Our love will live forever

di Striginae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***
Capitolo 3: *** Atto III ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


Our love will live forever

Atto I 


Al mondo esistevano due specie di uomini.
Alla prima tipologia appartenevano coloro che, non per particolari futuri meriti, erano nati sotto una buona stella, uomini favoriti dalla dea bendata e capaci di uscire vincenti da qualsiasi situazione, perfino la più avversa grazie alla sfacciata fortuna che mai li abbandonava.
La seconda categoria, al contrario, molto più ampia rispetto alla prima, comprendeva quegli infelici, iellati, che a dispetto di tutti i sacrifici e sforzi compiuti seguitavano ad essere baciati dalla cattiva sorte, loro unica fedele compagna di vita.  
Forse per questioni di probabilità, forse per capriccio del destino, Arthur Kirkland faceva parte di quest’ultima fascia, di cui ormai poteva considerarsi socio onorario.

Arthur era profondamente insoddisfatto.
Aveva già compiuto ventitre anni ed era stufo di condurre un’esistenza piatta, monotona, che non gli riservava alcuna gioia.
Era nato in una famiglia di classe media che a causa dei debiti aveva perso tutto ed Arthur, quasi senza alcun preavviso si era ritrovato sul lastrico, dovendo rinunciare agli studi e a qualsiasi altra ambizione avesse per il futuro. Tutto gli era svanito tra le mani, come i fumi industriali della grigia Londra si disperdevano nel cielo.
Da anni ormai viveva all’ultimo piano di un condominio sovraffollato e decadente e divideva la camera con un americano ottuso, rumoroso e, se possibile, in una condizione di indigenza ancora più profonda della sua ma che, inspiegabilmente, riusciva sempre a mantenersi allegro senza l’aiuto di una bottiglia di birra. Ed era a malincuore che Arthur lo riconosceva come ciò che di più simile aveva ad un amico.
Come se non fosse già abbastanza, neppure la carriera lavorativa dell’inglese si poteva considerare rosea. Era impiegato come lampionaio, costretto a vagare per i bassifondi bui e melmosi della capitale ad accendere lumini per poche sterline a notte, spese interamente in assenzio.
Scherzando, la gente lo apostrofava come “colui che portava la luce alla città” e certo Arthur non lo considerava un gran vanto, ma quella era l’occupazione migliore che aveva trovato, l’alternativa era spaccarsi la schiena in fabbrica per un compenso ancora più miserevole. Tuttavia, sebbene non amasse il suo impiego, c’era un aspetto che apprezzava del suo meschino lavoro: la possibilità di vagare per le strade in solitaria e perdersi nei propri pensieri, improvvisarsi un po’ un flâneur[1]… se si ometteva il dettaglio che Arthur non vagava per ozio né poteva considerarsi un gentiluomo, se non nelle maniere.
Senza alcun dubbio però gli piaceva pensare e la Londra notturna gliene dava la possibilità: perdersi tra i meandri della città, esplorare i quartieri e interrogarsi su quanti prima di lui avessero marciato per quei vicoli... tutto ciò, esercitava un fascino oscuro nella sua mente. Ed in particolare, vi era una zona della metropoli che specificamente lo intrigava e davanti cui si curava passare ogni sera.
Covent Garden, nel West End.
Come una lampadina attira le falene, Arthur era abbagliato e attratto dalla luce che sprigionavano dall’interno i palazzi presenti nella piazza sede dei teatri e dell’Opera. Era lì che si attardava ad ammirare gli imponenti edifici di marmo bianco affiancati da maestose statue e il via vai di attori, ballerini e scenografi, invidiando in cuor suo i fortunati che avevano la possibilità di assistere agli spettacoli.
E, ammaliato da tutta quella luce, Arthur si sentiva insignificante. Ogni notte si chiedeva a che cosa servisse accendere i suoi lampioni quando era chiaro che quel luogo fosse uno splendente oceano di stelle che rifulgeva di luce propria.
Gli sarebbe piaciuto farne parte.
Bramava poter appartnervi. Il suo sogno, ormai andato in frantumi, era essere autore di teatro e vivere di arte e lasciarsi alle spalle la fioca luce artificiale dei lampioni. Più volte per pura velleità aveva provato ad inviare un suo testo a qualche casa editrice, nella speranza che venisse ricontattato per discutere delle sue opere, ma invano.

«Dovresti provare a cambiare aria.»
Gli aveva detto un giorno Alfred, l’americano, quando Arthur gli aveva comunicato mestamente che la sua sceneggiatura era stata respinta.
Di nuovo.

«Sai no... ricominciare tutto da capo, allargare i tuoi orizzonti. Se la fortuna non ti trova, vai a cercarla tu!»  

E fu quello che Arthur fece.


 

* * *



Il 1901 fu l’anno della svolta.
Da sei mesi Arthur aveva abbandonato Londra per raggiungere la vivace Parigi, culla della cultura europea e nuova detentrice di tutte le sue speranze. 

Si era lasciato indietro ogni cosa che, a ben riflettere, non era poi molto. Aveva atteso pazientemente di accumulare abbastanza denaro per il viaggio oltre la Manica, si era licenziato dal lavoro e aveva rinunciato agli indulgenti fumi dell’assenzio. Con sé aveva portato solo il minimo indispensabile: i vestiti, qualche spicciolo e i suoi quaderni.

A Parigi aveva cominciato a mettere da parte dei risparmi con qualche lavoretto saltuario con cui riusciva a stento a sostenersi, anche se la maggior parte delle sue forze le aveva impiegate all’apprendimento del francese. Non poteva certo pretendere che qualche impresario parigino gli concedesse una possibilità se non riusciva neppure a comprenderlo.


Una nube temporalesca rabbuiò il cielo. 

Quel giorno era domenica, il tempo del riposo per Arthur e delle attività all’aperto per i parigini.
Seduto in una panchina ai Giardini del Lussemburgo, Arthur ricurvo su se stesso componeva la sua opera, incurante della pioggerellina impietosa che gli cadeva addosso.
Era già primavera ma il timido sole francese spesso preferiva nascondersi dietro le nuvole invece che riscaldare la città con i suoi tiepidi raggi.

Parigi non è poi così diversa da Londra, ponderava Arthur abituato naturalmente al lunatico tempo britannico.

Recarsi ai Giardini per Arthur non significava semplicemente godersi una passeggiata ricreativa bensì ricongiungersi alla natura per qualche tempo, lasciare fluire i pensieri, trovare l’ispirazione. In un luogo talmente ameno, la sua fantasia non poteva che essere clemente con lui e suscitargli i giusti versi e le migliori assonanze.
Era un vero peccato perciò che la musa ispiratrice di Arthur sembrasse indifferente a tale visuale.


Una gocciolina lo colpì in testa, poi sulla spalla e poi ancora un’altra sulla punta del naso. Arthur arricciò le narici, non molto allarmato per il guastarsi del tempo.

La sua mente era dedita a faccende letterarie ben più serie per tediarsi di una semplice pioggerella. 

Fu però una risata cristallina a fare alzare appena lo sguardo del londinese, distogliendolo dalle proprie considerazioni. Arthur sbirciò oltre le sue carte e scandagliò i dintorni, incuriosito da quel riso inatteso.
Credeva di essere solo in quella parte del parco, appartata e dunque perfetta per pensare.

Davanti a sé, Arthur notò due giovani ragazze che non appena si accorsero del suo sguardo si apprestarono a distogliere il proprio mal celando dei risolini.
Arthur aggrottò le folte sopracciglia.
Che c’era da ridere?

Un’altra gocciolina gli batté addosso e all’improvviso Arthur si accorse di essere inzuppato.

L’inglese sollevò gli occhi, rendendosi conto di trovarsi nell’unico punto del parco non riparato in alcun modo e che la lieve pioggia di poco prima era aumentata fino a trasformarsi in un vero e proprio temporale, infradiciandolo dalla testa ai piedi.

Devono avermi preso per un pazzo.

Conscio dell’impressione da imbecille data, un intenso rossore gli imporporò le guance.

«Oh, blimey!»[2]
Goffamente si alzò in piedi e alla rinfusa raccolse le sue carte, maledicendosi per non aver neppure portato un ombrello con sé sotto cui ripararsi.

Stava ancora sistemando tutto quando, inaspettatamente, la stoffa di un parapioggia si frappose tra lui e il cielo plumbeo della capitale francese.
Sorpreso Arthur si voltò e trattenne il respiro, affatto pronto ad incrociare un paio di arguti occhi blu accompagnati da un sorriso civettuolo.

Una delle due ragazze che poco prima ridacchiavano gli si era avvicinata e gli porgeva il manico del suo ombrello.

«Monsieur
La voce chiara della ragazza lo riscosse e, senza pensare, Arthur afferrò l’asta metallica dell’oggetto, un po’ impacciato.

La ragazza gli rivolse un’occhiatina divertita ma priva di malizia e, dopo un lieve cenno del capo, si allontanò per tornare indietro dalla sua amica, con passo aggraziato ed elegante.
Arthur la vide prendere a braccetto la compagna, ripararsi sotto il paracqua dell’altra e incamminarsi via da lì rapidamente.
 
L’inglese la seguì con lo sguardo, fino a quando i capelli biondo cenere di lei non divennero che un punto indistinto tra le vie del parco.

Solo quando lei fu lontana, Arthur, ormai paonazzo, si accorse di essere imbambolato nel bel mezzo di un parco, di ripararsi sotto un ombrellino femminile e non avere avuto alcuna prontezza di spirito, di alcun genere.

Arthur si sentì morire.
Che figura che aveva appena fatto!


 
* * *


La domenica successiva, Arthur si trovava assiso ancora una volta sulla stessa panchina del Jardin du Luxemburg, a gambe incrociate e il pensiero nuovamente disperso nei suoi scritti. Accanto a se aveva abbandonato la sua piccola valigetta, anch’essa ricolma di quaderni.

Arthur teneva gli occhi ostinatamente abbassati sulle sue carte per evitare a tutti i costi di alzarlo e incrociare lo sguardo con la ragazza della settimana scorsa, questa volta da sola che, ironia della sorte, si trovava seduta nella panchina di fronte la quale si era accomodato l’inglese e lo fissava curiosamente, causando forse inconsapevolmente un certo disagio ad Arthur.

Certamente l’inglese le era grato per avergli prestato il suo ombrellino ma, consapevole della spiacevole impressione data, avrebbe preferito non avere più nulla a che fare con lei.
Al contrario, quella donna continuava a guardarlo da lontano e Arthur, da sempre di temperamento collerico, era come minimo tediato da tale oltraggioso comportamento.

Non glielo avrà mai detto nessuno che non è buon costume fissare gli sconosciuti con così tanta insistenza? Che presunzione!

Arthur cancellò un’altra frase del suo componimento.
Sospirò, ma non volle cedere allo sconforto. Era certo che con un po' di impegno sarebbe riuscito a superare quel blocco creativo che lo perseguitava da quando aveva iniziato a descrivere la nuova scena della sua opera.
Si trattava di un rendez-vous tra due amanti che, almeno nella mente di Arthur, doveva rappresentare il culmine, il massimo del pathos. Nei fatti, non erano altro che poche descrizioni fatte male e dei dialoghi sconnessi, privi di qualsiasi emozione.  

L’inglese strinse più forte la penna tra le mani, non si sarebbe alzato da quella panchina fino a quando non sarebbe arrivato alla fine della pagina. Animato dunque da nuova determinazione si rituffò tra le sue parole, perdendo momentaneamente la cognizione del tempo e del tutto indifferente alle persone che gli passavano accanto, tra cui un uomo che troppo insistentemente si aggirava intorno al sedile in cui aveva preso posto l'inglese.

L’unica certezza che Arthur aveva, l’unico sentore che non lo staccava del tutto dalla realtà, era che lei lo stesse guardando ancora con quell’aria impertinente. Riusciva a sentire il suo sguardo che gli si attaccava addosso e che quasi lo bruciava.

Questa nuova sensazione lo fece ritornare in sé.
Arthur incurvò le labbra all’ingiù, come poteva pensare di concludere qualcosa quando quella disturbatrice era nei paraggi?

Scocciato e incapace di concentrarsi ulteriormente, Arthur chiuse gli occhi in un momento di raccoglimento.


Tuttavia, qualcuno approfittò della sua distrazione.

Agile e rapido come un felino l’uomo vestito di stracci che gli ronzava attorno, con un gesto repentino, gli sottrasse la valigetta da sotto il naso, probabilmente pensando contenesse dei beni degni di essere rubati, dandosela subito a gambe.

«Ah, attenzione!»

Avvertito quell’urletto femminile Arthur sbarrò gli occhi. Gli bastò un attimo per capire cosa fosse successo e, resosi conto del fattaccio, il londinese balzò in piedi per lanciarsi all'inseguimento del ladro a solo poca distanza da lui, rivolgendogli insulti irripetibili.  



«Dannazione... maledetti francesi.»

Quando tornò, ansante e scombinato, Arthur poteva ritenersi soddisfatto.

Si era precipitato a rotta di collo per parecchi metri dietro al colpevole prima di acciuffarlo e per fortuna, almeno per una volta, la sua giovane età gli aveva facilitato la corsa. Per lo meno era riuscito a recuperare il maltolto. Si chiese che faccia avrebbe potuto fare il borseggiatore se solo avesse saputo che nella sua valigia non vi erano altro che bozze, appunti e vari promemoria. Sicuramente ne sarebbe rimasto insoddisfatto.

Per Arthur, comunque, le sorprese non sembravano essere ancora finite.

Nella sua panchina infatti si era accomodata la ragazza dell'ombrellino, la stessa che poco prima lo aveva avvertito del furto, che seduta con le gambe accavallate elegantemente l'una sull'altra, la schiena dritta, i capelli raccolti in uno chignon fissato con un fine fermaglio a coroncina, stringeva il suo quaderno tra le mani guantate.

Solo in quel momento Arthur realizzò che, per precipitarsi dietro all'uomo, aveva abbandonato incustoditi i suoi scritti su quella panchina. 

La giovane lo osservò con la coda dell’occhio e soffermò lo sguardo sulla valigetta, per verificare che l’avesse recuperata.

Arthur quasi non riusciva a credere ai suoi stessi occhi. Si morse l’interno della guancia e inspirò, per darsi un contegno. Aveva a che fare con una signorina e non voleva apparire sgarbato, ma certamente se fosse stata un uomo, si sarebbe rimpossessato dei suoi fogli senza troppe cerimonie.

«Cosa... cosa state facendo, signorina?»

Arthur odiava quando qualcuno ficcava il naso nei suoi affari. Soprattutto nelle sue storie, a maggior ragione se incomplete.

«Leggo.»

Rispose la donna con semplicità, con la sua voce armoniosa e modulata.

«Potreste ridarmelo, per cortesia?»

Arthur le fece un cenno spazientito per farsi restituire quanto gli apparteneva, cercando di resistere alla tentazione di strapparle il quaderno di mano.

Lei non gli rivolse nemmeno un'occhiata. Senza fretta tornò indietro e fece scorrere le pagine fino alla copertina, su cui l’inglese aveva appuntato il proprio nome.

«Ma certo, mister Kirkland.»

Rispose infine e sollevò lo sguardo, ricambiando con un'occhiata divertita quella burbera dell'inglese.
Gli porse il quaderno e Arthur se ne riappropriò, ben felice di averlo messo al sicuro da occhiate indiscrete.

«Bene, vi ringrazio.»
Riprese Arthur, cogliendo al volo l’opportunità di congedarsi e mettere fine a quello scomodo incontro.

«Adesso, con permesso io...»

Sfortunatamente, il danno era ormai fatto.
 

«Voi non vi siete mai innamorato, non è così?»

La domanda prese così di sorpresa l’inglese che per qualche istante rimase senza parole. La squadrò torvo, convincendosi di aver per forza sentito male.

«Come... mi sembra una domanda a dir poco sconveniente, da rivolgere così poi, dal nulla, non...»

La donna sollevò un sopracciglio sottile, portandosi una mano alle labbra per nascondere un sorrisetto sornione.

«Oh no, no, avete frainteso.»

Con un movimento sinuoso la donna si alzò, lanciando l’ennesima occhiatina all'inglese.

«Vedete, mister, mi è bastato qualche leggere qualche riga per capirlo. Quell'incontro che stavate descrivendo... sembrava di leggere le emozioni di due cubetti di ghiaccio. Eppure, lo stile è piacevole, non sembrava quello di qualcuno che non sa scrivere, anche se usate fin troppi paroloni. Direi che piuttosto vi manca il contenuto... l’esperienza diretta.»

Arthur era sempre più convinto di stare solo immaginando quella conversazione.
Fu costretto comunque ad incassare il colpo in silenzio. Poco prima, lui stesso pensava che qualcosa mancasse nella sua descrizione e aveva fallito ad individuare la sua stessa carenza. Sentire pronunciare un’analisi così accurata da parte di una sconosciuta era un colpo fin troppo brutale.
Ferito nell'orgoglio, Arthur cercò di non far a vedere nulla del suo tormento interiore.

«E cosa ne vorreste sapere voi di storie e sceneggiature, se permettete la domanda? Siete forse un critico? Certamente non ne date l’impressione.»

L’inglese provò a non suonare troppo risentito. Fallì miseramente, dato che ogni cosa in lui rendeva manifesta l'offesa: il suo cipiglio, il sarcasmo e l’aria di superiorità che aveva assunto per ripararsi dalle parole fin troppo veritiere della donna.

La ragazza però gli rivolse un sorrisetto di scherno.

«Non è necessario un critico per accorgersi dell’assenza di sentimenti in qualcosa. O in qualcuno. Sapete, lavoro a teatro. Ho ascoltato e interpretato le più svariate storie e vi assicuro, se lo si vuole impressionare il pubblico deve essere coinvolto emotivamente. Come pensate di riuscire a appassionare gli spettatori se in primis è l’autore a non provare nulla?»
Gli chiese lei, con un sorrisetto provocatorio.

«Ah davvero, lavorate a teatro? E dove, all'Opéra
Le domandò invece l’inglese, astenendosi dal rispondere ai velati attacchi della ragazza.
Era pur sempre un gentleman.
Inoltre, quella nuova rivelazione catturò la sua attenzione, ravvivando un nuovo interesse nei confronti della donna.

«Nulla del genere. Sono ballerina e attrice al Moulin Rouge

Arthur non si premurò a nascondere la delusione.

Tutti conoscevano il Moulin Rouge e non solo in Francia. In un certo senso, poteva benissimo dirsi che la sua fama lo precedeva. Un luogo ampiamente criticato dai benpensanti ma altrettanto frequentato da uomini e donne di ogni estrazione sociale, il Moulin Rouge era un vero e proprio paradiso in terra per gli amanti dello spettacolo, del cabaret e delle belle donne.  

«Capisco. Be', immagino che ogni pubblico si adatti al luogo che frequenta.»
Ripose Arthur con una nota di ironia nella voce, lasciando intendere allusivamente la sua opinione non molto benevola del teatro.

«Avete mai assistito ad uno spettacolo? O conoscete forse uno per uno tutti gli appassionati che vi si riuniscono?»
Chiese la ragazza, fingendo di non capire le implicazioni dell'inglese.

«Cielo, no. Ad entrambe le domande.»

«Lo sospettavo.»

Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambi si scambiarono uno sguardo. Poi la ragazza parlò di nuovo.

«Allora venite a vedere la rappresentazione di questa sera.»

Propose lei, lasciando Arthur di stucco.

«Perché mai dovrei fare una cosa del genere?»

«Perché non potete giudicare nulla se non lo avete mai provato.»

Arthur aggrottò le sopracciglia e, prima che potesse ribattere con qualche frase velenosa, la giovane lo precedette.

«Dopo la fine dello spettacolo, venite immediatamente a dirmi le vostre impressioni. Magari capirete come suscitare emozioni in chi vi guarda.»

«E sentiamo, come dovrei fare a trovarvi?»

La ragazza gli sorrise.

«All'entrata chiedete pure di Marianne Bonnefoy.»


 
* * *  



Per tutto il pomeriggio Arthur si lambiccò il cervello per capire cosa non andasse nel suo lavoro. Fino a quel momento non aveva avuto alcuna fortuna ed era innegabile che le parole di quella ragazza, Marianne, avessero un fondo di verità.

Arthur pensava che si potesse scrivere di qualsiasi cosa, sebbene non lo si avesse provato sulla propria pelle. Forse aver vissuto una certa esperienza in prima persona era utile, ma senza dubbio Arthur non si considerava inferiore a nessuno, gliela avrebbe fatta vedere lui a quella Marianne chi non era in grado di suscitare sentimenti negli altri.

Sbuffando come un treno, Arthur arrivò alla conclusione che la donna lo aveva voluto provocare apposta, probabilmente quella non era altro che una tattica per fare pubblicità al teatro e spillargli qualche franco.

Arthur aveva fermamente deciso di non andare.

Non aveva alcuna curiosità di vedere quella donna ballare il can-can o qualsiasi altra cosa facesse.
Anzi, per farsi passare qualsiasi tentazione, quella notte decise di andare pure a letto prima del solito e non pensarci più.
 


Arthur ci pensò ancora.

Dopo una settimana e mezzo durante la quale l’inglese non si era recato né al parco né al teatro, la sua mente continuava ad accarezzare l’idea di vedere con i propri occhi il famoso coinvolgimento dell’audience di cui gli aveva parlato Marianne. Anche se, era sicuro che in fin dei conti quella francesina avesse solo ingigantito la questione per il puro gusto di prendersi gioco di lui.

D’altro lato però, l’idea di recarsi al Moulin Rouge non lo attirava poi più di tanto ed era quasi sicuro che il biglietto gli sarebbe costato più della sua attuale paga.

Arthur rifletté e si domandò se per caso Marianne si ricordasse ancora di lui.

No, considerò, è una pessima idea.

Marianne è una perfetta sconosciuta e non le devo assolutamente nulla, si disse per la milionesima volta mentre indossava il pesante cappotto nero, diretto al IX arrondissement, Pigalle.
 

 
Il quartiere di Pigalle era esattamente come lo immaginava. Situato vicino la collinetta di Montmartre, vero centro della vita alla bohémien, racchiudeva i più svariati tipi di persone: artisti, fotografi, ballerine, giornalisti, semplici curiosi o smaliziati avventori, era possibile sentire il cuore pulsante della città e respirarne l’atmosfera a pieni polmoni.
E chi lo avrebbe mai immaginato che davvero Parigi odorava di sudore, oppio ed erotismo scandaloso? Forse ingenuamente, l’inglese aveva sempre pensato si trattasse di uno dei tanti stereotipi.

Ed era in quella folla di tipi umani che Arthur si aggirava guardingo come un ladro, vergognoso, con il cappello nero saldamente calcato sopra gli scompigliati capelli biondi.

Pigalle... more like Pig Alley.[3]

Cresciuto con l’austera mentalità vittoriana, per Arthur era davvero difficile capacitarsi che un luogo del genere esistesse veramente e che fosse così frequentato, alla piena luce del sole così come nel cuore della notte e senza alcuna pudicizia.


Individuare il teatro non fu per nulla difficile. Svettante sopra gli altri edifici, il mulino rosso che dava il nome al locale era ben visibile a metri di distanza.
Arthur riconsiderò tutte le sue scelte di vita. Faceva ancora in tempo e tornare indietro.



Varcò la soglia.
All'interno del locale si respirava un'aria dolciastra di fumo ed alcol e il chiacchiericcio eccitato ai vari tavoli segnalava l’entusiasmo degli spettatori.

Rigido come un palo ed in evidente imbarazzo, Arthur stonava nell'ambiente come una mosca bianca. Si sedette al tavolo che gli aveva indicato un cameriere che senza alcun permesso gli aveva rifilato una bottiglia di champagne che Arthur non era stato più capace di ridargli, dato che l’inserviente sembrava essersi dileguato.

Questo mi costerà ben più di un mese di paga.

Non si guardò attorno ma estrasse l’orologio per controllare l’orario. Le lancette indicavano cinque minuti alle ventitre, lo spettacolo sarebbe iniziato dunque tra qualche minuto.

Arthur picchiettò le dita sul legno, nervoso.
E, probabilmente, quelli furono i cinque minuti più lunghi della sua vita.
Di sicuro i più tormentati. 

Nell’attesa, il londinese tenne presente addirittura l’ipotesi che forse, quello spettacolo non avrebbe previsto la partecipazione di Marianne.

Quello dunque si poteva tramutare in un potenziale viaggio a vuoto e incontestabilmente, un inutile spreco di denaro.

No, no.

Arthur si diede dello stupido e ricordò a se stesso che se lui si trovava lì era per motivazioni squisitamente tecniche, ovvero constatare con i suoi occhi quanto uno stupido balletto potesse fare effetto sull’audience, non perché volesse vedere quella francesina.

Assolutamente no.

Proprio quando stava prendendo in considerazione l’idea di alzarsi e andarsene di nuovo, esplose la musica e un battito di tacchi sul pavimento in legno segnò l’inizio dello spettacolo.

In un battibaleno il palchetto venne invaso dalle ballerine, snelle e slanciate, che aggraziate facevano fluttuare le loro larghe e coloratissime gonne. Ad Arthur mancò un battito quando tra di loro riconobbe Marianne che, come le altre, aveva sollevato la gonna facendo intravedere la sottana di seta, infuocando il pubblico che aveva iniziato a battere le mani al ritmo di musica.

Colto dall'impellente urgenza di bere,
Arthur stappò la bottiglia di champagne.

Per dissimulare l’imbarazzo, l’inglese abbassò lo sguardo, fissando ostinatamente il tavolino.
Sapeva che si sarebbe rivelata una pessima idea recarsi in quel luogo. Quella danza era assolutamente inadeguata, scandalosa, licenziosa... certo che il pubblico ne veniva coinvolto, era qualcosa di assolutamente inaudito!

Bevve un altro bicchiere e sollevò lo sguardo, giusto in tempo per vedere le ballerine, e Marianne, eseguire un pied-en-air, facendo scorgere di sfuggita la candida sottoveste. Poi di nuovo un altro balzo e una spaccata, il ritmo aumentava e la musica si faceva più incalzante, un po' come il cuore dell'inglese che aveva preso a martellargli contro la cassa toracica come se si volesse anch’esso unire alle danze.

Con orrore, Arthur si rese conto di non riuscire più a distogliere lo sguardo da Marianne che, era certo, lo aveva ormai notato e gli sorrideva impertinente, quasi vittoriosa per averlo trasportato in quell'inferno di tentazioni.

Tra volteggi, ruote, saltelli, risolini ed una musica frenetica le ballerine facevano vorticare le loro gonne e i loro cappellini piumati e Arthur dovette far ricorso a tutto il suo autocontrollo inglese per non mettersi a battere il piede a tempo come facevano tutti gli altri presenti, che applaudivano e incitavano le ballerine a continuare con le loro acrobazie.

Un boato generale si alzava ogni qual volta una delle danzatrici sollevava la gonna con fare ammiccante e più e più volte l’inglese per pudore fu costretto a guardare altrove, principalmente sulla sua bottiglia di champagne già a metà.

Ed era difficile da ammettere ma, nonostante le sue titubanze, Arthur si stava davvero divertendo.
Quelle ballerine, così vive e impegnate in una danza tanto scabrosa, riuscivano a conquistare i cuori di tutti nel teatro. Nulla a che vedere con le sue opere che, Arthur realizzò, mancavano totalmente di vitalità.
La sua noiosa vita a Londra era riuscita ad infiltrarsi talmente profondamente dentro di lui che perfino le sue parole ne risentivano. Lì, in quello sregolato teatro, Arthur si sentiva pronto a buttar giù un’opera di diecimila parole e riuscire a far battere i cuori di chiunque, conquistare la fama e raggiungere la ribalta.

Una scossa.
Ecco di cosa aveva bisogno.


Il balletto si avvinava alla sua conclusione e, per il gran finale, le ballerine scesero tra la folla senza mai sbagliare un passo.
Arthur, ormai rapito dai movimenti flessuosi di Marianne, la seguì con lo sguardo fin quando lei non si trovò di fronte il suo tavolo.

Marianne incurvò all'insù le labbra scarlatte e intercettò lo sguardo dell'inglese, specchiando i suoi occhi blu in quelli verdi di lui.

«Ehi, Kirkland, si paga lo champagne eh!»[4]

Arthur, che stava bevendo dal suo bicchierino, quasi rischiò di strozzarsi.

Marianne ebbe addirittura l'ardire di fargli un occhiolino e poi con un guizzo leggiadro si voltò, gli diede le spalle e continuò imperterrita nei suoi numeri, alzandosi gonna e sottana, offrendo così allo schivo Arthur una visione completa delle lunghe calze e della biancheria, ben conscia di aver fatto avvampare l’inglese fino alla punta dei capelli.

Infine, con gli ultimi passi di danza, si ricongiunse alle altre ballerine e, con un inchino finale, sparì dietro le quinte del palco.

Ancora con il batticuore, Arthur dovette riconoscere che quello spettacolo non lo avrebbe dimenticato facilmente.
 
 


Due ore dopo, Arthur si trovava a fissare un affiche nell'atrio del teatro e, forse era solo la sua feconda fantasia, ma la ballerina rappresentata gli ricordava incredibilmente Marianne.

Aveva chiesto di lei, come la francesina gli aveva espressamente indicato, e nell'attesa, si era perso ad ammirare i manifesti presenti.

«Splendida, non è così? L'ha realizzata Toulouse-Lautrec dopo aver assistito ad una mia esibizione.»
Disse una voce femminile alle sue spalle e Arthur volse il capo, incrociando lo sguardo di Marianne che a sua volta ammirava la stampa.

L’inglese annuì. La somiglianza dunque non era stata casuale.

«Vi va una passeggiata? Ho bisogno di un po' d’aria fresca.»

Nuovamente Arthur fece cenno d'assenso con il capo, trovandosi stranamente a corto di parole.

«Allora, posso domandarvi che ne pensate dello spettacolo?»

Chiese Marianne, quando fianco a fianco uscirono dal locale. Con la coda dell’occhio, Arthur vide Marianne stringersi nel cappotto e rabbrividire per l'improvviso cambio di temperatura.

«Avete la faccia tosta di farmi sul serio questa domanda?»

Sbottò l’inglese e sbuffò dal naso, come se il sol ricordo dell’esibizione lo indignasse.

«È stata una scena indecorosa, ignobile, viziosa e assolutamente disdicevole per una ballerina, che dico, per una qualsiasi ragazza!»

Elencò l’inglese, sottolineando con sdegno ogni aggettivo.

«Ah sì? Mi sembravate piuttosto preso, tuttavia.»

Rimbeccò Marianne che aveva visto benissimo come l’inglese non riuscisse a toglierle lo sguardo di dosso.

Arthur tacque per qualche istante.

«Non ho mai detto che non sia stato di mio gradimento.»

Borbottò infine, tenendo gli occhi fissi sul marciapiede.


Di fianco a sé sentì Marianne stringersi al suo braccio e soffocare una risatina genuina.

«Oh cher, come siete vittoriano!»

In tal modo, tra piccoli battibecchi e confuse ammissioni, continuò la loro passeggiata notturna.



In fondo, pensò Arthur, il can-can non è neppure così male.   





[1]: non esiste un termine equivalente in italiano, lo si potrebbe tradurre come "passeggiatore", tipico dei poeti che vagano e ammirano la città che suscita in loro determinate sensazioni.
[2]: "Oh, accidenti!"
[3]: riporto qui la spiegazione di Wikipedia: "La reputazione licenziosa del quartiere portò, durante la seconda guerra mondiale, al soprannome Pig Alley ("Vicolo dei maiali", in inglese), da parte dei soldati alleati che vi si recavano in cerca di divertimento". Ho pensato che fosse abbastanza da Arthur fare un'osservazione del genere, non potevo non inserirla.
[4]: la vera citazione è: "Ehi, Galles, si paga lo champagne!", frase detta da una famosa ballerina del Moulin Rouge al principe di Galles, in visita. Anche qui, ho pensato fosse troppo da Francia per non metterla

Note finali
L'idea di questa storia è nata in maniera molto casuale. Ero sul mio letto e, girandomi, ho visto una stampa acquistata a Parigi del Moulin Rouge e allora mi sono detta: "Umh... ma perché non scriverci qualcosa al riguardo?" e dunque... eccoci qua xD 
Altra nota, come forse si è potuto intuire, questa storia è vagamente ispirita al musical Moulin Rouge! anche se per la maggior parte, la trama ne diverge completamente. C'è solo qualche richiamano, in particolare nel secondo, nonché ultimo, capitolo di questa mini-long. E sì, lo so, ho da aggiornare anche un'altra storia ma... non ho resistito, la tenteazione era troppo forte!
Ora, passiamo ai personaggi. Io spero con tutta me stessa di non essere andata troppo OOC, diciamo che come al solito ho provato a farli calare nell'epoca! Però mi sono divertita tantissimo a scrivere di loro, soprattutto di Arthur xD 
Ad ogni modo, parlando di Fem!Francia, ho cercato di non stravolgere troppo il personaggio, provando a rimanere "fedele" alla sua versione maschile, ovviamente con i giusti accorgimenti. Invece, per il nome, ho scelto Marianne perché... be', Marianne è il nome della personificazione della Francia, non penso la si potesse chiamare in altro modo. 
Ultima cosa, per la scena di can-can mi sono ispirata a questa scena del film, se foste interessati. 
Ora, come sempre, ringrazio chiunque sia arrivato a leggere fin qui e se vi va, ditemi un po' che ne pensate <3 
Ci vediamo prestissimo! 

P.S. nel prossimo capitolo arriva l'angst! 

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Capitolo 2
*** Atto II ***


Atto II 


Ogni mattina, al Moulin Rouge, vi era un gran andirivieni.
Persa la scabrosa magia di cui si animava la notte, il cabaret non era molto diverso da un qualsiasi altro teatro. Svuotato dai peculiari habitués amanti di quel genere di intrattenimento rimanevano gli attori a riunirsi in piccoli gruppi per imparare i nuovi testi, l’orchestra a provare le proprie parti mentre il palco era occupato dalle ballerine di can-can che instancabili rappresentavano l’attrazione principale.

Le agili danzatrici volteggiavano sulla scena coordinate dalla maestra di danza, la prussiana Julchen, che con occhio critico le scrutava. Nella loro grazia, le ragazze erano impeccabili.
Come fossero un’unica entità tutte eseguivano gli stessi movimenti, mai un passo sbagliato né un ritardo.

Solo una di loro sembrava arrancare un po’ e faticare a seguire quella perfetta armonia.
All’ulteriore salto mancato, la ballerina si fermò e si mise discretamente da parte, portandosi una mano in petto per provare a controllare il fiatone che non le permetteva più di andare avanti.


«Qualcosa non va, Marianne?»
Chiese preoccupata Carmen, un’altra ballerina, incrociando lo sguardo con Julchen che confusa le osservava. Facendole cenno di non saperne molto di più, Carmen si accostò poi alla francese e le spostò una ciocca bionda dal viso, per poterla guardare negli occhi.

Marianne, un po’ ansante, le fece cenno di diniego.

«Non impensierirti per me, sto bene.»
Le rispose la francese mentre cercava di riprendere fiato.

«Ne sei certa?»

«Ho solo bisogno di sedermi un attimo.»
Ammise alla fine Marianne e Carmen annuì, offrendole un sostegno mentre la accompagnava dietro le quinte del teatro.

I loro passi rimbombarono sul pavimento in legno. Una volta nel corridoio, Marianne si accomodò dignitosamente su uno gabellino tondo dall’imbottitura rossa ormai scolorita.

«Non dovresti affaticarti così tanto, cariña
La riprese affettuosamente Carmen con un buffetto affettuoso sulla guancia. Marianne alzò gli occhi blu sull’amica, ostentando un sorrisetto fiducioso.

«Non sono affatto stanca. Mi gira solo un po’ la testa... mi succede sempre durante il cambio di stagione.»
Si giustificò Marianne, da sempre sensibile agli sbalzi repentini di temperatura e ai pollini nell’aria.

Carmen la esaminò con apprensione, non molto convinta della spiegazione fornitale.

«Ne sei sicura? Sai, mi sono accorta che da settimane ti sei eserciti molto più duramente del tuo solito... non vorrei che ti fossi affaticata troppo.»

Considerò Carmen che si inginocchiò all’altezza dello sgabello per poter osservare negli occhi l’amica.

Marianne volse lo sguardo altrove.

«Non posso negare che ciò che dici corrisponde al vero. Avevo soltanto intenzione di perfezionare qualche passo.»

L’altra ballerina continuò a studiarla.
Carmen, spagnola, non era mai stata una donna troppo sveglia ma, quando si trattava delle sue amiche, sapeva diventare incredibilmente perspicace.

«Non hai sempre sostenuto tu stessa di essere tra le più brave fra noi, sentendoti addirittura autorizzata a saltare le prove?»

«Potrei aver cambiato idea e aver sentito la necessità di impegnarmi un po’ di più!»

«Impegnarsi va bene, ma bisogna concedersi un po’ di riposo di tanto in tanto. Inoltre, tu sei così brava! Lo dice anche Julchen e sai quanto sia stretta di complimenti... a meno che non si tratti di lei. Sei la nostra celebrità qui, riusciresti a far innamorare chiunque con i tuoi passi e...»

Marianne tossicchiò agitata e Carmen si interruppe. Un pensiero improvviso le traversò la mente e in un attimo tutto le fu più chiaro.

«Oh, Marianne! Non sarà per l’inglese di cui mi parlasti? Il giovane che incontrammo al Jardin quasi un mese fa e a cui proponesti di assistere alla nostra esibizione?»

Disse in soffio la spagnola, un sorriso di realizzazione ad illuminarle il viso.

«Carmen!»

Proruppe Marianne, soffocando una risatina colpevole con il dorso della mano.

«Che vai a pensare! Non capisco cosa possa avere a che fare mister Kirkland con le scelte da me compiute.»

Si ridiede un contegno la francesina le cui guance ora rosate di vergogna spiccavano sul viso delicato, pallido fino a pochi momenti prima.

«Dunque è così... oh Marianne, confidati con me! Hai la mia parola, non dirò nulla ad anima viva!»

Dichiarò Carmen concitatamente intanto che prendeva le mani dell’amica nelle sue, per invogliare Marianne a dirle di più.

Marianne tentennò. Conosceva Carmen da svariati anni e il loro legame era equiparabile a quello di due sorelle. Non vi erano dubbi che di lei potesse fidarsi, inoltre... era desiderosa di aprire il suo animo appassionato ad un’amica.

Marianne abbassò la voce, stringendo a propria volte le mani dell’amica.
Le rivolse un sorrisino complice.

«Carmen, ti conosco da molto tempo e so che di te posso fidarmi come di una sorella, perciò ti dirò tutto.»

Carmen, che già pendeva dalle sue labbra, le fece cenno con il capo di narrarle quell’avvincente racconto.
Marianne riprese.

«Ho sperato così ardentemente che si presentasse allo spettacolo dopo il mio invito! Riconosco di essere stata molto sfacciata quella volta ma mi conosci, sai che mi piace stuzzicare, è un mio vizio innocente.»

Il suo non era altro che un gioco, che non celava alcuna malvagità.
Le piaceva importunare gli uomini con le sue domande impertinenti e le sue affermazioni insolenti. Sapeva come tener loro testa.
Era una piccola velleità e, di tanto in tanto, Marianne si divertiva a metterli in difficoltà. Con sua grande sorpresa, con il passare degli anni e accumulando esperienza aveva scoperto che a volte bastava la sua presenza per metterli in imbarazzo.

«A seguito di tutte le dure parole che gli avevo rivolto non potevo permettermi di sfigurare, ho dovuto aumentare le ore di danza per prepararmi al meglio! Sai, ho temuto sul serio che non si presentasse... sarebbe stato un vero peccato, tanta fatica per nulla. Tuttavia, i miei sforzi sono stati ripagati.»

Trionfò la francese al ricordo di Arthur che non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

«Dopo lo spettacolo ci siamo incontrati qui a teatro e abbiamo passeggiato un po’ per Montmartre. E avresti dovuto vedere il suo turbamento, Carmen! All’inizio non riusciva a guardarmi senza arrossire, era così in imbarazzo ed impacciato in ogni sua azione. Nondimeno, si è dimostrato molto cortese nei miei confronti e abbiamo avuto una piacevole conversazione. Infine mi ha scortata fino a casa e, oh, si è scusato così tante volte lungo il tragitto, sperava che non reputassi il suo comportamento sconveniente.»

Il pensiero di Marianne volò a quella notte, quando Arthur aveva insistito a lungo per non farla avventurare da sola in piena notte per le rischiose strade di Parigi. Marianne sorrise al ricordo, era stato un gesto davvero galante da parte dell’inglese e lei non aveva provato alcun tipo di disagio in sua compagnia.

«Spero così tanto di rivederlo...»

Confessò infine la francese, in un sussurro.
A seguito di quell’ultimo incontro non aveva avuto più modo di incontrare il londinese. Erano già trascorse due settimane e Marianne non poteva celare di essere moderatamente offesa per quella mancanza di interesse di Arthur nei suoi confronti.

Marianne percepì Carmen stringere un po’ più forte la sua mano, in segno d’affetto. La spagnola le sorrise e lei ricambiò.

«Sono certa che avrai presto la possibilità di vederlo nuovamente, devi solo pazientare. Sono così felice per te, sembra un giovane così dabbene e rispettoso!»

Sospirò Carmen, che da sempre aveva un debole per le storie d’amore.

«Spero che sia come sostieni.»

Disse Marianne in un soffio e la mente altrove.


«Nell’attesa potremmo riunirci alle altre, per quanto Julchen sia nostra amica, a quest’ora si chiederà dove siamo andate a finire. Per di più mi sento molto meglio, parlare con te mi fa sempre bene.»  

Propose infine la francese e si alzò, invitando l’amica ancora piegata sulle ginocchia a fare lo stesso.

«E lo stesso vale per me, querida. Adesso andiamo, ma tu vedi di non strafare... neanche per il tuo caro inglese!»

La ammonì ancora una volta Carmen e Marianne ridacchiò mentre si dirigevano insieme sul palco del teatro per riunirsi nuovamente alle altre ballerine.



 
* * *



Le prove al Moulin Rouge si interruppero per mezzodì, in modo tale da concedere alle danzatrici e agli altri lavoratori del teatro un breve riposo prima di riprendere le loro funzioni un’oretta più tardi, nel primo pomeriggio.


L’emicrania di Marianne non cessò di perseguitarla neanche per un momento. Se ne stava ancora lamentando quando per le quattro uscì dal teatro insieme a Julchen e Carmen. Quest’ultima, di tanto in tanto, scoccava qualche occhiata ansiosa alla francese che faceva finta di non essersene avveduta.
Marianne, sebbene percepisse la sua preoccupazione, non aveva voglia di tornare sull’argomento. Non voleva pesare sulle spalle dell’altra, soprattutto non per un malessere che non poteva essere altro che passeggero.

Nel frattempo, Julchen stava grandiosamente narrando alle altre due di un’accesa discussione avuta con il direttore d’orchestra del cabaret quando Carmen, all’improvviso, troncò il discorso facendolo virare in tutt’altra direzione.

«Oh, guarda che stavo arrivando alla parte migliore, quando lo mandavo a quel..!»

«Dios, Marianne! Guarda laggiù!»
Esclamò incredula, ignorando le proteste di Julchen.

Marianne fece vagare lo sguardo lungo la larga strada costeggiata da chiassose carrozze. Sull’altro lato della via, sul marciapiede di fronte il loro, vi era la familiare silhouette di Artuhr che, Marianne poteva vederlo chiaramente pure a quella distanza, con nervosismo spostava il peso da un piede all’altro.

«Dev’essere qui per incontrare te!»
Affermò Carmen con enfasi, emozionata come se quell’elettrizzante avvenimento stesse accadendo a lei.

«Dico a voi! Si può sapere cosa mi state nascondendo?»
Si intromise Julchen, la cui più grave sofferenza era per lei essere messa in disparte.

«Dopo ti spiegherò tutto.»

Le assicurò Marianne che poi si voltò con sgomento verso la spagnola.
Il mal di testa che poco prima la tormentava era ormai decaduto in secondo piano.

«Non mi aspettavo di trovarlo qui! Oh Cielo, come sto, ho i capelli in disordine? Qualcosa fuori posto? Se l’avessi saputo mi sarei vestita meglio di così!»
Esclamò la francese che in fretta si volse verso una vetrina di un negozietto, per osservare il suo riflesso e verificare che avesse tutto in ordine.

Julchen brontolò qualcosa e Carmen accanto a lei annuì, Marianne riuscì a scorgerlo attraverso il vetro in cui si stava ancora specchiando.

«Sei perfetta. Adesso vai, noi ci vediamo più tardi!»




«Mister Kirkland, che sorpresa! Siete qui per assicurarvi un tavolo per lo spettacolo di questa sera?»
Salutò Marianne, esibendo un sorriso sottile.

Arthur trasalì. Goffamente si sollevò il cappello, bofonchiando a propria volta un saluto.

«Non avrei mai immaginato di vedervi... vi siete forse perduto? O forse avete impiegato due settimane per ricordarvi come giungere qui?»
Si informò la francese e Arthur assottigliò lo sguardo. Marianne invece lo guardò quasi con superbia. Solo perché voleva vederlo, non significava che non gli portasse rancore per non aver più ricevuto sue notizie per due lunghe settimane.

Arthur si morse la lingua per non rispondere a tono, decisione che gli costò uno sforzo sovrumano considerando la sua vena polemica.
Tuttavia, non era lì per litigare.

«No, affatto. A dire il vero, sono venuto qui per voi, per...»

Il cuore di Marianne accelerò il battito.

«... per rendervi questo.»
Concluse Arthur, mostrando l’ombrellino che teneva in mano e di cui Marianne non si era minimamente accorta.

Di fatto, aveva del tutto rimosso di aver prestato il proprio ombrello all’inglese. Le sovvenne immediatamente in che occasione fosse avvenuto lo scambio: durante il loro primo incontro ai Giardini del Lussemburgo, quando Arthur aveva rischiato di infradiciarsi da capo a piedi poiché talmente assorto nei suoi pensieri da non rendersi conto delle condizioni meteorologiche avverse.
Nonostante stesse cercando di apparire offesa, a quel ricordo Marianne non riuscì a trattenere una lieve risata che chiaramente non sfuggì ad Arthur.

«Lo trovate divertente?»
Domandò l’inglese, un po’ burbero.

Marianne scosse il capo e mise da parte il risentimento.

«Un pochino. Ma non prendetela nel modo sbagliato, anzi, vi ringrazio per la vostra premura! Stavo solo ricordando il perché ve lo prestai,  non avevo mai visto nessuno non accorgersi di stare sotto la pioggia. È un atteggiamento un po’ particolare, ne converrete.»

Sorprendendo Marianne, questa volta fu Arthur ad allargare un sorrisetto sghembo.

«Be’... sono inglese! Non mi cruccio di certo per qualche goccia d’acqua.»

Marianne ridacchiò e con piacere notò che anche l’inglese sembrava più a suo agio.
La francese si sistemò una ciocca ribelle dietro l’orecchio, poi sollevò lo sguardo sul suo interlocutore.
 
«Ebbene, monsieur Arthur, come posso ripagarvi per la vostra gentilezza? Sono a vostro servizio.»
 

Certe proposte, però, non dovrebbero essere avanzate a cuor leggero e forse Marianne aveva commesso un errore di valutazione giacché le maniere riservate e un po' chiuse di Arthur le avevano dato l’idea di un uomo fin troppo rigido.
 
«Avete ragione, adesso siete in debito con me.»
Commentò Arthur e Marianne si sorprese, non si aspettava affatto che l’inglese volesse qualcosa in cambio da lei.
 
«Ditemi come risarcire il mio debito allora.»
Lo provocò sfarfallando le ciglia.
 
Osservò Arthur estrarre un orologio dalla tasca della giacca, poi le rivolse un sorrisino astuto.
 
«Se ora non avete altri impegni venite a prendere un tè con me, Marianne.»
 
Suo malgrado, le guance della francese si tinsero di una lieve sfumatura rosata.
Fortunatamente, Marianne riprese il controllo di se stessa e finse di valutare la proposta, sebbene non avesse niente altro da fare.
Infine, fece un lieve cenno d’assenso con il capo.
 
«E sia. Prevedibile da parte vostra, siete così inglese!»
 

 
* * *



L’atmosfera nel piccolo café in cui l’aveva invitata Arthur era accogliente.
L’illuminazione calda, il delizioso profumo dei pasticcini che si mescolava all’aroma di caffè e il vivace chiacchiericcio all'interno rendevano la saletta un luogo allegro e conviviale.
 
Marianne prese un piccolo sorso del suo tè bollente. Poggiò poi la tazzina di porcellana riccamente decorata sul piattino. Di solito, la francese prediligeva il caffè ma doveva riconoscere che il rilassante calore del tè era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.
 
La francese prese una lunga tirata di fumo attraverso il suo bocchino. Era uno degli oggetti più di moda lì a Parigi, che ogni donna del mondo dello spettacolo doveva avere. E Marianne, amante dei piccoli vizi, non poteva certo farne a meno. Inoltre, contribuiva a renderla più affascinante di quanto non fosse già naturalmente, a suo dire.
Tenendo l’accessorio tra le dita affusolate, gettò una rapida occhiata all'inglese, seduto di fronte a lei. Marianne dovette trattenere uno sbuffo divertito e indiscutibilmente poco elegante quando notò che Arthur teneva il mignolo sollevato mentre sorseggiava il suo tè.

Decisamente inglese.
 
Marianne seguì con lo sguardo i movimenti di lui, che con attenzione aveva appoggiato la tazzina al suo posto e si tamponò gli angoli delle labbra con un tovagliolino.
Avevano parlottato un po’ durante la strada ma da quando avevano portato loro le bevande, Arthur si era chiuso in un singolare mutismo. Sembrava così assorto nei propri pensieri che Marianne fu portata a chiedersi cosa potesse passargli per la testa.
Alla fine Arthur, assumendo l’espressione più snob che gli riuscisse, spezzò il silenzio e rispose involontariamente al quesito mai posto della francese.
 
«Non male. Ma non è niente in confronto al tè inglese che resta senza dubbio il migliore.»
 
Marianne strinse le labbra, raddrizzando la schiena.
 
«Non esiste "il tè inglese", lo importate esattamente come lo si importa in Francia. Magari quello che state bevendo fa parte della stessa partita che è giunta in Inghilterra.»
 
Ribatté lei con aria altezzosa e un filo di soddisfazione per aver tirato fuori un argomento così convincente.
 
«Non potete saperlo!»
Rimbrottò l’inglese, che non si sarebbe dato per vinto così facilmente.
 
«Neppure voi.»
Marianne gli scoccò un’occhiatina trionfante che l’inglese ricambiò con una spazientita.
 
Marianne inspirò ancora dalla sigaretta e accavallò le gambe sotto il tavolino rotondo.  
 
«Piuttosto ditemi un po', come procedono i vostri affari qui?»
Si interessò lei ed Arthur si incupì.
 
«Diciamo che sto cercando un impiego fisso. Fino ad ora ho avuto incarichi saltuari ma vorrei... come dire, trovare qualcosa di più stabile.»
 
Arthur tentennò.
 
«Avevo pensato di offrire lezioni di inglese ma non credo di avere la stoffa del maestro.»
Confessò lui, con un sospiro afflitto.
 
«Effettivamente non avete la pazienza necessaria.»
Convenne Marianne senza peli sulla lingua e a malincuore Arthur si rese conto di non poter obiettare.
 
«Sì be'... troverò qualcosa che mi si confà, presto o tardi.»
 
Marianne gli rivolse un’occhiatina. Vi era una cosa che da un po’ le ronzava per la testa, ma di cui non aveva ancora avuto modo di discutere con lui.

«Vi credevo uno scrittore.»
Gli disse con sincerità la francese che, da quando aveva ficcanasato negli scritti di lui al Jardin, non aveva più toccato la questione.
 
Arthur arrossì appena e spostò lo sguardo, un po’ imbarazzato.
 
«Quello è più un... come posso dire, un mio personale diletto. Voglio dire, mi piacerebbe farne una professione ma non so se mai ci riuscirò. Fino ad ora non ho avuto fortuna e non penso che ne avrò mai. Avete avuto modo di vederlo con i vostri occhi, c’è sempre qualcosa che manca in ciò che scrivo.»
 
Marianne lo ascoltò con interesse.
 
«Apprezzo che abbiate ascoltato le mie critiche, ma non dovreste farvi abbattere così. Vi ho detto che mancava sentimento, non è così? Adesso vi dico che dovreste avere un po’ più stima di voi stesso, dovete credere nei vostri progetti!»
 
Arthur fece un’espressione bizzarra, un misto di cauta gratitudine e penoso cruccio.

Marianne meditò sulla faccenda. Le sarebbe piaciuto aiutare Arthur, se solo ne avesse avuto la possibilità.

Ma in che modo?

La risposta che Marianne cercava non tardò ad arrivare e il suo viso si illuminò.
 
«Conosco la persona giusta per voi! Posso presentarvela, se volete.»
 
Arthur sbarrò gli occhi e schiuse le labbra, quanto mai sorpreso per le parole di Marianne.

«Sarebbe... splendido!»
 
«Tra tre settimane darà una festa, potrei presentarvelo per quell’occasione. Sappiate però che si tratta di un evento privato, vi servirà un invito.»
 
L’inglese si fece attento.

«Come faccio ad ottenerne uno?»

«Dovete essere amico dell’organizzatore della festa...»

A quelle parole, Arthur si rabbuiò.
Erano ben poche le sue amicizie lì a Parigi e comunque non gli avrebbero permesso di entrare in un salotto d’alta classe francese.
 
«Oppure –continuò Marianne– potreste partecipare in veste di accompagnatore. E si dà il caso che io sia tuttora sprovvista di qualcuno con cui andare.»
 
Arthur aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo. Gli servì qualche istante per comprendere appieno le implicazioni di ciò che gli aveva appena detto la francese.
 
L’inglese si schiarì la gola e cercò di sconfiggere l’imbarazzo per ciò che stava per domandare.

«Allora che ne direste se... vi accompagnassi io?»

Marianne sorrise.
 
«Accetterei con molto piacere.»


 
* * *



Durante le settimane successive, Marianne ebbe modo di incontrare frequentemente Arthur.
Per la francese, parlare con lui era un’efficace distrazione che le restituiva il suo solito spirito brioso e frizzante che ultimamente sembrava mancarle.
La donna infatti non riusciva a spiegarsi il motivo della propria spossatezza. Era stata addirittura costretta a diminuire le ore di ballo, come le avevano consigliato Carmen e Julchen. In cuor suo, Marianne sperava che ciò non si ripercuotesse sulla qualità degli spettacoli, non se lo sarebbe mai perdonata. Non aveva alcuna intenzione di mollare, non a causa di un po’ d’allergia.

«Avete in mente qualcosa per una nuova opera?»
Chiese Marianne, scossa da un colpetto di tosse.
«Scusate, è solo un po’ d’allergia primaverile.»
Aggiunse sottovoce.

Arthur la osservò con un accenno di preoccupazione.

«Riguardatevi Marianne, è da settimane che questa tosse vi perseguita.»

Lei gli fece un gesto sbrigativo con la mano, non voleva assolutamente parlare ancora una volta della sua salute.

«Sto bene, ve lo assicuro. Ditemi invece della vostra opera! Quando inizierete a scriverla?»

Arthur si mordicchiò l’interno della guancia, indeciso.

«A dire il vero... ne ho già scritto la prima metà.»
Le disse lui, cercando di mascherare la sua soddisfazione.

Marianne gli lanciò un’occhiatina eloquente.

«E non avete detto niente! Quando me la farete leggere?»

A quelle parole Arthur sembrò avvampare. Spostò lo sguardo alla sua destra, verso la Senna che placidamente scorreva nel suo alveo.

«Non appena sarà finita. In verità volevo mostrarla al vostro conoscente... dato che sembra intendersene. Questa potrebbe essere la mia occasione!»

Esclamò Arthur, su di giri.

«E non volete sentire un parare da parte mia, prima?»
Lo provocò un po’ lei, fingendo offesa.

«Veramente... vorrei chiedervi un’altra cosa.»

Confessò Arthur.

Marianne trattenne il fiato.

«Sarebbe a dire?»

Arthur fece cenno di diniego.

«Ve lo confesserò quando sarà il momento!»

E inutili si rivelarono i tentavi di Marianne di scoprire di cosa si trattasse, fu costretta a cedere.

In vita sua, non aveva mai conosciuto qualcuno più caparbio di quell’inglese.  


 

* * *



Infine, la serata della festa arrivò.
Marianne aveva concordato con Arthur di incontrarsi sul vialetto di fronte casa e da lì salire su una carrozza e raggiungere il salotto in cui si sarebbe tenuto il ricevimento.

Marianne rabbrividì, nonostante fosse stretta nel suo elegante cappotto. Si era posizionata qualche metro più in là dal cancello di casa, sotto la luce di un lampione e da lì scrutava la via in attesa di veder spuntare Arthur, che sarebbe dovuto arrivare da un momento all’altro.
Accennò un sorriso quando dopo pochi minuti riconobbe l’inglese che si avvicinava a lei tutto trafelato.


«Perdonate il ritardo, spero che non steste aspettando da molto.»
Fu la prima cosa che le disse l’inglese quando le fu abbastanza vicino.

«Solo da qualche minuto.»
Lo rassicurò Marianne, che trovava sempre buffo il modo in cui Arthur si preoccupava per ogni più piccolo dettaglio.


«Come siete elegante questa sera.»
Notò la francese, complimentandosi con lui. Con il suo abito da sera nero e i capelli biondi pettinati all’indietro, Arthur dava l’impressione di essere un vero gentiluomo.

L’inglese ne sembrò timidamente lusingato. Orgoglioso com’era, non le avrebbe mai detto che lo smoking che indossava lo aveva noleggiato per l’occasione, non avendo la facoltà di permettersene uno.

«Vi ringrazio. Anche voi siete...»
Arthur esitò, come sempre frenato dal suo carattere introverso. Incrociò lo sguardo gentile di Marianne, ancora in attesa che lui dicesse qualcosa, e le parole questa volta uscirono spontanee.     
«... siete meravigliosa.»

Marianne sorrise, sinceramente felice per l’apprezzamento ricevuto.
Per qualche istante continuarono a guardarsi negli occhi in silenzio, ma fu infine Arthur a spezzare quel momento di quiete.

«Forse è il caso di avviarsi. La... umh, carrozza ci aspetta oltre questa via. E non è il caso di presentarsi in ritardo.»


Il tragitto in carrozza fu abbastanza veloce. Il mezzo li aveva portati quasi al centro di Parigi, nella parte bene della città le cui strade erano popolate da nobili e borghesi arricchiti. Persone di una certa fama e senza difficoltà economiche, che volendo, avrebbero potuto permettersi il lusso di smettere di lavorare e dedicarsi al dolce far niente.

Quando la carrozza arrivò a destinazione, Arthur smontò per primo per aiutare Marianne a scendere.
Si diressero insieme verso uno dei tanti sfarzosi cancelli e Marianne mostrò all’usciere il suo invito, che permise sia a lei che ad Arthur di varcare la soglia ed essere ammessi alla festa.

Marianne, ormai avvezza a questo genere di eventi, non fece caso ai camerieri a cui lasciarono i loro cappotti o allo sfarzo delle decorazioni e agli arredi quasi kitsch. Con sicurezza si aggirava nella sala, affiancata ovviamente da Arthur che, al contrario, sembrava un pesce fuor d’acqua. Sebbene l’inglese si stesse sforzando di apparire a proprio agio era chiaro che non si era mai ritrovato in una situazione del genere.

Marianne fece vagare lo sguardo. A qualche metro da loro avvistò Carmen e Julchen, invitate anche loro, che quando la videro insieme all’inglese non trattennero dei risolini divertiti e delle occhiatine ammiccanti. Marianne le salutò con un gesto della mano e tornò a scandagliare il salone, in cerca del suo obiettivo.
Fortunatamente lo individuò abbastanza in fretta. Fece quindi cenno ad Arthur di seguirla, così da presentargli il padrone di casa.

 
«Herr Edelstein, buonasera!»

«Buona sera a voi, mademoiselle Bonnefoy.»
Le rispose con educazione l’uomo, un giovane dall’aria raffinata e composta.

Marianne lo conosceva bene, da anni lavoravano nello stesso teatro e da altrettanto tempo partecipava alle feste che organizzava l’austriaco. Segretamente, le trovava di una noia spaventosa ma non le avrebbe perse per nessun motivo al mondo, dato che tutta l’alta società parigina si riuniva per quelle occasioni. Marianne non avrebbe mai voluto esserne esclusa, nonostante la piattezza di quegli incontri.   

«Lasciate che vi presenti il mio accompagnatore... Arthur questo è Herr Roderich Edelstain, il nostro insigne e stimato direttore d’orchestra, pianista e sceneggiatore.» 

Disse Marianne, esagerando volutamente con i complimenti. Roderich chinò il capo, mantenendo la sua aria austera.

«Herr Edelstein, questo è mister Kirkland.»

Continuò la francese con le presentazioni e i due uomini si strinsero la mano.

«Sapete, Arthur è un drammaturgo!»

Proclamò Marianne, attirando l’attenzione di Roderich e facendo insuperbire Arthur. Mai nessuno si era rivolto a lui con un tale epiteto, ma l’inglese vi avrebbe volentieri preso l’abitudine.  

«Pensate che ha pure composto un’opera! Certamente apprezzerebbe ricevere un parere professionale da parte vostra! Se magari poteste dedicargli qualche minuto del vostro tempo... sapete, bisogna subito dare un’occasione ai nuovi talenti, altrimenti rischiano di sfuggire tra le mani!»

Continuò imperterrita Marianne, dando fondo a tutte le sue doti di persuasione, senza badare alle parole imbarazzate dell’inglese.

«Potremmo parlarne davanti un bicchiere di champagne, se il signor Kirkland è d’accordo.»
Suggerì Roderich e Arthur non ebbe nulla da obiettare.

«È deciso allora! Grazie ancora Herr Edelstein, vi lascio dunque alla vostra discussione.»

Marianne fece un rapido occhiolino all’inglese, rivolgendogli un sorriso di incoraggiamento. Poi, come promesso, si allontanò per lasciare i due uomini alle loro chiacchiere lavorative.

Nell’attesa, Marianne si accomodò sul comodo sofà ed estrasse la sua sigaretta.
La accese.
Fumare era il suo modo di rilassarsi e chissà, forse la nicotina avrebbe scacciato quel senso di vertigini che ormai costantemente la accompagnava. Era stata ben attenta a non far trapelare nulla della sua pena, non voleva rovinare la serata ad Arthur, che finalmente aveva l’opportunità di realizzare il suo sogno e diventare autore di teatro.
Lo guardò da lontano parlare fitto fitto con Roderich e inspirò dalla sua sigaretta.
Era certa che sarebbe tornato con delle buone notizie.


«È andata bene!»
Annunciò Arthur dopo una mezzoretta abbondante, sedendosi accanto a Marianne.
Lei gli sorrise.

«Ne ero sicura! Ebbene, che vi ha detto?»

«Abbiamo parlato un po’ e sembra che l’idea gli sia piaciuta. Certo, c’è ancora molto da fare, l’arrangiamento musicale, qualche aggiustamento qua e là... ha voluto che gli lasciassi il manoscritto e mi ha dato appuntamento per lunedì prossimo per parlarne meglio.»
Le raccontò l’inglese che a stento riusciva a contenere il suo entusiasmo.

«Sembra un tipo molto serio.»
Considerò ancora e Marianne annuì con fare drammatico.

«È così. Si da tante arie da nobile ma non è altro che un gran pallone gonfiato, in tutta sincerità non l’ho mai sopportato.»

Arthur sbuffò per nascondere una risata.
Si alzò in piedi e, colto da un’improvvisa temerarietà, porse la mano alla francese.

«Propongo di... smetterla di parlare di lui. Mi concedi questo ballo, Marianne?»

Con un sorrisetto Marianne gli strinse la mano.

«Era ora che me lo chiedessi!»


Mano nella mano, i due si avviarono verso la sala da ballo, in cui trovarono Roderich al pianoforte che dava sfoggio delle sue capacità musicali.
Certamente il talento non manacava all'austriaco.

Marianne comunque, non aveva occhi per nessuno se non per Arthur, di fronte a sé. Poggiò la mano libera sulla spalla di Arthur e lui le cinse la vita, iniziando poco dopo a muoversi a ritmo di musica.

«Sai, volevo ringraziarti.»
Mormorò Arthur, mentre Marianne faceva una giravolta.

«Per cosa?»
Gli chiese lei, cercando di scacciare un improvviso capogiro.

«Per tutto, credo. Voglio dire... grazie a te, realizzare il sogno di una vita non sembra più così impossibile.»

Marianne però, non lo ascoltava più.
Si sentì improvvisamente debole, le gambe molli sembravano voler cedere da un momento all’altro. Marianne prese un profondo respiro ma non servì a molto. Ogni suo passo era pesante e quasi inciampò nei suoi stessi piedi.
Fu con malagrazia che si accasciò tra le braccia di Arthur che con forza la sorresse.

«Marianne! Stai bene?»
Chiese lui, stringendola tra le braccia per non farla cadere.

«Ho solo... bisogno di un po’ d’aria fresca.»
Riuscì a biasciare Marianne, a fiato corto.

«Ti accompagno fuori.»



Sul piccolo terrazzo, nessuno dei due proferì una parola. L’unico suono che spezzava il silenzio era la tosse implacabile di Marianne.
Arthur le si avvicinò per controllare come stesse, tuttavia lei fu più svelta e si allontanò.

«Marianne...»

«Sto bene, Arthur. Ho solo stretto troppo il bustino e mi è mancato per un secondo il fiato.»

Arthur scosse il capo ma Marianne, che gli dava le spalle, non se ne accorse.
Fu una sorpresa quindi sentire la giacca calda di Arthur posarsi sulle sue spalle. Si voltò di scatto, incrociando lo sguardo con lui.

«Fa freddo qui fuori.»
Spiegò semplicemente l'inglese.

Lei gli sorrise debolmente.

«Torna dentro, Arthur. Tra poco ti raggiungo.»

Arthur, che aveva capito abbastanza in fretta che Marianne avesse bisogno di spazio annuì e senza aggiungere altro, tornò all’interno della sala.

Solo quando si assicurò che Arthur fosse abbastanza lontano, Marianne abbassò lo sguardo sul candido fazzoletto di seta su cui spiccava una macchia cremisi.

Il suo sangue.



Note finali
Ho aggiornato! Era anche ora, direi. Mi dispiace per averci messo una vita, purtroppo è stato un periodaccio questo. Comunque, bando alle ciance e ciancio alle bande, ecco qui il secondo capitolo! 
Lo so, lo so. Nel capitolo precedente avevo detto che questo sarebbe stato l'ultimo... invece non lo è! Ho deciso di aggiungere un altro capitolo a questa storia, ho avuto come l'impressione che le cose andassero troppo velocemente, perciò ho preferito optare per questa soluzione. Dunque, cosa dire? E' stato divertente scrivere questo capitolo. Ne avevo cominciato la stesura mesi fa, ma il risultato finale non mi convinceva proprio, quindi ho riscritto tutto quanto da capo in meno di una settimana. Un piccolo record personale.
Parliamo un attimo di Arthur e Marianne. Li adoro, semplicemente. Non ho niente altro da dire, li trovo tenerissimi. Domandona: che cosa avrà mai da chiedere Arthur a Marianne? La risposta è abbastanza scontata, però ehi, questa storia non verte certo sui colpi di scena xD 
Comunque, ormai non prometto più un capitolo in tempi brevi, anche perché ho da aggiornare anche l'altra storia quindi mi sa che avrò bisogno di tempo xD 
Ad ogni modo, come sempre ringrazio di cuore chi è arrivato a leggere fino a qui, chi segue questa storia e, se vi va, fatemi sapere che ne pesante (così magari scleriamo insieme)!

Alla prossima! <3 

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Capitolo 3
*** Atto III ***


Atto III 


«Signorina Bonnefoy, voi state per morire...»

Seduta di fronte alle finestra della sua camera Marianne fissava un punto indefinito all’esterno, la mente lontana che riviveva ancora e ancora quella maledetta conversazione, come un disco rotto che continuava a ripetere senza posa lo stesso segmento.

«... di tubercolosi

Era stato il dottore ad annunciarglielo, a seguito della visita della francesina che, dopo quanto accaduto al ricevimento del signor Edelstein, non poteva più fingere che tutto andasse bene.

Era malata e il medico glielo aveva assicurato, non sarebbe guarita.

«Da adesso in poi non farà altro che peggiorare. Se solo foste venuta da me prima...», le aveva detto quella volta il dottore che scuoteva il capo, come se la stesse rimproverando.

Parlare per ipotesi però era inutile, quel che era stato non si poteva più cambiare. Era frustrante e Marianne si sentiva già abbastanza mortificata, non aveva bisogno che qualcuno le rinfacciasse la realtà. Non sarebbe servito a nulla comunque.
Marianne non sapeva come avesse contratto il virus, ma aveva ignorato i segnali della malattia e adesso era troppo tardi.
La donna aveva trascorso una notte insonne, il malessere e l’agitazione le avevano impedito di dormire: era avvilita e arrabbiata con se stessa, per la sua superficialità. E tossiva, sempre più spesso e violentemente. Seppur inconsapevolmente, era stata lei stessa l’artefice del suo stesso destino e ne avrebbe pagato le conseguenze. Certo, stava ancora relativamente bene ma... quanto sarebbe durato?

Il suo tempo ormai era agli sgoccioli.

Marianne strinse i lembi della coperta di lana che aveva appoggiato sulle gambe.
Non aveva ancora detto nulla a Julchen e Carmen e non sarebbe stato semplice farlo. Carmen sicuramente avrebbe pianto e Julchen avrebbe fatto di tutto per non scoppiare a sua volta in lacrime, tra le tre era colei che cercava di mostrarsi sempre forte nonostante le avversità, ma Marianne sapeva che sotto quella scorza dura anche la prussiana si sarebbe angosciata per lei. 
E Arthur... non sarebbe mai riuscita a dirglielo. Che reazione avrebbe avuto l’inglese? L’avrebbe compatita? L’avrebbe giudicata una sciocca per non aver consultato prima un medico? Oppure avrebbe accolto la notizia con indifferenza?
Inoltre, cosa ne sarebbe stato della sua carriera? Sebbene il dottore le avesse consigliato di smettere di ballare per non sottoporsi a sforzi inutili ed eccessivi, Marianne avrebbe voluto continuare ad esibirsi al Moulin Rouge. Il cabaret era il luogo in cui passava la maggior parte delle sue giornate, era la sua casa. Lei voleva continuare a lavorare lì, a ballare il can-can come aveva sempre fatto.
Non riusciva a credere che una maledetta malattia le avrebbe portato via tutto quello per cui aveva duramente lavorato.

Era furiosa.

Marianne strinse le labbra e si alzò dalla seggiola ma un improvviso giramento di testa la costrinse a sorreggersi al bordo della finestra.
La francese chiuse gli occhi e mille lucine esplosero sotto le sue palpebre pesanti, le unghie ancora artigliate al legno della finestrella, in attesa che il capogiro le passasse.

In quel preciso istante Marianne si rese conto che si sarebbe spenta lentamente. Ogni giorno la malattia le avrebbe portato via un po’ di energia fino a quando i suoi deboli polmoni non le avrebbero più fornito ossigeno e lei avrebbe smesso di respirare e il suo cuore di battere. 
Sarebbe stato un avanzamento cadenzato ma inevitabile, come quello di un fiore che appassisce.  

Trattenendo le lacrime, Marianne aprì di nuovo gli occhi e guardò di fronte a sé. Il suo stesso riflesso sui vetri le restituì lo sguardo e la francese non riuscì a scorgervi nulla se non l’amara collera di chi non vuole accettare la realtà.

Tuttavia, vi fu anche qualcos’altro che attirò l’attenzione della ballerina.
Oltre i vetri opachi, infatti, Marianne riuscì ad individuare l’inconfondibile figura di Arthur che passo dopo passo si avvicinava a casa sua.

Marianne si spostò dalla finestra mentre il suo cuore afflitto già accelerava i battiti.

Cosa ci fa qui?

La francese non sapeva perché il londinese si trovasse lì e la sua sola presenza le causava un’ondata di sentimenti contrastanti.
Non sapeva come avrebbe fatto a dirgli la verità e se dirgliela. Era troppo presto, lei stessa lo aveva saputo da poco e non era ancora riuscita ad elaborare la notizia che le era caduta in testa come un macigno. Marianne aveva bisogno di rimanere sola, a pensare. Però, forse, la presenza di Arthur la avrebbe fatta sentire meglio. Stare insieme sarebbe stata una consolazione. A Marianne non piaceva la solitudine, rendeva tutto molto più difficile.


La parigina prese un profondo respiro, battendosi due mani sulle guance per riscuotersi dai suoi pensieri e riprendere il controllo di se stessa. Raggiunse lo specchio e si pettinò velocemente i capelli, lasciandoli sciolti oltre le spalle. Mise un filo di trucco e si spruzzò il profumo, poi si impose di sorridere e quasi si stupì nel constatare quanto convincente risultasse.

In quel momento il campanello suonò, facendola trasalire.

La francese restò immobile.
Ad Arthur non avrebbe mostrato nulla della sua sofferenza.  

Il campanello trillò ancora, più a lungo questa volta.

Inspirò ed espirò.
Marianne mosse un passo, poi un altro, finché non giunse davanti la porta d’ingresso e la aprì.


«Buon pomeriggio. Disturbo forse?»
Esordì Arthur quando finalmente la francese si presentò alla soglia. Da sempre un tipetto impaziente, Arthur si stava giusto chiedendo quanto tempo le ci volesse per aprire. L’inglese stava rischiando di fare le radici dietro quella porta! Ed era tutto intenzionato a lamentarsene, ma l'arrivo della francesina lo fermò.

Lei, con quel sorriso accogliente e quello sguardo gentile... Arthur non poteva recriminarle nulla. Quella donna riusciva a fargli perdere la testa senza nemmeno provarci.

«Avrei dovuto avvertirti della mia visita.»
Balbettò allora Arthur che aveva cambiato completamente idea per quel che riguardava il rinfacciarle l’attesa.
Invece, osservò la gracile figura della francese.
C’era qualcosa di diverso in lei. Rispetto a come era abituato a vederla, Marianne era avvolta in un modesto abitino da giorno, nessuna elaborata acconciatura a sistemarle i lunghi capelli mossi che le ricadevano dolcemente sulle spalle e le conferivano un aspetto quasi angelico. Era pallida ma gli sorrideva. Gli occhi di lei, quasi spogli di qualsivoglia cosmetico, indugiarono curiosamente su di lui ed Arthur sciolse il suo tipico broncio in un timido sorriso.

«Non importa, sono felice di vederti. A cosa devo questa visita inaspettata?»
Rispose cortesemente Marianne che si fece da parte per permettere ad Arthur di entrare.

Lui annuì ed oltrepassò la padrona di casa.

«Ah... sì! Oggi è lunedì, ricordi? Il signor Edelstein mi aveva dato appuntamento nel suo studio per parlare meglio della mia opera e abbiamo finito di discuterne proprio poco fa. Be’... l’ha accettata, la metteremo in scena!»
Annunciò Arthur, togliendosi il cappello e arrossendo un po’, evidentemente felice per il suo recente successo.

In verità, l’inglese era talmente su di giri che si sarebbe messo a saltellare sul posto.
Avevano davvero deciso di rappresentare qualcosa scritto da lui, non riusciva ancora a crederci! Quando l’austriaco gli aveva dato la sua disponibilità, il primo pensiero di Arthur era andato alla francese ed era corso al Moulin Rouge per darle la bella notizia.
Era rimasto un po’ interdetto quando, dopo aver chiesto di lei, gli era stato comunicato che Marianne non si era presentata al lavoro. Arthur però, per una volta, non si era perso d’animo ed aveva deciso di recarsi a casa di lei, dato che conosceva il suo indirizzo. D’altro canto, se finalmente aveva un’opportunità nel mondo del teatro, era solo grazie a Marianne.
Era giusto che lei sapesse.

«È magnifico. Congratulazioni Arthur, è una splendida notizia!»
Si complimentò Marianne, sinceramente felice per lui ed Arthur cercò di contenere il proprio entusiasmo.

«Posso offrirti qualcosa per festeggiare?»
Domandò Marianne, mal celando un colpo di tosse, facendo cenno al suo ospite di seguirla. Arthur ringraziò e fece cenno di diniego per rispondere alla sua domanda, ma raggiunse comunque la francese.

«Allora... raccontami!»
Ordinò Marianne, che per sé aveva preso un calice di vino anche se erano ancora nel primo pomeriggio. Si accomodarono in salotto e Arthur fu lieto di obbedire.

«Ti ricordi quando un po’ di tempo fa ti dissi che avevo qualcosa da chiederti?»
Incominciò Arthur, che dall’interno della giacca aveva tirato fuori quello che aveva tutta l’aria di essere un copione.
Marianne osservò il plico di fogli, spostando poi lo sguardo sull’inglese, in attesa che lui continuasse.

«Ebbene... mi chiedevo... vorresti essere tu ad interpretare la protagonista della mia storia? È un ruolo che richiede solo recitazione, so che la tua specialità è il can-can, ma... ci terrei che fossi tu ad impersonarla. Se per te va bene, chiaramente! Non sei obbligata, se non vuoi!»
Disse Arthur tutto d’un fiato, arrossendo fino alla punta delle orecchie mentre con aria speranzosa porgeva alla francese il copione.

Arthur deglutì rumorosamente quando Marianne, con le sue dita fredde e sottili, prese la sceneggiatura da lui scritta, sfiorandogli la mano. Arthur si sentì rabbrividire a quel delicatissimo tocco e, se possibile, divenne ancora più rosso di prima.

Marianne, in silenzio, sfogliò le pagine. Arthur, torturandosi le mani, seguiva ogni minimo movimento della donna cercando di carpirne i pensieri. Ne osservava l’espressione, lo sguardo, il modo in cui le sue labbra si piegarono all’insù mentre leggeva quelle pagine, rimanendo in trepidante attesa di ricevere il verdetto.

«Perché io?»
Chiese Marianne dopo aver letto qualche riga, incrociando lo sguardo con l’inglese.

«Perché ho scritto questa storia basandomi sui sentimenti che provo per te.»
Rispose Arthur, così candidamente sincero, da stupire perfino se stesso.
Marianne sentì le guance riscaldarsi. Abbassò lo sguardo per sfuggire a quello dell’inglese, con la scusa di leggere ancora qualche battuta.  


Per qualche istante solo il ticchettio dell’orologio riempì il silenzio della camera.

«Allora... sarò la tua protagonista.»
Sussurrò infine Marianne, dopo quella che ad Arthur parve un’eternità.

L’inglese prese un enorme sospiro di sollievo e cercò di ignorare le farfalle nello stomaco.

«Magnifico!»
Esclamò lui che, sebbene cercasse di non renderlo troppo evidente, era al settimo cielo per la gioia.

«Ci sono ancora tantissime cose da decidere, io ed Edelstein ci lavoreremo nei prossimi mesi. Però... in linea di massima la trama è quella e le battute non credo subiranno grandi modifiche.»
Si ritrovò a spiegarle Arthur, ancora sorpreso per il modo più che positivo in cui gli eventi si stavano svolgendo.

«Ottimo. Leggerò tutto quanto prima di allora, si sa già quando inizieranno le prove? Spero quanto prima.»
Domandò Marianne, cercando di nascondere la voce improvvisamente tremante e tenendo gli occhi bassi, ancora fissi sul copione.
Normalmente, Arthur avrebbe compreso che nonostante le parole gentili della ballerina, qualcosa non andava. Ma la sua stessa gioia lo aveva reso cieco di fronte la composta infelicità di Marianne.

«Non saprei... presto, comunque!»
Le assicurò Arthur, che non vedeva l’ora di mettersi al lavoro.

«Bene.»
Disse la francese ed Arthur allargò un cauto sorriso.

Nuovamente, tra loro calò il silenzio. Per Arthur, quello era il momento del successo. Per Marianne l’inizio della fine. Fu Arthur a spezzare per primo il silenzio.

«Purtroppo, adesso devo andare.»
Annunciò e Marianne lo guardò con una punta di stupore.

«Di già? Sei appena arrivato.»

Arthur annuì. Neppure l’inglese aveva voglia di andarsene e, fosse stato per lui, avrebbe parlato ancora a lungo con la donna.

«Sì. Ero venuto per chiederti della parte, devo comunicarlo subito ad Edelstein ed assegnare gli altri ruoli. Ma ci vedremo presto, nevvero? Alle prove, magari?»
Domandò Arthur, con occhi quasi scintillanti.
Marianne fece cenno d’assenso.

«Allora... non ti rubo altro tempo.»
Disse lui. Dopo un attimo di tentennamento il londinese si alzò e Marianne fece lo stesso, accompagnandolo alla porta.

«Ci vediamo alle prove.»
Salutò Arthur ma non si mosse. Sembrava esitante, come se fosse indeciso su cosa fare.
Alla fine, Arthur catturò la mano della francese nella sua, portandosi alle labbra la mano di lei.

«A presto, Marianne.»
E fu così che, più in imbarazzo che mai, Arthur andò via senza ascoltare la risposta della donna che, era sicuro, non avrebbe avuto più il coraggio di guardare in faccia.

Marianne, stupita dall’audace mossa dell’inglese, si portò quella stessa mano sul viso e lo guardò allontanarsi, momentaneamente incapace di pensare ad altro.

«A presto, Arthur.»
Mormorò lei ancora con il batticuore, rimanendo immobile sulla soglia, ben consapevole che però l’inglese era ormai lontano.


 

* * *



Durante le tre settimane successive, fu chiaro a tutti al Moulin Rouge che le prove per l'operetta non procedevano affatto bene.
Marianne, l’attrice protagonista, era spesso assente e ciò bloccava tutta la compagnia. Tuttavia, anche quando la donna era presente le prove procedevano a rilento. Lamentava dei forti mal di testa, la tosse a volte si faceva talmente forte da non permetterle di recitare le battute e, l’ultima volta che era salita sul palco, Arthur la aveva costretta a tornare a casa poiché la donna sembrava così debole da non reggersi in piedi.
Edelstein, venuto a sapere della situazione, aveva messo l’inglese alle strette: o metteva in riga la sua attrice o ne avrebbero cercata una nuova lui stesso.
Arthur però, era più preoccupato per Marianne che per la buona riuscita dell’operetta. Era ormai sicuro che qualcosa di brutto doveva esserle accaduto.

L’inglese aveva provato a chiedere spiegazioni alle amiche di lei ma né Carmen né Julchen gli rivelarono molto. Solo degli sguardi tristi e poche enigmatiche parole.



«Marianne ci tiene molto a quel ruolo. Io non sono d’accordo con la sua scelta, non le fa bene sforzarsi così tanto. Ma non bisogna permettere a quel pallone gonfiato austriaco di toglierle la parte, Marianne non se lo perdonerebbe mai. Siate voi a farla ragionare piuttosto!», aveva sbottato Julchen, lanciando un’occhiata risoluta all’inglese.

«Julchen ha ragione. Señor Kirkland, in quanto amiche di Marianne noi non tradiremo la sua fiducia, deve essere lei a dirvi come stanno le cose. Posso darvi un consiglio, però. Statele vicino. Non perdete altro tempo.», aveva detto Carmen, a cui si erano inumiditi gli occhi.



Arthur in un certo senso le capiva. Anche se sapevano qualcosa in più rispetto a lui, non era giusto che fossero loro a parlargli delle preoccupazioni della loro amica.
Doveva essere Marianne a dirgli la verità, se lo desiderava. Arthur non l’avrebbe costretta a fare nulla contro la sua volontà.
L’inglese però non vedeva regolarmente Marianne, sebbene lei cercasse ogni momento disponibile per rimanere più a lungo con lui. In quei momenti però, era chiaro più che mai che la donna fosse costantemente turbata da qualcosa, come se un peso enorme gravasse sulle sue spalle, nonostante i sorrisi che lei continuava a rivolgergli. Ad Arthur non era sfuggito quel dettaglio ma, ogni volta che cercava di affrontare il discorso, Marianne cambiava repentinamente argomento.
Era preoccupato.
Perché Marianne non voleva renderlo partecipe di ciò che accadeva nella sua vita? Che avesse dovuto rispettare la sua volontà e farsi da parte?


Arthur aveva un brutto presentimento ed un’ipotesi si era fatta strada nella sua mente. Ma non voleva saltare a conclusioni affrettate e, soprattutto, non voleva crederci.

Aveva dunque dato appuntamento alla francese al Jardin, adducendo di voler discutere di una faccenda importante. Marianne gli assicurò che si sarebbe presentata.
Perciò Arthur, seduto, aspettava con ansia l’arrivo della francesina. Accanto a lui, adagiati sullo schienale della panchina, vi era un mazzo di fiori. Arthur li esaminò, sistemando attentamente tra i petali la dedica che aveva scritto.

Per Marianne.
Con amore,
Arthur

Un messaggio tanto semplice quanto sincero.
L’inglese sospirò. Non poteva fare a mano che chiedersi se Marianne li avrebbe apprezzati.

«Buongiorno, Arthur.»
Lo salutò Marianne quando arrivò, riscuotendo l’inglese dai suoi pensieri.

«Marianne.»
Rispose l’inglese, alzandosi in segno di saluto. Marianne accennò appena una risata per quel gesto, trovava Arthur sempre così formale.

Si sedettero insieme, l’uno accanto all’altra.

«Per te.»
Arthur le porse i fiori e fu felice nel vedere il viso della francese illuminarsi.

«Sono bellissimi. Grazie.»
Marianne li strinse a sé ma non si accorse della presenza del biglietto all’interno.
Arthur non aveva fretta che lei lo leggesse. Avrebbe preferito anzi che non lo avesse letto lì di fronte a lui ma in privato.

«È qui che ci siamo incontrati per la prima volta, ricordi?»
Disse Arthur, anticipando qualsiasi domanda di Marianne relativa a quell’incontro.

«Non lo potrei mai dimenticare.»
Rispose lei, che si era già accorta di trovarsi seduta nella stessa panchina dei Giardini del Lussemburgo in cui si erano conosciuti molti mesi prima.

«Di che cosa volevi parlarmi, comunque?»
Chiese allora con un filo di voce Marianne, cercando di dissimulare la sua agitazione.
Arthur la osservò.
Marianne non aveva una bella cera. Aveva la voce arrochita e profonde occhiaie le scurivano il viso cinereo, era dimagrita molto e della solita vitalità non vi era più traccia.
Anzi, sembrava stanca e abbattuta.

«Cos’è che non mi vuoi dire, Marianne?»
Chiese l’inglese, a bassa voce, quasi con gentilezza.
In cuor suo, Arthur credeva già di conoscere la risposta. Era sempre stato un buon osservatore e i sintomi di Marianne si facevano sempre più evidenti. Era dimagrita, era spesso costretta a letto, le amiche parlavano di lei dolorosamente e, non ultima, quella maledetta tosse che sembrava volerla spezzare in due non accennava a passare.
Non poteva essere che tubercolosi, la Piaga Bianca.
Era un pensiero terribile che aveva fatto trascorrere molte notti insonni all’inglese... e Arthur sperava ancora di sbagliarsi. 

«Non riesco a parlartene... vorrei, ma non ci riesco.»
La francese sospirò. Sapeva che prima o poi sarebbe giunto quel momento. Le faceva male nascondere la verità all’inglese, ma non sapeva come affrontare il discorso. Con Carmen e Julchen era stato già difficile.
Con Arthur le sembrava impossibile.
Con lui, voleva parlare di teatro. Di moda, di buon cibo, d’amore.
Non di morte e malattie.

Aveva provato più volte a dirgli la verità, ma sembrava quasi che le parole le si bloccassero in gola... e venissero coperte dalla tosse.

«Come posso aiutarti?»
Arthur non voleva risultare insistente o fuori luogo. Voleva semplicemente alleggerire la pena della donna, avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per lei.

«Non puoi.»
Marianne abbassò il viso per evitare il contatto visivo con l’altro, tornando ad ammirare i fiori. E lì, semi-nascosto tra i petali, vi scorse il piccolo biglietto.
Lo lesse e sentì gli occhi inumidirsi.

Il destino era stato davvero crudele con lei.
Proprio nel momento in cui la sua vita stava andando al meglio... ecco che tutto le era stato portato via.
Era la miglior ballerina di can-can di tutta Parigi. Aveva due ottime amiche e, finalmente, si era innamorata. E lui la ricambiava.

Eppure, non avrebbero mai vissuto insieme quell’amore perché lei...
Le mancò il coraggio di terminare quel pensiero.

Con uno sforzo, Marianne cercò di ricacciare indietro le lacrime.

Arthur, lentamente, si era avvicinato a lei. Era riuscito a leggere i suoi pensieri come se la donna fosse un libro aperto per lui. Con delicatezza, le prese il viso tra le mani.
Lei lo lasciò fare, ma non lo guardò ancora.

«Marianne...»

La francese teneva ancora gli occhi bassi.
Le mani di Arthur erano così calde e accoglienti, a differenza del suo viso che invece era freddo e smunto. Con un sospiro tremolante, poggiò le mani su quelle di lui, per non farlo allontanare. 

«Non sto bene, Arthur. Ma...»

Finalmente Marianne alzò gli occhi blu, puntandoli in quelli di Arthur.
Le bastò uno sguardo per comprendere che l’inglese, chissà come, sapeva già tutto.

«... ma tu lo avevi già capito, non è così?»
Sussurrò Marianne e questa volta non riuscì a trattenere le lacrime, che copiose cominciarono a scenderle lungo le guance. 

Compunto, Arthur non disse nulla. Semplicemente la strinse a sé e solo allora, Marianne scoppiò in un pianto incontrollato, spasmodico, nascondendo il viso sulla sua spalla.

«Sono malata, Arthur. E non si può curare.»
Quelle parole arrivarono attutite, strascicate ma per l’inglese fu come ricevere una pugnalata dritta al cuore. Arthur chiuse gli occhi, un’espressione contrita sul suo viso.

Una lacrima solcò il volto dell’inglese che a sua volta trovava conforto in quel lungo abbraccio con la francese.

L’inglese si impose di essere forte, vedere la francese in quello stato gli faceva così male.
 
«Arthur... mi dispiace, mi dispiace così tanto...»
Un singulto spezzò la frase e Arthur non capì nemmeno di cosa si stesse scusando Marianne.

«Io non... non riuscirò ad essere la tua protagonista. Ma ci ho provato. Ci ho provato davvero.»
Singhiozzò ancora Marianne ed Arthur scosse il capo, sebbene lei non lo potesse vedere.
Al diavolo la parte, Arthur avrebbe dato in cambio metà della sua vita per salvare quella di Marianne. Non c’era nulla di cui lei dovesse scusarsi.

«Shh. Non importa ora.»
La voce dell’inglese si incrinò. Strinse più forte a sé la donna, tra le sue braccia sembrava così piccola, così fragile.
Eppure, Arthur sapeva quanto fosse forte Marianne.

Ma non sarebbe bastato per vincere contro la malattia.
Questo lo sapevano entrambi.

E mentre il sole splendeva su tutta Parigi portando gioia agli abitanti della città, seduti su una panchina ai Giardini del Lussemburgo due amanti piangevano, l’una nelle braccia dell’altro.



 
* * *



Marianne sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo can-can.

Nel giro dell’ultimo mese le sue condizioni si erano pericolosamente aggravate e non aveva bisogno di andare dal dottore per sapere che ormai mancava poco.
Non rimanevano che gli ultimi granelli di sabbia nella sua personale clessidra.

Non fumava più. Non ballava più. Quasi non usciva più nemmeno di casa, poiché spesso costretta a letto. Tutto ciò che era stata sembrava un ricordo lontano, ormai.
E la sua esistenza sarebbe diventata insostenibile se non fosse stato per Arthur che ogni giorno dopo il lavoro passava da lei per cercare di ravvivarle quelle lunghe ed interminabili giornate.
 


Marianne batté le mani mentre le allegre e coloratissime ballerine si piegavano in elegante inchino sul palco, alla fine della danza.
Le sarebbe piaciuto essere insieme a loro.

Aveva chiesto ad Arthur di guardare con lei lo spettacolo e, sebbene l’inglese fosse restio a portarla al Moulin Rouge, viste le sue condizioni di salute, alla fine aveva ceduto al desiderio della francese.
 
«È stato bello.»
Disse Marianne, seguendo con lo sguardo le sue vecchie compagne ritirarsi dietro le quinte.

«Già.»

Marianne guardò attentamente l’inglese, in attesa che lui aggiungesse altro. Lui però rimase in silenzio.

«Ma..?»
Lo incoraggiò lei, curiosa di scoprire cose avesse da obiettare Arthur questa volta.

«Ma non è lo stesso senza di te, sul palco.»
Confessò piano Arthur e Marianne cercò di trattenere un sospiro. Anche a lei mancava il can-can. Ma quello dell'inglese era un complimento implicito che comunque apprezzò.

«Mi accompagni ai camerini? Vorrei congratularmi con Carmen e Julchen.»
Arthur annuì, dando una mano alla francese a raggiungere le altre due.

Come aveva preannunciato Marianne, tutte le ballerine si erano ritirate nei camerini, pienissimi non soltanto delle danzatrici, ma anche di tutti gli altri addetti che si occupavano dei lavori dietro le quinte.

Carmen e Julchen accolsero festosamente Marianne all’interno, procurandole una sedia e sorridendole mentre spettegolavano tra loro.

Arthur rimase in disparte ad osservare la scena.
Anche se cercava di dissimularlo come meglio poteva, era costantemente in ansia per la francese. Le aveva consigliato di seguire il parere del dottore e rimanere a casa sotto le coperte, per preservare la sua salute sempre più cagionevole, ma lei non ne aveva voluto sapere.
In un certo senso, l’inglese comprendeva la voglia della francese di evadere dalle quattro mura dimentiche. Anzi, Arthur ammirava il modo in cui Marianne non si era persa d’animo.
Sarebbe bastato un attimo a lasciarsi andare... ma lei non aveva ceduto. Certo, a volte vi erano anche dei momenti di sconforto... ma Marianne continuava a tenere duro.

«Vivrò ogni giorno che mi rimane come se fosse l’ultimo.»
Gli aveva detto una volta lei, che non voleva vivere sotto una campana di vetro.

Appoggiato alla parete, Arthur continuava a guardarla.
Lì, fra tutte quelle ballerine, Marianne rimaneva comunque la più bella come se la malattia non avesse intaccato nulla del suo fascino naturale.  
Era senza dubbio la donna più coraggiosa che l’inglese avesse mai conosciuto.

Arthur si ridestò quando Marianne si mise in piedi, aiutata dalle amiche.
Le andò incontro e salutò educatamente le altre due, offrendo loro un rapido complimento per lo spettacolo. Poi porse il braccio alla francese per aiutarla a sorreggersi ed uscirono nel corridoio che li avrebbe condotti all’atrio del teatro.

«Non sai quante ne abbiamo combinate io e le altre in quei camerini.»
Ridacchiò debolmente Marianne, un po’ ansimante mentre scendevano le scale.

«Ad esempio?»

«Drammi fra ballerine, gelosie improbabili e tantissimi cuori spezzati di ammiratori un po’ troppo invadenti.»
Marianne sospirò. Le mancavano quei bei tempi.

«Sembra interessante.»
Concesse Arthur, con uno sbuffo.

«Lo era, infatti.»

Dopo pochi minuti, molto faticosi per Marianne, giunsero nella sala principale.
Lì si guardò in giro, per imprimere bene quell’immagine nella sua memoria e notò un dettaglio che la sorprese.

«Non credevo che lo tenessero ancora appeso.»
Disse, lasciando il braccio del suo accompagnatore e avvicinandosi lentamente alla parete, su cui campeggiava il manifesto che la rappresentava, quello composto da Toulouse-Lautrec.   

Arthur la affiancò, osservando a sua volta l’immagine.

«Perché mai dovrebbero rimuoverlo? È davvero molto bello.»
Disse l’inglese, che ricordava bene quell’affiche. Era rimasto ad osservarlo per un po’ la prima volta che si era recato al cabaret.

«Perché io non mi esibirò più.»
Gli rispose Marianne, con tono piatto.

Arthur aprì la bocca per ribattere ma rimase in silenzio, un po’ in difficoltà di fronte a quella affermazione. Gli sarebbe piaciuto poterla smentire.
Purtroppo, non poteva.

Marianne però si accorse dello stato d’animo dell’inglese e scosse la testa, stendendo uno dei suoi sorrisi.

«Sono un po’ stanca. Mi riaccompagni a casa?»

Arthur annuì, cercando di ricambiare quel sorriso.

«Ma certo, andiamo.»

All’esterno, vennero investiti da un tumulto persone, di suoni e di luci e fu proprio lì, appena fuori il Moulin Rouge che accadde.

L’ultimo granello della clessidra aveva raggiunto infine gli altri.

Marianne vide il tempo fermarsi.  
Le mancò il respiro.
I rumori si fecero attutiti.
Si portò una mano sul petto ed una al collo, provò inutilmente a prendere una boccata d’aria che le bruciò la gola ma non arrivò ai polmoni.

Accanto a sé, intravide il viso di Arthur distorcersi in una maschera di apprensione.

Il mondo girava vorticosamente attorno a lei che quasi senza accorgersene, cadde a terra.

«Marianne!»
Urlò Arthur al suo fianco mentre la sorreggeva.

«Un medico! Per favore, qualcuno chiami un medico!»
Ruggì l’inglese, rivolto alla piccola folla di curiosi che si stava di già radunando intorno a loro, come degli avvoltoi attorno alla loro preda.

«Arthur...»
Rantolò Marianne, cercando la mano di Arthur per poterla stringere.

«No, Marianne... no...»
Riuscì solo a dire Arthur, il panico evidente nella sua voce mentre stringeva Marianne in un abbraccio disperato, come se ciò bastasse per fermare la morte dal portargliela via.

«Arthur... ti amo, sai?»
Esalò la francese, con infinita dolcezza.
A fatica, Marianne sollevò una mano, per posarla sul viso dell'inglese per offrirgli consolazione.

Arthur ricacciò indietro le lacrime.

«Anch’io, Marianne. Ti amo, anch’io.»
Sussurrò l’inglese appoggiando la fronte alla sua, sfiorando tremante le sue labbra.

Un bacio casto.

Un bacio d’addio.

«Non mi dimenticherai, vero?»
Chiese ancora Marianne, cercando lo sguardo di Arthur per chiedere conferma. Lei lo guardò, le pupille dilatate e il respiro affannoso.

«Mai! Non potrei mai!»
Arthur cercò di rivolgerle un sorriso. Aveva promesso a Marianne che non avrebbe pianto di fronte a lei. Perché sarebbe stato terribilmente ingiusto lasciarla andare con quell'immagine di lui.
Neppure Marianne stava piangendo. Il suo sguardo era placido, non c’era rabbia o tristezza nei suoi occhi.

«Allora scrivi di noi. Scrivi la nostra storia. Il mio amore per te... vivrà per sempre così.»

Poi, il suo sguardo di spense.
Cessò il respiro.
Non si mosse più.
 
Era spirata via, tra le sue braccia.

Solo allora, Arthur lasciò le lacrime scorrergli libere sul viso.



 
* * *

 

Erano già trascorsi due anni da quando Marianne non c’era più.

La vita di Arthur era totalmente cambiata da allora. Si era fatto strada nel mondo dello spettacolo e nei circoli intellettuali e, addirittura, aveva trovato anche un editore disposto a pubblicare tutte le sue opere, teatrali e non.
Aveva riscosso una discreta popolarità in Francia e, non appena gli era stato possibile, aveva continuato la sua attività letteraria in Inghilterra, arrivando all’apice del successo. 

All’apparenza procedeva tutto bene: i debiti erano stati saldati e la carriera che aveva da sempre sognato, andava a gonfie vele.
Aveva anche acquistato un appartamento tutto per sé a Londra nella parte bene della città, dicendo addio alla vecchia stamberga in cui abitava insieme al suo amico americano, Alfred, con cui però, tuttora manteneva dei rapporti amichevoli.

Ed era proprio con Alfred F. Jones che Arthur si trovava, seduto in una comoda poltroncina rossa di velluto nel luminoso palchetto dedicato alle personalità più importanti del Theatre Royal Drury Lane nel West End.
Tra pochi minuti sarebbe andata in scena la prima della sua nuova opera teatrale.

«Certo che ne hai fatta di strada, eh Art!»
Esclamò Alfred, dando una gomitata amichevole all’inglese, impaziente che l’opera iniziasse.

«Vedi di darti un contegno, siamo a teatro!»
Lo rimproverò sussurrando l’inglese, ma Alfred non ci diede peso.

«Ehi, guarda che dovresti essermi grato! Ti ricordo che sono stato io a suggerirti di andare in Francia a cercare fortuna. Ciò significa che parte del tuo successo è anche merito mio!»
Gli rinfacciò Alfred, allargandosi il colletto della camicia. Non era sua abitudine indossare abiti così formali, erano scomodi. Lo pizzicavano da tutte le parti ma avrebbe sopportato. Era la prima volta che vedeva la rappresentazione di un'opera del suo amico inglese, non avrebbe mai perso quell’occasione.

Arthur, seduto accanto a lui, sembrava però perso nei suoi pensieri.

«Già. È cambiato tutto a Parigi.»

Alfred gli rivolse un’occhiatina curiosa.

«Be’ lo immagino, questa Marianne deve essere stata proprio importante per te, per averle dedicato un'opera.»
Osservò Alfred, sventolando un volantino con in piccolo la locandina dell’opera.

Un sorriso nostalgico e un po' amaro si fece strada sul viso dell'inglese.

«Le devo ogni cosa.»

L’inglese abbassò lo sguardo sul suo libretto su cui ad eleganti lettere rosse campeggiava il titolo dell'opera, Marianne.

«Marianne appartiene al palco. Lì, vivrà per sempre.»
Soffiò in un bisbiglio l’inglese, più a se stesso che ad Alfred che comunque non lo stava ascoltando, la sua attenzione era stata attirata dal rumoreggiare che proveniva dal palco, segno che mancavano pochi minuti prima dell’esibizione.

Poi, improvvisamente, le luci calarono nel teatro annunciando l’inizio imminente della rappresentazione.
Nessuno fiatò nell’attesa che lo spettacolo cominciasse.
Pochi istanti dopo il sipario rosso si dischiuse.

E la Marianne andò in scena.



Note finali
E finalmente... siamo giunti alla fine di questa storia.
Siete autorizzati ad odiarmi se volete. Io mi odio un po' per averla fatta finire così, non lo nascondo.
Questo è senza dubbio uno dei capitoli più difficili che io abbia mai scritto. Non scherzo, questo capitolo non è stata una passeggiata. Ma spero che vi sia piaciuto, nonostante... insomma, nonostante gli eventi T.T 
Chiedo scusa umilmente a Francia sigh- 
 
Prima di concludere queste note, ho un piccolo annuncio. 
Ho un piccolo progettino in mente a tema Hetalia che probabilmente mi prenderà tutto il mese, quindi gli aggiornamenti di Sous le Pavillon Noir non saranno regolari. 
 
Detto questo, ringrazio di cuore chiunque abbia letto questa storia, chiunque l'abbia seguita e/o aggiunta ad una delle varie liste.
Un grazie speciale anche per le recensioni <3 
Davvero, grazie mille per il supporto e l'incoraggiamento. 
 
Perciò, ci vediamo presto! 
Ciao ciao <3 

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