Non avere paura

di Robin Nightingale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alba ***
Capitolo 2: *** Mattino ***
Capitolo 3: *** Tramonto ***



Capitolo 1
*** Alba ***


Alba


Sono passati quasi due anni dalla guerra sacra contro Ade, da quando abbiamo appeso le armature al chiodo e abbiamo cominciato le nostre vite come ragazzi normali. Dapprima ci siamo ritrovati tutti sotto lo stesso tetto, a Villa Kido, fino a quando Seiya non si è svegliato dal coma. Io, Shun, Shiryu, la signorina Saori, persino Ikki e Tatsumi. Quando Seiya è tornato tra noi abbiamo vissuto insieme per circa tre mesi. Era bello trovarsi tutti insieme, mangiare insieme, uscire insieme, litigare per mezz’ora per decidere quale film vedere in televisione e andare a letto tardi. Eravamo una famiglia. Poi, un giorno, Ikki è scomparso senza lasciare traccia, come al solito, e da lì le cose cominciarono a sgretolarsi. Piano piano ognuno intraprese la sua strada, persino Atena aveva deciso di andar via, di tornare in Grecia per ricostruire il Santuario. Nessuno di noi ha mai capito il perché, dato che non vi era più alcun dio da combattere. Naturalmente Tatsumi la seguì; vederlo chiudersi alle spalle il cancello di Villa Kido, forse per sempre, lasciò dentro di noi uno strano vuoto. Incredibile ma vero, abbiamo sentito la sua mancanza. Dopo qualche giorno anche Seiya decise di andar via. In fondo lui una casa l’ha sempre avuta, e questa volta c’era la sua amata sorella ad aspettarlo. Poi venne il turno di Shiryu. Sia io che Shun ci siamo sempre chiesti perché ci aveva messo così tanto ad andare via, come se non sapesse che Shunrei lo stesse aspettando. Da quel che so, lei è incinta adesso.
Infine arrivò il mio di turno. Mi dispiaceva lasciare Shun da solo, ma le mura di quella villa cominciavano a starmi strette, avevo bisogno di allontanarmi da quel posto, da qualsiasi cosa avesse a che fare con il mio passato. Inizialmente pensai di ritornare in Siberia, ma mi sarei sentito peggio, proprio ciò di cui non avevo bisogno. Così ho affittato un appartamento appena fuori Tokyo, un bilocale fatiscente che solo un poveraccio come me poteva farsi andare bene. La porta di servizio è difettosa, l’acqua manca un giorno sì e l’altro pure; quando sono arrivato c’era un buco sulla parete della cucina, che il padrone di casa ha provveduto subito a riparare, e camera mia è talmente piccola che a stento ci entrano il letto e l’armadio. Tutto il condominio è in condizioni pietose ad essere onesti: l’ascensore è guasto da più di un anno, le mattonelle del pianerottolo sono quasi tutte rotte, e credo che, al secondo piano, il cane dell’inquilina che abita nell’appartamento sotto al mio, abbia fatto pipì sul muro. Sono passati dei giorni e la macchia è ancora lì, così come l’odore, ma sembra che a nessuno importi.
È l’alba e sono appena tornato da lavoro. Faccio il barista in una discoteca, adesso. Non proprio la fine che mi aspettavo, ma in mancanza d’altro… chissà perché ero convito che la mia vita di prima sarebbe durata per sempre. È quel genere di cose a cui non dai molto peso, soprattutto quando hai quattordici anni, soprattutto quando ti dicono che sei nato per servire la giustizia, che sei un predestinato, e non c’è niente che tu possa fare per cambiarlo. Pensi che le cose non possano andare in maniera diversa da come sono già state scritte, ma ti sbagli. Su molte cose mi sbagliavo. Credo che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato che un giorno, di punto in bianco, la nostra vita sarebbe stata la stessa di molti altri nostri coetanei. Abbiamo impiegato un po’ prima di abituarci, gli altri sicuramente hanno fatto prima di me, specialmente Shun. Piano piano li ho visti far pace con la loro nuova condizione, godersi la vita, come è giusto che sia. A un certo punto ho avuto come l’impressione che si fossero buttati il passato alle spalle, e li ho invidiati per questo. Io non ci sono ancora riuscito.
Quando ero cavaliere ho sempre desiderato essere normale, ma ora che lo sono mi sembra di vivere in una sorta di limbo, in bilico tra passato e presente, incapace di lasciare andare e abituarmi alla mia nuova vita. Ma come posso riuscirci? Non posso. La verità è che non ci si può abituare, non dopo tutto quello che ho perso.
Barcollo, sono di nuovo ubriaco, ormai sta diventando un’abitudine tornare a casa in questo stato. Prendo le chiavi dell’appartamento, le giro nella toppa, devo fare un po’ di forza per via della serratura difettosa, e per di più, nello stato in cui sono, a malapena capisco dove mi trovo e cosa sto facendo. Con una spallata riesco ad aprire ed entro in casa senza accendere la luce. Mi gira le testa e a tentoni mi dirigo verso il bagno, so che tutto questo passerà non appena avrò vomitato anche l’anima nel gabinetto. Una bella dormita e tutto tornerà normale, mi dico ogni volta. La smetterò di vedere i miei fantasmi, ma non è così. Vomito quell’intruglio di gin e vodka che mi sono preparato e mi accascio sul pavimento con le spalle al muro. Guardo il soffitto, la luce va ad intermittenza da almeno una settimana, ma non mi sono ancora deciso a cambiarla. Chiudo gli occhi e faccio dei respiri profondi, in attesa che il battito ritorni regolare, ma non appena lo faccio, ecco che gli occhi blu di Camus ricompaiono nella mia testa. Lo so che mi stai guardando, lo so che vorresti vedermi andare avanti, ma non posso. Spiegami come fare, io non riesco. Non ho più la forza. E smettila di tormentarmi! Lo caccio via dai miei pensieri scuotendo la testa, poi mi alzo e mi giro verso lo specchio. È lì di fronte a me, mi sta fissando. Sorride.
Ho cominciato ad avere visioni di questo genere a Villa Kido, ma non ne ho mai fatto parola con nessuno. Cosa avrei dovuto dire? Mi sciacquo il viso velocemente per non sprecare troppa acqua, guardo di nuovo lo specchio e lui è ancora là.
Perché sorridi? Dovresti guardarmi con disprezzo, dovresti disapprovare tutto ciò, no? Non risponde. Non lo fa mai, perché mi ostino a fargli sempre le stesse domande?
Barcollando esco dal bagno e mi dirigo in cucina, verso il divano, per questa sera dormirò lì, anche perché non ho la forza di trascinarmi fino in camera da letto. Mi ci lascio cadere pesantemente e spero di addormentarmi al più presto. Quando dormo è l’unico momento della giornata in cui mi sento tranquillo.
C’è silenzio e l’unica cosa che lo spezza è il ticchettio delle lancette dell’orologio. Provo a chiudere gli occhi ma la sbornia non è ancora passata, devo vomitare ancora. Mi alzo ed è lì che la vedo, mia madre, accanto ai fornelli. È di spalle e canticchia un motivetto, lo stesso che mi cantava da piccolo per farmi addormentare. È una famosa ballata russa di cui non ricordo il nome. Nell’aria c’è odore di biscotti. Cioccolato e cannella, i miei preferiti. Te lo ricordi ancora? Dal sorriso che mi fa deduco di sì. Anche lei non parla come Camus, ma non importa, vederla mi dà sollievo, anche se è solo frutto della mia immaginazione. Inizialmente pensavo fosse colpa dell’alcol, poi mi sono reso conto di vederli anche da sobrio.
Anche quando ero piccolo mi preparavi i biscotti a colazione, te lo ricordi, mamma? Sorride ancora, non so perché quel gesto mi rende  così felice. Nelle ultime settimane mi sono chiesto sempre più spesso come sarebbe stata la mia vita se mamma non fosse morta, sarei diventato comunque un cavaliere? Forse no. Come sarebbe la mia vita se Camus fosse ancora qui con me? Forse saremmo entrambi in Siberia. O forse saremmo tutti e tre insieme come una vera famiglia.
Mamma, ti piacerebbe se venisse a vivere con noi? Io, te e Camus? A quella domanda ride contenta, il suo sorriso è proprio come me lo ricordavo, caldo, accogliente e genuino. Camus mi si siede accanto, anche a lui non sembra dispiacergli l’idea. Se non mi sentissi così male potrei anche gioire di questo magnifico quadretto famigliare, ovvero ciò che desidero di più al mondo, riavere la mia famiglia indietro. Due lacrime rigano il mio volto, se solo ci fosse un modo… un modo per riportarvi indietro da me.

- Non avere paura – dice d’improvviso mia madre, indicando con gli occhi il centrotavola. È la prima volta che la sento parlare. Alzo gli occhi stupito, prima su di lei e poi sul centrotavola. All’interno vi sono delle pesche, le ho comprate ieri al supermercato. Perché l’ho fatto? Io sono allergico alle pesche, un solo morso mi causerebbe uno shock anafilattico. E smettetela di ridere, voi due! Non siete divertenti! No, sono io che devo smetterla. Devo smetterla di parlare da solo, con voi, devo smetterla di vedervi in giro per casa.
La testa mi gira forte, sento il vomito risalire, non farò mai in tempo ad arrivare in bagno. Mi alzo ma le vertigini mi costringono a rimettermi seduto. Porto entrambe le mani sulla testa, come se questo potesse servire a farla smettere di girare. Un attimo dopo mi ritrovo sul pavimento a vomitare. Stavolta butto fuori tutto e stravolto mi accascio nuovamente sul divano, finalmente da solo.

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Capitolo 2
*** Mattino ***


Mattino


Mi sveglio bruscamente a causa del continuo abbaiare del cane dell’inquilina al piano di sotto, che come ogni mattina mi fa da sveglia non richiesta. Sono le otto e mezza, ho dormito solo quattro ore e sono stanco e indolenzito, mi è venuto il torcicollo stando tutta la notte sul divano. Anche questa mattina ho saltato la colazione. Non ho fame, e il solo pensiero di dovermi mettere a cucinare, prendere piatti e bicchieri e doverli poi lavare mi mette angoscia, inoltre non ho nulla in frigo, a parte qualche scatoletta di tonno, della salsa di soia, dell’acqua e una bottiglia di birra. Mi sono alzato controvoglia, ho fatto una doccia veloce e mi sono messo addosso la prima maglietta e il primo paio di jeans puliti che ho trovato, poco importa se non sono stirati. Poi ho preso uno spazzolone e un secchio d’acqua per pulire meglio ciò che ho combinato in cucina qualche ora prima. Ero partito con tutte le buone intenzioni, ma dopo cinque minuti ho cominciato a sentirmi stanco, quasi privo di forze, e ho deciso di lasciar perdere. Annoiato e con il volto appoggiato sulla punta del bastone, guardo fuori dalla finestra, attraverso le veneziane bianche d’alluminio che ho tenuto ancora abbassate, poiché la luce mi dà fastidio, ultimamente. Il mio non è un quartiere movimentato e non passano molte macchine, se non altro questo posto ha un suo lato positivo. L’inquilina del piano di sotto esce con il suo cane al guinzaglio, un chihuahua marroncino con indosso un giubbottino dalla fantasia scozzese. Fuori fa freddo, la neve che è caduta in questi giorni non si è ancora sciolta, la donna indossa un pesante piumino color tortora, degli stivali neri, e una sciarpa che quasi le nasconde il viso. In mano porta un ombrello e un trolley per la spesa, e mi ricorda che anche io dovrei fare un po’ di rifornimento. Al solo pensiero sento l’ansia impadronirsi di me nuovamente. Uscire, vedere persone, anche se sconosciute, doverci parlare…tutto ciò mi mette a disagio, è per questo che ormai esco solo in caso di estrema necessità. Il momento peggiore della giornata è sicuramente quando devo andare al lavoro, là non posso fare a meno di stare a contatto con le persone, ma bastano due, tre bicchieri e riesco a risolvere la situazione. Forse è per questo che ho iniziato a bere, e forse è per questo che non riesco a smettere.
Comunque sia, devo uscire se non voglio morire di fame. Oggi potrei optare per del cibo da asporto, così non dovrò cucinare. Lascio lo spazzolone appoggiato al tavolo, mi infilo il giubbotto, prendo le chiavi e dopo aver fatto due respiri profondi esco di casa. Dalla tasca del giubbotto tiro fuori il berretto di lana, tiro su la cerniera della giacca fin sopra al mento, ma non per il freddo, semplicemente non mi va che qualcuno mi riconosca e mi fermi a parlare. Scendo le scale velocemente ed esco dal palazzo, l’entrata è ancora ricoperta di neve, nessuno si è ancora preso la briga di spalarla via, su di essa vi sono le impronte dei vari condomini che sono entrati e usciti, più quelle del cane, e ora anche le mie. Svolto a destra e mi dirigo verso il centro di Saitama, la città in cui mi sono trasferito, ho deciso che per oggi mi farò andare bene del ramen istantaneo, per cui mi incammino verso il primo combini che mi capita a tiro. Mentre cammino, assorto nei miei opprimenti pensieri, sento il telefonino squillare nella tasca destra dei jeans. Sarà Shun. È un mese che non mi faccio sentire, sarà in pensiero. No, perché dovrebbe preoccuparsi per me? Da quando si è iscritto all’università è come se fosse sparito nel nulla, divorato da quei mattoni di anatomia che tanto lo affascinano, ormai anche lui mi sembra del tutto irraggiungibile. Mi chiedo, ormai sempre più spesso, se a legarci non fosse solo la nostra condizione di cavalieri, la nostra fede in Atena. Il nostro rapporto è cresciuto battaglia dopo battaglia, diventando via via sempre più forte, ma ora che non siamo niente più che dei semplici ragazzi, adesso che Atena non c’è, che ne è stato del nostro legame? Non sento Seiya da mesi, ho persino dimenticato il compleanno di Shiryu e adesso ho perso i contatti anche con Shun. Davvero Atena era l’unica cosa che avevamo in comune? Ammetto che non è facile avere a che fare con me: non è piacevole trascinarsi dietro qualcuno che non sorride mai, non parla mai, si estranea completamente da tutto e tutti per rifugiarsi nei suoi tristi ricordi, ma al di là di questo, non eravamo come fratelli? Anzi, ora che ci penso, in qualche modo lo siamo. Forse anche questo era scritto nel nostro destino: gli dèi hanno voluto che combattessimo fianco a fianco per il bene del mondo, sono stati loro a far sì che ci incontrassimo e con molta probabilità sono sempre loro ad aver voluto che ci separassimo.
Lascio squillare il telefono, in fondo non ho tanta voglia di parlare. Entro nel combini, ignoro la commessa, che caldamente mi dà il benvenuto, e a passo svelto mi dirigo verso il ramen. Carne, verdure, pollo, addirittura al kimchi… ho solo l’imbarazzo della scelta. Ne prendo uno a caso, senza nemmeno leggere l’etichetta, mentre il telefono riprende a suonare, ma io continuo ad ignorarlo. Già che ci sono prendo anche due bottiglie d’acqua e una lampadina: oggi lo faccio, cambio la lampadina del bagno. Il telefono squilla ancora. Quanta insistenza! Scocciato tiro fuori il cellulare ma non faccio in tempo a prendere la chiamata. Due chiamate perse, entrambe di Erii, la mia ragazza. Le avevo promesso che l’avrei chiamata ma non l’ho fatto, di nuovo. Un’altra promessa non mantenuta, di nuovo. Leggo il suo nome sullo schermo e comincio a sentirmi in colpa, che stupido che sono! Avrei potuto mandarle un messaggio, dirle qualcosa di carino, uno di quei messaggi sdolcinati che tutti i ragazzi della nostra età si scambiano almeno una volta nella vita, dirle che le voglio bene, qualsiasi cosa, non era un compito così difficile, ma me lo sono tolto dalla testa. Di nuovo. Mi chiedo perché una ragazza così bella e intelligente come lei continui a perdere tempo dietro a un caso senza speranza come me, in fondo non la merito. Che le dico? Scusa, ieri sera ho bevuto troppo e mi sono dimenticato di te? No, finiremo per litigare, non facciamo altro, ormai. E poi vorrà sapere perché ho bevuto, e mi dirà che la trascuro, che mi sto allontanando, che è preoccupata per me, che dovevo rimanere a Tokyo, che non faccio niente tutto il giorno e potrei degnarmi di farmi sentire, che sono cambiato e che ho la testa altrove. Al solo pensiero di quella discussione sento un dolore al petto, il cuore che mi batte forte e comincio a sudare freddo. Cerco di calmarmi facendo dei respiri profondi, rimetto il telefono in tasca e accantono l’idea di risponderle, non ho voglia di sentirmi dire tutte quelle cose, non mi serve. So che ha ragione, non posso darle torto, sono un disastro, una persona orribile che non merita le attenzioni di nessuno, non ho bisogno che qualcuno me lo faccia notare, come non ho bisogno di qualcuno che mi dica che prima o poi le cose si sistemeranno, di sorridere, di essere ottimista… io non ho più alcun motivo per essere felice, ma lei non può capire. Nessuno capisce come mi sento, neanche i miei più cari amici. Tutti noi ci siamo affezionati ai cavalieri d’oro, è vero, ma io non ho perso solo un compagno d’armi, ho perso un padre, un fratello, un amico, un confidente, io ho perso tutto. In che modo le cose possono aggiustarsi? Pensavo che almeno Shiryu potesse comprendere, in fondo condividiamo lo stesso dolore, ma non è così. Dopotutto è sempre stato più razionale di me. Scaccio via quei pensieri e vado alla cassa, prima che mi venga un vero e proprio attacco d’ansia. Tornato a casa la chiamo, giuro.
Poggio le mie cose sul bancone e aspetto di sapere quanto devo. La commessa mi sorride e io abbasso immediatamente lo sguardo, fingendo di guardare altrove, in modo da farle capire che non sono interessato a fare conversazione. Avrà più o meno una cinquantina d’anni ed è truccata pesantemente, credo anche che un po’ di rossetto le sia finito sui denti a furia di sorridere. È lenta, tremendamente lenta, e questo mi rende nervoso. Il tutto viene 1.954 yen. Tiro fuori il portafogli e prendo i soldi, quando il telefono ricomincia a squillare. Sospiro, evidentemente non c’è modo di rimandare la discussione a più tardi. Prendo il telefono, guardo lo schermo e con stupore leggo “numero sconosciuto”. Perché qualcuno dovrebbe chiamarmi con l’anonimo? Tentenno un attimo, poi decido di rispondere, ma non faccio in tempo a dire chi è che subito questi mi chiude il telefono in faccia. Rimango interdetto con il telefono in mano fino a quando non mi accorgo che la commessa sta ancora aspettando i suoi soldi. Stranamente non sorride più. Pago e così come sono entrato, in fretta e furia, esco dal combini.
Sulla strada di casa ripenso a quella telefonata, sicuramente si tratta di uno scherzo, non vale la pena perdere tempo a scervellarsi, eppure perché non posso fare a meno di pensarci? Ancora quella strana sensazione che mi attanaglia il petto, mi sento le gambe tremare… un altro attacco d’ansia? Fortunatamente passa subito, ma è meglio che torni a casa, mi sento spossato, ho le gambe pesanti, e comincio ad avvertire anche un leggero mal di testa, probabilmente ho bisogno di riposare.
Di nuovo il telefono, stavolta è un messaggio ma non conosco il numero. Apro la chat e per un attimo, non so perché, mi sono venuti i brividi nel vedere che uno sconosciuto mi ha inviato una foto. Un albero di ciliegio spoglio, ricoperto da neve, e una panchina vuota che dà su lago. Sullo sfondo c’è un cartello scritto in kanji: “parco di Omiya”. È dalla parte opposta a dove mi trovo adesso, che questa persona mi stia aspettando lì? Ma perché? Provo a chiamare il numero ma cade la linea, allora mi sposto dove c’è più campo ma non cambia nulla. Sarà Seiya? No, conosco il suo numero. La signorina Saori? No, troppo sofisticata per questo genere di cose. Ma allora chi? Senza pormi ulteriori domande, preso da una strana vena curiosa che non avvertivo ormai da tempo, mi giro verso la parte opposta e salgo sul primo autobus che trovo in direzione di Omiya.
Prendo posto accanto al finestrino, l’autobus è quasi vuoto, ci sono solo un’anziana signora, seduta tre posti davanti a me, e due ragazzine, con indosso la divisa scolastica, che probabilmente hanno marinato la scuola. Sorrido a quel pensiero, anche io l’avrei fatto alla loro età, almeno una volta. Ricordo che in Siberia, quando non avevo voglia di allenarmi, fingevo di non star bene, avevo sempre mal di pancia. Il più delle volte mi andava male, ma le poche in cui Camus decideva di assecondarmi, amavo stare tutto il giorno sotto le morbide coperte per poter mangiare un bel piatto di brodo caldo preparato dalle sue stesse mani. A dispetto di ciò che si possa pensare, Camus era un uomo premuroso, anche se non amava darlo a vedere. Appoggio la testa sul finestrino con fare malinconico e mi chiedo cosa ci faccio seduto qui, che mi passa per la testa. Quante volte Camus mi ha detto di non dar retta agli sconosciuti? E quante altre, invece, mi ha detto che devo essere responsabile? Decine, forse centinaia di volte, ma nei guai ci sono finito sempre lo stesso. Una qualsiasi persona normale ignorerebbe un messaggio del genere, soprattutto se da parte di uno sconosciuto. Ma io non sono mai stato normale, ora che ci penso, non sono proprio nato per esserlo. Cosa potrà mai accadermi? E in più, non ho niente da perdere, ormai.
Una volta sceso a destinazione entro a passo svelto nel luogo indicato. Il parco di Omiya è una delle mete più ambite di Saitama, da turisti e non solo. In primavera, stranieri e giapponesi si riversano qui per ammirare la fioritura dei ciliegi, passeggiare in riva al lago, fare un picnic o far visita al santuario di Hikawa. È forse uno dei miei luoghi preferiti, qui, a Saitama, nonostante l’orda di gente si riesce sempre a trovare un angolino tranquillo. Non vengo molto spesso perché lontano, e io odio prendere i mezzi pubblici, ma se fosse più a portata di mano, sicuramente passerei qui gran parte delle mie giornate. In questo periodo, però, non è poi così attraente, i ciliegi sono spogli, l’aria è fredda e tutto è ricoperto da neve e ghiaccio. Non c’è quasi nessuno, soprattutto a quest’ora, la gente viene solo per far passeggiare i cani, niente di più. Ci sono solo io e forse qualche senzatetto. Passo per un piccolo ponte di legno per arrivare nella zona dei ciliegi, le assi scricchiolano al mio passaggio, spezzando quel silenzio surreale che mi circonda. Questo, insieme al flusso dell’acqua e al canto degli uccelli hanno un particolare effetto benefico sui miei nervi, mi sento quasi rilassato. È proprio il posto ideale dove rifugiarmi e magari smettere di pensare. Arrivato nella zona, cerco la panchina della foto, sperando di trovare questo fantomatico qualcuno, anche se, in cuor mio, spero si tratti davvero di uno scherzo ed essere lasciato in pace.
Trovo la panchina, ma come sospettavo non c’è nessuno. Mi lascio cadere su di essa, affaticato, ho addirittura l’affanno, neanche avessi corso per chilometri. Bevo un sorso d’acqua; sul lago vedo riflesso il cartello visto in foto, la luce fioca del sole si riflette su di esso, crea quasi un effetto trasparente. Mi alzo e guardo il mio di riflesso, la faccia di un povero disgraziato depresso. Qualcuno mi passa accanto, qualcuno che conosco, in effetti. Mi volto ma non c’è nessuno, me lo sarò immaginato. Mi giro nuovamente e quel qualcuno mi si avvicina, vedo il suo riflesso accanto al mio. Capelli verdi, una grossa cicatrice sul lato sinistro del viso, è cieco da un occhio, ha un sorriso strafottente stampato in volto, mani dentro le tasche chiare dei jeans. Isaac, amico mio, che fai qui? Sei veramente tu? No, no non lo sei. Tu sei morto durante la guerra contro Poseidone, per causa mia, sei un altro dei miei fantasmi, eppure vederti mi rende così felice che la cosa passa in secondo piano. Ti ha mandato lui, vero? Ti ha mandato per controllarmi, dirmi di farmi forza, reagire? Non risponde, mi guarda fisso negli occhi con un’espressione seria, quasi gelida, priva di emozioni. Quando fai quella faccia, sai che gli somigli? Siete sempre stati simili. Eri il suo prediletto. Perché mi guardi stupito, come se non lo sapessi! Andava pazzo per te. Gongola orgoglioso nel sentire quelle parole, quasi mi prende in giro mentre lo fa.
Una sera sono entrato in camera di Camus, mentre questi si faceva il bagno, e ho cominciato a dare un’occhiata in giro. Ero curioso, è sempre stato un tipo misterioso e scostante e non ci permetteva di entrare quasi mai in camera sua, figuriamoci guardare tra le sue cose. Sulla sua scrivania di legno vi era una lettera incompleta, sembrava un rapporto ufficiale, e difatti lo era, indirizzato al Grande Sacerdote di Atena. Vi era scritto un resoconto sul nostro addestramento: Camus lo stava aggiornando di tutto, sui nostri progressi, i nostri fallimenti, le attitudini, i punti di forza e i punti deboli. Tra tutte queste informazioni, verso la fine, c’era anche scritto che, secondo il suo modestissimo parere, Isaac era più pronto e meritevole di me a indossare l’armatura del Cigno. Non aveva dubbi, sarebbe stato lui a conquistarla. Ammetto che leggere quelle parole mi aveva ferito profondamente, in fondo anche io avevo sempre provato a fargli una buona impressione, renderlo orgoglioso di me, nonostante sapessi che avesse ragione.
Isaac mi guarda con sospetto, è come se mi stesse chiedendo a cosa stia pensando. Non è la prima volta che qualcuno mi rivolge quello sguardo confuso ed imbarazzato, dato che mi soffermo a rimuginare sempre più spesso, è strano che a farlo, ora, sia proprio l’oggetto stesso dei miei pensieri.
Facciamo un giro. Così dicendo lo trascino fuori dal parco, proprio come facevo da bambino; ogni mattina lo buttavo giù dal letto e lo trascinavo al campo di allenamento con la forza, prima che il maestro si spazientisse. Ti ricordi quella volta che hai portato a casa un cucciolo di orso? Hai sempre voluto un cucciolo, ma dove vivevamo noi non c’erano cani o gatti, così ti sei dovuto arrangiare. Ricordi la faccia che ha fatto quando l’ha visto? Era sconvolto. Non sbuffare, sapevi che non te l’avrebbe fatto tenere.
Passeggiamo per le vie della città, quando, con fare di sfida, mi intima di seguirlo verso la periferia, il primo che arriva vince. Accetto, in fondo non vi è posto più isolato di quello. Arriviamo ai pressi della stazione, ancora uno sforzo e saremo fuori dalla città, ci basta seguire i binari ferroviari. Tutto è ricoperto di neve, il sole è troppo debole perché riesca a scioglierla, è l’ambiente perfetto per noi, ricorda tanto quello di casa. Ho vinto! Sono sempre stato più veloce di te. Isaac mi guarda stizzito, non gli è mai piaciuto arrivare secondo. Sono euforico, non riesco neanche a crederci. Non mi sentivo così pieno di vita da due anni. Mi ero quasi dimenticato come ci si sente a sentir l’adrenalina che ti scorre nelle vene, a provare piacere nel fare qualcosa, anche la più semplice, sentirsi finalmente felice, leggero, libero da qualsiasi pensiero negativo, semplicemente vivo.
Prendo della neve, ne faccio una piccola palla e senza preavviso gliela tiro addosso, colpendolo in faccia. Rido nel vedere la sua reazione, poi, con fare vendicativo, mi imita e iniziamo una battaglia di palle di neve. Mi sembra di essere tornato finalmente a casa, a quando avevo otto anni, e noi, tra un allenamento e l’altro, passavamo il tempo in questo modo, a tirarci palle di neve. Lo so che ho una pessima mira! Isaac ride, non è cambiato affatto, ha sempre provato gusto nel prendersi gioco di me. Ti ricordi quella volta che ho colpito il maestro per sbaglio? Fa cenno di sì con la testa. Non so se sia arrabbiato di più per essere stato preso alla sprovvista o perché gli ho sporcato la sua bella armatura dorata. Sì, sì, ricordo che ci punì entrambi con la polvere di diamanti, sento ancora male se ci penso. Delle volte, veramente poche, Camus si univa ai nostri giochi; erano quelle rare volte in cui smetteva gli abiti dell’algido maestro per indossare quelli da premuroso fratello maggiore. Io e Isaac non l’abbiamo mai detto apertamente, ma entrambi lo preferivamo in quest’ultima veste, soprattutto da bambini, avremmo voluto vederla più spesso. Anche la sua mira non era delle migliori, o forse ci lasciava vincere di proposito. Entrambi scoppiamo a ridere a quel ricordo e, stanchi di tirarci neve addosso, ci sediamo per terra. Una qualsiasi persona normale morirebbe di freddo, ma non noi. Star seduti sulla neve è molto più piacevole che su di una banchisa di ghiaccio a -20°. Mi sembra di sentire l’odore della cioccolata calda che il maestro ci preparava durante le tempeste di neve. Avvolti fin sopra la testa dentro morbide coperte di lana, passavamo le serate davanti al caminetto. Lui seduto sul divano a leggere e noi per terra a giocare, o a infastidirlo. Sento le lacrime pungermi gli occhi, ma non voglio piangere, non davanti ad Isaac, non ora che mi sento finalmente bene. Caccio via i pensieri e alzo lo sguardo sul mio amico, è in piedi, davanti a me, sulle rotaie. Ha di nuovo quello sguardo glaciale, come a volermi rimproverare per quell’attimo di debolezza. Poi inizia a saltellare da una parte e l’altra dei binari, come quando saltellava da un blocco di ghiaccio all’altro per evitare di cadere in acqua. Un altro dei nostri passatempi. Isaac mi invita a seguirlo e non me lo faccio ripetere due volte. Lo imito, tanto che a un certo punto mi sembra davvero di essere nella mia amata Siberia, con la mia famiglia. Il Giappone e i miei problemi sono solo un lontano ricordo, scomparsi, inghiottiti dai ghiacci eterni, e vorrei che fosse così per sempre. Salto di blocco in blocco spensierato finché non perdo l’equilibrio e cado accidentalmente in mare. Rimango fermo sulla traversa, Isaac si volta preoccupato, poi allarga le braccia, chiedendomi perché mi fossi fermato, cosa c’è che non va. C’è che non sei reale, ecco cosa! Sono arrabbiato, anzi furioso. Perché non possiamo andarcene e vivere di nuovo insieme? Perché non sei reale? Tu, Camus e la mamma, perché? Mi hai perdonato, vero? Non risponde, si limita a fissarmi come gli altri fantasmi. Ha l’aria triste, forse anche lui vorrebbe tornare indietro. Rispondimi, fammi almeno un cenno, sì, no, dammi un indizio, qualsiasi cosa, ho bisogno di saperlo! Isaac salta giù sulla traversa, qualche metro distante da me, sorride serafico, sembra tranquillo adesso. Che sia un modo per dirmi di sì, che mi ha perdonato? Ma come faccio ad esserne sicuro? Improvvisamente avverto di nuovo quella fitta nel petto, quello strano senso di vuoto e di nausea… perché proprio adesso? Perché non mi lascia in pace? Isaac, aiutami, dimmi come posso uscirne. Deve esserci un modo, dimmi che c’è!
Il telefono squilla all’intero della mia tasca. Quel trillo è come se mi riportasse alla realtà, cancella la Siberia e mi catapulta nuovamente in Giappone, alla mia vita di tutti i giorni, e d’un tratto mi ricordo di Erii e del tizio sconosciuto. Prendo il telefono e vedo un messaggio, proprio da quest’ultimo. “Non avere paura”, leggo. Un brivido mi percorre la schiena. Non riesco a staccare gli occhi dal messaggio, le gambe e le mani mi tremano, ho il respiro corto e sudo freddo, credo anche che il mio cuore abbia perso un battito. Alzo lo sguardo verso Isaac, è ancora lì, fermo, che mi fissa, ma non riesco a decifrare la sua espressione. Indietreggio, mi viene istintivo. Il silenzio viene interrotto dal fischio del treno, che si sta avvicinando sempre di più. Isaac scompare nel nulla e mi ritrovo faccia a faccia con il veicolo. Per un attimo sono indeciso, poi, come d’istinto, lancio la polvere di diamanti e salto giù dai binari. Mi alzo e mi volto indietro, l’ho congelato quasi del tutto, e a quel punto decido di scappare prima che qualcuno mi veda. Grazie alle mie abilità di cavaliere riesco a raggiungere il centro il più in fretta possibile e mi rimetto sulla via di casa. Che mi è saltato in testa, perché ho usato i miei poteri?
Corro verso casa, poi mi accorgo che la gente mi sta guardando e decido di rallentare il passo. Mi fissano, non mi tolgono lo sguardo di dosso, sembra che i loro occhi vogliano scrutare a fondo la mia persona per carpire chissà che losco segreto. Comincio a sentirmi a disagio; mi siedo su di una panchina e faccio dei respiri profondi, non solo per riprendere fiato. Mi guardano ancora, cosa vogliono da me? Che sappiano qualcosa? Mi hanno visto? No, impossibile. Non riesco a calmarmi, devo tornare subito a casa. Mi alzo e senza dare troppo nell’occhio mi rimetto in cammino e prendo il telefono. Velocemente scorro i messaggi per trovare quel numero, ma la chat è sparita, come se non fosse mai esistita. Mi sono immaginato tutto? Non può essere. Isaac era lì, l’ho visto, era reale! Ritrovo il numero tra le chiamate effettuate e avvio la telefonata. Porto il cellulare all’orecchio, sto tremando come un coniglio, io, un cavaliere di Atena.

- Il numero da Lei chiamato è inesistente.

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Capitolo 3
*** Tramonto ***


Tramonto


-Verso le nove del mattino il treno Omiya- Shibuya è stato bloccato dal ghiaccio. È stato ritrovato fermo sulle rotaie, congelato in parte, soprattutto la carrozza principale. Il treno è stato evacuato, non ci sono feriti, gli inqui...
Spengo la televisione e getto il telecomando sul divano, in prossimità dei miei piedi. Non amo guardare la televisione, anzi non mi interessa affatto. Da quando mi sono trasferito qui l’avrò accesa tre o quattro volte, nelle sere in cui Erii insisteva nel voler vedere un film. Fosse di mia proprietà l’avrei già data via da un pezzo, ma dovevo assolutamente sapere dell’incidente, se qualcuno fosse rimasto ferito, o fosse morto congelato per colpa della polvere di diamanti. Non me lo sarei mai perdonato. Ma per fortuna Atena deve avermi assistito e non è successo nulla di grave.
Faccio un respiro profondo, sollevato, e butto la testa indietro sul cuscino. È da quando sono tornato a casa che non faccio altro che pensare a quello che è successo, ad Isaac. Più volte ho richiamato quel numero ma continua a darmi inesistente. Non capisco. Quindi, non è solo frutto della mia immaginazione, loro sono veramente qui? Probabilmente sto impazzendo, sto uscendo fuori di testa ogni secondo che passa. Dovrei davvero farmi aiutare da qualcuno, chiamare uno psicologo, o meglio ancora uno psichiatra, qualcuno che possa aiutarmi ad uscire da questa agonia, o che semplicemente mi riempia di pillole, in modo da non doverci più pensare. Ho provato a dormire ma non ci sono riuscito, sono ancora troppo agitato. Non ho neanche finito di mangiare. Il mio amato ramen istantaneo è rimasto lì, aperto sul tavolo, non sono riuscito a mangiarne più di metà, mi si è chiuso lo stomaco.
Forse non mi serve uno specialista ma devo solo cambiare aria. Questo posto comincia a farmi stare male, sta diventando claustrofobico, proprio come Villa Kido. Dovrei lasciare il Giappone… per andare dove? Con quali soldi? In realtà, quelli non sarebbero un problema: prima che la signorina Saori partisse per il Grande Tempio, ha messo a disposizione per noi il fondo Kido. Come figli di Mitsumasa, tutti noi ne abbiamo diritto ad una parte. Con quei soldi potrei vivere in maniera molto più dignitosa, lasciare il Giappone per sempre, ma voglio davvero usufruire dei soldi di quel vecchio? In fondo cos’era per me? Niente. E l’idea di poter fare la bella vita grazie al suo cognome mi fa schifo. Perché proprio lui, mamma? Che cosa ci hai visto? Resta il fatto che non saprei dove andare. La Russia e la Grecia non sono da prendere in considerazione… forse… la Francia? Già, perché no? Mi hanno sempre detto che è bella. Potrei trasferirmi a Marsiglia, Marseille, come direbbe lui.
La Francia era uno dei pochi punti deboli di Camus. Non ne parlava volentieri, ogni volta che io e Isaac provavamo a indagare sul suo passato, lui lasciava cadere l’argomento o rispondeva in maniera vaga. Avevo solo otto anni ma intuivo perfettamente che anche la sua infanzia non doveva essere stata delle migliori. A un certo punto abbiamo smesso di fare domande, tanto sapevamo che non avremmo mai ricevuto una risposta soddisfacente. Tuttavia, un giorno, siamo riusciti a strappargli una promessa al riguardo: disse che ci avrebbe portato a casa sua, a vedere Marsiglia. “A tempo debito”, aveva detto. A quanto pare non sono l’unico a non essere in grado di mantenere le promesse. Sorrido amaramente a quel ricordo e mi stendo sul fianco sinistro, con il viso verso la spalliera del divano, e mi rannicchio su me stesso. Lasciamo perdere. Non è una buona idea. Affatto. Sono chiuso qui, confinato in quest’isola, tra queste sudice mura, solo con me stesso, il mio passato e i miei fantasmi, non c’è via d’uscita. O forse sì. A volte vorrei semplicemente poter dormire e non fare nient’altro per tutto il giorno. Chiudere gli occhi e non preoccuparmi più di nulla.
Verso ora di pranzo ho ricevuto l’ennesima chiamata di Erii. Ero così agitato da essermi completamente dimenticato di lei. Era preoccupata, quasi in lacrime, a giudicare dai singhiozzi, aveva paura che mi fosse accaduto qualcosa. Parlava come un fiume in piena, come suo solito, non sono riuscito a seguirla del tutto, mi sono limitato ad ascoltare e a rispondere a monosillabi, in maniera del tutto apatica. Già, è proprio così che mi sento da due anni a questa parte, apatico. Mi sento in colpa per averla fatta preoccupare così tanto, non merita la mia indifferenza, come non merita di soffrire per me. Il suo amore nei miei confronti è puro e sincero, il problema è che io non sento niente, le sue parole non riescono più a toccarmi. Perché non provo più nulla? Ha detto che sarebbe venuta qui, una volta finito di lavorare. Perché non sono felice? Non ci vediamo da settimane, qualsiasi ragazzo normale sarebbe felice di rivedere la sua fidanzata dopo tanto tempo, no? Vorrei che rimanesse lì, a Tokyo. Non sono valsi a nulla i miei tentativi di dissuaderla, è proprio una gran cocciuta! Sa bene che tra qualche ora devo essere al lavoro, perché viene proprio adesso, di settimana, e non nel weekend, come sempre? Avrei potuto chiederglielo invece di rimanere zitto ad ascoltare il suo sproloquio. La verità è che non vedevo l’ora di chiudere quella telefonata per buttarmi su questo divano e dormire fino all’alba del giorno dopo. Non ho voglia di uscire, o di portarla in giro, anche solo a prendere un caffè, non ho voglia di stare in mezzo alla gente, e odio non essere ascoltato. Ho bisogno di starmene per conto mio, perché è così difficile da capire? Se potessi non andrei nemmeno al lavoro, mi darei malato, ma ho già preso due permessi questo mese. Mi rigiro sul fianco destro e guardo l’orologio: a quest’ora sarà già sopra il treno. Respiro ed inspiro, devo cercare di calmarmi. Mi guardo attorno, la cucina è un disastro: lo spazzolone è ancora poggiato al tavolo da questa mattina, il ramen aspetta solo che io lo butti nella spazzatura, come la nuova lampadina del bagno aspetta che mi decida a cambiare quella vecchia. Camera mia è anche messa peggio. Mi vergogno a farla entrare qui, più di altre volte. Controvoglia mi metto seduto sul divano e le mando un messaggio, dicendole di incontrarci in centro. Un messaggio freddo e privo di enfasi, come se l’avesse scritto un automa, digitato in fretta e con rabbia. Mi devo calmare, si tratta solo di due ore.
Mi alzo, mi trascino verso l’ingresso, prendo il giubbotto e, proprio come questa mattina, tiro fuori il berretto e tiro su la cerniera fin sopra al mento. Mi sembra di vivere un déjà-vu. Esco e mi chiudo la porta alle spalle con forza, sia per nervosismo, sia per il suo essere difettosa. Farei prima a prendere un autobus ma preferisco camminare, magari mi aiuta a sbollire la rabbia. Sarebbe anche carino da parte mia presentarmi in stazione e andare a prenderla, mostrarmi entusiasta, ma ho deciso che per un po’ starò lontano dai treni.
Con le mani dentro al giubbotto cammino a passo svelto, affondando i piedi sulla neve. Ormai è il tramonto, il sole si nasconde tra le nuvole, pennellando il cielo di sfumature rosa e arancioni. Attraverso un piccolo ponte, sotto di me le acque del fiume Shiba scorrono tranquille, in lontananza si vedono i grigi grattacieli di Saitama e la ruota panoramica del parco giochi. Credo sia stato lassù che io ed Erii ci siamo scambiati il nostro primo bacio, ormai due anni fa. La vista della città mi inquieta, non ho nessuna voglia di andarci, il solo pensiero mi disturba. Mi fermo qualche minuto ad osservare il fiume, dalla tasca dei pantaloni tiro fuori il telefonino e osservo lo schermo, deluso. Non so perché continuo a sperare che quel numero mi richiami o mi rimandi un messaggio, so di illudermi. Isaac non tornerà, non può. Mi rigiro il telefono tra le dita per poi farlo scivolare lentamente in acqua. Cade come un peso morto, facendo un rumore sordo. Il mio corpo farebbe lo stesso tipo di rumore? Caccio via quel pensiero e rimango a guardare il punto esatto in cui è caduto per alcuni secondi, poi torno indietro sui miei passi, scendo dal ponte e percorro la via del fiume.
Cammino tra la neve e il fango, tra le erbacce secche che si spezzano sotto i miei piedi. Mi sto allontanando dal centro ma non importa. Avanzo ancora per qualche chilometro, poi, improvvisamente stanco, mi siedo sulla riva del fiume a contemplare l’acqua. Respiro a pieni polmoni, l’aria è leggermente più calda rispetto a questa mattina, probabilmente domani farà bel tempo. Sono solo. Mi rannicchio su me stesso e porto le ginocchia al petto, poggiando la testa sopra di esse. In lontananza si sente solo l’abbaiare di un randagio che entra ed esce dall’acqua giocherellando. Ha l’aria felice per essere un cane solo ed abbandonato, proprio come me. Dovrei tornare indietro, Erii sarà qui da un momento all’altro, ma preferisco starmene qui. Sospiro, pensando a quanto sia diventato crudele. Mia dolce Erii, come faccio a dirti che non ho voglia di vederti, che non ho più voglia di stare con te. Ma perché non riesco ad essere onesto con me stesso? Non l’ho mai avuta, è questa la verità. Come posso dirti che ogni volta che mi abbracci, o mi baci, ogni volta che facciamo l’amore non è a te che penso? Nascondo il viso tra le ginocchia dalla vergogna.
Freya di Asgard, ecco chi vorrei al mio fianco. La principessa che mi ha salvato dalla prigionia, colei per cui ho combattuto durante la battaglia contro i guerrieri divini. Lei e solo lei, che Atena mi perdoni. Non era mia intenzione anteporle un’altra donna, né era mia intenzione innamorarmi, è semplicemente successo. Non ho mai fatto parola con nessuno dei miei sentimenti per Freya, tranne che a Milo. Prima della guerra contro Ade, prima di tornare in Siberia, andai al Grande Tempio per fargli visita. Milo ed io non abbiamo mai avuto un rapporto così solido, ci conoscevamo appena, eppure sentivo di potermi fidare di lui, non per niente era il suo migliore amico. Mi sentivo a mio agio, era come se stessi parlando con un fratello maggiore, più o meno ciò che provavo quando parlavo con il mio maestro, solo con meno soggezione. Non riuscivo più a tenere dentro i miei sentimenti, dovevo dirlo a qualcuno, e in più avevo bisogno di un parere adulto. Così gli raccontai tutto, della cotta pazzesca che mi ero preso per la principessa, di come, senza volerlo, mi aveva rubato il cuore. Avevo lo stomaco sottosopra ogni volta che pronunciavo il suo nome ed era la prima volta che sentivo il cuore battermi così forte. Dissi a Milo di volermi dichiarare a lei ma non sapevo come fare. Lui rimase in silenzio ad ascoltarmi, ogni tanto sorrideva, probabilmente perché coinvolto dal mio entusiasmo, ma quando prese parola ci mise meno di un secondo a spegnermelo completamente. Infatti, mi consigliò di lasciar perdere: secondo lui eravamo troppo diversi, avrei fatto meglio a togliermela dalla testa. Scommetto che anche Camus avrebbe detto lo stesso. Purtroppo non sono mai riuscito a dimenticarla, non c’è momento della giornata in cui non penso a lei. Sono anni che non la vedo, chissà come sarà diventata bella… ancora più bella.
Un soffio di aria fredda mi accarezza il viso e mi scompiglia i capelli. Mi domando da dove arrivi, non fa così freddo, anzi. È gelida, persino per me, non posso fare a meno di stringermi nelle spalle, è come se volesse penetrare le mie ossa. Con la coda dell’occhio, lo vedo sedersi accanto a me, nella mia stessa posizione.
Senza offesa, sono felice di vederti, ma mi aspettavo qualcun altro. No, rimani pure, Camus renderebbe le cose più complicate. Milo mi poggia una mano sulla spalla e si rimette a sedere, entrambi rimaniamo in silenzio ad osservare il fiume. Mi sento un po’ a disagio, è la prima volta che mi capita di vederlo.
Sì, sto bene, rispondo alla sua domanda silenziosa. Dalla sua espressione mi sembra poco convinto, e in realtà anche io lo sono. No, non sto per niente bene. Avevi ragione, sai? Riguardo a Freya. Le ho scritto una lettera, tempo fa. Le ho detto che la amo, che la desidero, che voglio sposarla… non ha mai risposto. Come mai nessun rimprovero? Camus avrebbe detto: “te l’avevo detto”. Milo abbassa lo sguardo non sapendo bene dove guardare, sembra mortificato. Erii? È venuta dopo, cercavo un modo per dimenticarla, proprio come avevi detto tu. Proprio così, è stata un ripiego. Questa volta non trattengo le lacrime, con Milo posso permettermelo. Mi sento sporco, lei non merita tutto questo. Alzo lo sguardo verso il cavaliere e mi sembra proprio di intravedere della compassione nei suoi occhi color del mare. Forse addirittura pena.
Andava tutto bene all’inizio, mi piaceva stare con lei, mi faceva stare tranquillo, sentivo addirittura di provare qualcosa di veramente forte. Credevo di aver dimenticato Freya ma non è stato così. Poi ho cominciato a vedervi in giro per casa, è da quel momento che mi sento vuoto, senza speranza, apatico. Piano piano ho smesso di uscire, di provare interesse anche verso il più semplice gesto quotidiano, ho persino smesso di allenarmi la mattina. Era un’abitudine che mi ha trasmesso Camus e che mi piaceva. Mi sento spento, al pari di un automa, come se le mie capacità di provare emozioni fossero state risucchiate via. E questo ha influenzato la mia storia con Erii. L’entusiasmo iniziale è svanito e pian piano mi sono allontanato sempre di più. Non ricordo l’ultima volta che le ho dato un bacio passionale, o quand’è stata l’ultima volta che l’ho abbracciata perché avevo davvero voglia di farlo, e non perché me l’ha chiesto. Persino andarci a letto è diventato un gesto automatico, quasi un peso. È vero che non la amo, inizialmente pensavo fosse questo il problema, ma la verità è che non ne sento proprio l’esigenza, non ho più alcun tipo di stimolo. Mi sento indifferente verso tutto e tutti. Reagirei allo stesso modo se Seiya, Shiryu, o Shun mi chiamassero e mi dicessero di andare a trovarli. Soffro la loro assenza ma allo stesso tempo, l’idea di dover salire sul treno e fare tutti quei chilometri mi rende nervoso e ansioso. E poi vederli non cambierebbe nulla, in fondo non possono aiutarmi, non possono farmi sentire meglio. A volte mi chiedo se… forse avevi ragione tu, sarei dovuto rimanere dentro la bara di ghiaccio. Milo corruga la fronte contrariato, come a volermi rimproverare, fino a quel momento aveva ascoltato il mio soliloquio senza battere ciglio, senza particolari commenti da fare, o giudizi. Sì, lo so che c’era in gioco la vita di Atena, non l’ho dimenticato! Ma pensaci: se fossi rimasto lì, Camus sarebbe ancora vivo, e anche Isaac, mentre Erii sarebbe felice con qualcuno che la merita davvero. Non credi che le loro vite sarebbero migliori? Mi riferisco anche la tua. Ho ucciso il tuo migliore amico, dovresti odiarmi, invece sembra quasi che tu mi abbia preso sotto la tua ala protettiva…perché? È un dovere che senti nei confronti di Camus? Milo scuote la testa. Non mi dirai che ti sei affezionato a me? Per la prima volta lo vedo ridere, quanto mi manca quella risata cristallina. Con fare paterno mi appoggia la mano sulla spalla in segno di conforto. Si sarebbe potuto evitare? Chiedo a bruciapelo. La mia domanda lo sorprende, a giudicare dalla sua reazione. No, hai ragione. Il nostro scontro all’undicesima casa era inevitabile. Se solo fosse stato meno cocciuto, se solo non avesse cercato lo scontro a tutti i costi, forse sarebbe ancora qui. Poteva farsi da parte come Aldebaran, perché non l’ha fatto? Per me? Sì, sì lo so. Si è sacrificato per permettermi di diventare più forte, per aiutarmi a superare la perdita di mia madre. C’era riuscito, ma ora mi chiedo a cosa sia servito, mi sembra di essere tornato al punto di partenza. Mi sento perso, Milo. Di nuovo. E non so come uscirne. Non c’è Camus a salvarmi, stavolta.
Mi sdraio sulla neve e chiudo gli occhi, lasciandomi accarezzare da questa piacevole brezza, mentre la neve mi bagna i capelli e mi accarezza la nuca. Mi sento più tranquillo, leggero, avevo proprio bisogno di questa chiacchierata. Milo mi imita e si sdraia accanto a me. Chissà come sarebbe stata la nostra vita se fosse sopravvissuto al Muro del Pianto? Con non poco imbarazzo richiamo la sua attenzione, mi rialzo e mi rimetto nella stessa posizione di prima e lo fisso serio. Se le cose fossero andate diversamente, pensi che… non credo potresti mai sostituirlo, ma pensi che avremmo potuto avere un rapporto simile, tu ed io? Mi sarebbe piaciuto, sai? In qualche modo riuscivi a compensare la sua assenza.

- Hyoga! Hyoga!
Erii? Ma che ci fa qui? Mi alzo e mi pulisco i pantaloni bagnati quando lei, senza il minimo preavviso, mi getta le braccia al collo. Mi stringe in un abbraccio, una sorta di morsa, a dire la verità, come se avesse paura che possa fuggire da un momento all’altro. Un soffio di vento fa sì che il suo dolce profumo mi invada le narici. Gliel’ho regalato lo scorso Natale. Nonostante la giacca pesante la sento tremare dal freddo, così la stringo a me nel tentativo di scaldarla. Il suo piccolo volto è coperto da una sciarpa di lana rossa, un altro mio regalo, e da sotto di essa la sento mormorare qualcosa, che però non capisco perché rotto dai singhiozzi. Ha gli occhi gonfi, deve aver pianto a dirotto per ore, e la causa non posso che essere io. Con un gesto meccanico la stringo ancora, ma lei scioglie l’abbraccio. Anche questa volta non ho provato nulla.
- Finalmente ti ho trovato, ti ho cercato dappertutto! Ma perché hai spento il telefono? – la sua voce è dura. È arrabbiata anche se cerca di nasconderlo e mostrarsi calma.
- Non ho il telefono, l’ho dimenticato a casa… come sapevi che ero qui? – cerco di evitare la domanda, non ha senso dirle di Isaac.
- Non lo sapevo. Te l’ho detto, ti ho cercato ovunque! Pensavo… oh, lascia perdere! Sono contenta che tu sia qui. Hyoga, sta bene? Mi sembri confuso…
- Sto bene – dico atono. La mia risposta non la convince, e la cosa mi infastidisce – Perché sei venuta? Sai che devo andare a lavorare, abbiamo sempre fatto nel fine settimana…
- E me lo chiedi?! Non ti vedo, né ti sento da settimane, sono preoccupata per te, anzi siamo!
- Siamo?
- Sì. Io, Seiya, Shun…
- Avrebbero potuto chiamarmi…
- L’avrebbero fatto, se solo tu ti lasciassi trovare! Ma non senti che freddo che fa? Congelerai conciato così!
- Congelare, io? Magari! Dai, non dire sciocchezze – rimane seria alla mia battuta, vedo che comincia a innervosirsi – Perché siete preoccupati?
- Te l’ho già detto. E smettila di dire certe cose!
- E io ti ho già detto che ho bisogno di stare un po’ per conto mio – non nascondo un certo nervosismo. Rimaniamo in silenzio per un secondo, a fissarci l’uno e l’altra. Nessuno di noi ha davvero voglia di litigare, ragion per cui decidiamo entrambi di abbassare i toni.
- Non devi affrontare tutto questo da solo…
- È un mio problema!
- Ma insieme…
- Senti, Erii, devi fare qualcosa di importante? Devi comprare qualcosa? Vuoi che ci prendiamo un caffè? Facciamo in fretta, per favore. Tra qualche ora devo andare al lavoro e non posso dedicarti molto tempo – perché rispondo in maniera così fredda? Basta davvero così poco per farmi arrabbiare? Da quando sono diventato così suscettibile?
- Torniamo a casa, sei fradicio, e in più dobbiamo parlare.
- Di cosa? – che mi voglia lasciare? E perché la cosa mi infastidisce?
- Di te!
- Me?!
- Assolutamente sì! Hyoga…hai bisogno di aiuto.
Aggrotto la fronte non capendo di cosa stia parlando. Erii si guarda intorno, assicurandosi che non ci sia qualcuno nei dintorni, poi mi si avvicina e comincia a parlare a bassa voce.
- Non ti accorgi di quello che fai? – il suo tono si è addolcito di molto e adesso anche lei pare aver compassione di me.
- Faccio cosa?
- Stavi parlando da solo – dice rassegnata, sempre a bassa voce, confidandomi chissà quale segreto. Con la testa mi indica il punto in cui ero seduto prima, nei suoi occhi leggo la paura, la paura di perdermi. Rimango spiazzato, non so bene che dire, balbetto qualcosa che non ha un senso. Mi volto verso il punto in cui era seduto prima Milo. Perché mi dice questo? Gli occhi di Erii sono di nuovo umidi, sta piangendo per me.
- N-non parlavo da solo, ero… lascia stare! – mi allontano da lei bruscamente. Come le viene in mente? Ma no, no che non parlavo da solo! Ero con Milo, era proprio seduto lì! Lei non può capire.Erii, intuendo il mio disagio, mi prende per mano. Tenta di abbracciarmi ma mi scosto, non voglio essere toccato.
- Hyoga… - sto impazzendo! No, non sono pazzo, non lo sono! Lui era lì, proprio come Isaac questa mattina.
- Sto bene.
- Non c’è nulla di male, ma sono sicura che parlandone con qualcuno le cose si sistemeranno.
- Ne abbiamo già parlato – so di non essere pazzo. Mi prendo la testa con entrambe le mani, mi sento davvero confuso, adesso.
- Intendevo uno specialista – dice lei a denti stretti, cercando di prendermi la mano.
- Non sono pazzo! – urlo e mi allontano ancora. Non era mia intenzione alzare la voce, né dar voce ai miei pensieri, ma non sono riuscito a trattenermi.Erii mi guarda sconvolta, è la prima volta che mi vede così, anche io stento a riconoscermi. Ho scatti d’ira improvvisi che non riesco a controllare. Provo rabbia, tantissima, la sento covare dentro di me ogni giorno, basta un non nulla per farla esplodere, come una mina vagante. Respiro profondamente, mi devo calmare. Ne faccio uno, poi due, tre… Erii continua a fissarmi, questa volta con un’espressione preoccupata, ma non dice niente, vuole darmi il tempo di riprendermi. Una volta sicura mi si avvicina e con fare quasi materno riesce a prendermi le mani e mi intima a seguirla.
- Andiamo a casa, ti devi preparare. Domani ne riparliamo – in che senso domani?! Poggio lo sguardo su di lei e comincio a squadrarla dalla testa ai piedi, solo ora mi accorgo che sulle spalle porta un borsone. Deve essere bello pesante, sembra stracolmo, ma soprattutto è molto più grande di quello che si porta di solito. Quanto tempo ha intenzione di restare?
- Perché ti sei portata tutta questa roba, a che ti serve? – cerco di indagare togliendoglielo dalle mani e caricandomelo sulle spalle. Non risponde, svia lo sguardo, ha paura di un’altra mia sfuriata. – Erii… - la incalzo. Ho un brutto presentimento.
- Vengo a stare da te – dice a bassa voce e tutto d’un fiato, forse nella speranza che non afferrassi il concetto.
- Cosa?! – sbotto più arrabbiato di prima.
- Lo faccio per starti vicino!
- E quando hai preso questa decisione? Quando avevi intenzione di parlarmene?
- Oggi. È una decisione dell’ultimo minuto. Non avresti mai accettato se te l’avessi detto.
- E hai pensato bene di fare tutto di nascosto, non è così? Riesco a malapena a mantenere me stesso, non posso pensare anche a te!
- Non serve che pensi a me! Io me la cavo benissimo da sola, sei tu che hai bisogno di aiuto! Arrabbiati pure quanto vuoi, ma sappi che non cambio idea, ormai ho deciso. Dovessi dormire per terra, non me ne andrò fino a quando non ti sarai fatto aiutare.
- Ancora con questa storia? Sto bene! Io sto bene, quante volte te lo devo dire? – tranquillo, mantieni il controllo.
- Non importa quello dici, ho già detto che non me ne vado – così dicendo tenta di riprendersi il borsone con scarsi risultati.
- Che non ti importa di come la penso è chiaro come il sole! – questo era un colpo basso, potevo risparmiarmelo. – Perché lo fai?
- Perché ti amo – le sue parole mi colpiscono, e non so perché. L’ho sempre saputo, non è la prima volta che me lo dice. Ora sono io che fingo di guardare altrove, non riesco ad incrociare il suo sguardo, non più – Hyoga… i-io voglio solo aiutarti… voglio che tu stia bene, davvero. Non ce la faccio più a vederti così, voglio che torni ad essere il ragazzo pieno di gioia e speranza che eri quando ti ho conosciuto. Lascia che ti aiuti…per favore… - lo vorrei anche io, credimi. Voglio tornare quello di prima, ma non è possibile, è tardi ormai, non c’è niente che tu possa fare, niente. Nessuno può aiutarmi, nemmeno uno specialista.
- Ti amo – dice ancora. Ti prego non dirlo più, non capisci che queste parole mi fanno solo che sentire peggio? Perché l’hai detto? Perché ti sei innamorata di me? Perché non di qualcun altro, qualcuno di migliore, qualcuno a cui valga davvero la pena rivolgere queste parole? Perché me e non Shun, ad esempio?Erii mi abbraccia, è di nuovo in lacrime. Vorrei ricambiare ma non ci riesco, guardo fisso di fronte a me, vuoto e indifferente come al solito. Non ho più neanche voglia di fingere. Si alza sulle punte e tenta di baciarmi, io mi discosto e lentamente spezzo l’abbraccio.
- Erii, non puoi venire a stare da me – dico senza particolare enfasi.
- Perché no?
- Perché… - mi blocco. No, non ce la faccio, non posso dirglielo. Con quale coraggio?
Da dietro le sue spalle vedo sopraggiungere la figura di Milo. Si ferma a pochi centimetri da noi, allunga l’angolo sinistro della bocca in uno strano sorriso. Di nuovo quello sguardo compassionevole, devo proprio fargli pena. Non posso dargli torto, anche io provo pena per me stesso in questo momento. Sono disperato, non so cosa fare. Aiutami, cosa devo dirle? Non voglio ferirla, che devo fare? Dì qualcosa, so che puoi farlo!
- Non avere paura – non aggiunge nient’altro. È tutto il giorno che queste parole mi tormentano, le sento rimbombare nella mia testa senza darmi un attimo di tregua.
- C’è poco spazio, l’appartamento è piccolo per due.
- Non importa, sai benissimo che mi adatto.
- L’affitto è alto.
- Ho un lavoro, divideremo le spese.
- È sudicio, l’hai visto anche tu, quel posto fa schifo!
- Pazienza, non mi serve una reggia. Ma perché fai così? La pianti di cercare di dissuadermi, io non me ne vado di qui! – alzo lo sguardo e incrocio nuovamente gli occhi di Milo.
- Perché non ti amo. – Scusami se ti ho spezzato il cuore, scusami tanto se puoi – Sono sempre stato innamorato di un’altra. Si chiama Freya… 

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