La Città dell'Immaginazione di piratatommy (/viewuser.php?uid=114157)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Città ***
Capitolo 2: *** La Baia della Città ***
Capitolo 3: *** Le Catacombe della Città ***
Capitolo 4: *** Il Mercante ***
Capitolo 5: *** La Landa della Lettura ***
Capitolo 6: *** Il Porto d'Estate ***
Capitolo 7: *** Il Palazzo della Città ***
Capitolo 8: *** Il Cielo della Città ***
Capitolo 1 *** La Città ***
La città dell’immaginazione è un luogo famoso eppure nascosto. C’è chi ci abita e c’è chi non c’è mai entrato, ma sono pochi quelli che una volta fuori conoscono la strada per ritrovarla.
D’altra parte esternamente appare di modeste dimensioni.
È circondata da un folto bosco scuro e ostile e un versante si affaccia sul mare. È protetta da mura che possono anche cambiare aspetto a seconda di chi le incontra, ma soprattutto da delle enormi porte; vengono aperte soltanto in determinati orari ed è molto difficile che qualcuno venga fatto entrare se non desiderato o degno. Ma appena entrati ci si accorge di una realtà di tutto differente: la città appare immensa e luminosa, e pochi ne conoscono tutti i meandri.
In genere chi ci abita non fa caso a tutto ciò, tanto è immerso nell’ambiente che lo circonda, e solo chi ne è stato esiliato volgendosi indietro si rende conto di ciò che ha perso. È raro che qualcuno ritrovi la strada e torni.
Solitamente si ha la possibilità di viverci tranquillamente durante l’infanzia e qualcuno resta anche dopo, ma in genere la maggior parte delle persone una volta sulla via della maturità se ne vanno o sono costrette a farlo, spesso e purtroppo per non tornare. Io stesso ho dovuto andarmene improvvisamente e forse è stato per pura casualità che sono riuscito a ritrovare la città.
Nonostante fossi esule mi è stato concesso di trovare le porte aperte, solo per un breve periodo; inizialmente distratto, stavo per perdere l’occasione ma sono riuscito ad intrufolarmi per un pelo nonostante le porte fossero ormai socchiuse: in ogni caso sapevo che il mio permesso di restare sarebbe durato soltanto fino al calar del sole, poi sarei dovuto andarmene per non rovinare tutto.
È un luogo speciale, che cresce e cambia nel tempo eppure si adatta sempre ai suoi abitanti o visitatori in base alla loro creatività, è un’influenza reciproca che prende vita.
Una volta per le sue vie mi sono emozionato rendendomi conto di quanto mi fosse mancata, e di quanto fosse cambiata, restando tuttavia uguale a come la conoscevo tanti anni prima. Ero solo un viandante di passaggio e vedevo tutto come un esterno, eppure mi sentivo a casa.
C’erano quartieri di tutti i generi, più o meno simpatici ma liberi e soprattutto tutti pieni di vita: dalle grandi aule e biblioteche e piazze dove si trovavano per discutere i veterani, gli abitanti più illustri o i più produttivi ai locali o alle bettole dove si trovava di tutto, da strani personaggi ai cittadini più cupi, dalle guardie della città ai pochi vagabondi come me, chi più malinconico e spaesato, chi più felice.
Io personalmente appartenevo alla seconda categoria: per un attimo davvero lontano dal resto del mondo, mi sono sentito di nuovo libero come non lo ero da tempo, e me ne andavo per i viottoli respirando l’aria fresca, scorgendo in lontananza, al termine della strada maestra, la spiaggia, e il sole che lentamente iniziava a chinarsi verso il mare.
Quel giorno però avevo chiaramente da fare, infatti sentivo che se ero riuscito ad entrare c’era una ragione, e dovevo riuscire a raggiungere il mio obiettivo nel tempo che avevo a disposizione; quando uno viene esiliato infatti significa che non è più capace di vivere in quel luogo serenamente, in armonia con il resto, con se stesso. Io quindi ero solo di passaggio e non avevo intenzione di sprecare quell’opportunità.
Mi sono diretto perciò dove sentivo di dover andare e lì, in un vicolo buio e in ombra ho trovato una vecchina seduta davanti ad una porta di legno, nel silenzio, sotto una piccola lanterna: doveva raccontarmi una storia. Ho ascoltato con attenzione i suoi sussurri per non perdere niente e alla fine, grato di quel regalo me ne sono andato, quando ormai il sole si era immerso tra le onde.
Sono uscito dalla città giusto in tempo, mentre questa si preparava per la sua vita notturna, dolce e segreta; mi sono voltato, ho dato un rapido, ultimo sguardo alle sue mura illuminate dalle stelle e me ne sono andato, i portoni chiusi e scuri alle mie spalle. Nella città dell’immaginazione infatti gli stranieri se non autorizzati non possono restare di sera: solo quelli che già ci vivono hanno la fortuna di poter disegnare le stelle e respirare le musiche e i profumi che porta la luna. Nel mentre tra le pietre delle strade ancora tiepide soffia una brezza dolce e delicata che sussurra sogni ai dormienti ed illumina gli occhi di coloro che, ancora alzati nei grandi saloni, sfruttano la pace e il silenzio per creare, scrivere e immaginare fino a tarda notte. Nascono realtà intense, passioni e crudeltà, storie e poesie che traboccano dalle finestre illuminate e vanno a posarsi sui tetti e sulle strade come nastri di seta color perla, delicati come castelli di carte.
Lì alla fine trovano riposo, e con il sorgere del sole entrano a far parte della città stessa.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** La Baia della Città ***
La
Città dell’Immaginazione si affaccia su una
piccola baia: una
spiaggia di sabbia finissima accarezzata dal vento che profuma di
libertà e felicità. Si può scorgere
fin dalla via principale della
città come una chiarore lontano all’orizzonte. Non
molti ci vanno,
è un luogo di poesia e riflessione, di bellezza e
solitudine. Eppure
è il luogo più spettacolare del paese.
Le onde del mare
sussurrano brividi e desideri, mentre i rossi raggi del sole quando
sorge o tramonta scaldano il cuore di passione, in un connubio di
serenità e stupore. Nonostante ciò non
è molto conosciuta nemmeno
tra gli stessi cittadini; in pochi si arrischiano ad ascoltare le
emozioni che ogni giorno si addensano lì da tutti i vicoli e
abitazioni, impetuose e numerose come i granelli caldi e dorati
baciati dalla sensualità delle onde.
Io ci arrivai per caso
una mattina d’estate: esiliato da tanto tempo, non ci ero
nemmeno
mai stato. Nuotavo libero nel mare quando superata una barriera di
scogli non trovai la solita spiaggia come mi aspettavo, ma le acque
calme della baia.
Stupefatto e stanco giunsi fino a riva e lì
mi sedetti, attendendo di essere asciugato dal sole brillante e alto
nel cielo. Riconobbi subito la città alle mie spalle e fui
felice di
esserci tornato in qualche modo. Ancora una volta ero a casa. Mi
sentivo onorato e in qualche modo ben accetto: questa volta non ero
lì di nascosto, o almeno così speravo. Ma non
provai ad entrare e
rimasi lì, contemplando il panorama che avevo di fronte: il
cielo
terso e azzurro solcato da un bianco gabbiano, le alte scogliere
rocciose che proteggevano quella mezzaluna paradisiaca. Tutto sapeva
di tranquillità, il tempo fermo, scandito dalle onde,
incantato
anch’esso. Camminai lungo la riva osservando
l’acqua turchese e,
più vedevo e scoprivo, più il paesaggio sembrava
arricchirsi e
farsi ampio, come ad assecondare un’inespressa sete di
meraviglia.
Il rumore della risacca mi cullava mentre il sole compiva il
suo corso quando all’improvviso voltandomi vidi una vecchina
seduta
sulla sabbia che scrutava fissa davanti a sé, i lunghi
capelli
argentei mossi dal vento. Aveva il sapore di un dejà-vu, ma
non
avrei potuto dirlo con certezza. Mi avvicinai e mi misi accanto a
lei. Era come se fosse lì di proposito ad aspettarmi,
concentrando
su di sé il significato di quella mia visita.
Si voltò verso
di me e mi guardò, ed io la fissai, improvvisamente curioso
di
sapere quello che aveva da dirmi. Lentamente cominciò a
sussurrare
una storia, oltre a noi due condivisa solo dal vento e dal mare, un
racconto che ascoltai attentamente ma con rispetto, cosciente che era
un tesoro che mi sarei portato dentro, un altro pezzo di quella terra
che avevo avuto l’onore di conoscere, nonostante tutto.
Con
le parole scorrevano i flutti e il tempo, inarrestabile come sabbia
che scivola tra le dita, finché il racconto
cominciò a volgere al
termine.
Il cielo ora era tinto di porpora, oro e sangue, il
sole ormai prossimo a morire, irresistibilmente attratto dalla
sinuosità e dalla freschezza misteriosa del mare: si
ripeteva così
ogni giorno, quest’immagine di amore e morte che feriva
violentemente il cuore, facendone sgorgare pace mista
inspiegabilmente ad una dolorosa nostalgia. La vecchia finì
e volse
nuovamente lo sguardo avanti, parte di quel mondo.
Seppi che
era tardi, non sarei potuto restare oltre, non ne avevo il diritto;
senza dire una parola mi alzai e misi in acqua un piede dopo
l’altro,
fino ad immergermi del tutto e nuotare verso dov’ero venuto,
senza
voltarmi indietro, fino a diventare un punto distante, fino ad
oltrepassare la scogliera e sparire, ristabilendo
l’equilibrio
rotto dalla mia intrusione.
Non vidi il calare della notte su
quella splendida spiaggia, dove la luna con la sua luce candida
addormenta le calde passioni sulla sabbia d’argento, dove gli
abissi del mare si risvegliano raccogliendo pazientemente i sogni
più
oscuri dei cittadini, che scorrono e si agitano profondi nelle
correnti. Dove, dinanzi alla solennità dei flutti,
verità ed
intimità, protette tra le braccia della scogliera, si
mescolano nel
forte profumo dell’aria in modo violento e cristallino, in
una
visione folle che sopravvivrà fino all’alba.
Visione che
allora, col primo raggio del nuovo giorno, si tingerà di
saggezza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Le Catacombe della Città ***
La Città dell’Immaginazione
nasconde un segreto che pochi conoscono.
O forse, più che segreto sarebbe corretto chiamarla area
riservata.
Una fitta rete di canali, scale, passaggi, vie e stanze si snoda
infatti sotto la superficie della città; nessuno sa bene
quanto a
fondo vada, o quanto vasta sia.
Le
chiamano le Catacombe.
Si
dice siano gli strati antichi della città che sprofondando
durante i
millenni hanno dato origine a quest’ambiente sotterraneo.
Sono un
luogo di cui molti cittadini ignorano l’esistenza, di cui
pochi
conoscono l’accesso, ma quelli che ne hanno bisogno sanno
perfettamente come arrivarci. Questi cunicoli occulti, queste stanze,
sono dei veri e propri laboratori: impregnati di magia e storie fin
nelle fondamenta, sono ottimi rifugi segreti e discreti dove gli
abitanti possono esercitare e sperimentare le loro abilità,
per
creare mondi e storie: progetti che una volta divenuti
realtà e
completi, potranno tramutarsi nelle opere che poi andranno nelle
biblioteche della città, arricchendo e rinnovando il suo
stesso
tessuto.
È qui che tutto si produce, o comunque gran parte.
Come un cuore pulsante e silenzioso che enorme e nascosto dà
nuova
vita alla città. La riservatezza a riguardo è
garantita dagli
stessi utilizzatori; ognuno ha infatti una propria stanza, spesso con
un’entrata segreta, per cui ognuno conosce solo il proprio
percorso. I veterani qualcosa sanno ma per rispetto non ne parlano,
mentre i più giovani in genere non si rendono nemmeno conto
del
contesto in cui si trovano.
Non c’è né giorno né notte
in
quel luogo, solo silenzio, concentrazione e lavoro incessante; ognuno
viene e va in base ai propri ritmi, alle proprie necessità.
Io
venni a conoscenza di questo segreto per caso. Mi stavo incuneando
per le calli di Venezia diretto verso la stazione; avevo appena
finito lezione e con la testa divagavo per i pensieri più
strani,
quando all’improvviso girato l’angolo mi ritrovai
di fronte ad un
muro. Credevo di aver sbagliato strada sovrappensiero. Mi voltai ma
di fronte a me non c’era più Venezia: ero in un
piccolo vicolo
ricco di edifici strani, ognuno diverso dall’altro. Lo
percorsi
fino in fondo. Respiravo un’aria fresca che sapeva di
libertà e di
vita. Sbucai sulla via principale: gente e personaggi di ogni genere
la percorrevano con vivacità.
Io
rimasi immobile, incantato, col viso immerso nella luce del sole
caldo e brillante che calava nel mare lontano, al termine della
strada.
Tutto si fermò per un attimo: il senso di
familiarità
e di felicità, la bellezza di quel panorama,
l’atmosfera inconfondibile: ero di nuovo nella
Città dell’Immaginazione. Tutte
le preoccupazioni, le ansie per lo studio, la frenesia, sparirono
finendo in qualche luogo molto lontano da me, mentre mi pervadeva un
senso di pace e allegria. In qualche modo, per quanto inspiegabile,
ci ero entrato ancora.
Poi
di colpo tornai in me e mi resi conto che non potevo stare
lì: era
ormai il tramonto, e soltanto i cittadini avevano il diritto di
permanere entro le mura dopo quel momento. Decisi di nascondermi: non
capivo, ma ancora una volta non me ne sarei andato prima di aver
scoperto il motivo del mio arrivo, o per lo meno non prima di aver
approfittato un po’ di quell’occasione.
Tornai
in mezzo ai vari vicoli mentre il mare in lontananza abbracciava gli
ultimi raggi di sole, e dopo aver vagabondato un po’ decisi
di
entrare in una taverna, e di ordinare qualcosa da mangiare, senza
pensare a come avrei potuto pagare.
Fantastico. Si percepiva
nell’aria una calda ospitalità, la
convivialità dei clienti che
consumavano i loro pasti tra brindisi e risate, persino la luce
diffusa dalle lampade pareva dare il benvenuto.
Avevo
appena cominciato a mangiare rincuorato quando entrarono un paio di
omaccioni enormi sussurrando che c’erano degli intrusi nella
città,
e che bisognava trovarli ed eliminarli.
‘Ecco,
fine del divertimento’ pensai, capendo che dovevo andarmene
alla
svelta e realizzando che non sarei potuto uscire dalla porta
principale a causa delle due guardie. Il brusio cominciava ad
aumentare, così mi alzai e con tutta la naturalezza
possibile mi
diressi verso il retro del locale: sarei uscito dalle finestre del
bagno.
‘Addio ospitalità e tutto il resto’,
pensai con
malinconia. Allarmato aprii la porta e guardandomi le spalle la
richiusi.
Buio.
Arretrai barcollando e finii addosso a delle lunghe aste di legno.
Porco cane. Il ripostiglio delle scope. E adesso? Cominciava a
crescere la tensione quando vidi uno spiraglio di luce tremolante
alla mia sinistra. Tirai un sospiro di sollievo, forse non mi ero
sbagliato del tutto. Mi diressi verso la luce inciampando su un
secchio e finii contro un piccolo portoncino sghembo con una grossa
chiave arrugginita inserita. Senza pensarci due volte armeggiai con
energia per riuscire ad aprirlo, mentre alle mie spalle giungeva
attutito il vociare della gente. La serratura finalmente
scattò: il
passaggio dava su una scalinata in pietra che scendeva ripida. Non
sembravano i bagni, ma non avevo scelta. Richiusi la porta alle mie
spalle e cominciai a scendere.
Sbucai
in un lungo corridoio sotterraneo. I muri erano composti da grossi
blocchi di pietra grigi, con delle torce appese per illuminare il
percorso. Lungo le fughe scorrevano rivoli luccicanti che sembravano
stillare dalla roccia stessa per poi sparire nel pavimento.
L’aria
che si respirava era densa e umida, caratteristica degli ambienti
sotterranei; un soffio di vento proveniente da chissà dove,
un
gocciolio lontano. Ad intervalli regolari su entrambe le pareti
c’erano dei portoni, chiusi, antichi. Eppure
l’atmosfera era
carica, come se fosse tutt’altro che un luogo abbandonato,
come se
stesse per accadere qualcosa.
“Benvenuto
nelle Catacombe”, mi sentii dire dal mio fianco.
Era
la vecchia signora che già avevo incontrato le volte scorse.
Preso
dall’ambiente non mi ero nemmeno accorto del suo arrivo.
“Prendi,
questa è per te, aprila una volta fuori” mi disse
consegnandomi
una pergamena. Preso dall’ambiente non mi ero nemmeno accorto
del
suo arrivo. Ma da dove era arrivata? E se lei era lì voleva
dire che
altri stavano per arrivare? Che mi sarebbe successo?
“Non
preoccuparti ora, camminiamo un po’” disse, come
leggendo le
preoccupazioni sul mio volto.
Venni
così a sapere cos’era quel luogo in cui ci
trovavamo, la sua
storia, la sua importanza. Noi per la precisione eravamo sul livello
più superficiale. Volendo si poteva scendere, nessuno sapeva
per
quanto.
Decise
di farmi vedere come funzionavano le stanze, e così, aperta
una
porta, mi fece entrare.
Fu
incredibile. Davanti a me non c’era una piccola sala come mi
aspettavo. Eravamo nel bel mezzo di un bosco fittissimo: le cime
degli alberi si perdevano alte nel cielo, un tappeto di aghi di pino
stava sotto i nostri piedi, in lontananza si scorgevano delle
montagne, da cui provenne un lungo fischio, come un richiamo.
“Ecco,
ci siamo appena introdotti di nascosto in una storia durante la sua
creazione” mi disse la vecchia con un sorriso bonario.
Ero
completamente affascinato.
Camminammo tra gli alberi e qua e là
cominciammo a vedere sparse a terra spade, frecce e scudi.
Chissà
che stava succedendo.
Mi disse che all’inizio l’autore si
trova in una camera vuota come qualunque altra; poi immaginando i
suoi pensieri prendono forma, e mano a mano che ci riflette e crea,
il suo mondo si arricchisce, fino a diventare indefinitamente vasto.
Una volta conclusa la storia tutto resta impresso in un libro e la
camera si svuota.
Chiunque se ha abbastanza fantasia può
sperimentare ed elaborare finché lo desidera. Quando un
cittadino o
un autore ne sente il bisogno, scopre una stanza. A lui o lei
sembrerà di averla creata con la fantasia, ma in
realtà la stanza
c’è già, semplicemente
troverà il modo per raggiungerla.
O
forse era destino che la trovasse.
O forse l’ha fisicamente
cercata.
“Non è ancora ben chiaro
quest’aspetto”. Dal
bosco provenne un urlo e un rumore di zoccoli al galoppo.
Mi
disse che probabilmente l’autore non si era reso conto della
nostra
intrusione, ma fortunatamente ci trovavamo ai margini delle terre in
cui si stava svolgendo il tutto.
Appoggiò
una mano su quello che sembrava solo un tronco rugoso ed
improvvisamente sulla sua superficie comparve la forma di una porta.
In un batter d’occhio ci lasciammo alle spalle
chissà che intrighi
e battaglie,e fummo di nuovo fuori, o meglio dentro il corridoio.
Continuammo
a camminare scendendo scale, attraverso cunicoli e diramazioni.
Mi
spiegò che inspiegabilmente i vari ambienti venivano
contagiati in
qualche modo dal genere della storia, e che stanze che ospitavano
storie di uno stesso genere si trovavano allo stesso livello.
In
effetti il contesto cambiava: i muri diventavano intonacati di
bianco, il pavimento diveniva sabbioso e soffiava un vento caldo e
secco, al posto delle torce c’erano lampade; salita una
scalinata e
aperta una botola ci trovammo in quello che sembrava un tipico
corridoio d’albergo, illuminazione elettrica, un vago odore
di
tabacco nell’aria.
Domandai
cos’erano quei rivoli che continuavamo a vedere lungo i muri.
“Quelli”mi
disse, “sono effettivamente prodotti dalle stesse pareti.
Questo
luogo è così impregnato della storia antica della
città, di nuovi
racconti che esplodono all’interno delle stanze e di luce, di
meraviglie, di segreti, di fantasia, che alla fine i muri ne
trasudano l’essenza.”
“E
dove va a finire tutto ciò?” domandai.
“Si
dice che scenda giù in profondità fino al centro,
dove fu fondato
il primo insediamento, nessuno sa quanti metri sotto di noi. Da
lì
irrora il terreno e poi risale fino ad andare a costituire le
fondamenta attuali della città, fondendosi con gli
edifici.”
“Accidenti,
e qualcuno è mai arrivato fino in fondo?” chiesi
sempre più
stupefatto.
“In
teoria è possibile” mi disse, “ma di
fatto nessuno l’ha mai
fatto. Più si va giù più si trovano
stanze di storie complesse,
elaborate. Si arriva al punto in cui non c’è
nessuna stanza
precisa. Realtà e finzione smettono di avere contorni
definiti e si
fondono insieme. Non deve essere facile né giungerci
né uscirne.”
Persi
in queste dissertazioni giravamo per altri corridoi, salite, discese,
finché giungemmo ad una scala a pioli che terminava con una
grata da
cui giungeva la fredda aria notturna.
Salimmo
e ci trovammo di fronte alle mura della città.
Eravamo
alla fine. Degli enormi cancelli chiudevano l’entrata, e
stavano
evidentemente per aprirsi per la mia partenza. Era notte inoltrata ed
ero già stato fortunato ad essere rimasto lì fino
a quel momento.
Volgendomi
non potei fare a meno di notare una donna che camminava silenziosa e
sola. I fluenti capelli biondi e ricci che le ricadevano sulla spalle
erano illuminati dalla luna. Elegante in un vestito blu, misteriosa,
seguita da due gatti, uno bianco e uno nero. Era bellissima, e si
allontanava inesorabilmente, come se non ci avesse nemmeno visti. Era
la Signora dei Sogni, mi disse la vecchia, che di notte camminava per
la città sola, unica protettrice e dispensatrice dei sogni
degli
uomini. Pochi avevano avuto la fortuna di scorgerla.
Era
un ultimo privilegio che mi era stato concesso, non ne avrei avuti
altri. Qualcosa mi diceva che non sarei tornato.
“Sì,
questa è la tua ultima volta nella
città” mi disse la vecchia
confermando il mio pensiero, “te ne andrai da qui: fuori da
questi
cancelli si stende la sterminata Foresta della Lettura. Lì
potrai
rimanere e tornare quanto e quando lo desideri. Potrai imparare a
conoscerne i rischi e le bellezze, le fatiche ed i tesori. Dovrai
imparare a sopravviverci. E se mai un giorno ti fosse concessa
l’opportunità di tornare, sarà solo
giungendo da lì.”
Dicendo
questo sfiorò i cancelli e questi si aprirono. A malincuore
oltrepassai quel limite dopo averla ringraziata.
Feci
qualche passo e poi mi ricordai della pergamena che mi aveva dato. La
presi dalla tasca e la aprii. Conteneva una storia, forse
l’ultima
che mi avrebbe mai dato. Mi voltai verso la vecchia.
Sparita.
Non
c’era più nessuno nella notte.
Silenzio.
Ero
solo. Solo con le imponenti mura e i cancelli.
Socchiusi.
Sorridendo
me li lasciai alle spalle insieme alla città, alle sue
bellezze a me
interdette, inoltrandomi tra gli alberi scuri.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Il Mercante ***
Il
mercante, o meglio, l’uomo che era conosciuto come tale scese
rapidamente le scale, arrivando al lungo corridoio sotterraneo
illuminato da torce.
Non
aveva particolari incombenze quel giorno, così poteva
dedicarsi alla
sua attività preferita: creare.
Giunse
davanti ad un grosso portone di legno borchiato; inserì la
pesante
chiave di ferro e lo aprì, per poi richiuderlo alle sue
spalle.
Si
trovava in una stanza vuota, apparentemente identica al corridoio:
stesse torce, stessi pesanti blocchi di pietra che costituivano le
pareti. Unica particolarità: la pavimentazione era
costituita da
pietre ordinate in cerchi concentrici.
L’uomo
si sedette esattamente in mezzo alla stanza che stava silenziosa,
come in attesa di qualcosa.
Bene,
pensò, sarebbe partito da zero. Chiuse gli occhi e si
concentrò
sull’idea che da qualche giorno gli frullava in testa. Una
città
antica, in mezzo al deserto, portatrice di leggende e avventure.
Carovane che entrano ed escono, aromi diversi per le strette vie tra
le abitazioni.
Mentre
immaginava tutto ciò dai muri cominciò a cadere
polvere, come se la
malta si stesse sgretolando. Tra le fessure iniziò ad
insinuarsi un
alito di vento.
L’uomo
aprì gli occhi; con la mano sfiorò il pavimento e
questo si sfaldò
come se fosse solo disegnato sulla sabbia, cosa che effettivamente
era diventato.
Si
alzò, si avvicinò al muro e spinse: il grosso
blocco di pietra
cadde dall’altra parte, facendo entrare uno sbuffo
d’aria calda e
secca. Continuò, finché riuscì ad
uscire.
Fu
subito colpito dall’accecante luce del sole mentre il vento
implacabile polverizzò e portò via ciò
che era rimasto della
stanza in cui si trovava.
Era tra alcune palme, al limite di
una piccola oasi.
Si
sciacquò il viso gustando il gusto dell’acqua
dolce e si guardò
intorno. Prese il cavallo che sapeva essere legato dietro una pianta
e si avviò rapidamente in mezzo alla sabbia, incontro al
sole
nascente.
Dopo
pochi minuti giunse su un’altura, e vide ai suoi piedi una
valle:
il fiume scorreva enorme e pigro in mezzo alla grande città
già
brulicante di vita, costruita con mattoni dello stesso colore della
terra che la circondava. Al centro il palazzo e il maestoso tempio,
simbolo di potere e vicinanza agli dei. Fuori dalle mura
c’era già
una lunga fila di gente che attendeva di poter entrare, si poteva
scorgere il bagliore delle armi bronzee dei soldati che rilucevano. E
anche se da qui non si vedeva, il mercante sapeva già del
passaggio
segreto scavato dal palazzo alla collina a nord in caso di emergenza.
Tutto come previsto.
Eccellente,
pensò l’uomo sorridendo felice, ora non restava
che mettersi in
coda per entrare con gli altri. Dopodiché avrebbe scoperto
cosa
aveva da dirgli quella millenaria città che non sapeva di
essere
appena nata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** La Landa della Lettura ***
La Landa della
Lettura si
estende appena fuori dai cancelli della Città
dell’Immaginazione,
e tutti dovrebbero meritare di avere l’occasione di
perdercisi
almeno una volta nella vita.
È
una regione vastissima e misteriosa, in continua crescita e in
perenne mutamento, tanto che nessun uomo può vantarsi di
averla
visitata tutta nel corso di una sola esistenza.
Per
la maggior parte si presenta come una fitta foresta. È un
luogo
pieno di vita ed energia, che a seconda della zona può
apparire più
o meno selvaggio e impenetrabile, popolato da antichi alberi
millenari o da un fitto e giovane sottobosco; si può passare
dalla
giungla tropicale ad una distesa di abeti e pini.
In
un contesto tanto irregolare è facile smarrirsi, trovando
sfide che
vanno oltre le proprie capacità e che possono scoraggiare.
Immerso
nel verde, il viaggiatore viene portato e trascinato da una parte
all’altra da venti diversi, che sussurrano promesse di
speranza o
urlano versi di sventura, tormentano con la fragranza
dell’amore e
della passione, confondono con pensieri e parole di grandi uomini,
intrigano e catturano con storie e racconti più o meno reali
o
verosimili.
Una
volta dentro la selva, il lettore può e rischia di ritrovare
o
abbandonare se stesso; soltanto dopo un lungo vagabondare
può
giungere a destreggiarsi nell’ambiente, ad adattarsi per
sopravvivere.
Proseguendo
il terreno comincia ad elevarsi finché si giunge ai piedi di
un’alta
e brulla catena montuosa.
Qui,
dove le parole incontrano mal volentieri la sistematicità e
la
razionalità umane, si estendono le Gallerie della
Manualistica
scolastica.
Affondano
le proprie radici nella solida roccia, eppure appaiono sempre ostili
e disabitate. Spesso cercano di riprodurre e riportare alla luce
ruderi grigi di civiltà ed epoche scomparse, e in ogni caso
provano
a disciplinare colui che vi si avventura. Per quanto
l’intento del
loro creatore sia nobile, questi oscuri cunicoli restano privi della
luce e dell’aria fresca della spontaneità.
Se
con ferrea pazienza e determinazione si riesce a sbucare
dall’altra
parte del crinale, scendendo la blanda vegetazione si dirada nello
sterminato e sabbioso Deserto dell’Erudizione accademica. Le
dune
si susseguono una dopo l’altra fino al limite dello sguardo e
anche
oltre, dove i granelli di sabbia e il vento si confondono con il
tempo. Il sole picchia implacabile e sempre più rare sono le
oasi
che possono dissetare il viandante, mentre numerosi sono i miraggi
che conducono alla follia.
Questa
è forse la zona più complessa ed enigmatica,
nonché la più
solitaria.
Se
si ha la fortuna di giungere ai suoi confini ci si trova di fronte
all’enorme mare, che spalancandosi nell’oceano
infinito arriva
fino alla spiaggia opposta, quella della dura e fredda
realtà.
I
confini tra le diverse zone non sono mai così netti, si dice
che ci
siano spazi in cui deserto e foresta confluiscono spontaneamente,
scogliere che fanno sprofondare direttamente in mare.
Per
quanto riguarda le persone che si possono incontrare durante il
viaggio, ce ne sono di tutti i generi.
Personalmente,
una volta esiliato dalla Città, ho cominciato le mie
peregrinazioni
in lungo e in largo. Posso testimoniare: gente smarrita nella
foresta, guide che si ostinano ad abitare ed edificare le gallerie in
modo insano, spesso ingannando i visitatori.
Alcuni
attraversando il Deserto hanno perso la ragione ed hanno deciso di
viverci, ritenendolo l’unico luogo degno della propria
grandezza:
sono figure asciutte e secche, spesso sole, che si ostinano a contare
i granelli sotto il sole, mettendo poi in mostra le loro conoscenze
di fronte ai viaggiatori assetati. I saggi che consigliano il cammino
e sanno indicare la strada per le oasi sono davvero pochi.
Colpito
ed inquietato da questo fatto, intimorito dalle difficoltà,
ho
ritardato a lungo il mio viaggio nel Deserto, limitandomi ad avanzare
timidamente di quando in quando, rifugiandomi subito alla prima oasi
non appena la sete si faceva sentire.
Tanti,
una volta giunti alla fine sulla spiaggia provati dalle fatiche, dal
sole e dal cammino partono nel mare senza voltarsi indietro,
scordando la Foresta e perfino la strada per arrivarci.
Nonostante
tutto questo, nelle notti di luna piena, quando l’aria
è fresca, o
all’alba quando spira la brezza della speranza, si possono
scorgere
scure figure che si spostano rapide.
Sono
esperti viaggiatori dallo sguardo profondo, avvezzi a tutte le
difficoltà, che girano la Landa della Lettura a proprio
piacimento,
padroni della propria mente e della propria libertà.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Il Porto d'Estate ***
Splende un sole
perenne nel
lontanissimo Porto d’Estate, una luce calda e vitale che si
staglia
nel cielo azzurro e cristallino. Una nave, una delle rare che
giungevano da oltre l’Oceano stava ora attraccata al molo:
prima e
unica tappa intermedia prima di ripartire il giorno successivo alla
volta della Baia della Città dell’Immaginazione.
D’altra
parte nessuno in genere giungeva lì per restare: pochissimi
fortunati arrivavano via terra, qualcuno dal mare, ma in genere se
passavi per il Porto d’Estate significava che la tua meta era
un’altra, o che ti eri spinto troppo lontano e potevi tornare
indietro. I pochissimi autoctoni erano cordiali, dal cuore sempre
aperto: accogliere chi viene, lasciare andare chi se ne va.
La
ragazzina dai capelli scuri, che era sulla nave, girovagava per le
strade deserte e silenziose nel primo pomeriggio. La danza del vento
fresco mescolava circonvoluzioni di profumi provenienti dalle
abitazioni con il sentore penetrante dei pini marittimi e lei
continuando a camminare giunse infine sulla spiaggia, lontano dal
molo.
Scorse
sulla riva una piccola locanda coperta da palme: lì
nell’ombra
gruppi delle più varie persone stavano a sorseggiare da
recipienti
colorati di varie forme.
Incuriosita
si avvicinò, e mentre i più la ignoravano, venne
notata subito da
un uomo che sedeva in disparte con una donna in un angolo, quello
più
esterno del porticato.
“Buongiorno
ragazzina”, la apostrofò lui con un sorriso
gentile, “che ci fai
da queste parti?”.
A
ben guardarlo l’interpellata si accorse che era il
più strano di
tutti. Non riusciva a capire di dove fosse: portava al collo una
kefiah come gli abitanti del deserto, aveva una camicia chiara e
stivali da marinaio, eppure i pantaloni stretti e pratici erano color
bosco e sulla sedia stava un grosso mantello, come se avesse
viaggiato per le montagne.
Portava
qualche anello e al braccio un fazzoletto colorato, il volto era
abbronzato e gli occhi scuri, attenti e vigili nascondevano molto
più
della serenità che ora lasciavano trasparire.
La
donna al suo fianco era invece decisamente più vecchia,
anche se i
suoi lineamenti suggerivano che in passato doveva essere stata molto
bella. Quelli che colpivano erano però i suoi occhi: verde
scuro,
profondi ed estremamente svegli, dovevano averne viste parecchie.
Già
che aveva interrotto la conversazione la ragazzina rispose:
“Abbiamo
fatto una sosta con la nave prima di ripartire per la Città
dell’Immaginazione, così passeggiavo e sono
arrivata qui”.
“Dimmi”,
riprese l’uomo “ti piace qui?”.
“Sì,
mi piace” rispose lei dopo averci pensato un po’
“anche se è
un posto strano. Dicono che non si ferma mai nessuno, e che ci sono
soltanto viaggiatori come voi. Tu per esempio da dove vieni?”
L’uomo
e la donna si guardarono per una frazione di secondo, poi lui disse
sorridendo sotto i baffi “vuoi conoscere la mia
storia?”.
“Sì,
per favore!” Disse lei con gli occhi brillanti di
curiosità.
Lui
prese un bicchiere e ci versò dentro una bevanda fumante,
poi glielo
porse. Era caldo e aveva un gusto forte, ma dissetante. “Toh,
beviti un po’ di questo mentre ti racconto”.
Il
mare cantava, il profumo del salso che sapeva di complicità
si
mescolava frizzante all’aroma della sabbia calda bruciata dal
sole.
Gli occhi fissi sull’orizzonte, l’uomo
cominciò a raccontare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Il Palazzo della Città ***
Nella zona nord-occidentale della Città si trova il Palazzo.
Detto da alcuni Palazzo Comunale, da altri semplicemente il Castello, conosciuto altrove addirittura come la Fortezza, è un luogo misterioso, sconosciuto alla maggior parte degli stessi cittadini. La sua stessa ubicazione non è del tutto chiara. Certi giorni pare a ridosso degli edifici del centro città, altre volte, spiccando oltre il Parco, sembra quasi un vecchio edificio relegato ai confini, assediato dalla vegetazione. Anche le sue dimensioni effettive non sono conosciute. Camminando per le vie e giungendo alla piazza antistante si può vedere la scalinata che conduce al portone d’ingresso che è come una bocca aperta nelle possenti pareti. Grossi blocchi di pietra emergono dal terreno, accatastati con metodo uno sull’altro, dando forma a geometrie e ambienti. Vaste porzioni dei muri sono tenute insieme da lunghi catenacci d’acciaio, così tesi da essere incastonati nella roccia stessa. Le finestre appaiono irregolarmente, come se l’edificio fosse stato rimaneggiato in epoche successive.
In alto spicca la Torre di Osservazione, dal cui pinnacolo che si eleva spesso oltre le nubi si può osservare il Cielo. Dalle torri più alte, attraverso il corpo centrale, il Palazzo si radica in profondità nel terreno con i suoi sotterranei, fino ad intrecciarsi con le Catacombe. Un rombo sordo, come una pulsazione bassa e costante emana sempre dalla sua struttura. Si sa soltanto che all’interno ci sono gli organi dirigenziali della Città, parte del suo cuore pulsante, ma in che cosa ciò consista di preciso pochi lo sanno, perché pochissimi sono entrati. Anzi, in effetti non ci entra mai nessuno.
La verità è che all’interno si trovano quelli che Immaginano Duro, detti anche i Sognatori.
Sono rari, e molto instabili, e spesso neanche si accorgono di dove si trovano. L’atmosfera è di determinazione e concentrazione assolute. Ognuno ha un proprio ambiente all’interno del Palazzo, e ciascuno scrive su un libretto caratteristico, che in qualche modo li rappresenta. Possono consultare altri testi, muoversi intorno, ma alla fine scrivono lì. Che cosa? Ricerche, storie, scoperte?
No, scrivono loro stessi, la propria vita. Scolpiscono il proprio essere, nelle più diverse maniere. Parola dopo parola si costruiscono, aggiungono tassello su tassello mano a mano che il loro lavoro procede.
È un atto creativo potentissimo, estremo, che rimbomba e scuote la trama della realtà ad ogni lettera annotata. Ecco da dove quel rombo che si percepisce dall’esterno.
I Sognatori. Sono quella cerchia ristretta di persone che hanno visto in faccia i propri limiti e le proprie paure, e nonostante questo non sono stati presi dal nichilismo, non si sono lasciati andare alla deriva, ma hanno colto la loro essenza, hanno abbracciato i loro sogni e hanno deciso di proteggerli e portarli a compimento. Non evadono, ma sono profondamente presenti, e lavorano costantemente, persistono nel loro proposito con animo limpido. Fluiscono come un torrente attraverso la vita, per giungere inevitabilmente al mare. Si mettono in gioco al 100%, coscienti di cosa rischiano. Il loro contributo è talmente determinante da condizionare gli altri, e la struttura stessa della Città. Non prendono decisioni esplicite, ma le loro azioni quotidiane guidano lo scorrere degli eventi.
Le stanze in cui lavorano sono instabili: è come essere in bilico, come i funamboli, ed è un attimo essere trascinati via.
C’è chi studiando alacremente si fa assorbire dall’obbiettivo e risucchiato dal vento rovente si trova disperso nel Deserto Accademico; chi preso alla sprovvista cade e si ritrova bloccato nella routine quotidiana del mondo reale; altri col tempo lentamente sprofondano, il loro contributo diminuisce. A quel punto c’è chi sparisce, chi si ritira nelle Catacombe, chi divenuto un riferimento per altri si tramuta in una pietra fondante del Palazzo stesso. Vero è anche che è difficile uscirne, e di solito le anime coraggiose e nobili che sperimentano tale luogo spesso trovano una via attraverso le asperità per tornarci.
Io ho avuto la fortuna di intravedere le stanze. In un paio di occasioni, e soltanto ultimamente, mi sono trovato a lavorare a prescindere da orari e scadenze, in un’unione rara tra passione e dovere. Dal mio tavolo, alzando lo sguardo, mi sono sentito per un momento parte di questi eroi temerari. Ho percepito l’aria di concentrazione e determinazione che devono respirare loro; ho visto di fianco a me una figura dai lunghi capelli neri mossi dal vento del deserto, gli occhi azzurri concentrati sul suo quaderno. Una vista fugace, e un leggero senso di comprensione. Ma quando cerco di fissare lo sguardo sulle pagine che io tengo in mano, la vista si annebbia; intravedo soltanto, senza riuscire a mettere a fuoco. E un attimo dopo sono fuori, distratto dal mondo che mi circonda.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Il Cielo della Città ***
Il Cielo della Città
Sopra la
Città si estende il
Cielo del Tempo.
Vasto,
insondabile ed eterno circonda tutto in un abbraccio ineluttabile.
Puro
nella sua semplicità, assiste brillante
all’affaccendarsi
giornaliero dei cittadini, e di notte ne veglia il riposo, le
fantasie, i segreti. È attraverso di lui che scorrono il
sole, la
luna, gli astri; i suoi moti provocano calore, freddo, pioggia,
arsura. È il fratello del mare e della terra, con cui si
congiunge
all’orizzonte. È il testimone impassibile delle
creazioni umane,
ne scandisce silenziosamente l’avvenire. Si estende oltre
qualunque
confine, e tocca tutti i mondi circostanti.
Per
poterlo ammirare meglio, nella Città
c’è un luogo in particolare
in cui si può andare: il palazzo a settentrione, che si
trova nella
parte destra della città, se dalla via principale si
è rivolti
verso la baia.
Mi
sono reso conto della bellezza del Cielo solo poco tempo fa, quando
mi ci sono trovato in mezzo. Coinvolto nelle mie faccende,
concentrato, ho spinto lo sguardo un po’ troppo in
là e ho
cominciato a precipitare. Costellazioni scorrevano, scintille di luce
frizzavano nella densa oscurità animando la mia discesa
vertiginosa.
Una
trapunta grigia sotto di me. Una volta attraversata quella, la piazza
della città si è aperta ai miei occhi,
ingrandendosi rapidamente.
Ero in caduta libera, esattamente come le mie emozioni: sorpresa,
eccitazione, stranamente nessuna paura.
Qualcosa
mi ha fermato a pochi centimetri dal suolo. Nel momento in cui ho
appoggiato mani e ginocchia sui ciottoli della piazza, un tuono ha
scosso la Città dell’Immaginazione, annunciando
l’arrivo della
pioggia. Ho alzato la testa incredulo, mentre le gocce fredde mi
scorrevano sul viso, assicurandomi che non stavo sognando.
Di
fronte a me c’erano tre distinti signori, alti, con eleganti
cappelli a punta in testa. Uno era interamente abbigliato di giallo,
il secondo di rosso, quello al centro di blu. Alle loro spalle
iniziava a fermarsi qualche curioso.
Ho
realizzato che li conoscevo molto bene. Tutti li conoscevano.
Erano
i Tre Maggiori, la massima autorità della Città.
Rispetto
alle volte precedenti l’atmosfera era particolarmente nitida.
Loro
mi guardavano lentamente, sembravano incuranti della pioggia. Provavo
un senso di soggezione, ma prima di tutto ero perplesso e lusingato
dal fatto che fossero lì per me. Mi domandavo cosa avessi
combinato
di così grave da meritare la loro attenzione.
“Ahahah!
Che atterraggio! Allora, cosa ci fai qui?”
La
risata cristallina di quello in blu aveva spezzato il silenzio, la
domanda mi aveva lasciato sorpreso. Era tutto fuorché una
situazione
usuale. D’altra parte se ne stava lì, con gli
altri due alle
spalle, ad aspettare in silenzio una mia risposta. L’ho
fissato
negli occhi, ma il suo sguardo era limpido, e l’attesa era
sincera.
Che le mie precedenti incursioni fossero state tutte scoperte? O che
avessi combinato qualcosa di ancora peggiore, così grosso
che
nemmeno loro ne erano ancora al corrente?
“Pensavo
me l’avreste detto voi, dato che siete tutti qui. Mi dispiace
se ho
causato qualche problema” ho risposto alla fine, forse un
po’
imprudentemente.
I
tre si sono scambiati un’occhiata, mentre il resto degli
astanti
assisteva. Quello blu ha fatto un cenno di assenso.
“Molto
bene. Riproviamo con una domanda più semplice allora.
Perché,
secondo te, non dovresti essere qui?”.
Questa
la sapevo, anche se l’ammissione di colpa era un
po’
imbarazzante. Ma non sembrava esserci malizia sul volto del Maggiore.
D’altra parte, era giusto affrontare l’argomento.
Era giunto il
momento.
“Non
dovrei essere qui perché sono stato esiliato, dato che non
ero degno
di...”.
Ma
non mi hanno lasciato finire la frase:
“Ah
sì, certo. Ma…ricordi come è avvenuto
di preciso il tuo esilio?”
mi ha chiesto.
“Mi
sono ritrovato qui dopo molto tempo, e sapevo che non avevo il
diritto di starci. È stato… non ricordo. Ora che
ci penso, non
ricordo nemmeno più esattamente cosa fosse
successo”. Cominciavo
ad essere davvero perplesso. Aveva smesso di piovere.
“Ahahah!
C’è un po’ di confusione a quanto
pare… sarà stato il volo.
Ad ogni modo, a quanto pare non ricordi quando o se l’esilio
sia
stato decretato. E se l’evento scatenante non sussiste,
suppongo
siamo finalmente qui presenti, di fronte a tutti, per darti il
benvenuto. O il bentornato”.
Com’era
possibile. Non ci volevo credere. “Un momento per favore. Io
sono
fuggito per anni, e quando mi ritrovavo qui sapevo di essere fuori
luogo, sentivo chiaramente di non essere il benvenuto.
Cos’è
cambiato ora?”.
Il
rosso ha incrociato le braccia, mentre il giallo si è
avvicinato al
blu sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
“Certo”, ha detto
quello. Poi si è rivolto a me.
“Uhm,
manchi un po’ di immaginazione per essere un avventore ed un
estimatore della Città. Ma per amore dei lettori, a costo di
risultare pleonastico, ecco come funziona la questione” ha
cominciato a spiegare con voce ferma e paziente.
“Qui
è letteralmente possibile qualsiasi cosa, per chiunque vi si
trovi,
condizione che comporta conseguenze e garanzie. È come uno
spazio
virtuale sconfinato ed illimitato, in cui i cittadini possono
incontrarsi, interagire, mantenendo allo stesso tempo la propria
autonomia. La distinzione tra il singolo e l’insieme permane,
ma
allo stesso tempo sfuma... Facciamo un esempio, una situazione
estrema. Se un individuo immaginasse di distruggere tutto,
ciò
sarebbe del tutto reale nella sua mente, ma d’altra parte, in
quanto fantasia, sarebbe anche soltanto un tassello che si aggiunge
alla Città”.
“Non
esiste una reale possibilità di danneggiare la
Città o i suoi
abitanti – ha continuato - quella resta una caratteristica
del
mondo materiale là fuori. Qualsiasi partecipazione, in
quanto atto
creativo, contribuisce in modo neutro a edificare la città,
a
prescindere da bene e male”. Momento di silenzio.
Avevo
intuito qualcosa di importante, che cercava solo una conferma
esplicita. Incrociando lo sguardo del Maggiore giallo ho colto un
lampo di intesa e un cenno di assenso.
Il
blu ha continuato: “Come hai capito, tutto questo
è possibile
grazie alla profonda connessione tra la Città e il
cittadino,
totalizzante, che coinvolge tutte le dimensioni, razionale, emotiva,
spirituale. E non potrebbe essere altrimenti. Di conseguenza, anche i
criteri per essere ammessi o esiliati dalla Città vengono
definiti
dalla coscienza e dal subconscio di ognuno. Se vogliamo è il
miglior
sistema di sicurezza, sebbene di fatto non ce ne sia davvero nemmeno
bisogno”.
Ecco.
l’avevo pensato, ma non mi pareva vero, o possibile. Forse
era
troppo facile così. Però non faceva una piega, ed
era
effettivamente verosimile. Conoscendomi, che mi fossi cacciato da
solo in tutto questo macello era più che probabile . Non
sapevo
nemmeno bene come sentirmi, se sollevato o indispettito, o
addirittura deluso.
“Esatto,
quindi noi non ti abbiamo mai formalmente e definitivamente esiliato.
Tu hai deciso di andartene. A quanto pare non ti conosci ancora
così
a fondo. In ogni caso è un piacere per noi che tu abbia
scelto, o ti
sia permesso, di tornare ad abitare qui. Sentiti libero di andare e
venire quando vuoi. Puoi anche usare l’ingresso principale
d’ora
in avanti, se ti fa piacere”.
A
quelle parole ho deciso di lasciar perdere i dubbi per una volta. Per
un attimo mi sono fermato e ho apprezzato il momento di pace in cui
mi trovavo.
Il
cielo sopra di me era limpido ora, e le stelle lo trafiggevano,
minuscole, chiare quanto incantevoli. L’aria era fredda,
frizzante,
e tutto intorno a me sembrava precipitata una penombra blu come il
mantello del Maggiore.
Le
sue parole mi risuonavano in testa, quando un nuovo dubbio mi ha
fulminato: “Ma allora, tutto questo è
reale?”.
“Ahahah!”
ha riso lui, i colleghi lo guardavano divertiti.
“Molto
bene, questa domanda merita un’altra bella chiacchierata!
Magari un
giorno al Palazzo. Cittadino, bentornato!”.
Ho
seguito il suo cenno che mi invitava a guardarmi alle spalle.
Le
luci della strada si erano accese, e intorno a me numerosi volti mi
fissavano, ognuno con un’espressione diversa.
Vite,
storie, abissi, enigmi.
Finalmente
avrei potuto conoscerli serenamente, senza sentirmi di troppo, senza
fuggire. Quando mi sono voltato i Tre Maggiori non c’erano
già
più.
La
notte era scesa ancora una volta sulla Città. Silenziosa,
con nuove
promesse, nuove prospettive, mentre io mi incamminavo lentamente.
Un
passo dopo l’altro, avanzavo con una nuova consapevolezza.
E
mi sentivo a casa.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3884399
|