Tutte le volte che ti cerco.

di myyouthisyourss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Il mio primo ingresso in clinica fu terribile, un'esplosione di emozioni fortemente negative, un'alternanza di angoscia, malinconia e rabbia e poi ancora malinconia, rabbia e angoscia. Cambiava la combinazione con cui si presentavano, ma  le emozioni erano sempre le stesse.

Ne avevo già fatta molta di strada, avevo già visto troppi medici, troppi psicologi, psichiatri e nessuno di questi era riuscito a risolvere o placare i miei istinti. A detta dei miei genitori avevo fatto dei piccoli progressi che seppur impercettibili, erano comunque progressi, ma la realtà è che io non ne notavo neanche uno. Io, e solo io, sapevo delle notti passate nella mia camera a non dormire, in lacrime, a fissare il vuoto e contare minuti, secondi, giorni e ore. Io e solo io sapevo della mia condizione.

Disturbo ossessivo compulsivo. Era per questo che mi avevano portata li, in quel covo di pazzi disadattati, così li definivo io, così apparivano alla mia immaginazione. Non lo pensavo davvero, sapevo bene che quelle persone non erano pazze, nessuno di noi lo è, era solo un mio strano modo discriminatorio per impuntarmi e per cercare di restare a casa.

"Non sono una pazza", urlai alla dottoressa quando, col suo solito sorrisetto di chi ha conseguito una laurea per strizzarti il cervello, mi disse che mi avrebbero portata in una clinica psichiatrica.

"Chi ha detto che sei pazza? La clinica non é per pazzi, ma per persone che hanno difficoltà e hanno bisogno di un aiuto in più che io non posso offrire" replicò.
"Guarda che non è un luogo cupo e triste come lo starai immaginando, è un posto davvero molto bello e confortevole" continuò il suo assistente.

E così, con quella scusa, con quel pretesto, mi ritrovai una mattina di luglio a oltrepassare il cancello che avrebbe portato via la mia libertà per chissà quanto tempo.

La prima volta che mia madre capì che qualcosa in me non andava avevo dieci anni. In quel periodo mio nonno stava male, sembrava in punto di morte e mentre i miei genitori passavano le loro giornate in ospedale, io le passavo chiusa in casa, senza amici e col caldo afoso di agosto. Era tutto troppo nuovo per me, ero sempre stata una bambina solare e circondata da amici, soprattutto, in estate ero solita viaggiare con mia madre e mio padre. Sola, angosciata, annoiata e con una tremenda paura di perdere mio nonno (che alla fine si riprese dopo due mesi) iniziai, senza un preciso perché, a giocherellare con i peli delle mie sopracciglia fino a staccarli e creare delle enormi chiazze vuote, esenti da ogni pelo. Quel gesto d'istinto, quello strappare mi creava enorme soddisfazione che tutt'ora mi è difficile spiegare: un attimo prima adrenalina, successivamente tensione e al termine dello strappo venivo pervasa da un tremendo senso di colpa e inadeguatezza.

Mia madre si accorse del mio malessere quando una sera, accarezzandomi la fronte, intravide degli evidenti spazi vuoti sulle mie sopracciglia.

"Non lo so, credo proprio che mi siano cadute" le risposi mentre lei cercava di capire cosa fosse successo. Ci vollero sette visite da sette specialisti diversi per farmi confessare che la causa di tutto ero io.

I miei genitori non si mostrarono sconvolti nonostante strapparsi le sopracciglia non fosse un gesto normale per tutti, si mostrarono anzi sollevati del fatto che non avessi alcuna malattia ormonale o dermatologica.

"Tranquilla piccola Bea, ora ti porteremo da qualcuno che può aiutarti davvero" disse mio padre, quando per la prima volta mi portarono dallo psicologo.

Tricotillomania, é stato questo il nome del mio primo segno di DOC.

Quando iniziarono le scuole medie, il tutto divenne ancora più grave ed accentuato.

"Perché non hai le sopracciglia? Cosa ti é successo?"

Come lo spieghi a dei bambini curiosi che strappi le sopracciglia perché ti causa piacere? Semplice, non lo spieghi, ti chiudi in te stessa e inizi a odiare ogni tipo di rapporto sociale. Ricordo quel periodo come uno dei più brutti della mia vita. Ero sempre stata educata al fatto che quando qualcuno ha un evidente problema o lo si aiuta o non lo si fa notare, insegnamento che purtroppo i miei compagni di classe non avevano ricevuto.

Chiedevano, chiedevano e chiedevano e io non facevo altro che mentire e inventare scuse, ma loro continuavano e con la loro insistenza distruggevano sempre più la mia piccola anima fragile.

Avevo un'unica amica, Azzurra, l'unica a cui non interessava delle mie sopracciglia e che rideva e scherzava con me non fissandomi sopra agli occhi, e fu proprio azzurra ad avvisarmi del fatto che i miei compagni avevano creato un gruppo su un social network intitolato "Regaliamo un paio di sopracciglia a Beatrice".

Era stato fin troppo semplice creare un gruppo di cui io non potevo essere a conoscenza considerando il fatto che per me il cellulare e i social network erano ancora un modo tutto nuovo da scoprire.

Quello fu il colpo di grazia, ma tutt'ora sono fiera di come reagii. Non una lacrima versata, non un pianto disperato, niente di niente. Corsi dalla preside della mia scuola e li feci sospendere tutti, uno ad uno. Ricordo che Azzurra mi disse "Adesso hanno un buon motivo per odiarti", io risposi "Puoi dirlo forte" e sorrisi compiaciuta sentendomi forte e invincibile.

Col tempo, fortunatamente, quel disturbo iniziò ad attenuarsi fino a scomparire del tutto. Ero felice, stavo bene, iniziai a farmi delle nuove amicizie e ad avvicinarmi al mondo degli adulti, le sopracciglia crebbero senza lasciare una traccia di come le avevo martoriate, il che fu una fortuna, il dermatologo mi aveva detto che c'era la probabilità che alcune non sarebbero ricresciute e invece erano tutte li.

Quando un altro disturbo ossessivo compulsivo prese il sopravvento su di me avevo sedici anni, terzo anno di liceo.

Iniziai ad essere ossessionata dai numeri, dai conti, sentivo la necessità di contare ogni cosa. Le pagine da studiare, le parole di una frase, le mattonelle del bagno, le persone in una stanza. Inizialmente mi piaceva, adoravo così tanto fare i conti che i miei voti in matematica aumentarono drasticamente. Il vero dilemma iniziò quando cominciai a contare anche più volte la stessa cosa, quando iniziai a contare la pasta pretendendo di avere nel piatto solo ed esclusivamente alimenti in numero pari, quando il volume della radio doveva essere sedici o ventidue, quando alla posta mi capitava un numero dispari e mi sentivo avvilita, dovevo scappare via.

I numeri presero il sopravvento su di me a tal punto da non poter uscire di casa per paura di dover contare chissà quante cose e col terrore di trovarmi dinanzi a numeri dispari. É per questo che la clinica diventò sempre più indispensabile alla mia salute mentale. Avevo varcato la soglia dei diciotto anni senza aver mai vissuto davvero, avevo bisogno di quella riabilitazione, anche se al tempo non me ne rendevo conto e anzi, disprezzavo, questa scelta più di ogni altra cosa al mondo.

Mia madre, prima di lasciarmi, si assicurò che io stessi bene. L'infermiera mi accompagnò nella mia stanza e ci lasciò sole.

"É un bel posto qui, vero?" mi chiese sedendosi sul letto.

Mi guardai intorno, le pareti rosa della stanza erano completamente vuote, era popolata solo da due letti, due armadi e un unico bagno che sembrava abbastanza spazioso. L'unica nota positiva era il piccolo terrazzo di cui la mia camera disponeva. L'infermiera mi spiegò che non tutti avevano questa fortuna, i ragazzi con tendenze suicide avevano delle camere con le finestre severamente blindate per evitare spiacevoli situazioni. Da dove mi ero posizionata riuscii a contare che sul terrazzo c'erano sessantasette mattonelle e pregai Dio che con quelle che non si vedevano e non ero riuscita a contare  avrei scoperto che in realtà erano in numero pari.

"Mamma, solo perché le pareti non sono grigie non significa che sia un bel posto. Resta una prigione."

"Bea, non é una prigione. Possiamo venire a trovarti tutti i giorni e se lo richiederai potrai venire a casa anche solo per mezza giornata, per pranzare con noi."

Guardai il soffitto, c'erano due crepe, almeno quelle erano pari, ne fui sollevata.

"Beatrice, promettimi che resisterai più che puoi" mi disse tenendomi la mano.

Avrei voluto anche la presenza di mio padre, che ovviamente, si trovava in Germania per lavoro e mi aveva promesso che sarebbe passato il prima possibile.

"Ci provo, ma non prometto".

Quando mia madre andò via l'infermiera mi raggiunse per spiegarmi bene cosa avrei dovuto fare e quale fosse l'organizzazione della clinica.

Era una ragazza appena laureata, giovanissima, avrá avuto all'incirca ventidue anni, o almeno mi piaceva pensare che fossero ventidue e non ventitré.

"Okay Beatrice, ora ti spiego tutto.."

Iniziò uno sproloquio di cui al tempo non capii niente, ero troppo concentrata a fissare il vuoto e ogni tanto guardare intorno, l'organizzazione l'ho compresa dopo aver vissuto li ma quella spiegazione fu completamente inutile, l'unica cosa che riuscii a captare fu che la mia camera non avrebbe ospitato nessuno oltre me nonostante ci fossero due letti ma che, qualora qualcuno di sesso femminile fosse entrato in clinica, automaticamente sarebbe stato messo nella mia camera. Sperai di restare sola per tutto il tempo.

La clinica, che quel giorno mi sembrava terribile, in realtà era un piccolo angolo di paradiso e tranquillità. Ogni stanza ospitava massimo due ragazzi dello stesso sesso, c'erano vari colori e ognuno poteva sentirsi libero di attaccare poster, fotografie o decorarla come meglio preferiva. La mattina i ragazzi andavano a scuola o all'università. Quelli che venivano definiti "psicologicamente predisposti", con problemi simili ai miei, potevano recarsi tramite mezzi pubblici, coloro che invece si trovavano li con tendenze suicide e disturbi più complessi venivano accompagnati da una navetta messa a disposizione dalla stessa clinica. Chi invece non frequentava alcun percorso di studi era libero di restare in clinica per dedicarsi a qualche attività. Effettivamente, c'erano davvero tante cose da fare. Potevi dedicarti a qualche hobby, potevi fare una passeggiata, un'uscita, c'era addirittura una piscina in giardino che in estate veniva ripulita per permetterci di fare il bagno. Era una struttura completa, un piccolo mondo a parte, e proprio per i servizi che offriva era accessibile solo alle famiglie benestanti. Al tempo lo trovavo ingiusto e spesso pensavo ai ragazzi meno fortunati costretti a chiudersi in cliniche pubbliche dai muri grigi e i bagni condivisi, col tempo me ne sono fatta una ragione.

Il pomeriggio in clinica era un pomeriggio come tanti, c'era chi studiava, chi leggeva un libro in biblioteca e chi usciva a prendere un gelato e ad un certo orario, arrivava la psicoterapia, la mia era fissata ogni giorno ad orari diversi. I pasti avvenivano nella grande mensa e la sera eravamo liberi di uscire a patto di ritornare alle undici e mezza o a mezzanotte nel fine settimana.

Spiegate tutte le regole e l'organizzazione, l'infermiera mi diede il piano con gli orari della psicoterapia e mi invitò a fare un giro per familiarizzare col posto.

Decisi di uscire dalla camera per esplorare la biblioteca, uno dei posti che maggiormente attirava la mia curiosità, nonostante fosse un posto pericoloso perché tutti quei libri sicuramente mi avrebbero fatto venir voglia di contare. Avevo voglia di scoprire che libri proponessero sperando di trovarne uno abbastanza gradevole per passare il tempo aspettando che qualcuno della mia famiglia portasse i miei che avevo distrattamente lasciato a casa.

Oltrepassai quei corridoi leggendo tutti i numeri delle stanze, la mia era la centodue (avevo esplicitamente chiesto un numero pari) e riuscii subito a trovare la biblioteca grazie alle segnaletiche molto precise con delle frecce che indicavano con molta precisione il luogo in cui eri diretto.

La biblioteca era a due piani e centoventitré scale dalla mia camera, inutile sottolineare il nervosismo che provai all'ultimo passo. Durante il tragitto avevo visto molti ragazzi e sembravano tutti sanissimi. Non mi aspettavo di trovarmi in un manicomio con pazzi urlanti, sedati e con le camicie di forza, ma non mi aspettavo neanche di ritrovare tutti ragazzi così ordinari, così anonimi. Mi sentivo particolarmente osservata, pensai che probabilmente si conoscevano tutti ed ero diventata la loro novità di cui parlare per almeno un giorno.

Quando arrivai dinanzi alla biblioteca non potei far a meno di notare la targhetta d'orata con incisa una frase che avevo sempre amato "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza", in quel momento sorrisi. Quando sei in un luogo nuovo e in cui ti senti spaesato e impaurito trovare qualcosa che ami, che ti piace, o di familiar ti crea subito un senso di profondo benessere, è in quel momento che inizi a riprendere coscienza, inizi a sentire i piedi per terra, e così mi sentivo io.

"Sei quella nuova?" subito mi bloccò una voce mentre stavo per varcare la porta di legno.

"Bel modo di etichettare le persone" risposi fissando la ragazza che aveva attirato la mia attenzione. Capelli ricci ramati, occhi verdi, corporatura esile, forse troppo per i miei gusti, riuscivo quasi a vederle le clavicole.

"Imparerai presto che qui nessuno ha un nome. Qui inizialmente sei "quella nuova" e successivamente diventi "quella bipolare", "quella grassa", "quella borderline", insomma...hai capito" rise poggiandosi le mani sui fianchi.

"E tu chi saresti?" chiesi.

"Io sono quella anoressica, piacere di conoscerti, tu?"

"Al momento sono quella nuova ma credo di essere la futura candidata al titolo di "quella ossessionata", tu però puoi chiamarmi Beatrice" risi.

"Allora tu puoi chiamarmi Luce, meglio Lu, preferisco abbreviarlo" mi pose la mano e me la strinse.

Luce seppe prendermi sin dal primo momento. Mi affascinava il fatto che una ragazza con quel nome vivesse nella più totale oscurità con se stessa. Subito mi raccontò la sua storia, inizialmente mi sembrò strano, poi però ci dovetti fare l'abitudine.

In centro funzionava così, prima di conoscere te avevano bisogno di conoscere la tua storia e non per invasione o maleducazione, ma più per un senso di appartenenza, era un po' un biglietto da visita. Notai subito infatti che le persone con una storia simile erano più propense a fare gruppo e condividere quel percorso insieme.

Luce parlò in una maniera così spontanea da catturare la mia attenzione e creare in me un senso di tenerezza.

L'ultima di cinque figli, era cresciuta a Roma in un quartiere non molto lontano dal mio con i suoi quattro fratelli, i suoi genitori e il suo tenero cane di cui mi parlava con moltissimo affetto. Anche lei, come me, non aveva avuto delle belle esperienze scolastiche soprattutto a causa di qualche chilo di troppo che a lei non infastidiva ma evidentemente ai suoi compagni si.

"Ti capisco, quello che a te non tocca diventa automaticamente il problema di qualcun altro" le dissi mentre lei mi spiegava di tutte le prese in giro dei suoi compagni.

E così, da ragazza allegra e spensierata, si era ritrovata a contare calorie, diminuire i pasti e fare i conti con uno stile di vita che le stava stretto mentre i vestiti le iniziavano a stare sempre più larghi.

"Non voglio raccontarti troppi dettagli, lo scoprirai col tempo".

Risi perché io sentivo come se mi avesse raccontato già tutta la sua vita mentre lei di me non sapeva ancora niente, avevo giusto accennato del mio disturbo e in cosa consistesse.

Tra un racconto e un altro mi fece vedere subito la biblioteca in cui riuscii a contare solo i libri di uno scaffale e scoprii con mia grande felicità che erano novantaquattro. Successivamente mi mostrò la sala con la TV in cui trasmettevano un film dopo l'altro, la coloratissima mensa, mi mostrò la strada per la psicoterapia con lo studio della mia dottoressa ed infine la piscina, il suo posto preferito.

"Questa piscina mi fa sentire come se fossi in vacanza in un villaggio turistico, anche se non è così e in inverno diventa tutta grigia e sporca" disse con un briciolo di tristezza.

Luce mi guardò negli occhi e capì subito che nonostante lo sapessi nascondere bene ero spaventata da quel nuovo ambiente e sarei voluta scappare via. Mi poggiò una mano sul braccio e mi disse "Anche io pensavo fosse una prigione, ti assicuro che si vive in maniera del tutto normale e soprattutto nessuno ti giudicherà mai".

"Non è questo" dissi fissando i bordi bianchi della piscina.

"E qual è il problema?"

"Sento che tutto questo è inutile, come potrebbe aiutarmi?"

Tirò un sospiro di sollievo, la sentii emotivamente vicina a me.

"Non lo so, ma questo posto ha qualcosa di bello. E' una piccola realtà e ti aiuta tanto. Sai quanto pesavo quando sono entrata qui?"

"Se è un numero dispari, non dirmelo" dissi mettendo le mani sulla fronte.

"Pesavo trentasei chili Bea, trentasei. Ho passato le mie prime tre settimane con un sondino naso gastrico perché rifiutavo di mangiare qualsiasi cosa e avevo una camera blindata poiché la mia dottoressa temeva potessi compiere un gesto estremo" disse.

"E ora?"

"Ora è cambiato che non sono ancora nel mio normo-peso, alterno momenti in cui digiuno tutto il giorno a momenti in cui mangio regolarmente, il mio percorso è ancora lungo, lunghissimo, però guardami. Peso dieci chili in più rispetto a quando sono entrata e la dottoressa mi ha dato una camera senza sbarre, non blindata, con un balcone in cui posso stare seduta a leggere un libro poiché sa che mi trovo bene qui e non compirò mai alcun gesto estremo"

Restammo in silenzio per un po' di tempo, mi sentii così confortata e allo stesso tempo scossa dalle sue parole che non avevo bisogno di parlare e lei fortunatamente seppe leggere benissimo quel silenzio così come aveva saputo leggere la mia tristezza poco prima.
Al tempo non lo sapevo ancora che quella ragazza così esile e minuta avrebbe imparato sempre di più a leggere i miei occhi, i miei silenzi e il mio sorriso.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Ero arrivata da poche ore e giá molte cose mi erano chiare di quel posto: i ragazzi si etichettavano tra di loro, un po' per scherzo e un po' per prepotenza, adoravano far gruppo, le persone nuove venivano osservate come alieni per almeno ventiquattro ore, volevano sapere tutto di te e soprattutto, cosa più importante, la mensa proponeva del cibo di media qualità ma completamente privo di sale.

Fu proprio durante la mia prima cena in mensa che Luce mi presentò il suo piccolo gruppo di amici. Primo fra tutti Carlo. Vent'anni, studente di comunicazione, autolesionista, si presentò a me esordendo con una battuta che fece sorridere un po' tutti.

"Regola numero uno: i ragazzi anoressici sono i tuoi migliori amici"

"Perché?"

"Semplice, sono costretti a mangiare abbondantemente e soprattutto cibo migliore del nostro. Loro passano il cibo a noi così siamo felici entrambi, vero Luce?" disse facendole l'occhiolino.

"Ben detto" rispose la mia esile compagna passandogli il gelato che aveva come dessert sotto al tavolo.

Al tempo quella situazione mi provocò un senso di divertimento, era bello fare delle battute sulla propria condizione psicologica, poterne parlare liberamente, a scuola questo non accadeva. Avevo appena affrontato il mio ultimo anno di liceo e mai una volta, neanche una singola volta, mi ero sentita libera di parlare di disturbi psicologici.

La seconda persona che mi presentò fu Alessia, meglio conosciuta come Alex, una ragazza convinta di avere origini americane, bugiarda cronica e narcisista patologica, non capii perché una ragazza del genere così egocentrica e fastidiosa facesse parte del gruppetto di Luce, pensai che nonostante le apparenze avesse il suo perché.

"Quindi perché sei qui?" mi chiese mentre con la forchetta sminuzzava il cibo nel suo piatto.

"Disturbo ossessivo compulsivo. Per fartela breve...conto qualsiasi cosa e odio i numeri dispari, mi mettono a disagio" dissi alzando gli occhi al cielo.

"Sai, ho visto un film che parlava parla proprio di questo"

"Giá, hai mangiato otto pezzettini di pollo comunque"

"Immaginavo che stessi pensando a quello, sono sempre osservata da tutti" rise, Carlo e Luce si guardarono alzando gli occhi al cielo.

La verità è che non stavo assolutamente contando i morsi di Alessia, volevo solo cercare di capire che reazione avesse avuto. La mia concentrazione era principalmente posta al piatto di Luce. Volevo assicurarmi che mangiasse, e non perché fosse la mia più cara amica, anzi, la conoscevo da poche ore, ma sentivo il bisogno di capire i suoi comportamenti.

Osservai attentamente e notai che solo uno stupido non si sarebbe accorto dei suoi evidenti problemi col cibo. Aveva sminuzzato il pollo in piccolissimi pezzettini, ne contai almeno trentasette, prima di portarsi un pezzettino alla bocca girava e rigirava il cibo con la forchetta, lo ispezionava e sceglieva i pezzettini migliori. Successivamente tendeva a toccarsi i capelli, segno di evidente disagio, prima di portare un minuscolo boccone alla bocca. Non ingoiava subito, masticava, masticava e masticava come se volesse triturare ancor di più quel pollo che ormai aveva preso le sembianze di una pappetta per neonati. Poi beveva, quasi come se stesse mandando giù una pillola amara e ripeteva tutto il processo senza saltare un passaggio.

Mangiò tutto il pollo, gran parte dei piselli al forno e bevve tutta la bottiglietta d'acqua da mezzo litro che aveva accanto. Il gelato non lo mangiò, lo passò a Carlo mentre facevo la sua conoscenza, stessa cosa il pane che diede ad Alex che era molto più affamata di lei.

Ero sollevata, ero sicura del fatto che avrebbe dovuto mangiare di più, ma almeno stava mangiando. Fu un sollievo considerando che mi aveva raccontato che prima del centro era capace anche di digiunare tutto il giorno e bere litri e litri di acqua.

Carlo e Alex continuarono per tutto il pranzo a parlare di cose che non riuscivo a capire, di sociologia, antropologia e materie universitarie di cui capivo ben poco.

"Anche tu studi scienze della comunicazione?" chiesi ad Alex vedendola particolarmente interessata.

"In realtà no, sono solo un'appassionata. Non mi piace l'università, una volta uscita da qui voglio fare dei provini per diventare modella" sorrise.

"Te lo auguro" sorrisi pensando che probabilmente ce l'avrebbe fatta data la sua bellezza.

"Tu studi?" chiese Carlo.

"Mi sono diplomata quest'anno al liceo classico, ancora non sono sicura di quello che voglio fare"

Non ero sicura di quale sarebbe stata la mia strada, la mia unica certezza era quella di volermi liberare delle mie ossessioni e delle mie manie. Non aveva senso iniziare un altro percorso con una mente travagliata come la mia. A diciott'anni c'è chi sogna di diventare medico, chi modella, chi di aprire un negozio, tutti iniziano a pensare al proprio futuro, io volevo solo essere normale.

"Non mi hai detto il numero della tua camera" mi disse Lu mentre si asciugava delicatamente la bocca con un tovagliolo di carta. La sua magrezza faceva sembrare ogni suo movimento delicato e leggero, la invidiai per un attimo.

"Sono nella cento-due" risposi.

Carlo e Luce scoppiarono in una risata sonora, Alex si portò una mano sulla fronte e sbuffò esclamando "Ecco lo sapevo", poi mi guardò con fare apprensivo e ironico allo stesso tempo e mi diede una pacca sulla spalla. Chiesi ingenuamente perché stessero ridendo.

"Ci dispiace per te" disse Luce sorridendo.

"Cosa c'è di male nella mia camera?"

"Nella tua nulla, in quella accanto c'è un grosso problema" rise Carlo.

"Stupido, la spaventi" replicò Luce dandogli una piccola spinta. Poi si guardò intorno, si chinò sul tavolo e sussurrò per non farsi sentire. "Accanto a te, nella stanza.." esitò un attimo "..nella stanza accanto alla tua c'è Damiano, un grosso problema".

Non potevo sapere chi fosse Damiano, ma il modo in cui Luce aveva pronunciato il suo nome e in cui i ragazzi avevano riso mi aveva fatto pensare a un ragazzo che causa problemi o che perlomeno ne aveva causati a loro. Non ero preoccupata, nonostante fosse il mio vicino di stanza, sapevo di non essere una ragazza da pestare, anzi, sapevo benissimo difendermi da ogni cosa, talvolta con un pizzico di aggressività che accompagnata al mio profilo psicologico ben evidente, ai miei capelli nero corvino e i miei occhi scuri destava un certo timore in chi provava a prendersi gioco di me. L'avevo imparato col tempo, grazie alle delusioni, le prese in giro. La mia fragilità era scomparsa col tempo e si faceva evidente solo quando ero completamente sola, con gli altri ero capace di diventare la peggiore delle iene.

Bastava una piccola parola di troppo, un piccolo gesto e la mia ira funesta non poteva più essere trattenuta.

"Non ho problemi coi ragazzi" risposi sistemando il vassoio per poterlo riportare alla signora che si occupava di ripulire la sala.

"Figurati, lui non é uno che da quel tipo di problemi"

"Quindi?"

"Damiano é..." Carlo si girò in torno come per assicurarsi che non ci fosse nessuno e poi con una mano davanti alla bocca sussuró "..é un tossicodipendente, un drogato, alcolizzato"

"E cosa ci fa in una clinica per ragazzi con problemi psichiatrici? Non esistono centri specializzati per questo problema?"

"É il figlio della direttrice"

Mi parlarono di questo ragazzo come se fosse innominabile, mi raccontarono che era il figlio della direttrice, la quale odiava far sapere in giro dei problemi di tossicodipendenza del figlio, per cui preferiva tenerlo nella sua clinica spacciandolo per un ragazzo con problemi di ansia sociale e aggressivo. In realtà, a detta loro, tutti erano a conoscenza dei problemi di Damiano legati alla droga e che la madre era l'unica a fingere che nessuno sapesse niente.

"Sai, è stato addirittura in carcere per aggressione alla sua ragazza che stava provando a calmarlo in un momento di panico"

"Quindi è pericoloso?"

"Non lo so, sembra un tipo tranquillo, ma credo sia a causa dei sedativi. A volte durante la notte urla quando i farmaci smettono di fare effetto, urla perché ha bisogno della sua roba e gli infermieri sono costretti a sedarlo nuovamente. È per questo che non vorrei mai essere la sua vicina di stanza, non riuscirei a dormire" esordì Alex.

"Tranquilla, ho problemi di sonno a prescindere da Damiano, magari ci teniamo compagnia" risi.

"Non scherzare" disse Luce "E soprattutto, se lo vedi, ricordati di evitarlo"

E così, con quella premessa, quell'avvertimento ritornammo ognuno nelle proprie stanze. Dalla mensa alla mia camera contai duecento-trentacinque passi e ovviamente, prima di rintanarmi, fu inevitabile non buttare un occhio sulla porta della camera cento-tre. Sembrava una stanza esattamente uguale alle altre, con la porta azzurrina e il numero in rilievo in oro, tutto perfettamente normale e omologato se non per la persona mentalmente instabile (a detta dei miei compagni) che vi dormiva.

Nella mia camera avevo sistemato quasi tutto, inviai un messaggio a mia madre chiedendole di portarmi qualcosa per decorare la camera, quelle pareti rosa così spoglie e prive di senso causavano in me un senso di ansia e vuoto.

Guardai il soffitto sdraiata sul letto per un tempo che mi sembrò un'eternità, fissai le due crepe che avevo già notato la mattina e mi accorsi che partivano come crepe singole ma che poi si ramificavano fino quasi a incontrarsi in un punto ben preciso, sembravano quasi dei neuroni in sinapsi e mentre facevo questo pensiero mi resi subito conto di quanto fosse stupido. Contai i passi dal letto al bagno, erano distanti circa venti passi. Piansi, piansi tantissimo. Non era tristezza, ero anzi felicemente compiaciuta di come ero stata accolta, era più malinconia di un qualcosa che non avevo mai vissuto. Piansi perché avrei voluto avere una vita normale, con degli amici con cui uscire, con cui ridere, avrei voluto avere una combriccola scolastica con cui combinare guai e ridere, ridere di cuore.

Che strana cosa la nostalgia, a volte sale come un nodo alla gola perché rimpiangi i vecchi tempi, altre invece perché non hai mai vissuto quel che volevi. La nostalgia é così é mancanza, ma anche assenza.

Pensavo a quei ragazzi così anonimi e allo stesso tempo così tormentati, per un attimo mi sentii meno sola, infondo la guerra non la vince mai un solo soldato.

Quella sera mi addormentai esattamente col cuscino tra le braccia e le lacrime agli occhi, fui svegliata qualche ora dopo da un odore forte, intenso, un odore catramoso e di bruciato seguito da un rumore scricchiolante, un po' come quando in pieno autunno calpesti le foglie secche sull'asfalto. Mi alzai di scatto e mi accorsi di aver lasciato il balcone aperto anche se non ricordavo di essere stata in terrazzo.

Mi accorsi che quello sgradevole odore che stava delicatamente entrando nella mia camera proveniva esattamente da li.

Chiusi le finestre di vetro del balcone, subito dopo sentii un rumore di passi provenire dallo stesso. Aprii delicatamente la porta e una figura nera nello scuro mi apparve davanti, diedi un piccolo urlo di spavento.

"Shh, silenzio" esclamò l'ombra nera tappandomi la bocca e portandomi dentro.

Accese la luce sapendo perfettamente dove si trovasse l'interruttore, l'ombra nera ebbe un volto. Era alto, magro, non quel magro eccessivo, anzi, era proporzionale alla sua statura. Aveva capelli scuri lunghi fin sotto l'orecchio che aveva accuratamente tirato dietro, sulla faccia nessun accenno di barba, naso leggermente incurvato, un'incurvatura che non appariva come un difetto, quasi gli donava.

Indossava un pantalone a quadri di un pigiama, non indossava la maglia e gli si vedevano perfettamente i tatuaggi sulle clavicole e uno che sembrava scendere fino al pube. Occhi scuri accentuati ancor di più da un leggero strato di matita nera nella rima inferiore, mani esili e unghie colorate da uno smalto nero opaco.

"Non volevo spaventarti" disse con la sua voce graffiante.

Mi sedetti sul letto con una mano sul cuore come a riprendere i battiti. Non avevo minima idea di chi fosse quel ragazzo, ma dall'aspetto mi fece pensare che facesse parte della clinica.

"Chi sei e cosa ci fai qui?"

"Sono il ragazzo accanto, mi dispiace averti spaventata" rispose giocherellando con un accendino. Nel momento in cui accese la fiamma riuscii ad intravedere il cerchietto che portava al naso. Non ci pensai, ero talmente preoccupata a sentire i battiti del mio cuore affievolirsi piano piano che non pensai minimamente potesse essere lui.

"Come ti chiami?" mi lasciai scappare ingenuamente.

"Mi chiamo Damiano" disse sedendosi a terra e incrociando le gambe.

Ed eccolo li, lui, Damiano. Ora che aveva pronunciato il suo nome, mi rimbombava forte nella testa come un eco in montagna. La prima cosa che pensai fu che non mi sembrava pericoloso come mi era stato descritto. Non avevo mai visto un ragazzo tossicodipendente, li avevo sempre ingenuamente immaginati come ragazzi tristi, invecchiati, corrosi dalla droga, coi capelli sbiaditi e i denti gialli e tremendamente aggressivi e scontrosi. Damiano sembrava esattamente l'opposto, così curato, così per bene. Lo fissai sforzandomi di cercare qualche difetto nella sua figura, qualche segno evidente della sua dipendenza, ma non ne mostrava neanche uno. Non sembrava nè rude nè folle, era un ragazzo normalissimo e persino lo smalto sulle dita, la matita sotto gli occhi e i tatuaggi evidenti che lo avrebbero dovuto far sembrare alternativo, ribelle e punk gli donavano, si sposavano perfettamente con la sua immagine. Mi domandai se fosse sempre così o fosse l'effetto dei farmaci che gli davano un'aria rilassata.

"Cosa ci fai qui?" chiesi a quello che mi era stato descritto come un ragazzo tendenzialmente pericoloso e che se non fosse stato sedato mi avrebbe probabilmente risposto in modo aggressivo.

"Hai preso la mia stanza preferita" disse indicando il balcone.

"Come scusa?"

"La mia camera non ha il balcone, ho le finestre blindate e la notte scappo sempre qui per fumare una sigaretta, questa é la prima volta che trovo qualcuno a dormire" alzó le spalle.

"Credo che ora non potrai più fumare, o per lo meno devi trovarti un'altra stanza" 

Guardò attentamente la stanza girandosi intorno, non che ci fosse qualcosa da guardare, era tutto completamente spoglio e privo di emozioni. Immaginai che, in quel poco di lucidità che conservava, stesse pensando a quanto apparisse vuoto quel mio piccolo angolo di vita.

"Come ti chiami?" mi chiese.

"Beatrice"

L'idea di un ragazzo piombato nella mia triste camera per fumare una sigaretta non era nelle mie corde.

Immaginai tutta la scena. Immaginai lui entrare nella camera cercando di sfuggire ai controlli degli infermieri, immaginai il momento esatto in cui mi aveva vista dormire e non curante della situazione era uscito fuori dal balcone. Immaginai che se fosse capitato in un momento in cui non era sotto effetto di sedativi sarebbe successo qualcosa, magari mi avrebbe aggredita una volta sveglia. Immaginai scene che mi inquietavano tremendamente.

"Senti sarebbe meglio se tu tornassi nella tua stanza" dissi alzandomi dal letto e trascinandolo col braccio vicino alla porta.

"Perché sei qui Beatrice?" chiese mentre stavo per aprire la porta. Menefreghismo, fu questo il primo difetto che gli trovai. Il menefreghismo e la non curanza che aveva avuto nell'invadere il mio spazio era lo stesso che aveva avuto mentre lo invitavo ad uscire.

"Non mi va di parlarne e a dirla tutta mi hai inquietata" mi uscì tutto d'un botto.

Si scusò e andò via senza dire più una parola, chiusi la porta e mi poggiai con la schiena di spalle.

Mi fece enormemente tenerezza il modo in cui era andato via, con gli occhi bassi. Subito mi venne in mente che probabilmente non era abituato a chiacchierare con qualcuno e che stava solamente cercando un'amica, qualcuno con cui scambiare due parole e che gli desse confidenza.

Damiano, dai capelli scuri e la voce profonda, aveva causato in me un senso di scoperta, stupore e allo stesso tempo inquietudine e tenerezza. Passai il resto della notte a pensare a come un ragazzo così curato, così limpido potesse cadere in un vortice così vizioso come la droga. Come si fa a cadere così in basso? Come si può rovinare la propria vita in maniera così fortemente irreversibile?

Del resto siamo uguali io e lui, pensai. Siamo ossessionati da qualcosa che ci mangia il cervello, qualcosa a cui pensiamo costantemente.

Alla fine non siamo poi così diversi.

La linea di confine tra i numeri e la droga e che questa, col tempo, ti divora anche fisicamente, ma mentalmente siamo uguali: completamente ossessionati e chiusi nel nostro mondo.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


Uno degli aspetti più tristi della clinica, ma anche uno dei più essenziali era sicuramente la psicoterapia. Ognuno di noi aveva un programma diverso da seguire, ad orari diversi e con medici diversi. Questi, d'altronde, erano considerati cinque dei migliori specialisti in tutta Roma e ci venivano assegnati in base alla problematica di base.

 

Lo studio della mia dottoressa si ergeva in un piccolo sentiero distante dalla struttura coi dormitori e le stanze ricreative. Era un piccolo edificio a parte dall'aspetto completamente diverso dagli studi cupi e grigi a cui ero abituata. Per raggiungerlo bisognava percorrere un piccolo sentiero in cui riuscii a contare almeno cento-diciassette grandi mattonelle che ricordavano più delle pietre corrose dal tempo.

 

Anche qui i colori dominavano, l'infermiera mi spiegò che ogni singolo dettaglio della struttura aveva lo scopo di creare un ambiente più allegro, più confortevole e la cosa mi fece tremendamente ridere. Non mi capacitavo di come tutti quei colori potessero migliorare qualcosa, se sei triste o soffri di depressione lo sarai sia in una stanza grigia che in una tutta rossa, non ero per niente fan della cromoterapia.

 

Mentre mi accompagnava alla mia prima seduta non faceva altro che chiedermi come stessi, come avessi passato la notte. Mi limitavo a risponderle "Bene" e in parte era vero, ma in parte no. Non volevo raccontarle di essermi sentita un po' malinconica, già sapevo che questo dettaglio sarebbe fuoriuscito con la mia dottoressa e non mi andava di dover provare a spiegare le mie emozioni due volte, sarebbe stato troppo per me in quel momento. Mi ricordai poi di Damiano, quello magari avrei potuto dirglielo per evitare che piombasse nuovamente nella sua stanza preferita, che era la mia.

 

Non lo feci, tenni quell'incontro segreto. Era successo solo una volta e non mi andava di fare la spia, probabilmente l'avrebbero punito in qualche modo. Sicuramente in clinica non avevano modi di fare bruschi e non l'avrebbero sottoposto alla sedia elettrica, ma immaginai questo ragazzo tormentato e con una mente ricca di pensieri doversi subire una ramanzina inutile e l'idea non mi piacque. Promisi a me stessa che se l'avessi rincontrato sarei stata gentile con lui contrariamente a come ero stata la sera prima.

 

"Ho una bella notizia per te, oggi viene a trovarti tuo padre!" disse la giovane infermiera interrompendo il mio flusso di pensieri.

 

Le sorrisi compiaciuta.

 

Mio padre era un uomo tremendamente affascinante, solare e bello, di una bellezza rara. L'ho sempre descritto come un uomo raro, di una bella presenza fisica e di ottimi modi di fare. Amavo ogni cosa di quell'uomo ma soprattutto, il modo in cui si prendeva cura di me, della sua bambina, la sua unica figlia.

 

Non era quasi mai a casa a causa del suo lavoro. Quando sei pilota di aerei un giorno sei a casa e dopo un'ora in Francia, poi Germania, poi Inghilterra. Nonostante la sua non costante presenza (ho sempre detestato la parola assenza), era per me una figura di riferimento a tutti gli effetti. Quando tornava dai suoi viaggi correva sempre da me, la sua bambina, con delle storie da raccontarmi e io amavo ascoltarlo. Mi ripeteva sempre di amare il suo lavoro ma di amare di più me, e io amavo lui infinitamente.

 

"Eccoci, siamo arrivate" mi disse l'infermiera indicandomi col dito la porta dello studio della dottoressa.

 

Bussai con dei colpi leggeri quella porta bianca e le mie aspettative non furono deluse quando la vidi che mi aspettava dietro una scrivania col suo camice bianco e china su una cartella.

 

"Buongiorno" salutai.

 

"Ciao Beatrice, piacere di conoscerti, io sono la dottoressa Pozzilli" mi tese la mano.

 

La dottoressa, una donna sulla quarantina, aveva i capelli color oro raccolti in un mollettone e un sorriso smagliante quella mattina. Gli psicoterapeuti sembravano sempre tutti uguali. Le solite scrivanie, i soliti camici e le solite parole comprensive studiate a tavolino.

 

La seduta cominciò con domande inerenti alla mia vita, il rapporto coi miei genitori, con la mia vecchia scuola, a che età avevo iniziato a manifestare segni di DOC, solite domande a cui ero già abbastanza preparata, mi sembrò per un istante di rivivere un infinito loop, nella mia mente quel momento era accaduto tantissime volte. Cambiava solo lo scenario, ma il film e gli attori erano sempre gli stessi.

 

"Per esempio...quando sei entrata qui cos'hai contato?"

 

"Dall'ingresso al suo studio sono riuscita a contare solo duecento mattonelle ma sono sicura che ce ne siano molte di più, quando mi ha chiesto se avessi intenzione di continuare gli studi ha sbattuto le ciglia tre volte, ci sono sette penne nel contenitore e questa cosa mi ha infastidito..."

 

In realtà, contai molte più cose, ma siccome non ricordavo bene il numero decisi di omettere questo particolare.

 

"Cosa ti spinge a contare? Se ora poggio degli oggetti sul tavolo, tu perché senti l'esigenza di contarli?"

 

In quel momento feci fati a credere che si trattasse di una delle migliori specialiste di Roma, la sua domanda apparve così stupida che quasi sentivo il desiderio di alzarmi ridendo e andando via. Se avessi saputo la causa del mio problema probabilmente avrei trovato una soluzione già anni prima e non avrei costretto i miei genitori a portarmi qui spendendo una cospicua quantità di denaro.

 

Fui certa di aver espresso i miei pensieri con lo sguardo poiché, prima che potessi rispondere, mi disse di rendersi conto che poteva sembrare una domanda stupida, ma mi invitò lo stesso a rispondere.

 

"Non lo so con precisione, conto e basta". Ad una domanda stupida, una risposta stupida.

 

La dottoressa scrisse qualcosa su quella che intuì fosse la mia cartella clinica, alzò la mano dalla cartella cinque volte, dopodiché aprì il cassetto al di sotto della scrivania e tirò fuori un quaderno bianco chiuso da un elastico nero.

 

"Bene Beatrice, questo sarà il tuo quaderno personale. Ti assegnerò dei compiti specifici e puoi usarlo anche per scrivere dei tuoi pensieri quando ne hai voglia, chiaro?" disse scostandosi leggermente gli occhiali sulla punta del naso.

 

"Chiaro" risposi.

 

"Il primo compito che ti assegno consiste nel cercare di spiegare con semplici parole cosa ti spinge a contare, cosa ti provoca questa forte esigenza. So che ora ti sembra impossibile trovare una spiegazione ed é normalissimo, ma non devi farlo subito."

 

"Non sono sicura sarà così semplice"

 

"Non lo è infatti."

 

"Dottoressa il prossimo appuntamento è domani, in un giorno non posso trovare una risposta a una domanda che tormenta me e la mia famiglia da una vita"

 

"Non pretendo questo infatti, dovrai farlo per il mese prossimo"

 

La dottoressa, con toni pacati e gentili, mi spiegò che avremmo continuato tutti i giorni con la terapia in cui lei stessa mi avrebbe aiutata a cercare di capire il perché delle mie ossessioni e che il compito, che avrei consegnato dopo un mese esatto, le serviva per capire se avessi fatto progressi in un mese e soprattutto per aiutarmi a metabolizzare la mia realtà. Mi disse che anche non dare una risposta era un modo di rispondere poiché significava che avrei dovuto fare più progressi, più passi avanti.

 

"Non comunicare è un modo per comunicare così come non rispondere è un modo per rispondere, io devo solo aiutarti a comprendere la tua realtà"

 

Li per li non ero per niente sicura di ciò che stesse dicendo, mi stava chiedendo di metabolizzare una realtà in cui io essenzialmente non vivevo. Io non vivo in una realtà, vivo nella mia bolla di illusioni, stranezze e malinconia, pensai. D'altro canto, se c'era una cosa che avevo imparato, é che non é giusto contestare il lavoro di una persona che ha studiato tanto a meno che non si abbino conoscenze di cui io sicuramente non disponevo. Da piccola mi capitava di contraddire i medici, spesso scappavo dalle sedute e non ascoltavo nulla, atteggiamento che non mi aveva portato da nessuna parte, per cui, semplicemente, avevo imparato ad obbedire.

 

"Che hai?" mi chiese Carlo mentre eravamo seduti in biblioteca.

 

"Lasciala stare, stamattina primo incontro con la dottoressa" ridacchiò Alex.

 

"In realtà contavo le penne nel tuo astuccio..." risposi.

 

Sembrava una battuta, ma era vero, c'erano tre penne, due evidenziatori e quattro matite. Nel frattempo cercavo di capire perché stessi contando, cercavo di capire quale fosse il mio interesse per il suo astuccio, ovviamente non trovai risposta e non l'avrei trovata per molto tempo.

 

Mio padre arrivò puntuale come un orologio svizzero alle quattro in punto del pomeriggio, la puntualità era sempre stato il suo forte, così come la capacità di mantenere ogni singola promessa.

 

Lo vidi arrivare dal fondo del corridoio e restai ferma con le braccia aperte aspettando che lui mi raggiungesse. Mi abbracciò forte, fortissimo sollevandomi da terra e riempiendomi di baci cosí familiari da farmi venire la pelle d'oca. Profumava come al solito del suo profumo preferito con la boccetta oro di cui non ricordavo mai il nome ma che teneva sempre sul mobiletto del nostro bagno.

 

Lo invitai ad accomodarsi nella mia stanza battendo le mani per gli scatoloni che mi aveva portato.

 

"La mamma mi ha detto di portarti questi, ma prima di aprirli raccontami tutto" mi disse sedendosi sul letto.

 

"Cosa vuoi sapere?"

 

"Come stai, come è stato il tuo primo giorno qui...guarda che se non ti trovi bene cambiamo subito, ti trattano bene?"

 

"Sto bene papà, vorrei stare a casa con voi, ma sto bene. Stanotte ho dormito poco, ma credo sia per l'abitudine del mio letto, e stamattina ho avuto la prima visita con la dottoressa"

 

Sottolineò più volte che stare li era necessario e mi avrebbe aiutata almeno a relazionarmi con altri, e proprio in tal proposito, non mancò la sua domanda:

 

"Hai fatto conoscenza?"

 

"Ho conosciuto tre ragazzi, Luce, Alex e Carlo, mi sembrano simpatici e soprattutto stamattina quando mi hanno vista in biblioteca mi hanno invitata a star con loro, immagino di stargli simpatica anch'io" sorrisi.

 

Gli spiegai che era molto più semplice fare conoscenza in un luogo del genere in cui tutti condividono lo stesso disagio e si sentono parte di un unico mondo. Probabilmente i miei conoscenti non mi avrebbero più rivolto la parola da un momento all'altro dati i loro problemi, forse uscendo per il corridoio avrei visto Luce non guardarmi neanche per sbaglio, ma non m'importava, erano solo conoscenti di un mondo che avrei presto abbandonato. Era un po' come se avessi voluto avere due vite, una nel centro, e una meravigliosa al di fuori che mi aspettava quando sarei stata bene e che non vedevo l'ora di vivere cancellando quella precedente come un brutto sogno.

 

Io non volevo archiviare, volevo cancellare tutto.

 

Quando mio padre andò via, la prima cosa che feci, fu prendere il quaderno della psicoterapeuta e scrivere questa frase: "Voglio cancellare tutto". Avrei voluto argomentare, ma sentivo un nodo alla gola salire sempre più, quella frase bastava a descrivere il mio umore momentaneo e non avevo bisogno di aggiungere altro, a volte le parole sono solo un contorno di un messaggio che può essere espresso in un'unica frase.

 

Mi ricordai degli scatoloni che mio padre aveva lasciato, c'era del materiale per addobbare quella sgombra stanza rosa pastello.

 

C'erano i miei libri preferiti che posizionai sulla scrivania lasciandone uno nello scatolone poiché altrimenti sarebbero stati in numero dispari.

 

Attaccai al muro quattordici fotografie, alcune rappresentavano me e la mia famiglia in viaggi o momenti felici, altre invece erano delle foto tratte dai miei film preferiti. E fu così che la mia stanza iniziò a prendere vita, la parete si riempì delle cose che più amavo, la mia famiglia e le mie scende preferite. Quella visione mi piacque tanto, così tanto da desiderare di avere altre foto, volevo la stanza piena.

 

Focalizzai la mia attenzione su un'ultima foto nel mio scatolone, ero raffigurata io all'età di sedici anni, esente da ogni tipo di disturbo e felice, spensierata, coi miei lunghissimi capelli, le mie bellissime sopracciglia che erano appena ricresciute e senza nessun numero in mente. Dietro di me un panorama bellissimo, un mare limpido e azzurro, scogli grigi e il Vesuvio a vegliare esattamente dietro me. Era stata scattata a Napoli durante un viaggio in cui erano venuti anche i miei nonni.

 

Decisi di mettere temporaneamente da parte quel felice ricordo, sia perché le foto sul muro sarebbero diventate in numero dispari, sia perché pensai di metterla nel quaderno datomi dalla dottoressa Pozzilli. Quella foto, simbolo di spensieratezza, doveva essere li, nel diario che sanciva e testimoniava il mio percorso, come se la me di un passato felice mi stessi invogliando ad andare avanti e non mollare mai.

 

Carica di ottimismo corsi subito in camera di Luce, volevo mostrare a qualcuno il modo in cui avevo incastrato le foto, come un perfetto tetris. La trovai china sul letto a scrivere su un diario, pensai che fosse il diario datole dalla sua terapeuta così come la mia aveva fatto con me.

 

Mi focalizzai sulla stanza che condivideva con Alex. Non era molto diversa dalla mia, era semplicemente più vissuta. Avevano le mensole stracolme di libri, accanto al letto dov'era seduta la mia amica, vi era una foto incorniciata con un cagnolino, le sedie erano colme di abiti che probabilmente aspettavano di essere lavati e dal balcone riuscivo ad intravedere una vista più colorata della mia che affacciava semplicemente su degli alberi.

 

"Devi assolutamente vedere che bella la mia camera" le dissi.

 

Corremmo ridendo nel corridoio, di corsa le nostre camere erano distanti pochi passi, ne contai circa cinquantasette.

 

Luce si avvicinò alle mie foto chiedendomi una spiegazione su ognuna. Voleva sapere tutto del viaggio in Kenya con i miei genitori e perché quella scena di The Truman Show mi fosse piaciuta a tal punto da appenderla.

 

"Sono felice che tu sia corsa per farmele vedere" sorrise tenendomi la mano.

 

La verità era che in quel momento ero molto più felice io di aver sentito l'esigenza di mostrare le mie foto a qualcuno, e quella frase, quella stretta di mano, mi fecero rimpiangere il momento in cui avevo visto mio padre e avevo pensato che non mi sarebbe fregato nulla di loro, nulla di lei una volta uscita da li.

 

Mi resi conto che nonostante la conoscessi da poco, da pochissimo, la sua dolcezza mi aveva già macchiata.

 

"Quando uscirai da qui vuoi cancellare tutto?" le chiesi.

 

"No, assolutamente no" mi rispose.

 

"Neanche io" sorrisi.

 

Quando Luce uscì dalla mia camera, ripresi il quaderno e cancellai la frase che avevo scritto, sostituendola:

 

 "Voglio ricordare tutto il bene e archiviare per sempre il male"

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


In clinica il tempo era una costante non ben definita, c'erano giorni che passavano tempestivi ed altri in cui il tempo sembrava essersi fermato. Guardavo le lancette dell'orologio ed erano le quattro, le riguardavo un'ora dopo ed erano in realtà passati solo dieci minuti.

 

Questo aspetto legato al tempo iniziò a farsi evidente solo dopo un paio di settimane. All'inizio era sempre tutto bello, tutto nuovo, ma dopo poco tempo iniziai ad abituarmi a quell'ambiente e la bellezza della novità si affievolì pian piano. I miei compagni me l'avevano detto che sarebbe finita così, ma non mi andava e non volevo accettarlo.

 

"Perché non andiamo da qualche parte questa sera?" chiesi ad Alex, Luce e Carlo una mattina dopo un'intensa seduta di psicoterapia.

 

Eravamo in giardino e avevamo portato dei teli per poterci sdraiare. Alex stava leggendo un libro, Carlo aveva portato un manuale universitario con la speranza di poter riuscire a studiare pur sapendo che non l'avrebbe fatto, io e Luce invece stropicciavamo l'erba e giocherellavamo con le bianche margherite. Era una classica mattinata come lo erano state quelle delle tre settimane precedenti.

 

"Abbiamo il coprifuoco alle undici e mezza, dove possiamo mai andare?" rispose Alex seccata.

 

"Stasera io non ci sono, vado a cena dai miei genitori, l'hai dimenticato?" rispose Lu.

 

Non l'avevo dimenticato in realtà, sapevo benissimo del suo impegno, ma speravo in qualche modo che vi potesse rinunciare anche se non gliel'avrei mai imposto.

 

"Carlo.." richiamai il mio amico distratto schioccando le dita davanti al suo viso.

 

"Cosa?" disse voltandosi su un fianco.

 

"Almeno tu esci con me stasera? Anche solo per bere qualcosa, analcolico giuro!" feci quella precisazione poiché ero a conoscenza del fatto che stesse assumendo farmaci particolari che non poteva associare al consumo di alcol seppur minimo.

 

"Secondo te se potessi uscire non lo farei?" rispose alzando le sopracciglia.

 

"Perché non potresti?" chiesi distrattamente.

 

"Bea, Carlo è PDL, ha anche la camera blindata...non ricordi?" disse Luce dispiaciuta.

 

PDL, era l'acronimo di "privo di libertà" che i ragazzi della clinica utilizzavano scherzosamente e ironicamente per definire quella categoria di ragazzi a cui Carlo faceva parte. In centro, le persone con problematiche legate all'autolesionismo, all'instabilità mentale, o che avrebbero potuto compiere gesti estremi venivano sistemati in camere con la finestra blindata e, contrariamente a me e alle mie due compagne, non erano liberi di uscire dal centro se non accompagnati da una figura apposita.

 

Carlo, in quanto autolesionista, rientrava a pieno nella categoria PDL e un tempo anche Luce lo era stata finchè non iniziò a mostrare segni di ripresa con la dottoressa.

 

La storia di quel ragazzo mi aveva particolarmente colpita. Quando si pensa all'autolesionismo automaticamente vengono in mente polsi sanguinanti, tagli sulle braccia e lamette nascoste, ma in realtà Carlo non era niente di tutto questo. Mi raccontò, che poco prima dell'università aveva iniziato a crearsi da solo delle piccole ferite con l'accendino. Teneva la fiamma accesa per qualche minuto fino a far diventare la lamina di metallo incandescente, dopo di che lo poggiava sulla coscia o sul braccio in base a come gli girava al momento, creandosi delle vere e proprie scottature sia superficiali che profonde.

 

Non aveva mai tentato il suicidio e non ne aveva intenzione, si vedeva dalla voglia che aveva di vivere, di studiare, di crearsi un futuro. Semplicemente, mi disse, era un modo per combattere la tensione e io lo capivo tremendamente. Mentre mi parlò della sua vita non facevo altro che pensare a quando io strappavo le sopracciglia solo ed esclusivamente per tensione e soddisfazione.

 

Siamo alla costante ricerca del piacere, a volte anche in modi bruschi, folli e poco salutari.

 

"Non possiamo convincerli a farti uscire?" chiesi.

 

"No"

 

"Neanche se sanno che ci sono io?"

 

"Purtroppo no, dovremmo uscire comunque con qualche accompagnatore alle calcagna, perdonami ma non mi va"

 

Sbuffai e accettai passivamente la situazione, purtroppo c'era poco da fare. Alex era irremovibile sulla sua decisione, Lu era impegnata con la sua famiglia e Carlo, in quanto PDL, era costretto a passare la serata in centro o a studiare.

 

In quel momento, inconsciamente, decisi che se i miei amici non mi avrebbero fatto compagnia, sarei uscita da sola. Conoscevo Roma come le mie tasche ed ero abituata a queste uscite in compagnia di me stessa e nessun altro. Avevo voglia di svagare un po' la testa, bere una birra e staccare per un momento la vista da quell'edificio tutto colorato che ormai mi aveva fatto venire il mal di testa, a volte persino la mia stanza rosa pastello sembrava accendersi e prendere un colorito fluorescente.

 

Non volevo avvisare i miei amici di quella mia decisione, ormai ero convinta di dover passare la serata da sola e soprattutto non volevo causare sensi di colpa per una cosa che in realtà mi faceva solo piacere fare. Temevo potessero pensare di avermi abbandonata, soprattutto Luce, che questi complessi li aveva spesso, non faceva altro che preoccuparsi di dare il massimo a tutti. Alex probabilmente sarebbe stata l'unica a non dare peso alla mia solitaria uscita.

 

Entrai in biblioteca e chiesi al primo ragazzo che incontrai indicazioni su come fare per uscire.

 

L'anonimo ragazzo si trovava nel reparto biblico dei thriller, in cui c'erano solo quindici grossi scaffali e quattrocento novantasei libri, un numero che per quanto grosso restava comunque inferiore a tutti gli altri reparti. Quello dei romanzi storici, ad esempio, aveva un numero di libri così alto che non riuscii mai a contarli tutti.

 

"Scusa.." dissi per richiamare la sua attenzione.

 

"Dimmi" disse girandosi distrattamente tenendo fermamente saldi al petto quattro libri.

 

"Posso chiederti come faccio a chiedere un permesso per uscire dal centro?"

 

"Innanzitutto devi non essere PDL.." disse.

 

"Ci sono, poi?"

 

"Devi chiedere all'infermiera che generalmente si occupa di te di farti un permesso e una volta rientrata devi passare in ingresso e consegnarlo alla persona che trovi di servizio. Serve per notificare che non sei ritornata oltre il coprifuoco" sorrise lui.

 

Lo ringraziai e prima che potesse chiedere il mio nome o qualcosa su di me corsi dall'infermiera che ogni singola mattina mi accompagnava dalla psichiatra e che ormai avevo ben conosciuto. Si chiamava Marzia e come avevo dedotto al mio ingresso era davvero giovane e fresca di laurea. Appena seppi di questo particolare cercai in tutti i modi di fare apprezzamenti su come svolgeva il suo lavoro per incoraggiarla ed evitare di farle perdere quella passione che ogni mattina le leggevo negli occhi. I miei genitori mi avevano sempre insegnato che bisogna far notare alle persone i propri errori ma che fargli notare i propri successi è ancora più importante.

 

La ritrovai davanti la stanza cento-tre, quella accanto alla mia, aveva appena chiuso la porta alle sue spalle e aveva passato disperatamente una mano sulla fronte asciugando una piccola goccia di sudore che riuscii ad intravederle.

 

"Marzia, posso disturbarti un secondo?"

 

Marzia mi guardò, e per la prima volta la vidi stanca, non quella stanchezza di chi lavora tutto il giorno, ma quella stanchezza di chi deve riprendersi da una seduta di allenamento in palestra. Non era una bellissima ragazza, aveva il naso un po' sproporzionato e un taglio di capelli che a parer mio non la valorizzava per niente, aveva però mostrato più volte una bontà d'animo capace di far sciogliere anche i cuori più duri.

 

"Si, ti prego, andiamo in camera tua e se qualcuno ci trova gli diciamo che avevi bisogno di me, sono esausta" disse tutto d'un fiato.

 

"Che hai?" le chiesi mentre entravamo nella mia camera.

 

"Ho appena dovuto lottare con Damiano, il ragazzo accanto, per fargli assumere le sue medicine".

 

Non vedevo quel ragazzo dalla prima notte che avevo passato in clinica, non si era fatto più vivo. Non lo vedevo durante i pasti, non lo vedevo in biblioteca e neanche in piscina o nella sala TV, semplicemente era come se non esistesse. Iniziai a pensare che vivesse letteralmente solo con le sue ossessioni in quelle quattro mura. I miei amici mi avevano avvertito del fatto che, nei suoi momenti di astinenza, urlava come un matto anche nel cuore della notte, ma io non l'avevo sentito neanche una volta in tre settimane e in quel momento capii il perché.

 

Marzia, in un suo momento di sfogo, mi spiegò che era rientrato a casa sua in quelle settimane, mi disse che la madre provava in continuazione a riportarlo a casa, nonostante la contrarietà dello psicoterapeuta, per poi accorgersi che era meglio tenerlo in clinica.

 

"Che fortuna!" disse Marzia "E' una fortuna essere il figlio della direttrice, intendo. Puoi restare qui senza pagarne le spese mentre altri ragazzi che ne avrebbero bisogno non possono farlo" continuò.

 

Aveva ragione, io ci pensavo spesso. Inoltre, in clinica, c'era una politica strana per la quale se decidevi di uscire dalla terapia nessuno poteva obbligarti a restare, ma se poi avessi deciso di ritornare, difficilmente ti avrebbero rintegrato. Inizialmente non capivo e pensavo fosse una cosa assurda, poi capii che era a causa delle forti richieste di iscrizione. Preferivano prendere persone nuove e bisognose d'aiuto piuttosto che persone che avevano mostrato poca buona volontà nel guarire, tranne in casi eccezionalissimi.

 

Damiano era fortunato, quando andava via, il suo letto era sempre li pronto ad accoglierlo ad ogni suo ritorno.

 

"Perdonami per lo sfogo, cosa volevi chiedermi?" era già più calma, la sentivo più rilassata e subito mi ricordai del mio obiettivo serale.

 

"Avrei bisogno di un permesso per uscire dalle sette in poi.." chiesi timidamente.

 

"Non c'è problema, ti chiedo solo di rispettare il coprifuoco, altrimenti finiamo entrambe nei guai"

 

Estrasse dalla sacca della divisa un piccolo blocchettino, scrisse un permesso in cui era segnato il mio orario di uscita e i miei dati. Mentre scriveva io iniziai a contare quante volte distaccava la penna dal foglio, circa ventuno volte, e quando mi accorsi che l'aveva fatto in numero dispari un forte senso di fastidio mi pervase. Cercai di non pensarci, ma finii inevitabilmente a contare i dentini del pettine che avevo lasciato sulla scrivania la mattina stessa. Erano dieci, fui sollevata nel sapere che almeno quelli erano pari.

 

Alle sette in punto ero pronta per uscire. Mi recai alla fermata del bus che era a cinque minuti e mille-duecento-cinquanta passi a partire dal cancello della clinica. Accelerai la camminata quando passai davanti la camera di Alex e Luce, temevo che Alex potesse vedermi, Luce chiaramente non era in stanza e feci lo stesso quando passai davanti a quella di Carlo, all'uscita fui convinta di non esser stata vista da nessuno dei miei amici.

 

Il bus, che passò cinque minuti dopo il mio arrivo, era popolato di ragazzi, ne contai tredici. Una cosa che mi era sempre piaciuta dei mezzi pubblici era fantasticare sulle vite dei passeggeri. Mi chiedevo spesso cosa stessero facendo, dove fossero diretti e mi domandavo se loro pensassero lo stesso di me. Mi affascinava l'idea di incontrare persone che non avrei mai più rivisto, ognuna apparentemente normale, ma che in realtà possedeva un bagaglio di ricordi, emozioni, esperienze.

 

Mi perdevo spesso nell'idea che ci fosse una connessione fra ogni essere umano, ero fortemente convinta che anche uno sconosciuto in bus potesse influenzare e condizionare la vita altrui. A sostegno della mia tesi c'era il fatto che, ad esempio, quando incontravo un gruppo di ragazzi allegri, automaticamente mi sentivo di buon umore, se incontravo anziane signore, mi intenerivo e se incontravo uomini molesti automaticamente mi sentivo male tutto il giorno. Siamo tutti una grande connessione, un universo di sinapsi elettriche e chimiche, dove ognuno manda segnali all'altro, il quale, manderà un segnale ad altri ancora.

 

Quando arrivò la mia fermata scesi, sapevo esattamente dove andare. C'era un bar non molto lontano dal centro di Roma che frequentavo assiduamente prima di entrare in clinica, si chiamava "La savana" e lo adoravo per i proprietari simpatici ma soprattutto per l'atmosfera che spesso si creava. Aveva un'aria molto tropicale, ricco di piante, ricco di verde, il nome non era per niente casuale.

 

Persino i bicchieri che proponevano quando ordinavi un drink avevano un certo non so che di esotico, avevano forme strane e colori particolari. In quel bar avevo passato gran parte della mia adolescenza, sia da sola che in compagnia. Ci andavo con le mie compagne di liceo per fare colazione quando entravamo più tardi, con i miei cugini quando scappavamo dalle cene di famiglia, ed infine, ci andavo da sola quando nessuno poteva venire con me come in quell'occasione.

 

I vicoli di Roma sembravano così lontani dalla mia nuova realtà, erano solo tre settimane che non uscivo e tutto appariva alla mia vista così strano. Avevo dimenticato della bellezza di quelle strade, di quei colori così tenui, di quei palazzi color crema e di quei maledetti sanpietrini che mi avevano fatta imprecare in quelle serate in cui avevo indossato delle scarpe un po' più alte.

Non ero mai stata una ragazza particolarmente festaiola, soprattutto a causa dei pochi amici che avevo e che avevo perso nel corso degli anni, ma quelle poche uscite mi avevano fatto bene e le ricordavo con piacere.

In quel momento camminare a Roma non era solo una passeggiata, ma una boccata vera e propria di vita, e quando arrivai al bar e mi accomodai al mio solito tavolino ordinando una solita birra sentii che per un momento avevo messo i piedi per terra. Immaginai i miei nuovi amici seduti accanto a me a ridere e scherzare, immaginai di poterli vedere felici a sorseggiare un alcolico senza doversi preoccupare dei farmaci, dei coprifuochi, del cibo, dei chili di troppo, dei conti, dei numeri. Era questa la vita che desideravo per me, era questa la vita a cui ambivo per noi.

 

Ci vollero otto canzoni, sedici piccoli sorsi di birra e il rumore di quattro ragazze al tavolo accanto al mio per porre fine alle mie fantasie e farmi prendere coscienza di una presenza familiare a pochi tavoli dal mio.

 

Misi a fuoco la figura per cercare di capire se avessi visto bene, mi sembrò per un attimo abbastanza impossibile vederlo li tutto solo, e invece era proprio lui, Damiano. Soliti capelli tirati dietro, solito smalto nero opaco, solito filo di matita nera, era lui, così come l'avevo visto l'ultima volta. Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni neri che gli davano un'aria ancora più pulita di com'era l'ultima volta.

 

Ricordai di quando era piombato in camera mia e aveva cercato di intraprendere una conversazione chiedendomi perché mi trovassi al centro, ricordai del modo in cui l'avevo mandato via ed infine ricordai della promessa che mi ero fatta, avevo promesso di rimediare e non voltare più le spalle a qualcuno che semplicemente per troppa solitudine voleva scambiare due parole.

 

Mi alzai di scatto portando la mia birra con me e facendo un po' di slalom tra i tavoli lo raggiunsi sedendomi accanto a lui.

 

"Ho un disturbo ossessivo compulsivo, conto qualsiasi cosa, i numeri dispari creano in me un senso di inadeguatezza e da piccola strappavo le sopracciglia" gli dissi tutto d'un fiato sedendomi accanto a lui senza permesso.

 

"Come scusa?" rispose. In quel momento mi ricordai di quella voce profonda e leggermente nasale che mi aveva colpito settimane prima. Guardandolo così vicino, alla luce naturale, mi resi conto di che strana bellezza aveva.

 

"Ho ripreso la conversazione da dove l'avevamo interrotta, perdonami se sono sembrata scontrosa"

 

Temevo non si sarebbe ricordato di me, ma fortunatamente non fu così.

 

"Ti chiami Beatrice, vero?" chiese per conferma, poi ancora, si scusò per avermi fatto prendere un colpo quella sera.

 

"Tu perché sei in centro?" finsi di non sapere, ma io ormai sapevo benissimo, volevo solo sentire la sua voce e la sua esperienza.

 

"Stai palesemente fingendo di non conoscere la mia storia" disse ridendo ironicamente e sorseggiando quello che sembrava un drink analcolico, o almeno, speravo per lui che lo fosse.

 

"Mi andava di saperlo da te" risposi sinceramente.

 

"Credimi, sono sicura tu sappia tutto quello che c'è da sapere" disse sorseggiando il suo bicchiere con lo sguardo lontano. 

"Anzi secondo me sai anche qualcosa di non vero" aggiunse.

Avevo letto da qualche parte, che chi fa abuso di droghe col tempo rischia di perdere i denti, in quel momento pensai fosse una cavolata. Damiano aveva un sorriso bellissimo, i denti avevano un ottimo colorito ed erano tutti perfettamente allineati, segno di chi ha sicuramente portato l'apparecchio. In quel momento pensai che la sua famiglia fosse davvero ricca, lo dedussi dai particolari con cui era curato.

 

"Fumi?" mi chiese porgendomi il pacchetto di sigarette.

 

Accettai la sigaretta nonostante non fossi una fumatrice cronica, semplicemente mi piaceva accompagnarla alla birra e farlo in compagnia di qualcuno.

 

Gli chiesi gentilmente come avesse fatto ad uscire da solo dalla clinica essendo lui un ragazzo PDL, non riuscivo a capacitarmi di come un ragazzo tossicodipendente fosse stato lasciato libero mentre altri apparentemente con problemi meno gravi fossero chiusi nelle proprie camere, purtroppo scoprii che non era solo.

 

"Non sono solo" mi disse indicandomi una macchina nera con il logo caratteristico della nostra clinica a pochi metri fuori dal bar.

 

"Ho chiesto di lasciarmi al tavolo da solo, ma purtroppo devo essere sempre seguito, mi basta questo"

 

"Dici che ora ci stanno ascoltando?" affermai con ironia.

 

"Allora meglio non dire che sono degli stronzi" scoppiammo entrambi in una sonora risata.

 

Damiano era bello, bello da morire, sembrava disegnato. Il modo in cui si scostava i capelli, aspirava la sigaretta, la sua voce un po' nasale e il suo smalto nero lo rendevano di un affascinante raro.

 

Tutti i ragazzi che in quelle settimane avevo conosciuto in clinica, anche quelli con cui avevo scambiato poche parole, mi avevano raccontato di tutta la loro storia, Damiano no. Io sapevo del perché lui fosse in clinica solo grazie ai miei amici, e lui dal canto suo, aveva chiesto solo che problema avessi senza approfondire troppo la questione. Questa cosa mi piacque. Mi piaceva ascoltare le storie di altri, ma ogni tanto focalizzarsi su altro mi faceva bene. La persona più strana e problematica tra tutte mi stava facendo sentire più sana di quanto non fossi.

Per i primi minuti di conversazione non facevo altro che contare tutte le volte che sorseggiava dalla cannuccia o che sbatteva le ciglia, poi smisi per distrazione.

Scoprii molte cose di quel ragazzo in quella piacevole conversazione.

Scoprii che aveva vent'anni, solo due in più a me, che la sua vita non era solo sesso, droga e rock and roll, aveva tantissimi interessi. Adorava cavalcare, aveva un cavallo che considerava il suo migliore amico, aveva provato ad iscriversi all'università di lettere fallendo miseramente a causa dei suoi problemi con la droga, sapeva suonare pianoforte e chitarra. Gli raccontai della mia passione per la lettura, per le foto e per i viaggi, scoprimmo di aver visitato tantissimi posti in comune per cui commentavamo varie cose che avevamo visto.

Riuscii ad intuire come la droga avesse lasciato intatto il suo aspetto ma avesse distrutto la sua vita dal fatto che quando parlava di qualcosa che gli piaceva fare e a cui si era dedicato per molto tempo finiva il racconto con "E poi è arrivata lei...la mia signorina", così la chiamava. La sua signorina, una signorina un po' maleducata, un po' aggressiva, gli aveva preso tutto. Da un lato mi inteneriva, dall'altro sapevo che era stato lui a scegliere questa strada.

La sua signorina l'aveva ammaliato, come il canto di una sirena, e lui c'era cascato dentro con tutte le scarpe. 

 

Parlammo molto anche d'amore. Gli raccontai di non aver mai avuto una storia, e lui a sua volta mi raccontò di esser stato fidanzato per più di un anno senza approfondire troppo la questione. Pensai alla sofferenza di quella ragazza, combattuta tra un ragazzo così bello e buono e allo stesso tempo un mostro.

 

"La mia birra è finita, sarà meglio che vada..." gli dissi. La mia birra era finita da almeno mezz'ora in realtà, ma speravo non se ne fosse accorto.

 

"Ti prego resta, te ne offro un'altra. E' da tempo che non chiacchiero con qualcuno"

 

Per qualche assurdo motivo decisi di restare li a conversare con lui. Non so bene perché e cosa mi convinse, ma non me ne pentii. Man mano che le conversazioni andavano avanti trovavamo sempre nuovi spunti, era impossibile fermarsi. Mi chiesi se fosse così a causa del suo silenzio perenne con gli altri o se fosse causato dalle cose che avevamo in comune, in ogni caso fu un vero piacere.

Mai avrei voluto interrompere, ma in un batter d'occhio furono le dieci ed ebbi il timore di sforare il coprifuoco per cui lo invitai a tornare in centro. Mi offrì un passaggio con il suo accompagnatore, ma rifiutai, prendere i mezzi pubblici mi faceva sentire viva e normale, avevo bisogno di questo.

 

E così ci salutammo, non sapendo che ci saremo rivisti dopo poco tempo.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


Al mio ingresso in clinica non fui sola, il passo che segnò il mio ingresso fu accompagnato dalla visione di una macchina grigia che si fermò proprio accanto a me. La portiera posteriore si aprì.

"Non preoccuparti mamma, lo mangerò, ci vediamo la settimana prossima".

Luce uscì da quella macchina con una piccola vaschetta tra le mani. Indossava una lunga gonna nera che copriva la magrezza delle sue gambe e una camicia dello stesso colore. A vederla così sembrava un angelo della morte. Se non l'avessi incontrata per puro caso, probabilmente non le avrei raccontato della mia uscita, ma a quel punto non valeva la pena star zitta.

"Che ci fai qui?" mi chiese quando la macchina dei suoi genitori aveva nuovamente attraversato il cancello.

"Alla fine sono uscita" le dissi timidamente mentre consegnavo il permesso che mi aveva dato Marzia per uscire, ero stata più che puntuale, erano solo le dieci e mezza.

"Hai convinto Alex ad uscire?" chiese mentre salivamo le scale.

"No, sono uscita da sola..." sorrisi. Avevo deciso che avrei taciuto riguardo il mio incontro con Damiano.

La sua camera veniva prima della mia, per cui, quando ci trovammo davanti la sua porta ci fermammo definitivamente.

"Bea sono molto stanca, vorrei chiederti cosa hai fatto ma non ce la faccio, ne parliamo domani, ti va?" mi disse mentre io leggevo nel contorno delle sue occhiaie una grande esasperazione.

"Tanto non ho nulla di cui parlare" le dissi sorridendo. "Posso chiederti cos'hai?" continuai poggiandole una mano sulla spalla.

"Nulla, ho solo mangiato..troppo" abbassò lo sguardo.

Riuscii a sentire la tensione che stava provando in quel momento e immaginai che il suo troppo era in realtà un pasto normale, forse anche meno. Continuava a stringere tra le mani la vaschetta con gli avanzi di ciò che non aveva mangiato, ma vedevo dal suo sguardo che avrebbe volentieri mollato la presa per rilassare i muscoli e liberarsi di tutto. Si vedeva lontano un miglio che era una delle sue serate no, le capitavano spesso e a volte ne usciva vincitrice altre invece si chinava con la testa nel lavandino cercando un vano modo per liberarsi di quell'enorme peso sullo stomaco.

"Promettimi che non vomiti" le dissi.

"E' proprio per questo che voglio dormire, almeno non ci penso"

Le credetti, avevo imparato a decifrare alcuni suoi comportamenti e avevo imparato a capire quando mentiva. Quando iniziava a giurare che non avrebbe vomitato ma allo stesso tempo aveva fretta di rintanarsi nella sua camera, significava che stava palesemente mentendo. Spesso io e Alex l'avevamo sorpresa in preda ad una crisi mentre qualche secondo prima aveva finto di stare bene e allora l'abbracciavamo, le tiravamo su i capelli e la mettevamo a letto assicurandoci che fosse tranquilla.

Quando invece non prometteva e non giurava usando paroloni, solo allora era sincera.

Senza troppi sforzi le credetti e la lasciai andare sia perché avvertivo la sua sincerità, sia perché sapevo che Alex l'avrebbe aiutata e avrebbe chiamato qualche infermiere in caso di eccessiva difficoltà.

Le diedi la buona notte e aspettai il suo ingresso, solo allora mi incamminai verso la mia stanza. Ormai non contavo più i passi che ci dividevano, erano sempre gli stessi su per giù, dipendeva principalmente dalla velocità con cui li percorrevo, ma non cambiava molto in realtà.

In camera aprii il quaderno che la mia psichiatra mi aveva affidato.

Accarezzai la mia foto che avevo accuratamente conservato li, in segno di sprono, lessi qualche frase o pensiero che avevo scritto giorni prima ed infine lessi la consegna del compito che avrei dovuto portare a termine in un mese se ci fossi riuscita. Ormai mancavano due settimane e non avevo ancora una risposta. Sfiorai con la penna la consegna, "Perché senti la costante esigenza di contare tutto?", non avevo ancora una risposta, neanche una stupida. Ogni sera mi accomodavo alla scrivania e rileggevo almeno dieci volte quella domanda, ma nulla era cambiato.

Ogni mattina dicevo alla dottoressa Pozzilli che quasi sicuramente non avrei trovato una risposta nei tempi prestabiliti e lei, col suo solito sorriso, mi tranquillizzava dicendomi e ricordandomi che non era necessario.

"Non sei a scuola dove hai scadenze rigide e severe" ripeteva sempre, e io mi facevo consolare e convincere da quella frase. La scrissi anche in una pagina del mio quaderno bianco proprio per non farmi prendere dall'ansia ogni volta che provavo a scrivere qualcosa o pensavo cosa scrivere.

Erano circa le due quando, quella sera, sentii dei piccoli colpetti provenire dalla mia porta.

Pensavo fosse Marzia, non era solita entrare nelle stanze di noi ragazzi ad un orario del genere, ma era l'unica persona che poteva concedersi di venire a trovarmi a qualsiasi orario. Pensai che volesse assicurarsi del mio rientro, anche se, non mi spiegavo come le fosse venuto in mente tre ore dopo la fine del coprifuoco.

Mi alzai dal letto e a piedi nudi raggiunsi la porta, aprendola. Non era Marzia, ma con mia grande sorpresa, era Damiano. Fui sorpresa di vederlo li, fuori la mia stanza. Era in tenuta da notte, con lo stesso pantalone a quadri con cui l'avevo conosciuto, l'unica differenza era che aveva avuto la decenza di mettersi una canotta bianca rispetto al petto nudo con cui si era presentato la prima volta tre settimane prima.

Lo feci entrare prima ancora che potesse proferir parola, avevo paura che qualche infermiere l'avesse potuto vedere. Alex diceva sempre che in realtà gli infermieri la notte erano poco vigili e non controllavano davvero come ci facevano credere, ma io cercavo sempre di evitare di mettermi nei guai, volevo vivere pacificamente con tutti, la prudenza non è mai troppa.

"Che ci fai qui?" chiesi trascinandolo dentro per un braccio.

"Oggi mi hai detto di essere venuta a parlare con me per rimediare a quando mi hai sbattuto fuori camera tua, giusto?"

"Si, mi avevi fatto una domanda e io senza risponderti ti avevo mandato via, ma che c'entra questo?"

"Tu hai rimediato, ora tocca a me. Stavolta sono venuto in questa stanza bussando e chiedendoti il permesso, senza intrufolarmi"

Ci guardammo per una frazione di secondi sorridendo.

"Ora, col tuo permesso, fumo una sigaretta e vado via. Non preoccuparti, non ritornerò più, è solo per riparare la situazione con cui ci siamo conosciuti". Mi fece segno con le spalle come a chiedermi il permesso per poter uscire fuori il mio balcone.

"Se ne dai una anche a me puoi restare quanto vuoi" gli risposi.

Non rispose, semplicemente mi porse il pacchetto invitandomi a sfilare quella che sarebbe stata la seconda sigaretta della giornata.

Per la seconda volta in quella giornata stavo fumando, e per la seconda volta mentre lo facevo mi domandavo di come si facesse a parlare in maniera negativa di quel ragazzo. La premura e l'interesse che aveva mostrato erano una vera e propria carezza per l'anima. Raramente mi era capitato di conoscere dei ragazzi così ben educati, così attenti ai dettagli, così tremendamente gentili. La prima sera avevo pensato che fosse arrogante e maleducato, in quel momento me ne pentii amaramente.

E' vero, se non mi fossi avvicinata io al bar, lui probabilmente non si sarebbe minimamente interessato di venir da me la notte, ma la vita funziona così. Non bisogna mai aspettarsi nulla dagli altri, e soprattutto, bisogna avere il coraggio di fare un passo in avanti nei confronti di chi ne ha bisogno. Spesso, le persone non sono menefreghiste come sembrano, Damiano mi era sembrato fortemente menefreghista e strafottente la prima volta (e forse un po' lo era davvero) ma era bastato un mio piccolo gesto, un mio piccolo passo, per vedere anche lui avanzare verso di me.

Ci sedemmo a terra sul mio piccolo balconcino mentre aspiravamo lentamente quella sigaretta.

"Voglio sapere qualcosa in più di te e della tua storia" gli dissi.

"Non che io sappia un granchè della tua" replicò aggiustando il piercing al naso.

"Allora facciamoci una domanda a testa, ti va?" chiesi.

"Ad un'unica condizione" prese una pausa "Accetto solo domande sul presente, niente domande su come ho iniziato con la droga o cose simili, okay?"

Per la prima volta gli sentii pronunciare la parola droga, e risuonava così forte detto da lui che per un attimo ebbi paura. Acconsentii e iniziai a pensare a tutto ciò che avrei voluto chiedergli.

"Da quanto tempo sei pulito?" chiesi.

"Due mesi. Perché ti interessa?" rise.

"Ti vedo così lucido, così sano" sapevo che non era una cosa molto bella da dire, soprattutto ad una persona conosciuta da poco, ma non riuscivo a non essere tremendamente sincera. Lui semplicemente rise, senza argomentare o aggiungere nulla.

"Ora tocca a me. Quanti tiri di sigaretta ho fatto? Li hai contati?"

"Ti sto dando la possibilità di chiedermi qualsiasi cosa e tu mi chiedi dei tuoi tiri di sigaretta?" li avevo contati, erano circa dieci e la sigaretta era quasi finita.

"Stavo scherzando" disse aspirando l'ultimo tiro e lanciando la sigaretta. Poggiò una mano sul mento, si tirò i capelli dietro e assunse un'aria pensierosa. Questa era una grande differenza tra me e Damiano. Io sapevo perfettamente le prossime domande che gli avrei fatto, lui doveva ancora pensarci. Dava quasi l'impressione di una persona che vive il momento, a differenza mia che invece ero abbastanza maniaca del controllo e sapevo quasi sempre cosa avrei fatto o cosa avrei detto.

"Hai mai pensato di voler morire?"

"Mai. Mi sono sentita sbagliata, inadeguata, esclusa, diversa, alienata, ma mai per un attimo ho pensato di morire. Voglio riprendermi e vivere la mia vita senza ossessioni e in piena autonomia." Risposi con una velocità che sorprese anche me stessa, come se mi fossi preparata la risposta, ma la verità è che ero tremendamente sicura e ferrata sull'argomento.

Mi sorrise annuendo con la testa, un po' come se mi stesse capendo, un po' come se la pensasse in maniera diversa dalla mia. Toccava a me.

"E' vero che spesso hai crisi d'astinenza?"

"Verissimo, sono i momenti peggiori, ma non mi va di approfondire. Ogni giorno devo assumere dei farmaci che mi tranquillizzano ed evitano le mie crisi e ci riescono, ma spesso non bastano." rispettai la sua decisione e non proseguii ad approfondire l'argomento.

"Non voglio farti alcuna domanda, ti concedo l'ultima" mi disse.

"Hai degli amici qui?" chiesi.

"Amici è un parolone, diciamo che non sono un recluso, pensavi questo?"

"No, è che sono due settimane che sono qui e non sono abituata a vederti in giro"

"Solo perché ero dai miei. Io sono ovunque qui dentro, non è un caso che tu sapessi la mia storia già da prima di parlarmi" sorrise alzandosi e sistemandosi i pantaloni.

Mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi, gliela strinsi e mi tirai su e poi rientrammo in camera mia. Mi sentivo un po' imbarazzata a dirla tutta, la sua presenza faceva rumore dentro me. Da un lato la sensazione di essere con un amico, dall'altro lato invece, la sensazione di restare in camera con un ragazzo così particolare e affascinante mi lusingava ed imbarazzava. I miei amici mi avevano raccontato di Damiano, delle sue crisi, dei suoi problemi con la droga e dell'aggressione alla sua ex ragazza, avevano però omesso della bellezza di quel ragazzo. Non mi capacitavo di come, a nessuno di loro, soprattutto Alex che faceva continuamente apprezzamenti sui ragazzi, era sfuggito che nonostante tutti i suoi problemi, sembrava scolpito da madre natura.

Forse lo vedo solo io, pensai, ma non poteva essere così. Era oggettivamente bello, aveva tutto al posto giusto, persino la sua voce era bellissima col suo accento fortemente romano. Pensai per un attimo a qualche difetto e l'unico che gli riuscii a trovare fu quella piccola incurvatura del naso, che sul volto di qualcun altro avrebbe probabilmente causato problemi, ma su di lui stava benissimo. Non era un difetto, ma solo una delle sue tante caratteristiche.

Guardò l'orologio, che segnava le tre e un quarto, prima di dirmi che dato l'orario sarebbe andato via.

Gli aprii la porta anche se avrei continuato volentieri a chiacchierare con lui.

"Bea, sei proprio una bella persona, sai cosa significa il tuo nome?" chiese.

"No, in realtà no, ma credo abbi a che fare con la beatitudine"

"Beatrice deriva dal latino, beaticem, significa colei che rende felici, colei che da beatitudine. Così mi hai fatto sentire oggi. E' stato molto bello chiacchierare con te. In questo posto così strano, mi hai fatto sentire coi piedi per terra"

Sorrisi timidamente.

"Ti ringrazio" sorrisi.

Mi salutò con un accenno di mano, si voltò e si incamminò nella sua stanza accanto alla mia. Prima che potesse aprire la porta, lo fermai.

"Damià.." lo chiamai, si girò.

"Anche tu mi hai fatto sentire coi piedi per terra".

Mi guardò per un secondo, mi sorrise e senza proferir parola aprì la porta della sua camera e si rintanò in quelle quattro mura che conoscevano perfettamente la sua storia.

Quella notte non chiusi occhio, così come la maggior parte delle notti trascorse li. Decisi di scrivere sul mio diario terapeutico.

 

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