Attraverso lo Specchio

di Fe_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come nascono i cacciatori ***
Capitolo 2: *** La danza dei morti ***
Capitolo 3: *** Vischio ***
Capitolo 4: *** Fairylights ***
Capitolo 5: *** Peluche ***
Capitolo 6: *** Cosplay di natale ***
Capitolo 7: *** Camino ***



Capitolo 1
*** Come nascono i cacciatori ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Come nascono i cacciatori
Personaggi: Bethan Sawyer; Emma Charlotte Vargas; Jack White; Leonard Visser; Hecate Medea Andinson; Ninette Violet O’Banion.
Rating: Arancione
Coppia: ///
Note: Introspettivo; tematiche delicate; missing moments; | 5911 parole
¹Squash: un preparato per bevande che i bambini inglesi apparentemente adorano; è un concentrato di succo di frutta dai diversi gusti e colori che va diluito con acqua.
²Sjakie: abbreviazione di Izaak, variante olandese di Isaac. È il nomignolo con cui viene chiamato in famiglia il fratello maggiore di Leo.
³¡Coño! ¿Eres una maldita imbécil? ¡Ràpida!: Cazzo! Sei una fottuta idiota? Veloce!; i restanti termini spagnoli sono solo dei volgari rafforzativi.


7 febbraio 2017
Edmonton, Inghilterra

La ragazzina che si trovano davanti ha un viso adorabile, con grandi occhi azzurri e lisci capelli biondi: praticamente un angioletto di circa cinque anni. Peccato che l’espressione sia di puro sospetto, ben lontana dall’innocenza che dovrebbe animarla.
         «Perché non entri e ci dici come ti chiami, piccola?» Le propone gentilmente una suora, ma la bimba si ritrae dalla mano allungata per accoglierla e fa una smorfia.
         «Mamma tornerà presto. Ed io non devo parlare con gli sconosciuti.» Le piccole sopracciglia si aggrottano in maniera buffa, scolpendo tra di loro un solco poco adatto alla sua età. Le due donne si lanciano un’occhiata preoccupata, poi tornano a sorriderle.
         «Hai ragione. Io sono Suor Laura, mentre lei è Sorella Alizé. Vieni, è freddo oggi, l’aspettiamo dentro davanti ad una tazza di tè, vuoi?»
         La piccola pare ancora irrimediabilmente dubbiosa ma, dopo un’ulteriore esitazione, marcia dentro la struttura con passo spedito e il mento alto. «Io sono Elizabeth.» Aggiunge poi, come si fosse d’improvviso ricordata delle buone maniere.
         Troppo piccola per leggere la scritta che campeggia sopra la porta, Elizabeth non si rende conto di essere entrata in un orfanotrofio fino a diverse ore più tardi, quando Suor Laura le propone di accomodarsi in una stanza assieme a molti altri bimbi.
         Alizé, decisamente più giovane dell’anziana donna che le ha fatto compagnia, è scomparsa praticamente dopo aver portato loro una bevanda calda e qualche biscotto.
         «È andata a compilare le carte per tenerti qui per sempre.» Afferma con aria decisa un bambino più grande. Gli altri nella stanza lo guardano tutti, quindi Elizabeth non dubita neanche per un istante che sappia come stanno davvero le cose. «Le suore fanno così, dopo che gli adulti ti lasciano o muoiono per colpa delle streghe. Ma qui si sta bene, meglio che fuori, sei stata fortunata. Albert,» aggiunge, indicando un bambino dall’aria fragile, «è rimasto per strada tre giorni prima che lo trovassero.»
         «Le streghe gli hanno rubato la voce.» Esclama una brunetta con gli occhiali spessi, e questo scatena un’accesa discussione nel piccolo gruppo. Elizabeth si rannicchia sul lettino in cui prima si era seduta, le ginocchia strette al petto, ripensando a sua madre e al sorriso incerto che le aveva rivolto prima di dirle di aspettarla davanti a quella porta.
         «Bimbi!» La voce allegra di Sorella Alizé li interrompe e, come un rituale che tutti conoscono, si alzano e si divino in due gruppi. La ragazzina con gli occhiali la prende per il braccio, ma Elizabeth si libera con uno strattone.
         «È ora di andare a fare il bagno, Eliza. Non abbiamo trovato ancora la tua mamma, perciò stanotte starai con noi, ti va? È come un pigiama party.» Le dice la donna, chinandosi alla sua altezza e rivolgendole un sorriso. È molto bella, come un’attrice della televisione, con grandi occhi verdi, e la ragazzina si chiede non sia una specie di spettacolo di cui non conosce le battute.
         «No, io voglio andare a casa. Adesso!» Ribatte, stringendo i piccoli pugni e battendo il piede a terra con aria fin troppo decisa. Alcuni bambini ridono dei suoi capricci, e questo la rende solo più arrabbiata.
         «Per caso ti sei ricordata il tuo cognome, o la via in cui abiti?» Chiede, ma a quella domanda non può che abbassare il viso caldo d’imbarazzo e scuotere la testa. Lei è sempre stata solo Elizabeth, mamma è sempre stata Mamma e casa, casa. Se loro non sanno risalire a cose così ovvie non è certo colpa sua.
         «Allora temo dovrai stare con noi. Dai, un bagno caldo ti aiuterà.» Continua, e la bimba sta iniziando davvero ad odiare quel bel sorriso che suona tanto come una presa in giro.
         La segue di malavoglia assieme alle altre bambine, sbattendo ad ogni passo per dimostrare la sua contrarietà alla situazione, e quando entrano in una stanza da bagno molto grande le guarda con stupore. Procedono a spogliarsi e mettono i vestitini piegati al posto di un asciugamano, ognuna col suo, ognuna ben consapevole di come fare. Le più piccole vengono aiutate dalle bambine grandi, e Sorella Alizé le si avvicina.
         «Vieni, Elizabeth. Può sembrare strano, ma qui ci si aiuta a vicenda. Le più grandi sono come la tua mamma, no? Oggi puoi contare su di me.» Allunga una mano, ma lei è una bambina sveglia, più intelligente di così. Inizia a togliersi la magliettina tutta da sola, per dimostrare la sua evidente superiorità, e quando fa lo stesso con il vestitino sottostante la donna impallidisce.
         «Buon Dio!» Esclama, coprendola con un asciugamano. «Fuori, fuori, Madonna e tutti i Santi. Barbara, Valentine, lascio il comando a voi.»
         La spinge fuori, ma Elizabeth non capisce. Deve essere stupida, pensa, è stata lei a dirmi di fare il bagno.
         «Perché sei vestito da bambina?» Continua non appena sono uscite, ed Elizabeth la guarda confusa. Quel giorno, il primo di molti altri all’orfanotrofio, lo ricorda e sogna ancora. È stato illuminante, un punto di svolta in molti sensi.
         Non ha più rivisto la sua mamma, è diventata un’orfana.
         E ha scoperto cosa la rendeva diversa dalle altre: era un maschio. Un ragazzino che le suore hanno rinominato Bethan.

23 marzo 2024
Dumfries, Scozia

Emma è felice.
         Felice come può essere solo una ragazzina che si sta avviando verso la sua festa di compleanno.
         Gabriel, che ha la patente, l’ha fatta salire sulla sua auto e per la prima volta i due possono andare in giro da soli: mamma e papà erano un po’ ansiosi, visto che guida da poco, ma alla fine le moine della loro principessa li hanno convinti a quella piccola scommessa.
         Emma è sul sedile dietro, i capelli rossi intrecciati sulla base del capo non gli permettono di stare davvero comoda, ma ne varrà la pena una volta arrivata. Ha finalmente raggiunto gli otto anni, il giorno precedente è stato il suo compleanno e oggi, che è sabato, può festeggiare con i suoi amici e la famiglia.
         È sempre stata la piccola di casa, non sa effettivamente dire perché quel giorno sia speciale: forse perché sa che i fratelli, ora che hanno compiuto diciotto anni, dovranno allenarsi come i suoi genitori e liberare il mondo dai mostri cattivi, e avranno meno tempo per lei. In un certo senso, è come se fosse l’ultima volta che possono stare davvero insieme, poi diventeranno ufficialmente grandi.
         «Perché quell’espressione corrucciata, principessa?» Le chiede Gabriel dopo che la ragazzina ha fatto un’insolitamente lunga pausa nella loro chiacchierata. Attraverso lo specchietto Emma può vedere uno scorcio del suo viso: un occhio verde, un sopracciglio alzato, una parte di guancia lentigginosa. Conosce la sua espressione, sa che sta sorridendo e facendo un occhiolino senza poterlo vedere.
         Stringe le piccole mani in grembo, per poi lisciare le pieghe create nel vestitino color prato che indossa. L’ha aiutata Cameron a sceglierlo, perché un paio di giorni prima si sono allenati e la piccola è caduta sbucciandosi le ginocchia: con quella gonnella è davvero carina, e non si vede il piccolo incidente di cui i genitori non sanno nulla.
         «Questa è l’ultima festa che faremo insieme, vero? Quando sarete reclute non ne avrete più tempo.» Emma continua a guardarlo, ma il fratello distoglie lo sguardo per tornare a guardare la strada. Anche se è una bambina, lo conosce così bene da sapere cosa vuol dire la contrazione dello zigomo.
         «Cam, ed anche io naturalmente, noi avremo sempre tempo per venire a trovarti. E prenderemo le vacanze per il tuo compleanno, promesso.» Sta mentendo, Gabriel, non è mai stato bravo a farlo. La bimba riesce sempre a vedere oltre la sua facciata quando giocano insieme, ha vinto tante partite a carte così.
         Ma in qualche modo, nonostante sia così piccola, Emma capisce che per lui è importante credergli per quella volta, perciò gli rivolge il sorriso più luminoso che è in grado di fare.
         «Allora vi aspetterò tutti e due, e non dimenticate il regalo!»
         «Siamo arrivati, Ems.» L’auto rallenta sino a fermarsi e, come un cavaliere, Gabriel scende e va ad aprirle la portiera. La fa sentire una principessa come quella delle storie che le racconta la sera.
         «E mi raccomando, mamma si è raccomandata di dirti di comportarti come una signorina. Non importa se i ragazzi sono stupidi, cerca di non atterrarli... almeno, non quando i grandi ti guardano.»
         L’ultimo appunto la fa ridere e, come una damina, si copre la bocca con una mano. Il fratello le rivolge un cenno d’approvazione prima di porgerle il braccio; deve chinarsi, ma alla fine Emma può avere la sua entrata trionfale.
         La festa è un successo, esattamente quello che una bambina vorrebbe. Hanno sfidato il tempo ballerino e organizzato il tutto in un grande parco, ma per fortuna quel sabato il sole sembra non voler abbandonare il suo posto nel cielo.
         Una gentile signorina vestita da principessa l’accoglie, ci sono giochi e regali che scarterà a casa, e la torta dolce e troppo decorata che suo padre guarda con sospetto ogni anno. A volte le racconta di quando era piccolo e delle strane tradizioni italiane, come feste infinite che durano tutto il pomeriggio e gli adulti che restano, ma Emma lo considera solo strano: niente borsette regalo per gli ospiti, buffet senza tramezzini con la marmellata di fragole e Squash¹?
         Assolutamente inconcepibile.
         Però la sua mamma sa benissimo come si fanno le cose e, quando gli altri genitori arrivano puntualissimi per portare i figli a casa, i bambini la salutano dicendole quanto si sono divertiti.
         Emma è felice.
         Felice come può essere solo una ragazzina che si sta tornando dalla sua festa di compleanno.
         Mentre è in macchina coi suoi fratelli pensa che quella felicità non possa finire, e come tutti non faranno che parlare del suo party lunedì a scuola.
         Non sa ancora come quel sentimento sia effimero, come il momento che trascorre coi suoi fratelli nel tragitto dal parco a casa sia l’ultimo che potrà mai assaporare.
         Perché domenica 24 marzo 2024 Gabriel e Cameron Vargas vengono uccisi da dei mostri, dei maghi. Ed Emma, otto anni compiuti da un solo giorno, ha deciso il suo futuro.

12 aprile 2026
Londra, Inghilterra

Il rumore della colluttazione è familiare, quasi confortante.
         L’ambiente che vede è diverso da come lo ricorda in realtà, ma sa che si tratta di un sogno, sempre lo stesso negli ultimi tempi, perciò anche se la sua mente si prende alcune licenze tutto filerà liscio come al solito.
         Esce dalla propria cameretta, che non ha mai avuto tanti poster colorati alle pareti né un tale impianto stereo, posa la mano sul muro che non è mai stato color panna e, mentre lo percorre, e dita si lasciano dietro un’inquietante scia rosso acceso. Il passo successivo, le scale, presentano un tappeto dello stesso colore che non hanno mai avuto: distrattamente, mentre ascolta i rantoli soffocati, si chiede perché stavolta sia tutto così normale eppure cupo, con sbarre alle finestre e colori molto più contrastanti di quanto la sua casa non ne abbia mai avuti.
         Mentre scende i gradini ogni rumore è soffocato e la scena gli si presenta molto prima del solito; non ha finito la rampa che nota la porta spalancata, e la neve abbondante. Strano, tenendo conto che dovrebbe essere fine marzo, ma non si fa troppe domande.
         Jack si volta a destra, dove sa che vedrà un uomo fuggire: non lo ha mai visto in volto, perciò il suo subconscio rimedia ancora una volta in modo del tutto fantasioso; questa volta è poco più che un ragazzo, capelli neri e occhiali da sole. Gli ricorda un po’ un cantante, anche se non saprebbe dire chi sia.
         Suo padre invece è sanguinante a terra, più ferito di quanto non lo ricordasse; un peccato, perché vuol dire che finirà troppo presto.
         Il peso del coltello, sempre lo stesso modello da cucina, è uguale al solito: come sempre gli compare semplicemente nel pugno serrato, il manico in legno morbido tra le dita, e poi il metallo appuntito e affilato.
         Corre, si avventa sull’uomo che lo ha tormentato per anni, la lama non incontra alcuna resistenza e affonda come nel burro. In realtà le cose non sono andate proprio così, ma nel sogno è tutto molto più facile, pulito, bello persino.
         Si sveglia col fiato corto, il fantasma dell’eccitazione gli brucia sottopelle e gli rende difficile stare fermo: vorrebbe scalciare via le coperte, asciugarsi il sudore gelido dalla nuca, eppure in qualche modo gli ci vuole qualche istante prima di prendere di nuovo confidenza col proprio corpo tanto riuscire ad aprire le palpebre.
         È sempre così, eppure in qualche modo lo trova assurdo. Come avesse avuto un incubo, ma non lo è… no? È la vendetta per un uomo che lo aveva maltrattato per anni, che senso ha sentirsi spaventati da una cosa che ha desiderato così a lungo? Chiunque, al suo posto, non si sarebbe fatto scrupoli. Se lo ripete ogni volta che quel sogno finisce, e lo aiuta un poco.
         Jack si sforza di chiudere gli occhi e tornare dormire ma, quando ci prova, immagini vivide delle ultime due settimane gli danzano dietro le palpebre e non lo fanno riposare, come una sorta punizione per aver rivissuto il bel momento dovesse pensare anche agli altri.
         Il funerale, gli sguardi pietosi della gente che non capiva quanto fosse una benedizione, l’odore dei fiori che quell’uomo non meritava, e poi gli adulti che dicevano che doveva essere sotto shock, le suore gentili, i bambini dell’orfanotrofio che gli chiedono se suo padre sia morto per colpa dei maghi.
         Si rigira nel letto, sente il peso del coltello tra le dita, afferra le lenzuola e cerca di cancellare la sensazione ma la stoffa gli riporta alla mente la camicia del padre, ruvida e dozzinale, a buon mercato.
         «Vuoi stare fermo? Rompi i coglioni.» La voce nel buio è come una stilettata, Jack si irrigidisce poi guarda verso la fonte del rumore senza vedere davvero. C’è una fila di letti a castello, tre alla sua destra e quattro alla sinistra; a parlare è stato il biondino che dorme sopra di lui, un ragazzino minuto che gli altri bambini per qualche motivo temono.
         «Ti agiti tutta la notte, fai un casino infernale, ed io non riesco a dormire. Risolvili di giorno i tuoi traumi e statti fermo.» Le parole poco gentili gli riportano alla mente momenti meno felici; insulti dovuti al solo fatto di essere nato, ad un sorriso troppo simile a quello della donna che infesta tutte le cornici della sua casa.
         Tutto sommato, inizia a capire perché il più grande non piaccia molto. Anche senza vederlo, può immaginare il suo visetto magro stizzito, gli occhietti azzurri pieni di sdegno. Nemmeno le suore lo amano, le stesse donne che sono state così gentili con Jack da quando suo padre è morto.
         «Lasciami in pace, Bethan.» Il ragazzino si gira dall’altra parte, affonda il viso nel morbidissimo cuscino che sa di sapone da bucato fresco, si chiede come sarebbe stato crescere con quelle signore. Bei pensieri che si infrangono quando l’altro ricomincia a blaterare.
         «Parli nel sonno.» Non si sforza più nemmeno di sussurrare, sente il letto muoversi un poco e sa che si è sistemato. Spera decida finalmente di zittirsi: gli ricorda suo padre, con quell’atteggiamento sprezzante, e vorrebbe solo prenderlo a pugni. Non lo farà, sarebbe solo stupido.
         Ha visto altri ragazzini attaccar rissa con lui, con Bethan, e per quanto tutti sappiano che ha un carattere difficile riesce sempre a mantenere le provocazioni sulla linea dell’innocente, facendo passare gli altri per colpevoli. A Jack non dispiacerebbe imparare a farlo, è piuttosto sveglio, e gira voce che alcuni dei preti che vedono la domenica parlino con le suore per capire quali bambini hanno potenzialità come inquisitori: Bethan sarebbe uno di quelli che ha già iniziato l’addestramento.
         Anche diventare un inquisitore non gli dispiacerebbe: loro sono i buoni, proteggono i deboli dal male, e lo fanno indossando la maschera degli eroi. Sì, non gli dispiacerebbe affatto, un giorno, diventare come loro.

19 novembre 2026
Londra, Inghilterra

La pioggia scroscia così fitta che non sente più nemmeno il freddo.
         Ogni grammo di calore gli è stato sottratto da vestiti fradici e lo sguardo gelido del padre che gli buca la schiena, si sente esausto eppure continua a mettere un piede davanti all’altro in una corsa disperata.
         «Non rallentare. Che sei, una fighetta? Dovrai lavorare in condizioni ben più dure di così.» Lo ammonisce, e Leonard volta appena il viso per guardare la figura severa che gli marcia a fianco.
         Troneggia su di lui, anche se il ragazzino è sempre stato grande per la sua età si sente come un bambino vicino all’uomo. Si somigliano così tanto, nei capelli biondi e gli occhi che mimano un cielo più sereno, hanno la stessa durezza nei tratti e la stessa fisionomia. Leonard odia l’idea di diventare uguale al padre, ma sa anche che non ha molte altre opzioni.
         «Mi hai sentito? Un bravo soldato risponde.» Micha non ha mai avuto pazienza, il figlio lo ha provato più volte sulla sua pelle. Raddrizza le spalle e cerca di darsi un’aria meno patetica.
         «Signorsì, signore!» Esclama, chiaro nonostante la voce arrochita per lo sforzo. Sembra quasi un militare, nonostante gli appena tredici anni, ma quando rivolge nuovamente attenzione alla strada scivola sull’asfalto semicongelato e finisce rovinosamente a terra. L’umiliazione gli brucia molto più delle ginocchia sbucciate.
         «Rialzati subito. Non puoi permetterti di mostrare debolezza. Isaac già lavora con me, e quando morirò dovrai prendere il mio posto per proteggere il resto della famiglia.» Micha si china sul figlio e gli fa alzare la testa. C’è una profonda preoccupazione nei suoi occhi e, anche se Leonard lo odia con ogni fibra del suo essere, è altrettanto deciso a proteggere i suoi fratellini. «Forse dovrei addestrare Willelm. Anche se ha già nove anni, posso lavorare sul suo potenziale.»
         È una minaccia, lo sanno entrambi. Leonard si alza e scrolla le spalle, cercando inutilmente di liberarsi di un poca dell’acqua che gli appesantisce i vestiti. Stira la schiena e cerca di calmare il respiro affannato per via della corsa.
         «Nossignore. Possiamo continuare.» Micha lo squadra e il figlio cerca di assumere un’espressione dura. Gli arriva già al mento, ma lui pare non notarlo: allunga una mano e gli sfiora la guancia, il calore come una maledizione gli fa capire quando il suo corpo sia gelido. Leonard si ritira di scatto da quel contato, ignorando l’espressione ferita del suo aguzzino.
         «Lo sai che lo sto facendo per la famiglia. Non voglio dobbiate tornare nelle prigioni.»
         Certo che lo sa. Ogni volta che lo spinge oltre il limite, quando anche respirare è un dolore, quando finisce a terra perché le gambe non lo reggono più, suo padre gli ripete che è solo per proteggere la famiglia. Non importa la vita di chi si distrugga, finché loro sono al sicuro.
         Leo continua a guardarlo con disprezzo, lo stesso che vede riflesso negli occhi degli inquisitori che talvolta entrano nel loro quartiere. Gli edifici grigi che sorgono nella loro strada sono così alti che nascondono il sole, container che ospitano decine di appartamenti identici abitati da famiglie di reietti. Anche se è appena un bambino, si è chiesto spesso perché decidano di vivere servendo persone che li odiano e uccidendo la loro stessa specie.
         Ingoia la rabbia, si passa le dita piene di piccoli calli tra le ciocche color grano per togliersele dal viso. «Il parco è poco lontano. Se non ci sbrighiamo arriveranno i bambini a giocare.»
         Micha si morde il labbro inferiore, pensieroso; sa benissimo che il figlio odia farsi vedere dai coetanei quando si allena. Anche se sono tutti sono lì grazie ad un familiare collaborativo, nessuno li ama davvero.
         «Che ne dici se oggi andiamo a casa prima? Se dovessi ammalarti dovresti prendere una pausa.» È una bugia.
         Pioggia o sole, raffreddore o febbre, non ha mai saltato un giorno. Si vede, nemmeno gli adulti osano importunare lui o i suoi fratelli, anche quando il padre è via in missione. Cane mangia cane, lì, ed i Visser non saltano un pasto.
         «Mamma non sarà felice di vederci così presto.» Sa che è un ramoscello d’ulivo, e non si fa scrupolo a coglierlo. Infila le mani nella felpa zuppa, per nascondere il tremore che non può comunque fermare. Si riparano sotto un cornicione prima di imboccare la direzione opposta a quella che avevano preso prima, per poter tornare a casa riparati.
         «Hai ragione, ma Sjakie² ci farà del tè caldo che è, uhm… quasi meglio prendere la pioggia, in effetti.» Micha ride piano, esitante, e Leonard ricambia insicuro. Non hanno mai avuto quel tipo di rapporto, e quando l’uomo tenta un approccio meno militare è evidente che entrambi si sentono a disagio, insicuri di quell’ambiente instabile e sconosciuto.
         «Qualcuno dovrebbe impedirgli di avvicinarsi alla cucina, è vero. Però le sue intenzioni sono buone. La settimana scorsa Thea ha avuto la febbre alta e lui le è rimasto vicino tutta la notte, a farle bere un tè orribile. Per farlo ha usato la lavanda che coltiva mamma.»
         Micha alza un sopracciglio, quindi lo invita a continuare con un gesto secco del polso.
         «Tu eri partito da due giorni, e non siamo riusciti a procurarci delle medicine. Sai che verso metà mese finiscono sempre. Il carico è arrivato lunedì.» Si stringe nelle spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo. Naturalmente il contatto col mondo esterno è proibito, sono prigionieri in ghetti, ma intorno al 15 di ogni mese dei camion portano medicine, viveri e abiti. La maggior parte di loro coltiva nei balconi piante edibili o medicinali, e chi vive stabilmente lì ha creato piccole attività di riparazione o artigianato, ma d’inverno è sempre un po’ più dura.
         «Avete fatto scorta? Sennò alla prossima missione potrei… ieri era il tuo compleanno.»
         Ah, se ne è ricordato. Leonard non ci sperava più, ha smesso a otto anni a dire il vero. Gli sorride, nascondendo il risentimento. «Sì, se vuoi farmi un regalo portami della tinta. Nera, così smetterò di assomigliarti almeno un po’.» Dice, col tono più dolce ed innocente del mondo.
         Ignora appositamente l’espressione esitante e ferita di Micha, anche se una parte di lui ne gode. Davvero molto.

8 settembre 2034
Londra, Inghilterra

Essere buttata da una cella ad una strada è, se possibile, ancora peggio che restare rinchiusa.
         Una piccola folla le si è radunata attorno, la guarda con sospetto e paura, lo legge nei loro occhi, nei loro pensieri. Frammenti confusi, vorticanti, che le danno una forte nausea. Vorrebbe solo urlare loro di andarsene, ma ha usato la voce così poco negli ultimi due anni che teme di non esserne in grado.
         «Muoviti.» L’ordine secco ha un accento straniero, caldo, che contrasta in modo spiacevole con la voce secca. Hecate si è sforzata di non guardare più del necessario l’inquisitore che l’ha accompagnata dalle prigioni a quel luogo, anche perché ogni volta che cercava di registrare qualche particolare- di lui, del veicolo, del luogo- sentiva netta la sua irritazione. Sa solo di trovarsi da qualche parte nella periferia di Londra, in quello che pare un quartiere poverissimo e recintato con filo spinato; l’uomo invece ha la pelle olivastra, un grugno malevolo e piccoli occhi porcini, neri come i capelli cortissimi.
         «¡Coño! ¿Eres una maldita imbécil? ¡Ràpida!³» L’inquisitore la spinge malamente per una spalla, facendola barcollare sorpresa, e sente dalla folla qualcuno che ride divertito. Non ha capito le sue parole, ma è certa che usare un simile linguaggio con una bambina sia sbagliato, e che gli altri non dovrebbero godere di quello spettacolino patetico.
         Inizia la sua marcia della vergogna, gli occhi bassi e nessun voglia di dar loro altri motivi per tormentarla, ma quel poco che vede le ricordano in maniera dolorosamente familiare i senzatetto dei rifugi, un ricordo lontano di un’infanzia ancora non finita. La somiglianza non è tanto fisica perché, per quanto quelle persone siano senza dubbio povere, non sono sporche o incurate; è più che altro nello sguardo, sconfitto e vuoto.
         «Non sei un po’ piccola per certi paragoni?» Hecate non ha idea di chi abbia parlato, ma d’improvviso il suo aguzzino si ferma e si mette tra lei e le persone, scrutandole truce. Ora che le dà la schiena, la ragazzina può farsi un’idea migliore della sua fisionomia e quello che gli era apparso come un corpo possente si rivela essere solo decisamente obeso.
         «Visser, cabrón, dove sei?»
         «Comandante Hernandez, buongiorno.» Il ragazzo che aveva parlato prima si avvicina e la ragazzina potrebbe giurare di vedere un principe azzurro: è più alto dell’inquisitore, anche se di molto poco, e un sorriso pacifico gli illumina il viso. Più avanti si renderà conto di quanto non sia particolarmente attraente, ma in confronto all’altro sembra un angelo dai capelli biondi.
         L’uomo gli si avvicina e gli tira un pugno allo stomaco, sibilando qualcosa sulla mancanza di rispetto, ed il ragazzo si piega ma dissimula con una risata leggera. «Siamo di cattivo umore, signore. Che ne dice se tipo lascia a me la signorina e lei ritorna al suo lavoro?»
         Per quanto probabilmente ancora irritato, il comandante fa un passo indietro. La folla, che prima si stava solo godendo lo spettacolo, ha iniziato ad agitarsi al pugno; Hecate può sentire il mutamento nel tono dei loro pensieri: non stava più torturando un’estranea, ha colpito uno di loro. E non è loro piaciuto.
         «Sto facendo il mio lavoro, perro sarnoso. È un pacco per te, dalla centrale.» Hernandez non si volta nemmeno, allunga una mano dietro di sé e le prende la spalla, per spingerla verso il ragazzo. Questo si è intanto raddrizzato, le rivolge un’espressione serena e le sfiora la testa con una mano.
         Il suo compito non è tipo, torturare ragazzine. Non preoccuparti, sei al sicuro ora. Il pensiero le viene naturale come fosse proprio, eppure sa che così non è. È qualcosa di più forte del solito rivolo di coscienza che cattura di solito, di questo è certa, e guarda stupita il biondino.
         «Ora però ha finito. Grazie, signore, e buona giornata.» Il modo cortese con cui gli si rivolge è assolutamente disarmante, sembra non avere un briciolo della rabbia che anima tutte le creature che Hecate ha incontrato fino a quel momento, e anche l’inquisitore non ha nulla per giustificare una risposta violenta.
         Lo sa, e si allontana con una smorfia insofferente. Lancia loro un’ultima occhiata, quando è abbastanza distante, poi sale sull’auto che li ha portati lì e sparisce oltre il cancello. Quando si chiude, di nuovo, i muri che circondano il piccolo ghetto paiono alte fino al cielo e le mozzano il respiro.
         «Beh, è stato… piuttosto scortese. Ma Jorge è sempre così, perciò suppongo che ci faccia, tipo, apprezzare di più quelli gentili?» Propone il ragazzo. Le altre persone iniziano pian piano ad allontanarsi, ora che lo spettacolo è finito, ed Hecate non sa davvero cosa fare. L’hanno presa dalla sua cella, sottoposta ad una serie di test, messo un collare e scaricata lì.
         Lanciando una seconda occhiata, si rende conto che tutti ne portano uno, anche se sono modelli diversi; si sfiora il collo con un gesto distratto, il metallo è tiepido sotto le sue dita. Lo sconosciuto la guarda e dissimula il gesto sfiorandosi una ciocca di capelli paglierini; ne riceve in cambio un’occhiata comprensiva.
         «Va tutto bene, ci si abitua in fretta a quelli. Si attivano solo per mano di un inquisitore, quindi finché sei qui non dovrebbero darti la scossa. Io sono Isaac, comunque, e tu come ti chiami?» Aggiunge, quindi si china e le prende la mano. Inizia a camminare, ma Hecate si ritira come il contatto l’avesse scottata.
         Isaac non si scompone, si limita a fermarsi a sua volta e chinarsi per raggiungere il suo viso.
         «Capisco che tu abbia paura. La paura è normale, ti tiene lontano dalle cose che possono farti male. Ma io non sono cattivo, sono tipo te, e mi avevano avvertito del tuo arrivo. Abbiamo la stessa abilità, vedi, e vogliono che ti insegni ad usarla.» Ecco, ora quello che le era sembrato un principe azzurro d’improvviso le fa paura. È uno di loro, e vuole che anche lei diventi come quelli che hanno ucciso i suoi genitori. Rapidamente vaglia le proprie possibilità: non può batterlo, è una bambina di nove anni contro un ragazzo che ha più del doppio della sua età; forse potrebbe scappare, ma alla lunga la troverebbe.
         «Non ti costringerò, se non vuoi. Ma vieni a casa, ci sono mia madre e ho una sorellina poco più grande di te. Oppure puoi andare nel tuo alloggio, perché tipo stare fuori col buio può essere pericoloso.»
         Hecate non è del tutto sicura di fidarsi, Isaac le sembra davvero un ragazzo strano, ma è indubbiamente gentile e onestamente non ha molte altre opzioni. Gli si avvicina, e lui non fa nulla per prenderle di nuovo la mano, cosa che gradisce.
         «Hecate.» Si limita a dire, e dal modo in cui l’altro annuisce capisce che già lo sapeva. Deve essere un legilimens davvero dotato, e teme davvero di scoprire come lo usano gli Inquisitori, perché di certo lei farà la stessa fine.

13 agosto 2037
Galway, Irlanda

Anche sul palco, il fantasma del profumo forte che usano le altre ragazze le pizzica il naso, minacciando uno starnuto ogni pochi minuti. La puzza di fumo ed alcolici scadenti fa ben poco per migliorare la situazione anzi, se possibile, aumenta il fastidio. Lo cela dietro un bel sorriso, come fa da sempre.
         Il turno di lavoro è iniziato da poco meno di un’ora e la luce bassa del giovedì nasconde le imperfezioni delle ragazze meno carine. Per quelle attraenti, ed i bei soldi, bisogna aspettare il weekend, e l’idea ferisce il suo ego più della pacca sul sedere che le rifila il coglione in prima fila. Si volta di scatto e gli pesta la mano col tacco.
         «Ah! Nemmeno quando le paghi accettano i tuoi complimenti, Albert?» Il commento scatena una serie di risate e l’uomo, già alterato, si allontana a grandi passi.
         Ninette torna al palo, vi scivola reggendosi solo con le cosce, ed intanto tiene gli occhi fissi su quello: sta andando a lamentarsi con il capo. Cazzo, di nuovo problemi. Il suo stupido numero, che ha la presunzione di essere chiamato balletto, finirà presto e non avrà più scuse per evitare la strigliata per essere stata di nuovo maleducata con un cliente.
         Una volta ballava davvero, su un palco che non era coperto di lustrini e rimpianti, aveva talento. Sa benissimo com’è passata dal sogno della Scala a quello ben più modesto del Róisín Dearg, non la fa meno incazzare.
         Quando la musica cambia e lei fa per tornare dietro le quinte, con la coda dell’occhio vede il grande capo farle cenno di raggiungerlo; accanto a lui c’è Oberon, l’enorme figura familiare e confortante le dà una certa tranquillità. Se non altro non sarà da sola.
         Dietro le quinte le ragazze sono come piccole formiche indaffarate, alcune allo specchio a truccarsi, un paio appollaiate vicino all’unica finestrella che si apre per fumare in pace, l’unica cosa vera è che c’è troppo poco spazio per tutte. Jane le rivolge un sorriso gentile e le passa i suoi abiti, in modo che possa rivestirsi più in fretta.
         «Albert è un idiota, piccola, hai fatto bene.» Le dice col suo solito tono quieto. È l’ultima donna che immagineresti lavorare in uno strip club, ha superato i trenta e ha il rassicurante aspetto di una bibliotecaria, o una madre. Nonostante la differenza di età è probabilmente quella con cui Ninette ha legato di più, proprio perché sono tanto diverse.
         «Sì, lo so io e lo sai tu. Ma finché paga in contanti Palben continuerà a non saperlo. Secondo me se la prende con noi per il nome di merda che gli ha messo sua madre.» Commenta acida, e strappa un sorrisino divertito all’amica che le posa una mano sulla spalla.
         «Questo non dirglielo, d’accordo?» Propone, e Ninette non può che fare una smorfia e annuire sotto lo sguardo di Jane. È una brava ragazza, non dovrebbe stare lì.
         «Va bene. Io vado, e prometto di non riservargli lo stesso trattamento visto che non mi ha ancora pagato il mese.»
         La donna annuisce, i fitti ricci castani che enfatizzano il movimento in modo comico, e Ninette inforca la porta prima che il buonsenso che le ha prestato evapori.
         Palben è in disparte verso l’entrata, una figura ombrosa dai colori scuri quasi completamente oscurata da Oberon, decisamente più piacevole da guardare oltre che grande. La ragazza li saluta allegramente, come non sapesse di essere nei guai, ma solo uno dei due- il suo preferito, per la cronaca- la ricambia calorosamente.
         «Ehi capo, ciao Obi! Lo sai che stasera non è il tuo turno, vero? Quelli carini si esibiscono tra due giorni.» Dice, poi scuote la testa con aria teatrale. «Ma finché non ti tagli quella cosa non puoi stare tra i carini.»
         Oberon si accarezza la barba con una nota fiera, mentre Palben, la guarda con aria annoiata. «Sei licenziata.» Le parole le scivolano lungo la schiena come una doccia gelata, e anche l’altro ragazzo si blocca e lo guarda a bocca aperta.
         «Cosa? Non puoi… non puoi licenziarmi così! Avevi detto che mi avresti assunta regolarmente!» Ninette stringe il pugno e, se non fosse stato per la presenza di un buttafuori che li adocchia già da un po’, probabilmente glielo tirerebbe in faccia. «Senza un lavoro…»
         «Tutti abbiamo i nostri problemi,» la interrompe, «ed attualmente tu sei il mio. Non mi importa dei tuoi piccoli drammi familiari, non sai comportarti e non sei così carina da permetterti certe bizze. Prendi le tue cose e vattene.» Schiocca le dita, ed il buttafuori di prima- Chucky, un omone con cui ha diviso più di una birra- le si avvicina e le prende il polso. Ha gli occhi neri, e la sua espressione dice “non fare scenate”.
         Oberon la segue, la mascella serrata e la consapevolezza di non poter fare nulla pesante sulle spalle larghe, e nessuna delle ragazze pare sorpresa quando entra dietro le quinte con lei. Alcune lo salutano, Jane si avvicina e chiede cosa sia successo.
         «Ma non può farlo, non hai fatto nulla di grave!» Esclama la donna quando le viene spiegata la situazione. Alle sue proteste si uniscono anche Anne e Catherine, anche se non possono far nulla di più che rincuorarla un poco.
         «Lo ha fatto, spero solo che cambi idea domani, perché sennò… oh, cazzo! Non possono togliermi la custodia di Dean, vero?» Il dubbio nei loro sguardi è palpabile, e Ninette conosce la risposta senza che nessuno debba dirla a voce alta. Si porta una mano ai capelli, intrecciando nervosamente le ciocche rossicce tra le dita.
         «Se ti serve un lavoro, sai, a settembre…» Inizia Catherine, ma Oberon le lancia un’occhiataccia e la frase resta sospesa qualche secondo nell’aria. La ragazza li guarda, incuriosita, e l’altra continua: «Beh, lei è del tutto umana, no? Gli inquisitori cercano sempre ragazze carine da mettere dietro le scrivanie, fanno buona pubblicità.»
         D’improvviso l’unico rumore è la musica alta ed il vociare insistente del locale, mentre lì il silenzio cala come una coperta pesante, afosa. A nessuno piacciono gli inquisitori, specie lì dove lavorano sbandati e maghi sotto copertura. Ninette ingoia a vuoto.
         «Non è affatto una buona idea. Spero mi riprenda domani senza troppe beghe.» Sa che il suo tono non è molto convito dall’espressione di Oberon, e spera solo che la cosa si risolva in fretta. Detesterebbe l’idea di lavorare per coloro che cacciano il suo amico, ma lo farà se dovesse l’unico modo.

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Capitolo 2
*** La danza dei morti ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: La danza dei morti
Personaggi: Aimé Antoine Rousseau; Ekaterina Arlovskaya; Felipe Gonzalez; Arabella Sirchka; Nikandros Sirko; Rapuir; Serafim Branko; Isaïe Théodose La Tour d'Auvergne; Manon; Alyssa Campbell; Abigail Schwartz; Rachel Schwarz.
Rating: Rosso
Coppia: ///
Note: Introspettivo | Malinconico | Storico | 4162 parole
TW- Pensieri suicidi, sangue.
Io lo metto per sicurezza, cioè, parliamo di vampiri ed il sangue mi pare ovvio, i pensieri suicidi invece fanno parte di uno dei personaggi e non potevo ignorarlo in questo specifico contesto.
A parte quello, quanto siamo felici di vedere finalmente un capitolo dedicato ai nostri cadaverini preferiti?
Abbiamo un piccolo assaggio di come sono (ri)nati, lo scopo principale era mostrare i personaggi, con le loro famiglie vecchie e nuove e tutto sommato sono quasi soddisfatta? Posso anche dirvi che tutti- meno Alyssa, che è incredibilmente giovane e non ha mai incontrato altri della sua razza al di fuori del suo clan- si conoscono, e forse prima o poi approfondirò ma intanto vi chiedo: come pensate sia stato il primo incontro tra i vari vampirini?
Qui di sotto vi lascio anche un paio di info tecniche, questo capitolo è stato davvero divertente da scrivere ma ¾ del tempo è stato occupato in ricerche sulle varie culture e periodi storici: troverete traduzioni ma anche parole specifiche che non aveva senso o non si potevano tradurre.

¹Sévigné: acconciatura tipica della metà del 1600, prendeva il nome dalla famosa scrittrice francese. Consisteva in una crocchia stretta sulla nuca e riccioli sciolti sulle tempie, che potevano scendere a cavatappi sino alle spalle.
²Filippo: Filippo di Francia, fratello minore di Luigi XIV che governava la Francia in quel periodo. Filippo fu apertamente omosessuale ma, a causa della sua posizione, sposò prima la cugina Enrichetta, principessa inglese, e poi la principessa tedesca Elisabetta Carlotta del Palatinato; continuò tuttavia ad intrattenere relazioni con numerosi amanti in modo anche piuttosto sfacciato, cosa che indispettì le mogli e rovinò dei matrimoni altrimenti relativamente sereni.
³Lapti: (sing. lapot) calzature tipiche dei popoli che abitavano le foreste del nord Europa, erano fatte con una fibra ottenuta dalla corteccia e poi intrecciata. Anche se come scarpe avevano vita breve- dai quattro ai dieci giorni- le vecchie paia non venivano buttate: piuttosto, appese in casa o agli steccati, come portafortuna.
Upyr: vampiro di origine ucraina, ma diffuso nelle leggende di tutta la Russia europea, si tratta di una creatura semi-bestiale che una volta uscita dalla tomba attacca da mezzogiorno a mezzanotte le famiglie, uccidendo e nutrendosi ogni giorno di un membro diverso- dal più giovane fino alla completa cancellazione del nucleo. È descritta come orribile d’aspetto, con zanne simili a sciabole.
Pasca: dolce della Romania, una sorta di pan brioche riempito di formaggio morbido ed uvetta. Si prepara tipicamente per festeggiare la Pasqua ortodossa, che viene preceduta da sette settimane di magra.
Allez, vas-y, mon petit fauve: “Dai, forza, mio piccolo cerbiatto” in francese. Mio piccolo cerbiatto è un un vezzeggiativo, un nomignolo affettuoso, ormai però in disuso.


11 giugno 1665
Parigi, Francia

Ia lama del coltello brilla della luce che viene dalle case e dalle candele nelle lanterne.
         Aimé la guarda assorto, il fascino macabro che mal si sposa con la puzza che sale dalla Senna: il fiume pare una sfocata discarica a cielo aperto oltre l’arma, pur non mettendola a fuoco con la coda dell’occhio i movimenti dei topi e dei poveri che vi vivono attirano di tanto in tanto la sua attenzione.
         Il pensiero di buttarsi, annegare nella merda della società, è tanto appropriato quanto poco invitante per un bastardo come lui, alza lo sguardo e due uomini solitari nella notte puntellano dei pali di legno ai lati della strada principale ed una lanterna tra i due dondola leggera nell’aria calda: li sente parlare di progresso, di illuminazione pubblica contro il crimine nelle strade, ma è certo che se decidesse di scivolare oltre il parapetto non lo noterebbero nemmeno. Sua madre, alla fine, non l’aveva vista nessuno fino al mattino successivo.
         «Una serata magnifica, non trovate?» La voce lo coglie di sorpresa, Aimé sobbalza e si volta di scatto alla sua sinistra dove una signora vestita di blu si è silenziosamente avvicinata. L’abito, decorato sull’ampio scollo a barca e le maniche morbide da un minuscolo disegno di fiori d’argento, è troppo elegante e sofisticato per essere qualcosa di meno di una nobildonna: persino a palazzo raramente ha visto tanta gratuita opulenza, segnata da un dettaglio tanto piccolo da poter essere distinto solo da una distanza minima. Mademoiselle de Montpensier doveva aver commissionato qualcosa di simile di recente, e sapere che la donna più ricca di Francia copiava la sua interlocutrice era chiaro segno che avrebbe dovuto ascoltarla.
         «Se lo dice una dama come voi non può che essere vero. Mi chiedo solo se sia saggio camminare sola di notte.» Le risponde con gentilezza, cercando di distogliere l’attenzione dal coltello che ancora tiene tra le mani. La donna gli sorride, il volto esangue scurito appena dai morbidi ricci della Sévigné¹ che lo mettono in ombra. Non è particolarmente bella, con le guance troppo piene, il naso largo ed occhi luminosi ma neri come un demonio, eppure Aimé si sente stranamente a suo agio.
         «L’inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui.» Gli risponde, il ragazzo accenna un sorriso alla familiare citazione del Bardo che, a cinquant’anni dalla sua morte, è forse solo accresciuto in fama.
         «A maggior ragione dovreste temere di incontrarne uno, madame...?»
«Arlovskaya. Ekaterina Arlovskaya.»
         «Il mio nome è Aimé Antoine Rousseau.»
         «Lo so, come so che avete deciso di non togliere la vita al padre che odiate per non farlo perdere al figlio che invece lo ama. Un gesto… nobile, a suo modo.» Quelle parole, pronunciate con calma serafica, lo scuotono e si ritrova suo malgrado a stringere le dita attorno al manico del coltello. Ancora seduto sul parapetto, scarta un poco indietro; le spalle larghe rigide, il sorriso scomparso dal volto costellato di nei.
         «Non preoccupatevi signor Rousseau, non sono qui per una condanna. Sono qui per farvi un regalo.» Continua, e nemmeno l’innata curiosità del ragazzo può nulla contro l’irrimediabile sospetto che ormai gli si annida nel petto. «Mettete via il coltello e ascoltatemi, vi prego. Vi fareste solo male nell’attaccarmi, alcuni dei miei amati figli mi hanno seguita e non prenderebbero bene il vostro gesto.»
         Ekaterina inclina il capo ed Aimé segue con lo sguardo il gesto: gli occhi castani si soffermano su una coppia in parte nascosta in un vicolo, di cui d’improvviso però sente chiara la presenza ed il modo inquisitore con cui li osservano. A fargli più impressione è l’uomo, con capelli biondi e alto quanto lui, una stazza invidiabile; la donna è ben più minuta, con una massa di capelli neri e mossi che le scendono oltre le spalle sottili. Indossano abiti ben più semplici di quelli della sua interlocutrice, ma anche a quella distanza può notare stoffe costose e lavorazioni pregiate.
         «Sembra più una minaccia che un regalo.» Commenta senza guardarla, ancora intento a studiare i due. Cauto, attento a valutare le poche opzioni di cui dispone, la risata argentina lo coglie di sorpresa.
         «Voglio offrirvi ciò che i coniugi Flamel hanno cercato invano per tutta la vita.» Le labbra sottili della donna si arricciano in un sorriso divertito e malizioso quando finalmente ha di nuovo su di sé l’attenzione del ragazzo. Con gesti volutamente lenti, come un’attrice sul palco, alza la mano e si osserva l’anello che porta all’anulare. «Vedete, mio marito ed io amiamo l’idea di dare una seconda possibilità. Domani partiremo da Parigi in direzione dell’est, dove si trova la mia casa, e vorremmo veniste con noi.»
         Aimé continua a guardare l’anello, un cerchio d’argento con incisi motivi di fiori, e quello che appariva come un damante dalle sfumature rosee montato tra dei petali sottili. Che quella donna possedesse davvero la pietra filosofale? Avrebbe davvero potuto portarla in modo così casuale, parlarne ad uno sconosciuto? La domanda deve essere chiaramente dipinta sul viso, perché Ekaterina continua.
         «Posso chiamarvi Aimé?» Al suo rapido assenso, annuisce. «Vi ringrazio. Aimé, non c’è nulla qui per voi. Non una famiglia, né l’amore di Filippo², noto libertino. Oh, non mi guardate così, è un dono raro, è ovvio non voglia concedere la vita eterna a chiunque.»
         Aimé deve aver sgranato gli occhi o dato altro segno d’incredulità, perché la donna lo sta chiaramente leggendo. Abbassa lo sguardo, poi con un sospiro getta il coltello che ancora teneva stretto nella Senna: scompare senza rumore, senza esser visto, come aveva fatto la sua rabbia qualche ora prima. «Va bene.» Dice solo.
         «Non vi interessa sapere il prezzo da pagare?»
«Sì, ma so già che sono disposto a pagarlo.» Ribatte deciso, ed il sorriso della donna si fa più largo, più bello perché sincero. Aimé scende con un balzo agile dalla parte del ponte, opposto a quello che era il suo obbiettivo all’inizio della conversazione, e si rende conto di quanto sia minuta Ekaterina: se mentre era seduto erano quasi alla pari, ora la domina dal suo metro e ottanta abbondante.
         «Ottima risposta, mio caro. Una forte convinzione è un ottimo primo passo per diventare un vampiro.»

18 dicembre 1722
Cherson, Khanato di Crimea

Della notte precedente ricorda con precisione alcune cose, mentre altre sono inspiegabilmente nebulose.
         L’ansia di rivedere il fratello le rendeva le dita insensibili più del freddo di dicembre, che nella sua terra sapeva essere assolutamente inclemente, e l’aveva costretta più volte a disfare la stoffa che stava tessendo. Nonostante lo sbattere regolare del telaio le desse un minimo conforto, non riusciva davvero a concentrarsi sul suo lavoro: ogni pochi minuti i pensieri la rapivano e portavano nell’immediato futuro, quando avrebbe potuto rivedere il suo amato Nikandros.
         Sa per certo di averlo visto, il momento preciso in cui hanno bussato alla porta e lei si è precipitata ad aprire: la notte era scura, ed i genitori già addormentati, ma Arabella non si è curata della prudenza ed il gemello era lì, il volto magro ed il corpo temprato dalla guerra, pallido contro lo sfondo nero. Aveva un’energia nervosa, poteva vedere il tacco del costoso stivale in cuoio che indossava strofinare per terra come un cavallo pronto a scalciare.
         Ricorda di essersi agitata quando un altro uomo è entrato nel suo campo visivo, di aver visto con la coda dell’occhio i vecchi lapti³ cadere dalla maniglia in chiaro segno di sventura, le mani gelide di Nikandros sul viso e la sua voce prometterle che sarebbe andato tutto bene, doveva solo fidarsi di lui.
         Poi era stato buio, e doloroso, si era sentita debole come non mai. L’uomo le aveva preso la mano entrando, aveva gesti bruschi e lenti allo stesso tempo, le aveva lasciato un terribile bacio e l’ultimo, confuso pensiero, era stato che anche le sue labbra sulla pelle risultavano incredibilmente fredde.
         Il risveglio porta con sé sensazioni confuse, in un certo senso le pare di aver dormito per giorni e in un altro di aver a stento chiuso gli occhi che bruciano come avesse bisogno di bere. Deve sbattere più volte le palpebre per mettere davvero a fuoco la stanza, e le ci vuole un momento per capire che non la riconosce: è una specie di caverna dalle pareti rozze, nuda pietra decorata solo da lampi di colore rugginoso. Di colpo il suo campo visivo viene occupato da Nikandros, che le impedisce di vedere i dettagli dell’ambiente e si muove ad una velocità tale da darle la nausea.
         «Fai ciò che vuoi, Bella, ma non vomitare.» È una strana preghiera quello che il fratello le rivolge, ma il suo stomaco non se la sente di obbedire: in bocca ha un sapore terribile, qualcosa che non sa davvero identificare ma sa per istinto essere sbagliato, pericoloso.
         Fa per voltarsi, scopre che quello in cui ha riposato è un pagliericcio fresco coperto da un panno incredibilmente ruvido e grezzo, ma Nikandros le tiene con delicata forza il viso in modo che non possa voltarsi e compiere il gesto più istintivo. Le bacia la fronte, e si rende conto di come si sia scaldato mentre la vegliava; le carezza uno zigomo alto e la ragazza si rende conto che non c’è un fuoco, una torcia, ad illuminare l’ambiente- eppure, in qualche modo, nella penombra senza colori la sua vista si fa mano a mano più acuta.
         Delle figure si avvicinano, bianche ed emaciate, bisbigli cattivi che l’altra metà del suo cuore scaccia con un gesto rabbioso del capo. «Mia sorella è forte, ce la farà.» Dice con tono che vorrebbe essere più sicuro di quel che appare, una nota di rabbia che Arabella non gli riconosce come propria nella voce: la guerra, pensa, deve averlo logorato e consumato, ma non tanto da non renderlo riconoscibile tra mille ai suoi occhi. Si china, gli occhi color ghiaccio serrati, posa la fronte contro la sua e i capelli, pur corti, le solleticano la pelle; è una buffa sensazione, sente quasi di poter contare ogni ciocca, ogni filo, con precisione.
         «Non capisco, Nikan. Dove…? Cosa…?» Non sa davvero quale sia la più corretta domanda da porre, ma il moro è suo fratello gemello, la sua anima gemella, e le parole non sono mai davvero state necessarie tra i due. Senza accennare a muoversi, o a guardarla, le parla con tono quieto, non dissimile a quando nella stessa stanza si sussurravano i segreti, sotto le coperte, lontane da tutti gli altri.
         «È solo che devi abituarti, mia cara sorella. Sei qualcosa di nuovo, ora, di migliore, siamo tornati uguali. E lo saremo per sempre, non ci dovremmo separare mai più. Ma solo se riesci a tenere il sangue nello stomaco, se accetti la trasformazione.»
         Quelle parole la spaventano, nelle notti d’inverno ha sentito i saggi e gli anziani parlare di mostri che si nutrono di sangue, attaccando le famiglie a partire dal membro più giovane; non può essere il suo Nikandros però, no, lui non la ferirebbe mai e il suo viso è bello come lo ricordava, senza zanne o istinto d’animale a sfigurarlo. Deve aver intuito il filo dei suoi pensieri, perché lo sente ridere piano, il riverbero che dalle mani si traferisce alle guance di lei.
         «No, no Bella, non siamo upyr⁴, niente affatto. Quelle sono bestie create per spaventare gli sciocchi, mentre noi siamo reali. Gli umani saranno per noi greggi, e le loro leggi non ci sfioreranno più. Chiudi gli occhi, resisti, e potrai bere a sazietà.» C’è un luccichio sinistro nei suoi occhi, di un nero che non riconosce: l’azzurro è quasi scomparso, solo un anello sottilissimo che circonda quelle tenebre, ed Arabella trema appena quando si rende conto di non riuscire a riconoscersi nelle sui iridi come avrebbe fatto un tempo.
         «È orribile, Nikan…» La tristezza insita del tono pare intenerirlo, Nikandros si china e le carezza i capelli; vi passa piano le dita, sciogliendole nodi che nemmeno sapeva di avere. Il gesto è rilassante, l’aiuta un poco a calmarsi e rendersi conto di quanto il suo corpo provi disagio. La gola le pare quasi graffiata, come dopo aver corso troppo a lungo nel gelo secco dell’inverno, e lo stomaco è in subbuglio e pesante; le pare di aver mangiato carne avariata.
         «Lo so, Bella, lo so. Riposa, domani sarai più forte che mai.» Le dice, poi copre il suo intero campo visivo per posarle un bacio sulla fronte. Arabella chiude gli occhi e cade in un sonno agitato.

3 maggio 1821
Brailow, Valacchia

Serafim zoppica avanti ed indietro per la stanza, nonostante l’evidente fatica che il gesto gli provoca.
         Poco distante, seduto su una poltroncina, un ragazzino lo guarda e lascia dondolare i piedi le cui punte riescono solo a sfiorare il pavimento coperto dal tappeto; ha un grande sorriso sul volto pallido, come trovasse l’irritazione del più grande divertente. Posa la testa sulla mano ed i ricci scuri acconciati in modo antiquato gli coprono gli occhi, tuttavia Serafim continua a sentirli su di sé.
         «Rovinerai il tappeto, così.» Lo avverte, la voce che vibra d’ilarità trattenuta a stento, e il ragazzo di volta di scatto per lanciargli un’occhiata di fuoco; ha pesanti occhiaie e i capelli biondi, che nel gesto sono scivolati oltre la spalla, paiono spenti e rovinati come avesse vissuto nei boschi per settimane. In risposta al commento batte un poco più forte il bastone su cui si sorregge mentre cammina, ed Isaïe ride di quella mossa infantile e stizzita compiuta da quello che pare il più grande tra i due.
         «Impaziente?» Chiede, un leggero accento che rende esotico il rumeno con cui gli si rivolge, più dolce persino; la risatina che ne segue suona come un trillo di campane. Scende con un balzello delicato e si avvicina all’altro, poi aggiunge: «Sei uno sciocco bambino guerrafondaio.»
         Se essere apostrofato a quel modo da un moccioso che pare avere nove anni lo infastidisce, non lo dà ulteriormente a vedere. Il ragazzo si volta nella sua direzione, il tappeto che soffoca il rumore secco dei tacchetti, poi impugna il bastone come una spada e sferza un colpo con controllata violenza. Il moretto para come fosse una carezza giocosa, lo ferma con il solo palmo della manina che viene appena spostata dalla forza del legno, poi stringe le dita e quello si spezza con un crepitio sordo.
         I due si guardano fissi, Isaïe che ancora sorride e Serafim sempre più gelido, mentre le schegge e parte del bastone cadono a terra.
         «Manon, chérie…» Il resto delle parole non le capisce, perso in un francese che non conosce. La porta si apre e ne entra una donnina anziana in bianco e nero, china su sé stessa come il solo fatto di restare dritta fosse un peso eccessivo per le sue vecchie ossa. I capelli di neve sono chiusi in una crocchia intricata appena macchiata di rosso vivido, unica nota di colore che si ripete in piccole macchie come fiori sulla guancia destra.
         Il profumo caldo, che una volta avrebbe percepito metallico e disgustoso, si sparge nella stanza e al naso gli arriva invitante e dolce come quello della pasca⁵. Istintivamente si lecca le labbra, fissando come un predatore affamato la vecchina e ciò che porta con sé: una ragazzina magra e vestita di un povero abitino grigio, forse per la cenere che le impolverava anche le gote pallide.
         «È giunto il momento del tuo primo pasto. Non mancherà a nessuno.»
«Sei un sadico figlio di puttana.»
         «Offendi la mia nobile madre, mon petit fauve⁶.» Serafim mostra le zanne a quello sciocco appellativo, canini allungati in modo innaturale pronti a colpire. «La Contessa d'Alvernia era tutt’altro che una prostituta, anzi, ed il suo fascino le valse l’amore di re Carlo VII…»
         Il biondo ha già smesso di ascoltare quello sciocco, Isaïe ha sempre parlato troppo anche prima di rivelargli la sua vera natura, e si volta verso la bambina che pare addormentata. Non gli ha fatto nulla, ma il suo solo profumo risveglia istinti primordiali, e Serafim affonda le zanne nel labbro inferiore sino a sentire il sapore stantio del sangue nero che ormai gli circola in corpo da troppo tempo.
         La donnina si intromette, una cantilena flebile e calma a cui Isaïe risponde con una risata cattiva. Le risponde con tono duro, per poi congedarla con un gesto secco della manina; è bianca e fresca come non avesse appena parato una bastonata.
         La vecchina li lascia senza mai voltarsi, gli occhi bassi, poi chiude la porta con una doppia mandata. Serafim vorrebbe ridere, quella precauzione è inutile tenendo conto del vampiro nella stanza con lui: pur con l’aspetto di un bambino, è perfettamente in grado di bloccarlo. È il suo creatore dopotutto, suo padre, anche se l’idea gli crea un disagio ancor più profondo di ciò che è diventato pur di non morire.
         «Allez, vas-y, mon petit fauve. La tua sete deve essere terribile, non vuoi placarla?» Chiede con voce suadente, l’espressione che si fa appena più soddisfatta quando il ragazzo si volta e lo guarda, finalmente, con interesse. Gli si avvicina e lo prende per mano, portandolo verso la figura della servetta ancora riversa a terra; il piccolo torace si muove appena ed il respiro è debole, segno che comunque non vivrà a lungo.
         «Dovrò farlo spesso?»
L’esitazione nel tono di Serafim ha probabilmente intenerito l’anziano bambino, che gli lascia una carezza sul capo nel momento in cui si china per avvicinarsi alla preda. «No, Séra. Sei un bambino, e se berrai ogni due o tre settimane dovresti riuscire a controllarti e crescere. Forza, il primo pasto è sempre il più difficile, e poi ti porterò dalla mia adorata.»
         «La sete è orribile.» Dice solo il biondo, forse a nessuno, poi affonda le zanne nel polso della ragazzina e si sorprende di come il sangue risulti dolce sulla lingua.
         «Lo so. E sarà sempre peggio.»

21 Marzo 2036
Glasglow, Scozia

Villa Schwartz non è il suo nome ufficiale, anzi, Alyssa è discretamente sicura che i pochi che sanno della sua presenza non la nomino affatto. La casa si erge sicura e allo stesso tempo fragile, tre piani buttati quasi per sbaglio nel mezzo dei più brulli ed aridi campi della Scozia, pareti che si reggono assieme grazie alle piante che vi sono cresciute addosso.
         Vi si arriva solo attraverso stradine sterrate che le macchine faticano a percorrere, un ulteriore motivo che la rende tanto sicura: la giovane sente le scarpe pesanti e appiccicose per il fango che ha creato uno spesso strato sotto le suole delle scarpe da ginnastica, ma il pensiero di essere quasi arrivata la convince ad affrettare il passo mentre si stringe nel cappotto scuro.
         L’aria è fredda ed umida, ma il suo corpo ormai non produce più il calore necessario a creare nuvolette di vapore candido davanti al viso; è solo uno dei numerosi cambiamenti di cui si è resa conto nel corso dell’ultimo anno, assieme alla pelle che si è fatta diafana non per la mancanza di sangue come avrebbe potuto pensare, ma perché il sole le è ormai nemico. I primi raggi iniziano a carezzare l’orizzonte, illuminando la nebbia perlacea che la circonda di un tenerissimo lilla, ma ormai è arrivata al cancello, mezzo distrutto e mezzo ruggine, lo passa agilmente e una figura nera alla sua destra la accoglie con un miagolio stridulo.
         Non è da lei tutto quel pensiero poetico, quei paragoni complessi, e si trova a sorridere pensando a quanto la sua nuova famiglia la stia influenzando nelle piccole cose.
         «Mi aspettavi, Marie? Forza piccola, su su, a casa.» Dice, e la micetta le si avvicina e si alza sulle zampe posteriori per ricevere un rapido grattino dietro le orecchie prima di trotterellare, come un corteo che annuncia la sua presenza. Spettrale, sulla soglia divelta vede una figura d’altri tempi: quando alza una mano per salutarla quella china il capo. Nonostante la luce sia ormai abbastanza forte da costringerla a strizzare gli occhi e annebbiarle la vista, è certa le abbia rivolto un sorriso appena accennato tale da ingentilire il viso i cui tratti duri e ben cesellati rivelano una chiara origine centro europea. Abigail scompare oltre lo stipite in uno svolazzo di capelli castani e gonna da cameriera.
         «Sono a casa.» Sussurra Alyssa, e l’unica risposta sono i passi leggerissimi di Marie che la segue all’interno della villa. Cammina piano lentamente sul pavimento polveroso, il familiare odore di umido e muffa che le colpisce il naso per un solo secondo prima che possa ricordare come ormai possa fare a meno di quei vezzi umani: trattiene il fiato attraverso l’ampio atrio, si volta a destra verso un corridoio tetro che si snoda in quello che una volta avrebbe considerato solo buio pesto.
         Le pareti sono coperte più da graffiti che da carta da parati ormai, nei primi giorni della sua trasformazione ha passato lunghe ore a studiare le varie scritte fatte da ragazzini annoiati: da quelle in cui si insultavano a vicenda, corrette più volte da grafie diverse, a fantasiose quanto offensive canzoncine che le ricordavano l’adolescenza, perché alla fine i ragazzi sono uguali in ogni generazione. Sfiora con le dita lunghe un particolare disegnino che la fa sempre ridere, un gattino stilizzato coi denti da vampiro, e si avvia verso l’unica porta chiusa che lascia intravedere una tremula lama di luce sotto di essa.
         Mano a mano che si avvicina intorno ad Alyssa si fa più pulito: ogni passo come un sogno riporta il maniero al suo antico splendore, abitato e curato, non edificio ma casa. Marie si ferma, il pelo ritto, soffia piano e passa oltre in una buffa cavalcata: la donna riprende a respirare, e l’odore ferroso che ha indispettito la micetta la avvolge provocandole un disgustoso spasmo di desiderio alla bocca dello stomaco. Bussa piano ed una vocina gentile e vagamente assonnata la invita ad entrare.
         «Sei arrivata in tempo per la cena, Alyssa cara.» La accoglie una ragazzina, seduta di fronte ad un tavolo apparecchiato per tre. Indossa una graziosa camicia da notte con le maniche a campana, un colore stranamente scuro per un abito del genere che lo face sembrare quasi un bizzarro vestito da sera. I capelli castani sono sciolti oltre le spalle, Abigail ci sta passando con delicatezza un pettine, le ciocche perfettamente lisce e lucide che prendono i bagliori più caldi del fuoco basso che illumina la stanza. Nonostante una griglia forata ne controlli la luce, Alyssa si ritrova a chinare il capo.
         «Buonasera Rachel. Abigail.» La nuova venuta le saluta con un cenno. «No, grazie. Ho… ho cenato al lavoro.» L’esitazione nella sua voce è evidente, ma le due giovani donne vi passano sopra con la consueta eleganza che le contraddistingue. Rachel, la più giovane delle due, allunga una mano e prende tra le dita bianche una tazza di porcellana. Quando il liquido le bagna la bocca risulta rosso intenso, troppo denso per essere tea.
         «Tesoro caro, dovresti evitare il cibo umano. Non ti serve più a nulla.» Abigail ha un tono gentile, non alza gli occhi dal suo lavoro meticoloso. Sta intrecciando i capelli di Rachel, e le due si somigliano così tanto che paiono la stessa persona con una sola decina d’anni di differenza.
         «Anche il sangue dell’ospedale non va bene. Non so cosa ci facciate, ha un sapore disgustoso però, e tu sei malnutrita… i tuoi occhi brillano molto meno.» La vampira posa di nuovo la tazzina sul tavolo, poi si lecca le labbra che tuttavia rimangono di un colore intenso rispetto alle guance d’alabastro, ricordando ad Alyssa Biancaneve. «Non ti ricorda Fraulain Kaia? Almeno prima che ci mettesse le mani Isaïe.»
         «Kaia è bionda e alta forse un metro e mezzo, la nostra bambina è decisamente più graziosa.»
«Kaia è stata affamata per tutta la vita, per questo il paragone.» Rachel, che aveva alzato gli occhi di carbone sulla sorella, torna a guardare Alyssa e le sorride con aria gentile. «Scusa, immagino sia noioso per te ascoltare i discorsi di queste vecchine. Siediti pure cara, non ti forzeremo a mangiare.»
         La donna fa quanto richiesto, scuotendo il capo con un gesto che cerca di dissimulare l’imbarazzo. Abigail, che ha intrecciato i capelli di Rachel, la imita e le tre si trovano ai vertici di un bizzarro triangolo. Con gesto quieto allungano un piattino di tramezzini nella sua direzione, ed Alyssa ringrazia.
         «Mi piace sentirvi così di buon umore, è familiare.» Precisa, ma non può impedirsi di prendere una ciocca castana che le è scivolata sul volto ed osservarla assorta: il colore è spento, in effetti, vagamente cinerino, e nota un paio di doppie punte di troppo. «Comunque sto benissimo, il sangue dell’ospedale è diviso nelle sue componenti ma mi assicuro di ricomporlo prima di berlo.»
         «E non senti mai il desiderio di sangue fresco? Sei un chirurgo, a contatto ogni giorno…»
«No.» La risposta di Alyssa è troppo rapida, segno evidente che sta mentendo. Le due vampire la guardano poi, con l’eleganza che le contraddistingue, annuiscono e si portano la tazzina alle labbra. Alla mora non sfugge come i gesti, in perfetto sincrono, siano segno evidente che preferiscono lasciar cadere il discorso che tartassarla ulteriormente.

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Capitolo 3
*** Vischio ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Vischio
Personaggi: Morpheus Merlin Adinson; Daphne Nabizada; Cordelia Nott.
Bonus: Rén Chonglin; Margrethe Rosaline Lindgren.
Rating: Verde
Coppia: Fem!Slash; Het
Note: Slice of Life | Comico | Romantico | 454+284 parole
Alla fine, nonostante le preferenze di gruppo, ho deciso che il calendario si farà su Wonderland!
Non avendo ancora un capitolo, mi sarei messa in difficoltà e vi avrei fatto spoiler sulle relazioni, perciò ho deciso di usare questi capitoli per approfondire dei personaggi che in teoria dovreste già conoscere. A meno che non sia diversamente specificato, si svolgeranno tutti nel mese di dicembre 2040 e verranno pubblicati nei giorni dispari. In ogni capitolo inserirò il prompt successivo, eccetto per chi mi segue su instagram che già li conosce e ha avuto occasione di prenotarsi in anticipo.
Il capitolo di sabato ha prompt “fairylight”! Proponete pure.
Questo, invece, ha un prompt un pochino lungo: “A ha messo vischio ovunque per baciare B, ma si trova sotto con C”. Qualcuno ha indovinato il trio delle meraviglie come protagonista, ma non esattamente i ruoli~
Vi lascio al capitolino per scoprire chi bacia chi alla fine.


Il sospiro affatto mascherato di Morpheus, che le osserva lavorare come fossero due casi senza speranza, le procura un vago fastidio. Daphne si erige in tutto il suo metro e sessanta coi pugni chiusi sui fianchi e gli lancia un’occhiata di fuoco.
         «Potresti aiutarci, sai? Il nostro è un nobile obbiettivo!» Lo rimbecca, e vederlo annuire con aria accondiscendete non fa che indispettirla ulteriormente. Per fortuna Cordelia è presente, le posa con aria gentile una mano sul braccio e le porge un rametto di agrifoglio dalle bacche rosse e lucide.
         «Il signor Chonglin dice che si prendono più mosche con il miele che con l’aceto, Daphni.» Le ricorda, poi si volta e allunga la medesima pianta verso il ragazzo. «Puoi aiutarci, per favore? Di sicuro arrivi più facilmente di noi a certi punti.»
         Morpheus lo prende, attento a non pungersi con le foglie, poi scuote piano la testa. «Va bene, ma non credo la signorina Margrethe bacerà una delle due solo per una tradizione. Inizio a pensare sia etero.»
         Le due ragazze a quell’affermazione si voltano, lo squadrano qualche secondo e Daphne scoppia a ridere; anche Cordelia, seppur contenuta e posata, non può impedirsi un sorrisino divertito mentre si liscia una ciocca color oro già perfettamente ordinata. Morpheus si limita ad alzare gli occhi e mordersi la lingua, consapevole di quanto poco plausibili suonino le sue parole davanti all’idea di gelida donna, alta e dai capelli corti, che pare nata per rappresentare lo stereotipo in cui le amiche falliscono con tanta costanza e dedizione.
         «Okay, forse etero è un po’ esagerato. Diciamo… bisessuale?» Concede, un vago sorriso che le amiche non mancano mai di riuscire a farle spuntare nonostante il comportamento di solito serio e riservato. L’espressione di sobria contentezza muta in inquieta quando le due ragazze si lanciano un’occhiata: normalmente lui e Cordelia sono voci della ragione che riescono a contenere la natura più spericolata di Daphne, ma quando questa trascina la bionda nelle sue bravate il ragazzo non può che tremare.
         «Morphe…» Lo chiama la mora, avvicinandosi con le spalle abbassate come stesse per attaccare. Distratto dall’evidente minaccia, troppo tardi si rende conto di Cordelia che si è spostata alle sue spalle e gli getta le braccia al collo: Morpheus sobbalza, ma complice l’aiuto di Daphne liberarsi dalle due è impossibile, e si trova invaso su due fronti.
         «Ehi… ferme, ferme! Avete un lavoro da fare…»
«Sei esattamente sotto il vischio!»
         «E poi Delia ha avuto un’idea geniale, questi sono solo specchietti per le allodole…»
Il suono delle proteste di Morpheus, unito alle risa delle ragazze che si alternano nel baciargli le guance, è un suono non poi così inconsueto nei corridoi del castello: nessuno se ne sorprende, né cerca di fermarli.

Margrethe ha le braccia incrociate ma una postura rilassata, posata contro il muro osserva il terzetto con espressione serena. Rén le si avvina, gli occhi puntati nella sua stessa direzione.
         «Sembri tranquilla per una a cui vogliono rubare un bacio.» La saluta, il tono basso e gentile. Margrethe alza un sopracciglio, poi indica le piantine di agrifoglio sparse in ogni angolo. Un braccialetto di piccole pietre lucide le brilla sul polso, una nota colorata ed infantile che pare del tutto fuori contesto sulla donna.
         «Mi basta evitare di passarci sotto, e mi piace vederli così allegri. È bello possano vivere la loro età.» Commenta, poi si volta a guardarlo. Indossa un maglione verde pino evidentemente fatto a maglia, appena stretto sulle spalle ma con le maniche troppo lunghe, gli arrivano a coprire i palmi; eppure gli sta bene. Il ragazzo si apre ad un sorriso, poi indica con un cenno del capo il quadro alle loro spalle.
         «Sono più astuti di quel che credi.»
Margrethe segue il suo gesto ed una signora corpulenta le sventola allegramente davanti un rametto di vischio dalla cornice del quadro in cui è iscritta. Ha un’espressione estremamente divertita mentre esclama: «La signorina Nott si è accordata con tutti, cara!»
         «Non abbastanza, forse.» Con un unico movimento fluido scivola sui tacchi verso il ragazzo, si alza appena e gli schiocca un bacio sulla guancia, pericolosamente vicino alle labbra. Al suo sguardo sorpreso risponde con una scrollata di spalle. «Ti sei avvicinato sotto il vischio, potevi immaginarlo. Grazie per l’avvertimento, comunque!»
         Prima che possa davvero aggiungere altro, la bionda si allontana e lo lascia lì, sordo ai commenti della signora che ha iniziato a blaterare di gossip e amiche da avvertire.

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Capitolo 4
*** Fairylights ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Fairylights
Personaggi: Hecate Medea Adinson; Jared Fernsby.
Rating: Verde
Coppia: //
Note: Slice of Life | 435 parole
Per questo secondo capitolo mi erano state fatte due proposte, una era Alcippe ma ho intenzione di inserirla più avanti, l’altra era la piccola Hecate assieme ad Isaac. Siccome evidentemente io chiedo ma poi elaboro in modo diverso, ho deciso di dargli un supporto diverso stavolta: il suo rapporto con il maestro verrà ampiamente approfondito in canon, mentre come abbiamo visto nell’ultimo capitolo di Wonderland è ben capace di entrare in sintonia coi prigionieri, e volevo sottolineare questo suo lato.
Sono estremamente in ritardo quindi vi lascio direttamente le richieste per il nove, il cui prompt è “cosplay di natale” e non ho assolutamente idea di a chi assegnarlo.
Buona lettura.


«Tu sembri normale.»
         Spera di non averlo offeso, si rende conto delle implicazioni delle sue parole nel momento stesso in cui le sente vibrare nell’aria fredda tra di loro. Hecate abbassa lo sguardo, ma il prigioniero risponde solo con una risata stanca.
         «Tu no, invece. Tu sembri una ragazzina triste.» È uno strano commento, perché la loro situazione è tutt’altro che felice. Isaac è uscito con il signor Hyde, lasciandoli soli nella stanza degli interrogatori. Le ha promesso che sarebbe stata al sicuro, l’uomo è incatenato ad un muro e ha un aspetto così deperito da farle dubitare possa essere una minaccia anche da libero. La ragazzina si dimena piano sulla sedia, incapace di mascherare del tutto il disagio. «Vuoi vedere una cosa che ti renderà meno triste, ragazzina?»
         Hecate scuote la testa, sfortunatamente abituata alla cattiveria spesso non del tutto giustificata dei prigionieri, ma ancora non osa alzare lo sguardo da terra. Il pavimento della stanza è grigio, non saprebbe dire se di cemento o direttamente pietra, lo esamina come potesse perdercisi dentro e il silenzio si protrae. Ci vuole forse un minuto perché l’uomo sospiri.
         «Mi chiamo Jared.» Dice, ed è strano saperlo. «I numeri della cella sono impersonali ed io sono una persona, sai? Anche se loro dicono che sono una fata. Però ho imparato un piccolo trucco, dai, reggimi il gioco ragazzina triste.»
         Hecate sente il rumore tintinnante delle catene che si scontrano, acuto e pericoloso, e riesce appena ad alzare il viso che graziose lucine bianche e rosa iniziano a danzare attorno all’uomo, disegnando ombre marcate che rendono il suo viso affilato ancor più marcato, scavato. Sembra costargli una certa fatica, perché il suo respiro si fa presto rapido e dopo poco le lucine si affievoliscono, sfarfallano e si spengono. La ragazzina sbatte le palpebre, allungando una mano verso il punto in cui poco prima brillava una scintilla color fragola.
         «Cos’era?»
«L’unica cosa che so fare, lo chiamano faerie fire, ma non brucia come il fuoco. Sono più… fairy lights.» Dice sorridendo, espressione che si fa pallida e spaventata quando gli occhi si concentrano su un punto alle sue palle. Hecate si gira, Isaac e il signor Hyde hanno lo stesso atteggiamento rilassato, ma nel caso del secondo gli occhi chiusi e il sorriso sornione le mettono i brividi; deve averlo pensato anche Jared, che si ritira verso la parete alla quale è incatenato.
         «Vieni qui, Maddy. Piano, per noi è il caso di uscire.» La invita il biondo, porgendole gentilmente una mano, ed Hecate getta solo un’occhiata al suo nuovo amico prima di seguire il suo maestro al sicuro.

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Capitolo 5
*** Peluche ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Peluche
Personaggi: Cesare Novak; Sophie Nerissa Goyle; Alcippe Danae Karpusi; Madeline Grace Combs;
Rating: Verde
Coppia: //
Note: Slice of Life | 489 parole
Per questo capitolo avevo zero idee, Hecate ha avuto il precedente ed Alyssa avrà uno dei prossimi, perciò help? Per fortuna mi è stata data l’idea di Cesarino, perché altrimenti le cose si sarebbero fatte molto più dark.
Lo vogliamo, ma magari non per natale, eh?
Ricordo che il prossimo è “cosplay di natale” ed io ho ancora zero opzioni.
Buona lettura.


Sophie, pur sgraziata come sempre, gli saltella attorno e stringe tra le braccia un peluche a forma di coniglietto. Cesare ha quasi paura per le cuciture, nonostante si fidi abbastanza dell’operato di Serafim e Cordelia: a soli otto anni è probabilmente la più forte dell’esiguo gruppo di bimbi che vive al castello, e gli spiacerebbe che il nuovo giocattolo si rompesse così presto, specie vista la palese gioia che le ha procurato riceverlo.
         È una brava bambina dopotutto, si è offerta subito di aiutarlo a portare i pupazzi agli altri quando i suoi compagni si sono dileguati- l’uno mosso da assoluto disgusto, l’altra rapita da compiti più importanti. Gli occhietti scuri le si sono illuminati di pura gioia quando il maestro le ha detto che l’ultima tappa era la foresta dove vivono le fate, ed ora lo segue due passi indietro per non perdersi nemmeno un cespuglio innevato o un’orma nel terreno.
         «Alt! Identificatevi!» La voce di donna è fredda, ma il timbro rivela una giovane età: mentre Sophie si irrigidisce Cesare muove l’unica ala d’oro con aria rilassata e alza il viso: appollaiata su un ramo, nascosta in penombra, solo un accenno di rosa tradisce la presenza di una sentinella.
         «Sono io, Gracie. Dai, scendi.»
«Io non è autorizzato a passare.»
         Il moro sospira, poi alza un altro peluche, questo a forma di orsacchiotto; l’ombra rosa si muove, probabilmente per osservarlo meglio, e l’halfling deve impedirsi di ridere; lasciare il compito di guardia ad una ragazzina scontrosa indica quanto si sentano al sicuro i suoi vecchi compagni, e l’idea lo rassicura a sua volta.
         «Va bene, Cesare Novak, sei stato autorizzato.» Dice alla fine, poi dopo una piccola pausa aggiunge. «Ma l’estraneo non può portare l’oggetto non identificato all’interno del campo.»
         Sophie nasconde il coniglietto dietro la schiena, probabilmente già pronta a una sonora protesta, e l’idea di dover separare due ragazzine che si picchiano si è già concretizzata nella mente del ragazzo quando una seconda voce femminile, appena più matura e decisamente meno aspra, calma gli animi.
         «Non è carino togliere i giochi agli altri, Madeline. Falli entrare, sono Cesare ed una bambina del castello.» Alcippe compare da dietro un tronco largo due volte lei, l’arco in mano e un’espressione vagamente a disagio. Madeline si ritira, nemmeno più il rosa dei suoi abiti visibile, e Cesare si avvicina all’amica con un sorriso largo.
         «Siamo venuti a portare i regali per i bimbi! Tieni, puoi avere anche tu un orsetto. E questo per Gracie.» Aggiunge, porgendole due con un simile pattern a patchwork. Alcippe li guarda e alza un sopracciglio, quindi continua: «Sono fatti con gli scampoli della signora Thorburn, la sarta!»
         «Capisco, e ti ringrazio. Ringraziamo.» Alcippe scuote le spalle, quindi prende i due orsetti con una mano mentre con l’altra si sistema una treccia castana. Lancia un’occhiata ai due, e agli altri peluches che portano con loro. «Venite pure, anche se non abbiamo così tanti bambini.»

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Capitolo 6
*** Cosplay di natale ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Cosplay di natale
Personaggi: Beatrix Moonshade; Sorpresa;
Rating: Giallo
Coppia: //
Note: Slice of Life | Soprannaturale | 594 parole
Non ho nulla da dire se non... quanto ne sapete delle Banshee? E riconoscete tutti i personaggi nello spettacolo?
Buona lettura.


Anche se il completo rosso che indossa è più leggero di quello dei suoi colleghi, con la giacca in ciniglia leggera e le calze velate verdi, Beatrix ha comunque caldo.
         Le luci del palco le procurano minuscole gocce di sudore alla base della nuca, e nemmeno il breve sollievo dei capelli bianche che svolazzano ai suoi gesti ampi può molto per mitigare la cosa; l’unica nota positiva è che le sue guance in questo modo prendono una salutare sfumatura rosea che si sposa perfettamente col costume natalizio che segue il tema di tutti gli spettacoli di dicembre, e che i bambini adorano.
         «E per il prossimo numero… no, non sono ancora capace di estrarre tutto Rudolph dal mio cilindro, ci stiamo lavorando per il prossimo anno!» Esclama, e si concede una piccola pausa per assaporare le risate del pubblico. Mostra l’interno del cilindro rosso per dar la prova che sia vuoto, poi continua: «Però i coniglietti non sono molto natalizi…»
         Il primo bastoncino di zucchero viene accolto con estrema gioia e sorpresa, specie quando si avvicina e lo porge ad un ragazzino bizzarro in prima fila: gli sorride con denti bianchissimi, e al tocco le sue mani risultano gelide. Beatrix non si fa intimidire, continua lo spettacolo facendo comparire sempre più caramelle: nascoste nelle maniche, nel doppio fondo del cilindro, tra le decorazioni prese mentre cammina e distrae il pubblico.
         La bimba con le codine nere accanto a quella che è troppo giovane per essere la madre e troppo vecchia per essere la sorella, ma le somiglia tanto da non poter escludere una parentela, la coppia col biondino rigidissimo e il ragazzo dalla pelle scura che gli tiene la mano; sono anche loro davanti, la coppietta è accanto al ragazzino inquietante e sembrano conoscersi. Si sono mossi pochissimo, quasi fossero statue, e anche quando cerca di coinvolgerli hanno solo sorrisi sereni e un cenno di diniego, cosa che porta Beatrix a continuare ad invitarli a prendere un ruolo più attivo.
         la ragazza con gli occhi tristi e la camicia nera seduta scompostamente accanto ad un ragazzo più giovane ed alto di lei coi ricci corti e castani, evidentemente irritato dal modo in cui invade continuamente il suo spazio, il ragazzo biondo che è arrivato a metà spettacolo e continua a guardare nervosamente il telefono; sono appena più indietro, quando lancia loro le caramelle la ragazza si sistema i capelli rossi e regala le sue ai due. Beatrix quasi spera possano fare amicizia, entrare soli nel circo e uscirne insieme sarebbe bellissimo, anche perché il suo occhio esperto le dice che sono stati lasciati da poco da qualcuno che amavano.
         In ultima fila, dove le luci arrivano a stento, un uomo che riconosce, il sorriso gentile e familiare di un padre. Un dolcetto per ognuno, attirano il suo sguardo con il loro disinteresse per lo spettacolo, come fossero gli unici volti che riesce a vedere in un mare di maschere grigie. Quel sorriso lontano la colpisce, non credeva lo avrebbe visto mai più.
         Nel momento in cui formula quel pensiero si sente strana, pesante: capisce di star sognando nel momento in cui apre gli occhi e si trova seduta sul letto; le uniche, nette impressioni rimaste sono il sudore che le inumidisce gelido la nuca e un vago disagio.
         «Beatrix, sei ancora a letto?» Un bussare leggero sulla porta della sua roulotte, la ragazza scatta a sedere e nella penombra il suo costume di natale coi bordi bianchi e le paillettes rosse è una delle poche cose che si notano.
         «Sì, cioè, no… arrivo subito!»

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Capitolo 7
*** Camino ***


Titolo: Attraverso lo specchio
Titolo del capitolo: Camino (raccogliersi nella stessa stanza)
Personaggi: Rén Chonglin; Margrethe Rosaline Lindgren;
Rating: Verde
Coppia: //
Note: Slice of Life | 491 parole
Questa è derivata da una tradizione dei paesi del nord, onestamente non ricordo se Norvegia o Islanda. Spero Norvegia perché sarebbe la tradizione di Grethe, se qualcuno lo sa per favore mi dica. Grazie~
Comunque, si tratta dello stare nella stessa stanza (quella normalmente più calda) e farsi i fatti propri. Può sembrare strano per la nostra cultura, ma pensate all’intimità di poter fare qualcosa vicino a qualcuno senza che il silenzio sembri pensante.
Buona lettura.


Il legno della porta è pesante, mani delicate lo sfiorano appena producendo un suono leggero e sordo, seguito da uno più udibile quando nel ritirare la mano viene colpito dalle unghie. Margrethe sorride, si sistema una ciocca di capelli corti dietro l’orecchio, e con calma si alza dalla posizione raccolta in cui stava per andare ad aprire.
         Trovarsi davanti Rén non è una sorpresa, fosse stato qualcun altro probabilmente non si sarebbe neanche data la pena di muoversi in quella serata in cui avrebbe preferito solitudine e silenzio; d’altra parte sa che l’uomo è tranquillo e non la infastidirà con un’allegria forzata. Senza dire nulla si scosta, per permettergli di entrare nella stanza.
         «Buonasera. Stai ancora lavorando?» È una domanda di cortesia, il letto è cosparso di libri e le pile di cartocci ordinatamente impilati sulla scrivania si sono notevolmente abbassate per finire in buona parte nel caminetto accesso e scoppiettante. Margrethe gli rivolge un sorriso stanco.
         «Trovare dei buoni nuclei è sempre più difficile. Anche se le pattuglie raccolgono ciò che possono, non ho il tempo di analizzarlo abbastanza in fretta.» Indica con un gesto un secchio di cenere accanto al camino, poi scuote la testa. «Vi sono grata, comunque.» Aggiunge con un tono gentile che raramente concede.
         «Anche noi lo siamo. Avere delle vere bacchette, fatte apposta per noi, è decisamente di aiuto.» Rén le si avvicina, poi le porge il palmo aperto. La donna lo guarda confusa per un istante, poi posa la mano sulla sua. Qualcosa di duro le sfiora la pelle, caldo come metallo che è stato tenuto vicino al corpo, e sente le guance scaldarsi appena: prende il fermaglio e se lo mette senza nemmeno guardarlo, gli occhi azzurrini che si rifiutano di incontrare quelli castani dell’altro.
         «Ho pensato potesse piacerti, visto che ti fermi spesso a guardare le stoffe della signora Thorburn ma non le chiedi mai nulla.» Commenta, sorvolando con estrema signorilità sull’evidente incomprensione appena consumatasi. Margrethe si avvicina al focolare, seguendo il contorno del piccolo oggetto con le dita, mentre Rén continua: «Ah, anche io devo finire del lavoro.»
         È diventata una piacevole abitudine sedersi nella stanza dell’uno o dell’altra e svolgere ognuno i propri compiti, un sintomo di solida amicizia che probabilmente ha frainteso dato il carattere galante di Rén.
         «Grazie. Adesso… beh, ti faccio posto.»
«Non serve, davvero.» Si avvicina alla solita sedia, accanto alla scrivania sgombra, agile nonostante la stazza. Margrethe non si è resa conto di aver lasciato quello che ormai identifica come il suo posto libero; si gira e torna sul letto, incrocia le gambe sul materasso duro e si passa le dita tra i capelli che si stanno arricciando sempre di più.
         «Va bene. È per la riunione di domani? Se ti serve una mano, dimmi pure.» Finalmente Rén le dà le spalle, può tornare a guardarlo senza troppo imbarazzo, i lunghi e perfettamente lisci capelli color cioccolato che quasi gli invidia.
         «Non preoccuparti, ma grazie.»

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