Un Ammazzademoni nell'epoca Sengoku

di RedSonja
(/viewuser.php?uid=526673)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (Prima Parte) ***
Capitolo 2: *** Prologo (Seconda Parte) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo (Prima Parte) ***


Capitolo 1: Prologo

 

Seduto all’ombra del vecchio albero, Tanjiro rifletteva su come fosse finito in quella situazione.

Cinque giorni prima, insieme a un trepidante Inosuke e ad un altrettanto restio Zenitsu, si era diretto a Chiba, dove un demone aveva lasciato una scia di corpi mutilati, dalla baia fino al castello dello Shogun.

Se gli avessero chiesto di raccontare la storia fin dall’inizio, Tanjiro avrebbe iniziato dalla sera precedente; con gli altri aveva determinato che le vittime del demone erano sempre donne e che, apparentemente, non avevano alcuna caratteristica comune: figlie di pescatori o di nobili, giovani del quartiere dei piaceri o novelle spose, madri o vergini, non c’era un legame apparente nell’estrazione sociale, e tanto meno nell’aspetto fisico: alte o basse, magre o formose, giovani o vecchie, non aveva alcuna importanza.

Per tre giorni non avevano potuto far altro che brancolare nel buio, in cerca di indizi nei luoghi in cui venivano ritrovati i cadaveri, sempre in prossimità dell’acqua, sperando che la prossima donna non fosse morta invano, che questa volta potessero trovare quel dettaglio fondamentale che desse un senso a quelle vite spezzate.

Il suo ottimismo aveva iniziato a vacillare di fronte alle lacrime della famiglia della sesta vittima, una ragazza più giovane di loro, aggredita mentre tornava a casa dopo essere andata a prendere l’acqua per preparare la cena.

Un rapido sguardo ai suoi compagni gli aveva confermato che tutti e tre stavano pensando la stessa cosa: dobbiamo fermarlo, e alla svelta.

Il problema era che non avevano alcuna pista, e tenere d’occhio ogni specchio d’acqua in una città portuale era praticamente impossibile, anche se avessero avuto a disposizione le forze della Squadra Ammazzademoni al completo.

Il senso di impotenza che si respirava quel pomeriggio nella Casa dei Glicini era palpabile: Zenitsu non aveva avuto il coraggio di lamentarsi della propria imminente dipartita e Inosuke non lo aveva sfidato nemmeno una volta da quando si erano congedati dai familiari in lutto.

In momenti come questi, Tanjiro si sentiva sulle spalle il peso di anni di vita che non aveva ancora vissuto e che, molto probabilmente, non sarebbe arrivato a vivere, considerando i pericoli e gli sforzi a cui si sottoponeva ogni volta che accettava una missione. 

Nei suoi quindici anni aveva assistito a più morti di quante ne potesse contare, eppure non aveva dimenticato neppure uno dei nomi delle persone morte per mano dei demoni.

Nessuno di loro era riuscito davvero a riposare in quella manciata di ore che li separava dall'ennesima, inevitabile, vittima

Zenitsu aveva tentato, e fallito altrettante volte, di suonare qualcosa, ma dopo il sesto accordo sbagliato di seguito si era arreso, così si era diretto, con risultati a lui ignoti, verso la cucina, probabilmente in cerca di dolci.

Inosuke, li aveva lasciati poco dopo essere rientrati a casa dei signori Satō, un'anziana coppia che da anni ospitava le Squadre di passaggio, anche se questa era la prima volta che una di esse si fermava a Chiba per così tanto tempo.

A tutt'ora, Tanjiro non aveva idea di dove si fosse cacciato il ragazzo con la testa di cinghiale, sperava solo che non causasse qualche guaio alla cittadina già provata.

Così, si era ritrovato da solo nella loro stanza condivisa, a rimuginare sugli elementi a loro disposizione, nella tenue speranza di riuscire a trovare un collegamento che gli fosse sfuggito precedentemente.

Avevano escluso l'età, l'aspetto fisico e lo status, mentre il sesso delle vittime era evidentemente importante per questo demone.

Poi c'era considerare l'elemento dell'acqua che non riusciva a collocare: le lasciava lì per mandare un messaggio, oppure si spostava attraverso i liquidi? 

Più si sforzava di individuare un dettaglio significativo e più si rendeva conto di star perdendo di vista il quadro della situazione. 

A questo punto doveva considerare la possibilità di aver frainteso tutto fin dall'inizio, anche se il pensiero di aver sprecato quel tempo prezioso, con la conseguenza di aver visto salire il conto dei morti, lo atterriva.

L’unica soluzione era indagare sulla vita delle vittime, per quanto la prospettiva lo facesse sentire a disagio, un’ulteriore violazione per loro e le loro famiglie; il fatto che fosse necessario di sicuro non lo rendeva più piacevole.

Con un sospiro, fece forza sulla gamba sinistra per alzarsi, ben consapevole della scossa di dolore che gli aveva attraversato la caviglia destra, uno dei tanti danni che gli aveva lasciato la missione precedente. 

Stando bene attento a non caricarci troppo peso, si diresse verso la cucina per convincere Zenitsu ad accompagnarlo a casa della prima vittima.

La villa dei signori Satō era una dimora abbastanza grande, risalente al periodo Edo, situata un po’ al di fuori del centro abitato, in quanto gli avi dell’anziana preferivano lavorare in silenzio, il più possibile lontano dalla popolazione in aumento di Chiba; la signora Satō, però, al contrario del marito, dal carattere burbero, apprezzava la compagnia dei vicini e si recava spesso in città, dove era conosciuta per le sue doti di guaritrice.

Un particolare che i ragazzi avevano scoperto solo il giorno prima, quando l’anziana donna aveva consegnato ad ognuno di loro un vasetto di unguento a base di glicine che, a suo dire, era efficace sulle ferite da taglio e da bruciatura inferte dalle kekkijutsu dei demoni.

La cucina si trovava al centro della casa, ed era evidente, dalle sue dimensioni, che fosse stata pensata per ospitare un gran numero di persone contemporaneamente; al momento però, con solo tre individui al suo interno, era emblematica della progressiva estinzione della Squadra Ammazzademoni.

Lo sguardo di Tanjiro passò da Zenitsu a Inosuke e di nuovo da Inosuke a Zenitsu per cinque minuti buoni, mentre la sua testa si inclinava sempre più a destra: Zenitsu aveva le braccia e parte dello yukata coperti di polvere bianca, gli occhi sbarrati e un’espressione di puro orrore in volto, Inosuke, invece, aveva avuto la decenza di togliersi la testa di cinghiale, perciò non c’era alcun filtro ad ovattare la sua voce, pericolosamente alta. Non che di solito servisse a molto. 

Entrambi stringevano tra le mani un vassoio di legno, su cui erano impilati, in equilibrio precario, delle palline bianche.

“Visto? Te l’avevo detto che ci avrebbe scoperto se avessi continuato ad urlare come un’idiota!”

Tanjiro registrò appena la voce stridula del ragazzo coi capelli gialli, mentre capiva finalmente cosa stavano combinando quei due.

Rimaneva comunque da determinare il perchè avessero preparato dei mochi.

“Dacci un taglio Monitsu, volevo solo mangiare uno di quei cosi.”

Inosuke lo ignorò, continuando imperterrito a tirare il vassoio verso di sé e ringhiando di fronte alla resistenza sempre più debole dell’altro.

“Cosa ci fate voi qui?”

Tanjiro era certo che se non fosse intervenuto sarebbero potuti andare avanti così per ore, prima che Zenitsu decidesse che una manciata di dolci non valeva lo scotto di nuovi lividi.

Quello che non si aspettava era il tentativo di menzogna peggiore a cui avesse mai assistito, peggiore perfino di quanto potesse fare lui, che notoriamente era un pessimo bugiardo.

Beccati con le mani nel sacco, i due ragazzi dimenticarono per un attimo il vassoio, per elaborare una scusa che fosse anche solo vagamente convincente; peccato che anche qualcuno senza l’olfatto soprannaturale di Tanjiro li avrebbe scoperti subito.

“Stiamo preparando quei cosi bianchi e appiccicosi che t-” 

Il calcio agli stinchi, ben poco incospicuo, che lo spadaccino del fulmine aveva rifilato al compagno, era servito a zittirlo, se non che l’occhiataccia che si era guadagnato sarebbe stata sufficiente a far impallidire una delle Lune demoniache.

“Stiamo preparando dei mochi per la signora Satō. Sai, per ringraziarla di averci  ospitati”

Dei tre, Zenitsu era il migliore quando si trattava di mentire, ma dopo aver passato le due ore precedenti a filtrare la farina di riso e a preparare il ripieno di fagioli rossi, il tutto mentre cercava di impedire all’altro di divorare ciò che di commestibile c’era sul tavolo, doveva riconoscere che la sua capacità di risultare convincente fosse diminuita notevolmente.

Ciononostante, anche se fosse stato nel pieno della forma, all'olfatto di Tanjiro non sarebbe sfuggita quella nota salata di panico che accompagnava immancabilmente le sue scuse.

Il che parava di fronte a quest'ultimo una scelta: insistere per farsi dire la verità o lasciar perdere. 

Considerando che il peggio che quei due potessero fare con dei mochi era discutere per chi dovesse mangiarli, il ragazzo dai capelli rossi optò per far finta di nulla, prendere un sorso d'acqua, in modo da giustificare la sua visita alla cucina, e lasciare che se la sbrigassero tra di loro.

"Senti un po', Ponchiro, non ne vuoi nemmeno uno?"

Che Inosuke si offrisse di condividere del cibo era già di per sé un evento più unico che raro, ma sommandolo alla bugia di Zenitsu e al fatto che non li aveva mai visti cucinare, considerò seriamente di rifiutare l'offerta.

Dopo tutto non ci teneva a morire avvelenato.

Purtroppo Tanjiro, la maggior parte delle volte, era troppo gentile per il suo stesso bene, quindi finì per capitolare di fronte all'espressione speranzosa di Inosuke e a quella supplichevole di Zenitsu

"Allora ne prendo uno, eh"

Tra tutti i dolci casalinghi, i mochi erano i suoi preferiti. 

In quella che sembrava, ormai, una vita precedente, la mamma li faceva per ogni Capodanno e ad ogni compleanno, perché erano veloci da preparare e gli ingredienti poco costosi.

Quello che aveva in mano era più appiccicoso e decisamente meno bello esteticamente, ma l'odore era invitante e il sapore, doveva proprio ammetterlo, non aveva nulla da invidiare a quelli che era abituato a mangiare da bambino.

"Sono proprio buoni! Complimenti, siete stati bravissimi."

Anche senza l'udito eccezionale di Zenitsu, riuscì a sentire chiaramente il sospiro sollevato del ragazzo, che aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo, mentre gli sfuggì totalmente l'espressione sconvolta e il rossore di Inosuke.

"Va bene ragazzi, io torno in città dalla famiglia della prima vittima e vedo se riesco a scoprire qualcosa in più sulla sua vita. Ci vediamo qui tutti quanti tra tre ore per preparare un piano per stasera."

Al gesto affermativo di entrambi, Tanjiro tornò sui suoi passi, attraversando la villa al ritroso, prima di imboccare il cancello e dirigersi verso nord.

 

Chiyoko Shimizu aveva due figli, il minore di appena un anno; il marito era al servizio dello Shogun, presso il quale ricopriva l’incarico di ambasciatore.

Nonostante avessero avuto la possibilità di stabilirsi nei pressi del castello, il signor Shimizu aveva preferito che la famiglia si stabilisse nella dimora storica dei suoi avi, situata al centro della cittadina, perciò è lì che si era diretto.

L’odore pungente delle lacrime colpì il suo naso ben prima di arrivare di fronte all’ingresso della tenuta.

Il custode lo lasciò passare senza una parola, riconoscendo la divisa degli Ammazzademoni; il cortile era perfettamente in ordine, curato come la prima volta in cui c’era stato, subito dopo la disgrazia, in occasione della veglia funebre.

A distanza di tre giorni, era evidente il vuoto che la signora Shimizu aveva lasciato in quella casa: l’atmosfera spettrale che aleggiava nel cortile era diventata asfissiante non appena aveva messo piede in casa.

Nei corridoi il silenzio era assordante: la poca servitù che aveva incontrato non lo aveva degnato di uno sguardo, tirando dritto a testa bassa, muovendosi rapida e affaccendata; Tanjiro ricordava la struttura della villa abbastanza bene, così che non ebbe bisogno di fermare nessuno di loro per trovare la sala principale.

Ad aspettarlo c’era il signor Shimizu in persona.

In meno di una settimana sembrava invecchiato di dieci anni: i capelli sulle tempie si erano scoloriti, passando da un bel nero lucido al colore del fumo, la postura si era incurvata, la pelle appariva cadente e il viso stanco, segnato da profonde rughe ai lati della bocca e degli occhi, velati di lacrime e arrossati.

“Cosa ci fai tu qui?”

Anche la voce era cambiata. Il tono composto, anche nel dolore, aveva lasciato il posto ad un suono gracchiante, basso e malevolo, come il sibilo di un serpente.

Istintivamente, Tanjiro fece un passo indietro, colto alla sprovvista dall’ostilità grondante da quelle poche sillabe.

Raddrizzò la schiena, cercando di proiettare una sicurezza che non aveva. Non poteva permettersi che quell’uomo dubitasse della loro capacità: se la Squadra Ammazzademoni non riusciva a convincere le persone di poterle proteggere dai servi di Muzan, allora gli esseri umani non avrebbero più avuto alcuna speranza.

Non si sarebbe mai perdonato di esserne stato la causa

“Sono qui per esaminare la stanza di sua moglie e farle alcune domande su di lei, sulla sua vita di tutti i giorni, per assicurarmi che non ci sia sfuggito nulla di importante”

Tanjiro si rese conto dell’errore che aveva commesso un attimo dopo che le parole avevano lasciato le sue labbra.

“Nulla di importante. Nulla di importante? Mia moglie, la sua vita, avevano un valore che nessuno potrà mai restituirci, e tu vieni nella mia casa e ne parli come se fosse insignificante, come se la sua importanza si limitasse a ciò che può darti.”

La furia aveva deformato il volto esangue del signor Shimizu, gli occhi gonfi e sanguigni sbarrati, e la bocca contratta in una smorfia sempre più vicina al pianto.

Non era la prima volta che Tanjiro assisteva ad una scena del genere. I familiari delle vittime raramente vedevano di buon occhio gli Ammazzademoni e le loro domande, ma qualcosa in quell’uomo lo commosse profondamente.

“Signor Shimizu, mi ascolti, la prego...”

La voce gli tremava appena. Stava migliorando, per quanto non ne fosse affatto felice. Quante volte ancora avrebbe dovuto chiedere a delle famiglie in lutto di passare al setaccio la vita dei cari che avevano perso?

Quante volte non sarebbe stato sufficiente?

Il padrone di casa era in ginocchio sulla stuoia, la postura nuovamente curva, la testa bassa e le mani a coprire il volto. Le spalle sobbalzavano a intervalli regolari, mascherando malamente i singhiozzi che lo scuotevano.

L’ira di pochi istanti prima si era dissolta nel nulla, quando incrociò gli occhi di del ragazzo.

“Anche dopo la morte le persone continuano a chiedere aiuto a Chiyoko. Lei era fatta così, sai? Per anni, fin da prima che ci sposassimo, gli abitanti del villaggio le hanno chiesto favori di ogni tipo e, dopo il matrimonio, ha iniziato ad intercedere con me così che io potessi fare altrettanto con lo Shogun. 

Chiyoko faceva sempre tutto il possibile per aiutarli, anche quando io non lo avrei fatto, anche quando le ripetevo che non era una nostra responsabilità; lei mi rispondeva sempre che se la vita ti ha dato tanto è giusto restituire un po’ di quella felicità, di quella fortuna, agli altri. Per lei aiutare gli altri era un dovere a cui dedicare il massimo impegno. E anche ora, dopo che un demone se l’è portata via, questa gente continua a chiederle aiuto, continua ad esigere un pezzo di lei. Allora dimmi, Ammazzademoni, se nemmeno la sua vita è stato un prezzo sufficiente, cosa posso fare perchè riposi in pace?”

La tristezza negli occhi del signor Shimizu era sincera e per un momento Tanjiro si trovò a lottare contro le lacrime che minacciavano di rigargli il viso e il groppo in gola che gli rendeva difficile respirare.

Nessuna morte per mano dei demoni era giustificata, ma quando le vittime erano brave persone, come la signora Shimizu, la perdita era ancora più grave, più difficile da superare.

Con uno sforzo sovrumano si costrinse a deglutire un paio di volte, finchè gli occhi non furono sufficientemente asciutti e la voce abbastanza ferma da essere sicuro che non si sarebbe spezzata non appena avesse aperto bocca.

“Signor Shimizu, non posso prometterle che troverò qualcosa che ci possa aiutare ad eliminare questo demone, esaminando la vita di sua moglie, ma posso garantirle che farò tutto ciò che è in mio potere per rendere giustizia a Chiyoko. La prego di lasciarmi visitare la sua stanza. Mi ha raccontato di quanto fosse importantem per lei aiutare il prossimo, le consenta di farlo un’ultima volta.”

L’unica risposta che ottenne dall’uomo fu un cenno di assenso col capo, prima che le lacrime riprendessero a scorrergli sulle guance scavate.

Tanjiro si inchinò rapidamente, nonostante l’attenzione del signor Shimizu non fosse concentrata su di lui; sperava sinceramente di non dover più disturbare il dolore di quell’uomo e dei suoi figli, se non per comunicare loro che erano riusciti ad abbattere il mostro che si era preso la vita di Chiyoko.

Uscendo a passo svelto dalla sala principale, si lasciò guidare dal suo naso per trovare la stanza da letto della signora Shimizu. Nonostante le pareti della casa fossero impregnate dal fumo dell’incenso e dall’odore di morte.

Che anche la morte avesse un odore lo aveva scoperto molto tempo prima, ma ciò non voleva dire che si fosse abituato al retrogusto dolciastro che lasciava sui mobili e sui vestiti; a differenza del sangue, non aveva alcuna nota metallica a bilanciarlo. Somigliava a quello strato di foglie putrescenti che ricopriva il suolo dei boschi nel periodo autunnale.

Il corpo era già stato cremato, perciò era da escludere la possibilità di poterne riesaminare le ferite; fortunatamente la stanza non era stata toccata, a dispetto della veglia funebre.

Apparentemente non c’era nulla fuori dall’ordinario, ed in generale, dall’arredamento austero ed elegante si deduceva l’immagine di una donna sofisticata e riservata.

Anche aprendo qualche cassetto non trovò nulla di rilevante.

Tanjiro si era quasi rassegnato all’idea che non avrebbe trovato niente da usare, nemmeno un indizio, quando lo sguardo si fermò su un libro che sporgeva leggermente dalla piccola libreria sul lato destro della stanza.

Era un libro come tanti altri, la copertina di tessuto leggermente rovinata sugli angoli, che sarebbe passato inosservato se posizionato correttamente.

Quando lo sfogliò, rimase sorpreso nel constatare che si trattasse di un erbario; era un’edizione piuttosto curata, arricchita di disegni dettagliati di ogni pianta. Le pagine erano scritte ai margini, in alcuni punti, con una calligrafia minuta e ordinata.

“Lo shiso* è una pianta dallo stelo corto e le foglie larghe e frastagliate, di colore violaceo o verde. Si può applicare sulle ferite per mantenerle pulite o su irritazioni croniche della pelle; ma può essere anche ingerito per trattare le irritazioni stagionali o le infezioni polmonari, in aggiunta allo zenzero.”

Non sapendo ancora se e quanto potesse essere importante, Tanjiro decise di portarlo con sé e chiedere alla signora Satō di dargli un’occhiata.

Ripercorse i corridoi della casa in religioso silenzio, evitando di passare di fronte alla stanza principale, da cui sentiva provenire il pianto di un bambino, e una ninnananna sussurrata.

Pochi passi fuori dal cortile della villa Shimizu e aveva iniziato a cadere una pioggia fredda ed insistente, nonostante fosse la fine di aprile; le gocce che picchettavano, impietose, erano larghe e pesanti, mentre scendevano in rivoli fangosi, ai lati della strada.

Nella mezz’ora di cammino che serviva per percorrere la distanza fino alla dimora dei coniugi Satō, aveva piovuto abbastanza da rendere le strade esterne alla cittadina dei fiumi di fanghiglia, appesantendo ogni passo e rischiando di farlo cadere più volte.

 

Quando arrivò al riparo delle engawa*, Tanjiro era ormai completamente fradicio; nemmeno la tenuta speciale degli Ammazzademoni poteva mantenersi asciutta dopo un temporale, nonostante fosse più impermeabile della maggior parte dei tessuti conosciuti.

Fortunatamente era stato abbastanza previdente da coprire il libro con un lembo della divisa, così che apparte alcune sulla copertina, non aveva riportato gravi danni.

Ad una nuova ispezione si accorse che la rilegatura che lo teneva insieme era di un tipo particolarmente curato, in quanto prevedeva che il filo arrivasse fino ai bordi, in modo da evitare che i fogli si staccassero*, il che lasciava intendere fossero stata realizzata da mani esperte e senza badare ai costi.

Dopo aver lasciato gli zori* nel genkan*, si diresse verso la camera che divideva con gli altri due ragazzi, per lasciare lo yukata ad asciugare e confrontarsi con Zenitsu e Inosuke su quel poco che aveva scoperto; se il suo istinto aveva ragione, l’erbario che aveva trovato a casa della signora Shimizu poteva metterli sulla giusta strada.

Non aveva fatto in tempo a far scorrere i fusuma* che Zenitsu gli venne incontro, con gli occhi lucidi e un’espressione afflitta sul volto. Un classico di ogni sera, quando si trovavano in missione; la prospettiva di dover affrontare un demone lo terrorizzava, perlomeno finchè non avesse perso i sensi.

Nonostante gli avessero raccontato cosa accadeva nei momenti in cui non era cosciente, lo spadaccino del fulmine non ci aveva mai creduto, accusandoli di mentirgli o di prendersi gioco di lui; il che, di solito, finiva con Tanjiro che doveva impedire ad Inosuke di indurre tale stato con le maniere forti.

“Tanjiro, oh, sono così contento che tu sia tornato! Quell’incosciente dalla testa di cinghiale voleva a tutti i costi uscire dalla casa per pattugliare la zona. Io gliel’ho detto che sarebbe stato inutile, che saremmo finiti morti stecchiti senza un piano, ma lui continua ad insistere. Ti prego diglielo anche tu che questo incarico è un suicidio.”

Ad essere onesto, Tanjiro aveva già smesso di ascoltarlo prima che finisse di parlare; viaggiava con quei due da abbastanza tempo da poter recitare a memoria le scuse di Zenitsu e le risposte piccate di Inosuke, che al momento stava sbraitando contro la codardia dell’altro.

Sì, era decisamente arrivato il momento di riportare un po’ d’ordine.

“Ragazzi, vi prego, dobbiamo parlare.”

Aspetto un minuto, che i suoi compagni si rendessero conto di quello che aveva detto e si concentrassero sul motivo per cui erano lì, lasciando da parte i soliti battibecchi per un altro momento. 

Di loro si potevano dire molte cose, ma non che non fossero in grado di comportarsi seriamente quando era necessario, ben più di quanto dei ragazzi avrebbero dovuto fare.

Dopo che si furono seduti in cerchio sul tatami, Tanjiro estrasse dalla divisa l’erbario di Chiyoko, mostrandolo ad entrambi

“Questo l’ho trovato nella libreria della signora Shimizu. So che non sembra rilevante e anche io non so bene perchè mi abbia colpito, ma in qualche modo credo che possa aiutarci a capire come questo demone scelga le sue vittime.”

Fece una pausa, aspettandosi un intervento, ma sia Zenitsu, sia il ragazzo con la testa di cinghiale rimasero in silenzio. Prendendolo come un invito a continuare, prese un respiro e proseguì:

“ Si tratta di un erbario.” 

Riusciva quasi a vedere Inosuke che apriva la bocca, sotto la maschera, per chiedergli cosa fosse, così lo precedette

“É un libro in cui sono descritti l’aspetto e l’utilizzo delle piante; questo è un po’ diverso dagli altri perchè ha anche dei disegni per ogni erba.

Il signor Shimizu, inoltre, mi ha raccontato che sua moglie spesso aiutava gli abitanti che le chiedevano dei favori, ma non ho saputo altro. Per questo stavo pensando di chiedere alla signora Satō se poteva darci qualche informazione su cosa facesse Chiyoko per chi le chiedeva aiuto, e cercare di capire se c’è un nesso tra quello che faceva, il libro e le altre vittime.”

“Be’ Monjiro, vuoi dire che sei stato via tutto questo tempo e l’unica cosa che hai trovato è un libro?”

Tanjiro aveva imparato a rispondere a tutte le versioni storpiate del proprio nome, ma di tutte, Monjiro era la sua preferita. Perlomeno era orecchiabile.

Certo, era evidente dal tono che aveva usato, che nemmeno Inosuke trovava particolarmente entusiasmanti i pochi indizi che era riuscito a raccogliere, e non poteva dargli torto. Il tempo a loro disposizione stava scadendo: tra meno di due ore il sole sarebbe tramontato, e la città si sarebbe trasformata nel terreno di caccia personale del demone; e a quel punto nessuna donna sarebbe stata al sicuro.

Dovevano sbrigarsi, e sperare che qualsiasi cosa la signora Satō avesse detto loro fosse quel tassello mancante che stavano cercando.

“Siamo d’accordo, quindi?”

“Non abbiamo molta scelta, se la vecchia non ha informazioni da darci moriremo tutti questa notte. Io sono troppo giovane per morire, e non sono nemmeno sposato!”

“Fa’ come ti pare. Per me possiamo anche andare lì fuori ad aspettare che il bastardo si faccia vivo per ammazzarlo”

Annuendo al nulla, perchè rimproverare Zenitsu per i suoi modi, e cercare di spiegare ad Inosuke perché non potevano caricare a testa bassa, era fuori discussione, Tanjiro si alzò con il cuore leggero, per la prima volta in tre giorni.

C’era la possibilità che fosse un buco nell’acqua, ma voleva sperare che non fosse così, perchè, per quei pochi passi che lo separavano dalla sala principale, anche il dolore alla gamba era svanito, tanto che gli sembrava di volare sulle assi di legno lucido.

 

La signora Satō era in cucina, intenta a preparare gli ingredienti per la zuppa di miso.

Interrompere i propri ospiti non era cortese e, in un altro momento, Tanjiro avrebbe aspettato che fosse libera per parlarle, ma non c'era tempo da perdere.

Schiarendosi la gola, in modo da annunciare la propria presenza all'anziana donna, fece un passo in avanti, accostandosi al tavolo su cui la signora stava pulendo del pesce.

Il sorriso bonario della signora Satō non tardò a mostrarsi; la coppia non aveva avuto figli, ciononostante la natura materna della donna veniva a galla quando si trattava di ospitare le Squadre di passaggio o di badare ai bambini che le madri più giovani le affidavano, quando dovevano aiutare i mariti nei campi.

"Guarda un po' chi si vede, il giovanotto coi capelli rossi. I tuoi amici mi avevano detto che eri andato dalla famiglia della povera Chiyoko. Mi dispiace così tanto, era una ragazza così gentile, aveva una famiglia così bella… Sai che le era nato da poco un bambino? Un altro maschietto. Suo marito era talmente contento quando lo aveva scoperto! Era appena tornato da un viaggio -"

Tanjiro si passò imbarazzato una mano sulla nuca. La signora Satō faceva un complimento ad ognuno di loro, quando la incontravano, e li trattava come se fossero i suoi nipoti; se avesse scavato a fondo avrebbe notato che quella sensazione di costrizione al petto che sentiva ogni volta era la nostalgia di qualcuno che lo accudisse, che lo trattasse con dolcezza. Nei tre giorni che erano rimasti a Chiba, quella casa era diventata un po' anche la loro, e non potevano permetterselo: una parte di lui si rendeva conto che, se si fosse abituato ad avere di nuovo una famiglia, non avrebbe più trovato il coraggio di ripartire.

Il fatto che Nezuko avesse potuto riposare indisturbata, da quando erano arrivati, contribuiva a costruire quella parvenza di calma; certo, se si fermava a pensare si rendeva conto che nulla era cambiato dal giorno in cui aveva perso tutto: la sua famiglia era ancora morta, Nezuko era ancora un demone, che riposava per rigenerare le ferite subite, e lui era ancora un orfano che si era imbarcato in un'impresa quasi impossibile per cercare di salvare l'ultimo pezzo di casa che ancora gli restava.

Ma non poteva dire niente di tutto ciò alla signora Satō, non sarebbe stato corretto nei suoi confronti. Dopotutto, non poteva fargliene una colpa della sua gentilezza.

In ogni caso doveva assolutamente fermarla, prima che iniziasse a raccontargli di tutta la famiglia Shimizu.

“Signora, mi scusi, volevo farle alcune domande su Chiyoko, se per lei non è un problema”

L’anziana donna si irrigidì solo un momento, il sorriso vacillò per un battito di ciglia, prima che riguadagnasse il solito aspetto bonario.

“Ma sì, certo, chiedimi tutto quello che vuoi”

Gli servivano informazioni chiare e concise, perciò la domanda doveva essere formulata di conseguenza: non troppo ampia, per evitare che la signora Satō si perdesse in aneddoti e ricordi, ma nemmeno troppo specifica, perchè avrebbe potuto farle trascurare alcuni aspetti, e ancora non era certo di cosa fosse importante e cosa no.

“Il signor Shimizu mi ha raccontato che Chiyoko era benvoluta da tutti, perchè anche prima di sposarsi era sempre disposta ad aiutare chi si rivolgeva a lei. Ecco, vorrei sapere che tipo di aiuto le chiedevano di solito…”

La proprietaria si prese qualche istante, prima di rispondere. Il naso di Tanjiro si arricciò appena, sentendo l’odore di diffidenza che si diffondeva lentamente nella stanza; non era la reazione che si sarebbe aspettato, ma se c’era un segreto nella vita della signora Shimizu, per quanto gli dispiacesse doverlo scoprire, voleva dire che era sulla buona strada. 

C’era una buona probabilità che fosse qualcosa di importante, se il marito non aveva voluto scendere nei particolari e se la signora Satō, solitamente così loquace, improvvisamente voleva mantenere il riserbo.

Un sospirò gli segnalò che la donna era giunta ad una decisione. Tanjiro non poteva far altro che sperare fosse in suo favore.

“Quello che sto per raccontarti deve rimanere un segreto.” gli lanciò uno sguardo severo che non accettava repliche. 

Annuì.

“Secoli fa, il villaggio fu salvato da una sacerdotessa, che decise di stabilirsi qui e fare il possibile per difendere la città dai demoni. Ovviamente questo è accaduto prima che la Squadra Ammazzademoni fosse creata ma, da quel momento, le mie antenate hanno offerto riparo e aiuto agli spadaccini che passavano di qui.”


Tanjiro non capiva ancora cosa questo avesse a che fare con Chiyoko, nè come potesse essergli d’aiuto nella sconfitta del demone, ma aveva la sensazione che ognuno di questi elementi fosse collegato al racconto della signora Satō; non gli restava che aspettare e ascoltare il resto della storia

“Vedi, una miko può compiere esorcismi anche in assenza di un tempio, ma da quando è stata creata la vostra organizzazione il nostro compito è diventato quello di aiutare le persone con i problemi quotidiani: cure per i mali stagionali, aiuti per il parto, riti di purificazione dopo le morti. É da quando ero bambina che non si vedeva un demone a Chiba, e anche quello non aveva fatto che la metà dei morti di questo qui.”

Posò il coltello che aveva tra le mani, pulendosi le mani dal sangue su un panno lì vicino. Forse per prendere tempo, o forse perchè le sembrava di tradire la fiducia di Chiyoko, Tanjiro non avrebbe saputo dirlo con certezza.

Anche a distanza di un giorno da quando era avvenuta quella conversazione, non era riuscito a capire quanto gli avesse raccontato la signora Satō, nè quanto dell’amabile vecchietta che impersonava, corrispondesse alla sua verità; col senno di poi, avrebbe potuto arrivarci prima, ma svegliarsi da un bel sogno è sempre difficile, dopo quanto era accaduto sul treno infernale ancora non aveva imparato la lezione.

Dalla signora Satō non proveniva alcuna ostilità, ma era innegabile che il suo odore fosse cambiato: non era come quello dei demoni, ma c’era qualcosa di strano, qualcosa che la avvicinava alle Colonne, e allo stesso tempo era profondamente diverso. Non avrebbe saputo dire cosa fosse, di preciso, ma era sufficiente affinchè le credesse.

“Come puoi vedere io non ho avuto figlie, ma la tradizione vuole che a Chiba ci sia sempre una miko, e che questa tramandi la propria esperienza, e quella delle sue antenate, alla sua erede. Chiyoko era una ragazza dotata: fin dall’infanzia aveva dimostrato una predisposizione naturale per la spiritualità, e una grande passione per le erbe; la sua famiglia non era benestante, così, io e mio marito, ci siamo offerti di prenderla con noi e di educarla. Naturalmente ha sempre mantenuto i contatti con la famiglia di origine, mentre mi occupavo del suo apprendistato*. Poco dopo aver completato la sua istruzione, Chiyoko ha iniziato a sostituirmi. Il mio compito era terminato, o almeno così credevo: le avevo insegnato tutto ciò che sapevo, e lei lo metteva in pratica alla perfezione; anche dopo essersi sposata ha continuato a servire come miko, finchè quel… quell’abominio non l’ha strappata alla sua famiglia. Finchè non ce l’ha portata via.”

La voce le si spezzò con un singhiozzo strozzato. 

Tanjiro le lasciò qualche istante per ricomporsi, abbassando lo sguardo, in modo da lasciarle un po’ di dignità. C’è qualcosa di intimo nel dolore di una famiglia, che lo metteva sempre a disagio: non riusciva a guardare le lacrime di una madre che perdeva i figli, o di un marito a cui uccidevano la moglie. In qualche modo era una presenza estranea che si inseriva prepotentemente in una tragedia che non gli apparteneva.

Ancora una volta, la signora Satō dimostrò una grande forza d’animo nel riprendersi. Si asciugò la striscia umida che le lacrime le avevano lasciato sulle guance, con il dorso della mano, schiarendosi la gola con un colpo di tosse.

“Spero con tutto il cuore che voi ragazzi riusciate a rendere giustizia a Chiyoko e alle altre.”

Era ragionevolmente certo di poterci riuscire: ognuna delle vittime era stata ritrovata in possesso di un sacchettino contenente delle erbe. All’inizio non ci avevano dato peso, ma alla luce di quanto gli era appena stato raccontato, era evidente che il demone prendesse di mira tutte le donne che li avevano con sé.

“Signora Satō, ognuna delle vittime aveva in tasca un composto di erbe, mi saprebbe dire a cosa poteva servire? Alla luce di quanto ha detto, è logico che il legame tra di loro fosse Chiyoko, ma mi sfugge ancora perché il demone abbia scelto proprio loro.”

“Ognuna di loro era stata da Chiyoko per un consulto. Probabilmente il contenuto dei sacchetti è dell’assenzio selvatico*. É un’erba che cresce solo sui monti ed è -estremamente difficile da dosare: nella giusta misura è usata per occuparsi delle gravidanze indesiderate, ma anche per alleviare l’inappetenza e prevenire gli svenimenti. Tuttavia, tradizionalmente, è anche usato come amuleto contro il male, per questo viene dato anche a ragazze nubili molto giovani.”

Ora sapeva cosa cercare: forse la signora Satō avrebbe potuto dirgli se qualcun’altra aveva chiesto recentemente dell’assenzio alla signora Shimizu, in modo da poterla proteggere dal demone.

“Sa per caso chi è stata l’ultima donna per cui Chiyoko ha preparato l’assenzio?”

Ci fu un’altra pausa. Sulla fronte dell’anziana si disegnarono nuove rughe, mentre si sforzava di ricordare; non doveva essere facile dopo quanto era successo in meno di una settimana.

“Mi sembra che fosse Keina Yoshida… Sì, è stata l’ultima a vederla, prima che fosse uccisa; soffre di svenimenti improvvisi fin da quando era piccola. Lei e sua madre erano mie clienti abituali, già da prima che Chiyoko prendesse il mio posto. Si è sposata da poco, vive vicino al mare con il marito; se partite ora potreste essere lì in poco più di un’ora.”

Tra un’ora sarebbe scesa la sera, e il demone sarebbe uscito allo scoperto; non avevano molto tempo per raggiungere la casa dei coniugi Yoshida prima che fosse troppo tardi. Sperando che fosse lei la prossima vittima programmata e non qualcun’altra.

Era una corsa contro il tempo e una scommessa con il destino, questo era sicuro; non c’era modo di prevedere se ce l’avrebbero fatta ad arrivare prima che fosse troppo tardi, e neppure se stata la scelta giusta, ma Tanjiro non poteva far altro che fidarsi del proprio istinto e delle informazioni che era riuscito ad ottenere: non poteva permettere che un’altra famiglia fosse distrutta e neppure che il demone eliminasse l’ultimo bersaglio, perchè a quel punto le cose sarebbero potute solo che peggiorare.

Era già successo che gli Ammazzademoni non fossero riusciti ad eliminare il loro obiettivo prima che questo sbranasse tutte le vittime selezionate; in quel caso potevano accadere due cose: il demone si spostava in un’altra città, o in un’altra provincia, e ricominciava la carneficina, procedendo così finchè non fosse stato eliminato. Oppure, e questo era lo scenario peggiore, abbandonava qualsiasi coerenza nella scelta e iniziava ad attaccare senza alcun criterio, rendendone praticamente impossibile l’eliminazione per qualcuno che non fosse una Colonna.

Tanjiro era già fuori dalla cucina, prima che si ricordasse dell’altro motivo per cui era lì. La signora Shimizu gli aveva già raccontato tutto ciò che sapeva, o perlomeno tutto ciò che aveva ritenuto opportuno raccontargli perchè potesse fare il suo lavoro; ad ogni modo non le serbava alcun rancore per ciò che aveva omesso: alcuni segreti era meglio che rimanessero sepolti. Ma lui aveva ancora qualcosa che non gli apparteneva, e che forse alla signora Satō avrebbe fatto piacere conservare.

“Un’ultima cosa, signora, ho trovato questo nella libreria di Chiyoko” Le mostrò l’erbario che aveva tenuto nella divisa fino a quel momento. Gli occhi della donna si riempirono di lacrime; si portò il palmo di una mano davanti alla bocca, prima di tendere l’altra verso il libro che il ragazzo le stava porgendo.

“Non penso che al signor Shimizu dispiacerà se lo tiene lei, e nemmeno a Chiyoko. Ne abbia cura, signora Satō”.

L’anziana donna annuì, commossa, stringendo il volume al petto, senza trattenere il pianto.

Tanjiro non si fermò a consolarla. Sapeva che era inutile, non c’erano parole che potessero colmare la perdita della propria famiglia; tutto ciò che poteva fare per lei era eliminare il demone, ora che ne aveva l’opportunità.

Non c’era un attimo da perdere, avrebbe spiegato il da farsi a Zenitsu e Inosuke mentre raggiungevano casa Yoshida; fortunatamente i due erano già pronti a combattere: Inosuke aveva indossato la sua solita testa di cinghiale, mentre Zenitsu tentava di fermare il tremore alle mani.

“So dove dobbiamo andare: il demone colpirà la signora Yoshida. Andiamo!”

Non aspettò una risposta dai suoi compagni, sapeva che lo avrebbero seguito senza chiedere spiegazioni.

 

Tanjiro li aggiornò, mentre sfrecciavano tra le vie della città, cercando di non scivolare sullo strato di fango che la pioggia si era lasciata dietro.

Casa Yoshida era una costruzione modesta, praticamente uguale alle altre dimore di pescatori. L’odore salmastro e di resti di pesce putrefatti coprivano qualsiasi altra traccia, rendendo impossibile sapere se c’era un demone nei paraggi.

Quando si avvicinarono alla stuoia di ingresso, si resero conto che nello spazio angusto della casa non c’era nessuno.

Eccetto un cadavere.

Facendosi coraggio, Tanjiro si avvicinò ad ispezionarlo, cercando il più possibile di non calpestare la macchia di sangue che si allargava sul pavimento; come gli altri, non aveva ferite sugli arti: niente che facesse pensare che avesse lottato.

“Inosuke, dammi una mano a girarlo, per favore. Zenitsu, tieni gli occhi aperti nel caso in cui il demone fosse ancora qui vicino.”

Con l’aiuto dell’altro ragazzo, riuscì finalmente a voltare il corpo, mettendolo in posizione supina. In quel modo scoprì il ventre squarciato dell’uomo.

La vista delle viscere e degli arti mutilati era diventata una costante nella sua vita, ma non riusciva ad abituarsi all’odore vomitevole delle interiora. 

Mentre cercava di trattenere i conati, Inosuke aveva già infilato la mano nell’addome aperto dell’uomo, spostando gli intestini, e frugrando tra le le pareti sanguinolente; con un suono viscido, il ragazzo ritrasse la mano, pulendola sulle vesti strappate della vittima, poi si rivolse a Tanjiro

“Come negli altri, mancano i reni.*”

Tutti i corpi erano stati ritrovati con ferite identiche e tutti con gli stessi organi mancanti, come se il demone si nutrisse solamente dei reni che strappava alle vittime mentre erano ancora vive, lasciandole agonizzare finchè non si dissanguavano.

Chiyoko era riuscita ad arrivare all’ingresso della sua villa prima di morire, con uno sforzo di volontà incredibile. Dopo averla esaminata, si erano accorti che la ferita inferta era meno profonda, ed era stato asportato solo un rene, per questo era sopravvissuta più a lungo degli altri.

Forse il demone a quel punto non aveva ancora sviluppato una preferenza, oppure Chiyoko aveva usato il suo addestramento da miko per farlo ritirare, non avrebbero mai saputo cosa era successo; ma era un fatto che mostrava l’evoluzione del suo comportamento.

Anche questo omicidio aveva qualcosa di diverso dagli altri: per la prima volta aveva attaccato un uomo, e ne aveva divorato i resti, mentre della donna non c’era traccia.

L’interno della casa era a pezzi, il che lasciava intuire una lotta, anche se sul corpo del signor Yoshida non c’erano delle ferite da difesa; probabilmente si era offerto di distrarlo il più a lungo possibile, in modo da dare alla moglie il tempo di fuggire.

A giudicare dallo stato del corpo, era evidente che non era riuscito a guadagnarne molto. A questo punto dovevano sperare che Keina fosse ancora viva.

Non potevano essere molto lontani, ma Tanjiro non riusciva a sentire l’odore né dell’uno né dell’altra. Magari i suoi compagni avrebbero avuto più fortuna.

“Sentite la presenza del demone?”

Inosuke conficcò le spade nel terreno, concentrandosi. Non era la prima volta che usava la Settima Forma, ma questo non diminuiva l’impatto che aveva sapere che uno dei tuoi compagni è in grado di determinare la posizione di un ago a chilometri di distanza. 

Non era un modo di dire, lo avevano testato qualche tempo fa, per gioco. Inosuke non aveva fatto altro che vantarsene per le due settimane successive.

Quando anche il ragazzo-cinghiale scosse la testa, entrambi rivolsero lo sguardo verso Zenitsu. 

Lo spadaccino del fulmine stava ben attento a non incrociare gli occhi di nessuno dei due, fissando dritto davanti a sé, nonostante la postura rigida delle spalle lo avesse tradito da un pezzo.

“Hey Moitsu, tu non sai dirci nulla?”

Tanjiro lo vide sobbalzare, prima di annuire mestamente; era sull’orlo del pianto. Per quanto gli dispiacesse vederlo in quello stato ogni volta che erano in missione, non era il momento per farsi venire gli scrupoli di coscienza; avevano bisogno della sua collaborazione.

Per fortuna, Zenitsu si rendeva conto di dover dare una mano ai suoi compagni, se non voleva avere la morte della signora Keina sulle mani. 

“Sento il respiro di un demone venire da nord, in direzione del castello… M-ma devo venire anche io? Lo sapete che non servo a nulla in battaglia, io sono un codardo e sono debole, non valgo nulla come Ammazzademoni -”

Inosuke aveva deciso di averne abbastanza di quella lagna, perciò gli afferrò il braccio e lo trascinò fuori, senza fermarsi ad aspettare Tanjiro.

Anche questa era una costante, sarebbe stato quasi comico se non fossero andati incontro ad una probabile morte.

 

Attraversarono il villaggio deserto in silenzio, ad eccezione delle lamentele occasionali di Zenitsu; avevano istruito la popolazione affinché rientrassero in casa prima della sera, assicurandosi di non far entrare nessuno dopo il coprifuoco e di lanciare immediatamente l’allarme alla casa vicina, se avessero notato qualcosa di strano; se quel sistema a staffetta avesse funzionato, gli Ammazzademoni avrebbero potuto intervenire nel minor tempo possibile ed impedire ulteriori vittime.

Sfortunatamente, nel caso dei signori Yoshida, le case si trovavano ad una certa distanza, e il rumore del mare che si infrangeva sul pontile doveva aver attutito il suono della lotta; anche se non avrebbe fatto alcuna differenza.

Ora che erano lontani dalla costa, il silenzio si era fatto profondo e innaturale: non lo si sentivano lo squittio tipico dei topi, i miagolii dei gatti in calore, il pianto dei neonati né il russare della gente sfinita da un giorno di lavoro. Quel demone non aveva solo ucciso delle persone ma, soprattutto, aveva privato un’intera cittadina del sonno.

Corsero per le vie il più velocemente possibile, muovendosi come ombre su per la collina, in direzione del castello.



Note dell’Autrice

Ciao a tutti! 

Innanzitutto, grazie per aver deciso di leggere questa fanfic, spero vivamente di avervi incuriositi e, soprattutto, che questo primo capitolo vi sia piaciuto.

Inizialmente avevo previsto un unico capitolo-prologo, ma mi sono resa conto che sarebbe stato troppo lungo, perciò ho deciso di dividerlo lol. Vi prometto che dal prossimo inizierà l’azione.

Per quanto riguarda gli asterischi che troverete nel testo, qui di seguito troverete una spiegazione relativa ai termini a cui fanno riferimento; ho deciso di inserirli perchè per questa storia ho svolto diverse ricerche, in modo da essere il più accurata possibile:

*shiso: appartiene alla famiglia della menta, nella medicina tradizionale si usava per trattare l’artrite reumatoide, le allergie, gli eczemi, e le infiammazioni causate da malattie della pelle. Insieme alla radice di zenzero, inoltre, era impiegato nel trattamento della bronchite cronica

*engawa: è quella porzione di pavimento di una casa tradizionale giapponese che traccia il perimetro esterno dell’abitazione; può essere interna alla struttura della casa, e quindi simile ad un corridoio, oppure esterna, e in questo caso è simile ad una veranda, coperta dal tetto stesso della casa

*la rilegatura dell’erbario trovato da Tanjiro è del tipo Koki Yoji (o Noble Binding); a differenza della Yotsume Toji, la rilegatura più diffusa, che prevedeva quattro fori, ne aggiungeva altri due vicino agli angoli, per renderla più duratura

*zori: sono i classici sandali giapponesi

*genkan: è l’area interna che precede l’ingresso nella casa vera e propria; è qui che si lasciano le scarpe prima di entrare o che si accolgono le persone che sono in visita ma non hanno il tempo di rimanere più a lungo in casa

*fusuma: sono le porte scorrevoli giapponesi, la cui caratteristica è avere una carta washi decorata, a differenza dei più semplici shoji

*l’apprendistato delle miko durava tra i tre e i sette anni; in quel periodo, le ragazze imparavano i nomi di tutti i kami venerati nel loro villaggio, le tecniche di chiaroveggenza e le danze sacre. Non ho trovato notizie circa la loro preparazione nella preparazione di unguenti o erbe, perciò è una libertà che mi sono presa ai fini della trama

*assenzio selvatico: cresce nelle zone collinari o montuose; è altamente velenoso, ma nelle giuste dosi può essere impiegato per curare i disturbi legati allo stomaco, l’inappetenza e l’irregolarità del ciclo mestruale (ma ha anche proprietà abortive)

*i reni nella medicina orientale rappresentano la volontà e la vita, inoltre sono legati all’elemento dell’acqua; se non funzionano bene, la causa è da ricercare in un’insicurezza di base o nella mancanza di incisività del carattere

Come anticipato, questa fanfiction è un crossover, perciò mi muoverò spesso tra il canon e alcune aggiunte personali, tentando comunque di mantenermi nel verosimile. Impresa più facile a dirsi che a farsi, i know.

Ad ogni modo, spero di rivedervi al prossimo capitolo, che dovrei caricare in giornata. 

RedSonja

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prologo (Seconda Parte) ***


Capitolo 2: Prologo

Il primo cancello era collassato su se stesso, ma a parte quello non avevano notato nulla di strano.

Solo dopo aver attraversato la prima cinta di mura lo videro.

Il lago che serviva da protezione naturale alle seconde mura si era trasformato in una palude malsana, dall’odore nauseabondo, invasa di piante dalla dubbia provenienza; facendosi largo, a colpi di spada, tra i resti marcescenti del ponte, erano riusciti ad attraversare anche il secondo ingresso.

Davanti a loro, però, non si trovava il cortile ben curato di cui avevano sentito parlare e nemmeno le solide mura, che erano il vanto dello Shogun: radici di alberi dalle dimensioni gigantesche si arrampicavano lungo la fortificazione, demolendola in diversi punti.

Il castello, ben visibile fino a quella mattina, era ora avvolto da un bosco di dimensioni innaturali.

Sfruttando gli appigli che la natura forniva loro, scalarono le mura in poco tempo, ritrovandosi davanti un massacro: il cortile era inzuppato di sangue, i cadaveri mutilati delle guardie costellavano la strada verso l’entrata del palazzo.

Questi corpi, a differenza di tutti gli altri, erano stati fatti a pezzi: non c’erano segni di artigli o di tagli; piuttosto era evidente che arti, carne e muscoli fossero stati strappati.

Cercando di non guardarsi troppo intorno ma evitando di calpestare i resti, si erano incamminati verso l’entrata del castello.

Fino a quel momento non avevano incontrato nessun nemico.

La struttura centrale era costituita da tre piani. 

Sarebbe stato un miracolo riuscire ad attraversare il primo: se l’esterno era stato divorato da una bosco, l'interno era invaso da liane e rampicanti, trasformandolo in una giungla.

L’unico avvertimento che ebbero fu un sibilo.

Zenitsu lo sentiva vibrare fin dentro alle ossa; Inosuke aveva assunto una posizione di attacco più bassa del solito, una delle mani poggiata a terra.

Tanjiro, invece, era rimasto immobile.

Il suo olfatto era inutile in un luogo impregnato dell’aura demoniaca: non avrebbe fatto altro che percepire il demone più potente. E, per esperienza, quello non si sarebbe mostrato finchè non avessero eliminato tutti gli altri.

Il sibilio era cessato quasi completamente, sostituito dal fruscio delle foglie e da schiocchi secchi; l’edera che si intrecciava agli elementi strutturali cedeva il passo a qualsiasi cosa stesse venendo verso di loro.

Non erano preparati per quello che si trovarono di fronte.

L’essere che avevano visto emergere da quella giungla innaturale non poteva essere descritto in altro modo se non come un serpente.

Eppure, definirlo serpente era riduttivo.

La bestia aveva il corpo da rettile, ma il muso felino ricordava quello dei bakeneko* delle storie popolari: tondeggiante, con lunghe orecchie e occhi sornioni. Per non parlare delle fauci: una lingua biforcuta sporgeva dalla mascella socchiusa, sgusciando tra le zanne acuminate, per saggiare l’aria.

Prima che potessero pensare ad un piano d’azione, la testa era già scattata verso di loro, chiudendosi ad un passo dalla gamba di Zenitsu.

Mentre quest’ultimo si ritraeva, in preda al panico, il tronco alla sua destra si era sciolto, in un vapore di acido.

A quel punto era troppo tardi per fermarsi a ragionare.

Con un sincronismo ben congegnato, Tanjiro spiccò un salto verso la testa del mostro, mentre Inosuke si avventava in direzione del suo ventre; con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a squarciarlo con il secondo kata, lasciando a Kentaro il compito di decapitare quella dannata biscia troppo cresciuta.

Era un ottimo piano, peccato che il demone non avesse alcuna intenzione di collaborare.

All’ultimo momento si avvolse in una spira, così che le spade del ragazzo cozzarono con le scaglie adamantine del dorso e, colpendolo con la coda, lo mandò a sbattere contro la parete opposta.

“Inosuke!”

Quell’attimo di distrazione quasi costò a Tanjiro una mano. 

Quasi.

Non potendo interrompere il movimento a mezz’aria, aveva abbassato la lama, per poi portare avanti la gamba sinistra, preparandosi all’impatto con la pelle del collo del mostro. Nell’attimo che era servito al demone per notarlo e puntare il braccio destro, rimasto scoperto, Tanjiro riuscì a passare dal primo al nono kata, e a correre lungo la curva sinuosa disegnata dal corpo del serpente.

Aveva attraversato metà della larghezza del dorso, prima che la coda si abbattesse ad un passo dal suo corpo.

Trovandosi tra l’incudine e il martello, assediato dalla coda da una parte e dal bakeneko dall’altra, non avrebbe potuto schivare un colpo sferrato in contemporanea.

Per sua fortuna, Inosuke era riuscito a riprendersi in fretta, e ora correva incontro al demone, concentrato completamente sull’altro ragazzo, con l’intento di farlo a pezzi prima che potesse accorgersi di lui.

Proprio quando Tanjiro era sicuro che ce l’avrebbe fatta, dalle assi di legno del pavimento erano spuntati, con una velocità impressionante, dei viticci che si attorcigliarono attorno alle gambe del ragazzo con la testa di cinghiale.

Mentre Inosuke tentava, senza successo, di tranciare i rampicanti che lo immobilizzavano, Zenitsu era alle prese con un problema altrettanto grave: era terrorizzato, non che fosse una novità.

Con la sua codardia era venuto a patti molto tempo prima, il fatto era che non sapeva come aiutare i suoi compagni; era evidente che gli mancava l’eroismo e l’abnegazione di Tanjiro, o la follia di Inosuke, per quel che valeva, ma, soprattutto, l’abilità necessaria ad aiutarli.

E questo lo terrorizzava più di tutto, perchè poteva anche accettare di essere spaventato all’idea di morire giovane, e in maniera atroce, per giunta, ma non avrebbe sopportato di vedere i suoi amici sbranati da un serpente gigante.

Così, si fece coraggio e, il più silenziosamente possibile, iniziò ad avvicinarsi alle piante che tenevano intrappolato Inosuke.

Un suono sinistro, simile alla percussione di un kokiriko*, catturò la sua attenzione, in tempo perché potesse vedere lo spadaccino dai capelli rossi che schiva, con un salto dal tempismo perfetto, la coda del demone, che frustò lo spazio dove, pochi secondi prima, si trovava il suo corpo. 

A quel punto il muso felino scattò in avanti con una velocità fulminea.

Il tempo sembrò dilatarsi, mentre guardavano Tanjiro sparire all’interno delle fauci del mostro.

Zenitsu si sentiva sul punto di svenire, o di vomitare, o forse entrambe le cose; le imprecazioni di Inosuke gli arrivavano ovattate, mentre il più giovane si dimenava con ancora più vigore di prima, il filo seghettato delle katane che si abbatteva implacabile sui viticci ostinati.

Con un gesto disperato, il ragazzo dai capelli gialli vibrò un colpo sulle piante che immobilizzavano il compagno. Lui non aveva alcuna possibilità di salvare Tanjiro, ma Inosuke ci sarebbe riuscito certamente. Sì, ce la poteva fare. Ce la doveva fare. Lui… Lui-

Ricacciando indietro le lacrime, aveva colpito ancora e ancora, finché, tra i suoi sforzi e quelli dell’altro ragazzo, la fibra delle piante aveva ceduto.

Tanjiro stava facendo il possibile per rimanere aggrappato alla tsuka* della katana, la lama conficcata nella carne della lingua. Il sangue che sgorgava dalla ferita del demone e ne riempiva le fauci rendeva difficile mantenere la presa, senza considerare il movimento ritmico con cui la bestia deglutiva.

Si trovava in una posizione difficile: ammesso che fosse riuscito ad estrarre la spada, sarebbe stato ingoiato in un attimo, ma se non si fosse mosso di lì alla svelta, prima o poi la presa sarebbe venuta meno.

Doveva farsi venire un’idea, e in fretta, o sperare Inosuke e Zenitsu riuscissero ad abbattere il serpente da soli.

Inosuke premette più forte la lama scheggiata contro la gola del biondo; se quel frignone di Koitsu era inutile da sveglio, allora doveva solo fare in modo che svenisse.

Più facile a dirsi che a farsi, visto che una volta tanto che la sua paura sarebbe stata utile, Zenitsu non ne aveva.

Sì, era preoccupato per Tanjiro, e spaventato dal demone che si stava pericolosamente avvicinando a loro due, ma non di Inosuke perchè, per quanto il moro si impegnasse, aveva smesso di vederlo come un pericolo da un bel po’; certo, continuava a ritenerlo fastidioso, arrogante e decisamente megalomane, ma si fidava di lui.

“Senti amico mi dispiace, so che sei convinto che sarei più di aiuto se fossi incosciente ma non ci riesco…” Sollevò entrambe le mani in un segno di resa. Lo spazio tra i due era colmato da un ringhio, che non era certo esistesse al di fuori della sua testa.

“Ahhh, dannazione!”

Vide il braccio che si abbassava con una lentezza esasperante, mentre tutta l’aggressività lasciava il corpo massiccio dell’altro.

Zenitsu non sapeva cosa stesse pensando l’altro Ammazzademoni, ma già il fatto che stesse riflettendo invece di lanciarsi all’attacco, non era un buon segno

Con Gonpachiro fuori uso, Inosuke sapeva che toccava a lui togliere di mezzo quella sottospecie di pitone, il tutto mentre cercava di tirare fuori fronte d’acciaio e di evitare che Baikitsu finisse ammazzato.

Zenitsu fece un passo indietro, quando due familiari sbuffi di vapore uscirono dal grugno della testa di cinghiale. Qualsiasi crisi Inosuke stesse attraversando qualche attimo prima era evidente che fosse risolta, con buona pace della strategia di battaglia.

Il moro si lanciò all’attacco, cercando di chiudere la distanza tra sé e il corpo del demone, ma ogni volta la coda si abbatteva implacabile su di lui, costringendolo a saltare, deviare e rotolare, per evitare di essere schiacciato

I movimenti di quel demone erano strani, Zenitsu non ci aveva fatto caso prima: sembrava che la coda agisse indipendentemente dal bakeneko. Anche con Tanjiro era successa la stessa cosa; era come se fosse l’estremità posteriore a controllare la testa.

Il lieve tremore alle mani divenne un tremito incontrollabile quando realizzò in che razza di situazione si trovavano: Inosuke stava mirando all’obiettivo sbagliato, e con tutte le probabilità, non se ne era neppure reso conto.

Zenitsu sapeva di essere inutile in battaglia, ma almeno questo poteva farlo, poteva avvertire l’altro, sempre che questo lo ascoltasse.

“Inosuke, devi eliminare prima la coda!”

Con una contorsione che poco aveva di umano, il moro si piegò all’indietro, fino a toccare il suolo con la schiena, nel momento esatto in cui suddetta estremità aveva frustato il punto in cui si trovava la sua testa.

“Ma che stai dicendo Hoitsu! La paura ti ha rimbecillito? É un demone, per ammazzarlo devo -” saltò di lato, quando il muso di gatto scattò verso di lui; “- affettargli il collo.” la lama grigia si mosse in un lampo diagonale, attraversando di netto la pupilla allungata.

Il felino non emise neppure un sibilo, ma la coda iniziò a scuotersi senza controllo, riempiendo la sala di un suono secco e cupo, che fece accapponare la pelle a Zenitsu.

Inosuke portò la spada destra davanti al petto, lasciando quella sinistra a coprire la parte inferiore del busto, abbassandosi il più possibile. 

Così non andava. Hisamitsu aveva ragione: era la coda a controllare quel demone, ma non c’era abbastanza spazio per aggirarlo, considerando i pilastri che sostenevano i piani superiori. 

Oh be’, voleva dire che avrebbe tranciato sia la testa sia la coda

Con uno scatto fulmineo, si lanciò in avanti. 

L’ottava zanna l’avrebbe portato fino al collo del bakeneko, e a quel punto il combattimento sarebbe finito.

Le fauci del mostro si aprirono di fronte a lui, pronte ad inghiottirlo, prima che il taglio delle katane si abbattesse da entrambe le direzioni, convergendo al centro della gola del mostro.

La sesta zanna non deludeva mai.

Con un ghigno soddisfatto, nascosto dalla maschera da cinghiale, Inosuke usò il collo decapitato come un trampolino, dandosi lo slancio necessario per intercettare il moto della coda, già pronta a schiacciarlo come una mosca.

La seconda zanna risolse il problema.

Il suono viscido della carne amputata normalmente avrebbe fatto venire il voltastomaco a Zenitsu, ma al momento era troppo sollevato perché gliene importasse qualcosa: Tanjiro era uscito stremato e coperto di sangue, ma tutto sommato illeso, dalla bocca del bakeneko, facendogli prendere un colpo, e ora che il demone era stato definitivamente ucciso potevano tornare a casa della signora Satō e riposare.

Era talmente contento che non gli importava nemmeno del sangue e della bava che coprivano il rosso, che non gli importava nemmeno di quanta di quella roba sarebbe finita sul suo kimono, e nemmeno che Inosuke stesse gridando qualcosa, tanto lo faceva sempre.

Tanjiro dovette usare tutta la propria forza per allontanare Zenitsu abbastanza da potersi voltare verso il loro compagno, che sbraitava sempre più stranito; qualunque cosa avesse da dire, non sembravano buone notizie.

“Avete finito voi due? Forza, venite qui!”

Trascinandosi appresso il biondo, Tanjiro si avvicinò a Inosuke, rendendosi conto che stava guardando verso le scale, dove le piante che vi erano cresciute stavano marcendo rapidamente, ora che l’energia demoniaca che le alimentava era venuta meno.

Dl pianerottolo sporgevano due mani.

Solo due mani.

A giudicare dalle dimensioni e dalla forma, avrebbe detto che apparteneva ad una donna, le unghie abbastanza curate, nonostante i calli sul palmo.

Era di Keina

“Pensate che sia morta? Perchè in quel caso non possiamo fare più nulla per lei, e il demone lo abbiamo eliminato. Torniamo a casa, dai… Per favore?” Il tono speranzoso era andato scemando ad ogni parola in più, fino ad estinguersi del tutto.

C’era un altro demone.

Non sapevano ancora dove si trovasse, e questo lo rendeva pericoloso, ma era sicuro ce ne fosse un altro: il puzzo di acquitrino non era scomparso dopo la morte del serpente-gatto; i suoni si erano fatti più inquietanti, ed era chiaro che sopra di loro ci fosse un predatore ad aspettarli.

Tutti e tre avevano i sensi a fior di pelle, pronti a reagire al minimo pericolo.

Salirono lentamente, Tanjiro in testa, anche perchè Zenitsu non aveva alcuna intenzione di andare per primo, e Inosuke aveva bisogno di riposarsi prima del prossimo conflitto, checché ne dicesse.

Il piano di sopra era deserto, ad eccezione dei corpi della servitù. Le donne avevano subito la stessa sorte delle vittime del villaggio, mentre gli uomini erano stati sgozzati e lasciati a terra; si stavano avvicinando al loro obiettivo.

Era raro che i demoni si muovessero in coppia, ma avevano già avuto a che fare con casi di questo tipo: di solito, uno dei due era nettamente superiore all’altro in termini di potere, e usava l’altro per controllare il suo territorio mentre andava a caccia.

In che modo un demone delle dimensioni di quello che avevano abbattuto fosse passato inosservato così a lungo era difficile da immaginare, ma in quel momento era l’ultimo dei loro problemi: il serpente-bakeneko era di suo un demone di alto livello 

ma, considerando che l’influenza dell’aura che infestava il castello non si era dissipata con la sua morte, era ovvio che fosse il gregario della coppia.

Il che significava che il loro obiettivo era poco inferiore ad una delle dodici lune demoniache.

Avanzando lentamente verso la scala che portava all’ultimo piano della costruzione centrale, si resero conto dell’acqua che aveva preso a scivolare lungo i gradini. Aveva un odore putrido.

Macinando gradini a due a due, arrivarono nella stanza privata del signore del castello: al centro della stanza, c’era un letto in stile occidentale, molto ampio.

Tra le lenzuola di seta, erano accasciate quattro figure, lo Shogun, sua moglie e i suoi due figli, tutti con gli occhi spalancati ed un’espressione di puro orrore.

L’acqua stagnante arrivava ora fino alle loro ginocchia, mentre osservavano pietrificati il demone che erano stati incaricati di eliminare.

Aveva il volto umano

Per tutto quel tempo lo avevano avuto sotto le mani e non se ne erano accorti; ora si capiva come fosse riuscito a muoversi indisturbato nella città e ad avvicinare le vittime vicino alle fonti usate per riempire le brocche di acqua per i pasti. 

Ma non solo il volto: fino al busto era di aspetto perfettamente umano, ma lì dove avrebbero dovuto esserci le gambe, iniziava il carapace di uno scorpione, da cui si dipartivano otto zampe; al posto delle mani, due tenaglie.

Il demone non aveva mozzato le mani di Keina, perché il demone era lei.

Li accolse con un sorriso mellifluo e la grottesca parodia di un inchino.

“Benvenuti, Ammazzademoni. Cominciavo a pensare che non mi avreste mai trovata, sarebbe stato un vero peccato…”

Continuava a disegnare cerchi sempre più stretti per la stanza, costringendo i ragazzi a ruotare insieme a lei; il corpo da scorpione la rendeva doppiamente pericolosa.

Pungiglione o tenaglie, cosa avrebbe usato per primo?

Inosuke ruppe gli indugi, lanciandosi in un affondo verso le zampe anteriore destra; come c’era da aspettarsi la morsa del lato opposto scattò in basso, impedendogli di raggiungere il bersaglio.

La katana si abbatte sul guscio in uno scoppio di scintille.

Il pungiglione si diresse verso Tanjiro e Zenitsu; il rosso alzò la spada, pronto a deviare il colpo, mentre l’altro si apprestava a schivare.

Non servì.

La coda li oltrepassò, allungandosi in maniera innaturale, e abbattendosi sul signore del castello; il suo corpo si tese allo spasimo, prima di crollare, scosso dalle convulsioni. Una schiuma bianca gli usciva dalla bocca, mentre le grida ovattate della consorte e della figlia si perdevano in singhiozzi.

Tanjiro strinse la presa sulla tsuka della katana.

Erano arrivati fin lì per evitare altre vittime, e ora un uomo era morto davanti a loro, sotto lo sguardo terrorizzato della sua famiglia e il sorriso beffardo di Keina.

O qualunque fosse il suo nome.

“Perchè l’hai fatto? Non potevano difendersi!”

Il demone si lasciò andare in una risata sguaiata

“Perché posso farlo, mio caro. Non è forse questa l’essenza del potere? Poter agire come si vuole, assecondare qualsiasi capriccio, solo perchè se ne ha la possibilità?” 

Riprese a muoversi in cerchio.

Simultaneamente, Zenitsu iniziò ad avvicinarsi al letto; prima che potesse fare più di un paio di passi, il pungiglione si abbatté sulle assi di fronte a lui, aprendo un buco, così che l’acqua accumulatasi sul pavimento iniziasse a piovere al piano di sotto.

“No no, così non va, mio piccolo Ammazzademoni”

Ancora una volta, una delle tenaglie impedì alle lame di Inosuke di intaccare il carapace.

“Vedi, loro sono miei ostaggi: per ogni attacco fallito, ne ucciderò uno. Contando che il vostro amico con la testa di cinghiale è stato così maleducato da non lasciarmi finire, temo che ora tocchi al prossimo… Ma non fate quelle facce arrabbiate, anche se siete proprio carini quando vi affannate. Non sono un mostro, e per dimostrarlo, vi lascerò scegliere chi morirà ora”

La coda si ritrasse, pronta a colpire nuovamente.

Tanjiro strinse la presa sull’elsa, le braccia che tremavano di rabbia. Non riusciva a provare pietà per un essere che giocava così con la vita delle persone, trattandole come un passatempo. 

Inspirò, passando dalla respirazione totale, al kagura del fuoco.

Poteva eseguire pochi attacchi con quella tecnica, ma non avevano altra scelta se non giocarsela con il massimo della potenza.

Inosuke doveva avergli letto nel pensiero, perchè indietreggiò fino a ritrovarsi a metà strada tra lui e Zenitsu, pronto ad intervenire nel caso in cui la coda fosse riuscita ad evaderlo e a dirigersi verso la donna e la bambina.

“Tempo scaduto, miei cari. Vorrà dire che sceglierò io per voi. Guardatela come piange disperata: ‘mammina salvami’. Oh tesoro, nessuno può salvarti. Né quella lurida umana di tua madre, né queste misere imitazioni di Ammazzademoni”

Il pungiglione balenò in avanti, evadendo la vampata di fuoco che si sprigionò dalla lama di Tanjiro.

Maledizione, aveva fallito, così come Inosuke dopo di lui.

Gli istanti che li separavano dalla collisione tra la coda del demone e la pelle della bambina sembrarono dilatarsi sotto il loro occhi, mentre assistevano impotenti all’ennesima morte di quella notte infernale.

Poi un lampo squarciò la penombra della camera reale.

Zenitsu aveva gli occhi chiusi e un’espressione intensa in volto. 

Tra le braccia stringeva madre e figlia, al sicuro, dall’altro lato della stanza.

Il sorriso beffardo di Keina si incrinò, deformandole il viso in un’espressione orribile di invidia e collera. 

Contemporaneamente, il ragazzo cinghiale e il rosso corsero verso di lei, mirando alle tenaglie.

Ora che era incosciente, Zenitsu sarebbe riuscito ad evitare gli attacchi del pungiglione abbastanza a lungo da dare loro il tempo necessario a contrattaccare e portarsi in vantaggio; agendo in sincronia, sarebbe stato più difficile per lei prevedere da dove sarebbe partito l’attacco e difendersi.

Le tenaglie avevano una pelle più coriacea del normale, ma se avessero provato a tagliare leggermente più in basso, lungo la zampa, forse sarebbero riusciti ad amputarle, per poi doversi solo preoccupare di evitare la coda nel momento in cui sarebbero partiti all’attacco del collo.

Deviando all’ultimo secondo, rispettivamente, a destra e a sinistra, i due ragazzi si prepararono a sferrare il colpo.

Inosuke, a giudicare dalla posa assunta, aveva optato per la Seconda zanna, pronto a vibrare un doppio affondo in diagonale; Tanjiro, invece, era pronto a saltare.

Se aveva intuito correttamente, un attacco verticale non avrebbe funzionato sul lato sinistro del corpo di Keina: fino a quel momento si era sempre mossa in senso antiorario. All’inizio, aveva pensato fosse un modo per destabilizzarli, prima che si rendesse conto che, semplicemente, le veniva più naturale.

Keina era mancina.

Con quella cosapevolezza, Tanjiro optò per il secondo kata modificato, che prevedendo una rotazione simile a quella di una ruota, le avrebbe reso più difficile leggere la direzione in cui avrebbe sferrato il taglio.

Il piano riuscì solo a metà: nel momento in cui Tanjiro era riuscito a tranciare la tenaglia sinistra, il demone aveva ritratto l’altra, lasciando Inosuke vulnerabile all’attacco della coda; il pungiglione si abbattè sul ragazzo, colpendolo poco al di sopra del ginocchio destro.

Tanjiro lo vide cadere a terra come una bambola di pezza, la presa sulle spade totalmente allentata, mentre l’acciaio cadeva a terra con un suono sordo.

“Inosuke! Inosuke, ti prego rispondi!”

Dal corpo riverso a terra non arrivò nessuna risposta. 

Approfittando del momentaneo smarrimento di Keina, ancora scossa dalla perdita dell’arto, l’Ammazzademoni corso incontro al suo compagno, allontanandolo dal pericolo imminente delle zampe del demone.

Lo squarcio sulla gamba non era troppo profondo, ma qualsiasi veleno avesse avesse in corpo, era chiaro fosse sufficiente a paralizzare anche il corpo di Inosuke, a dispetto della sua tolleranza alle tossine; Tanjiro si costrinse a non pensare quale effetto avrebbe avuto su di sé, nella stessa quantità.

“Vedo che ci sei arrivato. Il mio veleno non si limita a paralizzare i muscoli, ma progredisce finché anche il cuore, i polmoni e tutti gli altri organi si arrestano. Di solito preferisco che le mie prede siano vive quando le divoro, ma per voi Ammazzademoni farò un’eccezione.”

Qualcosa nella sua espressione doveva essere particolarmente divertente per quel mostro, a giudicare dalla risata che seguì.

“Su, non prendertela per il tuo amichetto, è una morte indolore, più di quanto si meriti. A te, che hai osato ferirmi, non andrà altrettanto bene.”

Il corpo gigantesco si lanciò contro di lui, facendo collassare le assi marce del pavimento.

Sia lui, sia Inosuke, precipitarono al piano di sotto e ancora, al pian terreno; fortunatamente la caduta era stata attutita dai resti della giungla.

Scrollandosi di dosso rampicanti vari, e assicurandosi che l’altro ragazzo fosse relativamente al sicuro, Tanjiro si rialzò, deciso a chiudere la questione, fu in quel momento che si sentì afferrare da dietro. 

Anche se stritolare sarebbe stato più corretto.

La morsa della tenaglia si era chiusa intorno al suo busto, penetrando la carne e minacciando di tranciarlo a metà.

La vista gli si annebbiò per un attimo. Ogni fibra del suo corpo ridotta al dolore lancinante che gli attraversava schiena e ventre.

Tanjiro non aveva alcun dubbio che se Keina avesse voluto ucciderlo, avrebbe già dovuto essere morto. Era evidente che intendeva mantenere la parola, e farlo soffrire prima di sferrare il colpo di grazia.

La tenaglia si mosse verso l’alto, lanciandolo quasi al livello del soffitto, prima di abbattersi con tutta la forza sul suo corpo, l’impatto che si riverberava lungo tutte le ossa. 

Se non avesse mantenuto la respirazione  della concentrazione totale, sarebbe morto solo per il propagarsi dell’onda d’urto causata dal colpo.

La rapidità con cui precipitò al suolo era stata tale da fargli fischiare le orecchie, come effetto della pressione, e a mozzargli il fiato. Forse era stato meglio così, considerando il dolore che gli causò il contraccolpo tra la schiena ferita e le assi putride del pavimento che, nuovamente, cedettero.

Tanjiro era vagamente consapevole del fatto che non ci sarebbe dovuto essere nulla al di sotto di quel piano, ad eccezione del terreno. Eppure, la sua caduta sembrava non avere fine.

Mentre piombava nel vuoto al di sotto della torre centrale, si appigliò a quel poco di forze che gli erano rimaste per arginare l'emorragia, che minacciava di farlo morire di dissanguato ben prima che potesse schiantarsi al suolo.

Sempre che ci fosse un suolo contro cui schiantarsi. Non ne era certo.

I sensi andavano e tornavano, appannandogli la vista. Il suo ultimo pensiero fu per i suoi amici, e per Nezuko.

Alla fine non era stato in grado di salvare proprio nessuno, nemmeno se stesso.

L’acqua era gelida, ma Tanjiro non la sentiva.

Nel buio che lo aveva avvolto, non sentiva nulla.

 

Sotto quell’albero, gli sembrava che fossero passati giorni da quando si era risvegliato, alle soglie dell’ipotermia, in una grotta nel bel mezzo di un bosco.

Mezzo morto, si era toccato la pancia, lì dove le tenaglie del demone lo avevano quasi tagliato in due, convinto di non trovare alcuna traccia delle ferite: dopotutto quando si sogna i mali che ci affliggono da svegli non si riflettono quasi mai su quel corpo che prendiamo in prestito per poche ore a notte.

Forse, più che addormentato, Tanjiro era morto e non se ne era ancora reso conto, anche se gli avevano raccontato che, poco prima che lo spirito si dipartisse dalla carne, si rivedeva tutta la propria vita, e lui era certo di non essere mai stato prima in quella grotta; ma, d’altra parte, nessuno che fosse effettivamente scomparso poteva confermargli che fosse la verità.

In ogni caso, il dolore che sentì quando la propria mano si poggiò sullo squarcio era decisamente reale. 

Era sveglio, e miracolosamente vivo.

Questo significava che avrebbe ancora potuto aiutare gli altri, se fosse riuscito a capire dove si trovava e a tornare indietro.

Il raggio di sole che filtrava dalla bocca della grotta smorzò il suo entusiasmo; a giudicare dal punto raggiunto dalla luce, il sole era vicino allo zenit. Era troppo tardi per dare una mano a Zenitsu e Inosuke, doveva sperare che fossero riusciti ad abbattere Keina da soli.

A proposito di Keina, c’era qualcosa di strano: non sentiva odore di demone.

Lo fiume sotterraneo lo aiutò a mettere insieme i pezzi: ricordava di essere precipitato da una voragine aperta nel pavimento della torre centrale del castello; evidentemente l’acqua dei fossati proveniva direttamente da un fiume sotterraneo, che scorreva sotto l’edificio principale.

Tuttavia, se fosse stato nei paraggi del castello, avrebbe dovuto essere in grado di sentire i residui dell’aura demoniaca, e invece l’unico odore che impregnava l’aria era quello del proprio sangue.

Che il fiume lo avesse trascinato così lontano?
Senza perdersi d’animo, Tanjiro si impose di alzarsi, ignorando il dolore lancinante delle ferite e la vertigine causata dall’emorragia; l’uso della respirazione continua gli avrebbe permesso di tornare in città, sempre che si fosse sbrigato.

Strascicando i piedi fino all’entrata, inciampò pesantemente su qualcosa, finendo disteso sul pavimento brullo della caverna; il bordo delle pietre su cui era atterrato gli irritò ancora di più i bordi slabbrati della ferita. Soffocando un gemito, si rialzò, guardandosi attorno.

Era inciampato sulla lama della nichirinto, miracolosamente ancora integra. 

In qualche modo non era stata trascinata via dalla corrente.

Senza rifletterci troppo, rinfoderò la spada, incamminandosi con passo incerto verso l’uscita. 

La grotta si affacciava su un bosco.

Le piante che vi crescevano non avevano dimensioni innaturali come quelle del castello di Chiba, il che lo rassicurava: probabilmente era stato trasportato al di fuori dei confini della città ma, seguendo il sentiero, sarebbe, probabilmente, riuscito a tornare a casa dei signori Satō, dove i suoi compagni lo stavano certamente aspettando.

Riusciva ad immaginare il piagnucolio di Zenitsu, che oscillava tra il sollevato, il preoccupato e il furioso, così come l’apparente indifferenza di Inosuke.

Non si diede il tempo di pensare ad un altro scenario.

Orientandosi con la posizione del sole, si diresse verso nord, in direzione di Chiba.

Dopo neanche mezz’ora di cammino, si rese conto che qualcosa non andava.

Non c’era nessun sentiero, lì dove era sicuro ce ne fosse uno: ormai, avrebbe dovuto trovarsi sulla via che avevano percorso, all’andata, per raggiungere la cittadina; invece, ad ogni passo, aveva la sensazione di addentrarsi sempre di più nel cuore della foresta.

Forse il fiume lo aveva trasportato nella direzione opposta a quella che aveva creduto inizialmente? 

Gli sembrava tutto così strano, così sbagliato, eppure non riusciva a trovare un senso a quella preoccupazione che cominciava ad affaticargli il respiro.

Doveva assolutamente raggiungere un centro abitato prima di perdere i sensi per la gravità delle ferite e la stanchezza.

Anche se non fosse tornato a Chiba, doveva trovare aiuto, riposare e farsi medicare; il corvo della Squadra lo avrebbe sicuramente rintracciato e riportato dagli altri.

Affidandosi al proprio olfatto soprannaturale, Tanjiro individuò l’odore di fumo tipico delle braci; seguendolo, con un po’ di fortuna, avrebbe incontrato qualcuno. 

O almeno così sperava.

Ad ogni passo in avanti, si rendeva conto che il tempo a sua disposizione stava scadendo: la caviglia, già infortunata, si era gonfiata, in seguito allo sforzo a cui l’aveva sottoposta durante il combattimento, minacciando di farlo cadere ogni volta che ci poggiava il peso; ma, a preoccuparlo davvero, erano le ferite al busto.

Anche utilizzando la respirazione della concentrazione totale, il sangue non si era fermato del tutto e, ad ogni goccia, aveva l’impressione di essere un po’ più vicino al punto di non ritorno: il petto gli bruciava per lo sforzo di mantenere la respirazione con il corpo in quello stato, gli occhi gli si appannavano per le lacrime, e la testa gli scoppiava dalla fatica.

Riusciva a sentire le pulsazioni del proprio cuore farsi sempre più lente, ma si costrinse ad ignorarlo e a tirare avanti.

E così per una, due, tre ore, fin quando giunse al confine del bosco, in mezzo ad una radura.

Al centro, si stagliavano i resti di un antico pozzo; non c’era acqua corrente, doveva essere in disuso da molto tempo ormai.

Guardandosi intorno, si rese conto che non c’era un villaggio nelle immediate vicinanze, nonostante dovesse sicuramente essercene uno non troppo distante; gli arrivavano distintamente gli odori tipici di un insediamento umano: il puzzo acre del sudore dei braccianti e degli escrementi delle bestie da lavoro, insieme al profumo del riso cucinato, quello della legna bruciata per riscaldare i pasti, e dei panni stesi ad asciugare.

Si sentiva in pace.

Non c’era odore di demoni in quel luogo, solo di esseri umani.

Le gambe stavano per cedergli.

Con uno sforzo, Tanjiro si trascinò fino all’ombra di un shintai*; l’albero aveva un tronco enorme, la corteccia secca e spessa, perfetto per appoggiarci la schiena e riposare.

L’ombra dell’immensa chioma lo riparava dal sole cocente di un pomeriggio estivo; non doveva addormentarsi: era in condizioni pietose, gli serviva immediatamente un medico… non poteva. Lui doveva… Lui…

Le palpebre erano così pesanti che non ebbe altra scelta se non lasciarle socchiudere.

“Solo cinque minuti.”



Atsushi sa di non doversi allontanare da solo, la mamma glielo ripeteva tutti giorni, ma lui voleva andare al vecchio pozzo.

É da lì che la venerabile Kagome arrivava e, quando tornava, portava sempre qualche regalo dal suo villaggio; lui voleva essere il primo ad incontrarla, così, magari, sarebbe riuscito a farsene dare due. 

La signorina Kagome era sempre così gentile con loro, sicuramente non gli avrebbe detto di no.

Solo che, quel giorno, non l'aveva incontrata al pozzo.

Di solito tornava sempre dopo tre giorni, ma quella volta non aveva trovato né lei, né la sua strana borsa gialla, né tantomeno quello strano attrezzo rosa con le ruote che si portava sempre dietro.

Aveva trovato, invece, sotto le fronde del vecchio albero uno strano ragazzo dai capelli rossi.

Ha paura di avvicinarsi: non aveva mai visto nessuno con quel colore di capelli, o con quella strana divisa; avrebbe potuto essere un demone, e poi era anche armato.

Quasi senza rendersene conto, le sue gambe lo avevano portato un po’ più vicino, sempre di più, finchè non si era trovato a meno di tre passi da lui; respirava lentamente, come se stesse dormendo, e intorno a lui si era formata una piccola macchia rossa.

Solo in quel momento si era reso conto che era sangue: i vestiti scuri dovevano aver nascosto il resto.

Atsushi non è un bambino ubbidiente, e nemmeno tanto coraggioso, ma sa correre veloce.

E mai come quel giorno, mentre correva al villaggio, ne era stato così fiero.



Note dell’Autrice

Buonasera!

So che è tardi e che avevo detto che la seconda parte sarebbe uscita ieri in giornata, ma ho appena finito di rivederla, perchè volevo essere certa che funzionasse.

Ad essere sincera, non so se sono soddisfatta del risultato. Complessivamente lo sono, ma ho anche la sensazione che sarebbe potuto venire meglio, soprattutto per la coreografia dei combattimenti (è la mia prima volta, perciò fatemi sapere se qualcosa non funziona)

In ogni caso, vorrei ringraziare chi ha letto la prima parte: spero che non vi siate annoiati!

Mi auguro che continuerete a seguire questa storia e, se vorrete dirmi la vostra opinione, sarò più che lieta di leggere cosa ne pensate.

 

Vi lascio qui un paio di note, come nel primo capitolo:

*bakeneko: è un tipo di demone gatto nel folklore nipponico; nasce dopo un tot di anni di vita del felino, che acquisisce poteri soprannaturali (da non confondere con i nekomata, che sono una versione più potente e “meno” animale, la cui caratteristica è avere due code. Fun fuct: Kirara è una nekomata, ma si comporta come un bakeneko)

*kokiriko: è un tipo di strumento a percussioni giapponese, simile alle nacchere, composto da una serie di listarelle di legno, da agitare con la mano. In questa storia, alludo al suono dei sonagli della coda dei cobra

*tsuka: è l’impugnatura in legno della katana

* la struttura del castello che ho descritto non è quella del castello Tateyama (che si trova effettivamente a Chiba, su una collina), ma quella del castello di Matsumoto, costruito nella prefettura di Nagano, questo perchè mi serviva che ci fosse l’acqua ai fini della storia. Vi prego di considerarla una una libertà poetica

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

Si sentiva cullare.

Da quanto tempo non gli accadeva? Sicuramente da molto, da quando papà si era ammalato… O era prima? Non riusciva a ricordare un “prima”, solo quella vaga sensazione di protezione e calore. E poi… poi il freddo, il bianco della neve, il nero del carbone. C’è un odore dolce troppo dolce, ma non sa di buono; è quel vago sentore di passato nella crema quando è sul punto di diventare acida.

Cos’era successo dopo? Lo aveva dimenticato. Fa freddo, ma non come in una mattina d’inverno, e neppure come quando la pioggia ti gela le ossa.

Questo freddo è diverso, è un freddo che brucia; aveva sempre pensato che il ghiaccio fosse il contraltare del fuoco, ma solo ora si rende conto di quanto sia sbagliato: quello che sentiva su di sé era un gelo che ardeva quanto il sole di mezzogiorno. 

Gli secca la gola e non gli dà tregua. 

Lo fa rabbrividire e poi sudare. I muscoli sono intorpiditi e le ossa scricchiolano, quasi che il ghiaccio che sente scorrergli lungo la schiena le abbia rivestite, come i laghi in inverno, come la brina sui rami spogli degli alberi

Nonostante tutto, stava bene lì. Non c’era nulla intorno a lui, in quello strano limbo tra la vita e la morte: la terra di nessuno tra i due opposti, un interstizio senza nome tra due estremi ben definiti. La non-esistenza. 

Eppure era certo di dover fare qualcosa, qualcosa di importante, e di non poter rimanere.

Ma non ricorda.

In fondo, cosa poteva essere così importante da fargli abbandonare quel buio avvolgente, fatto di fiamme e ghiaccio? Sentiva delle voci in lontananza.

Lo chiamavano ma non capiva cosa dicevano; a volte vorrebbe dire loro di stare zitte, di non parlargli. Non voleva avere nulla a che fare con loro. Sperava che se ne andassero, che lo lasciassero in pace; è stanco, vuole riposare, se lo è meritato. Non aveva già fatto abbastanza?

Ma quelle voci si fanno sempre più vicine. 

Stava gridando? Si può gridare senza una bocca?

Il ghiaccio e il fuoco fanno a turni per tenergli compagnia.

Qualche volta si unisce a loro anche l’acqua. La sente scorrere, una carezza lungo il viso, ed è una sensazione nota.

Forse sta piangendo, non ne è sicuro; da quando si trovava lì non era sicuro di nulla.

Le voci a volte sussurrano rassicuranti, altre volte lo incalzano; Tanjiro avrebbe voluto rispondere loro che non le capisce, che gli dispiaceva, gli dispiaceva così tanto, ma avevano sbagliato persona. Non è a lui che avrebbero dovuto rivolgersi, lui aveva fallito, lui…

 

Aprì gli occhi. La stanza ruotava attorno a lui.

Aveva la nausea.

Si era svegliato, e desiderava ardentemente di non averlo mai fatto, per quanto potesse essere orribile anche solo pensarlo; aveva le labbra secche e screpolate, la lingua pesante e gonfia e non riusciva a parlare.

La stuoia su cui stava steso era dura e rudimentale, ben lontana dalla comodità di un futon, ma comunque migliore della corteccia contro cui si era addormentato… Quando era successo? Quanto tempo era stato incosciente, ma soprattutto, dove si trovava?

Chiunque lo avesse portato fin lì si era preso cura delle sue ferite: gli squarci che aveva sulla schiena e sull’addome erano stati disinfettati e bendati, con una stoffa ruvida e grezza, ma pulita. Le cure di una mano esperta, nonostante l’arredo modesto della capanna in cui si trovava.

Dunque non si era sbagliato: poco lontano dal punto in cui era svenuto doveva effettivamente trovarsi un villaggio; qualcuno lo aveva trovato e portato dal medico del posto.

Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a raggiungere Chiba in giornata e incontrarsi con gli altri.

Stringendo i denti, Tanjiro provò a sedersi, prima che una mano tanto decrepita quanto ferma lo afferrasse per la spalla, spingendolo giù senza tante cerimonie.

“Dove credi di andare in quelle condizioni ragazzo? Sei fortunato ad essere ancora tra i vivi. Ad essere onesta, se non fosse per il fatto che ho una certa esperienza in materia, avrei pensato che fossi un demone, visto che nonostante tutto, respiri ancora.“

Tanjiro aprì la bocca per ribattere, ma l’anziana donna, che vestiva gli abiti tipici delle miko, con gli haori rossi, e un alquanto insolita benda sull’occhio destro, non sembrava intenzionata a sentire alcuna scusa.

“Invece no, sei solo un ragazzino che, i kami solo sanno perchè, se ne va in giro da solo per i boschi e per poco non muore dissanguato alle porte del mio villaggio. Sei stato fortunato che quell’altro incosciente di Atsushi non dia mai retta e abbia deciso di andare comunque al Pozzo Mangiaossa, o avremmo trovato il tuo cadavere.”.

Ah sì, il vecchio pozzo prosciugato. Tanjiro ricordava perfettamente sia quello, sia l’enorme shintai.

“Signora, dove mi trovo?”

Il rantolo che gli uscì al posto della voce se lo sarebbe aspettato da qualcuno moribondo. Descrizione effettivamente calzante, se si teneva conto del numero di fasciature che gli avvolgevano il corpo malmesso.

La vecchia miko lo squadrò dalla testa ai piedi. Mai come in quel momento sentiva di aver capito cosa si intendesse con "uno sguardo che ti scruta nell’anima"; era evidente che la donna non si fidava di lui, né di qualsiasi cosa le avesse raccontato. Tuttavia, non c’era ostilità nel suo sguardo, non ancora perlomeno, solo quella gelida indifferenza di chi sa di detenere il potere di vita o di morte, e che non si farà scrupoli ad usarlo.

Sapeva di essere sotto esame e che dall’impressione che le avrebbe fatto sarebbe dipeso il suo soggiorno al villaggio. 

Tanjiro veniva da una famiglia modesta, perciò aveva dovuto imparare presto a distinguere chi prendeva le decisioni da chi le eseguiva, e quanto fosse importante che chi decideva avesse una buona opinione di te; chi gli stava davanti in quel momento apparteneva al primo gruppo, e non aveva dubbi quanto al fatto di non essere partito con il piede giusto.

Spiegarle la situazione sarebbe stato complesso, ma sempre meglio di una bugia, sia perchè ne era fisicamente incapace, tratto che gli altri non smettevano mai di rimarcare, Zenitsu in particolare, sia perchè se, malauguratamente, fosse stata tutta una prova, la donna non avrebbe accettato giustificazioni di sorta. 

“Sei in un villaggio. Al sicuro, per il momento. E prima che tu me lo chieda, quella bella spada che ti portavi dietro l’ho presa io. Ora, perchè non mi spieghi piuttosto cosa facevi in giro per il bosco, da solo, con quelle ferite, e come te le sei procurate?”

Per essere in un’età così avanzata, doveva ammettere che quella donna irradiava un’enorme energia. 

Anche se aveva ricevuto lo stesso addestramento della Signora Satō, e ricopriva il suo stesso ruolo, era evidente che questa vecchia fosse ad un altro livello di abilità, come una Colonna tra gli Ammazzademoni.

Tanjiro si prese un momento per riordinare le idee. Non perché dovesse pensare ad una storia da raccontarle, ma perchè doveva raccontare ciò che gli era accaduto nel modo semplice possibile. 

“So che quello che sto per raccontarle le sembrerà assurdo, ma la prego di credermi.”

Decise di interpretare il silenzio che seguì come un assenso.

“Faccio parte della Squadra Ammazzademoni, e queste ferite me le ha inferte un demone. Insieme a due compagni sono stato inviato a Chiba, per indagare su una serie di omicidi, con il compito di trovare ed eliminare il colpevole. Durante il combattimento ho perso i sensi e mi sono risvegliato in una grotta, non so dove si trova e non sarei in grado di tornarci. Ma la prego di credermi, non ho idea di che villaggio sia questo né come tornare dai miei compagni.”

L’espressione della donna rimase impassibile, mentre si alzava con un movimento meno goffo di quanto si sarebbe aspettato, considerando la sua età.

La seguì con gli occhi, mentre raggiungeva il paiolo che bolliva sul fuoco, al centro della casa, e ne versava un mestolo in un bicchiere sbeccato.

Glielo servì senza una parola.

Prima di berlo, Tanjiro ne ispirò l’odore; sapeva di erbe medicinali, sicuramente sarebbe stato tanto sgradevole da mandare giù tanto lo era da annusare, ma non avrebbe saputo stabilire la sua tossicità a priori. Il volto dell’anziana miko non lasciava trasparire alcuna emozione, ma non ne aveva bisogno di alcun indizio per capire che anche quella era una prova.

Bere o non bere, l’esito dipendeva da una sua decisione. 

Se il contenuto del bicchiere fosse stato un veleno, probabilmente sarebbe morto a breve e non avrebbe mai potuto restituire a Nezuko la sua umanità; se, d’altra parte, quel liquido fosse stata una medicina, non berla avrebbe potuto segnare ugualmente la sua fine. 

Era stato incosciente per ore, o forse addirittura giorni, e in quel lasso di tempo, la donna che si era presa cura di lui era la stessa che gli stava di fronte: per quel che ne sapeva, le sue medicazioni potevano contenere un veleno, di cui quell’infuso era l’unica cura disponibile; oppure, semplicemente, qualunque scelta avesse fatto, la guaritrice aveva già deciso che tenerlo in vita avrebbe significato un rischio inutile, programmando, fin dall’inizio, il suo risveglio, l’interrogatorio e la morte.

Tanjiro bevve fino all’ultima goccia, trattenendo a stento un conato. Si dice che una buona medicina abbia sempre un pessimo sapore, perciò quella doveva essere la madre di tutte le cure.

La donna prese il bicchiere, accennando per la prima volta un sorriso; la curva delle labbra era così impercettibile che sarebbe sfuggita a chiunque non l’avesse osservata attentamente.

“Sai, non tutti avrebbero preso la stessa decisione. Ci vuole un grande coraggio per fidarsi del prossimo.”

L’anziana gli dava le spalle, intenta a poggiare il bicchiere usato su una delle due mensole disponibili, tra ciotole e coltelli di diverso tipo.

Quando si voltò, aveva tra le mani una scodella di riso bollito.

Era un pasto poco sostanzioso, ma Tanjiro avrebbe accettato qualsiasi cibo commestibile in quel momento. Non si era reso conto di quanto fosse affamato, prima di sentirne l’odore.

Il riso era tiepido e un po’ scotto, ma non aveva la minima importanza mentre se lo portava alla bocca con le bacchette.

“La ringrazio, signora, è veramente ottimo.”

“Ma va’, è solo un po’ di riso. Piuttosto, vedi di mangiare con calma, non hai ripreso conoscenza per una settimana.”

Sedettero in silenzio, finché il piatto non fu completamente vuoto e posato al fianco della stuoia.

“Così tu saresti un Ammazzademoni, eh? Però, sei giovane per un mestiere del genere.”

Giovane? A quindici anni non era più un bambino già da molto; erano passati tre anni da quando i demoni erano entrati nella sua vita, e la metà di questo tempo lo aveva passato in viaggio con Inosuke e Zenitsu o alla Villa delle farfalle, a farsi rattoppare alla meno peggio prima di ricominciare a viaggiare in lungo e in largo per il Giappone.

“Ho iniziato ad addestrarmi a tredici anni, dopo che i demoni hanno ucciso mia madre e i miei fratelli, e l’unica sorella che mi è rimasta è stata trasformata da uno di loro quello stesso giorno.”

La donna gli passò una tazza di tè, poi se ne versò una per sé.

“Capisco. Quindi sei entrato negli Ammazzademoni per vendicarti?”

La risposta giusta sarebbe stata no; che non era diventato parte della squadra per una ragione personale, ma perché voleva impedire che altri provassero il suo stesso dolore.

Ma sarebbe stata una menzogna: la verità è che voleva Muzan morto, così che Nezuko potesse provare di nuovo cosa significasse vedere la luce del sole e lui potesse sentire di nuovo la sua voce.

Abbassò lo sguardo, improvvisamente interessato ad uno dei calli che gli martoriavano le mani 

“É così.”

La miko si portò la tazza alle labbra, l’occhio buono che lo fissava da sotto le ciglia rade; passò qualche istante prima gli rivolgesse di nuovo la parola.

“Come ti chiami, ragazzo?”

“Tanjiro, signora. Kamado Tanjiro, della Squadra Ammazzademoni”

“Io sono Kaede e ora “ si alzò di nuovo, scomparendo nell’altra stanza che componeva l’abitazione; tornò tenendo tra le mani un familiare fodero nero “è giusto che questa torni dal suo proprietario”

Allungando il busto in avanti di quel poco che le fasciature gli permettevano, Tanjiro si protese verso la nichirin; il peso familiare della spada lo faceva sentire al sicuro e pronto per rimettersi in piedi.

Certo, il suo corpo aveva altre idee, così come l’anziana miko, che intuendone le intenzioni si affrettò ad aggiungere:

“Non pensare neanche di alzarti da lì prima che siano passati almeno altri sette giorni; i miracoli non capitano due volte e tu, il tuo, te lo sei già giocato. Anzi, fammi vedere come vanno le ferite sulla schiena, credo sia ora di cambiare la medicazione”.

Senza tante cerimonie, Kaede si posizionò alle sue spalle, svolgendo con mani esperte le bende che gli attraversavano il busto.

Sotto di esse la pelle martoriata era coperta da croste di sangue rappreso e di resine medicinali che tenevano insieme il profilo slabbrato dei tagli, aderendo al filo con cui erano stati ricuciti; Tanjiro era trasalito dal dolore quando l’ultimo strato di bende era venuto via, insieme a parte di quella poltiglia rossastra.

Con l’ausilio di un panno bagnato, la sacerdotessa cominciò il lavoro metodico di pulizia delle ferite, che prevedeva la rimozione, più delicata possibile, del sangue rappreso e la riapplicazione dell’unguento. 

Quando passò su una zona particolarmente irritata, sentì i muscoli del ragazzo irrigidirsi e un sibilo di dolore sfuggirgli dalle labbra serrate; disinfettare la ferita era sempre la parte peggiore del processo di guarigione.

La “tigre del prato”* era una certezza quando si voleva una cicatrizzazione rapida, e con l’aiuto dell’infuso di salvastrella*, c’erano buone probabilità di evitare nuove emorragie. Il ragazzo aveva una tempra eccezionale per essersi svegliato dopo solo sette giorni di incoscienza, considerando che quando lo aveva trovato sotto al Goshinboku aveva perso almeno un litro di sangue, tra quello che inzuppava il kimono e quello che aveva cominciato a formare una pozza a terra.

Lo aveva fatto portare fino alla sua capanna, dopo non poche rimostranze da parte di quei pecoroni dei suoi vicini, in modo da esaminarlo da vicino e rattopparlo alla meno peggio; non aveva idea di come fosse finito vicino al Pozzo Mangiaossa, e nemmeno di come si fosse procurato quegli squarci simmetrici sul ventre e sulla schiena, ma aveva visto abbastanza feriti gravi nella sua vita da sapere che le ipotesi più plausibili fossero solo due: una guerra tra shogun o un demone affamato nei paraggi.

Difficile dire quale delle due fosse la causa senza parlare prima con lo straniero, ma se c’erano conflitti o demoni mangiauomini nei paraggi era suo dovere saperlo e agire di conseguenza.

Erano un piccolo villaggio tra territori in conflitto: non erano mancate scorrerie da parte di predoni o truppe ufficiali nel corso degli anni, anche se con l’aumentare dell’attività demoniaca, in seguito al ritorno della Sfera dei Quattro spiriti, molti dei banditi che infestavano quelle zone erano scomparsi, fuggiti chissà dove o divorati da questo o quel mostro.

Ora sapeva che conoscere la storia di quel ragazzo, sempre che fosse tutta la verità, non l’avrebbe affatto aiutata.

La Squadra Ammazzademoni era un mito, una leggenda da raccontare ai bambini prima di mandarli a letto, soprattutto in tempi bui come quelli che stavano vivendo, in cui speranze e illusioni erano le uniche consolazioni che genitori e fratelli avessero da offrire ai bambini che continuavano a nascere e morire nelle spire di una guerra interminabile.

Eppure, c’era qualcosa in quel giovane, qualcosa che le impediva di scrollare le spalle e liquidare la faccenda come una menzogna qualsiasi, di un folle o di un ladro; il ragazzo le era sembrato sincero, e la lama di quella katana che si portava dietro le aveva ricordato una vecchia storia che le aveva raccontato sua sorella molti tempo addietro, quando era ancora una bambina e Kikyo una sacerdotessa di raro potere nel fiore degli anni. Prima di Inuyasha e Onigumo, e della pira che avrebbe bruciato la sua infanzia insieme al corpo esanime di Kikyo, bella nella morte come lo era stata in vita, eternamente ferma ai suoi sedici anni.

 

Ma, se le storie erano vere, per il ragazzo non c’erano speranze, qualsiasi sforzo compisse per combattere quella battaglia eterna era destinato a fallire: i demoni si rigenerano, hanno una vita di una longevità inimmaginabile per gli esseri umani, che invece sono fragili come porcellana nelle mani di una domestica distratta, destinati a morire dopo una manciata di miseri anni, affetti dalla malattia e dalle ferite.

Lo aveva visto: Inuyasha, che lei aveva conosciuto nei suoi giorni da bambina, era ancora lo stesso, libero dai segni del tempo e delle battaglie, mentre lei era avvizzita come una quercia secolare, nei cinquant’anni che aveva sorvegliato il sacrario a cui Kikyo lo aveva sigillato.

L’Ammazzademoni avrebbe imparato quella lezione molto presto, diventando a sua volta un vecchio albero spezzato dal dolore e dalla vita, sempre che la morte non se lo portasse via ancora giovane e sognatore.

Persa in quei pensieri cupi, non si accorse di aver finito il proprio compito finchè non strinse l’ultima benda, strappando un mugolio soffocato al suo paziente.

“Ecco fatto. Ora vedi di startene buono a riposo se non vuoi che le ferite si riaprano e tutto questo lavoro sia stato inutile. Non intendo doverci rimettere le mani perchè non mi hai ascoltato, mi hai capito?

Tanjiro non avrebbe osato dire di no neanche se avesso voluto; l’unico occhio della donna lo fissava con una fermezza che non ammetteva repliche e lui era troppo stanco per ribattere.

Era comunque troppo tardi per aiutare Zenitsu e Inosuke, e in quelle condizioni non sarebbe riuscito ad arrivare a Chiba prima di morire dissanguato, ne era consapevole; avrebbe accettato l’ospitalità che gli era stata offerta, per rimettersi in sesto, prima di rimettersi in marcia per tornare dai suoi compagni.

Ma prima di tutto doveva riuscire a capire dove si trovava, e quella era la sua migliore occasione per appurarlo.

“Sacerdotessa Kaede, dove ci troviamo in questo momento?”

L’occhio che lo scrutava sembrò volergli scavare nell’anima, ma stavolta l’attesa fu molto più breve delle altre, più per mantenere un barlume di diffidenza che non per reale ostilità.

“Siamo un piccolo villaggio nei pressi di Edo, quell’accampamento militare che i Tokugawa si ostinano a chiamare città”.*

Edo? Tokugawa?

Kaede aveva continuato a parlare ma la mente di Tanjiro era ferma a quella frase e non c’era verso che riuscisse a darle un senso; o meglio, il senso ce lo aveva, ma era una situazione così assurda che non poteva credere che fosse possibile. 

Tokyo non era più Edo da quasi cinquant’anni* quando era partito, all’alba di dieci giorni prima, da Chiba, e di sicuro era tutto fuorché un accampamento militare.

La testa gli girava e lo stomaco decise che quello era il momento migliore per fargli presente che, dopotutto, non era rimasto particolarmente entusiasta della ciotola di riso bollito che aveva mandato giù un’ora prima, facendogli rimettere quel pasto frugale in un secchio che l’anziana sacerdotessa gli aveva prontamente messo davanti, allarmata dal pallore che gli aveva risucchiato tutto il sangue dal viso.

Aveva pensato di essersi allontanato da Chiba, ma non avrebbe mai potuto immaginare che la distanza avesse superato il piano fisico per estendersi a quello temporale.

Lo sconforto arrivò come una doccia gelida, le lacrime che scendevano senza ritegno dagli occhi castani, bagnando la coperta lisa che gli avvolgeva le gambe. 

Avrebbe potuto camminare per giorni, mesi, ma non sarebbe mai riuscito a tornare da Nezuko e gli altri, semplicemente perchè, ammesso che fosse arrivato a Chiba, non avrebbe trovato nessuno ad attenderlo. Il pensiero che le persone con cui aveva passato anni e che era arrivato a considerare una nuova famiglia fossero perdute per sempre, non perchè avessero smesso di esistere, ma perchè non erano ancora nate nel tempo in cui lui si trovava, era un pensiero insopportabile.

Era certo che non avrebbe mai potuto provare un dolore peggiore del giorno in cui aveva trovato i corpi senza vita di sua madre e dei suoi fratelli, lì dove Nezuko giaceva alle soglie della morte e dell’orrore, ma si era sbagliato. La pena che gli gravava sul cuore e gli impediva di respirare, nonostante annaspasse alla ricerca d’aria tra un singhiozzo e l’altro, era così straziante che persino la dura sacerdotessa ne fu profondamente scossa, mossa da un moto materno, che raramente aveva sperimentato, a cingergli le spalle tremanti in un abbraccio esitante.

Tanjiro non se ne accorse neppure, continuando a piangere finchè le lacrime non si furono seccate sulle guance, lasciandogli una patina salata che gli tirava la pelle, e un mal di testa pulsante dietro alle tempie.

Gli occhi gli bruciavano, così come i polmoni che si gonfiavano senza riuscire davvero ad incamerare aria, mentre dalla gola secca non usciva alcun suono.

Ora che il dolore era passato non sentiva nulla, se non la terribile consapevolezza di essere perso, straniero in un tempo che non era il suo, e senza nessuna idea di come tornare a casa, o addirittura se fosse possibile tornare.

La donna allentò la presa, lasciandolo libero di passarsi una mano sugli occhi irritati.

Non avrebbe capito cosa fosse appena successo se non avesse visto una scena molto simile appena un anno prima, all’arrivo di Kagome nel villaggio.

Se, come sospettava, anche il giovane ammazzademoni si trovava in un’epoca che non era la sua, non potevano far altro che aspettare il ritorno del gruppo di Inuyasha e sperare che il potere della sacerdotessa fosse abbastanza per rimandarlo nel tempo da cui proveniva, questo ammesso che fossero stati in grado di stabilire da dove era arrivato esattamente.

Con un sospiro, la donna prese la sua decisione.

Non poteva lasciarlo disperare nella convinzione che non ci fosse alcuna possibilità, anche se quella speranza era appesa a un filo talmente sottile da potersi spezzare in un secondo.

“Ascoltami attentamente -” non era certa l’avesse sentita, quegli occhi tanto vivi fino a pochi istanti prima le restituivano un vuoto che la inquietava profondamente “- ciò che sto per dirti potrebbe sembrarti folle, e di sicuro è un azzardo, ma nella tua situazione potrebbe essere l’unica soluzione possibile.”

Ancora silenzio, ma stavolta qualcosa si era mosso nelle iridi brune, accendendole di riflessi rossi che poco avevano di umano

“Quello che è successo a te oggi non è una novità da queste parti.” Un’altra pausa, e stavolta era innegabile il bagliore di speranza che aveva attraversato lo sguardo di Tanjiro, restituendogli vita e colore sulle guance pallide

“Qualche tempo fa è arrivata qui una giovane donna dal futuro, una donna dalla somiglianza incredibile con la mia defunta sorella. E con lei, è tornata anche la Sfera dei Quattro Spiriti. Quella giovane, come te, temeva di non poter mai più tornare a casa, per poi scoprire un passaggio tra le due ere.”

Ora che lo sguardo del ragazzo si era riacceso le dispiaceva doverne mitigare l’entusiasmo, ma non sarebbe stato corretto nei suoi confronti nascondergli parte della verità. Meglio che sapesse fin da subito quanto eccezionale fosse la sua condizione, e quanto incerte le probabilità di successo 

“Ma devi sapere che nessuno di noi sa come questo passaggio sia possibile, né se per te funzionerà. Voglio che tu ne sia consapevole”

Tanjiro non la ascoltava già più.

Anche se fosse stata una sola possibilità su un milione ci avrebbe provato; non gli importava quanto remota, quanto astratta o irraggiungibile fosse, il fallimento non era un’opzione.

Nezuko, Zenitsu e Inosuke lo stavano aspettando, o forse stavano piangendo la sua morte su una tomba vuota, e non si sarebbe mai perdonato le lacrime che avevano versato per lui; per aver fatto provare loro quel dolore che lo teneva sveglio la notte da tre anni.

“Mi dica dove si trova questa donna, mi dica dov’è, sacerdotessa Kaede, devo parlarle assolutamente!”

Ora che aveva un obiettivo si sentiva rinvigorito, nemmeno le ferite gli facevano più male, ma la presa decisa della vecchia guaritrice lo raggiunse prima che potesse alzarsi.

Il fantasma di un sorriso si dipinse sulle labbra raggrinzite della vecchia

“Vedo che ti sei già ripreso. Mi fa piacere, ma temo che dovrai a freno la tua impazienza: Kagome non è nel villaggio, tornerà appena le sarà possibile. E comunque tu non sei nelle condizioni di viaggiare; rimarrai mio ospite finchè non smetterai di sembrare uno appena uscito dalla tomba.”

In un primo momento Tanjiro fu tentato di insistere, di farsi dire dove fosse quella Kagome e raggiungerla, a prescindere dal prezzo che avrebbe dovuto pagare, ma le parole di Kaede erano ragionevoli: in quelle condizioni non avrebbe mai potuto spostarsi agevolmente in una terra straniera, stravolta dalla guerra.

Avrebbe aspettato, sarebbe guarito, e non appena Kagome fosse tornata avrebbe chiesto il suo aiuto: con un po’ di fortuna, a breve avrebbe potuto essere di nuovo a casa della signora Satō.

Rassegnandosi a quel riposo forzato, Tanjiro annuì il suo assenso, tornando a stendersi, in attesa che il sonno lo venisse a chiamare.

 

Inosuke si trascinava a fatica per le vie deserte del villaggio.

La ferita alla gamba gli faceva un male cane, ogni volta che respirava le costole rotte scricchiolavano senza ritegno e gli veniva da vomitare come mai gli era successo prima.

E, come se non bastasse, non solo doveva trascinarsi dietro il peso morto di Koitsu, non solo doveva fare da balia asciutta a ciò che restava della famiglia dello shogun, ma in più Gonpachiro era scomparso - si rifiutava di dare credito a quella vocina nella testa che affermava fosse finito al creatore, razza di idiota dai capelli rossi - e toccava a lui portare tutti al sicuro.

Senza contare che doveva tornare a cercarlo dopo aver scaricato le zavorre dalla vecchia strega che li ospitava.

Era meglio per Kokonpachiro  che fosse stecchito veramente, perchè se per sua disgrazia era ancora vivo lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani per averlo incastrato in quella situazione.

Arrivare a casa dei Katō era stata la parte più facile, se si ignorava il piagnucolio della mocciosa e le moine della madre; quasi quasi era stato tentato di darle una botta in testa, giusto per farle perdere i sensi e dare sollievo all’emicrania che sentiva crescere dietro agli occhi, ma poi avrebbe dovuto spiegarlo a fronte larga quando sarebbe tornato, e non aveva alcuna voglia di sopportare quel suo sguardo dispiaciuto che lo faceva sentire un verme.

Quindi aveva accelerato il passo, non abbastanza da distanziarle veramente, solo quel poco che gli concedeva l’illusione di essere più vicino alla meta di quanto non fosse in realtà; all’andata avevano percorso quella stessa strada di corsa, impiegandoci poco meno di mezz’ora, ma non poteva imporre quell’andatura a qualcuno che non fosse un Ammazzademoni e poi, per quanto non fosse affatto contento di ammetterlo neppure a se stesso, non era in condizione di poter fare la stessa cosa portando Monitsu a cavalluccio.

Non con la gamba e le costole in quelle condizioni, e con il rischio di svenire da un momento all’altro.

Quando la signora Satō se li era trovati davanti alla porta d’ingresso per poco non le era preso un colpo.

Inosuke sapeva di avere un aspetto tutt’altro che rassicurante già normalmente, e ne andava molto fiero in realtà, ma in quel momento ebbe l’impressione di aver passato la linea sottile tra minaccioso e terrificante, perlomeno a giudicare dal modo in cui la donna si ritrasse quando se lo trovò davanti, il petto nudo e l’haori di pelliccia rossi di sangue, una lama scheggiata nella mano sinistra e gli occhi della testa impagliata illusoriamente vivi nella luce tenue della notte.

Senza tante cerimonie le passò affianco, lasciando che fosse la vecchia a sbrigarsela con madre e figlia, prima di dirigersi verso la stanza in cui avevano dormito i giorni addietro.

Il peso del corpo privo di sensi del biondo cominciava ad essere più di un fastidio, non vedeva l’ora di scaricarlo sul futon in attesa che la vecchia venisse a rattopparlo. 

Dei tre era quello messo meglio, a parte un taglio sul braccio, era proprio il biondo.

Alla fine erano riusciti ad eliminare il demone con relativa facilità, sfruttando la sua distrazione e un po’ di fortuna

Dalla posizione supina in cui era atterrato, quando Keina aveva fatto precipitare lui e Kentaro dal piano di sopra, Inosuke non era riuscito a capire cosa fosse successo esattamente a capelli rossi; il veleno di quella strega era così forte da impedirgli di alzare il busto se non si pochi centimetri, e il corpo gigantesco del mostro non gli permetteva di vedere che cosa stesse succedendo.

 

Il gemito strozzato di Monjiro aveva attirato la sua attenzione, spingendolo ad aumentare gli sforzi. Con un po’ di impegno riusciva a muovere anche il braccio destro e le gambe, seppure a malapena; qualsiasi tossina gli avesse iniettato, doveva essere un paralizzante di potenza eccezionale per averlo tenuto giù così a lungo e continuare a dargli problemi.

Il rumore del legno che cedeva lo avrebbe fatto trasalire, se la vibrazione del colpo per il pavimento non lo avesse avvertito in anticipo.

Gonpachiro doveva essere stato scaraventato a terra, probabilmente privo di sensi, mentre la donna demone rideva sguaiatamente della sua sorte.

Inosuke non provava un vero e proprio odio per i demoni, non come era uso nella Squadra Ammazzademoni: come Kentaro, molti di loro si erano arruolati in seguito alla morte di una persona cara, avevano una ragione più che personale per desiderarne l’estinzione; ma per lui era diverso.

Inosuke non aveva una famiglia, i suoi contatti con gli esseri umani erano limitati al vecchio che lo aveva allevato e a quel idiota di suo figlio, e di certo non era per loro che era finito a combattere. 

A lui importava solo essere il più forte, e che gli altri gli riconoscessero questo primato: che lo venerassero come il grande guerriero che era, se poi quei due sprovveduti con cui viaggiava fossero sopravvissuti, tanto di guadagnato.

Per questo non aveva avuto grandi problemi sapendo che Nezuko li avrebbe accompagnati. Era la sorella di fronte larga, che fosse anche un demone a lui non importava minimamente.

Quando era riuscito a rimettersi in piedi, però, era la sete di sangue a motivarlo: non era una vittoria quella che cercava, ma una vendetta.

Per quanto non gli importasse nulla di cosa era successo allo shogun, e la sua morte non fosse altro che un danno collaterale così come tutte le altre che l’avevano preceduta, non poteva ignorare ciò che aveva fatto a Monjiro, e questo perchè lui non era stato abbastanza veloce nell’assestare il colpo.

Ormai il danno era fatto, non gli restava che eliminare il problema alla radice.

Avevano praticamente dovuto far crollare l’intero castello in testa a Keina per poterla immobilizzare abbastanza a lungo da riuscire a tagliarle il collo in uno sforzo congiunto, che comunque era costato un taglio slabbrato dalla spalla alla mano a Moitsu e altre due costole a Inosuke.

 

Portare al sicuro madre e figlia era stato piuttosto facile dopo aver eliminato il demone, anche se ciò era dovuto più ad un colpo di fortuna che non ad una reale abilità dei due: quando Koitsu aveva fatto cadere il secondo piano, le aveva spostate in uno degli angoli di ciò che rimaneva del pavimento del terzo piano, in modo che fossero fuori dalla portata degli attacchi a distanza di Keina: per quello che avevano potuto osservare, infatti, nonostante la grandezza del corpo, le dimensioni della coda da scorpione non erano allungabili e il moncherino della chela amputata da Tanjiro non si era ancora rigenerato.

Finchè non si fossero mosse sarebbero state al sicuro: Keina non avrebbe potuto usare su di loro il pungiglione se i due Ammazzademoni avessero continuato a pressarla, almeno finchè non avesse avuto di nuovo a disposizione tutte e due le chele.

Seguendo il piano originale di Kokonpachiro, Inosuke si era mosso per amputare la chela rimanente, mentre Moitsu si concentrava sul collo del demone. O, perlomeno, così le avevano lasciato credere: come era prevedibile, la coda aveva iniziato a puntare Koitsu, che facendo sfoggio della sua velocità, si stava facendo rincorrere per tutto il salone, demolendo ciò che restava della giungla in cui avevano combattuto poco prima.

Tra le assi di legno spezzate e i rampicanti staccati dai colpi del demone nel tentativo di intercettare Zenitsu, non c’era un solo spazio libero su cui poter stare in piedi.

Poco male per Inosuke, ma uno svantaggio di non poco conto per Keina, le cui zampe da insetto e la stazza notevole rendevano poco agevole muoversi in uno spazio ristretto.

Era un piano perfetto dal punto di vista di Inosuke, ma non aveva considerato un fatto molto semplice: quello che era un ostacolo per Keina lo era anche per Moitsu, la cui tecnica prevedeva un tragitto lineare e da percorrere alla massima velocità; infatti, fu proprio quella disattenzione a far rischiare la pelle a capelli gialli: durante il passo, il piede si era agganciato ad uno dei rampicanti che ingombravano il terreno rendendolo facile preda per la coda micidiale.

Inosuke era stato abbastanza rapido da frapporsi tra il pungiglione e il petto dell’amico e deviare il colpo, ma non così tanto da aggiustare la guardia; la chela destra, quella che non aveva reciso alla prima occasione, si era abbattuta su di lui, sbalzandolo di qualche passo, prima di dirigersi verso la testa di Koitsu.

Seppure a malapena, lo spadaccino del fulmine era riuscito a parare con la lama della katana, ma non a fermarla; la ferita al braccio, dolorosa ma non mortale, aveva iniziato a sanguinare copiosamente, rendendogli difficile la presa sull’elsa.

Fu di quell’attimo di distrazione che Inosuke si servì per chiudere lo scontro: stando attento a rimanere nell’angolo cieco di Keina, le era arrivato alle spalle e, sfruttando la coda come trampolino, aveva eseguito la Sesta Zanna, prima che lei potesse girarsi del tutto.

Il sorriso ferale che gli aveva squarciato il viso era certamente meno umano della testa di cinghiale che lo celava.

Rinfoderando le lame si era avvicinato a Moitsu per controllare che stesse bene; a parte il taglio sul braccio non aveva altre ferite, invece a lui la gamba e le costole facevano un male cane.

Con il veleno ancora in corpo, alzarsi e combattere era stato uno sforzo di volontà non indifferente, e ora cominciava a sentire gli effetti della respirazione continua mischiati a quelli del veleno.

Doveva trovare Kokonpachiro, e alla svelta, così potevano andarsene da lì.

Quando si avvicinò al buco nel pavimento dove avrebbe dovuto trovarsi il corpo svenuto del ragazzo, si rese conto che sarebbe stato molto più complicato del previsto: lì dove avrebbero dovuto trovarsi le fondamenta del castello c’era un abisso difficile da misurare ad occhio.

E di fronte larga nessuna traccia.

 

Gettando la testa di cinghiale in un angolo della stanza, Inosuke si accasciò contro la parete, i capelli bluastri a nascondere il viso, poggiato sugli avambracci possenti.

Ora che non aveva nulla da fare non pensare a Monjiro era impossibile.

Chissà cosa c’era sotto al castello e se c’era un modo per arrivarci; forse Gonpachiro li stava aspettando, sempre se era sopravvissuto alla caduta e non ci fossero altri demoni lì sotto.

 

Originariamente doveva solo riposarsi un po’ e poi andare a cercare capelli rossi, ma i suoi piani raramente andavano come li aveva immaginati. Anche quella volta non era stata diversa.

Finì che quella che doveva essere un’ora di sonno si trasformò in un vero e proprio letargo da cui lo svegliò il giorno dopo la vecchia strega, con un sorriso tirato e dei panni puliti da indossare, dopo che si fosse tolto di dosso il sangue rappreso.

La stanza era vuota.

Moitsu doveva averlo preceduto in cucina.

Costringendo il proprio corpo ad alzarsi, nonostante le fragorose proteste delle costole fratturate, si incamminò verso il bagno, all’esterno della casa.

La villa dei Katō sembrava ancora più vuota ora che ad occuparla erano solo in quattro, cinque se si contava anche Nezuko, probabilmente ancora addormentata nella stanza a fianco.

O perlomeno Inosuke si augurava fosse ancora priva di sensi. Non voleva essere lui a doverle dare la notizia che quell’eroico idiota di suo fratello era disperso.

Darsi una ripulita gli impiegò un’ora abbondante: il sangue era sempre una seccatura da togliere, specialmente se secco; ma la parte peggiore fu dover infilare uno yukata decisamente troppo stretto per le sue spalle. Dopo un paio di tentativi si rassegnò a lasciarlo lento e si avviò a passo spedito verso la cucina: era quasi ora di pranzo e aveva una fame da lupi, dei vestiti poco gli importava.

La padrona di casa lo intercettò prima che potesse arrivare a destinazione, costringendolo ad infilare, invece, una stanza laterale; neanche il tempo di mettere un piede dentro e lo investì un odore acre di erbe medicinali.

“Avanti caro, siediti, che quella gamba ha un aspetto che non mi piace per nulla”

Inosuke non aveva particolarmente voglia di farsi impiastricciare con chissà quale unguento, ma se fosse servito a togliersela di torno alla svelta non avrebbe opposto resistenza.

La donna gli rivolse un altro sorriso tirato, dando dei colpetti leggeri sulla stuoia di fronte a lei.

Con riluttanza, obbedì a quell’invito non verbale, stendendo la gamba interessata.

Il taglio, nonostante fosse lungo, era fortunatamente poco profondo, tanto che la sacerdotessa si limitò a disinfettarlo e a passarci sopra una pezza intrisa di un un estratto che Inosuke non avrebbe saputo identificare

“So che brucia, ma non posso bendarla prima di averla pulita.”

L’unica risposta che ottenne fu una scrollata di spalle; mentre la guaritrice si adoperava a bendare la gamba e le costole spezzate, i pensieri di Inosuke corsero di nuovo a Tanjiro.

Doveva tornare al castello il prima possibile e vedere cosa c’era sotto alle fondamenta, ma non poteva andarci in quelle condizioni, nel caso in cui ci fossero stati altri demoni nel bosco vicino, attirati dalla carneficina che si erano lasciati dietro.

Oppure…

Oppure poteva fare come Monjiro e convincere la vecchia a parlargli e a farsi dire qualcosa sul castello. A giudicare dall’aspetto non lo avrebbe sorpreso se gli avesse detto che aveva visto costruirlo.

Prese un bel respiro. Quando serviva, quel dannato fronte larga non c’era mai. 

“Senti un po’, vecchia, non è che per caso sai cosa c’è sotto al castello?”

Lo sbuffo che sfuggì alle labbra della sacerdotessa era più divertito che seccato. 

Quando le si erano presentati alla porta quei tre ragazzi con le divise da Ammazzademoni si era chiesta se sarebbero stati all’altezza; ospitandoli a casa sua, si era quasi dimenticata del motivo per cui si trovavano a Chiba e ora, quello strano ragazzo con il viso sempre coperto dal muso di un cinghiale e i modi selvatici seduto di fronte a lei, non riusciva ad allontanare la sensazione che, per quanti orrori avessero visto, fossero tutti ancora troppo giovani.

E uno aveva ne aveva già pagato il prezzo.

Di tre ne erano tornati due, in condizioni abbastanza gravi.

Inizialmente aveva creduto che l’altro fosse morto, le erano persino scese delle lacrime che non era stata abbastanza rapida a nascondere, ma poi aveva osservato come si comportavano gli altri e aveva capito: la morte dà una definitezza alla sorte di una persona.

Non c’era da domandarsi cosa ne fosse stato di lei, non c’erano preoccupazioni, solo un lutto da elaborare e una ferita che si sarebbe sanata con il tempo; ma quando non si aveva la certezza della sorte toccata ad una persona cara, non restava altro che convivere con quell’assenza, e la speranza e la rabbia che si portava dietro. Le domande, il senso di consapevolezza e quel dubbio che non si fugava mai del tutto: sarebbe stato diverso se fossi stato lì?

Megumi le aveva viste, quelle domande, negli occhi di Inosuke, e aveva aspettato che le esternasse, ma mai si sarebbe aspettata che iniziasse proprio con quella.

C’erano poche leggende a Chiba, ma quella sul “Fiume della memoria” era senz’altro la più conosciuta della zona, soprattutto perchè a chiunque venisse chiesto di parlarne la risposta sarebbe stata sempre un diniego.

Alcune storie nascono e muoiono in un certo luogo, e non sono fatte per essere ascoltate da orecchie estranee. 

Ma Megumi non era mai stata obbediente, e poi il ragazzo aveva già deciso di tornare al castello, che lei parlasse o meno; soddisfacendo la sua curiosità avrebbe potuto essergli d’aiuto, forse. 

Se avesse potuto consigliargli altrimenti lo avrebbe fatto, perchè con le sue parole quei ragazzi avrebbero rischiato la pelle per una speranza appesa ad un filo, ma era inutile tentare di dissuaderlo, questo le era chiaro.

 

Prese la sua decisione con il cuore pesante, sperando che almeno una volta in questa lunga vita che le era stata concessa, i kami stessero ascoltando le sue preghiere.

 

Gli occhi che si fissarono in quelli di Inosuke non avevano nulla della giocosa bonarietà che avevano imparato a conoscere in quel breve soggiorno; erano affilati come la lama di un coltello e duri come la pietra.

Ne fu colpito, anche se non lo avrebbe mai ammesso.

Le parole che seguirono gli fecero dimenticare ogni livido e ogni dolore, le gambe già in corsa prima che la frase fosse finita.

“Va’ a chiamare il tuo amico e la ragazza-demone. Voglio raccontarvi una storia.”

 

Angolo dell’Autrice

Sono pessima lo so, avevo promesso di aggiornare presto ma tra la tesi e altre cose che si sono concentrate in questo periodo non sono riuscita a farlo prima; tra l’altro, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere, e non sono nemmeno soddisfatta del risultato finale, ma mi conosco: l’ho riscritto 5 volte, se non lo pubblico adesso non lo faccio più.

Quindi eccomi qua, in ritardo come sempre, ma pronta a continuare questa avventura perchè mi rifiuto di lasciare a metà la storia (insomma mi dovrete sopportare per un altro po’)

Anche questa volta ho un paio di note da aggiungere here we go:

“tigre del prato”: è il nome popolare della Centella Asiatica. Il nome deriva dal fatto che gli animali selvatici si rotolino sui prati in cui cresce questa pianta per via delle sue proprietà cicatrizzanti (Kaede usa un unguento fatto con questa pianta per medicare Tanjiro)

“salvastrella”: è una pianta con proprietà astringeti, ossia in grado di contrastare le emorragie (è nell’infuso che Kaede fa bere a Tanjiro)

Naturalmente non sono un’erborista, prima di utilizzare qualsiasi forma di medicina omeopatica chiedete informazioni ad un medico.

Ultima cosa e poi chiudo: l’ambientazione di Demon Slayer e Inuyasha è abbastanza vaga in fatto di linea temporale. Sappiamo che Demon Slayer è successivo al Bakumatsu (il periodo in cui il Giappone si apre all’Occidente, circa fine del 1800, inizio ‘900) perchè in un episodio si vedono persone vestite in giacca e cravatta, così come alcune automobili e il treno a vapore, mentre le avventure di Inuyasha si collocano nel periodo Sengoku e non si sa nulla di più; quindi, per far capire il salto temporale nei dialoghi, mi sono presa la libertà di fare riferimento a Edo (nome storico di Tokyo, prima che diventasse capitale al posto di Kyoto,), costruita, appunto, alla fine dell’Epoca Sengoku. 

Direi che come al solito ho parlato troppo lol, scusate. Come sempre vi ringrazio per aver letto fin qui, e apprezzerei tantissimo sapere cosa ne pensate.

Alla prossima,

RedSonja

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Disclaimer: Non possiedo né l'univero né i personaggi di Inuyasha e Demon Slayer/Kimetsu no yaiba. Non scrivo a scopo di lucro, ma solo per divertirmi con delle storie che mi hanno appassionato.

Capitolo 4
 

Tanjiro non ne poteva più di stare a riposo.

Non ne poteva più di contare e ricontare i contenitori di erbe e unguenti sulle due misere mensole, inchiodate alla parete di fronte al futon dove l'anziana sacerdotessa lo aveva confinato cinque giorni prima.
Non ne poteva più del bruciore esasperante delle ferite, del prurito sotto le bende e dell'odore costante di incenso e medicamenti che aleggiava nella stanza.

Ma più di tutto, ciò che non riusciva a sopportare oltre, era l'attesa snervante della ragazza da cui dipendeva la sua permanenza nel villaggio, e nell'epoca Sengoku.

Kaede gli aveva parlato di Kagome, e del demone che viaggiava con lei.
Mezzodemone, a essere precisi.


Tanjiro non aveva mai sentito parlare di figli nati da demoni e umani, la sola idea gli sembrava impossibile e pericolosa.
La sacerdotessa aveva visto il lampo di esitazione nei suoi occhi, e la sua presa farsi più salda sull'elsa della nichirin, e si era affrettata a chiarire che Inuyasha non era come i demoni con cui aveva avuto a che fare in passato, che non si cibava di umani.
Si sentiva in colpa ad essere scettico, dopotutto sua sorella era un demone e lui stesso aveva sostenuto la sua innocenza davanti agli hashira, eppure questo pensiero non lo rasserenava affatto.

E per quanto riguardava Kagome, Tanjiro non poteva far altro che sperare potesse aiutarlo, e pregare i kami affinché tornasse presto. 

 

All'alba del sesto giorno ne aveva avuto abbastanza, e ignorando gli improperi dell'anziana donna si era issato sulle gambe tremolanti, facendo leva sulla lama della katana.
La schiena gli bruciava da impazzire e si sentiva ad un passo dallo svenimento, ma si era rifiutato di arrendersi ad altre ventiquattro ore di immobilità.

"Sei un disgraziato, testardo e incosciente! Si può sapere dove pensi di andare in quelle condizioni?"

Kaede si era fisicamente frapposta tra lui e la stuoia che copriva l'ingresso della capanna, e aveva tutta l'intenzione di usare la forza per rispedirlo a letto.
L'espressione del viso era un misto tra furia e preoccupazione che lo fece sentire un verme, ma era arrivato al limite della sopportazione.

Doveva tenersi impegnato e smettere di pensare a Nezuko, ai ragazzi e al compito che aveva lasciato in sospeso a Chiba.
C'erano così tante persone che dipendevano da lui, così tante vite in gioco, mentre era bloccato in una capanna di legno a mezzo millennio di differenza, senza potersi nemmeno sgranchire le gambe.

La verità era che il sangue gli ribolliva dalla rabbia, il corpo teso come una corda di violino, e aveva una voglia malsana di fare a pezzi qualcosa. Erano emozioni che lo facevano sentire a disagio, sporco; col tempo aveva imparato ad accettarle come parte del suo lavoro, ma questo non toglieva il senso di colpa.
La sensazione di aver fallito era ancora lì, dietro lo sterno, nell'interstizio tra i polmoni e il cuore, e gravava sul suo respiro come un macigno.

Era furioso con Keina, che lo aveva scaraventato nel fiume, con Kaede, che non riusciva a capire il bisogno viscerale di attività e, soprattutto, ce l'aveva a morte con se stesso, con la propria incapacità che finiva sempre per far soffrire gli altri.

E poi c'era la nostalgia.

Erano anni che non si sentiva così solo, da quando Muzan aveva distrutto la sua famiglia; da quando la malattia si era portata via suo padre. Una parte di lui era  morta lì; si era augurato che il corpo la seguisse presto.
Poi era tornato a respirare quando si era unito alla  Squadra degli Ammazzademoni, e a provare qualcosa oltre al dolore costante e alla rabbia quando aveva incontrato Zenitsu e Inosuke. Di nuovo il futuro portava con sé speranza, e la vita gli appariva meno come una corsa inesorabile verso la tragedia finale.

Tanjiro soffriva di insonnia. Aveva sempre dormito poco, ma da quando Nezuko era diventata un demone aveva smesso quasi del tutto: la paura di non svegliarsi in tempo per il sorgere del sole aveva alimentato troppi incubi, e poi era sopraggiunta quella strana urgenza di non perderla d'occhio nemmeno un istante, perché ogni notte poteva essere l'ultima che passavano insieme e non si sarebbe perdonato di non esserci per lei, se quelli dovevano essere i suoi ultimi istanti su questa terra.
Solo più avanti quell'angoscia aveva iniziato ad estendersi verso Zenitsu e Inosuke.

Non era il più grande di età, ma in qualche modo si sentiva responsabile per loro, della loro innocenza, che voleva preservare dal male che c'è al mondo.
C'era un che di catartico nel verderli riposare lì vicino, nonostante la tensione di chi è abituato a dormire all'aperto, pronto a reagire al minimo sentore di pericolo.

In realtà, come aveva scoperto molto presto nel corso dei loro continui spostamenti, solamente Zenitsu riusciva a riposare bene.
Inosuke raramente abbassava la guardia abbastanza da abbandonarsi ad un sonno profondo; più spesso se ne rimaneva in disparte, appoggiato contro la corteccia ruvida di un albero o sdraiato con la schiena nuda contro la terra, così che le vibrazioni del suolo potessero allertarlo dei movimenti di tutti gli esseri viventi nei paraggi.

Tanjiro sapeva che era il suo modo di proteggerli, che anche Inosuke sentiva il bisogno di preservare quello strano gruppo di cui si era ritrovato, suo malgrado, a fare parte, e che trovava nella veglia da sentinella la tranquillità necessaria a rassicurarlo che ancora una volta ne erano usciti indenni. Più o meno.
Qualche volta, Tanjiro aveva la sensazione che gli occhi nascosti da quelli vitrei della testa di cinghiale si posassero sulla sua figura con intento, e allora l'odore di Inosuke cambiava: l'altera indifferenza con cui avanzava a testa bassa nella vita quotidiana si tingeva delle note amare della preoccupazione, con una punta di dolcezza data dalla pietà, e di un aroma che gli ricordava la legna bruciata, che non sapeva identificare e che aveva finito per associare all'affetto che Inosuke provava per di lui. Non voleva pensare all’alternativa.
Quando succedeva, si sforzava di piegare le labbra in un sorriso rassicurante, mentre le palpebre si abbassavano nella timida imitazione di un sonno quieto.

Inosuke non gli credeva mai, e a quel punto l'amaro copriva qualsiasi altro odore, mentre finalmente la pressione del suo sguardo si spostava altrove.


Kaede aveva continuato la sua lavata di capo, ma non la stava ascoltando.
Non aveva particolarmente voglia di interromperla, perché era evidente che quella povera donna stava cercando di tenerlo in vita, contro tutti i suoi sforzi nel sabotarne le cure.

"Signora Kaede."

La donna si era fermata a metà di una tirata contro i giovani che avevano troppa fretta di finire nella tomba, e ora lo fissava come se a parlarle fosse stato un sepolcro.

"Apprezzo molto quello che avete fatto per me, ma sono passati già cinque giorni e io non ne posso più di starmene sdraiato come un moribondo ad aspettare qualcuno che potrebbe non tornare."

Un passo in avanti. Le ferite tiravano e la nichirin grattava la superficie rovinata delle assi di legno.

"E che cosa pensi di fare allora? Andartene in giro conciato a quel modo, in una terra che non conosci e con delle ferite che ti uccideranno, se non ci penseranno prima i demoni o i briganti? Non ti permetto di buttare via così il mio lavoro e il tempo che ho impiegato a rimetterti in sesto, moccioso ingrato."

Il veleno dietro le parole della donna era diluito notevolmente dall'ansia che vi avvertiva.
Provò una sincera gratitudine per quella vecchia sacerdotessa con i modi da gendarme e il cuore di una nonna.

"Non intendo lasciare il villaggio. Non ho un altro posto dove andare, e nelle mie condizioni non arriverei lontano. Ne sono consapevole, e non sarebbe giusto nei vostri confronti. Ma vi prego, lasciatemi almeno camminare qui intorno. Un altro minuto in questa stanza e sono certo di impazzire."

Il passo successivo era stato più sicuro, questa volta la punta del fodero aveva battuto a terra solo alla fine della falcata.

Kaede lo osservò avvicinarsi ancora di altri due passi, analizzando il modo in cui si muoveva, lo sforzo evidente che gli costava, e soppesò le possibilità.
Dieci giorni di riposo era stata la sua stima iniziale, sette il compromesso che aveva raggiunto dopo aver capito che il ragazzo non sarebbe rimasto fermo un istante di più del necessario affinché non si dissanguasse. 
Sei giorni erano pochi, erano una scommessa, ed erano tutto ciò che l'Ammazzademoni avrebbe sopportato.

Lo aveva visto agitarsi come un animale in gabbia nei cinque giorni precedenti, lo sguardo che scattava verso l'ingresso della capanna poco prima che uno degli abitanti del villaggio entrasse a richiedere il suo aiuto.
Era inquietante, il modo in cui riusciva ad anticipare ognuna di quelle visite; Inuyasha era in grado di fare lo stesso, ma il suo udito era al di fuori della comprensione umana. Come ci riuscisse era un mistero che non aveva avuto il coraggio di investigare.

Avrebbe potuto chiedere, ovviamente, ma il ragazzo sembrava già abbastanza provato, e non era certa di come sarebbe stata accolta la sua curiosità; per il momento era preferibile non agitarlo oltre e aspettare che Kagome e gli altri tornassero al villaggio: con ogni probabilità, ci sarebbero state molte domande da entrambe le parti e, forse, anche la sua avrebbe trovato risposta.

Un'ultima esitazione, e si fece da parte.

Il sorriso che stirò le labbra del giovane era stanco e affaticato, e ciononostante aveva avvertito tutta la sua gratitudine.

Che strano tipo, questo Ammazzademoni.
Non che lei avesse particolare esperienza al riguardo; l'unico altro gruppo di esseri umani che dava la caccia ai demoni era quello degli Sterminatori, ma ormai era rimasta soltanto una di loro, e non aveva idea di come Sango avrebbe preso la notizia.

"E va bene, ma se provi ad allontanarti manderò Jiro a legarti come uno dei suoi capretti, e puoi star certo che non lascerai questa casa finché non sarò andata all'altro mondo, mi hai capita?"

La massa di capelli color del vino gli era ricaduta sugli occhi mentre annuiva il suo assenso, e per un attimo le sembrò che dimostrasse tutti i suoi sedici anni. 

 

Il villaggio, come Tanjiro aveva avuto modo di constatare, era un agglomerato di una decina di case, tutte della stessa dimensione di quella della miko e, a parte l'orto occasionale e qualche capo di bestiame, c'era ben poco di valore.
Le strade erano strisce di terra fangosa, battuta dalle suole degli abitanti nel corso degli anni; i campi rigogliosi stavano cominciando a dare i primi frutti. 
Per essere un periodo di guerra, l'atmosfera era tranquilla e familiare.

Sentì un pungolo nel cuore, e si impose di ignorarlo; un tempo anche la sua vita era stata così  semplice, ma quel tempo era finito e indugiare nei ricordi non lo avrebbe aiutato a stare meglio.

Si era incamminato, per quanto trascinato sarebbe stato il termine più adatto, fino all'estremo dell'ultima casa, rispettando il confine stabilito dalla signora Kaede.
Il verde delle colline, lì dove si congiungevano con la foresta, era così brillante da costringerlo a socchiudere le palpebre, mentre il profumo dei fiori di campo, appena presente nella brezza leggera, gli solleticava il naso.

Con qualche difficoltà, si sedette a terra, le gambe incrociate sotto di sé e la spada tra le braccia, appoggiata alla spalla destra. 

Non si era curato di indossare lo yukata: non era buona educazione, ma il tessuto era stato lacerato dalle tenaglie di Keina, e la divisa della Squadra avrebbe costretto troppo le ferite ancora in via di guarigione.
Non che qualcuno degli abitanti lo avesse rimproverato; come aveva sospettato, la signora Kaede doveva essere la massima autorità da quelle parti, perché nessuno l’aveva degnato di uno sguardo.

Il sole era tiepido, faceva piacere averlo sulla pelle dopo giorni al chiuso.
Non si era mai reso conto di quanto si fosse abituato a vivere all'aria aperta, allo spazio che si allargava di fronte a lui e alla strada che si stendeva sotto i suoi piedi. 

Si chiese come sarebbe stato, tornare ad avere una casa, quando tutto fosse finito, quando Muzan fosse caduto sotto la lama nera della nichirin; come sarebbe stato svegliarsi tutti i giorni nello stesso letto, nella stessa casa, con le faccende quotidiane da sbrigare e senza il bisogno di una katana sempre a portata di mano.
Non riusciva ad immaginarlo. Però poteva avvertire la pace di quel futuro, il calore dell'abbraccio di Nezuko, la felicità dei suoi compagni, e la quieta consapevolezza di aver portato a termine il proprio dovere.

Non vedeva l'ora che diventasse il presente.

E invece il suo presente si restrinse all'odore di demone che si avvicinava a gran velocità nella sua direzione.

Era diverso dal solito, un retrogusto di ghiaccio e di selvatico che non aveva mai sentito prima; i demoni puzzavano di sangue e carneficina, di morte e di terrore, ma questo sapeva di foresta.
Gli ricordò Inosuke, per qualche ragione.
Forse era la sua nostalgia a parlare, ma c'era davvero qualcosa in quell'odore che gli ricordava l'altro Ammazzademoni.

Si costrinse a concentrarsi, alzandosi in piedi con una fluidità che non si aspettava.
Le ferite protestarono vivacemente a un movimento così repentino, ma la sua mente era già altrove, concentrata su quell'odore e sulla lama pronta della nichirin.

All'orizzonte si avvicinavano tre macchie di colore, una rosa, una bianca e una rossa. 

E due demoni.

Se il primo sapeva di ghiaccio e foresta, il secondo evocava l'immagine di fuoco e di gatto. Per qualche ragione, trovò quest'ultimo meno preoccupante.
Nessuno dei due aromi, tuttavia, aveva niente a che fare con quello dei demoni che aveva eliminato in passato, eppure non poteva trattarsi di nient'altro.

La macchia rossa fu la prima ad avvicinarsi, e Tanjiro si rese conto che oltre al rosso c'era anche l'argento di una chioma di capelli lunghissimi e di... Orecchie?
La sorpresa gli fece abbassare momentaneamente la katana.

"Ma che diavolo pensi di fare con quella spada, ragazzino?"

La voce proveniva dal demone albino, e non sembrava molto più adulta della sua.
Le parole erano scortesi, e l'espressione nelle iridi gialle poteva essere letta sia come derisione sia come insofferenza.

Non c'era nulla nella sua postura o nel suo odore che indicasse malevolenza.

Ma Tanjiro non stava prestando attenzione.

Gli era capitato di avere a che fare con demoni dagli attributi animaleschi, Keina era stata solo l'ultima di una lunga lista, ma non aveva mai visto nessuno con delle orecchie da Inu, che non avrebbe saputo definire altrimenti se non carine e decisamente fuori posto.

Una mano artigliata si chiuse sul suo braccio, strattonando, e fu allora che l'incantesimo si ruppe.

Con la forza dell'abitudine, eseguì il primo kata, aspettandosi di tranciare di netto la mano in questione, solo per rendersi conto un secondo dopo che il demone non era più di fronte a lui, e che la lama della nichirin aveva tagliato l'aria. 

"Senti un po', dannato, ci tieni tanto a finire sotto terra?"

Aveva una voce irritante, questo demone, ma ancora una volta non sentiva alcuna ostilità nei suoi confronti, solo un leggero fastidio.
Titubante, Tanjiro abbassò la lama, senza rinfoderarla.

"Tu sei un demone..."

Era una cosa sciocca da dire, ed era oltremodo stupido lasciare che un demone si avvicinasse così tanto, così come lo era abbassare la catana. Era una mancanza di rispetto verso chi si era preoccupato che imparasse a difendersi.
Ma il suo naso non aveva mai sbagliato, e si sentiva un’idiota a tenere la guaria alzata.

Il demone lo osservò per qualche istante, un'espressione indecifrabile sul volto e le iridi dorate fisse nelle sue scarlatte. 

Gli sembrò molto più vecchio di quanto avesse pensato solo pochi minuti prima.
No, non vecchio, antico.

Antico ed indecifrabile, una forza della natura, e capì che aveva sbagliato: non era odore di ghiaccio, quello che aveva sentito, ma l'odore della luna.
E si chiese come fosse possibile, senza trovare alcuna risposta.

"Non sono umano, se è questo che intendi. Ma non sono neppure un vero demone. E tu, che diavolo sei? Con quelle ferite non dovresti reggerti in piedi, figuriamoci muoverti a quel modo."

Aveva usato lo stesso tono maleducato, ma stavolta c'era una sfumatura diversa, che Tanjiro non riuscì ad interpretare.
Anche il suo odore era cambiato: vergogna, dolore, e curiosità.
Non capiva.
Eppure c'era qualcosa in quegli occhi, che lo fece sentire in difetto, come se avesse detto qualcosa che non doveva, e solo in quel momento gli tornarono in mente gli avvertimenti di Kaede.

"Inuyasha è un mezzodemone. Qualcuno che non é demone, né umano, e non c'è umiliazione peggiore a questo mondo. Non essere abbastanza per l'una o per l'altra metà del suo sangue, condannato per sempre ad essere ripudiato da entrambi. Lui per te è un demone, e come tale lo tratterai, ma ricordati che per un demone sarà sempre e solo un umano. Immagina cosa significhi vivere un'intera vita in solitudine e vedi se ti riesce di provare un po' di pietà"

"Non posso prometterlo" Era stata la sua risposta quella sera. Una risposta amara, dettata dal rancore e dalla frustrazione.
Una bugia, in buona parte, perché anche nel dolore Tanjiro aveva un cuore più grande di quanto si desse credito.

Si sentì comunque disgustato da se stesso. 

Il ragazzo che gli stava di fronte non viveva una sorte poi tanto diversa da quella di Nezuko. Nessuno dei due aveva scelto di assumere le sembianze di un demone, ed entrambi non potevano far parte di quel mondo più di quanto potessero passare per esseri umani.

Rinfoderò la katana, e si inchinò in segno di scuse, ignorando il tirare dei punti e il dolore delle ferite non ancora cicatrizzate.

"Mi dispiace se le mie parole vi hanno offeso, non era mia intenzione."

"Ma di che parli, ragazzino? E poi perché mi tratti come se fossi un vecchiaccio decrepito?" 

La voce era salita in volume, prima di acquietarsi un biascicato "Certo che sei proprio un tipo strano tu".

Gli venne da ridere, ma si trattenne.
Questo demone, Inuyasha, gli ricordava Inosuke, avevano anche gli stessi modi. Pensò che sarebbero andati d'accordo, ma scartò immediatamente quell'idea: era più probabile che uno dei due avrebbe tentato di eliminare l'altro.

Le dita artigliate scomparvero all'interno delle maniche quando incrociò le braccia, mentre l'espressione accigliata lasciava spazio ad una crescente curiosità.

"Senti un po' ma non rispondi mai alle domande?"

Aveva ragione, non si era ancora presentato.

"Mi chiamo Kamado Tanjiro, della Squadra Ammazzademoni" 

Le iridi dorate si erano ridotte ad una fessura e l'intera postura del corpo di Inuyasha era mutata in un istante.
Alzò le mani, in un gesto di pace, affrettandosi ad aggiungere "La signora Kaede mi ha guarito dopo che un demone ha tentato di uccidermi; è stata lei a parlarmi di te e di una ragazza, Kagome."

Inuyasha non si era mosso, ma a Tanjiro non sfuggì il fatto che si stava muovendo sul filo di un rasoio. Al nome di Kagome ciò che aveva sentito nel suo odore era stata apprensione, e determinazione.
Il messaggio era chiaro: qualunque fosse la relazione tra i due, Inuyasha non era contento del fatto che lui sapesse di Kagome; non gli restava che sperare che la ragazza fosse più ben disposta del suo compagno di viaggio.

"Che cosa vuoi?" 

Stavolta, la voce non aveva nulla della petulanza che l'aveva accompagnata negli scambi precedenti: era fredda, misurata, e ferma.
Per la prima volta, vide davanti a sé un guerriero, ed ebbe la consapevolezza che se Inuyasha l'avesse voluto morto, a quest'ora lo sarebbe stato da un pezzo.

"Preferisco spiegare i dettagli quando sarà arrivata anche la signorina Kagome. Ciò che cerco è il suo aiuto, non sono qui per farle del male".

In un attimo il mezzodemone gli fu ad un passo dal viso, e pensò che quella era la sua fine, più che meritata per la sua sconsideratezza.
Ma il colpo non arrivò mai.

Inuyasha era immobile, ad eccezione del respiro che sembrava più corto di quanto avrebbe dovuto essere; impiegò un istante per capire che lo stava annusando e si domandò se anche lui appariva altrettanto ridicolo alle persone quando seguiva una traccia. 

Probabilmente sì.

Il risultato doveva averlo soddisfatto, perché si allontanò, appena in tempo per lasciare posto ad una strana macchina in metallo color rosa intenso.
In sella c'era una ragazza, doveva avere circa la sua età, i capelli corvini le scendevano sciolti fino a metà schiena, una frangetta lunga le copriva gli occhi azzurri. Indossava una divisa che poteva competere con quella della signorina Kanroji, in quanto a pelle esposta.

Aveva un viso gentile, ed un'aura che gli ricordò quella della signora Satō, anche se la sua era decisamente più intensa.
Una miko

L'altra macchia, quella bianca, aveva assunto la forma nitida di una nekomata,: la doppia coda striata di nero, le zampe in fuocate e le zanne sporgenti la rendevano, senza dubbio, più demoniaca nell'aspetto di quanto non si potesse dire di Inuyasha, ma Tanjiro non dubitò neppure per un istante che il secondo avrebbe vint agevolmente in uno scontro.
Sulla sua groppa era seduta una donna alta in armatura; alla sua schiena era legata un’arma insolita di dimensioni gigantesche. Dietro di lei, un monaco buddhista e un bambino con zampe e coda da volpe.

Una kitsune.

Sono finito in una delle favole che mi raccontava papà! Fu il suo primo pensiero, e dovette deglutire più volte per sciogliere il groppo alla gola. Non era il momento di pensare a lui.

La ragazza con gli occhi azzurri si era avvicinata ad Inuyasha, e qualcosa nel modo in cui lui la guardò gli suggerì che dovesse trattarsi di Kagome.

"Senti un po' Kagome, questo tizio vuole che tu gli dia una mano. Vuoi che lo faccia fuori subito o aspettiamo che tiri le cuoia per conto suo? Tanto non penso che ci vorrà molto, ha già un piede nella fossa."

Il lampo che attraversò quegli occhi gentili fece trasalire Tanjiro, a cui non sfuggì lo sguardo che si scambiarono l'altra donna e il monaco, e neppure il sospiro esasperato della kitsune: “Ci risiamo.”

"Inuyasha... A cuccia!"

 

Un rosario magico.
Kagome gli aveva spiegato, il giorno seguente, come aveva fatto a spedire Inuyasha al tappeto in un istante, e Tanjiro era stato estremamente tentato di chiederle la cortesia di crearne due copie per lui.

Inosuke e Zenitsu non avrebbero apprezzato, ma di sicuro la sua vita sarebbe stata più facile.

Dopo il primo incontro con Inuyasha, non era stato difficile presentarsi al resto del gruppo e neppure accettare di dividere la stessa stanza con tre demoni.

La signora Kaede li aveva accolti in casa immediatamente, liquidando una delle anziane vicine che era andata a chiederle un unguento, in modo da lasciarli accomodare al centro della stanza.
Tutte le domande che gli erano passate per la mente nel tragitto fino alla casa dell'anziana miko erano totalmente scomparse, mentre fissava il gruppo.

Si rese conto di essere un totale estraneo per quelle persone; un estraneo che intendeva chiedere un favore impegnativo.

La signorina Kagome si era seduta vicino a lui, il bambino kitsune in grembo, e sembrava intenzionata a spedire ancora Inuyasha a cuccia, se fosse stato necessario. Dal canto suo, il mezzodemone si era appoggiato alla parete opposta, la katana tra le braccia, come aveva fatto lui stesso poco tempo prima, e sembrava intenzionato a non partecipare alla conversazione.

A Tanjiro non era sembrato un inizio promettente, ma gli altri non parevano particolarmente scossi da quel comportamento.

Il monaco continuò imperterrito a lanciare occhiate di dubbio gusto alla donna alta con i capelli legati a coda.
La nekomata, tornata alle sue dimensioni di gatto, si era accoccolata sulle sue gambe,  e soffiava con decisione ogni volta che la mano dell'uomo si avvicinava troppo alla sua padrona.

Inaspettatamente, fu Inuyasha a rompere il silenzio.

"Be', Ammazzademoni, ora ci siamo tutti. Perciò parla."

"Inuyasha..." La voce della giovane miko era un simbilo minaccioso. 

Tanjiro si sbrigò a schiarirsi la gola, prima che la situazione degenerasse e il demone vestito di rosso avesse finalmente un buon motivo per avercela con lui.

Il monaco lo batté sul tempo.
Staccando finalmente gli occhi dalle gambe dell'altra donna, spostò la sua attenzione su Tanjiro; era uno sguardo sottile, intelligente, e per la seconda volta in meno di mezz'ora si rese conto di aver sottovalutato chi gli stava davanti.

"Un Ammazzademoni?" Il tono lasciava intendere che il titolo non gli fosse nuovo.

Tanjiro annuì. Il monaco non fece altre domande, ma il suo odore gli suggerì che sarebbe ritornato sull'argomento, non appena ne avesse saputo di più.
Che facesse pure, pensò, non aveva nulla da nascondere.

"Il mio nome è Kamado Tanjiro e sono un Ammazzademoni.” si affrettò ad aggiungere “Non sono qui per una missione, o meglio, sono arrivato in questo villaggio dopo essere stato ferito durante una missione."

Fece una breve pausa. Come si spiegava a qualcuno che eri finito nel passato? "È una situazione complicata."

La donna alta aveva iniziato ad accarezzare la nekomata, probabilmente per calmare i nervi; il suo profumo era diventato acre dall'apprensione, e Tanjiro non poté fare a meno di interrogarsi sulla ragione.
Forse temeva che avrebbe tentato di fare del male alla nekomata? O forse alla kitsune? La sua posizione si stava aggravando pericolosamente, e non era nemmeno arrivato alla parte peggiore.

"Vedi di farla semplice." era stata la risposta piccata di Inuyasha, ed ebbe la netta sensazione che anche gli altri ne condividessero il pensiero.

Qualcosa, nello sguardo che gli lanciò il giovane albino gli apparve come una sfida. Una sfida che Tanjiro non aveva alcuna intenzione di raccogliere: lasciarsi provocare non avrebbe portato a nulla di buono, e comunque non poteva fargliene un torto se non riusciva a fidarsi di qualcuno che per lavoro uccideva i demoni.
Dopotutto, anche per lui non era stato facile sedersi in quella stanza, con tre demoni di cui non sapeva nulla, e imporsi di non estrarre la nichirin.

Un gesto di buona fede che sperava sarebbe stato ripagato; cominciava ad essere scettico, ma si impose di continuare a parlare.

"Viaggio con due compagni, anche loro fanno parte della Squadra Ammazzademoni, e con mia sorella, che è stata trasformata contro la sua volontà. Mi sono addestrato per poterle restituire la sua umanità, e per far sì che nessun altro debba essere ucciso dai demoni come è successo alla mia famiglia".

Le parole si spensero lentamente, mentre ricacciava indietro le lacrime; non era il momento di mostrarsi debole.
L'odore di Kagome si addolcì: pietà, compassione, empatia; gli posò una mano sul braccio, un segno di affetto e di vicinanza. Gliene fu grato.

"Siamo stati inviati dal Capofamiglia a Chiba, dove un demone aveva già divorato due donne. Non siamo riusciti a salvare la terza con gli indizi che avevamo a disposizione e quando identificammo quella che credevamo essere la quarta vittima era ormai sera; decidemmo comunque di provare a salvarla e seguimmo le tracce del demone fino al castello.
Fu lì che scoprimmo che la quarta vittima era in realtà il demone.

Durante il combattimento sono stato ferito e scagliato al di sotto delle fondamenta del castello; non ricordo altro, ma credo di aver perso i sensi.
Quando mi sono svegliato era sorto il sole e mi trovavo in una grotta: c'era un fiume, ed ero bagnato fino all'osso. Non ricordo di esserci finito dentro, ma non mi spiego un altro modo per essere arrivato fino a lì."

Nessuno lo aveva interrotto fino a quel momento, lo prese come un invito a continuare e pregò che gli credessero.
Ora arrivava la parte difficile.

"Ricordo di essermi trascinato per un po', nella direzione dove credevo si trovasse il castello ed essere arrivato ad un vecchio pozzo in una radura. C'era uno shinboku*, sentivo di stare per perdere i sensi a causa delle ferite, così mi sono seduto contro la sua corteccia.
Sentivo l'odore di un villaggio abbastanza vicino ma non avevo più forze per continuare a camminare, così ho sperato che qualcuno mi trovasse, prima di svenire di nuovo."

"Sentivi l'odore? Ma sei solo un umano!"

"Di tutto quello che ha raccontato, Inuyasha, il tuo problema è questo? Non il fatto che Chiba si trovi dall'altra parte del mare?"

Kagome non  aveva perso tempo a rimbeccare il mezzodemone, e ancora una volta il monaco e la donna alta si erano cercati con lo sguardo. Il quadro gli apparve un po’ più chiaro, anche se era evidente che mancasse ancor qualche tassello: qualunque cosa ci fosse tra quei due, era evidente che al momento non erano in buoni rapporti.

Decise di evitare accuratamente la possibilità di animare ancora di più la discussione.

"Non so come spiegarlo, Inuyasha, è un... talento che ho sempre avuto. Comunque non è la capacità più strana che io abbia mai visto: uno dei miei compagni riesce a sentire suoni che nessun altro avverte, e l'altro è in grado di determinare la posizione di un oggetto a miglia di distanza".

Il demone emise uno "tsk" scettico, prima di acquietarsi nuovamente.
Se anche qualcun altro dubitava della sua affermazione, non commentò.

"Per rispondere alla signorina Kagome, all'inizio non pensavo di essermi allontanato tanto da Chiba. L'ho scoperto solo una volta risvegliatomi nella casa della signora Kaede. Anche se la distanza fisica è il problema minore, dal momento che in qualche modo ho viaggiato anche nel tempo."

Lo aveva detto.
Si aspettava le risate, lo scetticismo, anche di essere chiamato bugiardo e sbattuto fuori senza tante cerimonie.

Certo, l'anziana miko l'aveva informato della particolare abilità di Kagome, ma questo non lo aveva rassicurato circa l'esito della conversazione.

Invece nessuno proferì parola, a parte Kagome stessa.

"Avanti o indietro?"

Il sollievo che provò in quel momento non avrebbe saputo descriverlo a parole.

"Indietro. Vengo dall'Era Taisho, e credo che questa sia l'Era Sengoku."

Kagome annuì, distrattamente.
Forse dopo tutto non gli credeva.

"Mi sono sempre chiesta come fosse l'Era Taisho, magari posso chiederti qualche informazione."

Tanjiro la fissò, sorpreso, ma annuì. Non aveva preso in considerazione che quello che per lui era il presente per lei fosse il passato. Chissà com'era il suo mondo, quanto fosse diverso da quello a cui lui era abituato; desiderò vederlo.
Era meglio preoccuparsi di questione alla volta.

La ragazza, d'altra parte, arrossì repentinamente, scuotendo la testa.

"Oh no, che sciocca, mi dispiace tanto! Immagino che sia già abbastanza difficile svegliarsi in un'epoca diversa, non credo tu abbia voglia di pensarci continuamente. Non sei assolutamente costretto a parlarne... anzi dimentica che te l'abbia chiesto."

Aveva iniziato a parlare rapidamente, gli occhi azzurri che saettavano vivaci mentre gesticolava. Gli venne da ridere per l'assurdità della situazione, e non riuscì a trattenersi.

Kagome si interruppe, mortificata, così scosse la testa e le sorrise. Non c'era nulla per cui scusarsi, anche lui si era chiesto da dove venisse lei, dopotutto.

"No, no, va bene. È vero, è una situazione difficile, però ignorarla non la cambierà."

Inspirò profondamente, anche se grazie alla respirazione continua non ne aveva bisogno. Lo sguardo gli cadde sulla nichirin e la mente corse a quel che significava.
Fu sufficiente per trovare il coraggio di continuare; si schiarì la voce, poi si rivolse ancora una volta alla giovane miko.

"La signora Kaede mi ha raccontato che voi potete andare avanti e indietro nel tempo a piacimento. È per questo che sono rimasto nel villaggio, oltre che per guarire: devo trovare un modo di tornare nella mia epoca, dai miei amici e da mia sorella. E voi siete la mia unica speranza, signorina Kagome."

Si voltò completamente verso di lei, chinandosi fino a toccare con la fronte il pavimento. Non si sentì umiliato, neppure per un secondo.
Aveva bisogno del suo aiuto, ed era giusto che lo chiedesse nel modo corretto.

"Vi prego di aiutarmi. So che vi sto chiedendo molto, soprattutto considerando che non ci conosciamo. Ma non ho altra scelta"

Una mano gli toccò la spalla, invitandolo a sollevare la testa.
Rimase nella stessa posizione, alzando solo un po' il capo.

Kagome lo stava guardando con un sorriso bonario e Tanjiro capì finalmente perché le persone pregano: se i loro dei si rivolgevano a loro con la stessa gentilezza, allora prostrarsi ai loro piedi era un prezzo infimo da pagare.

"Ma certo che ti aiuteremo, Tanjiro, anche se non so ancora come." Si interruppe, prima di affrettarsi a continuare "Ovviamente troveremo un modo, non preoccuparti. Però dovrai rispettare una condizione."

Il sorriso furbo che le si disegnò sulle labbra tirò agli angoli anche della sua bocca, invitandolo a ricambiare.
Qualunque fosse questa condizione, gli stava bene.

"Non usare il voi e chiamami Kagome, abbiamo la stessa età su per giù, no?"

Tanjiro annuì, mentre il peso che gli aveva reso difficile respirare per giorni, finalmente, si allentava.
Tutto sommato era andata bene.

"Non così in fretta, Ammazzademoni."

Cinque teste si voltarono contemporaneamente verso Inuyasha. Kaede fu l'unica che rimase impassibile a sorseggiare lentamente la propria tazza di tè.
Tanjiro optò per un approcciò conciliante, sperando di placare la natura bellicosa dell’altro.

"Sì, certo. Se hai qualche domanda cercherò di rispondere."

Il mezzodemone si era alzato in piedi, avvicinandosi con studiata lentezza. Il completo rosso contribuiva a renderlo ancora più minaccioso; fortunatamente le orecchie canine mitigavano l'effetto.
Si costrinse a non fissarle; se tanto dava tanto, Inuyasha non avrebbe apprezzato.

Il demone si fermò proprio di fronte a lui sedendosi con uno sbuffo stizzito e tirando fuori, per la prima volta, la mano destra dalla manica.
Sul polso c'era il segno rosso di una ferita, non ancora del tutto rimarginata.

Tanjiro non poteva credere ai propri occhi. Era convinto di averlo mancato, invece la nichirin doveva essere riuscita a tagliare, anche se solo superficialmente.
Probabilmente era sbagliato, ma si sentì ugualmente fiero di se stesso

"Mi dispiace, io non sapevo che -" 

Inuyasha seguì la linea del suo sguardo fino al polso ferito. Scrollò le spalle.

"Stronzate, questo è solo un graffio, non è questo il problema. Voglio sapere come fai a passare per umano."

Lo fissò stranito, non sapendo cosa rispondere.
Passare per umano implicava non esserlo, e Tanjiro era decisamente umano.

"Non capisco di che parli." tentò, con un sorriso esitante.

"Senti non fare il finto tonto che con me non attacca, lo sai benissimo di che parlo."

L'espressione vacua dell'Ammazzademoni dovette essere abbastanza per convincere Inuyasha che no, non aveva idea di cosa stesse parlando.

"Dannazione, ragazzino! Prima riesci quasi ad affettarmi una mano mentre te ne vai in giro in condizioni che avrebbero dovuto lasciarti cadavere, poi te ne esci che senti gli odori. Insomma, si può sapere come fa' un mezzodemone come te a passare per essere umano?"

Mezzodemone?
Forse da fuori l'avrebbe vissuta come una scena comica, perché a giudicare dalle espressioni degli altri dovevano essere proprio una coppia esilarante.
L'unica risposta che gli venne in mente era un'ovvietà.

"Ma io sono umano, lo hai detto anche tu prima -"

"Sì sì, lo so quello che ho detto. Ma gli esseri umani non si muovono così velocemente, non sopravvivono a ferite di quel tipo e soprattutto non fiutano i demoni, perciò vuota il sacco, avanti." 

L'albino fece un gesto noncurante con la mano, le iridi dorate concentrate interamente su di lui e le orecchie canine allerta.
Tanjiro si sentiva come un topo davanti ad un gatto, particolarmente affamato e intenzionato a giocare con la preda.

"Inuyasha, adesso basta, dacci un taglio."

Si era completamente dimenticato di Kagome; le indirizzò un'occhiata supplichevole e un sorriso mesto.

"Kagome guarda che questo qui non ce la racconta giusta, ti dico che non è umano!"

"Se fosse un demone sentirei la sua aura, Inuyasha, e non la sento perciò non lo è!"

"Effettivamente non è mai capitato che ti sfuggisse qualche demone… oh, aspetta! Ti devo forse rinfrescare la memoria?"

Avevano entrambi il respiro corto, e Tanjiro ebbe la netta sensazione di trovarsi nell'epicentro di un terremoto.
Di nuovo ci fu lo stesso sguardo tra il monaco e la donna alta, e il commento rassegnato del demone volpe.

"Ci risiamo…"

"Inuyasha, a cuccia!

 

Angolo dell’Autrice

Lo so, lo so, sono pessima: è passato quasi un anno dall’ultimo capitolo e questo non è nemmeno un granchè ma, ehi, almeno se sono qui significa che non ho abbandonato la storia.
Quanto al contenuto, che vi devo dire, questo passa il convento, purtroppo i dialoghi mi sembrano sempre forzatissimi e qui ce ne sono davvero tanti perciò meh il risultato non mi soddisfa.

Spero comunque che il capitolo sia stato perlomeno una lettura scorrevole, nonostante la lunghezza (anche questo l’ho dovuto dividere in due parti perchè solo questo che avete letto ha un lunghezza di 17 pagine e andare oltre mi sembrava decisamente troppo, quindi per sapere cosa sta succedendo nel “presente” ad Inosuke, Zenitsu e Nezuko dovrete aspettare il prossimo aggiornamento, che mi auguro richieda meno di un anno)

A proposito, lo lascio qui, shinboku* è un altro nome con cui si indicano gli dei-alberi nello shintoismo (altre alternative sono goshingi e shintai); non ricordo quale versione io abbia usato nel capitolo precedente, perciò ho preferito riportare questa nota.

Mi sembra di aver detto tutto… Naturalmente mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, anche in dm se preferite; non mi loggo spesso ma cerco sempre di rispondere appena trovo una recensione perchè, diciamocelo, fa sempre piacere ricevere un feedback.
A presto,

RedSonja

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3981295