Viaggio nel passato

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1.
L'inverno moriva, assai dolcemente.  Il giorno dopo sarebbe cominciata la primavera.  Era il 20 marzo 1807.
Da quanto tempo non tornava davanti a quel cancello, da quanto non rivedeva le architetture severe ed eleganti di quel palazzo? Quindici, diciassette, no, diciannove anni; e da più di quindici non metteva piede in Francia. Eppure, per molto tempo, quel palazzo era stato il luogo che più facilmente associava all'idea di "casa", nonostante la sua bella dimora alle porte di Parigi, dove lo aspettava sempre il suo affezionato precettore, Gustavsson, che per lui aveva avuto l'affetto e le premure di un padre, nonostante i suoi frequenti ritorni a Stoccolma, nonostante i frequenti, lunghi soggiorni nella casa della sorella Sophie, con cui poter parlare la sua lingua materna, e, soprattutto, con cui condividere i ricordi di famiglia. Inutile: per il conte di Fersen "casa" era Palazzo Jarjayes, e per molto tempo Oscar era stata la persona che avesse sentito più vicino a sé, che più aveva ammirato, e che, insieme con André, aveva portato qualche sprazzo di corrispondenza umana, distensione, amicizia, in anni in cui i pochi, esaltanti momenti con Maria erano stati come isole luminose in un lago grigio di dolore e maldicenze della corte, dolore e squallidi pettegolezzi che rimbalzavano per le vie di Parigi, immortalati in volgari pamphlet dalle illustrazioni sconce, per non dire pesantemente pornografiche.
Perché lui era lo straniero, l'uomo che era arrivato da una terra semiselvaggia a corrompere la già corrotta regina venuta dall'Austria. Due stranieri che si amavano in quel teatrino di cartapesta laccata d'oro che era Versailles, fra una miriade di visi malevoli, di cortigiani invidiosi, che avrebbero voluto essere al suo posto nel cuore della regina, e per questo pronti a disprezzarlo, e di contesse e baronesse invidiose dell'adorazione che lui dedicava a Maria, perché nessuno le aveva mai guardate con gli occhi di un uomo veramente innamorato.
Fersen ricordò una sera, poco prima della decisione di imbarcarsi per l'America; era capitato a Palazzo Jarjayes una mattina, quando, dopo una notte di sogni tormentosi, si era messo a cavallo senza quasi sapere dove andare; Oscar e André l'avevano accolto con la consueta, elegante semplicità, e dopo tutta una giornata trascorsa in un triplice torneo improvvisato con la sciabola, - neanche a dirlo, Oscar ne era uscita vincitrice - erano andati a bere a Parigi. Veramente, André, sempre premuroso, gli aveva prestato una delle sue marsine, perché, lo sapeva bene, come non lo ignorava nemmeno Fersen, il conte venuto dalla Svezia stava diventando famoso, anzi, sconciamente famigerato tra il popolo.
            Poi, in quella taverna, gli era capitato fra le mani, dimenticato da chi sa chi proprio al tavolo dove avevano preso posto, un libriccino dalla copertina sudicia, che il suo cattivo genio gli aveva fatto aprire. "Gli scandalosi amori di Maria Antonietta e del conte di Fersen", si intitolava. Nientemeno. Sapeva che quella stampa volgare circolava, e con successo, pescando nel torbido e provando a imbrattare tutto quel che di buono e di profondo c'era nel suo, nel loro sentimento. Mentre sfogliava le pagine, in silenzio, una lacrima gli era corsa lungo la guancia, ed era caduta sulla carta di pessima qualità, sporca per essere passata per le mani di troppe persone, e sporca prima ancora per la volgarità che diffondeva. Aveva sentito un tocco sulla mano e aveva sollevato gli occhi, incrociando quelli azzurrissimi di Oscar, che sedeva alla sua destra, e che gli faceva cenno di chiudere quel libro e di non affliggersi.
 
Quanto tempo era passato da allora? Quasi un'intera vita.
Poi, era tornato dall'America: e tutto era ricominciato. E peggiorato, se possibile: aveva perso anche la sola persona che gli fosse amica, e si era sentito ancora più solo.
Dopo quella sera di fine inverno, credeva che non avrebbe mai più rivisto Oscar, e così era stato, per qualche mese. Aveva persino apprezzato la decisione con cui aveva lasciato il comando della Guardia Reale. Decisa come sempre, netta come sempre. L'aveva però incontrata una volta sola, molte settimane dopo quella notte di fine inverno, ed era una donna diversa. Nonostante la circostanza drammatica e il rischio enorme che avevano corso, aveva gioito per lei, stupito, ma felice, che almeno lei avesse trovato una grande gioia in mezzo a quel mondo che stava cadendo a pezzi, impazzito.
Adesso era tornato. Si era annunciato con un semplice biglietto, indirizzato, semplicemente, ad André Grandier, presso Palazzo Jarjayes: era arrivato a Parigi da due giorni, e gli sarebbe piaciuto trascorrere una serata con l'amico di gioventù, in memoria dei vecchi tempi.
La risposta, in una grafia femminile fitta e sottile, era stata concisa, lapidaria: "Madame la marquise Clothilde de Marivaux née de Jarjays e Monsieur André Grandier hanno il piacere di invitare il conte Hans Haxel di Fersen a cena la sera del 20 marzo".

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Capitolo 2
*** 2 ***


2.
André lo aspettava davanti alla carrozza: non sembrava cambiato, nonostante ormai avesse superato i cinquant'anni; la figura sempre diritta, le spalle ampie e solide, la camicia bianca dal colletto slacciato sotto la redingote scura; solo un solco profondo ai lati della bocca dichiarava che non era più il giovane uomo che portava la cassetta delle pistole a Oscar, quella sera, al tramonto; ma la voce profonda e gentile, mentre veniva verso di lui per stringergli la mano, era sempre la stessa, e lo stesso era il sorriso che aveva imparato a conoscere tanti anni prima, solo un po' più velato e malinconico.
"Fersen! Quanto tempo!"

"André! Che piacere! Credevo che non ci saremmo rivisti più!"
 
"Entrate, vi prego..".
 
Erano ancora davanti all'ingresso, quando un cavallo arrivò al galoppo. Mentre si avvicinava, e si precisava il bianco del manto dello stallone impetuoso, e il biondo dei capelli del cavaliere, a Fersen corse un brivido lungo la schiena. Poi, il cavallo si fermò a poca distanza da loro, e il cuore di Fersen si fermò per un istante, quando la ragazza, bionda, slanciata e atletica, con gli ultimi raggi del sole a illuminarle la faccia e a confonderle i lineamenti, smontò con un movimento elastico, e con tono entusiasta si rivolse ad André: "Zio, Germanico è stato davvero il miglior acquisto delle nostre scuderie da molto tempo a questa parte. È un piacere montarl...oh! Ma abbiamo visite!", si riscosse, e piantò in faccia a Fersen due occhi nerissimi, tendendogli la mano con un gesto franco.
Mentre lo stalliere interveniva a reggere le briglie, per portare il cavallo alle scuderie, Fersen rispose, con una stretta altrettanto franca, al gesto della ragazza.
La stretta di lei era energica, vigorosa, in barba a ogni galateo; intanto, Fersen la scrutava, ridimensionando lo stupore che per un attimo gli aveva fatto rivedere Oscar al galoppo su César.
"Françoise Athénaïs de Jarjayes-Marivaux, per servirvi, Monsieur ...", si presentò la ragazza, stringendogli la mano.
"Fersen. Hans Axel conte di Fersen", disse lui di rimando, osservando i suoi capelli biondo cenere, la sua figura alta e longilinea, ma con un seno generoso che tendeva la giacca da amazzone rossa dal collo bordato di velluto nero che le segnava vezzosamente la vita sottile, il piccolo neo sopra il labbro superiore, e la bocca carnosa atteggiata a un sorriso vivace e aperto.
"FIIIIIIII", la ragazza si produsse in un fischio smorzato, con espressione stupita. "Quel Fersen? Accidenti!", e lo squadrò con i suoi occhi indagatori e diretti, stavolta con uno sguardo stupito, e un movimento all'indietro del capo, secco e repentino, come se cercasse di riscuotersi da una visione tanto imprevista da renderla incredula.
"Françoise, se tua madre fosse qui....", le suggerì con la sua voce pacata e profonda André.
"Ho capito, ho capito, zio André, lo so", rispose lei con tono annoiato, occhi chiusi e mani levate, lo staffile ancora nella destra, e la sinistra a roteare nell'aria, come se quell'ammonimento non fosse il primo, ma l'ennesimo di una lunga serie, di una geremiade sempre uguale, e sempre inascoltata. E poi, rivolta a Fersen: "Lo zio André mi ricorda sempre i miei deprecabili modi: niente inchino (e qui mandò uno sguardo in tralice, divertito e furbo, ad André, che non poté non lanciarle un sorriso), una stretta di mano più da bracciante del mercato ortofrutticolo che da piccola, tenera marchesina delicata, e soprattutto, il fischio ... ma per fortuna lo zio quando mi fa notare queste cose ha un po' più garbo di mia madre, il sergente maggiore Clothilde, o, per gli intimi, Sua Grazia, madame la marquise de Marivaux. E ora, prima che maman venga a rimproverarmi, vado a ricompormi e rendermi presentabile (lo disse come se stesse citando una frase tante volte ripetutale) per la cena. Perché vi fermerete per la cena, vero? E sarete nostro ospite anche domani, vero?".
"Certo, marchesina de Marivaux. A più tardi", disse con un inchino cerimonioso e insieme ironico Fersen, seguendo la figura energica della ragazza che saliva saltellando i gradini dello scalone d'onore, per andare nella sua camera a prepararsi. Anche André seguì con lo sguardo Françoise, poi si volse verso Fersen, e con un'espressione in cui il conte rivide l'ombra del sorriso dolce, mite e malinconico del ragazzo conosciuto tanti anni prima, gli disse, con semplicità:
"Mia nipote Françoise è ... è quello che si dice "una ragazza moderna".
"Lo vedo, André. E l'impressione, devo dire, è molto piacevole". In Françoise, nei suoi modi aperti, nella sua figura atletica e insieme sensuale, Fersen stava cercando di mettere a fuoco le ombre  e i frammenti di lei.
"Buonasera, conte di Fersen. Spero che le maniere di mia figlia Françoise non vi abbiano scandalizzato. Talvolta è .... come dire ... assolutamente incontenibile!", disse la donna altera ed elegante, materializzatasi improvvisamente accanto ad André; ed espirando profondamente, la dama alzò lo sguardo lungo lo scalone e il corridoio del piano nobile, come a voler intercettare gli ultimi passi della figlia, prima che si ritirasse nella sua stanza. Poi, lo guardò ancora e con un sorriso compito e convenzionale, si presentò: "Clothilde Marie de Jarjayes, marchesa di Marivaux. Onorata della vostra presenza nella nostra dimora, conte di Fersen".
Entrare a palazzo fu come essere investito dall'onda dei ricordi. Ricordi emozionanti, ricordi  belli e dolorosi, ricordi di un mondo che era finito.
"La cena sarà servita alle otto, Conte di Fersen", lo congedò con gelida cortesia la marchesa, in cui Hans non riusciva a trovare se non una vaghissima somiglianza con Oscar, forse solo in quegli occhi di ghiaccio che sembravano però non conoscere il calore di un sorriso.
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


3.
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"E ora che abbiamo finito con i convenevoli", disse Françoise, scostando il piatto con un gesto deciso, "passiamo a parlare di cose importanti. Fersen qui! Chi l'avrebbe detto?!". Finse di ignorare lo sguardo con cui sua madre, la marchesa Clothilde, l'aveva fulminata dall'altro capo della lunga tavola: adesso Françoise teneva i gomiti sul tavolo, le mani giunte con le dita intrecciate, e aveva piantato i suoi occhioni neri ancora infantili ed entusiasti sull'ospite che le sedeva di fronte.
"Dovete dirmi tutto, tutto!". E poi, dopo una pausa, "Nonno Réynier mi ha raccontato tante volte quand'ero bambina di come lo zio André e la zia Oscar vi salvarono da un assalto popolare... mi pare in rue Saint-Antoine a Parigi, giusto zio André?".
André aveva taciuto per quasi tutta la cena, sprofondato in una lunga fantasticheria malinconica, ricordando l'ultima cena di Fersen a palazzo prima di quella, una cena di molti anni fa, consumata in tre, a quello stesso tavolo, la tensione palpabile nell'aria, e lui, che sedeva a tavola accanto a Oscar, nel posto in cui ora stava Françoise, servendo il conte e la sua Oscar fra un boccone e l'altro, un po' commensale, e un po' membro della servitù, come sempre era stato ...mentre adesso sedeva alla tavola che era stata del Generale, di generazioni di Conti de Jarjayes, e veniva servito ossequiosamente dai camerieri e dai valletti della casa. Si riscosse  e cercò di focalizzare l'attenzione sulla domanda della ragazza, annuendo. "Sì, proprio così, Françoise!".
Fersen lanciò un'occhiata, prima perplessa, poi complice, ad André, seduto alla sinistra di Françoise. Ricordava ancora Oscar sconvolta nel vicolo buio, le sue braccia che lo scuotevano, le sue grida: "Il mio André, il MIO André, il MIO ANDRÉ", e come lui si fosse sentito incredulo e intenerito di fronte a quella dichiarazione d'amore disperata e involontaria, la dichiarazione di una donna sconvolta per un uomo che non poteva sentirla... e ricordava come avesse salvato André dalla marmaglia che voleva impiccarlo a una forca improvvisata, di come avesse riaccompagnato André e Oscar, di come, in quel fiacre che sapeva di stantio, lei, dopo averlo ringraziato, non gli avesse rivolto più nemmeno uno sguardo, mentre si teneva Andrè abbracciato stretto, come un naufrago si abbraccia al relitto che lo può portare in salvo, di come a un certo punto avesse cercato di distendergli le gambe troppo lunghe sul sedile, e, mentre lui gemeva per le costole incrinate, lei gli tenesse la testa in grembo, accarezzandogli piano le guance, i capelli, gli occhi, con tenerezza e delicatezza più che materne.
"Sì, in effetti, dei ribelli furiosi avevano aggredito e rovesciato la carrozza su cui viaggiavo", si stupì di sentirsi dire. E poi: "Devo ammettere che fu un'imprudenza imperdonabile avventurarsi per Parigi su di una carrozza con uno stemma nobiliare in bella vista, in quei giorni ... ma per fortuna vostra zia Oscar, che aveva un coraggio da leonessa, e vostro zio André, affrontarono tutta quella marmaglia e trassero in salvo me e il mio cocchiere!".
"Caspiterina! Che forza la zia Oscar!", esclamò Françoise, battendo un pugno sul tavolo.
"Contegno, Françoise!", sibilò la marchesa Clothilde, bellamente ignorata dalla figlia, che si girò verso André e disse: "Beh, e anche tu zio! L'apprezzamento è per entrambi, lo sai!".
"E come era la zia? Vedete, Fersen, qui nessuno mi dice mai nulla di preciso. Lo zio André dice solo "bellissima, inestimabile!". Nessuno che me la descriva mai!"
"Vostra zia era ... unica, Françoise. La sua bellezza e la sua rettitudine, il suo coraggio e la sua dirittura d'animo non avevano eguali. Era la conversatrice più affascinante e la persona più colta e gentile che avessi incontrato"... mentre parlava, fissando Françoise, seguiva con la coda dell'occhio l'espressione di André, nel cui sguardo gli sembrava di intravedere orgoglio, fierezza, e una commozione troppo abitualmente trattenuta per sfociare nelle lacrime. "E la spadaccina più abile di Francia", concluse con una risata per distendere il clima di quella conversazione, che si stava facendo troppo tesa e dolorosa. "Sapeste, Françoise, quante volte mi ha sconfitto a duello. Anche vostro zio André è stato un ottimo spadaccino, sapete? Certo, il suo stile lasciava molto a desiderare..."
"La zia Oscar doveva far girare la testa a tutti! La zia Joséphine mi ha raccontato che anche voi, insomma,  - possiamo dirlo adesso, no? -  eravate un po' innamorato di lei. Ma la zia aveva occhi solo per lo zio André, e voi eravate solo, - come diceva, zio André?- "il suo migliore amico"?
"Françoise! Contegno!", ripeté, questa volta scattando con voce allarmata la marchesa Clothilde. Ma, allora, il suo rimprovero non cadde nel vuoto, e la figlia si zittì, chinando gli occhi al tavolo con una smorfia contrita. "Perdonate, conte di Fersen. Io tendo sempre a esagerare un po'...."
"Oh, siete giustificatissima, Mademoiselle Françoise. Vostra zia era una creatura eccezionale, e nessuno poteva restare insensibile al suo fascino e alla sua bellezza".
"E la regina Maria Antonietta? Come era? È vero quel che si dice....?", chiese con vivacità rinnvata e con curiosità ingorda Françoise. Ma qui si censurò da sola: "Oh, scusatemi. Che grave mancanza di tatto. Sono davvero mortificata", disse, mordendosi il labbro inferiore, e abbassando subito dopo lo sguardo.
Il dessert venne servito e consumato fra chiacchiere leggere e convenzionali. Poi, la marchesa Clothilde si congedò, adducendo a motivo una forte emicrania, non senza aver lanciato un'occhiata profondamente critica alla figlia.
Appena ebbe varcato la soglia della sala da pranzo, Françoise parve rianimarsi.
"Sapete che la zia Oscar incontrò Monsieur l'Empereur, una volta?", domandò con gli occhioni sgranati, le braccia conserte appoggiate al tavolo, anzi, con i gomiti piantati con soddisfazione sul tavolo sin dal momento in cui la madre se ne era andata.
"Davvero?".  Fersen aveva assunto un'aria garbata e attenta, e ad André sembrò di rivedere per un attimo lo squisito conversatore che accendeva il desiderio di tutte le dame dei salotti parigini, per poi, subito dopo, abbandonarle al loro sogno di un giro di minuetto col bel conte dagli occhi pervinca che non aveva posto nel suo cuore se non per la Regina.
"Sì, e c'era anche lo zio André, vero?"
"Vero, Françoise", annuì lui, sorridente.
"La zia stava presidiando con il suo reggimento l'Hôtel des Menus Plaisirs, dove si erano riuniti gli Stati Generali ... o forse il Re aveva già vietato ai rappresentanti del Terzo Stato di radunarsi...o di entrare dall'ingresso principale ... che cosa era successo, di preciso, zio André?... Perché lo zio André c'era, sapete? Anche se era un sottoposto della zia Oscar", e subito dopo, senza attendere risposta: "E comunque, nei disordini, la zia vide passare un giovane ufficiale appena arrivato dalla Corsica, o dalla scuola militare, e gli aveva chiesto nome e grado, ed era lui! E poi, che cosa ti aveva detto, zio André? Che aveva gli occhi di un'aquila, o di un imperatore, giusto??!!!".
Parlava accalorata e vivace, con le guance arrossate, e per un attimo a Fersen sembrò di vedere il volto entusiasta di Oscar, di fronte ai suoi racconti delle sterminate foreste della Virginia, o dopo che l'aveva sconfitto in un duello. Cominciava a capire l'affetto per la ragazza che traspariva da ognuno dei gesti tranquilli di André.
"Io l'ho conosciuto, il nostro Imperatore, lo sapete?"
"Davvero, Mademoiselle?"
"Françoise è buona amica di Hortense de Beauharnais", intervenne André. "E frequenta molto i salotti", chiosò, con un tono di velata critica.
"Certo che li frequento! Zio, tu non vuoi mai venire da nessuna parte, ma io non posso stare seppellita qui per sempre! Se fosse per te, tu te ne staresti sempre nel salone davanti al ritratto della zia, oppure a curare i roseti del parco! Come lo potrei trovare uno spasimante, secondo te? Vero è che la zia Oscar ti aveva in casa, da sempre, ma non tutte sono così fortunate!".
Per un attimo, lo sguardo di André si fece cupo, spento. Poi, fu riconquistato dalla vivacità con cui Françoise continuava, a beneficio di Fersen, il suo peana di Napoleone: "Oh, Monsieur l'Empereur è...è... incredibile, assolutamente incredibile! Eccezionale! Vi piacerebbe, Fersen, vi piacerebbe tanto. E' un uomo così semplice, alla mano; e poi sa tutto, ha letto tutti i libri, e quando ti guarda...oh!"
"Non ne dubito, Mademoiselle Françoise. Il vostro Imperatore è un uomo dai molteplici talenti e valorosissimo".
Un breve silenzio, poi: "A proposito di molteplici talenti: Conte, adesso vorrei dilettarvi con una mia esibizione musicale..."
"Magnifico, Mademoiselle Françoise!"
"Preferite il violino o il pianoforte?", chiese lei.
"Io  ... credo che preferirei il pianoforte", rispose Fersen.
"Ma siccome io sono pessima sia come pianista che come violinista", continuò lei, imperterrita, alzando l'indice sinistro, e senza avere fatto mostra di avere ascoltato la risposta di lui, "Vi risparmio lo strazio di una mia esibizione!".
"Siete molto sincera, Mademoiselle", disse Fersen, soffocando una risata e chinando il capo in segno di cortese assenso.
"Mi piace la gente sincera!", rispose Françoise.
"Ma anche quella che mente", intervenne André, mentre sorbiva con gli occhi semichiusi il suo caffé.
"Fondamentalmente...", iniziò lei, come se aspettasse il la dello zio.
"Preferisco la gente insana di mente!", dissero all'unisono, ad alta voce, e già ridendo, zio e nipote, con l'aria complice con cui si ripete uno scherzo ormai noto a memoria, una battuta in codice di un loro linguaggio segreto fatto di confidenza e affetto.
"Scusateci, Fersen", rise Françoise, "Ma non ho resistito. Lo zio André mi conosce troppo bene. E mi vizia , mi ha sempre viziato tanto", e gli lanciò uno sguardo dolcissimo, carico di tutto l'affetto e la gratitudine che una marchesina ventenne può permettersi di manifestare per il suo adorato, bellissimo zio.
"Sapete, quando mio padre venne ghigliottinato, io ero molto piccola, poco più di cinque anni, figuratevi....non ho  quasi ricordi di lui; ma per fortuna, con la mamma, ci trasferimmo qui...era il marzo del 1793. E, soprattutto, oltre al nonno Réynier, c'era anche lo zio André, che mi ha fatto da zio, da compagno di giochi, da insegnante di storia, da padre....". Mentre diceva queste parole, Françoise rivolse allo zio uno sguardo in cui brillavano tutte le fiamme dell'affetto più profondo, e André pose la mano sopra la sua, in un muto gesto d'intesa.
Subito dopo, con quella volubilità vivace che era parte del suo fascino, Françoise stese le braccia e con uno sbadiglio profondo disse: "Ma adesso basta! Casco dal sonno e sto diventando sentimentale, come sempre quando sono stanchissima, e la cosa non mi piace affatto. Lede il mio fascino di cattiva ragazza. Buonanotte a tutti", disse alzandosi, e mettendo, con garbo ostentato, la mano davanti alla bocca, splancata in un secondo sbadiglio, "Vi lascio soli: chi sa di quante chiacchiere fra uomini siete in credito dopo tutti questi anni!".
E si allontanò, non senza essersi seduta per un istante, fulminea, sulle ginocchia di André, avergli cinto le spalle e schioccato un bacio sulla guancia, e avergli detto: "Buonanotte, zio. E grazie, per tutto. Sempre. Ci vediamo domattina".
 

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Capitolo 4
*** 4 ***


4.
Rimasti soli, dopo un breve silenzio, si erano trasferiti nel salone. Alla luce fioca di un solo doppiere, per non affaticare l'occhio di André, che, miracolosamente, si era cristallizzato da anni in una labile e come fumosa stabilità, che poteva spezzarsi in qualunque momento, sedevano davanti al grande ritratto di Oscar come Marte.
A una parete, appesa, luccicava una sciabola appartenuta a Oscar, mentre in un angolo, appoggiato su un elegante sostegno in legno di rosa, il calco di due delicate mani femminili, dalle dita lunghe ed eleganti, sul cui anulare sinistro brillava una sottile vera d'oro, e che André non mancò di carezzare con delicatezza prima di versare da bere al suo ospite.
"Lo zio André e la zia Oscar vi salvarono da un assalto popolare... mi pare in rue Saint-Antoine a Parigi", citò a memoria Fersen, con lo sguardo abbassato sul cognac che stava facendo roteare nel bicchiere.
"Dovete perdonare, Fersen. Il Generale, nei suoi ultimi anni, raccontava molto spesso a Françoise episodi della vita di Oscar. Un po' ricordava male, e un po' adattava il ricordo a quello che avrebbe voluto che fosse accaduto. Non prendetevela".
"Non dovete giustificarvi, amico mio". Bevve un sorso di cognac. "Questo ritratto è semplicemente meraviglioso. Non l'avevo mai visto".

"Sì, Oscar si decise a posare solo nel maggio del 1789..:"
"Quando era già malata..", aggiunse Fersen.
"Già. E io non me ne ero reso conto, non l'avevo capito. Negli ultimi mesi era diventata ... non distante, no, ma ... così segreta, ed era così difficile entrare nella sua intimità, capire davvero che cosa pensasse, essere messi a parte delle sue preoccupazioni...."
"Vedo la data del ritratto...12 luglio1789. Marte che si prepara alla guerra. Molto adatto alla vigilia della Rivoluzione".
André annuì; solo lui sapeva, e portava nel cuore quella data per altri, e ben diversi motivi.
"Io devo chiedervi perdono, André".
"Perdono! E di che cosa, Fersen?".
"Non solo di essere venuto quella sera, quella sera in cui ... Insomma, non volevo turbare deliberatamente la vostra serenità, ma dovevo sapere, dovevo ....". André fece un cenno, come a dire che il suo perdono l'aveva già, e da tanto tempo. "E poi, conte, non dimenticate che una volta voi mi avete salvato la vita", sussurrò.
"Ma soprattutto, André, io vi devo chiedere perdono per un'altra circostanza, per un mio pensiero di cui non vi ho mai messo a parte, ma che mi ha tormentato per anni", continuò Fersen.
"Dite pure, conte", lo incoraggiò cautamente Andrè.
"Vedete, per molti anni, vedendovi sempre a fianco di Oscar, vedendo la vostra confidenza reciproca, l'assenza di titoli con cui vi rivolgevate a lei, anche in pubblico, il vostro modo di vivere a palazzo, ecco, mi ero fatto l'idea - idea completamente errata, si capisce, ma allora ero giovane e vedevo le cose senza apprezzarne le sfumature - l'idea che...nonostante Oscar fosse per me una presenza amicale, e mi avesse detto un tempo che voleva vivere in tutto e per tutto come un uomo...ecco...". Il fine giocoliere della conversazione, capace di ammaliare l'uditorio con il racconto delle sue battaglie, era sparito, sostituito da un uomo di mezza età imbarazzato e incapace di trovare le giuste parole.
"Siate più chiaro, Fersen. Non capisco dove vogliate arrivare"
"Ecco, io credevo che voi e Oscar foste intimi, diciamo così, da molto, molto tempo. Forse, sin dai tempi dell'incidente a cavallo di .... di Maria".
"Ma che cosa dite, Fersen?!," e poi, dopo una pausa: "Come potete anche solo averlo pensato..:?!"
"Vedete, André, mi sono sentito a lungo in colpa, dopo i fratti di Rue Saint-Antoine, per averlo pensato, e mi sono sempre detto che, se vi avessi mai rivisto, vi avrei chiesto di scusarmi, anche se né a voi né a Oscar, certamente, mai avevo palesato alcunché del mio convincimento. Ma vi vedevo sempre insieme, con una confidenza noncurante, così sfacciatamente, candidamente esibita, da apparentemente allontanare, ma che invece alimentava le malelingue della corte; una confidenza quasi...quasi coniugale, scusate l'aggettivo, quale io non ho mai potuto avere con...con...."; e qui la voce gli si spezzò, e poi continuò: "Vi vedevo insieme a tutte le ore del giorno, vi vedevo condividere ogni momento, e mi era stato naturale pensare che, se anche Oscar aveva deciso di vivere come un uomo, e aveva negato di coltivare desideri e debolezze femminili, probabilmente, in qualche occasione, volesse godere anch'ella delle soddisfazioni e dei piaceri che la natura ha disposto per tutte le donne; ed era naturale, per me, che vivevo circondato da una corte corrotta e capace di sentimenti meschini, e vivevo io stesso un amore illecito, nella menzogna e nell'inganno, formarmi la convinzione che Oscar avesse un  amante, oh, certo, un amante devoto, discreto e silenzioso, e magari anche che il generale sapesse, ma che tollerasse e fingesse di non sapere, magari pensando "In fondo mia figlia è adulta, ormai, è una donna con certe esigenze; meglio André che un altro"; e dunque mi formai la convinzione che a Oscar che non interessassero rapporti più ... formalizzati o profondi. Anche per questo non mi accorsi dei suoi sentimenti, perché ai miei occhi Oscar non poteva rivolgere alcuno sguardo desiderante su nessun uomo, avendo già piena soddisfazione dei suoi bisogni.... "
"Che pensiero meschino, Fersen..:"
"Avete ragione, André, avete perfettamente ragione. Ho dovuto capire dopo che il vostro amore per Oscar, e quello di Oscar per voi non si è mai accomodato nelle aspettative di quello che sarebbe stato normale, lecito, financo tollerato agli occhi della gente di mondo, che strizza un occhio e va avanti. Il mio pensiero è stato davvero meschino. Io l'ho fatta soffrire a causa della mia ristrettezza di vedute, del mio animo incapace di guardare verso il cielo, verso la purezza delle stelle. Ho fatto soffrire lei, e non posso più chiederle perdono; e ho fatto soffrire anche voi, macchiandovi nel mio spirito di pensieri irriguardosi, offensivi: ma di questo posso ancora chiedervi perdono; e vi prego di accordarmelo. Vedete, André; l'eccezionalità del sentimento che vi legava mi è stata chiara solo dopo l'incidente di Rue Saint-Antoine, quando la sentii così sconvolta, così fuori di sé, e così sorpresa di quel che le era uscito di bocca nell'empito del momento. Solo allora capii di che genere era il suo amore per voi. E il vostro per lei, dato che avevate rischiato di essere ucciso dalla folla pur di non lasciare sola la donna che amavate per le strade di Parigi, gremite di rivoltosi, dove aveva voluto caparbiamente avventurarsi. Prima....troppe tresche avevo visto, fra nobildonne troppo altere per ammettere in pubblico anche solo un cedimento per chi non avesse una goccia di sangue nobile, e i loro servitori; fra contesse e attendenti dei loro mariti, che, fra i loro pari, quelle nobildonne non avrebbero degnato di uno sguardo. Dunque, io vi chiedo umilmente perdono per aver, per troppo tempo, cercato di leggere, e costringere, l'unicità del vostro sentimento entro la cornice e con la lente deformante di un qualsiasi rapporto clandestino". Fece una pausa. "Del resto, vedete, io stesso non sono stato un grande esempio: il mio grande amore non ha forse contribuito a far crollare la popolarità di....Maria....e a inimicarle il popolo di Francia?".
André aveva ascoltato in silenzio. E se vent'anni prima aveva maledetto la sera di fine inverno in cui Fersen aveva messo piede a palazzo, e persino il giorno in cui era ritornato dall'America, adesso provava quasi pena per quell'uomo: nobile, ricco, bello, libero, lui, eppure inchiodato a un sentimento tormentoso che non gli aveva regalato se non qualche sprazzo di felicità.
Nel frattempo, Fersen aveva posato il bicchiere, e, ormai seduto nell'ampia causeuse, si copriva il volto con una mano.
"No, André, è una consolazione sapere che è esistito un amore così grande e così puro come il vostro; io non sarei stato capace di tanta abnegazione.."
"Eppure, Fersen, anche voi avete rischiato la vita ... per la Regina..."
"Sì, e ho fallito".
Rimasero in silenzio a contemplare la grande tela in cui Oscar, eternamente giovane ed eternamente bella, montava il suo César colto nell'atto di impennarsi, gli occhi più azzurri del cielo primaverile, l'espressione soave e insieme implacabile tesa verso una battaglia incombente.
"Penso spesso che se a Varennes, a cassetta di quella carrozza, ci fosse stata Oscar, con me ... o addirittura al posto mio...le cose sarebbero andate diversamente. Perché non ho avuto la sua forza e la sua decisione?":
"Fu il re a congedarvi prima di arrivare al confine, Fersen. Non dimenticatelo. Fu il re".
"Non lo dimentico, André. E mi ripeto che, se ci fosse stata Oscar, le loro Maestà avrebbero accettato di essere condotte da lei sino alla fine della missione, sino al confine. E lei, lei non avrebbe fallito".
"Oscar non sarebbe mai potuta venire con voi, lo sapete. Non in quel momento. Non più".
"Lo so, lo so bene, André", e tolse dalla tasca una busta. Senza una parola, la porse ad André, che la aprì con un'emozione a stento dissimulata.
Quante volte, la notte, in quegli anni sterili e sempre uguali, giorno dopo giorno, resi diversi fra loro solo dal mutamento nella statura di Françoise che uguagliava e superava quella della zia, e dal tono della sua voce squillante, che sempre più somigliava a quello di lei, era sceso nella cappella del palazzo, e, seduto sulla panca rigida, nel buio freddo e inerte, aveva toccato quel marmo, implorando: "Dimmi qualcosa; parlami; fatti sentire; fammi sentire che ci sei ancora, che non è tutto finito". Ostinato silenzio, del cuore e dello spirito, seccume freddo e disperato, nel buiame, e null'altro: questo provava nella cappella degli Jarjayes; e per sentirla vicina, doveva invece cercarla nella biblioteca, dove, negli anni, era capitato che un libro riposto su uno scaffale rivelasse un piccolo appunto scritto dalla sua mano; nella camera che aveva occupato per anni, dove, in un cassetto, era rimasta una boccetta di essenza alla rosa ormai quasi svaporata, che lui aveva sfiorato con reverenza, immaginando l'imboccatura del piccolo flacone a contatto con la pelle del suo collo, dei suoi polsi, dei suoi polpastrelli; nella grande poltrona davanti al camino, dove, per molti mesi, dopo, il cuscino damascato aveva serbato il profumo della sua pelle, di mughetto e di rosa, sino a che una cameriera, maldestra perché troppo zelante, non l'aveva messo a lavare ... ed ecco, adesso, inaspettatamente, un dono, un dono imprevisto e tanto più gradito, una sorpresa, quando non si aspettava più niente, quando credeva che le parole di Oscar fossero ormai tutte note, tutte consumate, tutte ordinatamente conosciute e archiviate nella sua mente.
"Mi sembrava giusto riportarvela, André". Quello annuì.
"Volevo", continuò Fersen, "farvi ascoltare ancora la sua voce, per un'ultima volta".
L'occhio superstite, assistito da una spessa lente d'ingrandimento, e risparmiato dalla benevolenza di chi sa quale dio, scorreva intanto, famelico, le lettere che componevano parole, le parole che componevano frasi, frasi che immaginava pensate e sussurrate da lei, mentre reggeva già con fatica la penna; gli sembrava di seguire il movimento della sua mano bianca e smagrita, e si chiedeva che cosa stesse facendo lui, quel giorno, 30 ottobre 1793, mentre Oscar, forse ancora a letto, o forse seduta al sécretaire di legno di ciliegio ed ebano, avvolta nella coperta di lana azzurra e morbida, scriveva a un Fersen ormai lontano, ancora disperatamente piangente dopo i fatti di due settimane prima.
                                                                                                                                 30 ottobre 1793
"Caro Fersen,
                              indirizzo questa lettera a Monsieur Gustavsson, non per pudore nel rivolgermi a voi direttamente, ma solo perché so che il vostro precettore risiede ancora per motivi di studio a Parigi e mi sarà più facile raggiungerlo, e fare sì che queste mie parole arrivino sino a voi; mentre non so, se indirizzassi queste righe in Svezia, quante possibilità potrebbero avere di  esservi recapitate.
Posso soltanto immaginare il vostro dolore, e voglio assicurarvi che ho fatto tutto quel che era in mio potere per stornare l'inevitabile dal capo della mia Regina. Io l'ho servita e protetta fedelmente per vent'anni, e  il mio allontanamento dalla Guardia Reale è stata una delle prove più dolorose della mia vita, come tagliarsi un pezzo di cuore, per poter consentirgli di battere ancora.
Anche se tante cose sono cambiate dall'ultima volta che incontrai la mia Regina, e se i miei convincimenti già nell'estate del 1789 mi portarono ad abbracciare un'altra causa, non fu senza dolore che dissi addio a Maria Antonietta; nemmeno riuscii a dirle addio, quel giorno, ma solo "arrivederci", e di questo sinceramente mi dispiace. Ma ancora di più mi addolora e mi strazia la sorte che si è accanita contro di lei negli ultimi anni, e contro la quale non sono riuscita a fare nulla.
Ho ammirato il vostro coraggio nell'impresa di Varennes, e se le circostanze e il mio stato di salute me l'avessero concesso, avrei voluto potervi portare il mio aiuto, perché voi sapete quanto io e mio marito André vi siamo debitori, e quanto di bene dobbiamo anche alla Regina: persino la vita.
Memore di quanto questi quattro anni di felicità strappati alla malattia, alla guerra, alla rivoluzione siano stati un dono vostro, oltre che della mia Regina, che mi ha resa salva la vita, dopo il fallito tentativo orchestrato dai realisti[1], e dopo che la sua sorveglianza era stata resa più dura, ho cercato e ho trovato udienza presso Robespierre, e ho cercato in tutti modi di stornare dal capo della mia Regina una umiliazione ingiusta, una condanna iniqua, una morte atroce. Non ci sono riuscita. Perdonatemi per questo, Fersen. E che possa perdonarmi anche la mia Regina
Ho ammirato la vostra abnegazione, il vostro coraggio, la vostra tenacia: Fersen, io vi ho sempre ammirato. Siete stato il soldato che avrei voluto essere. Ma, a differenza di quanto avete fatto voi, sui campi di battaglia del Nuovo Mondo, e poi in Francia, io ho mancato il mio appuntamento con la storia. Lo ammetto, ora, senza rammarico e senza astio verso il destino, come una constatazione: l'ho mancato; dopo quattro lustri fra quelle bambole da esposizione che erano le Guardie Reali, dopo trent'anni trascorsi preparandomi per quel momento, senza sapere quale sarebbe stato, ma sapendo solo che allora, una volta che fosse arrivato, finalmente avrei potuto dare prova di tutto quello per cui ero stata educata e formata, ho mancato. Quando quel momento è arrivato, anche se in forme tanto diverse e inaspettate rispetto a come l'avevo immaginato, in una rivoluzione e non in una guerra, io non c'ero; avrei voluto esserci, ma non ho potuto: ho ceduto, scontando la mia fragilità umana, e ho capito che, di fronte alla grande ruota della storia, la mia esistenza non è che un nonnulla.
E questo mi avrebbe spezzato il cuore, se non avessi avuto un premio che ha sopravanzato tutti i miei desideri. Un premio ... per non essere scesa in battaglia. Chi l'avrebbe mai detto, Fersen?
Spesso, e soprattutto in queste ultime settimane, ho avuto chiara la percezione che questa interminabilmente lunga battaglia che ho combattuto non finirà con la mia vittoria. Ma poi mi dico che con il tempo e con la vita nessuno vince mai, e forse la sola condizione dignitosa è strappare una patta onorevole. Allora mi chiedo che cosa sarebbe accaduto quel 13 luglio di quattro anni fa, se non fossi venuta meno in caserma; se i miei soldati e il colonnello d'Agoult non mi avessero portata a braccia in infermeria; e non mi avessero costretta a curarmi; se André non fosse rimasto accanto a me in quei momenti, in cui, per la prima volta, avevo capito, sentito che forse ci vuole più coraggio ad affrontare la morte per una lenta malattia che ti ghermisce giorno dopo giorno, contro cui combattere una guerra di posizione sfibrante, piuttosto che nell'esaltazione delle lame che cozzano in un duello, o fra gli spari e le cannonate: me lo chiedo, ma non so rispondermi.
Il Dottor Lassonne, i medici consultati per lungo tempo hanno potuto solo rispondere, alle domande di André, che non sapevano indicare quanto sarebbe durato il decorso della malattia e se mai potessi guarire. Quanto tempo avrei avuto? Se mi fossi riguardata, sei mesi, un anno, forse due.
Nessuno lo sapeva con precisione. Ma chi è che lo sa?
Una volta mi diceste che l'amore porta  solo una lenta e triste agonia. Credo di essere stata molto, molto fortunata, perché nonostante la malattia, ho avuto in sorte quattro anni di felicità completa, quale mai avrei osato anche soltanto immaginare, accanto all'uomo che amo, l'uomo della mia vita. E di questo devo ringraziare voi. Senza di voi, Fersen, il mio André non sarebbe più; ma, in quel vicolo, quella sera, ho capito più che in molti anni passati come una falena impazzita attorno a una fiamma che era un fuoco fatuo.
Quella notte, quando grazie a voi ho potuto riavere fra le braccia il mio André, che cosa vi dissi, che parole trovai per ringraziarvi? Non lo so, non lo ricordo: credo di aver mancato anche in quello, e voglio ora riparare a quella mancanza.
Molte volte ci siamo detti "addio"; e abbiamo scoperto, a volte con dolore, a volte con sollievo, che  quello, invece, era stato solo un "arrivederci". Ma ora, Fersen, io non credo davvero che ci rivedremo mai più.
Siete stato un testimone importante della mia vita; senza di voi, essa sarebbe stata diversa, peggiore, infinitamente più povera.
Vi debbo molto, e vi ho potuto rendere così poco. Perdonatemi, e abbiate tutta la mia gratitudine e i miei pensieri, ora, e per sempre, addio e ancora addio.
La vostra affezionata amica,
Oscar François
Mentre leggeva, André immaginava Oscar impegnata a scegliere le parole migliori per contenere il proprio dolore rispetto a quello, certo più straziante, di Fersen, di ringraziarlo senza indulgere, rivolgendosi a un uomo dal cuore spezzato, sulla propria felicità, di cui però sentiva di doverlo ringraziare. Ci trovava la sua gentilezza, il suo spirito indomito, il suo animo limpido, sorretto da un senso della giustizia da cavaliere d'altri tempi.
Ricordava una sera del loro primo inverno insieme, passato, dopo un viaggio avventuroso, in una Francia già messa a ferro e fuoco, in Svizzera, a Davos. La prima sera, dopo un pomeriggio di immobilità forzata, passato, secondo le prescrizioni del nuovo medico, avvolta sino al mento nelle coperte pesanti, sul terrazzo dello chalet, a respirare l'aria fredda che avrebbe giovato ai suoi polmoni malandati, lui l'aveva fatta accomodare davanti al fuoco, sul letto che aveva spostato davanti  al camino.
"Come ti senti, Oscar?".
"Intirizzita, indolenzita, frastornata: non mi era mai successo di stare per tante ore immobile. Eppure, ho quasi timore nel dirlo, ma mi sembra di respirare un po' meglio".
"Tutto perfetto e secondo le previsioni, direi. Ma adesso vieni più vicina al fuoco", aveva detto lui, e l'aveva sollevata, leggera come una piuma tanto era diventata eterea e sottile, per farla accomodare sulla poltrona vicinissima al camino. E chi sa come, chi sa perché, da qualche recesso dimenticato della mente a Oscar erano tornati sulle labbra dei versi imparati a memoria tanto tempo prima durante le ore passate con il loro precettore di italiano: "Lascia all'arcion lo scudo, che già posto /avea ne la coperta, e a piè discende / verso la donna che, come reposto/ lupo alla macchia il caprïolo, attende. / Senza più indugio ella si leva tosto/ che l'ha vicino, e ben stretto lo prende". Se li erano recitati, questi e altri, a voci, no, non a voci, ma a sussurri alternati, e poi, prima di scivolare in un sonno pesante e ristoratore, Oscar gli aveva chiesto: "Qual è il tuo cavaliere preferito, André? Non me l'hai mai detto".
"Ma è ovvio, Oscar: sei tu il mio cavaliere senza macchia e senza paura preferito", aveva risposto lui, ammirando, ancora come la prima volta, il miracolo di quel sorriso che la illuminava tutta, e che aveva continuato ad aleggiarle sulle labbra anche nel sonno. E, mentre Oscar dormiva, André pensava che la sua non era una vuota lusinga: aveva sempre ammirato il coraggio di lei, da quando, bambina, si sforzava di dissimulare e dominare la sua paura dei ratti, quando scendevano a esplorare le cantine e i sotterranei di palazzo Jarjayes; e ora, nonostante la preoccupazione doverosamente sottesa a quel tempo sospeso, che le aveva concesso di vivere quello strano inverno a due fra la neve, Oscar non stava forse combattendo la battaglia più dura della sua vita, contro un drago invisibile che voleva bere il suo sangue, che voleva portarla via a lui?
Mentre la guardava dormire ricordò una delle prime giornate a Palazzo Jarjayes, quando ancora Oscar lo scrutava con un misto di entusiasmo e diffidenza, e lui non sapeva ancora bene se quello strano bambino, che poi era una bambina, gli avrebbe mai accordato la sua amicizia, e se sarebbero stati mai in confidenza. Ci ripensò con un sorriso: sì, decisamente avevano trovato modo di entrare in confidenza. E ricordò con che occhioni sgranati Oscar avesse accolto, quel pomeriggio, la notizia che no, André non sapeva ancora leggere. "Ma come è possibile? Io ho un anno meno di te e leggo già da sola", chiese, esterrefatta; e poi, cogliendo quanto la nota scandalizzata nella sua voce l'avesse mortificato, per non imbarazzarlo ancora di più aveva aggiunto, con il suo garbo più dolce, quel garbo che le avrebbe visto usare negli anni con Rosalie, con la sorella di Alain, Diane, con la contessa Du Barry caduta in disgrazia, e persino con la Regina quando era palesemente preda di capricci poco consoni a una sovrana: "Bene, non è un gran problema. In fondo, si inizia ad andare a scuola a sei anni, no? Vieni qui, ti insegno io, e intanto ti leggo una favola".
E si erano seduti vicini sul tappeto del salone, Oscar con in grembo un grande libro di favole illustrato, e mentre leggeva, spedita, ma ancora accompagnando la lettura con il gesto dell'indice che scorreva sulle righe, e lui, stretto accanto alla sua figura seria, respirava il suo profumo di rosa e mughetto, e osservava ammirato il miracolo dei fili d'oro che ne contornavano il profilo, e si chiedeva se poteva appoggiare la testa sulla spalla di lei, pensava che era proprio come una delle principesse delle favole che gli stava leggendo. E poi, preso coraggio, glielo aveva detto.
"Oscar, tu sembri davvero una principessa".
Lei aveva girato la testa di scatto, e l'aveva smentito con semplicità: "André, ma io sono un maschio".
"Oh, scusami, è vero”,  aveva risposto, e poi, dopo un attimo, si era corretto: "Oscar, tu sei il mio principesso", suscitando la sua ilarità, e la prima, meravigliosa risata della loro vita insieme.
Anni dopo, mentre i cortigiani e i servitori, e la guardia reale e Girodelle, accorrevano in frotta, dopo che lui l'aveva salvata dalla caduta di un pesante lampadario, lei, stretta fra le sue braccia, frastornata dal rischio appena corso, trovò però la prontezza per sussurrargli all'orecchio: "André, tu sei il mio principesso", procurandogli un brivido di piacere quasi superiore all'ebbrezza di averla salvata.
Pensava a tutte queste cose, in quella prima nottata nello chalet di Davos, mentre la neve cadeva, e, ogni tanto, lasciava un bacio leggero sulle labbra di Oscar che dormiva.
Tornò al presente, nel salone di Palazzo Jarjayes, vicino a Fersen, anche se, per un attimo, gli sembrava addirittura di risentire ancora il freddo della pelle ghiacciata di lei e il caldo delle sue labbra appena febbricitanti; ma ci pensò Fersen a distoglierlo da quella fantasticheria così insidiosamente reale.
 
 
[1] Cfr. Paul Gaulot, Un complot sous la Terreur: Marie Antoinette, Toulan, Jarjays, éd. 1889, Hachette, Gallica bnf.

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Capitolo 5
*** 5 ***


5 . "André, veramente Oscar fu ricevuta da Robespierre?". Nella lettera non spiega molto. "Naturalmente, Fersen. Si impuntò per andare a Parigi, e l'Incorruttibile non poté rifiutare di ricevere l'ufficiale che, anche se non fisicamente presente, con i suoi uomini, le sue istruzioni e i suoi piani, e, soprattutto, con i cannoni e le armi del suo reggimento, aveva contribuito alla presa della Bastiglia. Non avrebbe potuto non riceverla, a meno di non danneggiare la sua già pessima nomea" "E voi ... voi c'eravate, André?" "Certo che sì, Fersen, Io c'ero, Fersen, c'ero". Pausa. "Non avrei mai potuto lasciare Oscar da sola; e non soltanto perché l'ultima recrudescenza della malattia era davvero crudele, ma anche perché temevo che Oscar provocasse Robespierre e suscitasse in lui reazioni.... incontenibili". "E...che cosa si dissero? Nella lettera Oscar non lo racconta". André chiuse gli occhi, quasi che sotto le palpebre gli scorressero le immagini di quell'infelice mattina, l'ultima volta in cui Oscar era stata a Parigi. Erano gli ultimi giorni di un settembre stranamente afoso, un settembre da fata morgana, e inutilmente André aveva tentato di dissuaderla da un viaggio che, lo sapeva, le avrebbe procurato solo stanchezza fisica e amarezza dello spirito, se non anche un rischio molto poco calcolabile, ma concreto. "Oscar aveva saputo che si stava preparando un interrogatorio preliminare della Regina. Non chiedetemi come potesse esserne venuta a conoscenza: probabilmente la notizia le era giunta da Bernard Châtelet, per tramite di sua moglie Rosalie, o di altri personaggi vicini a Robespierre. Avventurarsi per Parigi non era mai stato meno facile e meno sicuro, e, naturalmente, il rischio era ancora maggiore, per una donna malata e non in forze, ma Oscar volle andare a tutti i costi. Non usciva da Palazzo ormai da mesi: la condanna e l'esecuzione del re, in gennaio, l'avevano prostrata. Quel giorno, nonostante il gelo dell’inverno, aveva insistito non per essere presente in quella piazza lorda di sangue e gremita di una folla eccitata dall’odore della morte, no: non avrebbe retto, vedendo quel re della cui timidezza aveva sorriso, di cui aveva anche ammirato la forza d’animo tranquilla, la sobrietà di vita e costumi, l’adorazione, spesso mescolata a incomprensione, per la sua Regina, umiliato e giustiziato. In una carrozza dimessa, l’avevo portata ai margini di una via che immetteva su Place de la Révolution. L’avevo avvolta in due coperte e, per cautela, ma anche per discrezione, soprattutto nei suoi confronti, per quello che era stata e per quello che il re, e la Monarchia, avevano rappresentato per il suo retaggio familiare e per lei, per gran parte della sua vita, mi ero messo io a cassetta. Avrei voluto abbracciarla e confortarla, durante quel viaggio; ma capivo anche che, con quel suo invincibile pudore dei propri sentimenti, non avrebbe voluto mostrare, nemmeno a me, che sensazioni passavano sul suo viso e nel suo cuore. Arrivammo poco prima delle nove; la piazza, si intravedeva dal fondo della via, era già gremita; altre carrozze sostavano lungo la viuzza, carrozze, con a bordo, per lo più, donne, giovani e anziane, troppo curiose per poter perdere lo spettacolo dell’esecuzione di un sovrano, ma anche incerte sulla loro capacità di tollerare quella scena, e che si contentavano dunque di essere a poca distanza da quel luogo dove si faceva la storia, per udire il vociare, le urla, le bestemmie, i clamori di chi invece aveva uno stomaco più robusto. Erano quasi le dieci, quando Oscar mi chiamò, con la sua voce più sottile. Entrai nella carrozza, la abbracciai, tenendole la testa sulla mia spalla. I clamori dalla piazza erano diventati più forti, segno che Luigi Augusto era arrivato. Poi, un grande silenzio, come di centinaia di respiri sospesi, un colpo, e, quando cadde la testa del re, un boato. Un boato immane, che, portato dal vento, si dice sia arrivato sino ai sobborghi di Parigi. Non so se sia vero, o se siano solo dicerie popolari. Io so solo che cosa avvenne dentro la nostra carrozza: Oscar aveva trattenuto il respiro, in quell’attimo; poi, la sentii singhiozzare, e le sue lacrime silenziose intridermi la camicia. Certo pensava all’adolescente timido e smarrito, raggiunto e circondato, solo un attimo dopo la morte del nonno, da una ridda di cortigiani desiderosi di essere i primi a congratularsi con il nuovo re; pensavo al marito introverso e incredulo di fronte alla bellezza della moglie; al ragazzo goffo e incapace di ballare, di raccontare lievi spiritosaggini, di fare divertire Maria Antonietta come tanto desiderava. “Non lo meritava....André....non lo meritava”, singhiozzò, fra le lacrime. E poi, in un sussurro, flebile come il pigolio di un uccellino, mormorò: “Vent’anni della mia vita....tutta la mia esistenza... per questo..”. Tornammo a casa, non so come; mentre spronavo i cavalli, mi domandavo che pensieri passassero nella testa di Oscar: aveva abbracciato la causa del popolo, ma lei stessa, il suo passato, non che quello di secoli di storia della famiglia Jarjayes, erano legati alla Corona, erano stati plasmati dal rapporto di fedeltà alla monarchia, al Re. Lei stessa era diventata quel che era, e quel che le aveva consentito di incontrarmi, di vivere per oltre cinque lustri con me in una costrizione che era anche una forma di libertà inedita per una donna, proprio in nome del rapporto della sua famiglia con la monarchia, e del compito cui era stata destinata sin dalla nascita dal Generale, il più realista, forse,fra gli alti ufficiali. La immaginavo combattuta, stremata dal viaggio e sfinita nell’anima, piena di dolore e di rabbia impotente, come sempre quando sentiva di avere assistito a una ingiustizia, a una mancanza di umana misericordia Ricordo come nei giorni successivi fosse fuori di sé."Dopo il re, toccherà alla mia Regina", ripeteva senza fermarsi, fra le lacrime. Fersen lanciò ad André uno sguardo eloquente. André ormai beveva il suo cognac senza guardare l'ospite in viso, e parlava come riflettendo ad alta voce: "Lo so, Fersen, so bene che vi sembra strano, ma Oscar, nonostante avesse abbracciato la causa della Rivoluzione, non smise mai di provare affetto e devozione per ..." - si interruppe, non sapendo come chiamarla, parlando con lui - "per la regina", concluse sbrigativo. "E Robespierre?", chiese di rimando Fersen. "Quando Oscar entrò nel suo ufficetto, in un localuccio ricavato accanto alla sede del Comitato di Salute Pubblica alle Tuileries, Robespierre alzò appena lo sguardo dalle carte che stava esaminando. Negli anni si era come disseccato, e, oltre che spaventosamente dimagrito, sembrava quasi essersi rattrappito. "Cittadina Oscar François, quale onore!", esclamò. "Cittadino, Robespierre, vengo con una richiesta urgente..." " E quale sarebbe?" "Rilasciare la prigioniera nella prigione del Tempio!” “Veramente, la Vedova Capeto attualmente si trova alla Conciergerie”, puntualizzò con la sua vocetta incolore Robespierre, mentre posava nuovamente, con aria un po’ stizzita, gli occhi sul foglio che aveva per le mani. “Credetemi, cittadino Robespierre: Maria Antonietta è innocente da ogni colpa". "Ma senti senti! Un avvocato difensore! E che prove dovrei considerare a sua discolpa, di grazia?". L’Incorruttibile aveva puntato gli occhi addosso a Oscar, adesso, e la fissava con la sua aria impenetrabile, mentre aggiustava con mano un po’ tremante le lenti degli occhialetti che gli traballavano sul naso. "Non potete trattenerla ancora in prigione! Dopo la condanna e l'esecuzione del re..." "Del CITTADINO CAPETO", la rimbeccò immediatamente Robespierre, con puntiglio feroce. "Del Re: un Re che aveva concesso una Costituzione!", s'impuntò lei, la rabbia montante, l'orgoglio già pungolato. "Del Cittadino Capeto, che con il suo tentativo di fuga si era macchiato di alto tradimento, direi!". Tutti avevano terrore di Robespierre, specialmente dopo l'esecuzione del re. Di fronte a lui, Oscar non tremava, se non per i brividi della febbre, che aveva sfidato per alzarsi e guadagnare, con fatica, la sede del Comitato di Salute Pubblica. Robespierre sospirò. Poi, con la pazienza con cui un maestro di scuola ammonirebbe un bambino riottoso, che vuole, magnanimamente, persuadere e convincere con bella maniera, prima di ricorrere a modi più bruschi, iniziò: "Cittadina Oscar François, lascia che ti rammemori una storia, una favola o apologo che dir si voglia. Una canna e un ulivo discutevano animatamente su chi fosse più forte. L'ulivo vantava il suo tronco poderoso e le sue radici profonde, mentre la canna...:" "Cittadino Robespierre, non ho bisogno che voi mi ricordiate le favole di Esopo su cui studiavo il greco da bambina. Sono malata, non stupida o senza memoria..." Robespierre, negli anni, aveva acquisito sempre più l'aria di un abatino ipocrita. Del resto, ad Arras, da dove proveniva e dove Oscar e io andavamo spesso da ragazzi, per soggiornare nella proprietà della famiglia Jarjayes, si diceva che, ogni dieci uomini che si incontravano per strada, otto fossero membri del clero. La sua faccetta raggrinzita, lo sguardo viscido dietro gli occhialini, le mani untuosamente strette fra loro: tutto ispirava ribrezzo. Come è squallida la vita negli abusi di potere, pensavo, schifato. Perché se altri abusavano del loro potere per accumulare denaro e ricchezza, a Robespierre interessava solo l'euforia del sentirsi potente, il sentimento di poter disporre della vita e della morte di quanti lo circondavano, privandoli anche della parola per difendersi in tribunale, se lo riteneva necessario. Se sentendo Oscar dargli, ostentatamente, del "voi", in chiaro disprezzo del "tu" rivoluzionario, Robespierre aveva provato stizza, l'aveva dissimulata alla perfezione, non raccogliendo la provocazione. Ostentando noncuranza, aveva ripreso, in tono mellifluo: "Ma bene, vedo che ci intendiamo, Oscar François. E poiché la tua memoria, cittadina, è integra e senza falle, non dovrò certo ricordarti l'occhio di riguardo che il Comitato di Salute Pubblica, in considerazione dei tuoi meriti rivoluzionari e del tuo contributo determinante nella presa della Bastiglia, quando riuscisti a procurarci fucili, cannoni e uomini dalla tua caserma, ha sempre avuto nei tuoi confronti e in quelli della tua....uhm...non propriamente impeccabile famiglia". Robespierre adesso la fissava da sotto in su, seduto alla sua modesta scrivania, così semplice e spoglia, da cui faceva tremare la Francia. La Francia, ma non Oscar, che, in piedi davanti a lui, con i palmi appoggiati al legno del ripiano, lo fissava con occhi da furia, le guance di porpora. "Vedi, cittadina François, ci risulta che tuo padre, il cittadino Réynier Jarjayes", e nel frattempo Robespierre aveva cavato da un cassetto un incartamento fitto di annotazioni, "non sia un nostro entusiasta sostenitore, e, anzi, nelle scorse settimane abbia addirittura pensato di potersi lanciare impunemente in una impresa che non è sfuggita alla nostra solerte attenzione..:[1]" "E allora?", lo interruppe secca Oscar. "A che cosa tende questo discorso, cittadino Robespierre? Ve lo ripeterò un'ultima volta: dovete liberare la reclusa della Conciergerie: sarebbe un ottimo gesto di distensione politica con le potenze straniere ostili alla Francia. Restituitela piuttosto all'Austria, insieme ai suoi figli, e insieme alla cognata! Uno scambio diplomatico potrebbe giovare alla considerazione della Francia nello scacchiere europeo e rendere più malleabili i nemici della nostra Nazione ! Se la reclusa della ... Conciergerie (quanto le costava chiamarla così?) ha delle colpe, esse consistono soltanto nell'essere stata una ragazza troppo sola che ha cercato di consolarsi come poteva..." "Certo: dissipando in vestiti, gioielli e gioco d'azzardo milioni di livres, che avrebbero potuto più utilmente essere devoluti alla causa del popolo, per aiutare milioni di sudditi che morivano di fame? Questo intendete per "consolarsi", cittadina François? O forse la vedova Capeto sarebbe innocente dell'aver convinto il marito a farsi traditore del suo Paese, dell'aver tramato per fuggire dalla Francia, per rifugiarsi all'estero dai suoi congiunti austriaci, per ordire complotti e preparare rovina contro il popolo che aveva angariato per oltre quattro lustri? E noi dovremmo restituirla alla potenza straniera che più trama contro di noi, per rafforzare la posizione dei controrivoluzionari e dei realisti che ancora allignano come pericolosi parassiti nella nostra Repubblica? Per conto nostro, la vedova Capeto e sua cognata Elisabetta Capeto – quell’altra parassita! - stanno bene dove stanno. E non si muoveranno da lì sino a quando non avranno avuto il loro regolare processo.". Nell'ufficetto angusto e afoso era calato un silenzio tombale. Dalla finestra col vetro sbrecciato ancora spalancata entravano zaffate di un odore di marciume nauseabondo, un odore che veniva dal vicino cimitero, uno dei tanti in cui si ammonticchiavano i cadaveri di quanti erano finiti sotto la lama della Louisette, e quell'odore si mescolava a quello di stantio che ristagnava fra quelle quattro pareti muffose. "Non era questo che ci proponevamo quando ... tutto è cominciato", gli disse Oscar, dura e delusa, scuotendo la testa. E allora, quell'abatino untuoso si alzò, fece un mezzo giro davanti alla sua scrivania e si affiancò a Oscar. Se da giovane Robespierre aveva avuto una figura non alta, ma vigorosa, ora sembrava come disseccato e svuotato da ogni afflato vitale: un guscio vuoto. Affiancato a Oscar, era più basso di lei di tutta la testa, e tuttavia, con paternalismo esibito, le aveva posto una mano aperta sulla schiena: "Cittadina François, sappiamo che nella tua casa è arrivata da poco una giovane nipote ... Françoise, giusto? Un'orfana, se ben ricordo. Eh, sì, purtroppo suo padre, il cittadino Marivaux non ha dimostrato grande fedeltà alla Rivoluzione e alla Patria. Bene, mi compiaccio di questo gesto di carità familiare accogliente, cittadina François; e immagino che anche per il cittadino Grandier - e qui per la prima volta parve accorgersi della mia presenza, lanciandomi uno sguardo pieno di freddo disprezzo e scherno - nella vostra condizione, sia una grande consolazione la presenza di questa bambina". Una pausa, l'ennesima, sin troppo eloquente. "Perché mai, cittadina François, vuoi mettere a repentaglio la serenità di una bambina che ha già perso molto? Non preferiresti che crescesse tranquilla con sua madre, con suo nonno, con i suoi zii, nella vostra bella casa?" [1] Allusione alla congiura ordita dai lealisti, mesi prima del processo, per consentire la fuga di Maria Antonietta dalla prigione del Tempio.

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Capitolo 6
*** 6 ***


6.

Le labbra di Oscar inizarono a tremare. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime, di esplodere d'ira, o entrambe le cose.

"Torna a casa, cittadina Oscar François: noi ti siamo stati e ancora ti siamo molto grati per il tuo aiuto passato, ma riteniamo anche che ogni gratitudine abbia una durata limitata e che ogni conto si pareggi, presto o tardi. Torna a casa. E tu, cittadino Grandier"- e in quel momento mi puntò addosso quegli occhietti grigi e freddi- dovresti vigilare meglio su tua moglie, e sulle sue intemperanze. O forse la tua condizione di fuco, nel bel palazzo che la nostra magnanimità vi ha consentito di mantenere, non ti consente di svolgere le tue mansioni di capofamiglia come dovresti?"

Negli occhi di Oscar era passato un lampo improvviso: in altri tempi, sarebbe scattata immediatamente, le mani al bavero di chi avesse osato una simile impertinenza, per sollevare di peso l'impudente; ma la riflessività indotta dagli anni, insieme alla debolezza prodotta dalla malattia, l'avevano resa meno fulminea nelle sue reazioni, e così avevo potuto intercettare il movimento delle sue braccia, cingendola con le mie in un abbraccio che voleva non solo proteggerla dalle conseguenze nefaste di un'azione d'impulso, ma anche consolarla per quell'affronto, così pesante per il suo orgoglio.

"Andiamo via, Oscar. Qui non c'è più niente per noi".

"Cittadino Grandier", disse Robespierre con un cenno, sedendosi nuovamente, e ostentando con deliberazione di ignorare Oscar . "Mi duole dovervi congedare, ma, come immaginerete la mia agenda giornaliera è piuttosto fitta di obblighi", e chinò la testa sulle sue carte.

Portai Oscar fuori, tenendola per le spalle, senza dire una parola. Sempre in silenzio, arrivammo a palazzo Jarjayes. Per tutto il tragitto, non disse una sola sillaba. Sentivo il suo sconforto rabbioso per quell'insuperabile impotenza, e non c'era nulla che potessi dire o fare, se non esserle vicino; vedevo che, mentre guardava ostinatamente fuori dal finestrino della carozza, le lacrime le premevano agli occhi, sino a quando la stanchezza, la febbre, la delusione bruciante non la fecero cedere, e non cadde, sfinita, in sonno di piombo. Non la svegliai nemmeno quando arrivammo a casa.  La presi fra le braccia e la portai in camera da letto, adagiandola fra le coperte.

Mentre salivo le scale, incrociai lo sguardo del Generale. Una volta saputo dove eravamo andati, aveva misurato le ore e persino i minuti con un'ansia incontenibile, temendo di venire informato che non saremmo più tornati a palazzo, e che eravamo finiti sotto processo; ci voleva così poco, in quei giorni: una parola sbagliata, un comportamento inappropriato, una battuta inavveduta davanti a chi non si conosceva bene; non sarebbemo stati né i primi né gli ultimi.

Il Generale ci aspettava in cima allo scalone d'onore, e quando gli passai accanto, riassumendo il bilancio di quella fallimentare giornata con un muto cenno di diniego, non  seppe fare altro che rivolgere uno sguardo carico di dolore a sua figlia, e poi si avviò lungo il corridoio buio".

Fersen ascoltava, attento.

Poi, André, una volta terminato il suo racconto, prese da uno stipo un libro legato da un nastro scuro e lo porse a Fersen.
"Rosalie Lamorlière, che si prese cura della regina nella prigione del Tempio e poi alla Conciergerie, riuscì a salvarli e a portarli alla figlia Marie Thérèse. Marie Thérèse, dopo essere stata liberata,volle farmeli avere, con la preghiera, se vi avessi mai rivisto, di consegnarveli".

"Ma questa è....". Fersen era incredulo: nelle mani teneva la copia di "Paul et Virginie" usata per scambiarsi messaggi cifrati durante la prigonia di lei.

"E questo...?", chiese, slegando il nodo del nastro scuro.

"Quello era il nastro con cui si legava i capelli durante la sua prigionia".

Il conte di Fersen ripiegò il nastro, lo baciò e se lo mise nel taschino, accanto al cuore.

Adesso non c'era davvero più nulla da dire.

"Credo che ora sarebbe meglio se ci ritirassimo, André".

"Sì, Fersen, avete ragione. Vi accompagno, conte", disse quello, facendo il gesto di alzarsi dalla poltrona, ma venendo fermato da un cenno dell'altro. "Grazie, André, conosco la strada, non prendetevi disturbo per me".

"Come preferite, Fersen".

"E voi, André? Non andate a letto?".

"No, io aspetterò ancora un po'... io resterò qui, con Oscar", gli rispose, senza distogliere lo sguardo dal ritratto, ormai quasi del tutto avvolto nell'oscurità, contro cui combatteva la luce fioca di una sola candela.
"Grazie André". Fersen, levandosi, passò accanto all'amico, ponendogli la mano sulla spalla. E mentre cercava di abbandonarsi a un sonno che non arrivava, in quella notte fredda, pensava che André era molto, molto fortunato, a poter ricordare Oscar così.
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Capitolo 7
*** 7 ***


7. La mattina, a colazione, Françoise era particolarmente allegra; al contrario, la Marchesa Clothilde sembrava trattenere a stento il malumore.
"Zio, che ne diresti se  oggi andassimo a Chartres insieme con il conte di Fersen?"
"A Chartres? Che idea! E per fare che cosa, poi?!", alzò il sopracciglio la marchesa, imburrando il suo pane con aria di profonda degnazione.
"Ma, veramente, avevo pensato che il Conte di Fersen avrebbe apprezzato una gita sino alla cattedrale. Oggi il cielo promette una giornata straordinariamente limpida e ...."
"Apprezzo molto il fatto che tuo zio abbia eclissato ai tuoi occhi la mia autorità genitoriale, Françoise. Davvero, la tua delicatezza non ha eguali". E poi, rivolta al cognato:"André, oggi vi pregherei di ricordare a vostra nipote che la cena sarà servita alle sette e trenta precise. Non credo metta conto comunicare l'orario del pranzo, dato che, come gentilmente mi è stato detto solo poco fa, sarete impegnati in una escursione a Chartres. Vi auguro una buona giornata, conte di Fersen". E, ciò detto, gli porse la mano da baciare e si allontanò, muto simulacro di dignità materna ferita.
"Scusate la mamma, Fersen", disse Françoise. "Io, a volte, non la capisco. Sembra che sia ... gelosa".
"Françoise..:", la ammonì lo zio.
"No, zio André, non voglio annoiare il nostro ospite, lo so. Ma a volte penso che sarebbe stato molto meglio se fossi stata figlia tua e della zia Oscar".
"Françoise, non dite questo", si intromise Fersen "Io sono certo che vostra madre prova per voi il più tenero degli affetti".
"Certo, certo", mormorò Françoise con gli occhi abbassati sulla tazza del caffé.
"Soprattutto, Françoise, non farti sentire da tua madre quando dici certe cose", disse André.
"Ti ricordo, zio, che maman non si è mai peritata dal farsi sentire da me mentre diceva certe cose anche peggiori, se mai fosse stato possibile".
"Françoise, ti pare gentile mettere a parte il nostro ospite dei nostri piccoli dissapori domestici?".
"Piccoli dissapori...", mormorò Françoise, lo sguardo cupo chino sulla tazza di caffé. Poi, come snebbiatasi, alzò la testa, e disse, le belle labbra composte in un sorriso che le costava certo fatica: "Conte di Fersen, può andarvi bene partire alle nove?"
"Perfetto, Mademoiselle de Marivaux".
"No, vi prego, chiamatemi Françoise: altrimenti, niente escursione!", rise lei.
"Va bene, Françoise: capitolo di fronte al vostro ricatto", cedette lui.
"Ottimo. E tu, zio André, verrai con noi?". Lo aveva chiesto con una lieve nota di ansia nella voce.
"Ma certo, Françoise. So che ci tieni molto, e verrò molto volentieri: è un bellissimo modo per iniziare la primavera".
"Grazie per averlo capito, zio. Ora corro a prepararmi", gli disse accompagnando le parole con un bacio sulla guancia.
 
 

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La cavalcata era stata lunga e più spossante del previsto, e loro due non erano più trentenni pieni di vigore, ma uomini di mezza età. Mentre sostavano su un prato, seduti nell'erba, di fronte allo spettacolo di Françoise che non smetteva di spronare Germanico al galoppo, Fersen chiese: "Voi vi sentite mai a disagio, André, in quella grande casa dove tutto parla di Oscar? Non vi sentite mai solo?"
André scosse la testa. "Perché dovrei?". E poi. "So che mia cognata Clothilde può sembrare non certo la più calorosa delle madri e davvero non la più espansiva delle donne. Ma non ha avuto una vita semplice, e dovete comprenderla".
Fersen, un ginocchio piegato e l'altra gamba allungata sull'erba, il busto eretto, lo fissò con attenzione.
"Nemmeno voi avete avuto una vita semplice, André. Anche a causa mia, devo ammetterlo", disse, con semplicità.
André annuì, senza una parola. Gli venne in mente un giorno di vent'anni prima, quando ancora non aveva perso l'occhio sinistro.
Non l'aveva mai raccontato a nessuno, tantomeno a Françoise, che era cresciuta nel mito del padre, senza nemmeno immaginare quanti umilianti patimenti il marchese di Marivaux, gran giocatore d'azzardo, bevitore e frequentatore incallito di bordelli e di alcove meno dichiaratamente mercenarie, avesse inflitto a Clothilde. Troppo orgogliosa -il maledetto orgoglio Jarjayes, che André aveva imparato a conoscere così bene -, del resto, Clothilde non aveva mai rivelato, nemmeno alla madre, le prepotenze del marito. Ma certo quando le intemperanze di un consorte con un incarico di rilievo a corte superano una certa soglia di bizzarria, o di debosciatezza, non c'è bisogno degli sfoghi afflitti di una moglie trascurata, e talvolta malmenata, perché le voci inizino a rimbalzare per tutta Versailles, e poi per i salotti di Parigi.
Dopo la nascita di Françoise, le cose erano, se possibile, ancora peggiorate. Il travaglio era stato particolarmente lungo e tormentoso, il parto difficile e con complicazioni gravi. Il medico era stato immediatamente chiaro, ai limiti della brutalità: Clothilde non avrebbe potuto avere altri figli, e il marchese Hercule Timoléon de Marivaux non aveva accolto bene la notizia che la sua sola progenie sarebbe consistita in una figlia femmina.
"Una femmina! La maledizione dei Jarjayes! Ancora!". E poi, ben udibile, prima di lasciare il palazzo avito: "Tanto valeva che mia  moglie morisse! Almeno, risposandomi avrei potuto sperare di avere un figlio maschio!".
Quando Oscar, mentre percorrevano uno dei viali di Versailles, da perlustrare prima della passeggiata serale della Regina, aveva colto il racconto di queste prodezze familiari, certamente trapelato dalle bocche di qualche servitore solerte, e finito sulle labbra della poco discreta contessa di Boulainvillers, che, per farsi sentire da una vecchia baronessa dura d’orecchi, più che parlare, stava gridando, aveva stretto le labbra, impallidendo. Altra reazione non aveva avuto.
Però, pochi giorni dopo, Clothilde e la piccola Françoise vennero a stabilirsi per un periodo a Palazzo Jarjayes, perché la sorella di Oscar potesse rimettersi adeguatamente dal parto, assistita dai familiari, e la madre, la contessa Marguerite, potesse conoscere la nipote.
Erano iniziate anche le visite del Marchese, il quale, più per decenza che altro, un paio di volte alla settimana arrivava a Palazzo per salutare Clothilde e rivolgere un'occhiata distratta a Françoise che riposava quieta nella culla bordata di merletto bianco.
 

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Capitolo 8
*** 8 ***


Era accaduto una mattina - si era all'inizio della stagione dei furti del Cavaliere Nero:  André stava attendendo Oscar ai piedi dello scalone d'onore per andare insieme a Versailles. Avevano discusso per buona parte della notte su come catturare e prevenire le mosse di quel ladro che sembrava inafferrabile; lui in poltrona, ricordandole, ogni tanto, come per caso, che sarebbe stato meglio se fosse andata a riposare dopo oltre quindici ore di servizio; lei, Oscar che sembrava non sentire lo scorrere del tempo né la stanchezza, camminando, ancora in uniforme, avanti e indietro, mentre misurava a passi lenti e cadenzati l'ampiezza del salone con la grande vetrata affacciata sulla fontana al centro del cortile, e tormentava con i denti l'unghia del pollice, la mano sinistra chiusa a pugno, le dita della destra che tamburellavano sull'elsa della spada, che si era dimenticata di sciogliere dal fianco, tanta era la tensione di quei giorni.
"Oscar, andiamo a letto. Sono le due passate".
"Ancora un attimo, André. Io non capisco come il cavaliere nero possa andare tanto a colpo sicuro nelle case degli aristocratici; come se sapesse, se conoscesse...:"
Alla fine, ben dopo le tre, si erano ritirati. Ma, mentre vegliava a letto, André sapeva bene che nemmeno Oscar, divisa da lui da pochi passi, dietro la parete alla sua destra, stava dormendo.
Il mattino dopo, mentre la attendeva, pensando che il suo leggero ritardo fosse dovuto alla notte insonne, e immaginando magari di cogliere dei leggeri aloni intorno ai suoi occhi color fiordaliso, il marchese di Marivaux si era palesato nell'atrio. Era sceso dalla sua carrozza, ferma davanti al grande ingresso, spintonando con malagrazia il cocchiere che cercava di sostenere il passo traballante del suo padrone, certo esito di una nottata spesa fra il casinò di Parigi e le case di tolleranza più celebrate della capitale, e irrorata da fiumi di champagne e Borgogna. "Levati dai piedi!", riuscì ad articolare all'indirizzo del costernato cocchiere che cercava di sorreggerlo; parole sgarbate, biascicate con voce impastata, e accompagnate dal tentativo di mollare al solerte servitore un calcio, che mancò il bersaglio tanto sua Grazia il marchese era ubriaco; quindi, appena varcata la soglia del palazzo, si appoggiò al muro e vomitò a terra, nell’atrio, un fiotto scuro e temulento.
Poi, pulitosi alla meglio la bocca con la manica della marsina di seta già imbrattata di vino e di chi sa cos'altro, aveva intercettato lo sguardo di André, che lo fissava, immobile e inespressivo.
"TU, servo!", gridò roco, passandogli accanto barcollante, e indicando la larga macchia che si spandeva a terra dietro le sue spalle, "Pulisci, presto!".
"André è il mio attendente", aveva detto in quella una voce secca e severa: Oscar, palesatasi in cima allo scalone, stava scendendo a passi lenti e calmi. "E non rientra certo fra le sue mansioni pulire per terra quando mio cognato ritorna a casa ubriaco".
"Che cosa hai detto, Madamigella Comandante?", le chiese in un sibilo puzzolente di vino, prendendole il mento fra le mani, quando ella fu un passo da lui.

"Ho detto ..", stava ripetendo quella, glaciale, ma André aveva intercettato le parole di lei, e aveva cercato di frapporsi: "Oscar, non importa, davvero, ci metto un attimo..:"

"No!", aveva esclamato quella, in uno schiocco, e aveva preso e abbassato con calma la mano del cognato. "Hercule, non azzardarti mai più a toccarmi, hai capito? Fammi un cenno con la testa, se hai capito, sì? E ora sali subito questi gradini e cerca di ricomporti, prima di farti vedere da mia sorella e da mia madre". Hercule Timoléon de Marivaux non aveva potuto sostenere a lungo lo sguardo gelido della cognata, aveva lasciato ricadere la mano lungo il fianco, annuendo, e si era affrettato a salire lo scalone, non senza borbottare in preda a un'ira vigliacca parole confuse fra cui si poteva distinguere un "Va' , va' a fare marciare i tuoi soldatini in divisa azzurra, Madamigella Comandante, va'a comandare quelle bambolette da esposizione", e anche un più sintetico e icastico "Va' a farti fottere", che aveva fatto scattare la testa di Oscar all'insù, mentre André le metteva una mano sulla spalla, facendole cenno che non valeva la pena di infervorarsi per quell'individuo.

Erano montati a cavallo in senza parlare e senza una parola avevano percorso le poche  miglia che li separavano dalla reggia. Poi, quando ormai i cancelli di Versailles erano in vista, Oscar aveva rotto il silenzio.

"André, ti prego di non badare al comportamento di mio cognato. Non odiarlo, anzi, perdonalo, se puoi. Hercule è .... è solo un povero miserabile". Una lieve pausa "Ma non tutti i nobili sono così", aveva aggiunto poi, guardandolo fisso.
André aveva annuito. "Io non odio nessuno, e tu lo sai, Oscar".
E avrebbe voluto chiederle anche: "Oscar, perché mi dici questo? Non credi che sappia benissimo quanto tu sia diversa da quei nobili violenti e corrotti che affollano la reggia? Non credi che ti conosca, dopo tutti questi anni? Che riesca a leggere in te meglio di chiunque altro? Che mi abbia intenerito e commosso il tuo prendere le mie difese per risparmiarmi quella che ritenevi una umiliazione?".


Invece, le aveva soltanto detto: "E poi, Oscar, lo sai: io devo provvedere in esclusiva alla tua ubriachezza, e già questo è un impegno non da poco!", suscitando uno: "Stupido!", accompagnato da una risata che le aveva illuminato quegli occhi il cui azzurro per tutto il tragitto si era incupito.

E così, anche nei mesi e negli anni successivi, sempre insieme alla sua Oscar, vivendo con lei, respirandole accanto, non lasciandola mai, aveva come assorbito i suoi pensieri, la sua essenza, e nemmeno dopo si era mai sentito un estraneo, a disagio, in quel palazzo, come un servo mal tollerato, come un fuco, secondo quanto aveva insinuato malignamente Robespierre, facendo anche una allusione ancora più malevola alla "vostra situazione". 

Invece, per lungo tempo, persino negli ultimi mesi, riusciva anche a illudersi, quando era sopra pensiero, fra gli oggetti di lei, nella sua stanza, davanti alla scacchiera su cui avevano giocato le loro eterne partite, in biblioteca, nelle scuderie, sotto la quercia affacciata sul lago, che prima o poi lei gli sarebbe comparsa davanti agli occhi, che, in qualche modo, fosse ancora lì, concentrata su un libro o su un nuovo spartito, e che da un momento all'altro avrebbe sentito la sua voce.


Soltanto in quella cappella luminosa e ordinata, davanti a quel marmo bianco, paradossalmente, non l'aveva mai sentita vicina, anzi, non l'aveva mai percepita più lontana di così, benché fosse proprio dietro quella lapide fredda.

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Capitolo 9
*** 9 ***


9.

Adesso che Françoise aveva finito di spronare Germanico e di testarne la velocità, veniva verso di loro, tenendo il cavallo per le briglie, e affondando gli stivali nell'erba con l'energia e la soddifazione di una ragazza di vent'anni, vivace e in salute, che era riuscita a strappare un giorno di libera uscita dai programmi minuziosi della madre. E quando anche Germanico fu vicino ai cavalli di Fersen e André, Françoise si lasciò cadere con poca grazia sull'erba, fra il conte e suo zio, e, appoggiata la testa sulla spalla di questo, alzando lo sguardo, adorante, gli chiese: "Allora, zio André, che cosa ti sei portato dalle cucine per noi da sgranocchiare?"."


"Io?", aveva chiesto con aria innocente André. "Ma non dovevi occupartene tu?".

"Io?", chiese con una faccia confusa e mortificata Françoise. "Oh, santo cielo! Ma davvero?! Vuoi dire che mi sono dimenticata...? Fersen, zio, scusatemi...sono la solita pasticciona!".

"Scherzavo, Françoise, scherzavo: guarda un po' che cosa ho rubat...ehm....prelevato dalla cucina, di nascosto da Émilie", e intanto prendeva una borsa di cuoio posata poco lontana sull'erba, da cui cavava pane, formaggio, una bottiglia di Bordeaux, tre bicchieri avvolti in spessi tovaglioli di fiandra, salsicce, coltelli, panini dolci, burro e mele.

"Émilie è la nostra cuoca", chiarì Françoise a beneficio di Fersen, "giusto un pochino più sussiegosa di maman, anche se non è marchesa". "Però, noi la perdoniamo, perché, in compenso, Émilie sa cucinare", aggiunse André, strappando alla nipote una risata.

"Monsieur Grandier, ricordatevi sempre di portarci rispetto, perché gli antenati della famiglia Jarjayes hanno partecipato alle Crociate", declamò Françoise, sollevando il dito con aria severa, chiaramente producendosi in una imitazione della marchesa Clothilde.

"Madama la Marchesa, e voi ricordate che gli antenati dei Grandier erano nientemeno che i falegnami che fabbricarono la tavola dell'Ultima Cena", aggiunse di rimando André con una grassa risata.

"Contegno, conte zio!", lo rimproverò Françoise già con le lacrime agli occhi.

"Non sono conte, e, purtroppo, a casa Jarjayes questo è quel che conta", ripose André.

"Ma io sì, che sono conte", intervenne Fersen.

Da quel momento in poi, la loro allegria non ebbe più ritegno, e le risate rimbalzavano dall'uno all'altro del terzetto; e per un istante a Fersen sembrò davvero di aver fatto un viaggio nel passato, di essere tornato ai primi tempi della sua amicizia con Oscar e André, molto prima della sua partenza per l'America, ai pomeriggi spensierati e alle sere passate bevendo in allegria, prima che i l'amore si mettesse in mezzo, come una serpe maligna, a rovinare tutto.

"Guardate che cosa mi sono portata", disse a un tratto Françoise, esibendo un mazzo di carte cavato dalla tasca interna della sua giacca.

"Oh no, Françoise, io mi rifiuto di giocare ancora con te!", esclamò André.

"Certo che ti rifiuti! E so anche perché: perché perdi sempre!", ripose quella, come se dicesse la più grande ovvietà di questo mondo.

"Gioco io con voi, Françoise", intervenne cavalleresco Fersen. "Va bene, va bene: a quanto fissiamo la puntata minima?", chiese la ragazza.
"Ma come?! Volete giocare davvero, allora?", chiese stupefatto quello.

"Certo, conte! E si gioca per vincere!", asserì con sicurezza lei.

"E se doveste perdere tutto il denaro che avete in tasca?", chiese Fersen, mentre mescolava le carte, gli occhi socchiusi e l'aria da uomo di mondo.
"Beh, allora sarei costretta all'inevitabile. Dovrei pagarvi in natura". André sgranò gli occhi: possibile?  Ma, subito dopo, Françoise, con una smorfia e con voce innaturalmente grave: "Conte di Fersen, accettate mia madre in pagamento? Credo che questo sia un fattore determinante perché voi mi lasciate vincere". Ciò detto, la ragazza si strinse naso e bocca fra le mani, in preda a un attacco di riso furioso, seguita da André, e poi anche da Fersen.
Prima di avviarsi verso casa, Françoise si addormentò per un breve momento sull'erba, e Fersen potè parlare liberamente con André.

"Io ....vi ringrazio molto. Pensavo di rendervi un gran favore, con la sua lettera..."- nominava Oscar il meno possibile, in quegli ultimi tempi, - "Ma, come sempre quando ho soggiornato ospite degli Jarjayes, ho ricevuto più di quanto avessi dato. E forse più di quanto meritassi".

"Fersen, non dite così".

"Sì, invece. Vedete, domani mattina me ne andrò, e tornerò a Parigi, e di lì, tra poco più di una settimana, partirò per Stoccolma. Non so se rivedrò mai più la Francia. Ma prima di andarmene, io, io vorrei ... salutarla".

"Sta bene. Vi attenderò domani mattina alle sei ai piedi dello scalone d'onore".

"Grazie, André", annuì Fersen.

Il pomeriggio passò lietamente, con Fersen che, andando al passo accanto a Françoise, cercava di insegnarle qualche frase in svedese. Ogni tanto la ragazza scoppiava a ridere, e addirittura esclamò: "Ah cielo! Ma è impossibile! Ma che lingua è? "Ti amo" in svedese sembra una bestemmia! Dite la verità, conte, siete venuto in Francia perché non ne potevate più di sentire latrare, invece che parlare, per le vie di Stoccolma, via, ammettetelo!".

Ritornati a palazzo per tempo per presenziare in perfetto orario alla cena imbandita con misura ed eleganza dalla Marchesa Clothilde, trascorsero una serata nella piacevolezza di chiacchiere convenzionali e senza spessore, sino a quando Fersen ruppe ogni indugio, prendendo congedo dalle signore, e avvisando che sarebbe ripartito molto presto la mattina dopo, forse troppo presto per poter pretendere di salutarle. Beneficiò quindi di un baciamano impeccabile sia Clothilde de Jarjayes che Françoise. Quest'ultima, però, oltre a ricevere l'impronta delle labbra di Fersen sul dorso della mano, lo abbracciò calorosamente e se ne fece abbracciare, non senza suscitare uno sguardo corrucciato della madre.

"Grazie, per le vostre lezioni di svedese. Spero di poter venire un giorno a Stoccolma per continuarle, conte".

"Grazie, Mademoiselle Françoise. Siete un'allieva promettente, la più promettente che abbia incontrato da molto tempo a questa parte".

Poi, la notte era scivolata via.

Il mattino dopo, prima che l'alba dissipasse le tenebre, Fersen aveva trovato, puntualmente, alle sei, André ad attenderlo ai piedi della scalinata monumentale, con in mano una lanterna.

I due uomini si erano fatti un cenno d'intesa; quindi André aveva condotto Fersen fuori dal palazzo, e l'aveva guidato sino a un piccolo edificio, poco lontano: la cappella privata della famiglia Jarjayes. André cavò dalla tasca un pesante mazzo di chiavi e, dopo aver armeggiato un po', ne impugnò una e fece entrare Fersen.

L'ambiente, freddo e ed essenziale, completamente rivestito di marmo bianco, non invitava certo a semtirsi a proprio agio. André porse a Fersen una sedia, e ne prese una seconda per sé: e i due si accomodarono davanti a una lapide bianca, che spiccava per semplicità, su cui vi era solo composto, a lettere d'oro:
 
OSCAR GRANDIER
1755-1794
 
         Non c'erano né date più precise, né un epitaffio, né complicati bassorilievi, che invece decoravano la tomba del Generale e della moglie Marguerite, quella dei genitori del Generale, e infine, quella di Hortense, una delle sorelle di Oscar, e di François, il primo figlio di Clothilde, nato e vissuto solo un giorno, un anno prima della nascita della sorella.

"Tutto finisce qui...", mormorò Fersen, ponendo una mano, con delicatezza, sulle lettere dorate. E poi, con amarezza, articolò poche, disperate parole: "Ebbene, amico mio, avete una grande consolazione: quella di avere una tomba su cui potere piangere la donna che amate. Una grande anche se assai triste consolazione, ma che non tutti possono avere".

"Oh, no, Fersen", rispose con la sua quieta fermezza André "Ricordate, ricordatelo sempre: dipende solo da voi, dipende da noi, dall'intensità del nostro ricordo, dalla fiducia e dal calore con cui sapremo coltivarlo e farlo fiorire e fruttare, nel nostro animo e nella nostra vita, se la donna che abbiamo amato non verrà dimenticata, e non sarà travolta dall'oblio. E se riusciremo a fare questo, davvero potremo dire non di avere vinto la battaglia contro un'avversaria che non si vince, ma potremo forse dire che non tutto è perduto".

"Grazie, André, voi mi avete dato una grande lezione. E non solo ora", disse Fersen, con semplicità. "Siete un amico, sappiatelo, anche se non dovessimo più incontrarci, come credo e temo. E siete anche l'uomo più nobile che io abbia mai incontrato. Posso comprendere l'amore che Oscar aveva avuto per voi: una creatura eccezionale come lei poteva amare solo un uomo altrettanto eccezionale. Vi auguro ogni bene. Abbiate cura di lei, del suo ricordo", disse, volgendo gli occhi al marmo bianco, "e anche di voi", e guadagnò l'uscita, seguito da André, che, prima di richiudere a chiave l'ingresso, sostò per pochi secondi davanti a quel biancore inerte, sfiorando le lettere che componevano il nome di lei.

Rimasero in silenzio. Il cocchiere, debitamente istruito, attendeva già, a cassetta, pronto a partire. Prima di salire in carrozza, Fersen e André si strinsero la mano, in silenzio, perché non c'erano più parole da consumare. Poi, la carrozza del conte non fu più che un puntino che sfumava in lontananza, e André rientrò verso casa a passi lenti.

Ormai il sole stava sorgendo, e, in quell'alba limpida di primavera, la vita a palazzo Jarjayes stava riprendendo i suoi ritmi di sempre.
 

 
 

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