Gli Ultimi Maghi

di Zobeyde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Mago ***
Capitolo 2: *** Una vecchia storia ***
Capitolo 3: *** Elettromanzia ***
Capitolo 4: *** Festino di mezzanotte ***
Capitolo 5: *** L'uomo con la bombetta ***
Capitolo 6: *** L'Appeso ***
Capitolo 7: *** Allievo e maestro ***
Capitolo 8: *** Nuove direttive ***
Capitolo 9: *** Lezioni di magia ***
Capitolo 10: *** Come il Fuori così il Dentro - PRIMA PARTE ***
Capitolo 11: *** Come il Fuori così il Dentro - SECONDA PARTE ***
Capitolo 12: *** Attraverso lo specchio ***
Capitolo 13: *** I limiti della magia ***
Capitolo 14: *** Padri e figli ***
Capitolo 15: *** Alycia ***
Capitolo 16: *** Anthea Ingannatrice ***
Capitolo 17: *** Racconti di re, cavalieri e spade ***
Capitolo 18: *** Ombre dal passato ***
Capitolo 19: *** Dietro le quinte ***
Capitolo 20: *** Nella tana del coniglio - PRIMA PARTE ***
Capitolo 21: *** Nella tana del coniglio - SECONDA PARTE ***
Capitolo 22: *** Tradimento ***
Capitolo 23: *** Il ladro di incantesimi ***
Capitolo 24: *** Le ossa ***
Capitolo 25: *** Il volo di Icaro ***
Capitolo 26: *** Nimbus ***
Capitolo 27: *** Il guardaroba ***
Capitolo 28: *** I quattro stregoni di Arcanta ***
Capitolo 29: *** La prova ***
Capitolo 30: *** La Corte dei Miraggi ***
Capitolo 31: *** Sorpresa ***
Capitolo 32: *** Il Bestiario ***
Capitolo 33: *** Una sfida a lungo attesa - PRIMA PARTE ***
Capitolo 34: *** Una sfida a lungo attesa - SECONDA PARTE ***
Capitolo 35: *** Gli Amanti ***
Capitolo 36: *** La favorita ***
Capitolo 37: *** Le vie del Vuoto - PRIMA PARTE ***
Capitolo 38: *** Le vie del Vuoto - SECONDA PARTE ***
Capitolo 39: *** Deviazione ***
Capitolo 40: *** La soffiata ***
Capitolo 41: *** Un posto tranquillo ***
Capitolo 42: *** Il Corvo e il Lupo ***
Capitolo 43: *** La Torre ***
Capitolo 44: *** La notte si avvicina ***
Capitolo 45: *** Raccontami una bugia ***
Capitolo 46: *** Alla Fine di Tutte le Cose ***
Capitolo 47: *** Contrappasso ***
Capitolo 48: *** Luoghi transitori ***
Capitolo 49: *** L'occhio ***
Capitolo 50: *** La belva ***
Capitolo 51: *** Orologi ***
Capitolo 52: *** Horror Vacui ***
Capitolo 53: *** La mancanza ***
Capitolo 54: *** L'ora più buia - PRIMA PARTE ***
Capitolo 55: *** L'ora più buia - SECONDA PARTE ***
Capitolo 56: *** Quello che rimane - PRIMA PARTE ***
Capitolo 57: *** Quello che rimane - SECONDA PARTE ***
Capitolo 58: *** Quando il circo arriva in città ***



Capitolo 1
*** Il Mago ***




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«ll meraviglioso serve ad avviare il processo di guarigione di un'umanità sofferente.»

- Kindermann




 



IL MAGO

 



 
New Orleans, estate 1933.


Il circo arrivò all’alba, in un torrido sabato di fine giugno.
Il convoglio su cui viaggiava – un serpentone di vagoni rosso scarlatto e ruote dipinte a raggiera – apparve su un binario alla periferia nord della città, annunciato da un violento stridore di freni e da una nube di fumo grigio.
Nella viscosa luce del giorno, che si faceva via via più intensa, tutti i portelloni si spalancarono fragorosamente; ne emersero una dozzina di uomini sporchi che, dopo aver imprecato, sputato per terra e acceso qualche sigaretta, circondarono il treno calando giù pedane e guidando per le briglie enormi cavalli da tiro.
Nel giro di un paio d’ore, quell’inconsueto movimento aveva attirato una gran folla, accorsa per vedere la stupefacente città mobile che prendeva forma sotto i loro occhi, i più piccoli ansiosi di scorgere una proboscide, gli adulti qualche giarrettiera.
A Maurice O’Malley quella gente non piaceva. A dire il vero, erano ben poche le cose al mondo che gli andassero a genio, ma tra tutti i fermi[1] con cui aveva avuto a che fare, i fermi di città erano quelli che tollerava meno. Sembrava che ormai nulla sortisse il loro interesse: perché sborsare venticinque cent per vedere una bestia feroce quando ce n’erano a dozzine esposte ogni giorno allo zoo? Quale acrobazia poteva reggere il confronto con gli effetti speciali di un film? I fermi di città erano spavaldi, cattivi. E lo erano diventati ancora di più con i tempi che correvano...
Il Paese che li aveva accolti con sfolgoranti promesse di fama e ricchezza – “Se puoi sognarlo puoi realizzarlo!”, non diceva così Mr. Walt Disney? – ultimamente se la stava passando male. Erano già trascorsi quattro anni dal Martedì nero[2] e ancora i suoi effetti non cessavano di farsi sentire: salari da fame, attività fallite, intere famiglie in mezzo alla strada. Lo sconforto, peggiorato solo dalla carenza di alcol, aleggiava ovunque come una cappa malsana. e rendeva i fermi ancora più diffidenti del normale verso quelli come loro, i dritti[3], stranieri e senza fissa dimora.
O’Malley sospirò profondamente e scosse la testa, facendo oscillare il gibus di vernice aperto sul fondo come una scatoletta; mentre attraversava il piazzale pullulante di attività, si fermò per cedere il passo a una coppia di Lipizzani bianchi diretti al serraglio e riprese il cammino, brontolando fra sé.
Si sforzava di non pensarci – dal direttore ci si aspettava risolutezza! – ma nelle sue vecchie ossa irlandesi lo sapeva, lo sentiva. L’epoca d’oro del circo stava tramontando.
Le grandi compagnie venivano smembrate una dopo l’altra, costringendo i saltimbanchi a vagare alla ricerca disperata di un impiego, che fosse arrampicarsi sull’impalcatura di un grattacielo in costruzione o infilarsi nei cunicoli bui di una miniera. La verità era che il mondo stava cambiando troppo in fretta. E quando questo succedeva quelli come loro erano i primi a essere lasciati indietro…
Per scacciare quei brutti pensieri, O’Malley sferrò un colpo di bastone sul polpaccio di un ragazzo smilzo e brufoloso che chiacchierava con altri galuppi[4] di fronte al padiglione di “Frank Otto - L’Uomo Più Forte del Mondo”, ancora privo di insegna. Il malcapitato imprecò saltellando su un piede solo e si guardò attorno alla ricerca del colpevole, finché i suoi occhi si posarono su quell’ometto tarchiato, vestito di verde, che gli arrivava a stento alla cintola e che lo scrutava in cagnesco.
«Non ti pago per battere la fiacca» disse O’Malley, sbuffandogli contro una nuvola di fumo di sigaro. «Sbrigati un po’ con quello striscione e levati dai piedi, stiamo per aprire i cancelli!»
Riposizionò il sigaro all’angolo della bocca, mentre il ragazzo si precipitava sulla scala per fissare l’insegna. Seguendo il suo esempio, tutti gli altri si diedero da fare prima che il bastone del padrone trovasse un’altra vittima.
«Occhio, gente» li sentiva bisbigliare al suo passaggio. «Il Folletto ce l’ha storta stamattina.»
Sono circondato da idioti, pensò O’Malley sconsolato. Gettò via il mozzicone di sigaro ed entrò in una piccola tenda blu decorata con stelle e lune.
«Che ne dici di rilassarti un attimo, tesoro? Rendi tutti nervosi» lo accolse sommessamente Madame Margot, sua moglie; la trovò immersa in una penombra dal profumo di candele e salvia, di fronte a un tavolino occupato da vari oggetti scenograficamente esposti, tra cui una sfera di vetro e un mazzo di tarocchi di Marsiglia. Era una donna longilinea, avvolta in un abito di satin borgogna e con lunghi capelli neri che le scivolavano sulle spalle come una cascata d’inchiostro.
«Siamo in ritardo!» brontolò O’Malley. «C’è una calca spaventosa fuori là fuori e non siamo ancora pronti!»
Sedette sgraziatamente su un baule foderato, masticando un’imprecazione.
«Del ragazzo non c’è ancora traccia» aggiunse, tamponando il volto accaldato con un fazzoletto. «È tutta la mattina che lo cerco, nessuno lo ha visto. Gli avevo raccomandato di non allontanarsi, accidenti a lui!»
L’indovina sospirò, poi afferrò il mazzo di carte e cominciò a mescolarlo. O’Malley non poté fare a meno di pensare che era ancora una donna incantevole, nonostante le rughe iniziassero a incresparle la pelle olivastra. C’era da chiedersi cosa ci facesse una creatura così elegante con una canaglia come lui.
«Si starà esercitando da qualche parte» lo rassicurò Margot, mentre disponeva con cura i tarocchi a ventaglio. «Gli stai un po’ troppo addosso ultimamente, Maurice.»
«Troppo addosso? È uno scapestrato, me l’hai cresciuto tu così!»
«Ha sedici anni, è normale che cerchi un po’ di libertà.»
«Di libertà ne ha fin troppa quello lì. Ma se se l’è svignata un’altra volta, ti garantisco che...»
«Dove vuoi che vada?» mormorò Margot. Passò lentamente una mano sui dorsi delle carte, ne scelse una e la sollevò. «Nessuno lascia la compagnia, lo sai. Del resto...»
Posò la carta scoperta di fronte a sé: Le Fou. «Tutte le star amano farsi desiderare.»
 


«Vuoi vedere una magia?»
Il ragazzo estrasse dalla tasca una moneta da mezzo dollaro; la tenne in vista tra l’indice e il pollice della mano destra, per poi nasconderla nel pugno. La cameriera che gli stava versando il caffè – una bionda carina, capelli alla maschietta e labbra tinte di rosso – si fece più vicina per seguire ogni passaggio con attenzione. Sul suo petto era applicato un cartellino con scritto “Lotty”.
Si trovavano in una piccola tavola calda invasa da un forte aroma di cibi speziati conditi con un po’ troppa cipolla. Nonostante l’orario della colazione fosse passato da un pezzo, il ragazzo aveva ordinato una fetta di torta al limone e una tazza di caffè, emozionato come se fosse la prima volta che lo faceva.
In effetti neanche si ricordava come fosse mangiare in un posto diverso dalla tenda della mensa, con la vecchia caldaia borbottante e l’onnipresente odore di frittura.
Era impaziente di mettere piede a terra da quando New Orleans era stata annunciata come tappa del loro tour: la città del Mardi Gras e delle feste folli a bordo degli steamboats occupava da sempre un posto d’onore nella sua immaginazione.
Così, appena il treno si era fermato, aveva approfittato della confusione per saltare sul primo tram diretto in centro, con l’intenzione di girovagare all’ombra dei suoi portici in ferro battuto, ascoltare le chiacchiere della gente e i quartetti che suonavano jazz agli angoli delle strade. E magari, conoscere un vero stregone vudù.
Ma la realtà che si era trovato di fronte, era molto diversa da quella che si aspettava: gli edifici storici versavano in condizioni pessime, e in quasi tutte le vetrine dei negozi – quei pochi aperti, almeno – c’erano appesi cartelli che informavano: non si assume. Aveva visto bambini affamati rovistare nei cassonetti in cerca di cibo e per la strada s’era imbattuto in due uomini malconci con dei cartelli appesi al collo, il primo con scritto: 45 anni, padre di famiglia e veterano di guerra. Datemi un lavoro, e il secondo: laureato in economia, dormo nella mia auto da un annoLa coda alla mensa dell’Esercito della Salvezza era lunga almeno due isolati.
La crisi non aveva risparmiato neanche New Orleans, eppure la sua atmosfera lo aveva conquistato: per le strade sfrecciavano automobili e carretti a cavallo, dalle finestre uscivano profumi di buon cibo creolo e canzoni ed era bello camminare in quartieri dove non tutti avevano la pelle bianca.
«Adesso, Lotty» disse in tono solenne alla cameriera. «Avrò bisogno del tuo aiuto. Coraggio, soffia qui.»
Lei alzò un sopracciglio, dubbiosa, ma lo accontentò. Lui riaprì il pugno vuoto, le accostò le dita ai capelli e fece ricomparire la moneta da dietro al suo orecchio.
«Sei fortunata, bambola» commentò, facendo rotolare la moneta sulle nocche, dall’indice al mignolo. «Le monete magiche sono dispettose, una volta sparite non sempre si lasciano trovare.»
Lei gli rivolse un sorriso indulgente.
«Non è una gran magia. Da queste parti bazzica un tipo con una scimmietta: sa fare un mucchio di trucchetti come questo, solo che alla fine si fa uscire la moneta dal naso.»
«Che schifo.»
«Già. Ma almeno è originale.» Lotty buttò un occhio sulla pila di manifesti appoggiati sul tavolo. Ne prese uno.
«“Lo Straordinario Khazam”» lesse ad alta voce. «“Il più giovane e potente mago dai tempi di Harry Houdini”. Saresti tu?»
«In persona.»
«Sei simpatico, Khazam, ma ti conviene aggiornare i tuoi trucchi. A New Orleans non ci si impressiona per così poco e di “maghi straordinari” come te ce ne sono a volontà.»
Lui bevve un sorso di caffè e ricambiò il sorriso. Carina e anche sveglia, proprio il suo tipo.
«Fidati, tesoro, nessuno è come me. Facciamo una scommessa: se il prossimo numero non ti piace, puoi tenerti la moneta. Ma se riesco a sorprenderti, stasera ti porto a ballare.»
Lei scoppiò a ridere. «Sfacciato!»
Eppure, dal modo in cui lo stava perlustrando da cima a fondo, era evidente che non lo trovasse poi così male: un giovanotto alto e abbronzato, con capelli rossicci, occhi nocciola e l’espressione volpina.
«Va bene, sorprendimi.»
Lui pose le mani l’una sull’altra, nascondendo la moneta, e le avvicinò alla bocca; dopo aver sussurrato qualche parola, le aprì, ma al posto della moneta era apparsa una minuscola farfalla dalle ali bianche. Una farfalla vera, viva e vegeta.
Lotty stavolta emise un piccolo strillo, attirando l’attenzione di qualche avventore e un’occhiataccia del proprietario, intento ad asciugare un bicchiere dietro il bancone. La farfalla svolazzò intorno al mago due volte e infine svanì in una nuvoletta di fumo.
Nessun altro nel locale sembrò essersene accorto.
«Gesù, ma come hai fatto?!» boccheggiò la ragazza, guardando qua e là in cerca della farfalla. «Dove la tenevi?»
Il mago rise e si sporse sul tavolo. «Guarda che prima non scherzavo, sorella» le disse con voce suadente. «Al mondo non esistono maghi come me.»
Roteò in maniera teatrale la mano e afferrò dall’aria un mazzolino di nontiscordardimé. Lotty arrossì in maniera repentina e prese i fiori con un sorriso.
«Ehi, coso» disse una voce brusca alle sue spalle. «Hai finito di importunare la mia donna?»
Lotty trasalì con aria colpevole. Khazam invece si girò col gomito poggiato allo schienale della sedia, per incontrare il volto imbronciato di un ragazzo poco più vecchio di lui, che sembrava saltato fuori da una rivista sportiva: vestito di bianco, spalle larghe e capelli neri lucidi di brillantina.
«Non mi stava importunando, Donnie» ribatté Lotty, diventando ancora più rossa. «Mi ha solo fatto vedere un gioco. E per la cronaca, non sono più la tua donna! Da due settimane, se ti ricordi.»
Donnie la ignorò; esaminò invece con espressione disgustata l’abbigliamento del mago, il suo gilet in denim ricamato, i pantaloni rosso mattone e il cerchietto d’oro che pendeva dal lobo sinistro.
«Non sei uno di quei pagliacci che è arrivato stamattina?»
«Lavoro per il circo» rispose lui, tranquillo. «Perché non fai un salto anche tu, Donnie Bello? Hai l’aria di uno a cui servirebbe farsi una risata. Ma solo se ti comporti bene: non ci piace la gente maleducata e ancora meno chi non è gentile con le signore.»
«Khazam è un mago» aggiunse in tono di sfida Lotty. «Il più grande mago dai tempi di Houdini.»
«Khazam?» rise Donnie. «Cazzo, non sei riuscito a trovarti un nome migliore? E dimmi un po’, Khazam, sei uno di quelli che ipnotizzano i polli?»
«Qualche volta. Ma potrei provarci anche con te, il quoziente intellettivo sembra lo stesso.»
I pochi clienti interruppero le loro conversazioni per ascoltare e qualcuno iniziò persino a scommettere su chi dei due avrebbe mollato il primo cazzotto.
Donnie si rivolse a Lotty, rabbioso. «Non andrai sul serio a vedere questo imbroglione?»
«Illusionista» precisò Khazam. «Non imbroglio nessuno, quella che faccio io si chiama arte.»
«Non sto parlando con te!»
«Certo che ci andrò» replicò lei altezzosa. «E dopo andremo anche a ballare. Tu non mi hai mai voluta portare a ballare!»
«Oh, perdindirindina!» s’indignò il mago. «Questo è oltraggioso, tutte le belle ragazze si meritano di essere portate a ballare! E dopo a mangiare le cialde. Ti piacciono le cialde, Lotty?»
«Con sciroppo e panna?»
«Ovvio, non siamo mica barbari.»
«Ehi!» strillò Donnie. «Io sono ancora qua!»
«Senti, Donnie Bello» sospirò Khazam, un po’ spazientito. «Che hai deciso di fare? Perché a me sembra che l’unico che sta importunando la dolce Lotty qui sia tu.»
In risposta, Donnie spinse a terra la risma di manifesti con una manata. Al tavolo vicino, una signora trattenne il fiato. Khazam lanciò una rapida occhiata ai fogli sparsi sul pavimento. «Questo non lo dovevi fare.»
«Ascolta, zingaro del cazzo!» Donnie afferrò il mago per il gilet e lo costrinse ad alzarsi, la faccia sbarbata e paonazza a un palmo dalla sua. «Tu non sai con chi hai a che fare. Posso sbattere fuori da questa città te e i tuoi compari accattoni con uno schiocco di dita, perciò ti conviene levare le tende.»
«Ehi, voi!» intervenne il barista. «Se morite dalla voglia di prendervi a sberle fatelo fuori o chiamo la polizia!»
Nel locale era calato un silenzio teso e ormai tutti li fissavano. Lotty si era portata le mani alla bocca, facendo saltare lo sguardo da Donnie e a Khazam, che ancora non si era mosso.
Poi, il ghigno volpesco tornò a farsi strada sul suo volto. «D’accordo, vecchio mio» disse, sollevando le mani. «Mi hai proprio convinto, me ne vado. Ma prima, che ne dici di una piccola dimostrazione gratis, solo per te?»
Prima che Donnie avesse tempo di fare qualsiasi cosa, il mago ruotò un dito e i volantini si sollevarono, come se nella sala fosse entrato un vento fortissimo. Vorticarono intorno a Donnie, e gli si appiccicarono alle braccia, alle gambe, dappertutto.
«Ma che cazzo...?»
Un manifesto raffigurante Khazam in abiti orientali gli si attaccò proprio sulla faccia e Donnie piombò a terra.
La folla era ammutolita. Poi, si sciolse in un’ondata di risate e applausi e qualcuno si alzò addirittura in piedi.
«Ben fatto!»
«Hai visto che roba?»
«Bravo, se l’è proprio cercata!»
«Signore e signori» disse a quel punto il mago, cacciando dalla tasca un nichelino di mancia e lo lasciandolo sul tavolo. «Scusate se il mio amico e io abbiamo disturbato il vostro pranzo. Se questo assaggio vi è piaciuto, non perdete il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley! Altri prodigi vi attendono sotto il nostro tendone, al modico costo di un quarto di dollaro a persona! Mi raccomando, spargete la voce e accorrete numerosi!»
Detto ciò, si esibì in un piccolo inchino e dopo aver strizzato l’occhio a Lotty, gettò a terra qualcosa: una nuvola verde si spanse per tutto il locale e, quando si diradò, di lui non era rimasta più traccia.
 
[1] Fermi: nel gergo circense, la gente che non appartiene al circo.
[2] Martedì nero: giorno del crollo della borsa di Wall Street avvenuto il 29 ottobre 1929.
[3] Dritti: gente del circo, girovaghi.
[4] Galuppi: nel gergo circense, gli operai.

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Capitolo 2
*** Una vecchia storia ***


 
UNA VECCHIA STORIA





Khazam raggiunse il circo dopo aver attraversato il Faubourg Tremé, un vasto quartiere popolare abitato per lo più da afroamericani; il tram ci aveva messo più del previsto a lasciare il centro e si erano già fatte le quattro, il che significava che gli spettacoli erano tutti cominciati. Di sicuro, la sua assenza doveva essersi fatta notare.
«Ehi tu, fermati!» esclamò una voce stridula mentre superava di corsa il botteghino.
«Dove credi di andare senza biglietto? Sicurezza! Sicureeeezza!»
«Ernie sono io, Jim! Mettiti gli occhiali.»
Da dietro lo sportello si affacciò un vecchietto minuscolo e con la faccia raggrinzita.
 «Oh, Jimmy!» Il bigliettaio sistemò sul naso bitorzoluto un paio di occhiali di corno e i suoi occhi divennero giganteschi dietro le lenti spesse. «Che fai qui? Lo Straordinario Khazam non va in scena tra poco?»
Il ragazzo non perse tempo a rispondergli. Fatta eccezione per qualcuno che si era intrattenuto per comprare una bibita o tentare la fortuna al tiro a segno, la maggior parte dei visitatori stava assistendo alle esibizioni, attirata dalle grida degli imbonitori. Passò in mezzo a un gruppo di fermi che affollavano l’entrata della Cueva del Diablo, dove un giovane ispanico di nome Rodrigo aveva appena inghiottito senza batter ciglio l’estremità infuocata di un bastone; mentre la folla applaudiva e commentava impressionata, il mago sparì nel retro dei tendoni, zigzagando agile tra i cavi.
Jim Doherty, era questo il suo vero nome, ma da ormai dieci anni vestiva i panni di “Khazam”: di sangue celtico, rimasto orfano durante un viaggio in Medio Oriente a causa di predoni del deserto, era stato adottato da un sultano e cresciuto nella sua corte tra fachiri e alchimisti da cui aveva appreso la magia. Almeno, questa era la fiaba confezionata da O' Malley per far sognare il pubblico. Del resto, nel mondo del circo quasi tutte le storie contenevano una buona dose di fantasia.
Quanto a Jim, era sì un orfano, ma di certo non era mai stato in Oriente né tantomeno era stato cresciuto da un sultano: semplicemente, una mattina, gli operai lo avevano trovato che dormiva nel vagone dei ruminanti, accoccolato tra la paglia. Capitava di frequente che dei vagabondi si intrufolassero per scroccare un passaggio o del cibo, e di solito li si faceva sloggiare senza troppe cerimonie. Ma che farne di un bambino di sei anni, che si rifiutava di raccontare come fosse finito laggiù, e dove fossero i suoi genitori? Alla fine, Margot se l’era preso a cuore e aveva insistito per tenerlo con loro.
 
Jim aggirò il tendone centrale, da cui provenivano le pulsazioni della musica, le risate e gli applausi del pubblico: lì dentro si tenevano le performances che richiedevano più spazio: acrobazie aeree e numeri con gli animali. A giudicare dal pezzo ricco di suspense che l’orchestra stava suonando, i gemelli dovevano essere alle prese con la parte conclusiva del loro numero. Infatti, la musica si fermò e Jim udì la folla trattenere il fiato, segno che Vanja si era appena tuffata nel vuoto per eseguire il suo triplo avvitamento e finire tra le braccia forzute di Wilhelm. Un applauso assordante accompagnò, come sempre, la fine dell’esibizione.
Dietro le quinte regnava il consueto delirio: clown, giocolieri e musicisti si cambiavano d’abito e scorrazzavano in cerca dei propri attrezzi e tutt’intorno volavano birilli e battute in tante lingue diverse. Jim si fece largo afferrando qua e là i pezzi del suo costume: gilet e pantaloni neri alla turca, stretti in vita da una fascia dorata. L’unica cosa che mancava all’appello era il copricapo, una specie di turbante con un finto rubino incollato sul davanti. Si chinò per cercarlo tra i cesti sotto un tavolo, quando il sipario si aprì e si richiuse dietro Vanja e Wilhelm Svanmör, nei loro body bianchi e azzurri
«Sei in ritardo» scattò lei, con tale veemenza che Jim per poco non sbatté la testa contro il tavolo. «Maurice è già di pessimo umore perché sei sparito tutto il giorno!»
«Credevo che sparire e riapparire fosse il mio mestiere.»
Vanja accolse la battuta facendo schioccare la lingua e si liberò delle luccicanti ali di cartapesta legate dietro la schiena, mentre Wilhelm si spogliava dietro un separé. Jim recuperò il suo turbante sotto una pila di abiti sfusi.
«A ogni modo» riprese Vanja, impegnata a rimuovere le ciglia finte di fronte alla specchiera. «Dov’è finita quella ragazza, Penelope? Vi dovete dare una mossa, ho sentito che c’è un sacco di gente in coda alla Grotta delle Meraviglie.»
«Ecco» disse Jim, con fare vago. «Non credo che mi esibirò con Penny stasera.»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che se n'è andata. Tre giorni fa, in effetti. Ha fatto le valige e adieu. Pensavo lo sapessi.»
Vanja inarcò le sopracciglia, chiare e perfettamente disegnate. Non c’era da stupirsi che il pubblico adorasse l’esibizione dei gemelli; non solo la Danza delle Fate era tra i numeri più spettacolari, ma con i loro nordici capelli biondi, gli occhi grigi e i corpi statuari, Vanja e Wilhelm erano di una bellezza ultraterrena.
«Oh, Jim, non di nuovo!»
«Guarda che io stavolta non ho fatto proprio niente.»
«Khazam va in scena a momenti e la Principessa Sherazade lo ha piantato in asso! Come diavolo farai ora?»
«In effetti, mi chiedevo se potevi darmi una mano tu, tanto conosci già il numero…»
«Io sono stanca morta!» ribatté lei, seccata. «E ne ho abbastanza di pararti le chiappe perché non sai tenerti una cavolo di valletta! Non puoi chiederlo a Judy?»
Lui si grattò la nuca. «Non è un buon momento per farmi vedere da Judy, soprattutto se ha le pistole cariche: mi sa che ce l’ha ancora con me per quella storia della contorsionista di Atlanta…»
«Sei disgustoso.»
«Mi stava solo mostrando quanto fosse flessibile! Non è colpa mia se le trovate tutte così gelose.»
Vanja si sfilò una pantofolina di seta e gliela lanciò contro, ma Jim era abituato a farle da bersaglio e la schivò prontamente. «E se invece tu la smettessi di provarci con cosa respiri?»
«Sono disposto a supplicarti. Vuoi che ti supplichi, Vanja? Guarda, mi sto mettendo in ginocchio.»
In quell’istante, la tenda del camerino si spalancò di nuovo.
«Ah, sei qui!» esclamò Maurice O’Malley facendo il suo ingresso con un sigaro che pendeva dalla bocca storta. «Giuro su Dio, la prossima volta ti chiudo dentro un baule e lo sotterro! Dove diamine sei stato?»
Jim stava per ribattere che gli ci sarebbero voluti più o meno due minuti per liberarsi, ma non era il caso di tirare troppo la corda: non più alto di un metro e cinquanta, con un completo verde a falde e disordinati ciuffi rossi che spuntavano da sotto il cilindro, il direttore del circo era chiamato da tutti “Il Folletto”. Un soprannome che divertiva i bambini, ma che non aveva nulla di comico, perché, quando perdeva le staffe Maurice O’Malley poteva diventare un autentico demonio. E in quel momento, lo stava fissando truce con i suoi occhi azzurri, brandendo una frusta attorcigliata.
«In città» rispose Jim, con una disinvolta alzata di spalle. «Scusa se per una volta che non atterriamo in un buco di provincia mi è venuta voglia di passeggiare.»
Le sopracciglia color carota di O’Malley si avvicinarono pericolosamente.
«Mi auguro che non ne abbia combinata una delle tue.»
«Ho solo affisso qualche manifesto.»
«Sicuro?»
«Sicuro. Be’, magari potrei aver testato una nuova strategia pubblicitaria...»
O’Malley stava già cominciando a gonfiarsi come un tacchino, ma dovette interrompere la sfuriata sul nascere, perché la tenda del camerino si scostò per la terza volta e un nano travestito da suora cacciò dentro la testa.
«Capo, devi venire al serraglio. C’è un problema.»
«Che altro succede ora?» esalò O’Malley.
«È di nuovo quel leone. Non riescono a farlo uscire dalla gabbia.»
«Ci mancava questa!» O’Malley spense il sigaro dentro un bicchiere di gin che qualcuno aveva lasciato incustodito e puntò il dito contro Jim. «Con te faccio i conti più tardi. Mandate avanti i pagliacci nel frattempo.» E uscì in tutta fretta.
Vanja e Jim si scambiarono uno sguardo.
«Credi che sia…?» mormorò lei.
«Non lo so, vado a controllare. Tu indossa il costume, ci vediamo alla Grotta.»
«Non ho detto che ti avrei aiutato! Jim!»
Ma Khazam si era dileguato un’altra volta.
 

Il serraglio era, dopo il tendone, il padiglione più grande del circo; invaso da marmocchi urlanti per tutta la mattina e saturo di tanfo animale, a quell’ora di norma era chiuso al pubblico, per lasciar riposare le bestie che si sarebbero esibite durante gli spettacoli serali. Ma quando Jim vi entrò, seguendo a distanza il direttore, trovò un gruppo di operai, tra cui gli addetti alla sicurezza Kowalski, Big Joe e Sinclair, raccolti attorno a un grosso carro rosso e oro, munito di sbarre d’acciaio.
«Ce lo lasci prendere con le buone o con le cattive?»
«Vuoi metterci tutti nei guai col direttore, moccioso?»
«Ve l’ho già spiegato» ribatté il ragazzo dalla pelle nera con cui stavano discutendo; era il più vicino alla gabbia e dava la schiena alle sbarre, le braccia incrociate e un cipiglio ostinato. «Stasera non andrà in scena. Non ce la fa, sta male.»
«Lo hai detto anche la scorsa volta» ghignò il più grosso dei custodi, mostrando la dentatura giallastra. «Ma il pungolo gli ha fatto cambiare idea, no?»
«Tu prova a toccarlo…»
«Cos’è, l’ora della ricreazione?» abbaiò O’Malley, accolto dal silenzio generale. «Perché non siete al lavoro? E perché quel leone è ancora chiuso in gabbia, signor Sinclair?»
«È quello che stiamo cercando di capire, capo» rispose il custode coi denti gialli. «Ma il negro è cocciuto, si è affezionato un po’ troppo a quel sacco di pulci.»
Jim aggrottò la fronte e si avvicinò per seguire meglio la discussione.
«Quale sarebbe il problema?» O’Malley misurò il ragazzo nero da capo a piedi. «Sei, il figlio di Joel King, giusto…Albert?»
«Arthur» borbottò lui.
«Be’, insomma Arthur, riesci a farlo stare su quattro zampe oppure no?»
«Non stasera» ribadì Arthur freddamente. Sollevò il pollice per indicare la gabbia. «Le sembra in grado di esibirsi?»
All’interno del carro, il vecchio leone se ne stava sdraiato in mezzo al fieno con la criniera arruffata e il grosso capo adagiato sulle zampe anteriori, una delle quali sprovvista di alcune dita; aveva lo sguardo assente, e le costole ben visibili sotto il mantello opaco. Il suo respiro era fiacco e irregolare.
O’Malley osservò la bestia, le mani sui fianchi. Poi, tirò un profondo sospiro e disse: «Uscite. Tutti fuori!»
«E perché?» domandò Sinclair.
«Perché sono sicuro che dopo aver scambiato due paroline in privato, il nostro Arthur sarà più accondiscendente.»
«Va bene, ma…»
«Il prossimo che parla si ritrova un Picasso disegnato in faccia» disse il direttore, stringendo la frusta. «Devo ripetermi, capomastro?»
Gli operai si scambiarono uno sguardo sbalordito, ma ubbidirono senza fiatare.
Jim invece non si mosse. Una volta che nel serraglio furono rimasti solo loro tre, chiese a O’Malley: «Vado a chiamare Margot?»
«Sta lavorando, è inutile scomodarla.»
«Gli serve un dottore» disse Arthur, preoccupato. «Sono giorni che sta così, Maurice. Non mangia, a malapena riesco a farlo bere.»
Il direttore sospirò ancora. «Lo abbiamo già chiamato il dottore. Si è preso solo una barca di soldi e non ha risolto niente. Anzi, per poco non ci ha fatto causa perché Joel gli si è avventato contro. È compito tuo tenerlo a bada.»
Arthur si incupì maggiormente. «Sta diventando difficile, ci sono momenti in cui sembra non riconoscere più nemmeno me. Glielo leggo negli occhi.»
O’Malley lisciò la barbetta appuntita. «Questo è un problema. Ma i fermi stanno aspettando, non possiamo lasciare un buco.»
«Non vorrai farlo uscire lo stesso?» protestò Jim, sconcertato.
«Il numero coi felini è quello di punta.»
«Fai esibire me e Vanja al suo posto» propose il mago. «Si tratta solo di spostare la mia attrezzatura dalla Grotta delle Meraviglie al tendone: posso rendere lo show più spettacolare, così i fermi non si lamenteranno…»
«Lo faccio io.»
Jim e O’Malley si voltarono a guardare Arthur.
«Lo faccio io» ripeté, con più convinzione. «Conosco i salti, fallo fare a me.»
«Non se ne parla!» ribatté Jim di getto. «È troppo pericoloso, diglielo Maurice.»
Il direttore però continuava a fissare la gabbia con espressione indecifrabile. Sospirò di nuovo.
«Decisione tua, ragazzo» disse, rivolto ad Arthur. «Ma al circo serve un numero di punta: la gente ha pagato, se non avrà lo show che gli abbiamo promesso ci si rivolterà contro e saremo costretti a sloggiare.»
«Arthur…» cominciò Jim, impotente, ma il ragazzo aveva già iniziato a calarsi le bretelle. Si tolse anche le scarpe, la camicia e i pantaloni di cotone grezzo, restando in mutande.
Per qualche istante, stette immobile e con gli occhi chiusi. Poi, si piegò in avanti e gemette come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. D’istinto, Jim si mosse verso l’amico scosso dalle convulsioni, ma O’Malley lo trattenne.
«Fidati, è meglio non toccarlo, ora.»
Arthur crollò a terra carponi e le sue mani strinsero la paglia. Gettò all’indietro la testa, digrignando i denti per frenare un grido di dolore, i tendini del collo che si gonfiavano e la fronte madida di sudore. Una peluria dorata cominciò a cospargersi su tutto il suo corpo. Poi la schiena si inarcò. Le articolazioni, sotto la pelle tesa, cambiarono posizione. Le sue labbra si arricciarono, scoprendo una chiostra di zanne bianche e robuste, e la carne dei polpastrelli si spaccò per lasciar spazio agli artigli. A seguire spuntò la coda, le vibrisse, la folta criniera e in pochi istanti, la Muta fu completa.
«Ben fatto, figliolo» disse il Folletto, scuro in viso; si avvicinò al carro di Joel e tirò una cordicella per chiudere i tendaggi sulla gabbia. «Mi assicurerò che nessuno metta piede qui dentro fino alla fine del numero.»
Arthur emise un borbottio di gola e sfilò con passo felpato accanto a Jim, che era rimasto impietrito; aveva già assistito alla Muta un paio di volte in vita sua, e sempre e solo a quella di Joel, ma rimaneva una scena sconvolgente. E, soprattutto, sembrava terribilmente dolorosa.
Arthur strusciò il muso umido contro la sua manica, un gesto che equivaleva a una pacca sulla spalla, il suo modo per dire: “Andrà tutto bene”, prima di imboccare la galleria che collegava il serraglio alla pista e sparire.
«Non dovevi lasciarglielo fare» disse Jim, con voce tesa dalla collera. «Non sappiamo se la malattia di Joel dipende dalla Muta. Se è ereditaria, se peggiorerà col tempo.»
«Appunto, non lo sappiamo.» Il direttore alzò la testa per incrociare il suo sguardo infuriato. «E finché non lo capiremo dobbiamo continuare a reggere la farsa, sia coi fermi che con gli operai.»
«E se non dovesse più riuscire a ritrasformarsi?» reagì Jim. «Se rimanesse a vita un leone? Metterai in giro la voce che è morto pure lui in un incidente, come suo padre?»
O’Malley gli fece bruscamente segno di tacere.
«Vuoi tenere chiusa quella boccaccia? Qualcuno potrebbe sentirti! Lo so, sto chiedendo tanto a quel ragazzo. Ma hai una vaga idea di cosa accadrebbe se uno di quei balordi scoprisse la verità?»
«Lo so.»
«Ci venderebbero agli Accalappiatori senza pensarci due volte! C’è ancora un mucchio di gente là fuori che pagherebbe una bella sommetta per mettere le mani su quelli come noi.»     
«Sì, ma…»
«E Arthur e Joel sarebbero i primi a fare una brutta fine!»
«Ma io potrei…»
O’Malley sollevò una mano per mettere fine alle sue lamentele. «Tu non farai proprio niente. Ne abbiamo già discusso, se vuoi renderti utile limitati a seguire il programma alla lettera e niente colpi di testa. Ora fila nella tua tenda e mettiti al lavoro.»
Nel mondo del circo, quasi tutte le storie contenevano una buona dose di fantasia: ogni freak show aveva i suoi mostri, fantomatiche sirene, Bigfoot e Uomini Lupo, ma generalmente non erano che persone comuni travestite, nate con rare malformazioni o affette da disfunzioni ormonali.
Trucco. Atmosfera. E un pizzico di astuzia. Erano questi i segreti che rendevano sensazionale la banalità, e il pubblico accettava di credere nell’illusione in nome dell’intrattenimento.
Talvolta però ci si imbatteva in storie più vere di altre…solo, più antiche. 
Ma nel mondo del circo quelle storie riprendevano vita dietro il filtro della finzione; sotto strati di trucco, e grazie a qualche piccolo accorgimento, nessuno badava a una coda di troppo o a un paio di orecchie a punta.
Dimenticati, così si chiamavano tra loro. Lo erano, ad esempio, due gemelli con le orecchie a punta che volteggiavano sul trapezio indossando ali di carta, ma che avevano scordato come i loro antenati, gli Elfi, riuscissero a volare per davvero. Un Mannaro che amava la musica sopra ogni altra cosa, rimasto tragicamente senza due dita e senza un lavoro, e costretto a trasformarsi ogni sera in una bestia feroce per sostenere se stesso e il figlio, fino a non riuscire più a tornare umano.  E persino un cinico folletto irlandese, approdato nel Nuovo Mondo a caccia di tesori.
All’ombra del grande tendone, dove realtà e illusione si mescolavano e le cose spaventose non lo erano mai per davvero, i mostri del passato tornavano ad avere uno scopo. Si sentivano accettati, al sicuro. Si sentivano, in qualche modo, a casa.

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Capitolo 3
*** Elettromanzia ***



ELETTROMANZIA





«Odio questo costume» si lamentò Vanja, seduta su un baule in mezzo agli attrezzi di scena del retropalco. «È scomodissimo. E poi mi va largo sul seno, si vede tutto.»
Jim, che stava sbirciando il pubblico da uno spiraglio tra le quinte, le concesse un’occhiata veloce: la Principessa Sherazade indossava pantaloni di raso rosso e un reggiseno abbellito con frange e perline. In effetti, Penelope lo riempiva decisamente di più.
«Non mi ci far pensare» sospirò lui. «Penny aveva delle tette spettacolari!»
«Il solito idiota superficiale.»
«Non arrabbiarti, altezza. Poi ti vengono le rughe.»
Lei gli tirò un calcio, ma fortunatamente i suoi guaiti furono coperti dall’intro musicale arabeggiante che accompagnava l'alzarsi del sipario.
 Jim notò soddisfatto che il piccolo show di quella mattina aveva destato interesse: la Grotta delle Meraviglie non era mai stata così affollata, tanto che molti spettatori erano rimasti in piedi sul fondo della tenda per mancanza di sedie pieghevoli. L’interno era illuminato solo da una fila di lampadine e da qualche lucerna a olio che, assieme al sinuoso arco dipinto d'oro che incorniciava il palco, ai forzieri traboccanti di finte gemme e ai tappeti, contribuivano a trasportare i visitatori in una grossolana e stereotipata fantasia orientale.
L’entrata in scena del mago fu anticipata da due sbuffi di fumo viola. Jim avanzò a passo deciso sul palco, emergendo dai vapori dell’incenso con le braccia sollevate e l’espressione grave.
«Ben trovati, stranieri» esordì con voce piena, marcando le consonanti e allungando le vocali. Incrociò le braccia sul petto. «Il mio nome è Khazam, gran mago del sultano Abdul al-Qasam. In Oriente, ho appreso la raffinata arte delle illusioni. Sono giunto qui dopo un lungo viaggio, alla ricerca di avventurosi compagni che mi aiutino a compiere una nobile impresa…»
«Quanto la meni per le lunghe!» gridò una voce dal fondo della tenda, suscitando qualche risolino. «Ci vuoi far vedere qualcosa o no?»
«Sono alla ricerca, dicevo...», riprese Jim, «di impavidi compagni, perché dovrò affrontare molte prove per liberare la bellissima principessa Sherazade da questa caverna.»
«E faccela vedere allora!» fece un’altra voce. «Qui si diventa vecchi!»
«Pensa che a me è cresciuta la barba!»
Altre risatine e qualche fischio. Jim prese un gran respiro e invocò tutta la pazienza in suo possesso. In fondo, ci era abituato. Poteva capitare un buon pubblico, educato e curioso. Ma potevano capitare anche gli imbecilli; una volta, a Springfield, certi geni incoraggiati dal simpaticone di turno, gli avevano riempito il palco di pannocchie bollite. Dopodiché, si erano portati via parte della scenografia.
Con un gesto imperioso, il mago comandò agli assistenti di scena di portare sul palco una gabbia provvista di rotelle. Le fece compiere un giro su se stessa, per dimostrare che era vuota.
«Alakazam!»
La gabbia prese fuoco.
La reazione del pubblico non fu di particolare stupore, solo qualche strillo dalle prime file e risatine eccitate. Mentre le fiamme lambivano la gabbia, Jim vi gettò sopra una coperta argentata.
«Signori e signore. Ecco a voi, la principessa Sherazade!»
Tirò via la coperta: le fiamme si erano estinte e dentro la gabbia era apparsa Vanja, sorridente, seduta con le gambe incrociate. Dalla platea si levarono alcuni applausi.
«E ora, compagni viaggiatori» disse Jim, allungando una mano verso il pubblico. «Avrò bisogno di voi: donatemi la vostra energia, così che possa praticare l’incantesimo che libererà Sherazade…» 
«Perché non ci fai tutti felici e le fai sparire i vestiti?»
Ancora risate, fischi e un paio di commenti divertiti. A Jim si torsero le budella dal nervoso, mentre passava in rassegna gli spettatori in cerca di chi si stava divertendo a rovinargli la performance.
«Non farti provocare» bisbigliò Vanja. «Vai col prossimo numero. Questo gli piacerà.»
Lui tirò un altro respiro profondo. Dopodiché, issò sul palco una cassa di legno dipinta di nero e oro, e la calò sulla gabbia in modo da ...
Infine, si fece lanciare dal retropalco una scimitarra dal manico tempestato di lustrini, afferrandola al volo.
«Attenzione» avvisò il pubblico in tono severo. «Questo incantesimo richiede molta concentrazione, quindi vi prego di fare silenzio: un solo errore e Sherazade potrebbe rimanere atrocemente sfigurata.» Si punse un dito sulla punta della lama, per dimostrare quanto fosse affilata.
Rullo di tamburi. Il mago infilzò la scatola, facendo penetrare la lama fino all’impugnatura. Udì una signora in prima fila esclamare: “Ossignore!” e subito dopo scoppiare scioccamente a ridere.
Mentre il ritmo dei tamburi si faceva più incalzante, Jim aggirò la scatola e si fece lanciare una seconda spada, che inserì in modo tale da incrociarla con la prima.
«La Principessa Spiedino!»
Un’ondata di risate frantumò il pathos del momento. Era il colmo.
Jim si volse, furibondo, ma la luce di un riflettore lo abbagliò. Strizzò gli occhi, irritati dal kajal sciolto.   
«Ehi, se vuoi proporti come clown parla col Direttore!» gridò con rabbia. «Io qui sto lavorando!»
«Fai pena!»
«Ho pagato venticinque cent per questa merda?»
L’incanto si era ormai rotto. Jim si passò un braccio sulla fronte, per asciugare il sudore e riportare al suo posto il turbante che gli era scivolato sugli occhi.
Avrebbe voluto rispondere a tono, o uscirsene con qualche battuta brillante che riportasse la situazione sotto il suo controllo. Ma la verità era che non sapeva cosa fare.
«Pss, Jim!» Il viso preoccupato di Vanja fece capolino da dietro le quinte, dove era riemersa, perfettamente intera, dopo essere scivolata in una botola del palco nascosta sotto la gabbia. «Non ascoltarli» lo incoraggiò. «Sei bravo, continua.»
«Mi avevano promesso magia vera!» si lamentò dal pubblico; una manciata di popcorn atterrò sulle assi del palcoscenico, ai piedi di Jim. «Sei identico a tutti gli altri, rivoglio indietro i miei soldi!»
«Patetico!»
«Imbroglione!»
Altri muggiti di protesta si unirono al coro.
Jim avrebbe voluto poter scomparire per davvero. Non si era mai sentito così umiliato come in quel momento. A un tratto, gli sembrò che le risate del pubblico si allontanassero, coperte da un fischio prolungato nelle orecchie, e che il suo campo visivo si restringesse.
Quegli idioti non capivano niente. Un cazzo di niente. Volevano la vera magia? Era sul serio questo che aspettavano?
Uno degli assistenti di scena cercò di attirare la sua attenzione, domandando se dovesse far entrare l’armadio da cui Vanja sarebbe magicamente riapparsa.
Jim lo ignorò.
“Attieniti al programma”, aveva raccomandato O’MalleyGli aveva insegnato tutti i numeri che conosceva, la maggior parte dei quali ormai svelati o passati di moda. Ma quello non era il genere di pubblico che si accontentava di roba simile.
«Pensate bene a ciò che chiedete» mormorò il mago. Il suo volto si era fatto di colpo serio, inespressivo. «Con la vera magia non si scherza.»
Mentre il baccano attorno a lui aumentava, l’aria nella tenda si fece improvvisamente umida e fredda; un alito di vento gelido, entrato da chissà dove, scuoté le lampadine appese e fece tremolare le fiamme sulle lucerne fino a spegnerle. In alto, vicino al soffitto di tela, si udì un cupo brontolio come di tuoni, e il pubblico si guardò attorno domandandosi se facesse parte dello show.
Il mago congiunse le mani, come in preghiera: un bagliore rosso crepitò tra i suoi palmi e alcuni spettatori in prima fila sobbalzarono. Jim sfregò i palmi l’uno contro l’altro, mentre ogni singolo pelo sul suo corpo si drizzava e un sapore ferroso gli riempiva la bocca; dalle sue dita si sprigionarono una serie di piccole scariche elettriche colorate, che iniziarono a guizzargli intorno producendo un leggero ronzio.
Il panico fu istantaneo. Chi sedeva più vicino al palco si alzò in fretta, precipitandosi verso il fondo della tenda alla ricerca dell’uscita. I più temerari tenevano gli occhi incollati sulla scena, una ragazza, saltata in piedi coi capelli tutti elettrizzati, rovesciò i suoi popcorn sulla pelata del tizio seduto davanti.
Non fate più gli sbruffoni, eh?
Le luci sfarfallarono. Un paio di lampadine esplosero, diffondendo un forte odore di bruciato e una pioggia di vetri rotti e scintille si riversò su dei ragazzi raggruppati sul retro, che incespicarono gli uni sugli altri come bambini. I fulmini piovvero sul palco, scontrandosi, diramandosi, e schizzando da una parte all’altra come cavalli imbizzarriti. La pressione calò ancora, e Jim fu sopraffatto da un’enorme stanchezza; la sentì piombare tutt’a un tratto fin dentro le ossa, come se vi avessero versato del cemento liquido. Per un lungo istante, vide solo nero.
«Jim!» strillò Vanja. «Basta, incendierai tutto!»
Lui scosse la testa, imponendosi di tornare lucido; senza che se ne fosse accorto, aveva iniziato a sanguinargli il naso. Afferrò immediatamente una cesta di vimini e uno dopo l’altro, i fulmini vi strisciarono dentro come serpenti. Chiuse il coperchio e oscillò sulle gambe malferme.
Fu allora che un boato lo investì in pieno, stordendolo: gli applausi scoppiarono con veemenza, assieme a qualche risata di sollievo e molti si alzarono in piedi chiedendo a gran voce il bis. Jim asciugò rapidamente il naso insanguinato con la manica e si esibì in un profondo inchino.
EccoQuesto è l'effetto che dovrebbe fare la magia.

«Sei completamente uscito di senno?!»
O’Malley batté i pugni sul tavolo con tale energia da far traballare piatti e bicchieri.
Lo spettacolo si era concluso da poche ore; il campo, prima gremito di gente, era silenzioso e vuoto, fatta eccezione per un paio di addetti alle pulizie intenti a spazzare gli ultimi rifiuti. Un’aria calda risaliva dalla terra battuta dal sole per tutta la giornata e gli artisti, rinfrescati e cambiati d’abito, si erano raccolti sotto la tenda rossa della mensa, seduti su due file di panche ai lati di una lunga tavolata.
«Te l’ho detto: si stavano annoiando a morte!» esalò Jim, sfinito. Era tutta la sera che O’Malley non faceva che urlargli nelle orecchie e non ne poteva veramente più. Tutto quello che voleva era finire il suo stufato in santa pace; l’ultima parte del suo numero lo aveva letteralmente spompato e aveva una fame da lupi.
«Ti avevo avvertito!» O’Malley afferrò un pezzo di pollo fritto dal piatto e glielo puntò contro. «Niente improvvisazioni! E tu che fai? Ti metti a fare i fuochi d’artificio come fosse il Quattro Luglio! Sei un dannato incosciente! Avresti potuto far male a qualcuno, avresti potuto…»
«Ma non è successo niente!»
Gli altri membri della compagnia si limitavano ad assistere in silenzio a quello scambio di battute, guardando ora il mago, ora il Direttore, come a un incontro di ping-pong.
«Senti» disse il ragazzo, stancamente. «Non siamo in un polveroso buco di provincia, questa è New Orleans, gli standard sono diversi! Passano dozzine di compagnie all’anno come la nostra, credi che la gente di qui si lasci impressionare da un coniglio tirato fuori dal cilindro? La vecchia scuola è superata!»
«Questo non è un tuo problema!» O’Malley era sempre più paonazzo e aveva preso a sputacchiare pezzi di pollo sulla tavola. «Decido io come ti esibisci, è chiaro? Mio lo spettacolo, mie le regole.»
«Ma avevo tutto sotto controllo!»
«A me il numero è piaciuto» s’intromise Rodrigo, dando un morso al suo cosciotto. «È stato una vera bomba.»
«Sì, una bomba sul punto di esplodere!» strepitò O’Malley. «Hai rischiato di svelare a tutti il nostro segreto! Se fosse venuto qualcuno a fare delle domande?»
«Credevo che un vero mago non svelasse mai i suoi segreti.»
«Ma tu non sei un vero mago! Non per i gonzi là fuori!»
«I tuoi trucchi non bastano più, Maurice, sono anni che te lo ripeto» insistette Jim. «La gente vuole emozioni forti, saltare su quelle sedie del cazzo! Vuole magia vera! Io sono l’unico in grado di dargliela, se solo mi lasciassi provare qualcuno dei numeri a cui sto lavorando...»      
«E come giustificheresti un simile macello? Hai portato una tempesta di fulmini dentro un tendone!»
«Tesla.»
«Che roba sarebbe?»
«Nikosla Tesla non è una roba, è uno scienziato. Ho letto che ha costruito una macchina per trasmettere l’energia elettrica senza bisogno di fili…»
«Che assurdità!» O’Malley liquidò la cosa con un gesto stizzito. «Non se la berrebbe nessuno una fesseria simile.»
«Ciò che gli occhi vedono e le orecchie sentono, la mente crede» recitò Jim con orgoglio. «Così diceva il Grande Houdini!»
«Oh, non ricominciare con quel tuo Houdini del cazzo!»
«Sto solo cercando di dare una mano» protestò il ragazzo, cocciuto. «L’hai detto tu che siamo al verde, ho pensato che dando un po’ di pepe allo show avrei…»
«Non mi interessa quello che pensavi! Margot è sempre stata fin troppo tenera con te, ma io non ci metto niente a sbatterti in mezzo alla strada dove ti ho trovato!»
«Adesso vedi di piantarla, Maurice!» tuonò Dot, La Donna Barbuta, mentre passava alle loro spalle spingendo un carrello con un pentolone colmo di spezzatino fumante; era una signora tracagnotta, con una barbetta lanuginosa che pendeva dal mento e un paio di corna caprine che sporgevano tra i capelli biondi. «Smettila di assillarlo e fallo mangiare! Non vedi che il ragazzo è pallido come un lenzuolo?»
Poi si rivolse a Jim con fare materno. «Non ascoltare quel vecchio caprone, dolcezza. Mangia e rimettiti in forze.»
«Ma sì!» O’Malley gettò in aria le braccia. «Goditi la cena e serviti pure il dolce! Intanto, gli Accalappiatori potrebbero bussare alla nostra porta da un momento all’altro solo perché tu avevi voglia di fare lo spaccone! Forse a voi sta bene che vi chiudano in una gabbia per il resto dei vostri giorni, o che vi vendano a qualche fottuto laboratorio. Ma a me no, grazie!»
Bastò la parola “Accalappiatori” perché un brivido di paura serpeggiasse sulla tavolata; Vanja impallidì e Wilhelm emise un gemito. Antonio, il Lanciatore di Coltelli, baciò il crocifisso che portava appeso al collo e Rodrigo sputò indignato un «Hijos de puta!» Persino a Jim si chiuse completamente lo stomaco.
Gli Accalappiatori erano quanto di peggio potesse capitare a un Dimenticato: sul loro conto si sapeva ancora troppo poco, il che li rendeva ancora più spaventosi; c’era chi li identificava come un corpo d’élite dei Servizi Segreti, incaricato di catturare qualsiasi “mostro” in circolazione per farne esperimenti. Secondo altri, erano dei fanatici puritani che volevano dar vita a una nuova Inquisizione. Come per molti bambini del circo, anche per Jim erano stati i protagonisti della maggior parte delle storie dell’orrore sentite da piccolo.
«Là fuori girano tipi pericolosi» concluse O’Malley, passando in rassegna con lo sguardo tutti gli artisti, cupi e taciturni. «E ai fermi non importa un accidente di niente di cosa succede a quelli come noi. Perciò, se vogliamo sopravvivere faremo meglio a tenere gli occhi aperti e il profilo basso, siamo intesi?» Si rivolse in particolare a Jim. «Intesi, ragazzo? Al prossimo colpo di testa, ti lascio a terra. Fammi sentire che hai capito.»
Jim si rabbuiò. Pulì la bocca con un tovagliolo e lo sbatté con forza sul tavolo. «Ho capito.»

 

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Capitolo 4
*** Festino di mezzanotte ***



FESTINO DI MEZZANOTTE





Jim camminava lungo il binario ai limiti della città di tela, adesso buia e silenziosa.
Era una notte incantevole; la luna piena inondava il prato di un chiarore metallico e la lunga fila di vagoni proiettava ombre nette come ritagli. L’aria fresca e umida risuonava del frinire dei grilli.
Il ragazzo si fermò all’ingresso di un carrozzone e bussò alla fiancata. Poco dopo, si udì il rumore di una catena sciolta e il portellone si aprì, mostrando il volto sorpreso di Arthur King. «Oh, sei tu.»
«E chi aspettavi, il corpo di ballo di Ziegfeld?[1]»
Arthur rise e aprì di più. «Entra, idiota, prima che ti veda qualcuno!»
Sottili strisce di luce lunare filtravano dalle assi sbilenche del carro bestiame.
Metà del vagone era occupata dalla gabbia di Joel, che dormiva accucciato sul fondo e russava sonoramente. Nell’altra parte del vano, era stata ricavata una stanzetta illuminata da una lampada al cherosene, posata su una cassa rovesciata assieme a una scodella di zuppa lasciata a metà. Una malandata copia di The Weary Blues giaceva aperta sopra una branda, nel punto in cui Arthur aveva interrotto la lettura.
«Maurice sa che sei qui?» domandò a Jim, sedendosi. «Non gli piace che vieni da questo lato del treno.»
La gerarchia tra i dritti che abitavano il convoglio veniva rispettata in modo ferreo, sia dagli artisti che dagli operai: ai primi spettavano le carrozze più lussuose, situate in coda alla carovana. Era lì che abitava anche Jim, in una piccola cabina tutta per sé. Gli operai, invece, occupavano le cuccette tra i carri bestiame e la Squadriglia Volante.[2]
Ma Arthur era un caso particolare. In quanto figlio di un musicista, finché Joel King aveva fatto parte dell’orchestra aveva vissuto insieme agli altri artisti. Dopo la presunta morte del padre però, il ragazzo era stato declassato al serraglio: troppo diverso dai comuni operai perché fosse accettato tra loro, gli era stata offerta una sistemazione provvisoria insieme a Joel, in modo che continuasse a prendersene cura personalmente.
«A discapito di quello che gli piace pensare, Maurice non decide ogni mio spostamento.» Jim fece il giro della stanza, curiosando tra gli oggetti di Arthur. In verità non c’era molto tra cui curiosare, a parte un baule chiuso col lucchetto, un catino e una brocca per la toeletta, una pila di libri della Harlem Renaissance[3] appartenuti a Joel e una camicia pulita appesa a un chiodo.
«Forse, ma è pericoloso gironzolare da queste parti quando fa buio» disse Arthur. «Gli operai bevono tutta la notte quello schifo di moonshine e diventano rissosi, meglio stargli alla larga.»
Jim prese un libro dallo scaffale e lo sfogliò distrattamente. «Volevo assicurarmi che stessi bene.»
«Sto bene, è stato un buono spettacolo. O almeno, Maurice non si è lamentato.»
«Fammi vedere le braccia.»
«Oh, ma dai!»
«Sono serio. Fammi vedere.»
Arthur alzò gli occhi al soffitto, ma arrotolò le maniche fino ai gomiti. Jim si avvicinò alla luce; la pelle degli avambracci era solcata da striature rosse, laddove era stata toccata dalla frusta del direttore. In più, qua e là notò segni di bruciatura. Fece schioccare la lingua, indignato. «Poteva anche risparmiarsela.»
«Fa parte dello show.»
«È un’inutile barbarie!»
«Ma al pubblico piace.» Arthur accennò un sorriso. «Dovevi vederli, erano proprio come li descriveva papà: urlavano neanche fossi Babe Ruth alla fine del nono inning.
E quando sono saltato nel cerchio di fuoco sono andati fuori di testa!»
«Perché sono dei sadici del cazzo. Non lo dovevi fare, non ne valeva la pena.»
Arthur srotolò la manica.
«Ho saputo che c’è stato movimento durante il tuo show» disse poi. «Che è successo?»
«Degli imbecilli volevano rovinarmi la serata. Ma hanno avuto quello che si meritavano.»
Arthur lo guardò; la fiamma della lampada guizzava nei suoi occhi scuri e faceva risaltare le lentiggini sopra la sella del naso. «Hai usato i tuoi poteri?»
«Volevano uno spettacolo di magia e Khazam gliel’ha dato, fine della storia. Domani già non ne parlerà più nessuno.»
«Devi andarci cauto. Soprattutto dopo quello che è successo l’ultima volta.»
«Non è andata come a Joplin!» specificò Jim immediatamente. «E poi sto migliorando, sai? Se solo Maurice mi lasciasse esercitare in pace…»
«Ti potrebbero scoprire. Sento le chiacchiere degli operai, sono tutti convinti che il Direttore nasconda loro qualcosa: che abbia contratto una malattia rara, addirittura che tenga un figlio deforme segregato nella sua cabina. Un paio di loro propongono di entrare mentre dorme, una di queste sere.»
Jim sogghignò. «Oh, troverebbero una bella sorpresa: dorme con una Calibro 22 sotto il cuscino. E la tiene carica.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Perché ci sono appena stato. E ho portato via con me un amico.»
Infilò una mano sotto la giacca di pelle e ne estrasse una bottiglia verde targata Jameson. Whisky irlandese, il migliore sulla piazza.
Arthur sgranò gli occhi. «Non è possibile!»
«Sono o no la miglior fata madrina che si possa desiderare?»
«No, tu sei pazzo. Un fottuto irlandese pazzo, ecco cosa sei.»
«Mi ricorderanno così oppure come un eroe filantropo.»
Subito dopo, la bottiglia fu stappata. Arthur tolse il lucchetto al suo baule e tirò fuori il Victrola portatile di suo padre e un paio di vinili; ne mise su uno di Louis Armstrong, che ascoltarono seduti, con le gambe a penzoloni sull’ingresso del carro, mentre si passavano la bottiglia, tossivano e sghignazzavano a ogni sorsata.
«Dovremo razionarla» disse Jim tristemente. Soffocò un rutto e fece oscillare la bottiglia, metà del contenuto già nei loro stomaci. «Ho sentito che non torneremo a fare rifornimento in Canada fino alla fine della stagione.»
«Grazie di essere venuto a trovarmi. È rischioso, non dovevi.»
«Non dirlo neanche per scherzo! Da quando ti hanno sbattuto quaggiù ci vediamo sempre meno.» Jim alzò le spalle, colto da un improvviso imbarazzo. L’alcol lo rendeva sentimentale. «Mi mancavi, ecco tutto.»
Arthur bevve un sorso di whisky e posò la testa contro lo sportello, lo sguardo rivolto verso il sobborgo ai limiti dell’appezzamento; intanto, il disco continuava a girare e la voce di Luis Armstrong cantava:“Man, I got heebies, got those heebies, the heebies jeebies blues...”
«Era una delle preferite di papà.»
Jim si passò il dorso della mano sulla bocca. «Sì, lo so.»
«Gliel’ho fatta ascoltare ogni sera da quando si è trasformato, speravo che potesse riportarlo indietro, sai, che gli ricordasse chi era. Che gli ricordasse me.»
Jim restò in silenzio per un momento, serio nonostante la vista appannata dall’alcol. «Se lo ricorderà.»
«Dici?» Arthur volse la testa verso l’altro lato del vagone, dove Joel dormiva dando loro la schiena. «A me invece sembra che si stia allontanando sempre di più.»
Un’altra pausa. Jim prese dalle sue mani la bottiglia e bevve un altro sorso, morbido, affumicato e dal retrogusto vagamente malinconico, poi cercò di rimettersi in piedi.
«Lasciami provare una cosa.»
«Che vuoi fare?»
Jim dovette aggrapparsi un attimo allo sportello, perché il mondo ballava un po’ sotto i suoi piedi. Ma una volta riacquisito l’equilibrio, si avvicinò alle sbarre della gabbia, che scintillavano per i riflessi della luna. Come aveva fatto poche ore prima sul palco, chiuse gli occhi e sollevò le mani giunte di fronte a sé. Arthur gli si accostò silenziosamente.
Jim inspirò, la fronte aggrottata. Passarono alcuni minuti, poi una leggera brezza smosse la paglia al limite della gabbia, ma non successe altro. Il mago aprì gli occhi e sbuffò. «Fanculo.»
«Non fa niente, lascia stare.»
Jim tornò a sedersi all’ingresso del vagone e scolò quel che restava del whisky.
«Scommetto che se Maurice mi permettesse di fare pratica ci riuscirei» si lamentò «Potrei ritrasformarlo. E invece, mi tocca quello stupido costume! Che senso ha essere l’unico in tutta la compagnia ad avere i poteri magici? Per quanto ne sappiamo, sono l’unico vero mago in tutti gli Stati Uniti!»
«Non è detto che tu possieda quel genere di poteri» gli fece notare Arthur.
«Andiamo, sposto gli oggetti col pensiero da quando avevo cinque anni e adesso genero fulmini dalle mani. Pensa cosa potrei fare se diventassi più forte.»
«Maurice non rischierebbe mai di esporti così. Lascia perdere, davvero.»
«E se dovesse succedere anche a te? Di non riuscire più a tornare umano?»
Arthur si sedette di nuovo al suo fianco, i gomiti poggiati sulle ginocchia. «Non so come funziona, quante altre Mute avrò a disposizione prima che diventino permanenti. Nemmeno papà lo sapeva: secondo nonno Isaiah, i King hanno perduto il Dono da almeno dodici generazioni. E invece, noi ce l’abbiamo.»
Jim posò la bottiglia. «Allora te ne devi andare di qua.»
«E dove?»
«Ovunque.»
Arthur scoppiò a ridere. «Per fare cosa? Quale sfolgorante futuro mi aspetta lontano da qui? Non so niente del mondo, sono nato su questo treno.»
«E ci morirai, se Maurice non trova un’alternativa al suo stramaledetto numero di punta» ribatté Jim duramente. «Ascolta, lo faremo insieme: andiamo a Los Angeles, un po’ di soldi da parte li ho.»
Arthur scosse la testa, continuando a sorridere. «Per comprarci una villetta in periferia, con veranda e giardino?»
«Pensavo a un appartamento in centro, si addice più al mio spirito bohémien.»
«E che faremo quando avremo finito i soldi?»
«Troveremo un lavoro. Io potrei continuare con la magia e sfondare a Hollywood…»
«Oh, certo.»
«…e tu saresti il mio agente.»
«Hai le idee piuttosto chiare.»
«Tu fai qualche telefonata, organizzi delle cene. Alla magia e al carisma ci penso io.»
«Dubito che funzioni così» obiettò Arthur, divertito. «E poi, senza offesa, ma non sei la persona più affidabile che conosco.»
«Non mi vorresti come socio barra coinquilino?»
«Non sai neanche farti il bucato. Lo so che sganci un quartino ad Archie perché te lo faccia ogni settimana.»
«Posso sempre imparare. Imparerò anche a cucinare. E laverò i piatti.»
«Allora sì che saresti da sposare.»
«Ci puoi scommettere, vecchio mio!»
«Grazie» disse Arthur, ma il suo sorriso acquisì una piega strana. «Sul serio, Jim, lo apprezzo molto. Ma non posso abbandonare qui papà. Lui ha fatto tanti sacrifici per me, e se continua a non esibirsi, Sinclair e gli altri troverebbero il pretesto per sbarazzarsene. Devo restare per lui.»
Jim si chiuse in un silenzio ostinato e prese a grattare via l’etichetta della bottiglia con l’unghia del pollice. Eccola che tornava, quell’opprimente sensazione di impossibilità…
I King non meritavano affatto quella vita, non dopo tutto ciò che avevano passato. La madre di Arthur era stata portata via dall’epidemia di Spagnola quando era molto piccolo e Joel si era preso cura di lui da solo fino al giorno dell’incidente; la sera di un’esibizione, uno degli addetti alle gabbie si era ubriacato, permettendo ai felini di scappare. Jim aveva dieci anni allora, ma era tutto impresso a fuoco nella sua mente: le urla, la gente che scappava, gli animali che bramivano spaventati nella notte. Madame Margot aveva preso lui, Arthur e gli altri bambini e li aveva portati al sicuro sul treno, mentre nel tendone si consumava la tragedia. Le tigri avevano sbranato l’allora domatore e ferito alcuni spettatori, una coppia di puma era fuggita chissà dove nelle campagne. Nessuno sembrava in grado di fermarli, ed era stato allora che Joel aveva effettuato la Muta per la prima volta in vita sua, per tenere testa agli altri animali. Non seppe spiegare nemmeno lui come avesse fatto.
Durante la lotta, gli furono staccate a morsi due dita, prima che O’Malley arrivasse armato di fucile per mettere fine a tutto. Con la mano in quelle condizioni, non sarebbe più stato in grado di suonare la tromba. Jim ricordava bene il giorno in cui lo aveva visto presentarsi, quasi in lacrime, nell’ufficio del direttore:
“Ti supplico, Maurice, dammi un altro lavoro. Uno qualsiasi, devo pensare ad Arthur.”
“Gli operai non accetteranno mai te e il bambino. E quando scopriranno cosa sei in realtà, vorranno la tua pellaccia.”
“Allora fammi fare qualcos’altro!”
Si era giunti a un compromesso: per salvare il numero coi felini e non correre più simili rischi, Joel si sarebbe trasformato in leone, continuando a esibirsi e conservare la sua cabina e tutte le sue cose. Sembrava la soluzione più vantaggiosa per tutti, ma quello che né Maurice, né Joel avevano previsto era che il Mannaro avrebbe perso col tempo la capacità di ritrasformarsi.
Così, un giorno, Joel King sparì, e O’Malley liquidò la questione affermando che se ne era semplicemente andato. Il motivo? Non erano certo affari suoi!
In compenso, il Folletto si era assunto la responsabilità di Arthur, dandogli un lavoro da garzone al serraglio per poter restare vicino a suo padre. Non era dato a nessuno sapere il motivo di tale gesto: generosità? Stima per Joel? La prospettiva di avere a disposizione ben due Mannari da sfruttare? O magari, semplice senso di colpa...
«Ci deve pur essere qualcosa che posso fare» disse Jim, senza alzare lo sguardo dalla bottiglia.
«Non c’è niente che tu possa fare» ribatté Arthur, ricordandogli fastidiosamente O’Malley. «Quindi smettila di tormentarti, va bene?»
«No che non va bene.»
«Ok, ma le cose per ora stanno così. Tu, piuttosto, avresti possibilità a non finire là fuori: potresti incontrare altri come te, in grado di fare vera magia. Non hai mai pensato di tornare a casa? Di cercare la tua famiglia…?»
«Non c’è nessuno da cui valga la pena tornare. Se resti tu, resto anche io.»
«Ma…»
«Sarà meglio che vada» tagliò corto Jim, con più freddezza di quanto avrebbe voluto. All’improvviso, sentiva il bisogno di restare da solo.
Si issò in piedi e saltò giù dal vagone.
Arthur continuò a fissarlo, confuso da quel repentino cambio di umore. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«No. È solo che domattina vorremo entrambi morire, meglio andarcene a letto. Grazie della compagnia, vecchio mio. Buonanotte.»
 
[1]             Ziegfeld Follies: furono una serie di spettacoli teatrali prodotti a Broadway, caratterizzati dalla presenza di ballerine avvenenti e vestite in modo succinto.
[2]             Squadriglia Volante: in gergo circense, il primo vagone che raggiungeva l’accampamento, subito dopo la locomotiva.
[3]             Harlem Renaissance: movimento artistico-culturale afroamericano sorto verso l’inizio degli anni Venti.

 

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Capitolo 5
*** L'uomo con la bombetta ***


 


L’UOMO CON LA BOMBETTA

 




https://www.youtube.com/watch?v=fmLR8S8DYqo&ab_channel=RaduBarsan

 
Con tutto quell’alcol in circolo, a Jim sembrò di metterci una vita a ripercorrere il binario a ritroso. La notte stava diventando più fredda e buia e i carri incombevano spettrali nei loro mantelli di ombre.
Mentre camminava, con la vista che di tanto in tanto si sdoppiava, gli avvenimenti della serata gli rimbalzavano in testa senza un ordine preciso: lo spettacolo di magia, la situazione senza via d’uscita di Arthur, il pericolo degli Accalappiatori…un ruminare ininterrotto di pensieri a cui il whisky dava consistenza fluida, scivolosa, rendendo difficile trattenerli nella mente troppo a lungo…
Devo pisciare.
Si fermò accanto a uno dei carri piatti, sbottonò i pantaloni e stette lì, cercando di non farsela sulle scarpe.
Improvvisamente, un suono strisciante fra l’erba alta attirò la sua attenzione e Jim si voltò per ispezionare il prato alle sue spalle. «Chi c’è?»
Il vento gli restituì solo una lugubre serie di fruscii e il latrato di un cane in lontananza. Riabbottonò in fretta i pantaloni e si convinse a riprendere il cammino, ma per qualche ragione non si sentiva più tranquillo. Poco dopo, infatti, colse un movimento tra i vagoni.
«Si può sapere chi è?» chiese, alzando la voce; un brivido di inquietudine lo attraversò, e la sua parte paranoica tornò a quanto detto da O’Malley a cena sugli Accalappiatori.
L’ombra si mosse di nuovo. Poi, una voce non proprio sconosciuta disse: «Bene bene. Guarda chi si gode una passeggiatina al chiaro di luna.»
Uscì allo scoperto. Jim aguzzò la vista, ma gli servì comunque qualche istante per rendersi conto di chi fosse. «Non sei quel tizio di stamattina? Bobby?»
«Donnie» rispose lui, a denti stretti. «Donnie Winters, se vuoi saperlo.»
«Be’, lieto di rivederti, Donnie Winters. Ma è un po’ tardi per gli autografi, non ti sembra?»
«Non voglio un autografo del cazzo!» sbottò lui, accendendosi. «Sono qui perché, come ho cercato di farti capire stamattina, hai scherzato con la persona sbagliata.»
Jim aprì la bocca, sbalordito. Poi, senza riuscire a trattenersi, gli scoppiò a ridere in faccia.
«Lo trovi divertente?!»
«No, lo trovo stupido» ribatté Jim. «Tu che rimani ad aspettarmi quaggiù, al buio, per ore…»
«Lurido figlio di puttana!» sbraitò Donnie. «Vedremo se ti sembrerò ancora uno stupido!»
Gli arrivarono alle spalle; probabilmente, se i suoi riflessi non fossero stati alterati, li avrebbe anche sentiti. Qualcuno lo afferrò con una presa da orso. Qualcun altro, invece, gli assestò un pugno nello stomaco che gli tolse il respiro. Le ginocchia gli si flessero, mentre tossiva e boccheggiava.
«Legategli le mani» disse Donnie, la voce ferma di chi è abituato a impartire ordini. «Che non possa fare quei suoi giochetti del cazzo.»
L’orso che lo aveva placcato gli piegò le braccia dietro la schiena, in maniera così salda che sentì le ossa scricchiolare. Qualcosa di ruvido gli strinse i polsi. Ma Jim stava ancora cercando di tornare a respirare.
«Che cosa vuoi da me, Donnie Bello?» riuscì a biascicare. «Delle scuse? Soldi? Confermarmi quanto è piccolo l’attrezzo che hai nelle mutande?»
«Lo sistemiamo adesso, signor Winters?» domandò una voce rauca alla sua destra; l’uomo che gli aveva tirato il pugno, in camicia bianca e panciotto gessato, si stava sgranchendo le nocche, le maniche tirate sugli avambracci con degli elastici. Era magro e nervoso, con la faccia butterata e un ciuffo di capelli scuri che gli ricadeva sopra l’occhio. Come il suo collega, puzzava di sudore e fumo di sigaretta.
«Non ancora, Monty» disse Donnie, raggiante come un bimbo a Natale. «Mi sa che il nostro Khazam non ha capito in che situazione si trova. Lo portiamo a fare un giretto, vi va?»
Prima che Jim potesse raccogliere fiato per urlare, Monty estrasse dalla tasca uno straccio lurido e lo imbavagliò stretto.
«Ti conviene stare buono, ragazzino» sibilò al suo orecchio. «O qua finisce male.»
Jim decise di stare buono, anche perché credeva di aver intravisto il calcio di una pistola, infilata nei suoi pantaloni.
Non la userà, pensò in maniera stranamente lucida. Con quei tipi non si scherzava, ok, ma non avrebbero commesso una simile sciocchezza. Volevano spaventarlo, dargli una lezione.
Ma mica ucciderlo, giusto?
Procedettero in silenzio tra l’erba alta, sotto il chiarore gentile della luna, allontanandosi sempre più dal treno e dalla tendopoli. Troppo perché qualcuno potesse vederli.
Se solo fosse riuscito a liberare una mano. A quel punto sì che gliel’avrebbe fatta vedere! Piantò i talloni, si divincolò con furia, ma gli fu presto chiaro che fosse un inutile spreco di energie. L’orso aveva una presa d’acciaio, di chi lavorava tanto e mangiava tanto. E di sicuro, pensò Jim con ansia, picchiava con altrettanta frequenza.
Intanto, Donnie li aveva condotti in una macchia di alberi; il canto dei grilli li accompagnava ovunque, ma Jim percepì presto il gorgoglio di acqua corrente, e infatti raggiunsero il letto di un canale che luccicava nel buio. Lo fecero fermare sulla riva e lo spinsero affinché si mettesse in ginocchio.
«Sai» disse Donnie, infilando le mani in tasca. «Un tempo, le terre della mia famiglia si estendevano da questo canale fino al Lago Pontchartrain. Donald Sugarman Winters, così chiamavano il mio bisnonno. Era uno dei maggiori produttori di tutto lo Stato, praticamente un pezzo di storia americana…»
Jim roteò gli occhi al cielo. Gesù, quanto parla!?
Se proprio dovevano pestarlo, che almeno lo facessero subito! Che bisogno c’era di tirarla tanto per le lunghe?
«Finché non sono arrivati quegli stronzi dell’Unione» proseguì Donnie, con ardore. «E ci hanno portato via tutto: i nostri cento schiavi, le terre. Le azioni della Winters Plantation hanno iniziato ad andare in caduta libera e quando è crollata la Borsa abbiamo perso tutto.»
Se non altro, il pugno nello stomaco e la botta di adrenalina gli avevano fatto passare del tutto la sbornia, ma Jim non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse finito imbavagliato e legato ad ascoltare i deliri di un figlio di papà Sudista che si dava arie da gangster.
Donnie si piegò sulle ginocchia, in modo da fissarlo dritto negli occhi. «Vedi, Khazam, oggi ti sei divertito a farmi fare la figura del fesso di fronte a dei clienti di mio padre. È ancora un pezzo grosso a New Orleans, nel caso tu te lo stia domandando. Non produciamo più zucchero, ma i denti li facciamo cadere lo stesso.»
Era troppo. Jim si mise di nuovo a ridere, ma a quel punto Monty gli tirò un ceffone, così forte da fargli girare la testa; indossava degli anelli, o forse un tirapugni, perché Jim sentì aprirsi un taglio bruciante sulla guancia e la bocca riempirsi di sangue. Prima che crollasse al suolo, l'orso lo rimise al suo posto.
«Va bene, arriviamo al punto» disse Donnie, gli occhi fuori dalle orbite e macchie rosse di eccitazione sulle guance. «Ti ho visto in quel tendone, prima, i fulmini e tutto il resto. E sai che altro ho visto?» Tornò ad avvicinare la sua faccia a quella di Jim, che era gonfia e pulsava. «Ho visto che sei pure un lecca negri del cazzo. Portatelo in acqua.»
Quando realizzò cosa stava per accadere, Jim cercò di lanciarsi verso gli alberi, ma l’orso lo riacciuffò e lo trascinò nel canale. L’acqua gelida gli lambì presto i polpacci.
«Mio nonno mi raccontò una storia da bambino, la storia di una negra che lavorava nella piantagione di suo padre e che si vantava di praticare il voodoo. E lo sai che fine ha fatto quella strega?»
L’orso spinse Jim ad abbassarsi ancora, verso l’acqua. Il ragazzo provò un’isterica paura, e si oppose con tutte le sue forze.
«L’hanno affogata proprio in questo canale. Del resto, hanno avuto la conferma che non si trattasse di una vera strega, solo di una ciarlatana: dopo due minuti con la testa di sotto, ha smesso di respirare come i fanno i cristiani.»
Un muro d’acqua nera gli andò incontro. L’orso gli aveva imprigionato la nuca tra i suoi artigli, tenendolo giù. Inutile opporsi, era troppo forte, troppo grosso, troppo cattivo…
L’ossigeno nei suoi polmoni si esaurì in fretta. Quando lo tirarono su, Jim cercò di inalare quanta aria poté, ma inghiottì solo molta più acqua.
«…perciò, ora scopriremo se almeno tu sei uno stregone oppure no.» La voce di Donnie gli giunse ovattata, mentre tossiva e ansimava. «Ancora.»
No! Aspetta, aspe…!
Di nuovo giù. L’acqua gli penetrò nelle narici, nella bocca, mentre si dibatteva come un dannato e urlava senza emettere suoni. Questa volta lo tennero sotto diversi secondi in più, finché Jim non sentì i polmoni bruciare…
Sono un idiota. E morirò come un idiota.
Forse, se fosse stato zitto e buono al suo posto, si sarebbero accontentati di rompergli qualche osso. E invece, ora lo avrebbero ammazzato sul serio. Cosa importava se poteva chiamare a sé i fulmini? Sarebbe annegato comunque lì, in quel canale, e poi lasciato alla deriva. Chissà se avrebbe raggiunto il Mississippi. Probabilmente no: qualcuno lo avrebbe trovato all’alba tra i giunchi, coi pesci che si erano fatti casa nei suoi orifizi. La polizia avrebbe recuperato il suo corpo gonfio d’acqua, pensando si trattasse dell’ennesimo barbone scivolato, ubriaco, nel fossato. E così sarebbe finita la storia dello Straordinario Khazam, la cui unica, grande impresa era stata quella di rubare del whisky…
Lo issarono di nuovo, per la terza o la quarta volta. Jim era ormai mezzo svenuto.
«Mhm.» La faccia spavalda di Donnie gli ondeggiò davanti agli occhi. «Sapete, non sono ancora convinto che non sia una strega. Altro tuffo?»
«Credo possa bastare.»
Non era stato uno dei due sgherri a parlare. Jim tossì, sforzandosi di restare cosciente, mentre Donnie si voltava di scatto verso gli alberi. «Chi cazzo è? Esci fuori!»
Una figura emerse dalle ombre; da quello che Jim riusciva a scorgere, si trattava di un uomo alto e magro, in completo nero, con cappello a bombetta e bastone da passeggio. Forse aveva le allucinazioni.
«Mi sembra di capire che questo giovanotto vi abbia offeso in qualche modo» disse con voce calma, profonda e dal gradevole accento europeo. «Ma ho l’impressione che abbia afferrato il messaggio. Fatevi da parte.»
Monty si mosse verso di lui con fare minaccioso. «Senti coso, faresti meglio a pensare agli affaracci tuoi. Mi sono spiegato?»
«Ti sei spiegato» confermò l’uomo, senza scomporsi. «Ma desidero scambiare due parole col signor Khazam, preferibilmente mentre è ancora vivo. Quindi, devo chiedervi di allontanarvi da lui.»
«E se non lo facessimo?»
«In tal caso, vi obbligherei.»
Forse era merito del suo fare sicuro e rilassato, troppo per uno che sta bluffando, fatto sta che Monty si bloccò.
«Oh, insomma!» esclamò Donnie. «Ti fai spaventare da un vecchio? Guardalo, non si regge neanche in piedi da solo!»
Monty allora portò la mano alla cintura ed estrasse la pistola.
«Te lo ripeto un’ultima volta, Charlie Chaplin» disse, puntandogliela dritta in mezzo agli occhi. Sollevò il cane con un sonoro clic. «Tornatene da dove sei venuto.»
Le nuvole si addensarono sulla luna, nascondendola. Quello che accadde dopo, fu molto veloce e confuso.
La pistola esplose in mano a Monty; Jim sentì il botto e vide una fiammata accendere il buio, seguita da un latrato di dolore. Anche Donnie urlava, indietreggiando verso il fiume, mentre l’odore pungente del sangue si diffondeva nella radura. Impegnato com’era a cercare di seguire il tutto, Jim quasi non si accorse che l’orso lo aveva mollato sulla riva per lanciarsi sul tizio con la bombetta. Per nulla spaventato, quello sollevò la mano sinistra e il gigante si fermò più o meno a un metro da lui, la grossa testa pelata imperlata di sudore. Cadde prima su un ginocchio, stringendosi una mano al petto. Poi, crollò lungo disteso a terra.
Monty era ancora rannicchiato a riva, che piangeva e bestemmiava, mentre Donnie era bianco come un morto e aveva gli occhi sgranati.
«Mio padre lo verrà a sapere!» strillò, respirando forte. «Hai i giorni contati, figlio di puttana, questa città è sua!»
«Ottimo. Anzi, già che ci sei potresti riferirgli che se uno dei suoi darà ancora fastidio alla compagnia O’Malley il Corvo Bianco tornerà a fargli visita? Probabilmente lui non capirà. Ma tuo nonno sì.»
Le labbra di Donnie tremarono. «È uno di quei mostri!»
«Trovo che il concetto di “mostro” sia alquanto relativo oggigiorno.»
Donnie si mosse verso la riva, senza perderlo d’occhio un attimo.
«Su, su» incalzò l’uomo con la bombetta, ruotando un dito. «Più svelto.»
Il fiume si sollevò all’improvviso, come il dorso d’argento di una bestia ridestata e un’onda anomala travolse Donnie in pieno. Il ragazzo urlò, mentre veniva scaraventato sulla riva accanto a Jim, zuppo e coi capelli incollati sulla testa.
Non appena riuscì a mettersi in piedi, se da diede via a gambe levate. Monty lo seguì a ruota.
«Finalmente soli» sospirò l’uomo con la bombetta, rivolgendosi ora direttamente a Jim. «Stai bene?»
Ancora scosso, il ragazzo poté solo annuire, visto che era sempre legato e imbavagliato.
«Oh, giusto! Perdonami, rimedio subito.»
Un altro impercettibile movimento delle dita e le corde che stringevano i polsi di Jim caddero a terra come se fossero state recise. Il ragazzo strappò via il bavaglio.
«Cazzo!» esclamò, riprendendo fiato. Fissò il colosso pelato che giaceva con la faccia nel terreno e deglutì. «Cristo santo, non sarà mica…?»
«Morto? Oh, non credo.» Lo sconosciuto punzecchiò il corpo con l’estremità del bastone. «Grande e grosso com’è ci impiegherà qualche ora a svegliarsi.»
Jim tornò a sollevare uno sguardo attonito sul suo salvatore: «Come accidenti ha fatto? Come…come ha fatto a far esplodere la pistola? Non l’ha neppure sfiorata! E poi l’onda e…»
L’uomo sorrise; la luna scivolò fuori all’improvviso, illuminando un volto dai tratti aguzzi e un paio di occhi scintillanti e arguti. Non avrebbe saputo dargli un’età precisa, ma di certo aveva vissuto.
«Credo tu sappia esattamente come ho fatto. Ma non è il luogo né il momento adatto per parlarne: vieni, ti accompagno alla tua carrozza.»
Gli fece strada attraverso il boschetto e Jim, che non aveva intenzione di restare laggiù un minuto di più, lo seguì di corsa.
«Come faceva a sapere dove trovarci?» domandò, alzando il passo per stargli dietro; malgrado l’oscurità più fitta, l’uomo si muoveva sicuro e senza affanno, tanto che il bastone sembrava più un vezzo che una necessità.
«Vi ho seguiti» rispose candidamente. «Avevo un brutto presentimento da questa mattina, dopo la tua “trovata pubblicitaria”. Donald Winters III è un noto allibratore, gestisce corse, prostituzione, contrabbando. Piuttosto incauto da parte tua pestare i piedi al suo rampollo. Ma è normale peccare di presunzione, quando si è alle prime armi.»
«Cosa?» fece Jim, sempre più confuso. «Che significa? Era alla tavola calda?»
«E allo spettacolo: discreto, sebbene abbia preferito quello a Starkville. Se posso darti un consiglio lavorerei sull’entrata in scena. A ogni modo, ti sei ripreso sul finale, quello sì che mi ha colpito.»
«Si può sapere da quant’è che mi sta pedinando?» chiese Jim, stavolta con una certa irritazione. «Chi è lei e cosa vuole da me?»
Erano quasi arrivati al treno. L’uomo si volse a guardarlo con espressione genuinamente perplessa.
«Chiedo scusa, raramente ho bisogno di presentazioni» disse, accennando un inchino elegante. «Il mio nome è Solomon Blake e sono uno stregone, proprio come te.»
Quell’ultima affermazione rimase sospesa nello spazio fra di loro per qualche secondo, riempito dal fruscio del vento nell’erba. Jim sbatté le palpebre, senza sapere bene che espressione assumere.
«Uno stregone.»
«Arcistregone, in effetti. Ma ogni cosa a suo tempo.»
«È uno scherzo?»
«La parola “stregone” ti fa ridere? Preferisci mago, incantatore, maestro delle Scienze Occulte..?»
«Preferisco che mi dica cosa cavolo sta succedendo!»
Solomon Blake sospirò. «Succede che ho avuto modo di valutare cosa sai fare. I Mancanti diventano sempre più abili nel simulare la magia, e quelli come noi che sono ancora in grado di praticarla sono rari. Ammetto che non ero sicuro che fossi chi cercavo, almeno fino a questa sera, quando hai esercitato la ceranopoiesi[1]…»
«Cerano… cosa?»
«Ceranopoiesi, l’arte del produrre i fulmini. Viene dal greco…»
«Non mi interessa da dove viene!»
«Quella è stata la prova che tu pratichi vera magia» concluse Blake, che aveva improvvisamente smesso di sorridere. «Camuffata con trovate da quattro soldi e di discutibile gusto, ma innata e irrequieta, il che la rende potenzialmente pericolosa. Per questo sono qui: voglio offrirti di diventare mio apprendista.»
Jim non si mosse di un millimetro. «Perché?»
«Perché possiedo in abbondanza qualcosa che a te manca: conoscenze, metodo…e un pizzico di buonsenso, mi piace pensare. Chi ha vissuto a lungo come me, riempendosi di tutto ciò che la vita ha da offrire, non può far altro che trovare un nuovo recipiente in cui versarlo.»
Aveva un modo di esprimersi singolarmente languido, aristocratico, d’altri tempi. Molto inglese, in effetti.
«Non credo mi interessi farmi riversare dentro cose» rispose Jim, dopo un momento.
«Perché no?»
«Perché sono un illusionista da circo.»
«E non vorresti essere qualcosa di più?»
«Tipo un arcistregone?»
«Questo dipenderà solo da te. Quello che ti sto offrendo va oltre il semplice controllo: posso darti la possibilità di spingerti oltre i tuoi limiti, di sperimentare, raggiungere vette che non immagineresti. Posso darti il potere, non è quello che hai sempre voluto?»
Jim tacque, passando il peso del corpo da un piede all’altro, incerto. Un brivido di freddo lo attraversò da cima a fondo, mentre avvertiva i vestiti fradici irrigidirsi contro la pelle.
«Glielo ripeto, non mi interessa» disse alla fine. «Me la sono sempre cavata benissimo da solo.»
«Oh, ho visto.» Un sorrisetto ironico tornò a giocare sulle labbra di Blake. «Immagino che farsi pestare e affogare rientrasse perfettamente nei tuoi piani per la serata.»
Jim si sentì avvampare. «Ehi, sono per metà irlandese, so fare a pugni! Mi hanno solo colto impreparato e con tutto il rispetto, lei di me non sa nulla. Grazie tante e buona serata.»
S’incamminò verso il binario a grandi passi, per mettere più distanza possibile tra lui e quello strano tizio e dimenticare quella nottata assurda.
La voce di Solomon Blake non si alzò di un decibel, ma Jim lo sentì forte e chiaro: «Invece un paio di cose le so: so che il tuo nome di battesimo è James Ryan Doherty e che sei nato in una fattoria vicino Avalon, nel New Jersey, da Tom Doherty e Abigail Thorn. Hai praticato la tua prima magia a un anno, a quattro hai fatto levitare il gatto dei Winchester. Tua madre è morta quando avevi cinque anni e tuo padre ti ha allevato fino al 31 ottobre del’23, la sera dell’incendio scoppiato nel vostro fienile. Hai frequentato molte ragazze, spesso contemporaneamente, leggi biografie e vai matto per i dolci fatti in casa. Tutto corretto fin qui?»
Jim si bloccò, e un gelo improvviso gli invase le vene. Tornò lentamente a voltarsi, ma Blake era ancora lì, in mezzo al prato, le mani giunte sull’impugnatura del bastone.
«Da chi ha saputo queste cose?» chiese, sforzandosi di mantenere la voce ferma. Il cuore aveva iniziato a battergli forte.
«La magia lascia sempre delle tracce, mi è bastato seguirle finché non mi hanno condotto da te. Ciò che è accaduto in New Jersey…»
«La smetta!» esclamò Jim, sempre più agitato. «Senta, non mi interessa che cosa sa. Ho una nuova vita adesso e desidero solo essere lasciato in pace.»
Blake continuò a fissarlo intensamente, per quella che gli parve un’eternità.
«D’accordo» sospirò infine, con suo immenso sollievo. «Non ho intenzione di insistere.»
Mosse qualche passo verso di lui e il ragazzo sentì l’impulso di arretrare. Ma Blake si limitò ad agitare una mano e far apparire dal nulla un biglietto nero.
«Se dovessi cambiare idea, puoi raggiungermi a questo indirizzo per una tazza di tè. Prendi pure un taxi e non preoccuparti, la corsa è già pagata.»
E gli tese il biglietto. Più per riflesso che per volontà, Jim lo prese, senza trovare nulla da dire.
«È stato un piacere, James» disse lo stregone, sfiorando la tesa del cappello. «Cerca di stare fuori dai guai.»
Dopodiché, girò i tacchi e si incamminò attraverso il prato; Jim lo guardò allontanarsi nella notte che cominciava a schiarire, finché, proprio davanti ai suoi occhi, svanì.
Il ragazzo invece restò lì impalato a bocca aperta, con quel bigliettino in mano.
Dopo un attimo si riscosse e corse verso la sua carrozza. Una volta raggiunta la sua cabina, si chiuse la porta alle spalle e vi si abbandonò con tutto il peso, riprendendo fiato. A tentoni, cercò l’interruttore e le luci si accesero dopo un leggero sfarfallio.
Fece un ultimo profondo sospiro. Un sogno. Solo un brutto sogno, ecco cos’era stato. I gangster, il pestaggio, lo stregone. Si era scolato insieme ad Arthur un’intera bottiglia di whisky ed era caduto in un fosso, quasi ci era annegato. Ma era a casa adesso, finalmente solo e al sicuro. Tutt’al più, gli sarebbe venuto un brutto raffreddore, anche se non ricordava l’ultima volta che si era ammalato.
Eppure, quel biglietto era ancora nella sua mano.
Riluttante, si decise a dargli un’occhiata: la carta nera era di ottima qualità, i bordi ornati di filigrana argentata. Una grafia sottile, elegantemente inclinata, tracciava poche parole sormontate dalla silhouette bianca di un corvo in volo:
 
Piantagioni Winters
Lo zucchero più bianco dal 1840.
225 Heatherfield Lane
Bayou St. John – New Orleans.
 

[1] parola greca di mia invenzione, formata da κεραυνός, “fulmine” e ποιέω, “fare”.

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Capitolo 6
*** L'Appeso ***



L’APPESO

 
 




Jim fu svegliato circa tre ore più tardi dai rumori provenienti dall’accampamento, già in attività dai primi barlumi del giorno.
Seccato e indolenzito, si raggomitolò tra le lenzuola e seppellì la testa sotto il cuscino; la sentiva pesante come un macigno, invasa da un groviglio sensazioni e immagini di uno dei sogni più strani che avesse mai fatto…
D’un tratto, il ricordo della notte appena trascorsa lo colpì come una palla di cannone e spalancò gli occhi. Si girò sulla schiena e rimase a fissare il soffitto di legno piegato a botte della sua cabina, mentre gli eventi del sogno si facevano più nitidi e si rendeva conto che non si era affatto trattato di un sogno.
Sono a New Orleans. Ieri notte, sono stato aggredito da due criminali. Mi hanno legato, picchiato e poi hanno cercato di affogarmi. Sono quasi morto.
La sensazione dei capelli ancora umidi sulla nuca, i segni della corda sui polsi e il bruciore della guancia ferita si intensificarono, gettandolo nuovamente nel panico.
Ma non sono morto. È arrivato un tizio, vestito come se fosse in ritardo per una serata di gala. Ha fatto esplodere una pistola e messo ko un gigante di cento chili solo guardandolo. Mi ha parlato di magia, vera magia. E mi ha proposto di diventare suo apprendista.
Jim sbatté le palpebre, mentre il senso di quelle ultime parole si imprimeva nella sua testa. Ho conosciuto un altro mago.
Per anni ci aveva sperato con tutte le forze di non essere l’unico, che esistessero altri veri maghi nascosti e in attesa di essere trovati, ma in nessuna compagnia che avevano incrociato esistevano persone in grado di fare quello che sapeva fare lui, neanche tra i Dimenticati, e tutti gli incantatori visti dal vivo si erano rivelati delle gigantesche delusioni. Certo, c’era stato Houdini: Joel King aveva accompagnato lui e Arthur a una delle sue ultime esibizioni pubbliche a Montreal, l’evasione dalla cassa di tortura cinese. Tra tutti i finti maghi, lui era il suo preferito, sebbene ciò che spacciava per magia non fosse che il frutto di una fenomenale preparazione fisica e vari escamotage.
Ma quel tizio dell’altra sera…cosa lo rendeva diverso?
Era buio pesto, ragionò tra sé. Ero terrorizzato e mezzo svenuto.
Senza contare che si era bevuto un quarto del Mississippi e che per quel che ne sapeva, poteva aver riportato una commozione celebrale.
Un impostore, ecco chi era Solomon Blake. Teatrale e con una buona parlantina, sicuramente. Il classico riccone annoiato, che si dilettava con l’occulto quando non era impegnato ad acquistare a prezzi stracciati proprietà in bancarotta.
Però mi ha salvato la vita.
Questo non poteva ignorarlo e non voleva neanche immaginare cosa sarebbe accaduto se non fosse intervenuto. Allungò la mano sulla mensola sopra il letto e toccò la superficie liscia del bigliettino che Blake gli aveva lasciato.
Lo ispezionò un’altra volta ancora.
Piantagione Winters. Blake aveva minacciato Donnie riferendosi a se stesso come al “Corvo Bianco” e facendo intendere di conoscere suo nonno. Si riferiva solo all’aver rilevato la sua proprietà, lasciandoli col culo per terra, o magari c’era un altro motivo per cui i Winters lo temevano? Che avesse a che fare con le sue capacità?
“Quello che ti sto offrendo va oltre il semplice controllo, aveva detto.Posso darti la possibilità di spingerti oltre i tuoi limiti, di sperimentare, raggiungere vette che non immagineresti. Posso darti il potere, non è quello che hai sempre voluto?”
Lo era davvero? Jim si agitò sotto le coperte, sempre più indispettito e, anche se non voleva ammetterlo, combattuto.
Ma poi, chi si credeva di essere quel Blake? Sbucava all’improvviso e si metteva a blaterare di certe cose come se conoscesse tutto di lui. In effetti sì, sapeva parecchio, magari si era trovato a passare da Avalon in New Jersey e qualche chiacchierone del posto gli aveva raccontato tutta la storia: “Tom Doherty? Me lo ricordo, come no! Possedeva una fattoria in fondo a quel viale alberato, proprio in cima alla collina. Ci viveva col figlio, James. Poi c’è stato quell’incendio…”
Il senso di irritazione di Jim si tramutò subito in malessere, mentre un’immagine, appesa tra il sogno e la veglia, riemergeva da quel luogo riservato ai ricordi più oscuri. L’immagine di un fienile in fiamme, l’odore soffocante del fumo, il rumore delle grida che riecheggiavano nel tardo pomeriggio…
Erano anni che non ripensava più a quel giorno. Dopo il suo ritrovamento, si era rifiutato di aprire bocca con chiunque nel circo per almeno tre mesi, al punto che tutti si erano convinti fosse muto. Crescendo era diventato il nipote e il cugino di tutti, ma se per caso gli si faceva qualche domanda a proposito della sua casa, dei suoi genitori, allora ammutoliva di colpo e tornava a essere il ragazzino schivo e taciturno di un tempo. Così, ormai nessuno provava più a indagare.
Ma quel Blake sapeva cosa era successo. Sapeva chi era davvero e cosa era in grado di fare.
“Tu pratichi vera magia, innata e irrequieta. Il che la rende potenzialmente pericolosa.”
Potenzialmente pericolosa…
Gli incidenti nel circo erano all’ordine del giorno. Si trattava di imprevisti, nessuno si era mai davvero fatto male... anche se la sera prima forse si era spinto un po’ troppo oltre con quei fulmini.
Ma in fondo, che spettacolo di magia sarebbe senza il fascino oscuro di un’autentica minaccia? Era ciò che la gente voleva, no? Brivido, imprevisto, suspense. Ed era quello che lui desiderava offrire quando era sul palco. Era un illusionista da circo e si era sempre limitato a questo. Ma avrebbe potuto essere qualcosa di più, volendolo…
Avrebbe potuto essere uno stregone. Potente, ricco e temuto: nessuno avrebbe osato fare il prepotente con lui; il denaro non sarebbe mai stato un problema e avrebbe messo in scena spettacoli leggendari. Senza contare che avrebbe tenuto alla larga gli Accalappiatori e sarebbe riuscito a ritrasformare Joel King con un semplice schiocco di dita…
Non era quello che aveva sempre voluto?
 

La tenda di Madame Margot era situata poco lontano dal tendone principale; quando Jim vi mise piede, quella mattina, si trovò immerso in un trionfo di tappeti ricamati e cuscini impregnati dell’odore della salvia.
L’indovina era seduta in poltrona con indosso una vestaglia di chintz a stampa floreale, i folti capelli neri raccolti in un foulard e un bocchino d’argento tra le dita affusolate.
«Santo cielo!» esclamò appena lo vide. «Tesoro, che hai fatto alla faccia?»
«Niente.» Jim si girò per nascondere i segni del pestaggio. «Sono inciampato.»
Margot posò la sigaretta in un posacenere a stelo, dopodiché si alzò per rovistare tra i suoi bauli. «Vieni qui alla luce.»
Jim avrebbe preferito sorvolare, ma andò ugualmente a sedersi su un pouf di velluto, mentre la donna assicurava i lembi della tenda per far entrare più luce naturale possibile.
«Mhm.» Gli prese il mento tra le dita per esaminare i danni. «Inciampi un po’ troppo spesso per i miei gusti. Dovrò chiedere ai ragazzi della sicurezza di accompagnarti quando te ne vai in giro.»
«Uh, avrò la mia scorta personale? Come le celebrità!»
«No, avrai delle tate. Come i bambini.» Margot sospirò. «Promettimi che farai attenzione: sei prezioso per tutti noi, Jimmy, molto più di quanto immagini.»
Da un piccolo scrigno estrasse un barattolo di vetro pieno di una sostanza oleosa e profumata; ne prese un po’ sul dito e lo passò delicatamente sulla sua guancia. Jim avvertì una sensazione di prurito e alzò istintivamente una mano per grattarsi, ma Margot gli diede un buffetto sul dorso. Trascorse forse un minuto e solo allora lei gli diede il permesso di toccarsi. Dolore e graffio erano spariti.
«Sai, dovresti iniziare a venderla quella roba» commentò Jim. «È miracolosa, faresti un affare.»
Margot ridacchiò. «Sono ricette tramandate dalle donne della mia famiglia da generazioni: la mia povera Baba si rivolterebbe nella tomba se sapesse che gli Americani ne hanno fatto un business.»
«Solo perché ai morti i soldi non servono» le fece notare Jim, ottenendo in cambio un sospiro divertito.
Margot mise via le sue pomate e gli offrì invece un vasetto pieno di lokum, che il ragazzo accettò senza farsi pregare.
Tra i membri della compagnia, la moglie del direttore era l'artista più misteriosa: colta e raffinata, aveva girato il mondo e conosceva ben sei lingue, ma parlava poco del suo passato. Tutti nel circo erano d'accordo che fosse una nomade dei Balcani, anche se ostentava l'accento solo con i clienti. Secondo alcuni usava un nome falso e altri ancora dicevano che fosse stata un tempo una donna molto potente; stando a Vanja Svanmör, un corteggiatore respinto aveva messo in giro la voce che praticasse magia nera, che fosse addirittura una spia: così si era data alla fuga attraverso l'Europa, finendo in Irlanda, ed era stato allora che il suo destino si era incrociato con quello di Maurice O'Malley, che l'aveva accompagnata negli Stati Uniti.
«Allora» disse, tornando a sedersi in poltrona. «Sbaglio o c’era qualcosa di cui volevi parlarmi?»
Jim si leccò le dita sporche di zucchero. «Ehm, sì, avrei bisogno di un consiglio.»
«Sono tutta orecchie.»
«Però non riguarda proprio me, è per un mio amico.»
Un lampo di divertita astuzia balenò negli occhi verdi di Margot. «E chi è?»
«Non credo tu lo conosca…comunque, questo mio amico ha incontrato una persona, che gli ha fatto una proposta un po’ strana…non quello che pensi!» si affrettò ad aggiungere, e lei ridacchiò di nuovo. «Si tratta di una specie di offerta. Il punto è che sembra troppo bella per essere vera, perciò, mi chiedevo…o meglio, lui si chiedeva, quale decisione dovrebbe prendere. Se accettare o rifiutare.»
L’indovina lo fissò per un momento, il volto posato sulle dita intrecciate. «In pratica, vuoi che legga il suo destino?»
«Di solito ci azzecchi.»
«Grazie. Mi lusinga che tu riponga tanta fiducia nelle mie doti.»
«Non intendevo…»
Ma Margot stava sorridendo. «Siediti qui, avanti.»
Mentre lui prendeva posto sullo sgabello di fronte al tavolino, l’indovina estrasse un involto di seta nero e lo srotolò con cura.
«Niente sfera di cristallo?» domandò Jim, osservandola mescolare il mazzo di tarocchi con gesti veloci e sicuri.
«Quella è solo uno specchio per le allodole, caro. Ma loro.» Margot posò il mazzo a faccia in giù e picchiettò l’unghia laccata di rosso sul dorso dell’ultima carta. «Loro non mentono mai. Taglialo in tre parti.»
Jim eseguì.
«Visto che il tuo misterioso amico ha deciso di mandarti avanti al suo posto» proseguì Margot, col tono di chi ha deciso di stare al gioco. «Subirà le conseguenze delle scelte che farai in sua vece. Te la senti?»
«Ehm, sì.»
«Ottimo. Quale mazzetto scegli?»
Il ragazzo indicò quello al centro – gli sembrava il più ordinato – e l’indovina riunì le carte tenendolo in cima. Infine, dispose una dozzina di tarocchi sul tavolo seguendo uno schema preciso.
«Mhmm.» L’espressione di Margot si fece concentrata. «Interessante.»
Anche Jim osservò le carte. I bordi screpolati e le figure sbiadite indicavano quanto fossero vecchie, molto più di Margot. Ma un tempo dovevano essere state delle autentiche opere d’arte, dipinte a mano in uno stile che ricordava le illustrazioni sui libri di fiabe.  Tra coppe, spade e figure umane, riconobbe Le Bateleur[1], proprio al centro della configurazione.
«Questo sono io!»
La carta raffigurava un uomo con indosso una tunica bianca e rossa, che indicava il cielo con la bacchetta nella sua mano destra e la terra con la sinistra.
«Ne sei sicuro?» inquisì Margot, con voce asciutta.
Jim sollevò gli occhi dalle carte, ma nell’espressione della donna non riuscì a leggere nulla. Il suo sorriso però era scomparso.
«Non lo so. Ma è una buona carta, no?»
«Non esistono buone carte e cattive carte. Gli Arcani sono linee guida, ma possono assumere significati diversi a seconda delle relazioni che intrecciano tra loro». Tacque alcuni secondi, continuando a fissarlo. «Lo straniero che hai conosciuto ti ha promesso qualcosa che tu desideri da tempo, ma di cui allo stesso tempo hai paura. Non sai se fidarti di lui, ma non sai neanche se puoi fidarti di te stesso, per via di qualcosa accaduto molto tempo fa.»
Jim quasi saltò sullo sgabello. «Caspita, sei forte.»
«Il Giudizio indica che c’è un evento nel tuo passato che ti tormenta» spiegò Margot. «Leggo rabbia, ma anche rimorso.» Un’altra pausa. «Ma il tuo futuro è…sospeso.»
«In che senso?»
«C’è una sorta di biforcazione. Forze opposte si scontrano per ottenere qualcosa.» L’unghia rossa della donna seguì una linea invisibile, che collegava una schiera di figure: la Regina di Denari, il Re di Spade, e poi…
«L’Appeso.» Lo disse sottovoce, come rivolta a se stessa. «Indica l’incapacità di decidere. La sensazione di essere legati a troppe cose contemporaneamente. Oppure, qualcosa che è stato trattenuto troppo a lungo.»
La fronte di Margot si increspò sempre di più mentre proseguiva la lettura; allargò le carte sul tavolo, tornò a riesaminare quelle già viste.
«L’Appeso si sovrappone al Matto, il furore giovanile, l’inesperienza…ma per fortuna è seguito dal Fante di Bastoni: perciò affronterai un viaggio turbolento, ma avrai qualcuno al tuo fianco che ti sosterrà. Oh, vedo anche un Due di Coppe, la nascita di un legame. Forse un amore…»
Jim s’illuminò. «Bene!»
«…ma poi c’è una sequenza di Spade: quindi, uno dei due soffrirà.»
Il sorriso del ragazzo sfumò in una smorfia. «Come non detto.»
«Qualcuno ti sta ingannando» proseguì Margot, accigliata. «Il Mago e il Diavolo… in qualche modo influenzano l’Appeso. Non sarà facile scoprire dove si nasconde la verità. Ma non è finita qui.»
Indicò una carta che raffigurava una torre colpita da un fulmine; due personaggi, di cui uno incoronato, precipitavano urlando.
«La Maison Dieu[2]: presagio funesto. Un cambiamento improvviso, violento. Qualcosa che si pensava fosse sicuro e invece presto crollerà.» Infine, Margot fissò intensamente l’ultima carta, posizionata proprio davanti a Jim: uno scheletro che brandiva una falce. Non aveva nome.
I loro sguardi si incontrarono sopra la configurazione.
«Be’, se gliela pongo così al mio amico verrà un mezzo infarto.»
L’indovina si adagiò contro lo schienale della poltrona con un sospiro stanco, massaggiandosi la tempia.
«È stata una lettura intensa» spiegò, di fronte allo stupore di Jim. Finalmente, tornò a rivolgergli uno dei suoi sorrisi familiari. «Ma questo genere di letture impegnative sono anche quelle che preferisco.»
«Io non ci ho capito molto» confessò il ragazzo, grattandosi la testa. «Insomma, il mio amico deve accettare o no l’offerta?»
«Le carte parlano di un viaggio.» Margot si strinse nelle spalle. «In cui qualcuno ti accompagnerà, ma non posso dire se migliorerà la tua vita …o quella del tuo amico. In ogni caso, presto accadrà qualcosa che cambierà il tuo destino e quello delle persone a cui sei legato: meglio farsi trovare pronti.»
Jim annuì, sforzandosi di nascondere la sua delusione. Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma sperava in qualcosa di un po’ meno vago. Certo, parlare chiaro non era mai stata la specialità di Margot e di solito lo divertiva l’espressione un po’ angosciata che avevano i clienti che lasciavano la sua tenda. La stessa che, probabilmente, aveva lui in quel momento.
Non che ci credesse sul serio a certe cose, né si riteneva particolarmente superstizioso…ok, magari evitava di passare sotto una scala o di rovesciare il sale a tavola, ma non lo facevano forse tutti?
«D’accordo» disse, alzandosi. «Ehm, riferirò al mio amico quello che hai detto. Senza tralasciare la parte sulla sofferenza, la morte e la distruzione, ovvio. Quella gli piacerà.»
Margot sorrise con fare enigmatico. «Confido che il tuo amico saprà fare la scelta giusta.»
«Come fai a dirlo?»
«Il Mago.» Margot poggiò l’indice sull’Arcano interessato. «È colui che indaga i grandi misteri dell’universo: chi possiede una conoscenza tale non si lascia ingannare facilmente dalle apparenze.»
L’indovina intrecciò nuovamente le dita e vi poggiò sopra il mento, osservando divertita l’espressione confusa di Jim.
«Perciò, se davvero ritieni che il Mago sia la sua carta buona, non avrà nulla da temere.»


Il taxi ci impiegò più di venti minuti ad arrivare. Jim lo aspettò davanti all’ufficio postale da cui aveva effettuato la telefonata, percorrendo il marciapiede avanti e indietro con le mani in tasca, in lotta tra l’impazienza e la tentazione di tornarsene all’accampamento e non pensarci mai più.
Alla fine, il taxi arrivò e Jim porse all’autista il biglietto ricevuto da Blake, augurandosi che la storia della corsa già pagata non fosse un bluff.
Il tassista mise in moto senza fare domande e prese subito una strada che conduceva fuori città; superarono una landa desolata di binari arrugginiti e fabbriche, dopodiché il paesaggio urbano sfumò nell’indistinta orizzontale delle campagne. Seduto sui sedili posteriori, Jim guardò oltre il finestrino le assolate coltivazioni e i gruppetti di corvi neri appollaiati sui fili del telegrafo e sentì che qualsiasi scrupolo, esitazione o dubbio lo avevano abbandonato gli uni dopo gli altri come orpelli inutili.
L’auto intanto abbandonò la via maestra, per immergersi nell’ombra di un rigoglioso bosco di platani. Una manciata di minuti dopo, frenò davanti a una cancellata in ferro battuto.
«Siamo arrivati, ragazzo» lo informò il tassista. «Tornerò a prenderti fra un paio d’ore.»
Jim scese dal taxi col naso per aria. La monumentale insegna “Winters Plantation”, che torreggiava sulla cimasa, era ormai arrugginita e la W si era staccata.
Si fermò di fronte al cancello, intontito dall’afa e dal tenace frinire delle cicale, ma non sapeva come annunciare il suo arrivo. C’era un campanello, da qualche parte? Oppure doveva mettersi a gridare…?
Non ebbe bisogno di pensarci ulteriormente, perché il cancello si schiuse da solo, emettendo un mesto cigolio. Di fronte a lui, adesso si apriva un lungo viale fiancheggiato da querce maestose.
E così, l’ignara vittima varcò la soglia della casa infestata, pensò trattenendo un brivido. Non cominciavano così tutti i racconti dell’orrore che aveva letto?
Il che, però, solitamente avveniva durante notti buie e tempestose, e non nella piena luce di un languido pomeriggio d’estate. E poi, quanti protagonisti di storie dell’orrore erano pure dei maghi?
Jim prese un respiro profondo, dopodiché, avanzò verso l’ignoto.


https://www.youtube.com/watch?v=4-43lLKaqBQ&ab_channel=TheAnimalsTributeChannel
 

[1] Le Bateleur: Il Mago, prima carta degli arcani maggiori dei tarocchi.
[2] La Maison Dieu : La Torre, è la sedicesima carta degli arcani maggiori dei tarocchi; è conosciuta anche come Il Fulmine.

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Capitolo 7
*** Allievo e maestro ***


 

ALLIEVO E MAESTRO

 
 



La magione dei Winters apparve scenograficamente in fondo al viale: due piani di pietra bianca, un portico sorretto da colonne classiche e una doppia scalinata elegante che conduceva all’ingresso.
Jim si fermò sotto il colonnato, godendosi finalmente la fresca penombra, e notò che la porta era socchiusa.
«C’è nessuno? Sono io… ehm, Jim. Quello del circo.»
Varcata la soglia, si ritrovò in un immenso atrio scarsamente illuminato, con uno scalone monumentale che conduceva ai piani superiori. Attese diversi minuti lì impalato, nella speranza che si facesse vivo almeno un domestico, ma non arrivò nessuno a riceverlo.
Forse sono in anticipo. O forse, Blake aveva dato per scontato che non venisse più e si era trovato di meglio da fare…
All’improvviso la porta si richiuse con un tonfo, strappandogli un’imprecazione e facendolo piombare nel buio assoluto.
Il vento pensò, dandosi della femminuccia.
Un istante dopo, una dopo l’altra, tutte le lampade iniziarono ad accendersi da sole, conferendo all’ambiente una soffusa luce dorata.
Ok. Bel trucco, gli concesse. Era ben deciso a non lasciarsi suggestionare facilmente: se Blake era davvero uno stregone, avrebbe dovuto impegnarsi di più per risultare convincente.
Con gli occhi ben aperti, si mise a vagare per la casa, enorme, deserta e un po’ lugubre, ma decisamente poco magica.
Attraversò un soggiorno bianco provvisto di pianoforte a coda, un salottino con modanature roccocò e lampadari di bronzo, e poi una sala da pranzo su cui oscillava un pesante ventilatore meccanico. Ma non trovò anima viva.
In casa vigeva un ordine maniacale e ogni superficie era tirata a lucido, segno che il proprietario aveva a disposizione come minimo una squadra di domestici. E anche se avesse dato a tutti il giorno libero, allora chi gli aveva aperto il cancello e la porta? Chi aveva acceso le luci?
A un certo punto, si ritrovò in quella che era chiaramente la biblioteca: grande, ariosa, con librerie a vetro e pannelli in legno che si elevavano fino all’altissimo soffitto affrescato. In fondo, c’era un gigantesco camino di marmo, sopra il quale era esposta una spada; una vera spada, con l’impugnatura a croce rivestita da pelle logora e una doppia lama fittamente intarsiata. Di quelle che i cavalieri usavano per uccidere i draghi. O fare altre cose da cavalieri.
Jim si avvicinò per ammirarla, cercando di decifrare i segni incisi nel metallo lucente. E a un tratto, si accorse di essere spiato da un paio di occhi neri e curiosi.
C’era un corvo, appollaiato su un trespolo accanto al camino, bianco come la neve. Jim non lo avrebbe mai notato se non fosse stato a pochi centimetri dal suo becco, perché se ne stava così perfettamente immobile da dare l’impressione di essere impagliato.
«Oh» fece il ragazzo. «Allora qualcuno in casa c’è.»
Il corvo arruffò le penne, senza smettere di fissarlo.
«Tu non sai dirmi che fine hanno fatto tutti, vero?» chiese Jim. In risposta, l’uccello emise un tenue grido e spiccò il volo, andando a posarsi sullo schienale di una delle due poltrone Chesterfield di fronte al camino. Poi gracchiò di nuovo e, con il becco, sembrò volergli indicare di sedersi.
Un pensiero folle ed elettrizzante al tempo stesso gli attraversò la mente. Vuoi vedere che...?
«Signor Blake!» esclamò Jim. «Accidenti, non l’avrei mai riconosciuta!»
Il corvo inclinò la testa da un lato.
«Questo sì che è un bel trucco» disse il ragazzo, ammirato. «Mi piacerebbe impararlo. Mi faccia indovinare: era una specie di test, vero..?»
«Ah, state già facendo amicizia!»
Jim si voltò di scatto. «Gesù!»
«Temo proprio di no» rispose divertito Solomon Blake, apparso in mezzo alla stanza con indosso un completo di cotone blu dal taglio italiano e il bastone sottobraccio. «E non prendertela con Wiglaf se non risponde alle tue domande: possiede molte qualità, eccetto la parola.»
«Io credevo…» Jim si sarebbe volentieri preso a calci. «È che l’altra sera ha detto di essere il Corvo Bianco...»
«Un vecchio soprannome. L’unico corvo qui al momento è Wiglaf, il mio famiglio.»
«Famiglio?»
«Un demone minore.» Blake estrasse dalla tasca un bell’orologio in argento, apribile, assicurato a una catenina, e gli diede la carica. «Possono assumere svariate forme. Gli ho detto di lasciarti entrare, ma spero non ti abbia spaventato: ha il vizio di sbattere le porte.»
Un demone?! «Veramente, pensavo che avrei trovato lei ad aspettarmi.»
Blake distolse l’attenzione dall’orologio e puntò su di lui due occhi incredibilmente azzurri.
«Gli allievi aspettano» rispose, chiudendo il coperchio con uno scatto. «Mai il Maestro. Considerala la tua prima lezione.»
«Ma lei non è il mio Maestro» obiettò Jim. Non ancora, almeno.
«Eppure, sei qui.»
«Potrei essere semplicemente curioso.»
Blake sorrise. «La curiosità è desiderio di imparare. E se posso soddisfarlo, questo fa di me un Maestro e di te il mio discepolo.»
Jim si accigliò. Sbruffone. «Non abbiamo tutti qualcosa da imparare?»
«Alcuni più di altri. Vogliamo continuare a vedere chi abbaia più forte o diamo un senso a questo incontro?»
Jim si sentì arrossire. Con un paio di stoccate, lo stregone gli aveva fatto fare due volte la figura dell’idiota, schernito e messo a tacere.
Lo scrutò a braccia conserte mentre prendeva posto in poltrona; anche ora che lo vedeva bene non riusciva a dargli un’età precisa, poteva averne una qualsiasi tra i quaranta e i sessant’anni. Magari non lo avrebbe definito bello – il suo volto aveva un po’ troppi spigoli e il naso era piuttosto storto, come se fosse rotto – ma nel complesso possedeva un certo fascino, con la sua corporatura slanciata, la riccioluta chioma corvina e i baffi neri e sottili come segni grafici.
«Suvvia, non è il caso di cominciare col piede sbagliato» disse in tono leggero, esortandolo a sedersi. «Mi fa piacere che tu ci abbia ripensato, dico davvero. E poi, fra poco verrà servito il tè.»
Ancora un po’ indispettito, Jim acconsentì.
«Posso chiederle perché si è stabilito qui?» chiese subito dopo. «Con tutte le ville del Garden District…e in centro ho visto alberghi che sembrano regge.»
«Diciamo che avevo un conto in sospeso con i Winters dai tempi della guerra e quando ho visto che la casa era all’asta non ho resistito. E poi sono nato nella campagna inglese: mi piace la quiete e quindici acri di terreno me ne forniscono a sufficienza.»
«Pensavo che avesse lanciato sui Winters una specie di maledizione» disse Jim, un po’ deluso. «Che so, trasformato tutti in scarafaggi e lasciato andare solo il nonno di Donnie per raccontarlo.»
Blake si mise a ridere. «Oh, se lo sarebbero meritato! Ma all’epoca le mie priorità erano altre.»
«Però sarebbe stata una bella dimostrazione di magia.»
«Tu ancora non credi che sia un mago, non è vero?»
«L’ha detto lei, ci sono tanti bravi illusionisti sulla piazza.»
«Quello che voglio insegnarti io non è illusionismo» replicò Blake. «Anche se, per certi aspetti, i nostri ambiti hanno qualcosa in comune.»
«Per esempio?»
«L’ingegnosità.» Blake tornò a sorridergli. «Capirai meglio quando sarà il momento.»
«Quando deciderò se diventare suo allievo?»
«Non lo hai già deciso?»
«Potrebbe farmi vedere cosa sa fare.»
«Potrei, ma lascio ai giullari il compito di esibirsi.»
«Però l’altra sera…»
«Eri nei guai e ho agito di conseguenza. Avrei dovuto mettermi a volare, o lanciare palle di fuoco dalle mani per impressionarti?»
Si stava offendendo. Jim pensò bene alle parole successive: «È solo che… è difficile accettare che esista davvero qualcuno uguale a me.»
In quell’istante si udì un tonfo, poi un altro e Jim sentì il parquet vibrare leggermente sotto i piedi: passi pesanti che si avvicinavano.
«Oh, Valdar» disse Blake. «Giusto in tempo, siamo affamati!»
Quando Jim si volse per vedere con chi stesse parlando gli mancò il fiato.
Sull’uscio della biblioteca era apparso un bestione grosso quanto un armadio, con la pelle di un color verde-grigiastro; la sua testa era calva, le orecchie a punta, e aveva una mandibola eccessivamente sporgente, da cui spuntavano due zannone bianche. Se ne stava immobile con indosso un completo di tweed marrone, reggendo con le grosse mani un carrellino carico di sandwiches e pasticcini, oltre a una teiera fumante e tazzine di porcellana.
«Non hai nulla da temere» disse Blake rivolto a Jim, che era rimasto per metà seduto e per metà in piedi e con la bocca spalancata. «Puoi lasciare tutto qui, Valdar, ci serviamo da soli, grazie.»
Jim si sforzò di tornare composto, ma i suoi occhi continuarono a seguire ogni movimento della creatura. Il mostro, tuttavia, si limitò a lasciare il carrello e fissare il ragazzo con altrettanta diffidenza.
«Questo qui è James Doherty» presentò Blake. «Penso che verrà a trovarci spesso, quindi cerca di farlo sentire a casa.»
Il mostro emise un rauco grugnito, scoprendo ancora di più le zanne, poi se ne tornò da dove era venuto.
Jim si schiarì la gola. Ne aveva sentito parlare, certo, ma non credeva che ne avrebbe mai visto uno da vicino: a differenza della maggior parte dei Dimenticati, non erano creature che si adattavano pacificamente alla vita tra gli umani. «Quello era un…un…?»
«Orco, della stirpe di Grendel per la precisione. È un caro ragazzo, ma non troppo loquace.»
«E come ci è finito un orco a lavorare per lei?»
«Una volta ha cercato di uccidermi.»
Jim era senza parole. «Quindi, lo tiene sotto un incantesimo?»
«Cielo, no!» esclamò Blake, indignato. «Ci siamo fronteggiati, l’ho sconfitto e da allora mi ha giurato eterna lealtà: gli orchi hanno uno spiccato senso dell’onore. Ma non darti pensiero per lui, trascorre quasi tutto il tempo nel seminterrato. Il clima della Louisiana è un po’ troppo soleggiato per i suoi gusti.»
Per Jim era tutto assurdo. «Ma cosa accidenti mangiano gli orchi di solito?» chiese, rabbrividendo al solo pensiero.
«Mangiano noi, se possono» rispose infatti Blake, ridacchiando; versò il tè nelle tazzine e presto si diffuse un intenso profumo di bergamotto. «Ma sono anni che Valdar segue una dieta a base di selvaggina e verdure, il che è stato un toccasana per il suo colesterolo. Gradisci latte scremato con il tè?»
Jim annuì, un po’ stranito. Demoni, orchi…voleva la magia, no? Eccolo accontentato.
Bevvero il tè e Blake lo incitò ad assaggiare qualche dolcetto preparato da Valdar. Con qualche reticenza, il ragazzo ne prese uno di pasta frolla al limone e già al primo morso sia aspettò con terrore di sentire tra i denti un’unghia che scricchiolava o dei capelli umani. Invece era a dir poco delizioso.
«Ora, veniamo a noi» riprese all’improvviso Blake. «Come mai alla fine hai deciso di venire a cercarmi?»
«Ecco» bofonchiò Jim, la bocca piena di pasta frolla. Mandò giù il boccone. «Ehm, forse l’altra sera sono stato un po’ precipitoso. Insomma, mi ha salvato la vita e…»
«Questa non è una risposta.»
Jim esitò. «Perché ho capito che aveva ragione. Potrei migliorare ciò che so fare, dare di più, essere utile alla compagnia…»
«Ancora non mi stai rispondendo con onestà.»
Jim non capiva dove volesse andare a parare. «Sono onesto. Il fatto è che per tutta la vita ho creduto di essere unico, e al circo…non mi fraintenda, voglio bene a tutti lì, ma non credo che capiscano cosa voglia dire avere il potere di fare la differenza e non poterlo sfruttare.»
Blake annuì, gli occhi azzurri che brillavano. «Così va meglio. Quindi, vuoi più libertà e più potere. Non c’è niente di male in questo» aggiunse, quando Jim aprì di nuovo la bocca per ribattere. «Volere di più è nella nostra natura. Il motivo per cui insisto è che per la magia occorrono tre aspetti fondamentali: uno di essi è la Conoscenza e come vedi.» Allargò un braccio verso le librerie. «Qui ne troveresti in abbondanza.»
«Sono tutti libri di magia questi?»
«Filosofia, scienza occulta, alchimia, c’è un po’ di tutto. Ma il sapere da solo non basta. Perché sia efficace, la magia ha bisogno di un quid, di una motivazione: in una parola, di Volontà.»
«E il terzo aspetto?»
«Una predisposizione a cogliere ciò che alla maggior parte degli esseri umani sfugge» rispose lo stregone. «La segreta corrispondenza che lega l’Uno al Tutto. È ciò che distingue quelli come noi dai Mancanti.»
«Cioè chi non pratica la magia?» chiese Jim. «Perché li chiama così?»
«Per convenzione. In tempi remoti qualcuno – un dio o l’evoluzione, poco importa – ha stabilito che fosse necessaria una suddivisione all’interno del creato.»
Jim provò una fitta di disagio; non gli piacevano quei discorsi, soprattutto se fatti in una casa di schiavisti. «Così suona un po’ razzista.»
«Esiste un ordine prestabilito per tutte le cose, non si parla di supremazia di una razza rispetto a un’altra» spiegò Blake. «Ma c’è un motivo se siamo stati perseguitati nel tempo, se ai Mancanti la magia piace solo quando è esibita su un palcoscenico: non possiedono la sensibilità per comprenderla. E quando non si comprende una cosa si finisce per temerla, odiarla. Per questo è bene che i due mondi restino separati.»
«E che mi dice dei Dimenticati?» domandò Jim. «Anche loro rientrano in questo “ordine?”»
Blake sospirò. «I Dimenticati, per quanto mi rincresca, appartengono a un’epoca ormai defunta, in cui uomini e dèi camminavano insieme senza che l’uno superasse l’altro: ma a differenza di noi maghi, non hanno più i mezzi per tenere il passo coi tempi che cambiano.» Fece un cenno verso la porta, da cui poco fa era uscito Valdar. «E per la maggior parte di loro non c’è futuro.»
Con una stretta al petto, Jim pensò ad Arthur: “Quale sfolgorante futuro mi aspetta lontano da qui? Non so niente del mondo, sono nato su questo treno.”
Bevve un altro sorso di tè caldo, riflettendo su quelle parole. Dopo un lungo momento, disse: «Nemmeno mio padre sapeva praticare la magia. E non gli piaceva che io la praticassi.»
«Lo sospettavo. Ma tua madre sì, vero?»
«Sì» confermò piano il ragazzo. «Lei mi incoraggiava, diceva che quelli come noi sono destinati a fare grandi cose. A cambiare il mondo.»
«Pensi che sia vero?»
Jim posò la tazza sul piattino.
«No, penso che si sbagliasse. Non è riuscita a cambiare proprio niente: sì è ammalata come fanno tutti e poi è morta. E…io sono rimasto solo con questi poteri.»
Un’ombra attraversò il volto dello stregone. «Mi dispiace molto. Nessuno dovrebbe subire una privazione simile, soprattutto se così giovane.»
Jim fu scosso da un fremito d’irritazione e distolse lo sguardo. Se c’era una cosa che proprio non sopportava era la compassione. «Allora, la sua offerta è sempre valida? Mi insegnerà la magia?»
«Te la insegnerò» acconsentì lo stregone. «Ma a due condizioni.»
Lo sapevo che c’era la fregatura. «La ascolto.»
«La via della magia è tortuosa» disse Blake. «E per seguirla occorrono passione e sacrificio. Il mondo a cui ti introdurrò è profondamente diverso da quello a cui sei abituato; soprattutto all’inizio non capirai molte cose, altre ti spaventeranno, per questo mi occorre la tua completa e incondizionata fiducia. Credi di potermela offrire?»
Jim sbatté le palpebre. «Tutto qui?»
«Cos’altro ti aspettavi?»
«Non so, un patto di sangue, sacrificare il mio primogenito maschio…»
«Dare fiducia non è cosa da poco» sentenziò Blake, ignorando i suoi tentativi di fare ironia. «Significa che qualunque cosa io di dirò di fare tu la farai, qualunque segreto ti chiederò di custodire non mi tradirai. E se mi occorrerà il tuo aiuto me lo garantirai in qualsiasi momento, senza se e senza ma.»
Jim incrociò le braccia. Posta in questi termini, non sembrava più molto allettante. «Pensavo che sarei diventato un apprendista stregone, non il suo tirapiedi.»
«Tutti devono fare la gavetta. E il prezzo del mio aiuto è questo.»
«E se non mi piacesse quello che mi ordina? Se mi chiedesse di fare del male a qualcuno o di infrangere la legge…?»
«Imparerai che quelli come noi sono al di sopra di certe strutture, ma la decisione spetterebbe comunque a te. Come ho detto, per far magia bene occorre motivazione: non ti obbligherei mai a fare qualcosa che non vuoi. Sappi però che se venissi meno all’accordo anche la nostra collaborazione smetterebbe di esistere con effetto immediato.»
In pratica, un ricatto. «E cosa mi accadrebbe se decidessi di tirarmi indietro?»
«Niente. Ti accompagnerei alla porta e ti augurerei una vita lunga e felice. Lo capirei, credimi, quello che ti sto offrendo non è un dono.»
«Ma ieri ha detto che mi avrebbe reso più potente.»
«E intendo farlo, ma ciò non implica che ti renderò la vita più facile.»
Quella frase gli ricordò quanto detto da Margot durante la lettura dei tarocchi: “Le carte parlano di un viaggio in cui qualcuno ti accompagnerà, ma non posso dire se cambierà la tua vita in meglio.”
Malgrado ciò, Jim non riuscì a trattenere un sorrisetto provocatorio. «Mi lasci indovinare: è uno di quelli per cui i soldi non fanno la felicità, eh?»
«Punti di vista, suppongo. Allora, accetti o no?»
Jim prese qualche minuto prima di rispondere e lo stregone attese senza mettergli fretta. In cosa si stava cacciando, esattamente? Non sapeva nulla di quell’uomo, né delle sue intenzioni.
Inspirò profondamente, mentre percorreva con lo sguardo le pareti rivestite da libri: preziosi tomi rilegati in pelle, coi titoli incisi in maiuscole dorate. Tutto quel sapere proveniva da parti del mondo di cui non conosceva neanche il nome. E sarebbe stato a sua disposizione, se avesse voluto…
“Posso darti la possibilità di spingerti oltre i tuoi limiti, di sperimentare, raggiungere vette che non immagineresti.”
Era ciò che aveva sempre desiderato, ormai non aveva dubbi. Era alla magia che pensava ogni sera prima di addormentarsi, era sempre la magia il suo chiodo fisso qualunque cosa facesse. Ed era stufo marcio di esercitarsi di nascosto, di ritagliare piccoli momenti per coltivare il suo vero talento, come se fosse qualcosa contro natura. Era stufo di dover indossare ogni sera una maschera e quel ridicolo costume da due soldi.
Voleva apprendere, crescere, mettersi in gioco. Sapeva di avere il cervello e la forza per arrivare lontano. Ma valeva la pena donarsi completamente a uno sconosciuto, per quanto affascinante, per ottenere una possibilità simile?
La vera domanda è: chi altro potrebbe darmi una possibilità simile?
«Va bene, ci sto» decise alla fine. «Però…»
«Credevo avessimo stabilito “senza se e senza ma”.»
«Non dipende da me» si giustificò il ragazzo. «Come faccio con il lavoro? Sono ancora il mago di Maurice, non posso mollare tutto. A meno che lei non decida di partire con noi martedì, quando smonteremo…»
Ma Blake stava già scuotendo la testa. «Questo è fuori discussione, ci sono certi affari che mi trattengono a New Orleans.»
«E allora cosa facciamo?» Facciamo… siamo già diventati un “noi”?
Questa volta fu lo stregone a concedersi un momento di riflessione. «Non voglio importi un cambiamento così drastico dall’inizio, ma non vorresti prendere in considerazione l’idea di licenziarti?»
Jim rimase di stucco. «No, io…non posso, mi dispiace.»
«Il signor O’Malley ti tiene vincolato in qualche maniera? Ti ricatta, o minaccerebbe di fare del male a qualcuno a cui tieni se te ne vai?»
«No» rispose lui. «Insomma, non è uno stinco di santo, ma non credo lo farebbe.»
«Quindi, devo dedurre che il vincolo che ti lega alla compagnia sia puramente affettivo.»
Si era aspettato un commento sarcastico, che dicesse che per la magia occorrevano sacrifici e che uno stregone non aveva tempo per certe sciocchezze. Invece, lo aveva detto in tono straordinariamente comprensivo. Jim se ne sentì rincuorato.
«Sono la mia famiglia» rispose, in tutta onestà. «L’unica che ho.»
Lo stregone emise un altro piccolo sospiro. «In tal caso, cercherò una soluzione che metta tutti d’accordo. Appena l’avrò trovata te lo farò sapere. Si è fatto tardi, il taxi è fuori che ti aspetta.»
Si alzò in piedi e Jim, sorpreso, lo imitò quasi di riflesso. Non si era reso conto di quanto tempo fossero rimasti lì a parlare.
«Cosa devo fare ora?» chiese con una certa impazienza, mentre veniva scortato alla porta.
«Nulla, solo aspettare. Mi farò vivo io.»
Quello che dico sempre io alle ragazze, pensò lui, scettico. «Posso parlare a qualcuno di quello che ci siamo detti oggi?»
«Non ti ho confidato nessun segreto mortale. Per ora» aggiunse, facendogli l’occhiolino. «Cena con i tuoi amici, fatti una dormita e non rimuginarci troppo.»
«E qual era l’altra condizione?»
Per la prima volta, fu Blake ad assumere un’espressione lievemente stupita.
«Ha detto di avere due condizioni» spiegò Jim. «Non mi ha detto qual è la seconda.»
Inaspettatamente, lui rise. «Oh, era più un favore personale.»
«Cioè?»
Blake gli tenne aperta la porta, continuando a sorridere. «Brucia quel costume e dacci un taglio con le sceneggiate. Non avrai più bisogno di farti chiamare Khazam.»

 

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Capitolo 8
*** Nuove direttive ***


 

NUOVE DIRETTIVE

 
 



Di una cosa Jim dovette dargliene atto: Solomon Blake era uno che manteneva le promesse. Ed era anche un tipo sbrigativo, visto che si presentò con la soluzione al loro problema esattamente il giorno seguente…
«Vediamo se ho capito» disse Arthur quella mattina nel serraglio, dopo che Jim ebbe finito di aggiornarlo sugli ultimi fatti. «Due tagliagole hanno cercato di annegarti perché uno psicopatico voleva vedere se sei una strega. Poi è arrivato un mago che ti ha invitato a prendere un tè in una ex piantagione, ottenuta non si sa come, dove vive con un corvo demone e un orco maggiordomo.»
«Veramente non ho capito se è un maggiordomo o più un tuttofare…»
«E io vengo a saperlo solo adesso?» s’infuriò Arthur. Infilzò il forcone con cui stava ammassando del fieno. «Cristo, Jim, avrebbero potuto ammazzarti! Perché non sei corso dalla polizia? O da Maurice e Margot? Loro almeno lo sanno?»
Jim emise un profondo sospiro e incrociò le gambe sopra la cassa di legno su cui era seduto, accanto al recinto dei ruminanti. Era lunedì mattina e il circo era chiuso al pubblico; gli uomini erano a lavoro (quelli che ancora lo avevano), i ragazzini a scuola e faceva troppo caldo perché le signore visitassero il serraglio. Gli animali, infatti, erano tutti silenziosi e intorpiditi dalle temperature infernali, nonostante Arthur si fosse assicurato che avessero acqua a sufficienza e un buon ricambio d’aria.
«Non c’è ragione di spaventare gli altri, sono abbastanza in paranoia per la storia degli Accalappiatori. E poi, non credo che dovremo più preoccuparci di Donnie Winters dopo la lezione che gli ha dato Blake.»
Arthur però storse la bocca. «Sarà, ma a me questa faccenda puzza.»
«Perché?»
«Questo Blake ti segue da settimane, sa cose che nessuno dovrebbe sapere e ti ha praticamente imposto di fare tutto quello che ti dice. E per cosa poi? Per insegnarti magie che non sei nemmeno sicuro sappia veramente fare.»
«Non mi ha imposto proprio nulla, vecchio mio. E ha ragione, è ora di imparare a controllare come si deve questi poteri.»
«E credi davvero che possa aiutarti?»
«Conosce un mucchio di cose sulla magia» disse Jim, scrollando le spalle. «Di sicuro molte più di me. E poi, l’hai detto tu che dovevo trovare qualcuno simile a me, no?»
«Ammesso che sia chi dice di essere. Perché non ti ha fatto vedere nemmeno una magia?»
«Perché non gli piace esibirsi.»
«E non ti sembra esattamente ciò che direbbe un imbroglione?»
«Da quando sei così sospettoso?»
«E tu da quando sei così ingenuo?» Arthur, allargò le braccia in un gesto esasperato. «Dovresti sapere che nessuno fa mai niente per niente. È questo che non capisco di Blake: se è ricco e potente come dice, a che gli serve un apprendista? E perché vuole proprio te?»
Jim scacciò via una mosca con la mano. Non ci aveva pensato, né avrebbe saputo spiegare cosa lo attirasse così tanto di quell’uomo. Di certo sapeva come affascinare, con quel suo atteggiamento spavaldo, ai limiti dell’arroganza, ma non si trattava solo di questo: che fosse un vero mago oppure no, per la prima volta in vita sua Jim aveva avuto l’impressione di essere capito. Di non essere trattato come lo trattavano di solito gli adulti. Blake si era rivolto a lui da uomo a uomo, senza paternalismi, o manfrine su cosa fosse giusto e cosa no: la loro sarebbe stata una collaborazione, un affare. Niente di più, niente di meno.
«Lo sai come sono fatti i vecchi» rispose ad Arthur. «Si sentono soli e vogliono qualcuno con cui parlare. Lui poi vive con un orco, chi può biasimarlo?»
«Almeno non ti ha fatto firmare un contratto o roba del genere» sospirò lui, ma poi lo guardò in obliquo. «Giusto?»
«Ora che mi ci fai pensare qualcosa l’ho firmata. Col sangue. Poi abbiamo fatto un balletto in onore di Satana…»
«Piantala di scherzare, questa storia mette già i brividi.»
«Artie, ho tutto sotto controllo. Niente di quello che è successo influirà sulle nostre vite. E poi, pensa a Joel.» Indicò la sua gabbia: all’interno, il povero leone dormiva sul fianco, sfinito dal caldo, e se non fosse stato per il lieve movimento del torace sarebbe sembrato morto. «Forse è la volta buona che riesca a trasformarlo…»
«Trasformarlo in che cosa, un cappotto? Almeno sarebbe utile a qualcosa» disse una voce rauca, che li fece sobbalzare entrambi.
Sinclair, il capo della sicurezza, era appoggiato a uno dei pali di sostegno del serraglio, le grosse braccia pelose incrociate sul petto e una sigaretta accesa che pendeva dall’angolo della bocca.
Un muscolo guizzò sulla mascella di Arthur. «Non sono affari tuoi. E te l’ho detto mille volte che qui dentro non si fuma! Vuoi far scoppiare un incendio?»
In risposta, Sinclair gli soffiò il fumo in faccia. «E io ti ho già spiegato che non prendo ordini da un negretto del cazzo: dovresti starci pure tu in una di quelle gabbie.»
Jim saltò giù dalla cassa, le mani che gli prudevano. «Sinclair, ti avverto…»
«Ah, proprio te cercavo» fece l’uomo, rivolgendogli un ghigno beffardo. «Porta il culo nell’ufficio del Folletto, superstar: sei di nuovo nei guai.»
«Perché, che è successo?»
«Sei tu il mago, chiedilo al Grande Spirito Vattelappesca.»
E se ne andò. I due ragazzi si scambiarono un’occhiata tesa.
«Credi che stesse origliando?» chiese Jim a mezza voce.
«Non lo so, ma è meglio se vai a sentire cosa vuole Maurice» fece Arthur, serio in viso. «Tanto io qui ho del lavoro da fare.»
 

Non era la prima volta che Jim veniva convocato nel vagone della direzione per una lavata di capo, ma non si aspettava tutta quella calca fuori a riceverlo; nani, pagliacci, Frank Otto, i gemelli, Rodrigo, persino quelli della banda. Ed erano tutti intenti ad ammirare una Rolls-Royce Phantom nera, dalla carrozzeria talmente lucida che ci si poteva specchiare.
«Diamine, che gioiello!» sentì commentare Rodrigo, il naso pigiato contro il finestrino. «Deve essergli costata un ojo de la cabeza!»
«Chi pensate sia quel tipo?» chiese invece Vanja, sospettosa.
«Mhmm.» Frank Otto si lisciò i baffoni a manubrio. «Se gira su una di queste, come minimo lavora per Al Capone. O peggio, per il Governo.»
Il mangiafuoco si staccò immediatamente dal finestrino. «Ma noi non abbiamo fatto nada de malo, giusto?»
«Non ne ho idea, ma è parecchio che sono lì dentro.»
Sempre più in allarme, Jim si fece strada fino alla piattaforma posteriore del vagone, seguito dagli sguardi di tutti. Diede due colpi alla porta chiusa. «Maurice, mi cercavi?»
«Entra» gli rispose la voce secca del direttore. Jim deglutì e varcò la soglia.
«Buongiorno, James!» lo accolse una voce allegra. «Sei esattamente la persona che speravo di vedere stamattina.»
Una parte di lui non era sorpresa, ma faceva comunque uno strano effetto vedere Solomon Blake e il Folletto nella stessa stanza: lo stregone vestiva impeccabile come al solito, seduto con le gambe accavallate e le mani poggiate sulla testa di corvo in cima al suo bastone; accanto a lui, rannicchiato in maniera precaria sulla sedia, c’era un omone biondo con indosso un’uniforme da chauffeur nera e un paio di occhialini da sole, così grosso che sembrava occupare l’intero vagone. Da dietro la scrivania invasa di scatole di biglietti e ricevute, invece, O’Malley fumava il sigaro e fissava Jim con occhi ridotti a fessure.
«Perciò è così che stanno le cose» esordì, succhiando una boccata. «C’è un complotto alle mie spalle. E tu, il mio pupillo, mi pugnali proprio come Bruto con Cesare!»
«Cosa?» fece Jim.
«Non fare il finto tonto, razza di ingrato! Cos’è questa storia che vuoi prendere lezioni di magia?»
«Sì, ecco» farfugliò il ragazzo. «Guarda, stavo giusto per parlartene…»
«Non sarà necessario, è tutto molto chiaro!» lo interruppe O’Malley, fuori di sé. «Il direttore cattivo non ti permette di fare i tuoi porci comodi, così ti sei trovato un complice per mettermi fuori gioco!»
«Io…aspettache?!»
«Signor O’Malley, credo che lei mi abbia completamente frainteso» intervenne a quel punto Blake. «Si tratta di una semplice proposta d’affari. Proposta di cui James è del tutto all’oscuro.»
Jim guardò lo stregone. «Di che sta parlando? Quale proposta?»
«Può chiamarla come accidenti le pare!» ringhiò il direttore. «Ma la mia risposta è una sola: no. No categorico. Nemmeno fra un milione di anni cederò il mio circo al primo stoccafisso inglese che passa! Dovrete passare sul mio cadavere.»
«Cosa?» ripeté Jim.
«La sta dipingendo più tragica di quanto sia in realtà» disse Blake, senza scalfire l’atteggiamento diplomatico. «Non voglio che lei o qualunque membro della compagnia perdiate il lavoro. Ma ho concordato con James che avremmo cominciato l’apprendistato il prima possibile e finché sarete in tournée non potrà seguire le mie lezioni. Perciò, visto che non posso obbligarlo a cambiare vita dall’oggi al domani, l’unica soluzione è che siate voi a fermarvi a New Orleans per tutto il tempo che riterrò opportuno.»
La bocca di Jim pendette aperta per alcuni istanti. «Non dirà mica sul serio!»
«Sono serissimo. Ma, come stavo cercando di spiegare al tuo capo, il mio campo è la magia e non me ne intendo di spettacoli; quindi, vorrei che la direzione artistica rimanesse nelle sue sagge ed esperte mani.»
«Ma l’ultima parola spetterebbe comunque a lei» disse O’Malley, gelido.
«Sono i miei soldi» rispose Blake con voce incolore. «Non voglio una percentuale sugli incassi, non ne ho bisogno. Tutto ciò che chiedo è che il circo resti in città il tempo necessario perché James completi la sua formazione magica. Il che per me ha la priorità assoluta.»
Jim era senza parole. Non aveva assolutamente preso in considerazione una possibilità del genere, e adesso tutto ciò che riusciva a fare era guardare Blake, che era la calma fatta a persona, e poi la faccia sempre più paonazza di O’Malley.
Per un lungo momento, nessuno fiatò.
«Questo circo è il mio impero» sibilò infine il direttore. «Non avevo nulla quando sono arrivato in questo Paese e mi ci sono voluti anni per diventare chi sono oggi. Quindi, può ficcarsi le sue sterline lei sa dove e volarsene via sulla sua scopa!»
«Sono venuto in auto.»
«Per me fa lo stesso.»
«Ma non ha ancora ascoltato la mia offerta.»
«Non mi interessa!»
Solomon Blake sospirò, con un velo di impazienza. «Valdar, la valigetta.»
L’energumeno seduto accanto a Blake, che fino a quel momento era rimasto immobile come una statua, si chinò per cercare qualcosa sotto la sedia.
«È sordo? Le ho detto che il circo non è in vendita! Sicurezza!»
Il gigante biondo – nel sentire il nome di Valdar, a Jim per poco non venne un colpo – posò una grossa ventiquattrore di pelle sulla scrivania.
In quel momento, Sinclair aprì la porta. «Ha urlato, signore?»
«Liberami di questi due mentecatti!»
Sinclair si mosse verso Blake. «Sentito? Fuori dalle palle, elegantone. Non costringermi a stropicciarti il vestito.»
A quel punto però si alzò Valdar, che in piedi sembrava sul punto di sfondare il tetto del vagone con la testa; quando fece scoccare le enormi nocche in segno di avvertimento, il capo della sicurezza si immobilizzò.
Intanto, Blake aveva aperto la valigetta, rivelandone il contenuto. Per un attimo, sembrò che il tempo si fosse fermato; O’Malley era congelato, i palmi poggiati sul ripiano e gli occhi spalancati. Anche le bocche di Jim e di Sinclair erano spalancate: nessuno dei tre aveva mai visto così tanti verdoni messi insieme in tutta la loro vita.
«Un milione di dollari in contanti mi è sembrato un prezzo onesto» spiegò Blake. «Ma in fondo la capisco, direttore: questo circo è la sua creatura. Sarebbe come chiedere a un padre vendere il proprio bambino.»
«Be’…» cominciò O’Malley.
Blake richiuse la valigetta e l’incanto si ruppe.
«Scusi se le ho fatto perdere del tempo prezioso.» Si alzò e tese la mano al Folletto, che lo guardò come se non sapesse più cosa fare. «Non mi resta che augurarle buona fortuna. James, mi accompagneresti alla porta?»
Jim, che era rimato imbambolato in disparte insieme a Sinclair, si riscosse subito e lo raggiunse mente attraversava il vagone.
«Pensava davvero di poterla risolvere così?» bisbigliò il ragazzo. «Non avrebbe mai accettato!»
«Ne sei proprio sicuro?»
«Un momento!» urlò O’Malley.
«Tempismo perfetto.» Solomon Blake si voltò con aria innocente. «Sì?»
O’Malley si era trasformato, seduto composto dietro la scrivania con le dita intrecciate e un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. «Che fretta c’è di salutarsi, mio buon amico? Lasci almeno che le offra una tazza di tè!»
 

Neanche mezz’ora dopo, il direttore annunciò una riunione straordinaria.
«Venite tutti qui, per favore! Avvicinatevi, avvicinatevi!» tuonò, sporgendosi dalla ringhiera del vagone; artisti e operai si ammassarono immediatamente, scambiandosi occhiate perplesse.
«Ho una grande notizia da darvi!» proseguì O’Malley allegramente. «Qualcuno lassù ha esaudito le nostre preghiere: da oggi, il circo ha un benefattore!»
Jim vide le sopracciglia di Vanja e Wilhelm Svanmör sollevarsi in sincrono, mentre un chiacchiericcio teso iniziava a diffondersi tra la folla.
«Lui.» Come un prestigiatore estrae un coniglio dal cilindro, così O’Malley allungò un braccio e trascinò Solomon Blake fuori dal vagone. «È Mr. Blake, il nostro nuovo impresario.»
«Cioè, adesso lavoriamo per questo qui?» chiese dubbioso un nano. Il vocio della folla si fece concitato. A Jim si annodò lo stomaco.
«No no, mio piccolo amico!» rise bonario il direttore. «Diciamo che questa nave ha due timonieri ora, non è vero Mr. Blake?»
Lo stregone annuì brevemente, evitando gli sguardi di tutti. Tutt’a un tratto non sembrava avere più molta voglia di essere lì.
«Che ne sarà dei nostri contratti?» domandò Wilhelm. «Dovremo rifare le selezioni? Per vedere chi è dentro e chi è fuori?»
«No, niente del genere! Tutto resterà esattamente com’era» assicurò O’Malley. «L’unico cambio di programma è che prolungheremo la nostra sosta a New Orleans un po’ più del previsto.»
«Interromperemo il tour?» esclamò Frank Otto. «Così, all’improvviso?»
«Ma abbiamo già dato la caparra per Tallulah» intervenne il lanciatore di coltelli, Antonio. «Mandato in stampa i manifesti…»
«E ordinato le derrate, la carne, il foraggio…»
«Così i Fox Brothers ci soffieranno la piazza!»
«Come recupereremo quei soldi?»
«Non ne avremo più bisogno! Ripeto: i nostri problemi finanziari sono risolti.»
«Non ho capito» gracchiò Ernie, il vecchio bigliettaio. «Chi è che si ferma?»
La compagnia non sembrava per nulla convinta e le proteste continuarono a fioccare a gran voce. Così, O’Malley pensò bene di passare la patata bollente al suo nuovo socio: «Ma adesso…lascio a Mr. Blake il compito di spiegarvi meglio.»
Jim ebbe l’impressione il suo atteggiamento spavaldo avesse ceduto posto a qualcosa di simile all’imbarazzo; lo vide estrarre l’orologio da taschino, rigirarselo tra le dita, controllare l’ora e poi dargli la carica. Il tutto sotto lo sguardo carico di aspettative della compagnia.
«Bene.» Si schiarì la voce e rintascò l’orologio. «Salve, brava gente. Il mio nome è Solomon Blake e sono uno stregone. L’Arcistregone dell’Ovest, per l’esattezza.»
Parecchie mascelle cedettero dallo stupore. Blake prese un altro bel respiro. «So che tutto questo deve sembrarvi strano e comprendo benissimo i vostri dubbi: siete girovaghi, di certo non sarà facile abituarsi alla vita sedentaria. Ma vi prometto che non avrete nulla da temere: conserverete il vostro lavoro e sarete regolarmente stipendiati. E potrete decidere di sfruttare questa sosta come meglio riterrete opportuno. Non sono un esperto, perciò qualsiasi decisione in ambito artistico verrà presa in accordo con il signor O’Malley, rivolgetevi pure a lui per qualsiasi richiesta e provvederà a informarmi. Finché il circo sarà sotto la mia responsabilità, non vi farò mai mancare nulla.»
Il discorso sembrò rincuorare un po’ gli animi. Qualcuno in fondo alzò la mano. «Io avrei una domanda.»
«Ma certo, prego.»
Arthur King si fece largo tra gli operai e si piantò di fronte allo stregone; lanciò prima occhiata all’indirizzo di Jim, poi attaccò: «Gli animali non sono abituati a queste temperature, orsi e yak stanno soffrendo il caldo. In più, tra poco comincerà la stagione degli uragani: rimarremo fermi anche quando inizieranno le piogge? Perché non so se lo sa, ma qui nel Sud l’estate piove. E tanto.»
«Il clima non sarà affatto un problema.»
«Perché ha preso un diploma in danza della pioggia, immagino.»
«King!» lo fulminò O’Malley. «Sta’ al tuo posto, al signor Blake non interessano le tue stupide osservazioni!»
«No no, ha ragione» replicò invece lo stregone con calma. «Non esiste un diploma specifico, ma la magia elementale è materia che conosco sufficientemente bene. E presto il tuo amico James mi aiuterà gestire anche questo aspetto, una volta studiato un pochino.»
Jim si stava giusto chiedendo quando lo avrebbero tirato in ballo e desiderò con tutto il cuore di aver già imparato a smaterializzarsi; offrì comunque ad Arthur un sorrisetto complice, che però l’amico non ricambiò.
«Molto bene» si limitò a rispondere.
«Allora la seduta è tolta» concluse O’Malley, battendo le mani. «Tornatevene tutti alle vostre faccende, su su!»
Mentre la folla si disperdeva, Jim corse dietro ad Arthur, che aveva già imboccato la strada del serraglio.
«Artie, aspetta! Io non ne avevo idea, credimi. Se avessi saputo…»
«Cosa? Hai ottenuto quello che volevi, no?» rispose Arthur. «Adesso siamo tutti di proprietà del tuo nuovo amico, i suoi giocattoli.»
«E dai, hai sentito Maurice, non cambierà niente.»
Arthur arricciò le labbra e guardò oltre le spalle di Jim: Blake era rientrato nell’ufficio di O’Malley, probabilmente per sbrigare le ultime pratiche per il passaggio di proprietà. «No, invece. Questo cambierà tutto.»

 

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Capitolo 9
*** Lezioni di magia ***



LEZIONI DI MAGIA





Jim se ne stava seduto al centro del palco nella Grotta delle Meraviglie, solo e immusonito, a esercitarsi negli impalmaggi con la sua moneta; Arthur era tornato al lavoro, ma alcuni membri della compagnia si erano trattenuti in gruppetti a discutere sulla decisione del direttore:
“Avrebbe potuto almeno consultarci!” si era lamentata Vanja Svanmör, inviperita. “Lavoriamo per lui da anni, il nostro parere non conta nulla?”
“E poi, che ne sa quello spilungone lì di vita da circo? È un fermo!”
“Mi auguro che il Folletto sappia quello che fa.”
A quel punto, avevano cominciato a bombardare Jim di domande: come aveva conosciuto Blake? Era davvero uno stregone? E soprattutto, ci si poteva fidare di lui?  Il ragazzo aveva cercato di rispondere a tutti pazientemente, ma a una certa si era stufato di essere messo sotto torchio e si era trovato un posto tranquillo dove riflettere.
I lembi dell’ingresso si scostarono piano, lasciando entrare un ventaglio di luce.
«Finalmente ti ho trovato.»
Solomon Blake avanzò silenzioso tra le sedie disposte ordinatamente fino al palco, con Wiglaf, il suo corvo-demone albino, appollaiato sulla spalla. «Devo ammettere che questo posto ha un aspetto diverso senza quella folla di scalmanati: dovresti selezionare il tuo pubblico invece che cercare di attirare quanta più gente possibile.»
Si chinò per raccogliere un finto rubino da una cesta e lo esaminò da vicino. «Del resto, la magia non è per tutti.»
«È venuto a ricordarmi quanto faccia schifo il mio show?» borbottò Jim, restando sulle sue. «O per riscriverlo completamente, visto che adesso è il mio capo?»
«No, volevo invitarti a pranzo per discutere del tuo programma di studi: prima cominciamo e prima potrete ripartire. Ci stai?»
Come se avessi scelta.
Jim intascò la moneta con un sospiro. «Ok.»
Riattraversarono il campo, accompagnati dagli sguardi torvi dei dritti. Almeno per una volta, pensò Jim, artisti e operai avevano trovato qualcosa in comune: la diffidenza verso l’intruso che era piombato nel loro piccolo mondo, turbandone gli equilibri.
Si sforzò comunque di ignorarli e seguì Blake fino alla sua vettura, dove li attendeva l’enorme chauffeur biondo; aprì la portiera posteriore per lo stregone e la richiuse dietro Jim. L’abitacolo era foderato in pelle e legno lucido, e odorava di nuovo.
«Il suo amico è lo stesso Valdar che ho incontrato ieri?» domandò Jim, mentre il gigante prendeva posto al volante e le sospensioni dell’auto gemevano sotto il suo peso.
«Ho applicato su di lui una trasfigurazione momentanea» spiegò lo stregone, lisciando distrattamente le piume sul petto di Wiglaf. «Volevo un arrivo discreto.»
«Discreto?» ripeté Jim. «Cazzo, poteva chiamare una fanfara già che c’era!»
«Mi pare di cogliere una certa ostilità da parte tua.»
Jim inspirò profondamente; intanto, la Rolls-Royce aveva lasciato il piazzale, sollevando una gran nuvola di polvere.
«Non lo può fare, ok? Non può arrivare qui con la sua auto di lusso e la sua valigia piena di soldi e sconvolgere la vita a tutti!»
«A me non sono sembrati così sconvolti.»
«Rodrigo è rimasto nascosto tutto il tempo, credeva fosse dell’ufficio immigrazione! Sono tutti arrabbiati perché di punto in bianco è arrivato lei a dettare ordini, e indovini a chi danno la colpa?»
Il corvo sulla spalla di Blake fece schioccare il becco, infastidito dal suo tono di voce eccessivamente alto.
«Mi hai chiesto di non separarti dalla compagnia» ricordò lo stregone. «Ogni scelta che compiamo porta con sé delle conseguenze. Così è anche nella magia, è bene che tu lo tenga sempre a mente.»
Jim trattenne a stento la collera. «Perciò, era il suo modo contorto di darmi una lezione?»
«Era l’unica strada percorribile» ribatté Blake, con voce ferma. «I tuoi amici sono troppo orgogliosi per ammetterlo, ma avevano bisogno di quel denaro: in questi quattro giorni non siete riusciti a coprire neanche la metà di quanto avete speso e il direttore ha un sacco di debiti. Certo, potrebbe stare alla larga dal gioco d’azzardo e dal whisky per un po’, ma sappiamo entrambi che non lo farà.»
«Questo non le dà il diritto di immischiarsi!» sbottò il ragazzo. «Non ci serve la beneficenza.»
«Forse, ma a te serve un’istruzione. E non ho obbligato il signor O’Malley ad accettare.»
Jim sbuffò. «Maurice per i soldi farebbe qualunque cosa: a nove anni ha cercato di rifilarmi a una coppia a cui era scomparso il figlio per intascare la ricompensa. Ed erano cinesi!»
«Tutti abbiamo una leva, e il tesoro è e sarà sempre la leva di ogni folletto: non giocare questa carta a nostro vantaggio sarebbe stato da sciocchi.»
«A suo vantaggio, vuole dire.»
«Non capisco dove sia il problema» disse lui, assumendo stavolta un tono leggermente piccato. «Sono ricco, la mia famiglia lo è da generazioni. Ma da dove provengo, il denaro non ha alcun valore; perciò, se posso aiutare qualcuno che ne ha più bisogno sono ben lieto di privarmene. E poi, hai promesso di fidarti di me.»
Jim non trovò argomenti validi con cui ribattere e rivolse l’attenzione fuori dal finestrino, chiudendosi in un silenzio ostinato. Con la coda dell’occhio, vide che Blake stava rovistando sotto la giacca.
«Come prova delle mie buone intenzioni» disse, allungandogli una scatolina di velluto nero.
Jim aggrottò la fronte. «Che cos’è? Un regalo?»
«Una specie.»
Il ragazzo sospirò ancora, ma accettò quel segno di pace; portare il broncio non avrebbe risolto niente. Quando aprì la scatolina, però, rimase interdetto. «È un anello.»
«Non è di tuo gradimento?»
«Non starà correndo troppo? Ci siamo appena conosciuti…»
«È un Vincolo» spiegò lo stregone. «Di amicizia e lealtà reciproca: sei il mio protégé adesso ed è bene che tutti lo sappiano.»
«Tutti chi?»
«Chiunque: cacciatori di streghe, demoni, altri stregoni. Te l’ho detto, quelli come noi non giocano secondo le regole dei Mancanti: se uno stregone è nei guai non si rivolge certo alla polizia.»
Jim prese l’anello e se lo rigirò tra le dita; era d’argento brunito, pesante, scolpito a forma di zampa di uccello. Di artiglio.
«E portare questo mi garantirà protezione?»
«Finché non sarai in grado di garantirtela da solo.»
«E quelli del circo?» Jim sollevò lo sguardo. «La protezione vale anche per loro?»
«Non potevo assicurarmi che ne indossassero uno in ogni momento: il contratto firmato da O’Malley ha la stessa valenza. Questo ti fa sentire meglio?»
Jim preferì non dare voce ai suoi pensieri. Ricordò la minaccia ai Winters: “Il Corvo Bianco tornerà a farvi visita.”
Occhio per occhio. Non era il modo in cui si esprimevano in genere gli insegnanti. Era il gergo dei gangster, quelli in completi gessati armati di mitra. E gli stregoni? Era fatto così anche il loro mondo? 
In cosa mi sto invischiando? Infilò l’anello.
«Passiamo a un’altra questione» riprese Blake. «Anche se avrei preferito risolvere tutto oggi: domattina Valdar ti riaccompagnerà al treno, così potrai preparare i bagagli.»
«Quali bagagli?»
«Per il tuo trasferimento alla magione, naturalmente. Porta solo gli affetti personali, troverai tutto ciò che ti occorre…»
«Non ha detto che dovevo venire a stare da lei!»
«Credevo fosse implicito.»
Il ragazzo serrò le braccia al petto. «No.»
«“No” cosa?»
«Non mi traferirò alla magione. Quel posto mi mette l’ansia e…e poi non riesco a dormire in un letto diverso dal mio. Ho bisogno della mia cabina, dei cigolii del treno.»
Lo sguardo di Blake fu attraversato da un lampo di contrarietà. «Le lezioni si terranno alle otto in punto: hai tanto da recuperare e poco tempo a disposizione. Vuoi davvero che Valdar ti passi a prendere tutte le mattine?»
«Verrò da solo e sarò puntuale.»
«È una bella sfacchinata a piedi.»
«Antonio ha una bicicletta, gliela chiederò in prestito.»
Lo stregone tirò su col naso, palesemente risentito; estrasse di tasca l’orologio e, come aveva fatto prima di fronte alla compagnia, aprì il coperchio e gli diede la carica. Jim iniziava a sospettare che fosse una specie di tic nervoso.
«Otto in punto» decretò infine, richiudendo il coperchio col pollice. «Un secondo di ritardo e ti materializzo direttamente in biblioteca, che tu sia presentabile o no.»
 
 
Arrivati alla tenuta, Valdar si ritirò nel suo seminterrato, mentre Blake condusse Jim in biblioteca; mentre riattraversavano le sale, vuote e malamente illuminate della grande casa, il ragazzo si accorse di un dettaglio che il giorno prima gli era sfuggito. «Dove sono finiti tutti gli specchi?»
Indicò la tappezzeria vittoriana del corridoio, dove era ben visibile l’alone più scuro lasciato da una cornice ovale. «Li ha tolti lei?»
«Sì.»
«Non sarà mica un tipo superstizioso.»
Blake assunse un’espressione difficile da decifrare. «Sono oggetti poco affidabili, non prestarci attenzione.»
Jim non capì cosa volesse dire, ma per il momento lasciò cadere la questione.
In biblioteca, trascorsero circa un’ora a parlare di libri: Jim si era aspettato una certa mole di studio, ma di fronte a quella torre di volumi, grossi come enciclopedie, che lo attendeva sul tavolo, si sentì svenire.
«Glossario alchemico di primo livello» lesse, sfogliandone uno, e poi ancora: «Effemeridi e mappe celesti, Introduzione alle rune …ma a che serve questa roba?»
Lo stregone lo raggiunse con altri libri sottobraccio.
«Serve a capire il “cosa”, il “come” e il “perché”: solo quando avrai appreso in che maniera opera la magia potremo concentrarci sulla pratica.»
«Però finora ci sono riuscito anche senza» obiettò Jim con aria astuta. «Potremmo saltarla quella parte…»
«No, tu finora hai improvvisato: fai cose a caso finché non succede qualcosa. I maghi non agiscono così, non gettano in aria una moneta sperando che non distrugga loro stessi e l’intero universo.»
Blake batté una mano sulla pila. «Studierai i fondamenti del pensiero magico e gli archetipi su cui si regge la realtà. Ti spiegherò come interagiscono tra di loro e in che maniera un mago interviene per manipolarli. Alla fine, redigerai una relazione. Per iscritto» aggiunse, e tutto l’entusiasmo di Jim si sgonfiò all’istante come un sufflè.
Ma Blake non aveva preparato per lui solo una montagna di libri da studiare. Gli fece trovare un set completo di pennini, inchiostri e persino acquerelli; poi, gli diede un baule composto da un mucchio di scomparti e cassetti, contenente ampolle e barattoli simili a quelli impiegati da Margot per i suoi unguenti. C’erano anche un mortaio, una coppa d’argento, un quaderno rilegato in pelle nera e…
«Mio Dio!» Jim estrasse un coltello dall’impugnatura in osso e una lama che misurava metà del suo avambraccio. «E questo cos’è?!»
«È un athame, un pugnale rituale.»
«Un momento, qui nessuno ha parlato di pugnalare la gente!»
«Infatti non pugnalerai proprio nessuno» disse Blake con un sospiro paziente. «L’athame non serve per colpire o tagliare, ma per dirigere le energie.»
«Perciò, niente sacrifici» chiarì Jim, per essere sicuro. «Niente rapimenti di neonati o cannibalismo…»
«Per l’amor del cielo!» esalò lui, levando gli occhi al soffitto. «Dimentica tutte le assurdità che hai sentito sulle streghe: la magia moderna ha abolito i rituali legati al sangue da molti secoli.»
Ripose il coltello e tirò invece fuori il quaderno nero. «Questo qui è il vero pezzo forte: il tuo primo grimorio. Ne terrai diversi durante la vita, dove segnerai i tuoi progressi, le osservazioni sulla natura e sugli incantesimi che man mano imparerai. E quelli che inventerai, se ci riesci.»
«Cioè come in un diario?»
«Se vogliamo. I più importanti testi su cui si basa la nostra letteratura non sono che grimori appartenuti a stregoni sapienti. Opportunamente revisionati, s’intende.»
«E quindi un giorno qualcuno potrebbe imparare da quello che io scriverò oggi?» chiese Jim, scettico.
«Perché no? Per i maghi ogni mente è preziosa: anche un semplice discepolo può apportare qualcosa di nuovo alla tradizione.»
 

Blake tenne lezione per le successive ore, mentre Jim prendeva appunti sul suo grimorio, sforzandosi di capirci qualcosa. Gli sembrava tutto enormemente difficile e lo stregone dava per scontate un mucchio di cose che fino a quel momento aveva ignorato: termini mai sentiti, postulati che andavano contro ogni legge fisica. Alla fine della mattinata, riuscì a riempire una mezza paginetta di frasi sconnesse e aveva l’impressione che gli fosse rimasto solo un gran mal di testa e una fame da lupi.
Il pranzo fu servito nella sala col ventilatore meccanico, illuminata malamente da una lunga fila di candelabri; a Valdar, spiegò Blake, dava fastidio la luce elettrica.
Non appena ebbero preso posto, l’orco comparve sulla soglia spingendo un carrello, di nuovo nel suo aspetto mostruoso. Jim si sforzò di restare impassibile mentre la creatura posava, con tutta la delicatezza in suo potere, i piatti di porcellana a tavola: frittelline di baccalà in salsa piccante, minestra di piselli servita con crostini di pane e prezzemolo, trota al forno con le patate. Il ragazzo non poté non rimanere ammirato da tanta maestria, ma il fatto che lo chef fosse rimasto immobile alle sue spalle a fissarlo lo stava facendo sudare freddo.
«Ehm, grazie Valdar.» Azzardò un sorriso. «Sembra tutto squisito!»
L’orco emise un grugnito sdegnato e passò a servire lo stregone; Blake ringraziò sommessamente, poi infilò una mano sotto la giacca e ne estrasse una boccetta trasparente a forma di prisma, con all’interno uno strano liquido nero come benzina. Bevve una lunga sorsata, trattenendo a stento una smorfia, e Jim ipotizzò potesse trattarsi di una qualche medicina. Valdar, intanto, dopo averlo fulminato con un’altra occhiataccia, fece un inchino e lasciò la stanza.
«Ma che problemi ha quel tipo?»
«Dagli un po’ di tempo» disse lo stregone, versandosi dell’acqua. «È strano per lui avere ospiti, deve solo abituarsi alla tua presenza.»
«Perciò siete sempre stati solo voi due?»
Lui posò la caraffa, e una strana malinconia gli velò lo sguardo. «Ultimamente.»
Non sembrò intenzionato ad aggiungere altro, così Jim scrollò le spalle e si concentrò sul pranzo.
E lì iniziò il dramma: cosa cavolo doveva farci con tutte quelle posate? Ce n’erano decisamente troppe, con forme strane, in argento e con la svolazzante “W” di Winters incisa sui manici.
Blake si accorse che era in difficoltà e sorrise con divertita indulgenza. «Dall’esterno verso l’interno» suggerì. «Il cucchiaio sempre nella mano destra, la forchetta piccola e il coltello a spatola per il pesce. Oh, e il posto dei gomiti non è sulla tavola: non siamo selvaggi.» 
Tutto sommato non se la cavò male, anche se la trota lo mise a dura prova con tutte quelle lische. Arrivati al dessert, il ragazzo domandò:
«Prima ha detto che ci sono altri stregoni, perché allora non ne ho mai incontrati?»
Blake bevve un sorso d’acqua prima di rispondere. «La maggior parte di loro ha rinunciato da tempo a convivere pacificamente coi Mancanti, ecco perché.»
«Perciò che fanno, si nascondono?»
«Non proprio» tergiversò lui. Prese un’altra breve pausa. «Esiste un luogo, fondato mille anni fa per tenere al sicuro la nostra gente e il suo sapere.»
«Un momento, quindi c’è una specie di…regno dei maghi?» La rivelazione per Jim fu a dir poco scioccante.
«Non un regno. Una città.»
«Sul serio?! E dov’è?»
«Non sulle mappe comuni» rispose lo stregone, laconico. Ma ormai aveva risvegliato la curiosità di Jim, che lo guardava con tanto d’occhi, e fu costretto a continuare: «Tra le Alpi svizzere, al centro del cosiddetto Triangolo bianco[1]Il suo nome è Arcanta, la Città Nascosta.»
«E i Mancanti lo sanno?»
«Lo sospettano. Arcanta nacque principalmente per impedire ai Mancanti di distruggere ciò che rimaneva della conoscenza magica: quando il Nuovo Credo si impose sul Vecchio Mondo, templi, accademie e biblioteche pagane vennero dati alle fiamme, chi praticava la magia bandito o trucidato. Perciò, sotto la guida di tre illustri maghi, i Fondatori, la nostra gente cercò un posto sicuro, un luogo dove la magia potesse essere esercitata ancora in libertà e sicurezza.
Da allora, gli esoteristi di tutto il mondo si sono avventurati alla sua ricerca, da Cagliostro ad Aleister Crowley, ma nessuno l’ha mai trovata: Arcanta è protetta da antichi incantesimi e l’accesso è consentito solo ai veri maghi, naturalmente.»
«Lei viene da lì?»
«Ci ho vissuto per un po’.»
«Non riesco proprio a immaginare un posto del genere!» ammise il ragazzo, emozionato. «Mi ci porterà un giorno, vero?»
«Forse» rispose Blake, lentamente. «È passato del tempo dall’ultima volta che ci sono stato.»
Jim avrebbe voluto chiedergli come mai, ma aveva notato che lo stregone diventava evasivo sulle informazioni che lo riguardavano strettamente.
Infatti, cambiò subito argomento: «Ci sono un paio di altre questioni da chiarire prima di cominciare l’apprendistato. Innanzitutto, sappi che esigerò sin da subito molto da te. Come ti ho detto, hai tante cose da imparare in poco tempo; quindi, non ammetterò negligenze. Mi sono spiegato?»
Jim annuì senza esitazione: in altre circostanze, non avrebbe tollerato una simile presa di autorità da parte di un tizio che conosceva appena, ma il mondo che gli aveva aperto si presentava troppo vasto e strabiliante e non aveva intenzione di lasciarselo sfuggire.
«Secondariamente, mi aspetto che tu sia in grado di gestire il tuo tempo e la mole di studio in maniera autonoma» proseguì. «Come ti ho accennato, ci sono certi affari che mi terranno impegnato e potrà capitare che mi assenti qualche giorno: starà a te portarti avanti col lavoro. Le stanze al pianterreno e la biblioteca saranno sempre a tua disposizione, a qualsiasi ora, così come il giardino d’inverno e il laboratorio di alchimia…»
«C’è anche un laboratorio?!»
«Ti fornirò una piantina. A tal proposito, l’ala ovest della casa è inagibile… per via di un esperimento non andato a buon fine.»
«Che tipo di esperimento?»
«Nulla di grave, ma è meglio se ne stai alla larga. Per sicurezza.»
«Credevo che gli stregoni non commettessero mai errori» commentò Jim, non senza ironia.
Stavolta, invece di indispettirsi, Blake sogghignò: «Oh, li commettono eccome. Ma la maggior parte delle volte, cercano di farlo con stile.»

 
 

[1] Triangolo magico formato da Lione, Torino e Praga.

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Capitolo 10
*** Come il Fuori così il Dentro - PRIMA PARTE ***


 
 

COME IL FUORI COSÌ IL DENTRO – PRIMA PARTE

 



Se Solomon Blake era un uomo di parola, Jim non aveva intenzione di dimostrarsi da meno; ogni mattina si svegliava all’alba, rubava una brioche alla tenda della mensa e la trangugiava mentre pedalava per circa due chilometri fino alla piantagione, riuscendo ad arrivare in tempo per le lezioni già sudato e col fiatone.
Era la prima volta che sperimentava qualcosa di simile alla scuola; sua madre aveva iniziato a insegnargli a leggere alla fattoria, ma poi era entrato nella compagnia, e se non fosse stato per Joel King, che interrogava ogni giorno lui e Arthur su tabelline e frazioni, o per i libri che gli forniva Margot, sarebbe rimasto pressoché analfabeta, visto che al direttore della sua istruzione non fregava proprio niente.
Per fortuna, Jim imparava in fretta ed era un assiduo divoratore di storie: amava in particolare le biografie dei grandi uomini del passato, voleva sapere tutto su di loro, aneddoti, curiosità, cosa li avesse resi tanto straordinari. Aveva così imparato che Alessandro Magno aveva conquistato parte dell’Asia a soli trent’anni, che Leonardo da Vinci scoprì il funzionamento del cuore umano dissezionando cadaveri, o che Napoleone fuggì dal suo esilio durante un ballo in maschera.
Non aveva idea, però, che l’alchimia fosse nata in Egitto, o che i più antichi magi fossero originari della Persia. Non conosceva i Sette Principi Ermetici, né la differenza tra teurgia e goetia. E di sicuro non aveva mai studiato la Cabala.
Nonostante fossero appena agli inizi, Blake non ci andò per nulla leggero con lui: alternava lunghe digressioni storiche a complesse nozioni di teoria magica, ma non tornò più sull’argomento Arcanta, né accennò qualcosa del suo passato o sui motivi che lo avevano portato a New Orleans. L’unica cosa che al momento sembrava chiara era che quella che i più chiamavano volgarmente “magia” – anche se Blake preferiva il termine “scienza occulta” – era manipolazione della materia ai suoi livelli più elementari:
«Ogni cosa nel mondo può essere scomposta infinite volte» gli spiegò un giorno, tracciando sulla lavagna due cerchi concentrici. «Ciascuna componente è sia un “Uno” a sé stante che una parte del “Tutto”: tra essi esiste un dialogo continuo, basato sulla Reciprocità e sulla Somiglianza.»
Il Tutto continuava a ricorrere in qualsiasi argomento trattassero, ma Jim non credeva di aver afferrato con esattezza cosa fosse. Blake ne parlava come una sorta di energia allo stato di potenza: era ovunque, sia negli oggetti inanimati che negli esseri viventi. Ed era proprio questa energia a conferire ai maghi i loro poteri...
«Un mago interagisce col Tutto tramite la propria Volontà» proseguì. «E per Volontà non intendo uno sforzo: vedila più come una calma determinazione.»
Si parlava sempre e solo di questo: ogni cosa era parte del Tutto e non poteva esserne separata, e fin qui tutto ok, ma poi Jim iniziava a perdersi, perché, se ogni “Uno” era legato al Tutto tramite un’innata Somiglianza sostanziale, era pur vero che se ne distingueva per una Differenza di tipo formale...inoltre, tramite la Volontà, uno stregone condizionava il Tutto, ma per farlo era necessario abbandonarsi a esso. Abbandonarsi a qualcosa per controllarla. A Jim sembrava più che altro una mera contraddizione e che non avesse il minimo senso.
Con sua meraviglia, però, presto si rese conto che l’addestramento non si sarebbe incentrato solo sullo studio. Di fare incantesimi ancora non se ne parlava, ma in compenso Blake cominciò a testare la sua resistenza fisica; Jim era rimasto spiazzato quando una mattina gli aveva chiesto di correre nel parco, oppure di mettersi a fare le flessioni.
«La magia scorre forte solo in chi è forte» disse, quando Jim cominciò a lagnarsi. «Corpo e mente sono interconnessi: non potrai sperare di padroneggiare il tuo potere se prima non riuscirai a controllare perfettamente ogni parte di te.»
Jim lo trovava assurdo e in più si sentiva decisamente fuori forma: era sempre stato smilzo di costituzione, senza contare che le sigarette, gli alcolici, uniti a una dieta non proprio equilibrata, non lo avevano certo aiutato negli anni. Infatti, dopo neanche cinque minuti di corsetta attorno alla proprietà, era già al collasso.
Ma l’umiliazione più grande arrivò quando Blake volle vedere come se la cavava a fare a botte.
Almeno su quello Jim era sicuro di essere ferrato, d’altronde quando si cresce in un circo presto o tardi arriva per tutti il momento di imparare a prenderle e a darle. Così, quando Blake gli chiese, con la tranquillità di chi si informa sui suoi programmi per il sabato sera, se gli andasse di tirargli un pugno, Jim si dimostrò riluttante: non aveva mai alzato le mani su un anziano e lo stregone non sembrava un tipo muscoloso. Ma di fronte alla sua insistenza, dovette eseguire.
La prima cosa che imparò quel giorno fu che non aveva mai saputo tirare correttamente un pugno. La seconda fu che esistevano almeno dieci modi diversi in cui Blake poteva metterlo al tappeto senza usare una stilla di magia.
«Si chiama bartitsu» spiegò, mentre Jim era ancora a terra che gemeva. «Una disciplina marziale che combina pugilato, Jujitsu e box francese.»
«Mi dice che senso ha tutto questo?!» esplose a quel punto il ragazzo, furibondo e dolorante. «Sono venuto da lei per imparare nuove magie, non per prepararmi alle Olimpiadi e tanto meno per farmi malmenare!»
«La magia non potrà venirti sempre in aiuto» lo rimbeccò Blake, incrociando le braccia al petto. «È importante che impari a difenderti anche senza: cosa farai la prossima volta che ti bloccheranno le mani? E se ti trovassi di fronte un mago troppo potente? Devi essere sempre padrone della situazione, qualunque cosa accada.»
Da allora dedicarono almeno un’ora al combattimento corpo a corpo tutte le mattine; Blake lo costringeva a cadere, a parare calci e pugni senza sosta, finché Jim non implorava pietà. Allora, si trascinava in bagno per rinfrescarsi e subito dopo in biblioteca, dove lo attendeva una torre di libri sempre più alta.
«Devo preoccuparmi?» gli chiese una sera Arthur, quando lo vide tornare all’accampamento coperto di lividi.
Jim cercava sempre di sdrammatizzare, ma la verità era che da settimane aveva il morale a terra; era così malridotto che preferiva cenare nella sua cabina lontano dagli sguardi degli altri, e così stanco che spesso crollava sul letto a digiuno.
Giugno passò in fretta, ma Jim non aveva l’impressione di aver fatto chissà quali progressi; ogni volta che Blake lo interrogava sembrava incapace di elaborare un discorso di senso compiuto, al che lo stregone assumeva un’espressione delusa ed erano costretti a ripetere l’argomento. E nemmeno nella lotta vedeva miglioramenti, dato che per il maestro era sempre troppo lento, troppo goffo, troppo distratto…
Credo di odiarlo, si ritrovò a pensare, ormai sull’orlo di una crisi di nervi.
Si domandava con frustrazione se tutto quello stress fisico e mentale gli avrebbe portato qualche guadagno, ma l’ultima cosa che voleva era mostrarsi un rammollito, o peggio, che Blake pensasse di averlo sopravvalutato. Perciò strinse i denti.
 
 
Come annunciato, Blake disse di dover lasciare la piantagione per dedicarsi ai suoi misteriosi affari. Jim accolse la notizia come una benedizione dal cielo, almeno avrebbe avuto qualche giorno di tregua da pestaggi e mortificazioni.
Così, approfittò della sua prima mattinata libera per respirare finalmente aria di casa. Il circo aveva un aspetto diverso dopo un intero mese di stallo e dappertutto aleggiava un’insolita oziosità; c’era chi stendeva il bucato, chi rammendava gli abiti di scena, chi giocava a carte in salottini all’aperto improvvisati; giraffe, zebre e cammelli pascolavano liberi come comuni animali da fattoria.
Jim bevve un tè alle erbe con Margot, punzecchiò un po’ Vanja, che stava prendendo il sole in costume da bagno, e fumò una sigaretta insieme a Rodrigo vicino la Cueva del Diablo. Verso mezzogiorno, raggiunse Arthur al serraglio dopo che i visitatori della mattina furono andati via.
«Hai una faccia da schifo» commentò l’amico mentre tagliuzzava frutta e verdura per le scimmie. Sebbene avessero tacitamente fatto pace, era chiaro come il sole che quella situazione non gli piacesse. «Spero almeno che ne stia valendo la pena: hai imparato a camminare sull’acqua o scatenare tempeste di fuoco di recente?»
«Qualcosa del genere» mentì Jim. «Blake dice che vuole tenere gli incantesimi più forti per ultimi.»
Non voleva ammettere che in tutto quel tempo non aveva usato la magia nemmeno una volta e che lui stesso aveva un sacco di dubbi. Arthur sospirò e aprì la gabbia dell’orangutan per lasciargli una scodella di frutta sbucciata.
In quel momento, Jim udì degli schiamazzi provenire dal retro della tenda; seguì uno starnazzare frenetico e un’imprecazione sibilata tra i denti.
«Che succede?»
«Sono gli operai» rispose Arthur, contrariato. «Avranno di nuovo rubato un gallo dal pollaio.»
«Perché?»
«Li fanno combattere. Quasi ogni sera, quando tutti vanno a dormire. Ci hanno provato anche con gli scimpanzè, ma fanno troppo baccano.»
«Cosa?» si sorprese Jim. «Per quale motivo?»
Arthur si strinse nelle spalle, ma la sua espressione era di puro sdegno. «Noia, soldi. C’è sempre un gran via vai dalla città ultimamente, auto parcheggiate vicino la Squadriglia Volante: sento grida e risate, gente che scommette. Qualche volta fanno a botte.»
«E Maurice non ne sa niente?» chiese Jim, sbalordito. «Gli va bene che si organizzino bische clandestine nel suo circo?»
«Oh, con tutti i soldi che ha da contare adesso non si accorge più di niente.» Arthur passò ad abbeverare i cavalli, che scossero le criniere e allungarono riconoscenti i colli per farsi accarezzare. «È quello che succede quando la gente non ha niente che la tenga impegnata.»
Jim era sconvolto. Sapeva di che tipo di marmaglia era composta la classe operaia del circo: vagabondi, attaccabrighe, persino qualche ex galeotto scampato alla forca, aveva sentito dire. Gente che non aveva nulla da perdere, che lavorava tanto e guadagnava poco.
«E tu glielo permetti? Che facciano combattere i tuoi animali?»
«Non sono i miei animali» ribattè Arthur. «Ho cercato di impormi e ho ottenuto solo un occhio nero e la minaccia di scuoiare mio padre mentre dormo. Sono gli animali di Maurice. Oh, e del tuo signor Blake, ovviamente. Potrebbe anche fare un salto a controllare come se la passa il suo circo, ogni tanto. Ma avete cose più importanti a cui pensare, suppongo.»
«Glielo dirò» assicurò Jim, mortificato. «Li farò smettere, non preoccuparti.»
Arthur si voltò a guardarlo, gli occhi neri e duri come onici.
«Non possiamo restare fermi, Jim. Non fa bene agli animali e di certo non fa bene all’umore della compagnia. Antonio e Teresa non vedono i loro nipotini da un anno, lo sapevi? Quanto durerà questa situazione?»
Jim balbettò qualcosa in risposta, ma Arthur non parve confortato. Quando lasciò l’accampamento, dicendo di avere una relazione su Swedenborg da finire, gli sembrò di avere un enorme macigno sul cuore.
 
 
«È già passato un mese» disse Jim una sera in biblioteca, al ritorno del maestro. «Un mese intero e ancora non ho fatto progressi!»
«Stiamo procedendo secondo il programma.»
«Sì, ma quando cominceremo a fare magie? Non faccio che leggere cose scritte da gente morta e ammuffita e prendere sberle! In che modo questo dovrebbe aiutarmi?»
Blake tirò su col naso e il suo sguardo si fece affilato come il vetro.
«Ho detto che ti avrei fornito i mezzi per padroneggiare la magia ed è quello che sto facendo. Non dare la colpa a me se di quello che spiego non ti rimane nulla in testa.»
«Io mi sto impegnando, ok?» fece di rimando il ragazzo, con una nota isterica nella voce. Tutta la stanchezza e l’insoddisfazione accumulati avevano raggiunto livelli critici e si sentiva come un vulcano pronto a esplodere. «Ho fatto tutto ciò che mi ha detto e lei in cambio non mi ha mostrato neanche un incantesimo!»
«Credi che mi diverta a sprecare fiato con un ragazzino ottuso, arrogante e svogliato?» scattò Blake. «Forse non l’hai notato, ma ho altro a cui pensare.»
Jim incassò il colpo come se avesse ricevuto un attacco fisico, ma si impose di non lasciar trapelare quanto quelle parole lo avessero ferito.
«Be’, non le è passato per la testa che forse è lei che sta sbagliando approccio?»
Dal suo trespolo, Wiglaf sventolò le ali bianche e prese a gracchiare sonoramente.
La faccia di Blake era dura come il granito. Rimasero a fissarsi da un capo all’altro della biblioteca, in un silenzio vibrante di tensione. Poi, lo stregone fece il giro del tavolo e posò il libro che aveva in mano.
«Molto bene» disse con sussiego. «Se credi che i miei metodi non siano validi, d’ora in poi faremo a modo tuo. Seguimi.»
«Dove?»
Blake non rispose; afferrò il bastone dall’impugnatura a forma di testa di corvo e si diresse ad ampie falcate verso l’uscita. Confuso, il ragazzo lo seguì lungo il corridoio e poi nell’atrio.
«Che vuole fare?»
«Pratica. Era quello che volevi, no?»
Jim sbirciò il parco buio dalla finestra. «A quest’ora?»
«Mi era sembrato di capire che non volessi più perdere tempo.»
Proseguì attraverso il prato, coperto da una densa foschia argentea; Jim teneva il passo, sforzandosi di guardare dove metteva i piedi e di non perdere d’occhio la schiena dritta dello stregone, una sagoma più scura in un mare di ombre. A un tratto, l’uomo si fermò di fronte a un gruppo di alberi e sollevò una mano. Jim lo affiancò.
«Cosa stiamo…?» cominciò a dire, ma si bloccò con la bocca aperta. La nebbia stava facendo qualcosa, la vide gonfiarsi e poi schiudersi a mo’ di sipario…
Era sicuro che in quella direzione ci fossero solo una dozzina di alberelli sparuti, mentre ora sembrava fossero diventati un bosco, selvaggio e tenebroso; vecchie mangrovie nodose, drappi sfilacciati di muschio spagnolo e rami che si allungavano nella notte come mani scheletriche…
Il ragazzo rabbrividì. «Cos’è questo posto?»
«Il Bayou St. John» rispose Blake. «Molto tempo fa, qui venivano praticati i riti magici della tradizione vudù: streghe e stregoni si riunivano nel silenzio delle paludi per celebrare l’unione con il Tutto.»
«Va bene, ma che ci facciamo noi qui?»
Blake gli rivolse un’occhiata. «Dici che ho sbagliato approccio con te, che lo studio teorico non è abbastanza stimolante. Penso che tu abbia ragione, è ora che sperimenti sulla tua pelle ciò di cui abbiamo discusso. Voglio che entri in sintonia con il Tutto e scopri dove risiede la fonte del tuo potere.»
Jim non era sicuro di aver afferrato. «Cioè?»
«Sto parlando» disse Blake. «Della perfetta comunione dell’Uno con i Molti: “come sopra, così sotto; come fuori, così dentro. Come nel grande, così nel piccolo”.»
«Sì, ma non ho capito cosa vuole che faccia in pratica.»
Lo stregone fece un gesto ampio con la mano e la nebbia si allargò ancora, scoprendo una radura erbosa circondata da enormi massi pallidi. Su ciascuno di essi era dipinto un simbolo, triangoli, strane croci, cerchi…
«Qualcosa che finora non hai mai avuto la pazienza di provare: tacere e ascoltare. Il Tutto scorre intorno a noi in qualsiasi momento, ma la sua forza non sarà mai tua se non gli permetti di raggiungerti. I maghi del Vecchio Mondo lo sapevano bene, perciò costruirono luoghi simili a questo, catalizzatori di energie primordiali. Quale posto migliore per battezzare un giovane che si affaccia alla magia?»
«Si, ma…»
«Se dimostrerai di aver fatto tesoro di quanto studiato, inizieremo con gli incantesimi» lo interruppe Blake. «Ma se non ci riesci significa che avevi ragione e che non sono stato un buon maestro: in tal caso, la nostra collaborazione termina oggi.»
«Aspetti, se non riesco a fare questa cosa sono fuori!?»
«Ti ho promesso la grandezza» rispose lo stregone, con distacco. «Se non sei in grado di afferrarla hai sprecato il tuo tempo con me e io l’ho sprecato con te.»
«Ma…non so neanche da che parte iniziare!»
«Ti ho fornito tutti i mezzi per riuscirci, devi solo rendertene conto.»
«Oh, ma è ridicolo!»
Invece di rispondergli, lo stregone fece dietrofront e uscì dalla radura.
«E adesso dove va?!»
«Hai tempo fino a mezzanotte.» Non appena ebbe superato il cerchio di pietre, la sua voce cominciò ad affievolirsi, come se fosse di colpo lontanissimo. «Ti consiglio di cominciare.»
«Sta scherzando, vero? Signor Blake!»
Ma l’uomo era già svanito nella nebbia.
Jim era scioccato. Uscì di corsa dal cerchio di pietre, ma quando si immerse nella foschia trovò davanti a sé soltanto fitti alberi. Nessuna traccia del parco, né della magione dei Winters. Era solo in mezzo al nulla.

 

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Capitolo 11
*** Come il Fuori così il Dentro - SECONDA PARTE ***



COME IL FUORI COSÌ IL DENTRO – Seconda parte

 
 



Jim raccolse un sasso da terra e lo scagliò verso i cespugli.
«Vecchio stronzo!» gridò nel silenzio della notte. «Non ho fatto niente per meritarmi questo!»
Blake era scomparso da più di un’ora, ma Jim non aveva ancora idea di come superare la prova. Esaminò gli imponenti massi, illuminati in maniera spettrale dalla luna; quel luogo era inquietante, ma mai quanto il bosco, e non pensò di lasciare il cerchio neanche per un istante.
Con quel trucchetto della nebbia, inoltre, lo stregone poteva averlo spedito ovunque, non sarebbe mai riuscito a tornare a casa senza perdersi nel bayou… o finire in pasto a un alligatore. Eccola là, la magia che voleva così tanto vedere.
Ma perché non sto mai zitto?
Affranto, il ragazzo andò a sedersi in mezzo al cerchio.
Continuava a domandarsi il senso di quell’esercizio: che accidenti doveva fare? Meditare? Mettersi a pregare? La magia gli era sempre venuta fuori e basta, non aveva mai avuto bisogno di entrare in sintonia con qualcosa. Ok, era impreciso e sì, spesso gli effetti non erano quelli desiderati… ma sempre meglio che rimanere tutta la notte in mezzo a quattro pietre!
Forse, non sei portato quanto credevi, suggerì una voce nella sua testa. Non pensava che avrebbe avuto tante difficoltà a imparare il linguaggio della magia e il suo funzionamento.
“Ti ho promesso la grandezza” aveva detto Blake. “Se non sei in grado di afferrarla hai sprecato il tuo tempo con me e io l’ho sprecato con te.”
La verità era che aveva sempre dato per scontato che il suo vero talento fosse la magia. Il suo unico talento, qualcosa che lo rendesse speciale, come i grandi uomini di cui gli piaceva tanto leggere. O almeno, questo prima che arrivasse Blake.
Tutti nel circo erano bravi in qualcosa, e se Jim era mediocre pure come mago, allora cosa rimaneva di lui? Un bel faccino e qualche gioco idiota con le monete, che anche un bambino avrebbe potuto imparare…
Per un lungo momento, le nuvole inghiottirono la luna e la radura si riempì di oscurità.  Jim si rigirò l’anello a forma di artiglio che gli aveva dato Blake, lanciando occhiate nervose in giro; sentiva fruscii e misteriosi ticchettii in tutte le direzioni e di tanto in tanto un suono raggelante simile a una risata lo faceva sobbalzare.
È solo un uccello, si disse, cercando di calmarsi. Non fare la mammoletta!
Blake voleva punirlo facendogli prendere un bello spavento, ma non lo avrebbe mai lasciato laggiù se fosse stato sul serio in pericolo: tutto quello che doveva fare era portare pazienza e resistere fino a mezzanotte.
Per distrarsi, ripeté quanto ricordava delle ultime lezioni, alla ricerca di un qualcosa che potesse aiutarlo. Prima di andarsene lo stregone aveva citato uno dei Sette Principi Ermetici, quello della Corrispondenza. E cosa diceva, esattamente? Che esiste un’analogia tra i diversi livelli dell’esistenza, tra sopra e sotto, tra dentro e fuori. Tra Tutto e Uno.
Ripeteva sempre che è nella Volontà che risiede la forza di un mago e lui voleva sul serio che il Tutto gli mandasse un segno, uno qualsiasi.
Chiuse gli occhi e si sforzò di prestare attenzione a ciò che lo circondava. Tacere e ascoltare, aveva detto lo stregone. Jim lo stava già facendo, ma non era colpa sua se i suoni che ascoltava lo stavano solo terrorizzando a morte.
Allora provò a concentrarsi su ogni rumore, isolandolo e cercando di stabilirne l’origine; questo esercizio almeno servì a distoglierlo dalla paura del bosco e dalla collera verso il maestro.
E fu allora che lo sentì: un battito sommesso ma costante, che non riusciva a identificare. Jim vi si soffermò con più attenzione; era un pulsare ritmato, simile a un tamburo, ma non capiva da dove provenisse con esattezza…era come se si spostasse, come se fosse tutt’intorno a lui.
Aprì gli occhi e si voltò a guardare i monoliti, pura roccia immobile levigata dalle intemperie.
“Tutte le cose sono in movimento” diceva il secondo Principio Ermetico. “Tutte le cose… vibrano.”
Jim si alzò in piedi e si avvicinò a una delle pietre. Adesso il battito si era fatto più intenso, lo sentiva riverberare nelle ossa, nel petto, nelle tempie; era come un richiamo, una voce familiare che veniva da lontano. E, sorprendentemente, qualcosa dentro di lui stava rispondendo.
Senza riflettere, sollevò una mano e toccò la pietra.
Ciò che seguì fu un’esplosione di luce accecante e il mondo si dissolse in un vortice di fuoco bianco.
Jim gridò, o credette di farlo, mentre il potere gli dilagava dentro come un fiume di lava e aveva la spaventosa sensazione di spaccarsi, di essere dilaniato in parti microscopiche.
Preso dal panico, si oppose con tutte le sue forze, lottando per tenere insieme ciò che restava di lui prima che andasse perso per sempre. Eppure, qualcosa nel profondo, in quel battito lento e incessante, lo rassicurava che non c’era niente da temere. Che poteva fidarsi, lasciarsi andare per una volta.
Abbandonarsi per esercitare il controllo.
Così, mise da parte i dubbi e la paura e permise alla corrente di trascinarlo via.
Aprì gli occhi. I simboli sui monoliti si erano accesi, diffondendo nella radura un tenue chiarore dorato. E in quel chiarore, fluttuava una strana polvere, pagliuzze scintillanti di pura luce; si diramavano in mille direzioni diverse come una rete, scorrendo dal cerchio di pietra verso il folto della foresta. Vene che pompano sangue in tutto il corpo. Jim vi immerse la mano: subito, dalle sue dita si irradiarono altri filamenti di luce.
«Ogni cosa è parte del Tutto» mormorò tra sé. «E non può esserne separata.»
Doveva esserci dell’altro: fin dove arrivava quell’energia? C’erano altri maghi connessi a essa in quel momento? Altri mondi intrecciati al suo?
Doveva sapere.
Seguì una delle ramificazioni attraverso gli alberi, a malapena consapevole del fantoccio con le sue sembianze che aveva lasciato, seduto e con gli occhi chiusi, in mezzo al cerchio di pietre.
Camminò fiancheggiando un acquitrino dalle acque nere e immobili e un’infinita distesa di cipressi dalle lunghe barbe grigie. A un certo punto si accorse che gli alberi avevano cominciato a diradarsi, e si ritrovò a calpestare un soffice prato inondato dalla luce del sole. Socchiuse gli occhi, abbagliato: si trovava in campagna, tutt’intorno piantagioni di granturco e folti boschi imbionditi dall’autunno. Alle sue spalle c’era una fattoria bianca dall’aria familiare, con un grande fienile rosso che spiccava contro il cielo azzurro.
Jim avvertì delle risate provenire dal retro della casa e risalì il vialetto. Quando voltò l’angolo, s’imbatté in una donna e un bambino; lei stava piantando in un’aiuola dei rigogliosi fiori viola e gialli e non poteva avere più di venticinque anni, i corti capelli castani che incorniciavano un viso sottile e pallido. Il bambino invece aveva un’arruffata zazzera rossiccia e forse quattro o cinque anni.  Nessuno dei due sembrò accorgersi della presenza di Jim, in piedi proprio accanto a loro.
«Guarda» disse la donna al bambino.
Prese una manciata di terra umida e iniziò a impastarla, canticchiando fra sé; il bambino la osservava in silenzio, concentrato. A un tratto, le mani di lei si schiusero, mostrando un minuscolo uccellino. Il bambino aprì la bocca, meravigliato, mentre l’uccellino zampettava sulla mano della donna per poi spiccare il volo, cinguettando.
«Quando me lo insegni?» chiese il bambino.
«Presto» rispose lei con un sorriso. «Ma per il momento non dire niente a papà. Sarà il nostro piccolo segreto, va bene Jamie?»
La scena ondeggiò davanti agli occhi di Jim, e sia la donna e che il bambino scomparvero. Ora si trovava al chiuso, in una cucina luminosa con una vecchia stufa a legna. C’era la stessa donna, ma stavolta non sorrideva; aveva la testa china, le braccia strette al petto come per proteggersi dall’uomo che le stava gridando contro.
«Lo ha fatto di nuovo, proprio davanti ai vicini! Devi smetterla di incoraggiarlo, Abigail!»
Jim udì un lieve scricchiolio dietro di sé e si voltò; il bambino di poco prima era rannicchiato sulle scale e stava ascoltando la discussione stringendo un coniglio di pezza tra le braccia.
«Ma è la sua natura, Tom» protestò la donna. «Non può farci niente se è così!»
«Ci metterà tutti in pericolo!» Tom Doherty guardava sua moglie con occhi colmi di rabbia. E di paura. «Non possiamo rischiare che qualcuno lo scopra, deve capire che quello che fa è sbagliato.»
«Quindi per te anche io sarei sbagliata?» scattò la donna, ferita.
Lui sospirò. «Gail, lo sai che non intendevo…»
Un forte eccesso di tosse squassò improvvisamente il petto della donna, che ansimò come se non riuscisse più a respirare. L’uomo le cinse le spalle, sorreggendola.
«Non affaticarti, hai sentito il dottore. Forza, vieni a metterti a letto.»
Poco dopo si ritrovarono in una spoglia camera da letto; la donna era adagiata sotto spesse coperte, molto pallida e l’uomo, seduto accanto a lei, le accarezzava la fronte.
Da dietro la porta socchiusa, Jim osservava sua madre. Avrebbe voluto correre da lei, abbracciarla, perché dentro di lui sapeva che non le rimaneva più molto tempo da trascorrere insieme, ma suo padre si accorse della sua presenza e si alzò per chiudere la porta.
La scena cambiò di nuovo.
Jim era ancora in piedi di fronte a una porta chiusa. La porta di un fienile avvolto dalle fiamme.
“James…”
Il fuoco crepitava alto sopra le travi, il fumo acre risaliva in pinnacoli e volute verso il cielo.
“James, no!”
C’era qualcuno intrappolato; stava battendo contro la porta, urlava, chiedeva aiuto. Il rombo del fuoco era assordante, ma Jim lo sentiva perfettamente. Lì dentro c’era suo padre.
Che cosa è successo quella notte? Che cosa hai fatto?
Ogni cosa scomparve, risucchiata dall’oscurità più nera. Solo il fienile era ancora là, ma si stava allontanando, fino a diventare un puntino luminoso nel nulla, mentre una forza portentosa lo trascinava verso il basso, in un abisso gelido e senza ritorno…
È l'inferno che reclama il suo debito, James.
«James, devi svegliarti.»
Qualcuno lo stava scuotendo delicatamente per una spalla. Jim spalancò gli occhi, inspirando a fondo come se fosse stato in apnea.
«Bentornato» disse Solomon Blake, con l’accenno di un sorriso. «Puoi lasciarle andare adesso.»
«Lasciare…cosa?»
«Le rocce.»
Jim non capiva; era seduto in mezzo al cerchio, ma i monoliti erano scomparsi. Al loro posto c’erano solo dei grossi crateri. Sollevò lo sguardo e il sangue gli defluì dalla faccia.
Le enormi pietre stavano fluttuando sopra la radura muovendosi lentamente in cerchio, le rune accese di rosso.
«S-sono stato io?»
«Sì» confermò Blake, guardando anche lui in alto. «Ora mettiamole giù, va bene? Con calma, ti aiuto io.»
Gli offrì una mano per rimettersi in piedi. Poi, Blake sollevò lentamente le braccia e Jim lo imitò; adesso riusciva a vedere il potere dello stregone mentre entrava in azione, spandendo intorno a lui un alone dello stesso azzurro intenso alla base della fiamma.
«Ristabilisci il legame con il Tutto» gli disse. «E impartisci la tua Volontà: vedrai che ti darà ascolto.»
Jim si raccolse in se stesso per trovare di nuovo quel battito nascosto. Non ebbe bisogno di cercare a lungo, stavolta; se prima era stato il Tutto a chiedere di essere raggiunto, adesso fu lui a correre da Jim al primo richiamo. Sentì l’energia affluire da ogni direzione, scivolare sull’acqua, sfiorare le fronde degli alberi, attraversare deserti e montagne. Ogni parte di sé che credeva di aver smarrito fu ritrovata e i Molti si ricongiunsero all’Uno.
Insieme, i due maghi guidarono i megaliti durante la discesa, a uno a uno, finché non tornarono nelle postazioni originarie. Infine, Blake spazzò via la polvere di gesso dai vestiti. «Per stasera può bastare: torniamo a casa.»
 
 
La nebbia ricondusse entrambi nel parco dei Winters; per prima cosa, Blake fece accomodare Jim in un salotto accogliente che odorava di legno e cuoio, e chiese a Valdar di preparargli immediatamente qualcosa di caldo, perché da quando avevano lasciato la radura il ragazzo non riusciva a smettere di tremare e battere i denti.
«Ho superato la prova?» domandò subito, seduto sul divano con una coperta sulle spalle e una tazza di cioccolata calda al peperoncino tra le mani.
«Meglio di quanto mi aspettassi, devo ammetterlo» rispose lo stregone, ma la sua espressione era assorta, quasi inquieta; sedeva di fronte a lui in poltrona e stava di nuovo tormentando il suo orologio d’argento rigirandoselo tra le dita. «Non sapevo fossi già in grado di viaggiare in astrale. È…notevole.»
«Che cosa significa?»
«Che hai momentaneamente lasciato il tuo corpo» spiegò lui. «Il piano astrale è una dimensione intermedia, dove l’Anima vive separata dalla Carne e concetti come “spazio” e “tempo” sono determinati dalle emozioni. Di solito occorre una preparazione particolare, la mente umana è fin troppo fragile e costringerla a vagare senza punti di riferimento né certezze può farla impazzire.»
«O temprarla, magari» disse Jim.
Blake sorrise, negli occhi qualcosa di simile all’approvazione, e il ragazzo sentì che tutto l’astio che aveva macerato in quelle settimane verso di lui era di colpo evaporato, mentre uno strano calore gli si spandeva nel petto; imbarazzato, sorseggiò un po’ troppo in fretta la sua cioccolata, scottandosi la lingua.
Poi, lo stregone gli chiese di raccontare della sua esperienza.
«Ho sentito qualcosa nel bosco» disse Jim. «Come una voce: era dappertutto, ma vicino a quei massi diventava più forte. Poi sono stato come travolto dall’energia e ho pensato che mi avrebbe distrutto. Non è successo ovviamente, ma è stato comunque… terrificante.»
«Le prime volte spaventano sempre» convenne Blake, con quel sorriso pieno di calore ancora sulle labbra. «Non ho scelto quel luogo a caso, i simboli dipinti sulle pietre avevano lo scopo di raccogliere l’energia e amplificarla.»
«Come un’antenna?»
«Come un’antenna» confermò lo stregone. «Che cos’altro hai visto? Quando hai viaggiato in astrale, intendo.»
Jim ripensò a quando si era inoltrato nella palude, ai ricordi della sua infanzia alla fattoria, ai suoi genitori, al fienile in fiamme. E poi, quella terrificante sensazione di vuoto assoluto…
Era accaduto davvero? O era una specie di allucinazione? La voce di suo padre che lo chiamava era così reale…
Che cosa hai fatto?
Un brivido lo scosse nel profondo e il ragazzo strinse la tazza fino a far sbiancare la punta delle dita. «Non mi ricordo bene. Era tutto piuttosto confuso.»
Blake non insistette. «Avrei preferito introdurti gradualmente a tutto questo, ma tu avevi fretta. In compenso, ci siamo notevolmente portati avanti col lavoro.»
«Perciò sono ancora in squadra?»
«Il Tutto ti ha parlato» disse Blake, alzando le spalle. «Adesso hai tutti i mezzi per cominciare a far magia correttamente.»
«Anche se sono ottuso, arrogante e svogliato?» domandò Jim, perché nonostante tutto gli insulti bruciavano ancora.
«Ho visto di peggio» replicò lo stregone, con un guizzo ironico nello sguardo. «E poi avevi ragione: spesso l’approccio pratico è più efficace. Oltre che più divertente.»
Valdar servì in salotto qualcuno dei suoi dolcetti e Blake e Jim si trattennero ancora un po’ per discutere degli argomenti che avrebbero trattato nei prossimi giorni: evocazione elementale, trasmutazione organica e inorganica, illusioni. E forse anche introdotto il controllo mentale.
La pendola nel corridoio batté le due.
«Abbiamo fatto tardi oggi» commentò Blake. «Resta pure qui stanotte.»
«Grazie, ma io…» Il resto della risposta fu inghiottito da un gigantesco sbadiglio.
Blake alzò gli occhi. «Non sarebbe male se accettassi un mio gesto di gentilezza senza protestare, una volta tanto.»
Prese la tazza vuota sul tavolino e si diresse verso la porta. «C’è una stanza pronta per te al piano di sopra, terza porta a dest…» Si interruppe quando sentì russare e si voltò; il ragazzo si era già addormentato sul divano.

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Capitolo 12
*** Attraverso lo specchio ***



ATTRAVERSO LO SPECCHIO

 
 



Come promesso, già dal mattino seguente Blake gli mostrò i primi incantesimi:
«Usiamo il termine “incantesimo” per indicare una manipolazione della materia» cominciò a spiegare non appena Jim lo ebbe raggiunto nel parco, dopo la colazione. «Attraverso precise sequenze di gesti, possiamo convogliare l’energia del Tutto e dirigerla, impartirle ordini e movimenti.»
Lo stregone sollevò le mani e tracciò un complesso disegno in aria; le fronde verdi degli alberi furono agitate da un forte vento e una pioggia di foglie cadde sul prato, formando un mulinello. Danzò, sospinto da una forza invisibile, fino ad assumere una forma a quattro zampe: un cavallo. La creatura si lanciò al galoppo, girò attorno a Blake per poi trottare verso Jim. Affascinato, il ragazzo allungò una mano per toccarlo, ma il cavallo si dissolse subito in un’esplosione di foglie.
«Un mago non può creare qualcosa dal niente» continuò Blake. «Agisce su ciò che lo circonda: gli elementi naturali, la materia organica e inorganica. Per questo motivo, deve conoscere le cause e gli effetti di ogni fenomeno.»
Un altro rapidissimo movimento e il prato sotto i piedi di Jim prese a tremare; il ragazzo indietreggiò subito, allarmato. «S-signor Blake…?»
Il terreno cedette, aprendo una frattura su un baratro di fuoco e lava.
«No!» gridò Jim.
La frattura diventò in fretta una voragine, consumandosi di secondo in secondo. Jim sentì il suolo sgretolarsi sotto i piedi e non fece neanche in tempo a urlare… ma subito dopo crollò in ginocchio e si ritrovò a fissare le sue mani aperte sull’erba. Per lo stregone, invece, sembrava non fosse successo proprio niente.
«Ciò che hai appena visto era un’illusione» spiegò infatti, mentre Jim si rimetteva in piedi con cautela. «In questo caso ho agito sulla materia di cui è composto il tuo cervello: ogni sensazione che proviamo è tale solo perché è la mente a dircelo. Tramite le illusioni possiamo alterare la percezione che un avversario ha della realtà, fargli vedere ciò che vogliamo, convincerlo di provare dolore o piacere. Di morire, anche.»
«Ma è sleale!»
Il sorriso che Blake gli restituì aveva un che di sinistro. «La magia è sleale per natura, lasciamo agli eroi gli squilli di trombe e le spade sguainate: un mago agisce nell’ombra, non si sporca mai le mani se può evitarlo.»
«Va bene, ma se qualcuno dovesse convincermi che sto morendo… morirei davvero? Anche se è solo nella mia testa?»
Blake si lisciò i baffi. «In effetti è un argomento dibattuto: secondo alcuni basta convincere il cuore che non sta più battendo, per altri l’arresto cardiaco è dovuto allo shock. Per saperlo con certezza occorrerebbe fare dei test.»
«Preferisco non saperlo allora» disse Jim, orripilato.
«A ogni modo si tratta di casi limite» lo rassicurò lo stregone. «Possiamo confondere solo un senso per volta, perciò è abbastanza semplice riconoscere un’illusione. Anche se alcuni sostengono di essere in grado di creare Illusioni Totali.»
«Lei ne è in grado?»
«Confesso di averci provato, ma è una materia che non mi ha mai attratto.»
«Allora qual è la sua specialità?»
Gli occhi azzurri dello stregone mandarono uno scintillio. «La malia, una forma di manipolazione ben più sofisticata.»
«Cioè?»
«Si tratta di esercitare una forte influenza sulle decisioni altrui, tramite il tocco, lo sguardo, una particolare modulazione della voce: indolore, elegante ed efficace.»
Jim deglutì a vuoto. «Intende…controllare le persone? Come fossero marionette?»
Blake inclinò la testa. «È un po’ più sottile di così. Se ci pensi, l’illusionismo da palcoscenico si basa su questo: sedurre il pubblico, suggestionarlo al punto di credere che ciò che ha di fronte sia vera magia non è forse parte dello show?»
Con riluttanza, Jim dovette convenire. «Credo di sì.»
Trascorse il resto della giornata a esercitarsi in quella che Blake chiamava “Arte delle Mani”, a memorizzare sequenze di gesti e schemi e cercare di riprodurli in maniera più sciolta possibile, ma non era affatto semplice come sembrava; c’erano un’infinità di combinazioni diverse e bastava la minima imprecisione, anche solo non riuscire a far toccare perfettamente gli indici, per cambiare totalmente gli effetti di un incantesimo.
Col passare delle settimane, però iniziò a vedere i primi miglioramenti; quegli incantesimi che gli erano da sempre costati un sacco di energia non sembravano più tanto impossibili, ora che aveva chiaro il loro funzionamento.
Le lezioni di magia ormai scandivano regolarmente le sue giornate; in principio, Blake gli assegnò compiti abbastanza semplici, ma che richiedevano controllo e precisione: spostare oggetti via via sempre più pesanti solo col pensiero, attraverso un percorso segnato. Oppure, raccogliere le minuscole particelle incendiare presenti nell’aria per accendere una candela e poi sottrarle ossigeno fino a spegnere lentamente la fiamma. O ancora, riassemblare vasi e bicchieri rotti un coccio alla volta, far aderire perfettamente ogni bordo affilato come quando erano integri.
Intanto, continuava con lo studio teorico, ma, se prima roteava gli occhi ogni volta che Blake gli dava libri da leggere, adesso era Jim a chiedergliene di nuovi: gli sorgevano un’infinità di domande ed era sempre affamato di risposte.
Inoltre, scoprì che i viaggi in astrale erano molto utili per studiare; poteva lasciare il suo corpo a dormire e portarsi avanti con le letture tutta la notte, riuscendo a essere fresco e riposato il mattino seguente.  Interessante fu una scoperta che fece a proposito dei famigli: 
 
“Gli Spiriti Primordiali (detti anche famigli), sono le emanazioni più pure del Tutto: sono in grado di spostarsi fra i mondi in virtù del loro essere multiformi e di presentarsi al cospetto di un mago sotto sembianze animali. Secondo il Principio della Corrispondenza, il famiglio si lega indissolubilmente al suo Signore, diventandone servo fedele per la durata della sua vita mortale.”

Una sera, invece, durante una delle misteriose partenze di Blake, Jim si imbatté in un termine nuovo. Il Vuoto.
 
“Il Vuoto è separato dal Tutto, dunque in esso i concetti precedentemente espressi non hanno alcun valore.”

Jim aggrottò la fronte e lesse il paragrafo fino alla fine: 
 
“S’intende Magia Vuota l’insieme dei riti per attingere potere dal Vuoto e dagli abomini che esso genera e contiene. Secondo certi teorici del Vecchio Mondo, la Magia Vuota realizza ciò che per la magia comune è impossibile, rendendo chi la pratica al pari di una divinità. Ciononostante, è dimostrato che nel Vuoto non esistano leggi e domini il caos; perciò, la Magia Moderna aborra questo genere di pratiche e le considera oggigiorno la più deplorevole forma di eresie.”

Questo era tutto ciò che l’autore aveva da dire sull’argomento. Jim chiuse il libro, perplesso, poi ci ripensò e decise di appuntare quelle righe sul suo grimorio: al ritorno del maestro avrebbe cercato di saperne di più.
 

Il mattino seguente, Jim raggiunse la magione dopo aver pedalato nel fango sotto una pioggia fitta e tenace, che non smise un secondo di cadere per il resto della giornata. Gli incantesimi atmosferici erano ancora fuori dalla sua portata, ma Jim avrebbe dato qualunque cosa per poter uscire nel parco ed esercitarsi; grazie alle sue letture notturne in astrale, poi, aveva già terminato tutti i libri in programma e non aveva idea di come ammazzare il tempo.
Così, scivolò fuori dalla biblioteca e fece un giro del pianterreno, passando dalla sala da pranzo a quella della musica e nei vari salottini; sperava che familiarizzare con la casa lo avrebbe aiutato a conoscere un po’ di più il suo maestro, di cui continuava a non sapere nulla. Di norma, l’abitazione di una persona dovrebbe riflettere la sua personalità, il suo passato, ma non era questo il caso: Solomon Blake era uno spettro, che transitava per quelle stanze senza lasciare traccia di sé.
La maggior parte delle porte erano comunque aperte, tranne una a due battenti che conduceva a una zona della casa dove non era mai stato. L’ala ovest, che il maestro gli aveva vietato.
Una parte di lui moriva dalla voglia di scoprire cosa ci fosse laggiù. Dai, solo una sbirciatina, lo incitava una vocina nella sua testa. Chi vuoi che se ne accorga? Blake non ha mica occhi e orecchie ovunque!
Il ragazzo provò a girare le maniglie. Chiusa, ovviamente. Allora sbirciò oltre i vetri smerigliati, ma non riuscì comunque a distinguere niente. Deluso, si convinse a lasciar perdere.
Finì invece nel giardino d’inverno, convertito a serra: pareti di vetro e acciaio su cui scivolavano le gocce di pioggia, un pungente odore di fiori, terra umida e alberi carichi di strane tipologie di frutti.  Blake lo aveva introdotto proprio in quei giorni all'impiego delle erbe nelle pozioni, e sul tavolo da lavoro erano ancora sparpagliati i suoi attrezzi. Li sciacquò nel lavandino e li ripose con cura nella valigetta che conteneva il suo kit da alchimista, quando gli parve di sentire un miagolio. Chiuse il rubinetto e si volse verso un cespuglio di rose argentee. «Chi c’è lì?»
Il cespuglio si mosse. Poi, dal fogliame, fece capolino un musetto nero di un gatto.
Jim sorrise. «E tu come sei entrato?» Si accorse solo poi che una delle finestre a vetro era rimasta socchiusa. «Be’, ti capisco, con questo tempaccio.»
Si accovacciò e allungò una mano verso la bestiola. «Vieni, non ti faccio niente.»
Il gattino uscì con un paio di passetti aggraziati. Quando Jim gli accarezzò il dorso, tutti i suoi sensi formicolarono e si risvegliò in lui una sorta di riconoscimento. Guardò la piccola, elegante creatura dal manto nero come la notte, che gli stava facendo le fusa con la confidenza di un vecchio amico. «Sei un famiglio tu, vero?»
Il gatto lo fissò intensamente coi suoi occhioni di giada e Jim sondò con prudenza la sua coscienza. Fu come camminare rasentando il ciglio di un abisso, misterioso e profondo: quella creatura aveva vissuto centinaia di anni, forse migliaia e conosciuto altrettanti mondi diversi.
«Scusami» disse Jim. «Non avevo capito che fossi una lei
La gatta emise un miagolio contento e continuò a strusciarsi avvolgendo la coda attorno alla sua gamba.
«Hai fame? Vado a vedere se trovo qualcosa.»
Lasciò la gattina nella serra e si mise in cerca della cucina; la trovò dietro una porta a vetri, un vasto locale voltato a botte, con pavimento a maioliche e un grande focolare in ghisa sopra il quale pendevano pentole di rame.
Jim aprì la dispensa e ne passò in rassegna il contenuto, quando all’improvviso il pavimento tremò; Valdar entrò da una porta di servizio completamente zuppo, con in spalla un sacco con dentro qualcosa che si agitava.
«Ehilà!» lo salutò, Jim sforzandosi di sembrare più amichevole che terrorizzato.
L’orco non lo considerò neanche; issò invece il sacco sul tavolo, e ne estrasse una gallina ancora viva, che starnazzava e sbatteva le ali. Poi, Valdar afferrò un coltello da macellaio e, proprio sotto gli occhi agghiacciati di Jim, decapitò il pennuto. Il ragazzo indietreggiò di alcuni passi.
«Vedo che hai da fare. Magari ripasso dopo…»
«Fame?» biascicò Valdar, il coltellaccio insanguinato e pieno di penne ancora in pugno.
«Adesso proprio no» disse Jim, reprimendo un conato. «Mi chiedevo solo se avevi del latte.»
L’orco sollevò le enormi arcate sopraccigliari e Jim si affrettò ad aggiungere: «Insomma, se non ti crea disturbo…»
«Tu aspetta» intimò lui, e Jim non pensò di contraddirlo nemmeno per un secondo. Lo vide aprire una grossa botola sotto il pavimento della cucina e sparire. Valdar rimase giù diversi minuti e Jim sentì un gran trambusto di pentole e barattoli, insieme a una serie di brontolii e ruggiti. Poi, vide riemergere la sua manona che reggeva una bottiglia di vetro.
«Ehm, grazie.»
In risposta gli arrivò solo un altro ruggito che fece tremare le pareti e Jim si levò di torno prima di fare la fine del povero pollo. Quando rientrò nella serra però, della gatta non c’era più traccia. La cercò dietro ogni vaso e sotto ogni pianta, provò a chiamarla.
Di nuovo nell’atrio, si convinse che doveva essere semplicemente andata via: aveva sentito dire che i gatti erano animali lunatici. Ci rimase un po’ male, gli piaceva l’idea che il demone fosse venuto lì appositamente per lui. Un miagolio alle sue spalle interruppe quei pensieri e Jim si voltò; le porte che conducevano all’ala ovest erano socchiuse.
Merda.
I battenti mostravano solo lo scorcio di un corridoio buio, identico a tutti gli altri. Jim evocò in una mano un fuocherello fatuo affinché illuminasse i suoi passi e trattenne il fiato come se dovesse tuffarsi in mare; aveva letto di certi incantesimi che erano costati la vita ai maghi che li avevano praticati, addirittura la distruzione di intere città. E l’esperimento di Blake che cosa aveva provocato? Aveva generato qualche creatura mostruosa? O magari reso avvelenata l’aria che stava respirando…
«Qui, micio micio.»
Nonostante il fuoco fatuo, i suoi occhi richiesero un po’ di tempo per abituarsi all’oscurità. Sembrava che nessuno avesse messo piede laggiù da anni; il pavimento era coperto di polvere che scricchiolava sotto le suole, i mobili nascosti sotto lenzuoli bianchi e uno strano odore dolciastro permeava l’aria.
«Miaooo.»
La gatta lo stava aspettando di fronte a un’altra porta chiusa, intenta a leccarsi una zampina.
«Ti sei goduta il giro?» disse Jim. «Forza smorfiosetta, torniamo di là.»
Lei emise un altro miagolio flautato e raschiò la porta.
«Vuoi andare lì?» Jim provò ad aprirla. «Spiacente, accesso negato. Andiamo, ti ho trovato uno spuntino…»
In quel momento, la porta si aprì con un cigolio. Jim si mise a ridere. «Cosa sei, una scassinatrice di porte magiche?»
Senza esitazione, la gatta s’infilò dentro. Riluttante, Jim posò su un tavolo impolverato la bottiglia di latte e la seguì.
Dovette reprimere un’esclamazione di sorpresa; era finito in una stanza lunga e stretta, come una galleria completamente vuota, fatta eccezione per le pareti tappezzate da specchi. Ce n’erano di ogni forma e dimensione, specchiere psiche, medaglioni…
Tutti gli specchi che Blake aveva fatto rimuovere.
Per quale motivo una persona dovrebbe possedere una stanza del genere? Si domandò Jim, turbato. O è l’uomo più vanesio che esista oppure c’è sotto qualcosa.
Si avvicinò a uno specchio ovale, dalla cornice intarsiata. Con sua enorme sorpresa però, si rese conto che la superficie non stava restituendo il suo riflesso, ma l’immagine di una stanza sconosciuta.  Ma che diamine..?
Jim esitò, poi allungò una mano; le sue dita incresparono il vetro e vi si immersero come se fosse la superficie di uno stagno. Ritrasse immediatamente la mano, sconcertato.
«Ok» disse fra sé. «Questo è strano.»
Ci riprovò con cautela; infilò prima il braccio fino al gomito, poi prese un altro bel respiro e fece lo stesso con la testa. Per fortuna la stanza dall’altra parte era vuota, perché lo spettacolo di una faccia e di un braccio che spuntano da uno specchio avrebbe fatto venire un infarto a chiunque. Si trattava di una camera da letto semplice ma pulita, ricavata da una vecchia soffitta illuminata da una finestra a ghigliottina.
La cornice dello specchio sembrava abbastanza larga da far passare le sue spalle, ma quando Jim inserì anche il ginocchio inciampò e capitombolò in avanti. Lo specchio era affisso sopra una cassettiera e fu un bel volo fino al pavimento; Jim si massaggiò il gomito su cui era atterrato con tutto il peso, mentre si rimetteva in piedi e gettava uno sguardo attorno. Sull’attaccapanni riconobbe il trench nero di Blake e alcuni dei suoi libri impilati sullo scrittoio, segno che lo stregone doveva essere stato lì di recente. Ma la vera sorpresa fu avvicinarsi alla finestra, aspettandosi di vedere il parco dei Winters bagnato di pioggia, e finire invece per contemplare un paesaggio urbano con la Tour Eiffel che si stagliava in lontananza.
Jim strabuzzò gli occhi, incredulo. Aprì la finestra e fu investito da una folata di vento pregno di smog misto al profumo di pane appena sfornato; Margot gli aveva mostrato diverse cartoline, la città che stava guardando non poteva che essere Parigi. Che razza di storia è questa?
Un paio di colpi decisi alla porta lo fecero sobbalzare.
«Monsieur Blanc, c’est vous?» disse una rauca voce femminile. «J’ai entendu des bruits!»
Merda.
Dato che la donna alla porta continuava a bussare insistentemente, Jim si decise ad andare ad aprire. «Ehm, salve.»
Si trovò di fronte una signora di mezza età bionda, con piccoli occhi azzurri che lo fissavano con sorpresa. Poi, attaccò con le domande.
Margot gli aveva insegnato un po’ di francese, per cui Jim riuscì a capire grossomodo cosa voleva: la signora Bernard era la governante della palazzina a Montmartre in cui si trovavano e dove il signor Blake – o le professeur Blanc, come era noto da quelle parti – affittava regolarmente una stanza.
«Sono suo nipote» azzardò il ragazzo, quando lei pretese di sapere chi fosse e cosa ci facesse lì. «Sono arrivato da poco, speravo di trovarlo qui…»
Purtroppo, la camera a soqquadro e la finestra spalancata erano tutti indizi che si fosse intrufolato come un ladro e la signora Bernard borbottò qualcosa su una telefonata da dover fare. Alla polizia, con tutta probabilità.
Non sapendo come togliersi dai guai, Jim pensò di rituffarsi nello specchio e sparire. Ma come avrebbe reagito la donna? E che avrebbe raccontato poi a Blake? Provò a dissuaderla, la scongiurò, ma la governante si stava già precipitando per le scale e Jim, nel panico, l’afferrò per un braccio.
«Ferma.»
La donna si congelò e i suoi occhietti slavati si fissarono nei suoi. Non si era mai rivolto così a nessuno, di sicuro non a un adulto: non era una richiesta, non era un invito. Era un ordine.
«Non chiamerà la polizia» disse Jim, aumentando appena la presa sul suo braccio; ogni parola usciva dalle sue labbra vibrando, chiara e decisa. «Non dirà a nessuno di avermi visto qui. Annuisca se ha capito.»
La donna annuì, remissiva. Jim la lasciò andare. La guardò mentre scendeva le scale senza una parola, sicuro che avrebbe obbedito. Si richiuse nella stanza.
Era la prima volta che provava a usare la malia, la prima volta che piegava la Volontà di qualcuno. E mentre lo faceva aveva provato una sensazione di onnipotenza, di pieno controllo ed era stato inebriante… ma adesso che il pericolo era passato, si sentiva mortalmente in colpa.
“Imparerai che quelli come noi sono al di sopra di certe strutture”
Ma quanto al di sopra si stava spingendo Blake? Che usava gli specchi per spostarsi da un paese all’altro, che si serviva di identità fasulle, inafferrabile come fumo.
Quando tornò nella galleria degli specchi, Jim trovò la gattina nera immobile come una sfinge davanti a una grande specchiera appoggiata alla parete.
«Perché mi hai portato qui?» le domandò. «Cosa stai cercando di dirmi?»
In risposta, la gatta entrò nello specchio, attraversando il vetro come se fosse liquido. Il ragazzo sospirò, rassegnato al fatto che per capirci qualcosa dovesse continuare ad assecondarla.
Quando tutto il suo corpo ebbe oltrepassato la cornice, Jim sbucò in un corridoio a scacchiera invaso da foglie marce e sormontato da arcate piene di ragnatele; sembrava che fosse finito in una specie di maniero. La gattina gli fece strada attraverso sale immense, piene di sculture in marmo e bronzo, quadri –c’era persino una copia estremamente fedele della Gioconda – armature d’epoca e mobili lussuosi. Sale che un tempo dovevano essere state magnifiche, ma che ormai versavano in un profondo stato di abbandono. L’intero palazzo era una sorta di museo in rovina.
Lasciò che il felino lo conducesse oltre un grande portone che si schiudeva su un giardino incolto, disseminato di altre statue ricoperte di muschio disidratato.
Il palazzo si affacciava, con le sue cupole e torrette, su un grande lago che rifletteva il verde dei boschi circostanti e il cielo azzurro.
Con la mente che lavorava in fretta, Jim attraversò il giardino e a un certo punto vide, in piedi sulla sponda erbosa, davanti a un cavalletto, una donna vestita di bianco intenta a dipingere.
Jim rimase immobile a fissarla, senza sapere cosa fare. La gattina invece lo superò con sicurezza, infilandosi tra le caviglie della donna.
«Lily! Sei tornata finalmente.»
Quando però si accorse della presenza di Jim, lanciò un mezzo strillo e il pennello le volò di mano.
«Oddio![1] » esclamò. «E tu chi sei? Come sei entrato?»
Imbarazzato, lui sollevò le mani e provò a rassicurarla. «Scusa, non ti volevo spaventare. Stavo seguendo il gatto e…»
La donna assunse un’espressione scettica. Era davvero bella, sulla trentina, con occhi scuri e lunghi capelli castano ramati, a eccezione di un’unica ciocca bianca sul davanti; probabilmente era per questo che a una prima occhiata le aveva attribuito molti più anni.
«Non hai risposto alla mia domanda» disse, chinandosi per raccogliere il pennello. «Come sei entrato?»
«Ecco, credo di essere passato da uno specchio.»
Lei inarcò le sopracciglia. «Da uno specchio?»
«Lo so che detto così non ha senso…»
«Aspetta, sei uno stregone?»
Jim si interruppe. «Ehm, sì. Anche tu..?»
A quelle parole, il bel viso della donna si illuminò. «In tal caso sei il benvenuto! Scusa per la brusca accoglienza ma…ecco, non ricevo molte visite. Eccetto Lily, ovviamente.» Aggiunse, facendo un cenno alla gattina.
«Non sapevo fosse tua.»
«Oh, no! Lei va e viene quando vuole, è un demone indipendente.» La maga studiò volto di Jim con interesse. «Da dove vieni?»
«Stati Uniti, lo specchio da cui sono passato era a New Orleans.»
«Però capisci l’italiano.»
«Un po’» rispose lui, facendo un gesto vago con la mano. «Nel circo dove lavoro c’è un lanciatore di coltelli di Messina. Qui dove siamo invece?»
La rossa fece un giro su se stessa, osservando il paesaggio. «Vicino Frascati. Credo che questa un tempo fosse la residenza estiva di un qualche papa.»
«E tu come sei arrivata qui?»
«Ci vivo da un po’.»
«Credevo che questo posto fosse disabitato» fece Jim, sorpreso. «Chi altro c’è oltre te?»
«Nessuno, ci sono solo io.»
«Sul serio?» si sbalordì lui. «E alla tua famiglia sta bene che tu viva in un posto così isolato…?»
Lei si incupì all’istante. «Non ce l’ho una famiglia. E non ho mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno, grazie per l’interessamento.»
Raccolse tela e cavalletto e un lembo del vestito e si incamminò per la sponda a piedi nudi; spiazzato, Jim la seguì.
«Scusa, non ti volevo offendere» si affrettò a dire. «È solo che mi è parso un po’ strano, tutto qui…»
«Che una donna possa stare bene da sola?»
«No, non intendevo…»
Inaspettatamente, la maga si mise a ridere. «Tranquillo, non mi sono offesa. È solo che... le persone tendono a rendermi nervosa, ecco. Qui invece posso coltivare i miei poteri in tranquillità.»
«E non ti manca avere qualcuno con cui parlare?»
Le ciglia di lei ebbero un fremito. «Qualche volta.»
A un certo punto si fermò e si volse a guardarlo negli occhi. «Potresti rimanere per cena. Così magari mi racconti questa faccenda degli specchi e come riesci ad attraversarli.»
«Non credo di averlo capito bene nemmeno io» ammise lui con un mezzo sorriso. «E poi ho disubbidito al mio maestro venendo qui, dovrei tornare prima che se ne accorga.»
«Chi è il tuo maestro?»
«Solomon Blake.»
«Ah» fece lei dopo un momento. «L’uomo dei libri.»
«Lo conosci? È stato qui anche lui?»
«È venuto solo una volta» rispose lei. «Anche lui è sbucato dal nulla, proprio come te. Mi è sembrato gentile, ha chiesto di poter esaminare la biblioteca e io gliel’ho lasciato fare: questo posto è così grande che nemmeno io so per certo quante stanze ci siano. Da allora, non l’ho più visto: credo stesse cercando qualcosa in particolare, ma non so se l’abbia trovata.»
Jim ripensò alla galleria degli specchi. «Me lo chiedo anche io.»
«Sicuro di non voler rimanere?» domandò la donna, una luce speranzosa negli occhi. «Di solito non mi piace avere gente intorno, ma se Lily è venuta da te significa che le hai ispirato fiducia.»
Titubante, Jim lanciò un’occhiata al maniero alle sue spalle. Blake poteva rientrare da un momento all’altro e per quel giorno credeva di aver trasgredito abbastanza le sue regole. «Mi piacerebbe davvero, ma non posso.»
Dopo un breve momento di delusione, lei tornò a sorridergli. «Non importa. Però, magari un giorno di questi puoi tornare a trovarmi, Attraversaspecchi.»
«Ci proverò» promise Jim, divertito dal soprannome. La salutò con la mano mentre camminava verso il portone, con Lily che gli trotterellava dietro.
«Ah, aspetta» fece poi, tornando a voltarsi. «Non ci siamo neanche presentati: io mi chiamo Jim. Jim Doherty.»
La donna, ferma di fronte al lago, gli rivolse un gran sorriso. «Piacere di conoscerti, Jim. Il mio nome è Lucia.»
 
[1] In italiano, nel testo.

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Capitolo 13
*** I limiti della magia ***



I LIMITI DELLA MAGIA





Blake rientrò quella sera stessa; Jim sentì passi frettolosi al secondo piano e la porta del suo studio chiudersi bruscamente e intuì subito che fosse di cattivo umore. Perciò, quando si apprestò a bussare, rimase fermo col pugno sollevato, indeciso se fosse il caso di rimandare…
«Entra pure, Jim» lo invitò una voce stanca.
Lo stregone era seduto alla scrivania, circondato da alti scaffali di libri e quadri a olio, Wiglaf appollaiato sullo schienale della poltrona; non sollevò lo sguardo quando Jim apparve sull’uscio, concentrato com’era sul foglio che stava scrivendo, ma l’apprendista notò che il suo volto appariva più pallido e scavato del solito. Per circa un minuto non poté far altro aspettare, ascoltando il grattare della stilografica sulla carta.
«Niente lezioni per domani» annunciò infine Blake. «Ci vediamo direttamente la settimana prossima.»
«È successo qualcosa?» Jim sapeva che non si sarebbe mai sbottonato con lui, ma ci provò ugualmente. Per educazione, se non altro.
«Nulla di cui devi preoccuparti» rispose lui, infatti; rimosse le lenti pince-nez dalla sella del naso rotto e si stropicciò gli occhi. «Sono solo…stanco.»
Piegò il foglio e lo infilò con cura in una busta da lettere. Ma poi, con grande meraviglia di Jim, gettò il tutto nel camino acceso. Subito, un’alta fiammata bianca e luminosa si levò dal focolare.
«Che cos’è?» domandò il ragazzo.
Lo stregone fissò per un istante le fiamme bianche che tornavano ad abbassarsi, gli occhi cupi e distanti. «Un messaggio che so già non verrà letto.»
In quel momento, si levò un miagolio e Jim sentì qualcosa strusciarsi contro le sue caviglie. Blake distolse l’attenzione dal fuoco. «Da quando abbiamo un gatto?»
«È un Famiglio.» Jim raccolse in braccio la gattina nera. «L’ho trovata nella serra: forse ha avvertito la mia aura attraverso il Tutto ed è venuta a cercarmi. Si chiama Lily.»
Wiglaf manifestò il suo disappunto gracchiando e sbattendo con forza le ali. Neanche Blake sembrava contento. «Un demone non è un cucciolo, non farti ingannare dalle apparenze.»
«Certo, lo so…»
«Solo perché si è sentito affine a te non significa che ti rimarrà fedele. Dovrai guadagnarti il suo rispetto, credi di esserne in grado?»
Lily cominciò a fargli le fusa e Jim si ritrovò a sorridere come un idiota. «Ha visto? Già mi vuole bene! Allora, posso tenerla?»
Lo stregone sospirò. «Va bene, ma sarà una tua responsabilità: non voglio
ritrovarmi escrementi di demone dappertutto, né che importuni Wiglaf.»
«Promesso» disse lui, grattando la gattina dietro le orecchie. «Non si accorgerà nemmeno che c’è!»
«C’è altro di cui volevi parlarmi?»
Blake lo stava fissando intensamente, le dita giunte sulla scrivania, e Jim sentì lo stomaco attorcigliarsi; che fosse già venuto a conoscenza della sua scappatella nell’ala ovest? Della galleria degli specchi e di Lucia, la misteriosa donna della casa sul lago…?
«Ehm, no. A che proposito?»
«Dimmelo tu. Sono stato piuttosto preso negli ultimi giorni: hai avuto problemi durante la mia assenza? Valdar si comporta bene con te?»
«Inquietante e di poche parole» rispose lui con un’alzata di spalle. «Tutto nella norma.»
«Bene» annuì lui, ma quell’ombra di sospetto non abbandonò il suo sguardo. «Se non c’è altro puoi tornare a casa.»
«Una cosa ci sarebbe, in effetti» disse il ragazzo. Prese un respiro profondo. «Al circo le cose non vanno molto bene: è fermo già da due mesi, gli operai sono irrequieti, gli artisti giù di corda. Credo che farebbe a tutti piacere se si interessasse di più a loro.»
Blake batté le palpebre. «Grazie per avermelo riferito, me ne occuperò sicuramente.»
«E poi vorrei che desse un’occhiata al padre di Arthur» aggiunse Jim. «Sono affetti da una maledizione, credo: possono trasformarsi in animali, ma Joel è bloccato in forma di leone da diverso tempo. Lei può fare qualcosa?»
«Non ho abbastanza elementi per stabilirlo» rispose lui, pensieroso. «Dovrò incontrarlo.»
 

La Rolls-Royce di Blake si fermò nello spiazzo polveroso sul retro del circo il lunedì mattina seguente: stavolta era venuto senza Valdar.
Subito, una piccola folla si raccolse per dare il benvenuto al nuovo proprietario; alcuni, tra cui Rodrigo, Dot e qualcuno dei clown, salutarono lo stregone amichevolmente, ma altri, come Antonio, Frank e i gemelli Svanmör, si limitarono a un freddo cenno del capo. Molti lo ignorarono deliberatamente.
«Mi sa che avevi ragione» riconobbe, quando Jim lo ebbe raggiunto. «Il clima qui è piuttosto teso. Non capisco quale sia il problema, hanno tutti ricevuto lo stipendio questo mese, giusto?»
«Non credo che siano i soldi il problema» disse Jim. «Hanno bisogno che dia loro uno scopo. Magari potrebbe dire qualche parola. E si ricordi di sorridere, ok?»
La prospettiva di parlare di nuovo in pubblico non sembrò entusiasmarlo. «Ci proverò. Ora portami dal tuo amico…»
«Ah, Mr. Blake!»
Maurice O’Malley schizzò fuori dal suo vagone e trotterellò verso di loro con tutta la velocità concessa dalle corte gambe. «Che magnifica sorpresa, stavo giusto pensando a lei! Ha un minuto?»
«Forse più tardi, signor O’Malley, sono solo di passaggio…»
«Non le ruberò molto tempo, riguarda lo spettacolo di fine mese» tuonò il direttore, estraendo da sotto la giacca penna e taccuino. «Ultimamente non stiamo avendo molti visitatori e gli artisti si lamentano di non avere nulla che li tenga occupati: così, hanno proposto di organizzare un grande show prima di lasciare la città, dato che adesso il budget lo permette…»
«Mi sembra una splendida idea» lo liquidò Blake distrattamente. «Le prometto che ne riparleremo al più presto, se vuole scusarmi.»
E si allontanò con Jim verso il serraglio; mentre valicava l’ingresso, lo stregone tirò fuori dal taschino un fazzoletto di seta e se lo portò al naso per schermarsi dal forte odore degli animali. Jim intercettò subito l’occhiataccia che gli riservò Arthur, intento a ferrare un cavallo con tre chiodi infilati in bocca e il martello in pugno. «Posso fare qualcosa per lei?»
«È qui per Joel» rispose immediatamente Jim con un sorriso. «Come sta oggi?»
Arthur fece un cenno verso la sua gabbia. «Gli ho lasciato della carne ma non l’ha ancora toccata; il caldo e l’inattività lo rendono nervoso.»
Blake si avvicinò alle sbarre per osservare meglio il grosso felino, che era sdraiato sulla paglia e faceva ondeggiare piano la coda, in allerta.
«Un perfetto esempio di zoomorfismo» commentò, affascinato. «Anni fa, conobbi un gruppo di guerrieri in Ruanda che si facevano chiamare Wana wa simba, “Figli del leone”: erano devoti alla dea Nyavirezi, che aveva donato loro la forza del leone per difendere i propri territori dalle tribù nemiche.»
«Conosco già questa storia» disse Arthur, aggrottando la fronte. «Papà mi disse che veniva tramandata nella sua famiglia, insieme al Dono… finché i nostri antenati non vennero caricati su una nave e portati in America: un leone non è nato per essere schiavo, così col passare delle generazioni il Dono è andato perduto.»
«Finora, si direbbe» replicò Blake. «Tu e tuo padre siete i primi della vostra famiglia a trasformarvi dopo più di un secolo, quindi.»
«Non so spiegarmelo» disse il ragazzo, scrollando le spalle. «E nemmeno papà… È accaduto all’improvviso.»
«Ti dispiace raccontarmi come è andata?»
Arthur acconsentì. Raccontò della Notte del Disastro, di quando i felini si erano ribellati all’uomo e sbranato metà del pubblico raccolto nel tendone. Raccontò di quando era corso a nascondersi nella cabina di Jim, gli occhi spalancati dal terrore. “È la fine del mondo!” era stato tutto ciò che era riuscito a singhiozzare. Lui e Jim si erano barricati in cabina assieme agli altri bambini; erano rimasti ore lì dentro, intonando filastrocche con le dita premute nelle orecchie per non ascoltare le urla e i ruggiti e poi i colpi di fucile del Folletto. Raccontò di quando, alla fine di tutto, aveva ritrovato suo padre nell’ufficio del direttore coperto di sangue, sotto shock, con un doppio whisky in una mano e l’altra avvolta da fitte bende.
«È iniziato tutto quella notte» concluse Arthur. «Papà ha scoperto di possedere il Dono e ha continuato a mutare. Finché…be’, finché non è rimasto così. Questo è tutto ciò che posso dirle.»
Ma Blake non stava più guardando Arthur e non stava nemmeno guardando Joel: stava fissando Jim.
«Interessante» fu il suo unico commento. «Posso restare qualche minuto solo con tuo padre?»
Arthur cercò lo sguardo di Jim, che sorrise incoraggiante, e infine diede il suo consenso. Lasciarono lo stregone nel serraglio e si sistemarono fuori accanto all’entrata.
«Credi sul serio che ci riuscirà?» chiese Arthur dopo qualche minuto; si sforzava di nasconderlo, poggiato a braccia incrociate contro un palo di sostegno, ma si capiva che avesse lo stomaco chiuso dall’ansia.
«L’ho visto fare cose straordinarie» rispose Jim. «Se esiste un qualche incantesimo o un rituale, l’unica persona che può trovarlo è Blake. Lo so che non ti piace…»
«Tu ti fidi di lui?»
Jim avrebbe voluto rispondere di getto che sì, certo che si fidava del suo maestro. Ma dopo quanto aveva scoperto sui suoi viaggi e con tutti i segreti che si rifiutava di condividere con lui non ne era più sicuro…
“La magia è sleale per natura”. Non era stato proprio Blake a dirlo?
«Finora ha mantenuto le sue promesse.»
L’espressione di Arthur continuava a essere scettica, ma la tensione delle sue spalle parve allentarsi almeno un po’.
Trascorsero forse dieci minuti, dopodiché lo stregone riemerse dalla tenda così all’improvviso che i due ragazzi neanche se ne accorsero.
«Allora?» domandarono in coro.
Lo stregone passò una mano sui pantaloni per rimuovere la paglia e infilò il cappello. «Sono desolato, non credo che tuo padre tornerà in forma umana.»
Jim aprì la bocca, sconcertato e Arthur lo fissò con sguardo perso. «Ma… c-che significa? Perché?»
«La maledizione che avete ereditato è antica» spiegò Blake, con lo stesso tono professionale e distaccato che usava quando teneva lezione. «Molto più delle conoscenze magiche codificate fino a ora, temo. Per tuo padre non c’è più niente da fare, ma tu sei giovane, hai un buon sessanta per cento di probabilità di evitare la sua sorte, se smetti subito di mutare e lasci questo lavoro. Il mondo è grande e sembri un giovanotto in gamba, sono abbastanza convinto che tu possa avere una vita normale.»
Jim non sapeva cosa dire; guardò Arthur, che aveva lo sguardo fisso e la mascella rigida. «Artie…»
«Sto bene» disse lui, con voce roca. Sbatté in fretta gli occhi, inspirò profondamente. «Non è che ci sperassi veramente.»
«Mi dispiace, io non…»
«Devo tornare al lavoro.» Prima che Jim potesse trattenerlo, scomparve nel serraglio e chiuse i lembi della tenda.
«Gli serve un po’ di tempo» commentò Blake, controllando l’ora. «Forse è meglio lasciarlo in pace…»
Jim si voltò come una furia. «Ma lei che accidenti di problema ha? Perché gli ha detto quelle cose?»
«Ho solo detto la verità» replicò Blake, che pareva sinceramente sorpreso da quella reazione. «Cosa avrei dovuto fare, mentire? Dargli false speranze..?»
«Magari avrebbe potuto evitare di comportarsi da stronzo saccente!» sbottò lui, furibondo. «Avere un briciolo di tatto. Cristo, si tratta di suo padre!»
Qualcuno fece capolino dalle proprie tende per assistere alla scenata. Quando se ne accorse, lo stregone ripose l’orologio e si schiarì la gola. «Stiamo dando spettacolo, ne discuteremo tornando alla magione…»
«No, voglio che adesso lei mi spieghi perché non ha fatto niente per Joel!» esclamò Jim. «Non ha nemmeno usato la magia, l’avrei percepito dalla sua aura!»
«James...»
«La pianti di chiamarmi così!»
«Se non ho usato la magia è perché sapevo in partenza che non sarebbe servito a niente» rispose Blake, stavolta con voce dura. «Conosco la materia che pratico e i suoi limiti e spezzare la maledizione di Joel King rientra fra questi.»
Attirati dal baccano, molti circensi si erano fermati a guardarli, posando lo sguardo prima su Jim, furente e astioso, e poi su Blake, che se ne stava immobile e rigido ed evitava di guardarlo.
«Mi dica una cosa» disse Jim. «Avrebbe fatto un tentativo se Joel e Arthur non fossero stati semplici fenomeni da baraccone? Sono scarti della società, Dimenticati, di cui non frega a nessuno, figuriamoci a uno come lei!»
«Stai esagerando» lo avvisò Blake. «Capisco che non ti abbia fatto piacere sentirlo, ma nella magia ci sono degli equilibri che vanno rispettati…»
«Mr. Blake, adesso possiamo parlare?»
Era di nuovo O’Malley. Blake socchiuse gli occhi. «Le chiedo scusa, direttore, non è un buon momento.»
«Mi servirebbero solo un paio di firme! Ho sentito che il Christy ha messo in vendita uno dei suoi elefanti a un prezzo stracciato! I Fox Brothers ne hanno uno, perciò…»
Blake scoccò al Folletto un’occhiata che avrebbe congelato il Sahara. «Anzi, ora che ci penso, ho io qualcosa da dirle.»
O’Malley deglutì. «La ascolto.»
«Qualsiasi forma di spettacolo che coinvolga animali da oggi è abolita.» Lo sguardo invernale di Blake passò sopra le teste di tutti i presenti, fino a scagliarsi su Sinclair e la sua squadra. «E non mi riferisco solo a quelli del serraglio: non accetterò alcun tipo di maltrattamento. Mi sono spiegato, capomastro?»
Sinclair si grattò la guancia ispida e sogghignò in modo strafottente. «Non so di cosa sta parlando. E ai miei uomini non piace che gli venga detto come devono passare il tempo, visto che da quando è arrivato lei qui non si può più lavorare!»
Le iridi di Blake si accesero di un blu elettrico e Jim percepì il suo potere dilatarsi, una marea infuocata pronta a travolgere ogni cosa. «Sono sicuro che riuscirete a tenervi impegnati in modo più costruttivo.»
Il cielo si riempì di nuvole e l’oscurità avvolse i tendoni del circo come se di colpo fosse arrivata la notte. La faccia di Sinclair passò dapprima attraverso svariate gradazioni di rosso, poi sbiancò, mentre il sorrisetto spavaldo lasciava il posto a un’espressione terrorizzata. Inghiottì a vuoto, rumorosamente. «S-ssignore.»
La potente aura dello stregone si placò lentamente e le ombre si ritirarono. A Jim si erano tappate le orecchie, per tutto il tempo aveva trattenuto il respiro col cuore bloccato in gola. E a giudicare dalle facce dei presenti, non era il solo.
«Ma, signor Blake» intervenne allora O’Malley. «I nostri numeri si basano per la maggior parte sugli animali, se li eliminiamo nessuno vorrà assistere a…»
«Col denaro che vi ho lasciato potete campare di rendita per più di un anno» lo interruppe seccamente Blake. «Siete artisti, trovate un’alternativa soddisfacente. Ma se un solo animale sarà costretto a esibirsi agirò di conseguenza. Queste sono le direttive. Andiamo, James.»
Detto ciò, si diresse ad ampie falcate verso la sua macchina, piantando in asso il Folletto che cercava ancora, invano, di protestare. Completamente disarmato, Jim lo inseguì di corsa fino al parcheggio.
Blake si infilò in auto, estrasse dalla tasca la sua boccetta a forma di prisma con all’interno lo strano liquido nero e bevve un sorso veloce.
«Allora, vieni o no?» disse poi, visto che Jim era rimasto fermo a fissarlo. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare.»
Il ragazzo sospirò. «Mi ascolti…»
«Non intendo ritornare sull’argomento. Ho risolto il problema degli incontri clandestini, nessuno degli operai si azzarderà più a toccare un animale, compreso il signor King. Sali in macchina.»
«Non può ridurre ogni cosa a un’equazione matematica, lo sa?»
Blake tacque, le mani strette sul volante. Poi, lentamente, uscì dall’abitacolo e richiuse lo sportello.
«Sono sinceramente dispiaciuto per Arthur e suo padre» disse, sforzandosi di rendere i contorni della sua voce meno taglienti. «Vorrei che ci fosse un modo per aiutarli, ma purtroppo la magia non lo prevede.»
«Nemmeno la Magia Vuota?»
Blake lo guardò negli occhi, con espressione talmente seria che Jim si pentì di aver tirato fuori l’argomento. «Chi te ne ha parlato?»
«Nessuno, mi sono imbattuto in questo termine leggendo e…»
«Io non pratico quel genere di magia.»
«Ma secondo l’autore il potere del Vuoto è più grande di quello del Tutto» obiettò Jim con slancio. «È vero che si possono riportare in vita i morti, creare cose dal niente…?»
«È vero» fu la risposta recisa che seguì. «Il Vuoto è una dimensione separata dalla nostra, in cui la materia non esiste e perciò le leggi della magia non hanno valore. Ma c’è un motivo se Arcanta ha bollato certe pratiche come eresie.»
«Sta dicendo che è illegale?»
«I dogmi della magia sono chiari» spiegò lo stregone. «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ci è stato già donato molto ma non siamo dèi: non possiamo infondere la vita, né sottrarla. E il Vuoto non dona mai nulla senza esigere qualcosa in cambio, per questo i Mancanti lo chiamano Inferno.»
Per qualche ragione, la pelle di Jim si ricoprì di brividi. Gli sembrò quasi di avvertirla di nuovo, quella sensazione di gelo provata qualche settimana fa nella palude, durante il suo primo viaggio in astrale: l’abisso arido e senza fine in cui stava per essere trascinato…
«Lascia perdere questi argomenti» concluse Blake, riaprendo lo sportello dell’auto. «Coltiva il tuo potenziale e rispetta i tuoi limiti: ti sto fornendo tutti gli strumenti per raggiungere la grandezza senza smarrire te stesso.»
 
 
Rimasero in silenzio durante tutto il tragitto fino alla piantagione.
Jim guardava i campi di cotone battuti dal sole sfilare oltre il finestrino, la mente affollata di pensieri. Sentiva ancora la collera bruciargli in fondo alla gola, ma per quanto gli costasse ammetterlo, forse Blake aveva ragione; era stato lui a pretendere che sistemasse i suoi problemi e quelli della compagnia. Non era stato in grado di compiere una scelta, di decidere tra la magia e la sua famiglia, e si era arrabbiato con lo stregone perché aveva trovato la soluzione migliore possibile, sobbarcandosi responsabilità che non gli competevano sulle vite di gente sconosciuta. E, anche adesso, Jim stava dando per scontato che la magia fosse la soluzione a tutto…
«Parlerò con O’Malley» disse tutt’a un tratto Blake, fermando l’auto nel vialetto della tenuta. «Cercherò di essere più presente e di andare incontro alle esigenze della compagnia d’ora in poi. E quanto al tuo amico, mi impegnerò perché lui e suo padre abbiano condizioni di vita migliori. Magari Arthur potrebbe occuparsi da solo degli animali, senza dover sottostare agli operai, dopotutto sembra avere realmente a cuore il loro benessere. Credi che possa fargli piacere?»
Jim si limitò ad annuire.
Quando rientrarono in casa, il ragazzo ebbe la sensazione che qualcosa fosse cambiato in quel posto, ma in un primo momento non seppe dire con esattezza cosa; le finestre continuavano a essere oscurate, l’odore stantio delle suppellettili d’epoca gli stuzzicava sempre il naso in maniera fastidiosa. Eppure, per qualche motivo i suoi sensi erano tutti in fermento.
Anche Blake parve percepirlo, perché la sua espressione si fece attenta. «Sta’ dietro di me.»
Jim annuì e si preparò a scagliare un incantesimo alla prima avvisaglia di pericolo, mentre seguiva il maestro lungo il corridoio. La porta del salottino era socchiusa.
«Chi osa violare la casa dell’Arcistregone dell’Ovest?» tuonò Blake, irrompendo nella stanza. Subito dopo, si congelò sull’uscio come una scultura di sale.
Jim sbirciò oltre la sua spalla, e individuò un baule da viaggio e due grosse valigie di pelle in un angolo. Successivamente, si soffermò sul cappotto nero affisso all’attaccapanni e infine sulla ragazza che occupava la poltrona accanto alla finestra, con indosso un vestito scozzese sui toni del verde e un libro aperto tra le mani.
«Non è possibile» sussurrò lo stregone.
Con molta calma, l’intrusa abbassò la copertina del libro, mostrando un volto occhialuto e incorniciato da folti ricci corvini.
«Be’, che accoglienza calorosa» commentò, con una decisa nota di sarcasmo. «Ciao, papà. Anch’io sono felice di vederti.»

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Capitolo 14
*** Padri e figli ***



PADRI E FIGLI





…Papà!?
Jim non riusciva a credere alle proprie orecchie. Si voltò lentamente a guardare il suo maestro, il cui volto era sbiancato come se avesse visto un fantasma.
La ragazza esalò un sospiro spazientito e richiuse il libro.
«È evidente che la mia presenza qui non sia gradita» disse, spingendo in cima al naso i grossi occhiali rotondi dalla montatura d’oro. «Devo aver interpretato male la tua ultima lettera.»
«L’hai letta?» domandò lo stregone con un filo di voce.
«Me ne mandi a dozzine ogni settimana, il mio camino comincia a essere intasato: era l’unico modo perché la smettessi.» A quel punto, i suoi occhi scuri trafissero Jim come frecce. «Questo chi è?»
Anche Blake fissò l’allievo. «Lui, be’ ecco…»
«Mi chiamo Jim» si presentò il ragazzo, avvicinandosi con la mano protesa. «Jim Doherty...»
«Non mi interessa come ti chiami. Voglio sapere chi sei e che ci fai in casa di mio padre.»
«Jim è il mio apprendista» sputò fuori Blake, con l'aria colpevole di chi confessa il suo coinvolgimento in un qualche crimine. «Te lo avrei accennato nella prossima lettera.»
«Hai un apprendista.» La ragazza sbatté le lunghe ciglia nere. «E da quando?»
«Qualche mese.»
«Credevo non volessi più saperne di apprendisti.»
«Le cose possono cambiare.» Blake la guardò, gli occhi azzurri accesi di una luce intensa. «E anche le persone.»
In risposta, lei fece scoccare la lingua.
«Quanto ti fermi?»
«Oh, tranquillo, non ho intenzione di starti tra i piedi a lungo.»
«Alycia, per favore…»
«È stato un lungo viaggio» tagliò corto lei, alzandosi dalla poltrona. «E il clima di questo Paese mi dà alla testa: c’è un posto in questa casa terrificante dove possa disfare i bagagli e fare un bagno?»
«C’è una stanza già pronta al piano di sopra, chiedo a Valdar di accompagnarti.»
Alycia sventolò una mano e le valigie si sollevarono in aria. «Non occorre, la troverò da sola. Passerò più tardi a salutarlo.»
«Ne sarà felice.» Blake provò ad accennare un sorriso. «Gli sei mancata molto. Ci sei mancata, tesoro…è bello riaverti a casa.»
Lei emise una risata fredda e senza eco. «Ah, sì? Aspetta a dirlo.»
Nell’uscire, passò accanto a Jim, che era rimasto in mezzo a loro come se fosse del tutto invisibile.
«Sai, anche tu ne avresti bisogno» commentò Alycia, arricciando il nasino. «Di un bagno, intendo: puzzi di stalla.»
Lui avvertì una vampata di calore salirgli rapida fino alle orecchie, ma prima che potesse ribattere, la figlia dello stregone lasciò la stanza seguita diligentemente dai suoi bagagli.
«Ti prego di perdonarla» disse Blake, massaggiandosi la tempia. «Alycia ha una…personalità molto forte, ecco. Capisco che all’inizio possa intimidire.»
«Perché non mi ha detto che aveva una figlia?»
«Perché non credevo che sarebbe venuta a cercarmi.» Lo stregone tirò fuori come al solito il suo orologio, a conferma di quanto quell’incontro lo avesse scosso. «Vive ad Arcanta e sono anni ormai che noi…ero sicuro che non avrebbe nemmeno aperto l’ultimo messaggio che le ho mandato. Finora non ha mai risposto.»
Jim ricordò la lettera gettata nel camino qualche sera prima, seguita da quella fiammata bianca. «È successo qualcosa tra voi?»
Sulle labbra dello stregone affiorò un sorriso triste. «Troppe cose, temo. Ma dato che ormai è qui, potreste provare ad andare d’accordo: ti garantisco che in fondo non è così male.»
Jim tornò a guardare la porta con aria poco convinta.  Quella porta guai, si disse. Già me lo sento. 
 

Alycia trascorse il resto del pomeriggio in camera sua e Blake insistette perché Jim riprendesse con lo studio senza ulteriori distrazioni. Ma era una parola: l’arrivo della figlia dello stregone aveva acceso nel ragazzo una marea di nuove domande. Come mai aveva avuto quella reazione nell’apprendere che suo padre avesse un apprendista? E come mai Blake ne aveva rifiutati tanti in passato? Che cosa era cambiato, esattamente?
«Sarà meglio che vada» disse qualche ora dopo, occhieggiando l’orologio a pendolo.
«Perché non resti per cena?» propose lo stregone, inaspettatamente.
«Veramente pensavo che volesse passare del tempo in famiglia.»
«È così, ma avrei piacere che ti unissi a noi» rispose lui, e Jim si chiese, divertito, se dopo la scenata di poco prima avesse paura che Alycia potesse aggredirlo con le posate se fossero rimasti da soli.
Fu subito chiaro che il padrone di casa stesse cercando di fare buona impressione: aveva indossato lo smoking, con la catenina dell’orologio e i gemelli che riflettevano la luce delle candele. Inoltre, aveva fatto di tutto per rendere la cupa sala da pranzo un po’ più accogliente mettendo come centrotavola un grosso vaso di fiori, ma l’effetto finale, con le pesanti tende alle finestre e i candelabri lungo il grande tavolo, era quello di essere alla veglia di un morto.
L’ospite li raggiunse senza fretta, avvolta in un lungo, sobrio vestito nero col colletto di pizzo bianco, e prese posto alla destra di suo padre, proprio di fronte a Jim; stavolta non portava gli occhiali e aveva lasciato i capelli sciolti, una voluminosa criniera di riccioli neri che profumava vagamente di gelsomino. Ma quando sollevò la testa e lo guardò in modo apertamente ostile, Jim rivolse immediatamente la sua attenzione altrove.
«Bene, eccoci qui tutti e tre» esordì Solomon Blake, allegro. «Non è meraviglioso? Sai Alycia, Jim è uno stregone molto dotato: è qui da pochi mesi e già padroneggia illusioni e manipolazione elementale e stiamo per introdurre gli incantesimi da combattimento.»
Lo sguardo di Alycia tornò a spostarsi freddamente su di lui. «Non mi dire.»
Jim accennò un sorriso e mangiò un pezzo di pane, giusto per fare qualcosa.
«E tu, mia cara?» riprese lo stregone. «Come procedono gli studi? Suppongo che ormai manchi poco alla tua ammissione.»
«Devo redigere una tesi sperimentale da presentare ai Decani entro il prossimo plenilunio.»
Blake le rivolse un sorriso affettuoso. «Ma è ovvio, sei sempre stata una maga brillante! Tua madre sarebbe fiera di te.»
A Jim non sfuggì che la ragazza aveva irrigidito la mascella a quelle parole.
«Alycia sta studiando per entrare nel Cerchio d’Oro» stava intanto spiegando lo stregone con orgoglio. «La prestigiosa corporazione degli alchimisti di Arcanta. Ha sempre nutrito una passione per le scienze esoteriche, sin da bambina adorava fare esperimenti! E infatti è già molto avanti rispetto ai suoi coetanei…»
«Mio padre non ti aveva mai parlato di me prima d’ora, vero?» chiese Alycia all’improvviso, guardando Jim. Il boccone di pane gli andò di traverso.
«E-ehm, ehm» tossì lui, cercando di non soffocare. «I-in effetti, no...»
«Come pensavo» replicò lei, algida. «E dimmi, Jim Doherty, come ci sei finito sotto l’ala dell’Arcistregone dell’Ovest? E come mai ad Arcanta non ho mai sentito nominare la tua famiglia?»
«Veramente non sono mai stato ad Arcanta» rispose Jim, sentendosi un po’ messo alle corde. «Sono nato in New Jersey: mia madre era una strega, ma mio padre…be’ ecco, lui era un Mancante, faceva il contadino. Quando poi è morto sono andato via di casa e mi sono unito a un circo.»
«Un circo.» Alycia lo studiò dall’alto in basso, il sopracciglio sollevato. «Be’, questo spiega molte cose.»
«Alycia, non essere scortese» disse Blake in tono di rimprovero. «La vita per Jim non è stata facile, ma ha dimostrato di possedere una predisposizione naturale per la magia e finora non aveva mai preso lezioni.»
Alycia non disse nulla. Ruotò il dito sopra il bicchiere come se stesse mescolando l’acqua all’interno, che si tramutò all’istante in vino rosso.
In quel momento, arrivò Valdar con la cena.
Servì per prima Alycia, che gli rivolse qualche parola in una lingua che Jim non aveva mai sentito, un groviglio di consonanti dure e suoni graffianti. Valdar si illuminò e le offrì un sorriso tutto zanne, poi biascicò qualcosa in risposta che solo lei parve capire, visto che annuì comprensiva.
«Ad Arcanta ho studiato l’orchese» spiegò, compiacendosi dell’espressione confusa di Jim. «Oltre l’elfico e il nanico. Tu invece no, ovviamente: Valdar dice che ti rivolgi a lui come se stessi parlando a un ritardato.»
«Ma non è vero!» protestò Jim. «Se mai è il contrario…»
«A ogni modo l’ho rassicurato che non dovrà nascondersi in un seminterrato ancora per molto» proseguì lei, scoccando un’occhiata esaustiva a suo padre. «E che presto tornerete tutti a casa.»
Blake rimestò la sua zuppa col cucchiaio. «In realtà, non ho ancora deciso. E, detto francamente, non ho mai considerato Arcanta “casa”.»
«Non farai sul serio» esclamò Alycia, scioccata. «Papà, sono cinque anni che sei sparito! Nessuno ha la più pallida idea di dove ti sia cacciato, se non fosse stato per quei ridicoli indizi che mi lasci in ogni lettera, come in un gioco per bambini, non ti avrei trovato nemmeno io! I Decani iniziano a perdere la pazienza, sono stati fin troppo accomodanti con te.»
«La cosa non mi riguarda più.»
«Scusate se mi intrometto» fece Jim, che si stava sforzando di stare al passo. «Questi "Decani" sono quelli che comandano ad Arcanta?»
«Sono un collegio di anziani» spiegò brevemente Blake; il sorriso gioviale era stato definitivamente lavato via non appena era stata tirata in ballo Arcanta. «Amministrano la giustizia, custodiscono il sapere magico e stabiliscono cosa vada tramandato e cosa no. E pare abbiano una predilezione nel ficcare le loro appendici nasali nelle vite altrui.»
«Che cosa ti aspettavi?» disse Alycia, accigliata. «Sei sempre l’Arcistregone dell’Ovest, hai dei doveri! Non puoi semplicemente sparire dopo quello che hai fatto.»
A quelle parole, Jim guardò Blake. «Aspetti, a cosa si riferisce?» chiese, visto che nessuno lì si prendeva la briga di spiegargli. «Cos’è che ha fatto?»
Alycia scoppiò a ridere. «Stai scherzando, vero? Vuoi farmi credere che non sai di chi sei apprendista? Non sai chi è Solomon Blake..?»
«Alycia» la ammonì Blake.
«Diciassette anni fa, gli Arcistregoni del Nord, del Sud, dell’Est e dell’Ovest salvarono Arcanta dalla Guerra Civile» raccontò lei, come se non lo avesse sentito. «Quando la Strega Eretica usò il potere del Vuoto per attaccare la Cittadella con il suo esercito di miscredenti. E fu proprio mio padre a fermarla, piantandole un pugnale nel cuore.»
Jim impallidì. Battaglie? Eserciti? Streghe Eretiche? Per quale motivo Blake non gli aveva mai raccontato niente di tutto ciò? E poi, il fatto che avesse ucciso a sangue freddo una persona gli sembrava un dettaglio non da poco! Invece Alycia ne parlava con una tranquillità raggelante. “Oh, ma non lo sai? Il mio papa è un ammazza streghe e il salvatore del mondo magico. Passami il sale, per piacere.”
Ma non volle mostrare quanto la notizia lo avesse turbato, già stava facendo la figura del contadinotto ignorante. Così si limitò a commentare: «Di sicuro non ha avuto una vita noiosa.»
«No, infatti» disse Blake con voce piatta. «Per questo mi sono ritirato: ho fatto la mia parte per Arcanta e mi sono reso conto che lavoro meglio da solo. Inoltre, sono convinto che ormai possa essere utile in ben altro modo.»
«Raccattando vagabondi per cercare di farne dei maghi?» fece Alycia, guadagnandosi un’occhiata truce da Jim. «Mentre tu giochi a fare il buon samaritano, i Decani hanno riconvocato i quattro. Forse quaggiù i giornali di Arcanta non arrivano, ma iniziano a circolare delle voci su di te…»
«Voci che suppongo il caro vecchio Boris Volkov abbia contribuito a diffondere» disse Blake con fredda collera. «Non sarebbe la prima volta.»
«Chi è Boris Volkov?» domandò Jim, esasperato.
«L’Arcistregone del Nord» disse Blake, guardando intensamente sua figlia. «Nonché maestro di Alycia.»
«Boris è un mago d’onore» ribatté lei, il mento sollevato con fierezza. «È sempre stato leale verso Arcanta e al contrario di te, non scappa di fronte alle responsabilità!»
«E tu, invece?» domandò Blake a bruciapelo. «Cosa ti porta così lontano da Arcanta? L’ultima volta hai chiaramente lasciato intendere di non volermi più vedere.»
Alycia strinse le labbra fino a farle sbiancare. «Ed è ancora così! Ma la tua biblioteca è tra le più fornite e i miei studi riguardano le proprietà magiche delle piante palustri, la maggior parte delle quali cresce qui in Louisiana.»
«Una straordinaria coincidenza.»
«Già. Quindi pare proprio che dovrai sopportare la mia presenza finché non avrò condotto le mie ricerche!»
«“Sopportare?”» ruggì lo stregone, oltraggiato. «Non potrei essere più felice di riaverti qui, puoi restare tutto il tempo che desideri! Non ho mai smesso di sperare che prima o poi tornassi da me, che mi perdonassi!»
«Be’, ora sono qui.» Alycia bevve ancora un po’ di vino; ne aveva mandato giù parecchio da quando si erano seduti e Jim notò che le sue guance avevano iniziato a infiammarsi. «Puoi iniziare a farti perdonare lasciandomi consultare i tuoi erbari.»
«Sono a tua completa disposizione» replicò lui, rigidamente.
Calò il silenzio. Jim cominciava a sentirsi terribilmente di troppo; finì di mangiare senza dire una parola, desiderando solo di poter sgattaiolare via il più presto possibile. Finalmente, il pendolo nella stanza accanto batté le undici.
«Sono stanca, credo che me ne andrò a dormire» annunciò Alycia, spingendo indietro la sedia. Si alzò, barcollando leggermente, con il calice ancora in mano.
«Posso prepararti quella tisana alla cannella che ti piace tanto, se vuoi» si offrì Blake. «Te la faccio portare in camera.»
Ma Alycia aveva già lasciato la stanza. Lo stregone esalò l’ennesimo profondo sospiro e si prese la testa tra le mani.
Jim tossicchiò. «Ehm, signor Blake, io dovrei andare...»
«Oh.» Blake drizzò la testa e lo guardò come se si fosse appena ricordato della sua presenza. «Ma certo, sì…va’ pure.»
Jim non se lo fece ripetere, prese la giacca e andò alla porta.
«Secondo te che cosa dovrei fare?»
Jim si volse, la maniglia in pugno; lo stregone lo stava fissando, le braccia abbandonate sul tavolo.
«Ecco» fece lui, preso alla sprovvista. Era raro che il maestro gli chiedesse un’opinione su qualcosa, in più non era sicuro di voler essere coinvolto in quella storia: Alycia si era rivelata una delle persone più insopportabili che avesse mai conosciuto e meno aveva a che fare con lei e meglio era. «Magari potrebbe aiutarla con quella cosa sulle piante, sembra che per lei sia importante. Non so cosa sia accaduto fra voi di preciso…»
«Mi odia.»
Jim trasalì. Non si aspettava un’affermazione così forte. «Ecco…»
«Sono stato un pessimo esempio per lei» proseguì Blake, lo sguardo fisso sulle sue mani, come se stesse guardando qualcosa dentro di sé. «E negli anni non ho fatto altro che deluderla. Sto cercando di rimediare ma…penso che ormai sia troppo tardi.»
«Io invece penso che non sia mai troppo tardi per chiedere scusa» disse Jim, piano. «E poi, è venuta fin qui, no? Significa che forse, in fondo in fondo, nemmeno lei ha rinunciato.»
Gli occhi azzurri dello stregone si fissarono nei suoi, facendogli provare una fitta di imbarazzo.
«Ti ringrazio, Jim» disse alla fine. «Mi hai dato un buon consiglio. Ora va’, si è fatto tardi.»

 
 

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Capitolo 15
*** Alycia ***


 


ALYCIA



 

Nei giorni successivi Alycia fece sentire la sua presenza in casa in maniera forte e chiara. Per Jim, che ormai si era abituato al silenzio quasi contemplativo di quelle stanze, fu strano dover improvvisamente fare i conti con porte che sbattevano in continuazione, rumore di tacchi su e giù per le scale e frasi urlate da un capo all’altro dei corridoi. Per non parlare delle mini-esplosioni che provenivano quotidianamente dal laboratorio di alchimia.
Inoltre, sembrò che quella casa enorme fosse diventata di colpo strettissima, perché Alycia aveva preso possesso di tutti gli ambienti prima a uso esclusivo: vasi di piante esotiche ormai invadevano quasi tutte le superfici disponibili e Blake, che stava facendo davvero di tutto per rientrare nelle grazie della figlia, aveva messo a sua completa disposizione la serra. Persino per la biblioteca fu necessario organizzare dei turni, perché per Alycia era intollerabile la presenza di un altro essere vivente nella stessa stanza mentre studiava.
E magari fosse solo questo: di solito si limitava a intimargli di non starle tra i piedi, o a confabulare con Valdar in orchese solo per il gusto di irritarlo. Ma certe volte, quando era particolarmente di cattivo umore, non esitava a lanciargli delle frecciate davvero perfide; tipo quella volta che si era detta meravigliata che sapesse leggere e scrivere, o quando aveva lasciato intendere che avesse i pidocchi. Ma la cosa che più di tutte lo mandava in bestia era il fatto che non lasciasse mai la sua roba incustodita in sua presenza, come se temesse di essere derubata da un momento all’altro.
Quella convivenza forzata durava da solo un paio di settimane e già Jim non ne poteva più. Proprio adesso che l’apprendistato stava iniziando a dare i suoi frutti! Eppure, quando ormai pensava che le cose non potessero andare peggio di così, precipitarono.
Preso com’era dalla nuova situazione in casa Winters, per diversi giorni Jim aveva completamente accantonato la faccenda dei misteriosi viaggi di Blake e della galleria degli specchi. Così, quando nel tentativo di evitare Alycia attraversò il corridoio con le porte a doppio battente che conducevano all’ala ovest, rimase di stucco nel realizzare che erano scomparse.
Si fermò per ispezionare la parete, decorata con inquietanti fotografie in seppia e teste di animali impagliati, ma completamente uniforme.
Era proprio qui, ne sono sicuro.
Che si trattasse di un’illusione? Provò ad accostare un orecchio al muro e bussò, perché sapeva che le illusioni potevano ingannare solo un senso per volta; ma i suoi colpi non produssero alcun rumore, come se dall’altra parte non ci fosse proprio nulla.
È impossibile, ragionò fra sé. Non può aver fatto sparire una parte della casa.
Era evidente che Blake avesse preso provvedimenti per impedirgli di andare di nuovo laggiù. Ma che fine aveva fatto allora l’ala ovest? Fu tentato di uscire in giardino per verificare se fosse ancora possibile accedervi dall’esterno…
«Che cosa stai facendo?»
Jim fece un gran balzo. Alycia lo stava osservando, con una grossa tazza di caffè in mano e alcuni libri sottobraccio. I capelli erano raccolti in uno chignon disordinato in cima alla testa e indosso aveva un brutto vestito viola che sarebbe stato più adatto a una donna matura.
«Quello che fanno gli esseri dotati di gambe» rispose lui, sulla difensiva. «Cammino. Mi è concesso o ti dà fastidio anche questo?»
Gli occhi di lei si assottigliarono dietro le lenti cerchiate in oro, come se volesse carpirgli ogni stilla di segreto. «Hai l’aria di uno che ha perso qualcosa.»
«Ti sbagli, non ho perso niente.»
«Non ti conviene dirmi bugie.»
«Io non dico bugie. E poi, che ti importa se ho perso o no qualcosa?»
«Miaaaooogrrr.»
Entrambi guardarono in basso; a emettere quel miagolio ringhiante era stata Lily, comparsa ai piedi di Jim con la coda che serpeggiava a terra in segno di avvertimento.
«Hai un famiglio?» domandò la ragazza, con un certo stupore.
Jim raccolse in braccio la gatta, lieto di avere finalmente un alleato. «Sì, perché?»
«I maghi di Arcanta non si servono più di demoni da compagnia da secoli» rispose Alycia, studiando attentamente Lily. «I Decani sono assolutamente contrari.»
«Però tuo padre ne ha uno, no?»
«Se non l’hai ancora capito mio padre ha sempre fatto quel che gli pareva anche ad Arcanta. E poi, è sempre stato affascinato dalle tradizioni del Vecchio Mondo.»
«Cioè?»
Alycia roteò gli occhi. «Possibile che ti si debba sempre spiegare tutto? Il Vecchio Mondo è l’epoca che precedette la fondazione di Arcanta, un medioevo selvaggio in cui la magia non era sottoposta al controllo della Legge. In cui tra i maghi regnava il caos.»
«E quindi stai dicendo che i famigli sono contro la Legge adesso?»
«Non sono propriamente vietati, ma sono considerati instabili, primitivi.» Ancora una volta, lo squadrò come fosse qualcosa di disgustoso appiccicato sotto la suola. «In effetti, la cosa ti si addice.»
Eccola che ricomincia…
«Senti, non ho voglia di farmi coprire di insulti anche oggi» esalò lui con rassegnazione. «Trovati un altro passatempo.»
Fece per allontanarsi, ma lei disse: «Non farti illusioni con mio padre, non durerà fra voi.»
Jim si fermò di colpo. «Che vuoi dire?»
Gli occhi color caffè di Alycia si fissarono nei suoi con un’intensità che non aveva mai dimostrato, come se per la prima volta lo stesse guardando veramente. Ma ciò che disse ebbe l’effetto di un pugno nello stomaco:
«Credi di essere speciale perché ti ha scelto come allievo, ma sei solo l’ennesima provocazione verso Arcanta: un Esterno, un meticcio e per di più un prestigiatore da fiera, solo questo basterebbe a far drizzare i capelli ai Decani.  Mio padre è fatto così, adora recitare la parte del genio ribelle. Ma è anche uno che perde interesse facilmente. Lo ha fatto con chiunque, non pensare che con te sarà diverso.»
C’era un’amarezza incredibile in quelle parole. Jim avrebbe tanto voluto sapere cosa avesse fatto Blake per meritarsi la completa perdita di fiducia da parte della figlia. «Mi sembra che abbiamo conosciuto due maghi molto diversi, allora.»
Il sorrisino che lei gli rivolse sapeva di commiserazione. «Dagli tempo, prima o poi farà cadere la maschera.»
Senza dargli modo di ribattere, lo mollò lì nel corridoio e andò a chiudersi come al solito in biblioteca.
Le cose andarono di male in peggio quando Blake iniziò a impartirgli le prime lezioni di duello. In uno scontro magico, gli aveva spiegato, valevano le stesse regole di qualsiasi forma di combattimento: era fondamentale anticipare le mosse di un avversario, coglierlo di sorpresa, coordinare movimenti e incantesimi perché andassero ad annullare le mosse altrui.
Blake cominciò infatti con esercizi simili a quelli del corpo a corpo, basati su prese, calci e parate; impedire all’avversario di usare le mani era la migliore delle strategie e c’erano molti modi per distrarlo, sfruttando per esempio un semplice sgambetto o una gomitata nel punto giusto. Al resto avrebbe pensato la magia.
La lezione era da poco iniziata sul prato di fronte alla casa, quando Alycia decise di assistere, poggiata a braccia incrociate al colonnato. Jim se ne accorse e non riuscì a schivare in tempo una manata di Blake sul torace, e la successiva scossa elettrica che ne seguì.
«Non distrarti» fu il suo rimprovero, quando il ragazzo si ritrasse con un gemito. «La prossima volta potrei aumentare il voltaggio e friggerti dall’interno.»
«Posso partecipare?» chiese a quel punto Alycia. «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che mi sono allenata. E poi…» Guardò Jim e aggiunse, con una sfumatura di crudeltà: «Ormai l’ho distratto, tanto vale che continui con me, no?»
Blake tergiversò. «Non credo sia il caso: tu sei di livello evocatore, mentre Jim è ancora un discepolo.»
Il sorrisetto malizioso di Alycia si allargò. «Ci andrò leggera, promesso.»
Jim invece deglutì rumorosamente; chissà perché aveva un brutto presentimento.
«Mettetevi in posizione» disse il maestro, lasciando loro spazio. Alycia tolse gli occhiali e si liberò del cardigan, rimanendo con una pesante gonna verde scuro e una camicia bianca dalle maniche a sbuffo. Poi si mise di fronte a Jim, che invece era in canottiera, osservandolo con espressione divertita.
«Vediamo di cosa sei capace» sussurrò, in modo che solo lui potesse sentire. «Saltimbanco.»
Jim represse con fatica la collera, ma Alycia sfruttò quel momento di distrazione per sferrare il primo attacco; cercò di tirargli un pugno tra le costole, che Jim riuscì a parare all’ultimo secondo, incrociando le braccia. Ma era solo una tattica diversiva e il ragazzo si accorse troppo tardi che, con l’altra mano, la maga stava già evocando.
Una raffica di vento gelido gli scompigliò i capelli e subito dopo si sentì sollevare da terra. Non riuscì a emettere neppure un suono e atterrò bruscamente parecchi metri indietro sull’erba.
«Andateci piano» li riprese Blake. «Niente ossa rotte!»
Jim si mise carponi, riprendendo fiato; per fortuna, ormai aveva imparato a cadere nel modo corretto e le sue ossa non patirono troppo il colpo.
Alycia non gli diede un secondo di tregua: intrecciò le mani e un turbine di polvere si gonfiò nell’aria, ma stavolta Jim non si fece cogliere impreparato.
Rotolò su un lato, schivando la corrente con una specie di capriola che sorprese lui per primo: non si era neanche reso conto di quanto fosse diventato agile. E tutto grazie agli stupidi esercizi di Blake.
Lei partì di nuovo alla carica per mollargli un calcio e, all’ultimo secondo, Jim afferrò la sua caviglia, le dita strette sulla pelle nuda sopra lo stivaletto.
Questa volta fu Alycia a essere colta alla sprovvista e si ritrovò in equilibrio precario su un piede solo, ma invece di usare la sua stessa tattica ed esercitare la magia, Jim la tirò per terra insieme a lui. Era giunto il momento che sua altezza scendesse dal piedistallo. E non sarebbe stato un atterraggio morbido.
La ragazza cadde all’indietro con uno strillo e finì seduta a gambe aperte sull’erba, con la gonna spiegata a ventaglio e con un’espressione così sbigottita che Jim scoppiò a ridere.
Il divertimento però durò poco; Alycia serrò la mascella e un lampo verde guizzò nelle sue iridi marroni. Jim sentì qualcosa di viscido scivolargli attorno ai polsi e trasalì.
Sotto di lui, le zolle di terra erano smosse e ne stavano fuoriuscendo grosse radici verdi simili a tentacoli; Jim cercò di alzarsi, ma anche le sue caviglie erano bloccate; le propaggini continuavano a sbucare da tutte le direzioni, allacciandosi strette attorno alle sue gambe, alle braccia…
«Ok» fece Jim, cercando invano di strapparsele di dosso. «Non hai per niente il senso dell’umorismo! Adesso falle smettere.»
Ma Alycia lo stava fissando con odio, le unghie affondate nel terreno. Un tentacolo gli si avvolse attorno al torace, un altro alla gola e Jim realizzò che se avessero stretto ancora lo avrebbero strangolato…
«Alycia!»
Un’ondata di potere fendette l’aria. Le radici marcirono tutte all’istante e si sgretolarono non appena Jim provò a divincolarsi. Balzò immediatamente in piedi, tossendo e tastandosi la gola. Blake li raggiunse in un attimo, l’aura magica che ancora pulsava attorno alla sua figura.
«Cosa ti è saltato in mente?» ruggì, inchiodando la figlia con lo sguardo. «Ti avevo detto di non esagerare!»
Anche Alycia scattò in piedi, i pugni stretti e le guance in fiamme. «Tu vai a sceglierti un incapace come successore e la colpa sarebbe mia?»
«Questo comportamento è inaccettabile» disse Blake. «Esigo che tu chieda scusa immediatamente!»
Alycia aveva gli occhi lucidi, ma proruppe in una risata carica di astio. «Non hai mai voluto fare il padre e hai intenzione di cominciare adesso? Per favore risparmiati la recita, sei ridicolo!»
Blake inspirò profondamente, le iridi frementi. «Entra in casa, dobbiamo parlare. Adesso.»
Alycia spazzò via il terreno dalla gonna, sollevò il mento con dignità e marciò verso il portico. Blake sospirò e lanciò un’occhiata a Jim. «La lezione è annullata, mi dispiace.»
Il ragazzo lo guardò allontanarsi dietro la figlia. Eh no, stavolta non ve la caverete così!
Finse di andare a recuperare la bici dal vialetto, e invece seguì il maestro dentro casa; quando lui e Alycia salirono le scale per chiudersi in biblioteca, Jim si sistemò nell’atrio e fletté le dita. Uno strano crepitio attraversò l’aria, facendogli ronzare le orecchie e di colpo, le voci di Alycia e Blake giunsero chiare e forti, come se li avesse avuti accanto a sé:
«Non avrei mai pensato che tu fossi capace di una cosa simile» stava dicendo Blake. «Non è così che ti ho cresciuta!»
«No, infatti!» ribatté Alycia. «Tu mi hai cresciuta a bugie e segreti!»
«Sarebbe una giustificazione valida per aver aggredito così il mio apprendista?» Jim non credeva di aver mai sentito il suo maestro così arrabbiato. «Che cosa volevi dimostrare?»
«Che prendendoti in casa quello lì stai ricoprendo di ridicolo la nostra famiglia!» sputò fuori Alycia. «Con tutti gli aspiranti apprendisti che si sono presentati alla tua porta, provenienti dalle casate più illustri di Arcanta e che hanno studiato una vita intera per essere ammessi alla tua Corte! Si può sapere chi è questo Jim? Cos’ha lui di tanto speciale?»
Jim aggrottò la fronte e contrasse le dita per dirigere meglio l’anomalia acustica che aveva generato, prestando la massima attenzione alle successive parole.
«Te l’ho già spiegato» rispose Blake, secco. «Jim non ha mai avuto nessuno che provvedesse alla sua istruzione: è completamente solo con dei poteri che non sa gestire. Hai idea del pericolo che avrebbe corso e in cui avrebbe messo le altre persone? Io gli sto offrendo un futuro, cosa che gli altri promettenti rampolli che ho rifiutato avranno senza il mio aiuto.»
«Avresti potuto scegliere con più cura.»
«Ho scelto con estrema cura, te lo posso garantire.»
«Avresti potuto scegliere me!»
Blake si interruppe. Jim sentì Alycia cercare di soffocare un singhiozzo e capì che stava piangendo.
«Oh, tesoro…»
«Ma io non sono abbastanza, vero? Mai stata all’altezza del grande Solomon Blake! E poi, tanto adesso hai Jim, no? A che ti servo io?»
Lo stregone emise un profondo sospiro. «Alycia, sei la cosa più preziosa che ho, come puoi pensare che non ti voglia con me perché non ti reputi all’altezza? Sei una delle maghe più brillanti di Arcanta e sarai una grande alchimista.»
«Ma questo non ti ha impedito di abbandonarmi!» esclamò lei. «Per poi rifiutarti persino di prendermi come tua allieva! Quale padre farebbe una cosa del genere?»
«L’ho fatto per proteggerti» disse lo stregone, tristemente. «Non ho mai voluto allontanarti, se ho preferito lasciarti ad Arcanta è stato solo per il tuo bene. Ci sono delle questioni irrisolte, delle cose che devo sistemare…»
«Già, c’è sempre stato qualcosa di più importante, vero? Nemici da combattere, missioni segrete. Tutto pur di non doverti occupare di me!»
«È Volkov, vero? Ti ha messo lui queste assurde idee in testa?» La voce di Blake tornò ad acquisire una sfumatura fredda e amara. «Sapevo che non era una buona idea permetterti di diventare sua allieva: ti ha inculcato i suoi stessi metodi, i suoi ideali contorti, il suo rancore…»
«Almeno lui è rimasto quando tu non c’eri!» urlò lei. «Quando eri lontano chissà dove o troppo ubriaco per ricordarti di avere una figlia!»
Ci fu una lunga, dolorosa pausa. Jim avvertì una fitta al petto, poteva quasi percepire l’aria nella stanza scricchiolare dalla tensione…
«Sono sobrio da tre anni» disse infine Blake, con fermezza. «Ti ho promesso che sarei cambiato e sto facendo del mio meglio per riuscirci.»
«Furbo da parte tua venire in un Paese dove gli alcolici sono vietati.»
«Ho commesso molti errori» ammise lui, con voce talmente bassa che Jim dovette amplificare l’incantesimo fino al suo limite. «Ma ti giuro che ci sto provando, Alycia. Vorrei che tu tornassi a fidarti di me.»
Pochi istanti dopo, la porta della biblioteca si aprì e Alycia ne emerse mentre asciugava le lacrime con il dorso della mano. Jim si tuffò all’istante dietro un grosso vaso giapponese, revocando l’incantesimo.
«Parto stasera, mi assenterò per qualche giorno» annunciò Blake, comparendo alle spalle della figlia. «Ti chiedo solo di non maltrattare Jim, vorrei trovarlo vivo e in salute al mio ritorno. Credi di poterci riuscire?»
«È talmente mediocre che non merita i miei sforzi.»
«È già qualcosa» sospirò lui. Poi tirò dalla tasca un fazzoletto e glielo offrì, dicendo con voce più dolce: «Ti andrebbe una tazza di tè? Magari, potremmo consultare insieme qualcuno di quegli atlanti e trovare qualcosa di utile per la tua tesi.»
Alycia si soffiò il naso e acconsentì.
Jim attese che i due entrassero in salotto e uscì finalmente allo scoperto, rimuginando su quanto appreso. Non aveva idea che il suo maestro potesse avere alle spalle una situazione familiare così complicata, ma adesso una parte di lui riusciva a capire i comportamenti di Alycia. Non che la giustificasse, insomma, aveva pur sempre cercato di strangolarlo…però adesso la guardava sotto una luce diversa: quella ragazza era un nodo di rabbia e dolore, doveva esserseli portati dentro per anni, sin dall’infanzia. Jim sapeva bene cosa significasse crescere sentendosi inadeguati agli occhi di un genitore, e Alycia doveva essersi sentita proprio così, abbandonata da un padre assente e che a quanto pare aveva anche delle forti dipendenze…e questo Volkov, l’Arcistregone del Nord, che le aveva fatto da maestro…per qualche ragione aveva approfittato della situazione per aizzare la figlia contro il padre.
Ma era evidente che Jim non era il solo a cui lo stregone stava nascondendo delle cose. A quali questioni irrisolte si riferiva? E perché si era allontanato dal mondo magico, per cui, a conti fatti, era una specie di eroe? Che avesse a che fare con i suoi misteriosi viaggi attraverso gli specchi..?
Mentre rifletteva su tutto ciò, un miagolio familiare attirò la sua attenzione; Lily era tornata da lui, in maniera discreta e inaspettata come suo solito. La gatta sollevò una zampina e gli grattò la scarpa, facendo ondeggiare la coda.
«Ti ascolto» disse Jim; dopo tutte le assurdità di quella giornata, parlare con un gatto sembrava la cosa più normale.
Lily fece dietrofront e imboccò la via del seminterrato. Jim emise un sospiro tetro, di tutte le zone della casa quella abitata da Valdar era la meno allettante da esplorare. Seguì ugualmente la gattina giù per le scale, ritrovandosi in un vasto ambiente spoglio, buio e gelido. E proprio lì, in fondo a un corridoio dall’aria anonima che non aveva mai visto, erano ricomparse le porte a due battenti che conducevano all’ala ovest.
 

Giunse la sera.
Suo padre era partito già da alcune ore senza preoccuparsi di dirle quando sarebbe rientrato o dove fosse diretto, ma per Alycia faceva lo stesso; sin da bambina, era abituata alle sue continue sparizioni, a vederselo ricomparire all’improvviso anche dopo mesi di silenzio, spesso a orari impossibili; talvolta, lo sentiva entrare nella sua stanza mentre fingeva di dormire, per accarezzarle la testa e lasciarle un regalo sul comodino.
Ma la maggior parte delle volte, Alycia lo ritrovava il mattino dopo a russare su un sofà, ancora col cappotto addosso e circondato da bottiglie vuote.
Sapeva ormai cosa spettarsi da quell’uomo e non faceva più domande. Non servivano. E poi, quella partenza improvvisa era esattamente ciò che stava aspettando: dopo due settimane di silenzio, avrebbe avuto l’occasione di fare rapporto.
Si inoltrò sola nel bayou, la fitta palude che circondava la proprietà; la foresta era immobile e silenziosa, con le sue cupe tonalità di verde e nero e il forte odore di fango e foglie marce. Con l’umidità della sera, dagli acquitrini si era levata una fitta foschia, che avvolgeva sinuosa i tronchi degli alberi e le caviglie della ragazza. La mantella nera con cappuccio, tirato sopra la testa, svolazzava al suo passaggio facendola somigliare a uno spirito inquieto.
Raggiunse una vecchia quercia nel cuore della palude e gettò indietro il cappuccio; una volta certa di essere sola, chiuse gli occhi e rimase in attesa.
«Buonasera, mia cara.»
Alycia riaprì gli occhi. Dalla nebbia era emerso un uomo imponente, avvolto in un cappotto rosso e con un colbacco di astrakan in testa. Aveva una folta barba brizzolata, il naso adunco e lo sguardo severo. Il suo volto era segnato da vecchie cicatrici pallide, le grosse mani strette sull’impugnatura a forma di testa di lupo di un bastone da passeggio di fattura simile a quello di suo padre.
«Maestro» mormorò la ragazza, accennando una riverenza.
L’uomo le rivolse un sorriso che però non si estese ai suoi freddi occhi grigi.
«Pensavo che avessimo messo da parte questo genere di formalità. Come stai?»
«Bene. Anche se è stata dura rivederlo.»
«Lo posso immaginare» l’uomo mosse qualche passo verso di lei, zoppicando appena, ma senza emettere alcun suono; la sua intera figura pareva sfocata, come se fosse celata dietro una superficie di vetro.
Questo, perché Boris Volkov, Il Lupo Grigio, non era davvero lì con lei, non fisicamente almeno: si trattava di una Proiezione, un’emanazione della coscienza di un mago in grado di viaggiare attraverso il Tutto. Era il mezzo che avevano scelto per tenersi in contatto in maniera sicura, ma era la prima volta che Alycia lo testava da quando aveva lasciato Arcanta.
«Come sta il Corvo Bianco?» domandò l’Arcistregone del Nord, senza ulteriori preamboli. Gettò una rapida occhiata al paesaggio intorno a sé. «Si è scelto un luogo insolito dove godersi la pensione.»
«È sfuggente, come sempre» rispose Alycia. «Non ha voluto ancora rivelarmi il vero motivo per cui se ne è andato.»
«Sospetta qualcosa?»
«Ovvio che sospetta, non è uno stupido. Ma dammi tempo, riuscirò a scoprire che combina» Alycia ebbe un attimo di esitazione, poi gliela buttò lì: «Oh e pare abbia un nuovo apprendista.»
Volkov la fissò, le sopracciglia aggrottate. «Chi?»
«Un sempliciotto che ha trovato in un circo. Pare sappia poco o nulla del nostro mondo.»
«Come sarebbe a dire in un circo?» Volkov era costernato. «È forse impazzito?!»
«È quello che ho pensato anche io. Dice che vuole toglierlo dalla strada.»
«Molto compassionevole da parte sua» commentò lo stregone, pensieroso. «Cosa gli sta insegnando?»
«Le solite cose: illusioni, manipolazione elementare, combattimento.»
«Non sottovalutarlo» comandò il maestro. «Voglio sapere il più possibile sul suo conto: tuo padre non fa mai niente a caso, se ha deciso così di punto in bianco di prendere con sé un allievo ci sarà sicuramente qualcosa sotto.»
«Sei ancora convinto che stia ingannando i Decani?»
«Ne sono più che convinto. Ma ho bisogno di maggiori informazioni: il Decanato non mi lascerà mai agire se non gli mostro prove inconfutabili che Solomon Blake trama qualcosa, è ancora troppo influente alla Cittadella.» La guardò negli occhi, intensamente. «Per questo ho bisogno che tu mi riferisca ogni atteggiamento sospetto, qualunque cosa ti paia insolita o…»
«Insolita?» Ad Alycia venne quasi da ridere. «Stiamo parlando di mio padre, lui vive per essere insolito!»
«Come se non lo sapessi» ringhiò Volkov. «Conosco quell’uomo, le sue menzogne e i suoi sporchi giochetti meglio di chiunque altro. Per questo non devi mai abbassare la guardia con lui.  Che cosa ti ho insegnato?»
«Che l’amore rende deboli.»
Volkov sembrò soddisfatto della risposta. «Ti ho addestrata bene. So di averti chiesto tanto: è sempre tuo padre, nonostante tutto.»
«Il mio compito è salvaguardare il nostro popolo» disse Alycia monocorde. «La Legge viene prima di qualsiasi cosa, anche dei rapporti familiari. Se è vero che mio padre sta agendo contro Arcanta, contro la sua stessa gente, è giusto che paghi le conseguenze.» La voce le tremò leggermente mentre aggiungeva: «Come ha pagato mia madre.»
Volkov la guardò. «Isabel sarebbe orgogliosa della donna che sei diventata» disse con voce più morbida. «Me la ricordi così tanto, lo sai? Anche lei era intelligente, coraggiosa e determinata. Una vera guerriera.»
Sollevò la grossa mano e la pose sulla sua spalla; nonostante non potesse percepire quel tocco, la ragazza represse dentro di sé l’impulso di allontanarsi.
«Ci sono novità da Arcanta?» chiese, riassumendo il controllo delle proprie emozioni. «So che ne avete preso uno.»
Volkov parve sorpreso. Ritirò la mano. «Come lo hai saputo?»
«Ho sentito delle voci, ma dalla tua espressione deduco siano vere»
Volkov sospirò.
«Il Decanato non vuole che certe informazioni trapelino. Si creerebbe il panico. Per questo ha lasciato a noi Arcistregoni il compito di gestire la cosa…»
«Quindi è vero» appurò lei, cupamente. «Si stanno riorganizzando.»
«E velocemente, anche. Lo Zelota che abbiamo catturato stava salpando per il Sudamerica clandestinamente: si chiama Dagon Carcosa, ha partecipato alla Guerra Civile ad Arcanta diciassette anni fa.» Indicò una delle cicatrici che gli deturpavano il volto, che spaccava a metà il sopracciglio destro. «Cercò di portarsi via il mio occhio, il figlio di puttana!»
«Questo significa che potrebbero esserci altri sopravvissuti nascosti» disse Alycia, la mente che lavorava in fretta. «Perché hanno deciso di muoversi proprio adesso? Cosa hanno in mente?»
«Ci ha pensato Una Duval a spremerlo.» Le labbra di Volkov si arricciarono, scoprendo un sorriso feroce. «Ha opposto resistenza, ovviamente, ma non esistono segreti per l’Arcistrega dell’Est: Carcosa ha confermato che i seguaci dell’Eretica stanno reclutando nuovi adepti al culto del Vuoto. Ha parlato di una missione, quella di continuare quanto cominciato dalla loro padrona. E di una profezia.»
«Profezia?» ripeté Alycia, stupita. «È uno scherzo, spero.»
«È quanto ha riferito.»
«La chiaroveggenza non è neanche annoverata tra le Scienze Occulte» ribatté Alycia, in tono ragionevole. «Nessuno la pratica più dal Vecchio Mondo, è roba da ciarlatani e truffatori.»
«Rafat e i suoi sembrano crederci fermamente» disse Volkov, grave. «All’epoca della caduta, Lucindra sapeva di essere braccata e ha pensato di lasciare istruzioni precise, di inculcare ai suoi servi assurde storie di predestinazione affinché portassero a compimento i suoi piani.»
Lucindra. 
Alycia inorridì nel sentir pronunciare quel nome; erano in pochi a conoscere la vera identità della Strega Eretica, l’unica minaccia, dopo più di mille anni di pace, ad aver seriamente messo a repentaglio l’inviolabilità di Arcanta.
«Stando alla profezia, l’Eretica tornerà al potere grazie a un’arma che prima non aveva» proseguì Volkov. «Che le consentirà di sprigionare il Vuoto contro Arcanta una volta per tutte.»
«Che genere di arma?»
«Il problema con le profezie è che sono sempre molto vaghe» rispose Volkov con un sospiro. «Potrebbe trattarsi di un manufatto magico estremamente potente come di una persona. Qualunque cosa sia, gli Zeloti si sono già attivati per trovarla. Perciò dobbiamo agire in fretta se vogliamo scongiurare il pericolo di un’altra guerra.»
Alycia rosicchiò le unghie in preda all’ansia e prese a camminare avanti e indietro nella radura.
«Ci servono più informazioni, cos’altro ha detto il prigioniero?»
«È morto prima che potessimo estorcergli altro.»
«Lo avete lasciato morire!» scattò lei. «Avrebbe potuto essere ancora utile, condurvi al covo degli Zeloti!»
«Conosci Una: a volte calca un po’ troppo la mano.»
Alycia fece scoccare la lingua, delusa.
«Pazienza, mia cara» le disse Volkov. «La vendetta è un piatto che si serve freddo. Ma abbiamo bisogno del tuo aiuto: se anche tuo padre è al corrente della profezia è probabile che sia già sulle tracce dell’arma.»
«Indagherò» assicurò Alycia con prontezza. «Sono sicura che le risposte che cerco sono nel suo grimorio: devo solo trovare un pretesto per consultarlo. Ora devo andare, ti farò nuovamente rapporto appena mi sarà possibile.»
«Bene.» Volkov, la guardò per un lungo momento. «Abbi cura di te, Alycia. Sei sempre nei miei pensieri.»
«Lo so, maestro.»
Il Lupo Grigio le sorrise un’ultima volta per poi dissolversi nella nebbia.

 

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Capitolo 16
*** Anthea Ingannatrice ***



ANTHEA INGANNATRICE

 
 




La capigliatura rossiccia di Jim emerse al centro dello specchio nel maniero sul lago.
Riuscì a trovare senza difficoltà il portone che conduceva al giardino sul retro e attraversò il prato fino alle sponde del lago, ma di Lucia, la bella e strana donna che abitava il palazzo, non c’era traccia. Deluso, il ragazzo continuò l’esplorazione del giardino insieme a Lily.
Il sole caldo brillava sulla superficie lievemente increspata del lago, che pareva disseminata di tanti piccoli diamanti. Una brezza leggera spirava da nord ovest, portando con sé il profumo dei boschi, e tutto laggiù comunicava pace e solitudine. Ma Jim aveva l’inquietante sensazione di essere osservato qualunque direzione prendesse.
Al di là di una siepe incolta scorse una distesa di lapidi storte, e in fondo a essa una piccola cappella diroccata. Il cancello era socchiuso, così Jim poté infilarsi tra i battenti arrugginiti ed entrare nel cimitero; l’erba cresceva alta attorno alle pietre tombali, corrose dal tempo e ammantate di muschio. Lucia era proprio là, in piedi accanto a una tomba dominata dalla scultura di un bellissimo angelo armato di spada. Fissava suo volto perfetto e distante, immersa in pensieri così profondi che si accorse della presenza di Jim solo quando fu a pochi passi da lei.
«Ciao, “Attraversaspecchi”. Alla fine sei tornato.»
«Scusa se ci ho messo tanto, è stato più complicato del previsto.» Jim esitò, guardando la tomba. «Ehm, sono capitato in un brutto momento?»
Lucia scosse la testa. «No, figurati. Ogni tanto vengo qui a pensare: questo posto mi ricorda il luogo in cui sono nata.»
«Sei nata in un cimitero?»
«In un convento.» Indicò la statua. «Quello è l’Arcangelo Michele, il Protettore della Fede: combatteva al fianco di Lucifero prima che lui rinnegasse il Paradiso e guidasse gli angeli ribelli contro Dio.» Il suo sguardo si soffermò sui piedi nudi dell’angelo; in un primo momento Jim non lo aveva notato, ma vi era una creatura mostruosa con ali da drago che si contorceva sotto il suo peso. «E da allora sono diventati nemici.»
«È un storia molto triste.»
«È il genere di storie che ci raccontavano da bambine.»
«Ti sarai divertita un mondo laggiù.»
Per un attimo credette di averla offesa, ma lei rise. «Ho odiato quel posto con tutto il cuore! Quasi li ho ringraziati quando mi hanno cacciata.»
«Perché hai sbadigliato durante uno di questi appassionanti racconti?»
«Perché ho usato la magia.» Il sorriso di lei si affievolì. «Allora ho capito che le storie che ho sentito si da bambina, di angeli bellissimi che lottano contro il Male erano reali: ero convinta di essere tra le schiere dei giusti, invece il Nemico ero proprio io. Così, le persone con cui sono cresciuta alla fine hanno allestito un enorme falò per darmi l’ultimo saluto.»
Jim era agghiacciato. «Hanno cercato di…»
«Bruciarmi viva. Lo so, sembra assurdo, ma si trattava di un piccolo paese della bassa Valtellina, sperduto tra le montagne: c’era ancora la convinzione che qualsiasi cosa fuori dall’ordinario fosse opera del Male e perciò andasse estirpata.»
«E come sei riuscita a scappare?»
Lucia lo prese a braccetto, spingendolo a seguirla fuori dal cimitero. «Mi ha salvata un angelo! Ma basta parlare del passato: stavo per preparare il pranzo, ti andrebbe di darmi una mano?»
 
 
Le cucine del palazzo ricordavano caverne polverose in cui la vegetazione aveva preso il sopravvento; le assi di legno scricchiolavano meste e c’erano talmente tanti spifferi che sembrava che la casa di tanto in tanto si lamentasse.
«Non hai mai pensato di andartene da qui?» domandò Jim, mentre guardava Lucia appendere il paiolo di rame nel focolare annerito dalla fuliggine. «Questo posto cade a pezzi.»
«Non è così male una volta che ti ci abitui.» La maga accese il fuoco con uno schiocco di dita e le fiamme arsero vivaci. «Le vecchie case hanno sempre il loro fascino: sono come belle dame che nessuno corteggia più. E poi, non saprei cosa fare là fuori.»
«Potresti fare un sacco di cose!» replicò Jim con entusiasmo. «Visitare il mondo, fermarti in una città che ti piace…»
«Mhmm, e poi?»
«Non lo so, trovare un lavoro e magari un marito…La gente non è più quella di una volta, e si vedono cose straordinarie tutti i giorni!»
«Tu però nascondi ancora i tuoi poteri dietro dei trucchi.»
«Be’, sì…»
«Lo vedi? Questo mondo non è adatto a quelli come noi, non più.» Lucia gettò nella pentola una manciata di verdure tagliuzzate e cominciò a rimestare.
«E allora perché non vai ad Arcanta? È una città nata apposta per i maghi.»
«Lo so cos’è, il tuo maestro me ne parlò quando venne qui molti anni fa. E come dissi anche a lui, sarebbe come sostituire una prigione con un’altra prigione.»
Lucia si portò l’unica ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio e sospirò. «E pensare che un tempo era diverso: i Mancanti cercavano la magia, la proteggevano. Dei e mostri camminavano tra noi e la gente vedeva nei maghi delle guide a cui rivolgersi quando si sentivano smarriti.»
«Forse può ancora essere così» disse Jim, ma lei scuoté la testa.
«No, Jim. Non lo percepisci? La magia sta abbandonando questo mondo, così come lo hanno abbandonato i maghi.» I suoi occhi luminosi si fissarono in quelli del ragazzo. «Si sono rifugiati tra le loro mura incantate e i pochi come noi che sono rimasti sono diventati dei ruderi, proprio come questo castello. Ricordi di un’epoca che non tornerà più.»
Jim rimase in silenzio, mentre lei cuoceva la minestra, riflettendo sulle sue parole. Il Vecchio Mondo di cui parlava sembrava molto diverso dall’epoca buia dipinta da Alycia. Sembrava, anzi, un mondo molto più libero e aperto.
Consumarono il pranzo mentre Lily, ai loro piedi, giocava tendendo agguati alle foglie di sedano e alle bucce di patata cadute sul pavimento. Lucia chiese di raccontarle del suo apprendistato; anche se era una decina di anni più grande gli risultava incredibilmente facile parlare con lei, come se si conoscessero da sempre. Così, Jim le parlò della sua vita nella compagnia fino all’incontro con Solomon Blake, di come lo stregone non fosse riuscito a ritrasformare il padre di Arthur King, dell’arrivo di Alycia e di tutti i problemi che stava causando.
Lucia lo ascoltava con interesse, faceva battute divertenti, un paio di sue osservazioni gli diedero da riflettere. Era evidente che le fosse mancata la compagnia e anche Jim dovette ammettere che sentiva il bisogno di condividere la sua “vita-magica” con qualcuno; i suoi amici del circo non sembravano in grado di capire cosa significasse per lui quell’occasione e, anche se il signor Blake era il suo mentore, era così chiuso e misterioso che una parte di Jim non riusciva a sentirsi completamente a proprio agio con lui. Cosa che invece riusciva a fare benissimo con Lucia, tanto che non badò a quanto tempo fossero rimasti lì a chiacchierare…
«Porca miseria, è tardissimo!» esclamò a un tratto, rendendosi conto che oltre i vetri impolverati era buio pesto.
Lucia stavolta lo riaccompagnò allo specchio per salutarlo e prima di riattraversarlo Jim le disse: «Cercherò di tornare prima che posso, promesso.»
Lei si limitò a sorridergli con dolcezza, dopodiché il ragazzo varcò la cornice dello specchio e scomparve.
 
 
Tenere fede alla parola però diventò ancora più difficile nei giorni successivi, in particolare col ritorno di Blake:
«Da oggi ci sarà una piccola variazione nel nostro programma» annunciò allegramente una mattina, non appena Jim ebbe aperto i libri. «Alycia necessita di alcuni campioni dalla palude, così le ho detto che poteva prenderti in prestito per qualche ora per aiutarla. Sono certo che sarà molto istruttivo per entrambi.»
«“Prendermi in prestito?”» ripeté Jim, sconcertato. «Se lo ricorda che ha cercato di strangolarmi, vero?»
«Si è trattato solo di un malinteso» replicò lo stregone con leggerezza, come se fosse una cosetta da nulla. «Ti garantisco che non accadrà più.»
Jim però continuava a non sentirsi affatto rassicurato: avrebbe preferito fare da sguattero a Valdar piuttosto che trascorrere tutto il giorno in compagnia di una matta in grado di aizzargli contro le piante.
Purtroppo, il maestro sembrava convinto di aver avuto un’idea geniale e infatti poco dopo ecco sopraggiungere Alycia, già pronta per l’escursione.
«Devo proprio portarmelo dietro?» chiese in tono lamentoso, incrociando le braccia; portava un grosso zaino di tela in spalla e indossava pantaloni alla zuava, infilati in degli stivali di pelle. «Mi farà perdere un sacco di tempo!»
«Un piccolo aiuto può solo farti comodo. E poi può essere un’occasione per conoscervi meglio.»
Lo sguardo che i due ragazzi si scambiarono trasudava diffidenza, ma alla fine lei sospirò con aria scocciata: «E va bene! Muoviti, discepolo, non ho tutto il giorno.»
Lo precedette fuori e Jim scoccò un’ultima occhiata titubante a Blake, che gli fece un cenno incoraggiante con la mano.  Quando furono sul prato, Alycia inchiodò senza preavviso, tant’è che Jim per poco non le finì addosso.
«Dì solo una parola di troppo» disse, voltandosi di scatto e puntandogli il dito contro. «E ti trasformo in una rapa, mi sono spiegata?»
«Tanto lo so che non ne sei capace.»
«Vuoi mettermi alla prova?»
Considerato com’era andata a finire l’ultima volta, lui capitolò. «No.»
«Bene.» Alycia si sfilò lo zaino e glielo mollò di peso. «Questo lo porti tu.»
«Perché?»
«Perché papà ha garantito che sarai a mia completa disposizione. Inizia ora, discepolo.»
Sarà una lunga, lunghissima giornata, pensò Jim, invocando tutta la sua pazienza. «Qualche volta un “grazie” e un “per favore” sarebbero graditi!» Ma lei era già partita a razzo, senza preoccuparsi di aspettarlo.
Jim aveva sentito dire che il Bayou Saint John era ciò che restava dell’enorme Bayouk Choupic, l’antica palude che un tempo circondava l’isola di New Orleans; negli ultimi vent’anni, la città si era espansa tanto da inglobare gran parte delle zone umide vicine, ma gli abitanti continuavano a tenersi a distanza da quei luoghi, popolati da alligatori, streghe e spiriti maligni.
Alycia e Jim percorsero a piedi circa un miglio in direzione nord, risalendo un vecchio canale di raccordo col lago Pontchartrain; di tanto in tanto la ragazza si fermava per esaminare con la lente d’ingrandimento delle escoriazioni di muffa, poi prendeva appunti su un taccuino oppure recideva qualche foglia o prelevava campioni di terreno da inserire all’interno di provette di vetro. Il tutto rivolgendo la parola a Jim solo per ordinargli di passarle qualcosa dallo zaino, così il ragazzo non poté far altro che starla a osservare. Sembrava diversa da come appariva in casa; i pantaloni mettevano in risalto per la prima volta le sue forme – forme non male, dovette riconoscere a malincuore –, ma non era solo questo: tra querce e felci rigogliose, Alycia sembrava a suo agio come circondata da amici di vecchia data, profondamente rispettosa di ogni forma di vita. In quei momenti gli ricordava un sacco suo padre, la cura quasi religiosa con cui maneggiava i suoi libri.
Continuarono così per alcune ore, finché non giunsero a un pontile sgangherato con un’unica barchetta a remi attraccata.
«La useremo per inoltrarci nel bayou» spiegò Alycia. Tirò la cima a cui la barca era assicurata e, una volta che fu abbastanza vicina, vi scivolò dentro. «Io starò a poppa e ti indicherò la strada. Tu prendi i remi.»
Jim era ormai rassegnato. «Credevo dovessi prendere solo dei campioni, perché vuoi andare fin laggiù? Ci sono gli alligatori e i serpenti e...»
«Perché laggiù c’è il pezzo forte della mia tesi. Ora sali in barca, o alligatori e serpenti saranno l’ultimo dei tuoi problemi.»
Brontolando, il ragazzo prese posto con le spalle rivolte a prua e impugnò i remi, mentre Alycia estraeva dallo zaino un grosso atlante e cominciava a sfogliarlo.
Continuarono a risalire il fiume finché non si trovarono immersi in un labirinto di canali stagnanti, palme e cipressi barbuti. La palude si mostrò presto in tutta la sua malinconica bellezza: i raggi del sole si insinuavano come lame di luce tra le chiome degli alberi e si riflettevano sugli specchi d’acqua verde, con improvvise macchie di colore laddove crescevano iris, gigli e ninfee.
Come temeva, un paio di volte Jim udì il tonfo e lo sciabordio di qualcosa di pesante che entrava in acqua, ma nessun alligatore si avvicinò troppo alla loro barca; si chiese se fosse merito di un incantesimo, o se persino quei lucertoloni avessero un po’ paura di Alycia.
«Che cosa stiamo cercando, esattamente?» domandò, visto che era più di mezz’ora che remava e i muscoli iniziavano a dolergli; l’umidità, poi, gli si incollava alla pelle e aveva già la camicia intrisa di sudore.
«Anthea muscipula gigantis.»
«Eh?»
«È una pianta.» Alycia girò il libro, Botanica parallela, e lo tenne aperto in modo che guardasse la figura disegnata: un gigantesco albero dai fiori viola acceso, da cui sgorgava una fontana di tentacoli verdi. «Volgarmente detta “Anthea Ingannatrice”: è una delle piante carnivore più rare e letali al mondo, cresce solo in determinate zone umide.»
«Tipo in Louisiana.»
«Stando a questo libro, durante il Colonialismo lo sciamano Hi Jhon raggiunse le Americhe per aiutare la sua gente» raccontò Alycia. «Viveva qui nel bayou, che poi prese il suo nome, ed elargiva consigli e incantesimi a chi ne aveva bisogno. Si dice che fosse in grado di curare qualsiasi male grazie a una pianta dalle proprietà miracolose.»
«E tu sei convinta che sia davvero qui?»
«L’Anthea ama i luoghi caldi e umidi» spiegò la ragazza. «Si nutre di roditori e uccelli, talvolta anche di serpenti e cuccioli di alligatore, infatti secondo la leggenda Hi John le offriva sacrifici per ottenere in cambio la linfa con cui creava pozioni. Durante l’Inquisizione, ne furono bruciate a centinaia, i puritani la chiamavano “Fiore del Diavolo”, ma nei campioni di acqua palustre che ho prelevato c’è un’alta percentuale di spore identiche a quelle descritte in questo libro: perciò un esemplare deve essere sopravvissuto per forza.»
«Capisco» disse Jim lentamente. «E una volta trovata cosa ne farai?»
«La studierò e la trapianterò ad Arcanta, dove sarà al sicuro.»
«E non hai pensato che forse la gente di New Orleans potrebbe ancora farne uso?»
Alycia sbatté le palpebre. «È una specie troppo preziosa, restando qui rischierebbe di scomparire per sempre.»
«Ma magari a lei piace stare qui.»
«Magari anche agli animali del tuo circo piaceva vivere nel loro habitat» lo rimbeccò lei. «E li tenete chiusi in gabbia per profitto. Ad Arcanta sappiamo dare valore alle cose: ci assicuriamo che la magia non vada perduta, la proteggiamo.»
A Jim tornò in mente quanto detto da Lucia alcuni giorni prima: “La magia sta abbandonando questo mondo, così come lo hanno abbandonato i maghi”. «Sugli animali del circo hai ragione» dovette convenire. «Non piace neanche a me vederli in gabbia, ma ci servono per sopravvivere.»
«Come ad Arcanta serve la magia. Per questo gli Arcistregoni sono incaricati dal Decanato di esplorare il Mondo Esterno, raccogliere manufatti magici, testi e incantesimi prima che i Mancanti se ne sbarazzino.»
«Quindi tuo padre è una specie di…cacciatore di magie?»
«Il migliore.» Una ruga d’espressione le segnò la fronte e Alycia tornò a sfogliare il suo libro. «O almeno, lo è stato fino alla Guerra Civile.»
Jim bruciava dalla voglia di saperne di più, ma Alycia cambiò al volo argomento:«Dovremmo esserci quasi, vira leggermente a destra.»
«Potremmo anche darci il cambio, sono ore che remo!»
«E chi ha detto che dovevi per forza remare? Potevi usare la magia.»
Jim sentì il fumo uscirgli dalle orecchie. «Non è questo il punto..!»
«Eccola, deve essere lì!»
Alycia indicò un isolotto circondato da giunchi, proprio di fronte a loro. La barca si incagliò contro qualcosa, forse una secca; perciò, dovettero scendere e proseguire nell’acqua torbida e ghiacciata. Alycia andò avanti mentre Jim si caricava in spalla lo zaino, imprecando contro le sanguisughe che gli si appiccicavano alle caviglie. Arrancò nel fango fino all’isolotto, e quando per poco non scivolò all’indietro, Alycia disse che se avesse bagnato uno solo dei suoi preziosi libri lo avrebbe incenerito.
Potrei sempre affogarla, pensò Jim, esasperato. Potrei farlo sembrare un incidente…
«Muoviti, discepolo! Mi serve lo zaino.»
È scivolata e ha sbattuto la testa, signor Blake. Glielo assicuro, non è stata colpa mia…
«Avevo ragione, è proprio qui!»
Alycia si era fermata in cima alla collina, accanto a un cespuglietto dai profumati fiori viola a forma di cuore.
«Per essere “gigantis è piccolina» osservò Jim, ripensando all’illustrazione sul libro.
Lei prese a sfogliare il suo Botanica parallela con foga. «Non dovrebbe essere affatto così!»
«Forse l’autore ha esagerato un tantino.»
La ragazza emise un verso frustrato. «No, è impossibile: so tutto sull’argomento, una delle caratteristiche dell’Anthea Ingannatrice è che può crescere senza sosta se adeguatamente stimolata.»
«È una signora dai gusti particolari, eh?» commentò Jim malizioso.
Alycia lo fulminò con gli occhi. «Piantala di dire scemenze: prendi i miei attrezzi, bisogna sradicarla.»
«Non ho intenzione fare più niente se prima non sento la parolina magica.»
Di fronte all’espressione perplessa e irritata di lei, Jim esplose: «Per favore! Intendo dire per favore!» Lasciò cadere lo zaino, senza preoccuparsi del rumore di vetri che seguì. «Non hai fatto che darmi ordini da stamattina, per non parlare del modo in cui mi tratti tutti i giorni!»
«Dobbiamo proprio discuterne adesso?»
«Sì, dobbiamo proprio!» fece Jim. «Si può sapere che ho fatto di male per meritarmi tutta questa cattiveria gratuita?»
«Oh, scusa tanto! Ho ferito i tuoi sentimenti? Solo perché non grido al miracolo qualunque cosa tu faccia come mio padre?»
«Quindi è di questo che si tratta? Vuoi dimostrare di essere migliore di me?»
«Non ho bisogno di dimostrarlo» replicò lei, sprezzante. «Traducevo trattati di magia in greco antico, tiravo di scherma con ragazzi grossi il doppio di me e distillavo veleni quando tu ancora stavi imparando ad allacciarti le scarpe. Mi sono guadagnata il rispetto del mio maestro e un posto come sua apprendista e non ho mai dovuto elemosinare nulla!»
«Tranne le attenzioni di tuo padre» obiettò Jim, in tono velenoso. «Sei abituata a essere sempre la migliore, ma non puoi aizzarmi una foresta contro perché lui non ti ha scelta. Io non ti ho rubato proprio niente, tesoro, mettitelo in testa!»
La bocca di Alycia si dischiuse dallo stupore, ma presto il suo sguardo tornò a infiammarsi di una familiare aggressività. In quell’istante, Jim avvertì un suono simile a uno schiocco e qualcosa gli afferrò la caviglia. Fu strattonato all’indietro e si ritrovò di faccia a terra, senza fiato.
«Ma che…?»
I suoi piedi erano stretti, trattenuti da una sorta di fune verde scuro, spuntata da chissà dove.
«Possibile che devi reagire così ogni volta?» esclamò, cercando di allentare la presa. «Sei veramente…»
«Non sto facendo proprio niente!» ribatté Alycia. Il suo sguardo però passò oltre, fino allo stagno «Oh, no…»
Anche Jim si voltò. «Cazzo.»
L’acqua stava ribollendo come una pozione nel calderone, e altre propaggini schizzarono da ogni direzione.  Alycia ruotò le mani ed evocò una sciabola di energia verde, che brandì per recidere al volo le ramificazioni impazzite prima che si avvicinassero a Jim. Ma presto divennero troppe…
Un tentacolo la colpì in pieno volto come una frusta, facendole volare gli occhiali; la ragazza emise un gemito di sorpresa e dolore e si gettò immediatamente a terra per cercarli a tentoni.
«Attenta!» gridò Jim.
La afferrarono per il busto e la strattonarono all’indietro. Alycia fece appena in tempo a urlare, prima di venire trascinata sott’acqua.
Jim imprecò. Riuscì a liberare un braccio dalla morsa e una luce rossa si accese nel suo palmo; l’aria fu pervasa da un suono simile a un lamento di dolore, dopodiché il tentacolo si ritrasse, ondeggiando minaccioso. Subito, altri tre emersero dall’acqua, pronti a trascinare giù anche lui. 
Jim sollevò le mani. «Vuoi giocare col fuoco, eh?»
Il primo tentacolo partì all’attacco, ma Jim era pronto; premette i palmi sul terreno ed evocò una foresta di lingue di fuoco, che s'innalzò arrostendo foglie e radici. Di nuovo, Jim percepì quel grido sofferente echeggiare intorno a lui.
L’isola, realizzò. La pianta è sotto l’isola!
La chiamavano “Anthea Ingannatrice” per un giusto motivo: li aveva proprio messi nel sacco. Mentre i rami si contorcevano in preda al dolore, Jim non perse tempo a riflettere e si tuffò nello stagno.
Alghe di un verde brillante danzavano sotto di lui e tra l’erba ondeggiante distinse immediatamente Alycia, che si dibatteva furiosamente, la bocca aperta da cui usciva un torrente di bolle. Era completamente avviluppata nelle grinfie dell’Anthea, pronta a essere trascinata dentro un’insenatura tra le grosse radici.
Una bocca.
Dalle alghe spuntarono altre liane, ma Jim riuscì a respingerle sprigionando un getto d’acqua bollente. Si sbracciò per raggiungere Alycia e l’afferrò per la vita, tirandola verso di sé. L’Anthea oppose resistenza.
L’hai voluto tu!
Jim contrasse le dita della mano come se stesse stritolando un cuore e le pareti della grotta crollarono.
Si levò una gran nuvola di sabbia mista a pietrisco che gli oscurò completamente la visuale, ma dagli strilli rabbiosi emessi dall’Anthea, comprese che le sue radici fossero state schiacciate dal peso della frana. 
Jim si lanciò verso Alycia e riuscì a estrarla dai tentacoli, dopodiché iniziò a scalciare come un dannato per allontanarli entrambi dal raggio d’azione della pianta. Nuotò con fatica, appesantito dal corpo inerte della ragazza, e quando finalmente infranse la superficie, inghiottì due enormi boccate d’aria.
Alycia si riscosse subito, tossì, imprecò e prese a dimenarsi tra le sue braccia finché lui non la lasciò andare. Raggiunsero a nuoto la riva opposta e si accasciarono sulla sponda l’uno accanto all’altra, esausti. Rimasero lì distesi per qualche minuto, respirando forte e senza dire una parola, mentre l’acqua tornava a formare uno specchio verde, immobile e omogeneo.
«C’è mancato poco» sospirò alla fine Jim, guardando verso l’isolotto. «Qui dovremmo essere al sicuro.»
Alycia non disse niente; se ne stava seduta con le ginocchia premute contro il petto, i capelli grondanti appiccicati alla testa e lo sguardo perso nel vuoto dietro gli occhiali privi di una lente. Sulle braccia aveva striature rosse e lividi laddove le propaggini della pianta l’avevano afferrata.
«Ehi?» chiese lui, cauto. «Stai bene?»
Lei annuì, trattenendo un brivido. «Non sono riuscita a prendere neanche un ramo» disse poi, con voce fievole. «La mia tesi…non potrò terminarla…»
Jim allora si tastò le tasche e ne estrasse qualcosa. «Questo può bastare?»
Alycia sgranò gli occhi: nel suo palmo c’era un fiore viola, un po’ stropicciato.
«Come hai fatto?»
Le sorrise. «Un bravo prestigiatore da fiera è in grado di derubare chiunque: figurati se non riesce a derubare una pianta.»
Alycia era allibita. Prese il fiore che lui le porgeva e lo esaminò, sistemandosi sul naso gli occhiali rotti.
«Immagino che il mio zaino sia ormai irreperibile.»
«Ah» gemette lui, ricordandosi solo in quel momento di aver mollato tutti i suoi campioni e attrezzi sull’isolotto. «Mi dispiace…»
Alycia tenne una mano aperta sopra il terreno e da esso sgorgò dell’acqua; Jim la osservò mentre evocava una bolla intorno al fiore, ottenendo una specie di ampolla. Era una manipolazione davvero sofisticata, lui poteva solo sognarselo un tale livello di precisione. «Però, sei brava.»
«Grazie» replicò lei e dopo un momento aggiunse: «Neanche tu te la sei cavata male, prima.»
Lui si grattò il naso, per qualche motivo imbarazzato, e si alzò in piedi. «Ehm, vado a recuperare la barca, ok? Aspettami qui.»
Fortunatamente la trovò dove l’avevano lasciata, incagliata tra i giunchi, ma i remi dovevano essere caduti in acqua. Mentre tornava indietro, Alycia disse: «Ti devo delle scuse.»
Lo stava fissando negli occhi senza la solita aria di superiorità, ma con un’espressione seria e intensa che provocò in lui una strana agitazione dalle parti dello stomaco.
«Ci ho messi entrambi in pericolo» proseguì, con voce leggermente incrinata. «Ho insistito io per venire fin quaggiù. Avevo studiato l’Anthea per settimane, ero sicura di sapere a cosa andavo incontro…e per poco non ci ha uccisi. Sono di livello evocatore, avrei dovuto avere la situazione sotto controllo, avrei dovuto…»
«Capita a tutti di sbagliarsi.»
«Non a una che vuole entrare nel Cerchio d’Oro. Gli alchimisti di Arcanta non commettono errori.»
«Questo è impossibile» ribatté Jim. «A meno che non si scopra che sono robot come in Metropolis…»
«E mi dispiace anche per come ti ho trattato» disse Alycia. «Hai ragione, non posso incolparti per il comportamento di mio padre. È solo che…non lo vedevo da quattro anni e ritrovarlo adesso qui, con te come apprendista…mi ha fatto male, ecco.»
Questo sì che lo lasciò senza parole. Jim si chiese se l’Anthea non avesse per caso anche il potere di cambiare la personalità di chi vi entrava in contatto. «Mi dispiace che fra voi le cose siano così complicate.»
«Hai detto bene, sono complicate» mormorò lei. «Ma non avrei dovuto scaricare su di te la mia rabbia, è stato sciocco e infantile. Scusa se ti ho fatto male l’altro giorno.»
Di nuovo, lui avvertì quella lieve stretta allo stomaco, ma cercò di ignorarla e provò invece a sdrammatizzare: «Non sentirti tanto speciale: mica sei la prima bambola che prova a farmi secco!»
Lei non parve capire e Jim ridacchiò, indicandosi una piccola cicatrice alla testa, vicino l’attaccatura dei capelli: «Una volta ho fatto arrabbiare una pollastra di Kalamazoo. Aveva una mira niente male, mi ha preso in pieno con un ferro di cavallo: tre punti di sutura.» Poi sollevò la camicia, mostrando un’altra vecchia cicatrice all’altezza del costato. «Questo invece me l’ha fatto una biondina di Dallas: quando ha scoperto che ci avevo provato sia con lei che con la sorella, mi ha inseguito con un coltello da cucina. Fortuna che il treno era già in partenza!»
Le labbra di lei furono attraversate da un piccolo fremito. «Sei piuttosto bravo a far arrabbiare la gente.»
«Ognuno ha i suoi talenti.»
Stavolta, malgrado gli sforzi, Alycia non riuscì a trattenere una risata; era la prima volta che succedeva, e anche se erano entrambi fradici ed infreddoliti, Jim si sentì immediatamente riempire di calore.
Ancora col sorriso sulle labbra, la ragazza rivolse lo sguardo alla palude, tornata a essere quieta e silenziosa. «Non mi ero resa conto di quanto fosse bello questo posto.»
«Lo è, quando non cerca di mangiarti.»
«Ad Arcanta non avevo mai visto niente di simile, nemmeno nei suoi parchi.» Prese una pausa. «Forse non hai torto, è meglio che l’Anthea resti qui nel suo habitat, dopotutto. Sa difendersi da sola.»
Rimasero per qualche istante seduti vicini a guardare l’acqua che scorreva lenta e ascoltare i suoni della foresta, ancora ricca di misteri e magia. All’improvviso lei si schiarì la voce. «Adesso dovremmo rientrare.»
Jim fu d’accordo. Mentre il sole iniziava a calare oltre le cime degli alberi e la loro barchetta si lasciava alle spalle il bayou sospinta dalla magia, considerò che, in fin dei conti, la giornata non era stata un completo disastro.



 

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Capitolo 17
*** Racconti di re, cavalieri e spade ***



RACCONTI DI RE, CAVALIERI E SPADE

 




Da quel giorno Jim accompagnò Alycia altre volte nella palude; si trattò di uscite più tranquille, in cui si tennero a distanza dall’isolotto dell’Anthea Ingannatrice, per dedicarsi invece a esemplari meno aggressivi. Anche perché bastava già Alycia a mettere alla prova i suoi nervi.
Dall’episodio con la pianta assassina, tuttavia, aveva smesso di offenderlo gratuitamente e non sparava più malignità sulle sue umili origini. Non che fossero diventati amiconi e capitava anzi spesso che bisticciassero per i motivi più futili, tipo se Jim le passava l’ampolla sbagliata, o se dimenticava di mettere qualcosa nello zaino. Ma in generale si stava sforzando di essere più gentile e se aveva bisogno del suo aiuto terminava sempre la richiesta con “per favore”.
Tutto sommato, fu un miglioramento notevole.
Proprio come suo padre, inoltre, Alycia era un’enciclopedia vivente; non solo era una maga di eccezionale talento, ma conosceva a memoria i nomi di ogni singolo fiore, albero o arbusto ed era in grado di distinguerli a una semplice occhiata, motivo per cui Blake aveva deciso di affidarle Jim perché perfezionasse le sue competenze in botanica:
«Questa è una Taluma Labirintia» gli spiegò un pomeriggio nella foresta, mentre esaminavano un esemplare dalle bizzarre foglie a spirale. «Attira le formiche in un tortuoso percorso all’interno delle sue foglie e il suo nettare ridona la memoria perduta in seguito a un trauma.»
Vi era poi la Miraluna, un’orchidea che si rendeva visibile solo durante le notti di luna piena, l’Anaclea Voluptatis, che in caso di pericolo creava una bolla in cui il tempo rallentava…
In passato, raccontò, le piante magiche erano diffuse in tutto il pianeta: la Terra allora doveva somigliare a un autentico paradiso, prima che i Mancanti cominciassero come al solito a rovinare tutto; perciò, i maghi di Arcanta ritennero opportuno trapiantarle nelle serre della Cittadella.
«Qualcuna però ha trovato il modo di sopravvivere qui fuori» concluse; con la punta del dito, sfiorò i verticilli di un ricco cespuglio e tutti insieme i sepali verdi si schiusero, liberando i delicati petali rosa pallido cosparsi di polline. «È questo che mi ha sempre affascinata delle piante: riescono ad adattarsi a tutto.»
Jim la guardò; era raro sentirla parlare con tanto trasporto, di solito manteneva sempre un atteggiamento altero e distaccato. Proprio come suo padre, in effetti.
«Chi ti ha insegnato queste cose?» le chiese, spinto dalla curiosità. «Il tuo maestro? Boris…come si chiamava…?»
L’espressione di Alycia si annuvolò all’improvviso. «No. Boris Volkov è un guerriero: alla Corte delle Lame, la sua accademia, ho appreso tutto sulle armi e su ogni forma di combattimento. Ciò che so sull’alchimia, invece, l’ho imparato da sola.»
«Caspita.»
Lei scrollò le spalle. «Mio padre stava via per mesi e io non avevo mai idea di quando sarebbe tornato a casa. Se fosse tornato. Ma almeno avevo a disposizione la sua biblioteca.»
«E quindi vivevi completamente sola?» domandò Jim. Si figurò una Alycia bambina che vagava per le sale di un palazzo deserto e provò dentro di sé una stoccata di rabbia. Come accidenti faceva quell’incosciente di Blake a partire a cuor leggero? Non c’era da meravigliarsi se crescendo sua figlia fosse diventata una misantropa.
«Valdar era sempre con me» rispose lei. «Non mi perdeva d’occhio un attimo: qualche volta l’ho pure convinto a giocare insieme all’ora del tè.»
«Mi risulta più difficile immaginare te che giochi a una cosa del genere che Valdar» ammise lui, riuscendo a strapparle un sorriso; quando accadeva, notò, le si formavano due piccole fossette ai lati della bocca. Le trovò graziose.
«Ti assicuro che è una creatura più dolce di quanto non sembri, dovresti provare a conoscerlo.»
«Forse ce l’ha con me perché non ho ancora imparato l’orchese.»
«È difficile per lui fidarsi delle persone» mormorò Alycia. «Ha avuto…una brutta delusione in passato.»
Jim rimase a guardarla in attesa che proseguisse, ma lei ancora una volta scelse di deviare il discorso: «Dimmi qualcosa di te» lo spronò invece. «Non avevo mai conosciuto un mago cresciuto tra i Mancanti.»
«Cosa vuoi sapere esattamente?»
«Per esempio, come hai fatto a non dare nell’occhio finora?»
Jim sorrise. «Il bello del circo è che la gente ci va per assistere a cose impossibili; gli illusionisti sfruttano stratagemmi per far sembrare la magia reale, io faccio esattamente il contrario. Ciò che conta è che per il pubblico sia “Lo Straordinario Khazam” a essere magico.»
«Quindi hai sempre dovuto recitare una parte?»
«Non lo facciamo tutti continuamente?»
Alycia soppesò le sue parole. «E prima del circo? Com’era la tua vita?»
«Semplice, monotona, isolata. Stavo sempre alla fattoria con i miei genitori.»
«Un Mancante e una strega.»
«Già.»
«Non capita spesso che i maghi instaurino relazioni coi Mancanti» commentò lei. «Come si sono conosciuti?»
Jim aggrottò la fronte, richiamando alla mente i ricordi: «Durante la Guerra: mio padre ha combattuto in Belgio, ma fu ferito e trasferito in un ospedale militare, dove mia madre era infermiera. Su di lei non so molto, solo che era ricca. Quando mio padre ottenne il congedo si sono sposati a Limerick e poi sono venuti negli Stati Uniti. Con l’oro di mia madre hanno comprato la fattoria.»
«Perciò non sai praticamente nulla delle tue origini magiche? Di chi fosse tua madre prima di fare l’infermiera e della sua famiglia?»
Jim raspò il terreno con la punta della scarpa, a disagio; stava sempre bene attento a non indugiare sul suo passato, e si augurò che Alycia non avesse intenzione di indagare troppo a fondo. «Mia madre non parlava mai della sua famiglia, penso non andassero d’accordo. E poi…a mio padre non piaceva la magia.»
Alycia adesso lo stava scrutando con molta attenzione, un po’ troppa per i suoi gusti; questa volta avrebbe fatto comodo a lui un pretesto per cambiare argomento, ma lei non gliene diede tempo: «E a tua madre stava bene che ti venisse proibito di usare i tuoi poteri?»
«No, ma era malata da tempo, spesso non aveva neanche la forza per alzarsi dal letto. Quando è morta, mio padre ha stabilito che ci dessi un taglio con la magia.»
«Che strano» mormorò Alycia.
«Immagino fosse stato un duro colpo per lui.»
«Parlavo di tua madre» replicò lei. «Dici che era malata da tempo, cosa aveva?»
«I medici non hanno mai saputo dircelo.»
«Perciò dico che è strano» disse Alycia, accigliata. «I maghi non si ammalano.»
«Questo è impossibile.»
«A te è mai successo? Hai mai preso la scarlattina o il morbillo, anche un semplice raffreddore?»
«Be’» fece lui, realizzandolo solo in quel momento. «In effetti, no.»
Alycia raccolse i suoi attrezzi, i libri e le provette e li ripose nello zaino. «Immunità alle malattie e lunga vita sono le caratteristiche principali della nostra razza: moriamo solo di morte accidentale o di vecchiaia. Qualunque cosa avesse tua madre, di sicuro non era un male comune.»
«Dici che potesse aver preso una specie di virus magico?»
«O di maleficio» rispose lei, torva in viso. «Farò qualche ricerca.»
«Ehm, grazie» borbottò lui, non sapendo come interpretare l’offerta. Mentre Alycia proseguiva il cammino, domandò: «Ehi, dici che i maghi vivono molto a lungo…tipo quanto, esattamente?»
«Dipende, ho sentito che alcuni sono arrivati fino a centocinquant’anni.»
«Centocinquanta?» si meravigliò lui. Alzò il passo per starle dietro. «Tuo padre è così vecchio?»
«Ne ha centosette, ma dicono se li porti bene.»
Jim inciampò. «Centosette?!»
«Devi proprio ripetere tutto quello che dico?»
«Scusa» disse Jim, arrossendo. «Ma quindi tu non avrai mica tipo settant'anni…?»
Alycia sospirò. «Rilassati, James, non mi nutro di sangue di vergini per sembrare giovane. Ho compiuto diciassette anni a gennaio.»
Si fermò all’improvviso, l’espressione pensierosa. «Senti, ci ho ripensato, credo che mi tratterrò qui ancora un po’.»
«Pensavo avessimo finito.»
«Devo solo...occuparmi di una cosa» rispose lei con fare evasivo, guardando verso gli alberi. Sembrava che tutt’a un tratto avesse una gran fretta di toglierselo di torno. «Non mi occorre più il tuo aiuto, comunque. Torna a casa.»
«Sei sicura di voler rimanere qui fuori tutta sola? Tra poco farà buio…»
«So badare a me stessa» tagliò corto Alycia, bruscamente. «Ci vediamo domani.»
Perplesso, Jim si convinse che con lei fosse meglio non insistere e la salutò, incamminandosi da solo fuori dal bosco.
 
 
L’estate passò e ottobre portò con sé piogge più frequenti, giornate più corte e tutta una serie di cambiamenti.
Tra le lezioni di magia con Blake e le mattinate insieme ad Alycia nel bayou, Jim aveva finito col passare al circo sempre meno tempo, così chiese il permesso di poter trascorrere con i suoi amici la settimana del suo compleanno:
«Si unirà a noi, vero?» domandò a Blake, ma lui declinò educatamente l’invito.
«Temo che la mia presenza a molti non sarebbe gradita» spiegò in tono mite. «Godetevi i festeggiamenti.»
La sera del 22 ottobre, O’Malley riunì tutti gli artisti nella carrozza ristorante, di solito riservata alle – poche – grandi occasioni; durante la festa l’alcol scorse a fiumi, e Rodrigo e Antonio si misero d’impegno per far ubriacare il direttore al punto da convincerlo a salire su un tavolo e intonare qualche vecchia canzone irlandese.
Jim raccontò delle stranezze di Blake e della sua scontrosa figlia, e mostrò qualche nuovo incantesimo che aveva imparato: a mezzanotte, realizzò uno spettacolo pirotecnico di illusioni, e piccoli draghi colorati presero a svolazzare dappertutto per il campo, inseguiti da bambini urlanti.
Arthur li raggiunse a festa inoltrata, mentre tutti erano impegnati a ballare, per dargli il suo regalo: una raccolta dei maggiori successi di Mamie Smith.
«Magari lo possiamo ascoltare una di queste sere col mio giradischi» propose, affondando le mani nelle tasche. «È un po’ che non lo facciamo.»
In effetti, dal giorno dell’incontro tra Blake e Joel, e della lavata di capo dello stregone agli operai, i due amici non trascorrevano più molto tempo insieme, limitandosi a un rapido scambio di saluti e a qualche parola frettolosa la sera.
«Oh, a proposito» aggiunse poi Arthur. «Probabilmente Maurice è troppo ubriaco per parlartene, ma ho sentito che vuole mettere su uno spettacolo per la fine del mese. Sarà una cosa grossa, ha intenzione di spendere un bel po’ dei soldi di Blake. E ti vuole a tutti i costi, visto che c’è il divieto di far esibire gli animali.»
«Grandioso!» rispose Jim, felice che il circo avesse ripreso le sue attività. «Ci sarò sicuramente…anche perché, ammettiamolo, altrimenti chi le attira le ragazze?»
«Certo» replicò l’amico, divertito. Esitò un momento: «Ho visto quella cosa con i draghi di prima: sei diventato bravo.»
«Oh, quello. Non è niente di che, dovresti vedere le illusioni che crea il signor Blake, quelle sì che sono un portento…»
«Voglio dire che hai imparato un sacco di cose» continuò Arthur. «E sembri molto più sicuro di te quando pratichi la magia. Significa che presto potremo tornare alla vecchia vita, non credi?»
L’entusiasmo di Jim si attenuò a poco a poco: erano fermi da cinque mesi, una situazione a cui molti erano riusciti ad adattarsi bene, trovandosi anche un impiego in città o qualcuno da frequentare. Altri, invece, non vedevano l’ora di ripartire.
Quanto a Jim, non aveva ancora idea di quali piani avesse il futuro per lui: gli piaceva imparare cose nuove da Blake e persino trascorrere del tempo con Alycia non era più un sacrificio. Malgrado gli mancasse viaggiare con i suoi amici, il palcoscenico e gli applausi, vivere a contatto con la magia ogni giorno era un qualcosa a cui sentiva di non poter rinunciare. Non più.
Rientrò nella sua cabina quando ormai stava iniziando ad albeggiare. Lily dormiva acciambellata su un ammasso di vestiti gettati sul letto e, accanto a lei, Jim trovò due regali apparsi dal nulla: il primo si rivelò una magnifica stilografica in avorio, accompagnata solo da un biglietto con la firma di Blake. Jim la provò subito, e scoprì che era stata incantata per scrivere da sola e che il suo inchiostro poteva diventare invisibile. Il secondo regalo era un libro rilegato in seta turchese, che raccoglieva biografie dei più grandi stregoni della storia. Sul biglietto riconobbe la grafia di Alycia: “Papà dice che ti piacciono questo genere di cose. Magari può esserti di ispirazione.”
Il ragazzo sedette sul letto e accarezzò distrattamente la gatta, ripensando alla serata appena trascorsa, poi passò in rassegna gli altri regali dei suoi amici – il gilet realizzato all’uncinetto da Teresa, il mazzo di carte da gioco osé di Rodrigo e il pacchiano orologio da polso di O’Malley, decorato con finte gemme.
Un familiare senso di vuoto tornò ad aprirsi al centro del suo petto come una voragine; per la prima volta nella vita, sentiva di avere il cuore diviso a metà.
 
 
Più trascorreva il tempo, più Jim si convinceva di aver rimandato la decisione fin troppo a lungo, così una sera, colse l’occasione per discuterne con il maestro.
«Immaginavo ci fosse qualcosa che non va» disse, quando Jim gli chiese di parlare alla fine della lezione. «Sei distratto ultimamente.»
Non aveva torto; come anticipato da Arthur, O’Malley aveva cominciato ad assillarlo perché tornasse a prendere parte alle prove per lo spettacolo di fine mese: si sarebbe tenuto nel periodo di Halloween, in cui tra addobbi e costumi sarebbe stato più facile spacciare le magie di Jim per effetti speciali. Così, alle lezioni di magia e botanica si era aggiunto altro lavoro.
Con un gesto elegante, Blake comandò ai libri di tornare a occupare i propri scaffali. «Ti piacciono gli scacchi?» chiese poi. «È un gioco che stimola la mente, l’ho sempre trovato utile per sbrogliare le situazioni più difficili.»
«Non conosco le regole.»
«Te le insegno io» si offrì. «C’è una scacchiera sopra la mensola del camino, ti dispiace portarla qui?»
Mentre lo stregone avvicinava il tavolino, Jim prese a due mani la bella scacchiera in alabastro. Il suo sguardò indugiò sulla spada affissa sopra il focolare; le fiamme proiettavano un caleidoscopio di riflessi sulla lama lucente, dando l’impressione che le figure incise si muovessero. Anche lì c’erano re, dame e cavalieri.
«Con Alycia come va?» domandò Blake, disponendo i pezzi sulla tavola. «Ormai trascorrete molto tempo insieme.»
«Meglio, credo. Cioè, non mi ha ancora trasformato in uno scarafaggio.»
«Penso che le faccia bene stare qui» commentò lui con l’ombra di un sorriso. «È diversa, di sicuro sorride più spesso. Arcanta ha molto da offrire…ma tende anche a tirare fuori il peggio delle persone.»
«Quindi non ci tornerà?»
Lo stregone emise un leggero sospiro. «Prima o poi dovrò farlo per forza, come ha detto Alycia, ho ancora dei doveri nei confronti del Decanato. Ma finché ho la possibilità di temporeggiare…i Bianchi muovono sempre per primi, osserva questa apertura.»
Mosse in avanti un pedone e Jim, non sapendo cos’altro fare, rispose facendo avanzare il Nero in modo speculare. Blake lo mangiò, conquistando subito le caselle centrali. «Si chiama “Gambetto di Donna”, una delle più classiche. Contiene però una trappola: ti illude di essere già in vantaggio, ma in realtà rende vulnerabile la Regina. Come vedi, si tratta di un gioco di strategia. E può essere spietato.»
Jim annuì, la fronte aggrottata mentre studiava lo schema. Provò a eseguire alcune mosse, Blake rispose; le lancette della pendola ticchettavano piano, scandendo la danza delle figure che si davano battaglia.
«E riguardo me?» domandò dopo un po’ il ragazzo. «Quando tornerete ad Arcanta cosa farò io?»
«È una decisione che spetta solo a te. Ti senti pronto a cambiare totalmente vita?»
«Il fatto è che…non lo so.» Jim si sforzò di trovare le parole adatte per esprimere cosa provava. «Ho sempre pensato che nel circo potessi essere me stesso, ma non ne sono più sicuro; amo la compagnia, ma amo anche la magia. Senza contare che probabilmente vivrò così a lungo che vedrò invecchiare e morire la maggior parte di loro…»
Gli venivano le vertigini al pensiero della lunghissima vita che lo attendeva: che gli piacesse o no, sarebbe comunque rimasto solo, alla fine. E allora, Arcanta sarebbe stata l’unica alternativa...
«Se credi che ad Arcanta troverai la risposta, temo di doverti dare una delusione» rispose Blake. Mangiò il suo Cavallo, che si unì al gruppo di pezzi sul lato destro della scacchiera. «La società creata dai Decani avrebbe dovuto essere perfetta: ci hanno illusi che il mondo non meritasse la magia, che fosse meglio custodirla tra pochi, ma non si può tenere in gabbia qualcosa di così potente, così come non lo si può fare con le persone. Anche se si crede di fare il loro bene.»
«Questi Decani sembrano un po’ dei Fascisti» osservò il ragazzo, provocando in lui un sorrisetto. «Però Alycia crede ciecamente in loro.»
«È giovane, appassionata, e ha ereditato la testardaggine dei Blake, il che la rende facilmente plagiabile. Lo ero anche io alla sua età.» Tacque per alcuni istanti, analizzando la partita. «Ma a differenza sua, ero consapevole che ad Arcanta non avrei mai trovato il mio posto.»
Jim lo fissò con attenzione, sforzandosi di non far trapelare la sua ansia di risposte. Non capitava spesso di scalfire la corazza del maestro, e non aveva intenzione di commettere passi falsi.
«La mia famiglia non ha mai goduto di grande popolarità laggiù» proseguì lo stregone, lentamente. «Titoli nobiliari e denaro per i maghi non hanno alcun valore, e qualsiasi cosa rappresenti un legame col Vecchio Mondo è visto con diffidenza: ad Arcanta, solo chi è nato e cresciuto secondo i dogmi del Decanato è ritenuto degno di considerazione. Gli Esterni devono faticare per guadagnarsela.»
«Lei è nato in Inghilterra, no?»
«I Blake affondano le loro radici nel cuore di Albione» confermò lui. «Al tempo dei druidi, degli dèi e della Grande Magia. Il mio antenato, però, si macchiò di un grave crimine: cercò l’alleanza con i Mancanti.»
«A me non sembra affatto un crimine» obiettò Jim, sorpreso.
«Lo è per Arcanta. In quel periodo infuriava una guerra tra maghi e Mancanti, ma il mio antenato era convinto che si potesse ancora trovare un punto d’incontro. Per questo rapì il figlio di un re Mancante e lo educò alla magia.»
«Un po’ estremo.»
«All’epoca non si andava per il sottile. Il giovane principe crebbe nei boschi, e imparò dal suo maestro il linguaggio del Tutto. Comprese come la magia fosse parte del mondo e che non aveva senso combatterla. Passarono gli anni, il principe divenne re; fondò una grande città e riunì sotto il suo vessillo i regni vicini. Il suo nome era Artorius Pendragon, passato alla storia come Re Artù.»
Jim per poco non rovesciò la scacchiera. «Dice sul serio? Ma quindi, se Artù è esistito davvero, significa che il suo antenato era..?»
«Merlino.» Blake parve divertito dalla sua reazione. «Arcidruido delle Midlands e consigliere fidato del nuovo re: sotto la sua guida il regno di Camelot crebbe e prosperò, i maghi erano ben accetti e per suggellare l’alleanza, Artù prese in moglie Morgana Blackthorn, sacerdotessa di Avalon. Da loro nacque un bambino che avrebbe dovuto rappresentare l’unione dei due mondi, il principe Mordred.»
«Un Sanguemisto» disse Jim piano. «Come me.»
«Le cose però non andarono come Merlino aveva sperato» proseguì Blake. «I Lord Mancanti si rifiutarono di accettare come futuro re un mezzo demonio, iniziarono a girare voci sul fatto che Morgana e Merlino avessero manipolato Artù. Così il re si convinse, per ragioni politiche, a ripudiare la sua moglie strega e sposò invece una principessa Mancante.»
«E poi?» chiese Jim, rapito dal racconto. «Cosa accadde a Mordred e Morgana?»
Supportato dall’Alfiere, Blake spostò la Regina Bianca in f7, dando scacco matto al Re. «Guidarono una ribellione contro Camelot: Mordred cercò l’alleanza di tutte le creature del Mondo Magico e le spinse a sollevarsi contro i Mancanti. La battaglia fu sanguinosa, morirono in molti da entrambe le parti. E alla fine, Mordred uccise suo padre usando la sua stessa spada.»
«Excalibur» completò Jim.
«La Spada dei Giusti. Fu forgiata da Merlino affinché donasse la vittoria solo ai puri di cuore. Per unire, mai per separare. Per creare e mai per distruggere. Artù e suo figlio non si rivelarono degni e ne furono entrambi maledetti: Mordred si ritrovò a governare un regno allo sbaraglio e preferì il suicidio.»
«E cosa ne fu della spada?» chiese Jim.
«Tornò a Merlino. Cercò di raccogliere i pezzi e custodì Excalibur in attesa di un puro di cuore che potesse continuare quanto iniziato. Ma fu un’attesa infinita, visto che appartiene ancora alla mia famiglia.»
D’istinto, Jim guardò in alto, verso il camino. «E dove tiene l’originale?»
«In questa stanza.»
Il ragazzo sgranò gli occhi. «Mi prende in giro?»
«Nient’affatto.»
«Posso vederla?»
Era quasi sicuro che il maestro dicesse di no, che era un cimelio troppo prezioso.  Invece, Blake si alzò, liberò la spada dai ganci che la tenevano fissata al muro e la fece roteare con maestria. Nelle sue mani, sembrava leggera come una piuma.
Jim si avvicinò per ammirare meglio l’elsa decorata a spirale e le finissime incisioni sull’acciaio: raccontavano una storia, una storia tragica quanto affascinante.
La domanda gli sorse spontanea. «Lei ci ha mai provato? A usarla?»
Blake gli rivolse un sorrisino strano, fatto con la bocca all’ingiù. «No e non credo ci proverò mai: se dovessi scegliere un aggettivo per descrivermi, non sarebbe “puro di cuore”.»
Gli diede le spalle, mentre rimetteva la spada al suo posto. «Ho passato anni a trovare il modo di entrare nelle grazie del Decanato, per scrollarmi di dosso il peso della mia eredità. Ho trascurato tutto il resto, spinto dall’ossessione: la donna che ho sposato, mia figlia…e quando le ho perse entrambe, mi sono reso conto che non ne valeva la pena.»
A un tratto fu assalito da un attacco di tosse e le sue spalle ebbero un fremito.
Estrasse subito dal taschino la fiaschetta con all’interno il misterioso liquido nero e bevve un paio di sorsi mentre tornava a respirare normalmente.
«Signor Blake» mormorò Jim, preoccupato.
«Sto bene» rispose lui con voce leggermente arrochita. «Non si arriva alla mia età senza qualche piccolo acciacco.»
Ripose la boccetta e tornò a guardarlo, con quel suo sguardo limpido e penetrante in cui sembravano racchiusi i segreti dell’universo. «Scegli con molta attenzione a chi rivolgere la tua lealtà, Jim. Ci ho messo tempo per capirlo, ma alla fine penso che l’unico crimine di Merlino sia stato quello di pensare con la propria testa. E con il proprio cuore.» 

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Capitolo 18
*** Ombre dal passato ***



OMBRE DAL PASSATO

 




Le settimane che seguirono furono un vero e proprio inferno per Jim.
Ogni mattina, mentre montava in bici diretto alla magione, O’Malley lo inseguiva minacciandolo perché facesse ritorno per l’ora di pranzo per prendere parte alle prove: prove inutili e noiose, che duravano anche tutto il pomeriggio, in cui Jim doveva lavorare sull’entrata e sull’uscita di scena, coordinarsi con l’orchestra e con gli effetti speciali, risultare spettacolare ma non dare troppo nell’occhio. In questo modo no, non andava bene. In quell’altro neanche: troppo rischioso. O’Malley non era mai soddisfatto e ogni giorno dovevano ricominciare daccapo.
Blake, dal canto suo, non si dimostrò molto indulgente, visto che proprio in quei giorni aveva deciso di iniziare con gli incantesimi di guarigione e autorigenerazione. Il che comportava, oltre allo studio di enciclopedici manuali di anatomia, anche la pratica. E Jim lo scoprì nel modo più traumatico quando, una mattina, entrato nel laboratorio per la lezione, trovò un cadavere disteso sul tavolo.
«E questo chi cazzo è?!»
Si trattava di un robusto signore di mezza età, con radi capelli biondi incrostati di sangue. Ed era completamente nudo, tranne per un panno a coprirgli i genitali, la pelle flaccida di un pallore tendente all’azzurro. Legato con uno spago sull’alluce destro, vi era un cartellino.
«Il signor Harry T. Jackson» rispose Solomon Blake, in piedi dietro il cadavere. «Un manovale di cinquantasette anni, defunto questa mattina al porto a causa di un gancio di ferro che lo ha colpito alla nuca. Trauma cranico, morte istantanea.»
«M-ma…» balbettò il ragazzo. «Dove lo ha preso?»
«All’obitorio, naturalmente. Sta’ tranquillo, si tratta solo di un prestito: il buon signor Jackson tornerà ai suoi cari in tempo per il funerale e tutto intero al termine della nostra lezione. È fresco di decesso e suoi organi non hanno riportato lesioni, il che lo rende perfetto per esercitarci.»
«Io non metterò le mani su un morto!» protestò Jim, indignato. «È totalmente irrispettoso!»
«Potrei lanciarti un’illusione che ti faccia credere di non provare dolore e vivisezionare te» ribatté Blake, il sopracciglio sollevato. «Ti sembra una soluzione più rispettosa? Di sicuro sarebbe più istruttiva.»
Poi, con un’indifferenza che solo i serial killer e gli scienziati pazzi del cinema potevano dimostrare, infilò dei guanti da chirurgo e si armò di bisturi. «Cominciamo?»
 
 
Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma tra O’Malley che lo tartassava per le prove e Blake che gli faceva aprire cadaveri come fossero borsette da donna, Jim si ritrovò a supplicare Alycia di poter trascorrere con lei più tempo possibile.
«Disgustose, eh?» gli chiese divertita una mattina, quando Jim la raggiunse nella serra. «Le lezioni di anatomia, intendo.»
«Terribili» esalò lui, lasciandosi cadere su uno sgabello; aveva maneggiato interiora per tutta la mattina, riuscendo a non vomitare per miracolo. Inspirò l’odore del terriccio, del verde e dei fiori che lo circondavano, sperando che gli desse sollievo. Invece peggiorò solo la situazione. «Non credo che mi ci abituerò mai.»
«Ci siamo passati tutti» commentò lei, intenta a recidere alcune foglioline secche dalla piantina di Anthea Ingannatrice che faceva oscillare piano i suoi tentacoli. «Quando uno dei tuoi amici si fratturerà un braccio o sarà sul punto di perdere una gamba, ringrazierai di essere un mago. Diciamocelo, la medicina Mancante ha ancora molta strada da fare.»
Blake gli aveva detto più o meno la stessa cosa qualche giorno prima, indignato che negli ospedali si utilizzassero tecniche e strumenti da Medioevo e che nessuno fosse ancora a conoscenza di una roba chiamata penicillina: “I Mancanti ci impiegano un sacco di tempo a scoprire le cose” aveva concluso con un sospiro. “Pensa se non avessi convinto il signor Fleming a guardare quella muffa sul vetrino! Sono come bambini che vanno imbeccati.”
Alycia gli passò una boccettina con del liquido rosato. «Una pozione che annulla completamente la nausea: è a base di bacche di Tirillio, ma devi fartela bastare perché crescono solo nelle notti di luna crescente. Ci ho aggiunto menta piperita per migliorarne il sapore.»
Jim prese la boccetta, spiazzato da quel gesto. Era sul serio stata in piedi tutta la notte per prepararla?
«L’hai fatta per me?»
Lei sistemò gli occhiali. «Ovvio, ormai ti ho continuamente tra i piedi. Non voglio mica vederti vomitare mentre lavoro.»
«Grazie.»
Alycia si limitò a fare spallucce e tornò a concentrarsi sulla sua pianta. Jim stappò la fiaschetta e bevve un sorsetto parsimonioso e in effetti subito dopo la nausea passò.
«Pare che l’Anthea abbia attecchito bene, comunque» disse Alycia. «Sono già spuntate le prime gemme, vedi?»
«Sei a buon punto con la tua tesi, allora.»
«Non proprio.» Alycia sospirò con rassegnazione. «Non riesco ancora a capire come stimolare la sua crescita: ho consultato dozzine di testi, ma nessuno ne parla in maniera chiara. Fanno solo riferimento a delle celebrazioni che avvenivano nel bayou: danze intorno a fuoco, tamburi, canti, cose così.»
«Magari è solo un po’ timida.»
«O magari ho scelto un soggetto troppo difficile da studiare. Probabilmente è per questo che nessun alchimista è riuscito a portarla ad Arcanta.»
«Se c’è qualcuno che può riuscirci quella sei tu.»
Lei si volse a guardarlo, una scintilla di stupore misto a curiosità ad animare i suoi occhi scuri e Jim provò una sensazione insolita, come se avvertisse di colpo caldo e freddo contemporaneamente.
«Sì, be’…» Si rigirò tra le mani la boccetta, temendo di essere arrossito. «È che non sei il tipo che si dà vinto facilmente.»
«Non mi conosci, come fai a dire che tipo sono?»
«Ti saresti fatta ammazzare da quella pianta solo per dimostrare di avere ragione. Più determinati di così.»
«Lo dici solo perché non vuoi che ti rimandi a fare anatomia con mio padre.»
«Forse un pochino» ammise lui, facendola ridere.
Mentre la osservava dedicarsi all’Anthea, Jim disse: «Ci pensi mai a come la vita delle persone potrebbe migliorare se la magia tornasse a essere accettata come un tempo?»
«Vuoi dire, se i maghi non la nascondessero ad Arcanta?»
«Be’, sì.» Jim ripensò alla storia che Blake gli aveva raccontato, su Merlino, Artù e il sogno di vivere in un mondo dove maghi e Mancanti fossero in pace. «Potrebbe risolvere un sacco di problemi…»
«Era quello che sosteneva anche mio padre.»
Alycia rimosse gli occhiali, sollevandoli alla luce. «So che quando era più giovane provò a convincere i Decani che la magia dovesse tornare nel Mondo Esterno, che non aveva più senso custodirla tra pochi. Fu a tanto così dall’entrare lui stesso nel Decanato, lo sapevi?»
«No» disse Jim, colpito. «Non me l’ha detto.»
«Lo supponevo. Dicono fosse pieno di idee su come cambiare la società di Arcanta. Visionarie, secondo i più. In realtà penso che le regole imposte dai Decani gli siano sempre state strette.»
«È per questo che ha deciso di andarsene?» domandò Jim.
«Non solo» fece lei, molto piano. Prese un fazzoletto e pulì le lenti spolverate di polline. «Penso lo abbia deciso dopo la morte della mamma.»
Jim riuscì a trattenere a malapena un sussulto. Era la prima volta che le sentiva tirare fuori l’argomento. Alycia prese un profondo respiro e rinforcò gli occhiali. «È accaduto durante la battaglia contro la Strega Eretica. Mia madre era un’alchimista di talento, si offrì di prestare le sue abilità sul campo, di seguire mio padre…e rimase uccisa.»
«Mi dispiace.»
L’angolo della bocca di lei si piegò in un sorriso senza allegria. «Già, me lo sento ripetere di continuo. Parole di cordoglio per la coraggiosa Isabel Alicante, così devota a suo marito e ad Arcanta.»
«Per questo ti sei dedicata all’alchimia, non è così?» disse Jim con voce sommessa. «Hai scelto di seguire le sue orme.»
«Sì» mormorò lei, lo sguardo basso, schermato dalle lenti. «A sette anni, mentre esploravo casa, scoprii una stanza murata. Mi intrufolai da un passaggio nascosto, e lì trovai il laboratorio di mia madre, i suoi libri, i suoi appunti e progetti. Avevo appena un anno quando morì, non ricordo neppure che volto avesse, mio padre ha fatto rimuovere ogni suo ritratto o fotografia. Ma grazie al suo lavoro ho imparato a conoscerla. Era una mente davvero brillante.»
La voce le si incrinò appena e Alycia tacque per un momento.
«Secondo il mio maestro meritava un maggiore riconoscimento da parte del Decanato» proseguì. «E invece tutti ad Arcanta la ricordano per essere stata la moglie del grande Solomon Blake, il mago che ha ucciso l’Eretica e poi se l’è svignata come un codardo.»
«Forse lo ha fatto perché si sente in colpa» mormorò Jim. «Voglio dire, era sua moglie ed è morta nel tentativo di aiutarlo…»
«Se n’è andato quando avevo bisogno di lui» rispose lei con asprezza. «Ha tagliato la corda, senza curarsi di ciò che si è lasciato dietro. E anche adesso non gli importa di cosa accade ad Arcanta, delle voci che girano sul suo conto e che io in quanto sua figlia sono costretta a sopportare.»
«Di che voci parli?»
Alycia sollevò lo sguardo. «Cosa ti ha detto di preciso sull’Eretica?»
«Niente.»
«Strano, non trovi? Avrebbe dovuto parlarti di lei, dopotutto ha lasciato un segno profondo su Arcanta e sulle nostre vite.» Lo sguardo di Alycia si fece duro. «L’Eretica era convinta che i maghi non dovessero più nascondersi, che siano predestinati a dominare sul Creato e sui Mancanti: cercò di convincere il Decanato a riportare la magia nel mondo, e quando loro si rifiutarono, minacciò di farlo da sola, sprigionando il potere del Vuoto. Era dell’idea che solo grazie a esso i Mancanti sarebbero tornati a temere la magia. E le sue dottrine avevano molti seguaci.»
Jim aprì la bocca, frastornato. Gli tornarono in mente le parole pronunciate da Blake solo poche sere prima: “Ci hanno illusi che il mondo non meritasse la magia, che fosse meglio custodirla tra pochi. Ma non si può tenere in gabbia qualcosa di così potente.”
«Stai dicendo che il signor Blake in realtà fosse d’accordo con lei?»
«A mio padre il Decanato non piace e non gli piace sottostare alle regole. Sai cosa gli è sempre piaciuto, invece? Il potere. I fedeli dell’Eretica si stanno riorganizzando e lo stanno facendo rapidamente. Ma lui continua a restare in disparte e questi misteriosi viaggi che fa…non so te, ma io non me la bevo la storia del “Ora sono in pensione e voglio girare il mondo in libertà.”»
«Questa cosa non ha senso» protestò Jim. «Sai che non ha senso, vero? Ha combattuto per Arcanta, è una specie di eroe laggiù.»
«Non ci sono eroi tra gli stregoni, Jim.»
«Va bene e allora perché avrebbe dovuto farlo? Perché l’ha uccisa se stava dalla sua parte?»
«Il corpo non fu mai ritrovato, per quanto ne sappiamo potrebbe trattarsi benissimo di un bluff.» Alycia scosse mestamente il capo. «Mio padre è il maestro dell’inganno, si è costruito una carriera ad Arcanta grazie ai suoi sotterfugi. Tra gli Zeloti pare circoli una specie di profezia, secondo cui l’Eretica tornerà al potere più forte di prima con l’aiuto di qualcuno a lei molto vicino.»
«E tu pensi possa trattarsi di tuo padre.»
«Ha le conoscenze, l’astuzia e il potere per poter compiere praticamente qualunque cosa. E onestamente non so più cosa pensare di lui. Forse non l’ho mai saputo.»
«Allora ti dico cosa penso io» disse Jim. «Chi fa il mio mestiere sa osservare la gente e io l’ho osservato bene: penso che tu abbia ragione, che si è comportato da vigliacco, ma penso anche che abbia sofferto molto. Che una parte di lui non si sia mai perdonata per quanto accaduto a tua madre.»
Alycia ricambiò lo sguardo con la mascella contratta e gli occhi lucidi, ma non lo interruppe.
«Ti ha scritto delle lettere» proseguì Jim. «Lettere a cui non hai mai risposto, ma ha continuato a scrivertele, ogni giorno. Non sto giustificando quello che ha fatto, ma credo che ci stia provando a rimettere le cose a posto. E forse, prendendo come apprendista un patetico mago da fiera che nella vita non ha concluso un cazzo, vuole dimostrare il fatto che tutti possono cambiare, se gli viene data l’occasione.»
«Quindi, secondo te dovrei perdonarlo e basta? Fare finta che non sia successo niente…?»
«No, secondo me dovreste parlarvi» disse Jim, convinto, e dopo un attimo, aggiunse: «Almeno, tu l'opportunità di farlo ce l’hai ancora.»
Questa volta fu lei a non sapere cosa dire e Jim si pentì di aver scoperchiato quel rospo, quel mostro brutto, cattivo e schifoso che dimorava dentro di lui da anni. Ma non era ancora pronto a estirparlo, non adesso, non con Alycia. E poi, erano seduti molto vicini…
Si batté le mani sulle ginocchia e scattò in piedi, nascondendo quell’improvviso turbamento dietro un sorriso solare. «Oppure, puoi continuare a sfogarti scagliandomi contro incantesimi o usandomi per il tiro al bersaglio!» Fece una risatina nervosa. «Pare che sia terapeutico, sai?»
«Jim…» cominciò Alycia, ma lui non le diede tempo di continuare.
«È ora che vada alle prove» disse, affrettandosi a raggiungere la porta. «Prima che il Folletto venga a cercarmi col fucile!»
 

«No no no! Non ci siamo per niente!»
«Oh, ma dai!» Jim allargò le braccia, e una decina di canarini gialli gli uscirono cinguettando dalle maniche. «Si può sapere che cos’è che non ti piace ancora?»
Il direttore, seduto di fronte al palco, alzò gli occhi sugli uccelli che avevano preso a svolazzare per il tendone, la grossa faccia poggiata sulla mano come un bambino che si annoia: erano ore ormai che Jim e Vanja provavano lo spettacolo di chiusura, arrovellandosi il cervello per riuscire a conciliare i numeri classici con le migliorie proposte dal giovane mago, e ancora il Folletto non era soddisfatto. 
«Troppo rischioso, non mi convince. Riproviamo un’altra volta come avevamo stabilito ieri!»
Jim cercò con lo sguardo l’aiuto di Margot, che se ne stava in disparte seduta sugli spalti, consultando le sue carte.
«Maurice, caro» disse la donna, con voce carezzevole. «Non essere duro, i ragazzi stanno facendo del loro meglio…»
«Lo spettacolo sarà la settimana prossima!» tuonò O’Malley. «E non abbiamo ancora uno straccio di numero di punta! Se il tuo maghetto da strapazzo si degnasse di partecipare attivamente…»
«Ehi, io sto partecipando!» esclamò Jim. «E te lo avevo già scritto il numero di punta, se solo la piantassi di bocciare tutte le mie idee...!»
«Oh, intendi quella degli animali di carta che si animano e trotterellano per il tendone? Oppure quella dove fai volare i bambini dentro bolle di sapone giganti? O magari quella del golem di sabbia che balla il liscio con le signore in prima fila?»
«Quello non era male» dovette convenire Vanja.
«Ti rendi conto, spero, che non possiamo permetterci di far scappare tutti a gambe levate!?» sbraitò O’Malley, così arrabbiato da non accorgersi che uno dei canarini gli aveva fatto la cacca sul cappello. «Sono numeri folli!»
«Ma è quello che il pubblico vuole!» ribatté Jim.
«No, il pubblico vuole uno spettacolo da circo! Vuole animali, giocolieri, acrobazie, giochi di prestigio! Non rischiare un infarto o di rompersi l’osso del collo!»
«E allora che senso ha tutto quello che sto imparando?»
«Lo sapevo che sarebbe andata a finire così.» Con un gesto teatrale, O’Malley cacciò fuori dalla manica un fazzoletto e si tamponò la tempia. «Già era difficile tenerti a bada, ci mancava pure quello sciroccato di stregone a farti venire voglia di spacconate! Dovevi continuare coi numeri di Khazam, ecco.»
«Be’, notizia dell’ultima ora» disse Jim, arrabbiato. «Khazam al pubblico faceva schifo. E sinceramente pure a me!»
«Penso sia arrivato il momento di fare una pausa» intervenne Margot, frapponendosi tra gli sguardi di fuoco che si lanciavano i due. «Siamo tutti stanchi e nervosi in vista dello spettacolo. Vieni, Jimmy, andiamo a prendere un po’ d’aria.»
Ma Jim non voleva prendere aria. Voleva trasformare O’Malley in un pallone areostatico e vederlo volare via dall’apertura in cima al tendone.
«Io ce la metto tutta» le disse, una volta fuori. «Perché non riuscite a capirlo?»
«Lo so, tesoro. E credimi lo sa anche Maurice.»
«È che sono stanco di tutto questo» replicò lui, amareggiato. «Vorrei essere me stesso per una volta: alla gente piace quello che faccio quando non mi nascondo, lo hai visto anche tu!»
Margot sospirò. «Maurice non ha torto, le persone hanno bisogno di essere rassicurate di questi tempi: hanno avuto fin troppe sorprese. Ma in fondo.» Gli rivolse un sorrisetto complice e ammiccò. «Se non desiderassero un po’ di magia nelle proprie vite, non verrebbero al circo.»
«È quello che sto cercando di fargli capire» disse Jim, lieto che almeno qualcuno laggiù lo sostenesse.
«Capirà.» Margot allungò una mano per accarezzargli i capelli. «Porta pazienza, il tempo del riscatto è quasi giunto.»
Lasciò morire la frase e allontanò la mano, mentre un’ombra attraversava il verde limpido dei suoi occhi.
«Margot» fece Jim, incerto. «Tutto bene?»
Lei scacciò via quell’ombra scuotendo piano la testa e tornò a sorridergli, ma il suo sguardo aveva perso vivacità. «Ma certo, ero solo sovrappensiero. Che ne dici di tornare dentro e provare a scendere a compromessi con Maurice per questa volta? Prima risolviamo la questione dello spettacolo, prima potrai dedicarti alla magia.»
Jim acconsentì di buon grado a tornare nel tendone e sopportare le terribili modifiche al suo numero, pur di levarsi di torno in fretta il direttore. Ritrovò Maurice che stava ancora urlando contro l’orchestra:
«Voglio più atmosfera, più ritmo!» continuava ad abbaiare contro il povero percussionista. «Siamo a New Orleans, la terra del vudù, riesci a capirlo, testa di rapa? Dà qua, ti faccio vedere!»
E, mentre il Folletto prendeva a percuotere i grossi sabar come un matto e Jim era costretto ad assistere all’ennesima scenata, fu colto da una folgorazione. «Il ritmo…ma certo!»
«Cosa hai detto, tesoro?» chiese Margot.
«Mi sono ricordato che devo fare una cosa» farfugliò lui, e prima che Maurice se ne accorgesse, sgattaiolò in fretta fuori dal tendone.
Corse al vagone di Arthur e si affacciò al portellone aperto, trovando l’amico che puliva la gabbia di Joel. Il leone sollevò di scatto la testa e lo puntò con i suoi occhi gialli, i baffi frementi. Passò la lingua sulle zanne e Jim si fermò a debita distanza; era sempre l’uomo che lo aveva visto crescere, ma alle volte non era sicuro che se lo ricordasse.
«Aspetta.» Arthur uscì in fretta e richiuse bene la porta. «Che succede? Hai già finito le prove?»
«No, per oggi ci ho dato un taglio. Senti, vecchio mio, mi chiedevo…»
«Sì?»
«Mi presteresti il tuo grammofono?»
L’espressione di Arthur si fece sospettosa. «Perché?»
«Solo per un’oretta, poi te lo restituisco. Devo provare una cosa.»
Arthur tentennò qualche altro istante, poi sospirò. «D’accordo. È nel baule, te lo prendo.»
Jim gli rivolse un enorme sorriso, mentre l’amico entrava nella sua cuccetta e rovistava tra i suoi averi. Tornò da lui con una valigetta azzurro scolorito chiusa da linguette metalliche. «Riportamelo tutto intero, ok?»
Jim lo ringraziò e si precipitò a recuperare la bicicletta.
 
Raggiunse la magione mentre il sole stava ormai calando, pennellando il cielo di violente lingue di rosso e inondando i campi di fitte ombre. Le lampade della serra, tuttavia, erano accese, segno che Alycia era ancora al lavoro.
«Sei tornato» appurò con stupore quando lo vide ricomparire. «E le prove?»
Riprendendo fiato Jim posò la valigetta sul tavolo, dove Alycia stava esaminando alcuni campioni di linfa al microscopio. «Credo di aver capito cosa stimola la crescita dell’Anthea: è la musica! Ecco come mai sul tuo libro si parla di balli e canti in suo onore. Guarda, facciamo una prova!»
Lei abbassò gli occhiali, stupefatta, ma Jim aveva già estratto dalla borsa alcuni vinili.
«Mhmm questo no, questo neanche…»
«Mi dici cos’è quell’affare?» chiese Alycia.
«Un giradischi.»
«E a cosa dovrebbe servire?»
«Ad ascoltare la musica! A cosa se no?» Jim la fissò incredulo. «Scusa, come accidenti fate ad Arcanta senza questi?»
«Non ne abbiamo bisogno: se vogliamo ascoltare della musica incantiamo degli strumenti musicali che la suonino per noi.»
«E quindi gli strumenti si suonano da soli?»
«Sai com’è, sono magici.»
«Perciò suppongo che non ci siano nemmeno musicisti ad Arcanta.» La cosa lo sconvolse non poco. «D’accordo, tutto questo è semplicemente scandaloso. Adesso ti faccio vedere io cos’è la vera musica!»
Scelse un 78 giri e lo posizionò con cura sul piatto. Alycia lo osservò incuriosita, mentre azionava il dispositivo girando una manovella.
«Pronta?» chiese alla fine, posizionando la testina. «Ora ha inizio la magia!»
Partì un ragtime al pianoforte dal virtuosismo trascinante e Jim rivolse un sorriso ad Alycia. «Che te ne pare?»
«Come fate a chiamarla musica? È tutto maledettamente scoordinato, non si riesce a seguire.»
«Certo: è jazz! Non lo devi seguire, lo devi ballare.»
Scettica, Alycia guardò l’Anthea Ingannatrice, che non aveva subito alcun effetto.
«Sembra che neanche a lei piaccia molto.»
«Eppure ero sicuro…ok, proviamo con qualcos’altro.»
«Jim, non credo proprio che si metterà a crescere a ritmo di musica.»
«Ultimo tentativo, promesso!»
Lei emise un piccolo sospiro, ma acconsentì, e il ragazzo posizionò un altro disco.
 
“Maybe it’s the moon, maybe it’s your eyes.
Maybe just the spell of the June night…”

Stavolta si trattava di una ballata, una melodia dolce adatta ai lenti. I due ragazzi rimasero in attesa, osservando attentamente la pianta per cogliere una qualsiasi reazione; i suoi tentacoli ondeggiarono e si intrecciarono tra loro, ma a parte questo non accadde nulla. Jim sbuffò, deluso.
«Ci abbiamo provato» commentò Alycia comprensiva. «Grazie lo stesso, non era male come intuizione.»
Restarono in silenzio ad ascoltare il resto della canzone, e lei commentò: «Però è bella.»
«La vuoi ballare?»
«Cosa?»
«Sì, ballare» disse Jim. «Insomma, l’esperimento è stato un fiasco, ma almeno stiamo sentendo buona musica.»
Si esibì in un profondo inchino, mentre Alycia gli indirizzava uno sguardo tra il critico e il divertito. «Scordatelo. Io non ballo.»
«Perché no? È divertente!»
«Davvero, non ho tempo per queste cose…»
Per tutta risposta, Jim la tirò a sé. Quando fece scivolare la mano lungo la sua schiena, lei si tese a quel contatto così inaspettato, e un lieve rossore si diffuse sulle sue guance. «N-non ne sono capace.»
«Ti insegno io. Non sarò Fred Astaire, ma non me la cavo male.»
«Finirò per pestarti i piedi.»
«Ho una soglia del dolore molto bassa.»
Alycia cedette a un timido sorriso. Presero a oscillare lentamente, mentre la melodia si diffondeva in tutta la serra.

 “Maybe it’s the tune sweethearts harmonise
Maybe, who can tell in the moonlight...”

«È così terribile?» domandò Jim al suo orecchio. I capelli ricci di lei gli solleticavano la guancia, morbidi come seta e profumati di gelsomino.
«No» mormorò Alycia, la cui tensione si era un po’ attenuata. «È solo…strano.»
Le fece compiere una piroetta, e la sua gonna si aprì e ruotò come la corolla di un fiore. Quando lei tornò tra le sue braccia, sorridente e con le guance ancora un po’ rosse, qualcosa nell’aria cambiò, come se un vortice avesse catturato improvvisamente la musica e il tempo, e il mondo avesse iniziato a ruotare più lentamente.
A dire il vero, Jim ne era solo vagamente consapevole, perché lui e Alycia erano occhi negli occhi adesso, e tutto il resto smise di esistere…
Un momento dopo, lei scostò lo sguardo verso qualcosa alle sue spalle.
«Jim» sussurrò piano. «Guarda.»
Lui sbatté le palpebre, mentre il mondo riprendeva a girare così bruscamente da dargli le vertigini. Alycia gli indicò il tavolo, dove la pianta di Anthea aveva iniziato a contorcersi e a vibrare, ondeggiando su se stessa a ritmo di musica.
«Non l’aveva mai fatto prima!» disse Alycia.
Dal singolo bocciolo se ne moltiplicarono altri, seguendo il crescendo delle note e piccole foglioline verde chiaro iniziarono a spuntare lungo il fusto.

“When you’re in my arms, what is it that charms me
Never ever get quite enough of
Maybe it’s the moon, blame it on the moon
But I think it’s love!”

Timidamente, i baccelli cominciarono a schiudersi, fino a rivelare la linguetta scarlatta del pistillo e poi i petali, di una delicata tonalità di lilla.
«Non ci posso credere!» esalò Alycia, portandosi le mani al viso. «Avevi ragione, era proprio la musica! Ecco perché nessuno ad Arcanta ha mai capito come farla crescere!»
«Sfido io» disse Jim. «Se le avete fatto ascoltare quella roba suonata con la magia e senza un briciolo di passione.»
Alycia raccolse il taccuino tra le mani tremanti e cominciò ad appuntarsi febbrilmente qualcosa. «Questo è.…è semplicemente rivoluzionario! È come se producesse endorfine sulla base di una precisa sequenza di note!»
La pianta, intanto, continuava a crescere, finché le sue foglie non traboccarono dal vaso e andarono a sfiorare il tavolo.
«Sarà meglio interrompere la musica, ora» esclamò Alycia. Non riusciva proprio a smettere di sorridere: era radiosa. «Prima che invada tutta la casa!»

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Capitolo 19
*** Dietro le quinte ***



DIETRO LE QUINTE





«…e poi lei mi fa “Jim, guarda!”, io mi giro e… la pianta stava crescendo sul serio!» concluse Jim con entusiasmo. «Alycia dice che alcune piante sono sensibili alle emozioni: perciò, in qualche modo, ha percepito la passione che c’era dietro la canzone o qualcosa del genere.»
Un sorriso astuto affiorò sulle labbra di Lucia, mentre sorseggiava il suo tè; avevano approfittato della bella giornata per fare merenda in riva al lago, seduti su dei cuscini.
Jim era riuscito a intrufolarsi di nuovo nella galleria degli specchi senza dare nell’occhio grazie a Lily e all’incantesimo che aveva da poco imparato: il salto. Gli permetteva di sparire e apparire attraversando le particelle di magia che costituivano il Tutto e che secondo Blake potevano essere disposte in stringhe ordinate. Non gli era possibile percorrere grosse distanze, e riusciva a raggiungere solo luoghi a lui noti, ma si rivelò utile per tornare a far visita alla sua amica.
«Insomma, è stata una serata interessante» commentò lei alla fine, con l’aria di chi la sa molto lunga. «Piena di rivelazioni.»
Jim si sdraiò sui cuscini, le braccia incrociate sotto la nuca. «Sì, penso che ce la possa fare davvero a entrare nel Cerchio d’Oro. E se ai Decani la sua tesi non sembra una bomba, vuol dire che sono dei vecchi rimbambiti! Ci ha lavorato sodo per mesi, te l’ho detto che l’Anthea ci ha quasi affogati quando l’abbiamo trovata?»
«Sì, me l’hai già raccontato.»
«Secondo Alycia ogni grande scoperta comporta una percentuale di rischi» spiegò lui, ma notando che Lucia continuava a ridacchiare, chiese: «Che c’è? Che ho detto?»
«Oh, niente. Trovo solo adorabile il modo in cui pendi dalle labbra di questa ragazza: ti sei preso proprio una bella cotta, eh?»
Le orecchie di Jim andarono subito a fuoco. «Io non ho una cotta!»
«Hai parlato solo di lei per più di un’ora.»
«Ho parlato della pianta.»
«La pianta, certo.»
«Non è per niente il mio tipo!» chiarì lui, imbarazzato. «Ha un caratteraccio! È arrogante, pignola, ed è pure del Capricorno!»
«Non scegliamo chi amare» replicò Lucia, ma i suoi occhi mandarono un inconsueto bagliore di tristezza. «Succede e basta…anche se non vogliamo o ci fa soffrire.»
«È la figlia del mio maestro!» ribadì Jim, come se bastasse a chiudere la faccenda. «Nella remota possibilità che mi piacesse, non ci proverei comunque: Blake mi rivolterebbe come un calzino!»
«Il che rende tutto molto eccitante però, non trovi?» lo stuzzicò ancora lei e Jim decise che era proprio ora di cambiare argomento.
«Secondo Alycia è possibile che il signor Blake possa essere coinvolto in qualcosa di illegale» disse, riferendosi alla loro ultima conversazione. «A te ha detto qualcosa l’ultima volta che è stato qui? Per esempio, a proposito di una certa Strega Eretica?»
Accanto a Lucia, Lily si stiracchiò sbadigliando sul suo cuscino e la maga le accarezzò la schiena. «Sì, in effetti qualcosa lo ha accennato.»
«Davvero? Cosa?»
«Solo che da quando ha attaccato Arcanta il controllo del Decanato è diventato più rigido: non ci si fida di nessuno che provenga dal Mondo di Fuori.»
«La Strega Eretica era un’Esterna, quindi?»
«Molto peggio: era una Sanguemisto. Metà strega e metà Mancante.»
«Oh.»
Se una parte di lui aveva sperato di seguire Blake e Alycia, di poter visitare Arcanta e vivere tra la sua gente, vide immediatamente quell’ipotesi sfumare: il suo maestro non era ben visto per la parentela con un mago morto quasi mille anni fa, chissà cosa avrebbero pensato laggiù di lui!
«Insomma, mi disse che da allora doveva adottare certe precauzioni per spostarsi» disse Lucia. «Mi ha dato l’idea di essere una persona in fuga.»
Quasi il vero criminale fosse lui, pensò Jim. «È evidente che usando gli specchi evita che il Decanato lo controlli.»
«Probabile.»
«Ho provato a documentarmi, ma tra i suoi libri non ho trovato niente sull’attraversare gli specchi» disse Jim, il mento poggiato sulla mano. «E se glielo chiedo ho paura che possa scoprire che sto facendo indagini sul suo conto.»
«Potresti dare un’occhiata alla mia biblioteca» suggerì Lucia. «C’è un’intera torre piena di libri.»
«Sul serio posso?»
Lei rise. «Sono così tanti che non riuscirei mai a leggerli tutti da sola!»
Jim ringraziò e Lucia gli fece strada all’interno del palazzo. Passarono accanto a un arazzo che rivestiva un’intera parete e Jim si fermò ad ammirare la scena: da un lato vi era un corteo di cavalieri e dame, e dall’altro una folla di satiri, folletti e centauri che emergevano da un bosco ombroso, guidati da un vecchio che porgeva una spada a un giovane e biondissimo re.
«Vuoi sentire una storia assurda?» disse Jim, riconoscendo all’istante la vicenda. «Il signor Blake è imparentato con Mago Merlino! Tiene persino Excalibur esposta in salotto come un trofeo…»
Un soffio gelido sulla nuca gli fece rizzare i capelli. Ragazzo…
Il sangue gli si ghiacciò nelle vene, e Jim si voltò di scatto. «Lucia?»
Il vento spirò da una delle finestre aperte, gonfiando una tenda consumata, ma il corridoio era deserto. Il suo cuore subì una brusca impennata: possibile che avesse solo immaginato? Quando tornò a guardare di fronte a sé, si accorse di aver perso di vista la padrona di casa.
Puoi sentirmi…?
Ancora una volta si guardò le spalle, ma chiunque avesse parlato non voleva saperne di farsi vedere: quel posto era già spettrale di suo, ci mancava fosse pure infestato dai fantasmi!
«Non è divertente» sbottò, sperando di sembrare più irritato che spaventato. «Esci fuori! Sono un mago, non ti conviene fare scherzi.»
La voce tacque e Jim restò in vigile attesa. Poi, con un frastuono simile a uno scoppio, il vento spalancò tutte le porte e le finestre nello stesso istante.
SCAPPA!
Jim si coprì le orecchie finché la tempesta non si fu placata. Lentamente, allontanò le mani e alzò la testa; il vento aveva portato una pioggia di foglie secche, che coprivano ogni centimetro del corridoio. Se ne ritrovò persino qualcuna impigliata tra i capelli.
«Chi sei?» gridò Jim, la bocca secca. La persona a cui apparteneva quella voce, viva o defunta che fosse, sembrava disperata.
Il suo sguardo cadde su una stanza la cui porta era stata spalancata. Vi entrò con circospezione, pronto a reagire a qualsiasi altro strano fenomeno.
Era la camera di un bambino. Se ne accorse dalle pareti dipinte di azzurro e dai giocattoli, tra cui un cavalluccio a dondolo e un esercito di soldatini di piombo sparsi sul tappeto. Ma la cosa che più di tutte lo colpì era che, a differenza delle altre sale, sembrava l’unica a non presentare segni di abbandono, neppure un dito di polvere…
«Come sei entrato?»
La voce secca di Lucia lo colpì alle spalle come una frusta. Era ferma sulla soglia con un’espressione che Jim non avrebbe mai pensato di vederle in viso: esprimeva rabbia. Una rabbia gelida e feroce, che la faceva sembrare in qualche modo più vecchia.
«M-mi dispiace» farfugliò lui. «All’improvviso si è alzato il vento e la porta si è aperta, tu eri sparita…»
Lo sguardo torvo della donna si spostò sul corridoio invaso di foglie e sulle finestre aperte. «Non saresti dovuto venire qui.»
«Mi dispiace» ripeté lui, sempre più confuso. «Quella stanza è…?»
Lucia lo afferrò con forza per il braccio. «Devi andartene. Subito.»
«Lucia, non volevo essere invadente…»
«Ti ho detto di andartene!»
Jim aprì la bocca, ma le parole gli morirono sulle labbra. «D’accordo, scusami ancora.»
Non ebbe percorso che un paio di passi, quando Lucia disse: «Quella stanza sarebbe dovuta appartenere a mio figlio.»
Jim tornò lentamente a voltarsi. La donna si stringeva le braccia al petto, come se all’improvviso sentisse freddo.
«Si chiamava Caliban» spiegò, muovendo appena le labbra. «Era la creatura più innocente del mondo e loro me lo hanno portato via. Dissero che era un abominio, qualcosa di contro natura. Un’erbaccia che andava estirpata.»
Sconvolto, Jim ricordò come fosse scampata per miracolo a un’esecuzione per stregoneria. Quanto in là poteva spingersi il fanatismo delle persone? «E il padre?»
Il labbro inferiore di Lucia ebbe un fremito. «È sparito: troppo occupato a proteggere il suo onore, non ha fatto nulla per aiutarci.»
«Mi dispiace davvero.»
«Avrebbe avuto la tua età adesso.» Quando tornò a guardarlo, Jim colse qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non seppe decifrare ma che gli provocò strani brividi lungo la schiena. «Siamo amici noi, Jim? Tu non mi tradiresti, vero?»
«Certo» fece lui. «Io…puoi contare su di me.»
«Avevo bisogno di sentirtelo dire.»
Uno strano silenzio occupò lo spazio tra loro, teso e imbarazzato.
«Dovresti proprio andare ora» mormorò infine la donna. «Vorrei stare sola.»
Jim non insistette: anche lui sentiva il bisogno impellente di allontanarsi di lì.
Le diede appuntamento alla prossima volta, dopodiché si avviò in fretta verso lo specchio, ma non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che la casa e chiunque altro vi dimorasse lo stessero ancora osservando.
 
Il resto di ottobre passò in un lampo, e in men che non si dica Jim si ritrovò sotto l’incombente data dello spettacolo: si sarebbe tenuto di sabato, la notte di Halloween, così venne stabilito che il venerdì il circo rimanesse chiuso per apportare gli ultimi ritocchi.
Jim aveva deciso che dopo tanta fatica se lo era meritato un giorno di vacanza; malgrado il frenetico lavorio che gli imperversava attorno, trascorse la mattinata a bighellonare, sfruttando il salto per sgraffignare dolciumi dalle varie bancarelle, e sparire ogni volta che O’Malley cercava di assegnargli qualcosa da fare.
Apparve dal nulla, accompagnato dal tipico sibilo, fuori dalla Grotta delle Meraviglie, la vecchia tenda dove si esibiva Khazam; il suo bottino consisteva in un sacchetto pieno di insetti gommosi, e non vedeva l’ora di gustarseli quando la voce di Vanja risuonò dall’interno:
«…mi dispiace, al momento non assumiamo. E comunque, non so cosa ti abbiano raccontato, ma ti consiglio di stare alla larga da Khazam.»
«Ci deve essere un malinteso» replicò un’altra voce e, nel riconoscerla, Jim quasi si strozzò con un lombrico di liquirizia. «Lo conosco, sono venuta perché…»
«Fammi indovinare: si è messo in mostra, magari ti ha portata anche a ballare e ti ha proposto di esibirvi insieme» disse Vanja in tono di biasimo. «Cara, lo fa con tutte: c’è stata Kitty, poi Mona, poi Barbara…saltella da una bella ragazza all’altra e io sono stanca di vederle andare via col cuore spezzato. Lascialo perdere, è ora che il nostro enfant prodige cresca un po’.»
A quel punto, Jim fece irruzione. «Scusate tanto!»
Come temeva, insieme a Vanja c’era Alycia: la prima indossava solo un body che ne metteva in risalto il fisico mozzafiato, l’altra era imbacuccata in un lungo cappotto nero, con una valigetta azzurra in mano e tutta l’aria di non sapere bene nemmeno lei cosa ci facesse lì.
«Parli del Diavolo.» Vanja si portò le mani ai fianchi. «Sbaglio o avevamo stabilito niente più vallette?»
«Vanja, lei non è una valletta» la interruppe Jim. «È la figlia del signor Blake!»
L’espressione della trapezista mutò in un baleno. «Cazzo.»
«È quello che stavo cercando di spiegare» disse Alycia con voce gentile e un po’ imbarazzata. «Sono solo venuta a restituirgli una cosa.»
«Cielo, scusi miss Blake!» esclamò Vanja, rammaricata. «È tutta colpa di Jim, avrebbe anche potuto avvertirmi!»
«Ehm, puoi chiamarmi Alycia.»
«Il fatto è che con i suoi trascorsi devo stare sempre sul chi va là» stava però continuando Vanja. «L’ultima volta ha rischiato di mandare a monte lo spettacolo perché Penelope lo ha beccato insieme a due…»
«Ma tu e Wilhelm non dovevate allenarvi stamattina?» si mise in mezzo Jim, spingendola verso l’uscita. «Sarà meglio che ti sbrighi!»
«Oh, sì, giusto!» capitolò lei con una risatina. «Ehm, è stato un vero piacere, miss Blake… cioè, volevo dire Alycia. Scusa ancora!»
E finalmente uscì di scena.
«Mi dispiace» borbottò Jim, una volta soli. «Non sa proprio tenere a freno la lingua.»
«Non arrabbiarti» disse Alycia. «Cercava di essere gentile, mi ha vista sola qui fuori…è la tua ragazza?»
«Chi, Vanja? Gesù, no! Come ti viene in mente?»
«Be’, ho pensato…» Le guance di lei si colorirono. «Sa un mucchio di cose su di te e poi è così bella…»
«Sarebbe come provarci con mia sorella» replicò Jim, schifato. «Oh, e non glielo ricordare, che è bella intendo: da quando le hanno detto che somiglia a Greta Garbo se la crede un sacco.»
«Chi è Greta Garbo?»
«Un’attrice famosa.» Jim esitò, poi disse: «Comunque, quelle cose che ha detto non sono vere. Cioè, io...io non mi comporto sempre così.»
«Non occorre che ti giustifichi.»
«Non mi sto giustificando» replicò Jim, cercando affannosamente le parole adatte. «Solo...non voglio che pensi che sia tutto ciò che c’è da sapere su di me.»
«Perché è così importante quello che penso di te?»
«Non lo so» ammise lui. «Però lo è.»
La bocca di lei guizzò in un mezzo sorriso, mentre faceva un giro della piccola tenda, con sue le sedioline di legno, il palco sgangherato e la scenografia di cartone. Si avvicinò a una rastrelliera piena di costumi per lo più femminili, con piume e lustrini: vestiti da flappers, il genere di ragazze che Jim frequentava di solito.
Mentre la seguiva con lo sguardo, pensò che anche Alycia era bella, una bellezza diversa da quella di Vanja, forse, meno appariscente. Ma non era affatto il suo tipo: troppo complicata. E lui dalle situazioni complicate si era sempre tenuto alla larga. Preferiva rifugiarsi nelle cose semplici e nella compagnia di ragazze semplici, quelle che sorridevano sempre e che amavano divertirsi. Nessuna pressione, nessuna responsabilità, questo cercava…
«Si vestivano tutte così le tue assistenti?» domandò a un tratto Alycia, che aveva estratto un abitino argentato che arrivava a stento al ginocchio.
«Dipende dal numero.»
«Certo non copre molto. Non avevano freddo?»
«Ecco» fece lui, preso alla sprovvista. «Non lo so, non l’ho mai chiesto.»
Alycia adagiò il tubino d’argento al proprio corpo, premendolo sul cappotto, e si esaminò in una specchiera. Anche Jim la guardò, e la sua mente prese il volo, immaginando come sarebbe stata con indosso un vestito del genere. E, subito dopo, come sarebbe stata senza vestiti...
Scombussolato, distolse in fretta l’attenzione.
Intanto, la ragazza si era fermata di fronte agli armadi magici. «Cosa sono?»
«Li usiamo per i numeri di sparizione» spiegò Jim. «Ti faccio vedere.»
Le mostrò la leva nascosta che permetteva di aprire la botola sotto il palco. «Si passa da qui sotto e si sbuca nell’armadio accanto.»
Lei parve dubbiosa. «E la gente crede sul serio che sia magia?»
«Quando è in vena di crederci.»
«E questi?» domandò poi Alycia, indicando una scatola rovesciata a mo’ di tavolino, zeppa di fogli e taccuini.
«Oh, sono solo delle idee…»
«Posso?»
Lui scrollò le spalle e Alycia sfogliò gli appunti, su cui erano disegnati caroselli con animali semoventi e ottovolanti senza binari. «Sono progetti per delle giostre?»
«Mi sono ispirato alle attrazioni di Coney Island.»
«Coney...Island?»
«Un grande parco divertimenti a New York» disse Jim. «Mio padre mi ci portò una volta, il giorno del mio compleanno. C’è un’attrazione che si chiama “A Trip to the Moon”: sali su una navicella e ti porta nello spazio...cioé, una rappresentazione dello spazio... volevo renderlo più realistico con delle illusioni, costellazioni che si muovono, pianeti eccetera.»
«Unendo meccanica Mancante e magia» indovinò Alycia.
«Be’, sì. Ma secondo Maurice nessuno ci salirebbe.»
«I disegni in effetti non sono granché» commentò lei in tutta sincerità. «Ma l’idea mi piace. Basterebbe apportare qualche modifica.»
Senza aspettare un invito, lei si armò di gomma e matita e tracciò un paio di correzioni qua e là.
«Non è male» approvò Jim, colpito. Prese il progetto con entrambe le mani per studiarlo meglio. «Non è per niente male. Anzi è...è come se tu mi abbia letto nel pensiero.» Le scoccò un’occhiata incerta. «Aspetta... non l’hai fatto, vero?»
Un sorriso misterioso si fece strada sulle labbra di Alycia, un sorriso da strega, che diede vita a una lenta combustione dentro di lui. «Che c’è, ti preoccupa cosa potrei scoprire?»
Soddisfatta di averlo lasciato a corto di parole, lei tornò a sfogliare i suoi appunti. «Se mia madre fosse stata qui, avreste parlato per ore di questa roba: adorava le invenzioni. E di sicuro ti avrebbe incoraggiato a metterle a punto.»
«Non ne avrei comunque il tempo, lo spettacolo è domani.»
Alycia mise giù i progetti. «Giusto, Vanja me lo ha accennato. Sembrano tutti molto emozionati.»
«Potresti venire» propose Jim, senza riflettere. «Cioè, lo so che non sarà nulla di che, sarai abituata a ben altri standard…»
«Oh» fece Alycia, sorpresa. «Non lo sai?»
«Che cosa non so?»
«Domattina torno ad Arcanta. Credevo che mio padre te lo avesse detto.»
Fu come se un grosso macigno fosse sprofondato giù per lo stomaco di Jim.
«Ah» fu tutto quello che riuscì a dire. «Ok.»
La sua faccia doveva esprimere una gran delusione, perché Alycia si affrettò a spiegare: «Ho terminato di scrivere la mia tesi. Ho raccolto tutte le informazioni che mi occorrevano sull’Anthea, e poi siamo anche riusciti a farla crescere…»
«Certo. Non c’è problema.»
«Ci sarei venuta volentieri, sul serio.»
«Non c’è problema» ripeté lui. «È solo che…non me l’aspettavo.»
Rimasero lì fermi a guardarsi, poi Alycia gli allungò la valigetta con il grammofono di Arthur e schiarì la voce. «Sarà meglio che vada, di sicuro avrai da fare. In bocca al lupo per tutto.»
E lo superò, diretta all'uscita.
Prima che la varcasse, lui prese coraggio e disse: «Aspetta! Visto che è il tuo ultimo giorno, magari ti va di fare un giro del circo. È chiuso al pubblico oggi, perciò tutte le attrazioni sono a tua disposizione.»
Lei si fermò e, inaspettatamente, gli sorrise. «Perché no?»

Guidò Alycia attraverso i sentieri tra le tende, ai cui ingressi erano state ammucchiate grosse zucche intagliate; schiere di fantasmini di carta pendevano sopra le loro teste e l’odore invitante delle caldarroste si mescolava a quello del fieno e degli animali.
Le uniche persone in cui si imbatterono erano gli stessi componenti del circo, indaffarati nei preparativi.
«Quella è la tenda di Rodrigo» le indicò Jim, mentre si avvicinavano alla Cueva del Diablo. «Mi ha chiesto di apportare qualche modifica al suo costume, in modo che possa prendere fuoco senza scottarlo.»
Si fermarono ad assistere mentre il mangiafuoco provava alcuni dei suoi numeri; alla fine dell’esibizione, Rodrigo rivolse loro un inchino e fece il baciamano ad Alycia, e Jim dovette fare uno sforzo per non lasciar trapelare il suo disappunto.
Dopodiché, si affacciarono alla tenda di Margot, che stava trafficando con le sue provette e i suoi unguenti; l’indovina si presentò ad Alycia e invitò entrambi a farsi leggere il futuro.
«Ho la sensazione che le carte abbiano molto da rivelare su voi due» concluse, con un sorriso sibillino.
Un po’ imbarazzati, i ragazzi declinarono l’offerta.
«Sembra dolce» commentò Alycia, mentre si allontanavano. «Ed è una donna incantevole. Davvero è sposata con quell’odioso ometto coi capelli rossi che strilla sempre?»
«Nessuno è mai riuscito a spiegarselo» rispose Jim. «A quanto pare il vecchio Maurice ha delle doti da seduttore molto nascoste.»
Più avanti, un mimo bloccò loro il passaggio fingendo di essere rimasto chiuso in una scatola invisibile. Ma Alycia pareva soprattutto interessata alle bancarelle dei dolciumi.
«Prendili pure» la invitò Jim, fermandosi a un chiosco che esponeva calderoni pieni di mele caramellate e topolini di cioccolata.
Lei si morse il labbro. «Non dovrei, alla Corte delle Lame seguivo una dieta ferrea: ci erano proibiti i dolci.»
«Ma qui non sei alla Corte delle Lame.»
Alla fine, Alycia si convinse, e il panzuto venditore, Hector, le preparò un sacchetto pieno di cioccolatini, dicendo che li avrebbe messi in conto a Jim.
«Scherza» la rassicurò lui. «Non mi ha mai fatto pagare neanche una caramella.»
«Ti trattano tutti come se fossi uno di famiglia.»
«Perché è così: è un po’ come avere venti zii e circa una dozzina di cugini.»
«E non senti mai la mancanza dei tuoi veri genitori?»
Il suo sorriso scivolò via per un breve istante. «Sei matta? Con tutta questa gente che si sente in diritto di mettermi in punizione?»
«Lo stai facendo di nuovo.»
«Cosa?»
Alycia piluccò qualche cioccolatino dal sacchetto. «Quando si parla dei tuoi genitori cerchi sempre di fare battute. Come se non ti importasse.»
«Ah sì?» fece lui, fingendo di cascare dalle nuvole. «Non me ne ero accorto.»
«Perdere qualcosa fa sempre male. Anche se si è bravi a dissimularlo.»
«Il passato è passato» replicò Jim in tono sbrigativo. «Non ha senso piangersi addosso.
E poi, da queste parti diciamo: “Lo spettacolo deve andare avanti”.»
«Boris dice che ognuno ha i propri meccanismi di difesa.»
«Da come ne parli sembra che lo ammiri.»
Per qualche ragione, stavolta fu lei a incupirsi. «Ha fatto di me la maga che sono. E poi è l’unico tra gli Arcistregoni ad addestrare sia maschi che femmine senza distinzione alla Corte delle Lame.»
«Posticino mica male per fare baldoria.»
«Non è per tutti» disse Alycia, riprendendo a camminare. «C’è un inverno perenne e tutti gli ambienti sono in comune: Boris ha sempre criticato gli agi in cui vivono la maggior parte dei maghi, sostiene che chi può fare a meno di tutto non ha paura di perdere nulla.»
«Un po’ estremo come concetto» commentò Jim, sicuro che in un posto del genere non avrebbe resistito cinque minuti. E dire che si lamentava degli allenamenti col signor Blake!
«É un uomo molto severo» ammise lei. «Ma é anche la persona più giusta e onorevole che conosca.»
Continuarono a curiosare tra tende e bancarelle: mentre Alycia provava alcuni cappelli da strega, Jim chiese: «Perciò, in questa Corte delle Lame ci sono parecchi ragazzi?»
«Parecchi, sì.»
«E che tipi sono?»
Lei fece spallucce. «Abili con la magia e in qualsiasi forma di combattimento. Molto ligi al dovere.»
Una parte di lui si sentì rincuorata. «Sembrano noiosi.»
«Alcuni sanno essere divertenti.»
«Sì, immagino che feste da paura organizzavate a meno trenta gradi.»
«Be’, abbiamo una sauna» replicò Alycia con nonchalance. «E anche quella è in comune.»
Jim non ebbe modo di indagare sui festini nella sauna comune, perché Arthur li raggiunse di corsa.
«Ciao» gli disse Alycia. «Sei tu il ragazzo del grammofono?»
«Il...cosa?» fece Arthur.
«Sì, le ho prestato il tuo grammofono» spiegò Jim, e quando Arthur sollevò le sopracciglia chiarì in fretta: «Era per un esperimento! Comunque, Artie, lei è Alycia, la figlia del signor Blake.»
«Ah» disse Arthur. «Ehm, piacere…ehi, ti posso parlare un attimo? Da soli» aggiunse, scoccando una rapida occhiata alla ragazza. «Ci sono delle novità su cui dovrei aggiornarti. Ho scoperto una cosa...»
«Le sto facendo fare un giro» disse Jim, un po’ scocciato. «Non possiamo rimandare a stasera?»
«Quando sarai così sbronzo da non ricordarti neanche il tuo cognome?»
«Stasera andiamo in un locale» spiegò Jim, visto che Alycia non sembrava seguirli. «È in città, lo ha scoperto Rodrigo: pare lo frequentino solo Dimenticati. Ci saranno anche Vanja e suo fratello. Tu ci vieni?»
«Ecco» fece lei, incerta. «Non so…»
«Ti piacerà!» insistette Jim con un sorriso, mentre dietro di lui Arthur apriva la bocca per protestare. «Prima di tornare ad ascoltare quell’orrore di musica che suonano ad Arcanta devi assolutamente ascoltare una band dal vivo.»
«Quindi è come un teatro?»
«Da queste parti li chiamiamo speakeasy» rispose Jim, ignorando deliberatamente il sospiro di Arthur. «Avanti, è la tua ultima sera a New Orleans!»
Combattuta, Alycia guardò Arthur come in cerca di approvazione, al che il ragazzo alzò le spalle e disse: «Ma sì dai, ci farebbe piacere averti con noi.»
«D’accordo» rispose Alycia, ricambiando il sorriso. «Io…sì, ci vengo!»

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Capitolo 20
*** Nella tana del coniglio - PRIMA PARTE ***



NELLA TANA DEL CONIGLIO – prima parte







Alycia sbuffò, mentre lasciava cadere sul letto l’ennesimo vestito.
Era più di un’ora che si era chiusa in camera alla ricerca di qualcosa di adatto e si sentiva ancora al punto di partenza. Certo, Jim avrebbe potuto essere un po’ più preciso sul tipo di serata che la aspettava! Le aveva solo accennato che si trattava di un locale in centro con musica hot[1] e dove – cosa di cui parlava con grande disinvoltura – venivano serviti alcolici illegalmente.
Non le capitava spesso di essere impreparata su qualcosa. Ad Arcanta sapeva sempre cosa aspettarsi e l’idea di trovarsi in una nazione di cui ignorava gli usi la rendeva ansiosa ma, allo stesso tempo, le procurava uno strano fermento in fondo al ventre che a tratti era piacevole.
Tornò a esaminare il guardaroba di abiti austeri e antiquati, con le loro cupe tonalità di nero, blu e verdone, poi lanciò un’occhiata alla rivista che aveva lasciato sul mobile della specchiera: sotto la fiammante scritta Vogue, c’era una donna elegante avvolta in un abito rosso dalla vita bassa, e con una nuvola di boccoli dorati intorno al viso. Ricordava Vanja, la splendida trapezista incontrata quella mattina al circo.
Prese in mano la rivista e incrociò lo sguardo del suo riflesso: osservò il lungo, informe vestito scozzese, il volto semi nascosto dagli occhiali, la massa aggrovigliata di ricci color ebano che le arrivavano a metà schiena, mai tagliati in diciassette anni.
«Magari potrei…» mormorò tra sé.
Ad Arcanta i maghi giocavano col proprio aspetto continuamente, ma lei si era sempre rifiutata; in una città governata dalle illusioni, riconoscersi in se stessa, anche nei propri difetti, era un modo per non perdere di vista chi era.
Tuttavia, quella sera sentiva il desiderio di un piccolo cambiamento, così prese coraggio e agitò e dita.
Il suo abito cominciò a mutare: partendo dall’orlo, il verde cupo virò in rosso brillante, la gonna si ritirò a lambirle le ginocchia e la fila di bottoni fu sostituita da una morbida scollatura.
Alycia si confrontò con la modella in copertina e fu soddisfatta del risultato.
Dopodiché, rimosse gli occhiali e scuoté la testa, trasformando la sua criniera in soffici onde che le sfioravano le spalle. Completò la preparazione con un velo di mascara e una spolverata di cipria, poi aprì un cassetto alla ricerca del rossetto; mentre vi rovistava dentro, trovò un blocco di lettere legate insieme con un filo di spago. Tutte le lettere che suo padre le aveva inviato durante l’ultimo anno di latitanza e che, anche se controvoglia, Alycia aveva deciso di conservare.
Afferrò borsetta e soprabito e scese al piano di sotto.
«Papà?» chiamò, accompagnata dal ticchettio delle Mary Jane sul parquet. Entrò in un salottino dove suo padre era solito ritirarsi a leggere dopo cena, ma lo trovò vuoto.  Anzi, non del tutto: sul tavolino accanto alla poltrona era adagiato un vecchio grimorio malandato, zeppo di tutte le conoscenze che suo padre aveva raccolto da quando era diventato l’Arcistregone dell’Ovest. Un pezzo di storia della magia.
Alycia si guardò le spalle e tornò a fissarlo, in preda all’incertezza. Era passato quasi un mese dall’ultimo rapporto al suo maestro, e non lo aveva lasciato granché soddisfatto: niente che legasse suo padre all’operato degli Zeloti, alla profezia e all’Eretica.
Malgrado la palese frustrazione di Boris, Alycia era sollevata che le uniche stranezze di suo padre fossero l’ossessione per il suo orologio, il fatto che trascorresse in bagno più tempo di lei o che usava la polvere di antimonio per tingersi i capelli.
Ma in quel grimorio… Alycia avrebbe trovato la soluzione ai suoi dubbi.
Avrebbe saputo una volta per tutte chi era davvero suo padre, se un eroe o un pericoloso cospiratore.
Prese il quaderno e se lo rigirò tra le mani accarezzandone la pelle ruvida e screpolata, ma qualcosa la tratteneva.
Il grimorio di un mago non era un oggetto qualsiasi: era un compagno di viaggio, un viaggio lungo e spesso tormentato. Era la testimonianza di tutti i successi e gli sbagli, dell’amore per la magia e per il sapere. Era la sua essenza.
Sbirciare nel grimorio di qualcuno senza permesso era una mancanza di rispetto terribile e Alycia si sentì ricoprire di vergogna al pensiero di violare così la memoria di suo padre…
Ma doveva sapere. Ne aveva un disperato bisogno, quale altro modo aveva di ottenere le risposte che cercava?
“Parlagli” avrebbe detto Jim se fosse stato lì. “Almeno tu l’opportunità di farlo ce l’hai ancora.”
La ragazza prese un respiro profondo e lasciò il grimorio dove lo aveva trovato.
«Pensavo fossi già uscita.»
Alycia si volse con un sussulto. «Ciao, papà.»
Solomon Blake era in vestaglia e le sorrise mentre entrava in salotto con un libro sottobraccio e Wiglaf sulla spalla.
«Eccolo qui!» disse raccogliendo il grimorio dal tavolino. «Non riuscivo a trovarlo da nessuna parte, la vecchiaia inizia a giocarmi brutti scherzi!»
Gettò poi uno sguardo sorpreso ad Alycia, mentre andava ad accomodarsi in poltrona.
«Stai bene» commentò. «Molto alla moda. Vai a una festa?»
«Una specie, sì.»
Il sorriso di lui assunse una piega maliziosa. «Con Jim?»
«E i suoi amici» rispose lei in fretta. «Ma non farò troppo tardi, tranquillo.»
«Sono tranquillo. Tra di noi quella responsabile sei sempre stata tu.»
Alycia gli restituì il sorriso. «È vero.»
«Pensa a divertirti» disse suo padre. «Hai lavorato tanto in questi mesi, te lo meriti un po’ di svago prima…prima che torni ad Arcanta.»
L’aveva detto in tono leggero, ma ad Alycia non sfuggì l’ombra che aveva offuscato i suoi occhi. «Potresti tornare insieme a me.»
«Lo vorrei» rispose lui con dolcezza. «Ma non è così semplice.»
«Per via di Jim?» domandò Alycia. «Hai paura che laggiù non lo accettino, non è vero?»
«Non è pronto ad affrontare Arcanta. Inoltre, sono responsabile del circo e dei suoi abitanti finché Jim non sarà in grado di occuparsene da solo. E ha ancora tanto da imparare.»
«È più in gamba di quanto sembri» disse lei di getto, ma subito dopo arrossì e si sentì molto sciocca.
«Certo che lo è, non l’avrei scelto altrimenti! E grazie a lui dimostrerò ai Decani che hanno sempre avuto torto: il mondo sta cambiando, non possiamo continuare a ignorarlo.»
Alycia non riuscì a trattenersi dal sollevare gli occhi. «Dovevo immaginare che ci fosse un secondo fine!»
«Jim non è solo un esperimento, te lo garantisco» replicò lui, pacato. «Fidati di me per una volta.»
Poteva fidarsi davvero? Con quell’uomo era così difficile abbassare la guardia.
Malgrado ciò, il pensiero di doversi di nuovo separare da lui dopo la parvenza di normalità di quei mesi insieme, sotto lo stesso tetto, le gettò addosso una sensazione di nostalgia a cui non era preparata. Anche se per poco, erano stati una famiglia.
«Starai bene qui da solo mentre sarò via?»
«Ma certo! Valdar e Wiglaf si prendono cura di me e poi.» Sollevò il libro che si era portato appresso, Il ramo d’oro di James Frazer. «Ho un sacco di hobby!»
Ancora una volta lei percepì la malinconia nascosta dietro il sorriso gioviale e l’ironia tutta britannica e di colpo realizzò quanto suo padre dovesse essersi sentito solo in quegli anni. Lo aveva sempre incolpato di essere un uomo egoista, di non averle dato ciò di cui aveva bisogno, di non essersi mai aperto con lei.  Aveva molti difetti, questo era innegabile, ma a volte dimenticava che anche lui aveva perso tanto…
Ognuno ha i propri meccanismi di difesa.
«Devi seguire la tua strada» proseguì lo stregone. «Ti farai valere ad Arcanta, su questo non ho dubbi.»
«Ci credi sul serio?»
«Credo a ciò che vedo» disse senza esitazione. «E in te vedo la stessa passione che animava tua madre.»
«Però non parli mai di lei.»
«Hai ragione» convenne lui, con una nota dolente. «Ma non significa che non ci pensi ogni giorno. Il fatto è che…fa ancora male.»
Alycia sedette sulla poltrona accanto alla sua. «Dimmi qualcosa di Isabel Alicante, qualcosa che non riguardi l’alchimia. Per favore» aggiunse, di fronte alla sua espressione meravigliata.
Solomon sospirò e accarezzò il bracciolo della poltrona. «Era la donna più testarda che avessi mai incontrato, certe volte sembrava che si divertisse a contraddirmi. Ma era anche estremamente intuitiva, empatica, e aveva un gran senso dell’umorismo, spesso insolente. E soprattutto, non aveva mai paura di dire ciò che pensava. Credo che sia stato questo a farmi innamorare di lei.»
Un sorriso colmo di tenerezza premette sulle labbra di Alycia. «Avrei voluto tanto conoscerla.»
«L’avrei voluto anche io.»
Wiglaf emise un tenue gracchio, nel silenzio che accompagnò quelle parole.
Alycia avrebbe voluto prolungare quel momento, ma il rintocco della pendola la richiamò alla realtà. «Adesso dovrei…»
Solomon si schiarì la voce. «Oh, certo.»
«È che mi stanno aspettando.»
«Naturalmente, non ti trattengo oltre.»
Si alzarono entrambi. Lui le augurò una bella serata e Alycia raccolse la borsa e si avvicinò alla porta. Ma all’ultimo si fermò e corse indietro ad abbracciarlo, cogliendolo di sorpresa. Il suo braccio le cinse maldestramente le spalle.
«Ti voglio bene, tesoro. Anche se non sono bravo a dimostrarlo.»
Alycia lottò contro il nodo che le opprimeva la gola. Aveva una gran voglia di piangere, come quando era bambina e non voleva che lui la lasciasse…
Si allontanò senza guardarlo e tirò su col naso. «Non aspettarmi alzato.»
 

«Le ho già detto di no, grazie» disse Jim con voce un po’ seccata. «Non ci serve una mano di re Mida mummificata. Ne ho già tre a casa.»
Il venditore ambulante gli mostrò un sorriso untuoso e sollevò il gibus malconcio, dopodiché si dedicò al passante successivo.
«Se ne arriva un altro mi metto a urlare» annunciò Vanja, prendendo un tiro dalla sua sigaretta. «Non potevamo scegliere un altro posto?»
«È colpa tua» disse Wilhelm. «Attiri un sacco l’attenzione con quel vestito.»
«Mi spieghi che accidenti ha che non va il mio vestito?»
In effetti, la trapezista calamitava lo sguardo di chiunque come una lampada con le falene: ricoperta di lustrini rosa, con il boa di piume di struzzo e la sigaretta languidamente tenuta tra due dita, sembrava una stella del cinema.
Jim seguì il battibecco dei gemelli Svanmör distrattamente; si erano appostati sotto la cattedrale di Saint Louis, al centro di una Jackson’s Square illuminata dai lampioni e gremita di turisti, accattoni e artisti di strada. Continuava a perlustrare la folla dondolandosi avanti e indietro e a sbirciare il brutto orologio di Maurice e nasconderlo sotto la manica.
Rodrigo gli diede un colpetto col gomito. «Paura che te dia buca? Con tutte le storie che le ha raccontato Vanja, strano che abbia accettato un appuntamento contigo!»
«È un po’ troppo affollato per essere un appuntamento.»
«E allora che cos’è?»
«Siamo solo un gruppo di persone che vanno insieme nello stesso posto» rispose Jim con voce neutra. In fondo, che motivo c’era di essere così in ansia? Se non voleva venire era liberissima di non farlo, mica si erano promessi niente...ok, quella mattina erano stati bene e sì, magari avevano flirtato in modo divertente...ma non era affatto da lui farsi tutte quelle paranoie mentre aspettava una ragazza.
«Vedrai che verrà» gli disse piano Arthur, che era stato piuttosto silenzioso tutta la sera. «Ci vengono sempre alla fine, no?»
Jim stava per ribattere che aveva testato quanto fossero imprevedibili i maghi, quando un carretto che trasportava fiori sfilò loro davanti e quando si spostò, mostrò una figura esile vestita di rosso che fece fatica a riconoscere. Il suo stomaco fece una capriola. «Alycia?»
La ragazza attraversò la strada.
«Non sapevo cosa indossare» ammise rigirandosi la borsetta tra le mani. Sembrava un po’ nervosa. «Non sono mai stata a una serata del genere…»
«Ma sei uno schianto!» esclamò Vanja raggiante. «E questo taglio di capelli ti sta divinamente…non è vero Jim? Jim?»
«Ehm» fece lui, rendendosi conto che la bocca gli pendeva aperta come una triglia. «È ok.»
Vanja scrollò la testa bionda con un sospiro rassegnato e prese Alycia a braccetto. «Vieni, dolcezza, lasciamo perdere questi cavernicoli: non se li meritano i nostri sforzi!»
Dopodiché la condusse a passo deciso attraverso la piazza. Il locale si chiamava Black Rabbit ed era situato al confine tra il quartiere francese e l’ex distretto di Storyville: una zona poco turistica e frequentata, dove anche l’illuminazione era ridotta al minimo e che, non molti anni prima, ospitava saloon e bordelli.
Vanja si fermò di fronte a un negozio di animali con affisso il cartello “chiuso” e suonò il campanello. «Lasciate parlare me.»
Dopo un attimo, venne ad aprire un ometto stempiato e occhialuto.
«I signori desiderano?»
«Una coppia di parrocchetti col collare» rispose lei, disinvolta. «Per il compleanno della zietta.»
Alycia si volse perplessa verso Jim, che le fece l’occhiolino: «Ognuno ha le proprie formule magiche!»
Il proprietario tenne loro aperta la porta. «Prego, da questa parte.»
Li scortò all’interno del negozio, nella cui penombra luccicavano gli occhi assonnati di conigli e altri piccoli animali in gabbia. Un grosso ara gialloblù sventolò le ali dal suo trespolo e gracchiò: «Acqua in bocca, acqua in bocca!»
Nel retrobottega, l’ometto scostò una tenda e rivelò una parete con affisso un dipinto raffigurante un coniglio nero col panciotto che reggeva un orologio a cipolla. Solo a uno sguardo più attento ci si poteva accorgere che la parete era una porta rinforzata e che l’occhio del coniglio celava uno spioncino. Il negoziante mostrò il pollice alzato a un misterioso osservatore, e dopo una serie di colpi e cigolii, la porta si aprì.
«Buona serata, signori.»
I sei ragazzi si infilarono in uno stretto corridoio e sbucarono in un guardaroba presidiato da personale in uniforme. La porta successiva conduceva a una sala da ballo senza finestre, illuminata da lampadari di cristallo; faceva un gran caldo ed era stipato di gente che ancheggiava e scalciava in estasi. Chi non ballava affollava i tavoli rotondi e il bancone del bar, dietro cui due baristi in smoking servivano da bere con destrezza sovrumana. Alle loro spalle, scintillavano centinaia di bottiglie colorate, allineate di fronte uno specchio annerito dal fumo di sigaretta.
«Da dove arriva tutto quell’alcol?» domandò Alycia, colpita.
«E chi lo sa?» Jim fece spallucce. «Nessuna città è rimasta realmente all’asciutto dall’inizio del Proibizionismo: basta sapere dove cercare.»
«E voi come lo sapete?»
Jim si scambiò un’occhiata complice con Vanja, Rodrigo e Wilhelm. «Ai fermi piace chiacchierare quando vanno al circo e c’è sempre uno dei nostri in ascolto.»
Era chiaro però che quel locale non fosse come quelli che aveva frequentato in passato: attorno a un tavolo col panno verde, degli omini dalle orecchie a punta giocavano a poker avvolti in una coltre di fumo di sigaro, poco più in là erano appostate delle sofisticate signore dalla pelle argentea e piccoli ma affilati denti da squalo che sorseggiavano Martini. In fondo al locale, due orchi stavano discutevano animatamente: uno dei due batté il pugno sul tavolo talmente forte da spaccarlo a metà, ma nessuno sembrò badarci.
«È pieno di Dimenticati qui» constatò Jim, sorpreso dal vedere così tanti mezzosangue che mostravano il proprio vero aspetto. Persino nei freak show si camuffavano abilmente. Lì, invece, Mancanti e Dimenticati bevevano insieme, fumavano, chiacchieravano, flirtavano e ogni tanto si prendevano anche a pugni, accomunati dalla stessa voglia di divertirsi e trasgredire alle regole di una società sempre più austera e restrittiva. E poi, di fronte a un buon bicchiere di bourbon tutte le differenze si annullavano.
«Nelle grandi città è pieno di posti così» spiegò Vanja. «Prendiamo qualcosa da bere, sono assetata!»
Attraversarono la pista, facendosi strada tra i ballerini in un morbido sfiorarsi di corpi che sapevano di acqua di Colonia e sudore. Trovarono un tavolo miracolosamente libero poco distante dal palco: la cantante era una sirena dalla pelle d’ebano e una voce roca e possente, ma ciò che attirò la loro attenzione furono i musicisti…
«Sono zombie?!» esclamò Arthur, sbalordito.
Se non lo erano, pensò Jim, non se la passavano granché bene: avevano un colorito giallognolo, le mascelle a penzoloni e gli occhi lattiginosi. Ma, ehi, diamine se sapevano suonare!
«Affascinante» commentò Alycia, con lo stesso tono che usava spesso suo padre. «Lei è una necromante, guarda cosa ha appeso al collo.»
Jim aveva evitato di soffermarsi sul petto della cantante con Alycia accanto, ma riconobbe subito il talismano fatto di capelli, rami e stoffa.
«Un gris-gris» indovinò. «Ho letto che creano un vincolo tra il mago e l’oggetto dell’incantesimo tramite i suoi tessuti…»
«Esatto» approvò Alycia. «Non pensavo che esistessero ancora maghi in grado di praticare un tipo di magia così artigianale. Ad Arcanta è caduta in disuso da secoli.»
«In Magia haitiana di Ambroise Lefebvre non si dice che le conoscenze voodoo venivano trasmesse oralmente?» obiettò Jim.
«Per l’amor del cielo!» s’intromise Vanja, annoiata. «Potreste evitare di parlare di studio per una sera? Siamo qui per divertici! E io sono ancora fin troppo sobria.»
«Jim e io prendiamo da bere per tutti» si offrì Arthur guardandolo, e lui capì che era un messaggio in codice per “dobbiamo parlare”. Insieme sgomitarono nella calca fino al bar.
«Di che si tratta?» chiese il mago, in attesa che il barman preparasse i loro drink.
«Di Sinclair.»
«Ancora? Che ha combinato stavolta?»
«Non è per qualcosa che ha fatto» rispose Arthur sottovoce. «Ma per qualcosa che potrebbe fare.»
«Credevo che Blake lo avesse spaventato a dovere.»
Arthur si allungò sul bancone: «L’altra sera, mentre tornavo al mio vagone, ho visto Sinclair con una persona. Non so di chi si trattasse, era buio pesto e il tizio indossava una specie di cappuccio. Non potevo rischiare di avvicinarmi di più, così sono rimasto acquattato dietro un carro piatto: parlavano di qualcosa da rubare. Qualcosa di grosso, a giudicare dalla mazzetta che Sinclair ha intascato.»
«Le bestie?»
«Non lo so» ammise Arthur, tetro. «Finora non si era mai spinto a tanto, ma Maurice è distratto dai preparativi dello show. Ho un gran brutto presentimento, e se non si trattasse di semplici contrabbandieri? Se avesse preso contatti con gli Accalappiatori…?»
«Ehi, ehi! Artie, vecchio mio, rilassati» disse Jim, afferrando al volo il Sazerac che il barista aveva fatto scivolare verso di lui. «Stiamo parlando di Sinclair, uno che è già tanto se riesce a contare fino a cento. E finché c’è Blake non alzerà un dito.»
Arthur arricciò le labbra. «E che faremo quando saremo ripartiti?»
«Me ne occuperò io. È per questo che sto studiando la magia, no?»
Arthur lasciò andare un sospiro. «Era più semplice prima, quando eravamo sempre in viaggio. Stando fermi siamo esposti a fin troppi pericoli. Quelli come noi non sono fatti per mettere radici.»
Jim avvertì una brusca fitta tra le costole a quelle parole. «Lo so.»
Tra i due calò uno strano silenzio teso, colmato dalla musica e dal regolare brusio di voci e bicchieri tintinnati intorno a loro.
«Senti» mormorò Jim, guardando il suo bicchiere. «So che vi sto chiedendo tanto, ma ne varrà la pena, fidati.»
«Certo» replicò Arthur. «Io mi fido sempre di te.»
Jim restò zitto, le dita strette attorno al suo bicchiere. Presero il resto delle ordinazioni e tornarono senza una parola al tavolo, dove, nel frattempo, Alycia stava mostrando a un’incantata Vanja come riusciva a cambiare aspetto: in un attimo, infatti, sfoggiò un simmetrico caschetto rosso fuoco.
«Quanto lo vorrei anche io quel potere!» sospirò la trapezista. «Mi risparmierei volentieri le ore di trucco in camerino.»
La maga sorrise e con un altro aggraziato cenno del capo, i suoi capelli diventarono corti, biondi e vaporosi come quelli di Vanja.
Di fronte a quella scena, Jim avvertì una scossa di irritazione formicolargli sottopelle, mentre porgeva ad Alycia il suo Brandy Alexander. «Posso sapere cosa state facendo?»
«Ci faceva vedere qualche trucco» rispose allegramente Rodrigo. «Esta chica me gusta! Por qué non entri in squadra? Due maghi ci farebbero comodo!»
Jim sedette senza fare commenti, ma quel senso di fastidio lo accompagnò per il resto della serata. Inoltre, non riusciva a non rimuginare sul fatto che poco fa avesse mentito ad Arthur, al suo migliore amico: la verità era che non aveva ancora deciso cosa fare dopo lo spettacolo o in generale della propria vita.
I suoi amici sollevarono in alto i bicchieri per brindare al successo dello spettacolo, al futuro della compagnia, a New Orleans, a O’Malley e persino a Solomon Blake. Al quarto giro di tequila, capì che avrebbero continuato a brindare a oltranza a qualsiasi cosa, ma Jim aveva lo stomaco chiuso e quasi non toccò il suo drink. Alycia se ne accorse: «Va tutto bene?»
«Alla grande» rispose lui, guardando l’orchestra zombie. «Ti va di ballare? Sono stanco di stare seduto.»
Non le diede tempo di rispondere e la condusse per mano in pista. Quando si volse a guardarla, il suo stomaco prese a fare di nuovo le giravolte, così evitò di incrociare i suoi occhi perplessi mentre posava le mani sui suoi fianchi.
La band attaccò un blues. https://www.youtube.com/watch?v=W6MDjUwXskI&ab_channel=HDPinkFloyd
Per un po’ ballarono in silenzio, adeguandosi al passo delle coppie che volteggiavano intorno a loro.
«Hai cambiato umore all’improvviso» disse Alycia. «È per qualcosa…?»
«Mi piacevano di più prima i tuoi capelli» borbottò lui, lasciandola interdetta per un istante. Pian piano i boccoli che le incorniciavano il viso tornarono a tingersi di nero corvino. «Be’, grazie.»
«Cioè, sei bella lo stesso… ma non devi cambiare per piacere a loro» proseguì Jim, facendo un cenno secco verso il tavolo. «E neanche fare da intrattenimento.»
«Sono semplicemente curiosi» replicò Alycia. «Che c’è di male se mostro…?»
«Il fatto è che non capiscono» la interruppe lui. «Non hanno nemmeno idea dello studio che c’è dietro quelli che chiamano “trucchi”. Pensano che sia solo un gioco, come l’apprendistato con tuo padre.»
«Sono certa che non è così.» Alycia provò a stemperare accennando un sorriso. «Ti vogliono bene, si vede e sono orgogliosi per te.»
«Già. Ma tanto, che importa? Finché rimango nella compagnia, sarò sempre il prestigiatore truccato.» Jim la guardò per un lungo momento e disse: «Sai che ti dico? Tu e io sì che potremmo mettere in scena uno spettacolo sensazionale.»
Il sorriso di lei sfumò in un’espressione incerta, come se non sapesse se prenderlo sul serio o no.
«Sarebbe un’idea tanto assurda?» chiese lui. «Con la nostra magia possiamo fare di tutto, saremmo delle star! Ci esibiremmo nei teatri più belli del mondo, viaggeremo in ogni città...»
Alycia proruppe in una piccola risata. «Tipo a Coney Island?»
«Non solo! Ti porterei a New York, a Parigi, a Milano.» Jim le dedicò un grande sorriso, sfolgorante come i palcoscenici che popolavano la sua immaginazione. «Il mondo sarebbe letteralmente nostro!»
«E quale sarebbe il mio ruolo in tutto ciò?» domandò lei, il sopracciglio inarcato e quella piccola, deliziosa fossetta a scavarle l’angolo della bocca. «Quello della “valletta”?»
«No!» disse Jim con impeto. «Saremmo partner, totalmente alla pari. Sei troppo in gamba per fare da spalla.»
«Non sembri il tipo che ama dividere la scena.»
«Perché non ho mai trovato qualcuno per cui valesse la pena» disse lui. «Finora.»
Alycia si mordicchiò il labbro inferiore. Per quanto ci scherzasse su, sembrava tentata.
«Vuoi sapere una cosa? In realtà non ho bisogno degli occhiali» confessò. «I maghi ci vedono benissimo, ho trovato quel paio tra gli oggetti Mancanti che mia madre stava studiando: mi piacevano, ma ad Arcanta non avrei potuto indossarli senza essere guardata male. Da quando sono qui, per la prima volta nessuno mi dice cosa devo fare o come devo essere.» Un sorriso ironico incorniciò quell’affermazione, come una virgola. «Ora penserai che sono pazza…»
«Mi piacciono i pazzi.»
Continuarono a ballare lentamente al centro della folla, sempre più stretti, in quell’abbraccio che qualcuno fuori da lì avrebbe definito sconveniente. Jim fissò le labbra di Alycia con desiderio, ma prima che potesse chiudere la piccola distanza che li separava, la musica si interruppe bruscamente.
«Che succede?» chiese lei, guardandosi attorno come la maggior parte dei presenti.
«Magari al batterista è volato via un braccio.»
In quell’istante, da qualche parte si levò un grido: «RETATA!»
«Cosa?» fece Alycia, confusa. «Che significa retata?»
Jim non fece in tempo a rispondere, perché si scatenò il caos. La gente prese a scappare in ogni direzione, spintonando a destra e a manca e passando gli uni sopra gli altri alla ricerca di vie di fuga. Jim venne travolto da un’ondata di corpi e tavoli ribaltati.
«Alycia!» urlò, sporgendosi oltre il mare di teste e facce disperate.
La scorse poco più avanti, appiattita in un angolo mentre osservava disorientata quel fuggi-fuggi frenetico.
«Jim!»
Lui si fece largo a spintoni, lanciandosi verso di lei con la mano protesa. Le loro dita si toccarono, ma un istante dopo furono separati ancora da una massa brulicante di sconosciuti. Jim si sentì afferrare da una decina di mani e spintonare in avanti, oltre una soglia sul retro del bar, dopodiché fu schiaffeggiato in pieno viso dal gelo della notte, e si ritrovò in un vicolo buio, all’esterno, e senza più la ragazza al suo fianco.
 
[1] termine disusato col quale negli anni ‘20 del XX secolo si indicava il jazz suonato dai musicisti neri provenienti da New Orleans, che veniva considerata la patria dei canoni classici di questa musica

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Capitolo 21
*** Nella tana del coniglio - SECONDA PARTE ***


NELLA TANA DEL CONIGLIO – SECONDA PARTE

 




Erano da poco passate le undici quando Maurice O’Malley richiuse il libro contabile.
«A furia di guardare numeri mi si stanno incrociando gli occhi» annunciò, abbandonandosi in poltrona con un grosso sbadiglio. «Ma pare che ci resti un bel gruzzolo per l’inizio del prossimo tour. Adesso ci vuole proprio un goccetto…»
Seduta di fronte a lui, Madame Margot interrogava i suoi tarocchi marsigliesi, disponendoli in una fila ordinata sopra la scrivania.
«Non avevamo stabilito che avresti smesso?» gli ricordò, mentre lo guardava aprire la credenza che occupava un’intera parete del vagone-ufficio. «Lo hai sentito il dottore, al tuo cuore non fa bene…»
«Stronzate!» gracchiò lui afferrando una bottiglia e due bicchieri. «Ci vuol altro che un po’ di whisky per stendere un vecchio cuore irlandese.»
«E non gli fa bene neanche che continui a dare in escandescenza» concluse lei, perentoria. «Dovresti riposare, domani ci attende una giornata intensa.»
«Intensa e piena di imprevisti» borbottò il Folletto in tono polemico. Stappò la bottiglia e riempì i bicchieri fino all’orlo. «Qualcosa mi dice che alla fine il moccioso se ne uscirà con un’altra delle sue…deve solo ringraziare che con Blake al comando ho le mani legate!»
Sebbene la prospettiva di restare in panciolle a contare i soldi fosse esattamente ciò che auspicava per la sua vecchiaia, non gli andava per niente a genio dipendere dai capricci di un finocchio inglese. Era una questione di principio. «Mi domando per quanto ancora debba durare questa situazione!»
Margot voltò uno dopo l’altro i tarocchi: l’Asso di Denari, la Ruota della Fortuna, il Due di Spade…
«Allora?» domandò O’Malley, prima di buttare giù un sorso di whisky. «Vedi qualcosa di interessante in quelle tue carte?»
«Qualcosa» mormorò lei. Voltò l’ultima carta e la osservò a lungo, rabbuiandosi. «Otterrai presto ciò che desideri: vedo una partenza imminente…»
«Era ora!» sbuffò lui, ma Margot sapeva che suo marito non aveva mai prestato troppa fiducia nelle sue previsioni: era un’attrazione del suo circo, esattamente come tutte le altre. Che fosse o no in grado di vedere seriamente il futuro non gli interessava, l’importante era che ci credessero i clienti.
«Una partenza» ripeté lei. «Ma anche una separazione, la perdita di qualcosa di importante…»
Maurice però aveva già perso interesse per i tarocchi; impegnato com’era a rovistare nei cassetti alla ricerca di sigari e acciarino, non si accorse dell’espressione che la moglie aveva assunto mentre rimescola le carte e le riponeva nella tasca. 
L’indovina bevve tutto d’un fiato il suo whisky, dopodiché si alzò asserendo di essere stanca. Mentre Maurice si versava un altro bicchiere, lasciò sulla scrivania una boccettina di vetro. «Non dimenticare di prendere la tua medicina. Buonanotte.»
«Se se, ‘notte.»
Rimasto solo, il Folletto aprì la boccetta e mandò giù un paio di sorsi, torcendo poi la bocca in una smorfia di disgusto.
«Bah! Sarai contenta, donna!»
Per levarsi il saporaccio della medicina, accese un sigaro e accavallò le corte gambe sul ripiano. Per qualche istante osservò i mulinelli di fumo che salivano fino al soffitto, ma i suoi pensieri continuavano a tornare allo spettacolo.
Avrebbe potuto essere il suo più grande successo oppure una totale disfatta, eppure, non riusciva a non sentirsi tremendamente eccitato. Per anni si era accontentato di mandare avanti la baracca tra un espediente e l’altro: la Crisi aveva tarpato le ali ai sogni di gloria giovanili che lo avevano accompagnato, assieme a una valigia di cartone e poco altro, in quel continente, ma una parte di lui non aveva rinunciato all’idea di fare del suo circo uno dei più grandi d’America. Di poter rivaleggiare, un giorno, persino col Barnum & Bailey!
Con la testa ancora affollata di immagini sfolgoranti, di cavalli e pachidermi bardati a festa, notò che il fumo aveva letteralmente invaso la stanza, rendendo difficile vedere a un palmo dal suo naso, oltre che respirare. Spense il sigaro e tra un colpo di tosse e l’altro, andò ad aprire la porta per far arieggiare. La brezza della notte lo fece rabbrividire, mentre contemplava il mare d’erba incolta al di là del binario, dove banchi di nebbia opalescente avevano formato una densa cortina. Il silenzio era tale che riusciva a percepire solo i battiti sempre più accelerati del proprio cuore.
Che diavolo gli prende a questo posto?
O’Malley stava per rientrare nel confortevole tepore del suo ufficio, quando un grido tagliò di netto il silenzio. Un lamento orribile, che riverberò per diversi istanti, inchiodandolo sull’uscio. Un grido di donna.
«Margot?» chiamò con voce stridula.
Si decise a lasciare la piattaforma e muovere qualche passo incerto sul prato, ma nel mentre elencò tutte le bestemmie più colorite che conosceva. Tastò ansiosamente la giacca per accertarsi di avere con sé la pistola.
La nebbia lo inghiottì presto nella sua morsa incorporea e O’Malley mandò giù la poca saliva rimastagli, tenendo la pistola puntata di fronte a sé.
A un tratto, dalla nebbia emerse una distesa di alberi; alberi a perdita d’occhio, vecchi e contorti, che crescevano gli uni sugli altri in ogni direzione.
Il Folletto avanzò cauto in quella strana foresta che sembrava cambiare a ogni suo passo, chiedendosi come avesse fatto in tutti quei mesi a non accorgersi di un posto del genere proprio dietro al suo treno. Non riuscì a trovare una risposta soddisfacente, perché i suoi occhi esterrefatti si posarono su una figura avvolta da una pallida luminescenza, china sulla riva di uno stagno: una donna emaciata vestita di bianco, con sottili capelli simili a ragnatele che piovevano davanti al volto esangue.  O’Malley spalancò la bocca in un grido senza voce.
La donna, invece, cominciò a piangere; un pianto silenzioso, come in una strana pantomima, e mentre piangeva intingeva nell’acqua una specie di giacca verde macchiata di rosso. Gli ci volle un istante per riconoscerla: era la sua uniforme da direttore.
O’Malley indietreggiò, incespicando nelle radici.
Sapeva chi fosse quella donna. Lo sapeva e ne ebbe terrore, lo stesso terrore infantile di quando, in Irlanda, quell’ubriacone del suo patrigno si divertiva a tormentarlo con storie di vecchie megere e fantasmi che vagavano per le colline. Ma quella donna non era un fantasma. Era una banshee, e la sua apparizione significava una sola cosa…
«Sei venuta per me?» domandò con un filo di voce.
Senza parlare, la banshee sollevò una mano scheletrica e indicò qualcosa alle sue spalle. O’Malley si voltò lentamente.
La radura era disseminata di corpi. Dozzine di corpi dilaniati, disarticolati, riversi in pozze di sangue che scintillavano rosse fra l’erba, gli occhi vitrei spalancati verso il cielo notturno. Erano i suoi dipendenti ed erano tutti morti. Anche lui lo era probabilmente, ma ancora non lo sapeva...
O’Malley aveva gli occhi affogati di lacrime, ma vide ugualmente la sagoma di un uomo che dominava quello scenario di morte: un uomo alto e magro, che impugnava un bastone da passeggio. Non riusciva a distinguerne la faccia, perché era avvolto in un turbine di ombre nere, che gli si addensavano intorno, sibilando come creature viventi…
O’Malley cercò di placare i violenti spasmi alle braccia e strinse la pistola con entrambe le mani. «C-chi sei? Che cosa vuoi da noi?»
L’Uomo-Ombra avanzò verso di lui e l’scurità che lo accompagnava sibilò con più forza, affamata, invadendo qualsiasi cosa…
O’Malley spalancò gli occhi con un urlo.
Era seduto alla scrivania nel suo vagone, solo, col cuore batteva tra le costole talmente forte da fargli male. Si gettò uno sguardo impaurito attorno, per accertarsi che non ci fossero pericoli, né ombre in agguato.
Era stato solo un incubo? Margot aveva ragione, doveva darci un taglio col whisky…
Tirò un profondo sospiro, ma quando i suoi occhi incrociarono il riflesso nello specchio di colpo impallidì, rendendosi conto che i suoi vestiti erano fradici e che in mano reggeva ancora la pistola.
 
 
«Ha visto una ragazza con un vestito rosso?» domandò Jim, affacciandosi al finestrino di un’auto che si apprestava a partire. «Alta più o meno così, capelli neri ricci, molto carina…»
L’uomo alla guida gli fece bruscamente segno di levarsi dai piedi e si dileguò, lasciandosi dietro una scia di gas maleodorante.
La clientela del Black Rabbit stava seguendo il suo esempio, stipandosi nelle auto in un caotico strombazzare di clacson e stridore di pneumatici. Col cuore in gola, Jim setacciò il vicolo che si andava svuotando rapidamente alla ricerca di Alycia, quando dalla via principale giunse l’ululato di sirene in avvicinamento.
Non si fermò a riflettere un secondo di più.
Il salto lo proiettò in un luogo di mezzo fatto di colori invertiti e suoni distorti, mentre il suo corpo attraversava lo iato tra le particelle della materia. Un sibilo accompagnò la sua apparizione all’interno del locale, ormai deserto e completamente a soqquadro. Jim superò un lampadario di cristallo che giaceva in frantumi sulla pista da ballo e inciampò in qualcosa di duro, qualcosa che gli restituì un lamento soffocato: la testa che uno dei musicisti zombie doveva aver perso nella baraonda.
«Ops…scusa, amico.»
Della ragazza non c’era traccia da nessuna parte.
«Maledizione» sibilò Jim fra i denti. Come lo avrebbe spiegato al signor Blake che aveva perso sua figlia nel bel mezzo di una retata in un bar clandestino? Chissà com’era spaventata, smarrita in una città che non conosceva…
«Fermo dove sei.»
Jim si volse di scatto. Sulla porta sfondata erano apparsi una dozzina di agenti in uniforme, ognuno dei quali armato di manganello. Il ragazzo arretrò con le mani sollevate.
«Ti ho detto di non muoverti, ragazzino!» abbaiò un poliziotto con corti baffetti biondi, mostrandogli le manette. «Sei in arresto.»
Jim gli dedicò un sorrisetto e fece saettare le dita per aprire un varco tra le stringhe del Tutto, proprio mentre gli sbirri si lanciavano urlando attraverso la sala. Qualcosa lo colpì alla schiena mentre si apprestava a saltare e subito dopo il varco si richiuse. Prima che potesse realizzare cosa fosse successo, cadde di faccia sul pavimento, spaccandosi il naso.
«Che cazzo!» bofonchiò, la guancia premuta sul parquet. «Io ci lavoro con questa faccia!»
Quando cercò di alzarsi però, si accorse di avere le braccia immobilizzate lungo il corpo da una specie di cavo metallico.
«Ci hai provato, rosso!»
Jim si accasciò su un lato, con la faccia che pulsava e il sangue caldo che grondava dalle narici. I poliziotti avevano ceduto il passo a due uomini, entrambi con lunghi pastrani di pelle pieni di tasche e fibbie; il primo era magro, atletico e con una barbetta appuntita, l’altro invece era più massiccio, con capelli grigi a spazzola e reggeva l’altra estremità del cavo come un lazo da bestiame.
«Bene bene» disse l’uomo con la barbetta, aprendosi in un gran sorriso sornione. «Guarda un po’ cosa abbiamo qui.»
Avanzò con passo militare e si accovacciò accanto a Jim, che si allontanò da lui strisciando. L’uomo ridacchiò e lo afferrò con forza per i capelli, strappandogli un ringhio di dolore.
«Non fare stronzate, demonietto» sussurrò con dolcezza. «Sappiamo cosa sei. Ma con le mani legate non puoi fare le tue stregonerie, eh?»
Jim sentì le ossa farsi molli e i polmoni svuotarsi d’aria. Quegli uomini non erano poliziotti e non erano soldati, ma non erano neanche comuni Mancanti.
Erano la cosa peggiore che potesse capitare a un Dimenticato.
Erano Accalappiatori. Mercenari a caccia di mostri.
«Vice sceriffo McCarthy, da qui in poi ce ne occupiamo noi» disse l’Accalappiatore con la barbetta, senza staccare gli occhi da Jim e senza smettere di sogghignare. «Mike, ci pensi tu a fare gli onori?»
L’Accalappiatore che teneva Jim al guinzaglio estrasse dal pastrano un rotolo di banconote e lo porse allo sbirro coi baffi, che intascò il tutto rapidamente.
«Con gli omaggi di Donald Winters III per la soffiata su questo postaccio, erano settimane che lo cercavamo. Ripulite tutto per bene quando avremo finito.»
McCarthy sfiorò la visiera e fece segno ai suoi uomini di uscire.
«Allora» disse l’Accalappiatore, rivolto a Jim. «Che mi dici, demonietto? Dove sono andati i tuoi amici mostri? Sono ancora qui in giro? O ti hanno lasciato solo soletto?»
Solomon Blake lo saprà. Si disse Jim, ignorando il groviglio di inquietudine nello stomaco. Ha garantito che mi avrebbe protetto. Starà sicuramente venendo a prendermi e vi farà rimpiangere di essere nati…
Strofinò le dita alla ricerca del familiare contatto con il Vincolo, l’anello d’argento a forma di artiglio che gli garantiva la protezione dell’Arcistregone, ma si sentì nuovamente sprofondare nell’angoscia quando si accorse di non averlo più al dito. Come era possibile? Non lo toglieva mai, neanche quando dormiva! Che lo avesse perso durante la fuga…?
Jim cercò di sottrarsi e iniziò a scalciare, ma la presa dell’uomo era d’acciaio. La paura aveva ormai invaso la sua mente, una paura bianca, accecante e nella disperazione, puntò gli occhi in quelli dell’Accalappiatore.
«Lasciami andare.»
Pronunciò quelle parole come aveva fatto molti mesi prima con la governante di Blake a Parigi, vibrandole. Per esercitare la malia non era necessario usare le mani, bastava un comando impartito con la giusta intonazione.
Per un attimo, l’Accalappiatore lo fissò con aria perplessa e la sua presa sembrò vacillare. Poi però scoppiò a ridere.
«Capisco.» Si indicò le orecchie, nelle cui cavità aveva infilato degli strani tappi metallici. «Te l’ho detto, demonietto: conosciamo tutti i vostri trucchi.»
Jim non poté dar voce al suo stupore, perché l’altro Accalappiatore diede un colpo secco alla fune, strattonandolo in avanti. «Basta chiacchiere, il mio contatto a Berlino vuole che siano tutti imbarcati per domani mattina. In piedi, rosso!»
Completamente inerme, Jim fu costretto a obbedire e si tirò su con fatica; tremava come una foglia, ma si impose di tenere la schiena dritta e l’andatura ferma, sebbene continuasse a perdere copiosamente sangue dal naso.
Non riuscì comunque a percorrere molta strada, perché l’Accalappiatore che lo scortava lanciò un grido e Jim se lo ritrovò lungo disteso ai suoi piedi, rigido come uno stoccafisso; solo gli occhi si muovevano, saettando da una parte all’altra in preda al panico. Il collega che teneva Jim alla fune estrasse subito la pistola.
«Ce n’è un altro!» urlò a qualcuno nel corridoio. «Ho bisogno di rinfor…»
Non riuscì a finire. Le sue labbra si serrarono, assottigliandosi fino a essere assorbite nella pelle. Spaventato, mollò la fune e prese a tastarsi la faccia, alla ricerca della bocca scomparsa.
Jim era sbalordito, ma lo fu ancora di più quando percepì uno spostamento d’aria al suo fianco, accompagnato da un sibilo e da un profumo delicato di gelsomino.
«Calmo, sono io» sussurrò Alycia. Sollevò l’orlo della gonna, rivelando la coscia nuda attorno alla quale era assicurata una fondina con un sottile pugnale. Lo estrasse e recise il cavo metallico come fosse di spago.
«Acciaio alchemico» spiegò brevemente. «Adesso dobbiamo saltare, ma dobbiamo farlo insieme, ok? Al mio tre: uno, due…»
L’Accalappiatore senza bocca puntò contro di loro la pistola.
«Tre!»
Il locale si dissolse in un turbine di luci e di ombre e Jim e Alycia furono risucchiati tra le pieghe dello spazio. Ma prima, la ragazza fece in tempo a scagliare il pugnale contro l’Accalappiatore: un lancio fluido e preciso, che gli fece volare la pistola dalle mani.
Riapparvero all’aperto, con le schiene premute contro un muro di mattoni.
«Dove siamo?» boccheggiò Jim, frastornato. Osservò la larga via alberata, costeggiata su ambo i lati da auto costose ed eleganti cancellate in ferro battuto; al di là, scorse siepi potate e grandi case con colonne scanalate e intuì che fossero nel Garden District. Non sembrava un altro quartiere, ma addirittura un altro paese, in cui persino l’aria profumava di fiori d’arancio.
«Non lo so, ma sembrava sicuro» rispose Alycia. Si accorse dell’insistenza con cui lui la stava guardando e arrossì. «Che c’è?»
«È che non conosco molte ragazze che vanno a ballare armate di coltelli da lancio.»
Alycia riavviò i capelli spettinati. «Merito degli insegnamenti di Boris Volkov: mai farsi trovare impreparati. Perché sei tornato indietro?»
«Per te. Ti ho persa di vista…»
«Ero fuori da un pezzo» obiettò lei, stupita. «Ho saltato non appena ci hanno divisi.»
Jim si sentì un vero idiota per non averci pensato. «Ah.»
«Mi sono ricongiunta con Vanja e gli altri: credevo di trovarti insieme a loro, ma non sapevano dove fossi…poi abbiamo visto gli Accalappiatori entrare con la polizia.» Aggrottò la fronte in un cipiglio severo. «Non saresti dovuto tornare là da solo. È stato stupido.»
Lui avrebbe tanto voluto sprofondare nel marciapiede. «Sì, lo è stato.»
Lei gli venne più vicino. «Stai sanguinando. Sono stati quegli uomini?»
«Veramente è stato il pavimento.» Che razza di eroe…
«Sta’ fermo.»
La sua mano tracciò un arco nell’aria e Jim sentì la faccia scottare, poi una leggera pressione all’interno del setto nasale. Quando alzò la mano per tastarsi, sembrava che fosse tornato come prima. «Grazie.»
Alycia non disse nulla e non cambiò espressione, gli occhi scuri che brillavano alla luce dei lampioni. E poi lo baciò.
Jim fu preso talmente alla sprovvista che restò impalato come un tronco, mentre una scarica di elettricità pura attraversava il suo corpo dalla testa ai piedi. Alycia si tirò subito indietro.
«Scusa» sussurrò, stupita quanto lui. «Non so cosa…»
Jim non le diede tempo di finire e la baciò a sua volta. Alycia premette i palmi sul suo petto e inizialmente sembrò volerlo respingere. Alla fine, chiuse i pugni sulla sua camicia, attirandolo più vicino. Tutto il resto non aveva importanza: il cuore di Jim era un cavallo imbizzarrito che correva a tutto spiano.
Saltarono un’altra volta insieme e pochi istanti dopo, stavano correndo mano nella mano attraverso l’accampamento bagnato dalle prime gocce di pioggia. Si insinuarono tra le tende del circo, evitando le zone illuminate dove pochi membri della compagnia si erano trattenuti a chiacchierare o fumare.
Finalmente raggiunsero il treno. Jim diede una spallata alla porta della sua cabina e cercò a tentoni l’interruttore.
«Scusa, c’è disordine» borbottò togliendo di mezzo vestiti qua e là. «Ehm, vuoi qualcosa da bere? Oppure vuoi sentire della musica? O vuoi…?»
Le ultime parole caddero nel vuoto quando vide che lei si stava sbottonando il vestito, scoprendo il merletto della brassière.
Un’ondata di calore gli divampò nel basso ventre e dovette deglutire un paio di volte. «Che stai facendo?»
Alycia rise, un chioccolio dolce e roco che gli fece ribollire il sangue; l’umidità aveva reso selvaggi i suoi capelli e le labbra, gonfie e rosee, reclamavano baci e morsi. Non era mai stata tanto desiderabile.
«Usa un po’ di immaginazione.»
Un getto d’aria calda lo spinse all’indietro e Jim cadde sul letto con una piccola esclamazione. Alycia gli si mise a cavalcioni e lo baciò, un lungo, lento bacio ingordo. Lui la afferrò per i fianchi, sorpreso, ma anche molto eccitato da quella presa di iniziativa, e servì una presenza di spirito non da poco per resisterle.
«F-forse dovremmo avvisare il signor Blake, si preoccuperà se non ti vede tornare...»
Lei sospirò, concentrata sui bottoni della sua camicia. «Stai veramente pensando a mio padre adesso?»
«No! Voglio solo dire...voglio dire che...che non dobbiamo correre per forza...»
Alycia lo fissò, assumendo un’espressione ferita che lo fece morire dentro. «Capisco.»
Scivolò via da lui e si sedette sul letto, passandosi le mani sulle pieghe del vestito.
«Devo aver frainteso» mormorò. «Credevo di piacerti in quel senso....»
«Mi piaci!» rispose lui senza esitazione. «Non è questo! Il fatto è che...insomma, io...» Prese una buona dose di coraggio e si decise a sputare il rospo: «È che non l’ho mai fatto prima.»
Alycia si volse a guardarlo, sbalordita. «Stai dicendo sul serio?»
«Sì» ammise lui, le orecchie sempre più vergognosamente rosse.
«Oh.» Anche Alycia arrossì. «Scusa, avevo capito che ... tutte quelle ragazze di cui parlava Vanja...»
«Diciamo che con gli altri ho ingigantito un po’ le cose» rispose Jim, molto in imbarazzo. «Ci si aspetta che un mago sia anche un gran seduttore, ma è una recita. Ho frequentato parecchie ragazze, è vero...però non sono mai riuscito ad andare fino in fondo. Non che non ne avessi voglia!» aggiunse in fretta, per evitare fraintendimenti. «Ma al momento di arrivare al sodo, vado nel panico: che succede se una di loro rimane incinta? O se diventa una cosa seria? Senza contare che avrei potuto perdere il controllo dei miei poteri in qualsiasi momento e terrorizzarle a morte...perciò, è più facile comportarmi da stronzo e piantarle in asso.» Sospirò ancora, afflitto. «Mi dispiace, ho rovinato tutto.»
«Non c’è niente di cui dispiacersi. Anzi, sono contenta che tu me l’abbia detto.»
«Non volevo darti una delusione. Magari ti aspettavi chissà cosa e invece...»
«Per quello che ho visto io» disse Alycia. «Quando non fingi di essere qualcun altro non sei male.»
Lentamente, lui si sciolse in un piccolo sorriso e lei ricambiò.
«Allora» disse poi. «Che ti va di fare adesso? Senza pressione.»
Jim si strinse nelle spalle. «Be’, siamo entrambi qui...»
«Fuori piove» convenne lei.
«E poi, non è neanche mezzanotte...»
Alycia rise e si avvicinò per baciarlo ancora, delicatamente stavolta.
La lampada sul soffitto emise un leggero ronzio e la luce sfarfallò, ma nessuno dei due ci fece caso. Si sdraiarono sul letto senza staccare le loro bocche, esplorandosi a vicenda; Jim decise di mettere da parte i dubbi, di fidarsi di lei e abbandonarsi all’istinto per una volta, e presto il bacio smise di essere delicato e divenne famelico. Lei si sciolse al suo tocco, ondeggiando come la fiamma di una candela, mentre la sua pelle si scaldava e il suo piacere colorava l’aria.
Era qualcosa di splendido: viticci sottili di potere le si avviluppavano intorno, fremendo, e nella sua aura pulsavano strisce scure di desiderio.
A un certo punto, Alycia gli prese la mano e la guidò fra le sue gambe e Jim la seguì, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Aveva appena iniziato a toccarla, piano, con esitazione, che un gemito si liberò dalla sua bocca e a quel punto, le luci impazzirono del tutto e gli oggetti nella cabina tremarono. L’intero treno oscillò come se ci fosse il terremoto ed entrambi ne risero, divertiti. Assecondando le risposte del suo corpo, lui la toccò in modo più sicuro e la tensione si accumulò tra loro fino a esplodere in un singolo istante, amplificato, bruciante, vivo ed elettrico, e di colpo la mente di Jim fu invasa dalla luce.
Aveva già sperimentato lo straniamento dovuto al legame con il Tutto, la perdita di alterità e l’assenza di distinzioni tra dentro e fuori, ma niente era mai stato così sconvolgente come quell’invito, potente e intimo. Un fiume di energia impetuoso scorreva dal corpo di Alycia al suo e viceversa, mescolando ogni sensazione in una frenesia di potere e di piacere. Come la prima volta nella palude, Tutto era Uno, ed era più inebriante del whisky, dell’erba, quasi meglio del sesso in sé... maledizione! Sarebbe potuto venire subito e si trattenne con difficoltà.
Alycia lo liberò della camicia sfilandogliela dalla testa, mentre Jim sosteneva il peso sul gomito sinistro. Con l’altra mano allentò la cintura dei pantaloni, perché l’erezione era così intensa che iniziava a fargli male…
Un attimo dopo, stava volando attraverso la stanza.
Se ne rese conto solo quando colpì con violenza la parete di fronte e batté la nuca contro il pannello di legno del vagone.
«Ma che cazzo...?»
Frastornato e dolorante, Jim alzò gli occhi per interrogare quelli di lei.
Alycia era rizzata a sedere, tesa come una molla. Una mano era aperta e puntata contro di lui, l’altra cercava di tenere su il vestito.
«Tu» disse in un ringhio. «Tu che cosa sei?»

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Capitolo 22
*** Tradimento ***



TRADIMENTO

 
 
 


And I said hello, Satan
I believe it is time to go
Me and the Devil walkin' side by side...
https://www.youtube.com/watch?v=POWT3aei9Ow&ab_channel=JRViralHits
 
 
 
 
Jim non ci stava capendo più niente. E non solo perché tutto il sangue gli era defluito verso il basso.
Provò a muoversi, ma il potere di Alycia lo teneva inchiodato alla parete del vagone, con le braccia spalancate e i pantaloni calati sulle caviglie.
«C-che significa?» riuscì a balbettare. «Ti ho fatto male? Ho detto qualcosa…?»
«Non sei chi dici di essere» lo interruppe lei con veemenza. «Che ci fai davvero insieme a mio padre? Cosa state macchinando? Dimmi quello che sai, avanti!»
Jim sentì la pressione aumentare al punto che gli venne meno il respiro. Se avesse premuto ancora, avrebbe sfondato la parete o gli avrebbe sfondato il torace…
«Non…non so cosa vuoi che dica!» annaspò, ora seriamente agitato. «M -mi chiamo Jim Doherty, vengo dal New Jersey; s-sono figlio di un Mancante e di una strega. Faccio il p-prestigiatore e ho incontrato tuo padre per puro caso…»
«Puro caso?» sibilò Alycia. L’aria che aveva intorno sfrigolava ed era davvero molto pallida, ma nei suoi occhi vi era qualcosa di diverso dalla semplice collera; era arrabbiata sì, ma soprattutto spaventata. «Non credo sia un puro caso che l’Arcistregone dell’Ovest si sia interessato a te: la tua aura magica…è diversa da ogni altra aura che abbia mai percepito in vita mia. Tu non sei un comune mago.»
Sconvolto, Jim si umettò le labbra. «Alycia, non ho idea di cosa stai dicendo…»
«Bugiardo!»
«È la verità» ribatté lui, con voce strozzata. «Lo giuro sulla mia vita, non ti sto nascondendo niente!»
Alycia però continuò a scrutarlo con diffidenza. Sembrava che tutto in lei fosse in preda a una lotta furiosa…
«Mi dispiace se ti ho spaventata» disse Jim, la gola secca. «Ne possiamo parlare se vuoi…ma prima, potrei alzarmi i pantaloni?»
Senza smettere di fissarlo in maniera guardinga, lei abbassò lentamente la mano. «Non stai mentendo.»
Di nuovo libero di muoversi, lui riallacciò i pantaloni in tutta fretta. Alycia, invece, scivolò silenziosamente giù dal letto; senza guardarlo, riabbottonò il vestito e si chinò per cercare una scarpa.
«Alycia.» Jim le andò vicino, confuso, impotente. «Non capisco, che cosa è successo? Eravamo così in sintonia, era bellissimo…»
Lei non rispose, continuando a dargli le spalle mentre infilava le scarpe. Lui fissò la sua schiena e sentì qualcosa dentro di sé incrinarsi. «Parlami, per favore…»
«È stato uno sbaglio venire qui.» La sua voce tremava come se fosse sull’orlo delle lacrime. Quando Jim cercò la sua mano, si ritrasse. «Devo tornare da mio padre adesso. Mi dispiace, Jim. Addio.»
«Aspetta!»
Troppo tardi.
Non appena la porta si aprì, Jim fu investito da una raffica di acqua e vento e un istante dopo lei già non c’era più, inghiottita dalla pioggia.
 
 
Alycia apparve nell’atrio della magione dei Winters e si abbandonò di peso contro la porta chiusa. Era senza fiato.
Abbassò le palpebre e compì dei profondi respiri, cercando di calmare il proprio cuore che continuava a battere come un tamburo nelle tempie.
Tradita. Umiliata. Delusa. Aveva scelto di fidarsi, in nome di quell’amore che, come figlia, provava malgrado tutto verso suo padre. E ancora una volta, come tutte le volte, lui era riuscito a spezzarle il cuore.
Non glielo avrebbe più permesso.
Quando fu sicura di aver recuperato il controllo, marciò decisa verso il salotto. Spalancò le eleganti porte vetrate e trovò suo padre intento a leggere in poltrona, avvolto nella sua vestaglia di velluto blu e con i pince-nez appollaiati sul naso storto: un subdolo calcolatore, celato sotto l’aspetto di raffinato signore di mezza età. Ma come aveva sentito dire spesso dai Mancanti, il Diavolo è nei dettagli.
«Ciao, tesoro!» la accolse allegramente. «Non mi ero accorto che stesse piovendo. Hai trascorso una bella serata?»
Alycia rimase sulla porta coi pugni stretti, i capelli e il vestito che gocciolavano sul tappeto persiano.
«So chi è Jim.»
Lo stregone assunse un’espressione perplessa, ma Alycia non si lasciò incantare.
«Jim è l’arma» disse, sforzandosi di contenere il ribollire delle proprie emozioni. «Quella di cui parla la Profezia, quella che gli Zeloti dell’Eretica stanno cercando. E tu te ne stai servendo.»
Solomon Blake inspirò profondamente dal naso. Rimosse i pince-nez, se li infilò in tasca. «Siediti, per favore.»
«Non voglio sedermi!» esplose Alycia. «E non voglio un tè del cazzo..!»
«Linguaggio, signorina! Sono sempre tuo padre.»
«...Voglio che tu mi dica cosa stai facendo con quel ragazzo, adesso!»
L’onda d’urto scatenata dal suo potere fece tremare ogni singolo oggetto nella stanza; un quadro si staccò dalla parete e cadde a terra con uno schianto e le braci nel camino mandarono un’improvvisa fiammata. Suo padre non si scompose.
«Ti ho chiesto di sederti.»
Non aveva alzato la voce, ma c’era in essa una tale autorità che chiunque avrebbe sentito come primo impulso quello di ubbidire.
Su Alycia ebbe il solo effetto di duplicare la sua collera. Strinse i pugni con tanta forza da conficcarsi le unghie nella carne e continuò a sostenere lo sguardo di suo padre; la serena complicità di poco prima era svanita assieme al suo sorriso e l’azzurro dei suoi occhi aveva assunto una tonalità profonda, temporalesca.
«Dammi una buona ragione per cui non dovrei denunciarti seduta stante» disse Alycia. «Dimmi che non stai addestrando Jim per colpire Arcanta, che non sei un traditore!»
«Ti garantisco che non è come pensi.»
«In nome dei Fondatori, avevi giurato che saresti cambiato, che potevo fidarmi di te! E in tutti questi anni non hai fatto che riempirmi di bugie!»
«Vogliamo parlare delle tue di bugie?» chiese Solomon, guardandola con tale durezza che per un istante Alycia si sentì vacillare. «Credi che non sappia il vero motivo che ti ha spinta a tornare? Sei stata gli occhi e le orecchie di Boris Volkov sin dal principio. Tu, mia figlia.»
«Oh, non provarci neanche!» gridò lei. «Non cercare di farmi sentire in colpa! Sei tu qui il bastardo manipolatore: hai lasciato che mi avvicinassi a quel ragazzo, che diventassimo amici. Ci hai usati entrambi. Se fossi stato sincero con me non sarei arrivata a tanto!»
«Non sono io quello che ti sta manipolando, Alycia» disse Solomon, con sfrontata sicurezza. «Boris è disposto a tutto per screditarmi, anche a servirsi di te. Vuole convincere Arcanta che sia il nemico, ma non è così.»
«E ti aspetti davvero che io ti creda?» fece Alycia. Sentiva la gola gonfia e gli occhi in fiamme. Tutto il lei stava urlando, di rabbia, dolore. «Boris è stato la mia casa, mi ha protetta, mi ha aiutata…mentre tu non hai fatto altro che mentirmi: secondo te a chi dovrei offrire la mia lealtà?»
«A nessuno dei due» rispose suo padre. «Devi fare semplicemente ciò che ritieni giusto. Ma prima di prendere una decisione, prima di denunciarmi al Decanato, prima di gettare Jim in pasto al Lupo Grigio, faresti meglio ad ascoltare la storia per intero.»
Lei non si mosse, scrutandolo in allerta. Era un altro dei suoi trucchi? Una tattica per confonderle le idee…?
«Siediti» ripeté lui, per la terza volta. La invitò con un cenno educato e la seconda poltrona scivolò in avanti verso di lei. «Avrai le risposte che cerchi, ma prima dovresti cambiarti quei vestiti bagnati: sarà un racconto lungo.»
 
◊◊
 
Quella notte Jim non chiuse occhio.
Restò sdraiato sulla schiena a fissare il soffitto della cabina, mentre le ore si susseguivano con lentezza snervante e lui si massacrava il cervello per capire cosa fosse successo, dove avesse sbagliato. Cosa avesse fatto per spingere Alycia a scappare in quel modo. E pensare che una volta tanto aveva cercato di fare tutto per bene, di non comportarsi da cazzone come suo solito. Un istante prima stavano toccando il cielo con un dito e poi…lei lo incollava al muro e cominciava a fargli il terzo grado.
“La tua aura magica…è diversa da ogni altra aura che abbia mai percepito in vita mia. Tu non sei un comune mago.”
Che cosa intendeva dire? Cosa lo rendeva diverso da tutti gli altri? Blake non aveva mai accennato a niente del genere e aveva visto crescere i suoi poteri per mesi, giorno dopo giorno…
Un dolce miagolio annunciò il ritorno di Lily, la misteriosa gatta-demone che aveva deciso di diventare il suo famiglio; saltò sul letto e si andò ad acciambellare sulla sua pancia. Jim ne percepì il peso caldo e rassicurante e l’accarezzò, mentre cercava di mettere in ordine i pensieri. Lily gli restituì in cambio un trionfo di fusa.
Per tutto quel tempo aveva dato per scontato che Solomon Blake fosse solo un eccentrico mago in pensione a cui piaceva fare esperimenti lontano dallo sguardo delle autorità, andandosene a zonzo per il mondo grazie a qualcosa che aveva scoperto sugli specchi. Un anticonformista affamato di conoscenza, sì, ma innocuo.
Ora non era più sicuro che le cose stessero così. Ora aveva la certezza che il suo maestro gli stesse nascondendo qualcosa, qualcosa di enorme e potenzialmente pericoloso…
Qualcosa che lo riguardava molto da vicino.
Lo costringerò a dirmi la verità, si disse con una nuova determinazione. E chi se ne frega se ho giurato di fidarmi a prescindere da tutto: risponderà alle mie domande o sarò io a minacciare di andarmene.
Se c’era qualcosa in lui che a Blake serviva, era suo interesse metterlo al corrente dei suoi piani. E per Jim era un diritto sacrosanto.
Attese con impazienza il mattino, preparandosi per quel confronto. Chissà se sarebbe riuscito a rivedere Alycia, a parlarle prima che tornasse ad Arcanta…
Il suo ultimo pensiero fu per lei, dopodiché si addormentò senza accorgersene.
 
Bianco.
Un foglio bianco posato di fronte a lui su un tavolo, in una cucina povera ma accogliente. Dalla finestra spalancata giungeva il cinguettio degli uccelli e il caldo sole estivo inondava i campi dove suo padre era a lavoro dalle prime luci dell’alba.
Sollevò lo sguardo sulla donna che gli sedeva di fronte, il volto pallido e magro, non proprio attraente e un sorriso incoraggiante a fior di labbra.
«Fa’ un tentativo.»
Strinse la matita nel suo piccolo pugno da bambino. Non capiva cosa sua madre si aspettasse da lui, non era mai stato granché nel disegno. Era lei quella brava. Raffigurava gli animali della loro fattoria in maniera talmente realistica che James avrebbe giurato di averli visti respirare sulla carta.
«Avanti, Jamie.» La voce della mamma era gentile come sempre, ma in essa lui percepì una strana urgenza. «I nostri amici torneranno a trovarci molto presto, non vuoi far vedere quanto sei diventato bravo?»
Sebbene facesse caldo, James rabbrividì nel suo completino alla marinara.
Gli amici della mamma. Quegli strani uomini e quelle strane donne che arrivavano all’improvviso solo quando papà andava fuori città.
Non si trattenevano mai a lungo, ma James contava i minuti con le dita dei piedi arricciate nelle scarpe finché non se ne andavano. Gli facevano paura e, da come la mamma sussultava ogni volta che comparivano alla porta, capì che forse facevano un po’ paura anche a lei. Ma li accoglieva sempre con un sorriso, offriva loro tè e una fetta della sua torta alla melassa. Poi, faceva sedere James a quello stesso tavolo, gli metteva davanti un foglio identico a quello e una matita e lo incoraggiava a disegnare la prima cosa che gli veniva in mente. Gli amici della mamma si limitavano a osservarlo, senza fare commenti e senza un sorriso.
«Puoi disegnare tutto quello che vuoi» disse lei. «Un dolcetto o un balocco. Oppure qualcosa di più semplice.»
James guardò fuori dalla finestra; c’era un vaso di gerani sul davanzale e due farfalle bianche vi svolazzavano intorno.
Tornò a guardare il foglio e cominciò a tracciare qualcosa. Sua madre lo fissava in silenzio, le dita strette come in preghiera. Quando James ebbe terminato, avvertì un tremendo mal di testa e i contorni della stanza divennero doppi…
Sul foglio bianco, la piccola farfalla che aveva disegnato sbatteva le ali furiosamente.
«Vuole uscire» commentò la mamma. «Perché non la aiuti, Jamie?»
James fissò il piccolo insetto che si dimenava, prigioniero della carta. Esitante, immerse le piccole dita nel foglio come fosse una scodella di latte e un istante dopo, la farfalla era nel suo palmo. Sbatté le ali due volte ancora, poi non si mosse più. Adesso, al suo posto, vi era una strana melma nera e appiccicosa, che gli colava tra le dita.
Sua madre sospirò, poi gli accarezzò il braccio.
«Non fa niente, tesoro. La prossima volta andrà meglio.»
 
Jim si tirò a sedere sul letto, scosso e sudato.
Era la prima volta che gli capitava di fare un sogno del genere. Appena sveglio, aveva avuto la sensazione che non si trattasse di affatto un sogno ma di qualcosa di realmente accaduto…ma più ci pensava, più si sforzava di riportare a galla i dettagli, più si convinceva che fosse impossibile. Non ricordava niente di vagamente somigliante a quell’episodio nella sua infanzia.
Intanto, si era fatto giorno pieno.
Si vestì in fretta, continuando a ripensare ossessivamente al sogno, e poi uscì dalla cabina. Nel momento in cui posò piede a terra, si accorse dello strano movimento di uomini e bestie intorno a lui: gli operai andavano e venivano, trasportando grossi pali, riavvolgendo funi e strattonando cavalli. Jim li osservò senza capire che accidenti stessero facendo. Solo quando guardò il tendone, stagliato contro il cielo nuvoloso, afflosciarsi progressivamente, realizzò: per qualche assurda ragione erano in partenza.
«Ma che diamine…?»
Nessuno fece caso a lui mentre s’incamminava per l’appezzamento, calpestando pezzi di zucca e resti di addobbi di Halloween, finché non si imbatté in un gruppo di operai che trasportavano gabbie dal serraglio verso il treno; individuò subito Sinclair appoggiato contro un carro, che sfogliava un fumetto di Popeye.
«Buondì, superstar» lo apostrofò senza staccare gli occhi dalle pagine.  «Abbiamo fatto le ore piccole ieri con quella brunetta, eh…?»
«Che sta succedendo?» domandò Jim, bruscamente. «Perché smontiamo?»
Lui fece spallucce. «Il Folletto ha radunato tutti stamattina presto, dice che ci ha trovato un altro ingaggio.»
«Cosa?» esclamò Jim. «Ma non ha senso! E lo spettacolo?»
«E io che ne so? Eseguo solo gli ordini. Ora levati dai piedi, Khazam, stiamo lavorando.»
Un energumeno sudato e sporco lo buttò letteralmente all’aria mentre si issava in spalla due grossi sacchi. Jim proseguì oltre alla ricerca del direttore, l’unico in grado di dargli delle risposte, finché non si ritrovò a correre disperato.
«Maurice!»
Risalì il binario, mentre un cordone di fumo nero si levava già dalla locomotiva, e trovò il Folletto vicino alla Squadriglia Volante che sbraitava ordini a destra e a manca; sembrava che avesse una gran fretta di andarsene.
«Ti sei degnato di svegliarti finalmente!» ragliò quando lo vide. «Sistema la tua roba, il treno riparte tra mezz’ora.»
«Mi dici che cosa stai facendo?» fece Jim. «Lo spettacolo è stasera!»
«L’ho annullato» rispose semplicemente il direttore. «Ce ne andiamo in Kansas, ho sentito di una grande fiera agricola a Indipendence: l’avresti saputo anche tu se non avessi passato la mattinata a poltrire!»
«E il signor Blake è al corrente di questa tua brillante idea?»
O’Malley fece una smorfia e sputò a terra. «Non ho più intenzione di prendere ancora ordini da quel fanfarone impomatato! Sarà la nostra rovina, lui e quella sua stramaledetta magia!»
«Lo stesso fanfarone che ha sborsato un milione di dollari per farti realizzare lo show dei tuoi sogni, intendi?» replicò Jim, furente. «Non credo sarà contento di questa tua iniziativa.»
«Me ne infischio se ne sarà contento o no!» Il Folletto infilò una mano sotto la giacca e ne estrasse un documento, poi lo strappò, proprio di fronte agli occhi sgomenti di Jim. «E me ne infischio del suo contratto del cazzo! Non gliene è mai importato un fico secco di noi a quello lì.»
«Come se a te invece importasse!» esclamò Jim. «Te ne stai nel tuo ufficio a contare i soldi mentre gli operai fanno affari con dei poco di buono e maltrattano i tuoi animali! Bel direttore che sei!»
Si rese conto che molti altri membri della compagnia si erano avvicinati per assistere, mormorando con stupore.
«Bada a come parli, ragazzo» lo avvertì O’Malley, guardandolo storto con quella sua brutta faccia da demonio. «Non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo. Ora fai i bagagli e sali su quel cazzo di treno, altrimenti…»
Il sangue di Jim prese fuoco nelle vene.
«Altrimenti cosa? Mica sei mio padre!»
Per un attimo gli parve di cogliere una specie di fremito nello sguardo di ghiaccio di O’Malley. Poteva essere davvero delusione? Qualunque cosa fosse passò in un baleno, divorata dalla collera mentre ringhiava: «Non ho mai voluto farti da padre. Sei una spina nel fianco dal giorno in cui sei arrivato!»
Quelle parole gli bruciarono più di quanto avesse voluto ammettere.
«Bene» lo sfidò Jim. «Allora ti conviene trovarti un altro mago. Perché io con te ho chiuso!»
Prima che potesse fermarlo, mollò lì O’Malley che continuava a urlargli addosso e raggiunse il suo vagone, accompagnato dal brontolio lontano dei tuoni.
La porta della cabina si spalancò da sola e Jim entrò, desideroso di prendere a pugni qualcosa. Afferrò un borsone e con gesti bruschi e rabbiosi vi spinse dentro tutto ciò che gli capitò sottomano. Infine, smontò un cassetto e raccolse il bozzolo di stoffa nascosto in cui erano avvolti i suoi risparmi. Li intascò e si issò la borsa in spalla. Ma, non appena uscì, trovò una schiera di operai a bloccargli la strada.
«Levatevi dalle palle» intimò Jim, ma i gorilla della sicurezza non si spostarono di un centimetro.
«Ci è stato ordinato di caricarti sul treno» disse Sinclair, col suo solito ghigno beffardo.«E di fare in modo che tu ci rimanga.»
«È uno scherzo!?»
Uno degli operai più grossi, Big Joe, si mosse verso di lui e Jim arretrò, inghiottito per intero nella sua ombra.
«Avanti» lo canzonò Sinclair. «Fai il bravo, ragazzino, e vieni con noi con le buone. È il circo il tuo posto e lo sarà per sempre.»
Jim strinse i pugni, la voce che tremava di furore represso: «Ve lo dico un’ultima volta. Levatevi di torno!»
Fu allora che accadde.
Il mondo si spense e il campo, il treno in partenza, tutto fu risucchiato nel buio più denso e assoluto. Il Vuoto gli si agitò intorno come se fosse vivo e Jim percepì qualcosa staccarsi da esso, qualcosa dotata di peso e consistenza. Poi però udì qualcos’altro, da qualche parte…
«Per l’amor di Dio, fate qualcosa! Sta soffocando!»
Una voce chiamò il suo nome e avvertì delle mani strattonarlo, trascinarlo di peso fuori dall’oscurità senza forma…
«Jim!» La faccia di Wilhelm Svanmör comparve a un palmo dalla sua, mentre lo scuoteva per le spalle. «Devi fare qualcosa! Aiutalo!»
Jim ripiombò bruscamente in quel campo accanto alle rotaie. Si ritrovò in piedi, nell’abbagliante luce del giorno, a fissare qualcosa di fronte a sé.
Big Joe era a terra a poca distanza, le gambe che sussultavano, gli occhi fuori dalle orbite e la schiuma alla bocca. Attorno a lui si era creata una gran calca di operai e circensi e tutti urlavano e gesticolavano.
In preda alla confusione e all’orrore, Jim riscoprì all’improvviso di essere in grado di muovere le dita e in quell’istante l’uomo tornò a respirare.
«Che accidenti succede qui?» sbraitò O’Malley, facendosi largo tra la folla e agitando il bastone. «Qualcuno si è fatto male..?»
«È stato lui!» latrò Sinclair, gli occhi sbarrati e il dito puntato verso Jim. «Voleva ammazzarlo, cazzo! L’abbiamo visto tutti!»
«Cosa?» O’Malley si voltò lentamente, sbalordito. «Che storia è questa?»
Jim non sapeva cosa dire. Non aveva alcun ricordo di cosa fosse successo. Un attimo prima stavano parlando e un attimo dopo…
«Con che razza di psicopatici abbiamo a che fare?!» ululò qualcuno tra gli operai, mentre altri aiutavano Big Joe a rimettersi in piedi. «È un mostro! Un assassino!»
Sconvolto, Jim si voltò verso Wilhelm e Vanja in cerca di aiuto. «Io…io non ho fatto niente.»
Wilhelm tirò indietro sua sorella, che fissava Jim costernata. E non era la sola a guardarlo in quel modo: Dot nascondeva i bambini dietro la sua mole, mentre Rodrigo scuoteva la testa mormorando “madre de Dios”. Infine, Jim incrociò lo sguardo addolorato di Margot.
Erano sconvolti e spaventati.
Ed era proprio Jim a spaventarli.
Fu come non avere più la terra sotto i piedi. Indietreggiò, incespicò nei propri passi. Doveva andarsene di lì. Subito.
Si voltò e corse via, mentre la folla ammutolita si apriva al suo passaggio.
S’infilò tra i vagoni e camminò attraverso il prato, allontanandosi ad ampie falcate dal treno e dalla compagnia, quando una voce lo raggiunse: «Jim, aspetta!»
Si costrinse a rallentare e a fermarsi, ma non si voltò. Sentì i passi di Arthur fermarsi a poca distanza.
«Dove stai andando? Che è successo poco fa? Ho sentito delle urla…tu stai bene?»
Grazie al cielo almeno lui non era lì ad assistere. Jim deglutì con fatica, la saliva nella sua bocca densa come uno sciroppo amaro. «Non partirò con voi. Ho...ho deciso che rimango qui con Blake.»
Arthur ci rimase. «Ma ero convinto che fossimo d’accordo, che una volta finito con le lezioni...»
Jim si voltò e la rabbia prese il sopravvento, una rabbia a lungo trattenuta, che necessitava di una valvola di sfogo. «Cosa, Arthur? Cosa credevi che sarebbe successo? Che sarei tornato a umiliarmi per divertire un branco di trogloditi mentre Maurice si rimpingua le tasche?»
L’espressione di Arthur si rabbuiò. «No, però pensavo che alla fine avresti scelto la tua famiglia. Non un tizio che conosci da appena un paio di mesi...»
«Tu non hai mai voluto accettarlo.» Jim scosse la testa. «Io non sono come voi, Arthur, non lo sarò mai. Blake mi ha solo aiutato a capirlo...»
«Ti sta manipolando» ribatté Arthur. «Sta facendo di tutto per farti diventare uguale a lui, ma questo non sei tu, Jim!»
«Io sono uno stregone!» esplose Jim. «Ho il potere di plasmare la materia, di trasformare la parola in azione! E chissà cos’altro ancora potrei imparare se continuassi!»
«Pensavo che il tuo obiettivo fosse impedire ai tuoi poteri di fare del male agli altri» disse Arthur, in tono duro, di rimprovero. «Di dare una mano alla compagnia. Me lo hai detto anche ieri sera, o erano tutte balle?»
«Be’ forse l’ho detto solo perché tu continui a farmi sentire in colpa!» gridò Jim, ormai fuori di sé. «Sei mio amico, cazzo, dovresti essere felice per me! E invece sono mesi che mi rinfacci questa storia delle lezioni di magia, come se vi stessi tradendo...»
«Io non ho mai detto...»
«La verità è che sei invidioso!» disse Jim, dando voce a ogni pensiero cattivo e rancoroso la sua mente fosse in grado di formulare. «Ti rode che io abbia trovato una possibilità di riscatto. Ma sai una cosa? Hai sempre avuto l’opportunità di avere una vita migliore, ma non hai mai avuto le palle di coglierla, quindi non dare a me la colpa! Potresti ribellarti in qualsiasi momento, ma non lo fai, perché a quelli come te e tuo padre in fondo piace prendere ordini da tutti!»
Arthur si irrigidì di colpo, qualcosa nel suo sguardo cambiò. «“Quelli come me e mio padre?”»
Jim tacque all’istante, sorpreso e disgustato dalle sue stesse parole. «No… non hai capito, non è quello che volevo dire…»
«Invece ho capito perfettamente cosa volevi dire» disse Arthur, e sulla sua faccia era dipinta una delusione così profonda che Jim non sarebbe mai riuscito a cancellarla dalla memoria. Mai. «Hai ragione, potrei andarmene ma non lo faccio, perché non posso risolvere i miei problemi con una formula magica, posso farlo solo prendendomi le mie responsabilità. E soprattutto, io non abbandono chi ha bisogno di me! Vediamo se indovino: ieri sera eri così impegnato a correre dietro alla figlia di Blake che non ti sei neanche preoccupato se io Vanja, Rodrigo e Wilhelm fossimo al sicuro dagli Accalappiatori!»
«Arthur, mi…»
«Se pensi che Blake e la magia renderanno la tua vita migliore, allora prego, va’ pure!» disse Arthur con astio, ma la sua voce tremava. «Diventa un grande stregone, prenditi la fama, tutto quello che vuoi! Non sarò certo io a impedirtelo!»
Jim serrò i pugni, sentendo le lacrime affiorare. Si voltò e riprese a correre, senza più voltarsi. Cosa avrebbe potuto dire? Cosa avrebbe potuto fare per cambiare quello che era successo? Così corse via, senza sapere dove andare, desiderando solo di allontanarsi il più possibile da lì. Desiderando solo sfuggire da se stesso. 
 
Nel giro di un’ora, una pioggia tenace ricominciò a bagnare la campagna, rendendo quasi difficile scorgere la sagoma bianca della magione.
Ma i piedi di Jim ormai conoscevano la strada.
Bussò un paio di volte e Solomon Blake apparve sull’uscio, sorridente e in vestaglia.
«Oh, eccoti! Scusa se sono in desabiles, ma ho pensato ti fossi preso un giorno di riposo… Jim, cosa è successo? Stai bene?»
Il ragazzo se ne stava impalato sotto al porticato ed era completamente fradicio, i capelli appiccicati sulla fronte gocciolanti. Aveva gli occhi gonfi e arrossati e tremava così forte che il suo corpo era scosso da spasmi.
«Ho fatto la mia scelta» mormorò, mentre le gocce di pioggia scendevano lungo il viso. «Ho lasciato la compagnia.»
Sorpreso, Blake aprì la porta completamente. «Raccontami tutto.»
Non appena ebbe varcato la soglia, il ragazzo si gettò di peso contro Blake e si abbandonò a un pianto disperato. Lo stregone non seppe come reagire e gli diede delle goffe pacche sulla schiena. Confortare la gente non era mai stato uno dei suoi talenti.
«Va tutto bene. Hai preso la decisione giusta.»

 

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Capitolo 23
*** Il ladro di incantesimi ***



IL LADRO DI INCANTESIMI

 



"And strange hunger haunted me,
the looming shadows danced..."


Far from Any Road , The Handsome Family
https://www.youtube.com/watch?v=nRq0jjJ2LvY&ab_channel=Horizon

 




«Hai già fatto colazione?» domandò Blake, chiudendo la porta d’ingresso.
Jim tirò su col naso e scosse la testa, rabbrividendo nei vestiti fradici. La colazione era l’ultimo dei suoi pensieri: il senso di colpa continuava a travolgerlo a ondate incessanti, mentre rivedeva davanti ai suoi occhi l’operaio che si contorceva a terra, gli sguardi spaventati dei suoi amici, l’espressione delusa di Arthur…
Per la seconda volta in vita sua aveva perduto la sua famiglia.
Gli veniva da vomitare.
La sua faccia doveva parlare da sé, perché il padrone di casa disse: «La tua stanza è al piano di sopra, terza porta a destra; troverai anche dei vestiti, cambiati e poi pensiamo a tutto il resto.»
Il ragazzo si trascinò su per le scale senza una parola, frastornato come dopo un incubo, come se la sua mente faticasse a discernere cosa fosse reale e cosa no. E il vuoto che gli lacerava il petto aveva raggiunto tali dimensioni che avrebbe potuto risucchiare ogni cosa…
Si fermò in cima al pianerottolo, travolto da un improvviso attacco di vertigini che gli tolse il fiato per alcuni istanti, inondando il suo campo visivo di puntini neri. Si sostenne al corrimano, accarezzandone il legno liscio; a poco a poco, il malessere si attenuò, anche se non passò del tutto.
Mai avrebbe pensato che la magione dei Winters potesse suscitare in lui un tale senso di sicurezza; era il luogo in cui aveva studiato ogni giorno negli ultimi sei mesi, in cui aveva provato frustrazione e fatica, ma anche infinite soddisfazioni legate alla magia. Ed era il luogo dove aveva conosciuto Alycia.
Alycia…era già andata via? Aveva una gran voglia di vederla, ma allo stesso tempo detestava che lei lo vedesse in quello stato…
Strinse con forza il corrimano.
Ho fatto la mia scelta. Da qui in poi non si torna più indietro.
Avrebbe dovuto compiere quel passo molto tempo fa, essere onesto con se stesso prima che con tutti gli altri: non avrebbe mai rinunciato alla magia e quanto successo quella mattina ne era la conferma. Il maestro glielo aveva sempre detto che per dominare i suoi poteri doveva dominare la propria Volontà e se erano sfuggiti in quel modo al suo controllo significava una sola cosa: non poteva più dividersi tra la vecchia vita e la nuova.
La stanza che Blake gli aveva assegnato era enorme, cavernosa e come il resto della casa rispecchiava la passione degli ex proprietari per i pesanti mobili di fine Ottocento, ma disponeva di un piccolo bagno personale. Sul letto faraonico erano piegati accuratamente asciugamani e vestiti nuovi di zecca: pantaloni di velluto, camicia di seta, cardigan verdone con collo sciallato e un paio di lucidi mocassini. Tutto gli calzava alla perfezione.
Mentre abbottonava i polsini della camicia, lo sguardo gli cadde sull’orologio che gli aveva regalato O’Malley per il suo compleanno e di nuovo la nausea minacciò di sopraffarlo. Lo sfilò e lo chiuse nell’ultimo cassetto del comodino.
Lasciò la stanza asciutto e vestito, ma prima di raggiungere il signor Blake al piano di sotto, indugiò sulla porta socchiusa di fronte alla sua.
Era la camera di Alycia. Lo capì subito dal morbido profumo di fiori e dalla moltitudine di piante esotiche che affollavano la scrivania di fronte alla finestra. La stanza però era vuota e immacolata, il che indicava che la ragazza avesse lasciato la magione da molte ore. Probabilmente in quel momento era ad Arcanta, dall’altra parte del mondo, già alle prese con la sua vecchia vita…
Sulla spalliera del letto era stato dimenticato un pullover bianco. Senza riflettere, Jim lo prese fra le mani e affondò il viso nella lana soffice, inalandone il profumo.
Patetico.
Le sue orecchie si scaldarono all’istante e lasciò il pullover dove lo aveva trovato.
Blake lo attendeva nella saletta della colazione, seduto di fronte a una tavola imbandita con biscotti, crostate e frittelle; stava appuntando qualcosa sul suo grimorio, ma quando si accorse di Jim fece sparire tutto con uno schiocco di dita. «Siediti, mangia qualcosa.»
«Non ho fame.»
«Lo so, ma hai bisogno di metterti in forze. E poi, Valdar si offenderà se non assaggi i suoi pancake.»
Jim prese posto e si sforzò di mandar giù qualche boccone; se quella sarebbe dovuta essere la sua casa per i giorni a venire, offendere l’orco non era certo una buona idea.
«Stamattina vorrei che tu mi accompagnassi in città» disse poi Blake, versandogli del succo d'arancia nel bicchiere. «C’è una persona che dovresti conoscere.»
«Uno strizza cervelli?»
«No, una parrucchiera.»
La risposta lo sorprese a tal punto che Jim restò con la forchetta sospesa ad alcuni centimetri dalla bocca. «Perché?»
«Perché è giunto il momento che ti metta al corrente degli affari che mi hanno portato a New Orleans.»
Jim era spiazzato. «Come mai lo ha deciso proprio adesso?»
«Perché le circostanze prima non lo permettevano.»
«Intende.» Jim si sentì stupido per non averci pensato subito. «Per via di Alycia?»
Blake bevve un sorso di té. «Per quanto la sua presenza fosse gradita, era anche un ostacolo: non potevo rischiare che i Decani usassero l’influenza che hanno su di lei per mettermi i bastoni tra le ruote. Meno ne sa e meglio è per tutti.»
Jim si accigliò. «Quindi Alycia aveva ragione, sta nascondendo qualcosa.»
«È una ragazza sveglia.»
«Sì che lo è» disse Jim arrabbiato, pensando all’espressione di lei mentre lo appendeva al muro. «Infatti ha già scoperto che le servo per qualcosa di illegale. Quindi, tutta questa sua montatura è stata inutile!»
«Di questo non devi preoccuparti: sa quanto basta. Non rappresenta una minaccia, per ora.»
«Una minaccia» ripeté Jim, con una smorfia. «E mi dica, di preciso, questi suoi affari quanto mi coinvolgeranno?»
«Abbastanza. Ma sei stato sufficientemente addestrato.»
Jim strinse con forza forchetta e coltello. «E quella bella storia sui vasi da riempire? Sul tramandare la conoscenza? Erano tutte balle?»
«Assolutamente no: ho tenuto fede ai miei impegni facendoti da insegnante, così mi aspetto che tu tenga fede a quelli che hai preso verso di me. Mi hai promesso fiducia e collaborazione, ricordi?»
Jim sbuffò con sufficienza. «Sì, ricordo.»
Blake guardò l’orologio. «Bene, l’auto è qui fuori che ci aspetta, partiamo subito.»
«Un momento» obiettò Jim. «Ho promesso che l’avrei aiutata, ok, ma ho il diritto di sapere qual è il mio ruolo nei suoi progetti.»
«Avrai tutte le informazioni necessarie a tempo debito» rispose Blake intascando l’orologio. «Ora gradirei che ci dessimo una mossa: il tempo stringe e trovare parcheggio in centro non sarà facile.»
 
 
La Rolls-Royce di Blake sfilò lungo le elaborate gallerie in ferro battuto del Vieux Carrè, immergendosi nel suo vivace miscuglio culturale; a quell’ora le vie del centro erano trafficate e animate di gente, ma riuscirono comunque a trovare un buco libero. Grazie a un tocco di magia, suppose Jim.
«Questa parrucchiera che vuole presentarmi» domandò il ragazzo, percorrendo insieme a Blake un tortuoso marciapiede ingombrato da banchetti di frutta e spezie. «Devo intuire che non sia una Mancante, no?»
«È la discendente diretta di Madame Paris Laveau» rispose il maestro, rivolgendo cenni di saluto ai negozianti, nessuno dei quali sembrò far caso al fatto che andava in giro con un corvo sulla spalla. «Una delle streghe più famose di New Orleans.»
«Ne ho sentito parlare» disse Jim: chiunque in città conosceva la leggendaria Regina del Vudù. «Ma cosa ha a che fare questa donna con noi?»
«Pare abbia ereditato alcuni particolari talenti da sua nonna» rispose Blake col suo solito, snervante fare misterioso. «Ed è la sola in grado di aiutarci. Oh, siamo arrivati.»
Si fermò di fronte a un negozio su Bourbon Street con ampie vetrate, dietro cui Jim scorse signore bianche e ben vestite che spettegolavano sedute in poltrona di fronte a una fila di specchiere, mentre alcune ragazze nere acconciavano loro i capelli o limavano le unghie.
Blake si lisciò i baffi incurvandoli all’insù e bussò alla porta con la testa di corvo del bastone.
«È passato un po’ di tempo dalla mia ultima visita» spiegò, nell’attesa. «Vent’anni o giù di lì. Mi auguro che si ricordi di me.»
La porta si aprì con uno scampanellio.
«Angeline!» esclamò lo stregone, sfoggiando un sorriso da seduttore.
Sì, quella donna si ricordava eccome di lui. E lo mise subito in chiaro sbattendogli la porta in faccia.
Prontamente, Blake infilò la punta del bastone nello stipite. «Non c’è bisogno di essere così scortesi.»
Seppur non giovanissima, Angeline aveva una magnifica pelle color bronzo, i capelli raccolti in un turbante bianco e una pipa piantata in bocca. Ma il suo sguardo era così infuocato che avrebbe potuto incenerirli seduta stante.
«Hai una bella faccia tosta a ripresentarti qui!» disse, soffiando con astio un getto di fumo dalle narici. «Non sei il benvenuto.»
«Si tratta di una visita veloce, non ti ruberò molto tempo...»
«Scordatelo» ringhiò lei, cercando di sbloccare la porta. «Uccellaccio del malaugurio che non sei altro! E poi, come vedi sono oberata di lavoro!»
«Suvvia, Angie!» intervenne una cliente con la testa piena di bigodini e un minuscolo barboncino in braccio. «Lascialo entrare, sembra un signore così per bene!»
«Sì dai, fallo restare!» squittì un’altra, sbirciando Blake da sopra una rivista. «Non capita tutti i giorni di mettere gli occhi su un tale bocconcino!»
Le altre clienti sghignazzarono in approvazione. Lo stregone rispose con un’accattivante strizzatina d’occhio che fece sospirare l’intero salone. Jim credeva di conoscere le mosse giuste con le donne, ma il suo maestro era un fuoriclasse: se fosse andato lì per vendere qualunque cosa quelle signore l’avrebbero comprata a occhi chiusi.
«Bah!» fece invece Angeline, fumando incollerita. «Con te è sempre la stessa storia. Da questa parte, seguimi. E smettila di distrarre le mie ragazze!»
Fece loro strada attraverso il salone, invaso da profumi di lacche e shampoo, oltre che da un vago sentore di capelli bruciati dal ferro, e poi dietro tendaggi di velluto consumati.
Jim non era mai stato nel retrobottega di un centro estetico, ma era certo che da nessun’altra parte avrebbe trovato roba simile: dal soffitto pendevano mazzi di salvia secca, maschere tribali riempivano le pareti e sugli scaffali erano allineati cristalli e idoli di terracotta con genitali sfacciatamente grandi, ma anche uccelli e opossum impagliati e barattoli al cui interno qualcosa di non identificabile galleggiava nella salamoia. E poi c’erano le teste, inquietanti, minuscole testoline umane legate per i capelli e con le palpebre cucite…
«Sono finte, vero?» chiese.
Angeline si fermò alle sue spalle. «Finte? Sono dovuta andare fino in Ecuador per procurarmele: ormai solo gli Shuar preparano le tsantsa come si faceva una volta!»
Il ragazzo represse un conato e si allontanò immediatamente. «Ehm…e quelli che sono?»
Stava indicando delle statuette di cera maschili e femminili poste in maniera frontale su una base d’argilla. Angeline sorrise con astuzia. «Di quelli ne vendo un sacco: servono per tessere sortilegi d’amore. C’è per caso una fanciulla che vorresti legare a te per sempre, giovanotto?»
«Io? No, no…ehm, ero solo…»
Lei scoppiò a ridere e gli arruffò i capelli con un po’ troppo vigore. «Oh, ma certo che c’è!»
«Credevo ti fossi sbarazzata di questa roba» disse Blake, studiando l’ambiente con distaccato interesse.
Angeline lo fulminò con lo sguardo. «Di questi tempi bisogna pur tirare avanti: con la Crisi il salone non fa più affari come un tempo e ho delle dipendenti da pagare. Diversifico, tutto qui.»
«Rifilando ai Mancanti cianfrusaglie e spacciandole per magia.» Blake scosse la testa. «Non credo che Marie approverebbe.»
Gli occhi neri di Angeline tornarono ad accendersi di collera. «Non pronunciare il suo nome. Non ne hai il diritto dopo ciò che le hai fatto!» Puntò il dito verso una parete, dov’era affisso un dipinto circondato da candele, incensi e fiori, che Jim all’inizio non aveva notato in mezzo a tutta quella roba esposta: raffigurava una splendida donna dalla carnagione bruno rossastra, con lunghi capelli neri e occhi scurissimi, luminosi e fieri.
«Lei si è fidata di te e tu l’hai ingannata» disse Angeline fissando torva Blake. «Le hai sottratto ciò che aveva di più prezioso. Dopo tutto quello che ha fatto per questa città, per la nostra gente!»
«Tua nonna ha fatto una scelta» replicò lo stregone, ma sembrava che i suoi occhi non riuscissero a sostenere quelli ardenti di lei. «E all’epoca io avevo un compito da svolgere.»
«Eri un ladro» soffiò Angeline. «E lo sei ancora! Quanti altri maghi hai imbrogliato e derubato in questi anni? Quante altre vite hai rovinato per servire Arcanta?»
«Di che parla?» intervenne Jim, guardando incredulo il maestro.
Angeline scosse piano la testa. «Lascia che ti dia un consiglio, ragazzo: non fidarti di quest’uomo, è il Diavolo incarnato. E proprio come il Diavolo si approfitta sempre di chi è solo e disperato.»
«Angeline…» disse Blake, ma lei lo zittì con un brusco cenno della mano.
«Immagino non ti abbia parlato dei suoi trascorsi» continuò, senza smettere di guardare Jim. «Di come è riuscito a diventare l’Arcistregone dell’Ovest, no? Be’ lascia che ti racconti una storia allora:
 
Accadde una notte di moltissimi anni fa.
Marie era figlia di schiavi, e come tutti i nati schiavi aveva un solo destino da seguire: spaccarsi la schiena sotto il sole nelle piantagioni dei bianchi, fino alla vecchiaia, finché, allo stremo delle forze, non fosse crollata su quella stessa terra che aveva da sempre coltivato. Ma Marie era una donna dall’animo fiero e con un grande cuore: interveniva in difesa dei suoi compagni, si faceva carico del lavoro dei più deboli e dei malati. Non aveva mai paura di guardare in faccia l’uomo bianco e dire ciò che pensava e per questo veniva punita, frustata, lasciata a marcire per giorni in un pozzo buio senza cibo. Ma lei si rifiutava di imparare la lezione e capì che l’unico modo per far sì che i suoi padroni la ascoltassero era fare in modo che avessero paura di lei. Così iniziò a coltivare il suo potere: sapeva di averlo ereditato dai suoi antenati ma era rimasto a lungo assopito, a furia di umiliazioni e percosse. Non capiva ancora come funzionasse, sembrava agisse in maniera autonoma quando la rabbia prendeva il sopravvento: le forze della natura si scatenavano intorno a lei quando digrignava i denti e stringeva i pugni e a volte artigli invisibili colpivano i suoi aguzzini mentre la punivano.
Si sparse la voce che la schiava Marie era una strega. E il padrone decise di farla sparire.
La presero di notte, abbigliati con strane vesti bianche e i volti nascosti da cappucci a punta. La portarono sulle rive di un canale al limite della proprietà, in mezzo a un cerchio di croci infuocate. Marie era accecata dal terrore e dalla rabbia, ma quegli uomini avevano avuto l’intuizione di legarle le mani prima di costringerla a immergersi nelle acque gelide del fiume. La tennero con la testa sotto per molti secondi, finché non smise di dibattersi.
Marie era priva di sensi, in un limbo tra la vita e la morte, quando udì per la prima volta la voce di Solomon Blake: “Lasciate andare quella donna.”
Apparve dal nulla, come un miraggio: era giovane, bello e allo stesso tempo spaventoso come il Baron Samedi. I suoi occhi brillavano come se avesse l’Inferno dentro.
Con un solo gesto fece scoppiare il cuore agli uomini che avevano provato ad affogare Marie e poi la soccorse. La donna vomitò l’acqua che le invadeva i polmoni, tornò a respirare e chiese al suo salvatore in che modo sdebitarsi.
Mentre rimontava a cavallo, lui disse solo: “Prenditi cura del tuo potere, fallo crescere: cerca una donna libera che si fa chiamare Mama Zouzou, vende dolciumi davanti al Cabildo, lei ti insegnerà. Diventa ciò per cui sei nata. E poi.”
Indicò in lontananza, verso la grande casa circondata da querce di Donald Sugarman Winters. “Brucia questo posto in nome del Corvo Bianco.”»
 
«Winters?» ripeté Jim, sbalordito. «Cioè Marie Laveau lavorava nella sua piantagione?»
Gli tornò in mente la storia che quel bulletto di Donnie gli aveva raccontato prima di tentare di affogarlo a sua volta, della schiava annegata nel canale: forse a lui avevano riferito una versione leggermente diversa, ma Jim e Marie Laveau avrebbero subito la stessa sorte se Solomon Blake non avesse salvato entrambi.
«I nipoti del vecchio Sugarman provvidero a ricostruire la magione agli inizi del Novecento» spiegò lo stregone. «Ma quando l’ho comprata all’asta era in bancarotta: dopo averle dato fuoco e aver liberato tutti gli schiavi, Marie maledisse la proprietà perché non vi crescesse più niente.»
«E poi?» chiese Jim. «Che ne è stato di lei?»
«Fece ciò che il tuo maestro le aveva consigliato» disse Angeline, accigliata. «Divenne allieva delle ultime regine del vudù di New Orleans, e quando morirono prese su di sé la loro eredità. Sposò un nero libero e iniziò a lavorare come parrucchiera proprio qui, a Bourbon Street. Ma nel frattempo si diede da fare per rimediare alle ingiustizie a cui assisteva ogni giorno, usando i suoi poteri. Imparò molto, scrisse molto e cercò di creare a sua volta una scuola…finché il Corvo Bianco non tornò a trovarla per pretendere il pagamento di un vecchio debito.»
Jim si volse immediatamente a guardare Blake. «Cosa le ha fatto?»
«Quello che mi era stato ordinato di fare» rispose lui, lo sguardo fisso sulle sue dita che stringevano il pomo del bastone. «Le ho sottratto il sapere magico, tutto ciò che aveva scritto e che ricordava riguardo la magia, in modo che non potesse tramandarlo ad altri. E l’ho trasmesso alla biblioteca di Arcanta.»
Angeline serrò i pugni lungo il corpo.
«Arcanta ha sempre desiderato solo una cosa: avere il pieno controllo sulla magia esistente nel mondo» spiegò. «E per ottenerlo i Decani sono disposti a tutto, anche a servirsi di uomini come il tuo maestro, esperti nell’ingannare e manipolare le persone! Con tutti i lavoretti che hai svolto per loro non mi meraviglia che tu abbia fatto carriera in fretta.»
«Lavoro da solo ormai» rispose Blake, puntando finalmente su di lei il suo sguardo luminoso. «Mi sono lasciato alle spalle la vecchia vita e sto cercando di fare ammenda. Per questo sono qui: ho un conto in sospeso con la tua famiglia e intendo ripagarlo, sempre se vorrai ascoltare la mia proposta.»
Angeline socchiuse gli occhi. «Conosci già la risposta, non voglio avere niente a che fare con i tuoi folli progetti. L’ultima bastonata che hai preso non è stata sufficiente? Quando sei stato vomitato fuori dal mio specchio moribondo..?»
«Stavolta è diverso. Non sono solo.»
Angeline misurò Jim dalla testa ai piedi. «A questo punto immagino che vorrai continuare la conversazione in privato.»
Jim temeva che sarebbe arrivato il momento in cui lo avrebbero tagliato fuori dai giochi, proprio adesso che la faccenda si stava facendo interessante.
Supplicò Blake di farlo restare, ma lui scosse la testa con fermezza. «Aspettaci qui, non ci metterò molto.»
«Se dovete parlare di me ho il diritto di assistere!» protestò lui, ma Blake e Angeline lo ignorarono deliberatamente, chiudendosi in una stanza in fondo al retrobottega con affissa la targa “Ufficio della direzione”.
Jim sapeva che sarebbe stato inutile, ma provò ugualmente ad aprire la porta, senza riuscirci. Anche appoggiarvi l’orecchio non portò a niente: dovevano aver insonorizzato la stanza.
Sbuffò con frustrazione, ma poi gli venne un’idea.
Da quando Lucia lo aveva cacciato non aveva più riprovato ad attraversare gli specchi, ma prima che la porta si chiudesse era sicuro di aver intravisto un vassoio d’argento sul fondo di una credenza: sembrava talmente lucido da potercisi riflettere.
Individuò un altro specchio nel retrobottega, piccolo e rotondo, appeso proprio dietro di lui.
Staccò lo specchio dal muro e vi accostò il lato della faccia, concentrandosi sul gemello nell’ufficio. La superficie fredda si increspò, inghiottendo completamente il suo orecchio.
Era fatta. Jim riconobbe immediatamente la voce di Angeline, ovattata dalla vetrina della credenza:
«…ti stai avventurando su un sentiero pericoloso e trascinerai con te quello sfortunato ragazzino!»
Jim deglutì, facendosi attento.
«Sono molto più cauto di quanto ero in passato. E come sai, non ho alternative.»
«Me lo hai portato perché lo valutassi, no? Vuoi sapere se è pronto.»
«Lo è?»
«È difficile stabilirlo a un’analisi così superficiale, mi occorrerebbe un campione di tessuto più consistente. E poi sono anni che non faccio pratica.»
«Strappargli un capello mentre è distratto è un conto, fargli un prelievo di sangue sarebbe stato più complesso, non credi?» replicò Blake. «E poi so che di tutte le tue sorelle sei l’unica ad aver conservato un po’ del potere di tua nonna.»
Scioccato, Jim si portò una mano ai capelli, che poco prima Angeline aveva spettinato bruscamente: era stato allora che doveva avergli preso il famoso “campione”.
Quella storia non gli piaceva per niente.
Sentì la donna sospirare. «È instabile, diviso nel profondo. Ed è attratto dal potere.»
«Come tutti.»
«Sì, ma tu più di altri dovresti sapere quanto è pericoloso.»
«Non commetterò due volte lo stesso errore.»
Angeline proruppe in una risata sarcastica. «Voi uomini dite tutti così!»
«Limitati a rispondere alla domanda» disse Blake; la sua voce era distesa, ma Jim ebbe l’impressione che stesse trattenendo con fatica una forte agitazione. Era impaziente.
Un altro sospiro da parte di Angeline. «Cosa vuoi che ti dica? Sì, è pronto. Ma questo non significa che sia un bene. E comunque ti manca ancora un pezzo importante per completare il rituale.»
«Pezzo che confido tu mi aiuterai a ottenere.»
«Nessuna strega o mago vivente può aiutarti» disse Angeline, asciutta.  «L’incantesimo che cerchi è andato perduto, non ne esistono tracce. E poi, io cosa ci guadagno a darti una mano?»
«Quello che hai sempre desiderato.»
«Non sei certo il primo ad avermelo promesso. E scusa tanto, ma ho molte più ragioni di credere a lei piuttosto che a te.»
«Lei non può far nulla nelle condizioni in cui è. Io invece sì.»
Jim sentì un rumore di unghie che battono sul legno. «E che mi dici dei suoi Zeloti? Ho sentito che si sono rimessi in azione.»
«Gli Arcistregoni di Arcanta danno loro la caccia, non si azzarderebbero a uscire allo scoperto in questo momento. Angeline, so cosa Lucindra ti ha promesso ma credimi, non è la strada giusta per ottenerlo. Il Vuoto toglie molto più di quello che offre.»
«Ho già aspettato troppo a lungo, Corvo Bianco» sbottò la donna. «Se l’Eretica è davvero in grado di riportare la magia nel mondo, di ridare a me e alle mie sorelle il potere, perché dovrei accontentarmi delle tue parole? Lei almeno ha fatto qualcosa di concreto e il ragazzo che mi hai portato ne è la conferma!»
«Lasciamo Jim fuori da questa storia» replicò Blake, spazientendosi appena. «L’ultima volta mi hai chiesto una prova che non ti sto ingannando. Te l’ho portata.»
Un fruscio di stoffa fece intuire a Jim che stesse sfilando qualcosa dalla tasca.
Staccò momentaneamente l’orecchio dallo specchio e vi immerse invece gli occhi. Sbatté più volte le palpebre, ma attraverso il vetro riuscì a mettere a fuoco uno strano ufficio pieno di parrucche e poi Blake e Angeline seduti l’uno di fronte all’altra alla scrivania; la donna occupava una poltrona a orecchie di elefante e attorno allo schienale era avvolto un enorme serpente, la testa triangolare sollevata e la lingua guizzante.
Lo stregone stava porgendo alla maga un libro.
Jim a quel punto immerse tutta la testa, per poter ascoltare oltre che vedere: sembravano così presi dalla conversazione che difficilmente avrebbero spostato l’attenzione sulla cristalliera.
«Lo riconosci?» chiese Blake.
La bocca di Angeline fremette. «É…è il suo grimorio.»
«Con tutte le formule e i segreti della Regina del Vudù di New Orleans» confermò Blake, annuendo. «Tua nonna era una maga brillante.»
La donna prese il libro con mani tremanti.
«Come hai fatto?» disse in un soffio. «Portare via dalla Biblioteca di Arcanta un libro è impossibile!»
«Personalmente ho sempre letto quella parola come una sfida.»
«Significa che ne hai presi altri?» Angeline era incredula. «Hai portato via altri testi da Arcanta?»
«Sì e sto provvedendo a ridistribuire il sapere che ho sottratto negli anni, un poco alla volta.» Blake sospirò, accarezzando le penne di Wiglaf. «È diventato più difficile, ho scoperto di avere anche io gli Arcistregoni alle costole.
Sto agendo con più prudenza, ma pian piano restituirò a questo mondo la magia. Solo che a differenza di Lucindra non ho intenzione di sacrificare nessuno per riuscirci.»
Angeline accarezzò la copertina consumata del libro, guardandolo con lo stesso sguardo commosso di un genitore che accoglie il figlio a lungo perduto.
«Grazie.»
Blake inclinò in avanti il capo.
Angeline a quel punto si alzò dalla poltrona e Jim ebbe paura che venisse verso la credenza. Invece, aprì un armadio e ne tirò fuori qualcosa.
«Un dono per un dono. Tieni, mi auguro che tu sappia quello che fai.»
Diede a Blake quello che sembrava uno scrigno.
«Qui dentro troverai il necessario per ottenere le informazioni che cerchi» spiegò Angeline. «Mia nonna non approverebbe che te lo consegnassi: ha seminato troppo dolore tra la mia gente. Ma anche tu hai infranto una promessa restituendomi il suo grimorio, perciò…»
«Ne farò buon uso, non temere. E quanto a Marie, non offenderò più la sua memoria e ciò che ha fatto.»
«Me lo auguro per te.» Angeline recuperò l’atteggiamento sprezzante. «Perché se così non fosse, ti darò in pasto al vecchio Zombie personalmente.»
Il grosso serpente fece scattare le fauci portentose in segno di avvertimento.
Blake si alzò dalla sedia e Jim capì che la conversazione era terminata. Riemerse dallo specchio e lo posizionò in fretta sulla parete.
In quell’istante, la porta si aprì.
«Ti sei annoiato?» domandò Blake uscendo.
Jim raddrizzò la cornice dello specchio col dito. «Ho messo un po’ d’ordine in giro.»
«Che caro ragazzo» commentò Angeline. «Bene, è stata una visita piacevole: mi auguro di non rivedervi mai più da queste parti.»
«La tua ospitalità rimarrà leggendaria, Angie» replicò Blake ammiccando. «Oh, se ti capita…fa’ una visitina a Donald Winters III: lui e suo figlio stanno alzando un po’ troppo la cresta ultimamente. Hanno bisogno di una lavata di capo.»
Angeline sogghignò. «Adesso che posso tornerò sicuramente a trovarli.»
Terminati i saluti, Blake e Jim lasciarono il negozio e si ritrovarono di nuovo in strada.
«Come è andata?» domandò il ragazzo, simulando un blando interesse.
«Meglio di quanto mi aspettassi.» Blake tirò fuori dalla giacca lo scrigno di legno di Angeline: era poco più di un portagioie, intagliato con strani simboli e croci.
«Che roba è?»
«Il nostro biglietto d’accesso per l’Oltretomba» rispose Blake. «Andiamo a trovare un fantasma.»



** Piccola precisazione***
 

La storia di Marie Laveau è molto diversa da quella che ho presentato qui: in realtà non era affatto una schiava, ma una donna libera di sangue africano, europeo e indiano. La versione che ho deciso di proporre è ispirata alla sua vita, ma fortemente rimaneggiata a fini di trama.

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Capitolo 24
*** Le ossa ***


 

LE OSSA





«Devo ammetterlo» disse Blake, dopo aver mandato giù un boccone di riso. «Ero scettico riguardo la cucina cajun: non ho mai tollerato i miscugli, né le pietanze troppo speziate. Ma questo gumbo è semplicemente delizioso.»
Jim abbassò lo sguardo sul piatto, in cui lo stregone aveva accuratamente separato ogni condimento in sezioni uguali; ormai si era abituato alle sue piccole manie, ma talvolta aveva il sospetto che al suo maestro mancasse un venerdì.
Il ristorante dove aveva scelto di pranzare si chiamava Bamboula’s: aveva le pareti dipinte di viola, ventilatori di legno a soffitto e vi ristagnava un forte odore di grasso, cipolla e fumo di sigaretta. C’erano pochi avventori e una sola cameriera, una ragazza nera dell’età di Jim che trasportava enormi vassoi in equilibrio sulla testa.
«Non hai ancora toccato niente» notò lo stregone. «Puoi ordinare qualcos’altro se vuoi…»
«Quando si deciderà a dirmi in cosa consiste il suo piano?» 
Blake pulì la bocca col tovagliolo. «Non si affrontano i morti a stomaco vuoto, è una specie di regola non scritta.»
«Perciò diceva sul serio, prima?» chiese Jim, esterrefatto. «Vuole evocare uno spirito?»
«Non sarà necessario evocarlo. Sai come si dice, se cerchi un fantasma ne troverai uno.»
«E dove?»
«Nel cimitero di Saint Louis, naturalmente.»
Jim si trattenne dal sollevare gli occhi al soffitto. «Naturalmente…»
«La defunta gentildonna rispondeva al nome di Delphine LaLaurie» spiegò lo stregone. «E pare fosse stata ai suoi tempi una spietata pluriomicida.»
Ormai Jim aveva perso le speranze. «Eh, certo! Poteva mica essere una persona normale?!»
«Sebbene trovi aberranti i suoi precedenti, ciò che davvero ci interessa è un aspetto meno noto della sua vita» proseguì Blake, congiungendo le dita. «Madame LaLaurie era una strega. Una strega potente, ricercata da Arcanta.»
«Perché?»
«Per via dell’attrazione che aveva per il Vuoto» disse Blake. «Era ossessionata dal trovare un modo per attingere il suo potere, così da vivere in eterno conservando la giovinezza: si dedicò a numerosi esperimenti per riuscirci, a costo di sacrificare decine di vite.»
Jim rabbrividì; su Royal Street c’era uno sfarzoso palazzo che la gente del posto chiamava “La Casa degli Orrori”. Era diventato il quartier generale di una loggia massonica, ma aveva sentito che in passato vi dimorava una squilibrata accusata di aver sottoposto dozzine di schiavi alle torture più disparate.
«E lei vuole scambiarci due chiacchiere.»
«L’intenzione è quella.»
«Per quale motivo?» chiese Jim, sempre più angosciato. «Cosa spera di ottenere da un’assassina morta un secolo fa?»
«Un incantesimo.» Blake estrasse dalla giacca la scatola di legno intarsiato ottenuta da Angeline Laveau e la posò sul tavolo. «La mia amica è dell’idea che nessun mago o strega ancora in vita possieda memoria di questo rituale.»
«Perché lei e i suoi colleghi avete fatto piazza pulita di ogni tipo di sapere del Mondo Esterno per portarlo ad Arcanta» completò Jim, aggrottando le sopracciglia; la storia raccontata da Angeline, di come il suo maestro avesse ingannato Marie Laveau, lo aveva turbato più di quanto lasciasse trapelare. 
“Non fidarti di quest’uomo, è il Diavolo incarnato.”
In verità, l’intera faccenda, soprattutto dopo quanto aveva avuto modo di origliare poco prima, lo preoccupava terribilmente.
«Solo quello che i Decani ritenevano opportuno tramandare» replicò Blake. «Come ti accennai, sono estremamente rigorosi riguardo la censura. Per questo tutto ciò che ha a che fare con il Vuoto è andato perduto.»
«Credevo che non si occupasse di quel genere di magia.»
Lo sguardo luminoso dello stregone si incupì improvvisamente, come se una nube avesse di colpo oscurato il sole.
«Di norma, no. Ma il Vuoto mi ha portato via qualcosa di importante. Qualcosa che ho tutte le intenzioni di riottenere.»
Ogni parola era carica di una tale determinazione che il suo corpo sembrava attraversato dalla corrente elettrica; per un attimo, anche le sue iridi si accesero di elettricità vibrante. 
Jim non sapeva se essere intimorito o ammirato.
«D’accordo» disse, dopo un momento. «Quindi, ora che si fa?»
«Attenderemo che faccia sera» rispose il maestro. «Quando il cimitero verrà chiuso, faremo in modo che lo spirito della LaLaurie si mostri. Poi la persuaderemo a darci ciò che vogliamo.»
«E se si rifiutasse?»
«Non lo farà se le offriremo in cambio qualcosa che desidera» rispose lui. «Alla fine, si tratta sempre e solo di questo: do ut des. Dare e avere.»
Jim occhieggiò la scatola. «Quel qualcosa è chiuso lì dentro, suppongo.»
«Supposizione corretta.» Blake si volse e attirò l’attenzione della cameriera. «Il conto, s’il-vous-plait

Dovettero aspettare più a lungo del previsto per mettere in atto il loro piano. Era la vigilia di Ognissanti, festività particolarmente sentita dalla comunità creola, e una gran folla continuava a varcare i cancelli del cimitero, con offerte, fiori e lacrime da versare sulle tombe di chi non c’era più.
Il territorio paludoso su cui sorgeva New Orleans imponeva che i morti venissero seppelliti sopra la terra, per proteggerli dalle alluvioni: la maggior parte delle cappelle erano perciò dispose a schiera, come in una macabra città.
A Jim i cimiteri non piacevano per niente. Gli ricordavano quando, il giorno del compleanno di sua madre, suo padre lo faceva vestire bene e lo portava in cima a una collina a guardare una lastra bianca con inciso il nome di Abigail Thorn e la data in cui era morta. Cambiava i fiori, strappava le erbacce che vi erano cresciute intorno, dopodiché restava inginocchiato con una mano posata sul marmo liscio e freddo.
Qualche volta le parlava, altre piangeva e basta.
Quanto a Jim, non aveva un’idea precisa sulla Morte. Come molti irlandesi, suo padre lo aveva educato secondo principi cattolici, ma per quanto si sforzasse, Jim non riusciva a capire il senso di stare a fissare un pezzo di marmo in mezzo a un prato, e una parte di lui inorridiva al pensiero del corpo di sua madre mangiato dai vermi sottoterra.
Il maestro però gli aveva spiegato che, dopo la morte, i maghi continuavano a vivere attraverso il Tutto: tornavano a essere parte di quell’energia inesauribile che nutriva il mondo, e a Jim piaceva l’idea che la morte non fosse la fine, e che, ogni volta che usava la magia, sua madre fosse in qualche modo lì insieme a lui.
Il cimitero chiuse i cancelli verso le nove di sera.
Blake gettò su di loro un incantesimo che li rendesse invisibili agli occhi del guardiano, dopodiché lo guidò nella parte più antica del cimitero, dove riposavano personaggi importanti della storia di New Orleans, proprietari terrieri, politici e artisti. L’erba secca scricchiolava sotto le loro suole, mentre si muovevano nell’oscurità sempre più fitta, tra tombe e lucciole; sopra le loro teste, le nuvole erano state spazzate via, lasciando il cielo notturno libero e traboccante di stelle.
«Toh, ecco qui un vecchio amico» disse a un tratto Blake.
Si era fermato di fronte a una sontuosa scultura dalla base coperta di muschio, l’ennesimo angelo che reggeva in mano una bilancia. La targa in ottone riportava il nome di un Donald Winters deceduto nel 1860.
«Il famoso Sugarman» disse Jim, leggendo quanto riportato sulla lapide. «“Imprenditore e filantropo” …bastardo schiavista assassino suppongo non ci entrasse.»
«Ha a suo modo contribuito a far diventare questa città ciò che è» commentò Blake. «Nel bene e nel male.»
«Spero che i Winters abbiano quel che si meritano.»
«Conoscendo Angeline, credo proprio che lo avranno» disse lo stregone. «Alycia mi ha raccontato che ieri sera avete ricevuto la visita di due Accalappiatori durante una retata.»
«Li ha mandati il padre di Donnie» confermò Jim. «A quanto pare, streghe e mostri non gli fanno così schifo se può trarne qualche profitto.»
«Lo penso anche io.»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale Jim sbirciò titubante il profilo adunco del maestro, parzialmente illuminato dalla luna. «Perciò, Alycia le ha raccontato della retata.»
«Ovviamente.»
«E ha... detto qualcosa su quello che è successo dopo?»
«No. Perché avrebbe dovuto?»
Imbarazzatissimo, lui si grattò la nuca. «Ecco, dopo la retata… si è messo a piovere a dirotto, e Alycia è venuta a stare da me al circo, e poi noi...ehm, ecco…»
«Alycia è una donna ormai, ed è libera di trascorrere le proprie serate come vuole e con chi vuole. Inoltre» aggiunse Blake, scoccandogli un’occhiata penetrante. «Confido tu ti sia comportato con lei da perfetto gentiluomo.»
Jim rispose con un goffo balbettio, ma lo stregone stava già proseguendo il cammino.
La sosta successiva fu un mausoleo di pietra avvolto nell’edera e con le porte serrate da catenacci arrugginiti, a custodirne per sempre i segreti; sui muri, Jim scorse frasi poco lusinghiere tracciate con vari strati di vernice e intuì che fosse stato vandalizzato più volte negli anni.
«Non c’è nome» constatò, rovistando tra i rampicanti. «È sicuro che sia questa la tomba della LaLaurie?»
«È il mausoleo di famiglia, ma il corpo non fu mai ritrovato» spiegò Blake. «Quando le autorità scoprirono i suoi misfatti, la gente di New Orleans depredò la sua abitazione e le diede fuoco, costringendola a fuggire. Nessuno ha mai saputo che fine avesse fatto.»
«Ma lei lo ha scoperto, vero?» chiese Jim.
«Ho scoperto che aveva dei parenti a Parigi, le mie indagini sono cominciate lì. Certo, non sono informazioni che si trovano sulle guide turistiche.»
La testa di Jim era in subbuglio. Parigi…era dove lo aveva condotto il primo specchio che aveva attraversato nell’ala ovest della tenuta. Così Blake era sulle tracce di quell’incantesimo da parecchio, ma ancora non riusciva a capire cosa c’entrassero lui, il Vuoto e l’Eretica in quella storia.
«Invece è sempre stata qui?»
«Marie Laveau le diede la caccia» rispose Blake. «Per vendicare gli orrori compiuti la condannò all’esistenza eterna che aveva sempre desiderato, a una non-vita nella città che aveva sporcato di sangue.»
«Non era più semplice ucciderla?» chiese il ragazzo, stupendosi della facilità con cui aveva pensato a una soluzione così estrema. Ma il mondo della magia era estremo. Tutto il resto erano soltanto sovrastrutture, come le chiamava Blake.
«Esistono molte cose peggiori della morte» mormorò lo stregone, con aria assorta.
Successivamente, tracciò con la punta del bastone un cerchio sul terreno; dal solco, si sprigionò una tenue luce azzurra, che aumentò man mano che lo stregone arricchiva la configurazione con croci e simboli.
«Abbiamo poco tempo» spiegò. «Papa Legba è il loa a guardia del Vilokan, il Regno dello Spirito: costringerà LaLaurie a mostrarsi in una forma che ci permetta di parlarle.»
Jim lo osservò con attenzione. «Lo ha già fatto altre volte? Parlare con un morto, intendo.»
Il movimento del bastone si interruppe per un istante. «Solo una, quando ero molto giovane. Entra nel cerchio.»
Jim ubbidì. Ebbe l’impressione che la temperatura fosse calata di colpo e ogni volta che respirava si formava una nuvola di condensa davanti alla sua bocca. Si strofinò le braccia, imponendosi di non cedere alla paura; quella era la prima avventura in cui il maestro lo coinvolgeva. Avrebbero affrontato uno spirito insieme, come una squadra. Blake si fidava di lui, delle sue capacità e del suo sangue freddo. Non lo avrebbe deluso per niente al mondo.
Lo stregone sedette a gambe incrociate accanto a lui. «Attendiamo» disse. «Quando LaLaurie apparirà, lascia che sia io a parlare e non nominare Marie Laveau. E soprattutto, qualunque cosa accada non uscire dal cerchio. Per nessun motivo.»
Jim annuì.
Per un lungo momento nessuno dei due parlò, mentre le ombre si allungavano e il freddo della notte si faceva così intenso che a Jim sembrava gli si fosse attaccato alle ossa. Le stelle in cielo erano più distanti che mai. 
A un tratto, davanti al mausoleo apparvero delle luci: erano di un azzurro pallido, lugubre, troppo grandi per essere lucciole. Compirono un paio di giri, per poi unirsi in un unico bagliore che assunse sembianze umane. 
Blake si alzò in piedi.
«I miei omaggi, madame» disse, sollevando il cappello con un profondo inchino. «Magnifica serata, non trovate?»
Delphine LaLaurie era più giovane di quanto Jim si aspettasse; una bella, annoiata damina con un’elaborata acconciatura bionda e uno sfarzoso vestito di taffetà azzurro che la faceva somigliare a una bambola.
«Tetra, come tutte le mie serate» replicò lei, trattenendo con la mano guantata uno sbadiglio. «Con chi ho il piacere di parlare?»
«Mi chiamo Solomon Blake e questo qui è il mio assistente, James Doherty» presentò lo stregone. «Siamo vostri ammiratori.»
Jim scoccò al maestro un’occhiata perplessa, ma con una piccola gomitata lui gli intimò di tenere la bocca chiusa.
La dama si aprì in un sorriso radioso. «Una visita assai gradita, allora. Non ne ricevo molte, in verità.»
«Che ingiustizia! Una donna così affascinante dovrebbe avere uno stuolo di corteggiatori.»
Delphine emise una risatina. «Oh, in passato ne ho avuti! I miei tre mariti – che riposino in pace! – non facevano che ripetermi che fossi un’autentica perla del Sud.»
«Erano tre uomini di buon occhio.»
La nobildonna era assai vanitosa e come tutte le donne vanitose amava parlare quando veniva adulata; Blake era un esperto nell’ottenere dalle persone ciò che voleva e stava sapientemente giocando quella carta.
«Da dove venite, se posso domandarlo?» chiese il fantasma.
«Dall’Europa, mia signora.»
«Oh!» fece lei, tutta interessata. «La mia famiglia venne qui dall’Irlanda molte generazioni fa, sapete? Io però non ci sono mai stata.»
«Che fortunata coincidenza!» Blake batté una mano sulla spalla di Jim. «Il mio amico James è irlandese!»
Gli occhioni azzurri della dama si soffermarono su di lui con curiosità, mettendolo a disagio. «Sì, ehm, lo era mio padre. Ma nemmeno io ci sono mai…»
«Sembrate due signori a modo» disse Delphine, in tono lezioso. «Vi offrirei volentieri qualcosa se me lo permettete, in segno di amicizia.» 
Su quelle parole, l’ambiente intorno a loro cominciò a cambiare: le lapidi, i mausolei e l’erba incolta, persino il cielo notturno svanirono in un paio di battiti di ciglia, e si ritrovarono tra le pareti di un salottino borghese, stipato di mobili barocchi e ninnoli.
Delphine adesso sedeva di fronte a loro in una comoda poltroncina e stava versando del tè usando un servizio di porcellana.
Se era un’illusione, pensò Jim, era maledettamente ben costruita: avvertiva il tepore del fuoco che crepitava allegro nel camino e il profumo del tè e dei pasticcini era invitante. 
«Prego, servitevi» li esortò. «Così potrete raccontarmi un po’ di voi e dell’Europa.»
Jim guardò il maestro senza sapere che fare, poi però si accorse che gli occhi della dama per un momento avevano indugiato sul cerchio luminoso ai loro piedi. E allora capì il suo gioco: voleva indurli a lasciare la Configurazione.
«Oh, la vostra offerta è troppo gentile, ma abbiamo cenato da poco» disse Blake, con un altro inchino educato. «In verità anche noi abbiamo molto da chiedervi: sappiamo che oltre a essere una dama di mondo, siete stata anche una grande maga.»
Delphine sospirò in maniera affettata e mise il broncio. «Il mio adorato Jean non approverebbe che ve ne parlassi: lui era contrario ai miei esperimenti, ma é raro che i banchieri non siano contrari a qualcosa. E gli uomini non sembrano tollerare che le donne si dilettino con le arti magiche.»
«Era un uomo della sua epoca» replicò Blake, comprensivo. «Ma oggigiorno le cose sono cambiate: gradirei enormemente saperne di più sui vostri studi. Sarebbe formativo anche per il mio allievo.»
Delphine parve rallegrarsene. «Avete sentito parlare del Vuoto, immagino. Ai miei tempi era considerato un tabù dalla comunità magica.»
«Ne abbiamo sentito parlare. Sembra offra doni immensi a chi ne attinge potere.»
«Ma non tutti conoscono lo Scambio Equivalente» cinguettò Delphine, con un’altra risatina. «Impone che per ottenere qualcosa dal Vuoto sia necessario sacrificare qualcosa che abbia pari valore.»
Blake si era fatto molto attento. «Una contropartita.»
«Esatto!» esultò Delphine, battendo le mani come una bambina. «E allora mi sono chiesta: se gli stregoni sono vincolati alle leggi del Tutto, che li condanna a invecchiare e morire…come posso aggirare questo ostacolo? Cosa posso dare in cambio al Vuoto per poter godere della mia vita e della mia giovinezza in eterno?»
«Altre vite» disse Jim, senza pensarci due volte. «Le vite dei suoi schiavi.»
Delphine lo fissò, e il sorriso giocoso assunse una curvatura che mal si addiceva al suo viso da bambola. «Giovanotto perspicace.»
«Siamo privi di pregiudizi» si affrettò a specificare Blake, lanciando a Jim un’occhiataccia. «Come tutti gli studiosi.»
Delphine recuperò il sorriso, ma i tratti del suo volto si erano induriti. «Comprendo.»
«E se posso domandarlo, in cosa consiste lo Scambio Equivalente?» chiese Blake, la cui voce gentile tradiva una crescente bramosia. «Come avete ottenuto il potere del Vuoto? Perché lo avete ottenuto, no?»
Delphine fece tintinnare il cucchiaio nella tazzina da tè. «È stato il mio più grande successo e la mia maledizione. Ero preparata ai rischi, quello sì. Ma non tutti possiedono la vostra apertura mentale: fui additata come una folle, capite? Venni addirittura accusata di aver violato i diritti umani!»
«Perché, non è così?» intervenne Jim, trattenendo a stento la collera. Pensò ad Arthur, a Joel, a tutti quegli uomini e donne morti e sfruttati nei secoli e sempre per lo stesso motivo. Ma pensò anche alle ultime parole che lui aveva rivolto ad Arthur e si odiò con tutto se stesso.
«Erano schiavi!» esclamò Delphine, assumendo un’espressione ferita. «E soprattutto erano Mancanti: che importanza ha la loro vita effimera in confronto ai traguardi che la magia può raggiungere? La conoscenza non ha prezzo per i maghi.»
«Ma lei un prezzo lo ha pagato» obiettò Jim, gelido. «È rinchiusa in questo cimitero da quanto, un secolo?» 
Accanto a lui, Blake si tese. 
Delphine assottigliò i begli occhi. «Vi ha mandati lei, non è vero? Marie Laveau! Quella squallida fattucchiera continua a volersi prendere gioco di me?» 
«Avete completamente frainteso, mia cara» disse Blake precipitosamente. «Siamo qui per…» 
«Voi non siete miei ammiratori» affermò Delphine, guardandoli con diffidenza. «E non siete miei amici. Qual è il vero motivo per cui siete venuti qui stanotte?» 
«Per lo Scambio Equivalente» disse Blake, perché ormai tanto valeva giocare a carte scoperte. «Voglio quell’incantesimo e voi siete la sola a conservarne memoria. Quindi vi chiedo di condividerla con noi.»
«Così che Marie Laveau possa sottrarmi anche questo!?» strillò Delphine e scagliò la tazzina contro il muro illusorio; lo schianto e l’esplosione di cocci che ne seguì però erano molto reali. «Lei è sempre stata invidiosa di me, della mia bellezza e del mio talento! Ecco perché mi ha condannata a marcire qui!»
«No, l’ha condannata perché era un’assassina» disse Jim con disgusto.
Oltraggiata, Delphine si portò una mano al petto. «Ragazzo insolente! Accusi me di essere un’assassina? Il tuo maestro è al corrente di ciò che hai fatto?»
Jim si pietrificò all’istante. Persino Blake parve colto di sorpresa. «Questo non è…»
«Non glielo hai detto, vero?» Di nuovo, le belle labbra della donna si incurvarono in quel sorriso malevolo. «L’incendio, le urla…lo rivedi ancora nei tuoi incubi; anche se provi a sfuggirgli, il passato è sempre lì che ti osserva.»
Jim si accorse di avere il fiato corto, come quello di un animale in trappola, mentre incrociava lo sguardo stupefatto del maestro. «Io…io non…»
«Adesso basta» tagliò corto lo stregone, guardando torvo Delphine.  «Dacci quell’incantesimo e ce ne andremo. Non sentirai più parlare di noi.»
Lei però rise. «Andarvene? E perché mai? Quaggiù è un tale mortorio e la serata ha acquisito una piega interessante!»
E poi, il buio calò su di loro come il coperchio di una bara.
Jim sentiva nella bocca il sapore della bile. Non vedeva più niente. «Signor Blake?» gracchiò. «Signore…!» 
Una risata echeggiò spettrale in ogni direzione.
“Il ricordo dei nostri peccati”, disse la voce di Delphine, dentro la sua testa.  “Sono loro la vera condanna.”
Una luce infuocata divampò alle sue spalle.
Jim sentì il sangue farsi di ghiaccio. Ogni fibra del suo essere gli stava urlando di non guardare, ma il crepitare delle fiamme aumentava, così come il calore e le urla disperate…
Le urla di suo padre. Le urla di Arthur, di O’Malley, di Vanja, Margot, di tutti i suoi compagni del circo.
Erano chiusi lì dentro, nel fienile che bruciava luminoso nella notte. Sarebbero morti tutti.
No…!
L’erba ai suoi piedi si accese di rosso, un cordone incandescente che serpeggiava tracciando una scritta:
 
ASSASSINO


Qualcosa in lui si sgretolò.
Le gambe cedettero, e Jim cadde in ginocchio con la testa tra le mani. Strinse gli occhi con forza, coprì le orecchie per non vedere, per non ascoltare….
Il Vuoto sa quello che hai fatto.
No, non era stata colpa sua. Era stato un incidente, aveva perso il controllo…
Hai ucciso tuo padre.
«Non volevo!» gemette, i singhiozzi che gli spezzavano la voce. «Papà, non volevo…»
Sì che lo volevi. Volevi liberarti di lui. Volevi che sparisse, che la smettesse di importi le sue stupide regole. Che non si mettesse più tra te e la magia…
«NO!»
Le porte del fienile si spalancarono con uno schianto, e delle figure uscirono in massa avvolte dalle fiamme; Jim vedeva la pelle sciolta che si staccava dai loro volti, le mani piene di vesciche che si protendevano per afferrarlo.
«Era quello che volevi» disse uno di loro, e Jim riconobbe con orrore la voce di Arthur.  «Essere un grande mago, liberarti anche di noi…» 
«Non è vero!» urlò Jim, spruzzando saliva e muco dappertutto. «Non volevo farvi del male! Mi dispiace, mi dispiace!» 
«Jim, guardami! Non è reale!» 
Il volto di Solomon Blake gli ondeggiò davanti. Sentì le sue mani afferrarlo con forza per le spalle, strattonarlo, e la sua voce rimbombare nelle orecchie. Jim si divincolò per ritrarsi, per nascondersi dai suoi occhi spalancati.
«L’ho ucciso!» ansimò, dondolando avanti e indietro tra le sue braccia, come ubriaco. «Io…io l’ho ucciso, con la mia magia…»
«Non ascoltarla, tu non hai ucciso nessuno.»
«Sì, l’ho fatto!» urlò Jim, disperato. «Ho ucciso mio padre! Perché voleva impedirmi di usare la magia…!» 
Lo aveva detto. Il grande segreto era stato rivelato. 
Finalmente era libero.
Jim spinse via Blake bruscamente e vomitò.
Scosso da spasmi violenti e madido di sudore, non riuscì a far altro che continuare a piangere, in preda all’angoscia. Blake non lo lasciò andare.
«Tuo padre è vivo» disse lo stregone, anche lui affannato. «Tom Doherty è vivo, nella vostra fattoria e aspetta il tuo ritorno…»
«Sta mentendo!» 
«Non sto mentendo» esclamò Blake, continuando a tenerlo stretto. «Ci sono stato, l’ho visto e ho parlato con lui. Tuo padre ti vuole bene, Jim, te ne ha sempre voluto. Aspetta da anni che torni a casa e non smetterà mai di aspettarti.»
Senza riuscire più a controllare i singhiozzi, Jim premette il volto sulla sua giacca. Gli stava sporcando il completo di muco e vomito, ma lui non ci badò.
«Mi dispiace» balbettò, incapace di dire altro. «Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace…»
«Va tutto bene» disse Blake. Continuò a stringerlo, a cullarlo mentre le convulsioni lentamente si placavano. «Sei una brava persona, Jim.»
«Davvero commuovente» commentò la voce soave di Delphine. «Tieni a quel ragazzo più di quanto tu voglia ammettere. Così giovane, innocente…proprio come Jonathan, vero?»
«Sta’ zitta» sibilò lo stregone.
«O come i tuoi allievi» continuò la voce, con crudele dolcezza.  «Credevano ciecamente in te! Erano convinti che li avresti protetti. Lo hai fatto?»
L’abbraccio di Blake si fece così serrato da togliergli il respiro.
«Non sei riuscito a salvarli» sussurrò Delphine. «Come non hai salvato la tua Isabel. Ah, il grande Solomon Blake: il più scaltro, il più potente, sempre il migliore in tutto…che distrugge chiunque lo ami. Credi sia per questo che tua figlia preferisce odiarti…?»
«Basta!»
Un bagliore bianco esplose negli occhi di Jim, accecandolo e un’ondata di potere intensa e bruciante squarciò il buio come un fulmine. Non bastò. Le tenebre si richiusero in un istante, sibilando come un nugolo di insetti famelici. 
Il respiro di Blake era diventato accelerato, mentre, in piedi dentro il cerchio luminoso, scagliava lame di fuoco a raffica per tenere lontana l’Oscurità, popolata da cose vive e affamate. I suoi capelli erano arruffati, gli occhi spalancati e febbrili. Era la prima volta che Jim lo vedeva così… fuori controllo.
«Sol.»
Lo stregone si bloccò.
Dal buio erano emersi dei volti pallidi; giovani con indosso uniformi blu e argento, che fissavano lui e Blake con occhi vuoti e tristi. Poi, in mezzo a loro, apparve una donna con grandi occhi scuri, carnagione color miele e lunghi capelli neri. Per un attimo, Jim la scambiò per Alycia, tale era la somiglianza; la donna vestiva abiti di epoca vittoriana, e guardava lo stregone con un sorriso caldo e pieno d’amore.
«Vieni con me, Sol» disse gentilmente, tendendogli una mano. «È tutto finito. Torniamo a casa.»
Atterrito, Jim guardò il maestro, che adesso sembrava ingaggiare una lotta contro se stesso. Lo stregone emise una specie di lungo sospiro tremante. E poi, mosse un passo fuori dal cerchio.
«Signor Blake!»
Nel momento esatto in cui varcò il confine luminoso, le acque nere del Vuoto si sollevarono intorno allo stregone. Lui non sembrò accorgersene, mentre avanzava arrancando per annullare la distanza che lo separava dalla donna; la struggente lotta di un naufrago per raggiungere la terraferma…
Jim si lanciò su di lui e lo afferrò per la giacca. «Mi ascolti» gridò, tirandolo indietro. «Dobbiamo tornare nel cerchio! Lo ha detto lei..!»
«Lasciami!» ruggì lui.
«Torni nel cerchio!» ordinò Jim. Schivò per un soffio una gomitata diretta al suo naso. «Non è reale! Dobbiamo ottenere quell’incantesimo, se lo ricorda? È per questo che siamo qui!»
Continuò a tirare la giacca del mago, mentre i tentacoli neri del Vuoto si allungavano per bloccargli le caviglie. Li avrebbe inghiottiti vivi entrambi.
Poi, mentre erano impegnati in quella colluttazione, qualcosa scivolò fuori dalla tasca di Blake e cadde a terra.
Una scatolina di legno.
Jim la afferrò prima che il Vuoto sommergesse anche quella.
«Ecco!» urlò contro l’Oscurità, tendendola con entrambe le mani. «Prendi questa e lasciaci in pace!»
Sollevò il coperchio.
Fu come se qualcuno avesse rimosso il tappo a una gigantesca vasca da bagno, perché il buio defluì vorticando e la volta stellata del cielo tornò ad aprirsi sopra di lui. Erano di nuovo nel cimitero, circondati dalle tombe. Jim non avrebbe mai pensato che la loro vista gli potesse dare un tale sollievo.
Delphine era nell’esatto posto in cui era apparsa loro, immobile con le braccia abbandonate lungo il corpo.
«Me l’avete riportata» disse in un sussurro.
Jim in realtà non aveva idea di cosa le stesse mostrando. Guardò anche lui il contenuto della scatola e rimase di stucco. 
Erano ossa.
Piccole ossa bianche e lucide, ridotte a pezzetti.
«Jeanne» sussurrò la LaLaurie, gli occhi lucidi di pianto. «La mia piccola, dolce Jeanne…»
E, a un tratto, Jim capì. Era quella la vera condanna di Delphine LaLaurie, la punizione inflitta dalla Regina del Vudù per tutte le vite che aveva spezzato inseguendo il potere…
Esistono cose peggiori della morte.
«È sua figlia» disse Jim. «Sono i suoi resti, vero?»
Vicino a lui, Blake sembrava essere tornato in sé.
«Marie voleva che passassi l’eternità da sola» disse, la voce ancora affannata.  «Senza la tua famiglia accanto.»
Delphine soffocò un singhiozzo.
«Dacci l’incantesimo» disse lo stregone. «E riposerai qui per sempre accanto a tua figlia.»
Delphine si asciugò le lacrime col dorso della mano.
«Va bene» acconsentì alla fine. «Ve lo darò.»
Con cautela, Jim posò a terra lo scrigno.
Blake invece tirò fuori il suo grimorio e si armò di penna. Jim rimase a fissarlo mentre sedeva su un sarcofago accanto alla LaLaurie e lei gli spiegava per filo e per segno come attuare lo Scambio Equivalente. Blake era così concentrato nell’ascoltare e trascrivere ogni sua parola che sembrava non esistesse nient’altro al mondo.
Alla fine, richiuse il grimorio con un sospiro esausto.
«Vieni» disse a Jim. «Andiamo via da questo posto.»
Ancora scosso, il ragazzo annuì, ma prima di seguirlo lanciò un’ultima occhiata alle sue spalle: Delphine era ancora di fronte al mausoleo, ma insieme a lei adesso c’era una bambina pallida e dai capelli biondi. Le loro risate risuonavano vive tra le tombe.
Jim affiancò il maestro.
«Non se lo meritava» disse. «Avremo fatto la cosa giusta?»
«Non spetta a noi punire o assolvere» disse Blake. «Si è trattato di una pura e semplice compravendita.»
Per un po’, si limitarono a camminare l’uno accanto all’altra costeggiando i muri di marmo delle cappelle, ciascuno chiuso nei suoi pensieri, in lotta coi propri demoni. Poi Jim si schiarì la gola:
«Credo di doverle delle spiegazioni. Su quello che è successo in New Jersey e su mio padre…»
«Non occorre che mi spieghi nulla» disse lui. «LaLaurie si sbagliava, il Vuoto non sa proprio niente. Tutto ciò che fa è dare forma ai nostri peggiori tormenti.»
«Lei ha sempre saputo cosa accadde quella notte alla fattoria, vero?»
Lo stregone smise di camminare.
«Quello che so è che non sei un assassino» disse con voce ferma, guardandolo negli occhi. «E che se non fosse stato per te questo cimitero oggi avrebbe due ospiti in più.»
«Quelle persone» disse Jim dopo un momento. «I ragazzi e quella donna…»
Una contrazione gli percorse i muscoli del volto. «Mia moglie Isabel e i miei allievi» spiegò. «Su una cosa Delphine ha ragione: sono pessimo a proteggere le persone. E l’ho dimostrato anche stasera.»
Jim infilò le mani nelle tasche.
«Be’, non si può dire che non mi abbia messo in guardia sul fatto che la magia mi avrebbe portato un sacco di problemi.»
«Forse avrei dovuto rimarcare meglio il concetto.»
«Forse avremmo dovuto affrontare questa cosa a stomaco vuoto.»
Blake scoppiò a ridere: una risata autentica, la prima da quando lo conosceva. Probabilmente era colpa della stanchezza, o della nottata piena di incubi che li aveva mandati un po’ fuori di testa, ma anche Jim si ritrovò a ridere, solo che poi la risata di Blake si trasformò in un attacco di tosse, così forte che dovette sorreggersi a una lapide.
«Wow, si vede che non ci è abituato» commentò Jim divertito, ma lo stregone stava ansimando come se non riuscisse a trovare abbastanza aria. Si artigliò il petto con le dita.
«Signor Blake…» mormorò Jim.
Blake mosse un passo verso di lui. Vacillò. Si raddrizzò. Aprì la bocca, ma tutto ciò che ne uscì fu uno spruzzo di sangue nero.
«Solomon!»
Lo afferrò al volo mentre cadeva in avanti con tutto il peso, come una marionetta a cui fossero stati recisi i fili. In preda al panico più totale, Jim continuò a scuoterlo e a chiamarlo, ma il maestro non rispondeva più. Aveva perso i sensi.

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Capitolo 25
*** Il volo di Icaro ***



IL VOLO DI ICARO

 
 
 
 
Jim non sapeva cosa fare. «Solomon… riesce a sentirmi?»
Blake aveva gli occhi chiusi, ed era talmente pallido da sembrare morto. Ma grazie al cielo respirava ancora.
«L’antidoto…» mormorò a un tratto, con voce terribilmente fievole.
«L’antidoto» ripeté Jim, confuso. E poi realizzò che si riferiva alla boccetta nera a forma di prisma che portava sempre in tasca. «L’antidoto, sì!»
Gli tastò la giacca, dentro e fuori. Quando finalmente la trovò, però, si accorse che era rimasto ben poco all’interno. «Crede che possa bastare?»
Blake si aggrappò a lui, cercando di mettersi seduto; adesso tremava forte e le occhiaie livide risaltavano sul volto bianco e sudato.
«Nella mia stanza» ansimò. «Devo…»
Jim si passò il braccio dello stregone attorno alle spalle, sostenendone il peso mentre lo aiutava ad alzarsi. «D’accordo, la porto a casa.»
Come ogni volta che usava il salto, avvertì una forza risucchiarlo all’indietro, e l’odore di terra umida, di pietra e muschio del cimitero svanì improvvisamente, così come il freddo della notte. Un istante dopo erano nell’atrio di casa Winters, con Blake di nuovo privo di sensi accasciato su di lui.
«Valdar!» chiamò il ragazzo, con tutto il fiato che aveva. «Ci serve aiuto!»
Non passò molto tempo che una porta a vetri si spalancò, rivelando l’enorme orco vestito di tweed.
Jim provò a spiegare cosa era successo, ma la creatura non sembrava stupita dalle condizioni in cui si trovava il padrone; lo raccolse tra le braccia, come fosse un bambino, e lo portò su per le scale senza una parola. Jim lo seguì a ruota.
«Che cos’ha?» chiese, tallonando Valdar. «Si è sentito male all’improvviso, è malato…?»
Senza degnarlo di una risposta, l’orco si fermò davanti a una porta chiusa in fondo al corridoio; vi tracciò sopra dei segni con l’artiglio e la porta si aprì da sola.
La camera padronale non era diversa da quella occupata da Jim, appena un po’ più grande. Contrariamente al resto della casa, però, si capiva che appartenesse a un mago…oppure al dottor Frankenstein: ogni superficie era coperta da libri – libri diversi da quelli della biblioteca, dall’aria molto più antica e con i dorsi screpolati dal tempo –, e di fronte alle finestre vi erano tre tavoli occupati da una giungla di alambicchi di varie forme. C’erano poi apparecchiature piene di manopole e un sensore collegato a un rullo che oscillava tracciando onde sopra un grafico. Un’intera parete era rivestita da una lavagna piena di equazioni e la pattumiera era talmente zeppa di fogli accartocciati che anche il pavimento ne era invaso.
Mentre Valdar adagiava lo stregone sul letto a baldacchino e gli toglieva giacca e scarpe, Jim si mise alla ricerca dell’antidoto, ma c’erano un’infinità di ampolle contenenti sostanze colorate e nessuna somigliava a quella che gli serviva.
E se l’avesse finita? Doveva prepararne lui dell’altra? Non era granché come alchimista e non aveva idea di quale fosse la ricetta…
Di sicuro Alycia avrebbe saputo cosa fare. Sì, forse era il caso di contattarla, doveva sapere cosa era accaduto a suo padre…ma come funzionavano esattamente le comunicazioni con Arcanta?
Accidenti a Blake e ai suoi segreti! Lo avrebbero ucciso!
Mentre era lì che impazziva, trafficando con gli ingredienti, Wiglaf si posò sopra una pila di libri e gracchiò per attirare la sua attenzione.
«Cosa?» scattò Jim, i nervi a fior di pelle.
Il corvo albino zampettò tra le strumentazioni fino a un apparecchio coperto da una campana di vetro e collegato a un cilindro che ruotava vorticosamente; l’interno era rivestito da piccoli specchi, cui un trasformatore infondeva scariche elettriche sotto forma di filamenti luminosi. Al di sotto, un bacile di pietra con delle rune incise raccoglieva una sostanza diversa da qualunque composto Jim avesse mai visto: sembrava al tempo stesso liquido e gassoso, di un nero intenso screziato da improvvisi lampi viola acceso. Come un temporale in miniatura e sottovetro.
Il ragazzo incrociò gli occhi scintillanti del corvo e capì che qualunque cosa fosse quella roba era proprio ciò di cui Blake aveva bisogno. Stappò la fiaschetta e la immerse nella strana nube liquida, e subito il sensore iniziò a oscillare su e giù come un matto, tracciando onde sempre più alte sopra il rullo.
Jim si precipitò al capezzale dello stregone, febbricitante e con le coperte tirate fin sopra il mento. La sua fronte scottava.
«Jonathan» gracchiò, muovendo appena le labbra.
«Sono io, Jim» disse il ragazzo, sollevandogli la nuca per aiutarlo a bere. «Ecco, ora starà meglio.»
Blake biascicò qualche altra parola senza senso. Con un gesto fiacco, provò ad allontanare la boccetta.
«Beva» lo esortò Jim.
Un sorsetto alla volta, riuscì a somministrargli tutto il liquido, dopodiché rimase a osservarlo in attesa. Pian piano, i tremori si placarono, e lo stregone tornò a respirare normalmente. Solo allora Jim tirò un sospiro di sollievo e crollò sulla poltrona accanto al letto.
«Se la caverà, vero?» domandò con ansia a Valdar.
«Padron Blake uomo forte» borbottò lui, scrollando le enormi spalle. «Tu va a dormire.»
«No» rispose Jim, di getto. «Io…non voglio lasciarlo solo.»
Valdar inarcò le sopracciglia rozzamente abbozzate, ma lasciò la stanza senza fare commenti. Poco dopo, Jim lo sentì tornare e poi una pesante coperta di lana gli piovve sopra le spalle.
«Ehm, grazie» disse, senza nascondere il suo stupore.
L’orco grugnì qualcosa a denti così stretti che Jim faticò a capirlo e uscì di nuovo, chiudendo la porta. Certo che quella creatura era proprio strana.
Rimasto solo, Jim rivolse lo sguardo allo stregone, la cui espressione distesa indicava che si fosse addormentato.
Ciononostante, il ragazzo non riusciva a calmarsi. L’attacco di poco prima gli aveva ricordato spaventosamente le crisi di cui aveva sofferto sua madre. Che avesse contratto lo stesso virus magico? E che cos’era la strana sostanza nera che gli aveva somministrato?
Blake aveva promesso che avrebbe dato una risposta a tutti i suoi interrogativi…e invece, si trovava con più domande di prima.
Ma non era solo questo a turbarlo.
Quando aveva visto il maestro accasciarsi a terra aveva avuto paura, paura davvero; si era abituato all’idea che lo stregone fosse una roccia incrollabile, in grado di fare qualsiasi cosa e di tirarlo fuori da ogni pericolo, e invece questa volta aveva rischiato di perderlo.
Aveva già perso sua madre, suo padre e poi la seconda famiglia trovata nel circo. E Solomon Blake, per quanto spesso volesse prenderlo a pugni, era tutto ciò che gli era rimasto.
Non poteva rinunciare anche a quel legame.
La sua attenzione cadde sull’orologio d’argento che Valdar aveva poggiato sul comodino insieme al grimorio: era un oggetto appartenente a un’altra epoca, elegante e consumato proprio come il suo padrone.
Il ragazzo esitò, ma la curiosità ebbe la meglio e prese l’orologio per esaminarlo da vicino; passò il pollice sopra le delicate incisioni, che sul coperchio rotondo formavano il disegno di un albero e le iniziali J.I.B. Chissà chi era, forse il primo proprietario dell’orologio. Quante cose non sapeva, dopotutto, sul suo maestro…
Quando lo aprì, però, rimase di stucco. Era rotto. Il quadrante era attraversato da una serie di crepe e le lancette segnavano le cinque e un quarto. Nell’interno del coperchio, inoltre, era stata inserita una vecchia fotografia: ritraeva la stessa bella donna apparsa nella visione nel cimitero, con in braccio una neonata paffuta. Isabel e Alycia.
Sotto la foto, la grafia di Blake tracciava due semplici parole: per loro.
Jim sentì il cuore gonfiarsi di almeno tre taglie e un nodo opprimergli la gola. Ecco cosa lo stregone guardava in realtà, ogni volta che controllava l'ora.
“Il Vuoto mi ha portato via qualcosa di importante. Qualcosa che ho tutte le intenzioni di riottenere.”
Quell’uomo era strano, complicato, e a volte insopportabile…ma qualunque cosa stesse macchinando, non stava agendo per egoismo.
Jim chiuse il coperchio e lasciò l’orologio sul comodino. Poi, si avvolse nella coperta, cercando una posizione comoda, e in pochi minuti la stanchezza lo vinse.
 
Stava calpestando le assi di legno consumate di una banchina a Coney Island, sotto un sole al tramonto che faceva scintillare l’infinita distesa d’acqua increspata dal vento. Sentiva l’odore della salsedine che si mescolava a quello degli hot dog e delle noccioline abbrustolite, il rumore delle onde, la musica e il chiacchiericcio della gente dagli stabilimenti balneari: sensazioni che lo riportavano indietro nel tempo, a uno dei pochi momenti davvero felici condivisi con suo padre.
«Avresti dovuto portarmici prima» disse una voce alla sua destra. «È bellissimo qui.»
C’era Alycia con lui, con indosso un vestito di pizzo bianco che ondeggiava al vento. In testa portava un cappellino di paglia con un nastro azzurro, e sorrideva.
Alle spalle della ragazza, si stagliava un’imponente ruota panoramica illuminata e il profilo sinuoso dell’ottovolante Thunderbolt. Tutte le giostre erano in funzione, e le grida eccitate dei bambini arrivavano fino al lungomare dove si trovavano loro.
«Credevo che il Luna Park avesse chiuso per la Crisi» replicò Jim.
Passeggiarono rasentando il parapetto, mentre i gabbiani si libravano stridendo sopra le loro teste.
Di tanto in tanto, Jim occhieggiava Alycia; c’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle e chiederle, ma le parole proprio non volevano saperne di uscire. Ce le aveva incastrate le une sopra le altre in mezzo alla gola.
Ma sentiva di non avere più molto tempo a disposizione. Di doversi sbrigare.
«Alycia, io…»
In quel momento, il vento cambiò direzione e il cielo terso si riempì di grosse nuvole nere, che gettarono la loro ombra sul mare di piombo.
Jim si guardò attorno, assottigliando gli occhi per proteggerli dal forte vento che ingrossava il mare e faceva ondeggiare pericolosamente le palme. I passanti erano scomparsi, così come la musica e le risate. Sul molo, deserto e silenzioso, erano rimasti solo loro due.
«Dove sono andati tutti?» domandò.
Alycia si fermò di fronte al parapetto, lasciando vagare lo sguardo verso l’orizzonte. Jim si girò e vide, tra cielo e mare, una massa di oscurità senza fine, nera e solida come cemento armato. E stava avanzando rapidamente verso la costa.
La pelle d'oca gli coprì le braccia. «Cos’è?»
Alycia gli si affiancò, i capelli sciolti che turbinavano attorno al suo volto. Il vento le aveva strappato via il cappello. «La fine.»
Impietrito, Jim tenne gli occhi puntati sull'immensa nube nera che stava per abbattersi su di loro. La mano di Alycia strinse la sua.
 

Si svegliò di soprassalto, ricacciando in gola il principio di un urlo.
«Buongiorno», lo salutò laconicamente una voce e, dopo un attimo di smarrimento, Jim ricordò di essere ancora in camera di Blake. Le tende erano state aperte e dalle finestre entrava la luce grigiastra di un mattino uggioso.
Lo stregone era seduto a letto e stava sfogliando il suo grimorio, con i pince-nez appollaiati sul naso storto. Al posto dell’orologio, sul comodino erano apparse due tazze di caffè e un piattino di biscotti al burro.
«Si sente meglio?» chiese Jim, studiando il volto del maestro con apprensione; era ancora piuttosto pallido, i ricci neri arruffati e la camicia stropicciata, ma nel complesso sembrava aver recuperato il solito vigore elettrico.
«Sufficientemente» rispose, senza staccare gli occhi dalle pagine. «Bevi il tuo caffè prima che si freddi, ci aspetta una giornata impegnativa.»
Jim si stiracchiò, massaggiandosi il collo indolenzito per via della notte trascorsa sulla poltrona. «Mi ha fatto prendere un bello spavento ieri, lo sa?»
«Ne sono consapevole e mi dispiace» disse lui. «La situazione... è sfuggita al mio controllo, ecco.»
«Non lo faccia mai più.»
Finalmente, lo stregone si decise a guardarlo in faccia.
«Ho promesso che l’avrei aiutata» disse Jim. «Ma mi rifiuto di andare avanti se lei continua a tenermi nascoste cose importanti. Come il suo stato di salute, per esempio.»
«Hai ragione.»
Con un sospiro, Blake rimosse i pince-nez e li posò sul grimorio.
«Credevo di avere più tempo» spiegò, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani, bianche e affusolate. «Che l’antidoto mi avrebbe permesso di tirare avanti ancora un po’…ma a questo punto non posso più rinviare.»
«Che cos’è di preciso questo l’antidoto?»
«Materia Vuota.»
Jim fissò il maestro senza capire. Lui sospirò ancora.
«Ti ho detto che il Vuoto è assenza di materia, ma non è del tutto vero. In base a quanto ho avuto modo di verificare, così come esiste una corrispondenza tra gli elementi che costituiscono il Tutto, ne esiste anche una tra il Tutto e il Vuoto. Ogni atomo che forma la materia fisica nel nostro mondo ha un corrispettivo nell’antimateria del Vuoto. È un rapporto simmetrico, mi segui fin qui?»
«Due facce della stessa medaglia» disse Jim.
«Esattamente. Capisci ora perché il Decanato non permette che siano portati avanti questi studi? Farebbero crollare le certezze su cui si regge la realtà. Porterebbero caos, anarchia. Tutto ciò che con la fondazione di Arcanta hanno cercato di eliminare.»
«E che la Strega Eretica diciassette anni fa ha minacciato di riportare a galla» completò Jim, la fronte aggrottata. «Ma cosa spera di ottenere lei dal Vuoto?»
«Mia moglie» rispose Blake, grave. «Durante la Guerra Civile ad Arcanta, ho affrontato l’Eretica, ma il suo potere andava oltre le mie capacità. Così, trovai il modo di confinarla all’interno del Vuoto: Isabel era un’alchimista geniale e aveva scoperto che gli specchi hanno la capacità di contenere il potere del Vuoto. Insieme riuscimmo a imprigionare l’Eretica oltre uno specchio…ma lei trovò il modo di portare con sé anche mia moglie.»
Jim aprì la bocca, frastornato. «Sta dicendo che è ancora viva, quindi?»
«So che lo è.»
«Gli specchi» mormorò Jim. «Nell’ala ovest…non li usa solo per spostarsi, sta cercando un modo per entrare nel Vuoto.»
Blake spostò lo sguardo verso una delle finestre aperte, come rapito da un pensiero improvviso.
«Sono oggetti davvero affascinanti gli specchi» disse piano, negli occhi una strana luce. «Restituiscono un’immagine fedele di noi, un’immagine però in cui spesso non riusciamo a riconoscerci. Più oscura, se vogliamo. Ma possono fare molto altro: per esempio creano tra loro un ponte, che permette di attraversare il Tutto senza lasciare traccia di sé. Grazie all'attraversamento catottrico riesco ad essere praticamente invisibile agli occhi del Decanato, e negli anni ho accumulato abbastanza conoscenze da poter portare avanti i miei esperimenti in segreto, tessendo relazioni nel mercato nero dell’occulto, di cui maghi come Angeline Laveau fanno parte. Ma spingersi oltre i limiti fisici ha un prezzo: attraversare lo iato tra gli specchi significa annullare sé stessi, anche solo per pochi istanti. E a lungo andare è una pratica che ti consuma, che ti priva poco alla volta della tua essenza. Perciò ho dovuto prendere delle precauzioni.»
«Assumendo Materia Vuota» mormorò Jim, scioccato. «Si sta praticamente avvelenando!»
«Tutto è veleno» replicò lo stregone, citando Paracelso. «È la quantità che fa la differenza. Anni fa ho incontrato un mistico entrato nella corte dello zar di Russia, uno strano individuo che si era fatto così tanti nemici da temere di essere avvelenato da un giorno all’altro. Così iniziò ad assumere ogni mattina una piccola dose di cianuro, per immunizzarsi. E sopravvisse a ben più di un attentato, al punto da far nascere la leggenda che fosse immortale.»
«E lo era davvero?»
«No, alla fine gli hanno sparato. Ma non è questo il punto…»
«Lo so qual è il punto» disse Jim. «Lei userà lo Scambio Equivalente per riottenere sua moglie dal Vuoto…e in cambio vuole sacrificarsi!»
«Te l’ho detto» replicò lui, con fermezza. «Ho tutte le intenzioni di riottenere ciò che mi è stato portato via.»
«E il mio ruolo in tutto questo quale sarebbe?» s’infuriò Jim. «Cos’è, ha bisogno di qualcuno che le tenga la mano mentre va a suicidarsi?»
«Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a completare il rituale» disse Blake, guardandolo negli occhi. «Un mago che non soccomba al Vuoto e che faccia da catalizzatore. E quel qualcuno sei tu, Jim.»
Il ragazzo si pietrificò. «Cosa?»
«Tu sei ciò che in passato veniva definito un void shaper» spiegò lo stregone. «Plasmavuoto. Si tratta di maghi con una particolare affinità con l’antimateria. Nel Vecchio Mondo erano più diffusi, perché pare che sia un’abilità tipica dei Sanguemisto. Siete diventati più rari da quando Arcanta ha impedito che stregoni e Mancanti mescolassero il loro sangue: l’Eretica è una Plasmavuoto potente, così come lo furono Mordred Blackthorn e il mio antenato Merlino.»
Il cuore di Jim aveva ripreso a battere furiosamente, lo sentiva rimbombare come un tamburo nelle tempie. Provò a deglutire, ma la sua bocca era prosciugata. «Come fa a saperlo con certezza?»
«Lo hai percepito quella notte, nella palude» disse Blake. «Quando ti ho chiesto di entrare in contatto con la fonte del tuo potere: il Tutto ti ha parlato, ma non è stato il solo. Anche il Vuoto ha instaurato con te un legame. È nella tua natura, quella di essere diviso tra le forze fondamentali che reggono il mondo. Tra le due facce dello specchio. Per questo sei in grado di attraversarli con facilità.»
Jim si alzò di scatto e iniziò a misurare la stanza con passi veloci, avanti e indietro, incapace di stare fermo.
«Alycia non sa niente di tutto questo?» chiese con veemenza. Tremava dalla testa ai piedi. Era tutto così…così troppo da sopportare. «Del fatto che sua madre probabilmente è viva e imprigionata chissà dove e che suo padre sta morendo…?»
«Se sapesse cosa sto facendo cercherebbe di impedirmelo» rispose lui, con una tranquillità disarmante. «Anche a costo di farmi rinchiudere per sempre in una cella ad Arcanta. Ma non posso fermarmi, non adesso che sono così vicino…»
«Lei è pazzo!» esplose Jim, furioso. «Un fottuto pazzo masochista, e io non ho intenzione di farmi usare per questa cosa!»
«Non ho mai voluto usarti.»
«Non lo farò» affermò Jim. «Non può costringermi!»
«Hai ragione, non posso. Su questo punto sono stato chiaro fin dall’inizio.» Solomon incrociò ancora una volta i suoi occhi. «Ma sei la mia unica possibilità, Jim. Senza un Plasmavuoto che mi faccia da tramite non posso sperare di compiere lo Scambio. Sono diciassette anni che aspetto…che aspetto di poter rivedere Isabel.»
Una sottile incrinatura percorse la sua voce, facendola suonare diversa, insicura: non più quella autoritaria di un maestro che impone la sua volontà al discepolo. Ma una richiesta.
«Non vado fiero del modo in cui ho condotto la mia vita» concluse lo stregone. «Ma se esiste un modo di darle valore, è questo.»
In qualche modo, Jim riuscì a imporre alle sue gambe di fermarsi. Restò immobile al centro di quella strana stanza da scienziato pazzo, a fissare l’uomo di cui non aveva mai saputo nulla, e di cui più sapeva e più aveva paura. Il maestro a cui aveva giurato cieca obbedienza.
Per lui aveva messo da parte il suo mondo, il circo, i suoi amici…fino a farlo diventare il centro del suo universo. E adesso, gli stava chiedendo di troncare anche quel legame.
E la cosa peggiore era che in cuor suo Jim sapeva che aveva ragione. Che era la cosa giusta da fare. Che lui e Blake erano più simili di quanto volesse ammettere, perché anche Jim aveva passato la vita cercando di trovare un senso a quei poteri che non aveva chiesto di avere, che spesso lo spaventavano, e che gli avevano sempre portato dolore e solitudine…
«Vaffanculo» sputò fuori alla fine, passandosi le mani tra i capelli. «Che cosa vuole che faccia?»

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Capitolo 26
*** Nimbus ***



NIMBUS





Blake non volle sentire ragioni. Adesso che tutti i pedoni erano finalmente allineati sulla scacchiera, insistette perché si mettessero al lavoro quella mattina stessa; poco importava che fosse ancora debole, al punto che per vestirsi dovette ricorrere all’aiuto di Jim.
Malgrado l’età era in forma, con una muscolatura asciutta e definita. Ma a sorprenderlo furono le piaghe, una rete di venature nere che gli attraversavano la schiena, il petto e le braccia, e Jim si domandò se fossero dovute all’assunzione della Materia Vuota. Aveva anche molte cicatrici, persino qualche vecchia ferita da proiettile.
«È sicuro di farcela?» domandò, mentre lo stregone annodava la cravatta di fronte a uno specchietto da toeletta.
«Sono stato peggio. Inoltre, ho sufficiente Materia Vuota per tirare avanti ancora per un bel po’.»
D’impulso, Jim si volse verso il tavolo da lavoro, dove, tra alambicchi e strani macchinari, vi era la tempesta sotto vetro attraversata da scariche elettriche viola. «Come è riuscito a produrla? Se entrare nel Vuoto è complicato come dice…»
«Quello è solo un prototipo» disse Blake. «Un’infinitesima percentuale di ciò che è davvero il Vuoto: non può essere attraversato, né restituire materia organica, ma basta a garantirmi la resistenza necessaria a continuare i miei esperimenti. Vieni, c’è una cosa che voglio mostrarti.»
Sostenendosi al bastone, Blake si avvicinò a una delle librerie e ruotò di tre quarti un busto di marmo ritraente Thomas Jefferson; si udì un leggero click ,e tra una libreria e l’altra, si aprì un’intercapedine, che rivelava un vano nascosto con all’interno uno specchio a muro.
«Ci vediamo dall’altra parte» disse Blake, e un attimo dopo sparì nello specchio.
Era la prima volta che si serviva di quella facoltà davanti a Jim, il quale non poté non pensare con inquietudine a quanto sembrasse facile, come varcare la porta di casa propria. E invece, quella pratica lo stava lentamente uccidendo…
Un misto di senso di colpa, curiosità e timore gli agitò il petto. Sto davvero facendo la cosa giusta?
Le rivelazioni di quella mattina lo avevano lasciato stordito, come se avesse ricevuto una bastonata in testa: il folle piano di Blake per salvare sua moglie, la scoperta di essere un Plasmavuoto, per non parlare del fatto che il suo maestro aveva infranto – e stava continuando a infrangere – circa una dozzina di leggi magiche, e che, in quanto suo assistente, adesso Jim era a conti fatti complice di un criminale…
Si sforzò di non pensare alle implicazioni che tutto ciò avrebbe avuto sulla sua vita, ammesso che fosse riuscito a portare in salvo la pelle, e, dopo aver tirato un profondo sospiro, s’immerse nello specchio.
Non aveva la più pallida idea di dove Blake lo stesse portando, ma rimase comunque di stucco quando si ritrovò all’interno di una rimessa degli attrezzi, in mezzo a pale e vanghe. Sgranò gli occhi, domandandosi se qualcosa fosse andato storto durante l’attraversamento.
«Da questa parte» lo esortò Blake, aprendo la porta e precedendolo fuori.
La luce del sole quasi lo accecò, e il freddo lo prese a schiaffi, mentre Jim cercava di mettere a fuoco il paesaggio circostante; una landa selvaggia spazzata da un vento furioso, alle cui estremità più lontane sorgevano fitti boschi e il profilo aspro di una catena montuosa spolverata di neve.
Jim rabbrividì nei vestiti troppo leggeri; nonostante il sole, l’aria era talmente secca e rarefatta che ogni volta che respirava sentiva i polmoni bruciare. Si affrettò a seguire Blake verso un grande hangar che sorgeva in mezzo al nulla, con una specie di torre metallica montata sul tetto, che svettava con arroganza verso il cielo terso.
Il luogo sembrava abbandonato, ma il ragazzo vide un divieto d’accesso che indicava un’area riservata alle esercitazioni militari.
«Ignora il cartello» disse Blake. «Serve a tenere alla larga i ficcanaso.»
Lo stregone aprì le porte dell’hangar, e lui e Jim si misero al riparo dal vento.
Visto da dentro, quel posto appariva ancora più grande. Jim alitò sulle dita intirizzite, e osservò con stupore crescente il macchinario posizionato al centro del capannone poco illuminato: era identico a quello che aveva visto in camera dello stregone. Solo che era gigantesco.
Una schiera di specchi circondava una struttura in rame, collegata tramite un foro all’impalcatura sul tetto.
«Adesso vuole spiegarmi che cos’è questo posto?» disse Jim. «Dove siamo?»
«A circa quaranta miglia da Colorado Springs. È qui che conduco i miei esperimenti.»
Con andatura leggermente malferma, lo stregone si avvicinò al macchinario. «Questo qui invece è Nimbus, una macchina in grado di catturare l’energia dei fulmini e convertirla in onde elettromagnetiche.»
«E questo affare dovrebbe aiutarci a entrare nel Vuoto?»
«Mi ci sono voluti anni per stabilizzarlo» disse Blake. «Avendo per le mani solo un mucchio di speculazioni teoriche. E poi, la soluzione è arrivata dalla persona più impensabile: un Mancante.
Avevo sentito parlare delle tesi di questo geniale ingegnere serbo, dello scalpore che aveva creato nella comunità scientifica. Inizialmente era molto diffidente, ai limiti della paranoia: mi accusò di essere una spia, di voler mettere le mani sui suoi brevetti, addirittura di essere stato mandato lì da Thomas Edison in persona per ucciderlo…»
«Aspetti un attimo» disse Jim, allibito. «Sta dicendo che ha conosciuto Nikosla Tesla?!»
«Sei un suo ammiratore» osservò Blake con un sorriso. «Uno dei pochi, a dire il vero. Quando lo trovai, il signor Tesla era in gravi ristrettezze, al punto da essere costretto a mettere il suo laboratorio a Colorado Springs in vendita.»
Jim lasciò vagare lo sguardo per il capanno. «E lei lo ha comprato.»
«Almeno non è finito in mano ai suoi avversari.» Blake indicò l’intelaiatura di rame. «Le montagne del Colorado offrono un clima ideale per indagare sull’elettricità atmosferica. Nei fulmini, in particolare, Tesla ha individuato onde a diversa frequenza: isolandole, registrò segnali di non meglio identificata natura, che riteneva avessero origine extraterrestre.»
«Il Tutto» mormorò Jim, incredulo. «È stato in grado di vedere il Tutto!»
«Più o meno. Diciamo che ne ha avvertito una leggerissima eco» disse Blake. «Ma questo mi ha portato a riflettere: e se usassi la stessa fonte di energia, il fulmine, per registrare altri tipi di frequenze? Non emesse dalla materia…»
«Ma dalla sua controparte nel Vuoto» completò Jim. «E io fungerei da amplificatore, non è così? Da antenna.»
«Esattamente» approvò lo stregone. «Gli specchi ci consentirebbero di contenere il Vuoto, perciò non c’è rischio che il suo potere sfugga al nostro controllo.»
«Ne è proprio sicuro?»
«Al cinquantasei per cento, o giù di lì.»
«Non è una percentuale molto rassicurante, sa?»
«Ti assicuro che lo è rispetto a quella da cui sono partito.» Blake estrasse dal panciotto il suo orologio e se lo rigirò tra le dita, mentre le sue labbra assumevano una linea tesa, pensierosa. «Te la sentiresti di fare un tentativo?»
Lo sguardo del ragazzo percorse l’intera torre di rame, fino al soffitto. Chissà se Tesla si era mai sentito come in quel momento si sentiva Jim, diviso tra paura ed esaltazione, due sentimenti che si scontravano in lui sin dalla prima volta che aveva praticato la magia. Ciò di cui parlava Blake superava qualsiasi cosa avesse mai sperimentato in vita sua, qualcosa che persino per un mago sembrava impossibile: unire scienza e magia, due mondi così lontani da non avere apparentemente nulla da dirsi, un po’ come Mancanti e stregoni, o come il Tutto e il Vuoto.
Tuttavia, un punto di convergenza esisteva, e forse proprio Jim ne era la chiave. Quel pensiero lo mandava fuori di testa.
«Va bene, proviamo.»
 
 
Una volta in funzione, Nimbus produceva un chiasso infernale.
Blake chiese a Jim di posizionarsi sotto la torre, sopra una pedana al centro della parete di specchi; dopodiché, indosso dei grossi occhiali di protezione che lo facevano somigliare a una mosca gigante, e tirò su una leva. Subito, gli specchi iniziarono a ruotare sempre più veloci.
Jim prese un respiro profondo e giunse le mani come in preghiera.
“Non possiamo aspettare che arrivi un temporale” gli aveva spiegato lo stregone. “Occorrerà evocarne uno.”
“Ceranopoiesi” aveva detto allora il ragazzo, senza trattenere un sorrisetto.
“La prima volta che ti ho visto in azione hai rischiato di fare un bel danno.” Blake gli aveva fatto l’occhino. “Questa volta puoi sprigionare tutta l’elettricità che vuoi.”
Jim strofinò i palmi l’uno contro l’altro, come, molti mesi prima, aveva fatto sul suo palco della Grotta delle Meraviglie di fronte a un pubblico annoiato. Proprio come allora, dall’alto risuonò un brontolio di tuoni e la porzione di cielo visibile dal foro sul soffitto si riempì di grosse nuvole scure.
Una pioggia di scintille si liberò dalle sue dita, e man mano che l’energia aumentava, i fulmini serpeggiarono lungo la torre di rame e lo circondarono come una gabbia. Il loro ronzio gli riempì le orecchie.
Le scariche elettriche sciamarono all’interno della turbina, attorcigliandosi lungo le sbarre di rame, rimbalzando contro gli specchi.
«È il momento!» gridò Blake, per sovrastare il rumore. «Cerca di stabilire un contatto con il Vuoto. Il principio è lo stesso che ti insegnai tempo fa per il Tutto: non resistergli, lascia che ti raggiunga.»
Fermo in mezzo a una pioggia di fulmini che non era in grado di scalfirlo, Jim adeguò il proprio respiro alle vibrazioni emesse dall’energia che gli si agitava intorno, e chiamò quella parte nascosta dentro di lui dove risiedeva il suo potere.
Come sempre, il legame con il Tutto si sollevò in risposta, ma questa volta Jim lo respinse, ricacciandolo giù, in profondità. Non era lui che stava cercando.
La familiare connessione con tutti gli elementi, dall’umidità dell’aria, all’elettricità, dalla nuda roccia al più sottile filo d’erba adesso non sembrava più un abbraccio confortante, materno. Sembrava una prigione.
Doveva liberarsene, sentiva che quel legame lo stava soffocando, provocandogli un improvviso senso di repulsione.
Nel momento in cui prese consapevolezza di ciò, un’altra voce gli vibrò dentro, arrochita dal prolungato silenzio; una voce che risaliva dagli abissi più oscuri e sconfinati del suo essere. La voce gli parlava in una lingua sconosciuta, ma, sorprendentemente, lui la comprendeva benissimo: gli parlava di potere e libertà, una libertà estrema e autentica, la libertà posseduta dagli Antichi, e che ormai era andata perduta.
Ma il Vuoto era ancora lì, dove era sempre stato. Ha atteso un tempo lunghissimo, ma ha sempre saputo che prima o poi la sua razza sarebbe tornata a parlargli, che Lui sarebbe venuto a cercarlo.
Il suo richiamo era forte e seducente…ma qualcosa continuava a trattenerlo.
Jamie…
Una serie di immagini irruppe di prepotenza nel buio oltre le palpebre; fuoco, urla, Big Joe che si contorceva con gli occhi fuori dalle orbite, in preda al terrore…
È questo il prezzo della libertà? È davvero ciò che voglio?
L’orrore si impossessò di lui, e Jim spalancò gli occhi, respirando forte. Aprì le mani e le saette si estinsero all’instante. Lentamente, gli specchi smisero di ruotare.
«Che cosa è successo?» volle sapere Blake, raggiungendolo sulla pedana. «C’eri quasi, perché ti sei fermato?»
I suoi occhi erano spalancati, le iridi azzurre frementi di aspettativa. Jim non riuscì a sostenere oltre il suo sguardo. «Non ci riesco, mi dispiace.»
«Certo che ci riesci! Ti sei solo fatto prendere dal panico, è normale. La prossima volta…»
«Non ci sarà una prossima volta!» esclamò Jim. «Non posso farlo, lei…lei mi sta chiedendo troppo.»
Blake aggrottò la fronte. «Non corri alcun pericolo, te l’ho detto. Sei un Plasmavuoto, Jim, fa parte della tua natura…»
«E se io la odiassi la mia natura?» reagì Jim, la voce che tremava. Si sentiva come in preda alla febbre, la pelle attraversata da riccioli di gelo. «Finora cosa mi ha portato? Ho solo messo in pericolo la mia famiglia e i miei amici e adesso metterò in pericolo lei e…e chissà quanta altra gente se questa cosa sfugge al mio controllo!»
Solomon lo fissò per un lungo momento, e lui vide agitarsi in fondo ai suoi occhi blu emozioni contraddittorie. Poi sospirò. «Angeline aveva ragione: sei ancora instabile.»
«Forse se mi desse altro tempo, se aspettassimo...»
«Io non ce l’ho altro tempo!» scoppiò improvvisamente Blake. «Sto morendo, lo capisci? Questa è la sola occasione che ho!»
Jim si sentì sbiancare. Blake sembrò sorpreso quanto lui da quella reazione. Per un attimo, fu sul punto di dirgli qualcosa, ma poi ci rinunciò e gli diede le spalle mentre andava a recuperare la giacca e il bastone. La fiamma che gli ardeva dentro sembrava essersi affievolita, lasciando al suo posto solo una tiepida rassegnazione. Jim aveva il sapore del ferro in bocca. «Signor Blake…»
Ma lo stregone era già uscito dall’hangar.
Quando Jim lo raggiunse, qualche minuto dopo, lo trovò seduto sul prato, con i gomiti poggiati alle ginocchia e lo sguardo rivolto alla distesa brulla, su cui raggi del sole battevano con feroce intensità.
Jim si fermò alle sue spalle. «L’ho delusa, mi dispiace.»
Lo stregone scosse piano la testa. «Non mi hai deluso, semmai sono io ad averlo fatto. Hai ragione, sto pretendendo troppo da te. Lo facevo anche con i miei allievi, l’ho sempre fatto con chiunque.»
Il ragazzo gli si sedette accanto; la terra crepitava ancora di elettricità e tra i fili d’erba Jim vedeva guizzare scintille lunghe un pollice.
«Quella cosa che ha detto ieri sera nel cimitero, su mio padre…è la verità? Lo ha davvero incontrato?»
«Un anno fa, sì.»
«Come le è sembrato?»
«Te l’ho detto, era in perfetta salute.» Lo stregone gli rivolse una lunga occhiata da sopra la spalla. «Ma non è quello che vuoi sapere, non è così? Vuoi sapere se è arrabbiato con te. Credo che per scoprirlo dovresti andare a trovarlo.»
Jim si strinse le ginocchia tra le braccia. «A cosa servirebbe? Non sono stato che un peso per lui da quando sono nato.»
«Questo non è vero.»
«E lei che ne sa? Non c’era.» Un brivido lo scosse nel profondo, ma non aveva nulla a che vedere col freddo. «Sapevo che la magia di mia madre lo turbava, ma con lei era diverso. E quando poi è morta…ha perso la testa. Si alzava di notte e girava per la fattoria armato di fucile, come se avesse paura di essere attaccato da un momento all’altro. Se succedeva qualcosa che non riusciva a spiegarsi mi guardava come se fosse colpa mia, sono sicuro che mi desse la colpa anche per la morte di mamma…» Si morse il labbro con forza, per reprimere quel fremito improvviso che adesso gli si era propagato a tutta la faccia. «Non volevo diventare come lui. Non volevo vivere nel terrore e nella sofferenza come faceva lui. Per questo non sono più tornato; per qualche ragione non riesco a ricordare cosa accadde la sera dell’incendio…ma dentro di me pensavo che fosse meglio saperlo morto. Almeno avrebbe smesso di avere paura di me.»
Blake lo ascoltò in silenzio; quella luce piena, fredda e spietata, metteva in evidenza le rughe del suo volto, lo faceva apparire sbiadito e stanco, come se fosse in grado di restituirgli tutti gli anni che possedeva.
A un tratto, Jim sentì la sua aura dilatarsi lentamente, fino a sfiorare le proprie terminazioni nervose. La prima cosa che percepì in essa fu dolore: un dolore antico, che veniva da lontano, ma non per questo meno intenso, e Jim poteva quasi avvertirne la pressione sulla pelle, come un cespuglio irto di spine.
«Tuo padre non ti odiava e non aveva paura di te» disse infine lo stregone. «Semplicemente, non riusciva a capirti. Pochi padri ci riescono.» Jim sentì i rovi agitarsi attorno a lui come serpenti. Adesso quel contatto gli faceva quasi male. «Quando persi Isabel mi sentivo smarrito, spezzato. E avevo paura, una paura terribile di non essere in grado di andare avanti da solo, di non riuscire a dare ad Alycia ciò di cui aveva bisogno.» Fece una pausa e poi un grosso sospiro, come se cercasse di svuotarsi di un peso. «Ho lasciato che le mie paure prendessero il sopravvento e l’ho allontanata da me. Avrei dovuto affrontarle insieme a lei, forse adesso molte cose sarebbero diverse.»
«Alycia è troppo intelligente per non aver capito quanto soffriva.»
«Soffrire non è una giustificazione per essere venuto meno alle mie responsabilità.» Il volto di Blake si contrasse, impercettibilmente, in una smorfia. «Mio padre ha usato questa scusa per anni: con mia madre, con mio fratello e infine anche con me. E noi gli abbiamo concesso tutto.»
«Non sapevo avesse un fratello.»
«Morì che aveva più o meno la tua età» spiegò Solomon. «Ti sarebbe piaciuto, era coraggioso ma non arrogante, sensibile ma anche forte, leale e generoso. Si chiamava Jonathan. Jonathan Ichabod Blake.»
Stupito, Jim fece subito mente locale. «Quello dell’orologio? “J.I.B.”»
«Me lo regalò l’ultima volta che lo vidi, prima che andasse ad Arcanta» rispose lo stregone. «Fu scelto per entrare nella Corte delle Lame e diventare un giorno Arcistregone. Per la mia famiglia fu un grande onore e una possibilità di riscatto dopo secoli, ma per mio padre era molto di più: ci ha cresciuti perché fossimo le sue pedine in una battaglia che era troppo vigliacco per combattere da solo. Non ha mai ammesso da parte nostra debolezze o errori e io mi sono ripromesso che non sarei mai stato come lui. Invece, sono diventato esattamente ciò che voleva diventassi.»
Invece di ritirarsi a quel contatto che era ormai diventato doloroso, Jim permise alle loro auree di continuare a rasentarsi: quella giovane e acerba, e quella antica e spezzata. Non sarebbero mai state un Uno, ma due realtà ben distinte, pur avendo tanto in comune.
«Devi superare quest’odio che provi per i tuoi poteri» disse Blake all’improvviso. «È raro che ciò che vediamo nel nostro riflesso allo specchio ci piaccia, ma per quante siano le cose che detestiamo, saranno sempre parte di noi e non possiamo ucciderle. O saranno loro a uccidere noi, mi capisci?»
«Vuole che impari a conviverci» disse Jim. «Ma non so come.»
«Dà loro uno scopo» rispose Blake. «Aiutami a salvare Isabel, a restituire ad Alycia sua madre. Liberati della concezione di essere sbagliato per questo mondo perché non è così. Tutto accade per una ragione, anche un Plasmavuoto che non accetta di esserlo.»
«E se invece fallissi? Se mi stesse sopravvalutando?»
«Almeno potrai dire di averci provato. È già qualcosa, no?»
Jim tacque, guardando le montagne che ornavano quel paesaggio sconfinato e alieno, e solo in quell’istante realizzò quanto fosse lontano da tutto ciò che conosceva. Lontano da suo padre, lontano dal circo…
Si trovava su un territorio inesplorato da tutti i punti di vista. Ma almeno non era da solo.
Tutto accade per una ragione, forse anche questo.
«Riproviamoci» decise alla fine.
 

E riprovarono per i giorni a venire.
Il problema era che Jim sentiva di non avere col Vuoto la stessa affinità che aveva col Tutto, nonostante Solomon continuasse a ripetergli il contrario. Il maestro tenne anche alcune lezioni su quanto aveva ricavato negli anni sulla Magia Vuota, per aiutarlo a familiarizzare di più con essa. Gli dava tè da bere e libri da leggere, insisteva perché si sottoponesse a esercizi di meditazione.
E Jim acconsentiva, sebbene una parte di lui continuasse inconsciamente a opporre resistenza. Solomon, dal canto suo, non cedette più a scoppi d’ira e si dimostrò invece più comprensivo e paziente, addirittura grato dell’impegno che lui ci metteva.
Nel frattempo, Jim ebbe modo di approfondire meglio gli studi di Tesla sulla correte alternata, sul plasma e i campi magnetici; era strabiliante quanto certe sue teorie fossero avanti rispetto ai tempi e soprattutto quanto avessero in comune con la stregoneria. Non si sarebbe stupito se a distanza di qualche anno i Mancanti avessero scoperto i segreti del Tutto e imparato a riprodurre loro stessi la magia.
«Il problema con i Mancanti è che sono ancora enormemente ottusi» gli aveva risposto il maestro una mattina, mentre imburrava una fetta di pane tostato. «Finché continueranno ad anteporre cose come il denaro, la guerra o la religione al benessere comune non riusciranno a raggiungere il massimo del loro potenziale.»
Su quelle parole, un bagliore si accese improvvisamente alle spalle di Jim, che per poco non si rovesciò addosso il suo caffellatte; al centro della saletta per la colazione era appena apparso un fuoco fatuo bianco, che bruciava a mezz’aria.
Solomon fissò la luce con espressione torva. «Ecco, a proposito di ottusità.»
«Che cos’è?»
«Un messaggio da Arcanta.»
Jim spalancò gli occhi. Solomon, invece, si alzò con calma e mise una mano fra le fiamme.
«Alla Cittadella hanno i loro sistemi per comunicare» spiegò, restando in attesa di qualcosa. «E non si può dire che manchino di inventiva laggiù.»
Improvvisamente, nella sua mano apparvero due piccoli rotoli di pergamena bianca, ciascuno sigillato con un fermaglio a forma di ape. Le fiamme si estinsero di colpo.
Incuriosito, Jim si avvicinò mentre lo stregone ne dispiegava uno.
«Sono due convocazioni ufficiali» disse, scorrendone rapidamente il contenuto. «Per la Prova dell’Oro di Alycia.»
«Significa che è entrata nel Cerchio d’Oro?» esclamò Jim, con un gran sorriso. «Ero sicuro che ce l’avrebbe fatta, quella sua tesi sull’Anthea Ingannatrice era una bomba!»
Solomon però non sembrava condividere il suo entusiasmo e continuava a fissare i due rotoli con aria pensierosa.
«Sono per due persone, quindi alla Cittadella sono stati messi al corrente della tua esistenza. Le notizie circolano in fretta.»
«E allora?» disse Jim, che non riusciva ad afferrare dove fosse il problema. «Non avrà pensato di andare laggiù senza di me!»
Solomon si voltò a guardarlo, riemergendo dai suoi pensieri, e Jim s’indignò: «Mi avrebbe sul serio mollato qui?!»
«In realtà, non pensavo di parteciparvi. Te l’ho detto, è molto che non metto piede ad Arcanta.»
«Ma si tratta di sua figlia!» protestò Jim, sempre più sbalordito. «Per lei è importante, ci deve andare! Mi dice che le prende?»
«Il problema è che Boris Volkov mi sta addosso.» Blake sventolò i due rotoli sotto il suo naso.  «E ora sa anche dove trovarmi.»
«Questo Volkov non è l’Arcistregone del Nord? Il maestro di Alycia?»
«In persona.»
«E non dovreste essere dalla stessa parte?» Jim si portò una mano ai capelli, sforzandosi di dare un senso alla cosa. «Voglio dire, noi siamo i Buoni, no?»
Solomon sospirò.
«Volkov è sempre stato in aperta rivalità con me, non solo nella magia ma in tutto il resto. Fin da giovani sapevo di non piacergli, ma dopo la Guerra Civile…il suo odio per me è diventato del tutto manifesto.»
«Ma perché?»
«Perché è convinto che Isabel sia morta per colpa mia» rispose Solomon. «E che se avesse sposato lui anziché me l’avrebbe impedito.»
Jim era scioccato. «Era innamorato di sua moglie?»
«L’ha amata da sempre, da quando erano ragazzi» rispose Solomon con amarezza. «Non riesce a perdonare il fatto che non l’abbia salvata. E adesso sta plagiando Alycia per metterla contro di me.»
«Se le cose stanno così, abbiamo un motivo in più per andare ad Arcanta» affermò Jim con decisione. «Non vorrà lasciarla lì da sola?»
«Jim, Volkov è convinto che io fossi in combutta con l’Eretica, che stia tramando per riportarla al potere e penso che in questi anni in cui sono stato assente sia riuscito a persuadere anche gli Arcistregoni del Sud e dell’Est. Sta cercando prove da presentare al Decanato per incastrarmi. Adesso capisci? La storia della convocazione è una trappola!»
«Ma non ha pensato che se non si presenta avranno la conferma che nasconde qualcosa?»
Blake valutò quell’opzione. «Potrebbe destare sospetti.»
«E poi ormai sanno di me» aggiunse Jim. «In fondo, non ho scritto “Plasmavuoto” sulla fronte, basterà che eviti di attraversare gli specchi e passerò del tutto inosservato.»
Solomon però non sembrava ancora convinto della cosa.
«Arcanta è un luogo pericoloso» lo mise in guardia. «La Prova dell’Oro chiamerà a raccolta l’intera élite magica e saranno tutti molto interessati a te, soprattutto Macon e Una: non ho più accettato allievi per diciassette anni, e quando vedranno il mio nuovo apprendista non resisteranno alla tentazione di studiarti, di metterti alla prova in modi che neanche immagini.»
«Quando si terrà la Prova dell’Oro?»
«Tra una settimana.»
«Abbiamo un po’ di tempo» disse Jim. «Può prepararmi, almeno saprò da chi stare in guardia.»
«Ho paura che per imparare quello non basti una vita intera» replicò Solomon. «Non è Volkov a preoccuparmi, so come ragiona ed è facilmente prevedibile. Ma Una Duval e Macon Ludmoore, con loro sarà un altro paio di maniche.»
«Non la metterò nei guai» affermò Jim, deciso. «Si fidi lei di me per una volta.»
Le rughe che gli aggrondavano la fronte si appianarono lentamente in un’espressione più distesa, quasi divertita.
«Mi sembra giusto.» Dopodiché lo misurò con lo sguardo da capo a piedi. «Adesso però abbiamo un altro problema da risolvere.»
«E cioè?»
Un accenno di sorriso gli incurvò l’angolo della bocca. «Ti devo trovare qualcosa di appropriato da indossare.»

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Capitolo 27
*** Il guardaroba ***



IL GUARDAROBA

 


 
Con appropriato, evidentemente Blake intendeva dire vecchio; sembrava infatti che, a causa dell’estrema chiusura stabilita dai Decani, la moda ad Arcanta fosse rimasta ferma più o meno intorno al Diciottesimo secolo.
«Tieni, prova questi» disse lo stregone, dopo aver rovistato in un baule. «Dovrebbero starti. In caso contrario possiamo sempre apportargli qualche modifica.»
E gli allungò quella che sembrava un’uniforme militare: camicia inamidata, redingote di velluto blu notte con alamari e galloni, pantaloni bianchi e stivali al ginocchio. Mancavano solo parrucca cotonata e fioretto.
«Io questa roba non la metto» dichiarò Jim senza celare una smorfia. «Che bisogno c’è di andare in giro vestito da D’Artagnan?»
«Non puoi presentarti ad Arcanta in jeans come un contadino.» Blake gli mollò la divisa in braccio. «L’ultima cosa che possiamo permetterci è attirare l’attenzione su di te: stiamo già correndo un rischio enorme portando lì un Esterno. Come procede lo studio delle Rispettabili Trenta, a proposito?»
Si riferiva all’elenco in ordine alfabetico delle trenta casate più illustri di Arcanta: contrariamente a quanto accadeva nel Mondo Esterno, laggiù più una famiglia aveva origini antiche e meno era considerata raccomandabile, per via di possibili legami di sangue coi Mancanti. E quelli che, come i Blake, risalivano a prima della Fondazione…be’, erano visti alla stregua di appestati.
«Sono arrivato ai Ravenna.»
«E allora vedi di darti una mossa» lo redarguì il maestro. «Hai ancora un mucchio di cose da imparare e la Prova dell’Oro è fra tre giorni. Forza ora, fammi vedere come ti sta la divisa.»
Jim si astenne dal roteare gli occhi al cielo per l’ennesima volta solo perché era consapevole che si trattava di precauzioni necessarie. Boris Volkov li aveva invitati con l’intenzione precisa di smascherare Solomon di fronte a tutta Arcanta e dovevano offrirgli meno pretesti possibili per indagare sul conto di Jim.
Dopo essersi cambiato, il ragazzo si osservò allo specchio sentendosi pronto per il Carnevale. Ma doveva ammettere che, a dispetto delle apparenze, erano i vestiti più comodi che avesse mai indossato e gli avvolgevano il corpo come una seconda pelle. Si accorse che Blake stava evitando di incrociare il suo sguardo nel riflesso.  E capì. «Apparteneva a uno dei suoi allievi, vero?»
«Sì» rispose lui, con voce sorda. «A Jasper, aveva una corporatura simile alla tua.»
Jim esaminò le preziose rifiniture della redingote e vide che sul petto erano cuciti due stemmi: il più grande, in oro, racchiudeva al suo interno una spada, una bilancia e un libro ed era sormontato da tre api. Il secondo, in argento, raffigurava un corvo e una candela.
«Dicono che rappresenti la saggezza» commentò Solomon, le labbra incurvate in uno strano sorriso storto. «Una fiamma che illumina le tenebre dell’ignoranza. Ma io ci ho sempre visto una minaccia: basta poco a spegnere una candela e i corvi sono animali predatori.»
«Ma era la sua scuola» obiettò Jim con sorpresa. «Ne parla come se la odiasse.»
«Al contrario, c’è di che esserne orgogliosi: la Corte dei Sofisti ha tirato fuori i migliori furfanti di Arcanta, me compreso. Guardati nelle tasche.»
Jim lo fece e all’interno della redingote trovò dei documenti ripiegati.
«“Winston Prosperus Cavendish”. E chi sarebbe?»
«Sei tu» rispose lo stregone. «Come mi auguro ricorderai, i Cavendish sono una delle Rispettabili Trenta, tutti Sanguepuro. E sono imparentati alla lontana con i Blake.»
«Quindi sarò il figlio della sorella della cognata…»
«Sarai semplicemente un mio pronipote» concluse Solomon. «Che ho scelto di prendere come assistente.»
«E se dovessimo imbatterci in un membro della mia presunta famiglia?»
«I Cavendish sono straordinariamente prolifici, nemmeno loro sanno quanti discendenti abbiano con esattezza» spiegò lui. «La sorella di mia madre, Sofronia, era una Cavendish e mise al mondo dodici figli, che hanno avuto altrettanti successori. Tutti coi capelli rossi, tra l’altro. E per finire, cosa che gioca a nostro favore, nessuno li sopporta, ragion per cui non vengono mai invitati a nessun evento mondano.»
«Va bene, mettiamo il caso che se la bevano, che lei riesca spacciarmi per un Cavendish» disse Jim in tono ragionevole. «Come giustificheremo il fatto che nessuno mi abbia mai visto prima in città?»
«Presto detto: alcuni anni fa tua madre, Alcina Cavendish, fu al centro di uno scandalo: qualcuno aveva messo in giro la voce che non tutti i suoi figli fossero del marito. Ovviamente Alcina sostiene che erano calunnie, ma per allontanarla dai pettegolezzi, Roland Cavendish l’ha fatta trasferire in una delle loro proprietà nel Suffolk con parte della prole: sei cresciuto laggiù, con i tuoi sette fratelli, di cui sei il mediano. Al raggiungimento della maggiore età, tua madre mi ha chiesto di prepararti al debutto in società.»
Quella balla aveva l’aria di essere stata confezionata con largo anticipo, come se lo stregone avesse previsto che prima o poi sarebbe giunto il momento di giocarsi la “carta parentela”.
Jim studiò i documenti adeguatamente falsificati con poca convinzione; si era immaginato un mucchio di volte come sarebbe stato andare ad Arcanta, ma in nessuna delle sue fantasticherie doveva andarci sotto falsa identità. Aveva passato la vita a nascondersi dai Mancanti, e anche adesso, fra maghi come lui, era costretto a vestire i panni di qualcun altro…
«Non sono sicuro che sia un buon piano.»
«Su cosa hai ancora dubbi?»
«Tanto per cominciare, “Winston” è un nome da fessacchiotto.»
«Te lo dovrai far piacere. E poi, non è nostra intenzione trattenerci a lungo. Andremo lì unicamente per assistere alla Prova dell’Oro di Alycia, dopodiché torneremo ai nostri affari.» Con espressione corrucciata, Blake usò il bastone per beccare Jim sulla fronte. «Perciò mi aspetto da te la massima discrezione: non iniziare conversazioni, rispondi a eventuali domande solo nel modo che concorderemo. Se ti viene offerto da mangiare o da bere declina educatamente a meno che non sia io a dirti il contrario. E soprattutto, non uscire dal personaggio nemmeno per un istante. Intesi?»
Ancora una volta con le spalle al muro, il ragazzo poté solo sbuffare con rassegnazione. «Intesi.»
 
 
Il resto della settimana fu impiegato per preparare Jim sugli usi e sui costumi di Arcanta; per fortuna, almeno con il galateo e l’etichetta si erano già portati avanti durante i mesi dell’apprendistato, ma a questo dovettero aggiungere tutta una serie di leggi e norme di comportamento, sia scritte che non; Blake gli fece imparare a memoria il Giuramento, che veniva recitato all’apertura di ogni manifestazione pubblica in onore dei Fondatori e del Decanato, gli insegnò quali formule di saluto adottare e quali parole fossero considerate tabù, ossia tutto ciò che riguardava il Vuoto, la Strega Eretica, la tecnologia, i Mancanti, la scienza, il Vecchio Mondo e la guerra.
Jim memorizzò i nomi completi di tutti i suoi parenti più prossimi, i motti e le caratteristiche di ognuna delle quattro Corti di Arcanta e dei rispettivi maestri:
«Macon Ignatius Ludmoore è l’Arcistregone del Sud» spiegò Solomon, indicando il suo nome sulla lavagna. «È a capo della Corte dei Miraggi e tutti i suoi adepti sono esperti tessitori di illusioni. Li riconosci dalle divise viola e bronzo e il loro stemma è un pavone coronato. Se ne vedi uno mantieni le distanze e sonda attentamente tutti i tuoi sensi: le illusioni in genere possono colpirne solo uno per volta. Macon è un tipo all’apparenza affabile, ma ama gli scherzi, gli indovinelli e i rompicapi, di certo non perderà l’occasione per proportene qualcuno. Poi c’è la scuola di Boris Volkov…»
«La Corte delle Lame» completò Jim, ricordando i racconti di Alycia. «Il suo motto è “Sii la tua arma”, il suo simbolo un lupo d’argento con in bocca una spada. Gli allievi sono addestrati in ogni forma di combattimento e sanno evocare armi da qualsiasi materiale.»
«Abili guerrieri, ma non particolarmente svegli» aggiunse Blake, storcendo la bocca. «Ho sempre pensato che Alycia fosse sprecata in quel posto. Mettono l’onore prima di qualunque cosa e sono molto suscettibili, quindi evita di provocarli. Ma quella da cui devi davvero stare in guardia è l’Arcistrega dell’Est.»
Circondò il suo nome col gessetto. Due volte. «Una Duval, “La Regina di Cuori”: apparentemente, la Corte dei Sussurri è la più innocua, solo una scuola di buone maniere per ragazze in età da marito. Non lasciarti ingannare, la Duval è una sottile manipolatrice, in grado di cavare qualsiasi segreto. Non restare mai solo in sua compagnia: c’è un motivo se il simbolo della sua Corte è un cuore stritolato da un serpente.»
Jim deglutì, sforzandosi di non lasciar trapelare la sua preoccupazione: più cose veniva a sapere su Arcanta, più la città dei maghi assumeva l’aspetto di una trappola mortale. A sentire Solomon Blake, il pericolo poteva nascondersi praticamente dovunque, a dispetto dell’avversione dei cittadini per la violenza in ogni sua forma. In un mondo del genere, dove tutti si rivolgevano parole gentili ma chiunque poteva pugnalarti alle spalle, manipolarti o stregarti, come si faceva a non andare fuori di testa?
Io non ci voglio andare fra i matti, diceva Alice.
Il giorno della partenza, Solomon insistette perché facessero un’abbondante colazione: per chi non ci era abituato, le pietanze preparate con la magia creavano dipendenza, una volta assaggiate non se ne poteva più fare a meno, al punto che il cibo normale perdeva sapore.
«Tieni sempre a portata di mano foglie di scopolamina» aggiunse Solomon, consegnandogli un sacchetto di velluto. «Se ti offrono anche solo dell’acqua, fanne cadere una nel bicchiere: è l’Erba della Verità, rivela se sia stata compromessa o avvelenata.»
«Quindi, oltre ad essere arrestato e stregato c’è pure il rischio che mi avvelenino» fece Jim, sconfortato. «Grandioso!»
«Non stiamo andando in vacanza. E ti ho già detto che ho molti nemici laggiù.»
«Non sono abituato a essere circondato da gente pronta a uccidermi.»
«Buon per te» sospirò lo stregone. «Io ormai non ci faccio più caso.»
Su quelle parole, la pendola nel soggiorno batté le undici.
«Dobbiamo affrettarci» disse poi. «Prenderemo il Meridiano delle dodici da uno dei guardaroba del secondo piano.»
«Eh?»
«È il sistema ufficiale per raggiungere Arcanta» spiegò Blake, abituato a suscitare in lui espressioni di puro smarrimento. «Un portale che appare in luoghi ed orari stabiliti in ogni parte del globo nell’arco di una giornata. Ma ha una finestra temporale limitata: se lo si perde bisogna attendere il giorno successivo. Il Meridiano passa per New Orleans alle dodici in punto e i suoi punti di accesso sono gli armadi.»
«Perché proprio gli armadi?»
«Perché chiunque ha un armadio in casa.»
«Perciò il Meridiano potrebbe trovarsi in qualsiasi armadio?»
«Compreso nel fuso orario di riferimento, sì. Un tempo era un sistema di trasporto molto usato, ma con la chiusura di Arcanta al mondo ormai ben pochi lo sfruttano ancora.»
«E che succede se un Mancante per sbaglio ci finisce dentro?» domandò Jim. «Se apre un armadio mentre si è trasformato in Meridiano…?»
«È molto raro, ma se succede viene sbalzato all’indietro e dimentica all’istante cosa ha visto» rispose Blake, ma un momento dopo rettificò: «Ora che mi ci fai pensare, l’unica eccezione fu quel ragazzo di Oxford: mi trovavo allo University College per delle ricerche e usai il Meridiano più vicino nel guardaroba di uno studente, un certo Clive Lewis[1]. Sfortunatamente, il signor Lewis rientrò in camera nel momento in cui varcai il Meridiano.» Si concesse un sorrisetto divertito a quel ricordo. «Naturalmente nessuno gli ha creduto, ma ho sentito dire che abbia sviluppato una vera e propria ossessione per gli armadi.»
Alle dodici meno cinque, erano entrambi in piedi di fronte al grosso armadio in camera di Blake; per l’occasione, lo stregone aveva riesumato da chissà dove un lungo cappotto nero aderente con code di rondine che lo faceva somigliare a un direttore d’orchestra, e sostituito la bombetta con un cilindro. Appariva come sempre padrone della situazione, ma il modo insistente con cui il suo indice sinistro batteva sulla testa di corvo del bastone tradiva il suo nervosismo.
Anche Jim continuava a tormentare i galloni in argento della redingote, sforzandosi di tenere a bada l’ansia che si stava pian piano facendo strada dentro di lui. Si era mantenuto abbastanza calmo per tutta la settimana, e anche la notte prima era sorprendentemente riuscito a dormire. Ma da quando si era alzato dal letto aveva lo stomaco serrato.
Contrariamente a ciò che si aspettava, però, non erano gli avvertimenti del maestro a metterlo in agitazione. Erano gli spazi vuoti, gli imprevisti. Le infinite eventualità che la situazione sfuggisse al loro controllo e andasse tutto a scatafascio: Solomon Blake era in gamba ma non infallibile, lo aveva già sperimentato.
È una recita, ricordò a se stesso. Solo un’altra recita.
Aveva impersonato per anni un orfano che aveva conosciuto la magia alla corte di un sultano, quel giorno sarebbe stato solo Winston Cavendish per un paio d’ore. Non era poi così difficile.
E poi, avrebbe rivisto Alycia dopo settimane. Quel pensiero gli rese il cuore immediatamente più leggero.
Dodici rintocchi.
«È ora» disse Solomon.
Jim lo guardò aprire gli sportelli e allungare un braccio per separare le file di camicie appese e le giacche in cashmere. Poi sorrise, sebbene non capisse a che cosa.
«Puntuale come un orologio svizzero. Sbrigati, non abbiamo molto tempo prima che riparta.»
Ed entrò per intero nell’armadio, lasciandosi dietro una schiera di abiti costosi.
Jim sentì un corpo morbido intrufolarsi tra i suoi polpacci emettendo un leggero miagolio.
«Mi dispiace» disse, raccogliendo Lily da sotto le ascelle per poi andarla a posare sopra il letto. «Non posso portarti con me: ad Arcanta i Famigli non sono ammessi. Torno presto, non preoccuparti.»
Tornò in fretta al guardaroba e le rivolse un’ultima occhiata per assicurarsi che non lo seguisse, ma la gatta sembrava più concentrata sulla sua pulizia personale.
Sentendosi sempre più simile ad Alice che insegue il Bianconiglio, Jim protese una mano tra i vestiti, e quella parte razionale che era in lui, e che sempre più spesso doveva mettere a tacere, si aspettò di toccare prima o poi il fondo dell’armadio. E invece il fondo non c’era e ben presto non ci furono più neppure i vestiti. Ci fu però luce, una luce soffusa che accarezzava morbidamente gli interni di una stanza rivestita di velluto capitonné. Sembrava a tutti gli effetti un ascensore, uno di quelli da alberghi di lusso.
Ritrovò Blake seduto su una panca imbottita, con le gambe accavallate e un giornale tra le mani. Ce n’erano molti altri, stirati e impilati ordinatamente in un portariviste.
«Mettiti comodo» disse lo stregone, sfogliando il giornale. «E non dimenticare di allacciare la cintura.»
Jim inarcò un sopracciglio quando si rese conto che la panca era effettivamente provvista di fibbie. «Questo sarebbe il Meridiano?»
«Altroché e perfettamente funzionante. La cintura, prego.»
 «Ma non ha senso, in che modo dovrebbe…?»
In quell’istante delle porte dorate si chiusero ermeticamente laddove prima c’era l’entrata dell’armadio, e subito dopo un rombo risalì da sotto il pavimento in legno lucido. Un lampadario di cristallo ondeggiò sopra la sua testa spargendo schegge di luce, ma prima che Jim potesse aggrapparsi a qualcosa, l’ascensore partì come un razzo. Solo che partì di lato, con uno scarto così improvviso da scaraventarlo contro la parete opposta. Jim si ritrovò con la guancia schiacciata sul muro senza fiato, ma non fece neanche in tempo a staccarsi che l’ascensore cambiò direzione, cominciando una vertiginosa salita.  Spintonato all’indietro, Jim piombò a terra come un sacco di patate e gattonò fino a raggiungere la panca, dove Blake sedeva composto e leggeva il giornale, come se non avvertisse nessuno di quei bruschi sobbalzi.
«Te l’avevo detto di allacciare la cintura.»
Prima che l’ascensore impazzisse di nuovo e cambiasse rotta, si accasciò sulla panca e si affrettò ad agganciare per bene le fibbie. Magicamente, l’ascensore smise all’istante di scuotersi come un cavallo imbizzarrito, ma Jim aveva ancora il mal di mare.
Per distrarsi, lanciò uno sguardo al giornale che Solomon stava leggendo, l’Oraculum; in prima pagina figurava l’immagine in movimento di una gran folla riunita al cospetto di un imponente edificio bianco a torre. Il titolo, a caratteri cubitali, annunciava l’inizio della cerimonia che avrebbe portato alla nomina dei futuri nuovi alchimisti del Cerchio d’Oro.
«“Tra gli ospiti più attesi, figureranno l’Arcistregone dell’Ovest, Solomon Blake, disperso nel Mondo Esterno e totalmente irrintracciabile”» lesse Jim. «“Voci di corridoio riferiscono inoltre la possibilità che venga accompagnato da un misterioso apprendista.”»
«Visto? Sei già una celebrità.» Blake espirò dal naso e scrollò la testa con disapprovazione. «Altra pubblicità, proprio ciò di cui avevamo bisogno.»
«Pensa che anche questa sia opera di Volkov?»
«Il direttore dell’Oracolum prende istruzioni solo dal Decanato» rispose Blake, pensieroso. «Evidentemente ho sottovalutato il vecchio Boris: è riuscito ad accattivarsi le simpatie di qualcuno ai piani alti, alla fine. E temo anche di sapere di chi si tratta.»
Jim non ebbe modo di chiedere spiegazioni, perché le porte dell’ascensore si spalancarono con uno scatto e sulla soglia comparve un uomo.
«Oh!» Si fermò di colpo, assumendo un’espressione sinceramente sorpresa. «Domando scusa, cittadini, non pensavo che avrei avuto dei compagni di viaggio!»
Blake mise immediatamente via il giornale e salutò il nuovo arrivato con uno dei suoi sorrisi più vivaci. «Si accomodi pure, cittadino.»
L’altro ricambiò calorosamente e rivolse loro un inchino; era alto e nero, con indosso una lunga tunica ricamata, un fez in testa e una spilla d’oro a forma d’ape appuntata sul petto. Si sedette accanto a Jim.
«Mi chiamo Yusuf Alzanar» si presentò a un certo punto, studiandoli con un po’ troppo interesse. «Ho preso il Meridiano di San Francisco per un pelo! Anche voi di ritorno ad Arcanta?»
Jim evitò di incrociare il suo sguardo e affondò il mento nel colletto della redingote. E pensare che non erano ancora arrivati a destinazione!
«Solo per una breve visita» rispose Blake, in tono educato ma senza lasciare spazio alla conversazione.
«Oh, per la Prova dell’Oro immagino!» esclamò invece l’altro con entusiasmo. «Io sono stato convocato solo ieri: in verità non me l’aspettavo, sapete è così tanto che non ricevo notizie da mio figlio.» La sua voce acquisì una nota malinconica, ma subito dopo il suo volto si illuminò. «È entrato nella Corte dei Miraggi, pensate! È un grande onore per la nostra famiglia, peccato che mia moglie non mi abbia potuto accompagnare…purtroppo è, ehm, indisposta.»
Non è una Sanguepuro, capì al volo Jim. Quel mago probabilmente faceva parte delle Rispettabili, ma a giudicare dalla sua smania di dialogo non doveva avere contatti con la società magica da un bel po’. Aveva ricevuto la convocazione solo in quanto Sanguepuro, ma sua moglie no: era triste pensare che fosse stato proprio il figlio a non invitarla.
«Un momento!» aggiunse Yusuf, strabuzzando gli occhi. «Ma…ma lei non sarà mica…? Sì, è proprio Solomon Blake! Oh, per i Fondatori, come ho fatto a non riconoscerla subito?»
«Piuttosto comprensibile» replicò Solomon, con un sorrisino tirato. «Sono latitante da un po’.»
Yusuf si mise a ridere. «Quando Tariq saprà che l’ho incontrata gli prenderà un colpo! È un suo grande ammiratore sin da bambino! In verità mi ha confidato che gli sarebbe piaciuto entrare nella sua Corte.»
«In tal caso, me lo saluti tanto.»
All’improvviso, una voce femminile risuonò nella cabina: «Arboreto del Parnaso. Benvenuti cittadini!»
L’ascensore si aprì, stavolta su un esterno luminoso.
Solomon si liberò alla svelta della cintura e scattò in piedi, imitato da Jim, mettendo immediatamente fine alla conversazione. Yusuf parve un po’ deluso che il viaggio fosse già terminato.
«Be’, vi auguro una piacevole permanenza, cittadini» disse, alzandosi a sua volta. «Spero di incontrarvi alla cerimonia. Che la conoscenza vi illumini il cammino.»
«Che la conoscenza ti illumini il cammino» replicò Solomon, sollevando il cilindro. «Andiamo, Winston.»
Jim si accomiatò adottando la stessa formula di saluto e trotterellò dietro al maestro.
Preoccupato com’era dalle attenzioni di quel tipo non si era neanche accorto di dove fossero finiti; perciò, rimase a bocca aperta quando si trovò nel bel mezzo di una giungla.
Dopo un istante si rese conto che non si trattava di una vera e propria giungla in effetti, ma di un immenso parco, e attraverso il fitto groviglio di piante, scorse fontane e viali, ma anche sculture, sfingi e piccoli templi perfettamente integrati nella natura. Numerosi passanti percorrevano quei sentieri, conversando, leggendo, e corteggiandosi lungo ruscelli e laghetti.
L’odore dei fiori era così inebriante da dare alla testa e, oltre il tetto di rami, i raggi del sole erano filtrati da un’intelaiatura in vetro e acciaio dalle sottili nervature d’ispirazione fitomorfa, che conferiva al luogo l’aspetto di una gigantesca serra.
Stordito dal profluvio di colori e profumi, Jim si incamminò senza sapere dove soffermare lo sguardo, finché non andò letteralmente a sbattere contro la schiena di Solomon, che era in piedi di fronte a una vetrata panoramica.
Io non ci voglio andare fra i matti disse Alice.
Ma tu sei matta, replicò lo Stregatto. Altrimenti non saresti qui.
«Benvenuto alla Città Nascosta.»
 
[1] Più noto come C.S. Lewis: saggista, teologo e scrittore, la cui opera più celebre è il ciclo delle Cronache di Narnia.

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Capitolo 28
*** I quattro stregoni di Arcanta ***



I QUATTRO STREGONI DI ARCANTA





«Adesso però togliti quell’espressione dalla faccia» disse Solomon. «Sembra che tu non abbia mai visto niente del genere prima d’ora.»
Ma infatti Jim non aveva mai visto una città così, e ne aveva girate parecchie in vita sua: l’unico aggettivo che gli veniva in mente per descrivere Arcanta era senza tempo. Gli edifici erano antichi, sì, ma di un antico che non aveva coordinate specifiche, né temporali né geografiche. Sembravano partoriti dalla mente di un artista visionario, che aveva cercato di dare forma a un sogno scolpito nel marmo bianco e nell’oro; obelischi, colonne, tetti a forma di pagoda e cupole che luccicavano come pepite al sole.
La città sorgeva in un luogo suggestivo, incastonata in una profonda valle attraversata da un fiume; era fiancheggiata su due lati da alte pareti di roccia che scendevano a precipizio, irrigate da cascate e con le sommità ricoperte da fitti boschi. In fondo alla valle, si stagliavano alti picchi innevati che identificò come le Alpi, ma Jim non aveva freddo; era come se l’aria non avesse una temperatura precisa, ma era piacevolmente mite, pulita e impregnata del profumo di resina e aghi di pino.
Mentre era ancora preso da quel paesaggio da fiaba, Solomon estrasse l’orologio. «Non perdiamo tempo, la Prova dell’Oro comincerà fra poco. Vieni, prenderemo il primo velodrago disponibile per la Cittadella, non possiamo usare il salto fin là.»
Dopodiché, lo guidò giù per una scala di pietra su cui si riversavano fiotti di bouganville; il parco in cui il Meridiano li aveva trasportati sembrava a sua volta una città distribuita su vari terrazzamenti, ognuno dei quali conteneva un micro-ecosistema di piante, insetti e uccelli. Mentre percorrevano un viale ombreggiato da palme, dei buffi pennuti simili a piccioni obesi attraversarono loro la strada starnazzando come oche. Incuriosito, Jim ne avvicinò uno, che però quasi gli staccò un dito col becco affilato.
«Non importunare i dodo» lo riprese Solomon, senza fermarsi. «Se dai loro confidenza poi non te li togli più di torno.»
Superarono i cancelli d’oro dell’Arboreto, maestosi come quelli di un palazzo imperiale, e si ritrovarono in una sorta di stazione ferroviaria ma senza rotaie, dove si era riunito un gruppo eterogeneo di persone, maghi e streghe indiani, caucasici, arabi, africani e asiatici. Vestivano abiti sgargianti ed erano tutti incredibilmente belli, ma le loro facce avevano qualcosa di strano: le iridi avevano colori eccessivamente brillanti, la pelle era priva di imperfezioni, i capelli tinti di assurde tonalità come se indossassero parrucche.
Sembrava che fossero in attesa di qualcosa e quando Jim domandò al maestro cosa stessero aspettando, un suono stridente riverberò nell’aria e subito dopo un’ombra oscurò il sole.
Jim alzò la testa e non riuscì a trattenere un’imprecazione, quando una creatura color bronzo planò verso la banchina; aveva una forma sinuosa, come quella di un serpente d’acqua, con ali sottili e il dorso irto di aculei. Non era più grande di una locomotiva, ma Jim ne fu così impressionato che rimase congelato sul posto con gli occhi sgranati.
Nell’istante in cui la creatura atterrò davanti alla banchina, generando un notevole spostamento d’aria, posò delicatamente a terra un grosso vagone di metallo, a cui stava saldamente aggrappato con le zampe posteriori provviste di artigli. Le porte del vagone si spalancarono per lasciar entrare i viaggiatori, ma quando Solomon si avvicinò Jim ebbe qualche esitazione a seguirlo.
«Sali, stai attirando l’attenzione» incalzò lo stregone. «Non c’è niente di cui aver paura…»
«Col cazzo che salgo! Quello è un drago?!»
«Tecnicamente sarebbe una viverna. Ma è del tutto innocua. Ti dai una mossa o no?»
Jim inghiottì le sue perplessità assieme alla poca saliva rimastagli e saltò sul predellino prima che le porte si chiudessero ermeticamente. Solomon trovò due posti liberi accanto al finestrino e, mentre la creatura si issava nuovamente in volo, Jim si aggrappò con forza al sedile; avrebbe tanto voluto che anche lì ci fossero cinture di sicurezza ma, ahimè, non ne vide.
«I veri draghi si sono estinti secoli fa» spiegò lo stregone sottovoce. «Gli esemplari che vedrai qui sono stati creati in laboratorio dagli alchimisti, partendo da fossili; possiedono una runa, stampata da qualche parte, che permette loro di controllarli.»
«In pratica questi alchimisti sono un po’ come degli scienziati?»
«Non dire la parola con la s» bisbigliò lui. «Lo sai che è tabù. Però sì, sono dediti alla ricerca e alla sperimentazione: il Cerchio d’Oro è il vero motore di Arcanta, ecco perché è così influente.»
C’era troppa gente a portata d’orecchio per continuare la conversazione in tranquillità, perciò, Jim represse le vertigini e guardò fuori dal finestrino; Arcanta sfilava sotto di loro, con le sue vie tortuose, le vaste piazze affollate, le scalinate ripidissime, gli anfiteatri e i giardini. Sembrava impossibile che una città tanto vasta fosse contenuta tutta in una gola così stretta. Si imbatterono in altri velodraghi, che attraversavano la valle trasportando altrettanti vagoni stipati di viaggiatori e tutti sembravano andare nella stessa direzione.
A un tratto, il velodrago compì una virata per aggirare un promontorio di roccia e fu inghiottito dall’ombra di un imponente edificio bianco: una gigantesca torre a spirale culminante con una cupola in vetro e acciaio, luminosa come un faro.
Jim dovette piegare la testa all’indietro per abbracciarla per intero con lo sguardo; era la stessa che aveva visto in foto sulla prima pagina dell’Oraculum. La Cittadella.
Lì, da qualche parte, c’era la sede del famoso Decanato e del Cerchio d’Oro.
Lì avrebbe rivisto Alycia.
Il velodrago scese di quota e dopo aver compiuto almeno sette giri intorno alla torre – era davvero immensa –, finalmente atterrò. La gente scese a frotte inondando il marciapiede di sbarco in un vociare eccitato. Ad accoglierli trovarono una gran folla e ancora una volta Jim ebbe l’impressione che fossero tutti belli in modo artificioso, quasi disumano. Esibivano sorrisi davvero troppo bianchi e nemmeno l’ombra di una ruga. La cosa iniziava a metterlo a disagio…
La Cittadella svettava proprio sopra di loro e all’ingresso vi erano tre statue così colossali che Jim dovette ripararsi gli occhi dal sole quando alzò lo sguardo per vederne le facce. Il primo, con tratti mediorientali e un turbante in testa, aveva tra le mani un libro. Il secondo portava una lunghissima barba e reggeva una bilancia e il terzo, imberbe e vestito alla greca, impugnava una spada.
Erano Farabi, Malachia e Tolomeo, i tre Fondatori. [1]
Ai lati delle statue fluttuavano nel vento degli stendardi neri, sui quali era ricamato lo stemma di Arcanta: gli attributi dei Fondatori, libro, bilancia e spada, più tre api d’oro.
Accanto a Jim, Solomon stava sistemando la giacca con aria nervosa; sembrava proprio che il loro arrivo non fosse passato inosservato e molti, riconoscendolo, avevano iniziato a bisbigliare e a indicarlo, tant’è che presto il nome di Solomon Blake risuonò svariate volte fra la folla. La cosa pazzesca era che il loro vociare conteneva una moltitudine di lingue diverse, ma nel momento in cui Jim prestava attenzione a ogni discorso si accorse di capire perfettamente cosa si dicevano:
«È proprio lui! Non pensavo che sarebbe più tornato!»
«Ma certo che è tornato! Sua figlia si sottoporrà alla Prova dell’Oro, era sull’Oraculum questa mattina.»
«E il giovane che è con lui?»
«Che possa trattarsi del suo nuovo apprendista?»
«SOLOMON BLAKE!»
Jim e Solomon si voltarono in sincrono: la folla, sconcertata da quell’improvviso ruggito, si aprì per lasciare spazio a un ometto magro, che stava venendo verso di loro a passo di marcia. Aveva i capelli azzurri sparati verso l’alto come se avesse preso la scossa, la carnagione color caramello e indossava una tunica viola svolazzante.
Lo sconosciuto giunse di fronte a loro con un’espressione talmente torva e con un tale furore, che Jim arretrò istintivamente.
Solomon invece si limitò a sollevare il cilindro in segno di saluto.
«Che la conoscenza ti illumini il cammino, Macon...»
«Oh, piantala con queste stronzate!»
L’ometto lo inchiodò coi suoi occhi di colori diversi: uno era verde brillante, l’altro marrone, entrambi cerchiati da un vistoso trucco dorato.
«Come ti permetti!» Era incredibile che un uomo così minuto potesse produrre una tale esplosione sonora. «Con che faccia ti ripresenti qui?»
Jim si volse verso Solomon, allarmato; quello strano tipo doveva essere Macon Ludmoore, l’Arcistregone del Sud. E aveva l’aria di volerlo prendere a pugni o peggio proprio lì, di fronte a tutti.
Lo stregone però continuava a ricambiare il suo sguardo con espressione indecifrabile.
«Con una faccia migliore della tua, poco ma sicuro.»
Macon Ludmoore sollevò le sopracciglia celestine.
«Non si direbbe, stai invecchiando. Ne sei in grado persino tu a quanto pare!»
«Dicevi sempre che ero vecchio anche a diciassette anni.»
Si fissarono per un lungo, teso istante negli occhi. Poi, scoppiarono a ridere e si abbracciarono. Jim era allibito.
«Ah, accidenti a te!» esclamò Macon, mettendo un braccio attorno alla vita di Solomon, che lo superava di una testa buona. «Giuro, quando mi hanno detto che saresti tornato non ci potevo credere! Ti sei fatto proprio desiderare!»
«Mi conosci: preparavo un’entrata a effetto» replicò Solomon con un sorriso smaliziato.
L’attenzione di Macon si spostò su Jim e un brivido d’ansia gli serpeggiò sulla nuca.
«È lui, vero?» chiese in tono eccitato. «Quello di cui parlano tutti?» 
«Lui è Winston» rispose semplicemente Solomon. «Winston Cavendish, il figlio di Roland. Ti ricordi di loro, vero?»
«Ah» fece Macon, con una smorfia malcelata. «Sì, me li ricordo: nessuno li sopporta. Strano vederne uno a un evento del genere.»
«Non ci sopportiamo neanche tra di noi» disse Jim. «Pur di stare alla larga dai miei andrei a convivere con un velodrago.»
Gli era venuta così, d’istinto e sebbene non fosse una battuta concordata, sembrò divertire l’Arcistregone del Sud.
«Questa è bella!» ridacchiò. «Un Cavendish col senso dell’umorismo! Perché diamine lo hai tenuto nascosto finora?»
«Nascosto? Oh, siamo solo stati molto presi dalle nostre ricerche» replicò Solomon con leggerezza. «Arcanta mi è sempre stata stretta: perché passare la vecchiaia chiuso in biblioteca quando il mondo offre così tante cose da scoprire?»
Se la stavano cavando piuttosto bene, pensò Jim. Forse, in fondo il maestro si era preoccupato eccessivamente, se i suoi colleghi erano tutti così alla mano.
«E che mi dici della piccola Alycia?» riprese Macon con calore. «Sembra ieri che si intrufolava dappertutto come un topolino e adesso sta per essere sottoposta alla Prova dell’Oro! Devi esserne orgoglioso! So anche che è diventata una donna davvero incantevole.»
«Il tempo vola» convenne Solomon. «È sempre difficile accettare che i ragazzi crescano così in fretta.»
«Anche noi siamo stati ragazzi» intervenne una voce femminile. «E adesso guardatevi: siete lì a rivangare i tempi andati come due vecchietti.»
Una donna alta, bionda, e con in testa un cappello con veletta aveva appena fatto la sua comparsa in mezzo a loro; la sua pelle era bianca come panna, le forme sinuose fasciate nella seta verde, e un sorriso ironico le aleggiava sul volto senza età. Era così affascinante ed emanava tale aura di potere che sembrò eclissare ogni altra persona attorno a loro, e Jim capì immediatamente che si trattava di Una Duval, l’Arcistrega dell’Est.
Solomon le fece un baciamano galante. «Nel tuo caso sembra che il tempo si sia fermato, Una. Sei sempre la stella più abbagliante.»
«E tu il solito mascalzone insolente» replicò la donna, con voce di seta. «Non immaginavo saresti venuto alla fine. Credevo ne avessi abbastanza di Arcanta, e soprattutto di noi.»
«Pare proprio che questa città abbia ancora qualcosa da offrire» replicò Solomon con un’alzata di spalle. «Inoltre sono sempre un papà e per la mia Alycia farei qualsiasi cosa.»
Una gli rivolse un lungo sguardo indagatore, dopodiché anche lei si volse verso Jim, puntando su di lui due inquietantissimi occhi gialli dalle pupille verticali, come quelli dei gatti o dei serpenti velenosi. Occhi da predatore.
«E chi è questo pulcino dall’aria sperduta?»
Jim sollevò un sopracciglio. In vita sua le donne l’avevano chiamato in tanti modi, alcuni molto poco lusinghieri…ma pulcino?
«Winston Cavendish, il mio nuovo apprendista» rispose Solomon tranquillo. «Ma ovviamente, questo lo sai già.»
La strega osservò Jim con più attenzione, dietro la rete di pizzo nero, e lui ebbe l’improvvisa sensazione che una pioggia di spilli gli stesse perforando il cranio.
Sentì ogni pelo in corpo drizzarsi. Solomon lo aveva messo in guardia sui suoi poteri psichici e l’unico modo per resisterle era mantenere il più possibile la mente sgombra, così si affrettò a recitare mentalmente una filastrocca, sperando che bastasse a sviarla.
«Bene» concluse lei in tono enigmatico. «Avremo modo di fare conoscenza.»
Fortunatamente tornò agli altri due, e Jim poté riprendere a respirare. «Dovreste affrettarvi a prendere posto, la cerimonia sta per iniziare.»
«Boris non si unisce a noi?» domandò Solomon con quello che voleva sembrare un tono disinteressato.
«Naturalmente» gorgogliò Una. «Non si perderebbe il debutto della sua favorita per nulla al mondo!»
Solomon mantenne intatto il suo sorriso, ma a Jim non sfuggì che le dita con cui stringeva il bastone erano sbiancate. Ci avrebbe scommesso qualunque cosa che si stava sforzando di non tirare fuori l’orologio.
I tre stregoni e il ragazzo seguirono la fiumana di gente su per delle gradinate di marmo fino all’ingresso della Cittadella, proprio ai piedi delle tre gigantesche statue: ad attenderli trovarono due stregoni e due streghe in uniforme che controllavano i documenti di ognuno. Erano armati di strani scettri con una pietra luminosa sulla punta e solo quando fu abbastanza vicino, Jim si accorse che accanto a ciascuno di loro vi era una imponente armatura di ferro che brandiva una lancia; se ne stavano immobili come statue, ma mettevano decisamente in soggezione. Erano alte almeno due metri e un complesso arabesco di simboli decorava le loro armature; le lunghe picche che stringevano nei pugni metallici avevano lame affilate come rasoi e incrostate di sangue secco. Quando però Jim osservò le fessure nei loro elmi, all’altezza degli occhi, si rese conto che erano cave.
Ve ne erano moltissime, disposte con ordine lungo tutto il perimetro alla base della torre. Sembrava controllassero la folla, attente a ogni insolito movimento.
Il suo cuore cominciò a battere più in fretta.
«Guardiani Silenti» sentì mormorare Solomon. «Hanno addirittura riesumato quei rottami inquietanti per una cerimonia del genere? Chi sperano di spaventare?»
«Cerca di capire» disse Macon a bassa voce. «Non è per spaventare, ma per rassicurare: dopo la Guerra Civile la gente aveva bisogno di tornare a sentirsi al sicuro. Tu non c’eri, non hai idea di che clima regnasse da quando... be’ da quando Lei ha abbattuto le nostre difese. Tempi duri richiedono misure dure.»
«Sì, l’ho sentito dire spesso» fu l’unico commento di Solomon.
Intanto, era arrivato il turno di Jim.
«Documenti, per favore» disse la strega in uniforme con voce atona.
Con lo stomaco annodato e il cuore in gola, Jim occhieggiò timoroso le armature e tirò fuori dalla redingote i fogli ripiegati, augurandosi che Solomon fosse un ottimo falsario. La strega diede una rapida lettura, dopodiché passò la pietra in cima allo scettro sopra la carta. Non accadde assolutamente niente e lei gli restituì il tutto con un formale: «Benvenuto, cittadino.»
Incredibile. Ce l’avevano fatta. Jim resistette all’impulso di svuotarsi in un gran sospiro e girarsi vittorioso verso Solomon, e si affrettò a valicare le porte prima che la guardia ci ripensasse.
Attraversarono un atrio rivestito di marmo ed entrarono in una vasta sala ottagonale dal soffitto a cupola. Il motivo delle tre api d’oro ritornava ossessivamente negli affreschi, nei dettagli architettonici, persino su vestiti, gioielli e acconciature delle signore.
Ancora una volta, alla vista di Solomon molte teste si girarono in sua direzione e subito dopo, per riflesso, su Jim. Era strano, di solito si trovava perfettamente a suo agio sotto i riflettori, ma in quel momento avrebbe dato qualunque cosa perché la smettessero di fissarlo...
Poi però vide Alycia e ogni altro pensiero passò in secondo piano.
Indossava un’austera veste di panno grigia simile a un saio e aveva i capelli tirati sulla nuca. Era più pallida di quanto ricordasse ma sempre bella, e non appena incrociò il suo sguardo tra la folla, gli venne incontro con passo deciso.
Lo stomaco di Jim fece un gran balzo, come se scendendo le scale avesse saltato un gradino, ma prima che riuscisse a formulare qualcosa di intelligente da dire, lei sbottò: «Che diamine ci fai qui?»
Le parole gli morirono in gola. Dopo il loro ultimo incontro, si era immaginato molte volte come sarebbe stato rivederla. Certo, non si aspettava che lei gli gettasse le braccia al collo e gli sussurrasse parole d’amore, dell’imbarazzo sarebbe stato più che normale. Ma non si aspettava neanche di essere aggredito in quel modo.
«Be’ ciao, anche io sono contento di vederti» disse in tono sostenuto «Accompagno tuo padre, visto che sono ancora suo apprendista e ho ricevuto l’invito.»
«Cosa?» fece lei, strabuzzando gli occhi. «Io non ne sapevo niente.»
«Non ci tratterremo a lungo» intervenne Solomon, comparendo al fianco di Jim. «È un momento importante per te, pensa solo alla cerimonia e non preoccuparti di nient’altro. Io e tuo cugino Winston saremo qui in disparte.»
Dopo un primo attimo di smarrimento, Alycia decise di reggergli il gioco, ma la sua espressione rimase tutt’altro che distesa.
In quel momento, le porte d’ingresso si spalancarono e una raffica di vento polare entrò di prepotenza nella sala: subito dopo, comparve un uomo molto alto, dalla barba screziata di grigio e avvolto in un pastrano orlato di pelliccia ispida. Al suo seguito entrarono con passo marziale una dozzina di ragazzi e ragazze, tutti in uniforme nera e argento, accompagnati da una scia di cristalli di ghiaccio.
«Ed ecco Boris!» disse Macon allegramente. «Le sue entrate sono sempre scenografiche!»
Boris Volkov, l’Arcistregone del Nord, venne loro incontro con andatura claudicante, aiutandosi con un bastone simile a quello di Solomon, ma con l’impugnatura a forma di testa di lupo.
«Si direbbe proprio una bella rimpatriata» commentò con voce aspra, simile al suono dell’acciaio che sfrega contro il legno. «Erano secoli che i Quattro non si riunivano nella stessa stanza.»
Si fermò di fronte a Solomon.
«Ciao, Bo» disse l’Arcistregone dell’Ovest in tono cordiale. «Ti trovo bene.»
Volkov scagliò su di lui i suoi taglienti occhi grigi; a differenza dei due colleghi, era evidente quanto la presenza di Solomon gli fosse sgradita e non si sforzava minimamente di nasconderlo.
«Tu invece hai perso smalto» valutò e un ghigno si disegnò sul suo volto, affilato come la lama di un coltello. «Ma forse è solo merito del naso: vanitoso come sei, mi aspettavo che lo sistemassi subito dopo che te l’ho spaccato.»
Jim lanciò un’occhiata tesa al maestro.
«Ci ho pensato, ma pare che le donne trovino affascinanti i piccoli difetti» rispose lui, ricambiando il sorriso.
Boris gli si fece più vicino, scrutandolo con estrema attenzione. «E dimmi un po’, com’è la pensione? Noiosa? Quando finalmente ti deciderai di tornare in azione, sappi che ci sono delle novità su cui dovresti essere messo al corrente.»
«Sono perfettamente informato su tutto ciò che di interessante accade da queste parti, ti ringrazio del pensiero.»
Gli occhi di Volkov divennero due scaglie di ghiaccio.
«Sempre un passo avanti a tutti, eh Corvo Bianco?»
«Ragazzi» li riprese Una, languidamente. «Potrete riprendere a sbranarvi in un altro momento. Oggi è un giorno importante per la tua Alycia, Boris.»
«Certamente» replicò lo stregone, senza smettere di scambiarsi occhiate di fuoco con Solomon. Passò oltre e mise una grossa mano sulla spalla di Alycia.
«Spero che tu sia orgoglioso di tua figlia almeno la metà di quanto lo sono io. Se è arrivata dov’è adesso è solo merito suo: ormai aveva perso le speranze che tu tornassi.»
«E invece sono qui» rispose Solomon, posato come sempre ma stavolta con una punta di freddezza. «E finché sarò in vita, lei sarà sempre la mia Alycia.»
Il suono di un gong chiamò tutti al silenzio, mettendo fine a quella tutt’altro che distesa chiacchierata. L’attenzione dei presenti si spostò verso un portone sulla destra, da cui erano entrati degli uomini vestiti di nero, che sfilarono ordinatamente fino ai dieci scranni di marmo allineati sul podio.
«Devo andare» balbettò Alycia, sgusciando via dalla presa di Volkov. «La Prova dell’Oro sta per iniziare.»
«Buona fortuna» mormorò Jim quando gli passò davanti. Se lo aveva sentito, lei non lo diede a vedere e proseguì senza voltarsi verso il podio.
 
[1] Le loro fisionomie sono ispirate al quadro “I tre filosofi” del pittore veneziano Giorgione.

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Capitolo 29
*** La prova ***


LA PROVA

 
 
 
Un fremito di curiosità si propagò per la sala, ma fu messo a tacere nel momento in cui uno dei vecchi stregoni si alzò in piedi; era alto, magro, con il pizzetto appuntito e la testa rasata, a eccezione per un sottile codino nero dietro la nuca. Come gli altri nove, indossava una tunica di velluto nero abbottonata fino alla gola, con tre api d’oro ricamate sul petto. Il suo sguardo severo percorse la folla e solo quando ci fu assoluto silenzio, prese la parola:
«Benvenuti, cittadini. Il mio nome è Melkisedek di Yazd, Primo Alchimista del Cerchio d’Oro. Oggi, come ogni anno, il Decanato offre la possibilità a dieci giovani virtuosi di mettere le proprie competenze al servizio di Arcanta. La nobile arte dell’alchimia necessita menti pronte, grande passione e dedizione allo studio, nonché, uno spiccato senso del dovere nei confronti della nostra grandiosa città. Sotto lo sguardo indulgente dei Fondatori ascolteremo le innovazioni che i nostri candidati intendono offrire. Ma prima, unitevi a me nella declamazione del Giuramento.»
Detto ciò, allargò le braccia come ad accogliere l’intera cittadinanza. Le labbra di ciascuno dei presenti si mossero in perfetta sincronia, finché le loro voci non riempirono la sala. Jim lo aveva imparato a memoria e cominciò a sua volta a declamare quella litania prega di devozione stucchevole e gratitudine nei confronti della “Città della Pace”, ma notò che Solomon, accanto a lui, non aveva aperto bocca.
Al termine del Giuramento, lo stregone col codino abbassò le braccia e tornò immediatamente il silenzio. Dopodiché, tra le sue mani apparve una pergamena bianca. La srotolò e disse: «Si presenti il candidato Maddock Astraël, dalla Corte delle Lame.»
Un ragazzo sulla ventina, allampanato e coi capelli color paglia, trottò fino al podio stringendo al petto il proprio grimorio. Si posizionò di fronte un leggio di marmo scolpito a forma di gufo reale con le ali spiegate, schiarì la voce e attaccò con voce squillante: «Ringrazio Saggio Melkisedek per la parola. La mia tesi…»
Cominciò a esporre i suoi studi sull’allumanzia, una pratica che consentiva di attingere particolari poteri dai metalli. Diede anche una piccola dimostrazione pratica: dalla tasca, estrasse un frammento di ferro grezzo. Lo fece esaminare ai Decani, che se lo passarono di mano in mano senza fare commenti, e dopo averlo manipolato per qualche secondo borbottando una formula, le sue mani assunsero una colorazione grigio-argentea. Mostrò il palmo aperto e con l’altra mano estrasse un pugnale; nel momento in cui provò a trapassarsi il palmo, la lama si spezzò e la punta cadde sul podio con un tintinnio. La folla accolse la dimostrazione con un applauso scrosciante.
«Niente male» commentò Jim, colpito. Con un numero del genere, avrebbe fatto un figurone sul palco.
«E come ritieni che questa scoperta possa essere un vantaggio per Arcanta?» domandò il Decano di nome Melkisedek.
«Creando un esercito di maghi guerrieri indistruttibili» fu la pronta risposta del giovane. «Che possiedano la resistenza del ferro e la leggerezza del litio. La Corte delle Lame, in particolare, ne sarebbe rafforzata.»
Subito, gli allievi di Volkov esplosero in una tempesta di applausi.
«Contegno» li riprese con noncuranza il Decano. «Molto bene, candidato. La commissione prenderà in esame la tua proposta.»
Il ragazzo si esibì in un inchino così profondo che il cappuccio del saio gli ricadde sulla testa e lasciò il podio.
«Si presenti la prossima candidata» riprese Melkisedek. «Alycia Cecilia Blake, dalla Corte delle Lame.»
Jim allungò il collo per vedere meglio. Alycia si separò dalla schiera di vesti grigie e raggiunse in fretta il leggio; se possibile, il suo colorito si era fatto ancora più pallido, quasi verdognolo. Quando parlò, tuttavia, lo fece con voce chiara e sicura: «Ringrazio Saggio Melkisedek per la parola. Ho riflettuto a lungo su quale fosse l’argomento migliore da presentare quest’oggi e …»
Una risata argentina si levò da qualche parte alla destra di Jim; c’erano un gruppo di ragazze, tutte vestite di seta verde, che chiacchieravano e sogghignavano guardando il podio. Stavolta, Melkisedek non intervenne per ripristinare l’ordine.
Le guance di Alycia andarono in fiamme e la sua voce perse sicurezza. «E…ehm, ho pensato che la risposta fosse da ricercare fuori da Arcanta: il nostro Arboreto è sicuramente ben rifornito, ma negli ultimi secoli non abbiamo fatto progressi nella botanica applicata alla magia curativa. Eppure, ci sono ancora molte piante magiche di cui ignoriamo tutto e che ci sono rese note solo attraverso i libri. Per questo mi sono recata di persona nel Mondo Esterno, in America, per ricercare e studiare l’Anthea muscipula gigantis, o “Anthea Ingannatrice”. Si tratta di una specie molto rara e dotata di innumerevoli proprietà ancora poco conosciute…»
Ancora risatine, sempre da parte delle ragazze vestite di seta. Adesso stavano indicando Alycia, bisbigliandosi qualcosa all’orecchio per poi ridere a crepapelle. Adirato, Jim le guardò storto finché non ci diedero un taglio.
«Be’, come biasimarle» commentò una voce appena dietro di lui. «Ammettilo dai, non è stato un inizio proprio brillante.»
La voce apparteneva a una ragazza bassina, dal volto rotondo e delicato come quello di una bambola orientale; anche lei vestiva di seta verde e si stava sventolando con un ventaglio dorato.
Jim aggrottò la fronte. «Magari è solo emozionata.»
«O magari lo sa che non frega a nessuno delle sue piante.»
«A me frega» ribatté Jim. «E poi è mia cugina.»
«Ah, sì?» La ragazza col ventaglio sorrise e il suo sguardo lo percorse per intero, lento, come una carezza. «Non vi somigliate per niente.»
«Ehi, Mei Lin» la chiamò una delle altre ragazze. «Noi ci siamo rotte, andiamo a cercare qualcosa da bere.»
«Arrivo.» Si rivolse di nuovo a Jim. «Ci fai compagnia? Se non sei troppo preso dalle piante.»
«Sto bene dove sono, grazie.»
«Come vuoi.» Mei Lin ammiccò con aria furba. «Ci vediamo in giro allora.»
E lei e le sue amiche sparirono tra la folla, continuando a ridacchiare. Accigliato, Jim scosse la testa e tornò a guardare il podio, dove Alycia stava continuando il suo discorso:
«Tra le proprietà dell’Anthea vi è quella di assorbire dall’ambiente ciò che la fortifica. Questo le ha permesso per esempio di essere immune al veleno di molti serpenti, di sviluppare capacità mimetiche, addirittura di pianificare agguati su misura per le sue vittime…»
Ne sappiamo qualcosa, pensò Jim con un mezzo sogghigno.
«In sostanza, l’Anthea impara da quello che le accade intorno e anche noi potremmo imparare molto da lei» disse Alycia. «Ho portato ad Arcanta un esemplare nella speranza che possa essere studiato, in virtù della caratteristica di questa pianta di crescere senza limiti con un’adeguata stimolazione sonora. Ciononostante, ritengo che osservarla nel suo habitat sia indispensabile per comprenderne meglio la natura…»
«Perciò» intervenne con voce strascinata uno dei Decani. «Ciò che suggerisci, candidata Blake, è di organizzare delle spedizioni esplorative nel Mondo Esterno?»
A parlare questa volta era stato un vecchio dalla barba corta, bianca e ben curata.
Aveva occhi spenti, di un azzurro talmente chiaro da sembrare vetro e fissava Alycia con atteggiamento beffardo e paternalistico.
«Ciò che suggerisco» rispose Alycia con prudenza. «È di affrontare lo studio dell’Anthea secondo i precetti che il Cerchio d’Oro ci ha insegnato: analizzando i fatti come sono, senza filtri e senza pregiudizio alcuno. Se l’Anthea fosse studiata ad Arcanta, penso che i risultati ottenuti perderebbero validità. Inoltre, è la dimostrazione che le piante magiche si sono adattate perfettamente a un mondo sempre più povero di magia…»
Jim sentì Solomon irrigidirsi al suo fianco.
«Attenta» mormorò muovendo appena le labbra.
Il Decano sorrise con dolcezza. «Capisco. Del resto, non potevamo aspettarci nulla di meno da una Blake. So però che sei anche imparentata anche con gli Alicante, corretto?»
La domanda sembrò gettare Alycia in confusione. «Io…sì, mia madre era Isabel Alicante. Ma non capisco come questo…»
«Gli Alicante sono stati eccellenti alchimisti per generazioni» la scavalcò il Decano, facendo finta di niente. «Tuo nonno, Esteban Alicante, è stato Primo Alchimista e ha inventato la formula per l’acciaio alchemico, no?»
«È così, ma …»
«Tu invece proponi di investire tempo e risorse per studiare una pianta» concluse il Decano accarezzandosi la barba. «E vuoi convincere il Cerchio d’Oro a esporre i nostri preziosi studiosi ai rischi del Mondo Esterno.»
Un brusio concitato serpeggiò per la folla e Jim vide molti scambiarsi sguardi indignati. Quanto a lui, si sentiva bollire di rabbia. Perché le stavano facendo questo? Che bisogno c’era di umiliarla pubblicamente? Se non volevano prendere in considerazione la sua tesi, potevano evitare di farla salire su quel maledetto podio…
Alycia ignorò il vocio in sala e sostenne lo sguardo derisorio del vecchio mago. «Ho trascorso tre mesi nel Mondo Esterno e come tutti potete vedere, sono tornata sana e salva. A che serve sapere tutto quello che sappiamo, essere addirittura capaci di trasformare il nostro corpo in metallo, se facciamo di tutto per evitare anche solo la possibilità del pericolo?»
«Non è questa la sede per discutere delle politiche del Decanato, candidata» si intromise a quel punto Melkisedek con voce asciutta. «Limitati a esporci la tua tesi: in che modo ritieni che possa essere un vantaggio per Arcanta?»
«La nostra gente vive a lungo e non conosce la maggior parte delle malattie che affliggono il resto dell’umanità» rispose Alycia, senza più alcuna traccia di esitazione nella voce. «Ma la pratica estremamente diffusa di combinare matrimoni all’interno di poche famiglie di Sanguepuro ha impoverito il nostro patrimonio genetico: salvo rare eccezioni, ad Arcanta ci sono sempre meno nascite in rapporto con la lunghezza media della vita di maghi e streghe. La linfa estratta dall’Anthea è invece usata nel Mondo Esterno come rimedio per la sterilità sin dai tempi più antichi, proprio in virtù della sua capacità di riprodursi rapidamente e in qualsiasi condizione. Potrebbe essere un efficace sistema per salvare la nostra razza dall’estinzione.»
Melkisedek interrogò con gli occhi i membri della commissione, ma stavolta persino il vecchio Decano barbuto non trovò obiezioni; se aveva sperato di intimorirla, aveva ottenuto l’effetto opposto, perché il volto di Alycia adesso irradiava una cocente determinazione. Jim la trovò splendida.
«La commissione prenderà in esame la tua proposta» decretò infine Melkisedek. «Si presenti il prossimo candidato.»
Alycia chiuse il grimorio e tornò al proprio posto; contrariamente al suo predecessore, non si inchinò, ma offrì ai Decani solo un breve cenno del capo.
«Si è difesa bene» approvò Solomon.
«Non hanno alcuna intenzione di ammetterla» disse Jim, voltandosi a guardarlo in cerca di spiegazioni. «Lo sapeva, non è così? Perché l’ha lasciata andare lo stesso?»
«Perché nessuno ha il diritto di dire ad Alycia cosa può e cosa non può fare, nemmeno io. E poi è figlia di sua madre: non sarebbe mai scesa da quel podio senza lasciare qualche graffio.»
Vennero chiamati altri candidati in ordine alfabetico: un ragazzo appartenente alla Corte dei Miraggi dimostrò la sua abilità nel rimpicciolire gli oggetti e in particolare i libri per ricavare spazio nella Biblioteca della Cittadella; un altro illustrò un incantesimo che permetteva di datare con precisione certosina qualsiasi tipo di documento scritto, e un altro ancora era in grado di trasformare gli oggetti solidi in vapore per facilitarne il trasporto.
Erano tutti progetti interessanti, ma la cosa che più di tutte colpì Jim fu che, a eccezione di Alycia, non vi furono altri candidati donne.
Al termine delle presentazioni, Melkisedek annunciò gli ammessi: «Dyonisus Orpheline, il Cerchio d’Oro ti dà il benvenuto.»
Il ragazzo che sapeva datare i documenti si fece avanti e il Decano compì un gesto solenne per materializzare sulla sua testa una coroncina di alloro. Accompagnato dagli applausi, il giovane alchimista tornò a occupare il proprio posto con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
«Alycia Cecilia Blake, vieni avanti.»
La folla riprese a mormoreggiare. Jim fissò Alycia, che in un primo momento non parve realizzare che avessero chiamato proprio lei. Poi, timidamente si avvicinò al Decano.
«La tua Prova è stata portata a termine con successo» disse sollevando una mano. «Benvenuta nel Cerchio d’Oro.»
Magicamente, l’ennesima sottile coroncina d’alloro apparve tra i capelli neri di Alycia.
«Brava!» ruggì Macon Ludmoore, applaudendo con foga. «Quella è la mia figlioccia, gente: ricordatevi di lei, farà carriera!»
Solomon si limitò a sorridere e annuire, mentre guardava la ragazza tornare al proprio posto.
«Almeno sono stati meritocratici» commentò Jim, unendosi agli applausi.
«Aspetta a cantare vittoria» replicò invece lo stregone. «Elargire benevolenza non è nelle abitudini del Decanato; la terranno d’occhio e presto o tardi esigeranno una prova di lealtà da parte sua. Si è messa in una posizione scomoda rispondendo per le rime a Blackthorn.»
A cerimonia conclusa, quando tutti i nuovi membri furono annunciati e incoronati ed ebbero preso posto ai lati della commissione, Melkisedek innalzò le braccia davanti a sé un’ultima volta ed esclamò: «Che la conoscenza vi illumini il cammino, cittadini. Lunga vita ad Arcanta!»
Solo quando i Decani ebbero lasciato il podio, sparendo in fila indiana dietro la porta da cui erano entrati, la folla si disperse e un allegro chiacchiericcio si diffuse nella sala; la gente commentava entusiasta le dimostrazioni a cui aveva assistito, si congratulava con i genitori dei ragazzi ammessi. Ma Jim assistette anche a una scena terribile, quella di un mago che prendeva a schiaffi davanti a tutti il ragazzo coi capelli color paglia che era in grado di trasmutare il suo corpo in metallo, ma che non era stato preso.
«Sei un disonore per la famiglia» sibilò quello che presumibilmente era suo padre. «Persino una donna ha fatto meglio di te!»
Nessuno tra i presenti intervenne in sua difesa. Il ragazzo incassò il colpo senza emettere un suono, ma Jim non riuscì a togliersi dalla mente la sua espressione avvilita, la guancia rossa e gonfia e i suoi occhi lucidi per il resto della giornata.
Nel frattempo, in mezzo a quel trambusto, si accorse di aver perso Blake e Alycia.
Si fece largo in un mare di gente, seta e parrucche; i colori troppo accesi, i profumi troppo forti e le voci che si sovrapponevano iniziavano a stordirlo.
Individuò Alycia e suo padre accanto a un colonnato; erano stati letteralmente presi d’assalto da un quartetto di maghe dagli abiti colorati e vaporosi come bomboniere, che pizzicavano le guance di Alycia e le facevano un sacco di complimenti. In realtà, da come si mangiavano Solomon con gli occhi, era evidente che stessero più che altro cercando di fare colpo su di lui.
Jim puntò dritto in loro direzione, ma a un tratto una voce squillante urlò: «Che mi venga un colpo! Solomon Blake e il suo nuovo apprendista! Questa sì che è una notizia da prima pagina!»
Jim non fece in tempo a capire chi avesse gridato, perché un flash gli esplose negli occhi, accecandolo per alcuni istanti. Quando riuscì a mettere di nuovo a fuoco, si trovò di fronte un individuo in redingote bianca, grasso e biondo, con baffoni da tricheco e un paio di occhi azzurrissimi spalancati sul volto incipriato. Lo accompagnava un giovanotto smilzo e annoiato, con in braccio un apparecchio che ricordava un obbiettivo fotografico.
«Mi presento: sono Seneca Honeyfoot» disse l’uomo tricheco, afferrandogli la mano e stringendola energicamente. «Redattore dell’Oraculum, il giornale più letto di Arcanta!»
«Ah» fece Jim. «Ehm, bello.»
«Il più letto e anche l’unico» intervenne Solomon, comparso alle spalle del mago con Alycia al seguito. «Non posso dire che sia un piacere rivederla, Honeyfoot. Ma come vede questa è una riunione di famiglia e gradirei un po’ di privacy, per una volta.»
Il tono dello stregone era così secco e autoritario che il sorriso a trentadue denti di Honeyfoot tremolò per un attimo. Poi però scoppiò in una fragorosa risata.
«Suvvia, Blake! So che in passato alcuni miei articoli sono stati un tantino...graffianti, nei suoi riguardi. Ma cosa vuole farci, è il mondo dell’informazione! E i nostri lettori sono affamati di notizie sul suo nuovo...»
«Che si trovino altro a cui pensare» tagliò corto Solomon, trascinando via Jim e Alycia dalle grinfie del giornalista. «Non abbiamo nient’altro da dirle.»
«Sappia che non finisce qui, Blake!» Li inseguì la voce tonante e zuccherosa di Honeyfoot. «Nessuno mi ha mai negato uno scoop in ottant'anni di carriera!»
«Ma che problemi ha la gente da queste parti?» borbottò Jim, ancora scombussolato.
«Te l’avevo detto che avresti attirato un sacco di attenzioni» sibilò Solomon, mentre raggiungevano l’uscita. «Sta’ alla larga da Honeyfoot, la sua penna è più affilata di una spada e quel suo giornale è una ridicola e pomposa ruffianata al Decana...»
«Dove credete di svignarvela voi tre?»
Il tentativo di fuga alla chetichella di Solomon andò a vuoto: Una e Macon li avevano raggiunti e braccati a una velocità impressionante.
«Ora che la parte noiosa si è conclusa è ora di festeggiare!» gridò Macon raggiante. «Ho già provveduto a tutto! Darò un piccolo ricevimento alla Corte dei Miraggi questa sera: una cosuccia intima, solo pochi invitati, e tu e i ragazzi ovviamente sarete miei ospiti!»
Jim guardò Solomon; se la proposta lo aveva allarmato, riuscì a dissimularlo bene.
«Sei molto gentile, Macon» replicò con un sorriso. «Ma Winston non può permettersi di restare indietro col suo programma, ripartiremo subito...»
«Oh, sciocchezze!» esclamò l’Arcistregone del Sud, con un gesto frettoloso. «Non crederai di sparire così dopo tutti questi anni di latitanza! Abbiamo così tante cose da raccontarci! E poi sono sicuro che al tuo giovane apprendista farà bene svagarsi un po’, non esiste solo lo studio nella vita!»
«Macon, ti sono davvero riconoscente, ma...»
«Solomon Blake che rifiuta un invito a una festa è qualcosa che non mi sarei mai sognata di sentire» commentò Una, gli occhi da gatta fissi su di lui. «Qualcuno potrebbe anche pensare che abbia qualcosa di più importante da fare. O da nascondere.»
«Solo uno sciocco penserebbe di tenerti nascosto qualcosa, mia cara» replicò Solomon con un inchino.
«Perfetto, allora è deciso!» tuonò Macon. «Dopotutto, una piccola festa non ha mai ucciso nessuno!»

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Capitolo 30
*** La Corte dei Miraggi ***



LA CORTE DEI MIRAGGI

 




La prima impressione di Jim fu che la casa dell’Arcistregone del Sud si meritasse assolutamente il suo nome.
Il velodrago lasciò lui e Solomon di fronte a un vestibolo con arcate a ferro di cavallo rivestite da azulejos variopinte e dopo averlo superato si ritrovarono catapultati in una pagina illustrata delle Mille e una notte: aranci in fiore, mirti e palme da datteri facevano da cornice all’enorme palazzo, che splendeva nella luce vellutata del crepuscolo con le sue cupole dorate. Allievo e maestro percorsero una serie di cortili abbelliti con fontane zampillanti e vasche di ninfee; pavoni e fenicotteri rosa scorrazzavano nei giardini, e fra gli alberi, Jim vide pappagalli colorati e persino delle scimmie.
Tuttavia, c’era qualcosa di strano in quel posto. I fiori non lasciavano cadere nemmeno un petalo e nessuno di quegli animali aveva emesso un solo suono da quando erano entrati. Per Jim, che in mezzo agli animali del circo ci era cresciuto, la spiegazione fu presto chiara.
«Sono tutte illusioni.»
«Macon Ludmoore è il miglior illusionista al mondo» gli ricordò Solomon. «La Corte dei Miraggi è il suo palcoscenico e quello dei suoi apprendisti: non dare mai niente per scontato mentre siamo suoi ospiti.»
«Sta dicendo che non possiamo fidarci di lui? Avevo capito che foste amici.»
Lo stregone sospirò. «Mi piacerebbe crederlo. C’è stato un tempo in cui eravamo legati, ma dalla guerra contro l’Eretica sono passati anni e hai visto in che modo i Decani hanno indottrinato la gente di qui.»
Jim annuì, ripensando alla cerimonia a cui avevano appena assistito; il popolo di Arcanta amava la città che lo aveva accolto e protetto per secoli e credeva ciecamente in chi lo governava.
«Non mi illudo di sapere a chi offrirebbe la sua lealtà» proseguì Solomon con amarezza. «Se gli chiedessi di scegliere tra Arcanta e un vecchio nevrotico con tendenze autodistruttive.»
Non ha mica tutti i torti, convenne Jim, ma decise di tenere quel pensiero per sé. «Quindi, qual è il piano?»
«Sempre lo stesso: profilo basso con chiunque. Anche se a quest’ora saremmo già al sicuro a casa, se non ti fossi messo tanto d’impegno per stare simpatico a Macon.»
«Adesso sarebbe colpa mia?» protestò Jim. «Non posso farci niente se sono adorabile!»
«Non siamo qui per socializzare.»
«Neanche a lei non farebbe male, sa?» disse Jim. «Essere più socievole: forse il suo naso adesso sarebbe ancora dritto.»
Solomon non replicò, ma un guizzo della bocca rivelò che stesse trattenendo un sorriso.
L’Arcistregone del Sud li attendeva all’ingresso, con un piccolo lemure abbarbicato sulla sua testa e due giovani in uniforme viola e bronzo al suo fianco.
«Benvenuti alla Corte dei Miraggi!» li accolse con la solita vivacità, incurante del lemure che gli rovistava tra i capelli blu. «Entrate, entrate! Cyrus e Tariq vi mostreranno dove alloggerete. Fate come se foste a casa vostra e rilassatevi, siete tra amici!»
Entrati nell’atrio, Jim fu scortato alla sua stanza dal ragazzo di nome Tariq. Attraversarono anticamere e corridoi dai soffitti animati in modo spettacolare, con deserti in cui il vento mutava forma alle dune come onde e savane assolate dove gli elefanti giocavano spruzzandosi getti d’acqua addosso per rinfrescarsi. E mentre Jim li contemplava col naso all’insù, Tariq osservava lui.
«Alcuni di quegli affreschi sono opera mia» lo informò con orgoglio. «Il maestro ci dà molta libertà di iniziativa, così ci divertiamo a modificare l’aspetto della Corte come più ci piace.»
«Siete degli ottimi arredatori.»
«E il tuo maestro com’è con te?» domandò poi, senza smettere di fissarlo come fosse un animale particolarmente raro. Aveva un’aria familiare, pensò Jim, la pelle scura e gli occhi a mandorla dalle ciglia lunghe come quelle di un’antilope. «Solomon Blake è famoso per i suoi metodi…poco ortodossi.»
«Be’, ecco» fece Jim. «Sì, lui è dell’idea che viaggiare sia un ottimo modo per accumulare esperienze.»
«E avete viaggiato molto?»
«Abbastanza.»
«Sarà per questo che hai un accento così insolito.»
«Tu invece hai sempre vissuto qui?»
Il ghigno sfrontato di Tariq evaporò. «Sono nato a Marrakech, ma ho vissuto la maggior parte della mia vita ad Arcanta. I miei genitori non hanno voluto seguirmi.»
Jim batté le palpebre. Ecco chi gli ricordava…
«Tuo padre è Yusuf Alzanar?» chiese e quando il giovane assunse un’espressione meravigliata, spiego: «L’ho incontrato nel Meridiano. Ci teneva molto a rivederti.»
Tariq sbuffò con sufficienza. «Sì, è mio padre. Ma non credevo che sarebbe venuto sul serio.»
«Perché, non andate d’accordo?»
«La mia casa ora è la Corte dei Miraggi» affermò Tariq, con una sfumatura fredda nella voce. «Macon mi ha dato una grande occasione, se i miei genitori non sono riusciti a trovarsi un posto ad Arcanta non è un problema mio.»
Subito dopo però, gli rivolse uno sguardo tagliente. «Ho saputo che Solomon Blake non ha accettato più allievi dopo lo scontro con l’Eretica.»
«Ah» fece Jim. «Ehm, sì, l’ho sentito.» 
«E poi, esattamente diciott’anni dopo, spunti fuori tu, un Esterno per giunta» riprese Tariq, assottigliando gli occhi da antilope. «Curioso, non credi?»
«Già» disse Jim, senza sapere quale risposta si aspettasse. «Nella vita si può sempre cambiare idea, no? Magari non ha trovato ad Arcanta ciò che cercava.»
Tariq sorrise in maniera enigmatica. «Suppongo di sì. E siamo tutti molto curiosi di scoprire di cosa si tratti.»
Per fortuna, poco dopo giunsero di fronte alla sua stanza, dando a Jim un buon motivo per interrompere quella strana conversazione.
«Il ricevimento si terrà alle nove nella Sala dell’Astrolabio» disse Tariq. «Nel frattempo, la Corte è a tua completa disposizione; ti consiglio di approfittare per riposarti, le feste di Macon possono risultare impegnative per chi non ci è abituato.» E senza aggiungere altro, batté i tacchi degli stivali e lo lasciò davanti alla porta.
La camera che Macon gli aveva messo a disposizione sembrava l’alloggio di un principe, pieno di cuscini, ottomane e tappeti persiani striati dagli ultimi raggi di sole che filtravano dalle finestre traforate; il genere di ambiente, insomma, in cui Khazam sarebbe cresciuto se fosse stato un personaggio reale e Jim trovò la cosa piuttosto ironica.
Ma nel ricordare Khazam, i suoi pensieri tornarono anche al circo. Chissà cosa avrebbero detto i suoi amici di Arcanta; sarebbe stato divertente esplorare insieme ad Arthur il palazzo, e Vanja sarebbe letteralmente impazzita di fronte agli abiti e ai gioielli che esibiva la gente di lì! Sorrise a quel pensiero, ma subito dopo avvertì una fitta di tristezza lancinante, perché Arthur e Vanja non sarebbero mai venuti con lui ad Arcanta. Probabilmente, non li avrebbe rivisti mai più.
Si sforzava in tutti i modi di non pensarci, ma c’erano giorni in cui la vecchia vita gli mancava come l’aria. E in quei momenti non poteva fare a meno di chiedersi cosa stessero facendo i suoi amici, se stessero tutti bene. Se ogni tanto pensassero a lui, se anche loro sentissero costantemente quel vuoto in mezzo al petto.
Verso le otto, Solomon lo raggiunse con l’abito che gli avrebbe prestato per il ricevimento. Attese nel salottino che Jim si cambiasse dietro un separé, e quando fece la sua comparsa, gli rivolse un sorriso raggiante. «Però, che trasformazione!»
Jim invece rispose con una smorfia. «È da vecchio.»
«È classico.»
«Mi scambieranno per un cameriere!»
«Sciocchezze, sei molto affascinante» ribatté lui sventolando la mano. «E poi non possono scambiarti per un cameriere: non ce ne saranno.»
Prese a esaminarlo da varie angolazioni, neanche fosse un pezzo d’arte contemporanea.
«Vedrai che non sarà così male» disse, mentre gli rifaceva il nodo al papillon. «E poi Macon non ha tutti i torti: un po’ di divertimento ti ci vuole.»
«Pensa che gli altri suoi colleghi se la siano bevuta?»
«Difficile dirlo, per il momento sembra che stiano al gioco» disse Solomon. «Approfitterò della serata per scoprire cosa sanno: come hai detto tu, “socializzare”.»
«E nel frattempo io cosa dovrei fare?»
Solomon gli diede una pacca dietro la schiena. «Non farci uccidere, se ti riesce.»
Così vestiti, i due stregoni uscirono nel corridoio, ma si trovarono di fronte un altro allievo di Macon, un lentigginoso ragazzino sui quattordici anni che era letteralmente sbucato dalla parete.
«Il maestro mi ha chiesto di scortarvi all’Astrolabio» spiegò, col tono di chi ha sulle spalle una grande responsabilità. «Restate vicino a me, per favore: l’architettura stasera è un po’ ballerina.»
E s’incamminò con passetti frettolosi. Jim non era sicuro di aver capito, ma in effetti quel posto era un autentico labirinto, con tutte quelle scale e porte vere e dipinte a trompe-l’oeil. E presto capì anche cosa intendesse l’allievo con “architettura ballerina”.
Si stava apprestando a scendere l’ennesima scalinata, con gli occhi fissi sulla schiena di Solomon per paura di perderlo di vista, quando improvvisamente finì di faccia contro un muro; la scala si era trasformata in un affresco e sia Solomon che l’allievo erano scomparsi.
«Ma che..?»
Colse delle risate alle sue spalle e vide tre ragazzini sbucare dalle tende di un’alcova per poi sparire dietro una porta che credeva fosse dipinta.
«Ehi!» gridò Jim. «Rimettete subito a posto quella scala!»
Cercò di raggiungerli, ma la porta dietro cui si erano nascosti era tornata a essere solo un affresco molto realistico.
«Merda!»
«Signor Cavendish!» rimbombò una voce leziosa dall’altra estremità del corridoio. «Che incredibile coincidenza trovarla qui!»
Il direttore dell’Oraculum, Seneca Honeyfoot, stava venendo a passo svelto verso di lui, con le code bianche della redingote che gli svolazzavano dietro.
Oh, non adesso!
«Mi deve ancora quell’intervista, si ricorda?»
«Scusi, sono in ritardo!» replicò Jim in tono festoso e si tuffò dietro il primo angolo disponibile.
«Ma dove va? Aspetti!»
Senza avere la più pallida idea di dove stesse andando, Jim imboccò corridoi a casaccio, finché qualcuno non gli finì addosso.
Era Alycia, fasciata da un lungo vestito di satin grigio-argento. «Che fai qui? Dovresti essere con mio padre.»
«Ho avuto un piccolo contrattempo…»
«Signor Cavendish, si fermi! Le porterò via solo un minuto!»
Alycia non perse tempo e lo tirò insieme a lei all’ombra di una nicchia, poi fece saettare le dita e l’aria si increspò come uno specchio d’acqua.
Attesero immobili e in silenzio nell’angusto spazio, protetti dall’incantesimo. Sebbene non fosse proprio ciò che Jim aveva in mente, gli era mancato starle così vicino; il suo profumo inconfondibile, dolce e fresco, gli riempiva le narici e con quel vestito era bella da togliere il fiato. Dalla loro ultima sera insieme a New Orleans non aveva fatto che pensare a lei, e anche in quel momento moriva dalla voglia di annullare del tutto le distanze e mangiarla di baci. Alycia però non incrociò il suo sguardo neppure per un istante.
«Quel dannato marmocchio!» borbogliò Honeyfoot, passando loro davanti ma ignorandoli completamente. «Dove si è cacciato adesso?!»
Non appena i suoi passi si ridussero a un’eco, Alycia si sottrasse. «Bene, via libera.»
Un po’ a malincuore, anche Jim abbandonò il nascondiglio. «Gli allievi di Macon mi hanno fatto proprio un bello scherzetto.»
«Sì, è il loro modo di dire “benvenuto”» disse lei, tenendo d’occhio le estremità del corridoio. «Ci vuole un po’ di esercizio, ma non è difficile riconoscere i luoghi veri da quelli illusori: basta fare attenzione ai paradossi.»
«Paradossi?»
«Ti faccio vedere.»
Lo condusse giù per un’altra rampa di scale e indicò un vaso di gerani da cui i petali invece che cadere a terra salivano verso l’alto.
«Quando tante illusioni agiscono nello stesso luogo capita che nascano delle sovrapposizioni» spiegò.  «E la maggior parte degli allievi è troppo pigro per correggerle.»
Riprese subito il cammino e dopo un po’, si fermò di fronte a un salone grande come una cattedrale.
Tutto brillava, dal pavimento di marmo policromo alla volta blu solcata da costellazioni. Le pareti tondeggianti erano rivestite da arazzi viola e bronzo, che conferivano all’ambiente l’aspetto di una gigantesca tenda. L’Astrolabio era affollato, caldo e illuminato da una dozzina di candelabri fluttuanti; ogni tavolo traboccava di pietanze di ogni genere, zuppe aromatizzate, quaglie e conigli arrosto serviti su foglie di banano e una vasta gamma di torte a più piani coperte di glassa.  Come centrotavola torreggiavano sculture di ghiaccio a forma di pavone, mentre, proprio al centro della sala, c’era una fontana dentro cui sguazzava un trio di vere sirene con le conchiglie posizionate nei posti giusti, che porgevano ai passanti vassoi di ostriche.
Gli invitati, in abiti dalle forme e colori stravaganti, danzavano su una melodia di ʿūd, flauti e percussioni suonata da un’orchestra invisibile e tra la folla si esibivano anche ballerine rivestite di foglia doro, mimi e contorsionisti. Per un attimo, a Jim sembrò di essere tornato al circo.  
«Alla faccia della “festicciola intima”.»
«Mio padre è laggiù» disse Alycia, facendo un cenno di fronte a sé; dall’altra parte della fontana, Macon stava intrattenendo un capannello di ospiti parlando ad alta voce e indicando con ampi gesti lui e Solomon. «Raggiungilo e cerca di non perderlo più di vista, va bene? Io adesso devo andare.»
E si allontanò di nuovo in tutta fretta.
Ma Jim stavolta la rincorse: «Aspetta! Non hai nient’altro da dirmi? Sono venuto fin qui apposta per te.»
Dopo pochi passi Alycia si fermò, le spalle rigide. Poi, tornò indietro e lo fissò dritto negli occhi. «Sì, qualcosa da dirti ce l’ho: è stato da irresponsabile venire ad Arcanta.»
Jim rimase spiazzato. «Ma io…»
«Stai mettendo tutti noi in pericolo, te ne rendi conto? Me, mio padre, te stesso!»
«Guarda che tuo padre era d’accordo» replicò Jim. «E poi credevo che quella cerimonia fosse importante per te.»
«Io non te l’ho chiesto.»
Jim sbuffò con impazienza. «Sì, è così che funziona: quando vuoi fare un gesto carino per qualcuno non aspetti che te lo chieda!»
«Alycia, cara!»
Una ragazza avvolta in un cheongsam[1] cremisi dai ricami in oro si fece largo tra la folla, con una sigaretta a bocchino languidamente tenuta tra le dita.  Alycia alzò gli occhi, ma ingessò la faccia in un sorriso falso. «Oh, ciao Mei Lin!»
Aveva lucidi capelli neri raccolti in due piccoli chignon ai lati della testa e gli occhi a mandorla contornati di rosso. Jim la riconobbe subito, era una delle ragazze che avevano riso durante l’esposizione della tesi di Alycia, quella mattina.
«Ti ho cercata dappertutto! Sono secoli che non ci vediamo!» esclamò con voce incredibilmente squillante e, dopo aver esaminato Alycia da cima a fondo, aggiunse con un sorrisetto: «Sei ingrassata.»
Alycia arrossì, avvilita e rassegnata.
«Non ho neanche avuto modo di farti le congratulazioni per oggi!» riprese Mei Lin, sospirando con enfasi. «Scusa se non ce l’ho fatta a rimanere fino alla fine.»
«Tranquilla, non ti sei persa niente» replicò Alycia. «È stata una cerimonia noiosa.»
Ma Mei Lin aveva già spostato il suo interesse su altro. Cioè, Jim.
«E così ci rincontriamo, “amico delle piante”.»
Anche Alycia lo guardò, stupita. «Vi conoscete?»
«Abbiamo scambiato due chiacchiere» spiegò Mei Lin, il sorriso che si allargava. «Ma non siamo stati ancora presentati.»
«Oh… ehm, sì» fece Alycia, a un tratto impacciata. «Lui è il mio procugino Winston. Cavendish. Il nuovo assistente di mio padre.»
Mei Lin inspirò dalla sua sigaretta e sbuffò una nuvoletta di fumo rosa. «Non mi avevi detto che ci sono tipi così carini nella tua famiglia.»
«Mi reputano un difetto di fabbrica» rispose Jim, con fare accattivante.
Mei Lin rise. Alycia, no.
«Sono Shu Mei Lin» si presentò la ragazza, sollevando una piccola mano con un tintinnio di bracciali. «Della Corte dei Sussurri.»
Jim ricambiò il sorriso e si portò la sua mano alle labbra. «Incantato.»
«Mei Lin è un’allieva di Una Duval» specificò Alycia, con voce secca. «Papà te ne ha sicuramente parlato, Winston.»
«In effetti, la Corte dei Sussurri è famosa per la sua riservatezza» replicò Mei Lin ammiccando. «Ma forse qualcosina a te posso rivelarla. Durante un ballo, magari. Sempre se a tua cugina non dispiace.»
«Oh, sono sicuro che non le dispiace» rispose Jim, offrendo ad Alycia un sorrisetto vendicativo. In cambio, lei gli restituì uno sguardo di ghiaccio tipicamente “alla Blake”, ma rispose in tono neutro: «Ma no, certo. È tutto tuo.»
«Perfetto!» miagolò Mei Lin, stringendosi al braccio di Jim. «Cercherò di riportartelo tutto intero.»
Alycia non disse niente, limitandosi a seguirli con lo sguardo mentre si allontanavano insieme tra la folla. 
 
[1] Cheongsam: tradizionale abito femminile cinese, caratterizzato da colletto alto abbottonato con alamari che scendono in diagonale dalla base del collo fino all’ascella e spacchi laterali molto profondi

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Capitolo 31
*** Sorpresa ***



SORPRESA






Jim era appena sparito assieme a Mei Lin, quando Boris Volkov venne a cercarla.
Alycia si era ritirata accanto a una colonna e osservava gli altri invitati danzare, rigirandosi tra le mani un bicchiere di champagne. Il maestro la affiancò; era in alta uniforme coi colori della Corte delle Lame, nero e argento, e un mantello di liscia pelliccia bianca gli ricadeva su una spalla, trattenuto da una spilla a forma di testa di lupo.
«Stavolta Macon si è sprecato» commentò, guardando anche lui la folla. «Del resto, riavere la famiglia Blake riunita ad Arcanta dopo tanto tempo è un evento che va festeggiato.»
Sentì il suo sguardo scivolarle addosso.
«Non ho tue notizie da un po’» disse poi. «Credevo mi avresti passato qualche informazione in più sull’apprendista di tuo padre.»
Alycia bevve un altro sorso di champagne; aveva la bocca terribilmente secca.
«Lo so, ma la stesura della tesi mi ha impegnata molto» si giustificò, sforzandosi di apparire tranquilla e convincente. «E poi, in realtà non sono riuscita a scoprire niente di interessante.»
«Ah, no? Nemmeno che da fenomeno da baraccone si è scoperto essere il bastardo dei Cavendish?»
«Lo ignoravo anch’io» mormorò Alycia, tenendo gli occhi bassi. «Non ho svolto bene il mio lavoro, mi dispiace.»
Volkov sospirò. «Non sono qui per rimproverarti. Dimmi quello che sai.»
«Alcina Cavendish ha pregato mio padre di addestrarlo tenendo il resto della loro famiglia all’oscuro. Non voleva che il marito s’intromettesse: come sai, non scorre buon sangue tra loro…»
«D’accordo, che altro?»
«Mio padre lo sta addestrando alla vecchia maniera, facendogli fare molta pratica. È portato per la magia elementale. Ed è intelligente, l’ho visto divorare testi complessi in poco tempo. E poi, quando vuole sa essere arguto, divertente…»
«Lo hai osservato bene.»
Alycia si sentì subito avvampare. Cazzo, forse non avrebbe dovuto bere tutto quello champagne…
«È quello che mi hai chiesto di fare, no? Intendo che è semplicemente un mago capace, non ci vedo niente di strano se mio padre l’abbia voluto con sé: dubito abbia a che fare coi seguaci dell’Eretica e con la Profezia.»
«Non stavo insinuando niente» disse Volkov, addolcendo i toni. «Sai che mi fido di te. Sei sempre stata giudiziosa e molto matura per la tua età.»
Alycia annuì, in imbarazzo. «Grazie, maestro.»
«E… ti confesso, che in questi anni mi sono sentito molto vicino a te» continuò lo stregone; aveva la voce improvvisamente impastata. «È raro al giorno d’oggi trovare una giovane maga dotata di bellezza e talento in egual misura. Forse solo tua madre mi aveva colpito così tanto.»
Alycia non disse nulla e rivolse la sua attenzione sulle sirene che ridevano e si schizzavano nella fontana al centro della sala.
«Da quando Isabel ci ha lasciati e quel…Be’, quello sconsiderato di tuo padre ha deciso di andarsene in giro per il mondo… Ecco, mi sono sentito in dovere di starti accanto, di proteggerti.» Fece una pausa, aspettando che lei dicesse qualcosa.
«Sono grata per quello che hai fatto per me» rispose Alycia cautamente, sforzandosi di guardare il suo volto segnato dalle cicatrici; non ci aveva fatto caso prima, ma aveva pettinato i capelli e spuntato la barba brizzolata. Al suo naso giunse persino una fragranza maschile, intensa e legnosa. Ma a metterla più in agitazione erano i suoi occhi grigi, che la scrutavano in un modo che ricordava quello con cui i lupi del suo canile puntavano una preda. «I tuoi insegnamenti sono stati preziosi. Senza di te non sarei mai riuscita a…»
«Alycia» pronunciò il suo nome come se stesse per intonare una preghiera. «Lo sai che i miei sentimenti sono sinceri: ti sto offrendo il mio amore e la mia totale devozione. Non permetterei mai a nessuno di farti del male.»
Alycia dovette chiedere al proprio corpo un grosso impegno per non darsela a gambe. Aveva intuito dove quel discorso li avrebbe portati sin dall’inizio: era da tempo ormai che attendeva il momento in cui si sarebbe dichiarato, dopo più di un anno di tentati approcci, lusinghe e occhiate languide, ma si impose di mantenere la calma, di non fare scenate. Se non altro, aveva avuto la decenza di aspettare che il suo apprendistato si fosse concluso…
«So di non essere giovane, né bello» borbottò lui. «Ma sarei un marito presente, saprei prendermi cura di te e non ti farei mai mancare nulla. Saresti la regina della Corte delle Lame, temuta e rispettata.»
«Boris» disse Alycia, riprendendo fiato. «Maestro...sono lusingata, davvero. Ma non posso accettare.»
Lo stregone la fissò intensamente e lei si impose di reggere lo sguardo.
«Sono certa che ad Arcanta ci siano centinaia di maghe più meritevoli di me di sposarti, ma…»
«Questa maga ha già dato il suo cuore a qualcun altro» completò lui, freddamente. «Non sono stupido, mia cara. E so accettare un rifiuto ormai, non temere. Ma in virtù dell’affetto e della stima che nutro per te, voglio darti un consiglio.»
Le passò davanti, guardando dritto verso la pista da ballo; Alycia non ebbe bisogno di seguire il suo sguardo per capire chi stesse fissando.
«“Queste gioie violente hanno fine violenta”» recitò, in tono solenne. «L’amore può essere una lama a doppio taglio, soprattutto quando è passionale. E i giovani si sa, vivono di amori passionali.» La guardò di sottecchi. «In nome dell’amore vengono commesse le più grandi atrocità: ci rende ciechi, ci rende vulnerabili. Lo sapeva anche tua madre.»
Alycia strinse il bicchiere, ma continuò a reggere il suo sguardo; non gli avrebbe dato la soddisfazione di dimostrargli che l’avesse punta sul vivo.
«Anche lei ha preferito la passione» proseguì Volkov. «Ma ha finito col bruciarsi…».
«Ah, eccovi qua! Sempre a confabulare!»
La voce allegra di Solomon Blake li fece sussultare entrambi; lo stregone era apparso magicamente accanto a Volkov, con un sorriso enorme in faccia. Alycia non era mai stata così felice di vedere suo padre.
«Blake!» esclamò Volkov. «In nome dei Fondatori, ti metti a origliare adesso?»
«Voglio solo invitare la mia splendida figlia a ballare» rispose Solomon con innocenza. «Spero di non aver interrotto niente di importante.»
Volkov non rispose. Alycia vuotò il bicchiere in un solo sorso e precedette suo padre verso il centro sala, ma prima di seguirla l’Arcistregone dell’Ovest si avvicinò al collega e gli puntò contro il becco di corvo del bastone.
«Allunga di nuovo le tue zampacce su mia figlia» sussurrò, le iridi azzurre che ardevano come fiamme. «E io ti faccio a pezzi.»
Volkov si tese, sul volto un’espressione granitica, ma Solomon si scostò subito con un sorriso affabile. «Goditi la festa, Bo. Le tartine salmone e avocado sono squisite!»
Dopodiché, raggiunse Alycia. «Macon l’ha sempre detto che sono un terribile guastafeste. Tu stai bene?»
«Sì» mentì lei.
«Ti ci vuole il tocco finale.» Con un gesto elegante, Solomon fece apparire al suo collo un raffinato collier di perle. «Appartenevano a mia madre: una donna tremenda, ma non si può negare che avesse buon gusto.»
Alycia fece scorrere le dita sulle perle, lisce e bianche. «Sono bellissime!»
Lui le offrì il braccio e insieme presero a volteggiare assieme agli altri ballerini.
«Se c’è qualcosa che ti turba puoi dirmelo. Lo sai, vero?» disse Solomon a un certo punto, facendosi molto serio. «Non permetterò più che affronti Volkov da sola.»
«Non è questo» replicò lei. «Sapevo che si sarebbe fatto avanti prima o poi. So come gestire la cosa.» Lo fissò negli occhi. «Non è per me che sono preoccupata.»
«Jim?»
«Non avresti dovuto portarlo qui» disse Alycia, duramente. «Glielo stai offrendo su un piatto d’argento!»
«Non avevo scelta. Se non avessimo risposto alla convocazione avremmo destato più sospetti. E poi.» Sorrise bonariamente e aggiunse: «Pensavo che in fondo ti avrebbe fatto piacere rivederlo.»
Alycia non si espresse. Poco più avanti, Jim e Mei Lin stavano ancora ballando; lui doveva aver appena detto qualcosa di stupido e divertente, perché lei era scoppiata a ridere in maniera chiassosa. Gli stava avvinghiata stretta e aveva anche iniziato ad accarezzargli i capelli. Alycia si voltò immediatamente dall’altra parte.
«Gli hai detto la verità?»
«Una parte. Quella che serve.»
«E come l’ha presa?»
«Ha una Volontà forte» rispose Solomon. «Ma i suoi poteri crescono in fretta e la cosa lo spaventa. Inoltre, ha dovuto rinunciare alla vecchia vita, ai suoi amici e questo lo fa soffrire molto più di quanto lascia trasparire. Gli starò accanto, superata questa fase le cose andranno meglio.»
Alycia si accostò al suo orecchio.
«Boris lo sa» mormorò, dopo essersi assicurata che nessun altro fosse in ascolto. «Non ha ancora niente di concreto per le mani, ma escogiterà qualcosa per farvi uscire allo scoperto. Forse questa sera.»
«Lo immaginavo.» Solomon sospirò. «Macon sta giocando la carta della lontananza per starmi appiccicato; non posso essere sempre presente per proteggerlo. Tienilo d’occhio per me, va bene? Fai in modo che non si metta in situazioni compromettenti, almeno per stasera.»
Alycia sbuffò. «La fai facile.»
«Domattina saremo a New Orleans» la rassicurò Solomon. «Finché è con me non corre rischi. Nel frattempo, gli ho raccomandato di essere discreto…»
Alycia proruppe in una mezza risata. «Discreto? Ma se adora mettersi in mostra! Troveranno il modo per raggirarlo, lo consegneranno ai Decani e tu sarai condannato a morte per alto tradimento!»
«Visto? L’importante è essere sempre ottimisti» osservò lui con ironia. «Che ne dici di accantonare per un po’ complotti e presagi di morte e goderci un semplice ballo? Questa è la tua serata.»
Alycia lo guardò e, piano piano, le sue labbra accennarono un sorriso.
«Hai corso un rischio a venire qui oggi. Ma sono contenta che tu l’abbia fatto. Grazie.»
«Non potevo mancare.» Solomon esitò. «Detesto di averti così tanto delusa in passato, voglio impegnarmi perché non succeda mai più.»
 «Lo so, papà. Lo vorrei anche io.»
 

Mei Lin non perdeva un passo; volteggiava sulla pista da ballo con la leggerezza di una piuma e aveva tutta l’aria di essere abituata a condurre le danze. E soprattutto, Jim fu colpito dal fatto che ci fosse qualcuno in grado di chiacchierare più di lui:
«Questa festa è una vera barba! E dire che Macon Ludmoore ha la fama di essere uno dei migliori intrattenitori di Arcanta. Ok, ci sono le sirene e allora? Per il mio compleanno il compagno di mio padre ha realizzato una rappresentazione del Monte Shishapangma dove nevicava zucchero a velo. E a fine serata ha eruttato caramelle gommose.»
«E non ti è venuto il mal di pancia?»
Mei Lin ridacchiò. «Tesoro, siamo maghi: possiamo bere, mangiare e scopare senza limiti.»
«Sì, certo. Lo so, ovviamente…»
«E tu che fai per divertirti di solito? Non avevo mai conosciuto un Esterno prima d’ora.»
«Be’» disse Jim, in tono vago. «Sono cresciuto nel Suffolk con i miei fratelli e non c’è molto da fare laggiù. Poi sono andato a stare col signor Blake, ma sai, non è proprio un animale da festa…»
«Mhmm, strano. Una dice sempre che i ricevimenti alla Corte dei Sofisti duravano settimane.»
«Davvero?» Fece Jim. Questa sì che era una sorpresa. «Mi ha sempre dato l’impressione di uno che passa le serate a leggersi Guerra e Pace davanti al camino.»
«Credo abbiano avuto una storia» aggiunse Mei Lin, inclinando il capo con fare meditabondo. «Una Duval e il tuo maestro, intendo. D’altronde lo considerano ancora tutti un uomo tremendamente affascinante: misterioso, un po’ oscuro, sprezzante delle regole. E poi, ha vissuto tutti quegli anni nel Mondo Esterno, deve essere stato spaventoso!»
«Non tutto ciò che viene da Fuori è pericoloso» replicò Jim e sorrise. «Trovi che io faccia paura?»
«No.» Mei Lin ricambiò il sorriso con malizia. «Però sono curiosa di scoprire che tipo sei. E quali sono le tue abilità.»
«Dicono che ho un talento per far arrabbiare la gente, le donne soprattutto. Tu, invece? Oltre essere un’ottima ballerina.»
Il sorriso di lei si estese. «Credevo che non me l’avresti mai chiesto! Vedi, io scopro cosa le persone desiderano e faccio in modo che lo ottengano.»
«Quindi, leggi la mente?»
Mei Lin scosse il capo, facendo ondeggiare gli orecchini. «Non la mente, sciocchino!»
Gli posò una mano sul petto, all’altezza del cuore e accostò le labbra al suo orecchio. «È qui che risiedono i desideri.»
La sua mano però scivolò più giù lungo il suo addome, fino a raggiungere il cavallo dei pantaloni. Jim emise un gemito di stupore e si sentì andare a fuoco.
«Ma non solo lì» concluse lei, provocante.
Quando la musica si interruppe e la maga si scostò, Jim ne fu quasi grato.
«Non sei niente male» commentò, facendogli l’occhiolino. «Ti terrò d’occhio.»
E si voltò; mentre la guardava allontanarsi, ondeggiando tra la folla, Jim si rese conto che all’improvviso era nuda. Completamente e scandalosamente nuda.
Strabuzzò gli occhi, le orecchie che ormai mandavano fumo, e si guardò nervosamente attorno, ma sembrava che nessun altro ci avesse fatto caso.
Allargò il colletto della camicia. Mi serve un drink.
E mentre lo stava pensando, si ritrovò a stringere in mano un cocktail guarnito con una ciliegia maraschino; la miscela era di un bel rosso e profumava di whisky, vermouth dolce e agrumi.
«Però» commentò fra sé. «Che servizio efficiente!»
Prudentemente, tirò fuori dalla giacca il sacchetto con dentro le foglie di scopolamina e ne fece cadere una nel bicchiere: la Foglia della Verità galleggiò sulla superfice, increspandola, ma non ci fu nessuna reazione. Bene, niente tracce di veleni o roba simile. Stava morendo di sete e non aveva voglia di aspettare il permesso di Solomon per bere qualcosa.
Sorseggiò prudentemente il drink e ne rimase folgorato. Era rotondo e deciso, con note piacevolmente amare e agrumate, bilanciate dalla dolcezza del vermouth. Bevve avidamente un altro sorso, leccandosi i baffi, e nel frattempo sgusciò tra gli invitati, rumorosi e già molto ubriachi.
Il maestro però sembrava scomparso di nuovo assieme a Macon. Dove caspita era finito? Gli sembrava un buon momento per lasciarsi andare ai ricordi di gioventù col suo amico?
«Eccolo qui!» esclamò una voce e subito dopo Jim si sentì afferrare la spalla da una mano decisa. «Proprio come ti dicevo: non è una splendida sorpresa?»
Jim si voltò. Era Boris Volkov, che lo scrutava avidamente con i suoi occhi d’acciaio e un sorriso feroce dipinto sul volto martoriato.
«Non abbiamo ancora avuto modo di scambiare due chiacchiere» disse l’Arcistregone del Nord, scoprendo ancora di più i denti. «Sembra che il tuo maestro cerchi di tenerti sempre tutto per sé, Winston
Jim deglutì a vuoto. Se c’era una cosa che finora era chiara, era che quel tipo non era amico di Solomon e che doveva stargli alla larga.
«Domando scusa, ehm… il signor Blake mi ha chiesto di raggiungerlo subito, dovrei…»
«Sei appena arrivato.» Volkov lo afferrò saldamente per le spalle con entrambe le mani e lo spinse a seguirlo. «E poi, questa sembra proprio il genere di serata adatta alle riunioni di famiglia. Roland!»
Lo fece fermare di fronte a un salottino, dove alcuni ospiti stavano completamente stravaccati in un mare di soffici cuscini, sotto una spessa nebbia fumosa; uno di loro, un mago con un’arruffata chioma rosso fuoco e folte basette, sbuffò una nuvoletta viola a forma di veliero, e una volta che si fu dissolta nell'aria, allontanò dalle labbra il bocchino del suo narghilè e sollevò su di loro uno sguardo assonnato.
«B-Boris?» disse, sbattendo più volte gli occhi come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco. Poi scoppiò in una risatina acuta. «Grazie di avermi invitato, avevi ragione è una gran festa!»
«Figurati» replicò lo stregone. «E poi, se te la fossi persa non avresti visto tuo figlio. Perché fai quella faccia, Winston? Saluta come si deve tuo padre.»
Jim si sentì morire dentro. Ecco, era fatta: aveva abbassato la guardia ed era finito dritto dritto in una trappola.
Roland Cavendish fece scorrere i suoi occhi azzurrini sul ragazzo, da capo a piedi. Poi tornò a guardarlo in faccia per un istante che parve interminabile. Era evidente che non avesse idea di chi si trovava davanti. «Winston, eh?»
Jim trattenne il fiato.
«Sì, Roland. È tuo figlio Winston» spiegò Volkov con voce paziente. «O almeno dovrebbe
Gli occhi di Roland tornarono a cercare quelli di Jim con la fronte aggrottata, poi gli rivolse un sorrisino timido e disse: «Be’…che sorpresa. Come stai, ehm, figliolo?»
Jim non riusciva a capacitarsi che stesse succedendo davvero: sembrava che quell’uomo non fosse nelle condizioni di capire se fosse suo padre o no. Cosa accidenti gli avevano dato da fumare?
«Ne sei sicuro?» incalzò Volkov. «Guardalo bene: è proprio lui?»
«Be’…certo che è lui» disse l’altro, esitante, continuando a fissare Jim come se stesse cercando da lui una qualche conferma. «Almeno, credo.»
«Come sarebbe a dire, credi?» esclamò Volkov, incredulo. «È tuo figlio Winston oppure no?»
«Be’, Boris, vecchio mio…sai è molto cresciuto dall’ultima volta che l’ho visto.»
Volkov iniziò a dare segni d’impazienza. «Bene, non c’è qualcun altro che può confermarne l’identità?»
Solomon Blake era un genio, aveva architettato un piano semplice ma perfetto: dal giorno in cui si era liberato della scomoda moglie Roland Cavendish si era totalmente disinteressato dei suoi figli. Ma adesso, spettava a Jim levarsi dagli impicci con diplomazia. E in certi casi, ragionò, la miglior difesa era l’attacco.
«Ciao, papà» disse in tono acido. «Se proprio vuoi saperlo, è da quando avevo dieci anni che non vieni a trovarmi.»
Roland sbiancò. Volkov, invece, lo guardò stupefatto.
«Non ti sei degnato di presentarti nemmeno al mio diciassettesimo compleanno» continuò Jim, indignato. «Per questo la mamma non si è presa la briga di dirti che sarei venuto ad Arcanta: tanto non ti sei mai interessato di noi, né di me, né di Carlisle, né di Sebastian e Marigold o dei gemelli, figuriamoci poi del piccolo Septimus!»
Roland aveva la stessa espressione di una carpa appesa all’amo. Quanto a Volkov, sembrava disorientato anche più di lui. Jim si divincolò dalla sua presa e puntò un dito contro il suo presunto padre. «Sai, la verità è che per te in fondo non è davvero importante se io o uno fra i miei fratelli sia o meno un bastardo: era solo un pretesto per liberarti di noi e goderti la vita. Be’, buon proseguimento della serata, papà, divertiti!»
Poi, con fare da vera regina del dramma, voltò le spalle a entrambi e si allontanò. Solo quando la folla si fu richiusa, ostacolando loro la vista, Jim scoppiò a ridere: se Solomon lo avesse visto! Sarebbe stato fiero di lui! Aveva mentito spudoratamente e con una tale disinvoltura che stentava ancora a crederci.
La sua carriera a Hollywood era letteralmente spianata!
Raggiante, individuò Alycia che sedeva in disparte su un divanetto e sorseggiava da una flûte di champagne con aria pensierosa.
«Sai, non è poi una gran festa» commentò allegro, lasciandosi cadere accanto a lei sui cuscini. «Tutta la magia del mondo e non ho visto neanche una scodella di noccioline!»
«Mi era parso che con Mei Lin ti stessi divertendo prima.»
Voleva essere un’osservazione buttata lì con indifferenza, ma Jim capì al volo l’antifona. Sorrise, mentre faceva oscillare disinvolto il suo drink. «Sembra simpatica.»
«Già, sembra. Ma la conosco ed è una vipera, quindi ti consiglio di starci attento.»
«Che ti prende, cugina?» domandò Jim in tono falsamente preoccupato. «Mi sembra che qualcosa ti abbia contrariata.»
Gli occhi di Alycia lampeggiarono. «Sì, il fatto che ti comporti come se questo fosse un gioco.»
«Ho solo ballato con una ragazza carina, che a quanto pare non disdegna la mia compagnia. Se la cosa ti dava fastidio potevi anche dirlo…»
«Puoi farci quello che ti pare con Mei Lin!» scattò a quel punto Alycia, alzandosi in piedi. «Ti sto solo mettendo in guardia: è sempre la migliore allieva di Una Duval e per una buona ragione.»
Adirato, Jim buttò giù il resto del drink con un gesto meccanico e mollò il bicchiere su un vassoio che fluttuava lì vicino; non bastava che lo avesse trattato per tutta la sera come un estraneo, adesso gli faceva pure la predica.  
«Me la sto cavando egregiamente, grazie per l’interessamento» disse, affondando nei cuscini con le mani dietro la nuca. «Alla ramanzina ci ha già pensato tuo padre: è una festa e voglio divertirmi, dovresti rilassarti un attimo anche tu.»
Alycia strinse gli occhi. «Attento a quel che desideri, cugino: sei ad Arcanta adesso.» E senza aggiungere altro, usò il salto e scomparve.

 

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Capitolo 32
*** Il Bestiario ***



IL BESTIARIO

 




Jim si svegliò di soprassalto, col volto affondato in un cuscino; giaceva supino su un sofà e un rivolo di saliva gli pendeva dall’angolo della bocca. Strizzò gli occhi con un grugnito, per proteggerli dalla luce accecante che inondava un enorme atrio dal pavimento a scacchiera, dove alcune scope stavano ammucchiando da sole coriandoli, vetri rotti e altri residui della festa.
Il ragazzo si issò a sedere reggendosi la testa e cercò di fare mente locale per capire come fosse finito lì, ma per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare quasi nulla della sera prima…l’unica cosa che al momento gli pareva molto chiara era l’emicrania, come se un tizzone ardente gli si fosse conficcato in mezzo agli occhi. Dannazione, doveva aver preso la sbronza più memorabile della sua vita…!
«Ben svegliato, pulcino.»
Per poco non gli venne un infarto. Una Duval sedeva in una poltrona e lo osservava coi suoi inquietanti occhi da gatto e un piatto di cupcake perfettamente glassati in grembo.
«Ehm, s-salve.»
La Regina di Cuori sorrise in maniera rapace; anche di mattina indossava un elegantissimo vestito nero e oro, le mani avvolte in lunghi guanti di seta. A Jim ricordò una gigantesca vespa pungente.
«Ho pensato che volessi fare colazione» disse, con fare premuroso. «Prendi un cupcake, coraggio.»
Jim studiò i dolcetti, tutti dall’aria invitante. Era a digiuno dalla sera prima e il suo stomaco non mancò di ricordarglielo…ma Una sembrava il genere di strega che offre caramelle ai bambini per poi sbatterli dentro un forno.
«Ehm...grazie, non ho molta fame. Che ore sono?»
«Le due del pomeriggio.»
«Le due…» Da qualche parte nel suo cervello, intontito e dolorante, squillò un segnale d’allarme. Avevano perso il Meridiano delle dodici! Perché nessuno era venuto a svegliarlo?
«Dov’è il signor Blake?» chiese immediatamente. «Dobbiamo tornare subito a…»
Una gettò la testa all'indietro con una risata civettuola, da ragazzina. «Quanta fretta! Devo dedurre che la mia compagnia ti stia annoiando?»
Appoggiò i cupcake su un tavolino e si spostò sul sofà accanto a lui. «Un uccellino mi ha riferito che ieri hai fatto amicizia con una delle mie allieve.»
«Mei Lin, sì…ragazza simpatica.»
«Ha detto lo stesso di te. Del resto, sei allievo di un mago gentiluomo.»
Una accavallò le gambe e si allungò mollemente sulla spalliera del sofà. Jim mantenne le distanze in modo rispettoso, cercando di ignorare le fitte che continuavano a trapanargli il cranio. Chissà se in quel posto ce l’avevano un’aspirina.
«E a tal proposito, speravo che tu potessi aiutarmi» riprese la strega in tono confidenziale. «Conosco Solomon da quasi un secolo: quando arrivò ad Arcanta era un ragazzino cupo e scontroso, più interessato ai libri che alle persone e adesso guardalo, è diventato un’autentica leggenda. Molti giovani maghi ucciderebbero per averlo come maestro.»
Jim però riusciva ad ascoltarla solo in parte. Cristo santo, la testa…
«Ehm…sì, me lo hanno detto.»
Le labbra di Una si arricciarono. «Il fatto è che è sempre stato un uomo misterioso. In parte è anche il motivo del suo fascino non lo nego, ma i tempi sono cambiati: la Città ha vissuto una delle più tragiche pagine della sua storia e nessuno può più permettersi di nascondere qualcosa ai Decani, nemmeno il loro eroe. Capisci cosa voglio dire?»
«Mi creda, non so in che modo possa aiutarla» replicò Jim, cercando di mostrarsi calmo. «Non conosco così bene il signor Blake.»
«Sembra molto protettivo con te.»
«Be’ è il mio prozio e siamo amici, credo.»
«Amici» ripeté lei, annuendo. «E gli amici si sa, non hanno segreti.»
Jim non sapeva cosa rispondere e ormai la testa gli faceva così male che faticava a tenere gli occhi aperti; era come se dei chiodi arroventati gli stessero penetrando da parte a parte il cervello, proprio come il giorno prima alla Cittadella…
Gli si strinse lo stomaco: non erano i postumi della sbornia! Una stava esercitando il suo potere su di lui.
«Senta, si è fatto davvero tardi, devo andare…»
Provò ad alzarsi, ma delle mani invisibili lo trattennero. Mentre la preoccupazione si tramutava in panico Jim guardò Una, che aveva smesso di sorridere. I suoi occhi dorati, invece, ardevano come braci.
«Ho preso parte anch’io alla Guerra Civile» disse con voce tranquilla, sfilandosi un guanto. «Quando l’Eretica ha penetrato le difese della nostra Città. Normalmente alle donne è vietato combattere, la maggior parte furono trasferite nelle proprietà di famiglia, al sicuro. Dopotutto, la Corte dei Sussurri non plasma guerrieri o strateghi. Il mio compito è preparare le giovani mogli a occupare il posto che spetta loro nella società, a essere come gli uomini le desiderano: belle, sofisticate e inoffensive.»
Sentì la mano di lei scivolargli sul collo, un gesto così fulmineo che Jim non se ne avvide finché non fu troppo tardi.
«Ma ciò che gli uomini non sospettano» sussurrò Una, accarezzandogli la nuca. «È che nessuna delle mie ragazze è “inoffensiva”.»
La pelle di Jim si ricoprì di brividi e un gelo improvviso si spanse lungo le ramificazioni del midollo spinale, paralizzandolo completamente.
Lasciami entrare. Era un invito gentile. Più cercherai di opporti più sarà doloroso.
Jim percepì una presenza intrusa scavargli nella memoria, senza che potesse fare niente per impedirlo e man mano che cercava, faceva affiorare i suoi ricordi come bolle in superficie, dai più recenti ai più antichi. Strinse gli occhi con frustrazione, sforzandosi di respingere quell’invasione.
Fotogramma per fotogramma, ciò che aveva visto e sentito nelle ultime ore gli sfilò davanti come un film sulla vita di qualcun altro: il risveglio nell’atrio, il tentativo di Volkov di smascherarlo facendogli incontrare Roland Cavendish, il ballo con Mei Lin…e poi ancora lui e Alycia nascosti in quella nicchia, il dolore di essere stato respinto e poi ignorato da lei…
Noruggì un’altra voce, dal profondo del suo essere. Ora basta!
Fu come se di colpo qualcuno avesse tirato un calcio al proiettore e tutto tornò buio. Lo stupore di Una si sovrappose al suo, ma i suoi artigli si conficcarono più in profondità.
Non resistermi comandò, questa volta più autorevole. Lascia che io veda…
«Una!»
La sensazione di congelamento svanì all’istante, lasciando Jim tremante e con gli occhi pieni di lacrime, ma di nuovo libero di muoversi. Una aveva tolto la mano e si era voltata a guardare Macon, scalzo, avvolto in una vestaglia colorata e con una tazza in mano da cui si levava un ricciolo di vapore.
«Non aspettavo visite oggi» disse, la fronte aggrottata. «Come vedi, abbiamo fatto tutti le ore piccole.»
«Passavo da queste parti» spiegò lei, con fare innocuo. «Ma stavo per togliete il disturbo.»
«Sì, forse è il caso.»
La strega diede a Jim un buffetto sulla guancia. «Sei un osso duro.»
Dopodiché augurò buona giornata al collega e uscì.  Macon la seguì con lo sguardo, scuotendo piano la testa.
«Con lei in giro non si può mai star tranquilli. Mi auguro che non ti abbia strapazzato troppo.»
«Sto...» Jim avrebbe voluto dire “bene”, ma un conato lo costrinse a sporgersi oltre il bracciolo del sofà, dove Macon aveva prontamente fatto apparire un secchio.
«Meglio?»
Vergognandosi un po’, Jim si passò la manica dello smoking sulla bocca e annuì. In realtà si sentiva uno straccio, ma grazie al cielo l’emicrania aveva iniziato a dargli tregua da quando Una si era allontanata.
Macon gli porse la tazza. «Bevi, ti farà bene.»
«Non si offenda, ma l'ultima cosa che mi hanno offerto da bere non mi ha fatto molto bene.»
Lo stregone sospirò: «Coraggio figliolo, esistono modi più veloci ed eleganti per ucciderti senza perdere tempo con intrugli avvelenati. È solo tè allo zenzero con un po’ di limone.»
Non vedendo alternative, Jim decise di fidarsi e bevve prudentemente un paio di sorsi; in pochi minuti mal di testa e bruciore di stomaco si attenuarono.
«Non puoi dirti cittadino di Arcanta finché non prendi almeno una sbronza magica» ridacchiò Macon prendendo posto sulla poltrona prima occupata da Una. «Ho trascorso metà del mio apprendistato da ubriaco e l’altra metà a inventare nuove ricette per i cocktail. Il che era un bell’incentivo ad applicarmi in alchimia!»
Jim sorrise e finalmente riuscì a rilassarsi. Quel Macon doveva essere proprio un bel tipo da frequentare!
Con un gesto svolazzante, lo stregone fece apparire sul tavolino anche uova strapazzate, bacon, un cesto di frutta e una tazza di caffè per lui. «Allora, Winston, ti piace Arcanta? So che è la prima volta che la visiti.»
«Mi piace, anche se non è proprio come me l’aspettavo» confessò il ragazzo, piluccando un po’ di frutta. «Ho sempre l’impressione che qualunque cosa possa farmi impazzire o uccidermi.»
Lo stregone scoppiò a ridere. «Lo so, fa sempre questo effetto! Solomon te ne avrà parlato a lungo, anche se di sicuro avrà notato dei cambiamenti.»
Si lasciò sfuggire un piccolo sospiro e la sua fronte si increspò per un momento. «La Guerra Civile ha lasciato una ferita che non si è ancora del tutto rimarginata sulla gente di qui. Sono tutti più cupi, diffidenti. Ma credo che un po’ di sano svago abbia un potere curativo più forte della magia stessa! Perciò, spero sempre che vengano in tanti alle mie feste. Tu ti sei divertito ieri?»
«Certo…be’, per quello che mi ricordo.»
«Mi fa piacere.» Il sorriso contagioso tornò a illuminargli il volto. «E dimmi, che programmi hai per oggi?»
«Ecco, non saprei, il signor Blake e io dovevamo prendere il Meridiano delle dodici, ma l’abbiamo perso…»
Macon si sistemò a gambe incrociate e la vestaglia si scostò quel poco che bastava a far intuire a Jim che sotto non indossasse niente. «Siete di fretta dunque. Che peccato, mi avrebbe fatto piacere avervi qui ancora per un po’! Ci sono così tante cose che vorrei chiedervi sul Mondo di Fuori, è passata una vita dall’ultima volta che ci sono stato.»
«Forse posso aiutarla» disse Jim. «Cosa vuole sapere?»
Macon si sporse sulla poltrona. «Solomon mi ha detto che avete passato gli ultimi mesi negli Stati Uniti…è vero che da qualche parte in California c’è un bosco di agrifogli dove recitano commedie?»
«Ehm, intende Hollywood? Oh, eccome. Ci girano un sacco di film.»
«Lo sapevo!» Macon ridacchiò e si diede un colpetto sulla coscia. «Quando ci andai io a malapena sapevano cosa fosse un teatro! Avevano solo ranch, vacche e tizi a cavallo con buffi cappelli!»
«I cowboy ci sono ancora» replicò Jim, divertito. «Solo che adesso sono quasi tutti attori. Come Tom Mix o John Wayne.»
«John Wayne» ripeté Macon con aria sognante. «Ah, quanto mi sarebbe piaciuto fare l’attore! Chissà quali altre diavolerie si sono inventati i Mancanti di oggi. Oh, e anche tu sarai curioso di visitare per bene Arcanta immagino.»
In effetti Jim lo era eccome, ma qualcosa gli diceva che Solomon non ne sarebbe stato entusiasta. «Non so se avrò tempo.»
«Sono sicuro che quel vecchio brontolone del tuo maestro si lascerà convincere…»
«Winston!»
Macon e Jim si voltarono quando Solomon Blake irruppe nell’atrio, con aria un po’ arruffata e l’espressione furibonda. «È tutta la mattina che ti cerco, la planimetria di questo dannato posto continua a cambiare! Che cosa state facendo?»
«Colazione» rispose Macon serafico. «E non prendertela coi miei allievi, questa è sempre la loro scuola. Siediti, mangia un po’ d’uva...»
«Non abbiamo tempo!» lo interruppe lui, adirato. «Per colpa della tua festicciola abbiamo perso il Meridiano!»
«E allora? Restate qui un’altra notte e prendete quello di domani, che sarà mai!»
«No, è fuori discussione» tagliò corto Solomon, estraendo subito l’orologio. «Prederemo quello delle cinque per Tokyo.»
Macon si sporse verso Jim. «Ora capisci perché sono sempre sbronzo? Tu come riesci a sopportarlo..?»
«Con te è sempre la stessa storia, da quando eravamo allievi!» sbottò Solomon. «Uno ti dà un dito e poi finisce per svegliarsi dentro un baule, nudo e ricoperto di piume…non che a me sia capitato, ovviamente!» aggiunse con imbarazzo, mentre Jim se la rideva.
«E va bene» sbuffò Macon. «Se hai fretta di tornare alla tua vita da pensionato non vi trattengo. Ma almeno lascia che il ragazzo si goda quel che resta della giornata!»
Le rughe sulla fronte di Solomon ormai erano così marcate che ci si poteva seminare, ma Macon non demorse: «Stavo per mandare Nicodemo in Città per delle commissioni: è uno dei miei allievi migliori ed è totalmente affidabile. Gli farà fare un giro e te lo riporterà tutto intero per le quattro e mezza, che ne dici?»
«Dico che è una pessima idea.»
«Sol, andiamo!» disse Macon esasperato. «Piantala di essere così sospettoso, quante volte devo ripetertelo che di me puoi fidarti? Non mi interessa cosa tu stia combinando fuori Arcanta, sono solo contento di avere qui il mio vecchio amico. E lo stesso vale per il tuo apprendista.»
Solomon aprì e chiuse il coperchio dell’orologio producendo un frenetico tic-tac mentre ponderava la questione. Intercettò lo sguardo speranzoso di Jim: «E dai, solo un paio d’ore!»
Alla fine, dovette cedere: «D’accordo, avete vinto! Ma ti rivoglio qui per le quattro in punto, non un minuto di ritardo!»
Terminata la colazione e salutato Macon, Solomon però prese Jim in disparte. «Stanno facendo di tutto per farci perdere tempo, vedi di non dargliene ulteriori motivi, va bene? Una volta a Tokyo ci infileremo nel primo specchio e torneremo dritti a New Orleans.»
«Forse si sta preoccupando eccessivamente.» Jim evitò di riferirgli che, poco prima, Una aveva provato a farsi un giro tra i suoi ricordi; gli sembrava che avesse già i nervi abbastanza tesi. «Almeno Macon sembra un tipo a posto.»
Lui piegò la bocca, scettico fino alla fine, e Jim cercò di rassicurarlo: «Glielo prometto, faccio solo un giro veloce e torno. Ora vado, a dopo..!»
«Jim.» Solomon lo agguantò per una spalla prima che sgattaiolasse via. «Stai sempre all’erta, hai capito? E ti prego, cerca di non fare niente di stupido!»
 


Più tardi, Jim attraversò i giardini della Corte, meravigliandosi per la spettacolarità di certe illusioni. Vide anche alcuni allievi di Macon all’opera: c’era chi sfumava il fogliame, chi impreziosiva un cespuglio con nuovi fiori, chi spargeva qualche nuvola nel cielo. Erano estremamente concentrati su quel che facevano, proprio come artisti alle prese con una gigantesca tela.
Un paio di siepi più avanti, invece, si imbatté in Alycia, che leggeva un libro seduta sul bordo di una fontana. Lasciò che lui si avvicinasse senza alzare gli occhi dalle pagine, poi disse con voce piatta: «Sei sopravvissuto alla festa.»
«Sì e vorrei tanto ricordare come. È assurdo, credevo di aver bevuto solo un paio di drink!»
«Gli alcolici che servono qui sono forti» replicò lei, voltando pagina. «E poi volevi divertirti, no?»
«Ho già passato una brutta mattinata, non sono in vena di ramanzine» borbottò Jim. «Sto andando in Città, vuoi venire?»
Lei sollevò lo sguardo e una ruga di disappunto le segnò la fronte. «Non dovevate ripartire subito?»
«Tuo padre mi ha concesso un paio d’ore di libertà vigilata!» esalò lui, infastidito da quell’atteggiamento da mammina apprensiva. «Allora, vieni o no?»
Alycia chiuse il libro e lo infilò nella borsa. «D’accordo.»
Si incamminarono fino all’ingresso, in un silenzio gravido di non detti e Jim le scoccò un paio di occhiate furtive; dov’era finita la splendida complicità che avevano creato un paio di settimane prima? Non riusciva a capacitarsi che fosse bastata quella breve lontananza per farli tornare al punto di partenza! Magari una passeggiata da soli avrebbe aiutato a sciogliere la tensione…ma raggiunti i cancelli, ad attenderli trovarono Mei Lin.
«Ehilà!» li accolse sventolando la mano. Saltellò verso di loro e prese Jim a braccetto. «Ciao straniero, ti sono mancata?»
«Che ci fai ancora qui?» chiese Alycia, con un po’ troppa energia.
«Ho saputo che tuo cugino vuole vedere Arcanta» cinguettò lei. «Così Nikos e io abbiamo pensato che gli servissero delle guide.»
Indicò in alto e solo allora Jim si accorse del ragazzo sdraiato sul ramo di un grande sicomoro.
«Non fare l’asociale!» gli gridò Mei Lin. «Scendi e vieni a presentarti!»
Il ragazzo saltò agilmente, librandosi in aria fino a che i suoi sandali non toccarono terra; era allampanato, con la pelle olivastra e il naso appuntito, e i suoi capelli riccioluti erano di un biondo talmente chiaro che sembrava avesse una nuvola di cotone in testa. Contrariamente agli altri allievi di Macon non indossava l’uniforme, ma pantaloni e blusa di lino bianco che gli conferivano l’aspetto rilassato di un ospite in villeggiatura.
Studiò Jim coi suoi occhi violetti e annoiati e disse a Mei Lin: «Non è così carino. Ha le orecchie a sventola.»
Lui si portò immediatamente una mano all’orecchio e Mei Lin ridacchiò. «Non farci caso, dice sempre tutto quello che gli passa per la testa!»
«Buono a sapersi» replicò Jim. Non era sicuro che quel tipo gli stesse simpatico.
Il ragazzo gli porse educatamente una mano.  «Nicodemo Eliopoulos, ma tutti mi chiamano Nikos.»
«Piacere, Winston.»
«Il bastardo Cavendish» completò Nikos e quando Jim si tese aggiunse: «Oh, tranquillo, tutti qui potremmo essere frutto di una tresca: i maghi vivono a lungo, mica ci si aspetta che rimangano fedeli per sempre. E se ci scappa il marmocchio, basta rivolgersi a un bravo alchimista per far sparire somiglianze indesiderate e salvare le apparenze.»
Indicò i propri occhi viola e i capelli quasi albini e gli sorrise in un modo che poteva voler dire tutto e niente. «Comunque, ci voleva qualche faccia nuova da queste parti.»
Dopodiché fece un cenno ai cancelli della tenuta, che si aprirono senza far rumore. «Be’, diamoci una mossa, prima che i miei capelli passino di moda.»


 
Presero un velodrago che li riportasse in centro e finalmente si immersero nell’allegro andirivieni della Città.
Fu subito chiaro che l’uso della magia fosse all’ordine del giorno: i passanti sparivano all’improvviso, cambiavano abito o acconciatura, oppure si trasformavano in un gatto o in un uccello come fosse la cosa più naturale del mondo.
Guidati da Nikos e Mei Lin, il gruppetto percorse un dedalo di ponti, scale e vie lastricate con frammenti di minerali preziosi che portavano il nome di famosi alchimisti; ogni piazza era abbellita da una fontana monumentale o un obelisco e le dimore facevano a gara per sorprendere Jim con il loro gusto sontuoso ed eccentrico. Draghi, sfingi e centauri di pietra facevano la guardia agli ingressi e sulle facciate erano scolpite epigrafi con motti in greco e latino. Tutti gli edifici inoltre esibivano un’arnia, sebbene anche lì ci fosse molta inventiva per quanto riguardava le forme, le dimensioni e i colori. Il risultato era che c’erano api dappertutto, libere di entrare e uscire dalle abitazioni e il loro ronzio li accompagnava ovunque andassero.
«Le api sono sacre ad Arcanta» disse Nikos, osservando Jim che si sbracciava per allontanarne un paio. «Secondo la leggenda, i Fondatori vennero guidati in questa valle da uno sciame di api, che li rifocillarono col loro miele durante il viaggio. È una storia che ti raccontano sin da bambino.»
«Io ci feci una recita al terzo anno di Svezzamento!» intervenne Mei Lin con entusiasmo. «Fui scelta per interpretare la Regina delle Api, avevo un vestito bellissimo! Alycia, tu invece facevi il cespuglio. Ti ricordi?»
Lei sospirò. «Sì, mi ricordo.»
«Cos’è lo Svezzamento?» domandò Jim, che già iniziava a seguirli con fatica.
«Il periodo che i bambini passano lontani dalle famiglie prima di entrare in una Corte» spiegò Nikos. «Appena manifesti i primi guizzi di magia, i tuoi ti spediscono al Formatorio e ci resti per cinque anni: sei affidato a dei pedagoghi della Cittadella che ti insegnano i rudimenti, tipo a non ammazzare te stesso e il tuo compagno di banco…e iniziano a valutare le tue potenzialità.»
«E poi che succede?» volle sapere Jim. «Devi sostenere un esame?»
«Una specie: gli Arcistregoni vengono spesso in visita, ma si limitano a osservare. È solo al quinto anno che scelgono chi prendere come allievo.»
Un po’ come al mercato pensò Jim. O…in orfanotrofio. «E cosa accade a tutti gli altri?»
Nikos fece spallucce. «Vengono rispediti alle loro famiglie e continuano a studiare con loro. Anche se è sempre una grossa umiliazione per i genitori.»
«Ma sono solo dei bambini!» protestò Jim. «Come possono essere giudicati a quell’età per il resto della loro vita?»
«A un Arcistregone basta poco per riconoscere il talento: o ce l’hai o non ce l’hai.»
Jim non commentò, ma si chiese che ne sarebbe stato di lui se fosse stato un bambino magico tra tanti: Blake lo avrebbe scelto comunque? Anche se non fosse stato un Plasmavuoto? O gli avrebbe rivolto appena uno sguardo distratto, per poi passare oltre? La delusione sarebbe stata insopportabile.
Dopo un po’, attraversarono un affollato bazar che esponeva le chincaglierie più strampalate: bulbi oculari di varie forme e colori che si muovevano da soli; protesi d’oro e argento brunito, mani, braccia, gambe, dita, e poi ancora frutta fluttuante, stoffe che cinguettavano come uccelli, e cristalli al cui interno erano intrappolati minuscoli esserini con corna da diavoli.
Jim osservò Nikos mentre completava l’acquisto di alcune erbe per Macon, ma invece di pagare allungò al negoziante una piccola sfera di vetro dentro cui turbinava una sostanza viola e fumosa.
«Qui non usate il denaro?»
Nikos gli scoccò un’occhiata perplessa. «Certo che no! Ad Arcanta ognuno dispone di tutto gratuitamente e mette le proprie conoscenze al servizio della comunità: modestamente, le illusioni prodotte alla Corte dei Miraggi sono le più apprezzate. I Mancanti si sono scannati per secoli a causa della loro avidità, ma noi maghi aspiriamo a ben altro genere di ricchezza.»
«Ma loro non ottengono ciò di cui hanno bisogno schioccando le dita» replicò Jim. «Devono lavorare sodo. E nella maggior parte dei casi non basta comunque.»
«Sembra che tu lo abbia sperimentato sulla tua pelle» commentò Nikos. Non aveva l’aria di volerlo giudicare, ma sembrava sinceramente curioso. «Hai dovuto lavorare nel Mondo Esterno?»
«Ecco» fece Jim, alla ricerca di una giustificazione che non mandasse a monte la sua copertura. «Non lo chiamerei proprio “lavoro”: per un po’ mi sono finto un prestigiatore. Così, per mettermi alla prova. Una specie di esperimento, se vogliamo.»
«Prestigiatore?» ripeté Mei Lin. «E che cos’è?»
«In pratica è uno che finge di saper fare magie. Come un attore.»
«Ma tu sai fare magie» obiettò Nikos, confuso. «Perché fingevi?»
«Perché i Mancanti non lo sapevano. Perciò, facevo un po’ di scena per farli divertire.»
Nikos arricciò il naso. «Come un giullare?»
«No, non è la stessa cosa! Un prestigiatore è un artista. Come Houdini.»
«E chi è?» chiesero gli altri in coro. A Jim caddero le braccia.
«Harry Houdini! Il più grande mago di tutti i tempi! Cioè…» aggiunse poi, temendo di confonderli maggiormente. «È un Mancante, ma riesce a fare dei numeri incredibili e a farli sembrare magia! Come liberarsi da camicie di forza, catene o manette.»
«Non mi sembra che abbia molto senso» dichiarò Nikos. «Sei uno stregone, ma fingi di essere un umano senza poteri che finge di essere un mago attraverso dei trucchi?»
Jim non seppe cosa replicare: in effetti, detta così sembrava una cosa molto stupida. «Immagino sia più facile vederlo coi propri occhi che spiegarlo.»
«Io sono curiosa di vederti all’opera!» disse Mei Lin. Gli accarezzò il braccio e sussurrò al suo orecchio: «Si possono fare un sacco di cose interessanti con un paio di manette.»
Alycia tossicchiò per richiamare la sua attenzione. «Se non c’è altro che vuoi vedere, Winston, direi che è il momento di tornare a casa.»
«Oh, ma c’è il Bestiario!» strillò Mei Lin. «Tuo cugino non può andare via senza averlo visto!»
«Non credo che sia il caso…» obiettò Alycia, ma Mei Lin la scavalcò senza remore e rivolse a Jim un sorriso radioso. «Ti piacerà, sono sicura che da dove vieni non esiste niente del genere!»
Visto che gli altri sembravano d’accordo, si incamminarono in quella direzione. L’edificio che ospitava il Bestiario aveva un aspetto peculiare: una gigantesca cupola in vetro e acciaio, che rifletteva i raggi caldi del sole. Ma fu l’interno a lasciare Jim a bocca aperta.
Organizzato in dodici livelli, disponeva di terrazze che progredivano dal pavimento al soffitto. Ogni terrazza conteneva poi un centinaio di celle, dentro cui erano stati ricavati vari ecosistemi: foreste di bambù, praterie, deserti e habitat coperti di ghiaccio. Ricordava l’Arboreto, ma al posto delle piante lì erano ospitati animali. Animali che Jim aveva visto raffigurati solo sui libri di fiabe.
Si avvicinò a una balaustra, oltre la quale un branco di unicorni dal manto bianco-argenteo e barbette da capra brucavano placidamente sulle rive di un ruscello, scuotendo le criniere lucenti al sole.
A poca distanza vi era una grande distesa nevosa dove infuriava una tormenta: tra vento e neve, Jim scorse sagome enormi provviste di lunghe braccia e assottigliando lo sguardo si rese conto di cosa fossero. Yeti. Massicci, lenti e ricoperti da una folta pelliccia che permetteva loro di confondersi con l’ambiente. Un po’ ovunque c’erano cartelli che invitavano i visitatori a non oltrepassare la balaustra e non dare da mangiare alle creature.
«Il Bestiario raccoglie specie magiche provenienti da tutto il mondo» lo informò Nikos. «Nel Vecchio Mondo, i Mancanti hanno dato loro la caccia per paura, superstizione, per dimostrare il proprio coraggio o per profitto. Ma qui hanno finalmente un rifugio sicuro. E noi la possibilità di studiarle senza correre rischi.»
Visitarono altri habitat: un lago scozzese dalla cui superficie affioravano le squame di un gigantesco rettile acquatico; le rovine di un tempio nel deserto dove nidificavano le fenici; sdraiato sotto un albero in un bosco di betulle, un fauno impertinente si scaccolò e poi mostrò loro il dito medio.
«Allora, che ne pensi?» chiese Nikos dopo un po’. «Avevi mai visto niente del genere nel Mondo Esterno?»
Jim non rispose; si era fermato di fronte all’apertura di una grotta, dove era sdraiato un grosso felino con enormi ali a membrana piegate lungo i fianchi. La maggior parte del suo corpo aveva l’aspetto di un leone nero dalla folta criniera rossiccia, fatta eccezione per la coda da scorpione e per il muso, che aveva tratti simili a un volto umano. La strana creatura poggiava la testa sulle zampe anteriori e ricambiava lo sguardo di Jim con una fissità tale da metterlo a disagio. Forse era merito di quel suo muso così dannatamente umano, o della luce malinconica nei suoi occhi, la stessa che aveva visto centinaia di volte negli sguardi degli animali del circo, ma gli ricordava dolorosamente Joel King...
Un tempo, tutte quelle creature popolavano il suo mondo. Cacciate e perseguitate, sì, ma libere.  I maghi avrebbero potuto insegnare ai Mancanti a rispettarle, invece avevano preferito rinchiuderle in gabbia. 
Ora, quel che restava della loro essenza continuava a vivere attraverso i Dimenticati, ai limiti della società Mancante...
E cosa sarebbe accaduto ai suoi amici del circo se fossero venuti ad Arcanta in cerca di protezione? Sarebbero stati accolti da cittadini come i maghi, oppure rinchiusi in quella specie di zoo?
“A quelli come te e tuo padre in fondo piace prendere ordini da tutti..!”
Alycia comparve al suo fianco. «Stai bene? Sei pallido.»
«Sì, io…» Jim distolse lo sguardo dalla manticora e prese un paio di grossi respiri, perché tutt’a un tratto si sentiva soffocare. «È questo posto, fa dannatamente caldo …»
«Vuoi andare via?»
Lui riuscì solo ad annuire e si lasciò accompagnare da Alycia all’uscita
.
 

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Capitolo 33
*** Una sfida a lungo attesa - PRIMA PARTE ***



UNA SFIDA A LUNGO ATTESA – Prima parte

 
 

 

«Te l’avevo detto» disse Alycia, mentre varcavano le porte del Bestiario. «L’avevo detto che era una pessima idea venire qui.»
Jim continuò a tacere e si sedette sul bordo di una fontana in mezzo alla piazza di fronte al Bestiario: quattro statue di marmo a grandezza umana si ergevano al centro della vasca, tre stregoni e una strega ritratti nell’atto di schiacciare una donna inginocchiata con atteggiamento implorante. Non gli servì un grande sforzo di immaginazione per capire che si trattava di una rappresentazione della Guerra Civile e della sconfitta dell’Eretica.
Alycia gli si fermò accanto, irrequieta. «Possiamo tornare a casa ora? Si sta facendo tardi…»
«Vuoi farla finita?»
Lei si bloccò. «Di fare cosa?»
Jim le rivolse uno sguardo rancoroso; la visita al Bestiario gli aveva lasciato addosso una sensazione sgradevole e l’atteggiamento ansioso di Alycia non faceva altro che aumentare la sua irritazione. Perché faceva così? Cosa le costava trattarlo come se fosse uno di loro? Era magico anche lui, no? Per quale motivo da quando era arrivato doveva farlo sentire fuori posto?
«Vorrei che la smettessi di comportarti come se fossi la mia balia. Non ho bisogno di qualcuno che mi corra dietro di continuo.»
Lei sbatté le palpebre, mentre la sua espressione si volgeva rapidamente dal confuso all’infuriato. «Lo hai detto anche ieri sera. Alla festa di cui non ricordi niente!»
«Cristo, Alycia, ancora con questa storia? Non è stata mica la prima sbronza della mia vita!»
«Arcanta non è un luogo da sottovalutare» replicò lei, perentoria. «E vorrei evitare che tu ti metta in guai peggiori.»
«Oh, perdonami» disse Jim, sarcastico. «Sono io che ho frainteso: non sei la mia balia, sei la mia scorta!»
«Qualcosa del genere!» scattò lei. «Visto che se ti viene consigliata una cosa senti l’impulso di fare esattamente l’opposto!»
«Si chiama ragionare con la propria testa.»
«No, si chiama non ragionare affatto!»
«Oh, eccovi qui!» Mei Lin li raggiunse nel piazzale insieme a Nikos e passò uno sguardo incuriosito da Jim ad Alycia, che si tenevano il broncio ed evitavano di guardarsi. «Certo che per essere cugini voi due bisticciate di continuo.»
«Neanche te lo immagini» borbottò lui.
Visto che si erano comunque fatte le tre e mezza, decise che tanto valeva tornare alla Corte dei Miraggi prima di incorrere nell’ennesima sfuriata da parte di Blake senior. Così, i quattro ragazzi si avviarono verso la dragostazione più vicina.
Superarono un ponte sospeso su un canale, ma trovarono una gran folla a bloccare loro il passaggio.
Si fecero largo nella calca e Jim allungò il collo oltre i turbanti colorati, le altissime parrucche e gli strani copricapi decorati con uccelli vivi per capire quale fosse il motivo dell’assembramento: un’intera piazza era stata chiusa per via di quella che sembrava un’esibizione acrobatica.  Una trentina di ragazzi e ragazze abbigliati con corte tuniche nere e pantaloni di pelle stavano dando vita a coreografie davvero spettacolari, impiegando un misto di arti marziali e magia, fra salti, calci, capriole ed evoluzioni con le armi. L’attenzione di Jim fu calamitata da un ragazzo che si batteva a torso nudo e che stava affrontando due avversari contemporaneamente; brandiva una lancia a doppia lama, facendola roteare sopra la testa e assestando colpi con la potenza di un orso.
«Però, oggi Siegfried è in forma» commentò Mei Lin, scoccando un’occhiata significativa ad Alycia. «Ho sentito che Volkov lo ha già designato come suo successore, è vero?»
«Così pare» rispose lei. «È il suo guerriero migliore.»
«Questi ragazzi appartengono alla Corte delle Lame?» chiese Jim.
«Ogni tanto organizzano dimostrazioni aperte al pubblico» disse Nikos. «Non riuscirò mai a capire perché si ostinino a sudare come un branco di vichinghi. È così stupido, possono disporre di un’infinità di incantesimi.»
«Oh, come se a te dispiaccia vedere tutto quel testosterone in azione» ridacchiò Mei Lin.
«Ho detto che è stupido, non che mi dispiace.»
«Disciplina e autocontrollo» disse Alycia. «Il motto della Corte delle Lame è “Sii la tua arma”. Il corpo è la fortezza che custodisce il potere di un mago: solo addestrandoli insieme si può raggiungere la perfezione.»
«Vuol dire che anche tu sai combattere così?» domandò Jim, impressionato.
«Me la cavo con arco e frecce.»
In quel momento, il ragazzo di nome Siegfried buttò a terra i suoi due sfidanti, accolto da uno scrosciare di applausi da parte del pubblico, dopodiché venne verso di loro: poteva avere diciannove anni ed era molto alto, molto biondo, con un fisico che sembrava scolpito nel marmo e i muscoli lucidi di sudore. Jim avvertì un insensato moto di antipatia nei suoi confronti.
«Ciao ragazzi, piaciuta la dimostrazione?» Conficcò la sua alabarda a terra con un gesto secco e i suoi occhi azzurri puntarono Alycia. «Aly, ci sei anche tu! Hai già nostalgia di casa? È un peccato che tu abbia deciso di lasciarci.»
«Penso che al Cerchio d’Oro possa rendermi più utile» rispose lei, pacata.
Siegfried le rivolse un sorriso accattivante. «In tal caso, in bocca al lupo. Anche se mi mancheranno le nostre sessioni private di combattimento.»
Fu come se qualcuno avesse tirato un pugno nello stomaco di Jim, che si voltò a guardare la ragazza, mentre le parole “nostre” e soprattutto “private” sembravano risuonargli all’infinito nelle orecchie. Cos’è che gli aveva detto una volta Alycia a proposito della sauna comune...?
«Siegfried, hai già conosciuto il nuovo apprendista di Solomon Blake?» s’intromise Mei Lin con voce flautata.
Ancora con quell’odioso sorrisetto in faccia, il ragazzo rivolse la sua attenzione su Jim, squadrandolo per bene dall’alto verso il basso. «Le voci sono vere, dunque, la Corte dei Sofisti è tornata alla ribalta. Anche se dopo tutto questo clamore mi aspettavo qualcuno più…interessante.»
Gli porse una mano callosa, forte e sudata che Jim guardò con un certo disgusto, mentre cercava di schiodare dalla testa l’immagine di quel tipo e Alycia avvinghiati tra i vapori di una sauna...
«Siegfried Völsungar» affermò fieramente. «Com’è che non ti ho mai visto da queste parti?»
«Non bazzico spesso Arcanta.»
«Non… “bazzichi?” Non credo di capire.»
«Winston è un Esterno» spiegò Mei Lin vivacemente. «È la prima volta che visita Arcanta. Ci ha raccontato un sacco di cose interessanti! Tipo che ha lavorato come prestidigitatore con un certo Udinì!»
Siegfried emise una bassa risata. «Certo che tuo padre non si smentisce mai, Alycia: gli sono sempre piaciuti i tipi bizzarri.»
Tu invece a me non piaci per niente pensò Jim, arrabbiato. Anzi, mi stai già sul…
«Guarda un po’ chi si rivede!» tuonò improvvisamente una voce alle spalle di Siegfried.
Boris Volkov li raggiunse claudicando e batté una mano sulla spalla del suo apprendista, gonfiandosi d’orgoglio.
«È sempre bello vedere una nuova generazione di maghi che stringono amicizia.» I suoi occhi invernali si posarono in particolare su Jim. «Voi, ragazzi miei, sarete il futuro di Arcanta: i migliori allievi che le nostre Corti abbiano prodotto.»
«Be’, insomma» obiettò Siegfried, ironico. «Non so quanto possa valere quando si è in classe da soli.»
Jim fu immediatamente preso dalla tentazione di trasformare quel Siegfried in un water su gambe.«Posso dimostrarti quanto valgo in qualsiasi momento.»
Siegfried sollevò le sopracciglia bionde, continuando a sogghignare. «Buffo, sembra quasi che tu mi stia sfidando.»
«Hai cominciato tu. Evidentemente non sono io quello che ha qualcosa da dimostrare.»
Volkov scoppiò in una gran risata.
«Come siamo suscettibili! È proprio vero quello che si dice: gli allievi finiscono per diventare più simili ai loro maestri di quanto si pensi.»
«E va bene, piccoletto» disse Siegfried con uno strano scintillio negli occhi. «Vediamo che sai fare: sono curioso di scoprire quali incredibili magie hai appresto nel Mondo Esterno.»
Alycia assistette alla discussione occhieggiando prima Jim e poi Siegfried, allarmata.
«Ji…ehm, Winston, sono quasi le quattro» disse, toccandogli il braccio. «Ricordati che abbiamo promesso di tornare...»
Prima che lui potesse ribattere, un familiare flash gli aggredì gli occhi, assieme a un crepitio di magnesio. Seneca Honeyfoot alla fine era riuscito a stanarli.
«Signor Cavendish!» gongolò il giornalista, saltellando verso di loro col fotografo al seguito. «Stavolta non può negarmi quell’intervista! Glielo pro-i-bi-sco!»
Jim e Alycia iniziarono a parlarsi da sopra a vicenda, snocciolando una sfilza di scuse per levarsi di torno quell’ulteriore impiccio. E nel frattempo, Siegfried si scambiò uno sguardo col suo maestro: «Stavo pensando, visto che dopo tanti anni siamo finalmente in quattro, non sarebbe divertente organizzare una Disputa?».
«Ehm» fece Jim distratto. «Una cosa…?»
«Ma è un’idea splendida!» tuonò Honeyfoot emozionato. «Questo sì che manderà in estasi i miei lettori! Ho già pronto il titolo: “Una nuova sfida riunisce i Quattro di Arcanta! I nuovi apprendisti saranno all’altezza dei loro maestri?”»
«Ehm» fece ancora Jim, che non aveva la minima idea di cosa fosse una Disputa, né di che accidenti stesse parlando Honeyfoot. Ma dall’espressione spaventata di Alycia capì che non prometteva niente di buono...
Nikos fece una smorfia. «Sig, sei serio? Ancora con questa roba da Medioevo?»
Mei Lin al contrario sembrava molto eccitata. «Avanti, sarà divertente! E poi, dici sempre che ti annoi coi tuoi compagni, no?»
«Ma siete tutti impazziti!?» esclamò Alycia. «È ridicolo, non avete bisogno di battervi!»
«A me invece sembra una grande idea» la osteggiò Volkov, compiaciuto. «È passato più di un secolo dall’ultima Disputa e i Decani ci tengono che certe tradizioni siano mantenute: rafforzano l’identità del nostro popolo.»
«Veramente io...» cominciò Jim, ma Siegfried scoppiò a ridere.
«Tipico della Corte dei Sofisti: quando c’è da andare al sodo trovano mille scuse per tirarsi indietro. Del resto, ormai la codardia è diventata il cavallo di battaglia di Solomon Blake.»
«Solomon Blake non è un codardo!» reagì subito Jim, infuriato. «E io non mi sto tirando indietro…!»
«Perfetto allora» concluse Volkov. «Se siamo tutti d’accordo, mi occuperò io stesso dei preparativi. Mr. Honeyfoot, un evento di tale portata necessita di un pubblico adeguato, posso contare su di lei?»
«Lasci fare a me, Boris» disse lui, lisciandosi i baffoni da tricheco. «Nel giro di un paio d’ore ad Arcanta non si parlerà d’altro!»
 

«Esattamente, quale parte di “non fare niente di stupido” non era chiara?»
Solomon Blake sbattè l’Oraculum sul tavolo davanti al suo allievo, nella sua stanza alla Corte dei Miraggi: la foto in prima pagina ritraeva un confuso Jim assieme a Siegfried, Nikos e Mei Lin, mentre alle loro spalle Boris Volkov sorrideva spavaldo.
Il titolo del lungo articolo, firmato ovviamente Seneca Honeyfoot, urlava a caratteri cubitali:
 
UNA SFIDA A LUNGO ATTESA!
RIUSCIR
À IL GIOVANE APPRENDISTA DI SOLOMON BLAKE A METTERE A TACERE LE MALELINGUE?
 

«È stato Siegfried a cominciare» disse Jim, troppo orgoglioso per ammettere che si era fatto incastrare come un fesso. «Non ha fatto che sminuirmi davanti a tutti, mi ha persino dato del “piccoletto”! Sono di statura media per la mia età! E poi avrebbe dovuto vedere come Volkov rideva di lei..!»
«Oh, non osare!» si inferocì Solomon. «Non provare a convincermi che lo hai fatto per difendere il mio onore, perché l’unica cosa che volevi era fare lo sbruffone come tuo solito!»
«Ma è solo una stupida gara di magia!»
«Non è questo il punto!» Solomon riusciva a stento a contenere la collera. «Quei tre hanno vissuto circondati dalla magia da quando sono nati: si addestrano da anni e padroneggiano incantesimi di livello Evocatore! Mentre tu…»
«Io le ho salvato le chiappe in quel cimitero» completò Jim. «E poi, non ha detto che sono molto dotato per la mia età?»
Solomon si passò una mano tra i capelli, esasperato. «Non avrei mai dovuto portarti qui, dovevo sapere che non eri pronto…»
«Saprò cavarmela» insistette Jim. «Il tempo di dare una lezione a Mister Fenomeno e poi ce ne torniamo a casa.»
Solomon gli scagliò addosso un’occhiataccia. «Lo vedi qual è il tuo problema? Proprio non riesci a prendere la faccenda seriamente!»
«Questo non è vero» obiettò Jim. «Io voglio seriamente fare il culo a Siegfried.»
«Ti ho spiegato mille volte che con la magia non si scherza!» ruggì Solomon. «Che non bisogna lasciarsi accecare dalle emozioni. Volkov ha fatto leva sul tuo orgoglio e ti ha attirato dritto in una trappola: questo non è uno show, Jim, non ci sono saranno trucchi e io non potrò fare niente per proteggerti stavolta...!»
«Non ho bisogno di essere protetto» ribatté Jim, seccato. «Da quando sono qui ho dimostrato di sapermela cavare anche senza il suo aiuto: non deve tenermi al sicuro solo perché non ci è riuscito coi suoi allievi…»
Si interruppe subito, rendendosi conto di cosa aveva detto quando ormai era tardi. Lui e Solomon si guardarono.
«Scusi» borbottò, sentendosi arrossire. «Non volevo dire...»
L’ira dello stregone riempì la stanza, rendendola di colpo così gelida che avrebbe potuto far nevicare.
«Bene. Se pensi di avere la situazione sotto controllo, non mi resta che augurarti buona fortuna, James. Ne avrai bisogno.»
Jim lo guardò mortificato, mentre usciva senza mancare di sbattere la porta.
 

Più tardi, sentì bussare.
Convinto che fosse Solomon, Jim aprì immediatamente per scusarsi come si deve, ma si ritrovò di fronte Alycia.
«La Disputa inizierà fra poco, sei pronto?»
Lui si limitò ad annuire con rassegnazione e la seguì attraverso il palazzo.
«Tuo padre dov’è?» chiese dopo un po’, ansioso di spezzare quello scomodo silenzio.
«È andato avanti con Macon» disse Alycia. «E non è affatto contento.»
«Lo so» replicò lui, funereo.
Una volta usciti in giardino lei si volse a guardarlo, molto seria in viso.
«Ascoltami» disse. «La Disputa nasce come un torneo in cui i migliori maghi di Arcanta si affrontano senza esclusione di colpi: anticamente decretava se un favorito fosse all’altezza di succedere a un Arcistregone alla guida della sua Corte. È una cosa seria, quindi non aspettarti di essere trattato coi guanti.»
«Non me lo aspettavo» ribatté Jim con voce neutra, ma dentro di sé l’ansia aveva già iniziato ad artigliargli le viscere.
«Ci sarà tutta la città ad assistere» continuò Alycia. «Perciò ognuno darà il meglio di sé, per rendere onore alla propria Corte. La specialità di Nikos sono le illusioni, l’ho già visto in azione ed è fenomenale: crea allucinazioni talmente realistiche da ingannare tutti e cinque i sensi. Mei Lin è una serpe, te l’ho detto, riesce a rendere chiunque il suo burattino. E Siegfried quando combatte entra in uno stato di trance, il berserksgangr e sa essere spietato.»
«Nemmeno io faccio così schifo» disse Jim, imbronciato. «E…che mi dici di voi due, invece?»
«Noi chi?»
«Tu e quel Siegfried. Stavate tipo insieme?»
«No» rispose lei, arrossendo leggermente. «Mi sono allenata con lui qualche volta, tutto qui. Ma non mi è mai piaciuto, è spocchioso.»
Saggia ragazza, pensò Jim, sentendosi sollevato da un peso enorme. «Bene. Voglio dire...buon per te, sembra proprio un coglione. E poi dicono che chi mette su tutti quei muscoli debba compensare qualcosa.»
Alycia levò gli occhi al cielo. «Uomini!»
Arrivarono alla dragostazione appena fuori i cancelli, dove una viverna verde-azzurra lo attendeva abbarbicata su una piccola carrozza monovano.
«Ti condurrà all’Arena» spiegò Alycia. «Siegfried, Mei Lin e Nikos sono già lì.»
«Che significa? Tu non vieni con me?»
«Rappresento il Decanato adesso: non posso dimostrare di patteggiare per nessuna Corte. Andrò insieme agli altri alchimisti.»
«Oh» disse Jim. «Certo. D’accordo.»
Si sforzò di non darlo a vedere, ma il pensiero di affrontare quella prova da solo, senza contare nemmeno sul sostegno di Solomon e Alycia, gli fece perdere la poca sicurezza che aveva. Era ancora in tempo per darsela a gambe? Per tuffarsi in uno specchio e sparire...?
Volevi cavartela da solo, no?
Salì in carrozza, ma prima di chiudere la portiera Alycia lo guardò dritto negli occhi e disse: «Per favore Jim, non metterti in testa di vincere a tutti i costi. Non hai nulla da dimostrare, né a Siegfried né a nessun altro.»
Di colpo, lui recuperò un po’ di motivazione. «Lo so. Però mi piace quando riesco a sorprenderti!»
Alycia scosse arrendevolmente la testa. «Pensa a uscirne tutto intero» disse soltanto, prima di chiudere la portiera. «Ora sparisci!»

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Capitolo 34
*** Una sfida a lungo attesa - SECONDA PARTE ***



UNA SFIDA A LUNGO ATTESA – Seconda parte

 




Il velodrago si librò nel limpido cielo blu marino seguendo il corso del fiume Silbri, che attraversava longitudinalmente la valle e tagliava Arcanta in due metà: la sua destinazione era un immenso stadio dalle pareti in marmo bianco e lucente, al cui interno sarebbe entrata comodamente una piccola città.
Dall’alto, Jim vide la fiumana di gente che si accalcava vicino alle quattro entrate monumentali per poi disperdersi nei vari settori in cui erano suddivisi gli spalti, bardati con stendardi di vari colori: verde e oro per la Corte dei Sussurri, viola e bronzo per quella dei Miraggi e nero e argento per la Corte delle Lame. Non gli parve di vedere nessuno coi colori della Corte dei Sofisti, quella a cui in teoria faceva ancora capo Solomon Blake.
Jim strinse spasmodicamente le mani in grembo mentre la viverna scendeva di quota. Iniziava ad avere la nausea.
Atterrò sul retro dello stadio, in uno spiazzo erboso delimitato da una cancellata; anche da lì, il vociare eccitato della folla si faceva sentire forte e chiaro nell’aria umida della sera.
Jim saltò giù dalla carrozza con l’impressione che le sue ginocchia si fossero trasformate in gelatina. Altri tre velodraghi sonnecchiavano sul prato accanto alle loro carrozze, segno che i suoi sfidanti erano già entrati nell’arena. Il ragazzo varcò la soglia di una lunga galleria rischiarata da piccole sfere di energia fluttuanti e la seguì finché in fondo non vide brillare una luce.
D’accordo, ci siamo. Trattenne il fiato come se dovesse buttarsi in mare e si incamminò verso l’uscita...
Tutt’attorno a lui c’erano file e file di spalti dove centinaia, anzi, migliaia di facce lo fissavano, illuminate dalla luce di un sole innaturalmente alto e luminoso per essere pomeriggio inoltrato.
Frastornato, Jim si guardò attorno: poco più avanti, Siegfried, Mei Lin e Nikos si stiracchiavano e salutavano la platea. Erano decisamente popolari, a giudicare dai piccoli cori che alcune file avevano iniziato a intonare in loro onore.
Qualcuno aveva addirittura preparato degli striscioni.
All’improvviso la voce allegra di Macon Ludmoore echeggiò in ogni direzione, amplificata dalla magia:
«Benvenuti alla Centocinquantesima Disputa di Arcanta! Stasera quattro tra i migliori apprendisti della Corte delle Lame, dei Miraggi, dei Sussurri e dei Sofisti si affronteranno in uno spettacolare duello di magia!»
La folla strepitò esaltata.
Finalmente Jim capì dove fosse Macon: alla sua destra c’era una tribuna d’onore coperta da uno sfarzoso baldacchino, sotto cui erano seduti i quattro Arcistregoni di Arcanta. L’Arcistregone del Sud era l’unico in piedi, vestito di porpora e oro e con le braccia sollevate. Accanto gli sedevano Boris Volkov, che sembrava impaziente di veder scorrere un po’ di sangue, e Una Duval, tronfia come una regina nel suo abito di damasco blu. Solomon Blake, invece, aveva tutta l’aria di essere stato preso in ostaggio; stringeva la radice del naso tra indice e pollice, come per placare un’emicrania e Jim poteva sentire la sua disapprovazione scottargli la pelle anche a quella distanza.
«Andiamo adesso a presentare i nostri campioni!» continuò Macon. «Dalla Corte delle Lame, un valoroso guerriero: Siegfried Völsungar!»
Siegfried alzò il pugno con fare battagliero e dagli spalti bardati di nero e argento della sua Corte si sollevò un fiero coro di ululati.
«Dalla Corte dei Miraggi, Nicodemo Eliopoulos! Ah, spiacente mio caro, ma non farò favoritismi stavolta!»
Nikos, che per quell’occasione era stato costretto a indossare l’uniforme della propria Corte, si limitò a sbadigliare e molti scoppiarono a ridere.
«Per la Corte dei Sussurri, la nostra graziosa ma letale Shu Mei Lin!»
Nella sua divisa verde e oro, Mei Lin mandò un bacio verso il pubblico, guadagnandosi un’ovazione dalla componente maschile.
«E per finire, un atteso ritorno!» ruggì Macon. «Facciamo un applauso di incoraggiamento per Winston Cavendish, dalla Corte dei Sofisti!»
A quelle parole seguirono un paio di battimani incerti e qualche imbarazzato colpo di tosse, mentre un brusio nervoso come di api serpeggiava tra gli spettatori. Era evidente che tutti si stessero facendo la domanda che in realtà si poneva pure Jim: che diamine ci faceva lui laggiù?
Resistette all’impulso di cercare solidarietà da Solomon e tirò l’ennesimo sospiro. Pubblico difficile. Be’, ne ho avuti di peggiori.
«Ma adesso andiamo a spiegare le regole… sì, signori miei, ahimè ci sono delle regole!» Altre risate dal pubblico: Macon aveva proprio la stoffa dello showman. «Innanzitutto, è categoricamente proibito uccidere l’avversario! Seconda regola, è vietato portare con sé Famigli, manufatti magici o armi fisiche: avrete a disposizione solo le vostre mani. Infine…Be’, sembra inutile doverlo specificare, ma è sempre bene essere chiari: chi fa uso delle Arti Proibite è categoricamente escluso e sarà sottoposto al giudizio del Decanato. Insomma, potrete sbizzarrirvi a patto di non infrangere la Legge! Ora, tutti voi siete dotati di un cerchio d’oro, come questo.» Mostrò un luccicante anello di metallo e in quell’istante, Jim si rese conto di averne uno identico appeso alla cintura dell’uniforme, così come gli altri tre ragazzi. «Il vostro obiettivo sarà offrirne il maggior numero alla statua di Aradia.»
Tutti volsero lo sguardo verso la scultura in oro e marmo che giganteggiava all’estremità opposta dello stadio e che raffigurava una donna seduta in trono, con una moltitudine di api scolpite a oscurarle il volto.
«Come saprete, Aradia è considerata la madre di tutte le streghe» proseguì Macon. «E la sua benedizione ricadrà su un solo campione!»
«Perciò, dovremo sottrarci i cerchi a vicenda» disse Nikos, aggrottando la fronte. «Non potremo fare a meno di combattere.»
Mei Lin e Siegfried si scambiarono un sorriso agguerrito. Jim voleva sparire.
«Esattamente! Ma non sarà facile, perché io e i vostri maestri abbiamo aggiunto qualche piccolo imprevisto, per rendere la sfida più stimolante!» concluse Macon tutto contento. «Che vinca il migliore!»
«Ehi, Esterno» disse Siegfried, ciondolando verso Jim. «Sei ancora in tempo per ritirarti: sono sicuro che il tuo maestro non se la prenderà se torni sotto le sue sottane, considerando che sei tutto ciò che gli resta.»
Jim lo guardò storto, ma poi esaminò il suo bizzarro abbigliamento: non indossava la solita uniforme nera e argento della Corte delle Lame, ma una specie di coperta in tartan avvolta attorno alla vita, che si chiudeva a portafoglio su un lato. Le gambe invece erano nude, infilate in alti stivali bordati di pelliccia.
«A proposito di sottane» commentò, sogghignando. «Che bel completino, li fanno anche da uomo?»
«È un O’skilt, razza di idiota!» sbottò Siegfried, mentre chiazze cremisi comparivano sulle sue guance. «È la divisa tradizionale dei guerrieri della Corte delle Lame, indossarlo durante la Disputa è un grande onore!»
«Lo è anche non portare le mutande?»
«Ai vostri posti!» esclamò a un tratto Macon. «Che la Disputa abbia inizio!»
Un istante dopo, Jim sentì il suolo mancare sotto i piedi.
Si ritrovò a galleggiare in una vasta oscurità azzurra e i suoi polmoni si riempirono non più d’aria, ma di acqua gelida...
Strabuzzò gli occhi, esterrefatto e si dimenò alla disperata ricerca d’aria. Le sue braccia infransero la superficie e poi subito dopo la testa. Cercò di respirare, ma soffocò e tossì. Ci riprovò e riuscì finalmente a inghiottire una prima boccata d’aria, poi un’altra.
Da qualche parte sopra di lui il pubblico stava facendo un gran baccano, ma Jim non ascoltava, troppo impegnato a cercare di rimanere a galla e a domandarsi con rabbia che accidenti avessero in testa quei quattro per concepire un inizio gara del genere…ma per fortuna aveva la magia.
Riuscì a restare in superficie il tempo necessario per evocare un incantesimo e, poco dopo, i suoi piedi tornarono a toccare qualcosa di solido: fu sbalzato fuori dall’acqua e si trovò in equilibrio sulla sommità di un grosso pilastro di roccia. Scostò i capelli fradici dalla fronte e sollevò la testa.
Poco più in alto, Nikos e Mei Lin si stavano affrontando sospesi in volo a colpi serrati di trasformazioni e incantesimi, una più spettacolare dell’altra: a un certo punto, la ragazza evocò un gigantesco vortice d’acqua, alto quanto le mura dello stadio e lo mandò a schiantarsi contro Nikos. Un istante prima che lo inghiottisse, lui sollevò una mano e la colonna d’acqua esplose in un turbine di vapore. Successivamente, disegnò un arco con la mano e una cascata di luce infranse la nube proiettando un magnifico arcobaleno. La folla reagì con un’esplosione di applausi entusiasti e sospiri di ammirazione. Più che un vero combattimento, sembrava una scenografica presentazione delle loro capacità.
Jim decise di approfittarne per avvicinarsi il più possibile e impadronirsi dei loro cerchi d’oro: evocò una serie di colonne di pietra su varie altezze, in modo che formassero una scala e si preparò a saltare, ma qualcosa lo bloccò a mezz’aria. Siegfried.
«Dove credi di andare?» disse, camminando verso di lui a pelo d’acqua.
Agitò la mano come se stesse cacciando una mosca e Jim fu scaraventato verso il basso.
Fece un volo che gli mandò il cuore in gola e un istante dopo si ritrovò a rotolare sulla dura pavimentazione dello stadio: l’acqua era sparita.
Jim provò a muoversi, ma un dolore acuto al fianco sinistro gli tolse il respiro. Se lo tastò con prudenza ed emise un guaito: doveva essersi rotto una costola.
Siegfried atterrò di fronte a lui e tra le sue mani apparve una luminosa alabarda a doppio taglio come quella che gli aveva visto brandire quella mattina, ma fatta di pura, vibrante energia vermiglia.
Jim fissò la lama e deglutì. «Non si era detto “niente armi”?»
«“Niente armi fisiche”, non armi evocate.»
Jim si affrettò a tornare in piedi, mentre Siegfried faceva ruotare l’alabarda sopra la testa; arretrò e sollevò le mani per evocare, ma avvertì un’altra scarica di dolore infilarsi sotto al costato come un pugnale. Ancora una volta gli venne meno il respiro, ma riuscì ugualmente a scagliare un incantesimo, un attacco debole e impreciso che sollevò solo un sacco di polvere. Siegfried ne emerse indenne e divertito.
«Tutto qui?» Sorrise con ferocia. «Bene, ora è il mio turno.»
Compì uno scatto verso di lui, rapidissimo. Vibrò un fendente dall’alto, tagliando l’aria con un sibilo e Jim lo schivò con una maldestra giravolta.
«Guarda che non è una gara di ballo.»
Jim agitò le mani, pensando in fretta, ma la costola rotta gli trafiggeva il fianco a ogni movimento. Siegfried gli fu di nuovo addosso e Jim, disperato, cercò di evocare anche lui un’arma, una qualsiasi… ma tutto quello che le sue mani riuscirono a generare fu un nastro di energia azzurra. Dagli spalti sentì levarsi qualche risata.
Siegfried continuò a sferrare attacchi senza sosta, ancora e ancora, senza dargli il tempo di passare al contrattacco o di riprendere fiato. Tutto ciò che riusciva a fare era indietreggiare e cercare di proteggersi con quel ridicolo, grezzo fascio di energia.
Ogni secondo che passava, il panico gli schiacciava il petto. Solomon aveva ragione, era stato presuntuoso: non era abbastanza bravo per vincere quella sfida, non era abbastanza forte per tenere testa a Siegfried...
Dopo l’ennesimo colpo subito, era così esausto e dolorante che mise un piede in fallo e cadde all’indietro.
Rotolò sulla schiena per schivare un altro attacco, ma stavolta non fu abbastanza veloce: un lampo scarlatto disegnò uno strappo nella redingote blu e argento, seguito da un dolore così lancinante che Jim non riuscì nemmeno a gridare.
Percepì qualcosa di caldo colargli lungo la schiena, mentre si accasciava a terra sul punto di svenire e il pubblico fischiava deluso.
«Sigg!» abbaiò Nikos, dall’alto. «Hai sentito Macon: non esagerare!»
Siegfried lo ignorò, il volto deformato da un sorriso crudele. Doveva essere il berserksgangr.
«Hai finito di strisciare come un verme, Cavendish?» gli ringhiò contro, facendo roteare la lama. «Non ci credo che Blake non ti ha insegnato a fare di meglio: vuoi farmi vedere un po’ di magia seria o no?»
Jim si rannicchiò a terra, il fianco che pulsava e la schiena sanguinante e lo fissò con odio. Qualcosa di diverso dalla semplice rabbia si svegliò dentro di lui, una bramosia di violenza così intensa da spaventarlo, e la sua vista si riempì di oscurità per un lungo istante…
«No...non adesso.»
Scosse il capo con forza, prima che il Vuoto prendesse il sopravvento su di lui come era accaduto settimane fa al circo. Era quello che Volkov voleva sin dall’inizio, costringerlo a uscire allo scoperto: portarlo allo stremo fisico e mentale, finché non avesse rivelato la sua natura di Plasmavuoto davanti a tutta Arcanta…
“La magia scorre forte solo in chi è forte”, gli aveva detto una volta Blake. “Non potrai sperare di padroneggiare il tuo potere se prima non riuscirai a controllare perfettamente ogni parte di te.”
Era lui a dominare il suo potere, non il contrario. Non avrebbe ceduto alla paura, non stavolta. Così, afferrò quella cosa dentro di lui che ancora scalpitava furibonda e la spinse giù. Tornò invece a guardare Siegfried e poi l’anello d’oro che pendeva dalla sua cintura.
“La magia non potrà venirti sempre in aiuto. Cosa farai la prossima volta che ti bloccheranno le mani? E se ti trovassi di fronte un mago troppo potente?”
Siegfried si preparò ad attaccare ancora e Jim attese il momento adatto. Dopodiché, senza preavviso, si gettò contro di lui; Siegfried era indubbiamente più forte e più agguerrito, ma amava dare sfoggio della sua abilità. Mulinava l’arma di energia sopra la testa come se stesse eseguendo una vera e propria coreografia, perciò in modo fin troppo prevedibile. E poi Blake gli aveva insegnato a sfruttare la forza dell’avversario, anche se era grosso il doppio di lui.
Così, lo placcò alla vita nell’istante in cui sollevava le braccia, poi agganciò la sua caviglia con la gamba, facendogli perdere l’equilibrio. Caddero entrambi a terra aggrovigliati e la folla trattenne il fiato dalla sorpresa. Dagli spalti della Corte delle Lame, si sollevarono proteste e molti accusarono Jim di comportamento sleale. Da quale pulpito!
Quanto a Siegfried, ricambiò il favore liberandosi di lui con una ginocchiata ben assestata sul fianco ferito.
«Sei veramente patetico! Nient’altro che un selvaggio cresciuto tra...» Si bloccò e prese a tastarsi la tunica.
«Perso qualcosa?»
Jim sorrise e mostrò il suo anello d’oro, a cui adesso pendeva attaccato anche quello di Siegfried: Maurice l’aveva sempre detto che sarebbe potuto diventare un borseggiatore provetto.
«Ti schiaccerò come un insetto, fenomeno da baraccone!»
«Uh, davvero? E vieni a prendermi!»
Siegfried si avventò su di lui con tutta la sua rabbia, ma piombò di nuovo a terra come un sacco di patate, le caviglie strette e i lacci degli stivali annodati tra loro. Quando tornò a guardare in alto, Jim era già fuori dalla sua portata.
La folla rise e applaudì e Jim rivolse agli spalti un inchino. In fondo, era anche quella una forma di spettacolo, o no?
Fu allora che successe una cosa molto strana.
I contorni dell’arena, gli spalti e la folla divennero offuscati, come se li guardasse attraverso un velo di nebbia rosa. Jim sentiva la testa leggera, priva di qualsiasi ansia o paura, sostituite dalla certezza che niente di brutto gli potesse accadere. Persino il dolore delle ferite e dei lividi era passato.
La folla continuava a gridare e ad applaudire, agitando nastri colorati. Stavano gridando il suo nome, il suo vero nome. Di Jim Doherty, il più grande mago al mondo.
Frastornato, si ritrovò su un podio a stringere la mano di Macon Ludmoore che lo annunciava come vincitore della Disputa.
Era fatta, era finita. Aveva vinto allora? Ma quando era successo? Proprio non se lo ricordava…
Un istante dopo, l’arena non c’era più e Jim era nella sua stanza alla Corte dei Miraggi. Ma c’era davvero molto fumo e non era più sicuro che quello che aveva davanti agli occhi fosse reale. Provò a chiedere spiegazioni ad Alycia, che era seduta sul suo letto. Lei però gli restituì uno sguardo pigro e cominciò a sbottonarsi la camicetta...
Di nuovo, una parte di lui si sforzò di capire se quello che stava vivendo fosse reale o no, ma il resto di Jim Doherty non gli rispondeva più. Era decisamente impegnato a baciare Alycia, nuda e bellissima tra le sue braccia…
«Io conosco i tuoi desideri» sussurrò Mei Lin, emersa al suo fianco dalla nebbia. «E i tuoi desideri non sono diversi da quelli di ogni mago: potere, gloria, lussuria.»
Poi gli girò delicatamente il volto e anche lei iniziò a baciarlo, a toccarlo e Jim si perse totalmente…
Qualcosa di duro lo colpì alla testa, qualcosa di decisamente reale. Un mocassino da donna.
«Winston!» Una voce giunse dall’alto come una doccia d’acqua fredda e l’incanto si ruppe.
Era Alycia, quella vera, affacciata alla balconata di una tribuna nera decorata con soli e stelle d’oro. Assieme a lei c’erano altri giovani alchimisti con indosso austere tuniche nere e tutti la fissavano con stupore. La ragazza li ignorò e si sfilò anche l’altra scarpa, pronta a lanciarla. «Datti una mossa, vattene da lì!»
Jim piombò all’istante nell’arena, così brutalmente che ebbe le vertigini.
Dagli spalti, la folla stava facendo un gran baccano, ma presto gli fu chiaro il motivo: nello stadio era apparsa una creatura mostruosa, una specie di enorme tartaruga rossastra dalla corazza di pietra provvista di spuntoni.
«Oh, una Testuggine Incendiaria!» commentò con ammirazione Macon dal suo baldacchino. «Scommetto che è una tua idea, Una: sbaglio o sei stata tu a portare quell’esemplare dal deserto del Gobi?»
Jim sbattè le palpebre più volte, finché tutto non tornò a fuoco. Anche Siegfried e Nikos avevano l’aria scombussolata di chi è stato strappato a un sogno a occhi aperti, ma alla vista della creatura indietreggiarono con le mani sollevate.
Mei Lin era seduta sull’enorme guscio corazzato della Testuggine, che sembrava completamente ignara della sua presenza: i suoi occhi erano annebbiati, come se fosse sotto l’effetto di qualche droga. O di un incantesimo.
Ripensò alle parole di Alycia: “Mei Lin è una serpe, te l’ho detto. Riesce a rendere chiunque il suo burattino.”
La bestia aprì lentamente le fauci e in fondo alla sua gola buia si accese una scintilla rossa. Senza pensarci due volte, Jim si gettò a terra.
Un fragore coprì le urla del pubblico e una fiammata lunga almeno cinque metri lo sfiorò di pochissimo, assieme al forte calore e all’odore di capelli bruciati.
«Avanti, datevi una mossa» commentò Mei Lin, che sembrava divertirsi un mondo. «Mi servono i vostri anelli!»
La Testuggine bloccava la via d’accesso alla statua di Aradia e le sue fiammate rendevano impossibile avvicinarsi; Siegfried continuava a scagliarle addosso scariche di energia con la sua alabarda, ma la corazza era talmente resistente che il mostro non sembrava avvertire neanche il solletico.
Poi fu il turno di Nikos: evocò attorno a sé una scintillante armatura di ghiaccio e corse sul lato sinistro della creatura.
Mei Lin se ne accorse e al suo comando la Testuggine scattò con una velocità sorprendente per la sua mole; quando Nikos provò a colpirla con un incantesimo, bastò una sola zampata per mandarlo al tappeto.
Jim assistette alla scena senza sapere cosa fare, mentre Mei Lin se la rideva ancora giocherellando con il suo anello d’oro. Lui ne possedeva già due, se lo avesse preso avrebbe messo fine alla gara. Tutto quello che doveva fare era mantenerla distratta…
Un urlo lo costrinse a voltarsi: era Nikos, ancora schiacciato tra gli artigli della creatura.
«Tiratemi fuori di qui!» strepitava, dibattendosi con furia. «Cazzo, qualcuno mi aiuti!»
Né Mei Lin né Siegfried sembravano intenzionati a muovere un dito.
Scioccato, Jim interrogò gli spalti con gli occhi, ma la folla continuava ad applaudire divertita e nessuno appariva preoccupato dalla cosa. Nemmeno i maestri dalla tribuna diedero segno di voler intervenire. Possibile che facesse tutto parte dello spettacolo? Le grida di Nikos a lui sembravano maledettamente vere! Imprecò tra i denti e tornò sui suoi passi.
«Tieni duro!»
Incrociò le mani davanti a sé, unendo indici e medi e facendo toccare i pollici con i mignoli opposti. La terra battuta dell’arena fu attraversata da uno scossone e il suolo sotto la creatura si sollevò come un’onda solida. Mei Lin spiccò subito il volo, mentre la creatura si ribaltava sulla schiena. Non appena sollevò la zampa, Nikos poté strisciare fuori dalla sua portata.
Jim guardò Siegfried. «Non ha corazza sotto la pancia, colpiscila lì! Io vado a prendere Nikos.»
Dopo un attimo di esitazione, il biondo seguì il consiglio, e dalla sua alabarda partì una saetta di energia rossa contro la creatura, che ancora si agitava nel tentativo di capovolgersi.
Con tutta la velocità concessa dalle ferite, Jim raggiunse Nikos, che si trascinava a terra e non sembrava in grado di camminare. Lo aiutò a rimettersi in piedi e lo fece allontanare subito dalla Testuggine; quella ruggì di rabbia e dolore e si dissolse in un’esplosione di cenere sotto i colpi di Siegfried. Ormai fuori pericolo, Jim rallentò. «Ti sei rotto qualcosa?»
Lo lasciò andare e il ragazzo provò a muovere qualche passo da solo.
«No, non credo…grazie di essere tornato indietro. Sei stato gentile.»
Gli porse la mano e Jim gliela strinse. «Figurati. Questa gara è sempre più folle!»
«Vero» confermò Nikos con un sorriso, ma i suoi occhi violetti luccicarono in modo sinistro. «Peccato però che non sia ancora conclusa.»
La sua stretta si fece più salta, mentre altre due paia di braccia si staccavano dal suo corpo facendolo somigliare a una sorta di divinità indù. Jim trasalì dallo stupore, ma fu tutto ciò che riuscì a fare: dalla mano che stringeva la sua si irradiò uno strano formicolio che risalì fino alla spalla e da lì si propagò in ogni suo muscolo, congelandolo in pochi istanti.
«Va tutto bene, non agitarti» disse Nikos, mentre uno dei suoi arti gli sfilava con nonchalance gli anelli. «È solo un’illusione.»
Jim provò a dire qualcosa, ma le sue labbra non gli obbedivano più. Nessuna parte del corpo gli obbediva. Era completamente paralizzato.
Nikos gli fece l’occhiolino e sparì, per poi ricomparire, di nuovo solo con due braccia, accanto al traguardo. Pose fra le mani di Aradia il suo anello, quello di Jim e quello di Siegfried e la scultura si piegò in un inchino. Un boato di grida esplose dalle tribune, superando quasi la voce di Macon Ludmoore: «La Disputa si è conclusa! Nicodemo Eliopoulos porta la vittoria alla Corte dei Miraggi!»
Il giovane mago si esibì in un piccolo e composto inchino e tornò da Jim, ridotto ancora a una ridicola statua con il braccio proteso.
«Le Illusioni Totali sono la mia specialità. Alla Corte dei Miraggi c’è chi si limita ancora a ingannare la vista per fare spettacolo, io inganno tutto il corpo: se si convincono i muscoli di non potersi muovere, allora ubbidiscono senza farsi troppe domande.»
Agitò le dita e Jim sentì nuovamente il corpo pervaso da quello strano formicolio, poi una sensazione di calore che lo sciolse dall’interno. Poco alla volta, si accorse di riuscire di nuovo a muovere i muscoli della faccia.
«Shei shtato shleale!» biascicò, faticando ad articolare le parole senza sputacchiare. «Creedefo foshi in difficoltà!»
«E io che fossi un po’ più furbo» replicò Nikos, continuando a sorridere e salutare la folla. «Nessuno muore durante una Disputa. E poi, da queste parti non viene dato molto valore alla gentilezza.»
Gli porse di nuovo la mano. «Ma ti sei battuto bene, quindi mi complimento con te. Per davvero, stavolta.»
Ormai del tutto libero di muoversi, Jim continuò a fissarlo con cocciuta riluttanza, ma alla fine accettò quel segno di pace. Solomon Blake e Alycia fecero irruzione nell’arena e corsero da lui.
«Sei ferito?» esclamò immediatamente lei, esaminando il taglio dietro la sua schiena. «Devi farti vedere subito da un Guaritore, sento che hai anche una costola rotta...»
«Sì, la sento pure io» borbottò lui, che però stava guardando Solomon: «Mi dispiace per quello che ho detto prima. Mi sa che aveva ragione lei.»
Lo stregone spazzò via un pelucco invisibile dalla giacca, con fare altezzoso.
«Non amo infierire, perciò non dirò “te l’avevo detto”. Ma come hai visto hai ancora molta strada da fare. Mi auguro che la prossima volta dimostrerai più giudizio, prima di prendere una decisione avventata.»
«Però ho buttato giù Siegfried» replicò Jim, azzardando un sorrisetto. «Come mi ha insegnato lei: lo vede che qualche volta le do retta?»
A quel punto, nemmeno lui poté fare a meno di sciogliersi in un sorriso.
«Ammetto che la faccia di Boris mentre mandavi al tappeto il suo pupillo è stata impagabile. Forza ora, cerchiamo di rimetterti in sesto prima che gli venga voglia di vendicarsi.»
 
 
Le ultime luci della sera incendiavano i tetti d’oro spioventi della Corte dei Sussurri, quando Boris Volkov chiese udienza all’Arcistrega dell’Est.
La giovane allieva vestita di seta verde che lo aveva ricevuto all’ingresso lo condusse attraverso sale debolmente illuminate, dalle pareti in carta di riso; altre adepte sedevano quiete su dei tatami leggendo o sorseggiando tè, ma i loro sguardi seguirono attenti ogni suo passo. Venne lasciato in un cortile chiuso da alte mura, in cui era stato ricreato un rigoglioso giardino orientale: tra rocce, magnolie e ginepri, La Regina di Cuori, come la definivano in molti ormai ad Arcanta, stava esaminando un cespuglio di rose bianche vicino a un laghetto con alcuni pesci.
«Boris, mio caro» lo accolse posando su di lui gli occhi felini. «Ti stavo aspettando.»
L’Arcistregone del Nord le zoppicò incontro con espressione lugubre. «Sai già perché sono qui, suppongo.»
Con un gesto aggraziato, la strega recise alcune rose e cambiò loro colore, da bianche a rosso vermiglio, per poi riporle nella cesta che portava sottobraccio. «Non è difficile intuirlo, dal modo in cui si è conclusa la Disputa.»
Boris digrignò i denti. «Quel pagliaccio si è preso gioco dei nostri allievi migliori! Ha trasformato una tradizione antichissima in una farsa!»
«Li hai sentiti gli applausi» replicò Una placidamente. «Pare proprio che tutta Arcanta abbia tifato per lui: li ha letteralmente conquistati.»
«Ha solo utilizzato un paio di miserabili trucchetti!» ringhiò Boris. «Proprio come ha sempre fatto Blake!»
«È ancora piuttosto grezzo, ma si è battuto con tre dei nostri apprendisti più capaci e lo ha fatto anche discretamente. Di certo Solomon Blake non ha scelto a caso, non lo fa mai.»
«Hai fatto quello che ti ho chiesto?»
«L’ho fatto, ma non è andata come mi aspettavo.»
«Che intendi dire?»
«Mi ha respinta.» Una si volse a guardarlo, senza più alcuna traccia di ironia nello sguardo. «Ha respinto la mia incursione mentale. È stato solo un attimo, di sicuro se avessi insistito sarei riuscita a penetrare, ma l’arrivo di Macon me lo ha impedito. Il solo fatto che abbia opposto resistenza, però, la dice lunga.»
Lui corrugò la fronte. «Non era mai accaduto prima, o sbaglio?»
«Solo una volta. E sai di chi sto parlando.»
«Quindi adesso mi credi? Inizi a pensare anche tu che la storia della Profezia sia vera?»
«Potrebbe semplicemente essere ben addestrato. Dopotutto, anche Solomon è riuscito a diventare una fortezza.»
«Ma per favore! Sta chiaramente proteggendo l’arma dell’Eretica e intende sfruttarla per liberarsi del Decanato una volta per tutte! Ha atteso per più di un secolo il momento giusto per impossessarsi di Arcanta e ora gli si è finalmente presentata l’occasione!»
«Mentre tu, amico mio?» Gli occhi dorati di Una scintillarono. «Non attendi forse da diciott’anni di avere la tua vendetta?»
«E l’avrò, stanne certa! In un modo o nell’altro lo costringerò a uscire allo scoperto!»
«Che era quello che speravi di ottenere con la Disputa.»
«Siegfried avrebbe dovuto andarci più pesante!» si lamentò Boris. «Ma Macon non avrebbe permesso che il moccioso si facesse male. È sempre stato troppo indulgente con i ragazzini.»
«Ammettilo, non è stato un gran piano» ribatté Una per poi aggiungere, in tono mellifluo: «E cosa mi dici della tua graziosa protetta?»
Boris distolse lo sguardo, rivolgendolo sulle carpe koi che sguazzavano nel laghetto. «È compromessa. Blake è riuscito a portarla dalla sua parte e adesso che c’è pure di mezzo quel ragazzo…»
Una parve molto interessata alla notizia. «Un giovane amore, quindi?»
«Pensavo che negli anni fossi riuscito ad aprirle gli occhi su suo padre» disse Boris amareggiato. «Su che razza di uomo è in realtà. Belle è stata un’ingenua a fidarsi di lui…non potrei mai sopportare che anche Alycia subisca la stessa sorte. Se le succedesse qualcosa…»
«La verità è che ti sei lasciato coinvolgere troppo in questa storia» dichiarò Una. «Il rancore per quello che Blake ha fatto a Isabel ti ha ossessionato per anni. Ti ha impedito di vedere con chiarezza e ti ha fatto commettere un grosso sbaglio.»
«E cosa avrei sbagliato?»
La Regina di Cuori sorrise con dolcezza. «Hai creduto che un uomo potesse fare quello che è chiaramente un lavoro da donne.»
Tagliò di netto lo stelo di una rosa e la osservò, mentre i petali si ingiallivano ed appassiva lentamente tra le sue dita. «D’ora in avanti mi occuperò del nostro Wiston Cavendish a modo mio.»

 

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Capitolo 35
*** Gli Amanti ***



GLI AMANTI





«Dì la verità: stai cercando di uccidermi?»
«Se riuscissi a stare fermo due secondi avrei già finito.»
«Ma se non mi sono mosso affatto!»
«Sei peggio di un’anguilla!» Alycia tirò un sospiro e si passò il dorso della mano sulla fronte. «Ora chiudi il becco, devo concentrarmi.»
Erano tornati alla Corte dei Miraggi da un paio d’ore. Sdraiato supino sul letto a torso nudo, Jim si morse le nocche, mentre Alycia terminava di medicargli la schiena; rispetto a quando gli aveva sistemato la costola rotta, questa operazione provocava solo un prurito terribile ma richiedeva molta precisione, o sarebbe rimasto con una brutta cicatrice.
«Ti hanno conciato proprio per le feste» valutò lei, contrariata. «Sei stato un incosciente a buttarti lì in mezzo senza sapere cosa ti aspettava.»
«Lo so, lo so... ma hai visto la faccia di Siegfried? Scommetto che nessuno l’aveva mai gabbato alla maniera dei Mancanti!»
«Avrebbe potuto farti molto più male.»
«E io avrei potuto fargli cadere quel ridicolo gonnellino davanti a tutta la città.»
«Qualcuna tra il pubblico avrebbe apprezzato.»
Lui alzò la testa e le rivolse un’occhiata sospettosa. «E tu cosa ne sai? Hai detto che non siete stati insieme.»
«Infatti.» Alycia alzò le spalle. «Ma sai, nella sauna comune ci si disinibiva parecchio...»
Di fronte alla sua espressione costernata, lei sogghignò: «Scherzetto.»
«Sei veramente perfida. Prenderti gioco così di un ragazzo agonizzante...»
«Esagerato.»
«...E offrirti di medicarlo solo per spogliarlo e mettergli le mani addosso...Ahi!»
«Sei un cretino» commentò lei, ma stava sorridendo. Recise i fili dorati dell’incantesimo e annunciò: «Be’, io qui ho finito: sei pronto per tornare a fare danni.»
Jim si tirò a sedere con prudenza: a parte un leggero formicolio, la schiena era come nuova. Tornò a guardare Alycia e sorrise: «Lo sai, mi era mancato vederti così.»
«Così come?»
«Spontanea, sorridente, in vena di battute. Come quando eravamo a New Orleans.»
Un piccolo muscolo si contrasse al lato della bocca di Alycia, che distolse in fretta lo sguardo. «Sono sempre io.»
«Non è vero. Da quando sei tornata ad Arcanta è come se facessi di tutto per essere il meno possibile te stessa.»
«Forse perché Arcanta non è New Orleans» replicò lei, piano. Si alzò in piedi e iniziò a riporre i vasetti di unguenti ed erbe officinali nel suo baule porta-pozioni. «O forse, in realtà è questa la vera me. Anche se pensi sia una stronza.»
«Io non penso che tu sia stronza» ribatté Jim. «Penso che tu sia molto forte, coraggiosa: hai tenuto testa a quei vecchi caproni dei Decani da sola. È stato fenomenale.»
Alycia si schiuse in un piccolo sorriso e arrossì. «Grazie.»
«Quello che voglio dire è che sei meglio di come cerchi di apparire alla gente di qui.» Jim esitò, poi chiese, con voce incerta: «È per colpa mia? Ti sei allontanata da me... perché quella sera al treno ti ho messo paura?»
Forse non era il momento adatto per parlarne, non ora che avevano finalmente ritrovato un po’ di sintonia; faceva male non sapere il motivo del suo comportamento, ma anche conoscere la verità gli avrebbe fatto male...
«Tu non hai fatto niente.» Alycia si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, continuando a tenere gli occhi bassi. «Davvero, Jim, tu non...è complicato.»
«Perché sono un Plasmavuoto?»
Lei ebbe un sussulto a sentire quella parola e scoccò occhiate nervose attorno. «Non parlare di certe cose qui! Potrebbero ascoltarci.»
«Sono stufo di recitare questo stupido ruolo!» sbottò lui. «Di mentire, di fare finta di conoscerti a malapena...»
«Jim, cosa vuoi che ti dica, esattamente?»
«Pensi davvero che quello che è successo tra noi sia stato un errore?»
Finalmente, Alycia lo guardò negli occhi, due pozze scure al tenue bagliore delle lucerne. «Io...»
Jim restò in attesa, i gomiti poggiati sulle ginocchia, i piedi nudi sul tappeto persiano e il cuore che batteva furiosamente.
Lei si inumidì le labbra. «Io...penso molte cose riguardo quella sera: penso di essere stata irresponsabile, di non aver riflettuto sulle conseguenze e anche di aver bevuto più del dovuto...»
Lui avvertì una fitta al petto e inspirò profondamente. «Ok.»
«Non mi ero mai comportata così prima» proseguì lei, con voce roca. «E non vedevo l’ora di farlo. Perciò no, non penso sia stato un errore.»
Jim si alzò, le venne vicino; senza smettere di guardarla, posò le mani sulle sue guance e l’ondata di energia che come sempre accompagnava il contatto della loro pelle si diffuse nell’aria, rendendola molto calda. Alycia si irrigidì e diventò tutta rossa, ma non si allontanò. «Non dovremmo.»
Lui si abbassò ancora, tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Allora» sussurrò sulle sue labbra. «Fermami.»
All’improvviso, qualcuno bussò alla porta. Alycia aprì gli occhi e si separò da lui con un balzo.
«Alycia, sei ancora lì?» disse la voce di Solomon Blake. «Se hai finito con le medicazioni ritengo sia opportuno che il cugino Winston riposi.»
Jim alzò gli occhi al soffitto. «Per essere uno che va in giro con l’orologio rotto, ha un tempismo incredibile.»
Si guardarono ed entrambi soffocarono una risata.
«Però ha ragione» disse Alycia. «Dovresti riposare.»
«Non sono mai stato più sveglio in vita mia. E poi» aggiunse lui con malizia. «Il letto è grande, c’è spazio per due.»
«Sai che probabilmente sta ascoltando, vero?»
«Torna più tardi» propose lui, con slancio. «Prima o poi andrà a dormire. E se non si sbriga, gli metterò un sonnifero nel tè che stenderebbe un cavallo.»
«Sei un pessimo alchimista.»
«Forse quel che mi serve è la giusta motivazione.»
Un altro paio di colpi alla porta, stavolta più impazienti.
«Arrivo!» disse Alycia a voce alta. Ancora un po’ rossa in faccia, prese il suo bauletto sottobraccio e raggiunse la porta. Ma prima di lasciare la stanza le sue labbra articolarono un “ci proverò”. La porta si chiuse dietro di lei.
Jim si lasciò cadere sul letto con le braccia spalancate e un sorriso enorme in faccia, felice come non si sentiva da parecchio tempo. Decise di approfittare di quel momento per sé per concedersi un bagno caldo: la stanza da bagno era pazzesca, conteneva l’illusione una sorgente termale immersa in una foresta. Immaginò le cose che avrebbero potuto fare più tardi lui e Alycia in quella piscina e valutò che al momento fosse più indicata una doccia fredda. Si avvolse in un morbido accappatoio e si mise a letto. Non appena toccò il cuscino, la stanchezza della giornata gli piombò addosso tutta insieme e si addormentò di sasso...
 
È di nuovo alla fattoria dei suoi genitori, nel New Jersey. Sopra la campagna infuria un temporale; James è seduto al solito tavolo della cucina e osserva le gocce di pioggia che creano rigagnoli lungo i vetri. E intanto, presta attenzione alla discussione che si sta tenendo nella stanza accanto:
«Non ha fatto alcun progresso.»
Quella voce, profonda e rauca, appartiene a un uomo alto, tutto tatuato, con la testa perfettamente calva; il suo volto color bronzo è pieno di orribili cicatrici, la bocca sottile sempre atteggiata in una smorfia di disgusto. Tra gli amici della mamma è quello che lo spaventa di più. Lo sottopone ogni volta a esercizi che non hanno senso, dandogli dello stupido se non li capisce e quando sbaglia impreca e se la prende con la mamma. James si chiede perché non lo mandi via, perché rimanga in silenzio ad ascoltare i suoi rimproveri. Lei, che è in grado di fare cose straordinarie, potrebbe farlo sparire in un battito di ciglia.
«Mi serve più tempo» dice Abigail con voce tesa. «Non posso farlo esercitare quando Tom è a casa, lo sai.»
«Quell’inutile Mancante!» esclama l’uomo con rabbia. «Non fa che darci problemi! Ti ha resa debole.»
«Tom non mi ha resa debole!» ribatte la mamma, ritrovando vigore nella voce. «E James è sempre nostro figlio, che ti piaccia o no.»
«Bada a come parli, ragazzina» sibila l’altro. «Non potrai giocare all’allegra famigliola di campagna per sempre: l’avrai anche messo al mondo, ma il void shaper appartiene a Lei, vedi di non scordarlo!»
«Dagon» interviene un’altra voce, bassa e tranquilla, la voce di una donna. «Questo atteggiamento non risolve niente e influisce negativamente sui poteri del bambino.»
«Maledizione, Zora, Arcanta ci sta addosso! Non c’è più tempo!»
«Lascia che parli io con lui» dice la donna, stavolta con tono più autoritario. «Forse, ciò che gli occorre è solo un po’ di motivazione.»
Dagon sbuffa, ma non esprime altre obiezioni.
Dopo un attimo, eccola entrare in cucina: è bella ed elegante, anche se non giovane come la mamma, alta, con zigomi pronunciati e gli occhi verdi. I capelli biondi le ricadono in boccoli ordinati sopra le spalle, ma a James sembra che abbiano qualcosa di artificioso, come se indossasse una parrucca.
«Ciao, Jamie» lo saluta con un sorriso, occupando la sedia di fronte alla sua. «Il mio nome è Zora. Tua madre mi ha confidato che sei goloso di dolci.»
Estrae dalla tasca del soprabito una scatolina di porcellana bianca e blu, con all’interno dei dolcetti colorati coperti di zucchero.

«Si chiamano lokum» spiega. «Sono tipici delle mie parti. Assaggiali, a me ricordano casa.»
Il bambino esita, poi allunga una mano e ne prende uno; si sciolgono sulla lingua e gli lasciano le dita appiccicose. Ne vorrebbe altri ma non osa chiedere.
«So che hai molte domande» dice la donna, lasciando la scatolina aperta sul tavolo in modo che possa servirsi da solo. «Che ci sono tante cose che al momento non comprendi. E so anche che Dagon ti spaventa, dico bene?»
Lui lancia un’occhiata nervosa alla porta chiusa, nel timore che l’uomo irrompa nella stanza e ricominci a urlargli contro.

«Qualche volta mette i brividi anche a me» confessa Zora con un sospiro. «Ma in parte lo capisco: hai visto tutte quelle brutte cicatrici? Se l’è procurate durante la Guerra Civile. Tutti noi abbiamo perso qualcosa e Dagon ha visto suo fratello cadere davanti ai propri occhi. Sai cos’è una guerra civile?»
James scuote la testa, mentre mangia un altro dolcetto.
«È una guerra che si combatte all’interno dello stesso popolo. Nel nostro caso, una guerra di maghi contro altri maghi.»
James la fissa senza capire. «Perché avete combattuto?»
«Siamo stati costretti a farlo, Jamie. Ti sei mai chiesto per quale motivo la tua mamma e il tuo papà non vogliono che lasci la fattoria? Perché ti vietano di giocare con gli altri bambini?»
James annuisce con energia. Se lo chiede continuamente, ma dai suoi genitori ha sempre ottenuto solo risposte vaghe: “troppo pericoloso” gli dicono. “È per la tua sicurezza”. Ma in cuor suo sa che più che per la propria temono per la sicurezza degli altri.
La donna si sporge sul tavolo, fissandolo intensamente. «Devi sapere che la nostra gente è stata oppressa da secoli, costretta a nascondersi, a vivere nella paura. Alcuni stregoni avidi hanno sfruttato questa paura per controllarci, portandoci via parte del nostro antico potere e quando alcuni di noi si sono ribellati, sono stati puniti. Per questo tua madre si è unita a noi: vuole per te un futuro diverso, dove non dovrai più nasconderti o essere sotto il controllo di qualcuno. Non è quello che vuoi anche tu?».
James rimane in silenzio, riflettendo sulle sue parole.
«Capisco cosa provi» dice Zora, con una luce dolce e malinconica nello sguardo. «I Senza Poteri temono quelli come noi, ci accusano di tutti i loro problemi. Per anni mi sono sentita un’ospite indesiderata ovunque andassi. Sola, abbandonata, prigioniera.» Solleva la manica e scopre l’avambraccio: nella parte interna, sulla pelle liscia e bianca è impresso un marchio a fuoco con dei numeri.
«Finché non ho incontrato persone uguali a me» conclude. «Loro sono diventati la mia famiglia, il mio scopo. E possono diventare anche il tuo, Jamie. Tu sei speciale per noi, molto più di quanto immagini: dentro di te custodisci quell’antico, immenso potere che ci è stato sottratto, un potere che può rendere il nostro popolo libero come un tempo. Ora capisci perché abbiamo bisogno del tuo aiuto?»
«Ma io...» balbetta lui, sconfortato. «Io non so come fare.»
«Basta che tu lo voglia» risponde Zora, convinta. «È nella Volontà che risiede la vera forza di un mago. Tutto il resto non conta.»
James non sa cosa rispondere. Si guarda le mani, quelle mani che spesso sfuggono al suo controllo e di cui suo padre sembra avere così paura. Certe volte crede di odiarle, altre di odiare lui e quella fattoria in cui è costretto da quando ne ha memoria, solo e senza amici...
Si è sempre sentito proprietà di qualcun altro e non una persona dotata di Volontà propria. Ma ha davvero il potere di cambiare le cose?
Zora prende le sue mani tra le proprie, con dolcezza.
«Che ne dici, Jamie?» propone, tornando a sorridergli. «Vuoi aiutarmi a cambiare il mondo?»
Nessuno gli ha mai chiesto qualcosa prima, se è felice laggiù, se voglia una vita diversa. James ricambia lo sguardo limpido della donna e sente nascere in lui una forza che non sapeva nemmeno di possedere.
«Sì.»
 
Jim aprì gli occhi, il cuore che correva nel petto come una lepre. Attorno a lui, nella stanza che occupava alla Corte dei Miraggi, era definitivamente calato il buio.
Scombussolato, si passò una mano sulla fronte sudata.
Ormai capitava sempre più spesso che facesse quegli strani sogni, ma non riusciva a capire se ciò che sognava fossero ricordi del passato oppure no. Alcune cose lo erano indubbiamente: sua madre che lo incoraggiava a esercitarsi con la magia nonostante il parere contrario di suo padre, il senso di impotenza dell’essere costretto a vivere isolato dal resto del mondo. Ma quelle persone, quella donna bionda...le aveva conosciute realmente? Chi erano e che cosa volevano da lui e sua madre?
Tirò un profondo sospiro e decise di concentrarsi su cose ben più reali per il momento. Tipo la fame.
Sul comodino erano apparsi magicamente un bicchiere di latte di mandorla e dei bignè alla crema, assieme a un biglietto coi complimenti della cucina per la Disputa. Non avrebbe mai immaginato di poter avere dei fan ad Arcanta. Magari, più tardi avrebbe potuto chiedere di fargli avere in camera anche una bottiglia di vino e due calici...
Mentre mangiava, notò che qualcuno aveva lasciato sul tavolino un origami di carta verde a forma di elefantino; incuriosito, Jim lo spiegò e scoprì che conteneva un messaggio:
 
C’è una festa in maschera all’Astrolabio stasera: saranno tutti lì, compreso mio padre. Vediamoci al labirinto di siepi intorno alle 22:00, vicino al Satiro Danzante.

 
Alycia
 
Jim sorrise, eccitato al pensiero di quell’appuntamento clandestino. Visto che erano già le 21:40 e non aveva tempo di pensare a un travestimento elaborato, optò per lo smoking indossato la sera prima; annodò il farfallino con la magia e mise una mascherina di seta nera attorno agli occhi. Quel look misterioso gli donava maledettamente, pensò, mentre afferrava una rosa bianca da un vaso e la infilava nell’occhiello della giacca.
Quando passò davanti alla sala dell’Astrolabio, la festa non era ancora in pieno svolgimento, anche se comunque animata. Jim individuò Solomon, finito tra le grinfie di Una Duval, che sfoggiava uno stupefacente vestito fatto di nuvole temporalesche e fulmini che guizzavano tra le pieghe della stoffa.
Attento a non farsi notare, Jim si infilò tra gli invitati, abbigliati in maniera così assurda da sembrare saltati fuori da un dipinto surrealista: passò tra una maga vestita da albero, con un’acconciatura a forma di nido e dei passerotti veri che le volteggiavano attorno alla testa e uno stregone con una redingote a piume di pavone. A un certo punto, si ritrovò faccia a faccia con un uomo, così all’improvviso che non poté evitare di finirgli addosso e rovesciargli il contenuto del suo bicchiere sul vestito.
«Porc...mi scusi tanto!»
«Nulla di irreparabile» replicò l’altro con voce strascinata, dopodiché ruotò il dito e la macchia scomparve dall’austera tunica di velluto nero che indossava. Con un tuffo al cuore, Jim capì che si trattava di un Decano e non uno qualsiasi: era lo stesso che aveva cercato di mettere in difficoltà Alycia alla Prova dell’Oro. Blackthorn.
«Winston Cavendish, presumo» disse il Decano con un guizzo di curiosità nello sguardo. Era un uomo imponente, con una barba bianca e curata e il volto trattenuto e chiuso come quello di un prete.
«Ehm, s-sì signore» farfugliò Jim, che per qualche ragione aveva smesso di respirare; forse era per il modo in cui lo fissava, ma si sentiva stranamente messo in soggezione da quell’uomo.
Blackthorn accennò un sorriso tiepido. «Ti ho visto nell’arena, oggi. Non il genere di spettacolo che mi sarei aspettato, ma te la sei cavata discretamente.»
«Grazie» replicò Jim. «Ora, se vuole scusarmi...»
«Stavo uscendo a prendere una boccata d’aria» lo interruppe il mago. «Mi accompagneresti?»
«Veramente devo incontrare una persona...»
«Aspetterà» disse Blackthorn, in tono categorico. «Non riterrai che esista qualcuno più importante di un Decano, giovanotto? E poi, me lo devi dopo il pasticcio che hai fatto col mio drink.»
Mentre il senso di soffocamento aumentava, Jim si guardò ansiosamente attorno, sperando di incrociare lo sguardo di Solomon, di Macon, di chiunque in grado di salvarlo. Ma il Decano lo stava già scortando in giardino, dove l’aria era appesantita dal profumo dei fiori tropicali e i suoni della festa giungevano ovattati.
Si fermò ai piedi della scalinata con le mani intrecciate dietro la schiena, e con Jim al suo fianco che cercava un modo per svignarsela. Chissà se Alycia era lì nei paraggi...
«So che la vita non è stata facile per te» disse il mago, lo sguardo rivolto verso gli alberi. «Crescere isolato dai tuoi simili e con la nomea di bastardo, oltretutto. È stata una vera fortuna che Solomon Blake ti abbia preso sotto la sua ala. Gli sarai molto riconoscente per questa occasione. Sei il primo a cui è concessa dopo molto tempo.»
«Sì, me l’hanno detto» rispose Jim, monocorde. «Molte volte.»
«Conoscendo i trascorsi con tuo padre è comprensibile che tu veda in Blake un punto di riferimento» continuò Blackthorn, senza dare segno di averlo sentito. «È sempre stato amato dai più giovani, cosa che non posso dire di me: del resto, sono l’Inquisitore, il Braccio della Legge. Ed è un bene che la Giustizia incuta timore.»
Jim lo guardò. «Sarebbe contento se anche i suoi figli avessero paura di lei?»
L’espressione di Blackthorn si indurì. «Io non ho figli.»
Fece una pausa, così lunga che Jim ipotizzò di dover prendere la parola. Ma non appena aprì bocca, l’altro riprese: «C’è stata una figlia, in passato. Ha preso quasi tutto da sua madre, tranne la bellezza. Ma era la mia ragione di vita, nessuno al mondo l’avrebbe mai amata come l’ho amata io. Ma lei ha scelto di tradirmi.»
«Ah» fece Jim, non sapendo cos’altro dire. «Capisco.»
«Vedi, ragazzo, per quanto la famiglia ci possa deludere è l’unica cosa che conta davvero» disse Blackthorn con un sospiro. «Senza le nostre radici, rischiamo di smarrire la strada. Ricordatelo, quando crederai di odiare tuo padre. Èquello che ho cercato di trasmettere anche a mia figlia, ma lei ha fatto le sue scelte e ne ha pagato le conseguenze.»
Jim avvertì una fitta allo stomaco a quelle parole. «Perché, cosa le è successo?»
Un sorriso crudele affiorò sul volto del mago. «Voleva vivere come una Mancante, sentire sulla propria pelle cosa significhi condurre una vita breve e miserabile. Ed è quello che le ho dato: l’ho resa una di loro.»
Jim aprì la bocca, sbalordito. «Le ha tolto i poteri?»
Blackthorn inspirò profondamente dal naso. «Per questo ho detto che non ho figli. Lei ormai vale meno di niente.»
Jim era semplicemente agghiacciato. Che genere di persona farebbe una cosa del genere alla propria figlia?
«Be’» disse, sentendo turbinare dentro di lui la collera. «Forse, la vita che ha avuto non è stata tanto miserabile senza di lei.»
Il Decano sollevò le sopracciglia e gli scoccò una lunga occhiata, fredda e penetrante. «Togliti la maschera.»
«Come?»
«Togliti quella maschera ho detto. È un Decano a ordinartelo.»
Jim tergiversò, senza sapere cosa fare. «Perché..?»
Blackthorn emise un verso d’impazienza e fece scattare in alto la mano e la mascherina di seta nera sul volto di Jim si disintegrò trasformandosi in polvere. Il Decano sbatté le palpebre più volte, e dopo ogni battito la sua espressione mutò da torva, a stupefatta, a terrorizzata. L’espressione di chi si trova di fronte un fantasma.
«Non è possibile.» Il respiro gli sibilò tra i denti. «Sei...no, non può essere. Eppure, gli somigli...»
Jim deglutì un paio di volte, cercando di calmarsi. «Somiglio a chi, mi scusi?»
Blackthorn lo ignorò, continuando a scuotere la testa, sempre più agitato. «No, è impossibile. È morto, morto anni fa! L’ho visto esalare l’ultimo respiro io stesso.»
«Di chi sta..?»
«Tom Doherty, ecco chi!» ringhiò Blackthorn. «Quel rozzo Mancante che mi ha portato via mia figlia!»
Jim sentì il terreno sgretolarsi sotto i piedi e sperò che fosse abbastanza buio là fuori da nascondere il pallore che doveva aver assunto il suo volto.
«Non avrebbe mai potuto riportarlo in vita» borbottò Blackthorn, più che altro rivolto a se stesso. «Non possedeva più una stilla di magia. Ah, dannato Ludmoore e le sue feste depravate! Non avrei dovuto accettare tutti quei drink.»
Poi, fulminò Jim con un’altra occhiata carica di disprezzo e si allontanò.
Lui invece rimase immobile dov’era per alcuni istanti, respirando con difficoltà. Sentiva la testa friggergli come se all’interno ci fosse uno sciame di api impazzite e i piedi come blocchi di cemento.
“Voleva vivere come una Mancante, sentire sulla propria pelle cosa significhi condurre una vita breve e miserabile. Ed è quello che le ho dato: l’ho resa una di loro...”
Jim strinse gli occhi, si passò una mano tra i capelli. Prese un profondo respiro. Doveva trovare Alycia.
Attraversò il giardino, ignorando i sospiri e le risate delle coppie appartate qua e là dietro i cespugli; a un certo punto, uno stregone con indosso solo una parrucca cotonata e le mutande gli tagliò la strada mentre inseguiva un maiale, ma Jim non aveva la testa per pensare alle stranezze di quel posto.
Giunse infine davanti a due siepi di bosso potate a forma di elefanti, che segnavano l’ingresso a un labirinto. Evocò un fuoco fatuo per illuminare i suoi passi e lo percorse finché non si trovò in un vicolo cieco, di fronte alla statua di un fauno che suonava il flauto in bilico su uno zoccolo solo sopra un plinto di marmo.
Lì trovò Alycia, che gli dava le spalle con indosso un vestito nero dalla profonda scollatura sulla schiena e i capelli raccolti sulla nuca.
«Ce ne hai messo di tempo» lo accolse, voltandosi a guardarlo con un sorriso. «Forse nel messaggio avrei dovuto includere una mappa.»
Un istante dopo però, si accorse della sua espressione sconvolta: «Ehi, va tutto bene..?»
«Tu sapevi che l’Inquisitore Blackthorn è mio nonno?»
Alycia lo fissò a bocca aperta. «Che cosa..?»
«Rispondi alla domanda» disse Jim bruscamente. «Tu lo sapevi?»
Lei scosse la testa, continuando a fissarlo confusa. «Io...no, certo che no. Ne sei sicuro?»
«Sufficientemente» mormorò lui. Stava tremando e per quanto si sforzasse non riusciva a smettere. «Poco fa ho dovuto sorbirmi la storia di come abbia punito mia madre per essersi innamorata di un Mancante. Per poco non mi ha anche riconosciuto. Oh, ma per fortuna credeva che fossi il fantasma di mio padre, che a quanto pare è convinto di aver ucciso anni fa!»
Aveva iniziato a camminare avanti e indietro come un ossesso e il tono della sua voce era abbastanza alto da attirare le attenzioni di qualcuno, ma in quel momento non gli importava. Era troppo fuori di sé per pensare a qualcos’altro se non al fatto che per tutto quel tempo Solomon Blake gli aveva mentito.
«Lui lo sa. Tuo padre...figuriamoci, lui sa sempre tutto! Sapeva che mia madre aveva perso i poteri, sapeva che mio padre era stato ammazzato e che in qualche modo è stato riportato in vita! E per tutto questo tempo mi ha tenuto all’oscuro! L’ho dovuto sapere dal suo stesso assassino, maledizione!»
Alycia si fece più vicina. «Ascolta, ora devi calmarti.»
Posò le mani sulle sue spalle, guardandolo negli occhi. «Lo so che sei sconvolto ma di sicuro avrà avuto le sue buone ragioni...»
«Oh, lo so io che buone ragioni ha avuto» rispose Jim, furente. «Lui fa sempre così, non è vero? Sparge briciole di verità per tenerti buono e convincerti a fare il cazzo che vuole lui! Scommetto che l’ha fatto anche con te quando ti ha detto che sono un Plasmavuoto!»
Alycia adesso era molto pallida e i suoi occhi erano sgranati. «Mi dispiace.»
«Non glielo permetterò più» disse lui con disgusto, scuotendo la testa. «Fanculo il suo stramaledetto rituale, fanculo Nimbus. Non lo accontenterò più, non mi importa se sono l’unica speranza che ha per entrare nel Vuoto. Non ha il diritto di trattarmi così!»
«Hai detto che tua madre era stata privata dei poteri» disse Alycia, in un tentativo di rimanere, almeno lei, ragionevole. «Come ha fatto allora a riportare in vita tuo padre? Questo è impossibile!»
«Non lo so» ammise lui, con un sospiro stanco. Si massaggiò la tempia, percependo che era in arrivo un’altra emicrania. «Io...io ho questi sogni, che riguardano il mio passato alla fattoria. Non so se siano cose accadute realmente oppure no, al risveglio è sempre tutto confuso. Ma in questi sogni vedo mia madre insieme a delle persone, altri maghi. Inizio a credere che possano essere gli Zeloti di cui mi parlavi, i servi dell’Eretica. E che mia madre fosse una di loro.»
Tutto stava acquistando pian piano un senso. Abigail era stata condannata dal suo padre tiranno a vivere come una Mancante, perdendo per sempre l’amore della sua vita. Doveva essere stato allora che aveva deciso di unirsi agli Zeloti: il Vuoto permetteva di realizzare cose impossibili per i maghi, come infondere nuovamente la vita. Ma esigeva sempre un prezzo da pagare...
«Mia madre ha chiesto al Vuoto di riavere mio padre» comprese con orrore. «E in cambio ha ceduto me...»
Forse non sapeva a cosa stesse andando incontro, forse gli Zeloti l’avevano ingannata. Oppure...oppure lo aveva fatto per propria scelta. Per distruggere Arcanta e l’uomo che le aveva rovinato la vita.
«Io sono un’arma. Sono sempre stato un’arma, Alycia.» Jim alzò la testa, incontrò il suo sguardo spaventato. «Prima ero l’arma dell’Eretica e adesso sono quella di Solomon Blake.»
Lei gli prese il viso tra le mani, dolcemente.
«Per me non cambia nulla» disse e lui sentì il battito subire un’impennata. «Io voglio stare con te, chiunque tu sia.»
Era tutto quello che aveva bisogno di sentirsi dire. Jim la strinse contro di sé e la baciò avidamente, disperatamente. Lei gli cinse il collo con le braccia, lasciando che lui la sollevasse da terra, spingendola contro la statua. La fece sedere sul plinto di marmo, le mani che scivolavano lungo i suoi fianchi, mentre lei stringeva le dita tra i suoi capelli; le sollevò l’orlo del vestito, scoprendo le sue cosce nude, mentre sentiva il desiderio accendersi in un istante, come fuoco che divampa in una foresta. La voleva con tutto se stesso. Desiderava fondersi con lei, sentirsi finalmente parte di qualcosa, non più solo, non più diviso, non più diverso...
Alycia spinse con più decisione la lingua nella sua bocca, ma improvvisamente, qualcosa cambiò. Quel bacio aveva un sapore amaro, di tabacco e di vino, ma non era solo questo. C’era qualcos’altro…qualcosa di sbagliato.
Jim si staccò. «Non hai detto il mio nome.»
Lei ricambiò il suo sguardo con un sorriso incerto. «Come?»
«Non hai detto il mio nome nemmeno una volta» ripeté lui e quella sgradevole sensazione si tramutò presto in pericolo, spingendolo ad allontanarsi; Alycia non lo avrebbe mai attirato in un luogo isolato, alla mercé di chiunque e lontano da suo padre. Non avrebbe mai agito in modo tanto sconsiderato, non lì ad Arcanta. «Tu chi sei?»
Il sorriso della ragazza si allargò. «Sai quel è il tuo problema, straniero? Sei un libro aperto, non c’era neanche bisogno che usassi il mio potere con te: è stato sufficiente il modo in cui vi guardavate l’altra sera alla festa!»
A Jim si rivoltò lo stomaco. «Mei Lin…»
Lei sollevò una mano con un tintinnio di bracciali. Un sottile filo rosa, luccicante come seta, fuoriuscì dal suo orecchio e fluttuò per qualche istante nell’aria fra di loro. Con un movimento rapidissimo, se lo attorcigliò attorno al dito, tramutandolo in una fedina d’oro.
«È stato un bel bacio» commentò la ragazza con l’aspetto di Alycia, senza smettere di sorridergli. «Peccato che non ricorderai nulla di questa parte della serata.»
Jim sollevò le mani per attaccare, ma lei fu più veloce: soffiò una polvere scintillante verso di lui, una nuvola nera che gli provocò un attacco di tosse. Quando si diradò, Jim era solo, in mezzo al labirinto di siepi di bosso, sotto la statua di un fauno che suonava il flauto, a domandarsi se Alycia sarebbe venuta o meno al loro appuntamento.


 

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Capitolo 36
*** La favorita ***


LA FAVORITA






Il mattino seguente, Jim fu svegliato da un baccano infernale. Buttò all’aria le lenzuola, maledicendo il fatto che ogni giorno ce ne fosse una nuova in quel posto; aveva dormito malissimo, dopo aver passato tutta la sera da solo in quel labirinto come un idiota ad aspettare che Alycia si degnasse di raggiungerlo. Alla fine, aveva deciso di mandarla al diavolo e se ne era tornato in camera sua, deluso e amareggiato, mentre il resto della Corte era in festa.
Aprì la finestra e si affacciò al balcone: in giardino, sotto un abbagliante sole estivo, si era riunita una piccola folla di dandies in completi chiari e pagliette che parlavano ad alta voce, ed eteree signore che sfoggiavano lunghe collane di perle e sorseggiavano champagne. Qua e là erano stati allestiti gazebo e tavolate imbandite per la colazione, con piatti di salsicce, tazze e teiere fumanti che svolazzavano in tutte le direzioni.
«Winston!» Macon Ludmoore lo salutò sventolando una mazza da croquet, con indosso una tunica di cotone bianco e un paio di lenti da sole rosa abbarbicate sul naso. «Non startene rintanato come un gufo, ragazzo mio! Scendi, unisciti a noi!»
Jim si vestì e in pochi minuti lo raggiunse, mentre alcuni suoi ospiti, divisi in squadre e armati di mazze, giocavano a un bizzarro gioco da giardino: al posto della pallina venivano usati dei piccoli esserini pelosi di varie sfumature di rosa e viola, che venivano scagliati, rotolando ed emettendo strilli acutissimi, lungo un percorso a caselle numerate, come nel Gioco dell'Oca; se uno dei concorrenti vi metteva il piede sopra, capitava che venisse sbalzato via per diversi metri oppure che sparisse in una nuvola fucsia per poi riapparire con orecchie da asino o con la proboscide. Cosa che sembrava divertirli un mondo.
«Si chiama “crolf”, è una mia invenzione!» spiegò Macon allegramente. «Diventerà un gioco molto alla moda, come tutto quello che creo, dopotutto!»
«Hai semplicemente accroccato due giochi Mancanti» intervenne la voce piatta di Solomon Blake, che era letteralmente l’antitesi di Macon, seduto all’ombra con il naso infilato in un giornale e vestito di nero come un vampiro. «Non hai inventato proprio niente.»
Macon sbuffò: «E da quando te ne intendi di giochi? Sei allergico al divertimento! A te va di fare qualche tiro, Winston?»
«Questa volta passo.»
«Alle dodici in punto prenderemo il Meridiano» annunciò Solomon, guardandolo da sopra l’Oraculum. «Perciò, se riuscissi a non finire in prima pagina con una delle tue bravate fino ad allora te ne sarei molto grato.»
Jim si sforzò di tenere a freno l’astio nei suoi confronti. Non aveva ancora avuto modo di discutere con lui della scoperta fatta la sera prima, della sua parentela con l’Inquisitore Blackthorn, del destino dei suoi genitori e del suo coinvolgimento con i piani dell’Eretica.
Ma non era né il luogo né il momento adatto. «Dov’è Alycia?» chiese invece.
«Oh, è uscita presto» rispose Macon, mentre si preparava a colpire con la mazza il povero esserino peloso e tremante. «Sarà di sicuro già al lavoro alla Cittadella: povera fanciulla! Un cervello grande come una casa e nessun senso dell’umorismo come il padre!»
«Vado a cercarla.»
«Forse non sono stato sufficientemente chiaro» replicò Solomon. «Tu non ti muoverai da qui fino a mezzogiorno. Non dopo quello che hai combinato con la Disputa.»
Jim lo guardò scioccato. «Sarei in punizione adesso?!»
«Ritieniti fortunato che non ti abbia segregato in camera» rispose lui, mentre tornava al suo giornale. «Sbuffa, tieni il broncio, fai quello che ti pare: ma se metti un piede fuori da questa Corte sei un uomo morto.»
Era il colmo. Jim guardò Macon in cerca di sostegno, ma lo stregone stavolta disse: «Mi dispiace caro, ma credo che abbia ragione lui. Rilassati, non sei davvero in punizione! E poi ci sono un mucchio di cose divertenti da fare qui per ammazzare il tempo!»
Jim indirizzò a Solomon uno sguardo di sfida. «Bene.»
Poi girò i tacchi e tornò nel palazzo.
Se pensava che sarebbe stato buono buono a scontare la prigionia fino a mezzogiorno, significava che non aveva imparato un bel niente su di lui in quei mesi. E poi, se erano davvero in partenza significava che non avrebbe più avuto occasione di parlare con Alycia. Così, finse di salire di nuovo in camera sua, ma quando la via fu libera, sgattaiolò in un corridoio diretto al primo specchio. Fortuna che alla Corte dei Miraggi ce n’erano a volontà. Ne individuò uno abbastanza grande da poter essere attraversato, affisso sopra un sofà in un salottino...
«Dove te ne vai di bello?»
Jim fece un balzo e si portò una mano al cuore. Nikos era apparso dal nulla con la schiena poggiata allo stipite della porta, le mani in tasca e la solita aria rilassata e indolente.
Jim si rabbuiò. «Fammi indovinare: ti hanno messo a farmi la guardia?»
«Qualcosa del genere.» Nikos si staccò dallo stipite e gli venne incontro. «Spero che tu non ce l’abbia con me per la faccenda della Disputa.»
«No, ormai ho imparato che qui fate tutti gli stronzi di professione.»
«Che melodrammatico» commentò l’altro con un sospiro. «Allora, dimmi un po’: hai già trovato un modo per svignartela?»
«Dipende: me lo impedirai? Magari con una di quelle tue illusioni.»
«In effetti, sarebbe divertente farti credere di essere riuscito a evadere e farti apparire davanti al tuo maestro mentre è sul gabinetto.»
«Avete uno strano senso dell’umorismo da queste parti.»
«Non ti piacciono i confini, dico bene?» Nikos gli rivolse uno strano sorriso malinconico. «Lo capisco, è difficile rinunciare alla libertà dopo averla assaporata. E un po’ devo ammettere che ti invidio.»
Jim aggrottò la fronte, senza abbandonare l’atteggiamento prudente.  «Davvero?»
«Arcanta è tutto ciò che conosco» spiegò Nikos. «Un tempo credevo di essere orgoglioso di vivere nella più grandiosa città mai costruita dal genere umano. Ma crescendo mi sono reso conto che malgrado la sua bellezza non è molto diversa dal Bestiario.»
«Ma qui potete fare qualsiasi cosa, avere tutto ciò che volete» obiettò Jim.
«È questo il punto: quando puoi avere accesso a tutto facilmente, finisci per perdere il gusto. E la vita qui può essere incredibilmente noiosa una volta che conosci ogni fottuto segreto di questa città. Un piccolo rischio ogni tanto lo correrei più che volentieri.»
Jim rifletté sulle sue parole e gli tornò in mente una cosa che Lucia gli aveva detto molto tempo fa, quando le aveva proposto di raggiungere i suoi simili: “finirei solo per sostituire una prigione con un’altra prigione”.
«Come fate a farvi andare bene una vita del genere?»
«La maggior parte di noi fa come Macon: si assicura di avere sempre qualcosa che lo tenga impegnato, feste da organizzare, gente allegra intorno e qualcuno ogni sera che gli scaldi il letto.»
«Forse hai ragione» convenne Jim. «Io non riuscirei mai a vivere così.»
«Senti» disse Nikos. «Macon mi ha chiesto di tenerti d’occhio e assicurarmi che non finisca in un altro dei tranelli di Una Duval e Boris Volkov: ti hanno preso di mira per qualche motivo. Ma d’altra parte, se non fossi tornato indietro a salvarmi forse avresti davvero vinto la Disputa, quindi in parte credo di averti tarpato le ali a sufficienza.»
Poi, con grande sorpresa di Jim, si chinò per rifare il nodo alle scarpe. «Ora io abbasserò lo sguardo e rimarrò così per almeno un paio di minuti. La mattina faccio sempre fatica a coordinare i movimenti e ieri ho bevuto un bel po’. Sfrutta questo tempo come meglio ritieni opportuno.»
Jim era senza parole. Indeciso sul prendere quell’offerta come onesta o meno, considerò alla fine che non gli si sarebbe più presentata un’occasione come quella.
Così, mormorò un “grazie” e varcò la cornice dello specchio.
Sbucò in un enorme corridoio costruito con un tipo di pietra assurdamente liscia e bianca, che ricopriva il pavimento lucente e gli altissimi soffitti a volta e fu sicuro di essere finito nel posto giusto: la Cittadella sembrava progettata appositamente per infondere un senso di timore reverenziale su chiunque vi entrasse. Fortunatamente il corridoio sembrava deserto, intervallato solo da porte chiuse, così Jim poté scavalcare la cornice indisturbato.
Girovagò senza meta seguendo le pareti ricurve della torre e accompagnato solo dall’eco dei suoi passi, finché non si imbatté in un gruppo di stregoni che si erano fermati a chiacchierare ai piedi di una scalinata.
«Ehm, scusate. Sapete per caso dove posso trovare il Cerchio d’Oro?»
Loro interruppero la conversazione per rivolgergli sguardi incuriositi.
«Al Chiostro, naturalmente» rispose altezzoso il più giovane, con capelli neri untuosi pettinati all’indietro. «Ma i nostri laboratori non sono aperti al pubblico.»
«Suvvia, Octavio! È uno dei ragazzi che ha partecipato alla Disputa» intervenne un altro stregone con la barba rossa e riccioluta. Poi si rivolse a Jim in tono cordiale: «Perdonalo, gli alchimisti sono sempre gelosi dei propri segreti. Ieri mi hai fatto davvero morire, non vedevo una Disputa così divertente da secoli! Il Chiostro è situato al Ventiquattresimo Anello, un po’ più in alto rispetto a dove siamo ora. Ti spiego come arrivarci.»
E glielo disse. Jim ringraziò, e seguendo le sue indicazioni, attraversò una serie di gallerie, salì diverse rampe di scale che si inerpicavano fino ai piani più alti della torre e infine sbucò all’aperto, in un giardino pensile circondato da portici, con al centro uno spiazzo erboso e una statua in oro massiccio ritraente uno dei Fondatori: Farabi, a giudicare dal turbante e dal libro sottobraccio.
Senza sapere dove andare, Jim si sistemò sotto un’arcata del portico, fremendo dall’impazienza di distinguere tra quei volti sconosciuti quello di Alycia. Poi, a un tratto, eccola: indossava una tunica nera e accollata e stava attraversando il prato, trotterellando dietro alcuni stregoni più grandi con una pila di grossi libri in precario equilibrio fra le braccia. I loro sguardi si incrociarono per un momento, ma con sua grande meraviglia, lei si voltò dall’altra parte e affrettò il passo.
Confuso, Jim le corse dietro. «Ehi, aspetta!»
La maga sparì dietro una porta, che si richiuse con un tonfo. Jim si fermò sull’uscio e bussò energicamente.
«Alycia, possiamo parlare?»
La porta si aprì di uno spiraglio. «Vattene.»
«Perché? Si può sapere che ho fatto adesso?»
Lei cercò di sbattergli di nuovo la porta in faccia, ma Jim stavolta riuscì a mantenerla aperta con una spallata.
Alycia fece schioccare la lingua e gli voltò nuovamente le spalle; si trovavano in un laboratorio con grandi finestre e tavoli ingombri di matasse d’oro e blocchi di minerali grezzi. Altri erano coperti da una giungla di ampolle poste su fiammelle blu e comunicanti con alambicchi di varie forme, apparecchiature per l’affinaggio dell’oro e dell’argento, per riscaldare e raffreddare. Alycia prese posto su uno sgabello accanto a un apparecchio simile a un microscopio e vi prestò tutta la sua attenzione, ignorando deliberatamente Jim.
Lui attese un momento, poi disse: «Devo essermi perso qualche passaggio: siamo tornati di nuovo al punto in cui fai finta di non conoscermi?»
Concentrata sul suo microscopio, lei si rifiutò di rispondergli.
«Puoi almeno guardarmi?» tornò all’attacco lui, disperato. «Ti ho aspettata tutta la sera ieri, perché non sei venuta...?»
«Perché voglio che tu te ne vada da Arcanta. Oggi stesso.»
«Ma...»
Finalmente, lei si decise a guardarlo e quando lo fece, il suo volto era duro come il marmo. «Hai sentito. Non ti voglio qui, non ti ho mai voluto. Sapevo il tuo arrivo non mi avrebbe portato altro che problemi.»
Jim non riusciva a capire. «Io non...»
«No, adesso stai zitto e ascolti me: ho lavorato sodo per entrare nel Cerchio d’Oro e adesso che ci sono dentro non permetterò che uno come te mi faccia perdere di vista gli obiettivi.»
Jim la guardò offeso. Di tutte le reazioni che si era aspettato, quella era decisamente la più strana e inappropriata. «E in che modo ti avrei fatto perdere di vista gli obiettivi? Sono venuto qui perché credo in te, perché mi mancavi...»
Lei sbottò in una risata sarcastica. «Ti prego, risparmiami la storiella che racconti alle cameriere e alle contadine che vuoi portarti a letto. Se sei venuto ad Arcanta è stato solo e unicamente per te stesso.»
«Ma che dici? Io...»
«Volevi solo sentirti uguale ai tuoi simili» proseguì Alycia, con espressione ferita e furibonda. «Per questo hai seguito qui mio padre, per questo hai voluto partecipare alla Disputa e solo per questo ti sei avvicinato a me! Ma se fossi stata una Senza Poteri probabilmente non mi avresti nemmeno degnata di uno sguardo.»
«Stai dicendo cose senza senso» ribatté Jim, ora seriamente infastidito. Per quale motivo stavano litigando adesso? Perché doveva essere sempre tutto così difficile con lei? «Più cose vengo a sapere sulla gente di qui e più questo posto mi dà i brividi, tu sei l’unica che rispetti veramente...»
«Ma questo non ti ha impedito di fare il cascamorto con Mei Lin alla prima occasione.»
«Mio Dio, Alycia» esclamò lui. «Non mi è mai interessata Mei Lin, ho flirtato con lei solo per farti ingelosire! Lo so che non è stata una mossa furba, ma tu mi stavi evitando e io...io non sapevo cosa fare..!»
«Vanja mi aveva avvertita.» La voce le si spezzò e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Le scacciò via con un gesto rabbioso. «Ma io credevo che si sbagliasse, che in te ci fosse molto altro... e ci sono cascata come una stupida. Sei esattamente come gli altri ti dipingono: un egoista superficiale e immaturo, che si diverte a giocare coi sentimenti degli altri.»
Fu come se una lama di ghiaccio l’avesse trafitto in pieno petto, come se tutta l’aria fosse stata improvvisamente risucchiata via dalla stanza. Era così che ci si sentiva ad avere il cuore spezzato? Non si era mai trovato dall’altra parte.
«Non hai capito proprio niente» fu tutto ciò che riuscì a dire, vergognandosi di quel patetico tremolio nella sua voce.
«Sono sicura che troverai in fretta qualcun’altra che ti consoli» ribatté lei, cinica. «Tanto fai sempre così tu, no? Penelope, Kitty, Mona, Brittany o come cavolo si chiama…scommetto che hanno perso un sacco di energie dietro ai tuoi capricci e io non ne ho proprio voglia. Ho ben altro a cui pensare.»
Jim scosse piano la testa. Si sentiva svuotato, spezzato in tanti piccoli frammenti.
«Buona fortuna per la tua carriera, allora.»
La superò senza guardarla e uscì, ma prima di sbattere la porta, credette di aver sentito un singhiozzo.
Attraversò il prato a grandi passi, i pugni stretti e il cuore così gonfio di rabbia e di sofferenza che sembrava fosse sul punto di esplodere. Quando raggiunse l’estremità del Chiostro, si sentì chiamare dall’unica persona in grado di peggiorare ulteriormente il suo umore: Boris Volkov.
«Ah, eccolo qua il nuovo campione di Arcanta!» esclamò, zoppicando verso di lui, con un ghigno soddisfatto sulle labbra. Jim era sicuro che sapesse perfettamente cosa fosse appena successo tra lui e Alycia e che dentro di sé stesse esultando. La voglia di tirargli un pugno era forte.
«Cosa posso fare per lei, maestro?»
«Oh, volevo solo congratularmi per l’eccellente dimostrazione nell’arena» replicò lui, mellifluo. «Ti sei battuto con onore: Siegfried non ha mai avuto rivali, e ha trovato molto stimolante affrontarti.»
«Già. Soprattutto cercare di affettarmi in due.»
Volkov si mise a ridere, ma i suoi occhi grigi restarono impassibili.
«A ogni modo mi hai stupito e sono davvero poche le cose a questo mondo in grado di farlo. Prendi Blake, per esempio: sai, molti di noi si erano ormai convinti che dopo la Guerra Civile avesse perso il nume della ragione. Solo i Fondatori sanno quanto debba essere stato terribile perdere in un solo colpo i propri allievi e sua moglie, e per mano di una persona a lui così vicina, oltretutto.»
Jim lo fissò senza capire di cosa accidenti stesse parlando e Volkov rise ancora. Una piccola risata calda e bonaria, ma dai contorni affilati.
«Immaginavo che non te ne avesse parlato» disse, invitandolo a seguirlo con un cenno del capo. «Vieni, voglio mostrarti una cosa. Forse dopo le cose ti sembreranno più chiare.»
Jim esitò, ma ormai lo stregone aveva suscitato in lui un pericoloso mix di curiosità e cattivi presentimenti. Alla fine, decise che ne aveva abbastanza di mezze verità e frasi allusive e che era giunto il momento di vederci chiaro una volta per tutte.
Lasciò che Volkov lo scortasse lungo un corridoio, fino a una grande stanza ovale dove erano esposte uniformi, ritagli di giornale, armi e fotografie: un museo della guerra.
«Qui sono raccolte le testimonianze della Guerra Civile» spiegò l’Arcistregone del Nord. «Non è aperto ai Cittadini, perché il Decanato ritiene che dimenticare aiuti a rimarginare più in fretta certe ferite. Resta comunque un utile monito a mio avviso. Guarda.»
Gli indicò una teca all’interno della quale erano racchiuse uniformi identiche a quella che indossava Jim, coi colori della Corte dei Sofisti, velluto blu e filigrana d’argento: ma al contrario della sua, queste recavano gli inconfondibili segni di uno scontro particolarmente violento. Macchie di fango e sangue.
Ma Boris non gli stava indicando solo le divise. C’era una fotografia, sbiadita e ancora parzialmente animata da un’illusione, che raffigurava un gruppo di studenti, tutti maschi compresi tra i quindici e i diciannove anni; sorridevano nelle loro uniformi e insieme a loro Jim riconobbe Solomon Blake, più giovane, col naso ancora perfettamente diritto e quell’aria spavalda di chi è ben consapevole del fascino che esercita sugli altri. Ma a lasciarlo a bocca aperta fu l’unica presenza femminile del gruppo, una giovane donna che posava al fianco dello stregone in semplici abiti vittoriani e coi lunghi capelli raccolti in una treccia.
Lui conosceva quella ragazza, l’aveva incontrata svariate volte negli ultimi mesi, grazie alla sua facoltà di attraversare gli specchi.
Lucia.
«Vedi ragazzo, c’è una ragione se tra noi quattro è stato proprio Blake ad avere la meglio sull’Eretica» disse Volkov. «Ed è una ragione molto semplice: era l’unico al mondo di cui lei si fidasse.»
Jim deglutì con fatica, la testa che gli scoppiava. «Era sua allieva.»
«L’allieva prediletta, la più dotata» disse Volkov. «Il Decanato non avrebbe mai approvato che una Sanguemisto fosse messa al pari degli altri Cittadini. Ma Blake l’addestrò lo stesso, in segreto. Suppongo in una delle sue tante proprietà in giro per il mondo. Forse in Italia, so che ha sempre avuto una certa attrattiva su di lui.»
Mentre un senso di malessere serpeggiava dentro di lui, attorcigliandogli le viscere, Jim ripensò alla casa sul lago dove aveva incontrato Lucia, dove si era fermato con lei a parlare, confidarsi e scherzare in quei lunghi pomeriggi durante le assenze del maestro...
«E lì, hanno meditato insieme un piano per rovesciare Arcanta dall’interno» proseguì Volkov. «Ma l’unico modo per farlo era che lui diventasse a conti fatti un Cittadino. Un matrimonio vantaggioso, che gli avrebbe permesso di liberarsi della scomoda eredità della sua famiglia. Ed è stato allora che ha iniziato a corteggiare Isabel Alicante.»
A quel punto, Jim si volse a guardarlo.
«Solomon amava Isabel» affermò, prima che la delusione e l’incredulità facessero svanire anche quella certezza. «E lei amava lui. Forse detesta sentirselo dire, ma è così!»
Un lampo d’ira balenò negli occhi grigi di Volkov, scuotendone l’immobilità.
«Oh, lei lo amava» ammise, suo malgrado. «Lo amava perdutamente, e come biasimarla? Era bello, ambizioso, l’ultimo erede di un’antichissima famiglia decaduta. E soprattutto sapeva come ammaliare le persone. Era il suo lavoro.»
Con un brivido d’orrore, Jim ripensò alle storie che Angeline Leveau gli aveva raccontato sul suo maestro, a tutto il dolore che aveva seminato negli anni derubando il Mondo Esterno della sua magia per entrare nelle grazie del Decanato...
«Uomini del genere finiscono per pensare di avere il mondo ai propri piedi» continuò Volkov. «Ma per Blake il prestigio non era abbastanza. Lui voleva di più. Avrebbe lasciato Arcanta bruciare pur di ottenere il potere assoluto. E lo avrebbe ottenuto insieme alla sua favorita, se lei alla fine non fosse sfuggita al suo controllo.»
«Non le credo» disse Jim, ma non era del tutto vero. Si rifiutava di ammetterlo, ma l’odio che Volkov provava per Solomon era forse la cosa più autentica che avesse percepito da quando era ad Arcanta. E proprio per questo gli risultava difficile dubitare delle sue parole...
«Spesso la parte più oscura di noi è anche la più autentica» disse Volkov. «Non mi meraviglia che fosse preoccupato di tenerti alla larga da Honeyfoot, considerando che ha speso fiumi di parole su di lui: su come in principio volesse solo riscattare l’onore della propria famiglia, sulla scalata per ottenere un posto nel Decanato. Su come avesse preso in moglie Isabel Alicante per costruirsi un’immagine rispettabile. Ma la vera musa di Blake, l’unica in grado di appagare la sua eterna insoddisfazione era Lucindra Sforza: una Sanguemisto, un’Esterna, che come lui covava vendetta verso il mondo che li aveva da sempre emarginati.»
«Perché mi sta dicendo queste cose?» chiese Jim. «Che cosa vuole da me?»
Sorprendentemente, l’espressione di Volkov acquisì una benevolenza quasi paterna. Persino l’acciaio del suo sguardo si fece meno tagliente.
«Aprirti gli occhi, ragazzo. Nessun allievo dovrebbe pagare per le colpe dei propri maestri. Diffida da ciò che Blake ti racconta, finora ha sempre usato chiunque pur di ottenere ciò che vuole. E lo farà anche con te, se gliene darai la possibilità.»

 

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Capitolo 37
*** Le vie del Vuoto - PRIMA PARTE ***



LE VIE DEL VUOTO – Prima Parte

 





«Facciamo ancora un tentativo» disse Solomon Blake, la mano posata sulla leva che azionava il meccanismo di specchi di Nimbus. «Dimmi quando sei pronto.»
Jim gli rivolse uno sguardo esausto, chino sulle ginocchia al centro della piattaforma nel laboratorio di Nikola Tesla a Colorado Springs; avevano lasciato Arcanta da appena tre giorni e lo stregone aveva insistito perché riprendessero immediatamente con i tentativi di aprire un varco con il Vuoto.
Il ragazzo prese un profondo respiro e si sgranchì le nocche.
«Sono pronto, quando vuole.»
Solomon abbassò la leva e gli specchi ripresero a ruotare. Presto il frastuono del macchinario riempì le orecchie di Jim, circondato dall’energia guizzante dei fulmini. Chiuse gli occhi, chiamò a sé il potere primordiale che palpitava sotto il velo della Realtà, lo sentì risalire in superficie impetuoso come un’onda.
«Rimani concentrato» disse la voce Solomon, appena udibile nel baccano assordante di elettricità e metallo. «Volontà salda, Jim, ricorda. Il segreto è tutto lì.»
“È nella Volontà che risiede la vera forza di un mago” era ciò che gli aveva detto quella donna sconosciuta apparsa nel sogno, in una porzione di vita che lui però non riusciva a ricordare. Il pensiero di tutte le verità ancora nascoste e fuori dalla sua portata si insinuò dentro di lui, mettendo radici e la concentrazione iniziò a vacillare, investita da un milione di dubbi. La presa che esercitava sul Vuoto si fece meno salda e Jim lasciò che la porta tra i mondi si richiudesse.
«Ti stai di nuovo trattenendo.»
Jim aprì gli occhi, respirando con difficoltà. «Mi dispiace.»
Lo stregone alzò le spalle. «Non fa niente, ti ho fatto stancare abbastanza per oggi. Spegniamo tutto.»
Riposizionò in alto la leva e Nimbus tornò lentamente a dormire, dopo aver emesso le ultime scintille.
«È andata meglio» commentò poi in tono incoraggiante, quando Jim scese dalla pedana. Gli passò una bottiglia di Coca-Cola ghiacciata e ne stappò una per lui. «Hai quasi evocato Materia Vuota, stavolta. Se continui di questo passo presto riuscirai a mantenere il portale aperto abbastanza a lungo da poterlo attraversare. Ma per farlo è fondamentale accantonare ogni altro pensiero. Cosa ti ha fatto perdere la concentrazione? Magari parlarne può aiutarti.»
Da che parte iniziare?
Jim bevve un sorso di cola, mantenendo un’espressione neutra. «Non c’è niente in particolare.»
«A me non sembra» obiettò Blake, squadrandolo con attenzione. «C’entra per caso Alycia? Non è venuta a salutarci quando siamo partiti, deduco abbiate litigato.»
Il solo sentirla nominare sortì l’effetto di una pugnalata al cuore; era da quando erano tornati che Jim si sforzava di non pensarci e Blake era l’ultima persona con cui voleva parlare di quello che era successo. «Si sbaglia, lei non c’entra.»
«Sei sicuro?»
«Sono sicuro. È solo un po’ di stanchezza.»
«Questa collaborazione non può dare il massimo risultato se tra noi non c’è dialogo, lo sai?»
“Dialogo”, pensò Jim con un impeto di rabbia. Certo, come no...
«Senta, la sto aiutando perché questi erano i patti» replicò freddamente. «Non serve fingere che siamo amici.»
Quell’uscita parve sorprenderlo non poco, ma non appena provò a ribattere un attacco di tosse stroncò qualsiasi cosa avesse voluto dire, facendogli cadere di mano la bottiglia e costringendolo a cercare qualcosa a cui aggrapparsi. Jim lo aiutò a sorreggersi. «Si sente male?»
«Sono le radiazioni» spiegò lui con voce incrinata. Si asciugò la bocca con un fazzoletto, macchiandolo di sangue nero. «L’esposizione diretta al Vuoto accelera il decadimento cellulare. E durante la permanenza ad Arcanta ho dovuto fare a meno della mia dose di Materia Vuota.»
«In pratica» assodò Jim. «Ogni volta che uso il mio potere la porto un passo più vicino alla morte.»
In risposta Blake si mise a ridere, lasciandolo di stucco.
«Che meraviglioso paradosso» commentò, appoggiandosi a Jim mentre lasciavano l’hangar. «Più mi avvicino a Isabel e meno probabilità ho di rivederla. Dovrò scriverle qualcosa di carino da lasciarti per quando vi incontrerete...»
«Stia zitto» reagì Jim bruscamente. «Qualsiasi roba melensa voglia dirle gliela riferirà di persona.»
«Dobbiamo mettere in conto l’eventualità che ciò non accada.»
«E lei doveva dirlo ad Alycia» lo rimbeccò Jim con voce dura. «Ha il diritto di sapere cosa sta succedendo. Perché non l’ha fatto quando eravamo ad Arcanta?»
«Durante i festeggiamenti per il raggiungimento del suo più grande traguardo? Quale momento migliore per uscirsene con un “Congratulazioni tesoro, sono orgoglioso di te. Oh, prima che me ne dimentichi: papà sta morendo”.»
Jim sentì qualcosa pizzicare in fondo alla gola mentre guardava lo stregone che, sostenendosi al bastone, si apprestava a riattraversare lo specchio che li avrebbe riportati alla magione dei Winters.
«Le cose hanno appena iniziato a migliorare tra noi» concluse, buttando fuori un lungo sospiro. «Non voglio rovinare tutto un’altra volta.»
Tornati a casa, tra tappezzeria vittoriana e mogano polveroso, Jim insistette perché il maestro si mettesse a letto.
«Credo che rimarrò a studiare in biblioteca» annunciò, mentre lo stregone si sdraiava. «Se le serve qualcosa...»
«Jim.» Blake lo guardò con occhi affaticati. «So che ti ho chiesto tanto e so quanto tutto questo sia difficile per te.»
«Lasci perdere...»
«No, non lascio perdere» lo interruppe lui con fermezza. «Sono davvero riconoscente per il tuo aiuto, voglio che tu lo sappia. E a prescindere da come andrà a finire, ti prometto che non esigerò mai più niente da te.»
Il pizzicore alla gola si trasformò in un nodo grosso quanto una pallina da golf e Jim sentì la coscienza rimordergli. «Si riposi adesso.»
 
 
Tornato in biblioteca, sedette di fronte a un tavolo e cominciò a sfogliare avidamente il grimorio del maestro, sottratto dalla sua scrivania non appena si fu addormentato.
Ogni pagina era fittamente scritta: avvenimenti, formule, disegni che Blake aveva annotato durante la sua lunghissima vita.
Emozionato e anche un po’ timoroso, Jim si apprestò a leggere, ma a quel punto accadde una cosa prodigiosa: sotto i suoi occhi le lettere iniziarono a sbiadire, finché la pagina non divenne perfettamente bianca.
«No!»
Stupefatto, si affrettò a leggere la successiva, ma accadde esattamente la stessa cosa e così per tutte le altre pagine a seguire: il sapere dello stregone era proprio là, a sua disposizione e allo stesso tempo non lo sarebbe mai stato.
«Che figlio di...»
Jim richiuse il grimorio, logorato dalla frustrazione. Davvero aveva creduto che uno dei maghi più ricercati al mondo avrebbe concesso a chiunque di consultare il proprio lascito così facilmente?
Con uno slancio da equilibrista, Lily saltò sul tavolo e si strusciò contro il suo braccio miagolando lascivamente; Jim le accarezzò la schiena e comprese che arrivati a quel punto c’era una sola persona in grado di dargli finalmente le risposte che cercava.
Tornò nella galleria degli specchi e si fermò di fronte all’elegante specchiera in ferro battuto che conduceva al maniero sul lago.
«Pensi anche tu che sia una mossa stupida?» chiese a Lily, ma il demone si limitò a leccarsi una zampa e passarsela sopra la testa, con apparente disinteresse.
Lui sospirò. «Guardami le spalle.»
E, col cuore in gola, attraversò lo specchio.
Il palazzo era esattamente come lo aveva lasciato, con i cimeli e le opere d’arte lasciate a marcire sotto strati di polvere; tutti i trofei che Solomon Blake aveva collezionato in giro per il mondo. Mentre camminava, Jim rivolse un’occhiata alla Gioconda che lo scrutava dalla sua cornice, e iniziò a dubitare che si trattasse di una copia. Ripercorse quei corridoi ormai familiari fino al giardino che si specchiava sul lago, sotto un cielo come sempre azzurro e sereno.
Lucindra era lì, in piedi sulla riva e con i lunghi capelli mossi dal vento. «Ciao, Attraversaspecchi. Me lo sentivo che prima o poi saresti tornato.»
Jim si fermò a qualche metro da lei, scortato da Lily. «So che sei l’Eretica.»
Lucindra gli rivolse un accenno del suo consueto sorriso luminoso. «Questo cambia qualcosa?»
«Dimmelo tu. Tutte le volte che sono venuto a trovarti non hai fatto che propinarmi bugie. Persino sul tuo vero nome.»
«Non ho mentito su tutto» lo corresse lei. «Lucia Sforza è il nome che la mia madre Mancante mi ha lasciato poco prima di morire. La sua famiglia si liberò presto di me dandomi in convento, dicevano che mia madre li avesse disonorati facendosi mettere incinta da un forestiero. Li ho odiati tutti, dal primo all’ultimo, quasi quanto i Mancanti che mi hanno cresciuta e che un bel giorno hanno deciso di bruciarmi viva. Quando ho abbracciato la mia natura di strega ho scelto di farlo con un nuovo nome.»
«Mi sembra che tu abbia omesso un paio di altre cosette» obiettò Jim, accigliato. «Tipo l’aver scatenato una guerra, rapito la moglie di Blake e costretto mia madre a unirsi alla tua setta!»
«Abigail Blackthorn mi ha seguita di sua Volontà» replicò Lucindra. «Come tutti i miei allievi: Arcanta le aveva voltato le spalle e io le ho ridato quanto le era stato tolto, l’amore e il potere.»
«No, tu l’hai usata» ribatté Jim con rabbia. «Hai sfruttato la sua sofferenza per i tuoi scopi!»
«Che è esattamente ciò che pensi stia facendo il tuo maestro. Non è per questo che sei qui?»
Jim gelò sul posto, punto sul vivo. «Ho bisogno di risposte.»
La strega emise un piccolo sospiro. «Sai, c’è stato un tempo in cui i maghi erano obbligati a dire solo la verità, per questo i Mancanti si rivolgevano a loro per chiedere consiglio. Ed è stato proprio a causa delle persecuzioni da parte dei Mancanti che abbiamo imparato a usare la menzogna come arma, per sopravvivenza. Ma a lungo andare recitare una parte stanca. E in fin dei conti, essere smascherati porta sempre un certo sollievo.»
Sollevò una mano nell’aria, con un gesto aggraziato; tra le sue dita ondeggiò una scia di energia nera, come un filo di fumo e Jim reagì alzando a sua volta le braccia, pronto a difendersi.
«Non ho motivo di farti del male» disse Lucindra con calma. «Credo che tu sia l’unico in grado di capire le mie motivazioni. Vuoi delle risposte e sono pronta a dartele: il Vuoto conosce ogni cosa ed è solo qui che otterrai la verità.»
«Che vuoi dire? Questo...» Jim si guardò attorno con occhi sconcertati. «Questo è il Vuoto?»
«Uno dei suoi infiniti volti, quello che ho scelto di plasmare per rendere meno atroce la prigionia. L’unico posto che avessi mai chiamato casa
Il suo braccio disegnò un arco e l’ambiente attorno a loro iniziò a mutare; come una pellicola che viene riavvolta, così le nuvole si rincorsero rapidamente nel cielo, gli alberi persero le foglie e poi le recuperarono in un ciclo infinito e la casa acquisì il suo aspetto originario di elegante dimora signorile.
«All’epoca non ero molto diversa da te» disse Lucindra. «Sola, piena di domande e alla ricerca di un posto nel mondo.»
Gli fece cenno di accompagnarla mentre si avvicinava alla casa e lui la seguì, diffidente ma suo malgrado anche curioso. Presto scorse una figura affacciata alla doppia scalinata che conduceva all’ingresso: una Lucia dai capelli ramati privi dell’unica ciocca bianca che scrutava il cielo in trepidante attesa.
«Ho passato anni a chiedermi perché Dio avesse scelto di maledirmi» disse la Lucindra del presente. «Poi è arrivato lui e tutto ha acquisito una prospettiva diversa: non ero più io a essere sbagliata e quella che credevo una maledizione era un dono prezioso che andava coltivato.»
Ci fu un bagliore nel cielo e qualcosa si diresse a gran velocità verso la casa, una luminescenza bianca dotata di sei immense ali piumate. Atterrò con eleganza sul prato in un’esplosione di luce, e da quella luce emerse una versione più giovane di Solomon Blake, con l’inseparabile corvo albino sulla spalla.
A Jim si fermò il respiro, mentre guardava il maestro entrare in casa, accolto con entusiasmo dalla sua allieva. “Mi ha salvata un angelo.”
Non aveva mentito neanche su questo.
La scena cambiò e il Vuoto materializzò intorno a loro una sfarzosa biblioteca, in cui ogni superficie era ricoperta da libri. Il giovane Blake sedeva allo scrittoio ed era concentrato su un grosso tomo dall’aria antica, uno strano grimorio dalle pagine lucide e ricoperte da un fitto arabesco di disegni; portava le maniche della camicia tirate sui gomiti, i ricci corvini scarmigliati, le dita macchiate d’inchiostro e gli occhi azzurri accesi di determinazione. Tutte cose che contribuivano a renderlo più attraente che mai.
«Anche allora era un enigma incomprensibile» commentò Lucindra. «Viveva una doppia vita, una con me al maniero e una ad Arcanta, dove addestrava allievi dal sangue puro destinati alla fama, mentre io dovevo accontentarmi di rimanere nell’ombra. Ma non mi importava: mi aveva salvato la vita, aveva creduto in me. E io avrei fatto qualunque cosa per avere la sua approvazione. Per renderlo felice.»
Jim fissò la Lucia del passato, intenta a ricoprire una lavagna con complesse associazioni di numeri, simboli e parole, e non gli sfuggirono gli sguardi che indirizzava a Solomon, con la stessa fame negli occhi che aveva lui mentre si dedicava ai suoi studi. E la verità gli fu subito chiara.
«Eri innamorata di lui.»
Un sorriso dolce e straziante le affiorò sulle labbra. «Sin dal primo momento. Ma sapevo che nel suo cuore c’era spazio solo per la magia.»
Jim aggrottò la fronte. «Stavate studiando il Vuoto. Perché? Cosa cercavate di ottenere?»
«Un mondo in pace» rispose Lucindra con fervore. «Senza più guerre o barriere, dove la magia fosse di nuovo esercitata in libertà. Lo chiamavamo “Il Grande Cambiamento” e il Vuoto aveva il potere di donarci tutto questo. Ma tutte le rivoluzioni hanno un costo. Nel mio caso, avrei dovuto accettare che l’uomo che amavo sposasse un’altra donna.»
Lucindra scostò gli occhi da Solomon, come se guardarlo troppo a lungo le facesse male. «Voleva diventare Decano a tutti i costi, accedere ai loro segreti. E per farlo aveva bisogno di un erede che avesse sangue magico puro, cosa che io non avrei mai potuto dargli: sono sterile dalla nascita.»
Jim la fissò, profondamente turbato. «E Caliban? Hai detto di aver avuto un figlio.»
Lo sguardo di lei fu attraversato da un’ombra. «E l’ho avuto, ma non con mezzi naturali. Una volta appurato che i piani di Blake non includevano me, realizzai che la mia vita sarebbe tornata a essere vuota e solitaria. Non potevo accettarlo: avevo svelato i misteri del Vuoto per lui, tanto valeva che anche io ne ricavassi qualcosa.»
«Hai creato un bambino con la Magia Vuota» realizzò Jim, incredulo. «Ma i Decani lo hanno scoperto, vero? Che cosa ne hanno fatto?»
«Lo hanno distrutto» disse lei a labbra strette. «Me lo hanno strappato via dalle braccia e se ne sono liberati. Supplicai Blake di aiutarmi, ma lui non fece assolutamente niente: alla fine, aveva ottenuto ciò che voleva, un posto ad Arcanta accanto alla sua nuova moglie e a una figlia Sanguepuro e la nostra rivoluzione perse valore. Io persi valore.»
Lucindra assunse un’espressione sdegnata, come a rimproverarsi quella dimostrazione di debolezza. «Ma non mi scoraggiai, avevo molto da preparare: trovai degli alleati, maghi decaduti che come me avevano perso ogni cosa per colpa di Arcanta. Erano convinti che il Vuoto mi avesse scelta per ripristinare gli equilibri nel Creato, così mi elessero come loro profeta. Non mi sono mai considerata tale, ma loro credevano ciecamente in me e mi seguirono in battaglia. Persi molti amici quel giorno.»
Jim la ascoltò in silenzio, percependo nelle sue parole tutta la sofferenza di un cuore spezzato e di un orgoglio mortalmente ferito. Solo dopo si accorse in che luogo il Vuoto li avesse condotti: di fronte a una fattoria bianca con un grosso fienile rosso sul retro, che si stagliava sul far della sera.
«Che ci facciamo qui? Come fai a sapere...?»
«Te l’ho detto» disse Lucindra. «Il Vuoto sa tutto, consideralo come una coscienza collettiva: chiunque ne tragga potere è interconnesso. Conosco ogni tua sensazione, ogni ricordo.»
«Perché hai scelto proprio questo momento?»
Lei non rispose subito. Lasciò vagare lo sguardo sulla campagna inondata dalla luce aranciata del sole al tramonto, dopodiché sussurrò: «Risposte.»
Perplesso, Jim seguì il suo sguardo e si accorse che qualcuno stava risalendo di corsa il vialetto fino alla fattoria: un giovane uomo con in braccio un ragazzino dai capelli rossi.
«Papà!» lo chiamò Jim, mentre Tom Doherty gli passava attraverso come se fosse fatto di fumo ed entrava nel fienile. Senza indugio, decise di seguirlo.
Vide Tom aprire una cassapanca ed estrarne un fucile da caccia e una scatola di munizioni. Caricò l’arma con gesti maldestri e frettolosi, dopodiché la puntò contro qualcuno alle spalle di Jim. «Se fai un altro passo giuro su Dio che ti faccio saltare la testa!»
«Fossi in te non farei promesse che non puoi mantenere, Tom.»
Jim riconobbe all’istante quella voce e si volse di scatto.
«Cosa?» mormorò, senza credere ai propri occhi. «Non è possibile.»
Questo Solomon Blake era più simile alla versione che conosceva, stanca e col naso rotto, tuttavia in lui c’era qualcosa di diverso, di sinistro. «Non c’è bisogno di spaventare ulteriormente tuo figlio» disse a suo padre. «Voglio solo parlare.»
Tom gli restituì uno sguardo caparbio. «D’accordo» disse, puntandogli la canna del fucile in piena faccia. «Parliamo, stregone. Che cosa vuoi?»
«Portare il bambino in un luogo sicuro, prima che i seguaci di Lucindra vengano a prenderselo.»
«Che pensiero gentile» commentò Tom con astio, senza abbassare l’arma. «Ma ho avuto abbastanza a che fare con quelli come te da sapere che non ci si può fidare delle vostre parole.»
«Tom, so che odi la mia razza e ne hai tutte le ragioni...»
«Ci avete portato via tutto!» ringhiò il padre di Jim. «Noi non desideravamo altro che vivere in pace, senza più guerre e adesso Abigail non c’è più!»
«Mi dispiace» disse Blake con voce grave. «Credimi, nessuno può comprendere il tuo dolore meglio di me. Ma sai di cosa è capace tuo figlio e sai anche per cosa verrà utilizzato se loro lo trovano. Io posso prepararlo a ciò che dovrà affrontare.»
«Grazie per l’offerta» ribatté Tom risoluto. «Ma ce la caveremo da soli, come abbiamo sempre fatto.»
«Sii ragionevole, non hai i mezzi per fermare me e non fermerai di certo loro...»
«Sono ragionevole. Jamie non sarà l’arma di nessuno: è un bambino come tutti gli altri e il suo posto è qui con suo padre.»
Jim sentì il cuore stringersi in una morsa di sofferenza e commozione a quelle parole. «Papà...»
Blake a quel punto lasciò andare un profondo respiro. «Allora non mi lasci altra scelta.»
Dopodiché accaddero molte cose tutte insieme. Tom sparò senza esitazione e Jim si lanciò in avanti con un grido disperato; non poté fare nulla per fermare i proiettili e sulla giacca di Solomon Blake si aprirono tre fori. Lo stregone digrignò i denti, vacillò, ma si raddrizzò senza troppe difficoltà con la mano protesa...
«No, aspetti!» esclamò Jim, terrorizzato. «Cosa sta...?»
Un istante dopo, Tom Doherty fu scagliato come un pupazzo contro la parete del fienile.
«No!» gridò Jim in preda all’angoscia, mentre guardava suo padre accasciarsi a terra. «Perché lo ha fatto?»
No, quello non poteva essere il Solomon che conosceva. Si rifiutava di crederlo capace di una cosa del genere…
«Perché gli servivi» rispose Lucindra. «E niente lo avrebbe fermato.»
Sconvolto, Jim seguì con lo sguardo il suo maestro che infilava due dita nei buchi fumanti del cappotto ed estraeva le pallottole insanguinate. Le lasciò cadere a terra con un tintinnio, dopodiché si mosse implacabile verso il bambino rannicchiato in fondo al fienile. «Mi dispiace, ragazzo, era l’unico modo. Un giorno forse capirai.»
Jim avvertiva tutta la rabbia e la paura del se stesso del passato, la sentì crescere e crescere nel presente, fino ad affiorare in uno scoppio chiaro e feroce.
Nel momento in cui Blake gli afferrò il braccio, dei tentacoli di energia nera sgorgarono dal petto del bambino, avvolsero il suo gracile corpo e una propaggine frustò lo stregone in pieno. Fu sbalzato fuori dal fienile, ruzzolò nell’erba per diversi metri e questa volta restò giù, privo di sensi per quasi un minuto e coi vestiti che mandavano fumo.
L’esplosione di energia incendiò l’aria e il fienile prese fuoco; alte fiamme viola serpeggiarono lungo le travi, divorando ogni superficie sul loro cammino in pochi secondi. Era l’incendio dei suoi incubi, la scena che continuava a tormentarlo ma a cui non era mai riuscito a dare un senso...
Blake, intanto, si era messo carponi, tossendo e ansimando. Con mani tremanti, si aprì la giacca e la camicia, scoprendo una piaga oscura al centro del petto, diversa da qualsiasi tipo di ferita Jim avesse mai visto, che si diramava sotto la pelle in sottili fili neri come venature nel marmo. E non si rimarginava.
Lo stregone tossì sangue nero e imprecò. Poi, troppo debole persino per sorreggersi in piedi, chiamò a sé Wiglaf e sparì in un bagliore accecante.
«Adesso sai la verità» disse Lucindra, riprendendo la parola dopo molto tempo. «Adesso sai di cosa è capace Solomon Blake.»
Jim riusciva a stento a respirare.
«È colpa sua» sussurrò, sentendo le lacrime affiorare. «È sempre stata solo colpa sua....»
Lucindra gli venne vicino. «Lo vedi, Jim? Noi due siamo così simili: non siamo riusciti a trovare il nostro posto in questo mondo, né tra i Mancanti e né ad Arcanta. Per questo il Vuoto ci ha scelti come suoi strumenti.»
Gli prese le mani tra le sue, gentilmente, come se volesse invitarlo a danzare e con sorpresa, lui si sentì pervadere da una sensazione inebriante, di potere illimitato e di sicurezza mai provata prima.
«Io posso insegnarti le vie del Vuoto» disse Lucindra. «Aiutarti a usare il tuo immenso potere per guarire il mondo dal male che lo avvelena. E renderlo migliore.»
Esercitò una lieve pressione all’interno dei suoi polsi e quel richiamo si fece più forte, più esigente. Jim sentì qualcosa dentro di lui scalpitare per correre in risposta, ma riuscì a trovare la forza per resistergli e si sottrasse bruscamente al suo tocco. «Un paio di cose sul Vuoto le so anche io, e so che non dona niente senza un sacrificio.»
Lucindra lo studiò per un lungo momento e le sue labbra si piegarono in un sorriso.
«Sacrificio» disse piano. «Una parola che appartiene a un’epoca così lontana. Io ho dato via metà dei miei poteri per ottenere la possibilità di avere un figlio e l’ho fatto senza alcun rimpianto. La verità è che i maghi hanno dimenticato cosa significhi compiere sacrifici per un bene superiore.»
«“Bene superiore”» ripeté Jim rabbrividendo. «E quale sacrificio è richiesto per una cosa del genere?»
«Quello delle creature che hanno portato questo mondo alla rovina con le loro guerre e con il loro odio.» Una luce sinistra balenò negli occhi scuri di Lucindra. «I Mancanti.»
Jim impallidì, travolto da un’ondata di orrore e sgomento. «Vuoi compiere una strage?!»
«Voglio portare giustizia» spiegò lei, ogni parola carica di una convinzione inattaccabile. «I Mancanti hanno odiato a tal punto la magia da farla estinguere, condannandoci a vivere braccati come topi, o peggio, rinchiusi in una gabbia dorata a sottostare ai capricci dei Decani. Noi, che una volta eravamo i loro dei!»
«Non ti aiuterò mai a fare una cosa del genere!»
Lucindra tacque, continuando a fissarlo e nei suoi occhi Jim non riconobbe più alcun barlume di dolcezza: erano duri e freddi, distanti come un cielo invernale privo di stelle.
«Capisco il tuo punto di vista» disse infine, rimanendo calma. «In altre circostanze ne avrei discusso volentieri davanti a una tazza di tè. Ma vedi, Jim, il fatto è che ho atteso troppo a lungo. E il tempo delle parole è finito.»
Il ragazzo indietreggiò, sentendo accendersi in lui una scintilla di panico. «Hai detto che non mi avresti fatto del male.»
«No, infatti. Siamo amici noi, te l’ho detto. Sei enormemente prezioso e non rischierei mai dopo la fatica che ha fatto Blake per tirare fuori il tuo potenziale.»
Jim era sbalordito, gli girava la testa. «Mi hai fatto addestrare da Blake di proposito?»
«È un ottimo maestro» spiegò lei con semplicità. «Migliore di tutti i miei Zeloti, di sicuro migliore di tua madre. Ed è spinto da una motivazione incrollabile.»
Di fronte all’espressione costernata di Jim, lei emise una piccola risata. «Oh, Attraversaspecchi, credevi che avessi preso sua moglie per pura vendetta? Che fossi una patetica ragazzina col cuore infranto che agisce in maniera impulsiva?»
«Sapevi che sarebbe entrato nel Vuoto per lei» comprese finalmente Jim.
«Lo conosco meglio di chiunque altro» replicò Lucindra. «Sembra un uomo complicato, ma è terribilmente prevedibile: dagli una missione impossibile, e puoi star certo che troverà il modo di venirne a capo. Perciò ero sicura che ti avrebbe trovato, addestrato e convinto ad aiutarlo, portandoti proprio dove dovevi essere.» Sorrise e ruotò il dito. «Ma è stato comunque divertente guardarlo ballare mentre portava a compimento il piano al posto mio senza neanche saperlo.»
Jim percepì le ombre allungarsi intorno a lui, addensarsi e sibilare irrequiete. La familiare campagna del New Jersey in cui aveva trascorso l’infanzia si era trasformata in una landa grigia e polverosa che sembrava srotolarsi all’infinito sotto un cielo temporalesco solcato da fulmini viola. Qualsiasi forma di vita era stata spazzata via, fatta eccezione per pochi arbusti neri e scheletrici. Era quello il vero volto del Vuoto, un luogo freddo, arido e solitario, in cui l’unico barlume era il fienile che continuava a bruciare alle sue spalle.
«Che cosa succederà adesso?»
La luce prodotta dalle fiamme illuminò il sorriso di Lucindra. «Sarò di nuovo libera.» 

 

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Capitolo 38
*** Le vie del Vuoto - SECONDA PARTE ***



LE VIE DEL VUOTO – Seconda Parte





 

Alycia starnutì per la terza volta e ci mancò poco che volasse giù dalla scala.
Si aggrappò ai montanti, sforzandosi di non guardare di sotto, ma non riuscì a trattenere un’imprecazione molto colorita che di sicuro non aveva imparato ad Arcanta.
«Novizia Blake» la riprese una voce asciutta dabbasso. «Cerca di essere meno scurrile: siamo sempre in Biblioteca.»
La ragazza abbassò le palpebre. Di tutti i supervisori che il Primo Alchimista avrebbe potuto affidarle, Octavio era quello che metteva più a dura prova la sua pazienza: era uno degli alchimisti che si occupavano dell’incubazione delle uova di velodrago e ogni cosa in lui la irritava, dal suono della sua voce, all’espressione perennemente nauseata, ai capelli che gli scendevano sulle spalle in ciocche nere e dritte e che avevano tutta l’aria di non vedere lo shampoo da settimane.
Compilò il registro che le fluttuava accanto, poi scese prudentemente dall’altissima scala e la spinse fino alla libreria successiva, che sfiorava il soffitto a cupola dell’ultimo anello della Cittadella. Era tradizione, le aveva detto il Primo Alchimista, che i novizi del Cerchio d’Oro si rendessero utili con le mansioni più umili durante i primi tempi:
«Ogni cosa a suo tempo» aveva risposto seccato, quando Alycia gli aveva chiesto quando avrebbe cominciato a occuparsi dell’Anthea Ingannatrice, il motivo che l’aveva spinta a diventare alchimista. «Il nostro motto è “Per aspera ad astra”: sbriga il tuo lavoro al meglio e presto potrai dedicarti a compiti più importanti.»
Alycia se l’era aspettato, ma non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi a fare la sguattera: da quando era arrivata al Chiostro non faceva che portare caffè, pulire i laboratori e le aule, cucinare per gli alchimisti più anziani... Con la magia, certo, ma non era per questo che era entrata nel Cerchio d’Oro. La cosa in sé non le sarebbe pesata più di tanto se non fosse per il sospetto, di giorno in giorno sempre più concreto, che questo genere di “tradizione” fosse riservata solo a lei.
Ciononostante, si dedicava a ogni mansione con zelo e precisione: non avrebbe permesso a niente e nessuno di distoglierla dai propri obiettivi.
Raggiunse Octavio, che l’attendeva a braccia conserte e gli consegnò lo schedario. «La sezione 000146-B è in ordine. Passo alla 000147-B?»
«No, per oggi basta.» L’alchimista tirò fuori dalla tunica nera l’orologio. «Tra poco sarà ora di pranzo, ti conviene raggiungere le cucine: è il centocinquantesimo compleanno di Maestro Rashid e il Primo Alchimista si aspetta un banchetto coi fiocchi.»
Alycia avrebbe voluto solo gettarsi a terra e piangere, ma la sua faccia restò impassibile. «Ok.»
«Hai trascorso troppo tempo nel Mondo Esterno» commentò lui con una smorfia. «Se sento un’altra espressione Mancante farò rapporto al Primo Alchimista. Sono stato chiaro?»
Alycia si trattenne dal sollevare gli occhi al cielo. Tutto pur di sbarazzarsi di lui. «Va bene.»
«Così va meglio. Che la Conoscenza ti illumini il cammino, Cittadina.»
Detto ciò, girò i tacchi e si allontanò con passetti frettolosi. Alycia tirò un sospiro esausto e si accasciò contro una delle librerie. Ottimo, avrebbe trascorso la giornata dietro ai fornelli, proprio il genere di vita indipendente che sognava. Chissà cosa avrebbe pensato suo padre se l’avesse vista...
Scacciò via il pensiero e si affrettò a raggiungere l’uscita. La Biblioteca della Cittadella toglieva il respiro per quanto era immensa: un atrio monumentale dal pavimento in marmo, intorno al quale i piani si avvolgevano in cerchi paralleli, ciascuno contenente secoli e secoli di sapere magico da tutto il mondo. I raggi del sole, filtrati dagli spicchi della cupola, accarezzavano le rilegature dei libri e facevano sfavillare i corrimani in ottone e gli occhiali dei lettori, seduti lungo banchi di legno. Sopra le loro teste, i libri passavano in volo come curiosi uccelli in una voliera e il silenzio era così assoluto che persino una pagina voltata produceva l’effetto di un colpo di cannone.
Alycia scese l’ultima rampa di scale e schivò un libro volante prima che la colpisse alla testa. Non si trattenne e imprecò di nuovo.
«Colpa mia! Non ti avevo proprio vista.»
Era Nikos Eliopoulos, che sgranocchiava una mela mentre esaminava una libreria; i tomi che aveva scelto raggiungevano volando il tavolo da lui occupato e avevano già formato una piccola torre.
«Non importa» replicò lei, mesta. «Ultimamente penso di essere invisibile.»
Nikos la esaminò dalla testa fino all’orlo della tunica grigia, con un guizzo di interesse negli occhi violetti. «Vediamo se indovino: il Cerchio d’Oro non è esattamente quello che ti aspettavi, eh?»
Non era la prima volta che quel tipo la colpiva per la sua perspicacia e capiva perché Macon Ludmoore lo considerasse il suo allievo migliore. Una parte di lei lo rispettava, ma non poteva dimenticare che era molto amico di Mei Lin e Alycia si sarebbe amputata una gamba piuttosto che metterla a conoscenza di un suo fallimento. Perciò, si stampò in faccia un sorriso vivace: «Nient’affatto! È che sono molto impegnata con gli esperimenti...»
«Ti hanno già messa in laboratorio? I miei complimenti.»
«Sì! Come vedi va tutto a meraviglia!»
Lui inclinò piano la testa. «Ho visto che ti hanno appioppato Octavio. È ancora uno stronzo come quando era allievo di Macon?»
«Direi di no: adesso è uno stronzo con dei sottoposti.»
Lui ridacchiò. «Buona questa. Sai Blake, ho sempre pensato che in fondo non sei la secchiona scorbutica che vuoi sembrare.»
Lei si ritrovò a sorridere, spontaneamente stavolta. «Non sei il primo che me lo dice.»
«Perché stasera non pianti quei musoni di alchimisti e vieni alla Corte dei Miraggi? Non ci crederai, ma Macon sta organizzando una festa.»
«Proverò a fare un salto.»
«Ottimo! È un peccato che tuo cugino Winston sia dovuto partire così presto. Ti ha detto quando tornerà?»
Il sorriso di Alycia si spense, veloce come era affiorato. «No, non me l’ha detto. Ma pare abbia trovato un ottimo motivo per tornare ad Arcanta; quindi, prima o poi si farà vivo.»
Non era proprio riuscita a pronunciare quelle parole senza trasudare risentimento; per quanto continuasse a negarlo a se stessa, bastava tirare in ballo Jim per riaprire la ferita e la cosa che più la faceva arrabbiare era che non poteva farci niente. Sperava che dopo la sua partenza le cose sarebbero migliorate, ma ogni volta che chiudeva gli occhi continuava a vederlo, tra le siepi di quel labirinto, avvinghiato a Mei Lin mentre si baciavano voracemente. Rivedeva il vestito di lei tirato quasi fino all’inguine e le mani di lui che la toccavano dappertutto e una furia cieca e corrosiva, diversa da qualsiasi cosa avesse mai provato, si impadroniva di lei. E subito dopo la furia arrivava la tristezza, profonda e disarmante, che le sottraeva ogni briciolo di energia.
Quanto era stata stupida a illudersi che fosse davvero interessato a lei. E pensare che era stata così felice di ricevere il suo messaggio, quell’origami a forma di elefantino con cui le dava appuntamento al labirinto...
Patetica. Una patetica ragazzina emotiva, ecco in cosa l’aveva trasformata la permanenza nel Mondo Esterno. Boris non aveva tutti i torti alla fine.
«Scusa, ora devo andare» borbottò, sentendo gli occhi pizzicare. «Ci vediamo in giro.»
Lasciata la Biblioteca, imboccò un corridoio immacolato che conduceva al Chiostro, quando riconobbe la voce del Primo Alchimista, il Decano Melkisedek di Yazd, e si fermò per sbirciare dietro l’angolo: lo stregone stava parlando con Octavio, di lei con molte probabilità. Melkisedek ascoltò il resoconto del suo supervisore senza mostrare particolare interesse, dopodiché lo congedò con un pigro cenno della mano. Alycia attese che Octavio fosse abbastanza lontano, dopodiché corse incontro al Decano. «Signore! Ha un minuto?»
Lui si mostrò come sempre felicissimo di vederla. «Novizia Blake.»
«Non le farò perdere tempo» assicurò lei. «È solo che...sono già passate due settimane da quando ho superato la Prova dell’Oro e mi chiedevo...»
«Che cosa ti chiedevi?»
Lei non si fece intimidire. «Mi chiedevo quando avrò il permesso di accedere ai vostri laboratori. Non solo per pulirli, magari.»
Melkisedek inarcò appena le sopracciglia. «Abbiamo già affrontato questo argomento.»
«Lo so che sono appena arrivata, ma sembrava che il Decanato fosse interessato ai risvolti della mia ricerca. Quindi prima mi metto al lavoro e meglio sarà per tutti, no? L’Anthea ha bisogno dei suoi tempi per maturare senza un’adeguata stimolazione sonora e...»
Il Decano la mise subito a tacere. «Mi rallegra che tu sia così impaziente di metterti al servizio della Città. Ma comprenderai che il Cerchio d’Oro ha una reputazione da mantenere, grandi responsabilità ricadono sulle spalle dei nostri alchimisti.»
«Ovviamente!» rispose Alycia con fervore. «Proprio per questo ho sempre desiderato farne parte...»
«Perciò comprenderai anche che non possiamo affidare esperimenti così delicati a una novizia» riprese Melkisedek, scavalcandola. «Soprattutto se è in gioco la salute dei nostri Concittadini.»
«Io...certo, ma...»
«Motivo per cui i Decani hanno ritenuto opportuno lasciare questo compito ad alchimisti più anziani» concluse lo stregone. «Dovrebbe rassicurarti sapere che il tuo lavoro è in mani esperte.»
Alycia non realizzò subito cosa stesse accadendo. La delusione le era sprofondata fin in dentro le ossa mentre ricambiava lo sguardo del Decano con la bocca aperta e l’espressione smarrita. «Volete...volete togliermela?»
«L’Anthea è una pianta estremamente problematica da gestire.»
«Lo so benissimo!» replicò lei, in un impeto di collera. «Ho rischiato la vita per procurarmi un campione e ho trascorso mesi a studiarla!»
«E te ne siamo tutti profondamente riconoscenti» disse lui, mellifluo. «Hai ragione, Arcanta è afflitta da un grave problema di nascite; nel giro di un paio di secoli potremmo seriamente rischiare l’estinzione. E se l’Anthea ha davvero la capacità di renderci più prolifici è bene sfruttarla al meglio.»
«Cosa che ho ampiamente dimostrato di poter fare!»
«Suvvia, Blake, sappiamo entrambi che questo lavoro richiede tempo e dedizione. Cose che al momento tu non hai.»
«E chi lo ha detto? Sono qui alla Cittadella tutti i giorni, sgobbo dalla mattina alla sera, faccio sempre tutto quello che mi viene richiesto...!»
«Ho saputo della proposta di matrimonio che ti è stata avanzata alcuni giorni fa.»
Alycia si bloccò e le sue guance andarono subito a fuoco.
«Boris Volkov ci ha riferito che ha intenzione di prenderti in moglie» spiegò Melkisedek, sorridendo nell’interpretare il suo attonito mutismo come segno di timidezza. «Oh, non c’è motivo di imbarazzarsi: è una notizia splendida. Fa sempre piacere che una giovane donna trovi qualcuno che si prenda cura di lei. Soprattutto se ha alle spalle una situazione familiare... complicata.»
«Qualcuno che si prenda cura di me» ripeté lei a labbra strette. Le veniva da vomitare.
Il Decano posò una mano grinzosa e coperta di macchie sulla sua spalla e Alycia dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per evitare di scacciarla o reciderla di netto.
«Goditi questo momento» disse lui con calore paterno. «Avrai molte cose a cui pensare in vista delle nozze. Non preoccuparti, il tuo lavoro non andrà sprecato: Octavio ha già messo insieme un’equipe che si dedicherà all’Anthea e predisposto un’intera serra per la sua coltivazione intensiva...»
Melkisedek continuava a parlare, ma Alycia aveva smesso di ascoltare. Stava sprofondando in un abisso di disperazione, tale che il suo corpo non sembrava neanche più appartenerle. Era stata tagliata fuori dai giochi. Definitivamente. E niente di quello che avrebbe potuto dire o fare avrebbe cambiato le cose...
Alla fine, il Decano comunicò di essere atteso nella Sala del Consiglio e dopo aver borbottato qualche altra parola di circostanza e le sue congratulazioni, la mollò lì, stordita e impotente, in mezzo al corridoio.
 
 
Jim correva a perdi fiato, senza voltarsi indietro. Sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato perduto.
Si muoveva alla cieca, brancolando in quella landa tenebrosa e senza fine, rischiarata di tanto in tanto da lampi di luce viola nel cielo. Intorno a lui percepiva sagome in movimento, il battito di centinaia di ali, il fruscio delle ombre che si allungavano sul terreno per afferrargli le caviglie...
«Non puoi scappare.»
La voce di Lucindra lo inseguiva ovunque andasse, fuori e dentro la sua testa. Aveva ragione, era inutile fuggire: era nel Vuoto, solo e senza alcuna possibilità di tornare al suo mondo. Davanti a lui regnava un’infinita desolazione, nessun posto dove nascondersi e soprattutto niente più specchi da attraversare...
«Non comportarti da sciocco» disse Lucindra, la cui voce tranquilla tradiva ora una lieve esasperazione: doveva trovare quella caccia al topo infinitamente noiosa. «Fermati, non hai modo di lasciare il Vuoto, né di combattermi.»
Le ombre si sollevarono dal terreno, formando un impenetrabile muro di spine appuntite, e Jim dovette interrompere la fuga. Ma non si sarebbe consegnato senza combattere: se Lucindra voleva la sua arma di distruzione di massa avrebbe dovuto sudarsela.
Aprì le braccia, evocando una scarica di pura elettricità azzurra; il dardo seghettato guizzò dai suoi palmi tesi e accese le tenebre, ma resistette meno di un secondo e fu subito assorbito da quella giungla oscura.
«Patetici trucchetti» commentò Lucindra. «Ottimi per divertire i bambini alle fiere: ecco cosa ti ha insegnato Blake in tutto questo tempo.»
«Che hai da dire sui trucchi da fiera?» fece Jim. «Ci ho costruito una carriera!»
«Se diventerai mio allievo, ti mostrerò il Vero Potere» disse Lucindra. «Ti aiuterò a spingerti oltre limiti che neanche immagini.»
Era la verità, Jim non aveva mai visto un potere del genere in azione: le ombre ruotavano e guizzavano intorno a lui come se fossero vive e presto si unirono a formare una nube vorticante, che ronzava ed emetteva sinistri ticchettii. E a un tratto, da quella nube emerse qualcosa.
«Non è possibile» mormorò il ragazzo, le mani ancora sollevate e la mente nel panico.
La creatura che gli stava davanti era composta interamente di antimateria, che si dissolveva e si ricomponeva all’infinito. Possedeva lunghe braccia, mani provviste di artigli, un volto senza bocca ma con occhi fiammeggianti. Una sagoma umanoide appena abbozzata, ma inequivocabilmente reale.
Jim arretrò, sforzandosi di capire che cosa si trovasse esattamente davanti. Era uno spettro? Un demone? Niente di quello che aveva letto sui libri di Blake lo aveva preparato a questo. Nessun mago poteva creare materia, né tanto meno renderla viva.
La creatura avanzò verso di lui, il volto inespressivo e gli artigli protesi. Jim ricacciò l’orrore in un angolo della sua mente e fece scattare in alto la mano: una lingua di fuoco fendette la creatura da parte a parte, facendola vacillare; le ombre di cui era composta si sdoppiarono, creando due nubi vorticanti che diedero vita ad altrettanti mostri identici.
Adesso erano dappertutto. Ovunque Jim guardasse, vedeva sagome demoniache che emergevano dalla tenebra più nera, affamate e inarrestabili.
«Basta giocare.»
Lucindra era in alto, sospesa nel vuoto sopra di lui e sembrava emersa da una visione infernale; le ombre vorticavano attorno al suo corpo esile come un mantello vivo e fremente e i capelli rossi fluttuavano nell’aria increspata come fosse sott’acqua.
«Mi dispiace, Attraversaspecchi.» La strega sollevò una mano aperta verso di lui, le dita nere come se le avesse intinte nell’inchiostro. «Avrei voluto che ci fosse un altro modo.»
All’improvviso, una delle creature schizzò verso Jim. Lo afferrò per il polso, e un terrore gelido, viscerale gli si irradiò nel petto. Era come se un milione di scarafaggi neri gli stessero zampettando sulla pelle...
«Lucia!» urlò, lottando per svincolarsi. «Ti prego, non sei costretta a farlo!»
La presa della creatura era saldissima e Jim presto scopri che si era sbagliato, che ce l’aveva eccome una bocca: un orrido buco nero e informe, che si allargò scoprendo tre file di denti aguzzi.
Glieli affondò tutti insieme nella spalla destra e Jim si senti sopraffare da un dolore accecante, mai provato prima, che aumentava moltiplicandosi di secondo in secondo, spaccandolo internamente. Si sentì urlare e fremere, mentre guardava impotente le vene del suo braccio, stretto in quella morsa di oscurità, gonfiarsi e diventare nere.
«No.» La vista gli si riempì di ombre, le forze gli vennero meno. «Ti prego...»
«Va tutto bene» lo rassicurò Lucindra. «Prenderò solo ciò che mi serve, dopodiché sarà tutto finito...»
E poi, all’improvviso, esplose la luce.
Le sue orecchie si riempirono di strilli acutissimi e le ombre arretrarono. La creatura lasciò Jim, che crollò a terra privo di forze, col dolore che ancora gli pulsava dentro a ondate continue. Sollevò lo sguardo e stentò a credere ai propri occhi.
C’erano degli animali, che lottavano contro i mostri d’ombra di Lucindra: erano tigri e leoni e giaguari, persino ippopotami ed elefanti. Dai loro occhi sprigionavano lampi di luce e dalle fauci sgorgavano lunghe fiammate con cui tenevano a distanza i mostri.
Solo quando furono abbastanza vicini, Jim si rese conto che non erano comuni animali: erano macchine. Automi sorprendenti, rivestiti da corazze di ferro brunito, gli arti messi in movimento da un sistema di pistoni, lampadine luminescenti al posto degli occhi e ingranaggi in vista. Era la cosa più stupefacente che avesse mai visto in vita sua.
Mentre era lì a terra, un mostro d’ombra si avventò alle sue spalle, ma prima che Jim avesse il tempo di urlare fu tagliato in due da una lama luminosa. Quando le ombre si dissolsero, al loro posto apparve una donna.
Sopra gli abiti maschili indossava una specie di armatura scintillante, su cui erano saldati frammenti di specchio di varie forme e dimensioni. La donna lo fissò intensamente coi suoi occhi di onice, metà volto coperto da una bandana rossa, e i capelli neri trattenuti all'indietro in un complicato groviglio di onde e trecce.
«Ragazzo, stai bene?»
Jim era così sconvolto che faticava a trovare le parole, ma quando la donna abbassò la bandana, non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa. Era la versione più adulta di Alycia, la stessa donna che aveva visto nella fotografia all’interno dell’orologio di Solomon, la stessa apparsa nella visione del cimitero a New Orleans.
Ma qualcosa era cambiato in lei, qualcosa che aveva reso il suo sguardo più indurito e affilato.
«Isabel....»
La donna gli allungò una mano e lo aiutò a tirarsi su. «Devi andare via di qui, subito. Non riuscirò a tenerli impegnati a lungo.»
«Ma...» Jim era senza parole. «Come fai...? Come sei riuscita a...?»
«Non c’è tempo per le spiegazioni!» ribatté lei in tono sbrigativo. Ruotò su se stessa e vibrò un fendente contro un’altra creatura d’ombra, prima che si avvicinasse troppo a Jim. «C’è mancato poco che assorbisse i tuoi poteri. Pensavo di essere stata chiara l’ultima volta: dovevi scappare!»
Jim non ci stava capendo più niente. «Quella voce...l’ultima volta che sono venuto al maniero, quando ho scoperto la camera di Caliban: eri tu?!»
«Sì» rispose Isabel. «Ora vedi di tornare nel tuo mondo, hai capito?»
«Ma non so come fare» ribatté Jim, atterrito. «Lucindra ha fatto sparire lo specchio da cui sono passato...»
«Sei o no un Plasmavuoto?» lo interruppe Isabel bruscamente. «Se lei è in grado di creare qualunque cosa puoi farlo anche tu!»
Dopodiché, impugnò con entrambe le mani la spada dalla lama di vetro e sparì nel vorticare di ombre e mostri. Jim avrebbe voluto aiutarla, ma Isabel aveva ragione: se voleva davvero rendersi utile era meglio che lasciasse quel posto il prima possibile.
Sentiva la presenza di Lucindra inseguirlo a ogni passo, la sua collera nera e distruttiva, ma riprese ugualmente a correre, allontanandosi dalla battaglia in corso.
Qualcosa atterrò con un balzo davanti a lui, tagliandogli la strada.
«Lily!» esclamò Jim. «Credevo ti avessero presa! Dobbiamo andare via di qui.»
La gatta però reagì drizzando il pelo e prese a soffiare, per la prima volta da quando la conosceva. Poi, sotto i suoi occhi sbalorditi cominciò a trasformarsi: tutto il suo profilo si allungò mentre saliva verso l’alto, tirandosi e allargandosi fino ad assumere la consistenza di una gigantesca nuvola nera e ribollente.
«Lilith mi è sempre rimasta fedele» disse Lucindra soddisfatta. «È stata per anni il mio famiglio, un’emanazione del Vuoto creata appositamente per servirmi.»
Sconvolto, Jim guardò quella che era stata negli ultimi mesi la sua compagna, la gattina affettuosa che appariva sempre nel momento del bisogno e che gli aveva spianato la strada per raggiungere Lucindra...
«Lily» mormorò, disperato. «Per favore...»
La nube nera sibilò minacciosa e calò su di lui come un’onda. Jim si ritrovò ad annaspare in un mare di penne nere, becchi appunti e artigli affilati. Lilith lo avvinghiò stretto, graffiandogli la pelle, strattonandolo, ma Jim si oppose: strinse gli occhi, infiammò la Volontà, scacciò via il terrore e ogni altro pensiero dalla testa tranne uno: tornare a casa.
Questa volta il potere accorse da lui prima ancora che lo chiamasse, con tale impeto, con tale furia che si sentì vacillare: veniva da ogni direzione, dal cielo temporalesco che lo sovrastava, dai fulmini viola che squarciavano le nubi, dalla terra arida e polverosa, persino dai mostri d’ombra, creando una connessione profonda con ogni particella di antimateria attorno a lui.
Dalle sue dita si dipanò una sostanza nera, omogenea e scintillante, che si allargò come una macchia di benzina sul terreno, creando una superficie talmente lucida e liscia da potercisi specchiare.
Jim si sentì sollevare da terra da Lilith.
«NO!»
Poté quasi sentirla, la sua Volontà che esplodeva e si dilatava fino a schiacciare quella del demone. Bastò un istante, breve quanto un battito di ciglia e Jim sprofondò nello specchio di ossidiana che aveva appena evocato.
Gli sembrò di volare.
Per alcuni istanti fluttuò in una densa foschia privo di peso, privo di un corpo, in un mondo sottomarino di cui percepiva solo immagini frammentarie, colori invertiti, suoni distorti. Era ovunque e in nessun luogo, intrappolato nello spazio transitorio tra le pieghe della realtà. Tra Tutto e Vuoto...
Non seppe dire se fosse durato un’eternità oppure meno di un respiro.
Cadde indietro all’improvviso, in uno stato di completo sbigottimento, come se qualcuno gli avesse dato uno spintone.
Batté violentemente la schiena sul pavimento e l’impatto gli svuotò i polmoni. Per alcuni lunghi istanti non riuscì a respirare. Inebetito dallo schianto e dallo spavento, in un primo momento non si accorse della dozzina di facce che lo stavano fissando con gli occhi sgranati e le mascelle penzoloni: facce di uomini in eleganti completi Principe di Galles e di donne con indosso Chanel rosa petalo e Vionnet di chiffon.
Jim tossì e si guardò attorno, disorientato: era letteralmente piovuto dal soffitto a specchio di un ristorante molto chic, con tovaglie di seta, servizi da tè di porcellana, camerieri in frac e persino un quartetto jazz. Lungo le pareti si aprivano degli oblò, oltre i quali si stagliava lo skyline di una New Orleans alle prime luci del mattino, vista dal Mississippi. E capì di essere finito su un battello.
Si mise in piedi con fatica, incerto sulle gambe. Non aveva la più pallida idea di cosa dire a quella gente ammutolita per spiegare cosa avessero appena assistito, ma non ce ne fu bisogno, perché fu subito investito da uno scroscio di applausi.
«Incredibile!» sentì qualcuno commentare al suo vicino. «Non mi aspettavo che la crociera prevedesse spettacoli di magia a colazione!»
Esterrefatto, Jim si esibì in un goffo inchino: accidenti, era proprio vero che a New Orleans non ci si stupiva di niente!
«Ehm, grazie a tutti! Sarò qui fino a venerdì!»
E corse fuori. Una folata di brezza salmastra gli scompigliò i capelli non appena uscì sul ponte del battello, coi fumaioli che eruttavano continui getti di vapore e l’enorme ruota a pale scarlatta che girava lenta.
Jim si appoggiò con entrambe le mani al parapetto. Le sue braccia tremavano ed erano coperte di graffi sanguinolenti. Prese un paio di profondi respiri, sentendo sulla pelle i raggi del sole e lo stridio dei gabbiani che passavano in volo sulla sua testa.
Sei tornato, ripeté nella sua mente, mentre fissava l’acqua che scorreva vorticando sotto di lui, le onde che sbattevano contro lo scafo. Sei al sicuro ora...
La spalla, laddove il mostro di Lucindra lo aveva azzannato, mandò una stilettata di dolore improvviso e poi Jim non vide più niente. I pensieri si diluirono, le forze gli vennero meno ed ebbe l’assurda impressione di vedere se stesso dall’esterno mentre cadeva lungo disteso sul ponte, appena un attimo prima di perdere i sensi.

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Capitolo 39
*** Deviazione ***



DEVIAZIONE

 



Quella mattina, Solomon si svegliò prima dell’alba, dopo l’ennesima notte insonne.
Rimase a fissare la copertura di velluto del letto a baldacchino, un tempo di uno sfarzoso color porpora e ormai logora e corrosa dai tarli, ma poi un violento attacco di tosse lo costrinse ad annaspare finché le sue dita non strinsero la boccetta contenente Materia Vuota.
Era un declino inevitabile. Più il tempo scorreva, avvicinandolo giorno dopo giorno al ciglio del baratro, più sentiva di star perdendo il controllo sul proprio corpo. Non che ne fosse sorpreso: era invecchiato e stava morendo. E soprattutto, era stanco.
Tuttavia, non lasciò che questi pensieri compromettessero la sua routine: fece un bagno, si rase e indossò un completo da giorno pied-de-poule con giacca a doppio petto stretta in vita, che accompagnò a una pochette di seta bianca infilata nel taschino. Aveva sempre avuto un debole per gli abiti di sartoria ben confezionati, per i tessuti di pregio e i tagli di qualità.
Lo aveva imparato da suo padre: sin da bambino, lo aveva spiato mentre si rimirava allo specchio con l’espressione perennemente insoddisfatta, attorniato da uno stuolo di sarti Mancanti.
La sua famiglia era vissuta circondata dal lusso per generazioni, ma per un mago era un aspetto del tutto irrilevante: che valore possedeva uno stemma nobiliare inciso sulla facciata di un antico maniero avvolto nelle nebbie dello Shropshire? Che significato avevano le opere d’arte, i cavalli e i cani da caccia e le frotte di servitori ossequiosi in confronto al prestigio di Arcanta? Cos’era tutto questo rispetto al vero potere?
Lo aveva inseguito tutta la vita, spinto da una fame insaziabile, dallo spettro di quell’eterna insoddisfazione dipinta sul volto di Alastor Blake ogni volta che lo guardava; dal desiderio, covato negli anni, di dimostrare al mondo e ad Arcanta di essere il migliore. Migliore di suo padre, migliore dei suoi antenati. Migliore di Jonathan.
Solomon si concesse un breve istante per osservare l’immagine che la specchiera da toeletta gli restituiva. Anche lui, in un passato ormai lontano, aveva indugiato un tempo esageratamente lungo a contemplarsi allo specchio, compiacendosi di ciò che vi leggeva: l’immagine del potere, della giovinezza e dell’arroganza, di tutte le infinite possibilità che lo studio della magia e la lunghissima vita che lo attendeva avevano ancora da offrirgli.
E cosa vedeva ora in quello specchio? Cosa era rimasto dei suoi gloriosi propositi? Rovina e desolazione. E una lunga scia di sangue dietro di lui, che non era mai riuscito a cancellare...
Finora.
Si aggrappò a quella convinzione con tutte le forze, come ogni giorno da quando era giunto a New Orleans, da quando aveva trovato Jim Doherty e la possibilità di ottenere la sua redenzione.
La casa era straordinariamente silenziosa. Un vento di tempesta spirava da sud, facendo gemere gli infissi delle vecchie finestre e ondeggiare le chiome delle querce nel parco.
Si meravigliò quando, entrato in sala da pranzo, non trovò la tavola apparecchiata per la colazione: da quando era al suo servizio, Valdar non aveva mai mancato di ottemperare ai suoi compiti. Girovagò per le sale, finché alle sue orecchie giunse un sonoro russare: l’orco era accasciato in una poltrona del salotto, profondamente addormentato. Intuì subito che non fosse una condizione normale dalla tazzina da té rovesciata sul tappeto e un nodo di inquietudine gli si formò tra le costole.
Jim.
Come c’era da aspettarsi, non era in camera sua, ma in compenso trovò il letto intatto e l’armadio svuotato dai vestiti.
La sua preoccupazione aumentò di secondo in secondo mentre ispezionava ogni stanza, finché non aprì le porte della biblioteca: il ragazzo era là, il gomito poggiato sul tavolo più vicino alla finestra e lo sguardo rivolto all’esterno.
Per un lungo momento, nella stanza regnò il silenzio, rotto solo dal sibilare del vento e dal ticchettio della pendola affissa al muro.
«Il giorno in cui lasciai la fattoria non avevo litigato con mio padre» esordì Jim, senza un preambolo. «Per anni ho creduto di sì, invece adesso ricordo tutto: era arrivato il circo in città e lui aveva deciso di portarmi ad assistere alla parata. Mi mise a cavalcioni sulle sue spalle per farmi vedere meglio i trampolieri, i mangiafuoco e i cavalli. Fui deluso che non ci fossero gli elefanti, ma all’epoca non potevo sapere quanto costasse mantenerne uno. La mattina andammo a visitare il serraglio, mi fece fare un giro su un pony e mi comprò lo zucchero filato. Non eravamo così felici da tanto tempo, forse da prima della morte della mamma.»
Solomon ascoltò in silenzio, l’orologio stretto nel pugno. Quando parlò, la sua voce suonò calma. «Quindi, adesso ricordi?»
«Oh, sì. Ricordo perfettamente. Ricordo che verso sera, sulla strada per la fattoria, ci imbattemmo in un uomo. Diceva di conoscere la mamma, ma papà non fu contento di vederlo. Mi disse di rimanere sul furgone e sfrecciò per la strada come un matto. Il motore però si ruppe improvvisamente e così cominciammo a scappare a piedi.»
Il nodo gelido in mezzo al petto dello stregone si espanse, ma si sforzò di non darlo a vedere. «Poi cosa accadde?»
Jim incrociò le braccia sul tavolo, fissando qualcosa di fronte a sé con espressione corrucciata. «Arrivammo alla fattoria. Mio padre prese il fucile dal capanno, mentre io mi nascosi tra i covoni di paglia. Ma l’uomo ci aveva già raggiunti da un pezzo.» Lentamente, sollevò lo sguardo e incrociò i suoi occhi. «Quell’uomo era lei, signor Blake.»
Dal suo trespolo, Wiglaf emise un lugubre stridio. Solomon sentì la gola stringersi. «Jim, ascolta...»
«Ci ha attaccati.»
«Non è come credi...»
«Ha scaraventato mio padre contro una parete» proseguì il ragazzo in un sibilo. «Gli avrà come minimo procurato una commozione celebrale.»
«Non ho avuto scelta.»
Vide il fuoco divampare nei suoi occhi, violento e incontrollato.
«Sì che ce l’aveva una scelta!» gridò, scattando in piedi. «Lei ha i poteri, mio padre no. Come ha potuto pensare anche solo per un istante che fosse uno scontro alla pari?»
«Non ti avrebbe mai lasciato venire via con me» disse Solomon con voce rauca. «Questo lo avrebbe esposto a un pericolo ben peggiore...»
«Avrebbe potuto addormentarlo!»
«Ti assicuro che non è semplice prendere decisioni ragionevoli con tre pallottole nel torace» replicò Solomon, stavolta in tono leggermente piccato. «Capisco che tu sia sconvolto...»
«Prima ero sconvolto. Ora sono piuttosto incazzato.»
«Ma non eravate al sicuro ad Avalon» continuò Solomon. «Tua madre si era ribellata agli Zeloti, aveva usato le sue ultime forze per lanciare un incantesimo di protezione sulla fattoria, ma negli anni la barriera era diventata fragile: Tom non sarebbe sopravvissuto a un attacco e loro non si sarebbero limitati a tramortirlo, lo avrebbero ammazzato senza pietà, davanti ai tuoi occhi.»
Jim scosse piano la testa, continuando a fissarlo. Poi, scoppiò in una breve risata che non aveva nulla di allegro.
«Sa qual è la cosa peggiore? Per tutto questo tempo ho pensato di essere io il responsabile, di aver causato una tragedia e lei me lo ha lasciato credere!»
Solomon serrò le labbra, per la prima volta in vita sua a corto di risposte; qualsiasi giustificazione la sua bocca avesse partorito sarebbe suonata comunque inappropriata.
«Avevo bisogno che ti fidassi di me» ammise infine, con rammarico. «Non avrei mai voluto farti soffrire, Jim...»
«Stronzate!» urlò lui. «A lei non è mai importato niente di me! L’essenziale era che la aiutassi a compiere quel cazzo di rituale, a qualunque costo!»
«Mi dispiace» riuscì a dire Solomon, con enorme fatica. «Avrei voluto che ci fosse un altro modo.»
Jim lo guardò con disprezzo. «Cazzo, è proprio vero che ha imparato tutto da lei.»
«Chi..?»
«Lucindra» ringhiò Jim. «O Lucia... o come accidenti la chiamava!»
Solomon sbiancò, mentre il senso di colpa veniva divorato dal panico. «Sei andato a cercarla? Da solo, nel Vuoto? Come hai potuto fare una cosa tanto sconsiderata!?»
«Perché avevo bisogno di sapere!» sbottò Jim, furente. «E adesso so tutto: che era sua allieva, dei vostri esperimenti sul Vuoto, del piano per rovesciare Arcanta. Di come alla fine lei l’abbia tradita permettendo ai Decani di portarle via Caliban. E vuole ancora farmi credere di essere il “buono” della situazione?»
Solomon contrasse le dita attorno all’orologio con tale forza che vide le nocche perdere colore.
«Questo non l’ho mai pensato. Non ho il potere di cancellare il passato, gli errori che ho commesso con Lucia. Lei per me era importante, credimi. Eravamo collaboratori, amici e…»
«Amanti?»
Lui sospirò e annuì. «Per molto tempo abbiamo avuto l’un l’altra e basta: eravamo soli, in un mondo che reputavamo deludente, circondati dalla mediocrità. E questo ha fatto sì che lei vedesse in me aspetti che nemmeno io conoscevo.»
«O forse, l’ha vista per ciò che è realmente» ribatté Jim, freddo.
«È possibile» mormorò lui. «L’ho condotta verso l’Oscurità, ma non farò lo stesso con te: ti sto proteggendo dai Decani e dagli Zeloti e per quanto mi è stato possibile ho esteso questa protezione ai tuoi amici del circo. Ti ho insegnato a combattere, a rafforzare la tua Volontà ed è grazie a questo se finora hai resistito al richiamo del Vuoto. Ho messo a repentaglio il mio onore, la mia vita e quella di Alycia perché ho scelto di credere in te. Perciò, per quanto mi disprezzi, ho bisogno che adesso tu faccia altrettanto.»
Jim ricambiò lo sguardo con espressione torva.
«Be’ sono spiacente di doverle dare una delusione: anche se ha ottenuto un Plasmavuoto, il suo piano è irrealizzabile.»
«Di cosa stai parlando?»
«Lei che sa tutto non sa questo?» Le labbra di Jim accennarono un sorriso sghembo. «Lucindra ha anticipato le sue mosse dal principio: nel momento stesso in cui apriremo il portale mi userà per evocare il Vuoto sulla Terra.»
Solomon lo ascoltava, ma non riusciva a realizzare cosa stesse dicendo. «No, questo è impossibile.»
«Ha creato la sua nemesi perfetta e si meraviglia di essere stato battuto al suo stesso gioco?»
«Lucia non ha i mezzi per compiere una cosa del genere!» ribatté Solomon, ma avrebbe voluto che la sua voce suonasse più convinta. «Non senza il Corpus Vacui di Farabi ed è stato distrutto anni fa...!»
«Non ha pensato che forse la sta sottovalutando?» obiettò il ragazzo, che sembrava trarre una certa soddisfazione nel vederlo così pieno di incertezze. Lui, che era l’arroganza fatta a persona. «Ho visto con i miei occhi di cosa è capace e mi creda, non c’è niente che lei possa fare per fermarla. Sacrificherà i Mancanti, tutti i Mancanti, dal primo all’ultimo. Oh, ma questo già lo sa, no? Dopotutto, era il suo progetto!»
«Erano solo teorie» disse Solomon nervosamente. «È vero, Lucia e io stavamo cercando un incantesimo che riportasse la magia nel mondo...ma una volta scoperto quale prezzo fosse richiesto rinunciai all’idea...»
«Evidentemente, lei non ci ha rinunciato.»
Solomon si passò una mano tra i capelli, all’affannosa ricerca di un appiglio, di un barlume di speranza. Si vide di nuovo davanti alla specchiera, vide l’immagine nel riflesso ricoprirsi di crepe, andare in mille pezzi. Il progetto a cui aveva lavorato per anni, l’obiettivo che aveva inseguito con tutto se stesso dalla scomparsa di Isabel era stato spazzato via in un istante...
«Troveremo un modo» disse poi, con tutta la convinzione che riuscì a trovare dentro di sé. «Possiamo affrontarla, Jim, ma è fondamentale che rimaniamo uniti: tu sei più potente di lei, puoi sconfiggerla ma ti occorrerà il mio aiuto...»
«No, invece, non posso» replicò lui, trattenendo un brivido. La sua mano corse a toccare la spalla sinistra, come se avesse ricevuto una fitta. «Ci ho provato e sono vivo per miracolo.»
«Devi avere fiducia in me, se continuiamo a provare...»
Jim assunse un’espressione disgustata. «Rischierebbe sul serio di sacrificare milioni di vite per riavere sua moglie?»
«E quello che io ho sacrificato?» esclamò Solomon, sopraffatto dalla disperazione. «Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che ho fatto, che ho perso!»
Jim lo fissò per un lungo momento, nello sguardo qualcosa di peggio della collera, peggio della delusione: qualcosa di simile alla pietà. «Addio, signor Blake.»
Issò in spalla un grosso zaino che teneva nascosto sotto la sedia e si mosse verso l’uscita, ma Solomon gli si parò davanti.
«Non posso lasciarti andare.»
Wiglaf si alzò in volo, le ali bianche che spostavano l’aria mentre compiva ampi cerchi sulle loro teste. Jim si fermò.
«Me lo impedirà?»
«Sì, se devo.»
Il guizzo di paura che Solomon vide balenare nei suoi occhi lo fece vergognare di sé. «Aveva detto che non mi avrebbe costretto a fare qualcosa contro la mia volontà.»
«Non sono tuo nemico, Jim» rispose Solomon. «Urla, insultami, radi al suolo questa casa se vuoi. Ma per favore, resta.»
Jim chiuse i pugni contro il corpo, e dal ribollire della sua aura, Solomon intuì che in lui stesse infuriando una lotta: desiderava scagliargli contro la propria furia ma, nonostante tutto, sotto le nubi burrascose della collera, c’era un ragazzo ferito che continuava a desiderare solo la sua approvazione.
Ma poi percepì qualcos’altro, qualcosa di viscido e freddo, che dal buio più profondo stava strisciando verso la superficie…
Wiglaf avvertì la minaccia prima di lui. Con un grido, allargò gli artigli e si tuffò in picchiata verso Jim.
Il ragazzo sollevò le mani, Solomon reagì di riflesso.
Gli incantesimi partiti da entrambe le parti si scontrarono con la potenza di due treni in collisione e l’onda d’urto che ne scaturì fece esplodere i vetri di ogni finestra e tremare il pavimento sotto i loro piedi.
Solomon ebbe l’impressione che una barriera invisibile fosse andata in frantumi, lasciandolo allo scoperto, totalmente nudo e indifeso:
 
Un dolore straziante gli toglie il respiro. Ha quattordici anni e il corpo in decomposizione di suo fratello penzola nel vento, appeso per il collo al ramo di un albero...ora è in casa dei suoi genitori, nascosto dentro un ripostiglio; Wiglaf gli tocca le guance salate di lacrime col becco, mentre lui si sforza di trattenere i singhiozzi e cerca di mettere insieme i frammenti di osso del polso, che suo padre gli ha spezzato in uno dei soliti scatti di rabbia. Passano gli anni, così tanti che perde il conto...anni di battaglie e di inganni, sempre per compiacere loro, i Decani. Anni passati ad affinare le sue conoscenze, per dimostrare di essere il migliore. Di essere degno di rispetto e non più solo “l’altro”, l’eterna seconda scelta...
Poi è arrivata Lei, morbidi capelli rossi e una mente brillante...Lei lo capisce, sa cosa significhi sentirsi abbandonati e incompresi...ed è la presunzione di essere destinati a qualcosa di meglio, di essere al di sopra di ogni regola a unirli...ma non possono stare insieme, ci sono altri progetti in serbo per lui...un matrimonio conveniente, una posizione rispettabile, tutto per arrivare a loro, ai Decani, più in alto di quanto qualunque altro Blake si sia spinto...ma c’è una falla nel piano, qualcosa che non aveva previsto: non ha messo in conto di innamorarsi della donna che ha sposato. Di desiderare qualcosa di più del potere, una vita semplice insieme a lei e magari una vera famiglia...il pianto di un bambino...no, una bambina. È sua figlia! Un amore incontenibile lo pervade, non crede di aver mai provato niente di simile. È qualcosa per cui vale la pena vivere e cambiare...sì, vuole davvero cambiare, vuole essere migliore...ma loro non glielo permetteranno...hanno scoperto i suoi piani... sarà condannato a rinunciare a ciò che ama, ora che la sua vita ha finalmente trovato un senso...non può permetterlo. Non può perdere la sua famiglia, anche se gli costerà dover tradire un’amica...
basta!
Un ruggito gli riempì la testa e il flusso di ricordi si arrestò di colpo. Jim fu sbalzato all’indietro e cadde a terra. Gemette e si rimise faticosamente in piedi, ma non appena provò a muoversi, qualcosa lo immobilizzò. Guardò in basso: sul pavimento di legno scintillava un cerchio di rune infuocate di energia azzurra.
«Fammi uscire!» gridò con voce corrosa dalla rabbia, mentre lottava per liberarsi. «Fammi uscire e affrontami, vigliacco!»
«Mi dispiace, Jim» ripeté Solomon le mani sollevate e le dita contratte. Aveva il respiro corto. «È per il tuo bene.»
Il ragazzo sollevò la testa, ansimando forte. La sua vista era colma di oscurità.
«Nessun mortale può imprigionare il Vuoto, Sol.»
Il cuore di Solomon perse un battito. «Lucia...»
Un’Onda oscura si levò dal petto di Jim e si abbatté sul cerchio di rune, soffocandone la luce nelle sue spire. Lo stregone barcollò, sentì l’incantesimo di contenimento spezzarsi.
«No...»
L’Onda rotolò inarrestabile verso di lui; ronzava e crepitava come uno sciame di insetti, zampe e ali che sbattevano fameliche.
Un boato improvviso, un dolore lanciante alla testa. Un lampo di luce bianca. Poi tutto si spense.
 
 
Jim riemerse dall’oscurità boccheggiando. Il nodo di cicatrici sulla spalla pulsava ancora, ma in modo più lieve rispetto a pochi istanti fa; come un animale ridestato improvvisamente, aveva ripreso a sonnecchiare rimanendo tuttavia vigile.
Intorno a lui regnava il caos: crepe profonde percorrevano le pareti fino all’affresco sul soffitto, le belle librerie colme di libri antichi erano quasi del tutto svuotate e cumuli di carta, schegge di vetro e frammenti di legno ricoprivano ogni centimetro del pavimento in parquet.
Jim respirava appena e sentiva il corpo attraversato dalle vertigini. Poi i suoi occhi si posarono su Blake.
Era in mezzo ai suoi tesori di carta e inchiostro, le braccia spalancate come una bambola, la testa che ciondolava inerte su un lato e un rivolo di sangue nero scorreva tra i ricci scompigliati, lungo la tempia. Wiglaf gli volteggiava sopra in giri agitati, gracchiando piano.
Che cosa ho fatto?
Indietreggiò, agghiacciato.
Che cosa ho fatto che cosa ho fatto che cosa ho fatto...?
Lasciò la stanza e scese le scale di corsa, finché non fu nell’atrio deserto. Spalancò la porta d’ingresso e uscì sul prato, proprio mentre gli alberi venivano illuminati da un lampo accecante.
Il ragazzo rimase immobile per alcuni istanti sotto la pioggia scrosciante e sollevò lentamente lo sguardo sulla magione che per mesi era stata la sua casa. L’ennesima che era costretto a lasciare.
Trattenne a stento le lacrime, dopodiché usò il salto e sparì nel nulla.

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Capitolo 40
*** La soffiata ***



LA SOFFIATA


 


 

L’Arboreto del Parnaso era un’oasi di pace nel cuore di Arcanta; un paradiso rigoglioso, popolato da ogni specie umanamente conosciuta di alberi, fiori, arbusti e piante acquatiche, distribuite su varie Terrazze che ricreavano in maniera artificiale il loro habitat nel Mondo Esterno. Ruscelli, cascate e stagni rendevano ancora più piacevole percorrerne i sentieri coperti di ghiaia, oppure sedere all’ombra, meglio ancora se con un libro a portata di mano.
Il posto preferito di Alycia era sempre stato il Terrazzo Giapponese: un manto di muschio verde e rocce, dove regnavano le forme essenziali e i contrasti. Ogni elemento del Tutto era in perfetto equilibrio, nessuno prevaricava sull’altro, così come lo era nell’alchimia e come doveva essere stato un tempo anche nel Mondo Esterno.
Alycia era affacciata al parapetto di un ponte rosso ad arco, sospeso su un laghetto delimitato da rocce e giunchi; guardava il suo riflesso tra i fiori di loto bianchi che fluttuavano sullo specchio d’acqua artificiale e ripensava a quanto era stata stupida a illudersi di poter cambiare le cose alla Cittadella. Che bastassero lo studio e la determinazione per invertire la direzione di una ruota che da secoli girava sempre e solo nello stesso verso.
Si lasciò sfuggire un sospiro tetro. Quale destino poteva aspettarsi alla fine? Lo stesso di altre centinaia di donne: seguire il percorso che era stato tracciato per lei dal momento in cui era venuta al mondo. Rimanere per sempre là, a galleggiare nella stessa acqua priva di corrente come quei fiori di loto, il cui unico scopo era di mantenersi graziosi alla vista, ancorati saldamente al letto dello stagno in cui erano nati. Una vita tranquilla, senza affanni, senza pericoli e senza stimoli...
“Fa sempre piacere che una giovane donna trovi qualcuno che si prenda cura di lei.”
Alycia aggrottò la fronte. Estrasse dalla tasca della tunica un sasso liscio e rotondo raccolto dal sentiero e lo scagliò con forza nell’acqua immobile dello stagno, dando vita a una spirale di increspature.
Ripensare a quelle parole le faceva ribollire il sangue. Nessuno si era mai preso cura di lei: sua madre era morta prima che avesse imparato a pronunciare il suo nome, suo padre aveva sempre avuto ben altro per la testa che occuparsi di lei. Era entrata nella Corte delle Lame, aveva imparato a combattere e a evocare potenti magie. Aveva iniziato a studiare complessi manuali di alchimia senza che nessuno la aiutasse. Insomma, aveva sempre provveduto a se stessa e, accidenti, pensava di averlo anche fatto discretamente!
Aveva sul serio bisogno di un marito? Di qualcuno che le dicesse cosa fare e cosa non fare? Di protezione?
No. Non si sarebbe data per vinta così facilmente. Avrebbe ripreso il controllo sulla propria vita, anche a costo di tornare alla Cittadella e costringere il Primo Alchimista a darle l’occasione che si meritava. Lui non la conosceva, non aveva idea di cosa fosse capace...
Lascio il ponticello decisa a tornare al Cerchio d’Oro sul piede di guerra. Octavio l’avrebbe di sicuro accolta berciando come una gallina, visto che non aveva ancora cucinato nulla per il pranzo di compleanno del Maestro Rashid, ma non le importava. Gli avrebbe cucito la bocca con una fattura se necessario.
Attraversò una galleria di ferro battuto ammantata da rose selvatiche e nel frattempo ripeté nella mente il discorso che aveva intenzione di fare al Primo Alchimista. Era sempre stata una persona dedita all’azione, ma suo padre le aveva detto un sacco di volte che le parole avevano un potere e se scelte con cura potevano aprire qualunque porta...
Oltrepassato il roseto, con la coda dell’occhio distinse una figura che stonava nella vegetazione tropicale col suo cappotto ornato di pelliccia argentea.
Boris Volkov si trovava ai piedi di una gigantesca statua avvolta nelle rampicanti, che raffigurava uno dei Tre Fondatori, Tolomeo il Difensore, riconoscibile dal volto imberbe, dagli occhi infossati e dallo spadone impugnato a due mani; secondo una delle numerose leggende che circolavano sull’epoca della Fondazione, era stato lui a creare la Corte delle Lame, per insegnare ai maghi e alle maghe a difendersi dalle angherie del Mondo Esterno.
Volkov tamburellava le dita sulla testa di lupo d’argento sull’impugnatura del bastone da passeggio e lanciava occhiate nervose in giro, come se stesse aspettando qualcosa. O qualcuno.
Alla vista del maestro, Alycia sentì di nuovo montare la rabbia. Era anche colpa sua se il Cerchio d’Oro aveva trovato un pretesto per tagliarla fuori. Se non avesse sparso la voce di quella ridicola proposta di matrimonio forse a quell’ora sarebbe stata in laboratorio a occuparsi della sua pianta e non a piangersi addosso al Parnaso...
Due paroline se le meritava anche lui.
Mosse un paio di passi decisi in sua direzione, ma si fermò di colpo quando vide giungere la persona che Volkov stava aspettando.
L’Inquisitore Tibor Blackthorn.
«Mi auguro che tu mi abbia scomodato per una buona ragione stavolta, Volkov» esordì, con quella sua voce fredda e impersonale che aveva il potere di far annodare lo stomaco a chiunque. «Finora mi hai solo fatto perdere tempo: ho acconsentito a darti il supporto della stampa, ti ho persino lasciato organizzare quella buffonata della Disputa per smascherare Blake e il suo apprendista e hai ottenuto solo buchi nell’acqua.»
«Vi assicuro che questa volta ne varrà la pena.»
Un brutto presentimento si insinuò nel petto di Alycia, che si avvicinò di soppiatto e si acquattò dietro un cespuglio di rododendri, pronta a origliare tutto.
«Lo dici tutte le volte» borbottò l’altro con impazienza. «Non intendo stare qui ad ascoltare l’ennesimo delirio senza capo né coda sul tuo rivale.»
L’Arcistregone del Nord non disse nulla ma mostrò il palmo aperto su cui Alycia vide scintillare una piccola fede d’oro. L’Inquisitore aggrottò la fronte e si avvicinò.
Volkov lanciò in aria la fede come fosse una monetina, solo che invece di ricadere verso il basso rimase sospesa in aria, ruotando piano. Poi l’anello cominciò a dissolversi in una scia rosa chiaro, che formò un cerchio fumoso sopra le loro teste. E dal cerchio, risuonò forte e piena di astio la voce di Jim Doherty:
«Tu sapevi che l’Inquisitore Blackthorn è mio nonno?»
Alycia trattenne il fiato dalla sorpresa e non fu l’unica ad avere quella reazione. Anche Blackthorn si tese, colto alla sprovvista.
«Poco fa ho dovuto sorbirmi la storia di come abbia punito mia madre per essersi innamorata di un Mancante. Per poco non mi ha anche riconosciuto...»
«Il bastardo Cavendish» mormorò tra sé il Decano. «Allora avevo ragione, la somiglianza era impressionante...»
«Ne sei sicuro?» rispose quella che era inequivocabilmente la voce di Alycia. La ragazza non sapeva cosa pensare. Non aveva mai avuto quella conversazione con Jim, di questo era sicura. A meno che...
«Un’adepta della Corte dei Sussurri si è occupata di estorcergli l’informazione»
spiegò Volkov, dando conferma ai peggiori timori di Alycia. «Si è spacciata per
una persona di cui il ragazzo si fidava e lui ha ammesso tutto. Compreso il coinvolgimento del suo maestro, Solomon Blake.»
«Lui lo sa. Tuo padre...figuriamoci, lui sa sempre tutto! Fa sempre così, non è vero? Sparge briciole di verità per tenerti buono e convincerti a fare il cazzo che vuole lui! Scommetto che l’ha fatto anche con te quando ti ha detto che sono un Plasmavuoto!»
No! Alycia si premette la mano sulla bocca, per costringere l’urlo che aveva in gola a restarsene lì.
Anche Blackthorn pareva sconvolto. Continuava a fissare il cerchio di fumo a bocca aperta, come se non riuscisse a capacitarsi di quello che stava ascoltando.
«Io sono un’arma. Sono sempre stato un’arma, Alycia. Prima ero l’arma dell’Eretica e adesso sono quella di Solomon Blake.»
«Può bastare.»
Blackthorn fece un cenno con la mano e Volkov lasciò che il cerchio di fumo si dissolvesse e la fede d’oro tornasse dentro il suo pugno.
«Mi sono preso la libertà di riunire dieci dei miei Evocatori migliori» lo informò in tono pragmatico, intascando l’anello. «Basta una vostra parola e saremo da Blake in un attimo. So dove si nasconde, è da tempo ormai che lo tengo d’occhio.»
A quelle parole, Alycia trattenne un gemito. Certo che lo sapeva. Era stata lei a riferirglielo, questo e molto altro ancora.
Blackthorn però sembrava ascoltarlo solo in parte, lo sguardo fisso sulla statua del Fondatore.
«Tutto a causa di mia figlia» mormorava, muovendo appena le labbra e scuotendo la testa. «Il sangue del mio sangue...alla fine è riuscita a rovinarmi: il mio nome sarà coperto di vergogna fino alla fine dei tempi.»
«Eminenza» disse Volkov a bassa voce. «Vi assicuro che la vostra parentela con il Plasmavuoto non diventerà di pubblico dominio. Ho tutto l’interesse nel preservare la dignità del Decanato e nessuno più di me è grato per i vostri sforzi di proteggere Arcanta...»
«Già» mormorò Blackthorn distrattamente. «I miei sforzi.»
«Il mio unico interesse è servire la Cittadella» assicurò Volkov, zelante. «La Legge di Arcanta è sacra, per questo mi sono rivolto a voi. Sono certo che converrete con me sull’urgenza di sbarazzarci una volta per tutte di Lucindra Sforza e dei suoi sostenitori.»
«Assolutamente.» L’Inquisitore si rivolse a guardarlo con espressione dura. «Farai meglio a risolvere questa faccenda il prima possibile. È già un tale scandalo che Blake abbia portato qui il ragazzo e che sia stato per tutto questo tempo sotto il naso del Decanato!»
Congiunse le mani dietro la schiena, ergendosi in tutta la sua altezza. «La Corte delle Lame ha carta bianca. Confido che vi sbarazziate al più presto dell’Eretica e della sua abominevole creatura prima che l’informazione raggiunga gli altri Decani e soprattutto la stampa: il nostro popolo ha patito abbastanza ed è meglio che resti all’oscuro.»
Volkov rivolse all’Inquisitore un profondo inchino. «Agirò con la massima discrezione.» Dopodiché, gli scoccò uno sguardo da sotto in su. «E quanto a Blake?»
«Giusto.» Le labbra sottili e rugose del Decano si curvarono in un sorriso macabro. «Hai diritto a una ricompensa, immagino. Se dovesse - come suppongo farà - opporre resistenza e disgraziatamente gli capitasse qualcosa...sono certo di poter convincere la Cittadella a passarci sopra: per quanto sia amato ad Arcanta, l’erba cattiva resterà sempre erba cattiva e va estirpata alla radice.»
«Sarà fatto.»
Alycia strinse spasmodicamente le dita per mettere fine ai tremori, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non saltar fuori e scagliare contro quei due un anatema. Attese pazientemente finché non fu certa che entrambi fossero lontani, dopodiché uscì dal suo nascondiglio. Se prima aveva dei dubbi, adesso sapeva esattamente cosa fare. E doveva farlo in fretta.
 
 
Una brezza gelida le scompigliò i capelli, quando giunse di fronte alle imponenti porte di quercia della Corte delle Lame.
Il castello incombeva minaccioso, una composizione ordinata di linee dure e blocchi squadrati scolpiti nella pietra viva. Per chiunque, quel posto era una roccaforte inespugnabile dove venivano formati guerrieri imbattibili. Per Alycia, era stata il luogo più simile a una casa che avesse avuto dall’età di tredici anni.
Sul timpano del portale erano incise le parole che erano diventate il motto della Corte:
 
SII LA TUA ARMA

Parole dure, che rappresentavano la mentalità dell’Arcistregone del Nord, votata all’onore e al sacrificio. O almeno era quello che Alycia aveva sempre creduto...
Superate le porte, la maga avanzò in un ampio cortile dalle mura scintillanti di ghiaccio, sollevando il bavero di pelliccia del cappotto. Ad Arcanta il normale corso delle stagioni veniva continuamente alterato, uno degli innumerevoli paradossi della Città Nascosta: la Legge imponeva agli stregoni il rispetto degli equilibri del mondo naturale, ciononostante, in città l’aria non era mai troppo calda o troppo fredda, le piogge mai troppo copiose o le estati troppo torride. La falsità laggiù regnava sovrana anche nelle piccole cose e in ogni occasione per gli stregoni era lecito piegare la natura per rendere la vita ad Arcanta il più confortevole possibile.
A modo suo, anche Volkov aveva giocato col clima: alla Corte delle Lame regnava un inverno perenne. Come suo padre, anche Boris era nato e cresciuto nel Mondo Esterno, nelle gelide lande della Siberia e riteneva che niente temprasse il corpo e lo spirito più del freddo, che le eccessive comodità a cui la maggior parte degli abitanti di Arcanta – e soprattutto Solomon Blake – si erano abituati avessero finito col rammollirli.
Il cortile era affollato di giovani discepoli, ragazzi e ragazze compresi tra i quindici e i diciassette anni, impegnati nei loro esercizi quotidiani; erano abbigliati tutti allo stesso modo, con uniformi nere e argentee orlate di pelliccia. La preoccupò non vedere in giro Siegfried e gli altri Evocatori anziani.
L’arrivo di Alycia non passò inosservato e presto un gruppo di ragazzi le fece muro scrutandola con sospetto e con le armi salde in pugno.
«Che sei venuta a fare?» chiese in tono duro un ragazzo di nome Ivan, coi capelli scuri a spazzola, facendosi avanti con un’ascia portata sulla spalla. «Sua altezza si annoia nei suoi lussuosi appartamenti personali alla Cittadella?»
«Devo parlare col maestro.»
«È impegnato.»
«Gli parlerò lo stesso.»
Ivan sollevò il mento, con aria di sfida. «E perché dovrebbe voler parlare con te? Abbiamo sentito quello che si dice sul tuo conto: che sei figlia di un traditore e l’amante di un fuorilegge!»
Alycia sentì subito la rabbia infiammarle le guance, ma non era lì per litigare; quei ragazzini non avevano idea di cosa stesse accadendo in realtà fuori da quel castello, ripetevano solo a pappagallo ciò che sentivano dal maestro.
E pensare che ero proprio come loro...
«Fossi in te sceglierei le prossime parole con saggezza, Ivan» ribatté invece, con voce calma e autorevole. «Ho trascorso abbastanza anni tra queste mura da sapere che qui si rispettano le gerarchie: sono un’alchimista del Cerchio d’Oro e sono un’Evocatrice, un grado sotto l’Arcistregone. E tu farai meglio a stare al tuo posto, discepolo.»
Lui serrò la mascella, ma prima che riaprisse bocca per ribattere, un ragazzino pallido coi capelli rossi lo anticipò con una vocina remissiva: «Il maestro è nella Sala della Guerra. Con Siegfried, Magnus, Thor e gli altri Evocatori: si stanno preparando a partire.»
Un brivido le corse dietro la schiena, ma Alycia rispose con un composto cenno del capo e un garbato: «Ti ringrazio, Misha. Ora, se volete scusarmi.»
Il gruppo si aprì per cederle il passo mentre entrava nella fortezza.
Quante volte aveva percorso quei corridoi! Quante volte si era esercitata in quelle sale, patendo il freddo in silenzio, imparando da sola a rigenerare tagli e lividi. Quante volte aveva ripetuto a se stessa che solo laggiù avrebbe trovato ciò che aveva sempre cercato: un punto di riferimento incrollabile, una famiglia che non l’avrebbe abbandonata, un mentore a cui offrire devozione e rispetto. Una strada giusta da seguire, uno scopo nobile e onorevole in un mondo dominato da corruzione e falsità...
Che idiota era stata.
A dispetto del nome altisonante, la Sala della Guerra era solo l’aula dove ci si riuniva per consumare frugali cene a base di pane di segale e aringhe e ascoltare i discorsi d’apertura dell’anno accademico: una lunga stanza di pietra illuminata con scarso successo da bracieri e lampadari in corna di alce, provvista di panche di legno rivolte verso un solido scranno di roccia spigolosa. Lungo le pareti della navata erano allineate le statue degli Arcistregoni del Nord che si erano susseguiti nei secoli; la prima apparteneva a Tolomeo il Difensore, le ultime erano quelle di Fenrir Sigurðsson e dello stesso Boris Volkov.
Il maestro era là, attorniato da una decina di Evocatori alti e ben piazzati e stava impartendo loro istruzioni su come tendere un agguato a suo padre:
«Dovete essere pronti a tutto» lo sentì borbottare, mentre metteva in guardia i suoi allievi. «Blake è un infido ingannatore: cercherà di confondervi, di mettervi gli uni contro gli altri, di corrompervi. E quando meno ve lo aspettate, vi salterà alla gola come un serpente!»
«Oppure» intervenne Alycia, ferma all’ingresso della sala. «Vi inviterà semplicemente a prendere una tazza di tè e proverà a farvi ragionare.»
Tutti i presenti si volsero in sua direzione.
«Alycia!» esclamò Volkov. Dopo un iniziale momento di incertezza, si schiarì la gola e proseguì con voce controllata: «Sono desolato, mia cara, ma abbiamo degli ordini da eseguire.»
«Uccidere un uomo in casa propria sulla base di un’informazione estorta a un ragazzo con l’inganno» disse Alycia, trattenendo a stento la collera. «Credevo che alla Corte delle Lame si educassero guerrieri, non sicari.»
«Fatti da parte, Blake» intervenne Siegfried, ciondolando in avanti con fare minaccioso. «Te lo stiamo chiedendo gentilmente. Anche se sei la figlia di un traditore, resti sempre un valido membro della Corte delle Lame.»
La ragazza rimase immobile, le mani dietro la schiena, fissandoli con uno sguardo di fuoco. «Temo di non poterlo fare.»
«Sai che agiamo per il bene della Città» replicò Volkov, che malgrado il tono autoritario faceva di tutto per evitare di guardarla. «Tuo padre è una minaccia e il mostro che sta proteggendo...»
«Jim è una persona» sibilò Alycia, indignata. «Un ragazzo, esattamente come quelli che sono in questa stanza. Per quale motivo non dovrebbe avere diritto a un processo? Alla possibilità di difendersi? Credevo che la Legge avesse lo scopo di renderci migliori dei Mancanti! Di non commettere i loro errori!»
«Ci sono casi in cui la Legge non è sufficiente!» replicò Volkov con voce rauca. «Non se è in gioco la vita delle persone a cui teniamo. Capisco che tu sia sconvolta, che si tratti di tuo padre ma...»
«Quello che ho capito» disse Alycia freddamente. «È che ciò che ho sempre creduto fosse giustizia in realtà non era altro che rancore e desiderio di vendetta.»
«Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per proteggerti, Alycia, per evitarti tutto questo...»
Alycia assottigliò gli occhi. «Anche volermi sposare per impedirmi di diventare alchimista?»
L’espressione di Volkov rimase d’acciaio, ma nel suo sguardo lei fu sicura di aver colto un fremito di imbarazzo. «Sì, anche quello. Il mio unico desiderio è potermi prendere cura di te, non lascerò che tuo padre ti trascini nell’oscurità come ha fatto con tua madre...»
Si interruppe, guardandosi attorno con aria confusa. Da qualche parte aveva iniziato a giungere della musica: uno scoppiettante motivo di ottoni, pianoforte e contrabbasso…
Anche gli altri allievi esaminarono l’ambiente con circospezione, non riuscendo a capire da dove provenisse quella musica. Sembrava generata dalle stesse pareti della fortezza.
«Che diavoleria è questa?» ringhiò Siegfried. Roteò le mani ed evocò una luminosa, lunga spada vibrante di energia rossa. «Che cosa stai facendo?»
Alycia non si mosse di un millimetro, mentre attorno la musica continuava ad aumentare. «Io non ho bisogno che qualcuno si prenda cura di me.»
Con un gesto fulmineo, gettò in aria un’ampolla contenente un liquido verde acido, che si infranse sul pavimento di pietra. Gli Evocatori si immobilizzarono, sbalorditi.
«Attenti!»
Ci fu una piccola esplosione, che riempì la sala di una fitta nube verde e maleodorante. Volkov, Siegfried e i suoi compagni si ritrovarono attorniati da quella nuvola tossica e presero a lacrimare e ad annaspare, la pelle che si ricopriva di escoriazioni pruriginose. Alycia ne approfittò e corse via.
«Prendetela!»
Siegfried e diversi altri compagni riuscirono a emergere dalla nube, tossendo e schermandosi il viso con il braccio, e si diedero all’inseguimento.
«Blake, maledizione! Fermati!»
La ragazza continuò a correre, gli stregoni che la seguivano a ruota. Sentì sibilare gli incantesimi dietro di sé, un paio così vicini da avvertire l’odore dei propri capelli bruciati.
Ma all’improvviso, l’intera fortezza fu attraversata da un violento scossone e gli stregoni della Corte delle Lame rallentarono, allarmati.
Poi, da dietro l’angolo, spuntò qualcosa: un’onda verde di rami selvaggi invase ogni centimetro del pavimento, travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul suo percorso. Gli apprendisti ulularono di sorpresa e si diedero alla fuga in direzione opposta, prima di essere fagocitati dall’Anthea Ingannatrice, cresciuta a dismisura. Le ramificazioni occuparono l’intero corridoio, fino al soffitto, debordarono oltre il parapetto delle finestre, per gettarsi lungo le pareti di pietra della fortezza.
Siegfried mulinò la lama incantata, falciando i tentacoli verdi per farsi strada in quella giungla; sollevò una mano e un’esplosione di fiamme incenerì foglie, radici e fiori viola dai pistilli rossi.
Alycia non perse tempo: afferrò saldamente una delle rampicanti con entrambe le mani, saltò fuori da una finestra e si lasciò trasportare dai rami lungo le mura.
Una piccola folla di ragazzi si era radunata in cortile, indicando impressionati l’immensa pianta che aveva ormai quasi interamente inghiottito un’ala della Corte e parte della torre nord.
Alycia atterrò davanti ai suoi ex compagni sconvolti.
«Che cosa hai fatto?» Una ragazza coi capelli biondi raccolti in treccine puntò contro di lei l’arco incoccato. «Fermati, in nome dei Fondatori!»
Molti altri seguirono il suo esempio e sguainarono le proprie armi.
In quell’istante, un’ombra calò sul piazzale e tutti sollevarono gli occhi al cielo. Un velodrago verde smeraldo piombò in mezzo al cortile, generando un turbine di vento e ghiaccio con le enormi ali. Poi spalancò le fauci irte di zanne ed emise un possente ruggito e i ragazzi arretrarono istantaneamente, reggendo le loro armi con poca convinzione.
Alycia invece corse verso la viverna e vi montò in groppa, sicura che nessuno di loro avrebbe cercato di fermarla. Dopotutto, aver trascorso giorni a fare da sguattera a Octavio aveva avuto i suoi vantaggi: introdursi nel suo ufficio con la scusa di dover fare pulizie, accedere ai formulari delle Rune di Sottomissione che controllavano ciascun velodrago di Arcanta e cancellarne una non era stato difficile. E non lo era stato nemmeno intrufolarsi nelle scuderie ed esercitare la malia per convincere il velodrago liberato a seguirla. Lo era stato un po’ di più rubare una manciata di semi di Anthea Ingannatrice dalle serre...
«Alycia!»
Era Volkov. Lo vide arrivare di corsa seguito da tre dei suoi Evocatori; anche se erano riusciti a sfuggire ai tentacoli dell’Anthea, non se la passavano troppo bene, i volti e le braccia ricoperti di lividi, graffi e pustole purulente.
«Non fare sciocchezze» ansimò l’Arcistregone del Nord. «Tu sei migliore di tuo padre, non gettare la tua vita come ha fatto lui!»
Alycia serrò le dita attorno agli spuntoni sul dorso del velodrago.
«Hai ragione» disse, ricambiando con forza lo sguardo del maestro. «Non sono mio padre, ma non sarò nemmeno come te: io sono la mia arma e posso decidere da sola cosa è giusto e cosa no.»
Siegfried affiancò Volkov, livido di rabbia, e mulinò l’alabarda di energia rossa pronto ad attaccare, ma il maestro gli fece segno di fermarsi, mentre continuava a guardare Alycia con espressione quasi implorante.
Ma lei voltò loro le spalle e premette la mano nel punto in cui era incisa la Runa di Sottomissione dietro la testa del velodrago, che come lei ormai non era più vincolato alla Cittadella, imprimendovi la propria Volontà. Con un poderoso battito d’ali, la creatura si sollevò in volo e lasciò la Corte, portandola via con sé.
Non si sarebbe guardata indietro, non più. Se questo era quanto di meglio Arcanta aveva da offrirle avrebbe trovato la propria strada altrove.
 

 

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Capitolo 41
*** Un posto tranquillo ***


UN POSTO TRANQUILLO

 

 

Pineville era una piccola città dell’entroterra, situata sul Red River.
Era sorprendentemente graziosa e ben tenuta pensò Jim, mentre girovagava per il centro: una versione in miniatura e meno caotica di New Orleans, con tanto verde, negozi e villette che esponevano con orgoglio la bandiera stelle e strisce. Anzi, forse fin troppo graziosa e ben tenuta per uno che aveva trascorso tutta la notte dentro un puzzolente vagone merci.
La sera prima era saltato sull’ultimo treno in partenza da New Orleans senza fermarsi troppo a riflettere; non aveva molto denaro con sé e doveva razionarlo se voleva lasciare lo Stato e mettere più distanza possibile tra lui e Solomon Blake. Così, aveva sfruttato un incantesimo per rendersi invisibile durante la ronda di ispezione e si era sistemato alla bene e meglio tra i grossi sacchi di iuta pieni di cotone, con l’intenzione di riposare almeno qualche ora.
Tuttavia, il lento dondolio e i cigolii del treno, così familiari alle sue orecchie, lo avevano cullato come un bambino, così aveva finito per risvegliarsi il mattino seguente alla stazione di Pineville.
Non che avesse un’idea precisa su dove andare o su cosa fare, una volta lasciata New Orleans: ormai non c’era più niente che lo trattenesse lì, niente che lo trattenesse in nessun posto, a dire il vero. Avrebbe potuto lasciarsi trasportare oltre il confine seguendo la Northeastern Railroad, scegliere una città a caso e ingegnarsi per trovare un alloggio e un modo per racimolare qualche soldo...
Già...e poi? Era quello il vero problema. Ma decise che ci avrebbe pensato dopo aver trovato qualcosa da mettere nello stomaco.
Entrò in una piccola caffetteria, ma non appena ebbe preso posto si accorse degli sguardi diffidenti degli altri avventori. Sì, decisamente quella cittadina era troppo a modo perché un giovane vagabondo, arrivato da chissà dove e chissà con quali intenzioni, non destasse preoccupazione.
Si decise a levare subito le tende senza ordinare niente appena vide entrare due poliziotti: se avessero iniziato a riempirlo di domande su chi era e cosa ci faceva lì, in quella tranquilla domenica mattina, cosa avrebbe potuto inventarsi? Perché aveva il sospetto che se avesse raccontato la verità, cioè che era uno stregone, che era ricercato da una setta, dall’oligarchia di una città invisibile tra le Alpi svizzere e da una strega malvagia imprigionata dietro gli specchi che voleva scatenare l’Apocalisse, lo avrebbero internato in manicomio.
L’ultima cosa che voleva era essere costretto a usare la magia contro degli ignari Mancanti. Non poteva fermarsi più del necessario.
Fortunatamente, un manifesto indicava la presenza, appena fuori città, di una parrocchia metodista dove venivano offerti pasti caldi ai bisognosi: in quel momento lui era affamato e bisognoso, tanto valeva approfittarne.
Si trattava di una chiesetta di campagna imbiancata, col campanile a punta e un piccolo cimitero sul retro. Nel capanno attiguo era stata allestita una mensa e Jim si mise pazientemente in coda assieme a un folto gruppo di mezzadri, anziani, vedove e un’intera famiglia con una nidiata di ragazzini cenciosi. Quando giunse il suo turno, una signora dalla pelle nera e il sorriso gentile gli consegnò una scodella di riso insieme a un tozzo di pane e gli augurò buon pranzo assieme a un “che Dio ti benedica”.
Se solo sapesse che sta dando da mangiare al Diavolo...
Sedette all’ombra di un pino accanto alla chiesa, da cui proveniva un coro di voci gospel che stava intonando Wade in the Water. Ma una volta messo a tacere lo stomaco, la sua testa fu di nuovo aggredita dai pensieri.
Qual era il prossimo passo? Dove sarebbe andato? Sentiva un peso schiacciante sui polmoni e le lacrime premere in fondo alla gola mentre tornavano a velargli la vista. Se le asciugò con foga: mettersi a piangere non avrebbe cancellato quello che aveva fatto, né gli avrebbe procurato un posto dove stare.
Il primo pensiero era stato tornare da suo padre ad Avalon: erano trascorsi anni, ma magari col tempo avrebbero potuto tornare a essere una famiglia, riprendere da dove la loro vita si era interrotta per colpa di Solomon Blake...
Ma aveva scacciato quell’idea quasi subito: se Blake per una volta aveva detto il vero, non era solo di lui e del Decanato che doveva preoccuparsi: i seguaci di Lucindra erano ancora là fuori, ma non aveva idea di quanti fossero, né di dove si nascondessero...forse per tutto quel tempo erano stati in agguato a New Orleans, in attesa del momento in cui si sarebbe finalmente liberato del controllo dell’Arcistregone dell’Ovest...
Chi gli diceva che non lo avessero già raggiunto a Pineville? Che non lo avrebbero seguito fino in New Jersey? Era così egoista da rischiare di mettere di nuovo in pericolo suo padre?
Ma chi altri avrebbe potuto aiutarlo? Se non poteva più contare su Maurice e Margot, né su Solomon Blake...
Era rimasto solo. Definitivamente stavolta. Lo era sempre stato, solo che prima si rifiutava di ammetterlo: non avrebbe mai avuto una vita normale, non quando di fronte a sé aveva un centinaio di anni da vivere...e non avrebbe potuto raggiungere la sua gente ad Arcanta, che aveva conosciuto di lui solo l’ennesimo inganno architettato dal suo maestro e per cui a conti fatti sarebbe per sempre stato il Nemico...
Ancora una volta gli venne una nostalgia terribile del circo: tra quei tendoni aveva vissuto gli anni più felici della sua vita e non se ne era mai reso conto. Aveva trovato una famiglia, numerosa, pacchiana e disfunzionale, ma in cui nessuno lo aveva mai fatto sentire sbagliato. Ripensò al continuo bisticciare dei gemelli Svanmör, alle battute fuori luogo di Rodrigo, allo spezzatino insipido di Dot; alle imprecazioni colorite di Antonio; alla faccia paonazza di Maurice quando Jim lo mandava fuori dai gangheri e al sorrisetto complice di Margot quando copriva le sue marachelle; pensò ad Arthur, all’ultimo momento che avevano condiviso da veri amici, seduti di notte sul bordo di quel vagone a bere e parlare, prima che Jim decidesse di voltare le spalle a tutto questo per inseguire la magia.
Prima che Solomon Blake arrivasse nella sua vita e come un uragano spazzasse via ogni cosa sul suo cammino. Solomon Blake...che ne era stato di lui? Era davvero morto? Oppure si era già messo sulle sue tracce? Jim continuava a rivedere il corpo disarticolato e privo di sensi dello stregone, nel caos della biblioteca distrutta, fragile e indifeso come non lo aveva mai visto...
Per quanto odiasse l’idea di essere stato manipolato, una parte di Jim non riusciva ad accettare che fosse diventato suo nemico...
La ferita alla spalla sinistra, inflittagli dal mostro creato dalla Magia Vuota di Lucindra, irradiò una scossa improvvisa.
Non ha mai tenuto davvero a te, sibilò una vocina rancorosa nella sua testa. Smettila di rimuginarci sopra: era solo uno stronzo egoista.
Ma era pur sempre il mio maestro.
E tu per lui eri uno strumento!
Non volevo fargli del male. Il rimorso tornò ad assalirlo, così come le lacrime. Avrei dovuto almeno accertarmi che stesse bene...
Sei scappato perché ha cercato di imprigionarti. Se è andata a finire così è perché se l’è cercata..!
«Figliolo, posso disturbarti?»
Jim trasalì. Un uomo anziano, magro, col volto coperto di macchie e rughe, lo stava fissando con uno sguardo che esprimeva solennità, ma anche una sorta di calore rassicurante.
«Ti ho visto qui seduto al fresco e mi sono detto: “ha due braccia giovani e l’aria riposata, di sicuro non mi dirà di no”.»
«“No” a cosa?»
«Mi serve una spintarella.» L’uomo indicò una vecchia “Tin Lizzy” dalla carrozzeria verde sbiadito ferma sul ciglio della strada. «Ogni tanto fa i capricci, neanche lei è più giovane come una volta!»
Jim acconsentì. L’uomo disse di chiamarsi Richard Foley, frequentatore abituale di quella parrocchia, presso cui lui e sua moglie facevano spesso volontariato.
«Stamattina appena sveglio la signora Foley mi fa: “sai che c’è? Ho fatto così tanta marmellata che c’è da sfamare un esercito! Vedi di portarne un po’ al reverendo Brown» spiegò, mentre sedeva in auto. «Ma se non mi vede tornare penserà che ho lasciato lo Stato con il malloppo!»
Provarono a far partire l’auto a manovella; Richard sedette al volante e manovrò la leva di avviamento, mentre Jim girava la barra di metallo con tutta la forza che aveva.
«Occhio a non romperti il braccio» lo avvertì il vecchio.
Jim impartì un paio di altri giri, ma la manovella scattò nella direzione opposta all’improvviso, e il ragazzo ebbe appena il tempo di saltare all’indietro per non essere colpito in pieno. L’auto ruttò e tossì, poi però tacque del tutto.
«Ho paura che il motore sia andato» ansimò Jim, notando che dal radiatore fuoriuscivano fili di fumo. «Le conviene far venire un carro attrezzi.»
«Ma porc...Oggi è pure domenica! Non troverò mai un meccanico aperto.»
Jim esitò. «Ehm, posso darle un’occhiata io.»
«Te ne intendi di auto?»
«Un pochino» mentì lui spudoratamente.
I lineamenti spigolosi di Richard si aprirono in un sorriso enorme. «Deve essere il mio giorno fortunato! Prego, è tutta tua!»
Aperto il cofano ed esaminato il contenuto, Jim gli chiese di allontanarsi di qualche passo, per motivi di sicurezza.
«Sei tu l’esperto!» si limitò a brontolare Richard.
Jim tornò a fissare la matassa di cavi, tubi e altre componenti a lui del tutto sconosciute, poi agitò le dita ed evocò un incantesimo. «Fatto. Provi adesso.»
Un po’ scettico, Richard riprovò ad azionare la leva di avviamento. Questa volta, il motore si mise a fare le fusa, pronto alla partenza.
«Accidenti, ragazzo» commentò, impressionato. «Sei un mago per caso?»
Jim sogghignò, fingendo di pulirsi le mani dal grasso. «Qualcosa del genere.»
«Come minimo mi toccherà riempirti di marmellate ora.» Si grattò la testa, pensieroso, e poi aggiunse: «Anzi, ti faccio una proposta: alla fattoria ho un trattore fermo da settimane. Io non mi azzardo a metterci mano, era mio figlio che se ne occupava prima...faresti questa tua magia anche con lui?»
Lo hai imbrogliato abbastanza, non accettare. «Ecco, io...»
«Come ti chiami?»
«Ji...» fece lui di getto, ma subito dopo ci ripensò: se della gente pericolosa lo stava cercando non conveniva diffondere il suo nome con leggerezza: «Arthur. Arthur King.»
«Ti offro la cena, Arthur. Più una tinozza d’acqua calda e un letto pulito per stanotte. Mi sembra che non te la stia passando troppo bene, è così?»
Jim arrossì. «Sissignore.»
«Allora è perfetto, no? Sali forza, non è molto distante.»
Jim era combattuto: si era guadagnato la fiducia di quel tipo con un trucco, ma del resto, la prospettiva di tornare a dormire in un vagone non lo allettava nemmeno un po’...
«Ok, la ringrazio.»
La piccola fattoria di Richard gli ricordò dolorosamente quella di suo padre in New Jersey: un cortile spettinato, un capanno, galline panciute che scorrazzavano per l’aia e il bestiame che sbuffava nella stalla. Sotto il portico di legno li attendeva una donna minuscola, nera e rotonda: «Alla buonora!»
«La vecchia Lizzy ne ha combinata una delle sue» replicò Richard come se stesse raccontando le bricconate di un nipotino. «Ma le marmellate sono arrivate a destinazione, non preoccuparti.»
La donna però guardò oltre, all’indirizzo di Jim. «Abbiamo ospiti?»
Richard tolse il cappello mentre entrava in casa. «Arthur ci darà una mano col trattore, è una specie di mago dei motori! Senza di lui sarei rimasto a piedi.»
«Ah sì?» La donna misurò Jim dalla testa ai piedi e il cipiglio sospettoso. «Buono a sapersi: da quando è arrivato quel vecchio catorcio ci ha portato solo rogne e sta sempre in mezzo ai piedi!»
«Un po’ come sua madre» ridacchiò Richard, precedendolo nel capanno. Una volta esaminato il trattore, Jim gli chiese, sempre per motivi di sicurezza, se poteva lasciarlo lavorare da solo.
«Un momento!» disse Richard, mentre Jim lo chiudeva fuori.
«Non si preoccupi, è in ottime mani...»
«Certo, certo.» Richard gli rivolse un sorriso sghembo. «Ma forse ti può essere utile una chiave inglese, che ne pensi? O preferisci smontarlo a mani nude?»
«Ah.» Jim avvampò, dandosi dell’idiota. «No, giusto...magari potrebbe prestarmene una.»
Richard gli consegnò la sua cassetta degli attrezzi, poi gli augurò buon lavoro e lo lasciò in pace. Jim sfiorò con le dita il macchinario, che riprese vita in un attimo, borbottando allegramente, ma si trattenne un paio d’ore per dare l’impressione di averci faticato su almeno un po’; distribuì in giro qualche attrezzo, schizzò qua e là olio per motore, dopodiché si sedette al volante e attese.
Sto solo dando una mano, cercò di auto convincersi. Non sto imbrogliando nessuno: non sono come Solomon Blake.
Lui usava la magia esclusivamente per il proprio tornaconto, senza preoccuparsi delle conseguenze su chi gli stava intorno: Jim aveva bisogno di un tetto sopra la testa, era vero, ma almeno non stava ferendo nessuno, anzi. Si stava rendendo utile, cosa importava se lo faceva con mezzi Mancanti o con la magia?
Verso sera, tornò a bussare alla fattoria per annunciare a Richard che il trattore era tornato come nuovo.
«Te l’avevo detto» gongolò il contadino rivolto a sua moglie. «Il nostro incontro è stato una benedizione!»
Invitò subito Jim a entrare, ma la signora Foley lo bloccò sull’uscio: «Benedizione o no, non entrerai nella mia cucina senza aver prima fatto un bagno e tolto quei vestiti sporchi di grasso. Piano di sopra, ultima porta in fondo al corridoio: puoi usare la stanza di Walter.»
Richard le rivolse uno sguardo sorpreso. «Ma...Judith.»
«Cosa? Hai visto quanto è alto, i tuoi vestiti di sicuro non gli stanno» replicò la donna con fare brusco. «E poi, tanto a lui mica dispiace.»
Jim colse il leggero tremore sulle labbra di Richard, prima che borbottasse: «Certo, hai ragione. Usa pure la sua stanza.»
Perplesso, Jim raggiunse la camera indicatagli, dove la signora Foley gli aveva preparato un bagno. Immerso nell’acqua calda, Jim immaginò la propria routine in quella casa, di svegliarsi tutte le mattine in quel letto, di scendere a fare colazione, ascoltare i battibecchi dei due coniugi e seguire poi Richard a lavoro. Forse gli avrebbero proposto di restare fino al Giorno del Ringraziamento. Forse gli avrebbero proposto di restare per sempre.
Un posto tranquillo, una vita semplice che lui non avrebbe mai avuto, ma che in quel momento desiderava maledettamente. Evidentemente il figlio dei Foley non la pensava allo stesso modo, magari a lui quella famiglia stava stretta. Magari glie l’avrebbe ceduta volentieri, assieme al vecchio trattore da aggiustare...
Aprì l’armadio e indossò una camicia di flanella e una salopette di jeans. Mentre si guardava allo specchio, si accorse della presenza di un’uniforme militare avvolta nel cellophane. Dentro una scatolina di latta, inoltre, trovò diverse medaglie al valore e una fotografia che ritraeva un giovane soldato dalla carnagione mulatta e lo stesso sorriso rassicurante di Richard. “Tanto a lui mica dispiace”.
Jim ripensò al tremolio sulle labbra del vecchio e qualcosa nel profondo di lui diede uno strattone. Walter non aveva lasciato la fattoria. Walter era morto in Guerra.
Si sentì uno stronzo anche solo per aver pensato di occupare il posto di quel ragazzo nella sua famiglia, nel cuore dei suoi genitori, soprattutto dal momento che era entrato in casa sua con l’inganno. Era davvero migliore di Blake, alla fine?
Un vociare all’esterno lo distolse da quei pensieri: scostò le tende e vide che nel cortile era parcheggiata una Ford Lincoln nera e che due uomini stavano parlando con Richard e Judith. Uno di loro a un certo punto tirò fuori un distintivo e Jim sentì il battito del cuore accelerare. La polizia...
Che cosa volevano? Non aveva fatto niente di male da quando era lì! Forse qualche benpensante di Pineville aveva allertato le autorità...
Percorse la stanza avanti e indietro, scervellandosi su cosa fare, il panico che cresceva. Doveva mostrarsi? Parlare con quei due agenti e spiegare con calma la situazione? E se gli avessero chiesto i documenti? Come avrebbe spiegato a Richard e Judith che non si chiamava affatto Arthur King?
La soluzione migliore ancora una volta gli sembrò di ricorrere alla magia: un semplice incantesimo di malia per indurre i piedipiatti ad andarsene e convincere i signori Foley che si era trattato solo di un malinteso...
Stai ancora una volta scegliendo la scorciatoia.” Gli parve di sentire la voce di Solomon Blake nella testa. “La via dell’inganno, dell’illusione: te l’avevo detto che i nostri ambiti avevano molto in comune”.
Jim strizzò gli occhi, per mettere fine a quei pensieri. No, avrebbe risolto la cosa in un altro modo. Scese al piano di sotto e raggiunse i coniugi Foley in cortile: Richard stava raccontando all’agente in che modo si erano incontrati, mentre Judith si stringeva le braccia con atteggiamento apprensivo.
Non appena Jim ebbe fatto la sua comparsa, piombò il silenzio.
«Arthur» disse Richard e a Jim si strinse il cuore nel vedere la sua espressione spaventata. «Questi due signori vogliono parlare con te di una cosa successa a New Orleans.»
Jim provò a deglutire. «Di che si tratta?»
«Ci è stata segnalata un’aggressione alla Piantagione Winters, al 225 di Heatherfield Lane» disse uno dei due agenti, pelle olivastra, sguardo arcigno e un neo sporgente in mezzo alla fronte. «La vittima corrispondeva al nome di Solomon Blake, un professore e occultista europeo che si è trasferito nella proprietà quest’estate.»
Un terrore disperato e soffocante afferrò Jim alla gola, impedendogli di respirare. No...
«Il suo corpo è stato rinvenuto senza vita» continuò il poliziotto, dando un’occhiata veloce al suo taccuino. «L’ipotesi più plausibile ci è sembrata quella di un furto. Sai dirci qualcosa in proposito?»
Jim scosse piano la testa, consapevole del colorito cadaverico che aveva assunto la sua faccia e delle gocce di sudore che gli si stavano addensando sulle tempie. «Non ne so nulla.»
«Pare che Blake non vivesse da solo» disse l’altro agente, biondo, stempiato e con il sorriso spavaldo. «In città dicono che era sempre accompagnato da un ragazzo raccattato da un circo. La descrizione pare corrispondere.»
Richard continuava a passare lo sguardo dai poliziotti a Jim e viceversa, sempre più confuso. «No, questo non è proprio possibile. Arthur è un bravo ragazzo...»
«Ha detto di non averlo mai visto prima di questo pomeriggio.»
«Io...è vero, ma vi rendete conto che lo state accusando di omicidio?!»
Sì, se ne rendevano perfettamente conto. E dalle loro espressioni sembrava che non ci fossero dubbi a riguardo.
«Vieni con noi, Arthur» disse gentilmente il poliziotto biondo. «Ci spiegherai meglio la situazione in commissariato...»
La testa di Jim era andata completamente in panne, mentre guardava il poliziotto col neo avvicinarsi a lui con le manette; senza un soldo per la cauzione lo avrebbero sbattuto dritto in galera e anche col miglior avvocato al mondo non sarebbe riuscito a spiegare a un giudice cosa era accaduto realmente in casa di Blake. E negli Stati Uniti una condanna per omicidio significava una sola cosa: sedia elettrica.
«Un momento! Andiamo, è solo un ragazzo!» esclamò Richard. «L’ho trovato alla mensa dei poveri, se avesse ammazzato qualcuno avrebbe già lasciato lo Stato!»
«Chi lo sa» borbottò lo sbirro col neo. «Magari è in cerca della prossima vittima.»
Jim serrò i pugni lungo il corpo.
«Ascolta, figliolo!» Richard gli toccò una spalla. «Non dire niente senza un avvocato, hai capito? Sono sicuro che si sistemerà tutto, vedrai...»
«Richard» disse piano Judith. «Lui non è Walt. Lascia che gli agenti facciano il loro lavoro.»
Dopodiché, rientrò in casa senza rivolgere a Jim nemmeno uno sguardo.
Jim si voltò verso Richard, cercando di mostrarsi calmo. «Andrà tutto bene, non si preoccupi. Grazie per essere stato gentile con me.»
Il vecchio continuò a protestare, mentre Jim allungava le mani per permettere al poliziotto col neo di mettergli le manette.
Va bene così. Forse era l’unico modo in cui poteva andare a finire quella storia: non aveva ancora trovato il suo posto nel mondo perché non esisteva al mondo un posto per lui. Se fosse scomparso avrebbe risolto un bel po’ di problemi, tanto per cominciare Lucindra non avrebbe mai potuto sacrificare milioni di Mancanti per mettere in atto il suo piano...
Mentre si sforzava di accettare la sua sorte però, il suo sguardo cadde sulle mani del poliziotto e un brivido lo scosse da cima a fondo: lungo le sue dita correvano sottili linee nere, come se le avesse intinte nell’inchiostro...
La ferita alla spalla si risvegliò di colpo, procurandoli una fitta di dolore e Jim si ritrasse. «Stammi lontano.»
Come ogni elemento del Tutto era connesso intimamente, così era per il Vuoto, anche in esso vigeva il Principio della Corrispondenza: il simile riconosceva sempre il simile.
Lui capì che Jim sapeva e sorrise. «Se ci seguirai senza fare storie il vecchio vivrà.»
«E se invece vi facessi fare la fine di Blake?»
«Potresti provarci» replicò serafico il finto poliziotto. «Magari inizieresti ad apprezzare il dono che la nostra Bona Domina ti ha fatto.»
«Arthur» disse Richard esitante. «Che succede? Conosci quest’uomo?»
Il poliziotto si scambiò uno sguardo d’intesa col suo complice e prima che Jim potesse intervenire, quello contrasse la mano e l’automobile di Richard si sollevò in aria, producendo una serie di cigolii.
«No!»
L’auto sfrecciò verso Richard. Il vecchio non ebbe nemmeno il riflesso di gridare, mentre guardava inerme quelle milleseicento libbre di ferro venirgli addosso. Jim agì d’istinto: saltò e riapparve davanti all’uomo, gettò in aria il braccio e un istante prima che l’auto li colpisse venne tagliata a metà. Le due parti della carrozzeria caddero a terra come gusci vuoti con un sonoro schianto. Richard si rannicchiò su se stesso, portandosi le mani alla testa e solo allora riuscì a gridare.
Jim avrebbe voluto rassicurarlo, ma i due stregoni stavano avanzando verso di loro con le mani sollevate.
«Richard!»
Era Judith, corsa immediatamente fuori attirata dal baccano. Jim le urlò di tornare dentro, ma uno dei due maghi puntò contro di lei la mano, strinse le dita e la donna fu issata in aria con uno strillo, le gambe che sbattevano all’impazzata mentre si portava le mani alla gola.
«Lasciala andare!» gridò Jim disperato.
«Rallegrati, ragazzo» gli disse lo Zelota con un sorriso vittorioso, il trench che gli fluttuava dietro come un mantello. «Le loro vite Mancanti non sono niente in confronto al grande destino che ti attende: sarai l’iniziatore di una nuova era per la nostra razza, così come è scritto.»
Serrò le dita e Judith emise un gemito strozzato. Richard le corse vicino, urlando il suo nome, impotente e terrorizzato. Il loro dolore trafisse Jim come un coltello.
Altre vite innocenti sulla tua coscienza, discepolo.”
No, non sarebbe finita in quel modo. Non lo avrebbe permesso.
Ancora una volta sentì ruggirgli nel petto il richiamo del Vuoto, con le sue promesse di onnipotenza e di vendetta. Tutto ciò che chiedeva era di essere liberato.
I due Zeloti lo fissarono con un misto di ammirazione e timore reverenziale, mentre serpenti di energia oscura si avviluppavano frementi attorno al suo corpo.
«Come è stato profetizzato» sussurrò lo stregone biondo con occhi pieni di commozione.
Ma Jim non ascoltava. Ogni altra voce era soffocata dal fragore della rabbia e dalla fame insaziabile del Vuoto.
Una propaggine oscura si liberò dal ragazzo e saettò verso lo Zelota con il neo come una freccia. Lo trafisse in pieno petto, prima che avesse modo di reagire, trapassandolo da parte a parte. Le sue urla di dolore erano dolci alle sue orecchie.
Poi, come una scultura di sabbia divorata dal vento, si sgretolò in un turbine di polvere nera e di lui rimasero soltanto i vestiti che indossava.
L’altro Zelota indietreggiò e sollevò le mani tremanti.
Jim diresse contro di lui gli artigli del Vuoto e una volta appurato che fosse inutile affrontarlo, lo Zelota provò a saltare. Ma non fu abbastanza veloce.
Come se una forza mostruosa lo stesse risucchiando dall’interno, il suo intero corpo si attorcigliò sotto i vestiti, con un terrificante scricchiolare di ossa. La spina dorsale si spezzò di netto, le articolazioni si smembrarono, finché il suo corpo non fu inghiottito nel nulla. In quell’istante, Judith fu liberata dall’incantesimo e cadde tra le braccia del marito.
Lentamente, Jim sentì la morsa del Vuoto abbandonarlo, le sue spire ritirarsi e tornò solo, in quel cortile silenzioso, dove si era appena consumata la tragedia.
Udì i passi incerti di Richard dietro di lui e la sua voce incrinata dalla paura: «Che...che cosa sei tu?»
Un mostro pensò Jim, guardandosi le mani; il Vuoto lo aveva definitivamente marchiato, lasciandogli le dita tinte di nero fino al palmo.
«Le ho mentito» disse, continuando a dare loro le spalle. Anche dopo tutto quello che aveva visto, non avrebbe sopportato le loro espressioni in quel momento. «Non mi chiamo davvero Arthur. E non ne capisco nulla di motori.»
Mosse piano le dita, mentre evocava un ultimo incantesimo. «Farvi dimenticare è il solo modo che ho per sdebitarmi.»
Prima che l’ultimo ricordo di quella giornata venisse cancellato dalla loro memoria, Jim saltò, lasciando i Foley tremanti e abbracciati l’uno all’altra a domandarsi cosa avesse ridotto in quelle condizioni la loro vecchia auto

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Capitolo 42
*** Il Corvo e il Lupo ***




IL CORVO E IL LUPO

 

 

In una delle sei camere da letto situate al secondo piano della magione Winters, le ante di un vecchio armadio si aprirono cigolando; da esse sbucò una ragazza minuta, avvolta in un cappotto ornato di pelliccia e con arruffati ricci corvini. L’intrusa chiuse per bene le ante, fece due passi indietro e agitò le dita.
L’armadio tremò, le assi scricchiolarono rumorosamente. Poi, come se una mano gigantesca lo avesse stritolato con forza, si accartocciò fino a tramutarsi in una catasta di pezzi di legno sgangherati. In quello stato, nessuno sarebbe riuscito ad attraversarlo.
Alycia tirò un sospiro, estrasse dalla tasca del cappotto un paio di occhiali rotondi cerchiati in oro e dopo aver alitato sulle lenti per pulirle, li inforcò: nell’arco di una sola giornata aveva derubato i laboratori della Cittadella, lasciato la Corte delle Lame in balia dell’Anthea Ingannatrice, aggredito il suo maestro e i suoi ex compagni di studi, sottratto un velodrago al controllo del Cerchio d’Oro, lasciandolo scorrazzare libero per Arcanta, e chiuso l’accesso al Meridiano di New Orleans.
Il che significava essenzialmente tre cose: uno, che adesso era una fuorilegge; due, che aveva più sangue Blake nelle vene di quanto immaginasse; tre, che aveva guadagnato un po’ di tempo prima che il Decanato scagliasse su di loro tutta la sua furia.
Doveva darsi una mossa.
Lasciò la stanza e percorse il corridoio principale del piano, ma presto fu assalita da un orribile presentimento. C’era silenzio. Troppo silenzio.
«Papà!» chiamò mentre scendeva le scale che portavano al pianterreno. «Jim! Valdar!»
Quella sensazione di angoscia continuò a crescere mentre passava in rassegna le sale vuote della grande casa e si affacciava agli ambienti di servizio dove viveva Valdar. Uno stridio acuto e un frullo d’ali annunciarono l’arrivo di Wiglaf, che volò in cerchio tra le ombre del soffitto come un piccolo fantasma e gracchiò concitato.
«Dov’è mio padre?» chiese Alycia con apprensione. «Portami da lui!»
Il corvo bianco si diresse verso la biblioteca e la ragazza si lasciò sfuggire un gemito di paura quando vide le porte scardinate.
Ma che cosa è successo qui?
Irruppe nella stanza e la trovò completamente a soqquadro: le librerie vuote, crepe lungo le pareti, cumuli di libri, schegge di vetro e pezzi di legno a terra…
«Alycia.»
Wiglaf si posò sulla spalla di Solomon Blake, accasciato coi gomiti sui braccioli di una delle poche sedie rimaste integre. Accanto a lui, Valdar lo stava aiutando a spazzare via la polvere dai vestiti e quando si avvicinò Alycia si accorse che erano macchiati di sangue...
«Per i Fondatori!» squittì, impaurita. «Che ti è successo? Sei ferito?»
«Non è niente» gracchiò lui, tastandosi con cautela la tempia, incrostata di sangue secco. «Solo qualche graffio. Sarei ridotto peggio se Wiglaf non mi avesse fatto da scudo...»
«È stato Jim» realizzò Alycia, sempre più angosciata. «Che avete combinato?»
Solomon si mantenne la fronte con la mano e sospirò dolorosamente.
«Ho sbagliato tutto con lui» spiegò, con voce incrinata. «Mi sono comportato da egoista come al solito: gli ho mentito, l’ho spaventato, ho cercato di trattenerlo con la forza e adesso... adesso l’ho perso per sempre.»
«Perso? Come sarebbe a dire? Dov’è andato?»
«Magari lo sapessi.»
Alycia si inginocchiò vicino a lui e gli toccò il braccio. «Papà ascoltami, devi andartene da qui, subito! Boris ha scoperto tutto, stanno venendo a prendervi.»
Solomon ruotò il capo per guardarla in faccia.
«La Corte dei Sussurri» aggiunse lei, senza aspettare che chiedesse spiegazioni.
«Già» fece lo stregone, con un altro sospiro tetro. «Dovevo immaginarlo.»
«Blackthorn ha dato alla Corte delle Lame il permesso di catturarti» continuò in fretta la ragazza. «Li ho trattenuti, ma da un momento all’altro saranno qui! Devi venire con me, dobbiamo trovare Jim, dobbiamo…»
Ma Solomon scosse la testa.
«Non ascolterà più una sola parola da parte mia. Non si lascerà nemmeno avvicinare.»
«Ma dobbiamo salvarlo!» gridò Alycia, stringendogli forte la manica. Il suo cuore era sferzato da fitte di panico e angoscia: possibile che non capisse la gravità della situazione? «Blackthorn vuole la sua testa e Boris non ci penserà due volte a eliminarti se ti metterai in mezzo!»
Lo stregone si alzò faticosamente con l’aiuto di Valdar.
«Se vedrà me scapperà ancora. Alycia, tu sei l’unica persona da cui si lascerà trovare, l’unica che lo possa convincere: Jim deve consegnarsi al Decanato.»
La ragazza strabuzzò gli occhi. «Sei impazzito?! Papà, quanto forte hai sbattuto la testa..?»
«Non sono impazzito, ascoltami» la interruppe lui, la voce ferma malgrado si reggesse in piedi con difficoltà. «Ora che non è più sotto la mia protezione gli Zeloti gli daranno la caccia: avverto la loro presenza da quando il circo è arrivato a New Orleans ma non sono riuscito a individuarli, sono diventati abili a mimetizzarsi tra i Mancanti. Devi arrivare a Jim prima che lo facciano loro e Arcanta per il momento è il posto più sicuro.»
«Sicuro? Lo faranno giustiziare!» ribatté Alycia, disperata. «Hai sentito che cosa ho detto? Blackthorn vuole liberarsi di lui prima che il Decanato scopra della sua esistenza!»
«E allora giocherete a carte scoperte» replicò suo padre, convinto. «Mostrerete Jim a tutta la Città per quello che è realmente: il giovane campione che si è battuto con onore alla Disputa, un ragazzo su cui grava un destino ingiusto e crudele. Per questo motivo si costituirà pubblicamente, dimostrando di essere in cerca di redenzione e pronto a collaborare con la giustizia.»
«E tu credi che questa storiella strappalacrime basti a convincere i Decani a risparmiarlo?»
«Non è loro che dovete convincere» disse Solomon. «Ma l’opinione pubblica: nessun Decano è così sciocco da mettere a rischio il consenso della Città, non dopo la frattura provocata dalla Guerra Civile. Jim alla gente piace, non avrà difficoltà a trovare sostenitori e una volta sparsa la voce, i Decani gli dovranno garantire per forza un processo. Contatta Macon, darà a Jim asilo alla Corte dei Miraggi e vi aiuterà a preparare una solida difesa. Nella peggiore delle ipotesi, decideranno di tenerlo sotto la loro custodia...»
«E nella migliore diventerà la nuova attrazione del Bestiario!» sbottò Alycia, furibonda. «Se questa a te sembra una soluzione accettabile...!»
«È essenziale che gli Zeloti non mettano le mani su di lui!» esclamò Solomon, afferrandola per le spalle. In quel momento, mentre la costringeva a ricambiare il suo sguardo, Alycia si rese conto di quanto suo padre fosse provato, stanco e sconvolto: stava peggio di quel che voleva mostrare. «Se la Profezia si compirà, se il Vuoto inghiottirà Jim, non solo Arcanta, ma il mondo così come lo conosciamo scomparirà! Alycia, è tutto nelle tue mani adesso.»
Lei lo guardò a bocca aperta, atterrita. «Non si costituirà mai.»
«Se glielo chiederai tu, lo farà.»
«Come fai a dirlo con certezza..?»
«Perché so che ti ama.» Sorrise, malgrado razionalmente ci fosse ben poco di che sorridere. «E che tu ami lui.»
Alycia avvertì un’ondata di calore risalire dal ventre, in modo lento e inesorabile, fino a infiammarle le guance. «Non so nemmeno dove sia.»
«Ho un paio di teorie a riguardo. Wiglaf ti aiuterà a rintracciarlo, è un demone e può attraversare i Piani del Tutto con facilità.»
Il corvo albino starnazzò in segno di disappunto, ma Solomon gli accarezzò la testa e disse: «Lo so che non ci siamo mai separati, vecchio mio. Non preoccuparti, me la caverò.»
Impotente di fronte ai fatti, Alycia sospirò. «Immagino che questo fosse il “Piano B” fin dall’inizio.»
«In effetti, è appena diventato il “Piano C”» ammise lui, con quell’accenno del suo antico, familiare sorriso ironico. «Non sono infallibile come mi dipingono.»
«Per favore, vieni con me.» Alycia prese le sue mani. «Boris sarà qui a momenti, ti farà arrestare!»
«Non mi consegnerà ai Decani finché non avrà ottenuto ciò che desidera: trovare Lucindra e vendicare tua madre.»
La ragazza trasalì. «Lei...lei è ancora viva..!?»
«Alycia, non c’è più tempo, devi andare. Tratterrò Boris quanto posso, cercherò di farlo ragionare»
«No!» Alycia scosse la testa con decisione. «Non vorrà sentire ragioni! Papà, ti prego, sei troppo debole per affrontarlo da solo!»
Lo stregone sciolse una mano dalla sua, la portò sotto la giacca e ne tirò fuori il suo inseparabile orologio d’argento.
«Mi dispiace di averti coinvolta in tutto questo» disse con dolcezza, mentre le metteva l’orologio in mano. «Qualunque cosa accadrà, essere tuo padre é stato il più grande dono che potessi ricevere nella mia vita. Valdar, portala via di qui.»
Alycia sentì un magone stringerle la gola. «No..!»
Ma l’orco stava già avanzando verso di lei. L’afferrò per la vita, con tutta la delicatezza di cui era in grado, ma la sua presa era così salda da rendere inutile qualsiasi tentativo di divincolarsi.
«Trova Jim» disse Solomon Blake con voce calma. «Insieme potete far cambiare rotta ad Arcanta: siete la dimostrazione che c’è ancora speranza per i maghi, che possiamo essere migliori.»
Alycia scalciò e si dibatté, mentre veniva sollevata di peso da terra. Si ritrovò a pancia in giù sulla massiccia spalla di Valdar, a battere i pugni sulla sua schiena, a gridare e guardare suo padre immobile in mezzo alla biblioteca distrutta, che le sorrideva mentre veniva trascinata fuori dalla stanza.
 
 
Non fu un’attesa lunga.
Solomon conosceva Boris Volkov da tutta una vita, aveva visto il suo odio per lui crescere e inasprirsi e sapeva che un semplice contrattempo non gli avrebbe impedito di portare a termine quella che da anni era la sua personale crociata: prendersi la rivincita, umiliarlo davanti a tutta Arcanta, dimostrare ai Decani e al mondo intero che per tutto il tempo aveva sempre avuto ragione lui.
Adesso, era a un passo dal realizzare il suo obiettivo e lo avrebbe raggiunto a qualunque costo, anche se gli venisse chiesto di scalare una montagna a mani nude o di volare dritto sul Sole.
Solomon sedeva in quel che restava della sua preziosa biblioteca, con la mano sinistra chiusa attorno all’elsa consumata di Excalibur, la leggendaria Spada dei Giusti che i maghi della sua famiglia tramandavano da secoli. Non si era mai sentito in diritto di impugnarla: l’ultimo che ci aveva provato era stato suo fratello Jonathan e tutti all’epoca erano d’accordo che fosse il Blake più meritevole da generazioni, così onesto, coraggioso e incline al comando. Jonathan, che gli amici chiamavano per gioco Lancelot, più cavaliere di qualunque mago dai tempi di Camelot e della Tavola Rotonda.
Ma non sempre gli eroi erano destinati alla gloria. La vita reale era ben diversa dalle ballate, spesso i puri di cuore erano destinati a cadere e a scivolare nell’oblio, mentre alla fine trionfavano gli animi torbidi, gli astuti e i codardi. Solomon era sempre stato fiero di appartenere alle loro schiere, di essere un uomo terreno, privo di scrupoli e di qualunque forma di disincanto o ipocrisia; lo aveva imparato alla Corte dei Sofisti che la via dell’integrità non faceva per lui, che era più affine al suo antenato Merlino, ambiguo e calcolatore, che al prode Lancillotto...
Percepì il rumore di una dozzina di paia di stivali che marciavano lungo il corridoio e solo quando si interruppero sollevò la testa.
Il Lupo Grigio era accompagnato dai migliori membri del suo branco, giovani stregoni di rango Evocatore che brandivano armi di ogni sorta, spade, asce e mazze ferrate fatte di pura energia. Forse Alycia non era riuscita a far perdere loro molto tempo, ma in compenso li aveva strapazzati a dovere, a giudicare dall’aria arruffata e dalle vesciche che alcuni esibivano in faccia e sulle mani.
«Buondì, Bo» esordì Solomon amichevole. «Scusa il disordine, è stata una mattinata movimentata. Posso offrirvi qualcosa di analcolico da bere?»
«Risparmiaci il teatrino, Blake» disse Boris bruscamente. «Sappiamo che proteggi il Plasmavuoto: dov’è James Doherty?»
L’altro fece spallucce. «Temo che siate arrivati in ritardo: ha preso il volo da un bel po’.»
Gli allievi dell’Arcistregone del Nord si guardarono confusi.
«Mente, vero?» chiese uno di loro, Siegfried, con graffi e scottature sulle guance. «Lo ha nascosto da qualche parte!»
«Cercatelo, se volete» li invitò Solomon con gentilezza. «Rivoltate pure questa orrenda casa da cima a fondo, per me non ha alcun valore affettivo.»
«Adesso basta» tagliò corto Boris. «Lo troveremo, non può essere andato lontano e di sicuro Alycia è con lui. Quanto a te...»
Ispirò profondamente, gonfiò il petto e disse in un tono che esprimeva la massima solennità: «Solomon Ulysses Edward Blake, in nome della Legge che governa Arcanta, io, Boris Sergeevič Volkov, Arcistregone del Nord e Primo Evocatore della Corte delle Lame, ti dichiaro in arresto con l’accusa di cospirazione, eresia e uso delle Arti Proibite. Con estremo rammarico, ti informo che sarai portato in giudizio di fronte ai Decani e spogliato del titolo di...»
Su quelle ultime parole, Solomon scoppiò a ridere.
Boris si bloccò e un fremito d’irritazione lo scosse fino alla punta dei capelli ispidi. «Che c’è di tanto divertente?»
«“Estremo rammarico”?» ripeté Solomon. «Ma piantala! Sembri un bambino a cui hanno detto che Natale quest’anno arriva in anticipo!»
Volkov scoprì i denti. «Che tu ci creda o no mi riempie di dolore consegnare un membro della mia stessa razza alla giustizia per tradimento! Eri l’orgoglio della Città, il suo eroe! E per tutto questo tempo hai cospirato contro Arcanta, annidato nell’ombra come una serpe! Abbi almeno il decoro di ammettere le tue colpe.»
«Oh, lo farò» replicò Solomon in tono baldanzoso. «Ammetto ogni mia malefatta: sono un bugiardo patologico e un manipolatore della peggior specie, una canaglia che è entrata nelle grazie del Decanato per il solo gusto di vederlo crollare. Disprezzo il sistema corrotto che governa Arcanta e provo pena per come i suoi Cittadini si facciano soggiogare con tanta facilità da quei vecchi cialtroni.»
Le facce degli allievi esprimevano la più pura indignazione.
«Volete dell’altro?» proseguì Solomon allegramente. «Sì, ho fatto uso della Magia Vuota, anche se ero perfettamente consapevole dei rischi che questo comportava. E non è finita qui.» Si sporse sulla sedia e mise una mano a coppa. «Ho preso in prestito due o tre libri dalla Biblioteca della Cittadella e non li ho ancora restituiti!»
«Falla finita!» latrò Boris, divampando per la collera. «Credi che questo sia uno scherzo? Ti pentirai amaramente di quello che hai fatto alla nostra gente, lo giuro sul mio onore..!»
«Ah, il celebrato onore della Corte delle Lame!» esclamò Solomon ironico, guardando a uno a uno i giovani Evocatori. «Dieci prodi guerrieri contro un vecchio mago malandato! Questo è uno di quelli scontri epici che passerà alla storia!»
Molti ragazzi arrossirono e nelle loro espressioni si mescolarono colpa, imbarazzo, ira e altre emozioni difficili da interpretare.
«I tuoi sporchi giochetti mentali questa volta non ti salveranno» ribatté invece Boris furente. «Mostrerò ad Arcanta chi sei sotto le tue maschere e le tue menzogne! E finalmente la nostra gente e soprattutto Alycia saranno al sicuro!»
D’un tratto, il volto Solomon diventò serio. «Chi è che mente adesso, Bo? Perché non dici le cose come stanno una volta per tutte?»
Si alzò in piedi, la spada in pugno e gli Evocatori sollevarono all’istante le proprie armi, in allerta. Solomon però li ignorò: i suoi occhi azzurri fremevano ed erano puntati dritti in quelli uggiosi dell’Arcistregone del Nord.
«La verità» disse lentamente. «È che a te non è mai importato della nostra gente o della Legge. Non ti è mai importato di proteggere Alycia e non ti importa di vendicare Isabel. La sola cosa che vuoi, l’unica che ti abbia fatto andare avanti in questi anni, è che tutti ti vedano finalmente come il vero e solo eroe di Arcanta.»
Boris serrò la mascella e i suoi occhi diventarono affilati come rasoi.
«Che si accorgano del tuo valore» proseguì Solomon dolcemente. «Dopo aver trascorso più di un secolo ad arrancare nella mia ombra: che rabbia ti faceva vedere come arraffavo tutto ciò che spettava a te, non è vero? Gli elogi del Decanato, l’amore di Isabel...»
«Smettila» lo avvertì Volkov.
Ma Solomon non si fermò: «Una vera ingiustizia, non trovi? Ma lo è ancora di più il fatto che, nonostante tutti i miei crimini e i miei difetti, sai perfettamente che Arcanta continuerà sempre e comunque a preferirmi a te!»
Volkov alzò il braccio di scatto ed evocò un’ascia di energia vermiglia. «Ora basta! Arrenditi Blake, sei in arresto!»
Solomon gli offrì un piccolo inchino: «Prego, sono tutto vostro.»
Boris si rivolse ai suoi allievi e latrò: «Prendetelo!»
Il sorriso sulle labbra di Blake si tirò in modo sinistro. «...Se ci riuscite.»
Mentre i dieci stregoni si scagliavano contro di lui, in uno scalpitare forsennato di stivali e sibilare di lame, i libri che affollavano il pavimento e le librerie decollarono, si raggrupparono in uno sciame attorno a Solomon, abbattendosi contro chiunque gli si avvicinasse: le facce dei ragazzi furono frustate dalle pagine, le loro teste percosse senza tregua dagli spigoli e dai dorsi delle copertine e le loro bocche riempite di carta.
Boris li oltrepassò e si avventò contro il turbine di libri con la furia di un orso, mulinò l’ascia di energia e recise di netto ogni volume che cercava di aggredirlo, finché non fu nell’occhio del ciclone, circondato dal ronzare furioso della carta.
«E adesso» ringhiò, tendendo la lama ardente contro il suo avversario. «A noi due, Corvo Bianco.»
Solomon sogghignò e impugnò a due mani Excalibur. «Come desideri, Lupo Grigio.»

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Capitolo 43
*** La Torre ***



LA TORRE


 


 

Jim strinse l’impugnatura del coltello e cercò di ignorare la nausea, mentre guardava la carneficina che aveva appena provocato.
«Scusa, amico» disse, rivolto all’ennesimo corpo esanime che gli giaceva davanti. «Meglio a te che a me.»
Poi, spinse la lama nella pancia della trota, dalla coda fino alla testa, ne afferrò le interiora viscide e sanguinolente e le gettò nella spazzatura. Il corpo ripulito finì invece in un recipiente assieme a tutti gli altri, pronti per essere impanati e immersi nell’olio bollente.
“Arnaud’s” era uno dei ristoranti storici di Shreveport, specializzato in torte di granchio e zuppe di pesce gatto; era piccolo e di poche pretese, ma affacciava direttamente sui moli del Red River e monsieur Arnaud si vantava di servire in tavola pesce fresco ogni giorno. Jim ci lavorava da appena un paio di settimane e già si era convinto che non avrebbe più mangiato nulla dotato di lische in vita sua: per quanto li lavasse i suoi vestiti puzzavano sempre in modo disgustoso e gli faceva male la schiena a stare in piedi davanti al lavandino della cucina anche per dodici ore di fila.
Ma si era dovuto accontentare. Non c’erano molti impieghi disponibili da quelle parti, soprattutto per chi come lui non aveva uno straccio di referenza e la cui unica esperienza lavorativa si riduceva al realizzare animali coi palloncini. In compenso, con la scusa di essere una frana a maneggiare il coltello, gli era stato concesso l’uso dei guanti, così poteva nascondere i segni che la Magia Vuota aveva lasciato sulle sue mani.
Andato via da Pineville, aveva deciso di darsi alla macchia per un po’, nel caso ci fossero altri nemici nei dintorni; la prima notte aveva dormito in un’acciaieria abbandonata a poca distanza dalla ferrovia, ma alle prime luci dell’alba si era già messo in viaggio attraverso i boschi. A piedi procedeva lentamente, ma meno tracce di magia lasciava sul suo cammino e meno rischi c’erano di imbattersi in altri stregoni, poco importava che stessero dalla parte di Arcanta o di Lucindra. Si era lavato in torrenti e cisterne, raccolto bacche e funghi selvatici (Alycia gli aveva insegnato a individuare subito quelli velenosi) e quando i morsi della fame diventavano aggressivi, si era azzardato a rubare dagli allevamenti lungo la strada.
Nonostante campasse di stenti, c’era un problema ben più grosso che lo tormentava: da quando aveva utilizzato le Arti Proibite contro i due Zeloti, non più in maniera inconscia ma del tutto consapevole, il suo legame con il Vuoto sembrava essersi rafforzato.
Ormai ne percepiva costantemente il richiamo, a volte lieve come un sussurro, tanto da confondersi col fruscio del vento tra i pini, altre roboante come il fragore di una cascata. Di giorno era più facile tollerarlo, perché poteva concentrarsi sulla direzione da seguire, sulla sete e sulla fame. Ma al calare del sole, quando le ombre prendevano il sopravvento, diventava impossibile ignorarlo; le ferite sulla spalla sinistra si risvegliavano nel cuore della notte e con esse anche le voci, il suo sonno era agitato da incubi terrificanti, in cui rivedeva i corpi dei due stregoni disintegrati dalla Magia Vuota, e Jim aveva l’orribile impressione di annegare, di essere trascinato via dalla corrente impetuosa di un fiume nero e ghiacciato. Aveva provato a meditare, ma i risultati non erano stati soddisfacenti: il Tutto continuava a scorrergli accanto placidamente ma senza sfiorarlo e questo lo faceva sentire sporco, sbagliato. Gli mancava la connessione che aveva provato i primi mesi, quando si sentiva potente e sicuro di sé e la sua magia cresceva in armonia con tutto il resto; quando, assieme a Solomon Blake e ad Alycia, si era sentito finalmente nel posto giusto.
Era riuscito a tirare avanti così per tre giorni prima di arrivare a Shreveport e si era subito messo in cerca di un lavoro: l’unico a non avergli sbattuto la porta in faccia era stato Arnaud, anche se aveva dovuto supplicarlo in ginocchio per ottenere quel posto da sguattero:
«D’accordo, inizi oggi!» aveva sbottato alla fine, pur di toglierselo dai piedi. «Sempre meglio tu che uno di quei topi di fogna italiani, polacchi e chi più ne ha più ne metta! Hai diritto a un pasto al giorno, ma sulla paga non si discute, chiaro? Se non ti sta bene te ne torni da dove sei venuto.»
Sui documenti di Jim c’era scritto che si chiamava Lyonel Smith, che aveva ventun anni e che veniva da Jefferson, in Texas. Aveva perfino fatto in modo di avercelo un aspetto da “Lyonel Smith”biondino, tarchiato, col mento sfuggente e un paio di occhi stretti e acquosi.
Quella era stata l’ultima volta che Jim si era concesso il lusso di usare la magia, anche a costo di dover sudare sette camicie praticamente per qualunque cosa nei giorni a venire: dalle otto del mattino fino alle dieci della sera, Lyonel Smith infatti puliva i pavimenti, sgusciava molluschi, pelava patate, sgrassava padelle, portava fuori la spazzatura. Dopo l’orario di chiusura, consumava una cena a base di avanzi con il resto del personale e smezzava con loro una sigaretta e qualche chiacchiera. Cercava di mantenere il profilo basso e di non dare loro troppa confidenza, ma Etienne Cazenave, un ragazzo creolo che faceva l’aiuto cuoco, l’aveva preso così in simpatia da proporgli di dividere l’affitto di un monolocale minuscolo nei pressi del porto. Inizialmente, tanta spontanea gentilezza aveva lasciato Jim perplesso, ma in seguito aveva scoperto che Etienne era sì un tipo a posto, ma con un debole per le scommesse, perciò faticava a trovare un coinquilino per più di un mese o due. La misera paga di Jim finiva tutta nel mantenimento di un tetto sopra le loro teste, ma il divano di Etienne era sempre meglio di un container giù al molo. E soprattutto, era lontano dagli orrori che si era lasciato alle spalle a New Orleans e, se lo augurava, dagli Zeloti. Al momento, andava bene così.
«È la paprika il segreto, mon ami» gli stava spiegando Etienne con fare da esperto, mentre tagliava le zucchine. «Prendi il pesce gatto: puoi farlo grigliato, al pomodoro, bollito con patate, cipolle e mais. Ma non riuscirai mai a togliergli quel répugnant sapore di fango, a meno che non lo intingi per bene nella paprika! Lo diceva sempre la mia mamie
Accanto a lui, Jim non fece commenti e si concentrò sulle trote da pulire; aveva capito che la paprika era uno dei cavalli di battaglia di Etienne, dipendesse da lui l’avrebbe messa dappertutto, perfino nel caffè.
«Etienne, dacci un taglio!» esalò Georgina, entrando con le prime comande. «Di pesci gatto ne vedo così tanti che prima o poi chiederò a uno di loro di uscire!»
Era quasi ora di pranzo e i primi clienti si erano già accomodati in sala: le due cameriere, Georgina e Dolores, avevano cominciato a fare avanti e indietro e nelle cucine si iniziava a respirare aria di frenesia, ma c’era ancora spazio per qualche battuta e per ascoltare un po’ di musica alla radio.
«Ah, non dirlo a Lyonel!» lo derise bonariamente chef Dominic. «Dì la verità, iniziano a mancarti le vacche del Texas, eh?»
Jim si limitò a fare spallucce per non incoraggiare la conversazione: non era la prima volta che cercavano di carpirgli informazioni, per esempio sul perché indossasse i guanti anche fuori dall’orario di lavoro (aveva solo accennato di essersi procurato delle brutte scottature col barbecue) o su cosa lo avesse portato a Shreveport, ma Jim se ne usciva sempre con risposte vaghe sul fatto che in Texas non ci fosse lavoro, che guardare il bestiame tutto il santo giorno non faceva per lui e che non andava d’accordo coi suoi. Per fortuna, Etienne di solito veniva in suo aiuto, riducendo il fatto che fosse di poche parole alla sua indole da cowboy solitario.
La verità era che, dopo quanto accaduto alla fattoria dei Foley, Jim era ossessionato che dietro ogni persona potesse nascondersi un nemico pronto a trarlo in una trappola; di essere ancora una volta costretto a usare i suoi nuovi, terrificanti poteri, di venire guardato come un mostro, di dover scappare e ricominciare tutto da capo...
Intanto, il programma radiofonico smise di trasmettere musica e diede invece la parola al notiziario:
«Interrompiamo la trasmissione per lanciare un allarme in diretta nazionale.»
«Ehi, avete sentito?» disse Georgina, affacciandosi nuovamente in cucina «Dom, alza un po’ il volume.»
Lo chef annuì e girò subito la manopola.
«Continua a seminare distruzione lo strano fenomeno atmosferico che ha colpito in questi giorni il Midwest. Decine le città e le fattorie evacuate, incerto il numero delle vittime...»
«Un altro di quei maledetti tornado» esclamò Etienne. «E non è nemmeno stagione!»
«Il professor Humfrey, della Hurricane Research Division di Miami, informa che l’uragano si sposta a una velocità di circa 200 miglia orarie e che si è formato non lontano dalla cittadina di Wamego, Kansas, meno di una settimana fa.
Una testimone, la signora Jacqueline Young, scampata per miracolo al disastro, ha raccontato che la giornata era soleggiata e con poco vento e che con la sua famiglia si stava recando a Wamego in auto per visitare la fiera annuale. Verso le quattro del pomeriggio, il cielo si è riempito di nuvole nere che hanno oscurato il sole. Altri superstiti descrivono il ciclone come una colonna del diametro che varia di ora in ora. Molti già la chiamano “La Torre Nera”.
Tra le vittime accertate, la polizia conta una compagnia circense di direzione irlandese che si stava esibendo proprio in quei giorni durante la fiera.
I vigili del fuoco raccomandano di non sostare vicino ad alberi e cavi dell’alta tensione e di prendere tutte le misure necessarie per mettere in sicurezza la propria abitazione. Restate sintonizzati per ulteriori aggiornamenti.»
Seguì un jingle musicale e una voce femminile che annunciava l’imminente inizio di un episodio di “One Man’s Family”.
In cucina era calato un silenzio carico di preoccupazione.
«Pensate che ci sia il rischio che arrivi anche da noi?» domandò Georgina in tono apprensivo.
«Hai sentito, no?» rispose Dominic. «Nemmeno quei cervelloni riescono a prevedere che direzione prenderà.»
«Ehi, Nel» disse Etienne, rivolto a Jim. «Dovremmo rinforzare gli infissi prima che inizi a cambiare il vento, n’est-ce-pas?»
Ma Jim non lo ascoltava. La mano con cui reggeva il coltello tremava e stava guardando fisso un grumo di budella incastrato nello scolo del lavello. L’unico rumore che riusciva a sentire era il battito forsennato del proprio cuore nelle tempie.
Una compagnia circense di direzione irlandese...poteva essere una mera coincidenza? Il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley aveva sostato in Kansas alla fine di ottobre, ma non era detto che vi fosse rimasto così a lungo. Magari, nel frattempo era già ripartito...forse si trattava di un altro circo, non per forza quello di Maurice...
Non possono essere loro, non possono...
Un terribile presentimento gli aveva artigliato il cuore, raggelandolo fino al midollo...
«Lyonel» disse la voce di Etienne e Jim fece un salto quando lui gli toccò la spalla. «Non hai una bella cera, mon ami. Sicuro di stare bene?»
Jim si allontanò da lui come se scottasse. «Sì, io...devo andare.»
«Oh, ça va bien! Ma che gli dico a monsieur Arnaud..?»
Jim si sfilò il grembiule imbrattato di sangue e lo mollò sul tavolo da lavoro. «Che mi sono rotto il cazzo.»
E lasciò la cucina di corsa, senza preoccuparsi di dare altre spiegazioni.
Conosceva un solo modo per accertarsi che i suoi amici stessero bene, viaggiare attraverso il Piano Astrale. Era una pratica rischiosa per un mago alle prime armi, perché si trattava di un campo di forze in continua mutazione, dove non esistevano distanze fisse, perciò era estremamente facile smarrirsi. Blake non aveva avuto modo di farlo esercitare adeguatamente, ma non c’era tempo per mettersi a consultare i pochi libri di magia che aveva preso in fretta e furia dalla sua biblioteca, ridotti in formato tascabile per farli entrare nello zaino.
Jim raggiunse l’appartamento, si chiuse a chiave e sedette a gambe incrociate sul letto di Etienne, gli occhi chiusi e le mani aperte sulle ginocchia. Iniziò a contare i propri respiri, da dieci fino a zero, sforzandosi di tenere sotto controllo l’ansia e l’impazienza...
La ferita alla spalla mandò una scossa di dolore e di nuovo il coro di sussurri del Vuoto cercò di insinuarsi nei suoi pensieri, stavolta in maniera così forte e nitida che Jim riuscì addirittura a percepirne le parole:
È troppo tardi e lo sai.
Strinse la stoffa dei pantaloni tra le dita e alzò un muro di ostinata Volontà nella propria mente. Lasciami in pace.
Da solo non sei abbastanza forte. Insieme a Noi avrai una possibilità di trovare i tuoi amici...
«Ho detto che devi lasciarmi in pace!» gridò Jim nel silenzio. Gli ritornò solo un lieve riverbero, insieme ai rumori della strada.
Prese un altro paio di respiri profondi e richiuse gli occhi. Doveva riuscire a trovarli. Doveva. Pensò ad Arthur, a Vanja, a Wilhelm, Dot, Rodrigo, Frank, Antonio, Margot e Maurice. Voleva rivederli, tutti loro, e voleva rivederli sani e salvi.
Quando quella motivazione arse più forte di qualsiasi altro pensiero, percepì la realtà sollevarsi attorno a lui come un velo. La sua coscienza fu spinta fuori dal corpo e si ritrovò a fissare il goffo involucro vuoto di Lyonel Smith, seduto sul letto in una squallida camera vista dall’alto. Si spinse ancora più in alto, oltre le travi di legno marcio del soffitto mangiate dai topi, oltre le tegole sconnesse e consumate del tetto. Poi volò ancora più lontano, superando il centro abitato, le colline e le valli boscose. Era una sensazione vertiginosa, ma non fu quello a spaventarlo a morte.
Fu la vista della Torre.
Si stagliava alta fino alle nuvole, una lama di oscurità fittissima che turbinava piano su se stessa e non lasciava trapelare nemmeno una stilla di luce. Era uno spettacolo surreale, da togliere il respiro: il cielo completamente terso, la campagna gialla e verde che si estendeva per chilometri e proprio nel mezzo, quella colonna vorticante in cui ogni cosa si annullava.
Sono laggiù.
Riusciva a percepire le loro aure, flebili guizzi che baluginavano in quella landa fredda, desolata e incolore, il che significava che erano vivi. Ma percepì qualcos’altro: un’aura spaventosa, che pulsava come un cuore al centro del ciclone. Era lì che tutto si era generato, da un pozzo senza fine scavato da anni di dolore, rabbia, fame di vendetta...
Era un potere che superava ogni immaginazione, contro cui sapeva di non avere speranze. Ma in quel momento non gli importava. Doveva assicurarsi che i suoi amici fossero illesi. Solo questo contava.
Prese coraggio e si spinse incontro alla Torre...
Qualcosa però lo afferrò con forza e Jim fu risucchiato all’indietro. Il mondo si mise a ruotare a una velocità da capogiro, mentre la Torre si allontanava fino a diventare sottile come un taglio nel blu e Jim piombava di nuovo nel suo corpo, seduto sul letto, col fiatone e le vertigini.
«Sei impazzito?!» esclamò una voce molto vicina e arrabbiata. Una voce dannatamente familiare.
Jim sollevò di scatto la testa e si ritrovò a fissare due occhi scuri e luminosi su un volto incorniciato da ricci corvini.
«Alycia?!» 
Sbatté le palpebre più volte per accertarsi di non avere le traveggole: era davvero l’ultima faccia che si sarebbe aspettato di vedere.
La ragazza si avvicinò senza una parola alla finestra e abbassò l’avvolgibile, facendo piombare la stanza in una strana penombra giallognola.
«Sei stato un incosciente ad avventurarti da solo nel Piano Astrale!» gli disse poi in tono di rimprovero. «Ogni Zelota nascosto in America sta aspettando una tua mossa e quando hai provato a connetterti con la Torre hai praticamente lanciato un segnale luminoso visibile da chilometri! Mi auguro solo di aver interrotto il contatto in tempo…»
Ma Jim era ancora troppo scosso per elaborare tutte quelle informazioni insieme. Decise di concentrarsi su una questione per volta: «Sei...sei davvero tu?»
«No, la Fata Turchina! Che razza di domande...!»
«Dimostralo» ribatté Jim con voce più risoluta. «Non è la prima volta che mi giocano questo scherzetto. Dimostrami che non sei un’impostora o ti spedisco all’istante fuori di qui.»
Le sopracciglia scure di lei formarono due archi perfetti, ma poi vide le sue mani sollevate in posizione di attacco e realizzò che non stava affatto scherzando. «D’accordo, cosa devo fare?»
«Dimmi qualcosa su di me che solo la vera Alycia può sapere.»
«Che cosa stupida...»
«Conto fino a tre» la avvertì Jim, i palmi puntati contro di lei. «Uno, due...»
«Va bene, va bene! Fammi pensare...» Le sue guance divennero di colpo rosse come papaveri. «Hai...ehm, hai una voglia, appena sopra la natica destra. A forma di melanzana.»
Lui abbassò le mani. «Sarebbe una falce di luna» puntualizzò, non sapendo se sentirsi più sollevato o imbarazzato.
«A me sembrava proprio una melanzana.»
«Significa che non hai immaginazione. Sei decisamente Alycia.»
«Be’, grazie al cielo!» replicò lei sarcastica e le labbra di Jim si tirarono automaticamente in un sorriso: gli era mancato il suo caratteraccio. «Ora però è il mio turno: scusa ma non ce la faccio a guardarti con questa faccia.»
Lui si accigliò per un momento e lentamente cambiò aspetto: i tratti del volto si fecero più affilati e volpeschi, la fronte si abbassò, gli occhi tornarono a occupare la giusta distanza e i capelli color paglia recuperarono la calda tonalità rossiccia.
«Meglio?» chiese, sentendosi anche lui molto più a suo agio. «Come hai fatto a trovarmi?»
«Ho seguito la tua traccia astrale finché ho potuto, ma visto che hai smesso di usare la magia da diversi giorni mi sono fatta aiutare da Valdar: gli orchi possono fiutare un odore anche a miglia di distanza.»
«Hai portato Valdar qui!?»
«Col suo aspetto umano» lo rassicurò lei. «In questo momento è giù in strada, in caso arrivi quel tuo coinquilino, mentre Wiglaf sorvola il quartiere: ti teniamo d’occhio già da qualche giorno.»
Il sorriso di lui deviò in una smorfia: chissà perché quell’espressione non gli era nuova. «Come mai sei qui?» domandò, recuperando in parte l’atteggiamento sospettoso. «Ti credevo ad Arcanta assieme ai tuoi brillanti amici alchimisti...»
«Ho lasciato il Cerchio d’Oro.»
Lui si interruppe, sinceramente sorpreso. «Cosa? Perché?»
«Perché non era ciò che pensavo» rispose lei, con voce atona. «Non lo erano molte cose ad Arcanta. Così me ne sono andata.»
Lui tacque per un momento. In verità aveva un’infinità di cose da chiederle, ma ce n’era una che aveva la priorità su tutte: «Che cosa sai della Torre Nera? I Mancanti pensano si tratti di un tornado come gli altri.»
«Non so di preciso cosa sia, ma di certo non ha cause naturali» La ragazza trattenne un brivido. «C’è una frattura nel Tutto, chiunque dotato di poteri magici se ne è accorto. L’unica spiegazione è che Lucindra in qualche modo sia riuscita a liberarsi.»
Jim impietrì e un gelo profondo gli scivolò dentro. Le voci nella sua testa, la facilità con cui aveva attinto potere dal Vuoto, il suo ascendente su di lui che si intensificava di giorno in giorno. Dipendeva tutto da Lucindra?
«Come può averlo fatto? Senza me a farle da amplificatore...?»
Alycia scosse tristemente la testa. «Non ne ho idea, ma qualunque cosa abbia in mente sta facendo tutto per attirarti da lei: ha bisogno di un altro Plasmavuoto per estendere il Vuoto a tutto il mondo e distruggere Arcanta. Così metterà in atto la Profezia.»
«Ha preso i miei amici» disse Jim, in preda all’angoscia. «Sono dentro la Torre, ma sento che sono ancora vivi...»
«Non penserai di andare là?»
«Cos’altro posso fare? Starmene nascosto mentre Lucindra li tiene prigionieri o li tortura o che so io? Mentre il Vuoto inghiotte intere città?»
«Jim, ascoltami.» Alycia gli sedette vicino. «Lo so che è terribile, ma non posso permetterti di andare. Per questo sono qui: devi venire con me ad Arcanta.»
«Non è un buon momento per scherzare.»
«Lo so che sembra una pazzia» replicò lei precipitosamente. «Ma è l’unico luogo dove sarai al sicuro. Da sola Lucindra non può attaccare la Cittadella e se ti costituirai di tua volontà il Decanato potrebbe garantirti un giusto processo: ad Arcanta non sono tutti senza cuore come Blackthorn, di sicuro Macon e molti altri maghi saranno dalla nostra parte.»
Il ragazzo la fissò in silenzio, inespressivo. Poi balzò in piedi.
«Jim...» lo chiamò Alycia.
«Ti ha mandata lui, vero? È un’altra delle macchinazioni di tuo padre!»
«No! Cioè sì, è una sua idea...ma non si tratta di una macchinazione! Sono qui perché voglio aiutarti.»
Lui però continuò a tenersi a debita distanza. «Scusa tanto, ma ho vissuto abbastanza con voi Blake da potermi aspettare una coltellata alle spalle da un momento all’altro.»
Alycia assunse un’espressione mortificata. «Hai ragione. Mi dispiace per ciò che ha fatto, anche lui ne è profondamente pentito. Non intendeva farti del male...»
«Ha cercato di rapirmi quando avevo sei anni!» scattò Jim. «E si sarebbe sbarazzato di mio padre senza remore! Se c’è una cosa che ho imparato su voi maghi è che siete tutti uguali: Lucindra, Solomon Blake, ognuno ha i propri scopi ed è pronto a tutto pur di raggiungerli.»
«Se non puoi fidarti di loro allora fidati di me» ribatté Alycia, accorata. «Non ti lascerò affrontare il Decanato da solo...»
«Che pensiero amorevole» soffiò Jim, con voce aspra. «Continui a recitare la tua parte anche adesso.»
«Quale parte, di che stai…?»
«Hai finto di essere interessata a me solo perché tuo padre potesse tenermi al guinzaglio!» esplose Jim, ormai del tutto fuori controllo. «Fammi capire, stavolta in che modo voleva che mi convincessi...?»
Alycia avvampò e l’aria attorno a lei sfrigolò di indignazione; il lampadario si mise a ruotare come impazzito sulle loro teste e persino i pochi mobili dell’appartamento tremarono impauriti. Jim scorse ramificazioni verdi strisciare da sotto le assi del pavimento e sentì l’impulso di arretrare: quando aveva quel tipo di reazioni c’era di che stare attenti.
«Non posso credere che pensi una cosa del genere!» esclamò Alycia, con voce stentorea. «Mio padre non mi ha chiesto di fare proprio niente, imbecille! Quando ci siamo conosciuti non avevo idea di chi fossi, tutto quello che è successo tra noi era reale! Poi, quella notte a New Orleans, quando abbiamo…quando le nostre auree sono entrate in contatto, ho visto i tuoi ricordi, ho visto cosa è accaduto alla fattoria. Sono corsa da mio padre a chiedere spiegazioni e lui mi ha raccontato ogni cosa...»
«E hai pensato bene di tenermi all’oscuro di tutto!» rispose Jim a tono. «Mi hai ignorato, insultato e poi cacciato da Arcanta!»
«Non avevo scelta! Non potevo compromettere la vostra copertura...»
«Potevi rimanere dalla mia parte!» gridò Jim. «Essere mia amica! E invece hai preferito comportarti da egoista come tuo padre...!»
«Credi che sia stato facile per me?» strillò Aycia. «Avevo appena avuto la conferma che mio padre fosse un criminale e che stesse proteggendo una persona potenzialmente pericolosa! Ma ho scelto di fidarmi. Ho continuato a far finta di indagare per conto di Volkov, gli ho mentito, mi sono esposta a un rischio che tu nemmeno puoi immaginare! Ho dovuto affrontare da sola il mio maestro, mi sono esposta davanti a tutta Arcanta! Ho persino aizzato l’Anthea Ingannatrice contro la Corte delle Lame e rubato un velodrago! Perciò, non dare a me dell’egoista, perché l’unica cosa che ti è stato chiesto di fare era di non comportarti da sciocco impulsivo per una volta!»
Jim si chiuse in un lungo silenzio caparbio. Malgrado la rabbia che gli ribolliva dentro, malgrado avesse ancora così tanto da dire, così tanta sofferenza da riversarle addosso, il pensiero di essere stato il centro nevralgico e la causa di tutto quel caos lo turbò nel profondo. «Mi dispiace» borbottò alla fine.
Alycia acquietò il suo potere e rimasero per un lungo momento a fissarsi, ma l’intero appartamento continuò a scricchiolare, come in allerta.
«Mi dispiace» ripeté lui, un po’ più forte. «Non avrei mai voluto tutto questo.»
«Lo so.»
«Tuo padre» fece Jim con voce incerta. «L’ho colpito piuttosto forte. Sta...sta bene?»
«Sta bene. Tra voi due non so chi abbia la testa più dura. Boris lo ha consegnato ad Arcanta, in questo momento starà ricorrendo alle sue doti oratorie per accattivarsi i Decani: non mi meraviglierei se fosse già riuscito a farsi assegnare la più lussuosa delle prigioni.»
La notizia offrì a Jim un po’ di sollievo.
«Volevo solo appartenere a qualcosa» mormorò poi. «Non sentirmi più un errore...»
«Tu non sei mai stato un errore, Jim.»
«Guarda.»
Sfilò i guanti e le mostrò le mani, le falangi nere, come se fossero in cancrena. Lei non si mosse, ma Jim riconobbe una scintilla di inquietudine nel suo sguardo, come in quello di tutti coloro che lo vedevano per quello che era veramente.
«Ho fatto delle cose terribili, Alycia, e non perché Lucindra mi ha costretto. Le ho fatte perché lo desideravo. Arcanta ha ragione, io... sono un mostro.»
«No che non lo sei!» disse Alycia con forza, gli occhi che iniziavano a velarsi di lacrime. «Tu sei Jim Doherty, questo è tutto ciò che conta. E non ho intenzione di perdere anche te senza lottare.»
Un altro silenzio. Jim rimise i guanti e Alycia asciugò le guance col dorso della mano.
«Allora» chiese lei dopo un momento. «Che hai intenzione di fare adesso?»
«Andrò alla Torre Nera.»
Alycia sembrava aver esaurito le energie. «Non hai sentito una sola parola..?»
«Sì, ho sentito. Ma non mi interessa.»
«Farai il suo gioco se vai là!»
«E se non ci vado avrò comunque sulla coscienza migliaia di morti» disse Jim, in tono calmo ma categorico. «Ho trascorso tutta la vita a scappare, non voglio più farlo. Forse Arcanta è disposta a lasciare che Mancanti e Dimenticati scompaiano dalla faccia della terra, forse agli stregoni non è mai importato niente di loro, ma a me sì!»
Alycia ricambiò il suo sguardo, incredula e spaventata.
«Sentiti libera di fare quello che ritieni opportuno» concluse Jim. «Torna ad Arcanta, aspetta che la tempesta sia passata. Io vado a salvare la mia famiglia.»
La superò a grandi passi diretto alla porta, ma si sentì afferrare per il braccio.
Mentre si voltava, era pronto a vedersi scagliare addosso un incantesimo che gli avrebbe impedito di lasciare l’appartamento, persino che lei lo tramortisse per portarlo via con sé. Ma non era pronto al bacio.
Nell’istante in cui le labbra di lei chiusero le sue, la testa di Jim si svuotò e tutto quello che era accaduto e che sarebbe potuto accadere di colpo non esistette più. Esisteva solo Alycia, il suo sapore, la morbidezza setosa dei suoi ricci che gli scorrevano tra le dita, il calore del suo corpo che gli ricordava che erano ancora vivi.
Quando si separarono, Alycia lo fissò negli occhi, con quel suo sguardo torvo e battagliero che lo aveva sempre fatto impazzire. «Vengo con te.»
«Se avessi saputo che bastava così poco per convincerti ti avrei baciata prima...»
«Non puoi andare laggiù da solo» lo zittì lei, ritornando pragmatica. «E senza un piano ti farai di sicuro catturare. Ti aiuterò a trovare i tuoi amici e a liberarli, ok? Ma avremo bisogno di rinforzi; farò sapere al Decanato dove trovarci, in questo modo sguinzaglieranno il loro esercito al completo e una volta condotti da Lucindra, lasceremo che si affrontino: se siamo fortunati, si terranno impegnati abbastanza a lungo da non badare a noi che ce la squagliamo.»
«È un piano terribile.»
«È l’unico che mi viene in mente. Ma almeno abbiamo ancora dalla nostra l’effetto sorpresa. Perciò dobbiamo sbrigarci, prima che il Vuoto venga a prenderci.»

 

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Capitolo 44
*** La notte si avvicina ***


LA NOTTE SI AVVICINA


 


 



The darkness is falling, the sky has turned gray
A hound in the distance is starting to bey
I wonder, I wonder what she's thinking of
Forsaken, forgotten without any love

Alone and Forsaken - Hank Williams

https://www.youtube.com/watch?v=TDBsss3DYZ0&ab_channel=TheWizard




La Torre Nera continuava a macinare chilometri, e stando a quanto appreso alla radio, nel giro di una settimana sarebbe entrata in rotta di collisione con Topeka, lasciandosi dietro una scia di morti sconcertante.
Jim, Alycia e Valdar viaggiarono in treno fino a Memphis e da lì fino a Saint Louis, ma da quel punto in poi avrebbero dovuto proseguire in altro modo, visto che le linee ferroviarie erano state tutte soppresse e avevano sentito di posti di blocco presidiati da soldati lungo le arterie principali.
Durante il viaggio, i due maghi adottarono delle precauzioni per attirare il meno possibile l'attenzione sul loro piccolo gruppo, sia quella dei Mancanti che di eventuali stregoni; un incantesimo di trasmutazione lasciava tracce fin troppo riconoscibili, ma secondo Solomon Blake la discrezione era una delle prime lezioni che un mago doveva imparare e spesso aveva poco a che fare con la magia in sé: a conti fatti, si avvicinava più all'illusionismo.
Nelle lunghe ore trascorse in treno, mentre Wiglaf controllava la situazione dall'alto, Jim e Alycia studiarono una strategia che permettesse loro di venire risucchiati dalla Torre senza farsi scoprire. E soprattutto, senza rimanerne uccisi:
«Se sei riuscito a percepire le aure della compagnia, significa che con molte probabilità anche i Mancanti che la Torre ha inglobato sono ancora vivi» ragionò Alycia. «Deve essere possibile sopravvivere nel Vuoto, giusto?»
«Per quanto ne so le emanazioni del Vuoto sono tossiche per chiunque non sia un Plasmavuoto» rispose Jim, rabbrividendo al pensiero del suo maestro che tossiva sangue nero, indebolendosi giorno dopo giorno; l'ultima cosa che voleva era che anche Alycia contraesse lo stesso male. «Il solo modo per sopravvivere è l'assuefazione alla Materia Vuota, ma anche quella a lungo andare ha effetti collaterali...»
L'espressione di lei si annuvolò, mentre tornava a esaminare ancora una volta la mappa, tamburellandovi sopra l'indice; era strano vederla in quello stato, nei panni di una contadina con un foulard annodato in testa e le guance scottate dal sole. Ma, osservandola, Jim non poté non riconoscere in lei gli stessi atteggiamenti di suo padre.
«Purtroppo non c'è modo di sapere cosa ci aspetterà laggiù» appurò infine, lasciando andare un sospiro stanco. «L'ideale sarebbe trovare un'alternativa alla Materia Vuota che permetta a me e Valdar di entrare nella Torre senza subirne gli effetti. Ma senza un laboratorio a disposizione la vedo dura.»
Seduto di fianco a loro, l’orco occupava due sedili e da sotto la visiera della coppola squadrava truce chiunque passasse vicino al loro scompartimento, per scoraggiarlo a entrare. Se con loro due Alycia aveva fatto un buon lavoro, adottando un mix di trucco scenico e alchimia per alterarne i connotati, con Valdar aveva compiuto un piccolo miracolo: a parte per l'altezza notevole, appariva un massiccio, scorbutico, vecchio agricoltore dalla folta barba rossa in viaggio coi due figli adolescenti.
«Abbiamo ancora qualche giorno» replicò Jim, sforzandosi di rimanere ottimista. «E i libri di tuo padre da consultare...»
«Continuo a pensare che sia stata una mossa stupida» mormorò Alycia, riprendendo a rosicchiandosi ossessivamente le unghie. «Chi vogliamo prendere in giro? Non riusciremo mai a entrare nella Torre senza farci ammazzare! Dovevo capirlo subito che era un piano suicida!»
Lui mise una mano, avvolta in un guanto di pelle, sul suo braccio. «Troveremo una soluzione» disse, cercando di imporre in quelle parole tutta la sua determinazione. «Io sono lo stregone oscuro più pericoloso in circolazione, il Flagello di Arcanta...»
«Sarebbe il tuo nuovo nome d'arte?»
«... E tu sei la più geniale alchimista che conosca.»
«E quanti altri alchimisti conosci?»
«Nessuno a parte te che abbia cavalcato un drago.»
«I velodraghi non contano, sono docili come passerotti.»
«Passerotti di sei tonnellate, con le zanne e che sputano fuoco.»
«Tecnicamente non hanno neanche le ghiandole focaie...»
«Un modo c'è di sicuro» concluse lui. Ripensò al suo breve incontro con Isabel Ascanor, che in qualche maniera era riuscita a sopravvivere nel Vuoto per diciassette anni; dentro di sé si sentiva ancora vincolato alla promessa fatta a Solomon di non fare parola con Alycia della sua missione di salvarla, ma prima o poi avrebbe dovuto affrontare la questione. «E se c'è una maga in grado di trovarlo quella sei tu.»
Con riluttanza, lei cedette a un piccolo sorriso e rivolse l'attenzione fuori dal finestrino.
 

Lasciata Saint Louis alle spalle, li aspettava una camminata di almeno duecento miglia fino in Kansas, attraverso le Grandi Pianure. Usarono il denaro di Solomon per comprare vestiti pesanti e un furgoncino, dopodiché Valdar si mise alla guida, mentre Wiglaf li seguiva in volo, oppure si tramutava in un piccolo cane bianco che scorrazzava loro attorno nelle zone più affollate. Ma per la maggior parte del tempo preferivano percorrere strade secondarie e evitare i grossi centri finché potevano; sostavano dove capitava, motel e stalle abbandonate per via del tornado, talvolta in mezzo al nulla più assoluto. Era dura senza usare la magia, soprattutto dal momento che le temperature iniziavano a scendere: era dicembre inoltrato e fra non molto sarebbero iniziate le prime nevicate.
Man mano che si avvicinavano alla Torre, il paesaggio che si presentava loro di fronte si faceva sempre più tetro e desolato: lungo le strade circolavano poche auto e quasi tutte viaggiavano in direzione opposta a quella dove erano diretti. S’imbattettero in interi villaggi evacuati, fattorie e fabbriche sprangate. Sempre più di frequente, incrociavano lunghissime carovane in fuga e la gente cercava in tutti i modi di convincerli a fare dietro front. Ma non era solo il paesaggio antropico a essere stato profondamente cambiato: un vento gelido spirava da Nord-Ovest e l’aria era satura di elettricità, tanto che Jim poteva vedere delle scintille sprizzare tra i capelli di Alycia. I campi erano tutti inariditi, gli alberi spogliati dalle loro foglie e nel cielo plumbeo non volava neppure un uccello. Il sole li aveva abbandonati da giorni.
«Il Tutto diventa più debole man mano che la Torre acquista potenza» aveva commentato Alycia. «Riesci a percepirlo?»
Sì, Jim lo percepiva. Nell’aria, sotto la pelle: il richiamo del Vuoto. Se ne sentiva attratto come l'ago col magnete, tanto che ormai non aveva più bisogno di consultare la mappa o affidarsi all'orientamento di Valdar per sapere in che direzione andare. Le voci nella sua testa erano un tormento incessante, diventavano sempre più forti e arrabbiate e solo la vicinanza di Alycia sembrava in grado di tenerle a bada; di giorno, si tenevano compagnia punzecchiandosi a vicenda, di notte si coricavano vicini, raccontandosi storie in attesa che la stanchezza portasse via ogni pensiero. Jim non si era ancora abituato all'idea di loro due insieme e di certo la presenza di Valdar e il pericolo costante di essere catturati non lasciava molto spazio al romanticismo. Ma anche in quella strana routine, fatta di battute, baci rubati e piccole premure, Alycia lo aiutava a tenere lontana dal suo cuore l'oscurità.
 
«Non era proprio quello che avevo in mente, quando pensavo di portarti a cena fuori.»
Avevano trovato riparo nella tavola calda vicino una pompa di benzina abbandonata sulla Route 169, a due giorni da Kansas City. Valdar aveva immediatamente preso possesso della cucina e dal loro tavolo solitario, Jim sentiva un allegro tramestio di pentole: dopo giorni di dieta a base di funghi bolliti, uova di quaglia e scoiattoli allo spiedo, tornare alla sua amata arte culinaria sembrava avergli ridato il buon umore. Presto, un delizioso profumino di stufato si diffuse nell’ambiente e con una stretta al cuore, Jim ripensò alla brodaglia cucinata da Dot, al tendone della mensa, alla tavolata con le panche di legno attorno a cui la compagnia si raccoglieva dopo ogni spettacolo. Avrebbe ceduto al Vuoto qualunque cosa per ottenere in cambio la possibilità di cenare con tutti loro ancora una volta.
Alycia gli sedeva di fronte, le braccia incrociate sul tavolo e lo sguardo assente, rivolto oltre i vetri impolverati. Fuori, il mondo era immerso in una lugubre luce grigio-violastra e sembrava malato.
«Nella mia fantasia l’atmosfera era decisamente più allegra» disse Jim, in un maldestro tentativo di sdrammatizzare. «E c’erano i nachos.»
«Ho provato a contattare mio padre in astrale, stamattina.»
Jim cominciò subito ad agitarsi, ma cercò di non darglielo a vedere. Avevano deciso di comune accordo di rivelare la loro posizione al Decanato, nella speranza che Volkov, Macon e Una sarebbero accorsi immediatamente per catturarlo. Nessuno di loro aveva dato segno di aver ricevuto il messaggio.
«Ebbene?»
«Non riesco a raggiungerlo» mormorò lei e in quel momento Jim si accorse che stringeva tra le dita l'orologio da taschino di suo padre. «È come se…se ci fosse qualcosa che mi impedisce di toccare la sua aura.»
«Probabilmente lo hanno rinchiuso in una cella speciale dove la magia non funziona…»
«Ho provato anche con Volkov, stessa cosa. Non so cosa pensare, prima di mandarmi via mio padre ha detto aveva intenzione trovare Lucindra per vendicarsi.»
Jim avvertì una contrazione allo stomaco. «Stai dicendo che non hanno mai raggiunto Arcanta? Che sono anche loro nella Torre…?»
«Non lo so! Te l’ho detto, è solo un’ipotesi!» Alycia continuò a rigirarsi tra le dita l'orologio di suo padre, sempre più turbata. «Se solo ci avesse dato un taglio con quei suoi dannati esperimenti! Se era riuscito a imprigionare Lucindra nel Vuoto, che motivo c'era di andare avanti..?»
Il nodo nello stomaco di Jim si fece più stretto. Deglutì. «Per salvare tua madre.»
Alycia sollevò di scatto la testa e puntò gli occhi nei suoi. «Cosa?»
Lui prese un respiro profondo, dopodiché le raccontò ogni cosa: di come, grazie al sacrificio di Isabel, Lucindra fosse stata reclusa per diciassette anni nel mondo oltre gli specchi insieme a lei, della ricerca ossessiva di Solomon Blake dello Scambio Equivalente che gli avrebbe permesso di liberarla. Di come avesse assunto per anni Materia Vuota per cercare di raggiungere la donna che amava, anche a costo di uccidersi lentamente, di incorrere nella punizione del Decanato, di allontanarsi da sua figlia. Solo, senza nessuno su cui poter contare eccetto la propria forza di Volontà...
Alycia ascoltò il racconto senza emettere un fiato, pallida e con gli occhi traboccanti di lacrime. Solo alla fine, quando Jim ritenne di aver vuotato il sacco fino in fondo, mosse appena le labbra per sussurrare: «É uno stupido pazzo.»
«Mi vengono in mente un mucchio di altri aggettivi per descrivere tuo padre. Ma credo che abbia fatto tutto questo principalmente per te.»
Lei tirò su col naso, scuotendo piano la testa.
«Ha anche costruito una macchina» proseguì Jim. «Nimbus, così si chiama, in modo da creare un collegamento con il Vuoto. Questo, insieme allo Scambio Equivalente e a me come catalizzatore, avrebbe permesso a tua madre di tornare nel nostro mondo.»
«E stava funzionando?»
Jim annuì cupamente. «Probabilmente, se mi fossi applicato un po' di più ci saremmo già riusciti. Ma questi nuovi poteri...mi spaventavano. Non che adesso sia molto diverso.»
«Lui mi aveva raccontato un'altra versione» disse Alycia con voce roca. «Mi aveva detto di voler usare lo Scambio Equivalente per cancellare il tuo legame col Vuoto.»
Questa volta fu Jim a guardarla a bocca aperta, colto totalmente alla sprovvista. «Lui...che cosa?»
«Si sentiva responsabile delle sofferenza provocata da Lucindra ai danni della tua famiglia e voleva rimediare, rendendoti un mago come tutti gli altri.»
«É davvero possibile?»
Alycia emise una risata spenta. «Chi può sapere cosa sia vero e cosa no a questo punto? Mio padre ci ha tessuto attorno una rete di inganni così fitta che ne è rimasto intrappolato lui stesso. É più forte di lui.»
«Però alla fine hai scelto di stare dalla sua parte.»
Lei lo fissò e poi distolse lo sguardo, spostandolo sull'orologio d'argento.
«Una parte di me non voleva, non dopo tutto il dolore che avevo provato a causa sua.»
«E cos'ha fatto per convincerti?»
«Nulla» rispose Alycia con semplicità. «Ero sicura che avrebbe tirato fuori il solito repertorio, che avrebbe cercato di persuadermi, di giustificarsi...ma non ha fatto niente di tutto questo. Ha ammesso di essere stato un pessimo padre e una persona nociva per chiunque gli orbiti attorno, di essere colpevole di ogni crimine il Decanato lo accusasse. Ha detto che la scelta migliore fosse quella di denunciarlo...ma non subito. Non prima di aver ripagato l'enorme debito verso di te.»
Jim aveva iniziato a tremare, come se il gelo innaturale all'esterno avesse trovato il modo di insinuarsi nel locale, di entrargli fin dentro alle ossa. Pensò all'ultima volta in cui lui e Solomon si erano esercitati insieme, alle parole che lui gli aveva rivolto prima di venire sopraffatto dalla stanchezza, prima che Jim provasse a derubarlo del suo grimorio...
Sono davvero riconoscente per il tuo aiuto, voglio che tu lo sappia.”
Allora non vi aveva prestato troppo peso. Covava troppa rabbia, dentro, troppi dubbi per potergli credere. Ma in quell'istante realizzò che, per la prima volta da quando lo conosceva, Solomon Blake era stato del tutto sincero con lui.
Tornò Valdar e posò sul tavolo tre ciotole di spezzatino fumante, dopodiché si sedette pesantemente in mezzo a loro, felice come una Pasqua e li scrutò con aria perplessa, come se si stesse chiedendo chi mai potesse tenere il broncio di fronte a una squisitezza del genere. Ma Jim sentiva un enorme peso sullo stomaco.
«Se solo fossi rimasto…»
«Non dirlo.»
«Avremmo affrontato Volkov insieme, forse saremmo riusciti a respingerlo o a scappare. E a quest’ora avresti tuo padre e tua madre sani e salvi.»
«Ti ho detto di smetterla, Jim.»
«Ma è solo colpa mia se…»
«Tutti hanno la propria dose di responsabilità in questa storia» disse Alycia duramente, prendendo le posate da un bicchiere di latta al centro tavola. «Lucindra, il Decanato, mio padre, Volkov, io stessa. Pensiamo di agire per fare la cosa giusta, ma alla fine ci importa solo di raggiungere i nostri scopi. È nella natura degli stregoni, o forse degli esseri umani in generale. Ma vivere di rimorsi non metterà a posto le cose. Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare per rimediare: liberare i tuoi amici, trovare mio padre e se ci riusciamo impedire l'estinzione dell'intera umanità.»
Sia Jim che Valdar la guardarono, ammutoliti.
«Mangiamo» tagliò corto lei, girando il cucchiaio nella ciotola. «Meglio affrontare la Fine del Mondo riposati e con la pancia piena che tormentati dai sensi di colpa.»
 

L'indomani mattina si misero in marcia molto presto, dopo aver cancellato ogni traccia del loro passaggio. Ma prima di andare, Alycia volle bruciare delle foglie secche sul retro della tavola calda per mandare un ultimo messaggio alla Cittadella usando il Fuoco Ascetico, nella speranza che i Decani rispondessero al loro appello e mandassero qualcuno dei loro a inseguirli.
Ma mentre Jim osservava le fiamme sollevarsi in un bagliore bianco e poi tornare ad affievolirsi, sentì rafforzarsi dentro di sé la consapevolezza che nessuno sarebbe venuto in loro aiuto; che per quanto considerassero pericolosa Lucindra, gli abitanti di Arcanta non avrebbero lasciato la sicurezza delle loro mura incantate per una manciata di insignificanti esseri umani. Che erano soli contro un nemico invincibile, un nemico che con molte probabilità aveva già fatto fuori due degli stregoni più potenti di Arcanta. E la cosa peggiore di tutte, che non lo faceva dormire di notte e tormentava i suoi pensieri di giorno, era sapere di aver condannato Alycia a seguirlo in quel triste destino...
Nessuno dei due affrontò l'argomento nei giorni successivi e lunghi silenzi accompagnarono il loro tragitto attraverso lande desolate e cieli spenti.
Almeno fino a quella sera.
Stavano attraversando un frutteto alle porte di Topeka; gli alberi avrebbero dovuto essere carichi di frutti maturi, ma l'influsso mortifero della Torre lì si sentiva più forte che mai e aveva fatto marcire tutte le mele. Ne calpestarono i resti finché alla loro vista apparve un imponente edificio in mattoni, evacuato di recente.
«Un ospedale» disse Jim, leggendo la targa all'ingresso. «Lo Sherwood Sanatorium, inaugurato nel 1919. Ci curavano i malati di tubercolosi.»
Decisero di trascorrervi la notte e, mentre Valdar faceva un rapido inventario della dispensa, Jim e Alycia si misero a esplorare. Il complesso era gigantesco e metteva un po' i brividi con quei corridoi vuoti e silenziosi, lungo i quali si aprivano decine di stanze da letto tutte uguali e in cui aleggiava ancora un forte odore di disinfettante. Ma aveva anche un che di raffinato, e l'atrio era arricchito da dettagli architettonici floreali e pavimentato a maioliche. Trovarono persino un salottino che doveva fungere da zona ricreativa, provvisto di librerie, cavalletti e tele per il disegno e di un grammofono. Doveva essere stata una clinica per ricchi.
Faceva molto freddo e l'elettricità era saltata, ma in compenso trovarono acqua corrente, cuscini e coperte in abbondanza, con cui potettero allestire un dignitoso accampamento. Verso sera, Jim si dedicò all'accensione di una stufa a legna, ma a un certo punto si accorse che Alycia si era allontanata senza avvertirlo.
Illuminando i suoi passi con una torcia, vagò lungo i lugubri corridoi del piano terra e salì a esaminare le stanze al primo piano. A un certo punto, sentì un ticchettio sul vetro di una delle finestre e sobbalzò, ma era solo Wiglaf di ritorno dal volo di ricognizione.
Jim andò ad aprire e subito il corvo svolazzò per il corridoio gracchiando, poi gli si appollaiò sulla spalla, proprio come faceva sempre col suo vecchio padrone. Quel semplice gesto, così naturale, riempì Jim di tristezza.
«Manca anche a me» mormorò, accarezzandogli il piumaggio candido. «Lo riporteremo a casa, non preoccuparti.»
Proseguì la ricerca di Alycia, finché non la trovò seduta dietro un tavolo da lavoro in uno dei laboratori, alla luce di una lanterna, tra provette e sostanze chimiche. E in un certo senso se l'aspettava.
«Forse ho trovato una soluzione» esordì non appena lui comparve sull'uscio, senza un preambolo, senza un saluto e senza staccare gli occhi dalle pagine del grosso libro aperto davanti a sé. «Un modo per entrare nella Torre senza venirne uccisi. E forse, anche per guarire mio padre.»
«Sarebbe?»
Lei sollevò la testa, gli occhi accesi da una luce ardente che conosceva bene. «Il tuo sangue.»
«Ci sta» fece Jim. «Semplice, per nulla inquietante.»
«Tu sei nato da una strega e da un Mancante, ma non è il sangue di tua madre a renderti speciale per Lucindra» continuò Alycia come se non lo avesse sentito. «É il sangue di tuo padre: lui è stato riportato in vita grazie al Vuoto, è una sua diretta emanazione.»
«Perciò» completò Jim lentamente. «Stai dicendo che il Vuoto è entrato in me grazie al sangue di mio padre?»
«Corrispondenza!» disse Alycia con fervore. «Su questo si basa lo Scambio Equivalente: una vita per una vita. Il Vuoto ha restituito Tom Doherty al Tutto ma ha preteso in cambio qualcuno che avesse il suo stesso sangue. Così il cerchio si è chiuso.»
«D'accordo» disse Jim. «E in che modo pensi che il mio sangue possa risparmiarvi tutti da una morte orrenda e dolorosa?»
«Creerò un antidoto» rispose Alycia fieramente. «Grazie all'aiuto dell'Anthea Ingannatrice.»
«Cosa?»
La ragazza schiuse il palmo, mostrandogli una manciata di piccoli semi. «Non potevo mica permettere che il Cerchio d'Oro li tenesse tutti per sé. L'Anthea assorbe le proprietà di ciò di cui si nutre, per questo la sua ninfa è letteralmente una medicina per qualsiasi male: e se la nutriremo con sangue infettato dalla Materia Vuota...»
«Riusciremo a neutralizzarne gli effetti» completò Jim, emozionato e insieme spaventato all'idea. «D'accordo, è folle, ma a questo punto cosa non lo è? Ti darò una mano, di cosa hai bisogno?»
«Di un posto caldo» rispose lei, aprendosi finalmente in un vero sorriso dopo giorni. «Sole e tanta acqua. E ovviamente, avremo bisogno di musica!»

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Capitolo 45
*** Raccontami una bugia ***


 
RACCONTAMI UNA BUGIA




Creare un ambiente idoneo alla crescita dell'Anthea non fu semplice, visto che ogni elemento naturale risentiva dell'influsso della Torre. Jim e Alycia riempirono di terra due vasche da bagno e le sistemarono in un portico sul lato est dello Sherwood, quello che catturava maggiormente il calore dei raggi del sole; si riteneva che sole e aria fresca fossero indispensabili per il recupero dei malati, perciò una delle pareti era costituita interamente da una veranda, dalla quale si godeva una bella vista del frutteto e del prato che circondava l'ospedale. Costruirono un sistema di tubature che dai bagni portasse acqua alle vasche-vaso, dopodiché piantarono una manciata di semi e cercarono di mantenere l'ambiente caldo. Purtroppo, il cielo costantemente coperto impediva al sole di illuminare adeguatamente le piantine, ma speravano che la musica bastasse a stimolarne la crescita anche in quelle condizioni.
«É strano» disse Alycia, mentre con l'aiuto di Jim trasportavano il grammofono dalla zona ricreativa alla veranda. «Da quando siamo partiti non ci siamo imbattuti in nessuno Zelota. Siamo gli unici esseri umani nel raggio di miglia, è praticamente impossibile non si siano ancora accorti della nostra presenza.»
Jim convenne che era sospetto; continuavano a limitare l'uso della magia, a organizzare turni di guardia e Wiglaf restava di vedetta tutto il giorno, ma nessuno si era mai avvicinato all'ospedale. 
Ci sta aspettando. 
Era più di un presentimento, era una certezza che scaturiva dal profondo: i morsi lasciati dalla Creatura Vuota sulla sua spalla ormai si erano cicatrizzati, eppure di tanto in tanto tornavano a pungolarlo per ricordargli che non erano semplici ferite. Rappresentavano il legame con il Vuoto e con Lucindra e Jim aveva la sensazione che il risvegliarsi del dolore fosse collegato all'umore della strega. Era trionfante? Arrabbiata? Sofferente? Difficile dirlo con precisione. Forse era questo che intendeva per coscienza collettiva.
Non ci volle molto perché avvistassero la Torre in lontananza, un sottile squarcio nero tra cielo e terra. Quando l’aveva vista per la prima volta, in astrale, Jim ne era rimasto sconvolto, ma adesso era quasi rassicurante alzare lo sguardo e sapere di trovarla là; a volte si riscopriva a contemplarla per lunghi istanti, cullato dai sussurri nella sua testa e riusciva a tornare in sé solo quando Alycia lo chiamava per avere il suo aiuto.
Fortunatamente, la coltura dell'Anthea riempiva le loro giornate: Alycia si dedicava alle sue piantine con dedizione, restava ferma a irradiarle con la magia per ore e quando si dava il cambio con Jim, preparava pozioni rinvigorenti, mentre il grammofono riproduceva musica senza sosta. Quando iniziarono a spuntare i primi timidi germogli, la gioia fu tale che si presero per mano e iniziarono a ballare.
«É presto per cantare vittoria» disse Alycia, cercando di riportarli entrambi coi piedi per terra. «C'è ancora molto lavoro da fare.»
Prelevò del sangue da Jim e ne lasciò cadere alcune gocce nel terriccio e sui pistilli ancora acerbi dell'Anthea. Dovettero passare ancora alcuni giorni prima di estrarre la linfa da cui avrebbero ottenuto l'antidoto. L'attesa era snervante ma Jim cercava di rendersi utile come poteva, passando al setaccio la clinica alla ricerca di attrezzature e sbriciolando pillole per ricavarne le sostanze chimiche di cui Alycia aveva bisogno. Lavoravano fianco a fianco incessantemente, finché un giorno, Alycia esaminò un campione di linfa al microscopio e annunciò: «Pare che le vostre cellule si siano combinate! Guarda: l'Anthea ha inglobato la Materia Vuota contenuta nel tuo sangue, non avevo mai visto niente di simile!»
Jim sorrise e le posò un bacio fra i capelli. «Questa è la prova che al Cerchio d'Oro non capiscono un'emerita fava: saresti stata la loro alchimista migliore. Sono sicuro che quando salveremo Arcanta, ti supplicheranno di tornare!»
Lei rimosse gli occhiali e incrociò il suo sguardo. «Chi dice che io voglia tornare? Mio padre su una cosa non sbagliava: le conoscenze di Arcanta potrebbero davvero cambiare questo mondo in meglio, ma ai Decani non interessa salvare vite. Ora che lo so, non intendo più farne parte.»
«Ma era il tuo obiettivo» replicò Jim, stupito. «Volevi diventare come tua madre, no?»
«Mia madre si è sacrificata per permettere ad altri di vivere» rispose lei, accigliata. «Non ha senso possedere poteri quasi divini se restiamo indifferenti alla sofferenza umana: non lo avrei mai capito se non fosse stato per te.»
«Me?»
«Se non mi avessi mostrato come la magia possa essere usata per aiutare gli altri, sarei rimasta a servire un branco di ottusi burocrati senz'anima» completò lei, guardandolo con un'intensità che quasi lo intimidì. «Sei un ottimo mago, Jim. Ora capisco cosa mio padre vedesse in te.»
Lui tese la mascella. Si sentì uno sciocco, ma ebbe l'impressione di affogare letteralmente nelle proprie emozioni. Distolse in fretta lo sguardo, riconoscente e turbato insieme: «Vado a cercare altra legna o stanotte congeleremo.»


Era una mattinata grigia e fredda e la terra brulla del frutteto scricchiolava sotto le sue suole: l'inverno era definitivamente arrivato e a Jim sembrò quasi di sentire odore di neve nell'aria.  Mentre vagava tra gli alberi spogli e rinsecchiti, vide sul terreno un cumulo di piume arruffate. 
Un pettirosso morto. Jim si accovacciò e raccolse tra le mani coperte da guanti la piccola creatura, così fragile e misera; Margot gli aveva raccontato che esisteva una simbologia antica sui pettirossi, messaggeri di cambiamento e di speranza. Trovarne uno morto rappresentava un cattivo presagio per l'anno venturo.
Jim rivolse uno sguardo alla Torre Nera che vorticava all'orizzonte. Secondo Alycia, per i maghi era un dovere usare la magia per qualcosa di più alto della mera erudizione e Solomon Blake aveva cercato di fargli capire che persino la sua natura di Plasmavuoto poteva essere indirizzata verso qualcosa di buono.
Si sfilò un guanto tirandolo via coi denti e scoprì la mano segnata dalla Magia Vuota, nera dalle dita fino al palmo. Coprì il corpicino del pettirosso e chiuse gli occhi.
Percepì il fiume attorno a sé, le acque nere e vorticanti del Vuoto. Un coro di voci ultraterrene si levò in segno di benvenuto, mentre si immergeva sempre più nel gelo. Il buio lo circondò, un deserto arido e inospitale, ma in esso vide baluginare una luce. Era diversa da quella del Tutto, dal suo calore bruciante. Questa fiamma ardeva bassa e malinconica, quasi fredda. Jim allungò una mano per afferrarla...
Qualcosa si agitò sotto il suo palmo, facendogli il solletico. Sollevò la mano e il pettirosso arruffò le piume, poi spiccò il volo come un proiettile e sparì oltre le fronde di un melo, diffondendo il suo vivo cinguettio nel cielo.
La memoria gli restituì improvvisamente un ricordo appartenuto a una vita lontana, relegato in un angolo della sua mente: il ricordo di sua madre, seduta insieme a lui nel giardino dietro la fattoria, che creava dal niente un uccellino e gli insegnava a non aver paura del Grande Cambiamento che, volente o nolente, avrebbe portato nel mondo col suo potere. Il potere di plasmare la realtà, di distruggere sì, ma anche di creare. Di donare seconde possibilità, forse. Come per suo padre. 


«Stasera è la Vigilia di Natale.»
Jim, Valdar e Alycia erano riuniti nell'atrio dell'ospedale, imbacuccati nelle coperte attorno alla stufa; fuori dalle finestre, delicati fiocchi di neve avevano iniziato a cadere senza far rumore.
«Davvero?» domandò Alycia dal suo fagotto di coperte, mentre sfogliava uno dei libri di alchimia di suo padre e sorseggiava la zuppa preparata da Valdar.
«C'è un calendario alla reception» spiegò Jim. «Oggi è il 24. Se l'avessi notato prima avrei almeno addobbato un albero...» 
«Perché avresti dovuto?»
«Perché è Natale» rispose Jim, sconcertato. «A Natale si prepara l'albero: quello con le candele e i bastoncini di zucchero, dove Santa Claus lascia i regali...»
«Non saprei, ad Arcanta non ho mai festeggiato il Natale.»
«Stai scherzando, vero?!»
«É una festa Mancante» rispose lei con semplicità. «E prima ancora una celebrazione pagana legata al culto del Sole, perciò un retaggio del...»
«Vecchio Mondo» completò lui con un sospiro. «Devi aver avuto un'infanzia tristissima!»
«Però abbiamo la Festa delle Luci» disse Alycia. «Si tiene il 21 dicembre: celebra l'accensione della prima lanterna alla Cittadella da parte dei Fondatori. In quell'occasione, la fortezza a spirale brilla tutta la notte, si organizzano cene e ci si scambia doni, libri più che altro. Somiglia un po' al vostro Natale, se ci pensi.»
Jim ridacchiò. «Tutto il mondo è paese!»
Alycia chiuse il libro e mise da parte la ciotola di zuppa. «Oggi pomeriggio ho filtrato l'antidoto: è pronto.»
Il sorriso di Jim si attenuò un poco. «Oh. Bene.»
«Purtroppo non abbiamo modo di verificare che funzioni» replicò Alycia.
 «Dovremo fare noi stessi da cavie. Io e Valdar.»
«Aspetta, possiamo lavorarci ancora un po'! Per essere sicuri...»
«Jim, non abbiamo tempo, la Torre è vicinissima: se non assumiamo subito l'antidoto potrebbe inghiottirci prima di essere pronti.»
Jim si agitò sotto la coperta, irrequieto. Quei giorni trascorsi allo Sherwood a prendersi cura dell'Anthea erano stati i più sereni da quando aveva lasciato la magione Winters, tanto che aveva potuto crogiolarsi nell'illusione che tutto fosse tornato come prima.
«E poi» lo esortò Alycia. «Prima riusciamo a entrare, prima salveremo i miei genitori e i tuoi amici.»
Lui lasciò andare un profondo respiro. «Hai ragione.»
Lei si scambiò uno sguardo d'intesa con Valdar, dopodiché tirò fuori due flaconcini contenenti una sostanza dalla consistenza oleosa, che screziava dal verde scuro al nero.
«Alla salute» disse, offrendo a Jim un sorriso ironico dannatamente simile a quello di suo padre. Lui deglutì, mentre guardava la ragazza e l’orco mandare giù alcuni sorsi.
«Allora?» domandò ansioso. «Come vi sentite?»
Alycia si passò la lingua sulle labbra. «Non sa di niente. Che strano, ci avevo aggiunto succo di lampone.»
«Ok, ma ti senti...diversa?»
Lei si accigliò per un momento, come se cercasse di sondare il proprio corpo alla ricerca di sintomi. Valdar invece fece un rutto. I due ragazzi si fissarono e scoppiarono a ridere.
Trascorsero il resto della serata chiacchierando, scambiandosi racconti e battute, cercando di allontanare il pensiero di ciò che li aspettava, per quanto possibile. Quando fu tempo di andare a dormire, Valdar si offrì di fare il turno di guardia, visto che aveva riposato tutto il giorno e lasciò l'atrio per ispezionare il piano terra.
Jim però non riusciva a chiudere occhio. L'indomani avrebbero tentato di avvicinarsi alla Torre per studiarla più da vicino e organizzare l'attacco. Arcanta non aveva risposto a nessuno dei loro appelli, il che significava che se la sarebbero dovuta sbrigare da soli. Se una parte di lui si sforzava di essere fiduciosa, che coi suoi poteri, i muscoli di Valdar e il cervello di Alycia l'avrebbero spuntata alla fine, ce n'era un'altra che continuava a spingerlo affinché portasse Alycia il più lontano possibile da lì. Avrebbe potuto convincerla che non valeva la pena morire così, che avevano ancora tanti anni da vivere, tante cose da fare, posti da vedere insieme...
Ma che genere di vita potrei offrirle?
La guardò dormire accoccolata al suo fianco, ascoltò il suo respiro e una morsa gli attanagliò il petto. Aveva rinunciato ad Arcanta per lui, aveva perduto la sua famiglia, la sua gente... cosa avrebbero fatto, nell'ipotesi di riuscire a scamparla? Gli Arcistregoni avrebbero ripreso a dargli la caccia e forse anche gli Zeloti. Sarebbero stati condannati a fuggire in eterno, a nascondersi come suo padre e sua madre: loro erano la dimostrazione che quel genere di storie non finivano mai bene.
Quando il rumore dei suoi pensieri si fece troppo assordante, decise di fare due passi. Vagò un po' senza meta per i corridoi gelidi in cui regnava un silenzio di tomba e decise che tanto valeva uscire a prendere una boccata d'aria per schiarirsi le idee.
Sui gradini dell'ingresso trovò Valdar, i grossi gomiti sulle ginocchia e il testone pelato dalle orecchie puntute spolverato di neve; una delle cose che aveva più apprezzato della loro permanenza allo Sherwood era il fatto che avessero recuperato tutti il loro aspetto.
«Non mi azzanni se ti faccio compagnia, vero?» chiese Jim mentre gli sedeva accanto, sfregandosi le mani.  
L’orco gli rivolse una breve occhiata da sopra la spallona. «Jim riposa.»
«Non ci riesco. E poi, Alycia continua a tirarsi tutta la coperta...»
«Tu spaventato.»
«Tu no?» Tacque per un momento, poi disse: «Puoi andartene, sai? Anzi, penso proprio che dovresti: questa non è la tua battaglia, posso farti somigliare a un Mancante per sempre, pare che questi maledetti poteri da Plasmavuoto mi permettano di fare cose impossibili.  Puoi ricominciare in qualsiasi posto desideri, aprirti un ristorante e lasciarti questa pazzia alle spalle...»
«Valdar non può andare» rispose lui con voce bassa, rauca e straordinariamente tranquilla.
«Ma sì che puoi!» si infuriò Jim. «Blake probabilmente ha già tirato le cuoia, non c'è più niente che ti lega a lui...!»
«Jim non capisce.» Valdar lo guardò, i piccoli occhi neri che scintillavano nella poca luce come sassi di fiume. «Solomon Blake salvato vita a Valdar.»
«Credevo che avessi cercato di ucciderlo.»
«Valdar un tempo grande guerriero» disse l’orco con un'intonazione fiera nella voce. «Grande guerriero, con moglie e figlio. Lui felice, cacciava e cucinava per loro. Un giorno, uomini malvagi attaccato con fuoco villaggio di Valdar. Dolce Pomona e Daltar morti. Poi loro messo a Valdar catene e lui fare guardia a Libro Nero, come cane.»
«Cristo santo» fece Jim, addolorato. «É terribile, perché non hai mai detto che avevi una famiglia?»
«Jim non ha mai chiesto storia di Valdar.»
«Hai ragione» convenne il ragazzo. «Poi, cosa ti è successo?»
«Solomon Blake cerca di rubare Libro Nero» raccontò lui. «Lui giovane e poco saggio, Valdar costretto a ucciderlo. Solomon Blake grande mago, col potere di uccidere Valdar...ma Solomon Blake risparmia Valdar e poi lo libera. Così Valdar ora salva Solomon Blake e sua famiglia.» Batté con forza il pugno contro il torace. «Perché Valdar ancora grande guerriero, dentro.»
«Sono sicuro che è così» disse Jim. «Ti fa onore, davvero. Ma Valdar, non serve che tu...»
«Jim e piccola Blake unica famiglia rimasta per Valdar» tagliò corto lui, snudando le zanne. «Valdar non lascia morire due volte sua famiglia.» 
Si girò verso il prato e borbottò: «Tu riposare ora. Piccoli maghi bisogno di dormire più di orchi: voi delicati come topolini.»
Jim non avrebbe mai pensato di potersi commuovere per colpa di quello stupido orco. Si stropicciò il naso, poi gli diede una maldestra pacca sulla spalla e tornò dentro.
Trovò Alycia sveglia, in piedi vicino una finestra. Guardava la neve cadere, con la coperta sulle spalle a mo’ di mantello. «Dove sei stato?»
«Avevo bisogno di sgranchirmi le gambe.» 
Lei gli venne vicino, lo prese per mano. «Vieni, voglio farti vedere una cosa.»
Perplesso, lui la seguì su per le scale. Alycia aprì una porta al secondo piano, rivelando un ufficio rivestito di legno, con il camino, un'intera parete occupata da libri e una scrivania con sopra una di quelle belle lampade in ottone col paralume di vetro verde.
«Mi sa che hai trovato l'ufficio del direttore» commentò Jim, osservando le onorificenze accademiche incorniciate e le illustrazioni di anatomia affisse alle pareti.
«Non solo.»
Da un cassetto della scrivania, Alycia tirò fuori una bottiglia contenente un liquido ambrato e la fece oscillare. «Non so cosa sia, ma dall'odore sembra buono.»
La mostrò a Jim, che la stappò, l'annusò e sorrise. «Il nostro signor dottore è un estimatore del brandy al caramello.»
«Non è furto se ne assaggiamo un po', vero?»
Jim si mise a ridere. «Gli abbiamo trasformato il sanatorio in una serra-base segreta-laboratorio di alchimia. E poi, domani salveremo il mondo o moriremo provandoci. Ce lo deve.»
Quella notte rischiava di non passare mai; perciò, accesero il camino e si godettero il tepore del fuoco seduti sul pavimento, con le schiene premute contro la libreria. Jim porse la bottiglia ad Alycia che fece il primo sorso e disse: «Avresti mai immaginato di ritrovarti a bere brandy in un ospedale abbandonato insieme a me in attesa della Fine del Mondo?»
«Considerando che sei mesi fa hai cercato di strangolarmi sul prato di casa Winters?»
«Solo dopo averti fatto notare che puzzavi.»
«Forse un po’ era vero» ridacchiò lui. «Sono successe un sacco di cose che non avrei mai immaginato.»
«Hai ragione.» Alycia mandò giù un altro sorso, dopodiché assunse un'espressione pensierosa. «Infatti, in questi giorni riflettevo su una cosa.»
«Che cosa?»
«Queste settimane senza usare la magia o almeno limitandola allo stretto necessario...non sono state poi così male» disse lei. «Sono state dure, è vero...»
«Suppongo che prima non avessi mai avuto bisogno di rammendarti i calzini o fare il bucato.»
«Ho vissuto circondata dalla magia da quando sono nata» convenne Alycia, stringendosi nelle spalle. «Ma adesso non posso non chiedermi: mi servirebbe davvero per essere felice?»
Jim la ascoltò attentamente, ma intuì subito dove quel discorso li avrebbe portati. «Alycia...»
«Insomma, andiamo, che cosa dovrei farmene di questi poteri? Ad Arcanta possono tranquillamente fare a meno di me e io di loro. Una volta che tutto questo sarà finito potremmo essere semplicemente Jim e Alycia, due ragazzi qualunque, senza poteri, senza il destino del mondo sulle spalle...»
«Non ti chiederei mai di rinunciare a tutto ciò che sei per me.»
«Non me lo stai chiedendo, infatti.»
«Non cambierebbe niente» rispose Jim amaramente. «Ci hanno provato anche i miei genitori: mia madre ha rinunciato alla magia per stare con mio padre e hanno trascorso la vita in fuga da tutti e tutto...»
«Vorrà dire che gireremo il mondo, potrebbe essere anche divertente. Una specie di avventura...»
«No, non lo sarà» replicò Jim, serio. «Non è il genere di vita che voglio darti. Non è la vita che ci meritiamo. Se dovessimo fermare Lucindra, se ci fosse un “domani” per il nostro mondo, non trascorrerò gli anni che mi restano scappando in attesa che il prossimo mago fuori di testa mi voglia sfruttare per i suoi scopi. Seguirò il piano di tuo padre, andrò ad Arcanta e mi costituirò.»
«Jim...»
«E anche se i Decani non dovessero essere d'accordo, farò in modo di restare chiuso da qualche parte finché il mondo si dimenticherà della mia esistenza» concluse Jim, con una risolutezza che non sapeva neppure di avere. «É l'unico modo per mettere fine a questa storia, per tenere tutti al sicuro e lo sai.»
Alycia lo guardò fisso, le labbra strette e gli occhi colmi di lacrime. «Perché sentire la verità deve sempre fare così male?»
«Lucindra mi ha detto che i maghi una volta non mentivano» rispose Jim, accennando un sorriso triste. «Probabilmente, è per questo che hanno iniziato a farlo.»
Alycia si sporse verso di lui e posò una mano sulla sua guancia. Un tocco caldo e gentile, che gli fece battere forte il cuore. «Raccontami una bugia. Solo una, solo per stanotte: dimmi che domani riusciremo a tornare sani e salvi dalla Torre Nera, dimmi che andrà tutto bene. Che mi porterai di nuovo a ballare e magari anche a Coney Island un giorno.»
Il respiro di Jim inciampò in una piccola risata, mentre Alycia gli asciugava una lacrima col pollice; non si era neanche accorto di aver cominciato a piangere. 
«Ti amo» disse. «Qualunque cosa accadrà...»
Le labbra di Alycia si posarono sulle sue senza dargli modo di finire. Lei non aveva risposto, ma non aveva importanza: quel bacio racchiudeva tutto ciò che non avevano avuto il tempo o il coraggio di dirsi, tutto ciò che forse non si sarebbero detti mai più.
Jim mise via il brandy, lasciò perdere il passato e il futuro e continuò a baciare Alycia, mentre lei lo trascinava con sé sul pavimento. Si spogliarono con urgenza, strato dopo strato, finché a separarli non ci fu più nulla e furono per la prima volta pelle contro pelle; soli, mentre il mondo andava verso il baratro, al sicuro dalla tempesta nella loro piccola isola di felicità, fatta di baci al sapore di caramello, di sospiri, di movimenti prima tesi e impacciati, poi lenti e regolari come la neve che cadeva oltre le finestre. E dopo tanto tempo, Jim ebbe finalmente la sensazione di essere completo.

 
 

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Capitolo 46
*** Alla Fine di Tutte le Cose ***



ALLA FINE DI TUTTE LE COSE
 
 
 
 
Jim avrebbe voluto poter strappare alla notte qualche altra ora.
Aveva smesso di nevicare, ma i vetri delle finestre erano coperti da un sottile strato di brina luccicante. Immersi nel tepore dell’ufficio, rischiarato dai primi raggi dell’alba, lui e Alycia indugiarono un altro un po’ sotto le coperte; sapevano di non poter chiudere il mondo fuori per molto, che di lì a poco Valdar sarebbe venuto a cercarli, ma non ne parlarono, non ancora, impegnati com’erano nel cercare nuovi modi per intrecciare le loro membra nude sul pavimento.
Fecero l’amore un’altra volta, poi, stesa accanto a lui con la testa abbandonata sul suo petto, Alycia gli posò un bacio sulla clavicola e bisbigliò: «É ora di andare.»
A malincuore, Jim acconsentì.
Si vestirono lentamente e scesero al piano di sotto tenendosi per mano.
Valdar li attendeva nell’atrio dell’ospedale, con Wiglaf appollaiato sulla spalla, intento ad affilare con un coltello la punta di una specie di lancia ricavata da un grosso ramo di melo; ne aveva preparate molte altre durante la notte.
Consumarono insieme una veloce colazione a base di uova al tegamino e tè amaro, dopodiché cambiarono aspetto e indossarono nuovamente i loro travestimenti. Infine, abbandonarono la sicurezza del rifugio passando dal retro.
Avevano stabilito che la scelta migliore fosse sfruttare il bosco di frassini che delimitava il prato alle spalle dello Sherwood; da lì avrebbero potuto studiare la Torre Nera da vicino, contando tuttavia sul riparo offerto dagli alberi e sulla possibilità di fuggire in caso di pericolo. E poi, lì dove il Tutto e la Vita ancora resistevano, il Vuoto aveva meno potere.
La foresta era fredda e immobile, come cristallizzata da un incantesimo; non un soffio di vento, né il canto di un uccello. Persino il suono dei loro passi era smorzato dallo strato di neve soffice posatasi solo poche ore prima. Si fermarono sul limitare di una radura da cui si aveva una buona visuale.
La Torre Nera incombeva su di loro, vicina come non mai: solo ora potevano rendersi conto di quanto fosse immensa, tanto da poter contenere tranquillamente tre intere città. L’Oscurità di cui era composta vorticava lenta, paziente e letale, in mezzo alla campagna invasa dalla grigia foschia del mattino.
Guardandola, si aveva la raggelante sensazione di trovarsi davvero alla Fine di Tutte le Cose.
Jim, Alycia e Valdar si confrontarono per capire da quale punto fosse meglio entrare e se farlo di giorno o di notte; secondo Alycia e Valdar conveniva attendere che facesse buio, ma Jim non era d’accordo:
«Ho già affrontato le Creature Vuote, non sopportano la luce e il calore. Se c’è un momento della giornata in cui sono più vulnerabili è questo.»
Valutarono i pro e i contro di entrambe le opzioni e intanto cercarono di rubare quante più informazioni dal territorio nemico.
«Voglio tentare un altro viaggio in astrale» propose Jim a un tratto. «Controllare la situazione e provare a mandare un segnale agli ostaggi, in questo modo sapranno che devono tenersi pronti.»
«È rischioso» replicò Alycia. «Potresti essere intercettato.»
«Ogni passo che compiremo di qui in poi sarà rischioso» obiettò Jim. «Preferisco avere anche solo una minima idea di cosa ci aspetta che brancolare nel buio.»
Furono tutti e tre d’accordo. Jim chiuse gli occhi, si concentrò, dopodiché estese la propria coscienza oltre i limiti fisici della Carne e cercò di toccare quella di Solomon, di Boris o di un membro qualsiasi della compagnia.
Nel momento in cui valicò le soglie del Vuoto, i bordi della ferita sulla spalla iniziarono a pizzicare ed ebbe l’impressione che l’Oscurità si aprisse per cedergli il passo, quieta e rassicurante.
Corrispondenza. Era il Vuoto che gli dava il benvenuto, percependolo non come una minaccia ma come un figlio recalcitrante che ritrova la finalmente la via di casa. Non era un rapporto in cui Jim riusciva a sentirsi a proprio agio, ma tanto valeva sfruttarlo.
La sua mente sfiorò labili guizzi vitali in un oceano morto e vuoto, anime intrappolate e condannate a spegnersi lentamente: uomini, donne, bambini. Jim poteva quasi sentire il loro muto urlo di dolore, la loro confusione, la loro paura…
Mi dispiace, avrebbe voluto dire a tutti loro, prima che l’Oscurità li inghiottisse per sempre. Mi dispiace che stiate patendo tutto questo.
Fu in quel momento che una coscienza urtò la sua, veloce e brusca come una spallata: era un groviglio di emozioni indisciplinate, di paura, di rabbia, ma anche speranza e determinazione. Qualcuno era in fuga.
Sconcertato, Jim si avvicinò il più possibile, cercando di riconoscere quell’aura ribelle, sperando con tutte le forze che si trattasse di Solomon, o di Arthur, o di qualcuno dei loro…
«Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»
Jim spalancò gli occhi, il cuore in gola. Scattò in piedi. «Laggiù!»
Stupefatti, Alycia e Valdar seguirono la direzione indicata; una persona era appena sbucata fuori dalla Torre e correva a perdi fiato tra le sterpaglie verso il bosco.
«Potrebbe essere un ostaggio» disse Jim. «Dobbiamo aiutarlo!»
Ma qualcos’altro emerse dal muro di Oscurità, riempiendo il cielo di sinistri lamenti e di un frenetico sbattere di ali. Sembrava uno stormo di corvi, ma erano troppo grossi per essere corvi e i suoni che emettevano erano diversi da quelli di qualsiasi uccello Jim avesse mai sentito prima.
Valdar lo tirò al riparo dietro un cespuglio, mentre uno di quegli strani volatili planava proprio sopra le loro teste.
L’orco strinse con forza la sua lancia, Jim sollevò le mani, gli artigli del Vuoto tesi e pronti ad attaccare e Alycia al suo fianco ruotò le braccia ed evocò un arco di vibrante energia verde smeraldo con un dardo incoccato.
Ma la creatura non li degnò di uno sguardo e proseguì verso il bosco, scomparendo presto alla vista.
«Che diavolo era?» sussurrò Alycia.
Jim ne sapeva quanto lei. Non somigliava alle Creature Vuote che aveva affrontato l’ultima volta: in un primo momento, aveva creduto si trattasse di un uomo dall’aspetto demoniaco, coperto da chiazze di pelliccia putrescente e dotato di enormi ali da pipistrello, ma poi si era reso conto che aveva qualcosa di…animalesco.
«Sembrava una Scimmia Volante.»
«Una cosa?»
«Come quelle del Meraviglioso Mago di Oz» spiegò Jim, ma era chiaro che lei non ne avesse mai sentito parlare. «Un romanzo per bambini. Non credevo che Lucindra lo conoscesse.»
«Immagino che il tempo per leggere non le sia mancato.»
«Dobbiamo seguirle» disse Jim. «Chiunque stiano cercando avrà bisogno di aiuto.»
Alycia però non era convinta. «Non possiamo esporci, se ti riconoscessero…»
«Se uno degli ostaggi è riuscito davvero a scappare, da solo non andrà lontano!»
Titubante, lei occhieggiò la Torre Nera che turbinava alle loro spalle. «Va bene. Ma teniamo gli occhi aperti.»
Attraversarono il bosco, seguendo il coro di stridii infernali che giungevano da sopra l’alto soffitto di rami. Jim ormai procedeva a passo così veloce da aver distanziato gli altri due. Il cuore gli batteva forte mentre setacciava gli alberi alla disperata ricerca di un volto umano, di chiunque fosse riuscito miracolosamente a liberarsi dalle grinfie di Lucindra.
Non è troppo tardi, non è troppo tardi…
«Jim!» lo chiamò Alycia. «Rallenta, dobbiamo restare uniti!»
Emersero in un prato con un dirupo sulla loro destra, aspro e profondo, a picco sulle rocce sottostanti. Lì, vicino all’orlo, un’esile figura brandiva un ramo per aria contorcendosi nel tentativo di allontanare le creature demoniache che le volteggiavano attorno; l’elegante cappotto color vinaccia che indossava era strappato in più punti, dove gli artigli avevano fatto a brandelli la stoffa.
«Lasciatemi in pace!» urlava, i lunghi capelli neri e scarmigliati che le piovevano davanti al viso. «Demoni bastardi!»
Il cuore di Jim gli balzò nel petto. «Margot!»
La donna girò la testa di scatto, ma in quell’istante una scimmia alata le si avventò addosso, strappandole un grido di dolore e paura. L’afferrò per le braccia, tirandola su finché i suoi piedi non si staccarono da terra…
Jim non ragionò più. Scattò in avanti con le mani sollevate e l’essere si dissolse in una nuvola di polvere nera senza emettere neppure un lamento, come se fosse stata cancellata dal piano dell’esistenza con un solo colpo di spugna. Margot ricadde a terra con un gemito soffocato.
I mostri stridettero e si accalcarono nel cielo in un frenetico sbattere di ali. Iniziò lo scontro: Wiglaf schizzò in aria e un lampo di luce bianca e abbagliante irradiò la radura. Accecati, i mostri sibilarono e svolazzarono come ubriachi andando a sbattere gli uni contro gli altri. Valdar scagliò i giavellotti ricavati da rami di melo uno dopo l’altro come fossero freccette e ne infilzò almeno sei al volo, mentre Alycia ne abbatteva una decina con i dardi infuocati del suo arco magico. Le creature strillarono rabbiose, ma quando Jim liberò i tentacoli di Materia Vuota, si dispersero oltre le cime degli alberi, volando via in tutte le direzioni.
«Margot!»
Jim corse dall’indovina rannicchiata per terra. Era così felice di vederla sana e salva che avrebbe voluto abbracciarla. Le sfiorò la spalla, ma lei trasalì e si allontanò con un grido isterico. Era evidente che fosse ancora sotto shock.
«Sono io, Jim» la rassicurò lui. Si passò una mano sul volto e recuperò il suo vero aspetto. «È tutto finito, se ne sono andati. Sei al sicuro.»
Lei si scostò i capelli dalla faccia e lo fissò incredula, gli occhi verdi spalancati. «Jimmy..?»
«Dobbiamo andarcene di qui» fece Alycia, l’arco di energia incoccato e lo sguardo che saettava da una direzione all’altra. «Prima che ne arrivino altri. Ce la fa a correre?»
Jim le offrì il braccio e la donna si aggrappò a lui mentre cercava di rimettersi in piedi. «Vieni, ti portiamo in un posto sicuro. Gli altri sono ancora prigionieri? Vi hanno fatto del male..?»
Margot però non lo stava ascoltando, gli occhi fermi sulle sue dita annerite. «Le tue mani…»
«Oh, queste…dopo ti spiego, è una storia assurda. Ma adesso dobbiamo metterci al riparo.»
Era la cosa più sensata da fare, anche se erano così tante le domande che voleva rivolgerle. Ma il modo in cui Margot lo stava fissando bandì dalla sua mente qualsiasi altro pensiero. «Ti senti bene?»
«Ci sei riuscito» sussurrò la donna. Gli afferrò entrambe le mani tra le sue, mentre uno strano sorriso si disegnava sul suo viso, un sorriso quasi addolorato. «Hai abbracciato il Potere Oscuro. La Profezia si è compiuta!»
Lo shock colpì Jim come uno schiaffo. «Un momento, che ne sai tu della Profezia..?»
«So ogni cosa.» Gli occhi di Margot tornarono a inchiodare i suoi, immobili e scintillanti come gemme. «Perché sono stata io a pronunciarla.»
«Tu?! Ma…?!»
«Jim» Alycia si avvicinò lentamente. «Che succede, che sta dicendo?»
Il sorriso di Margot si spense e il suo sguardo si posò sulla ragazza, ricolmo di freddezza. In quell’istante, dal folto della foresta si udì uno scalpitare di zoccoli e una ventina di uomini a cavallo di Lipizzani bianchi e neri irruppero nella radura. Tutti armati di fucile.
Circondarono Valdar e Alycia, che si strinsero schiena contro schiena, pronti a difendersi.
«Guarda, guarda» disse uno di loro, massiccio e con un sorriso pieno di denti gialli. Fermò il cavallo proprio davanti a Jim e gettò ai suoi piedi la cicca della sigaretta. «Abbiamo trovato i novelli Bonnie e Clyde!»
Jim non riusciva a credere ai propri occhi. Conosceva quegli uomini. Li conosceva da una vita intera. «Sinclair..?»
E Kowalski. E Big Joe. E Skinny Pitt. Erano gli operai e gli addetti alle gabbie e alla sicurezza del circo.
Il capomastro di O’Malley allargò il suo ghigno viscido, mentre trottava verso di lui con la canna del fucile che mirava dritta alla sua testa.
«Sei impazzito?»  ringhiò Jim. «Che cosa state facendo?»
«Oh, Superstar! Ti sei perso un sacco di novità! Il circo ha di nuovo cambiato gestione.»
«Cosa?» Jim era spiazzato. Come una folgorazione, si ricordò di quando Arthur aveva cercato di avvertirlo sui traffici loschi a cui aveva assistito tra Sinclair e un individuo misterioso, vicino i vagoni della Squadriglia Volante: non era alle bestie che erano interessati e nemmeno alle scommesse clandestine. E Jim aveva liquidato la faccenda come una cosa di poca importanza…
«Hai venduto la compagnia agli Zeloti! Come hai potuto farlo? Con tutto il denaro di Blake e le bische e il resto!?»
Gli occhi di Sinclair divennero sottili e sornioni come quelli di un gatto.
«Ho scoperto che esistono pagamenti ben più interessanti del denaro, Jimbo. Ah, la magia! Poter fare ciò che si vuole, avere ciò che si vuole, solo schioccando le dita! Una vera ingiustizia che sia nelle mani di così poche persone. Ma le cose stanno per cambiare, grazie a quella pupa coi capelli rossi…»
«Razza di idiota!» sbottò Jim. «Lucindra non vi renderà mai dei maghi! Odia i Mancanti, si sbarazzerà di tutti voi, dal primo all’ultimo!»
Per nulla turbato, lui si passò una mano sul mento. «Ha un bel caratterino, te lo concedo. Motivo in più per tenerla contenta, no? Ma ora basta chiacchiere: prendeteli!»
Alycia gridò e Jim la vide cadere a terra, con una fune di acciaio a bloccarle le braccia lungo il corpo.
Chiamò il suo nome, ma nel momento in cui cercò di correre da lei, con un gesto rapidissimo Margot gli chiuse i polsi con delle pesanti manette coperte da un intreccio di rune. «Mi dispiace, tesoro» disse, la voce limpida e fredda. «È meglio per tutti se non ti immischi.»
«M-ma che fai?» balbettò Jim, scioccato. Strinse i pugni, evocò tutto il suo potere per liberarsi, ma ottenne solo deboli scintille di energia.
Acciaio alchemico, lo stesso di cui erano fatte le armature dei Guardiani Silenti di Arcanta: indistruttibile e refrattario a qualsiasi tipo di magia.
Interrogò gli occhi impassibili di Margot. Non riusciva a capacitarsi che stesse accadendo davvero. «Margot, che significa?»
«Sta' calmo» mormorò lei, rivolgendogli di nuovo quel sorriso doloroso. «Tra poco sarà tutto finito.»
Gli uomini di Sinclair smontarono da cavallo e cercarono di afferrare Alycia, ma Valdar si lanciò contro di loro con la furia di un toro, e tutti i fucili furono puntati su di lui. «Fermati, bestiaccia!»
«No!» gridò Jim.
Gli spari esplosero nella radura, riverberando per parecchi istanti. Valdar vacillò sotto i colpi, ma non si fermò e con un urlo da guerra si abbatté con tutte le forze sugli aggressori. I cavalli si impennarono, gli uomini urlarono. Uno di loro fu disarcionato e cadde a terra e l’orco lo sollevò in aria come se non pesasse niente.
«Abbattete quella cosa, maledizione!»
Una moltitudine di cappi piovve su Valdar. Gli si strinsero attorno al collo e i cavalieri iniziarono a strattonarlo in tutte le direzioni, speronando con forza i cavalli, mentre Alycia, legata e impotente, gridava e si contorceva a terra.
L’orco oppose ancora una fiera resistenza, ruggendo, divincolandosi, menando pugni per aria, ma quando i nodi si strinsero ancora e iniziò a mancargli l’aria, crollò in ginocchio, tossendo e annaspando.
«Basta!» implorò Jim. «Così lo ucciderete!»
A quel punto, Margot sollevò una mano: un gesto calmo e imperioso e i cavalieri smisero subito di tirare. L’orco si tastò la gola, rantolando in maniera terribile.
Lacrime di frustrazione e rabbia bruciavano negli occhi di Jim quando si voltò verso Margot. «Sono ai tuoi ordini adesso?»
«Lo sono sempre stati.»
«E Maurice…?»
«Maurice è una piccola creatura insignificante con tanti vizi» rispose lei, con gelida calma. «Ci vuole poco a sviare la sua attenzione: lui si preoccupava di avere abbastanza soldi e scorte di whisky e io intanto manovravo i fili del circo a sua insaputa.»
«Ma è tuo marito!»
«È uno strumento» mormorò lei, le labbra arricciate in una smorfia. «Che ho usato per avvicinarmi a te.»
Jim impallidì. «A me?»
Margot assunse un’espressione severa. «Te l’ho detto, Jimmy: tu sei prezioso per noi, più di quanto immagini. Sapevo che il tuo potere sarebbe venuto fuori prima o poi e così è stato: a soli dieci anni me ne hai dato un piccolo assaggio, durante la Notte del Disastro…»
«Ma di che stai parlando?»
«Della notte in cui hai reso Joel e Arthur King di nuovo dei Mannari» disse Margot. «Per anni il Vuoto ti ha chiamato a sé, ma tu ti rifiutavi di ascoltare, tranne quando avevi paura: quella notte, la notte in cui Joel King ha affrontato le bestie tu gli hai dato il potere di trasformarsi. Gli hai restituito la magia.»
Jim indietreggiò, in preda all’orrore. Si rifiutava di crederci. «No, non è vero.»
«Sei stato tu.» La voce di Margot era bassa e tranquilla, ma i suoi occhi ardevano di una luce avida, sinistra. «Quella notte ho compreso che le mie carte non mentivano: che avresti portato il Grande Cambiamento.»
Jim guardò la donna che aveva di fronte senza riuscire a riconoscerla. La dolce e riservata Margot, che per dieci anni lo aveva tirato su come un figlio…che gli aveva medicato le ginocchia sbucciate, cantato ninna nanne in francese, insegnato a ballare… e che alla fine lo aveva convinto a diventare allievo di Solomon Blake. Esattamente come era nei piani di Lucindra.
«Sei sempre stata una di loro.» Faticò a convincere la voce a uscire. «Per tutti questi anni…mi hai cresciuto solo per potermi consegnare a lei!»
«Ho dovuto farlo.»
«Hai dovuto!? Sei stata come una madre per tutti noi e hai condannato a morte la tua gente!»
«Nessuno di quei saltimbanchi è mai stato la mia gente» replicò lei, secca. «Tu dovresti saperlo: non sei il solo ad aver nascosto per anni la sua vera natura. Ad aver fatto finta di essere meno di ciò che sei!»
Agitò piano le dita e un filamento viola aleggiò nell’aria, increspandola. In quell’istante, la radura tornò a riempirsi degli striduli richiami delle scimmie alate, che si alzarono in volo dalla foresta, ammassandosi nel cielo. Erano centinaia.
Jim sgranò gli occhi. «Tu sei una maga...»
«Madame» intervenne Sinclair. «Che ne facciamo del mostro e della ragazza?»
Lo sguardo di Margot tornò a posarsi altero sui due prigionieri. «L’orco lo portiamo con noi, un guerriero di tale tempra ci farà comodo quando marceremo su Arcanta. Di Blake, invece, ne abbiamo avuti fin troppi tra i piedi.»
Jim sentì un nodo di terrore avvinghiargli il cuore, come un pugno gelido contro il petto. «Non vi azzardate..!»
Compì uno slancio verso Alycia, ma Sinclair smontò da cavallo e gli assestò un pugno nello stomaco. Jim lo sentì affondare nelle viscere, svuotargli i polmoni da tutta l’aria. Piombò a terra senza riuscire a emettere neppure un suono.
Margot si irrigidì, ma non fece nulla per aiutarlo. «La nostra Signora si è espressa chiaramente: dobbiamo portarlo da lei senza torcergli un capello.»
«Ma dai!» protestò Sinclair allegramente. «Sta una favola! Vero, Jimbo? Dopotutto, tu sei come Houdini, no? Hai uno stomaco d’acciaio!»
Stordito dal dolore e dalle grida dei mostri, Jim rotolò sul fianco e incrociò lo sguardo spaventato di Alycia, vi si immerse interamente, disperatamente. «No…»
A un cenno di Margot, le creature si gettarono in picchiata sulla ragazza. Del tutto inerme senza l’uso delle mani, Alycia gridò e scalciò per allontanarle, ma i mostri affondarono gli artigli nella stoffa del suo cappotto e la issarono in aria.
Jim si rimise in piedi con fatica, ma Sinclair lo spinse di nuovo a terra.
«No!» Era già troppo in alto, troppo lontana e lui non poteva usare la magia per raggiungerla. Ma non riusciva a smettere di urlare. «NO! NO! NO!»
Wiglaf fu da lei in un paio di battiti veloci, seminando graffi e beccate sui mostri. Un istante dopo, una macchia confusa d’ombra si aggrovigliò attorno al corvo bianco come un mantello, bloccandogli le ali e facendolo piombare verso il basso. Jim capì subito che si trattava di Lilith, il demone del Vuoto di Lucindra che un tempo era stato il suo famiglio.
Le creature continuarono a salire e a salire, portando Alycia sopra il burrone...
A Jim mancava l’aria, gli bruciavano le vene.
Guardò supplicante Margot. «Ti prego» gemette. «Ti prego...»
Lo sguardo della donna tornò a velarsi di tristezza. «Un piccolo sacrificio» disse piano. «Per un bene superiore.»
Su quelle parole abbassò la mano e lasciò che Alycia precipitasse nel vuoto.

 

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Capitolo 47
*** Contrappasso ***



CONTRAPPASSO
 

 
 
Jim sedeva al centro della stanza, circondato da un’infinità di occhi che lo scrutavano.
La prigione che Lucindra aveva fatto predisporre appositamente per lui consisteva in un cubo rivestito interamente di specchi. Il soffitto era uno specchio. Il pavimento era uno specchio. Ogni superficie moltiplicava la sua immagine e quella dei pochi oggetti che occupavano l’ambiente, creando un gioco ottico per cui si aveva l’impressione di trovarsi in un ambiente infinito. Aperto. Libero.
C’erano solo le comodità basiche – gabinetto, lavandino e il materasso su cui Jim era seduto, scalzo e a gambe incrociate – ma gli era praticamente impossibile utilizzare qualunque cosa senza un aiuto esterno, nelle condizioni in cui si trovava. Per prima cosa, gli uomini di Sinclair gli avevano fatto indossare una camicia di forza, in modo che avesse braccia e mani completamente immobilizzate; nei loro sguardi era dipinto un sadico compiacimento nel vederlo così impotente, mentre, spezzato dal dolore, non riusciva a fare altro che fissare come in trance il punto nel cielo da cui Alycia era precipitata.
Poi gli avevano calato un sacco sulla testa, facendolo piombare nel buio, e quando glielo avevano rimosso si era ritrovato solo in quella cella priva di porte, finestre, orologi e punti di riferimento.
Aveva intuito immediatamente che sarebbe stato inutile tentare la fuga, ma si era rifiutato di darsi per vinto senza provare: così, era partito alla carica contro la parete di fronte, pensando con tutta la sua Volontà a uno specchio qualsiasi fuori di lì, ma appena oltrepassata la superficie riflettente, era stato nuovamente catapultato nel cubo, passando attraverso il muro opposto. E così per il pavimento: sprofondandoci era finito col piovere dal soffitto.
A ogni fallimento, gli sembrava quasi di sentire la voce di Lucindra commentare: “Sono certa che ti divertirai qui, Attraversaspecchi.”
Aveva ritentato. Ancora. E ancora, fino a ricadere sul materasso, esausto, in un bagno di sudore e quasi senza più neanche più il fiato per urlare la sua frustrazione.
Ma di nuovo aveva proibito a se stesso di arrendersi a quella condizione.
Lucindra gli aveva portato via tutto ciò per cui valeva la pena continuare a vivere… le avrebbe restituito il favore. Fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto.
Oh sì, avrebbe tolto di mezzo il suo Plasmavuoto una volta per tutte.
Anche senza mani, c’erano un’infinità di modi in cui avrebbe potuto uccidersi. Sbattere la testa contro il lavello fino a spaccarsela, annegarsi, rompere uno specchio per tagliarsi la gola…
Ma la sua avversaria doveva aver messo in conto anche quello, perché, a parte il materasso, qualsiasi altro oggetto smetteva all’istante di essere solido non appena Jim provava a usarlo per farsi del male.
Fu probabilmente quella la cosa che più di ogni altra gli fece perdere la testa.
Non aveva neanche il diritto di decidere se mettere fine alla propria vita, perché ormai neanche quella gli apparteneva più. Era a tutti gli effetti proprietà di qualcun altro.
Quando ebbe finalmente preso coscienza di ciò, aveva smesso di lottare.
Si era seduto su quel materasso al centro della stanza, sconfitto, annichilito. Senza più la forza di reagire, senza più niente che gli impedisse di sprofondare nell'abisso che aveva dentro.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso prima che al centro di uno specchio si aprisse una porta, malgrado Jim fosse assolutamente certo che in quel punto non ci fosse altro che vetro trasparente come acqua.
Non fu sorpreso, però, nel rivedere Margot. Era sola stavolta, con in mano un vassoio d’argento sopra il quale vi erano alcune pietanze coperte, una brocca e una scatolina di porcellana bianca e azzurra che Jim era sicuro contenesse lokum, i suoi dolcetti preferiti.
«La cena» disse lei. «Perdona l’attesa, sarai affamato.»
Jim non disse niente e non sollevò lo sguardo dal pavimento a specchio. Vedeva la sua immagine riflessa a testa all’ingiù.
Margot entrò e la porta svanì alle sue spalle. La osservò posare a terra il vassoio e indugiare un attimo, tenendosi a distanza.
«Come stai?» domandò con voce gentile, ma si capiva che non fosse del tutto a proprio agio. «Hai sete? Devi andare in bagno..?»
«Lei dov’è?» chiese lui seccamente. Sollevò piano la testa, la fissò dritto negli occhi. «Lucindra. Voglio parlare con lei, non con te.»
Margot si irrigidì. «Vi incontrerete presto, in questo momento è impegnata…»
«A torturare qualcuno che conosco?»
Lei sgranò gli occhi. «No! Certo che no! I tuoi amici stanno bene. Nessuno ha alzato un dito su di loro, me ne sono assicurata…»
«Non ti credo.»
«Non ti mentirei mai su questo.»
«Finora ti è risultato piuttosto facile» commentò Jim, gelido. «Fammi indovinare: “Margot” non è neanche il tuo vero nome.»
«Ne ho cambiati molti nel corso della mia vita» ammise lei, con una nota di rimpianto. «Mi dispiace per tutto questo, tesoro: so che stai soffrendo, che sei arrabbiato. Ma quando vedrai con i tuoi occhi la bellezza del Nuovo Mondo che stiamo costruendo allora capirai…»
«Cosa? Che ne è valsa la pena avere sulle mani il sangue di milioni di innocenti?»
La linea delle sue labbra divenne più dura. «Innocenti? I Mancanti non sono innocenti. Sin da piccoli coltivano dentro di loro l’odio per chi è diverso.»
«E i maghi sarebbero migliori?»
«Sei giovane» disse Margot. «Non hai ancora sperimentato quanto crudele possano essere gli uomini. Non hai visto quello che ho visto io.»
La sua mano si afferrò l’avambraccio destro, come per un riflesso incondizionato. «Sono cresciuta in estrema povertà, in una famiglia di girovaghi. In Bosnia avevamo a stento di che mangiare, ovunque andassimo venivamo additati come ladri e assassini. In punto di morte, mia madre mi rivelò la verità, che discendevamo da un’antica stirpe di streghe. Eravamo potenti, eravamo temute, ma i mercenari di Arcanta hanno depredato ogni carovana della sua magia. E lasciato ben pochi segreti da tramandare.»
«Ma qualcosa a te è stato tramandato» disse Jim. «La preveggenza.»
Inaspettatamente, lei proruppe in una risata vuota. «Il mio vero talento sono le pozioni: veleni, ma anche filtri allucinogeni, o che alterino i ricordi. Te ne ho somministrato uno per anni, senza che te ne accorgessi.» Il suo sguardo indugiò un momento sulla scatolina di dolcetti. «Per rimuovere il Vuoto dalla tua memoria, fino all'incontro con Blake.»
Quell’affermazione gettò Jim nella confusione. «Ma allora, la Profezia…?»
«Lucindra aveva bisogno di alimentare la fede di chi l'aveva seguita anche dopo la sua scomparsa. Ma nessuno stregone è in grado di leggere davvero il futuro: la magia agisce sui cambiamenti della materia, su rapporti consequenziali e costanti. Il futuro, invece, presenta infinite variabili. Intuito, empatia, un pizzico di teatralità, si tratta sempre e solo di questo.»
Jim storse la bocca. «Perciò sei sempre stata il suo braccio destro.»
«Mi piace pensare che lei riponga in me una particolare fiducia.»
Lui sbuffò con ironia. «Già, dopotutto ti ha “solo” affidato la sua preziosissima arma per dieci anni. Immagino che anche il mio arrivo al circo fosse stato meticolosamente calcolato: eravate ad Avalon la notte in cui Solomon Blake ha cercato di portarmi via a mio padre. Hai corrotto anche O’Malley, come hai fatto con gli operai perché mi facesse rapire…?»
Margot abbassò lo sguardo, accigliandosi un momento. «No, anche quella è stata opera mia. Maurice ne era all'oscuro, per quanto detestabile, non avrebbe mai tollerato il rapimento di un bambino. Ho simulato il tuo ritrovamento sul treno, ma se ha deciso di tenerti è stato perché, sotto sotto, sapevo che aveva sempre desiderato dei figli.»
Jim sentì il cuore torcersi. Questo avrebbe preferito non saperlo. «E tu, invece? Tu mi hai voluto bene almeno un po'?»
Margot arrossì lievemente, ma invece di rispondere intrecciò le mani davanti a sé, ricomponendosi in un atteggiamento formale. «Ti condurrò dalla mia Signora, come hai richiesto. Se le mie parole non bastano a convincerti, sono certa che lei saprà come farti cambiare opinione su di noi.»
«Hai ucciso Alycia» mormorò Jim, la voce bassa e colma di odio. Odio vero, cocente e spietato, che sgorgava dal profondo del suo essere e che non si sarebbe mai spento. «Niente mi farà mai cambiare opinione: siete dei mostri. Tutti voi.»
Per un istante, la compostezza che si era autoimposta parve vacillare. «Lo vedremo.»
 
 
Non appena lasciata la cella, furono affiancati da quattro Zeloti avvolti in mantelli neri cerimoniali, coi cappucci tirati sulla testa; erano cuciti riccamente con fili viola e all’altezza del petto Jim riconobbe un glifo che era sicuro di aver già visto, anche se non ricordava dove o quando.
Il tratto di strada che gli fecero percorrere consisteva in un corridoio stretto tra misteriosi tendaggi di seta nera, rischiarato debolmente da bracieri in cui ardevano lugubri fiamme violacee.
A un certo punto si fermarono e qualcuno aprì un varco nella seta pesante, rivelando l’ingresso di un enorme tendone nero a forma di esagono e con le pareti ricamate per ricreare una foresta di alberi fitti e sottili.
Al centro, c'era un lungo tavolo di legno scuro, attorno al quale erano riuniti altri uomini e altre donne. Molti, notò Jim, presentavano i segni della Guerra Civile: a una di loro mancava un braccio, altri avevano i volti segnati da cicatrici. Nessuno dei maghi di Arcanta, a eccezione di Boris Volkov, aveva lasciato sul proprio corpo tracce della guerra, nemmeno Blake. Loro, invece, le esibivano con onore, come medaglie.
«Dovremmo agire subito!» stava dicendo con foga una strega coi capelli grigio-argento tagliati corti e un occhio di vetro che le donava un aspetto minaccioso. «Dico di attaccare questa notte stessa.»
«Forse prima è il caso di mettere alla prova il ragazzo» intervenne un mago dalla pelle scura e una folta barba blu intrecciata di conchiglie.  «Sarà sufficientemente forte per affrontare il rituale?»
«Non possiamo più aspettare, Basilius! Arcanta possiede solo due Arcistregoni, non sarà mai così vulnerabile come lo è in questo momento.»
Jim individuò subito Lucindra, seduta all’estremità del tavolo, che ascoltava tutti senza prendere le parti di nessuno; aveva l’aspetto di una regina ed era fasciata da un vestito di velluto nero che creava un meraviglioso contrasto coi suoi capelli, una colata di rame fuso a eccezione per l’unica ciocca innaturalmente bianca. Fu la prima ad accorgersi del suo arrivo. 
«Attraversaspecchi.» Gli dedicò un sorriso dolce, un sorriso da Lucia che in altre circostanze avrebbe potuto essere rassicurante. Peccato non fosse decisamente quella la circostanza. «Grazie per averci raggiunti. Sono tutti molto ansiosi di conoscerti.»
I presenti si volsero verso l’ingresso e molte paia di occhi scrutarono Jim da cima a fondo con un misto di sorpresa e diffidenza. Pur consapevole di quanto dovesse apparire miserabile, ancora avviluppato in quella ridicola camicia di forza come un malato di mente, Jim sostenne lo sguardo di ognuno di loro.
«Non è necessario che sia legato» disse Lucindra, alzandosi in piedi. «Non è un prigioniero.»
Le due donne che lo accompagnavano si avvicinarono a Jim, una di loro estrasse da sotto il mantello un coltellino e strappò la camicia di forza con due rapidi tagli, lasciandola cadere come una carcassa sul pavimento.
Nonostante avesse più libertà di movimento, lui si sentiva un animale in trappola. I membri della setta continuavano a fissarlo, ma adesso oltre al sospetto si erano aggiunte altre emozioni impercettibili nei loro sguardi: erano incuriositi, forse addirittura emozionati, ma allo stesso tempo il fatto di trovarsi assieme a due Plasmavuoto liberi di sprigionare appieno i propri poteri devastanti li rendeva nervosi.
«Alcuni di noi si domandano se sarai un degno alleato nella battaglia che ci aspetta» disse Lucindra senza abbandonare il tono amabile, di una padrona di casa che si rivolge ai propri ospiti. «Li ho rassicurati, ovviamente, che hai avuto i migliori insegnati.»
Jim si tese all’istante. «Che ne hai fatto di Blake?»
«É vivo, ti basti sapere questo.»
«Immagino non me lo lascerai constatare coi miei occhi.»
Lucindra tornò a sorridergli. «Gli occhi ingannano, in questo luogo più che in altri, dovresti averlo imparato. Te lo lascerò incontrare, se è ciò che desideri. Voglio che tu ti senta a casa, qui tra noi.»
«Ce l’avevo già una casa. Tu me l’hai portata via.»
«Vedi, mia Signora» disse lo Zelota con la barba blu.  «È di questo che parlavo: non è vicino alla Causa come dovrebbe essere.»
«Jim ne ha passate tante» replicò Lucindra con calma. «È normale che abbia dei dubbi.»
«Io non ho dubbi» ringhiò Jim. «Su nessuno di voi. Siete dei fanatici del cazzo, degli assassini. Perciò piantiamola con questa pagliacciata: vuoi i miei poteri, no? Allora, prenditeli!»
Lucindra lo fissò per un momento, immobile, dopodiché si rivolse ai convenuti: «Vi dispiace lasciarci qualche minuto?»
Streghe e stregoni le offrirono un inchino rispettoso e uscirono dal tendone in silenzio. Anche Margot si diresse a testa china verso l’apertura, ma Lucindra disse: «Non tu, Zora. Tu puoi restare.»
La donna tornò lentamente a voltarsi; il suo volto non lasciava trasparire nulla, ma Jim era sicuro che avrebbe preferito defilarsi.
Quando furono rimasti in tre nel tendone, Lucindra fece il giro del tavolo ed entrò nel cerchio di luce di uno dei bracieri; forse era merito di quell’ingrata sfumatura violacea, ma il suo aspetto non era poi così fulgido come gli era parso all’inizio. Aveva cerchi scuri sotto gli occhi, le guance incavate, la pelle tesa e opaca. Jim ignorava come avesse fatto a liberarsi dalla prigionia, ma era chiaro che quello, unito alla creazione della Torre, le fosse costato uno sforzo non indifferente.
Lucindra si avvicinò a un leggio riccamente intarsiato, su cui era poggiato un grosso tomo nero rilegato in pelle sfilacciata. «Sai cos’è questo?»
Lui scosse la testa.
«Ha avuto molti nomi e altrettanti padroni» disse la strega. «Oggi è conosciuto come Codice Oscuro, si pensava fosse andato distrutto durante la Guerra Civile. I miei amici però lo hanno salvato, protetto e infine restituito a me. Il suo primo possessore è stato uno dei Tre Fondatori, Farabi al-Laqant: fu l’architetto che creò Arcanta, ma in pochi sanno che la sua più grande opera fu possibile solo grazie al Vuoto. Ti sei mai chiesto cosa ci fosse prima di Arcanta, in quella valle? C'era un umile villaggio di pastori, di Senza Poteri, sacrificato per dare una casa alla nostra gente. Conoscevi questa storia?»
«No.»
«Il tuo maestro non deve averti parlato di molte cose.» Le labbra di lei si sollevarono in un sorriso languido e le sue dita nere sfiorarono la copertina usurata del volume con premura. «Con me, invece, lui parlava: del suo passato, dei suoi progetti. Come quello di impossessarsi del Codice: scoprì che per secoli i Decani l’avevano custodito in una sezione segreta della Biblioteca, per nascondere il vero progetto dei Fondatori di restituire il mondo ai maghi. Naturalmente, nessun Decano avrebbe mai rinunciato alla sua posizione di potere, non dopo mille anni di oligarchia. Ma all'epoca, il Bibliotecario era Xavier Ascanor, fratello di Isabel Ascanor: per uno come Blake fu un gioco da ragazzi fingersi amico del cognato, ingannarlo e sottrargli il libro.»
«Non serve che mi spieghi che genere di uomo fosse» disse Jim. «So benissimo cosa ha fatto.»
«E malgrado ciò ti preoccupi per la sua vita.»
«Credo che abbia pagato per i suoi sbagli» replicò Jim, freddamente. «E tu rientri tra questi.»
Lucindra osservò il suo volto con interesse, il capo leggermente inclinato. «E i Mancanti? Secondo te hanno pagato per i loro crimini? Non credi che questo mondo sarebbe migliore se smettesse di essere di loro proprietà?»
«Non spetta a te decidere. Non sei Dio.»
Lei rise. «No, infatti. Ma a questo mondo non servono dei: ne ha avuti tanti e in loro nome sono state condotte crociate e genocidi. Ciò di cui ha bisogno è la possibilità di purificarsi. Di morire e poi rinascere.»
«Ho visto il genere di mondo che vuoi creare» disse Jim. «Somiglia più all'inferno.»
«Potremo plasmarlo a nostro piacimento, tu e io: lo renderemo perfetto, esattamente come lo vogliamo. Un paradiso.»
«Ma io saprei che non è reale.»
«Te lo farei dimenticare.»
Jim scosse la testa. «Sei convinta che con la magia si possa risolvere ogni cosa, ma non è così.»
«La penseresti allo stesso modo se ti mostrassi cosa accadrà tra pochi anni?»
Non ebbe neanche bisogno di usare le mani.
Jim percepì le ombre sollevarsi dalle pareti di stoffa, danzare come fossero vive. Il buio lo avvolse, ma a un tratto si accese di immagini folgoranti: vide uno stuolo di soldati in marcia, raggruppati in ranghi serrati e geometrici, il braccio destro sollevato in segno di saluto…subito dopo, vide quegli stessi soldati irrompere nella notte in un ghetto e tirare fuori casa per casa persone di ogni sesso ed età, strappandole ai propri letti…assistette impotente mentre venivano stipate a centinaia in sudici vagoni per il bestiame, spogliati di ogni avere, madri in lacrime separate dai propri figli, uomini e anziani percossi a sangue e senza pietà…sentì il rombo degli aerei che sfrecciavano nel cielo notturno e il fragore delle bombe che radevano al suolo intere città…e poi, quando ormai sentiva che il suo cuore non avrebbe retto altri orrori, vide un colossale fungo di fumo nero sollevarsi lì dove prima c’erano città e villaggi, incendiare il cielo, lasciandosi dietro solo cenere e ombre impresse sui muri…
«Basta!»
Jim barcollò, gli occhi pieni di lacrime.
Era piombato di nuovo nel tendone. Al suo fianco, Margot stava tremando e sembrava scossa anche più di lui.
«Zora sa bene di cosa parlo» disse piano Lucindra. «Ha vissuto sulla sua pelle la crudeltà dei Mancanti. Faglielo vedere.»
Margot trattenne un singhiozzo e scosse mestamente il capo.
«Fallo» insistette la strega. «Sii orgogliosa delle tue cicatrici.»
Margot esitò ancora, ma poi cedette alla richiesta. Sollevò lentamente la manica del cappotto e scoprì l’avambraccio, nella cui parte interna erano marchiati a fuoco dei numeri.
«I Mancanti non sono stati meritevoli di regnare su questo mondo» sentenziò Lucindra. «E non lo saranno mai: una nuova guerra sta per iniziare e il prezzo da pagare sarà ancora più alto. Ma noi, insieme, abbiamo il potere di fermare tutto questo.»
Jim respirò forte, cercando di recuperare il controllo. «Non è questo il modo…»
«E quale altro modo c’è?»
«Per ogni persona malvagia ce ne sono altrettante che cercano di rendere il mondo un posto migliore» disse Jim. «Tu non puoi saperlo: hai subito un torto in passato, hai sofferto, ma poi hai scelto di segregarti in un palazzo e da allora hai perso ogni contatto con la realtà. I Mancanti non sono perduti. C’è ancora del buono in loro.»
Lucindra scosse la testa, guardandolo con compassione. «Sei un illuso.»
«E tu sei disperata. E sei sola.»
L'espressione di lei divenne livida. «Bene. Allora dovrò ricorrere ad altri sistemi per farti comprendere le mie ragioni. Zora, falli entrare.»
Margot impallidì. «Avevi detto che non sarebbe stato necessario…»
«A quanto pare, invece lo è.»
L’indovina rivolse a Jim uno sguardo angosciato e lui avvertì un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Che intendeva dire? Che cosa non era necessario?
Ma prima che potesse chiederglielo, Margot era già sparita oltre i lembi di seta della tenda. Un momento dopo tornò, e dietro di lei comparvero Sinclair e Big Joe. Insieme a Vanja e Wilhelm Svanmör.
Margot non aveva mentito, sembrava che stessero bene, anche se erano visibilmente terrorizzati. I gemelli furono trascinati di peso nel tendone, i polsi e le caviglie strette da pesanti catene. Vanja sollevò la testa e quando lo vide i suoi occhi grigio-azzurri si riempirono di stupore e sollievo: «Jim! Oh, mio Dio, sei vivo!»
Il ragazzo corse immediatamente da loro, ma Sinclair tirò a sé la trapezista per la catena, puntandole un coltello alla gola. «Vedi di mantenere la calma, Superstar.»
Una rabbia feroce si impadronì di lui. «Lasciateli stare, loro non c’entrano niente in tutto questo!»
Lucindra si avvicinò ai prigionieri, con movimenti lenti e misurati. «Prima ho bisogno che tu mi dia una risposta: ti unirai alla mia Causa? Mi aiuterai a compiere il rituale e liberare il Vuoto?»
«Perché stai facendo tutto questo?» domandò Jim, furente. «A che ti serve? Sono qui, hai ottenuto quello che volevi: perché continui a tormentare i miei amici?»
«Non traggo alcun piacere nel far soffrire le persone a cui tieni, ma a questo punto dovresti sapere come funziona la magia: è nella Volontà che risiede il vero potere di un mago.»
Si accostò a Wilhelm. «Quindi te lo chiedo un’altra volta, Attraversaspecchi: mi aiuterai?»
Jim serrò i pugni. «Fottiti.»
Lucindra gli rivolse un sorriso triste. «Peccato.»
Un istante dopo, Wilhelm lanciò un urlo terribile e si accasciò a terra. Vanja strillò e si divincolò dalla stretta di Sinclair per lanciarsi verso il fratello, che si contorceva a terra in preda alle convulsioni.
«No!» urlò Jim con disperazione. «Smettila! Lascialo stare!»
Il volto di Wilhelm divenne cianotico, gli occhi si rivoltarono nelle orbite. La sua pelle color latte si ricoprì di venature nere e la schiena si incurvò in maniera innaturale, mentre qualcosa di liquido e nero iniziava a colargli dalle narici…
«Will!» singhiozzò Vanja.
Margot era pietrificata, pallida come uno spettro. «Aspetta, non erano questi i patti! Avevi giurato…!»
«Ho giurato di restituirti la tua eredità, Zora.» Gli occhi di Lucindra si spostarono freddi su di lei. «E tu mi hai promesso in cambio obbedienza.»
La sua voce aveva perduto ogni traccia di cordialità, mostrandola finalmente per quello che era: un capo autoritario, che considerava i suoi Zeloti più come soldati ubbidienti che come amici.
Gli occhi di Margot si velarono di lacrime. «Per favore…»
«Lo farò!»
Entrambe le donne si volsero verso Jim.
«Hai vinto» gemette lui. Gli faceva male il cuore, gli faceva male vivere. «Risparmia la compagnia, tutti loro…e io ti aiuterò a compiere il rituale.»
Lucindra lo fissò per un istante che parve durare un’eternità. Arretrò di un passo da Wilhelm, e il ragazzo smise all’istante di contorcersi. Sinclair mollò la presa e Vanja poté raggiungere il fratello. Si rannicchiò al suo fianco, in preda ai singhiozzi, accarezzandogli il volto e sussurrandogli parole nella loro lingua natia.
Lucindra si mosse verso Jim. «Hai preso la decisione giusta, Attraversaspecchi.»
Jim tirò su col naso, il corpo attraversato da brividi. Era l'unica strada da percorrere, l'unica soluzione per rimettere le cose a posto. Aveva causato soltanto dolore a chiunque si fosse avvicinato a lui, aveva rovinato la vita di suo padre, di Arthur e Joel e di centinaia di persone innocenti...
Era suo dovere mettere fine a tutto. Solo lui aveva il potere di farlo.
Atterrita, Vanja cercò di incrociare il suo sguardo, ma lui girò il capo con vergogna. «Ho un’ultima richiesta.»
Lucindra lo guardò. «Quale?»
«Cancellami la memoria» disse Jim, implorante. «Non voglio…non voglio ricordare niente di tutto questo, le persone che ho perso…solo così potrò concedermi al Vuoto completamente. Lo puoi fare?»
Lucindra soppesò la cosa. Infine, si rivolse a Margot. «Puoi occupartene tu: dopotutto sei una delle migliori pozioniste che il Mondo Esterno abbia mai avuto.»
La testa china e le spalle ricurve, Margot annuì.
«Un momento, bellezza» intervenne rudemente Sinclair. «Quand’è che darai anche a noi quello che hai promesso, eh?»
Lo sguardo di Lucindra lo sfiorò con sufficienza.
«La magia» specificò Sinclair, in tono scocciato. «Puoi farlo sul serio o erano tutte stronzate?»
Lucindra sbatté le palpebre. «Certo che no. Vi siete rivelati utili e meritate un'adeguata ricompensa. Giusto, Zora?»
Margot tacque. Sinclair e Big Joe si scambiarono un’occhiata trionfante ed eccitata. «Ok, allora vediamo di darci una mossa.»
Jim guardò Lucindra, stupefatto. A che gioco stava giocando?
La strega andò più vicina a Sinclair, che sogghignava ancora come un babbeo. Dopodiché aprì la bocca come se stesse per baciarlo, ma invece si limitò ad alitargli sulla faccia. Sinclair strabuzzò gli occhi e risucchiò il respiro dalla sorpresa, attirando dentro di sé quello di Lucindra. «Ma che..?»
Tossì, sussultò. Poi, le sue mani si sollevarono al petto di scatto e strapparono la camicia lercia; sotto la pelle si stava muovendo qualcosa, un’ombra che si propagava a macchia d'olio su tutto il torace.
«Che mi succede?» Indietreggiò, malfermo sulle gambe. «Che mi hai fatto, puttana?!»
Gli si spezzarono gli stinchi e cadde a terra urlando.
Jim era raggelato dall’orrore mentre assisteva impotente a quello spettacolo. Sinclair gettò all’indietro la testa, gli occhi fuori dalle orbite, la bocca piena di bava e le vene del collo che si gonfiavano come sul punto di esplodere. In cerca di aiuto, provò ad afferrare il braccio di Big Joe, con le dita che si squarciavano fino diventare artigli, ma l’altro si ritrasse disgustato. Una serie di protuberanze si sollevarono sotto la pelle, deformandogli la schiena e lacerando ciò che restava dei vestiti, mentre subiva la più dolorosa delle metamorfosi. Lanciò un grido agghiacciante, da belva e due schegge nere gli perforarono la fronte, torcendosi all'indietro come corna caprine. Una peluria nera e irsuta gli ricoprì ogni centimetro del corpo e Sinclair si ritrovò carponi, a ragliare sul pavimento. 
Sul volto di Lucindra si allargò un sorriso appagato.
«Dare e avere» mormorò con dolcezza. «In fondo, si tratta sempre e solo di questo.»
 

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Capitolo 48
*** Luoghi transitori ***



LUOGHI TRANSITORI
 
 
 
 
Una luce verde e oro la aggredì non appena provò ad aprire gli occhi.
Sono morta.
Sbatté le palpebre, si sforzò di aspirare aria nei polmoni, di liberare la mente dalle ragnatele che la avviluppavano. Un istante dopo, realizzò che quel bagliore era la luce del sole: un sole così sgargiante come non lo vedeva da settimane, che le pioveva addosso attraverso un soffitto di foglie.
O forse no.
Non aveva idea di cosa fosse successo. L’unica cosa che sapeva era di trovarsi sdraiata tra foglie e rametti, circondata da alberi e di avere le braccia libere. Provò a tirarsi a sedere, ma un dolore lancinante le trafisse la nuca e un’esplosione di pagliuzze dorate le offuscò la vista.
«Ohi, ohi!» sbottò una voce ringhiosa. «Vacci piano, ragazza!»
Alycia inspirò forte, cercando di scacciare le stelle che ancora le danzavano davanti e di calmare i battiti del suo cuore.
«Hai preso una bella botta» borbottò di nuovo quella voce aspra. «Meglio se resti giù un altro po’.»
Lei tornò cautamente a sdraiarsi, ma riuscì a girare di poco la testa per capire chi fosse il suo interlocutore; aveva ancora gli occhi un po’ annebbiati, ma distinse un ometto vestito di verde seduto accanto a un fuoco da campo, intento a rimestare dentro un pentolino in cui bolliva qualcosa dall’odore non proprio invitante. Scompigliati ciuffi di capelli rossi spuntavano come fiammelle da sotto un cilindro sfondato.
«Io ti conosco» disse, con voce impastata. «Sei il direttore del circo..?»
«Ex direttore» puntualizzò il Folletto, mescolando con rabbia nel pentolino con un cucchiaio di legno. Era evidente che non se la passasse granché bene ultimamente, a giudicare dallo stato miserabile della sua redingote verde e dalla barba incolta. «La mia adorabile mogliettina ha ordito un ammutinamento, quindi ora sono disoccupato. Spero ti piaccia la zuppa di pane raffermo, perché non c’è altro per pranzo.»
Stordita e dolorante come se l’avessero presa a pugni, Alycia si girò su un fianco e osservò il bosco; il cielo era completamente terso, gli uccelli cinguettavano e non vi era più traccia né dell’inverno, né della Torre. «Dove siamo? Che cosa è successo? Ricordo…»
«Di aver fatto un tuffo nel vuoto?» completò O’Malley. «Be’ ricordi bene. Per rispondere alla prima domanda, siamo a dieci miglia da Orlando, in Florida…»
«Florida?» esclamò lei, costernata. Non aveva ancora molta dimestichezza con le distanze in America, ma era certa che fosse lontana, molto lontana dal posto dove avrebbe dovuto essere. «Ma come…come siamo arrivati qui? Dov’è Jim? Lui…lo hanno catturato! Dobbiamo tornare alla Torre, dobbiamo…!»
Costrinse il suo corpo ad alzarsi mantenendosi al tronco di un albero, mentre veniva di nuovo assalita dalle vertigini e la disperazione piombava su di lei come una coperta pesantissima. Era tutto sbagliato. Doveva assolutamente trovare il modo di tornare indietro, prima che fosse troppo tardi…
Il Folletto mollò il cucchiaio nel pentolino e sospirò. «Ci siamo lasciati alle spalle quell’orrore, dovresti ringraziarmi. E poi, la Florida non è così male come dicono, sai? Sole tutto l’anno, l’Oceano, pollastre in costume da bagno…»
«Mi devi riportare là!» gli ordinò Alycia. «Qualunque cosa tu abbia combinato…»
O’Malley iniziò a spazientirsi. «Senti, carina, io non intendo rimettere piede laggiù. Ma se muori dalla voglia di tentare un’altra volta il suicidio, accomodati pure.» Fece un gesto secco con la mano, come a chiudere la questione. «Ho smesso di fare da bambinaia a voi maghi da strapazzo!»
«Come sei riuscito a portarci qui?» Alycia lo fissò insistentemente. «Faceva tutto parte del piano di Margot? Parla, o giuro che…»
Mosse un paio di passi malfermi, le mani appena sollevate. La faccia di O’Malley divenne subito bianca e tesa, ma poi ci fu uno schiocco e un attimo dopo non c’era più.
Alycia sussultò dallo stupore. «Ma..?» Compì un mezzo giro su se stessa, senza riuscire a credere ai propri occhi. Era letteralmente svanito nel nulla. «Non può essere…»
Un altro schiocco alle sue spalle, seguito da un clic. Alycia si girò di scatto e trovò il Folletto in piedi, che le puntava contro una pistola. «Guai a te se ci provi. Non mi faccio fregare un’altra volta!»
Alycia era senza parole. «Tu sai saltare? Come ci riesci? Dove lo hai imparato?»
«Non l’ho proprio imparato» ammise lui. «Mi concentro e puff, sparisco da un luogo e appaio in un altro.»
«É impossibile» ribatté Alycia, in preda alla confusione. Aveva letto che nel Vecchio Mondo gli appartenenti al Popolo Fatato erano in grado di smaterializzarsi ben più lontano di qualsiasi stregone, di aprire portali nel Tutto tra i vari angoli del pianeta dove nascondevano i propri tesori: i Mancanti li chiamavano sentieri delle fate. «Tu non dovresti saper fare magie!»
«Immagino sia come la storia del calabrone, che è troppo grasso per volare ma non lo sa e…»
«Ce ne sono altri?» domandò Alycia, inquieta. «Altri membri della compagnia hanno capacità simili alle tue?»
«Per quel che ne so, solo i King» rispose O’Malley, imbronciato. «Ma visto come gli è andata, non mi stupirei se altri abbiano deciso di tenerselo per sé. Io non l’ho detto a nessuno.»
«Nemmeno a Jim?» si stupì Alycia.
«Con quegli avanzi di galera sempre a ficcanasare e gli Accalappiatori e tutto il resto, solo un idiota sarebbe andato in giro pavoneggiandosi di essere…fuori dall’ordinario, ecco. Ci ho provato a spiegarlo a quel bamboccio, ma figuriamoci se mi stava a sentire! L’unica a saperlo era Margot, e quanto vorrei aver tenuto la bocca chiusa con quell’arpia...!»
«Da quanto tempo hai questi poteri?»
«Cos’è, il terzo grado?!»
«Devo saperlo, è importante!»
«Sette anni. Più o meno dalla…»
«Notte del Disastro» finì la frase Alycia. Ricordò quello che aveva detto l’indovina poco prima di farla precipitare e tutte le componenti andarono al proprio posto. «Quando Joel King è diventato un Mannaro anche tu hai riavuto parte dei tuoi poteri da folletto. Lucindra aveva ragione: Jim può davvero riportare la magia nel mondo!»
«Per mille sardine, l’hai battuta forte la testa!»
«Jim è un Plasmavuoto» spiegò Alycia. «Lui può attingere a un potere immenso, scardinare le leggi della magia. Quella notte ha liberato il Vuoto senza accorgersene, era solo un bambino e non sapeva controllarsi: così ha reso il vostro sangue magico come lo era nel Vecchio Mondo.»
«Sì, be' chi se ne frega» ribatté O’Malley. «So solo che per colpa delle vostre diavolerie io non ho più un circo. Quindi, sai che ti dico? Ho fatto la mia buona azione, ti ho impedito di sfracellarti a terra e ora me ne vado dritto per la mia strada. Sayonara, bella.»
Dopodiché, intascò la pistola e si diresse verso il suo piccolo accampamento di fortuna. Alycia lo osservò scoraggiata, mentre raccoglieva le sue poche cose in un fagotto rattoppato. «Che cosa stai facendo?»
«I bagagli, non si vede? Ho ancora un paio di assi nella manica, troverò un altro freak show e ricomincerò da capo. Ormai ci sono abituato.»
Alycia sentì crepitare di nuovo in lei la collera. «Hai intenzione di svignartela? Di abbandonare la tua compagnia?»
«Non è più la mia compagnia.»
«No, hai ragione» replicò lei, in tono severo. «É molto di più: è la tua famiglia.»
«Bah!» fu il cinico commento del Folletto.
Ma Alycia non si arrese e lo marcò stretto. «E sono convinta che, anche se ti rifiuti di ammetterlo, senti di essere ancora responsabile per tutti loro.»
«Ah, sì?» O’Malley si mise in spalla il suo fagotto e la fissò con aria aggressiva. «E che ne può sapere una come te di come mi sento io? Neanche ci conosciamo. Sei uguale a quello spaccone di tuo padre: arrivate quando nessuno vi vuole e vi comportate come se sapeste sempre tutto!»
Alycia su questo non poté dargli torto. Comprese che mettersi a battere i piedi non avrebbe risolto nulla; così si fermò, impose a se stessa di calmarsi e scelse di percorrere una via diversa: «Hai ragione, so davvero molto poco del vostro mondo. E mi scuso se mio padre ha portato trambusto nelle vostre vite.»
«“Trambusto” è un bell’eufemismo!»
«Tu però mi hai salvato la vita» riprese Alycia. «E non ti ho nemmeno ringraziato per questo.»
O’Malley rispose con un altro verso burbero e si allontanò scuotendo la testa.
Disperata, Alycia lo rincorse. «Se ti sei preso la briga di correre in mio soccorso, significa che non è vero che ti importa soltanto di te stesso! Tenevi alla compagnia, così come tenevi a Jim.»
«Erano la mia macchina sforna quattrini, tutto qui. Non rischio la pelle per un moccioso ingrato e un branco di pidocchiosi freaks
«Però sei rimasto» disse Alycia. «Eri riuscito a scappare, saresti potuto andare ovunque. E invece, eri lì quando Margot ci ha aggrediti.»
«Me ne stavo andando, infatti. Non so se lo hai notato ma ho le gambe corte io…»
«Invece credo che non volessi lasciare i tuoi amici» ribatté Alycia. «Che stessi cercando un modo per salvarli.»
«Al diavolo, ragazzina! Si può sapere che cosa vuoi da me?»
«Voglio che torni con me alla Torre» rispose Alycia con decisione. Sentiva il volto in fiamme, le vene ardere di rabbia e determinazione. «Aiutami a salvare Jim, i miei genitori e la compagnia.»
«Nella remota possibilità che voglia tuffarmi di nuovo in quel covo di pazzi, in che modo ti potrei aiutare, eh?» O’Malley si voltò, lasciò cadere a terra il fagotto e allargò le braccia, mostrandosi nel suo scarso metro e cinquanta. «Ti sembro un guerriero? Sono a malapena un uomo! I folletti non sono eroi, neanche nelle leggende! Gli unici talenti dei miei antenati erano reggere l’alcol, contare i soldi e sparire quando le cose si mettevano male.»
Alycia guardò quello strano ometto scontroso, uno degli ultimi discendenti della sua razza, vittima dell’impoverimento del mondo dalla magia causato da Arcanta. Eppure, aveva resistito, all’odio della gente, alle difficoltà del suo tempo, coi pochi mezzi che aveva, tirando fuori le unghie e sì, comportandosi spesso in modo disonesto.
Gli andò più vicino e si piegò sulle ginocchia, in modo da essere alla sua stessa altezza.
«Nemmeno tra i maghi si contano molti eroi» replicò con dolcezza. «Eppure, ne ho conosciuti un paio che mi hanno fatta ricredere.»
Gli occhi azzurro ghiaccio del Folletto la misurarono, pieni di astio e riluttanza.
«Uniamo le forze» propose Alycia. «Il nemico pensa che io sia morta e che tu sia scappato, possiamo sfruttare la cosa a nostro vantaggio, coglierlo di sorpresa. Non è troppo tardi per fare la cosa giusta, Maurice. Per essere degli eroi.»
Lui esitò, titubante e spaventato. Poi, tirò un lungo sospiro.
«E va bene» decise alla fine. Sollevò una mano, puntò due dita verso il bosco e le ruotò come se stesse disegnando un cerchio. Si udì un crepitio, poi un sibilo acuto, come di una miccia accesa, e Alycia vide comparire a mezz’aria un anello dai bordi infuocati, affacciato su uno scenario completamente diverso. Fatto di neve, gelo e nuvole fosche.
«Ma ti avverto» disse O’Malley, scrutandola truce. «Tu prova a tirarmi uno dei vostri giochetti e te la farò pagare cara. Un’altra cosa in cui noi folletti siamo piuttosto bravi è vendicarci.»
Alycia gli restituì in cambio un sorrisetto agguerrito. «Proprio quello che speravo.»
Varcarono insieme il portale.
La Torre vorticava in mezzo a un immenso campo d’orzo inaridito, esattamente dove l’avevano lasciata. Alycia e O’Malley si incamminarono verso di essa, finché non furono dinnanzi a un muro di oscurità fumosa.
«Sei sicura di volerlo fare?» domandò il Folletto, scoccandole un’occhiata.
Alycia non rispose, gli occhi fissi sull’oscurità che ondeggiava irrequieta, ricreandosi in continuazione.
Non si può morire due volte nell’arco di una giornata.
Inspirò profondamente e lasciò che le tenebre la inghiottissero.

 

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Capitolo 49
*** L'occhio ***



L'OCCHIO
 
 
 
All’inizio, fu come trovarsi sott’acqua.
I rumori si smorzarono improvvisamente e di fronte a loro, sotto un cielo temporalesco, si aprì un oceano di sabbia nera, sottile e uniforme, da cui ogni tanto spuntava il relitto di un’automobile, di una staccionata o di un cartello stradale.  Anche l’aria era invasa da uno strano pulviscolo simile a cenere, ma tuttavia respirabile: l’antidoto ricavato dalla ninfa dell’Anthea aveva funzionato.
«Decisamente non siamo più in Kansas» commentò O’Malley. Nemmeno su di lui la Materia Vuota sembrava aver avuto conseguenze negative. Probabilmente, ragionò Alycia, anni di esposizione alla magia di Jim avevano reso in qualche modo i membri della compagnia immuni. «Da che parte andiamo adesso?»
Alycia dilatò i confini della propria mente, ma aveva l’impressione che i suoi poteri funzionassero in maniera strana laggiù: non vi era nulla con cui potessero instaurare un legame di Corrispondenza. Si sentiva un’intrusa, finita per sbaglio tra le pagine di una storia che non la riguardava.
«Proviamo per di qua.»
Superarono una duna e ciò che si parò loro di fronte li lasciò a bocca aperta.
Un luna park.
Era gigantesco, praticamente una città. Nel labirinto di viuzze ricavate tra i tendoni neri, camminava gente di ogni età, eppure quella visione non aveva nulla a che vedere col circo che Alycia aveva visitato solo pochi mesi prima insieme a Jim, colorato, chiassoso e brulicante di attività. In questo, invece, i colori erano desaturati e ogni cosa appariva morta, tanto che le lampadine sospese sulla folla somigliavano ai lumini di un cimitero. Persino l’odore lo ricordava: uno strano effluvio che conteneva qualcosa di freddo, umido e con uno sgradevole fondo dolciastro.
«Come si sono permessi!» guaì il Folletto. «Che hanno fatto quei porci al mio bel circo?»
Si immisero nel viavai di Mancanti che vagavano senza meta per il campo.
«Che gli è successo?» chiese O’Malley.
Alycia afferrò la mano di una ragazza e le chiese se stesse bene, ma lei non parve sentirla e si limitò a ricambiare il suo sguardo con occhi assenti.
«Sembra svuotata.» Un senso di gelo le invase le vene. «Non percepisco niente in lei…»
Non ebbe neanche finito la frase che la mano della ragazza si dissolse nella sua.
Alycia trasalì, agghiacciata. «No!»
Fu un processo velocissimo, inevitabile. Braccio, spalla, busto, la ragazza si volatilizzò senza emettere un fiato, trasformandosi nel pulviscolo di antimateria che riempiva l’aria, che lei stessa aveva respirato. Ad Alycia salì un conato.
«È così che il Vuoto si nutre di loro» sussurrò, in preda all’orrore.
Era un destino terribile, peggiore della morte: a quante persone era già successo? A quanti bambini? Quanti altri sarebbero stati cancellati dall’esistenza se Lucindra avesse vinto?
«Dobbiamo trovare mio padre» disse Alycia, sforzandosi di mantenere la voce ferma. Non era il momento di perdere la testa.
La fronte di O’Malley si aggrottò. «Cioè il genio che ha iniziato questa storia?»
«Ha trascorso anni a studiare il Vuoto» replicò Alycia. «Se esiste un modo per fermare tutto questo, lui deve saperlo.»
Ma non era sicuro restare esposti. Infatti, da una grande tenda esagonale emerse un gruppo di persone ammantate di nero. Si muovevano sicure in quel fiume di anime vuote, tenendo sotto controllo la situazione. In testa al corteo, procedeva una donna alta, con corti capelli argentei e occhi di colore diverso, uno scuro, l’altro di un inquietante blu elettrico.
«Di qua, svelta!» disse O’Malley e la guidò nel labirintico retro dei tendoni, tra pareti di stoffa nera senza fine; malgrado le gambe corte, si muoveva straordinariamente lesto, tanto che Alycia riuscì a stargli dietro con difficoltà. Sollevò un pesante drappo e vi si intrufolò.
Alycia capì immediatamente che erano finiti nel serraglio: una debole luce accarezzava le sbarre metalliche delle gabbie e la pelliccia degli animali e il silenzio era rotto da un borbottio leggero. Solo dopo comprese che non era altro che il russare delle bestie, immerse in un sonno profondo.
O’Malley si infilò sotto una staccionata e Alycia lo imitò, ritrovandosi a gattonare nella paglia, in mezzo a una foresta di zampe lunghe e sottili e code penzolanti.
La puzza era impressionante, ma nascondersi era stata una scelta saggia, perché pochi istanti dopo i lembi della tenda si spalancarono per lasciare il passo a tre uomini muniti di lanterne e manganelli.
Facevano parte del gruppo di operai che li aveva attaccati quella mattina. Illuminarono gabbie e recinti, ispezionandone il contenuto e Alycia si irrigidì, pronta allo scontro.
«Resta giù» bisbigliò O’Malley. «Non verranno a controllare qua.»
«Come fai a esserne sicuro?»
«Perché qua ci sono i lama» sogghignò lui. «E i lama sputano.»
Si rivelò un’intuizione corretta. Alycia vide un paio di scarpe maschili fermarsi a debita distanza dal loro recinto. Quando la luce della lanterna li sfiorò, Alycia pregò che la mole degli animali bastasse a nasconderli.
«Qui tutto tranquillo» disse uno di loro, che dalla voce sembrava avere poco più di vent’anni. Allontanò la luce e Alycia e O’Malley tirarono un sospiro di sollievo.
«Sicuro?» chiese però un altro, più anziano. «Li hai controllati bene tutti? Da vicino?»
Il primo sbuffò. «Che palle, ti ho detto di sì!»
Un altro paio di scarpe si avvicinò al loro nascondiglio. «Hai sentito la strega rossa, no? Nessuno degli ostaggi deve scappare.»
«Sì, ho sentito» si spazientì il garzone. «Ma non capisco perché continuiamo a fare quello che dice. Quella donna è inquietante. Tutti loro lo sono.»
«Perché Sinclair ha promesso una ricompensa che ci cambierà la vita.»
«Sarà» fece il giovane, scettico. «Intanto sgobbiamo per quella come sgobbavamo per il Folletto. Solo che io non ho ancora visto un soldo e prima questo posto non somigliava a un film dell’orrore, cazzo.»
«Cuciti la bocca!» sbottò l’altro. «La stronza con l’occhio di vetro è in giro! Se hai delle lamentele parlane con Sinclair. Basta che fai il tuo fottuto lavoro, è chiaro?»
«Ci parlerei pure con Sinclair, ma è tutto il giorno che non si fa vedere!»
L’operaio più anziano imprecò. «Senti, controlla quel cazzo di recinto e basta! Ne ho abbastanza delle tue lagne!»
E si allontanò, continuando a brontolare. Il garzone attese che gli altri due fossero usciti e borbottò un rabbioso “vaffanculo”. Poi, gettò un ultimo sguardo scocciato al recinto dei lama e si apprestò ad andarsene.
Era il momento. Alycia saltò, scivolando alle sue spalle.
Il ragazzo non fece in tempo a voltarsi che lei lo placcò schiacciandogli la gola con l’avambraccio. Lui lottò per scrollarsela di dosso, ma bastò comprimere le sue carotidi perché il cervello gli andasse in ipossia. O’Malley fece capolino da sotto lo steccato. «Porca…e quello cos’era?»
Alycia afferrò il garzone svenuto per le caviglie e lo trascinò fino al recinto. «Me l’ha insegnato mio padre. Forza, aiutami a spogliarlo.»
«Inizi a farmi un po’ paura, ragazzina.»
Non persero tempo: Alycia indossò gli indumenti del ragazzo, mentre O’Malley provvedeva a imbavagliarlo e legarlo, premurandosi di stringere le corde con più forza del necessario. «Così impari a fottermi, stronzetto.»
Lo mollarono in mutande nel recinto, nascosto sotto il fieno. «Adesso che si fa?»
«Ho un piano» disse lei, tendendo un pezzo di fune fra le mani. «Ma non ti piacerà.»
Intuendo cosa stava per proporgli, O’Malley sospirò. «E pensare che a quest’ora potevo già godermi la pensione!»
Le permise di legargli i polsi e di calargli sopra la testa un sacco di iuta. Alycia usò un incantesimo per assumere l’aspetto del garzone, dai capelli color topo e un terribile problema di acne, poi prese un gran respiro e lasciò il serraglio, trascinandosi dietro il Folletto.
Si unirono alla moltitudine di persone sulla strada principale, cercando di ignorare il fatto che alcune di loro si polverizzassero improvvisamente sotto i loro occhi. Dovettero passare proprio davanti agli stregoni coi mantelli neri, e la donna con l’occhio di vetro si voltò a guardare lei e Maurice in modo così insistente che Alycia sentì il sudore imperlarle la fronte. Incassò la testa tra le spalle, il berretto calato quasi fino al naso e tirò dritto.
«Così ci farai scoprire» commentò O’Malley, sbirciando da sotto il sacco. «Cammini come se non avessi idea di dove stai andando.»
«Infatti, non ce l’ho. Tu sai dove tengono gli altri?»
«L’ultima volta li avevano raggruppati nel tendone principale.»
Quando lo raggiunsero, trovarono un gruppetto di operai a fare la guardia.
«Che cosa abbiamo qui?» disse uno di loro, avvicinandosi.
«Avevate ragione» borbottò Alycia. «Uno degli ostaggi era riuscito a tagliare la corda. Si era nascosto nel serraglio.»
L’operaio si accovacciò di fronte a O’Malley e sollevò il sacco. «Guarda chi è tornato a trovarci! Buonasera, direttore! Nostalgia di casa?»
Gli arruffò i capelli, come si fa coi bambini, e dall’espressione omicida del Folletto, Alycia era quasi sicura che gli avrebbe staccato la mano a morsi.
«Non hai idea della montagna di merda che sta per caderti addosso, Kowalski!»
Ridacchiando, l’operaio si tirò su. «Portalo sul retro insieme agli altri. Abbiamo preparato una cella extralusso per sua altezza
«Bene» replicò Alycia. «Le chiavi?»
«Chiedi a Doug, sempre se non è già sbronzo.»
Il cuore di Alycia fece una piroetta, ma si sforzò di contenere l’emozione; stavano per condurla dai prigionieri, da suo padre e forse…forse anche da sua madre.
Chissà se in questo momento sono insieme…
Ma quando Kowalski scostò l’apertura del tendone, Alycia si pietrificò.
Era sul limite di un vasto ambiente circolare coperto di sabbia e attorniato da spalti, su cui altri operai gridavano e pestavano i piedi. E il motivo di tanta frenesia era lo spettacolo che si stava svolgendo al centro della pista, dove era stata montata una grossa gabbia.
Un vecchio leone ossuto si muoveva lungo la circonferenza segnata dalle sbarre, il passo lento e stanco, ma che conservava ancora la sua eleganza. Gli occhi gialli erano puntati su un ragazzo nero con il petto nudo ricoperto di terra e sudore, privo di protezioni o armi, che si spostava all’interno della gabbia tenendosi il più possibile a distanza.
O’Malley diventò di cera. «Ma che cazzo avete in quella testa? Fatelo uscire subito di lì! Si farà ammazzare!»
«Rilassati, sappiamo la verità sul ragazzo: tutto quello che deve fare è tirare fuori gli artigli
«Brutto coglione!» strepitò il direttore. «Quello è suo padre! Ti aspetti che combattano?»
Kowalski fece spallucce. «Se non lo fa, peggio per lui. Il gattone è a digiuno da una settimana.»
«Papà» stava intanto dicendo Arthur King, mantenendo il contatto visivo con la belva e le mani sollevate. «Guardami, sono io! Sono tuo figlio!»
Joel emise un basso ringhio di gola, scoprendo le zanne. La metamorfosi era ormai giunta al punto di non ritorno e qualsiasi sentimento lo avesse legato a quel ragazzo era stato spazzato via dal più primordiale degli istinti.
«Non combatterò contro di te» disse Arthur. «Tu sei ancora Joel King, sei l’uomo più onesto, forte e gentile che conosca. So che non mi faresti mai del male.»
Alycia si conficcò le unghie nei palmi. Se avesse usato la magia, lì di fronte a tutti, avrebbe mandato a monte il piano senza riuscire nemmeno ad avvicinarsi ai prigionieri. Ma non poteva restare lì a guardare.
Trasformati, si ritrovò a supplicare. Ti prego, Arthur, devi trasformarti o morirai!
In quel momento, qualcuno dagli spalti gridò: «Guardate, gente! È tornato il Folletto!»
Un fragore di applausi e fischi esplose nel tendone. Arthur si distrasse. «Maurice..?»
Non avrebbe dovuto farlo, perché in quell’istante Joel compì un balzo e piombò su di lui ad artigli protesi.
«No!» urlò Alycia, senza riuscire a trattenersi.
Arthur cadde all’indietro, schiacciato sotto il peso dell’animale. Nell’arena si sollevò un polverone di sabbia e l’aria si riempì del sentore del sangue.
Al diavolo, adesso basta!
Alycia fece scattare in alto la mano, pronta a evocare, ma quando la polvere si diradò, si accorse che Joel era bloccato a terra sotto le zampe di un secondo leone, che aveva preso il posto di Arthur. Joel si dibatté e ruggì, gli arti posteriori che raspavano nell’arenaria, ma il giovane Mannaro lo tenne giù, impedendogli di muoversi.
Alycia non fece in tempo a ritrovare il fiato, che Kowalski le abbaiò contro: «Si può sapere che stai aspettando? Prima il dovere, poi lo spettacolo.»
Lei si impose di distogliere lo sguardo dalla gabbia. «Sissignore.»
Stava per imboccare i tendaggi del retroscena, quando le grida degli operai si interruppero e nel tendone piombò il silenzio. Alycia sentì i capelli drizzarsi sulla nuca e comprese chi fosse entrato prima ancora di voltarsi.
Era la donna con l’occhio di vetro.
Se ne stava immobile, avvolta per intero in un mantello da cerimonia da cui spuntavano solo il collo magro e la testa. Studiò la folla attonita con le labbra sottili piegate in una smorfia.
«Così è questo il modo in cui ricambiate la generosità della mia Signora?» chiese, la voce dura e fredda. «Tra tutti i miserabili appartenenti alla vostra razza, a voi soltanto è stato concesso il privilegio di contribuire alla nascita del Nuovo Mondo. Ed eccovi qua, a ragliare come un branco di somari!»
Una paura gelida serpeggiò tra gli spalti. Alycia poteva quasi sentirne l’odore.
«Vi era stato dato un compito molto semplice» continuò la strega, asciutta. «Tenere d’occhio gli ostaggi. Abbiamo chiesto molto?»
«Ma lo stiamo facendo» intervenne con voce ossequiosa Kowalski. «Ne abbiamo preso uno poc’anzi.»
Lei inarcò un sopracciglio e il suo occhio blu elettrico scintillò in modo sinistro.
«Il Folletto.» Kowalski annuì con impeto. «Era scappato, ma lo abbiamo riacciuffato! È proprio…»
«Meglio squagliarcela» bisbigliò O’Malley.
Alycia era perfettamente d’accordo, ma non riuscirono a muovere un altro passo verso le quinte, che lo sguardo della strega si conficcò su di loro come una freccia.
«Signorina Blake» disse ad alta voce. «Che inaspettato onore averla tra noi viva e vegeta.»
L’occhio comprese Alycia, impallidendo. Vede oltre la magia.
Dall’apertura del tendone entrarono altri quattro stregoni e O’Malley si fece piccolo piccolo dietro Alycia. La copertura ormai era andata a farsi benedire, ma Alycia avrebbe venduto cara la pelle. Riassunse le sue sembianze ed evocò tra le mani il suo arco di energia verde.
«Hai fegato, questo è innegabile» disse la donna con l’occhio di vetro, sorridendole. «Ma non esistono molti modi in cui questa storia può concludersi, mia cara.»
Alycia tese ancora di più l’arco, puntando alla testa.
«Un vero peccato» proseguì la strega. «Che un temperamento così fiero sia rimasto per anni soffocato tra le mura di Arcanta. Tu e la nostra Signora avete in comune più cose di quanto pensi.»
«Io non ho niente in comune con quell’assassina.»
«Davvero?» Il sorriso della strega si allargò. «Due maghe orgogliose e brillanti, vissute nell’ombra di Solomon Blake…»
«Questo non è vero!» ringhiò Alycia, ma per qualche ragione le sue mani avevano iniziato a tremare.
«Umiliate dal Decanato, schiacciate dagli ingranaggi di un meccanismo antiquato e patriarcale.» L’occhio blu si fissò su di lei, vivido, infuocato. Sembrava in grado di divorarla. «Ma nel Nuovo Mondo che stiamo costruendo troveresti il posto che meriti.»
Avanzò lenta e decisa e Alycia si ritrovò a indietreggiare, inaspettatamente a corto di parole.
«Un tempo eravamo noi streghe a custodire il sapere» disse ancora la Zelota. «Lo tramandavamo oralmente, di madre in figlia, finché gli uomini non lo hanno imprigionato nella fredda pietra delle biblioteche. Grazie alla nostra Signora non esisteranno più biblioteche né Corti, non ci saranno mura: sarà un’era di uguaglianza e di libertà. Non vorresti farne parte?»
«Dubito che dopo aver sterminato un’intera razza, rapito gente innocente e schiavizzato un adolescente Lucindra possa diventare una sovrana benevola e lungimirante.»
«Proprio non vuoi capire» disse la strega, scuotendo piano la testa. Sembrava sinceramente dispiaciuta. «Lei non desidera il potere per sé: è un umile profeta e il Plasmavuoto che ci ha donato il nostro messia…»
«Be', questa gli piacerà.»
«È destinato a guidarci verso il Grande Cambiamento» concluse la strega con passione. «Con te al suo fianco, magari.»
L’energia del suo arco crepitò, instabile. Per un attimo, solo un breve, vergognoso istante, Alycia si concesse di immaginare un futuro in cui lei e Jim avrebbero potuto stare insieme, non più ostacolati dai Decani, né da nessun altro. Non il modo giusto forse, ma pur sempre un modo…
Lui non lo vorrebbe. Mai. Morirebbe piuttosto.
Jim amava la libertà. Amava la vita. E amava il mondo che abitava, con le sue luci e le sue ombre, con tutto ciò che lo rendeva reale, anche se imperfetto...
«Grazie» disse, alzando l’arco. «Ma il dispotismo non mi si addice.»
La Zelota abbassò le palpebre. «Come ho detto, è un vero peccato.»
Alycia scoccò la freccia, ma gli stregoni avevano già sollevato le mani e al loro comando le ombre si staccarono dalle pareti di stoffa, strisciando per il padiglione. Gli operai abbandonarono immediatamente gli spalti, sgomitando e spintonandosi gli uni con gli altri per raggiungere l’uscita.
L'oscurità si fece materia, si solidificò in ramificazioni nere e provviste di spine affilate. Nella gabbia al centro dell’arena, Joel si ritrasse spaventato e Arthur ruggì e graffiò contro le sbarre, impotente.
Alle spalle di Alycia, O’Malley aprì un portale senza pensarci due volte. «Me lo sentivo che sarebbe finita male! Andiamo, forza! Ci abbiamo provato..!»
Alycia afferrò il Folletto per la collottola prima che finisse infilzato, ma si ritrovarono entrambi imprigionati tra i rovi. Anche loro chiusi in gabbia.
«C’è un tempo per tutto, signorina Blake» commentò la donna con l’occhio di vetro. Camminò verso di lei, avvolta da tentacoli di oscurità fremente. «C’è un tempo per le parole e un tempo per i fatti, così come per vivere e per morire. Mi assicurerò che stavolta giunga anche per te.»
Gli aculei di antimateria si allungarono verso di lei.
Mi sono sbagliata, fu il pensiero che attraversò la mente di Alycia, mentre fissava la punta luccicante avvicinarsi. Si può morire eccome due volte nell’arco di una giornata…
Serrò le palpebre con forza, pronta ad accogliere il dolore, ma in quel momento arrivò la detonazione.
Qualcosa aveva appena fatto irruzione nel tendone, qualcosa di enorme, dotato di orecchie grandi come vele e di una lunga proboscide.
O’Malley era letteralmente in estasi. «Un elefante! Nel mio circo!»
Non era del tutto esatto. Il pachiderma era in realtà una stupefacente macchina mossa da pistoni e valvole che sparavano getti di vapore. Un carro armato corazzato e inarrestabile, che sbaragliò gli Zeloti con un solo colpo della proboscide meccanica.
L’elefante si avvicinò alla gabbia e avvolse la proboscide intorno alle sbarre, piegandole come fossero di gomma. Arthur saltò fuori, ma Joel non si mosse e restò rannicchiato sul fondo come un gatto spaventato.
La strega con l’occhio di vetro sibilò un’imprecazione. «Ancora tu!»
L’elefante fletté le zampe anteriori in un inchino e dalla sua schiena scivolò una donna ricoperta di acciaio scintillante, con una lunga treccia di capelli neri e il volto seminascosto da una bandana rossa. Nel pugno stringeva una spada di vetro trasparente.
Costernata, Alycia si sporse tra gli spuntoni di antimateria, mentre le due donne iniziavano a camminare in cerchio, misurandosi.
«Dopo tutti questi anni» commentò la donna con l’occhio di vetro. «Ti diverti ancora a creare giocattoli, Ascanor?»
Alycia ebbe un tuffo al cuore. Non può essere…
«Rimarresti sorpresa da quanto formidabili siano certi giocattoli, Allegra» replicò la donna con l’armatura. «E poi, ti consiglio di rispolverare i manuali di alchimia: l'acciaio alchemico è immune alla magia.»
L’elefante prese la carica.
Il volto di Allegra divenne una maschera di rabbia e sollevò le mani, spingendo le ombre ad attaccare.
La donna in armatura le andò incontro. Schivò le propaggini di Materia Vuota, ruotò la lama di vetro e ne recise un paio, che si dimenarono impazzite come arti mozzati.
Allegra mosse le dita ed evocò una lama sottile, fatta di oscurità. «Questa storia avrebbe dovuto concludersi molto…»
Non terminò mai la frase. Un ruggito assordante scosse le fondamenta del tendone e Allegra fu gettata a terra da una zampa provvista di artigli. Arthur si avventò su di lei, le sue zanne si chiusero sulla sua spalla. La strega strillò. Uno schizzo di sangue macchiò la sabbia e le urla della donna si spensero.
Le ramificazioni di Materia Oscura si ritirarono, tornarono strisciando tra le ombre. Alycia si liberò in fretta. «Arthur!»
Il leone si allontanò dal corpo senza vita della Zelota e la sua pelliccia fu attraversata da un lungo brivido. Lentamente, cominciò a riassumere sembianze umane e vomitò.
Alycia afferrò il mantello di uno degli stregoni che giacevano a terra e glielo gettò addosso. «Stai bene?»
Il giovane tremava ancora, nudo, coperto di sangue e sporcizia. Annuì.
«Il sangue» gracchiò, passandosi una mano sulla bocca. «Ha un sapore orribile.»
La donna con l’armatura rinfoderò la spada di vetro. «Siete feriti?»
Alycia si scostò appena da Arthur e la fissò mentre si avvicinava. Fissò i suoi occhi scuri, luminosi, dal taglio leggermente obliquo. I miei stessi occhi.
In fondo alla gola avvertì la pressione dolorosa dei singhiozzi e lottò per reprimerli. «Chi sei?»
La donna esitò, poi si portò una mano alla nuca e sciolse il nodo della bandana, lasciandola cadere. «Qualcuno che ti ama.»

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Capitolo 50
*** La belva ***


 
LA BELVA
 

 
Alycia non osava lasciar andare il respiro. Temeva che, se avesse smesso di trattenerlo, l’incanto si sarebbe rotto e anche l’immagine che aveva davanti agli occhi sarebbe andata in frantumi.
Non è reale, non può esserlo.
La donna che le stava di fronte somigliava ben poco a quella ritratta nella fotografia dentro l’orologio di suo padre, che in quel momento lei portava sotto la giubba da operaio. La spettinata matassa di trecce color ebano era striata di grigio, lo sguardo aveva perduto dolcezza, e la corazza di vetro e acciaio, indossata sopra gli abiti logori dal taglio maschile, le conferiva un aspetto duro e un po’ minaccioso.
Mia madre.
Isabel la fissava in silenzio, rigida, con un’intensità quasi dolorosa.  Poi, lentamente, il fantasma di un sorriso balenò sul suo volto, rendendola più simile alla donna che era stata un tempo. «L’ultima volta che ti ho vista riuscivi a malapena a stare in piedi da sola, figlia. Sembra che ormai tu ci riesca egregiamente.»
Alycia avrebbe voluto scoppiare a ridere o a piangere o fare tutte e due le cose insieme. Le sembrava che qualcosa di enorme dentro di lei fosse crollato, l’argine di un fiume che ormai sgorgava in maniera incontenibile, inondandole lo sguardo di lacrime…
A quel punto, O’Malley decise di inserirsi tra loro con la consueta delicatezza: «Be’, la stronza è morta? Abbiamo vinto?»
Isabel aggrottò la fronte. «Allegra era solo l’inizio, non è prudente rimanere qui. I miei automi ci garantiranno un diversivo, ma non riusciranno a tenere gli Zeloti impegnati a lungo. E saranno ben poco utili contro Lucindra.»
Detto ciò, sganciò dalla cintura uno strano strumento simile a una chiave inglese e si avvicinò al suo elefante meccanico. Alycia la osservò, mentre stringeva viti e bulloni, come se si fosse dimenticata del tutto di loro e la cosa la lasciò interdetta. In realtà, non sapeva bene cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Un abbraccio? Che le dicesse quanto aveva sentito la sua mancanza? Che promettesse di non lasciarla mai più? Quella donna era sua madre, ma a conti fatti un’estranea…
É rimasta sola nel Vuoto per diciassette anni si disse, cercando di stemperare la sua delusione. Probabilmente, ha più dimestichezza con le macchine che con le persone.
Con uno sforzo non da poco, convinse la voce a uscire: «Hai…hai notizie di papà? Sai se sta bene?»
«No» sospirò Isabel. «Il Vuoto cambia forma continuamente, è difficile che qualcosa o qualcuno rimanga nello stesso stato a lungo. Ma so che è vivo, in qualche maniera. Lei lo odia troppo per lasciarlo morire. Vuole che soffra.»
«E Jim?» chiese Arthur. Era ancora piuttosto pallido e provato, ma era riuscito a mettersi in piedi e si stringeva addosso il mantello nero da Zelota. «Perché non è insieme a voi?»
«Jim?» Isabel si voltò a guardarlo. «Il ragazzo coi capelli rossi che attraversa gli specchi?»
«Sì!» disse Alycia speranzosa. «Lo hai incontrato?»
«L’ultima volta Lucindra era quasi riuscita ad assorbire i suoi poteri» rispose lei, cupamente. «L’ha attirato a sé con l’inganno, si è finta sua amica. Ho cercato di metterlo in guardia, ma lei trovava sempre il modo di respingermi. E alla fine, ha preso abbastanza potere da lui da riuscire a liberarsi.»
«Non sto capendo» ammise Arthur. «Parlate della strega con la ciocca bianca? Cosa vuole da Jim, che c’entra lui in questa storia?»
«Per quello che ho capito io» rispose O’Malley, arcigno. «Quel piantagrane del tuo amico è letteralmente la chiave per aprire le porte dell’Inferno. E io non ho intenzione di essere qui quando succederà.»
«Se non è già successo» replicò Isabel. «La cosa più importante adesso è portarvi lontano dalla Torre.»
L’elefante meccanico scuotè la testa con una sinfonia di cigolii e sbuffi di vapore, si raddrizzò e trottò fuori dal tendone.
«Liberiamo il resto della compagnia» disse Alycia. «Maurice può farvi uscire con un portale…»
Si volse verso Arthur, ma il ragazzo era tornato nella gabbia al centro dell’arena, da cui suo padre si rifiutava ancora di uscire, accucciato a terra con la coda tra le zampe.
«Papà» disse Arthur, gentilmente. «Va tutto bene, nessuno ti rinchiuderà più dentro una gabbia. Vieni con noi, coraggio.»
Il leone mostrò i denti affilati, ringhiando piano.  Alycia si allarmò, ma il ragazzo continuò ad avvicinarsi senza mostrare alcuna esitazione. Quando fu a pochi passi da lui, Joel drizzò il pelo, soffiò e si lanciò in avanti. Alycia ebbe paura che si avventasse di nuovo sul figlio; invece, uscì dalla gabbia e fuggì tra le ombre di una galleria.
«Papà!» gridò Arthur. «Ti prego, aspetta!»
Fece per inseguirlo, ma Alycia lo trattenne. «È inutile, è troppo spaventato.»
«Ma non posso lasciarlo qui» ribatté lui, disperato. «Se gli succede qualcosa…»
«Torneremo a cercarlo» disse O’Malley. Alycia e Arthur lo fissarono increduli e persino lui parve stupito da se stesso.
«Sì, be’» borbottò poi, arrossendo leggermente. «Solo io posso maltrattare i miei dipendenti, chiaro? Se qualcuno prova ancora a farvi del male, stavolta dovrà vedersela con me!»
Arthur fece schioccare la lingua e scosse la testa, ma ad Alycia non sembrava arrabbiato. «Meglio tardi che mai, Maurice: ci voleva solo la Fine del Mondo.»
Scostarono le pareti di stoffa che conducevano al retroscena e lì trovarono una dozzina di grandi gabbie, in cui erano rinchiusi come animali i membri della compagnia. Il panico si diffuse immediatamente, ma non appena riconobbero il Folletto le loro espressioni si riempirono di stupore.
«È impossibile» esclamò un nano, schiacciando la faccia tra le sbarre. «Sei tornato per noi!»
«Considerami il tuo miracolo di Natale.»
Isabel sguainò la spada di vetro. «State indietro. È affilata.»
Dopodiché, colpì la serratura di una gabbia, spaccandola letteralmente in due. Mentre Arthur e Maurice aiutavano i prigionieri a uscire, Alycia guardò la lama e poi sua madre: «Non ho mai visto niente del genere. Che cos’è?»
«Una mia invenzione.» Isabel gliela porse, in modo che potesse esaminarla. «Una lega ottenuta mescolando l’acciaio alchemico alla polvere di vetro. Ho scoperto che ne potenzia le qualità e l’efficacia contro la Materia Vuota.»
«Incredibile» mormorò la ragazza. «E hai realizzato tutto da sola? Queste armi, gli automi…»
«Ho avuto molto tempo a disposizione.»
«Ma come ci sei riuscita? Come hai fatto a sopravvivere per tutti questi anni?»
«Come fanno le specie trapiantate in un habitat diverso dal proprio» rispose lei. «Mi sono adattata. In verità, Lucindra in questo mi ha dato un piccolo aiuto: ha infuso in me una minima parte del suo potere, in modo da mantenermi in vita. Non che la cosa le piacesse, ma le servivo. Ero comunque troppo debole e presto o tardi il Vuoto avrebbe preso da me ciò che gli serviva. Io ho semplicemente fatto altrettanto.»
Impressionata, Alycia restituì la spada a sua madre.
«E tu, invece?» domandò a sua volta Isabel. «Come riesci a tollerare il Vuoto così bene?»
«Ehm…ho creato un antidoto» balbettò Alycia. «Cioè, almeno credo…»
«Un antidoto? Sul serio?»
Alycia illustrò brevemente il processo che dalla linfa dell’Anthea, unita al sangue di Jim aveva reso possibile la creazione di un’anti-antimateria. Isabel la ascoltò e a ogni nuova informazione ottenuta, i suoi occhi sembravano diventare più grandi e luminosi. Scoppiò a ridere. «Hai avuto un’intuizione davvero notevole. Così giovane e così talentuosa.»
Alycia sentì la faccia andarle a fuoco. «Ho avuto solo fortuna. E Jim mi ha aiutata…»
«Non sminuirti» replicò sua madre, accigliandosi un momento. «Mai. I Decani hanno cercato di farlo con me per anni, tanto che se tuo padre non avesse insistito, probabilmente avrei gettato la spugna.»
«Davvero?»
«Malgrado provenissi da una famiglia di alchimisti, il Cerchio d'Oro si rifiutò categoricamente di ammettere una donna. Solomon mi ha aiutata ad aprire un laboratorio tutto mio, che facesse concorrenza a quelli ufficiali della Cittadella. Un’idea folle, lo so, ma lui è sempre stato il re delle idee folli.»
La rivelazione lasciò Alycia di stucco. C’erano un’infinità di cose che avrebbe voluto chiederle, così tante che non sapeva da che parte cominciare, ma Arthur richiamò la loro attenzione su questioni più urgenti: «Ehm, questo signore non è dei nostri. Sta con voi?»
L’ultima cella in fondo ospitava due prigionieri: il primo era Valdar, seduto con il capo chino e le mani strette da grosse catene. L’altro era Boris Volkov.
Con un colpo di spada, Isabel mandò in frantumi i sigilli. L’orco sollevò la testa e rivolse un gran sorriso zannuto ad Alycia. Boris, invece, non si mosse, né parve accorgersi dell’intrusione.
«È da quando l’hanno portato quaggiù che sta così» commentò uno dei circensi, un maciste con biondissimi baffi a manubrio. «Non ha voluto dire neanche il suo nome. L’orco in confronto è un gran chiacchierone.»
«Boris» lo chiamò gentilmente Alycia. «Maestro, riesci a sentirmi? Sono io.»
I gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto e i capelli neri che gli scendevano sul viso in ciocche scomposte, il mago sembrava precipitato dentro se stesso, in un luogo dove la voce di Alycia non poteva raggiungerlo.
«Morti.» Le sue labbra fremettero, fra la barba incrostata di sporcizia e sangue. «Siamo tutti morti. Niente ha più senso.»
Quelle parole turbarono Alycia nel profondo. Il Lupo Grigio era sempre stato un uomo d’azione, un soldato che non aveva paura di niente. Eppure, era come se qualcosa in lui si fosse rotto in modo irreparabile.
«Boris, che cosa è successo?» domandò con ansia. «Dove sono Siegfrid e tutti gli altri?»
«Non c’era nessun altro» disse Rodrigo, il mangiafuoco. «Quando l’hanno portato aquì era solo.»
Alycia sentì il suolo mancarle sotto i piedi. No..!
Volkov aveva iniziato a tremare.  «È solo colpa mia. Ho costretto Blake ad azionare quel suo macchinario infernale… ha cercato di avvertirmi, ma io non l’ho ascoltato. Desideravo solo vendicarmi, non mi importava di nient’altro…»
Ferma accanto all’entrata della cella, Isabel strinse l’elsa della spada fino a far sbiancare le nocche.
«Il Vuoto si è liberato» proseguì Volkov, ignorando tutto il resto. «L’Oscurità ci ha sommersi ed è apparsa lei, nel pieno dei suoi poteri. Siegfried era terrorizzato, tutti loro lo erano…ma hanno attaccato lo stesso. E lei non ha avuto pietà.»
Una grossa lacrima scese lungo la sua guancia sudicia, lasciando una scia più chiara. Alycia era sconvolta.
«Li ha ridotti in cenere. Tutti loro. Non ho potuto fare niente per salvarli.»
La sua voce fu soffocata da un singhiozzo. «E la cosa peggiore è che ha lasciato vivere me!
Seppellì la testa tra le braccia e si abbandonò a un pianto disperato.
Amareggiata, Alycia guardò sua madre in cerca di sostegno, ma lei si limitò a un breve, deciso cenno del capo, che stava a significare: “È compito tuo”.
La ragazza trasse un profondo respiro, si fece forza. Aveva ragione, spettava a lei risollevare il maestro dal pozzo in cui era caduto: era la sua protetta, la persona che sentiva più vicina e che aveva giurato di proteggere…
Prese le grosse, ruvide mani del mago tra le sue e disse: «Coraggio, maestro. Non è questo il momento di abbattersi.»
«Non me lo perdonerò mai.» Boris tirò rumorosamente su col naso. «Merito di rimanere quaggiù per sempre…» 
«Lasciandoti morire non li riporterai indietro» ribatté Alycia in tono severo. «“Sii la tua arma”, è questo il motto della Corte delle Lame. Lo hai dimenticato?»
Boris sollevò lo sguardo su di lei, come se improvvisamente fosse in grado di vederla.
«Sei ancora Boris Volkov, il Lupo Grigio» affermò Alycia. «Il più grande guerriero che Arcanta abbia conosciuto. Siegfried, Vladimir, Godefroy, Magnus e tutti gli altri credevano in te ed è tuo dovere onorare il loro sacrificio.»
Boris sbatté le palpebre. «Alycia..?»
I suoi occhi vagarono sperduti per la cella finché non si posarono su Isabel, increduli, sgranati. «Belle…!»
La maga gli sorrise. «Non vorrai privarmi del piacere di combattere al tuo fianco un’ultima volta.»
Alycia gli offrì il suo aiuto, mentre si issava faticosamente in piedi e avanzava zoppicando verso Isabel, senza smettere di farfugliare: «Non è possibile, non puoi essere...Blake aveva ragione…!»
Lei afferrò il suo braccio e glielo strinse forte. «È bello rivederti, amico mio.»
Boris gemette, sopraffatto dalla commozione. Portò la sua mano alle labbra, mentre le lacrime scendevano copiose. «Credevo di averti persa per sempre.»
«Tutto molto toccante» gracchiò O’Malley. «Ma forse è il caso di rimandare le smancerie.»
«Boris» disse Alycia. «Hai detto che mio padre era con te quando Lucindra si è liberata. Sai dove si trova ora?»
Lo stregone scrollò tristemente la testa. «Ho perso i sensi e quando mi sono svegliato ero chiuso in questa cella. Non ho idea di cosa gli sia accaduto.»
«Forse è con Jim» suggerì Arthur. «Voglio dire, se ha davvero gli stessi poteri di questa Lucindra, magari lui è riuscito a liberarsi! Magari, in questo momento la stanno affrontando…»
«No» replicò a quel punto Vanja, la trapezista, con voce roca. «Io…io ho visto Jim. È insieme a lei.»
Tutti si volsero a guardare lei e il gemello, che si sostenevano l’uno all’altra.
«Voleva costringerlo a fare non so cosa» spiegò Wilhelm, afflitto. «Lui si è rifiutato e…»
Si rifugiò nell’abbraccio della sorella, incapace di proseguire. Vanja deglutì e prese la parola: «Ci avrebbe uccisi se non l’avesse assecondata. Ha promesso che gli avrebbe cancellato ogni ricordo…»
«No!» esclamò Alycia.
«È stato lui a chiederglielo» mormorò Vanja. «Ti credeva morta. Non l’ho mai visto così a pezzi.»
Un coro di esclamazioni addolorate si levò dai circensi. Dot, la Donna Barbuta di piedi caprini, sbottò: «Oh, quella megera! Povero ragazzo! Cosa gli starà facendo adesso?»
«Lo troveremo» disse invece Arthur, con una risolutezza che colpì Alycia. «Se Lucindra fosse già riuscita a prendere i suoi poteri, ce ne saremmo accorti, no? E poi, non è da Jim assecondare gli altri con facilità.»
«Saremo noi a trovarlo» disse Isabel. «Non è la vostra battaglia. Folletto, devi condurli fuori da qui.»
«Con tutto il rispetto, ehm… signora Blake» ribatté Arthur. «Ma questo è ancora il nostro circo. E Jim il nostro mago. È eccome la nostra battaglia.»
La maga lo osservò stupita, ma fu Boris a intervenire, in tono ruvido: «Non essere sciocco, ragazzo, hai sentito cosa ho appena detto? Il nemico è troppo potente persino per due Arcistregoni esperti come me e Blake! Cosa sperate di fare voi saltimbanchi…?»
«Credo che abbia ragione» disse Alycia. «Ci serve tutto l’aiuto possibile. E a Jim serve la sua famiglia, adesso più che mai.»
Guardò sua madre con tutta la forza di cui era in grado. La donna tacque per un momento, pensierosa. «Finora, la nostra magia si è dimostrata insufficiente, Bo. Forse, è il momento di tentare qualcosa di diverso.»
Arthur accennò un sorriso riconoscente ad Alycia, ma a quel punto anche Vanja si mise in mezzo: «Io sto con voi. Tanto, se la Regina Delle Stronze vince, non ci sarà comunque scampo per nessuno, no?»
Si voltò verso il gemello, che dopo un attimo di esitazione disse: «Lo sai, sorellina: io vado dove vai tu.»
«Contate pure su di me» s’inserì Frank, il forzuto coi baffi a manubrio. «Credete che questi muscoli servano solo a fare scena?»
«Ci sto anche io» sogghignò Rodrigo. «Non vedo l’ora di prendere a calci un po’ di chiappe magiche!»
Infine, Valdar affiancò Alycia e Isabel. «Valdar combatte con i Blake. Fino alla fine.»
Boris Volkov era sbalordito. Guardò quell’assortimento di personaggi, incapace di credere che avrebbe davvero affrontato una simile impresa insieme a loro. Ma d'altro canto, dieci dei suoi guerrieri più valorosi erano periti senza neanche avere la possibilità di combattere…
Lasciò andare un sospiro rassegnato. «D’accordo allora. Facciamo a modo vostro.»
O’Malley disegnò un cerchio luminoso a mezz’aria: «Va bene, gente, le iscrizioni sono chiuse: voi altri uscite di scena.»
Un po’ titubante, il resto della compagnia acconsentì ad attraversare il portale. Prima di varcare la soglia, un vecchietto minuscolo e occhialuto, che Alycia ricordò essere Ernie il bigliettaio, prese la sua mano e mormorò: «Prenditi cura del nostro Jimmy, bambina: è un po’ briccone, ma gli vogliamo tutti bene.»
Alycia mandò giù il groppo che le ostruiva la gola e annuì.
Una volta messo tutti al sicuro, Isabel aprì un taglio nella stoffa del tendone, apparentemente a caso: «Per di qua.»
«Ma» disse Vanja, incerta. «Non c’è nulla di là.»
Aveva ragione. Lo strappo si apriva sul buio più nero e uniforme: il ciglio di un abisso senza fine.
«La prima regola per sopravvivere nel Vuoto» disse Isabel. «È non seguire mai la strada tracciata. Bisogna coglierlo di sorpresa, prima che faccia la sua mossa.»
E, detto ciò, compì un salto nel buio.
Vanja non sembrava per niente convinta, ma suo fratello le diede una spallata: «Coraggio, non è la prima volta che ti tuffi nel vuoto, no? Fingi che ci sia io dall’altra parte pronto a prenderti.»
La trapezista imprecò. «Questa Jim me la paga!»
E si lasciò cadere, trattenendo un piccolo strillo. Uno dopo l’altro, Wilhelm, Arthur, Frank, Rodrigo, Valdar e Boris attraversarono il passaggio, pronti a gettarsi nell’ignoto. O’Malley cedette il passo ad Alycia. «Ehm, dopo di te…»
Lei afferrò la sua giacca e lo tirò con sé oltre il taglio.
La calma che si era autoimposta fuoriuscì dallo stomaco di Alycia, quando iniziò a precipitare in caduta libera. Sentì il Folletto urlare un fiume di bestemmie e poi, all’improvviso, la discesa si interruppe e Alycia si ritrovò coi piedi ben saldi su un pavimento incastonato di mosaici rotti, senza la più pallida idea di dove fosse.
Udì la voce di sua madre chiamarla e si apprestò a raggiungere gli altri. Erano finiti in un vasto giardino avvolto nell'oscurità, chiuso da arcate di metallo e vetrate a pezzi. Alycia si guardò attorno e distinse, al di là degli archi, le rovine di una città che conosceva bene. Erano ad Arcanta.
Identificò le eleganti colonne, i ponti e i tetti d’oro, e in lontananza, contro il cielo nero e denso di nuvole, lo scheletro spettrale della Cittadella, velata dalla nebbia. Sembrava che qualcosa di terribile si fosse abbattuto sulla Città Nascosta, lasciando soltanto macerie e pagine strappate di libri. E polvere. Polvere nera dappertutto…
Alycia si convinse che ciò che stava guardando era solo ciò che il Vuoto voleva farle guardare. Un modo per farle perdere fiducia, per indurla a credere che fosse troppo tardi.
«Continuiamo a muoverci» disse Isabel, precedendoli attraverso l’Arboretum distrutto. «Nessuno deve rimanere indietro!»
Il gruppo avanzò compatto, gettando occhiate nervose agli edifici diroccati. Anche se non era reale, fu comunque doloroso assistere alla fine di ciò che Alycia aveva da sempre considerato “casa”, malgrado i suoi tanti difetti, le sue ipocrisie…
«Così» disse Arthur, che camminava al suo fianco. «Questa è la famosa città dei maghi?»
Lei annuì. «È Arcanta. O almeno, è come Lucindra vorrebbe farla diventare.»
«Sembra un posto incredibile.» Arthur lasciò che il suo sguardo si posasse su quel che restava delle raffinate architetture. «Posso capire come mai Jim ne fosse così ossessionato.»
«Ha il suo fascino.» Alycia si voltò a guardarlo. «Ma anche quando eravamo ad Arcanta, non ha mai smesso di pensare a voi. Ha sofferto molto la vostra mancanza. La tua, soprattutto.»
L’espressione di Arthur si adombrò. «Ho sempre saputo che c’era qualcosa di più grande del circo nel suo futuro. Ma quando siete arrivati tu e tuo padre… è stato difficile accettare che le nostre strade si sarebbero divise.»
«Non deve accadere per forza.»
Arthur ricambiò il suo sguardo con forza. «Un po’ vi ho odiati, sai? Tu e tuo padre. Non troppo, ma un pochino sì.»
Lei sorrise. «Anche adesso?»
«Diciamo che Lucindra si è messa d’impegno per soffiarvi il posto.»
Alycia si mise a ridere. «Un risvolto positivo almeno c’è.»
«Senti.» Un leggero rossore si diffuse sulle guance di Arthur. «Mi chiedevo…»
«Sì?»
«Non è che potresti…?» Si indicò il mantello da zelota, l’unica cosa che avesse per coprirsi. «È piuttosto imbarazzante andare in giro senza braghe.»
«Oh!» Si sentì arrossire anche lei. «Certo, ci mancherebbe!»
Agitò le dita e la stoffa nera del mantello si avviluppò attorno al busto e alle gambe del ragazzo, plasmando un gilet chiuso da fibbie d’argento e pantaloni di pelle. «Così va meglio?»
Lui si osservò con una certa soddisfazione. «Tu sì che sai creare abiti di scena! Grazie.»
«Figu…» cominciò lei, ma vide che Isabel si era fermata.
«Silenzio» ordinò, sollevando una mano e guardando qualcosa alle loro spalle.
Un’ombra, simile a una nuvola temporalesca, si stava spostando a gran velocità verso di loro, accompagnata da un fragore come di vento.
«Che cos'è?» fece Frank Otto.
La nuvola diventava sempre più grande e rumorosa man mano che si avvicinava e Alycia presto comprese che cosa stesse guardando. Non era il vento a produrre quel suolo. Erano ali.
Isabel raccolse il fiato. «Correte!»
Centinaia di Scimmie Alate si gettarono su di loro emettendo stridule grida, una massa indistinta di ali, zanne e artigli.
Alycia evocò il suo arco magico e il dardo tracciò una scia verde nel cielo, come la coda di una cometa. Colpì in pieno una Scimmia che stava per avventarsi su Arthur, dopodiché scattarono insieme nella direzione opposta. Superarono correndo arcate di pietra e strutture crollate e sfrecciarono nella prima strada che riuscirono a raggiungere.  In un attimo furono separati dagli altri, ma Alycia riusciva a sentire tutto intorno le grida di Boris e di Isabel e il ronzare dei loro incantesimi.
«Mamma!» esclamò, correndo incontro alle voci. Imboccò una strada e poi un’altra, infine si trovò a brancolare nel buio di un vicolo. La mano di Arthur strinse il suo braccio, costringendola a fermarsi. «Siamo in trappola.»
Le ombre che li circondavano iniziarono a muoversi e nelle cavità profonde di una porta si aprirono due occhi luccicanti.
Alycia si armò di arco, prima che il panico la paralizzasse. Dal buio giunse un rumore tenue, come di raschiare, e una bestia grande come un orso si sporse silenziosamente oltre l’uscio di una casa.
Arthur impietrì. «Cristo…»
Non aveva nulla di umano. Sembrava un accrocco di vari animali, le zampe posteriori caprine, il corpo magro da coyote, e una folta criniera color cenere. Corna di montone si ritorcevano all’indietro, perforandogli i lati della fronte scimmiesca e la bocca, spalancata, irta di denti aguzzi e storti, era viscida di bava.
Contro qualsiasi ragionevole senso, Arthur si mosse in avanti. «Sinclair?»
La creatura si fermò, inclinando il capo, come se il nome gli fosse in qualche modo familiare. Fu allora che Alycia notò i suoi occhi e vi lesse una straziante, profonda infelicità. «Cosa gli hanno fatto…?»
L’incertezza del mostro durò solo un secondo. Entrò in tensione e le sue narici si dilatarono, fiutando il loro odore. Un ringhio inconfondibilmente ferino sgorgò dalla sua gola.
«Arthur!»
In un attimo fu su di loro. Arthur gridò, inciampò, finì addosso ad Alycia ed entrambi caddero a terra in mezzo ai detriti. Le pietre appuntite le graffiarono le braccia e la schiena e Alycia percepì una folata di alito pestilenziale, lo schiocco di un paio di mandibole…
Tese le mani davanti a sé. Una raffica di vento gettò indietro la creatura, scagliandone il corpo contro l’edificio di fronte. Alycia aiutò Arthur ad alzarsi, lo obbligò a correre senza guardarsi indietro. L’ululato del mostro echeggiò nel vicolo e il raspare delle zampe sul terreno si fece sempre più vicino…
La stradina svoltò in una via più ampia che attraversava un ponte di pietra, sospeso molti metri sopra il fiume Silbri. Alycia e Arthur raggiunsero l’altra sponda, ma la strada era ostruita da una frana di detriti che un tempo componevano la facciata di un palazzo in stile veneziano. Si voltarono indietro e trovarono il mostro in mezzo al ponte, a bloccare loro il passaggio.
«Scappa!» gridò Alycia. «Lo tengo impegnato!»
Si parò di fronte al ponte, i piedi ben piantati a terra e le braccia sollevate.
Sinclair si lanciò in avanti, velocissimo. Alycia gli scagliò contro una tempesta di punte di smeraldo, ma lui era agile, molto agile, e riuscì a schivarle.
Alycia si gettò lateralmente, ma una mano ad artiglio si chiuse attorno alla sua caviglia. La ragazza gridò e prese a scalciare, senza riuscire a colpire nulla. Ma tutt’a un tratto, Sinclair proruppe in un latrato di rabbia e dolore e mollò la presa. Alycia strisciò fuori portata, setacciando l’oscurità con occhi sbarrati. Vide la bestia issarsi su due zampe in tutta la sua altezza, mentre cercava di afferrare qualcosa che sporgeva dalla sua schiena: l’elsa di una spada, a cui Arthur era attaccato con entrambe le mani.
«Ehi, schifoso!» gridò qualcuno da sopra la montagna di detriti. Alycia alzò la testa e scorse O’Malley, Rodrigo, Frank, Vanja e Wilhelm che raccoglievano sassi e li gettavano addosso alla belva. Ululando di dolore, il mostro si dibatté per scrollarsi Arthur di dosso, spargendo schizzi di sangue dappertutto.
All’improvviso, un nastro rosso accese il buio, seguito da un guaito sofferente. Poi, silenzio.
Un istante dopo, Alycia vide Boris Volkov avanzare verso di lei, l’ascia di energia vermiglia in una mano e nell’altra la testa mozzata del mostro.  Spense l’arma incantata e le offrì la mano libera, che Alycia afferrò per tirarsi su.
A quel punto, apparve anche Isabel, bianca dallo spavento.
«Alycia!» La prese con forza tra le braccia. «Vi avevo detto di non restare indietro! Stai bene?»
Lei emise un sospiro tremante e annuì.
I circensi si lasciarono scivolare verso il basso, generando un’altra piccola frana.
«Dios!» esclamò Rodrigo, fissando la testa che Boris reggeva in mano. «Ma è Sinclair!»
«Rodie, che stai dicendo?»
«Vi dico che è lui! Míralo bien!»
Anche Frank e i gemelli si avvicinarono.
«Come ha fatto a ridursi così?» domandò Vanja, disgustata.
O’Malley esaminò ciò che rimaneva del suo capomastro con una smorfia e sputò per terra. «Ben gli sta. Ecco cosa succede a scherzare col fuoco.»
Alycia si liberò dalla presa di sua madre e corse da Arthur. «Sei ferito?»
Il ragazzo scrollò la testa ed estrasse la spada dal corpo della creatura, producendo un risucchio liquido. Era a doppio taglio, dritta e sottile, con il pomo decorato da un semplice motivo a spirale e l’impugnatura logora, segno delle innumerevoli mani che l’avevano brandita. Sulla lama, appena sopra l’attaccatura della guardia, vi erano delle incisioni nascoste da uno strato di sangue.
Malgrado ciò, l’acciaio brillava come se fosse illuminato dall’interno.
Anche Volkov gli si avvicinò, l’espressione torva. «Ragazzo, dove hai preso questa spada?»
«Ehm, era laggiù» rispose Arthur, indicando qualcosa alle sue spalle. «Qualcuno l’aveva incastrata dentro un blocco di marmo…»
Lo stregone sgranò gli occhi e lasciò cadere la testa di Sinclair.
«Ma è la spada di Blake» mormorò, fissando la lama scintillante e poi di nuovo Arthur. «Figliolo, tu hai appena estratto Excalibur!»
 

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Capitolo 51
*** Orologi ***


OROLOGI

 


Vi fu un momento di sbigottito silenzio, in cui gli occhi di tutti furono puntati su Arthur.
«Excalibur» ripeté il ragazzo, senza nascondere un sorriso ironico. «Sì, come no...»
«È lei» disse Isabel, chinandosi per osservare la spada da vicino. Con un lembo del cappotto logoro, pulì la lama lucente dal sangue. «Solomon mi ha raccontato la storia. Fu forgiata da Merlino, uno dei Plasmavuoto più potenti mai esistiti…»
«…Col respiro dell’Ultimo Drago, Restaban Il Pacifico» completò Boris Volkov, con grande meraviglia di Alycia. «E poi, quando morì tramutandosi in roccia, la spada venne conficcata sul suo dorso. So che per secoli i Decani hanno fatto di tutto per averla, ma i Blake si sono sempre rifiutati di confinarla in un museo.»
«Ma io l’ho solo presa in prestito» si giustificò immediatamente Arthur, che non sembrava più molto divertito dalla cosa. «La rimetto a posto…»
«No!» esclamarono in coro Isabel e Boris. 
«Non puoi» disse lo stregone, con la massima serietà. «Non è un’arma qualsiasi: ha atteso più di mille anni un possessore. Per portargli gloria o disgrazia, a seconda di quanto giudichi puro il suo animo.»
Anche Alycia era scettica. «Pensavo non credessi alle leggende del Vecchio Mondo.»
«Non si tratta di una leggenda» replicò lui, adombrandosi. «Ho visto cosa accade a chi non si dimostra degno di brandirla. Tuo padre ci ha provato per fronteggiare Lucindra…e la spada gli si è rivoltata contro.»
A quelle parole, il cuore di Alycia piroettò. «Se è stato lui l’ultimo a usarla, significa che non può essere lontano!»
«Immagino l’abbia lasciata qui di proposito» convenne Boris. «Confidando che qualcuno sarebbe stato in grado di estrarla…»
«Jim!» esclamò Arthur. «Ma certo, l’ha lasciata sicuramente per lui!»
«Ma si è lasciata estrarre da te» ribatté Isabel. «E non è nata per essere brandita da un mago.»
«Be’, ci deve essere un malinteso! La spada si è sbagliata!»
«Eppure, sapevi esattamente dove fosse» obiettò Boris. «Quando l’hai trovata, hai sentito una voce chiamarti?»
«Io…ecco, non lo so…»
«Magari un raggio di sole l’ha illuminata» ipotizzò Frank Otto, pensieroso. «O hai sentito delle campane. Ho letto che è così che funziona...»
«Ah, sì?» grugnì O’Malley. «E dove le hai lette queste stronzate?»
«Io non ho sentito né voci né campane» li interruppe Arthur. «Ero un tantino distratto da Sinclair trasformato in mostro assassino!»
«Artie» fece a quel punto Rodrigo, fissandolo con tanto d'occhi. «Ma quindi, ora che hai extracto Excalibur…significa che sei diventato re?»
Gli altri trattennero il respiro e si scambiarono occhiate emozionate. Sempre più a disagio, Arthur tese la spada ad Alycia, con l’elsa rivolta verso l’alto. «Dovresti prenderla tu, sei una Blake, no? Appartiene alla tua famiglia!»
Alycia spinse l’elsa di nuovo verso Arthur. «Non sono una che crede alle fiabe: mi baso sui fatti. E il fatto è che tu hai appena usato questa spada per salvarmi la vita. Qualcosa dovrà pur significare.»
Arthur la fissò a bocca aperta. «Ma...»
«Tienila con te» lo esortò Alycia, ammiccando. «Almeno finché non avremo ritrovato mio padre. Un aiuto in più non può che farci comodo, no?»
Il ragazzo deglutì, poco convinto. «Ok.»
Isabel insistette perché riprendessero con urgenza il cammino, prima che il Vuoto mandasse loro altre sorprese. Il gruppo si rimise in marcia tra i ruderi di Arcanta, ma Alycia si sentiva agitata da emozioni contraddittorie.
Da un lato, il ritrovamento di Excalibur le aveva infuso nuova speranza, perché significava che stavano percorrendo gli stessi passi di suo padre. Ma dall’altro, non riusciva a mettere da parte la paura che fossero arrivati tardi…
Non poteva sopportare che il prezzo che il Vuoto esigeva per averle restituito sua madre fosse la perdita di suo padre.
«Siamo già passati di qua.»
La voce di Isabel interruppe il flusso tumultuoso dei suoi pensieri. La maga si era fermata in mezzo alla strada e scrutava con occhi dubbiosi gli edifici che li circondavano. In effetti, Alycia riconobbe la piazza con la fontana monumentale che rappresentava la Caduta dell’Eretica, di fronte al Bestiario…e poco più avanti, di nuovo il ponte che attraversava il fiume Silbri e il cadavere decapitato di Sinclair.
«Ci sta facendo girare in tondo» affermò Isabel, seccata. «Dobbiamo trovare una strada alternativa.»
Armata della sua lama di vetro e acciaio alchemico, si mie a esaminare le facciate dei palazzi, le scalinate e i cumuli di detriti franati, alla ricerca di un’incrinatura nel Vuoto che rivelasse la via da seguire. Intanto, i circensi lanciavano occhiate nervose in giro, stringendosi gli uni agli altri, in attesa di ricevere l’agguato di chissà quale altra creatura emersa direttamente dai loro peggiori incubi. Alycia cercava di mostrarsi padrona della situazione, ma non aveva ancora chiare le regole che governavano il Vuoto e la agitava non avere alcun punto di riferimento. Di nuovo, sentì il battito del cuore accelerare… ma non fu solo questo che sentì. Le sembrò di udire qualcos’altro, provenire da sotto i vestiti: il ritmico e imperioso ticchettio di un paio di lancette. Stupita, tirò fuori la catena dell’orologio da taschino di suo padre.
Credevo che fosse rotto.
Aprì il coperchio col pollice e scoprì che, malgrado la crepa che attraversava il vetro del quadrante, le lancette si erano messe in moto, ruotando come impazzite. E a intervalli regolari, si fermavano tutte insieme a indicare sempre la stessa ora. 
Mezzogiorno in punto.
Aggrottò la fronte. Possibile che si fosse in qualche modo aggiustato da solo?
Si avvicinò a sua madre per chiedere un suo parere, ma in quel momento, le lancette cambiarono bruscamente ora, indicando tutte, ostinatamente, le sei, trenta minuti e trenta secondi.
«Ma cosa..?»
Tenendo l’orologio sul palmo aperto di fronte a sé, mosse un passo lateralmente. Arthur notò quell’inconsueto balletto. «Che stai facendo?»
Lei non rispose, concentrata sul movimento delle lancette. Ecco, ora segnavano le tre e un quarto.
“Da questa parte” sembrava quasi le stessero sussurrando. 
Alycia si bloccò, sbalordita. L’orologio non le stava indicando l’ora. Le stava indicando una direzione!
«Mamma!» esclamò. «Forse so dove andare!»
Mostrò a sua madre l’orologio, che non era più un orologio, bensì una bussola.
«Sono sicura che è papà» disse, emozionata. «Ci sta dicendo dove trovarlo!»
In cuor suo non aveva mai smesso di dubitare di lui: Solomon Blake non si sarebbe mai fatto mettere nel sacco senza escogitare qualcosa. Excalibur, l’orologio…aveva seminato tracce e aiuti lungo la via, proprio come quando partiva per i suoi viaggi e in ogni lettera nascondeva sempre un indizio su dove trovarlo, indizio che solo Alycia avrebbe potuto decifrare. 
Seguendo le indicazioni delle lancette, Alycia e Isabel si fermarono apparentemente in mezzo al nulla. Isabel sguainò la spada e la lama traslucida tracciò in aria una X. Laddove il colpo fu vibrato, si generò un’increspatura, poi l’aria si ricoprì di crepe e, proprio come uno specchio, andò in frantumi.
«Merda» sospirò O’Malley, rassegnato. «Ecco che ci risiamo.»
Oltre i lembi sfilacciati dello squarcio, si estendeva un paesaggio da romanzo gotico inglese: burroni profondi, affioramenti di roccia sormontati da arbusti disseccati e un'infinita estensione di brughiera tetra e nebbiosa di pioggia...
In cima a un colle solitario, si ergeva un'unica, gigantesca quercia nera coi rami  privi di foglie che scricchiolavano sinistri nel vento.
Alycia si fermò sotto le fronde spoglie. «Yr dewin yn y goeden
«No entiendo» disse Rodrigo. «Che significa?»
«“Il mago nell'albero”» rispose O'Malley di getto. «Una vecchia poesia in gaelico.»
I circensi lo guardarono sbigottiti, al che lui protestò: «Che c'è? Non sono così ignorante come pensate!»
«Narra della fine di Merlino» spiegò Isabel in tono grave. «Imprigionato in un albero dalla sua apprendista e amante, Nimueh.»
Boris emise un verso di sufficienza. «Ironico come certe storie finiscano sempre col ripetersi.»
«Significa» disse Arthur. «Che Blake è davvero lì dentro?»
Boris sollevò una mano ed evocò la sua ascia di energia, luminosa come una torcia. «C'è un solo modo per scoprirlo.»
Impugnò l'ascia a due mani e colpì con veemenza la corteccia nera e robusta dell'albero. Bastarono un paio di fendenti perché il legno cedesse, rivelando che il tronco era cavo all'interno: ora, tra le grosse radici nodose si apriva una profonda fessura buia.
«Non vorrete mica infilarvi lì dentro!» squittì Vanja.
Alycia strinse a sé l'orologio, incoraggiata dal ticchettio delle lancette. Dopodiché, superò per prima il varco.
Di nuovo, ebbe l’orribile sensazione di cadere nel vuoto, senza appigli di alcun genere, con il cuore conficcato in gola e lo stomaco come gelatina. Ma durò poco e ancora una volta si ritrovò coi piedi ben ancorati al suolo, in una grande piazza gremita di gente.
La fredda brughiera era scomparsa e al suo posto, adesso sorgeva un quartiere storico con vie acciottolate, palazzi eleganti e chiese con guglie gotiche dal sapore europeo. Alycia sollevò lo sguardo su un grande orologio astronomico incastonato in una torre che dominava l'intera piazza; il quadrante era decorato da costellazioni e preziose sculture allegoriche, che rappresentavano mesi, stagioni, santi e mostri. 
«Dove siamo?» domandò Arthur. 
Isabel fissò per un lungo momento la torre dell’orologio e un sorriso felice le affiorò sulle labbra. «Nel suo posto preferito al mondo!»
Senza preavviso, si volse e imboccò in fretta una viuzza. «So dov’è! Seguitemi.» 
Isabel continuò a procedere lungo il vicolo ormai di corsa e si fermò solo una volta giunta di fronte a una casetta ocra pallido, decisamente anonima rispetto alle altre dai colori brillanti lungo la via.
«La bottega di un orologiaio» disse Alycia, osservando la vetrina in cui erano esposti orologi a cucù magnificamente intagliati.  Consultò nuovamente l'orologio-bussola, ma non vi era alcun dubbio: le lancette indicavano con tenacia il negozio. 
Isabel varcò la soglia, accompagnata dal suono vivace di un cicalino.  L’ambiente era raccolto, polveroso, con le pareti in legno rivestite interamente da orologi in funzione, che producevano una sinfonia di ticchettii sincronici. Su un grande tavolo da lavoro erano adagiati altri esemplari in fase di lavorazione, assieme a ingranaggi, utensili, piccole sculture e una gran quantità di segatura. 
L'attenzione di Alycia fu catturata da un carrillon costituito da una sfera trasparente con dentro un paesaggio cittadino in miniatura, di quelli che i Mancanti erano soliti regalarsi nel periodo natalizio. Al suo interno, però, al posto della neve, si muoveva qualcosa...qualcosa di bianco e luminoso, che guizzava urtando il vetro alla ricerca di una via di fuga.
«Wiglaf» sussurrò la ragazza, angosciata. 
Il demone si agitava imbizzarrito, passando dallo stato gassoso a quello liquido, senza riuscire a mantenere una forma stabile.
«Ti tireremo fuori di qui» disse Alycia, prendendo in mano la palla di vetro. «Dov'è mio..?»
«Oh, guten morgen!»
Si udì il cigolio di una porta e dal retrobottega emerse qualcuno.
Alycia sentì il cuore gonfiarsi come un palloncino nelle mani di un bambino. «Papà!»
L'uomo che stava loro di fronte era inequivocabilmente Solomon Blake, però in lui c'era qualcosa che non andava. Forse la postura ingobbita o i capelli spettinati, con ciocche grigie che spuntavano qua e là assieme a qualche truciolo di segatura rimasto impigliato. Si era lasciato crescere la barba, anch'essa spolverata di grigio e appollaiati sul naso storto portava un paio di occhialini sbilenchi. Indossava un vecchio maglione in Shetland e sopra un blazer di tweed marrone, l'abbigliamento meno elegante che gli avesse mai visto indossare in vita sua.
Ma ad Alycia non importava. Scattò in avanti e si tuffò tra le sue braccia, lo strinse con tutta la forza che possedeva.
«Siamo venuti a salvarti!» esclamò, lottando per tenere a freno le lacrime. «Ho seguito il tuo orologio, ci ha condotti da te...!»
Lui le pose le mani sulle spalle, allontanandola delicatamente ma con fermezza. «Fräulein, deve avermi confuso con qualcun altro.»
Alycia lo fissò senza capire. «Papà, ma che dici? Sono io, Alycia! Tua figlia!»
«Desolato, mein schatz» replicò Solomon, che per qualche assurdo motivo continuava a parlare con quello strano accento tedesco. Ma la cosa peggiore era il modo compassionevole in cui la guardava. «Io non ho figli.»
Alycia si ritrasse, l’orrore e la confusione che si inseguivano sul suo volto. Ma che stava succedendo? Che cosa gli avevano fatto?
Boris Volkov la fece da parte e incombette sullo stregone con fare intimidatorio. «Che genere di maleficio è mai questo, Blake?»
«Signore» replicò l'altro, timidamente. «Davvero, ci deve essere un terribile missverständnis...»
«Finiscila con questa pagliacciata!» tuonò Boris, con tale impeto che Solomon sobbalzò. «Dov'è Lucindra? Come facciamo a fermarla? Sei tu il mago geniale, no? Be', datti da fare!» 
«Oh, questa è bella!» replicò Solomon con una risatina. «Un mago? Io? Certo, sono piuttosto abile nel mio lavoro, ma da qui a definirmi addirittura un mago..!»
Boris digrignò i denti. «Non è il momento di scherzare!»
«Ah, certo!» Solomon sorrise e osservò una a una le persone riunite nella bottega. «Siete attori! Artisti di strada presumo, questo spiega il vostro bizzarro abbigliamento. Teatro sperimentale, ho indovinato? Potevate anche dirlo subito..!»
A quel punto, Boris lo agguantò per le spalle e iniziò a scuoterlo con veemenza. Ci mancava poco che lo prendesse a ceffoni. E probabilmente, non gli sarebbe affatto dispiaciuto.
«Vedi di tornare subito in te, hai capito?» si mise ad abbaiare. «Sei Solomon Blake, l'Arcistregone dell'Ovest! Sei nato a Shrewsbury e sei al servizio di Arcanta da novantadue anni! Sei sposato con Isabel Ascanor e tua figlia si chiama Alycia! Sono anni che noi due ci facciamo la guerra, non avrai dimenticato pure questo?»
«S-signore, la prego si calmi!» esclamò Solomon, impaurito. Si raddrizzò gli occhiali sul naso con mano tremante. «I-il mio nome è Herr F-Frederick Nilssen. Sono nato a Monaco e da venticinque anni gestisco questo laboratorio a Praga. Non mi sono mai sposato e che Dio mi sia testimone, l'unica prole che ho generato sono i miei orologi.»
Erano tutti a bocca aperta. Boris mollò la presa, troppo sconvolto persino per continuare a tartassarlo. 
«Spero che vi siate convinti!» Agitato, Solomon stirò il maglione sgualcito. «Non sono chi pensate, avete sicuramente sbagliato indirizzo.»
«Ma non è possibile» gemette Alycia. «Non puoi aver dimenticato chi sei!»
L'orologiaio la guardò e i suoi occhi azzurri si placarono, animandosi di un sincero dispiacere.
«Suvvia, mein schatz, non mi guardi così. Sono sicuro che alla stazione di polizia potranno aiutarla a rintracciare suo padre.»
Le diede una timida pacca sulla spalla, augurò a tutti buona giornata e se ne tornò nel retrobottega. 
«E tanti cari saluti all’Arcistregone» commentò O'Malley. «Ce lo siamo giocato!»
Disperata, Alycia si volse a guardare sua madre. «É opera di Lucindra?»
Isabel sospirò. «Ne dubito. Credo invece che sia il suo modo di resisterle.»
Boris aggrottò la fronte. «Stai dicendo che ha creato questa farsa da solo?»
«Questa non è una prigione» confermò Isabel. «É una barriera, eretta intorno alla sua mente per proteggerla dal Vuoto.»
Sotto gli sguardi perplessi e frastornati dei presenti, la maga scorse gli scaffali pieni di orologi incompiuti, in attesa di ricevere un'ultima mano di vernice o gli ultimi ritocchi. «Mi mostrò questa bottega molti anni fa, all'epoca avevo appena iniziato a conoscerlo: c'era qualcosa di speciale qui, diceva...qualcosa, nel ticchettio degli orologi, che riusciva sempre a calmarlo.» Raccolse una delicata ballerina intagliata che attendeva di essere alloggiata su un orologio, in equilibrio sulle scarpette a punta. «Che lo faceva sentire al sicuro.»
Alycia provò a immaginarsi suo padre, uno tra i maghi più antichi e potenti di Arcanta, in quell'umile negozio Mancante, forse il luogo meno magico su tutto il pianeta. Eppure, era proprio lì che aveva deciso di rifugiarsi...
«Direi che ha senso» borbottò Boris. «Per quanto poche cose abbiano senso, quando si tratta di Blake. Ma non mi sorprende che sia riuscito a mettere nel sacco l'inferno stesso.»
«Ma se è tutto opera sua, perché non sembra in grado di riconoscerci?» non poté fare a meno di chiedere Alycia.
«Il problema» disse Isabel, socchiudendo gli occhi. «É che ha scavato troppo in profondità: il Vuoto non è in grado di trovarlo, ma anche lui ha finito per smarrirsi»
«Ma ci deve essere qualcosa che possiamo fare per farlo tornare in sé» ribatté Arthur. «Un contro-incantesimo! Non può rimanere un orologiaio per sempre!»
«La psiche è qualcosa che non si può aggiustare con la magia» replicò Isabel piano. Si volse a guardare la porta del retrobottega, lo sguardo luminoso, dopodiché seguì Solomon.
Lo trovarono seduto dietro un tavolo, chino su un orologio aperto e con gli ingranaggi in mostra.
«Siete ancora voi» sospirò, quando si vide di nuovo accerchiato. «Davvero, non so come possa aiutarvi...»
«Signor Nilssen» disse Isabel. «Le chiedo scusa che la stiamo importunando. Ma non ho potuto fare a meno di ammirare le sue splendide creazioni.»
«Oh!» fece lui, ringalluzzito. «Molte grazie, madame.»
«Si vede che vive per il suo lavoro» continuò Isabel con gentilezza. «Ha sempre avuto una passione per gli orologi?»
«Certamente!» disse Solomon, gli occhi azzurri che brillavano. «Sin da bambino!»
«Forse gliel'ha trasmessa qualcuno» suggerì Isabel, facendo il giro del tavolo per essergli più vicina. «Una persona a lei molto cara. Un fratello, magari?»
Alycia capì cosa sua madre stesse facendo. Aggredire suo padre, sbattergli in faccia la verità non avrebbe risolto niente, avrebbe solo fortificato il muro che lui stesso aveva eretto intorno alla sua mente. L'unica cosa che potevano fare era prenderlo per mano accompagnarlo affinché raggiungesse da solo la verità. 
«Be'...» fece l'orologiaio. Rimosse gli occhialini e se li rigirò tra le dita affusolate. «Sì, in effetti...avevo un fratello. Ma è stato molto, molto tempo fa. Mi ha regalato il mio primo orologio, uno splendido modello da taschino, in puro argento! Un vero gioiello della meccanica, sebbene oggi risulti piuttosto datato. Devo...»
Cominciò a tastarsi la giacca, rivoltando le tasche. «Devo...devo averlo messo da qualche parte....»
Alycia gli si avvicinò con la mano protesa. «Somigliava a questo?» 
«Si!» fece lui, sorpreso. «Era proprio come questo!»
Prese l'orologio che lei gli porgeva e le sue mani accarezzarono con cura la superficie lucente e intarsiata, seguendo il motivo dell'albero sul coperchio. «Vedete, per molti gli orologi sono oggetti come tutti gli altri: c'è chi li apprezza per la loro utilità, chi per moda, ma una volta che l'ingranaggio si rompe, smettono di avere valore. Gettano la spugna, capite? Per me invece, anche da rotti hanno un valore inestimabile...»
«...Perché dimostrano che le cose rotte possono essere riparare» completò Isabel. «Che c'è una soluzione a tutto. Si è sempre trattato di questo, no?»
Solomon si volse a guardarla, meravigliato. «Io, suppongo di sì...»
«Una volta ho conosciuto un uomo che era proprio come lei» disse Isabel, gli occhi lucidi. «Non si occupava di orologi, ma era ossessionato dall'idea che tutto si potesse aggiustare. Gli anni trascorsi sui libri, i suoi viaggi, le sue ricerche...il fine ultimo era trovare un modo per rimettere le cose a posto. Per rimediare a ingiustizie ed errori, i suoi e quelli di altri. Non sempre ci riusciva, è vero, ma non si stancava mai di provarci.»
Solomon la fissò negli occhi, senza proferire parola. Lei esitò, poi allungò una mano e gli sfiorò delicatamente la guancia. Quando parlò, la sua voce tremava: «So che hai fatto del tuo meglio in questi anni. Lo so perché ti conosco: non ti arrendi mai di fronte a niente, anche quando sembra che non ci sia speranza tu trovi sempre il modo di farla funzionare.»
Lui si tese e qualcosa si agitò nel blu profondo dei suoi occhi. Lentamente, sollevò a sua volta una mano e la pose su quella di lei.
Alycia trattenne il fiato. Vide una lacrima scivolare silenziosamente lungo la guancia di sua madre. «Ciao, Sol.»
Dalla gola di lui uscì un suono inarticolato. L'orologio gli scivolò di mano, mentre si alzava in piedi con tale impeto da far cadere all'indietro la sedia, e afferrava la testa di Isabel, affondando le dita nei suoi capelli.
«Sei reale?» gridò con voce rauca, diversa, gli occhi illuminati da una folle disperazione. «Sei davvero tu? Ho bisogno di saperlo!»
Lei proruppe in una piccola risata e annuì.
«Ti ho trovata» farfugliò lui, il respiro che inciampava a ogni parola. Aveva ripreso a parlare in perfetto inglese. «Ti ho trovata, Belle! C-ci ho messo un po', ma io...io te l'avevo promesso..!»
«Sì» replicò lei, piangendo e ridendo insieme. «Lo so, ero sicura che l'avresti fatto.»
Lui trattenne un singhiozzo, poi la tirò a sé e la baciò sulla bocca come se fossero soli al mondo.
In quell'istante, una profonda vibrazione scosse le pareti della stanza, facendo traballare gli orologi, che presero a ticchettare impazziti. Sottili colonne di polvere nera piovvero dalle assi del soffitto.
Solomon e Isabel rimasero stretti per un lungo momento, ignorando tutto il resto. Quando, con riluttanza si separarono, lui sbatté le palpebre come se si fosse appena svegliato da un sogno molto strano e ricambiò lo sguardo sorpreso e anche un po' imbarazzato dei presenti.
«Che è successo? Dove siamo? Che ci fate voi...?E, per tutti i demoni, perché sono vestito così!?»
I suoi occhi si posarono sulla figlia. «Alycia!»
Fuori di sé dalla felicità, lei corse ad abbracciarlo e questa volta lui ricambiò con altrettanta energia. 
«Alycia, ma cosa hai fatto? Che ti è venuto in mente?» chiese poi, passando velocemente dalla gioia al più profondo terrore. «Per i Fondatori, sei entrata nel Vuoto?!»
«Va tutto bene, papà. Ho preso delle precauzioni...»
«Precauzioni!?»
Subito dopo, si accorse di essere circondato dai membri della compagnia e la sua espressione divenne la rappresentazione dell'incredulità.
«Ehm, salve, signor B» disse Arthur, abbozzando un sorriso. «Sono contento che stia bene.»
«Ma come...?» Lo stregone riconobbe la spada che Arthur stringeva in mano. «Dove l'hai...?»
Un boato simile a un tuono esplose da qualche parte in alto, seguito da un altro violento scossone. Alycia perse l'equilibrio e si strinse al braccio di suo padre prima di cadere a terra.
«Che ne dite se rimandiamo le spiegazioni?» ruggì Boris, chinandosi su Vanja e O'Malley per proteggerli dagli orologi a cucù che precipitavano dagli scaffali. «Abbiamo ancora un paio di problemi da risolvere qui!»
«Alycia.» Gli occhi di suo padre interrogarono i suoi, in allarme. Prese un secondo prima di porre la domanda, quasi avesse paura della risposta. «Alycia, dov'è Jim?»
L'ennesima scossa inghiottì la risposta. Sembrava che un enorme vuoto si fosse formato sotto i loro piedi e stesse pian piano inghiottendo la bottega, la strada, l'intera città. Sul soffitto del laboratorio si espanse una ragnatela di crepe.
«Via!» gridò Solomon.
Le travi cedettero e il soffitto andò in pezzi, producendo lo stesso suono del ghiaccio che si infrange.
«Andatevene!» disse Solomon, incerto sulle gambe. Si portò le mani alla testa, strizzando gli occhi. «Non.. riuscirò a tenerlo fuori a lungo!»
«Tenere fuori cosa?» fece Alycia, ma la risposta non arrivò da suo padre.
Tentacoli di oscurità solida si infilarono silenziosi tra le crepe, ondeggiando minacciosi: il Vuoto che cercava di abbattere la barriera.
Lasciarono di corsa il retrobottega, ma la porta d'ingresso del negozio era stata sbalzata via dai cardini, i vetri delle finestre erano esplosi e da ogni apertura avevano fatto irruzione grossi rami spinosi, neri come il catrame, col risultato che la stanza si era trasformata in una fitta e intricata foresta di rovi. 
«Merda!» sputò fuori Boris. 
I rami strisciarono verso di loro come serpenti. Boris evocò la sua ascia e ne recise alcuni, mentre Arthur brandiva Excalibur lanciando fendenti alla cieca. I versi striduli che ne seguirono erano assordanti.
Isabel guidò Solomon per il gomito e con l'altra mano cercava di farsi strada tra i viticci a colpi di lama. Lo stregone si reggeva la testa e avanzava barcollando, sofferente.
«É troppo forte» ansimò, la fronte imperlata di sudore. «Ho bisogno di aiuto...Wiglaf! Dov'è? Devo...»
Una propaggine lo afferrò per la gamba e Solomon fu strattonato all'indietro con un urlo, verso il retrobottega. Isabel lo agguantò per la giacca, puntando i talloni e Valdar la aiutò a tirarlo fuori. «No!»
Alycia si guardò attorno, in preda all'agitazione, alla ricerca della piccola sfera di vetro in mezzo a quel caos. Poi, qualcosa di lucente ammiccò nella scarsa luce, rotolando per le assi del pavimento.
«Eccolo!»
La sfera di vetro che conteneva il demone si infilò tra i rovi. Alycia si lanciò in avanti. Gli aculei affilati le graffiarono le guance e le braccia, mentre lottava per sradicare le ramificazioni di Materia Vuota. Un tentacolo nero si serrò attorno alla gola...
SWASHHH!
Le orecchie di Alycia si riempirono di stridii, mentre il tentacolo sgusciava via sibilando con astio.
«Eccola! La vedo!» disse Vanja, anche lei coperta di graffi sanguinanti e con le mani strette attorno all'impugnatura di un'accetta. «Will! Sta venendo verso di te!»
Il gemello della trapezista rotolò agile sotto una radice ricurva e afferrò la palla di vetro prima che finisse di nuovo tra le spire nere.
«Tua, Rodrigo!»
La lanciò in aria, la sfera compì un arco perfetto. Una ramificazione schizzò verso l'alto per deviarne la traiettoria, ma Maurice evocò una coppia di portali e la sfera vi passò attraverso come in un tunnel, per finire dritta in mano al mangiafuoco.
«Presa!» esclamò Rodrigo. «Ehm, e adesso..?»
«Liberalo!» gridò Solomon, reggendosi con difficoltà allo stipite del retrobottega per non essere risucchiato via. «Gettala a terra!»
Rodrigo ubbidì.
Nell'istante in cui la sfera colpì il pavimento, spaccandosi a metà, sprigionò un'esplosione di  luce bianca, una bolla pulsante che li avvolse ricacciando indietro l'oscurità.
Circondati dal bianco e dal silenzio, Isabel aiutò Solomon a rimettersi in piedi. «La prossima volta, tesoro» disse, accennando un sorriso. «Escogita qualcosa di meno sofisticato, d'accordo?»
Lui rise, come non rideva da molto tempo. «È tutto ciò che hai da rimproverarmi per aver scatenato l'Apocalisse?»
«Magari due o tre cosette» fece lei, aggiustandogli il colletto della giacca. «Ma per quelle ti farai perdonare in privato.»
Alycia si voltò a guardarli, sconcertata: stavano sul serio flirtando!? Davanti a lei? Nel bel mezzo di una battaglia? Durante la Fine del Mondo..?
La quiete durò solo un istante.
Il Vuoto riprese a infuriare come una tempesta dotata di vita propria attorno alla bolla, premendo per entrare.
«Mossa astuta, Sol» commentò improvvisamente una voce, che sembrava raggiungerli da una distanza abissale. «Ma i tuoi trucchi non sono sufficienti per proteggerti da questo.»
Alycia non aveva mai sentito quella voce prima di allora, ma comprese subito di chi si trattasse dalla reazione di suo padre, dalla gelida collera che si irradiava dai suoi occhi azzurri. «Wiglaf, resisti.»
La bolla di luce crepitò, segno che il demone stava facendo del suo meglio, ma il Tutto aveva raggiunto il limite del suo potere. Il Vuoto iniziò a insinuarsi come inchiostro lungo le pareti della bolla, divorando la luce...
Alycia sentì le braccia di sua madre circondarla con fare protettivo, la voce di suo padre che urlava il suo nome. Il mondo precipitò in un nero soffocante e assoluto, ogni cosa fu spazzata via e Alycia capì che era finita.
Ma poi, lentamente, le tenebre furono rischiarate da un tenue bagliore, come di candele, e al naso di Alycia giunse l’inconfondibile, denso profumo dell’incenso.
Si trovavano in un’immensa cattedrale di pietra, formata da un’unica navata e col pavimento a motivi geometrici. Non c’erano finestre, ma le pareti erano interrotte da alte specchiere che riflettevano la sala dieci, venti, mille volte.
Gli stessi specchi riflettevano una folla di persone avvolte da mantelli cerimoniali di seta nera, ferme in fondo alla navata; ciascuno di loro reggeva in mano un cero e se ne stava immobile e in religioso silenzio attorno a una lastra di granito. 
E in mezzo a loro, in piedi dietro l'altare, con indosso un elegante completo grigio antracite e un grosso libro aperto tra le mani, c'era Jim.

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Capitolo 52
*** Horror Vacui ***



HORROR VACUI





 
"Holy water cannot help you now
Thousand armies couldn’t keep me out
I don’t want your money
I don’t want your crown
See I’ve come to burn your kingdom down"


Seven Devils - Florence + The Machine



   
Per un lungo, teso istante, nessuno osò muoversi o parlare. 
Gli Zeloti non fecero caso a loro; continuarono a stringersi attorno all’altare reggendo le loro candele e iniziarono a intonare a bassa voce una litania in una lingua ormai scomparsa, di cui Solomon conosceva solo in parte le parole.
Quando Jim sollevò piano la testa, allo stregone saltarono subito all'occhio un paio di dettagli: non recava neppure un graffio, indossava un abito di sartoria che sembrava confezionato apposta per lui e gli avevano persino spuntato i capelli. Chiunque lo stesse trattenendo lì, si era indubbiamente preso molta cura di lui. 
Percepì il respiro di Alycia, al suo fianco, farsi accelerato.
«Jim» sussurrò, e in quel debole filo di voce c'erano un sollievo e una gratitudine così intensi da spezzare il cuore. Fu lei a muovere il primo passo verso l'altare, ma Solomon afferrò con fermezza il suo braccio.
«Aspetta. C'è qualcosa che non va.»
Lo sguardo del ragazzo si soffermò su ciascuno dei presenti, limpido, senza alcuno slancio emotivo.
«Siete arrivati giusto in tempo» disse e malgrado la sua voce non fosse alta, riecheggiò nell'enorme sala vuota. «La mia Signora aveva detto che avremmo avuto ospiti importanti stasera: non appena ci raggiungerà, potremo dare inizio alla cerimonia.»
«Di che accidenti stai parlando?» ringhiò a quel punto O'Malley, che aveva già estratto la pistola. «Forza ragazzo, lasciamo questo posto infernale!»
Lui non si mosse, la fronte aggrottata. «Perché?»
«Come sarebbe a dire “perché”?!» gridò Arthur. «Jim, ma che ti prende? Siamo venuti per portarti a casa!»
«Non capisco cosa intendi dire» replicò Jim, come se la proposta avesse dell'assurdo. «Io sono a casa.»
I circensi si scambiarono sguardi completamente smarriti.
«É un trucco?» suggerì Rodrigo. «Un’altra barrera mental...?»
«No» rispose Boris Volkov. «Non credo.»
Pur rimanendo vigile, Solomon spostò l'attenzione dal ragazzo al libro aperto sopra l'altare. La sua voce si ridusse a un mormorio sordo: «Il Codice Oscuro...» 
Lo avrebbe riconosciuto ovunque. Aveva fatto di tutto per averlo, aveva combattuto, tradito, compiuto cose terribili. Ed era sicuro di averlo visto bruciare con i suoi stessi occhi alla fine della Guerra Civile, sul pavimento di marmo nella Sala del Consiglio della Cittadella, al cospetto dei Decani, di Macon, Una e Boris... 
Nella sua mente in subbuglio, affiorarono le parole che Jim aveva pronunciato prima che, in un impeto di disperazione, Solomon gli  impedisse di abbandonarlo con la forza...
“Ha creato la sua nemesi perfetta e si meraviglia di essere stato battuto al suo stesso gioco?”
«É...impossibile...»
«Personalmente ho sempre letto quella parola come una sfida.»
Una voce risuonò per la sala, chiara e fredda, seguita dal tonfo di pesanti porte che si chiudono. Solomon si voltò di scatto verso le due donne che stavano risalendo la navata; riconobbe una di loro come l'indovina del circo, la misteriosa donna che si faceva chiamare Margot, ma che lui aveva conosciuto molti anni prima a San Pietroburgo, sotto un altro nome, un'altra identità. 
L'altra, fasciata da un abito nero, era Lucindra.
Aveva conservato intatta la sua bellezza, la pelle come alabastro, il viso grazioso incorniciato da capelli fiammeggianti. Ma in lei non era rimasto più nulla della ragazza che era stata, della sua dolce, talentuosa Lucy; l'unica persona, dopo Jonathan e prima di che incontrasse Isabel, a cui avesse mostrato chi era davvero, con i suoi tormenti, i suoi aspetti più oscuri, le sue debolezze. L'allieva geniale a cui aveva deciso di lasciare la propria eredità, fiducioso che avrebbe cambiato il mondo. E che, un tempo, aveva persino creduto di amare...
«Tu!» sibilò Boris. «Maledetta...!»
Chiamò immediatamente a sé l'ascia, mentre Isabel stringeva l'elsa della spada di vetro e Alycia si apprestava a evocare. O'Malley sollevò il cane della sua pistola, Arthur impugnò a due mani Excalibur, Valdar,  i gemelli, il mangiafuoco e il forzuto si prepararono allo scontro. Ma Lucindra sfilò loro davanti senza degnarli di uno sguardo.
Solo quando giunse di fronte a Solomon, indugiò un attimo per studiarlo.
«Ben ritrovato, maestro» disse, con un guizzo del suo antico, giocoso sorriso. «Indossi  la stanchezza come un abito elegante, ma deduco che questi anni siano stati faticosi per te.»
«E per te, Lucy?» replicò lui, con limpidezza gelida. «Il Vuoto non può  far sparire ogni cicatrice. E su di te ne ha lasciate molte.»
Lo sguardo di lei si rattristò. «Hai ragione» concesse, scostando l'unica ciocca di capelli bianchi dal viso. «Ma non si ottiene mai nulla senza sforzo. Me lo hai insegnato proprio tu.»
Dopodiché si soffermò su Isabel. «Vedo che Orfeo ha ritrovato la sua Euridice.»
Solomon avvertì immediatamente il pericolo e si mise davanti a sua moglie e sua figlia con fare protettivo.
Ma l'ex allieva si limitò a commentare, divertita: «Oh, Sol, sono passati anni! Bisogna pur andare avanti, non credi? Se c'è una cosa che la prigionia mi ha insegnato è che non ha senso portare rancore. E che la famiglia è l'unica cosa che conta davvero.»
Passò oltre, accompagnata silenziosamente dalla veggente, che evitava di incrociare gli sguardi scioccati dei membri della compagnia. 
«Anche io mi sono ricongiunta con la mia.» Lucindra aggirò l'altare, si fermò accanto a Jim  e posò una mano sulla sua spalla, un gesto intimo e sicuro. «Alla fine, abbiamo entrambi ottenuto quello che desideravamo, non credi?»
Solomon si tese.
«Lui non ti appartiene! Quanti innocenti ancora dovranno soffrire perché tu possa avere la tua vendetta?»
«Non si è mai trattato di vendetta, ma di giustizia.»
«Giustizia» ripeté lui, nauseato. «Stai usando un ragazzo come arma!»
Gli occhi scuri di Lucindra brillarono in modo ostile, ma quando parlò la sua voce era calma: «Da che pulpito. Lui mi appartiene, Sol, appartiene al Vuoto. Conosci le regole del gioco: ho pagato il mio debito, ora esigo la mia ricompensa.»
«Devi fermarti» ribatté Solomon, senza riuscire a non suonare disperato. «Adesso, prima che sia tardi.»
Compì un passo verso l'altare, poi un altro.
In quell'istante, dal pavimento si sollevò un'onda di oscurità, che si cristallizzò in una barriera spine nere e affilate come coltelli. Isabel e Alycia lanciarono un grido e Solomon fu costretto a fermarsi, impressionato.
Quando guardò di nuovo verso l'altare si rese conto che era stato Jim a evocarle, la mano protesa dalle dita completamente nere e un avvertimento nello sguardo.
«Deve affinare la tecnica» commentò Lucindra. «Ma ha talento e impara in fretta. Guidato nel modo giusto, diventerà il Plasmavuoto più potente mai esistito. Va bene così, Caliban, non serve sprecare energie con loro. Abbiamo cose più importanti a cui pensare.»
Jim abbassò lentamente la mano e le spine di Materia Vuota si ritirarono all'istante.
«Lucia» disse Solomon, sconvolto, impotente. «Lucia, che cosa gli hai fatto?»
«Gli ho dato una casa e uno scopo, come un tempo tu facesti con me. Ma io non ho intenzione di abbandonare i miei allievi.»
«Lucia, Caliban non c'è più» replicò Solomon, sentendo riaprirsi dentro di lui una vecchia ferita. «Conosco il tuo dolore, ma quella creatura era un errore. Non puoi usare Jim per colmare il vuoto che ha lasciato...»
«No, Sol» sussurrò lei, tornando a rivolgerli quel sorriso triste. «Tu non conosci proprio niente. Non hai mai capito cosa significhi essere soli al mondo.»
Si volse a guadare Jim, accarezzò i suoi capelli rossi con fare materno. «Credi che il Vuoto porti morte e rovina, ma finora è stato solo in grado di unire le persone. É questo il grande dono che stiamo per fare al mondo.»
Mise una mano aperta sopra il Codice Oscuro e tese l'altra verso Jim. 
«Niente più barriere» disse, la voce carica di emozione e trionfo. «Niente più guerre.»
«Niente più dolore» replicò lui, restituendole il sorriso.  «Niente più solitudine.»
Prese la mano che lei gli porgeva.
Un frastuono come di tuono squassò l’aria, riempì la sala, facendola oscillare. Un sentore di panico attraversò la schiera di Zeloti, che continuarono a intonare il loro canto con minore convinzione.
«Jim!» Alycia scattò in avanti, ma Solomon la strinse contro di sé.
La sala tremò un'altra volta, gli specchi si infransero uno dopo l'altro, lasciando sgorgare il Vuoto come un fiume nero in piena lungo il pavimento di marmo, fino al soffitto a cupola.
Un'altra scossa di terremoto particolarmente violenta, uno schianto portentoso e il soffitto si spaccò come il guscio di un uovo,  aprendosi su una visione apocalittica, un vortice tumultuoso di ombre e fulmini, invaso da creature mostruose che sbattevano le ali e stridevano affamate.
Gli Zeloti continuavano a cantare, ma molti di loro erano spaventati. Un paio abbandonarono il cerchio per tentare la fuga, ma furono inghiottiti dalle tenebre e si dissolsero in un'esplosione di polvere nera, andando a rinforzare la crescita del Vuoto.
Tra le braccia di Solomon, Alycia si divincolava urlando, ma lui poté solo tenerla stretta, mentre intorno a loro il mondo andava in pezzi: la Torre Nera sembrava respirasse, assorbendo potere, ingigantendosi di secondo in secondo. Isabel e Boris sollevarono le mani in un disperato tentativo di contenerla, ma il potere congiunto dei due Plasmavuoto era inarrestabile…
«Blake!» gridò Boris Volkov, sopra il caos e il rumore. «Che cosa facciamo adesso? Che facciamo?»
Solomon non si mosse, non disse niente. Non aveva risposte.
Pensò alle migliaia di Mancanti che la Torre avrebbe incontrato nella sua marcia verso Arcanta, a tutte le vite che avrebbe trascinato via...
Tutto per causa sua.
«Mi dispiace» sussurrò a sua figlia. «Mi dispiace immensamente.»
L’abbracciò con forza, in un estremo, patetico tentativo di proteggerla, prima che il Vuoto li divorasse.
Ma il Vuoto non li divorò.
La marea oscura si ritirò silenziosa e la sala smise lentamente di ondeggiare. La cosa parve stupire Lucindra quanto loro, perché la strega sbatté le palpebre e si volse verso il ragazzo.
«Non ti ho detto di fermarti.»
Jim ricambiava il suo sguardo, fissandola dritta negli occhi.
«Che ti prende?» inquisì Lucindra.
«Se ti fossi presa la briga di conoscermi un po’ meglio» disse il ragazzo, in tutta calma. «Sapresti che raramente faccio quello che mi viene detto.»
Lucindra strinse con più forza il suo polso e le ombre fremettero.
«Cosa credi di fare?» disse in un sibilo. «Ti sei abbandonato al Vuoto!»
«Al Vuoto. Non a te.»
Quella risposta inaspettata colpì Lucindra come uno schiaffo in piena faccia. Prima che potesse ritrarsi, lui le afferrò l’altro polso in maniera salda.
«Tu ricordi?!» esclamò lei, dando uno strattone. «É impossibile! Ho letto la tua mente, non era rimasto più niente...»
Il bel volto devastato dalla confusione e dalla rabbia, cercò Margot nella folla di Zeloti impauriti. L'indovina, però, ricambiò il suo sguardo senza alcun timore.
«Mi hai ingannata!» ringhiò Lucindra. «Proprio tu, Zora! Come hai osato disubbidirmi?»
«Non ti ho disubbidito» replicò la donna. «Ho cancellato i suoi ricordi, come mi hai chiesto. Ma non ho potuto mettere a tacere la sua Volontà, non per molto, almeno. E nemmeno tu puoi.»
Solomon non riusciva a capacitarsi di cosa stesse succedendo. Possibile che fosse tutto un bluff, fin dall'inizio? Davvero Jim aveva architettato tutto questo...?
Per avvicinarsi il più possibile a lei, capì. Per farle abbassare la guardia.
L’espressione di Lucindra era persa, stupita. Provò a staccarsi da Jim, ma lui la strinse più forte, riprendendo il controllo sul suo potere.
«Non puoi...non ne hai la capacità..!»
«L'hai detto tu» disse il ragazzo, negli occhi una luce nuova, spietata. «Ho avuto i migliori insegnanti.»
Lucindra urlò. Arabeschi neri spiccavano sulla pelle bianca come venature nel marmo, mentre lottava per allontanarsi.
«Sei pazzo! Credi di poter controllare il Vuoto da solo?!»
«Sono come te» replicò Jim e malgrado la sua determinazione, la sua voce suonò affaticata. «Per questo il Vuoto ci ha scelti.»
«No...»
«Nella magia vige il Principio della Corrispondenza. Io e te abbiamo un legame: un legame potente, che tu hai cercato di sfruttare. Posso farlo anch'io.»
«Non oseresti!»
«Sta’ un po’ a guardare.»
Jim continuò a tenerla stretta, mentre il potere defluiva da lei e scorreva in lui. L’Oscurità si riversò fuori da Lucindra in torrenti di inchiostro nero, dai suoi occhi spaventati, dalla sua bocca...
Il Vuoto iniziò lentamente a retrocedere, attratto dal ragazzo come da una calamita. Le sue gambe si piegarono e lui e Lucindra crollarono in ginocchio di fronte all’altare, esausti.
«Fermati!» ansimò la strega, sofferente. «Morirai!»
Ma Jim non si fermava. Continuava a chiamare a sé il Vuoto, a fagocitarlo nel suo petto, imprigionandolo dentro di lui. La Torre Nera intanto aveva iniziato a disgregarsi, le creature alate a disperdersi strillando dal dolore e dalla confusione: sottili raggi di luce solare fendettero come lame le pareti di tenebra del Vuoto, mandandole in frantumi.
La presa di Jim su Lucindra perse energia e la strega riuscì ad allontanarsi da lui con un gemito.
«Che cosa hai fatto?»
Jim si accasciò a terra, stringendosi le braccia al petto, mentre dentro di lui il Vuoto si agitava e ribolliva. Solomon non aveva mai visto qualcosa del genere in vita sua; nulla di ciò che aveva letto nei suoi libri, nulla di ciò che conosceva lo aveva preparato a questo.
In lacrime, Alycia lottò per separarsi da suo padre e correre da Jim, ma quando il ragazzo sollevò la testa, scosso da terribili spasmi, i suoi occhi erano due abissi neri.
Lucindra era inorridita quanto loro. «Cosa hai fatto!?» 
Presto il Vuoto reclamò ciò che gli spettava e per quanto la Volontà del giovane mago fosse forte, il suo corpo mortale era incapace di contenere un potere divino.
Inerme di fronte a quello spettacolo, Solomon guardò il ragazzo morire lentamente; vide la pelle del suo volto ricoprirsi di crepe come porcellana, un rivolo di sangue nero fuoriuscirgli dalla narice e il rosso brillante dei suoi capelli venire spremuto via lasciando al suo posto fragile neve fino alla radice...
L'allievo che lo aveva accompagnato in quell'impresa impossibile, che aveva creduto in lui, e che alla fine aveva trascinato con sé all'Inferno...
Un'altra vittima delle sue ossessioni. 
Sentì i membri della compagnia agitarsi intorno a lui impotenti, gridare il suo nome.
«Devi fare qualcosa!» gridò Alycia, riempiendo il suo petto di pugni. «Devi salvarlo! Avevi detto che c'era un modo!»
«É troppo tardi, Alycia.»
«Ti prego!» gemette lei. «Mi avevi giurato che c'era un modo! Lo avevi giurato!»
«C'è un prezzo» provò a dire lui, il cuore gonfio di dolore. «Il Vuoto esige sempre un prezzo...!»
«Non mi importa! Non importa, devi riportarlo da me!»
Piangendo di rabbia e disperazione, Alycia gli scagliò contro un incantesimo per sbalzarlo via e corse da Jim.
«Alycia, no!»
Lei superò l'altare e cadde in ginocchio al suo fianco.
«Lascialo andare» lo supplicò. «Ti prego Jim, non devi affrontarlo da solo!»
Lui si contorse producendo un debole rantolo, incapace di parlare, incapace di vederla o di sentirla. Viticci di impalpabile oscurità gli si avvolgevano attorno come fumo. Lei gli afferrò la mano e quel semplice contatto le procurò un urlò di dolore lancinante.
«Permettimi di aiutarti» sussurrò, senza abbandonare la presa. «Resta con me, Jim, ti prego...!»
Nel panico, Solomon li raggiunse di corsa, ma non fu il solo: Arthur, i gemelli Svanmör, Frank, Rodrigo, persino O'Malley circondarono i due ragazzi.
«Resistete, vi diamo una mano noi» disse Arthur, toccando la spalla di lei. Il potere riverberò nell'aria, incendiandola. Un coro di grida sofferenti si sprigionò dai membri della compagnia, che si stringevano gli uni agli altri, sorreggendosi a vicenda per guadagnare tempo.
L'aria che avevano intorno sembrava scricchiolare, infusa di qualcosa di prodigioso, di un potere completamente nuovo, che non aveva precedenti.
Solomon congiunse le mani di fronte a sé, come in preghiera. Chiuse gli occhi, chiamò a sé tutto il suo potere, tutta la sua determinazione.
Doveva riportarlo indietro.
A qualunque costo.
Fare quello che non era riuscito a fare per Jonathan. Per Jasper, Cillian, Stephen, Jorge e Marco...
Non avrebbe perso Jim, non stavolta.
Stavolta sarebbe riuscito a spezzare la ruota.
«Per la legge dello Scambio Equivalente» recitò a fior di labbra. «Porto in offerta il mio pegno.»

 

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Capitolo 53
*** La mancanza ***



LA MANCANZA
 
 

"Watch the only way out disappear
Don't tell me why
Kiss me goodbye"



«Jim, devi fare qualcosa!»
La faccia spaventata di Arthur King ondeggia davanti ai suoi occhi, dietro un velo di lacrime. La piccola cabina è piena di bambini, muti e terrorizzati: Rodrigo stringe le dita intrecciate e recita una preghiera, mentre Vanja resta seria e immobile come una scultura, con Wilhelm aggrappato a lei in preda ai singhiozzi. Fuori, il vento fa oscillare i tendoni contro il cielo notturno, portando con sé l'odore del fuoco e del sangue, le grida, i ruggiti delle bestie e altri suoni terribili, suoni a cui Jim si rifiuta di dare un nome...
«Mio padre è là fuori!» grida Arthur. «É nel tendone! Ti prego Jim, fa' qualcosa! Fa' una magia!»
«No» geme lui. «Non posso...»
«Ma io ti ho visto!» insiste Arthur. «Ho visto le cose che sai fare! Tu lo puoi salvare! Ci puoi salvare tutti!»
Come fa a spiegarglielo? Come fa a dirgli che quelle cose che tutti lì chiamano magia in realtà hanno una volontà propria, che di rado coincide con la sua? Arrivano quando non le cerca. Spariscono quando ha più bisogno di loro, come un compagno di giochi dispettoso. É sempre stato così, anche quando era alla fattoria...
“Non fa niente, tesoro.” Gli sembra di sentire la voce di sua madre nella testa, gentile come una carezza. “La prossima volta andrà meglio.”
Strizza gli occhi con forza.
«Non posso.» Si porta le mani alle tempie, preme per mettere fine ai ruggiti, alle grida, per spegnere il mondo intero. «Non ci riesco...»
«Io credo in te» dice Arthur. Sente la sua mano chiudersi attorno al polso. «So che ce la puoi fare!»
E alla fine, qualcosa accade.
Il mondo si fa buio e silenzioso e Jim ha l'impressione di essere trasportato lontano, molto lontano dal treno, dal circo, da qualunque cosa abbia mai conosciuto.
Non sente più niente. Nemmeno la pressione delle dita di Arthur sul suo braccio. É come essere sul fondo di una vasca da bagno, guardare il mondo attraverso una superficie nebulosa.
Non è una sensazione del tutto nuova, sente di averla già provata in passato, ma non riesce a ricordare quando...
«Jamie.»
É sua madre a chiamarlo.
«Va tutto bene, Jamie. Vieni da me.»
Jim si lascia risucchiare verso il basso e la superficie della vasca diventa più torbida, si allontana sempre di più man mano che affonda come un sasso nell'acqua nera e fredda...
Aprì gli occhi.
La lunga discesa era terminata e adesso i suoi piedi erano ben ancorati al suolo, in una frizzante serata d'autunno. Il sole stava tramontando, incendiando per l'ultima volta il cielo sopra i boschi dorati del New Jersey che abbracciavano la fattoria.
Jim aggirò la casa in cima alla collina e il fienile che conosceva bene. Non aveva idea di come fosse finito laggiù stavolta, ma non aveva più molta importanza, perché sul retro della fattoria si imbatté in una donna, seduta su una panchina rivolta verso il sole e la campagna. Una donna sottile, avvolta in un vestito di mussola a fiori e coi capelli castani tagliati corti. Sua madre.
Il cuore di Jim si strinse in una morsa di ghiaccio quando Abigail Blackthorn si volse a guardarlo e gli sorrise.
«Ciao, Jamie» disse, invitandolo a sedersi accanto a lei. «Il mio ometto coraggioso.»
Jim prese posto al suo fianco, domandandosi chi o cosa stesse guardando esattamente. Abigail sollevò una mano e la posò sulla sua guancia. Era calda, era solida, era viva.
«Gli somigli.» Seguì col pollice la linea del suo zigomo, del mento, come se volesse memorizzare ogni singolo aspetto del suo viso. «Sei diventato bello proprio come tuo padre.»
Jim si sforzò di contenere i singhiozzi che palpitavano dietro la lingua, in fondo alla gola. «Sei reale?»
«Finché ne avrai bisogno, lo sarò.»
Il cuore gli si torse e sentì le lacrime scendere silenziose, senza che riuscisse più a trattenerle. «Mi sei mancata.»
«Anche tu mi sei mancato, tesoro. E mi dispiace così tanto per il male che ti ho fatto.»
«Non è stata colpa tua.»
«Sì, invece» replicò lei. «Se non fossi stata così sciocca e piena di rabbia...»
«Mamma» disse Jim, con voce spezzata. «Hai subito un'ingiustizia terribile. Ho conosciuto Blackthorn ed è uno stronzo.»
«Questo non giustifica quello che ho fatto. A te, a tuo padre, alla nostra famiglia...»
Stavolta fu lei a dover premere la mano sulla bocca, nel tentativo di frenare il pianto. «Volevo solo che tu fossi felice. Desideravo darti un futuro e invece ho ottenuto il contrario. Ho combinato un disastro...»
«Non fa niente» replicò Jim con slancio. «Non fa niente mamma, dico sul serio. Ho rimesso le cose a posto! Ho fermato Lucindra, ho...»
Lasciò in sospeso la frase. Il vento scosse dolcemente le fronde degli alberi intorno a loro, trascinandosi dietro voci che provenivano da luoghi lontani. Voci disperate, sofferenti. Che chiamavano il suo nome.
«Che sta succedendo?»
«Stai morendo, tesoro.»
Lui si volse piano a guardarla, stupito.
«Proprio in questo momento» disse lei, tristemente. «Il Vuoto esige sempre un debito da pagare.»
«Oh» fece Jim dopo un momento. «Capisco.»
Aveva senso. Perfettamente senso, riflettendoci. Ma, sorprendentemente, scoprì che la cosa non lo turbava più di tanto. E perché avrebbe dovuto?
Aveva impedito al Vuoto di distruggere il suo mondo.
Aveva detto ad Alycia che l'amava.
E poi, lì su quella panchina, immerso nella fragrante luce di quel crepuscolo, con sua madre accanto, era così in pace...
«Le carte di Margot l'avevano detto» ricordò, mentre accoglieva dentro di lui quella consapevolezza. «E lei ci azzecca sempre.»
«Jamie.»
Sua madre lo stava guardando fisso, negli occhi una luce intensa, risoluta.
«Non è così che deve andare. Non è ancora arrivato il tuo momento.»
Jim ricambiò il suo sguardo senza capire. «Che intendi dire?»
«Qualcuno sta pagando il debito al posto tuo.»
«Cosa? Chi?»
«Non ha importanza.» Abigail si alzò in piedi, lo sguardo rivolto al tramonto infuocato. «Ti ricordi quell'esercizio che facevamo sempre quando eri piccolo? Quando ti chiedevo di disegnare qualcosa e tu dovevi cercare di tirarlo fuori dal foglio?»
Lui fece segno di sì, sebbene non capisse che cosa aveva in mente: non c'erano fogli o matite per disegnare lì.
«Hai sempre avuto la capacità di farlo» disse Abigail. «Solo che non sapevi per cosa farlo.»
Jim aggrottò la fronte e per qualche istante rimase in silenzio, combattuto.
«É una tua scelta, tesoro» disse Abigail.«Puoi decidere se tornare o restare.»
Jim guardò il suo volto magro, pallido e gentile. Avrebbe tanto voluto concedersi un altro po' di tempo in sua compagnia, imparare a conoscerla, scoprire chi fosse davvero Abigail Blackthorn, quella giovane donna tormentata che aveva sacrificato ogni cosa in nome di ciò che amava, finendo vittima della sua stessa sofferenza...
Ma sua madre aveva ragione, non era il momento di fermarsi. Non adesso che aveva finalmente capito chi era e cosa poteva diventare.
«Io...vorrei tornare indietro, se possibile.»
Lei sorrise con entusiasmo e annuì. Jim si posizionò al suo fianco e alzò il braccio, seguì il movimento che sua madre tracciava nell'aria. All'inizio non accadde niente, ma non rinunciarono. Provarono ancora e Jim si sforzò di guardare oltre ciò che aveva di fronte: di immaginare se stesso insieme ad Alycia, ai suoi amici, al suo maestro...
Voleva tornare indietro. Lo voleva disperatamente questa volta. Voleva tornare per loro.
Quel desiderio accese in lui una scintilla, che crebbe fino a diventare una fiamma, sempre più calda e luminosa. Il fuoco della sua Volontà di mago.
Per un attimo, una scia luccicante ammiccò fugace nell'aria.
Resta pensò Jim, mentre l'incendio dentro di lui divampava. É la mia Volontà che tu ci sia.
Stavolta, la scia rimase. Galleggiò in aria, formando un arco luminoso: una cornice. La cornice di uno specchio sospeso in mezzo al nulla.
Jim si inebriò di ciò che era appena riuscito a fare e del calore che quella sensazione gli dava. Si girò verso sua madre.
«Vieni dall'altra parte con me. Torniamo a casa, da papà!»
Lei gli restituì il sorriso, ma stavolta era un sorriso intriso di tristezza. «Questa porta può essere attraversata da una persona sola, temo.»
«Allora creiamone un'altra!» Jim afferrò la sua mano, la strinse. «Possiamo plasmare la realtà, possiamo...!»
«Non è così che funziona, tesoro. Ma grazie per averci pensato.»
La morsa attorno al suo cuore si fece insopportabile. «Non è giusto.»
«Lo è invece. Va bene così, Jamie. Non puoi sistemare tutto.»
Jim continuò a tenere stretta la sua mano, incapace di rassegnarsi, di lasciarla andare. Possibile che morire fosse la parte più facile? «Mamma...»
«Non c'è più tempo, i tuoi amici non resisteranno ancora per molto.»
Prima che lui potesse protestare, le braccia di Abigail lo circondarono. «Trova tuo padre» gli sussurrò. «Digli che sono orgogliosa di voi.»
Lui quasi si strozzò con un singhiozzo, stringendola con tutta la forza che aveva. «Lo farò.»
Lei lo guidò verso lo specchio e Jim guardò i loro riflessi, l'uno accanto all'altra, per l'ultima volta.
«Ricorda» furono le ultime parole di sua madre, la mano premuta sulla sua schiena. «Qualcosa deve essere sempre lasciato indietro. É la regola.»
«Cosa? Che signi..?»
Ma Abigail lo aveva già spinto incontro al suo gemello imprigionato nel vetro.
Jim capì che qualcosa era andato storto, che non era un attraversamento come gli altri. Quando si immergeva in uno specchio, era un po' come tuffarsi in uno stagno, scivolare da un piano all'altro dell'esistenza come un fluido, invece, questa volta ebbe l'impressione di essere premuto contro un velo di stoffa, sottile ma allo stesso tempo resistente. Fu schiacciato con forza contro di esso e provò un senso di soffocamento... finché, inevitabilmente, arrivò lo strappo.
Lo percepì distintamente, ma non seppe dire se a strapparsi fosse stato il velo oppure se fosse stato lui. L'unica cosa certa era che faceva male. Male da morire.
Un dolore al calor bianco si impadronì di lui, lacerandolo nel profondo. Lo sentì infiltrarsi senza pietà dentro le sue ossa, incendiargli le vene, consumargli la carne come nessun altro dolore mai provato prima...
E poi, così veloce come era iniziato, cessò.
Giaceva per terra, a faccia in giù. Percepì il marmo freddo e duro su cui era premuta la sua guancia, il sapore ferroso del sangue nella bocca: il mondo dondolava ancora intorno a lui, impigliato tra veglia e oblio, ma quelle sensazioni lo richiamarono pian piano alla coscienza...
Sollevò lentamente le palpebre. La grande sala in cui si sarebbe dovuta svolgere la cerimonia era un cumulo di macerie, il pavimento invaso dai resti del soffitto crollato e da specchi rotti, alcuni ridotti a frammenti di vetro sottili come sabbia. L'altare di granito era spaccato in due metà, come se un fulmine lo avesse colpito in pieno.
Jim si mise a sedere con cautela. Si sentiva strano, non del tutto a suo agio nel proprio corpo, come se la pelle che indossava non fosse della taglia giusta. Quel dolore terribile provato durante l’attraversamento era scomparso, senza lasciare apparentemente alcuna traccia, se non un vago ricordo spiacevole.
Frastornato, si tastò la faccia, il busto, le braccia: sembrava tutto a posto.
E allora, perché aveva la tremenda sensazione che qualcosa di importante fossa rimasto dall’altra parte?
Decise che ci avrebbe pensato più tardi, perché si rese conto che era circondato da corpi privi di sensi. I corpi dei suoi amici.
No…!
Un gelido terrore gli invase le vene, ma poi, miracolosamente, vide quei corpi muoversi, sentì alcuni di loro tossire e imprecare…
«Alycia!»
Udì la propria voce come in lontananza e per un istante faticò a riconoscerla.
La ragazza si issò sul gomito. Tossì, scostò la criniera di ricci arruffati.  Infine, incrociò i suoi occhi e un sorriso enorme le si allargò in faccia.
Lui ritrovò tutta in una volta la forza di rimettersi in piedi e corse da lei.
Alycia si tuffò tra le sue braccia e Jim l'afferrò al volo, annegando nei suoi soffici capelli neri. La strinse a sé, si inebriò del suo profumo, del calore del suo corpo, del battito frenetico del suo cuore contro il proprio. Sentì le lacrime affiorare: lacrime di gioia, di gratitudine. Come aveva potuto pensare anche solo per un istante di rinunciare a tutto questo?
«Ha funzionato!» disse lei, la voce attutita dalla sua giacca. «Credevo che fosse tardi...che fossi...che fossi...»
«Alycia, cosa ha funzionato?» domandò Jim, scostandosi di poco per guardarla. Di colpo, la felicità che provava fu offuscata dalla preoccupazione. «Che avete fatto?»
«Non lo so, ricordo solo che eravamo tutti intorno a te e...poi c'è stata l'esplosione: era come se il mondo intero stesse andando in fiamme. Ha fatto male, ma è durato talmente poco che ho creduto di averlo solo sognato...»
Jim si stava sforzando di dare un senso alle sue parole, ma una voce alle loro spalle lo precedette: «Come?»
Trasalirono entrambi e Jim si volse di scatto, nascondendo Alycia dietro di sé.
Era Lucindra.
La strega avanzò verso di loro; tentacoli di impalpabile oscurità le si stavano raccogliendo intorno, fremendo, mentre alzava uno sguardo interrogativo al soffitto crollato, come a volergli intimare di svelarle tutta la verità. Jim si ritrovò a fare altrettanto: un cielo azzurro e luminoso li sovrastava e i brandelli neri e sfilacciati del Vuoto si stavano dissipando come nuvole dopo un temporale.
Lucindra tornò a posare i suoi occhi freddi su di lui. «Come?»
«Non lo so» ammise lui, attento, pronto allo scontro. «Ma tu hai perso.»
Lei scoppiò a ridere come se avesse appena detto la battuta più divertente mai sentita. Un istante dopo, piombò su di lui.
Alycia fu sbalzata via come un fuscello e atterrò con violenza sul pavimento, mentre Jim urlava e sollevava le mani per attaccare. Lucindra gli afferrò con forza il polso, fino a stritolarlo.
«Riprenderemo da dove ci siamo interrotti» disse, le ombre che le si agitavano intorno come serpenti. «E questa volta, con la tua Volontà o no, mi prenderò ciò che...»
Si interruppe e lo fissò, lo stupore che si faceva strada sul suo volto, spazzando la rabbia e qualsiasi altra emozione. «Ma cosa..?»
Gli sfiorò il viso con le sue dita nere, e Jim le lesse nello sguardo un totale smarrimento. «Non è possibile..!»
Si allontanò da lui con disgusto. «Che fine ha fatto il tuo potere?»
Sbalordito, lui si osservò le mani, accorgendosi solo allora che le sue dita erano tornate immacolate.
Cercò dentro di sé la calda luce materna del Tutto, come aveva fatto la prima volta nella palude tra i monoliti di roccia, come aveva fatto innumerevoli altre volte, ma vi trovò solo silenzio, solo assenza.
Ok. Inspirò, sforzandosi di non annegare nel panico. Ok manteniamo la calma.
Si concentrò su ciò che voleva evocare, una piccola fiamma, un alito di vento, qualunque cosa, ma non successe niente.
Disperato, si protese nella direzione opposta, scivolò in quel pozzo nero e freddo che era la fonte del suo legame col Vuoto e rimase spiazzato quando lo trovò prosciugato.
Ecco cosa c’era che non andava. Ecco cos’era quella sensazione di perdita, a cui non riusciva a trovare spiegazione…
Il debito era stato pagato. Il Vuoto aveva ottenuto la sua contropartita.
E in lui non era rimasta più una stilla di magia.

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Capitolo 54
*** L'ora più buia - PRIMA PARTE ***



L’ORA PIÙ BUIA – PRIMA PARTE
 
 


 
«È uno scherzo?!» strillò Lucindra. 
«Un altro dei tuoi stupidi trucchi?»
Jim non sapeva cosa rispondere. Continuava a guardare i palmi aperti delle sue mani, come se appartenessero a un estraneo.
In preda all'orrore, la strega scosse lentamente la testa. Indietreggiò, incespicò nell’orlo del vestito, il primo movimento sgraziato che le avesse visto compiere. «No no no, è tutto sbagliato! Dovevamo cambiare il mondo insieme e adesso...adesso sei inutile!»
La sala fu scossa nelle sue fondamenta, le ombre si agitarono come onde in burrasca, mentre la furia e la delusione di Lucindra si trasformavano in qualcos’altro, qualcosa di più potente: un dolore profondo e nero come l’abisso.
Nuvole tempestose tornarono a riempire il cielo e una massa informe fatta di penne, becchi e artigli affilati si diresse a gran velocità verso di loro…
«Lilith» sussurrò Jim, riconoscendo immediatamente il famiglio di Lucindra. «Sta’ giù!»
Si gettò sul pavimento insieme ad Alycia, ma non erano loro l’obiettivo; il demone si abbatté su Lucindra in un delirio di piume color pece. La strega spalancò le braccia, lasciando che l’oscurità l’avvolgesse, che impregnasse la sua carne come inchiostro sulla carta.  Dalla sua schiena si spiegarono sei immense ali nere, dotate di infinite paia di occhi infuocati, e non appena le sbatté generò un turbine di vento e piume.
Gli zeloti rimasti nella sala si unirono a lei trasformandosi in vortici di fumo nero e quando la loro signora si alzò in volo e superò squarcio sul soffitto, la seguirono, scomparendo presto alla loro vista.
«Cosa pensi farà adesso?» chiese Alycia.
«Non ne ho idea» rispose Jim, la gola secca. «Ma dubito che si sia arresa.»
Sentiva su di sé lo sguardo confuso e preoccupato di lei.
«É vero quello che ha detto?» chiese piano. «Che i tuoi poteri sono spariti?»
Jim prese le sue mani, intrecciò le loro dita. Cercò la sua aura, l’oceano tumultuoso delle sue emozioni, la luce intensa e inebriante che scaturiva dal cuore del suo potere…ma ancora una volta non trovò nulla.
«Non è rimasto più niente.»
La voce gli venne meno, mentre veniva sopraffatto dall’angoscia. C’era una ferita dentro di lui, lo sentiva. Come un buco nero scavato al centro del petto, in cui il suo cuore stava precipitando in caduta libera…
«Qualcosa invece è rimasto.» Alycia gli prese il viso tra le mani. «Tu sei rimasto. Il resto non ha importanza.»

Jim tirò su col naso e si sforzò di annuire. Poi, con la coda dell’occhio, percepì qualcuno muoversi alle loro spalle.
Arthur, i gemelli, Rodrigo, O’Malley, Frank e Valdar erano rimessi in piedi, aiutandosi a vicenda.
«Jim!» esclamò Rodrigo, raggiante. «¿Estás bien?»
«Ma certo che sta bene» bofonchiò O’Malley, spazzando via la polvere dalla giacca a falde. «La pellaccia irlandese è dura a morire!»
Jim aprì la bocca, per dare voce alle mille domande che gli affollavano la testa, ma Vanja non gli diede il tempo di dire nulla: «Tu! Idiota che non sei altro!»
Marciò dritta verso di lui, i capelli biondi spettinati, il bel viso coperto di graffi e sudiciume e lo sguardo che sprizzava furore; spinse da parte Alycia senza troppe cerimonie e per un attimo Jim pensò seriamente che volesse tirargli uno schiaffo. Invece, lo abbracciò con tale energia da stritolargli le ossa.
«Non provarci mai più! La prossima volta che ti salta in mente di fare l'eroe del cazzo io ti…ti...»
«Perdonami» disse lui, restituendole l’abbraccio. Non avrebbe mai pensato di poter essere felice di ricevere i suoi insulti. «Non lo faccio più, promesso.»
Di colpo, in quell'enorme sala mezza distrutta, si era scatenato il delirio: Jim fu abbracciato, strizzato, gli furono arruffati i capelli. Rodrigo e Frank non la finivano di riempirlo di domande, Valdar continuava a dargli pacche energiche dietro la schiena per accertarsi che fosse tutto intero e O’Malley a brontolare qualcosa a proposito del lavoro extra che lo attendeva per risarcirlo di tutti i danni che aveva provocato…
Jim era frastornato, sbalordito e immensamente grato al tempo stesso: erano tutti lì per lui, la sua strana e mal assortita famiglia. Stavano bene, erano sani e salvi e tutt’a un tratto, il vuoto lasciato dalla magia fu colmato da un calore indescrivibile. Si voltò in cerca di Arthur, che si teneva un po’ in disparte con un sorriso sghembo sulle labbra.
«Lo so che avevi in mente un'uscita di scena ad effetto, ma sarà per la prossima volta.»
Jim si liberò dalla presa a tenaglia di Valdar. Come gli altri, anche lui era sporco di sangue, pieno di tagli e di lividi e…impugnava una spada luminosa che riconobbe all’istante...
«Ma quella è...?!»
«Excalibur, già. Lo so cosa stai per dire, ma è solo in prestito…»
«Arthur» fece Jim, sentendo un nodo stringergli la gola. «Mi dispiace per tutto: ho trasformato io te e tuo padre in Mannari, con la Magia Vuota!  É successo anni fa, durante la Notte del Disastro…»
Arthur s’incupì per un istante, poi sospirò. «Sì, un vago sospetto ce l’avevo.»
Jim sgranò gli occhi. «Cosa?»
«Ho dei ricordi un po’ confusi di quella notte, ma una cosa di sicuro non la scorderò mai: nel momento in cui ti ho toccato, ho sentito che qualcosa si era trasformato in me. Come...come se le cellule del mio corpo si fossero rimescolate. E poco fa, quando eravamo tutti intorno a te, ho avvertito la stessa identica sensazione.»
«Mi dispiace» disse Jim. Gli sembrava di avere una spugna rinsecchita al posto della lingua.
«Non è stata colpa tua. E poi, sei quasi morto per salvare il mondo: mi sembra che tu abbia fatto abbastanza per rimediare.»  
«Ma sono stato uno stronzo» replicò Jim, mortificato. «Ti ho detto delle cose orribili.»
«Sì, lo sei stato. Ma eri in modalità “delirio di onnipotenza”, immagino che capiti a tutti i maghi, prima o poi.»
A Jim scappò una risata rauca. «Di sicuro non capiterà mai più.»
«Che vuoi dire?»
«Non sono più un mago.» Pronunciare quelle parole gli provocò un dolore atroce, come torcere una lama nella ferita ancora fresca. «Quella parte di me è rimasta nel Vuoto. Per sempre.»
Come c’era da aspettarsi, un silenzio attonito accompagnò la rivelazione.
«Oh, Jim» mormorò Vanja, addolorata.
«Suvvia» gracchiò O’Malley. «Q
ualcosa si potrà fare!Con tutti i libri che ti sei letto...»
«Siamo molto al di là di quello che ho appreso dai libri.» 
Arthur tacque, scrutandolo con attenzione e a Jim parve che nei suoi occhi scuri si agitassero emozioni contraddittorie.
«Mi dispiace» fu ciò che disse alla fine e gli suonò sincero. «So quanto era importante per te.»
Jim ne fu commosso. «Grazie.»
«James Doherty.»
Era Boris Volkov, che lo fissava coi suoi occhi invernali e l’espressione solenne. 
«Ti ho giudicato male
» borbottò. «Ero convinto che fossi un pericolo, ma quello che hai fatto poco fa è stato davvero nobile. E a nome della Corte delle Lame e di tutta Arcanta vorrei dirti…»
«Prego, non c’è di che» lo interruppe Jim, tagliente. «E porga pure i miei ringraziamenti ai suoi amici Decani, per l’aiuto.»
Forse era stato troppo brusco, perché l’espressione dispiaciuta dell'Arcistregone del Nord gli sembrò autentica, ma non poteva dimenticare che se non fosse stato così ossessionato dall’idea di sbatterli dietro le sbarre avrebbe evitato a tutti un bel po’ di problemi.
Spostò invece la sua attenzione su Blake, che era in piedi accanto alla donna in armatura che lo aveva salvato dalle grinfie di Lucindra.
Per la prima volta dopo lo scontro in biblioteca, allievo e maestro si guardarono, si studiarono in silenzio, come se nessuno dei due possedesse parole adatte a quel momento.
«É stata opera sua, vero?» decise di chiedere il ragazzo, senza preamboli. «Ha compiuto lei lo Scambio.»
«C’era una promessa che dovevo mantenere.» Gli occhi azzurri dello stregone indugiarono un attimo su Alycia. «A qualunque costo.»
Jim sentiva il coltello girare piano nella ferita. Ma doveva sapere: «Non c’era un altro modo?»
Solomon scosse il capo. «Sono le regole della magia: è la Corrispondenza alla base di tutto, l’equilibrio deve essere sempre rispettato.»
«Ha detto ad Alycia che aveva trovato un modo per liberarmi dal vincolo con Lucindra» disse Jim. «Devo dedurre che fosse il suo piano fin dall’inizio.»
Ma certo che lo era, avrebbe dovuto rendersene conto molto prima, dal momento in cui aveva scoperto la sua vera natura: lui era un Plasmavuoto, non ci sarebbe mai stata tregua per lui, nessun posto dove nascondersi, dove essere accettato...
«Mi dispiace, Jim» disse Solomon. «Hai dovuto compiere un sacrificio enorme, che ti segnerà per la vita. Sono stato più volte sul punto di dirti la verità, ma...»
«Sapeva che non l’avrei accettata.»
Ammetterlo con se stesso fu forse la parte peggiore. In cuor suo sapeva che non avrebbe mai rinunciato al potere e avrebbe fatto qualunque cosa per tenerselo stretto. Forse, avrebbe perso la testa, finendo per diventare come Lucindra, un altro mostro pieno di rancore e senza controllo…
“Qualcosa invece è rimasto. Tu sei rimasto.”
Lasciò andare le mani aperte lungo i fianchi.
«Va bene così.» Sentì che la rabbia lo stava già abbandonando. «Non è la fine del mondo.»
Un istante dopo, però, gli rivolse uno sguardo obliquo. «Visto che siamo in tema: non è che per caso c’è altro che dovrei sapere?»
Solomon si scambiò un’occhiata con Isabel. «Be’...»
Jim allargò le braccia: quell’uomo era esasperante. «Cosa? Che c’è ancora?»
Si accorse che lo stavano fissando tutti. Poi, Wilhelm raccolse da terra un frammento di specchio abbastanza grande e glielo porse. «Non ci rimanere troppo male, ok?»
Un po’ in ansia, Jim guardò il proprio riflesso. «Ah.»
Addio anche ai suoi capelli rossi; al loro posto trovò una chioma candida come la neve. Jim vi passò in mezzo le dita, faticando a riconoscersi. Persino le sopracciglia erano albine, quasi invisibili. Lasciò andare via un altro profondo sospiro. «Almeno non sono pelato.»
«A me piacciono» disse Alycia in tono convinto. «Ti danno un’aria…»
«Lugubre?»
«Eterea, lunare. Da ragazzo dello spazio.»
Malgrado tutto, riuscì a strappargli una risata, inghiottita subito dopo da una detonazione lontana, nel cielo.
L’oscurità aveva ripreso a turbinare, fagocitando il cielo in un incubo nero in cui serpeggiavano fulmini e risuonavano i raggelanti stridii degli abomini creati dalla Magia Vuota.
In qualche maniera, la Torre Nera stava riguadagnando terreno.
«Non è possibile» fece Jim, sentendo il panico risvegliarsi. «Credevo di averla distrutta…credevo…!»
La risposta giunse dal cielo, sottoforma di una scia oscura: quando si dissolse rivelò Margot, sconvolta e trafelata. I circensi si strinsero gli uni agli altri, guardinghi, e gli stregoni si prepararono allo scontro.
«Zora Sejdić» disse Solomon. «Avrei dovuto immaginare che fossi tu a manovrare i fili: hai cambiato aspetto e identità, ma le vecchie abitudini rimangono.»
Jim però si mise in mezzo: «Va tutto bene, sta con noi!»
«Ma davvero?» grugnì O’Malley, con la pistola in pugno. «Ho l’impressione che la nostra Margot o Zora o come accidenti si chiama stia un po’ dove le convenga!»
«Forse, però mi ha aiutato» replicò Jim. «Se non fosse stato per lei non sarei mai riuscito a ingannare Lucindra…»
Era accaduto dopo che la strega aveva torturato Wilhelm Svanmor e trasformato Sinclair in un mostro: Margot aveva portato Jim nel suo nuovo laboratorio, dove avrebbe dovuto preparare una pozione in grado di cancellare tutti i suoi ricordi.
“Lei è viva” gli aveva sussurrato, approfittando di quel momento da soli. “La figlia di Blake, ho dovuto fare in modo che la credessi morta: era il solo modo per salvarla.”
Jim aveva accolto la notizia con una gioia e una speranza così intensi che si era intestardito affinché Margot comprendesse la vera natura di Lucindra:
“Hai visto che cosa ha fatto a Wilhelm, lei non è quello che credi! Aiutami a fermarla!”
“É troppo tardi, Jimmy, non possiamo fare nulla.”
“Io sì!” aveva insistito lui. “Ma ho bisogno che creda di avermi in pugno, puoi aiutarmi?”
Ma Margot aveva scosso la testa. “Ingannarla non servirà a niente, non si fida più di nessuno. Esaminerà i tuoi ricordi per assicurarsi che io abbia svolto il mio lavoro.”
“Non puoi rimuoverli solo temporaneamente?”
Lei ci aveva riflettuto. “Un modo ci sarebbe…ma avrai bisogno di un transfer.”
Si trattava, gli aveva spiegato, di un qualcosa in grado di suscitare un’emozione legata a un ricordo: una parola, una melodia, un odore, oppure un oggetto.
“Non ho nulla con me” aveva obiettato Jim, ma Margot aveva estratto dalla tasca un anello d’argento a forma di artiglio.
«Mi è bastato toccarlo per ricordare chi fossi» disse Jim, mostrando al suo maestro il Vincolo, di nuovo in suo possesso. «In fondo, si può dire che lo abbia capito grazie a lei.»
Solomon continuò a tener su un'espressione diffidente, ma Jim ebbe l'impressione che il suo sguardo fosse diventato più caldo a quelle parole.
«Bah!» sbottò invece O’Malley. «Avrà anche fatto una buona azione, ma io non mi fido di una doppiogiochista!»
«Non vi sto chiedendo di fidarvi» ribatté Margot. «Né di cancellare ciò che ho fatto…»
«E allora perché dovremmo crederti?» intervenne Solomon, la voce bassa ma minacciosa. «Chi ci garantisce che tu non stia ancora servendo la tua padrona?»
«Non c’è tempo per questo! Morirete tutti se restate qui! Sta chiamando a sé tutto il suo potere per espandere il Vuoto!»
«Non può farlo da sola!» protestò Jim. «Si ucciderà!»
«Lo farà, invece» affermò Isabel, cogliendo tutti di sorpresa. «Se c'è una cosa che ho compreso, mentre eravamo entrambe prigioniere, è che la solitudine la spaventa di più di ogni altra cosa.» Guardò Jim dritto negli occhi. «Perciò, ora che non ha più niente da perdere, porterà a termine il suo progetto a qualunque costo. Anche di morire.»
Jim era pietrificato dall’orrore. Tutto ciò che aveva fatto, tutto quello che aveva sacrificato… non era comunque servito a nulla.
«Allora la uccideremo per primi noi» disse Volkov. «Non potrà difendersi e al tempo stesso pensare alla Torre, servirà un attacco combinato.»
Evocò la sua ascia e guardò Solomon con intensità. «Isabel, Alycia e io possiamo creare un diversivo, ma starà a te fermarla: è tempo di finire quello che hai iniziato diciassette anni fa.»
L'altro inarcò le sopracciglia. «Intendi quando ho infranto ogni legge magica mai esistita?»
«Be', arrivati a questo punto, tanto vale che continui, no?»
In quell’istante, un’ombra calò sulla sala, accompagnata da un furioso battere d’ali. Jim sollevò la testa e impallidì: centinaia di scimmie alate volteggiavano in cerchio sopra di loro, abbassandosi con scarti improvvisi. 
Si riversarono nella fenditura sul soffitto a frotte.
Solomon spinse Jim dietro di sé, mentre evocava una pioggia di saette azzurre contro i mostri, riducendoli in polvere. Al suo fianco, Arthur brandiva maldestramente Excalibur per falciare quante più ali e zampe poteva al fianco di Volkov, che faceva rotolare teste a colpi di ascia; poco più avanti, archi di luce verde segnavano i dardi lanciati dalla magia combinata di Alycia e Isabel, che combattevano schiena contro schiena.
Jim si trovò sballottato da una parte all’altra in un inferno di grida, artigli, spari e scoppi di incantesimi, senza sapere in che modo rendersi utile.
Se solo avessi ancora la magia! pensò con frustrazione. Se solo potessi combattere…
All’improvviso, uno stridio gli spaccò i timpani e sentì degli artigli appuntiti penetrare con forza nel suo braccio.
Jim urlò e pugnalò furiosamente la zampa dell’abominio con il frammento di specchio che aveva ancora in pugno, adesso viscido di sangue. Ma non servì a molto e la creatura schiumò di rabbia, sollevandolo in aria…
Un’esplosione dorata di fiamme squarciò l’oscurità, seguito da un nauseante odore di carne bruciata. La bestia strillò di dolore e mollò la presa.
Il ragazzo si volse, aspettandosi di dover ringraziare Solomon o Alycia o Isabel o Volkov…e invece la fiammata era partita da Rodrigo.
Nella fioca luce, vide il mangiafuoco guardarsi le mani a bocca aperta, sorpreso e confuso quanto lui. Arthur quasi fece cadere Excalibur. «Che cazzo era quello?»
Altri due mostri alati piombarono su di loro con gli artigli protesi.
«Fallo ancora!» gridò Jim. «Qualunque cosa fosse! Ci serve altro fuoco!»
Rodrigo strizzò gli occhi come se stesse sparando per la prima volta in vita sua e sollevò le mani. Un torrente di fiamme increspò l’aria e incenerì le scimmie alate in un’esplosione di stridii terrificanti. Mentre la sorpresa e la paura lasciavano gradualmente posto all’esaltazione, Rodrigo diresse il getto di fuoco contro gli altri abomini, disperdendoli.
Jim era senza parole, ma lo fu ancora di più quando vide Frank sollevare un traliccio di almeno una tonnellata e scaraventarlo contro i nemici come se fosse di gommapiuma, o i gemelli Svanmor librarsi in aria sorretti da ali traslucide che sbattevano producendo un leggero ronzio, le espressioni confuse, sbalordite e spaventate.
«Oddio!» strillava Vanja nel panico, sbracciandosi nel vuoto per tenersi in equilibrio. «Oddio oddio!Come si pilotano questi affari!?»
«Ma che sta succedendo?» chiese Arthur, sbigottito. «Come ci riescono?»
Nella testa di Jim regnava il caos, ma si sforzò di ragionare. Lo Scambio, l'attraversamento dello specchio, la sensazione di strapparsi, l'esplosione di luce e infine la perdita dei poteri…
“Nel momento in cui ti ho toccato, ho sentito che qualcosa si era trasformato in me.” Aveva detto Arthur poco prima. “E quando eravamo tutti intorno a te…ho avvertito la stessa identica sensazione.”
Corrispondenza. La magia di Jim aveva da sempre attinto sia dal Tutto che dal Vuoto, chiamando il potere dei Molti fino a farlo convergere nell’Uno. Ma al momento dello Scambio, il processo doveva essersi invertito: era stato l’Uno a essersi donato ai Molti.
«La mia magia non è sparita» realizzò Jim, incredulo. «Si è trasferita a voi!»
Solomon li raggiunse, con un brutto taglio sanguinante che correva lungo la tempia e il fiato corto.
«Ne stanno arrivando altri» annunciò, rivolendosi ai circensi. «Sono un’infinità. Lasciate questo posto e portate Jim al sicuro.»
«Non ci pensi neanche!» reagì immediatamente il ragazzo.
«Jim, ascoltami…»
«No, mi ascolti lei! Non me ne starò a guardare mentre vi fate uccidere per me, non è per questo che sono tornato dal mondo dei morti, non…»
Non riuscì a finire la frase. Solomon l’aveva abbracciato con una forza tale da togliergli il respiro e Jim si ritrovò a sgranare gli occhi sulla sua spalla.
«Sei un uomo coraggioso, Jim Doherty» disse con voce rauca. «E sei stato un buon amico.»
Jim sentì qualcosa di duro dentro di sé incrinarsi fino a crollare del tutto. E poi, senza dargli modo di ribellarsi o di replicare o di fare qualsiasi altra cosa, lo stregone gli diede una spinta.
«Solomon!» urlò Jim. «Per una volta, ascoltami, cazzo..!»
Ma O’Malley aveva già aperto il portale. Solomon, Alycia, Isabel e Volkov furono risucchiati in un vortice di fiamme dorate e un istante dopo Jim era fuori dalla Torre.
«No!»
Cadde in ginocchio senza fiato e pestò i pugni sul terreno, in preda alla disperazione.
La Torre Nera era a una manciata di miglia da loro e sembrava inaccessibile, mentre si gonfiava e si espandeva, attorniata da sciami di creature mostruose e divorava a una velocità impressionante campi, boschi, abitazioni...
E là, in cima al turbinare furioso della Materia Vuota, un globo di tenebra più oscuro da cui Lucindra stava facendo a pezzi ciò che restava della sua anima.
Tra le nubi tempestose, spiccò il volo una sagoma luminosa e veloce come un razzo, dotata di sei grandi ali piumate.
Jim si tirò subito in piedi. «Solomon!»
Lo stregone si spinse sempre più in alto, per raggiungere il nucleo della Torre e fermare Lucindra, ma uno stormo di mostri volanti lo intercettò e prese a volteggiargli attorno. Lo stregone si tuffò in picchiata. Poi risalì, scartò di lato bruscamente nel tentativo di seminarle, ma le Creature Vuote lo marcavano senza dargli tregua e distribuivano morsi e colpi di artigli scanditi da ampi battiti d’ali.
«Che diamine sta facendo?» domandò O’Malley.
«Improvvisa» rispose il ragazzo. Solomon aveva iniziato a perdere lentamente quota, le penne bianche arruffate e macchiate di sangue e una delle sei ali che pendeva inerte come se si fosse spezzata. «Significa che è nei guai, devo aiutarlo!»
«Ragiona» disse Wilhelm. «Non c’è niente che puoi fare!»
«Sì invece, perché so come fermare Lucindra!»
Tutti lo fissarono, sconcertati.
«Stai dicendo sul serio?» fece Arthur. «Come?»
«Il Codice Oscuro» rispose Jim in fretta. «Quando abbiamo unito i nostri poteri, ho capito che la chiave del suo legame col Vuoto è quel libro: è una specie di…ricettacolo, capite? Ogni sacrificio che lei ha compiuto per ottenere potere è passato attraverso quelle pagine!»
Gli altri si scambiarono occhiate incerte.
«Vuoi tornare là» disse Arthur.
«Devo. È compito mio fermarla.»
«Ma Jim» fece Vanja, accorata. «Senza magia… come farai anche solo ad avvicinarti?»
Il ragazzo sorrise; il suo vecchio, volpesco sorriso da mago. «Non mi serve la magia: ho voi.»
 

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Capitolo 55
*** L'ora più buia - SECONDA PARTE ***



L’ORA PIÙ BUIA
– SECONDA PARTE




I look inside myself and see my heart is black...
Maybe then I’ll fade away and not have to face the facts
It’s not easy facing up when your whole world is black


Paint it Black - 
The Rolling Stones
 
 




«É veramente un piano del cazzo» decretò O’Malley, appena Jim ebbe finito di parlare.
«Io lo definirei il tentativo estremo di arginare un disastro» ribatté Jim. «Però devo chiedervelo: chi è con me?»
Guardò a uno a uno i suoi amici: esausti, col morale a terra dopo tutte le prove che avevano dovuto affrontare e ancora poco a loro agio coi propri poteri. Vanja e Wilhelm continuavano a incastrarsi nelle proprie ali, Frank si muoveva come se camminasse sui cocci di vetro a causa della sua straordinaria forza e Rodrigo si stringeva le mani sotto le ascelle come se avesse paura di incenerire qualcuno per sbaglio.
Erano dei semplici saltimbanchi, dei reietti a cui la vita non aveva mai regalato nulla, ma che all’improvviso si erano trovati il destino del mondo sulle spalle. Se si fossero rifiutati di seguirlo in quella follia, non avrebbe potuto certo biasimarli…
«Credi sul serio che possa funzionare?» domandò Arthur, guardandolo con la massima serietà.
«Credo che abbiamo una discreta percentuale di successo dalla nostra.»
«Cristo, non ti mettere a parlare come Blake adesso!»
«Allora te lo dico così» disse Jim, ricambiando il suo sguardo con forza. «Il destino dell’intera umanità si decide ora e ci sono solo due modi in cui questa storia può finire. Sta a noi scegliere quale.»
«Ci sarebbe sempre la Florida» obiettò O’Malley.
«Io sto contigo» disse Rodrigo, senza traccia di esitazione nella voce. Gli altri lo guardarono stupiti e lui scrollò le spalle. «Be’, cos’altro dovremmo fare ora che abbiamo los poteros? Voltarci dall’altra parte? Scappare? È nostro dovere, una responsabilidad
I gemelli Svanmör si scambiarono uno sguardo e le loro ali traslucide fremettero.
«Pensi quello che penso io, sorellina?» disse Wilhelm.
«Che è l’occasione di mettere in scena il nostro numero migliore?» replicò Vanja con un sorrisetto. «E quando ci ricapita?»
Jim sorrise loro con riconoscenza e si volse verso Arthur. «Lo so che pensi sia una follia…»
«Ah, al diavolo!» Arthur si sfilò la giacca di velluto nero. «Facciamolo. Ma se vai a raccontarlo a qualcuno giuro che ti sbrano!»
Gli allungò Excalibur e si trasformò in leone in pochi istanti, poi con il muso gli fece segno di montare sulla sua groppa. Jim gli si mise a cavalcioni, reggendo con una mano Excalibur e con l’altra mantenendosi alla sua criniera nella maniera più rispettosa che poté.
«Non sei mai stato una spina nel fianco.»
Stupito, Jim si volse a guardare O’Malley. Era sicuro di aver capito male.
«Be’, pensavo dovessi saperlo» borbottò invece lui, con aria imbarazzata. «Considerando che ti ho cresciuto io, sei venuto su discretamente.»
A suo modo, era la cosa più dolce che Jim avesse sentito da parte sua in tutti quegli anni e gli scaldò il cuore. «Grazie, Maurice.»
Il Folletto sputò a terra e si sfregò le mani. «Bene, diamoci un po’ da fare adesso.»
«Tieniti pronto» disse Jim a Rodrigo. «Ne arriveranno parecchi.»
Il mangiafuoco ammiccò e gli mostrò due pollici in su. «Hasta la vista, chico»
Poi, Jim fece un segno a Vanja e Wilhelm e i due trapezisti si issarono in aria, sbattendo le ali in sincronia perfetta, con un piccolo mulinello di polvere e un ronzio come di vespe.
Infine, Jim sussurrò all’orecchio peloso di Arthur. «Quando sei pronto.»
La risposta del leone fu un ruggito fiero e possente, e con uno slancio si diede alla corsa in direzione della Torre.
Il Vuoto venne loro incontro in pochi attimi, mentre Arthur correva a una velocità impossibile per un essere umano e il terreno sembrava liquefarsi sotto le sue zampe. Il muro d’ombra incombette davanti a loro e sopra di lor,o e presto le orecchie di Jim furono invase dalle grida degli abomini di Lucindra. Un gemito di paura gli palpitò dietro la lingua e strinse le dita intorno all’elsa di Excalibur, augurandosi con tutto il cuore di non stare per trascinare tutti loro verso il suicidio.
Le Creature Vuote riempirono il cielo come uno sciame di cavallette, ma la prima sfera infuocata scagliata da Rodrigo si infranse sul petto della più vicina, abbattendola come una palla di cannone.
Una pioggia di fuoco si levò alle spalle di Jim e Arthur e le creature stridettero di rabbia e sorpresa. Approfittando della loro distrazione, Arthur superò la prima schiera e si tuffò nella Torre.
Il buio li circondò e Jim strinse gli occhi per adattarli alla nuova oscurità. L’aria vibrava di elettricità e, in lontananza, fra le dune di sabbia nera e compatta, baluginavano gli archi di energia lasciati dagli incantesimi di Solomon, Alycia, Isabel, Volkov e forse anche Margot, circondati da uno stormo di Creature Vuote e impegnati a fronteggiare gli Zeloti sopravvissuti. Lampi di luce improvvisi illuminavano le figure in lotta e Jim vide che qualcuno era rimasto a terra, ad alcuni metri da loro.
Gli si strinse lo stomaco dal terrore al pensiero che potesse trattarsi di Alycia, ma non c’era tempo per fermarsi: il loro obiettivo era un altro, e in quel momento stava vorticando oltre le nuvole, dentro uno scrigno di oscurità nerissima e invalicabile come una fortezza.
«Jim!» gridò Vanja dall’alto. «Noi siamo pronti!»
Un altro gruppo di mostri si tuffò verso il basso per fermarli e Arthur ruggì.
A quel punto, anche Vanja e Wilhelm si gettarono in picchiata, sbattendo le ali con foga per arrivare a loro per primi. Mentre Arthur continuava a correre all’impazzata, Jim agitò Excalibur alla cieca, per allontanare morsi e graffi e a un tratto si sentì afferrare da sotto le ascelle, non da artigli ma da mani umane, e Vanja e Wilhelm riuscirono a issarlo in aria, virando leggermente.
E questa era la parte facile…
«Attenti!» gridò Jim, intercettando una terza schiera di Creature Vuote all’attacco. Stavano per entrare in collisione, quando uno dei portali di O’Malley serpeggiò tra loro e le bestie, creando un cerchio di fuoco perfetto.
«Gomiti stretti!» lo avvisò Wilhelm, mentre lui e la sorella lo facevano dondolare avanti e indietro come un'altalena. «Ginocchia piegate…ORA!»
I gemelli lasciarono la presa e Jim fu lanciato nel vuoto.
Il volo sembrò durare un’eternità, come se il tempo avesse iniziato inspiegabilmente a dilatarsi: questo pensò, mentre guardava il luccichio di otto schiere di zanne brillare nel buio, sentiva il fetido puzzo di carne in putrefazione delle creature, e il cuore decollargli in gola…
Non ce la faccio.
Non ce la faccio.
Non ce la faccio.
E invece, ce la fece.
Il portale sfrigolò mentre Jim lo oltrepassava per intero, sfuggendo per un soffio agli artigli delle Creature Vuote. Ruzzolò in avanti e colpì malamente un suolo duro, ricoperto di foglie secche.
Jim si issò sui gomiti e recuperò in fretta Excalibur, che era caduta poco distante.
Non aveva idea di cosa aspettarsi, una volta penetrato all’interno del guscio di Materia Vuota in cui Lucindra si era rintanata, ma non fu del tutto sorpreso nel ritrovarsi all’interno del sontuoso e decadente maniero sul lago in cui l’aveva incontrata per la prima volta.
La sua prigione per diciassette anni. L’unico posto al mondo che la strega avesse mai considerato casa.
In allerta, Jim impugnò la spada con entrambe le mani; la lama leggendaria emanava appena un pallido bagliore, niente a che vedere con la luminosità che sprigionava quando era Arthur a brandirla, ma dopotutto se lo aspettava: non era un lavoro da puri di cuore quello che si apprestava a compiere.
Camminò per i lugubri corridoi del palazzo, custodi di tesori e segreti, di amori impossibili e tradimenti, finché non giunse di fronte a una porta socchiusa.
 Qualcosa scivolò dalle travi marce del soffitto, priva di forma. Jim si fermò, l’elsa stretta nella mano e il respiro che accelerava, mentre guardava la melma nera gocciolare sul pavimento in una lucida pozza di pece, da cui emergevano punte di artiglio acuminate e piume di corvo. La melma gorgogliò, innalzandosi di parecchi metri, e assunse una forma abbozzata, provvista di tre paia di ali e di molti occhi e molte bocche.
«Lily» disse Jim, sorprendendosi di quanto suonasse ferma la sua voce di fronte a una visione del genere. «Fatti da parte, devo parlare con lei.»
Il demone non rispose, ma dalla sua figura informe si sprigionavano basse frequenze ostili, che facevano fremere l’aria.
«So che vuoi proteggerla» disse Jim. «Ma morirà se non si ferma.»
Lilith sibilò e i suoi molti occhi di un verde infuocato si assottigliarono, puntandolo con un fare predatorio che conservava qualcosa di vagamente felino.
Avrebbe potuto ucciderlo in meno di un istante, prima che lui se ne rendesse conto. E perché non avrebbe dovuto farlo? Lui non era più il suo padrone, anzi, non lo era mai stato del tutto. E non era più neanche un mago.
Era meno di zero, un essere insignificante quanto una pulce al cospetto di una divinità millenaria. Ma doveva tentare.
«Per favore» mormorò il ragazzo, guardando nel fuoco verde di quelle iridi. «Lasciami andare da lei. Permettimi di provare a salvarla.»
Un fremito scosse le penne grondanti di pece del demone e ogni muscolo in lui si tese. Poi, lenta come era apparsa, la melma strisciò via lasciando libero il passaggio.
Jim cercò di deglutire ma gli sembrava di avere il Sahara nella bocca. Dopodiché, spinse piano la porta e si ritrovò in una stanza dalle delicate pareti azzurro cielo invasa di giocattoli.
La cameretta di Caliban.
Lucindra era inginocchiata sul pavimento al centro della stanza, con il Codice Oscuro aperto di fronte a sé; tentacoli di oscurità si attorcigliavano attorno alle sue membra, alle ciocche scomposte di capelli, la cui fiamma si era spenta in un bianco argenteo. Anche senza i suoi poteri, Jim riusciva a percepire l’immenso potere che irradiava come se fosse vicino a una fonte di calore, e il campo di energia che la circondava rendeva la sua figura tremolante, come un miraggio tra le dune incandescenti di un deserto. Stringeva tra le braccia quella che sembrava una coperta per neonati.
Sollevò lentamente la testa e Jim inghiottì bruscamente il respiro. Aveva perso un occhio, nella cui orbita cava vorticava un nodo di ombre fumose. Rughe profonde le solcavano la pelle un tempo perfetta, ormai cadente e ricoperta di macchie…
«Ti faccio paura, Attraversaspecchi?» La sua voce debole e rauca graffiò le orecchie di Jim. «O dovrei dire, ex…»
Jim strinse l’elsa della spada e lo stomaco gli si torse. Malgrado tutto, scoprì che vederla in quelle condizioni lo addolorava.
«Puoi ancora fermare tutto questo» sussurrò. «Puoi ancora salvarti.»
Lei emise una risata gracchiante che sembrò provocarle dolore.
«Non c’è mai stata salvezza per me. È per questo che il Vuoto mi ha scelta per compiere la sua opera…»
«Smettila con queste stronzate!» esclamò Jim con rabbia. «Il Vuoto non ha scelto nessuno, non esistono predestinazioni: siamo noi a scrivere il nostro destino, con le nostre scelte!»
«Come quella di rinunciare alla magia?»
Lui esitò. «Fosse dipeso da me, probabilmente non l’avrei scelto» ammise. «Ma ho capito che c’è altro per cui vale la pena vivere.»
Lei lasciò andare un sospiro stanco, tremante. «Una famiglia che ti ama, una vita breve e segnata dalla fatica, ma felice… si è trattato di uno scambio equo, alla fine. Ma io cosa otterrei, se rinunciassi? Quale ricompensa mi spetterebbe dopo tutti i miei peccati?»
Jim fece un passo verso di lei, implorante. «Se non puoi farlo per te stessa, fallo per me! Hai detto che potevamo essere una famiglia, che non saremmo stati mai più soli: resterò con te, sempre, potrai riavere quello che Arcanta ti ha tolto.» La guardò negli occhi, con tutta l’intensità e la disperazione che provava. «Potrai riavere Caliban.»
Lucindra serrò le labbra e il suo unico occhio luccicò. Lo lasciò vagare per la stanza e dopo un momento, disse: «Quando fui imprigionata, creai questa casa per sentirmi meno sola. Gli unici momenti davvero felici li avevo trascorsi qui e inizialmente non era il rudere che hai conosciuto: era splendida, proprio come nei miei ricordi. La prima cosa che avrei voluto fare è stato provare a ricreare anche Caliban.» Scosse lentamente la testa. «Ma per quanto tentassi, non sono mai riuscita a riportarlo indietro. È stato solo allora che ho compreso il mio errore: la parte di me che ho ceduto al Vuoto la prima volta era quella che mi permetteva di donare amore. E nel momento in cui vi ho rinunciato, ho perso per sempre anche la capacità di donare la vita.»
Jim si stupì delle lacrime che gli erano salite agli occhi: lacrime di tristezza, per la maga potente, geniale e caparbia, per la donna sensibile e forte che era stata e che ormai non c’era più. Per il vuoto che aveva creato attorno a sé, per il male che si era autoinflitta, per la sua immensa solitudine.
«Quando accolsi dentro di me questa verità, la casa iniziò a marcire» mormorò Lucindra. «E io insieme a lei. Si può dire che abbia dato forma a una metafora, se ci pensi. Questa stanza è l’unica a non aver subito effetti e non sono mai riuscita a spiegarmi il perché.»
Jim si inginocchiò di fronte a lei, posò a terra la spada. «Lucia...»
Un piccolo sorriso affiorò sulle sue labbra pallide e spaccate. «Piangi per me, Jim? Dopo tutto quello che ti ho fatto, riesci ancora a provare compassione? Vedi, è questa la differenza tra di noi.»  Allungò una mano, lentamente, come se le costasse un’enorme fatica, e si accinse a sfiorargli la guancia. «Tu puoi perdonare.»
Si accorse troppo tardi del pugnale. Vide solo un luccichio, e subito dopo la lama che gli bucava la pancia.
Sgranò gli occhi, succhiò il respiro tra i denti. Cercò a tentoni Excalibur, ma una propaggine oscura spinse la spada lontano, fuori dalla stanza.
Lo shock fu tale che il dolore sembrò arrivare in ritardo, dandogli tutto il tempo di andare nel panico, di strisciare lontano dalla strega stringendosi il ventre con un braccio, e gesticolare con l’altro alla ricerca disperata di un appiglio, di un aiuto che non sarebbe arrivato da nessuna parte…
La macchia scura sulla sua camicia si allargava di secondo in secondo. Le sue mani erano sporche di sangue. Il pavimento era sporco di sangue. Persino i soldatini di stagno sparsi intorno lo erano…
«Credevi sul serio di poter vincere, Jim?» gracchiò Lucindra, issandosi faticosamente in piedi, mentre l’oscurità pulsava e sfrigolava intorno al suo gracile corpo ricurvo. «Volevi essere l’eroe di questa storia? Non c’è misericordia nel mondo dei maghi, nessuna possibilità di espiazione: Blake avrebbe dovuto dirtelo il primo giorno.»
Alla fine, il dolore esplose e gli tolse il respiro. Jim si accasciò a terra, le forze che gli venivano meno e la vista che si riempiva di macchie scure…
«E adesso» sussurrò la strega, sollevando la sua mano nera e scheletrica verso di lui. «Morirai da miserabile Mancante, come tua madre...»
In quell'istante, una massa di oscurità si levò come un'onda alle spalle del ragazzo e piombò su Lucindra. Lei urlò, agitando le braccia magre nel tentativo di allontanarla.
«Lilith!» strillò fuori di sé. «Che stai facendo, maledetta stupida?!»
Ma il famiglio non si fermò e continuò ad aggredirla con i suoi artigli, a sbatterle le tre paia di ali di corvo in faccia, spargendo piume nere e melma dappertutto.
«Ubbidisci!» gridò la strega. «É la tua padrona che te lo ordina!»
«Non sei la sua padrona» rantolò Jim, la bocca piena di sangue. «Anche se si sente affine a te, non ti resterà fedele se non ti guadagni il suo rispetto. E hai tralasciato anche un’altra cosa…»
Allargò il braccio con cui si stringeva la ferita, mostrandole il Libro Nero dalle pagine sgualcite e imbevute di rosso.
L’unico occhio della strega si spalancò come se potesse inghiottirlo per intero. Forse, se fossero stati ancora legati dal vincolo con il Vuoto, che gli aveva permesso di entrare in contatto con Lucindra e conoscere a fondo il suo dolore, lei avrebbe percepito le sue intenzioni. Forse, se non fosse stata così decisa a punirlo per non essere più ciò che lei voleva che fosse, si sarebbe accorta dell’inganno.
Di quel banale trucco. Di quel gioco di prestigio.
«Un bravo illusionista...» Le dita di Jim si mossero leste dentro la manica e ne tirarono fuori un frammento di vetro appuntito, lo stesso che aveva usato poco prima per specchiarsi. «...Ha sempre un asso nella manica!»
E spinse la punta nel cuore del Libro.
Dalla bocca di Lucindra proruppe un grido strozzato.
L’inchiostro nero trasudava dal rivestimento di pelle del Codice Oscuro, come un torrente di sangue infetto. Lucindra gemette, si piegò su se stessa, le dita nere che artigliavano furiosamente il petto da cui si sprigionava un vortice di ombre sottili come filamenti.
Un suono vibrante, come il sospiro di un’immensa bestia, scuoté le pareti della stanza, e un istante dopo Lucindra scomparve, disperdendosi come cenere nel vento.
Jim lasciò cadere il libro e il frammento di specchio e si sdraiò piano sul pavimento, trattenendo un gemito, mentre attorno a lui la stanza continuava a tremare. Fissò l’affresco che decorava il soffitto: un cielo azzurro, piccole nuvole bianche, soffici come pecore al pascolo…
Un senso di pace lo pervase e fu solo vagamente consapevole delle crepe che serpeggiavano lungo le pareti, del pavimento che cedeva, dell’abisso che si spalancava sotto di lui…
Non ricordò molto altro, soltanto brevi sprazzi: la sensazione di cadere, come nel dormiveglia. Un possente battito d’ali. Una voce che gridava il suo nome. Poi, il mondo divenne un luogo molto buio.

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Capitolo 56
*** Quello che rimane - PRIMA PARTE ***



QUELLO CHE RIMANE - Prima parte

 
 
 
  «Ha perso molto sangue…gli servono cure adeguate o non ce la farà...»
«Maledizione, non abbiamo più tempo! Datti una mossa Blake, sono già qui!»
Jim capiva a stento le parole che sentiva.  Non aveva idea di cosa stesse succedendo intorno a lui. Sapeva solo di avere freddo. Molto freddo.
«Jim» parlò una terza voce e nel suo campo visivo comparvero un paio di occhi azzurri e un volto pallido, segnato dall’agitazione. «Guardami, sei già tornato una volta. Puoi farcela di nuovo.»
Le mani di Solomon Blake premevano sul suo addome, rosse, viscide di sangue. Il suo sangue.
Jim lasciò cadere le palpebre, troppo debole per opporre resistenza, per continuare a lottare.
Era così…stanco.
 
 
Quando, dopo molto tempo – giorni? Settimane? Anni interi?  – trovò la forza per riaprire gli occhi, la prima cosa che vide, sopra di sé, fu un soffitto di stoffa leggera, tra le cui fibre consumate filtrava la luce del sole.
Una tenda.
Era disteso su una branda, una vecchia coperta di lana tirata fin sopra il mento e un vago odore di disinfettante misto a sangue che gli stuzzicava il naso. Gli faceva male dappertutto.
Ignorando le proteste di ogni parte del suo corpo, Jim si mise a sedere, ma una brusca fitta allo stomaco lo costrinse a bloccarsi a metà del movimento. Aveva il busto avvolto da bende.
I ricordi gli piombarono addosso tutti in una volta, come una secchiata d’acqua fredda. La Torre Nera…Lucindra…il suo pugnale che gli penetrava nella carne e poi…
Poi il nulla.
Eppure, in qualche modo, era sopravvissuto.
Che cosa è successo?
In cerca di risposte, ispezionò la piccola tenda in cui si trovava: nient’altro che un vecchio baule, una rastrelliera piena di vestiti, un tavolo con sopra la custodia di una tromba e un giradischi portatile e… 
Si accorse con sorpresa di non essere solo. C’era un uomo, seduto accanto al tavolo, immerso nella lettura di un libro. Era nero, alto e magro, con arruffati capelli grigiastri che gli donavano l’aspetto di un vecchio leone. Quando si accorse di essere osservato, alzò la testa e ricambiò il suo sguardo attraverso la penombra.
«Grazie al cielo!» La sua voce roca giunse familiare alle orecchie di Jim. «Ti sei svegliato! Non muoverti, vado subito a chiamare Arthur! Era così in pensiero!»
La mascella di Jim cedette per la sorpresa. Forse non era ancora del tutto sveglio.
«J-Joel?!» Immediatamente, la ferita irradiò una scossa che gli mozzò il fiato.
Joel King si avvicinò e lo spinse piano tra i cuscini. «Non fare movimenti bruschi, o si riapriranno i punti.»
Jim tornò lentamente a sdraiarsi, senza riuscire a credere a ciò che i suoi occhi stessero guardando. Ma il padre di Arthur era proprio là, in carne e ossa: più vecchio di come lo ricordava, di sicuro più sciupato…
«Tieni» disse, porgendogli una tazza di latta ammaccata. «Bevi un po’ d’acqua. Ma fa’ piano, d’accordo?»
Lo aiutò a bere un paio di piccoli sorsi, tenendogli la testa.
«Come è possibile?» domandò subito dopo Jim. «Come hai fatto a tornare umano?»
«Veramente, speravo potessi dirmelo tu. Sei…be’ eri un mago, no?»
«Ero, appunto» disse il ragazzo, cercando di riordinare i pensieri. «Dimmi cosa ricordi.»
«Quando il Grande Buio si è dissolto, mi sono risvegliato a terra» rispose Joel, passandosi una mano priva di due dita tra i capelli. «Sapevo solo di avere paura, di dovermi nascondere…ma poi ho visto Arthur in forma di leone. Quando si è ritrasformato, ho faticato a riconoscerlo, non credevo fosse cresciuto tanto…sai, un leone non percepisce lo scorrere del tempo come noi.»
«Eri tu allora la persona che ho visto a terra» ricordò Jim, facendo mente locale.
«Arthur ha provato a spiegarmi la faccenda del Vuoto e di quell’incantesimo, lo Scambio» disse Joel. «Io confesso di non averci capito molto. Dopo tutti questi anni… è così strano sentir di nuovo parlare di magia!»
«Purtroppo non è materia che ho avuto modo di approfondire» confessò Jim. «L’unica spiegazione che mi viene in mente è che quando ho perduto i poteri anche gli effetti degli incantesimi che ho lanciato siano svaniti.»
In quell’istante, i lembi dell’ingresso si aprirono e Arthur e Vanja entrarono nella tenda.
«Jim!» esclamò Arthur, correndo al suo capezzale. «Non sapevamo se ti saresti più svegliato!»
«State tutti bene?» domandò Jim, preoccupato.
Arthur sorrise, scuotendo la testa. «Noi? Sei tu quello che si è fatto pugnalare!»
Vanja si appollaiò sul lato della branda; indossava un cappotto verde scuro di qualche taglia più grande per coprire le ali ed era molto pallida, con gli occhi arrossati di chi aveva versato una considerevole quantità di lacrime di recente. «E meno male che avevi promesso di non cercare più di farti uccidere.»
«Con questa, direi che ho finito la mia scorta di vite a disposizione.»
In risposta, lei gli mollò un piccolo pugno sul braccio e lui rise e piagnucolò contemporaneamente.
«Vanja, hai sentito il dottore: non deve strapazzarsi» la riprese Arthur. «È passato qualche ora fa a controllare che non avessi febbre. Dot ha fatto del suo meglio per ricucirti, ma dobbiamo stare attenti che la ferita non si infetti.»
Evitò di aggiungere “adesso che non hai più la magia”, ma il senso rimase sospeso nel breve momento di silenzio che seguì.
«Per adesso pensa a rimetterti in forze» intervenne Joel in tono positivo. «Sei a digiuno da giorni! Chiedo a Dot di prepararti qualcosa di buono.»
«Mi sembra un’ottima idea, grazie papà» approvò Arthur.
Joel diede una pacca sulla spalla del figlio e dopo aver sorriso a Jim e Vanja, lasciò la tenda.
«Lui come sta?» domandò Jim a bassa voce, quando rimasero in tre.
«É ancora un po’ scombussolato» rispose Arthur. Si sedette anche lui sulla branda e prese a giocherellare coi fili tirati della coperta. «Come tutti noi, del resto, ma è bello riaverlo qui. Ha difficoltà coi piccoli problemi pratici, tipo radersi o allacciarsi le scarpe, e per il momento preferisce dormire per terra accanto al mio letto, ma immagino gli serva solo un po’ di tempo…e che Dot non cuocia troppo i suoi hamburger.»
Jim si sistemò meglio sui cuscini, mugugnando ogni volta che la ferita protestava.
«Che cosa è accaduto laggiù?» domandò ai suoi amici. «Ricordo solo che ho pugnalato il Codice Oscuro, che Lucindra si è trasformata in polvere e poi…»
«Anche la Torre Nera è scomparsa» rispose Arthur. «E con essa tutti i mostri. Nessuno però aveva idea di dove fossi…poi, il Famiglio di Lucindra è atterrato in mezzo a noi: pensavamo che ci avrebbe attaccati, e invece, ci ha portato te, ferito ma vivo.»
Su quelle parole, una piccola ombra nera balzò agilmente sul letto, si stiracchiò e gli zampettò vicino, miagolando.
«Lilith» fece Jim. «Mi hai salvato la vita!»
La gatta-demone strusciò il suo corpo caldo e morbido contro di lui, riempiendolo di fusa.
«Hai scelto me, alla fine» disse Jim con un sorriso, facendole i grattini dietro le orecchie. «Sono contento che siamo tornati amici.»
«Eri ridotto male» riprese Arthur. «Avevi perso un sacco di sangue…Blake è riuscito a fermare l’emorragia, ma non c’è stato tempo per medicarti, quelli di Arcanta erano già lì e…»
Il sorriso di Jim svanì e alzò di scatto la testa. «Cosa? La Cittadella ha mandato qualcuno? Chi?»
«Un ometto coi capelli blu e una donna con gli occhi dorati» disse Vanja. «É successo poco dopo che hai raggiunto Lucindra: hanno aiutato a combattere contro le Creature Vuote e gli Zeloti, ne hanno catturati alcuni. Poi sono arrivati dei vecchi seriosi con le tuniche nere…»
Jim si sentì torcere dentro. I Decani… «Un momento, che ne è stato di Solomon? E di Alycia e Isabel…?»
«Non lo sappiamo» rispose Vanja, mestamente. «Blake ha ordinato a Maurice di aprire un portale e metterti al sicuro, ma non ha voluto sapere dove fossimo diretti. Siamo accampati appena fuori Jacksonville da tre giorni, abbiamo raggiunto il resto della compagna. Ma non ce la siamo sentita di ripartire, finché non ti fossi ripreso.»
Jim tacque, mentre la terribile verità gli sprofondava dentro come un sasso. Tre giorni. Tre giorni dalla battaglia, tre giorni dalla fine di tutto… e chissà cosa era successo nel frattempo al suo maestro. Lo avevano portato ad Arcanta? Messo in prigione? Quale punizione gli spettava per aver infranto per l’ennesima volta la Legge, per averlo protetto? Era stato di nuovo costretto a rinunciare alla sua famiglia…?
Era un bugiardo, un narcisista maniaco del controllo e sì, sapeva essere veramente uno stronzo…ma tutto quello che Jim era, tutto ciò che aveva imparato, e alla fine, persino la propria vita… lo doveva soltanto a lui.
«Dovevo restare» disse piano, stringendo i pugni sulla coperta. «Mostrare ai Decani che non sono più una minaccia per Arcanta! Ero l’unica prova che Solomon aveva per dimostrare la sua innocenza e adesso…»
«Jim» lo interruppe Arthur. «Poteri o no, non sappiamo cosa ti avrebbero fatto e Blake non avrebbe mai corso il rischio di trascinarti nei guai con lui. E poi, è sempre l’Arcistregone dell’Ovest, no? Se la caverà.»
Un nodo doloroso gli serrò la gola. “Sei stato un buon amico.”
«Lo spero.»
 
*
 
 
«Spero che tu sappia quello che stai facendo, Blake.»
Della Torre Nera non restavano che radi residui di oscurità, impigliati nel cielo color indaco come brandelli di stoffa. Poche Creature Vuote svolazzavano ancora sopra le loro teste, smarrite; Alycia sentiva l’eco dei loro lamenti e aveva visto alcune dirigersi verso la boscaglia in cerca di riparo dai raggi del sole, ma di lì a poco sarebbero svanite, esattamente come tutto il resto, tramutandosi in cenere.
Cenere e sangue…ecco cosa rimaneva della Grande Opera di Lucindra.
Quanto ad Alycia, era solo vagamente consapevole di ciò che stesse accadendo intorno a lei. Era in ginocchio, le mani coperte del sangue di Jim e tremava.
“Vivrà” le aveva promesso suo padre, la voce roca, provata dalla battaglia e dallo sforzo di strappare ancora una volta il suo allievo dalle braccia della morte. “Ma finché Arcanta gli darà la caccia, non sapere dove si trovi è il solo modo che abbiamo per tenerlo al sicuro. Lo capisci?”
Alycia aveva scacciato via le lacrime e il dolore che le scavava dentro e aveva annuito.
Vivrà. Era la sola cosa che importava.
Lasciarlo andare era un prezzo duro da pagare, ma necessario.
Dopotutto, Jim aveva ragione: non esisteva un lieto fine per la loro storia.
Coi vestiti sgualciti e impregnati di sangue, Solomon Blake si rimise in piedi, mentre Wiglaf li raggiungeva in volo con un paio di possenti battiti d’ali, nella sua luminosa forma demoniaca.
Volkov zoppicò verso di lui. «Che hai intenzione di fare adesso?»
Solomon non rispose. Attese che il famiglio riassumesse le sembianze di un corvo e si sistemasse come al solito sulla spalla destra del padrone, gracchiando qualcosa al suo orecchio.
«Una e Macon erano impegnati a combattere gli Zeloti, non si sono accorti di Jim» apprese. «Ma presto saranno qui. E anche i Decani.»
Boris aprì la bocca e ad Alycia si bloccò il respiro.
«Significa che hanno scoperto tutto?» chiese l’Arcistregone del Nord.
«Oh, era solo questione di momenti, suppongo» replicò Solomon con voce perfettamente calma.
Alycia, al contrario, era nel panico: era stata lei a rivelare la loro posizione alla Cittadella, nella speranza di ricevere un aiuto dalla sua gente…
E ora, avrebbero catturato suo padre.
«Dovevi oltrepassare il portale insieme a Jim!» gli disse con voce concitata, la mente che lavorava a tutta forza per trovare una soluzione. «Puoi ancora scappare, nasconderti! Ti copriamo noi, ci inventeremo qualcosa…»
«Sarebbe inutile» replicò Solomon, rivolgendole un lieve sorriso. «Una scoprirebbe dove mi trovo in un baleno. E voi sareste condannate per tradimento.»
«Ci cancelleremo la memoria!» ritentò Alycia, disperata. «Provvisoriamente, proprio come Margot ha fatto con Jim! Papà, non sei costretto ad affrontarli.»
«Devo, invece» replicò lui. Si sorresse al bastone con una leggera smorfia quando piegò la gamba, e Alycia si accorse che anche lui sanguinava copiosamente. «Se fossi scappato, vi avrebbero messe tutte e due sotto custodia finché non mi fossi fatto vivo. E poi, te lo avevo promesso, ricordi? Una volta liberato Jim, avevo tutte le intenzioni di costituirmi.»
«Per i Fondatori!» esclamò Alycia, atterrita. «Non starai facendo tutto questo per quella stupida promessa?! Papà, chi se ne frega! Preferisco saperti ricercato che prigioniero!»
«Lo sto facendo perché sono stanco di scappare» replicò lui, calmo ma incalzante. «E perché è giunto il momento che mi prenda le mie responsabilità.»
Spaventatissima, Alycia cercò aiuto da sua madre, ma lei non provò a dissuaderlo. Lo guardò negli occhi, col suo sguardo luminoso e fiero, e si posizionò al suo fianco. «Allora, affronteremo anche questa prova insieme. Come una famiglia.»
Intrecciò le dita con le sue, palmo contro palmo. Solomon strinse forte la sua mano e sorrise.
«Io continuo a pensare che sia una pazzia!» fu il burbero commento di Boris.
«È un po’ tardi per farsi venire ripensamenti» disse Solomon, guardando un punto nel cielo di fronte a sé. «Sono già qui.»
Una carrozza nera grande come una locomotiva, trainata da due maestosi velodraghi dorati, si stava facendo strada nel cielo tra i banchi di oscurità residua, per atterrare in pompa magna in mezzo al campo.
Quando le porte si aprirono da sole, ne emersero dieci maghi avvizziti, avvolti in lunghe tuniche nere e svolazzanti. Le loro espressioni severe, tuttavia, stavolta avevano ceduto posto all’incredulità e adesso guardavano lo spettacolo che si presentava loro davanti come un branco di scolaretti smarriti.
«Allora è tutto vero» esalò saggio Antinoo, il più anziano, piegando il collo magro all’insù per guardare quel che rimaneva della Torre Nera. «Il Vuoto…si è liberato!»
L’unico che non sembrava impressionato era uno stregone con una barba bianca curata in modo ossessivo e occhi azzurro chiaro come il ghiaccio.
«Bene» esordì sprezzante, guardando fisso Solomon.  «Sono sicuro che ci sia una valida spiegazione per tutto questo, Blake.»
«In effetti ho molte spiegazioni da dare, Inquisitore» rispose Solomon, in tono amabile. «E sono pronto a seguirvi senza fare storie. A patto che nessuno tocchi mia moglie e mia figlia.»
Nel riconoscere Isabel, i Decani sgranarono gli occhi, esterrefatti.
«Che storia è questa?» domandò immediatamente il Primo Alchimista del Cerchio d’Oro, Melkisedek. «Credevamo fosse morta durante la Guerra Civile!»
«Sono stata fatta prigioniera» rispose Isabel. «Dalla nostra comune nemica, Lucindra Sforza. E senza mio marito non sarei riuscita a scappare.»
Le espressioni dei Decani erano sempre più confuse e scioccate e saggio Elijah dava l’impressione di essere sul punto di svenire: evidentemente erano verità troppo sconvolgenti da digerire tutte insieme.
«Anche questa è una storia che intendo raccontarvi» disse Solomon, paziente. «Sempre se rispetterete le mie condizioni. Sono certo che possiamo risolvere la cosa da gentiluomini.»
Blackthorn quasi gli rise in faccia. «Non sei nella posizione di avanzare richieste. Tutta la tua famiglia è complice dei tuoi crimini!»
«Mia moglie è rimasta diciassette anni confinata nel Vuoto» ribatté Solomon, accigliandosi appena. «E quanto ad Alycia...ha solo avuto la sfortuna di avere me come padre.»
Quando Alycia fece per obiettare, lui la precedette: «Mi assumo ogni responsabilità per le sue azioni: non avrebbe mai agito contro Arcanta se non l’avessi plagiata.»
«Questo non è vero…!» protestò subito Alycia.
In quel momento, Macon Ludmore e Una Duval atterrarono in mezzo a loro, le aure pulsanti di energia.
«Gli ultimi ribelli sono stati catturati» disse l’Arcistrega dell’Est, bellissima e terribile nella sua tenuta da battaglia imbrattata di sangue. «Sono pronti per essere interrogati.»
«Non tutti» obiettò l’Inquisitore e indicò Solomon, Alycia e Isabel con un gesto teatrale. «Arrestateli, tutti e tre: verranno giudicati per alto tradimento e cospirazione contro Arcanta!»
Macon e Una si scambiarono un’occhiata perplessa, ma non fecero obiezioni.
Sulla spalla di Solomon, Wiglaf emise un grido stridulo e sventolò le ali in segno di avvertimento e Alycia si parò davanti a suo padre con le mani pronte a scattare.
«Non fate sciocchezze voi due» ordinò lo stregone. «Andrà tutto bene. Fidatevi di me.»
A malincuore, Alycia si ritrasse.
Macon tossicchiò, in evidente imbarazzo e si mosse verso Solomon, che ricambiò il suo sguardo senza traccia di ostilità.
«Lo so, amico mio» disse, allungando docilmente i polsi. «Nessuno dei due pensava che sarebbe finita così.»
Macon sospirò, malinconico. «Se mi avessi detto cosa stavi combinando, ci saremmo fatti arrestare insieme forse.»
«La prigionia non ti si addice» replicò Solomon con un sorriso. «Poco divertimento e un sacco di sensi di colpa.»
«Vediamo di fare in fretta» incalzò l’Inquisitore.
Macon tracciò due cerchi in aria e i polsi di Solomon finirono stretti da resistenti anelli di acciaio alchemico.
Una Duval si teneva in disparte, con le braccia conserte e lo sguardo d’oro liquido che vigilava sui prigionieri, mentre Boris Volkov assisteva alla scena con espressione combattuta, pallido sotto lo strato di sangue e sporcizia che imbrattava la sua barba.
«E adesso: parlate!» abbaiò l’Inquisitore Blackthorn, posando il suo sguardo feroce su tutti e tre. «Dove sono l’Eretica e quel suo Plasmavuoto, James Doherty?»
«Non lo sappiamo» soffiò Alycia, guardandolo in cagnesco.
Blackthorn interrogò con lo sguardo Una Duval. La ragazza entrò in tensione quando percepì gli artigli mentali della maga insinuarsi nella sua testa, scavando tra i suoi ricordi, ma intercettò il muto ammonimento di suo padre e fece del suo meglio per non opporre resistenza.
Terminata la sua analisi, Una sbatté le palpebre e rispose: «Non lo sa per davvero.»
«Ah, certo!» fece Blackthorn. «Sì, molto astuto! Allora, rispondete a questa domanda e vi conviene essere sinceri! Eravate a conoscenza della profezia sul ritorno dell’Eretica?»
«Oh, andiamo» intervenne Macon, derisorio. «Inquisitore, non crederà mica alle profezie adesso? È roba da Vecchio Mondo!»
Un borbottio si diffuse tra i Decani.
«Un momento» disse Saggio Ling Feh, inarcando un sopracciglio. «Di quale profezia stai parlando, Blackthorn?»
Blackthorn avvampò. «Si tratta di una mera tattica di propaganda! Ma so da una fonte attendibile che l’Eretica ha raccolto a sé i propri seguaci grazie a…»
«Fonte?» domandò allora Melkisedek. «Hai una fonte, Tibor? In nome dei Fondatori, da quanto tempo eri a conoscenza di questa storia?»
«Be’, avevo dei sospetti» si affrettò a specificare Blackthorn, che da rosso era velocemente sbiancato. «Così, visto lo strano comportamento di Blake ho iniziato a indagare…»
«E non hai pensato che forse sarebbe stato il caso di consultarci?» lo riprese duramente saggio Rashid, basso, scuro e con un ricco turbante in testa.
«Io…stavo solo cercando di evitare inutili allarmismi…»
«Allarmismi?!» scattò a quel punto Alycia, incredula. «Santo cielo, vi ho inviato dozzine di richieste d’aiuto in questi giorni! Ci avete ignorati completamente!»
Melkisedek sembrava basito quanto lei. «Non abbiamo ricevuto alcuna richiesta d’aiuto! Abbiamo scoperto cosa stava succedendo qui solo perché i genitori di alcuni allievi della Corte delle Lame sostengono di non avere loro notizie da giorni!»
Sempre più sbalordita, Alycia fissò l’Inquisitore. Adesso tutto le era chiaro. «È stato lei! Lei ha intercettato le nostre richieste d’aiuto!»
I Decani spostarono i loro sguardi sbigottiti su Blackthorn e molti si incupirono e scossero la testa.
«Tzé, degna figlia di suo padre!» sbottò l’Inquisitore, stizzito. «Anche con le spalle al muro prova a rigirare la frittata in suo…»
«Miss Duval» disse Melkisedek, assottigliando lo sguardo. «La prego di fare un po’ di chiarezza.»
Una fissò intensamente l’Inquisitore e Alycia vide con soddisfazione la sua fronte imperlarsi di sudore. Se solo Jim fosse stato lì ad assistere!
«Miei saggi fratelli» balbettò Blackthorn, agitato. «James Doherty è un pericoloso Plasmavuoto e la figlia di Blake una ricercata che ha gettato scompiglio ad Arcanta e derubato i laboratori della Cittadella! Perché avrei dovuto prendere sul serio le loro parole?»
«Perché se avesse dato loro ascolto, centinaia di Mancanti innocenti sarebbero ancora vivi!» intervenne Boris Volkov con fredda collera, cogliendo tutti di sorpresa.
«Volkov, tu come mai sei qui?» inquisì Melkisedek, stupito. «Eri al corrente delle indagini dell’Inquisitore?»
«Certo: ero io la sua fonte di informazioni.»
Il Primo Alchimista era costernato. «E di grazia, perché hai deciso di agire alle nostre spalle?»
«Ho agito su precise istruzioni dell’Inquisitore» rispose Volkov. «Da mesi osservo Blake per suo conto con l’obiettivo di scoprire se stesse o no proteggendo il Plasmavuoto di cui parlava la profezia, ma non voleva che questa storia giungesse alle vostre orecchie: suppongo, per tenere nascosta la sua parentela con James Doherty, che altri non era che suo nipote.»
La rivelazione suscitò una serie di esclamazioni sorprese e bisbigli da parte dei Decani, e Blackthorn si sistemò la toga, sempre più nervoso: tutt’a un tratto, sembrava lui quello sotto accusa.
«Ma non è tutto» proseguì Boris, alzando appena la voce per farsi sentire sopra il brusio. «Ho ricevuto l’incarico di catturare Blake e il suo allievo ed eliminare lui e Lucindra Sforza prima che la voce si diffondesse. Ho coinvolto nell’impresa dieci valorosi guerrieri della Corte delle Lame. Nessuno è sopravvissuto.»
I Decani impallidirono, alcuni si portarono le mani alla bocca, sconvolti.
«Tutto questo ha dell’assurdo!» disse Melkisedek, massaggiandosi la tempia. «Discuteremo del tuo operato alla Cittadella, Blackthorn. Quanto a te, Blake: è vero che hai dato protezione a un Plasmavuoto per tutto questo tempo?»
«È vero» confermò Solomon, candidamente.
«E lo hai addestrato come tuo allievo?» chiese saggio Ling Feh, impressionato.
«Oh, corretto anche questo» rispose lo stregone. «E devo aggiungere che finora si è dimostrato il mio allievo più promettente.»
«Perché?» chiese Melkisedek, allargando le braccia. «Davvero io non riesco a capire, Blake: abbiamo sempre riposto la massima fiducia in te, sei l’eroe della Guerra Civile! Quali erano le tue intenzioni?»
«Distruggere Arcanta, è ovvio!» tuonò l’Inquisitore. «Blake non è mai stato ciò che ci ha fatto credere! É avido, corrotto! L’unico motivo per cui si è sbarazzato dell’Eretica durante la Guerra Civile è stato per poterne prendere il posto!»
«Sarebbe stato indubbiamente facile» ammise Solomon. «Confesso di aver sempre accarezzato l’idea di una rapida scalata al potere e con l’ultimo Plasmavuoto al mondo ai miei ordini lo avrei ottenuto in un pomeriggio.»
«Ma non lo hai fatto» disse Melkisedek. «Perché?»
«Ho compreso che esistono cose più importanti.» Fece un cenno verso Alycia e Isabel. «E che tutti meritano una seconda occasione. Anche un ragazzo venuto al mondo col peso di un potere enorme e che non ha mai voluto.»
I Decani ammutolirono. Melkisedek aggrottò le sopracciglia e cercò conferma da Una Duval, che si limitò ad annuire. «Dice il vero.»
«Be’ ma questo è del tutto irrilevante!» abbaiò Blackthorn furioso. «Ha infranto almeno una dozzina di leggi…!»
«Ha impedito all’Eretica di mettere le mani sul ragazzo per prima» replicò Volkov con voce dura, guadagnandosi uno sguardo stupito da parte di Solomon. «Se non lo avesse preso sotto custodia, a quest’ora nessuno di noi sarebbe qui a discutere!»
Blackthorn scoppiò a ridere. «Non ci sono prove che lo dimostrino!»
«C’è la mia testimonianza» intervenne una voce.
Tutti si volsero, in allerta. Era Zora Sejdić, l’indovina che nel circo era conosciuta col nome di Margot: malgrado recasse anche lei i segni della battaglia, la donna avanzò in mezzo a loro con la consueta classe, fermandosi di fronte ai Decani.
«La Dama Velata» disse Melkisekek. «Ho sentito parlare di te, eri tra i fedeli dell’Eretica, il suo oracolo.»
«E l’artefice della profezia» rispose la donna. «Per anni ho portato avanti i piani della mia signora sotto copertura, in modo da potermi impossessare del Plasmavuoto quando era bambino. L’ho tenuto con me per anni, finché Blake non ha trovato il modo di sottrarmelo.»
«Tutto molto interessante» affermò Blackthorn con voce piatta. «Ma che ne è stato di Lucindra Sforza? E del Plasmavuoto? Chi li sta nascondendo?»
Zora sollevò il mento, fissandolo dritto negli occhi. «Si sono distrutti a vicenda. Non è rimasto più niente di loro.»
Da sotto il mantello di seta nera, estrasse qualcosa e lo porse ai Decani: un libro dalla copertina di pelle logora, recante un foro al centro, luccicante di melma nera. «Eccetto, questo.»
I Decani strabuzzarono gli occhi dalla sorpresa, alcuni addirittura indietreggiarono spaventati.
Persino Melkisedek esitò, poi prese il Codice Oscuro tra le mani come se scottasse. «Impossibile…è andato distrutto!»
«Ho custodito il grimorio della mia padrona» disse Zora. «E la sua arma, in attesa del suo glorioso ritorno.»
Calò il silenzio.
Melkisedek si scambiò uno sguardo esaustivo col resto dei saggi, dopodiché borbottò: «Bene, immagino che la faccenda sia risolta. Liberate i prigionieri.»
«Cosa?» ruggì Blackthorn. «Che significa?»
«Significa» disse il Primo Alchimista. «Che Solomon Blake ha fornito ancora una volta un grande servizio ad Arcanta. Cosa che non possiamo dire di te, Inquisitore.»
«Ma…ma io…cosa?»
«Hai mentito a tutti noi, tenuto segrete informazioni preziosissime per Arcanta» disse il Decano, freddamente. «E permesso che sangue magico puro venisse versato inutilmente. Se Blake non avesse impedito alla profezia di compiersi, probabilmente il Vuoto ci avrebbe uccisi tutti.»
«Oh, ma è ridicolo!» gridò Blackthorn, fuori di sé. «Non vi berrete davvero questo mucchio di menzogne! È Solomon Blake! Lui mente sempre, lo sapete benissimo!»
«Miss Duval?»
La maga fece spallucce. «Nessuna menzogna è stata pronunciata da Blake in mia presenza.»
«Ma..!»
«Bene, mi fa piacere che abbiamo risolto tutto in modo veloce» concluse Macon, battendo le mani: subito, gli anelli attorno ai polsi di Solomon, Alycia e Isabel svanirono. «Ho lasciato i miei allievi soli soletti a far baldoria alla Corte dei Miraggi e solo i Fondatori sanno cosa troverò al mio rientro!»
«E io devo tornare dalle mie ragazze» aggiunse Una Duval. «Con permesso.»
«Un momento!» protestò Blackthorn, gli occhi fiori dalle orbite. «Non potete liquidare la cosa in questo modo! James Doherty non è morto, ve lo posso assicurare! Lo stanno nascondendo! È tutta una farsa..!»
Ma i Decani si stavano già dirigendo verso la loro carrozza, continuando a parlottare tra loro.
«Ah, signorina Blake» disse Melkisedek, voltandosi a guardare Alycia. «Mi è giunta voce dei tuoi recenti esperimenti sull’Anthea. E sull’antidoto alla Materia Vuota.»
Alycia sostenne lo sguardo con aria di sfida. «Ebbene?»
«Sarebbe interessante discuterne. Di questo e di come sei riuscita a eludere con tanta facilità la sicurezza dei nostri laboratori: evidentemente c’è qualcosa che non funziona e inizio a pensare di aver fatto male ad affidarli a Octavio. La sua arroganza avrebbe potuto costarci caro.»
Alycia era così sbalordita che per un attimo si ritrovò a boccheggiare. Deglutì forte, imponendosi di ritrovare l’autocontrollo. «Io…ehm, bene. Ci penserò.»
Intanto, Blackthorn non la smetteva di fissare lei e suo padre con tutto il disprezzo di cui era in grado.
«Sappiate che non finisce qui» sibilò, quando il resto dei Decani fu abbastanza lontano. «Avrai ingannato quei vecchi idioti, ma io so che razza di uomo sei, Blake! E giuro sui Fondatori che stanerò quel piccolo bastardo che hai tanto a cuore, dovessi rivoltare ogni buco di questo mondo corrotto! E quando l’avrò trovato, lo distruggerò come ho fatto con la cagna che lo ha dato alla luce!»
Alycia era semplicemente inorridita da tanta crudeltà. Solomon, invece, gli rivolse un lieve inchino.
«Allora, le auguro buona fortuna, Inquisitore» disse, ma i suoi occhi erano schegge di vetro. «Ma la avverto: sottovalutare suo nipote è sempre un grave errore.»
La risposta del mago fu un ringhio inferocito e voltò loro le spalle.
Solomon invece guardò Zora, ai cui polsi erano apparsi due anelli d’acciaio.
«Perché lo hai fatto?» domandò, prima che fosse condotta alla carrozza.
Lei sorrise. «Tu non hai mai creduto nel destino, Solomon Blake, me lo dicesti anche la prima volta che ci incontrammo. Ma io continuo a non essere d’accordo: ognuno di noi gioca un ruolo in un disegno ben più grande. Avrei solo voluto capire prima quale fosse il mio. E poi…» guardò verso la carrozza trainata da draghi e sospirò. «Ho vissuto lontana dal mondo dei maghi per tutta la vita, vedere Arcanta è sempre stato un desiderio nascosto. Finalmente potrò realizzarlo.»
Macon e Una la portarono via, ma prima di congedarsi, Alycia credette che l’Arcistrega dell’Est le avesse fatto l’occhiolino.
Volkov si avvicinò, zoppicando.
«Torno ad Arcanta anche io: ho il dovere di informare la Corte delle Lame e le famiglie dei miei allievi di quello che è accaduto qui oggi.»
Solomon aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma l’altro lo interruppe con un gesto ruvido.
«Chiudi il becco! Ho fatto solo il mio dovere, anche io ho la mia buona dose di responsabilità in quello che è accaduto. Che sia chiara una cosa.» Gli puntò un dito contro, fissandolo torvo. «Continui a non piacermi. Ma non posso mettere in dubbio che tu sia un ottimo mago. E che abbia fatto un buon lavoro con quel ragazzo, dopotutto.» Il suo sguardo si posò su Isabel, sospirò e aggiunse: «Chissà, magari mi sbagliavo anche sul fatto che fossi un pessimo marito.»
«Boris…» iniziò Isabel.
«No no, lascialo fare» disse Solomon. «Mi sto abituando a tutti questi complimenti!»
Boris roteò gli occhi con esasperazione, prima di rivolgersi ad Alycia:
«Non hai bisogno che ti dica di avere cura di te, mi hai dimostrato di esserne perfettamente in grado» le disse. «Ma tieni tuo padre fuori dai guai, va bene? Sono vecchio per continuare a giocare a guardia e ladri.»
Alycia sorrise. «Ci proverò. Grazie, maestro.»
Lo stregone annuì e si congedò da lei con un lento e solenne inchino, da soldato qual era sempre stato.

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Capitolo 57
*** Quello che rimane - SECONDA PARTE ***



QUELLO CHE RIMANE - Seconda parte



 
Big wheel keep on turnin'
Proud Mary keep on burnin' 
And we're rollin'
Said we're rollin', we're rollin' on the river...

Proud Mary -
Creedence Clearwater Revival 

 
 
 



L’appezzamento era in fermento quella mattina, in vista della partenza imminente.
Bisognava darsi una mossa: ad appena una settimana dal trasferimento della compagnia a Jacksonville iniziavano a fioccare lamentele dalla gente del posto, per niente contenta di avere una tendopoli di vagabondi alle porte della loro città. Un contadino voleva denunciarli dopo aver beccato un gruppetto di scimpanzé a banchettare nel suo frutteto e una mattina lo sceriffo era venuto ad avvisarli che il loro grizzly, Bruno, era stato avvistato a rovistare tra i cassonetti sul retro di un ristorante. Per fortuna, Arthur era riuscito a convincere lo sceriffo a non piantargli una pallottola nel cranio e il povero e spaventatissimo Bruno a seguirlo docilmente al circo.
«Abbiamo recuperato la maggior parte degli animali» gli aveva raccontato con voce stanca, mentre Jim era ancora allettato. «Ma senza operai è più difficile del previsto.»
Oltre alla gestione del serraglio, c’erano altri problemi urgenti da risolvere: fare scorta di cibo, rimediare un mezzo di trasporto adeguato alle loro esigenze, organizzare il viaggio, assumere nuovo personale.  E soprattutto, tenere alla larga le compagnie rivali, interessate a spolpare quel che restava del Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley.
Gli era stato riferito che i Fox Brothers si erano fiondati come avvoltoi appena si era diffusa la notizia dei loro guai, e che le imprecazioni di Maurice si erano sentite ad almeno un miglio di distanza. Alla fine, i Fox erano stati visti scapicollarsi fuori dalla tenda del direttore terrorizzati, e il Folletto venir fuori col fucile carico in braccio.
Il settimo giorno di convalescenza, Jim si sentiva abbastanza in forze per accompagnare Arthur in giro per l’accampamento: il clima caldo della Florida gli aveva fatto bene dopotutto, e voleva rendersi conto coi propri occhi della situazione.
C’era un gran andirivieni, gli artisti si aiutavano gli uni con gli altri a smantellare le proprie tende, sigillare casse, riunire gli animali. Tutti si dimostrarono felici di vedere Jim in piedi e lui lo fu altrettanto nel ritrovarli in salute, chi più chi meno: Rodrigo era rimasto ferito a un piede durante la battaglia e se ne andava in giro con l’aiuto di una stampella e Wilhelm esibiva una cicatrice sulla guancia destra che invece di imbruttirlo conferiva un'aria da duro alla sua algida bellezza. Quando non c’erano occhi indiscreti in giro, lui e Vanja svolazzavano per il campo per dare una mano e Frank si offriva sempre di sobbarcarsi i lavori più pesanti. Ma la vera sorpresa per Jim, fu scoprire che era sempre supportato da Valdar.
«Sei stato qui tutto il tempo?» gli aveva chiesto, stupito, quando lo trovò a issarsi in spalla grossi sacchi di frumento.
«Voi bisogno di aiuto» borbottò l’orco, che aveva cercato di camuffarsi alla bene e meglio coprendosi il volto con una barba finta e le orecchie appuntite con un berretto di lana. «E Valdar saldato suo debito con Solomon Blake: ora ne ha uno nuovo con Jim.»
Il ragazzo scosse il capo. «Quando la finirai con questa fissa di dover ripagare debiti a destra e a manca? Resta solo se lo desideri, ok?»
L’orco ci pensò. «Gente qui molto strana.»
«Su questo non c’è dubbio.»
«E Dot non cucina tanto bene.»
«Sì, ma eviterei di dirglielo se non vuoi finire nel suo spezzatino.»
«Sono tutti diversi» concluse, grattandosi la testona sotto al berretto. «Ma a nessuno importa: Valdar forse può trovarsi bene.»
Quella risposta era piaciuta molto a Jim.
«Ottimo» disse, porgendogli la mano. «Benvenuto in famiglia allora!»
Salutato l’orco, i due amici proseguirono il giro. Lilith li seguiva in forma di gatta o di corvo, mentre Arthur parlava di come stavano organizzando la partenza, ma l’umore di Jim si era improvvisamente spento; era stato felice di rincontrare Valdar, ma allo stesso tempo, vederlo gli aveva fatto tornare in mente che non avrebbe potuto mettersi in contatto coi Blake, sapere cosa era accaduto al suo maestro. E, cosa più straziante di tutte, che non avrebbe mai più rivisto Alycia…
Si sforzò in tutti i modi di respingere quei pensieri, di non soffermarsi sul dolore per ciò che aveva perso e di concentrarsi, invece, su quanto gli era stato donato e sul futuro.
«Abbiamo trovato un nuovo treno» lo stava informando Arthur nel frattempo. «Cioè…è una vecchia ferraglia, ma dovrebbe andar bene. Credo che Maurice si sia già scelto la carrozza più bella come ufficio.»
«Oh, a proposito» disse Jim. «Dov’è finito? Non l’ho ancora visto.»
«Da quando ha fatto scappare i Fox si è fatto vedere poco» replicò Arthur. «Fa lunghe passeggiate nel bosco, da solo. Ma è venuto a trovarti tutti i giorni quando eri incosciente. L’ho visto anche piangere al tuo capezzale!»
«Impossibile.»
«Aveva gli occhi tutti rossi.»
«Probabilmente era solo ubriaco.»
«Cercate Maurice?» s’intromise Archie il nano, passando loro accanto con un fagotto in spalla. «Ha detto che vi vuole tutti e due nel suo ufficio. Di corsa, anche.»
I ragazzi si scambiarono un’occhiata perplessa.
«Ci risiamo» sospirò Jim. «Vorrei proprio sapere che ho combinato stavolta!»
Trovarono un vagoncino dalla scorticata verniciatura verde con sopra un cartello scritto a mano che segnalava: DIREZIONE.
Jim bussò due volte, ma non ottenne risposta.
«Maurice?» chiamò, ma dall’altra parte ci fu solo silenzio. «Senti, lo so che per colpa mia hai subito un sacco di danni, ma ho un buco nella pancia! Ti sembra il caso di farmelo pesare?!»
«La porta è aperta» notò Arthur.
Varcarono la soglia e trovarono il vagone vuoto, fatta eccezione per un tavolo sbilenco, due sedie e una credenza.
«Che significa?» fece Arthur. «Secondo te è una specie di scherzo?»
Jim aveva forti dubbi. Il Folletto non era mai stato un mattacchione.
Sopra il tavolo, trovò una busta da lettere verde sigillata, la raccolse e la aprì. «È un messaggio di Maurice.»
Arthur si avvicinò, sempre più confuso. Jim scorse il contenuto con la fronte aggrottata e, riga dopo riga, si sentì travolgere da un’ondata di tristezza. «Lui…se n’è andato.»
«Cosa!?»
Jim si schiarì la voce. Aveva la gola arida. «È un messaggio di addio.»
«No!» fece Arthur, scuotendo la testa. «È impossibile!»
Spiazzato quanto lui, Jim lesse ad alta voce:
 
«Cara ciurmaglia e cari Jim e Arthur,
quando troverete questa lettera, io avrò già aperto un portale e starò sorseggiando un Cuba Libre ghiacciato su una spiaggia caraibica.
Lo so cosa state pensando: quel figlio di puttana di un folletto ci ha mollati col culo per terra e se l’è squagliata, come al solito!
Bene, lasciate innanzitutto che vi tranquillizzi su un paio di cosette: il milioncino di Blake è tutto vostro, l’ho nascosto sotto le assi del vagone in cui vi trovate. Sono vostri, usateli per riportare in vita questa vecchia baracca, per trasformarla nel più spettacolare degli spettacoli, una roba di cui la gente parlerà per generazioni!
Quanto a me, ultimamente ho capito diverse cose. Prima fra tutte, che, come direttore, sono stato terribile.
Ho messo me stesso e i soldi sopra il benessere della compagnia e fatto delle scelte pessime, che hanno avuto ripercussioni su tutti voi. Ho ridotto il povero Joel King a uno schiavo e avrei fatto lo stesso anche con te, Arthur, pur di guadagnare. Quanto a Jimmy, avrei dovuto darti più ascolto e comprensione, ragazzo, essere un padre prima che un datore di lavoro.
Quindi, cosa farà ora il vecchio Maurice? Girerà il mondo, si godrà la pensione (e un piccolo gruzzolo che ha tenuto per sé, come liquidazione eh eh!), forse tornerà in Irlanda e si metterà sulle tracce della sua stirpe. E chissà, un giorno si troverà anche una moglie come si deve!
So che ad alcuni questa notizia scioccherà, ma non disperate! Sono sicuro di lasciarvi in ottime mani…»
 
Jim si interruppe. Rilesse tre volte le ultime righe, per essere sicuro di non aver frainteso. Poi, deglutì e sollevò lo sguardo su Arthur.
«Allora?» incalzò l’amico, ansioso. «Cosa dice?»
«Ecco, forse è meglio se prima ti siedi…»
«Cristo, non tenermi sulle spine! Non avrà deciso di lasciare il circo ai Fox Brothers alla fine?!»
«No, Artie» rispose Jim. «Ha deciso di lasciare il circo a te
Arthur si bloccò. Dopo un lungo momento, si umettò le labbra e sussurrò: «C-che cosa hai detto?»
«È tutto scritto qui» disse Jim, sventolando la lettera. «C’è anche l’atto di proprietà firmato…»
Arthur quasi gli strappò i fogli dalle mani e vi immerse la faccia. Continuò la lettura, la voce che inciampava:
 
 «…Nelle mani di una persona che avrà cura di tutti i componenti di questa grande famiglia, animali compresi, senza alcuna distinzione. Arthur, hai dimostrato di essere un giovane laborioso, di avere realmente a cuore il benessere della compagnia e di essere un buon amico per il mio figliastro. Abbi cura di lui e di tutti gli altri, diventerai un uomo degno di rispetto e un grande direttore.
 
Che Dio vi benedica.
 
Maurice R. O’Malley.»
 
«È impazzito» disse Arthur alla fine, con voce strozzata. «Ha perso il nume della ragione!»
Jim invece era raggiante. «E bravo Maurice, questa non me l’aspettavo!»
«Come fai a trovarlo divertente?» Arthur aveva una faccia disperata. «Ti rendi conto del guaio in cui ci ha messo?»
«Oh, ma dai! Hai sentito, no? Abbiamo un milione di dollari per tirare avanti!»
«Ti preoccupi dei soldi?» fece Arthur, sbalordito. «Io non posso fare il direttore, Jim! Ho solo diciott’anni! Non so nemmeno da che parte cominciare..!»
«Nemmeno Maurice aveva esperienza quando ha cominciato» gli ricordò Jim. «Se togli i furtarelli e gli imbrogli…»
«A mio padre verrà un infarto!»
«Tuo padre sarà orgoglioso, come sempre.»
«È tutto sbagliato.» Arthur sembrava sul punto di vomitare. Cercò a tentoni una sedia, vi si accasciò e si prese la testa tra le mani. «È una cosa troppo grande per uno come me, non posso accettare!»
Jim gli si inginocchiò vicino. «Te la caverai benissimo. E poi, non sarai solo, ti daremo una mano noi! Siamo una famiglia, no?»
Arthur sollevò piano la testa. «Potresti farlo tu! Sei il figliastro di Maurice!»
«Io?» replicò Jim, ironico. «Nah, le responsabilità non fanno per me. E poi, lo hai detto tu: sei nato su questo treno, conosci cosa significhi lavorare tra gli ultimi, ami gli animali e non permetterai a nessuno di maltrattarli. Sai meglio di chiunque di cosa il circo ha bisogno: ha ragione Maurice, sei la persona più indicata.»
Arthur sospirò, afflitto. «Sarà una catastrofe.»
«Non essere così pessimista.»
«Jim, proprio non ci arrivi?» esclamò Arthur. «Sono nero! Chi vorrà venire in un circo gestito da un nero? Maurice ci ha rovinati!»
«Ci verranno» replicò Jim, facendosi subito serio. «Perché metteremo su il più grande spettacolo che si sia mai visto in America e il pubblico ci adorerà. E se qualcuno dovesse farti storie per il colore della pelle…be’, abbiamo un demone, un orco, l’uomo più forte del mondo, due elfi, un piromante e due leoni mannari: sfido chiunque a mettersi contro di noi!»
Arthur deglutì forte. Poi, lentamente annuì. «D’accordo, ci proverò.»
«Così mi piaci!»
«Ma solo a una condizione» disse Arthur, fissandolo negli occhi. «Saremo soci, chiaro? Non mi butto in questa cosa se non ci sei tu al mio fianco.»
Jim gli rivolse un sorrisino storto. «Un mago senza magia? Non so quanto possa essere utile nel tuo circo…»
«Non dire sciocchezze!» sbottò, Arthur, accigliato. «Hai sconfitto la strega più potente del mondo con un trucco! Se questo non fa di te il miglior illusionista sulla piazza!»
«Ho avuto solo fortuna.»
«E poi, adesso abbiamo tutti poteri che non sappiamo controllare» proseguì Arthur, inamovibile. «Ci ammazzeremo a vicenda senza qualcuno che ci insegni a usarli. Sei l’unico qui che abbia studiato la magia: perciò, tu resti, chiaro? Sono il direttore, quindi consideralo un ordine!»
Jim si mise a ridere. Si alzò in piedi, batté i tacchi e gli offrì un profondo inchino.
«Come desiderate, maestà! Sarò la voce dietro il trono, il vostro fidato Mago Merlino!»
Arthur roteò gli occhi al soffitto. «Quando la finirai con questa storia?»
«E visto che sono ufficialmente il consigliere reale» aggiunse Jim, con una strizzatina d’occhio. «Suggerirei un aumento per il vostro mago, sire.»
A quel punto, Arthur si sciolse finalmente in una risata. «Lo prenderò in considerazione!»
 
*
 
 
In tutta la sua lunghissima vita, a Solomon Blake era capitato poche volte di viaggiare per nave.
Non gli piaceva l’idea di allontanarsi troppo dalla terraferma e, malgrado la sua magia, la vastità del mare aperto e la sua volubilità gli incutevano sempre un primordiale timore. A onore del vero, molti anni prima si era ritrovato a governare un veliero nei Caraibi, e considerando che era in corso un arrembaggio, non si può dire che se la fosse cavata male.
Ma stavolta sarebbe stato diverso. Stavolta, si sarebbe goduto la traversata e tutti i comfort che la RMS Mauretania aveva da offrire, prima che riportasse la sua famiglia in Inghilterra.
Era l’inizio di un nuovo anno, di un capitolo ancora da scrivere, di un’opportunità per lasciarsi alle spalle gli orrori del passato e guardare al futuro.
Mentre il maestoso transatlantico si preparava a lasciare il porto di New York, Solomon aveva passeggiato con l’inseparabile Wiglaf sulla spalla, osservato i passeggeri che si aggiravano infreddoliti sul ponte e scambiato chiacchiere col capitano.
Poi si era messo in cerca di sua moglie.
La trovò al Verandah Café[1], seduta di fronte a una tazza di tè a forma di tulipano, e con una copia del New York Times aperta tra le mani.
«È sorprendente» commentò quando lo sentì avvicinarsi. «Ho trascorso nel Vuoto nemmeno vent’anni e il mondo è cambiato così tanto!»
Solomon prese posto di fronte a lei e un cameriere si materializzò all’istante per prendere la sua ordinazione.
«Conosci i Mancanti» replicò Solomon, dopo aver ordinato un tè anche per lui. «Sono instancabili: sentono sempre il bisogno di dedicarsi a qualcosa, che sia una guerra o un’invenzione rivoluzionaria, l’importante è darsi da fare. In questo li ho sempre ammirati.»
Isabel annuì, la fronte lievemente aggrottata mentre scorreva le notizie.
Il cameriere portò a Solomon il suo tè e mentre lo sorseggiava, lui si concesse un momento per contemplare sua moglie nella chiara luce del giorno.
Alycia aveva passato buona parte della mattinata a farle provare vestiti e acconciature nella suite al Plaza che occupavano ormai da una settimana; la loro prima settimana insieme, come una famiglia, trascorsa tra shopping, visite ai musei e spettacoli a Broadway. Solomon, orologio alla mano, aveva brontolato che la nave sarebbe salpata nel giro di un paio d'ore, ma le loro risate erano una musica dolcissima per le sue orecchie e non aveva fatto troppo il pignolo.  Alla fine, avevano optato per uno stile che si addicesse alla personalità di Isabel: caschetto alla Luise Brooks e tailleur in tweed, alleggerito da una cravatta sbarazzina e da un cappellino a cloche.
«Mi sono persa così tante cose» sospirò con un velo di malinconia, mettendo da parte il giornale. «Il mondo è andato avanti, gli uomini hanno vissuto le loro vite, Alycia è già una donna e io…io mi sento come un pesce fuor d’acqua.»
«Ti serve solo un po’ di tempo» disse Solomon. «Tornare a casa ci farà bene: potrai dedicarti all'alchimia, riprendere da dove le nostre vite si sono interrotte, da dove il nostro matrimonio…» Lasciò in sospeso la frase, guardandola con incertezza. «Sempre…sempre se è quello che vuoi, naturalmente.»
Isabel lo fissò negli occhi, in silenzio.
«Non mi aspetto che tutto torni come prima» borbottò lui. «E neanche che i tuoi sentimenti siano rimasti gli stessi…»
Lei continuò a tacere.
«Quello che sto cercando di dire» ritentò lui, in difficoltà. «È che voglio che tu ti senta libera di rifiutarmi, se…»
Isabel si allungò sul tavolino, lo afferrò per la giacca blu doppiopetto e lo baciò. Un bacio vero, appassionato, forse un tantino audace per quel contesto…e che, com’era da aspettarsi, attirò molti sguardi, qualche sorriso malizioso e diversi borbottii di disapprovazione.
Nessuno dei due se ne preoccupò.
Quando lo lasciò andare, Solomon schiarì la voce. «Non ci sono più abituato.»
Isabel sorrise. «La traversata sarà lunga, abbiamo tutto il tempo per fare pratica.»
Sentendosi ancora un po’ sottosopra, lui ricambiò, consapevole dell’aria poco intelligente che doveva dimostrare in quel momento.
Poco dopo, Isabel si volse verso il ponte. «Le hai parlato?»
Solomon seguì il suo sguardo: Alycia era affacciata al parapetto, i riccioli neri mossi dal vento. Guardava lontano, immersa nei suoi pensieri, mentre la baia innevata, con i suoi grattacieli e la Statua della Libertà, si dissolveva già nella foschia.
«Non ancora.»
«Dovresti» replicò sua moglie. «Non avremo più molte occasioni, una volta a Liverpool: il controllo dei Decani in Europa è più stretto che in America.»
Solomon tergiversò, rigirandosi tra le dita l’orologio. «Pensi che debba farlo io?»
«Sei suo padre» disse Isabel. «E la conosci meglio di me, è giusto che sia tu.»
Lui annuì e lasciò la veranda.
«Melkisedek si aspetta una risposta» disse, affiancando sua figlia, mentre Wiglaf volava in cerchio sulle loro teste. «Sono giorni che ci tartassa di messaggi: hai intenzione di accettare la sua offerta?»
Alycia sospirò, attorcigliando intorno al dito una piccola ciocca di capelli bianchi, nascosta sotto la criniera corvina. «Non lo so ancora.»
«Io li lascerei a cuocere nella loro pozione un altro po'» suggerì lo stregone. «La Cittadella è lì da mille anni, non va da nessuna parte. Prenditi tutto il tempo che ti occorre.»
«Secondo te dovrei accettare? Tornare al Cerchio d’Oro?»
«Be’ sarebbe un peccato rifiutare» rispose lui. «Considerando quanto impegno ci hai messo. E poi, è solo grazie al tuo antidoto se avrò davanti ancora molti anni da vivere.»
Lei annuì, pensierosa.
«D’altro canto…» proseguì Solomon.
Lei gli rivolse un’occhiata da sopra la spalla.
«Nella vita ci si può rendere conto che le cose che abbiamo sempre ritenuto importanti non lo siano così tanto alla fine. E scoprire che la felicità si nasconde in posti impensabili!»
«Cosa stai cercando di dire, papà?»
Solomon infilò una mano sotto la giacca e ne tirò fuori una busta verde, sigillata.
«È arrivata stamattina» disse, porgendola ad Alycia. «Ce la manda un comune amico.»
La ragazza si rigirò la lettera tra le mani, confusa: nessun francobollo, nessun mittente, eccetto il disegno di un quadrifoglio.
«Non so di preciso cosa contenga» disse Solomon. «E per la sicurezza di una certa persona è meglio che non lo sappia, finché l’Inquisitore continuerà la sua crociata. Ma sono abbastanza sicuro che vi sia indicata una destinazione.»
Alycia incrociò il suo sguardo, la bocca dischiusa.
«Raggiungilo» disse Solomon, con un sorriso. «Ma fa’ in fretta, ho il sospetto che anche lui sia in partenza.»
Alycia aveva già le lacrime agli occhi. «Ma…tu? E la mamma? Ci siamo appena ritrovate, come posso lasciarla..?»
«Avrebbe voluto dirtelo lei stessa questa mattina, ma suppongo non volesse rovinare il momento che stavate trascorrendo insieme» rispose lui. «È la donna più intelligente che conosco, capirà.»
Sopraffatta dalle emozioni, Alycia guardò Isabel, che sorrideva e annuiva seduta al bar.
«Hai trovato la felicità, Alycia» disse Solomon. «Non lasciartela sfuggire o lo rimpiangerai per tutta la vita.»
Lei emise un suono a metà tra una risata e un singhiozzo e lo stritolò in un abbraccio. Lui la strinse forte a sé, sentendo che la sua convinzione già iniziava a venir meno…
Era giusto che lei percorresse la sua strada. Che seguisse i suoi desideri. Che avesse una vita piena di avventura, scoperte e di amore…
«Per voi ci sarò sempre» mormorò tra i suoi capelli. «Basta un solo indizio e io vi troverò.»
«Grazie, papà. Ti voglio bene.»
Si separarono. Alycia prese un istante per asciugare le lacrime e ricomporsi alla meglio, mentre Isabel gettava un incantesimo in modo che l’attenzione dei Mancanti fosse deviata altrove. Infine, con la lettera stretta tra le mani, Alycia corse decisa incontro a una delle vetrate del Verandah Café, lucide come specchi, e si tuffò con tutto il corpo nel proprio riflesso.
 
**
 
 
 
«Tutti in carrozza! Iiiiin carrozzaaaaa!»
Un lungo fischio risuonò per tutto il convoglio.
Mancavano quindici minuti alla partenza: gli ultimi bagagli erano stati caricati, gli animali già sbuffavano nei loro vagoni e la locomotiva eruttava vapore sulla banchina, mentre i ritardatari si affrettavano e salire sul treno prima della chiusura delle porte. Tra loro, c’era un giovane coi capelli candidi accompagnato dappertutto da una gatta nera.
Aveva posseduto diversi nomi in passato, e altrettante identità, ma sentiva che nessuno di essi ormai gli calzava più e al momento non ne aveva nessuno. Ma non sarebbe sempre stato così. Presto ne avrebbe trovato uno nuovo di zecca, proprio come la nuova vita che lo attendeva...
«Avanti, Vanja!» incalzò, mentre aspettava che la bionda trapezista lo raggiungesse trascinandosi dietro l’ennesimo baule. «Sbrigati o restiamo a terra!»
«Provaci tu a correre con questi tacchi! Dammi una mano piuttosto!»
Il ragazzo sbuffò, mentre issavano insieme il baule sul predellino e si domandava se Vanja avesse deciso di portarsi dietro tutti i sassi della Florida…
Lilith iniziò a tirargli l’orlo del pantalone con la zampina, per attirare la sua attenzione. Il ragazzo si voltò.
«Ecco fatto» disse Vanja. «Be’, ti muovi o no?»
Lui non rispose. Stava guardando fisso di fronte a sé, attraverso i vapori fuligginosi che invadevano il marciapiede. Non riusciva a spiegarselo, ma era sicuro di aver sentito qualcosa scattare, come una sensazione di riconoscimento, in un luogo lontano e dimenticato dentro di lui …
Dai vapori emerse una figura vestita di chiffon azzurro, che camminava sorridendo lungo il binario, reggendo in mano una valigia.
Il cuore del ragazzo ebbe un balzo. «Mi hai trovato!»
«Ho saputo che siete diretti in Canada» disse Alycia, con un cenno al treno. «Vado lì anch’io: ho sentito parlare di una rara specie di alberi capaci di resistere alla gravità. Ti secca se approfitto di un passaggio?»
Stordito ma felice, lui si aprì in un enorme sorriso. «Sei arrivata giusto in tempo! Ma devo avverti, sarà un viaggio lungo…»
«Troverò il modo per non annoiarmi.»
«E poi» continuò il ragazzo senza nome, accorciando la distanza che li separava. «Saremo costretti a fare sosta a Los Angeles, San Francisco, Chicago e poi Boston: ti toccherà girare con me tutti i locali più alla moda e ballare fino all’alba. Credi di poter resistere?»
«Mi conosci» disse lei. «Non dico mai di no a una sfida.»
Lui rise e Alycia rubò la risata direttamente dalle sue labbra, perché le distanze tra loro erano state annullate e le parole ormai non servivano più: un treno si apprestava a partire, un’avventura per iniziare e una nuova storia per essere scritta.
 
 
FINE (?)
 
 
Cari amici e lettori!
Con questo capitolo, si chiude ufficialmente questa storia!
Malgrado la stesura abbia avuto una storia un po' travagliata,
 sono abbastanza soddisfatta del risultato e spero di essere riuscita a intrattenervi e chissà, a farvi anche emozionare durante la lettura!
Io di sicuro mi sono divertita un mondo, tanto che sicuramente tornerò a rimettere mano anche al prequel "The White Crow"!
Restate sintonizzati per ulteriori aggiornamenti e come al solito, invito chi lo desidera a lasciare una traccia del proprio passaggio, anche se piccola piccola per uno scrittore è sempre fonte di grande gioia e appagamento!
Un abbraccio e un buonissimo inizio 2023 a voi e Famigli!

Passo e chiudo 

Zob
.


 

[1] Bar collocato sul lato sinistro del ponte del Mauretania: consentiva ai passeggeri di sedersi all'aperto ed essere protetti contemporaneamente dalle intemperie.
 

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Capitolo 58
*** Quando il circo arriva in città ***



CAPITOLO "POST CREDITS"

 QUANDO IL CIRCO ARRIVA IN CITTÀ 
 
 
 
Quattro anni dopo…
 
 


Secondo i più, l’autunno era la stagione migliore dell’anno per godersi il New Jersey: i boschi si vestivano di caldi toni rossi e oro, e le temperature permettevano ai giovani di concedersi un ultimo bagno nel lago e intrattenersi fino a tardi al pub del paese.
A Tom Doherty, però, l’autunno infondeva sempre una gran malinconia, motivo per cui cercava di riempire il più possibile le sue giornate. Non che il lavoro mancasse alla fattoria, questo era sicuro: il mais era dorato al punto giusto ed era ora di raccoglierlo, così come i cavoli, le carote e le patate nell’orto. Bisognava arare i campi, seminarli, sistemare la stalla per l’inverno, tagliare la legna e metterla a seccare…
Tutte attività che avrebbero tenuto la sua mente occupata, impedendo ai ricordi dolorosi di farsi strada nel suo cuore. O almeno, se lo augurava. Se lo augurava ogni anno.
Quella mattina, Gandalf era particolarmente su di giri: mentre Tom si preparava il caffè in cucina, non aveva fatto che correre intorno al tavolo, scodinzolare e abbaiare a qualcosa fuori dalla porta.
Sebbene il suo compito principale fosse fare la guardia, oltre che badare al bestiame, il vecchio pastore inglese dal lungo pelo grigio era sempre stato un pelandrone, il che si sposava perfettamente con l’indole tranquilla di Tom. Eppure, qualcosa o qualcuno lo aveva messo in agitazione.
Allarmato, Tom aveva scostato le tende e sbirciato all’esterno, ma il vialetto rischiarato dalle prime luci era deserto. Forse aveva fiutato una volpe.
Non se n’era più preoccupato fino a che non era uscito di casa per andare al lavoro, notando che qualcosa sporgeva dalla cassetta della posta.
Due biglietti per il circo.
Tom sollevò il cappello e si grattò la testa. Non si era nemmeno accorto che fosse arrivato un circo in città. Ma erano davvero per lui? E chi mai li aveva lasciati?
Chiunque fosse, aveva commesso un errore: ormai da parecchi anni, lì ci viveva soltanto Tom, sempre che al giorno d’oggi non fosse imposto di pagare il biglietto pure ai cani. Perplesso, intascò i due biglietti e raggiunse la sua Ford.
La giornata si trascinò lenta come al solito. A mezzogiorno, Tom mangiò il suo sandwich all’ombra della solita quercia, lasciando a Gandalf gran parte del prosciutto e sfogliò qualche pagina di un romanzo che aveva acquistato quell’anno: Lo Hobbit, una strana storia che parlava di regni lontani, nani guerrieri, stregoni amichevoli e draghi a guardia di tesori.
Prima di rincasare, fece un salto ad Avalon per comprare la vernice con cui avrebbe imbiancato la staccionata nel weekend. All’entrata del ferramenta, c’erano due signore che parlavano del circo:
«Ci siamo passati davanti stamattina: Tony ha fatto il diavolo a quattro, ho dovuto trascinarlo in lacrime fino a scuola!»
«Anche il mio Charlie non vede l’ora di andarci! Steven ha promesso di portarcelo questo sabato.»
«Sono dei piccoli ricattatori!»
Entrambe si misero a ridere e anche Tom non riuscì a trattenere un sorriso. Un ricordo dolce e straziante si insinuò in lui a tradimento, il ricordo di un ragazzino imbronciato, con arruffati capelli rossi uguali ai suoi, che pestava i piedi sul pavimento della cucina piagnucolando: “Voglio andare al circo! Ci vanno tutti, perché io no? Non mi porti mai da nessuna parte!”
Il mio James…
Quella volta aveva ceduto alla sua richiesta e James si era divertito un mondo: aveva fatto una scorpacciata di schifezze, riso di fronte ai clown che si lanciavano torte in faccia, battuto le mani alle prodezze del domatore di belve feroci, sgranato gli occhi per gli acrobati che volteggiavano sul trapezio …
Aveva vissuto un assaggio di vita vera, una vita che gli era stata negata troppo a lungo…e, quello stesso giorno, gli era stato strappato via per sempre.
Un senso di soffocamento gli afferrò la gola, lo sentì risalire fino agli occhi, facendo affiorare le lacrime contro la sua volontà. Inutile rivolgersi alla polizia, inutili i manifesti sparsi per ogni città della contea.  Così come lo era stato affidarsi alla solidarietà dei compaesani, alle ricerche nei boschi fino a tarda notte, al peregrinare nel New England, nella speranza che qualcuno gli fornisse un indizio su cosa fosse accaduto a suo figlio…
Pagò la vernice e uscì dal negozio.
Appena lasciato il paese, iniziò a piovere a dirotto; Tom guidò con prudenza lungo la strada coperta di fango e sul ciglio notò un’auto ferma e una donna che cercava invano di coprirsi la testa con la borsa.
Gandalf prese subito ad abbaiare e a fare le feste. Tom fermò il furgone.
«Grace! Santo cielo, che ti è successo?»
«Oh, ciao Tom!» La donna sorrise, malgrado fosse letteralmente zuppa: era esile e piccola di statura, i capelli biondi incollati al viso. «Stavamo tornando a casa…ma ho paura di aver forato!»
Da dietro il finestrino dell’auto in panne, fece capolino una ragazzina di sei anni con le treccine, che lo salutò allegramente.
«Ma c’è anche Lizzie!» disse Tom, ricambiando il saluto. «Saltate su, vi do un passaggio. Una volta a casa potrai chiamare il carro attrezzi.»
«Sei veramente un angelo, grazie!»
Grace Warren – o la vedova Parrish, come ormai la chiamavano tutti – insegnava alla scuola elementare ed era la sua vicina: lei e il marito John avevano comprato sette anni prima il ranch dei Winchester, quando il vecchio Colm era andato a stare dai figli a New York.
Due anni dopo la nascita della piccola Elizabeth, però, John si era gravemente ammalato e non era riuscito a superare l’inverno. Da allora, Grace aveva cercato di tirare avanti, sobbarcandosi la responsabilità di crescere sola la figlia, lavorare e cercare allo stesso di far fruttare la terra.
Tom l’ammirava molto, per questo si offriva sempre di darle una mano se poteva: lui, senza più sua moglie e suo figlio e lontano dalla propria patria, conosceva bene la solitudine.
Lungo la strada, chiacchierarono amabilmente come al solito: del raccolto, dei progressi di Lizzie in matematica, delle marachelle dei bambini a scuola…
«Sono tutti eccitati per l’arrivo del circo» disse Grace. «Pare non si sia mai visto uno spettacolo del genere, non da queste parti, almeno. E le ragazze sono già tutte innamorate dell’illusionista!»
«Sembra che ormai non si parli d’altro» borbottò Tom. «Voi ci andrete?»
«Mamma dice che il biglietto costa troppo» rispose Lizzie, un pelo amareggiata.
«Tesoro, lo sai che i lavori al ranch hanno la priorità quest’anno» replicò sua madre. «Altrimenti non lo comprerà nessuno.»
Tom esitò. «Hai…ehm, hai già avuto qualche richiesta?»
«Un tale di Filadelfia è interessato: abbiamo parlato solo per telefono, ma sembra un signore a modo.»
«Bene» replicò Tom, ma dentro di lui avvertì una fitta di disagio. Era da mesi che ne parlavano: col passare degli anni e a causa della Crisi, Grace si era convinta di non essere più in grado di gestire la proprietà e aveva deciso di venderla.
“Col ricavato potremo trasferirci a Trenton” gli aveva spiegato, mentre prendevano il tè da lui. “Io continuerei a insegnare e Lizzie avrebbe da parte abbastanza soldi per il college.”
Tom aveva ammesso a malincuore che sembrava la soluzione la migliore per il futuro della bambina.
“La vita qui mi è sempre piaciuta” aveva commentato poi Grace, con un sospiro triste. “Ma da sola è diventata dura. L’unica cosa da fare è andarmene…be’, a meno che non trovi un valido motivo per restare.”
Tom a quel punto aveva sentito l’impulso di fare qualcosa di folle, di afferrarle la mano e implorarla di ripensarci…ma era riuscito a trattenersi prima di combinare un disastro e annegare qualunque sciocchezza stesse per dire dentro la sua tazza.
Grace negli anni era diventata importante nella sua vita, più di quanto volesse ammettere… ma non voleva farsi illusioni: poteva aver frainteso la sua gentilezza per qualcos’altro, qualcosa che forse era solo nella sua testa…dopotutto, quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva corteggiato una donna?
Dopo la morte di Abigail, il suo cuore si era rifiutato di aprirsi ad altre relazioni: lei era stata il suo primo amore, il suo miracolo, un barlume di speranza durante la Guerra…e quando se n’era andata, anche la luce aveva abbandonato per sempre il suo mondo.
Ma Grace era stata in grado di restituirgli il sorriso dopo anni e Lizzie era la bambina più dolce che esistesse: che fosse arrivato il momento di concedersi una seconda occasione? Di essere di nuovo felice…?
«…dice che tutti quegli ettari gli fanno gola» stava raccontando intanto Grace, riportandolo bruscamente alla realtà. «Ma lo preoccupa lo stato in cui si trovano i terreni. Angus fa del suo meglio ma è anziano, non ce la fa a occuparsi di tutto da solo…»
«Perché non l’hai detto subito?» fece Tom. «Ti aiuto io, che problema c’è?»
«Ti ringrazio Tom, sei sempre troppo generoso con noi. Ma avrai già il tuo daffare, non oserei addossarti altro lavoro…»
«Posso passare questo sabato» ribatté lui, forse con un po’ troppo slancio. Sentì le orecchie scaldarsi e balbettò: «Sempre se…se non hai già dei programmi, è chiaro.»
Lei arrossì. «Be’, no.»
«Così mamma potrà mettere il vestito a fiori che le piace tanto» s’intromise Lizzie, con un sorrisetto. «Non vedeva l’ora di fartelo vedere…»
«Lizzie!» esclamò immediatamente Grace.
Tom sentì subito un sorriso idiota affiorare, ma non disse niente.
Giunsero alla proprietà dei Parrish quando aveva smesso di piovere.
«Grazie ancora per il passaggio» disse Grace, scendendo dall’auto. «Come si dice, Lizzie?»
«Grazie Tom!» disse la bambina e dopo aver coccolato un altro po’ Gandalf seguì la madre verso casa.
Tom le guardò allontanarsi, poi si ricordò di cosa avesse nella tasca e gridò: «Aspettate! Ho qualcosa per voi!»
Le due tornarono indietro e Tom porse a Grace i due biglietti trovati quella mattina. «Qualcuno me li ha lasciati per sbaglio nella cassetta della posta.»
Lizzie era fuori di sé dalla felicità. «Andiamo al circo! Andiamo al circo, vero, mamma?»
«Oh, Tom, grazie!» Grace lo guardò, il bel viso leggermente arrossato e domandò con una vocina sottile: «Perché…perché non ci accompagni? Ci farebbe piacere!»
Lui si sentì andare nel panico. «Oh, io…io ti ringrazio, ma non è un lusso che posso permettermi…e poi ho lo steccato da riverniciare, le grondaie da pulire e…»
«Ah» fece lei, con aria delusa. «Sì, certo, capisco. Non preoccuparti.»
Imbarazzato, lui sollevò il cappello in segno di saluto e mise in moto, ma a un tratto Grace esclamò: «Un momento! Possiamo usare noi due i biglietti! In questo caso ci verresti?»
«E Lizzie?» fece Tom, meravigliato.
Grace gli rivolse un gran sorriso: «Qui c’è scritto che i bambini sotto i sette anni entrano gratis!»
 

Sabato mattina, Tom indossò il completo riservato alla messa domenicale, indugiò in bagno più tempo di quanto fosse abituato a fare e poi, puntuale come un orologio svizzero, passò a prendere Grace e Lizzie.
Lungo la strada c’era molto traffico e tutti erano diretti nella stessa direzione, al grande prato di fronte al lago dove il circo aveva piantato le tende. Trovarono un gran numero di automobili parcheggiate e una folla rumorosa ed eccitata a fare la coda alla biglietteria; quando notò che molti, grandi e piccoli, indossavano maschere mostruose, Tom realizzò che doveva essere il giorno di Halloween.
«E io non ho nemmeno il costume!» brontolò Lizzie, ma si accorsero che erano state messe a disposizione di chiunque ceste piene di travestimenti a tema: Grace prese un cappello da strega per sé e per Lizzie e offrì un mantello a Tom, che indossò di buon grado.
Iniziava però a essere genuinamente curioso e allungò il collo sopra la moltitudine di teste: vide svettare una quantità impressionante di tendoni dalle forme e le dimensioni più variegate, verdi, rossi e oro, sovrastati da un’insegna enorme e luminosa come un faro:
 
IL GRAN GALÀ DELLE MERAVIGLIE DEI FRATELLI KING
 
Fortunatamente, la coda procedeva veloce e nel giro di pochi minuti furono al botteghino, dove un omone a dir poco gigantesco staccava i biglietti.
«Accidenti! Bel costume, amico!» commentò un ragazzo davanti a loro e Tom dovette riconoscere che, con quella pelle grigio-verdastra, le orecchie a punta e le zannone, il bigliettaio era davvero spaventoso. Malgrado il suo aspetto, offrì loro un sorriso gentile e regalò a Lizzie un lecca-lecca a forma di zucca.
Non appena messo piede nel cortile, Tom non riuscì a trattenere un “oh” di sorpresa: quel posto sembrava una città.
Ovunque i suoi occhi si posassero erano sopraffatti da un caleidoscopio di forme e colori: tutto era in movimento, le insegne a neon che lampeggiavano, i grappoli di palloncini colorati che fluttuavano dappertutto e poi lanterne di carta che illuminavano il dedalo di sentieri tra i tendoni.
Chioschi di cioccolata calda aromatizzata, zucchero filato, caramelle e leccornie varie erano disseminati qua e là e c’era un’infinita gamma di attrazioni tra cui scegliere. Gli indecisi potevano comunque godere delle performances dei numerosissimi artisti che si esibivano tra la folla: un uomo dai baffoni a manubrio aveva sollevato un furgone con una sola mano e poco più avanti una folla si era riunita in cerchio per assistere all’esibizione di un ragazzo ispanico sulle cui dita guizzavano fiammelle vive. Una grande galleria invece ospitava una serra piena di piante così strane che Tom dubitava fossero vere: i bambini si rincorrevano ridendo in mezzo a funghi giganti, si dondolavano sulle liane o facevano lo scivolo sulle radici di un enorme baobab rosa. La cosa più stupefacente però fu quando incrociarono una tigre a spasso tra la folla, come fosse la cosa più normale al mondo…per poi rendersi conto che non si trattava di una vera tigre, ma…
«É una macchina!» esclamò Lizzie.
Ce n’erano altre che scorrazzavano per l’accampamento, giraffe, dromedari, ippopotami e persino un elefante: automi di metallo e bulloni, ma identici in tutto e per tutto ad animali veri, di cui non videro traccia.
Vi era però una pista da ballo, di fronte a un gazebo illuminato dove una piccola orchestra suonava jazz; il direttore era un signore distinto, nero, con arruffati capelli grigi che lo facevano somigliare a un leone.  Mentre ascoltavano la musica e guardavano i ballerini, Grace trasalì e indicò qualcosa in alto. «Oh, cielo! Tom, guarda!»
Lui alzò la testa e vide un ragazzo e una ragazza bellissimi che si libravano sopra la folla come se stessero nuotando nell’aria: gli strascichi scintillanti dei loro costumi sembravano code di cometa.
«Come fanno?» domandò Lizzie, tirandogli la manica. «Come fanno a star su, Tom?»
«Be’…» fece lui, senza sapere cosa risponderle. Non gli era sembrato di scorgere fili o ganci a cui potessero essere appesi.
Per fortuna, Lizzie era così presa da ciò che aveva davanti da non pretendere a tutti i costi una risposta, ma bisognava tenerla d’occhio in mezzo a quella confusione, visto che saltellava da una parte all’altra come un grillo…
«Lizzie, non correre!» la sgridò sua madre. «Guarda, hai anche perso il cappello..!»
«Signorina» disse una voce dietro di loro. «Le è caduto questo.»
Si trovarono di fronte un giovane afroamericano, con indosso una redingote bordeaux abbinata a una camicia inamidata, a un paio di pantaloni neri e a un cilindro ornato di frange dorate. In mano reggeva il cappello da strega di Lizzie.
«Grazie, signore» disse timidamente la bambina. Il giovane sorrise e sollevò il cilindro educatamente.
«Spero che stiate trascorrendo una piacevole serata» disse poi, rivolto a Tom.
«Oh, sì!» fece lui, improvvisamente a corto di parole. Possibile che si trovasse di fronte il direttore? Sembrava così giovane! «La ringrazio, signor…»
«King» rispose il ragazzo, allungando la mano guantata di seta. «Arthur King. É un onore conoscerla di persona, signor Doherty.»
Lui si tese all’istante. «Un momento, come sa il mio nome?»
«Lei è l’ospite d’onore» rispose King, ammiccando. «E se posso darle un suggerimento: la nostra coppia di illusionisti si esibirà tra pochi minuti, sono sicuro che apprezzerà il loro numero.»
Tom non ci stava capendo niente. «Allora è stato lei a lasciarmi i biglietti…?»
«Si goda lo show» replicò solo il ragazzo e dopo essersi accomiatato con un inchino, li superò per immergersi tra la folla.
«Lo conosci?» sussurrò Grace, stupita.
«Non l’ho mai visto in vita mia.»
Seguendo le indicazioni, raggiunsero presto la tenda degli illusionisti, decorata con spirali nere e bianche: l’insegna all’ingresso recitava, in eleganti lettere corsive:
 
Lasciatevi stregare da Monsieur La Rue e Mademoiselle Dimanche
 
L’interno era molto più vasto di come appariva da fuori, illuminato da una teoria di candelabri e con una cinquantina di poltrone di velluto blu disposte in cerchio. Al centro, solo una piattaforma circolare e bianca come una luna piena.
«Credi sia uno spettacolo adatto ai bambini?» chiese Grace, mentre occupavano gli unici tre posti liberi in prima fila. Prima che Tom potesse rispondere, le luci si spensero e un mormorio agitato percorse la platea.
«Signore e signori.» Una giovane voce maschile si diffuse in ogni direzione, costringendo gli spettatori a voltarsi spaesati sulle sedie. «Monsieur La Rue e Mademoiselle Dimanche vi danno il benvenuto allo spettacolo di questa sera!»
Un istante dopo, un lampo squarciò le tenebre e una scarica di fulmini piovve dal nulla al centro del palco.
La reazione del pubblico non si fece attendere: Tom vide la gente saltare sulle sedie e precipitarsi all’uscita, per scoprire che le aperture erano scomparse. Grace strinse Lizzie a sé, spaventata.
Le saette continuarono a ronzare sul palco finché, in mezzo a esse, apparve un giovanotto con indosso un semplice completo da sera nero.
Emerse tra le scariche elettriche indenne e sorridente, si inchinò e sollevò il cilindro, mostrando una chioma bianca come neve appena caduta. Quando si raddrizzò, Tom emise un gemito strozzato. «James!»
Non aveva più i suoi capelli rossi ed era cresciuto, era diventato un uomo. Ma Tom avrebbe riconosciuto suo figlio ovunque…
Con nonchalance, il giovane allungò una mano come per afferrare una scarica elettrica e tutti trattennero il fiato; una saetta si staccò dalle altre, crepitando tra le mani del mago, che iniziò a piroettare come se stesse danzando con essa.
«Che meraviglia!» sussurrò Grace, incantata.
Il fulmine si allungò e si contorse e al suo posto comparve una bella ragazza dai ricci corvini, interamente vestita di diamanti. I due giovani continuarono a volteggiare, dopodiché si separarono e batterono le mani in sincrono.
Accanto a Tom, un uomo sobbalzò quando da sotto il suo cappello fece capolino una colomba bianca e molte altre si levarono in volo da sotto i loro sedili, suscitando una serie di “oooh!” meravigliati.
Tom guardava il giovane mago con occhi sgranati e pieni di commozione: non riusciva ancora a credere che lui fosse lì, che fosse vivo…
Credevo di averi perso per sempre…
Con un gesto plateale, Monsieur La Rue rimosse il cilindro e dopo averlo fatto rotolare sul braccio, ce lo infilò dentro fino alla spalla come se fosse senza fondo, per estrarne un mazzo di rose blu. Le offrì alla ragazza vestita di diamanti, che sorrise e vi soffiò sopra, tramutando i fiori in un nugolo di farfalle; il pubblico sospirò estasiato mentre svolazzavano sulle loro teste, svanendo nel buio.
Dopodiché, il mago lanciò in alto il cilindro: la stoffa si tramutò in un paio di lucenti ali nere spiegate e un corvo passò in volo sulle poltrone, gracchiando. Mentre la gente boccheggiava sbalordita, il corvo compì un largo giro della tenda e poi, richiamato da Mademoiselle Dimanche, calò in picchiata verso il palco…
«Oddio!» esclamò Grace.
Le ali del corvo avvolsero la ragazza come una colata d’inchiostro, tingendo il suo vestito di un nero trapunto di pietre preziose, come una notte stellata.
La platea era impazzita, ma andò in estasi quando il giovane tirò fuori da chissà dove un grosso specchio intarsiato e la sua compagna lo attraversò per intero: svanì nel nulla, ma non prima di aver salutato la folla facendo emergere dal vetro solo un braccio.
Infine, anche il ragazzo sparì, inghiottito una nuvola di fumo blu.
«Sono bravissimi!» commentò Grace, mentre la gente ancora applaudiva. «Non avevo mai visto niente del genere.»
Tom però non perse tempo. Dopo aver borbottato delle scuse, lasciò la tenda per mettersi in cerca del ragazzo coi capelli bianchi.
«James!» lo chiamò, facendosi largo sul sentiero affollato. «Per favore, fatti vedere..!»
«Ti ho sentito, papà, non c’è bisogno di urlare.»
Tom fece un balzo e si voltò. Monsieur La Rue era di fronte a lui, ma aveva sostituito il completo elegante con un giubbotto in pelle da aviatore, e nascosto la chioma albina sotto un berretto degli Yankees. In mano reggeva due tazze fumanti.
«Cioccolata?» chiese, allungandogliene una.
Scombussolato, Tom la prese, senza smettere di fissarlo.
«Facciamo due passi» disse il ragazzo, facendogli strada. «Ho un’oretta libera prima del prossimo spettacolo.»
Tom riuscì solo ad annuire. S’incamminarono tra i visitatori, nessuno dei quali parve riconoscere Monsieur La Rue, nemmeno quelli presenti poco prima al suo show.
«Giù dal palco e senza lustrini si è molto meno interessanti» spiegò James, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ti è piaciuto lo spettacolo?»
«Oh, sì! Mi è piaciuto moltissimo.»
«Ci speravo.» Lui sorrise. «E speravo anche che rispondessi al mio invito.»
«Jamie.» Tom lo fissò negli occhi, a bocca aperta. «Che cosa ti è accaduto? Dove sei stato tutti questi anni?»
«Ovunque. Ho girato il Paese, da Nord a Sud, insieme a un circo…non questo, un’altra compagnia; i King’s Brothers sono in attività da quattro anni.»
«Avete messo su tutto questo in soli quattro anni?» fece Tom, sbalordito.
«Arthur ha insistito perché apportassimo dei cambiamenti» spiegò James. «Niente animali, per cominciare, gli automi che hai visto ce li ha regalati un'amica. L’idea della serra invece è di Alycia.»
«Mademoiselle Dimanche, intendi? È la tua…?»
Lui ridacchiò. «Se la chiamassi “fidanzatina” mi ucciderebbe! Ti piacerà, è una tipa tosta. E non vede l’ora di conoscerti!»
«É come te, vero?» chiese Tom, esitante. «Quello che fate è magia, no?»
«Solo quello che fa lei, il mio è puro e semplice illusionismo. Qualche anno fa ho perso tutti i poteri.»
«Cosa?» Tom lo fissò, incredulo. «Come è possibile?»
Il sorriso abbandonò per un istante il volto del ragazzo.
«Una lunga storia.» Afferrò dal nulla una moneta d’argento e la fece rotolare sulle nocche. «Ho dovuto rinunciare a qualcosa di importante per salvare altre vite. Mi è sembrato un buon compromesso.»
«Hai sofferto?» chiese Tom, temendo la risposta.
James fece spallucce. «Perdere qualcosa fa sempre male. Tu non mi hai mai raccontato della Guerra, perché?»
«Pensavo non fosse un argomento adatto a un bambino.»
«Quando sei stato congedato» disse James. «Non hai avuto l’impressione che una parte di te fosse rimasta laggiù, al fronte?»
Tom annuì e un brivido lo scosse nel profondo, al ricordo di quell’amico fraterno dalla risata contagiosa, che aveva affrontato con lui l’inferno senza riuscire a sfuggirne, e di cui suo figlio portava il nome. «Più di una.»
«É stato così anche per me» disse James. «Ma in un certo senso, adesso ho trovato me stesso: la magia si sta di nuovo spargendo nel mondo, sempre più persone stanno scoprendo di avere poteri che non comprendono. Noi li troviamo, li rassicuriamo, offriamo loro una mano a controllarli. E se vogliono, li prendiamo a lavorare con noi.»
«E Arcanta?» chiese Tom, preoccupato. «É al corrente di cosa sta accadendo?»
Da quel che ricordava, l’oligarchia che governava la città dei maghi non era affatto elastica quando si trattava di condividere i propri doni con altri…
«So che la voce è giunta ai Decani» rispose il ragazzo. «Ovviamente, cercano di contenere il fenomeno, ma noi li battiamo quasi sempre sul tempo: ho il sospetto che gli Arcistregoni ci lascino un certo vantaggio.»
Si fermarono sul limitare della fiera, in riva al lago scintillante di luci.
«Perché non sei mai tornato a casa?» si decise a domandare finalmente Tom.
«Avevo paura di cosa avrei trovato al mio ritorno» rispose James, sollevando lo sguardo su di lui. «Che non ti piacesse il genere di persona che ero diventato…perciò ho pensato che senza di me saresti stato meglio.»
«Meglio?!» ripeté Tom, sconvolto. «Jamie, ti ho cercato per anni! Non c’è stato giorno in cui non abbia pregato per te! Ti ho aspettato e avrei continuato a farlo per sempre.»
Gli occhi del ragazzo divennero lucidi. «Adesso lo so.»
Improvvisamente, si sentì un botto, poi un altro e Tom trasalì: un istante dopo, il cielo sopra la fiera si riempì di splendidi fuochi d’artificio, simili a fiori infuocati. Lui e James li contemplarono col naso all’insù per un po’, in silenzio, gustando la cioccolata calda.
«La mamma ti saluta» disse a un tratto il ragazzo, il volto illuminato ora di giallo, ora di rosso. «É difficile da spiegare, ma voleva che sapessi che è orgogliosa di te.»
Tom ricambiò il suo sguardo e dentro di sé, qualcosa si incrinò. «Io…»
«Ti ha amato molto e sa che anche tu hai amato lei» disse James. «Ma è tempo di andare avanti, papà. Sono sicuro che lei lo avrebbe voluto.»
Tom restò in silenzio, senza sapere cosa dire.
«Dovresti dirle cosa provi» proseguì il ragazzo, facendo un cenno a qualcuno tra la folla. «Certe occasioni capitano solo una volta. E quando arrivano, bisogna afferrarle.»
«Ma…»
James tirò fuori dalla tasca l’orologio. «Oh, capperi! Fra poco vado in scena! Meglio che corra a prepararmi.»
Gli mollò la sua tazza in mano e si allontanò in fretta.
«Ah!» fece poi, tornando a voltarsi. «Dopo l’orario di chiusura organizziamo sempre una festicciola: tu, Grace e la piccola Lizzie siete nostri ospiti, ovviamente.»
«Jamie» fece suo padre, ancora frastornato. «Ma tutto questo sta accadendo davvero? Mi sembra così assurdo!»
Il ragazzo sorrise e gli strizzò l’occhio. «É il bello del circo: qui tutto diventa possibile!»
Senza aggiungere altro, svanì tra i tendoni in un paio di saltelli.
Tom restò impalato lì in mezzo al prato, mentre i fuochi d’artificio continuavano a incendiare il cielo. Batté le palpebre, si riscosse e prese un bel respiro: forse James aveva ragione. Era arrivato il momento di darsi da fare.
Così, si mise a correre anche lui come un pazzo verso il Luna park illuminato, e chiamò a gran voce il nome di Grace, deciso a darle un ottimo motivo per restare.








 
P E R S O N A G G I















































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