Il divorzio di Amore e Psiche

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tavola Uno, La Scalata di una Sconosciuta ***
Capitolo 2: *** Tavola Due, Di Linea e Di Linee ***
Capitolo 3: *** Tavola Tre, Il Tortino Acido ***
Capitolo 4: *** Tavola Quattro, Lo Scorpione e la Bella ***
Capitolo 5: *** Tavola Cinque, Io Odio L'Arte! ***
Capitolo 6: *** Tavola Sei, Le Pulizie d'Autunno ***
Capitolo 7: *** Tavola Sette, Il Paradiso Ritrovato ***
Capitolo 8: *** Tavola Otto, Sognàli Stradali ***
Capitolo 9: *** Tavola Nove, Primo Scorno ***
Capitolo 10: *** Tavola Dieci, L'Antichambre de l'Enfer ***
Capitolo 11: *** Tavola Undici, Quattro per Una ***
Capitolo 12: *** Tavola Dodici, Trappovolgimento ***
Capitolo 13: *** Tavola Tredici, L'intanto d'altra parte ***



Capitolo 1
*** Tavola Uno, La Scalata di una Sconosciuta ***


Salì in camera sua corrucciata e combattuta.
"Fortuna che devo sorbirmi una rampa di scale…Starmene distesa nel letto sapendo che lui tentenna tra la porta e la TV mi darebbe ai nervi"

Le piaceva l'idea di occupare una camera al piano di sopra. Era piccola, col soffitto spiovente, poco meno di una mansarda, poco più di uno sgabuzzino. Ma era pur sempre vicina alle stelle.
Vi entrò e si sbatté la porta alle spalle, che – avendo la serratura rotta più o meno dai tempi in cui l'Italia cominciava la campagna di conquista della Libia – rimbalzò a tradimento e la colpì sulla nuca.
Atterrò tra le lenzuola di faccia e imprecò. Lo svantaggio di possedere una camera angusta è che devi stare sempre attenta a ciò che fai (le leggi della fisica sanno essere molto vendicative); il vantaggio, d'altro canto, è che non corri mai il rischio di provocarti troppo dolore.

La luna faceva capolino dalla finestrella sopra il pavimento, inargentando i fiocchi di polvere che galleggiavano tra le vecchie assi.
Starnutì.
"Ma si, al diavolo", si disse. Era confortante pensare di detenere la salvaguardia sulla propria intimità. Se suo padre si fosse sognato di venirle a parlare, avrebbe udito i suoi passi incerti, amplificati dai cigolanti scalini di legno che nessuno si era mai sognato di restaurare.
Era come una regina…anzi no: le regine amano rimanere coi piedi per terra, lei assomigliava di più…a un'aquila. Si!, era un'aquila predatrice che scrutava la torba di puntini insignificanti sotto di lei, le sue prede; un cacciabombardiere cazzuto che ti sarebbe planato sulla testa se avessi osato parlar male del Governo!
Ma stava già dimenticando il motivo per il quale era arrabbiata con lui, e questo non andava bene.
Aveva delle idee, più che degli ideali, ma riteneva che le sue idee – così ben nutrite nel grembo della propria fantasia, e vezzeggiate, e arricchite – valessero incommensurabilmente di più rispetto alle prospettive qualunquiste, "sicure e stabili", di suo padre. Meglio trascinarsi nell'oblio sapendo esattamente come ci si è finiti, che condurre un'esistenza relativamente agiata senza aver cognizione di cosa si vuole.

Poi però divagava, e digrignava i denti, e tutto rimaneva nella sua testa, e lei sembrava solo una sciocca mocciosa – maggiorenne, d’accordo, ma solo sulla carta – con tanti grilli per la zucca, incidentalmente geniale, e prevalentemente cretina.
È pazzesco come la gente tenda a ricordarsi di te non per le tue parentesi di ingegno, bensì per le tue esibizioni di fessaggine. Si era chiesta tante volte se la gente non fosse un po' sadica, di natura. Super-famosa o super-nessuno, non aspettano altro che vederti muovere un passo falso…

Sicuramente adesso era in cucina, e stava stappando le peggiori bottiglie del peggior vino da pasto della dispensa.
In questo modo sarebbe crollato come un pero morto, avrebbe staccato i collegamenti, ma – cosa ben più importante – si sarebbe esentato per qualche ora dalle proprie responsabilità nei suoi confronti.
"Chissenefrega. Tanto non sono mai andata più in là del ponte…"

E si addormentò.

Fece un sogno molto strano. Non che la media stagionale dei suoi sogni non fosse bizzarra (erano strampalati soprattutto nella struttura, ma avremo modo di parlarne più avanti), ma questo…Era davvero fuori dai comandamenti.
Stava…smontando la sua camera. Anche se "smontare" non era esattamente la parola giusta. La ripiegava come se fosse la facciata di una delle sue scenografie. Staccava le pareti (erano piatte, e odoravano di colla), arrotolava i quadri (arrotolava il vetro e la cornice e la litografia all'interno), accartocciava la piccola scrivania (ma no, questo non ha senso, io uso il mio tavolo per disegnare, ma il mio tavolo non è un foglietto qualunque!), pigiava il letto – che era costruito come un Cubo di Rubik, e più le facce giuste erano distanti più si rimpiccioliva – nel suo zainetto da viaggio.
Non perdeva tempo a cambiarsi (nei sogni il tempo è fragile come una lastra di cristallo sottile), usciva direttamente dalla finestrella, caviglie flessuose e polpacci rotondi e bacino stretto e seni piatti e collo lungo, e lo zaino le ciondolava dietro come un bastardino.
Non appena metteva piede sull'edera rigogliosa che cresceva sulla facciata che guardava il fiume, piani e parallassi litigavano e il muro diventava il pavimento. La porticina quadrata al piano terra ora non era che una botola eccentrica, e la strada in terra battuta, con l'erbetta spelacchiata, lo steccato alto e sottile, e infine il cemento e il bosco…erano un parete perfettamente verticale, spessa quanto il mondo, e alta fino all'orizzonte.
Libri e libri occorrerebbero per narrare ciò che avvenne nello spazio di una notte: saghe mitiche e astratte su montagne infinite, ripari di fortuna allestiti su alberi a dondolo, un piccone parlante (il fratellino di Mijolnir, conosciuta come l'ascia di Thor, che creava più problemi che risolverne: se volevi usarlo per salire dovevi gettarlo nell'abisso, e stare attento a non farti cavare un occhio quando tornava su), una fortezza di metallo da cui si lanciavano enormi uccelli di pietra – con un occhio per l'istinto e l'altro probabilmente guercio, dato che la Natura sembrava averli creati apposta per vederli precipitare, che sadica! – e rullare di tamburi e fiammeggiare di torce e…


…E si svegliò su una scomoda poltrona di seconda classe, acciambellata come un gatto, lo zainetto ai suoi piedi, il pigiama sporco di fango.
Nel sedile di fianco al suo, un uomo sulla sessantina dal pancione prominente, vestito di un elegante pullover color cacca e con dei baffi da far invidia allo Zar, che evidentemente non aveva smesso un attimo di guardarla, distolse rapidamente gli occhi.
Lo fissò. Si stava dedicando con uno zelo quasi comico a spazzolare la forfora che inamidava il cardigan della donna addormentata accanto al finestrino, molto probabilmente sua moglie.
Si lasciò sfuggire un'occhiata disgustata, così, in automatico, e poi – altrettanto automaticamente – sbatté le palpebre e si rese conto di dove si trovava.
Un aereo?
C'erano un corridoio stretto con file e file di poltrone ad entrambi i lati, piccole luci accecanti accese a intervalli regolari lungo una corsia, una donna impettita e tirata a lucido che spingeva un carrello…
Si trovava davvero in un aereo.
Si sporse di poco sopra l'uomo per vedere fuori dal finestrino. Al di là del vetro era buio pesto.

Cominciò a ricordarsi che volare le faceva un terrore del diavolo, così chiamò la hostess, che sembrò accorgersi solo in quel momento che a bordo c'era una ragazza scalza, sporca di terra, coi capelli sparati in aria come serpenti e indosso un semplice pigiama.
"Senta, io non so come sono finita qui, ma voglio scendere. La prego, mi faccia scendere! Non m'importa dei soldi, non voglio essere rimborsata, basta che dica al pilota o a chicchessia di aprire quei dannati portelloni!"
"Mi dispiace, ma non è possibile", rispose la donna con una lieve nota di stizza nella voce.
"E perché?", sbraitò. Le stava venendo da piangere.
"Oh, avanti! Che cosa ci vuole a premere un pulsante? Io scendo anche senza scala, mi calo giù con il mio zaino e poi partite!"
"L'aereo è già partito, signorina. A meno che non voglia lanciarsi con il paracadute…"

Cercò di deglutire lo choc con un po' di saliva.
Poi si azzardò a chiedere:
"E dove…dov'è che siamo diretti?"

Si chiamava Magda Mapiz, aveva diciotto anni e in quel momento stava volando verso Parigi.

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Capitolo 2
*** Tavola Due, Di Linea e Di Linee ***


Ebbe qualche difficoltà a farsi portare un doppio whisky, ma – con suo immenso sollievo – durante la traversata era riuscita a ripescare un documento d'identità dallo zaino.
Era maggiorenne, non c'era dubbio, anche se di spalle assomigliava più ad un maschio di quindici anni…
Il resto del viaggio lo trascorse facendo la spola dal suo posto al gabinetto, sotto lo sguardo sempre più corrucciato delle hostess di turno (una aveva la fronte così stipata di rughe che sembrava un vecchio idolo azteco); l'alcool non l'aveva distolta dai sussulti di assestamento del volo, anzi; quella che prima era stata una men che piacevole scampagnata si era trasformata a poco a poco in un tour sull'ottovolante.
L'uomo con cui condivideva la fila, dapprima scettico, aveva cominciato a farsi estremamente premuroso: le chiedeva chi era, cosa la portava lì, perché non c'era nessuno ad accompagnarla…era per caso in viaggio studio?
Poi la moglie si svegliò e lui divenne improvvisamente muto.
E meno male, perché Magda aveva esaurito le scuse che aveva già prontamente rifilato un'infinità di volte ai vicini. Ogni notte o quasi lei…
Con un rombo che le fece avvitare il cuore, l'aereo prese ad abbassarsi.
Annunciata da un assordante ping!(fece un salto di mezzo metro e cozzò contro lo scomparto delle mascherine di ossigeno), la voce del comandante annunciò che avevano iniziato la discesa su Parigi.

"Ci auguriamo che il volo sia stato di vostro gradimento e vi aspettiamo presto sulle Linee Air France!"
Magda rivolse qualche silenziosa bestemmia all'altoparlante e si augurò che Dio non se la prendesse troppo; non era credente nel senso tradizionale della parola (in fondo, pochi lo sono davvero), e di certo non temeva di scatenare le ire dell'Onnipotente solo per aver accostato due sostantivi, ma l'idea di Dio aveva reclamato un cantuccio della sua coscienza da cui minacciava di non spostarsi fino alla prossima Apocalisse…Dio c'era nella sua mente, e questo era un motivo sufficiente per aver paura di sé stessa.
Ma stava divagando un'altra volta!
Afferrò lo zaino ciondolante, se lo mise in spalla e si affrettò a seguire gli altri passeggeri fuori dell'aereo.
Scorgere la sua figuretta pallida incespicare nei vapori della pista di atterraggio, alle cinque del mattino, suggeriva un che di sinistro: sembrava una prigioniera di guerra appena rilasciata da qualche remota regione dell'Afghanistan, con tutta quella sporcizia omogenea sul pigiama, le occhiaie incavate e l'andatura barcollante di chi ha appena subito una brutale violenza fisica.

Raggiunse l'area di ritiro dei bagagli implorando con ogni particella del suo animo di aver fatto le cose per bene. Le valigie iniziarono a scorrere sul nastro trasportatore: rossa, piccola, minacciosa; blu e verde, gigantesca, pacchiana; zebrata, plastificata, inguardabile; nera, taglia media, sobria…
Proprio quando stava cominciando a perdere la speranza, la vide: variopinta ma discreta, con piccoli motivi a spirale, impugnatura comoda. La sua valigia!

Ora che finalmente era riuscita a mettere insieme i pezzi quanto bastava, era il caso di preoccuparsi della situazione corrente: come ci era finita in quel posto? Lo sapeva.
O meglio, sapeva le modalità, ma non era affatto sicura della dinamica…Una ragazza normale avrebbe provato come minimo un moto di angoscia per la propria salute mentale; ma una ragazza normale non doveva nemmeno fare i conti con i problemi che aveva lei.
E nell'immediato, qualcosa di urgente da fare ce l'aveva (eccetto preoccuparsi, chiaro): doveva assolutamente darsi una ripulita e mettersi indosso abiti decenti.

Quando raggiunse il bagno, un ragazzo cortese dai lineamenti indiani la informò che occorrevano cinquanta centesimi per entrare. Frugò nello zainetto, ribaltò la valigia, ma non riuscì in alcun modo a rintracciare il portafoglio; possibile che il suo lato subcosciente fosse sbadato almeno quanto la controparte sveglia?
Si sedette sulla valigia, appoggiò la schiena al muro e si appisolò per qualche istante.

Sognò una grande ciotola di ceramica lavorata nel migliore stile proto-azteco, dal cui interno proveniva un rumore tintinnante. Si sporgeva appena un po', e scopriva una moneta da cinquanta centesimi, talmente grande da costituire di per sé stessa la parodia di uno spicciolo, che roteava con lentezza così esasperante da incutere timore reverenziale. Ad ogni giro, perdeva sempre più velocità, avvicinandosi inesorabilmente alla piatta superficie del pitale; tra una rotazione e l'altra, riusciva a scorgere sé stessa, minuscola, che ballava la danza del ventre agghindata con lustrini scintillanti, curvandosi ad ogni giro per evitare di venire travolta dalla forza di rotazione della moneta; di fianco a lei, un ragazzo dai lineamenti indiani ballava la danza dei Dervisci, il tipico copricapo a cono che vorticava furiosamente…

Si svegliò con un sussulto. Stringeva il pugno destro con tanta forza che la mano le bruciava.
La aprì, e scoprì di possedere un comune cinquantino – misteriosamente arroventato – nel palmo della mano. La moneta aveva inciso un debole segno rossiccio nella carne.
"Calmati…Chiunque avrebbe potuto perdere una moneta per terra…Io l'ho raccolta e…Occazzo!!"
Era seduta sopra una pila di monete da cinquanta alta mezzo metro. La valigia era appena accanto a lei.
"Ehi, tu!", disse rivolgendosi all'indiano, "Hai visto dove sono stata in questi minuti?".
Lui fece una risata morbida, leggermente forzata.
"Scusami, signorina, ma dove vai o cosa fai non è esattamente il primo dei miei problemi…(imprecazione indostana intraducibile)".
Il ragazzo sembrava essersi appena accorto, come lei del resto, della montagnola di soldi che si era apperentemente materializzata sotto il posteriore della ragazza.

L'addetto non si azzardò a fare domande, e per lei fu un bene, perché poté entrare e sistemarsi con cura in tutta tranquillità.
Sola davanti allo specchio illuminato dai neon, si scrutò per un minuto la faccia sporca per assicurarsi di essere lei e non un'altra. Poi si lavò i piedi, si tolse il pigiama e prelevò dalla non eccessivamente affollata valigia una gonnellina a balze blu lunga fino al ginocchio, una canottiera bianca pulita, e una giacchetta beige che si chiudeva poco sopra la vita. Ah, e naturalmente un paio di AllStars decorate con spray marrone noce e color crema.
Per un attimo, meditò sulla possibilità di rimanere lì in eterno. Era sempre stata attratta dal concetto di "universo in miniatura": in quel bagno spazioso e tiepidamente illuminato, non c'era odore o rumore che potesse raggiungerla dal mondo di fuori; era un luogo richiuso su se stesso, dunque era l'unico luogo possibile, se lei rimaneva lì…
Poi una donna elegante spalancò la porta e l'incanto si spezzò.
Rivolgendole un'occhiata malevola, Magda trascinò la sua valigia all'esterno e si scoprì a ridere controvoglia: invece che rubare i soldi – come lei aveva preventivato che facessero – le persone continuavano ad aggiungerne; forse pensavano che si trattasse di una qualche campagna di beneficenza, o chissà di quale altra diavoleria partorita dalla loro testa…Fatto sta che ad intervalli regolari un passante gettava una monetina da cinquanta nel mucchio.
Magda fece una piccola scorta di spiccioli e poi s'infilò in un bar, dove fece colazione con due caffè forti e un krapfen che tracimava dal piatto.
Infine si decise e comprò una scheda per le chiamate internazionali, raggiunse una cabina telefonica e digitò il numero del cellulare di suo padre.

Rispose a metà del secondo squillo. Non aveva un tono molto conciliante.
"Dove diavolo eri finita?! Ti ho cercata dappertutto in camera non c'eri ma in compenso sembrava che fosse appena passato un Katrina o che diavolo ho seguito delle impronte nel prato ma si fermavano al fiume allora ho pensato al peggio e ho chiamato la polizia è tutta la mattina che telefono ai vicini e interrogo i negozianti come un povero idiota e già due volte mi hanno mandato al diavolo e con uno ho quasi fatto a botte…"
"Calmati un attimo, d’accordo? Potrei non essere tua figlia. Potrei solo essere una delle tante carmelitane scalze che ti telefona per chiedere una donazione ai bambini del Rwanda"
"Non fare la spiritosa. Io so sempre quando è mia figlia"
"Allora non sono l'unica a possedere doti paranormali"
"Ma quali doti e doti! Tu passeggi scalza per il giardino una notte si e una no, e i vicini cominciano a dire che mia figlia è pazza!"
"Forse, se suo padre non si ubriacasse come un demente una notte si e una si, la figlia rimarrebbe sotto le coperte", disse Magda, ogni traccia di allegria scomparsa dalla voce.
"Non è questo il punto! T-tu sei malata, e io non voglio che gli altri si approfittino di te solo perché non vuoi farti curare…E al diavolo l'arte!, se è questo il motivo che ti spinge a perseverare col tuo squilibrio"
"Non sono una mentecatta, se è questo che vuoi dire. So tenere a bada i ragazzi invadenti, e non frequento cattive compagnie".
Poi aggiunse, in tono noncurante: "A proposito, in questo momento mi trovo all'aeroporto di Parigi. Mi accingo a visitare la città. Ti saluto".
E riappese.

Dopo circa dodici passi, un leggero umidore le invase gli occhi.

Qualche centinaio di chilometri oltre le Alpi, l'uomo guardò il display silenzioso del cellulare senza profferir parola. Qualche tempo dopo, appoggiò una mano sulla fronte e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

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Capitolo 3
*** Tavola Tre, Il Tortino Acido ***


Un venticello indifferente spolverava a intervalli irregolari le vie di Parigi.
Ormai si era alla fine dell'estate, e questo comportava meno caldo, più preoccupazioni e una discreta dose di opportunità. Per Magda la situazione appariva tanto più strana, perché non si sentiva né una turista né una fuggiasca, né in vacanza né in viaggio: era come se si fosse incastrata in una maglia dell'ingranaggio, e forse – a ben vedere – era proprio questo che le riusciva meglio: passare inosservata dove normalmente la presenza di un'altra avrebbe causato un certo rumore

"Quanto rumore per nulla", si disse tra sé e sé mentre avanzava nella folla come una rompighiaccio tra gli iceberg.
Di solito procedeva a passo spedito, sguardo fisso ed espressione decisa; ma per una che ha costantemente bisogno di una destinazione non era contemplabile ciondolare a vagola sciolta.
"Qual è la mia destinazione?", si chiese osservando i branchi impiega-teschi che brulicavano lungo la via centrale, ventiquattr'ore alla mano; i vecchietti dall'aria incazzata (quelli spocchiosi sono gli Inglesi) che compravano il pane e il latte, inacidendo il primo con il sudore che gli sgocciolava dalle ascelle; le ragazze, le giovani donne – chi assisa a far compere per la famiglia, chi per il proprio beautyconto – scanzonate, stilose, mascarate, gothettone, acqua e sapone…e poi artisti di strada, artigiani tristi, Armani armati di planimetrie, marcantoni muniti di architravi, e sbandati, drogati, strafatti, sciapi, depravati, svenduti, stempiati…
"Fanculo".

Se la sua strada era imbucarsi nella prima bagnarola di ostello che trovava e tirare a campare posando nuda nel Bois de Boulogne, che fosse pure! Non aveva una ragione precisa per affermarlo, ma era convinta che gli stupri boschivi fossero esclusivo appannaggio di Central Park, assieme agli Hot Dog, gli skateboard e tutte quelle cose che gli Europei avevano esportato, storpiandole, nel Nuovo Continente.

Come prima cosa, andò in una piccola libreria studentesca a comprare una cartina; non intendeva trascorrere più di una settimana nella ridente capitale, chiaro. Ciononostante, un pessimo senso dell'orientamento poteva fare più danni di un pilota d'aereo senza licenza, e lei lo sapeva bene.
Stava per andare a pagare, quando d'improvviso si ricordò che le occorreva anche un dizionario di francese; voltò la testa così d'impulso che urtò qualcosa di solido e vide le stelle.
Socchiudendo le palpebre che le lacrimavano per il dolore, scorse un ragazzo bruno, pressappoco alto come lei, che si massaggiava la fronte.
"Scusa", borbottò mentre lo aiutava a raccogliere i libri che gli erano caduti.
"Pas de problemes", bofonchiò in rimando lui guardandola appena.
Si rialzarono quasi contemporaneamente.
Gli occhi azzurro sbiadito del ragazzo incrociarono per un attimo quelli verde smeraldo di Magda, volarono poi sulle scarpe ritinteggiate e infine ripiegarono sui sottili tomi scuri.
"Tu es étrangère?", chiese lui.
"Ehmm…ui, je suì i-ta-liénn…Perdonné moi, me je don't parlé much de Francè…"
Il ragazzo scoppiò in una sincera risata.
"Ma va a quel paese!", pensò Magda esibendo un sorrisetto imbarazzato.
"Odio la Francia, i Francesi e quel loro nauseabondo idioma del cavolo…Adesso penserà che sono timida perché balbetto come una ritardata".
"Io parlo piuttosto bene l'italiano", disse lui provocandole una leggera sorpresa.
"Mia madre è italiana, perciò…", continuò, quasi in tono di scusa. Aveva uno sguardo buono, ma non del tutto sincero; c'era come qualcosa di troppo in quegli occhi screziati e profondi.
E comunque, perché diavolo stava attaccando bottone con lei? Nemmeno a chiederlo. Non sopportava che le persone, in special modo i giovani maschi, cercassero una scusa per imboscarsi. Si era sentita chiamare "paranoica", "sociofobica" e – ancor più divertente – "lesbica", a causa di questa sua riluttanza a scambiare qualunquistiche chiacchiere occasionali.
…Lui non aveva cercato nessuna scusa, questo era vero; era stata lei a urtarlo come una bufala impazzita.
A riprova del fatto che riconosceva il suo alibi come fondato, si trattenne dal mandarlo a usare la lingua per pulire i cessi e sbrigò le sue ultime commissioni.
Poi uscì dal negozio, lasciandolo ancora lì con la bocca semiaperta.

Diversi minuti dopo stava cercando assiduamente un alloggio: sarebbe stata una manna trovare un posticino economico vicino agli Champs Elisées, ma era un po' come cercare la pentola alla fine dell'arcobaleno.
Man mano che si aggirava per le bellezze storiche della città, nella sua testa prendeva forma un'idea che finora l'aveva sfiorata solo distrattamente: Parigi non le piaceva.
Era una metropoli rigida, dolce e nevrotica. Come una torta al limone preparata senza togliere la buccia ai limoni: strideva sotto i piedi e scaldava solo gli occhi.

Un numero imprecisato di ore più tardi, quando una stringa violacea stava cominciando a tingere il cielo e gli ultimi resti del kebab si erano ormai dissolti nel suo stomaco, trovò un posto che faceva al caso suo: un alberghetto incassato tra due palazzoni prepotenti, a mezza via tra i quartieri poveri abitati dalle minoranze e le lussureggianti casette del centro storico.
Un'insegna storta appesa all'entrata recitava: "Cul de sac".

I gradini e i rivestimenti erano di legno, come pure le pareti, il soffitto e le modeste seggiole accatastate all'entrata; tutto scricchiolava solo a guardarlo, proprio come a casa sua.
La padrona del posto, una donna in età dall'aria burbera vestita di uno sgargiante abito a fiori, si tirò su dalla sedia a dondolo per riceverla. Magda notò che, nonostante fosse molto bassa, doveva stare curva per evitare di sbattere la testa contro il sottoscala.
In qualche modo scoprì che la tariffa giornaliera era contrattabile, ma era così stanca che concluse presto la trattativa. Spesi i suoi ultimi centesimi, che la donna scaraventò con aria scettica in un cassetto seminascosto dal bancone, Magda prese la chiave della stanza 101 e si trascinò sulla rampa male illuminata.
Forse a causa del sonno che le ottundeva le palpebre, forse perché in quel posto qualcuno fumava erbe illecite, le parve che la salita non finisse mai; quell'ostello era imparentato con gli edifici di Escher: ogni spigolo portava in luoghi sempre più remoti, sfidando la razionalità, avviluppandosi in schemi solo apparentemente coerenti, per poi riapprodare al suo inizio per vie assolutamente non verificabili.
Anche il numero della stanza, 101, pareva inverosimile per un posto così piccolo.
"Forse ci sono solo cinque stanze, e la vecchia al piano terra le ha numerate a caso", meditò la ragazza in uno stato di vigile dormiveglia.

La porta della sua camera le si profilò innanzi dopo quelle che potevano essere due come venti svolte, unica e inconfondibile tra decine di pannelli di legno assolutamente vuoti.
Infilò la pesante chiave nella toppa, girò e venne accolta da un'oscurità che sapeva di muffa. Vizze lame di luce ammiccavano in un angolo, bianche e insignificanti e inutili attraverso le imposte scrostate.
Magda posò valigia e zaino, chiuse la porta e saggiò il bordo del letto con la punta del piede; poi vi si gettò a capofitto.
Mentre sprofondava tra le ruvide coperte, le suole delle sue scarpe impressero silenziosamente la cosmografia di Parigi sulle lenzuola: una mappa sensoriale, un repertorio di umori composto da cicche invecchiate, aliti di pozzanghere, gesso ingrigito, terra e sale ed erba e merda…

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Capitolo 4
*** Tavola Quattro, Lo Scorpione e la Bella ***


Era un sogno disgustoso, ma in qualche modo soddisfacente.
Stava distesa carponi tra le dune di un deserto opalescente, la cui sola vista bastava per farsi venire il mal di testa. Il cielo era giallognolo, come se il buon senso cromatico fosse emigrato verso lidi più scomodi.
Pazzesco quanto ogni dettaglio (non ce n'erano molti, a dire il vero) appariva nitido, vivido come neanche nella realtà. Persino l'aria odorava di…cannella?
Si inumidiva un dito e raggranellava una manciata di finissima sabbia verde. Se la portava alle labbra.
Sapeva di menta.
E poi?, di diceva. Scoprirò che le nuvole sono spumoni al caramello e le rose del deserto croccanti di cioccolata?
Uno scorpione nerissimo emergeva a pochi metri da lei, facendole fare un salto per la paura. Era corazzato, con l'armatura lucidissima e le tenaglie saettanti, che faceva scattare come un granchio.
Lei indietreggiava, con le ginocchia tremanti e le mani sudate.
Poi lo scorpione diceva: "
Parlez-vous Francais?".
Aveva una vocetta stridula e sciocca, da cabaret di quart'ordine.
Di colpo inviperita, gli tirava un calcione sul ventre morbido e piatto, l'unica zona non difesa dal carapace. Lo scorpione si ribaltava sul dorso strillando e agitandosi con frenesia comica, per poi perdere le sue fattezze mostruose e assumere i contorni di una piccola "A" nera.
Annusava la lettera con circospezione. Le dava un piccolo morso.
Liquirizia, pensava aggrottando le sopracciglia.
Risputate dal deserto, una ventina di lettere dell'alfabeto emergevano dalla sabbia e cominciavano a contorcersi come tanti feti inquieti.
L'abbuffata era stratosferica. Quando le aveva finite tutte, si accasciava sul morbido tappeto verdino e cominciava a rantolare per i crampi.
E di colpo vomitava delle stringhe nerastre che dapprima parevano partiture, ma no! In realtà erano frasi.
Lunghe, corte, appuntite, suadenti, pratiche, bellicose, civettuole…Si libravano nel cielo allo zenzero sbattendo le virgole come tanti pipistrelli.
Infine tornavano da lei, e la sommergevano.


La luce filtrava svogliata dalle tapparelle sbarrate. E dire che la notte prima era parsa così smaniosa di invadere la stanza! Erano brandelli di elettricità? Scaglie di luna?
"Ecco fatto", borbottò Magda con un crampo alla bocca dello stomaco, "Non so tenere a freno il cervello nemmeno quando mi sveglio".
Ora che la stanza le risultava parzialmente visibile, poté notare alcuni particolari che alla prima occhiata non spiccavano certo in primo piano: il soffitto era un coacervo di ragnatele; e, come da programma, di ragni. Ce n'era uno piccolo e malandrino che le camminava su un seno; tanti altri, dalle taglie svariate e con le zampe più o meno lunghe, facevano bungee-jumping dalle travi di castagno marcio alla punta del suo naso.
Si prevenne dal gridare, perché di certo nessuno sarebbe venuto a soccorrerla. Assieme agli aerei, i ragni erano un'altra delle sue paure ataviche. Fobia, questa, che condivideva con la corposa fascia di genere umano che non era ancora assurta allo stadio successivo dell'evoluzione.

Avvertì un odore pungente, e si guardò intorno cercando di individuarne la fonte. Insospettita, si annusò un'ascella. Quel tanfo proveniva da lei!
Con crescente orrore, si accorse che la sua canottiera era diventata tutta nera…evidentemente qualcuno l'aveva inzuppata in un bacile di inchiostro, perché al tatto era dura e lasciava macchie scure sulle mani.
Buttò un'occhiata distratta al pavimento e vide che era cosparso di innumerevoli trucioli di carta bianca. Si sollevavano al suo passaggio come fiocchi di neve.
In un angolo, il dizionario di Francese giaceva aperto, con tutte le pagine strappate, accartocciate o divelte in malo modo; la copertina spiccava in quel macello come una costola svuotata.
Sarebbe stato automatico pensare che uno sconosciuto si fosse introdotto nella stanza durante la notte, ma per Magda le cose non erano mai così facili.
Fece due più due; poi quattro più quattro. Pagine bianche, sminuzzate; due litri di inchiostro addosso; persino le coperte sono zuppe.
"Ma non avrò mica…?".
No, rifiutava categoricamente l'idea di aver mangiato il suo dizionario, perché la carta che lo componeva stava lì, sull'impiantito. Ma come si spiegava quell'inchiostro? Separare gli atomi durante il sonno non era esattamente quello che aveva sognato di fare da grande…

Siccome le implicazioni di quel caso erano davvero troppo controverse per essere delucidate, decise di darsi una bella lavata e di accantonare la cosa, per il momento.
E a proposito…Dove diavolo era la doccia?

Appoggiò timidamente un piede inciabattato fuori dalla porta della sua camera, e diede un rapido sguardo lungo il pianerottolo. In fondo al corridoio, una targhetta in finto oro indicava inequivocabilmente la scritta: "Servizi".
Era in francese, ma Magda non ci fece caso. Italiano e Francese derivano entrambi dal latino, considerò il suo cervello, dunque è facile per me capire il Francese. Ma il suo cervello non era al corrente dell'ultima rivoluzione-lampo che si era consumata a sua insaputa.
Si infilò oltre la porta con della biancheria e un vestito di ricambio. Il "bagno" consisteva in un unico stanzone con alcuni scuri posti sul lato lungo, una fila di lavabi, un paio di gabinetti schermati da buffi separé di canapa e una fila di docce piazzate in bella vista al centro del locale. C'era una piccola scanalatura nel pavimento piastrellato che delimitava l'area delle docce, un paio di grate per far defluire l'acqua e molto, molto vapore. L'acqua era aperta.
"Ma che razza di posto è questo?", si chiese Magda mordendosi le labbra, "Potrebbe benissimo darsi che li sotto ci sia un vecchio porco stagionato…che non aspetta altro che mettermi le mani addosso di prima mattina…o pomeriggio…o che accidenti è".
Una figura emerse velocemente dai vapori, spezzando le sue riflessioni: era una ragazza sui 24 anni, piuttosto scura di pelle, forse mulatta, con lunghi capelli neri corvini e il naso leggermente aquilino.
Le sorrise amichevolmente. Inutile precisare che era nuda.
Sebbene Magda sostenesse di non possedere un gran senso del pudore, quella situazione la metteva a disagio: non si era mai trovata in condizioni d'intimità insieme a una persona del suo stesso sesso.
"E nemmeno insieme a una persona dell'altro sesso!", si affrettò a precisare la sua memoria.
"Sorry if I scared you. I admit this isn't exactly the best place for washing yourself…"
Aveva occhi grandi e marroni, e un tono pratico e conciliante. Magda sentì subito che sarebbe andata d’accordo con lei.
"Freda, nice to meet you!".
"M-Magda…I…I've just 'rrived"
Si strinsero la mano. La ragazza aveva una presa forte e decisa, malgrado la corporatura esile.
"Come on, let's take these dirty clothes off!".
La aiutò a spogliarsi, mentre il vapore si diradava un po' e Magda si faceva sempre più colorita in zona guance.
Un po' riluttante, seguì la sua nuova amica sotto le docce; ma si sentì subito meglio quando il getto caldo le picchiettò la schiena. Il vapore le svuotava la mente da ogni pensiero sgradevole.
"Quando avrò un po' di tempo porterò quegli stracci in lavanderia, e poi mi farò un una bella passeggiata…".
Sussultò sentendo una pressione sulle scapole. Freda le stava insaponando le spalle.
"Let me help you. You don't have it, right?, aggiunse alludendo al sapone mentre le dava uno scherzoso buffetto sulla nuca.
Magda decise che quella ragazza era decisamente troppo invadente, ma non sembrava pericolosa. Finché il loro rapporto si manteneva su quella linea di spensierata affettuosità, sentiva di poterla sopportare; e comunque, cosa aveva da preoccuparsi? Era lontana da casa, era in vacanza…Se anche succedeva qualcosa un po' fuori dell'ordinario, avrebbe contribuito ad arricchire il suo bagaglio di esperienze.
Ma quali esperienze ed esperienze! Chi voleva prendere in giro? Se c'era qualcuno che non voleva sporcarsi le mani in attività morbose, quella era lei! Aveva già abbastanza problemi per la testa, il moralismo e il puritanesimo non c'entravano affatto…
Freda aveva cominciato a canticchiare.
Accettò che le lavasse i capelli, ma quando le sue mani cominciarono a strisciare paurosamente in zona capezzoli le afferrò le dita, le rivolse un sorriso cordiale e disse: "I'll finish by myself, thanks".
Mentre si rivestivano, la udì svogliatamente dire di non preoccuparsi: quel bagno era destinato solo alle signore.
"Meno male", osservò saggiamente Magda. "Se qui sono tutti come lei, figuriamoci cosa mi capiterebbe con un maschio".
Ma proprio in quel momento, una ragazza bionda entrò nello stanzone, rivolse loro un affettato cenno di saluto e si diresse alle docce. Si spogliò, mise i panni puliti sopra un separé…e poi tirò fuori un pannello scorrevole – con tanto di vetro smerigliato – da un incavo nel muro.
Freda la guardò con espressione colpevole, arrischiando appena un risolino ironico. Poi la salutò con calore e uscì.

Pulita, profumata di legno di sandalo e con i capelli castani, di solito mossi, appiattiti e spettinati sulla fronte, Magda si presentò in reception abbigliata con dei pratici jeans sbiaditi, corti al polpaccio, e una camicia giallina smanicata.
Scambiò alcune rapide frasi con la donna, che a quanto pareva non si era ancora destata dal torpore, ed uscì all'aperto dopo averle strappato la promessa che le avrebbe riservato la stanza.

Solo quando ebbe fatto duecento metri, si ricordò che la donna non sapeva una parola di italiano.
"Allora, sono stata io a parlare in francese?". Era un'ipotesi alquanto assurda, ma non dimostrabile in altro modo.
Nella sua lista delle ipotesi assurde, cominciò a prendere piede l'idea di aver imparato l'intero dizionario di francese durante la notte, comprese fraseologia e aforismi popolari.

Ci stava ancora pensando mentre si ingozzava di crepes in un caffè d'angolo, quando qualcosa vibrò nella sua tasca posteriore.
A quanto sembrava, era riuscita a portarsi dietro anche il cellulare.
Non le servì guardare il display per capire di chi si trattava.
"Accidenti, che tempismo", fu la prima cosa che disse.
"Veramente, ho cercato di chiamarti tutta la notte", rispose suo padre. "Mi hai fatto stare in pensiero".
Un moto di colpa le pervase lo stomaco.
"Papà…Senti, io non volevo farti prendere un colpo. Non me ne sono neanche accorta…"
"Lo so, tesoro. Credi che non conosca mia figlia? Ma è naturale che una ragazza voglia viaggiare, cambiare aria per un po'…"
"Ma…"
"Si, anche una sedentaria come te. Non è detto che tu debba andare per forza d’accordo con i compaesani – detto tra noi, mi faresti solo felice: quelli sono un branco di arricchiti presuntuosi teste di…"
"Papà?"
"Si?"
"Che cosa pensi di fare? Con me?"
"Bè, suppongo che farti tornare indietro subito sarebbe da scemi…Ti sei iscritta a Lettere e Filosofia due mesi fa, ma le lezioni non sono ancora cominciate. Perciò…"
"Perciò?"
"…Non dovrebbe essere un problema se resti a Parigi qualche giorno"
"Wow, dici sul serio?!"
"Telefonare da Sossano costa, non posso permettermi di perdere tempo con gli scherzi"
"Grazie, papà, ti prometto che quando torno laverò i piatti per un mese!"
"Si, certo…Pensiamo piuttosto alle faccende pratiche: avrai bisogno di soldi"
Magda si ricordò improvvisamente che aveva esaurito i cinquantini. Un panico formicolante cominciò a sobbollirle in corpo. Avrebbe voluto non mangiare così tante crepes.
"Ti spedisco un po' di contante, quanto basta perché tu sopravviva nelle prossime 72 ore. Spero tu abbia la PostePay"
Magda tirò un sospiro di sollievo.
"Papà, sei un…"
"Sono un coglione, ma sto facendo del mio meglio per non viziare mia figlia, come fanno tutti i padri divorziati"
"… Allora ci sentiamo presto, ti chiamo io"
"Evita le grane con la polizia. Ciao".

La proprietaria del caffè la guardò con piglio materno quando pagò l'abbondante colazione che aveva ordinato tanto rumorosamente.

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Capitolo 5
*** Tavola Cinque, Io Odio L'Arte! ***


Ora che non doveva più preoccuparsi delle sue finanze, Magda aveva una diversa opinione di Parigi. Buffo come dei semplici quadrangoli di carta possano stravolgere la condizione emotiva delle persone, persino di una sognatrice schizofrenica e dissociata come lei.

Rintracciò un giornalaio e comprò un quotidiano locale. Mentre marciava per stradine sottili e poco frequentate, appena solcate dagli ultimi riflettori estivi, la sua mascella si abbassò fino a raggiungere un'apertura di dimensioni preoccupanti: ingoiò una sfortunata mosca che passava di lì e la richiuse.
"Il pranzo è servito, cucina macrobiotica d'oltralpe", pensò mezzo divertita mezzo nauseata.
Poi tornò alla sua lettura. Era stupefacente: per una frazione di secondo, le lettere stampate sulla pagina formavano parole in francese, com'era giusto che fosse. Subito dopo mutavano: sparpagliandosi sulla carta come tanti insetti dispettosi, apparentemente deprivate della terza dimensione, cambiavano assetto e quello che prima era francese ora era italiano.
I testi erano coerenti, non come quelli propinati dal traduttore automatico di Google.

"Accesso facilitato", disse Magda ad alta voce.
Girato l'angolo andò a sbattere contro quella che sembrava un'otaria impellicciata, che si rivelò essere una signora prossima alla quarta età con un discutibile gusto per l'abbigliamento.
"Ma perché devo essere sempre così goffa?"
Balbettò una scusa e poi le venne un'idea. Se doveva chiederlo a qualcuno, meglio a quella donna che a un questore.
"Mi perdoni…Questo giornale è scritto in italiano?"
La vecchia la squadrò attraverso le lenti a specchio, sembrò decidere un momento il da farsi e poi sbottò:
"Mi prendi in giro, signorina? Non sai nemmeno riconoscere la tua lingua?"
"Certo, certo che si, ma…mi chiedevo", aggiunse, sempre più imbarazzata, "secondo lei io mi…mi esprimo correttamente?"
"Direi proprio di si. Hai un accento perfetto, senza nemmeno una traccia di inflessioni dialettali: si direbbe che parli come un libro stampato"
"Oh…Grazie".
La vecchia girò sui tacchi borbottando qualcosa sui giovani d'oggi e sull'uso improprio delle droghe.

Magda si fermò davanti a una vetrina di articoli d'abbigliamento – novelle vague demodé, underage lolita et similia. Guardò con attenzione il suo volto spettrale riflesso nella cornice trasparente, e provò a sillabare la parola "scimitarra".
"Cimeterre", le uscì di bocca. Bizzarro.
Dentro la sua testa le parole venivano formulate nella lingua madre, ma quando le affioravano alle labbra, le pronunciava nella variante d'oltralpe.
"Di' qualcosa in italiano", si schernì.
"Cazzo!"

Due secondi dopo dovette battersela perché il proprietario veniva verso di lei con aria molto minacciosa.

L'arco di Trionfo spiccava al di là di una corolla di edifici macilenti, imponente e ponderato e rassicurante nella sua armoniosa compostezza.
"Dunque non è la realtà che mi sta giocando scherzi strani…Sono io che sto impazzendo! Bella consolazione.
Lo sai che non è vero", si intromise una vocina dentro la sua testa.
"Stai modificando la realtà intorno a te grazie alla forza dei tuoi desideri"
"Desideri? C'è una bella differenza tra ciò che è utile e ciò che è solo sognato! E tra parentesi, non credo di possedere chissà quali poteri magici: sto semplicemente andando alla deriva, e il mio cervello si opera perché tutto rimanga allegro e piacevole e insospettabile prima dell'imminente crack!".
"Il tuo viaggio fin qui, i luoghi che hai visitato e le persone che hai incontrato…tutto questo lo definisci "andare alla deriva?"
"Dico solo che diventare un'esperta di francese nel giro di una notte non è esattamente ciò che definirei "un'attività sana"! Potrei fondere, che ne so…perdere la cognizione della realtà! Non è affatto comune per un normale essere umano incorporare duecentomila termini e poi…espettorarli"
"Il fatto che non sia comune non significa che sia impossibile"

Magda tirò un lungo sospiro e segregò quella voce in un angolo della mente: non si era mai confidata apertamente con nessuno riguardo lo strano fenomeno che la coglieva durante il sonno. Nemmeno con suo padre, che pure un paio di volte l'aveva agguantata prima che si gettasse in un pozzo profondo mezzo miglio (nel suo sogno, andava a ripescare un opale che aveva perduto nel ventre di una balena; grazie a quell'opale, avrebbe potuto impedire al suo seno di crescere. Alla fine l'aveva conquistato, ma il suo potere si era sensibilmente indebolito: il seno le era rimasto piccolo, in compenso il resto del corpo era cresciuto).
…Figurarsi se si fosse confidata con sé stessa! Meno ne sapeva di quella storia, più a lungo avrebbe vissuto.
Sulla scia di queste ultime riflessioni, si lasciò trasportare dalla marea di persone che confluivano verso l'arco e qui vi scoprì tre cose: il monumento era stato recintato con delle disgustose transenne rosso cadmio; un volto dall'aria prematuramente sciapita la scrutava da un manifesto affisso alla porticina d'entrata; si stava tenendo una mostra di quadri.
Cercava disperatamente un contatto con il mondo artistico francese? Voleva assicurarsi che il suo soggiorno a Parigi non fosse una totale perdita di tempo? Sperava di incontrare qualche persona interessante?
La risposta a queste tre domande era unanimemente si. Quindi fendette la marea ed entrò.

La saletta era stata allestita in modo semplice ma accuratamente ponderato. Una luce dorata filtrava debolmente dagli abbaini, conferendo al luogo un che di crepuscolo perenne; nell'aria si avvertiva un profumo sottile, come di cantina preziosa, o tempera disseccata, o forse era solo un'essenza alla lavanda…
L'accesso al piano di sopra era stato sbarrato, dunque la mostra constava di poco più di 100 metri cubi. Magda si chiese perché uno spazio così importante, di solito destinato ad ospitare articoli da museo, fosse stato messo a disposizione di un pittore – seppure molto in vista e cospicuamente ricco come di certo doveva essere.
La mostra consisteva di una dozzina di cornici di varie misure; le persone presenti in sala erano anche meno. Un ometto basso con l'aria ristagnante da critico si dondolava in un angolo, fissando il dipinto più grande come se volesse squartarlo; un paio di giovani donne molto a la mode facevano la spola da un capo all'altro della sala, gettando occhiate furtive a destra e a manca; un anziano annoiato; un pregevole dandy di città…
Ma cosa rappresentavano i quadri? Magda, in futuro, se lo sarebbe chiesto e richiesto con insistenza ossessiva: non erano astratti, né cubisti né tantomeno surrealisti. La cura maniacale con cui erano stati dipinti suggeriva una predilezione per la maniera classica, o neoclassica, ma c'era molto, molto di più: pioggerelline fitte di colore fosforescente, colate acide e sulfuree, pozzi e mangiatoie e calcinacci di pigmenti variopinti. A tratti ricordava gli ultimi lavori di Monet, a tratti pareva Turner – solo che, come e molto più di quest'ultimo, si faticava a comprendere quali fossero i soggetti.
Un'indefinitezza assurdamente delineata, come le città dei racconti di Lovecraft.
Se l'intento era di rivisitare le angosce espressioniste, il misterioso autore c'era indubbiamente riuscito: si veniva presi dall'angoscia di capire se quella roba fosse espressionista o se invece si trattasse di paesaggi in cui il doppio intento di rappresentare e di trascendere si annullavano a vicenda, senza averne la coscienza.
"Che gliene pare?".
Il dandy le si era avvicinato silenziosamente, tanto che Magda sussultò. Aveva ancora quelle immagini vivide stampigliate sulle pupille.
"Sono diversi da qualunque cosa abbia mai visto", disse in tutta sincerità.
"Mi sembra naturale. Ogni cosa è diversa dal resto"
Lei si accigliò. Dubitava che quell'uomo fosse tanto stupido da aver frainteso il significato delle sue parole; chissà perché, aveva un'aria familiare.
"Dopotutto, non è del tutto inesatto affermare che le sue intenzioni siano…anti-artistiche", proseguì lui guardandola di sottecchi.
"L'ha visto il titolo della mostra?". Accennò ad uno striscione rosso appeso sopra l'entrata.
"L'ARTE MI VA DI TRAVERSO", recitavano le grandi lettere cubitali.
"L'ho notato solo ora", disse Magda con un lieve senso di incredulità.
L'uomo si grattò il capo.
"Lo dicevo, a Jean-Pierre, che bisognava metterlo più in luce, altrimenti metà del senso va perso!"
"Scusi…ma lei ha qualcosa a che fare con l'allestimento?"
"Se ho qualcosa a che fare con…? Direi proprio di si: questa roba l'ho dipinta io!"
Magda vacillò un momento, ma si riprese in fretta:
"Bé, mi sembra decisamente scorretto arrivarmi alle spalle senza presentarsi e parlare di sé stesso in terza persona!"
"C'è la mia foto all'entrata"
"Anche quella è in penombra! Come se lei non volesse farsi riconoscere…Che cos'è, la spaventano i critici?"
"Sei una ragazza combattiva e passionale, e hai anche un discreto gusto nel vestire…Ricominciamo da capo: il mio nome è Auguste Tulemònd, tanto piacere!"
"C-come?"
Quell'uomo era spiazzante oltre ogni dire. Aveva la sensazione che fosse abituato ad allestire incontri all'apparenza casuali – come quello che aveva appena vissuto – per raggranellare consensi (o, perché no, ammiratrici) e stringere "improvvisate" amicizie.
"Magda Mapiz"
"Oho…"
"Senta", interloquì per non dargli il tempo di ribattere, "cosa diceva? Sugli intenti anti-artistici?"
"Sono lusingato che tu me lo chieda! Ad ogni buon conto, mi pare ovvio che l'arte come noi la conosciamo sta andando in disfacimento, e l'unico modo per farla rinascere è smantellarla con uno strappo secco. I contemporanei se ne fregano, non ammettono la loro mediocrità e si arrampicano sugli specchi: parodie oscene della memoria storica, stilizzazioni statiche e sterilizzate, allestimenti fedifraghi da scuola materna stuccati con rigurgiti di belle epoque ridotta a portachiavi…Per questo parlo di me in terza persona: io ne sono fuori, altrimenti ne rimarrei segnato.
Questa gente", disse abbracciando con un gesto teatrale le donne, il critico, l'anziano e una coppia che era appena entrata, "non fanno che pensare a una definizione da attribuirmi. Se sono in due o in tre, parlano d'arte, ne discutono, scavano i miei lavori con i loro concetti. È l'insulto più grande che si possa muovere a un artista, parlare del suo lavoro"
Era innovativo, di sicuro non dadà, perché faceva sul serio. Ma era anche un po' pazzo.
"Scusi, ma come pretende che le sue opere acquisiscano ragione d'esistere, se non se ne parla?"
"Eccolo il punto! Come se ne parla. Il giudizio lasciamolo ai critici, quelli sono una specie dannata. Io odio la parola "arte" in quanto è una definizione di cui si sono appropriati a danno di tutti gli artisti, che dilaga come un germe anche tra la gente comune! Di': cosa ne pensi di questo quadro?"
Magda si premette l'indice sul labbro.
Poi disse: "Mi da la nausea, e il capogiro. Suscita qualcosa che sta a metà tra il rimpianto e la nostalgia, una nostalgia che però non mi appartiene. È ammaliante, ma ruffiano"
"Il tuo primo giudizio è l'unico che io sia disposto ad accettare. Il secondo è afflitto da astinenza di riferimenti concettuali. Il terzo non mi riguarda affatto"

Magda stava per ribattere, ma lui le mise un biglietto da visita in mano.
"Ti dirò una cosa che prima non sapevi: io dirigo una scuola, una scuola d'arte. Forse l'unica scuola d'arte che valga la pena di definire tale ("Quale modestia", pensò lei con un ghigno). Vieni a farci una visita, quando hai tempo. La selezione degli studenti è molto severa, e occorre affrontare una prova abbastanza impegnativa per essere ammessi. Ma tu avresti buone possibilità di superarla."
"In cosa consiste la prova?", volle chiedere Magda.
"L'hai appena sostenuta", rispose lui.

Lasciò l'Arco di Trionfo con la sensazione che qualcuno, lassù, si stesse divertendo alle sue spalle. Il volto del pittore si rifiutava di uscirle dalla mente: fronte spaziosa, radi capelli castani, zigomi pronunciati, appena un accenno di barba e baffi…gli occhiali dalle lenti minuscole, la bocca sempre indecisa tra il sorriso e una smorfia vaga.
Sapeva che ci sarebbe andata, ma non riusciva a spiegarsi perché, dato che quell'uomo le ispirava una profonda, quasi intima, antipatia.

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Capitolo 6
*** Tavola Sei, Le Pulizie d'Autunno ***


Quella sera, prima di mettersi a letto, Magda respirava con rinnovata intensità l'aroma di casa.
La stanza ora risultava pagata per una settimana, e le rimanevano giusto i soldi per…Bé, per sopravvivere; affidandosi alla sua proverbiale oculatezza spartana, come no.
Ma l'importante è che i suoi quattro vestiti fossero appesi nel tarlato guardaroba, che nell'aria aleggiasse il suo profumo (niente di che, davvero: spiccava tra i miasmi di polvere come un mazzetto di calendule accanto a un cadavere). Aveva persino provato a far sloggiare i ragni con un'appassionata campagna di pulizia e disinfestazione, ma per qualche misteriosa ragione quelli tornavano nello spazio di un'ora, drogati di spray e sempre più audaci nei loro tuffi, tanto da risultare quasi rumorosi – per quanto rumoroso possa essere un aracnide.

Spense la luce, sprimacciò il cuscino e guardò per un momento le travi del soffitto, rese bluastre dal colore della notte che tracimava dalla finestra. Il riverbero della notte prima era sparito.
Si chiese su dove si affacciasse realmente quella finestra: gli scuri erano incollati, e non lasciavano filtrare altro che luce e oscurità.
Poi le venne un moto di panico: mille pensieri le si affannavano nel cervello, e su tutti troneggiava, elusivo e sibillino, il ricordo della mostra vista in tarda mattinata.
"Mi auguro con tutto il cuore che quei quadri non possedessero la…che ne so, la capacità intrinseca di sovrastimolare l'immaginazione. Accidenti a me, parlo come una strizzacervelli del ramo onirico…
Sul serio, comunque: potrei dare di stomaco a tinte forti, se questa notte mi toccasse una gita bonus"

Ma aveva scandagliato con sufficiente precisione la paura (inespressa) che nutriva per le opere di Tulemond.
E dunque non sognò i suoi quadri.

Si risvegliò con le coperte che la avvolgevano come una placenta.
Le servirono parecchi istanti per rendersi conto di dove si trovava:
"È la mia stanza, la mia stanza al
Cul de Sac"
Albeggiava.
"Amica mia", disse una voce che ben conosceva, ma che non mancò di farla trasalire.
"Sono contenta che tu sia venuta a trovarmi".
Freda uscì da sotto le coperte, un po' madonna nera, un po' babau, e vagamente ragnesca.
"Mi hai fatto prendere un colpo!", ansimò Magda. "Ti spiace…uscire dal mio letto?"
"Che peccato", mugolò Freda, "si stava così bene, dentro la tua pancia".
Magda si prese un capello tra pollice e indice e diede un leggero strappo. Faceva male.
"Ok, qui c'è chiaramente qualcosa che non va", disse la ragazza, "Prima di tutto spiegami come mai parli italiano e non inglese…poi", proseguì mentre quella ridacchiava sotto i baffi, "potremo passare alla seconda domanda: chi sarebbe andata a trovare chi? Questa è la mia stanza. Io non mi sono…mossa…da lì? O da qui?"
"Lo stai facendo di nuovo", disse Freda.
"Che cosa?", chiese Magda in un sussurro.
"Questo", ed estrasse un piccolo dizionario consunto "inglese-italiano".
"No!", strillò Magda, disperata, "io…io…non ho mai comprato quel dizionario, altrimenti me ne ricorderei!"
"Infatti, non l'hai comprato", disse Freda in tono rassicurante.
"Un momento! Tu come fai a sapere cosa succede nella mia testa? Chi sei in realtà?"
"Ed eccoci all'altro problema…", ribadì Freda ancheggiando intorno al letto. Magda notò che indossava un pareo color del corallo, che faceva a pugni con la carnagione della ragazza ma si sposava alla perfezione con il buio.
"Io sono una parte di te, e nello specifico: sono quella parte che si arrovella e si strugge e si compiange pensando alla ragazza dei bagni"
"Wait, aspetta un attimo…Allora questo è un sogno?"
"Bingo. PP numero 1!"
"PP?"
"Proprietà Passeggera numero 1. Se preferisci, potremmo definirla "paranormale", ma suonerebbe forzato e fuori tema".
Freda premette un interruttore da cui si dipanava un sottile filo bianco, e sbiadite diapositive iniziarono a scorrere sulla parete di fronte al letto: Akira, Galerians, Matilda con Danny de Vito…
"Tutta roba di fantascienza, a conti fatti.
Se dovessi paragonare il tuo caso ad un'opera di fantasia, direi piuttosto "L'arte del Sogno", o anche "A scanner darkly"…ma quel libro è frutto di una mente paranoica, e tu sei troppo selvaggia per farti imbrigliare dalle manie di persecuzione"
"Dunque…sto sognando?"
Freda scoppiò in una risata.
"È proprio vero che sono una parte di te! In caso contrario, non avrei divagato così a lungo…Si, cara, tu – per modo di dire – stai sognando. E questa è la prima Proprietà Passeggera dei sognatori"
Magda fece una faccia a punto interrogativo.
"Avanti, lo sai anche tu! Molte persone riescono ad acquisire la coscienza di trovarsi in un sogno
durante il sogno stesso; ma il tuo caso è diverso: te ne ho dato io la conferma, io che sono solo uno scampolo astratto del tuo sogno. Sei come quel pittore: lui odia l'arte; tu…è quasi come se volessi dire a te stessa: cogito est terribilis, mediante il pensiero, però. Che tragedia"
"Non voglio parlare del pittore. Perché sei qui?"
Freda fece un sorriso spaventosamente largo.
"Quello che avverrà stanotte farà da preludio ad un evento molto importante della tua vita…Io sono qui solo per istruirti. E per distrarti dal tuo vero obiettivo, quello che in parte ti rifiuti di definire tuo"
Magda cominciò a tremare impercettibilmente.
"Che cosa significa? Io sono qui, sto sognando, ma sono qui"
"Proprietà Passeggera numero due", ridacchiò Freda. "La tua testa dice una cosa, il tuo corpo ne fa un'altra. Sono i principi della schizofrenia, perciò comincia a preoccuparti"
"Tu non mi piaci. Non ti sopporto!"
"Eppure ho il volto di quella ragazza, qualcosa vorrà pur dire. Probabilmente soffri di un complesso di inferiorità nei suoi confronti, perché la consideri più matura, più audace e più felice di te. Si chiama invidia, tesoro"
"Felice?", sputacchiò Magda, "se essere maturi significa girovagare per il mondo tocchignando sconosciuti nei bagni, mi tengo la mia innocenza puerile, grazie! Lo trovo deprimente, ed è per questo che mi spaventa"
Freda si sedette sul pavimento e abbassò il capo. Le si vedevano solo i capelli.
"Che giorno è oggi?", chiese in un tono di voce impercettibile.
"L'undici settembre", rispose Magda senza neanche chiedersi come lo sapeva.
"Gli americani cominciano la Guerra del Golfo nel '91, e finisce ufficialmente non si sa quando…forse nel 2001, quando le tensioni tra la famiglia Bush e la famiglia Laden sembrano aver raggiunto uno stallo; ma a quel punto un attentato scandisce l'inizio di una nuova guerra, o forse di una nuova fase…strano, no? Potrebbe durare altri dieci anni, e concludersi nel 2011. L'anno successivo, il 2012, secondo i Maya segnerà la fine del mondo…"
"Basta con le cazzate, lo so che stai cercando di sviarmi"
Freda alzò lo sguardo, un'espressione da invasata negli occhi.
"Stiamo scalando la Torre di Babele, perché solo noi siamo i depositari della Terza Proprietà, rara tra le molte, indispensabile per assurgere al Bodhisattva dei Dormienti. Stanotte, noi verificheremo fino a che punto sei pazza"
Magda cercò di tirarsi su, ma scoprì di avere le caviglie incatenate da una maglia di serpenti vivi.
Cosa stava succedendo nel mondo reale, fuori da lì, mentre lei era impegnata a parlare con quell'emissario così scomodo e bellicoso inviatale da sé stessa? Al piano di sopra, aveva detto Freda, stavano scalando la Torre di Babele. Probabilmente si trattava di un processo simile a quello operato con il dizionario di Francese, ma di entità molto più contenuta: il suo cervello si limitava a stilare un modello linguistico adoperando solo gli strumenti già in suo possesso, e non un intero dizionario.
Ma il suo corpo (in)cosciente? Che cosa avrebbe combinato? Già si vedeva, a concedersi a quell'uomo orribile…
Pedante è il termine giusto, cara…Tu sei pedante…Ma se non sai nemmeno cosa significa, pedante…Si che lo so, se la nostra conoscenza è in comune…Potremmo avere un'opinione differente al riguardo…
"Terza e Quarta Proprietà", disse Freda, che si era seduta sul bordo del letto.
"Non solo
pensi durante il tuo sogno, ma ti contraddici senza avere bisogno di una proiezione astratta"
"Sono…stanca…", disse Magda, e si addormentò. E sognò.

Questa volta era davvero nella sua stanza. O meglio, era nella stanza che le apparteneva da quando era nata: era a casa sua.
Doveva essersi appisolata davanti al pc. Lo schermo buio taceva, immobile, attraversato da un rassicurante ronzio.
Dietro la porta, suo padre camminava ossessivamente avanti e indietro, avanti e indietro. Ne sentiva i passi.
Magda toccò dolcemente il mouse, curiosa di vedere cosa stava leggendo, e lo schermo si illuminò di una luce abbacinante.
Al centro della pagina, scritto in grandi lettere curve blu elettrico, campeggiava un nome:

LAWRENCETWOSOMETIME

Magda si risvegliò nel suo letto.
"Ho…avuto un incubo"
"Proprietà Passeggera numero cinque. Sono questi cinque talenti che ti permettono di attraversare la barriera che divide il reale dal sognato", spiegò Freda.
"Tutto ciò che fai è lasciare che i tuoi desideri inespressi scorrazzino liberamente per il mondo della percezione…Tu ne sei vassallo e portatrice, volontà inestinguibile e schiava. Quella che operi in stato di dormiveglia è una colossale beffa alla conoscenza sensibile…
"Non capisco più niente"
"Ci credo: tu sei soggetta alla stanchezza; io vivo di speculazioni"
"Chi è LawrenceTwosomeTime?"
"Non ne sono sicura nemmeno io…ma sono cose di cui è meglio non impicciarsi, sono troppo grandi persino per noi". Freda le posò un bacio sulla guancia.
"Tutto quello che posso dirti è che vivete sulla stessa lunghezza d'onda, tu e lui. Con l'unica differenza che lui scrive consapevole della sua finzione…e tu vivi prendendoti troppo sul serio"

Freda si alzò, andò alla porta e la spalancò.
Dalla penombra filtrava un mugugnare di ingranaggi.
"Non eri tu quella che desiderava un mondo infinitesimale e inconoscibile, costruito solo per te? Non eri tu che sognavi grandi foreste di cartone, foreste vive, in cui gli umani non erano altro che insetti e i dirigibili giocattoli, e tu passeggiavi in una radura di due metri quadri sulle note di un jingle pubblicitario?
Gioisci, perché non c'è mondo più inconoscibile di questo", disse Freda. Poi sparì oltre la porta.
Subito dopo però riapparve il suo volto, e aggiunse:
"Ancora una cosa. Non aspettarti chissà quali meraviglie, o chissà quali tragedie. Di sicuro domani avrai una sorpresa, ma sarà adeguatamente proporzionata alle dimensioni del mondo che ti circonda"

Magda sollevò una palpebra.
Poi l'altra.

Il sole le sbocconcellava gli occhi attraverso gli infissi, e lei non ricordava nulla del sogno della notte prima.
Misura preventiva, non ricordare, si disse ancora in dormiveglia. Si rischia di dubitare.
"Dubito di non aver bevuto due litri di birra cinese, ieri sera"

Trentaquattro minuti dopo, quando scese al pianterreno, la vecchia del bancone la richiamò.
"C'è una lettera per te, signorina"
Magda la prese stando bene attenta a non sbirciare il mittente, l'aprì con mani tremanti e lesse.
"Oddio"

Aveva appena vinto una borsa di studio all'estero per studiare Conservazione dei Beni Culturali. A Parigi.

Chi glielo diceva, adesso, a papà?

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Capitolo 7
*** Tavola Sette, Il Paradiso Ritrovato ***


"In che senso, una borsa di studio?"
"Hai presente, papà, quelle che servono a studiare…"
"E come…quando l'avresti vinta?"
"Circa cinque minuti fa.
Non credere che per me non sia stata una sorpresa, c'è mancato poco che mi slogassi la mascella…Fatto sta che ora ho la possibilità di studiare per un anno a Parigi; ferie pagate, diciamo. Anzi no, più che altro una vacanza studio. Più studio che vacanza, eh. Non sono adatta a fare la turista, preferisco guardare le cose da lontano"
"Insomma, hai già deciso. Hai la pietà di mettermi al corrente dei tuoi progetti, e poi ognuno per la sua strada, giusto?"
"No, papà, frena…"
"Tranquilla, ci sono abituato. Va così ogni volta che abbasso la guardia: mi fermo un secondo a controllare che sia tutto come l'avevo lasciato, e tu ti sei già presa il braccio"
"Non ho deciso un bel niente, piantala di fare il tragico. Volevo un tuo parere, ecco perché ti ho chiamato"
"È un compito ingrato quello che mi chiedi, lo sai? Darti una mano a ingoiare il rimorso, voglio dire. Tu sai perfettamente quello che vuoi; ti serve solo una spinta favorevole"
"Questo…non è del tutto sbagliato.
Ma mi vorresti biasimare? Non capita tutti i giorni un'occasione del genere, sai. In Italia non ho nulla da fare, non mi sono lasciata alle spalle un bel niente. A parte te, certo"
"Tch…! Se potessi, mollerei tutto anch'io. Ma ho un lavoro, e i soldi servono a me almeno quanto a te"
"Hai detto bene, il tuo è solo un lavoro: non è una professione"
"Sei particolarmente insolente, stamattina, lo sai? Più del solito, dico"
"Lo dico per te, papà. Architetto delle case popolari; progettista di garage…Sarà anche un traguardo nel campo che ti sei scelto, ma non è quello che volevi diventare. Lo sai che è solo un ripiego: potresti mollare in qualsiasi momento e riprendere il sentiero che abbandonasti in gioventù"
"Non trasformiamo la mia vita pubblica in una parabola induista, prego"
"Va bene, allora rispondi a questa domanda: secondo te, perché ho deciso di seguire Conservazione dei Beni Culturali?"
"Per assicurarti un futuro"
"Per far contento te.
È la specializzazione più vicina a ciò che mi interessa da sempre…"
"Scenografia e design"
"Vedo che te ne ricordi. Ma io li guarderò solo da lontano, perché farò l'analista d'arte, la scienziata dei materiali, la storica dei colpi di genio. Esaltante come l'inferno può esserlo per un masochista"
"Senti, ne abbiamo già discusso. Io ho commesso degli errori, e…"
"Non vuoi lasciarmi commettere i miei, certo.
Quindi ecco il mio verdetto: meglio a Parigi che a Venezia"
"Strano. È la stessa cosa che hai detto prima di trascinarmi lì"
"Prego?"
"Due mesi fa, quando siamo andati a Parigi"
"…"
"Che hai, il gatto ti ha mangiato la lingua?"
"Io e te siamo stati a Parigi?"
"Bé, direi proprio di si. Ti ho accompagnato a sostenere quell'esame per studenti stranieri, sai, quello per la borsa di studio. Avrebbero dovuto informarci un mese fa, dunque pensavo che i giochi fossero fatti, che non ti avessero ammesso…
Tu, piuttosto, durante il viaggio eri sempre a una spanna da terra: non guardavi mai nessuno negli occhi, rispondevi a monosillabi. E quando siamo tornati, non ne hai più fatto parola. Nemmeno una volta. Sospettavo che per te rappresentasse un ricordo sgradevole, anche se non capisco bene perché.
In ogni caso, ero convinto che volessi dimenticarlo"
"Io…io l'ho dimenticato.
Anzi: non l'ho mai saputo. Non ero cosciente mentre ho sostenuto quella prova; e nemmeno durante il viaggio di ritorno.
Si…non c'è altra spiegazione"
"Tesoro?"
"Mm?"
"Stai cominciando a farmi preoccupare"
"Non è una novità, pa'"
"…
Facciamo così: ti chiamo io tra un po' di tempo; giusto una pausa per…rimettere in ordine i pensieri. Va bene?"
"Ok"
"Stai bene, e non fare brutti sogni"

Magda si chiese a quale unità di misura corrispondeva "Un po' di tempo": di certo, "Rimettere in ordine i pensieri" era una metafora che alludeva alla vecchia sbornia dopo pasto di papà.
Non diventava violento quando beveva; solo, era particolarmente tardo e melanconico, e parlava male della gente come se quelli potessero sentirlo. Abbastanza pietoso, per un uomo in buona salute e con una bella casa.
Parliamo di me, piuttosto, disse a sé stessa. Mi aspettavo di ritrovarmi iscritta a quella a scuola d'arte, o magari di svegliarmi nel letto del pittore…anche comparire in cima alla Torre Eiffel non sarebbe stata una gran sorpresa. Ma questo
Da dove è saltato fuori il viaggio che avrei fatto due mesi fa?

Mordendosi le labbra, seduta a gambe incrociate sul suo letto sprofondante, chiuse gli occhi nel riverbero della luce mattutina e pensò:
"Se la mia vita diventasse un romanzo, una storia scritta da qualcuno…questo sarebbe un bel colpo di scena: quel furbetto dell'autore avrebbe omesso di proposito un particolare cruciale, adducendo la scusa della perdita di memoria della protagonista.
Già: se se ne scorda Magda, se ne scorda anche il narratore. Un bell'esperimento di meta-linguaggio"
Si alzò barcollando e andò nel bagno a sciacquarsi la faccia.
"Ma che idiozia", pensò mentre il volto le si costellava di goccioline perlate, "tra un po' comincerò davvero a parlare di me in terza persona".

Giunse il tardo pomeriggio, e il sole aveva smesso da tempo di despotizzare le strade parigine. Una calura gravida, da temporale incombente, ammantava i sobborghi rabberciati dalle ombre; un sospetto di nuvole gelide persisteva all'orizzonte, come tanti brufoli in attesa di scoppiare.
Magda si decise a visitare la sede dell'Università, dato che con tutta probabilità vi avrebbe trascorso un anno della propria vita. Era parecchio distante dal centro, ma con il suo passo non ci impiegò più di venti minuti: se fosse nata in una tribù indiana, "Caviglia d'Acciaio" o "Glutei di Bronzo" sarebbero stati nomi più che adatti a lei. Shakespeare stesso aveva scritto qualcosa a proposito di una certa Culo Splendente, se non ricordava male. Chissà se il suo culo superava in lucentezza il cranio dei pelati…
Ma poi giunse a destinazione e le sue riflessioni si persero per sempre, ancora una volta.
Era un edificio più largo che alto, perfettamente integrato con le strutture circostanti, ma in qualche modo ritagliato dal resto del mondo. Un ampio giardino verde lo distingueva dagli squallidi fabbricati moderni che si ergevano nei dintorni, in qualche modo donando una parte della sua quieta bellezza anche ai palazzi più anonimi.
Un piccolo piazzale di marmo bianco, digradando dolcemente verso l'alto, delimitava l'entrata, cui si accedeva attraverso un piccolo cancello in ferro battuto posto tra due basse colonne.
L'università aveva l'aria di essere stata restaurata da poco, seppure la severità classica di porte e finestre, la qualità perduta dei materiali da costruzione e in generale la sensazione di trovarsi di fronte un'architettura che era stata lungamente meditata, lasciavano intuire che doveva essere stata costruita sul finire del Diciottesimo Secolo.
L'interno era fresco e odorava di carta nuova e disinfettante; la tappezzeria era spoglia ed essenziale, con appena il necessaire per sedersi, una bacheca smisurata e indicazioni chiare e costanti alle pareti.
Magda si sentiva in qualche modo intimorita da quell'ambiente, dove già frotte di studenti – per lo più muovendosi in branco – circolavano in lungo e in largo schiamazzando appena al di sotto della soglia consentita. Ma non poteva non apprezzare l'organizzazione efficiente e l'impressione di accoglienza che emanava dal luogo: nulla a che vedere con sontuosi tappeti e stendardi di benvenuto. Piuttosto, l'idea che quel posto poteva continuare a funzionare anche grazie all'impegno e alla costante partecipazione di persone come lei.
Bé…quasi come lei. Inutile dire che si sarebbe ricreduta in fretta.
Dopo un rapido consulto con la segretaria al bancone, ebbe la lista dei libri che le occorrevano e scoprì con meraviglia che non era un elenco infinito: lì si approfondiva e si analizzava l'assunto teorico di poche materie, più che perdersi a visionare infiniti rattoppi addizionali.

"Tanto vale fare un salto in classe", pensò di malavoglia, esortandosi ad accantonare la propria natura schiva.
Ma lei possedeva comunque un'arma in più: il dono della lingua. Non avrebbe avuto problemi ad esprimersi e a farsi capire – certo, sempre che il suo dono non la abbandonasse repentinamente come era arrivato.
Un'idea improvvisa la fulminò mentre saliva una rampa: "E se fingessi di non conoscere bene il Francese? Si…proprio come quando ho incontrato quel ragazzo nella libreria…".
Sarebbe stato interessante scoprire cosa dicevano gli altri alle sue spalle…La paranoia era una tentazione irresistibile, a cui nemmeno il più smaliziato dei cinici poteva sottrarsi. E lei di certo non era una cinica.
Giunse di fronte a una porta bianca riverniciata di fresco, vide che era semichiusa ed entrò.

Una decina di ragazzi dall'aria annoiata la guardarono brevemente entrare. L'aula non era troppo spaziosa, ma in compenso era abbondantemente illuminata dalla luce liquida e fredda che irradiava dal parco; manciate di cielo bianco si scorgevano a tratti dalle lunghe e strette finestre.
Di tutti quei ragazzi, sette maschi e due femmine, uno attirò subito la sua attenzione: vestiva una felpa sgargiante punteggiata di rondini in technicolor, che si sposava perfettamente con i capelli rossastri e lisci, tirati indietro con una fascia, e le scarpe color prugna super-imbottite. Stava curvo, aveva un'aria puerile e il mento appuntito, che contrastava con la morbidezza dei suoi tratti; minuscoli occhietti di un marrone chiaro quasi tendente al giallo la scrutarono per un momento, guizzando come due lucciole.
Attirata da tutta quella messinscena cromatica, Magda si sorprese poi ad osservare il suo sguardo: nessuna scintilla era scoccata tra i due, o perlomeno non da parte sua, eppure il ragazzo la osservava con spudorato interesse, come se la conoscesse da molto e si aspettasse un saluto.
Un'altra ragazza, vestita molto sobriamente, con i capelli castani che le scendevano fino alle spalle e un visetto angelico (e un'espressione che Magda giudicò particolarmente arcigna) pose fine allo stallo alzandosi dal banco su cui era seduta e venendo verso di lei per stringerle la mano.
"Henriette, tanto piacere"
"Magda.
Io ho appena arrivato. Non parla tanto bene Francese"
La ragazza fece un sorrisetto sciocco, in cui brillò per un istante un guizzo di autentica simpatia.
"Non preoccuparti: la lingua è solo questione di esercizio. Tu studi qui per un paio di mesi, e il resto verrà da sé. Stavo giusto discutendo con questi…idioti", aggiunse con una punta di finta spregiudicatezza che secondo lei doveva somigliare ad anticonformismo, "sull'importanza delle sessioni di studio durante il primo trimestre. Prendere subito il ritmo, sai, per non compromettere l'esito degli esami nel secondo…"
"A quanto pare ne abbiamo una nuova, Riette".
Il ragazzo con la chioma leonina si era avvicinato di soppiatto, spaventando entrambe.
"Pazza al punto da venire in classe alle cinque del pomeriggio…ma non abbastanza per rimanerci più di tre minuti, vero…?"
"Magda. Si, volevo solo…vedere un po' come stanno le cose"
Lui sorrise con l'aria di chi la sa lunga.
"Spero che tu non ti sia demoralizzata, allora. Quando cominceranno le lezioni sarà un po' diverso, spero…Io sono Luc"
"Tanto piacere, Magda"
"Non parla molto bene il Francese", si affrettò a puntualizzare Henriette.
Luc si appoggiò alla parete e disse in tono noncurante: "Saprà da me tutto quello che le serve sapere. In questo posto le ragazze si rammolliscono, se fanno comunella"
"Comunella?", disse Magda.
"Si, sai, tipo parlare di stilisti francesi con Henriette, roba così"
La ragazza in questione gli tirò un buffetto, come sempre dando l'impressione di forzare qualcosa della sua natura.
"Hey, con chi state parlando? Non copritela, voglio conoscerla anch'io"
Un ragazzotto di costituzione robusta e l'espressione un po' ebete si fece largo tra i banchi.
Luc si fece da parte con falsa ossequiosità: "Magda, ti presento Jean: poderoso concentrato di appetito e intelligenza. La seconda inversamente proporzionale al primo. Un vero caso clinico"
"Ti faccio finire io in clinica, se non la pianti", disse Jean senza smettere di sorridere. Aveva una stretta poco lusinghiera, ma i suoi toni erano affabili e diretti.
Finalmente un tipo onesto, si disse Magda. Fuori corso da tre anni, ma senza velleità attoriali.

Ormai aveva quasi tutta la classe attorno a sé, eccezion fatta per una ragazza che sembrava trovarsi lì solo per sbaglio e un paio di individui che giocavano a carte poco lontano.

"In Italia si usa prendere il caffè prima di cena?", domandò Luc.
"A dire il vero…no"
"Nemmeno in Francia", rincarò lui.
"Ci fai compagnia giù?"
Magda tentennò per un attimo, poi disse con quello che sperava suonasse un tono cortese:
"Grazie, magari altra volta. Io oggi ho visto abbastanza".
E se ne andò.

Quando fu giunta nei pressi delle scale, udì Henriette che diceva in tono stizzoso:
"Certo che è ben strana…In Italia sono tutti così?"
"È solo che non parla bene la lingua", disse coscienziosamente Jean.
"Pierre sarebbe contento: ho trovato la ragazza dei suoi sogni"

Magda era pensierosa: chi era quel Pierre a cui alludeva Luc?
"Chi se ne frega. Se è un altro dei miei compagni di corso, non voglio conoscerlo!"

Tornò alla sua amata pensione e si procacciò una cena frugale.
Si prospettava un anno di guerra fredda.

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Capitolo 8
*** Tavola Otto, Sognàli Stradali ***


Faceva caldo. Molto caldo.
L'umidità si addensava in goccioline che pendevano disordinatamente dai suoi capelli.
Fortunatamente, il suo lavoro era appena terminato, e ora non restava che radunare gli ultimi ritardatari, fare un salto in infermeria e chiudere per bene l'istituto.
Il crepuscolo scendeva, tardo e indifferente, sul manto di oro bruno che era stato il giorno morente, scavando ombre e luminescenze nella piana di calcare. Era una pianura davvero immensa, che si stendeva a perdita d'occhio lungo una distanza incalcolabile, e pareva abbracciare il cielo anziché digradare verso la curva dell'orizzonte.
Ma c'era qualcosa che spezzava l'assopita monotonia di quella superficie quasi piatta. C'erano delle strade.
Non strade diritte, e nemmeno strade uniformi: strade contorte, ripiegate, esclusivamente sopraelevate, che si torcevano come serpenti scendendo in picchiata dal cielo (di certo, era un effetto ottico dovuto al calore).
Alcune erano abbastanza larghe da contenere quattro corsie, altre erano più strette di un sentiero di montagna; ed erano tutte asfaltate.
Cosa ben più importante, una folta macchia si annidava sotto e all'intorno delle vie, una concentrazione di arbusti e pianticelle, licheni e cespugli di un verde così sbiadito, così stanco, da sembrare artificiale. E ogni strada ne era quasi invasa.
Si sentiva felice al solo pensiero.
Un bambino le trottava accanto, salutandola con la mano. Lei ricambiava il saluto, lo guardava scendere sul piccolo pendio che delimitava la scuola e riunirsi al flusso di marmocchi che andava scemando. Tutti con le loro cartelline, il grembiule di un colore sempre diverso, una moltitudine di macchiette impazzite che mutava tinta e conformazione a seconda dell'umore.
Si sentiva prendere dall'istinto materno. Come avrebbero ritrovato la strada di casa?
Eppure l'indomani sarebbero tornati a scuola, giusto? E se l'indomani non fosse mai venuto?
Se quella realtà fosse destinata a cessare perché era composta unicamente di illusione?
Un solo giorno di scuola per tutti. Ve lo dovrete far bastare.

Il negozietto era luminoso e areato, seppure attorniato da una serie di contrafforti che lo avvolgevano come una culla. Rocce nere, all'esterno. Finestrelle fucsia tendenti al rosa. Vetrate che non erano né cupole né scuri. Ogni cosa si piegava, niente era mai completamente a fuoco.
Da dietro il banco, scorgeva sagome che non erano persone, ma si muovevano, e sfogliavano volumi e volumetti. Giravano pagine.
"Ti chiedo scusa, potresti darmi il tuo parere?"
Si riscuoteva.
Allora c'era davvero un essere umano! Era abbastanza carino, di media statura, volto lineare, occhi gentili di un colore impossibile da memorizzare, capelli corvini. Le tendeva un film.
"L'ho trovato su quello scaffale", diceva quasi in tono di scusa, "Non sono mai andato matto per quel genere, ma tanti mi hanno detto che merita. Tu che voto gli daresti?"
Lusingata e lievemente imbarazzata, si prodigava per rispondere. Era un cartone animato sui vampiri. Storia abusata centinaia di volte, sceneggiatura articolata, tratto mediocre.
La sua capa la stava guardando di sottecchi, e male.
"Direi tre e mezzo"
Lui esibiva un'espressione meravigliata. Si fidava di lei.

A quanto pare c'era uno smemorato, e aveva scelto un modo piuttosto anticonvenzionale per tornare a riprendere ciò che aveva dimenticato.
Stava scendendo lungo le strade sopraelevate. Un tantino goffo, puntellandosi pericolosamente sui massi che separavano le carreggiate, aggrappandosi alle foglie delle betulle, rimanendo in equilibrio sui sentieri strettissimi e senza muri divisori, appiattendosi di lato per schivare il traffico…
Le stradine non digradavano esattamente verso la piana, ma alla fine lui trovava un modo per scivolare a terra. E veniva verso di lei.
Una collega le metteva una mano sulla spalla.
"Te ne occupi tu? Io e le altre abbiamo già chiuso le aule. Il planetario è vuoto"
"Tutto a posto. Ci vediamo domani". Sorrideva distrattamente nell'ultimo abbaglio di sole.
Man mano che avanzava, si accorgeva che quel bambino era in realtà un ragazzo. Più o meno della sua stessa età.
Percorse gli ultimi metri con un'andatura più distesa, e la guardò in tono di scusa. Portava dei pantaloni di pelle scura, con due buchi vistosi all'altezza delle ginocchia, come se in quel punto fosse caduto più e più volte. Ma la pelle era liscia e intatta.
Aveva i capelli neri.
"Ho dimenticato lo zaino. Non so davvero dove avevo la testa"
Era ben cresciutello, poteva permettersi di parlargli da pari.
"Ti dispiace seguirmi in infermeria? Tutti gli oggetti smarriti vengono portati là dopo il suono della campanella. Mentre io mi cambio, tu prendi il tuo zaino e controlli che ci sia tutto. Poi mi accompagni mentre chiudo il portone d'ingresso"
"D’accordo, volentieri"

C'era un grande edificio di ferro e cristallo, una cattedrale di rettangoli. E loro erano come due scimmie rinchiuse in una gabbia, vestiti di tutto punto, di pelle grigia e rosa; mangiavano cibo tagliuzzato e disseccato, che sapeva di moquette. I loro sguardi erano fermi, rigidi, professionali.
Ma non esprimevano nessuna vitalità.

L'infermeria era piccola, bianco latte sporco, e calda.
Un piccolo tris di gradini portava al bagnetto in cui le addette potevano cambiarsi. Montato su una parete che costeggiava dappresso la porta, appena dopo l'angolo, c'era uno specchio.
"Aspettami qui, faccio in un attimo"
Il ragazzo annuiva.
Mentre si toglieva il camice bianco e lo ripiegava su un ripiano, sbirciava lo specchio accanto alla porta rimasta aperta. Da lì riusciva a vedere tutto quel che faceva il ragazzo. Stava appoggiato contro la parete, su una pila di scartoffie impolverate, zaino in spalla e braccia conserte. Aveva l'aria tranquilla, con una punta di guardingo interesse.
Si tolse il resto degli abiti. Poi, mentre si chinava per afferrare i sandali, capì: il ragazzo vedeva lei esattamente come lei poteva vedere lui. Ma non provò imbarazzo.
Uscì dal bagnetto senza niente addosso, posando un piede dietro l'altro sulle piccole piastrelle.
Il ragazzo la abbracciò con lo sguardo, raggiante, e lei si vide riflessa nei suoi occhi. Il suo corpo nudo era tonico e sottile nei punti giusti, ma la pelle era di uno strano colore, tra il fucsia e il violaceo, come di qualcosa che sia rimasto immerso in acqua troppo a lungo. Portava una cicatrice ancora rossa e pulsante, un solco orizzontale, poco sotto l'ombelico. Questo suo aspetto la spaventò.
Ma il ragazzo venne verso di lei e le cinse delicatamente il viso con le mani, saggiandone con le dita la conformazione ossea, i muscoli, e tutte le delicate giunture che rendevano il suo volto unico, e inimitabile, e meraviglioso.
"Potremmo giocare a guardarci l'un l'altro. Uno dentro l'altra"
Ora i loro volti erano così vicini che lei poteva distinguerne le ciglia una per una.
"Farà male?"
Lui sorrise rassicurante.
"Non è niente più che questo"
E, con estrema lentezza e premura, l'abbracciò.
A dispetto di quanto temeva, non le fece ribrezzo. Sentì che la pressione del corpo del ragazzo su di lei era una bella cosa, e seppe che la sua felpa si stava macchiando dal sangue che sgorgava come una fontanella sorda e intermittente dalla ferita che aveva sul ventre.

C'era un salottino pervaso da una luce incolore, senza tempo, che non abbagliava e non alterava. Un familiare sentore di stantio. Un divano sul lato lungo, un tavolinetto rettangolare, accanto alle finestre. Oggetti grandi e piccoli, giocattoli della prima infanzia, sparsi tutto attorno.
E Jean sedeva sul divano con la sua solita aria tonta. Henriette poggiava la schiena contro una finestra, il volto incorniciato di luce, per una volta sorrideva davvero.
E un altro ragazzo entrava da una porta seminascosta, un ragazzo riccio che non aveva mai visto.
Lei non era più lei: era abbronzata, e con i capelli color ambra, ed era più minuta e più gentile allo sguardo.
E lui era sempre lì, sempre uguale.
"Allora", disse Henriette, "avete fatto pace?"
Come in risposta, lei andò verso di lui e lo sospinse verso il tavolo. Poi gli si stese sopra, sorridendogli con calore, e si perse nel colore dei suoi occhi.


Magda si svegliò con uno strano senso di incompiutezza.
Era nella sua stanza, non aveva compiuto passeggiate notturne. Fuori pioveva.

"Nocciola", si disse tra sé, "Erano occhi nocciola".
Si conosceva troppo bene per non sapere che quel sogno era qualcosa in più di una mera astrazione.
Ma non riusciva proprio a ricordare dove aveva già visto quegli occhi, né perché se n'era sentita così attratta. Di più: provava una felicità antica, come se avesse ritrovato un vecchio amico; e sapeva di averlo perso, e ne soffriva.
La frustrazione più grande derivava dal fatto che non avvertiva di essere manovrata da una forza cieca: no, era una coscienza, un movimento senziente, che l'aveva guidata in tutti quei luoghi. Aveva cominciato un discorso che considerava quantomeno coerente, e di colpo il mondo si era oscurato e lei era ripiombata nella realtà.
"Forse", pensò, "sarebbe il caso che continuassi il discorso con una persona in carne ed ossa…Dovunque essa sia"
L'unico sentore che le era rimasto di quel mondo era l'odore. Un odore non suo, che non le apparteneva; ma era gradevole sentirselo addosso. Era successo quando lui l'aveva abbracciata.
L'odore della sua felpa, della sua pelle.
Neanche in seguito riuscì a spiegare come mai il suo corpo sprigionasse quell'aroma.
Forse era un presagio; forse la materializzazione di un desiderio così insignificante, eppure così vitale, da non poter essere confinato in un ricordo.
Di più non ci è dato sapere.

Mancavano quattro giorni all'inizio delle lezioni, e Magda si sentiva più sola e svogliata che mai.
Piovve a dirotto per tutto il tempo, e lei non andò mai oltre la caffetteria che fronteggiava il Cul de Sac.
Durante l'ultimo pomeriggio di libertà, incrociò casualmente Freda nel salottino d'entrata.
L'immagine di lei che si era trasfigurata nel sogno sbiadì repentinamente alla vista della controparte reale: Freda non era un ragno, non era una beffarda provocatrice. Il senso di realtà e di praticità che scaturivano da lei era confortante, e Magda accolse con gioia la prospettiva di farsi una chiacchieratina con lei, entrambe sedute su una squassata poltrona, quasi da amiche, e non come due sconosciute che civettassero in un bagno.
Scoprì di avere molti tratti in comune con lei, e quando le disse che l'indomani sarebbero cominciati i corsi, Freda appoggiò stancamente il mento sulle mani e disse:
"Hai già conosciuto i tuoi compagni?"
Lei disse di si.
"E cosa te ne pare?"
"Li trovo tutti un po' , come dire, "costruiti"…Ma forse sono io che sono paranoica, e vedo il male dappertutto.
È solo che mi sembra di parlare con dei ragazzi decrepitati ancor prima di invecchiare: si dovrebbe studiare un modo per conservare loro, altroché i Beni Culturali…anche se poi, se volessimo paragonarli a dei reperti antichi, sarebbero niente meno che paccottiglia, finti precursori, finti rivoluzionari…Si affannano a interpretare personaggi grotteschi e dimenticati, come se trascolorare le tinte fosse l'unico modo per distinguersi…!"
"E tutto questo, tu l'hai dedotto in tre minuti?"
Magda arrossì impercettibilmente.
"Visto? Sono pazza"
"Non necessariamente", rispose Freda con sguardo enigmatico, "ma solo se tu fossi partita con queste considerazioni a prescindere da chi ti fossi trovata davanti. E io so che invece ci hai pensato, ossessivamente, perché hai avuto molto tempo per pensare e sei molto portata a farti ossessionare dalle cose"
Magda rimase in silenzio.
"Oh, bé, in fondo io ne so poco dei turbamenti universitari: ho mollato il liceo per aprire un negozietto di paccottiglie, come le chiami tu, dalle parti di Amsterdam. Niente che mi farà ricordare fino alla fine dei tempi, ma il mio lavoro mi piace, e non credo ci sia niente di meglio nella vita. A parte il sesso", aggiunse poi.
Magda la guardava in croce, decisamente d’accordo con lei sulla prima affermazione; un po' meno sulla seconda.
"Ma tu hai scelto questo indirizzo perché ti interessa, vero?"
"L'ho fatto per appagare la mia coscienza. Che poi è una coscienza presa in prestito da mio padre"
Il discorso stava vertendo su toni decisamente melodrammatici, quindi Freda si affrettò a cambiare argomento.
"Senti, so che in questi giorni le mie band preferite hanno programmato alcuni concerti…Sai, Opethek, Aspurùs, credo che forse vedremo anche i Marguegna Sex Garden"
"Li conosco tutti, ne vado pazza!"
"Fantastico. Pensavo che potremmo andarci insieme"
Magda esitò un attimo, dubbiosa.
Freda scoppiò a ridere.
"Tranquilla, viene anche il mio ragazzo!"
Un po' rincuorata, e per certi versi, inspiegabilmente delusa, Magda le promise che ci sarebbe andata.

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Capitolo 9
*** Tavola Nove, Primo Scorno ***


La mattina del giorno seguente, Magda scivolò fuori dal letto senza protestare; sfilò una felpa con cappuccio grigio antracite dall'armadio, scese le scale a palpebre semiserrate, orientandosi con l'udito, e uscì nell'aria del nuovo giorno.
Le piogge torrenziali erano cessate, lasciando il posto ad una desertica, mentolata brezza autunnale da dopovacanze; la legge che regolava quei mutamenti climatici doveva essere la stessa che concorreva a glorificare la domenica: l'atmosfera ha sempre una qualità particolare, nel giorno santo per eccellenza; allucinazione di massa prodotta da un timor divino perpetrato per due millenni? Se si, ci troveremmo di fronte alla più sfolgorante manifestazione della volontà conflittuale insita nel genere umano, quella stessa coscienza collettiva che rende il primo giorno di scuola così mesto e tenebroso, tanto da rassomigliare ad una parodia muffita della realtà.
Tutto questo pensava Magda mentre le sue gambe la guidavano meccanicamente al luminoso edificio rettangolare, niente più che una crosta coagulata solida e imperitura – un confetto d'avorio ripieno di sterco – febbricitante di abitudini così stanche da averne dimenticato esso stesso il fine.

Quando entrò, provò suo malgrado una commozione che credeva di aver perduto.
Era tutto così familiare: la stretta borbottante alla bocca dello stomaco, il madido affaccendarsi di mani sudate…gli sguardi scagliati a guisa di boomerang, scanning strategici volti a studiare il territorio. Una nostalgia, si rese conto dopo neanche quindici secondi, di cui non sentiva affatto la mancanza.
Si chiese se non fosse stato un qualche empito morboso a sospingerla verso quel posto, a dispetto di tutti i luoghi di perdizione in cui avrebbe potuto cacciarsi. Invocò la benedizione di Buzzati ed entrò in classe.

La seconda legge del novellino, che conosce così intimamente ciascuno di noi da riuscire a separarlo dal resto del mondo, entrò in vigore come da prassi: improvvisamente il corpo di Magda sembrava più difficile da gestire di quanto non lo fosse mai stato.
Braccia, testa e gambe rifuggivano la coordinazione, il suo sedere latitava nella seconda dimensione: un cartoon espatriato illegalmente, ecco cosa sembrava, con le sue movenze discontinue, il frame rate altalenante e la pesantezza ingiustificata che le gravava sui piedi.
Paventando di diventare un insetto dalle molte zampe, si abbatté fragorosamente su una sedia e attese l'inevitabile inizio.

Le lezioni non erano né appassionanti né soporifere. Semmai, nozionifere e argomentanti.
Durante la pausa, Luc cercò di procacciarsi un po' d'intimità con lei; ma la fissità del suo sguardo era così solida da costituire una forza repulsiva capace di involgarire ogni cosa.
Prese appunti, alzò la mano un paio di volte. Riprese appunti, sottolineò i passaggi meno chiari a dispetto di quelli più importanti; corredò i suoi resoconti di considerazioni personali. Stette attenta, fece la brava.
E la totalità delle parole che scambiò con i suoi compagni durante quella mattinata non sarebbe stata sufficiente a formare un periodo di medie dimensioni.

Sul finire del primo giorno di lezioni (alle 12.30 di un martedì settembrino), l'immagine di lei che cominciava a radicarsi nei suoi compagni era di una persona ligia al dovere, taciturna, forse un po' tarda o più semplicemente timida. Più di un ragazzo (e anche qualche ragazza) trovava che fosse bella, e anche leggermente inquietante, e attraversata da una particolare grazia…Solo che nessuno sapeva spiegarsi perché, e tantomeno riusciva a identificare i segnali stentorei che il proprio cervello gli inviava a intermittenza.
E nessuno avrebbe mai detto niente di simile ad alta voce; anzi: l'avrebbero trattata sempre da tardona, come meritava una creatura inconciliabile, non qualificabile e astratta quale era lei.

Uscì nella pioggerella battente, il cranio riecheggiante di nulla, gli occhi grondanti aridità. Faceva male. Si sentiva come una belva in gabbia. Era in trappola, era lontana dal suo habitat, e di conseguenza aveva smarrito sé stessa.
La fierezza e l'orgoglio che l'avevano sempre contraddistinta, quella passione trionfante e silenziosa, frantoio innocente, figlia di onore e scelleratezza, se ne stava andando. L'avvertiva scorrere via, consumata dalle poche ore che aveva speso nell'edificio bianco.
Non voleva dimenticarla come un attore di teatro dimentica le proprie battute, perché questo avrebbe significato che la sua vita era finzione in costume. Che stava recitando il suo ruolo, ancora odoroso di cellophane, come facevano tutti gli altri, lì, in quell'incubatrice. Che il suo costume non era mai stato ordinato, il suo personaggio non le era stato assegnato; come negli incubi più neri, dove è sempre troppo tardi.
Era nuda sopra un palco vuoto, pendeva davanti alla folla come una fredda marionetta.

Smise di fare la cretina giusto in tempo per bersi un carcadè. Poi controllò se suo padre le aveva inviato dei soldi.
Il contante rispose all'appello, e aveva tutta l'aria di voler essere amministrato in un arco di tempo considerevolmente lungo.
Papà detesta pagare le cose a rate. "Se proprio devi dissanguarti il midollo, fallo subito e lavati la coscienza". Ma papà, nel midollo non c'è sangue. "È una metafora, piccola mia, una metafora".
Le venne da ridere.
Sapeva che parte di quegli introiti li doveva a sua madre. La donna li aveva salutati più o meno quando lei aveva cinque anni, senza pretendere l'affidamento e senza compromessi contrattuali.
Perché l'aveva fatto? Perché suo padre continuava a blaterare di compagnie indipendenti, architetture ecocompatibili, prospetti irrealizzabili e improponibili. Certo. La versione complementare di papà sosteneva più o meno la suddetta teoria.
Ma lei sapeva che sua madre se n'era andata per ragioni molto più serie: papà era un artista fuori dell'ordinario, un genio direbbero alcuni, e un visionario; ma non possedeva nessuna capacità di auto-promozione.
Vedere un uomo di 38 anni, potenzialmente capace di rivisitare il panorama urbanistico contemporaneo e praticamente prossimo a incarnare la linea di congiunzione tra geometra e capocantiere, era stato troppo.
Papà questo non gliel'aveva mai detto, ma a volte le figlie interpretano i fatti senza bisogno di spiegazioni.
Non era certo qualcosa che si potesse "capire in tre minuti", come avrebbe detto Freda; eseguendo un rapido conteggio, ci aveva impiegato più o meno dieci anni.

Quando mise piede nella sua disinquadrata pensione, trovò una sorpresa ad aspettarla.
Il pavimento, le pareti, il soffitto, i mobili e persino le persone erano ricoperti di fruscianti post-it bianchi.
"Ma…non è ancora il mio compleanno", le venne spontaneo pensare.
Fiocchi di carta e di colla turbinavano allegri nel camino, le fiammelle soffocate da un pezzo, e arrancavano i clienti in quella che pareva un'inesauribile mistura di crepitanti sabbie mobili.
Magda fu presa dal sospetto di essere in qualche modo collegata al misterioso fenomeno, e si affrettò verso la rampa.
"Ehi", la apostrofò una voce burbera.
La signora della reception sedeva come sempre dietro alla sua scrivania, che per l'intercessione di qualche misteriosa forza ultraterrena sembrava essere rimasta immune al bombardamento di foglietti.
"Uhm…si?"
"Primo giorno di università?"
Magda rimase interdetta solo per una frazione di secondo.
"Come…come l'ha capito?"
La stregaccia fece un sorriso benevolo, da cui tracimava appena una goccia di antico veleno, e rispose:
"Il solito intuito di noi vecchi, suppongo"
Le porse uno di quei foglietti.
Magda lo mise a fuoco e trasalì. Sul lato alto del post-it, una serie di appuntiti caratteri rossi e amaranto recitava: "PRIMO GIORNO". Subito sotto, delineata da due squarci rabbiosi, una croce scarlatta.
"Non una croce del tipo che si calpesta nei passaggi a livello", meditò, "ma più del tipo che diede il benservito a Gesù Cristo".
La vecchia non fece domande, annuendo come se sapesse chissà che diavolo, e Magda salì in camera.

Rimase a rimuginare tra sé e sé per tutto il pomeriggio, prendendosi una pausa per ingurgitare distrattamente pane, burro e marmellata, e interrogando mentalmente quello che lei considerava "il suo narratore personale". Ma noi non le risponderemo, perché non è nel nostro interesse fare il suo gioco; oltretutto, l'abbattimento di certe barriere aggraverebbe ineluttabilmente la sua condizione psicoemotiva.
Il narratore immaginario rimase immaginario, e Magda cominciò a convincersi che la sua vita non dipendeva dal buzzo di uno scrittore.
Verso le sette, sprofondò la testa nel cuscino, decisa a dormire fino a che non fosse giunto il giorno della verità, e subito si ritrasse con un dolorino pungente alla guancia. Qualcosa l'aveva graffiata.
Estrasse dal guanciale un biglietto rettangolare di cartoncino plastificato, che vibrava conficcato nella federa come uno shuriken.
Fece per buttarlo credendo di avere tra le mani un altro post-it, ma un'occhiata più attenta le rivelò di cosa si trattava. Era il biglietto da visita di Auguste Tulemond. La sua "scuola d'arte".
Magda deglutì. Pensò al futuro, al passato e al presente.
Poi agguantò la sua felpa con il disimpegno tipico delle diciottenni disoccupate, chiuse la porta con uno scatto e rifluì nella sera umida, verso l'ignoto.

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Capitolo 10
*** Tavola Dieci, L'Antichambre de l'Enfer ***


Fu una camminata lunga, e densa di quell'umidore di aerosol che fa prudere le giunture. O forse erano solo le avvisaglie di qualche forma reumatica contratta al Cul de Sac .

L'edificio di cui era proprietario Tulemond (definirlo "scuola" stonerebbe con la realtà dei fatti) era poco meno di un castello antico insediato nelle più buie propaggini della periferia musulmana.
Ciò che colpiva l'occhio, nel complesso di merlature, portici e cortiletti interni, era l'imperante senso di sozzura che si protendeva a macchia d'olio da quell'impasto malsano di palazzo del congresso e villa colonica decaduta, ancora pulsante delle ferite infertele dalla pittura fresca. Come se qualcuno avesse provato a far esplodere un bubbone particolarmente purulento, con il solo risultato di aggravare l'infezione.
"Ma certo", pensò Magda, "che stupida: questo rudere precolombiano venne adottato dal Governo locale…quando? Circa cento anni fa, quando mamma Le Corbusier lo misconoscette, poverino. Eri geloso di Villa Savoye, si? Non ti davano mai una mano di stucco, quegli scriteriati dei tuoi patrigni?"
Le giornate si accorciavano a vista d'occhio, e la via era scarsamente illuminata.
Magda si sentì sospinta dalla mano dell'ineluttabilità in direzione dell'ingresso, niente meno che una porta di quercia allo stadio fossile, incorniciata da rugginosi motivi in ferro battuto, sgradevolmente familiare.
Aveva appena visitato il Paradiso, dove tutti sono felici e si affaccendano continuamente come se ce ne fosse davvero motivo e l'indottrinata beatitudine si protende ad libitum fino alla fine dei tempi e il prezzo del biglietto d'entrata è una lobotomia silenziata; il suo centro operativo era un limbo senza volto che non possedeva entrate o uscite, bensì un automatizzato, uroborico, implosivo moto perpetuo auto-rigurgitante, il Cul de Sac, che significa "colpo di fortuna" ma anche "paradosso", freccia immobile, cane che si morde la coda…impossibilità di rifuggire al circolo vizioso.
"Non mi sono rimaste molte opzioni di riserva", rimuginò, senza tenere minimamente in considerazione l'umano limite di sopportazione dei suoi lettori, che – a differenza di lei – erano esseri umani. Per quanto ci è dato sapere.
Uno spiraglio di vento che aveva il sapore di una coltellata la trafisse in mezzo alle scapole, e Magda suonò l'antiquato campanello.
Aspettò dieci, venti, trenta secondi. Nessuno apriva. Eppure le luci erano accese, si sentivano dei suoni ovattati provenire da dietro le finestre giallognole.
Il profumo delle magnolie impestava l'aria.
Ma in fondo, che differenza farebbe dire: "il profumo degli oleandri" o "il profumo delle calendule"? La vostra mente vi avrebbe comunque suggerito l'epigramma di un aroma dolciastro, penetrante e sinistro, come correttamente si confà alle vecchie ville abbandonate.
Il lezzo dell'immondizia ammorbava l'aria, e sul pattume allegorico che trasuda da questa affermazione – fino a prova contraria, cari lettori – non è possibile eseguire empiriche transustanziazioni.
Magda toccò la porta e vide che era aperta, scivolava verso l'entroterra con una leggerezza sorprendente. Tirò un sospirone e mise piede all'Inferno.
La passatoia doveva essere stata pregiata, un tempo; di sicuro era originaria dell'antica Persia, o del Marocco. Ma, chiaro come il sole, il verde non era il suo colore originale.
Alle pareti si mischiavano motivi sbiaditi tipo Art Decó, geroglifici arcaici affrescati da poco e l'usura del tempo che tutto avvalora. Il corridoio era stretto, sformato, si direbbe smagliato.
Una nuda lampada azzurrina gettava riflessi accecanti da un punto imprecisato alla fine della corsia, dispensando triangoli di penombra a suo gusto e capriccio.
Per prima cosa, Magda pensò bene di chiudere la porta. Una serie di catenacci stretti a guisa di cinturone erano stati saldati alla cornice, e parevano smaniare per una bella sorsata d'olio. Li fece scattare tutti. Erano tutti inceppati.
Quando si voltò, le mancò il cuore.
"Una donna bellissima, sui trentacinque anni, capelli scuri e lisci come la seta, minuta e aggraziata, più simile ad una pantera che ad un essere umano, la fissava avvolgendosi con grazia in un elegante caftano di seta"
"Come, prego?"
"È quello che avrebbe detto il narratore, senza dubbio con meno proprietà di linguaggio della sottoscritta. Per fortuna l'ho preceduto". Fece un sorriso maliardo e le strizzò l'occhio.
"Tu devi essere la nuova pupilla di Auguste"
"Andiamoci piano, con la pupilla…"
"Io mi chiamo Valerie, rappresento il corpo docenti", e le strinse la mano come se volesse sorbirle l'anima.
"In effetti, il corpo docenti è composto da un solo docente: me; e di conseguenza, da un solo corpo di carne, che suona anche più coerente, non ti pare?"
"Mi chiamo Magda, non sono la pupilla di nessuno, piacere di fare la sua conoscenza. Dovreste far riparare la porta"
"Ma chi si sognerebbe mai di entrare, bambina mia? Questo posto è già abbastanza pericoloso per chi ci lavora…figuriamoci per chi non c'è mai entrato.
Vieni, ti porto nello studio di Auguste"
Questa donna abusa di sostanze stupefacenti, pensò Magda mentre Valerie la conduceva attraverso polverosi salottini completamente deserti e divorati dall'inedia. Ecco perché si comporta come se fosse la protagonista. O magari è il contrario: la droga le serve per tenere a freno le sue manie di protagonismo, senza gli inibitori degenererebbe.
Salirono una stretta scala che conduceva in un'anticamera un po' meno trascurata, dove la bella Valerie bussò rapidamente ad una porta nera che portava una scolorita targhetta con su scritto "Principale".
"Avanti", disse una voce attutita.
Lo studio di Tulemond non era esattamente quello che ci si aspetta da un pittore: a dispetto di quanto lasciava trapelare l'edificio, Auguste aveva preso sul serio l'antico postulato che stabilisce che l'ufficio del preside non deve essere più grande di quattro metri per tre, ingombro di ordinatissimi e inutili registri, e improntato su un modello di terrorismo accademico e minaccioso.
Lo stesso Tulemond, stipato in una vecchia poltrona di chintz in quella che a priori doveva essere stata la camera da letto di un'aristocratica francese prima maniera, si illuminò in volto quando la vide.
"Magda! Giusto in tempo per la prima lezione. Ti aspettavo venti minuti fa, a dire il vero"
"Lei…sapeva che sarei arrivata?"
"Naturalmente no, ma è il tipo di frase ad effetto che una qualsiasi ragazzina ebete si aspetta di sentir pronunciare da un uomo navigato e ruvidamente attraente quale sono io"
Valerie sorrideva, benevola. Magda fece una smorfia che la rese pericolosamente simile ad un personaggio di Quino"
"Se pretende di stupirmi con gli effetti speciali, bè, non sono il tipo che si impressiona facilmente, signor Tulemond"
Il pittore intrecciò le dita dietro la testa.
"Oh, ma lo so bene. È un vero peccato che tu abbia imparato il francese così in fretta…Sarai certamente divenuta immune a tutti quei romantici francesismi d'occasione"
"Lo ero anche prima, se è per questo"
Tulemond sorrise a sua volta, i baffetti radi che seguivano la piega della bocca, e il suo tono si fece improvvisamente pratico.
"Veniamo agli affari di scuola…Sempre che io riesca a convincerti ad unirti a noi.
Come ben ricorderai, hai già superato la prova d'ammissione…"
"Ne è sicuro? Non devo fare nient'altro?"
Valerie le poggiò una mano sulla spalla.
"Se proprio smani tanto, potresti rispondere a qualche domandina di storia…Ad esempio: chi fu il celebre pittore che si tagliò un orecchio per amore?"
"Ehrmm…Monet?"
"Spiacente di deluderti, è Van Gogh", disse Valerie con una nota di acidità.
"E tu saresti un'artista?"
"Se devo tenere a mente una banalissima stronzata di competenza comune che ha reso famoso un predicatore mancato a dispetto delle sue velleità pittoriche, riducendo la sua vita ad una cronaca da rotocalco rosa, allora no, non sono un'artista"
"Che ti dicevo, Valerie, è perfetta"
"È proprio come me l'avevi descritta!"
Entrambi conversavano come se lei avesse fatto una battuta molto spiritosa, e in quel momento Magda si avvenne che i due erano legati da un legame più profondo della relazione professionale. Si chiese come mai non l'aveva notato prima.
"Allora", riprese Tulemond, "come avrai notato, la scuola non è esattamente a norma. Questa casa apparteneva al mio bisnonno, io l'ho ereditata e…lo Stato ci ha messo un po' del suo, più che altro per enfiare la politica di "ricezione culturale", come la chiamano loro. L'opposizione punta il dito, dicendo che non finanziano come si deve le istituzioni artistiche, e loro rispondono dandomi una licenza – a proposito, se desideri visionarla, la trovi nei bagni: l'ho fotocopiata su tutti i rotoli del primo piano.
La nostra scuola è molto selettiva, punto primo perché non sopporto di dover insegnare a delle viscide piaghe ignoranti e prive di talento, punto secondo, la mia concentrazione scema molto in fretta.
La durata del "corso" è di un anno, durante il quale noi ti spianeremo la via della notorietà se – come immagino succederà a te – farai breccia nel cuore dei supremi maestri (fregatene della gente, il tuo lavoro non prevede il soddisfacimento dei desideri altrui; quella parte lasciala a critici e soubrette). In cambio, tu devolverai alla scuola metà dei profitti ottenuti a seguito dei lavori che ti raccomanderem…proporremo.
Finito l'anno, si rimane amici e tu te ne vai per la tua strada, libera di seguire chi vuoi o di suicidarti alla maniera dei grandi artisti.
Cosa ne pensi, è ok per te?"
Magda esitò. Era tutto così traballante, così maledettamente ingiusto.
Si sentiva preda della fortuna, schiava del caso. Chiunque altro avrebbe colto al volo un'opportunità del genere, ma lei non era "chiunque altro", e forse era proprio l'intima certezza di possedere qualcosa di prezioso a spingerla a custodire il suo tesoro con gelosia.
D'altro canto, prima ancora che dal fato, lei era manovrata dal suo talento: le tavole, i pannelli, i collage, le fotografie che nessuno aveva mai visto, eccetto suo padre, tutta quella roba aveva influenzato la sua vita e il suo modo di pensare nel momento esatto in cui si era staccata dal mondo delle idee ed era divenuta reale. Come succede con i figli, le nostre inconsapevoli creazioni.
Il suo mondo avrebbe invaso le corti elitarie e atrofizzate del panorama artistico, l'avrebbe minato dall'interno, silenziosamente, contro ogni logica. Un giorno.
Non era una proposizione, la sua, non un sogno utopico e intransigente. Era una semplice constatazione.

"Forse posso aiutarti a decidere", disse Valerie, sporgendosi sul suo orecchio come una sibilla.
"Al tuo posto, io mi chiederei ad alta voce: "Perché sono qui?"
Di certo tu lo sai, ma dai per scontato questo dato di fatto"
Magda se lo chiese. La risposta echeggiava appena dopo il punto di domanda, appannata da una nuvola di concretezza: sono quattro notti che non sogno.
Da quando aveva visitato l'università per la prima volta, Magda non sognava più. Non aveva più desideri.
E il desiderio multiforme, a scapito di quello ossessivo, era l'unica cosa che la tenesse in vita.
Ma la risposta reale che diede attinse ad un livello meno profondo della sua coscienza:
"Voglio diventare una scenografa. Voglio creare tanti piccoli mondi diversi da quello in cui vivo"
"Desideri l'estraniazione? La fuga dalla realtà?", chiese Tulemond, vagamente deluso.
"No. Nelle mie parentesi di vita alternativa, ogni cosa è simile in tutto e per tutto a quello che vedo, che sento, che odoro. L'unico motivo per cui le sento irreali è la sostanziale mancanza di pochi elementi che caratterizzano il nostro mondo: la grettezza e la meschinità; l'ingordigia, la malizia, l'egocentrismo e il desiderio di prevaricazione.
Per fuggire da queste mostruosità, non vedo altro sistema che parodiarle"

Valerie le mise una mano sulla spalla.
"Vieni", disse, "ti porto a conoscere gli altri studenti"

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Capitolo 11
*** Tavola Undici, Quattro per Una ***


Le due donne camminavano nella penombra producendo un appena percettibile fruscio.
"A dirtela tutta, è solo una mera formalità…"
"Mmm?"
"…Conoscere gli altri. Per la maggior parte del tempo starete ognuno per i fatti propri, senza incontrarvi o battibeccare come fanno i normali studenti"
Magda inarcò un sopracciglio, un'espressione che Valerie non seppe se considerare entusiasta o scioccata.
"Non avremo una classe in comune?"
"Non so in che razza di scuola pensavi di esserti cacciata, ma sappi che qui ci focalizziamo sui singoli, non sulla collettività. Ognuno lavora per conto suo, con le sue direttive, le sue regole, i suoi tempi"
"E tu e Tulemond siete gli unici insegnanti? Come fate a gestire un programma del genere?"
"Oh, non è poi così difficile, dato che gli studenti ammontano in totale a cinque…te compresa, principessa"
Scesero una ripida scaletta priva di corrimano e sbucarono in uno stanzino che sembrava una cantina rimessa a nuovo da poco. La temperatura si abbassò sensibilmente.
"Non serve aggiungere che siete tutti maggiorenni e autosufficienti…Aspetta", la fece arrestare e si guardarono per un lungo momento.
"Voglio che sia chiaro: noi ci aspettiamo che chi arriva qui sia preventivamente dotato dei requisiti fondamentali per costruirsi un'identità"
"E sarebbero?"
"Oh, avanti, lo sai anche tu"
"Il talento, immagino…"
"Esatto; e quella è una cosa che nessuno, tranne forse solo il caso, è in grado di fornirti.
E poi abbiamo l'applicazione. L'allenamento costante, la capacità di rinnovarsi e di accrescere il proprio corpus di esperienze mediante l'assimilazione di realtà diverse dalla propria.
Posto questo, cominci a lavorare qui"
Magda giocherellò con un involtino di polvere colpendolo con la punta del piede.
"E che cosa dovrei fare, di preciso?"
"Una cosa per volta. Ti faccio presente che le lezioni si tengono dal lunedì al venerdì, dalle sette e mezza alle dieci e mezza della sera: una parentesi di tempo più che sufficiente per approfondire la questione.
Dai, seguimi"

La bella Valerie spalancò con calcolato effetto teatrale una porta bianco sporco. Una nuvola di bruma argentea investì Magda in pieno, costringendola ad avvolgersi con rinnovato vigore nella felpa, che non era molto pesante e garantiva una protezione minima.
Pian piano, la sua visione si schiarì e le permise di registrare un piccolo magazzino ingombro di montagnole di trucioli, cornici sbreccate, piedistalli lucidati, carta strappata, sbarre di ferro, lamine ondulate, parti di carrozzeria, vermi di gomma bruciata e un'infinità di analoghi scarti e residui di immondizia dimenticati dal mondo.
Una melodia grunge sibilava in sottofondo, come gesso su lavagna, voragine di campagna, scompagine grifagna. In soldoni, intontiva.
Il freddo donava a quell'interrato un'atmosfera quasi sacrale, intorpidendo le membra.
Subito dietro una porta c'era un'anticamera, e più in là un buco fetido di trascuratezza e sudore rancido, un pozzo di oscurità in cui forme contorte e attorcigliate in sacrileghi abbracci giacevano nell'indefinito. Un ragazzotto dalle spalle robuste e cespugliosi capelli castani dava loro le spalle, trafficando con quelli che sembravano due grossi cavi elettrici.
Magda si chiese come potesse sopravvivere con indosso solo una canottiera.
"Friedrich, ti voglio presentare Magda. È appena arrivata, e credo che rimarrà con noi per un bel po’…"
"Momento, momento…ho finito"
La ragazza si sorprese nel constatare che aveva una voce dolce, quasi femminile. Ma non del tutto focalizzata sul presente.
"Ecco"
Friedrich unì i connettori con uno spinotto che emise un sonoro clac, e una tempesta di luci colorate bombardò lo stanzino.
C'era un gigantesco albero di Natale, o forse qualcosa che ideologicamente vi si avvicinava molto, ma si era perso lungo la stanza. Guardandolo più attentamente, era un finto abete spelacchiato da cui pendevano, appese per il collo, infilzate come tanti pezzi di carne, le riproduzioni affantocciate di eminenti personalità politiche, nude come mamma le aveva fatte, e tutte cariche di scritte oscene. I lumini colorati erano impiantati direttamente nel loro cranio, e pulsavano dalle bocche e dalle orbite vuote come tante lucciole frenetiche.
"L'ho intitolato "Albero di Natale", disse Friedrich con fare annoiato. "In fondo, era a questo che servivano gli alberi nella Norvegia precristiana. Si può dire che l'ho ripescato da una sacca del tempo, più che costruirlo. Gioverebbe un casino al nostro Paese innalzarne uno vero, ogni venticinque dicembre, con gli scaldasedie che ci mangiano i soldi, non trovate?"
"Democrazia vecchia maniera", disse Magda.
Friedrich non colse l'ironia e si avvolse una kefia attorno al collo ben tornito. Aveva occhi miti e una brulicante barba incolta.
Poi agguantò una bottiglia di Jack Daniel's e ne scolò un terzo con un elegante movimento delle spalle.
"Oh, ma per favore!", pensò Magda, "Vivi in Francia, vuoi fare il maledetto alternativo…almeno bevi assenzio, cristosanto, non quella merda americana"
"YOU MUST TRY/
UNTIL YOU DIE"
"Come prego?", chiese la ragazza, disorientata.
"È il mio motto. Fa rima anche se si scrive diverso da come si pronuncia. Geniale, eh?"
"Direi di si". Certo, quello che non gli disse è cosa pensava realmente del suo motto: secondo Magda, era la traslitterazione del senso di impotenza tipico di chi nasceva senza idee. La ragazza non lasciava mai trasparire più dello stretto necessario, un trucco che le aveva evitato parecchie complicazioni; ma quella volta sentì di poter fare uno strappo.
"Valerie mi dice che studierai scenografia e design. Lei è un po' una tuttologa…"
"Ma smettila, adulatore", disse la donna con finta aria di dispetto.
"È anche un po' il mio campo, sai. Io strappo le verità nascoste nella maglia del sociale, come un pescatore…perché l'arte ha funzione politica prima di tutto, anche se non vuoi ammetterlo è una legge a cui è impossibile sottrarsi"
"Trovo che non ci voglia un grande spirito rivoluzionario per indossare una kefia", interloquì Magda. "È quello che fai dopo, sempre che tu combini qualcosa, a lasciarti impresso nella memoria storica. Non riproduzioni, bensì azioni. O fai body art o fai neo-espressionismo o lavori come inserviente al museo delle cere, devi rendertene conto"
"Ma indossare la kefia è il segno che tu hai intrapreso qualcosa, che la tua strada è decisa", balbettò Friedrich, disorientato a sua volta.
"Le rivoluzioni vere, quelle che intaccano i dislivelli sociali, richiedono zero talento artistico e parecchia mania ossessiva: Hemingway è sopravvalutato e Majakovskij è morto suicida. Per non parlare delle rivoluzioni culturali…"
"Torniamo di sopra, Magda, vuoi?", sibilò Valerie in tono affettato.
"Una sola cosa ancora. Posso chiederti cosa ne pensi di Tulemond?"
"Uh…Io sono…affascinato dalla sua forza espressionista"
"La sua mi sembra più una pittura ermetica…"
"Fottutamente ermetica, più ermetica delle chiappe di una novantenne stitica, cazzo!"
"Noi andiamo, Friedrich. Buon lavoro"
Il ragazzo annuì e ingollò altro whisky.
Condì la sorsata rollandosi una canna.

"Ho fatto male a discutere con lui?", chiese Magda mentre attraversavano un salotto.
"No, no, figurati, le tue argomentazioni erano valide, solo che…Friedrich è così insicuro, si demotiva con poco. È meglio non dargli filo da torcere, altrimenti smette di creare.
Personalmente, preferisco dargli l'illusione che la sua visione non abbia falle. È meglio per lui"

Il personaggio successivo li attendeva poco oltre l'angolo caldaia, dove l'atmosfera era densa e soffocante come in un deserto plastificato, e c'era puzza di petrolio mista a idrogeno e essenza di mughetto. Fino a quel momento Magda non aveva mai preso in considerazione il concetto di "ambiente di lavoro"; era convinta che per favorire un'atmosfera creativa fosse sufficiente un luogo familiare e pulito, e probabilmente aveva ragione.

Entrarono in una stanzina dall'atmosfera vaporosa, decorata con soprammobili kitsch. La presenza di un letto su un soppalco e l'estrema cura riposta nell'arredo le lasciarono intuire che lì viveva a tempo pieno un single, a quanto pareva molto ordinato e molto freddoloso. Chissà in che rapporti era con Friedrich.
Il soggetto in questione stava curvo su un computer dal monitor oscenamente largo e piatto, ed era infagottato da capo a piedi in un maglione di cachemire grigio acquamarina. Aveva un viso magro ed emaciato, dai tratti regolari e puliti, e una frangetta biondo sporco gli penzolava su un lato della fronte.
Si era voltato ancora prima che Valerie mettesse piede nella stanza. Probabilmente il suo udito era fino come quello di un bassett-hound.
"Cristophe…"
"Valerie, la compagna del capo…Vedo che mi hai portato carne fresca, di cui conosco pressappoco nome cognome e gusti sessuali"
Magda trasalì.
"Tranquilla, dolcezza. La mia è solo apparenza, al punto che mi è indifferente smantellarmi da solo o lasciarlo fare a qualcun altro. Non so più chi sono davvero, non distinguo tra il giorno e la notte, tra l'estate e l'inverno…Sul serio, piccola, pensaci bene:
Passo un terzo della vita a dormire, due mesi all'anno soffro il freddo e altri due il caldo. La mia esistenza è ridotta ad una sezione aurea.
Ma tu, come te la passi?"
"Sto sul chi vive", buttò lì la ragazza.
"Saggia idea. Io faccio il grafico pubblicitario, ergo il mio compito consiste nel convincerti che desideri qualcosa quantunque tu aneli saggiamente all'annullamento di ogni desiderio. Potrebbero riscoprire la lobotomia e commercializzarla a mo' di prodotto, se solo non venisse già elargita a rate attraverso la televisione…"
"E…che cosa stavi facendo, adesso?", domandò Magda sbirciando lo schermo.
"Autoerotismo in un sito hentai"
Magda sbuffò.
"Spiegami un po' dov'è il senso nel copulare con sciacquette virtuali: ci si becca i virus come nella realtà!"
"Non io", disse fieramente Cristophe, "Io sono un hacker"
"Se fossi un hacker serio non me l'avresti rivelato ad alta voce"
"Qui non ci sono cimici, ho passato due mesi a controllare, e non ho motivo di dubitare di te: a dispetto del tuo atteggiamento aggressivo, sei una persona coscienziosa che tiene conto dell'altrui valore"
"Sentiamo, in quale manuale di seduzione hai preso questo passaggio?"
"Guida alle relazioni parte seconda, capitolo nove, versetto sedici. So il testo a memoria"
Magda sospettava che, se avesse visitato il profilo di Cristophe su Internet, avrebbe appreso esattamente le stesse cose che lui le stava dicendo di persona, riga per riga.
"Insomma…chi sei tu?"
"Un bisessuale che crede nella spontaneità e nell'amore libero, ama la scrittura creativa e la disordinarietà. La mia fantasia ricorrente è di fare il bagno in una tinozza piena di peperonata. Il mio sogno è riuscire ad entrare in comunione profonda con le persone. Sono strano e diverso e fiero di esserlo"
Magda non ce la fece. Era troppo spassoso.
"Vorrei proprio vederti, caro Cristophe, immerso fino al collo in una vasca ricolma di peperoni unti e bollenti, soffocato dai miasmi, con un marcantonio nerboruto che ti penetra analmente. Credo che allora verrebbe fuori il tuo Io perduto, e scopriresti che tutta questa diversità non ti soddisfa. Non ti soddisfa per niente"
Se ne andarono mentre lui era ancora intento a formulare una risposta sufficientemente sarcastica.
Mezz'ora dopo si trovava ancora nella stessa posizione, lo sguardo perso nel vuoto. Era arrivato a metà.

"Se continui così diventerai famosa ancora prima di cominciare", disse Valerie cercando di non suonare turbata.
"A quanto sembra, non posso fare altro che smontare le persone…o esserne intimidita", disse Magda, più a sé stessa che alla sua accompagnatrice.

L'incontro successivo si svolse in una lavanderia illuminata da fioche luci al neon, ronzanti e fredde come quelle che si trovano all'entrata delle discoteche. Non che Magda ci fosse mai stata. E se è per questo, nemmeno l'autore.
Per una volta, le pareti erano ornate da semplici quadri: di dimensioni variabili, tutti attraversati dalla stessa cappa di nero e rosso, tutti apparentemente ispirati alla superficie di Marte. Alcuni erano dei semplici collage realizzati con ritagli di giornale. La loro essenza si poteva tradurre in una frase stampigliata sul più grande: "Mars is solitude. Solitude is bliss. Red and Black are happy loneliness / since so long I miss".
Citazioni più o meno evidenti da una canzone dei Bile e, così presumeva, dal nome che si erano scelti i The Mars Volta. Stendhal/Fellini docet.
"Ti prego, fa che sia così", implorò Magda.
Suzie uscì da una lavatrice, e Magda rammentò la sagoma squadrata di Dan Smith che avanzava in un cielo rosso Anni '40. Chi possiede le conoscenze specifiche per decriptare questa parentesi citazionista, rivivrà un'emozione lontana in preda ad un insopprimibile senso di nostalgia; tutti gli altri si gratteranno la testa.
Suzie era una femminista attivista vegetariana e scheletrica, piena di brufoli e preda della nevrastenia.
Le strinse vigorosamente la mano, da pari, e invitò lei e Valerie ad accomodarsi su un'asciugatrice.
"Scusate, scusate davvero se oggi non sono tanto loquace, è che ho perso la voce, e mi sento gli arti…come dire, molli. Sarà mica un'influenza stagionale, o un'intolleranza di qualche tipo?"
Magda scoprì che la sua nuova amica era affetta da morbi e intolleranze alimentari di ogni fatta, metà reali e metà concepiti dal suo cervello.
"In quale giorno sei nata?"
"24 settembre"
"Ah, sei una cuspide!"
"Una che?"
"Un segno ibrido!"
"Come dire: una bilancia vergine?"
"O una vergine bilanciata"

Suzie era appassionata di astrologia, e cercava costantemente di indovinare il futuro altrui.
Questo, naturalmente, contrastava ai massimi livelli con la concezione del mondo di Magda: a suo personale modo di vedere, il passato era molto più importante del presente, e il futuro non contava niente.

"Più che vegetariana, è mortificata perché non può mangiare tre quarti della roba che vede, e così si tiene occupata pensando alle ingiustizie che ammorbano questo nostro mondo: sfruttamento minorile, test clinici sugli animali e il costo della crema contro le impurità…poi si consola bevendo Coca Cola Light", meditò mentre ritornavano nella zona salotto, "Che è un po' come dire CLC, brodo primordiale"
Ricordare il resto le provocò una fitta di dolore: quei versi erano effettivamente ispirati ai Thirty Second to Mars; si schiaffò un palmo sulla fronte. E lei che aveva sperato…
Nell'ambito dell'esclusivo circolo al quale era stata introdotta, Suzanne – sebbene appartenesse alla sfera femminile (un punto a suo favore) – si era rivelata la personalità meno interessante; che dipendesse proprio dal fatto che fosse dichiaratamente la più ordinaria? Una contraddizione inquietante.

L'ultima allieva possedeva un bugigattolo nella zona più silenziosa della casa, lontana da caldaie e lavatrici e celle frigorifere.
Quando Valerie socchiuse la porta che dava accesso alla camera oscura, Magda venne travolta da uno spesso, roboante fetore di aceto. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non era sgradevole; lei l'avrebbe definito "intrigante" quanto poteva esserlo il miasma che distingue i nostri peti da quelli degli altri.
"Forse", rimuginò, "il fascino della sozzura dipende proprio dall'odore"
Anche lì imperversava una luce rossastra. Ma era un rosso acido, impietoso, che scavava le ossa e faceva sanguinare il naso. Era rosso che reclamava altro rosso.
"Questa", disse Valerie sacrificando una mano intera per presentare la ragazza, "è Marie-Christine".
La sopracitata aveva membra esili eppure non era magra, una lunga chioma di capelli rossastri le scendeva lungo la schiena e vestiva un buffo fantasmino viola ricamato a fiori. Aveva occhi grandi e scuri, il suo viso era duro e appassionato, e ne trapelava una fissità statuaria che – si sarebbe detto – incorniciava le emozioni una per volta. Le due ragazze si scambiarono una stretta fugace, e nello spazio di un istante percepirono una sorta di energia contrastante scorrere tra loro: rispetto, rivalità, reciproca ammirazione.
"Immagino che non vorrai invitarmi a bere qualcosa da te, o insisterai per parlarmi dei tuoi gruppi preferiti, o non dirai nient'altro che non abbia a che fare con il tuo lavoro…che poi è la cosa più sgradevole di cui parlare, perché è come…tradire la promessa di un segreto, non so se mi spiego"
Non era necessario aggiungere altro. Magda chiese, questa volta con sincero interesse:
"Di cosa ti occupi, di preciso?"
"A parte scattare foto? Carpire le persone senza che loro se ne accorgano. Tentare di capirle è un po' come voler spegnere il sole. Pescarle mentre sono in balia di loro stesse è già un risultato"
"Spiega meglio, che io ascolto"
"C'è qualcosa di strano, di completamente diverso da tutto quanto a cui abbiamo assistito sinora, nella gente del XXI Secolo. Forse la maggior parte delle persone non lo nota, ma io ti domando: un animale cresciuto in cattività ha forse cognizione di cosa siano gli spazi aperti? I suoi geni glielo urlano, ma lui non si spiega quell'inquietante bisbigliare che gli rode il cervello di notte.
È l'egocentrismo, la convinzione di doversi presentare sempre al meglio delle proprie possibilità, dove "meglio" è sinonimo di "morte"…Hanno aderito ad una corrente di pensiero che non si sa dove è nata ne quando si estinguerà; ma che gliene importa, a loro basta essere coerenti"
"E…nella sostanza?"
Marie-Christine le si accostò, fissandola con ostinazione.
"Sono tutti psicotici, paranoici. Hanno paura della loro ombra. Non puoi scherzare ad alta voce, o fissare qualcuno negli occhi, che subito quello scatta, interpretando ogni tua azione come una critica personale ad un difetto di cui solo la persona summenzionata è a conoscenza. Non vedono l'ora di scovare un male presunto, di stanare il marcio che si annida dentro di loro trasferendolo negli altri.
A bocca chiusa, a capo chino, lo sguardo elusivo, sembrano reietti in fuga da qualcosa. Poi parlano ed eccoli perfettamente a loro agio, sicuri di sé, in questa società multietnica e telecomunicazionalizzata.
Solo chi ha vissuto a contatto ravvicinato con queste persone può interpretare in minima misura la loro follia. Lo dice anche un'inchiesta di LawrenceTwosomeTime"
"Ripeti, scusa?"
"Lo dice anche il TIMES, hanno pubblicato una scaletta sulle psicosi la settimana scorsa"

Giunta al termine del suo giro di boa, Magda si sentiva frastornata e assai desiderosa di riordinare le idee.
"Dovremmo assegnarti una zona della casa. Dove preferiresti stare?"
"Il più possibile vicina all'entrata, in caso una psicosi anomala ci colpisse"
Valerie ridacchiò con leggiadria.
"Io pensavo alla soffitta. È parecchio grande, e c'è tutto lo spazio necessario per montare pannelli e allestimenti di sorta, posizionare luci, pasticciare con stoffe e tessuti misti…sai, quello che a grandi linee pensavi di fare tu".
Magda si rese conto che non stava scherzando.
"Intanto, voglio assegnarti un primo compito.
Il mese prossimo, un amico di Gustave porterà a teatro una piece di Brecht, e gli servono delle sagome di cartone a grandezza naturale e un paio di manichini…solo che non sa come vestirli. Ci vuole una mente fresca, una visione chiara e pulita della gente comune, e mi chiedevo se tu non potevi cominciare fornendogli una mappatura adeguata…dieci o quindici studi in formato cinquanta per settanta, con la tecnica che ritieni più adatta."
Mentre la riaccompagnava alla porta, Magda si azzardò a domandare:
"Immagino che lei mi aiuterà…"
"Naturalmente si. Se fare il grosso del lavoro con me o se piuttosto svilupparlo da sola, rimane comunque una tua scelta. Di solito, io tengo d'occhio i ragazzi e Gustave le ragazze, ma non c'è una regola fissa…"
Vedendo che Magda esitava, Valerie si immedesimò un po' di più nel suo ruolo di insegnante.
"Prova a sviluppare l'idea partendo da questa domanda: Come si rappresentano le persone?.
Scoprirai che si presta a diverse interpretazioni.
Buonanotte, Magda"
"Buonanotte"
Prima ancora che potesse rendersene conto, si era ritrovata all'aperto.

Si sedette su uno scalino, intontita e felice e spaventata come al primo amore, con quell'odore dolciastro di fiori che aleggiava a due spanne da terra senza che lei potesse dargli un nome.
Solo lei conosceva la natura del dono che le conferiva energia e voglia di vivere, ora di nuovo risplendente nel suo petto. Non era amore, ma ne condivideva l'aura di mistero.
Scivolando lentamente nel sonno, lanciò il suo pensiero tra le stelle. Il cielo suonava meno freddo, una volta che avevi visto l'Inferno.

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Capitolo 12
*** Tavola Dodici, Trappovolgimento ***


Incedeva sotto l'ascendente di un'oscurità benevola, ma per conto di qualcun altro.
Era distesa e ripiegata su sé stessa, riversa a terra come una pelle di serpente svuotata, e una girandola di lordura mutaforma la trascinava per le strade di Parigi.
Ho una lettiga tutta per me, pensava. Fatta di teflon e licheni, rami d'ulivo e plastica riciclata. Mi trasporta al sicuro prima che mi areni, mi da da bere se sono assetata.
Nei sogni ad occhi aperti di solito la ragione si ottunde, estrapolata dal proprio guscio di certezze e precipitata con violenza nell'oceano dei possibili, l'
eventide.
Ma lei non era tipo da fantasticherie commerciali, non si svendeva la fase rem al soldo di deprezzabili sveltine oniriche.

Giaceva su un nastro trasportatore perfettamente immobile, e il mondo scorreva per lei. Chi se ne importava se la sua alcova era composta di pattume; già solo il fatto che quel pattume rimanesse fermo, a scapito di tutto il tran tran, conferiva dignità a lei e a all'ammasso di sozzure.

Ma niente e nessuno striscia in eterno, non se vuol fare bella mostra di sé nei ricordi altrui, e anche il carrozzone di Magda mutò aspetto. Si sentì sollevare da un'onda anomala che era un tendersi criccante di tendini e giunture e ossa e muscoli, troppo poco fibrosi per essere elastici, troppo poco densi per poter incarnare una forma. Ed eccolo lì, il suo Principe Verde, il cavaliere di mezzanotte.
La portava in braccio, il gigante di merda, e le sue braccia parevano l'unica cosa importante su quel corpo scimmiesco in deambulazione. Il volto ammiccava tra i rami del collo, due occhi bianchissimi e triangolari di porcellana swahili; una boccuccia di bambola ogni tanto nitriva, ma a parte questo era un vero gentlemen.

"E così, stasera hai visto l'Inferno"
Voleva far conversazione. Conversiamolo, allora.
"L'inferno sono gli altri, diceva Sartre"
"Se in questa affermazione dimora anche solo una parvenza di verità, allora tu sei nata all'Inferno"
"Non mi smentisco mai"
"…E il viaggio che stai compiendo è una gita fuori porta"
"Viaggio? Quale viaggio?"
"Oh: la città in notturna. La Francia. Le tue fantasticherie. Esistono molti modi di viaggiare. Il problema è appunto lo spirito con cui ti disponi a farlo"
"Approfondimenti?"
"Bè, vedi, da un lato abbiamo la paranoia: si tende a ingigantire nei criteri del peggio tutto ciò che ci sta intorno, polarizzandolo all'interno. Se poi ti sposti un po' più al centro, ecco che cadi nel materialismo: non ti azzardi neppure ad esprimere opinioni personali, perché solo l'impersonalità è imparziale, e solo l'imparzialità ti da la certezza di vivere nel giusto; che dal punto di vista di un paranoico, sarà sempre sbagliato. Ma ecco che se ti spingi oltre il materialismo, approdi al cinismo. È tutto talmente insostenibile che devi inacidirlo ancora di più per dargli senso; come una corda di violino che si tende e prende fuoco.
Tu, mia cara Magda, sarai perduta se indugerai anche solo per poco in uno di questi inferni: la tua volontà dovrà schizzare come un ago impazzito tra le mille difformità dell'anima. Tra le sue deformità"
"Mi lasci andare, che così discutiamo meglio?"
"Ma tu non dormi mai? Fai la brava, ora ho le mani occupate"
"Se per te va bene, ne parliamo quando ti si liberano le mani"
"Niente da fare. Quando le mie mani torneranno libere, ad essere occupata diverrà la mia testa"
Magda sbuffava, belava e scalciava, ma questo non cambiava sostanzialmente la situazione. Era sempre stata una bambina capricciosa.

"Senti, caprone…secondo te io troverò mai l'amore?"
"Ah, l'amore! È come la morte: bisogna negarli entrambi, per continuare a vivere"
"Sei dalla mia parte o cerchi di farmi ammattire?"
"Chetati, bimba, stai solo assistendo come interna al tradizionale conflitto serale del tuo inconscio bacato"
"Paradossale che me stessa venga interpretata in special modo da me, e l'Opposizione si sia incarnata in un demone cornuto, non trovi?"
"Come pure è paradossale che tra noi due, sia io quello che si porta appresso il tuo odore, e non tu"
Magda provava ad annusare quelle braccia fogliesche e nerborute, e si sentiva preda del morso della familiarità. Quella bestia sapeva di liquirizia pura, cinnamone e carta stampata. Odorava di lei.

Ma le riflessioni forzate sono come le flessioni sulla punta dei mignoli: solo un maniaco riuscirebbe ad eseguirle.

L'Urbanismo Magico di Magda si spense in un comodo, caldo letto non rifatto, dove mescite di mestruo disseccato e caramello arabico si contendevano il monopolio miasmico. E si risvegliò da un sonno sintetico alle sei di mattina.

Come prima cosa, fece quello che faceva sempre dopo un sogno particolarmente vivido, ovvero: controllò di avere con sé tutti i pezzi. Rimirando la propria schiena nello specchio dell'armadio, si accorse che era istoriata di strani motivi dall'andamento all' apparenza casuale; sembravano tratteggiati col carboncino.
"Se non altro, ho rimediato un nuovo tatuaggio. Farò colpo all'università, se non sbiadisce prima dell'estate. Il tatuaggio, naturalmente"
Poi fece quello che le era capitato di fare solo due volte, prima di allora (la prima quando sua madre se n'era andata, la seconda non è affar nostro): pianse.
Era un pianto che andava controcorrente, letteralmente: le lacrime sembravano rifluire al contrario.

Dopo aver sbrigato anche quest'incombenza, si dedicò all'attività che le tornava utile solo nelle situazioni di emergenza: telefonò a suo padre.

"Che c'è, hai finito i soldi?"
"Scusa se non ti ho chiamato prima, papà. È che sono successe…"
"…Così tante cose. Certo, lo so. Non ci crederai, ma - forse perché non sono più oberato dalla tua presenza in casa, o forse perché l'altra volta, con quei rimproveri, mi hai scosso qualcosa dentro e giuro che non erano le coronarie - sono riuscito a farmi assegnare un nuovo tipo di incarico"
"Un nuovo incarico…?"
"Già, è qualcosa di…bé, diciamo di più personale. Ho voce in capitolo nella questione adesso: si tratta di costruire una scuola materna, niente di speciale, ma il mio pattern decisionale si è decisamente allargato; pensavo a qualcosa di funzionale e amichevole stile Bauhaus, con delle punte di naturalismo casa-giardino…ma tu stai piangendo"
"Oh, non è niente. Mi sento talmente felice…e anche profondamente delusa. Felice di essere delusa. Delusa di essere felice"
"…"
"Interpreto il tuo silenzio come un cara Magda, ho così tante parole di conforto da dirti che davvero non so da dove cominciare"
"Non sono arrivato a fare il lavoro che faccio con l'arte oratoria, piccola mia. Ma qualcosa te la posso dire"
"Cominciamo bene"
"O me o il Telefono Azzurro (e lì, stanne pur certa, non si occupano di dilemmi esistenziali).
Il fatto è che tu – sono tuo padre, dunque si fottano Edipo e Sigmund Freud – sei molto attraente, ma il tuo aspetto non è altro che un bluff. Sei così piena di idee in quella testolina!, ma non ti servono a niente nei rapporti con gli altri.
Le persone si infilano nella tana del ragno perché vogliono essere divorate, perché si aspettano di essere divorate. E invece cosa scoprono? Che il ragno sta per tenere una conferenza di teosofia discorsiva: cento volte peggio della morte per ingestione"
"…"
"Non so nemmeno di cosa stiamo parlando, ma credo che per oggi basti così. Rifletti su quanto ti ho detto, e vedi se può tornarti utile. Se non può, prega che il mio asilo crolli sulla testa di quei pargoli. Buonanotte, tesoro. Anzi, buongiorno"
"Buongiorno, papà. Vedi di non uccidere quei bambini"

Magda fissò i suoi libretti universitari semiaperti su una scrivania nell'angolo. Era arrivata a un punto di svolta.
Fermiamoci un attimo e proviamo a dare spiegazione di quello che successe.
Prima di tutto, bisogna prendere in esame la figura creativa per antonomasia: il creativo è solito drogarsi e/o sperimentare varie forme di astrazione onirica quando si trova in una condizione di rilassamento.
Solamente quando è preda dello scoramento e teme di aver scordato i dettami della vita, allora e solo allora il creativo compie l'unico atto che può nuocergli gravemente alla salute fisica e mentale: mettersi a studiare i testi universitari.

Dietro le imposte che sbarravano la finestra, il mare palpitava dell'isteria di una luna cerata.
L'osteria chiude a mezzanotte. È tempo di lavorare, coglioni.

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Capitolo 13
*** Tavola Tredici, L'intanto d'altra parte ***



La mattina successiva, quando raggiunse il loculo universitario, Magda si sentiva la faccia insolitamente gonfia. O meglio, dilatata: come se due mollette invisibili le stessero lentamente sformando i lati del viso.
Si fece prestare uno specchietto per il trucco da Henriette, la quale era notoriamente gelosa dei suoi averi – di cui tra l'altro faceva mostra con parca contenutezza – ma per un qualche arcano mistero non rimaneva mai a corto di articoli da maquillage.
E così, dicevamo, si guardò allo specchio: sembrava una rana.

Iniziata la lezione, tutto divenne improvvisamente chiaro. Il professore blaterava (non importa di cosa, si trattava in ogni caso di una lingua neolatina facilmente comprensibile da una diciottenne europea), lei prendeva appunti e… nella sua testa avveniva un silenzioso conflitto di cui solo la proprietaria sembrava avvertire l'assordante cacofonia. L'emisfero sinistro e quello destro stavano litigando.

Sempre lì nel tuo mondo a gingillarti in qualche utopica assurdità! Studia, piuttosto! E non perdere la concentrazione!, diceva l'emisfero sinistro – non senza mantenere un encomiabile contegno. Altrettanta padronanza non vantava invece l'emisfero destro, che dalla vorticante nebbia grigiognola della sua reclusione forzata, rispondeva in tono smorzato: Uhmmm…Domani voglio le albicocche a colazione.
Ovvio che l'altro rincarava la dose:Pronto? C'è nessuno in casa? Qualcuno può dire all'emisfero destro di lasciar perdere quella compagnia itinerante di rivoluzionari pret a portér e concentrarsi sulle cose serie? Ma cosa credi, che un giorno ti faranno ottenere un lavoro? Pensa piuttosto al qui e ora, al "oggi mi laureo e domani forse mangio"!. A quel punto, l'emisfero destro s'inalberò come non gli succedeva da molto tempo, e la piccola tempesta serpeggiante diventò uno tsunami di cumulonembi color carbone: Senti un po', maresciallo della pubblica lobotomia… Forse a te farà piacere un futuro rinchiuso in un cubicolo di due metri per due (si, so contare anch'io) facendo telefonate da mattina a sera, ma io punto a una soluzione alternativa. E lo sai che qui dentro comando io, da sempre. Perciò adesso stai buono e limitati a prendere quel cazzo di appunti!.
E sinistro mugunava: Non è giusto, solo perché lui ha le sinapsi più lunghe…Mica vuol dire qualcosa, tutt'al più gli mancano dei neuroni….
Hai detto qualcosa?
No, no, scusa… Per favore non t'incazzare

Il viso di Magda si sgonfiò.

E così la giornata continuava, con una piccola sezione di lei che s'impegnava a non smarrire il filo di ciò che le ruotava intorno, ed il suo cuore profondo e pulsante che si arrovellava a più non posso per risolvere il quesito postole da Valerie: "Come si rappresentano le persone?".
Più che facilitarle il compito, sembrava ostruirle il cammino.
Ma ecco che risuonava un febbrile grattar di sedie, e le cartelle tiranne premevano contro le spalle dei loro ignari portatori. E Luc le posava una mano sulla spalla e sussurrava con una dose di bon ton pericolosamente vicina alla carie: "Ti andrebbe di pranzare con noi? La piccola Henri dice che non viene con noi due maschiacci, se non ci sei anche tu".
Henriette stirò la boccuccia accondiscendente, arricciandosi i liscissimi capelli da bambola in un gesto oscenamente naturale.
"Mi dispiace, Luc, davvero, ma questa sera ho del lavoro urgente da sbrigare, e se non mi ci metto adesso rischio di non finire più"
"Che genere di lavoro?"
"Un…ehm, definiamolo un mandato artistico"
Evidentemente il bel giovane non sembrava deciso a indagare oltre; tuttavia si sedette accanto a lei e la guardò in modo sottilmente canzonatorio.
"Dì un po': te ne stai sempre per conto tuo?"
"Dovrei stare per conto di qualcun altro?", rispose lei con freddezza.
Luc rimase a bocca aperta, mentre il poderoso Jean emergeva non si sa come da dietro Henriette ridacchiando gioviale: "Ti ha ricacciato le parole in gola, eh, bello?"
"Ma…sbaglio o parli un po' meglio il francese?", disse la piccola lolita con una nota di stizza.
Magda decise che a quel punto, si, tanto valeva scoprire le carte.
"Ho studiato come una matta in questi giorni… Si può dire che abbia letteralmente divorato il dizionario. E poi, a forza di abitare in un ostello, la pronuncia si è corretta da sé"
Luc si grattò la testa ispida, tanto eterea da dare l'impressione che in quella massa fiammante non potesse albergare la minima parvenza di sporco.
Poi si congedò brevemente con un: "Ok", e un'alzata di spalle.

Mentre uscivano, l'udito sensitivo di Magda captò in extremis le parole di Henriette: "E dire che mi pareva strana quando si esprimeva come una troglodita…Adesso che sembra capire tutto ed è pure capace di fare battute di spirito stravolgendo il significato delle frasi, mi spaventa ancora di più".
Magda si tirò in piedi digrignando i denti. "Per una che si da tante arie, ha il cervello decisamente poco ventilato".
Inciampò, vacillò, si districò e uscì in corridoio. Non fu proprio sicura di aver visto giusto – c'era una luce accecante che riverberava dalle vetrate in fondo – ma le parve di scorgere la sagoma solitaria del Jean di poc'anzi che agguantava un ragazzino magro per la nuca e gli spremeva il naso contro un armadietto di metallo. E un rumore liquido, come di splat.
Il profilo del robusto ripetente dava l'idea di una fusione blasfema tra Jack Black e Philip Seymour Hofmann.
"Posato…Come no! Solo il giovedì pomeriggio, in esclusiva per le ragazze attraenti. È proprio vero che la madre degli stolti è una bagascia insaziabile".
Inutile aggiungere che l'oggetto del rimprovero era nientepopodimeno che il suo lato ingenuo.

A metà corridoio, a Magda sovvenne di aver lasciato la cartella in classe. Si vede che non era giornata.
Fatto ancor più imprevisto, seppur non irritante, fu il constatare che una sagoma solida, da lei distrattamente registrata con la coda dell'occhio; una sagoma che sembrava procedere a passo spedito guardando avanti a sé, infischiandosene di lei; una sagoma che avanzava al suo fianco, frenò con la stessa improvvisa imprecazione da lei proferita, e invertì il senso di marcia nel medesimo, preciso momento.
Ora entrambi erano consapevoli di camminare fianco a fianco, ma non osavano guardarsi.
Questo almeno, finché non giunsero davanti alla porta, e – persi nella loro ostinata mancanza di considerazione del prossimo – si ritrovarono schiacciati l'uno contro l'altro.
Tra mugugni e sospiri decisamente poco cortesi, Magda si districò per prima, poi – da bravo cavaliere – venne lui. Si guardarono, finalmente.
"Ma tu… Non ci posso credere", dissero all'unisono.
"Tu sei la ragazza della libreria!".
"Ecco dove ti avevo già visto", borbottò poi Magda, senza però essere certa del reale significato delle proprie parole.
Si osservarono per un po', indecisi su cosa fare. Infine lui spezzò di nuovo il silenzio.
"Ma tu guarda se non è una fortuita coincidenza!"
"Perché fortuita?", chiese lei in tono scettico.
"Mah", rispose lui, con l'aria di chi è stato colto con le mani nel barattolo della marmellata, "Detto sinceramente, sono grato alla sorte per averci fatti rincontrare. O perlomeno, ne sono più lieto che se mi fosse capitato di inciampare in quel marcantonio tatuato della stazione che mi chiede sempre dei soldi".
"Mi chiamo Pierre", disse poi, tendendole la mano.
"Magda", disse lei stringendogliela. Aveva una stretta asciutta, riguardosa, e niente affatto delicata.
"Spero che Luc non ti abbia parlato di me", si affrettò a ingiungere lui con un sorrisetto nervoso.
"Conosci Luc?"
"No, certamente non l'ha fatto… È troppo impegnato a entrare nelle tue grazie per ricordarsi di infamare il suo migliore amico"
Certo, non ha peli sulla lingua, considerò Magda scrutando l'espressione solo apparentemente distratta del suo interlocutore.
"Ci eravamo già visti?", chiese poi all'improvviso, "Intendo…Dopo quella volta in libreria?".
Lui fece un sorriso appena accennato.
"Non è nella mia natura omettere i particolari più scabrosi, e forse è proprio per questo motivo che sono una calamita per le brutte figure ma… Ti ho sognata"
"Hai sognato me?"
"No, no, non proprio te. Ho sognato una ragazza che ti assomigliava tantissimo. Era un sogno vivido, inquietante eppure bellissimo. Così sconcertante che ho pensato di raccontarlo alla prima persona che vedevo. In questo caso, Luc"
"E chi non è capace di sognare, cerca in continuazione di appropriarsi dei sogni degli altri", aggiunse in un secondo momento.
Ma a Magda parve di aver parlato per prima.

C'era il rischio che dimenticasse la cartella una seconda volta, quindi si affrettò a raccoglierla e poi, rivolgendosi a quell'imperscrutabile ragazzo di cui non riusciva a capire le reali intenzioni con un misto di distacco e calore (granatina tiepida), lo congedò.
"Mi ha fatto piacere incontrarti, Pierre. Chissà, magari uno di questi giorni ci becchiamo"

Magari uno di questi giorni ci becchiamo. Ci becchiamo.
Pierre sembrò ruminare quelle parole a bocca chiusa, meditando. Il suo sguardo era comicamente serio.
"Quando vuoi", disse poi.
Ma lei era già fuori dalla scuola.
Non si era permessa di dirgli che anche lei aveva sognato lui, quella notte. C'era un deserto, e un asilo abbandonato. E poi un salottino. Era stato un sogno imperniato di dolcezze e struggimento. Una mattanza.
Ma non voleva correre il rischio di prendere lucciole per lanterne, perché lui poteva non essere effettivamente lui.

Pierre aveva gli occhi azzurri, di un bell'indaco spento.
Il ragazzo del sogno aveva gli occhi nocciola.

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