Your worst nightmares

di I_love_villains
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Guardia medica ***
Capitolo 2: *** Mirmecofobia ***
Capitolo 3: *** Pelle d'oca ***
Capitolo 4: *** Angelo custode ***
Capitolo 5: *** The zombie song ***
Capitolo 6: *** Pan per focaccia ***
Capitolo 7: *** Casualty ***
Capitolo 8: *** John the photographer ***
Capitolo 9: *** Harlequin ***
Capitolo 10: *** Esponenziale ***
Capitolo 11: *** Notte di luna piena ***
Capitolo 12: *** Nascita di un racconto ***
Capitolo 13: *** Ordinary Girl ***
Capitolo 14: *** Marco Polo con Thalassa ***
Capitolo 15: *** Equivoco ***
Capitolo 16: *** Ammit ***
Capitolo 17: *** Consigli celati ***
Capitolo 18: *** Two Sentence Horror Stories ***
Capitolo 19: *** Horraiku ***
Capitolo 20: *** Fraser Island ***
Capitolo 21: *** Cibo in scatola ***
Capitolo 22: *** Leggenda ***
Capitolo 23: *** Egyn: Il Re Dell'Acqua ***
Capitolo 24: *** Il richiamo ***
Capitolo 25: *** Omertà ***



Capitolo 1
*** Guardia medica ***


Josie guardò la sveglia. L’una di notte. Tossì, voltandosi stancamente dall’altra parte. Aveva sonno, ma non riusciva ad addormentarsi. Un ulteriore eccesso di tosse la fece lacrimare. Sorseggiò più che poté un bicchiere d’acqua, poi sistemò meglio il cuscino per sedersi, accese la lampada e prese il termometro per inserirlo sotto l’ascella. Dopo un paio di minuti constatò che la sua teoria era fondata: la febbre era salita. Preoccupata, la giovane si decise a chiamare la guardia medica. Il dottore di turno rispose quasi subito. Josie spiegò cosa aveva e dove abitava, poi riagganciò e attese pazientemente l’arrivo del medico.
Il dottore arrivò un quarto d’ora dopo. Le auscultò il cuore, le misurò la pressione e le chiese di fare dei respiri profondi. La ragazza obbedì. Era felice che una persona così affabile fosse intervenuta per soccorrerla.
“Non ha niente di grave, signorina. Adesso le faccio una piccola inezione per non far alzare la febbre e prevenire eventuali svenimenti … lei abita da sola?”
“Sì, ma i miei genitori abitano a pochi isolati da qui. Solo che non volevo disturbarli e …”
“Certo, si capisce. Ecco, distenda il braccio e stringa il pugno. Così, brava.”
Non era passato nemmeno un minuto dall’iniezione, che Josie si sentì immensamente stanca e debole. La vista le si appannò. Esausta, acconsentì agli occhi di chiudersi e si addormentò.
Quando riprese coscienza, la prima cosa che percepì fu una sensazione di leggerezza. Si sentiva stranamente scollegata dal mondo. Sbatté più volte le palpebre, mettendo a fuoco la stanza. Scoprì di essere seduta, con le braccia appoggiate sui braccioli di una sedia. Spostò la testa e la stanza vorticò. Chiuse in fretta gli occhi, temendo di vomitare, e si sforzò di riordinare le idee. Il letto, la febbre, la telefonata e … il dottore!
Forse era svenuta. Ma allora perché si trovava seduta e non al letto? E il medico dov’era?
Josie riaprì lentamente gli occhi. I capelli ora pendevano davanti al suo viso. Con uno sforzo, alzò una mano per scostarli e grande fu il suo orrore quando sentì muoverseli tutti, come se indossasse una parrucca. La ragazza afferrò una ciocca e la tirò debolmente. Sul suo grembo precipitò una parrucca fatta alla bell’e meglio con i suoi capelli. Josie spalancò la bocca ma non uscì alcun grido. Iniziò a respirare affannosamente, gli occhi sbarrati alla ricerca dello specchio fisso che teneva vicino all’ingresso per darsi un’ultima occhiata prima di uscire. Si raddrizzò sulla sedia, non osando alzarsi poiché si sentiva le gambe come gelatina.
Lo specchio rifletté l’immagine di una ragazza calva pallida e spaurita, con una camicia da notte viola e gli occhi azzurri spalancati e lucidi. Si accorse che sulla sua testa c’era come una cicatrice. Tremante, la tastò, mugolando per l’immediato dolore che provò. La mollezza, quasi il cedimento della pelle sulla sommità del suo cranio le causarono nuovo panico. Si costrinse a toccare nuovamente quella zona per capire cosa le fosse successo. Dalla ferita sgorgò del sangue.
“Oh, non tocchi, per favore.”
Il dottore era apparso dalla soglia del bagno. Aveva i guanti sporchi di sangue rappreso e teneva in mano un bisturi luccicante, che evidentemente aveva appena sciacquato.
“Cosa …? Che …?” biascicò confusa Josie.
“Lei ha subito un piccolo intervento neurochirurgico, cara.”
“Che significa?” gemette la ragazza febbricitante.
“Che ho perforato il suo cranio.”
Josie cominciò a singhiozzare disperatamente. Ciò che stava accadendo non poteva essere vero.
“La neuroscienza mi ha sempre affascinato” raccontava intanto il diabolico medico. “Ma, ahimè, sono riuscito a trovare solo questo posto. Bisogna accontentarsi, a volte. Ora mi faccio da autodidatta.”
“Bastardo! Mi hai uccisa!” urlò Josie, ora rabbiosa.
“No. Non ancora. Dopo il suo intervento, durante il suo sonnellino, mi sono permesso di dare un’occhiata alla sua casa. Ho anche trovato la sua carta d’identità e la sua patente. Lei è una donatrice di organi …”
L’ultima frase del dottore accelerò i battiti di Josie. La ragazza scattò in piedi. Prima che potesse fare alcun che, il medico la spinse giù, fulmineo. Le tappò la bocca con la mano per non farla urlare. Josie lo guardò inebetita, con occhi pieni di lacrime.
“Adesso le faccio una piccola punturina. Non mi è rimasta molta morfina. Forse si sveglierà durante l’operazione ma non sentirà nulla. Garantito.”
Le attutite urla di protesta furono ignorate. La ragazza piombò nuovamente nell’incoscienza.
Quando si risvegliò era stesa per terra e un’intensa luce la accecava. Quella del suo lampadario. Mosse piano la testa, respirando a fatica. Vide il dottore chino al suo fianco, che le asportava un rene. Si accorse a malapena di essere completamente nuda e sporca di sangue.
Il medico continuò il suo lavoro, ignaro dello sguardo vacuo che la ragazza gli rivolgeva. Josie provò a muoversi con scarso successo. Ormai non avvertiva più niente. La sua mente registrò un’ultima immagine prima di spegnersi per sempre: il dottore aveva in mano delle forbici giganti, quelle che si usano per l’autopsia.

Il giorno dopo l’appartamentino della giovane era invaso dalla polizia. La scientifica stava analizzando ogni centimetro quadrato dell’abitazione pur di trovare un qualche indizio che li conducesse alla scoperta dello psicopatico causa dell’orribile morte di quella povera ragazza.
Il detective Renard guardò per l’ultima volta il cadavere sventrato e mutilato, consolandosi col fatto che la giovane non aveva sofferto. Ma chissà come doveva essere stata terrorizzata, povera cara.
Renard ascoltò nuovamente il nastro con su la registrazione della telefonata di Josie alla guardia medica. Il dottor Monroe, di turno a quell’ora, aveva ricevuto la chiamata, ma non era mai giunto a destinazione.
Chi si era presentato allora da Josie?



***Angolo Autrice***
E questa era la prima storia ... Abbastanza inquietante?

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Capitolo 2
*** Mirmecofobia ***


Lola strappò il poster con la Tour Eiffel dalla parete e lo lasciò volteggiare per terra. Si scagliò come una furia sulla mensola, fracassando le palline di vetro che c’erano sopra, il tutto urlando in preda alla rabbia e al dolore. Aveva appena scoperto che Rob la tradiva. Il suo caro fidanzato, con cui coabitava già da un anno, aveva spedito a lei il messaggio destinato alla sua amante.
Sulle prime non ci aveva creduto. Aveva riletto il messaggio più e più volte, rifiutandosi di interpretarlo nel modo più ovvio. La realtà dei fatti, però, aveva preso il sopravvento e lei ora distruggeva quello che le era parso, fino a qualche minuto prima, un rifugio sicuro e indolore.
Lola strappò le foto che li ritraevano insieme, emettendo singhiozzi gutturali e non cessando un attimo di piangere. Quel bastardo le aveva spezzato il cuore. La ragazza si lasciò scivolare lungo il muro, si strinse le ginocchia al petto e pianse disperata.
Conosceva Erica, la vera destinataria del messaggio. Non ci aveva mai parlato, solo scambiato qualche saluto, ma sapeva che era una brava persona. Bella e incredibilmente timida. Molto probabile, anzi sicuro, che lei non sapesse che Rob era già occupato.
Dirglielo?
Ben misera come vendetta. Lui aveva distrutto il suo bel mondo di pace e tranquillità come se niente fosse; che gli sarebbe importato di perdere Erica, dopo la scarsa importanza che aveva dimostrato di avere per la sua compagna attuale, certo non meno bella o interessante? Chissà poi se Erica era l’unica con la quale la tradiva …
In preda allo sconforto, Lola protese la mano, fece cadere la scatola di kleenex e se ne servì. Dondolò sul posto, rabbrividendo, cercando di capacitarsi dell’accaduto.
Far finta di nulla?
Impossibile. Non era nella sua indole. E a che sarebbe servito, poi? Solo a rimandare l’inevitabile.
Lola portò una ciocca scura e appiccicaticcia dietro l’orecchio.
Doveva chiudere con lui, non poteva fare altro. Sarebbe tornata a vivere con i suoi, senza rivelare cosa era successo davvero, anche se forse sua madre l’avrebbe intuito.
Ma come fargliela pagare? Di certo non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
In quel momento il suo sguardo si posò sul pavimento. Un piccolo esserino lo stava calpestando, evitando alcuni ostacoli e arrampicandosi su altri. Le venne un’idea.
Lola buttò la testa all’indietro e rise, una risata folle e liberatoria che la fece star meglio.

Rob rientrò alle sei del pomeriggio, puntuale come sempre. Si affacciò in cucina per cercarla e la trovò a preparare la cena, come al solito.
“Buonasera, amore” la salutò, avvicinandosi e schioccandole un bacio sulla guancia.
“Ciao” rispose lei, continuando a mescolare l’insalata.
Mentre lui si cambiava, Lola apparecchiò la tavola e lo aspettò, paziente, qualsiasi traccia di lacrime sparita dal suo viso. Lo fece sedere, gli mise davanti il polpettone con l’insalata, poi prese una bottiglia di vino e gliela spaccò in testa. Il colpo stordì Rob, che non perse i sensi ma rimase inebetito per qualche minuto. Lola ne approfittò per legargli le mani dietro la sedia ed ebbe perfino il tempo di ripulire il pavimento.
Rob si riprese e iniziò a divincolarsi.
“Ma che fai?! Che ti è preso?! Dio, potevi uccidermi!”
“Non sarebbe stata una gran perdita” ribatté la ragazza, godendosi il suo sbigottimento. E la sua paura.
“Dai, amore, non è divertente ...”
“Non azzardarti mai più a chiamarmi così, bastardo!”
Il ragazzo la fissò sorpreso, cominciando a intuire da cosa fosse causato il comportamento della sua compagna.
“Quante sono? Con quante mi tradisci?” urlò Lola furibonda.
Lui balbettò qualcosa e ammutolì, terrorizzato. Con un po’ di fortuna, i vicini avrebbero udito quegli schiamazzi e avrebbero chiamato la polizia.
“Non importa” fece Lola calmandosi di colpo. “Non importa, che sia una o cento o mille …”
Sparì dalla sua vista. Ciò non piacque per niente a Rob.
“Ok, Lola … calma … parliamone. Mi dispiace, davvero. Ho sbagliato. Io …”
“Certo, hai sbagliato. E adesso fai ammenda.”
La ragazza gli mise davanti una coppa ripiena di formiche. Rob si ritrasse più che poteva, orripilato. Si voltò a guardarla, bianco come un cencio e con gli occhi sbarrati.
“T- ti prego … s- sai che d- detesto le … le … l- lo sai …”
“Lo so, certo. So tutto di te, Robert Smith.”
Il ragazzo tornò a guardare le formiche. Lo stomaco gli si annodò.
“Va bene, mi hai spaventato” scandì lentamente. “Me lo meritavo, okay? Adesso però finiamola qua. Sono disposto a lasciar correre. Pari e patta, eh?”
“Mh.”
Lola avvicinò la ciotola, provando piacere alle smorfie di panico del suo ex- fidanzato.
“Non avevo mai capito quanto la tua fobia sia ridicola.”
“Ti prego, toglimele di torno! Farò tutto quello che vuoi!” la implorò lui.
Lola sorrise. E rovesciò la ciotola su di lui. Rob urlò, in preda al terrore più puro. Si divincolò più che poté, riuscendo a liberare le mani. Si gettò per terra, rotolando. Se le sentiva dappertutto: sulle gambe, sulle braccia, sul torso … quelle bestiacce erano ovunque! Sempre urlando, si mise in ginocchio e si spazzolò i capelli. Intanto Lola se la rideva. La sua risata sadica e le urla di Rob furono l’unica cosa che si udì nel loro appartamento per lungo tempo. Poi ad esse si unirono le sirene della polizia.
La ragazza smise di ridere. Rob continuava a spazzolarsi tutto il corpo, sostenendo che la pelle formicolava in continuazione. Per quel che poteva vedere lei, le formiche erano state schiacciate o erano andate via. Ma perché dirglielo?
“Chissà, forse ti sono entrate dentro” infierì crudelmente.
Il ragazzo si agitò ancora, alzandosi per metà. Sembrò trattenere un singulto di vomito, poi si accasciò a terra.
“Rob?” lo chiamò lei, poco interessata.
Un agente bussò alla porta. Lola andò ad aprire, di buon umore.
“Sì, agente? Che succede?”
“Me lo dica lei. I vicini hanno sentito delle urla provenire da qui.”
“Oh, è solo Rob. Sa, lui ha la fobia delle formiche …”
“Posso entrare a dare un’occhiata?”
“Certo … stavo giusto per chiamare l’ambulanza.”
La ragazza lo condusse in cucina. L’agente si chinò sul corpo di Rob, voltandolo cautamente, mentre lei chiamava un’ambulanza.
“Signorina …” disse il poliziotto, allibito. “Ma … è morto.”
“C- cosa?”
Cosa? Lo aveva ucciso?
Dio, potevi uccidermi!” le tornò in mente. E lei che aveva risposto?
Non sarebbe stata una gran perdita.”
E non lo era, infatti. Lola ridacchiò, cercò di dominarsi ma esplose in una serie di risa isteriche. L’agente la fissò perplesso. Non distolse un attimo lo sguardo da lei fino all’arrivo dell’ambulanza.
La ragazza si asciugò le lacrime. No, non aveva bisogno di un calmante, stava bene. Seguirli in centrale … perché no? Non aveva ucciso lei Rob, era stato il fato, che lo aveva giustamente punito.



***Angolo Autrice***
Questa volta la donna non è solo vittima ...

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Capitolo 3
*** Pelle d'oca ***


Ho appena finito di leggere una Creepypasta brevissima, di sole due frasi. È bastata a farmi venire la pelle d’oca. Per la paura? No, non esattamente. Per la sua bellezza, direi. Non capita spesso di trovarne di terrificanti, ma alcune lo sono davvero. Sicuramente capite cosa intendo.
Spengo il PC, ormai è ora di cena. Non penso più a quelle storie, il momento del brivido è passato e quasi dimenticato. Adesso è il momento di godersi un bel film d’azione.
Il film finisce verso mezzanotte. Si va a letto e ancora niente. Mi ci vuole un po’ per addormentarmi, niente di speciale.
Alle quattro sono sveglio. Non so se sognavo, non me ne ricordo quasi mai. Mi alzo per un’urgenza fisiologica e accade: ho paura. Improvvisamente, involontariamente, mi vengono in mente le storie che mi hanno piacevolmente spaventato quel pomeriggio. Corro in bagno e accendo la luce. Cerco di non guardare lo specchio, pensando alla breve storia in cui il riflesso fa l’occhiolino. O a quella in cui si sente battere da là dentro. Sciocchezze create da altri, lo so, ma il mio cervello non vuole essere razionale.
Devo tornare a letto e lo faccio altrettanto di fretta, tenendo gli occhi chiusi. Mi butto le coperte sulla testa, anche se fa caldo, e mi raggomitolo su un lato. Mi devo calmare, se voglio riprendere sonno.
Purtroppo la mia mente non è d’accordo. Mi mantiene all’erta, come se fossi in pericolo. Mi ritrovo a percepire ogni minimo rumore: lo scricchiolio del comò, mio fratello che si gira, qualcuno che cammina al piano di sopra … E intanto ripenso alle storie. La bimba con le quattro dita, il bimbo sopra e sotto il letto, la finta madre, il falso cieco … quelle Creepypasta che mi avevano affascinato ora mi impediscono il sonno. Sento caldo. Scopro leggermente la testa.
Fa che il sonno arrivi presto” prego.
Non ci devo pensare, sono storie immaginate” mi ripeto inutilmente.
Non so quanto sia durato il momento di panico, perché mi addormento inconsapevolmente, senza rilassarmi. Infatti mi risveglio con i nervi tesi. Ho sognato, mi pare, ma niente di brutto. Ho i piedi gelati.
Basta Creepypasta” mi dico. “Non valgono una notte insonne.”
Durante il giorno il terrore si è dissipato, non resisto alla tentazione e torno a leggerle. Alcune sono ridicole, altre banali ma esistono piccoli capolavori. Che, immancabilmente, mi tengono sveglio la notte dopo. Perché non mi sveglio al mattino ma sempre verso le tre, quattro?
È da un po’ che continuo così, ma ho trovato il rimedio: riposare il pomeriggio. Solo, mi risveglio sempre con la pelle d’oca. Non fa freddo, non provo particolari emozioni, ma un brivido parte da dietro la schiena e si propaga su e giù, gelandomi e drizzando la pelle in piccoli bozzoli. La sensazione passa sempre in meno di due minuti. Ma ci penso sempre, quasi ossessivamente. Perché mi viene? Una causa ci deve essere.
Oggi ho ricordato il sogno. O meglio, l’incubo. Tremo ancora. Scrivendo osservo le braccia: la pelle increspata, i peli tirati. Però non dovrei avere più problemi. In bagno non c’è più uno specchio. Se mamma ci tiene tanto a sistemarsi, che faccia in camera sua. Ho sistemato una bibbia accanto al cuscino e al collo ho un rosario. Se esistono le forze del male, allora esistono anche quelle del bene. stanotte dormirò senza problemi.

Dal giornale locale: trovato morto nel suo letto Mark Jones, diciannovenne appena diplomato. I genitori, sconvolti, affermano che il ragazzo si comportava da qualche giorno in modo strano. Contemplata l’ipotesi del suicidio. Mark era convinto di essere perseguitato da strane creature. L’ultimo post sul suo diario virtuale è: sono atei ...



***Angolo Autrice***
Guardo film horror e leggo libri del genere, ma solo le Creepy non mi fanno chiudere occhio XD
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Angelo custode ***


La ragazzina piangente si strinse di più alla sua migliore amica, che ormai considerava come una sorella maggiore. Linnie era sempre presente per lei, anche più dei suoi genitori. E a lei poteva raccontare qualsiasi cosa, mentre alcune cose proprio non poteva dirle a loro. Come il labbro spaccato. Poteva forse dire alla mamma che Tommy Ward la tormentava dall’inizio dell’anno? No, avrebbe fatto la figura della vigliacca. Più facile mentire dicendo che era caduta dal monopattino.
Tina si mise a sedere più dritta sul suo letto. Soffiò il naso e si asciugò le ultime lacrime.
“Va meglio?” le domandò premurosa Linnie.
La bambina di nove anni annuì. Linnie sorrise. Tina non sapeva quanti anni avesse l’altra, ma optava per i sedici. La conosceva da quasi quattro anni, ma non glielo aveva mai chiesto. Non che avesse importanza: sapeva che erano amiche e questo le bastava. Le voleva molto bene. Solo, stava attenta a non parlare con lei quando c’erano i suoi genitori. Non la nominava nemmeno. Due anni fa il padre le aveva detto che stava diventando troppo grande per gli amici immaginari, ora doveva fare amicizia con i suoi coetanei. Tina sorrise amaramente al ricordo. I suoi coetanei non sembravano voler fare amicizia con lei …
“Mi spieghi meglio cos’è successo?” volle sapere Linnie.
“Ero in cortile” raccontò la ragazzina. “E mangiavo la mia merenda, quando Tommy e altri due me l’hanno buttata per terra dicendo che le zingare devono fare l’elemosina per avere da mangiare. Io mi sono arrabbiata ma non ho detto niente. Poi loro hanno detto di cacciare fuori i miei soldini. Hanno preso la mia paghetta dicendo che l’ho rubata …”
“Sssh, qui sei al sicuro. Tommy ti ha colpita?”
“Sì. Lui mi odia. Mi chiama zingarella e mi tormenta sempre.”
Linnie guardò fuori dalla finestra, pensierosa. Tina guardò lei. Le faceva sempre piacere, perché sperava di essere come lei, da grande: lunghi capelli color mogano, grandi occhi castani e un viso dolce. La sua amica era davvero carina. Non che lei fosse brutta, ma era pallida e mingherlina e più spesso immusonita che felice.
“Che posso fare, Linnie?”
“Finora non lo sa nessuno, di questi bulletti?”
“Nessun adulto, credo.”
La ragazza annuì come se se lo aspettasse.
“Me ne occupo io, ok?”
Gli occhi della bambina si illuminarono.
“Davvero?”
“Davvero. Non sopporto chi maltratta i più deboli, ancor meno chi fa del male a te.”
“Oh, grazie Linnie.”
Tina sorrise e non pensò più alla scuola.
Il giorno dopo Tommy non si fece vedere. E nemmeno quello dopo ancora. Mancava da una settimana, ormai. Tina, un po’ preoccupata, chiese a Linnie che scherzo avesse fatto al compagno.
“Niente di brutto, si è solo ammalato. Sei proprio generosa, ad essere in pensiero per lui.”
“Mh” fece la piccola, dubbiosa. Era sicura che la sua amica le stesse nascondendo qualcosa.
“Piuttosto, a scuola tutto bene?”
“Sì, anche se alcune ragazzine mi hanno presa in giro. Ma tanto ci sono abituata.”
“Mi spiace, Tina. Mi chiedo che cosa gli insegnino i genitori, per comportarsi così.”
“Non so … andiamo a farci un giro?”
Linnie annuì. Seguì la bimba fuori di casa, poi lungo la strada.
“Andiamo alla discarica, ora va di moda.”
“Non è posto per bambini quello.”
“Faccio attenzione. Voglio solo vedere se è davvero tanto divertente rompere le bottiglie a sassate.”
L’amica rimase in silenzio sebbene fosse ancora contraria.
Raggiunsero la discarica. Il posto era deserto, caldo e maleodorante.
“Dai, sbrigati a fare il tuo esperimento” l’esortò Linnie.
Tina si guardò intorno, poi esaminò i rifiuti. Fece attenzione a prendere bottiglie integre, le dispose in linea retta su un muretto e indietreggiò con dei sassi in mano. Scoprì di essere una scarsa lanciatrice. Colpì una sola bottiglia. Tuttavia il gioco la divertì, così prese altri sassi e continuò a lanciarli finché ruppe tutte le bottiglie.
“Ora andiamo.”
“Un attimo, Lin. Non ti va di esplorare?”
“No, qui è sporco e pericoloso” disse lei, sulle spine.
Tina la guardò, incerta.
“Cosa c’è che non va?”
“Niente, è solo che non mi piace questo posto.”
“Allora faccio in fretta.”
Le porse la mano e lei l’afferrò. Corsero lungo i sentieri. La bambina fu affascinata dal cimitero degli elettrodomestici.
“Guarda quanti sono! Sarebbe bello se uno li prende e funzionano ancora.”
“Non sarebbero qui, tesoro.”
“Già … peccato che non ci sia corrente per provare.”
“Ora che ne dici se ci andiamo a prendere un gelato prima di …”
“Ehi, lì dentro c’è qualcuno!” la interruppe la piccola, indicando sorpresa un frigorifero.
“Ma no, che dici.”
“Sì, vedo il braccio. E se giocava e si è sentito male?”
Linnie si piegò di fronte a lei, guardandola negli occhi. Sembrava molto spaventata.
“Tina, tesoro, ascoltami. È davvero importante per me se ce ne andiamo e non torniamo più qui. Mai più. Altrimenti non potremo più essere amiche e ciò mi renderebbe davvero triste.”
“Lo sarei anche io. Ma Linnie …”
“Ti prego. Con me sarai felice, ci divertiamo tanto insieme. Ti chiedo solo questo favore.”
“Va bene, se per te è così importante …”
“Oh, grazie, grazie!”
Tina diede retta all’amica e lasciò perdere. Il pensiero della discarica rimase per qualche settimana, ma non trovò mai il tempo di ritornarci e la dimenticò. Linnie invece ci tornò più volte, sempre di notte.
Era stupita che al mondo potessero esistere così tante persone dure di cuore, opportuniste, spregevoli … insomma, malvagie. Non c’era stato anno che Tina non avesse incontrato almeno una persona che l'avesse fatta soffrire.
Al momento si trattava di una ragazza spocchiosa che si credeva chissà chi solo perché era bella. Diceva che avrebbe avuto lei il posto di segretaria. Tina era troppo sciatta e brutta per essere accettata. Può un essere simile meritare di vivere?
Linnie aspettò che la sua amica, ormai ventenne, si addormentasse, poi si materializzò dalla sua nemica.
“Luisa” chiamò piano.
La biondina si rigirò nel sonno.
“Luisa.”
La ragazza si svegliò, intontita, e la guardò stupita. Linnie capì che doveva agire in fretta. Maschi e femmine ora erano grandi, non la seguivano più docilmente.
“Che ci fai in camera mia?! Come sei entrata?!”
Linnie aprì la finestra e con uno scatto repentino le tappò la bocca.
“Ora ci facciamo una passeggiata” sussurrò mentre l’altra cominciava a singhiozzare impaurita.
La mora la trascinò per un braccio, lasciandole segni rossi. Luisa la seguì piangendo, non osando spiccicare parola. Improvvisamente si rese conto di dove erano dirette.
“Ferma, vuoi dei soldi? È questo? Li ho! Non c’è bisogno di chiedere un riscatto, ti …”
“Zitta” soffiò la ragazza.
Solo che era cambiata: i capelli erano diventati secchi e crespi e la mano, molto pallida, sembrava un artiglio. Luisa tremò. Non era mai stata tanto spaventata. Si augurò che fosse un brutto scherzo, o un sogno.
Entrarono nella discarica, dirette verso il cimitero delle automobili, un’aggiunta recente.
“Che ci facciamo qui? Cosa vuoi da me?!” urlò Luisa.
Un grido di puro terrore fuoriuscì dalle sue labbra quando l’altra si voltò. In camera sua le era parsa una bella giovane, invece sotto la luna era un cadavere. Luisa si divincolò, puntò i piedi a terra, chiamò aiuto, ma tutto fu vano. Linnie la trascinò verso il bagagliaio di un’auto, già aperto.
“No! Ti prego! Lasciami andare!”
“Sai di meritartelo, piccola Lou” gracchiò la terrificante apparizione.
Riuscì a infilarla dentro e chiuse prima che potesse muoversi. Subito la ragazza tempestò di pugni quella che sarebbe diventata la sua bara. Gridava e piangeva. Linnie si assicurò che il bagagliaio fosse abbastanza resistente e se ne tornò a casa, riassumendo le fattezze di una sedicenne. Quell’aggiunta alla discarica era una vera manna, pensava. Stava diventando difficile farli entrare nei frigoriferi.

Pensaci bene prima di fare del male al prossimo, perché non puoi sapere chi è il suo angelo custode.

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Capitolo 5
*** The zombie song ***


Yumi si staccò dal microscopio, massaggiandosi le tempie. Era stanca, ma quei mesi di duro lavoro avevano dato i suo frutti. Si tolse i guanti, sciolse i lunghi capelli neri, usò gli occhialetti protettivi come frontiera e si appoggiò con i gomiti alla finestra aperta. Era una bella giornata di primavera e Yumi si perse in sue fantasticherie.

Our love story could be kinda gory
Far from boring,
We’d meet at a post-apocalypse.


Vide forse che, proprio nello spiazzo sotto di lei, Keiji contemplava con orrore la folla di zombie marcescenti diretti verso di lui? Che lasciava cadere la sigaretta e scappava verso le scale in preda al panico? Il ragazzo sapeva che loro erano gli unici sopravvissuti in grado di preparare una cura, le speranze dell’intera umanità erano riposte in loro.

Yeah I’d be slowly walking,
In a group stalking
You, you’d be the only man alive
That I could not resist.


Eppure lei era fra quelli zombie, migrati da nord a est quando chiunque nell’edificio C era stato mangiato vivo o zombieficato. Si trovava nella terza fila, al centro, ma lo vide benissimo mentre correva a perdifiato, sentì l’odore di terrore e adrenalina anche a quella distanza. Era attratta dall’odore della sua carne agile, del suo sangue che ancora scorreva, del suo essere così vivo. Ma non solo.

Then all of your friends,
They’d try to kill us
But only because
They’d be jealous
That our love is deeper than
Edward and Bella’s


Keiji arrivò al primo piano, dove era stazionato un gruppo di militari. I soldati aprirono il fuoco contro i morti viventi, falciando la prima fila. Gli altri venivano avanti inarrestabili, avidi di una carne che non li avrebbe mai saziati. Il giovane dottore cercò di sigillare come poteva le porte prima di riprendere la fuga.

If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Yeah oh,


Yumi avanzava con la multitudine. Aveva visto dove era andato il ragazzo. Virò in quella direzione e il fiume di zombie si divise.

If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Cuz I want ya.


La non viva spalancò con una facilità sovrumana la pesante porta d’acciaio. Salì le scale con una lentezza esasperante, seguita dai suoi fidati nuovi amici, mentre udiva spegnersi gli ultimi spari. Nessuno poteva più resisterle, non ci sarebbe riuscito nemmeno Keiji.

You’d be hiding in
A second floor apartment
Knocking all the stairs down
To save your life
From the undead


Keiji aveva raggiunto il secondo piano. I lamenti dei morti viventi gli dicevano che i militari non li avevano fermati. Chiamò a sé tutto lo staff. Ormai l’unica era chiamare un elicottero e farsi portare via. Prima però dovevano salire sul tetto.

Double-barrel shotgun
Taking out the slow ones
Then you’d see the passion
Burning in my eye.
And I’d keep my head.


Gli zombie fecero la loro entrata. Ai primi fu fatta scoppiare la testa: Edward aveva un fucile e una buona mira. Ma le cartucce finirono e anche lui corse dietro gli altri. E dietro di lui, Yumi con la sua banda.

Then all of your friends,
The try to kill us
But only because
They’d be jealous
That our love is deeper than
Edward and Bella’s


Qualsiasi cosa potesse sbarrare il loro passaggio fu usata. I dieci scienziati si trincerarono dietro una grossa conduttura di metallo. Chi aveva pistole le usò quando gli implacabili, lenti esseri cominciarono a riversarsi sul tetto. Avrebbero resistito fino all’arrivo dell’elicottero?

If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Yeah oh,


Lottarono come poterono: asce, tubi, a mani nude, qualsiasi cosa pur di non farsi mordere. Naomi si sparò prima che fosse troppo tardi e Lenny preferì buttarsi di dosso. Gli altri furono assaliti e presto di loro non restarono che ossa e viscere.

If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Cuz I want ya.


Keiji era a terra, sopra di lui esseri affamati strappavano brandelli di carne con i denti o con le unghie. Ad un tratto gli zombie si fermarono e si rialzarono. Yumi si chinò sul ragazzo morente, gli strappò il cuore ancora pulsante e lo divorò davanti ai suoi occhi ancora lucidi.

And I’d try
Not to bite and infect you
Because
I’d respect you too much.
Yeah that’s why
I’d wait until we got married.


La zombie si era fatta avanti dopo che il virus aveva cominciato ad operare su di lui. Loro potevano sopravvivere senza organi, avevano solo bisogno che testa e corpo rimanessero attaccati. Il suo cuore, il cuore del suo adorato Keiji, lo aveva desiderato da molto tempo.

And our happiest days would be spent
Picking off all your friends
And they’d see
A love this deep
Won’t stay buried


Adesso anche Keiji era uno zombie. Assieme agli altri, si stava dirigendo all’interno dell’edificio per ridiscendere quando l’elicottero sparò una raffica carica di frustrazione, rabbia e impotenza sui ritardatari. Una volta giù, si sparpagliarono. Yumi e Keiji camminavano insieme, senza una meta.

If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Yeah oh,
If I were a zombie,
I’d never eat your brain.
I’d just want your heart.
Yeah, I’d want your heart
I’d just want your heart.
Cuz I want ya.


Yumi si riscosse. Sorrise dolcemente, gli occhi neri ricolmi di infinita tenerezza. No, l’amore non moriva, era immortale. E il corpo umano era più resistente di quanto si pensasse. Per non parlare della volontà umana. Chi ne aveva una forte poteva fare qualsiasi cosa. Compreso causare un’apocalisse zombie per stare insieme alla persona amata. La ragazza premette il pulsante per diffondere il virus con determinazione. Poi si sedette e attese.



***Angolo Autrice***
Consigliato l'ascolto della canzone che ha ispirato questo capitolo.
Sono tornata dopo parecchio XD
Vedremo quanto ci metterò per il prossimo racconto.
Bye

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Capitolo 6
*** Pan per focaccia ***


“Edizione straordinaria! Che ci sia un pericoloso piromane in città? Solo due giorni fa un senzatetto è stato trovato bruciato vivo, mentre le vittime di questa sera sono quattro giovani di circa 18 anni. Non si sa ancora niente di certo, ma forse il caso del vecchio clochard è collegato alla morte misteriosa …”
“Puoi giurarci che è collegato” commentò una voce.
“… anche i quattro ragazzi erano ubriachi. Fonti vicine alla polizia sostengono che nemmeno con un lanciafiamme si sarebbero prodotti tali risultati. In effetti, a parte i corpi dei quattro malcapitati, il vicolo in cui è avvenuta la tragedia non riporta alcun segno di incendio. Come può una singola persona aver dato fuoco a quattro persone se …”
“Ci arriveranno mai Sam?”
Ne abbiamo lasciato uno vivo apposta, no?
“No, perché era innocente.”
Ma anche lui si meritava una lezione.
“L’ha avuta ...”
“… inoltre il tutto è avvenuto in pochi minuti, in teoria insufficienti per ridurre i corpi in simili condizioni. Anche la temperatura sarebbe dovuta essere insufficiente. È stato possibile identificarli per un documento scampato all’incendio e un quinto ragazzo fisicamente illeso ma ancora sotto shock che …”
“Lui sicuramente parlerà e collegheranno i casi, ma gli umani sono duri di comprendonio.”
Hai ragione Sam, però senza fare niente saremmo state altrettanto colpevoli. Qualcuno magari comprenderà ciò che abbiamo voluto davvero mostrare.

Il vecchio barbone se ne stette immobile al centro di una stradina, indeciso sul da farsi. Una giovane ragazza, sicuramente minorenne, era seduta su una vecchia cassa degli attrezzi. Contemplava con sguardo malinconico e nostalgico una fotografia. Sul viso aveva un’espressione di pena tale che spezzava il cuore. Sbatté le palpebre e due lacrime scivolarono lentamente lungo il viso. Lei sospirò tristemente, ripose la foto e si asciugò gli occhi con la manica della sua giacca, poi alzò il capo e lo scorse.
Jim Drake continuò a non muoversi. Era consapevole del suo stato: indossava vecchi stracci nascosti da un lungo cappotto verde scuro; era ricoperto di sporcizia e puzzava. Inoltre non si tagliava le unghie da un paio di mesi e capelli e barba, ancora scuri nonostante l’età, non gli davano un aspetto raccomandabile.
La ragazza invece aveva un aspetto tanto grazioso e pulito. Jim l’aveva osservata bene, inizialmente insicuro che una tale ragazzina potesse davvero trovarsi in quel posto lurido e derelitto. Aveva un bel viso, con lineamenti dolci da cui traspariva una certa decisione. Bocca e naso erano piccoli, gli occhi erano invece grandi e color nocciola. La fronte era coperta da una frangetta di capelli neri, lisci e abbastanza lunghi. Indossava una giacca a righe bianche e rosa, dei jeans chiari e converse bianche.
Se non fosse stato per il posto e l’aria triste si sarebbe pensato che si fosse seduta a godersi il cielo stellato in quell’aria piacevolmente frizzante di primavera.
Jim si mosse, a disagio. A giudicare dai vestiti, dal colorito roseo e dalla corporatura la giovane non viveva di certo per strada. Il barbone avrebbe voluto avvicinarsi per riaccompagnarla a casa, sapeva che nel quartiere girava cattiva gente, ma aveva paura della sua reazione. Lei tuttavia non accennò a gridare o scappare quando lui le fu vicino. Jim si schiarì la gola.
“Buonasera, signorina.”
“Salve” salutò a sua volta la mora.
Storse appena il naso a causa dell’odore emanato da lui, ma per il resto lo guardava incuriosita.
“Signorina, mi spiace doverti disturbare, questo quartiere non è sicuro. Ci sono furfanti, mezzi matti. Adesso è presto, ma si radunano qui attorno di solito.”
“Grazie per l’avvertimento signore.”
Gli sorrise, o almeno ci provò, perché era ancora abbacchiata. Si alzò lentamente e gli fu di fronte, più bassa di lui di almeno dieci centimetri.
“Sa dove c’è una fermata dell’autobus?”
“Sì, certo, ma dipende da dove devi andare.”
“Oh, da nessuna parte in particolare, cerco un motel per passare la notte.”
“Dovresti tornartene subito a casa cara, scusa la franchezza. Quanti anni hai?”
“Quasi sedici, ma non si preoccupi, non sono scappata di casa o roba del genere. E poi non sono sola, vero Pepe?”
Jim notò solo in quel momento un gatto che si strusciava contro i polpacci della giovane. Si chinò per osservarlo meglio, sorpreso.
“Mai visto un gatto così …”
“Il mio Pepe è un Lykoi Cat, li chiamano così perché sembrano lupi mannari” spiegò la mora prendendo in braccio il suo micio. Lo carezzò e lui le fece le fusa.
“Oh … dicevi di cercare un motel?”
“Se non è lontano mi può accompagnare. Sente questo rumore?”
“Sì, sono teppisti che escono di notte per andare da un bar all’altro. Fanno sempre baccano: urlano, gridano e fracassano bottiglie …”
Gli schiamazzi si facevano sempre più vicini. La ragazza si incamminò e lo invitò a seguirla. Ora sì che aveva un’espressione disgustata. Non per il barbone che le camminava accanto, ma per il concetto di divertimento di quegli adolescenti. Jim le andò dietro senza sapere che pensare. Quella ragazza era cortese e rispettosa con lui, sembrava matura per la sua età. Diamine, persino più matura di molti adulti. Quasi sempre Jim, come altra gente nella sua condizione, veniva trattato con disprezzo e la sua presenza era a stento tollerata. Quasi che il vivere in mezzo alla strada fosse colpa sua, una punizione per qualche crimine che aveva commesso, e che l’aver perso tutto il suo denaro equivalesse ad aver perso i suoi diritti come essere umano.
“Signorina, l’hanno tirata su bene” commentò Jim con franchezza.
Lei rise compiaciuta. Quell’aria allegra le si addiceva di più rispetto a quella triste di prima.
“Grazie, i miei saranno felici di saperlo. Non capita spesso di ricevere un complimento diretto a tre persone.”
“Sono una persona sincera e anche tu sembri esserlo.”
“In effetti sì.”
Tra i due tornò il silenzio, ma Jim si sentiva meno a disagio. Avrebbe voluto farle molte domande, tuttavia entro cinque minuti sarebbero arrivati al motel. Ne scelse una con cura.
“Sai, ti credo, se viaggi è perché ti hanno dato il permesso. Però prima eri giù di corda.”
“Sì, beh, mi manca molto il mio ragazzo. Guardi.”
La mora mostrò al vecchio la foto che stava fissando tanto dolorosamente prima. Ritraeva la ragazza abbracciata ad un giovane con i capelli rossi e gli occhi verdi. Entrambi sorridevano verso la fotocamera, radiosi. Da come si stringevano si capiva che dopo lo scatto si erano girati l’uno verso l’altra per baciarsi.
“Vi volete molto bene, eh?” commentò Jim con dolcezza.
“Lo amo da impazzire” dichiarò lei lentamente. Dalle voce e dal viso traspariva la forte emozione che provava. Sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Quel gesto la invecchiava. “La vita si diverte a incasinare situazioni che altrimenti sarebbero perfette.”
Il barbone ridacchiò mentre le riconsegnava la foto.
“A chi lo dici, signorina. Sono convinto che si risolverà tutto, lo sento.”
La ragazza gli sorrise. Ripose con cura la foto in una tasca dei jeans, prese nuovamente in braccio Pepe e continuò a seguire il senzatetto.
“Ci siamo quasi. Quando si è come me si fanno un sacco di incontri strani, ma questo è stato senza dubbio il più curioso e piacevole.”
“È stato piacevole anche per me, signore. Mi serviva un po’ di compagnia stasera, una diversa da Pepe” aggiunse lei carezzando il gatto, quasi non volesse offenderlo.
“A tutti piace farsi una bella chiacchierata.”
“Già, soprattutto se con gente con cui si potrebbe diventare amici. Grazie di tutto, signore.”
“Di nulla, cara, di nulla.”
La ragazza gli strinse la mano augurandogli la buonanotte. Jim la seguì con lo sguardo. Lei si fermò davanti al portone, mettendo le mani nelle tasche della giacca. Improvvisamente aveva uno zaino sulle spalle e una valigia nella mano destra. Il vecchio la guardò sorpreso, rispondendo meccanicamente con la mano al saluto della giovane. Si incamminò verso il suo vicolo, con lentezza. Forse si era immaginato quell’incontro, ma anche se si fosse trattato di un sogno era felice di averlo fatto. Si mise le mani nel cappotto per ripararle dal freddo della notte, ancora pensieroso, quando avvertì qualcosa in quella sinistra. Si fermò sotto un lampione e contemplò incredulo una banconota da cento dollari. Fu in quel momento che i ragazzi arrivarono.

“Ne siete orgogliosi? Averlo sentito in televisione vi ha eccitato?”
Il gruppetto di cinque adolescenti si voltò verso la giovane sui sedici anni che li fissava infuriata. Lì per lì rimasero fermi a guardarla, sorpresi. Lei si avvicinò, fermandosi ad un paio di metri da loro.
“Hai parlato dell’essere eccitati, bocconcino?” domandò un ragazzo biondo sfoggiando un sorriso idiota.
Gli altri scoppiarono a ridere e attorniarono la ragazza, tutti meno uno.
“Siete voi che avete dato fuoco ad un povero barbone innocente, vero?” proseguì lei tremando di rabbia.
I ragazzi smisero di sorridere e guardarono preoccupati il loro capo. Quest’ultimo strinse con forza una spalla della mora, ma se si aspettava di sentirla urlare rimase deluso.
“Ma cosa dici, bocconcino? Tappati la bocca. Dire certe bugie avrà spiacevoli conseguenze …”
“Siete stati voi … La pagherete!”
Il ragazzo, senza abbandonare la presa, le ghermì il mento in modo da guardarla meglio in faccia. Lei sostenne il suo sguardo. In un certo senso, gli occhi indaco di lui stavano alimentando la sua ira. In quegli occhi si rispecchiava una vita dedita allo spreco, allo svago, alla prepotenza, all’egoismo.
“Te la sei proprio andata a cercare, eh bocconcino?” mormorò il biondo carezzandole lascivamente la guancia destra con il pollice.
“Tu e i tuoi compari ve la siete cercata. Adesso imparerete davvero che significa conseguenze” replicò la giovane con tono freddo e divertito, diverso da quello appassionato di prima.
Il ragazzo urlò e la lasciò andare stringendosi convulsamente lo stomaco. Sotto lo sguardo sgomento dei suoi compari, che fecero meccanicamente un passo indietro, fu di colpo avvolto dalle fiamme. I ragazzi rimasero impalati a vederlo bruciare, troppo stupiti per credere alla realtà di ciò che stava accadendo.
La mora si voltò verso uno di loro, che a sua volta prese fuoco. Si rotolò per terra strillando come aveva visto fare al barbone che avevano pestato e poi cosparso di vodka, ma non servì a nulla. Ben presto anche la sua carne cominciò a sfaldarsi come quella di un tacchino troppo cotto.
Dei tre restanti, uno corse via, quello che non era intervenuto si lasciò scivolare per terra e l’altro tentò di colpirla. La giovane schivò il pugno, gli afferrò il braccio e lo spinse via prima di farlo bruciare come quei miserabili dei suoi compagni. Il primo di quei bastardi era già ridotto in cenere ed era passato appena un minuto dall’attacco. Si compiacque di come era riuscita a stanarli e di come padroneggiava i suoi poteri. Quei mesi di addestramento davano i frutti sperati. Con una mira precisa e mortale uccise anche il ragazzo che correva. Quest’ultimo corse ancora per qualche metro, urlando tutto il suo dolore. Cadde e ci fu silenzio, tranne che per il crepitare delle ultime fiamme.
Un sorriso soddisfatto si disegnò sul viso della ragazza. I suoi nemici erano ridotti in cenere, tranne che per qualche macabro resto che il fuoco non aveva consumato completamente. Lance sarebbe stato orgoglioso di loro. Si erano controllate, avevano sfruttato efficacemente la rabbia contro chi lo meritava.
La giovane rivolse la sua attenzione all’ultimo ragazzo, che stava vomitando a causa dell’odore. Avanzò verso di lui e chinò la testa. Egli la osservò in lacrime, in attesa della sua punizione.
“Confessa. Dimmi com’è andata. In TV dicono che il vecchio beveva e fumava. Che idioti …”
Singhiozzando, l’adolescente le raccontò tutto. Di come Harry aveva dato il primo colpo al barbone; di come gli altri lo avevano seguito divertiti, pestandolo; di come lui aveva insistito per lasciarlo in pace, senza successo; ed infine, di come da ubriachi gli altri avevano deciso di dare fuoco al poveretto.
Gli occhi di lei ora erano lucidi. Si voltò verso la strada, aveva sentito il suono di una sirena. Ormai nulla più bruciava, restavano solo cenere, fumo e parti del corpo più o meno carbonizzate.
“Ascoltami bene tu. Se qualcuno compie un’ingiustizia, è nostro dovere fermarlo. Se l’ha già compiuta, punirlo. Non meriti di morire. Racconta la verità al mondo intero e un giorno il tuo peso sparirà.”
Il ragazzo la vide scomparire davanti ai suoi occhi. Fu in quel momento che urlò e continuò fino all’arrivo dei soccorsi.

“Lo ha fatto, Dory. Sei contenta?”
La ragazza scrollò le spalle mentre guardava il notiziario. In effetti l’unico sopravvissuto aveva raccontato istericamente tutto ciò che era accaduto ai paramedici, poi più tranquillamente ai poliziotti e ad un paio di giornalisti dopo che l’inchiesta era terminata.
Avrei preferito che nulla id tutto questo fosse necessario, Sam” pensò in risposta Pandora.
“Avevi ragione … sono più sconvolti per la morte di quattro bastardi che per un uomo buono” disse a bassa voce dopo un po’.
Già … beh, a quanto pare ci considerano un giustiziere. Vuoi che mi occupi io del prossimo viaggio?
Sì grazie.
La ragazza spense il televisore, afferrò i suoi bagagli e andò a fare un biglietto del treno. Pepe la seguì in silenzio. Quella storia lo aveva alquanto scombussolato, perciò aveva preferito starsene zitto. Era tuttavia fiero delle sue padroncine. Cooperavano alla perfezione e si prendevano cura l’una dell’altra come brave sorelle.
Samael si era divertita a punire i colpevoli. Come demone avvertiva l’esigenza di uccidere qualcuno di tanto in tanto. Pandora trovava abominevole quella pratica, infatti era ancora sconvolta per l’accaduto, tuttavia era stata lei a chiedere a Sam di intervenire, cosa che lei era stata più che felice di fare. Dory lasciò ancora il controllo del corpo a Samael. Se indicava al demone chi uccidere, la cosa poteva anche funzionare. In fondo all’inferno venivano puniti i cattivi, no? Le avrebbe permesso di continuare il suo lavoro, perché sentiva che era giusto. Almeno per loro, andava benissimo così.



***Angolo Autrice***
Pandora e Samael sono personaggi di Dark Sid(h)e, una mia fic fantasy-horror. Mi è venuta in mente questa one shot su di loro.
Presto sposterò qui due storie che avevo precedentemente pubblicato tra le Creepypasta.
Bye!

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Capitolo 7
*** Casualty ***


Com’è bella! Clara si muove così agilmente, come una ballerina. La osservo, seduto sul divano, mentre recupera vari oggetti – chiavi, portafogli, cosmetici – e li infila nella borsetta.
Ha un colloquio di lavoro, la mia Clara. Indossa un elegante tailleur blu, come i suoi occhi. I capelli, biondi e lisci, sono sciolti.
“Sean?” chiama.
Naturalmente sta chiamando lui, ma anche io mi chiamo Sean.
“Sì?” rispondo.
“Va bene se prendo la tua auto? Ieri la mia si è fermata improvvisamente e non ha più voluto saperne di ripartire.”
“Certo, basta che me la riporti tutta intera.”
“Grazie, amore” dice mentre si infila il cappotto beige. “Beh, vado. Ci vediamo a pranzo.”
“In bocca al lupo, tesoro. E … torna con Heidi.”
Lei ride e se ne va. La mia allegria se ne va con lei. Quel saluto … quel suo tormentone … nel pronunciarlo mi è sembrato così sciocco.
Fra quanto si accorgerà che non sono lui? Presto, credo. Voglio che lo scopra ma, se accade troppo in fretta, potrebbe spaventarsi. E andarsene. E lasciarmi. No, non deve accadere! Io la amo, più di lui. Molto più di lui. Lui, che nemmeno ha capito quanto è stato fortunato a trovare una ragazza come lei. Non so cosa di lui abbia attirato Clara, so però che il loro non era vero amore.
Mi alzo e mi guardo alla specchio. Un ragazzo di ventuno anni, con occhi e capelli castani, ricambia il mio sguardo. Osservo scettico i capelli, troppo lunghi e disordinati per i miei gusti. Dovrò andare dal barbiere. Lui sembrava il tipico ragazzo da college, simpatico ma pigro, che preferisce spassarsela con gli amici e la ragazza – quel bel bocconcino di Clara – piuttosto che studiare.
Ora lui non c’è più, ci sono io, e sembra che qualcosa, quel qualcosa che la gente nota quando deve decidere a quale sconosciuto chiedere l’ora o qualche altra informazione, è cambiato. Forse dipende dal mio sguardo, la mia espressione, perché per il resto sono identico a lui.
Sogghigno, pensando a come mi sono liberato di lui e a come è stato bello sentirmi libero. Libero di muovermi, di parlare, persino di pensare. Anche il mio riflesso sogghigna. Mi sembra di guardare un evaso folle e pericoloso. La cosa mi fa scappare una risatina.

Clara è tornata. Come mi aspettavo è stata assunta. A pranzo era così eccitata che quasi non ha toccato cibo. Io mi sono congratulato, cercando di parlare come lui. Sono davvero felice per lei, ma lui era molto più espansivo di me. Fortunatamente Clara non ha notato niente di strano. Abbiamo deciso di festeggiare andando al ristorante, quella sera.
Mentre lei telefona a parenti e amici, io mi occupo della prenotazione. Sarà una serata perfetta. Mi rivelerò a lei, le dimostrerò quanto sono maturo, saggio … e innamorato.
Il tempo passa. Io e Clara non parliamo molto, ognuno ha da sbrigare diverse faccende, ma mi accorgo che lei mi guarda interrogativa più volte. Si sta forse chiedendo chi sono? Non vedo l’ora di risolvere i suoi dubbi. I miei interessi sono diversi da quelli di lui, lei ha notato il cambiamento ed è naturale che ne sia rimasta confusa. Pazienta, amor mio, presto tutto ti sarà chiaro.

Mancano circa tre ore al nostro appuntamento. Clara ha sistemato sul letto il suo vestito rosso. Io ho affittato uno smoking. Al pari di lui, detesto gli abiti eleganti. Non credo li possiederò mai. Sento scorrere l’acqua nella vasca. Dovrei prepararmi, mentre lei si fa il bagno. Ma non mi va. Non ho più voglia di uscire. Possiamo benissimo festeggiare a casa. Aspetto che lei esca dal bagno per dirglielo. Intanto leggo un libro. Finalmente esce, in accappatoio e con i capelli racchiusi in un asciugamano.
“Sean, ma non ti sei ancora cambiato?”
“Ho cambiato idea riguardo al ristorante. Meglio festeggiare qui. È più intimo, no?”
Il mio tono calmo e persuasivo la stupisce.
“È da oggi che ti comporti stranamente. Che succede?” domanda preoccupata.
“Niente, tesoro, sono solo … cresciuto.”
Ride. Pensa ancora che sono lui. Ma lui è morto, non c’è più e mai ritornerà.
“Sul serio, Clara. Sono un altro. Molte cose sono cambiate, tranne ciò che provo per te.”
“Smettila, Sean, sei ridicolo!”
Ride di nuovo. Ride di me.
“Avanti, so che non ti piace lo smoking, ma …”
“Ho detto che restiamo a casa!” esclamo bruscamente.
Lei trattiene il fiato e mi guarda spaventata.
“Scusa, non volevo. È solo che …” tento di rassicurarla, ma non so come continuare.
Clara mi fissa diffidente.
“Sean, hai ragione, sembri un altro. Cerca di tornare in te entro cinque minuti, o …”
Questa volta sono io a ridere. È la stessa risata dello specchio.
“Ma questo è impossibile, Clara. Ora ci sono io. Lui è sparito.”
Adesso Clara è terrorizzata.
“Ti prego, basta! Lo scherzo sta durando troppo!”
“Non sto scherzando e lo sai. Dammi una chance. Sono meglio di quel ragazzino.”
“Okay, te la sei cercata. Non andremo al ristorante, ma perché io vado da mia madre. Quando avrai finito di giocare a fare l’uomo nuovo, chiamami!”
Mi dà le spalle e si incammina verso la camera da letto. In un attimo le sono addosso. L’ attiro verso il muro. Lei strilla. Le stringo la gola, per farla star zitta. Lei boccheggia. Le sue mani cercano di allontanare le mie, poi smettono. Qualcosa mi colpisce sulla tempia destra. Cado a terra, stordito. Clara tossisce, riprende fiato e scappa. Porto una mano alla tempia, scoprendo che sanguino. Guardo per terra: mi ha colpito con un vecchio libro. La pagherà!
Mi alzo cautamente. Non l’ho sentita aprire la porta principale, quindi è ancora in casa. E forse so anche dove. Per sicurezza, do un’occhiata nelle altre stanze, prima di dirigermi verso il bagno. La porta è socchiusa. La apro lentamente, fino a che non incontro un ostacolo.
“Tesoro, ricordi di avermi detto che se un maniaco o un mostro entrava in casa questo sarebbe stato il tuo nascondiglio? Beh, io sì.”
Clara urla di nuovo. Indietreggia rapidamente. Noto che ha perso l’asciugamano. I capelli le cadono sulla faccia. Mi avvento su di lei, ma Clara mi evita agilmente. Cerca di correre veloce. Scivola sulle piastrelle, umide per il recente bagno. Cade e colpisce la testa sul bordo della vasca da bagno. Non grida più.
Io mi volto, accorgendomi di ciò che è accaduto in meno di dieci secondi. Mi avvicino a lei. Ha gli occhi spalancati e la bocca aperta. Da dietro la nuca esce un mare di sangue, che cola all’interno della vasca. Sta tremando, in preda a leggere convulsioni. Quando si ferma, non respira più.
Tutto qui? Mi volevo divertire ancora. Invece il gioco è finito per uno stupido incidente. I miei occhi si illuminano. Un incidente! Può capitare a tutti! La gente è così distratta e smemorata ...
Guardo il cadavere e rido, la stessa risata da psicopatico di prima.
“Grazie, Clara, mi hai dato uno scopo nella vita!”

Sono in un bar. Sgranocchio noccioline mentre aspetto di essere servito. Un tizio corpulento si siede accanto a me. Vuole parlare, ma io sono interessato al telegiornale. Quattro morti accidentali in una settimana, molte per una piccola cittadina. Freni che non funzionano, gas dimenticato acceso, vasi mal fissati su un balcone che cadono … può capitare a tutti. Io do solo una mano al fato.
La birra mi viene servita. Pago in anticipo e la sorseggio con calma, ascoltando le vuote chiacchiere dell’uomo. Finita la birra, mi alzo e mi dirigo verso l’uscita. Una nocciolina è finita nel boccale di quell’uomo. Appena apro la porta, lo sento tossire e soffocare. Sorrido.

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Capitolo 8
*** John the photographer ***


Si dice che i muri hanno le orecchie, i suoi invece avevano gli occhi. Megan li guardò sospettosa, aspettandosi di trovare un foro, una crepa, qualcosa. Gli occhi dilatati e umidi tornarono a fissare ciò che le mani tremanti reggevano. Foto. Foto di lei al lavoro, in macchina, a letto, sotto la doccia.
Si mordicchiò distrattamente un labbro, fino a farlo sanguinare, in preda al terrore. Una mano ravvivò meccanicamente i capelli.
Chi? Chi era potuto entrare liberamente in camera sua chissà quante volte senza che lei se ne accorgesse?
Tornò a passare in rassegna le pareti dell’ingresso: dal soffitto al battiscopa fino all’entrata del soggiorno. Una foto le scivolò dalle mani sudate. Notò allora che sul retro c’era scritto un piccolo commento. Si coprì la bocca e gli occhi le si riempirono di lacrime, anche se si trattava solo di un Sei bellissima, Megan Hill. Girò le altre immagini, non accorgendosi di emettere piccoli gemiti terrorizzati, come non si era accorta di essere seduta contro la porta d’ingresso da quasi dieci minuti, con ancora cappotto, sciarpa e borsa. Dietro ogni fotografia c’era un breve ma incisivo messaggio: ti amo, sei la mia vita, giuro che ho chiuso gli occhi dietro quella che la raffigurava in accappatoio.
D’un tratto le confortevoli pareti domestiche la oppressero. Le sembrava che si facessero sempre più vicine, comprimendola, schiacciandola, soffocandola ... Il cellulare trillò e lei scattò in piedi con un piccolo urlo. Respirò affannosamente, cercando di controllarsi. Si trattava solo di un messaggio da parte di Camille, la sua migliore amica. La invitava a uno dei suoi soliti appuntamenti al buio. La ragazza era infatti famosa per organizzare incontri amorosi per conto delle sue amiche. Megan rifiutava puntualmente, ma quella sera accettò senza esitazioni, grata di poter uscire dal suo appartamento.
Raccattò in fretta tutte le foto, le rimise nell’anonima busta bianca in cui le aveva trovate e si diresse verso il tritarifiuti. Si bloccò a metà strada fra il soggiorno e la cucina. E se chi aveva scattato le foto fosse nascosto in quella camera, magari con un coltello in mano? O forse era in bagno, o in camera da letto, o ... Non resistendo un attimo di più, la giovane donna lanciò via la busta, che si aprì sparpagliando il suo contenuto, e si precipitò fuori senza neanche premurarsi di chiudere la porta.
Arrivò al ristorante in anticipo. Andò subito in bagno per sciacquarsi il viso e darsi una sistemata, grazie anche al trucco e alla cipria di emergenza che teneva nella borsetta. Si era resa conto di averla ancora con sè solo perché continuava a sbatacchiare contro il suo fianco. La breve passeggiata all’aria fresca era servita a distenderle i nervi. Sicuramente l’allegra compagnia l’avrebbe tirata su di morale. Dopodiché non doveva far altro che andare dalla polizia e raccontare tutto. Che stupida era stata a voler distruggere le foto, l’unica prova che testimoniava la sua storia.
Tornò in sala, si fece indicare il tavolo e si sedette in attesa. Pochi minuti dopo Camille la stringeva in un affettuoso abbraccio, ancora incredula per il fatto che lei avesse accettato.
“Giuro, Megan, ero convinta che volessi restare una zitella per tutta la vita.”
“Zitta, scema” scherzò lei, quasi non credendo possibile che meno di un’ora prima stava impazzendo di paura.
“Conosci già Trevor, il mio boyfriend. Lui invece è Robert, detto Rob, il tuo futuro marito.”
Megan e Rob risero imbarazzati e si scambiarono una stretta di mano. Come previsto la cena fu molto divertente. Si chiacchierò di tutto e di nulla, con molti riferimenti all’attualità e ai conoscenti comuni. Uscirono insieme. Quando Megan si voltò dopo un paio di isolati, si ritrovò sola con Robert. Scosse la testa, pensando che Camille era incorreggibile.
“Sigaretta?” le domandò gentilmente il ragazzo.
“No, grazie, non fumo.”
Iniziò a cadere una leggera pioggerellina.
“Meglio sbrigarci a tornare a casa, tanto sospetto che quei due si saranno imboscati da qualche parte a pomiciare.”
Megan sussultò alla parola casa. Improvvisamente aveva un significato oscuro. Rabbrividì.
“Ehi, tutto bene?” si preoccupò Rob.
“Sì. Sì, sto bene. È solo che ...”
Una sola occhiata negli occhi grigio-blu dell’altro e si ritrovò a raccontargli tutto. Alla fine scoppiò a piangere e Rob la strinse in un goffo abbraccio.
“S- scusa. Ho una p- paura matta a t- tornare a casa. Non puoi c- capire quanto sia ...”
“Tranquilla, andrà tutto bene. Adesso ti accompagno dalla polizia e poi a casa di Camille, mh?”
Megan annuì e riprese fiato. Sorrise per far vedere a Robert che si era calmata.
“Sei proprio un gentleman, Rob. Forse Millie ha ragione. Diventerai mio marito.”
Entrambi risero per scaricare la tensione. Megan aveva appena alzato la testa per stringere un’ultima volta il ragazzo prima di incamminarsi che qualcosa di argenteo balenò nell’aria. Un attimo dopo Robert era a terra: la pugnalata era stata così diretta e precisa che il ragazzo era morto sul colpo. Megan impallidì alla vista del corpo esanime del suo nuovo amico, come se fosse suo il sangue che imporporava il marciapiede. Spostò lentamente la testa e vide che un ragazzo ricambiava il suo sguardo.
Aveva profondi occhi scuri, neri come il cappotto e qualsiasi altro indumento che indossava. L’unica cosa che risaltava da quell’ombra era la faccia pallida. I capelli biondi si erano scuriti a causa della pioggia, ora più consistente.
In quei secondi in cui preda e assassino si fissavano, il raziocinio abbandonò la mente di Megan per far posto all’istinto. Così, appena il biondo accennò un movimento, lei si voltò e corse. Sentì che dietro di lei l’altro cominciava l’inseguimento, ma non si voltò per controllare. Né si fermò quando non udì più rumore di passi. Era sicura che il panico e l’adrenalina ora in circolo le avessero permesso di seminare il suo stalker - era certa che si trattasse di lui- ma avrebbe corso fino al commissariato. Almeno, queste erano le sue intenzioni. Svoltò un vicolo e un paio di robuste braccia la avvinghiarono. Megan urlò mentre cadeva per terra. Una mano le tappò la bocca, impedendole di produrre altri suoni. In breve si trovò inchiodata a terra, con il biondo sopra di lei. Si divincolò in preda al panico, senza ottenere alcun risultato.
“Ciao, Megan. Io sono John, il tuo ex ammiratore segreto” si presentò il ragazzo, il viso a pochi centimetri dal suo.
Megan fissò i suoi occhi scuri, smettendo di mugolare. Forse, se lo ascoltava e accontentava, se la sarebbe cavata ...
“È da una settimana che mi hai attratto, Megan. Sei splendida. I tuoi morbidi capelli neri, i tuoi occhi azzurri, la tua bocca piena ... Ma anche tu non mi meriti.”
La voce assunse un tono deluso.
“Ti ho mandato dei fiori e li hai buttati, ti ho fatto ottenere un aumento e ancora niente ...”
Ogni affermazione alimentava la rabbia di John. Il pugnale accarezzò i vestiti di Megan. Lei piangeva disperata, totalmente in balia di lui.
“E oggi ... io mi dichiaro e tu che fai? Corri fra le braccia di un altro uomo!”
La lama trafisse le carni della ragazza come se fossero burro. Megan urlò e riprese a divincolarsi, aggravando la ferita.
“Mi hai ferito, Megan. Profondamente. Sei un’ingrata!”
Il pugnale risalì fino allo sterno. John lo ritrasse e alzò il braccio.
“Ora ti mostro come mi hai fatto sentire ... più e più volte.”
L’arma calò giù, si rialzò, calò giù nuovamente. Quando il corpo giacque immobile in una pozza di sangue, John si rimise in piedi. Contemplò il cadavere quasi con disgusto. Finora nessuna aveva mai apprezzato le sue premure, ma lui era fiducioso. Prima o poi avrebbe incontrato la ragazza perfetta, l’unica degna di ricevere il suo amore. John si mise il cappuccio, nascose il pugnale in tasca e si incamminò sotto la pioggia, fischiettando.

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Capitolo 9
*** Harlequin ***


Tutto era una festa, fuori e dentro di lei. Ogni senso della bambina era partecipe della frenesia causata dal carnevale veneziano. Colori, odori, suoni, sapori la assalivano da ogni parte, inebriandola e confondendola piacevolmente. Non poteva avere più di otto anni, perciò ogni cosa era una novità meravigliosa e sconvolgente che la lasciava senza fiato.
Verso mezzanotte, tuttavia, la stanchezza aveva avuto la meglio sul fascino, e la piccola non desiderava altro che tornare nella camera dell’albergo e dormire, possibilmente nel lettone, in mezzo ai genitori. Rivolse un’occhiata infastidita ai parenti, che non la smettevano più di chiacchierare coi loro amici. D’un tratto l’attenzione della bimba si concentrò sempre più su un costume particolare. Si trattava di un arlecchino tutto blu, che si muoveva in maniera buffa, quasi danzando. La maschera era un po’ inquietante, con tratti duri e decisi che procuravano un senso di minaccia, mitigata in parte dal cappello con sonagli.
La bambina sorrise a quello che secondo lei era un pagliaccio e battè un paio di volte le mani, divertita. Con suo gran stupore, l’allegro sconosciuto fece una elegante riverenza nella sua direzione. La piccola si voltò, ma dietro di lei non c’era nessuno. Si indicò, poco convinta, e l’altro annuì, come a rassicurarla che sì, l’esibizione era dedicata a lei. La bimba si sentì arrossire di piacere, felice ma confusa. Sapeva che non bisognava mai dare confidenza agli sconosciuti, però non ci trovava niente di male nello scambio di segni con l’arlecchino. Si sentiva come una principessa, anche se era travestita da fatina, omaggiata dal giullare di corte.
Il pagliaccio in blu piegò graziosamente il capo, annuì con quella che a lei parve soddisfazione e mosse le dita delle mani, per invitarla a danzare. La bambina tentennò, lanciò un’occhiata ai genitori, ancora immersi in discorsi da adulti, e decise di avvicinarsi allo strano personaggio. Lui la prese per mano, continuando a muoversi in una maniera che la faceva ridere. Tentò di imitarlo, non accorgendosi che nel frattempo si stavano allontanando verso un canale.
Una singola gondola, completamente immobile nell’acqua, si trovava di fronte a loro. L’arlecchino la invitò a salire, sempre silenziosamente, e qualcosa nella bimba le urlò di fuggire, che era stata una stupida a seguirlo, ma una luce proveniente dalla gondola frenò il grido che le nasceva in gola. Il panico fu domato dalla curiosità. Salì sulla gondola, aiutata dallo sconosciuto, scoprendo che c’erano delle scale. Le scese, sorpresa, ritrovandosi in un corridoio illuminato da una luce dorata. Alla fine di esso vi era una sala degna di un film di fantascienza.
Mentre era tutta presa dall’esplorazione, l’arlecchino si tolse maschera e costume, rivelando un volto e articolazioni che di umano non avevano nulla. Chiuse la rampa di accesso della sua astronave e, prima di raggiungere la bambina, parlò ad un interfono. Il messaggio alieno, tradotto, recitava all’incirca: “Qui K2081B. Ho trovato una perfetta Incubatrice. Pronto al decollo …”



***Angolo Autrice***
Storia scritta per una challenge su Wattpad: bisognava scrivere una one shot di massimo 500 parole ambientata a Venezia durante il carnevale, scegliendo una tra sei maschere.

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Capitolo 10
*** Esponenziale ***


Sapete cos’è la crescita esponenziale?
Da due si diventa quattro, otto, sedici, trentadue, ecc …
È ciò che ci è capitato. La crescita è stata velocissima, sconsiderata … Ben presto buona parte del mondo era nostra. Certo, immagino che alcuni siano morti nel processo, tuttavia non abbastanza ...
I giovani erano selvaggi, non si riusciva ad impartir loro un qualche insegnamento, pensavano soltanto a soddisfare i propri bisogni senza tener conto del futuro.
In tempi troppo brevi ci siamo ritrovati senza cibo. Ci siamo avventati su ogni animale che ci capitava a portata di mano, mentre gli scienziati – se esiste una parola più esatta per definirli non la conosco – cercavano di risolvere il problema studiando una soluzione.
Ovviamente gli animali non sono durati molto a lungo. In migliaia sono morti di fame. Altri, e credo che il loro numero abbia superato quello di chi è morto di stenti, sono stati mangiati dai loro simili. Si sono create bande di disperati, composte al massimo da una decina di persone, che assalivano chiunque fosse in inferiorità numerica. Lo scopo era la sopravvivenza.
Ormai siamo rimasti in pochissimi. Chi ha resistito alla fame, è riuscito a organizzarsi, nutrendosi del minimo indispensabile a sopravvivere. Ma siamo destinati a perire anche noi.
Tutto per colpa di un vampiro che desiderava una numerosa famiglia.
Che marcisca all’inferno!

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Capitolo 11
*** Notte di luna piena ***


Urla, corri, grida, nasconditi, strilla, scappa!
Continua così, baby: mi sto divertendo!
Strano, credevo che a un certo punto tutto questo sarebbe diventato noioso. Insomma, saranno una decina d’anni che faccio questo gioco, eppure resta sempre affascinante. In effetti non è poi così monotono. Magari solo l’inizio: individua la preda, isolala, inseguila… poi tutti hanno reazioni diverse.
Oh, non fraintendetemi, provano tutti paura, in maniera diversa però.
Questa ragazzina, per esempio. Avrà al massimo una ventina d’anni. Di lei conosco solo il nome: Crystal. Non si è accorta del mio pedinamento, almeno fino a quando non l’ho deciso io. Poi la caccia è iniziata ufficialmente. È scappata immediatamente appena ha capito che cosa sono. È stato delizioso osservare la sua disperazione crescere mano a mano che le veniva preclusa ogni via di fuga.
Cara bambolina, chiedi di lasciarti in pace?
Non ho potuto trattenermi dal ridere, naturalmente.
Con i miei artigli le ho graffiato un braccio. Beh, magari le ferite che le ho procurato erano più gravi di semplici graffi, ma ancora nulla di preoccupante. Ho leccato il sangue che mi è rimasto sulla mano.
E lei ha cacciato un urlo terribile e ha ripreso a correre.
Buffo, nessuno si arrende mai.
Le ho lasciato qualche secondo di vantaggio; ero curioso di sapere come intendeva sfuggirmi.
Sono rimasto deluso: si è banalmente nascosta dietro un’auto.
Davvero, cara? Tutta qui la tua creatività?
Poco importa, non ti serve.
L’ho scaraventata fuori dal nascondiglio con una manata.
Lei mi ha sorpreso tempestandomi di pugni il braccio. Ha saputo approfittare bene del mio stupore: con una spinta è balzata in piedi ed è corsa al piano di sopra del parcheggio sotterraneo.
Che intendi fare, piccola? Nasconderti sotto un’altra macchina? Barricarti nel gabbiotto del custode? Davvero ridicolo. A proposito del custode, quanto urlerà scoprendo la sua carcassa?
Mentre rifletto su queste sciocchezze salgo le scale. Annuso l’aria: l’odore della mia preda mi eccita, con tutta l’adrenalina che le circola in corpo.
Crystal è in effetti entrata nel gabbiotto. Con i miei sensi sviluppati posso esserne certo anche se non la vedo dalla vetrata. Non ha urlato però, brava ragazza. Avrà fatto in tempo a prendere il manganello del custode? O magari quel tipo aveva addirittura una pistola?
Gratto la porta come farebbe un gattino che chiede di entrare... un gattino alto due metri. Entro lentamente. Osservo per prima cosa la gola dilaniata del custode, la sua faccia raggelata dalla morte in un’espressione di terrore e dolore. Mi lecco le labbra ricordando il sapore del suo sangue. Un ottimo antipasto!
Sollevo il tavolo, ma lei non è lì. Prima che possa stanarla, con mio grande stupore, è Crystal stessa che mi viene incontro. Salta su di me e... ed io ululo di dolore e iniziò a devastare tutto ciò che ho a tiro. L’occhio! Il mio occhio destro fa malissimo, brucia da morire! Ululo ancora e ancora, per sfogare dolore e rabbia. Mi specchio al vetro del gabbiotto, ringhiando: ormai c’è solo un’orbita vuota al posto del mio occhio. Le mie alte capacità rigenerative non mi consentono di far ricrescere organi mancanti, ‘fanculo! Per terra c’è l’arma del delitto. Un taser. Mi ha fritto l’occhio la puttana! La sua morte non sarà veloce come avevo programmato... soffrirà!
Mi ci vuole un po’ per calmarmi abbastanza e permettere tanto al mio udito che al mio fiuto supersviluppati di localizzare la ragazza. È quasi all’uscita del parcheggio sotterraneo! Scatto a correre a quattro zampe con spaventosa velocità. La raggiungo un attimo prima che sia effettivamente fuori. Con un balzo mi paro davanti a lei, la afferro rudemente e la scaravento tra una fila di macchine. Perfetto, non ha avuto nemmeno il tempo di strillare. Sta ancora cercando di rialzarsi quando le ghermisco un piede e la trascino ai livelli inferiori. Crystal scalcia, urla, si divincola, mi insulta e mi blandisce. E piange. Il suo pianto si fa sempre più disperato, finché ormai non fa altro.
Le lascio andare il piede, metto una zampa sul suo petto e avvicino il muso al suo volto. Mi serve come monito. Sì, in fondo non sono più un lupacchiotto. Devo smetterla di giocare col cibo. Le mordo un braccio, sprizzando sangue sul mio pelo. Oh sì, adesso è lei che urla di dolore! Sarà già impazzita? Me lo domando blandamente mentre spolpo l’arto davanti ai suoi occhi. Dopodiché la sventro e inizio a nutrirmi delle sue interiora...
La mia cena è conclusa. La caccia non è tutto in fondo. Il momento dello strazio è sublime, soprattutto adoro sentire il sangue caldo che mi bagna la bocca e le urla sono un condimento eccezionale! Credo che certi piaceri vadano condivisi. Come dicevo prima, sto invecchiando. È ora che mi trovi un lupacchiotto da addestrare, magari mi creerò un branco.
Vuoi farne parte?



***Angolo Autrice***
Finalmente aggiorno la raccolta!
Le prossime storie che pubblicherò le ho scritte per concorsi su wattpad, spero vi faranno rabbrividire, come anche questa.
Bye ^^

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Capitolo 12
*** Nascita di un racconto ***


Ma ci credete a quanto sono fortunato?? Ho ricevuto un invito omaggio per l’esclusiva festa di compleanno del celebre maestro dell’orrore K. S. Kingcraft! Il bello è che non devo sborsare neanche un centesimo, il biglietto è all-inclusive!
Abitando in Italia, mi è stato più facile raggiungere l’ex manicomio di Mombello, forse la location meno rappresentativa della ricchezza del festeggiato, ma a mio parere la più suggestiva. Eh già, Kingcraft è un miliardario, dunque ha dovuto organizzare ben quattro feste contemporaneamente! Mi auguro con tutto il cuore che presenzi a quella che si svolge in Italia, così gli faccio autografare i miei tre romanzi preferiti. Attraverso il cancello del vecchio manicomio fremendo d’eccitazione. È davvero enorme!
Il ragazzo addetto al controllo degli inviti mi ha spiegato che per non guastare l’atmosfera solo un paio di stanze sono state adibite come zona buffet. Noi ospiti possiamo girare liberamente per tutta la struttura. È anche presente un servizio di sicurezza, poiché il luogo di notte è spesso frequentato da tossicodipendenti, ma è stato consentito l’accesso ai senzatetto. In fondo c’è cibo in abbondanza e sono proprio loro che, appena entrato, vedo usufruire liberamente del buffet. Ce ne saranno una dozzina.
Kingcraft non è in vista e per il momento non mi va di socializzare. Attivo la torcia del cellulare, mi inoltro in un corridoio e inizio a filmare la mia avventura. Mi sposto con cautela, poiché il pavimento è pieno di ostacoli, come vetri infranti, calcinacci, spazzatura... a volte un letto o una sedia oppure un armadio mi costringono a cambiare direzione, non volendo toccare nulla del posto. Entro in una stanza, tappezzata di scritte come il resto dell’edificio. So perfettamente che le scritte sono successive alla chiusura del manicomio, eppure mi è facile immaginare una persona, uno dei pazienti definiti agitati, passare ore e ore a scrivere cose senza senso, quasi fosse l’unico scopo della sua vita...
Il posto è davvero immenso. Dopo aver girovagato per qualche altro reparto sono tornato indietro, soffermandomi a leggere un archivio con vecchie cartelle cliniche. Uno degli ospiti, un certo Moretti, ha domandato chi era disposto a seguirlo nei tunnel sotterranei. Si tratta di gallerie situate sotto il parco create per far passare le tubature che fanno funzionare i diversi padiglioni. Naturalmente, si dice che i dottori eseguissero esperimenti sugli internati in quei cunicoli e che poi ne occultassero i cadaveri nel pozzo profondo una trentina di metri.
Io ho accettato. Desidero molto visitare i sotterranei e, sapendo che sono labirintici, preferisco farlo con Moretti, che si vanta di voler completare la mappatura di essi scoprendo nuovi passaggi segreti. Siamo dunque scesi, noi due soli, per le scale che portano al sottosuolo. Fortunatamente non soffro di claustrofobia, alcuni cunicoli sono davvero stretti... seguo Moretti in un passaggio in cui si è costretti a strisciare. Che importa sporcarsi? Si tratta di un’esperienza unica! I miei amici moriranno d’invidia!
Ma... che fine ha fatto Moretti? Non vedo nessuna luce. Che abbia proseguito senza aspettarmi? Lancio un richiamo. Se spera di spaventarmi casca male, sono qui proprio perché amo il brivido! Mi inoltro da solo convinto che lui mi aspetti per farmi buh o qualcosa del genere, ma appena svolto l’angolo mi ritrovo davanti un essere incappucciato. Per la sorpresa urlo e corro dalla parte opposta, il cuore che pompa furiosamente nel petto. Mi fermo a riprendere fiato, dandomi dell’idiota. Si trattava sicuramente di uno scherzo. Ho fatto la figura del codardo!
Mi incammino lentamente, ridendo imbarazzato e complimentandomi con l’autore della celia. Nessuno, però, mi risponde. Comunque non c’è silenzio, potrei immaginarmele, certo, ma mi sembra di udire delle urla... urla di agonia e morte... dei passi di corsa... e strani tonfi, rimbombi sulle tubature. Confuso, cerco di non farmi prendere nuovamente dal panico. Devo strisciare da dove sono venuto, sono questi spazi angusti che scuotono i miei nervi! Non sono braccato da fantasmi, maledizione!
Da destra giunge una specie di litania recitata da più persone. Illumino quella che si rivela essere una processione di figure incappucciate. Ormai terrorizzato, abbandono i romanzi che volevo far autografare e corro a più non posso, non curandomi nemmeno di farmi luce col cellulare.
La cosa si rivela un fatale errore: scivolo su uno dei ripidi gradini che conducono alla ghiacciaia. Un lampo di intenso dolore mi annebbia la vista. Credo di aver perso i sensi, solo per pochi minuti. Respirando affannosamente, tento di muovermi, ma una nuova ondata di dolore mi costringe ad urlare e fermarmi. Dalla sommità delle scale proviene una flebile luce. Chiunque ci sia sotto quei cappucci sta scendendo adagio le scale: ogni figura regge davanti a sé una candela e continua a cantare la strana nenia in quello che mi pare latino. Mi guardo intorno disperato e urlo alla vista delle mie gambe: entrambe sono piegate in modo innaturale e da entrambe sgorga sangue.
Le figure incappucciate mi hanno circondato. Sposto freneticamente lo sguardo dall’una all’altra. Sono immobili e silenziosi, si sentono solamente i miei ansiti e il crepitio delle candele. Poi si fa avanti uno degli incappucciati. Si china di fronte a me. Si toglie il cappuccio...
“Kingcraft?” mormoro stordito.
Deve essere un folle incubo, non c’è altra spiegazione!
“Esatto. Sei il mio fan più sfegatato, giusto? Dunque faresti di tutto per me. Ma non gratis, no, sarebbe chiedere troppo. Tu oggi mi aiuterai a mantenere la mia fama per un altro lustro. In cambio diverrai il protagonista di un mio racconto. Sei contento? Il giovane appassionato d’orrore che viene sacrificato in una messa nera dal suo scrittore preferito! La tredicesima vittima della nottata! Non è magnifico? E hai anche scoperto il mio segreto. Ogni volta che mi chiedono come mi vengono certe idee, come faccio a scalare sempre le classifiche dei best seller, beh, è in quei casi che mi serve un sacco di immaginazione...”




***Angolo Autrice***

Bisognava scrivere una one shot di massimo 1000 parole ambientata durante la festa di un fittizio maestro dell'orrore, scegliendo una tra quattro località infestate.

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Capitolo 13
*** Ordinary Girl ***


Era un caldo pomeriggio come tanti a Los Angeles. Erin passeggiava lungo i marciapiedi affollati, con gli auricolari nelle orecchie, diretta al suo supermercato di fiducia.
Era talmente persa nei suoi pensieri che realizzò con qualche secondo di ritardo di non riuscire più a vedere. Udì distrattamente lo stridio di freni, il tonfo di portiere sbattute e centinaia di altri rumori causati da un improvviso caos. Erin fissò d’istinto il cielo: né nuvole, né stelle, né altro. Restò impalata, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, a fissare un cielo oscuro come non l’aveva mai visto. Intanto la sua playlist continuava normalmente, come se la città non fosse appena precipitata nelle tenebre.
Improvvisamente si accesero i lampioni. Ciò sbloccò la gente dalla paralisi: quasi tutti si misero a correre, per la maggior parte verso le rispettive case. Erin mosse qualche passo, incerta. Trovò confortante la vista dell’elettricità. Forse si trovava nel mezzo di un progetto militare o qualcosa del genere. Si appoggiò a un lampione per non essere travolta dalla folla terrorizzata. Osservò di buonumore le persone che correvano, talune urlando. Sicuramente il Governo si sarebbe scusato per il panico causato ai cittadini. Anzi, forse le spiegazioni erano già in corso.
Erin accese il cellulare. Fissò incredula l’orario. Non potevano essere le 00:00! La ragazza controllò l’orologio da polso: entrambe le lancette erano ferme sul dodici. Un grido carico di dolore la fece sobbalzare. Si accorse che la strada in cui si trovava era quasi vuota ormai, eppure urla simili al precedente provenivano da ogni parte. La ragazza, pallida e tremante, decise di avventurarsi in un vicolo deserto.
Udì degli strani versi provenire da dietro l’angolo. Si acquattò al muro, sbirciò e rimase raggelata: una mezza dozzina di zombie si stava cibando di un uomo! Le creature comunicavano tra loro in una specie di linguaggio primitivo ed emettevano rivoltanti rumori mentre mangiavano. Scricchiolii erano prodotti dalle loro ossa disarticolate, nascoste solo parzialmente da vestiti marci. La loro pelle, se ancora c’era, aderiva completamente allo scheletro ed era putrefatta. I capelli erano arruffati, pieni di sporcizia. I denti, sebbene pochi, erano gialli e affilati, come anche le unghie.
Erin non riuscì a trattenere un conato di vomito. Si allontanò più che poté e dette di stomaco su gambe che ormai la reggevano a malapena. Gli zombie l’avevano sentita! Indietreggiò meccanicamente. Gli occhi le si riempirono di lacrime, il cuore martellava furiosamente, la bocca arida e secca aspirava in singulti aria surriscaldata. Non poteva credere di stare per morire; le sembrava un’atroce ingiustizia!
D’un tratto un’ombra emerse dall’oscurità, superò l’umana e raggiunse gli zombie. La figura incappucciata reggeva una scimitarra per mano, che usò per decapitare in un baleno tutti i morti viventi. Dopodiché si avvicinò a Erin e le domandò: “Sei tu Erin Loomis?”
La povera ragazza annuì intontita, poi perse i sensi.
Quando rinvenne, si accorse di essere trasportata da qualcuno alla maniera dei pompieri. Emise un flebile lamento, tentando di fare mente locale.
“Oh bene, sei sveglia” esclamò una seccata voce femminile.
La sconosciuta depose Erin a terra con poca delicatezza. Adesso la ragazza poteva vederla in volto. Si trattava di una donna molto attraente: aveva una carnagione scura, espressivi occhi neri, capelli scuri di media lunghezza e praticamente ogni cosa di lei, dal volto all’abbagliamento, era bellissimo e sexy.
Erin notò che l’altra la guardava come se fosse spazzatura. Non poteva biasimarla: in confronto a lei era decisamente insignificante… insulsa. Si era sentita spesso in quel modo nei suoi venticinque anni di vita.
La sconosciuta sembrò leggerle il pensiero: “Davvero qualcuno così scialbo è destinato a salvare il mondo? Spero che Lucifer non mi abbia dato il nome sbagliato… Beh, con lui c’era Amenadiel, quindi forse sei più interessante di come appari. Dimmi, hai poteri speciali?”
La giovane scosse la testa, spaventata. Ora ricordava cos’era avvenuto nell’ultima ora. Si alzò a fatica, guardò la donna e la ringraziò, imbarazzata. Le aveva salvato la vita, però non doveva avere tutte le rotelle al posto giusto. Doveva allontanarsi.
“Dove vorresti andare, ragazzina? Sei una semplice umana, è così? Cazzo! Non importa, andiamo… E datti una mossa!”
Erin fu afferrata al polso dalla sconosciuta, che la strattonò energicamente fino a che la giovane si adeguò al suo passo frettoloso. Le era già capitato di sentirsi impotente un sacco di volte… odiava quella sensazione. Che diritto avevano gli altri di comandarla a bacchetta? La facevano sentire amareggiata e delusa da se stessa. Quella volta però sembrava non avere scelta.
Erin si fece coraggio e domandò alla donna misteriosa: “Tu chi sei? Come posso c’entrare qualcosa io?”
“Mi chiamo Mazikeen e sono un demone. Risparmiami la parte in cui non ci credi. Guarda, là ce ne sono di rivoltanti”.
Erin obbedì e guardò: un paio di obbrobriose creature smisero di rovistare in un cassonetto per avvicinarsi a loro. Somigliavano a larve antropomorfe ricoperte da migliaia di escrescenze carnose. Mazikeen fu lesta a sbarazzarsene. Tornò a rivolgersi a Erin come se niente fosse: “Loro sono di una categoria molto inferiore naturalmente. Non dovrebbero nemmeno stare sulla Terra, ma qualche stronzo ha creato un portale che glielo ha permesso. Ricopre tutta Los Angeles. Tu, a quanto pare, puoi bloccare il processo prima che inglobi tutto il mondo e si crei letteralmente un Inferno in Terra.”
Erin passò il tempo restante in uno sbalordito silenzio. Non poteva crederci. Al tempo stesso, però, era convinta che Mazikeen le avesse detto la verità. Le sembrava tutto più chiaro adesso; era come se una parte di lei, prima assopita, si fosse risvegliata e sapesse istintivamente cosa fare. La ragazza si fermò di botto, con la testa china.
“Un Inferno in Terra dici… sai che per molte persone esiste già?”
“Non ho tempo per…”
“Tutti i giorni! Migliaia di persone soffrono ogni singolo giorno! C’è chi viene deriso, rapinato, aggredito, violentato, ucciso; chi non ha nulla da mangiare, vive ai margini di una società che ha deciso di dimenticarlo perché è più facile e poi in realtà non gli importa! Sopportiamo meschinità e soprusi continuamente; gli altri colpiscono i nostri punti deboli, magari senza malizia, ma solo perché si deve fare, bisogna maltrattare i deboli e i diversi se non vuoi essere uno sfigato! Ci sono stati imposti canoni di bellezza e moralità irraggiungibili e tutti ci struggiamo per non essere perfetti. Non siamo riusciti a creare che disuguaglianza e guerra e stiamo distruggendo tutto il pianeta! Quindi che ora si fottano tutti quanti!”
Mazikeen fissò stupita la giovane, ansimante dopo lo sfogo di rabbia repressa. Una presenza la fece trasalire impercettibilmente. Erin si accorse del nuovo arrivato solo quando parlò: “Concordo completamente con te”.
Si trattava di una creatura che trasmise alla giovane un senso di potere e malvagità. A giudicare dalla voce era un maschio. Era molto alto, muscoloso, completamente nero eccetto che per i grandi occhi rossi che spiccavano sul volto privo di naso e bocca. Dalla testa gli spuntavano una specie di tentacoli. Una lunga coda si agitava pigramente ai suoi piedi. Quando le fu vicino, Erin notò che il corpo dell’essere era ricoperto di spine ed emanava un odore stranissimo: inchiostro bruciato a cui si mescolava una dolce essenza di rose.
Mazikeen tenne pronte le scimitarre. Non si sarebbe certo lasciata intimorire da un demone che non aveva nemmeno raggiunto il secolo di vita. Decise tuttavia di non aggredirlo subito, in modo da capire come disfare l’incantesimo.
“Tu sei un altro demone?” chiese Erin. Non sapeva più cosa provare. Si sentiva vuota, nulla le importava più.
“Indovinato. Ieri ero in forma umana. Ti ho versato nel bicchiere qualcosa di più di una semplice droga: sei diventata l’epicentro del portale!”
“Perché io?” domandò la ragazza, quasi supplichevole.
“Non spicchi per bellezza, intelligenza, agilità, forza, bontà, coraggio e nemmeno per i loro opposti. Sei anonima. Mediocre. E il 99% dell’umanità è composta da persone come te. Ma ora sei diventata importantissima per il mio regno. Vuoi diventare la mia regina? Governeremo assieme questa nuova versione dell’Inferno!”
“Non gli crederai mica?! È un fottuto demone, ti sta ingannando!”
Erin spostò lo sguardo da Mazikeen al demone nero. Lei le urlava contro e si aspettava che si adeguasse ai suoi desideri, come tutti. L’altro, invece…
“Che succederebbe, se rifiutassi?”
“Non diventeresti mia moglie”.
“Ci hai già provato una volta e hai fallito!”
“Sbagliare è umano, perseverare è diabolico, Maze”. Rise e ghignò compiaciuto quando Erin gli si avvicinò. Fece atterrare uno scorpione con ali da pipistrello, la aiutò a montarci sopra e si sedette dietro di lei.
“Verrai sconfitto, Blackheart! Aspettaci, bastardo!”
Quindi si chiamava così… Blackheart. Erin lo osservò: era spaventoso e inumano. Tuttavia, l’accettava per com’era, non pretendeva nulla da lei, le aveva dato uno scopo e addirittura offerto di sposarla. Forse Mazikeen aveva ragione, sarebbero stati sconfitti, ma non le sembrava tanto brutto come destino.
Fu così che il mondo precipitò in un abisso di tenebra, follia e dolore.



***Angolo Autrice***

Bisognava scrivere una one shot di massimo 1500 parole ambientata in una grande citta durante una specie di attacco demoniaco, scegliendo tra alcuni personaggi dei fandom di Lucifer, Harry Potter, Star Wars e Il Trono di Spade.
Ovviamente ho scelto Maze, della serie TV Lucifer, non ho letto fumetti DC su di lei.
Blackheart è il mio villain preferito della Marvel e lo conosco abbastanza da sapere che chiederebbe a una mortale di sposarlo senza un motivo. Nel 2012, in Venom: Circle of Four, tenta di trasferire l'Inferno sulla terra a partire da Las Vegas; è il fallimento a cui accenna Maze.
La mia storia si è aggiudicata il terzo posto nella challenge ^^

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Capitolo 14
*** Marco Polo con Thalassa ***


Avete mai sentito parlare del gioco Marco Polo? No, il noto esploratore non c’entra. Forse. Nessuno sa perché il gioco si chiami così, ma, si sa, spesso i nomi cambiano nei secoli.
La modalità di gioco è molto semplice: chi ha il ruolo di Marco deve cercare a occhi chiusi i giocatori che hanno ruolo di Polo. Ogni volta che lui dice Marco, gli altri devono rispondere Polo, e appena uno di loro viene toccato diventa il nuovo Marco.
Questo gioco per bambini, molto popolare nelle piscine americane, si rifà in realtà a un antico rito greco con cui è possibile evocare la dea Thalassa, divinità primordiale del mare. In pochi vi ricorrevano, in quanto le possibilità di sopravvivenza erano, e sono, scarse. Inoltre, dato l’egoismo della natura umana, difficilmente un gruppo di persone decide di rischiare la vita per un unico, comune desiderio. Occorrono, infatti, un minimo di quattro persone affinché il rituale abbia successo.
Se credete di avere ottimi amici e condividete tutti lo stesso sogno, potete tentare di realizzarlo in questo modo. Ovviamente, è probabile che conduciate i vostri amici a morte certa. Siete stati avvertiti.
Per cominciare, recatevi di notte presso una piscina, un lago o al mare. Con voi dovete avere i seguenti oggetti:
• un vestito di seta che ricordi un peplo, può andare bene anche una camicia da notte, l’importante è che sia di seta;
• del sale;
• candele o lampade ad olio, poiché l’illuminazione artificiale non vi sarà di alcun aiuto;
• una goccia del vostro sangue.
Assicuratevi che ogni partecipante svolga un preciso compito, altrimenti l’evocazione non riuscirà.
Il vestito di seta deve essere indossato necessariamente da una ragazza, che in seguito avrà il ruolo di Marco e sarà posseduta da Thalassa. Non preoccupatevi, lei non correrà alcun rischio. Le sacerdotesse cedevano volentieri il corpo alla dea, sapendo di essere le uniche ad avere una chance di sopravvivenza. Tuttavia, lei non potrà esprimere alcun desiderio a fine partita e si ha testimonianza di giovani che si sono suicidate, non sopportando l’idea di aver ucciso i propri amici.
Tutti gli altri avranno ovviamente il ruolo dei Polo. Uno di loro deve accendere tutte le candele (o lampade) che avete portato. Un altro si occuperà di gettare il sale in acqua, anche se è già salata. Infine, l’ultimo partecipante deve pungere, preferibilmente con un ago, sé stesso e gli altri in modo che almeno una goccia di sangue cada in acqua.
Se a svolgere il rito sono più di quattro persone, dividetevi ulteriormente i compiti. Ad esempio, accendete ciascuno un certo numero di candele, o pungete metà giocatori.
Completati queste passaggi, avrete ormai attirato l’attenzione della dea. I Polo si dovranno posizionare attorno a Marco e recitare la seguente invocazione in greco: παίξτε μαζί μας Θάλασσα, ακούστε την προσευχή μας (pronuncia: paíxte mazí mas, Thalassa, akoúste tin prosefchí mas), che significa: gioca con noi, Thalassa, esaudisci la nostra preghiera.
La ragazza si immergerà quindi per trenta secondi. Allontanatevi in fretta, perché quando riemergerà non sarà più la vostra amica. Ogni apparecchio elettronico smetterà di funzionare e una lieve brezza marina si alzerà anche se siete al chiuso.
Chi riemergerà non avrà più gli occhi, in quanto non le servono per trovarvi. Al posto delle mani avrà chele di granchio, con cui vi farà a pezzi se vi prende. In generale avrà l’aspetto di un cadavere annegato, di cui sentirete l’odore marcescente.
Alla vista di una tale mostruosità potreste decidere di scappare. Non fatelo. Non uscite assolutamente dall’acqua. Thalassa si offenderà e vi bastonerà a morte con il suo remo.
Non infrangete nemmeno l’unica regola del gioco: quando lei vi chiama, con una voce solo vagamente somigliante a quella della vostra amica, chiedendovi: “Dove siete?”, dovete rispondere: “Qui”. Se decidete di restare in silenzio, la dea ne sarà oltraggiata. Delle alghe si avvolgeranno attorno al vostro corpo e vi tireranno sul fondo, facendovi annegare.
Ricapitolando: non uscite dall’acqua, siate leali e non fatevi prendere. Cercate di sfruttare tutti i vantaggi possibili in precedenza, scegliendo quindi una vasta distesa d’acqua per compiere il rituale, così potrete allontanarvi da Thalassa il più possibile. Cercate anche di stare in apnea più che potete: soltanto in questo caso siete giustificati se non rispondete.
Il rito dura un’ora, se la dea non vi prende (uccide) tutti in meno tempo. Alla fine dell’ora, Thalassa si congratulerà con i vincitori e chiederà quale premio vi spetta. Dovrete rispondere tutti la stessa cosa, altrimenti la divinità vi divorerà come punizione per il tempo che le avete fatto perdere.
Una volta esaudito il desiderio, o una volta che nessuno è rimasto in vita, la ragazza tornerà in sé, con nessun ricordo del rituale svolto.
Voi per cosa sareste disposti a correre il rischio?



***Angolo Autrice***

Il team di HorrorThings ci ha proposto di ideare una creepypasta in stile rituale, partendo dall'immagine di un abito appeso da cui spuntano piedi cadaverici. Io sono stata sorteggiata come "scrittrice 0" e ho ideato lo scheletro del racconto, altri lo stanno ancora modificando, perché siamo stati una decina ad aderire all'iniziativa. Sapendo questo, non mi sono preoccupata molto di non aver trovato un titolo migliore XD
Magari prossimamente troverete in giro la creepy ultimata ^^

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Capitolo 15
*** Equivoco ***


Non potrò mai dimenticare la prima volta che vidi James Duval. Eravamo in piena epoca vittoriana, come è stato soprannominato quel periodo, a un ballo; non ricordo per che evento fosse stato organizzato, ma si teneva nella magione di James, che si trovava nella campagna londinese.
Lui era un leader vampiro definito anziano dai suoi simili poiché avente più di cinquecento anni. Eppure, non una ruga solcava il suo viso, non un capello incanutiva la sua nuca. Appariva come un uomo di circa quarant’anni particolarmente sano e gioviale, dai lineamenti gradevoli. Le sue riserve di sangue dovevano essere veramente notevoli se riuscivano a conferirgli un aspetto così autentico di uomo vivente. Indossava un impeccabile abito blu scuro – tutti i suoi simili indossavano qualcosa di scuro, specialmente di nero – che si intonava con i suoi occhi. I capelli e la barba erano castani e cangianti: man mano che si spostava, mi apparivano ramati, mogano, cioccolato, nocciola, cenere... a seconda che l’illuminazione provenisse dal camino, da una lampada, non ci fosse affatto oppure giungesse con una specifica inclinazione e intensità.
Presenziava al ballo gente che contava qualcosa a quei tempi, almeno in apparenza. Da perfetto padrone di casa, James si intratteneva con i vari ospiti, passando da un gruppetto all’altro, raramente si dedicava a una singola persona. Assorto com’ero nel studiarlo, notai che la sua espressione variava leggermente, a seconda che l’ospite in questione fosse un vampiro o un umano. Sembrava una seccatura per lui avere a che fare con questi ultimi: il sorriso diventava stereotipato, indifferente, gli occhi si spostavano più frequentemente per la sala ed esprimevano una sorta di paziente rassegnazione, come se parlare con gli umani fosse un’incombenza alla quale non poteva sottrarsi.
Io lo osservavo appoggiato al bracciolo di una poltrona, sorseggiando un bicchiere di brandy, circondato da tre giovani umani che conversavano fra loro e credevano fossi coinvolto nella loro conversazione. A me gli umani non dispiacevano, anzi, e nemmeno i vampiri. Non ho mai avuto problemi a mescolarmi tra loro, come in quell’occasione.
Gli umani, ingenui, così razionali, erano privi di ogni sospetto su di me. Mi consideravano un eccentrico uomo d’affari. La cosa buffa è che non ho mai concluso un accordo in vita mia. Comprai un ufficio, sì, per salvare le apparenze, ma non ci lavorai mai: lo arredai e ingaggiai qualche impiegato, tutto qui. Il denaro che accumulai fino ad allora lo sottrassi alla loro specie, piccole somme che insieme costituirono la mia fortuna. Ne vado ancora fiero. Me la ero pur sempre guadagnata, la mia ricchezza, avevo lavorato sodo per ottenerla, mi ero ingegnato, e nel frattempo mi ero anche divertito. Sono ricordi piacevoli, in cui mi piace indugiare.
Ai vampiri non ho mai sottratto nulla, nemmeno una preda, eppure, anche durante quella serata di festa, non potevano fare a meno di guardarmi con scherno, disgusto, diffidenza, talvolta con aperto odio e malcelata paura. Con loro ero sempre all’erta, ma cercavo di essere amichevole, addirittura spiritoso. Mi chiedevo se fosse il loro istinto che li portasse a temere i licantropi. Tale pensiero mi faceva perdonare le loro occhiate e i loro bisbigli, di cui riuscivo a percepire le parole, se erano abbastanza vicini. Inutile dire che non si trattasse di commenti lusinghieri, ma erano banali, ripetitivi, e mi risultavano noiosi piuttosto che fastidiosi. Specialmente durante quel ballo, in cui la mia attenzione era completamente assorbita da James.
Come avevo previsto che sarebbe accaduto, il leader vampiro congedò con qualche frase di circostanza i tre umani e mi rivolse la parola. Attendevo con ansia che lo facesse. Naturalmente, doveva essersi accorto della mia presenza da tempo, forse da quando avevo messo piede nella sua dimora, ma non aveva dato alcun segno di avermi notato. Ragionai che se fosse stato infastidito dalla partecipazione di un licantropo a un suo evento, lo avrebbe fatto cacciare molto prima.
Con mio gran sollievo – lo provai allora almeno, oggi provo un miscuglio di emozioni che non riesco a decifrare – mi trattò con gentilezza. Era incuriosito da me. Mi domandò se mi aggradava seguirlo in biblioteca, dove avremmo potuto conversare in privato. Esitai per un breve istante, ma poi annuii e lo seguii. Tornerei indietro, se potessi? Non credo... Seguii James, ma soprattutto seguii il mio istinto, cosa che ho sempre fatto e che mai mi ha tradito. Lo assecondo sempre, nel bene e nel male, perché so che mi procurerà un vantaggio prima o poi, e perché naturalmente ne ricavo piacere.
Sono molto affezionato al mio lato selvaggio. Lo lascio libero di agire ad ogni luna piena... è un’emozione appagante correre libero nella natura, cacciare un essere vivente, bagnarmi il muso nel suo sangue e saziarmi delle sue carni... e poi ululare alla luna e riprendere la folle corsa.
Non sono un mostro, non ho mai ucciso esseri senzienti, solo animali, selvatici per di più. Tuttavia, la mia attrazione per la vita spericolata, per gli eccessi, per quelli che la mia specie considera tabù, ha fatto in modo che fossi espulso dal branco, per la sua sicurezza. Non capivo all’epoca, ovviamente, ero così giovane... vedevo solo che gli umani ridevano di buffonate che il branco considerava scandali, facevo scalpore nella loro società e ciò mi compiaceva. Non capivo come potessi mettere a rischio gli altri solo perché mi ubriacavo a qualche festicciola o mi appartavo con qualche fanciulla. Decisi che non mi importava se i miei simili non mi volevano. Sbagliavano a considerarmi incosciente e pericoloso, erano codardi e scialbi...
Raccontai tutto a James, concludendo la storia rivelandogli il mio nome: David Rymer. Lui non tradì alcuna emozione di repulsione, mi trattava con rispetto, mi capiva. Non fingeva, come sospettai inizialmente. Alla fine del mio racconto rimase in silenzio, ed io lo fissavo dubbioso, chiedendomi cosa volesse da me. Ma mi aveva già detto cosa voleva: parlare, semplicemente. Forse grazie alla sua lunghissima esperienza, aveva intuito che ci saremmo trovati in sintonia. Mi disse che apprezzava il mio carattere. Anche lui non si faceva problemi a infrangere regole e convenzioni. A differenza di me, si basava sulla ragione, ma le nostre conclusioni non differivano molto. Chiacchierammo a lungo quella notte, diventammo amici. Per me era rilassante tacere e fissare gli occhi lucenti e acuti di James. Ne ero affascinato... mi sembrava di intravedere il suo animo attraverso di essi. Sorrisi apertamente quando mi invitò a tornare a casa sua la settimana successiva ed io ricambiai l’invito con prontezza, lieto che mi fosse toccata una simile fortuna.
Iniziammo dunque a frequentarci, a farci visita sempre più spesso, finché diventammo inseparabili. Fedeli alle nostre idee, non nascondemmo la nostra relazione. Sinceramente, io neppure pensai se fosse il caso. Niente o nessuno mi aveva mai reso tanto felice, sapevo solo questo, e la mia gioia cresceva ogni secondo che trascorrevo con James. Mi era impossibile tollerare che qualcuno giudicasse sbagliato il mio sentimento, o addirittura falso. Sono certo che se me lo avessero detto direttamente, avrei sbranato il latore di tale calunnia.
Negli anni a venire ho avuto dubbi sulla mia condotta passata, ho provato vergogna per aver abbandonato il mio branco solo per conseguire qualche effimero piacere, ma non mi sono mai pentito di aver amato James. Su questo, gli altri sbagliavano, sul serio stavolta. Se mai vi siete innamorati, mi capirete. Non esistono giusto e sbagliato in amore. È come entrare in un mondo spirituale in cui perdono ogni significato le concezioni terrene; non contano più la specie, il sesso, lo status sociale, la nazionalità ed altre quisquilie del genere. Qualcuno potrebbe obiettare che tra me e James non è finita bene, affatto; tuttavia, nessuno di questi fattori è stato la causa del nostro fallimento.
Restammo insieme per tre paradisiaci anni. Tutto mi sembrava perfetto, e nulla mi lasciava sospettare che non lo fosse anche per James. Tuttavia, qualcosa doveva pur mancargli... o forse si era soltanto stancato di me. Quanto dura l’intrattenimento di un essere potenzialmente immortale? Magari, ciò che a me appariva nuovo e stupefacente era già storia vecchia per James. Se ci furono segnali antecedenti alla tragedia, io non li notai, altrimenti è assai probabile che avrei agito diversamente... l’amore rende ciechi, sì, talvolta pazzi, però ciò che concerne l’amato diventa il nostro mondo: sarebbe difficile mancare segni di un cambiamento nelle parole, nell’atteggiamento, nello sguardo...
Pertanto, la mia sorpresa fu totale quando, andandolo a trovare quella che poi fu la nostra ultima notte, gli sentii addosso l’odore di qualcun altro. James si rese subito conto che non ero capace di seguire il suo discorso e risalì correttamente alla causa. Sospirò, mi parve per la prima volta a disagio, iniziò a intavolare quelle che dovevano essere scuse, oppure una giustificazione. Ma io, avuto conferma dei miei sospetti, non lo stavo più ascoltando. La mia mente era ricolma di un ringhio di puro furore.
Nella mia specie, siamo soliti dedicarci esclusivamente a un partner per tutta la nostra vita. Non dico che anche tra i licantropi non manchino i tradimenti, individui promiscui, o, al contrario, gli asceti, ma costituiscono delle eccezioni. Nella maggior parte dei casi, una volta trovato il partner ideale, è quasi impensabile stare lontano da lui, recargli offesa, farlo soffrire, perché staremmo male anche noi, tanto forte è il legame che unisce le due anime.
James aveva reciso quel legame non appena aveva scelto di tradirmi piuttosto che di lasciarmi con garbo. Ne avrei sicuramente sofferto, ma mi avrebbe dimostrato il rispetto e la fiducia che mi aveva attribuito da sempre. In tal modo, invece, mi tradì anche come amico, sentivo che aveva violato qualsiasi cosa di buono ci fosse stato tra noi e per me era intollerabile. Andava punito ad ogni costo.
I licantropi possono trasformarsi completamente solo nelle notti di luna piena, ma siamo in grado di assumere un aspetto a metà fra il lupesco e l’umano nei casi di necessità: le mie unghie divennero artigli; i miei denti si allungarono e rafforzarono; i miei muscoli si irrobustirono, conferendomi forza e agilità; finalmente emessi il ringhio che segnava la sua condanna a morte. La trasformazione avvenne con rapidità, perciò James si trovò impreparato. I secondi di shock furono la sua fine: gli fui addosso all’istante e cominciai a lacerare, mordere, sbranare... persi il controllo, vedevo rosso davanti a me. Quando la furia mi abbandonò, mi lasciò solo, disperato, con il cuore a pezzi... ululai, cercando di liberarmi del dolore straziante che mi stava lacerando.
Lo sbattere di porte e il suono delle voci dei domestici di James mi ricordò che il mondo esisteva ancora. Ancora una vola, seguii l’istinto, e fuggii. Tutte le bestie fuggono, e se sono alle strette lottano, pur di non finire ingabbiate o uccise. Corsi a lungo quella notte, senza una meta, finché mi addormentai sfinito in una radura.
Non ero capace di pensare a niente che non fosse la mia storia d’amore infranta... bevevo, mangiavo poco, dormivo molto e mi commiseravo. Durò per una settimana, credo, forse anche più. Anche se non ci pensavo coscientemente, sapevo che mi stavo nascondendo dalla vendetta dei vampiri. James era stato uno dei loro leader, uno degli anziani, peraltro. La sua morte non sarebbe passata inosservata, avrebbe suscitato scalpore, rabbia, sete di sangue, del mio sangue. Era certo che, se mi avessero trovato, mi avrebbero sottoposto a torture inimmaginabili per punirmi e ammonire altri licantropi dal guardarsi bene dal far del male ai loro simili.
Fortunatamente, fu un gruppo di licantropi a trovarmi. Mi accolsero come un loro fratello, dissero che sapevano ciò che avevo fatto. Non feci caso alle loro parole, mi accodai a loro perché avevo bisogno di compagnia. Mi ci vollero parecchi mesi per guarire... ero taciturno e solitario, ma facevo la mia parte nel branco. Mi avevano riammesso a causa di un equivoco, un equivoco che non corressi perché immagino fossi ancora troppo scosso. Mi sentivo stanco, indifferente, permettevo agli eventi di susseguirsi senza protestare. Il mio istinto si era assopito? O mi indicava che mi occorrevano inattività e calma prima di ritornare me stesso?
Perché, per quanto possa sembrare incredibile nel momento del dolore, esso passa, come quasi tutte le cose terrene. Non di colpo, una quantità infinitesimale per volta, impossibile da percepire, ma passa e un giorno ci sentiamo meglio, ci sorprendiamo a provare allegria, a sorridere, fino a che si torna a una nuova normalità.
Tornai me stesso, ma un me stesso che aveva vissuto un’esperienza in più, che aveva imparato una lezione. Ero felice di essere nel branco, però provavo dei sensi di colpa per l’equivoco non corretto per tempo e mi domandavo se avesse senso parlarne dopo che la vicenda si era conclusa, almeno per tutti gli altri.
Come avevo appreso, la stessa notte in cui uccisi James, il gruppo di licantropi che mi trovò uccise un altro leader vampiro, anch’egli anziano. Loro avevano voluto dimostrare che non siamo bestie a malapena civilizzate: siamo capaci di elaborare acuti piani e restare impuniti dopo aver arrecato a una specie superiore una gravissima offesa. Credettero che in qualche modo io fossi a conoscenza del piano e avessi deciso di agire in solitaria per emularli e combattere le disparità che subivamo a causa dei vampiri al loro fianco.
Non raccontai a nessuno come andarono realmente le cose. Lo sto scrivendo qui per la prima volta, con la speranza che i giovani – giovani licantropi, vampiri, umani o di qualsiasi altra creatura a cui interessi leggere le memorie di un vecchio – siano messi a parte delle esperienze dei più anziani e possano risparmiarsi le sofferenze da noi vissute, evitare di commettere i nostri stessi errori.
Ogni nostra decisione ha delle ripercussioni anche sugli altri, ecco cosa non capivo quando il branco mi esiliò. Volenti o nolenti, abbiamo legami col mondo che ci circonda; la nostra individualità è importante, va preservata, ma anche correlata alla vita altrui, perché le nostre azioni sono in grado di influenzarla, talvolta in modi inimmaginabili. Ponderate con cura e saggezza quando vale la pena perseguire un obiettivo e quando invece occorre non rinunciarvi, bensì ridefinirlo al fine di non arrecare danno alcuno.
Con la speranza che le mie parole vi possano giovare,
David Rymer.



***Angolo Autrice***

Forse questo racconto non è completamente horror, ma va be'.
Bisognava scrivere un racconto di max 2500 parole, ambientato nella Londra vittoriana, con protagonista un lupo mannaro e ispirato dalla seguente frase di Underworld: “Benché io non sappia prevedere il futuro, le conseguenze di questa notte echeggeranno nelle sale dei più grandi casati per molti anni a venire. Due anziani vampiri sono stati uccisi, uno di loro per mano mia.”

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Capitolo 16
*** Ammit ***


Michael “Il Leone” Price era un diciassettenne grande, grosso e forte, cosa che gli aveva permesso di diventare il miglior giocatore di rugby del suo liceo, lo Shirley Jackson, che aveva come mascotte proprio un leone. I suoi capelli erano biondo miele e lui li portava lunghi fino alle spalle e spettinati, dandogli un effetto criniera. Gli occhi erano leggermente a mandorla, tanto scuri da sembrare neri. I lineamenti del viso gli conferivano un’aria perennemente seccata. L’insieme di queste qualità, unite al fatto che il secondo giorno del suo primo anno aveva fatto saltare un dente all’ex miglior giocatore di rugby del liceo, avevano fatto sì che Michael fosse considerato dagli studenti il bullo più pericoloso del paese. Michael aveva accettato passivamente la nomina: saputo qual era il suo ruolo nella società, ci si era adeguato quasi con sollievo.
Sempre Michael aveva goduto dei privilegi che la sua fama da bullo gli procurava: non fare alcun genere di fila nei luoghi frequentati dai coetanei; ricevere i compiti già fatti dai secchioni della classe; avere una cerchia di ragazzi grandi e grossi, la maggior parte dei quali costituiva la squadra di rugby, che lo trattavano da capoccia; poter spintonare gente e dare ordini a chiunque senza sentire nemmeno uno squittio come lamentela. Michael era convinto che la sua vita fosse perfetta, a parte diverse insufficienze. Era sicuro di essere un bullo fortunato, con una scuola in pugno ed un sacco di tempo extrascolastico dedicato essenzialmente a divertirsi.
Ma… prima o poi c’è sempre un ma…
Il suo era arrivato mentre stava tornando a casa dopo un intenso allenamento. Aveva appena imboccato una stradina secondaria quando qualcuno aveva sbattuto contro di lui, nei pressi dello sterno o giù di lì. Un qualcuno che, usandolo come sostegno, stava vomitando.
Dopo un primo attimo di spaesamento, il biondo si era scostato pronto a ruggire, eppure un semplice sguardo nei grandi occhi da cerbiatta della ragazza lo aveva ammutolito completamente.
Era bassina, non un fuscello ma nemmeno fuori forma. I capelli corvini erano legati in un’alta coda trattenuta da un elastico rosa annesso di pompon. La bocca piena era piegata all’ingiù, il nasino fremeva e gli occhi castani e lucidi erano puntati ansiosamente nei suoi, quasi che fosse stato lui a sentirsi male.
Michael la stava fissando a bocca aperta, certo di avere un’espressione da ebete ma incapace di reagire in qualche modo. Aveva l’impressione che la ragazzina fosse frutto della sua immaginazione. Era troppo rosa, troppo zuccherosa per essere vera.
“Scusa” disse lei con una voce melodiosa e fresca. “Ho mangiato un panino con tonno avariato. O forse era la maionese ad essere scaduta. Appena arrivo a casa mi sbarazzo del colpevole. Non ti ho sporcato vero? Pare di no. Forse è meglio se ci allontaniamo, o rischio di sentirmi di nuovo male.”
Il biondo si costrinse ad accettare come reale la creatura che gli stava di fronte e che lo stava delicatamente tirando per un braccio. Gli sembrò di respirare meglio ora che quegli occhi destabilizzanti non lo stavano fissando. Azzardò un’occhiata al viso di lei, pallido e rotondo.
“Io… tu… cioè, non ti ho mai vista” farfugliò Michael guardandosi i piedi.
“Sono nuova. Sono arrivata a Lonely Peaks solo da tre settimane. Tu sei nato qui?”
“Sì...”
“È una bella cittadina. Da cartolina, sai. Spero che continuerò a trovarla affascinante anche dopo essermi ambientata.”
“Non è granché. Cioè…” s’impappinò Michael quando lei gli sorrise, ascoltando con interesse. “Non ci passerei la vita qui. È noioso.”
“Capisco, credo. Forse mi annoierò anche io un giorno. Ora ho proprio bisogno di stendermi… Willow Street è di là?”
“Sì. Io abito due strade dopo, posso accompagnarti.”
“Grazie! Questi quartieri sono tutti uguali! Ho appeso una lanterna in giardino per trovare la casa giusta.”
La ragazzina rise e Michael sorrise di riflesso. Si limitò ad annuire ogni tanto per il resto del discorso, o meglio del soliloquio della sua nuova conoscenza. Infatti mentre la accompagnava a casa si stava scervellando per trovare una soluzione al problema. Aveva capito subito che una cerbiattina come quella non rientrava nel campo di amicizie di un leone. Il problema stava nel fatto che dopo appena dieci minuti di conversazione non poteva più fare a meno di starla ad ascoltare! Aveva una voce così limpida, degli occhi così sinceri, ed era così dolce e carina! Michael deglutì a vuoto ed arrossì. Che scusa poteva trovare per non allontanarla? Gli venne in mente la favola del topo e del leone. Ma certo! Dopotutto la stava aiutando, lei era in debito! Questo concetto sarebbe stato evidente anche ai suoi coetanei: i leoni devono essere clementi ogni tanto, per poi riscuotere la loro benevolenza in seguito.
“Ehi, il gatto ti ha mangiato la lingua? Ti ho chiesto come ti chiami” fece la ragazzina sventolandogli una mano davanti agli occhi.
“Michael Price, ma mi chiamano tutti Il Leone.”
Rispondere gli era costato un bello sforzo, perché il profumo fruttato di lei gli era salito al cervello rischiando di causargli un cortocircuito.
“Il Leone” ponderò la giovane divertita. “Non male. Io sono Eleanor Wilson, ma mi chiamano tutti Ellie.”
“Come la mammut” scappò detto al biondo, a cui vennero le farfalle nello stomaco quando Ellie rise.
“Sì, anche se non credo di essere così grassa o pelosa.”
“No, tu… insomma…”
“Ti inviterei dentro, ma devo riposare o mia madre mi sgrida quando torna.”
“Sì, va bene, capito.”
“Se vai al Jackson domani possiamo fare la strada assieme.”
Stavolta Michael non poté fare a meno che guardarla negli occhi. Erano tersi, fiduciosi e carichi di aspettativa. E simpatia anche, la stessa che lui aveva istintivamente provato per lei.
“Non ci sono problemi. Sei in quarta?”
“In terza. Così tu hai diciassette anni?”
“Sì.”
“E giochi a rugby. Bella divisa a proposito. E sto ancora qui a parlare invece di riposare. A domani Mike, grazie!”
Il ragazzo fece appena in tempo a salutarla prima che Ellie chiudesse la porta. Si incamminò verso casa sua frastornato e sorridendo senza accorgersene. Quel pomeriggio anche lui trovò Lonely Peaks affascinante.

Un venerdì, molto teso e molto rosso, Michael bussò alla porta di casa Wilson augurandosi che non gli aprissero altri membri della famiglia. Fu accontentato; a quanto pareva erano in casa solo loro due. Ellie lo fece accomodare, servì da bere e mangiare, intavolò una conversazione semi-seria sulla scuola, insomma riuscì a metterlo a proprio agio. Con nessun altro essere vivente Michael si era sentito tanto in sintonia e libero di essere se stesso. Incredibile come si fosse affezionato in fretta a quella ragazzina. Si augurava che anche per lei lui fosse importante.
Lo scoprì poco dopo. La moretta gli domandò a bruciapelo: “Ti piaccio, Mike?”
Il ragazzo non si sognò nemmeno di glissare su una domanda così diretta, soprattutto perché lei lo stava guardando ed era molto difficile non dire altro che la verità. Diventando più rosso di un peperone, impossibilitato a parlare a causa di un’improvvisa balbuzie, annuì.
Ellie sorrise soddisfatta. Scandì lentamente, attenta a mantenere il contatto visivo: “A volte le domande sono complicate e le risposte sono semplici. Mike, ti farò alcune domande difficili; rispondi sinceramente a tutte, senza pensarci troppo, con un sì o un no. Va bene?”
“Sì” rispose il biondo. Si rischiarò la gola rinsecchita, sentendosi stranamente calmo e rilassato.
“Perfetto. Mi ami, Mike?”
“Sì.”
“Ti eri mai innamorato prima?”
“No.”
“Eppure sei sicuro al cento per cento che si tratta di vero amore, giusto?”
“Sì.”
“Mi amerai anche se sono diversa da come mi hai conosciuta? Profondamente diversa?”
“Sì.”
“E se io non ti amassi, cambierebbe qualcosa?”
“No.”
“Dunque mi doni il tuo cuore sebbene io per te non provi nulla?”
“Sì…”
“Ti ringrazio, Michael. Ti sono grata come può esserlo un leone che pasteggia con una cerbiatta…”
Michael si sentiva completamente anestetizzato tanto nel corpo quanto nella mente. Il suo sguardo vacuo si sgranò appena quando Eleanor si avvicinò a lui con un coltellaccio tra le mani. Era talmente diversa senza il solito dolce sorriso, con quegli occhi di colpo impazienti e famelici ed il tono privo di calore umano, che se il ragazzo non fosse stato ipnotizzato non sarebbe riuscito comunque a muoversi o parlare tanta era l’incredulità che provava.
“Sono una Ammit, Mike. Saprai che i vampiri hanno bisogno di chiedere il permesso per entrare in casa delle loro vittime. Ebbene, noi invece abbiamo bisogno di essere amate per divorare il cuore delle nostre. Sei stato un piacevole passatempo Mike, ma nulla di più. Addio…”
Michael, sopraffatto da un dolore che può comprendere soltanto chi ha ricevuto una bruciante delusione d’amore, la fissò disperato. Il desiderio che Ellie provasse almeno un briciolo di affetto per lui rimase inesaudito. Infatti, la Ammit non gli concesse nemmeno uno sguardo benevolo, una parola di consolazione durante i suoi ultimi istanti di vita. Una volta estratto l’organo che aveva crudelmente infranto, lo inghiottì e si dimenticò dell’esistenza di Michael “Il Leone” Price.



***Angolo Autrice***

Scritta per san Valentino 2020. In un massimo di 1500 parole, bisognava inserire la frase "a volte le domande sono complicate e le risposte sono semplici". E ho scelto il team cuori infranti XD
Ammit fa parte della mitologia egizia: divorava i cuori dei defunti che risultavano essere più pesanti di una piuma, sulla bilancia di Anubi. Ho deciso di associare il suo nome ad una nuova specie di creature horror. Spero che il risultato sia gradito =)

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Capitolo 17
*** Consigli celati ***


Nel parchetto solitario, ricoperto di candida neve, vi era una bambina che contemplava mestamente una fontana con l’acqua gelata. Sembrava una graziosa bambola di porcellana: aveva una carnagione diafana, freddi occhi grigi, qualche lentiggine sul nasino, folti capelli color cioccolato annodati con un nastrino bianco. Indossava una splendida mantellina rossa con pelliccia bianca, stivali neri e delle muffole bianche. Di una bambola di porcellana aveva anche l’espressione, sempre la stessa: distante, apatica, stanca.
La bambina interruppe le sue nostalgiche riflessioni, leggermente allarmata. Non era più l’unica visitatrice del parco. Si stava avvicinando un essere malefico, lo percepiva.
Ben presto le fu udibile un motivetto cantato da una voce infantile. A prima vista, sembrava una normale bambina, come lei, a parte per i capelli viola. Quelli di certo nessuno li avrebbe definiti naturali, eppure Rosalie, questo era il nome della bimba castana, era convinta che lo fossero. L’altra bambina era infagottata in un cappotto beige lungo fino ai piedi. Si intravedevano gli stivali rosa perché lei stava saltellando. Tra le mani inguantate stringeva una bambola di pezza abbastanza consumata, con croci al posto degli occhi, capelli rossi ed un vestitino che ricordava quello di una donna medievale.
La bambina si fermò a un paio di metri da Rosalie. Il respiro le si condensava velocemente nella gelida aria di quel mattino del ventisei dicembre. Le guance paffute erano arrossate per il freddo e la corsa. Gli occhi verdi, incuriositi, erano puntati su Rosalie. Sorrideva abbastanza amichevolmente.
“Ciao, io sono Kelly” si presentò la bambina. Mostrò la bambola: “E questa è Abigail. Tu cosa sei?”
“Una strega” rispose laconica Rosalie.
“Ah, ecco. Sai, adoro le streghe! Con Abigail gioco sempre a fare l’inquisizione! Lei non ammette mai di essere una strega, così la torturo finché non confessa, allora la uccido. Però, sai, lo dice solo per non soffrire più, una vera strega processata ammazzerebbe gli umani, giusto?”
“Tsk, non riuscirebbero nemmeno a capire chi è una vera strega, figuriamoci catturarla.”
“Giustissimo! Ti faccio delle domande, dai! E tu devi sempre dire la verità!”
Rosalie contemplò pensosa Kelly. Era la prima volta che aveva a che fare con una creatura che si comportava effettivamente come una bambina.
“D’accordo, ma tu risponderai alle stesse domande.”
Kelly ghignò divertita.
“Sai come ci si comporta, eh? Ma camminiamo, mi fa piacere passeggiare in un posto non infestato dagli umani. Tu cosa pensi di loro?”
Per un attimo gli occhi della strega divennero crudeli: “Sono pusillanimi... odiosi... li detesto.”
Kelly rise. La prese a braccetto e continuò allegra la conversazione: “Vero, sono codardi, ma sono divertenti, non li odio. Beh, almeno non tutti. Il mio papà, ad esempio, è umano.”
“Ah, sì? Inusuale” commentò Rosalie, interessata.
“Già, capita sempre che le umane danno alla luce figli di demoni. Mi piace essere un’eccezione!”
“Posso farti una domanda?”
“Sicuro, ma ricorda che dovrai rispondere anche tu.”
“Tua madre non prova amore per tuo padre, vero?”
“Ovviamente no. Lui è il suo fedele servo. Prova una sorta di passione. Papà è anche servo mio, ma per ora devo obbedire ad alcune sue imposizioni perché mi servono per crescere bene. Che mi dici dei tuoi genitori?”
“Oh, sono morti un paio di secoli fa. Erano normalissimi, molto affezionati.”
“Ok. Allora sappiamo cosa siamo, che pensiamo degli umani e cosa sono i nostri genitori. Manca che mi dici il tuo nome.”
“Io non ho chiesto il tuo, Kelly” replicò Rosalie. Vide che l’altra si imbronciava, quindi aggiunse: “Non so se te l’hanno insegnato, ma le streghe non rivelano mai il proprio nome, esattamente come i demoni. Però posso dirti che mi chiamano la Scambiatrice.”
“Perché?”
“È una lunga storia.”
“Raccontamela” ordinò Kelly, con un’espressione minacciosa.
“Va bene, se poi tu racconterai altro riguardo la tua famiglia.”
“Si capisce, abbiamo fatto un patto. È la prima volta che lo faccio con una come te!”
“Sediamoci...”
La mezza demone accolse la proposta della strega. Sciolse la neve da una panchina e le due vi si sedettero. Rosalie riordinò i suoi pensieri per qualche istante, prima di cominciare: “In fondo stavo pensando a uno spiacevole evento del mio passato, poco fa. Forse non è un caso che ci siamo incontrate...”
Kelly la interruppe: “Io ci credo nel destino! Sai, in roba come le profezie! Secondo me ne esiste una che mi riguarda. Insomma, sono la figlia di un demone, dovrebbe esserci, è un evento oscuro! E io sono tremenda, ci sarà pure qualcuno intenzionato a farmi fuori per estirpare il male, no?”
“Non ne ho idea. Esistono i cacciatori di demoni, naturalmente, ma non so se usano le profezie. Kelly, ti prego di non interrompermi durante la storia, a meno che non sia per farmi una domanda.”
La bambina annuì. Si sistemò meglio sula panchina, strinse Abigail e fissò Rosalie con attenzione.
“Quando divenni una strega, mi specializzai in evocazioni demoniache e in rituali occulti. Non mi interessavano il potere o il comando... riuscivo a evocare pochi famigli, demoni di un rango molto basso che mi servivano per un breve lasso di tempo, in modo da permettermi di vivere comodamente e approfondire le mie conoscenze per pura curiosità.
A quei tempi, l’unica cosa che mi preoccupava era invecchiare, complice anche la mia vanità... ero una donna molto bella... usavo la magia per preservare la mia giovinezza, ma i rimedi da me trovati avevano una durata limitata. Quando passai i trent’anni, trovai finalmente ciò che cercavo: un rituale che mi avrebbe dannato l’anima, ma che mi avrebbe consentito di non invecchiare mai. Ponderai che sapevo bene come difendermi, conducevo una vita tutto sommato tranquilla, fatta di studi e ricerche. Ero perfino a conoscenza di un incantesimo capace di salvarmi in punto di morte, che funzionava un’unica volta però...”
“E tu l’hai usato, vero?”
Rosalie annuì, afflitta. Era la prima volta che raccontava a qualcuno il proprio passato. Si augurava che servisse a farla sentire meglio, ma non ci sperava troppo: i demoni non erano famosi per la loro empatia.
“Sì, ma più di un secolo più tardi. Ero convinta di essermi assicurata l’immortalità, con le dovute precauzioni. Fu dopo che compii il rituale che divenni la Scambiatrice. Ogni dieci anni, dovevo sacrificare un bambino; avveniva uno scambio: un demone si impossessava del corpo del bambino, mentre l’anima di quest’ultimo veniva imprigionata all’inferno, nel corpo del demone. Come saprai, i bambini possiedono anime candide, ma ritrovandosi in quei corpi, in quel posto, al comando di un overlord infernale... la loro anima non può che corrompersi, quindi finiscono con l’appartenere all’inferno per sempre. Nel frattempo, i demoni tramutati in bambini vagano sulla Terra inducendo in tentazione, o tormentando, gli umani.”
“Ora è chiaro perché sai trattare bene con me. Con quanti demoni hai avuto a che fare?”
“Di trasformati? Quindici. In caso di bisogno, ho preso l’abitudine di evocare uno di loro.”
“Ma perché sembri una bambina, adesso? Ne hai scambiati troppi e sei ringiovanita molto?”
Rosalie sospirò, addolorata. Kelly sorrideva affascinata, come una bambina che ascolta una bella favola per la prima volta.
“No, io... fu colpa di un uomo. Non sapeva che fossi una strega, lui... scoprii in seguito che era un serial killer. Aveva l’abitudine di conquistare le donne e poi ucciderle. Ci cascai anch’io... mi diede appuntamento presso quella fontana, di notte... lo fece sembrare romantico... e nel momento in cui divenni più vulnerabile, mi pugnalò. Sarei certamente morta se non avessi pronunciato in fretta quell’incantesimo di cui ti ho parlato, ma il trauma che avevo subito era stato troppo forte... avevo sbagliato qualcosa, non so cosa... una parola? Un gesto? Fatto sta che regredii in un corpo infantile.
Inizialmente non ci badai, mi accontentai di essere ancora viva. Naturalmente mi vendicai di lui: non fu soddisfacente come immaginavo, però mi assicurai che soffrisse a lungo. Col passare degli anni scoprii con orrore di non crescere... non invecchiavo più, anche senza compiere il rituale. Continuo a cercare un modo per liberarmi da questa maledizione... oggi è il cinquantesimo anniversario della mia prigionia.”
La mezza demone batté le mani, compiaciuta. Rosalie trattenne un moto di rabbia: non aveva senso prendersela con un essere nato per portare dolore, né era saggio, poiché percepiva un grande potere in Kelly. Come aveva previsto, rivivere il passato non le era stato di alcun aiuto: non aveva ricordato nulla di utile per annullare la maledizione e i ricordi bruciavano ancora nel suo animo. Tuttavia, non si sarebbe arresa, mai. La speranza non l’aveva abbandonata, era convinta che prima o poi sarebbe tornata la strega di un tempo.
“Complimenti, Scambiatrice, mi hai intrattenuta! Una storia in cui perdono tutti, meravigliosa! Magari un giorno la recito con Abigail.”
Rosalie fece un cenno col capo, come a dire che prendeva atto del suo divertimento. Il sorriso di Kelly si ampliò. Sgambettò eccitata prima di concedere alla strega quello che riteneva un grande onore, ovvero renderla partecipe della sue origini e dei propri pensieri sulla sua natura demoniaca.
“Ti racconto della mia nascita! È iniziato tutto con un rituale satanista svolto da papà assieme a degli altri adoratori di demoni. Erano satanisti in erba, diciamo: si riunivano di notte in un qualche luogo considerato maledetto per celebrare messe nere che concludevano con rituali proibiti. Nessun rituale funzionava mai, ma a loro andava bene lo stesso. Mamma dice che davano credito a storie trovate su internet, storie inventate da umani a cui piace l’horror, ma fra queste un vero rituale c’era, e una notte lo portarono a termine. Così mamma comparve e divorò buona parte di quei tipi.
Durante il massacro, papà fu l’unico che continuò a osannare mamma, gli altri fuggivano, morivano o avevano troppa paura. Mamma decise quindi di ricompensare quel fedele servo. In lui aveva riconosciuto un cuore puramente malvagio, dunque lo sedusse e finirono col concepire me.
Io sono nata il sei giugno, alle sei in punto. Non è successo granché di emozionante durante la nascita. Un forte temporale, migrazioni di animali, le solite cose insomma. Mamma non può restare a lungo nel mondo mortale, così dopo il parto ha detto a papà come mi dovevo chiamare ed è sparita. Kelly deriva dal celtico ceallach, che significa...”
“Guerra, conflitto” mormorò la strega.
“Precisamente. Sono al mondo da sette anni e mi è già capitato di uccidere un paio di umani che se la sono cercata, per il resto li terrorizzo, torturo animaletti e mi alleno a usare i poteri. È una gran bella vita! Ci siamo trasferiti tre volte e credo che lo faremo ancora, perché devo continuare a fare del male senza essere scoperta. E magari causare una guerra, come dice il mio nome! Forse sono destinata a fare questo, però mamma non mi conferma niente.”
La mezza demone si zittì e fissò Rosalie per vedere quanto l’aveva impressionata.
“Anche la tua storia è stata molto interessante, Kelly. Ti auguro di riuscire a scatenare la tua guerra” disse lei compita, in tono di congedo.
“Grazie, Scambiatrice. Io non posso che augurarti di morire presto. Ma aspetta, mi è venuta in mente un’altra domanda.”
La strega rimase in ascolto, paziente. La mezza demone non le sembrava più minacciosa come all’inizio, aveva scoperto che poteva trattarci, tuttavia era più imprevedibile di qualsiasi altro demone a causa del suo lato umano e del fatto che si credeva una specie di prototipo dell’Anticristo.
“Sei vestita a festa. È per camuffarti? O credi nel Natale?”
“Venero il dio Aion, che rappresenta il tempo infinito...” mormorò Rosalie, “un presente eterno, poiché ogni istante ricomincia ciclicamente. Ho aderito al suo culto nella speranza che possa esaudire le mie preghiere e liberarmi da questo corpo immutabile. Aion è un Deus Sol Invictus, una divinità solare. Una festa in onore degli dei con questo appellativo veniva celebrata la notte tra il ventiquattro e il venticinque dicembre, secoli fa, dunque sì, sono vestita a festa perché ho festeggiato.”
Le continue ricerche avevano condotto la Scambiatrice in Grecia, e successivamente in Siria e in Egitto, dove aveva appreso tutto il possibile riguardo a quel culto, in cui al momento riponeva ogni sua speranza.
“Ah, ho capito. L’ennesimo furto che i cristiani chiamano reinterpretazione, sempre che abbiano il buon gusto di ammettere che prima di loro altre religioni santificavano date o eventi simili. Per me il Natale, anzi, le sue tradizioni, rappresentano i sette vizi capitali, quindi mi piace” proclamò fiera la mezza demone.
“Festeggi il Natale?” si stupì Rosalie.
“Perché no? Lo fanno un sacco di laici, l’hai fatto tu, basta semplicemente attribuirgli il significato che si vuole. Ed io onoro i vizi capitali. Non ancora tutti, ma migliorerò di anno in anno. Chissà, potrei anche infrangere i dieci comandamenti tutti in un giorno, crescendo.”
Kelly strinse Abigail e ridacchiò, pregustando il compimento del malvagio proposito.
“Capisco. La tua curiosità è soddisfatta?”
“Un’ultima richiesta: mostrami il tuo demone famiglio più potente, o spaventoso.”
“Non ci siamo accordate sulle richieste, Kelly. Tra l’altro, evocarli per diletto è irrispettoso.”
La mezza demone sbuffò infastidita, ma non protestò. Capiva che aveva molto da imparare prima di riuscire a concludere un patto completamente a suo vantaggio.
“D’accordo, Scambiatrice. Possiamo salutarci. Spero di affrontarti, un giorno.”
“Arrivederci, allora.”
Kelly saltò giù dalla panchina, con Abigail tra le braccia, e corse via, cercando di percepire qualche sventurato che si trovasse in strada da solo quel ventisei dicembre.
Rosalie si alzò adagio. L’incontro con la mezza demone era stato più proficuo di quanto avesse immaginato. Non solo ci aveva guadagnato una storia interessante, ma anche un ottimo consiglio, anche se Kelly glielo aveva dato indirettamente: attribuire il significato che vogliamo a un qualcosa che a prima vista sembra oggettivo, reinterpretare la realtà a nostro favore. La strega ponderò che il desiderio di una cura per tornare a come era in passato le aveva impedito di essere felice per mezzo secolo. Forse doveva godersi un po’ di più il presente, pur mantenendo fisso il suo obiettivo; rammaricarsi continuamente per ciò che aveva perso non glielo avrebbe fatto riottenere più in fretta. Era sufficiente considerare la prigionia in quel corpo eterno non come una maledizione, ma una sfida da affrontare, un’opportunità per apprendere nuovi saperi e diventare più forte.
“Ti ringrazio, Kelly. Mi auguro di rincontrarti davvero” sussurrò Rosalie, con un leggero sorriso, per poi incamminarsi lontano dal parchetto e tutto ciò che rappresentava.



***Angolo Autrice***

Bisognava raccontare, in un max di 3000 parole, di una natività oscura, scrivendo un racconto di genere spiritual horror ambientato nel periodo natalizio.
Kelly e Rosalie sono nate come mie creepypasta e si sono evolute ^^

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Capitolo 18
*** Two Sentence Horror Stories ***


Le TSHS sono racconti horror sintetizzati in due frasi. Ne ho scritti sei per l'Horror Summer Fest dell'anno scorso.


Jonathan inzuppa le patatine nella ciotola ricolma di liquido rosso e denso che ha trovato sul tavolo. Non me la sento di dirgli che non si tratta di ketchup...


"Si svegli con comodo, signorina Williams". Il robot attese pazientemente accanto alla camera criogenica rotta, contente uno scheletro.


Il party fu bruscamente interrotto da un blackout improvviso. Gli invitati udirono l'ultimo, agghiacciante urlo della vittima.


Le telecamere di sorveglianza ripresero la ragazza che veniva dilaniata e smembrata. Apparentemente, da nessuno.


Fu un bacio lungo, appassionato, mozzafiato. Poi il Dissennatore lasciò cadere il malcapitato al quale aveva rubato l'anima.


Mio marito parte sgommando per arrivare puntuale a lavoro. Mi chiedo quando si accorgerà che gli ho tagliato i freni.

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Capitolo 19
*** Horraiku ***


Sempre per l'Horror Summer Fest, ho scritto cinque Horraiku (termine coniato dal profilo HorrorThings). Un haiku è un breve componimento poetico formato da 17 sillabe e diviso in tre versi secondo lo schema 5-7-5. Un horraiku è una mini-storia horror composta da due haiku, ciascuno dei quali deve contenere un kigo, ovvero una parola obbligatoria. Si doveva scegliere tra: mare, oceano, abisso, sole, luna, creatura, predatore, sangue, fauci, sabbia, spiaggia, demone, onde, corrente, gorgo.
Spero che il mio tentativo nella poesia horror sia riuscito ^^



Il predatore
Si ritrovò d’innanzi
L’ignara preda.

Il tardigrado
Catturò tra le fauci
Il rotifero.



Insanguinato
Giaceva sulla spiaggia
Il cadavere.

Lieto rideva
Per l’anima caduta
L’ebbro demone.



La creatura
Volò sino in cielo,
Vendicativa.

La seguirono
In fuga dall’abisso
In centinaia.



Sbuca rapace
Dal vorticante gorgo
Un tentacolo.

Precipitano
Sulla meschina Terra
Schegge di luna.



Oscure nubi
Nascondono il sole
Al tuo sguardo.

Dapprima lieve
Una pioggia di sangue
Ammorba l’aria.

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Capitolo 20
*** Fraser Island ***


Si allungano i racconti per l'Horror Summer Fest. Stavolta tocca a drabble, storie di massimo cento parole, ispirate a Fraser Island, che si trova in Australia ed è una spiaggia alquanto mortale. In fondo ho lasciato qualche nota di spiegazione. Spero che troverete paurose le storie e interessanti le spiegazioni naturaliste ^^


1) Sulla mia gamba spiccano sottili segni rossi, come di frusta, e mi fanno male come se mi avessero effettivamente frustata. Sono stata punta da una cubomedusa. Sono spaventata e il dolore è atroce, ma non vado in panico: so che i bottiglioni di aceto presenti sulla spiaggia servono a impedire il rilascio di altra tossina. Poi, non devo far altro che chiamare i soccorsi, che mi inietteranno l’antidoto. Mentre mi verso l’aceto sulla gamba, scorgo una dozzina di fluttuanti figure eteree: hanno una campana diafana ornata da motivi identici a un teschio umano e protendono verso di me innumerevoli tentacoli...


2) Nuoti. Ti senti a tuo agio in acqua, più libero che sulla terraferma. Improvvisamente, incappi in una corrente che ti spinge verso il largo. Impieghi tutte le tue forze per uscire dalla corrente marina, finché i muscoli bruciano e senti il cuore pompare furiosamente nelle orecchie. Decidi di immergerti: forse sott’acqua sarà più facile trovare una via di fuga. Lo fai... e ti rendi conto che non è una corrente quella che ti sta trascinando: alla tua caviglia è serrata la mano di un uomo morto annegato, il primo di una lunghissima catena che ti reclama negli abissi.


3) Sei in preda a un dolore impensabile, madido di sudore, con i muscoli che si contraggono involontariamente, la testa che sembra esplodere e fa caldissimo... Piangi come non hai mai pianto in vita tua. In breve non riesci più a vederlo, l’essere piccolo, griglio, robusto, goffo e spietato che ha sentenziato la tua condanna a morte. Devi sforzarti per respirare, ma sai che lui sta osservando con soddisfazione la tua agonia.
“Era l’ultimo?” domanda distrattamente.
“Signorsì, generale. L’avanzata può proseguire” risponde un altro esemplare di Atrax robustus.
“Ottimo.”
L’esercito di aracnidi che ti ha morso zampetta lontano dal tuo cadavere.


4) Dave accese la torcia, determinato a seguire degli strani segni trovati sulla sabbia. Comparivano di notte, inspiegabilmente, e non assomigliavano a nessuna orma di animale che lo zoologo conoscesse. Dave li aveva già seguiti di giorno, senza alcun risultato. Sperava che la notte gli portasse consiglio. La nuova traccia lo guidò nella giungla, fino all’ingresso di una grotta. Ne emersero lunghissime zampe rossastre, poi un capo con otto occhi e un paio di cheliceri che tranciarono di netto la testa dello sventurato zoologo. Il gigantesco ragno dalla coda bianca pasteggiò con calma e si ritirò nella sua tana.


5) Sarah fece una decina di foto subacquee prima di notare un pezzetto di scogliera corallina fuggitivo. Vi si avvicinò, perplessa. Fu in quell’istante che il pesce pietra la punse. Sarah urlò per la sorpresa e il dolore. Lasciò cadere la macchina fotografica, sentendosi improvvisamente priva di energie. Realizzò con orrore di non riuscire più a muoversi. Ma non si trattava di una normale paralisi: le sue membra erano irrigidite nella posizione che lei aveva assunto durante la puntura e si appesantivano e indurivano sempre più. Sul fondo marino andò a posarsi una statua di sublime fattura, identica a Sarah...


6) Non ho idea di cosa sia accaduto... ricordo solo che controllavo l’orologio: erano le 12:45 quando mi ha colpito una forte nausea e in breve non riuscivo più a vedere, parlare o muovermi. Riuscivo ancora a udire, però. E a pensare. E a disperarmi oltre ogni umana comprensione, perché nessuno ha capito che sono ancora vivo e mi stanno seppellendo! Quando riprendo il controllo del mio corpo, è ormai troppo tardi...
Mi sveglio di soprassalto. Sono seduto su uno scoglio. Ho i piedi immersi nella pozza d’acqua che si è creata con la bassa marea. Sono le 12:45.


7) Alex raggiunse pagaiando la bella ragazza immersa in acqua. La giovane contemplò ammirata i lunghi capelli corvini dell’indigena, i suoi lineamenti fini e aggraziati, gli occhi incredibilmente grandi e neri. Le sorrise. Intanto, si chiedeva come proporle di posare come modella per un suo dipinto. L’indigena rispose al sorriso: aveva tanti, troppi denti, bianchissimi e affilati. Alex urlò, shockata. Afferrò il remo, ma l’altra le nuotò accanto e con un colpo di coda rovesciò la canoa. Alex si accorse con orrore che la bella ragazza era per metà squalo! La sirena le fu presto addosso, lesta come un fulmine.


8) Osservi affascinata l’incantevole tramonto tropicale, soddisfatta per come sta procedendo la vacanza. Quando lo spettacolo è ormai terminato, ti volti verso la tua guida. Sei costretta ad assistere a uno spettacolo di altra natura, tutt’altro che incantevole stavolta: il corpo dell’uomo si ricopre di pelo color zenzero; gli occhi si tramutano in due feroci lune rosse; i denti diventano forti zanne, braccia e gamba possenti zampe; spuntano orecchie e coda canine. Indietreggi orripilata, finché cadi a terra. Il dingo mannaro ulula, ti guarda incuriosito e infine scatta a correre verso ovest, da dove provengono lontani ululati.


9) È scoppiato a piovere all’improvviso. Il tuo gruppo di turisti è già bagnato fradicio. Come ogni volta, c’è chi si lamenta e chi ci scherza sopra. Un paio di americani richiamano l’attenzione di tutti: indicano entusiasti un arcobaleno. Tu sbianchi, ti allontani dai turisti lamentosi e ti appoggi a un albero, ammutolito. Lo vedi, il maestoso Serpente Arcobaleno, magnifico come sempre, che striscia su nel cielo. È anche giusto e severo, come sempre. La pioggia diventa grandine. I chicchi, grandi come palline da baseball, bersagliano unicamente, con precisione mortale, chiunque abbia trasgredito le leggi della Terra.


10) Scendo dal cielo e poggio il mio piede vorticante in mare. Punto con decisione verso la spiaggia, dove un gruppo di umani sta urlando e fuggendo. A causa del mio movimento, il mare si ingrossa, le onde diventano altissime e inondano la spiaggia, trascinando con sé alcuni umani. Proseguo verso quelli che si sono rifugiati tra la vegetazione. Durante il mio passaggio, sradico palme, inghiotto animali e finalmente faccio volare anche gli umani. Una volta che il sangue è stato versato, mi acquieto. Rallento pian piano e torno in cielo, cercando dall’alto nuovi bersagli.


***Note***

1) Le zone balneari australiane sono infestate dalla cubomedusa, in particolare da Chironex fleckeri. Ho reso l'infestazione leggermente più sovrannaturale. Scorgerle in acqua è quasi impossibile, infatti sono state le colpevoli fantasma di tante morti in mare. Ed è vero che i disegni della campana, guardati da una certa angolazione, somigliano ad un teschio.



2) Forti correnti marine hanno causato più di una vittima, purtroppo...

3) Atrax robustus, il ragno dalla tela a imbuto di Sydney, conosciuto anche come il ragno dei cunicoli, si ritrova fortunatamente solo in un raggio di circa 100 km dalla città di Sydney. Pare odiare davvero l'uomo, dato che: il veleno ha maggiore effetto su di noi e i primati piuttosto che sulle sue prede abituali; sceglie spesso di intrufolarsi in scarpe, biancheria, piscine senza alcuna paura della nostra presenza; ci aggredisce per primo. Esiste l'antidoto al suo veleno, che ha gli effetti descritti nella drabble. A causa sua non metterò mai piede in Australia.



4) Lampona cylindrata, il ragno dalla coda bianca, ha un veleno relativamente innocuo (tutti i ragni solo velenosi, ma spesso il loro veleno è poco potente per daneggiare noi). Non raggiunge nemmeno i 3 cm, nella realtà, le sue prede sono altri ragni e fa le uova rosa!



5) Synanceia verrucosa, il pesce pietra, è dotato di spine dorsali e pettorali collegate a ghiandole velenifere che secernono cardiotossine, che in certi casi portano alla morte. In ogni caso, meglio evitare di toccare i coralli, per non danneggiare il loro ecosistema.



6) Hapalochlaena lunulata, il polpo dagli anelli blu, vive nelle pozze di marea. Il suo veleno, che usa come difesa, è capace di parallizzare un uomo in circa tre minuti. Non c'è antidoto, tuttavia l'effetto dura ventiquattro ore. Dunque, se la vittima viene soccorsa immediatamente con la respirazione artificiale, può sopravvivere.



7) Gli attacchi degli squali avvengono solo se esso scambia l'uomo per una foca o se viene provocato. Il nostro sapore non gli piace, sono più gli squali uccisi dall'uomo ogni anno.

8) Proprio come la maggior parte degli animali, il dingo non attacca se non viene infastidito.



9) Sulla spiaggia possono verificarsi grandinate improvvise. Il Serpente Arcobaleno è un mito degli aborigeni australiani legato alla nascita, specialmente dei corsi d'acqua.



10) Il periodo dei cicloni è compreso generalmente nel mese di marzo.

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Capitolo 21
*** Cibo in scatola ***


Ho scritto questo racconto e quello che pubblicherò lunedì prossimo assieme a AnnyWolf99. Come imposto dalla challenge, entrambi sono di 1000 parole esatte e riguardano gli abissi.


Sharon Ross, biologa, e Kevin Foster, geologo, si trovavano all’interno di un sottomarino che li avrebbe condotti sul fondo della Fossa delle Marianne. Era una grande opportunità per i due studiosi, poiché raramente i sommergibili vengono utilizzati per scopi scientifici; in genere l’esplorazione degli abissi viene affidata a mezzi robotizzati guidati a distanza, ma quella volta l’Università presso cui entrambi lavoravano aveva ottenuto i fondi necessari per la spedizione.
Sharon era specializzata nello studio della fauna abissale. Trovava affascinanti le specie quali la rana pescatrice, il diavolo nero, l’isopode gigante, ecc. Tali creature le trasmettevano una forte ammirazione per il modo in cui erano riuscite a sopravvivere in condizioni tanto difficili: totale assenza di luce, forte pressione, scarsità di cibo e difficoltà a trovare un partner. Eppure anche a tali profondità la vita prosperava.
Sharon intendeva scoprire che animali vivessero nella Fossa, il punto più profondo della Terra, a circa 10.920 metri sotto il livello del mare. Oltre che annotare ogni creatura avvistata, per risalire in seguito a una specie esistente, doveva studiare e documentare l’eventuale presenza di colonie di Riftia pachyptila, un verme tubulare gigante che tipicamente vive presso le sorgenti idrotermali, sopportando temperature elevate e alti livelli di zolfo.
Sharon fremeva di aspettativa, chiedendosi che dimensioni avrebbero avuto quegli esemplari. Infatti, la fauna abissale presenta spesso una forma di gigantismo rispetto a specie molto simili che invece vivono in acque più superficiali. Il motivo è ancora sconosciuto.
Kevin era specializzato in tettonica delle placche, forse perché sin da bambino adorava i puzzle. La Fossa delle Marianne è la conseguenza diretta dello sprofondamento della placca del Pacifico sotto la placca delle Filippine; a differenza di altre aree di subduzione presenti sul pianeta, essa è molto ripida, quasi verticale, ed è caratterizzata da una misteriosa mancanza di terremoti violenti.
Kevin sperava di riuscire a spiegare quelle anomalie una volta sul campo, di innovare la sua branca di studi grazie a una qualche miracolosa scoperta... Fu bruscamente risvegliato dai suoi sogni di gloria da Sharon, che entrò sbattendo la porta e si mise a tamburellare le dita su un oblò, nervosa.
“In sala comandi dicono che hanno problemi a regolare la pressione” annunciò indispettita.
“Oh, ehm, è una cosa grave?” si preoccupò il geologo.
“Beh, dicono che liberandoci della zavorra potremo tornare su, ma a noi interessa scendere, no?”
“Non se si corrono dei rischi...”
“Ma non possiamo fallire prima ancora di cominciare! O sono soldi buttati! E non avremo più finanziamenti!”
“Oddio! Saremo derisi dalla Comunità Scientifica!” esclamò melodrammaticamente Kevin, portandosi le mani alla faccia.
La biologa sorrise e scosse la testa. Lo rimproverò bonariamente: “Se poi finisci disoccupato sarai più serio.”
“Su, non siamo pessimisti. Continuiamo con le osservazioni.”
La proposta fu subito accettata. Dopo qualche minuto, però, furono costretti a interrompere il lavoro: “Kevin, non vedo più nulla.”
Il geologo prese il posto della collega agli oculari del telescopio e constatò che in effetti non si vedeva alcunché. Accese le luci esterne del sottomarino... e non seppe se fu lui o Sharon a urlare. Dall’oblò erano perfettamente visibili un paio di immensi tentacoli. La paralisi dei due scienziati non durò a lungo, poiché un tremendo scossone li costrinse a muoversi per recuperare l’equilibrio.
“Che diavolo è?!” urlò Kevin, bianco come un cencio.
“Impossibile” balbettò Sharon, incapace di credere alla realtà della situazione.
“Cosa?!”
“Tutti gli esemplari rinvenuti di calamaro gigante non superavano i venti metri... questo li supera abbondantemente! Solo i tentacoli saranno lunghi trenta metri come minimo... Ti prego, dimmi che sto sognando!”
Si susseguirono violenti scossoni, durante i quali i due non proferirono parola, troppo occupati a non cadere.
“Sharon, che può farci in fondo? Si stancherà di giocare con noi e torneremo immediatamente in superficie.”
“I tentacoli possono danneggiare gli strumenti esterni, no? E... il becco immagino sarà molto resistente.”
“Ma non potrà mica perforare l’acciaio!”
“Non so, Kevin! Ci ha attaccato anche se siamo più grandi di lui! È un pessimo segno! Forse l’ha già fatto...”
Kevin non osò ribattere. Osservò la collega, che fissava come ipnotizzata quanto riusciva a scorgere dell’enorme cefalopode. D’un tratto la paratia che li separava dall’acqua gli parve ben misera cosa. Si avvicinò a Sharon, le strinse un braccio e la condusse nel corridoio, chiudendo la porta. Afferrò una cornetta che comunicava con la sala comandi, ma per quanti pulsanti premesse e per quanto urlasse, non ricevette risposta.
I due scienziati capirono che in qualche modo il gigantesco calamaro era riuscito a danneggiare la poppa del sommergibile ed era solo questione di tempo prima che lo smembrasse totalmente.
“Presto, alla camera ermetica!” strillò Sharon.
Corse di gran carriera, precedendo il geologo di un paio di passi. Appena furono dentro, sigillarono la porta, sfiancati. Ascoltarono terrorizzati gli oscuri rumori provenienti dall’esterno, tutto intorno a loro.
“Reggerà?” sussurrò la biologa, con un filo di voce.
Prima che l’altro potesse rispondere, la camera si inclinò di lato. Entrambi urlarono e tentarono di aggrapparsi a qualcosa per frenare la caduta. Ci fu una specie di scossone finale, poi tutto fu quieto. O quasi, dato che un leggero movimento era ancora percettibile. Kevin si pentì di aver lanciato un’occhiata a Sharon, poiché il volto orripilato della donna confermava i suoi peggiori sospetti: il mostruoso cefalopode li aveva inghiottiti!
Sharon scoppiò in lacrime, biasimandosi per aver accettato l’incarico. Il geologo tentò di resistere al panico che rischiava di sommergerlo da un momento all’altro. Ispezionò la stanza, senza sapere con precisione cosa stesse cercando.
“Guarda, c’è una muta” informò la collega.
“E a che serve? Non possiamo uscire! Siamo spacciati ormai...”
“Non voglio arrendermi!” le urlò contro lui, disperato. “Non possiamo morire così!”
Ben presto la stanza si oscurò. I due si tennero stretti tra le tenebre per quelle che parvero ore. Trovarono a tentoni un paio di torce e fecero un piccolo inventario di ciò che possedevano, domandandosi quanta aria avessero a disposizione, se sarebbe finita prima che i succhi gastrici del calamaro penetrassero nelle paratie, se sarebbero stati tanto sfortunati da morire di fame...

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Capitolo 22
*** Leggenda ***


"Perché gli umani ci odiano così tanto?"
Questa è la domanda che da più di vent'anni ormai i giovani pongono ai propri genitori, cercando di giustificare l'esistenza di perenne fuga in cui viviamo... da vent'anni ormai.
Le risposte sono sempre diverse, perché nessuna Sirena dei Fondali o Tritone degli Abissi era presente quando colui che chiamiamo lo Sterminatore è nato. Tranne una: io. Io, che sono troppo codarda per rivelare al mio popolo di essere la causa di un tale flagello.
Ogni volta che si ha notizia di una popolazione annientata, non posso fare a meno di tornare con la mente al giorno in cui spezzai il cuore dello Sterminatore. Li ricordo bene, il moretto e il biondino...

Keith, ventitreenne biondo con gli occhi nocciola, guidava il Granchio, un mezzo subacqueo di piccole dimensioni utilizzato per viaggi in immersione di breve durata. David, venticinquenne moro con gli occhi azzurri, gli faceva da navigatore.
"Sei emozionato?" domandò quest'ultimo.
"Eccome! Saremo finalmente indipendenti e staremo insieme per sempre!" dichiarò allegro Keith.
"Se troviamo il tesoro" replicò David, poggiando la testa sulla spalla del partner.
"Certo che lo troveremo, zuccotto. Abbi fede. Tu cosa immagini di trovare?"
"Statuette antiche, o roba del genere."
"Io vorrei qualcosa di scintillante."
"Tipo oro?"
"Sì, o gioielli."
I due giovani continuarono a fantasticare su che genere di tesoro avrebbero trovato seguendo le indicazioni della mappa vinta a una partita di poker. Dopo accurati esami, si erano convinti che fosse autentica e avevano deciso di investire i loro risparmi nel Granchio e nell'attrezzatura necessaria a caricarlo.
Passò qualche ora. Mentre attraversavano un tunnel piuttosto stretto, una spia gialla cominciò a lampeggiare.
"Che succede?" chiese David.
"Siamo incastrati!" si allarmò il biondo.
"Come incastrati?!"
"Sì, non ci muoviamo di un millimetro, né in avanti né indietro!"
Fecero qualche altra prova prima di arrendersi. Per non vanificare il loro viaggio, decisero di proseguire per il tunnel utilizzando le tute da palombaro che avevano portato a bordo, esplorare il posto e poi chiamare i soccorsi. Non ci impiegarono molto a raggiungere il fondo del loro cunicolo, il più largo, in cui confluivano altri più stretti. Non dovettero nemmeno scavare per capire che il tesoro era reale: ammucchiati sul fondale vi erano un centinaio di reperti storici. Al colmo della gioia, improvvisarono un balletto, per poi raccogliere una manciata di artefatti ciascuno e tornare a bordo.
"Siamo ricchi!" gridò Keith, raggiante.
David lo attirò in un abbraccio frantuma-ossa, troppo emozionato per parlare. Ci vollero parecchi minuti – dedicati ad affettuosi festeggiamenti – prima che si calmassero abbastanza per chiamare i soccorsi, i quali sarebbero stati disponibili entro un paio di giorni.
"Perfetto, abbiamo il tempo per caricare qualcosa e nascondere il resto" sentenziò il moro.
"E di continuare a festeggiare" aggiunse Keith malizioso, accennando con la testa alle cuccette.
Più tardi, la stiva era quasi piena. David, però, era preoccupato. Durante le ore di lavoro Keith si era fatto sempre più taciturno e distaccato, sembrava quasi ignorarlo.
"Qualcosa non va? Prima eri tanto felice, ora invece..."
"Sì, tutto bene, avevo solo la sensazione di essere osservato."
"La profondità ti rende inquieto? Tranquillo, sarà qualche pesce."
"Già, torniamo a catalogare."
Per un po' Keith fu di nuovo il solito, ma tornò presto a rabbuiarsi. Oltre che a smettere di rispondere al compagno, cominciò a disprezzare alcuni oggetti, ritenendoli spazzatura senza alcuna ragione plausibile, mentre depose sulla sua cuccetta altri in apparenza identici. Ne divenne estremamente geloso, al punto che proibì a David di toccarli.
"Keith, ma che ti prende?" volle sapere quest'ultimo, seriamente preoccupato.
"Lasciami in pace" gli rispose freddamente il biondo.
David scosse la testa, ma decise di accontentarlo. Forse stare da solo avrebbe aiutato il fidanzato a calmarsi, pertanto decise di recarsi nuovamente al tesoro e raccolse un vaso che lo ispirarò particolarmente. Si accorse d'un tratto che respirare era diventato difficoltoso. Controllò l'indicatore di ossigeno posto sul braccio e si stupì nel constatare che era quasi terminato. Eppure era stato via mezz'ora al massimo, com'era possibile?
Tornato al Granchio, fece per ruotare il meccanismo che apriva la porta di decompressione, ma esso rimase immobile. David batté allora sul vetro per farsi aprire da Keith. Il compagno si avvicinò con sguardo vacuo, in trance. David batté sul vetro con maggior forza, terrorizzato. Keith spostò l'attenzione su di lui, ma non fece altro.
"Keith, sto soffocando! Sblocca il portellone!"
Il biondo fece un passo indietro e si bloccò. Fissò costernato il partner, che iniziava a perdere le forze.
"Mi dispiace, David!" urlò Keith.
L'altro lo guardò disperato, chiedendogli silenziosamente perché lo stesse lasciando morire. Il biondo poggiò entrambe le mani sul vetro, in lacrime, supplicante.
"Voglio salvarti, ma lei me lo impedisce..."
Lei? In un lampo, David si ritrovò accanto una sirena completamente nera, che riuscì a scorgere grazie ai fotorecettori che per file ricoprivano la pelle della creatura e la illuminavano ad ogni movimento. Il moro non aveva abbastanza aria per urlare, figurarsi per scappare. Chiuse gli occhi, udendo appena Keith gridare: "Lascialo! Ti prego! Non amo te, amo lui... ma starò con te!"
David aveva ricordi frammentari di ciò che era successo in seguito, poiché non era interamente cosciente. Era sicuro solo di una cosa: del bacio appassionato che gli dette Keith dopo che doveva averlo trascinato a bordo.
David, appena si fu ripreso, si mosse il più velocemente possibile per trarre in salvo l'amato, ma era troppo tardi. Ne caricò a bordo il cadavere annegato e, in alcuni punti, mangiato. Strinse più forte che poteva il corpo, distrutto dal dolore, mentre cocenti lacrime colavano dal suo viso. All'improvviso, udì una leggera risata. Alzò appena il capo: la sirene li osservava con palese, osceno divertimento.
"Vieni" gli ordinò telepaticamente.
"Mai..." mormorò lui.
"Vieni" ripeté lei. "La tua vita non ha più senso, giusto?"
"Uccidere te lo ha" rispose David, guardandola con odio. "Te e tutti i tuoi simili che incontrerò, a costo di sterminare un'intera specie! Ti ritroverò e me la pagherai! Lo giuro!"

Il suo giuramento è divenuto leggenda...

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Capitolo 23
*** Egyn: Il Re Dell'Acqua ***


Questa storia non l'ho scritta io, ma Becky313 (grazie ancora <3). Si doveva cercare un Ghostwriter che scrivesse per noi un racconto di max 1500 parole con questo incipit, tratto dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad: non c'è niente di misterioso per un marinaio se non il mare stesso, che è padrone della sua esistenza e imperscrutabile come il destino.


"Non c'è niente di misterioso per un marinaio se non il mare stesso, che è padrone della sua esistenza e imperscrutabile come il destino."
Il cielo era di un blu scuro che sfociava quasi nel nero, mentre la luna era come una fiamma bianca nel mezzo di una stanza buia e oscura, che donava luce e speranza ai marinai che erano abbastanza coraggiosi da navigare nell'oscurità della notte, tra le onde quasi infuocate di energia che colpivano la nave, come schiaffeggiandola in una vana prova di far riconoscere la propria stupidità ai marinai che avevano osato entrare in un territorio così sconosciuto di loro volontà. Il capitano prese un respiro profondo, non permettendo nemmeno per un istante alla sua mano destra di lasciare la presa stretta che aveva sulla pistola: lo sentiva, come sentiva le onde farsi sempre più violente, il rimorso e la paura farsi sempre più forti dentro di sé. Era stata una sua decisione dopotutto, una decisione da capitano, quella di dirigersi verso acque sconosciute in cerca del famoso tesoro: Il cuore di Egyn, denominato così per via delle leggende passate da marinaio a marinaio, di porto in porto, fino a raggiungerli, che svelavano la storia di un grande tesoro composto da oro e gemme preziose. Tale tesoro però era protetto da un forte demone e chiunque avesse osato annche solo addentrarsi in quelle acque, sarebbe stato colpito da una potente e malvagia maledizione. Naturalmente lui, da uomo adulto qual era, non aveva creduto a nessuna di quelle dicerie; "Infantili", le aveva giudicate, ignorando tutti gli avvertimenti datogli da un vecchietto residente sull'isola più vicina alle acque maledette. Gli era parso ragionevole non ascoltare le grida chiaramente senza senso del vecchio, urlate al primo che passava, riguardanti demoni, sirene mangia-uomini e possessioni. Come se fosse così inesperto da credere a balle simili! Erano pirati, per amor del cielo!
Solo adesso capiva quanto era stato stupido, spalla a spalla con il più giovane dei suoi mozzi: un ragazzino dai capelli scuri come il legno della sua amata nave, ormai pericolosamente danneggiata, ad un passo dall'affondare, e gli occhi dello stesso colore; l'unico sopravvissuto a parte egli stesso. Riusciva a percepire le spalle del ragazzo tremare e il suo respiro farsi sempre più pesante per il panico. Era consapevole del terrore del ragazzo, dato che lo stesso terrore lo stava provando anche lui, come un peso alle budella che gli impediva di muoversi, inchiodato al posto in cui si trovava, ma allo stesso tempo lo faceva tremare come una foglia al vento mentre gocce di sudore freddo gli scivolavano giù per il mento e sul collo. Riflettendoci, in quel momento, non sapeva esattamente di cosa avesse paura, dato che lui stesso non aveva realmente capito cosa fosse successo. Ricordava di essere stato svegliato, nel bel mezzo della notte, dall'urlo terrorizzato del suo navigatore, che era di guardia, e che anche se i suoi riflessi erano migliorati col passare degli anni, non erano serviti a farlo arrivare sul ponte in tempo, ma erano stati sufficienti per permettergli di vedere il suo più caro e vecchio degli amici precipitare dal punto più alto di vedetta e schiantarsi contro il ponte, proprio di fronte a lui, con un suono raccapricciante, molto simile al rumore che aveva sentito solo poche ore prima, quando il ragazzo aveva per sbaglio spezzato in due delle assi di legno che stavano trasportando per aggiustare una delle porte, che aveva ceduto.
Dovette trattenere i conati di vomito, portandosi una mano alla bocca, quando realizzò che quel rumore era dovuto all'incontro tra il legno del ponte e le ossa del marinaio, mentre una pozza di liquido rosso scuro proveniente dalle viscere del navigatore si spargeva attorno al corpo ormai privo di vita, torto in una posizione innaturale.
Dopo quel funesto evento, i ricordi del capitano erano un po' confusi, probabilmente per lo shock di vedere il suo stesso fratello, suo vice, saltare giù sul ponte con un salto sovrumano dal punto di vedetta, per poi atterrare con grazia proprio di fronte a lui, con sul viso un ghigno così grande da essere tutto tranne che umano. Pensare che tutto ciò era successo non meno di dieci minuti prima lo faceva sentire ancora peggio. Suo fratello non avrebbe mai potuto ferire qualcuno, figurarsi uccidere qualcuno a sangue freddo, come aveva fatto, e come aveva continuato a fare, finendo il resto della ciurma con facilità, come il più esperto dei serial killer.
E fu così che rimasero solo lui e il mozzo, per qualche grande miracolo di Dio stesso.
All'improvviso, la risata del fratello, che oramai non era più in sé, servì a destare l'uomo dai propri pensieri: una risata di pura malvagità si espandeva per il ponte imbrattato dal sangue dei corpi che non molto tempo prima erano stati i suoi fedeli compagni di ciurma. Il colpevole di quel massacro... il suo adorato fratellino, che aveva giurato di proteggere con la sua stessa vita. Si mise subito sull'attenti, parandosi davanti al ragazzo per difenderlo. Ormai l'aveva capito: quella cosa non era il suo fratellino. Aveva la stessa faccia e lo stesso corpo, ma non era lui. La risata della cosa si faceva sempre più potente, come anche i tremiti del capitano, dovuti non alla paura, bensì alla rabbia, che stava per prendere il sopravvento. Tuttavia, prima che avesse il tempo di assecondare tale sentimento, la cosa urlò a squarciagola, trattenendo a stento le risate: "Ah! L'ho fatto! L'ho fatto! Li ho uccisi, mio signore! L'ho fatto!" Abbassò la voce fin quasi a un sussurro. "Li ho uccisi, mio signore... quindi la prego... mi lasci riposare... la prego ...".
Il capitano spalancò gli occhi nel constatare che la cosa con le sembianze del fratello stesse piangendo, ma non ebbe il tempo di reagire, dato che venne interrotto da una voce soave che non aveva mai udito prima: "Di già? Guarda che ne è rimasto un altro, ed io ho ancora così tanta fame...". Di scatto, il capitano si girò verso il giovane mozzo con cui era stato spalla contro spalla fino a qualche secondo prima, per poi ritrovarsi a fissare dritto in due occhi rosso cremisi, parzialmente coperti da capeli di un'innaturale sfumatura del colore del mare durante una bella giornata di sole. Il terrore lo attanagliò di nuovo e lo spinse a fare un passo indietro: tutto il suo corpo che gli urlava di allontanarsi dall'imminente pericolo.
"Eh? Adesso mi guardi così?" gli rivolse la parola il demone, con voce e viso completamente indifferenti, come se tutto quello fosse perfettamente normale per lui, una semplice attività quotidiana. "Guarda che è stata tutta colpa tua. Non hai ascoltato gli avvertimenti, eh? Nessuno lo fa mai, quindi... diventate il mio pasto" concluse con calma l'essere, voltandosi poi verso il suo burattino.
"Cos-", "Padron Egyn-", parlarono contemporaneamente i due fratelli, ma furono interrotti dal ragazzo chiaramente non umano. "Uccidilo" ordinò semplicemente, e queste furono le ultime parole che il capitano sentì, prima di venire brutalmente attaccato dal corpo del fratellino, che lo uccise afferrandogli la testa fino a staccargliela con forza sovrumana. Tutto divenne scuro, e l'unica cosa ad accompagnarlo verso il vuoto fu il rumore di un tonfo e delle onde che fin da sempre erano state lì, ad indicargli cosa fare e come vivere la propria vita e come la loro misteriosità lo aveva raggiunto perfino in quel momento, accompagnandolo nell'oblio.

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Capitolo 24
*** Il richiamo ***


Ecco l'ultima challenge dell'Horror Summer Fest: scrivere un racconto di max 1500 parole su protagonisti che vanno in vacanza e scompaiono!


Tutto è estremamente quieto qui, si odono soltanto lo sciabordio delle onde marine, lo stridio dei gabbiani e ogni tanto dolci voci lontane che ripetono costantemente il mio nome, Maya. Sono rimaste la mia unica compagnia, a meno che non debba contare i gabbiani e il resto degli animali presenti sulla spiaggia. E le cose... non credono siano davvero svanite, penso si aggirino da qualche parte, entro i confini di questo posto, però sono invisibili come lo erano all’inizio.
Già, all’inizio, quando ancora ero incantata da quello che consideravo un piccolo pezzetto di paradiso. A dir la verità, era stata Frankie, la mia migliore amica, a trovarlo su un sito internet. Per lei fu amore a prima vista. Rifiutò di cercare altri annunci, ammaliata dalla spiaggia dorata e dall’acqua limpida mostrate nelle foto promozionali. Anche la casa che abbiamo affittato l’affascinava, completamente in legno, rustica ma accogliente e nel complesso molto carina.
Non consultò nemmeno i nostri ragazzi, Josh e Carter, prima di prenotare per quattro. Secondo lei era da stupidi lasciarsi scappare una simile offerta. Io appoggiai la sua decisione, perché sembrava tenerci davvero molto: era entusiasta come una bambina. I ragazzi dapprima fecero storie, soprattutto Carter, perché in spiaggia mancava una connessione qualsiasi, ma poi anche lui ammise che essere tagliati fuori dal mondo per sette giorni non sarebbe stata una tragedia, che poteva diventare una piccante avventura.
In effetti, durante quei sette giorni, ci divertimmo parecchio, sia io e lui da soli, sia tutti insieme. Non sprecammo un solo secondo, quasi come se in cuor nostro ci aspettassimo cosa accadde dopo e volessimo compensare vivendo al massimo quella stupenda settimana. Perché dopo i falò, le grigliate, le esplorazioni, i giochi, il sesso e quant’altro, arrivò il momento di tornare a casa... ma ciò si rivelò impossibile.
La mattina dell’ottavo giorno salimmo tutti in macchina, soddisfatti ma dispiaciuti di dover andar via. Dopo un quarto d’ora, Josh, che era alla guida, imprecò sbalordito, poiché ci aveva condotti nuovamente alla casa in legno. Noi lo prendemmo in giro, ma quando la cosa continuò a ripetersi, cominciammo a innervosirci. Carter decise di passare lui alla guida, ma ciò non risolse nulla: ovunque svoltasse – e la sua frustrazione fu tale che in un paio di occasioni portò l’auto in mezzo agli arbusti – finivamo col ritrovarci davanti la casa.
I tentativi per andarcene si susseguirono fino a sera e continuarono nei giorni successivi, non so precisamente quanti. Eravamo spaventati naturalmente, stavamo sperimentando una situazione illogica, impossibile, perché, per quanto lo desiderassimo, non riuscimmo a trovare una spiegazione per l’accaduto, almeno non una razionale. Josh provò ad allontanarsi usando il pedalò affittato assieme alla casa e quando tornò temetti per la sua sanità mentale, tanto forte era stato il trauma di vedere la spiaggia curvare continuamente, come se la terraferma si trasformasse in un’isola, fino a che, completato il giro, era tornato al punto di partenza.
Ci era di consolazione restare vicini e nonostante discutessimo ogni tanto, sfogando l’isteria con un breve e salutare litigio, sono sicura che avremmo resistito a lungo su questa spiaggia in culo al mondo, come la definì Carter. Ma poi arrivarono le cose...
Dapprima iniziammo a udire delle voci, distanti e minacciose. Io le sentivo ripetere il mio nome, di notte, come se stessero pronunciando una terribile maledizione. Mi stringevo di più a Carter, però loro non tacevano, non volevano saperne di lasciarmi in pace. Gli altri sentivano ripetere i loro rispettivi nomi. Cercavamo di non parlarne, stava diventando tutto troppo assurdo... tra voci incorporee e ombre che sembravano frutto della nostra immaginazione, perché non facevamo in tempo ad osservarle che già erano sparite. Poi, un pomeriggio, udii più chiaramente le voci ripetere divertite Maya, Maya, Maya. Alzai di scatto la testa, temendo di trovarmi di fronte a chi mi chiamava senza sosta, invece assistetti a quello che mi parve un miraggio: una decina di esseri vermiformi sbucarono dalla sabbia, afferrarono Josh, che si trovava sul bagnasciuga, con le loro mostruose bocche irte di denti e lo smembrarono. Io aprii la bocca in un urlo muto. Mi coprii gli occhi e li massaggiai con vigore, cercando di cancellare quella scena da incubo dalla mia mente. Una volta che fui certa di non svenire o vomitare, aprii gli occhi e sulla sabbia non c’era nulla, né sangue né tantomeno vermi giganti. Ne fui sollevata, però corsi dagli altri, ancora scossa.
Non ci volle molto per capire che Josh era scomparso. Lo cercammo dappertutto, ma non trovammo nessuna traccia di lui. Nonostante ciò, ero ancora convinta di aver avuto un’allucinazione: era accaduto troppo in fretta, era talmente surreale... Frankie era inconsolabile e ci sentivamo tutti terribilmente impotenti e stanchi.
Qualche giorno dopo le cose portarono via Carter. Non tornarono con l’aspetto di vermi giganti, bensì come un’orribile creatura alata simile a uno pterodattilo. Stavolta anche Frankie assistette alla scena. Urlammo fino a sgolarci e, quando non ci fu più niente da guardare, ci tenemmo strette, troppo sconvolte per fare altro. Quella fu l’ultima volta che piansi...
Io e Frankie diventammo inseparabili, letteralmente. Il pensiero di morire non ci terrorizzava quanto quello di restare sole in questo luogo, magari per sempre. Ci sentivamo osservate, braccate, perseguitate... e alla fine, le cose tornarono anche per la mia migliore amica: una folata di vento dissolse Frankie in una miriade di piume nere.
Le voci si fecero di volta in volta più dolci. Forse senza di esse avrei perso ogni lucidità o speranza... pian piano mi sono rassegnata al mio destino. Mi sono chiesta perché sono l’unica superstite, perché le voci, le cose, mi hanno risparmiata tanto a lungo.
E poi l’ho visto, un PC posato sul tavolino del soggiorno, acceso, aperto su di un foglio Word. E ho capito: Frankie era stata ossessionata dal posto a causa di una qualche maledizione. Qualunque cosa siano le cose che vivono qui, si devono nutrire ogni tanto... hanno bisogno di carne fresca. Il mio compito è attirare altro cibo. Fra chi leggerà questo resoconto, ci sarà forse qualcuno che proverà l’irresistibile desiderio di recarsi in una spiaggia paradisiaca, di affittare una casa rustica molto carina, di isolarsi dal resto del mondo...
Spero che la maledizione operi in fretta, non ne posso più di aspettare di essere divorata.

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Capitolo 25
*** Omertà ***


Paolo spense la TV e iniziò a fare avanti e indietro per il salotto, in preda a una forte agitazione. Sua moglie Margherita rimase seduta sul divano, a fissare lo schermo ora nero, con gli occhi che le si riempivano di lacrime. Si abbracciò i gomiti, spostò la sua attenzione al marito e scosse la testa con decisione, come per scacciare un brutto pensiero.
"Paolo... calmati Paolo, sono solo coincidenze..."
"Coincidenze un corno! Hai sentito cos'è capitato a quella povera ragazza? E Federico dov'era quella notte? Insieme al principale sospettato, per quanto ne sappiamo noi!"
"N- non è vero! Sì, dovevano vedersi, ma non per tutta la notte, Fede ha anche altri amici..."
"Forse, ma la combriccola è sempre la stessa. Un branco di depravati disgustosi, ecco cosa sono!"
Paolo aprì la credenza, recuperò una bottiglia di Whiskey e si versò il distillato, con mani tremanti, in un bicchiere che vuotò rapidamente.
"Certo, i colpevoli lo sono assolutamente, ma non il nostro Fede!" esclamò disperata Margherita. "Quel fango... sai che i ragazzi sono spesso distratti, fanno giochi che non capiamo, si spingono tra loro... è facile immaginare come si sia sporcato la felpa."
"E le macchie di sangue? E non ricominciare con la storia della salsa, tu le hai riconosciute per prima! Ah, e sono spariti i jeans e le scarpe che indossava quella notte, giusto? Come te lo spieghi questo?!"
La donna scosse vigorosamente il capo, lasciando che le lacrime le rigassero il volto angosciato. Estrasse un fazzoletto dalla scatola sul comodino e tentò di fornire un'adeguata spiegazione al marito: "Te lo ripeto, sono coincidenze! Ti ricordi che da piccolo nascondeva le lenzuola quando gli capitava di bagnare il letto? S- si sarà ubriacato, tutto qui, e non è una colpa se l'ha fatto la stessa notte in cui..."
Non riuscì a terminare la frase. Paolo annuì per incoraggiarla, ma non credeva a quella teoria. Il pensiero che il figlio potesse essere uno stupratore e un assassino lo sconvolgeva profondamente e la rabbia lo aiutava a gestire la situazione.
"Sarebbe tanto distratto per una bevuta? No, può anche aver bevuto l'altra notte, ma scommetto che non sarebbe stata la prima volta. L'hai visto com'è conciato in questi giorni: testa sempre tra le nuvole, salta su per ogni minima cosa... non dico che sia colpevole, ma qualcosa l'ha sicuramente vista, il ragazzo. Sai che dovremmo fare? Chiamare la polizia, loro..."
"No!" protestò vivacemente Margherita. "Cosa dici, Paolo? La polizia! Non sappiamo nulla e vuoi chiamare la polizia!"
"Ti dico che il ragazzo sa qualcosa, Margie. I casi sono due: o è innocente e farebbe solo un gran bene a testimoniare, o è colpevole e io non lo voglio uno sporco assassino in casa!"
Margherita si precipitò ad abbracciare il marito, tremante come una foglia. Lo guardò con occhi supplicanti e spiritati mentre diceva d'un fiato: "Paolo, no, non sei in te. Sei terrorizzato quanto me, lo so, però sai benissimo che Federico è un bravo ragazzo, è il nostro bravo bambino. Pensaci bene, come potrebbe essere coinvolto in una schifezza del genere? Ti devi vergognare se hai pensato per un solo secondo che nostro figlio sia capace di uccidere! Fede un assassino! Come puoi crederci? No, no, lui non c'entra nulla! Devi avere fiducia in lui! Che penserà la gente se proprio noi ci rivoltiamo contro nostro figlio? Simili maldicenze, quando lui è appena adulto, lo distruggeranno!"
L'infelice madre scoppiò a piangere. Paolo la strinse a sé e le carezzò la schiena, cercando di trattenere le lacrime. Dopo qualche minuto, trovò il coraggio di domandare: "E non pensi a quella povera ragazza? Lei merita giustizia, i suoi genitori la meritano, loro saranno distrutti, e tu piangi per la polizia..."
"Anche se fosse come dici tu, e così non è, Federico sarebbe un testimone. Vuoi metterlo contro i colpevoli? Rischiare che si vendichino?"
"Ma se è coinvolto deve..."
"Sei senza cuore, Paolo! Mettere in pericolo il tuo unico figlio!"
"No, Margie, non in pericolo... è la cosa giusta, non capisci? Soprattutto se, cioè, ok, lui è innocente, ma proprio per questo..."
"Lo so benissimo che non ha fatto nulla! Fede è innocuo, buono... qualsiasi cosa abbia visto, se n'è pentito, vuole dimenticarla, allora noi dobbiamo aiutarlo. Ci trasferiremo, va bene? Magari ha subito cattive influenze da quei giovani, loro possono essere crudeli, ma non il nostro bambino."
Paolo lasciò che la moglie si sfogasse ancora, troppo stanco e sconvolto per ribattere. Capiva che per lei non contava la ragione, ma il desiderio di tenere il proprio figlio al sicuro.
"D'accordo. Senti, così non verremo a capo di nulla. Che ne dici se domani, a mente fresca, ne parliamo con Fede?"
"No! Lui non deve sapere che sospettiamo simili... non sappiamo nulla di nulla, perché scombussolarlo?"
"Ascolta, non intendo chiamare la polizia, ok? Ma voglio vederci chiaro in questa storia. Almeno con noi deve parlare. Poi lo aiuterò a disfarsi della felpa, a trovargli un alibi, tutto ciò che vuoi, ma prima devo sapere la verità. Non la vuoi anche tu, Margherita?"
"Sì, va bene, parleremo con lui... ma niente scenate, saremo gentili e comprensivi e gli faremo sapere che vogliamo aiutarlo a uscire da una brutta storia di cui non ha colpa. Giusto, Paolo?"
L'uomo annuì cupamente, rassegnato.



***Angolo Autrice***
Questo dialogo nasce da un esercizio di scrittura gialla in cui bisognava far dialogare due coniugi riguardo il chiamare o meno la polizia dopo aver scoperto che il figlio è coinvolto in uno stupro e omicidio di gruppo.

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