L'Ultimo Angelo

di Lizzyyy02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- Il Dolore ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2- Sensazioni Contrastanti ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3-La Voce Nei Sogni ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 -Cremisi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


«Aaron, ne sei proprio sicuro?» Chiese Baldwin più che sorpreso. La notizia l’aveva scosso, e un senso di preoccupazione iniziava a diffondersi in lui.
«Credi che potrei sbagliarmi su una cosa del genere?» Rispose il Semidemone a tono.

Baldwin prese a camminare per la stanza con una mano tra i capelli, gli occhi ridotti a due fessure luminose. Aaron ormai lo conosceva come le sue tasche, sapeva bene che nella sua testa si stavano affannando i più disparati pensieri. Si fermò di colpo: «Sai questo cosa vuol dire?» Chiese, lo sguardo a terra ma la voce dura.
«Lo so benissimo» Replicò Aaron.
«E dimmi…Lui ne è a conoscenza?» Chiese ancora Baldwin, il corpo bloccato nella stessa esatta posizione, come fosse stato una statua di cera. Evidentemente non poteva sprecare energie preziose a muoversi, quando il suo cervello ne aveva un così disperato bisogno per rimuginare. 

Per tutta risposta il Semidemone scoppiò a ridere. «Ma lo sai di chi stai parlando? È ovvio che ne è a conoscenza» Fece una pausa, poi riprese con più vigore: «Perché credi che te ne abbia parlato» A quel punto Aaron portò lo sguardo sull’amico, come a studiarlo, rimproverarlo quasi, per la sua preoccupazione. «Vuole che ci occupiamo della questione» Terminò.

Anche Baldwin ricambiò il suo sguardo, per poi porre fine alla sua temporanea immobilità e riprendere a camminare con la mano tra i capelli. «Avrebbe potuto affidarla ai Primari, sarebbero stati sicuramente più efficienti...».
«Prima di tutto, la nostra forza è paragonabile a quella dei Primari. Secondo, non voleva che “l’altra parte” ne venisse a conoscenza. Quei santarellini stanno per andare in vantaggio e faranno di tutto per proteggerla...Lui ha ritenuto che se ce ne occupiamo noi faremo meno scalpore, e avremo più occasione di colpire».
Baldwin lo fissò ancora. Aaron non si sarebbe sorpreso se la sua testa avesse iniziato fare del fumo per le troppe riflessioni che si stavano accalcando lì dentro.
Molto semplicemente il suo amico sospirò e disse:«Be, comunque sia è un Suo ordine. Non possiamo rifiutarci».
Di colpo la stanza fu inondata di una luce abbagliante. Quando il lampo diminuì mano a mano la sua intensità, la stanza era completamente vuota.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1- Il Dolore ***


Barcollò di nuovo. Mentre camminava la mente di Catherine fu oscurata da una nube carica di dolore, e perse il controllo sulle sue gambe.

Fu costretta ad appoggiarsi nuovamente al muro di un edificio, a cui era rimasta vicina, quasi attaccata, perché sapeva che il "dolore" avrebbe colpito ancora, con la stessa forza.
Sapeva che l’avrebbe investita come un fulmine, intrappolandola, costringendola a reggersi per non perdere l’equilibrio.

Non ricordava esattamente quando era iniziato il "dolore”: era stato un crescendo, si era avvicinato a lei di soppiatto, senza fare rumore, ed era arrivato a farla soffrire giorno e notte.

All’inizio la zona interessata era stata la testa.
Erano iniziati piccoli mal di testa, a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro, fino ad arrivare ad emicranie costanti e a momenti in cui credeva che la sua testa si sarebbe spaccata in due.
Poi, piano piano, erano scemati, e così come erano arrivati sembravano essersi finalmente dissolti.
Catherine si era sentita libera, come se per tutto il tempo si fosse trovata in trappola nel suo stesso corpo; ma non sapeva che “il dolore” aveva in mente qualcosa di peggio da colpire: il suo stomaco.

Erano passate due settimane circa dall’ultimo terribile mal di testa, ed era ormai convinta di essersi ripresa del tutto.
Stava mangiando con gusto il polpettone di carne preparato da sua madre, tipica cena del martedì; quando, con la bocca ancora piena, i suoi occhi si erano spalancati: le parve quasi che il suo stomaco avesse urlato di sdegno, come se non volesse che nemmeno una briciola di ciò che si era messa in bocca lo sfiorasse.

Si era alzata di colpo, correndo in bagno e piegandosi sulla tazza, rimettendo tutto ciò che aveva mangiato. Quella notte la passò quasi interamente a vomitare nel suo water. Il peggio arrivò, però, nei giorni successivi; sembrava che il suo stomaco non solo rifiutasse il polpettone di sua mamma, ma tutto il cibo che provava a ingoiare.
Il medico non sapeva spiegarsi questo fatto, e le prescriveva farmaci su farmaci, che non avevano alcun effetto. In quelle settimane era arrivata a perdere 10 kili.

Ovviamente non andava più a scuola, non solo per il suo malessere, quanto per la vergogna che provava.
Passava le sue giornate a letto e pensava, pensava in continuazione: al "dolore", ai suoi compagni, alla sua migliore amica, a tutte le lezioni che avrebbe dovuto recuperare, al "dolore", ai suoi genitori, al "dolore.

Di notte pregava, ad un Dio che non sapeva se la ascoltasse. Pregava di stare meglio, di capire cosa le stesse succedendo.
Sua madre era più disperata di lei: ogni giorno la guardava mangiare quelle poche cose che riusciva a tollerare, ogni giorno le reggeva i corti capelli mentre lei era chinata sulla tazza; le accarezzava la testa e le sussurrava: «Mi dispiace tesoro, mi dispiace così tanto». 
Ogni settimana aveva l'appuntamento fisso con il dottore, il quale le ripeteva sempre la solita frase: «Dobbiamo aspettare che il tuo stomaco si stabilizzi». 
La ragazza non sapeva cosa significasse esattamente “stabilizzato”, anche perché il suo dottore non riteneva che fosse importante spiegarlo, ma d'altronde...cominciava quasi ad abituarsi a quei pochi alimenti, alla precarietà di tutta quella situazione.

Il lato positivo era che aveva, appunto, molto tempo per pensare, soprattutto al "dolore". Era arrivata a capire che non si trattava di un semplice virus, di una banale malattia.

Era lei, a stare cambiando, in qualche modo.
"Si ma come? E perché? Questo “dolore” continuerà all’infinito? Magari colpendo altre parti del corpo?" Solo le più frequenti delle innumerevoli domande che si ripetevano in loop ormai da molte settimane nella sua mente, come uno scadente ritornello di quel tormentone che odi ma che non riesci a toglierti dalla testa.

Inoltre...si era resa conto che non solo il suo corpo stava subendo un cambiamento, ma anche la sua mente: nonostante la lentezza degli arti, dei movimenti, la continua spossatezza, i suoi ragionamenti non avrebbero potuto essere più lesti, a volte persino brillanti; una sera aveva stupito suo padre, mentre parlava di geografia e non riusciva a ricordare la capitale dell'India.

«È New Delhi, papà» Aveva detto di slancio, con tranquillità, quasi senza pensare. Solo dopo una buona manciata di secondi si era bloccata, rendendosi conto di aver parlato. Perché conosceva la capitale dell'India? Fino a un momento fa non credeva di conoscerla, oppure si?

Sempre più spesso le erano capitati episodi del genere in questi giorni...o si era interessata a cose che prima non la sfioravano per niente, come la storia antica.

Per tutto il tempo si arrovellava il cervello intorno a quegli interrogativi sul "dolore", e sulla natura dei suoi nuovi slanci culturali, ma era impossibile trovarne le risposte.
 
Oggi era il giorno del suo ritorno a scuola dopo più di un mese a causa del suo stomaco (era già mancata un paio di settimane per i mal di testa) e, nonostante il suo organismo si fosse arreso all’idea di mangiare molto poco, si sentiva ovviamente debole, per questo aveva sensi di svenimento, o le cedevano le gambe.

Quando arrivò a destinazione, fece un grandissimo sospiro di sollievo, e si diresse verso la sua classe.
Per la prima volta dopo molto tempo, si preoccupò per il suo aspetto: aveva indossato un'anonima tuta blu scuro, piuttosto larga per non far notare il suo dimagrimento precoce, ma solamente un ceco non se ne sarebbe reso conto. 
Inoltre quella mattina, guardandosi allo specchio, aveva constatato che l’unica cosa che poteva dirsi a posto erano i suoi capelli, di un marrone molto scuro, ondulati, lunghi fino alle spalle.
Il resto non era messo molto bene: non aveva avuto né tempo né voglia di truccarsi, e il suo viso era pallido come un lenzuolo, i suoi occhi nerissimi erano incorniciati da un bel paio di occhiaie violacee.

Appena mise piede nell’aula, fu investita da un vero e proprio tornado dai capelli ramati e gli occhi verdi: il “tornado Evelyn”, la sua migliore amica e compagna di classe da quando aveva 7 anni. 
Subito la prese per le spalle, cominciando a farle mille domande, soprattutto sul perché non l’avesse chiamata.

Immediatamente Catherine ebbe un altro senso di svenimento, e dovette aggrapparsi all’amica. Evelyn la sorresse repentinamente, notando appena la toccò che c'era qualcosa di diverso in lei.
«Cate, ma cosa ti succede?» Chiese Evelyn disperata, guardandola con quei suoi occhi del colore delle foreste, che la analizzavano preoccupati.

"Quanto vorrei saperlo, Eve" Pensò la ragazza con rassegnazione, per poi dire: «Evelyn scusami se non ti ho avvertito, non volevo farti stare troppo in pensiero» Fece una pausa, in cui si rimise dritta. «sei decisamente troppo paranoica» Catherine le rivolse un sorriso sincero, buttandola sul ridere, anche se quella frase aveva un fondo di verità: la sua amica tendeva ad esagerare tutto quanto; se gliene avesse parlato, Evelyn non avrebbe pensato ad altro per un mese, e non voleva procurarle ansia.
Eppure, ora era arrivato il momento di dirle tutto, non solo per rispetto verso di lei, ma anche perché non poteva che confessare di fronte a quegli occhi belli quanto inquisitori: «In questi giorni sono stata molto male e...nemmeno il dottore riesce a capire cos’ho; però non ti devi preoccupare, sembra che mi stia riprendendo» "O almeno lo spero".
 
La ragazza capì dal viso di Evelyn che si era molto offesa, ma l'apprensione non era scomparsa dai suoi occhi.
«Ti stai “rimettendo”? Cate ma ti sei vista? Hai il viso pallidissimo e inoltre…» La sua amica le toccò un fianco «pare anche che tu abbia smesso di mangiare»
«Il mio stomaco ha iniziato a fare il ribelle, ma ti ripeto Eve, ora va meglio» Le disse, per poi sorriderle.

La ragazza era ancora palesemente offesa, poi però si arrese con un sospiro «Sarà meglio che sia così» Le disse, per poi abbracciarla sorridente «Sono così felice di rivederti!»
«Anche io» Le rispose Catherine, ricambiando l’abbraccio.

Dopo Evelyn fu il turno dei suoi compagni di classe: tutti le chiesero come mai fosse mancata tanto tempo.
Come con la sua amica, fece la vaga e fortunatamente nessuno indagò toppo.
Rimase a chiacchierare con Evelyn e alcuni suoi compagni, che la aggiornarono sulle novità e sugli episodi divertenti accaduti in classe durante la sua assenza.

Al suono della campanella che annunciava la prima ora, ognuno prese il suo posto. All’entrata della professoressa tutti rimasero sorpresi: l’insegnante era seguita da due ragazzi mai visti.

«Buongiorno ragazzi, e ben tornata Catherine, spero che ti sia ripresa» Disse la professoressa guardandola.

Anche i due ragazzi sconosciuti puntarono i loro sguardi indecifrabili su di lei, e la ragazza sentì un come un brivido di freddo attraversarle la schiena.
Preoccupata pensò che fosse il “dolore”, ma il brivido scemò così come era arrivato…possibile che...fossero stati loro a procurarle quella sensazione?

Stava per rispondere alla professoressa ma lei riprese a parlare immediatamente: «Passiamo subito alle presentazioni; Aaron e Baldwin frequenteranno questa classe; so bene che siamo a metà anno, ma sono sicura che si ambienteranno benissimo insieme a voi. Prego ragazzi» Disse poi, rivolta ai nuovi alunni.

«Piacere, sono Aaron Dunkel» Disse schietto e diretto uno dei due; era altissimo, e la camicia bordeaux gli fasciava alla perfezione il fisico statuario; aveva i capelli biondo scuro, cenere, e gli occhi affilati di un marroncino particolare, quasi dorato.

Anche l’altro si fece avanti: «Piacere, mi chiamo Baldwin Mane»; al contrario di Aaron, che aveva un fisico da atleta, lui era più magro, ma altrettanto altro; i suoi capelli erano color della notte, e aveva gli occhi azzurri più limpidi che Catherine avesse mai visto.

Entrambi erano di una bellezza sconvolgente, ma sembravano avere qualcosa di strano, come una specie di alone oscuro che non li rendeva quasi del tutto...umani.

"E questa da dove ti è venuta" Pensò Catherine. 
Le ritornò in mente quella volta che aveva detto la capitale dell'India senza sapere di conoscerla.

«Adesso che vi siete presentati, dovrò assegnare ad entrambi un tutor: dato che siete arrivati a metà anno potrete sentirvi spaesati; questa persona vi farà visitare la scuola e vi metterà al passo col programma svolto fino ad ora…»

«Possiamo sceglierla noi?» Chiese subito il biondo all’insegnate, interrompendola. L’altro ragazzo, Baldwin, sembrò improvvisamente preoccupato.

Le sembrò quasi di aver già sentito la sua voce, ma era sicuramente solo un'impressione. Era certa di non aver mai visto quel ragazzo in vita sua prima di oggi.

«Ehm…dovrei essere io a stabilirlo Dunkel…in fondo voi ragazzi non conoscete questa classe…» Disse, quasi come se stesse cercando di calmarlo.

Il ragazzo, Aaron, fece scorrere gli occhi color ambra su ogni persona seduta, e non appena arrivarono su di lei, Catherine sentì di nuovo quel brivido. Subito si chiese se non stesse impazzendo.

«Scelgo lei» Affermò con un ghigno, indicando verso Catherine.
Per un momento la ragazza ebbe l’istinto di girarsi, per vedere chi avesse indicato, ma quando constatò che la stavano fissando tutti, capì che aveva davvero indicato lei.

Il primo pensiero che le si formulò in testa fu: "Perché!?".
Come se le avesse letto nella mente, il ragazzo aggiunse subito dopo «Mi sembra una persona onesta» Quel ghigno non aveva mai abbandonato il suo viso. Ma quanto erano affilati i suoi canini?

Proprio mentre iniziavano a diffondersi fischi, risatine e occhiate eloquenti dai suoi compagni, Catherine, diventata del colore di un pomodoro, stava per balbettare qualcosa (nemmeno lei sapeva cosa).

Prima che dicesse qualcosa di cui probabilmente si sarebbe pentita, intervenne la professoressa in suo soccorso: «Sarebbe meglio di no Dunkel, la signorina Campbell è tornata dopo un lungo periodo di assenza e anche lei deve recuperare molto del programma» Affermò, improvvisamente severa.

La ragazza si sentì stranamente sollevata, e non riusciva a capirne il motivo: infondo avrebbe dovuto essere onorata che un così bel ragazzo l’avesse preferita tra tutti i suoi compagni, ma non era così. C'era...qualcosa...un presentimento, una sensazione su Aaron, che le incuteva quasi...timore.

«Beh…» Continuò l’insegnante «credo che i due migliori della classe possano sicuramente andare bene come tutor. Carlos, a te affido Dunkel» Disse, guardando Carlos Randall, un ragazzo gracile e dai capelli riccissimi, a cui Catherine si rivolgeva sempre quando aveva problemi con matematica.

Non appena la prof lo nominò, fu colto da un sussulto. 
Forse non era l'unica ad avvertire quella sensazione su Aaron...o più semplicemente Carlos era fatto così.

«E signorina Thomas, a te affido Mane» Evelyn, invece, non fu minimamente sorpresa quando la professoressa fece il suo nome; Catherine ricordava che Eve fin da bambina aveva primeggiato in classe, soprattutto per il fatto che la sua amica prendeva sempre tutto molto sul serio, e per lei i voti erano importantissimi.

Catherine si lasciò sfuggire un sospiro: l'istinto le diceva di non avvicinarsi ad Aaron o Baldwin, il che era piuttosto strano per lei, visto che non aveva mai avuto un istinto sviluppato...cosa che era cambiata da quando era arrivato il “dolore”.

In seguito i due ragazzi presero posto nei banchi che erano stati aggiunti per loro in fondo all’aula, sulla destra; a Catherine bastava voltarsi appena per riuscire a scorgere il “ragazzo ambra”, il quale le lanciò un’occhiata impossibile da decifrare.

Proprio in quel momento, mentre i loro occhi erano ancora puntati l'uno sull'altra, e l’insegnante iniziava la spiegazione, presero a formicolarle le scapole.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2- Sensazioni Contrastanti ***


Catherine non era riuscita a seguire una singola parola delle lezioni, troppo presa dal fastidio insopportabile alle scapole; non avevano smesso di formicolare nemmeno per un secondo, solo ora, mentre si avviava verso la mensa, pareva che le avessero concesso un po' di tregua.

La ragazza era preoccupata che potesse essere una nuova invenzione del “dolore”, eppure si disse di non agitarsi troppo per un formicolio.
Mentre camminava in solitaria ripensava al bigliettino che le aveva fatto passare Eve durante biologia. Kimberly, la ragazza seduta alla sua sinistra, si era sporta poggiandoglielo sul banco e sussurrando: «Da Evelyn».
Cate l’aveva ringraziata e aveva letto: "Ehy Cate, ti dispiace andare in mensa da sola? A quanto pare devo mostrare la scuola alla versiene fallata di Brendon Lee ne "Il Corvo". A parte scherzi, davvero mi dispiace, questa si che è una seccatura. Gli faccio fare un giro veloce e ti raggiungo al solito posto <3" 

Cate aveva aggrottato le sopracciglia nel leggere il biglietto; nonostante la serietà che Eve metteva nel fare le cose, ed il suo essere piuttosto "secchiona" ed estremamente iperprotettiva, era una ragazza molto simpatica, che non perdeva mai occasione di fare qualche battuta; la sorprendeva il fatto che non avesse accennato a quel non poco imbarazzante "Scelgo lei" di poco fa, magari per prenderla amichevolmente in giro.

Forse era preoccupata che lei potesse fraintendere? Ma no, ormai riuscivano a capirsi con uno sguardo, qualsiasi imbarazzo si era volatilizzato parecchio tempo. Eppure non era stato questo ad averle fatto storcere il naso: Eve era sempre propensa a fare nuove amicizie, allargare il suo giro di conoscenze; tutti la consideravano una persona alla mano, affidabile, e dal suo canto Eve era sempre gentile con tutti, disponibile...
E allora perchè considerava Baldwin una "seccatura"? Anche la battutina che aveva scritto paragonandolo al protagonista di quel vecchio film le era parsa una nota stonata, quasi un tentativo di denigrarlo più che un modo per strapparle una risata. Non era affatto da lei.
  
Rapidamente aveva preso un foglio per risponderle, quando era suonata la campanella.
Catherine aveva visto l’amica alzarsi e sorriderle in modo quasi forzato, il che aveva aumentato quel senso di "stranezza" che provava. Dopodichè si era diretta dal ragazzo con i capelli nerissimi e gli aveva stretto la mano, ma senza sorridere.
Avevano parlato un po': non riusciva a distinguere cosa si stessero dicendo, ma scorgeva chiaramente negli occhi di Evelyn una strana ombra. Che fosse...diffidenza?
Poco dopo erano usciti dall'aula insieme.

Mentre il flashback della fine dell'ora scemava, Cate mise piede in mensa, già strapiena.

Guardando tutti quei piatti traboccanti di cibo, la ragazza fu quasi presa da un conato, ma riuscì a calmarsi. Velocemente si diresse verso il cortile, situato proprio dietro la mensa, e riuscì a trovare un tavolino libero. Aveva avuto fortuna: solitamente i tavoli all'esterno erano i primi ad essere occupati poichè molti riuscivano a fumare indisturbati, inoltre, una boccata d'aria era sempre piacevole, nonostante gli spifferi gelati occasionali con cui marzo annunciava la primavera.
 
Si sedette e prese dal suo zaino il portapranzo: dentro vi era un tristissimo riso in bianco e due uova sode. Molto lentamente prese a mangiare, pensando alla figuraccia che avrebbe fatto se avesse rimesso lì davanti a tutti.

«Qualcuno è a dieta» Fece una voce profonda e familiare sopra di lei.

Cate levò lo sguardo di scatto e vide un paio di occhi che avrebbe riconosciuto tra mille. La figura di Aaron si stagliava di fronte a lei, dalla parte opposta del tavolo. Aveva ancora stampato in faccia quel ghigno e reggeva tra le mani un vassoio carico di roba.

Aspetta, perchè aveva pensato che la sua voce fosse familiare?

«Probabilmente l’hai capito dalla stupida presentazione di prima, sono Aaron. Posso?» Chiese, guardando prima il tavolo, poi di nuovo lei.

La ragazza fu colta totalmente alla sprovvista, e la prima cosa che uscì dalla sua bocca in maniera quasi del tutto incanscia fu: «E Carlos?»
Aaron la guardò con aria interrogativa, poi il suo volto sì illuminò «Ah, il secchione riccio! Mi ha scaricato»

Cate non sapeva ancora decifrare il tumulto di sensazioni che provava anche solo guardandolo, ma per il momento si disse che la scelta migliore era allontanarlo da lì, o meglio da lei; ma il tono di voce con cui aveva pronunciato quella frase, e la visione immaginaria di lui che veniva piantato in asso dal gracile Carlos, le fece scappare una risata.
«Già» Continuò lui ridendo a sua volta e mettendo in mostra un paio di canini del tutto anormali «mi ha fatto fare a malapena un mezzo giro della scuola e alla prima occasione se l’è filata, non ho ancora capito se gli faccio paura» Probabilmente era proprio così, il timido Carlos non aveva mai avuto a che fare con tipi che sembravano così minacciosi…

Ma...Aaron le sembrava davvero minaccioso? Chiunque al suo posto vedendolo così alla mano e sorridente avrebbe risposto di no...ma lei...
"Cosa c'è che non va in me"

«Non mi hai ancora detto il tuo nome» Per poco non sussultò nel risentire la sua voce.
«Mi chiamo Catherine» Rispose la ragazza, con una certa e inspiegabile riluttanza. Le parve quasi che i suoi occhi dorati si sgranassero nel sentire il suo nome, ma il secondo dopo erano già tornati come prima e pensò di averlo semplicemente immaginato.
«Comunque» Continuò lui «ti ho vista qui tutta sola soletta e…»
«Ti ho fatto pena» Terminò Catherine per lui, con un mezzo sorriso. Proprio in quel momento uno spiffero la fece stringere nelle spalle.
Alle sue parole, Aaron si illuminò di un sorriso che la riempì di autentico calore. Improvvisamente, non sentiva più freddo. «Semplicemente ho pensato che volessi un po' di compagnia»

“Di certo non la tua" 

A-aspetta...cosa aveva appena pensato?
Un attimo prima veniva pervasa dal calore del suo sorriso, e quello dopo non riusciva a contemplare la sua sola presenza.

Era come se dentro di lei ci fosse qualcun'altro che pensava per conto suo, e che ogni tanto trasmetteva a lei i suoi pensieri.
Non riusciva più a capire se ciò che pensava veniva da lei o dall' "altro".

Perché aveva così tanto astio nei confronti di Aaron? Era stato gentile e non aveva fatto nulla per meritarsi la sua antipatia…era una sensazione inspiegabile e per questo snervante, ma che non riusciva a scacciare: sia la sua mente, che il suo corpo le dicevano di non fidarsi di lui e di tenersene alla larga…doveva assolutamente cercare l’origine e il motivo di quelle strane emozioni, e per fare chiarezza era necessario allontanarlo.

Guardando quel sorriso così luminoso, e quegli occhi (altrettanto luminosi) la sua determinazione vacillò un po', ma subito ritornò in sé. Sfoggiò anche lei un sorriso, sperando che non somigliasse più a una strana smorfia, e ribatté: «In realtà non sarò sola a lungo, sto aspettando la mia amica» Sperando che cogliesse il messaggio: la sua compagnia non era gradita.

Eppure Aaron insistette: «Bè possiamo stare tutti insieme, chi è questa tua amica?» Chiese, come se conoscesse tutti all’interno di quella scuola e non fosse arrivato poco meno di qualche ora fa.

Gli rispose comunque: «È quella ragazza alta, con i capelli ramati che fa la nostra classe, Evelyn. È la tutor dell’altro ragazzo che…» Immediatamente le parole si dissolsero in fiato, e si bloccò, realizzando il secondo dopo che era troppo tardi. Infatti Aaron alzò le sopracciglia e sorrise con aria sorpresa «Ah è la tutor di Baldwin! Perfetto! Faremo tutti pranzo insieme qui» Disse, sedendosi di fronte a lei.

“Si, perfetto” 

Immediatamente il ragazzo prese a mangiare. Aveva davvero di tutto in quel vassoio, anche alcune cose che non servivano in mensa e che doveva essersi portato da casa; mangiava lentamente, con gusto, e ogni tanto alzava lo sguardo verso di lei, come per studiarla.

Nonostante quella fortissima sensazione di evitarlo, Catherine non poteva non riconoscere anche un'altra sensazione nei confronti di Aaron: questa era persino più complicata da decifrare e decisamante impossibile da comprendere...o forse si.
Era qualcosa nel suo odore, nel suo aspetto quasi divino, che la attraeva come una calamita, tanto che le formicolavano le dita e averlo davanti la faceva fremere, quasi dolorante.

 Un’altra volta la sua voce la strappò ai suoi pensieri e, suo malgrado, si trovò ad arrossire violentemente.
«Per caso vuoi un pezzo? Vedo che hai un pranzo molto povero» Diceva, avvicinandole sotto la faccia un enorme waffle.
«Assolutamente no!» Fece Catherine, prima di riuscire a trattenersi. Il ragazzo ritirò il waffle con aria confusa «Scusa, non credevo ti facessero così schif…»
«No no» Lo interruppe «è solo che…» La ragazza sospirò affranta «il mio stomaco non sopporta più alcune cose…»

Improvvisamente il viso di Aaron si illuminò, come se avesse ricevuto una notizia sconvolgente, ma subito dopo si incupì, facendosi scuro in volto e chinandosi sul suo vassoio, concentrandosi solamente su di esso.

Cate pensò che fosse stata una strana reazione: chiunque avrebbe chiesto informazioni in più.

«Cate!» La ragazza si voltò sentendo un'inconfondibile voce che la chiamava. Vide la sua amica Eve che alzava un braccio per salutarla e con l’altro reggeva un vassoio, affiancata dall’amico di Aaron, Baldwin, anche lui con un vassoio tra le mani.

Entrambi sembravano quasi provati.

Vedendo il ragazzo seduto di fronte a lei, assunsero un’espressione piuttosto interrogativa.
«E tu cosa fai qui?» Domandò il ragazzo dagli occhi color del cielo al suo amico. Dopo che Aaron ebbe spiegato che si era seduto con Catherine per mangiare tutti insieme, i due si sedettero, ma non abbandonarono quell’aria sospetta. O forse era lei che iniziava a vedere cose che non esistevano.

Evelyn richiamò l’attenzione di Cate, facendogli cenno che le avrebbe dovuto spiegare tutto più tardi.
La ragazza si limitò ad annuire e riportare l’attenzione sul suo riso in bianco. Ora che c’era anche Baldwin, quella strana sensazione che le faceva desiderare di allontanarsi da lì era aumentata.

Fu un pranzo alquanto imbarazzante in cui quasi nessuno spiccicò parola. Cate fissava solo il suo riso e se ne stava zitta ad analizzare i pensieri; anche Evelyn stava per lo più in silenzio e ogni tanto sembrava scoccare ai due ragazzi delle occhiatacce; questi ultimi confabulavano tra loro, qualche volta tentavano di coinvolgerle in qualche discorso, ma senza successo.

Dopo che ebbero finito di mangiare, e i due ragazzi se ne furono andati, Catherine fu assalita di nuovo dal “tornado Evelyn”.

«Perché era qui?» Disse seria, tutto d'un fiato. La sua amica iniziava a comportarsi in modo strano; sembrava che anche lei non si fidasse di quei ragazzi, ma, al contrario suo, Evelyn, a quanto pareva, provava vera e propria antipatia, e non si faceva problemi ad esprimerla.

«Chi, Aaron? Mi ha visto qui da sola e ha pensato di raggiungermi…perché me lo chiedi?» Non era una semplice domanda di curiosità: Catherine voleva davvero capire cosa passasse per la testa della sua amica...magari avrebbe capito di più anche cosa passava per la sua, di testa.

Evelyn, per tutta risposta, fece un lungo sospiro, poi guardò Catherine negli occhi e la prese per le spalle.
«Cate, ascoltami. Non mi piacciono per niente quei due. Ho fatto visitare la scuola a Mane e…insomma meglio che non ci immischiamo con loro» Ok…questo era molto più che strano.

«Eve, per qualche ragione neanche io mi fido di loro...ma ora stai esagerando…cioè, non sono mica due assassini» Fece, ridacchiando, sperando di smorzare la tesione. Evelyn, invece, aumentò la presa sulle sue spalle e strabuzzò gli occhi come se avesse visto un fantasma.

Catherine iniziava a preoccuparsi sul serio. «Eve, cosa…?» Tentò, ma l’amica si alzò bruscamente dal tavolino, volgendo lo sguardo da un’altra parte.

«Non mi fido e basta…» Affermò severa, per poi allontanarsi velocemente.

A nulla servirono i richiami di Cate. La sua amica rientrò nell’edificio passando per la mensa, e in poco tempo scomparve alla sua vista.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3-La Voce Nei Sogni ***


Catherine si svegliò in preda ai sussulti.

Respirava affannosamente per riempirsi i polmoni d’aria, eppure non osava muoversi.
Percepiva la schiena e la maglia del suo pigiama fradice di sudore...ma non mosse un muscolo.
Il suo corpo era intrappolato, e l’unica cosa che poteva fare era rimanere assolutamente ferma.

Neanche lei seppe con certezza per quanto tempo rimase così: immobile ma tremante, con gli occhi spalancati nel buio e i respiri sempre più profondi.
Dopo quella che le parve un’eternità, cominciò a calmarsi; piano piano il ritmo dei respiri rallentò e smise di tremare. Con molta cautela sfilò la maglia, cambiandola con la prima che le capitò a tiro nel cassetto del comodino.
Catherine cercò di capire come mai fosse così sconvolta, quando, improvvisamente, ricordò il sogno che aveva fatto.

Fu come un lampo nella sua mente, e le provocò un nuovo tremito.
Nel sogno era accasciata contro il muro all’interno di una stanza che non aveva mai visto. Sia i suoi piedi che le sue mani erano legati, e quando aveva provato ad urlare per chiamare aiuto, si era resa conto che aveva anche un bavaglio intorno alla bocca. Quella stanza era completamente vuota, nemmeno un mobile. C’era solamente una porta semiaperta da cui proveniva una luce molto forte, e delle voci.
Catherine ne distinse tre; poi sentì qualcuno avvicinarsi alla porta e spalancarla con violenza contro una di quelle quattro oscure e soffocanti pareti.
La luce accecante dietro la figura non permetteva alla ragazza di distinguerla, ma era sicura di aver già visto quella persona da qualche parte.
Sembrava tenere in mano qualcosa di lungo e affilato, eppure tutta la sua attenzione era stata calamitata da ciò che si allargava -o meglio, si dispiegava- dietro la sua schiena.

Proprio mentre quelle “cose” si ingrandivano al punto da coprire tutta la sua visuale, la scena cambiò.

Ora si trovava sul tetto della sua scuola. Il cielo era chiazzato di nuvole rosse e rosa a perdita d’occhio in un intreccio che avrebbe commosso chiunque: uno dei tramonti più belli che avesse mai visto.
Un vento tiepido le scompigliò dolcemente i capelli, procurandole la pelle d'oca.
Improvvisamente, dietro di lei, una voce le parlò. Era solo un sussurro, ma la ragazza lo percepì benissimo: «È nato l’ultimo angelo».

Le parve che la voce stesse sussurrando anche altro, ma questa volta non riuscì a capire. Quando si voltò per sentire meglio, dietro di lei vide solamente una distesa infinita di nuvole cremisi.

Istintivamente volse lo sguardo verso il basso. Sotto i suoi piedi si stagliava il vuoto più assoluto.

A quel punto si era svegliata di soprassalto.
Catherine non ricordava di aver mai fatto un sogno così realistico in vita sua, ma ciò che la preoccupava davvero era come aveva reagito il suo corpo.
Era stato solamente un sogno, eppure il suo istinto le gridava che era davvero una cosa importante.
Quasi senza rendersene conto, prese a parlare, nel vuoto della sua stanza: «Si, d-devo ricordarlo, io...devo…»

Lentamente la sua voce si fece sempre più flebile fino a diventare un sibilo inudibile. Catherine cadde nuovamente preda del sonno.

La mattina seguente aveva dimenticato gran parte del suo sogno.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 -Cremisi ***


Erano passati due giorni da quando Catherine aveva fatto quello strano sogno, e ancora ci rimuginava.
Quel giorno, apena sveglia, il primo suo pensiero era stato: “Devo ricordarlo!”, ma subito dopo si era detta “Ricordare cosa?”.
Immediatamente, come in un flash, le erano venuti in mente frammenti di quel sogno, talmente vividi da sembrare ricordi. Aveva passato ore intere a cercare di ricordarlo per intero, ma anche sforzandosi, un buco nero sembrava averne inghiottito il resto.

Persino adesso, mentre il suo professore di storia molto basso e tarchiato, e dall’aria esausta, cercava di spiegare la Prima Guerra Mondiale senza svenire, Catherine non pensava che a quel sogno. Le uniche cose che erano state chiare e vivide fin dall'inizio erano quella figura misteriosa e nera, e quel tramonto meraviglioso visto dal tetto della sua scuola.
Successivamente, in seguito al tanto spremersi le meningi, era riuscita a ricordarsi di una voce, nel sogno, ma non riusciva minimamente a rammentare cosa avesse sussurrato. La ragazza fece un lungo sospiro continuando a martoriare il cappuccio di quella povera penna.
Doveva smetterla.
Se avesse continuato a rimuginarci non avrebbe ascoltato nemmeno una parola della lezione, e lei doveva recuperare molto; inoltre aveva capito che anche sforzandosi, non sarebbe riuscita a ricordare altri pezzi del sogno. Chissà perché le era sembrato così importante non dimenticarlo, cercare di ricostruirlo per intero. Ma adesso doveva davvero smetterla; infondo era solo un sogo.

Quella mattina era stata la prima volta che Catherine si era presa cura del suo aspetto dopo moltissimo tempo: aveva utilizzato la piastra, così da dare ai suoi capelli già mossi, una linea più definita; si era truccata, e non aveva indossato una di quelle tute larghe: nonostante avesse perso tutti quei chili, e non riuscisse più a riconoscere il suo corpo, ora doveva accettarsi ed imparare a convivere con il “dolore” e ciò che comportava.
Perciò si era messa i suoi jeans nuovi, una camicia, anche questa comprata da poco, e il suo giubbotto preferito. Si era guardata allo specchio poco prima di uscire, aveva sorriso e aveva sussurrato al “dolore”: -Non mi spezzi, puoi trovare altre mille modi, ma non mi spezzerai-.

Arrivata a scuola, Evelyn l’aveva guardata a bocca aperta, poi le aveva sorriso con calore, dicendo: -Sei un schianto!-.

Avevano già chiarito per ciò che era successo nel cortile; Evelyn il giorno dopo si era scusata per prima, dicendo che in quel periodo era un po' stressata e che aveva reagito più duramente di quanto avesse voluto. Aveva poi ribadito nuovamente che i due nuovi ragazzi non le piacevano per niente.

Quella mattina, dopo essersi seduta al suo banco, Cate si era ritrovata a cercare suo malgrado lo sguardo color ambra del ragazzo che le suscitava emozioni così contrastanti.

Eppure non lo aveva trovato, il banco occupato dal nuovo studente era vuoto. A quella vista, la sua mente si era come sdoppiata -di nuovo-: una parte aveva pensato: “Ma che meraviglia!” mentre un’altra: “Come mai è assente? Gli sarà successo qualcosa?”.

La ragazza si era passata una mano sulla fronte: cominciava ad odiare questa situazione, doveva assolutamente chiarire cosa davvero provava.

Il trillo assordante della campanella che segnalava la fine dell’ora di storia, la riportò alla realtà. Alla fine, com'era ovvio, non aveva ascoltato una singola parola della spiegazione.

-Bene, ragazzi- Borbottò il professore, con la voce che somigliava più ad un roco sussurro -mi raccomando, studiate bene la lezione di oggi per il compito della prossima settimana. Arrivederci- Fece, per poi andarsene.

Compito? Era davvero nei guai.
Fortunatamente a salvarla c’era sempre Eve. Catherine era pronta a scommettere che aveva preso diligentemente appunti per tutta l’ora, aggiungendo perfino cose che il professore non aveva detto. Stava per chiederle di studiare insieme nel pomeriggio, quando fece il suo ingresso la professoressa di matematica. Cate si era detta che se esistevano demoni a questo mondo, uno di loro si era reincarnato in lei.
Anche oggi era impeccabile: la crocchia ordinata di capelli corvini, i piccoli e sottili occhiali a coprire gli occhi ancora più sottili; la bocca minuta con un leggerissimo strato di rossetto, e l’immancabile cardigan a fasciare il suo corpo magrissimo, quasi ossuto. A seguire la sua entrata, un assordante strascicare delle sedie di tutti gli studenti, alzatisi in segno di rispetto.

Lei non rivolse nemmeno un’occhiata a nessuno. Si limitò a sedersi e a muovere la testa in segno d'assenso: permesso per risiedersi.
Nessun professore a scuola era come lei: non era solo severa, intorno a lei aleggiava un aria di supremazia che spingeva gli altri verso il rispetto assoluto.

-Oggi interrogo- La sua voce dura e piatta ruppe il silenzio; nessuno osò protestare o muovere un muscolo, lamentele di qualunque tipo sarebbero state fatali. Tutti comprimevano l'ansia in tic nervosi, sperando di non essere chiamati. La povera penna di Cate era diventata lo strumento da torturare e sulla quale sfogarsi. La Cole consultò il suo registro: -Credo che la signorina Thompson sia preparata per oggi-.

Dalla classe si levò un sospiro di sollievo generale; anche Cate subito sentì l'ansia volatilizzarsi sciogliendo quel nodo che le si era stretto intorno al petto. Sapeva di non essere una buona amica a pensarla in questo modo, ma era sicura che Evelyn avrebbe preso il massimo anche questa volta. La sua amica si alzò, andando alla lavagna, cominciando a svolgere il primo esercizio.
I suoi compagni si misero a copiare a testa bassa: incredibile come con la Cole, si trasformassero tutti in studenti modello.
Non volava una mosca, c'era davvero silenzio.

Forse anche troppo silenzio…non era un silenzio normale.

Catherine cominciò a sentire i battiti del suo cuore sempre più amplificati; sentiva il rumore delle sue ciglia che sbattevano, lo scorrere del sangue che fluiva nelle vene.

Prese a voltarsi a destra e a sinistra: erano tutti tranquilli. Il suo respiro, invece, era sempre più affannoso, e le riempiva i timpani.
Vide la professoressa scrivere sulla sua agenda che domani avrebbero fatto un compito a sorpresa…da quando vedeva da così lontano?

Il respiro non accennava a diminuire, e nemmeno quelle strane sensazioni.

E poi fu un attimo. Un solo attimo, in cui il "dolore" la colpì dappertutto.

E in quell’attimo Catherine non era più Catherine.
Poi tutta quella sofferenza si raccolse in un unico punto, un punto preciso, che già una volta le aveva formicolato.

La ragazza spalancò contemporaneamente occhi e bocca, in un’espressione che rappresentava alla perfezione ciò che stava provando in quel momento. Prese a tremare, non un piccolo tremito: il suo corpo si muoveva irrefrenabilmente e senza sosta, in risposta a ciò che stava accadendo in quel momento alla sua schiena.
Provò ad urlare, ma dalla sua gola non uscì nemmeno un suono, mentre gli occhi le si appannavano dalle troppe lacrime, che cominciavano a scendere.

Per un minuto buono rimase ferma e tremante, sopportando quel dolore immenso e mai provato prima, mentre la sua bocca si prosciugava della saliva, e le lacrime non si fermavano.
Non seppe nemmeno lei dove trovò il coraggio di sussurrare un debole: -P-prof…io d-devo a-a-andare i-in bagno-. Era una voce che non riconosceva, non aveva mai fatto questa voce prima: era acuta, debole e spezzata.

Era impossibile che la prof l'avesse sentita: intorno a lei non si era voltato nessuno, simbolo che la sua voce non era arrivata nemmeno alle orecchie di chi le stava vicino. Cominciava a sentire le forze abbandonarla. Sarebbe rimasta lì, in attesa dello svenimento che sentiva sempre più vicino.

Poi, inspiegabilmente, la Cole si voltò verso di lei, con uno strano luccichio nei piccoli occhi neri: -Puoi andare in bagno, Campbell-.

Cate non si chiese come ebbe fatto a capirla, o perché non avesse chiesto spiegazioni sul suo comportamento improvviso. Quelle poche, semplici parole, le avevano restituito le forze e, ignorando lo sguardo sconcertato dei suoi compagni e di Eve, tremante e con le gambe pronte a cedere in qualsiasi momento, raggiunse la porta e uscì.

Appoggiandosi al muro, con fatica arrivò in bagno; si chiuse la porta alle spalle e girò la chiave. Vomitò tutto ciò che era riuscita a tenere dentro la pancia, poi voltò la testa, tentando di guardare la sua schiena.

Mai aveva avuto paura come in quel momento, e non aveva smesso di tremare e piangere nemmeno per un secondo. Si sfilò il suo giubbotto preferito, lasciandolo cadere rudemente a terra.
Poi avvicinò una mano alla parte di camicia che le copriva la schiena; quando la sfiorò sentì il tessuto bagnato.

Non volle nemmeno immaginare cosa poteva essere.
Sforzandosi a causa dei tremiti, riuscì a slacciarsi i bottoni e lasciò cadere sul pavimento anche la camicia, rimanendo in reggiseno. Compì lo stesso movimento di poco fa, avvicinando la mano alle scapole, solo che questa volta, quando le toccò, dalla sua bocca uscì un grido acuto. Se la tappò con la mano sinistra, facendo forza e stringendo anche la guangia; la tenne poggiata lì anche mentre riportava la destra davanti ai suoi occhi: era colma di sangue cremisi.

Prese a singhiozzare, fissando la sua mano da cui colava il suo sangue.

La ragazza sentì che da lì a poco sarebbe svenuta, senza sapere se fosse per il trauma, il dolore o perché stesse perdendo troppo sangue. La sua mente era completamente sotto shock e in quel momento Catherine riuscì a formulare un solo pensiero: non doveva assolutamente svenire in bagno, annegando nel suo stesso sangue.

Raccolse le ultime forze che aveva, e, senza neanche rendersi conto di essere in reggiseno, uscì dal bagno, mentre dalle sue scapole zampillavano fiotti si sangue. Si ritrovò sul corridoio; la vista sempre di più appannata: qualche secondo e sarebbe svenuta.

All’improvviso vide una figura procedere verso di lei; la ragazza non riuscì a distinguere chi fosse, ma era così familiare.
-Ti prego- Sussurrò con l’ultimo soffio di fiato nei polmoni -aiutami- Catherine pregò che l'avesse sentita. Chiuse gli occhi e cadde a terra.  

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