Il nuovo mondo ha le sue regole

di Xeire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La storia di Marco ***
Capitolo 2: *** Il viaggio di Marco ***
Capitolo 3: *** La giornata di Julie ***
Capitolo 4: *** L'incontro ***



Capitolo 1
*** La storia di Marco ***


La giornata di Marco era cominciata male ed era proseguita ancora peggio.
Era stato svegliato dal suono di uno sparo e, come d’abitudine, aveva raccolto le sue cose (un coltello a serramanico, il sacco a pelo, qualche vestito) e le aveva infilate a forza dentro lo zaino. Aveva spento il fuoco, sparso le ceneri e chiuso la tenda, che aveva appallottolato e riposto nella sacca. Poi, si era incamminato nella direzione opposta a quella del colpo di pistola.
Non era la prima volta che sentiva degli spari: ormai poteva distinguere con chiarezza una Walther P38 da una Luger o da una Beretta. Ogni tanto sentiva anche qualche mitragliatrice e, più raramente, esplosioni.
Le pistole ormai si potevano trovare ovunque: bastava andare in un qualsiasi Mercato, in una qualsiasi stazione della metro, o in ogni altro luogo al chiuso abbastanza grande da ospitare le migliaia di persone che vi si recavano per acquistare letteralmente qualsiasi cosa.
Marco avrebbe voluto avere con sé una pistola. La prima volta che sentì uno sparo rimase paralizzato per ore, rannicchiato nella sua tenda, stringendo nel palmo sudato il manico del coltello la cui lama rifletteva il suo volto terrorizzato. Per prendere una pistola c’erano tre opzioni. La più scontata: andare al Mercato, che brulicava di Ali, e avere qualcosa di abbastanza prezioso con cui barattarla. La più facile: strapparla dalle mani di un cadavere. La più coraggiosa (o stupida) rubarla a qualcuno. Nessuna di queste tre ipotesi gli sembrava invitante, al momento. Nel posto in cui era qualche mese prima andava spesso al Mercato, soprattutto da zia Jo, una donna con un braccio solo che, quando lo vedeva particolarmente denutrito, gli dava due piatti di zuppa in cambio solamente di uno scoiattolo. A Marco piaceva zia Jo. Gli aveva anche consigliato dove e da chi prendere una pistola a un buon prezzo. Lì non c’era il problema delle Ali: erano molto lontani dal loro quartier generale, non si spingevano tanto lontano. Qualche settimana dopo, qualcuno applicò la terza opzione e tanti saluti alla pistola.
Continuò a camminare, stringendo il coltello, finché non arrivò al delimitare del bosco. Davanti a lui non c’erano altri alberi, solo strade e case. Se fosse uscito, sarebbe stato scoperto. Se fosse tornato indietro, sarebbe andato incontro allo sparo.
Decise di proseguire, fino al prossimo nascondiglio, che si rivelò essere un garage malmesso e polveroso.
Si era dimenticato da quanto tempo faceva quella vita. Si rifugiava da qualche parte, scappava in un altro luogo, cercava un nascondiglio, poi si spostava ancora e ancora. Ogni volta che le Ali si avvicinavano, lui doveva essere il più lontano possibile da loro: davano la caccia a quelli come lui.
Cinque anni fa avrebbe pregato per scappare dalla propria vita: una madre protettiva, un padre troppo esigente, il dover costantemente dare il meglio nelle partite per poter avere la borsa di studio e andare all’MIT. Gli mancava persino la sua piccola casa nella periferia di Chicago, la camera che doveva dividere con suo fratello Javier, il bagno perennemente allagato, l’odore di sigarette e fiori appassiti che proveniva dal salotto.
La vita scorreva così inesorabilmente lenta quell’estate del 2025 che quello che accadde lo investì in pieno come un treno in corsa.  Prima iniziarono le morti: all’inizio qualcuna, nei vari stati d’America (“non è grave” dicevano alla tv, “la situazione è sotto controllo” proclamavano solennemente i politici), poi i decessi si sparsero a macchia d’olio. Un virus letale, in grado di uccidere in poche ore una persona. Si trasmetteva per via sessuale, o per via trasversale, dalla madre al figlio. Non si sapeva altro, né come fosse venuto fuori, né quale potesse essere una possibile cura. Iniziarono a chiamarlo “il nuovo AIDS”, “la malattia del sesso”, o, semplicemente “la Piaga”.
Iniziarono a morire i politici, le loro amanti, i mariti e fidanzati delle amanti e chiunque facesse sesso non protetto. Ovviamente crebbe la necessità dei preservativi e le vendite erano alle stelle, ma non bastavano per tutti. Così le persone fecero quello che sapevano fare meglio: cercare su internet. Chi usava la pellicola alimentare, chi le buste di plastica, chi si lavava le parti intime con la candeggina prima e dopo il rapporto.
Alcuni iniziarono a dichiarare di essere sopravvissuti dopo, vennero chiamati alla tv e intervistati, poi radunati dai migliori team di medici e scienziati. Venne dichiarato che lo 0,001% delle persone poteva contrarre l’infezione senza morire, e svilupparne gli anticorpi. Gli altri erano solo semplici esibizionisti.
In seguito alla scomparsa di chi era ai vertici, seguirono rivolte popolari e corse al potere. Prima un gruppo di vecchi bigotti, secondo i quali la Piaga era una punizione di Dio che dovevamo scontare perché ci eravamo abbandonati alla lussuria e alla dissolutezza. Non durarono molto. Poi si ebbe un governo popolare, come lo chiamavano, ma nemmeno questo superò i 3 mesi. Alla fine militari, paramilitari e simpatizzanti presero il potere e si creò un vero e proprio regime di terrore. Maschi e femmine vennero portati via dalle loro case e collocati in ghetti separati. Non tenevano conto, però, che esistevano altri orientamenti sessuali. La Piaga continuò ad avanzare. Così iniziò ad essere diffusa la notizia che ogni persona, dai 13 anni in poi, sarebbe stata prelevata e isolata, usando le vecchie carceri.
Molti scapparono: in Canada, in Messico, In Colombia. Paesi meno pericolosi, dove nessun governo militare voleva imprigionare le persone.
“Noi dobbiamo andare in Europa” gli disse una volta Javier. Erano nella loro baracca; Marco lo guardò sgranando gli occhi.
“Lo sai che è la cosa migliore. Adesso che tutti stanno fuggendo in Canada o in Messico, i confini sono controllati. Sono pieni di perros”. Perros, i cani dell’esercito. I loro occhi, le loro braccia: quelli che facevano il lavoro sporco per le alte sfere. Mentre parlava, suo fratello stava accarezzando una foto della loro famiglia. Non vedevano più la loro mamma da quando erano stati separati nei ghetti. Si diceva che le donne sopra i 50 anni fossero state portate a Boston, mentre loro erano a Providence. Il padre di Marco e Javier era morto a causa del virus.
Javier diede la vita per quel piano. Cercò tra i suoi contatti una persona che conoscesse un marinaio, uno che potesse portare loro e altri fuggitivi in Europa. Niente aerei, troppo pericoloso. Li aspettavano mesi di viaggio, chiusi in una scatola di metallo galleggiante, con cibo sufficiente per mangiare una sola volta ogni due giorni. Trovato il marinaio, cercò altre persone interessate a quella traversata: tutti i maschi del ghetto, tranne una decina. Tutti insieme offrirono qualcosa per pagare la tratta.
Per scappare e raggiungere il porto dovettero organizzare una rivolta nel ghetto, approfittare del trambusto e scappare: 34 morirono così, uccisi dalle guardie e dai perros. Gli altri 121, compresi Javier e Marco, riuscirono a fuggire, ma erano un gruppo troppo numeroso e non fu difficile per i perros individuarli: dopo poche ore arrivarono i veri militari e cominciarono a sparare. Un proiettile colpì Javier e subito dopo un altro. Il fratello cadde davanti agli occhi di Marco, che si inginocchiò accanto a lui. Non gli importava se gli avrebbero potuto sparare. Il mondo per lui si era fermato nel momento in cui il corpo di Javier si era accasciato al suolo. Lui, così forte e coraggioso, giaceva per terra come una bambola spezzata. Le membra scomposte e il petto coperto di sangue. Marco non vedeva le persone che continuavano a morire, i fuggitivi che venivano picchiati, altri fuggitivi che colpivano con pietre i militari e prendevano loro le armi per difendersi: in quel momento vide solo gli occhi del suo fratellone. Avevano passato gli ultimi due anni in una baracca con lui, a farsi consolare, a ridere, a prendere in giro i perros, a pensare ai loro genitori. In quel momento tutto il mondo, il suo mondo, era racchiuso negli occhi di suo fratello. Li vedeva colmi di tristezza, paura, rabbia, voglia di fuggire, delusione. Marco gli strinse le mani, come se quel solo, insignificante gesto, potesse tenere Javier ancora ancorato a questo mondo.
“M-marco” balbettò, tossendo sangue “vai. Passa dalla discarica, non ti vedranno”. Marco protestò. Non voleva allontanarsi da lui. “te quiero con toda el alma, mi hermano”  sussurrò, mentre i suoi occhi si spegnevano.
Quei ricordi investirono totalmente Marco. Le lacrime gli rigarono le guance. Era tanto tempo che non ripensava a suo fratello. Era troppo doloroso; gli sembrava di non riuscire a respirare, era come se i suoi organi interni stessero per implodere, lacerandolo. Si rannicchiò in un angolo del garage, dietro ad un vecchio pick up arrugginito, come per comprimere il dolore che stava provando, senza lasciarlo uscire. Non seppe per quanto tempo rimase così, ma si scosse dalla trance perché sentì dei rumori. Poteva essere un animale, ma sarebbe stato troppo facile, troppo bello che la cena stesse camminando verso di lui.
Sentì delle voci, lontane, di uomini. Ali? Contrabbandieri? Randagi come lui? Erano troppe le opzioni.
Marco era sicuro che sarebbe stata la peggiore delle opzioni, ovvero le Ali.
Attento a non far rumore si nascose sotto il veicolo, portando con se la sua roba. I passi si avvicinavano e le voci si facevano sempre più chiare.
“… hanno chiamato?”
“L’Orso ci ha assicurato che una sua fonte certa ne ha visto passare uno per di qua”
Marco abbozzò un sorriso: ci aveva preso, Ali. Ali informate da un contrabbandiere del Mercato probabilmente, che aveva spie proprio in questo posto del cazzo. Non gli sarebbe potuta andare meglio.
“Tu, controlla lì. Walker 1 e 2, andate nel garage. Quello nuovo controllerà la strada”.
Il sorriso di Marco scomparve. Poteva restare nascosto lì sotto. Poteva cavarsela. Ma la fortuna non era MAI a suo favore. Trattenne il respiro. Aveva paura. Se le Ali lo avessero trovato, lo avrebbero portato ai Campi. Avrebbe passato la vita a lavorare come uno schiavo oppure avrebbe potuto distinguersi dagli altri, farsi notare e fare l’addestramento per diventare uno di loro. Due ipotesi di merda. In realtà non sapeva bene cosa facessero le Ali a chi veniva catturato, ma queste erano le cose che aveva sentito dire maggiormente. C’era chi diceva che ti veniva fatto il lavaggio del cervello, chi diceva che ti uccidevano e basta. Marco aveva sentito troppe storie e non ci teneva a sapere quale potesse essere vera.
Due uomini piazzati come armadi entrarono nel garage. Marco smise del tutto di respirare. Si rigirava compulsivamente l’anello sul dito. Il cuore sembrava stesse per esplodergli nel petto.
Si guardarono intorno, fecero pigramente qualche passo intorno al veicolo, senza prendersi il disturbo di controllare meglio.
“Sembra non esserci nessuno. Andiamo, voglio andare a mangiare” dichiarò il primo uomo.
“Qui libero, passo” comunicò il secondo ad una specie di walkie talkie mentre si dirigeva verso la porta, seguito dall’altro.
Marco non fece in tempo a stupirsi per quella che definì una” botta di culo” che uno dei due uomini inciampò in qualcosa: ”Ahia! Ma che cazzo è? Stavo per ammazzarmi”
“Fammi vedere” ordinò l’altro. “È un coltello”
Marco si immobilizzò. Il sangue iniziò a martellargli nelle tempie. Non riusciva a credere di essere stato così stupido.
“C’è inciso un nome, guarda: Marco Sanchez”
“Credo che sia del Randagio che stiamo cercando”
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Ciao a tutt*, questa è la mia prima storia. E' stato veramente difficile dover "tradurre" dai pensieri alle parole scritte. Spero che la legga qualcuno  e che mi sappiete indicare i miei errori, cosicchè possa migliorarmi.
Grazie <3 Xeire

 

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Capitolo 2
*** Il viaggio di Marco ***


II.
Marco non sapeva da quanto tempo si trovasse su quel camion. Era bendato e con le mani legate, ma sapeva di non essere solo nel retro del veicolo: aveva sentito salire due Ali. Uno, probabilmente, era l’uomo che aveva trovato il suo coltello (lo chiamavano “Walker 1”); l’altro, a giudicare dalla voce, era un ragazzino di quindici o sedici anni. Lo chiamavano “Crawler”.
Non si sapeva granché dell’organizzazione chiamata “Ali”. Le poche cose che conosceva su di loro le aveva imparate al Mercato, parlando con zia Jo. Nessuno era a conoscenza di cosa si occupassero di preciso, ma la loro attività di facciata era mantenere l’ordine, catturando “individui pericolosi” come, ad esempio, i Randagi come lui. Per diventare una delle Ali ci si poteva arruolare (anche se Marco ignorava i motivi per cui uno dovesse farlo), oppure, dopo essere stati catturati da loro, per sfuggire ad un destino ignoto, i più spaventati potevano tentare quella carriera. Si iniziava come Crawler (coloro che strisciano), poi come Walker (coloro che camminano) e, infine, si finiva da Flyer, le Ali vere e proprie. A Marco questo processo ricordò la metamorfosi da bruco in farfalla: una farfalla orribile.
“Il Randagio sembra abbastanza in forze. Ci potrebbe fare comodo uno della sua stazza” osservò Walker. Marco provò ribrezzo al solo pensiero che lui lo stesse esaminando, studiando, come se fosse un topo da laboratorio “ultimamente ci capitano tutti magrolini come te Crawler” concluse l’uomo. Marco sentì il ragazzo trattenere il respiro, come se fosse arrabbiato. Come se un complimento da parte di uno di quei bastardi potesse essere in qualche modo gratificante.
Dopo una serie di scossoni, il camion si fermò e le porte si aprirono. Marco sentì qualcuno scendere e pregava che fosse Walker.
“Ci fermiamo a mangiare qualcosa. Crawler, vedi di non fare cazzate: la tua promozione dipende da questa missione, e lo sai. Non perderlo di vista” ordinò Walker 1.
Si udì una risata tonante e fragorosa. Doveva provenire dall’altro Walker. “Come se potesse andare da qualche parte. Vieni, numero 3. Andiamo a farci un boccone. Ho sentito che lo stufato che fanno qua dentro è prodotto con la selvaggina di questi boschi, non con quella merda del mercato”. Delle porte vennero chiuse.
Erano andati via in 3, compreso il guidatore. Era da solo con il nuovo arrivato, la cui carriera dipendeva unicamente dalla sua sorveglianza. Poteva aggirarlo in qualche modo? O lui non avrebbe esitato ad ucciderlo? Certo, se lo avessero voluto morto a quest’ora non sarebbe qui: quando lo avevano catturato aveva posto resistenza: era riuscito a colpire uno dei due armadi al ginocchio, così forte da farlo piegare. L’altro aveva risposto colpendolo in testa con il calcio della sua pistola. Poi si era risvegliato sul camion.
Da quello che aveva detto l’uno, le file delle Ali avevano bisogno di giovani in forze, quindi lui era una risorsa preziosa, più o meno.
Marco era bendato e con le mani legate. Sentiva il ginocchio del pivello premuto contro il suo: erano molto vicini. Da quello che aveva dimostrato, tirava dei bei calci; ma come avrebbe fatto a stordire il ragazzo che aveva davanti? Poteva colpire alla cieca, ma non poteva essere certo che il suo piede sarebbe finito sulla faccia del Crawler.
Così gli venne un’idea. Un’idea fottutamente stupida.
“Ehi piccoletto”, disse, rivolto al ragazzino. Cercò di sembrare il più provocatorio possibile. “Certo che deve essere frustrante sentirsi subito inferiore al primo Randagio che vi passa sotto il naso”.
Marco sentì la gamba di lui irrigidirsi. Ma il ragazzo non si scompose. Doveva usare di più.
“Se la vocina che ti ritrovi è proporzionata alla tua stazza, allora non credo che abbiano fatto bene a lasciarti qui da solo. Sai, ho la sensazione che con un tocco potrei spezzarti un osso”.
Il respiro del ragazzo si fece rapido e pesante. Marco poté giurare di sentire la rabbia che emanava in quel momento.
“Io pensavo di essere importante, ma se hanno lasciato un bambino a sorvegliarm..”
Un forte colpo. Poi a Marco mancò l’aria. Il Crawler si era alzato e gli stava stringendo la gola con entrambe le mani. Sentiva il suo fiato, il suo respiro caldo e furioso sulla sua pelle.
“Tu, brutto Randagio, sei solo un piccolo, insignificante...”. Era vicino, ma non troppo. Marco sapeva cosa doveva fare e colpì, mettendoci tutta la propria forza.
Se non avesse passato tanto tempo al Mercato e non avesse ascoltato gli insegnamenti di Chicco, di Fred e del Grigio a quest’ora avrebbe il cranio in due: saper tirare una buona testata era fondamentale, se non volevi svenire.
Il colpo fu forte, e Marco provò comunque una forte fitta nel punto della colluttazione: il ragazzo andò a terra, accompagnato da un fragore sul pavimento metallico.
Durante lo scontro la benda si era spostata sull’occhio sinistro e Marco riusciva a vedere, almeno un po’, la situazione. A terra, scomposto, il corpo del Crawler. Il retro del furgone era molto piccolo, come immaginò.
Guardandosi meglio intorno si rese conto di uno scintillio sul pavimento. Non poteva crederci. Il suo coltello. Un moto di speranza gli si accese nel petto: si piegò e cercò di afferrare il coltello. Aveva le mani legate dietro la schiena, così diede le spalle all’arma e tentò di prenderlo. Si tagliò le mani a forza di provare alla cieca, ma, alla fine, sentì la familiare impugnatura di legno di nuovo contro il suo palmo.
Le Ali avevano così scarsa considerazione Marco che l’avevano legato con un pezzo di stoffa. Meglio per lui, perché lo tagliò in due secondi; quando ebbe finalmente le mani libere, si tolse la benda. Guardò il ragazzo a terra: quanto tempo ci avrebbe messo a riprendersi? E tra quanto sarebbero tornati i Walker?
Doveva agire in fretta. Tolse la giacca nera al ragazzo, l’uniforme delle Ali, e la indossò. In questo modo, sperò, nessuno avrebbe tentato di catturarlo.
Aprì il portellone del camion e guardò fuori: si trovava sotto un ponte, accanto a quella che era un’ex stazione di servizio (e ora era una stazione di servizio e un bordello): era notte, fuori non c’era anima viva e dal locale provenivano grida, urla e schiamazzi, sovrastati da musica di pessimo gusto.
Prese il corpo del Crawler e, con più delicatezza di quanto avrebbe voluto riservagli, lo adagiò sul terreno fangoso. Lo guardò per un po’, forse per troppo tempo. Aveva paura che si svegliasse e che iniziasse a urlare, facendo intervenire i suoi superiori. Così usò il pezzo di stoffa con cui lo avevano legato come bavaglio, poi gli legò insieme i lacci delle scarpe. Sorrise al pensiero di aver fatto una cosa infantile: Javier gli faceva sempre questo tipo di scherzi. Al pensiero di suo fratello, sentì che un’ondata di tristezza lo stava per soffocare, ma scacciò quei sentimenti. Cosa gli avrebbe detto Javi se lo avesse visto imbambolato lì invece di agire e scappare?  ¡Muévete, bobo!”. Marco sorrise. Gli avrebbe decisamente dato dello scemo.
Si decise ad andare verso l’abitacolo del camion; aprì la porta verso il lato del guidatore e salì. Ovviamente le chiavi non c’erano. Ovviamente. Ma questa volta Marco poteva benissimo fregare la Dea Fortuna: era cresciuto nel South Side: aveva imparato a rubare auto prima ancora che a camminare.
Il camion partì senza problemi e Marco premette sull’acceleratore. “Chissà quanto ci vorrà prima che la fortuna mi abbandoni di nuovo” pensò, mentre si lasciava alle spalle quel luogo fangoso e desolato.
Poco, ovviamente. La fortuna lo abbandonò dopo un’ora che era sul camion. Era finita la benzina.
Marco accostò e scese; provò a vedere se dietro ci fosse una tanica di scorta. Ovviamente non c’era.
Se le Ali non avevano fatto rifornimento e non avevano del carburante di scorta, voleva dire solo una cosa: il loro quarter generale non era lontano dal posto in cui si erano fermati prima. Questo lo rincuorò. Lo rincuorò meno il fatto che lui avesse fatto solamente un’ora di viaggio e quindi le ali non ci avrebbero messo molto a raggiungerlo.
In quel momento gli balenò in mente un’ipotesi. Il camion poteva essere tracciato. Poteva avere un microchip o un’altra stronzata che avrebbe condotto le Ali dritte dove si trovava lui in quel momento.
Così, d’istinto, iniziò a correre. La strada era dritta, circondata ai lati da campi. Nessun bosco, nessun luogo dove avrebbe potuto essere più al sicuro. Davanti a lui, si ergevano delle montagne.
Continuò a correre, nonostante sentisse i polmoni bruciargli nel petto, nonostante l’aria gli sferzasse le guance incavate come una frusta, nonostante i piedi gli stessero implodendo.
Si fermò solamente quando vide dei cartelli: Piemonte, Valle d’Aosta. Non aveva idea di essere arrivato fino lì. Due anni fa era sbarcato dall’altra parte della penisola italiana, in Sicilia. Poi aveva fatto quello che tutti i Randagi facevano: si stabiliva in un luogo, ci restava un po’, poi si spostava. A volte da solo, a volte in gruppi. Con altre persone era più difficile: venivi catturato e ucciso più facilmente, ed era difficile dover superare sempre delle perdite. Pensò a Chiara, una ragazzina di 12 anni che aveva perso i genitori, morta l’inverno scorso per ipotermia. Dopo la loro perdita, non mangiava da giorni e il suo corpo non resse le gelide temperature. Pensò a Michael, un uomo che veniva dalla Francia. Aveva ottantatré anni quando morì: gli spararono le Ali, era troppo vecchio per arruolarsi e troppo inutile per continuare a vivere. Il suo sangue schizzò sulla felpa di Marco. La bruciò la sera seguente.
Continuò a camminare, cercando di non essere sopraffatto dai ricordi, ma era impossibile. Ogni cosa, ogni momento, gli faceva ripensare a tutte le morti a cui aveva dovuto assistere.
“Fermo!”
Marco sobbalzò. Chi era? Chi parlava? Era così buio che non vedeva niente.
Una luce accecante gli venne puntata in faccia.
“E’ un Pulcino!” esclamò una voce sbeffeggiante.
“Ma cosa dici Igor”. Bene, erano in due, o forse di più.
“Ma sì! Guarda la giacca!”
Marco si guardò. Aveva ancora la giacca sottratta al Crawler. Ecco il secondo errore più stupido che aveva fatto nelle ultime ventiquattro ore. Tutti odiavano le Ali, a parte le Ali stesse. Forse.
Indossare la loro uniforme era come un invito a farsi ammazzare.
Uno dei due sghignazzò: “A me sembra un Pulcino spaventato. Portiamolo al capo, deciderà cosa farci. Magari lo interrogherà o lo torturerà per avere informazioni”.
“Non credo che voglia perdere tempo con uno come lui. È un Crawler, che informazioni potrà mai avere?”
“Non lo so, ma mi diverto a vedere il capo che maltratta questi bastardi”
L’altro rise “e va bene, come ti pare. Ma sarai tu a consegnarglielo”
Marco non riusciva a crederci. Catturato due volte nello stesso giorno. Era veramente troppo.
Poteva girarsi e scappare. Gli uomini erano sul tetto della casa, ci avrebbero messo molto a scendere e ad inseguirlo.
Come se lo avesse letto nel pensiero, uno dei due esclamò: ”non provare a scappare! John, qui, è il migliore cecchino della compagnia. Non faresti in tempo a fare due passi su quelle tue gambette che ti ritroveresti giù, con il culo all’aria!” Altre risate.
La compagnia? Se avesse sentito bene, avrebbe potuto essere la cosa migliore che gli potesse capitare trovarsi lì. Gli avevano raccontato tante storie sulla compagnia, su questa organizzazione... ma erano vere?
Mentre pensava alle cose che aveva sentito dire su di loro, i due uomini vennero a prenderlo. Gli legarono, di nuovo, le mani e gli bendarono, di nuovo, gli occhi. Uno lo strattonò per camminare e l’altro gli teneva una pistola puntata alla testa.
Gli fecero percorrere un tratto pianeggiante, poi scale, poi dovette abbassarsi per passare in quello che credeva fosse un corridoio. Sentì una porta che veniva aperta: dal rumore doveva essere di metallo molto pesante. Venne sommerso dalle voci: gente che parlava, gridava, rideva, sentiva musica. C’era odore di sudore, di tanti corpi in uno spazio confinato. Era una prigione? Marco pregò di no.
Mentre passavano lì in mezzo, le voci si fecero più rade. Sapeva che le persone lì lo osservavano.
“Avete portato un Pulcino nel rifugio? Un Crawler. Addirittura?” era la voce di un ragazzo, della sua età forse.
“Lo portiamo dal capo. Sai che mi piace quando…”
“Quando maltratta i Pulcini. Sì, lo sappiamo tutti” rispose il ragazzo. Sembrava un padre che assecondava l’ennesimo capriccio del figlio. “Non è di buon umore oggi. È da stamani che non esce dal suo ufficio”
L’uomo che gli puntava la pistola alla testa sbuffò: “Oh no… non dirmi che è annoiata. Non è abbastanza divertente se il capo non si impegna a far parlare questi pagliacci”
“Cammina” ordinò l’altro, strattonandolo.
Ad un certo punto si fermarono. Gli venne tolta la benda che gli copriva gli occhi e Marco si ritrovò davanti ad una massiccia porta di metallo. Vide, finalmente, gli uomini che lo avevano rapito per la seconda volta in quella giornata. Erano entrambi molto alti, ma non potevano assolutamente competere con i due armadi Walker.
Uno dei due bussò (Marco non aveva ancora capito se fosse Igor o John). Si udì un suono e la porta si aprì.
L’uomo alla sua destra gli mise una mano sulla spalla: “Vedi di essere convincente, ragazzo. Se ti va bene, sarai condannato a morte. Fidati, è  veramente la cosa migliore”.
Marco deglutì. Igor (o John?) gli diede una piccola spinta, e lui entrò, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.
 

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Capitolo 3
*** La giornata di Julie ***


Quella mattina Julie non aveva proprio voglia di alzarsi.
Si rigirò nel letto -una brandina posta in un angolo della sua cabina- finché non sentì bussare alla porta.
“Julie, sei sveglia?”
Era Matthias: avrebbe riconosciuto la sua voce tra mille altre. Una voce calma, dolce, ma che diventava fredda e distaccata, se necessario.
Matthias era l’unico a chiamarla per nome; tutti gli altri della compagnia si rivolgevano a lei con “Capo”.
La prima volta che le fu rivolto quell’appellativo, Julie si sentì orgogliosa. Era riuscita a creare una comunità di persone, e a tenerla, bene o male in piedi. Aveva fondato la Compagnia.
Sentiva di potersi fidare di tutti e settantatré i ragazzi lì dentro, e sapeva che loro nutrivano in lei lo stesso tipo di fiducia.
Almeno fino a tre giorni prima.
“Posso entrare o vuoi stare nel letto tutto il giorno?”
Julie si scosse dai suoi pensieri e, di controvoglia si alzò e si vestì. La ferita del fallimento della missione di qualche giorno prima era una ferita fresca e dolorosa, che le infliggeva dolore ogni volta che la sua mente rievocava quel ricordo. È colpa tua.
Raccolse i capelli in due trecce alla francese -come le aveva insegnato Marie, la sua tata di quando era piccola- e aprì la porta.
“Finalmente, ce ne hai messo di tempo!”. Matthias sorrise. “Però, hai un aspetto veramente di merda” aggiunse.
Julie si limitò ad un’occhiata torva. Niente parole prima delle 10 del mattino.
“Senti, ti ho svegliata per due motivi. Uno, volevo darti fastidio” disse ridendo “e due, gli altri vogliono fare una riunione. Sai, dobbiamo parlare di ciò che è successo…”
Julie si sentì scuotere da quelle parole. L’assalì, come accadeva da giorni, una forte nausea. È colpa tua. Sono morti per causa tua. “No”
“Come no? Sai che non è stata colpa tua… nessuno lo pensa. Nemmeno quella stronzetta di Anna”
Lei sorrise appena e si sentì tirare la cicatrice sulla guancia. Quanto odiava quella cicatrice.
Anche sua madre la odiava. O odiava lei. Probabilmente tutte e due le cose insieme. Nessuno della compagnia sapeva che quella cicatrice risaliva al prima, quando viveva con sua madre e il compagno di lei a Aix-en-Provence.
Abitavano in una casa grande e luminosa. I divani rossi del salotto erano sempre illuminati dalla luce che filtrava dalle grandi porte-finestre: si creavano angolini di luce in cui il loro gatto amava dormire acciambellato.
Anche la madre di Julie amava stare in salotto. Si sedeva sulla chaix-longue, allungando le gambe flessuose e poggiando la testa sui cuscini. Aveva sempre libri o riviste in mano ed ogni volta era così assorta che niente, nemmeno sua figlia, poteva distrarla.
Bonjour, maman” disse una volta, entrando in casa. Lei non alzò nemmeno la testa dal libro. Non diede segno di averla vista.
Matthias le toccò piano una spalla. Sapeva benissimo che non le piaceva il contatto fisico.
“Andiamo, Jules. Io so che ce la puoi fare. Se qualcuno oserà accusarti o rivolgersi male a te..”
“Saprò rimetterlo in riga” concluse lei.
Si incamminarono lungo lo stretto corridoio di metallo; Julie lo aveva percorso migliaia di volte e ne conosceva a memoria ogni dettaglio -l’odore forte di vernice e di polvere, i suoni che producevano i loro passi-. Giunsero nella sala circolare, piena di poltrone, pouf e tavoli. In quel momento era semi deserta: molti dormivano ancora e gli altri la aspettavano nella sala dove, di solito, facevano le riunioni.
Era anche questa con pareti di metallo e aveva al centro un grande tavolo rettangolare, anche questo -che sorpresa- in metallo. Tutte le sedie erano occupate, tranne quella a capotavola e l’altra alla sua destra: per il capo e il suo luogotenente.
Julie e Matthias si sedettero. La ragazza si sentiva osservata da tutti e dieci i presenti: volti torvi, volti sfigurati, volti giovanissimi, volti speranzosi. Guardavano tutti il loro Capo.
Si concesse qualche secondo per ricomporsi e rimanere calma: la debolezza, qua, non era tollerata. Doveva essere forte, sempre, in ogni momento. Doveva costantemente prendere una posizione, anche se questo voleva dire decretare la morte di qualcuno. Julie inspirò profondamente e si alzò per parlare.
“Buon giorno a tutti, ragazzi”. Ebbe un coro di “buongiorno, capo” come risposta.
“Allora, direi di iniziare con il punto della situazione di questa settimana”. Julie si sforzò di mantenere la voce calma e decisa, come se la tragedia di tre giorni fa fosse una sbavatura su un foglio, da poter cancellare con la gomma. Lei sapeva che non era così e, più andando avanti a parlare si avvicinava all’argomento, più aveva l’impressione che il pavimento le si aprisse sotto i piedi. Sentiva dei rivoli di sudore scorrerle giù per la schiena; almeno nessuno li avrebbe visti.
Parlò dei progressi dell’orto di Alice e Bianca, due ragazzine di quindici anni che stavano facendo un ottimo lavoro: avevano fatto crescere patate, pomodori, insalata e carote, per adesso. Elogiò Joseph per il suo lavoro con i pannelli solari: grazie a quelli potevano coltivare le verdure. Dopotutto, si trovavano sottoterra. Ricordò a tutti i nuovi turni di guardia e si complimentò con Igor per l’ottimo lavoro fatto all’addestramento con i nuovi arrivati.
Mentre parlava con la schiena dritta e lo sguardo sicuro davanti a sé anche se si sentiva morire dentro, Matthias la guardava sicuro, come se non avesse motivo per dubitare di lei, mai.
“Passiamo ai fatti di martedì” e lo disse come se stesse annunciando le previsioni del tempo: con un tono piatto e distaccato. Avrebbe voluto piangere, ma non poteva. “La missione è stata un fallimento, di cui mi assumo la piena responsabilità. La perdita di Cassie, Aldo e Johanna è stata una tragedia. Erano dei soldati leali, giusti e forti. Ma sapevano a cosa stessero andando incontro; le missioni non sono mai sicure, perciò ho mandato loro. Perché erano i migliori”. Julie riuscì a dire tutto questo senza che la voce le si spezzasse e le morisse in gola. Trasse di nuovo un respiro profondo e continuò: ”Era una missione di vitale importanza. I nostri compagni hanno individuato la zona precisa in cui si trova in quartier generale delle Ali. Se prima sapevamo che si trovava a Milano, adesso, grazie al loro sacrificio, siamo a conoscenza della sua precisa ubicazione”.
“Mi dispiace, ma un indirizzo non riporterà indietro mio fratello.”
Julie sapeva chi aveva parlato ancora prima di guardare: Anna.
Se c’era una persona che non le andava a genio era proprio quella pettegola, saccente e invadente gallina.
A Julie dispiaceva, ovviamente, per suo fratello, Aldo. Era una persona umile e gentile, sempre disponibile e pronto a farsi avanti per il bene della compagnia: l’opposto di Anna.
“Lo so, Anna. Credimi: dispiace anche a me. Tuo fratello era una persona eccezionale e, senza di lui questo piano non si sarebbe potuto attuare”
Anna si alzò in piedi e batté i pugni sul tavolo, gridando:” TU LI HAI MANDATI A MORIRE! I favorevoli alla missione erano in minoranza, ma tu li hai mandati lo stesso, in un territorio sconosciuto, a farsi ammazzare! E tutto per un cazzo di indirizzo!”
A Julie quelle parole fecero male. Malissimo. Perché Anna aveva ragione. Durante la votazione erano 6 i contrari e 4 i favorevoli. La missione non si sarebbe fatta e non si sarebbe dovuta fare.
Ma le sembrò un’ottima idea. Finalmente avevano ricevuto una soffiata sul luogo in cui poteva trovarsi il quartier generale delle Ali; loro sarebbero solamente andati a verificare se era vero. Dovevano tracciare una mappa, segnando entrate e passaggi nascosti, numero di guardie a ogni ingresso e gli orari di cambio turno. Non dovevano fare altro, solo questo. A Julie sembrò una missione molto facile e diede un’autorizzazione speciale, codice Rosso: il Capo era l’unico che poteva scavalcare le decisioni prese con le votazioni all’assemblea, ma solo in caso di comprovata emergenza o per motivi “speciali”, come lo era stato quello. Era un’occasione unica, così lei ordinò loro di partire comunque, ma non fecero più ritorno.
Le Ali, in qualche modo, sapevano che una squadra ricognitiva sarebbe arrivata e avevano catturato Aldo e Cassie. Avevano sparato a Johanna, che stava cercando di scappare. Le colpirono la gamba, ma lei riuscì a fuggire, arrivando fino alla loro seconda base a Novara, dove l’aspettavano altri tre ragazzi e dove Johanna morì.
“So che sei arrabbiata, Anna. Ma credo che le tue emozioni stiano offuscando il tuo senso del giudizio. Le informazioni che hanno raccolto prima di essere stati scoperti sono di fondamentale importanza. Se vuoi così bene a tuo fratello, ora stai zitta e sii grata per i dettagli di cui ora siamo a conoscenza. Inoltre, ricorda che sono il tuo Capo e non perdonerò altri comportamenti del genere”. Julie disse queste parole nella maniera più dura possibile. Era l’unico modo per far tacere Anna: ferirla. E funzionò. La ragazza le lanciò uno sguardo pieno di disprezzo, ma anche di sorpresa -probabilmente non si aspettava una reazione tanto disumana- e si sedette, sciugandosi una lacrima.
“Questa è l’ultima volta che parleremo di questa missione. Non ha senso piangersi addosso. Con queste nuove informazioni, possiamo elaborare un vero piano e riuscire, finalmente, a fare irruzione nel nido di quei Pulcini!” esclamò, giusto per rianimare il suo pubblico. Seguirono cenni di assenso e qualche esclamazione, ma nessuno sembrava molto entusiasta o convinto. Hanno bisogno di tempo, pensò.
“Bene, la riunione è aggiornata.  Ci vediamo venerdì prossimo. Potete andare”
Tutti si alzarono e salutarono rispettosamente Julie chinando il capo, poi la stanza si svuotò.
Rimasero solo lei e Matthias. Il suo luogotenente le si avvicinò e Julie sapeva esattamente cosa volesse dirle.
“Non provare a ripetere un’altra volta che non è stata colpa mia. Ti prego, ho bisogno che almeno tu sia sincero con me. Non compatirmi”
Matthias sorrise. “Io sono sincero”, cominciò, “e non è stata assolutamente colpa tua. Piuttosto dovremmo preoccuparci di scoprire chi è la talpa”
“L’hai pensato anche tu, vero? Che potrebbe essere uno dei nostri”
“E’ sicuramente così, Jules. Altrimenti come potevano sapere che una nostra squadra era là?”
“Hai ragione. A cose normali sospetterei di Anna, ma…”
“Suo fratello. È morto. Non può essere lei”
Julie si prese la testa tra le mani. Matthias era l’unico con cui potesse dimostrarsi un po’ più vulnerabile: in sua compagnia poteva essere di nuovo la ragazzina spaventata e timida che era un tempo.
“Ho bisogno di pensare. E di stare da sola. Vado nella mia cabina”
Lui la guardò con aria ferita: forse si aspettava che lei chiedesse il suo aiuto? Voleva che si sfogasse con lui?
Ma prima che Matthias potesse ribattere, lei si girò e uscì dalla stanza. Aveva bisogno di più concentrazione possibile e soprattutto non poteva permettersi il lusso di lasciarsi andare; sapeva che in presenza di Matthias avrebbe finito per abbattersi e mostrargli il proprio lato debole. Non poteva proprio farlo.
Dopo essere entrata nella sua cabina si chiuse ben strinta la porta alle spalle; nonostante fosse sveglia da solamente un’ora si sentiva stanca e spossata, come se stesse portando, dal momento in cui era scesa dal letto, un enorme masso sulla schiena. Decise di stendersi, per riposarsi un attimo e chiarire le idee. Ovviamente si addormentò.
Sognò suo padre. Erano in giardino, nella loro casa a Lucca; stavano giocando con la palla: era una cosa che facevano spesso quando lei era piccola. Lui aveva il suo solito sorriso gentile e rideva quando Julie non riusciva a prendere il pallone.
“Devi piegare di più le ginocchia! Non puoi stare rigida come un tronco” le disse ridendo. Anche lei si mise a ridere. Sembrava la solita domenica pomeriggio quando Marco, suo padre, non lavorava e poteva passare il suo tempo con lei.
Ad un certo punto uscì sua madre. Era bella come sempre: minuta, bionda, occhi verdi. Julie aveva preso da lei solo il colore di capelli, per il resto era uguale al padre: alta, per una bambina di sette anni, con spalle larghe e occhi neri. Alla sua età odiava quel fisico e avrebbe pagato oro per essere elegante e aggraziata come sua madre.
Vienes mon cherie, la merenda è pronta”
Julie corse da lei e l’abbracciò e Cècile la strinse forte a sé.
La ragazza si svegliò e si accorse di avere gli occhi umidi. Era stato un sogno breve, ma molto potente.
Le sembrava trascorsa una vita da quando lei, sua madre e suo padre vivevano tranquilli in una piccola città d’Italia. Si ricordava le gite in montagna, i pomeriggi passati a giocare con i suoi genitori, le vacanze all’Isola d’Elba e le feste di compleanno nel suo giardino.
Soprattutto si ricordava di quanto sua madre fosse felice: sorrideva sempre. Poi suo padre si ammalò e, nel giro di un anno morì. Dopo Cècile non fu più la stessa: divenne fredda e distaccata, come se vivesse in un’altra dimensione: sembrava odiare ogni cosa, la loro casa più di tutti. La mise in vendita e loro due si trasferirono ad Aix- en Provence, la città dove era nata sua madre e dove, poi, conobbe Jacob, il padrino di Julie. La città dalla quale era fuggita.
Non voleva pensare al pensare al passato, ma era difficile. La cicatrice che aveva glielo ricordava ogni volta che si guardava allo specchio. Tutti pensavano che fosse la testimonianza di una gloriosa battaglia, ma nessuno sapeva che era stata sua madre a procurargliela: durante una delle numerose litigate con il suo compagno iniziò a lanciare dei piatti contro il muro. Julie, spaventata per i rumori, accorse in cucina e fu colpita da un coccio, che le lasciò quell’orrenda cicatrice. Partiva dall’angolo destro del labbro e arrivava fino a metà guancia -sembrava un prolungamento del suo sorriso.
Sua madre non si scusò mai per quello che le aveva fatto, anzi, sembrò odiarla più di prima. Prima la detestava perché le ricordava il defunto marito, per quanto gli somigliasse, poi perché portava sul volto la testimonianza del fatto che lei aveva perso il controllo.
Julie si alzò da letto. Voleva pensare di avere cose più importanti da fare, per non dover ripensare al passato, ma non era così. Non aveva voglia di fare assolutamente niente. Non voleva pensare a nulla: né alla missione, né a sua madre. Così si mise a sistemare la sua cabina; quando si fece ora di pranzo chiese che le venisse portato nella sua stanza perché “era molto impegnata”. Il tempo sembrava non scorrere mai. Ogni volta che guardava l’orologio era passato un minuto. 14.03, 14.04.
Decise di mettersi a leggere: i libri rimasti in circolazione non erano molti, ed erano decisamente pochi quelli in possesso della Compagnia -che aveva tenuto lei, perché sembrava che a nessuno interessassero. Prese Il Giovane Holden e ne sfogliò distrattamente le pagine: lo aveva già letto 18 volte e non le piaceva nemmeno così tanto. Lo posò e pescò dalla pila di libri accanto alla sua brandina Il Signore degli Anelli: questo non aveva ancora mai avuto il tempo di leggerlo.
Era arrivata al terzo capitolo de Le due Torri quando sentì bussare alla porta. Erano le 21.17 e Julia si sentiva decisamente intontita per una persona che non aveva fatto niente tutto il giorno. Non fece in tempo a dire che non poteva vedere nessuno che la porta si aprì ed entrò un ragazzo, più o meno della sua età. Un ragazzo con una giacca delle Ali.

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Note. Ci ho messo tantissimo a scrivere questo capitolo: mi è risultato molto più difficile immedesimarmi in Julie piuttosto che in Marco. Spero che questo nuovo personaggio abbia catturato la vostra attenzione. Continuerò la storia tra qualche settimana; sono arrivata in un punto delicato, in cui due dei protagonisti si incontrano e voglio sviluppare bene questa parte. Mi piacerebbe anche approfondire il personaggio di Matthias e credo che farò dei capitoli su di lui
A presto, Xeire.
PS è la mia prima storia, tutte le critiche sono ben accette perchè voglio sapere in cosa devo migliorare! <3 e scusatemi per gli errori di punteggiatura: ho il brutto vizio di scrivere di getto senza rileggere (di solito, se rileggo una cosa che ho scritto, la odio e non pubblicherei mai niente!)

 

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Capitolo 4
*** L'incontro ***


4.
Julie dovette prendersi un minuto per ricomporsi e nascondere l’inevitabile sorpresa. Avevano catturato un Pulcino? Era una spia? Si era costituito di sua spontanea volontà?
Dovette scacciare tutte le domande, i dubbi e le incertezze che le affollavano la mente e indossare la sua miglior maschera di indifferenza: lei era il Capo e da tale doveva comportarsi. Sguardo duro, schiena dritta e nessuna esitazione.
Si prese qualche secondo per studiare scientificamente -come faceva quando studiava ancora alla facoltà di Chimica e si trovava davanti un composto da identificare- il ragazzo che aveva davanti: alto (circa 1.85) abbastanza muscoloso (all’incirca 80 kg), capelli neri, occhi neri, tratti ispanici. Posizione eretta e ben salda, (come un leone appostato dietro un albero e pronto a saltare addosso alla sua preda): probabilmente è una persona abituata a correre, scappare e reagire a qualsiasi stimolo, pensò.
Sguardo confuso ma risoluto; pugni stretti, spalle rigide. Non sa perché si trova qua e pensa di dover in qualche modo combattere per fuggire, concluse Julie.
Era estremamente brava a capire le persone. Negli ultimi anni aveva avuto a che fare con qualsiasi tipo di individuo -i furbi, gli ingenui, i paurosi, i crudeli, i meschini, i gentili- e, ormai, dopo un’attenta osservazione di chi aveva davanti riusciva a dedurre parecchie cose. Sapeva che il ragazzo era spaventato, ma non voleva darlo a vedere (provava a ostentare sicurezza in ogni modo), sapeva che era molto stanco e debole (i suoi occhi erano cerchiati di nero e, anche se voleva nasconderlo, il suo corpo era estremamente spossato), sapeva che era pronto a tutto per non farsi imprigionare.
Tuttavia, una semplice osservazione non era sufficiente per capire le cose fondamentali: chi era e cosa ci faceva lì.
Julie chiuse il libro e lo appoggiò con calma sulla scrivania di legno, su cui aveva disteso le gambe. Doveva sembrare calma e rilassata, come se il ragazzo non rappresentasse una minaccia: non doveva in alcun modo pensare di essere un pericolo.
Lo guardò negli occhi con fermezza. “Hai cinque minuti per dirmi chi sei e che cosa vuoi” disse severamente “e non mi piacciono le cazzate. Vedi di essere sincero”
Il ragazzo non rispose; la stava osservando, ma in modo strano. Non stava facendo una valutazione scientifica, come aveva fatto prima lei, ma sembrava... curioso. La guardava come un ragazzo normale avrebbe guardato una ragazza normale. Questa cosa mise Julie in imbarazzo e si sentì avvampare le guance: nessuno l’aveva mai osservata in quel modo, da molti anni.
“Lo vedi quell’orologio? Sono già passati 30 secondi. Parla o ti farò parlare io”
Lui fece una smorfia e Julie sussultò: aveva appena soffocato un sorriso? Chiaramente non la riteneva degna di rispetto. Sentì la rabbia crescerle dentro, montare dalle viscere del suo stomaco e risalire per l’esofago, bruciandola da dentro. Per tutta la vita aveva dovuto faticare per farsi rispettare. Sia prima, quando il compagno di sua madre le diceva che non valeva niente e che, se almeno fosse stata bella, avrebbe combinato qualcosa, quando all’università era l’unica femmina in laboratorio e i suoi colleghi maschi la ignoravano, sia dopo, quando, da ragazzina quale era aveva dovuto lottare per farsi ascoltare, per non mostrarsi mai debole e per riuscire a guadagnarsi il rispetto di tutti. E c’era riuscita: nessuno vedeva una ragazza, ma tutti vedevano un leader.
Poi questo sconosciuto, con quel sorriso soffocato, come a dire:” ma chi vuole prendere in giro questa ragazzina? Vuole davvero farmi paura?” aveva vaporizzato tutto e le sue più grandi insicurezze stavano tornando a galla.
Julie era sempre stata una persona calma e razionale, una persona che preferiva valutare e pianificare, piuttosto che agire senza riflettere. In quel momento si comportò diversamente dal solito. Appena vide quel sorrisetto subito soffocato non riuscì a mantenere la calma: prese di scatto il suo coltello da lancio che stava sulla scrivania e lo lanciò. Un dilettante avrebbe colpito il ragazzo, ma lei era un cecchino esperto, la migliore della Compagnia dopo Igor. Il coltello passò a pochi millimetri dall’orecchio destro del ragazzo e si conficcò nel bersaglio delle freccette che teneva appeso alla parete.
Lui sgranò gli occhi e si passò le dita sull’orecchio: ovviamente non c’era sangue, perché il tiro di Julie era stato preciso e pulito.
“Un’altra cosa che non mi piace è dover aspettare. Comincia a parlare o la prossima volta il bersaglio sarà la tua fronte”
Il ragazzo fissò le dita che si era passato sul lobo, come se si aspettasse di veder comparire del sangue da un momento all’altro. Alzò la testa e disse “Mi chiamo Marco. Vengo da un lungo viaggio. Sono stato rapito dalle Ali e sono fuggito. Ho rubato la giacca ad uno di loro e il loro furgone per scappare lontano, ma poi sono rimasto a piedi e sono arrivato fino qua”
“Tutto qua? Mi sembra un po’ troppo breve e comoda come storia. Devi convincermi che non sei una spia mandata da loro o che non hai a che fare in alcun modo con quei Pulcini”
Il ragazzo, Marco, trasse un profondo sospiro, come se non avesse voglia di sorbirsi quell’interrogatorio. Questo fece di nuovo infuriare Julie, che, stavolta, si impose di rimanere calma.
“La mia storia è molto lunga. Non rientrerei nei tuoi cinque minuti” disse, beffardo.
“Tutti di questi tempi hanno una storia lunga, non sei speciale, conne” . Si augurò che Marco sapesse il francese, perché gli aveva appena dato dell’idiota. Quando era arrabbiata le scappava qualche parola in quella lingua. “Tu comincia a parlare: se la tua storia è interessante non starò a guardare l’orologio”
Lui iniziò a parlare con un finto tono solenne: ”Sono nato a Chicago, nel South Side, da Maria Sanchez…”
Julie avrebbe voluto alzarsi e dargli un pugno in faccia, ma non c’era motivo di dargli soddisfazione. Continuò a guardarlo in faccia con fermezza, come se non le importasse in fatto che la stava sottilmente prendendo per il culo.
“Poi, all’età di tre anni, mentre andavo in bicicletta… aspetta forse sono partito troppo dall’inizio? Ti sto annoiando?”
Non può comportarsi così. Devo fargli capire chi è che comanda, pensò. “Forse qualche giorno nella cella di isolamento ti farà passare la voglia di scherzare.” Si alzò in piedi e vide, finalmente, vacillare quello sguardo sarcastico e strafottente. “Niente cibo, solo acqua, per tre giorni. Poi, magari, avrai voglia di raccontarmi la tua storia e di essere sincero con me” concluse.
“Aspetta!” esclamò, con un’espressione di panico dipinta sul volto. Poi si ricompose. “Non è necessario arrivare a misure così drastiche, stavo solo scherzando un po’, sai… per smorzare la tensione”
Non ci voleva un genio per capire che a Marco non piacesse essere tenuto prigioniero. Julie si sentì soddisfatta: aveva fatto centro sul suo punto debole.
“Va bene, ma è la tua ultima possibilità. Altri scherzetti e i giorni in isolamento non saranno tre, ma una settimana intera. Puoi cominciare”
 
 
Quando Marco venne spinto nella stanza da Igor o da John, si aspettava di trovarsi davanti una persona corpulenta, coperta di cicatrici o tatuaggi, con uno sguardo duro, sui quarant’anni. Invece si trovò davanti una ragazzina bionda con due trecce, che la facevano sembrare ancora più piccola. Marco le dava sui sedici, massimo diciassette anni, a causa di quel viso tondo di quegli enormi occhi scuri.
Era da tanto che non vedeva una ragazza, e si trovò, sorpreso, ad osservarla. Era un po’ in penombra, e non riusciva a vederla bene, ma gli ricordava molto sua cugina Alba: voleva apparire determinata, ma sotto sotto era solo una bambina spaventata. Aveva un naso aquilino, che le dava un’aria un po’ più dura, e le spalle larghe, le braccia molto più muscolose del normale, per una ragazza della sua età.
Quando lei si sporse in avanti, per vederlo meglio, Marco vide una cicatrice sul suo volto, che si estendeva sulla parte destra della faccia, come il prolungamento di un sorriso. Non era decisamente quella che potesse essere definita una bella ragazza, ma in lei c’era qualcosa di affascinante: non riusciva a distogliere la vista dai suoi occhi. Erano neri, ma incredibilmente luminosi, come il cielo di notte illuminato dalle stelle e dalla luna.
Se Marco pensò per un secondo che potesse essere una persona interessante, quella rovinò tutto parlando: si atteggiava con superbia e tentava di infondere nella voce un tono intimidatorio, inchiodandogli addosso, con espressione decisa, quegli occhi nerissimi. A Marco venne da ridere: non riusciva proprio a far combaciare quel viso da bambina con quel modo di fare autoritario; cercò di soffocare il sorriso, ma, a quanto pare, non era stato abbastanza veloce e, l’attimo dopo, pensò che la sua vita sarebbe terminata così: la ragazza si alzò -era veramente alta, per la sua età-, prese un coltello e, senza esitazione, lo lanciò nella sua direzione. Accadde tutto così in fretta che Marco non ebbe nemmeno il tempo di schivarlo: rimase immobile come un blocco di ghiaccio, mentre l’arma gli passava a qualche millimetro dall’orecchio. Questa è loca, pensò. Questo gesto, invece di intimorirlo, lo fece infuriare. Aveva attraversato tutta Italia, era stato catturato, scappato, fatto prigioniero di nuovo per trovarsi davanti una ragazzina che gli lanciava coltelli addosso: non avrebbe fatto il suo gioco.
Iniziò a rispondere in modo beffardo alle sue domande, sia perché raccontare la sua storia equivaleva a una coltellata nel petto, sia perché non voleva darle soddisfazione. Vedeva come cercava di trattenersi, il modo in cui tentava di mantenere il controllo e pensò di averla in pugno, ma si sbagliava: fu lei ad averlo in pugno quando nominò l’isolamento. Essere imprigionato era la cosa che lo spaventava di più al momento.
Il momento peggiore che Marco potesse immaginare era decisamente arrivato: raccontare tutta la sua storia a voce alta. Ciò voleva dire dover rivivere uno per uno quegli eventi e ammettere che erano stati reali e non un interminabile incubo.
Iniziò a parlare di cosa era successo in America -“Ecco perché ha un accento strano” commentò sottovoce lei-, dell’epidemia, dei governi, dei ghetti. Non menzionò mai Javier, non ce l’avrebbe fatta: rischiava di iniziare a piangere davanti a lei, ed era l’unica cosa che voleva. Disse che aveva organizzato una fuga in Europa, che aveva preso una nave ed era approdato in Sicilia. Parlò del suo viaggio verso il nord Italia, di tutta la gente che aveva incontrato, ma non proferì parola sulle persone che aveva visto morire. La sua continua fuga dalle Ali, il periodo in cui si era stabilito a Urbino, dove aveva conosciuto la zia Jo e tutti gli altri al Mercato locale. Proseguì con la fuga dalla città dopo l’esplosione del Mercato provocata dalle Ali (e qui ebbe una terribile fitta al petto), fino a quando, giunto in Piemonte, era stato catturato dalle Ali, era scappato ed era giunto lì.
La ragazza continuò a fissarlo per tutto il tempo con il suo sguardo intimidatorio, senza dire niente. Quando lui ebbe finito di parlare lei disse: “Bene. Adesso mi serve tempo per riflettere sulla tua storia.”
Schiacciò un pulsante e la porta si aprì. “Igor, portalo nella cella numero 33. Domani mattina faremo un’assemblea per decidere cosa farne”
Marco non riusciva a crederci. Aveva fatto quello che voleva lei e si ritrovava comunque imprigionato. Non era giusto, non poteva accettarlo.
“Tu mi hai mentito! Ti ho detto tutto! Non puoi mettermi in isolamento!”
“Punto primo: io sono il Capo, e posso fare quello che voglio. Punto secondo, ti ho detto che ti avrei mandato in isolamento se non avessi parlato, ma non ho mai detto che se l’avessi fatto ti saresti salvato. Punto terzo la cella 33 non è d’isolamento, avrai un compagno”
Marco non ci vide più. Fece per andare verso quella spocchiosa ragazzina e prenderla per il collo, ma venne fermato da Igor, che era il doppio di lui. Cominciò a urlare e scalciare, a insultare quella ragazza di cui non sapeva nemmeno il nome. Dovette venire anche John per tenerlo fermo e trascinarlo fuori da quella stanza. Lui continuò ad agitarsi, finché Igor non estrasse una pistola. “Adesso farai un sonnellino” disse, e lo colpì in testa.
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Ciao a tutt*! Finalmente sono tornata con uno dei capitoli piò importanti, ossia l'incontro tra i due protagonisti che avete conosciuto fino ad adesso. Ho preferito farlo corto, in modo  da approfondire meglio le varie questioni nei capitoli successivi. Ho voluto fare due pov, in modo da far capire cosa provano entrambi i protagonisti quando si incontrano. Spero che vi sia piaciuto. Come sempre recensioni e critiche costruttive sono ben accette.
PS: il prossimo capitolo sarà su Matthias, il luogotenente; ha parecchie cose da raccontare ;)
A presto, Xeire. 

 

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