Tomorrow Never Dies

di laguindiz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Dopo essere caduto nel vuoto da diversi metri di altezza, il mio corpo si schianta al suolo e rotola sull'asfalto sgretolato, contorcendosi, fino a sbattere contro un palo della luce che per via dell'impatto mi cade addosso. Ogni fibra del mio corpo duole e sento la testa che scoppia dentro questa scatola di latta. Con quel briciolo di forza rimasta riesco a mettermi in piedi, per cadere sulle ginocchia soltanto pochi istanti dopo, sfinita e abbattuta. Giro lo sguardo a destra e a sinistra, confrontandomi con il caos che mi circonda: le strade distrutte e invase da giganteschi crateri, le macchine ribaltate contro i muri di palazzi e grattacieli crollati al suolo; i cadaveri di persone innocenti, lacerate nel più brutale dei modi, sono fortunatamente pochi, ma il cielo è ancora completamente scuro, ricoperto da nuvole nere che non promettono niente di buono. L'immagine della fine che si avvicina. Infine incrocio gli sguardi dei miei compagni di squadra, della mia famiglia, e realizzo che è rimasto ben poco da fare: Thor cerca invano di rialzarsi da terra, sostenendo il suo corpo con l'aiuto di Mjölnir; Natasha tenta in ogni modo di liberare una gamba rimasta bloccata sotto uno dei tanti macigni di un edificio; ed Hulk giace privo di sensi nel cratere formato dalla sua caduta. Non vedo traccia né di Barton né di Pietro e, mentre Falcon riaffiora dal suo guscio sconquassato, Wanda atterra barcollando grazie alla sua magia. Captain America dietro di loro si rialza con lo scudo alla mano, zoppicante e con dei rivoli di sangue che gli colano sul il viso, mentre Iron Man, mio padre, con l'armatura distrutta e il reattore Arc che lampeggia, è steso in fin di vita sul tettuccio di un'auto incendiata. Quindi è così che finisce? Il bene viene davvero sconfitto dal male? Gli eroi muoiono e la Terra cade nell'oblio? Teschio Rosso metterà fine agli Avengers e distruggerà il mondo come lo abbiamo conosciuto?

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Sono cresciuta con la convinzione che non ci sia modo migliore per lavorare se non con Back in Black degli AC/DC sparata da Jarvis a tutto volume. Per questo motivo, con il volto coperto da una maschera per saldatura e una fiamma ossidrica puntata su due pezzi d'acciaio, canticchio sottovoce alcune parti della canzone che conosco ormai a memoria. "I've been looking at the sky, 'Cause it's gettin' me high" Una volta terminata la saldatura, sollevo la visiera sul capo e ammiro la mia prima creazione prendere vita con un sorriso soddisfatto. Mi alzo da terra e recupero i progetti cartacei sparpagliati sul letto allo scopo di finire la loro digitalizzazione nel lasso di tempo in cui aspetto che l'acciaio si raffreddi sul pavimento della mia stanza. Stringo una matita tra le labbra mentre trasferisco dei fogli sulla mia scrivania. "Jarvis, apri il file Dante Alighieri e mostrami una panoramica tridimensionale del modello per piacere" biascico. Perché proprio Dante Alighieri? Semplice: studio letteratura italiana all'università e nessuno, compreso mio padre, si sognerebbe di trovare il progetto di un inventore principiante sotto il nome di un poeta. Negli istanti successivi vengo infatti circondata da una proiezione virtuale del prototipo delle scarpe-razzo di mia invenzione: muovendo le mani in aria, riesco ad interagire con il modello, ad ingrandirlo, a sostituire alcune variabili e a verificare la sua funzionalità ancor prima di averlo ultimato. Subito dopo una prima analisi, sfilo la matita dalla bocca per correggere alcuni calcoli dai progetti originali, che ripongo in uno scatolone sotto il letto per conservarli come ricordo. Ammiro con fierezza il mio lavoro prendere finalmente vita dopo tanti anni di reclusione nella mia mente e per altrettanti ridotti a meri abbozzi sulla carta. "Bene" sospiro soddisfatta, con le mani poggiate sui fianchi "Adesso manca solo una fonte di energia in grado di fargli spiccare il volo". Esco di soppiatto dalla mia stanza e, appurato che il salotto e la cucina sono deserti, sgattaiolo giù per le scale fino a raggiungere il laboratorio di mio padre, separato dal resto dell'edificio da una semplice porta a vetri protetta da un codice super segreto che in pochi possono vantare di avere - nonché la mia data di nascita: inserisco i numeri ed entro indisturbata nel regno di mio padre. Picchietto le dita su uno dei tavolini in metallo, facendo correre lo sguardo da una parete costellata di armature ai tavoli stessi sopra cui giace un ammasso di cose disordinate, dai robottini aiutanti di Iron Man ai quadri di mia madre appesi per chissà quale ragione sopra una piccola cucina improvvisata in fondo allo studio; ma del reattore Arc di cui parlano tanto persino i tabloid non c'è traccia. Scorgo invece una tazza di caffè fumante accanto ad un computer. "Dovresti sapere che non mi piacciono le persone che sbirciano nel mio laboratorio" la voce di mio padre mi sorprende alle spalle. Mi giro verso di lui e, con l'aria più innocente che mi riesce, rispondo: "Infatti non stavo sbirciando... volevo solo ammirare il mio paparino al lavoro" adornando il tutto con un sorrisetto ingenuo. Tony Stark appoggia la spalla contro lo spigolo della porta, incrociando le braccia al petto e spostando l'intero peso del corpo su una gamba sola. Inclina poi la testa verso destra e riduce gli occhi a delle piccole fessure, guardandomi negli occhi. "Cosa ti serve?" "Come?" domando spiazzata. Deglutisco un mattone di saliva. Papà si stacca dalla parete per avvicinarsi piano a me, senza mutare l'espressione del viso. "Riconosco quel faccino: gli occhietti curiosi, il sorriso nefasto... di cosa hai bisogno?" "Beh," esordisco titubante; e proprio in quel momento, puntando per puro caso lo sguardo sul tavolino accanto a me, vedo una luce blu scintillante emergere sotto una chiave inglese. Mi muovo nella sua direzione, spostando gli occhi di nuovo su mio padre per non destare sospetti. "Oltre a qualche amico, una vita normale," sbotto sarcastica, sollevando istintivamente le sopracciglia "Ho provato a cercarla su Amazon, ma non era più disponibile." Assottiglio le labbra e inclino la testa verso sinistra, per accentuare il mio livello di ironia. Uno sbuffo esce dalle labbra di mio padre, precedendo la sua mano, che si solleva sul suo volto come per asciugarsi la fronte. "Mi sembrava avessimo già discusso abbastanza a riguardo." "Lo sanno a memoria anche i muri quel monologo..." borbotto, roteando gli occhi. "Comunque volevo solo avvisarti di non aspettarmi per pranzo: devo studiare per superare un esame con un androide!" Alzo la voce di qualche decibel per sottolineare l'inverosimilità della mia stessa vita, camminando a passo deciso verso la porta. "I geni non mentono!" esclama poco prima che la vetrata si chiuda alle mie spalle. "Spero di sì." Bisbiglio, risalendo le scale, consapevole che non può avermi sentita. Sfreccio in camera e, una volta chiusa la porta a chiave alle mie spalle, vi faccio aderire la schiena: dalla tasca posteriore dei jeans estraggo una scheggia del vecchio reattore che alimentava l'armatura di Iron Man andata distrutta nel suo ultimo tentativo di salvare il mondo. Lo porto all'altezza del mio viso e lo guardo con un sorriso gioioso; pochi secondi più tardi sono di nuovo seduta a gambe incrociate sul pavimento con la maschera per saldatura in testa per portare a termine le mie scarpe-razzo. *** Un agglomerato di emozioni contrastanti e indecifrabili mette in subbuglio il mio stomaco fino alle viscere quando finalmente atterro sul tetto di un anonimo palazzo newyorkese, avvolta dal caldo arancione del tramonto che cala sull'intera città: non solo le mie scarpe razzo alimentate da una scheggia del reattore arc di mio padre funzionano, sono anche riuscita ad allontanarmi dalle quattro mura di casa senza che nessuno se ne accorgesse. Perciò ora mi trovo seduta a cavallo di un muretto al decimo piano di un edificio diverso e lontano dalla Stark Tower, con una gamba che penzola nel vuoto e l'altra appoggiata al cemento, a contemplare il mio primo tramonto da donna libera. Seppur consapevole del fatto che la vista è migliore dalla mia camera, questo cielo ha un fascino estremamente singolare, con le nuvole che prendono un colore rosato, l'azzurro che viene poco alla volta soppiantato dall'arancione, il quale investe le strade trafficate di New York con il suo impeto, insinuandosi anche nei vicoli più stretti e dimenticati, e i grattacieli che iniziano ad illuminarsi per non essere colti impreparati dal buio della sera che viene. Una visione che manda in estasi tutti i miei sensi e mi costringe a chiudere gli occhi per inspirare a fondo il profumo di quest'aria che sa di felicità - e di smog. "Davvero un bel panorama da quassù," esordisce all'improvviso una voce non del tutto sconosciuta alla mia destra. Mi volto in quella direzione con uno scatto repentino che mi fa oscillare sul muretto; di conseguenza mi aggrappo ad esso con entrambe le mani per paura di cadere.  Torno quindi a fissare incredula la figura che si presenta davanti ai miei occhi in tutta la sua possenza e in tenuta bianca, rossa e blu con stelle e strisce. "Cap-" deglutisco una bocconata di terrore "Ommioddio Captain America! Non ci posso credere..." Quando un'illuminazione mi rivela il vero motivo della sua presenza, mi ricompongo e, schiarendo la voce, mi alzo in piedi sul muretto. "Wow, non ci posso credere davvero: ti ha mandato mio padre, vero?" Con le braccia incrociate davanti al petto e gli occhi puntati su di me ridotti a due piccole fessure, Cap fa un respiro profondo alzando le sopracciglia e, muovendo impercettibilmente la testa, ribatte: "Non rispondevi alle loro chiamate e si sono preoccupati." Sbuffo una risatina sarcastica stringendo tra loro le labbra e, rivolgendo la testa al cielo, incrocio le braccia al petto. "Quindi è stata mia madre..." Cammino avanti e indietro sul bordo del tetto con un sorrisetto esasperato sul volto. "Tony sarà impegnato, altrimenti sarebbe venuto lui stesso a cercarti" ribatte il soldato, che da quando è arrivato non ha cambiato posizione nemmeno di un centimetro. Mi volto di nuovo verso di lui, lasciando penzolare la gamba nel bel mezzo del movimento; per renderlo ancora più teatrale, trattengo una risata assottigliando la bocca e inclinando di poco la testa verso sinistra. "La verità, Cap, è che lui non si sarebbe nemmeno accorto della mia assenza." Segue un momento di silenzio, per nulla imbarazzante, in cui entrambi contempliamo la vista del sole che si immerge nel Pacifico sulla riga dell'orizzonte. "Devo dedurre che ti troverò qui d'ora in poi" riprende lui, guardandomi di sottecchi con l'accenno di un sorriso sul volto. Sospiro. "Ora che conosci il mio nascondiglio non più tanto segreto, credo che cambierò palazzo" gli mostro un sorriso mesto, senza separare le labbra. Giurerei di averlo visto trattenere una risata. "Ora ti riporto a casa figliola." "Ho quasi ventidue anni, Cap," mi volto di schiena "Posso tornarci da sola". Terminata la frase, compio un passo nel vuoto, ritrovandomi in caduta libera dal decimo piano di un edificio di Manhattan. Sbatto i piedi l'uno contro l'altro per due volte consecutive e, ad un palmo dal marciapiede, le suole si irradiano di un azzurro luminescente e la propulsione contenuta nel reattore Arc mi impedisce di sfracellarmi a terra e al contempo mi consente di prendere il volo. Durante la risalita, incrocio lo sguardo di Captain America, ancora accigliato sul bordo del tetto: anche se quegli occhi blu avessero potuto fulminarmi, non ce l'avrebbero fatta, perché in meno di un secondo mi sono già librata in cielo, diretta a casa.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Avere la testa fra le nuvole non è esattamente piacevole come mi aspettavo; e non sto parlando solo dell'aria negli occhi che mi fa piangere peggio di Colpa delle Stelle, ma anche della sensazione che la testa si comprima, come se qualcuno si stesse divertendo ad accartocciarla. Ora capisco perché mio padre ha incluso il casco nell'armatura - rinunciare a mostrare la faccia in pubblico durante le sue spedizioni per salvare il mondo deve essere stato un duro sacrificio per lui. Atterro molto poco professionalmente in un vicolo cieco e buio non troppo lontano dalla Stark Tower, agitando le braccia per non perdere l'equilibrio. Una volta posati i piedi a terra faccio un rapido cambio scarpe e infilo la mia invenzione nello zaino, nella speranza che il compagno di squadra di mio padre non abbia già fatto la spia a riguardo. Per la prima volta in vita mia mi ritrovo a camminare da sola per circa un isolato, confondendomi tra la gente: sono tutti talmente impegnati nella loro routine che nessuno si accorge di passare accanto a Mahogany Stark, figlia del più grande magnate, genio, milionario e filantropo di quest'epoca. È anche vero che nessuno si aspetterebbe di vedermi gironzolare sulle strade di Manhattan senza guardie del corpo attorno. Giunta davanti alle porte girevoli della torre, sgattaiolo dentro senza farmi vedere fino ad intrufolarmi in un ascensore vuoto che mi porta fino all'attico dove viviamo in pianta stabile da quando Il Mandarino ha distrutto la nostra casa sulla costa di Malibu. L'ascensore annuncia il mio arrivo con un trillo breve e pacato. Quando poi le porte si aprono, un silenzio insolito e a dir poco inquietante avvolge il salone open space: saetto gli occhi a destra e a sinistra, avanzando nel soggiorno con riluttanza finché, arrivata a pochi metri dallo svincolo che porta alle camere da letto, una voce proveniente dalla cucina mi blocca sul posto all'istante. "Ecco la fuggitiva rientrata dalla scappatella!" esclama mio padre con sarcasmo, entrando in salotto con un calice di quello che sembra champagne in mano. "Come ci si sente a trasgredire le regole, ad essere una ribelle?" enfatizza l'ultima parola con finta curiosità che camuffa una collera evidente. Al suo fianco compare anche mia madre. "E dimmi, come ti fa sentire il pensiero di aver fatto spaventare a morte i tuoi genitori?" continua con la solita abbondante dose di ironia nella voce e nei gesti "Immagino bene, dato che siamo noi che ti abbiamo rovinato la vita, giusto?". Abbasso lo sguardo, non avendo il coraggio di guardarli dritti negli occhi, e stringo i pugni. "Avevamo paura che ti fosse successo qualcosa di brutto, tesoro" interviene mia madre candidamente. "Ah davvero?" sbotto con le lacrime che pizzicano gli occhi "Eravate talmente preoccupati per la mia incolumità che avete mandato un Avenger a controllarmi invece che venire voi stessi di persona! Wow, davvero impressionante." Giro le spalle ai miei genitori per dirigermi a passi spediti nella mia stanza; prima che possa svoltare l'angolo però sento mio padre tuonare un: "Sei in punizione Mahogany. " Mi fermo di nuovo. Contraggo la mascella e di riflesso alzo un sopracciglio. "Che novità..." bisbiglio. Non mi volto più indietro e, raggiunta la mia camera, chiudo la porta alle mie spalle, appoggiandovi la schiena: prendo un respiro profondo e cerco con tutte le mie forze di trattenere le lacrime. "Jarvis, blocca la serratura" strofino la manica della felpa sugli occhi "Non voglio essere disturbata." Raggiungo la scrivania, sulla quale appoggio lo zaino per estrarne il contenuto. Prese le scarpe-razzo in mano, le fisso per qualche minuto, mentre le rotelline del cervello sfornano una nuova pseudo idea che ingloba il pensiero di realizzare un casco per le mie fughe aeree e il mio attuale stato d'animo. Ripongo le scarpe nello scatolone sotto il letto, poi mi sistemo in piedi davanti allo schermo del computer. "Jarvis, crea una nuova cartella Divina Commedia e inserisci tutti i file che vado a creare" "Come desidera signorina Stark" *** Rinchiusa nella mia stanza dal mio rientro burrascoso e immersa tra disegni, calcoli, test falliti e prove andate a buon fine, è passata anche l'ora di cena senza che me ne rendessi conto: soltanto quando sgranchisco le braccia, allungando la schiena sulla sedia, guardo fuori dalla finestra e noto che la città è già completamente avvolta dall'oscurità della notte; e non solo ho saltato la serata pizza, ma nessuno, nemmeno mia madre, si è fatto vivo per vedere se fossi ancora viva. Questo non fa altro che confermare ciò che ho detto loro circa tre ore fa. Come se mi avesse letto nel pensiero, una spia rossa si illumina sul mio cellulare e subito dopo anche Jarvis mi avvisa: "Attenzione! Mamma in avvicinamento." Salto in piedi in un nanosecondo, spingo la scatola degli attrezzi sotto il letto e, mentre nascondo i fogli in un cassetto della scrivania, esclamo: "Jarvis, salva e chiudi tutti i file e sblocca la porta!" Con un leggero balzo all'indietro, mi sdraio sul letto; afferro poi telefono e auricolari, fingendo di leggere un libro con la musica nelle orecchie. Nel momento in cui Pepper entra in camera, alzo lo sguardo su di lei per un solo istante, il tempo di vedere un vassoio di cibo tra le sue mani, prima di tornare a fingere di prestare attenzione ad una pagina casuale del libro di economia e marketing. Il lato sinistro del letto si abbassa poi sotto il peso del corpo di mia madre, la quale, una volta sdraiatasi al mio fianco con la schiena contro il poggiatesta – esattamente nella mia stessa posizione, allunga una mano sul mio volto e sfila un auricolare dalle mie orecchie. "Ti ho portato un trancio di pizza" "Grazie" Mi appresto a rimettere l'auricolare che mi aveva tolto, ma di nuovo me lo impedisce, questa volta prendendo la mia mano e avvolgendola nelle sue; in questo modo riesce anche a catturare la mia attenzione. "Ultimamente sei molto dura nei nostri confronti" mormora con lo sguardo puntato sulle nostre mani "Soprattutto con tuo padre." Alzo gli occhi al cielo, girando la testa verso la finestra. "Lo sai che lo facciamo solo per proteggerti" "So benissimo che lo fate perché mi volete bene, perché volete evitare che i cattivi mi trovino e mi rapiscano per fare un dispetto a papà, che mi facciano del male o peggio" ribatto seccata, tornando a guardare in faccia mia madre "Ma non potete nemmeno tenermi rinchiusa in questa casa per sempre, altrimenti tanto valeva non mettermi al mondo direttamente." Seguono alcuni minuti di silenzio. Poi mia madre sorride. "Siete molto simili tu e tuo padre" Roteo la testa per guardarla con un sopracciglio alzato. "Due teste calde che non intendono scendere a compromessi quando si tratta di qualcosa che vi sta molto a cuore: per Tony, sei tu; per te, è avere una vita pressoché normale" "Lotto per i miei diritti" faccio spallucce, spostando lo sguardo sul muro e trattenendo un sorriso "Me lo hai insegnato tu." Un sorriso dolce, seguito da un delicato bacio tra i capelli, sancisce la fine della nostra conversazione: si alza dal letto, diretta alla porta, ma prima di abbassare la maniglia si ferma e mi guarda un'ultima volta. "Ora mangia, fatti una doccia e riposati... affronteremo di nuovo il discorso domani, tutti insieme" Annuisco. "D'accordo. Buona notte mamma" "Buona notte tesoro" *** Cosa può fare alle tre di notte una ragazza di ventuno anni che non riesce a dormire? Nemmeno Google ha una risposta esaustiva alla mia disperazione, perciò abbasso il monitor del mio PC e lancio la testa all'indietro, lasciandomi andare ad uno sbuffo annoiato. Dopo aver passato alcuni secondi a fissare il vuoto più totale, mi alzo dalla sedia ed esco dalla mia stanza. Cammino in punta di piedi, più silenziosa di un ladro, fino alle porte dell'ascensore; quest'ultimo mi accompagna al piano di sotto della Stark Tower, adibito ad alloggio per ospitare l'intera squadra degli Avengers. Anche qui le porte si aprono su un ampio soggiorno affiancato da un enorme piano bar rifornito con gli alcolici più disparati: il sogno di ogni adolescente e il mio obiettivo per stanotte (devo aver letto su qualche blog che l'alcol aiuta a dimenticare i propri problemi). A passo felpato raggiungo quindi la mensola sulla quale è posizionata una bottiglia nuova di Brandy e la stappo senza fare il minimo rumore. Sto per versare il liquore in un bicchiere, quando una voce irrompe all'improvviso nel silenzio della stanza. "Fammi indovinare: sei sonnambula adesso o stai ancora scappando dai tuoi genitori?" Sussulto, e per poco la bottiglia non si frantuma sul pavimento. Girando il volto in direzione dell'ascensore, il mio sguardo incontra la figura di Captain America, appoggiato in tenuta borghese ad un mobile che divide il salone dal corridoio che porta alle stanze da letto. Mi ricompongo, fingendo di non essermi spaventata del suo arrivo, e riporto gli occhi sul bicchiere ancora vuoto. Faccio spallucce. "Magari entrambi" Sbuffa una risata sommessa e scuote la testa, incrociando le braccia al petto. "Non riesci a dormire?" "Non proprio" Versando un sorso di Brandy, seguo con la coda dell'occhio Steve che si avvicina al bancone e prende posto davanti a me. "Le facce dei miei genitori mi perseguitano anche la notte." Appoggio la bottiglia sul ripiano di marmo accanto al bicchiere, portando gli occhi sul ragazzo davanti a me; lui invece sta osservando il liquore con perplessità. "Mio padre numera tutte le bottiglie di alcolici e sarebbe impossibile rubargli anche solo una goccia." Assottiglia gli occhi, guardandomi con un sorrisetto appena accennato. "Quindi vengo qui, così in caso posso dare la colpa a Thor." Abbasso lo sguardo, sentendo l'imbarazzo montare dentro di me fino a raggiungere le guance. "Non che debba giustificarmi con te, ecco" balbetto. "No" mi fa cenno con la mano di versare un bicchiere di liquore anche a lui "No infatti." Dopo avergli porto il bicchiere, beviamo entrambi un sorso di liquore nel più totale silenzio. "Deduco che non è andata molto bene con i tuoi genitori." Schiocco la lingua contro il palato, tenendo lo sguardo fisso sulle luci della città che si vedono dalla vetrata. "Sono in punizione." "Mi dispiace," mormora Steve appoggiando il bicchiere sul bancone. Sollevo le spalle, inclinando la testa verso sinistra e accennando un sorriso rassegnato. "Non è molto diverso dal resto della mia giornata: prigioniera in casa mia fino a data da destinarsi." Il soldato guarda il bicchiere che fa roteare tra le mani come se fosse di grande interesse. "Questo significa che non dovrò più rincorrerti sui tetti?" Un sorriso sincero compare sul suo volto nel suo tentativo di smorzare l'atmosfera. "Oppure che starò più attenta a non farmi beccare!" Schiaccio l'occhiolino, finendo per far ridere entrambi. Cap scuote la testa divertito, affogando le sue risate nel Brandy che ancora è rimasto nel suo bicchiere, ed io lo imito, trattenendo lo sguardo sul suo viso anche negli istanti successivi all'aver posato i calici sul bancone. "Non ti ho ancora ringraziato per non aver detto a mio padre delle scarpe-razzo." Le pozze d'acqua azzurre che ha al posto degli occhi si sollevano fino ad incastrarsi nel mio sguardo. Il contatto visivo dura soltanto pochi secondi: tempo che lui scuote la testa e l'incantesimo si spezza. "Pensavo le avessi rubate dal laboratorio di Tony e non volevo peggiorare la tua situazione" arriccia le labbra in un sorriso di circostanza. "In realtà sono mie." Agito le poche gocce di liquido ancora sopravvissute nel bicchiere come scusa per non guardarlo. "Le ho create io." Steve mi osserva impassibile. "Non dovrei stupirmi, considerato il cognome che porti... mi sorprende che Tony non l'abbia ancora scoperto." Appoggiate le mani e il bacino al ripiano, sollevo le sopracciglia per dare carattere ad un'espressione furba. "Perché non sa dove guardare." L'ennesima nostra risata riscalda l'ambiente e ci avvia verso i fondi dei nostri liquori. Sistemo i calici ormai vuoti nel lavandino, mentre Steve alle mie spalle rimette a posto la bottiglia. Una volta raggiunto l'ascensore, strofino le mani tra loro. "Si è fatto tardi, è meglio che torni in camera mia prima che di sopra diano di matto" mormoro ricambiando lo sguardo di Steve. Annuisce con un sorriso. "Sei di ottima compagnia Mahogany Stark." Ricambio il sorriso e, poco prima che le porte dell'ascensore si chiudano, dico: "Anche tu non sei niente male Steve Rogers"

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Pov Steve Colpisco il sacco numerose volte ed ogni pugno ha una potenza diversa dall'altro - anche impercettibile. Ognuno di essi rappresenta un'emozione, un sentimento, uno stato d'animo distinto: rabbia, stanchezza, paura, pazienza, felicità, amore; tutte catalizzate in semplici movimenti del braccio che sfociano in colpi secchi che fanno oscillare il sacco da box. Da quando sono tornato nel regno dei vivi, questa attività è una delle poche che mi permette non solo di sfogarmi ma anche di riflettere, di riordinare la mente, di fare chiarezza su molte delle cose che stanno accadendo nella mia vita. È un momento indispensabile che riesco a ritagliare per me stesso tra una missione per salvare il mondo ed un'altra. "Non riesci ancora a dormire?" Fermo il sacco con le mani bendate, portando lo sguardo sulla figura femminile appoggiata allo stipite della porta della sala attrezzata per gli allenamenti della squadra. "Ho dormito per ben 70 anni" le rispondo, sganciando il sacco dal soffitto per poi riporlo nell'armadio a muro insieme agli altri "Direi che ho una buona scorta di sonno." Natasha avanza sotto le luci al neon della palestra, già infilata nella sua tuta nera aderente, con un mezzo sorrisetto in bilico tra il sarcastico e il malizioso. La osservo di traverso con un sopracciglio sollevato, mentre srotolo le fasciature delle mani. "Quindi trovarti al bancone del bar con la figlia di Stark nel cuore della notte sarà una cosa ricorrente d'ora in poi..." Lascia appositamente la frase in sospeso, in attesa di una mia reazione. Nel frattempo raggiunge la mia posizione, appoggiando il bacino contro la colonna accanto alla quale sono in piedi. Sbuffo un sorriso machiavellico e, tenendo gli occhi impegnati sulle mie mani, aggiro il discorso. "Ci stavi spiando, Romanoff?" "Ho il sonno leggero" sminuisce in fretta la questione con un'alzata di spalle. Mantenendo la stessa identica espressione di poco fa, riprende: "E non mi hai risposto." Muove impercettibilmente la testa, facendomi capire che non ha alcuna intenzione di cedere. Dopo aver abbassato di nuovo lo sguardo, sospiro. "L'ho soltanto sorpresa a rubare un liquore." "E da gentiluomo hai deciso di tenerle compagnia." Al mio sguardo truce, la rossa alza la mani davanti a sé in segno di difesa. "Sto solo dicendo che sono rimasta colpita nel vedere che non le hai fatto la ramanzina" appoggia una mano sulla mia spalla "Ma che ti sei unito a lei." Sospiro profondamente, trattenendo poi il fiato un po' più a lungo per soffocare un sorriso. "Non deve essere facile vivere esclusa dal mondo." Piega la testa, arricciando la bocca verso sinistra prima di controbattere: "Non deve essere facile nemmeno svegliarsi in un'altra epoca!" Indugia in quella posizione per un paio di secondi, nei quali mantengo il mio sguardo  pensieroso fisso sulla salvietta che sto arrotolando con le mani; picchietta poi le dita all'altezza della mia clavicola e, avviandosi verso la porta, mi avvisa: "Fury ha chiamato un meeting collettivo in sala riunioni tra dieci minuti." Raggiunto lo stipite, si volta nella mia direzione per l'ultima volta con un sorriso di compassione. La sua uscita di scena viene accompagnata dalla seguente frase: "Siete più simili di quanto immagini, Steve." Pov Mahogany "Si può sapere cos'è questa marcia funebre?" Alzo la testa al cielo, esasperata, mettendo in pausa il mio lavoro. "Mi sembrava di averti detto musica ispirazionale, non da tagliarsi le vene Jarvis!" In quel preciso momento la melodia cambia e We Will Rock You dei Queen riempie la stanza. Sorrido. "Ora sì che si ragiona!" Riprendo in mano il cacciavite a stella per avvitare le ultime giunture della visiera al resto del casco. Dopodiché stendo sul pavimento un paio di pagine di giornale recuperato stamattina dalla hall dell'edificio e, con un pennello da imbianchino, coloro di bianco e rosso magenta la mia scatola di latta. Decoro personalmente ogni mia creazione nonostante gli strumenti di mio padre siano in grado di sfornare qualsiasi abbellimento desidero. È come un marchio di fabbrica, ma si avvicina di più ad una forma di protesta pacifica e silenziosa. La vibrazione del mio cellulare sulla scrivania mi disturba. Ancora. "È di nuovo il signor Stark." Mi ripete il nostro assistente digitale; ed io per la quindicesima volta gli rispondo: "Ignoralo" si stancherà prima o poi aggiungo tra me. La mia speranza è però vana: nel momento di massima concentrazione in cui stendo la vernice sulle placche di metallo, la voce di Jarvis che spunta all'improvviso sopra le note della canzone mi fa sussultare e di conseguenza sbavare il colore. Un classico. "Signorina Stark?" Alzo gli occhi sul soffitto, maledicendo il nulla, poco prima di allungarmi per prendere uno straccio dalla sedia della mia scrivania e cercare di rimediare al danno commesso, pulendo la sbavatura. Terminata questa operazione con successo, getto il pezzo di stoffa a terra con un movimento scattante del braccio. "Cosa c'è adesso?" Sibilo a denti stretti. "Il signor Stark la sta aspettando nel salone: dice che è una questione urgente che-" Interrompo l'intelligenza artificiale per concludere la frase con il sarcasmo che Jarvis non ha salvato in memoria. "Mi riguarda in modo diretto." Sbuffo un ghigno sarcastico, lasciando cadere teatralmente le mani sulle ginocchia. "Non l'avrei mai detto!" Mio padre usa questa scusa quando ha bisogno di parlare con me di qualsiasi cosa, anche per sapere i gusti della pizza - che sono sempre gli stessi da più di due anni: prima era il suo modo di attirare la mia attenzione dopo una sua strigliata; ora è l'unico canale attraverso cui riesce avviare una conversazione con me. Non sempre funziona. "La aspetta anche la signora Stark" Un profondo cipiglio si crea sul mio viso: allora deve essere importante. *** Come immaginavo, in salotto trovo soltanto mio padre intento a camminare avanti e indietro tra il divano e la vetrata. Quando poi mi vede ferma a pochi passi dalla fine del corridoio, si immobilizza e, con le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, alza le sopracciglia con l'intento di rivolgermi uno sguardo truce. "Fingerò di non essere offeso nel vederti arrivare solo perché c'è anche tua madre!" Roteo gli occhi e sospiro. "E ti sorprende, dopo la sceneggiata di ieri sera?" Giro leggermente la testa di lato, assottigliando lo sguardo. "A proposito, per lo stato di New York sono maggiorenne e libera di fare ciò che voglio" "Non sotto la mia giurisdizione, tesoro" "La tua-" spalanco gli occhi, allucinata "Ma dove siamo, nel Far West?" "Smettetela!" Il repentino e improvviso ingresso di mia madre in salone è l'unica ragione per cui cessa il nostro tipico battibecco padre-figlia. Passa in mezzo alla nostra tempesta per raggiungere la sala da pranzo e, con il solito tono pacato che nasconde un'esasperazione grande quanto l'ego di mio padre, aggiunge: "Tutti e due!" Preso posto a capotavola e sistemati dei fogli davanti a sé, senza alzare lo sguardo da essi, ci fa segno con entrambe le braccia di unirci a lei, indicando le sedie libere al suo fianco. Sia io che mio padre le obbediamo, non prima di esserci scambiati un'occhiata perplessa. "Il papà ed io abbiamo parlato molto ieri sera sulla tua situazione dopo la tua... fuga" esordisce mia madre, rivolgendosi dapprima soltanto a me "E abbiamo raggiunto dei compromessi." Mi passa un paio di fogli di carta sulla quale è stampata una fitta pappardella. Scorro gli occhi sulle parole con superficialità. "Che-" alzo lo sguardo, confusa e anche un pochino spaventata, guardando prima mia mamma e poi mio papà "Che cos'è questo?" "Un contratto." Risponde Pepper con un sorriso accennato sul viso. "Un contratto?" Il mio sguardo, tanto allibito da risultare apatico, fissa il foglio per una manciata di secondi che passano in silenzio; quando poi si solleva e incontra i volti dei miei genitori, esprime alla perfezione quanto mi sento offesa. "È questo il livello di fiducia che avete nei miei confronti?" Senza battere ciglio, mia madre ribatte: "Non è per te." Mentre parla, gira il volto di quasi centottanta gradi e rivolge un sorrisetto a mio padre. Poso di nuovo lo sguardo sui fogli. "Beh, questo ha più senso." Il diretto interessato alza gli occhi al cielo, accompagnando il gesto con un profondo sospiro reso teatralmente drammatico; il tutto sfocia in uno sbuffo. "Avanti, leggi." Mi fa poi segno di leggere ad alta voce. Schiarisco la gola. "Il sottoscritto Anthony Edward Stark dichiara bla bla bla, rispettare i patteggiamenti bla bla bla, alla figlia Mahog... oh ecco!" Mi sistemo composta sulla sedia, elettrizzata all'idea di aver finalmente ottenuto ciò che volevo - con cinque anni di ritardo, ma sempre meglio di niente. "Alla figlia Mahogany Maria Stark è quindi concesso: punto uno, di uscire dalla torre per un totale di quattro ore giornaliere distribuibili a piacimento, previa comunicazione del percorso e della durata del suo allontanamento. Punto due, di non essere scortata da nessuna guardia del corpo durante l'attività di cui al punto uno, a patto che la signorina tenga il cellulare acceso, con il localizzatore inserito e che risponda alle chiamate." Un saltello di gioia interiore si manifesta anche esternamente nel sorriso a trentadue denti che si allarga a vista d'occhio sul mio viso. "Punto tre, di scegliere numero 1 locale per giovani in cui conoscere persone della sua età e di comunicare tempestivamente il nome di suddetto edificio... aspetta, uno solo?" Mia madre mi fa segno di proseguire. "Punto quattro, di iscriversi ad una università di suo gradimento, con restrizione del campo alle suddette che effettuano lezioni online- ma perché?" Batto i pugni sul tavolo. "Perché non posso frequentare una scuola normalmente per una volta?" "Mag-" "No!" Alzo la voce senza rendermene conto. "Voglio una spiegazione che vada oltre il solito è per il tuo bene!" Questa volta è mio padre a sbattere i palmi delle mani sul tavolo prima di protrarsi in avanti con il busto. "Perché è un ambiente pericoloso, pieno di gente falsa, calcolatrice ed egoista, pronta a sfruttarti non appena capiscono che sei la loro chiave per sfondare un portone!" Il mio cuore batte più velocemente del normale e la mia bocca si limita a deglutire aria. Non appena si accorge dello sguardo basso e dell'espressione mortificata sul mio viso, il suo si rilassa e si addolcisce. "Capisco che sapere che lo facciamo per il tuo bene non ti basta più, ma..." la sua schiena torna ad aderire alla sedia "Meno di due anni fa credevo che la minaccia più grande sarebbe stato un ragazzo che prima o poi avrebbe varcato la porta di casa vantando di aver rubato il cuore della mia bambina." Arriccia le labbra in un sorriso molto simile al mio. "Adesso devo convivere con la costante paura che tu possa ritrovarti in giro per la città nel bel mezzo di un attacco alieno." Abbasso lo sguardo sulle mie mani che giocano nervosamente con i lacci dei pantaloni. "Lo so che fai tutto questo per proteggermi" poso di nuovo lo sguardo su di lui "E ti voglio bene, davvero tanto, anche se litighiamo quasi sempre. Per questo ti ringrazio di esserti sforzato, di aver fatto questo sacrificio per rendermi felice." Con le lacrime agli occhi ed un sorriso sincero sulle labbra, afferro la penna dalle mani di mia madre e firmo il contratto. Dopodiché corro ad abbracciare mio padre. Pov Pepper Raccolti i documenti in una busta trasparente, mi alzo dallo sgabello della penisola con il desiderio di immergermi in una vasca di acqua calda per rilassarmi e recuperare le forze. Sono solo le undici e dieci, ma questo è il prezzo per vivere con ben due Stark. Prima di lasciare la torre per andare in ufficio, passo nel laboratorio di Tony per sistemare il contratto che ho dovuto redigere per non scatenare una guerra civile in casa mia. Sorpassata la porta a vetri, lo vedo intento ad avvitare un'altra delle sue diavolerie di invenzioni. "Lo appoggio accanto alla cornice del quadro con la barretta" Alzo il plico di fogli per renderlo partecipe. "Mi prometti di non farlo sparire?" Annuisce senza neppure sollevare lo sguardo. Lo osservo con gli occhi ridotti a delle fessure per una manciata di secondi. "Non hai intenzione di lasciarla uscire da sola, dico bene?" "No" "La farai pedinare da Happy?" "Sì"

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Pov Steve Con più di mezz'ora di ritardo anche il grande Tony Stark, riemerso dai meandri del suo laboratorio, degna il resto della squadra della sua presenza. Nel momento in cui si giustifica allargando le braccia e dicendo: "Problemi di famiglia", prendo un respiro profondo con le braccia incrociate al petto e chiudo gli occhi, alzando le sopracciglia. Spero solo non si riferisca a Mahogany e ad un possibile peggioramento della sua situazione. Quando mi volto verso la figura del direttore Fury, già in piedi a capo del tavolo con il proiettore acceso, incrocio lo sguardo di Natasha che, a differenza del resto del team, osserva me invece di Stark che prende posto accanto a Barton. Non mi azzardo a fare domande, prestando la mia totale attenzione alle parole del direttore dello S.H.I.E.L.D. "Come avrete già avuto modo di vedere in televisione, in questi giorni si sono verificati una serie di attacchi in diverse parti del Nord America: Filadelfia, Denver e Dallas. L'ultimo si è verificato ieri sera si è verificato a Washington DC:" Le immagini iniziano a scorrere una dopo l'altra sullo schermo alle spalle di Fury. "Un uomo si è messo a sparare all'impazzata con due Colt M1911 nel salone di un rinomato hotel che ospitava il Red Velvet Gala." "È un ballo di beneficenza organizzato ogni anno dagli uomini più ricchi e influenti del mondo" specifica l'agente Romanoff "Una trovata pubblicitaria per indorare l'immagine delle imprese e per stringere alleanze commerciali a beneficio degli imprenditori." "Alcuni degli uomini più ricchi." Sottolinea Tony puntando il dito contro Natasha con un velo di irritazione nella voce. "Che c'è Stark? Non sei stato invitato?" Scherza Thor, provocando un sorriso sul volto di tutti, meno su quello del diretto interessato. "Ci sono state vittime?" Chiede Banner, sistemando gli occhiali sul ponte del naso, riportando in questo modo l'attenzione sui fatti importanti. "Fortunatamente le armi erano puntate verso il soffitto, per cui i feriti non sono molti e i pochi hanno riscontrato ferite non gravi." Prosegue Fury "Sono stati però rinvenuti due corpi: sono stati identificati come John Clark e Mark Murray, il primo possiede un'azienda che produce armamenti per l'esercito americano e il secondo fabbrica proiettili; presumibilmente gli obiettivi principali." "È stato individuato il colpevole?" Chiedo pensieroso. A seguito della mia domanda, un'immagine precisa appare sullo schermo di fronte ai nostri occhi: un uomo dai capelli neri che ricadono sulle spalle, con il volto coperto in gran parte da una mascherina nera e una protesi in metallo al posto del braccio sinistro. "Si fa chiamare il Soldato d'Inverno" interviene Clint, che subito punta lo sguardo sulla Romanoff "Abbiamo fatto la sua conoscenza un po' di tempo fa, durante una missione in Oklahoma: non è un tipo amichevole." "Pensa che i vari attacchi siano collegati?" Domanda Stark in tono serio. "Temiamo di sì. Una squadra di agenti è già sul campo per raccogliere informazioni in merito all'ultimo incidente e ho reclutato i migliori analisti per trovare un movente e delle possibili affiliazioni con altre organizzazioni... è più che probabile che il Soldato d'Inverno non lavori da solo." Riprende il direttore "Il vostro compito, per il momento, è scovarlo ed evitare che uccida ancora." L'intera squadra si alza in piedi. "Mettiamoci al lavoro!" Pov Mahogany Programmo il computer per la riproduzione automatica di alcune note vocali preregistrate - nel caso in cui qualcuno bussasse alla porta della mia stanza; apro poi i vetri della mia finestra, infilo il casco fresco di verniciatura in testa e mi lancio dal trentesimo piano della Stark Tower emettendo un grido di pura adrenalina e divertimento. Sbattendo le scarpe l'una contro l'altra, si attivano i propulsori ed io schizzo in aria fino a bucare una nuvola.  Ora vi starete chiedendo: perché fuggire di nascosto se hai appena firmato un accordo che ti consente di uscire liberamente? La risposta è molto semplice: per il gusto di farlo. E per il fatto che né mio padre né tanto meno mia madre sanno che ho costruito delle scarpe volanti. Faccio un paio di giravolte nel cielo, fingo di correre a testa in giù sulla superficie vaporosa delle nuvole e plano sull'oceano, riuscendo persino ad immergere una mano nell'acqua salata, prima di atterrare sulla cima di un grattacielo. Avrei scelto l'Empire State Building se non fosse sempre così tanto affollato. Sfilo il casco e lo appoggio alla mia destra subito dopo essermi seduta sulla ringhiera di una terrazza panoramica con le gambe a penzoloni nel vuoto. Un sospiro sconsolato abbandona le mie labbra nello stesso istante in cui incrocio le braccia sulla sbarra di metallo più alta per appoggiarvi sopra il mento. Sebbene oggi l'intera città di New York sia coperta da uno spesso lenzuolo di nuvoloni grigi, il suo fascino resta indiscusso ed impareggiabile. Non capisco proprio come facciano i newyorkesi a vivere le loro vite frenetiche circondati da tanta bellezza senza fermarsi ad ammirarla anche solo per pochi istanti. È da pazzi! Al loro posto, con le finestre che abbondano in ogni palazzo, rimarrei imbambolata anche delle ore ad osservare questo paesaggio da diverse angolazioni. Purtroppo il mio momento di adorazione finisce più in fretta di quanto immaginassi: il rumore di un tonfo sordo mi sorprende alle spalle, facendomi sussultare e di conseguenza voltare con uno scatto. La figura misteriosa, dopo essersi rimessa in piedi, si rivela essere il Capitano Steve Rogers. Mentre avanza nella mia direzione, mi ritrovo a sbuffare esasperata. "Mi hanno beccata anche stavolta?" Con un sorrisetto divertito e lo sguardo puntato sulla balaustra sulla quale sono seduta, risponde con un semplice: "No." Aggrotto la fronte, confusa. "Allora come mai sei qui e come mi hai trovata?" Nel frattempo Steve mi ha raggiunta, posizionandosi in piedi al mio fianco, con le mani nelle tasche dei pantaloni beige e gli occhi puntati sull'orizzonte. "Grazie al cip che hai nel collo" Sentenzia con nonchalance, mentre io mi giro verso di lui con il volto paonazzo. Non appena incrocia il mio sguardo terrorizzato, abbozza una risata ed esclama: "Sto scherzando!" Del fiato che ho inconsapevolmente trattenuto per una manciata di minuti lascia la mia bocca, emettendo una risatina stridula e nervosa che sfugge al mio autocontrollo. Ripresa in mano la situazione, schiarisco la gola e rigiro la frittata a mio favore, facendo uso di un po' del sarcasmo ereditato da mio padre. "Chi l'avrebbe mai detto: il leggendario Captain America ha il senso dell'umorismo! Wow!" Sfociamo entrambi in una risata genuina. Intanto che prende posto sulla ringhiera accanto a me, domanda: "Come mai sei scappata di nuovo?" Sospiro, ammirando la scia che si forma sulla superficie dell'oceano al passare di un traghetto semi vuoto. "Mi godo l'ultimo briciolo di libertà prima che entrino in vigore le nuove regole." "Avete litigato di nuovo?" Sento lo sguardo magnetico del soldato puntato sul mio viso con insistenza; nonostante questo, mi concentro affinché la calamita di quelle pozze cristalline non abbia la meglio sul mio autocontrollo. Di nuovo. Scuoto quindi la testa, seguendo il tragitto dell'imbarcazione con esagerata attenzione. "No, abbiamo contrattato pacificamente questa volta, ma mi aspetto comunque di tutto." La conversazione cade in un punto morto, tanto che il silenzio aleggerebbe tra di noi se non fosse per i clacson delle automobili in coda sotto i nostri piedi che suonano all'esasperazione. Per fortuna passa poco tempo prima che Steve riprenda a parlare. "Posso farti una domanda?" Mi volto verso di lui, ma ancora una volta i suoi occhi sono rivolti altrove. "Certo." "Cos'è che ha fatto scattare la tua voglia di avere una vita normale?" "Il tempo credo." Sospiro, tornando a guardare le nuvole farsi sempre più scure sopra le nostre teste. "Da bambina mi reputavo molto fortunata a passare tutto il tempo insieme ai miei genitori: mi sentivo come le principesse nelle favole, chiuse nel loro castello incantato in attesa che arrivasse il principe azzurro a salvare; e puntualmente arrivava, tutte le sere, dopo il lavoro, a proteggermi dal mostro sotto il mio letto." Racconto con gli occhi scintillanti di emozione. "Poi sono cresciuta, mi sono iscritta sui primi social network e ho visto come le persone della mia età vivevano davvero: gli amici, le feste, i viaggi, la scuola... mi sono accorta che non stavo vivendo veramente! Quindi ho iniziato a pensare: perché io no? Cos'ho io in più o in meno di questi ragazzi? Anche io voglio sperimentare l'ansia di un esame, il calore di un abbraccio, una delusione d'amore, l'adrenalina di prendere l'aereo, la gioia di un successo e l'abbattimento di una sconfitta. Improvvisamente la mia casa non mi bastava più e la mia vita mi stava stretta. Così è nato il progetto di queste scarpe." Faccio oscillare i piedi nel vuoto con un sorriso compiaciuto. Quando infine mi giro verso Steve, trovo il suo sguardo già impegnato a scrutare attentamente ogni centimetro del mio viso. Sento le guance andare a fuoco perciò, con un sorrisetto imbarazzato, abbasso lo sguardo sulle mie ginocchia. "Scusa," sussurro "devo sembrare molto infantile ai tuoi occhi..." "No, affatto." Ribatte lui con convinzione. Torno a guardarlo con un cipiglio in volto. "Scherzi? Tu hai sacrificato tutto, hai dato la tua stessa vita per salvare milioni di persone anni fa! E in cambio, ti risvegli più di mezzo secolo dopo: la guerra è finita, il mondo si è evoluto, tutto è cambiato e la vita che avresti dovuto vivere non c'è più!" La sua mascella, sebbene offuscata dal grigiore delle nubi, si contrae visibilmente e il suo volto si rabbuia più del cielo sopra le nostre teste. D'istinto, allungo una mano affinché gli sfiori il braccio; ma nel momento in cui si volta nella mia direzione e una lacrima sfugge a quegli occhi celesti, essa cambia traiettoria e finisce per posarsi sulla guancia morbida del Capitano, eliminando ogni traccia di quella lacrima. "Sono finito in mezzo al ghiaccio subito dopo aver trovato l'amore della mia vita." Confessa con uno sbuffo, mentre le labbra si incurvano in un sorriso amareggiato. "Quando ne sono uscito, pensavo che tutti quelli che conoscevo fossero morti... invece ho scoperto che lei era ancora viva e mi sono sentito così fortunato ad averla ancora! Ma adesso- adesso se n'è andata anche lei." Singhiozza senza darlo troppo a vedere. "Sono stato solo per la maggior parte della mia vita, Mahogany." Il suo sguardo si incastra nel mio. "Non mi sono mai integrato da nessuna parte, nemmeno nell'esercito. Dopo essermi risvegliato, dopo che... la vita mi aveva dato una seconda opportunità, pensavo di rimettermi in gioco, seguire gli ordini, servire il mio paese... ma non è più lo stesso." Un sorriso consapevole spunta sul suo volto nell'istante in cui la sua testa si gira in direzione dell'oceano. "La verità è che il ragazzo che voleva tutto questo è rimasto sotterrato 70 anni fa da metri e metri di ghiaccio, e un'altra persona è uscita al suo posto." Deglutisco un doppio nodo che si è formato all'altezza della laringe, spostando a mia volta lo sguardo sul panorama mozzafiato che si staglia dinnanzi alla città. Un raggio di sole buca le nuvole e filtra tra di esse illuminando la Statua della Libertà che si intravede da lontano. "L'agente Romanoff dice che siamo molto simili io e te." Sussurra "Io credo che non potremmo essere più diversi." Un lungo e profondo respiro lascia le mie labbra. Con esso, anche le successive parole fluiscono dalla mia bocca prima ancora che abbia il tempo di elaborarle: "Beh, non ha tutti i torti." Dopo aver attirato il suo sguardo confuso e allo stesso tempo curioso sulla mia persona, tossicchio per l'imbarazzo. Quest'ultimo sembra dissolversi insieme alle goccioline di umidità nell'atmosfera quando le iridi cerulee di Steve Rogers si focalizzano sui miei occhi. "Se ci pensi bene," arriccio le labbra e alzo leggermente la spalla sinistra "siamo stati strappati entrambi dalle nostre vite contro la nostra volontà - in modo diverso, certo, ma il concetto è quello - e ancora cerchiamo il nostro posto nel mondo." Non saprei dire se è più sbalordito senza parole o sbalordito ripugnato: il suo sguardo è indecifrabile e cercare di capire cosa gli passa per la testa è ancora del tutto fuori dalla mia portata. Sono un genio, non un veggente. Ogni mio dubbio viene svelato nel momento in cui avverto un suo spostamento in avanti, più vicino a me. O forse sono io che mi sto avvicinando a lui. Entrambi? Qualsiasi cosa stia succedendo, i nostri volti sono ora molto vicini tra loro, pochi centimetri separano i nostri nasi dallo sfiorarsi; percepisco il calore del suo respiro sulla mia pelle e ormai non riesco più ad impedire che i miei occhi si immergano completamente nei suoi. Sento il cuore battere nel mio petto al ritmo di un martello pneumatico che sta bucando l'asfalto per trapassare il terreno e ritrovarsi dall'altra parte del mondo, e una sensazione di vuoto, inspiegabilmente piacevole, mi attanaglia ogni organo interno fino alle sue viscere. Devo aver letto qualcosa da qualche parte riguardo a delle farfalle nello stomaco, ma quello che sento io dentro di me è più simile ad un urugano che ad uno stormo di insetti! Le nostre labbra si sfiorano. Non ho idea del perchè o del come, ma istintivamente i miei occhi si chiudono. Poi accade: un dannatissimo bip bip frantuma il momento, spezza l'atmosfera, disintegra qualsiasi cosa stesse per succedere. La bolla di sapone in cui eravamo isolati scoppia e veniamo catapultati nuovamente sul tetto di un grattacielo nella rumorosa e caotica New York. Steve controlla l'orologio che porta al polso, uno dei nuovi dispositivi di comunicazione di mio padre, poco prima di riportare lo sguardo su di me. "La squadra ha bisogno di me." Sussurra "Devo andare." Annuisco soltanto dopo aver deglutito un boccone amaro che si è trascinato via anche la sensazione di prurito agli occhi. Mordo il labbro inferiore con prepotenza solo per riuscire a guardarlo di nuovo negli occhi senza sentirmi una sciocca. "Certo, vai pure... tanto sarei dovuta rientrare comunque anche io." Mentre Steve si rimette in piedi, senza staccarmi gli occhi di dosso, io ammiro il sole che lotta con tutte le sue forze per sconfiggere le nuvole e tornare a splendere sui tetti di Manhattan ancora un po'.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Dopo aver passato gran parte della notte a fare ricerche sulla storica fiamma di Captain America e aver scoperto che non solo era una meraviglia di donna, ma ha anche fatto parte della Riserva Scientifica Strategica ed era tra i fondatori dello S.H.I.E.L.D. - in poche parole una vera e propria leggenda, ho trascorso l'altra metà a girarmi e rigirarmi nel letto, lottando contro l'immagine di Steve che mi lascia da sola su quel tetto come una scema che si ostinava ad apparire davanti ai miei occhi ogni volta che li chiudevo. La buona notizia è che da stamattina avrò le mie quattro ore giornaliere di completa libertà da trascorrere come, dove e con chi voglio. Superate le porte automatiche all'ingresso dell'edificio, compio alcuni passi in avanti per poi fermarmi al centro del marciapiede e guardarmi attorno. Non è cambiato pressochè nulla dall'ultima volta che sono uscita dalla porta principale: sulle strade sfrecciano numerose automobili di modelli e grandezze diverse, davanti ai negozi c'è un via vai continuo di gente che entra, esce oppure si ferma soltanto ad ammirare le vetrine, il famigliare profumo di pane appena sfornato che proviene dalla forneria qui accanto si diffonde con rapidità nell'aria circostante, i semafori cambiano colore quasi al ritmo con cui i clacson vengono suonati e i grattacieli da qua sotto sembrano voler toccare il cielo con le proprie punte affusolate. Chiudo gli occhi e inalo un profondo respiro, pronta a godermi le prime ore della mia nuova vita semi normale. "Ciao Mahogany." Alle mie spalle, una voce femminile richiama la mia attenzione. Mi volto nella sua direzione, riconoscendo subito Natasha per via dei suoi caratteristici capelli rosso fiammante. "Nat- Agente Romanoff!" Correggo il saluto e la mia postura ancor prima che la vocina di mia madre riecheggi nei miei timpani per ricordarmelo. Ma la donna, con un sorriso abbozzato e lo sguardo compiaciuto, mi tranquillizza. "Per te sono ancora Nat." Un sospiro di sollievo lascia quindi le mie labbra, sulle quali si forma un sorriso sincero. Per chi non lo sapesse, Natasha è stata per qualche tempo sotto copertura alla Stark Industries, affiancando mia madre come assistente, per tenere d'occhio mio padre per conto di Nick Fury. Avevo diciassette anni quando l'ho conosciuta per la prima volta sotto l'alias di Natalie Rushman. Non stavo passando un bel periodo, considerando che mio padre aveva rivelato al mondo intero di essere Iron Man da poco più di due settimane ed io ero già agli arresti domiciliari per paura che qualcuno potesse prendersela con me per arrivare a lui; nonostante questo Nat mi è stata molto vicino, aveva sempre le parole giuste al momento opportuno ed era apparentemente l'unica che riuscisse a capire davvero come mi sentivo. Anche dopo aver scoperto la sua vera identità, è rimasta la figura più simile ad un'amica che abbia mai avuto. Il suo stanziamento alla Stark Tower infatti, provvisorio o definitivo che sia, mi ha fatto molto piacere. "Ho sentito che Tony ha acconsentito a farti uscire da sola." Mi stuzzica con un sorrisetto ed una gomitata amichevole sul braccio. "Avevi già in mente qualcosa?" Scuoto la testa. "Veramente no..." Aggrotto le sopracciglia e sposto gli occhi su di lei. "Non ti ha mandata lui a controllarmi vero?" Ma Natasha alza subito le mani, mettendosi sulla difensiva. "Sono ancora fuori servizio." "Stavo giusto andando a fare colazione, ti aggreghi?" Mi domanda pochi secondi dopo, vedendomi persa ad ammirare il traffico. Mi riscuoto con un respiro più profondo degli altri e, riportando lo sguardo sulla rossa, annuisco. "Sì ti prego, sto morendo di fame!" *** Dopo avermi portata nel paradiso della pasticceria ed aver condiviso con me una fetta della torta Red Velvet, Natasha si offre per farmi compagnia ancora qualche minuto prima di rientrare alla base. Il silenzio aleggia tra di noi, forse per via del fatto che abbiamo esaurito quasi tutti gli argomenti di conversazione durante l'ora abbondante passata in pasticceria: per tutto il tempo abbiamo parlato dell'attacco alieno dell'anno scorso, di come ci si sente ad essere l'unica donna in una squadra di uomini e di quanto mi piacerebbe un giorno diventare una spia come lei e Clint, ma non ho ancora avuto il coraggio di domandare spiegazioni riguardo una frase che Steve ha detto ieri sera. Forse è giunto il momento di farlo. Deglutisco e al contempo mi schiarisco la gola, prendendo tempo per formulare la domanda e coraggio per porgliela. "Hai parlato di me con Steve Rogers per caso?" Mantengo lo sguardo fisso davanti a me, nonostante la curiosità di guardare l'espressione sul suo viso è enorme; poi prendo un respiro profondo e lo trattengo nei polmoni finchè non mi risponde con: "Quindi vi siete incontrati di nuovo." "Sì" rispondo di getto, senza pensarci; per questo tento di correggermi, aggiungendo: "Beh, diciamo che io sono scappata ancora e lui mi ha seguita... di nuovo." Il silenzio che segue mi dà la conferma del fatto che ha parlato con Steve, ma non ha alcuna intenzione di confessare se nè cosa gli ha rivelato sul mio conto. Così decido di stuzzicarla. Incrocio le braccia al petto e, dopo aver preso un altro respiro profondo, chiedo: "Perchè gli hai detto che siamo simili?" "Perchè è quello che penso." Risponde soltanto. La guardo con la coda degli occhi, ma lei persiste nel tenere lo sguardo fisso davanti a sè. Infilo le mani nelle tasche dei jeans, nascondendo la testa tra le spalle sollevate. Sospiro. "Quindi presumo non mi dirai quello che gli hai detto..." "No." Ribatte lei con un sorriso machiavellico, al quale rispondo con uno sbuffo bambinesco. Arrivate davanti all'ingresso della torre ci fermiamo l'una davanti all'altra. Solo allora i suoi occhi verdi si spostano su di me, illuminati dallo stesso sorrisetto di pochi minuti fa. Dopo avermi fissata per una manciata di secondi, fa un passo avanti. "Una cosa posso dirtela," sposta una ciocca di capelli dietro il mio orecchio prima di avvicinarsi e sussurrare: "Qualcuno ci sta seguendo da quando siamo uscite dalla pasticceria." Annuisco con uno sospiro disperato. "Sì, è Happy: mio papà deve averlo incaricato di pedinarmi lo stesso..." Allungo gli angoli della bocca, mostrando i denti, e arriccio il naso. "Peccato che sia una spia terribile!" A quel punto Natasha si volta e si avvia verso le porte automatiche della hall. Allargo le braccia con occhi e bocca spalancati. "Tutto qui?" "Sì!" Esclama di spalle, sollevando una mano in segno di saluto. "Ma lo sapevo già!" Piagnucolo, quando ha ormai varcato le soglie della Stark Tower. Sbuffo e, afflitta per non essere riuscita a scoprire niente di nuovo su Steve e sui suoi presunti sentimenti, proseguo il mio girovagare per la città. Estraggo il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e lo posiziono poco più a destra del mio viso in modo da inquadrare l'area alle mie spalle: mi bastano cinque secondi per individuare la figura di Happy che cammina come se niente fosse a soli due metri da me. Alzo gli occhi al cielo scuotendo la testa, mentre rimetto il telefono al suo posto. Aumento gradualmente la velocità dei miei passi, affinché Happy non si insospettisca, mimetizzandomi con la fiumana di gente che percorre lo stesso marciapiede nei due sensi opposti fino a quando, voltandomi indietro, la faccia conosciuta della mia guardia del corpo non rientra più nel mio campo visivo. A quel punto viro a sinistra, imboccando l'entrata di un negozio di abbigliamento di cui non guardo nemmeno il nome. Una volta dentro, mi è più facile camuffarmi tra manichini, clienti e reparti divisi; così com'è più semplice e divertente beccare Happy con le mani nel sacco. Da dietro uno dei tanti appendiabiti con le rotelle infatti riesco a vedere l'esatto momento in cui l'uomo varca la soglia di ingresso guardandosi attorno per ritrovarmi. Non appena si muove, scivolo via dalla mia attuale postazione fino a raggiungere la scaffalatura in legno dietro la quale si trova ora l'addetto alla mia sicurezza. Appoggio la spalla destra contro il ripiano, osservando l'uomo che gira su se stesso proprio davanti ai miei occhi con una risata in canna. Nel momento in cui mi passa davanti, per puro divertimento più che per pietà, lo spavento. "Cercavi forse me?" L'uomo, ancora di spalle, sussulta, voltandosi nella mia direzione con uno scatto. Sollevo le sopracciglia e arriccio le labbra, salutando con la mano. "Signorina Stark, che coincidenza!" Finge spudoratamente di essere sorpreso di vedermi. "Pepper mi ha incaricato di procurarle un vestito per una cerimonia importante." Sbatto più volte le ciglia, impassibile. Poi incrocio le braccia al petto, riducendo gli occhi a due piccole fessure puntate sul suo volto. "Da Urban Outfitters?" Balbetta. "Non sono molto pratico di abbigliamento femminile." "Happy," sorrido trionfante "siamo da H&M e sono più che sicura che a mia madre non serva un nuovo vestito elegante, visto che ne ha comprato uno lei stessa la settimana scorsa." L'uomo in nero chiude gli occhi e si massaggia il ponte del naso con pollice e indice. "E va bene, che cosa vuoi?" Sorrido sorniona. "Che ti prendi il resto della giornata libero." Cerca di ribattere, ma lo fermo ancor prima che apra bocca, posizionando una mano davanti a lui. "Altrimenti mi vedrò costretta a riferire al tuo capo che non sei una brava spia." Assottiglia lo sguardo. "È un ricatto?" Sollevo un sopracciglio. "Assolutamente sì!" Happy si lascia sorpassare senza controbattere, permettendomi di uscire indisturbata dal negozio. Con un sorriso vittorioso stampato in faccia, mi mescolo di nuovo tra la gente, stavolta senza l'ansia di essere costantemente sorvegliata a distanza da qualcuno. Finalmente mi posso godere un po' di quella vera e sana libertà che gli adolescenti normali sperimentano già a tredici, quattordici anni. Cammino con il mento rivolto verso l'alto, cosicché i miei occhi abbiano la possibilità di soffermarsi su ogni piccolo ed insignificante dettaglio che compone il mondo che mi sta attorno. Saetto lo sguardo ad ogni dove, mentre la gente mi scorre a fianco, mi sorpassa e mi evita prima che possa scontrarsi con me. Non tutti sono però tanto svelti da riuscirvi: arrivata ad un incrocio infatti mi schianto contro qualcosa di troppo morbido per essere un muro o una macchina. Negli attimi successivi all'impatto, i miei occhi scattano ovunque fino a fermarsi sulla figura di una ragazza snella, intenta a sistemarsi il cardigan spiegazzato. "Oddio, scusami tanto, non ti avevo vista!" Esclama mortificata poco dopo avermi inquadrata e riconosciuta come l'ostacolo che non ha evitato. Abbozzo un sorriso, ancora stordita dall'accaduto. L'unica persona contro cui mi sia mai scagliata è stato mio padre e intendo in modo metaforico. "Tranquilla, è tutto a posto..." "Sicura? Posso-" Si interrompe all'improvviso, lasciando la frase in sospeso. Sollevo quindi lo sguardo sul suo volto con le sopracciglia aggrottate, trovandoci un'espressione di puro stupore. La vedo darsi un potente pizzicotto sul braccio. "Oddio, ma allora non sto sognando! Tu sei proprio Mahogany Stark!"

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Una vampata di calore scorre lungo le braccia fino ad infuocare il cervello e il livello di sudorazione sale alle stelle. Deglutisco ripetutamente anche in assenza di saliva, mentre i polmoni sembrano aver perso la loro autonomia nel respirare. Il cuore batte nel mio petto con tanta forza e velocità da farmi quasi lacrimare gli occhi, i quali si dilatano sempre di più. Non ho idea di quanto tempo resto in piedi al centro del marciapiede a fissare il volto della ragazza senza sapere cosa fare. Mi sono quasi pentita di aver mandato via Happy: lui avrebbe sicuramente saputo come gestire la situazione al meglio. Al contrario mio che, presa dal panico, afferro il polso della sconosciuta e la trascino in un vicoletto buio, bloccandola contro il muro. Dopo essermi assicurata che nessuno ci abbia viste, faccio un passo indietro, incapace di guardare il volto terrorizzato della ragazza che ho davanti. "Oh cavolo, adesso mi vaporizzi con il tuo raggio laser?" Piagnucola lei con il corpo rigido e le spalle ancora incollate al muro. "Cosa? No!" Mi giro di scatto verso di lei. Passando una mano tra i capelli, borbotto: "Comunque sono raggi repulsori e non vaporizzano la gente." Cammino avanti e indietro di fronte alla ragazza nel disperato tentativo di farmi venire in mente in fretta qualcosa di geniale in grado di farmi uscire da questa situazione senza passare dei guai. Le labbra tremano tanto da costringermi a tenerle strette tra i denti, e ancora fatico a controllarle, mentre scuoto nervosamente le mani, come se il loro movimento potesse accelerare l'arrivo di una soluzione. "Oddio!" Esclama la castana, allungando la mano verso di me. "Ti ho spaventata?" Mi ritraggo poco prima che le sue dita possano entrare in contatto con il mio braccio, poi scuoto la testa energicamente, sentendo le guance andare a fuoco e il cuore galoppare nel petto come una mandria di cavalli sbizzarriti. "Fidati, so riconoscere un attacco di panico quando ne vedo uno." Si avvicina un passo alla volta fino ad appoggiare entrambe le mani sulle mie spalle. "Ascoltami: ora prendi un bel respiro." Inizio ad inspirare ed espirare profondamente seguendo il suo consiglio. Pochi minuti più tardi, le mie pulsazioni rallentano, ricominciando a battere al loro ritmo solito, e il respiro, prima corto e affannato, torna ad essere regolare. "Okay," sospira di sollievo "ora che ne dici se ti offro un caffè per farmi perdonare?" Annuisco. "Sì, ci sto." Prima di compiere anche solo un passo per tornare sulla via principale, la ragazza, che avrà all'incirca la mia età, allunga una mano davanti al mio volto. "Mi chiamo Erika Brant comunque." Pov Steve Indosso l'elmetto mentre cammino per tutta la lunghezza del Quinjet, fino a raggiungere lo sportellone posteriore. "Due minuti e saremo sopra l'obiettivo!" Ci informa Tony, alla guida della navicella. Non è servito molto tempo allo S.H.I.E.L.D. per ricollegare il movente dei recenti attacchi ad un ingente riarmo di un'ignota organizzazione criminale e, trattandosi del Soldato d'Inverno, le ipotesi ci hanno condotti all'Hydra, uno spietato gruppo criminale fondato da fanatici nazisti durante la seconda guerra mondiale. Settant'anni fa avevo già sconfitto il loro leader, un super soldato mal riuscito che si faceva chiamare Teschio Rosso, e dai file che ci ha passato l'agente Hill, la parte restante dell'organizzazione è stata smantellata dalla Riserva Scientifica Strategica poco dopo la mia scomparsa. Tuttavia non è impossibile che alcuni affiliati dormienti, fuggiti allora agli arresti, abbiano portato avanti il folle piano di conquistare il mondo ideato da Teschio Rosso. Con le nuove tecnologie avanzate che l'umanità ha a sua disposizione, è stato un giochetto da ragazzi per gli agenti dello S.H.I.E.L.D. rintracciare i furgoni che trasportavano le armi subito dopo gli attacchi ed individuare il nascondiglio dei cattivi. Fin troppo semplice per i miei gusti. Prendo uno dei numerosi paracadute a zainetto appesi alla parete dell'aereo; lo metto a spalle, allaccio il gancio di sicurezza sull'addome e riprendo in mano lo scudo, pronto a catapultarmi sulla testa del nemico. Nel frattempo, anche l'agente Romanoff si è posizionata al mio fianco per prepararsi al lancio. "Hai programmi per sabato sera?" Mi chiede mentre infila uno zaino sulle spalle. Stringo i lacci di cuoio del mio scudo. "Beh, tutti i ragazzi del mio battaglione sono morti quindi... no, direi di no." Aggrotto la fronte e sollevo lo sguardo su di lei, la quale rotea un paio di pistole sulle dita con un sorrisetto malizioso. "Perché, avevi in mente qualcosa?" "Io?" Domanda senza togliere quel sorriso mesto dal suo volto, questa volta guardandomi in faccia. "No, non sono interessata." Gli angoli della bocca si allontanano ancora di più nel momento in cui sistema le pistole nella fondina. "Ma Mahogany potrebbe accettare un tuo invito." La mia testa si gira con uno scatto verso la postazione del pilota, temendo che Tony possa averla sentita. "È sua figlia, Nat... non potrei mai-" Ma la rossa mi blocca ancor prima di darmi l'occasione di finire la frase, scuotendo la testa e sorpassandomi. Sosta per un paio di secondi al mio fianco, il tempo di sussurrare la seguente frase: "Non potrebbe desiderare partito migliore per sua figlia." Detto ciò, cammina fino al lato opposto del jet per premere il pulsante che fa aprire il portellone. Subito ci raggiungono anche Thor, Sam, Hulk e Stark; quest'ultimo, prima di attivare i propulsori dell'armatura, esclama: "Diamo il via alle danze!" "Cercate di tornare tutti interi!" Grida Barton dalla postazione di controllo, ricevendo soltanto un saluto militare da parte mia. Senza prendere alcuna rincorsa, faccio un tuffo di testa nel vuoto. Precipitando da cinquanta metri di altezza, il vento si trasforma in piccole scaglie di vetro che graffiano la pelle con prepotenza, per questo posiziono lo scudo davanti al volto. Non è una sensazione piacevole, ma diventa appena più sopportabile una volta tirata la corda che apre il paracadute. A questo punto ci troviamo però a pochi metri da terra e i nostri nemici, che ci avranno avvistati con i radar, cominciano a scaricare i loro caricatori contro di noi. Arrivati all'altezza dei primi rami degli alberi, Natasha ed io sganciamo gli zaini, atterrando rispettivamente sulla spalle di un soldato e sulla cima di un carro armato. Spacco la serratura della botola con un colpo inferto con lo scudo, mi calo all'interno del veicolo tirando un calcio in testa all'autista, che sbatte il cranio contro il pannello di controllo, e due gomitate, una a destra e una a sinistra, ad altri due uomini. Il terzo si rialza alle mie spalle, afferrandomi con un braccio alla gola: colpendolo con svariati pugni sul lato della testa, la presa si indebolisce e questo mi permette di voltarmi e assestare una testata sulla sua fronte. Esco appena in tempo dal carrarmato: Hulk vi salta sopra, frantumandolo. Corro molto rapidamente in direzione del portone d'ingresso alla caserma, dove mi attende una schiera di agenti dell'Hydra muniti di fucili e pistole di benvenuto. Lancio lo scudo contro la prima fila, gettandomi nella mischia. Thor arriva pochi secondi più tardi in mio soccorso, agitando Mjölnir con un movimento rotatorio del polso e dimezzando il numero di ostacoli. Quando anche Hulk si unisce alla mischia, mi dirigo a grandi falcate nel cortile interno: ad aspettarmi, un'altra ondata di soldati. "Serve un passaggio?" Tempo di alzare il braccio e le mani di Sam hanno già afferrato il mio polso, sollevandomi in aria e permettendomi in questo modo di sorvolare le truppe senza doverle affrontare. Il risparmio di forze mi sarà utile una volta entrato nella struttura. Rimessi i piedi a terra, Falcon ed io ci addentriamo all'interno dell'edificio. Il silenzio domina il magazzino e la situazione non cambia neanche man mano che ci addentriamo per i suoi corridoi. Almeno finché Iron Man non frantuma una vetrata sopra le nostre teste, precipitando dal tetto proprio davanti a noi: a seguito della sua caduta, due squadre di agenti ci accerchiano con i fucili carichi e pronti a sparare. Dall'alto sopraggiungono Thor ed Hulk, creando altre due voragini nel soffitto di vetro. La loro entrata distrae i soldati delle ultime file, i quali alzano i fucili e iniziano a sparare in aria; anche quelli in prima linea non perdono tempo, riponendo le pistole nella fondina e assalendoci a corpo libero con dei coltelli. Tony si solleva in aria al fine di colpire i nemici con i suoi propulsori; lo segue Sam, sparando con due pistole alla mano, mentre Hulk ed io ci occupiamo di mettere al tappeto più ostacoli possibili da terra. Mi difendo da un attacco laterale con lo scudo, che uso subito dopo per spingere l'assalitore addosso ad altri due soldati dietro di lui facendoli cadere a terra. Vengo poi preso alla sprovvista da una gomitata che mi colpisce in pieno volto, seguita da un calcio nello stomaco che mi catapulta addosso all'omone verde. Evito un calcio che mirava alla mia faccia, poco prima di allungare il braccio e far cadere a terra lo stesso soldato; questo mi dà il tempo necessario per rimettermi in piedi e riprendere a combattere. Difendo il volto da una serie di pugni con le braccia, per poi contrattaccare con una serie di ganci che mettono KO l'avversario. Schiaccio il pulsante dell'auricolare che ho nell'orecchio destro e, per colpa della breve distrazione, un proiettile colpisce di striscio il mio fianco. "Romanoff, quanto ti manca?" La risposta arriva qualche secondo più tardi. "Perimetro in sicurezza. Via libera." "Stark!" Devio un pugno, sollevando il corpo del soldato e scaraventandolo addosso ad altri quattro che si stavano avvicinando. "È il tuo turno!" "Ricevuto Capitano!" Iron Man fa una virata a mezz'aria, sfrecciando lungo il corridoio a est dell'edificio per raggiungere Natasha al centro di comando e raccogliere più informazioni possibili dai loro computer. "Thor!" Il biondo vola immediatamente nella mia direzione. Sollevo lo scudo, lui lo colpisce con il martello e pochi secondi più tardi le linee nemiche sono tutte a terra, ad eccezione di qualche agente. A questi ultimi, pensa subito Hulk. In quel preciso momento, i passi rapidi di altri soldati riecheggiano nel silenzio del salone d'ingresso. "Abbiamo le informazioni, possiamo andarcene."  La voce affannata di Natasha invade i timpani di tutto il team. Thor solleva Hulk mentre Sam afferra di nuovo il mio braccio, volando tutti insieme fuori dall'edificio attraverso i crateri formatisi sul soffitto durante la battaglia, per poi atterrare sul retro del Quinjet. Pochi minuti più tardi, anche Tony e Natasha saltano a bordo dell'aereo. Il portellone si chiude immediatamente alle nostre spalle e Barton ci riporta tutti quanti alla base. Pov Erika Sorseggio la mia tazza di cappuccino, interrompendo per qualche secondo il racconto della mia vita. Incredibile quanto Mahogany Stark, figlia del genio milionario più conosciuto al mondo, possa essere interessata fino nei minimi dettagli alla vita di una ragazza qualunque come me: l'attenzione e la curiosità che trapela il suo sguardo mi fanno sentire importante. "Dicevo, studio software e ingegneria dei dati all'università di New York-" Mi interrompe al fine di pormi una domanda. "E come sono gli altri studenti?" Abbasso lo sguardo sulla mia tazza fumante, prendendo un respiro profondo. "Dipende: ci sono persone simpatiche e divertenti, altri silenziosi e dediti allo studio e altri ancora che sventolano la loro popolarità meglio di quanto proseguono negli studi." "Tu devi essere una di quelle studiose, dico bene?" Abbozzo un sorriso e annuisco. Mahogany inclina la testa verso sinistra. "Dovresti esserne fiera..." "Lo sono." Sollevo lo sguardo, incontrando subito i suoi occhi marroni. "Ma devi sapere che le persone geniali come me e te non hanno vita facile negli ambienti scolastici." La sua bocca si spalanca di stupore. "Vieni bullizzata?" "No, non proprio." Giocherello con la bustina di zucchero. "Ecco, io... non ho molti amici." Quando riporto lo sguardo sul suo volto, vi trovo un sorriso compiaciuto di cui non capisco il motivo. Per questo aggrotto la fronte, confusa. "Vorresti essere mia amica?" Fa subito spallucce. "Neanche io ho amici, quindi..." "Sì!" Squittisco con gioia, senza lasciarle il tempo di aggiungere altro. Il sorriso si allarga sul suo volto. D'un tratto le squilla il telefono: dalla mia posizione riesco a leggere il nome Mamma sullo schermo. Chiude la chiamata soltanto pochi attimi dopo aver risposto, ma non sembra allarmata. "Devo tornare a casa." Mi avvisa nell'atto di alzarsi dalla sedia su cui era seduta. "Mio padre e il resto del team sono di rientro da una missione e mia mamma vuole che torni prima." Annuisco, affrettandomi a lasciare le banconote sul tavolo per seguirla fuori dal locale. "Aspetta!" La rincorro fuori dalla porta, sventolando un bigliettino di carta. "Tieni, è il mio numero... amica." Con un sorrisone che le incornicia il volto da parte a parte, prende il foglietto e lo infila nella tasca del suo zaino. Esita qualche secondo, ma alla fine mi abbraccia timidamente prima di scappare dietro l'angolo. Sorpresa dalla sua reazione, che suscita un sorriso anche da parte mia, rimango immobile sul bordo del marciapiede finché, dopo aver sentito un famigliare rumore di propulsori, lo sguardo viene catturato da una figura che si libra in cielo, disegnando una scia azzurra e luminosa dietro di sé. Compongo un numero criptato e porto il cellulare vicino all'orecchio. Quando questo smette di squillare, dico: "Aveva ragione, è lei."

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Nell'attesa che l'ascensore raggiunga l'ultimo piano della torre, incrocio le braccia al petto e picchietto il piede sulla superficie in legno lucido dell'abitacolo. Mentre i miei occhi sono puntati sui numeri alla destra della porta che si illuminano ad intermittenza man mano che salgo, la mia testa rimugina sulla telefonata ricevuta da mia madre qualche minuto fa. Il modo sbrigativo e frettoloso con cui mi ha ordinato di tornare a casa mi ha fatto riflettere a fondo durante l'intero volo, e alla fine sono giunta a due conclusioni - le più realistiche tra gli innumerevoli scenari che mi sono passati per la mente: la prima è che, durante la spedizione, gli Avengers siano venuti a conoscenza di una nuova minaccia imminente, per cui sapermi al sicuro nella torre avrebbe risparmiato a mio padre un abbondante 50% di ansia; la seconda, più tragica, è che qualcuno - se non addirittura tutti - siano tornati a bordo del Quinjet gravemente feriti. Il cuore inizia ad accelerare il suo ritmo al solo pensiero, così come la scarpa che batte sul pavimento con più intensità, pregando che l'ascensore giunga a destinazione più in fretta possibile: il minimo timore che possa essere successo qualcosa di terribile a mio padre mi strizza il cervello e mi provoca una specie di scarica elettrica fastidiosa lungo tutto il corpo. È anche vero che la voce di mia madre non sarebbe suonata così calma e stabile al telefono se papà fosse in fin di vita. Perciò mi lascio andare ad un sospiro di sollievo. Rizzo la schiena e spalanco gli occhi nel momento in cui un'altra immagine fa capolino nella mia testa: e se fosse Steve ad essere ferito? Insomma, è molto forte, armato di scudo e chissà quante altre battaglie ha già combattuto in passato, ma non è comunque né un dio asgardiano né un gigante verde, non ha ali a sua disposizione e nemmeno un'armatura. Potrebbero avergli sparato senza che lui avesse la possibilità di evitare la pallottola; magari invece l'hanno assalito in una decina con dei coltelli e gli hanno inferto ferite profonde. Qualsiasi cosa sia, è riuscita a terrorizzarmi al punto tale da far crescere in me una strana sensazione nauseante che mi attanaglia lo stomaco, facendomi desiderare di vomitare. Sento ogni particella del mio cervello esplodere per via dell'ansia e della frustrazione, amplificate dall'attesa infinita. Una volta giunta al piano di casa, le porte dell'ascensore si aprono emettendo una breve melodia che annuncia il mio arrivo. Avanzo di qualche passo all'interno del salone fino ad incontrare la figura snella e slanciata di mia madre in piedi di fronte all'enorme vetrata con vista panoramica sulla città: trovarla intenta ad osservare il cielo fuori dalla finestra non è per niente rassicurante. Ogni cellula del mio corpo è percorsa da una consistente forma d'ansia: scorre nelle vene, inibisce i muscoli, stimola le ghiandole lacrimali, velocizza il ritmo cardiaco e rende difficile la respirazione involontaria. Persino il tono della voce viene intaccato e pronunciare anche due semplici domande come: "è successo qualcosa? Stanno tutti bene?" suonando indifferente diviene un'impresa pressoché impossibile. Le lacrime sono sul punto di sfondare la mia barriera, costituita dalla pressione che i denti applicano sulla parte interna del labbra inferiore. Quando però, sentite le mie domande, mia madre si volta nella mia direzione con un'espressione tranquilla e addirittura un sorriso abbozzato sul volto, capisco che non è successo niente di catastrofico e subito lascio che un lungo sospiro di sollievo abbandoni i miei polmoni; con esso anche tutte le emozioni negative che mi hanno scossa fino ad ora. La conferma arriva poi direttamente dalla bocca di mia mamma pochi istanti dopo. "Stanno tutti bene; ammaccati, ma bene." "Perché tutta questa fretta nel volermi a casa allora?" Dalla voce traspaiono impazienza e un pizzico di rabbia. Rabbia per avermi fatto morire di paura per niente. Pepper incrocia le braccia al petto e torna a guardare fuori dalla torre nella speranza di veder rientrare il jet da un momento all'altro. "Sono riusciti a recuperare le informazioni che cercavano e, finché non le avranno criptate, preferiamo che tu stia protetta e al sicuro." Annuisco. Saetto lo sguardo a destra e sinistra nel più totale silenzio, sia interiore che esteriore. Poi punto gli occhi sul corridoio e mi ci addentro fino a raggiungere la mia camera. Una volta posato lo zaino a terra accanto alla scrivania, mi butto sul letto a pancia in su, incrociando le braccia sotto la testa, e inizio a fissare il soffitto come se fosse una lavagna: su di essa immagino di scrivere tutti i miei pensieri, nel tentativo di fare ordine nella mia mente. Per cominciare, sono contenta che stiano tutti bene. Quello che non mi spiego è il perché fossi tanto sconvolta al pensiero che Cap potesse essersi fatto male: voglio dire, dopo l'attacco degli alieni tutta la squadra si è trasferita alla Stark Tower, quindi é normale che faccia parte della famiglia; ma alla stregua di Clint Barton o di Thor. Perché allora non ero così preoccupata anche per loro? Perché ero spaventata all'idea di non rivedere più Steve quasi quanto lo ero di perdere mio padre? Questo pensiero, come un'illuminazione divina, accende una lampadina sopra la mia testa, la stessa che il mio cervello riproduce sul soffitto-lavagna: io non avevo il timore che Steve si fosse fatto male; io ero terrorizzata dalla paura che non l'avrei mai più rivisto. Scatto in piedi e mi precipito davanti al computer. Nel giro di qualche secondo mi ritrovo su un blog di sole donne a scorrere le risposte alla domanda Cosa significa tenere a qualcuno?: volergli bene, rispettarlo, interessarsi a lui o a lei, cercarla in ogni momento, ma soprattutto desiderare che non si allontani mai da te. Spalanco gli occhi, sentendoli inspiegabilmente lucidi: io tengo a Steve. Questo spiegherebbe anche il tentativo di ieri sera di baciarlo. Le mie dita si muovono di nuovo sulla tastiera come dei fulmini, ma questa volta digitano soltanto una parola: amore. Wikipedia lo definisce come un sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia. Ho visto innumerevoli film e letto altrettanti libri che trattano di questo argomento. Pensavo di conoscerlo appieno, di aver capito il suo meccanismo e la sua attività; ero convinta che sarei stata in grado di individuarlo una volta che si fosse presentato alla mia porta. Ma non è così. Quando ho incontrato Steve Rogers, il famosissimo Captain America che ha sacrificato la sua vita per salvare il mondo durante la Seconda Guerra Mondiale, per la prima volta in persona, il primo pensiero é stato 'Wow! Il ghiaccio l'ha conservato proprio bene!' e altre cento cose che dicono tutti. Il punto é che l'ho guardato negli occhi e non ci ho visto né letto amore. Adesso invece, dopo quasi un anno, mi rendo conto che qualcosa é cambiato e non solo in me, ma tra di noi: l'ho sentito ieri sera sul tetto di quel palazzo e di nuovo pochi minuti fa. Chiudo il portatile ed esco dalla camera con la velocità e la furia di un tornado fino a raggiungere il salone. "Vado in biblioteca!" Avverto mia madre, seduta sul divano a guardare le notizie in televisione. Alza appena lo sguardo, per farsi vedere da me nel gesto di annuire. Schiaccio il tasto di chiamata dell'ascensore con impazienza, cercando comunque di non dare troppo nell'occhio: una volta aperte le porte mi fiondo all'interno dell'abitacolo, ripetendo la parte in cui quasi sfondo il pulsante del piano sul quale alloggiano gli Avengers. Picchietto il piede sul pavimento con veemenza e, nonostante si tratti del piano inferiore, il percorso sembra durare una vita. Le porte dell'ascensore si aprono sul salone deserto e silenzioso, segno che la squadra non è ancora rientrata dalla missione: questo mi dà un po' di vantaggio, permettendomi di intrufolarmi nella stanza di Captain America senza essere vista né sentita da nessuno. Chiudo la porta alle mie spalle e, dopo averci appoggiato la schiena, emetto un sospiro ad occhi chiusi. Quando li riapro, davanti a me si materializza una stanza minimale e priva di carattere: le pareti dipinte di un azzurro sbiadito sono spoglie, il letto è coperto da un lenzuolo bianco e candido, le mattonelle grigie sono interrotte da un tappeto rettangolare di un rosso purpureo posizionato ai piedi del letto, la scrivania è immacolata, se non per un boccettino di colonia, una trousse da bagno e una bottiglia di vetro semi vuota. L'unico elemento distintivo è una fotografia ingiallita che raffigura una bellissima donna avvolta in un vestito rosso fiammante racchiusa in una cornice color legno di ciliegio e posta sul suo comodino accanto all'abat-jour. Cammino a passi lenti e leggeri verso di essa, mi accomodo sul bordo del letto e la prendo tra le mani: già solo dopo una rapida occhiata riconosco nella donna il volto di Peggy Carter, il primo amore di Steve. Sospiro scoraggiata. Non sarò mai alla sua altezza. Inoltre, se è questo il canone di donna a cui il soldato ambisce, sono spacciata, perché io sono l'esatto opposto: bionda cenere, mingherlina e con i lineamenti di una ragazzina. Per un attimo mi sono illusa di potergli piacere sul serio, ed è stato bello, ma è giunto il momento di scendere a patti con la realtà: non sono affatto quello di cui Steve ha bisogno e non sono il tipo di ragazza di cui uno come lui si innamora. Ripongo la fotografia al suo posto e, dopo aver deglutito un durissimo nodo alla gola, mi alzo dal letto. Riesco a fare a malapena un passo in avanti prima che la porta della stanza venga spalancata, rivelando la figura sudicia, sporca e ferita del Capitano Rogers. Resto paralizzata sul posto e, quando i suoi occhi cristallini incrociano i miei, boccheggio in cerca di ossigeno. "Cercavo Nat!" È la prima cosa anche solo lontanamente sensata che mi balza in mente. Arriccio le labbra, chiudendo gli occhi per poi alzarli al cielo pochi secondi più tardi: vorrei tanto schiaffeggiarmi in questo momento. Ma ringrazio la galanteria di Steve che, impedendogli di commentare con frasi del tipo "In camera mia?", mi risparmia il doppio strato di imbarazzo e un faticoso lavoro di scavo per sotterrarmi. Si limita infatti ad osservare il mio volto con un sorriso divertito e due fossette che lo contornano agli angoli della bocca. "Non è vero, cercavo proprio te." Sbotto, rilassando i muscoli di tutto il corpo. "Volevo parlarti di-" Il mio sguardo cade per puro caso sulla mano sporca di sangue ormai secco che tiene stretta al fianco. Mi interrompo da sola, esclamando: "Oddio, ma stai sanguinando!" Protraggo il busto e le braccia nella sua direzione, afferrandolo per il braccio sano per trascinarlo vicino al letto. "Siediti. Dov'è la cassetta del pronto soccorso?" Con il dito indica il secondo cassetto del mobiletto del bagno. Vado a recuperarla e la appoggio sul comodino dopo essermi seduta accanto a lui. Sistemo poi i capelli dietro le orecchie in modo che non siano d'intralcio mentre lo aiuto a togliere l'uniforme dal suo petto. "Per fortuna ti hanno preso solo di striscio..." sussurro sovrappensiero. Tampono la ferita con un batuffolo di cotone e dell'acqua ossigenata, poi applico un cerotto e una benda sopra avvolge tutto l'addome del soldato, facendo pressione sull'apertura. "Ecco fatto." Abbozzo un mezzo sorriso, contemplando la mia opera completata. Anche Steve abbassa lo sguardo sul bendaggio con curiosità, tracciando con le dita i contorni del cerotto. "Come hai imparato a medicare così bene?" "Ho fatto esperienza su mio papà, l'ho aiutato spesso." Confesso con un sorriso, alzando lo sguardo fino ad incrociare il suo. "Perché pensi che mia mamma non gli abbia ancora bruciato le armature?" Ridacchio, contagiando anche lui. Un breve silenzio, intervallato soltanto dal ticchettio di un orologio da parete che prima non avevo notato, cala tra di noi: ecco il momento in cui capisco di dover levare le ancore. "Ora è meglio se ti riposi." Mi alzo dal letto rivolgendogli un sorriso tirato, ma prima che possa raggiungere la porta la sua domanda mi costringe a bloccarmi di nuovo. "Che cosa dovevi dirmi?" Giro la testa nella sua direzione, arriccio il naso e, con un gesto disinvolto della mano, sminuisco il discorso dicendo: "Oh, non è niente di importante, può aspettare!" Voltatami nuovamente verso la porta e afferrata la maniglia con la mano destra, pronta ad andarmene, Steve chiede tutto d'un fiato: "Posso invitarti a cena domani sera?" Resto pietrificata sul posto per una manciata di secondi. Quando rinvengo, mi volto in maniera meccanica verso di lui, sfoggiando un sorriso trattenuto e allo stesso tempo diffidente. "A cena?" Annuisce. "Quindi tipo un appuntamento?" Sorride divertito. "Sì, tipo un appuntamento." Sollevo lo sguardo sul soffitto fingendo di pensarci su, ma la risposta è già pronta sulla punta della lingua. "Okay. Va bene. Ma dovrai decidere tu il ristorante... sai, io non ne conosco molti." "Chiederò in giro" Alzo la mano in segno di saluto. "A domani allora" "A domani." Mi regala un ultimo sorriso prima che esca dalla sua stanza. Accosto la schiena contro la parete di fianco alla porta e, con gli occhi ancora spalancati dall'incredulità, strofino il viso con entrambe le mani, costretta a rimangiarmi tutto ciò che ho detto prima: sono proprio il tipo di ragazza che Steve Rogers inviterebbe a cena!

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


La sveglia suona all'alba delle otto come ogni mattina, seguita dal rumore graffiante e metallico delle tapparelle che Jarvis solleva in modo automatico. Normalmente mi sarei nascosta sotto le coperte con la testa infossata nel cuscino ancora per una mezz'ora abbondante. Oggi invece allungo subito le braccia e stiracchio tutto il corpo, mentre il mio viso viene accarezzato dai raggi del sole che filtrano dalla parete in vetro. Scatto a sedere sul letto e, dopo aver chiuso le mani a pugno, strofino gli occhi, emettendo un sonoro sbadiglio. Salto poi in piedi con il sorriso già stampato sul volto e, piroettando in direzione del bagno, esclamo con voce roca: "Jarvis, fai partire Somebody To Love dei Queen grazie!" Con lo spazzolino alla mano e il dentifricio sui denti, intrattengo la mia immagine allo specchio con una performance scadente e a dir poco imbarazzante, mimando le parole della canzone. Raccolti i capelli in una crocchia improvvisata, raggiungo i miei genitori in cucina: già dal salotto noto che mio padre è impegnato a scorrere le notizie del quotidiano sul suo palmare, mentre mia madre si destreggia ai fornelli, tra la moca di caffè che borbotta e una teglia di biscotti in forno. "Buongiorno!" Canticchio trotterellando in cucina. Appoggio il ginocchio destro su uno degli sgabelli liberi attorno all'isola e allungo una mano verso il vassoio al centro di essa per aggiudicarmi l'ultimo biscotto al cioccolato. La mia felicità però funge da calamita per attenzioni che avrei preferito non avere: entrambi i miei genitori, infatti, interrompono le rispettive attività e puntano lo sguardo su di me, incuriositi. "Come mai così felice stamattina?" è mia madre a formulare la domanda stampata sui loro volti. Io, dal canto mio, sminuisco la questione con un'alzata di spalle. Parlo solo dopo aver inghiottito anche l'ultima briciola del biscotto. "Sono stata invitata ad una festa questa sera." Gli occhi e le bocche di entrambi si spalancano all'unisono. "Di già?" Chiede mia mamma stordita. "Sei uscita solo una volta e hai già un invito ad una festa?" Faccio spallucce nello stesso istante in cui mio papà esclama: "é tutta suo padre!" Ci scambiamo uno sguardo complice, interrotto dallo squillo del forno che avverte Pepper che la nuova teglia di biscotti è pronta per essere sfornata. Ovviamente la storia della festa è soltanto una copertura: perché sì, questa sera uscirò dalle quattro mura di casa, ma sarà per un appuntamento galante con niente poco di meno di Steve Rogers. Mi pare superfluo sottolineare il motivo della mia menzogna: primo perché mio padre andrebbe in escandescenza e mi rinchiuderebbe in camera mia per il resto dei miei giorni; secondo perché temo che questa notizia potrebbe seminare zizzania nel suo rapporto con Cap - conoscendolo, sarebbe capace di dichiarargli guerra. "Sai già cosa mettere?" Domanda di nuovo mia madre, riportandomi con i piedi per terra. Appoggia una tazza fumante sul ripiano davanti a me, che afferro dal manico per berne subito un sorso. "Mi inventerò qualcosa." Dopo aver terminato la mia tazza di caffè e aver rubato un paio di dolcetti dalla ciotola, mi congedo con la scusa di dover tornare in camera a studiare per un esame imminente: quello che faccio una volta chiusa la porta dietro le mie spalle è invece aprire l'armadio e passare i successivi dieci minuti abbondanti a fissare gli abiti che vi sono appesi. I miei occhi si dilatano poco alla volta, fino a spalancarsi completamente di fronte alla catastrofica realtà: non ho niente di carino da mettermi! Inizio a prendere dei capi a casaccio al solo fine di gettarli sul letto, in preda al più totale panico. A farmi rinvenire è la suoneria del mio cellulare. Mi blocco sul posto con un paio di jeans a mezz'aria in una mano e l'altra intenta ad afferrare una maglia gialla. Volto lo sguardo in direzione dell'apparecchio elettronico ancora sul comodino, agganciato al caricatore: sullo schermo lampeggia il nome della mia prima nuova amica. Mi fiondo a rispondere. "Erika, ciao!" "Ciao Mahogany, ti ho svegliata per caso?" Chiede la ragazza dall'altro capo del telefono. Mi siedo per terra con le gambe incrociate. "No, no, anzi ti stavo giusto pensando." "Davvero?" Annuisco, nonostante lei non possa vedermi. "E come mai?" "Tu te ne intendi di vestiti?" *** Atterro in un vicolo di collegamento tra due strade principali, poco distante dal luogo in cui Erika mi ha dato appuntamento. Sfilo il casco e cambio le scarpe ad una velocità record, per poi riporre tutto nello zaino che prendo a spalle. Per non intaccare le quattro ore giornaliere di libertà - che pianifico di passare questa sera con Steve - mi sono lanciata di nuovo dalla finestra. Per questo, camminando verso il marciapiede affollato, controllo i sensori di movimento che ho installato alla porta della mia stanza, attraverso lo Smart Watch che tengo al polso: per fortuna, nessuno è ancora andato a controllare se fossi viva o meno. Raggiungo la vetrina di Forever 21 che si trova a Times Square a piedi, ammirando i vari grattacieli ricoperti da giganteschi tabloid luminescenti sui quali scorrono diverse pubblicità ogni minuto che passa. Una volta ferma di fronte alle porte d'ingresso del negozio, compio un giro su me stessa per guardarmi attorno, nel tentativo di individuare il viso famigliare della mia amica tra tutta la gente che circola nei paraggi. Invece è lei a trovarmi per prima: mi volto a seguito di un colpetto sulla spalla, incrociando il sorriso d'argento di Erika. "Ciao!" "Hai fatto in fretta," mi fa notare piegando la testa di lato. "Ho un passo spedito." Faccio spallucce, indicando poi il negozio alla mia destra con un cenno del capo. "Entriamo?" La ragazza annuisce, precedendomi. Subito dopo aver messo piede all'interno dell'edificio, veniamo investite da una vampata d'aria fresca, un vero e proprio toccasana quando fuori all'aperto ci sono venticinque gradi all'ombra. Inizio già da subito a scorrere lo sguardo sulle varietà di vestiti, accarezzo i tessuti, respiro la vivacità o la tristezza dei colori e provo ad immaginare come starebbero indosso a me. "Cosa pensi di questo?" Erika interrompe il mio flusso di coscienza per mostrarmi un abito nero con un vertiginoso scollo a V sul seno ed una gonna davvero troppo mini. Arriccio il naso, corrugando allo stesso tempo la fronte, mentre nella mia testa prende forma l'immagine della faccia che assumerebbe Steve se dovessi presentarmi all'appuntamento con quel vestito. Trattengo a stento una risata. "Decisamente no!" L'abito successivo che decide di mostrarmi assomiglia molto ad un telo per il pic-nic: rosso a pois bianchi, incrociato sia nella parte superiore che in quella inferiore, con le maniche svolazzanti e il tessuto semi trasparente. Scuoto la testa, inorridita. "Il prossimo!" Segue un tubino color prugna molto aderente, con lo scollo lineare e le maniche corte. "Quello spacco mi arriva fin sopra il fianco!" Alla fine entro in camerino con due vestiti molto diversi: il primo è un abito in denim con le maniche dritte e lunghe fino al gomito ed un cinturino alla vita dal quale parte una gonna morbida che ricade sul ginocchio con qualche balzo; la seconda è una tutina in raso giallo, con le spalline sottili, un fiocchetto sullo scollo del seno e dei pantaloncini a metà coscia talmente larghi da apparire come una gonna. Apro la porticina in finto legno bianco con indosso l'abito color limone: già dall'espressione sul volto della mia amica capisco quanto le piaccia. Afferro l'elastico che legava i miei capelli e lo sfilo da essi in modo che i boccoli biondi ricadano sulle mie spalle, coprendo anche la parte superiore di schiena che altrimenti resterebbe scoperta. Poi mi giro verso lo specchio e osservo il mio corpo avvolto da quel vestito da entrambi i lati, destro e sinistro, soffermandomi infine sulla parte frontale. In quel momento sento lo sguardo del Capitano Rogers scorrere dalle mie gambe alle punte dei miei capelli con un sorriso dolcissimo in volto. Basta quel semplice pensiero a farmi arrossire. "Mi sembra di capire che piace anche a te..." Troppo concentrata su di me, non mi accorgo della presenza di Erika al mio fianco dentro il camerino. Per questo, e per il momentaneo terrore che possa aver letto dalla mia faccia quello sta succedendo nella mia testa, sussulto. Poi però annuisco. "E dimmi, hai ancora intenzione di tenermi nascosto il nome di questo ragazzo?" Mi guarda con le sopracciglia alzate e le labbra sottili. Senza distogliere lo sguardo dalla mia immagine riflessa nella specchio, rispondo con un semplice: "Sì." *** Sollevo il polso davanti al mio viso così da guardare l'ora per la duecentesima volta. Sono le 21. Questo significa che il grande Captain America è in ritardo di ben 2 ore. Non che mi sorprenda: da quando papà ha iniziato a fare l'eroe in giro per il mondo, sarà arrivato puntuale a cena sì e no cinque volte. Ma lui è Tony Stark, le entrate in scena d'effetto sono la sua specialità; al contrario, fare aspettare una ragazza che ha perso quasi tutta la giornata per farsi bella non è proprio nello stile di Steve Rogers. Non dubito che possa essere sorto un imprevisto che richiedeva il suo intervento, ma, nonostante sia un relitto degli anni quaranta, sa usare molto bene la tecnologia odierna, e avvisarmi con un messaggio non gli sarebbe costato niente. Io invece mi sarei risparmiata le ultime due ore trascorse in piedi con le spalle appoggiate al muro accanto alle porte d'ingresso della torre, aspettando il mio appuntamento. Chiudo gli occhi e sospiro, esausta. Estraggo il cellulare dalla mia borsetta a tracolla e digito il numero di un fast food per ordinare del cibo d'asporto che, a differenza di Steve, arriva soltanto cinque minuti più tardi. Risalgo indisturbata fino all'ultimo piano della Stark Tower. Trovando tutte le luci spente, immagino che mamma e papà abbiano approfittato della mia assenza per una cenetta romantica a lume di candela in qualche rinomato ristorante dell'East Side; ciò significa: meno spiegazioni da dare riguardo al mio rientro anticipato e più silenzio per crogiolarmi in pace con i miei pensieri davanti ad un gustoso Happy Meal. Attraverso il salone senza bisogno di accendere alcun interruttore, grazie soprattutto alle luci della città e dei grattacieli accanto che illuminano l'intera stanza quasi come fosse giorno. Raggiungo l'accesso al terrazzo esterno e posiziono il palmo della mano sullo scanner per permettere alla porta di aprirsi: una volta uscita dall'appartamento, mi siedo per terra a gambe incrociate con la schiena appoggiata alla parete in vetro e la borsa con il cibo sulle ginocchia. Prendo il toast in mano e gli do subito un morso, alzando poi lo sguardo per ammirare il magnifico cielo notturno costellato da centinaia di migliaia di puntini bianchi e luminosi. Sorrido, masticando con voracità il panino. Tiro fuori di nuovo il cellulare dalla borsa, questa volta per chiamare un numero famigliare. "Mahogany, che sorpresa! Sei già tornata dal tuo appuntamento?" La voce carezzevole di Erika e il suo viso dai lineamenti morbidi compaiono sullo schermo del mio telefono dopo tre soli squilli. Abbasso lo sguardo sulla scatola rossa e gialla che tengo al caldo tra le gambe. "Mi ha dato buca..." "Mi dispiace tanto, Mel" risponde accorata. Passato qualche secondo di silenzio, assottiglia la vista e chiede: "Stai mangiando schifezze all'aperto?" Clicco due volte lo schermo e l'inquadratura finisce sulla vista mozzafiato di New York illuminata sullo sfondo di una busta del McDonald mezza vuota. "Proprio così!" Ridacchio. "Per non aver mai ricevuto una delusione d'amore, sei già piuttosto preparata su come affrontarne una." Mi fa notare con un sorrisetto divertito. Riporto la videocamera sul mio volto. "Merito dei film: danno ottimi consigli a volte." "Tu dici? Io pensavo-" Mentre la mia amica continua il suo monologo su quanto sia sopravvalutato il potere educativo della televisione, il rumore in sottofondo della porta scorrevole che dà accesso alla terrazza panoramica attira la mia attenzione: da essa appare Steve, avvolto in comuni abiti casual leggermente sgualciti, le mani nelle tasche dei jeans e gli occhi azzurri puntati sulla mia figura. "Mahogany, ci sei ancora? Va tutto bene?" A riportarmi alla realtà è di nuovo la voce di Erika proveniente dall'altro capo del telefono. Riporto lo sguardo sullo schermo e, senza darle spiegazioni, la saluto frettolosamente. "Tutto bene... scusa, ma adesso devo proprio andare, ci sentiamo domani." Chiudo la chiamata pochi secondi più tardi, per poi spostare gli occhi di nuovo sul ragazzo in piedi alla mia destra, il quale si siede al mio fianco pochi attimi dopo. Restiamo in silenzio per i successivi cinque minuti, entrambi intenti a contemplare il paesaggio notturno che si apre di fronte ai nostri occhi pur di non affrontare il discorso. Il primo ad aprire bocca è Steve. "Mi dispiace di non essere venuto all'appuntamento," esordisce "Non era mia intenzione-" Lo interrompo sul nascere. "Non importa. Affari da Captain America, no?" Canticchio con ironia e sarcasmo, oscillando la testa all'unisono e alzando entrambe le sopracciglia. I nostri sguardi si incrociano ancora una volta; di conseguenza l'espressione dura del mio volto si addolcisce. "Voglio dire: so che avevi un motivo valido per non presentarti, tutto qui." Faccio spallucce. "Dopotutto, cos'è una prenotazione al ristorante se non c'è più il pianeta Terra!" Esclamo con un mezzo sorriso sul volto. La sua fronte aggrottata, accompagnata ad un sopracciglio sollevato, valgono più di mille parole. "Lo so, suonava meglio nella mia testa..." bofonchio nel tentativo di trattenere una risata; cosa che a Steve però non riesce molto bene stavolta. Dopo altri istanti di silenzio, infilo una patatina in bocca. Mentre la sgranocchio, mi accorgo che lo sguardo del Capitano persiste sul mio viso. Allungo verso di lui il pacchetto di patatine fritte ancora calde dentro la busta di carta. "Vuoi condividere quello che resta della mia cena?" Steve afferra riluttante un pugnetto di patatine e, dopo averne mangiata una sotto il mio sguardo vigile, sorride divertito. "Scommetto che non mangiavate queste prelibatezze settant'anni fa." Il soldato scuote la testa con la bocca piena ed un sorrisetto. "Allora andava ancora di moda il cibo vero."

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Alcune ore prima... Pov Steve Spalanco la porta del bagno annesso alla mia stanza, entrandovi, mentre con un asciugamano che per comodità ho avvolto attorno al collo, mi strofino la cute. Alla radio, ancora accesa, passa un pezzo jazz molto bello nonostante la sua melodia malinconica. Passo accanto alla scrivania puntando lo sguardo fuori dall'ampia finestra, catturato dal colore arancione particolarmente intenso del tramonto che sormonta il ponte di Manhattan, e un sorriso quasi involontario spunta sulle mie labbra: questo quadretto mi riporta alla mente il viso solare e sorridente di Mahogany e il nostro primo incontro sul tetto di un anonimo palazzo del centro. "Doccia, vestiti eleganti, profumo..." La voce di Sam mi sorprende alle spalle. Mi volto subito verso di lui, appoggiato con la spalla allo stipite della porta e le braccia incrociate al petto. Mi osserva con le sopracciglia sollevate. "Hai un appuntamento per caso?" Abbasso la testa per nascondere un sorriso dal quale traspare un velo di imbarazzo. "Suona così male?" Sposto gli occhi sulla sua figura, guardandolo di lato. Sam scuote la testa, senza però abbassare le sopracciglia, manifesto visibile del suo stupore. "No, per niente!" Sfilo l'asciugamano dal collo e lo appoggio sullo schienale della sedia, per poter indossare la maglietta blu a maniche lunghe che avevo preparato sul bordo del letto. "La conosco?" Domanda di nuovo Sam di punto in bianco. "No," rispondo secco, forse troppo schietto e rapido per non destare sospetti; per questo aggiungo subito un: "Non credo." Falcon alza le mani in aria come segno di resa. "Ricevuto: non sono affari miei!" Nell'istante in cui sistemo i polsini alle maniche della maglia, un famigliare suono acustico risuona su tutto il piano, seguito da un annuncio di Jarvis che ci invita caldamente a raggiungere il resto della squadra in sala riunioni per un meeting dell'ultimo minuto indetto da Stark. Infilo le scarpe ai piedi e raggiungo Sam alla porta, il quale, mentre camminiamo lungo il corridoio, commenta con: "Dalle mie parti, questo si chiama essere salvati dalla campanella." Sbuffo un piccolo sorriso, scuotendo la testa. Entriamo per ultimi in sala riunioni, quando gli altri hanno già preso posto attorno al tavolo; Banner e Stark sono invece in piedi di fronte allo schermo. "Bene," esclama il dottore, sistemando gli occhiali da vista sul ponte del naso "Ora che ci siamo tutti possiamo cominciare." Tony trasmette dal tablet al proiettore alcune delle informazioni che abbiamo rubato all'Hydra. "Il dottor Banner ed io siamo riusciti a decriptare gran parte dei file," interviene poi l'uomo con il pizzetto "Ma temo che ciò che abbiamo scoperto non vi piacerà." Sullo schermo scorrono le slide alla stessa velocità con la quale Stark muove le dita sull'apparecchio che tiene in mano. Assottiglio lo sguardo in modo da leggere con più chiarezza le parole proiettate sulla lastra di vetro. Una volta arrivato in fondo, sollevo lo sguardo sui due uomini in piedi e gonfio il petto. "Non è possibile." Tutti gli occhi si puntano immediatamente su di me. "Teschio Rosso è morto nell'esplosione della sua base militare." "Ma Teschio Rosso, quel Teschio Rosso? Il nazista pazzo, fondatore dell'Hydra?" Chiede Sam un tantino confuso e sbalordito allo stesso tempo. Gli risponde Natasha con un cenno positivo del capo. Banner e Stark si scambiano un'occhiata indecifrabile; quest'ultimo si avvicina poi al tavolo, appoggia il tablet su di esso e le mani ai bordi. I suoi occhi seguono le venature del legno, mentre il suo cervello geniale elabora le informazioni per cercare una spiegazione logica. "Anche a lui è stato somministrato il siero del super soldato," solleva lo sguardo fino a puntarlo su di me "È possibile che sia sopravvissuto all'esplosione?" Incrocio le braccia al petto nel momento in cui corrugo la fronte per pensare. "Se c'è anche solo una possibilità che sia vivo, dobbiamo trovarlo." Esordisco, guardando prima Tony e poi ad uno ad uno il resto della squadra. "Dobbiamo fermarlo. Ad ogni costo." Pov Mahogany Utilizzando una pennetta wireless collegata all'apparecchio per la riproduzione 3D, creo e sposto a mio piacimento le componenti del braccio robotico della Iron Girl Suit. Da quando l'ho iniziato, questo progetto ha fatto passi da gigante: dopo aver realizzato la struttura interna ed esterna di cosce e spalle e il loro design, mi sono lanciata nella realizzazione degli avambracci che, insieme ai piedi, contenendo anche i propulsori per il volo, richiedono più calcoli, tempo e attenzione. Ora però sono terminati e non mi resta altro che testarli.   Appoggio la penna sul tavolo della mia scrivania, posizionando le mani sui fianchi. "Jarvis, ci sei?" L'intelligenza artificiale si fa viva all'istante. "Al suo servizio signorina Stark." "Bene: avvia i test di manovrabilità e di accensione," schiaccio alcuni pulsanti e trascino la schermata al centro della stanza, in modo che le informazioni galleggino nell'aria attorno a me. "A grandezza naturale, per favore." Infilo la mano nel modello virtuale del braccio fino all'altezza del gomito, lo stendo e poi lo agito in aria, saltellando sul posto con un sorriso sul volto che esprime tutto l'entusiasmo e l'emozione che circola nel mio corpo in questo momento. Mi ricompongo subito dopo, schiarendomi la voce. "Procedi." Jarvis dà inizio alla simulazione del processo di accensione della tuta, concentrandosi soltanto sull'elemento selezionato. Nei secondi successivi, una luce di un blu luminescente esce dal palmo della mano robotica diretta verso la parete in vetro della mia camera; pochi attimi più tardi mi ritrovo sbalzata all'indietro da una forza energetica nettamente superiore alle aspettative che mi scaraventa a pancia all'aria sul letto.  Sbatto le palpebre con il cuore che batte a mille per via dell'adrenalina e le rotelline del cervello che girano come due criceti sulla ruota con l'intento di capire cosa è successo. "Wow..." Mi metto a sedere sul letto, osservando il braccio virtuale ancora avvolto attorno al mio braccio. Poi sposto lo sguardo sui numeri che fluttuano accanto alla finestra. "Non capisco: la potenza del propulsore dovrebbe essere almeno la metà di questa!" Mi alzo in piedi, cambiando schermata con un gesto della mano e vedendo sparire in questo modo anche il modellino del braccio. "C'è qualcosa che non torna nel reattore..." "Avvio una diagnostica?" Suggerisce il mio amico intelligente.  "Sì," rispondo, compiendo qualche passo indietro "E nel frattempo vado a prendere qualcosa da bere." Esco dalla mia stanza senza chiudere la porta alle mie spalle, diretta in cucina con un sorrisetto sulle labbra e fischiettando per il corridoio. Dover sempre fare tutto di nascosto è davvero stressante: per questo sfrutto al massimo le libertà concesse da quei momenti in cui mia madre è in azienda, mio padre in missione ed io in casa tutta sola; e questo è uno di quei giorni fortunati. Raggiunto il frigobar, spalanco l'antello e ne ispeziono con gli occhi ogni singolo centimetro, alla ricerca di una bottiglia di succo all'ace di cui, sfortunatamente, va ghiotto anche mio padre; perciò non mi sorprende non trovarne nemmeno una. Non mi arrendo comunque: ho ancora un asso nella manica da giocare. Chiamo l'ascensore e seleziono il tasto del piano inferiore. Se c'è un altro posto nella torre in cui Tony Stark può reperire quelle bottiglie, è il bancone del salotto Avengers, i quali - guarda il caso! - sono tutti in missione. L'ascensore si apre sull'ampia sala dedicata allo svago della squadra, costituita da due divani disposti in modo circolare al centro della stanza e la parete a vetri tipica di tutto l'edificio. Mi addentro nell'appartamento in totale tranquillità, convinta di essere sola. Sono presto costretta a ricredermi quando, a pochi passi dall'angolo bar, una chioma bionda ed un mantello rosso che tocca terra richiamano la mia attenzione. "Thor?" La perplessità di vederlo qui tutto solo e per giunta nel più totale silenzio sovrasta la mia volontà di agire veloce e con discrezione. Il dio del tuono, seduto su uno degli sgabelli di fronte al bancone, si gira verso di me con un sorriso sincero. "Ciao piccola Stark!" "Come mai non sei in missione insieme agli altri?" Chiedo. Intanto mi avvicino al bancone, posizionandomi di fronte a Thor. "Sono appena tornato da Asgard," strofina l'accenno di barba bionda sotto il mento con la mano destra. "Affari di famiglia." Annuisco come se la sapessi lunga a riguardo. La verità è che la sua famiglia di dei e reali è molto più incasinata della mia; e lo dice una ventiduenne che non è mai uscita di casa senza scorta fino a tre giorni fa perché il padre genio, milionario, filantropo ed ora anche supereroe è iperprotettivo. Mi piego sulle ginocchia, sparendo dalla visuale del dio asgardiano soltanto per pochi minuti, il tempo di aprire il mini frigo, individuare un paio di bottiglie di succo all'ace e prenderne una. "Come sta Loki?" Domando mentre con le mani svito il tappo della bottiglia di plastica. Thor sospira. "In prigione." "Bene." Ribatto in tono un po' troppo freddo, poco prima di prendere un sorso di succo. Il biondo però non sembra essere ferito dal mio commento. Al contrario, prende un respiro più profondo dei precedenti, con il quale gonfia il petto e raddrizza la schiena sullo sgabello. Poi alza le sopracciglia e dice: "Ti auguro di non avere mai un fratello come Loki!" Corrugo la fronte e arriccio il naso. "Lo dici per la parte del semi dio o per il portatore di caos e distruzione a livelli intergalattici?" Abbozzo un sorriso solo dopo averlo visto nascere sul volto di Thor. Quest'ultimo punta poi l'indice nella mia direzione. "Mi piaci genietto!" Esclama con una leggera risata. Sbuffo un sorriso, seguito da un mezzo inchino. Bevo un altro sorso della bevanda arancione. Nel medesimo istante il mio orologio emette un leggero bip bip e sul piccolo schermo appare la scritta 'diagnostica eseguita'. Avvito il tappo della bottiglia e, con un sorriso appena accennato, mi rivolgo nuovamente al dio del tuo tuono seduto di fronte a me. "È stato un vero piacere discorrere con voi, Vostra Altezza principe di Asgard," mi sposto a sinistra, uscendo dal retro del bancone e diretta verso l'ascensore "Ma ora debbo tornare nelle mie stanze." Concludo il tutto con un inchino fasullo improvvisato che provoca le risate di Thor, il quale alza poi la mano in segno di saluto. "Alla prossima, piccola Stark!" Nel momento in cui entro in ascensore mi fa l'occhiolino. "Alla prossima, Raperonzolo!"

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Appoggio la testa contro la testata bianca e dura del letto mentre rileggo per la ventesima volta le stesse tre righe che la mia mente cerca di memorizzare da un'abbondante quarto d'ora. Nel momento in cui gli occhi incontrano il punto, lo sguardo si sposta sul monitor del computer, più precisamente sul file aperto nella schermata iniziale che ritrae le specifiche relative al braccio robotico: dopo la diagnostica di ieri pomeriggio e la notte in bianco trascorsa a ragionare per capire quale fosse il problema, ci ho semplicemente rinunciato. Per questo motivo mi sono messa a studiare; ed è sempre questa la ragione per cui non riesco a studiare. Continuo a pensarci, non ce la faccio proprio a mandare giù il fatto di essere bloccata da uno stupidissimo calcolo errato. È più forte di me. Chiudo il libro di testo e lo poso sul comodino alla mia destra, per poi chiudere gli occhi e sbuffare. Mi trascino sul letto fino a ritrovarmi seduta di fronte al PC. "Qualcosa mi sfugge," ragiono a voce alta "ma non capisco cosa." Incrocio le braccia davanti alla tastiera e vi appoggio la fronte. Il sospiro che lascia le mie labbra si trasforma presto in un lamento isterico e disperato. Giro poi la testa verso destra nel momento in cui sento un rumore, simile al rombo di un motore, entrare dalla finestra: il mio sguardo infatti incrocia subito una tuta Iron Man che si allontana dalla torre a tutta velocità. Potrei approfittare dell'occasione per dare una sbirciatina alle tute rimaste nel laboratorio di mio padre come delle belle statuine a prendere la polvere e, magari, riuscire a risolvere il mio blocco d'ingegno. Con una spinta repentina delle gambe, faccio slittare la sedia a rotelle contro la parte frontale del letto per poi sfrecciare fuori dalla stanza, attraversare indisturbata il salotto deserto, scendere le scale e ritrovarmi faccia a faccia con il pannello di controllo che, ancora una volta, sorpasso senza alcun intoppo. La porta in vetro si apre automaticamente davanti ai miei occhi, lasciandomi giusto il tempo di entrare nel laboratorio prima di chiudersi di nuovo alle mie spalle. Do una rapida occhiata in giro per assicurarmi di essere sola; mi dirigo poi verso il semicerchio dove sono riposte tutte le Iron Suit di mio padre, protette da delle teche di vetro resistente incassate nella parete. Un occhio esperto avrebbe apprezzato molto anche un semplice sguardo da lontano. Il mio occhio invece, dilettante in materia di robotica, necessiterebbe di un'analisi più approfondita e accurata di ogni singola parte dell'armatura: non essendo questo possibile, mi accontento avvicinandomi di qualche passo alle teche. Sfioro il muro trasparente con le dita, osservando il prodotto del genio di mio padre con sincera ammirazione: non è mia intenzione copiare la sua invenzione - se l'avessi voluto, mi sarebbe bastato premere un pulsante sull'orologio e scannerizzare l'intera armatura; voglio cavarmela da sola questa volta. Niente aiuti, niente vantaggi: solo io e il mio genio che vuole uscire e potersi esprimere. Il rumore di qualcosa che colpisce il tavolo, facendo traballare tutto ciò che vi sta sopra, mi fa sussultare, oltre che spaventare a morte. Mi volto con uno scatto e, altrettanto velocemente, allontano la mano dalla teca di vetro. Faccio qualche passo lento nella direzione da cui sembra provenire un gemito. Poi all'improvviso salta fuori Bruce Banner da sotto uno dei tavoli da lavoro di mio padre. "Dottor Banner?" Aggrotto le sopracciglia, rilasciando un sospiro di sollievo che non mi ero resa conto di trattenere. Con uno scatto punta i suoi occhi su di me. "Oh, Mahogany, ciao," solleva la mano e la fa roteare vicino all'orecchio. "Non ti avevo sentita arrivare." "Già, nemmeno io l'avevo vista..." borbotto tra me e me, avanzando di qualche passo fino a ritrovarmi in linea d'area con la porta d'ingresso al laboratorio. "Stavo aiutando Tony a realizzare un progetto," confessa, puntando l'indice sul computer alle sue spalle. "Fico..." Annuisco, molto poco interessata, fingendo comunque un sorriso di circostanza. "Già," stappa e ritappa più volte un pennarello nero. Incrocio tra loro le gambe. "Io dovevo chiedere una cosa a mio papà, ma" indico la porta con il dito pollice. "Non è poi così urgente in realtà... magari torno più tardi." "Non penso ce ne sia bisogno." Corrugo la fronte e guardo confusa il dottore, il quale, senza prestare attenzione, indica le scale dietro la porta trasparente con il pennarello che tiene in mano: dalla mia postazione riesco chiaramente a distinguere la figura di mio padre che sta digitando il codice. Merda! Tony Stark varca la soglia d'ingresso del laboratorio nello stesso istante in cui muovo i primi passi verso la porta, pronta a uscire di scena con una scusa credibile. Quando i suoi occhi incontrano il mio sguardo, blocca una frase a metà per dire: "Hoggy, cosa ci fai qui?" Al solo sentire quel nomignolo che mi hanno affibbiato lui e la mamma da bambina, rabbrividisco, più per il fatto che ricorda il nome di un cane che per l'imbarazzo in sé. "Ciao papà-" nel momento in cui la mia bocca è pronta a sputare una bellissima bugia congeniale alla mia causa, i miei occhi vengono catturati da una figura che si sposta dietro le spalle di mio padre fino a stabilirsi al suo fianco. Deglutisco, presa in contropiede. "Cap." È l'unica cosa che dico, accompagnata da un leggero sorriso appena accennato. Ora sì che sento l'imbarazzo e il disagio penetrare nelle mie ossa. Riporto lo sguardo su mio padre, tornando a concentrarmi sulla domanda che mi ha posto. "Dovevo chiederti una cosa, ma vedo che sei impegnato, quindi," lascio cadere le braccia sulle cosce, arricciando le labbra. "Torno più tardi." Il genio miliardario sembra averla bevuta. "Va bene," dice con un sorriso "Ricordamelo stasera." Annuisco con un sorriso di circostanza sul volto, mentre lui mi sorpassa, regalandomi una carezza inaspettata sul volto. Faccio qualche passo in direzione della porta, tenendo lo sguardo basso appositamente per non incrociare le pozze cristalline del soldato ancora in piedi a pochi metri dall'entrata. Quando gli passo accanto, Steve allunga leggermente la mano in modo che sfiori la mia. Peccato solo che sia questione di attimi: tempo di sorpassarlo e il contatto fisico viene spezzato per non rischiare che gli altri ci vedano. I restanti metri che mi separano dalla porta li annullo con passi lunghi e ben distesi. Salgo velocemente i primi gradini della scala e, una volta certa che il dottor Banner e mio padre non possano più vedermi, mi fermo e mi volto. Intravedendo gli occhi del Capitano che ancora mi guardano di sottecchi e sorrido, poco prima di scappare in camera mia. *** Irrompere nel laboratorio di mio padre non ha portato nessuna illuminazione divina, nemmeno una semplicissima rivelazione pratica. Ciononostante, mi siedo alla scrivania con l'immagine virtuale proiettata davanti a me a grandezza naturale e inizio a sostituire le variabili della formula; e continuerò in questo modo finché sullo schermo apparirà la scritta test superato con successo. Dopo il terzo tentativo fallito mi rendo conto che questa ostinazione non mi porterà da nessuna parte, perciò chiudo il file, stendo le gambe e scivolo sulla sedia fino ad appoggiare la testa al suo schienale. Resto ferma in questa posizione per circa un paio di minuti, in totale silenzio e con lo sguardo perso ad ammirare il paesaggio che si staglia fuori dalla finestra. È un leggero ma deciso bussare che mi riporta con la testa in questa stanza, facendomi sussultare per lo spavento. "È aperto," borbotto, sollevando l'intero peso del mio corpo con le braccia per mettermi a sedere composta. "C'è proprio una bella vista da quassù." Spalanco gli occhi. Il sangue si gela nelle vene. Trattengo il respiro. Il mio cuore perde un battito. Scatto in piedi, ritrovandomi faccia a faccia con Steve Rogers. L'espressione sul suo volto è rilassata, contrariamente alla mia. "Steve?" Biascico in cerca di saliva. "Che cosa ci fai qui?" Pochi istanti dopo, mi ritrovo ad avanzare verso l'uomo a grandi falcate: gli afferro il braccio e lo trascino di forza all'interno della stanza; appoggio poi una mano sulla maniglia della porta e l'altra sullo stipite e mi affaccio sul corridoio per verificare che nessuno l'abbia visto entrare. Solo allora chiudo la porta alle mie spalle, sbattendoci contro la schiena. Passo una mano tra i miei capelli, inquieta. Il mio sguardo cade poi sulla figura del soldato che, dopo aver preso posto sul bordo del mio letto, si guarda attorno con curiosità fino ad incrociare il mio volto. A quel punto, un sorriso compiaciuto si disegna sulle sue labbra. "Tranquilla," confessa con il suo solito tono di voce pacato "Ho detto a Tony che dovevo recapitarti un messaggio di Natasha." Aggrotto la fronte e sbatto le palpebre più velocemente. "E non ti ha ricordato che esistono i cellulari?" Il Capitano Rogers incrocia le braccia davanti al petto. "Non ha indagato." Sollevo un sopracciglio, spostando lo sguardo altrove per riflettere; poi faccio spallucce. "Okay." Mi avvicino al tavolo di legno della scrivania con le mani congiunte davanti al bacino, appoggiandomi ad essa con il fondoschiena, così da avere una certa distanza di sicurezza con Steve. Sposto quasi in automatico lo sguardo da Cap al cielo privo di nuvole che sovrasta New York ed un lampo di genio attraversa la mia mente. "Ti andrebbe di fare due passi?" *** Quando anche Steve riceve il suo hotdog dal signore del chiosco, ricominciamo a camminare uno affianco all'altra addentrandoci lungo il vialone principale. Azzanno un boccone del mio panino con würstel e maionese, beandomi della tranquillità di questo posto dettata dal cinguettio degli uccellini e dal fruscio dell'acqua del fiume che attraversa il parco: in confronto al resto della città, questo posto è un vero e proprio paradiso terrestre ritagliato dall'uomo per avere una pausa dal caos e dal rumore della vita quotidiana. Ora capisco il motivo di tanta fama. "Era da una vita che non mangiavo un'hotdog a Central Park!" Esclamo con la bocca ancora piena, allungando le labbra chiuse in sorriso. "Per me invece è proprio la prima volta," confessa Steve, mordendo un pezzo del suo panino. Mi giro di scatto verso di lui con gli occhi spalancati e la bocca aperta in un'espressione di sorpresa. "Sul serio?" A volte mi dimentico di avere a che fare con un super soldato degli anni Quaranta rimasto intrappolato nel ghiaccio per più di mezzo secolo. In realtà credo sia proprio questa la ragione per cui apprezza la mia compagnia: il fatto che, grazie alla mia ingenuità, lo tratto in primo luogo come una persona normale e poi, eventualmente, come un supereroe figo che ha salvato il mondo già diverse volte. Anche per questo motivo Cap annuisce con un sorriso, rispondendo al mio stupore con la seguente frase: "Sono nato e cresciuto a Brooklyn." Il sguardo si sposta poi sul mio volto pensieroso. "Io non sono mai stata a Brooklyn..." "In questo secolo nemmeno io." Afferma con una nota di malinconia nella voce. Riporto gli occhi su di lui, sbalordita per la seconda volta nel giro di pochi minuti. "Come sarebbe?" Allargo le braccia, ruotando il busto nella sua direzione e camminando lateralmente per qualche metro. "Non sei curioso di vedere come sono cambiati il tuo quartiere, le persone, la tua casa?" Steve sembra riflettere sulle mie parole con lo sguardo che, pur essendo rivolto al cielo, è perso nei meandri delle sue emozioni. Prende poi un respiro profondo, gonfiando il petto per qualche secondo. "Sì e no," è la sua risposta. Riprendo a camminare dritta, puntando gli occhi sull'ultimo boccone rimasto del mio hotdog. "Potremmo andarci insieme un giorno di questi." Sebbene percepisca il suo sguardo bruciare sul lato destro del mio volto, mantengo il contatto visivo con il panino per ovviare all'imbarazzo che esplode in un potente rossore sulle mie guance. "Potrei farti da supporto morale e, nel frattempo, visitare una città nuova." Solo dopo un paio di minuti riesco a raccogliere un briciolo di coraggio per guardare di sottecchi il viso del Capitano. Quest'ultimo ha ora lo sguardo basso e cerca di nascondere un sorriso dietro il colletto della sua giacca. Quando solleva di nuovo il viso e i suoi occhi azzurri incontrano i miei color smeraldo, mi regala un sorriso di sincera gratitudine. "Volentieri," risponde. Trascorriamo i successivi dieci minuti in silenzio, finendo entrambi i nostri hotdog sulla via che ci conduce al famoso ponte che attraversa il lago lungo il suo diametro. Mi viene istintivo prendere un respiro a pieni polmoni per inalare l'armonia e la quiete che regna in questo parco che pare una bolla isolata dal mondo reale; non abbastanza resistente però da non scoppiare di fronte alla domanda che Steve mi pone subito dopo. "Quella mattina in cui sono rientrato dalla missione volevi dirmi qualcosa," esordisce con un tono tale da farmi quasi credere stia pensando ad alta voce "poi non ne abbiamo più parlato..." Lascia la frase in sospeso di proposito, invitandomi in modo implicito a colmare la sua curiosità. Schiarisco la voce e, in preda all'agitazione, sposto lo sguardo su qualunque cosa non sia lui. "Ecco io," tentenno. Prendo poi un respiro profondo e chiudo gli occhi per qualche secondo. Quando li riapro, mi rendo conto di essermi fermata nel bel mezzo della passerella sul ponte e che Steve ha fatto lo stesso, troneggiando con la sua figura davanti a me. L'ombra formata dalla visiera del cappellino blu e il sole alle sue spalle gli oscurano il volto. Tiene le mani in tasca e gli occhi puntati sul mio viso. Le sopracciglia aggrottate evidenziano il suo cipiglio. "Io volevo parlarti di quello che era successo la sera prima," confesso in un sussurro imbarazzato. "O meglio, di quello che non era successo." Il soldato apre bocca per dire qualcosa, ma una voce alle sue spalle lo precede sul tempo, esclamando il mio nome. Mi sporgo con il busto verso sinistra e subito entra nel mio campo visivo la figura di Erika, che avanza nella nostra direzione in tenuta da jogging. Saetto gli occhi dalla ragazza al Capitano in piedi di fronte a me una manciata di volte, mentre il mio cervello inizia ad elaborare una scusa per giustificare la sua presenza qui con me - sta diventando una brutta abitudine, lo devo ammettere. "Erika, ciao!" Esclamo con un tono di voce molto stridulo persino per i miei standard. Intanto che la mia amica compie gli ultimi passi di corsa per raggiungerci, l'orologio al polso di Steve fa un suono strano: intuisco dall'espressione sul suo volto che è una faccenda urgente che richiede l'intervento degli Avengers. La conferma arriva poi direttamente dalla sua bocca. "Lo S.H.I.E.L.D ha localizzato un'altra base dell'Hydra in Sokovia e serve il nostro aiuto." Annuisco, abbozzando un sorriso dispiaciuto. L'unico lato positivo è che dobbiamo per forza rimandare la conversazione che stavamo intraprendendo. "Allora ciao." "Ciao," ricambia il saluto. Subito si avvicina al mio volto al fine di stampare un bacio veloce sulla mia fronte, prima di correre nella direzione da cui eravamo arrivati, lasciandomi positivamente interdetta. Sfioro con le dita della mano destra il punto in cui le sue labbra hanno incontrato la mia pelle, ora bollente, e sorrido. "Ma quello era...?" La voce affannata di Erika mi avverte del suo arrivo al mio fianco. Senza pensarci troppo, ribatto: "Proprio Steve Rogers."

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Lo sguardo malizioso della mia amica, che insiste da un paio di minuti ad osservare il mio profilo, inibisce il mio fantasticare fino a riportarmi brutalmente con i piedi per terra. Incrocia le braccia al petto nello stesso istante in cui mi volto verso di lei. Assottiglia gli occhi, inclina la testa verso sinistra e infine spalanca la bocca, come se avesse appena avuto un'illuminazione. "Aspetta un attimo... è lui che ti ha invitata ad uscire due giorni fa?" Resto immobile per qualche secondo, deglutendo una bocconata di panico e spostando lo sguardo dal viso di Erika. Il mio cervello cerca di elaborare una risposta che allontani dalla verità tutte le curiosità della mia amica, ma il mio silenzio e il mio atteggiamento bizzarro le suggeriscono la risposta ancora prima che abbia la possibilità di aprir bocca. "Wow!" Esclama, schiacciando il mento contro il collo in un'espressione di pura sorpresa. "Figlia di Tony Stark e flirt di Steve Rogers..." Sbuffo, rilassando i muscoli, scoraggiata. "Già, un bel casino!" Erika gira la testa nella mia direzione con un movimento lento e meccanico, le sopracciglia sollevate e gli occhi appena più aperti del solito. "Un bel casino?" Appoggia una mano sulla mia spalla, trattenendo una risata. "Mag, sono sicura che l'80% del genere femminile farebbe a botte pur di essere al tuo posto!" Corrugo la fronte. "E il restante 20%?" Il sorriso di chi la sa lunga si materializza sulle sue labbra. "Avrebbe scelto Thor." Incurvo leggermente il labbro sinistro e sollevo la spalla dello stesso lato, annuendo. "Ha senso." I suoi occhi si puntano poi sull'orologio che tiene al polso, sollevato a mezz'aria in modo da vedere le lancette anche in controluce. Gonfia il petto nell'atto di respirare e increspa le labbra in un sorriso di circostanza. "Per quanto mi piacerebbe stare ad ascoltare i drammi della tua vita, devo proprio andare," punta di nuovo gli occhi nei miei con sguardo dispiaciuto. "Ho lezione tra poco meno di un'ora." Annuisco, sollevando la mano e scuotendola in segno di saluto. "Non pensare di cavartela così, Maggy!" Grida dopo aver ripreso la sua corsa, già a qualche metro di distanza da me. "La prossima volta voglio tutti i dettagli!" Allargo il sorriso in una gigantesca forzatura, continuando a salutarla con la mano alzata. Me la sono cavata eccome, invece. Dopo aver visto Erika sparire dietro la curva che intraprende il sentiero, mi rimetto sui miei passi, diretta verso l'uscita posteriore di Central Park. Una decina di minuti più tardi, spunto fuori davanti al museo di storia naturale e continuo a camminare sul marciapiede affollato senza una meta apparente; almeno finché una Porche grigia non rallenta, affiancandomi sul ciglio della strada. Con la coda dell'occhio, inquadro la targa di una delle automobili di mio padre e, una volta abbassato il finestrino del passeggero, riconosco il volto famigliare di Rhodey. "Sali in macchina Hoggy," mi fa cenno con la mano di sbrigarmi, per poi girarsi e guardare qualcosa nello specchietto. Prima di porre anche solo una delle domande che mi frullano in testa, obbedisco: salgo a bordo del veicolo, allaccio la cintura e ci rimettiamo subito in strada. "Come mai tanta fretta, zio Rhod?" Chiedo. Sposto lo sguardo sul suo viso in attesa di una risposta, piuttosto preoccupata. "Gli Avengers sono stati assoldati per un'altra missione e qualcuno temeva per la tua incolumità," risponde lui, allontanando gli occhi sulla strada per un millesimo di secondo, il tempo necessario per mostrarmi il suo sguardo curioso e malizioso allo stesso tempo. Faccio spallucce e alzo gli occhi al cielo, fingendo palesemente di non aver afferrato il suo riferimento. "Che strano." "Non sto parlando di tuo padre..." Rhodey mi lancia un'altra occhiata. Deglutisco, puntando lo sguardo fisso sulla strada di fronte a noi con immotivato interesse e torturando le pellicine attorno alle unghie. "Da quando Cap ti controlla?" Sollevo di nuovo le spalle, questa volta affondandovi il collo, spinta da un enorme desiderio di sparire. "Forse papà gli ha chiesto un altro favore?" Un sorriso machiavellico appare sulle sue labbra. "Pensavo avesse incaricato Happy..." "Magari ha cambiato idea," ribatto nel tentativo di suonare più convincente possibile. L'occhiata che mi lancia successivamente parla da sé: ha capito che c'è qualcosa in corso tra me e Steve, ma non sa cosa e, ancora più importante, non ha intenzione di forzarmi a parlare. E per questo gli sono molto grata, visto che io stessa non sono ancora in grado di spiegare quale tipo di relazione intreccia le nostre vite. Pov Steve Al mio segnale irrompiamo tutti in territorio nemico, contemporaneamente su fronti diversi. Ognuno di noi ha un compito preciso: Iron Man, sorvolando l'area insieme a Falcon, deve trovare un punto d'accesso alla base e disattivare le difese di quel settore; Hulk e Thor devono distruggere più bunker possibili; infine Natasha, Clint ed io dobbiamo liberare il passaggio per poi infiltrarci all'interno dell'edificio, recuperare più informazioni possibili dai server nemici e distruggere la base dell'Hydra sokoviana una volta per tutte. Corro lungo il sentiero innevato, evitando alberi, raggi laser e colpi di pistola. Avvistato un gruppo di soldati che avanzano nella mia direzione, compio un salto che mi permette di atterrare con un pugno uno dei nemici. Sollevo lo scudo alla mia sinistra per difendermi dai proiettili di un mitra, mentre tiro un calcio nello stomaco ad un agente alla mia destra. Spingo il primo contro un albero grazie allo scudo, che successivamente lancio contro un tronco, facendolo rimbalzare sulle teste di quattro soldati, una dopo l'altra, mettendoli KO. Con balzo rotante riprendo lo scudo, evitando al contempo l'ennesimo raggio laser che colpisce in questo modo una manciata di soldati alle mie spalle. Prima di rimettere i piedi per terra, allungo le gambe e affondo i piedi sul viso di un agente. Riposiziono lo scudo dietro la schiena e sistemo i guanti alle mani prima di ripartire. In quell'esatto momento, una freccia passa a pochi centimetri dal mio elmetto e da un gemito proveniente alle mie spalle intuisco che è andata a segno: pochi metri più indietro, individuo la figura di Barton, in piedi sul retro di una jeep militare guidata da Natasha, con l'arco teso in questa direzione. Lo ringrazio con il tipico gesto militare delle dita che si allontanano dalla fronte. Ricomincio a correre verso l'entrata principale dell'edificio, sentendo il rombo di alcune moto alle mie spalle. Mi fermo al centro del sentiero, riprendo in mano lo scudo e lo lancio verso una di esse: il pilota che viene colpito al petto perde il controllo della moto, finendo per far schiantare a terra anche i suoi compagni nel tentativo vano di evitarlo. Solo due riescono ad uscire illesi dal mucchio e uno di loro si è impossessato del mio scudo. Sorrido sornione. Schiaccio un pulsante sull'avambraccio della mia divisa e lo scudo inizia il suo viaggio di ritorno, trascinando con sé anche il povero soldato, il quale viene prontamente accolto con gioia e un pugno teso da parte del sottoscritto. Corro poi incontro all'ultimo agente e, aggrappandomi ad un ramo sporgente, lo colpisco a piedi uniti, disarcionandolo e prendendo in prestito la sua moto dopo essergli caduto a cavallo. Affianco in pochi secondi la jeep che Clint e Natasha hanno requisito allo squadrone nemico, diretti verso i cancelli. "Stark, a che punto sei con le barriere?" Chiedo attraverso l'auricolare. La risposta non arriva subito. "Ci sto lavorando!" Esclama. In sottofondo si sente con chiarezza il rumore dei suoi propulsori all'azione. Hulk e Thor si aggregano a noi, portando con loro un'altra armata da mettere fuori combattimento. Thor agita il suo martello scatenando un fulmine sui soldati, Clint ricomincia a scoccare più frecce esplosive per volta e Hulk salta al centro del gruppo. Io invece mi alzo in verticale sul manubrio della motocicletta, slancio il corpo all'indietro e atterro in piedi: a questo punto, sollevo la moto in aria e la scaravento sulla prima linea di soldati. Anche Natasha segue il mio esempio e, dopo aver dato il tempo a Barton di scendere, guida la jeep vicino alla folla per poi arrampicarsi sullo schienale del sedile e saltare giù di lato fino ad atterrare con una capriola vicino ad un paio di agenti, che mettere fuori gioco con i proiettili-teaser che spara dai bracciali che indossa su entrambi i polsi. "Barriere disattivate," avverte Iron Man "Sam ed io ci occupiamo dei server, voi posizionate gli ordigni." Lancio una rapida occhiata a Clint e Natasha, i quali mi affiancano con un cenno del capo. Iniziamo a correre tutti e tre verso i cancelli d'ingresso della base, lasciando il compito di finire gli agenti dell'Hydra a Thor ed Hulk. Ci addentriamo nei corridoio semi deserti dell'edificio, dove le uniche persone rimaste sono a terra e prive di sensi a seguito dello scontro con Iron Man, Falcon e i loro giocattolini elettronici. Camminiamo a passo sostenuto ma silenzioso fino a raggiungere un bivio che conduce a due corridoi che procedono in direzioni opposte. Giro il volto verso i miei due compagni di squadra e, con un gesto della mano, gli faccio segno di prendere il percorso di destra, mentre io proseguirò lungo quello di sinistra. In totale silenzio, ci dividiamo. Alcuni metri più avanti, individuo il primo obiettivo e sistemo l'ordigno appeso alla parete esterna. Dopo aver digitato i codici per l'attivazione manuale da remoto, procedo correndo lungo tutto il corridoio. I muri poi si allargano in un'enorme stanza spoglia e buia, piena di strani aggeggi elettronici, alcuni lettini di ospedale e un macchinario che ricordo vagamente quello in cui mi hanno rinchiuso settant'anni fa per iniettarmi il siero del super soldato. Scuoto la testa, avvicinandomi ad un'altra parete per istallare il secondo ordigno. Mentre inserisco i numeri sul tastierino numerico della bomba, un suono graffiato e fastidioso esce dall'auricolare e mi fonde i timpani, tanto che sono costretto a chiudere gli occhi e premere il dito sul dispositivo. Pochi secondi più tardi, la voce di Stark invade i miei timpani. "Cap, sembra che l'Hydra ci abbia lasciato un pensierino." Il tono preoccupato della sua voce non promette niente di buono. "Una bomba?" Chiedo con il respiro pesante. "Meglio se lo vedi con i tuoi occhi Cap," interviene Sam "Alla tua sinistra." Nel preciso istante in cui mi volto nella direzione suggerita da Falcon, delle luci al neon si accendono rivelando la presenza di due stanze separate dal resto della sala da un muro di vetro - quasi certamente anti proiettile. Al loro interno vi sono un ragazzo ed una ragazza: il primo corre alla velocità della luce dentro il suo metro quadrato di gabbia, fino a sbattere contro la parete che lo separa dalla ragazza che, nel frattempo, emana luci rosse dalle mani, con le quali riesce a sollevare dei cubi senza nemmeno toccarli. Appoggio la mano sull'auricolare, gli occhi fissi sui due soggetti e la bocca improvvisamente asciutta e impastata. Deglutisco a fatica. "Inumani?" Chiedo, ma Tony Stark mi corregge subito. "Cavie da laboratorio." *** Una volta rientrati alla base, mi avvicino con cautela ai due ragazzi, intenzionato ad aiutare Tony e Bruce nell'atto di portarli nel loro laboratorio. Porgo una mano alla ragazza, che durante il volo di ritorno ha detto di chiamarsi Wanda Maximoff: questa afferra la mia mano senza esitazione, dandomi la possibilità di sostenerla mentre scendiamo dal portellone posteriore del Quinjet per ritrovarci poi direttamente nel salone del piano Avengers. Compiuti alcuni passi all'interno dell'ampia stanza, il mio sguardo si solleva e i miei occhi incontrano subito il viso di Mahogany. Tiene un faldone rosso stretto tra le braccia e, quando anch'ella alza il mento, i nostri sguardi si incatenano ed io sono costretto a fermarmi per sostenere il contatto visivo. È questione di pochi secondi prima che anche Pepper faccia il suo ingresso alle spalle della figlia e, vedendo suo marito trasportare un individuo sconosciuto, la sua fronte si aggrotta subito. Stark affida Pietro al compagno di squadra più vicino, che sarebbe Barton, per poi avvicinarsi ai membri della sua famiglia al fine di tranquillizzarli. Dopo aver rassicurato la moglie con un sorriso ed una carezza sulla spalla, Tony invita le due donne a tornare al piano superiore con tono autorevole, senza però essere duro e scontroso. Pepper annuisce, sventolando poi la mano davanti al viso della figlia, ancora impegnata a sostenere il mio sguardo. Gli occhi di Mahogany sfuggono ai miei proprio in quel momento e si posano sul viso della madre, che la esorta a seguirla. La ragazza annuisce, lanciandomi un'ultima occhiata prima di sparire dietro le porte dell'ascensore.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Seguo mia madre fuori dall'ascensore, reggendo al posto suo un paio di faldoni rossi che le servono per preparare la presentazione per una convention a cui deve partecipare in rappresentanza della Stark Industries. La mia testa però è ancora ferma al piano inferiore, più precisamente all'immagine di Steve che tiene tra le braccia la ragazza che hanno salvato dalle grinfie dell'Hydra, e una sensazione di fastidio mi fa stringere i fascicoli contro il petto con ancora più forza. Cammino attraverso il salotto fino a raggiungere la cucina. Appoggio il materiale di mia madre sul tavolo e, indugiando con le mani sopra i faldoni, un sospiro rumoroso abbandona il mio naso; sollevo poi lo sguardo, puntando gli occhi fuori dalla finestra senza guardare davvero qualcosa di preciso. Rimango immobile in questa posizione per una manciata di secondi, nei quali la mia mente sembra essere completamente vuota, se non addirittura spenta. Poi l'immagine dell'intenso sguardo di Steve si materializza in modo vivido davanti ai miei occhi: lo strano senso di rabbia di poco fa lascia subito il posto alla preoccupazione e il desiderio di controllare che sia tutto intero, derivante dal ricordo di com'era ridotto a seguito della scorsa missione, si fa spazio dentro di me. Mi dirigo a passi rapidi e distesi, oscillando le braccia avanti e indietro con rigidità, verso il corridoio che porta alla zona notte: a circa un metro dall'angolo di svolta, giro la testa di novanta gradi e, vedendo mia madre di spalle, cambio direzione senza smettere di camminare. Tengo lo sguardo fisso sulla schiena di Pepper finché non sparisce dietro la parete del soggiorno. A questo punto, apro silenziosamente la porta della rampa di scale e inizio a scendere i primi gradini. Evitare l'ascensore questa volta era d'obbligo, purtroppo: si sarebbe aperto sulla sala ricreativa del team, il quale essendo appena rientrato da una spedizione, sarà sicuramente riunito sui divani in pelle con una birra in mano a ciascuno per rilassarsi; piombare senza preavviso e senza una spiegazione logica tra di loro sarebbe un suicidio sia per me che per il piccolo segreto che condivido con Cap. Le scale invece mi conducono direttamente ad una porta che si apre infondo al corridoio delle camere da letto degli Avengers. Sgattaiolo in punta di piedi fino a raggiungere la porta della stanza del Capitano e, dopo aver controllato per l'ennesima volta che non ci fosse nessuno, scivolo all'interno con un movimento fluido e rapido del corpo. Lascio la maniglia soltanto quando la porta è chiusa, e solo allora mi volto, ritrovando la figura di Steve Rogers in piedi sulla soglia del bagno con un cipiglio confuso stampato in faccia e i suoi fari azzurri puntati su di me. Tutti i muscoli del mio corpo si contraggono, al punto da rendermi rigida come un palo della luce, ad eccezione del braccio destro che si solleva e si piega per permettere alle dita della mano di grattare la nuca. Sbatto le palpebre a ritmo discontinuo e ravvicinato. "Ciao," riesco a biascicare, presa da un'improvvisa ondata di imbarazzo. Devo ancora capire cosa esattamente di quest'uomo mi mette più in soggezione, se i suoi occhi o il suo fisico. Forse entrambi. "Ciao," richiama il saluto con cortesia, nonostante le sopracciglia continuino ad essere aggrottate in un'espressione enigmatica. "Ehm, io-" Faccio un passo avanti, per poi bloccarmi di nuovo. Abbasso lo sguardo e lascio che il braccio ricada lungo il fianco. Prendo un gran respiro; poi risollevo gli occhi puntandoli dritti nei suoi, questa volta sostenendo il suo sguardo. "Sono venuta a vedere come stavi." Esordisco infine, abbozzando un sorriso che mi viene subito ricambiato. "Bene, grazie." Risponde. Solleva le sopracciglia e stringe tra loro le sue labbra. Pochi secondi più tardi, riduce gli occhi a due piccole fessure, come se avesse capito qualcosa senza bisogno che aprissi bocca. "Non sei qui solo per questo o sbaglio?" Beccata. Avvicino il mento al collo, sporgendo il labbro inferiore. "Beh quello era il motivo principale." Faccio ondulare le braccia un paio di volte prima di intrecciare le mie mani davanti al bacino, avanzando nella sua direzione. "Però sono anche curiosa di sapere chi erano quei due che avete salvato," borbotto a bassa voce, accennando un sorrisino innocente. Il Capitano Rogers gonfia il petto nell'atto di prendere un profondo respiro e inclina la testa verso sinistra, guardandomi di traverso. Nonostante lo dia poco a vedere, percepisco che sta cercando di nascondere un sorriso. "Non ti azzardare a dire che non puoi dirmelo!" Rilascia l'intera quantità di ossigeno che aveva incanalato nei polmoni alcuni secondi fa. Poi apre bocca, ma prima che possa emettere qualsiasi tipo di suono, esclamo: "Oh no," punto un dito verso di lui "Non osare dirmi: Tony vorrebbe che tu ne stia fuori!" Scimmiotto con le sopracciglia sollevate. Steve sbuffa, finendo per scuotere la testa con un sorriso poco dopo aver posizionato le mani sui fianchi. "D'accordo, mi hai convinto." Avanzo in direzione del letto e mi siedo a gambe incrociate sul bordo, rivolta verso Cap, il quale si appoggia con la spalla sinistra allo stipite della porta senza staccare gli occhi dai miei. "Immagino tu sappia cos'è l'Hydra," esordisce aspettando un cenno di consenso da parte mia. "Il distaccamento nazista che nella Seconda Guerra Mondiale voleva conquistare il mondo usando il Tesseract?" Dalla faccia di Steve capisco che vorrebbe essere sorpreso, senza esserlo realmente. Schiocco quindi la lingua contro il palato, aggiungendo: "Sì, potrei averne sentito parlare." "È dall'epoca della sua fondazione che effettua esperimenti su cavie umane per replicare il siero del super soldato e creare un esercito di dotati." Incrocia le braccia davanti al petto e sospira. "Evidentemente, dopo il successo del Soldato d'Inverno, sono passati ad un altro tipo di dotati..." Corrugo la fronte. "Parli degli inumani?" Annuisce. "I risultati delle analisi condotte fino ad ora sui poteri di Wanda e Pietro fanno pensare di sì." Accarezzo il labbro inferiore con l'indice e il pollice della mano destra, pensierosa: c'è ancora una cosa che non mi torna. "Ma allora perché abbandonarli lì? Perché darvi la possibilità di prenderli in custodia?" Steve solleva le spalle, scuotendo la testa in un altro sospiro. "Tuo padre crede siano dei fallimenti, ed è questo che ci spaventa:" si scosta dallo stipite, bilanciando il peso del corpo su entrambe le gambe "Se con loro hanno fallito, come saranno i successi?" Nella stanza cala il silenzio, ma non la tipica atmosfera imbarazzante che si affetta con il coltello: è più simile ad una pausa di riflessione. Non ho idea di ciò che stia frullando nella testa del Capitano; nella mia invece gironzola un solo pensiero in questo momento. "Poverini, costretti a diventare cavie da laboratorio per colpa di un pazzo che gioca a fare Dio da mezzo secolo..." sussurro senza rendermene conto. "Perlomeno è stata una loro scelta," ribatte Steve come appena rinvenuto dai suoi pensieri. Spalanco gli occhi, puntandoli di nuovo sul volto di Cap, mentre sulle mie labbra compare una smorfia di disgusto. "Ma chi è il pazzo che accetterebbe di sottoporsi volontariamente a degli esperimenti, solo per avere un briciolo di potere?" Gracchio contrariata. Steve, che si era voltato per lavarsi le mani, con uno scatto lancia un'occhiataccia nella mia direzione. Sbianco in viso, diventando paonazza, e boccheggio in cerco di parole. "S-scusa," balbetto, abbassando lo sguardo in imbarazzo. Nascondo una risata per la mia stessa figuraccia dietro il colletto della dolcevita e con la coda dell'occhio, vedo Steve allungare una mano verso l'asciugamano appeso accanto al lavandino. Poso di nuovo lo sguardo sulle mie mani, giocherellando con i cordoncini dei pantaloni. "Hanno avuto una vita difficile, probabilmente è questo che li ha spinti ad accettare." Riprende di punto in bianco il discorso interrotto dal mio commento inopportuno. Sto per ribattere che anche io non ho avuto un'adolescenza con i fiocchi, eppure non mi darei mai e poi mai in pasto a degli scienziati pazzi, ma quando i miei occhi si sollevano, si posano sugli incredibili muscoli delle braccia nude di Steve e sui suoi pettorali scolpiti da Michelangelo Buonarroti, evidenziati e perfettamente fasciati dalla sola canottiera bianca che indossa. La mia mascella rimane sospesa a mezz'aria, mentre la mia testa si inclina di qualche grado verso il basso e il mio sguardo non accenna a staccarsi dal suo corpo tonico e ben modellato. "Tutto bene?" Domanda la divinità greca in piedi di fronte a me con un'espressione preoccupata sul viso. Deglutisco pesantemente e sbatto più volte le palpebre prima di riprendermi. "Eh?" È l'unico suono stridulo che riesco a pronunciare. Dopo essersi asciugato le mani e avermi lanciato un'occhiata crucciata, punta il dito in direzione del mio braccio: solo allora, spostando lo sguardo su di esso, mi rendo conto che il mio orologio sta vibrando sul polso. Sullo schermo dello Smart Watch leggo la scritta intrusione. Qualcuno è entrato nella mia stanza. "È un segnale che indica che sei nei guai?" Chiede poi. Mi alzo con uno scatto e, allo stesso modo, raggiungo la porta della stanza senza dire una sola parola. Afferro la maniglia, ma prima di lasciare definitivamente la camera, mi volto un'ultima volta verso il ragazzo. È da questo pomeriggio che ho un pensiero che gironzola per la testa. Sospiro. "Ricordi il discorso che stavamo affrontando quando te ne sei andato?" Annuisce. "Dovremmo finirlo prima o poi." Entrambi abbozziamo un sorriso. "Lo penso anch'io." Indugio un istante di troppo con la mano ferma sulla maniglia della porta per via del mio sguardo incastrato negli occhi di Steve. Dopo un attimo di esitazione, esco. Chiudo la porta alle mie spalle e, senza guardarmi attorno, compio un passo veloce in avanti per immettermi nel corridoio. Il mio corpo si immobilizza ancor prima di compiere il secondo passo. I contorni del luogo in cui mi trovo sbiadiscono a poco a poco: davanti ai miei occhi si materializza invece l'immagine di un parco naturale, forse Central Park. D'un tratto mi ritrovo in piedi di fronte a Steve, entrambi catapultati di nuovo sul ponte in legno che separa le due sponde del laghetto. I nostri sguardi sono incatenati e un sorriso sincero illumina il viso del Capitano. Aggrotto la fronte, confusa, cercando di capire cosa stia succedendo. Interrompo poi il contatto visivo e saetto lo sguardo a destra e a sinistra, ma le mani grandi e calde di Steve si posano delicatamente sulle mie guance, riportando il mio viso all'interno del suo campo visivo. I nostri occhi si incatenano ancora, ma questa volta tra le pozze azzurre di Steve scorgo una scintilla che in un secondo attraversa il suo sguardo. Il suo volto inizia poi ad avvicinarsi al mio e, a quel punto, decide di annullare la distanza che ancora intercorreva tra i nostri corpi premendo le labbra contro le mie in un bacio lento ma passionale. Chiudo gli occhi in un gesto istintivo e allungo timidamente le braccia in avanti fino a posare le mani sui suoi fianchi. Percepisco il sorriso nascere sulle sue labbra mentre le nostre bocche sono ancora vicine, facendomi sorridere a mia volta. Questo momento perfetto viene interrotto bruscamente da una voce maschile piuttosto famigliare che sbraita: "Ehi! Mi sembrava di averti detto niente più giochetti di magia, streghetta!" Le immagini di Steve e di Central Park svaniscono pochi secondi più tardi, come se qualcuno avesse appena tolto di fretta e furia due fette di salame dai miei occhi, facendomi tornare di nuovo al centro del corridoio del piano Avengers. Sbatto più volte del palpebre, confusa e soprattutto frastornata. Sollevo le braccia davanti al mio volto e le osservo, notando con sorpresa e spavento che i miei vestiti sono completamente diversi rispetto a quelli che indossavo in quella specie di sogno, mentre invece rispecchiavano alla perfezione gli abiti che indossavo questo pomeriggio quando ero davvero a Central Park con Steve. Strizzo gli occhi e arriccio il naso, massaggiando le tempie con le dita: credo stia per scoppiarmi la testa. La stessa voce che prima mi ha risvegliato da quell'allucinazione, ora posso attribuirla al volto di Sam Wilson, il quale si avvicina a passi veloci nella mia direzione. "Stai bene?" Appoggia una mano sulla mia spalla, con un'espressione preoccupata in volto. Riapro gli occhi, e solo allora mi accorgo di avere un'altra figura affianco: si tratta della ragazza che la squadra ha salvato qualche ora fa dalla base dell'Hydra, la stessa che stava trasportando Steve nel momento in cui sono rientrati. "S-sì," balbetto in risposta a Sam, tenendo però lo sguardo fisso sulla rossa di capelli. "Sei stata tu? Che cosa mi hai fatto?" Con un sorrisetto accennato sul volto, Wanda - se non ricordo male - risponde: "Ho manipolato la tua mente per far affiorare qualcosa che desideri tanto vivere." Grattandomi la nuca ancora stordita e con le sopracciglia aggrottate, domando: "Quindi sono questi i tuoi poteri?" "Una delle varie cose che gli permettono di fare," risponde Sam al suo posto. L'eroe alato assottiglia poi lo sguardo e, seguendo la scia dei suoi occhi, vedo che lo sposta da me alla porta alle mie spalle e viceversa un paio di volte. Apre bocca per dare voce ai suoi dubbi e, sebbene sembrasse intenzionato a fare marcia indietro, passano solo alcuni secondi prima che faccia la domanda da un milione di dollari. "Ma tu sei uscita dalla stanza di Cap?" "Certo che no." Ribatto seccamente. "Un super soldato a petto nudo sa essere molto hot, non credi?" La voce di Wanda, molto più vicina al mio orecchio di quanto mi fossi resa conto, mi fa sussultare. Dall'espressione scioccata che ha Sam in volto deduco che anche lui abbia sentito; per questo mi sento in dovere di precisare che "Non era a petto nudo!" Ma considerato il suo sguardo ancora più allibito, continuo: "E comunque abbiamo solo parlato." Borbotto. Notando il silenzio imbarazzante, schiarisco la voce e irrigidisco la schiena. "Ora se volete scusarmi, ho una questione urgente che mi aspetta." E senza aspettare una loro minima reazione, sorpasso Sam e mi dirigo a passo spedito in direzione delle scale.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Salgo, correndo, tutti i gradini che separano i due piani fino a sbucare nuovamente accanto all'ingresso del salotto. Mi precipito in camera mia alla velocità della luce, trovando la porta aperta e mio padre in piedi davanti alla scrivania mentre sfoglia un mio libro di testo. "Papà?" L'uomo con il pizzetto stravagante solleva la testa dalle pagine del libro di letteratura, che ripone esattamente dove l'ha trovato, per poi puntare gli occhi su di me e fare qualche passo in avanti. Allarga le braccia e, in compenso, assottiglia lo sguardo. "Dov'eri?" "Nella biblioteca," mento "dovevo portare giù qualche vecchio libro." I suoi occhi mi scrutano attentamente, come se volessero a tutti i costi scovare la mia bugia. Poi, con un cenno della testa, mi ordina di sedermi sul bordo del letto. Mentre cammino nella sua direzione, mio padre prende la sedia della mia scrivania, la ruota di centottanta gradi e vi si siede, incrociando le braccia sullo schienale e appoggiando il mento su di esse. "Sei riuscita a corrompere Happy?" Increspo le labbra, trattenendo un sorriso. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato prima o poi: Happy è un pessimo bugiardo e certe volte, soprattutto quando si tratta di me, non prova nemmeno a mentire ai miei genitori. Sollevo le spalle, sfoggiando uno sguardo innocente. "Cosa devo dirti... è una pessima spia!" Ci fissiamo negli occhi per una manciata di secondi prima di scoppiare a ridere. Tony appoggia la fronte contro il suo avambraccio, mentre io mi lascio cadere di schiena sul materasso. Porto le mani sulla pancia, che quasi duole a causa delle risate. Mio padre allunga poi il braccio, picchiettando le dita sul mio ginocchio per attirare la mia attenzione. Sollevo leggermente la testa per vedere la sua mano farmi cenno di abbassare la voce. "Così ferisci i suoi sentimenti!" Stringo le labbra in un sorriso per cessare le risate e, con uno slancio delle braccia, torno a sedermi con le gambe incrociate. Inclino la testa verso sinistra, osservando ogni minimo dettaglio del volto di mio padre, persa nei pensieri che affollano la mia testa.  "Non sei arrabbiato?" Chiedo di punto in bianco dopo svariati attimi di silenzio. L'uomo di fronte a me sposta gli occhi in modo rapido e ritmico sul mio volto, stando però bene attento a non incrociare mai il mio sguardo. "No," risponde in tono serio e distaccato "Sono io ad aver sbagliato: ho infranto il nostro accordo e meritavi più fiducia." Tira l'angolo destro del labbro in un mezzo sorriso; così facendo, delle piccole rughette appaiono sotto la palpebra inferiore dell'occhio di quello stesso lato del viso. "Infondo, avrei dovuto immaginare che te ne saresti accorta subito, sei molto intelligente... e sei mia figlia!" Alzo gli occhi verso il soffitto, sbuffando per l'esasperazione, ma al contempo incapace di trattenere un sorrisetto. In quello stesso momento, il mio cellulare inizia a vibrare sul comodino. Mi allungo sul letto per afferrarlo, mentre mio padre, battute entrambe le mani sulle cosce fasciate dai pantaloni di un completo elegante, si alza dalla sedia e ne approfitta per dileguarsi. Con il cellulare alla mano e il dito pronto a trascinare la cornetta verde per accettare la chiamata, rotolo su me stessa fino a ritrovarmi sul bordo opposto del letto a guardare mio padre che cammina verso la porta. "Quindi niente più guardie del corpo?" Chiedo con un tono di voce gutturale, dovuto alla posizione da leone marino spiaggiato che ho assunto. "Forse," ribatte lui a voce alta, per farsi sentire nonostante fosse già uscito dalla mia stanza. Scivolo lateralmente al centro del letto, così da affondare la testa nel cuscino, mentre accetto la chiamata con la mano libera, portando poi il cellulare vicino all'orecchio. "Ehi!" Dall'altro capo del telefono sopraggiunge il suono di una campanella, seguito da un rumoroso vociare e dall'eco di passi veloci che fa da sottofondo alla voce affannata di Erika. "Ciao Mag, sei libera?" Fa una breve pausa, nella quale sembra salutare qualcuno che le passa accanto. "Io ho appena finito le lezioni, ti va di vederci per un caffè tra poco? Così potrai raccontarmi della tua fiamma!" Pronuncia l'ultima frase con un pizzico di malizia; riesco già ad immaginare il sorrisetto che le incornicia il volto. Arriccio il naso e scimmiotto la mia amica senza emettere alcun suono. Poi con uno sbuffo, rispondo alla sua domanda con un'altra domanda. "Solito posto?" "Andata." *** Risucchia fino all'ultima goccia del suo frappé alla banana, facendo gorgogliare la cannuccia. Allontana le labbra dal bicchiere e, mantenendo gli occhi puntati su di me, schiocca la lingua contro il palato e incrocia le braccia sul tavolo. "Wow!" Si lascia sfuggire poi, mentre finisco di raccontarle cos'è accaduto durante l'allucinazione che Wanda mi ha provocato circa una mezz'oretta fa. Ovviamente, ho dovuto rimodellare la realtà in modo da potergliene parlare senza accennare al quasi bacio che c'è realmente stato tra di noi, né dei due gemelli con i superpoteri che gli Avengers hanno salvato. La versione che le ho esposto si limitava quindi al primo appuntamento con Steve - se condividere un pacchetto di patatine fritte del McDonald su una terrazza può definirsi un appuntamento - e ad un sogno che ho fatto su di lui la notte scorsa. Scrocchio le dita delle mani sotto il tavolo. "Allora, che cosa ne pensi?" Chiedo. Erika prende un respiro grande e, incrociando le braccia al petto, appoggia la schiena contro la spalliera della panca. "Beh, hai sognato di baciarlo," solleva le spalle e gira il volto verso sinistra, increspando le labbra. "Questo non vuol già dire che infondo ti piace tanto da desiderare di baciarlo?" Abbasso lo sguardo sul liquido arancione rimasto nel bicchiere di fronte a me, riflettendo sulle parole della mia amica. Quello che ha detto è vero: Steve mi piace. Il problema è che, sebbene ne sia consapevole, non credo di essere pronta ad ammetterlo ad alta voce, né a me stessa né tanto meno ad altri. Ogni volta che ci penso, il cuore inizia a battere talmente veloce da sfiorare la tachicardia, delle goccioline di sudore, precedute da una vampata improvvisa di calore alle guance, cominciano ad imperlarmi la fronte e il collo ed un senso di agitazione e panico prendono il controllo del mio sistema nervoso. È una sensazione strana, a tratti piacevole e a tratti estremamente fastidiosa. Quando sono in mezzo alla gente poi, diventa straziante. Per questo motivo faccio strisciare la sedia sul pavimento nel maldestro tentativo di alzarmi in piedi, finendo quasi per inciampare nella gamba del tavolo. "Vado un attimo in bagno, torno subito," biascico e, senza neanche guardare la mia amica Erika in faccia, mi precipito in bagno. Apro subito il rubinetto dell'acqua fredda, chino la testa sul lavandino e sciacquo il viso, tamponando le tempie con un pezzo di carta igienica bagnata. Abbasso la maniglia d'acciaio e sollevo il capo lentamente, mentre le goccioline di acqua ruzzolano sul mio volto, si incastrano tra le ciglia o precipitano sulla ceramica del lavano. I miei occhi si puntano immediatamente sulla mia immagine riflessa nello specchio, la quale, dopo un battito di ciglia, lascia spazio alla figura di Steve Rogers. L'uomo mi guarda e mi sorride, e proprio come nell'illusione creata da Wanda, allunga le mani verso di me, oltrepassando il vetro per poter accarezzare le mie guance. Premo con forza gli occhi e scuoto la testa. Sto impazzendo. Avvolgo le mani attorno al bordo del lavandino e lo stringo talmente forte che le nocche di tutte e dieci le dita impallidiscono. "Non è reale," sibilo a denti stretti. Non so bene cos'abbia fatto Wanda nella mia testa, ma qualcosa mi dice che in qualche modo sia riuscita a smuovere dei sentimenti che ancora non sapevo di covare; li ha portati a galla all'improvviso, e adesso non so davvero come maneggiarli. Prendo un lungo e profondo respiro, stacco un paio di fogli dal dispensatore per asciugarmi il volto e sistemo i miei capelli mossi dietro le orecchie. Esco dal bagno pochi secondi più tardi con uno strano vuoto che colpisce la mia pancia dallo stomaco fino al basso ventre, costringendomi a mordere il labbro inferiore con i denti per evitare di sorridere come una cretina per chissà quale assurdità che mi gironzola in testa. Il sorriso si spegne alla stessa velocità di una lampadina fulminata quando il mio sguardo si posa sul tavolo dove avevo lasciato la mia amica, ora impegnata a frugare nel mio zainetto. Aumento il passo, facendomi largo tra i clienti che consumano le loro ordinazioni in piedi, fino a raggiungere la panca sulla quale ero seduta. Strappo lo zaino dalle mani di Erika e, con gli occhi traboccanti di rabbia, delusione e lacrime amare puntati su di lei, richiudo la cerniera e me lo metto a spalle. Ignoro i suoi stupidi tentativi di giustificarsi; poso accanto al mio bicchiere quanto basta per pagare la mia bottiglietta di succo di frutta e, senza dire una parola, mi dirigo a passi lunghi e distesi fuori dal locale. Il campanellino d'ingresso suona di nuovo soltanto pochi istanti dopo la mia uscita, ma, nonostante i svariati richiami, non mi fermo: accelero anzi l'andatura, immergendomi nella scia di persone che occupano il marciapiede e confondendomi tra esse fino a disperdere ogni mia traccia. Il centinaio di emozioni forti e contrastanti mi accompagnano fino a casa: spingo le porte girevoli con prepotenza, attraverso l'ingresso della torre con decisione e, spintonando alcuni uomini in giacca e cravatta, occupo l'ascensore prima che qualcun altro ne abbia la possibilità. Poco prima che le porte si chiudano, intravedo la figura di Captain America che, invece di ascoltare ciò che alcuni agenti hanno da dirgli, mi osserva dalla reception con le sopracciglia aggrottate. Scivolo sul fondo dell'abitacolo fino ad appoggiare le spalle e la testa alla parete, reggendomi al corrimano in metallo. Stringo gli occhi e digrigno i denti nel tentativo di placare il turbine di emozioni che sta mettendo in subbuglio sia il mio cuore sia la mia mente. Quando la breve melodia robotizzata risuona nell'abitacolo, avvertendomi dell'arrivo al piano desiderato, mi affretto verso le camere da letto. Raggiunta la mia stanza, spalanco la porta per sbatterla pochi secondi dopo alle mie spalle e chiuderla a chiave. Getto lo zaino ai piedi del letto, poi cammino fino al centro della stanza e infilo le mani tra i capelli, strizzando gli occhi, ai quali sfuggono giusto due lacrime. Un singhiozzo lascia le mie labbra all'improvviso. Assesto quindi un calcio alla sedia, che finisce inevitabilmente per sbattere contro il legno massiccio della scrivania. "Qualsiasi cosa sia successo, non credo che la sedia ne abbia colpa." Sussulto per lo spavento e, con un piccolo balzo, mi volto di schiena, posando una mano sul cuore e asciugando le guance con l'altra: in piedi davanti a me trovo un ragazzo dai capelli di dubbio gusto che scruta il mio volto con un sorriso appena abbozzato sulle labbra. Apro bocca per dare voce alle mille domande che mi frullano in testa, ma sono costretta a richiuderla quando il mio sguardo si sposta dallo sconosciuto alla porta chiusa a chiave alle sue spalle. Saetto gli occhi almeno tre volte prima di esclamare terrorizzata: "Come diamine hai fatto ad entrare?" Il ragazzo dai capelli color avorio con le radici more solleva le spalle e poi le mani, increspando il labbro inferiore. "Nello stesso modo in cui ho chiuso la finestra," ribatte con un forte accento dell'est. Subito dopo, punta l'indice verso la parete di vetro dietro di me. Nell'atto di ruotare la testa e il busto, una folata d'aria colpisce il mio viso prima a destra e subito dopo a sinistra, facendo svolazzare i miei boccoli biondi. Anche senza voltarmi completamente, riesco a vedere con la coda dell'occhio il vetro della finestra che combacia con il resto della parete. Torno quindi a guardare il ragazzo, ancora in piedi di fronte a me: le uniche differenze che noto rispetto a qualche secondo fa sono il suo sorriso più accentuato e strafottente e le braccia che ora tiene incrociate davanti al petto. Annuisco con le labbra arricciate. "Sei super veloce." Il ragazzo inclina la testa verso sinistra, alzando subito dopo gli occhi al cielo. "È riduttivo, ma sì, sono super veloce," conferma. Sposto il peso del corpo sulla gamba destra e incrocio le braccia al petto nello stesso istante in cui lui scioglie l'intreccio per farle ricadere lungo i fianchi. "Quindi immagino tu sia Pietro, il fratello di Wanda..." Lascio la frase in sospeso, nonostante sia già sicura della risposta. Pietro annuisce, facendo subito un passo in avanti. "Sì, ed è proprio per questo che sono qui," spiega "Volevo scusarmi per quello che ti ha fatto mia sorella." Una frazione di secondo più tardi, lo ritrovo ad un palmo dal mio naso mentre tiene delicatamente la mia mano destra nella sua. "Oh!" Esclamo sbigottita, sbattendo più volte le palpebre. "Quindi mi dispiace..." La sue labbra si posano poi sul dorso della mia mano, lasciando la frase in sospeso. Successivamente solleva gli occhi color smeraldo, incastrandoli nei miei, in attesa di una mia risposta. Deglutisco, e solo allora mi rendo conto di aver la bocca più asciutta del deserto del Sahara. "Mahogany," concludo la sua frase, accontentando la sua richiesta implicita di conoscere il mio nome. Non ho idea di quanto tempo passiamo in silenzio a fissarci negli occhi. Ad interrompere il nostro contatto visivo sono di per certo alcuni colpi dati alla porta della mia stanza dall'esterno. Schiarisco quindi la voce, ritraggo la mano dalla sua presa gentile e compio un passo indietro, sbattendo i polpacci contro il bordo del letto. "Jarvis, sblocca la serratura per favore," ordino al mio assistente digitale. La porta si apre nel istante immediatamente successivo al rumore sordo della serratura che scatta, rivelando la figura statuaria di Captain America. Nessuno osa fiatare. Al contrario, gli sguardi balzano da una persona all'altra e, a seconda del soggetto, esprimono imbarazzo, confusione o durezza. Il primo a rompere il ghiaccio è il gemello Maximoff che, saettando rapidamente lo sguardo da me a Cap, indica l'uscita con entrambe le mani. "Io allora vado," dice. Annuisco, riuscendo con non so quale forza di volontà a posare gli occhi su di lui. "Va bene," abbozzo un sorriso "e non preoccuparti, è tutto a posto." Alza i pollici con un sorrisetto in volto, poco prima di sfrecciare fuori dalla stanza. Io invece, percependo il bisogno di un ricircolo di aria, vado a riaprire la finestra: l'atmosfera in questa stanza è diventata soffocante. Mentre mi sollevo sulle punte per afferrare la maniglia, Steve spezza quello spesso strato di disagio ponendo una domanda che però suona tanto come una constatazione. "Noto che hai già avuto modo di conoscere i gemelli Maximoff." Dalla sua voce traspare un filo di ironia. Ruoto la maniglia, aprendo la finestra a vasistas. Tornata ad aderire al pavimento con l'intera pianta del piede, emetto un sonoro sbuffo. "Un vero piacere," borbotto, ricordando allo stesso tempo di come Wanda mi abbia assalita alle spalle con la sua manipolazione mentale e di come il fratello si sia intrufolato nella mia stanza grazie alla sua velocità. Mi siedo poi a gambe incrociate sul bordo del letto e, quando i miei occhi si posano ancora una volta sul viso di Steve, un sorriso, che tento di nascondere dietro la mano, si allarga sul mio volto. "È gelosia quella che vedo sulla tua faccia?" Il diretto interessato cerca di camuffare il sorrisetto sarcastico - simbolo di colpevolezza - con uno sbuffo e una leggera risata. "No," sentenzia. Avanza poi nella mia direzione, prendendo posto al mio fianco. Appoggia le mani sulle sue ginocchia e si gira verso di me, puntando i suoi occhi azzurri nei miei. Con un sorriso sincero, aggiunge: "Però mi preoccupo per te." Il sorriso si espande sulle mie labbra a dismisura. Mi volto dalla parte opposta, cercando di celare con la mano destra il rossore che appare sulle mie guance negli istanti successivi. Torno a guardare il Capitano Rogers negli occhi soltanto dopo alcuni secondi e, con la mano appoggiata sul mento, biascico: "È molto dolce." I nostri sguardi si perdono l'uno nelle iridi dell'altro, ma, ancor prima che i nostri visi inizino ad avvicinarsi tra loro, la vibrazione del cellulare sulle lenzuola dietro di noi attira la nostra attenzione. A differenza mia, già pronta ad ignorare la chiamata, Steve interrompe il contatto visivo per sbirciare il nome che compare sullo schermo. "Erika non era la tua amica?" Chiede perplesso. Annuisco in modo altezzoso e senza più guardarlo in faccia. "Perché la stai ignorando?" Sbuffo. "Non la sto ignorando." Percepisco il suo sguardo divertito bruciare sul mio profilo. "E queste tre chiamate perse?" Il cellulare smette improvvisamente di vibrare. "Quattro." Sbotto infastidita. Il soldato - che ancora indossa la sua divisa rossa, bianca e blu - incrocia le braccia al petto e si volta con il busto verso di me, sistemandosi meglio sul letto. Bagna le labbra con un rapido gesto della lingua, poi alza le sopracciglia, inclinando la testa quanto gli basta per vedermi in faccia. "Forza... dimmi cos'ha fatto." "L'ho beccata a rovistare nel mio zaino!" Esclamo, manifestando il mio sbigottimento con un piccolo salto sul posto, accompagnato dallo schiocco delle mani sulle cosce, che mi porta a guardare Steve di nuovo faccia. Corruga la fronte. "Secondo te cercava-" Lo interrompo subito. "Non lo so cosa cercava: non le ho mai parlato delle mie scarpe, non gliele ho mai mostrate e sinceramente dubito anche che possa avermi vista indossarle perché sto molto attenta," dico. Il Capitano sospira con uno sguardo serio. "Prova a chiederle perché lo stava facendo," mi consiglia "Magari era solo curiosa." Annuisco, pensierosa. In quell'istante la mano calda di Steve si posa sulla mia: i miei occhi guizzano su di lui, mentre il cuore fa un capitombolo nel petto. Sorride. "Se preferisci invece, posso chiedere a Natasha di fare qualche ricerca sul suo conto." Il bello e al contempo anche il brutto di essere circondata da spie, agenti segreti e supereroi. Scuoto la testa, abbozzando un sorriso. "Prima proverò a parlarle... ma grazie comunque."

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