Vampier's Diaries - Libro secondo: la mia non morte

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: La non-vita al Ventesimo Miglio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Cenere eravamo… ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Un posto dove stare ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: La sua puttana ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Ciò che ci lasciamo alle spalle ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: I nostri segreti ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Metterci il cuore ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: La prima volta in cui vidi la morte (dopo la mia) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Il mio vero talento ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: La non-vita al Ventesimo Miglio ***


Questa storia è il sequel di Vampier's Diaries - Libro primo: la mia morte, e non è comprensibile senza aver letto prima quella storia.



Capitolo 1: La non-vita al Ventesimo Miglio


Fine estate 861 DR, campagne vicino a Silverymoon

Mi sono resa conto che non sono molto prodiga in fatto di descrizioni. Quando si racconta della vita bucolica, si dovrebbe parlare di campi coltivati, caprette coi ricciolini e grosse case coloniali (uno stile architettonico nato dal fatto che Silverymoon stesse colonizzando le aree periferiche del suo territorio; si traduceva in case molto funzionali, senza sprechi di spazi e ben protette da mura difensive, tutto il contrario di come gli stranieri s’immaginano le magioni di campagna).
In realtà non c’è molto da descrivere; se volete andare a vedere la casa e la tenuta del Ventesimo Miglio nulla ve lo impedisce. Sono ancora lì, e a dirla tutta è ancora casa mia, quindi magari fatevi annunciare prima di arrivare perché è molto maleducato piombare a casa della gente senza preavviso.
Quindi, avvalendomi della licenza di chi scrive il suo stesso diario, mi permetto di saltare a pié pari le noiosissime descrizioni di cose che comunque ricordo a memoria: immaginate pure vaste distese di campi di grano, se vi fa piacere. Di certo qualcuno se ne occupava, non mio padre ma forse l’amministratore che seguiva la mia famiglia.
Le descrizioni delle persone invece, sono una cosa che ho scelto volontariamente di evitare. Vorrei ricordare il volto di mio fratello, ma la triste verità è che ne ho memorie molto nebulose. Mio padre lo ricordo un po’ meglio, ma sempre meno di quanto vorrei.
Ricordo molto bene lord Yao, invece. Il suo volto senza tempo, come se fosse cristallizzato in un momento imprecisato fra i venti e i quarant’anni; è difficile stimare l’età degli orientali, ed è ancora più difficile capire a che età un umano è stato vampirizzato. Tranne nel mio caso. Dannazione, si capisce così bene che ero una maledetta adolescente quando sono morta.
Una persona meno attenta di me direbbe che le persone di Kara-Tur si assomigliano un po’ tutte, e qualcuna ogni tanto se ne vede, a Silverymoon. Non è una vista molto comune, ma ogni tanto qualche mercante si spinge perfino qui, nel profondo nord-ovest. Io non lo so se sia vero, che si somigliano tutti. Non mi sembra. Ormai per me ogni essere umano è differente, ognuno ha la sua singolarità e il suo profumo unico e irripetibile. Yao Taman non assomigliava a quegli umani. I vampiri non hanno odore, non per gli altri vampiri. Inoltre c’è qualcosa di orrendo nel modo in cui siamo cristallizzati nel tempo. La nostra pelle senza pieghe, senza rughe d’età o di espressione. Non so descriverla, è bellissima ed è rivoltante insieme. Quando ero umana non riuscivo a comprendere questi ossimori, ma ora li vedo e mi sembrano inevitabili.
Comunque, al di là del fatto di essere un vampiro: no, Yao Taman non assomigliava ai mercanti del Kara-Tur. Aveva la pelle più chiara perché non vedeva la luce del sole da secoli, non portava sul corpo i segni della fatica del viaggio, non aveva nemmeno lo stesso atteggiamento esageratamente esotico; lui non era un mercante e non gli interessava abbagliare il prossimo. Sapeva fare due cose molto bene: tenere un profilo basso, e ingannare.
No, diciamo tre cose: sapeva anche pretendere.
Dal giorno in cui mi ero risvegliata come vampier non aveva mai smesso di pretendere. Dovevo fargli da serva, procurargli delle prede - animali, perché nutrirsi di umani avrebbe attirato troppo l’attenzione - e poi dovevo continuare a lavorare sugli esperimenti di mio padre e dovevo anche dargli regolarmente quello che lui già una volta si era preso.
Odiavo quell’esistenza.
Odiavo con tutta me stessa ogni singola notte, dal momento in cui si svegliava a quello in cui ricadeva nel torpore dell’alba. Lui non sapeva che l’odiavo. Aveva già creato progenie prima di me, si aspettava che gli fossi assoggettata con il cuore e l’anima; avrei dovuto adorarlo, amarlo perfino, essere dipendente da lui. Di sicuro pensava che lo fossi. Non si interessò mai molto ai miei stati d’animo. L’unica cosa che occupava i pensieri di Yao Taman era Yao Taman.
A volte, nei miei momenti più bui e più depressi, caddi così in basso da desiderare quella schiavitù dell’anima. Se l’avessi amato come amano le Progenie Vampiriche, se la mia personalità si fosse annullata fino a farmi diventare qualcos’altro, qualcosa di completamente diverso da Erika Lesmiere, forse avrei trovato la pace e non avrei percepito quella realtà come un abuso. Sarei stata una creatura patetica, assetata di sangue, ambiziosa e capace di usare l’intelligenza solo per sottomettere il prossimo, ma eternamente fedele al mio Sire. E avrei trovato la mia dimensione, nella degenerazione e nell’ottundimento dei sentimenti verso la mia famiglia.
Odiavo quei pensieri, e mi odiavo quando ci cadevo dentro. Quanto doveva essere miserabile la mia esistenza per desiderare una cosa del genere? La mia mente ancora libera era l’ultimo dono che mio padre era riuscito a farmi. Avrei dovuto averne cura.

Oltre alla capacità di pensiero indipendente, c’era un’altra grande libertà che il siero di mio padre mi aveva donato: potevo ancora camminare sotto il sole. Provarci era stato un azzardo, non ero del tutto certa che non sarei stata incenerita, ma fino a quel momento la pozione alchemica aveva funzionato almeno in parte permettendomi di mantenere la mia identità; perché non avrebbe dovuto mantenere anche le altre sue promesse? E soprattutto, cosa avevo da perdere se non un’eternità di prigionia?
Un mattino decisi di provarci. Misi piede fuori casa quando il sole era già alto, mentre il mio Sire riposava quiescente nei sotterranei. Dopo tanti giorni di oscurità il sole mi parve accecante. Mi fece venire un capogiro, e mi sentii subito più fiacca e più pesante… ma non mi uccise. Un piccolo malessere era del tutto tollerabile, se si considera il vantaggio che mi dava: potermi muovere di giorno, lontano dal suo controllo. A sua insaputa.

Cominciai a vivere una doppia vita: di notte ero la serva fedele e obbediente, le cui ambizioni e idee si conformavano del tutto a quelle del suo Sire. Di giorno ero Erika Lesmiere, una ragazza pallida e fragile che poteva tranquillamente passare per vivente, perché chi avrebbe sospettato di poter vedere un vampiro sotto la luce del sole?
Che cosa potesse fare Erika Lesmiere, però, era qualcosa che non avevo ben chiaro in mente. Non avevo un piano. Non potevo raggiungere la città, chiedere aiuto e tornare alla casa in campagna prima che facesse buio, anche muovendomi a cavallo era troppo lontano, e non avevo poteri straordinari come trasformarmi in un pipistrello oppure volare. Non ero neanche dotata di una velocità superiore alla norma, ero davvero la versione meno potente - più umana - di un vampiro. Date le ore di luce a mia disposizione, e mi tocca ribadire che in quel periodo eravamo alla fine dell’estate quindi le ore di luce erano ancora molte, potevo solo arrivare ad altre magioni di campagna dei nostri vicini, o alle fattorie dei nostri contadini, ma che aiuto avrebbero potuto darmi?
Per un periodo mi limitai a usare le mie ore diurne per mantenere i contatti con la servitù e con l’amministratore, lasciando intendere che andasse tutto bene; poi scrivevo lettere, riposavo, e non ultimo scartabellavo fra i libri e le ricerche di mio padre. Forse lì avrei trovato qualcosa, qualche metodo per sbarazzarmi di un vampiro senza dover chiedere aiuto alla città e ai suoi chierici. Temevo che, se avessero saputo, avrebbero distrutto anche me.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Cenere eravamo… ***


Capitolo 2: Cenere eravamo…


Autunno 861 DR, campagne vicine a Silverymoon

‘Cenere eravamo e cenere ritorneremo’, era un motto ricorrente nei libri di mio padre. Credo che fosse un monito relativo alla ciclicità delle trasformazioni della materia in natura, che in definitiva era anche la ciclicità della vita, visto che le persone sono materia. L’utopia dell’alchimia è trascendere questo ciclo, portando l’essere umano a un livello superiore. L’immortalità. L’elevazione dalla carne alla forma spirituale. La trasformazione del piombo in oro, diceva mio padre, non era che una metafora per la trasformazione del comune in straordinario, dell’umano in sovrumano. A seconda di quale procedimento si volesse tentare di seguire, uno di essi prevedeva di passare per un primo stadio, chiamato Nigredo, che prevedeva che la materia diventasse scura, nera, a causa di un processo simile alla putrefazione. Se ciò era una metafora, e lord Yao ne era convinto - anzi, più che una metafora dovrei dire una realtà che si rispecchiava sia nel mondo materiale che in quello spirituale - allora essere un vampiro doveva essere il primo passo sul cammino verso una natura divina. Questo era ciò che credeva quel megalomane, ma mio padre non ne era altrettanto convinto. Era una cosa su cui avevano dissertato a lungo, come due gentiluomini istruiti, quando Yao Taman fingeva ancora di essere suo amico.
Per me, ‘Cenere eravamo e cenere ritorneremo’ non era un monito spaventoso, ma una preghiera. Avrei voluto poter afferrare quel bastardo per i piedi, mentre dormiva, e scaraventarlo all’esterno in pieno giorno giusto per vederlo diventare cenere.
Purtroppo il sonno diurno di un vampiro non è così profondo, non è un coma: se esposto al pericolo, il vampiro si sveglia e attacca in modo ferale, non del tutto cosciente. Lo sapevamo da anni, da quando lord Yao aveva tanto raccomandato a mio padre di non lasciar entrare nessuno nella sua stanza durante il giorno, per non causare spiacevoli incidenti. Io ero consapevole di non avere la forza per combattere il mio Sire. In uno scontro faccia a faccia mi avrebbe distrutta.
Tuttavia doveva esserci un motivo per cui quella frase esoterica sulla cenere continuava a tornarmi in mente. Io mi stavo concentrando solo su come uccidere lord Yao, su come vendicare la mia famiglia, e non riuscivo a escogitare un buon piano. Fu durante una notte particolarmente terribile, una notte in cui volle dedicarmi un po' troppe attenzioni, che alla fine qualcosa nella mia mente scattò.
Cenere eravamo… io ero umana, sono nata in quel ciclo di vita e morte, materia e cenere. Ora sono qualcos'altro, ma non è impossibile morire come muoiono i mortali.
Capii che se non potevo uccidere lord Yao, potevo almeno fingere la mia morte.

Yao Taman aveva resistito più di un anno prima di cedere al desiderio di vampirizzarmi. Devo togliermi il cappello davanti alla sua forza di volontà, perché io non resistetti nemmeno un mese nella stessa casa con lui. Gettai al vento i miei propositi di vendetta: dopo tante notti in sua compagnia volevo solamente scappare, tornare a essere padrona della mia vita o di quel che mi restava in luogo della vita.

Per poterlo fare, misi in atto un piano in tre fasi. La prima fu nascondere le carte più importanti di mio padre, indipendentemente dalla loro natura: in una valigia misi i suoi appunti di alchimia, i suoi libri più importanti, i suoi documenti d'identità e il suo testamento (a quell'epoca era normale fare testamento quando nascevano dei figli, e mio padre aveva corretto il suo quando era morto mio fratello), e per precauzione ci misi anche la sua copia dell'atto di proprietà di una piccola casa che possedeva a Silverymoon e che ora sarebbe passata a me, una volta sistemate le carte in un ufficio legale. Approfittai di una bella giornata di sole per andare a nascondere quella valigia in un capanno per gli attrezzi al limitare del nostro territorio.

La seconda fase del piano fu la più rischiosa, e ci misi diverse notti a prendere coraggio prima di farlo: l'idea era far arrabbiare il mio Sire.
Déi, quanto odio la parola Sire. So che in altre regioni, dove vige la monarchia, Sire è il modo corretto di appellarsi a un re. Allo stesso tempo si usa la parola sire per indicare il padre, ma non di una persona, di solito si usa per gli animali. Per indicare un pedigree, soprattutto per chi seleziona i migliori cavalli o dei cani con particolari caratteristiche. È strano che anche i vampiri usino questa parola per indicare il mostro che ti ha dato la vita oscura. Siamo più simili a degli animali di razza, oppure a dei re? Nel caso di Yao Taman non avevo molti dubbi. In ogni caso odiavo la parola perché non avevo intenzione di riconoscerlo né come mio padrone, né come mio padre. Lui aveva ucciso mio padre.
Ma per tornare al punto, la seconda fase del piano era attirare su di me il malcontento di quel pezzo di sterco rinsecchito. Non potevo rischiare di fare una cavolata grossa, ma ero assolutamente una maestra nel far perdere la pazienza alla gente creando molti piccoli fastidi. Era un metodo che avevo già sperimentato e rifinito con mio zio, il barone.
La prima cosa da fare era scegliere la notte giusta: una in cui Lord Yao si sarebbe svegliato di cattivo umore. Questo non era difficile, il vampiro era quasi sempre di cattivo umore. Da lì, era tutta discesa: rispondere alla sua chiamata un po’ più lentamente del solito, eseguire i suoi ordini in modo un po’ meno efficiente, portargli da bere un animale più vecchio e malandato di quanto fosse saggio… tanti piccoli atti di incompetenza; avrebbe anche potuto sospettare che fossero atti di sabotaggio o dispetti, se non fosse stato convinto di avermi schiavizzata nel corpo e nella mente. Invece interpretò la cosa come una serie di sfortunate casualità, ma la sua pazienza si stava erodendo sempre di più, come avevo previsto. Mi bastava che facesse un errore, uno solo. Che mi desse un ordine interpretabile. E lo fece.
“Vai a terminare quel maledetto esperimento!” mi disse scocciato, agitando una mano come qualcuno che vuole scacciare una mosca. “A qualsiasi costo!”
Era un ordine, no? Tassativo, rigido, l’ordine di qualcuno che ha fretta. L’ordine di chi non vuole fermarsi a lungo in una casa il cui proprietario era morto. La servitù prima o poi avrebbe iniziato a dubitare delle mie rassicurazioni, che mio padre fosse indisposto e rinchiuso in camera sua. La sua stanza era troppo silenziosa, io e lord Yao non mostravamo sufficiente preoccupazione per lui… non ci comportavamo come se fosse malato, ma come se non ci fosse più.
Lord Yao aveva fretta, ma io no. Tornai nel laboratorio, appoggiai entrambe le mani al grande tavolo di metallo e mi fermai a riflettere. Quante volte mio padre mi aveva ripetuto che la fretta è una cattiva consigliera? Quanto spesso mi aveva messa in guardia contro il compiere esperimenti senza la dovuta attenzione? Sarebbe stato un vero peccato se appena prima dell’alba, mentalmente stanca dopo una notte di lavoro, assonnata a causa della prossimità della luce del sole, alla fine io avessi commesso un errore. Ma la mia dedizione al mio Sire era tanto profonda, tanto accorata… ovviamente avrei dato la priorità ai suoi ordini anziché alla mia sicurezza. E una ragazzina di sedici anni, una semplice apprendista, può ben commettere un errore. Un errore fatale. Un errore sicuramente accidentale, perché chi mai vorrebbe morire nell’esplosione infuocata di un laboratorio di alchimia?

Yao Taman non sapeva che io potessi camminare sotto il sole e non sapeva che fossi libera dal suo controllo mentale. Due enormi svantaggi tattici.
Chissà cosa gli passò per la testa, quando si svegliò al tramonto del giorno seguente. Suppongo che come prima cosa mi abbia chiamato. Magari, non sentendomi rispondere, mi ha anche cercata. Chissà cosa avrà pensato, trovando il laboratorio devastato dalle fiamme, la porta di metallo rinforzato piegata sui cardini, mezza sciolta. Là dentro, avrà pensato, dev'essersi scatenato il calore di una fornace. Abbastanza da distruggere una Progenie così giovane.
Se il laboratorio non fosse stato costruito a regola d’arte, sotto terra, con pareti spesse due metri, suppongo che tutta la casa sarebbe collassata. Per fortuna non c’è architetto più prudente di un alchimista. E quando Yao Taman trovò i miseri resti delle librerie di legno, pensò che fra quelle ceneri ci fossero anche le mie?
Me lo sono chiesto, ma non posso saperlo. A quell’ora io ero già in vista di Silverymoon, dopo aver viaggiato di gran carriera per tutto il giorno. La terza fase del piano infatti consisteva in questo: la fuga.

Solo dopo aver varcato la Porta della Brughiera, l’accesso a Silverymoon da ovest, riuscii a sentirmi al sicuro. Al sicuro, ma non del tutto: la città era sotto il controllo dell’Alta Maga Elué Dualen, oggi meglio nota come Alustriel Silverhand. Famosa per essere un’incantatrice eccezionale, non certo amica dei non morti. Per non cadere dalla padella nella brace, da quel momento in avanti avrei dovuto stare molto attenta e tenere un profilo basso.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Un posto dove stare ***


Capitolo 3: Un posto dove stare


Appena arrivata in città, al calare delle tenebre, mi trovai a dover risolvere una situazione spinosa. Una brava donna all’epoca non aveva molte scelte su dove abitare: con la sua famiglia, punto. Sarebbe stato molto sconveniente prendere alloggio in una locanda o cercare rifugio presso qualche amica (che, comunque, non avevo).
Il problema era che io e mio zio non ci eravamo esattamente lasciati benissimo (mi ero più o meno fatta cacciare di casa), e ora avevo bisogno del permesso per rientrare. Non solo per una questione di decoro: sono un vampier, mi serve avere il permesso per entrare in una proprietà privata.
Oh, sia chiaro, non brucio se compio un’effrazione di domicilio. Non sono un vampiro vero. Diciamo che provo una forte sensazione di disagio, anzi, di malessere. Mi viene la nausea e non riesco a nutrirmi di sangue per un po’.
All’epoca però non lo sapevo e credevo che sarei bruciata.
E poi, se fossi riuscita a convincerlo a riaccogliermi in casa sua, avrei dovuto spiegargli perché me ne fossi andata dalla casa di mio padre. Nessuno sapeva che il buon vecchio Rebran Lesmiere, il fratello del Barone, fosse morto nella sua casa in campagna. Lo sapevamo solo io e Lord Yao, io perché ero presente e lui perché, be’, lo aveva ucciso.
Vorrei poter dire che il fatto di essermi allontanata da quel vampiro avesse cancellato o almeno affievolito la mia paura, e che ripensando alla morte di mio padre in quel momento provai una ventata di rabbia e di desiderio di vendetta. Non era così. Ero ancora impantanata nel mio terrore. Lord Yao avrebbe potuto ritrovarmi, se avesse usato la magia. Le difese di Silverymoon mi offrivano un po’ di protezione, ma se fosse riuscito ad entrare avrebbe potuto rapirmi e portarmi via con sé, o uccidermi.
Era davvero una buona idea tornare da mio zio? Non era forse il primo posto dove mi avrebbe cercata?
Forse c’era un altro luogo in cui avrei potuto andare: il Collegio della Signora, l’università di magia. Sedici anni era (ed è ancora) l’età minima per iscriversi, dopo un presunto periodo di studio in casa propria con dei precettori o con i propri genitori. Iscrivermi al Collegio della Signora era il mio sogno fin da bambina, l’istituzione esisteva appena da qualche decennio e anche mio padre aveva studiato alchimia al Collegio.
Un’altra opzione, anche se più remota, era arruolarmi nella guardia cittadina. Ma no, non avrebbero accettato una ragazzina sprovvista di addestramento formale, nemmeno se apparteneva alla famiglia Lesmiere. E poi mio zio l’avrebbe saputo prima di subito. Il Collegio restava l’opzione migliore.
Però non potevo certo presentarmi al tramonto per iscrivermi, sicuramente la segreteria non era nemmeno aperta. Avrei dovuto passare la notte da qualche parte…
Erika Lesmiere, sei un vampiro. Di che diamine ti stai preoccupando? La notte è il tuo elemento! Mi riscossi, dandomi uno schiaffetto alle guance con entrambe le mani.

Non mi andava particolarmente di essere fermata per vagabondaggio, quindi mi allacciai il mantello scuro sul collo e sul petto in modo che stesse chiuso e tirai su il cappuccio. Quella notte l’avrei passata a scivolare di ombra in ombra per evitare le milizie cittadine, ma dal giorno dopo avrei avuto un posto dove stare.
Nel frattempo, approfittai delle ombre della notte per assecondare la mia natura di vampira e prosciugai una mezza dozzina di ratti. Erano disgustosi, ma i gatti erano troppo svelti per poterli acchiappare e i cani randagi non sono comuni a Silverymoon. E poi, i cani sono troppo carini, non ce l’avrei fatta.

Il mattino dopo, più o meno rifocillata, mi recai alla segreteria del Collegio della Signora.
Se ci penso ora, a posteriori, mi rendo conto che non dovevo avere un bell’aspetto. Non dormivo da due notti e un giorno, e purtroppo la mia natura di vampiro incompleto mi impone di riposarmi per essere pienamente in forze, come accade ai viventi. Il mio naturale pallore di non morta, unito alle occhiaie date dal sonno, dovevano creare un disegno ben strano sul volto di una sedicenne.
Fu infatti con sguardo perplesso che un giovane segretario accolse il mio ingresso negli uffici pubblici del Collegio.
“Signorina” mi salutò con un cenno del capo quando raggiunsi la sua scrivania. Gli uffici avevano appena aperto e non c’era nessuno a parte noi. “Siete una studentessa? Non ricordo di avervi mai vista.”
La domanda mi prese in contropiede.
“Perché dovrei essere una studentessa?”
“Avete l’aspetto stanco di chi ha passato una settimana sui libri a studiare per l’esame di Abiurazione Avanzata con il tremendo professor Jerkinson, e la sottile espressione di terrore di chi poi si è accorta di aver studiato i tomi sbagliati…” mi sorrise in modo affascinante, per un topo di biblioteca. “Perdonatemi se sono indelicato. Ma siete forse troppo giovane per frequentare già quel corso.”
A dispetto di tutto, la sua battuta mi fece sorridere.
“Non sono ancora una studentessa, ma sono qui per iscrivermi. E veramente sarei più interessata all’alchimia” risposi, cercando di tenermi sulle mie.
“Peggio ancora!” Il giovane uomo sfoggiò un sorriso complice. “Avete l’aria di chi si è preparata per gli esami di ammissione respirando vapori sulfurei per una settimana, e ora è terrorizzata perché teme di farsi esplodere tutto in faccia!”
Anche se ero già pallida, sbiancai ancora di più.
“Esami di ammissione?” Mio padre non mi aveva mai parlato di esami di ammissione.
“Solo per i corsi potenzialmente nocivi per la salute. Ahimé, Alchimia è uno di quelli… ma non temete, nessuno valuterà le vostre conoscenze pregresse, non è detto che dobbiate averne. Valuteranno la vostra capacità di reazione in momenti di pericolo, quanto tempo impiegate a spegnere un fuoco, con quanta velocità vi riparate dietro un banco in caso di esplosione… sapete, è Alchimia. Non vogliono altri incidenti mortali.”
Altri incidenti mortali?” Domandai sollevando un sopracciglio; poi mi ricordai che ufficialmente ero già morta in un laboratorio di alchimia. Due volte. “Oh, tranquillo, ci so fare con gli incidenti mortali!” Sfoderai un sorriso pieno di sicumera.
“Eccellente, una coraggiosa. Allora, questo è il modulo da compilare con le vostre generalità” cominciò a tirar fuori scartoffie da un cassetto, “questa è la carta intestata per scrivere la vostra lettera di presentazione - a meno che non ne abbiate già una - e se avete anche una lettera di raccomandazione da parte di un insegnante o tutore, allegatela al resto della documentazione. Se avete un certificato di nascita occorrerà anche quello, se siete straniera accettiamo anche un’autocertificazione. Se avete frequentato qualche istituto invece…” andò avanti per un po’ a ciarlare di documenti necessari, mettendomi sempre più ansia. Non pensavo che servisse tutta quella roba, e per reperire alcuni di quei documenti avrei dovuto chiedere a mio zio. Una cosa che davvero non volevo fare.
Venne fuori anche un altro problema legato alla mia identità: il mio cognome era quello di una nobile. La quota di iscrizione al Collegio era proporzionale alle possibilità degli studenti, e la nipote di un Barone avrebbe dovuto pagare una retta salata. Solo che io non avevo un soldo, personalmente.
“Ecco, in merito a questo ci sarebbe un problema, signor… ehm…”
“Smith. John Smith, al vostro servizio.”
“Sul serio?” Mi lasciai scappare una risatina. “Sembra il classico nome falso.”
“Sarebbe John Terrence Smith, ma mi piace godere dell’anonimato del nome più comune della regione. Trovo che si adatti bene a uno scribacchino come me” scherzò.
“Avete una nota ironica che non mi sarei aspettata da un burocrate” risposi a tono.
“La burocrazia è essa stessa un gigantesco scherzo, non lo sapete? La burocrazia costringe una giovane donna a dover scartabellare in vecchi documenti per provare la sua identità, e poi le chiede di pagare una retta sostanziosa come premio per lo sforzo fatto. Cosa c’è di più ironico?”
“Vorrei avere il vostro senso dell’umorismo” storsi la bocca in una smorfia. Per fortuna era pieno giorno e i miei canini non erano in vista. “Il problema è che al momento sono in cattivi rapporti con mio zio il Barone, lui non sa nemmeno che mi sto iscrivendo al Collegio, e mai e poi mai vorrebbe pagare la mia retta. Mio padre è recentemente passato a miglior vita a causa di un… ah… problema nel suo laboratorio.”
“Le mie più sentite condoglianze. E nonostante questo volete seguire le sue orme?”
“Più che mai” confermai, convinta. “Lo faccio per onorare la sua memoria. Ma rimane il problema della retta, e se non mi iscrivo al Collegio non avrò nemmeno un posto dove andare. Conoscete un notaio in città che possa ufficializzare la mia eredità? In questo modo disporrei di un poco di fondi e di una proprietà immobiliare da poter vendere o affittare, e non dovrei fare conto sul patrimonio di mio zio.”
Lui congiunse le mani sul tavolo e mi fissò da dietro i suoi occhialetti da segretario.
“Se c’è un vero e proprio testamento, per le leggi di Silverymoon non è necessario un notaio, basta un funzionario generico abilitato dalle autorità cittadine.”
“Un… funzionario generico? Che cos’è?”
“Un nome gentile per indicare un tuttofare della burocrazia. Un funzionario generico si occupa di eredità, registrazioni di atti identitari, compilazione di documenti, registrazione di passaggi di proprietà, matrimoni civili e altre piccolezze in assenza di contestazioni. Si dà il caso che io conosca un buon funzionario che lavora per prezzi modici. Recatevi in via della Passeggiata del Fantasma, dove incrocia la Strada della Luna, prendete la Strada della Luna, dopo pochi passi sulla destra vedrete un edificio di mattoni rossi con una porta gialla. Al piano mediano troverete un ufficio chiamato Casa della Fenice. Se cominciate a vedere signorine vestite in abiti succinti, significa che avete scalato una rampa di troppo.”
“Ah… grazie… suppongo.”
“Gli uffici aprono al tramonto.”
“Come anche quelli del piano superiore?”
“Non vi sto mandando in un luogo dalla reputazione compromessa, giovane signora” John Smith si mise a sistemare delle carte in modo che formassero una pila ordinata. “Ma la Casa della Fenice è un ufficio che rivolge i suoi servigi agli onesti lavoratori, che di giorno non hanno tempo per sistemare i loro affari.”
A quel punto io, che non avevo mai svolto un solo giorno di lavoro in vita mia, mi sentii leggermente in imbarazzo per aver pensato male.
“Mattoni rossi, porta gialla. Chiarissimo. Allora… ci rivedremo quando avrò risolto le mie questioni anagrafiche.”
“Anche prima” bofonchiò lui, in tono un po’ criptico.
Me ne andai con un saluto frettoloso e poco cortese, lasciandolo alle sue carte, visto che lui mi stava lasciando ai miei dubbi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: La sua puttana ***


Capitolo 4: La sua puttana


Mattoni rossi, porta gialla. Mattoni rossi, porta gialla…
Questo pensavo, mentre mi aggiravo lungo la Strada della Luna quella sera. Ricordo benissimo che era il tramonto, la luce del sole calava da ovest e le case gettavano lunghe ombre… ma quelle che riuscivano a essere illuminate dal sole, che dire, sembravano tutte rosse. Quella che cercavo io avrebbe dovuto essere sulla destra, quindi a ovest, e avere la facciata in ombra. Mi fermai davanti a uno stabile con i muri di un profondo color mattone. La porta sembrava gialla.
Non c’era alcuna insegna, né per indicare la Casa della Fenice né per… l’altra attività commerciale… ma un paio di uomini di mezza età s’infilarono nella porta proprio davanti ai miei occhi, calcandosi bene il cappello sulla testa, come se volessero nascondere il viso dietro le falde flosce. Capii di essere nel posto giusto.

La porta si aprì in perfetto silenzio. Davanti a me un corridoio si incuneava in profondità nell’edificio, e questo mi fece ricordare che ai due lati della porta c’erano le vetrine di un panettiere e di una modista. Quindi le scale che cercavo dovevano essere sul retro, o qualcosa del genere.
Il corridoio mi condusse a un cortile interno su cui si affacciavano diversi palazzi. Accanto alla porta d’uscita partiva una scala in legno dall’aria solida e affidabile, con il corrimano in metallo. Salii una rampa. Un balconcino permetteva una breve sosta prima di riprendere le scale, vidi che i due uomini erano già quasi alla fine della seconda rampa. Dovevo salire anch’io? Qual era il piano mediano? Ero un po’ dubbiosa, ma poi mi accorsi che c’era una porta che dava sul balconcino. Era dello stesso colore del muro, come se volesse nascondersi.
Be’, o era la Casa della Fenice, o era lo stanzino dei rifiuti del palazzo. In ogni caso non avevo nulla da perdere.
Bussai alla porta. C’era qualcosa, nel modo in cui la sottile lastra di legno vibrò sotto le mie nocche, che mi fece pensare a una stanzina povera che in inverno doveva diventare una ghiacciaia. Era solo un’impressione, però…
“Avanti, prego” mi invitò una voce maschile da dentro. Una voce che aveva qualcosa di familiare.

“Signor Smith!” Esclamai con sorpresa, appena varcata la soglia.
Lo stesso ragazzo che mi aveva aiutata a orientarmi per l’iscrizione al Collegio si trovava ora davanti a me, dietro un’altra scrivania. Questa era più grande, ma anche molto più ingombra di roba. Intorno a lui lo stanzino scoppiava di scatoloni e faldoni, tutti pieni di carta; c’erano perfino alcuni libri e rotoli di pergamena.
“Buonasera, saer Lesmiere” si alzò in piedi e mi rivolse un leggero inchino, piegando appena il busto. Era il modo corretto per rivolgersi alla nipote di un nobile, eppure mi sembrava fuori luogo.
“Non occorre essere così formale” mi mossi verso di lui - dopotutto mi aveva invitata ad entrare - e presi posto sulla sedia di legno dall’altra parte della scrivania. “Stamattina non mi avete detto che eravate voi il funzionario.”
“Cerco di non portarmi il lavoro dove studio, e vice versa” si spiegò con un sorriso di scuse.
In quel contesto, in un piccolo ufficio che sembrava sul punto di sfondare il pavimento di legno sotto il suo peso, dietro una scrivania enorme e con un paio di grossi occhiali sul naso, aveva un’aria molto più umana e meno intimidatoria.
“Allora in questo momento non devo considerarvi uno studente più anziano?”
“In questo momento sono un funzionario generico, al vostro servizio.” Si spostò un ciuffo di capelli castani dalla fronte, e in quel momento decisi che era davvero carino.
Stavo per chiedergli quanto mi sarebbe costato il suo servizio, quando la piccola porta del suo ufficio si spalancò di botto.
Rea dell’effrazione era una biondina slavata che sembrava più vicina ai trenta che ai venti, avvolta in un manto di profumo al gelsomino di scarsa qualità. La sua forte personalità odorosa assaltò i miei sensi: sapeva di sesso, di fiori, di alcol - l’alcol contenuto nel profumo, ma forse anche alcol che aveva bevuto - di sangue e di malattia.
“Johnny!” Gridò, con un’impostazione melodrammatica. “Oh, Johnny, devi aiutarmi…” praticamente mi scavalcò e si gettò sulla scrivania, piegandosi in avanti come se volesse mettere in mostra il seno. “Il signor Deversh non vuole riconoscere la paternità del suo bambino, Johnny. Ci dev’essere un qualche sistema… medico o magico… per accertare che è suo, e poi costringerlo legalmente a prendersi le sue responsabilità!”
Quell’intrusione mi stava nauseando, mi stava logorando i nervi e mi stava facendo venire sete, tutto insieme. La parte di me che era un vampiro avrebbe preferito afferrare quella donna come il frutto troppo maturo che era, attaccarmi al suo collo e prosciugarla. Non avevo mai bevuto sangue umano, ma la tentazione c’era, oh se c’era. Specialmente quando qualcuno mi stava così vicino.
La parte di me che era un vampiro la stava anche odiando per come anteponeva i suoi stupidi problemi ai miei. Chi diamine credeva di essere?
La sua vita per me appariva come un bruscolino insignificante. Un umano nasce e muore nel giro di pochi decenni, perché credono di essere così importanti? “Levati dai piedi, stupida oca!” La afferrai per un braccio e la strattonai via dalla scrivania, lanciandola verso la porta. Non ero ancora forte come lo sono ora, ma di sicuro ero più forte di quanto il mio fisico lasciasse supporre.
La bionda venne quasi lanciata via e faticò a restare in piedi. Si appoggiò alla parete vicino alla porta; come ho accennato, l’ufficio era piuttosto piccolo.
“Ma come osi…” cominciò a protestare, ma io le tagliai la voce.
“Come osi tu, pensi di potermi passare davanti solo sventolando le tue belle forme?”
“Sono incinta!” Protestò a gran voce.
“Non sei incinta, imbecille, hai un cancro!” Le sbottai in faccia. Non per cattiveria e non per soddisfazione, volevo solo che se ne andasse.
La donna sbiancò di colpo, come se avesse visto un fantasma. Il signor Smith uscì finalmente da dietro la scrivania e corse verso di lei, per sorreggerla prima che svenisse.
“N-non ho… cosa puoi saperne…” balbettò la donna, ma la sola ipotesi l’aveva davvero gettata nel panico. Una cosa che sul momento mi sorprese: era umana, quanto si aspettava di vivere in ogni caso?
“Odette, calmati” lui le prese una mano fra le sue, perché la prostituta non smetteva di tremare. “Non sappiamo se sia vero, non sappiamo niente. Come potrebbe capirlo una ragazzina solo guardandoti? Ma torna da me domattina presto… all’alba. Preparerò degli incantesimi per capire che cos’hai e per guarirti, se ce ne fosse bisogno.”
“I-incantesimi? Ma non posso pagarti, Johnny, gli incantesimi sono costosi…”
“Non per chi li lancia” lui si strinse nelle spalle, mantenendo un atteggiamento calmo che riuscì a tranquillizzare un po’ anche la donna. “Non devi credere alla propaganda dei chierici.”
“Oh… Johnny…” la biondina slavata sbatté le lunghe ciglia, ma l’effetto fu un po’ rovinato dal trucco intorno agli occhi, ormai sciolto dalle lacrime. “Posso ricambiare in qualche modo?”
“Puoi chiedere alla signora Merble di farmi una torta” propose con slancio. “Le serate di lavoro sono lunghe e noiose.”
“Niente… niente di più personale?” Il modo in cui lei lo guardò, bleah, mi diede i brividi.
“Puoi farle scrivere il mio nome sulla torta, magari.” John Smith si passò una mano dietro la testa, dissimulando; ma poi tornò serio, perché aveva capito i messaggi sottintesi che lei gli stava lanciando. “Sai che non amo il contatto fisico.”

Quando finalmente la fastidiosa donna da conio ebbe inforcato la porta, lasciandosi dietro una nube di profumo maleodorante, il mio funzionario di fiducia chiuse l’uscio con un chiavistello e mi rivolse un’occhiata gelida.
“Ma si può sapere che ti passa per la testa? ‘Hai un cancro’? Ti sembra una cosa da dire a una povera donna, così dal nulla?”
“Giusto, meglio non dirglielo, così quando il suo fisico cederà e lei morirà, non saprà nemmeno il motivo” beccai, molto infastidita.
L’uomo si calmò leggermente.
“Ma… dicevi sul serio, allora? Pensi davvero che sia malata? Non l’hai detto solo per cattiveria?”
“Non è che lo penso, signor Smith, io lo so.”
“E come lo sai?”
Dal suo odore, pensai, ma non potevo rispondere in questo modo.
“Ognuno ha i suoi segreti.”
Per qualche secondo regnò un silenzio pesante.
“Molto bene. Vogliamo tornare a parlare della tua pratica legale, dal momento che abbiamo rotto il ghiaccio e ora ci diamo anche del tu?”
Lo fissai dall’alto del mio silenzio algido mentre tornava a sedersi alla sua scrivania, come se non fosse accaduto nulla.
“Quella è la tua puttana?”
Non so perché lo domandai. Lo trovavo carino, è vero, ma niente di più. Forse perché era il primo umano con cui avessi interagito per più di qualche minuto, da quando ero diventata ciò che ero. I vampiri sviluppano presto un senso di possessività verso le persone che gli piacciono, come avrei scoperto a breve.
Rispose alla mia freddezza con uno sguardo di sufficienza. Si appoggiò allo schienale della sua poltrona e fece un gesto aprendo le braccia, come se volesse indicare l’intera stanza.
“La burocrazia è la mia puttana. Ora vogliamo procedere?”

Quella risposta era così sfacciata che mi fece quasi ridere. C’era qualcosa in lui che mi divertiva da matti. Forse era l’idea che qualcuno potesse essere così fiero della sua competenza in un lavoro tanto noioso.
“Benissimo.” Appoggiai la mia borsa sulla scrivania e cominciai a estrarre i documenti che avevo recuperato nel corso della mia fuga. “Ma prima dimmi, è vera quella cosa che detesti il contatto fisico?” Lo chiesi sporgendomi apposta verso di lui, china sulla scrivania. Non avevo - e non ho - un davanzale ben fornito come quello della signorina Odette, però i vampiri hanno una sorta di magnetismo soprannaturale.
Non volevo arrivare fino in fondo, con lui. Non avevo alcuna fretta di toccare un uomo, dopo i miei trascorsi con Yao Taman. Però mi sarebbe piaciuto tormentarlo, farmi desiderare, fargli ammettere che ero meglio della donna che se n’era appena andata.
“Ognuno ha i suoi segreti” replicò John, imitando le mie parole di poco prima.
C’era un sorrisetto incerto sul suo volto che non mi convinceva del tutto. I suoi occhi grigi avevano ceduto, per un attimo, e mi avevano guardata con desiderio. Ma c’era ancora tempo, e in quel momento avevo bisogno di un burocrate, non di un servo da irretire.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: Ciò che ci lasciamo alle spalle ***


Capitolo 5: Ciò che ci lasciamo alle spalle


“Il testamento sembra in ordine, ma dov’è il certificato di morte di tuo padre?” Domandò John, facendosi scorrere fra le mani le pergamene che gli avevo portato.
Ah. Ecco. Un tasto dolente.
“La morte di mio padre non è mai stata ufficialmente riconosciuta” raccontai, e fin qui era vero. “È deceduto in un incidente di laboratorio, ma nessuno lo sa a parte me. Perfino la servitù crede che…” impallidii all’improvviso. La servitù. In teoria avevano il permesso di entrare in casa solo durante il giorno e dormivano nella dépendance durante la notte. Erano al sicuro?
Ragionai freneticamente. La dépendance ufficialmente apparteneva a mio zio. Anche la casa coloniale del Ventesimo Miglio, ma mio padre aveva l’usufrutto, motivo per cui aveva potuto dare il permesso a Yao Taman perché il vampiro potesse entrare. Ma quel permesso non si estendeva alla dépendance, probabilmente. I servitori dovevano essere al sicuro, sempre che non incrociassero Lord Yao all’alba o al tramonto.
“Signorina Lesmiere? Erika?”
La voce di John Smith mi riscosse dai miei pensieri.
“La servitù crede che sia solo malato. Ma ora che anch’io sono sparita, forse controlleranno. Io… non so davvero cosa succederà adesso.”
“Che cosa è capitato esattamente? Perché è stato necessario nascondere la morte di tuo padre?”
Pensai a lungo su come rispondere. Non mi ero preparata un piano. Sicuramente avrebbe capito che gli stavo mentendo, o almeno nascondendo parte della verità, quindi tanto valeva restare sul vago: se avessi dato una risposta dettagliata avrebbe capito che era una totale fola.
“Se la morte di mio padre fosse stata accertata, io sarei ricaduta sotto la patria potestà di mio zio. Ti ho accennato che non siamo in buoni rapporti?”
“Ma sei maggiorenne. Hai più di quindici anni” obiettò.
“Lui è un nobile. Sono maggiorenne, ma nubile. Può disporre di me fino al matrimonio o fino ai miei diciotto anni. È vero che per legge sono libera di fare quello che voglio, ma può diseredarmi se non faccio come vuole.”
“Ed entrare al Collegio della Signora rientra fra le cose che lui vuole? O pensavi di potergli tenere nascosta la tua presenza in città e la morte di tuo padre per due anni?”
“Era…” una scusa patetica “più o meno quello che volevo fare, sì.”
“Cielo” si passò una mano sul viso, come se fosse stanco. “È un piano disperato perfino per una sedicenne.”
“Ehi! Sono legalmente adulta!” Gli ricordai, piccata.
“Sì, e verrai ritenuta responsabile di omissione di testimonianza se la morte di tuo padre non verrà certificata. Comporta una multa di cinquanta monete d’oro, che se ho ben capito non hai.”
“No… è ovvio che devo certificare la morte di mio padre, a questo punto. Non posso avere alcuna eredità se lui è vivo, giusto?”
“Anche questo è vero. Ma se ora compilo il suo certificato di morte, lo dovrò depositare subito all’anagrafe e una copia verrà inviata d’ufficio a tuo zio.”
Ecco, questo era un problema.
“No! Non deve saperlo prima che io sia iscritta al Collegio. Studiare è una nobile occupazione e non potrà obiettare pubblicamente; potrà farmi pressioni in segreto ma non può certo parlare contro un’Istituzione voluta dalla nostra Alta Maga. A quel punto dovrò aspettare i diciotto anni e non potrà rimuovermi dall’asse ereditario a meno che io non faccia qualcosa di davvero disonorevole.”
“Il problema è che per pagare la retta ti serve l’eredità di tuo padre” ricapitolò “ma per avere quell’eredità ti serve il certificato di morte.”
“Non può essere che il certificato arrivi all’anagrafe cittadina ma poi la copia da inviare a mio zio si perda? I disservizi postali possono sempre capitare.”
“Uhm… i funzionari dell’anagrafe non sono corruttibili, se è questo che intendi. Ma i portalettere forse sì. Lascia che ci pensi io.”
“Fantastico! Grazie!” Gli regalai il mio sorriso più affascinante. Senza canini.
“Prima dovrò solo confermare la morte di tuo padre.”
Un brivido mi corse lungo la schiena. “Cosa?”
Si strinse nelle spalle come per indicare che era impotente. “Una testimonianza sola non è sufficiente.”
“Ma sono l’erede!”
“Motivo in più per non fidarsi, avresti tutto da guadagnare a fingere la sua morte.”
“La parola di una nobile non vale niente, dunque?”
“Mi rincresce, ma qui a Silverymoon i nobili non hanno potere politico. Il titolo di Barone poi è poco più che un’onorificenza.”
“Dubiti del mio onore!”
“Applico la legge, invece” ribatté lui. “Certo, potrei scrivere il falso attestando che ho verificato la morte di saer Rebran Lesmiere. La mia parola come funzionario generico vale qualcosa più della tua e non verrebbe messa in discussione. Ma come fidarmi, dal momento che non mi hai raccontato la verità su nulla fino ad ora?”
La sua presa di posizione infranse le mie speranze come un sasso lanciato contro uno specchio. Questo mi metteva davvero nei guai. Che opzioni avevo? Cercare un altro funzionario più compiacente? Ma se avesse parlato? Magari avrebbe cambiato idea sull’aiutarmi se lo avessi minacciato?
Ma no, che idea stupida, era un mago che studiava al Collegio della Signora, non conoscevo le sue capacità, forse aveva perfino poteri clericali visto che aveva promesso alla prostituta di guarirla con la magia. E poi aveva sicuramente un sacco di conoscenze in quell’ambito, era uno studente anziano.
Forse avrei potuto sedurlo? Poco prima aveva reagito con interesse al mio approccio… non avevo mai provato a incantare qualcuno con i miei poteri da vampira ed esitavo a farlo, ma avevo ancora le mie arti femminili che sapevo già usare quando ero viva.
“Mi hai giudicata male” lo guardai con occhioni luminosi, innocenti. “Mio padre è appena morto e sto cercando di sopravvivere in un mondo che lascia poco spazio alle donne. Voglio solo la libertà che dovrebbe essere garantita a tutti i cittadini. Voglio inseguire il mio sogno di diventare un’alchimista come mio padre, anziché obbedire a mio zio e sposare qualche vecchio Contabile per aggiungere un altro pezzo di terra ai possedimenti di famiglia.” La mia espressione desolata doveva essere molto credibile, perché lo vidi tentennare. Era il momento di passare alla fase due: lusingare il suo ego. “Lo so che mi sto muovendo sul filo della legalità e detesto chiedere la complicità di un giovane così ligio al dovere… ma il corso della mia vita dipende da questo” mi alzai dalla mia sedia e girai intorno alla scrivania. Era un po’ presto per sedermi sulle sue ginocchia, quindi poggiai la mano sinistra sulla scrivania accanto alla sua, toccando le sue dita con le mie, con studiata timidezza.
Lui mi lasciò parlare. Le sue dita si flessero e poi si stesero, cercando un contatto più netto con le mie.
“Se riuscissi a iscrivermi al Collegio potremmo vederci spesso. Non so se avremo delle lezioni in comune, ma potremmo vederci nelle pause e sarebbe bellissimo poter parlare con qualcuno che già conosco. Ci terrei davvero tanto a rimanere in contatto con te.” Il modo in cui avevo detto contatto avrebbe dovuto evocargli alla mente la possibilità di contatti più intimi.
John Smith mosse la mano e accarezzò la mia, il palmo contro il mio dorso. Le sue dita scivolarono fino al mio polso, sollevò la mia mano nella sua e poggiò le labbra contro il mio palmo. Il suo tocco era delicato, e non mi disgustò. Pensavo che il tocco di un uomo mi avrebbe schifata, dopo quello che mi era successo, ma lui era così diverso da Yao Taman. Non cercava di prendersi quello che non era suo. I suoi occhi scivolarono nei miei come se stesse cercando di soppesarmi, ma anche di chiedermi il permesso.
“Sono più corruttibile di quello che pensi” mormorò, contro il palmo della mia mano. Le sue dita accarezzavano il mio polso e il mio avambraccio. “Tutto questo potrebbe finire molto bene o molto male, Erika, dipende da quello che farai adesso.”
Le sue parole mi avrebbero fatta arrossire, se il mio sistema circolatorio avesse funzionato ancora come quando ero viva. Mi stava chiedendo di concedermi a lui subito?
“Sembra che tu abbia un problema, mia cara” lasciò andare la mia mano, lentamente, come se stesse posando un giocattolo di porcellana. “Le tue mani sono gelide e non sento alcun battito nel tuo polso.”

Mi bloccai, atterrita. Non mi stava concupendo, mi stava studiando! Mi aveva completamente raggirata, mentre io cercavo di ingannare lui.
Ora conosceva il mio segreto, o almeno lo poteva indovinare.
Che cosa avrei dovuto fare? Quali alternative avevo?
Ucciderlo? Scappare? Negare tutto?
‘Dipende da quello che farai adesso’, aveva detto.
“Teoria interessante. Magari non hai molta sensibilità nelle dita.” Tentai di restare calma.
John Smith sorrise, sicuro di sé.
“Quindi il tuo primo tentativo è continuare con le menzogne. Bene, immagino che ci sia di peggio. Non funziona, prova qualcos’altro.”
Feci un passo indietro, sempre più in angoscia. Sperai che non si notasse troppo.
“Quali scelte mi lasci se non assoggettarti o ucciderti? Io non vorrei fare nessuna delle due cose. Sei stato gentile con me, finora.”
“Oppure vuoi solo tenere un profilo basso, visto dove ti trovi. Perché una come te dovrebbe scegliere di vivere proprio sotto gli occhi di una maga potente come Lady Elué Dualen? In una delle città più sicure e controllate di tutto il nord? Everlund sarebbe una scelta migliore. O più a ovest: a Neverwinter, o a Lus… come si chiama… Illusk. Perfino Waterdeep potrebbe essere una meta da considerare. Silverymoon sembra una pessima scelta per una… non morta?”
Sospirai, anche se non avrei avuto bisogno di respirare.
“Diciamo che ho i miei motivi per essere qui.”
“C'entra qualcosa tuo zio e la sua eredità?”
“Ho un cugino che diventerà Barone alla morte di mio zio. Pensi che sia qui a rischiare la vita solo per soldi? Per un potere sociale alquanto limitato che potrei usare solo rimanendo in questa regione?”
“Allora è chiaro. Stai fuggendo da qualcosa. O da qualcuno.”
“Come potrò mai sopravvivere in questa città se sono così trasparente?” sbattei una mano sul ripiano della scrivania, frustrata. La scrivania scricchiolò.
“Cosa può spaventare qualcuno che è già al di là della morte?”
Non mi andava di raccontargli tutti i fatti miei, ma non aveva senso rivelare la parte più scottante della verità a qualcuno, e non raccontargli i dettagli che avrebbero potuto ammorbidire il suo giudizio. Nella mia storia io ero la vittima, e non avevo ancora fatto del male a nessuno. Se avevo una possibilità di portarlo dalla mia parte, era con la verità.
“Quello che mi sono lasciata alle spalle. Il mio Sire.”
John Smith mi fissò per un lungo momento.
“Penso che tu abbia molto da raccontare. Preparo una tisana, ne vuoi? Puoi bere?”
“Ah… non lo so. Non ho mai provato.” Tornai alla mia sedia e mi ci lasciai cadere sopra. Mi sentivo improvvisamente stanca, la notte stava calando e avrei voluto bere ben altro.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: I nostri segreti ***


Capitolo 6: I nostri segreti


La sedia di legno per i clienti dello studio non era molto comoda, quindi John Smith si alzò per farmi posto sulla sua poltrona da lavoro. Era una cosa che non avevo chiesto, ma apprezzai molto quel gesto di galanteria. Lui nel frattempo stava armeggiando con un bollitore magico in un angolo della stanza.
“Ho del te verde importato da Shou Lung, sempre che ti piaccia il te” mi propose.
Capii che voleva essere gentile offrendomi una bevanda così rara, ma l’idea mi diede il voltastomaco.
“No. Non credo che sentirò il sapore delle bevande, ma odio tutto quello che viene dal continente orientale” lo fermai subito.
Il giovane uomo si girò a guardarmi con aria stupita. “Oh. Va bene. Camomilla sia, allora.”

Qualche minuto dopo avevo fra le mani una tazza fumante di camomilla. Il profumo era gradevole, di fiori. Il sapore, quasi inesistente. Forse è perché sono un vampier, ma ogni liquido che non è sangue ha un sapore blando, annacquato. Non mi disgusta, ma nemmeno mi piace. Il calore sotto le dita però era piacevole, ed ebbe il potere di ricordarmi che non dormivo da troppo tempo.
“Sei stranamente fiducioso per essere un umano al cospetto di una non morta” notai, cercando di strappargli qualche informazione che mi permettesse di farmi un’idea di che tipo fosse.
“So che non intendi uccidermi nei prossimi cinque minuti” affermò con tutta sicurezza.
“Oh? E come lo sai?”
Sorrise. La piega delle sue labbra sembrava cercare la mia complicità, come se entrambi nascondessimo un segreto. “Diciamo che so prevedere il futuro a breve termine.”
“Ma che sciocchezza! Nemmeno io so se voglio ucciderti. Dipenderà dal tuo atteggiamento.”
“Non voglio esserti nemico, a meno che tu non me ne dia motivo” mi assicurò. “Vuoi raccontarmi la tua storia? Solo conoscendo la verità potrò aiutarti con la questione di tuo padre.”

Cominciai a raccontare. Lui non mi interruppe mai, bevve ogni mia parola e si limitò ad annuire, ogni tanto. Una cosa davvero peculiare è che non cambiò mai espressione. Non ebbe reazioni emotive. Era come se stesse ascoltando una storia che aveva già sentito decine di volte, anche se come pensiero non aveva senso - oh, ma in realtà ne aveva, solo che all’epoca non lo sapevo. Ora so che probabilmente il mio racconto sorbì un qualche effetto emotivo su di lui, ma credo che volesse mantenere una facciata impassibile per impressionarmi.
“Ti aiuterò” decise infine, sempre in tono perfettamente calmo. “Non mi sembri una cattiva persona, Erika Lesmiere, ma potresti diventarlo se venissi abbandonata a te stessa. Tu sei un predatore, la tua natura vampirica ti spinge a nutrirti dei viventi, anche di noi umani. Se venissi anche estromessa dalla società, potresti facilmente perdere il contatto con ciò che resta della tua natura umana.”
“E credi che standomi accanto non accadrà?” Abbassai lo sguardo sulla tazza ancora mezza piena che tenevo fra le mani. La camomilla era ormai fredda, come se il contatto con le mie mani avesse prosciugato il calore. “Sei ottimista, o credi che il lavoro di mio padre abbia funzionato in pieno?”
“Questo non lo so. Diciamo che al momento, se ti guardo, vedo ancora una persona. E perfino noi umani possiamo diventare bestie quando ci sentiamo abbandonati. Non voglio correre questo rischio con qualcuno che ha un alto potenziale distruttivo, come te.”
“Alto potenziale distruttivo” sussurrai, ripetendo le sue parole. “E perché mai dovresti aiutarmi, anziché distruggermi e basta? Potresti riferire a qualche mago potente che io sono quello che sono, ed entro domani sarei morta.”
John Terrence Smith mi fissò in silenzio per un lungo momento. Finì di bere la sua camomilla, poi poggiò la tazza sul tavolo con gesti lenti e deliberati.
“Perché so cosa vuol dire essere soli, Erika Lesmiere. So cosa vuol dire essere un mostro, che risucchia la vita altrui. Forse non tutte le creature vampiriche passano attraverso la morte, e non tutte rubano sangue.”
Incatenò il mio sguardo nel suo e lo guidò verso il ripiano della scrivania. La sua mano era ancora intorno alla tazza. Era un oggetto grazioso, di legno levigato, con il manico dipinto di rosso. La pittura fu la prima cosa a creparsi, poi a sfarinarsi e cadere sulla scrivania come cenere. Poco dopo il legno stesso iniziò a creparsi, per poi sbriciolarsi lentamente.
Non gli avevo sentito pronunciare nessun incantesimo, non capivo cosa fosse appena successo. Lo guardai di nuovo negli occhi, boccheggiando.
“Che cosa hai fatto?” Chiesi alla fine, perché non sapevo darmi una spiegazione. “Come hai fatto?”
“Questa è la mia natura, purtroppo” mi spiegò, in tono mortalmente serio. “Io rubo il tempo. Lo faccio senza volerlo, è la mia maledizione. Negli anni ho imparato a controllare il mio potere, ma mi richiede un grande sforzo, una concentrazione continua. E se posso fare questo agli oggetti, riesci a immaginare cosa potrei fare alle persone?”
Sentii un brivido lungo la schiena.
“Hai detto che non ti piace il contatto fisico” ricordai. I pezzi stavano iniziando ad andare al loro posto.
“È la mia maledizione” ripeté. “Mi piace il contatto fisico, ma non mi piace vedere una persona invecchiare in pochi minuti e morire fra le mie braccia. Non sono un assassino, Erika Lesmiere. Non più di te.”
“E non meno di me” sussurrai.
“So cosa vuol dire essere soli” mi ricordò. “Non ho amici intimi, non ho…” arrossì “nessun tipo di intimità con nessuno. Non posso abbassare la guardia o rischio di creare danni irreparabili.”
“Da quanto tempo?” Domandai, spinta da morbosa curiosità. “Da quanto tempo vivi la vita dell’asceta in mezzo alla gente?”
John Smith si alzò e fece due passi nella stanza, mentre - credo - faceva mente locale.
“Sessant’anni, più o meno. Da quando ho inavvertitamente rubato un paio di anni a mia madre e mi sono rifiutato di toccare chiunque.”
Rimasi di nuovo senza parole. Un po’ per l’età, un po’ per l’orrore che immagino avesse provato, accorgendosi di avere tolto un pezzo di vita alla sua stessa madre. Aveva una storia tragica, indovinai, forse quanto la mia.
“Ma ne dimostri…”
“Il tempo che sottraggo si aggiunge alla durata potenziale della mia vita. Perfino il tempo rubato agli oggetti. Sì, dovrei apparire più anziano, ma la mia maledizione ha alterato il mio ciclo vitale. Il mio vero aspetto…” si morse il labbro inferiore, guardandomi con esitazione “era quello di un ragazzino di undici anni. All’inizio non riuscivo a modificarmi. Dopo venti, trent’anni, sembravo ancora un moccioso. Ho dovuto studiare magia con un precettore perché non ammettono bambini al Collegio della Signora. Finalmente ho imparato un incantesimo che rende più veloci i movimenti ma come effetto collaterale invecchia il corpo di un anno. Ripetendo molte volte quell’incantesimo ho ottenuto l’aspetto di un giovane adulto.”
Il suo racconto mi lasciò senza fiato. Quante cose c’erano al mondo che ancora non conoscevo? Oh, mio padre avrebbe adorato conoscere John Smith, e cercare di indagare l’origine della sua maledizione.
“Com’è che sei stato maledetto? Sei stato… morso da un vampiro del tempo?”
John sussultò.
“No, no. Non esiste una cosa simile, almeno non credo. Prima non intendevo dire che sono letteralmente un vampiro. Sono stato travolto da un… chiamiamolo un disastro magico… mentre ero coinvolto mio malgrado in un incantesimo temporale. Avevo undici anni, per questo il mio corpo era fermo a quell’età.”
“E non invecchierai, senza ripetere quell’incantesimo?”
John scosse la testa.
“Allora siamo davvero simili” ragionai. “Entrambi eternamente giovani.”
“Entrambi potenziali assassini” rimarcò.
“Ed entrambi soli. Non è per questo che vuoi aiutarmi?”
“Non ti mentirò, Erika Lesmiere. Darei un braccio pur di avere una persona amica, qualcuno con cui confidarmi senza paura di giudizio, qualcuno con cui passare il tempo senza preoccuparmi di doverci dire addio dopo pochi anni.”
“Qualcuno a cui poterti affezionare” indovinai.
“Sì. A cui affezionarmi senza paura della morte. La sua morte, ovviamente.”
“E magari qualcuno da poter toccare senza ucciderlo” mi spinsi un po’ oltre.
John Smith avvampò come un ragazzino.
“Quando ho usato quell’incantesimo per diventare adulto, io non avevo considerato…” iniziò a balbettare, rosso in viso. “Tutte le… conseguenze. Il mio fisico da ventenne iniziò a mandarmi dei segnali che non avevo mai provato nel mio corpo di bambino, nemmeno se la mia mente era adulta. Ho vissuto gli ultimi dodici anni desiderando ciò che non potevo avere, ma ti assicuro che non è questo a muovere le mie decisioni. Il conforto fisico mi manca, ma mi manca di più quello emotivo. E mi manca da molto più tempo.”
I vampiri sono buoni seduttori, almeno così si dice, ma in quel momento non avevo nessun bisogno di sedurlo. Lui mi stava cercando, e voleva da me soprattutto compagnia. Io non ero pronta a una relazione completa, ed ero felice di non dover battere quel tasto per guadagnarmi la sua alleanza.
“Penso che un amico sia la cosa di cui ho più bisogno anch’io” concordai, ed era la verità. “Qualcuno che mi capisca, che mi aiuti, qualcuno che possa coprire il mio segreto. Io di sicuro non svelerò il tuo.”
John piegò un angolo della bocca in un sorriso amaro.
“Hai in mente un’amicizia molto pragmatica.”
“Non mi hai forse confidato il tuo segreto perché sai che non lo rivelerò a nessuno, nel timore che tu riveli il mio? Dai tempo al nostro rapporto, ti conosco appena. Non puoi forzare un sentimento di lealtà e comunanza. Credo che non ci vorrà molto per diventare amici veri” ipotizzai.
Perché alla fine, nessuno di noi due aveva molta scelta.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: Metterci il cuore ***


Capitolo 7: Metterci il cuore


Terrence fu molto solerte nell’aiutarmi con le pratiche burocratiche. Ah, sì, mi aveva chiesto di chiamarlo Terrence, visto che a quanto pare era il suo vero nome. Tutti gli altri lo chiamavano John, ma io ero stata messa a parte della verità, e anche se era una piccola cosa, a modo suo mi elettrizzava.
In ogni caso grazie a lui nel giro di un paio di giorni riuscii ad essere regolarmente iscritta al Collegio della Signora.
“Primo giorno di lezioni!” Mi salutò Terrence un mattino, accogliendomi all’ingresso dell’ateneo con una tazza di infuso. Accettai, ma solo per salvaguardare la mia immagine pubblica: sapeva di acqua calda ed erbe amare. “Allora, sei emozionata?”
“Sembro emozionata?” Mentii, esibendomi nella mia miglior espressione noncurante.
“Sei arrivata con quasi un’ora di anticipo, quindi sì.”
“Ah” borbottai qualcosa, nascondendomi dietro la tazza di infuso. “No, è che sono stata di nuovo in giro tutta notte. Non ho ancora un posto dove stare.”
“Sono finalmente riuscito a farti assegnare un alloggio, ci sono state difficoltà perché ufficialmente tu potresti risiedere in città presso la tua famiglia” si giustificò. “Ma da stasera potrai accedere a una delle stanze messe a disposizione per gli studenti.”
“Magnifico!” Ero davvero sollevata. “E di te, che mi dici?”
Terrence si strinse nelle spalle.
“Sto per riprendere anch’io a frequentare le lezioni. C’è un nuovo corso di trasmutazione sperimentale che vorrei frequentare, ma non ho tutte le qualifiche, quindi devo sostenere un colloquio privato con il professore e dimostrare le mie competenze.”
In quel momento mi resi conto che, a parte il suo potere bislacco di rubare il tempo, non sapevo granché sulle sue abilità come incantatore.
“Ho fiducia in te” lo incoraggiai, anche se era un commento alla cieca. “E invece la tua puttana? Novità?”
Il mio amico sbuffò e mi scoccò un’occhiata stanca.
“C’è una nuova circolare comunale sui limiti delle autocertificazioni, ma si applica ai documenti anagrafici, non è specifica per le pratiche universitarie. L’ufficio amministrativo sta ancora deliberando su come adattare quella circolare alle questioni interne dell’ateneo, quindi c’è questo clima di incertezza davvero snervante. Non sappiamo ancora se abbia effetto retroattivo, sarebbe un problema, abbiamo già archiviato tutte le pratiche di iscrizione al nuovo semestre.”
Lo fissai per un lungo momento, senza capire. Poi rammentai.
“Non intendo la burocrazia. Parlavo della tua amica bionda.”
“Oh, lei” la sua fronte si spianò, come se stesse passando da un argomento spinoso a uno leggero. “Odette sta molto meglio, avevi ragione su quella cosa del cancro. Farlo regredire non è stato un problema, ora stiamo cercando di capire se si sia sviluppato autonomamente o se sia stato causato da una malattia. Non sarebbe il primo caso di tumore causato da… la professione. Sai, malattie veneree, e tutto il resto. Speriamo che sia così, basterebbe un controllo ogni tanto per guarire la malattia sul nascere. Se invece si è sviluppato spontaneamente, temo prima o poi tornerà.”
“Hm. Gli umani sono fragili e non vivono a lungo” ponderai, cercando di usare un tono di voce che trasmettesse empatia. Avrei voluto che mi importasse davvero, ma la cosa non riusciva proprio ad interessarmi. “Sei un buon amico ad aiutarla gratis.”
“I soldi non mi interessano. Il mio lavoro è più remunerativo del suo, dopotutto.”
“Ah sì?” Questo era interessante. “Ti riferisci al tuo lavoro di funzionario generico, o…?”
Terrence sbuffò una risatina. “No, quello è praticamente un hobby. In realtà porto avanti diversi lavori. Qui al Collegio sono assistente di segreteria, ma questo mi frutta solo uno sconto sulla retta annuale. Poi ogni tanto do ripetizioni agli studenti più giovani, e gestisco un piccolo negozio tramite un prestanome, ma la maggior parte dei miei introiti vengono dalle scommesse.”
“Scommesse?” Ripetei, perplessa, perché non sapevo che fossero legali a Silverymoon.
“Le leggi della città sono lasche e imprecise, proibiscono il gioco d’azzardo istituzionalizzato ma non le scommesse fra privati cittadini. Se conosci le bettole giuste, in una sera puoi fare anche cinquanta o cento monete d’oro. Non posso farlo tutte le sere, è ovvio, e spesso devo cambiare aspetto e identità per non destare sospetti… ma diciamo che almeno una volta al mese uno straniero molto fortunato ripulisce le peggiori bische cittadine.”
“Pff… ahahahah!” Scoppiai a ridere. Era la mia prima risata piena e sincera da quando ero stata trasformata.
“Ehi, ma che ti ridi?” Protestò in tono fintamente offeso.
Forse fu in quel momento che m’innamorai di lui. Per avermi sollevato lo spirito, anche solo per un momento e per una ragione così futile.
“Scusa, eh, ma non sembri proprio il tipo! Sei così serioso, con i tuoi occhiali da bravo ragazzo e quell’aria da topo di biblioteca” spiegai, cercando di giustificarmi con quelli che erano, in un certo senso, altri insulti.
“Ah, be’, questo non è per niente mortificante” si lamentò ancora, calcando la mano in modo melodrammatico. La cosa mi fece solo ridere di più.
“Dai, scusami se ho urtato il tuo amor proprio” concessi, ma non avevo per nulla il tono di chi si sta scusando. “Adesso sarà meglio che vada a lezione, devo capire dove sia l’aula di Fondamenti di Alchimia.”
“Ah, è un corso teorico, quindi sicuramente è al primo piano” mi diede una dritta. “Buono studio” mi salutò con un sorriso, mentre mi allontanavo.
“In bocca al worg per il tuo colloquio!” Gli risposi con altrettanto ottimismo, imboccando il corridoio che portava alle scale.

I primi mesi di università furono davvero un periodo felice, nonostante tutto. Nonostante il timore che Yao Taman fosse ancora là fuori a spadroneggiare nella mia casa di campagna, nonostante mio zio avesse scoperto quasi subito della mia carriera accademica e mi avesse piantato una scenata, nonostante la difficoltà di adeguare i miei ritmi di vampier a una vita da persona normale. Nonostante sentissi la mancanza di mio padre, sempre di più ogni volta che affrontavo un nuovo argomento difficile nel campo dell’alchimia.
Un sacco di volte, davanti a un concetto ostico o un enigma impossibile, mi trovai a pensare ‘devo chiederlo a mio padre’ solo per poi ricordare, come una doccia fredda, che era morto. In quei momenti di malinconia mi ritrovavo a benedire la mia amicizia con Terrence, perché lui era l’unico con cui potessi parlare e anche l’unico a cui sentivo di poter chiedere aiuto. Ed era davvero un aiuto a tutto tondo; che si trattasse di conforto affettivo, o di ripetizioni di concetti base della magia, lui c’era sempre per me. Non era un grande esperto di alchimia, ma studiando sui libri per principianti insieme a me mi aiutò a padroneggiare molti concetti che da sola non avrei capito.
Purtroppo a livello pratico ero un vero disastro.
Ero stata l’apprendista di mio padre, ma studiare davvero, in un contesto accademico, mi rese subito chiaro che le teorie di mio padre e i suoi metodi erano bislacchi, sperimentali, non molto affini all’alchimia classica. Per di più le mie conoscenze erano superficiali, all’epoca mi lasciava svolgere solo i compiti più elementari. Sapevo come far esplodere tutto, questo sì, lo sapevo benissimo; non ero altrettanto ferrata sulla nobile arte di non far esplodere tutto.

“Teeeerry” mi lamentai una sera, affossando la testa fra le braccia e poggiando la fronte contro il ripiano del tavolo. “Sono proprio nei guai!”
A quell’ora c’eravamo solo noi nella sala studenti, che in teoria doveva essere chiusa al pubblico. Noi eravamo sgattaiolati dentro perché Terrence, in quanto aiuto-segretario, sapeva dove trovare le chiavi. Ci stavamo spaccando la testa sui libri, ma inutilmente, almeno da parte mia.
“Non essere così negativa, Erika. D’accordo, non hai ancora afferrato proprio tutti i dettagli, ma siamo qui per studiare. Su, ripetiamo tutto dall’inizio.”
Scossi la testa, pur lasciandola appoggiata al tavolo. “È inutile. Mi sento stupida come una melma paglierina. Anche se ora credo di aver capito, poi mi ritrovo davanti quegli stupidi alambicchi e combino un disastro. Mi hanno detto che se sciolgo un altro calderone mi buttano fuori dal corso. E gli esami di fine semestre sono fra pochi giorni!”
“Trovo altamente probabile che la pressione che senti addosso sia la prima causa del tuo fallimento” suggerì, in tono tranquillo. Era solo un modo arzigogolato per dire ‘sì ma intanto calmati’, che è la cosa più inutile da dire a una persona stressata.
“Sento la pressione perché fallisco, non il contrario!” Sbottai. “Mi vuoi aiutare o pensi di dispensare qualche altra perla di saggezza? Se mi sbattono fuori dal corso di studi, dovrò lasciare il Collegio, e a quel punto mio zio troverà un modo per ricondurmi in seno alla famiglia e sicuramente mi imporrà di sposare qualche ricco idiota.”
“Pressioni su pressioni” sottolineò. “Vedi che non sei stressata solo perché fallisci? È anche la paura delle conseguenze.”
“Questo non mi aiuta…”
“D’accordo, cerchiamo di rimuovere almeno quel motivo di ansia. Posso andare da tuo zio domani e chiedere la tua mano?”
Stavolta sollevai la testa, basita. Lo fissai in silenzio per un lungo momento.
“Sei serio?”
Terrence si strinse nelle spalle. “Sono un uomo agiato, sono un incantatore, ho passato l’esame di qualificazione di funzionario particolare. Potrei cominciare a lavorare al Gran Palazzo domani stesso. Penso che a un proprietario terriero come tuo zio possa far comodo avere un aggancio nell’amministrazione cittadina, posso fargli avere una via preferenziale per buona parte dei bandi di gara. Potrei essergli più utile di un altro nobilotto o di un Contabile con qualche ettaro di terra.”
Mi colpì molto che, alla mia domanda, lui avesse risposto elencando le sue qualifiche, anziché qualcosa di più… personale, come i motivi per cui voleva sposarmi o i motivi per cui io avrei dovuto volere lui.
“E se io non volessi un marito?”
Terrence non fece una piega. “Lo sto proponendo solo per toglierti di dosso le pressioni di tuo zio. Non voglio incastrarti in un’unione che non vuoi, sarebbe solo un legame formale, senza obblighi sentimentali.”
“Che cosa romantica” biascicai. C’era qualcosa nella sua proposta che mi lasciava scossa e turbata. Lui non mi era indifferente, ormai lo avevo capito, anzi si potrebbe dire che ero cotta marcia da mesi. Avrei voluto che mi chiedesse di frequentarci, in modo diverso che come semplici amici. Avrei voluto che mi offrisse la sua compagnia per una passeggiata lungo il fiume, che mi comprasse delle frittelle anche se poi le avrebbe mangiate lui, che mi portasse a vedere i fuochi illusori di Mezzinverno… che mi proponesse di costruire insieme una barchetta di legno per affidarla al fiume all’equinozio di primavera, come le coppie che decidono di affrontare un periodo di prova prima del fidanzamento ufficiale. Invece mi aveva proposto di sposarlo, direttamente, dall’oggi al domani e in modo così asettico. Per amicizia.
“Sei nipote di un barone, ti aspetti che il tuo matrimonio sia celebrato per amore?”
“No, ma è proprio per questo che vorrei non sposarmi. Ho capito che mi stai facendo questa proposta solo per proteggermi, ma per me significa che non hai fiducia in me. Non credi che io possa avere successo negli studi e guadagnarmi la mia indipendenza da mio zio in questo modo.”
Lui mi sorrise, il suo solito sorriso sottile che sembrava un taglio di rasoio sul suo viso, come la smorfia di qualcuno che non è capace di provare gioia fine a se stessa ma deve sempre provare anche qualcos’altro. In quel momento il suo sorriso mi sembrò un po’ calcolatore, un po’ dolce, un po’ condiscendente.
“Fino a un momento fa eri tu a non credere in te stessa. Se ti ho motivata a cambiare idea, ne sono contento.”
Sì, grande, bella scappatoia. Non me la bevvi.
“Ben giocata, ma non mi convincerai che questo fosse il tuo piano fin dall’inizio. Stai solo proteggendo il tuo amor proprio perché ti ho rifiutato” lo punzecchiai.
Si strinse nelle spalle. “È solo un contratto. Non ci ho messo il cuore.”
Ecco. Dritto al punto.
“Questo era chiaro. Ma forse io vorrei davvero sposarmi per amore, se mai dovessi farlo.”
Terrence si fece una sonora risata. “Non farlo. Il matrimonio è uno schifo per le donne, almeno in quest’epoca storica. E le Lande d’Argento sono perfino una regione molto civile, rispetto ad altre culture. Sul serio, fa' che sia la tua ultima spiaggia.”
Mi chiesi cosa intendesse con ‘almeno in quest’epoca storica’. Forse in passato la società era più paritaria e c’era uguaglianza fra i generi. Bella sfiga, per le mie contemporanee.
“E se tu ci avessi messo il cuore, cosa mi avresti chiesto?” Indagai.
“Non di sposarmi, di sicuro” rispose prontamente. “Ti avrei chiesto di venire con me alla Biblioteca della Signora d’Argento per arroccarci nella sezione Abiurazione, costruire un fortino con i sessantasei tomi della Completa Encyclopaedia Arcane di Mongósa e sopportare un assedio dai bibliotecari mentre mi copio tutti i tre volumi di Teoria dei Mythal Oscuri di Nathalanorn con l’incantesimo Amanuensis.”
La risposta mi lasciò esterrefatta. Non era proprio quello che mi aspettavo.
“Be’… è comunque più romantico di un matrimonio” concessi. “Perché vuoi copiare quei libri? La biblioteca non è a consultazione libera, per gli studenti del Collegio?”
“Se ci avessi messo il cuore, ti avrei anche rivelato che quell’edificio verrà bruciato fra quattordici anni. La maggior parte dei libri rari verranno tratti in salvo, ma non tutti.”
Di nuovo mi trovai a fare scena muta.
“Hai intenzione di bruciare la biblioteca?” Chiesi infine, perché era l’unica spiegazione plausibile per una conoscenza del futuro così a lungo termine.
“Non lo farei mai” giurò facendosi un gesto scaramantico all’altezza del petto. “Ma se ci avessi messo il cuore, ti avrei rivelato che sai molte cose di me, ma non sai ancora tutto.”
“E se ci avessi messo il cuore, mi avresti anche detto che cos’è che ancora non so di te?”
Fece un gesto conciliante con la mano. “Probabilmente sì. Ma non mi fido ancora abbastanza per rivelarti tutti i miei segreti.”
“Quanta cattiveria gratuita!” Ero davvero ferita, be’, un pochino. “E io che pensavo che fossimo amici.”
“Ma lo siamo” mi fece una boccaccia. “Adesso pensa a studiare!”
Sfogliai il mio libro di testo tornando indietro di un paio di pagine. Era meglio ripartire dall’inizio del capitolo, visto che avevo già dimenticato quanto avevo letto pochi minuti prima.
“Però facciamolo. Se passo gli esami, festeggiamo con un appuntamento. Andiamo alla Biblioteca della Signora d’Argento e copiamo quei libri di straforo.”
Si esibì in un nuovo sorriso divertito, stavolta un po’ incerto. Non ci credeva nemmeno lui che lo avremmo fatto, ma comunque annuì.
Io invece non avevo più dubbi. Avrei passato gli esami a qualunque costo, perché il mio premio sarebbe stato un appuntamento.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: La prima volta in cui vidi la morte (dopo la mia) ***


Capitolo 8: La prima volta in cui vidi la morte (dopo la mia)


Vorrei davvero non dover raccontare di quella mia prima sessione di esami. Ci sono ricordi che sono dolorosi da affrontare, ma che senso ha tirarsi indietro dopo aver narrato la mia stessa morte? Nulla può essere peggio, no?
, questo è vero. Ma è anche il fulcro del problema.
Per poter spiegare da cosa nasce il mio disagio nel narrare questo evento, devo partire dal principio.

All’epoca, nei miei primi mesi di libertà, mi sembrava di esistere in una specie di terra di mezzo a metà fra la vita e la morte; ero innegabilmente morta, ma la mia esistenza procedeva quasi come se fossi stata viva. Ero una vampier molto più debole di quanto non lo sia adesso, perché il tempo che passa rende i non morti più potenti, più alieni. Non che i secoli abbiano radicalmente mutato la mia natura, ma all’epoca non rischiavo di spaccare una porta bussando, o di soggiogare la mente di qualcuno solo facendogli un sorriso. Ero una sorta di… umana con un qualcosa in più, l’immortalità, e con un qualcosa in meno, le funzioni corporali.
Non mentirò: era una ficata, come dicono i giovani d’oggi. La mia vita - se così posso chiamarla - la mia vita a Silverymoon era una vera ficata. Sì, c’era la preoccupazione per gli esami. C’era il timore che Yao Taman venisse a cercarmi, anche se i mesi passavano e io ero sempre più convinta che mi avesse data per morta. C’era mio zio che rompeva i cosiddetti, ma avevo sedici anni di allenamento nel tenerlo a bada. Dall’altra parte, c’era una quotidianità idilliaca fatta di libertà, studi interessanti e buone compagnie. O meglio, compagnia. Terrence era il mio unico amico, ma mi bastava.
Ricordo che a volte in pausa pranzo andavamo a studiare sulla sponda sud del fiume Rauvin, che oggi è urbanizzata quanto la sponda nord ma all’epoca ospitava solo qualche fattoria e un largo spiazzo per le carovane. C’era un bel prato incolto che digradava verso il fiume a destra e a sinistra del Ponte della Luna, dove oggi ci sono case e negozi. Molti studenti vi si recavano a studiare nelle belle giornate di sole e alcune madri portavano lì le loro nidiate di bambini per farli giocare. Il sole a picco sulla testa mi faceva sentire fiacca e debole, la vicinanza del fiume mi causava una sorta di nausea per l’inquietudine (noi creature vampiriche non andiamo d’accordo con l’acqua corrente), e quindi finivo sempre per addormentarmi, stremata, ma tranquilla che Terrence mi sarebbe rimasto accanto. Lui mi prendeva in giro dicendo che studiare all’aperto per me voleva dire non studiare affatto, ma io ci tenevo a fare quel tipo di cose da persona normale. Mi faceva sentire più umana. Percepivo già una sufficiente distanza dai viventi, provavo fastidio davanti ai loro sciocchi problemi e agli affanni delle loro vite brevi; non volevo che quella distanza aumentasse ancora.
Come nota a margine, avevo fatto pace con l’amica stupida di Terrence, più o meno. La prostituta bionda, che io sia dannata se ricorderò mai il suo nome. Si era messa in testa di essermi grata per averle diagnosticato il cancro con tanta precisione, e non le importava che rispondessi con freddezza ai suoi tentativi di fare amicizia: secondo lei il mio atteggiamento burbero era carino, mi chiamava piccoletta e ogni tanto mi portava del pane fresco o una torta.
Io non…
Boh.
Onestamente non so cosa dire. Era così e basta. Non volevo stare a spiegarle che non potevo mangiare il suo cibo, non potevo certo dire ‘niente di personale, ma io mi nutro di sangue’. Finivo sempre per regalare a qualcun altro le cose che lei mi portava, e se c’è una cosa che ho imparato in quel periodo, è che gli studenti universitari hanno sempre fame.

“Ti senti pronta per gli esami di domani?” Mi chiese Terrence un pomeriggio, a bassa voce perché eravamo in biblioteca.
Quel giorno non eravamo usciti a studiare all’aperto: pioveva, una pioggia leggera e insistente di inizio primavera. Il mythal che governa il clima di Silverymoon mantiene la temperatura mite e protegge la città dal ghiaccio e dalla neve, ma non dalla pioggia.
“Pronta per quanto posso esserlo… boh, diciamo di sì.”
“Brava. Un ultimo ripasso?” Propose, battendo la mano sulla pila di tomi che avevo appena chiuso.
“Ngk!” Mi uscì un verso strozzato davanti a quella prospettiva desolante.
Insomma, una vita quasi del tutto normale.

Il giorno dopo arrivò, perché il tempo è implacabile nel suo procedere sempre in avanti. Pronta o no, eccomi alla mia prima sessione d’esame.
Mi ero impegnata davvero, davvero, davvero a fondo nello studio. Mi ero esercitata. Avevo imparato a padroneggiare l’arte complessa dell’alchimia di base, che consiste soprattutto nel capire le temperature. Può sembrare una cosa sciocca, ma mantenere la giusta temperatura quando si scalda un composto è vitale, come anche accorgersi se una reazione chimica sta causando spontaneamente un surriscaldamento del composto. Questo era il mio grande ostacolo, in realtà: il mio senso del tatto non era completamente affidabile. Non lo è nemmeno ora.
Il problema è che i vampiri non amano il fuoco, eppure non sentono il dolore nello stesso modo in cui lo sentono gli umani. In alcuni casi avevo la sensazione che i miei preparati arrivassero alla temperatura giusta prima di quanto facessero in realtà, quindi restavano troppo freddi, oppure quando dovevano arrivare a temperature molto alte non ero in grado di cogliere la differenza fra ‘è caldo’ e ‘scotta’, perché la sensazione di calore non diventava immediatamente dolore, quindi i miei composti diventavano troppo caldi.
Al giorno d’oggi questi problemi sono superati grazie a invenzioni moderne come i termometri ad alcol, ma cinquecento anni fa eravamo praticamente all’età della pietra sotto questo aspetto: si doveva toccare con mano la superficie esterna del contenitore in cui si stava lavorando, e ricordare a memoria sulla base dell’esperienza che cosa significasse quella sensazione tattile, tenendo conto del materiale del contenitore e del suo spessore. Una caraffa di vetro ovviamente non conduceva il calore nello stesso modo di un calderone in peltro. Un alchimista sviluppava presto un eccellente senso del tatto e un’ancor più eccellente memoria, oppure prima o poi moriva in un tragico incidente.
Io mi ero esercitata. Ancora e ancora e ancora. Avevo anche memorizzato altri dettagli, come il colore e la consistenza e perfino l’odore che i composti da preparare nel corso dell’esame avrebbero dovuto avere. Usare l’olfatto era una mia prerogativa, un mio privilegio, perché un normale umano si sarebbe fritto il cervello se ci avesse provato.
Insomma, per farla breve, in qualche modo riuscii a superare l’esame pratico che era quello che mi preoccupava di più. Non dico che lo superai con voti brillanti, ma almeno era fatta.
C’era un giovanotto che stava sostenendo l’esame nel banco di lavoro accanto al mio. Il suo nome era Francis, lo ricordo perché qualche settimana prima si era presentato facendo il piacione. Era un tipo… né alto né basso, né magro né grasso, né simpatico né antipatico. Ad oggi non lo ricorderei nemmeno, se non fosse per ciò che è successo quel giorno.
Sbagliò qualcosa, e il suo composto arrivò al bollore troppo rapidamente. Era ciò che in gergo viene definito ‘un errore invisibile’, che produce un effetto visivo minimo finché non è troppo tardi. Lui non se ne accorse, e nemmeno io, troppo presa dal mio esame. Non se ne accorse nemmeno l’assistente di laboratorio che ci controllava, perché era uno solo per una decina di studenti. Il composto di Francis era denso al punto giusto, e quando una grossa bolla d’aria causata dall’aumento rapido di temperatura si sviluppò sul fondo e risalì verso l’alto, quel denso acido gli spruzzò in faccia e sulle mani. O almeno, questa fu la ricostruzione dei Maestri. Non mi accorsi del problema finché Francis non cacciò un grido lancinante.
Ho ricordi confusi di quello che accadde in seguito. L’unica immagine che per molto tempo rimase ad aleggiare nella mia mente fu Francis che si girava verso di me, con la faccia mezza sciolta e con il suo unico occhio rimasto, lanciandomi uno sguardo colmo di dolore indicibile e del terrore ancestrale di un mortale che vede arrivare la morte. Nella mia mente quello sguardo è durato secoli, ma in realtà sarà stato meno di un paio di secondi, perché i guaritori non sono riusciti a salvarlo nemmeno con la magia.
Non ricordo cosa accadde in seguito. Immagino che fuggii dal laboratorio, ricordo che a un certo punto mi rintanai in un luogo chiuso, sentire le pareti contro la schiena e contro le braccia mi faceva sentire più al sicuro. L’immagine di Francis che moriva nella paura e nel dolore mi rimbombava nella mente. Mi veniva da vomitare, ma non avevo niente nello stomaco e quindi non potevo. Ero sconvolta, anzi peggio, ero isterica e non sapevo perché. Non era tanto… la morte in sé. Non era nemmeno la faccia sciolta. Gli incidenti capitano, è la prima cosa che ti insegnano nei corsi pratici di magia e alchimia.
Era… la vita che raggiunge la fine. La consapevolezza, e quindi la paura.
Non era la morte. Sono una vampier, sono oltre la morte. Potrei camminare su un mucchio di cadaveri e non m’importerebbe. I cadaveri non mi fanno schifo, sono come oggetti vuoti.
Era il momento della morte. Il momento in cui una persona diventava una cosa. Quella terribile, schiacciante, insopportabile ingiustizia.
Il momento in cui mio padre aveva smesso di essere mio padre, per diventare un cadavere sul pavimento. Il momento - il lunghissimo, terrificante, odioso momento - in cui io avevo sentito la vita scivolare via, e avevo sofferto e avevo avuto paura, una paura folle, che non sarei più esistita come Erika. Quando ero morta sapevo già che mi attendeva la non morte, ma credevo che non sarei stata più io, e comunque è una reazione istintiva per un vivo provare paura mentre il proprio corpo inizia a non reagire più come prima.
Che cosa doveva aver provato Francis… non avevo bisogno di chiedermelo, perché io lo sapevo. Lo sapevo. Che cosa doveva provare ogni uomo, ogni donna, ogni creatura senziente in fin di vita. Quella paura che rende tutti uguali almeno per un momento.

Rimasi a tremare e a piangere in uno sgabuzzino per le scope finché non mi trovò un inserviente, quella sera. Non riuscì a tirarmi fuori. Per qualche momento riuscì a farmi tornare lucida, ma poi mi accorsi che era un vecchio, pensai che presto sarebbe morto anche lui e caddi di nuovo in quel gorgo di paranoia.
Non erano… che odio, non erano sentimenti miei. Non era paura per me stessa. Io ero oltre la morte. Se fossi stata un vampiro vero non me ne sarebbe importato niente, sarei stata immune a questo tipo di reazioni. D’accordo, avevo subito un trauma, e allora? Tutti i vampiri devono essere morti per diventare vampiri, eppure succhiano il sangue fino a uccidere le vittime e non si fanno problemi.
Era di nuovo a causa del composto alchemico di mio padre? Quale tipo di predatore si identifica con le sue potenziali prede e rivive il suo trauma ogni volta che una di esse muore? Perché non ero immune ai colpi bassi della mia stessa mente?
Mi accorsi che l’inserviente se n’era andato e poi era tornato, quando sentii il rumore di qualcosa che viene poggiato a terra. Era una tazza di infuso.
Una maledetta tazza di infuso. La panacea per tutti i mali dello spirito, così credono gli umani. Avrei voluto rovesciarla a terra e gridargli di andarsene, eppure allo stesso tempo quell’atto di inutile gentilezza mi colpì moltissimo. Gli umani fanno sempre di queste cose. Piccoli gesti inutili che vogliono dire soltanto io sono vivo e lo sei anche tu, gesti che dimostrano un desiderio di comunità, di familiarità, gesti che servono solo a mettere una piccola pezza sulla annichilente paura della morte che accompagna ogni loro momento. Che cos’è un atto di gentilezza, se non l’espressione della speranza che qualcun altro ci mostri un giorno la stessa gentilezza? In certe situazioni estreme, un atto gentile può a tutti gli effetti allungarti la vita.
Eppure quel gesto, in tutta la sua sciocca inutilità, riuscì a commuovermi proprio perché era vacuo e umano. Mi stava trattando come un essere umano, in un momento in cui io mi sentivo esattamente così, debole come una di loro. Ma non pensavo di avere diritto a un trattamento da umana, io ero già oltre la morte, non partecipavo alla loro stessa lotta, alla loro stessa paura.
Oppure sì?
Ero davvero oltre la morte? Non potevo forse essere distrutta? Il fuoco di una fornace, un paletto nel cuore, la decapitazione… non mi avrebbero forse uccisa, tutte quelle cose?
“Non voglio morire” sussurrai, prima di potermi fermare.
L’anziano inserviente incrociò il mio sguardo. Nel buio non ero certa del colore dei suoi occhi, ma vi brillò una scintilla di comprensione.
“Nessuno vuole morire, signorina. Su, siete troppo giovane per pensare alla morte.” Mi tese la mano, per invitarmi a uscire.
Troppo giovane? Ah. Mi sarei messa a ridere. Avevo già più esperienza della morte rispetto a lui.
“Uh… è un problema se resto qui un altro po’?” Domandai, recuperando la tazza di infuso dal pavimento.
“Prendetevi il tempo che vi serve, signorina” concesse, con un sospiro. “Ma potreste passarmi quella scopa dietro di voi?”
In quel momento mi resi conto di quanto doveva essere imbarazzante la mia posizione; una studentessa, una nobile, rannicchiata in un ripostiglio delle scope. Eppure non c’era nessun giudizio nella voce del vecchio, come se avesse già visto altri nella mia stessa posizione, innumerevoli volte.

Nei giorni seguenti pensai di cercare quell’uomo per ringraziarlo. Era stato gentile con me, una cosa che non ho mai dato per scontata… ma poi decisi di non farlo. Affezionarsi agli umani è pericoloso: alla fine muoiono, e io non volevo mai più vedere la morte sul volto di qualcun altro, come uno specchio della mia stessa morte.
Nel tempo ho maturato una convinzione: è una fortuna per i non morti, il fatto che di solito si lascino alle spalle la loro psiche umana. Il punto è che non sono - non siamo - molto bravi a guarire dai nostri traumi. I fantasmi ne sanno qualcosa, intrappolati nelle loro ossessioni. Per noi morti, cambiare è così dannatamente difficile. E io mi trovo ancora in questo limbo della mente, dopo più di cinquecento anni; una morta che ha paura di morire, ancora piena di paure umane che però non posso affrontare nel modo in cui lo fanno gli umani. Sono come un malato che non può guarire. Ma una cosa, dagli umani, l’ho imparata: distrazione.
È la panacea che gli umani usano per tutto - insieme alle tisane - per proteggersi la mente da ogni paura: dalla semplice ansia per una scadenza alla più profonda angoscia per la morte. Distrazione, perché quando un problema è inevitabile e irrisolvibile allora tanto vale non pensarci. La loro scusa è che la vita è breve, e va vissuta appieno. La mia scusa è… non lo so. La mia scusa è solo che non voglio che la mia esistenza faccia schifo. Forse è poca cosa, è una motivazione poco nobile, ma è tutto quello che ho.
E forse fu quello, a spingermi ancora di più fra le braccia di Terrence: l'amore è la miglior distrazione, e io avevo bisogno di amare, più di quanto avessi bisogno di essere amata. Mi serviva per riempirmi la mente con qualcosa che non fosse paura. Mi serviva un'ossessione positiva per scongiurarne una negativa.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9: Il mio vero talento ***


Capitolo 9: Il mio vero talento


Terry venne a sapere dell’incidente durante l’esame di alchimia, ma non me la sentivo di raccontargli tutti i dettagli. D’altra parte lui mi chiese soltanto se fossi rimasta coinvolta nell’esplosione, e io dissi di no; era la verità. Non disse una parola sul ragazzo che era morto. Forse non lo conosceva di persona, eppure quel disinteresse mi suonava un po’ strano in un essere umano. Non avrebbe dovuto provare almeno un po’ di empatia? Si era preoccupato per la sua amica bionda quando aveva scoperto che era malata, mentre ora un giovane era morto e non gli importava affatto?
Forse Terrence era uno di quelli che si interessano solo a chi conoscono di persona?
Quella era la mia teoria, all’epoca.
Devo dire che è un po’ la mia teoria anche adesso.
Penso che anche io non mi sarei molto interessata alla vicenda, se non fosse accaduta proprio sotto i miei occhi: gli umani sono come quegli insetti dalla vita brevissima, le effimere, la loro morte non è una cosa inaspettata o strana. In teoria. Se non sono costretta ad esserne testimone.
Forse Terrence ha solo una capacità di astrazione superiore alla mia. Anche a lui gli umani devono apparire come effimere. O forse, dopo aver visto morire sua madre di vecchiaia, ha voluto mettere un muro fra sé e il concetto di mortalità. Era una cosa che potevo capire.

Io forse dovevo cominciare a pensare di mettere un muro fra me e il concetto di alchimia. Era chiaro che non ero molto portata, inoltre avrebbero potuto verificarsi altri incidenti come quello occorso a Francis; ma ancora non mollavo, perché l’alchimia era tutto ciò che mi restava di mio padre. Mi aggrappavo al pensiero che se avesse saputo dei miei studi sarebbe stato fiero di me, così in qualche modo potevo quasi sentirlo ancora vivo.
Comunque, intorno a noi, anche le altre persone stavano mettendo da parte il lutto e stavano andando avanti. La vita al collegio tornò più o meno come prima e la morte di Francis venne… non proprio dimenticata, ma ridimensionata. La sua dipartita divenne un ammonimento per gli altri studenti, per ricordargli di prestare particolare attenzione, e qualche tempo dopo divenne un caso di studio citato anche nei libri di testo. L’ho scoperto per caso, perché per allora avevo già lasciato gli studi, ma questa è un’anticipazione di cui non dovrei ancora parlare.
Tutto tornò più o meno come prima perché gli umani hanno una grande capacità di ripresa, e forse in me era rimasta abbastanza umanità da riuscire a fare altrettanto.
Lo so, è paradossale. Quando si parla dell’umanità delle persone, di solito si intende parlare della loro empatia, eppure anche riconoscere quando un fardello è diventato troppo pesante è una caratteristica che fa parte di ciò che chiamiamo umanità. E alla fine dei conti, in questo frangente quello che definiamo umanamente accettabile è solo l’atto di conformarsi alle aspettative della società sul tempo che un lutto deve durare. Non troppo poco, o hai un cuore di ghiaccio; non troppo, o sei una persona che si approfitta di una tragedia per cercare attenzioni. Era la prima volta in cui la morte di un estraneo mi toccava di persona, essendo stata testimone dei fatti, quindi era la prima volta in cui mi trovavo ad assistere a quello stranissimo fenomeno sociale.
Io ne rimasi turbata un po’ più a lungo dei miei coetanei, forse lo diedi troppo a vedere con i miei musi lunghi e l’aria cupa, e ad un certo punto qualcuno mi tacciò di deviare l’attenzione su me stessa. Non ricordo chi fosse stato. Chissenefrega. Sapevo già che la morte di Francis mi aveva turbato per ragioni personali, e non perché mi importasse di lui, quindi quell’accusa non mi scompose. C'era un fondo di verità.
Ma comunque non volevo attirare l'attenzione su me stessa, quindi i miei silenzi cupi si trasformarono in silenzi menefreghisti, come erano sempre stati prima di allora. Nessuno mi disse più niente.

Terry pensava che sbagliassi a interessarmi ai commenti della gente. Secondo lui non valevano la mia attenzione. Credo che avesse ragione, ma cercate di capire, avevo sedici anni. Anche se ero una non morta, certe immaturità sono dure a morire, e io non avevo grande esperienza della vita in società. Non aspiravo a essere popolare, ma non volevo nemmeno essere quella strana, e soprattutto ero terrorizzata all’idea che qualcuno si accorgesse che non ero umana; quindi davo molta importanza all’esempio dei miei coetanei, ai loro discorsi. Credevo potessero fornirmi informazioni su che cosa fosse la normalità, e su come rientrarci.
Terry se ne infischiava bellamente, ma sapevo da quanto mi aveva detto che lui aveva almeno sessant’anni, e forse di più, quindi aveva già un’altra testa rispetto a me. E meno male: i suoi consigli si stavano rivelando utili, su più fronti.
Per esempio, mio zio il Barone non prese bene il fatto che avessi superato gli esami. Non poteva muovermi critiche apertamente e non poteva neanche costringermi a lasciare il collegio, ma sentivo la sua pressione psicologica. La sentivo nelle sue lettere fintamente cortesi, nelle sue congratulazioni false che celavano insulti tesi a minare la mia autostima. Parole sgradevoli come 'Le mie più vive congratulazioni, cara nipote, alla luce di quanto debba essere stato impegnativo per te questo semestre di studi; so bene quanto poco sei portata per la carriera accademica, il fatto che tu abbia la perseveranza di andare contro la tua natura ti fa onore. Attendo tue notizie quando ti renderai conto che l'impegno che hai preso è troppo gravoso per te. Ricorda che hai una famiglia da cui puoi tornare.'
E la cosa mi rendeva furiosa. Io non avevo mai detto di voler abbandonare la famiglia (per quanto in realtà volessi farlo, per evitare che lui prendesse decisioni sulla mia vita e anche perché temevo che qualcuno si accorgesse del piccolo dettaglio che ero morta); lui mi stava sostanzialmente dicendo che finché ero iscritta al Collegio della Signora non potevo considerarmi parte della famiglia.
Avevo sempre avuto il sentore che mio zio considerasse il mio ramo della famiglia come qualcosa di cui disporre a piacimento, uno strumento, e uno neanche troppo utile. Aveva voluto che crescessi sotto la sua supervisione per poter fare un qualche uso almeno di me, dandomi in sposa a chi voleva lui. Considerava il mio vecchio al pari di uno sfaccendato, un sognatore perditempo, e quando aveva saputo della morte di mio padre e di mio fratello aveva sfoggiato un lutto che era soprattutto di facciata. Si era un po’ angosciato solo per il fatto che entrambi fossero stati seppelliti in campagna (mio fratello con un vero funerale, mio padre di nascosto in piena notte, ma questo non lo sapeva nessuno, avevo detto a mio zio che anche per mio padre c'era stato un funerale); sì, per mio zio la più grande preoccupazione era stata che cosa avrebbero pensato i suoi pari dell'alta società, se avessero saputo che dei membri della famiglia Lesmiere avevano ricevuto uno spoglio funerale di campagna?
In poche parole, lo detestavo. Non riuscivo a considerarlo un membro della mia famiglia. I nostri rapporti erano perfino peggiori di quando vivevo presso di lui.
C'era una sola persona in tutto il mondo che odiassi più di mio zio, e di quella persona non sapevo nulla da più di sei mesi. Forse non è nemmeno giusto definirlo una persona. Che ne era stato di Yao Taman? Aveva davvero creduto alla messinscena della mia morte?

C'è un breve periodo di riposo tra la fine degli esami e l'inizio del nuovo semestre di lezioni, e per me quella manciata di giorni sembrava fatta apposta per darmi il tempo di rivivere tutti quei pensieri che mi mettevano angoscia. Avrei dovuto usare quella parentesi di vacanza per rilassarmi, ma forse quelli come me non hanno bisogno di riposare. Forse quelli come me hanno bisogno solo di tenere la mente impegnata.
Fu Terrence, come al solito, a fornirmi qualcos'altro a cui pensare. Si era offerto di nuovo di andare a indagare alla tenuta del Ventesimo Miglio, per capire se il vampiro fosse ancora in zona, ma di nuovo io avevo rifiutato. La sola idea mi soffocava di paura. In quel momento non avevo bisogno di affrontare i miei problemi, avevo solo bisogno di continuare a fuggire. E lui mi permise di fuggire. Mi consentì di stare al suo fianco per tutto il tempo, mentre lavorava, mentre studiava, mentre praticava magia per esercitarsi. Era la prima volta che vedevo un mago all'opera. Era una cosa incredibilmente affascinante.
In realtà non sono nemmeno sicura che fosse un mago. Lo vedevo spesso studiare, ma non sempre su libri di magia. A volte si procurava libri sulla storia della magia, che citavano antichi incantesimi soltanto di sfuggita, usando nomi antichi oppure descrivendo grossolanamente i loro effetti. Terry si annotava su un quaderno tutti quegli incantesimi, come se avesse avuto l'intenzione di ricercarli il seguito, e poi li metteva da parte dicendo che se ne sarebbe occupato in futuro. Era uno strano modo di studiare. Altre volte invece lo vedevo studiare le leggende che parlavano di eroi e di santi, poi andava nei templi e si procurava pergamene di incantesimi divini. Anche se in teoria non avrebbe dovuto essere possibile, riusciva a imparare a lanciare quegli incantesimi che dovrebbero poter essere concessi solo ai preti, da parte della loro divinità. In tutto questo, non gli vedevo quasi mai studiare grimori di magia. Solo una volta siamo andati a studiare all'aperto insieme a un suo collega del corso di trasmutazione. Era una persona piuttosto sgradevole e non capivo perché Terry ci tenesse a studiare in sua compagnia.
Innanzitutto, mi fu subito chiaro che più che un collega era un rivale. Solo cinque studenti partecipavano a quel corso di trasmutazione sperimentale, e Terrence mi aveva rivelato che gli altri quattro erano in lizza per la posizione di Primo Allievo. Secondo lui era una cosa senza senso, perché tutti si sarebbero comunque diplomati, che importanza aveva decidere chi fosse il migliore della classe? Che importanza aveva ottenere il voto più alto? Lui si era chiamato fuori da quella competizione ma apparentemente gli altri non ci credevano.
Il collega di Terrence si esibì in diversi incantesimi, mutando forma egli stesso a piacimento. Terry non provò nemmeno ad imitarlo, gli fece i complimenti per la posa perfetta delle sue mani e per la precisione con cui scandiva le parole, e prese un sacco di appunti sul suo taccuino. Alla fine, il giovane mago raccolse un bastoncino rinsecchito da terra, pronunciò una formula magica e lo trasformò in un fiore, che mi porse in dono.
Che faccia da schiaffi.
Con Terrence proprio . Va bene, non era il mio ragazzo, ma mi aveva invitata lui ad assistere alle loro esercitazioni, era implicito che io fossi… associata a lui, per così dire.
La sua sfacciataggine ebbe il potere di ricordarmi che io e Terry non eravamo una coppia, eravamo solo due persone che stavano in piedi fianco a fianco su un prato sulla sponda sud del fiume. Non eravamo niente. Non eravamo niente ed era così palese che perfino un brufoloso signor nessuno si permetteva di flirtare con me davanti al mio amico.
Osservai il fiore che mi veniva porto, con occhi di brace. Ero quasi sorpresa che non avesse ancora preso fuoco.
“Affascinante!” Intervenne Terry, spezzando la tensione. “Erika, prendilo, guarda com’è perfetto! Può sembrare un incantesimo da nulla, ma in realtà è estremamente difficile. La materia inerte risponde meno bene alla magia, rispetto alle creature viventi. Winddrivver ha già padroneggiato incantesimi avanzati, e senza alcuna difficoltà!”
Guardai Terrence di sbieco. Lui non era tipo da leccare i piedi a qualcuno, non ne aveva motivo, quindi o stava portando avanti una sceneggiata per qualche ragione, oppure era davvero colpito dai progressi del collega.
Sembrava che nel suo animo non ci fosse posto per l’invidia, e lo ammirai ancora di più per questo.
“Che capolavoro. Grazie, Winddrivver” mi sforzai di sorridere, prendendo il fiore che mi veniva porto.
“Le fanciulle possono chiamarmi Fred” mi rivolse un accenno di inchino e ammiccò.
Il sangue mi andò alla testa (per la rabbia), o l’avrebbe fatto se avessi goduto di una circolazione normale. Fanciulla all’epoca era una parola che indicava una ragazza giovane, ma una vergine in particolare. Era una parola accettabile all’interno di una famiglia - mio zio mi chiamava così - ma se pronunciata da un estraneo si sentiva il peso del suo connotato sessuale, ed era molto inappropriato.
“Allora vi chiamerò Winddrivver” risposi, con una nota di gelo nella voce. Non ero più vergine, dopotutto, e la sua scostumata confidenza me lo aveva ricordato. Senza volerlo, strinsi il gambo del fiore con più forza, e sentii la mia rabbia diventare qualcos’altro. Energia. Una specie di onda di energia mi stava accarezzando la schiena, confortante come la mano di un genitore che ti sostiene mentre impari a camminare. Non so perché, ma fu proprio quella l’associazione mentale che mi venne spontanea. Era una sensazione così giusta, come riscoprire una parte di me che non vedevo da molto tempo. Ma non feci in tempo ad analizzare tutte quelle strane sensazioni, perché l’energia si concentrò nella mia mano destra e il fiore, già bistrattato dalla mia stretta, avvizzì all’improvviso.
Terrence e il tizio chiamato Winddrivver guardarono il fiore secco per un momento, con lo stesso interesse scientifico.
“Magia?” Sussurrò il trasmutatore.
“Così parrebbe. Necromanzia, forse.”
“Smith, ma non avevi detto che la tua amica era solo un’alchimista?”
“Ehi!” Sbottai, offesa. “Che diavolo vuol dire ‘solo un’alchimista’?
“Non badarci” Terry agitò una mano, con noncuranza “voleva dire che gli alchimisti di solito non hanno poteri magici propri, creano portenti attraverso la loro scienza.”
“E non mi sembra una cosa da poco” insistetti, puntando le mani contro i fianchi. “Gli alchimisti sono pionieri, i maghi studiano solo roba già studiata da altri…”
“Be’, almeno studiano” ribatté Winddrivver, chiaramente punto sul vivo. “Io direi che avete la vocazione dello stregone, se veicolate così facilmente energie magiche senza aver mai studiato… la magia”.
Aveva lasciato una pausa un po’ troppo lunga dopo ‘mai studiato’, credo per provocarmi. Lo sa il cielo se gli alchimisti non devono studiare, non meno dei maghi.
“Non mi interessa se ho la vocazione dello stregone o della portinaia, io sono un’alchimista!” Ripetei, mettendo un punto alla discussione. “E forse non vi farebbe male andare a prendere lezioni da qualche stregone, mi risulta che loro abbiano un sacco di successo con le ragazze.”
Detto questo mi voltai e me ne andai per la mia strada, lasciandoli lì. Terry sapeva dove trovarmi, alla bisogna, ma in quel momento non avevo voglia di parlare con nessuno.
Passato quel breve momento in cui avevo sentito sorgere l’energia magica dentro di me, mi riusciva difficile richiamare alla mente la sensazione esatta. Era stato un caso? Un evento eccezionale destinato a non ripetersi? Era davvero magia, o aveva a che fare con la mia natura vampirica? Non lo sapevo, ma la cosa mi faceva un po’ paura.
Un po’, anche, mi esaltava.
Infilai il fiore morto nella mia borsa, intenzionata a studiarlo per bene, più tardi.

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