No More Heroes

di Clementine84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CHAPTER 1 - I Don’t Know You Anymore (Savage Garden) ***
Capitolo 2: *** CHAPTER 2 - If I Knew Then (Backstreet Boys) ***
Capitolo 3: *** CHAPTER 3 - It’s My Life (Bon Jovi) ***
Capitolo 4: *** CHAPTER 4 – Incomplete (Backstreet Boys) ***
Capitolo 5: *** CHAPTER 5 - Have Yourself a Merry Little Christmas (Mark Feehily) ***
Capitolo 6: *** CHAPTER 6 - O Holy Night (Mark Feehily) ***
Capitolo 7: *** CHAPTER 7 – One Wild Night (Bon Jovi) ***
Capitolo 8: *** EPILOGUE - Superman Tonight (Bon Jovi) ***



Capitolo 1
*** CHAPTER 1 - I Don’t Know You Anymore (Savage Garden) ***


Il titolo è la prafrasi di una canzone dei Westlife, su cui scrivo fanfiction, ne trovate un paio nella sezione dedicata di questo sito. Non c'entra niente con la storia, non la ritroverete, ma mi sembrava funzionasse. 
Anche i titoli dei capitoli sono nomi di canzoni che funzionavano bene . Ho segnalato gli artisti tra parentesi, così, se a qualcuno dovesse interessare, può andare a sentirsele.

Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo, nemmeno i luoghi citati, salvo la città, sono esistenti. I personaggi sono originali e appartengono alla sottoscritta, salvo i nomi dei colleghi di lavoro di Siobhan, che sono presi dai romanzi di James Herriot, consideratelo un omaggio a uno dei miei scrittori preferiti. Ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.

 

“Che giornata!” pensai, mentre aprivo la porta del mio appartamento e mi apprestavo ad entrare. Immediatamente Kelly, la mia cagnolina, venne a salutarmi, saltando da ogni parte e abbaiando con aria festosa.

“Ciao, bella. Anch’io sono contenta di vederti” la salutai, prendendola in braccio e accarezzandole il lucido pelo del dorso.

Era bello avere qualcuno che ti aspettasse a casa quando tornavi dal lavoro, anche se era soltanto un cane. Mi scocciava ammetterlo ma, anche questa volta, Martin aveva ragione. Martin era uno dei miei migliori amici ed era stato lui a regalarmi Kelly, qualche anno prima, perché non soffrissi di solitudine. Aveva insistito perché lasciassi scegliere a lui il nome da dare alla cucciola e aveva deciso di chiamarla Kelly, come la cantante Kelly Rowland, per la quale aveva sempre avuto un debole. Martin. Era da un sacco di tempo che non lo vedevo. Qualche mese più o meno. Abituata com’ero ad averlo sempre tra i piedi, era come se non ci vedessimo da anni. Lo conoscevo praticamente da quando avevo undici anni. Ci eravamo incontrati a scuola. Il primo giorno, del primo anno di scuola superiore, l’insegnante mi aveva fatta sedere accanto a un ragazzino moro, con due enormi occhi verdi e le guance rosse. Lui era sempre stato un tipo piuttosto timido e, prima di rivolgermi la parola, ci aveva messo circa una settimana. Poi gli avevo passato un bigliettino con una risposta che non sapeva durante un compito in classe ed eravamo diventati inseparabili, tanto che tutti credevano che fossimo fidanzati. In realtà non avrebbe mai potuto succedere. Martin era il mio confidente e io la sua. Un pomeriggio d’autunno, mentre eravamo seduti su di una panchina, al parco, avevamo promesso di “venderci” i nostri segreti a vicenda, in modo da non doverli sopportare da soli. Per questo motivo, sapevo tutto di lui, come lui sapeva tutto di me. Ero una delle poche persone a cui aveva confidato di essere gay. Diceva che prima o poi l’avrebbe fatto sapere al mondo, ma per ora non si sentiva ancora pronto e io rispettavo le sue scelte. Sospirai. Se almeno fosse stato in città avrei potuto chiamarlo e chiedergli un consiglio. Invece era su di un qualche aereo proveniente da chissà dove e sarebbe arrivato solo l’indomani.

Scossi la testa, per liberarmi da quei pensieri, e decisi di farmi un bel bagno caldo. Avevo passato la mattinata all’aperto e un po’ di calore mi avrebbe sicuramente fatto bene. Magari mi avrebbe anche aiutato a prendere una decisione. O almeno a scordarmi di tutto quello che era successo, almeno fino all’indomani. Riempii la vasca e ci versai mezzo botticino di bagnoschiuma al caprifoglio. Accesi la radio, che Rose lasciava in bagno, perché le piaceva ascoltare musica mentre faceva la doccia, mi tolsi i vestiti e mi immersi nell’acqua calda e profumata, con gli occhi chiusi, lasciando i pensieri liberi di vagare a loro piacimento nella mia mente.

Era stata una giornata decisamente fuori dal comune. Iniziata in maniera tipica, con una telefonata alle prime luci dell’alba, che mi aveva costretta ad abbandonare il mio bel letto caldo, per avventurarmi nella gelida campagna irlandese, ancora coperta da una patina di brina che rendeva tutto piuttosto surreale. Non mi lamentavo mai, quando succedevano queste cose. Adoravo l’Irlanda e la zona in cui vivevo era, a mio parere, la più bella dell’isola. Nata, 29 anni prima, nel piccolo paesino di Clifden, al centro del Connemara, avevo sempre abitato lì, escludendo gli anni in cui avevo frequentato l’università a Dublino, dove mi ero laureata in veterinaria. Se possibile, ancora più della mia terra, adoravo il mio lavoro. Gli animali erano sempre stati la mia passione e, fin da piccola, avevo manifestato il desiderio di occuparmi di loro, specializzandomi in quelli di grossa taglia, per giunta. I miei genitori, dapprima un po’ titubanti, alla fine mi avevano appoggiata, smettendo di preoccuparsi per la mia salute. Finiti gli studi, avevo trovato un posto come aiuto veterinario nell’ambulatorio del dottor Herriot, nel centro di Clifden, e mi ero trovata un appartamentino tutto mio, in modo da non dover fare avanti e indietro tutti i giorni dalla fattoria dei miei genitori, dove avevo abitato fino alla laurea. Insieme a me, abitava Rose, una ragazzona bionda, mezza scozzese e mezza italiana, che aveva da poco aperto un ristorante a Clifden. Mi trovavo benissimo, con lei, solo che, tra il suo lavoro e il mio, riuscivamo a vederci molto di rado, quindi le nostre conversazioni si risolvevano per lo più in lunghi biglietti, scritti sul retro degli scontrini del supermercato e lasciati sul tavolo. Ogni tanto, riuscivamo a passare qualche pomeriggio insieme e stavamo sul divano a guardare film d’amore e a raccontarci le novità, consigliandoci e supportandoci, da buone amiche. Anche se non ci vedevamo spesso, ringraziavo il cielo di avermi mandato Rose. Non avevo molti amici, il mio lavoro non mi permetteva di coltivare grandi amicizie. I miei pochi amici sinceri, risalivano al tempo della scuola e Martin era uno di loro. Gli altri, Gavin e Keith, facevano lo stesso lavoro di Martin e, per questo, erano spesso via. Il primo che avevo conosciuto era stato Gavin, poiché i suoi genitori avevano una tavola calda in paese e venivano spesso a rifornirsi di latte fresco e formaggio da mio padre. Avevamo la stessa età e ci divertivamo a giocare insieme, rincorrere le galline, salire sui pony e rotolarci nei prati, come tutti i bambini. Keith era il migliore amico di Gavin, e l’avevo conosciuto quando eravamo già un po’ più grandicelli e avevamo iniziato ad andare al cinema, ogni tanto, la domenica pomeriggio. Keith era il classico principe azzurro delle favole: capelli biondi, con un ciuffo ribelle che gli copriva in parte due splendidi occhi azzurri, sorriso ampio e velleità artistiche. I suoi modi, però, non erano altrettanto principeschi. Keith, infatti, era un rockettaro e, come tale, riteneva fico usare parole volgari e, soprattutto, trattare male le ragazze. Io ero la sua vittima preferita, dato che uscivo così spesso con Gavin. Ci eravamo presi subito in antipatia e non facevamo altro che insultarci, da mattina a sera. In realtà, io avevo una cotta pazzesca per lui, ma non l’avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura. Poi, crescendo, avevamo piano piano superato le nostre discordie e imparato ad apprezzarci. La mia cotta si era trasformata in qualcosa di più forte e profondo e avevo passato anni a escogitare sistemi per trovarmi, casualmente, nello stesso posto in cui c’era lui. Gavin mi era stato di grande aiuto, soprattutto quando i ragazzi avevano iniziato a suonare in qualche pub e mi aveva proposto di fare la cantante, insieme al mio amico Martin, che avevamo scoperto essere dotato di una voce fantastica. Poi, una sera, un importante produttore musicale ci aveva sentiti e ci aveva proposto di firmare un contratto per incidere un CD di canzoni folk irlandesi. I ragazzi erano entusiasti. Il loro sogno più grande stava diventando realtà ed era assolutamente un’occasione da non perdere. Io, però, non la pensavo allo stesso modo. Il mio sogno non era cantare, ma diventare veterinaria e, per realizzarlo, dovevo andare all’università e studiare. Dopo parecchi ripensamenti, avevo detto di no, lasciando che i ragazzi continuassero senza di me. Martin e Gavin avevano capito, mentre Keith aveva fatto un sacco di storie e mi aveva tenuto il muso per una settimana intera, finché non mi ero stufata del suo comportamento ed ero andata a parlargli, a casa sua.

“Sei stato abbastanza chiaro, Keith. Ho capito che ce l’hai con me perché ho rinunciato al contratto. Ma adesso non ti sembra di esagerare? In fin dei conti è la mia vita!” gli avevo urlato in faccia, arrabbiata.

Lui mi aveva guardato, con aria triste e, a bassa voce, aveva detto, semplicemente “Lo so che è la tua vita. Non fai che ripeterlo. È che mi piacerebbe tanto farne parte e, con il gruppo, mi illudevo di poterlo fare”.

Ero sbiancata e, avvicinandomi, avevo domandato “Scusa? Tu vuoi far parte della mia vita?”.

Keith aveva annuito “Sì. Non sapevo come fare a dirtelo”.

Con il cuore che batteva forte, gli avevo preso una mano “Ehi, guarda che non ti serve un gruppo per stare con me. Possiamo farlo lo stesso”.

Keith mi aveva sorriso “Vuoi dire che non ti dispiacerebbe uscire con me?”

“Speravo tanto che me lo chiedessi, prima o poi” avevo confessato, abbassando gli occhi.

Keith mi aveva fatto alzare il viso e, dolcemente, mi aveva baciata, dando così inizio alla nostra breve, ma intensa, storia d’amore. Era stato il periodo più bello della mia vita, quell’anno in cui ero stata la ragazza di Keith, non Keith Murray dei Dotties, semplicemente Keith, il mio Keith.

Poi il gruppo aveva preso il volo. Avevano avuto subito successo, realizzato un CD dietro l’altro ed erano diventati famosi anche al di fuori dell’Irlanda, per cui avevano iniziato a viaggiare moltissimo. Tenere in piedi un rapporto a distanza era già abbastanza difficile, senza dover anche fare i conti con la stampa. Ero sempre stata piuttosto timida e la prima volta che mi ero ritrovata un giornalista davanti alla porta dell’appartamento in cui stavo a Dublino avevo letteralmente creduto di morire. Avevo balbettato qualcosa e poi, presa dal panico, avevo negato di conoscere i ragazzi. Martin e Gavin si erano fatti una risata sopra, ma Keith se l’era presa da morire. Diceva che, se tenevo a lui, dovevo essere pronta ad accettare la sua vita. Ne era scaturita una litigata terribile, in cui lui cercava di convincermi ad accettare la sua popolarità e io urlavo che era lui quello famoso, non io, e che volevo starmene tranquilla nel mio paesino, a curare i miei animali. A quella, erano seguite molte altre discussioni, tutte più o meno per lo stesso motivo. Keith voleva presentarmi in pubblico come la sua ragazza e io non ne volevo sapere. Mi accusava di non amarlo abbastanza, mentre la mia era solo paura. Una volta resa pubblica, la nostra relazione sarebbe stata sotto gli occhi di tutti e io non volevo. Era una cosa privata. Alla fine, dopo l’ennesima, violenta litigata, io me ne ero andata, sbattendo al porta, e urlandogli dietro che non volevo più vederlo. Purtroppo, così era stato. Il giorno seguente lui era dovuto partire per il primo tour americano dei Dotties, che l’avrebbe impegnato per quattro mesi. Non ci eravamo più sentiti, io troppo orgogliosa per scusarmi, lui troppo ferito per passarci sopra. Fortunatamente, Gavin e Martin non si erano fatti intimorire dalla situazione e avevano continuato a tenersi in contatto con me, dandomi continuamente notizie di Keith. Lui sapeva che sentivo e vedevo spesso i ragazzi ma, anche se chiedeva spesso mie notizie, non si era mai più fatto vivo con me, tanto che credevo non gli importasse più nemmeno della nostra amicizia. Potevo capirlo e, in gran parte, era stata colpa mia. Quando tutto era successo, avevo appena 20 anni. Ero una ragazzina di campagna appena sbarcata in città, con tanti sogni e pochissima esperienza del mondo. Già Dublino mi spaventava, figurarsi il mondo della musica. Avevo creduto di non farcela e avevo preferito mollare, anziché provarci. Ora le cose erano diverse. Ero cresciuta ed ero diventata più forte. Erano passati nove anni. Nove interi anni senza sentire né, tanto meno, vedere Keith. Era strano come ci fossimo riusciti. Clifden era un piccola cittadina, in fondo, ed era facile incontrare gente che si conosceva per strada. A noi non era mai successo. E i nostri amici facevano attenzione a non farci incontrare. Sapevo che anche per loro era dura, me l’avevano confessato più volte, ma volevano bene ad entrambi e avevano tenuto duro. Con il tempo, le ferite si erano un po’ rimarginate e, almeno, riuscivamo a parlare l’uno dell’altra senza rancore. Solo con un po’ di amarezza per com’erano andate le cose. Il tutto fino a quel pomeriggio.

Ero al lavoro, come sempre, nell’ambulatorio veterinario del dottor Herriot, e stavo aiutando Tristan, il suo socio, a preparare la borsa per il giro di visite pomeridiano, dopodiché avrei raggiunto suo fratello maggiore, Siegfried, alla fattoria del signor Bamford, dove ci aspettava un bel parto gemellare su di una giovane vacca. Io, i fratelli Sigfried e Tristan Farnon, e James, o il dottor Herriot, come ci piaceva chiamarlo per farlo arrabbiare, formavamo una bella squadra e non smettevo di ringraziare il fato per la fortuna che avevo avuto ad ottenere quel posto. James era ormai prossimo alla pensione e mi aveva già annunciato che, non appena si fosse ritirato, mi avrebbe fatta diventare socia dell’ambulatorio a tutti gli effetti. Era il mio sogno diventato realtà. Mentre io ero in dispensa a fare scorta di flaconi di medicinali, era suonato il telefono e Tristan era corso a rispondere.

“Sio!” aveva urlato, subito dopo “E’ per te”.

E poi, passandomi il ricevitore, con un sorrisino malizioso stampato sul viso “Uno dei tuoi amici famosi” aveva aggiunto.

Io avevo risposto allegramente, facendogli una linguaccia e aspettandomi di sentire Martin o Gavin, invece “Ciao Siobhan”.

Al solo sentire la voce di Keith, le gambe mi erano diventate improvvisamente molli e avevo dovuto appoggiarmi al tavolino.

“Ciao” avevo risposto, scioccata.

“Ti disturbo?” aveva chiesto, gentile.

“No, figurati”.

Non ero in grado di formulare frasi più complesse e rispondevo a monosillabi.

“Scusa se ti chiamo al lavoro, ma ho pensato di avere più probabilità di trovarti” spiegò.

Avevo guardato il tavolo cosparso di fiale di medicinali, siringhe e lacci emostatici e avevo sorriso, tra me “Sì, hai fatto bene. Non sono mai a casa. Anche adesso, stavo uscendo” avevo confessato. L’avevo sentito ridere e, in un istante, era stato come essere tornata indietro di nove anni.

“Allora sono stato fortunato” aveva commentato.

Avevo riso anch’io “Già”.

“So che ti starai chiedendo come mai ho deciso di farmi vivo, dopo tutto questo tempo, ma la verità è che non lo so nemmeno io” aveva ammesso, lasciandomi un po’ spiazzata.

“Presumo di aver pensato che era ora di farla finita con questa stupida situazione e ho pensato che oggi fosse il giorno adatto per tentare. In fondo, uno dei due doveva pur fare il primo passo”. “Oggi?” avevo farfugliato, sempre più confusa.

“Sì. Non è il tuo compleanno?” aveva chiesto lui, dubbioso.

Avevo chiuso gli occhi. Sì, era il mio compleanno. Con tutto il trambusto della giornata, me n’ero completamente dimenticata. Anche perché, senza i miei amici, che senso aveva festeggiare?

“Sì, è oggi” avevo detto “Grazie”.

Keith aveva riso, di nuovo “E di che? Ne ho persi otto, ma il nono me lo sono ricordato” aveva scherzato e, dopo un istante “In realtà, mi sono ricordato anche gli altri, solo che…”

“Solo che non te la sentivi di chiamare. Lo so” l’avevo interrotto io, prendendo coraggio

“Già” aveva concordato “Scusami”.

Avevo sospirato “No. Scusami tu”.

Eravamo rimasti un attimo in silenzio, dopodiché Keith aveva osservato “Alla fine, è stato più facile di quello che mi sarei immaginato”

“Non è sempre così?” avevo chiesto

“Forse” aveva risposto lui.

“E pensare che ci abbiamo messo nove anni” aveva detto, con una nota di rammarico

“Ognuno ha i suoi tempi” l’avevo rassicurato “L’importante è riuscirci, alla fine”.

Non potevo vederlo, ma sapevo con sicurezza che stava sorridendo.

“Senti” aveva proposto “Spero che non ti sembri affrettato, ma domani torniamo in città e abbiamo un periodo di riposo per le feste”.

Avevo chiuso gli occhi. Già, Natale. Mi ero dimenticata che eravamo già a dicembre.

Keith aveva proseguito “Mi chiedevo se ti andrebbe di vederci da qualche parte”.

Mi ero sentita come se un macigno da una tonnellata e mezza mi fosse arrivato diritto sulla testa. Keith mi stava chiedendo di vederci? Avevo deglutito un paio di volte, prima di rispondere, e Keith aveva interpretato il mio silenzio come una risposta negativa.

“Che stupido che sono! Ovviamente sarai occupata con il lavoro”.

Anche se non poteva vedermi, avevo scosso la testa “In realtà no. Domani è il mio giorno libero” avevo spiegato “Quindi…okay”.

“Davvero? Beh, allora, se ti va, ci troviamo alla Lync’s House?” aveva proposto.

La Lync’s House era il locale dei genitori di Gavin. Anche se ero certa che i ragazzi sapessero della chiamata di Keith, non mi andava che il nostro primo incontro, dopo nove anni, avvenisse in un posto dove tutti ci conoscevano e sapevano i nostri trascorsi.

“Non possiamo andare da un’altra parte? Io…potrebbe essere piuttosto…imbarazzante”.

“Non ci avevo pensato” aveva confessato lui “Certo. Facciamo così, scegli tu il locale okay?”.

Ci avevo pensato un istante e poi, esitante, avevo proposto “Perché non vieni da me?”.

Keith era rimasto in silenzio per un attimo “Da te?”.

“Sì. La mia coinquilina non sarà sicuramente in casa e almeno possiamo stare tranquilli, senza il rischio di orecchie e occhi indiscreti” avevo spiegato.

“D’accordo” aveva acconsentito lui “Allora facciamo più o meno per le 3:00?”

“Per le 3:00 va benissimo” avevo risposto, sorridendo.

“Bene. A domani, allora” mi aveva salutata lui.

“Sì. A domani” avevo ribattuto, con aria sognante.

Quando avevo posato il ricevitore, dovevo aver avuto un’aria veramente sconvolta perché Tristan, che aveva osservato tutta la scena appoggiato allo stipite della porta, mi aveva chiesto “Tutto, okay, Sio?”.

Avevo annuito “Sì. Tutto okay”.

Tristan aveva qualche anno più di me ed eravamo ottimi amici, quindi sapevo che con lui potevo parlare liberamente.

“Non immagineresti mai chi era al telefono” avevo esordito, finendo poi per raccontargli tutto.

Fui riportata alla realtà dalle note di una canzone provenienti dalla radio, e spalancai gli occhi. Era una vecchia canzone che mi piaceva molto ma, quel giorno, bastarono le prime note a far sì che alcune lacrime iniziassero a rigarmi le guance...I would like to visit you for a while, Get away and out of this city, Maybe I shouldn’t have called but someone had to be the first to break....*

Keith era stato il mio primo, unico, grande amore, sarebbe stato inutile negarlo. Nei nove anni in cui non ci eravamo sentiti, avevo cercato di rifarmi una vita e, in parte, ci ero riuscita. Ero soddisfatta in campo lavorativo, ma decisamente delusa in quello affettivo. Avevo avuto qualche storia, ma nessuna era mai durata più di sei mesi. La scusa era sempre la stessa. Il mio lavoro, che nessuno sembrava essere in grado di sopportare, tranne io. Eppure, James e Siegfried erano entrambi sposati e Tristan aveva spesso avuto relazioni, anche piuttosto lunghe, ma mai serie, a causa della sua inguaribile natura da dongiovanni. Alla fine, ero giunta alla conclusione che fosse colpa mia. Non avevo mai messo veramente il cuore, in quelle storie. Perché? Forse sapevo che non erano quelle giuste, oppure…. No, non volevo nemmeno pensarci. Non aveva senso. Ma, da quel pomeriggio, il chiodo fisso che mi tormentava da anni era riapparso, più forte e vivo di prima. Forse, per tutto quel tempo, ero sempre stata innamorata di Keith. Era stupido e forse anche patetico, ma, nonostante ce l’avessi messa tutta per dimenticarlo, non ci ero mai riuscita completamente. Una piccola parte del mio cuore, ancora sperava che tornasse da me. Non come fidanzato, non ero così stupida da pretendere che mi amasse ancora. Dopo tutto quel tempo e con tutte le ragazze milioni di volte più belle di me che gli ronzavano attorno, era tecnicamente impossibile. Però, mi sarebbe piaciuto almeno recuperare la nostra amicizia. Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. Mi serviva Martin. Gli avrei mandato un sms prima di andare a letto. Scossi la testa e finii rapidamente di lavarmi. Uscii dalla vasca e andai in camera mia, a vestirmi. Indossai un paio di jeans scuri e una felpa rosa con il cappuccio e mi avviai verso la cucina, proprio nel momento in cui la porta di casa si aprì.

“Ciao” disse Rose, sorridendomi, allegramente.

“Ehi, ciao” la salutai “Che ci fai a casa a quest’ora?”.

La ragazza sospirò, togliendosi la giacca.

“Non me ne parlare. Ricordi la cena dei coscritti del ’32 per cui mi avevano prenotato tutto il ristorante?”

Annuii, versandomi un bicchiere di succo d’ananas.

“Beh, uno degli invitati è morto e hanno disdetto tutto” annunciò, lasciandosi cadere pesantemente su di una sedia.

Strabuzzai gli occhi “No! E adesso?” domandai.

Rose alzò le spalle “Niente. Mi pagheranno lo stesso, come da accordi, ma non avevo altre prenotazioni, per stasera, e ho chiuso”.

Mi avvicinai e le posai una mano sulla spalla “Mi dispiace, Rose”.

“Non importa” minimizzò lei, sorridendo “Piuttosto, hai già mangiato?”

Scossi la testa “Sono appena uscita dalla vasca”.

Rose mi lanciò un’occhiata scettica “Giornata pesante?” chiese.

Alzai le spalle “Non troppo. Strana piuttosto”.

“Che è successo?” si informò.

“Ho ricevuto una telefonata da una persona che non sentivo da anni” spiegai.

“Ma dai! Chi?” domandò, curiosa.

Sorrisi “Te lo racconto mentre mangiamo” tagliai corto, pur sapendo che Rose odiava dover aspettare.

“D’accordo. Vado a farmi una doccia e poi preparo qualcosa di veloce. Intanto tu tira fuori dal frigo la torta gelato”

“Torta gelato?” ripetei, stupita.

La mia amica sorrise “Credevi che mi sarei dimenticata del tuo compleanno, testona?” mi rimproverò.

Scossi la testa “Certo che no. A te non sfugge nulla”.

“Esatto. Nulla. Nemmeno il sorrisetto che hai fatto quando mi hai detto della telefonata. Scommettiamo che so già di chi si tratta?”.

Scoppiai a ridere. A Rose non sfuggiva proprio niente.

“So che lo sai. Ma voglio raccontartelo lo stesso, quindi sbrigati a lavarti” la spronai, facendola ridere di gusto.

Stava per sparire in bagno, quando la chiamai “Rose?”

“Sì?”

“Com’è morto il tipo della cena?”.

La ragazza mi guardò e, sforzandosi di restare seria, rispose “Attacco cardiaco” . Poi, trattenendo a stento una risata, aggiunse “Facendo sesso con una ventenne, pace all’anima sua!”.



*I Don’t Know You Anymore (Savage Garden)
 

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Capitolo 2
*** CHAPTER 2 - If I Knew Then (Backstreet Boys) ***


Non appena l’aereo fu decollato, mi slacciai la cintura di sicurezza e abbassai lo schienale del sedile, cercando di mettermi comodo. Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino e mi scontrai contro l’azzurro limpido del cielo, sopra alle nuvole. Sorrisi. Nonostante fosse ancora molto presto, si pronosticava una magnifica giornata. Mi ritrovai a pensare che, per me, sarebbe stata magnifica lo stesso, anche con tuoni e fulmini. Dopo anni di sofferenze e indecisione, avevo finalmente trovato il coraggio di chiamare Siobhan. Ci avevo provato milioni di volte, invano. Componevo il numero ma, all’ultimo momento, riattaccavo, prima che iniziasse a squillare. Era troppo difficile. Faceva ancora male. In nove anni, avevo fatto di tutto per dimenticarla. Avevo avuto numerose relazioni, più o meno serie e durature, con svariate ragazze, di cui alcune anche molto belle. All’inizio, mi sembrava di stare bene con loro e, ogni volta, mi convincevo di aver finalmente trovato colei che mi avrebbe fatto dimenticare il mio primo grande amore. Poi, però, succedeva qualcosa. Una piccola frase, un piccolo gesto. E io mi ritrovavo a pensare a Siobhan, a cosa avrebbe fatto e detto lei in quell’occasione e capivo di esserci ricascato di nuovo. La nostra storia non era durata moltissimo, ma era stata la mia prima relazione seria. Avevo passato talmente tanti di quegli anni a desiderarla segretamente che, quando finalmente era diventata mia, avevo creduto che il difficile fosse ormai passato e che saremmo stati insieme per sempre. Purtroppo non era stato così ed era stata colpa mia, quanto sua. Forse la sua reazione alla mia popolarità era stata esagerata, ma io non ero stato in grado di capire i suoi timori e l’avevo accusata di non tenere sufficientemente a me. Scossi la testa. Ormai era acqua passata, inutile continuare a pensarci. Finalmente, dopo tanto rancore, avevamo fatto pace e, forse, sarei almeno riuscito a recuperare la sua amicizia. Mi mancavano da morire le serate passate in compagnia sua e dei miei amici. Era stato proprio Martin a convincermi. A dire il vero, lui e Gavin ci avevano provato ininterrottamente, durante in primi anni della nostra separazione. Credo che, inconsciamente, sperassero ancora che tutto si aggiustasse e io e Siobhan potessimo tornare insieme, come ai vecchi tempi. Dopo un po’, però, vedendomi recalcitrante, avevano gettato la spugna, lasciando a me ogni decisone in merito. Un paio di giorni prima, però, io e Martin eravamo usciti per berci una birra. Eravamo a Monaco per dei concerti e Gavin aveva abbordato un’ammiccante ragazza bionda al bar dell’albergo. Sapevamo che non se la sarebbe portata a letto, non era il tipo, ma magari si sarebbero divertiti un po’ sui divanetti dalla hall, e non volevamo assistere, quindi avevamo deciso di uscire. Ci eravamo rintanati in un vecchio locale polveroso, pieno di rubicondi signori tedeschi e donne dall’aria mascolina, che facevano paura soltanto a guardarle, e avevamo ordinato due birre. Mentre ce ne stavamo lì, guardandoci attorno, era entrata di corsa una ragazza e, tutta trafelata, si era avvicinata al bancone, chiedendo qualcosa in tedesco. Mentre parlava, aveva abbassato il cappuccio della giacca, che teneva sollevato per via della neve, rivelando due buffe trecce castane. Senza nemmeno rendermene conto, avevo sorriso, perso nei miei pensieri, e Martin se n’era accorto.

“Ti ricorda lei, vero?” aveva chiesto, tranquillo.

Voltandomi a guardarlo, avevo annuito. Inutile negare l’evidenza. Siobhan portava spesso i capelli legati in due buffe treccine spettinate, era ovvio che avessi pensato a lei. Non potevo mentire proprio a Martin, che era sempre stato il suo migliore amico.

Il ragazzo aveva preso un sorso di birra, poi, appoggiando il boccale sul tavolo, mi aveva domandato “Ci pensi spesso?”.

Avevo sospirato. Sì, ci pensavo spesso. Qualche giorno più di altri, ma molte cose me la ricordavano, nonostante fossero passati tutti quegli anni.

“Continuamente” avevo confessato, abbassando lo sguardo sul mio boccale.

Martin era restato in silenzio per un po’, tanto che avevo pensato che considerasse chiuso il discorso.

Poi, inaspettatamente, aveva detto “Lei non ce l’ha più con te, sai?”.

Avevo spalancato gli occhi, sorpreso “Come fai a saperlo?”

“Me l’ha detto lei”.

Il mio cuore aveva iniziato a battere più velocemente e, cercando di non dare a vedere quanto mi interessasse saperlo, avevo chiesto “Davvero?”.

Il mio amico aveva annuito e, sorridendo, aveva risposto “Ti ha perdonato da un bel pezzo”.

Avevo preso un sorso di birra, per calmarmi, chiedendomi come mai soltanto parlare di lei mi facesse ancora quell’effetto.

Martin aveva continuato a guardarmi, con uno strano sorriso stampato in faccia, poi, tutto d’un tratto, aveva commentato “Mi chiedo quando vi renderete conto che non valeva la pena di perdere tutto quel tempo”.

Era stata come un’illuminazione. Improvvisamente avevo capito che Martin aveva ragione. Avevamo perso nove lunghi anni a portaci rancore per una cosa successa quando eravamo poco più che ragazzi. Ne valeva veramente la pena? Decisamente no. Quando Martin si era alzato per andare in bagno, avevo preso il suo cellulare e mi ero copiato i numeri di Siobhan. Il giorno seguente l’avevo chiamata, approfittando del suo compleanno. E quel giorno, alle 3:00, ci saremmo rivisti, dopo nove anni. Ero in trepidazione. Non sapevo come mi sarei comportato, ma la telefonata era andata così bene che avevo deciso di cercare di non preoccuparmi troppo e lasciare che il destino facesse il suo corso.

“Ehi” mi voltai di scatto, trovandomi di fianco Martin.

“Ehi” ribattei.

“Un euro per i tuoi pensieri” scherzò.

Sorrisi “Pensavo a Clifden”.

“Voglia di tornare a casa?” chiese lui, divertito.

“Una specie”.

“C’entra per caso una brunetta con le treccine?” azzardò.

Mi voltai a guardarlo, con espressione stupita.

Lui scoppiò a ridere di gusto “Mi ha mandato un messaggio” confessò.

“Non una parola, Keane” gli intimai.

Martin alzò le mani, in segno di resa “D’accordo” si arrese “Mi chiedevo soltanto se sapessi il suo indirizzo…”.

 

Arrivai davanti ad un grazioso palazzo con la porta verde e ricontrollai l’indirizzo, che Martin mi aveva scritto sul tovagliolino di carta della compagnia aerea. Giusto. Mi detti una sistemata al colletto, presi un respiro profondo e suonai. Dopo qualche istante, la porta si aprì e, dopo nove anni, mi ritrovai davanti Siobhan.

“Ciao” mi salutò, sorridendo.

“Ciao” riposi, indeciso se darle un bacio sulla guancia o no.

In quel momento, mi arrivò qualcosa sui piedi e abbassai lo sguardo, spaventato. Una palla di pelo bianca e beige mi stava annusando le caviglie, con aria interessata.

Sentii Siobhan ridere di gusto e spostai nuovamente lo sguardo su di lei “Bene, hai conosciuto Kelly”.

“Kelly?” chiesi, stupito.

Siobhan annuì e, dando un’occhiata divertita al suo cane, aggiunse “Credo che tu gli stia simpatico”.

Scoppiai a ridere “Non sapevo che avessi un cane” commentai, mentre la seguivo all’interno dell’appartamento.

“Oh, è stata un’idea di Martin. Me l’ha regalato lui” spiegò, facendomi cenno di accomodarmi sul divano.

Sorrisi. Conoscendo il mio amico, probabilmente era preoccupato che Siobhan soffrisse di solitudine. Era colpa mia se era rimasta sola. L’avevo abbandonata.

Sentii un’irrefrenabile impulso di abbracciarla, ma riuscii a trattenermi e, invece, domandai “Che razza è?”

“Un beagle. Come Snoopy”.

“Ehm…” farfugliai, mostrandole la scatola che tenevo in mano “Ho portato una torta”.

“Grazie!” esclamò lei, afferrandola “Non dovevi disturbarti”.

“Nessun disturbo” la rassicurai “L’ho presa alla Lync’s House. Una volta ti piacevano le torte della mamma di Gavin”.

Siobhan sorrise “Mi piacciono ancora” confessò.

Arrossendo, si scusò e andò in cucina a preparare il the, lasciandomi solo in salotto.

Mentre era via, mi guardai intorno. L’appartamento era piuttosto confortevole. Tappeti colorati, soprammobili, qualche foto alle pareti. Raffiguravano tutte Siobhan, insieme a una ragazza bionda dalla faccia simpatica. Pensai che dovesse trattarsi della sua coinquilina.

In quel momento, Siobhan tornò con due tazze di the fumanti e due fette due torta su di un piatto. Mi voltai a guardarla. Era ancora più bella di come la ricordassi. Siobhan era sempre stata una ragazza minuta e l’avevo sempre trovata fantastica. Ora però, i fianchi le si erano leggermente arrotondati e il viso era un po’ più pieno. Era radiosa. Appoggiò le tazze e il piattino sul tavolino di fronte al divano, e si sedette accanto a me, sorridendo. Bevvi un sorso di the e la bevanda calda sembrò darmi coraggio.

“Ti trovo bene” le dissi.

Lei sorrise, abbassando lo sguardo “Grazie”.

“Non voglio sembrarti scortese, ma sbaglio o hai preso qualche chilo?”.

Era un’affermazione rischiosa, ne ero consapevole, ma me l’ero lasciata scappare.

Fortunatamente, Siobhan annuì “Già. Beh, sono i rischi che si corrono a dividere l’appartamento con una cuoca” sentenziò, mettendosi a ridere.

“Stai benissimo, davvero” la rassicurai, sfiorandole una mano.

L’avevo fatto senza pensare, d’istinto, ma mi accorsi subito che quel mio semplice gesto l’aveva messa in imbarazzo. Infatti, spostò subito la mano e arrossì violentemente. Distolsi lo sguardo. Si stava rivelando più difficile del previsto, ma era comprensibile. Nove anni senza parlarsi erano tanti. Non poteva tornare tutto come prima in un solo pomeriggio. Ero stato uno stupido a sperarlo. Se era cambiata di aspetto, forse lo era anche di carattere. Io ero cambiato. Ero cresciuto. Sicuramente lo era anche lei.

Cercai un argomento di conversazione, per interrompere quel silenzio imbarazzante, ma non mi venne in mente nulla di interessante, così buttai lì un “Allora, come hai detto che si chiama il tuo ragazzo?”.

Sapevo benissimo che non stava con nessuno, al momento. I ragazzi me lo avrebbero detto, altrimenti, come avevano sempre fatto nel corso di quei nove anni. Era stata la prima cosa che mi era venuta in mente. Inoltre, volevo sapere qualcosa di quel suo collega giovane. Da quando avevo saputo della sua esistenza, avevo sempre sospettato che potesse essere interessato a Siobhan.

La ragazza mi guardò, allibita “Il mio ragazzo?” ripeté, cercando di capire.

Annuii “Sì, quello che lavora con te all’ambulatorio. Quello che ha risposto al telefono, ieri”. Siobhan scoppiò a ridere “Ma chi? Tristan?” chiese, divertita.

“Sì, lui”.

“Non so che idee ti sei fatto, ma Tristan non è il mio ragazzo. Lavoriamo insieme, ecco tutto. Siamo buoni amici, ma ti posso assicurare che tra noi non c’è assolutamente nulla! Lui non è il tipo da impegnarsi seriamente, preferisce le avventure” spiegò.

“E tu, invece? Stai cercando una storia seria?” domandai, senza riflettere.

Siobhan alzò le spalle “Non la sto cercando, ma se arrivasse, sì, vorrei che fosse una cosa seria”. Restammo un istante a guardarci, in silenzio, dopodiché lei aggiunse “Comunque, non la vorrei con Tristan. Fuma come una ciminiera!”.

Tristan non è il mio ragazzo.

Quelle parole mi rimbombavano ancora nella testa e sentivo un immenso calore nel cuore. Sapevo che Siobhan era libera, ma sentirglielo dire mi aveva provocato una strana sensazione allo stomaco. Come uno sfarfallio. Distolsi lo sguardo e mi imposi di restare lucido. Avevo già rischiato di mandare tutto a monte sfiorandole la mano, non potevo permettermi di compiere altri errori. Dovevo restare calmo e soprattutto smettere di fare castelli in aria. Eppure…c’era una vocina insistente, nella mia testa, che continuava a ripetere forse hai ancora una possibilità. Nonostante avessi cercato di dimenticarla, con tutte le mie forze, ero consapevole di non esserci mai riuscito del tutto e, vederla lì, davanti a me, dopo tutto quel tempo, non faceva che incrementare le mie convinzioni. Teneva lo sguardo fisso sulla tazza che aveva in mano. Ne approfittai per guardarla meglio. Indossava un paio di jeans scuri e un maglioncino arancione, e aveva i capelli raccolti con una molletta, dietro alla nuca. In quel momento non mi stava guardando, ma ricordavo benissimo i suoi occhi grigi, poiché erano quello che mi aveva maggiormente colpito in lei, la prima volta che l’avevo vista. La ricordavo una ragazza semplice e, a quanto sembrava, lo era ancora. Nonostante questo, la trovavo irresistibile. Quella sua aria innocente e pura mi dava un senso di libertà.

Si voltò a guardarmi e mi sorrise. Quanto mi erano mancati i suoi sorrisi.

Dimenticandomi di tutti i miei timori, le confessai “Mi sei mancata”.

Vidi i muscoli del suo viso irrigidirsi, ma fu solo un istante. “Anche tu” sussurrò, arrossendo.

Le mie labbra si allargarono in un sorriso radioso. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Allungai una mano, fino ad afferrare la sua, abbandonata sul divano. In un primo momento, tentò di ritrarsi, ma io la strinsi più forte e, inspiegabilmente, la sentii rilassarsi.

“Siamo stati due idioti” sentenziai, guardandola negli occhi e rendendomi conto che erano lucidi. Siobhan annuì “Due enormi idioti” concordò.

“Vieni qui” dissi, tirandola dolcemente verso di me.

Un istante dopo, la stavo stringendo tra le mie braccia. Dopo nove anni. Non mi sembrava vero. Potevo sentire il suo cuore battere forte e sapevo che il mio non era certo da meno. Avevo sognato quel momento per anni.

Dopo un tempo che a me parve lunghissimo, sentii Siobhan muoversi lentamente, cercando di allontanarsi da me. Si portò via una lacrima dalla guancia e mi rivolse un timido sorriso.

“Non piangere” le dissi “Sei più carina, quando sorridi”.

Contro ogni aspettativa, riuscii a farla ridere.

“E pensare che abbiamo rimandato questo momento per nove anni” osservò.

Annuii “Già. Se avessi saputo che sarebbe stato così semplice, ti avrei chiamato molto prima”. “Anch’io” concordò lei “Ma avevo una paura folle. Invece…mi sento così stupida, a pensarci”. Scossi la testa “Se qui c’è uno stupido, quello sono io” sentenziai “Non ho voluto ascoltare le tue ragioni”.

Siobhan mi afferrò una mano “Basta. Non parliamone più, okay?” propose.

Annuii “Come vuoi”.

Sorrise, dolcemente, e io mossi leggermente una mano. Avrei voluto sfiorarle il viso, ma temevo che si irrigidisse di nuovo e non volevo rovinare la bella atmosfera che si era creata. Stavo giusto cercando qualcosa di opportuno da dire, quando sentimmo una chiave girare nella toppa.

Siobhan si alzò e andò verso la porta.

Io la guardai, stupito. Aveva l’aria preoccupata.

Un istante dopo, sentii una voce nota esclamare “Ciao, piccola!”.

Siobhan lanciò un gridolino di gioia e buttò le braccia al collo a Martin.

“Ti siamo mancati, vero?” chiese il mio amico, entrando in casa, seguito da Gavin.

“Da morire” rispose lei, baciandoli entrambi sulle guance.

Restai a fissare la scena, immaginandomi come dovesse essere ricevere un benvenuto così caloroso e invidiando un po’ i miei amici.

“Allora, piaciuta la sorpresa?” domandò Gavin, euforico.

Siobhan non fece in tempo a rispondere perché, nel frattempo, Martin si era accorto della mia presenza, in salotto, e aveva decretato “No, credo di no. Mi sa che abbiamo scelto il momento sbagliato, amico”.

Gavin si sporse oltre la spalla di Siobhan e mi vide.

Poi si voltò a guardare la ragazza e, sconvolto, domandò “Ci siamo persi qualcosa, Sio?”.

Siobhan arrossì e distolse lo sguardo “Assolutamente niente” rispose, affrettandosi a cambiare discorso.

“Volete una fetta di torta?”.

Gli occhi di Gavin si illuminarono. Era golosissimo e Siobhan lo sapeva.

“Non dico mai di no alla torta” sentenziò, avvicinandosi al tavolino, dove le nostre due fette giacevano ancora intatte sul piattino, e sedendosi sul pavimento.

Nel frattempo, Siobhan e Martin si erano avvicinati e il mio amico mi aveva strizzato l’occhio, senza farsi beccare dalla ragazza.

“Mm, buona” commentò Gavin, addentando un pezzo di dolce.

“Ci credo, è quella di tua madre” gli feci notare.

Il ragazzo sorrise “Ora si spiega tutto” disse.

Poi, dopo un istante, come se gli ci fosse voluto un attimo per riordinare i pensieri, aggiunse “A proposito, ma tu che diavolo ci…AHI!”.

Martin gli aveva pestato una mano di proposito.

“Oops, scusa” disse, trattenendo a stento una risata.

“Scusa un corno, mi hai fatto male” si lamentò lui.

“Vado a prenderti del ghiaccio” si offrì Siobhan, avviandosi verso la cucina.

Scattai in piedi e afferrai le tazze, ormai vuote “Ti do una mano” proposi, seguendola.

“Scusa. Non immaginavo che sarebbero arrivati” mi disse, non appena fummo da soli.

Scossi la testa “Sta’ tranquilla. Non fa niente” la rassicurai “Tanto prima o poi l’avrebbero saputo, no?”.

Lei sorrise e annuì “Sì. Io l’avrei detto a Martin e tu a Gavin, probabilmente”.

“Come da copione” osservai.

“Beh, tanto quello che dovevamo dirci ce lo siamo detto, no?” le feci notare.

Siobhan annuì “Sì, direi di sì”.

“Allora è tutto a posto” dissi, prendendole una mano.

Lei sorrise, e si voltò a cercare il ghiaccio nel congelatore.

“Aspetta. C’è una cosa” disse a un tratto, voltandosi.

“Dimmi” la spronai.

“Sono contenta di aver finalmente sbloccato l’assurda situazione che si era creata tra di noi, ma non credo che sarà così facile”.

“Cosa?” domandai.

“Far tornare tutto com’era un tempo” spiegò lei.

Annuii “Hai ragione, forse non sarà facile, ma mi sembra il caso di provarci, non trovi?”.

Siobhan annuì “Sì. Solo…non affrettiamo troppo le cose, okay? Ho sognato e temuto questo giorno per così tanto tempo che mi sembra che stia succedendo tutto troppo in fretta. Non voglio rischiare di ripetere gli stessi errori” confessò.

“Come vuoi” concordai e poi, sospirando “Peccato, però. Stavo già pensando di invitarti a cena”.

Siobhan sorrise “Non sei cambiato per niente, Keith” mi rimproverò, scuotendo la testa.

Scoppiai a ridere, cercando di non farle capire quanto mi avesse emozionato sentirla pronunciare di nuovo il mio nome, dopo tanto tempo.

“Su, andiamo di là, adesso. La mano di Gavin si starà già gonfiando” disse, prendendomi per mano. Io annuii e la seguii, mentre un sorriso soddisfatto mi illuminava il viso. Il primo passo era fatto. Ora dovevo studiare bene la mia prossima mossa.

 

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Capitolo 3
*** CHAPTER 3 - It’s My Life (Bon Jovi) ***


Stavo bevendo la mia tazza di the mattutina, prima di andare al lavoro, e mi rigiravo tra le mani il biglietto che mi aveva lasciato Rose. Rileggendolo, forse per la quarta volta, non potei fare a meno di sorridere. La mia amica era fantastica.

Ho visto i resti della torta in frigo. Carino a ricordarsi che ti piace la torta al cioccolato della signora Lync! Deduco che il vostro incontro sia andato bene. Era ora! Mi chiedevo quando ti saresti accorta di quanto è diventato incredibilmente carino. Anche se io continuo a preferire Gavin. Ho lasciato delle lasagne nel forno, devi solo scaldarle. Due porzioni. Nel caso…. Buona giornata! Rose.

Mi venne da ridere. Rose a Gavin si erano incontrati un paio di volte, ma sempre piuttosto di fretta. Quelle poche volte, però, erano bastate alla mia amica per prendersi una cotta madornale per lui. Nulla di serio, ma me lo nominava spesso e avevo iniziato a sospettare che, se solo avessero avuto modo di conoscersi meglio, forse sarebbe potuto nascere qualcosa, tra loro. In quel momento, squillò il telefono e mi affrettai a rispondere. Come da copione, un’urgenza di prima mattina. Sospirai e composi il numero dell’ambulatorio, per avvertire i miei colleghi che me ne sarei occupata io, dato che il cliente aveva chiesto espressamente di me. Dopodiché mi vestii, di corsa, infilai gli scarponi, la giacca, e saltai i macchina, diretta alla fattoria del signor Hodgson.

Arrivata là, trovai Tristan. Suo fratello abitava da quelle parti e, mi spiegò, aveva passato la notte da lui, dopo una sbronza. Quando James aveva chiamato Siegfried per avvertirlo del caso, aveva pensato di passare a darmi una mano.

Lo guardai con aria scettica “Di’ piuttosto che volevi evitarti una mattinata a riordinare i medicinali in dispensa” lo canzonai.

Il ragazzo sorrise e, portandosi un dito davanti alle labbra, mi intimò di fare silenzio “Okay. Può darsi. Ma non una parola con James, okay?”.

Annuii, scoppiando a ridere “Okay” acconsentii “Ma tu mi dai veramente una mano con quella vacca”.

Il prolasso uterino della vacca del signor Hodgson si rivelò più laborioso del previsto. Avevamo appena terminato, quando James chiamò Tristan, dicendogli di andare a vedere il cavallo del signor Brown, che si era piantato un chiodo nello zoccolo. Mangiammo un boccone al volo alla fattoria dei Brown, dopodiché tornammo in ambulatorio. Erano già le 6:00, quando rientrammo, e James ci disse che, per oggi, poteva bastare e potevamo tornarcene a casa. Sulla via del ritorno, avevo lasciato la mia auto a casa ed eravamo andati in ambulatorio con quella di Tristan, il quale, gentilmente, si offrì di darmi un passaggio. Annuii, serena, e uscimmo insieme dall’ambulatorio. Appena fuori, notai subito un’auto famigliare parcheggiata all’altro lato della strada. Un finestrino si abbassò e spuntò il viso sorridente di Martin, che mi fece cenno con la testa di salire.

Io sorrisi e annuii, voltandomi poi verso Tristan.

“Ho capito, non hai più bisogno del passaggio, stasera” sentenziò il mio collega.

Annuii “Grazie mille lo stesso, Tris” risposi, e mi affrettai a raggiungere Martin.

Il ragazzo rivolse un cenno di saluto a Tristan, chiuse il finestrino e mise in moto.

Avevamo già fatto qualche centinaio di metri, quando finalmente si decise a parlare “Allora, tutto bene?”.

Sorrisi “Non c’è male, grazie. Ho le braccia congelate, ma una doccia calda e un bel po’ di crema idratante fanno miracoli” sentenziai, facendolo ridere.

“Ieri non abbiamo avuto modo di parlare” spiegò “Com’è andata con il nostro Keith?”.

Distolsi lo sguardo e mi concentrai su di un punto imprecisato al di là del finestrino.

“Bene” risposi, vaga.

“Risolto?” chiese ancora lui.

Annuii “Pare di sì”.

“Pare?”

“Beh, ci siamo chiesti scusa a vicenda. Tutto qui” spiegai, voltandomi a guardarlo.

Martin sorrise “Beh, mi pare un bel passo avanti, no?”.

Annuii “Decisamente. Dopo nove anni, non credevo che sarebbe stato così facile tornare amici”.

Il mio amico continuò a guidare per un po’, in silenzio, poi, rivolgendomi uno sguardo divertito, aggiunse “Amici?”.

Lo guardai, non riuscendo a capire “Amici” ripetei.

“Solo?” domandò lui, lanciandomi un’occhiata scettica.

Sospirai “Sì. Solo” risposi, seccata e poi, non riuscendo a trattenermi “Non ci vedevamo da nove anni, Martin. Cosa ti aspettavi, che gli buttassi le braccia al collo, dicendo Non ho mai smesso di amarti?”.

Martin non rispose subito ma, dopo un istante, confessò “Beh, avrei cambiato un po’ i dialoghi, ma la scena sarebbe stata pressappoco quella”.

“Scemo” lo rimproverai, fingendomi offesa, e lui scoppiò a ridere di gusto.

Dopo un attimo, si voltò a guardarmi e chiese “Non lo so, Sio. È questo quello che provi?”.

Alzai le spalle “Sono passati nove anni” commentai.

“Non ti ho chiesto quanto tempo è passato” mi fece notare Martin.

Sospirai “Non lo so, Marty. Non so nemmeno io quello che provo. Voglio dire, mi è mancato tantissimo, in questi anni, e adesso mi sembra tutto troppo bello per essere vero. Magari, tra qualche ora, mi sveglio e scopro che mi sono sognata tutto” scherzai.

Martin sorrise e parcheggiò l’auto davanti a casa mia. “Beh, può darsi. Ma, fossi in te, resterei a dormire ancora per un po’” sentenziò, indicandomi un punto con la mano.

Mi voltai a guardare, e vidi Keith, in piedi davanti alla porta di casa mia, con in mano due cartoni della pizza. Sorrisi e, salutando velocemente Martin con un bacio sulla guancia, mi affrettai ad andargli incontro.

“Ehi” lo chiamai.

Il ragazzo si voltò, stupito, ma, appena mi vide, sorrise.

“Ehi”.

Guardò il punto da cui provenivo, e riconobbe Martin, in auto. Il ragazzo gli fece un cenno di saluto e lui ricambiò.

“Ho visto la tua auto e credevo fossi in casa” si giustificò.

Scossi la testa “E’ passato a prendermi Marty” spiegai.

Diedi un’occhiata ai cartoni delle pizze e alla bottiglia di vino che aveva in mano “Che ci fai…?” chiesi, perplessa.

Keith sorrise “Volevo proporti di cenare insieme, se ti va”.

Sorrisi. Era un’idea carina.

Keith guardò di nuovo Martin e, leggermente in imbarazzo, disse “Non sapevo ci fosse anche Martin”.

Scossi la testa “Non ti preoccupare, Marty non resta” precisai, pentendomi subito della fretta che avevo dimostrato nello spiegare.

Keith sorrise e io ricambiai, dopodiché gli presi la bottiglia dalla mano e, avviandomi verso la porta, lo spronai “Dai, vieni. Se no le pizze si freddano”.

 

“Ma smettila!” sbottai, strabuzzando gli occhi.

Keith sorrise e posò lentamente il bicchiere sul tavolo “E’ vero”.

“E anche se fosse?” domandai.

Keith scrollò le spalle “Nulla. Volevo solo che lo ammettessi”.

Sospirai. “Va bene. Sono sposata con il mio lavoro” ammisi.

Keith sorrise, sornione.

“Beh, ma non mi sembra che tu abbia un’intensa vita sociale” osservai.

Il ragazzo scoppiò a ridere “Ti sbagli”.

“Oh, certo. Scusa. Tu sei un musicista famoso. Feste, concerti. Groupies…” lo provocai.

“Non abbiamo groupies, in effetti” confessò “Ma le ragazze non mancano”.

Sollevai un sopracciglio. Keith sorrise “Me l’hai chiesto tu”.

Annuii “Sì. Ma, onestamente, non mi interessano le tue avventure sessuali” lo liquidai.

Ci guardammo per un attimo, in silenzio. Ero felice. Sembrava impossibile, ma era come essere tornati indietro di dieci anni, a prima della nostra storia. Ci comportavamo da ottimi amici. Non mi sentivo più in soggezione, com’era successo il giorno precedente. Ero a mio agio. Come se mi avessero improvvisamente tolto un enorme peso dal petto. Finalmente.

“Quanto è durata la tua ultima relazione seria?” domandai, guardandolo negli occhi.

Keith sostenne il mio sguardo “Sei mesi. Circa”.

Sorrisi “Vedi? Che ti dicevo?”.

“E, sentiamo, cosa mi dici di te?” chiese lui, passandomi la palla.

Distolsi lo sguardo. Nonostante la ritrovata confidenza, non mi andava di parlargli della mia disastrosa vita sentimentale.

“A quando risale la tua ultima storia seria?” insistette.

Arrossii. A quando risaliva? Era inutile che perdessi tempo a pensarci. Lo sapevo benissimo. Nove anni prima. La questione era: mi andava di dirglielo?

In quel momento, sentimmo la chiave girare nella toppa e ci voltammo entrambi a guardare verso la porta.

“Ciao” salutò Rose, entrando.

“Ciao” risposi, sorridendo.

“Ciao” disse Keith, leggermente in imbarazzo.

Rose lo guardò e sorrise. Poi guardò me “Scusa. Non sapevo avessi compagnia”.

Risi. “Smettila. Keith e io abbiamo mangiato una pizza e stavamo facendo quattro chiacchiere” spiegai.

Keith annuì. “Esatto. Anzi, mi fa piacere conoscerti” aggiunse, porgendole la mano.

Rose gliela strinse e sorrise “Piacere mio”.

“Ti siedi un attimo con noi? Abbiamo ancora un po’ di pizza” proposi.

Rose si lasciò cadere su di una sedia “Oh, grazie. Accetto volentieri”.

Mentre io riscaldavo la pizza nel microonde, Rose e Keith iniziarono a chiacchierare tra di loro.

“Tu sei quella che ha aperto il ristorante italiano in Bridge Street, vero?” chiese il ragazzo.

La mia amica annuì, orgogliosa “Sì, è mio. Ci sei mai venuto?”

Keith, scosse la testa “Purtroppo ancora no. Non ne ho mai avuto occasione. Ma ho intenzione di rifarmi presto”.

Rose sorrise. “Beh, immagino. Con il lavoro che fai, sarai pochissimo a casa” osservò.

Il ragazzo alzò le spalle “E’ difficile. Sì. Ma facciamo il possibile per tornare spesso”.

Tirai fuori la pizza dal microonde, la misi su di un piatto e la porsi a Rose, che l’addentò con gusto.

“Racconta. Com’è essere famoso?” chiese a Keith, interessata.

Lui sorrise “Oh, beh…”

Stavo per sedermi al mio posto, quando squillò il telefono e, scusandomi, corsi a rispondere.

 

 

“Scusate, ragazzi. Emergenza” annunciò Siobhan, tornando in cucina.

“Devi uscire?” chiese Rose, dispiaciuta.

Siobhan annuì. “Purtroppo sì. Era il signor Kirby. La sua pecora deve figliare, ne ha tre e anche parecchio grossi. Devo proprio andare, mi dispiace” si scusò.

“Vuoi che ti accompagni?” domandai. Sapevo che era abituata, ma non mi piaceva l’idea di saperla da sola, di notte, spersa per la campagna.

Siobhan scosse la testa. “No, ti ringrazio, Keith. Prenderesti freddo inutilmente. Inoltre non ho assolutamente idea di quanto mi ci vorrà. Non è un lavoro difficile, in sé, tutto sta a vedere se la madre collabora” spiegò.

La guardai, dispiaciuto. Era stata una così bella serata. Interromperla così era un vero peccato. Per una pecora, poi. Sospirai. Se volevo tornare a frequentarla, era meglio che ci facessi l’abitudine.

Siobhan corse in camera a cambiarsi e tornò con addosso una giacca pesante, che aveva certamente visto tempi migliori, un paio di vecchi jeans e dei grossi scarponi coperti di fango.

“Rose, intrattieni tu Keith?” chiese.

La ragazza bionda annuì, sorridendo. “Tranquilla. Vai e fai nascere quegli angellini” la spronò.

Siobhan annuì, decisa. Mi sorrise un’ultima volta e andò a compiere il suo dovere.

 

Non appena Siobhan se ne fu andata, mi voltai a guardare Rose e le sorrisi. Lei ricambiò, poi, dopo un istante, osservò “Ci sei rimasto male, vero?”.

Annuii “Un pochino”.

Rose alzò le spalle “Io ormai ci ho fatto l’abitudine”. Abbassò lo sguardo sul tavolo, poi aggiunse “Faresti meglio ad abituarti anche tu, se vuoi tornare a frequentarla”.

Sospirai. Aveva ragione, lo sapevo. Quello che non sapevo era se ci sarei mai riuscito.

“Posso farti una domanda? Che resti tra di noi” azzardai.

Rose annuì “Spara”.

“Sai se ha avuto storie serie, recentemente?” domandai.

“Dopo di te? No” rispose la ragazza, tranquilla.

Restammo un istante in silenzio, a guardarci.

“Posso farti una domanda io, adesso?” chiese Rose, dopo un attimo.

Annuii “Spara”.

“Provi ancora qualcosa per lei?”.

Chiusi gli occhi. Quella ragazza era molto diretta. Mi piaceva.

“Non lo so” ammisi. “Mi è mancata moltissimo, in questi anni”.

“Anche a lei sei mancato” commentò Rose, sorridendomi.

“Mi fa piacere saperlo” confessai. “Però, presumo di essere cambiato, in tutto questo tempo. E anche lei sarà cambiata”.

Rose alzò le spalle “Magari siete cambiati in meglio. Magari questa volta le cose tra voi funzionerebbero”.

“Magari. O magari no. Non voglio rischiare di perderla un’altra volta”.

“Non la perderai” mi rassicurò lei. “Solo…sii te stesso”.

“Che vuoi dire?” domandai.

“So che è stato difficile recuperare la vostra amicizia e che hai paura di rovinare tutto. Ma non comportarti in modo diverso da quello che faresti se non fosse accaduto niente, in passato. Non nascondere quello che provi” mi pregò.

Sorrisi “Devo prima capirlo, quello che provo”.

Sentii una mano posarmisi sul braccio e vidi Rose che mi sorrideva. “Lo capirai. Datti tempo”.

 

 

Infilai la chiave nella toppa e mi apprestai a farla girare, piano. In quel momento, però, la porta si aprì dall’interno e mi trovai davanti “Keith”.

“Ehi” disse lui, arrossendo.

Arrossii anch’io. Mi ero praticamente ritrovata tra le sue braccia.

“Stavo…stavo andando a casa” spiegò.

“Oh, bene” farfugliai, sempre più in imbarazzo. Keith non dava segno di volersi muovere ed eravamo vicinissimi.

“Tu…tutto okay con la pecora?” mi chiese, gentile.

Annuii “Sì. E’ stato più facile del previsto. Quando sono arrivata, uno era già uscito”.

“Oh, bene. Mi fa piacere” commentò lui.

Sorrisi. “Non è vero. Non te ne frega niente” obiettai, facendolo ridere.

“Okay, okay. Forse non sono interessato come vorrei far credere” ammise “Ma giuro che sono felice che tu non abbia dovuto faticare troppo”.

Annuii “Grazie. Apprezzo la sincerità”.

Keith sorrise. “Ci vediamo domani” mi salutò.

“A domani, Keith” ricambiai, alzando lo sguardo e incrociando il suo.

Keith restò a guardarmi per un tempo imprecisato, che a me parve non finire mai. Poi, cogliendomi totalmente alla sprovvista, mi diede un bacio sulla guancia, facendomi arrossire violentemente e provocando una curiosa accelerazione dei battiti del mio cuore.

Ho notato che c'è un po' di gente che legge questa storia. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate. Mi lasciate qualche commento? Così' capisco se devo postarne altre, in futuro. Grazie e buon proseguimento di lettura!

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Capitolo 4
*** CHAPTER 4 – Incomplete (Backstreet Boys) ***


Era un tardo pomeriggio di dicembre ed ero in ambulatorio con James. Eravamo alle prese con una noiosissima serie di vaccinazioni, quando sentii suonare il campanello della porta, segno che un cliente era entrato in sala d’aspetto.

Guardai James, perplessa, e lui scosse la testa “Non ho preso appuntamenti, per oggi” spiegò. “Sarà un’emergenza”.

Mi tolsi i guanti e, lasciando il mio capo alle prese con l’ultima vaccinazione, a un cucciolo di setter inglese, andai a vedere di cosa si trattasse. Mi aspettavo di vedere la faccia preoccupata di qualche agricoltore, la cui vacca era stata male quella mattina, invece mi trovai davanti il viso sorridente di Keith.

“Ehi” salutò.

“Ehi. Che ci fai qui?” domandai, incuriosita.

“Niente di preciso” rispose lui “Passavo di qui e ho pensato di entrare a farti un saluto”.

Lanciò un’occhiata alla porta dell’ambulatorio “Brutto momento?”.

Scossi la testa. “No. Affatto. Giorno di vaccinazioni” spiegai “Ma non abbiamo più molto da fare, quindi vieni, entra. A James non dispiacerà affatto”.

Keith mi seguì all’interno dell’ambulatorio e io gli presentai il mio capo “Jim, lui è Keith, un mio vecchio amico. Keith, lui è il mio capo”.

Si strinsero la mano. “Allora tu sei il famoso Keith” commentò James.

“E lei è il famoso dottor Herriot” disse Keith.

James mi lanciò un’occhiataccia “Di nuovo con questa storia del dottor Herriot?”.

Aprii la bocca per giustificarmi ma, in quel preciso momento, squillò il telefono.

“Salvata in extremis” commentò James, strizzandomi l’occhio.

Io sorrisi e andai a rispondere. Dopo pochi minuti entrai trafelata nello studio di James, dove lui e Keith stavano chiacchierando, comodamente seduti.

“Jim. La vacca del signor Dalby, quella con la mastite che abbiamo visitato ieri” esordii.

Il mio capo annuì “Sì, mi ricordo”.

“La vicina le ha calpestato la mammella malata e ora sanguina terribilmente” spiegai.

“Diamine! Questa proprio non ci voleva” esclamò James, battendo una mano sulla scrivania. “Helen mi aspetta a casa. Il mio collega di Cork viene a cena con sua moglie, stasera”

“Beh, posso fare io, Jim” mi offrii.

Il mio capo mi guardò, alzando un sopracciglio “Sei sicura?”.

Annuii “Sì”

“Te la senti di farlo da sola?”

“Io…sì, direi di sì. Voglio dire, devo solo ricucirle quella dannata mammella, giusto?”

“Giusto” rispose lui.

“Allora posso farlo. Se ti fidi” azzardai.

“Ma certo che mi fido, Sio. Sei l’apprendista migliore che mi sia capitato di avere negli ultimi dieci anni” affermò, deciso. “Non è questo il punto. Potrebbe essere una cosa piuttosto lunga e non mi piace saperti in giro di notte per quelle stradine di campagna”.

Sospirai. Siegfried e Tristan non si facevano problemi a spedirmi in giro di notte, ma James era diverso. Lo era sempre stato. Mi aveva assunta lui e mi aveva presa, fin da subito, sotto la sua ala protettrice. Era come se si sentisse responsabile per me.

“L’ho già fatto altre volte” gli feci notare.

“Lo so. Non per questo mi sento più tranquillo”

“Se vuoi, posso accompagnarti io” propose Keith.

Io e James ci voltammo a guardarlo, sbalorditi.

“Keith, no. Non è necessario” dissi, subito.

“Sì, invece” ribattè lui. “James ha ragione. Neanche a me piace saperti in giro da sola”.

Sospirai. “Potrebbe non essere una cosa tanto piacevole. Insomma, una mammella lacerata non è mai un bello spettacolo” tentai di dissuaderlo.

James mi diede una gomitata. “Andiamo, Sio. Sarò anche un po’ avanti con gli anni, ma ricordo ancora come vanno certe cose. Se un giovanotto come lui si offre di accompagnarti, non è carino rifiutare” disse, facendomi l’occhiolino

Arrossii violentemente e, lanciando una rapida occhiata a Keith, mi accorsi che anche lui aveva cambiato colore.

Alzai le spalle. “D’accordo” mi arresi. “Preparo l’occorrente e andiamo”.

“Ti aspetto in auto” disse Keith, sorridendo.

Quando uscii, con la borsa carica di attrezzi e medicinali, e un paio di pesanti scarponi ai piedi, trovai Keith ad attendermi al posto di guida, con il motore già acceso. Prima di salire guardai la sua bella macchina, con la carrozzeria linda e lucente, e mi sentii terribilmente in colpa.

“Keith, forse sarebbe meglio se prendessimo la mia auto. Sai, le fattorie non sono mai molto pulite”. Lui scosse la testa e, sorridendomi, mi strizzò l’occhio “La vuoi finire di preoccuparti? Se mi sono offerto di accompagnarti, è perché mi fa piacere. Sali”.

 

La mammella della vacca del signor Dalby non era poi così malmessa come mi aspettavo e me la cavai prima che facesse del tutto buio. Stavamo percorrendo una stradina deserta, piena dei tipici muretti a secco che caratterizzavano la campagna irlandese, quando mi accorsi che il sole stava tramontando.

“Puoi fermarti un attimo?” chiesi a Keith.

Lui mi guardò, sorpreso, ma non fece obiezioni e accostò la macchina a lato strada.

Scesi dall’auto e mi appoggiai al cofano, decisa a godermi lo spettacolo del tramonto.

Dopo un istante, anche Keith scese e mi si avvicinò.

“Che stai facendo?” chiese, incuriosito.

Alzai le spalle “Niente. Mi godo soltanto il tramonto immersa nelle meraviglie della natura”. Restammo in silenzio, ad osservare il sole che, piano piano, spariva dietro una collina. Poi, quando ormai iniziava a calare la notte, io sospirai, riempiendomi le narici del fresco profumo dell’erba gelata.

“Lo fai spesso?” chiese Keith, sorridendo.

“Faccio cosa?” chiesi, confusa.

“Guardare il tramonto”.

Scossi la testa. “No, non molto. Ma mi fermo spesso a respirare il profumo dei campi, quando sono in giro per qualche visita” confessai.

“Ti piace molto tutto questo, vero?” mi domandò, sinceramente interessato.

Annuii “E’ la mia vita” sussurrai, estasiata. “A volte può essere dura. Voglio dire, quando ti buttano giù dal letto alle ore più assurde, o quando devi far partorire una vacca all’aperto, in pieno inverno. Però, quando fermo la macchina quassù, fuori dal mondo, con il vento che mi soffia tra i capelli e il profumo dell’erba che mi solletica il naso, mi sento la persona più felice sulla faccia della Terra e ringrazio il cielo per avermi dato l’opportunità di godermi tutta questa bellezza”.

Sentii qualcosa sfiorarmi una mano e notai che Keith aveva messo la sua mano sulla mia, appoggiata al cofano dell’auto. Inspiegabilmente, trasalii. Ci eravamo riavvicinati moltissimo, in quelle settimane e potevo affermare con quasi assoluta certezza che le cose, tra noi, erano ormai tornate quelle di un tempo. Prima della nostra storia, però. E, prima della nostra storia, Keith non mi sfiorava le mani, non mi abbracciava e, tanto meno, mi dava baci sulle guance. Tutte cose che, invece, adesso faceva spesso. Non riuscivo a capire se quei suoi gesti spontanei fossero frutto di un suo cambiamento, avvenuto nei nove anni in cui non ci eravamo parlati, o se si trattasse piuttosto di residui di quel sentimento che, un tempo, ci legava. L’unica cosa che sapevo era che, ogni volta che mi sfiorava, anche solo accidentalmente, arrossivo e i battiti del mio cuore acceleravano. Non era una cosa normale. Non mi succedeva con le altre persone e, tanto meno, con i miei amici più cari. Gavin e Martin potevano abbracciarmi quanto volevano, tutto quello che avrei fatto, sarebbe stato scoppiare a ridere. Con Keith era diverso. Trasalivo. Mi emozionavo. Sembravo una quindicenne alla prima cotta.

La voce del ragazzo mi distolse dalle mie riflessioni. “Sono contento che tu sia felice”.

Mi parve di cogliere una punta di rimorso, nelle sue parole. Mi voltai a guardarlo e, nonostante fosse ormai calato il buio, mi accorsi che c’era qualcosa che lo turbava.

“Perché, tu non sei felice?” gli chiesi, distogliendo lo sguardo.

Keith non rispose subito. Lo sentii sospirare.

“La maggior parte delle volte credo di esserlo” rispose “Poi, però, torno qui. Lontano dalle urla dei fan e dai flash dei fotografi, la mia vita riacquista il senso delle proporzioni. E mi chiedo se ho fatto davvero le scelte giuste”.

“Credevo che suonare ti piacesse” obiettai.

“E mi piace” ribatté lui, deciso. “Non fraintendermi, suonare è la mia vita. Ho sempre odiato quegli artisti che, una volta raggiunto il successo, non fanno altro che lamentarsi perché nulla è più come prima. Ovviamente non lo è. E mi sta bene così. So di essere fortunato. Faccio quello che più mi piace fare e vengo anche pagato. È un lusso che pochi possono permettersi. Solo che, ogni volta che torno a casa, sento come se mi mancasse qualcosa” confessò.

“Cosa?” domandai, incuriosita.

Keith alzò le spalle. “Non lo so” ammise “Forse una parte di me è rimasta qui”.

Restammo un istante in silenzio, ad ascoltare il rumore del vento, poi io mi voltai per risalire in auto. Al buio, non mi accorsi di quanto Keith fosse vicino a me e gli andai a sbattere contro, rischiando di cadere. Il ragazzo mi sorresse e, così facendo, mi ritrovai di nuovo tra le sue braccia. Chiusi gli occhi, incapace di parlare. Il mio respiro divenne irregolare. Il cuore mi batteva all’impazzata. Cercai di impormi di restare calma, ma qualcosa mi impediva di riprendere in mano la situazione. Improvvisamente, capii che, semplicemente, non volevo riprenderla in mano. Essere abbracciata in quel modo da Keith mi era mancato così tanto, che non volevo porre fine a quel momento. Sapevo che era sbagliato. Ormai eravamo solo buoni amici. Non potevamo rovinare tutto per un impulso dovuto a un momento di malinconia. Pregai che Keith fosse più forte di me e non cedesse all’attrazione, contro cui stavamo palesemente combattendo entrambi.

“Una parte di me è rimasta qui. Con te” mi sussurrò, avvicinando il suo viso al mio.

Rimasi, immobile, troppo spaventata per fare o dire qualsiasi cosa. Potevo sentire il respiro di Keith sul mio viso. Tutto quello che desideravo era che mi baciasse, anche se sapevo che sarebbe stato tremendamente sbagliato.

Sentii una mano di Keith sfiorarmi il viso e, istintivamente, chiusi gli occhi. Un istante dopo, le sue labbra si posarono dolcemente sulle mie, risvegliando sensazioni che credevo di aver rimosso molto tempo prima. Non incontrando resistenza, Keith approfondì il bacio, passandomi un braccio dietro alla schiena e tirandomi a lui. Non appena le mie mani si posarono sul suo petto, mi sentii mancare la terra da sotto i piedi e iniziai a tremare. Keith se ne accorse e, immediatamente, si allontanò da me.

“Scusami” sussurrò “Io…ho agito d’impulso”.

Scossi la testa. “Non importa. È tutto a posto” lo rassicurai.

Mi strinsi nella giacca, cercando di ripararmi dal freddo crescente della notte.

“Ti porto a casa” propose Keith.

Io annuii e lo seguii sull’auto.

 

 

Nessuno dei due parlò, durante il tragitto in macchina. Io continuavo a ripetermi quanto fossi stato stupido a lasciarmi trasportare così dalle emozioni e dai ricordi. Perché era stata quella la causa della mia debolezza, ne ero certo. A cose normali, non avrei mai fatto un passo così azzardato. Certo, stringerla di nuovo tra le mie braccia e sentire il sapore dei suoi baci, dopo nove anni, era stato fantastico. Non credevo che mi sarei sentito ancora così coinvolto. Ma mi sbagliavo. Siobhan era stata il mio primo, e forse unico, grande amore. Non l’avrei mai dimenticata.

Arrivammo davanti a casa sua e mi salutò, ringraziandomi per il passaggio. Si comportava come se non fosse successo nulla, ma la conoscevo e sapevo che non aveva smesso di pensarci.

“Ti chiamo domani” promisi.

Siobhan annuì e, sorridendo, scese dall’auto.

Mentre la guardavo entrare in casa, uno strano pensiero mi colse di sorpresa. Non avrei voluto lasciarla andare via. Avrei voluto tenerla con me, quella notte.

 

 

Ero in cucina. Avevo appena dato da mangiare a Kelly e mi stavo godendo una tazza di caffè, rileggendo il buffo bigliettino che mi aveva lasciato Rose, insieme a un’ottima crostata alla ciliegia. Stavo giusto pensando di assaggiarne un pezzetto, quando sentii qualcuno aprire la porta e, un istante dopo, Gavin e Martin entrarono nella mia cucina.

“Ciao” li salutai, sorridendo.

“Ehi” rispose Martin, avvicinandosi per darmi un bacio sulla guancia.

“E’ rimasto qualcosa da mangiare?” si informò Gavin, dando un’occhiata in giro.

Sorrisi. Tipico. Il mio amico era sempre stato un gran golosone.

“Rose mi ha lasciato una crostata alla ciliegia”

“Fantastico!” esclamò lui, togliendosi la giacca e mettendosi a sedere a tavola.

Gli servii una generosa porzione di torta e lo osservai addentarla di gusto.

“Ti preparo una tazza di caffè?” proposi.

Gavin annuì e farfugliò un ‘grazie’, con la bocca piena. Mi voltai verso Martin.

“Ne vuoi anche tu?”

“Grazie” accettò lui, andando a sedersi accanto a Gavin.

Preparato il caffè, ne versai una tazza per Gavin, una per Martin, e riempii nuovamente la mia, dopodiché, raggiunsi i miei amici al tavolo.

“Qual buon vento?” domandai, incuriosita. Non che non mi facesse piacere vedere i miei amici, ma li conoscevo e sapevo che erano due gran dormiglioni. Non sarebbero mai usciti dal letto prima delle dieci. Almeno non senza motivo.

Martin mi sorrise, mentre Gavin ingoiava l’ultimo boccone di crostata.

“Credevi di baciare Keith senza dirci niente?” mi chiese Martin, sornione.

Strabuzzai gli occhi. “Ma…voi…come…?” farfugliai.

Entrambi i ragazzi sorrisero.

“Keith è venuto da me, ieri sera” confessò Gavin.

“E lui mi ha chiamato” aggiunse Martin, accavallando le gambe. “Speravi mica di potercelo tenere nascosto, signorina?”.

Sbuffai, seccata.

“Allora?” insistette Martin.

“Allora cosa?” sbottai, imbarazzata.

“Racconta” mi spronò Gavin, curioso.

Distolsi lo sguardo, cercando di prendere tempo, poi mi decisi a guardare i miei amici negli occhi.

“Tanto vi ha già raccontato tutto Keith, no?”

Martin sorrise. “Ma a noi interessa anche la tua versione” precisò.

Sbuffai. A meno che non saltasse fuori un’urgenza improvvisa da sbrigare, non me la sarei cavata tanto facilmente.

“Beh, sì. Ci siamo baciati” ammisi.

“E…?” chiese Gavin, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e fissandomi insistentemente.

“E niente. Punto” tagliai corto io.

“Vuoi farci credere che hai baciato Keith, dopo nove anni, e non hai provato niente?” chiese Martin, incredulo.

Scossi la testa. “No, niente no. Mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo” ammisi “Ma è inutile che cominciate a farvi castelli in aria. È stata una debolezza, tutto qui”.

“Una debolezza?” domandò Gavin, poco convinto.

Annuii, decisa. “Esatto. Una debolezza. Stavamo parlando del passato e la nostalgia ci ha giocato un brutto scherzo” spiegai.

Gavin sospirò e Martin scosse la testa, facendomi andare su tutte le furie.

“Cosa diavolo avete, voi due?” sbottai, adirata.

Martin rise. “Ah, Sio. Sio. Non sei mai stata brava a dire bugie” mi rimproverò.

“Marty ha ragione, Sio. Una debolezza. Tu. La donna d’acciaio. Ma a chi vuoi darla a bere?” aggiunse Gavin, scuotendo la testa.

Sbuffai, nuovamente, e mi lasciai cadere pesantemente contro lo schienale della sedia. Anche volendo raccontare ai miei amici com’erano andate le cose, e non ero certa di volerlo, non avrei comunque saputo da che parte iniziare. Come spiegare il tuffo al cuore che avevo avuto quando, dopo nove anni, avevo sentito di nuovo le labbra di Keith sulle mie? E con che coraggio potevo confessare che avrei desiderato ardentemente passare la notte con lui? Oltre a essere pensieri imbarazzanti, erano anche piuttosto confusi. Sapevo che i miei amici mi avrebbero chiesto cosa provavo per Keith e non lo sapevo. Era un caro amico, certo. Ma, tralasciando Marty, che costituiva un caso a sé, anche Gavin lo era, e non avevo mai desiderato baciarlo. Sicuramente provavo qualcosa di diverso per Keith, ma non sapevo dargli un nome. Affetto fraterno, forse? No. Non si desidera fare l’amore con il proprio fratello. Non riuscivo a venirne a capo. Sicuramente, però, non poteva essere amore. Non dopo nove anni. L’unica cosa che sapevo era che, in ogni caso, quel bacio inaspettato, non solo mi era piaciuto ma, soprattutto, non mi aveva sconvolto come sarebbe successo un tempo.

Fui strappata alle mie riflessioni dalla voce di Martin che, forse vedendomi più pensierosa dal solito, mi chiese “Come stai, Sio?”.

Annuii. “Sto bene, Marty. Davvero”.

Il ragazzo mi guardò, con aria scettica, e mi sentii in dovere di rassicurarlo.

“Smetti di preoccuparti per me, Marty. Non sono più una ragazzina. Sono padrona delle mie azioni e dei rischi che comportano. Se ho fatto quello che ho fatto è stato perché mi andava. Non ci sto male. Va bene così”.

Martin mi sorrise e Gavin mi strizzò l’occhio.

“Okay, signorina. Come vuoi” acconsentì Martin “Ma non provare più a tenerci nascosta una cosa del genere, chiaro?”.

“D’accordo” mi arresi, alzando le mani davanti al viso.

Subito dopo colazione, Gavin scappò via, spiegando che aveva promesso di dare una mano a sua madre al locale. Martin, invece, si offrì di accompagnarmi nel mio giro di visite.

“Sempre se non disturbo” aggiunse, titubante.

Sorrisi e, prendendolo sotto braccio, commentai “Ma smettila! Lo sai che adoro averti tra i piedi”.

 

 

Eravamo appena saliti in auto, quando il mio cellulare iniziò a suonare. Risposi, cercando di ignorare Martin che mi canzonava.

“Questa è la segreteria telefonica della ragazza più impegnata sulla faccia della Terra. Vi preghiamo, gentilmente, di richiamare più tardi, perché sono momentaneamente impegnata con il mio migliore amico. A meno che non stia per schiantarsi un asteroide sul tetto di casa mia, ovviamente. Le vacche con la diarrea non sono considerate una scusa abbastanza valida. Grazie”.

“Sì, Jim. Dimmi” dissi, a voce alta, in modo che il mio amico capisse che era il caso di smettere di scherzare.

Fortunatamente, non era niente di grave. Solo una visita cancellata.

“Niente vacche con la diarrea, per la tua gioia” lo canzonai.

Lui sorrise e mise in moto.

Guidò per un attimo in silenzio, poi, improvvisamente, chiese “Ti sei accorta che domani è la vigilia di Natale?”.

Mi diedi una manata sulla fronte. “E’ vero!” esclamai, realizzando solo in quel momento quanto il tempo fosse passato velocemente.

Martin scoppiò a ridere e commentò “Me lo aspettavo”. Poi, dopo un istante di silenzio, aggiunse “E scommetto che non hai ancora comprato nemmeno un regalo, dico bene?”.

Abbassai lo sguardo, colpevole “Colpita e affondata”.

“Credi di riuscire a prenderti il pomeriggio libero?” mi chiese, sorridendo.

Annuii “Credo di sì. Se mi offro di essere reperibile nei giorni più critici, tipo Natale e l’ultimo dell’anno, non mi faranno di sicuro problemi”.

“Bene, allora andiamo a Galway a fare shopping. Anch’io ho ancora qualche regalo da prendere” annunciò, e io gli sorrisi, grata che avesse pensato a tutto lui.

 

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Capitolo 5
*** CHAPTER 5 - Have Yourself a Merry Little Christmas (Mark Feehily) ***


“Allora? Che ne dici?” domandai, scettica.

Martin mi squadrò da capo a piedi “Hum…” commentò.

“Cosa c’è che non va?” chiesi, guardandomi allo specchio. Il mio amico mi aveva trascinata di peso in un negozio di vestiti e aveva insistito per regalarmi qualche abito nuovo per Natale, adducendo come scusa il fatto che trascuravo troppo il mio abbigliamento. Il che, probabilmente, era anche vero. Ma non potevo mettermi in tiro per far partorire una mucca, diamine!

“Non lo so. La camicia non mi convince un granché” confessò.

Alzai le spalle “A me piace” dissi, convinta, ammirando la bella camicia bordeaux allo specchio.

“E’ troppo scura per te, Sio. Provati questa” suggerì, porgendomene un’altra.

“Questa?” domandai, rigirandomi tra le mani la camicia a quadretti rosa e verdi che Martin aveva scelto per me “Sei sicuro?”.

Il mio amico annuì, deciso “Non metterti a discutere di abbigliamento con me, dolcezza. Sono un esperto”.

Scossi la testa e, ridendo, rientrai in camerino a provare la camicia. Quando uscii nuovamente, pochi minuti dopo, Martin mi accolse con un fischio di apprezzamento.

“Perfetta! Lo dicevo io”.

“Dici?” chiesi, guardandomi allo specchio.

“Assolutamente” decretò il mio amico. “Sta benissimo con i jeans scuri che hai scelto”.

“Okay, allora” mi arresi “Se lo dici tu”.

Martin sorrise “Bene. Ora dobbiamo solo trovarti un paio di stivali stile cowgirl, un maglioncino da abbinare alla camicia e una giacca decente. Quella che usi per andare al lavoro è inguardabile!”

Sbuffai “Non so se te ne sei accorto, Marty, ma sto immersa nel fango, per non dire altro, praticamente tutto il giorno. Ti pare il caso di fare attenzione all’abbigliamento?”.

Martin si avvicinò e, mettendomi un dito sotto al mento, mi fece alzare il viso. “Piccola, sei bellissima comunque, e, ovviamente, non è solo l’aspetto che conta, ma, sai, anche l’occhio vuole la sua parte” mi spiegò.

“Beh, sai com’è. Gli animali non fanno molto caso a queste cose” lo canzonai.

Martin scoppiò a ridere “Loro forse no, ma magari qualche bel allevatore…”.

“Ma smettila!” sbottai, tirandogli una pacca sul braccio.

“Su, vai a cambiarti, adesso. Abbiamo ancora un sacco di cose da fare e, di questo passo, non riusciremo a finire tutto prima di sera. Non credevo avessi gusti così complicati in fatto di vestiti!”

“Sai che ti dico, Marty? Dato che paghi tu, ti lascio scegliere i capi mancanti” proposi.

Martin strabuzzò gli occhi “Sicura?”.

Annuii “Sicura”.

“Prometti che non farai storie?”

“Prometto. Basta che tu non mi faccia andare in giro come una pornostar!”

“Okay, farò il bravo” promise lui, sparendo in giro per il negozio, mentre io mi rivestivo.

 

Un’ora dopo stavamo sorseggiando un caffè seduti al tavolino di un bar in centro a Galway, con accanto a noi due sedie colme di borse e pacchetti. Alla fine, Martin aveva scelto un maglioncino rosa con lo scollo a V, molto caldo e morbido, un paio di stivali marroni stile cowgirl, ma non troppo appariscenti, ai quali aveva abbinato una cintura, e un giubbotto di pelle, ben imbottito, dello stesso colore degli stivali. Avevo corso un bel rischio, lasciandolo libero di scegliere, ma potevo ritenermi soddisfatta. Avevo insistito per pagare almeno la metà della roba, dato che, alla cassa, era uscita una cifra da capogiro, ma il mio amico non ne aveva voluto sapere. “A cosa serve essere ricco e famoso se non puoi nemmeno toglierti lo sfizio di fare qualche bel regalo alla tua migliore amica?” aveva sentenziato.

Nel bar si respirava aria natalizia. Caprifoglio agli angoli del bancone, ghirlande rosse e dorate lungo le finestre, un enorme albero di Natale in un angolo della sala e le note delle più famose canzoni natalizie che uscivano dalla radio. Mi era sempre piaciuta l’atmosfera del Natale e mi dispiaceva non potermela godere di più a causa del mio lavoro. Però, quella mezza giornata a Galway con Martin mi aveva riportata in pieno clima festivo. Il nostro tavolo era proprio vicino alla vetrina e io mi ero distratta guardando i passanti, come noi carichi di pacchi, che ultimavano gli acquisti di Natale.

Martin mi chiamò, riportandomi alla realtà, e mi voltai a guardarlo, sorridente, stringendo tra le mani la tazza di caffè fumante.

“Tira fuori la lista, che vediamo cosa ci manca” propose.

Annuii e turai fuori dalla tasca del cappotto un foglietto spiegazzato.

“Allora, vediamo…” iniziai “Il mio armadio è stato riempito a dovere. Tu hai comprato i cioccolatini francesi per Gavin e io gli ho preso il liquore al cioccolato. Ho trovato dei bellissimi guanti a righe azzurre e blu per Rose, e tu hai comprato il CD a Keith. Io ho preso i sigari per Tristan e il vino per Siegfried. Stando alla lista, manca il regalo per tua madre e quello per Jim” conclusi.

“Avevo pensato di comprare degli orecchini, a mia madre. Che ne dici?”

“Ottima idea! A noi donne i gioielli fanno sempre piacere”.

“Tu cosa pensi di prendere a Jim?” mi chiese, bevendo l’ultimo sorso di caffè e posando la tazza.

“Cosa ne dici di una cravatta? A lui piace vestire in modo elegante” spiegai.

“Buona idea. Credo che l’apprezzerà”.

“Bene. Abbiamo fatto il punto della situazione. Da dove iniziamo?” domandai, finendo anch’io il mio caffè.

“C’è una gioielleria, dall’altra parte della strada” disse Martin, indicando un punto oltre la vetrina del bar “Che ne dici di aiutarmi a scegliere gli orecchini per mamma? Poi io ti aiuto con la cravatta per Jim”.

 

Martin aveva scelto per sua madre degli splendidi orecchini d’argento, a forma di stella marina, tempestati di pietre azzurre, e stava pagando, alla cassa, mentre io girovagavo per il negozio, lustrandomi gli occhi con quegli splendidi gioielli. Improvvisamente, restai folgorata da un ciondolo a forma di farfalla, con un piccolissimo brillante su di un’ala. Era semplicissimo, eppure così perfetto da lasciare quasi senza fiato.

“Ti piace?”.

Mi voltai di scatto, ritrovandomi Martin alla spalle.

Annuii “E’ bellissimo” confessai ma, prima che il mio amico avesse modo di aprire bocca, mi affrettai ad aggiungere “Ma che non ti passi neanche per la testa di regalarmelo, Keane! Hai già speso abbastanza, per oggi” e, detto ciò, lo trascinai letteralmente fuori dal negozio, prima che potesse cambiare idea.

Appena più avanti c’era un grande magazzino dove Martin propose di cercare la cravatta per il mio capo. Dopo averne visionate almeno venti, ne scelsi una verde chiaro, che si abbinava perfettamente al colore degli occhi di Jim. Mentre il commesso me la impacchettava, io e Martin ci guardammo un po’ intorno e la mia attenzione fu catturata da un maglione azzurro, con delle piccole righine blu orizzontali, abbastanza distanti tra loro.

Lo indicai a Martin, chiedendo “Ti piace?”.

Il mio amico lo guardo attentamente “Sì, non è male. Ma non è molto nel mio stile. Lo vedrei meglio per…”

“Keith” dissi io.

“…Keith” concluse lui, allo stesso tempo.

Ci guardammo, sorridendo “Infatti avevo pensato per lui” confessai.

Martin annuì “Sì, per Keith è perfetto”.

“Dici che dovrei regalarglielo?” domandai, indecisa.

Martin alzò le spalle “Non lo so, Sio. Dipende da in che rapporti siete”.

“Siamo amici” risposi, decisa.

“Solo?”.

“Sì, solo”.

“Anche dopo il bacio?” insistette lui.

Sospirai “Quel bacio è stato un errore. Abbiamo avuto un momento di debolezza, te l’ho detto”.

“Sarà, ma io non sono convinto” commentò il mio amico.

“Ma di cosa non sei convinto, Marty?”

“Andiamo, Sio. Non me la dai a bere. Conosco troppo bene tutti e due per credere che vi siate lasciati trasportare da un momento di debolezza. Non sei una che va in giro a baciare ragazzi che non le interessano. E nemmeno Keith”.

“Beh, non è che Keith non mi interessi” ammisi “Voglio dire, è pur sempre Keith. È stato il mio primo grande amore…”

“E anche l’unico, a quanto ne so”.

“Senti, Marty, non mi va di parlarne. Dimmi solo cosa devo fare con quella maglia” tagliai corto io.

Martin sorrise “Vi siete più sentiti dalla sera del bacio?”.

Scossi la testa “Non ne abbiamo avuto occasione”.

“Beh, allora, forse, un regalo di Natale potrebbe essere una buona scusa per vedervi e parlare un po’”.

Annuii e, sorridendo, tornai dal commesso per chiedergli di impacchettare anche la maglia per Keith.

 

 

Mentre Siobhan si faceva incartare i regali, il cellulare di Martin suonò per segnalare un messaggio in entrata. Il ragazzo estrasse il telefono dalla tasca dei jeans e aprì la bustina. Era di Keith.

Gavin mi ha detto che sei a Galway con Sio. Domani faccio un salto a comprare gli ultimi regali di Natale e pensavo di prendere qualcosa anche a lei, così ho una scusa per poterle parlare, dopo quello che è successo. Ha visto qualcosa che le piace, per caso?’

Martin sorrise e, senza farsi vedere dall’amica, rispose.

Gioielleria McCarthys. Ciondolo a forma di farfalla con piccolo brillante. Cadrà ai tuoi piedi.’

“A chi scrivi?” gli chiese Siobhan, avvicinandosi, tutta sorridente, con le buste dei regali, e prendendolo sotto braccio.

Martin scosse la testa “A nessuno. Controllavo l’ora. Abbiamo fatto tardi, sai? Sarà meglio tornare a casa”.

“Oh, no. Ti prego! Voglio prima comprare i biscotti allo zenzero! Che Natale sarebbe senza biscotti allo zenzero?” piagnucolò la ragazza.

“Va bene, va bene. Vada per i biscotti allo zenzero. Ma dopo si torna a casa, signorina” sopirò Martin, rassegnato.

Siobhan batté le mani e stampò un bacio sulla guancia all’amico.

 

 

Arrivato davanti alla gioielleria, alzai gli occhi per controllare l’insegna. McCarthys. Era quella giusta. Entrai e un campanellino sulla porta annunciò la mia presenza. Essendo la vigilia di Natale, il negozio era piuttosto affollato e, facendo un rapido calcolo, mi resi conto di avere almeno tre clienti davanti a me. Fortunatamente, anche i commessi erano tre, quindi, forse, non mi ci sarebbe voluto molto. In ogni caso avrei dovuto aspettare almeno un po’, così iniziai a guardarmi in giro. Dopo aver ispezionato a fondo la vetrina degli orologi ed essermi appuntato mentalmente di ripassare a comprarne uno per il compleanno di mio padre, tra qualche mese, mi ritrovai a fissare la vetrina in cui erano esposti gli anelli di fidanzamento. Non che fossi esperto di oreficeria, ma quelli erano senza dubbio anelli di fidanzamento, classici solitari con diamanti più o meno grossi. Ce n’erano di svariate forme, con una sola gemma o con altre piccole pietre di contorno. Uno in particolare mi colpì più degli altri: la circonferenza dell’anello non era chiusa, ma restava aperto, e il diamante si trovava su di una delle due estremità. Non so perché ma mi fece pensare a una goccia di rugiada sospesa su di un filo d’erba. Considerato il suo amore per la natura e la campagna irlandese, Siobhan l’avrebbe adorato. Scossi la testa. Cosa diavolo mi veniva in mente? Anche se, dopo averla baciata, mi ero reso conto che i sentimenti che un tempo provavo per lei, non erano del tutto svaniti, l’idea di regalarle un anello di fidanzamento era quanto meno assurda. Non le avevo nemmeno parlato. Non sapevo cosa provava lei per me e nemmeno se era interessata a riprovarci. E, se anche fosse stata disposta a farlo, non sapevo se le cose, tra noi, avrebbero funzionato, o se tutto sarebbe nuovamente andato a rotoli a causa dell’incompatibilità dei nostri due mondi, come l’ultima volta. Ciononostante, non riuscivo a togliere gli occhi da quell’anello, tanto che, quando il commesso, che si era avvicinato per servirmi, mi chiamò, mi voltai a guardarlo con espressione ebete.

“Oh, buongiorno signor Murray” disse, riconoscendomi “Posso aiutarla?”

“Sì. Io…ehm…ieri è stato qui il mio collega, Martin Keane, con una nostra amica. Ecco, lei ha visto un ciondolo a forma di farfalla, con un piccolo brillante, credo…”

“Ma certo! Questo in acciaio” spiegò il commesso, facendomi avvicinare a una vetrina.

Guardai il ciondolo e constatai che corrispondeva alla descrizione di Martin.

“Sì, credo sia proprio questo”.

“Benissimo. Vuole un pacchetto regalo?” chiese il commesso, zelante.

Annuii, sorridendo “Sì, per favore”.

Mentre il commesso impacchettava il regalo di Siobhan, mi ritrovai, mio malgrado, a fissare l’anello che mi aveva tanto colpito. Era inutile, mi attraeva come una calamita. Alla fine, cedetti alla curiosità e, non riuscendo a credere a me stesso, mi sentii domandare “Mi scusi, potrebbe farmi vedere anche questo anello, per favore?”.

 

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Capitolo 6
*** CHAPTER 6 - O Holy Night (Mark Feehily) ***


Era la mattina di Natale. Rose era andata in Italia con i genitori, per passare le feste con i parenti, e la casa sembrava tremendamente vuota, senza di lei. La sera precedente, alla messa di mezzanotte, avevo incontrato Martin e Gavin e ci eravamo scambiati i regali di Natale, che avevo aperto quella mattina. Nonostante avesse già speso un patrimonio per i vestiti che avevamo scelto insieme, a Galway, Martin mi aveva regalato una boccetta di bagnoschiuma al caprifoglio, ben sapendo che era il mio preferito. Gavin, invece, mi aveva regalato uno splendido braccialetto d’argento, con un piccolo quadrifoglio verde portafortuna al centro. Ero stata buttata giù dal letto dal telefono e avevo alzato il ricevitore con le mani che mi tremavano, temendo che ci fosse una qualche emergenza, dato che ero di turno. Invece era soltanto Gavin che mi ringraziava per il liquore al cioccolato e mi augurava nuovamente Buon Natale. Pochi istanti dopo, il telefono aveva squillato di nuovo e, questa volta, era Martin, euforico per la fibbia da cintura personalizzata con il suo nome, che gli avevo fatto fare da un fabbro che dava una mano alla fattoria del signor Grant e che avevo conosciuto durante una visita.

Dopo aver fatto colazione con pane tostato e marmellata di lamponi, avevo deciso di iniziare i preparativi per il tradizionale pranzo di Natale dei miei genitori con una bella doccia. Ero appena uscita e, ancora avvolta nell’accappatoio, stavo scrutando all’interno dell’armadio, alla ricerca di un vestito un po’ femminile da indossare, quando squillò nuovamente il telefono. Ormai rassegnata alla catena di telefonate d’auguri, risposi tranquillamente, aspettandomi di sentire la voce i Jim, o dei fratelli Farnon. Invece, le urla del signor McInness mi costrinsero ad allontanare la cornetta dall’orecchio.

“Pronto. Sono Arthur McInness. Parlo con il dottor Herriot?”

“No, signor McInness. Sono Siobhan McBride, l’aiuto del dottor Herriot. Posso aiutarla?”

“Eh, beh. Dipende.” sbraitò il signor McInness, visibilmente scocciato di avere trovato me, al posto di Jim.

Sospirando, allontanai ulteriormente la cornetta, per non farmi perforare un timpano “Qual è il problema, signor McInness?” domandai.

“Ho una vacca a terra con la febbre del latte” spiegò.

“Capisco”.

“Il dottor Herriot di solito le fa un puntura di non so cosa. Lei gliela può fare?” si informò.

Sorrisi “Ma certo, signor McInness. Arrivo subito”.

“Senta, lo so che è Natale e tutto il resto, ma faccia presto. È proprio malconcia”.

“D’accordo. Vedrò di non metterci troppo” lo rassicurai.

Terminata la chiamata, composi immediatamente il numero dei miei, per avvertirli che non sarei potuta essere presente al pranzo di Natale. Mamma fu molto dispiaciuta, ma si consolò pensando che la sera prima avevo cenato con loro, per celebrare la vigilia.

Riposi il vestito nero delle grandi occasioni nell’armadio, e indossai un paio di jeans sbiaditi e un maglione caldo, dato che non sapevo quanto fosse calda la stalla del signor McInness. Dopodiché saltai in auto, decisa a non fare aspettare troppo quella povera vacca malconcia.

La fattoria dei McInness era una delle più lontane dal paese, e mi ci volle una buona mezz’ora per raggiungerla. La strada, però, non mi pesò affatto, anzi. Non incrociai nessun’altra auto, lungo il tragitto, e mi godetti il paesaggio della campagna irlandese deserta, ancora coperta da uno spesso strato di brina, mista a una sottile patina di nevischio caduto la sera prima, giusto per ricordare a tutti che era Natale.

Arrivata alla fattoria, trovai il signor McInness ad attendermi in mezzo al cortile. Mi scortò subito dalla vacca e si compiacque molto nel vedere che le facevo la stessa iniezione che le aveva fatto Jim, nelle precedenti occasioni. Non appena ebbi terminato, il signor McInness chiese delucidazioni in merito al comportamento da tenere con la vacca.

“Meglio che non la munga, per oggi, vero?”

Annuii “Sì. Per oggi meglio tenerla a riposo. Faccia festeggiare il Natale anche a lei” scherzai.

Arthur McInness rise di gusto alla mia battuta, dopodiché mi posò una pesante mano sulla spalla “Grazie mille, signorina McBride. E adesso venga a riscaldarsi in casa con una bella tazza di caffè. Mia moglie ha appena sfornato il nostro dolce di Natale: deve assaggiarne una fetta”.

 

Tornai a casa, un paio d’ore dopo, con la pancia piena di torta allo zenzero e mirtilli, e l’animo pervaso dalla magia del Natale. L’accoglienza dei McInness, la loro casetta decorata, e le canzoni natalizie che avevo ascoltato alla radio della macchina, tornando a casa, mi avevano fatto apprezzare ancora una volta l’atmosfera di quel giorno di festa.

Ero appena rientrata, avevo indossato un paio di jeans e un maglioncino pulito, e mi ero seduta nella poltrona accanto al camino, con una tazza di the in mano e Kelly che dormiva ai miei piedi, ad osservare le luci dell’albero di Natale, che Rose aveva addobbato un paio di giorni prima, quando sentii il campanello.

Riluttante, andai ad aprire, maledicendo chiunque mi stesse distogliendo dal mio spirito natalizio, e fui piuttosto sorpresa di trovarmi davanti Keith.

“Keith”.

“Ciao” salutò lui, porgendomi un pacchetto incartato con carta dorata “Buon Natale!”.

“Grazie” risposi, afferrandolo. “Vieni, entra” lo invitai, facendomi da parte per lasciarlo passare.

Andammo in salotto, dove Keith si tolse la giacca e io presi un pacco dal cesto sotto all’albero di Natale.

“Buon Natale anche a te” gli augurai, porgendoglielo.

Keith strabuzzò gli occhi “Per me?” chiese, sorpreso.

Annuii “Certo. Pensavi forse che ti avrei dimenticato?”.

Il ragazzo mi rivolse uno sguardo piuttosto serio “Ad essere sincero, speravo di no. Ma avevo paura che ce l’avessi con me per…”

“Acqua passata” lo rassicurai “E poi, non è stata solo colpa tua. Abbiamo sbagliato entrambi”.

“Quindi, tu credi che sia stato uno sbaglio…” domandò.

Annuii “Sì. Una debolezza”.

“Capisco” disse Keith, abbassando lo sguardo.

“Dai, apri il tuo regalo e dimmi se ti piace” lo spronai.

Il ragazzo scartò il pacco e fu molto compiaciuto nel trovare il maglione che avevo scelto per lui.

“Grazie, Sio. È stupendo!”.

“Ti piace?” domandai, insicura.

“Moltissimo”.

“Sai, ho pensato che si intonasse con il colore dei tuoi occhi” confessai, arrossendo leggermente.

Keith mi rivolse uno sguardo stupito “Tu…davvero ha pensato questo?” chiese.

Annuii, arrossendo ulteriormente e, per togliermi dall’imbarazzo, afferrai il mio regalo, annunciando “Ora tocca a me”.

Scartai la confezione e, quando aprii la scatoletta, non riuscivo a credere ai miei occhi “Ma…è il ciondolo che avevo visto…”

“…a Galway” concluse Keith per me. “Ti piace?”

“Oddio, è bellissimo”.

“Ti ho preso anche la catenina, perché non sapevo se ce l’avevi”.

“Grazie Keith, è davvero il più bel regalo che potessi ricevere” confessai.

“Dai, vieni. Ti aiuto ad agganciarla” propose il ragazzo.

Mi avvicinai e scostai alcune ciocche di capelli dal collo, in modo che Keith riuscisse ad allacciare la catenina.

“Ecco qua. Fatto.”

“Grazie” dissi, voltandomi a guardarlo.

Per un istante, ci perdemmo una negli occhi dell’altro, incapaci di muoverci o di parlare. Poi, spinta da un impulso improvviso, mi avvicinai a Keith e gli diedi un bacio sulla guancia. Mentre mi stavo allontanando, il ragazzo mi trattenne per le mani e mi attirò nuovamente a lui. Eravamo vicinissimi. Potevo sentire il suo respiro sul mio viso e le nostre labbra erano quasi a contatto. Bastò un minimo movimento da parte di uno dei due perché si sfiorassero, anche se non avrei saputo dire chi di noi avesse preso l’iniziativa. Non appena sentii le labbra di Keith sulle mie, chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da un vortice di emozioni. Sapevo che era sbagliato. Avevo appena ritrovato la sua amicizia, non volevo rovinare tutto per una semplice attrazione fisica. Ma, anche se non volevo ammetterlo, sapevo anche che, quello che c’era tra noi, era molto più che semplice attrazione. Ci eravamo amati tantissimo in passato e un sentimento così profondo non si dimentica facilmente.

Facendo appello a tutta la mia forza di volontà, mi allontanai da Keith, staccando le sue labbra dalle mie.

“Che succede?” chiese lui, stupito, trattenendomi per le mani.

“Keith, non possiamo”.

“Perché?”

“Perché non è giusto, lo sai”.

“Cosa c’è di sbagliato, Sio? Io ti voglio”.

“Anch’io ti voglio, Keith. Ma non possiamo. Siamo amici. E io tengo moltissimo all’amicizia che abbiamo ricostruito. Non roviniamo tutto per…per cosa, poi?”.

Keith sospirò “Per un bacio” disse, in tono triste.

Senza riflettere, gli accarezzai una guancia con il dorso della mano. Lui me l’afferrò e mi baciò le dita. Un brivido mi percorse la schiena e mi costrinse a chiudere gli occhi. Dio! Perché essere sfiorata da Keith mi faceva ancora quell’effetto? Non si poteva spiegare con una semplice attrazione fisica.

Accortosi della mia reazione, Keith lasciò scivolare la mia mano sul suo petto e mi passò la sua dietro alla nuca, attirandomi nuovamente a lui, fino a che le nostre labbra non si sfiorarono di nuovo. Non opposi resistenza, questa volta, e, quando sentii la mano sinistra di Keith passarmi sotto la maglia per accarezzarmi la schiena, mi lasciai sfuggire un sospiro.

“Se vuoi, posso fermarmi” propose lui, interpretando male la mia reazione.

“Non ci provare” gli sussurrai, aggrappandomi alla sua felpa e stringendomi ancora di più a lui.

 

 

Quando spalancai gli occhi, ci misi un attimo a capire dove mi trovavo. Quello non era il mio letto e gli alberi di ciliegio che intravedevo attraverso le fessure delle persiane, non appartenevano certo al mio giardino. Un silenzio ovattato avvolgeva la stanza. Restai in ascolto, aspettando di sentire qualche macchina passare, o le voci dei passanti in strada. Niente. Soltanto qualche leggero rumore in lontananza. Guardando meglio, mi accorsi che i rami degli alberi erano completamente bianchi e capii che doveva aver nevicato. Alzai il braccio sinistro, per controllare l’ora e, così facendo, disturbai il sonno di colei che dormiva al mio fianco. Mi voltai, lentamente, e vidi che Siobhan dormiva beatamente, con la testa adagiata nell’incavo della mia spalla, una mano abbandonata sul mio petto e, sul volto, un’espressione serena, quasi beata. Mentre ogni particolare tornava ad essere vivido nella mia mente, restai a fissarla, in trance. La mia Sio era cambiata, dall’ultima volta che mi ero svegliato accanto a lei. Era cresciuta e, ovviamente, era diventata più indipendente e sicura di sé. Se, da un lato, la cosa non poteva che farmi piacere, dall’altro mi spaventava un po’. Nove anni prima, Siobhan era una fragile ragazzina, determinata ma insicura, bisognosa di amore e protezione, mentre quella che ora dormiva al mio fianco, era ormai una donna adulta e affermata, che poteva cavarsela benissimo senza il mio aiuto. Una bellissima donna, per giunta. I chili presi si erano distribuiti soprattutto sui suoi fianchi, arrotondandoli e rendendoli più morbidi, e il profilo del suo viso si era fatto più lineare e meno spigoloso, forse aiutato anche dal taglio di capelli a caschetto scalato, con alcune ciocche che le ricadevano sul viso. Senza rendermene conto, mi ritrovai a sorridere, sorpreso della strana piega che aveva preso il nostro incontro. Ero andato a portarle il regalo di Natale per poterla vedere e parlare del bacio che ci eravamo scambiati quando l’avevo accompagnata alla visita. Inizialmente, credevo anch’io che si fosse trattato di una stupida debolezza da dimenticare, per poter recuperare il nostro rapporto d’amicizia. Poi, però, non appena l’avevo avuta vicina, ogni certezza era svanita e riuscivo solo a pensare a quanto la desideravo. Nonostante questo, non avrei mai pensato che potessimo finire a letto insieme. Solo ieri, un’idea del genere mi sembrava assurda perché, ormai, noi eravamo soltanto buoni amici. Invece…. Ora era tutto cambiato, ciò che era successo tra noi aveva rimesso tutto in gioco. Mi aveva, finalmente, riaperto gli occhi.

Mosso da un impulso irrefrenabile, le scostai dolcemente una ciocca di capelli dal viso. Ero stato un pazzo a lasciarla andare, nove anni prima. Se avessi avuto il potere di cambiare il passato, lo avrei fatto, senza alcuna esitazione. Al diavolo il gruppo, la carriera, al diavolo perfino la musica. Perdendo Siobhan, non avevo perso soltanto il mio primo, grande amore, avevo perso una parte di me stesso. Era questo che mi mancava, ogni volta che tornavo a casa, e mi rendeva così malinconico. Mi mancava lei.

Il mio tocco, destò Siobhan dal torpore e, con un buffo sorriso disegnato sul viso, iniziò ad aprire gli occhi. Restai a fissarla, inebriato dal suo profumo, e, in quell’istante, promisi a me stesso che avrei fatto di tutto perché tornasse a essere mia.

“Ancora Buon Natale, piccola” la salutai, posandole un piccolo bacio sulla punta del naso e sorridendole, dolcemente.

Il suono della mia voce sembrò svegliare completamente Siobhan. Spalancò gli occhi e si scostò bruscamente da me, quasi fosse spaventata. Stupito dal suo atteggiamento, tentai di cingerle la vita con un braccio, trascinandola nuovamente accanto a me.

“Dove vuoi andare?” domandai, a bassa voce, accarezzandole una spalla e dandole un leggero bacio sul collo.

La sentii tremare, al mio tocco, e mi convinsi che nemmeno i suoi sentimenti nei miei confronti erano cambiati, nonostante fossero passati nove lunghi anni.

“Vado a preparare la cena” disse, calma, afferrandomi le mani, che le cingevano ancora la vita, e allontanandole con decisione.

La lasciai andare, confuso, e restai ad osservarla mentre si avvolgeva in una lunga vestaglia lilla e se la stringeva in vita, evitando di incrociare il mio sguardo. In un primo momento avevo creduto che si fosse allontanata per imbarazzo, in fondo l’ultima volta che ci eravamo trovati in una situazione così intima, era stato nove anni prima. Poteva essere comprensibile. Poi, però, l’avevo sentita irrigidirsi al tocco dei miei baci e, alla fine, era letteralmente fuggita da me.

“Sio, che succede?” chiesi, ancora incredulo.

“Che ore sono?” si informò lei, ignorando la mia domanda e raccattando i suoi vestiti, sparsi sul pavimento.

“Quasi le sette” risposi, assecondandola. Poi, vedendo che continuava a ignorarmi, insistetti “Sio, mi vuoi spiegare cosa ti prende?”

“Assolutamente nulla” rispose lei, continuando a darmi le spalle “È tardi ed è meglio mettere qualcosa sotto i denti”.

Finì di raccogliere i vestiti da terra, senza mai incrociare il mio sguardo, e io iniziai a non poterne più di quella situazione.

“Sio…” la chiamai.

Non mi rispose, e si chinò a raccogliere un calzino abbandonato accanto all’armadio.

“Siobhan. Voltati” esclamai, deciso.

Sentendomi pronunciare il suo nome per intero, Siobhan si decise a prestarmi attenzione.

“Che c’è?” domandò, leggermente scocciata, lasciando cadere i vestiti sulla poltroncina accanto alla finestra.

“E lo chiedi a me? Sei tu che ti stai comportando in modo strano” le feci notare, guardandola negli occhi.

Siobhan distolse subito lo sguardo, concentrandosi su di un punto imprecisato, al di fuori della finestra.

“Da quando raccattare i propri abiti per potersi rivestire è diventato strano? Tutti lo fanno, appena svegli. Tu no?” mi canzonò lei.

Era chiaro che stava facendo di tutto per evitare di discutere su quello che era accaduto, ma non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta.

“No” risposi, mettendomi a sedere “Almeno non dopo essermi svegliato accanto alla donna con cui ho appena fatto l’amore”.

Sul viso di Siobhan comparve un sorriso di scherno e, incrociando le braccia sul petto, si mise a fissare spudoratamente il soffitto. Approfittando di quel suo momento di inattività, localizzai i miei boxer sul pavimento, accanto al letto, li raccolsi e me li infilai velocemente, potendo, così, alzarmi. Raggiunsi Siobhan accanto alla finestra e mi piazzai davanti a lei, costringendola a guardarmi.

“Allora, si può sapere perché vuoi andartene facendo finta che non sia successo niente?” domandai, in tono risoluto.

Siobhan si lasciò scappare una risatina.

“Perché è esattamente quello che è successo, Keith. Niente”.

Aveva parlato fissandomi negli occhi con ostilità e, per quanto avessi prestato attenzione, non avevo colto indecisione nella sua voce. Mi resi conto che Siobhan stava convincendosi veramente delle proprie parole e decisi di passare al contrattacco, prima che fosse troppo tardi.

“Niente?” ripetei, spalancando gli occhi “Vuoi dire che ho solo immaginato di fare l’amore con te?”.

“Smettila, Keith. Quello che è successo è stato solo uno sbaglio”.

“Un altro sbaglio, Siobhan? Mi sembra che tu ne stia commettendo un po’ troppi, ultimamente” sentenziai, sarcastico.

Siobhan ignorò volutamente la mia cattiveria.

“Non mi dire che non lo pensi anche tu. Ci siamo lasciati travolgere, ancora una volta, dai ricordi, e abbiamo fatto una stupidaggine. Tutto qui”.

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. La ragazza fredda e determinata che avevo di fronte, non poteva essere la stessa che, poche ore prima, si era aggrappata a me, pregandomi di non smettere di baciarla.

“No. Non lo penso. E spero vivamente che tu stia scherzando” sentenziai.

“Non sto affatto scherzando, Keith. Sono seria”.

Scossi la testa, risoluto. Siobhan sembrava sicura di sé, ma ero certo che stesse mentendo. A se stessa, ancor prima che a me.

“Non ti credo. Non credo nemmeno a una parola di quello che hai detto. Non sei la stessa persona che ha fatto l’amore con me, solo poche ore fa”.

Siobhan distolse lo sguardo e tentò di allontanarsi, ma io la fermai, trattenendola per le spalle.

“Non è stato amore, Keith. Solo sesso. Niente di più”.

Mi morsi la labbra, ferito. Sesso, ecco come lei considerava quello che era appena successo.

“Cosa vuoi saperne, tu, di cosa sia veramente una notte di sesso?” mi lasciai sfuggire, esasperato.

Siobhan mi fulminò con lo sguardo.

“Oh, invece tu sei un esperto, vero?” chiese, in tono sarcastico.

Sospirai “Certo che no. Ma so che cos’è una notte si sesso, Siobhan, mi è capitato più volte”. Cercando di ignorare la sua espressione scettica, continuai “E lascia che ti dica una cosa. Niente di quello che c’è stato fra di noi è nemmeno lontanamente simile a una notte di sesso. E’ stato fantastico. Mi sono sentito completo. Come se avessi finalmente trovato il posto giusto per me. E, anche se non lo vuoi ammettere, sono convinto che anche per te è stato così”.

 

 

Mi sentii morire. Le parole di Keith e il suo tono sincero, rischiavano di far crollare il muro di finta indifferenza che avevo costruito intorno al mio cuore. Avrei voluto buttargli le braccia al collo, baciarlo con passione e dirgli che anche per me era stato meraviglioso e, finalmente, mi ero sentita di nuovo viva. Ma non potevo. Anche se lo desideravo con tutte le mie forze, ero certa che non avremmo mai avuto un futuro insieme e non volevo rischiare di perderlo anche come amico, per il solo gusto di volerci provare a tutti i costi.

Sforzandomi di sostenere il suo sguardo, cercai di parlare in tono calmo, ma deciso.

“Anche ammettendo che tu avessi ragione, e non sto dicendo che sia così, continuo a credere che fra noi non debba cambiare nulla”.

Keith sospirò e lasciò cadere le braccia, chiaramente frustrato. Stava per ribattere, ma fu interrotto dagli squilli del telefono.

Restammo entrambi in silenzio, a guardarci, mentre il telefono continuava a squillare.

“Forse è meglio se rispondi” propose Keith, rassegnato “Potrebbe essere un’emergenza”.

Annuii, in trance, stupita del fatto che fosse stato proprio lui a suggerirmi di abbandonare la discussione per rispondere alla chiamata.

Corsi ad alzare il ricevitore e fui accolta da una serie di singhiozzi disperati.

“Oooooh… oooh-hoo!”.

“Chi parla?” domandai, preoccupata.

“Sono Leanne Cobb” rispose una voce supplichevole di donna “Per l’amor del cielo, venga a vedere Myrtle. Credo che stia morendo”.

“Myrtle?” ripetei, frastornata.

“La mia cagnolina” spiegò la cliente “E’ in condizioni spaventose. Venga, la prego!”

“Che sintomi ha, signora Cobb?”

“Ansima, boccheggia…credo che, ormai, sia quasi alla fine” piagnucolò la padrona.

“Okay, arrivo subito. Dove abita?” chiesi, pratica.

“Cedar House. Ha presente?”

Annuii “Sì, so dov’è. Sarò lì tra pochissimo”.

Posai la cornetta e corsi in camera a cambiarmi, oltrepassando Keith, che mi aspettava sulla porta, come se neanche lo vedessi. Notando la mia aria preoccupata, si informò sull’accaduto.

“Cosa succede?”

“Un caso urgentissimo. Disperato. Devo scappare” spiegai, tentando di vestirmi di corsa, incurante del fatto che Keith fosse lì a guardarmi.

Mentre mi infilavo i jeans, persi l’equilibrio e barcollai, rischiando di cadere. Keith mi fu subito accanto e mi prese fra le sue braccia, evitandomi la caduta.

“Okay, calmati. Non ci arriverai comunque prima, in questo modo” mi fece notare.

Mio malgrado, mi ritrovai a sorridere. “Hai ragione. Grazie”.

“Senti, Sio. So che non hai molto tempo, ma non voglio che te ne vada prima di aver chiarito la situazione” disse Keith, calmo.

Allacciandomi la cintura dei jeans, mi voltai a guardarlo, stupita.

“Credevo che fosse già tutto chiarito”.

“No, non lo è” insistette.

Sospirai e, avvicinandomi a Keith, dissi, calma “Mi sei mancato da morire, in questi nove anni, Keith, lo sai. Ma non credo che quello che provo per te sia amore. Quel sentimento è finito il giorno in cui abbiamo smesso di sentirci”.

“Non ci credo” sussurrò Keith, scuotendo la testa.

Gli presi una mano e, dolcemente, aggiunsi “Ma una cosa l’abbiamo salvata, Keith, ed è la nostra amicizia. Io ci tengo molto e non voglio rischiare di perderla nuovamente. Non per qualcosa che non sappiamo neanche se c’è ancora e che forse nemmeno funzionerebbe. Non per un errore come quello che abbiamo appena commesso”.

Cercando di riprendersi, Keith distolse lo sguardo per un istante.

“Sai benissimo che anch’io tengo alla nostra amicizia, Sio. Ma non riesco a considerare un errore quello che è successo tra noi”.

Prendendo un respiro profondo, sparai l’ultimo colpo.

“Se quello che ti ostini a dire fosse vero, allora noi saremmo ancora innamorati l’uno dell’altra”.

Gli occhi di Keith furono subito su di me, come avevo previsto.

“E non è così?” domandò, prendendomi in contropiede.

Restai a bocca aperta, non sapendo cosa rispondere. Non mi aspettavo una domanda del genere.

“Rispondimi, Siobhan. Guardami negli occhi e dimmi che non provi più niente per me. Che l’amore che un tempo c’era fra di noi è completamente sparito, lasciando il posto a una semplice amicizia” mi spronò.

Mi passai una mano fra i capelli, distogliendo lo sguardo.

Keith mi guardava, timoroso, in attesa di una mia risposta.

Non potevo dirgli quelle cose perché non le pensavo. Non sapevo se quello che provavo per lui fosse amore, ma di certo era un sentimento forte e profondo. L’unica cosa che sapevo, era che non volevo perderlo di nuovo. Decisi di provare a essere sincera.

“Non lo so, Keith. È successo tutto troppo in fretta per poterti dire con certezza se quello che provo per te sia amore…”

Volevo continuare, ma Keith mi bloccò, posandomi la punta delle dita sulle labbra.

“Va bene così. Mi basta sapere questo” disse, sorridendo.

Restai a fissarlo, incredula. Lui mi si avvicinò, appoggiando i palmi delle mani contro l’armadio, intrappolandomi, e mi posò un leggero bacio sulle labbra.

 

 

Non appena le mie labbra sfiorarono le sue, Siobhan chiuse gli occhi e la sentii tremare. Sorrisi. Avevo ragione, anche per lei non era stato solo un momento di debolezza.

Quando mi allontanai, Siobhan tentò di liberarsi.

“Ti prego, Keith, lasciami. Devo andare”.

Avvicinandomi ancora di più e incollando il mio corpo al suo, annuii.

“Voglio solo dirti una cosa, poi ti lascio andare” promisi.

Siobhan sospirò, rassegnata.

“Nove anni fa ho fatto una vera stupidaggine rinunciando a te. Me ne rendo conto solo ora. So che sei convinta che i nostri due mondi siano incompatibili, ma io non lo credo. Non ho alcuna intenzione di commettere di nuovo gli stessi errori, per cui ti garantisco che questa volta non sorvolerò su quello che è successo e non ti lascerò scappare senza averci almeno provato. Se hai ragione tu e quello che è successo tra noi è stato un errore, allora smetteremo di pensarci e torneremo a essere amici, nulla più. Ma se, invece, ho ragione io e nel tuo cuore c’è ancora un po’ di amore per me, come nel mio ce n’è per te, giuro che, questa volta, non permetterò a nessuno, nemmeno a te, di farmi rinunciare a noi senza combattere. È una promessa”.

Restai a fissarla, ansimando, incapace di comprendere cosa le stesse passando per la testa in quel momento.

Improvvisamente, contro ogni aspettativa, la vidi sorridere.

“Non sai proprio accettare un NO, vero Murray?”.

Scossi la testa, sorridendo a mia volta.

“No. Non da te, almeno”.

Senza darle il tempo di reagire, avvicinai nuovamente le mie labbra alle sue. Non la stringevo più, avrebbe potuto allontanarsi in qualsiasi momento, ma non lo fece. Quando mi accorsi che non si ritraeva, mi sentii al settimo cielo e, al colmo della felicità, le afferrai il viso tra le mani, baciandola con passione. Siobhan mi assecondò, posandomi le mani sul petto, ancora nudo. Quando mi allontanai, dopo alcuni istanti, vidi che stava ancora sorridendo.

“Ora devo proprio andare, o avrai una povera cagnolina sulla coscienza” mi minacciò, allontanando dolcemente le mie mani dal suo viso e andando a prendere la giacca.

Annuii, senza proferire parola.

“Forse farò tardi. Non aspettarmi qui, vai a casa a mangiare qualcosa. Ci vediamo domani”.

Detto ciò, afferrò la borsa e oltrepassò la soglia, lanciandomi un ultimo sguardo, e lasciandomi lì a tentare di calmare i battiti accelerati del mio cuore.

 

 

Quando arrivai a Cedar House, avevo ancora il profumo di Keith nelle narici. Leanne Cobb mi stava aspettando sul vialetto, in lacrime.

“Venga, dottoressa. Entri” disse, facendomi strada in cucina.

La mia paziente era sdraiata in una cesta accanto al calorifero, e mi rivolse lo sguardo malinconico tipico della sua razza. Sorrisi. Adoravo i basset hound, avevo sempre avuto un debole per i loro occhi tristi e le loro orecchie lunghissime. Mi inginocchiai accanto alla cesta per osservarla meglio. Teneva la bocca aperta e aveva la lingua a penzoloni, ma, a parte questo, non sembrava così malconcia. Riuscì perfino a leccarmi la mano, mentre le accarezzavo la testa.

“Le sta cedendo il cuore, non è vero dottoressa?” chiese la padrona, affranta, senza nemmeno curarsi di frenare le lacrime.

Le lanciai un’occhiata e provai pena per lei. Era decisamente messa peggio del suo cane.

“Fossi in lei non mi preoccuperei più di tanto, signora Cobb” dissi “Non mi sembra poi così malmessa. Ma me la lasci visitare”.

Calmata la padrona, mi sistemai accanto a Myrtle e le auscultai il cuore con lo stetoscopio, senza rilevare alcuna anomalia. Le misurai la temperatura e anche quella si rivelò nella norma. Eppure quell’ansimare non era normale.

“Allora, dottoressa, la mia Myrtle è tanto grave?” domandò nuovamente la padrona.

Mi alzai e scossi la testa “No, signora Cobb, la sua Myrtle è in perfetta salute”.

“Ma come mai ansima in quel modo, allora?”

Stavo per rispondere che non ne avevo la minima idea, quando mi accorsi di avere la fronte completamente madida di sudore, che ora si stava asciugando, con l’ausilio di un filo d’aria più fresca. Improvvisamente, mi resi conto che, a terra, dov’era posizionata la cesta di Myrtle, la temperatura era molto più elevata. Mi abbassai nuovamente, per averne la certezza, e sorrisi. Myrtle non aveva veramente nulla. Ora avevo capito qual era il problema.

“L’ha messa troppo vicina al termosifone” spiegai, rialzandomi “Ansima perché ha troppo caldo”.

La signora Cobb strabuzzò gli occhi “Dice davvero? L’abbiamo spostata oggi perché, con la nevicata, mio marito temeva potesse avere freddo, povera bestiolina”.

Sorrisi. “Rimettetela al solito posto e starà benissimo” suggerii.

“E’ sicura?” chiese la signora Cobb, dubbiosa “Voglio dire, le guardi gli occhi: non le sembra che soffra?”

Trattenni a stento una risata. Gli occhi dei basset hound sembravano sempre malinconici e sofferenti, non ci si poteva fare niente. Decisi, comunque, di tranquillizzare ulteriormente la padrona.

“Mi creda, signora, Myrtle starà benone. Ha solo bisogno di un po’ d’aria fresca, stia tranquilla. Ma, se l’affanno dovesse persistere, mi chiami. Ripasserò a darle un’occhiata”.

Pur non del tutto convinta, alla fine la signora Cobb mi lasciò andare e potei, finalmente, fare ritorno alla mia casetta.

Oltrepassando la soglia e chiudendomi la porta alle spalle, mi ritrovai a pensare quanto mi sarebbe piaciuto che Keith fosse lì, per potergli raccontare l’incredibile visita che avevo appena terminato. Invece, purtroppo, lui non c’era. E non ci sarebbe mai stato, se mi fossi ostinata a non voler dare un nome al sentimento che provavo per lui….

 

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Capitolo 7
*** CHAPTER 7 – One Wild Night (Bon Jovi) ***


Cari lettori silenziosi, siamo in dirittura d'arrivo. Dopo questo capitolo, arriverà l'epilogo che ci dirà, finalmente, se e come Siobhan e Keith riusciranno a stare insieme. Qui le cose si complicano un po' e i ricordi del passato sconvolgeranno la povera Sio. Ma chissà che la maturità guadagnata con l'età non l'aiuti a fare chiarezza dentro di sè...
Se vi va, lasciatemi un commento. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate.


Questo era un rumore diverso. Avevo faticato a prendere sonno, la sera prima. Non facevo che ripensare a Keith e tentavo di dare un nome al sentimento che ci legava, un nome che non fosse amore, termine che mi spaventava a morte. Alla fine, mi ero addormentata, mentre le campane del campanile della chiesa del paese annunciavano le due. Quello che mi perforava le orecchie in quel momento, però, strappandomi dal torpore del dormiveglia, era un suono più acuto, più penetrante. Doveva essere il telefono. Con gli occhi ancora semi-chiusi, allungai goffamente una mano, in cerca del cordless che, di notte, tenevo sul comodino, per evitare di svegliare Rose quando venivo chiamata per un’urgenza.

“Pronto?” bofonchiai, reprimendo uno sbadiglio.

L’inequivocabile suono della linea libera mi destò dal torpore, facendomi realizzare che il fastidioso suono che mi aveva svegliata non proveniva dal telefono, bensì dal campanello della porta. Guardai l’ora sulla sveglia: le 8:00. Era S. Stefano, un giorno di festa. Chi mai poteva essere? Indossando frettolosamente la vestaglia, andai ad aprire.

“Sto arrivando” dissi, mentre facevo girare la chiave nella toppa “Un secondo”.

Aprii la porta e mi ritrovai davanti Martin. Indossava una tuta dell’Adidas azzurra e blu, un cappellino blu scuro e gli occhiali da sole, e reggeva una piccola borsa da palestra.

“Marty…che succede?” domandai, preoccupata.

“Fammi entrare, ti spiego dopo” disse lui, sbrigativo, scostandomi gentilmente dalla soglia e richiudendosi la porta alle spalle.

Martin lasciò la borsa all’ingresso e andammo entrambi in cucina, dove il mio amico si lasciò cadere pesantemente su di una sedia.

“Posso stare da te, per un po’?” chiese, togliendosi cappellino e occhiali.

Annuii “Certo che puoi. Ma si può sapere cosa sta succedendo?”.

“Ecco, vedi, ieri sera sono andato a farmi una birra con un paio di vecchi amici del liceo…”

Feci una smorfia. Conoscevo i compagni di liceo di Martin, poiché erano stati anche i miei, e non mi piacevano per niente.

Il mio amico proseguì “Abbiamo alzato un po’ il gomito e…non so spiegarti come sia successo, non me lo ricordo, ero troppo ubriaco…comunque, dev’essermi scappato un commento piuttosto allusivo sul fondoschiena del barista del locale”.

Strabuzzai gli occhi “No!”

Martin annuì “Ho paura di sì, piccola”.

“Ma…Marty…come hai potuto?”

“Non ne ho assolutamente idea” confessò, scuotendo la testa “Presumo sia stata tutta colpa dell’alcool. Non l’avrei mai fatto, da sobrio”.

Restai a fissare il mio amico, in trance. Io e i ragazzi sapevamo da tempo della sua omosessualità, ma aveva sempre fatto molta attenzione a non farlo sapere a nessun altro. Diceva che prima doveva sentirsi pronto.

“A mia discolpa, posso solo dire che il fondoschiena del barista era veramente notevole” aggiunse, strappandomi un sorriso.

“E…adesso?” domandai, un po’ più rilassata, vedendo che il mio amico sembrava prenderla con filosofia.

“Beh, qualcuno deve aver parlato, perché stamattina sono stato buttato giù dal letto dal campanello e, quando sono andato ad aprire, mi sono trovato davanti uno stuolo di giornalisti che volevano una dichiarazione sulla mia presunta omosessualità”.

“E tu?”

“Mi sono rifiutato di parlare, ma quelle sanguisughe non si arrendono tanto facilmente e hanno circondato la casa”.

“Sul serio?” chiesi, incredula.

Martin annuì. “Ho messo due cose in una borsa e ho tentato la fuga. Sono riuscito a svignarmela dall’uscita posteriore, ma non posso tornare a casa mia, o quelli mi spellano vivo. Almeno per un po’. Non sapevo dove andare e ho pensato subito a te. Le case dei ragazzi sarebbero state troppo ovvie” spiegò.

“Hai fatto bene, Marty. Sai che c’è sempre posto, per te. Ora Rose non c’è, ma tornerà presto. Comunque puoi stare nella mia stanza. Non abbiamo mai avuto problemi a dormire insieme”.

Martin sorrise e mi prese una mano “Grazie, piccola. Sapevo di poter contare su di te”.

“Piuttosto, l’hai già detto agli altri?” domandai, pratica.

“Li ho chiamati mentre venivo qui, più che altro per avvertirli che potrebbero trovarsi qualche giornalista fuori casa”.

“Che hanno detto?”

“Ovviamente mi reggono il gioco. Gli ho detto che venivo da te e hanno detto che mi avrebbero raggiunto. Saranno qui a momenti”.

Preparai il the e servii a Martin una fetta della torta al cioccolato che mia madre aveva preparato per la cena della vigilia. Ci eravamo appena seduti a fare colazione, quando suonò il campanello.

“Devono essere loro” annunciò Martin, mentre io andavo ad aprire.

Il mio amico aveva ragione. Aperta la porta, mi ritrovai davanti le facce preoccupate di Gavin e Keith.

“Martin è qui?” chiese subito Gavin.

Annuii “E’ di là che fa colazione”.

“Come sta?” chiese Keith.

Alzai le spalle “Sembra che l’abbia presa abbastanza bene”.

Gavin si precipitò subito dall’amico. Io e Keith lo seguimmo ma, prima di arrivare in cucina, Keith mi trattenne per un polso e, a bassa voce, mi domandò “E tu come stai?”.

Gli sorrisi. “Bene, io sto bene”.

Il ragazzo mi sfiorò timidamente una guancia con il dorso della mano. Istintivamente, chiusi gli occhi.

“E tu?” domandai, riprendendo possesso delle mie facoltà.

Keith mi rivolse un sorriso radioso. “Benissimo”.

Raggiungemmo gli altri in cucina, Keith si avvicinò a Martin e gli diede una pacca affettuosa sulla spalla.

“Come va, amico? Come stai?”.

Martin alzò le spalle “Potrei stare meglio, Keith. Grazie per essere venuto”.

“Possiamo fare qualcosa per aiutarti, Marty?” chiese Gavin, desideroso di rendersi utile “Oltre a tenere la bocca chiusa, intendo”.

“No, grazie, Gav. Va bene così. Voglio solo lasciar calmare un po’ le acque, dopodiché rilascerò una dichiarazione ufficiale e metterò fine a questa storia, una volta per tutte”.

“Sei sicuro, Marty?” gli chiesi “Ti senti pronto?”

“Sio ha ragione, amico. Finirà su tutti i giornali, lo sai, vero?” si informò Keith.

Martin sorrise, sereno. “I giornali di oggi serviranno ad accendere il camino, domani” sentenziò, e noi non potemmo far altro che annuire, e apprezzare la sua forza di volontà.

 

I ragazzi se n’erano appena andati e stavo aiutando Martin a sistemarsi in camera mia, quando il ragazzo si fermò a guardarmi, con un sorrisino diverto stampato sul volto.

“Che hai?” chiesi, sorpresa.

Martin scosse la testa. “Niente. Mi sto solo chiedendo quando ti deciderai a dirmelo”.

“Dirti cosa?”

“Cos’è successo tra te e Keith”.

Restai a bocca aperta. Come diavolo faceva a saperlo? Non poteva averglielo detto Keith, dato che, la sera prima, Martin era uscito con i suoi amici.

“Cosa ti fa pensare che sia successo qualcosa?” mentii, evitando di incrociare il suo sguardo.

“Come ti pare. Ma ho visto come ti guarda”.

“Come mi guarda?” chiesi, incuriosita.

“Come uno che non riesce a toglierti gli occhi di dosso” disse lui, scoppiando a ridere.

Gli tirai un cuscino. “Scemo”.

“Tu! Tirare un cuscino a me!” esclamò lui, fingendosi offeso “Come hai osato?”.

Mi saltò addosso e mi fece cadere sul letto, torturandomi con una sessione di solletico. Quando fummo entrambi senza fiato e con le guance dolenti a furia di ridere, ci fermammo e restammo a fissare il soffitto, in silenzio.

“Allora?” chiese ancora Martin, tornando all’attacco.

Sospirai. Tanto valeva raccontargli tutto.

“Siamo andati a letto insieme”.

“Ooooh! E com’è stato?”

“Fantastico” confessai, arrossendo.

“Quindi? Come siete rimasti?” si informò il mio amico, voltandosi a guardarmi.

Scossi la testa. “Non lo so. Gli ho proposto di restare amici, ma non ha accettato. Dice di essere ancora innamorato di me”.

“E tu? Sei ancora innamorata di lui?”

“Non lo so, Marty, davvero non lo so. Gli voglio bene e mi è mancato da morire, in questi nove anni. Ma non so se quello che provo è amore o soltanto affetto fraterno”.

“Non si va a letto con un fratello” osservò Martin, critico.

“Lo so benissimo, genio” ribattei, irritata. “Volevo dire che mi serve un po’ di tempo per riflettere”.

“Riflettere su cosa?”

“Sulla mia vita”

“Crisi esistenziale?” scherzò il mio amico.

“No, scemo. Devo capire se il mio mondo e quello di Keith sono compatibili”.

“Te lo dico già io, piccola. Non lo sono” disse Martin, serio.

Sospirai. “Allora la nostra storia non avrà mai un futuro”.

Martin scosse la testa. “E’ qui che sbagli, piccola. Il fatto che i vostri due mondi non siano compatibili, non vuol dire che non dobbiate nemmeno provarci”.

“Ma che senso ha provarci, se sappiamo già dall’inizio che non funzionerà?”

“A volte, i miracoli accadono…”.

Mi voltai a guardarlo, stupita. Martin mi sorrise e, dandomi un bacio sulla guancia, aggiunse “Però bisogna crederci”.

 

“Dai, Sio. Devi venire. Non puoi dire di no” piagnucolò la voce dolce di Gavin.

Sospirai, alzando gli occhi al soffitto, e facendo scoppiare a ridere Martin, che assisteva alla telefonata mentre finiva di fare colazione.

“Cielo, Gav. A volte sembri proprio un bambino” commentai.

“Non cambiare discorso” mi rimproverò lui “Allora? Vieni?”

“Non lo so”.

“Ma come non lo sai?” insistette lui.

“Te l’ho già spiegato, Gav. Sono di turno e potrebbe esserci un’emergenza. Inoltre non mi va di lasciare Marty a festeggiare il Capodanno da solo”.

Gavin ci mise un attimo a ribattere, tanto che mi convinsi che avesse mollato la spugna. Invece, poco dopo, tornò alla carica.

“Punto primo: non è detto che ci sia per forza una qualche vacca con la diarrea. Punto secondo: Marty non è affatto solo, c’è Rose con lui. E ti ha detto lui stesso di venire alla festa. Punto terzo: Keith ci resterà male, se non vieni”.

Al sentire il suo nome, il mio cuore iniziò a battere più forte.

“Viene anche Keith?” domandai, cercando di sembrare il più disinteressata possibile.

Gavin non rispose, si limitò a sentenziare “Ti aspetto alle dieci” e riattaccò.

“Ancora con la festa da Hoogan?” chiese Martin, quando tornai in cucina.

Annuii, sospirando “Sai com’è fatto Gavin. Quando si mette in testa una cosa, non c’è verso di fargli cambiare idea”.

“E perché dovresti fargli cambiare idea?” chiese il mio amico, serio.

Gli lanciai un’occhiataccia.

“Ti ci metti anche tu, adesso?”

Martin sorrise e diede un morso alla sua fetta di pane tostato.

“Non vedo perché tu non debba andarci” osservò, pensieroso.

“Non ne avevamo già parlato, Marty?”

Il ragazzo annuì.

“Sì, ne avevamo parlato. E, infatti, ti avevo già detto di non preoccuparti per me. Con Rose starò benissimo. Anzi, ha già promesso di cucinarmi le lasagne. Non vedo l’ora”.

“Ma bravo! Una si distrae un attimo e viene subito sostituita” commentai, fingendomi offesa.

Martin scoppiò a ridere.

“Sei sempre la mia preferita, lo sai, ma Rose è simpatica e almeno con lei non rischio di morire di fame”

“Faccio finta di non aver sentito” lo freddai.

“A parte gli scherzi, Sio. Vai alla festa. Divertiti. Svagati. Te lo meriti”.

Sospirai.

“Non so, Marty. Non sono un animale da feste, io”.

Martin emise un lungo fischio.

“Che sarà mai? Una festicciola country in un pub per celebrare l’anno nuovo. Mica la notte degli Oscar!”

Sorrisi, mio malgrado.

“Okay, okay. Mi avete convinta. Vada per la festa da Hoogan” sentenziai, rassegnata.

“Però tu e Rose promettete di tenermi da parte una porzione di lasagne, chiaro?”.

 

Entrando da Hoogan, quella sera, fui avvicinata da una ragazza che distribuiva buffi cappelli da cowboy luccicanti con scritto Hoogan 2010.

“Rosa per le ragazze, blu per i ragazzi” spiegò, sorridendo.

Indossai il cappello, ben sapendo che, in quel modo, avrei assunto lo stesso aspetto comico del resto degli invitati, molti dei quali si stavano già scatenando sulla pista. Prima di avvicinarmi al bancone, mi fermai a guardare. I balli country mi avevano sempre affascinato e, se non avessi avuto la grazia di un frigorifero, mi sarebbe piaciuto impararli.

“Ehi, allora sei venuta!” esclamò la voce squillante di Gavin, in un tono di una buona ottava sopra alla media solita.

Mi voltai e, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai tra le braccia del mio amico.

“Che bello averti qui, Sio. Davvero. Mi saresti mancata terribilmente se non fossi venuta”.

‘Fantastico,’ pensai ‘è già completamente brillo’.

Scoppiai a ridere e, liberandomi dall’abbraccio, risposi “Beh, sono qui, Gav, come vedi”.

“Devi ASSOLUTAMENTE ballare con me, Sio. Adesso” disse, prendendomi per un braccio e iniziando a trascinarmi verso la pista.

Fui colta da sudori freddi. Ballare? Io non ballavo!

“Ehm…Gav…non credo sia una buona idea” tentai di dissuaderlo, ma il mio amico, ringalluzzito dalla sbronza, era irremovibile.

Mio malgrado, mi ritrovai in mezzo alla pista, con Gavin che faceva del suo meglio per tenere il tempo, senza che io potessi essergli di grande aiuto, dato che non avevo la più pallida idea dei passi che avrei dovuto fare. Dopo un paio di minuti passati a ridere come pazzi, sperando che nessuno dei presenti muniti di macchina fotografica riprendesse le mie prodezze sulla pista, mi sentii cingere le spalle e, voltandomi, incrociai gli occhi blu di Keith.

“Ehi, amico, per stasera hai annoiato abbastanza la povera Sio” disse, rivolto a Gavin.

“Ehi!” ribatté l’altro, offeso “Ci stavamo divertendo”.

“Tranquillo, le offro solo da bere e te la restituisco come nuova” scherzò Keith.

Gavin gli rivolse uno sguardo scettico ma, alla fine, annuì.

“Okay, ma non me la sciupare, eh?”.

 

 

Presi Siobhan per una mano e, facendo attenzione a scartare i ballerini, la condussi fino al bancone, dove ordinai due birre.

“Grazie per avermi salvata da Gavin” disse, sedendosi su di uno sgabello.

Sorrisi. “Figurati. È il mio lavoro salvare donzelle in difficoltà, non lo sapevi?”

Siobhan alzò un sopracciglio. “Davvero? Ero convinta che facessi il cantante”.

“Sì, beh. Di giorno. Di notte divento un supereroe”.

“Uh, scusi tanto, signor Superman” scherzò lei, bevendo un sorso di birra.

Scossi la testa e, arrotolandomi la manica della camicia, le mostrai il mio vecchio tatuaggio con il simbolo di Superman.

Siobhan scoppiò a ridere di gusto e poi, provocandomi, disse “Quello è solo un vecchio tatuaggio. A me serve un vero eroe”.

Strabuzzai gli occhi.

“Vuoi forse insinuare che non sono all’altezza?”

Siobhan si fece pensierosa “Hum…non saprei” disse “Ma possiamo sempre metterti alla prova”.

Mi alzai in piedi, deciso.

“Coraggio, qual è la prima prova?” domandai.

Siobhan parve pensarci un attimo su, poi, sorridendo, annunciò “Potremmo iniziare dal ballo”.

Era un colpo basso. Odiavo ballare e Siobhan lo sapeva. Decisi comunque di stare al gioco. “D’accordo, come vuoi” risposi, sorridendo.

Siobhan stava preparandosi a godersi lo spettacolo del sottoscritto che si rendeva ridicolo in mezzo alla pista quando, afferrandola per un braccio, la trascinai con me.

“Tu, però, balli con me”.

 

 

Mi ritrovai in mezzo alla pista da ballo senza nemmeno sapere come ci ero arrivata. Doveva essere stato Keith. Mi aveva ingannata. Beh, me lo meritavo, in fondo. Avevo esagerato con la faccenda del ballo.

“Questa me la paghi, Superman dei miei stivali” ringhiai, tra i denti, mentre facevo del mio meglio per tenere il tempo con i piedi, pur non conoscendo nemmeno un passo.

Keith scoppiò a ridere e io rimasi, mio malgrado, incantata dal suo fantastico sorriso. Era felice, sereno. Non ricordavo di averlo visto così radioso dai tempi delle nostre scaramucce da ragazzini.

Sorrisi anch’io e cercai di lasciarmi andare, facendomi trasportare dalla musica e sperando che, complici i vistosi cappelli tutti identici, nessuno ci riconoscesse.

 

 

Mi voltai a osservarla, mentre ballava, e la trovai più bella che mai. Nonostante fossero per la maggior parte coperti dal buffo cappello rosa di paillettes, alcune ciocche di capelli castani le cadevano sul viso, danzandole davanti agli occhi. Quella sera indossava un paio di jeans scuri, portati dentro agli stivali marroni, e un maglioncino rosa, da cui spuntava il colletto di una camicia a quadretti verdi e rosa. Pur restando molto sobria, si era concessa un filo di trucco e una linea di matita nera le sottolineava il contorno degli occhi. La trovavo fantastica anche con gli scarponi da lavoro, ma quella leggerissima trasformazione la rendeva semplicemente perfetta.

Mentre ero perso in contemplazione, la musica cambiò. La band aveva deciso che era arrivata l’ora dei lenti e attaccò con una vecchia canzone d’amore in perfetto stile country.

Siobhan si voltò a guardarmi, imbarazzata, e fece per allontanarsi dalla pista da ballo.

Rispondendo a un impulso, la trattenni per un braccio e la attirai a me, fino a stringerla tra le mie braccia. La ragazza si irrigidì all’istante.

“Keith, no…ci guardano tutti” mi supplicò, timorosa.

Le rivolsi un sorriso rassicurante.

“Tranquilla, non ci noterà nessuno. Soltanto un ballo”.

Sulle prime, Siobhan abbozzò qualche passo incerto, poi la sentii rilassarsi, abbandonandosi tra le mie braccia e lasciandosi guidare completamente da me. Quando appoggiò la guancia sulla mia spalla, chiusi gli occhi e affondai il viso nell’incavo della sua spalla, respirando il suo profumo. Era inutile. Per quanto ci provassi, non riuscivo a staccarmi da lei. Era al centro dei miei pensieri e mi faceva sentire completo, realizzato. Non importava quando e non importava come, l’avrei riportata da me, l’avrei convinta a riprovarci. Eravamo destinati a restare insieme, come faceva a non accorgersene?

 

 

Mi strinsi a Keith, aggrappandomi alla sua camicia, nella speranza di trovare la forza di portare a termine quel ballo, e mi stupii di riuscire a seguire il ritmo della melodia senza troppa fatica. Le braccia di Keith mi guidavano, tutto quello che dovevo fare era seguirlo. Chiusi gli occhi e sospirai. Quel momento sarebbe stato perfetto se lui non fosse stato famoso. Diceva di amarmi e volevo credergli. Cosa provavo io per lui? Non sapevo dare un nome a quel sentimento, ma se lo sfarfallio che sentivo nello stomaco ogni volta che mi si avvicinava significava qualcosa, allora doveva essere qualcosa di grande, perché mi sentivo quasi svenire e perdevo completamente il controllo delle mie facoltà mentali.

La musica si interruppe di colpo e tutti iniziarono a fare il conto alla rovescia per mezzanotte.

“Dieci…nove…otto…”

Keith sembrava non volermi lasciare andare e io, d’altro canto, non mossi nemmeno un muscolo per allontanarmi da lui. Restammo a fissarci, persi una negli occhi dell’altro, come due quindicenni al primo appuntamento.

“…sette…sei…cinque…”

Lentamente, Keith si avvicinò al mio viso e mi sorrise.

“Lasciami essere il tuo Superman, stanotte”.

Come in un sogno, ricambiai il sorriso, e sussurrai “Solo se io posso essere la tua Lois Lane”.

“…quattro…tre…due…uno…AUGURI!!!”.

Le nostre labbra si incontrarono e il momento divenne veramente perfetto.

 

 

Allo scoccare della mezzanotte, il frastuono nel locale divenne insostenibile. Tutti saltavano, urlavano, cantavano, si scambiavano auguri ad alta voce e scattavano fotografie e raffica. Io e Siobhan eravamo ancora abbracciati sulla pista, le mie labbra incollate alle sue, persi nel nostro perfetto mondo da sogno, quando fummo colpiti in pieno dal potente flash di una macchina fotografica.

“Foto perfetta per l’articolo sulla festa nel giornale di domani” commentò un ragazzo dai capelli rossi, con il cappello blu di paillettes storto sulla fronte.

Prima che riuscissi a rendermi conto di quello che stava succedendo, sentii Siobhan irrigidirsi e tentare di liberarsi dal mio abbraccio.

“Sio, aspetta” farfugliai.

“Devo andare” disse lei, spaventata “Anzi, non sarei mai dovuta venire”.

La vidi correre verso l’uscita e feci per seguirla, ma il flash mi aveva annebbiato la vista e inciampai in un oggetto rimasto sul pavimento, perdendola di vista, tra la folla. Abbassai lo sguardo, per capire cos’avesse arrestato la mia corsa, e trovai un capello rosa luccicante. Il cappello di Siobhan. Doveva averlo perso mentre fuggiva via. Lo raccolsi e, pur immaginando fosse ormai inutile, mi diressi, a passo spedito, verso l’uscita. Una volta fuori, mi guardai intorno, nella vana speranza di scorgere la figura di Siobhan, nell’oscurità, o, almeno, la sagoma della sua auto parcheggiata di fronte al locale. Niente. Se n’era già andata. Non avevo fatto in tempo a fermarla. Sospirai. Lo shock di quel flash in piena faccia doveva averle fatto realizzare di colpo come sarebbe stata la sua vita insieme a me e si era spaventata a morte. Guardai il buffo cappello rosa che stringevo tra le mani e, improvvisamente, lo trovai tristissimo. Sembrava che tutto andasse benissimo, invece…. Siobhan era scappata di nuovo. L’avevo persa e, questa volta, ero certo che non sarei più riuscito a riconquistarla.

 

 

Salii di corsa i tre gradini che conducevano alla porta d’entrata di casa mia e iniziai a trafficare con la chiave, faticando a inserirla nella toppa. Quando, finalmente, ci riuscii, mi fiondai dentro, richiudendomi pesantemente l’uscio alle spalle. Senza riflettere, andai a rifugiarmi in camera mia. Premetti l’interruttore, inondando la stanza di luce, e svegliando, così, bruscamente, il povero Marty.

“Che diavolo…?” farfugliò, coprendosi gli occhi con una mano.

“Oddio! Scusa, Marty, me ne vado” dissi, premendo nuovamente l’interruttore e facendo ripiombare la stanza nella semi oscurità.

“Sio, sei tu?” chiese il mio amico, stupito.

“Sì”.

“Che ci fai già a casa?”

“Io…” farfugliai, ma le parole mi morirono in gola e, senza riuscire a controllarmi, scoppiai a piangere come una bambina.

Martin si rizzò immediatamente a sedere, spaventato.

“Sio, vieni qui a sederti” disse.

Non me lo feci ripetere due volte e corsi a buttarmi sul letto, tra le braccia di Martin, che iniziò ad accarezzarmi la testa, cercando di farmi calmare.

“Che è successo, cucciola? Chi ti ha ridotto così?” chiese il mio amico, dolcemente.

Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano e presi fiato, accorgendomi, per la prima volta da quando avevo lasciato il locale, di avere il fiatone.

“Keith…”

“Keith?!??” sbottò Martin, infuriato.

Scossi la testa. “No, non è colpa sua!” mi affrettai a precisare.

Martin sospirò di sollievo. “Meno male” disse, più calmo e, facendomi sdraiare accanto a lui, mi spronò “Su, raccontami tutto con calma, adesso, e vedrai che troveremo una soluzione”.

Sentendomi al sicuro, tra le braccia del mio amico, appoggiai la testa sul suo petto e iniziai a ripercorrere gli eventi della serata.

 

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Capitolo 8
*** EPILOGUE - Superman Tonight (Bon Jovi) ***


“Ecco fatto, signor MacDooly. Sam ora starà benissimo” annunciai, tirandomi in piedi e accarezzando la testa al vaporoso gatto rosso a cui avevo appena estratto una spina dalla zampa. Avevo ricevuto la chiamata alle prime luci dell’alba, solo un paio di ore dopo essere finalmente riuscita a prendere sonno, dopo i catastrofici eventi della sera precedente. A quanto pareva, Sam aveva passato la notte fuori ed era rincasato reggendosi soltanto su tre zampe. I suoi padroni, i coniugi MacDooly, due anziani scozzesi trasferitisi a Clifden parecchi anni prima, gli erano molto affezionati e mi avevano subito chiamata, in preda all’ansia. A cose normali avrei dovuto farmi portare l’animale in ambulatorio e addormentarlo, per poter estrarre la spina. Ma conoscevo bene Sam, e sapevo che era in assoluto il gatto più tranquillo e coccolone che avessi mai avuto occasione di conoscere. Non avrebbe opposto nessuna resistenza, nemmeno se avessi cercato di spellarlo vivo. Effettivamente, mi aveva accolto con lo sguardo un po’ sofferente, al mio arrivo, e ora era un vero sollievo sentirlo fare le fusa, felice, mentre gli grattavo le orecchie.

In auto, di ritorno dalla casa dei MacDooly, mi sentivo felice e appagata. Era sempre una bella sensazione aiutare un animale che soffriva, se poi quell’animale mi era particolarmente simpatico, come Sam, la sensazione di soddisfazione aumentava ulteriormente. Sarebbe stato tutto perfetto, pensai, se gli eventi della sera precedente non mi fossero continuati a ronzare per la testa, rovinandomi la giornata. Ripensandoci, a mente, fredda, e dopo averne parlato a lungo con Martin, mi ero comportata da stupida. Non avrei dovuto scappare via così, anche se quel flash mi aveva riportata indietro di nove anni, quando la mia storia con Keith era finita proprio perché non me la sentivo di affrontare la sua popolarità. Adesso, però, le cose stavano in modo diverso. Non ero più una ragazzina spaurita. Ero cresciuta, cambiata. Avevo acquistato più fiducia in me stessa. Sapevo che le cose non sarebbero state facili, ma ero cosciente di potercela fare, se solo avessi voluto. Avevo già rinunciato a Keith una volta, non volevo commettere di nuovo lo stesso errore. Non senza averci almeno provato. Era inutile continuare a mentire a me stessa, Keith era importante, per me. Lo era stato un tempo ed era tornato ad esserlo dopo che ci eravamo incontrati di nuovo. O, forse, non aveva mai smesso di esserlo, in tutti quegli anni.

Rispondendo a un impulso irrazionale, svoltai in una stradina secondaria, trovandomi, in pochi minuti, davanti casa di Keith. Non avevo idea di cosa gli avrei detto, ma non mi importava. Volevo vederlo. Le parole sarebbero venute da sé.

 

 

Stavo guardando distrattamente la TV, cercando di togliermi dalla testa il disastroso epilogo della festa della sera prima, quando sentii suonare il campanello. Mi alzai per andare ad aprire, controvoglia. Non volevo vedere nessuno, né tanto meno parlare. A cose normali avrei chiamato Gavin per sfogarmi, ma l’avevo lasciato da Hoogan ancora piuttosto malmesso e sicuramente non avrebbe riacquistato possesso delle proprie capacità mentali almeno fino a pomeriggio inoltrato, quindi era fuori discussione. Avrei potuto chiamare Martin ma, nonostante avesse ormai annunciato pubblicamente di essere gay da qualche giorno, il mio amico aveva reputato più saggio restare ospite da Siobhan ancora per un po’ di tempo, per far calmare le acque ed evitare di trovarsi i giornalisti fuori dalla porta di casa ogni mattina. Chiamarlo sarebbe stato troppo rischioso. Martin non avrebbe mai risposto al telefono. Se fossi stato fortunato, forse avrebbe risposto Rose, ma le probabilità che mi rispondesse Siobhan erano troppe e non volevo correre il rischio.

Lanciai un’occhiata al giornale locale che avevo trovato sulla porta quella mattina, e che ora giaceva abbandonato in un angolo del divano. In prima pagina, un enorme titolo decretava che la festa da Hoogan era stata “il modo più alla moda per festeggiare l’arrivo del nuovo anno”. Sotto, una grossa foto ritraeva me e Siobhan abbracciati sulla pista da ballo, le mie labbra sulle sue. Non si facevano nomi, nella didascalia, ma, nel corso dell’articolo, si confermava chiaramente la presenza mia e di Gavin, tra gli invitati, mentre quella di Martin non era data per certa. Nonostante il viso di Siobhan fosse parzialmente nascosto dal cappello, il mio era chiaramente visibile. Bastava fare due più due. Chi ci conosceva avrebbe capito. Se avessi avuto anche solo una minima possibilità di sistemare le cose con Siobhan, quella foto le aveva fatte sfumare definitivamente.

Il campanello suonò di nuovo, mentre spegnevo la TV.

“Arrivo!” urlai, spazientito. Chiunque fosse, era veramente insistente.

Aprii la porta senza preoccuparmi di guardare dallo spioncino. Normalmente lo facevo, per evitare brutte sorprese. Clifden era una cittadina tranquilla e non temevo i malintenzionati. A volte, però, qualche ammiratrice troppo audace aveva scoperto dove abitavo ed era venuta a suonare il campanello. Dato che non mi piaceva essere scortese con le fan, ero stato costretto a firmare autografi e a scattare foto ricordo. Sulle prime non mi era dispiaciuto, ma la cosa aveva iniziato a ripetersi con troppa frequenza. Le ragazze non erano mai fastidiose o scortesi ma, purtroppo, non capivano che, a volte, non avevo tempo per fermarmi a chiacchierare con loro, oppure ero troppo stanco, o, più semplicemente, non ero dell’umore giusto per scattare decine di fotografie. Così avevo imparato a controllare chi fosse dallo spioncino, prima di aprire, in modo da poter fingere di non esserci se qualche ammiratrice si fosse presentata alla mia porta in una giornata no. Quel giorno, però, ero ancora sottosopra dalla sera precedente e non ci pensai affatto. La mia sorpresa, quindi, fu doppiamente grande quando mi trovai davanti Siobhan.

“Ciao, Keith” salutò lei, tenendo gli occhi bassi.

“Sio. Che sorpresa” farfugliai, stupito. Era l’ultima persona che mi sarei mai sognato di vedere, ma ero sinceramente contento della sua visita.

“Ti disturbo?” chiese, timorosa.

Scossi la testa. “No, affatto. Anzi, sono contento di vederti”.

La ragazza mi rivolse un timido sorriso, per distogliere poi velocemente lo sguardo non appena i nostri occhi si incrociarono.

“Posso entrare?” domandò, con un filo di voce.

“Ma certo. Certo. Che stupido. Vieni, accomodati” mi affrettai a dire, insultandomi per averla lasciata ad aspettare sulla porta.

Le feci strada in salotto e ci sedemmo entrambi sul divano.

“Posso offrirti qualcosa da bere?” chiesi, tentando di comportarmi da buon padrone di casa.

Siobhan scosse la testa. “No, grazie”.

Poi, con mio sommo orrore, vidi che lanciava un’occhiata al giornale, abbandonato distrattamente sul divano.

‘Fantastico,’ pensai ‘anche se fosse venuta per dirti qualcosa, adesso avrà sicuramente cambiato idea’.

 

 

Quando vidi il giornale con la nostra foto abbandonato sul divano, ebbi un tuffo al cuore. Non era una sorpresa. Rose me l’aveva fatta vedere quella mattina, subito dopo la telefonata del signor MacDooly. Sulle prime, l’avevo presa molto male, nonostante i miei amici cercassero di tranquillizzarmi, facendomi notare come il mio viso fosse parzialmente coperto dal buffo cappello di paillettes, che non ricordavo più dove avevo lasciato, la sera prima. Poi, Marty se ne era uscito con una delle sue solite affermazioni casuali che, però, nascondevano un fondo di verità e saggezza.

“Sio, te l’ho già detto. Oggi sembra una tragedia, ma domani questo giornale verrà usato per accendere il camino e nessuno se ne ricorderà più”.

Presi un respiro profondo e mi voltai a guardare Keith. Ero venuta per parlargli ed era ciò che avrei fatto. Forse, quella stupida foto, avrebbe reso le cose addirittura più facili.

 

 

“Devo parlarti Keith” annunciò Siobhan, seria.

Il mio cuore mancò un battito. Mi avrebbe detto che era finita, se mai qualcosa era iniziato, tra noi, che non voleva vedermi mai più. E tutto per una stupida foto.

“Sio, aspetta. Se è per quella foto…”

Siobhan scosse la testa.

“Non è per la foto Keith. I giornali di oggi, domani serviranno ad accendere il camino. Non mi interessa”.

Sospirai. Allora non era arrabbiata per la foto. Ma, allora, perché….

“O, meglio, non è per la foto in sé. È per quello che sta dietro alla foto” concluse.

Chiusi gli occhi e deglutii. Mi ero illuso troppo in fretta. Adesso sarebbe arrivata la botta, ne ero certo. Riaprii gli occhi e mi sforzai di non mettermi a urlare, mentre Siobhan parlava.

“Sono passati nove anni, Keith, e le cose non sono affatto cambiate. Anzi, semmai si sono fatte ancora più complicate. Io ho il mio lavoro che, come sai, è tutta la mia vita, e tu hai la tua musica e sei diventato ancora più famoso di quanto non lo fossi quando, nove anni fa, ti ho lasciato perché il successo a cui stavi andando incontro mi spaventava a morte. A quanto pare, però, non sono cambiati nemmeno i nostri sentimenti. Tu dici di amarmi ancora e io…beh, non so se quello che provo sia amore, sono ancora troppo confusa. Quello che so è che nella mia vita mancava qualcosa, c’era un vuoto che nemmeno il mio fantastico lavoro riusciva a colmare, e quel vuoto è sparito quando sei arrivato tu”.

“Oh, Sio” mi lasciai sfuggire.

“Ti prego, Keith, lasciami finire, o non avrò mai più il coraggio di dirti tutto”.

Annuii, promettendomi di non interromperla più. Il cuore mi martellava in petto come mai aveva fatto prima.

“Come ho detto, a quanto pare non è cambiato nulla, in questi nove anni. Io, però, sono cambiata, Keith. Non sono più la ragazzina spaventata dal mondo che conoscevi. Sono più matura, più forte. E anche più testarda. In questi anni, ho imparato, bene o male, a cavarmela da sola e ad affrontare situazioni che credevo fossero più grandi di me. So di potercela fare, adesso. Non ho più paura e non ho più bisogno di essere protetta. Non mi serve più un eroe, Keith.”

“Io non sono un eroe, Sio. Purtroppo non lo sono” avevo promesso di non interromperla, ma non ce l’avevo fatta. Non potevo tenere la bocca chiusa mentre lei decideva da sola del nostro futuro. Dovevo convincerla a tentare. Ad ogni costo.

“Hai ragione tu, questo è soltanto uno stupido, vecchio tatuaggio” dissi, toccandomi il braccio sinistro. “Però ti giuro che venderei l’anima al diavolo per poter essere il tuo eroe, Sio. Anche solo per una notte. Ne varrebbe la pena”.

Inaspettatamente, Siobhan allungò una mano, fino a stringere la mia, e sorrise.

“E, allora, Keith, ti prego, sii il mio Superman. Almeno oggi. Almeno stanotte. Non mi serve un eroe, ho bisogno di te”.

Rigirai velocemente la sua mano nella mia e la tirai a me. Lei si lasciò cadere sul mio petto, senza opporre resistenza.

“Oh, Sio,” sussurrai, al colmo della gioia “certo che sarò il tuo Superman. E non solo per stanotte. Per sempre”.

 

Fui svegliata da un fantastico profumo di caffè appena fatto. Spalancai gli occhi e mi ritrovai davanti il viso sorridente di Keith.

“Buongiorno, principessa” mi salutò, dandomi un bacio sulla punta del naso.

Sorrisi, felice. “Buongiorno a te, mio eroe”.

“Chiamami signor Superman, per favore” scherzò lui, sedendosi accanto a me e posandosi sulle gambe un vassoio con due tazze di caffè e qualche fetta di pane tostato con la marmellata.

“Okay, signor Superman” acconsentii, prendendo una fetta di pane tostato e dandole un morso. “Mmmm…questa colazione da supereroe è veramente fantastica” commentai, mettendomi a sedere.

“Che ore sono?” domandai poi, coprendomi meglio con il piumone.

“Le sette”

“Così tardi? Ho dormito tutto questo tempo?”

“Beh, non abbiamo proprio solo dormito…” rispose Keith, baciandomi una spalla.

Arrossii, imbarazzata.

“No, in effetti, no…” convenni, compiaciuta.

Mangiammo il pane tostato e bevemmo il caffè, dopodiché Keith portò tutto in cucina e tornò a sdraiarsi sul letto, insieme a me.

“Dimmi una cosa, Sio. Sei felice?” mi chiese improvvisamente, mentre giocherellava con la catenina che mi aveva regalato a Natale e che portavo al collo.

Rimasi un attimo spiazzata da quella domanda, fatta così a bruciapelo, e smisi all’istante di passarmi i suoi capelli biondi tra le dita.

“Beh, sì. Direi di sì”.

“Diresti o ne sei sicura?” insistette lui.

Sorrisi, guardandolo. “Ne sono sicura. Adesso ne sono sicura” risposi.

“Non c’è nient’altro che vorresti?”

Ci pensai un istante. No, non mi veniva in mente nulla.

“No. Non posso chiedere nulla di più, al momento”.

Improvvisamente, Keith si rizzò a sedere, guardandomi negli occhi.

“Io, invece, ho ancora una cosa da chiedere” annunciò, serio. “Anzi, sai che ti dico? Non mi importa se ti sembrerò un pazzo. Lo faccio subito”.

Si alzò di scatto e andò ad aprire un cassetto del comò. Frugò per un attimo, sotto il mio sguardo sempre più stupito, dopodiché tornò accanto a me, tenendo qualcosa in mano.

“Ascolta, Sio. Non mi devi rispondere subito. Non ti chiederò niente. Mi rendo conto che sto affrettando le cose. Ma voglio che tu sappia che, questa volta, faccio sul serio. Quindi, ti prego, non dire nulla. Accetta soltanto questo da parte mia e prometti che, un giorno, quando te lo chiederò davvero, dirai di sì”.

Mi prese una mano, me la fece aprire e posò qualcosa sul palmo. Con mia grande sorpresa, vidi un anello.

“Keith, ma questo…” farfugliai, stupita.

Il ragazzo annuì. “Su, provalo” mi spronò.

Presi l’anello e, prima di metterlo al dito, l’osservai con attenzione. Era un piccolo solitario, ma la circonferenza dell’anello non era chiusa. Restava aperto, e il diamante si trovava su di una delle due estremità.

“E’ bellissimo” dissi, sincera, mentre lo infilavo.

“Non trovi che ricordi un po’ una goccia di rugiada su di un filo d’erba?” chiese Keith.

Guardai nuovamente l’anello e annuii. “Ora che mi ci fai pensare, hai ragione” convenni.

“Allora, ti piace davvero, Sio?”

“E’ stupendo, Keith. Grazie” risposi, dandogli un bacio sulle labbra.

Keith sorrise, felice e, prendendomi la mano, chiese “Prometti che ci penserai seriamente, quando sarà il momento?”

Sorrisi, buttandogli le braccia al collo “Non mi serve aspettare il momento giusto per sapere che voglio passare il resto della mia vita con te, Keith. Ho avuto nove lunghi anni per pensarci. Credo di non avere più molti dubbi, ormai. Spero solo che questa tua doppia vita da cantante-supereroe non sia troppo faticosa, da sostenere” scherzai, facendolo scoppiare a ridere.

In quel momento, un cellulare iniziò a squillare.

“E’ il mio” annunciai, alzandomi per andarlo a prendere, nella tasca della giacca.

Guardai il display. Era il numero di Jim.

“Ciao, Jim. Dimmi”

“Ciao Sio. Mi dispiace disturbarti proprio il primo dell’anno,” si scusò subito il mio capo “ma ha chiamato ora il signor Dakin. Una delle sue cavalle ha qualche problema a partorire e lui è troppo vecchio per esserle d’aiuto. Siegfried è dai Brown perché la scrofa ha ingoiato Dio solo sa cosa. Io sto tornando adesso da Cork con Helen. Abbiamo festeggiato il capodanno con il mio collega e sua moglie. E Tristan…beh, quando l’ho chiamato sembrava non sapesse nemmeno dove si trovava, quindi dubito che possa essere di grande aiuto”.

“Nessun problema, Jim. Vado io”.

“Grazie, Sio. Te ne sono veramente grato”.

“Figurati, Jim. Dovere” lo rassicurai.

Ci salutammo e stavo per riattaccare quando Jim mi chiamò.

“Ah, Sio. Domani dobbiamo fare due chiacchiere, io e te. Ho pensato che non è necessario aspettare il mio pensionamento per farti diventare socia dello studio a tutti gli effetti”.

Strabuzzai gli occhi. “Dici sul serio, Jim?”

“Ma certo, Sio. Te lo meriti”.

Incora in trance, terminai la conversazione e tornai in camera da Keith.

“Chi era?” chiese, preoccupato.

“Era Jim. Devo andare a vedere la cavalla del signor Dakin” spiegai, raccattando i miei vestiti, sparsi per la stanza, e iniziando a sistemarmi.

“Oh, peccato” commentò lui, dispiaciuto.

“Keith, Jim mi ha appena annunciato che, tra qualche giorno, potrei diventare socia affettiva dello studio”.

“Sul serio?” esclamò Keith, entusiasta.

Annuii.

“Ma…è fantastico, Sio! È quello che hai sempre sognato. Non sei contenta?”

“Certo. Solo…non mi sembra ancora vero. Voglio dire, è tutto troppo bello. Io e te insieme, diventare socia…. Mi gira quasi la testa. Ho paura di svegliarmi e scoprire che è stato tutto solo un bellissimo sogno, che sono ancora all’università e tu non ci sei” confessai.

Keith si alzò e mi prese tra le braccia, dandomi un bacio sulla fronte.

“Non è un sogno, piccola. È tutto vero. E io per te ci sarò sempre”.

Appoggiai il viso sul suo petto e sorrisi, serena. Poi, improvvisamente, mi ricordai della cavalla del signor Dakin. Mi risvegliai dal coma e afferrai una mano di Keith.

“Vieni con me dal signor Dakin” lo pregai.

“Vuoi veramente che venga con te?” chiese lui, titubante.

Annuii, decisa. “Più di ogni altra cosa al mondo”.

Fu il viaggio più romantico della mia vita. Keith che guidava la mia vecchia auto con la mia testa appoggiata sulla sua spalla. I campi irlandesi non mi erano mai sembrati così magici.

Arrivati alla fattoria, il vecchio Trevor Dakin mi venne subito incontro, imbronciato. Sospirai. Conoscevo quell’espressione, aveva accompagnato tante volte il mio arrivo nelle fattorie, specialmente nei primi tempi, e voleva dire ‘Non potevano mandare un uomo?’. Non mi scoraggiai. Ormai ci ero abituata e sapevo per esperienza che, alla fine, anche i contadini più scettici avevano sempre dovuto ricredersi.

Sorrisi a Keith e mi avvicinai decisa al signor Dakin, con la mano tesa.

“Buonasera, signor Dakin. Sono Siobhan McBride, l’aiuto del dottor Herriot”.

Il contadino mi strinse la mano, imbarazzato.

“Buonasera…”

“Allora, mi fa vedere la cavalla?” domandai, pratica.

“Certo, certo. Da questa parte, prego”.

Lo seguii in una stalla ben riscaldata e dignitosamente illuminata. Non appena vidi la mia paziente, mi bloccai: aveva una pancia enorme, ma sembrava stare benissimo e brucava distrattamente un po’ fieno dalla rastrelliera. Le parole del signor Dakin non fecero che confermare le mie ipotesi.

“Non c’è assolutamente nulla che non va ed è questo che mi preoccupa! È tutto dannatamente a posto ma quel puledro non si decide ad uscire” mi spiegò, seccato.

“Ha ragione, signor Dakin,” dissi, mentre mi toglievo la giacca e mi arrotolavo le maniche del maglione fino ai gomiti “sembra che non ci sia nulla che non va. Adesso comunque diamo un’occhiata”.

Infilai una mano nell’utero della cavalla, sotto lo sguardo divertito di Keith, che non mi aveva mai visto all’opera. Eccolo lì, il puledrino. Sembrava bello sano. Il muso era umido, quindi stava bene. Purtroppo, però, il muso del puledro era anche l’unica cosa vagamente umida dentro a quell’utero. Capii all’istante qual era il problema.

“E’ tutto a posto, signor Dakin, il puledro sta bene. È solo che la madre deve aver perso le acque molto tempo fa e adesso le pareti dell’utero sono completamente asciutte” spiegai, estraendo la mano e lavandomela in uno dei secchi d’acqua calda che il signor Dakin aveva diligentemente preparato prima del mio arrivo.

“E dove sta il problema?” chiese il contadino, confuso.

Sorrisi. I contadini irlandesi erano brave persone, ma molto pratiche. Avrei dovuto spiegarmi con qualche esempio.

“Vede, immagini di doversi sfilare un anello troppo stretto dal dito. La prima cosa che le viene in mente di fare è di usare acqua e sapone, ovviamente. Ma, metta il caso che non lo possa fare. Posso affermare quasi con sicurezza che rinuncerebbe a togliersi l’anello perché le farebbe troppo male. Ecco, questa è, più o meno, la filosofia della sua cavalla, stasera. Con l’utero così asciutto deve essere dolorosissimo agevolare le contrazioni e lei ha semplicemente pensato ‘Non vuoi uscire? Bene, allora resta là dentro!’. È comprensibile”.

“Beh, che cosa intende fare, dunque?”

“Basterà fare qualcosa per questa mancanza di liquido uterino. Vado subito in macchina a prendere un tubetto di crema lubrificante. Qualche passata e dovrebbe venire fuori, liscio come l’olio. Torno subito”.

Mi precipitai fuori, seguita da Keith, che approfittò dell’oscurità per baciarmi, vicino al portabagagli. Sorridendogli, tornai nella stalla e applicai una buona dose di crema alla cavalla. “Bene. Adesso non ci resta che aspettare” dissi, fiduciosa.

“Quanto dice che le ci vorrà per rimettersi in carreggiata?” chiese il signor Dakin, spiccio.

“Beh, dipende dai casi. Non credo molto, comunque”.

Aspettammo circa mezz’ora, conversando del più e del meno sulle recenti nevicate e sulla difficoltà del far asciugare il fieno rimasto nei campi. Poi, finalmente, la cavalla si accorse che poteva ricominciare a spingere e, subito dopo, diede alla luce un bellissimo puledrino bianco. Mentre il coltivatore si affrettava ad andare a ripulirlo con la paglia, guardai Keith, che mi sorrise, alzando i pollici in segno di vittoria. Sorrisi, fiera di aver fatto bella figura davanti a lui, e stavo per avvicinarmi quando fui distratta dalla voce del signor Dakin, diventato improvvisamente cortese. “Vi andrebbe una tazza di the bollente, ragazzi? Così ne approfittate per scaldarvi un po’ davanti al fuoco”.

Guardai Keith e lui annuì.

“Grazie mille, signor Dakin. Molto volentieri”.

Lo seguimmo in casa, dove fummo accolti dalla moglie, una donnina minuta ma molto energica, come molte delle mogli dei contadini con cui avevo avuto a che fare, con due vispi occhi neri, che sembravano in grado di leggere dentro alle persone.

La signora Dakin ci sorrise, portando sul tavolo un vassoio con il the e dei deliziosi biscotti alla cannella fatti in casa. Mentre la bevanda calda ci riscaldava lo stomaco, il signor Dakin le raccontò di come avessi, secondo lui, salvato prodigiosamente la loro cavalla da morte certa. Ai biscotti seguirono svariate fette di torta e anche un paio di bicchieri di whiskey, prodotto artigianalmente da uno dei figli dei coniugi Dakin.

La notte sembrò volare via e stava già albeggiando, quando decidemmo di andarcene. La signora Dakin ci accompagnò alla porta. Posai una mano sulla maniglia e mi voltai a salutare.

“Grazie mille, signora, e scusi per il disturbo”.

“Sì, grazie signora Dakin. Quella torta era veramente fantastica. E anche il whiskey. Lo dica a suo figlio” aggiunse, Keith, cordiale.

La piccola signora Dakin sorrise, felice. Poi notai che il suo sguardo era stato distratto dall’anello che mi aveva regalato Keith.

Mentre io e Keith ci stavamo già addentrando nell’oscurità, mano nella mano, la signora Dakin mi afferrò per un braccio e mi guardò. I suoi vispi occhietti neri non erano mai stati così furbi.

“Immagino che questo giovanotto sia il suo fidanzato, signorina” disse, sorridendo.

Strinsi forte la mano di Keith, giocherellando con l’anello che avevo al dito.

“Sì,” risposi, sorridendo “lui è il mio fidanzato, signora Dakin”.

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