You gave me a home

di lone_wolf_08
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


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Il sistema è marcio, corrotto;

La società indifferente, superficiale;

La vita ingiusta.


New York era divisa a metà: la Città Alta e la Città Bassa. La prima era ricca di comodità e servizi, culla di una vita agiata e felice. La seconda era un luogo di povertà, violenze, soprusi e sfruttamento, una terra di desolazione ed ingiustizie. A dividerle Il Muro, alto, minaccioso e con la fama di essere fatto di un materiale inscalfibile. L'unico modo per riuscire a passare era pagare, ma poiché solo pochi riuscivano ad ottenere tale fortuna, non se ne andava quasi nessuno. Il mondo era spartito in chi nasceva fortunato e in chi nasceva con un numero di matricola sulla testa, marchiato come una bestia da allevamento. I ricchi diventavano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Era come se la ruota non girasse mai, bloccata dall’avidità di chi considerava la gente della Città Bassa solo come formiche insignificanti. Formiche da poter sfruttare e schiacciare nel momento più opportuno. Nessuno della Città Alta avrebbe mai mosso un singolo dito per aiutare quella gente a raggiungere una benché minima vita dignitosa. Nient’altro che numeri. Numeri su uno schermo da controllare e monitorare.


Qual è il punto di rottura?

Fino a quando ancora la corda si tirerà?

Seconda legge di Newton…


New York, oltre a questo, era una tra le città più all’avanguardia in ambito tecnologico e industriale in America, in gran parte grazie al commercio della guerra. Conflitto che vedeva come protagoniste la stessa New York e la vicina Boston. Da cinque anni erano il lotta e ancora non si era risolto nulla. Boston era altrettanto potente e agguerrita e non avrebbe di certo ceduto facilmente. Inizialmente i cittadini si arruolarono come volontari, dietro una studiata ed attenta propaganda. Era un onore ed un piacere servire e difendere la patria. Poi, davanti alla dura realtà della guerra, l'entusiasmo scemò. Nessuno voleva più arruolarsi, perciò venne istituita la leva obbligatoria allo scopo di dare supporto all’esercito. Tirarsi indietro sarebbe stata la scelta più saggia, quella più sicura. Scelta che a quanto pare solo chi era della Città Alta poteva fare dal momento che si veniva lasciati stare solo dietro un corrispettivo in denaro.

“O lavori o vai in guerra”. Questa la frase che ogni bambino della Città Bassa si sentiva dire fin da quando era capace di intendere. Non esisteva alternativa, morire in una fabbrica o sotto il fuoco nemico. I ragazzi cominciavano a lavorare alla tenera età di 7 anni, alcuni anche prima, partendo da una media giornaliera di 10 ore, per poi passare a 12, una volta compiuti 11 anni. Spesso però capitava di dover fare gli straordinari (non retribuiti) ed arrivare a 14 ore. Come se non bastasse la paga era misera e ogni tanto usciva qualche nuova legge ad abbassarla ulteriormente. “Risparmiamo sulle paghe per offrirvi più servizi” dicevano. Il problema era che la situazione non migliorava, lo sfruttamento si faceva sempre più spazio e le violenze, anche da parte delle autorità, se non addirittura aumentare, rimanevano immutate e impunite. Le giacche blu non rendevano la vita facile e dal momento che l'autorità era rappresentata proprio da loro ciò non faceva che rendere la situazione ancora più inaccettabile. Erano guardie incaricate di portare l’ordine, la giustizia e controllare che tutti facessero il proprio lavoro. Facevano rispettare le regole a suon di manganelli e pinze elettrificate.
Tutti i negozi dovevano aprire e chiudere ad un determinato orario, non erano permessi scioperi o giorni di ferie, i congedi per malattia erano concessi solo dopo accurata visita medica e dopo la diagnostica della malattia, se non era troppo grave si era costretti a tornare al lavoro, altrimenti veniva concesso il riposo, non retribuito.
Queste erano soltanto alcune delle regole ferree che la gente della Città Bassa doveva seguire. A chi sgarrava una bella visita dalle giacche blu non gliela toglieva nessuno. Quest’ultime, d'altra parte, non vedevano l’ora di trovare trasgressori. Si diceva in giro che tale corpo di polizia fosse composto da delinquenti della Città Alta, mandati a scontare la pena, ma soprattutto a rendere quel posto un inferno, più di quanto già non lo fosse. Non si sapeva con certezza se fosse vero, la cosa certa era che parevano proprio divertirsi ad usare la violenza, anche senza motivo apparente.


C’è un limite a tutto, e se l’avessero raggiunto?

Cosa avrebbero dovuto affrontare allora?

Che succederà quando qualcuno riuscirà a girare il verso di marcia delle formiche?

Principio di azione-reazione…

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria.



Nota dell'autrice:


Hello there!
Innanzitutto volevo dire che è la prima storia che scrivo seriamente sugli Avengers, e che quindi decido di pubblicare. Amo la Marvel alla follia e amo la ship Stony (OTPOTPOTPOTP) di cui ho appunto voluto trattare in questa ff. Si tratta di un AU quindi un universo alternativo: in questo caso New York in stile ottocentesco ma con tecnologie un po' al di fuori dall’epoca. Non so che farci, mi ha sempre attirato il genere Steampunk.
Spero possa piacervi e sappiate che accetto volentieri commenti e critiche costruttive! Quindi non fatevi problemi ad esprimere le vostre opinioni. A noi scrittori piace sempre avere un po' di riscontro. Dal prossimo capitolo comunque incontreremo i nostri protagonisti tranquilli, questo prologo l'ho fatto solo per darvi un'idea dell'ambiente in cui ci troviamo.

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I


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POV: Città Bassa



“Tu quale prenderesti?”

“Quella nera, coi raggi d’argento e il manubrio rosso, senza pensarci due volte”

“Si non male, ti ci vedo sfrecciare tra i vicoli con quella”

“Tu invece?”

“Mi piace un sacco quella blu coi cerchioni bianchi e la sella a righe rosse e bianche”

“Un giorno le avremo Steve, te lo prometto”

Il biondo sorrise all’amico, che sorrise di rimando.

Una voce maschile e rude infranse il momento “Voi due furfanti scendete subito da lì!”

Bucky si alzò di scatto “Gli sbirri! Corri!”

Infilando i cannocchiali amatoriali nei malconci zainetti di stoffa, presero a correre sul tetto dell’edificio su cui stavano appollaiati.
La guardia correva loro parallelamente per la strada trafficata.

“Forza Steve corri!”

“Prima o poi dovrete scendere da lì e allora ve ne pentirete!”

I due correvano scivolando di tanto in tanto su qualche tegola malmessa, che cadeva infrangendosi sul selciato sottostante. Saltavano di tetto in tetto, schivando le ciminiere fumanti che annerivano di fuliggine il loro giovane viso, tirato dall’adrenalina.
Si trovarono poi sul tetto di un edificio abbandonato e in rovina. Il lucernario era rotto, perciò pensarono furbamente di introdursi all’interno e sfuggire così all’agente. Quest’azione dette loro l’opportunità di sfruttare il tempo in cui l’uomo cercava di sfondare la porta d’ingresso, per fuggire da una finestra sul retro e far perdere così le loro tracce. Appena fuori ripresero a correre all’impazzata finché non furono sicuri di essere in salvo. Si accasciarono stremati poco dopo in un vicolo buio, a riprendere fiato e a ridere del pericolo scampato.

“Se…avessi avuto…quella bici…ora non…sarei così…a corto di fiato” scherzò Bucky

Steve rise e riprese a respirare regolarmente “Se avessi quella bici semplicemente non saresti qui a scappare dalle giacche blu”.

Il suono della sirena che segnava la fine dei turni di lavoro degli adulti giunse alle loro orecchie. I due amichetti si alzarono.

“Diamine! Mia madre tornerà dal lavoro stanca e io non sono nemmeno andato a prendere il pane per la cena!”

“Forse il signor Wilson non ha ancora chiuso il negozio, forza corriamo!” lo strattonò il moro.

Arrivarono col fiatone davanti alla bottega del signor Wilson, proprio mentre quest’ultimo stava chiudendo i battenti. “Ragazzi ehi, è successo qualcosa?” si rivolse loro preoccupato.

Steve, rammaricato e col fiato corto, rispose all’uomo “Mi…serviva…del pane”.

“Mi spiace davvero piccolo ma ho chiuso e sai che devo stare negli orari”.

“La prego…non potrebbe aprire per pochissimo? Il tempo di prendere una pagnotta”.

“Faremo veloce glielo promettiamo” lo aiutò Bucky.

Il volto dell’uomo si addolcì, stava per riaprire il negozio quando una voce li fece sussultare. “Signor Wilson”.

Una giacca blu stava impettita a pochi passi dietro di loro.

“Agente Morstran” lo salutò rispettosamente il fornaio.

“Come sono andati gli affari oggi?”.

Wilson si allontanò con naturalezza dalla porta come se ne stesse andando “Direi bene grazie, ora se permette porto i ragazzi a casa loro. Le auguro un buon proseguimento di serata”.

“Altrettanto” rispose secco Morstran squadrando poi severamente Steve e Bucky.

Appena furono lontani abbastanza Wilson si scusò “Mi dispiace, siamo stati sfortunati. La prossima volta ti consiglio di passare prima Steve”.

Il biondo annui intristito “Capisco la situazione signore, non si preoccupi. È stata una negligenza mia ed è stato scortese da parte mia insistere”.

“Tranquillo Steve, ti avrei aiutato volentieri. Fate i bravi mi raccomando” disse salutandoli scompigliando loro i capelli affettuosamente.

Mentre si allontanavano Bucky alzò la voce girandosi verso l’uomo “Porga i nostri saluti a Sam!”. Poi si rivolse a Steve nel tentativo di tirargli su il morale “Vedi? se avessimo avuto quelle bici saremmo arrivati in tempo”.

Steve sorrise “Sai, continuare a ripeterlo non le farà comparire magicamente”

“E continuare a piangerti addosso non ti farà comparire il pane tra le mani, quindi ora fammi un sorriso Steve. Andrà meglio domani”

Steve lo guardò e sorrise per poi abbracciarlo “Ci vediamo domani idiota”

“A domani cretino, porta i miei saluti a Sarah”.

Il biondo salì le scale del palazzone dove abitava ed entrò nell’appartamento in cui lui e sua madre erano in affitto. Entrando la vide armeggiare in cucina. Lei si voltò e sfoggiò al figlio un sorriso stanco eppur colmo d’amore.

“Steve piccolo mio”, posando il mestolo andò ad abbracciarlo. “Com’è andata oggi?”.

Steve si sentì morire dentro “Ho dimenticato di andare a prendere il pane. Scusa mamma”.

Sarah non era una madre dura, severa all’occorrenza certo, ma era anche fin troppo buona e amava suo figlio più di qualunque altra cosa. Gli accarezzò la testa e gli diede un bacio sulla fronte fuligginosa “Non importa, vorrà dire che stasera mangeremo la zuppa di fagioli senza pane. Non mi sembra un dramma. Sai invece cosa mi sembra un dramma?” chiese seria.

Steve alzò lo sguardo verso di lei preoccupato.

“Questa faccina triste e sporchissima” rise lei.

Il bambino tornò a sorridere “Corro a lavarmi”.

Cenarono raccontandosi a vicenda della giornata di lavoro. Sarah lavorava in una fabbrica di tessuto, mentre Steve lavorava il cuoio con Bucky e tantissimi altri bambini in una fabbrica di scarpe. Aveva dovuto cominciare per legge all’età di 6 anni ma a causa della salute cagionevole il medico gli aveva concesso un anno in più. Conobbe Bucky pochi giorni dopo il suo primo giorno di lavoro. Stava uscendo dal turno e due ragazzini di 8 anni cercarono di rubargli la paga giornaliera. Bucky, che aveva un anno in più, lo difese. Da allora diventarono amici inseparabili. Da che era solo, Steve conobbe Sam Wilson, suo coetaneo e Clint Barton, coetaneo di Bucky, il quale lavorava come acrobata presso dei fenomeni da baraccone. Steve, all’età di 8 anni, conobbe anche una fanciulla della quale si prese una cotta. Si chiamava Peggy Carter ed era un vero terremoto. L’avevano inserita nel gruppetto perché era l’unica bambina con cui si potesse giocare alla guerra. Non era come tutte le altre bambine; non era noiosa, pettegola e tanto meno lamentosa. Cadeva e si rialzava senza fiatare, scherzava e rideva delle battute da maschi ma allo stesso tempo manteneva la sua femminilità, tenendoli in riga come farebbe una madre responsabile. A Steve si spezzò il cuore quando seppe che i suoi genitori si erano guadagnati tre passaggi per la Città Alta. Questo voleva dire che Peggy avrebbe oltrepassato il confine sociale, le avrebbero tolto il marchio e sarebbe finalmente stata libera. Era contento per lei ma allo stesso tempo era tremendamente triste, così come tutti gli altri. Steve promise a sé stesso che sarebbe riuscito a guadagnare abbastanza da passare il confine con sua madre, riuscendo finalmente a garantire ad entrambi una vita migliore, senza obblighi di lavoro e regole, senza miseria e sofferenza, senza violenza e restrizioni. Perché proprio questo era la Città Bassa, persone relegate in condizioni misere senza quasi possibilità di salvezza. Erano veramente pochi quelli che riuscivano a vincere la scalata sociale e passare dall’altra parte. Solo un passaggio costava 1000 ducati e la paga di Sarah, 72 scellini giornalieri insieme a quella di Steve di 20, servivano a mangiare e a pagare l’affitto. Il poco che restava della paga di entrambi veniva messo in una cassetta, per emergenze varie. Steve aveva anche un’altra cassetta, dove teneva parte dei suoi guadagni da quando aveva cominciato a lavorare. Lì custodiva il suo sogno più grande: andarsene da quel posto con sua madre e il suo migliore amico.

Tra poco avrebbe compiuto 11 anni e per legge gli avrebbero aumentato le ore di lavoro da 10 a 12. La paga sarebbe salita da 2 scellini all’ora a 6, avrebbe guadagnato come sua madre e sarebbe riuscito a mettere da parte di più. Ma il tutto sembrava procedere troppo a rilento. Gli sarebbero voluti comunque anni e anni per raggiungere la quota del passaggio. Steve si spremeva come poteva per guadagnare di più. Prendeva qualche extra vendendo disegni e ritratti per strada. All’occorrenza aiutava Sam e suo padre a vendere e a portare in giro il pane, ma lo stesso i guadagni erano troppo bassi.

Sarah non voleva si affaticasse troppo per via della sua salute: era sempre stato molto gracile per la sua età, inoltre soffriva d’asma. L’unico aspetto positivo che trovava in quest’ultima era che l’aveva salvato dal lavoro in miniera, decisamente il peggiore tra quelli assegnati ai ragazzi. Eppure, nonostante gli sforzi di Sarah nel proteggerlo, Steve faceva di tutto per portare un po' più di soldi a casa ed aiutare sua madre con le spese.

Era sempre stato un bambino buono, generoso e gentile anche a dispetto di ciò che aveva subito in tenera età. Il padre, alcolizzato e violento, li aveva abbandonati quando Steve aveva 5 anni. Da allora il bimbo viveva molto più sereno e Sarah era sollevata del fatto che la figura paterna non avesse influito troppo negativamente nella sua crescita. Robert era sparito dalle loro vite, dai loro pensieri, dai loro discorsi. Semplicemente non esisteva più per loro, rimaneva un semplice fantasma del passato.



Nota dell'autrice:


Hello there! 🥰
Ecco che ci addentriamo nelle vite dei nostri protagonisti. In questo capitolo come avrete visto mi sono soffermata sulla situazione di Steve, indovinate un po' a chi toccherà il prossimo eheheh😏. Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate! Le vostre opinioni sono importantissime! ❤️🌟💬🙏🏼

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II


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POV: Città Alta



Era l’ennesima volta che il piccolo Tony tentava di far partire quella maledetta macchina ed era l’ennesima volta, di quella giornata, che lanciava gli attrezzi da lavoro, frustrato per l’esito negativo. Quando si era presentato a tavola poco prima, lasciando il lavoro incompiuto, Howard, suo padre, l’aveva guardato corrucciato e l’aveva rimandato indietro, negandogli la cena finché non avesse finito ciò che gli aveva commissionato.

“È impossibile che non riesci a risolvere una banalità come quella! Torna in laboratorio, magari con lo stomaco vuoto lavorerai meglio”.

Tony, nel frastuono dei suoi ragionamenti, pensò e ripensò alle parole del padre e non poté far a meno di lasciar scendere due lacrimoni tristi a bagnargli le guance lisce. Quello di rendere fiero suo padre era il suo desiderio più grande e ogni volta che ne aveva l’occasione dava tutto sé stesso, spremendo al massimo le sue doti. Doti che, ormai tristemente sapeva, non venivano mai incoraggiate o apprezzate dal genitore. La speranza di sentirsi lodare dopo un successo diventava ogni volta fumo, lasciandolo con dubbio di non aver fatto abbastanza. Eppure, la cosa che più terrorizzava Tony era sbagliare, non trovare soluzioni. Perché erano quelli i momenti in cui doveva fare appello a tutto il suo coraggio per presentarsi davanti a suo padre da uomo e dire che non ci era riuscito. Questo era proprio uno di quei momenti. Tony cominciò a torturarsi le mani mentre elaborava frattanto le parole che avrebbe dovuto lasciare uscire dalle giovani labbra.

Howard, suo padre, entrò nella stanza proprio in quel momento, causando un sobbalzo al bambino. “Allora?”

Tony si morse il labbro e asciugandosi in fretta e furia gli occhi cercò di sostenere la presenza austera del genitore “Non sono ancora riuscito a farla partire. Credo abbia un problema a livello di…”

Howard non lo fece finire “Credi? Non mi interessa cosa credi che abbia, a quest’ora dovresti essere già stato in grado di trovare il problema e risolverlo. Evidentemente ti ho sopravvalutato”

Il bambino sentì come una spada trafiggergli il petto, faceva così male che sarebbe esploso in un pianto disperato, ma sapeva che ciò non avrebbe fatto altro che screditarlo a quegli occhi che lui voleva tanto soddisfare. I veri uomini non piangono Tony. Si ripeté la frase che tanto aveva sentito pronunciare dal padre.

“No papà ce la posso fare, con un altro po’ di tempo magari riesco…”

Howard sbuffò esasperato e gli fece cenno con la mano, come di tacere “Io alla tua età l’avrei sistemata in dieci minuti”.

Ma che aveva fatto per meritare un figlio così?

Tony abbassò lo sguardo demoralizzato.

“A volte mi chiedo se sei davvero uno Stark o solo una pallida imitazione”. Detto ciò, uscì dal laboratorio del figlio lasciando quest’ultimo con l’amaro in bocca, la gola che bruciava e la lama, avvertita prima, che affondava sempre più in profondità nel cuore. Una lacrima sulla guancia scese lenta e inesorabile.

Lo squillo del comlink lo fece trasalire. Andò ad aprire la conversazione “Ehi Rhodey…”. Il tono era così mogio che subito, dall’altro capo, la voce forte dell’altro giunse preoccupata.

“Tony ehi! Che succede?”

Il piccolo genio aveva la gola bloccata dal dolore, le parole tremavano nel vano tentativo di fingere che fosse tutto a posto, “Mio padre” disse solamente.

“Non dire altro, vengo da te”

“No no Rhodey, se lo scopre sono nei guai… Lo sai che non vuole che ci vediamo quando devo finire un lavoro”

“E a me non mi interessa… Sei il mio migliore amico Tony”, poi passò subito a rassicurarlo “Non lo scoprirà vedrai, sarò più silenzioso di un gatto”

Prima che Tony potesse ribattere l’amico aveva chiuso la conversazione. Sbuffò sonoramente e si strofinò gli occhi asciugandosi le lacrime. Guardò l’orologio, erano le 9 di sera. Sapeva, dato l’orario, che i suoi genitori dovevano ormai aver finito di cenare, nonostante ciò, sapeva anche che la sua presenza non era lo stesso gradita finché non avesse ultimato il suo compito. Suo padre l’avrebbe guardato ancora una volta con gli occhi pieni di disprezzo, sua madre sarebbe intervenuta in sua difesa ma sarebbe stato comunque tutto inutile. Ormai Tony conosceva a memoria quelle dinamiche, erano diventate come il pane secco per i carcerati: duro e triste ma oggetto di una muta rassegnazione. Cercò di concentrarsi anima e corpo su quel maledetto macchinario, in modo da sistemarlo entro le 10; ora in cui sua madre lo mandava a letto.

Verso le 9.30 sentì bussare all’abbaino, guardò in alto e vide il suo amico James Rhodes fargli un cenno con la mano. Quella piccola finestrella era ormai diventata la porta d’ingresso per Rhodey, l’unica via possibile ai due amici per vedersi al di fuori dell’accademia, l’unica luce nel buio di quel triste e solitario laboratorio. Tony andò ad aprire “Ci hai messo un po'”.

“Dovevo finire di mangiare” rise l’amico.

James era coetaneo di Tony, un ragazzino abbastanza alto e dalla pelle scura che studiava in accademia per diventare militare. I due si conoscevano da che avevano memoria, tanto che Tony una volta, per chiarire le dinamiche del loro primo incontro, chiese a sua madre. Ella rispose che anni prima, quando Tony e James non erano che infanti, lei e Roberta, sua madre, si incontravano spesso al parco lasciando i figli a fare conoscenza. Ogni tanto avevano qualche alto e basso, come tutti gli amici, ma non si erano mai abbandonati l’un l’altro. Facile dire come Howard disapprovasse quell’amicizia in quanto non rappresentava, a detta sua, nessun vantaggio per il futuro del figlio. A che ti serve essere amico di un soldato? Ti porta per caso un profitto finanziario? Impari qualcosa di utile da lui? Tuttavia, aveva limitato a determinati giorni e momenti il divieto di vederlo quando un piccolo Tony di sei anni scappò di casa per raggiungere l’amico, rischiando la vita quando un calesse gli passò vicino facendolo cadere. Tony ricordava ancora le urla di sua madre, quel giorno era talmente fuori di sé che arrivò a pensare che i suoi genitori si sarebbero lasciati.

James era sempre stato per Tony un punto fisso, una spalla su cui piangere, qualcuno con cui ridere e divertirsi, l’amico con cui confidarsi. Ora era lì, ed era certo non gli avrebbe voltato le spalle.

Dall’arrivo dell’amico, Tony continuò a lavorare con più serenità, e forse fu grazie a questo che riuscì a far partire la macchina. James esultò “Evviva! Sapevo che ce l’avresti fatta! Te l’avevo detto, sei grande!”

Tony con un sorriso smisurato, andò ad abbracciarlo “Non vedo l’ora di dirlo a mio padre”

“Si ti saluto, ci si vede domani in accademia!” disse James prima di uscire dall’abbaino.

“A domani!” lo salutò uscendo dalla stanza.

Tony corse in sala da pranzo. Le cameriere stavano sparecchiando e pulendo la tavola. In questo momento sua madre doveva essere in bagno a struccarsi e a sistemarsi per la notte, mentre suo padre nella sua stanza da lavoro, immerso nei suoi calcoli.

Bussò e sentì la sua voce “Avanti”. Entrò e lo vide seduto dalla scrivania impegnato su delle carte, come al solito. Gli corse vicino e poggiò una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione. “Cosa c’è Anthony? Non vedi che sto lavorando?” gli chiese brusco senza degnarlo di uno sguardo.

Tony era così felice che non si lasciò abbattere dalle maniere del padre. “Ce l’ho fatta! La macchina è partita!”.

“Si bravo. Ora vai a letto, sono le 10”. Lo sguardo, ancora incollato ai fogli e la voce inespressiva aveva spento il sorriso di Tony, che si avviò verso l’uscita deluso. “Chiudi la porta quando esci Anthony”.



Maria Stark, sua madre, ora gli stava rimboccando le coperte “Com’è andata la giornata tesoro?”

“Sono riuscito a far partire la macchina che mi aveva affidato papà” disse con scarso entusiasmo.

“Ma è meraviglioso! Bravo il mio bambino. Tuo padre è stato contento?”

Tony non rispose “Papà mi vuole bene?”

Maria si sentì spiazzata da quella domanda, non tanto per le basi su cui si fondava ma per il fatto che il piccolo non gliel’aveva mai rivolta prima d’ora, anche se l’aveva letta nei suoi occhi una miriade di volte. Come avrebbe potuto negargli la certezza di essere amato? Tenere Howard in un quadro positivo era tutto ciò che avrebbe potuto fare per non farlo soffrire ulteriormente. “Tony! Che domande, certo che te ne vuole”

“Ha detto che non sembro uno Stark… Mi odia”

Ciò che più ferì la donna era come lo disse, non con un tono di voce arrabbiato, quanto semplicemente triste. Maria si sentì spezzare il cuore. Un bambino di nove anni non meritava questo trattamento da parte di un padre. Aveva bisogno di amore, incoraggiamento e fiducia, invece tutto ciò che otteneva non erano altro che disciplina, freddezza e disprezzo. La donna lo strinse in un abbraccio materno “No tesoro, tuo padre ti ama, è solamente stressato per il lavoro. Sai, ha tante responsabilità…”.

Tony rimase ancora una volta in silenzio, se Maria avesse osservato il suo viso ci avrebbe letto quella classica espressione apatica che lo caratterizzava quando i brutti pensieri lo tormentavano e non lo lasciavano dormire. La strinse a sua volta, poi si coricò aspettando che il bacio della buonanotte lavasse via il dolore, o che quantomeno lo attutisse. Era come se lo coprisse con un velo d’amore, l’amore che avrebbe voluto avvertire non solo da sua madre.




Nota dell'autrice:


Hello there!
Eccoci al piccolo Stark alle prese con le sue emozioni e i suoi problemi. Mi sento di dirvi che mi sento un po' inesperta scrivendo questo genere dato che sono abituata al fantasy, quindi ecco spero comunque che vi sia piaciuto, io ci ho messo tutta la mia buona volontà. Mi piacerebbe sentire anche i vostri pareri😊

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III


POV: Città Bassa



Finalmente, la sirena che segnava la fine della giornata di lavoro, suonò. Steve uscì dalla fabbrica ritirando la paga e si diresse alla bottega di Wilson.

“Ecco il tuo pane Steve” lo accolse sulla soglia l’amico Sam.

Sam era un simpatico bambino di colore, più piccolo del biondo di tre anni. Aveva gli occhi ridenti e lo sguardo vivace. Sempre allegro e con la battuta pronta, stravedeva per Rogers.

“Ehi Sam!” Steve era contento di rivederlo dopo. Era un pò che non uscivano, un pò a causa del malessere del minore e un pò per il lavoro, che occupava gran parte delle loro giornate. “Passata la febbre?”,

“Sto benissimo. Quando andiamo a giocare io, te e Bucky?”.

Steve si accigliò “A Buck hanno cambiato gli orari, ora fa i turni di notte ed è impegnato quando noi saremmo liberi”.

Il sorriso di Sam si spense “Oh…”.

Steve gli diede una pacca sulla spalla “Però noi due possiamo uscire no? Magari anche con Clint, sempre che non abbia spettacoli da dare”.

Sam si riaccese “Certo! Domani quando finisco le consegne! Il ritrovo qua fuori dalla bottega di mio padre. Scusa, ora devo correre a portare in giro altro pane. Mi chiamano, ciao ciao a domani!” disse correndo in bottega, col suo caratteristico entusiasmo.

Steve infilò il cartoccio del pane nello zainetto e si incamminò verso casa pensando al migliore amico. Si chiese quando avrebbe potuto vederlo di nuovo. Non si poteva transigere sugli orari che i datori di lavoro assegnavano. Probabilmente non si sarebbero visti finché non sarebbero sopraggiunti altri ordini a colmare le loro speranze. Prese un sasso da terra e lo lanciò con rabbia contro il muro di una casa abbandonata. Steve sentiva le narici impregnate di rabbia, una nube sulla sua testa che aleggiava avvelenandogli i pensieri. Non era giusto. Niente di ciò che accadeva in quel posto era giusto. Si chiese cosa avesse fatto di male per nascere lì.

Continuò a vagare nei meandri delle sue domande, camminando a testa bassa e calcando la polvere che il vento secco di stagione gli mandava negli occhi accecandolo. Poco gli importava, tanto era preso dai suoi tormenti interni. Ad un tratto si accorse di aver sbagliato strada, i pensieri l’avevano portato in un vicolo mai visto prima. Si guardò attorno. Il muro alto, sormontato da fili elettrici, gli fece dedurre di trovarsi sul confine con la Città Alta. Quello era il “separatore di mondi”. Da una parte la vita perfetta che sognava per lui e i suoi cari, dall’altra quella che poteva permettersi.

Passo malinconicamente la mano su quella superficie inscalfibile e nel mentre fantasticò su quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto se fosse riuscito a passare dall’altra parte. Sicuramente sarebbe andato a quel negozio di biciclette e ne avrebbe presa una per sé e una per Buck. Interruppe i suoi pensieri quando la sua mano tastò un dislivello nel muro. Osservò con attenzione e scopri trattarsi di un crepo, sottile ma alto quanto lui. Finora non aveva mai visto brecce di alcun tipo su quella superficie infernale ed era arrivato a pensare che non si potesse minimamente frantumare. Un sacco di domande gli affollarono la testa. Che qualcuno stesse cercando di scappare? Da quanto era lì quel crepo? Chi mai era stato a farlo?

La sirena di fine lavoro degli adulti informò Steve che erano ormai le sette di sera e che sua madre stava tornando a casa.

Corse con il sacchetto del pane nello zaino ma poco prima di arrivare a destinazione sentì la voce di sua madre e quella di un’altra donna. Il ragazzino si bloccò dov’era, raramente vedeva sua madre socializzare al ritorno dal turno. Sapeva che il più delle volte era talmente stanca che persino parlare con lui a cena era faticoso, eppure Sarah non rinunciava mai a scambiare quattro chiacchiere col figlio che tanto amava. Steve non si fece vedere per paura di rovinare la conversazione e per lasciare a sua madre i suoi spazi. “Sarah non puoi continuare così, ti stai consumando lentamente”. Riconobbe la voce di Winifred, la madre di Bucky. Era la migliore amica di sua madre, e lavorava con lei alla fabbrica di tessuti. Ma di che stavano parlando? Steve affilò l’udito, cercando di eliminare tutti gli altri suoni attorno a lui e concentrandosi sulle voci delle due donne.

“Win, non preoccuparti sono ancora capace di badare a me e a Steve”.

La pausa seguente fece pensare al ragazzo che Winifred stesse parlando con le espressioni del viso, ma lui non poteva sporgersi dal vicolo o l’avrebbero visto.

“Lui lo sa?”.

“Certo che no Win, come potrei dirgli una cosa simile? Non è che un bambino”.

Steve strinse i pugni. Lui non era affatto un bambino, ma capì che sua madre lo disse con amore e non con cattiveria, perciò li rilassò subito dopo.

“Ti prego Sarah, lascia che ti aiuti. Per me non sarà affatto un problema ospitarvi a casa nostra, ora che George è in guerra avremmo anche più posto da permetterci due persone in più. In più, credo che i ragazzi ne sarebbero entusiasti”.

“Ma le regole...”,

“Oh, fanculo le regole!” Winifred la interruppe con enfasi. “Ascolta, promettimi almeno che penserai a questa offerta… Se non vuoi farlo per te almeno fallo per me, voglio passare con la mia migliore amica più tempo che posso”.

Le ultime parole avevano un tono tremante e Steve capì che la donna stava per piangere.

Poi sentì di nuovo sua madre “Te lo prometto”.

Steve immaginò si stessero abbracciando e poco dopo le sentì salutarsi.

La voce di Winifred era ormai lontana quando la senti dire “A domani cara”.

Aspettò che sua madre salisse nell’appartamento per non destare sospetti e nel frattempo pensò a quanto aveva sentito. Sua madre gli stava nascondendo qualcosa, e non aveva intenzione di dirglielo perché lo riteneva troppo piccolo. Le avrebbe fatto capire che era cresciuto, che sapeva reggere cose da adulti e che di qualunque cosa si trattasse lui le sarebbe rimasto a fianco, come aveva sempre fatto. Non sopportava che portasse un peso così grande senza poterlo condividere; di certo le avrebbe reso il tutto più leggero.

La cena fu più silenziosa del solito. Steve aveva lo sguardo fisso nel piatto e pensava a come avrebbe potuto tirare fuori la questione. Sarah si accorse che qualcosa non andava “Che succede Steve?”.

Steve, che era sempre stato un bambino sincero, non seppe mentire o nascondere le preoccupazioni, nemmeno le domande che lo tormentavano. “Potrei farti la stessa domanda, mamma”.

Sarah lo guardò, fingendo di non capire. Cominciò a sparecchiare facendo finta di niente “Di che stai parlando tesoro?”.

“Non fingere ti prego, ti ho sentito parlare con Winifred”.

Sarah, con le spalle voltate, poggiò il piatto vuoto nel lavabo, chinando il capo.

Steve mutò il tono da accusatorio a preoccupato “Non escludermi da ciò che ti succede solo perché mi ritieni troppo piccolo per sopportarlo. Sono cresciuto anche troppo e so reggere certe cose”.

Sarah si girò, aveva gli occhi rossi. “Dici così perché non sai di che si tratta”.

Steve non la vedeva così da quando con loro c’era ancora Robert, e cominciò a preoccuparsi seriamente. Una morsa cominciò a stringergli il petto quando la sua mente pensò che forse l’uomo potesse essere, in qualche modo, tornato nelle loro vite.

“Mettimi alla prova” disse sicuro, alzandosi dalla sedia con fierezza.

Sarah lo guardò e vide il coraggio e la risolutezza di uomo, chiusi in un corpo gracile di un bambino di quasi undici anni. Si inginocchiò di fronte al biondo, stringendogli le spalle con le mani e, guardandolo dritto negli occhi, disse quelle tre parole. Tre parole che Steve, ancora non sapeva, l’avrebbero tormentato per anni. “Tesoro… Ho un tumore”.

Steve non sapeva cosa fosse un tumore, non aveva ancora sentito quella parola, eppure non gli serviva capire cos’era per comprendere che si trattava di una cosa orribile. Non rispose, era rimasto spiazzato dallo sguardo di sua madre. Aveva capito, aveva letto la morte nei suoi occhi e non serviva chiederle di specificare. Tenne fisso lo sguardo tanto da sembrare paralizzato. Lo era. Era paralizzato, terrorizzato. Il cuore gli pompava a mille e il fiato gli mancava. Sarah lo strinse in un abbraccio soffocante e cominciò a piangere.

Steve si scosse e l’abbracciò di rimando. “Tu guarirai, te lo prometto. Ci penserò io a tutto, tu devi riposare”.

Le parole del bambino non fecero che aumentare il pianto della donna. Dopo qualche minuto, si staccarono e Sarah si asciugò le lacrime.

“Ora penserai a quanto sia debole, io piango e tu mi consoli...”.

“Non pensarlo nemmeno, e non pensare che ti lascerò lavorare tutto il giorno come fai ora”.

La donna gli sorrise amorevole e gli accarezzò una guancia “Come sei cresciuto Steven caro”.

***

Quella notte Steve non dormì, né pianse, né soffocò le grida nel cuscino. Fissò immobile le travi di legno del soffitto, mangiate dal tempo. La mente vuota, piena solo delle scarse parole ricolme di significato che aveva scambiato qualche ore prima con sua madre. Non provava nulla, solo un terribile silenzio interiore. Era come se il suo cuore si fosse fermato. Non l’avrebbe mai ritenuto possibile se ci avesse pensato durante quelle corse forsennate con Bucky. Com’era possibile che non sentisse nulla? Si chiese se fosse normale, se fosse umano. La morte lo era sicuramente. Era ciò che di più vero e imparziale esisteva a quel mondo, e stava per segnare la sua vita e quella di sua madre. Una voce dentro di lui lo prese a schiaffi. No, non l’avrebbe permesso. Sua madre avrebbe vissuto e sarebbe morta di vecchiaia, nella Città Alta, era così che Steve si era sempre immaginato il futuro. Forse proprio per questo non si stava disperando, non credeva che quel male potesse abbattersi sulla sua famiglia e rovinarla. Il suo animo non era pronto per essere sconfitto, avrebbe lottato fino alla fine. Non si era ancora arreso, e non l’avrebbe mai fatto.




Nota dell'autrice:


Hello there!
Non mi sono dilungata troppo nell’aspetto introspettivo di Steve perché ci sarebbe stato da scrivere davvero tanto, troppo. A volte in queste situazioni non sapresti scrivere nulla, tanto ti senti vuoto dentro. Ok dai saltando questa mia riflessione spero che la storia stia continuando a piacervi😊
Nel caso fatemelo sapere nei commenti!

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV


POV: Città Alta



“Signorino Tony!”

La voce di Jarvis, il maggiordomo, lo svegliò. Aprì gli occhi e vide l’uomo porgergli il vassoio con la colazione.

“È da una vita che provo a svegliarla ma a quanto pare ha il sonno più pesante di un elefante”

“Che ore sono” chiese Tony con la voce impastata.

“Le 9:00 e sa bene che suo padre oggi lo voleva sveglio per le 8:00 per una questione di lavoro”.

Tony, ricordatosi dell’impegno, sbarrò gli occhi scattò giù dal letto vestendosi in fretta e furia.

“E la colazione?”

“Scusa Jarvis non ho tempo”

“Ma con che forze si terrà in piedi?”

Tony sentì solo metà della frase perché era già schizzato al piano di sotto correndo giù dagli innumerevoli scalini in marmo della villa di famiglia, diretto all’ufficio di suo padre. Uscendo da casa sentì sua madre urlargli di fermarsi per farsi accompagnare da Jarvis ma lui non le badò. Era in ritardo clamoroso e il maggiordomo faceva tutto con troppa calma per i suoi gusti. Lui doveva arrivare subito da suo padre, non poteva permettersi di perdere altro tempo. Si maledisse per non aver messo la sveglia e cominciò a correre per la strada. Stava per chiamare una carrozza quando proprio una di esse, che riconobbe come quella che usava la famiglia, lo affiancò. Lo sportello si aprì e un Jarvis ammiccante fece capolino. “Un passaggio signorino?”. Tony saltò su come fosse stato punto da un insetto. Il fiatone non gli permise di parlare, ma il suo enorme sorriso riconoscente diceva già tutto.

Arrivato alla sede dell’industria Stark, venne accompagnato da una segretaria all’ufficio di suo padre. Howard lo guardò per un secondo per poi tornare sulle sue carte. “Ben svegliato Anthony”.

“Scusa papà, io…”

“Le scuse non guidano imperi. Ora vieni qui che ti dico cosa devi fare”.

Tony obbedì immediatamente avvicinandosi alla scrivania.

“Mi seguirai per tutta la giornata di oggi, non dovrai prendere appunti, non ti spiegherò niente. Dovrai solo seguirmi, guardare quello che faccio e ascoltare quello che dico. Intesi?”.

“Posso…?”.

Howard lo interruppe con un cenno della mano senza togliere lo sguardo dalle carte “Le domande a fine giornata”.

Tony, come stabilito precedentemente, stette vicino a suo padre passo per passo, ascoltò i suoi dibattiti con i colleghi e i sottoposti. Era così sollevato che per una volta i rimproveri non erano indirizzati a lui che ci prese quasi gusto. Eppure, non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo di compassione ai poveri malcapitati, come per dire “Ti capisco”.

Suo padre era estremamente geniale e Tony lo guardava con occhi scintillanti quando parlava di cose scientifiche e tecnologiche. In quei momenti sentiva con lui una connessione incredibile e la cosa che più lo riempiva era quando riusciva a stare al passo coi suoi ragionamenti. Nonostante l’adulto non esprimesse mai apprezzamenti nei confronti del figlio, Tony continuava a porlo su un piedistallo immeritato, venerandolo come fosse una divinità, una di quelle che ammiri e a cui sacrifichi tutto ma che in cambio non ti danno niente, se non il timore di ciò che possano dirti o farti.

Tony seguì il padre in un laboratorio chimico. Esalazioni sgradevoli lo colpirono violentemente e sentì delle fitte alle tempie. Guardò Howard per fargli capire, senza parlare interrompendolo, che gli stavano dando fastidio. L’uomo lo guardò per un secondo, riconcentrandosi subito dopo sui lavori ivi in atto.

“Non fare il bambino Anthony, è normale che ci sia questo odore, stanno eseguendo un certo esperimento. Ora presta attenzione”.

Tony aprì la bocca ma non riuscì a dire nulla. La testa gli scombatteva insopportabilmente. Cominciò a vedere annebbiato, faticava a stare in piedi. Pochi istanti dopo non sentì più nulla e tutto gli fu buio.

Quando riprese conoscenza la prima cosa che vide era suo padre guardarlo tra l’imbarazzato e il preoccupato, mentre una giovane scienziata gli teneva alte le gambe per farlo riprendere. La ragazza gli accarezzò dolcemente i capelli chiedendogli come stesse. Nel frattempo, arrivò un secondo scienziato che gli porse un dolce.

“Sto bene, sto bene”. Tony addentò avidamente il dolce invadendosi la cavità orale di un buonissimo sapore di mele e cannella. Dopo qualche morso il bambino si sentì subito meglio. La giovane che l’aveva soccorso lo guardò “Non hai fatto colazione Tony?”.

Il bambino scosse la testa mentre finiva di masticare.

“E a cena avevi mangiato qualcosa?”.

Scosse la testa di nuovo mentre la scienziata la girò verso Howard. Non disse nulla ma il suo era uno sguardo di rimprovero, che il magnate evitò rivolgendosi poi al figlio, quasi si sentisse in dovere di dirgli qualcosa. “Lo sai che non ti fa bene saltare i pasti Tony. A pranzo andiamo a mangiare bene da qualche parte”.

Gli occhi di Tony si illuminarono e il piccolo dimenticò subito il fatto appena accaduto.

A cena Tony raccontò a Maria tutto ciò che aveva imparato quel giorno e Howard, a parte rimproverarlo per il ritardo, non disse altro.

Poche ore dopo essere stato messo a letto da sua madre, Tony, dato che non riusciva a dormire, scese per bere un bicchiere d’acqua e dal corridoio gli giunsero le voci dei suoi genitori che, in salotto, sembravano discutere ad alta voce. Incuriosito si avvicinò alla porta e sentì chiaramente che stavano parlando di lui.

“Ti sembra normale Howard?”.

Tony non aveva mai sentito sua madre così alterata, lei era sempre una donna tranquilla, perciò gli fece quasi paura sentendola così.

“Smettila Maria, è grande abbastanza per darsi una svegliata”.

“Ma ti senti? Oggi tuo figlio è svenuto perché suo padre è così incosciente da non prendersene cura!”.

“Non è più un bambino”.

“Ha 9 anni!! Non è una delle tue stupide macchine… È un bambino dolce che stravede per te e tu te ne approfitti bellamente, bistrattandolo come solo tu sai fare!”.

“Se la mia presenza non è ben accetta allora tolgo il disturbo”.

“Si vai… Immagino che Lydia ti stia aspettando” lo salutò la donna col veleno nella voce.

Tony corse in cucina prima che suo padre uscisse dalla porta sbattendola dietro di sé. Lo vide vestirsi con rabbia ed uscire. Tony tornò di soppiatto in camera sua senza bere un goccio, tanto ormai gli era passata la sete.

Si rimise a letto e chiuse gli occhi, una lacrima gli bagnò la guancia. Cercò di addormentarsi ma le parole dei suoi genitori ancora gli rimbombavano nella testa.

Non avrebbe mai immaginato che, poco lontano, dall’altra parte di un muro, un altro bambino stava passando la notte sveglio, affrontando da solo il mare in tempesta dei suoi pensieri.




Nota dell'autrice:


Hello there!
Consapevole del fatto che sia cortino, spero che possa comunque emozionarvi, cosa che provo a fare in ogni capitolo. Niente non so che altro dire quindi Buona Giornata
Fatevi sentire nei commenti!

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V


POV: Città Bassa



Le cose andavano meglio da quando Steve e Sarah si erano trasferiti dai Barnes. Almeno ora sua madre non si sforzava più come prima, quando al lavoro in fabbrica aggiungeva quello in casa. Bucky, quando aveva saputo dall’amico che lui e sua madre avevano infine preso quella decisione, era fuori di sé dalla gioia. Il tempo passato insieme, però, era diventato poco da quando Bucky, compiendo 12 anni era passato a fare il turno da adulto che si componeva di 12 ore. Inoltre, altre due le perdeva tornando a casa in quanto la sua fabbrica distava non poco da casa sua. Il nuovo lavoro lo demoliva a tal punto che, appena tornava a casa, si lanciava nel letto esausto per poi svegliarsi qualche ora dopo, mangiare e tornare a letto subito. Steve non aveva ricordi di aver fatto un giro per i vicoli col suo migliore amico, come ai vecchi tempi. Se riuscivano a fare qualcosa erano comunque attività tranquille, come guardare fotografie, disegnare o leggere in camera.

“Sai Bucky…”

“Cosa?”

“Dopo lavoro sono passato a vedere se c’erano ancora le nostre bici”

Bucky alzò lo sguardo dal suo disegno guardando l’amico incuriosito “E?.”

Steve gli sorrise “Sono ancora lì ad aspettarci”

Bucky posò la matita sul foglio, non se la sentiva di nascondere al suo migliore amico una cosa così grande. Non era giusto e comunque sapeva che avrebbe capito la sua decisione. “Steve… devo dirti una cosa”

Steve lo guardò con attenzione, aspettando che parlasse.

“So che ora non c’entra ma… pensavo di arruolarmi”

Il biondo lo guardò stupido per qualche secondo, parlava seriamente? Rise “Buck ma se hai 12 anni”.

Bucky però non rise, continuò a guardarlo con un'espressione grave e fu allora che l’amico capì che non stava scherzando.

“Ho parlato con un uomo in fabbrica, mi ha detto che potrebbe falsificare i documenti e dire che ho 15 anni, potrebbe funzionare, in fondo sembro più grande della mia età”.

Steve non sapeva davvero cosa dire, quindi fu ancora il moro a parlare.

“Capisco quello che stai provando, ma capiscimi Steve, non c’è niente per me qua, la vita in fabbrica non fa per me”.

Stavolta il biondo non tacque “Ma potresti morire!”.

“Preferirei morire con una pallottola in corpo che schiacciato da una trave di metallo. Anche oggi ho visto un uomo sfracellarsi davanti ai miei occhi”.

Steve tentò invano di dissuaderlo “Licenziati, ci sarà sicuramente qualche altro lavoro che potresti fare”.

“Io mi licenzio e il governo mi toglie dall’albo degli operai. Come minimo finirei a mendicare per strada. Devi fare quello che ti assegnano, lo sai bene”.

Ci fu una pausa di silenzio, poi il più grande continuò. “E poi volevo cercare mio padre. È da tanto che io e la mamma non abbiamo sue notizie”.

Gli occhi di Steve bruciavano insopportabilmente, da quando sua madre gli aveva parlato era stato bene, grazie soprattutto alla presenza costante di Bucky che lo distraeva dai cattivi pensieri. Pensare che da lì a poco se ne sarebbe andato fece sprofondare il biondo in un vortice di malinconia. Bucky si accorse che qualcosa non andava. Si odiò per essere stato così diretto e non aver considerato la reazione del minore. Però prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, perché di una cosa era certo, Steve più di tutti meritava di sapere la verità e lui non gliel'avrebbe nascosta nemmeno per denaro. Erano troppo legati per farlo. Bucky scosse il biondo dalle spalle. "Ma non preoccuparti, è solo un'idea... non so nemmeno se ci riuscirò".

Steve continuò a disegnare a testa bassa ignorandolo.

"Davvero Steve, non voglio pensarci ora, solo volevo dirlo al mio migliore amico"

Steve sentiva lo sguardo dell'amico puntato su di sé e nel frattempo muoveva senza attenzione la matita sul foglio, fingendo di concentrarsi sul disegno, quando invece i sui pensieri erano da tutt'altra parte. Lui poteva anche essere il suo migliore amico, suo fratello, eppure non aveva nessun diritto ad impedirgli di seguire la sua strada, anche se quella fosse stata lanciarsi sotto il fuoco nemico. Eppure non poteva negare che questo gli avrebbe dato un'enorme sofferenza. Alzò gli occhi celesti intrecciando finalmente lo sguardo con il maggiore. “Qualunque cosa deciderai di fare, io sarò con te, fino alla fine”.

Bucky scacciò indietro le lacrime e sorrise malinconico. I due si scambiarono la stretta di mano segreta che condividevano con Sam e Clint e che un tempo avevano condiviso anche con Peggy. “Amici per sempre” dissero all’unisono.

***

Il giorno dopo, finito il lavoro, Steve tornò al muro e notò che la crepa era più danneggiata dall’ultima volta in cui l'aveva vista. Qualcun altro doveva avervi letto una possibilità di fuga e aver dato un contributo. Decise quindi che avrebbe trovato il responsabile, perciò lo disse anche a Bucky, Sam e Clint, ed insieme cominciarono l’operazione “Break the Wall”: ognuno, alle ore del giorno che poteva, andava a dare in servizio della causa la sua manodopera e, nel frattempo, cercava di scoprire chi mai stesse lavorando allo stesso obiettivo. Fortunatamente quel lato del muro era in un posto così isolato che nemmeno le giacche blu frequentavano; non c’era motivo per loro di controllare quella zona, anche se più di una volta erano arrivati davvero vicini al trovare la breccia per caso, dopo aver inseguito i ragazzi nei vicoli bui per un bel po'. Fortunatamente non era mai successo e i giovani si ritrovarono a pensare più di una volta che, magari, c'era davvero qualche buona stella a vegliare su di loro.

***

Bucky e Steve una sera stavano giocando a carte in camera, discutendo del lavoro, quando sentirono bussare tre colpi alla finestra. Bucky andò a vedere e subito dopo aprì, facendo entrare un Clint veramente agitato. “Ho scoperto chi è che rompe il muro come noi!”.

“Respira e dicci tutto” lo calmò Bucky.

Il giovane circense prese fiato, doveva aver corso molto. “Finita l’esibizione sono andato come al solito al muro per continuare il lavoro, solo che lì trovai già qualcuno intento a picchettare. Era chiaramente la sagoma di un bambino ma era incappucciato, quindi mi sono avvicinato cauto e, per evitare che scappasse, l’ho acchiappato da dietro stringendogli le spalle. Ho sentito un gridolino di sorpresa e poi questo mi ha calciato sugli stinchi con forza. Ho lasciato la presa ma prima che potesse scappare gli ho tirato giù il cappuccio e indovinate? Era una bambina! Molto carina, capelli rossi e lo sguardo di una che può tranquillamente metterti a tappeto in pochi secondi”.

“Ed è ciò che ha fatto mi pare” rise Bucky.

Il biondo gli fece una boccaccia, poi continuò “Poi ho sentito la sirena della pattuglia serale e quindi dovevo squagliarmela in fretta, però prima di tornare ai carrozzoni mi sentivo in dovere di aggiornarvi”.

Steve intervenne “Grazie Clint, domani dobbiamo dirlo anche a Sam, poi vedremo cosa fare”.

Clint annuì, poi li salutò e se ne andò, come era entrato, dalla finestra.

Passò qualche minuto di silenzio, riempito solo dai pensieri rumorosi dei due amici. Bucky guardò Steve “Tu sei ottimista?”.

“Perché non dovrei? Io credo che potremmo farcela”.

“Non lo so Steve, che faresti una volta passato il muro? Se non ti scoprono prima le giacche blu dall’altra parte non sarebbe meglio, in fondo saresti un clandestino, un fuggitivo. In guerra i fuggitivi vengono giustiziati senza processo”.

“Non credi che valga la pena tentare?”.

“Come fai ad essere ancora ottimista Steve?”.

“Semplice… peggio di così non mi può andare”.




Nota dell'autrice:


Ehila! Come state?
Io sto preparando la sessione d’esami quindi sono un po' presa da cose da fare e studiare. È difficile stare dietro pure alle FF però farò del mio meglio per aggiornare più in fretta possibile.
Spero che la storia continui a piacervi, un abbraccio

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI


POV: Città Alta



“Ciao Tony, com’è andata la mattina?” Rhodey si avvicinò all’amico durante la ricreazione in accademia, che si svolgeva per tutti gli studenti alle 12:00 e divideva l’arco delle lezioni a metà.

“Oggi noi abbiamo conosciuto il nuovo maestro di difesa personale, appena posso ti insegno qualche mossa. Da te come sono andate le lezioni?”

Tony mangiava il suo panino fissando il vuoto, sembrando non gustarselo nemmeno.

“Terra chiama Tony” scherzò Rhodey.

Tony non lo degnava di uno sguardo, era come ipnotizzato. Allora l’amico si sedette vicino a lui e gli sventolò un palmo davanti agli occhi “Ehi che hai?”

Finalmente il bambino aprì bocca, facendo uscire una voce abbattuta “Niente, lasciami stare”.

“Tu non hai niente e io sono un generale dell’esercito”

“Non voglio parlarne”.
L’amico allora usò la solita tattica che sapeva funzionare benissimo con Tony, si alzò e cominciò ad allontanarsi “Come vuoi”. Come aveva previsto pochi secondi dopo sentì la voce dell’amico rispondere. “Hanno litigato di nuovo”.

Rhodes si riavvicinò sedendosi. Sapeva di cosa stesse parlando: i genitori dell’amico avevano spesso dei diverbi e Tony ne soffriva molto. Più di una volta, infatti, si era trovato nella situazione di dovergli tirare su il morale, e ultimamente questo avveniva sempre più frequentemente. James guardò l’amico masticare controvoglia il pranzo. Ricordò come i primi tempi fosse invidioso dei suoi pasti, dei suoi giochi, della sua casa. Ora non gli invidiava più niente, non avrebbe mai scambiato il suo posto con l’amico.

“Ieri papà se n’è andato sbattendo la porta”.

“L’ha già fatto no?”.

“Mamma era più arrabbiata del solito, non l’avevo mai sentita così”.

“E perché era così arrabbiata?”.

“Credo per una certa Lydia, non lo so però era arrabbiata con papà, non so chi sia Lydia”

James lo ascoltava in silenzio.

“E anche perché sono svenuto”

“Cosa??”

“Si non avevo mangiato perché ero in ritardo, ma è colpa mia non di mio papà”

“Non devi darti la colpa di tutto Tony, anche lui sbaglia, e tanto mi sembra”

“No, sono io che non sono abbastanza. Sono un fallimento per lui, ed ha ragione…Non sono capace di niente”

Rhodes cercava in tutti i modi di consolarlo ma sapeva che questo non sarebbe servito a togliere il male dalla sua vita. Lui poteva come minimo distrarlo, ma esso in profondità avrebbe continuato a scavare e a disilludere il piccolo Stark dalle gioie che essa poteva offrire.

***

“Signorino Tony”. Jarvis entrò in camera sua nel tardo pomeriggio reggendo un completo da sera.

“Suo padre la vuole pronto nell’atrio per stasera alle sette, la prega di indossare questo e di non tardare”

Tony prese il completo e lo lanciò sul letto “Agli ordini Jarvis” sbuffò.

“Le consiglierei di sistemare i capelli, sono un totale disastro”

Tony guardandosi allo specchio, si passò una mano nella folta chioma scura e disordinata. L’espressione da cucciolo smarrito intenerì il maggiordomo al punto che si propose di aiutarlo nell’impresa. Alle 19:00 precise, un piccolo Anthony vestito, profumato e pettinato scese dalle scale raggiungendo sua madre e suo padre nell’atrio.

Maria si chinò per mettergli il cappotto e gli diede un bacio sulla fronte “Sei bellissimo”.

Howard lo guardò serio e, senza dire nulla, gli aggiustò il fiocco.

Tony odiava le cene di affari. Per prima cosa doveva agghindarsi ogni volta e i capelli laccati gli davano un fastidio rilevante. Sua madre non poteva stare con lui e per buona parte della cena doveva sopportare argomenti come quote in borsa, offerte di mercato, vendite e tante altre cose che non capiva. Solo quando suo padre citava qualche argomento scientifico drizzava le orecchie interessato. In più, arrivati i momenti di trattativa, doveva sempre fare il jolly della situazione, fraternizzando coi figli dei clienti, spesso spocchiosi e antipatici. Quella sera poi, sapeva che suo padre avrebbe trattato col famoso magnate Hammer. Tony conosceva bene il figlio perché frequentava l’accademia con lui e non lo sopportava.

Poco prima di entrare nella villa degli Hammer Howard lo prese da parte. “Fai un’altra scenata come quella fatta dai Killian e vedrai se non ti chiudo il laboratorio”.

Quella volta Aldrich, anch’egli suo compagno di accademia, gli aveva fatto prendere la scossa con una sua invenzione ancora non sperimentata. Tony aveva lanciato un urlo per poi cominciare a contorcersi sul pavimento in preda a spasmi. Avevano dovuto sospendere la trattativa per portarlo in ospedale e Howard gliel’aveva rinfacciato per mesi.

“Certo papà”

***

Non avevano nemmeno terminato la cena che già Tony ne aveva abbastanza di Justin e della sua sorella minore Christine. Appena il coetaneo gliel’aveva presentata, aveva provato profonda avversione, probabilmente l’antipatia era di famiglia. Christine aveva sei anni ed era se possibile ancora più fastidiosa del fratello. Pretendeva che Tony si lasciasse acconciare i capelli come voleva lei, evidentemente era abituata ad ottenere tutto ciò che voleva e le respinte del bambino la mandavano su tutte le furie.

“Sei antipatico! Stupido! Justiiin!”.

“Ti conviene fare come dice Anthony, le sue urla potrebbero richiamare l’attenzione dei miei”.

Tony avrebbe voluto tanto dargli un bello spintone e farlo atterrare sul sedere ma sapeva che questo avrebbe solo complicato le cose, perciò fece un sonoro sbuffo e si sedette a terra, pronto a lasciarsi maneggiare i capelli dalla piccola viziata.

Mentre Christine era all’opera, Justin sogghignava verso il compagno e ad ogni ciocca tirata troppo forte immortalava le espressioni di dolore di Tony con una macchinetta fotografica di sua invenzione. Quando ebbe finito gli strattonò il viso girandolo verso di sé per guardarlo “Sei ancora brutto, non so cosa farci”.

Justin intervenne per peggiorare la situazione “Che dici Christine, magari con un po' di trucco lo miglioreremo”.

“Sii Justin hai ragione! Aspettate qui che vado a prenderlo!”, detto ciò, corse via a prendere il necessario.

Tony nel mentre guardava truce Justin “Dammi quelle foto”.

“Non ci penso nemmeno Antonia” lo prese in giro l’altro.

La serata si concluse con una Christine che si vantava delle sue doti di parrucchiera e truccatrice, un Justin esultante con le foto compromettenti che aveva scattato e un Tony truccato e pettinato in modo pacchianissimo, decisamente furente ma con lingua e mani legate per non rovinare la serata al padre.

Nel ritorno a casa Maria lo sistemò come poté, Howard non lo degnò di un grazie, di uno sguardo, di nulla.




Nota dell'autrice:


La sessione d’esami è agli sgoccioli quindi ora riesco a trovare più tempo per me stessa e i miei progetti. A settembre dovrò dare altri esami però, e nel frattempo fare il tirocinio, quindi non sarò mai del tutto libera. RIP.

Che ne dite di questo capitolo? Non porta molto avanti la trama ma mi serve per farvi capire un po' la situazione che vive Tony, che influirà poi ovviamente sul suo futuro.
Spero sempre nelle vostre gradite recensioni e vi saluto

Alla prossima!

Kia

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII


POV: Città Bassa



10 marzo: Compleanno di Bucky

“13 anni il mio piccolo… Quanto sei cresciuto” disse Winifred con gli occhi lucidi mentre baciava il ragazzo sulla testa dopo aver messo la torta in tavola.

Sarah gli accarezzò una guancia e lo guardò con occhi pieni di affetto. “Auguri caro”.

Ormai lo considerava alla pari di un figlio. Subito, quando il suo Steve l’aveva conosciuto, aveva avuto paura che con quel ragazzino si sarebbe solo andato a cacciare nei guai, ma quando aveva visto l’umore del figlio migliorare in brevissimo tempo, la donna dovette rivedere le sue considerazioni. Il sorriso nato sul volto del biondo in quel periodo era bastato a farle cambiare idea su quel Barnes. La signora Rogers non dimenticò mai quel giorno in cui, tornando a casa dopo il lavoro, si trovò uno Steve con la febbre altissima steso a letto, la flebile vocina che delirava, e un James infermiere improvvisato che si destreggiava tra la cucina e il bagno per portare qualunque conforto possibile all’amico malato. Sarah ricordò tutte le emozioni provate come fosse successo ieri: dalla profonda preoccupazione, al sollievo nel vedere scendere la febbre dopo qualche ora, alla gioia incontenibile perché suo figlio aveva trovato un vero amico, qualcuno per cui valesse la pena vivere in quel posto orribile, qualcuno che rendesse la sua vita un po' meno triste e miserabile.

La signora Wilson si offrì di tagliare la torta e il signor Wilson stappò una bottiglia di vino e, dopo aver riempito i bicchieri delle signore e del festeggiato, propose un brindisi. “Al signorino Barnes che reputo più uomo di tanti altri sebbene la sua ancora giovane età. È il tuo giorno Bucky, perciò brindiamo e festeggiamo questo ulteriore tuo passo verso il mondo dei grandi!”.

Bucky reggeva il bicchiere tutto impettito, atteggiandosi da adulto. Sua madre si rese davvero conto quanto le parole del signor Wilson fossero vere: suo figlio era cresciuto in fretta, forse anche troppo. Si chiese come sarebbe stato se si fosse trovato nella città alta; probabilmente, anzi sicuramente non così maturo. Gli occhi del ragazzo scrutavano gli invitati come per ringraziarli uno ad uno e dimostrare quanto quel giorno non era che una formalità di quanto era chiaro a tutti lì dentro, o almeno a chi sapeva riconoscere le evidenze; ovvero che Bucky era ormai un uomo. Winifred notò che possedeva la fierezza di suo padre e non ci fu per lei pensiero più doloroso. Avrebbe voluto vederlo accoccolarsi ancora tra le sue braccia durante un temporale, asciugare le sue lacrime dopo una caduta, sentirlo implorare per un’ennesima fiaba, bearsi della sua risata per le facce buffe che faceva George, ed intimare a quest’ultimo di fare attenzione quando con il piccolo intraprendeva delle lotte all’ultimo sangue sul tappeto… Ma il mondo gli aveva portato via quelle gioie troppo in fretta e con la partenza di George, se ne andò anche molta della spensieratezza del bimbo. Poi aveva conosciuto Steve e Winifred aveva visto il lato bambino di Bucky risvegliarsi. Il piccolo Rogers aveva portato la primavera nella vita di suo figlio e nel guardarli ora, brindare, guardarsi con orgoglio e darsi pacche amichevoli sulle spalle, non riuscì a trattenere le lacrime.

“Vi ringrazio per essere qui a festeggiare con me, non c’era mio desiderio più grande, anche dal momento che vorrei annunciarvi una cosa”.

Tutti lo ascoltarono con grande interesse e Steve chinò il capo rassegnato; sapeva cosa stava per dire l’amico. Si chiese come avrebbero reagito gli altri a tale notizia. Già si aspettava la reazione di Winifred e di sua madre.

“Sono stato promosso capo del mio settore e la fabbrica mi trasferirà a breve nella sede di supporto al comando”. Annunciò il ragazzo con orgoglio e fierezza nella voce che diventava negli anni sempre più profonda.

Ci fu uno sbarramento d’occhi generale, subito seguito da ovazioni gioiose. Winifred era fuori di sé dalla gioia “Tesoro ma perché non me l’hai detto prima” e lo sommerse di baci.

La signora e il signor Wilson si congratularono stringendogli con enfasi le mani.

Sarah lo abbracciò “Oh sono così contenta per te, almeno non starai ancora sotto quelle sbarre pericolose”.

Sam e Clint si lanciarono su di lui gioendo. Solo Steve rimase seduto a guardare l’amico con un’espressione tra il confuso e il disapprovante. Bucky intercettò il suo sguardo e capì al volo il punto di vista dell’amico, ne avrebbe parlato dopo con lui, perciò gli fece cenno che non era il momento per una discussione, facendogli intendere però che non si sarebbe sottratto ad essa più tardi. Steve sospirò senza farsi notare, poi andò dall’amico e gli strinse la mano, complimentandosi. Una tra le cose che odiava di più era comportarsi da falso, Bucky lo sapeva perciò gli rivolse un sorriso colmo di scuse.

Quella notte i quattro amici stettero sul tetto ad ammirare le stelle raccontandosi storie e rimembrando avventure passate. Bucky aveva sgraffignato dal tavolo la bottiglia di vino, ancora piena per metà, e l’aveva condivisa con i compagni. Nel giro di un’ora erano già tutti ubriachi. Clint voleva mettersi a fare ruote sulle tegole ma uno Steve ancora abbastanza sobrio glielo impedì. Sam, il più piccolo, era decisamente k.o. e dopo aver esaurito tutte le energie ridendo come un matto ad una barzelletta di Bucky, crollò in un sonno profondo, con la testa appoggiata sul ventre di Steve.

“E buonanotte al piccolo Sam” rise Clint prima di addormentarsi a sua volta con la schiena poggiata al comignolo, la bottiglia vuota in mano. Steve ridacchiò. Gli sembrava proprio uno di quegli ubriaconi che vedeva per strada ogni giorno, quelli che dopo il turno di lavoro affogavano i dispiaceri nell’alcool con la paga giornaliera. Rideva ma la situazione era tragica. Quelle persone avevano sempre suscitato pena del giovane e nonostante sua madre gli dicesse che si erano scelte loro quel destino, che erano loro stesse la causa dei loro mali, Steve continuava a provare compassione per loro. Pensava che prima di essere mendicanti di soldi lo fossero di affetto, di ideali, di emozioni positive, e l’unica cosa a cui riusciva a dare la colpa era a quell’orribile società che aveva reso le loro fragili condizioni ancora più evidenti, lasciando un segno profondo nelle loro vite tanto da diventare incancellabile e determinante tutto il loro futuro. Nel pensare questo la sua risata si spense, quindi si girò verso l’unico rimasto ancora sveglio.

“Buck… Perché non hai detto la verità prima?”.

“Non voglio spezzare il cuore a mia madre… Ha già perso mio padre”.

“Non credi che prima o poi lo verrebbe a sapere comunque?”.

L’amico si girò a guardarlo “Perché, hai intenzione di fare la spia?”.

“Certo che no!”.

“Beh allora lo vedo difficile”.

“Dico solo che secondo me faresti meglio ad essere onesto, penso che per lei sarebbe peggio venirlo a sapere poi. E se non ce la facessi? Come pensi che reagirebbe a questo? Ci hai pensato?”.

Bucky lanciò un sassolino con forza, lo sguardo corrucciato “Diamine Steve! Perché devi pensare a questo ora?”.

“Perché qualcuno deve farti capire che stai commettendo un errore nel mentire a tua madre e ai tuoi amici. Io preferirei vedere e soffrire per una brutta verità che essere soffocato inconsapevolmente venendo nutrito con una piacevole bugia”.

Il moro lo guardò “Da quando sei così saggio?”.

Steve gli diede una spinta amichevole “Lo sono sempre stato scemo…”.

Bucky però intuì che qualcosa non andava “No, ti è successo qualcosa. Non negarlo è da un po' che lo noto, sei cambiato”.

Il più piccolo volse lo sguardo all’orizzonte, i comignoli sputavano fumo nero coprendo una lunga visuale di edifici davanti a loro. “Ho visto una brutta verità”.

“Vuoi parlarmene?”.

“Secondo te perché siamo venuti da voi?”.

“Mamma mi disse perché non avevate più l’appartamento”.

“No Bucky, è perché mia madre non sta bene e non credo guarirà mai…” poi guardò gli occhi sconvolti del moro e sorrise tristemente “Vedi? Non è bello sapere che ti hanno mentito”.

“Steve io… mi dispiace… se l’avessi saputo avrei aiutato di più… io…”. Bucky non sapeva più cosa dire, gli tremava la voce.

Steve gli posò una mano sulla spalla rassicurandolo “Hai fatto tanto invece, e non ti preoccupare, ci penso io a tutto. Io ho fatto una promessa e non mi arrendo di fronte alla paura”.

Capì che Steve non voleva più parlare di questo. “Già… Questo lo so troppo bene”.

Poi ridacchiò per alleviare la tensione “Credi che a Morstran mancherò?”.

“Come a Clint mancherebbe fare il cretino penso” rise in risposta.

Poi il biondo estrasse dalla tasca dei pantaloni il suo regalo di compleanno, una busta “Beh… Buon compleanno amico mio”.

Bucky la aprì e rimase a fissare il contenuto, non trovando le parole per esprimersi: era la bici dei suoi sogni, Steve gliel’aveva disegnata perfettamente. Passò una mano accarezzando la carta ruvida con nostalgia.

“So che non è come una fotografia ma sai, quegli aggeggi che le fanno costano parecchio e…”.

Il moro lo zittì con un “È perfetta!”, poi guardò l’amico riconoscente, negli occhi si rifletteva il firmamento.

“Tu invece mi faresti un regalo anche se il compleanno è tuo?”.

Bucky lo guardò come per dirgli di proseguire con la richiesta.

La voce del biondo risuonò nella sua testa per tutta la notte e i giorni avvenire. “Non morirmi anche tu Buck”.

***

Un mese più tardi, arrivò per Bucky il momento di partire. Alla stazione a salutarlo c’era sua madre, che dopo averlo abbracciato e baciato per cinque buoni minuti, passò il ragazzo a Sarah che gli diede un bacio a sua volta “Buona fortuna Bucky”, la signora Wilson gli sorrise “Mi raccomando, facci avere tue notizie”. Poi venne il momento dei suoi amici Clint, Sam e Steve. I quattro ragazzini si salutarono con il loro segno segreto a cui seguì un abbraccio di gruppo. Clint e Sam, ignari, guardarono con orgoglio l’amico che se ne stava andando. Sicuramente pensavano che una vita migliore lo stesse aspettando, una volta salito su quei vagoni. Steve, invece, sapeva benissimo cosa lo stava aspettando in realtà.

Il moro sorrise loro parlando forte per sovrastare il fastidioso rumore della locomotiva. “Non fate nulla di stupido finché non torno”.

Clint rispose beffardo come al solito “Come potremo… La stupidità la porti tutta con te”.

Risero, anche se quella sulla bocca di Steve era una risata amara. “Te ne vai proprio ora che cominciavo a sopportarti”.

“Sei un imbecille”.

“Cretino”. Il biondo trattenne le lacrime e si lanciò ad abbracciarlo di nuovo, stavolta con più forza. “Non vincere la guerra finché non arrivo io”. Gli sussurrò affinché lo sentisse solo lui.

Sciolsero l’abbraccio e saltando sulla carrozza il ragazzo andò a toccare la fronte con il taglio della mano per poi allontanarla subito dopo, come nel saluto militare. Steve fece lo stesso, seguito a ruota da Sam e Clint. Il fischio del treno giunse assordante alle loro orecchie. Poco dopo il cigolio annunciò che il mezzo era in movimento. Bucky, ancora affacciato alla finestra, agitava la mano, allontanandosi gradualmente fino a diventare solo un puntino all’orizzonte. Steve sospirò. Era andato. La guerra era di certo terribile, soprattutto per un ragazzino fuori età di reclutamento. Sperò vivamente che l’amico potesse trovare il padre e mettersi il cuore in pace. Il biondo resistette all’impulso di piangere, aveva una profonda paura di perdere il suo migliore amico. Eppure, qualcosa dentro Steve gli diceva che l’avrebbe rivisto, prima della fine. Si affidò a quella vaga sensazione prima di passare un braccio attorno alle spalle di Sam, le cui lacrime silenziose non volevano essere notate. “Tranquillo Sam, lo rivedremo”.




Nota dell'autrice:


Bucky va in guerra, e quale sarà il destino del piccolo Steve? Potete fare ipotesi e commentare le vostre idee a riguardo.
Spero che vi sia piaciuto questo capitolo e spero sempre anche nelle vostre gradite recensioni.

Vi saluto e ci vediamo al prossimo con un altro compleanno, quello del piccolo Tony!

Kia

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