo a lasciare che sia uno sguardo furente a prendere le redini della situazione.
Ris si limita semplicemente a scuotere la testa con un sorrisetto compiaciuto in volto: «Finalmente. Ci voleva così tanto?»
Ok, forse è meglio chiamare nuovamente a rapporto un cipiglio di legittima perplessità.
«Da giorni ti ripeto che i tuoi movimenti sono troppo gentili e puliti. Non m’importa che impariate a memoria ogni sequenza come perfetti e diligenti soldatini. Jerome è una macchina da guerra letale e precisa, ma fottutamente tormentata, e tu dovresti saperlo meglio di me. Questi sono i colpi che voglio vedere, gli affondi e l’avventatezza di Jerome», spiega sollevando lentamente le mani e lasciando libera la parte superiore del suo corpo, «quindi, accetta un consiglio: lascia andare il tuo Hiddleston patinato e inizia a farti un giro con quel Tom decisamente incazzoso lì nascosto.»
Tom è talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a muoversi o a notare che la giustificazione di una presa scenica è ormai evaporata dalla realtà di quella posizione compromettente.
Ha un Hiddleston patinato? Un Hiddleston di fumo? Un Hiddleston che lo sta prendendo in giro con lustrini e scarpe lucide? E dov’è Tom? Non è sempre stato lì?
«Quindi il tuo essere stronza ha uno scopo?»
«No, lo sono e basta. M’interessa solo fare il mio lavoro, con quale mezzo non mi sfiora. A quanto pare il mio carattere t’indispettisce: meglio così. Non è un peccato, perché nasconderlo? Portalo negli allenamenti, fammi vedere uno che combatte e sa di combattere e lascia Hiddleston fuori dal portone: non me ne faccio nulla di gentilezza e guanti di seta. Quelli riservali per accompagnare un’attrice o una modella a cena», risponde liberandolo e alzandosi in piedi, si allontana per afferrare la bottiglietta di Tom e lanciargliela, «con Ris usa tutta l’incazzatura di cui hai bisogno, sporca le tue buone maniere e sii spietatamente sincero.»
 
 
 
Kade afferra una mela dal buffet e la osserva attentamente, rigirandosela tra le dita per quasi un minuto intero. La riappoggia nel cesto e ne afferra un’altra con aria frustrata.
Ris, immobile accanto a lui e un vassoio ormai colmo tra le mani, lo osserva silenziosa con la bocca leggermente schiusa, quel tanto per lasciar trasparire la giusta dose d’incredulità al cospetto di un’operazione certosina assolutamente ridicola.
Scuote la testa e si siede al primo tavolo disponibile, proprio alle loro spalle.
Sono le due e mezza del pomeriggio e lo stabile è abbastanza vuoto da permettere a Ris di infilare qualcosa nello stomaco senza subire l’assedio della caotica pausa pranzo.
«Kade, non hai un incontro con i produttori?», farfuglia lanciandogli un’occhiata di sottecchi.
«Proprio così»
«Pensi di riuscire a trovare la mela perfetta prima di dover sfrecciare via con lo stomaco vuoto?»
Lui si volta appena.
«Senti, non ho nemmeno il tempo per un pranzo completo, non pensi che sia mio diritto assicurarmi almeno la mela più buona del buffet? Se non dell’intero stato della Georgia?»
Con la forchetta e il riso a mezz’aria, Ris decide che non potrebbe capitarle momento più propizio per la sua proverbiale “faccia da prendere a schiaffi”.
Kade si siede finalmente di fronte a lei, probabilmente non ancora del tutto convinto.
«Tornerò più o meno per le quattro», considera dopo il primo morso, «daresti una mano ai ragazzi per la scena nell’ascensore di Ana? Sai, con così tanti stunt si creerebbe un casino se si saltasse anche il minimo passaggio.»
Lei annuisce, realizzando di avere mezz’ora di tempo per riuscire a finire quell’insipido piatto di riso bianco – e le insulse carote di contorno che Kade le ha indebitamente imposto –, raggiungere la parte opposta del campus, cambiarsi e sperare di non rigettare il pranzo nella fretta.
«Kade, quasi dimenticavo», comincia afferrando la bottiglietta d’acqua e mandandone giù un sorso, «sarebbe un problema se stasera finissi la sessione di allenamento con Hiddleston mezz’ora prima?»
Lui fa un semplice cenno mentre addenta nuovamente la mela prescelta, suggerendole che può tranquillamente gestirsi come preferisce.
Tutto quel potere decisionale inizia a piacerle.
«Appuntamento galante?» chiede poi Kade con un sorrisetto ammiccante.
Ris avverte la solita sensazione di disagio che le striscia sottopelle quando Kade indaga bonariamente sulla sua vita privata. Non si stupirebbe se un giorno – in un futuro distopico – le chiedesse di farle da testimone o da padrino per il suo primogenito.
Ma a Ris non interessa coltivare una vita privata, o semplicemente una vita oltre il suo lavoro, le arti marziali, la palestra e Bruce. In realtà non è nemmeno questione di interesse: sa solo di non poter nulla contro il naturale rifiuto che ancora le scava lo stomaco o la sensazione di nausea che prelude le antiche e familiari vertigini. E ciò che la imbestialisce di più è l’incapacità di gestire quei frangenti di accidentale vulnerabilità, il velo di nebbia che si allunga per avvolgere il gracile lume di lucidità, il freddo controllo che inizia a vacillare e le mani sporche di nero petrolio che tastano il terreno alla ricerca delle redini della sua razionalità ammaccata.
Quella semplice domanda le incastra il fiato in gola e lo stomaco si chiude dolorosamente, costringendola ad abbandonare la forchetta nel piatto ancora pieno.
Prende altri due sorsi d’acqua, nel tentativo di evitare l’esplosione.
«In realtà Bruce mi ha chiesto di sostituirlo nella prima lezione di una nuova allieva.»
Guarda altrove mentre snocciola quella risposta con voce quasi metallica.
Afferra un punto qualsiasi, un colore, un movimento e stringilo tra i denti. Non lasciarlo andare. Rimani qui.
«Questo sì che è il sabato sera di una venticinquenne», risponde sarcasticamente Kade mentre Ris cerca di riappropriarsi di quel presente.
Non perderti, non di nuovo. Rimani qui.
«Tom!» esclama all’improvviso Kade alzando un braccio per farsi notare.
Pochi secondi dopo Ris percepisce uno spostamento d’aria alla sua destra e viene superata dall’attore, che si affianca al suo mentore salutandolo con una presa amichevole.
Lei si concentra su quello scambio, impedendo a sé stessa di correre in una qualsiasi voragine della sua mente. Percepisce del sudore freddo scorrerle alla base della schiena e capisce di dover fermare il prima possibile quella lenta discesa infernale.
Prende dei respiri profondi mentre i due continuano a chiacchierare amabilmente e poi si sforza di studiare i particolari di ciò che la circonda, ingannando il bussare concitato di un passato corrotto che ne richiama a gran voce l’attenzione. Si sofferma sulla barba corta e perfettamente definita di Kade, sul profilo parzialmente nascosto dai capelli corvini sciolti, sulle dita curate di Tom che stringono la sua spalla, sugli intrecci del maglione nero che indossa, sui lineamenti affilati e al tempo stesso dolci e gentili dell’attore, sulle fossette che fanno capolino agli angoli della bocca sottile e sulle ciglia lunghe che ne sfiorano gli zigomi.
Inizia a pensare al colore dei capelli di Tom, di un biondo scuro e insospettabili riflessi rossicci.
Il respiro comincia a rallentare la corsa, la nebbia a diradarsi e la morsa di una profonda angoscia ritrarsi lentamente dall’affondo.
Socchiude leggermente gli occhi e prende un altro sorso d’acqua, nonostante l’unica cosa che vorrebbe realmente fare è versarsi il poco che avanza sul volto, impiastrandosi anche il colletto del maglioncino.
«Immagino per te non sia un problema», esordisce Kade avvolgendo ciò che resta della mela in un tovagliolo, «ma stasera Ris non può rimanere fino alle otto, quindi finirete l’allenamento mezz’ora prima. Direi un sabato sera fortunato per tutti.»
Tom alza lo sguardo su Ris e le rivolge un sorriso gentile, per poi dare una pacca sulla spalla di Kade: «Le mie ossa stanno già esultando dalla gioia.»
Kade batte una volta le mani e si alza con uno scatto, centrando poi con un lancio perfetto il cestino a due metri di distanza.
Quella mela non l’aveva entusiasmato per nulla e Ris se n’era accorta ancora al secondo morso.
«Bene ragazzi, vi abbandono e volo all’ennesimo appuntamento che non avrà né capo né coda.»
Tom gli fa spazio per uscire e Kade schiocca le dita per puntare poi l’indice verso Ris: «Mi raccomando con la scena di Ana, bacchetta sia Marcus che Ben se tralasciano qualsiasi particolare.»
Poi il suo sguardo si addolcisce – come ogni volta in cui viene solleticato dall’inspiegabile fragilità che sembra avvolgere la sua Lama quando nessun tatami le fa da palcoscenico – e le si avvicina per lasciarle un bacio sulla fronte e scompigliarle i capelli.
Ris rimane per un attimo interdetta, decisamente poco avvezza a quelle imprevedibili dimostrazioni d’affetto, ma si sente stranamente sollevata, come se il segno di quelle labbra l’avesse definitivamente sottratta ai rami spogli della sua selva oscura.
Sorride senza nemmeno rendersene conto, senza nemmeno far caso alla presenza che ancora sosta a un passo da lei. Coglie, tuttavia, lo spostamento che le permette di tornare a quel tavolo, al vassoio ancora pieno, alle carote che probabilmente getterà, all’attore che ora le siede di fronte a braccia incrociate.
Sul suo volto nessuna traccia di ostilità, nessun accenno della stessa frustrazione che la sera precedente le aveva permesso di fare la conoscenza di un Tom un pochino meno Hiddleston.
«Non sei obbligato a restare», dice semplicemente riprendendo la forchetta in mano.
«Lo so.»
Trattiene uno sbuffo e ricomincia a mangiare in silenzio.
Nonostante sia spaventosamente abile a fingere insondabile indifferenza, Ris non è ancora riuscita a prendere le misure con gli imprevisti di quella sua seconda esistenza. In particolare, con tutto ciò che sfugge alle corde di un ring, alle pareti di un Dojo, al tatami di uno studio. Proprio come Tom, che in quel momento sfida i suoi rigidi schemi e le uniche tracce che le impediscono di fare passi falsi.
La verità è che non si sente sicura nelle circostanze di normale quotidianità, che ancora incede cauta credendo di trovarsi in un capo minato. E vorrebbe le sue armi, nonostante nessuno penserebbe mai di doversi difendere in un territorio così neutro. Lei, invece, ne è terrorizzata.
Non sa gestire il silenzio che si viene a creare, la presenza per lei ancora troppo estranea che la osserva in tutta tranquillità, probabilmente alla ricerca di una scusa qualsiasi per fare conversazione. Non sa quello che dovrebbe fare, non sa che cosa si aspetta che dica, sa solo che si limiterà ad immaginare, come sempre, di trovarsi da sola.
Da ormai minuti non fa che giocherellare con la forchetta nel tentativo di dare almeno una possibilità alle carote condite; ogni volta cambia idea e torna sul riso.
«Sto per farti una domanda e questa volta pretendo una risposta», premette Tom allungando le gambe sotto il tavolo e mettendosi più comodo. Sfiora Ris per caso e in un riflesso ormai incondizionato, tanto vecchio da iniziare ad ospitare la prima ruggine, Ris si scosta appena. Continua comunque a mantenere il capo chino e a fingere noncuranza.
«Per quale maledettissimo motivo ti sei presa le carote se ti fanno evidentemente schifo?»
Lei alza di scatto lo sguardo e, nonostante cerchi di trattenersi, Tom inizia a ridere passandosi una mano sul volto e accarezzando l’accenno di cortissima barba.
«Kade mi ha obbligato», inizia a spiegare Ris in un sospiro e incrociando lo sguardo cristallino dell’attore, «ha un istinto paterno spaventosamente spiccato che non può sfogare su altri se non sulla sottoscritta.»
Lui inclina di poco il capo, studiandola e lasciandosi scappare un sorriso che sembra persino intenerito.
Lei alza le sopracciglia e indietreggia con il busto, quasi indispettita da quell’inaspettata attenzione: la sua “faccia da prendere a schiaffi” è abituata a ben altre reazioni.
Tom fa scorrere lo sguardo sul buffet dell’area ristoro e poi si alza di scatto. Per un momento Ris spera che se ne stia andando, ma si ricrede dopo nemmeno dieci secondi. Sempre Tom, sempre seduto di fronte a lei, sempre un sorrisetto incorniciato da un paio di fossette, ma questa volta una forchetta di plastica tra le dita.
«Mi aspetto un briciolo in meno d’acidità e di bruta intransigenza per questa sera», dice semplicemente prendendole la ciotola di carote e avvicinandosela.
Le strizza l’occhio e si lascia scappare un risolino prima di dedicarsi al suo secondo pranzo.
Ris continua a fissarlo con la forchetta a mezz’aria.
Lui intercetta il suo sguardo un paio di volte, per poi alzare gli occhi al cielo e puntarle la posata con fare minatorio: «Il riso non te lo finisco, sappilo.»
 
 
 
Si lascia cullare dal getto dell’acqua con gli occhi chiusi, passandosi per l’ennesima volta lo shampoo tra i capelli e beandosi del calore che avvolge con dolcezza i muscoli ancora indolenziti.
Preme la fronte alle piastrelle bianche della doccia e promette di concedersi solo altri due minuti.
Un paio d’ore prima Ris si era rivelata micidiale come sempre, disintegrando fin dal primo istante le speranze di averla addolcita. Si era limitata a concedergli giusto una pausa in più, cinque miseri minuti in cui si era sdraiato prono con braccia e gambe spalancate, mormorando un “ti odio” tra un respiro affannato e l’altro. Quelle carote se le sarebbe legate al dito.
Ris l’aveva semplicemente ignorato e lui aveva sbuffato sonoramente, lanciandole un’occhiata scocciata dal basso. Lei, in risposta, aveva tenuto testa al suo sguardo senza la minima difficolta, giocherellando al tempo stesso con la bottiglietta d’acqua ormai vuota. I cinque minuti si erano trasformati in sei solo perché nessuno dei due sembrava voler cedere e Tom si era accorto per la prima volta di quanto i suoi occhi potessero essere spaventosamente brillanti nella penombra dello studio 3, illuminato solo da qualche sporadico faro artificiale. Allo scoccare del sesto minuto, a dir la verità, la sua occhiata si era lentamente spogliata di quella rigida ostilità, lasciando spazio alla sola curiosità. Nello sguardo di Ris era riuscito a cogliere un’ombra che non aveva nulla a che fare con la stanchezza della giornata ormai volta al termine, una coltre di nebbia che per quanto inafferrabile era riuscita a scottarlo.
Avrebbe protratto quel muto scambio oltre lo scadere del sesto minuto, ma Ris, intransigente come al solito, gli aveva rimbeccato di essere pateticamente pigro.
L’acqua che scivola sulle spalle si è ormai fatta tiepida e Tom si riscuote, spegne il getto ed esce dalla doccia per avvolgere un asciugamano attorno ai fianchi.
Si guarda allo specchio poggiando le mani ancora gocciolanti ai lati del lavabo.
È a dir poco stravolto e pensa che potrebbe addormentarsi anche in quella posizione.
Si ripete che sono solo gli allenamenti e che non sono i suoi trentaquattro anni a rallentarlo. Insomma, non può davvero considerarsi vecchio, ha ancora tutta la vita davanti e circa un lustro prima di raggiungere i famosi quaranta. Può temporeggiare ancora un po’ prima di iniziare a dubitare di essere in ritardo sulla tabella di marcia.
Qual è l’età media per il matrimonio? E il primo pargolo quando arriva? E se fosse proprio questo il momento giusto per tutto? Quindi dev’essere Jen la donna della sua vita? Ma la frequenta solo da tre mesi, come può esserne certo? Forse queste cose si sentono. Lui le sente? Sono domande da farsi in maniera così esplicita?
Riserva un ultimo sguardo al suo riflesso e non ha la minima difficoltà a scorgere quella sensazione angosciante strisciargli sulla pelle, proprio all’altezza del petto ancora bagnato.
Il suo volto gocciolante viene attraversato da un guizzo non appena lo raggiunge un suono ancora indefinito dalla camera da letto. Esce dal bagno mentre friziona i capelli con un asciugamano e lo schermo del pc gli restituisce l’immagine di una videochiamata in entrata: è Jen.
Aggrotta le sopracciglia e lancia uno sguardo all’orologio appeso sopra la scrivania: sono le dieci e mezza e a Londra dovrebbero essere le tre e mezza di domenica mattina.
Si siede e quando accetta la chiamata finisce di asciugarsi come meglio può.
Prima ancora di vedere il volto della ragazza, sente la sua risata risvegliare delle note familiari.
Tom sorride ancora nascosto dai movimenti frenetici dell’asciugamano e poi lo abbandona sul letto alle sue spalle. La stanza è illuminata solo dalla fioca luce che proviene dal comodino su cui ha posato portafogli, cellulare e occhiali da sole al rientro dagli studios. Atlanta, oltre la vetrata alla sua sinistra, si staglia nell’oscurità rivestita da un luccicante abito da sera, di quelli eleganti che le celebrità indossano alle premier.
«Ho interrotto un momento d’intimità?» chiede Jen con una punta di sarcasmo. Tom si perde per un attimo a guardarla e realizza quanto non sia mai stato in grado di comprendere realmente la bellezza sconvolgente di quella donna. Persino in quel momento, incorniciata da una chioma biondo cenere leggermente arruffata, gli occhi assonnati, la carnagione pallida senza un filo di trucco, gli occhi grigi dai riflessi verde smeraldino, la bocca a cuore e un sorriso da far bloccare il respiro a qualsiasi uomo o donna.
Tom sa che se fosse con lei bacerebbe ogni centimetro di quel corpo che non può esser altro che di origine celestiale.
«Hai solo impedito che mi addormentassi sotto il getto della doccia», risponde passandosi entrambe le mani sul volto evidentemente provato.
«Stai invecchiando Sherlock.»
Proprio quello che gli serviva: la conferma di non essere più un giovane sfrontatello e la prova che la “fase Sherlock” gli avrebbe dato ancora filo da torcere. Le sue labbra si piegherebbero automaticamente in una smorfia, ma non può permettersi di farlo sotto gli occhi vigili di Jen.
«Credimi, anche Bruce Lee rimarrebbe sconvolto da un tête-à-tête con Ris», ribatte lui distogliendo per un attimo lo sguardo dal caldo sorriso di Jen e lasciando che l’espressione perennemente sfrontata di Ris si faccia spazio tra i ricordi di quella giornata. Non sa perché, ma mentre fissa un punto indefinito della scrivania, inizia a ridere di gusto. Quella sera l’aveva bacchettato anche più delle altre volte e lui, da perfetto idiota, se n’era uscito con la minaccia di confessare a Kade che la sua beniamina l’aveva costretto a mangiarsi tutta la sua dose di verdura. Lei non si era quindi lasciata scappare l’occasione di ricordargli chi dei due aveva il coltello dalla parte del manico: stravolgendo nuovamente l’ennesima sequenza, se n’era infischiata della logica prevista dalla scena e l’aveva bloccato terra con un ginocchio premuto tra le scapole e le braccia dolorosamente incrociate alla base della schiena. Lui non l’aveva vista, ma Ris aveva soffocato un sorriso prima di liberarlo.
«Ris?»
Tom alza nuovamente lo sguardo sullo schermo: «Uhm, sì, è lei con cui svolgo gran parte della preparazione atletica. Ed è un’inarrestabile macchina da guerra.»
«Mh, potrei farmi insegnare qualche trucchetto per i giorni in cui mi fai imbestialire», risponde con finto tono pensieroso.
«Ah sì? E quando mai accadrebbe?»
Lei ridacchia passandosi le dita tra i lunghi capelli biondi: «Hai ragione, neanche impegnandoti ci riusciresti. Ti ho mai detto che sei perfetto?»
Mille ed infinite volte. Ad ogni sorpresa, ad ogni cena elegante, ad ogni colazione della domenica mattina.
Jen l’ha sempre guardato con lo sguardo con cui si ammira il passaggio di un cavaliere senza macchia, un impeccabile gentleman londinese, un cortese ed affascinante Sherlock.
E Tom, per quanto s’impunti a rasentare proprio quella stessa perfezione, ancora percepisce un’incomprensibile nota amara, come se ci fosse qualcosa fuori posto, come se a gettare ombra su quella strada patinata fossero i rami spogli di un paesaggio desolato.
Ma lei appare così serena mentre lo guarda con quei due occhioni assonnati, quindi cosa può esserci di sbagliato? Significa che è sempre riuscito a renderla felice, a regalarle tutto ciò che le sarebbe piaciuto ricevere, a mascherare con abile maestria le sue giornate no, a spezzare con un sorriso e un complimento farfugliato le sue sciocche e insensate frustrazioni, le stesse che ancora gli capita di avvertire prepotentemente sulla soglia delle ciglia. Lei non se ne accorge mai e comunque lui è troppo bravo a tessere espressioni rassicuranti e a spostare il discorso su di lei, su quanto sia bella, su quanto le stia bene quel vestito, su quanto gli sia piaciuto il suo ultimo articolo, su quanto sia brava a cucinare, su quanti cuori spezzerebbe sfilando su un red carpet.
E quindi chi è l’uomo perfetto che Jen si sente così fortunata a chiamare Sherlock, assicurandosi che sia solo una cosa sua, la prova di una storia da romanzo? È Tom o l’Hiddleston dei lustrini e delle scarpe lucide da cui l’aveva messo in guardia Ris?
Ris, che gli ha imposto di liberarsi di quell’elegante abito da sera e sporcarsi la camicia, accogliendo con fredda professionalità quei suoi incomprensibili momenti di stizza, così estranei al di fuori dello studio 3.
Da dove vengono poi? Tom? Jerome? Hiddleston?
Cristo, sono le undici di sera e non dovrebbe far altro che perdersi tra le pagliuzze grigio-verdi di Jen e riempirla di parole dolci e confessioni poco innocenti. Come può essere degno di così tanta bellezza se non sembra nemmeno in grado di apprezzarla realmente? Se riesce a ricambiarla soltanto con deliranti paranoie e crisi identitarie?
E Jen non le merita quelle folli elucubrazioni, quella sua espressione corrucciata e gli insulsi sospetti insediati da una ragazza di venticinque anni che odia il mondo e che, alla fin fine, conosce solo da una settimana.
Meglio sorriderle e chiederle per quale motivo sia sveglia alle tre e mezza della mattina.
Meglio mordersi il labbro e chinare il capo alla ricerca delle parole giuste quando risponde che non riusciva a dormire perché il sabato sera è abituata ad addormentarsi tra le sue braccia.
Meglio dirle che ha in serbo una sorpresa per lei, senza preoccuparsi di esserselo inventato giusto per uscire dall’imbarazzo.
Meglio nascondere i sensi di colpa quando Tom realizza di non ricordare il profumo delle lenzuola in cui si è più volte svegliato con il capo di Jen sul petto.
Meglio ignorare quella fastidiosa sensazione di inadeguatezza quando lei accenna al pranzo per fargli conoscere sua sorella.
Meglio rispondere che sì, continua a pensare alla loro vacanza a Malta.
Meglio dire che il giorno dopo dovrà svegliarsi alle cinque e che è meglio anche per lei che torni a prendere un po’ di sonno.
Meglio ripeterle che vorrebbe continuare a parlare fino all’alba e che probabilmente la chiamerà il giorno dopo a pranzo.
Decisamente meglio quando abbassa lo schermo del computer e sente di aver spuntato tutte le caselle del suo rigido protocollo.
Decisamente meglio quando quattro gocce di valeriana lo aiutano a prendere sonno prima che qualcosa di vivo inizi a graffiare le lucide e dorate difese del suo personaggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Capitolo Quattro

 
 
Michael si vanta di essere l’uomo delle brillanti illuminazioni, dei “più tardi mi ringrazierete”, il genio blu della lampada e il pepe del mondo.
Ana e Tom – due tristi porzioni di pancake e un paio di tazze stracolme di caffè amaro – pensano, invece, che sia solo il demone della perdizione: meno poeticamente, l’uomo delle pessime idee.
Si guardano con occhi stanchi mentre versano in sincronia un velo di sciroppo d’acero e capiscono di essere entrambi concordi: così come i neonati e le prese di corrente, Michael e la sua Cadillac del ’62 non devono più avvicinarsi ad un locale di Atlanta per nessuna ragione al mondo. Soprattutto la domenica sera, soprattutto dopo aver coinvolto con l’inganno due anime innocenti che non avrebbe desiderato altro che celebrare la propria domenica notte nelle rispettive camere d’hotel, eccitati alla sola idea di addormentarsi con la televisione accesa e un paio di puntate di Seinfield come ninna nanna.
Sono le sette della mattina e il salone della colazione è pressoché deserto, se non fosse per le prime coppiette d’anziani che si osservano circospette attorno al buffet.  
Ana e Tom siedono scomposti al solito tavolino, nascosto dall’ormai familiare filodendro e sfiorato con gentilezza dalle prime luci dell’alba che filtrano dalla vetrata accanto.
Da venti minuti si limitano ad ammirare in silenzio la loro colazione, combattendo la pesantezza delle palpebre e il fantasma della musica assordante che ancora li tiene ostaggio.
Probabilmente Michael non si sveglierà per altre quattro ore e sempre molto probabilmente Tom dovrà inventarsi una banalissima scusa non appena varcherà le soglie del set, nell’ingenuo tentativo di coprire una sbronza che a quarant’anni deve sicuramente avere delle ripercussioni difficili da smaltire.
Il capo di Ana è leggermente inclinato, come se non avesse nemmeno la forza di mantenerlo ritto; Tom, dal canto suo, è a un passo dall’addormentarsi sul palmo della sua stessa mano, ormai prossimo a cedere sotto il peso di una notte derubata di ogni possibile briciola di sonno.
«Pensi che dovremmo controllare come sta?» domanda Ana con voce impastata, senza staccare gli occhi dallo sciroppo d’acero che abbandona lentamente i suoi pancake per accumularsi nel piatto assumendo le sembianze di uno stagno paludoso.
Tom si limita a lanciare un’occhiata pregna di sottintesi: dopo aver coperto con maestria il suo stato delirante da un branco di paparazzi e avergli impedito di pagare da bare all’intera squadra dei Falcons Atlanta per la quarta volta di fila, possono pure concedersi di lasciare che Michael se lo gestisca dal solo il risveglio della vergogna.
Ana si limita a fare un cenno di assenso, sospirando all’idea di dover affrontare un’intera giornata di riprese, prove costumi e sfiancante preparazione atletica consapevole di non aver nemmeno l’energia per sollevare la tazza di caffè.
Fare da babysitter a Michael si era rivelata l’impresa più ardua che entrambi avessero mai intrapreso: Tom non si sarebbe dimenticato tanto facilmente la sensazione di assoluta impotenza nel vedere quel metro e ottantatré di sprovveduta avventatezza arrampicarsi goffamente sul bancone dell’ennesimo locale trascinato dal capitano della squadra di football solo per supplicare la barista di concedergli un tango.
«Non ho il coraggio di aprire il mio account twitter», riprende Ana in una smorfia disgustata. Il telefono di entrambi è rivolto con lo schermo verso il basso, accanto alla piantina decorativa del centro tavola, ma nessuno dei due è in grado di ignorare il bagliore blu delle miriadi di notifiche che si riflette tenuamente sulla tovaglia bianca.
«Probabilmente circoleranno solo video e foto discutibili di Michael», considera lucidamente Tom prendendo un sorso di caffè, «penso che a quest’ora metà popolazione di Atlanta avrà pubblicato almeno due selfie con il cappello a forma di banana della versione più spaventosa e meno londinese di Michael Fassbender.»
Ana aggrotta le sopracciglia e poi schiocca la lingua con fare pensieroso: «Ecco perché protestava con il buttafuori mentre mi aiutava a caricarlo sulla Cadillac: gli era caduto il benedettissimo cappello a forma di banana!»
Più i raggi di quel soleggiato lunedì si fanno spazio sul suo volto, più la nebbia di quella notte infernale si dirada e la razionalità di Tom si solidifica al cospetto di tutta quell’assurdità. Vorrebbe solo rifugiarsi tra le lenzuola profumate del suo letto, infilare la testa sotto il cuscino a dormire per tre giorni consecutivi.
«Miei prodi avventurieri!»
Ana e Tom alzano il capo con uno scatto, quasi terrorizzati dal suono di quello che sembra solo un miraggio.
Non lo è.
Michael si avvicina baldanzoso al loro tavolo indossando una camicia stropicciata e vestendo un sorriso esageratamente abbagliante. Fa un cenno ad entrambi abbassando con l’indice gli occhiali da sole, trascina la sedia libera e si accomoda con un sorriso soddisfatto. Fa scorrere lo sguardo dal cipiglio di Tom all’espressione furente e al contempo sconvolta di Ana, scoppiando in una risata decisamente troppo rumorosa per gli standard di quel lunedì mattina. Un inizio settimana evidentemente traumatico solo per due di loro.
Novanta minuti di sonno e Michael è fresco come una rosa.
«Sei sicuro di non essere ancora alticcio?» indaga Tom aggrottando ancora di più le sopracciglia.
Il collega dalle mille risorse – e probabilmente dalla composizione corporea simile al titanio – lo ignora per estrarre dalla tasca anteriore dei jeans il suo smartphone. Il sorriso sornione non promette nulla di buono.
«Non potrete credere a quello che mi è arrivato esattamente dieci minuti fa», annuncia euforico.
«Michael, forse tu non ricordi nulla, ma io e Tom abbiamo assistito a tutto in diretta e fidati, non ce lo scorderemo per anni.»
L’indice di Michael inizia a sventolare ad un centimetro dal naso punteggiato di efelidi di Ana: «Oh no, no, no, non mi riferisco alle mie brillanti performance e al loro sconvolgente successo.»
Trattiene una risata e poi posiziona lo schermo del cellulare in modo che entrambi i suoi fedeli compañeros possano rimanere fulminati dalla suprema notizia della mattinata.
Tom afferra con uno scatto il cellulare e inizia a scorrere con impazienza sul touchscreen, perdendo il conto di tutte le imprecazioni che lascia circolare liberamente tra i meandri dei suoi pensieri poco eleganti.
Ana si limita a infilare entrambe le mani nei capelli e a fissare interdetta la mano di Michael ora vuota.
 
Scoppia l’amore sul set? Atlanta, una pausa tra le riprese e un feeling che “buca lo schermo”. De Armas e Hiddleston? La coppia hollywoodiana che aspettavamo!
 
Il gentleman inglese e l’attrice cubana, la nuova favola dei red carpet?
 
Il villain di “The Avengers” tra dolci carezze ed effusioni: Ana de Armas la donna che tutte invidiano!
 
«Effusioni?» sbotta Tom con gli occhi strabuzzati.
Quelle foto mostrano al massimo una mano poggiata innocentemente sulla schiena di Ana, due amici parlarsi a distanza ravvicinata per il fracasso proveniente dall’ingresso del locale e una presa ferma attorno al polso di Tom giusto per trascinarlo alla ricerca di un Michael senza freni inibitori.
Lo scambio di due risate immortalate da uno scatto sfocato e un braccio che circonda le spalle scoperte e infreddolite di Ana solo per rientrare entrambi nel selfie di un piccolo fan strategicamente nascosto dalle considerazioni scandalistiche di quei titoletti da due soldi.
Tom è furioso. Sconvolto e terribilmente furioso.
«Amico, non per rigirare il coltello nella piaga», inizia Michael poggiando una mano sulla spalla di Tom, «ma penso che dovresti fare una telefonata alla londinese del porcellino d’india.»
Jen.
«Sono sicuro che non crederà a mezza parola di questi ridicoli articoletti senza capo né coda», cerca di convincersi mollando il telefono sul tavolo e sbuffando per l’ennesima preoccupazione.
Ana e Michael non hanno bisogno di ribattere nulla: lo scetticismo delle loro espressioni quasi mortificate basta a farlo tentennare.
Trattiene un’imprecazione e si morde il labbro inferiore mentre balza in piedi, afferra il suo cellulare e si dirige verso l’uscita del salone con lunghe falcate.
Michael, in realtà, non riesce a non vedere l’ilarità di tutta quella situazione. Ana se ne accorge e gli getta con poca gentilezza i residui del caffè sulla camicia stropicciata: «Ritieniti fortunato.»
Tom, nel frattempo, cerca il contatto di Jen e scende le scale di fretta, come se non potesse sopportare l’idea di stare fermo durante l’attesa.
Completa tre rampe e nessuna risposta.
La chiama una seconda volta.
Inizia a preoccuparsi.
Completa altre tre rampe.
Jen non risponde.
 
 
 
Kade, coordinatore stunt per le più importanti produzioni cinematografiche dall’alba dei tempi – e perfezionista patologico –, scandisce il ticchettio di una bomba a orologeria tamburellando freneticamente indice e medio sul mento.
Da minuti interi passeggia con aria pensierosa attorno al quadrante e, al compimento di ogni giro, realizza di essere sempre più vicino ad un esaurimento nervoso senza precedenti.
La sequenza più complessa dell’intera pellicola sbeffeggia Kade e Ris con un ghigno beffardo, servendogli su un piatto d’argento uno spietato disastro.
Ris ne è particolarmente risentita, tanto che vorrebbe marciare verso l’uscita dello studio 3 e fare i suoi migliori auguri a Kade con un fazzolettino di seta.
Ripensa con disappunto a tutte le notti passate a definire meticolosamente ogni singolo passaggio, al sudore lasciato su quello stesso tatami, alle scorte di antinfiammatori sottratte dal bagno di Bruce, alle chiamate di quest’ultimo alle due di notte per sapere dove fosse finita. Sempre lì, sempre allo studio 3, incapace di non sfruttare il massimo che il suo corpo avesse da dare e che il genio di Kade avesse da offrire anche nei momenti di minore lucidità.
Ana, immobile accanto a lei, la sovrasta di qualche centimetro mentre l’accompagna silenziosa nello studio scrupoloso di quel caotico e scoordinato scenario.  
La sua controfigura è alle prese con lo stunt che interpreta la quinta sentinella, ma la sinergia con Tom è andata a farsi benedire dal primo istante, cedendo il passo ad una coreografia scenica decisamente sconnessa e debole.
Tutti e otto si rivelerebbero probabilmente perfetti se presi singolarmente, così come dimostrato nelle sessioni precedenti, ma la mancanza di fluidità nell’alternarsi dei singoli scontri è una pecca che né Kade né Ris sono in grado di ignorare.
«È tanto terribile?» indaga Ana in un sussurro senza distogliere lo sguardo.
«Se credessi il contrario non me lo avresti nemmeno domandato», risponde risoluta Ris con le braccia incrociate al petto. Sospira scocciata quando Tom sbaglia di nuovo la direzione della sua parata e il capo stunt fa un cenno per ricominciare dal secondo tempo.
Sa già che dovrà rivedere con Kade gran parte della sequenza e questo significa mettersi l’anima in pace e accettare di tornare alle vecchie e per nulla care tre ore di sonno per notte.
Il suo mentore le fa un cenno, invitandola ad avvicinarsi, poi si passa entrambe le mani sul volto e stringe le labbra in una linea sottile, pensieroso.
Gli atleti si fermano e la controfigura di Ana lo segue verso Ris.
«Rivediamo le dinamiche con te, le prime due sentinelle e Tom. Cerchiamo di capire cosa non va.»
Ris si limita ad un cenno di assenso e raccoglie i capelli in una coda bassa, per poi dirigersi scalza al centro del tatami.
Quattro stuntmen abbandonando il quadrante e lei inizia a snocciolare alcune istruzioni con la solita precisione; l’espressione asciutta il suo proverbiale marchio di fabbrica.
Scorre lo sguardo sui tre per assicurarsi di esser stata chiara e nella speranza di scorgere un minimo d’intesa, ma prima di incoraggiarli ad iniziare e raccomandare concentrazione, si sofferma sui lineamenti induriti di Tom. Guarda fisso il pavimento ed è sicura che stia pensando a tutt’altro, proprio come le suggeriscono gli scatti quasi impercettibili delle dita, impegnate a torturarsi vicendevolmente e probabilmente a creare un diversivo per sventare qualsiasi rischio di esplosione. Non riesce a stare fermo mentre finge di esser pronto a fare esattamente tutto quello che Ris si è premurata di spiegare per l’ennesima volta. La gamba destra è alle prese con un tic nervoso e i suoi occhi iniziano a saettare verso ogni angolo dello stabile mentre si costringe a trattenere un sospiro scocciato e lasciar defluire quella pungente irritazione dal volto.
Ris aspetta pazientemente che Tom incroci il suo sguardo alla ricerca di un banale cenno che le faccia capire di esser pronto e – soprattutto – per intimargli silentemente di non fare altre cazzate.
E, tuttavia, l’attore non fa altro che ignorare la criticità della situazione, preferendo il sopravvento della sua stessa frustrazione. Ris sospira e batte le mani due volte per incitarli a prendere posizione.
Passa accanto a Tom e lo prende con una spallata per attirare la sua attenzione, si ferma a due centimetri dal suo volto e finalmente la guarda, anche se le sfumature cristalline dei suoi occhi sembrano ancora fremere alle prese con quell’intima battaglia: «Concentrato.»
È solo un sussurro duro come acciaio, ma basta per fargli sbattere le palpebre più volte, risvegliandolo da uno stato di trance. Boccheggia in cerca di una risposta – come se ad un ordine servisse realmente una risposta – e finisce solo per lasciar perire tutte le possibili farneticazioni e cedere il passo ad un cenno del capo che potrebbe essere sicuramente più convincente. Ris, tuttavia, si accontenta.
I due stunt si dispongono seguendo le indicazioni di Kade e quando la schiena di Tom si appoggia a quella di Ris per riprodurre la posizione di partenza, lei avverte con chiarezza un respiro profondo e tremolante imprimersi in mezzo alle sue scapole. Fa finta di nulla, ma cede alla consapevolezza che almeno per i minuti rimanenti di quell’allenamento non otterranno nessun miglioramento.
Kade inizia a scandire i tempi della sequenza e con movimenti spaventosamente naturali, Ris dà perfetta dimostrazione di cosa s’intende per combattimento scenico.
Tom è ancora distratto, ma cerca comunque di impegnarsi il più possibile, e le occhiate truci della sua partner si rivelano un ottimo strumento per rimanere ancorato al suo allenamento, frenando la corsa di quelle ingombranti paranoie.
Ris e Kade interrompono la sequenza infinite volte, introducendo elementi e togliendo passaggi. Un mosaico ancora incompleto che darà sicuramente altro filo da torcere, condannando entrambi a sacrificare nottate extra per le ultime definizioni.
«Ok ragazzi, riprendiamo da qui lunedì prossimo», annuncia Kade avvicinandosi ai quattro e dando una pacca sulla spalla a Gerard, una delle due sentinelle, «nel frattempo, io e Ris vedremo di apportare alcune modifiche.»
Come suo solito, regala un sorriso incoraggiante ai presenti e si dilunga nei saluti.
Ris, dal canto suo, si lascia cadere sul tatami, accomodandosi a gambe incrociate per darsi il tempo di riprendere fiato prima dell’ultima sessione della giornata.
Non passa molto tempo e avverte Tom sedersi esattamente dietro di lei, appoggiando nuovamente la schiena alla sua.
«Sono stato tanto pessimo?»
«Sì.»
«Ora mi massacrerai?»
«No.»
Rimangono in quella posizione, ognuno egoisticamente concentrato sui propri pensieri.
Gli altri accennano dei rapidi saluti, senza preoccuparsi di ricevere risposte distratte. Ana si avvicina a Tom per una carezza affettuosa tra i corti capelli e un pizzicotto sulla guancia, poi gli strizza l’occhio e si allontana indietreggiando: «E domani niente musone.»
Ris non può assistere allo scambio che si consuma alle sue spalle, ma nulla le impedisce comunque di roteare gli occhi al cielo e fare una smorfia, disprezzandoli come una manciata di gesti insulsi e patetici.
«Hai seriamente intenzione di non scontargli neanche questa sessione?»
Kade è in piedi davanti a lei con il borsone in spalla e fa un cenno impercettibile verso Tom.
Ris afferra il polso del suo mentore e ruota l’orologio che indossa nella sua direzione: sono le sette.
«Gli abbiamo già scontato un’ora del solito allenamento», risponde, sottolineando con un’alzata di spalle l’ovvietà di una considerazione tanto scontata.
«Fortuna che non volevi massacrarmi», rimbecca acidamente Tom alle sue spalle.
Ris è convinta che se ne avesse il coraggio e non fosse incomprensibilmente intimorito dal rischio di macchiare quell’insulsa facciata dorata da copertina, l’avrebbe già mandata a farsi benedire senza tante premure.
«Presumo che le due ore appena concluse non siano nemmeno contemplate», continua Kade scuotendo la testa, «sei proprio incorreggibile.»
Ris risponde con un occhiolino mentre Kade si sistema il borsone a tracolla.
«Almeno vacci piano», le raccomanda infine con un sorriso che la sa lunga, «alle otto in punto ti voglio agli studi centrali. La mia Ford Bronco non attenderà un minuto di più.»
Una giornata storta per il damerino ed ecco che tutti si premurano di non causargli più stress del dovuto.
L’attore lo saluta con una pacca sulla schiena e un’espressione sconsolata mentre Ris si alza in piedi con un balzo, sottraendo l’unico sostegno al corpo bellamente abbandonato di Tom.
«Sempre gentile» grugnisce, sollevandosi con una smorfia dal tatami ormai pregno di quanto più sudore Tom sia mai riuscito a produrre in trentaquattro anni di vita.
Ris lo ignora come al solito e si dirige verso lo stanzino accanto all’uscita secondaria, lasciandosi alle spalle l’illuminazione proveniente dai fari centrali, gli unici ancora in funzione.
Tom avverte dei passi allontanarsi e si alza con uno sbuffo solo per scorgerla di sfuggita prima di scomparire, come inghiottita dalle ombre. Ed ecco che il sempre più frequente cipiglio indispettito fa capolino tra le pieghe di una giornata che Tom vorrebbe incenerire con le sue stesse mani. La rabbia cieca che gli infiamma vene e fegato gli suggerisce che potrebbe riuscirsi senza nemmeno troppe difficoltà.
«Sappi che se te ne stai andando te ne sono grato!» urla nella speranza di averla anche solo sfiorata.
Nel frattempo, Ris dà una spallata alla porticina in ferro battuto e si fa strada tra le cianfrusaglie lasciate in disordine sul pavimento. Lascia scivolare le dita sulle pareti gelide fino ad incontrare l’interruttore di una lampadina decisamente poco utile al suo scopo. Fortunatamente, sa già perfettamente dove ficcare il naso per uscirsene vittoriosa.
Intravede il rivestimento in pelle rossa del familiare sacco da boxe e, aiutandosi con un carrellino in ferro, lo trascina oltre l’ingresso ristretto, recuperando nel frattempo un paio di guantoni dalla mensola più alta dello scaffale a destra.
Tom, vedendola riemergere dall’angolo più remoto carica di nuova attrezzatura, aggrotta le sopracciglia in cerca di una spiegazione. Quel sorriso compiaciuto, poi, non lo rasserena per nulla.
«E adesso che-»
«Avanti, aiutami.»
Ris si dirige in un punto indefinito accanto all’enorme materasso per le cadute, abbandonando il carrello solo per spostare un paio di scale maldestramente abbandonate contro la parete.
Tom si riscuote sbattendo tre volte le palpebre e la raggiunge passandosi la larga canotta nera sul volto per asciugare le ultime gocce di sudore. Si ferma alle sue spalle e allunga le braccia sulla sua testa per fermarla prima che possa afferrare la seconda scala e rischiare di farsela cadere addosso. Ris si sente improvvisamente sovrastata dall’ombra di una figura slanciata, avvertendo chiaramente il respiro di Tom tra i capelli.
«Sarai pure agile e definita come acciaio, ma rimani comunque uno scricciolo», ridacchia lui sfiorandola con il petto e chiudendo la presa ai lati della scala.
Ris, come scottata, si sottrae con uno scatto da quella sensazione soffocante, lasciandosi per un attimo vincere dal frangente di un momento lontano. Tom cerca di non farci caso, ma l’inscalfibile schermata di Ris tremola per una frazione di secondo.
Lei lo guarda liberare la parete e si appiglia ad un minuscolo dettaglio, un insulso particolare, che l’aiuta a rivedere le pareti verde acqua dello studio 3 e Tom, soprattutto Tom.
È Tom. Respira. È Tom.
«Scricciolo?»
La “faccia da prendere a schiaffi” torna a imporre la sua tirannia.
Tom, deve ammetterselo, ne è sollevato. Sfoggia un sorriso canzonatorio, lieto di essere riuscito a irritarla e soprattutto di avere arpionato altro che non fosse un ordine perentorio, un silenzio scocciato o un’espressione di sufficienza e sdegno.
«Sì, mi dispiace dirtelo, ma credo che Michael si sbagli di grosso quando ti chiama Bambi», constata con premeditata lentezza mentre inclina il capo per studiarla meglio, «mi ricordi molto più un passerotto quando non sei impegnata a fare il ninja stronzo.»
Ovviamente Tom non potrebbe mai ammettere che in realtà si è ritrovato più volte a pensare che Ris fosse la reincarnazione di un feroce felino nato tra le insidie di una tetra giungla.
Dal canto suo, forse Ris dovrebbe persino ringraziarlo, dal momento in cui si rende conto di non avere nemmeno più il tempo di ricordare la vertigine nauseante di poco prima: ora è troppo impegnata a incenerire con uno sguardo tagliente qualsiasi traccia di scherno che danza allegra tra i lineamenti distesi di quella faccia patinata.
«Tom, se solo non fossi già esausta ti farei tornare in hotel alle tre di notte»
«Sono piacevolmente sorpreso da tutta la considerazione che mi stai concedendo, di solito ci impieghi due minuti prima di ricordarti come mi chiamo.»
Ris è a un centimetro dal tornare sui suoi passi, afferrare il carrello e rinchiudere sacco da boxe e guantoni nello stanzino. E pensare che quella sera pensava pure di potergli concedere un minimo di clemenza.
«Ritieniti fortunato: non ho la minima intenzione di ripetere altre sequenze per la prossima ora.»
Tom aggrotta le sopracciglia mentre lei afferra la catena dell’enorme sacco rosso e lo trascina verso il gancio appeso alla parete ora libera.
Gli rivolge un’occhiata per incoraggiarlo a darle almeno una mano.
«Mi spaventa non sapere cos’hai in mente», ammette Tom avvicinando la rampa abbandonata ai piedi del materasso per riuscire ad agganciare il sacco da pugilato.
Ris recupera i due guantoni neri dal carrello, si avvicina nuovamente all’attore e glieli preme sul petto: «Vai. Sfogati. È tutto tuo per un’ora.»
 
 
Tom solleva lentamente le mani fino a sfiorare i guantoni che Ris ancora gli tende in un invito che sa molto di imperativo. La guarda interdetto, senza capire.
Lei sospira e alza gli occhi al cielo, come se fosse veramente tutto così scontato e banale.
«Ti ho osservato per due ore intere: sei evidentemente frustrato, nervoso, incazzato, distratto e irascibile. Non andremo da nessuna parte se continui testardamente a farti consumare da qualsiasi sia la preoccupazione che ti angoscia da una giornata intera, quindi segui il consiglio di un’esperta: inizia a prendere a pugni qualcosa.»
Preme nuovamente i guantoni contro il suo petto prima di indietreggiare e incrociare le braccia: «Ti sentirai meglio e, soprattutto, io non dovrò rallentare il passo o spazientirmi solo perché non sei abbastanza concentrato. Lo spettacolo di oggi mi è bastato.»
Tom boccheggia, totalmente preso alla sprovvista. Si volta appena e fa saettare lo sguardo cristallino tra il sacco da boxe e i guantoni che stringe tra le mani, convincendosi sempre di più dell’insensatezza di quell’insulso escamotage.
«Fammi capire», ragiona poi seguendo con gli occhi Ris, ora diretta al materasso delle cadute per godersi comodamente l’improvvisato teatrino, «mi costringi a rimanere un’altra ora dopo un allenamento sfiancante solo per farmi sfogare con uno stupido sacco da boxe e sperare che i miei problemi svaniscano come per magia?»
«Sì», risponde lei facendo spallucce e issandosi sul materasso.
Tom allarga le braccia completamente incredulo e lascia cadere i guantoni a terra: «Bene, sappi che non servirà a nulla e che domani sarò solo ancora più incazzato, tu mi odierai ancora di più, perderai la pazienza e Cristo, io abbandonerò questa palestra per prendere il primo aereo diretto a Londra e mandare letteralmente a fanculo questo film, questo viaggio, Michael, Atlanta, i paparazzi, le copertine, la privacy completamente fottuta e qualsiasi scelta io abbia compiuto in trentaquattro anni di vita. Non mi serve un maledettissimo sacco da boxe e non mi servi tu a dirmi cosa dovrei fare per risolvere le mie frustrazioni. Le gestisco alla perfezione come ho sempre fatto senza dovermi trasformare in un adolescente incazzato con il mondo che prende a pugni qualsiasi cosa abbia sotto tiro. Oh dio, e ora perché mi guardi con quella faccia?»
Ris stringe le labbra in una linea sottile per trattenere una risata che sente fremere in mezzo al petto.
Sì, è decisamente più interessante quando Tom si leva un po’ di Hiddleston di dosso.
Il suo volto è rosso per il fiume di parole che si è lasciato sfuggire senza nemmeno darsi il tempo di respirare e il petto si alza e abbassa velocemente. Tom non se ne rende nemmeno conto ma le dita delle mani fremono appena, come se si fosse spinto oltre una linea che difficilmente si era mai dato la possibilità di varcare al cospetto di occhi altrui.
E quel sopracciglio alzato in un’espressione così fastidiosamente compiaciuta gli fa stringere il labbro inferiore tra i denti, maledicendosi da solo.
«Hai ragione, non hai bisogno di un sacco da boxe», concorda Ris con finto fare pensieroso, «è bastato che ti allungassi due guantoni.»
Tom si passa una mano nei capelli nervosamente, sbuffando e imprecando più volte. Inizia a camminare in cerchio, come se non riuscisse a stare fermo mentre il pensiero di quegli articoletti da due soldi inizia nuovamente a martellargli le tempie. Jen che non risponde da una giornata intera, poi, se la sarebbe volentieri risparmiata, così come le chiamate di Emma in cui strilla come un’ossessa per avere un briciolo di spiegazione. Si sente come una bomba a orologeria pronta all’esplosione.
Continua a macinare centimetri dopo centimetri, consapevole di avere due occhi da felino piantati addosso.
Avverte delle ondate implacabili infrangersi contro le pareti della sua teca costruita con tanta fatica e lustrini.
Sente di essere sull’orlo di un precipizio.
Si ferma con entrambe le mani sui fianchi, poi si passa un palmo sul volto e alza lo sguardo per fissarlo in quello di Ris, inspiegabilmente confortevole, quasi accogliente. Non vuole dire nulla, vuole solo che lei capisca e gli venga in soccorso. Lei, nonostante il silenzio, non lo ignora e Tom lo avverte con una chiarezza spaventosa, arrivando a chiedersi cosa sarebbe successo se avesse mai lasciato che quella parte di sé tanto intrattabile e da lui testardamente repressa fosse sgorgata sotto gli occhi di qualsiasi altra persona. Avrebbe trovato la stessa silente comprensione? Perché non vuole sbagliarsi, ma quello che l’inscalfibile essenza di Ris gli comunica con messaggi paradossalmente inequivocabili è una profonda comprensione.
Forse è semplicemente più facile mostrare i panni più logori a chi non ha avuto modo di lasciarsi abbagliare da un paio di scarpe lucide e l’ottima fattura di una giacca elegante.
Forse perché a lei non importa nulla di chi Tom voglia essere o s’imponga di essere. Forse perché lei non porrebbe nemmeno mezza domanda per sondare quel profondo disagio che lui si premura di simulare con le risposte impeccabili, i sorrisi misurati, la condotta da perfetto gentleman, le attenzioni e la cura di un amante di cristallo, la saggezza dei suoi discorsi mentre stringe tra le mani un premio che non è sicuro di meritare. A Ris non importa che ci sia una teca di rugiada a nascondere un’altra essenza, che lui si vesta delle aspettative che lo terrorizzano e che finga la sua esistenza con insospettabile maestria. E Tom lo sa con inspiegabile certezza che a un’anima persa nella sua stessa foschia non potrebbe fregare di meno dei motivi che portano altri a costruire un’identica coltre di fumo per impedire ad occhi temuti di scorgere quell’umanità così stupidamente vulnerabile. Tom non si è mai permesso di aprire la teca se non nei momenti di profonda solitudine, circondato da pareti mute e lontano dagli sguardi che avrebbe potuto deludere. Ma Ris, in dieci giorni scarsi di conoscenza, che cosa gli aveva dimostrato? Di essere inscalfibile, proprio come una muraglia; di non avere il tempo o la forza di premurarsi del lato più sporco delle altre esistenze; di non saper far altro che ricambiare con un silenzio incapace di giudicare, solo di farsi scivolare addosso tutto ciò che la circonda; di essere troppo immersa nella propria rabbia e nella propria intima schermaglia per dare realmente peso alle verità scomode; di essere solida, fredda e indifferente come le uniche quattro mura a cui Tom aveva saputo mostrare ciò che realmente avrebbe voluto dire o fare. E quindi che differenza fa se quelle quattro mura ora si dipingono di occhi nocciola affilati come lame e di labbra carnose elegantemente serrate in una muta espressione?
Ris lo guarda inclinando leggermente il capo, come per farsi ancora più spazio nella ragnatela di quell’inaspettata e bizzarra intesa.
Lui riconosce immediatamente il gesto, lo stesso che si ritrova a fare quando è incuriosito e non riesce a trattenersi dall’allungare le dita verso frammenti di esistenze altrui, solitamente abilmente celate e sempre per un buon motivo.
«Fammi indovinare, hai bisogno di prendere a pugni qualcosa?»
«Sì.»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


Capitolo Cinque
 


Tom, alla fine, si è persino affezionato a quel sacco da boxe dal rivestimento in pelle rossa.
Il primo giorno, ostaggio del più disordinato flusso di rabbia e frustrazione, si era reso conto di non essere per nulla tagliato per l’arte del pugilato e Ris, dal canto suo, non si era risparmiata di sottolinearlo in modo netto e spietato. Tom, comunque, non aveva potuto fare a meno di declassare quel fastidioso particolare nel momento in cui l’aveva affiancato per snocciolare qualche dritta, sollevargli le braccia nella giusta posizione e correggere con dita sottili e sorprendentemente delicate la postura sempre troppo impettita.
“Non sei un soldatino di piombo”, gli ripeteva instancabilmente.
E lui si sorprendeva di come quelle parole - pronunciate ingenuamente con tutt’altre intenzioni e tinte di uno scherno ormai familiare – riuscivano a penetrare oltre le scariche dei suoi destri, il sudore dello sforzo e le istruzioni asciutte, arrivando a sfiorare la vulnerabilità di Tom con l’attrazione di un goccio d’acqua nel deserto, acciuffate prima ancora che potessero evaporare e immediatamente fatte proprie.
Non sono un soldatino di piombo.
Il secondo giorno, terminato il solito allenamento delle otto, Tom si era avvicinato al suo borsone, ma si era fermato di colpo stringendo la cinghia in una mano. Aveva lanciato uno sguardo a Ris, alle prese con il suo stretching abituale, e poi si era lasciato tentare dalla porta in ferro battuto dello stanzino lontano. La cinghia del borsone gli era automaticamente scivolata dalle dita e dopo qualche secondo di tentennamento, si era diretto verso la parte opposta dello studio 3. Ris l’aveva osservato circospetta trascinare l’attrezzatura da boxe dietro di sé, temporeggiando sulla medesima posizione di rilassamento muscolare per più tempo di quello strettamente necessario. Erano le otto e se ne sarebbe dovuti andare, ma Tom aveva deciso di rimanere giusto per “prendere a pugni qualcosa”. E Ris, studiando la sua figura slanciata gettarsi nuovamente in qualcosa che fino al giorno prima considerava insignificante e insulso, si era data la possibilità di sorridere in maniera compiaciuta, nascosta dalle ciocche castane.
Alle prese con i suoi colpi incerti, imprecisi e deboli, Tom si era reso conto che Ris aveva protratto di circa mezz’ora il suo stretching finale.
Non si erano scambiati nemmeno una parola, ma andava bene così.
Il terzo giorno, Ris stava sistemando gli ultimi oggetti di scena lasciati in disordine, pronta ad abbondare lo studio 3 per catapultarsi sulla Ford Bronco di Kade e tornare a casa da Bruce.
Tom, invece, non sembrava essere dello stesso avviso e dopo aver meticolosamente ripetuto le operazioni della sera precedente, si era infilato i guantoni nella speranza che i rimasugli di quell’implacabile irritazione potessero finalmente defluire dal suo corpo.
Ma chi voleva prendere in giro? Continuava a sentirsi un vulcano ad un passo dall’eruzione.
E, tuttavia, il pensiero di tornarsene in hotel e farsi riattaccare da Jen per dieci volte di fila gli sembrava ancora più masochista di passare un’altra ora a tirare pugni frustrati ad un sacco.
Ris, nel frattempo, lo guardava di sottecchi, incapace di ignorare la tensione della postura e il respiro irregolare. Anche quel mercoledì sera avrebbe inviato un messaggio a Kade per dirgli di non aspettarla, avrebbe richiuso la cerniera del suo borsone e sospirato all’idea di dover aspettare il pullman delle nove a trenta metri dai cancelli degli studios.
Si era avvicinata a Tom silenziosamente, fermo con le braccia penzoloni, esausto e sconsolato. Gli aveva fatto un cenno con la mano per invitarlo a passarle i guantoni e poi aveva aggiunto: “Non penserai per caso di divertirti solo tu, vero?”
Tom, per quanto non sentisse nemmeno la forza di parlare, si era ritrovato a sorridere e a lanciarle le protezioni con ben poca delicatezza, rimediandosi un dito medio che l’aveva fatto ridere più del dovuto, proprio come un’inaspettata bolla d’ossigeno a cui si era avidamente aggrappato.
Il giovedì, allo stesso modo, si erano alternati per un’ora e mezza e nonostante fossero rimasti per lo più in silenzio, Tom sentiva che Ris, involontariamente, si era proposta di ospitare parte della sua angoscia sulle proprie spalle, concedendogli novanta minuti di respiro. L’attore apprezzava quella muta compagnia, quell’accortezza di cui nemmeno lei sembrava rendersi conto. La guardava scaricare un colpo dietro l’altro come una mitragliatrice – precisa, letale e instancabile – e mentre lui s’imponeva di non mostrarle quanto già fosse provato, si era ritrovato a considerare che probabilmente Ris ignorava totalmente il bene di cui era sottilmente capace, come se si fosse convinta da tempo di non essere altro che un anonimo, temporaneo ed egoista pellegrino di quel mondo. E che fossero risvolti del tutto accidentali o propositi intenzionali mascherati da muta e fredda espressione, a Tom non poteva importare di meno: ciò che realmente contava era lo scricchiolio di quella sua teca arrugginita, come se invisibili crepe si fossero fatte timidamente spazio per lasciar respirare la sua temuta vulnerabilità, troppo a lungo nascosta da strati di concessioni, gesti preconfezionati, decisioni attentamente architettate, imposizioni affrontate con sorrisi tesi, sacrifici declassati come piccolezze, desideri morsi tra le labbra e condannati a perire inascoltati, follie disprezzate da un imperioso senso del dovere. Che il Tom tiranno di sé stesso stesse abbassando l’indice giudicante grazie ad un semplice sacco da boxe dal rivestimento in pelle rossa?
Forse stava solo impazzendo.
Forse doveva smetterla di porsi tutte quelle domande.
Forse aveva solo bisogno di lasciarsi cullare da un silenzio rigenerante e attendere che la situazione si sistemasse da sé. Forse non era altro che la preoccupazione per Jen, di quello che poteva pensare, del fatto che continuasse ad ignorarlo nonostante i giorni passassero e quella ridicola storiella da prima pagina s’indebolisse a vista d’occhio, alimentata solo da patetiche costruzioni artificiose. Forse gli sarebbe bastato aspettare che le acque si calmassero per poter finalmente assicurarsi che lei non lo considerasse un mostro, per far sì che le cose tornassero esattamente come prima.
Come prima, tutto come prima.
Perché sì, era questo che voleva.
E quell’inspiegabile frustrazione avrebbe così lasciato spazio alla serenità di…prima?
Perché lui era sereno, prima.
Doveva esserlo per forza, prima.
Lo ricordava, insomma.
Sì, lo ricordava.
Non ricordava il motivo per cui aveva declassato per tanto tempo l’invito di Jen a Malta, perché fosse terrorizzato all’idea di incontrare la sua famiglia o di presentarle i suoi più cari amici come lei stessa si era premuta di suggerirgli, cosa lo fermasse dal passare la notte nel suo appartamento più di quanto si limitasse a fare, ma dovevano esserci giustificazioni sensate; semplicemente, non si era dato il tempo di vagliarle.
Dopotutto, Tom non poteva essere realmente insoddisfatto della sua vita: chi avrebbe anche solo potuto mettere in discussione le pareti e le scale di cristallo di quell’esistenza invidiata dai più?
Doveva solo aspettare che il silenzio di quei giorni ristabilisse il vecchio equilibrio e tutto sarebbe tornato alla normalità.
E, tuttavia, in quel venerdì di pioggia e vento, Tom proprio non sopporta l’idea che gli unici suoni a riempire lo stabile siano gli echi dei suoi colpi e il rimbombo assordante dei suoi pensieri martellanti. Avverte un flusso di parole pungergli in fondo alla gola, deprivando quel nuovo e bizzarro rituale del potere con cui placare l’ammontare di cieca rabbia: quel venerdì, il sacco in pelle rossa non basta, così come il silenzio apparentemente indifferente di Ris, comodamente sdraiata sul materasso delle cadute e persa a rincorrere con occhi stanchi le trame del soffitto.
«Non mi hai mai chiesto nulla sul gossip della settimana», considera fingendo noncuranza, come se quella frase servisse semplicemente ad aprire un’innocente conversazione sul nulla, sul meteo di Atlanta, sulle elezioni, sui lavori stradali di quella mattina, sulla nuova tinta di Michael per il ruolo di Maverick. Come se quella semplice constatazione non si fosse accompagnata ad una dolorosa impennata della sua frequenza cardiaca.
I respiri affannati colmano l’attesa di una risposta e i suoi occhi rimangono fissi – quasi intimoriti – sul fedele compagno di quell’ultima settimana, ancora ostaggio della sua disordinata irascibilità.
Assesta una serie di colpi fino a quando non volta automaticamente il capo verso Ris, incapace di trattenersi oltre. Si aspettava di trovarla ancora nella stessa posizione, con le mani incrociate tra di loro all’altezza dell’addome scoperto e il naso all’insù, ed invece gli occhi affilati come la Lama che è lo scrutano silenziosi, chissà da quanto.
Tom non ha bisogno di chiederglielo: ha capito perfettamente a cosa si riferisce.
Ris, scorgendo nei suoi occhi cristallini l’impellente bisogno di ricevere almeno un “via libera” per la cascata di farneticazioni che ormai costringe in colpi sconnessi e inesperti da giorni, sospira e sia arrende. Può sempre fingere di ascoltare, dopotutto. E lui lo sa che probabilmente sarà come parlare ad un muro, ma non è poi per questo che accetta che anche quei due occhi umani possano assistere alla sua debolezza? Non è lui che cerca un silenzio non giudicante?
«Siete una bella coppia», risponde semplicemente, tornando a guardare verso il soffitto.
Tom fa un mezzo sorriso amaro e, senza neanche rendersene conto, colpisce il sacco da boxe con un briciolo di veemenza di troppo.
Ris se ne accorge e si volta con uno scatto, giusto in tempo per vederlo oscillare avanti e indietro come un pendolo impazzito. Si solleva con un gomito.
«Questo è il primo colpo decente dopo cinque giorni, Tom», asserisce con un’espressione piacevolmente sorpresa, «potevi anche dirlo prima che bastava far complimenti sulla tua relazion-»
«Non stiamo insieme, sono tutte cazzate.»
Tom si riavvicina al sacco per fermarlo nella posizione di partenza e poi indietreggiare per riassumere la postura d’attacco.
«Domenica scorsa Michael ci ha trascinato in un tour decisamente poco sobrio per le vie notturne di Atlanta. I paparazzi hanno trovato più interessante costruire una storiella senza capo né coda tra me e Ana piuttosto che diffondere immagini inedite di un’amata celebrità hollywoodiana aggrappata al palo di una luce con un cappello a forma di banana in testa e i jeans strappati sulla chiappa destra.»
Ris si sarebbe volentieri risparmiata l’ultimo dettaglio.
In ogni caso, non riesce a capire cosa tormenti così ferocemente Tom, ma è anche vero che non ritiene di avere la giusta dose di energie per fingere autentico interesse. Lo lascerà parlare fino a quando non si sentirà libero di tutto il marciume depositato tra costole e polmoni.
Cerca di risistemarsi comodamente sul materasso, ma nel momento stesso in cui Tom fa per riprendere con i suoi discorsi, si blocca, avvertendo la necessità di interromperlo: «E cosa t’importa? Tu sai come stanno le cose e lei pure. A chi altro dovrebbe interessare la verità?»
Una domanda talmente scontata che proprio non riesce a trattenerla.
È veramente quello il motivo della sua straripante angoscia? Sono veramente due dicerie di poco conto a distrarlo così facilmente dalla perfezione della sua vita? A renderlo così rabbioso?
«A quanto pare qualcuno che ho lasciato a Londra ci crede», risponde senza curarsi della goccia di sudore che gli solca il sopracciglio.
Ris sospira: ci mancava solo il dramma amoroso.
«Non mi risponde da lunedì e mi avrà sicuramente già dipinto come lo stronzo traditore agli occhi di tutta la sua famiglia. Non mi stupirei nemmeno se dovessi leggere una ventina di tweet in cui mi maledice pubblicamente e trasforma questa assurda vicenda in un circo mediatico senza fine. Mi chiedo come faccia a credere a delle scemenze del genere. Non potrei mai tradirla e lei lo sa, lo sa perfettamente.»
Tom assesta un ultimo colpo, per poi sbuffare esausto e sfilarsi i guantoni. Ris è tornata a fissare il soffitto, come se non fosse nemmeno stata sfiorata da quelle parole. Tom, dal canto suo, non si sorprende.
Lascia cadere i guantoni a terra e si dirige verso la panca ai piedi del materasso, recupera il suo asciugamano dal borsone e osserva l’incorreggibile freddezza di Ris scuotendo la testa.
«Penso che sia normale rimanere interdetti ad una notizia del genere. Non so se riuscirei a biasimarla se fossi in te.»
Tom non si aspettava una risposta, né tantomeno quella.
«Se mi conoscesse realmente come dice, fidati, non potrebbe avere il minimo dubbio. Non sono quel tipo di uomo.»
Ris continua a lasciar correre lo sguardo sugli intrecci della volta in legno, ma per quanto vorrebbe farsi gli affari suoi e permettere a Tom di sfogarsi senza essere messo in discussione, proprio non riesce a trattenere una risatina incredula e, in realtà, un briciolo affilata: «Quindi non dovrebbe essere minimamente preoccupata perché non sei quel tipo di uomo? Perché nessuno potrebbe mai dubitare della tua condotta?»
Tom aggrotta le sopracciglia, lasciando cadere l’asciugamano sulla panca ai suoi piedi. Fa una smorfia e boccheggia, decisamente indispettito da quel sottile attacco.
«Che cosa intendi?»
«Non so, mi aspettavo mi dicessi che no, la vostra storia proprio non può essere messa in discussione per simili sciocchezze, che il tuo sentimento non potrebbe mai lasciare spazio a fraintendimenti. E invece, a quanto pare, per te è semplicemente inconcepibile pensare che faresti mai una cosa del genere, perché insomma, correggimi se sbaglio, ma nessuno crederebbe mai che potresti farlo, giusto? Perché avanti, tutti lo sanno che tu, proprio tu, non sei quel tipo di uomo.»
Continua a ignorarlo, come se le sue sentenze le assicurassero un posto sicuro in cima ad un piedistallo, e Tom non sa se la rabbia che ora gli scava ferocemente lo stomaco sia data più da quella sufficienza tinta di sdegno o da quell’improvviso bisogno di puntargli il dito contro senza troppe remore.
«Non sai neanche di cosa stai parlando.»
«So solo quello che mi hai detto: sei terrorizzato all’idea che ti vedano come il mostro traditore, che scoppi un caso mediatico senza fine, che twitter si trasformi nel teatro pubblico della tua condanna. E so anche quello che non mi hai detto: che hai il fegato contorto all’idea che la vostra storia possa essere finita, che non riesci a dormire la notte per il timore di averla persa.»
Tom sente di non potersi muovere di un centimetro, congelato dalla profondità di quegli affondi.
«Sai cosa intendevo», farfuglia.
E Ris lo percepisce forte e chiaro, quel tentennamento.
«Non lo sai nemmeno tu, Tom.»
L’attore sbuffa incredulo, allontanandosi dalla sfacciataggine della ragazza con l’intento di porre fine alla sessione extra di quel venerdì sera.
Si ferma appena prima di allungare le mani verso il gancio del sacco di boxe, fissando le dita scosse da impercettibili tremolii.
Dio, ma chi si crede di essere?
Si volta, decisamente spazientito: «Pensi veramente che non m’importi di quello che potrebbe pensare lei? Pensi veramente che non sia profondamente angosciato all’idea di non sapere che cazzo le frulli in testa, che considerazione avrà di me?»
E ancora una volta, cade vittima delle cose che non dice e che urla tra una parola e l’altra.
Ris si volta di lato, realizzando per la prima volta quanto Tom sia fondamentalmente ingenuo, quanto sia vittima delle sue stesse imposizioni, con quale maestria sia arrivato a ingarbugliare sé stesso in una ragnatela di mezze verità.
«È esattamente quello che penso, invece. Non potresti sopportare l’idea di aver deluso in questo modo una persona che ti ha ricambiato con affetto e amore, non potresti reggere il pensiero di apparire un mostro agli occhi di qualcun altro. Temi che lei possa aver visto sul tuo mantello candido un paio di macchie? Qualche toppa?», risponde Ris senza neanche domandarsi perché non si limiti semplicemente a lasciarlo cuocere nel suo stesso brodo.
Tom, un sospiro e uno sguardo confuso più tardi, cerca di ribattere, ma viene interrotto.
«È semplice, Tom: sei terrorizzato all’idea di perdere qualcosa a cui non potresti mai rinunciare, all’eventualità di dover rattoppare un cuore spezzato, oppure sei consumato dall’angoscia di aver deluso le sue aspettative, di aver tradito l’immagine di cavaliere immacolato con cui l’hai cullata per tutto questo tempo, di non esser riuscito a reggere il confronto con le candide parole con cui il mondo ti plasma?»
Lui la guarda con una furia cieca, rifiutandosi di rispondere a quell’insulsa insinuazione.
Non ha bisogno di cedere alle sue provocazioni, lui conosce la verità.
«Il fatto che ti sia così difficile rispondere dovrebbe già farti capire molte cose», continua volgendo nuovamente gli occhi verso il soffitto.
«Cristo, non mi è difficile rispondere! Penso solo che sia inutile dare corda ai tuoi colpi bassi. Non sai proprio niente della mia storia, delle mie relazioni, di quello che provo. Cosa ti fa pensare di avere il diritto di giudicare come dovrei amare?»
«Visto? È stato facile: la ami, quindi.»
Una falce cala con un colpo secco in mezzo alle scapole di Tom.
No, non la amo.
L’ha sempre saputo, ma questo non significa che non le voglia bene, che non potrebbe amarla un giorno.
E non importa se non ha il coraggio di chiedersi se sia realmente lei la donna che vuole provare ad amare.
Non importa se non è il pensiero che tutto torni come prima – lui, Sherlock, e Jen – a farlo sentire meglio, ad attenuare la perenne angoscia che non sembra volergli dare pace.
Non importa se è terrorizzato all’idea di tornare a Londra, consapevole di non avere giustificazioni per mettere fine a quella frequentazione.
Non importa se le parole di Ris sono così dolorose e al tempo stesso liberatorie.
Non importa se sente improvvisamente il bisogno di esorcizzare con calde lacrime la scomoda verità che cova ormai da tempo nella sua teca di ruggine.
Non importa se l’ossigeno che Ris gli ha concesso rende quella consapevolezza troppo viva per poter essere nuovamente taciuta senza effetti collaterali. E li avverte così prepotentemente, quegli effetti collaterali: la rabbia che sembra disintegrarlo dal fondo dello stomaco, l’angoscia che preme i polmoni in una morsa di ghiaccio, la paura che affonda gli artigli nel fegato, la presa feroce attorno alla gola.
Non gli importa nulla di tutto quello che sa e che finge di non sapere. E soprattutto, è troppo debole, troppo codardo per poter affrontare quel mucchio di conti in sospeso. Ed è talmente vigliacco che non può far altro che lasciarsi cullare dalle sue spietate difese, permettendo loro di essere impietose e brutali con chi cerca di infrangerle, volontariamente o meno.
«Vaffanculo, Ris. Non devo darti alcuna spiegazione, alcuna giustificazione. Ti stai solo divertendo a provocarmi, ma non dovrei stupirmi no? Il massimo che sai fare è tenerti stretta quell’aria di superiorità mentre disprezzi chiunque ti circondi, sputando sentenze solo per il gusto di farlo. Cerchi di ferirmi per non sentirti l’unica frustrata su questa terra? Bene, sappi che mi fai solo una gran pena.»
Finalmente Ris si solleva e balza giù dal materasso.
«Mi duole fartelo presente, ma io non ho problemi a riconoscere di essere un pessimo esemplare di specie umana. Sono abbastanza onesta con me stessa per ammettere di essere fondamentalmente una scorbutica egoista e di meritare veramente ben poco di quello che ho. Tu, al contrario, tremi alla sola idea di poter essere giudicato un peccatore come tutti noi comuni mortali. La ami e non vuoi perderla? Allora dovresti già essere su un aereo per Londra, spezzato in due dal bruciante terrore di vedertela sfuggire dalle mani. Invece sei solo preoccupato della tua reputazione e di voci di cui non hai nemmeno mai assaporato il suono. Che ne dici di iniziare a dire la verità almeno a te stesso?»
«Dio, e cosa vorresti saperne tu? Proprio tu, che vivi nella tua bolla fregandotene di tutti, che non sai nemmeno cosa voglia dire provare qualcosa che non sia stizza o frustrazione. Vorresti seriamente insegnarmi qualcosa sui sentimenti o su come dovrei gestire le mie frequentazioni? Sicura di sapere cosa voglia dire amare? Non ne hai la minima idea, Ris. Non ne saresti nemmeno capace, probabilmente.»
Ris sorride con una nota amara, rendendosi conto solo in quel momento di essere ad un passo dalla furia di Tom. O meglio, dalla sua fragilità, dalla sua vulnerabilità e dalla sua paura. La avverte con forza primordiale, come se quegli occhi infiammati d’ira la stessero supplicando di smetterla, di ritrarre il pugnale.
«La verità, Tom, è che non mi interessa. La verità è che ti sto solo dicendo cose che conosci già, cose che non vuoi sentirti dire e che temi profondamente. La verità è che pensavi di trovare sostegno, o quantomeno muto assenso, e invece eccoti qui, davanti ad una ragazzetta di venticinque anni che ti sbatte in faccia quello che pensa perché non le importa nulla della tua immagine patinata che tanto veneri, che tanto temi. La verità è che sei frustrato perché non sai nemmeno chi sei. Prima te ne farai una ragione, prima smetterai si sentirti l’ostaggio di te stesso.»
Ris non abbassa lo sguardo nemmeno per un secondo e lo inchioda con l’immobile sicurezza di una statua in marmo, come se nessuna spina di quelle sue parole di rivalsa potesse realmente ferirla.
Tom, al contrario, vede con chiarezza i frammenti delle sue stesse schermaglie, crollate drammaticamente ai suoi piedi. La guarda dall’alto verso il basso, eppure si sente un minuscolo e fragile ramoscello al cospetto della sua sfrontatezza, sovrastato dall’ombra di una verità che non si era mai dato la possibilità di portare alla luce.
Ris si volta e si reca verso il suo borsone, recuperando le ultime cose per potersene andare e abbandonarlo alla sua cocciutaggine.
«E Tom, hai ragione. Non so cosa sia l’amore e non penso nemmeno che ne sarei mai capace. Non so cosa voglia dire riceverlo, non so cosa voglia dire darlo. Semplicemente, non è per me», riprende, chiudendo la cerniera e afferrando la felpa abbandonata sulla panchina, «ma ci ho già fatto i conti da tempo ed è qualcosa con cui ho imparato a convivere. Non credo che tu sia un egoista e stia illudendo quella ragazza. Al contrario, penso tu stia illudendo te stesso. Non so perché e non so cosa ti costringa, ma riconosco con perfetta lucidità le gabbie dorate. E sono cieca per tante cose, ma non per la paura. Forse deludere una manciata di aspettative per poter vivere le tue stesse verità potrebbe liberarti, Tom.»
Ris lascia scivolare lo sguardo dalle spalle curve dell’attore, rendendosi conto di aver le dita letteralmente affondate nel tessuto della felpa. Non sa cosa l’abbia portata a farsi spazio tra le regnatele di un’altra esistenza, sa solo che le sono sembrate così simili alle sue da non poterle ignorare. Consciamente non si sarebbe mai concessa quella libertà e non avrebbe mai permesso di lasciarsi sfiorare dal dramma di uno sconosciuto. Semplicemente, non le sarebbe importato. Ma qualcosa di primordiale e sommerso doveva esser intervenuto, forse l’umanità creduta smarrita tra il sangue e il marciume di una notte eterna. 
Tom la osserva impotente con le braccia abbandonate lungo il fianco. Non è nemmeno in grado di sentire il rumore dei propri pensieri, solo un ronzio assordante. Tuttavia, riesce a vedere ancora più chiaramente, come se le immagini si fossero fatte più vivide grazie alla prepotenza di quel silenzio assordante.
Scorge il portone dello studio aprirsi lentamente, una figura farsi avanti con un sorriso che accecherebbe persino a quella distanza e un paio di occhi puntarsi verso di loro.
Ris, ancora davanti a lei, si volta con uno scatto, richiamata da quello che sembra più un sesto senso, una voce interna. Il borsone stretto tra le sue dita cade a terra, seguito dalla felpa. Tom fa saettare lo sguardo sul suo profilo, riuscendo a intravedere l’angolo delle labbra sollevarsi nell’ombra di una felicità che lo immobilizza. La guarda scattare verso l’uomo, che la ricambia con quella che ha tutta l’aria di essere una risata calda e accogliente, confortevole come le braccia che la circondano non appena Ris si getta su di lui, allacciandogli le gambe attorno alla vita. Tom non può evitare di lasciarsi colpire dalla forza con cui si aggrappa alle spalle ampie dello sconosciuto, come se vi dipendesse la sua stessa esistenza. Ma, soprattutto, non è in grado di ignorare la nota amara che si espande dal palato per poi calare a picco verso il suo stomaco, macchiandolo di un’indefinita malinconia. I colpi con cui Ris l’ha più volte messo a dura prova durante i loro allenamenti sono nulla in confronto alla potenza di quella candida gioia, così irradiante da riuscire a piegare quella che Tom credeva fosse la l’inscalfibile freddezza della ragazza. Non è in grado di distogliere lo sguardo dall’immagine di quella nuova Ris, così diversa dal fantasma che gli era stato concesso di conoscere in quelle due settimane. Si rende conto di non aver mai creduto alla possibilità che proprio lei potesse essere capace di emanare con la sua semplice essenza una bellezza tanto viva e disarmante, di quelle che Tom non ha nemmeno mai assaporato. E lo realizza proprio in quell’istante, quando capisce di non aver mai provato quella gioia, di non aver mai sentito l’impellente bisogno di correre tra le braccia di qualcuno come richiamato da un invisibile e infrangibile legame.
Abbassa gli occhi verso i guantoni abbandonati a terra, circondati dai frammenti delle illusioni che non riuscirà più a erigere senza che una crepa non faccia improvvisamente la sua comparsa.
E ora lo sa, Ris è capace di un amore che non ha confini. Si sbagliavano entrambi: lui cieco a causa della sua rabbia e della sua codardia, lei soggiogata da quella che ora capisce non essere altro che una profonda ferita.
Tom, al contrario, sa ormai con dolorosa consapevolezza di non sapere proprio nulla dell’amore,
di non conoscere le sensazioni che osserva danzare sulla pelle altrui, di essersi illuso che l’amore potesse ridursi a una moneta di scambio, un onere, un contratto.
Con Jen non potrebbe mai avere tutto quello: non sarebbe mai amore.
E cos’è disposto a fare? Continuare a vivere quelle emozioni vuote, mediocri e anonime per non tradire quello che ormai lei si aspetta dalla loro frequentazione? Per non doversi macchiare della sua sofferenza? È sicuro di voler continuare a sacrificare quello che potrebbe vivere per non mostrarsi ingrato nei confronti di ciò che si ritrova tra le mani senza ricordare nemmeno di averlo mai desiderato? Ha il coraggio di togliersi i lustrini di dosso per provare ad ascoltare sé stesso e magari scoprire la serenità agognata nelle pieghe stropicciate di una camicia costosa, nell’imperdonabile ritardo ad un appuntamento di lavoro per essersi concesso di rimanere abbracciato ad un corpo sfiorato dai raggi dell’alba, nella follia di dire qualche no per fuggirsene al mare e fare l’amore ogni singola notte della sua vita? Ha la forza di ammettere di aver perso l’amore per sé stesso, di essersi condannato ad una vita di ligio dovere, di aver scelto di cedere le redini della sua vita alle parole d’altri, di aver sempre temuto l’idea di apparire come il comune peccatore che ogni anima umana in fondo è? È pronto a legittimare una vita che si macchierà di errori, di scelte egoiste, di rapporti che s’infrangono, di giudizi negativi e di cadute? Ha la stoffa per concedersi la vita di un disastrato mortale?
Tom non ha una risposta.
Sa solo di non voler più vestire quel fasullo, pregiato e candido ruolo.
 
 
 
«E comunque, che è successo ai tuoi capelli?»
Bruce cammina al fianco di Kade verso i parcheggi interni degli studios e solleva il suo codino con fare circospetto.
Ris – alle loro spalle con un sorriso che non è ancora riuscita a spegnere – li guarda stuzzicarsi a vicenda come se fossero due bambini delle elementari.
Nella sua mente non vede altro che un continuo replay dell’entrata totalmente inaspettata – e misericordiosa – di Bruce nello stabile numero 3. I suoi occhi, feriti da spente striature verdi, si erano illuminati dello stesso brillante riflesso del mare al tramonto e il suo cuore aveva perso un colpo, dando il tempo a quella visione di tingere del confortevole sapore di casa quel territorio diventato improvvisamente ostile.
Il ricordo dei reciproci affondi di poco prima – quelli che in realtà non aveva il diritto di infliggere, quelli che Tom le aveva assestato per puro meccanismo di difesa – la costringe a bloccare il suo incedere, lasciando che le parole di Bruce e Kade si affievoliscano sempre di più. Non sa perché, ma si volta, ed evita di domandarsi cosa si aspetta di trovare oltre ad un desertico silenzio. Nonostante l’oscurità di quella notte, non ha la minima difficoltà a cogliere dei movimenti sfumati poco lontano, proprio in prossimità dello studio appena abbandonato. Riconosce con immediata sicurezza i lineamenti flebilmente illuminati di Tom, carezze pallide che induriscono le pieghe di un viso ancora infestato. Si muove con il capo basso e passi decisi, come se non desiderasse altro che rifugiarsi in un luogo privo di suoni, occhi e parole avvelenate.
Prima che possa uscire dal raggio di Ris, si blocca, come richiamato da quello che ha tutta l’aria di un indefinito sesto senso. Volta lentamente il capo alla sua sinistra e i suoi occhi celesti vagano fino a quando due sguardi che non hanno nulla di accidentale s’incrociano, incastrandosi in una muta intesa che ha ancora il sapore di amara testardaggine, sfrontata rabbia e velenoso orgoglio. Ma ci vogliono soltanto pochi secondi prima che entrambi capiscano di aver nuovamente messo in gioco le reciproche difese, la stoltezza che nega a ciascuno di vedere la realtà dell’altro e le confortevoli forme d’astio con cui sventare ogni possibilità di intima comunicazione. Bastano pochi secondi in più, un eccesso di tentennamento da parte di entrambi e la concreta incapacità a tornare sulle proprie strade: uno schiocco spaventosamente chiaro. Tom vede Ris e Ris vede Tom. Non possono far altro che sciogliersi con una scarica di parole che non prenderanno mai forma, con un reciproco e silente perdono. Pensieri trattenuti, ma non abbastanza: iniziano a fluttuare in un che di sospeso di cui entrambi sentiranno, in un modo o nell’altro, la carezza di fumo.
Quando Ris torna sui suoi passi ignora la sensazione di essersi lasciata qualcosa alle spalle e accelera per avvicinarsi a quelli che ormai non sono altro che due punti lontani.
I due uomini camminano ancora l’uno accanto all’altro, spintonandosi di tanto in tanto, come nella traccia sbiadita di una lontana adolescenza che li aveva visti fratelli senza esserlo realmente, complici nei più grossi guai e nelle più inaspettate fortune.
Ris avverte nuovamente la necessità di recuperare il contatto e le mute attenzioni di Bruce, come se per quella sera non potesse averne abbastanza, come se la malinconia che ora le aleggia in fondo allo stomaco non potesse spegnersi da sola, nemmeno costringendo il suo stesso corpo a oltrepassare i limiti che ogni persona coscienziosa saprebbe rispettare.
Si avvicina sempre di più, non riuscendo a trattenere un sorriso quando pensa che potrebbe sfruttare quell’occasione per cogliere di sorpresa la sua ala e farla cadere rovinosamente a terra, incassando una rara vittoria. Scaccia quel pensiero quando i suoi piedi la portano automaticamente a prendere la rincorsa e ad aggrapparsi nuovamente alle spalle di Bruce, scoppiando in una risata quando per poco lui perde l’equilibrio.
Le gambe di Ris si agganciano alla sua vita, abbracciandolo da dietro, e le imprecazioni dell’uomo non fanno altro che incoraggiare i punzecchiamenti di Kade, ormai incapace di stupirsi di fronte a quel rapporto così bizzarro, bambinesco a tratti, spaventosamente profondo e incontrovertibilmente puro.
«Voi due un giorno vi ammazzerete», commenta guardandoli come due maldestri nipotini di quattro anni.
Bruce sorride mentre posiziona le mani sotto le cosce di Ris per assicurarsi che non cada e percepisce il viso minuto della ragazza affondare nell’incavo del suo collo. I capelli raccolti in una coda disordinata si riversano sul suo petto, arrivando a solleticargli il mento.
«E comunque, signorina», inizia Bruce in un finto rimprovero, «la prossima volta potresti anche presentarmi i tuoi amichetti da red carpet.»
«Ormai si è montata la testa», rincara Kade dandole un pizzicotto sul fianco.
Ris sbuffa, continuando a nascondere il volto, beandosi del profumo carezzevole dell’uomo.
«Una stretta di mano con Tom Hiddleston non mi sarebbe dispiaciuta», continua Bruce non dando peso al gesto con cui Ris aumenta la stretta, «mica mi sostituirai con le tue nuove frequentazioni sciccose, vero?»
«Oh, non c’è pericolo: preferirebbe un esilio di diciannove mesi in Antartide piuttosto che esplorare le sue abilità relazionali», interviene nuovamente il capo stunt facendo roteare le chiavi della Ford Bronco attorno all’indice. Ris si solleva lentamente, scoccandogli un’occhiata in tralice.
Bruce scoppia a ridere, non potendo che concordare.
«Kade è convinto di avermi assunto come animatrice per un camp estivo», rimbecca lei difendendosi.
«Per carità, mi faresti fallire nel giro di due ore.»
Ris rotea gli occhi al cielo e il suo mentore le scompiglia i capelli.
Si avvicinano al parcheggio e Kade avvista la Ford Bronco a pochi metri.
«Bruce, mi raccomando, fatti sentire: dobbiamo recuperare ancora una manciata di cene perse qua e là», si congeda dandogli una pacca amichevole sulla spalla e intercettando il suo sguardo d’intesa, «e tu, Ris, sappi che lunedì non finiremo prima di mezzanotte, quindi sfrutta questi due giorni per prepararti una decina di camomille.»
Kade blocca l’eventualità di una qualsiasi risposta acida con un sorriso a trentadue denti e inizia a indietreggiare. Ris, comunque, non si risparmia un meritato dito medio.
Bruce lancia un ultimo saluto e poi si inoltra tra le file di automobili per raggiungere il pickup nero.
«C’è una qualche ragione per la straripante affettuosità di questa sera?», chiede lui dopo qualche attimo di silenzio.
Ris, per tutta risposta, allaccia nuovamente le braccia attorno al suo collo.
«Non so, c’è una qualche ragione per questa sorpresa?»
Bruce la lascia scendere in prossimità del pickup, incapace di nasconderle un sorriso che tradisce giusto un paio di cosette che ancora non sembra volerle rivelare.
«Uhm, è solo da un bel po’ di tempo che non passiamo una serata insieme», risponde caricando il borsone di Ris sul cassone, «quindi direi che possiamo prenderci messicano d’asporto e farci un giro di Gosthbusters.»
Lo segue con uno sguardo confuso fino a quando non monta sul mezzo, si allunga verso il sedile del passeggero e solleva la custodia consunta di un dvd che entrambi conoscono alla perfezione.
Ris spalanca la portiera e inizia a boccheggiare: «Ma come…la televisione… dove l’hai…Bruce?»
«A casa ci aspetta un nuovo televisore con tanto di lettore dvd.»
«Ne hai comprato uno nuovo?»
«Se vuoi continuare a vivere nell’era dei cavernicoli basta dirlo. Vorrà dire che stasera ci limiteremo alla sola indigestione di cibo messicano.»
Ris balza sul pick-up scoccando una fulminata senza precedenti.
«Scordatelo. Potrai privarmi di tutto, ma non di Ghostbusters.»
 
 
 
«In realtà ci sono altre novità», rivela Bruce rubandole un paio di nachos.
Ris ora lo sa: il pavimento può essere un’ottima trovata per pizza e giapponese, ma non per il messicano.
Il ripieno delle fajitas finito sui suoi pantaloni e sul tappeto del salotto ne è una prova incontrovertibile.
«Stai pianificando di costruire una piscina interrata sul retro? La signora Gonzales apprezzerebbe», considera Ris con un’occhiata che la dice lunga. Emilia Gonzales – unghie laccate di bordeaux e lunghi capelli biondi – spezza cuori a destra e a sinistra da quando si è trasferita nel vicinato e ha perso la ragione per Bruce Morales, sua prediletta preda.
Per Camryn, poi, è un vero spasso vedere la sua metà districarsi con difficoltà tra le ragnatele Chanel n°5 dell’attraente pretendente. E Ris, dal canto suo, non pensa esista spettacolo più divertente.
Inutile dirlo: Bruce le detesta entrambe.
«Totalmente fuori strada.»
«Ti avverto: non tirerò a indovinare. Quindi, schietto e coinciso.»
Bruce alza le mani in segno di resa. In ogni caso, non pensa di riuscire a resistere ancora per molto.
«Hai presente lo stabile abbandonato con cui confiniamo?»
«Quello in cui avrebbero dovuto realizzare un atelier di abiti da sposa?»
Lui fa un cenno affermativo e dopo essersi appropriato di una ventina di tovagliolini riprende: «Ebbene, si trasformerà in una scuola di danza.»
Ris non dice niente, in attesa della parte che dovrebbe stupirla.
«Sarà affiliata alla Morales’», spiega poi allargando le braccia in un sorriso smagliante, «io e Camryn uniremo le attività.»
Ris rimane con la cannuccia della diet coke incastrata tra le labbra e gli occhi fissi sull’espressione elettrizzata di Bruce, incapace di spiccicare parola.
Sa con lucida certezza di non poter reagire nel modo in cui l’uomo si aspetterebbe e, tuttavia, sorvola sui reali motivi che la irrigidiscono e le ordinano di simulare al più presto una qualsiasi risposta.
«È una fantastica notizia.»
Solleva quasi impercettibilmente l’angolo delle labbra, fingendosi indaffarata per impedire a Bruce di cogliere una pulsante nota amara. Afferra i contenitori vuoti e li impila con studiata lentezza, sperando di non insospettirlo nel momento in cui si alzerà per rifugiarsi in cucina con la scusa di dover mettere in ordine.
Non ha nulla contro Camryn e, al contrario, crede che sia perfetta per Bruce. Tuttavia, un timore quasi bambinesco ogni tanto bussa alla sua porta: che possa sottrarle definitivamente la sua ala? L’unica persona che le rimane e l’unica per cui si sforza a convivere con il proprio dolore?
Insomma, la palestra è il suo nido, la loro casa, il loro piccolo e inviolato mondo.
E deve ammetterlo a sé stessa: in quel momento si sente minacciata, come se dovesse immediatamente correre ai ripari, nascondersi in trincea e puntare affinché nessuno violi la sua preziosa e sospesa realtà. E, tuttavia, Camryn è tutt’altro che nessuno. È la donna che Bruce ama, la stessa per cui venderebbe anima e corpo, l’unica che vorrebbe nel suo futuro e per cui scenderebbe a qualsiasi compromesso, sacrificando parte della propria vita e investendo qualsiasi cosa per la sua felicità. Ris, dal canto suo, sa di non poter nulla di fronte ad un amore disarmante, di non avere nessun diritto, di dover accogliere Camryn nella sua vita e lasciare che quel nuovo tassello s’incastri nella sua fragile realtà, volente o nolente.
S’inginocchia per raccogliere le ultime cose, ma prima di potersi alzare Bruce le afferra una mano.
«C’è un’altra cosa.»
Ris solleva gli occhi sul sorriso dell’uomo e il presentimento negativo soppresso fino a quel giorno esplode dal profondo delle viscere, arpionandole gli occhi, ora terrorizzati.
Può percepire chiaramente il sapore delle parole che la sfioreranno, che la colpiranno e la faranno sanguinare. Avverte con spaventosa consapevolezza l’arrivo dell’ultimo affondo.
«Questo è tutto tuo.»
Bruce spalanca le braccia e si guarda attorno, inconsapevole di quanto quella sua felicità sbriciolerà le ultime forze di Ris.
«Non…non capisco», farfuglia lei, vittima di quegli eterni attimi, opprimenti come massi.
«L’appartamento. È tuo, completamente tuo. Penso che sia arrivata l’ora di lasciarti i tuoi spazi e darti l’autonomia che meriti», riprende illuminandosi in un doloroso sorriso, «e poi, a venticinque anni direi che ti sei guadagnata un vero e proprio letto in cui dormire: puoi dire addio a quel vecchio sgabuzzino dimenticato da Dio.»
Ris rimane con la bocca socchiusa, pietrificata in una condanna ancora sfumata, indefinita e sospesa come le parole di Bruce, bloccate in un attimo immobile che sa di fine, amaro come l’epilogo che nessuno si aspetta.
«Ris, vado a convivere con Camryn.»
 
 
 
 
 
 
Rec’s
Mancava un pizzico di pepe, mancava un Tom che sfuria. Spero di aver rimediato almeno un briciolo.
Ringrazio i lettori silenziosi che non hanno ancora declassato questa storia come una matassa insensata di parole.
Se faccio casini e scrivo cavolate – come spesso credo – datemi pure una strigliata.
-Rec

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo Sei ***


Capitolo Sei

 
«Tua sorella ha insistito per parlarmi. Mi dispiace, non avrei dovuto ignorarti.»
Tom, immerso nella penombra della sua camera d’hotel e flebilmente illuminato dallo schermo del portatile, si chiede per quanto tempo ancora rimarrà pietrificato sotto lo sguardo color fumo di Jen.
Un’inaspettata bandiera bianca che accoglie con molto più timore di quanto vorrebbe ammettere, l’occasione per rassicurarla con fiumi di parole e promesse, instancabilmente cucite, scucite e ricucite nel corso quell’ultima settimana infernale. Un ottimo copione ora accartocciato ai piedi del suo letto, una recita da quattro soldi che non ha più la forza di correggere e riscrivere. La lascia lì, abbandonata tra i detriti di tutto ciò che non ha mai realmente sentito come suo.
«Tom? Va tutto bene?»
Torna a guardarla con occhi colpevoli e la scruta con un nodo in gola, come se non potesse sopportare l’idea di darle una risposta che non si aspetterebbe e che, in realtà, nemmeno si meriterebbe. E si chiede per quale motivo non sia in grado di prendersi cura di quella piccola realtà che hanno creato, perché sia così difficile trattenere quella bellezza totalmente disarmante tra le dita, un dono di materia celestiale di cui non è neanche degno e di cui non sa nemmeno essere grato. Perché non può semplicemente continuare a percorrere quella strada? Perfettamente asfaltata, nessuna curva, nessuna pioggia, nessuna nebbia.
«Senti, so che mi sono comportata da bambina testarda, so che non avrei dovuto fare altro che parlarti e lasciare che mi spiegassi. Ma ti prego, mettiamoci tutto alle spalle.»
Jen sospira e si passa una mano tra i lunghi capelli biondi, saettando con gli occhi a destra e manca, alla ricerca delle parole giuste da dire per poterlo smuovere almeno un briciolo.
«E poi mi sei mancato, Sherlock.»
I suoi denti, perfettamente bianchi e perfettamente schierati, stringono il labbro inferiore in un’espressione con cui spera di addolcirlo, con cui sa con assoluta certezza di poterlo sciogliere.
E, tuttavia, Tom riesce ad aggrapparsi ad un minimo particolare, ad una piccola nota stonata, l’unica in quel quadretto che ogni notte lo sommerge di sensi di colpa, raddrizzandolo con un colpo di frusta senza perdere tempo, prima che possa inoltrarsi per altre vie; forse più accidentate, probabilmente meno sicure, certamente più imprevedibili.
«Perché Sherlock, Jen?»
Pronuncia quelle parole come se non ne avesse pienamente il controllo, come friabile sabbia stretta tra le dita.
Il cipiglio della ragazza non lo sorprende, così come i cenni con cui lo incoraggia ad ammettere di star solo scherzando. Eppure, per quanto ridicola quella domanda possa suonare, Tom sa che non le vorrebbe chiedere nient’altro.
Jen si lascia scappare una risata nervosa.
«Uhm, fammi pensare. Perché sei un perfetto gentleman inglese e… non so, mi è venuto naturale. Come mai me lo chiedi solo ora?»
Il fatto è che Jen non sa nulla di lui, così come lui non sa nulla di lei, e la verità è che vivono entrambi nella fretta di tessere la custodia di velluto di una perfetta storia d’amore, senza rendersi conto di averla lasciata vuota. La trappola sta proprio lì: nella cecità di entrambi, nella codardia di Tom e nelle ingenue speranze di Jen, forse alimentate dalla paura di non essere ancora riuscita a trovare il suo posto tra le braccia di qualcuno.
L’unica cosa certa, che Tom non è più in grado di liquidare con sorrisi sforzati e una quotidiana dose di logorante biasimo per sé stesso, è lo stridio che si forma nel momento in cui i loro mondi arrivano a cozzare tra di loro. E la verità è che non ha nemmeno mai provato a creare l’incastro perfetto, che si è lasciato trascinare dall’incedere degli eventi fino a quel famoso terzo mese, sfidato dall’accumularsi delle prime perplessità e dall’assenza di una svolta che non poteva non insospettirlo.
«Non so, non penso di esserci mai sentito. Insomma, uno Sherlock.»
Dare voce alle sue folli elucubrazioni è una sensazione strana e, tuttavia, sorprendentemente liberatoria.
Non sa perché, ma la sua incalzante angoscia sembra tacere e con lei il ronzio che lo tiene sveglio quasi ogni notte.
Jen lo guarda come se si stesse domandando se non sia semplicemente un sogno, se quello con cui sta parlando sia realmente Tom Hiddleston, il suo Sherlock, o uno sconosciuto.
Tom, in quel momento, sa di non essere altro che Tom. Per la prima volta, non veste gli abiti di un estraneo: nessun Sherlock e sicuramente nulla dell’Hiddleston stampato a lettere cubitali sull’ennesima rivista.
È il Tom che si arrabbia, che mette in discussioni le sue scelte, che legittima le sue frustrazioni, che ascolta i suoi bisogni, che si permette di accogliere la propria tristezza, che non condanna quello che potrebbe mandare in aria intraprendendo strade che molti non gli consiglierebbero. Il Tom che avrebbe scelto di mettere in pausa la sua carriera cinematografica per gettarsi nella parte di quell’opera teatrale a Londra; il Tom che avrebbe mandato al diavolo la sua ex dopo aver scoperto del tradimento; il Tom che avrebbe fatto uno strappo alla regola per accompagnare sua sorella in quel viaggio in Thailandia; il Tom che non avrebbe avuto paura di confessare a Jen, dopo sole due settimane di frequentazione, che forse sarebbero dovuti rimanere amici; il Tom che si sarebbe limitato a rispondere con un “vaffanculo” a tutte le domande scomode sulla sua vita sentimentale: “Non pensi che sia Jen quella giusta? Insomma, matrimonio e figli non possono aspettare per sempre”; il Tom che non avrebbe sacrificato di partecipare alla maratona di beneficienza organizzata da Westminster, il suo nido, per l’ennesima cena tutta forma e niente sostanza di alcuni suoi colleghi, gli stessi che non era mai riuscito a mandare giù e che s’imponeva di trattare con guanti di seta.
«Tom, ci sentiamo domani? Devo veramente correre a lavoro.»
Non è vero, non deve andarsene da nessuna parte. A Londra sono le sette di lunedì mattina e Jen, il lunedì mattina, non lavora. Ma Tom fa finta di niente. Sa perché vuole interrompere quella conversazione, entrambi lo sanno. Hanno una limpida immagine di quello che sarà l’epilogo di quelle loro videochiamate notturne, dei messaggi che diventeranno sempre più sporadici e sempre più poveri, trasformandosi in una mera trattativa tra due pseudo-sconosciuti.
Nessuno dei due ha il coraggio di dare forma a quei pensieri, nessuno dei due ha le forze ed entrambi se lo riconoscono a vicenda. Non servono le parole, solo un paio di sguardi bassi che si evitano e le dita che fremono per poter chiudere la chiamata con un paio di clic, impazienti di poter tornare nei rispettivi rifugi. Rifugi che, evidentemente, nessuno di loro riconosce nelle braccia e nelle rassicurazioni dell’altro.
«A domani, Jen.»
 
 
 
È domenica sera, Atlanta piange e Ris scende di un gradino la sofferta scalinata della sua risalita.
Bruce ha altro a cui pensare e, soprattutto, da tempo ha abbassato la guardia.
E nonostante tutti quei passi avanti, Ris si ritrova improvvisamente prosciugata. Si guarda intorno alla ricerca di un appiglio e non vede che nebbia. E Bruce non è lì a tenderle una mano, non è lì a raccoglierla dalla sua miseria. Non c’è più nessuno a spingerla verso l’alto: non può che fare affidamento su sé stessa, cercando briciole di pane lungo un sentiero di petrolio.
La verità è che Bruce c’è, è ancora lì, ma Ris è acciecata e non può che essere preda di un nero irrazionale. La cera è colata e nessun lume è in grado di orientarla. La paura soffia fredda e lei torna ad essere un feto indifeso.
Ci ha provato: ha conficcato unghie e denti in quel presente, cercando di non lasciarsi trascinare da un antico vortice di deliziosa autodistruzione. E alla fine, dopo una notte rannicchiata ai piedi del letto in un pianto silenzioso, Ris ha mollato la presa. Un terrore primordiale – mai realmente scomparso – è tornato in superficie con la prepotenza di un’eruzione, fondendo la sua armatura in una viscida sostanza rovente, appiccicosa come l’angoscia da sempre respirata e che ora la opprime come quella notte, come i primi passi dopo quella disfatta, le prima cadute, i primi lividi, le prime lacrime di Bruce, la sua prima confessione: “lasciami andare, lasciami morire.”
Bruce non le aveva mai dato retta, testardo come un mulo. L’aveva osservata rincorrere la sua guglia infernale come un corpo a digiuno in cerca di cibo, in cerca del vuoto con cui sfamare quella paura viscerale.
Aveva pianto in silenzio per così tante notti, distrutto al pensiero di non poter far niente per quella sofferenza, quasi arreso all’idea di non poterla salvare.
E alla fine, qualcosa di dolce, carezzevole e luminoso come i raggi che filtrano tra la chioma rigogliosa di un acero si era infiltrato tra le crepe di quell’anima frammentata, fortificandola e offrendole l’energia necessaria per non crollare nuovamente a pezzi. La cura di un semplice uomo l’aveva risollevata, l’aveva distratta dall’amore che non era in grado di provare per sé stessa, l’aveva portata a stringere un patto con la parte più corrotta dei suoi pensieri: Bruce non avrebbe sofferto a causa sua, l’avrebbe reso fiero, sarebbe andata avanti per lui, si sarebbe concessa di vivere l’unica forma di amore che avrebbe mai potuto ricevere.
Aveva placato la sua fame di silenzio, si era arrampicata sulla parete scivolosa di quella voragine nero petrolio, si era issata con le ultime forze rimaste, avvertendo la piacevole brezza di un cielo pulito soffiarle sul viso martoriato. Si era rotolata tra l’erba verde, esausta. Era riuscita a ridere per la prima volta.
Da lì aveva lasciato che Bruce accelerasse il passo, la gettasse nella vita senza permetterle una sola volta di guardare oltre le sue spalle e sporgersi ancora verso il basso. Era nato un amore senza definizioni, senza canoni, senza limiti: l’unica ragione per cui Ris aveva accettato di sopravvivere così a lungo, l’unica bellezza che era in grado di vedere in quel mondo, l’unico appiglio in una realtà che altrimenti avrebbe ripudiato con tutta sé stessa e che l’avrebbe terrorizzata, spingendola nuovamente sul fondo della voragine. Il velo con cui aveva nascosto l’angoscia, la vulnerabilità e l’abulia a cui era stata condannata nell’esatto istante della sua resurrezione. Mai realmente scomparse, semplicemente tenute a bada da un mosaico di confortevoli momenti.
E, tuttavia, non erano state le sue mani a tessere quel velo, non era lei ad averne il controllo. Era stato Bruce.
Lei non aveva mai messo nulla di suo nella costruzione di quel fragile palliativo, si era semplicemente limitata ad accogliere il bene di un’altra anima, convinta che potesse bastare, che in quel modo non avrebbe dovuto riesumare le forze per trasformarsi nel motore della sua stessa resistenza.
La verità è che si era illusa di poter vivere di quell’immobile realtà per sempre, lei e i suoi punti fermi.
E la verità è che le parole di Bruce hanno stracciato quel velo, permettendo al marciume sottostante di prendere nuovamente il sopravvento.
La verità è che ora un timore antico sfigura tutto ciò che di bello ha avuto la possibilità di vivere in quei cinque anni, privandola di ogni appiglio.
La verità è che è domenica sera, Atlanta piange e Ris non scende nessuno gradino: l’intera scalinata crolla sotto i suoi piedi.
Solleva il cappuccio della felpa nonostante sia ormai fradicia.
Si infila nel familiare vicolo e raggiunge una porticina mezza scassata, entrando.
L’odore di fumo e di sudore la investe con prepotenza; la musica, invece, le arriva attutita, separata da quell’antro di miseria.
Brent – carnagione color ebano e un metro e novanta di muscoli – è abbandonato svogliatamente contro lo stipite della seconda entrata, pronto a mandare al diavolo qualsiasi ospite indesiderato. Ris riconosce il vorticare di voci oltre le sue spalle, l’atmosfera cha ha più volte fatto da teatro alle sue disfatte.
L’uomo la guarda avvicinarsi con un cipiglio e nel momento in cui abbassa il cappuccio strabuzza gli occhi. Passano solo frazioni di secondo prima che una smorfia furente gli sfiguri il volto: «No, vattene. Ora.»
Nulla di sorprendente, Ris non poteva realmente aspettarsi altro.
«Fammi parlare con Rick.»
Brent scoppia in una risata, non riuscendo comunque a innescare il minimo guizzo nei lineamenti glaciali della ragazza.
«Rick ti manderebbe fuori a calci in culo. Quindi, sii saggia per una volta: testa bassa e via prima che qualche risentito possa mandarti all’ospedale.»
«Come potrebbe esserci qualcuno di risentito? Li ho fatti vincere tutti. I soldi non piacciono più?»
L’uomo scuote la testa e le intima nuovamente di andare.
Ris fa un passo avanti e in quel preciso istante la porta alle spalle di Brent si spalanca, vomitando un ragazzetto tatuato con occhi tremendamente arrossati. Rotola ai piedi di Ris, spinto da un Rick furente.
«Brent mi spieghi che cazzo ci fa un sedicenne strafatto nel mio locale? Stai perdendo le fottute diottrie?» lo rimprovera senza minimamente fare caso alla ragazza lì in piedi, statuaria. «E tu, piccolo infame, pensaci due volte prima di scatenare una rissa da quattro soldi per la tua merda.»
Punta un dito all’adolescente ancora raggomitolato ai piedi di Ris, prima di ricevere un ringhio e un “vaffanculo” che preludono la sua claudicante uscita.
Solo in quel momento, dopo aver seguito con occhi iracondi la fuga del malcapitato, Rick sembra finalmente realizzare di trovarsi al cospetto di una vecchia conoscenza. E che vecchia conoscenza.
Il volto emaciato si apre in un ghigno decisamente divertito: «Il ritorno del figliol prodigo. Come stai piccola Morales?»
Tutti, in realtà, sanno che Ris non è una Morales; tutti, tuttavia, la conoscono come la prima cadetta Morales.
E lei, che ha gettato qualsiasi residuo della famiglia Stevenson nel primo dei gironi infernali, non si è mai lamentata, sentendosi, al contrario, incredibilmente orgogliosa. Come se finalmente l’unico legame di sangue che avrebbe voluto condividere avesse finalmente trovato legittimazione.
«Saltiamo i convenevoli. Sai perché sono qui, lasciami entrare.»
«Te lo scordi», interviene nuovamente Brent incrociando le braccia al petto. Rick affila uno sguardo incuriosito, afferrando la spalla del suo caro vecchio amico per farlo indietreggiare.
«Ho sentito che il mio fratellino ha davvero fatto un buon lavoro in questi ultimi anni», considera studiandola con lentezza, «e anche che bazzichi nel Dojo di Kade Reeves. Sai cosa vuole dire presentarti qui come allieva del Dojo?»
«Fratellastro», puntualizza Ris con un ringhio.
Rick sorride affilato, alzando le mani in un segno di resa. La incita comunque a rispondere.
Ris sa cosa significa: addio Dojo, addio Kade.
«Ripeto: fammi entrare.»
E quando scorge gli angoli di quelle labbra sottili incurvarsi in una mezzaluna sghemba, Ris sa di aver letteralmente venduto l’anima al diavolo.
«Conosco un paio di scapestrate che farebbero i salti di gioia a sentire il nome Morales.»
Le tende una mano: «Ma questa volta niente trucchetti, voglio vederti combattere così come combatti sul ring patinato della pecora nera della famiglia.»
Come se fosse Bruce, poi, la pecora nera della famiglia.
Ris tentenna, ma accetta la fredda presa di Rick.
«Stasera ti tengo d’occhio io. Fai cazzate e ti sbatto fuori.»
 
 
 
«Quindi il mio intervento è stato assolutamente inutile?»
Tom incastra il telefono tra la spalla e il capo, sollevando con una mano il portabagagli della Cadillac.
«No, Emma. Non ho detto questo.»
«Ha inventato che doveva scapparsene a lavoro! Sicuramente la tua faccia da ebete non l’ha convinta.»
Tom alza gli occhi al cielo, afferra la cinghia del borsone e lo lascia cadere ai suoi piedi.
«Ti ripeto: ha detto che mi crede. Il problema non è questa stupida storiella del tradimento», confessa sospirando, «è che…non lo so, penso di aver capito alcune cose. E lei anche.»
Segue un momento di silenzio e Tom non è in grado di sentire altro che il sibilo di un vento freddo. Impreca tra i denti, realizzando di essere in ritardo per l’allenamento e di star facendo tutto il possibile per incoraggiare Ris a rendere il resto delle sessioni un reale e sanguinario inferno. Insomma, dopo la discussione di quel venerdì avrebbe fatto meglio a ponderare qualsiasi sua mossa. Quindici minuti di ritardo avrebbero portato solo ad un estenuante silenzio tombale e ad un paio di scene totalmente stravolte giusto per sbatterlo a tappeto.
Ed è tutto il giorno che pensa a come dovrebbe comportarsi. Dopotutto, lo deve proprio ammettere: le ha detto delle cose orribili, cose che poi si è reso conto di non pensare realmente. E alla fin fine, che cosa gli aveva fatto Ris? Gli aveva solo detto la sua verità, che poi, guarda caso, si era rivelata la stessa da lui profondamente temuta e repressa. Ma Tom, testardo come un mulo, non poteva proprio accettare che una semi-sconosciuta avesse colto ciò che nemmeno lui era in grado di vedere, o che forse preferiva semplicemente ignorare.
Si era infuriato, ostaggio della sua stessa vulnerabilità; si era esposto, credendo di poter scampare alle conseguenze di quella scelta.
Aveva apprezzato la silenziosa vicinanza di Ris, ritrovandosi quasi a sperare che la sera, dopo due ore di sfiancante allenamento, non lo lasciasse da solo con quel sacco da boxe e sorridendo con il capo basso quando la scorgeva allontanarsi verso la fermata del pullman. E poi eccolo a vomitarle addosso un ingiustificato disprezzo quando lei – con modi sicuramente scontrosi e saccenti, certamente irritanti e senza dubbio poco delicati – provava ad aprirgli gli occhi. Sì, era stato un codardo e sì, le avrebbe parlato. Le avrebbe chiesto scusa e le avrebbe proposto di cancellare tutto e tornare al confortevole – magari freddo –, meccanico e lineare rapporto dei primi giorni. Non avrebbe permesso alla sua vulnerabilità di creare terremoti in un luogo che ne sarebbe dovuto rimanere immune. Forse l’austera professionalità di Ris sarebbe servita a lasciare che tutto filasse senza intoppi; forse doveva semplicemente andare così.
Poco conta se tra le costole percepisce ancora il tremolio di quello sguardo, quello con cui, alla fine, si erano detti più parole di quante se ne sarebbero potuti scambiare in quindici ore di allenamento. Poco conta se proprio in quel frangente le aveva confessato di avere una paura fottuta, di sentirsi un’anima persa, di non aver mai pensato nessuna di quelle cattiverie. Poco conta se aveva cercato di farle capire, avvolti da un cielo nero e tetro, che si sbagliava: che lei sapeva amare, che la invidiava perché lui non sembrava proprio esserne in grado. Poco conta se lei, illuminata da un’aurea sconosciuta, aveva abbassato la sua schermaglia di indifferenza per fargli capire che l’aveva vista, quella sua anima ferita, per sussurrargli che non era solo, che anche se se lo fossero dimostrato in modi totalmente inopportuni e con parole assolutamente sbagliate, potevano comunque mantenere quella silenziosa e distaccata vicinanza, giusto per permettere che almeno gli angoli più intimi e invisibili ai loro stessi occhi potessero parlarsi con dolcezza. Poco importa se Tom alla fine non avrebbe trovato il coraggio di parlare e avrebbe sperato, anche quel lunedì sera, che lei non lo lasciasse da solo con il sacco da boxe in pelle rossa.
«Quindi il mio intervento è stato realmente inutile! Non hai pensato di avvertire la tua cara sorellina? Che ne so io che finalmente ti sei svegliato e hai capito che con Jen non vai da nessuna parte!»
Tom si riscuote, non rendendosi nemmeno conto di aver macinato tutti quei metri e di aver ignorato buona parte del discorso di sua sorella.
Ma una cosa è certa: come al solito, Emma lo rimprovera e, come al solito, Emma sa più cose di quante ne potrebbe sapere lui stesso. E Tom, come al solito, si contorce in un cipiglio e boccheggia, spazientito: «Contestualizza, sorellina. Contestualizza.»
«Oh andiamo, hai presenta la scintilla? Insomma, quella cosa scoppiettante, viva, accecante, inebriante? Ecco, pensi di averla mai vissuta con Jen? Perché se vuoi il mio punto di vista, penso che ci sia molta più chimica tra la mia aspirapolvere e i batuffoli di pelo di Whiskey.»
Whiskey è il gatto di Emma; Whiskey odia Tom; Tom cerca di farsi amare da quattro anni e ogni Natale si conclude con un bel graffio pulsante appena sotto l’occhio.
«Da quanto lo pensi?»
«Diciamo che fingere una broncopolmonite per rinunciare a due intere giornate in un cottage da spezzare il fiato si è rivelato un indizio fondamentale. E insomma, ogni volta che ti chiedo come procede rispondi con lo stesso entusiasmo della voce metallica del casello autostradale.»
Tom sospira e si passa una mano sul volto.
«Senti, mi sono sempre trovato bene con lei. Qualche volta mancano giusto gli argomenti, ma avanti, non si costruisce qualcosa in due giorni. Pensavo servisse solo un po’ di tempo, però…Cristo, non lo so Emma, ok? Non lo so.»
«E quindi ora cosa pensi di fare?»
Tom si volta con espressione sconsolata verso il portone dello studio 3, ormai a pochi metri di distanza.
«Per ora so solo che mi farò massacrare da una venticinquenne tutta furia e poca etica. Quando stasera crollerò a letto forse ci penserò, forse no.»
«Non puoi lasciare le cose in sospeso, lo sai.»
«Da quando, comunque, ti ho assunto come guida morale?»
«Sono tua sorella: è la mia seconda professione dopo quella di tentatrice infernale.»
Tom non trattiene un sorriso mentre abbandona il gelo di quella serata alle sue spalle e s’infila nello stabile. Fa per salutare Emma, ma prima che possa dire qualsiasi cosa la sua voce squillante lo blocca: «Oh, e Tom, per la venticinquenne che ti pesta come una furia, che ne dici di portarmela a Londra al termine delle riprese? Lei sì che merita tutta la mia ammirazione.»
Tom non risponde neanche, chiude la chiamata e si fa scappare una risata quando è sicuro che Emma ormai non possa più sentirlo.
Infila il telefono nel borsone e si volta, inspirando profondamente. Cristo, perché è così agitato?
Michael è a un passo da lui e gli lascia una pacca sulla spalla, ma prima di superarlo si ferma e gli rivolge uno sguardo che Tom – può giurarlo su qualsiasi cosa al mondo – non gli ha mai visto addosso.
C’è qualcosa d’invisibile che gli fa perdere un battito.
Le dita di Michael tamburellano sul tessuto della maglia di Tom, tentennando.
Tom, con un semplice sguardo e un paio d’occhi confusi e leggermente intimoriti, lo sollecita a dire almeno una parola.
«Senti», inizia il suo collega guardandosi attorno in difficoltà, «non fare domande. Semplicemente, non farle.»
Aggrotta le sopracciglia e afferra il polso di Michael non appena capisce che lo lascerà lì impalato senza spiegazioni. Gli occhi glaciali dell’attore incrociano i suoi e accenna un tenue sorriso.
Ma che diavolo sta succedendo?
Lo guarda uscire dal portone e fionda lo sguardo sul pavimento, come se le sue scarpe avessero le risposte a quella matassa di silenzi.
Si volta e si dirige verso il centro della palestra. Riconosce il tatami, il quadrante centrale, il materasso per le cadute, l’attrezzatura, il borsone di Ris abbandonato in un punto indefinito e lei, che esce lentamente dal bagno poco lontano, proprio accanto alle spalliere sul lato sinistro.
Indossa una felpa pesante con il cappuccio sollevato e lui continua ad avanzare. La segue incuriosito, convinto che ci sia qualcosa che non va. Si avvicina a lei, ora ferma al grande materasso, chinata alla ricerca di qualcosa. Estrae una bottiglietta d’acqua e continua a ignorarlo mentre si scola tutto il contenuto e lui lascia cadere il borsone sulla panchina di ferro. Se ne sta lì fermo a fissare il suo profilo in attesa che lo degni di un saluto.
«Avanti, andiamo», bisbiglia tenuemente chiudendo la cerniera della sua sacca. Il cappuccio le cade, i capelli raccolti sono appiccicati alla base del collo e il suo respiro è molto più affannato del solito. La sente sospirare spazientita e frustrata appena prima di voltarsi completamente verso di lui: «Cos’è? Oggi si gioca alle belle statuine?»
Tom, tuttavia, non ha la forza di rispondere.
Perde decisamente più di un battito e sente le sue labbra schiudersi leggermente, incapace di razionalizzare quello che i suoi occhi si ritrovano ad esaminare accompagnati da un nodo alla gola e un pugno allo stomaco.
Ris, dal canto suo, è pronta a reggere tutto quello. Lo è da una giornata intera, in realtà.
Continua a maledirsi dal primo minuto di quel lunedì mattina: la faccia Ris, cazzo, proteggi sempre la faccia.
Kade, fortunatamente, si era fatto vivo solo per messaggio prima ancora che albeggiasse, avvertendola che si sarebbe dovuta addossare l’intero programma del giorno e che avrebbe fatto meglio a sperare che ai pieni alti non avessero preso decisioni drastiche sulla sceneggiatura. La maggior parte degli allievi di quel giorno, poi, si era semplicemente tramutata in una muta statua. Come se poi fosse realmente una novità con Ris attorno.
Solo Michael, fino a quel momento, aveva cercato di farla parlare e lei, come da manuale, gli aveva propinato una manciata di cazzate senza capo né coda. Michael, in realtà, non aveva fatto altro che lasciarle credere di esserci cascato.
Ma Tom, lì in piedi con due occhi che non la abbondonando nemmeno per una frazione di secondo, non può proprio ignorare il livido sullo zigomo e il labbro spaccato, non può proprio evitare di percorrere ogni centimetro di quel volto con cura e meticolosità. E per la prima volta, Tom sente la mancanza di quella fredda e saccente espressione, di quelle labbra costantemente premute in una dura linea di intransigenza. Una linea, tuttavia, piacevolmente armoniosa e rosea come un bocciolo: nessun taglio, nessun livido e nessuna traccia di sangue raffermo a sfigurarla.
«Senti, togliti quell’espressione dalla faccia. Gli allenamenti di boxe possono finire anche molto peggio.»
Gli volta le spalle e si allontana.
Tom rimane lì impalato.
Allenamenti di boxe un cazzo.
 
 
 
Nonostante percepisca ogni singolo legamento supplicarla di fermarsi, Ris accoglie con paradossale sollievo quella dolorosa stanchezza. Tom non ha ancora proferito parola, ma quel silenzio è così distante dal timore di chi, prima di lui, si era ritrovato nella stessa scomoda posizione. Gli sguardi bassi che l’avevano graziata vengono sostituiti ora da un paio di occhi marini che non hanno la minima intenzione di ignorare e declassare quell’evidente menzogna. Ris continua imperterrita a impartire dritte e comandi, fingendo di non soffrire quella tremenda pressione e di non essere minimamente sfiorata da quell’estranea attenzione. Non riesce a guardarlo in viso, ad essere sfrontata come al solito, a lasciarsi scivolare addosso sguardi e pensieri che non siano i propri. Si sente braccata, scoperta nonostante lo spesso strato di cotone e poliestere che nasconde le sue debolezze e la sua follia. Stanata.
Per la prima volta, Ris non è in grado di sorreggere il suo muro d’indifferenza. Per la prima volta, Ris è tanto debole da non poter armarsi dell’astio con cui assicurarsi la distanza dei curiosi, la distanza di chi, in quel momento, arretrerebbe solo di fronte a un attacco diretto, spietato e irreparabile. Si ritrova a sperare che, confinata in quella nuova – e dolorosamente vecchia – fragilità sommessa, Tom percepisca la sua supplica e si mantenga qualche passo indietro. Non ha la forza di trasformarsi nella Lama che è; ha a disposizione solo una fioca preghiera, sussurrata nel silenzio in attesa che venga ascoltata. E nonostante possa ancora coltivare la speranza che Tom non s’infiltri come disinfettante in quelle ferite, dall’altra parte nutre una ferma consapevolezza: lui sa, sa e non ha intenzione di fingere il contrario.
Sa che le sue giustificazioni, tessute con fragile brina, non sono altro che inconsistenti fili di fumo. E gli basta solo quello per impuntarsi a non lasciare che il suo sguardo la abbandoni, a permettere che una premura spaventosamente naturale si palesi in maniera così sfacciata nelle pieghe del suo viso, a ripiegare su insulsi escamotage per costringerla a rallentare il passo e fermarsi molto più spesso del solito.
Per l’ennesima volta Tom finge di non ricordarsi una sequenza e Ris sospira mantenendo lo sguardo basso, limitandosi semplicemente a ripetere i movimenti con lentezza, istruendolo con tremante calma.
Tom non dice niente, eppure fa così tanto. Tanto da farla imbestialire. Vorrebbe solo urlargli che sta bene, che può reggere quelle due ore di allenamento, che non le è successo niente, che è abituata, che lei vuole e desidera ardentemente che il suo corpo sia il suo stesso martire, che l’unico modo con cui potrebbe aiutarla è dandole modo di lavorare con i soliti ritmi, nella speranza che a fine giornata non possa far altro che trascinarsi a casa senza poter pensare a nulla se non al dolore fisico.
Eppure, non ha la forza di rimproverargli proprio nulla. La muta e invisibile cura che le riserva non è qualcosa con cui Ris è in grado di misurarsi e, a dir la verità, è una novità che la spaventa, che la rende fragile, gettandola in un territorio sconosciuto.
Lancia uno sguardo all’orologio appeso e si rende conto che manca ancora mezz’ora.
No, sente di non poter resistere. Deve andarsene e cercare rifugio.
Tom è a pochi passi da lei, si sta passando l’asciugamano sulla fronte ed è pronto a tornare in posizione.
«Senti, per stasera direi che va bene così», farfuglia senza guardarlo, «e comunque sarebbe inutile iniziare ora qualcosa di nuovo.»
Si passa entrambe le mani sul volto arrossato, rendendosi conto di quanto sia effettivamente accaldata. Qualcosa le suggerisce che potrebbe tranquillamente svenire da un momento all’altro.
Si avvicina al suo borsone, fermandosi inevitabilmente accanto a Tom. Mentre rimette a posto le sue cose realizza di star tremando e di aver disperato bisogno di un sorso d’acqua, ma la bottiglietta vuota la guarda con scherno dal fondo della sua sacca. Impreca sottovoce e cerca di darsi una mossa. Tom si siede sulla panca e la osserva dal basso, con cautela e al tempo stesso disarmante intensità. È come se volesse farla parlare, come se la supplicasse di ricambiare quello sguardo, giusto per farle capire che non deve rimanere vittima del suo silenzio e dei suoi mostri. A Ris, tuttavia, non interessa smezzare la sua sofferenza, non le interessa nemmeno che se ne curi: se solo potesse realmente farsi annientare, forse allora troverebbe la pace e il nulla che ha sempre agognato.
Chiude la cerniera del borsone con dita malferme e non riesce a far nulla per mascherare l’affanno insolito del suo respiro. Una mano si tende sotto i suoi occhi: dita curate stringono una bottiglietta d’acqua.
Occhi nocciola sferzanti di verde si sollevano automaticamente, fermandosi sui lineamenti gentili di Tom. La incita ad accettare quel banale gesto. Dopotutto, Ris sta letteralmente morendo di sete.
Sospira e afferra la bottiglietta.
«Quindi stasera mi tocca fingermi un pugile esperto senza che nessuno mi guardi come se stessi catturando farfalle con un retino», le sussurra lasciando che una schiera di denti bianchissimi e perfetti faccia capolino tra labbra rosee e sottili.
Ris prende l’ultimo sorso e prima di restituirgli la bottiglia alza quasi impercettibilmente l’angolo della bocca verso l’alto.
Si infila il borsone a tracolla e tentenna, guardando la parete di fronte a sé.
«Ci vediamo domani, Tom.»
Abbassa velocemente lo sguardo, giusto per vederlo piegare il capo di lato e fare un sorriso amaro.
«A domani, Ris.»

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo Sette ***


 
Capitolo Sette

 
 
Scorge il sorriso sghembo di Rick oltre le spalle della sua avversaria, così affilato da sovrastare senza alcuna difficoltà l’informe platea di volti che assiste al suo crollo, a quell’intima sconfitta che si trasformerà presto in una becera vittoria.
Come le ultime quattro notti passate tra le urla degli avvoltoi e sotto le grinfie della sua stessa maledizione, Ris permette alla nebbia di sbriciolare gli ultimi residui di lucidità, perdendo totalmente l’ancoraggio a sé stessa, al suo corpo, a quelle quattro mura sudicie e a quel ring sporco di sangue.
L’adrenalina inizia a calare e il dolore all’addome la coglie di sorpresa, costringendola a piegarsi. Nello stesso momento si leva un boato dalla folla che incita la sua avversaria a cogliere l’opportunità d’oro per rivoltare l’epilogo di quella nauseante fiaba e darle il colpo di grazia, decretando la prima sconfitta di Ris.
I capelli castani le ricadono sul viso mentre si tiene con una mano il ventre e il sudore le cola dalla fronte per ricadere in piccole gocce sul suo palcoscenico. Una mano le afferra la maglietta e la trascina indietro, verso le corde improvvisate del ring. Il cuore le batte all’impazzata, incapace di realizzare quello che sta accadendo. Viene voltata con uno strattone e Ris si ritrova faccia a faccia con Rick, che poggia deciso una mano dietro il suo collo e l’avvicina in modo da farsi sentire nel trambusto di quel giovedì sera: «Le gambe.»
La voce martoriata da troppe sigarette s’infila tra i suoi pensieri confusi e non fa in tempo a realizzare quanto quel contatto ravvicinato le contorca lo stomaco che si ritrova gettata nel bel mezzo del ring. Rick la fissa e Ris mantiene il contatto, rivolgendo le spalle al suo predatore nel più classico e banale errore. Prima di lasciare che le sue palpebre prendano le redini di quella stanchezza ormai insopportabile, si lascia cadere a terra. La fame del suo pubblico infuria, maledicendo quella piega degli eventi decisamente inaspettata. Le ombre del volto di Rick si tramutano in un’espressione incredula – e sicuramente irritata – mentre Ris avverte la donna alle sue spalle avvicinarsi, già assuefatta dal profumo della vittoria.
“I sensi, Ris. Che te ne fai di tutta questa spaventosa tecnica se non sai usare l’unico vantaggio che hai sull’avversario?”
La voce di Bruce, per quanto gli faccia male, esplode in un punto indefinito della sua mente ormai folle e – forse – della sua anima.
Socchiude gli occhi e con uno scatto repentino fa leva sul polso destro, rotea di 180 gradi e stende la gamba, interrompendo l’avanzata dell’altra combattente: la colpisce all’altezza delle ginocchia e la fitta la fa crollare a terra. Sbatte la testa, rimanendo sdraiata un secondo di troppo. Ris le si trascina addosso e il countdown parte. Nello stesso momento in cui lo folla esulta per l’ennesima vittoria della cadetta Morales, la sua sofferenza, il fantasma della voce di Bruce e il martirio dipinto sul suo stesso corpo la gettano in una confortevole incoscienza.
Rick sale su ring tra le esultazioni della folla con un sorriso a trentadue denti. Si avvicina alle due combattenti insieme ad altri tre ragazzi, raccoglie Ris e le allaccia un braccio attorno alla vita mentre intrappola l’ennesima sigaretta tra le labbra screpolate. Si allontana dalla folla, non riuscendo comunque a non bearsi di tutte quelle pacche sulle spalle, delle lodi che si sollevano nel fracasso di quel sudicio luogo dimenticato da Dio. E Rick ne è il temuto e incontrastato regnante.
«Oh andiamo principessina, svegliati», ridacchia facendola sdraiare a terra. Si piega accanto a lei e lancia uno sguardo a Brent, fermo a fissarli a braccia conserte. «Avanti, lanciami dell’acqua.»
«E secondo te dove cazzo la trovo dell’acqua?»
Rick ringhia spazientito e poi fischia in direzione di un anonimo cliente con un bicchiere in mano: «Ehi, ehi, tu! Maglia rossa e jeans luridi, ti pago un altro drink, ma passami qualsiasi cosa tu stia bevendo.»
Il ragazzo lo guarda con un cipiglio, ma non appena lo riconosce scatta agli ordini. Meglio non scatenare dispute con Rick Morales.
Il proprietario afferra il drink e storce il naso nel momento esatto in cui l’intenso odore di alcol lo investe con prepotenza. Saetta lo sguardo tra il bicchiere e il viso pallido di Ris, fa una smorfia di sufficienza e le getta addosso tutto il contenuto.
Lei scatta a sedersi con il cuore che le pulsa freneticamente nella gabbia toracica. Sbatte le palpebre velocemente, mettendo a fuoco la ressa che ancora infesta il retro del locale e il ghigno compiaciuto di Rick, piegato accanto a lei con una smorfia tagliente. Tossisce un paio di volte e sente la pelle del viso pizzicare fastidiosamente.
«Che…che cazzo è?» ringhia frustrata passandosi una mano sul volto. Un odore sgradevole inizia a solleticarla e si rende conto di avere le dita appiccicose.
Rick risponde con una risata sguaiata ed espira l’ultima spira di fumo, per poi sollevarsi, lasciar cadere il mozzicone a terra e disintegrarlo con la scarpa.
«Mi hai fatto quasi prendere un infarto piccola stronzetta. Pensavo ti stessi per arrendere.»
Ris si limita a sospirare esausta, appoggiando una mano a terra nel tentativo di rimettersi in piedi, impresa che si rivela a dir poco insormontabile. Rick rotea gli occhi al cielo e le afferra un gomito, trascinandola verso l’alto. Lei barcolla e appoggia una mano sulla sua spalla, ancora annebbiata. Si stacca immediatamente e senza dire nulla si volta per andarsene.
«Ehi! Non te li godi i festeggiamenti della vittoria?», interviene Rick richiamandola a gran voce e raggiungendola con due falcate. Le afferra il polso e la volta, avvicinandosela il più possibile: «e poi questi sono tuoi. Te li sei meritata.»
La mano di Rick fa scivolare dalla manica della felpa una mazzetta, frapponendola tra i loro corpi. Ris volta la testa di lato disgustata: non lo fa per quello.
«Tieniteli.»
Si allontana con uno strattone prima che lui possa ribattere e lo sente solo farneticare qualcosa sul fatto che Natale è arrivato in anticipo di un mese.
Supera Brent cercando di dissimulare il dolore all’addome e la fatica di un paio di passi.
L’uomo le appoggia delicatamente una mano sulla spalla e le tende la giacca di pelle di cui non ricordava nemmeno l’esistenza. Si scambiano un semplice cenno e per Brent può bastare così.
La brezza di inizio novembre e il silenzio delle quattro di notte le sferzano il viso non appena si lascia alle spalle l’ingresso del suo inferno personale. Si stringe nella giaccia di due taglie in più ed estrae da una delle ampie tasche un cappellino con la visiera bassa. Se lo infila assicurandosi che i capelli raccolti in una coda bassa scivolino al di sotto del colletto della giacca e abbassando il più possibile la visiera. Nascosta nell’ombra di un mondo di cui non si fida, di un mondo che – per quanto letale possa sembrare agli occhi di chi scommette sulle sue vittorie – la trasforma in cucciolo indifeso, fottutamente terrorizzato.
Quando si ritrova a vagare per quelle strade deserte e buie, da sola e vulnerabile, non può far altro che cercare di difendersi prima ancora di venir attaccata. Si porta appresso quell’ossessione dalla notte della sua prima morte – l’unica vera, l’unica che considererà tale –, nella convinzione che il male che l’ha sorpresa tempo prima non possa nemmeno notarla in quella sua maschera, nel fantasma di sé stessa.
Quando è sola porta sempre una giacca che le arriva fino alle ginocchia e che potrebbe ospitarne altre tre, di minute ragazze di un metro e sessantacinque. Quando è sola e respira gli odori della notte, raccoglie i capelli per renderli invisibili sotto un cappuccio o un cappello. Quando è sola e macina i metri che la separano dal suo nido, indossa pantaloni della tuta larghi, in modo da nascondere le forme definite, snelle e femminili delle sue gambe. Quando è sola e non può essere distratta da quella paura primordiale, tiene il capo basso nella speranza che nessuno possa cogliere la forma delle sue labbra carnose.
Quando è sola ed è consumata da ricordi vivi, si trasforma in una massa informe e cancella la sua identità, tenendosi ancorata alla possibilità di passare inosservata, di riuscire a raggiungere i suoi punti fermi e gli angoli neutrali in cui la paura tace sana e salva, letteralmente integra.
Dalle undici di sera non prende mai mezzi pubblici; cammina solo per le vie centrali; passa per i quartieri in cui sa che un padre di famiglia o una donna assuefatta davanti all’ennesima puntata di Criminal Minds si catapulterebbero per strada se dovessero avvertire delle urla; si infila nelle vie in cui i bar chiudono più tardi, sapendo di poter sgattaiolare in una qualsiasi porta e issarsi su un’asse di legno nel bel mezzo di quel mare infestato da squali.
Semplici regole, imprescindibili comandamenti che teme non potrà mai lasciar andare.
E dal giorno in cui Bruce le ha confessato cosa ne sarebbe stato della loro vita da lì in avanti, non è riuscita a tenere a bada l’incendio e la rimonta di quei timori, i momenti di gelida paralisi, intrappolata nel tremolio di un corpo che, in realtà, non si era mai risollevato. Si era semplicemente appoggiata ad una certezza che si era convinta potesse rimanere tale per sempre, delegando ad altri il compito di reggere le redini della sua esistenza e di garantirle la dose giornaliera di linfa per continuare a procedere passo dopo passo.
La verità è che nessuno – nemmeno Bruce – possiede il potere per renderla nuovamente viva, realmente viva.
La verità è che solo lei è in grado di farlo e la verità è che lei non ne ha intenzione.
Sa dove si trova quel potere e non è più nelle sue mani: l’ha lasciato accartocciato a terra, su un marciapiede scivoloso, intriso di urla e lacrime.
E se non è in grado di ricostruirsi e rinascere, allora l’unica cosa che può fare è distruggersi. Ed è questo che ora – e da tempo – la intrappola in una spirale senza fine.
Ed è per questo che torna a casa per l’ennesima notte piegata in due dal dolore, abbastanza intenso da non farle sentire un’intima sofferenza ben più corrosiva.
Apre lentamente la porta sul retro della palestra, sapendo di non poter farsi sentire da un Bruce ancora ignaro della sua ricaduta, un Bruce che ha l’anima e il cuore sovraccarichi di cose belle e di nuova vita per poter essersi accorto dell’improvviso crollo.
Da quel venerdì Ris lo ignora, cercando di non trasmettergli nulla del profondo disagio che in realtà le sue parole le hanno provocato, nonostante fossero state pronunciate con il migliore degli intenti, danzando su un sorriso che l’aveva ferita ancora più a fondo.
La mattina esce alle sei, prende il pullman e aspetta le nove nello studio 3, allenandosi con l’ormai familiare sacco da boxe in pelle rossa o recuperando il sonno perduto prima che arrivino i tecnici; glissa la cena inventandosi molti più extra con Kade di quelli reali; torna a casa giusto per mostrargli di essere esausta, infilandosi in doccia e poi rifugiandosi in camera; aspetta l’una di notte, controlla che Bruce dorma e se la fila furtiva verso il suo girone infernale.
E proprio come quel giovedì sera, torna alle tre o alle quattro di mattina per godersi giusto due ore di sonno.
E mentre sale lentamente le scale verso l’appartamento, realizza di aver intrapreso la strada che la porterà all’effettiva autodistruzione. Ne è spaventata e vorrebbe tornare sui suoi passi? No.
Silenziosa come un gatto attraversa il salotto, facendo attenzione a non far scricchiolare il parquet. La porta della stanza di Bruce è chiusa e tutto tace.
Si leva il cappello ed entra nella sua stanza, sospirando sollevata.
Due secondi più tardi, un nodo alla gola la paralizza sulla soglia.
Bruce è seduto col capo basso sulle lenzuola sfatte e stringe tra le mani la sua maglia dei Red Sox che Ris, ormai da anni, usa per andare a dormire. Il labbro inferiore di Ris, ancora leggermente segnato dal disastro di domenica notte, trema a quell’inaspettato incontro.
Non è pronta e non ne ha la forza.
Bruce scuote la testa continuando a guardare verso il basso e le sue nocche sbiancano mentre affonda le dita nel tessuto della maglia.
Alza lentamente gli occhi e li punta nello sguardo colpevole e annebbiato di Ris.
Rimane a fissarla per quelli che sembrano secoli, non risparmiandole neanche una briciola di tutta la delusione che lo incendia.
Ris sa con assoluta certezza di aver spezzato irrimediabilmente il loro rapporto e non vede altro che una buia e infinita voragine sotto i suoi piedi.
L’ha distrutto. Lui e il loro nido. Se l’è trascinato con sé in quel circolo vizioso, così come tutto il resto dei momenti che in quei cinque anni le avevano scaldato cuore e anima.
Rimane impalata, letteralmente pietrificata, mentre lui si alza e getta la maglia a terra.
Le passa accanto ignorandola, ma prima di superarla si blocca: «Pensi veramente che io sia così stupido?»
Le dà una spallata e se ne va.
Ris sussulta quando a pochi metri da lì la porta della stanza di Bruce si chiude con uno schianto.
Davanti a sé le lenzuola sfatte del suo letto, le stesse ancora macchiate del sangue di una delle ferite delle sere precedenti, e la maglia dei Red Sox di Bruce a terra.
Una lacrima e poi un’altra mentre scivola sul pavimento.
Una lacrima e poi un’altra.
 
 
 
«No, non ci siamo.»
Kade è seduto a gambe incrociate sul profilo del quadrante e sospira per l’ennesima volta mentre Tom e Michael respirano affannosamente, fermi nella posizione in cui si dovrebbe concludere quella sequenza infernale.
I due attori si lanciano un’occhiata sconsolata e si separano. Sono entrambi madidi di sudore ed esausti dopo un’ora e mezza di continue ripetizioni, correzioni ed errori madornali. Nonostante i passaggi più difficili siano coperti dalle rispettive controfigure, sia Michael che Tom lavorano al 95% dei propri stunt, inclusa buona parte delle coreografie più macchinose.
Kade si passa una mano sulla barba leggermente cresciuta e lancia uno sguardo a Ris, chiedendole soccorso con uno sguardo più che esausto.
Lei è rannicchiata sulla panchina poco lontana, alle spalle del suo mentore.
Tom la tiene d’occhio da quando ha messo piede nello studio 3 e, in realtà, lo fa da giorni, incapace di ignorare un profondo turbamento, come se non riuscisse a distrarsi dall’immagine di quel volto sfigurato.
Si è mantenuto a distanza di sicurezza per l’intera settimana, rispettando le sue difese e cercando di non far caso alle smorfie di dolore e ai gemiti sommessi durante i loro allenamenti. Avrebbe voluto inondarla di domande, dirle che poteva parlargli, che non si era dimenticato di come lei aveva cercato silentemente di accompagnarlo nello sfogo delle sue angosce, fingendo una noncuranza a cui Tom non aveva creduto neanche per un secondo. Ogni sera avrebbe voluto chiederle di fermarsi con lui, dirle che le avrebbe lasciato carta bianca per rimbeccarlo con il solito fare irritante ad ogni penoso gancio destro e confessarle quanto le era stata preziosa per essere riuscita a smuoverlo, anche se sull’onda della rabbia e dell’astio.
E poi, non può negarlo: Tom percepisce ancora la potenza di un muto sguardo con cui Ris gli aveva permesso di assistere al tremolio della sua fredda apparenza e con cui entrambi si erano bloccati nel bel mezzo delle loro strade per potersi dire – sferzati da un vento freddo e dalle rispettive vulnerabilità – che si erano visti, realmente visti.
Lei aveva colto le sue illusioni, i suoi copioni, il suo imperioso indice giudicante.
Lui aveva ascoltato i suoi attacchi e aveva letto tra le sue parole l’odio con cui accusava sé stessa di non sapere cosa fosse l’amore, di essere solo un’egoista, di non meritare nulla. Gli aveva inavvertitamente confessato di non avere alcun affetto per sé stessa, di essere la maledizione della propria esistenza.
E Tom, di fronte a quel dolore incommensurabile, non era riuscito a far altro che risvegliarsi da una capricciosa cecità, riuscendo a trovare una bizzarra connessione che ora lo condanna a studiarla cautamente da lontano, assicurandosi che stia bene e che non ci sia nemmeno un graffio su quel viso stanco.
Più volte ha cercato di avvicinarsi, sfiorandola con un braccio, come per ricordarle che nonostante il silenzio, nonostante eseguisse ogni suo ordine senza controbattere e si mostrasse concentrato sul proprio allenamento, un pensiero per come stesse e per quello che stava accadendo nella sua vita lo preoccupava. E Tom non si era nemmeno dato il tempo di riflettere su come fossero nate quella premura e quella cauta attenzione. Si era semplicemente ritrovato e lasciarle defluire, senza freni, accogliendole con la più disarmante naturalezza.
«Ok, sentite, stasera non risolveremo sicuramente nulla. Meglio lavorarci su lunedì», concede Kade distogliendo lo sguardo da una Ris insolitamente stanca e alzandosi in piedi.
Micheal e Tom annuiscono all’unisono, entrambi privi del fiato per poter spiccicare parola.
Kade tentenna ancora ritto al suo posto, incapace di scacciare quel presentimento negativo che gli striscia sulla pelle non appena si sofferma sulla figura quasi irriconoscibile della sua prediletta.
Si è allenata per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio, per poi abbandonarsi su quella panchina scricchiolante e rannicchiare le gambe al petto, guardandolo istruire i ragazzi con le palpebre a mezz’asta.
Le ombre sotto gli occhi sono talmente evidenti da spingerlo a chiedersi se ultimamente non stia esagerando, se non le stia chiedendo troppo. Ma soprattutto, se non gli stia sfuggendo qualcosa.
Tom si avvicina al suo borsone, scansandolo di lato per sedersi accanto a Ris.
«Allora, sei pronta? Sai, potremmo fermarci dal messicano vicino al parco e mettere qualcosa sotto i denti, ti va?» le domanda Kade avvicinandosi e dandole un pizzicotto sulla guancia.
Ris, totalmente sovrappensiero, si scosta di scatto. Kade rimane con la mano a mezz’aria, sorpreso. Lei sbatte velocemente le palpebre e saetta tra una scusa e l’altra per trovare la scappatoia perfetta: «Oh, non ti preoccupare. Pensavo di rimanere ancora un po’ prima che passino a prendermi un paio d’amici. Corri pure dalla tua partita del venerdì sera.»
Tom, che si passa l’asciugamano sulla fronte con studiata lentezza, piega leggermente le labbra verso l’alto.
Sa che Ris si sta inventando tutto da cima a fondo.
«Che il Signore sia lodato: Charice Stevenson passerà un degno venerdì sera da autentica venticinquenne», commenta sarcasticamente Kade sollevando le braccia verso l’alto e mimando un ringraziamento verso il cielo. Poi riprende: «Mi raccomando, non bere troppo e non fare cazzate. Lunedì alle nove in punto ti voglio qui, rapida e scattante: nessuna sbronza epocale da smaltire.»
Ris alza semplicemente gli occhi al cielo e scuote la testa quando Kade le passa un’innocua carezza sul viso prima di congedarsi e salutare gli altri due.
Michael scocca un’occhiata in tralice a Tom, ancora bellamente abbandonato sulla panchina e apparentemente poco intenzionato a velocizzare i tempi.
«Tom, ti puoi dare una mossa? Te l’ho detto che ho un appuntamento tra neanche un’ora.»
Le chiavi della Cadillac ruotano attorno all’indice di Michael.
«Sei proprio una palla al piede», risponde il collega buttando giù l’ultimo sorso d’acqua, «corri pure a vestirti da damerino e risparmiami i discutibili piani per la tua serata.»
Ris è ancora rannicchiata accanto a Tom, sempre a debita distanza. E per quanto si senta così abbattuta e priva di ogni energia, riesce comunque a lasciarsi scappare un sorrisetto sommesso.
«Ah sì? E come pensi di tornare in hotel?»
«Taxi, pullman, autista, jogging…», elenca Tom prendendolo in giro.
«Oh, va bene, va bene. Mi hai già stancato. A domani manico di scopa», lo interrompe alzando le mani in un segno di resa e incamminandosi verso l’uscita. Prima di macinare gli ultimi metri si volta per urlare un saluto alla sua “Bambi” testarda, nella speranza di irritarla o di essere ricambiato con un chiaro e netto “vaffanculo”. Nulla di questo accade, ma Michael non è sicuramente la persona che si arrende facilmente: ha ancora così tante occasioni per farla fumare come un vulcano dormiente.
Il portone dello studio 3 si chiude con una lentezza disarmante, lasciando che Tom possa fare i conti con gli stupidi impulsi che non sembra nemmeno più in grado di ponderare. Si sporge in avanti, poggia i gomiti sulle ginocchia e s’infila le mani nei capelli. Vorrebbe maledirsi: sa di non avere una buona giustificazione per trovarsi lì e sa che Ris non sta facendo altro che contare silenziosamente i minuti che separano Kade dall’uscita degli studios. Se ne andrà proprio nel momento in cui avrà la certezza di potersela svignare verso i suoi grigi guai, quelli che persiste a nascondere con testardaggine e che per Tom sono evidenti come luminosi segnali di pericolo.
Alza gli occhi verso l’orologio appeso e vede in un flash il volto di Jen. Il sibilo del senso di colpa gli fischia nelle orecchie, consapevole che tra dieci minuti una videochiamata proveniente da Londra risuonerà in una stanza vuota d’hotel e che quella non sarà che la prima di una serie di incomprensioni che porteranno allo sfacelo della loro relazione. Perché Tom non è ancora in grado di assumersi le responsabilità di quello che prova: è un codardo che ha il solo coraggio di guardare la naturale involuzione delle cose, un folle che piuttosto di prendersi cura di ciò che ha tra le mani si getta alla cieca in qualcosa che non lo riguarda.
Rimane proteso in avanti e si volta col capo, tamburellando le dita tra di loro.
Ris, con le gambe ancora strette al petto, lo guarda da chissà quanto, ma Tom non è in grado di leggere nulla in quell’occhiata: vede solo un muro bianco, una lastra d’acciaio inanime. E no, non è la solita espressione d’insufficienza capace di farlo imbestialire in due secondi e, al contempo, di farlo sorridere incredulo e forse incuriosito. Il nodo allo stomaco si stringe quando realizza di avere davanti a sé un corpo intimamente sfigurato da una stanchezza immane, arreso.
Sa che non gli dirà nulla e che si starà chiedendo per quale motivo sia rimasto, sentenziandolo subito dopo come un insulso tentativo di mostrare gentilezza o l’azione egoista di chi ha semplicemente bisogno di segnare l’ennesima spunta verde sul protocollo di buona condotta che imprigiona le anime come lui. Ma Tom, se può essere assolutamente certo di una cosa, è che non ha la minima idea di quello che sta facendo. Sa solo che sembra voler fare di tutto per riuscire a deragliare disastrosamente il treno della sua preconfezionata esistenza.
E mentre continua ad evitare di interrogarsi, muovendo passo dopo passo su un terreno accidentato che non conosce, realizza di non aver staccato gli occhi da Ris, ricambiato da mute domande che per la prima volta non assumono il profilo tagliente di una lama che prova ad allontanarlo.
«Sei troppo concentrato sulla tecnica.»
È solo una tenue constatazione, meccanica e fredda, ma a Tom sembra comunque un miraggio.
«Esegui, ma non interpreti», continua Ris distogliendo lo sguardo e fissandolo sul tatami davanti a sé, «dovresti pensare meno alla sequenza e provare a immergerti nei suoni, nelle emozioni, nell’odore, nei colori della storia che le dà senso.»
Il cipiglio di Tom si distende lentamente.
Non si sarebbe potuto comunque aspettare un’improvvisa confessione, un pianto liberatorio o una richiesta d’aiuto: Ris è Ris e Tom si sente sollevato anche solo all’idea di poter contare almeno sulla connessione lineare, fluida e professionale del loro lavoro. Insomma, quella confortevole e senza intoppi, la forma superficiale di un dialogo intimo a cui ormai avevano dato inizio, probabilmente senza neanche volerlo.
«Se non pensassi ad ogni singolo passo sono sicuro che farei solo disastri.»
«Li fai già.»
Un sorrisetto scappa dalle labbra sottili di Tom, tornato a guardare davanti a sé.
«Sta piovendo?», chiede improvvisamente lei.
Si è ridotta a tirare in ballo imbarazzanti conversazioni sulle condizioni metereologiche per riempire i buchi di silenzio?
«Uhm, si. E parecchio.»
«Vieni.»
Ris balza in piedi e si dirige verso l’uscita senza neanche aspettare una risposta.
Tom rimane al suo posto, guardandola con un cipiglio.
La sente sospirare quando realizza di non avere nessuno alle sue spalle.
«Tu e Michael girerete la scena sotto un acquazzone, di notte e in un luogo decisamente inospitale. Fino a che rimani tra mura confortevoli e all’asciutto difficilmente riuscirai a completarla come Dio comanda», spiega con espressione ovvia.
Tom vorrebbe controbattere, dandole della folle se pensa realmente che accetterà di allenarsi sotto la pioggia, in una ben poco tiepida serata di inizio novembre.
Alla fine – questa nuova tendenza a declassare ogni domanda dotata di senso per farsi sbattere dove tira il vento quando è nata? – la segue senza dire nulla, se non un “se mi prendo una broncopolmonite ti faccio causa” quando la supera con un finto sospiro.
Una cascata d’acqua gli ricade addosso, maledicendosi prima del tempo.
Indossa un paio di pantaloncini che arrivano appena sopra il ginocchio e un maglioncino decisamente troppo leggero su una t-shirt intrisa di sudore. Finirà male, senza ombra di dubbio.
Ris lo affianca tenendosi con una mano il cappuccio della felpa nera e accelera verso la vegetazione che circonda il campus degli studios.
Passano tra macchine, roulette, magazzini e stabilimenti deserti fino a quando collinette e rami spogli non li salutano con un che di tetro.
«Per l’inciso: tu sei completamente pazza.»
«E tu lo sei abbastanza da seguirmi.»
Tom si blocca, scartato nuovamente. Lei fa i primi passi su terreno accidentato e fangoso, lui scuote la testa e non si preoccupa di nascondere un risolino che gli vibra in fondo al petto.
Cristo, si prenderà un accidente e probabilmente si farà anche parecchio male: ridere è veramente la cosa più sensata.
«Pronto?» urla lei qualche passo più avanti.
Tom rallenta l’avanzata.
E che significa?
Se ne rende conto non appena vede il proprio avambraccio sollevato quel tanto che basta per parare l’improvviso colpo di Ris. Lei fa un sorrisetto compiaciuto e gli concede un cenno di approvazione.
Tom, per quanto assurda e folle possa sembrare quella situazione, non può che ricambiare con una mezzaluna provocatoria nel bel mezzo di una notte infestata che ha tutte le sembianze di un’agognata bolla di ossigeno.
E da quel preciso istante, nonostante la pioggia, il terreno scivoloso, il vento sferzante, una luna troppo pallida e un’oscurità penetrante, entrambi sembrano trovare la dimensione in cui poter incastrare le reciproche vulnerabilità, lasciando che si parlino e si solletichino a vicenda per concedere a ciascuno una misericordiosa pausa da quell’opprimente peso.
Tom perde l’equilibrio più spesso del dovuto, ritrovandosi più volte immerso tra erba incolta e con le mani affondate nel terreno umido. Ris, dal canto suo, sembra riuscire a gestire la situazione più elegantemente nonostante i suoi movimenti siano ben più lenti del solito.
Perdono la cognizione del tempo e scelgono di non recuperarla.
Circondati da un nero intenso, riescono inspiegabilmente a non perdersi: faticano persino a vedersi, ma un filo di brina lega quei movimenti come un botta e risposta che li tiene ancorati l’uno all’altro.
E più rimangono confinati in quell’assurda cornice, più la lucidità e il pensiero di cosa li aspetta oltre quella vegetazione si allieva, incoraggiandoli a tornare un po’ bambini, un po’ più loro stessi, un po’ meno le loro sofferenze.
E iniziano a ridere, all’improvviso. Dopo minuti e forse ore, iniziano a ridere.
Sono entrambi talmente stanchi da non avere nemmeno la forza di lasciarsi adombrare dai loro ruoli e dalle loro vite. Si sentono così leggeri da non riuscire a far altro che continuare a tessere quella bizzarra trama con risate così lontane da quello che hanno sempre e solo visto nell’uno e nell’altra.
Tom, probabilmente, non ha mai sentito Ris ridere così e Ris, probabilmente, non ha mai avuto il piacere di conoscere un Tom così poco composto, sporco di fango dalla testa ai piedi, stropicciato, vero.
Un tuono risuona sopra le loro teste, il cielo sembra esplodere e la pioggia si riversa con inarrestabile potenza.
Ris, con il cappuccio gocciolante che ormai le scopre il viso fradicio, para per l’ennesima volta l’affondo di Tom, inabissando i piedi nel terreno sempre più fangoso. Entrambi respirano con affanno, immobili nel bel mezzo della sequenza, intrappolati nelle fibre di una tela che i pittori avrebbero intitolato “l’apocalisse”.
E sospesi in una realtà da cui anime più libere si rifugerebbero, le loro mancanze, le loro urla silenti, le loro ferite e le loro incomprensioni trovano la proverbiale calma prima della tempesta.
Un paradosso che nemmeno loro saprebbero comprendere in altre circostanze, alla luce del sole, sotto il peso di esistenze da cui si fanno vincere quotidianamente, senza sapere di avere ancora il potere per riprenderne le redini in mano. Una sintonia tra anime sconosciute che non potrebbe vivere di parole, di risposte e di lucidi pensieri. Una mano che si tende verso l’altra nel silenzio, quando si spengono i riflettori, quando entrambi sono al limite del loro dolore, quando la razionalità defluisce e senza dover dare giustificazione legittimano sé stessi a trovare quelle bizzarre consonanze.
Tom si piega sulla spalla di Ris, letteralmente esausto.
«La migliore dimostrazione fino ad ora, Hiddleston. La migliore», sentenzia lei prendendo profondi respiri.
«Ne sono onorato, Ris. Ne sono onorato», mormora lui sollevando il capo e incrociando il suo sguardo, «ma un secondo di più sotto questa pioggia e domani sarò ricoverato.»
Ridono entrambi, di nuovo.
Due paia di occhi più liberi, due candele nell’irrazionalità di quella sceneggiatura, due note stonate e una clessidra che scandisce le briciole rimaste a quella realtà sospesa.
«Andiamo, vecchietto.»
 
 
 
«Vorrei dirti che hai una foglia nei capelli, ma in realtà c’è molto altro di non immediatamente identificabile.»
Ris solleva lo sguardo verso il metro e ottantotto di Tom.
«Tu sei ricoperto di fango.»
«Se è per questo, penso anche di averne ingoiata una buona quantità.»
La fermata del pullman è a pochi passi di distanza e Ris continua a pensare che è mezzanotte, che non dovrebbe trovarsi lì e che doveva andarsene prima.
La leggerezza di poco prima inizia a contorcersi nelle sue primitive paure, quelle che la legano ad un’irrazionalità bambina e ribelle.
«Sei sicura di non volere uno strappo? Michael dovrebbe arrivare da qui a minuti.»
Ris continuare a ticchettare le unghie della mano sinistra, un tic che si trascina da anni e che s’intensifica in momenti come quello, quando dimentica di essere Lama e torna indifeso mucchietto di lacrime silenziose.
«N-no, non ti preoccupare.»
E Tom, comunque, non è un’idiota: sa che non accetterebbe mai e sa che vorrebbe farlo.
Ris si abbandona sulla panchina, in attesa, e lui la affianca, non smettendo comunque di studiarne il profilo.
Le trema il labbro e forse è per il freddo, ma anche la sua gamba inizia a traballare, in un ossessivo su e giù.
I suoi occhi poi, per quanto fossero stanchi e quasi in pace solo una manciata di minuti fa, sembrano così vigili, quasi allarmati.
Lui sospira e Ris non si rende nemmeno conto di quanta attenzione le stia prestando, troppo immersa in scenari non ancora accaduti che prendono forma da distorte visioni di un mondo che continua a dipingere di grigio-nero, imperterrita.
«Vuoi realmente perderti i fantasiosi resoconti di Michael sul suo appuntamento galante?» continua Tom cercando di distrarla da qualunque sia quel vortice di pensieri inaccessibili, «dev’essere sicuramente andato uno schifo se ha accettato di venire a raccattarmi.»
Ris si limita ad un mezzo sorriso, muto e distratto.
Il cuore perde un battito quando due fari illuminano il ciglio della strada.
È mezzanotte, è sola e ha paura.
Smettila Ris, smettila. È un fottuto pullman, un benedetto viaggio di venticinque minuti.
Ed ecco che l’ancoraggio al suo presente e alla sua lucidità torna a fare a botte con il potere più impulsivo, viscerale, inarrestabile e tremendamente vivo della sua amigdala corrotta.
Il respiro accelera, condensandosi in spire bianche.
La gamba traballa ancora, forse con un briciolo in più di veemenza. Le scoppierà il cuore se continua così.
Il pullman si ferma di fronte a loro e Ris fa saettare immediatamente lo sguardo oltre i finestrini: una donna che non dovrebbe avere più di cinquant’anni, ma che dalle ombre e i segni di un viso olivastro sembra averne molti di più. E poi un uomo dall’enorme stazza addormentato malamente, o forse svenuto.
Ris si alza in piedi e si passa la lingua sulle labbra improvvisamente secche.
«A lunedì, allora.»
Si volta verso Tom e boccheggia, come se la sua voce l’avesse improvvisamente risvegliata: «A lunedì.»
Muove i primi passi e sale i gradini del mezzo. L’autista le fa un semplice cenno con il capo e prima di dirigersi all’ultimo sedile, Ris timbra il biglietto che avrebbe dovuto utilizzare più di tre ore prima.
Le sue preziose regole la guardano dall’alto con aria giudicante, in attesa del pretesto per poterle rinfacciare un doloroso “Che ti aspettavi?”
Si muove con passo affrettato verso la sua solita postazione, vicina all’uscita secondaria.
Si sistema automaticamente il cappuccio sul capo e stringe il borsone a sé, cercando di calmarsi.
Il pullman parte, ma solo per fermarsi dopo neanche un metro.
Alza velocemente lo sguardo e scorge l’autista sbuffare, aprendo di nuovo le portiere.
E se per un momento a vincerla è la confusione, quando vede Tom scambiare qualche spiccio per un biglietto, ringraziare il conducente con un sorriso affabile e voltarsi nella sua direzione, raggiungendola con poche falcate, Ris non può proprio ignorare la sensazione di sollievo che scioglie con una doccia calda tutta quella spinosa tensione. 
Tom si siede accanto a lei e si abbandona mollemente, sorridendo.
«Che stai facendo?» indaga lei cercando di mantenere un’espressione corrucciata che non faccia trapelare quanto in realtà non le importi nemmeno perché o come, se non che sia così, semplicemente così.
«Non ti faccio tornare a casa da sola a mezzanotte, per quanto tu possa essere un soggetto terrificante a cui non si avvicinerebbe neanche un serial killer.»
Se fosse nelle sue condizioni ottimali, probabilmente gli risponderebbe che sa perfettamente cavarsela da sola, che non ha bisogno di quelle accortezze e soprattutto da parte di uomo. L’unica cosa che fa, invece, è voltarsi verso il finestrino trattenendo un sorriso, accogliendo per la prima volta la gentilezza di un gesto senza sminuirla e sviscerarla per trovare l’inganno.
«E Michael?» chiede poi ridestandosi.
Prima di dire qualsiasi cosa, Tom si mette a ridere.
«Tra poco lo chiamerò per dirgli che mi sono dimenticato di specificare che non mi trovo più agli studios.»
«Ti ritroverai a dormire per strada, lo sai vero?»
«Rischierò. Il marciapiede sotto casa tua è comodo?»
«Potresti condividere la cuccia con Moka, un cane randagio forse non più troppo randagio.»
Tom batte le mani una volta, come se avesse trovato la soluzione a tutti suoi problemi: «Vedi? Potrei desiderare di meglio?»
Ris scuote la testa, tornando a guardare i lampioni che scorrono al di là del vetro.
Dal riflesso riesce comunque a vedere Tom e i suoi vestiti completamente rovinati.
«E poi penso che in queste condizione potrebbe tranquillamente scambiarti per un suo simile. Sai, anche Moka ama rotolarsi nel fango», lo punzecchia poi.
«Devo dire che i tuoi insulti gratuiti non mi mancavano.»
Ris segue a ruota la sua risata e poi infila una mano nell’ampia tasca della giacca di pelle. Estrae il suo vecchio cappello con la visiera bassa e lo porge a Tom: «Ti ricordo che potrebbe venirti un infarto se la tua faccia sporca di terra apparisse malauguratamente sulle copertine di lunedì mattina. Sai, potrebbero inventarsi che il venerdì sera ti diletti nel sotterrare cadaveri.»
Lui si volta con un’occhiata fulminante, poi afferra il cappello e lo indossa. Ris incurva un sopracciglio, con un’espressione beffarda.
«È per precauzione», specifica lui.
Pochi minuti dopo il pullman accosta ad una nuova fermata e una giovane madre si fa spazio tra i sedili tenendo per mano un bambino con corti capelli come pece e due grandi occhioni color mogano. Si accomodano sul lato opposto a loro, qualche sedile più avanti.
La madre sospira esausta, lasciandosi cadere accanto al finestrino. Il bambino, invece, si arrampica sullo schienale, puntando due pupille incuriosite proprio su Tom e Ris. Su Tom, in particolare.
Il piccolo inclina leggermente il capo e poi scatta verso il basso, nascondendosi. Sussurra qualcosa all’orecchio della mamma scuotendole il braccio, agitato. Lei scuote la testa liquidando le sue parole con un vago cenno della mano, gli intima di starsene buono e di provare ad addormentarsi.
Il bambino, al contrario, sbuca nuovamente al di sopra del sedile.
Ris, sorride: Tom ha trovato un piccolo fan particolarmente vispo.
L’attore si leva lentamente il cappello e Ris lo guarda incuriosita.
«Voglio semplificargli il gioco», chiarisce.
Gli occhioni del bambino, come previsto, si spalancano increduli. Si catapulta nuovamente addosso alla madre, farneticando.
Sia Ris che Tom ridono inteneriti.
La madre sbuffa e si volta giusto per accontentarlo. Tom alza una mano in segno di saluto non appena la giovane donna si ritrova a guardare incredula suo figlio. 
Il piccolo balza in piedi e inizia a strattonarla. Lei tentenna, come se fosse intimorita all’idea di fare una pessima figura, ma poi cede e si lascia trascinare.
«Non vogliamo disturbare, ma Lucas, mio figlio, è un grande fan dei film sugli Avengers e l’ha riconosciuta immediatamente. Sarebbe maleducato chiedere una foto?»
Tom distende i lineamenti del viso in un sorriso sincero.
«Scherza? Non c’è nessun problema. Avanti piccoletto», lo incoraggia battendo le mani sulle sue ginocchia. Lucas si illumina e si lascia prendere in braccio.
Ris cerca di scivolare il più possibile verso il finestrino, consapevole che comunque verrà almeno parzialmente inquadrata.
Il piccoletto inizia a fargli domande a raffica e Tom non trattiene risate vibranti, di quelle che nascono direttamente dal fondo del petto.
La madre lo ringrazia un centinaio di volte e cerca al contempo di allontanare il figlio.
Tom scompiglia i capelli a Lucas prima di lasciarlo andare e il bambino, felice come se fosse la Vigilia di Natale, segue la mamma saltellando.
«Dimmi che non sono uscita per sbaglio anch’io.»
«Presa in pieno, Ris. Presa in pieno.»
«Quindi, ricapitolando: faccia impolverata, vestiti ricoperti di fango, capelli fradici e una sconosciuta con un qualche chilo di fogliame in testa. Spera che la madre non abbia un account twitter.»
Tom sorride guardando verso il basso.
«Oh, ma che mi frega.»
«Tom Hiddleston, da quanto sei così ribelle e menefreghista? Sicuro che vada tutto bene?»
Lui si passa una mano tra l’accenno di barba – e i residui di terra – per poi scuotere la testa e ridere tra le sue stesse dita. Si scioglie sul sedile e rivolge un rapido sguardo alla ragazza, che lo guarda giusto un briciolo perplessa. Sposta gli occhi cristallini sul tettuccio del pullman e poi abbassa le palpebre, lasciandosi scappare un sospiro sollevato tra un paio di fossette e due labbra a mezzaluna.
«Non so come sarà domani, tra un’ora, tra una settimana. Ma Ris, ora, proprio ora, va tutto fottutamente bene.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3982416