Come conchiglie trascinate dal mare

di Persej Combe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ( apertura ) ***
Capitolo 2: *** ( prima conchiglia ) ***
Capitolo 3: *** ( seconda conchiglia ) ***
Capitolo 4: *** ( terza conchiglia ) ***
Capitolo 5: *** ( quarta conchiglia ) ***
Capitolo 6: *** ( quinta conchiglia ) ***
Capitolo 7: *** ( sesta conchiglia ) ***
Capitolo 8: *** ( settima conchiglia ) ***
Capitolo 9: *** ( ottava conchiglia ) ***



Capitolo 1
*** ( apertura ) ***




 










   «Ah, Meyer. Buonasera».
   Il professore l’aveva accolto nello studio con un sorriso stanco, sollevando piano la testa dalle carte, poi l’aveva guardato in silenzio. Pochi istanti appena, perché subito dopo era tornato ad impugnare la penna nelle dita e a scribacchiare. Meyer gli aveva fatto un cenno di saluto e si era richiuso la porta alle spalle.
   «Ne ha ancora tanto per oggi?» chiese, scrutando la mole di plichi e libri aperti sulla scrivania.
   «No, ho quasi finito. Anche perché tra poco c’è da chiudere il Dipartimento e se provassi a trattenermi anche un solo minuto di più mi caccerebbero», ridacchiò, «Lei? Ancora qui?».
   «Sì, ho incontrato quella tirocinante. Le serviva un confronto dei dati di Blaziken con quelli di qualche altro Pokémon».
   «Ho capito. Una brava ragazza, non le pare?».
   «Già».
   La penna del professore passava sulla carta. Nell’esaminare una formula complessa, ogni tanto Platan sospirava e si accarezzava i capelli. Meyer lo osservava, seduto all’altro capo del tavolo, seguendo il movimento della mano che andava a sciogliere i boccoli ricadenti ai lati della fronte.
   «Molto carina, anche», disse ad un tratto, col solo scopo di sondare la reazione dell’altro, che in risposta gli rivolse un’occhiata distratta, non avendo colto del tutto le sue parole: quando chiuse il tomo che stava sfogliando e lo ripose in ordine assieme al resto del materiale, gli lanciò un sorrisetto divertito.
   «È carina, è carina», ripeté quindi Platan, alzandosi dalla sedia e spostandosi verso la libreria «Ma, vede, è troppo giovane per me. Personalmente, ho dei gusti un po’ più maturi».
   Dopo aver sottolineato con una leggera enfasi la parola maturi, l’aveva guardato in silenzio un’altra volta come quando l’aveva accolto, e Meyer aveva avuto per un attimo l’impressione di affogare nel grigiore dei suoi occhi. Non poteva negare di compiacersi lui stesso di quelle frecciatine che di tanto in tanto egli gli indirizzava, sebbene sapesse di non essere l’unico oggetto di tali attenzioni.
   Tentennò, crogiolandosi nella sensazione che gli dava l’esser squadrato a quel modo da lui. Chiese: «Le dispiace se resto ad aspettarla?».
 
 
 
   Si erano scambiati qualche battuta, uno sguardo fugace sospeso nell’affievolirsi delle loro voci. Poi, di colpo, svoltato l’angolo, nella striscia nera tracciata dall’ombra degli edifici alla luce del tramonto si erano riversati l’uno contro l’altro in un bacio rovente. Si erano guardati un attimo, soltanto un attimo, gli occhi già languidi e vogliosi, per poi tornare a stringersi stretti in una morsa ossessiva, con le braccia che cercavano di inglobare l’intero contorno delle loro schiene. Nel turbinio dei respiri affannati e caldi, Meyer si lasciò soggiogare dalla bocca umida di lui, dallo schioccare ipnotico che quelle labbra producevano nel concedersi alle sue. Afferrandolo per i polsi, lo spinse contro il muro, e l’urto dei loro corpi fu piacevole. Sentì le sue dita andarsi a chiudere freneticamente tra le ciocche dei capelli per attirarlo ancora più vicino, ancora più vicino a sé. Lo raggiunse e continuò a rincorrerlo ogni volta che si allontanava, anelando a nient’altro che ad unirsi con lui, due poli opposti che dovessero a tutti i costi venire a collimare e combaciare tra di loro. Ad un tratto, però, lo avvertì svincolarsi leggermente. Allora fece scivolare il viso sul suo collo, docile docile, affondando nella sua pelle liscia e bianca.
   «Se mi beccano qui così, mi tolgono il posto», sussurrò Platan, il fiato corto che si allungava a sfiorargli appena le orecchie. Ma tradendo le intenzioni che aveva indirettamente espresso neppure un istante prima, tornò a cercarlo un’altra volta, e lo baciò di nuovo. Meyer si chinò su di lui, gli accarezzò le guance con le mani grandi e robuste. Nell’impressione imprecisa data dalla vicinanza dei loro visi, lo fissò negli occhi semichiusi, scorgendovi un bagliore delicato, intriso del più vivido piacere. Allora gli venne il capogiro, non capì più nulla se non il desiderio pressante di averlo tutto per sé per il tempo di qualche ora, di qualche momento: un peccato innocente.
   «Vieni da me, Augustine», mormorò «Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me».
   Il bagliore lascivo degli occhi di Augustine parve vibrare, e assottigliarsi e rimpicciolirsi come fiamma traballante nel vento mentre realizzava ciò che gli stava venendo offerto quella sera. Ogni cosa era tesa, sospesa in un limbo indefinibile e inaccessibile oltre quegl’occhi, nei quali Meyer non riusciva a penetrare più affondo di quanto gli fosse permesso. Restò in attesa della sua risposta. Non respirò neppure, né si permise di creare il minimo rumore. L’altro esitava. Lui continuava a scrutare quella sua scintilla incerta, col cuore in gola, osservando ogni suo impercettibile movimento. Ed eccola, si riaccrebbe, luminosa e calda. Sulla guancia, Augustine vi lasciò un ultimo bacio e fece scorrere piano le dita sul suo petto ampio, saggiandone le forme con delicatezza.
   Disse di sì. Dopodiché si trattennero pochi altri minuti, incapaci di staccarsi troppo presto l’uno dall’altro. In silenzio andarono, le mani nelle tasche e lo sguardo basso, come se niente stesse accadendo. Fu veloce: Meyer prese le chiavi della motocicletta, diede il casco ad Augustine, montò, incrociò un paio di occhi, udì qualche risata della gente che passava per strada e si sentì colpevole e clandestino, ma prima che potesse effettivamente rendersene conto era già in movimento, il peso dell’altro che premeva contro la schiena, una rassicurazione insolita all’interno di quella bolla solitaria in cui si era abituato a stare.
   Mano a mano che camminavano nel traffico, fra le luci dei fanali e il rumore dei clacson, non poté fare a meno di confrontare l’atteggiamento di Augustine con quello della ex moglie. Molte volte nel gesto di lei aveva scoperto un amore, un affetto, poiché non era stato soltanto un appiglio, un appoggio al quale sostenersi, ma la metà alla quale congiungersi, a cui unirsi nel bene e nel male, presenza costante e inaffondabile. Gli tornò alla mente qualche parola e un nomignolo sciocco che gli aveva affibbiato una volta con dolcezza, e la sua bocca prese per un istante una piega amara: perché questo era stato anni prima. Poi era subentrata una vaga freddezza, l’impressione di essere un mero oggetto, uno scudo dietro il quale appostarsi per pura abitudine, piuttosto che per necessità e trasporto. Sospirò mentre superavano una fila di macchine e avvertì una morsa lieve intorno ai fianchi.
   Augustine era completamente diverso. In quel suo stringersi contro la sua schiena non c’era amore, né affetto, solo il più semplice e puro desiderio di sesso, paziente, in attesa di essere soddisfatto. Meyer si chiese da quanto tempo non si fosse abbandonato così a un’altra persona, ammesso che si fosse mai effettivamente abbandonato così a un’altra persona, senza alcun tipo di impegno, né intenzione di instaurare un legame, un rapporto. Ogni volta che si fermavano ad un semaforo sentiva la mano di Augustine scivolare lungo l’addome, già pregustando ciò che sarebbe venuto dopo, quando si sarebbero spogliati e avrebbe potuto toccarlo sotto gli strati dei vestiti e del cappotto. Meyer distrattamente gliela prendeva, l’accarezzava, percepiva le sue dita annodarsi alle proprie, tracciare interminabili linee nel palmo, che giravano e rigiravano, poi si arrestavano e ricominciavano, e lui lo seguiva, instancabile, e sembrava che con quei movimenti già anticipassero entrambi i loro pensieri e le fantasie, nella complicità che si era venuta a creare nello stare vicini. Erano sensazioni alle quali Meyer si affacciava per la prima volta con leggero timore, poiché nel momento in cui la porta di casa sarebbe stata chiusa, sapeva che si sarebbe ritrovato davanti all’ignoto, a una voragine inconoscibile. Perché, sì, forse aveva cercato, aveva visto qualcosa, e forse a volte – o piuttosto molte – aveva immaginato di fare quelle stesse cose con lui, nudi insieme nel medesimo letto su cui prima era stato con la moglie, ma oltre a qualche nebulosa aspettativa, di quali certezze poteva rassicurarsi?
   La pressione del corpo di Augustine si fece più pronunciata mentre si spingeva sopra di lui, forse nel tentativo di indurlo a voltarsi per rubargli un bacio sfuggente dalle labbra ruvide. Ma bisognava ripartire, così Meyer gli concedeva un’ultima carezza ancora tra le dita lunghe prima di rimettere mano alle manopole del manubrio e andare.
   Una volta arrivati, parcheggiò. Spense il motore. Lasciò che Augustine potesse scendere, smontò a sua volta. Lo accompagnò al portone. Attraversando l’atrio, istintivamente gli strinse una mano e sentì i suoi polpastrelli sfiorargli le nocche.
   In ascensore non si dissero nulla. Lo sguardo di Meyer vagava da un punto all’altro, terribilmente ansioso e allo stesso tempo eccitato, evitando cautamente d’incontrare quello di lui. Gli capitò di fermarsi sulla sua bocca socchiusa, evidenziata appena dalla luce fioca e giallastra che veniva dal soffitto. Lunga e sottile, dal bel taglio lineare. Riportò alla mente la morbidezza che aveva tastato quando l’aveva baciata e per un attimo la vista gli evocò un qualche pensiero indecente. L’ascensore si arrestò.
   Uscirono sul pianerottolo e si avvicinarono quatti quatti alla porta di casa. Mentre infilava la chiave nella serratura, a Meyer tremavano e sudavano le dita. Accompagnato dallo scricchiolio sgraziato della porta invitò Augustine ad entrare, non si preoccupò nemmeno di accendere la luce. Il mazzo di chiavi scivolò a terra con un tonfo metallico. Augustine gli si presentava adesso solo nella penombra dell’appartamento. Di nuovo Meyer lo spinse contro la porta e di nuovo si riversò su di lui in preda ad un furore incontenibile, subito accolto con le più vive cerimonie. Si strinsero, si abbracciarono come assetati l’uno dell’altro. Si accarezzarono con prepotenza quasi brutale. Augustine fece per liberarsi della giacca e della borsa da lavoro con scatto irrequieto.
   «Ecco, sì», sospirò Meyer «Queste dalle a me».
   Quindi le prese, si tolse il cappotto a propria volta, lo sistemò con cura e in ordine insieme alle altre cose sull’appendiabiti dell’ingresso. Vide Augustine sorridere, o forse ridacchiare, non lo capì, non ci provò nemmeno, lo baciò e basta, abbandonandosi alle sue labbra, alle sue mani che lo toccavano fin dove riuscivano ad arrivare. Lo tirò a sé, stringendolo alla vita e conducendolo a tentoni attraverso il buio del salotto e poi del corridoio. Quasi perse l’equilibrio calpestando uno dei pupazzetti di Lem sparsi sul pavimento. In quel momento gli si focalizzò nella mente per pochi secondi il ricordo dei figli e la cura con cui avevano disposto i soldatini in fila a guardia della loro cameretta e provò un acuto rimorso nel petto. Ma Lem mi perdonerà, pensò, scalciandone uno da parte per farsi strada, seguito poco dopo da uno Psyduck di gomma, mi perdonerà.
   Stavolta si allungò risoluto verso l’interruttore della luce ad accendere quella soffusa del lumetto sopra il comodino. Si sedettero entrambi sul letto e poco dopo si sdraiarono, l’uno avvinghiato nelle braccia dell’altro.
   Ad un tratto, però, Meyer sentì Augustine gemere sotto di sé e reclinare la testa sul materasso mentre gli baciava il collo magro, ed ebbe un fremito lungo la schiena. Un ripensamento.
   Forse non era il caso. Forse non era ancora pronto ad una svolta del genere, a ricominciare così smaniosamente con quello che a conti fatti altro non era che uno sconosciuto. Si rimise a sedere, spinto dall’altro che nel frattempo iniziava a spogliarsi, e il risollevarsi così rapidamente gli fece girare la testa. Vide la camicia di lui aprirsi, e un bottone dopo l’altro il suo petto gli si mostrò davanti agli occhi. Si sorprese di quanto piacevole trovasse quella vista e di quanto desiderasse farla sua, più di quanto avesse creduto possibile. La fissò con lieve turbamento mentre Augustine lasciava scivolare via il tessuto lungo le spalle e la schiena per poi farlo cadere da qualche parte sopra il tappeto, senza troppi complimenti e del tutto consapevole dell’effetto dei propri gesti. Prima che potesse tornare a gettargli le braccia al collo, però, Meyer lo bloccò. Dalle labbra gli uscì un «Professore» a malapena percepibile, mormorato tra i denti, e Platan a quel suono parve come riscuotersi e arrestarsi, e rimase a fissarlo in silenzio.
   Dagli appartamenti vicini proveniva un rumorio di sedie che venivano spostate e di stoviglie apparecchiate sulle tavole. Doveva essere quasi ora di cena. Meyer allora si rese conto di come in tutto ciò avesse completamente perduto la cognizione del tempo, e seppur fosse una mancanza minima, inevitabilmente anche questo lo portò ad allarmarsi. Quanto era passato dall’ultima volta in cui aveva perso a tal punto coscienza di sé stesso? In tutta la sua vita, non si era mai concesso a nessun altro che a sua moglie. Gli parve di vederla, seduta anche lei sul letto a metà strada tra lui e il professore. Che si erano innamorati ancora ragazzini, ed era stata l’unica vita che avesse mai conosciuto. Rimase a guardarla, inerme e incapace di muoversi.
   Poi però all’improvviso, l’uomo che se ne stava dall’altro capo si avvicinò, trapassando il viso di lei e le sue forme tenere e rotonde, e si fermò di fronte a lui con uno splendore gentile negli occhi. Allungò le dita a serrargli le labbra e Meyer fu rapito dalla sua voce mentre sussurrava: «Per te stasera sono solo Augustine. Va bene?».
   Di colpo egli si ridestò. Si risvegliò nel suo abbraccio quieto, di un’intimità pura, priva di qualsiasi lascivia. Esitando, passò le mani sulla sua schiena. Percepì il contatto con la sua pelle nuda che si scaldava al proprio tocco. Poi lo travolse il respiro di lui che soffiava contro il collo. Si abbassò a poggiare la testa sulla sua spalla sottile, a raccogliere un poco del suo profumo, e nel piegarsi a posare l’orecchio udì i battiti del suo cuore, che si succedevano uno dopo l’altro serenamente, senza alcuna fretta. Lo strinse in silenzio.
   Provò una sensazione smile ad un amore, come quello che aveva versato nei confronti della moglie anni prima, e nella carezza delle sue ciglia che si chinavano a sfiorare le guance prima di risollevarsi immediatamente a scoprire gli occhi grigi, in quel brevissimo lasso di tempo, ebbe la fragile illusione che fossero da sempre stati amanti e che soltanto allora fossero riusciti a incontrarsi per la prima volta. Lambì le sue labbra con le proprie, dolcemente, poi vi premette un bacio sopra, e si diede a lui senza rimorso.



 
~ ~ ~



Ciao a tutti!
Come state? Spero tanto che abbiate passato delle belle vacanze e che la ripresa con gli studi e il lavoro non sia stata troppo traumatica!
Ho iniziato a scrivere questa storia dopo aver finito di pubblicare
A un passo dalla scogliera quest'estate e la si può considerare un suo spin-off. Più che altro confesso che mi è sfuggita di mano questa seconda coppia e piano piano è venuto fuori questo! :') Non sono sicura che possa essere bella quanto l'altra, ma l'idea mi piaceva molto e così ho deciso di provare a lavorarci un po' sopra lo stesso. All'inizio ero indecisa se renderla una raccolta, dato che anche in questa vorrei usare una struttura a flashback (stavolta più ad incastro), però poi ho visto che nell'insieme i capitoli avevano comunque una successione abbastanza coerente, perciò ho lasciato stare. V
edremo insieme come andrà a finire!
Per ricapitolare brevemente un attimo le cose per chi ne avesse bisogno, come forse avrete capito Meyer è il papà di Lem e Clem, e nell'anime aiuta il Professor Platan con le sue ricerche nelle vesti di Maschera di Blaziken/Blaziken Mask. Come quasi tutti i personaggi di Pokémon, anche Lem e Clem hanno un genitore mancante, ma in questa storia ho voluto inserire una madre per loro - di lei però ne parleremo meglio più avanti. Dopo l'episodio del rapimento della Garchomp di Platan da parte del Team Rocket, su Tumblr è nata questa ship tra lui e Meyer e sebbene non mi abbia mai colpito troppo, ultimamente ho finito per affezionarmici e quindi adesso eccoci qui! Per capire gli avvenimenti di questa storia non è necessario aver letto l'altra, dato che la maggior parte degli eventi si collocano precedentemente ad essa. L'universo di riferimento inoltre è quello dei giochi e non dell'anime, dato che non è presente Zygarde, ma esiste l'arma suprema con AZ e Floette.
Spero tanto che possa piacervi, per quanto magari possa essere un po' insolito vedere questi personaggi assieme! ♥
Un ringraziamento speciale va a GingerGin e JoksBK per avermi sostenuto su questo primo capitolo, e un abbraccio grande va invece a tutti voi che siete passati a leggere!
Ci vediamo il mese prossimo con Guzman! Yo!
Persej

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Capitolo 2
*** ( prima conchiglia ) ***




 
1












   Meyer era un uomo semplice. Andava ormai per i quaranta, faceva l’elettricista e aveva due bambini, ma si era separato dalla moglie l’anno prima e viveva da solo. Non aveva alcun tipo di aspirazione particolare, almeno non più, e soltanto per caso era venuto a conoscenza di questo progetto a cui aveva deciso, un po’ titubante, di provare a partecipare.
   Il suo Blaziken sedeva accanto a lui, esaminando con occhio vigile i Pokémon degli altri Allenatori che si erano fatti avanti all’appello. Era tutto un incrociarsi e scontrarsi di sguardi ostili.
   Meyer non era mai stato un asso nei combattimenti. Non che gli fosse mai interessato d’esserlo: dopo aver rinunciato ad affrontare i Superquattro si era ben presto ritirato a studiare e a cercarsi un lavoro che fosse in linea con le sue corde. Da quel momento non aveva più impartito comandi ai propri Pokémon, e aveva chiesto il loro aiuto soltanto a volte, nello svolgere le proprie mansioni. Il loro rapporto si era fatto col tempo più quotidiano e sereno, privo di quell’inquietudine aggressiva che aveva caratterizzato l’età giovanile, sempre troppo presa dall’imminente scontro o dal pensiero costante delle medaglie da accumulare. Gli rivenne per un attimo in mente l’immagine di Blaziken che stringeva tra le zampe la figlia ancora in fasce contro il piumaggio morbido, a mo’ di improbabile bambinaia, per scaldarla nel proprio calore. Sospirò.
   Non era particolarmente sicuro, quindi, delle possibilità di successo in vista del colloquio. La sala era gremita di sfidanti capaci, fra di essi riconobbe molti Veterani e non riusciva a contare quanti Fantallenatori. C’erano anche un paio di Domadraghi, che raramente aveva avuto l’occasione di incontrare nei suoi viaggi, avvolti nei loro mantelli lunghi e scuri, come creature imperturbabili, che non fosse possibile avvicinare ad un uomo semplice del tipo che era lui.
   Nel petto si acuì un dolore sottile, che a tratti lo irrigidiva e gli affaticava il respiro. Cosa c’era venuto a fare lì, se contro di quelli non avrebbe avuto speranze? Non ci sarebbero state lotte, questo era vero, ma per quel che riguardava forza ed esperienza, in confronto a tutti quei rivali sarebbe stato poco che spacciato. Cacciò il viso tra le mani, scoraggiato, e temette d’aver sbagliato a scegliere, nell’angoscia di un ulteriore fallimento, dell’ennesima umiliazione: ma Blaziken ancora teneva fisso lo sguardo, irremovibile, e non pareva deciso a desistere.
   Ad un tratto, una porta si aprì nel corridoio. Gli occhi di tutti si posarono su di essa, mentre un silenzio carico d’attesa andava via via a calare tra i presenti. Dalla porta uscì un uomo, e Meyer capì che doveva trattarsi del professore: un tipetto magro, slanciato, dal bel sorriso largo e i modi composti. Restò ad osservare quella sua capigliatura mossa e ben curata che si scuoteva mano a mano che avanzava verso di loro ed inavvertitamente arrossì un poco nel momento in cui intravide l’ampia scollatura della camicia che portava aperta sul petto. Immaginò che dovesse essere quel genere di persona cosciente del proprio fascino e pronta a tutto pur di esaltarlo nella maniera più efficace. Non si stupì, quindi, nell’udire qualche manciata di sospiri ammirati provenire da un paio di avversarie e di altri pretendenti accanto a lui quando egli li accolse intorno a sé. Persino i Pokémon parevano attratti dalla sua figura, ma d’altronde, si disse Meyer, in caso contrario che razza di professore Pokémon sarebbe mai stato?
   Non appena venne raggiunto dalla sua assistente, il professore si schiarì la voce e incominciò a presentarsi. Meyer ritenne d’aver avuto ragione riguardo al suo aspetto, perché ebbe l’impressione di trovarne conferma nel modo in cui si stava rivolgendo loro, con quella gestualità ampia e sicura, il tono chiaro e conciso delle parole, non privo tuttavia di una certa piacevole argutezza. Era evidente che sapesse l’arte del parlare, e Meyer glielo riconobbe come un pregio. Quasi aveva dimenticato le proprie ansie nel ritrovarsi attratto dal suo carisma. Gli sembrò di capire che si chiamasse Augustine, e per quanto lo divertisse un nome così delicato su un uomo consapevole della propria virilità, pensò che in fin dei conti gli calzasse a pennello e che rispecchiasse perfettamente quell’aura graziosa e raffinata che aveva cucita addosso*.
   «Per favore, adesso ho bisogno della vostra attenzione», disse a un certo punto, come se fino a quel momento non fosse già stato all’attenzione di tutti. «Per lasciare libero il passaggio del corridoio ci sposteremo nella serra. Lì sarete chiamati uno alla volta per prendere parte al colloquio. Nell’attesa del vostro turno, intanto, vi pregherei di non disturbare i Pokémon che sono accolti qui nei nostri locali. Vi ringrazio per la collaborazione».
   Si spesero ancora un paio di minuti in indicazioni secondarie e per delle ultime precisazioni, poi il gruppo si mosse e venne condotto alla serra. Essa presentava diversi ambienti, ognuno con specifiche caratteristiche in modo da adeguarsi alle esigenze dei Pokémon che vi abitavano all’interno. Meyer lanciò un’occhiata a Blaziken, che tuttavia non pareva affatto colpito e nemmeno si lasciava tentare dal richiamo dei suoi compagni, troppo preso dai propri pensieri e ancora intento a squadrare gli avversari: Meyer si domandò se veramente tenesse così tanto al progetto in cuor suo come stava mostrando o se vi si stesse piuttosto prestando per il semplice motivo di compiacerlo in quanto suo Allenatore.
   Venne fatto l’appello, furono segnati i presenti, si definirono i turni, e mentre l’assistente portava via con sé il primo candidato, una folla smaniosa si impossessò del foglio che era stato lasciato loro con nomi, cognomi, Pokémon e fasce orarie cui erano stati assegnati. Meyer aspettò che le acque si calmassero, poi, quando lo spazio si fu liberato, andò a controllare per sé. Facendo qualche conto stimò che gli sarebbe toccato non prima di pranzo, quindi si mise l’animo in pace e andò a rintanarsi in un angolino di prato, lontano dagli altri che nel frattempo incominciavano a riunirsi e a scambiarsi le reciproche opinioni.
   L’attesa fu lunga, a tratti insopportabile. Meyer di tanto in tanto allungava la mano a cercare la tasca, vi rovistava dentro con le dita nervose, poi tirava fuori le due gemme e rimaneva a studiarle assorto, perdendosi nelle loro lumeggiature e scoprendone ogni volta di nuove: una Pietrachiave e una Megapietra.
   Se avesse dovuto essere sincero, in realtà non aveva che una vaga idea di che cosa fosse la Megaevoluzione. Aveva avuto modo di vederla soltanto una volta, in una notte di tre anni prima. All’improvviso Blaziken era apparso, le sue piume si erano incendiate di un fuoco rosso, ed era stato come una rivelazione. Ma da quel momento non se n’era più fatto uso, nonostante Meyer sapesse che il suo Pokémon fosse perfettamente in grado di raggiungere quello stadio e di sprigionare un potenziale ineguagliabile rispetto a quello di molti altri. Questo in parte appunto perché ormai negli ultimi anni non aveva più avuto bisogno di lottare.
   E d’altronde, ciò che era accaduto quella notte, era un ricordo che aveva bisogno di custodire necessariamente in segreto dentro sé.
   Mentre vagava distrattamente in questi pensieri, tra gli altri contendenti si era creata una strana agitazione. Anche Blaziken pareva stare più all’erta di quanto non avesse fatto fino a quel momento, tuttavia Meyer era troppo concentrato a starsene per conto proprio e a riportare alla mente la ragione che l’aveva spinto a presentarsi all’appello, poiché l’aveva dimenticata. Carpì giusto qualche parola dai discorsi concitati che si ammassavano gli uni agli altri laggiù dove i Veterani e i Domadraghi erano raggruppati. Ne vide uno, soprattutto, che si sbracciava e scuoteva la testa in maniera particolarmente eccitata, gesticolando con le mani robuste, ma nemmeno questo riuscì a distoglierlo dalle sue riflessioni. Si chiese, anzi: per quale motivo era venuto se non aveva neppure la più pallida idea di che cosa fosse la Megaevoluzione?
   Le ore passarono, i candidati si succedettero senza interruzioni uno dopo l’altro. Meyer rimaneva al suo posto, si stendeva sull’erba a scrutare il cielo e le nuvole oltre la vetrata, soffermandosi sullo svolazzare lento dei Pokémon Coleottero che si facevano avanti a curiosare tra la folla che pian piano si sfoltiva. Blaziken sedeva al suo fianco, di nuovo, e non si era mai allontanato.
  Fu il loro turno. Meyer si tirò in piedi di scatto, mise mano all’orologio, controllò l’ora. Sperò che li facessero passare al più presto, ma come purtroppo aveva previsto, l’assistente venne ad avvisarlo che lei e il professore si sarebbero presi una pausa per il pranzo e gli domandò scusa. Dunque non gli rimase altra scelta che di appostarsi vicino allo studio ed attendere lì.
   Girò e rigirò, misurando il corridoio a lunghi passi, avanti e indietro, indietro e avanti, cominciando a sentire un’altra volta il nervosismo pulsare nella testa, con le dita che si aprivano e richiudevano rabbiosamente nei pugni che non riusciva a tener fermi dentro alle tasche.
   Ed ecco, ad un tratto una porta si aprì nel corridoio. I suoi occhi e quelli di Blaziken si posarono su di essa mentre un silenzio carico d’attesa calava via via tra di loro. Dalla porta uscì un uomo, e Meyer riconobbe che era il professore: guardò un’altra volta il suo fisico magro e slanciato, il sorriso largo e tutto il resto, come a voler trovare qualche appiglio che gli fosse familiare e che lo calmasse e rassicurasse. Insieme a lui, uscì dallo studio l’assistente, avvolta nel bel cappotto nero e con la borsa sulla spalla, in procinto di andare. Ma prima che ella potesse partire, Meyer vide il professore chinarsi e baciarle intensamente le labbra, e ne provò inspiegabilmente imbarazzo, come quando aveva posato lo sguardo sulla sua scollatura. Poi si fece strada un qualche ricordo, una sensazione amara. Il rossore sulle guance svanì e al suo posto rimase un peso ineluttabile nel cuore.
   Non si accorse che l’assistente ormai non c’era più e che il professore si era voltato a guardarlo. Quando si riscosse da quell’emozione, Meyer si sentì osservato, e restò interdetto di fronte a quegl’occhi che lo scrutavano.
   Il professore si fece da parte, gli tenne la porta aperta facendo segno d’entrare.
   «Suppongo lei sia il prossimo. Prego, si accomodi».


 
 

*Il nome Augustine è stato dato nella versione inglese dei giochi, probabilmente in riferimento (come dice Bulbapedia) a una varietà di platano chiamata Augustine Henry, che a sua volta prende il nome dall'omonimo studioso di piante irlandese. Il nome di Platan quindi sarebbe più prettamente anglofono piuttosto che francofono, tuttavia se volessimo rimanere in ambiente francese e provare a instaurare comunque qualche possibile paragone è curioso notare come in effetti questo nome corrisponda alla variante femminile di Augustin.

~ ~ ~



Buona domenica a tutti!
Come avrete notato l'aggiornamento di oggi è piuttosto corto, e in parte anche per questo all'inizio avevo pensato di rendere questa storia una raccolta, dato che le lunghezze varieranno e di tanto in tanto i capitoli saranno anche fini a sé stessi. Però appunto come ho detto l'altra volta, la successione degli eventi mi sembrava abbastanza semplice da ricostruire, quindi ho finito per cambiare idea. Spero soltanto che in questo modo riesca ad aggiornare più spesso e più coerentemente di quanto faccio di solito :')
Stavolta non ho davvero nient'altro da dire, ma prima di concludere ringrazio ancora Afaneia e Niki ven per le loro dolcissime recensioni al capitolo precedente e come sempre GingerGin e JoksBK per il loro supporto! Grazie anche a tutti i lettori silenziosi che sono passati di nuovo a proseguire questa storia!
Un abbraccio a tutti,
Persej

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Capitolo 3
*** ( seconda conchiglia ) ***




 
2












   Il cappotto che scivolava da una parte trascinato dal peso del borsone che cadeva inesorabilmente via dal braccio, la divisa da lavoro addossata malamente su una spalla, le dita che tentavano frenetiche di annodare le scarpe lottando con i lacci che sfuggivano da ogni parte.
   «Non dirmi che te ne eri dimenticato», lo stava rimbeccando Aura* al telefono.
   «Non me ne sono dimenticato», sbottò Meyer affannosamente, che non sapeva più dove sbattere la testa e faticava a trattenere in equilibrio il cellulare contro l’orecchio, piegato in una posa tanto scomoda quanto improbabile per cercare di sorreggerlo mentre le mani erano impegnate a litigare più giù sopra il piede, poggiato piuttosto spartanamente su una sedia della cucina.
   «Lo sai che Lem ci teneva moltissimo che andassimo entrambi a vederlo alla recita», continuava a dire lei, «Avevamo deciso d’incontrarci per quest’ora e andare insieme. Si può sapere dove sei?».
   Fu una corsa fino alla scuola. Meyer aveva avuto appena il tempo di cambiarsi. Non sapeva perché avesse fatto così tardi. Ricordava solo che ad un certo punto aveva guardato l’orologio e una morsa dolorosa l’aveva attanagliato nel petto, così era uscito dal negozio con la tuta sporca, lasciando appena che Blaziken rimanesse a fare da guardia. Era salito a casa un attimo, un attimo soltanto, poi era scappato di nuovo e adesso gli occhi gli bruciavano di fronte alla furia del vento.
   Giunse ai cancelli del cortile che quasi non respirava più. Si sostenne con una mano intrecciando le dita contro le venature fredde dell’inferriata, fermandosi a riprendere fiato. In lontananza scorse un gruppo di madri che parlavano tra di loro e ridevano, e riconobbe la figura minuta di Aura, che teneva Clem in braccio. Vide la donna girarsi e lo sguardo azzurro di lei lo penetrò con gelida asprezza.
   Rimase a guardarla mentre si incamminava con le altre per tornare dentro: stava iniziando la seconda parte della recita e lui non aveva potuto assistere all’inizio. Passarono dei minuti prima che riuscisse a trovare anch’egli la forza di entrare e di seguirle. Ai suoi piedi, un giocattolo era stato smarrito da qualcuno.
   La scuola dove lui ed Aura avevano iscritto Lem non era particolarmente prestigiosa, ed anzi era piuttosto piccola e i locali erano stretti. Di certo questo non doveva rappresentare un problema per dei bambini, ma durante quelle occasioni a cui partecipavano anche i genitori era difficile coordinare tutti nel giusto spazio. Non vi era un teatro, e l’unico ambiente degno di nota era la palestra; era lì che i bimbi stavano cantando e che erano stati appesi i festoni e i lavoretti e le fotografie allegre. Meyer osservò i disegni attaccati all’ingresso e notò di sfuggita quello del figlio: un Ampharos e un Blaziken colorati con dei bei pastelli accesi, uscendo rigorosamente fuori dai contorni. Sorrise.
   Aura gli stava facendo segno dalla folla che lei e la bambina erano riuscite a trovare un posto a sedere nelle prime file. Meyer le raggiunse e si accomodò al loro fianco. Clem dormiva in grembo alla madre.
   «Non ha fatto altro che correre tutto il pomeriggio e adesso si è stancata», spiegò Aura.
   Poi la mano di lei sfiorò quella di lui e la strinse tra le dita, troppo sottili però per riuscire a trattenerla interamente contro il palmo.
   «Perdonami per prima. Ma vedi, non vorrei che la nostra situazione gli sia di peso più di quanto non lo sia già».
   Gli occhi di Meyer vagavano nel groviglio di teste e di capelli ben pettinati dei marmocchi che aveva di fronte, tutti vestiti uguali, tutti precisi e sorridenti, e gli rivenne in mente la fatica che avevano fatto sia lui che l’altra per trovare una maglietta che fosse esattamente come la voleva la maestra: per disperazione dovevano averne comprate tre o quattro, e alla fine avevano deciso che Lem le portasse tutte quante nello zaino e che ne scegliesse una lì per lì al momento di cambiarsi. Percepì una certa dolcezza nella carezza della donna e se ne rasserenò, accolse la sua mano a propria volta e la cinse con le dita grandi.
   «Lo so», le disse «Ma anch’io ci tengo, capisci? Non è stata colpa mia».
   Aura tornò a coccolare la piccola Clem senza rispondergli nulla, ma Meyer capì che l’aveva perdonato. Tra di loro era sempre stato così. Forse spesso si erano taciuti alcune cose o avevano passato intere giornate senza parlarsi e a scambiarsi appena qualche occhiata arida, intrisa d’astio. Tuttavia poi si era sempre fatta la pace, anche in silenzio, così come si erano odiati, all’improvviso. Non avevano mai litigato nel vero senso della parola. Neppure adesso che non erano più uniti. Si erano sempre capiti reciprocamente – d’altra parte si erano conosciuti talmente giovani – non c’era mai stato bisogno di andare oltre alle semplici parole. Anche se, una volta, Meyer sapeva di aver provato ira e dolore e di essere stato quasi sull’orlo di sfogare la propria rabbia.
   A distoglierlo da questi pensieri, venne ad un tratto il viso di Lem, tutto ammusonito e timido, nascosto tra le spalle di un paio di altri bambini. Quando riconobbe le sembianze del padre, subito il suo faccino si illuminò e la bocca si allargò, la sua voce risuonò di colpo chiara e squillante sopra quelle degli altri compagni. Meyer lo vide raddrizzarsi sul posto e spingere in fuori il petto con fierezza, e immediatamente se ne sentì commosso, gli rivolse un cenno. Quanto era piccolo, laggiù, in mezzo a certi già così alti...
   Se Aura pensava che a lui non importasse, si disse Meyer, si sbagliava. Forse, anzi, era l’unica cosa di cui ancora si preoccupasse veramente. L’emozione che provava nel vedere la gioia di Lem era tutto ciò per cui vivesse. Non vi era altro che potesse smuoverlo allo stesso modo: il suo solo pensiero era la famiglia, più che mai adesso che una famiglia non c’era più. Le energie che versava nel lavoro, nel guadagnarsi la paga, nell’alzarsi presto alla mattina, ogni suo singolo gesto era finalizzato a quell’unico scopo: il sorriso di Lem. E forse, il vero motivo di questo, era soltanto per rassicurarsi, per dimostrare a sé stesso di essere ancora un buon padre, dopo che non era riuscito a tenerli uniti.
   Quei fatti, quando ci si soffermava sopra, si radunavano in lui come le visioni di un dormiveglia. Semplicemente, era successo che d’un tratto, un giorno, il sentimento che li legava si era affievolito. Aura si era fatta più scostante, eppure non vi era mai stata cattiveria nel suo atteggiamento – forse era per questo che non aveva voluto riconoscerlo: lei era rimasta la stessa. Ma poi, una notte avevano fatto l’amore e la rivelazione era stata così violenta, e l’aveva sentita, l’aveva percepita sulla propria pelle, nella propria carne, dentro il proprio essere, e a quel punto non aveva più potuto fingere di non sapere, di non temere; tutto era crollato un pezzo alla volta davanti ai suoi occhi, che fino a quel momento si era ostinato a distogliere, e adesso che vi tornava a soffermare lo sguardo non erano rimaste che le macerie di ciò che era stato, di un rapporto che si era distrutto e ch’egli non aveva voluto accettare.
   In quel mentre, Aura si chinò su di lui e gli porse la bambina nelle braccia, che voleva prendere la macchina fotografica e scattare delle foto. Meyer si era risollevato con impeto impressionante, quasi turbato, che troppo intensamente si era chiuso in quei ricordi.
   Prese in mano la bambina. Aura si scostò.
   Clem dormiva, la bocca socchiusa che respirava piano e le ciglia folte che si spingevano a toccare le guance paffute. Meyer passò il palmo sui suoi capelli biondi e morbidi, sentendo quella testolina adagiarsi con disarmante rilassatezza sul proprio petto. L’avvolse in un abbraccio.
   C’era, però, qualche cosa che lo opprimeva quando si ritrovava a stare con la figlia. Perché tutto quanto era accaduto nella notte in cui l’avevano concepita: il tradimento, la paura, la rabbia, la rivelazione. Era stato nel momento in cui non c’era stato più nulla da fare, nell’esatto istante nel quale sia l’uno che l’altra avevano capito che ogni sforzo sarebbe stato vano. Lei, insomma, l’avevano fatta per riparare l’irreparabile.
   Non era stato un atto d’amore a portarla alla luce. E che senso ha allora una persona che non nasca in amore? Che razza di destino era quello di venire al mondo in seno all’odio?
  Senza un apparente motivo, improvvisamente si ricordò come mai non avesse fatto in tempo ad arrivare e vedere la prima parte della recita. Era già in ritardo, ma poi quel ritardo era divenuto sempre più lungo di minuto in minuto, dopo che Aura l’aveva salutato al telefono e lui aveva riattaccato. Era rimasto per un po’ a fissare davanti a sé, nella cucina, senza riuscire ad elaborare un pensiero coerente. Una certa malinconia l’aveva colto in modo intenso, finché non era più riuscito a sopportarla, e si era seduto sul pavimento a nascondere la testa nelle ginocchia, il cellulare ancora in mano. Aveva pianto. E si era posto quelle stesse domande su cui si stava interrogando adesso.
   Venne riscosso dallo scroscio d’applausi dei genitori attorno a sé e dalla voce di Aura che gridava quanto i bambini fossero stati bravi. Lem era laggiù a chinarsi goffamente, col sorriso imbarazzato impresso sulle labbra, mentre Clem dormiva, silenziosa, al sicuro nelle sue braccia grandi.


 
 

*Tutti i nomi proposti nelle varie lingue per Lem, Clem e Meyer fanno riferimento in origine a delle varietà di limone o ne richiamano la parola in qualche modo (il nome giapponese di Meyer - giuro! - è effettivamente Limone). Supponendo che in italiano il nome di Clem derivi dalla clementina, per la madre ho pensato di riferirmi a un altro agrume, e alla fine mi sono decisa per l'arancio amaro (Citrus aurantium).

~ ~ ~



Salve a tutti!
Spero tanto che abbiate trascorso un buon ponte in questi giorni e che siate riusciti a riposarvi un po'!
Anche l'aggiornamento di oggi è piuttosto breve. Mi auguro davvero che questo tipo di lunghezza non risulti fastidiosa, è la prima volta che decido di adottarla e da una parte me ne sento un po' insicura, perché non so se sia del tutto efficace... Suppongo che lo scopriremo insieme più avanti! In ogni caso, vi ringrazio di cuore per essere passati a leggere anche stavolta e spero che il capitolo vi sia piaciuto. Nel frattempo, posso assicurarvi che il prossimo sarà certamente più corposo e dinamico rispetto a questo!
Un abbraccio forte a tutti quanti e buon inizio di settimana,
Persej

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Capitolo 4
*** ( terza conchiglia ) ***




 
3












   Non ha una tattica particolarmente brillante, ma riesce comunque a tenerti testa!
   Era questo che si erano detti prima i Veterani e i Domadraghi e a cui non aveva prestato abbastanza attenzione. Adesso lo ricordava.
   Blaziken si tirò su da terra facendo forza sui gomiti, poi con un balzo arretrò e tornò in piedi di fronte a lui, dandogli le spalle per poter scrutare con ancor più ferocia il Pokémon che aveva davanti: le fiamme che divampavano dai suoi polsi ardevano di un vigore terribilmente vitale, e non erano state neppure scalfite dall’ultimo colpo che aveva ricevuto. L’aura della Megaevoluzione risplendeva attorno a lui con un calore stupefacente.
   Una Garchomp. Il professore aveva una Garchomp. E loro erano inevitabilmente svantaggiati.
   «Non si preoccupi, le assicuro che non è un interrogatorio», aveva detto il fantomatico Augustine – questo nome gli era rimasto talmente tanto impresso al punto che non riusciva a ricordarsene il cognome – quando l’aveva accolto nel suo studio, e Meyer aveva pensato che fosse proprio una frase da professore, «La veda più come una chiacchierata tra noi due».
   «Tra noi due», aveva ripetuto lui, meccanicamente, sentendo d’improvviso un qualche imbarazzo bruciare sulle guance. Lo scollo di quella camicia aveva ripreso a chiamarlo e se ne era sentito così dannatamente in soggezione.
   «Noi due soltanto», aveva ribadito ancora Augustine. «Perciò si metta pure a suo agio. Dunque, vediamo. Un Blaziken, eh? E che splendide piume! Magari allora sarà il caso di dire tra noi tre, le pare?».
   Blaziken dava l’impressione di essere piuttosto spaesato in quel frangente, immerso nella lotta. Girava e rigirava su sé stesso tentando di memorizzare la fisionomia del campo di battaglia, in modo da trovare una via di fuga dalle trappole che Garchomp di continuo gli tendeva. Ma ogni sforzo si rivelava puntualmente vano, e talvolta nella confusione finiva per tradire i suoi stessi passi: allora le falci di lei lo sfioravano prima con delicatezza, per stuzzicarlo, e poi lo colpivano di getto e con forza nei momenti di distrazione, quando era preso completamente da lei, sia nel corpo che nella mente. Come se non fosse in alcun modo possibile sottrarsi alla sua tattica astuta e a tratti quasi subdola. Meyer si domandò quanto dell’atteggiamento di Garchomp si rispecchiasse nella natura del professore, se vi fosse un qualche cosa di simile che li accomunasse come in genere accade tra un Pokémon e il suo Allenatore.
   «Dunque, signor...» l’aveva chiamato Augustine, sempre lì nel suo studio, dopo aver ribadito che erano in tre e non in due.
   «Meyer. Può bastare anche solo Meyer», aveva puntualizzato subito lui, che non si era mai abituato a certi convenevoli. Augustine aveva sollevato la testa dalle sue schede con un’espressione sorpresa, che però a poco a poco si era fatta sempre più compiaciuta, e gli aveva sorriso.
   «Dunque, Meyer», e Meyer non aveva potuto fare a meno di notare con quanta premura avesse scandito il suo nome «Posso chiederle come è venuto a conoscenza di questo progetto? C’è qualche motivo in particolare che l’ha spinta a presentarsi?».
   «Beh, in effetti me ne ha parlato mia moglie».
   Mentre rievocava quell’affermazione, il suo Blaziken ramazzò a terra in balia dell’ennesimo agguato di Garchomp. Egli quindi si ritrovò a considerare con ancora maggiore consapevolezza l’essere andato lì semplicemente perché era stata Aura a dirglielo. Aura, di nuovo la sua Aura, sempre la sua Aura, la ragione di ogni cosa. Non ebbe la forza di ammettere a sé stesso quanto miserabile fosse quella situazione.
   «Oh! È sposato?».
   Meyer non era riuscito a capire che cosa ci fosse stato mai da sorridere di una cosa del genere, ma Augustine in qualche modo aveva sorriso, ed era stato ingiustamente gentile. Quindi le dita erano corse a sfiorare l’anulare in preda al nervosismo: delle volte ancora gli capitava di andare a cercare con ansia l’anello per rigirarselo tra i polpastrelli, nonostante ormai non lo indossasse più da mesi – i primi tempi si era ostinato a tenerlo lo stesso, di nascosto da Aura.
   «Ecco... In realtà siamo separati da un anno, ormai».
   «Mi dispiace molto, Meyer».
   Un sorriso compassionevole, quello di Augustine. Ingiustamente bello.
   Ingiustamente attraente.
   Blaziken si sollevò in aria per contrattaccare, il fuoco si agitava irrequieto sulle sue zampe mentre scivolava in picchiata a colpire Garchomp con un Calcinvolo. L’occhio freddo di lui si rispecchiò in quello giallo e malizioso di lei, poi un ringhio, uno stridore di lame, e quel muso di squame si fece d’un tratto ravvicinato. Piume volteggiarono nel vento, e prima che potesse rendersi conto dello squarcio nelle carni, lo sparviero allargò maestoso le braccia, si piegò a raggiungere l’altro Pokémon, ma lo mancò e cadde al suolo con un lamento straziato. Meyer lo richiamò, che non riusciva a capire che cosa gli fosse preso: avrebbe potuto facilmente mandare a segno l’ultimo attacco, ma invece si era ritrovato di nuovo nelle grinfie velenose di lei. Blaziken si rialzò, ancora, dolorante, e allora Meyer guardò Garchomp e poi guardò anche Augustine, laggiù, nella sua parte di campo, che sorrideva. E il suo sorriso era ingiustamente attraente, e ingiustamente cattivo nella sua impassibile, disarmante bontà.
   «Lei lo sa, Meyer, che certi Pokémon soffrono nell’atto di megaevolvere?» gli aveva detto prima, sibillino.
   «Come?».
   «La mia Garchomp, ad esempio, nel momento in cui è sopraffatta dall’energia della Megaevoluzione non è in grado di porvi controllo. Questo fa sì che il suo corpo subisca una mutazione contro la sua volontà: le braccia si fondono con le ali a formare delle falci, cambiano rispetto a ciò che è la loro natura apparente. Riesco a rendere l’idea?».
   «Credo di sì».
   «Quindi capisce quanto sia traumatico per un Pokémon sottoporsi ad una trasformazione del genere. È per questo motivo che essa scaturisce solamente nel caso in cui vi sia un forte legame con l’Allenatore. La Megaevoluzione è andare oltre i propri limiti, è accettazione della propria indole più profonda al di là del dolore che essa comporta. Comprende, perciò, quanto sia difficile riuscire a padroneggiarla con abilità. Tra l’altro, molti Allenatori ne abusano semplicemente per sfruttarne la potenza a proprio piacimento, senza tenere in conto gli effetti dannosi che può destare nel Pokémon».
   «E per quanto riguarda Blaziken?».
   «Blaziken è un Pokémon molto raro nella regione di Kalos, e ancora non abbiamo dati a sufficienza per stabilire come reagisca alla Megaevoluzione. Se il nostro colloquio dovesse andare a buon fine, sarei lieto di studiare il suo caso assieme a quello dei pochi altri che si sono presentati con questo stesso Pokémon. Ma adesso, Meyer, mi farebbe un immenso piacere se potessi sfidarla in una lotta».
   Blaziken ansimò e con una zampa andò a coprirsi il taglio che Garchomp gli aveva appena inferto.
   «...Una lotta?».
   «Sì. Altrimenti come potrei capire se il suo Blaziken si tratti di un soggetto valido o meno da studiare? ...Cosa c’è? Perché mi guarda così? L’ho forse messa in imbarazzo?».
   «Ma no, voglio dire, è che io, ecco, io non credo... Insomma, non sono affatto un abile Allenatore. Io non so nulla della Megaevoluzione».
   «E quindi? Caro Meyer, non si lasci intimidire dai Veterani che sono là fuori. Le condizioni erano chiare: chiunque può partecipare, a patto di possedere una Pietrachiave e una Megapietra. Lei mi sembra soddisfi entrambi i requisiti. Coraggio. Non si faccia pregare».
   Era successo tutto rapidamente, al punto che Meyer non aveva neppure saputo dire in che modo fosse giunto a mettere piede sul campo di battaglia, e le sue scarpe si erano ritrovate a calpestare il terriccio e la sabbia da un momento all’altro.
   Blaziken si era fatto avanti, senza nemmeno rifletterci si era prestato a quella prova e altrettanto incoscientemente Meyer aveva impartito i primi comandi, sotto lo sguardo vigile e minuzioso di Augustine che fin da principio non gli aveva dato tregua. Il desiderio della vittoria – una vittoria che era già inarrivabile – si era dischiuso dentro di lui come un fiore di rara bellezza che solo di rado si apra a scoprire i propri petali, e lentamente Meyer aveva percepito crescere quell’ardore, l’intimo piacere che gli suscitava quel senso di spontaneità nella lotta, la più pura disinibizione. Dunque Blaziken e Garchomp si erano venuti uno incontro all’altra nella furia rabbiosa di colpi, si erano fatti vicini e uniti, per tre volte si erano stretti nelle braccia e altrettante avevano sciolto ogni nodo che li legava assieme. Ogni livido era un marchio, ogni pugno una carezza. Ma ad Augustine non era bastato, e per quanto intenso fosse stato il coinvolgimento che trasmettevano i suoi occhi, Meyer aveva colto in modo distinto una certa insoddisfazione nel suo silenzio, nel giudizio perennemente sospeso; se ne era sentito come provocato, e allora aveva cominciato a pretendere, a osare sempre di più nei confronti di sé stesso, finché le penne di Blaziken non avevano preso a crescere e ad infoltirsi, il petto a rigonfiarsi d’ira, il piumaggio a mutare e brillare di un rosso acceso.
   In quel momento lo sguardo di Augustine era cambiato, e finalmente Meyer vi aveva scorto una parvenza d’approvazione, aveva risposto con maggior sicurezza ai suoi attacchi. Blaziken si era esibito in una Danzaspada ed in un primo momento era sembrato che questo fosse bastato a rafforzarlo: con rinnovata velocità, che gli proveniva da quella trasformazione, era riuscito a raggiungere l’avversaria e ad eluderne qualche mossa, più di una volta l’aveva picchiata. Per quanto Garchomp avesse insistito a sfogare la propria Frustrazione su di lui, Blaziken si era rivelato essere un opponente tenace. Ma questa ostinazione non avrebbe potuto tenere tanto a lungo. L’errore di Meyer fu quello di stimare il contrario, quello cioè d’illudersi che soltanto da tale acquisita forza egli sarebbe stato capace di regolare a suo piacimento le sorti della battaglia.
   Fu a quel punto che Blaziken riprese a vacillare, a cadere banalmente nella morsa di lei. Fu infimo e meschino accanirsi con ferocia su di lui che era incapace, e tuttavia fu necessario. Quando convenne che era stato sufficiente, Augustine sollevò una mano, decise di porre fine allo scontro, e venne il Terremoto.
   Il suolo incominciò a tremare. Meyer piantò i piedi nella terra per non perdere l’equilibrio, ma gli dolevano le gambe, ed anche il solo sollevare lo sguardo a tener traccia della lotta era d’improvviso diventato uno sforzo di fatica immane. La testa girava vorticosamente e l’immagine di Blaziken, sospeso in aria con le piume possenti e spettinate sul capo, gli giungeva agli occhi sfocata, abbagliante di luce eterea.
   Il Pokémon era ormai sfinito. Si librava mollemente nel vento come foglia nella corrente, inconsapevole dei propri movimenti. Garchomp lo aveva del tutto in pugno e lo scrutava da lontano, come predatore che abbia finalmente in mano la sua preda, nell’attesa di sferrare l’ultimo fatale colpo. Essa rizzò le pinne del dorso e della coda con un ringhio felino.
   «Blaziken!» chiamò Meyer, temendo per la sua incolumità, per quell’ennesima disfatta ormai certa, inevitabile. Osservò Augustine dall’altro lato del campo: la posa sempre composta, il sorriso ancora irremovibilmente impresso sulle labbra. Se ne sentì sopraffare e a quel punto capì di aver perso.
   Mentre le falci di Garchomp si fiondavano incandescenti a scagliare l’estremo fendente, Meyer sforzò disperato di azzardare un tentativo, di raggiungere una conclusione che non fosse così misera come pareva destinata ad essere, per salvaguardare quel poco di orgoglio che gli era rimasto, una magra consolazione. Blaziken sollevò i palmi a racchiudervi nel mezzo una sfera di fuoco, ed essa si caricò, crebbe fino a condensare ogni energia che gli era rimasta, ma non poté nulla di fronte alla potenza di Garchomp. Il suo artiglio la penetrò con violenza fin nel profondo, Meyer avvertì uno sgomento nel cuore, e tutto esplose in una nube di fumo.
   Quando l’aria si fu diradata, il corpo di Blaziken giaceva esanime sul campo di battaglia. Egli, piegato sulle ginocchia, lo osservava in lontananza con gli occhi turbati e lucidi, e si teneva stancamente nelle braccia. Senza emettere fiato, richiamò il Pokémon nella sfera. Poi abbassò la testa sconfitto.
   Augustine gli venne vicino, si fermò davanti a lui e gli offrì la propria mano; Meyer la prese, vi si aggrappò come il vinto si concede al vincitore. Il professore lo aiutò a risollevarsi, gli restituì il cappello che era caduto a terra. Lo accompagnò all’uscita, e prima di separarsi lo salutò con gentilezza.
   Il suo sorriso, pensò Meyer, era ingiustamente amorevole.


 
 
~ ~ ~



Buongiornissimo e buona Vigilia di Natale a tutti! ♥
Penso fosse da un sacco di tempo che non descrivevo una lotta Pokémon, perciò da questo punto di vista il capitolo di oggi è stato una vera sfida. Volevo provare a rendere un senso di dinamicità sia nella battaglia e anche più in generale nella presenza di più piani temporali nello stesso momento. Spero non sia risultato troppo confusionario, in ogni caso se aveste qualche appunto da farmi non esitate a dirmelo! Questa storia sta diventando una sperimentazione continua, ma devo ammettere che sotto sotto mi sta divertendo un sacco!
Ci tenevo ad aggiornare prima delle feste per farvi gli auguri, è stato un anno pieno di cambiamenti per me, e volevo ringraziare tutti voi, sia amici più stretti che non, che mi siete stati vicini con tanto interesse e tanta passione qui su Efp ma anche su Instagram. Per il 2019 spero di fare ancora meglio e di poter aggiornare con un ritmo ancora più frequente di quello che ho avuto quest'anno (...beh, poi dovrei anche trovare il tempo di prendere la laurea triennale, ma insomma dettagli)!
Un ultimo ringraziamento va ancora a Niki ven e ad Afaneia per le loro dolcissime (come sempre) recensioni alle conchiglie numero 1 e 2! Vorrei mettere il prossimo capitolo per la fine delle vacanze natalizie, vediamo se riesco, nel frattempo comunque mando a tutti quanti bacioni, abbraccioni, torroni e panettoni!
(Se non vi sono arrivati i pandori, è perché quelli me li sono spazzolati già tutti io...)
Buone feste! 

Persej

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Capitolo 5
*** ( quarta conchiglia ) ***




 
4












   Chiuso in una spirale vorticosa di pensieri, Meyer stava in attesa di un qualcosa che lo riscuotesse da quella matassa di fantasie informi ed opprimenti che avevano preso ad assillarlo senza tregua. Non vi era modo di definire lo sconforto suscitato da quell’ultima innegabile rivelazione, di fronte alla quale si era scoperto per l’ennesima volta inetto, incapace.
   L’ascensore si fermò al piano e nello scatto delle porte che si sbloccavano egli parve finalmente trovare quel qualcosa, un senso di fuga che era rimasto così inerme ad aspettare nella più completa passività: non un gesto, non un cenno, né il minimo movimento per ottenerlo lui stesso.
   Subito dopo vennero le voci dei bambini: Lem e Clem gli erano corsi incontro trepidanti, coi coriandoli e i festoni nelle mani. Tra i loro baci e le moine affettuose, Meyer fu costretto a cedere. Si chinò a terra e li caricò entrambi in braccio, per un attimo nelle loro voci ritrovò serenità. Ma poi di fronte a lui apparve la figura impeccabile di Aura, che lo attendeva sulla soglia della porta di casa. Vide il suo sorriso, e si vergognò d’esserne così dipendente; e tuttavia il sollievo era troppo grande, la raggiunse e si prese anche il suo abbraccio, ma non il suo bacio. Entrarono. I figli già reclamavano supplichevoli la fetta di torta promessa, ora che il papà era tornato.
   Si sedettero al tavolo della cucina, Aura tirò il dolce fuori dal frigo, delicatamente aprì l’involucro colorato. Lem stava armeggiando con il tappo dello champagne, con Clem che lo imitava pedissequamente. Meyer tolse loro la bottiglia dalle mani nel timore che potessero farsi male in qualche modo: «A questo ci pensa papà», disse, lanciando un’occhiata di sfuggita alla targa, «Ma Aura, non dovevi… Avrai speso una fortuna».
   «Beh, dopotutto è un’occasione speciale, no?» replicò lei, «Rimettiti pure a sedere, adesso taglio qualche fetta. Bambini, fate piano!».
   «Voglio vedere papà che fa scoppiare il tappo!» esclamò Lem sporgendosi sul tavolo. Clem lo seguì subito a ruota libera.
   «Va bene, ma fate attenzione. Meyer?».
   «Lem, non stare troppo vicino. Anche tu Clem, va’ un pochino indietro... Ecco, così, bravi. Allora stappo!».
   La piccola si coprì gli occhi per proteggersi, ma non appena il tappo venne fuori in uno scoppio fragoroso si unì alla contentezza degli altri battendo forte le mani, dondolandosi tutta gongolante sulla sedia e scalciando con le gambine sotto il tavolo. Quando la madre arrivò con due generose fette di torta al cioccolato, si rimise composta e ordinata come il fratello più grande, e prima di afferrare la forchetta aspettò pazientemente che ognuno fosse stato servito, piluccando appena qualche zuccherino di nascosto di tanto in tanto.
   Meyer osservò soddisfatto i suoi due figli, e li ringraziò per aver aiutato la mamma a preparare la festa. Il salotto e la cucina erano stati agghindati di addobbi e disegni, e innegabilmente la casa aveva un aspetto molto meno vuoto e triste del solito, ora che si erano riuniti un’altra volta tutti e quattro. I bicchieri di champagne e succo alla pesca si vennero incontro tintinnando fra loro e allora si brindò a gran voce: «A papà e Blaziken!».
   Sembrava di essere tornati ai tempi di una volta, quando si era ancora insieme e si condividevano le giornate come in una famiglia perfetta. Lem raccontava animatamente dei suoi compiti a scuola e ripeteva orgoglioso le tabelline a memoria – avevano fatto fino a quella del sette – mentre la bambina canticchiava qualche filastrocca sgrammaticata che aveva inventato lì per lì. Ma ecco che proprio da lei, da lei che era nata al di fuori di ogni ordine, da quella frattura insanabile, s’incominciò a frangere il fragile mantello sotto al quale ancora una volta avevano preteso di celare la realtà delle cose.
   Ad un tratto, Clem aveva preso goffamente ad allungarsi sopra il piatto del fratello e a staccare uno per uno gli zuccherini dalla sua fetta di torta, per poi ficcarseli ingorda nella boccuccia grande e spalancata.
   Meyer e Aura interruppero i propri discorsi, e come sconvolti rimasero a guardare quella scena. Perché era palese il fastidio che campeggiava sul viso del figlio maggiore, e tuttavia da parte di questo non pareva esserci la minima intenzione a reagire a quell’ingiustizia, seppur tanto semplice, che la sorella stava perpetrando con la massima e istintiva naturalezza.
   Che cosa fai così? Dille qualcosa, arrabbiati!, avrebbe voluto implorare Meyer. Difenditi, non farti mettere i piedi in testa!
   Qualcosa, in effetti, Lem la disse, quando guardò le facce incredule dei genitori, e fu tanto dolce, fin troppo dolce nei confronti della sorella: «Non fa niente. Può prenderli».
   Ma perché non litigavano come avrebbero fatto tutti i fratelli normali? Perché Lem si mostrava così accondiscendente e passivo nei riguardi di Clem, di quel danno immeritato? Meyer calcò la presa delle dita che stringevano insicure il bicchiere semivuoto.
   E poi, pensò ancora, che lei si comporti in questo modo! Ma chi gliel’ha insegnato?
   ...Possibile? Siamo stati noi?
   Siamo stati noi.
   Si rivolse istintivamente verso Aura e dalla sua espressione capì che stava pensando la stessa cosa. Che per quanto si fossero sforzati di riportare un clima sereno, di mantenere i rapporti uguali ai precedenti, era inutile nascondere l’evidenza: non erano più una famiglia perfetta, non ci sarebbe mai stata una famiglia perfetta. Sopraffatto da quell’angoscia, Meyer non riuscì a reagire – avrebbe voluto sgridarli, alzare la voce, forse persino separarli! E tuttavia a quale scopo? Cercò di nuovo il viso di Aura, non sapendo come intervenire, ma anche i suoi occhi erano lucidi, e vi scoprì distintamente le proprie stesse ansie, la consapevolezza del fallimento. Sentendosi osservata, ella distolse lo sguardo. Si alzò dalla sedia e ritirandosi al lavandino si mise a sciacquare il piatto e a lavarlo. A quel punto tornò la solita freddezza, e tutti tacquero.
   Quando ebbero finito di mangiare, i bambini chiesero il permesso di andare a giocare. Clem raccolse il tappo di sughero che era caduto a terra sulle piastrelle e restò per un po’ indecisa se restituirlo alla mamma e al papà, tenendolo stretto fra le dita piccine. Lem la scosse piano per un braccio: la sorellina alzò la testa verso di lui, e dal suo sguardo capì che sarebbe stato meglio lasciarli soli. Allora lo seguì lungo il corridoio e si chiuse con lui in cameretta.
   Aura, poggiata di schiena contro il ripiano della cucina, li osservò sgattaiolare via. Sospirò. Poi si rivolse a Meyer, stava sforzando un sorriso, e: «Insomma?» lo incalzò. Non voleva parlare di quel che era appena successo, ma in effetti neppure l’altro sembrava molto propenso, quindi: «Non mi racconti nulla? Avanti, sono curiosa! Che mi dici del professore? Ti ha sorriso ancora?».
   Meyer però a quelle parole si tirò su d’improvviso e la squadrò. Si sentì di colpo tremendamente a disagio, e le preoccupazioni di prima, quelle che lo avevano assillato in ascensore, tornarono a galla nei suoi pensieri. Con gesto nervoso mandò giù l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, poi prese la bottiglia e provvide a riempirlo un’altra volta. Aura si sorprese di quell’atteggiamento, e timidamente provò a fare qualche altra domanda, per cambiare di nuovo argomento, perché starsene in silenzio in quel momento era fuori discussione.
   «No, ecco», disse allora Meyer, più per acquietare lei piuttosto che sé stesso, «Lui non c’era».
   «Oh... Peccato», rispose Aura. «Ti era sembrato un uomo gentile, vero?».
   «Sì. E a quanto pare non solo quello».
   «Anche bello».
   «Anche bello. Già».
   Meyer restò per un po’ con la testa china, rigirando lo champagne nel calicetto. Sollevò gli occhi ad incontrare quelli di lei, che attendeva il continuo del discorso. Poi le vide: belle, a forma di cuore, tinte di un rosso sfacciato. Le sue labbra – in passato doveva averle baciate un’infinità di volte.
   «Il rossetto…» mormorò soprappensiero mentre vi posava lo sguardo con maggior insistenza.
   Aura gli rivolse un’occhiata perplessa.
   «Hai il rossetto sbavato», precisò meglio. Ella allora arrossì e si portò una mano a coprire la bocca.
   Quella mattina Meyer si era alzato di buonora. Era partito in sella al motorino con l’aria fredda dell’autunno che pizzicava in gola. Aura era passata poco prima per prendere i bambini e accompagnarli a scuola, insieme si erano accordati per rivedersi di nuovo a casa più tardi, poi lei si era raccomandata che la chiamasse e che le facesse sapere, e gli aveva dato un bacio, uno lieve, sulla guancia. Custodendo quel piccolo gesto d’affetto nella mente, Meyer era partito in sella al motorino con l’aria fredda dell’autunno che pizzicava in gola, e si era mosso verso l’Università.
   Non aveva saputo bene che cosa aspettarsi dai risultati del colloquio. Se da una parte era consapevole che l’eventualità di un successo sarebbe stata molto scarsa, dall’altra però il sorriso che il professore gli aveva rivolto alla fine l’aveva ossessionato per tutti quei giorni al punto tale da spingerlo a sperare in un’unica, misera possibilità.
   Perché era stato così gentile. Ma forse gli aveva solo fatto tanta pena.
   Aveva parcheggiato, messo via il casco, calcato il cappello sulla fronte, ed era andato. Sulla piazza principale dominava incontrastata una statua di altezza imponente: un monumento dedicato a Uxie, Pokémon della conoscenza, era stato eletto a protettore di quei luoghi deputati allo studio e alla diligenza. Nell’appigliarsi a qualcosa che lo distraesse dalla tensione, Meyer aveva sollevato la testa a rivolgere lo sguardo ad esso. Vi aveva scorto all’interno un qualcosa d’insolito, così attraversando la strada vi aveva fissato intensamente la vista sopra, e alla fine se ne era accorto – gli occhi del Pokémon, contrariamente ad ogni convenzione, stavano spalancati a scrutare imperturbabili davanti a sé. Era un’opera di grande maestosità e potenza, ed egli se ne era sentito così affascinato, ma subito dopo era sopraggiunto il confabulare confuso di due ragazzini lì vicino, che si ammonivano reciprocamente di non guardare mai la statua negli occhi se non avessero voluto essere bocciati a un esame. Superstizioni da matricole, chiacchiere sciocche. E tuttavia Meyer come un bambinone si era ritratto e aveva abbassato il viso, le guance rosse d’imbarazzo.
   Giunto in corridoio, come la volta precedente si era ritrovato in mezzo ad una sfilza interminabile di Veterani, Fantallenatori e Domadraghi. Si era seduto, aveva aspettato qualche minuto facendo di continuo su e giù con la manica del maglione per controllare l’orologio, poi la porta aveva cigolato, si era aperta, tutti avevano alzato lo sguardo, e infine, dopo giorni interi passati a ripensare a quel sorriso, la rivelazione che lui non c’era: soltanto l’altra, l’altra.
   Venne il suo turno. Meyer oltrepassò l’entrata dello studio, e alla scrivania trovò l’assistente intenta ad appuntarsi qualcosa su un’agenda. La donna sollevò il viso e con un gesto della mano lo invitò ad accomodarsi di fronte a lei.
   «Meyer, giusto?» chiese.
   «Sì».
   «Il professore mi aveva appunto detto che preferisce essere chiamato per nome. Anche lei, mi chiami semplicemente Sophie».
   «D’accordo, se a lei sta bene».
   Sophie gli aveva rivolto un sorriso cordiale. Poi aveva afferrato il plico di fascicoli che teneva da parte e aveva iniziato a cercare il suo. Una volta trovatolo si era messa a sfogliarlo con attenzione, prestando la massima cura nel leggere ogni pagina. Nell’attesa egli si era limitato ad osservare le sue mani, perché gli occhi non avevano voluto spingersi oltre a leggere fra le righe di quelle schede, a decifrare quel che vi era scritto sopra. Morbide, affusolate, dalla gestualità precisa e il tocco delicato…
   Ma per quanto potessero essere piacevoli quelle dita e tenero il candore di quella sua pelle, il silenzio a lungo andare si era fatto insopportabile, e allora aveva dovuto riempirlo in qualche modo, così:
   «Ecco, la verità è che non mi era stato detto della lotta Pokémon, non ero abbastanza preparato, in effetti non sono neanche tanto bravo, perciò...» aveva preso subito a giustificarsi, perché non avrebbe potuto interpretare quell’attesa in altro modo che come una posticipazione dell’ennesimo fallimento.
   Sophie si era fermata, aveva sollevato la testa un’altra volta e l’aveva guardato.
   «No, a dire il vero, il professore è rimasto abbastanza colpito dalla sua prova», confessò. «Certo, abbiamo avuto altri candidati che con lo stesso Pokémon hanno dato prestazioni migliori, ma riteniamo che il suo dopotutto sia un caso particolare. Essendo questo un ambito prettamente legato al competitivo, non capita molto spesso di studiare soggetti più familiari con l’ambiente domestico. Per questo motivo il professore ha deciso di accettarla comunque nel programma».
   Sorpresa e giubilo, confusione!
   «Mi ha accettato?» aveva ripetuto Meyer incredulo «Aspetti, vorrebbe forse dire che in ogni caso mi avrebbe accettato lo stesso per questa mia condizione?».
   Sophie aveva riso, le era sfuggito uno strano commento:
   «Santo cielo, è vero che Augustine si accontenterebbe di chiunque pur di... però...».
   Non appena si era resa conto delle proprie parole, si era bloccata, interdetta. Senza dare a Meyer il tempo d’intenderne il senso, aveva scosso la testa, gli si era rivolta in tono mortificato.
   «Mi perdoni, lasci stare quello che ho detto. Non era riferito a lei», si scusò. «Comunque sia, no, è chiaro che se la prova fosse risultata del tutto fallimentare sarebbe stato scartato: al contrario, per i suoi standard se l’è cavata piuttosto bene. Guardi, le faccio vedere».
   Allora Sophie aveva girato le schede per potergliele illustrare e aveva iniziato a spiegargli i valori e le cifre volta per volta. A quel punto Meyer era rimasto a scrutarla attentamente, un po’ perché era stato fin troppo emozionato per riuscire effettivamente a concentrarsi su ciò che gli stava dicendo, e un po’ perché... Dio, non l’aveva capito nemmeno lui in un primo momento.
   I lunghi capelli ricadevano mossi sul suo viso ad incorniciarle la bella fronte ampia, mentre le sopracciglia stavano tese ad accentuare l’intensità di quegl’occhi seriosi, un poco socchiusi, come che volessero nascondere un qualcosa di recondito, un mistero, una tristezza irrisolvibile che si agitava dentro il suo animo e che a lui, estraneo, non era dato di cogliere. Ma essi rifulgevano anche di un fiero ardore, e pieni di orgoglio splendevano d’un verde inaudito, perturbanti. La spessa montatura rossa degli occhiali non vi rendeva giustizia. Più degli occhi ancora, tuttavia, Meyer venne colpito dalle sue labbra – e solo a quel punto aveva cominciato a rendersi conto.
   Sulla sua bocca carnosa, il rossetto si era sbavato lungo la parte di un bordo. Allora egli si era di nuovo ritrovato di fronte a quel bacio, alla curva del mento di lui che si era piegato a unirsi per un istante con lei. Quindi aveva capito che ad attrarlo, di questa donna, non era stato tanto il suo aspetto, quanto il fatto che da esso fosse attratto quell’altro uomo.
   Improvvisamente si ritrovò di nuovo al tavolo della cucina, e sentì un senso di colpa crescere nei riguardi di Aura, adesso che la aveva davanti e che gli stava parlando, di qualcosa che però a conti fatti non stava nemmeno ascoltando.
   «Va tutto bene?» gli chiese infatti lei dopo un paio di minuti, essendosi accorta che si era distratto e che era rimasto troppo a lungo col braccio sospeso in aria, senza neanche bere un goccio dal bicchiere.
   «Sì, ecco, scusami. Mi ero perso nei pensieri».
   «Che genere di pensieri?».
   Questo era meglio che non lo sapesse, decise fra sé e sé. Scosse la testa e posò il calice sulla tovaglia.
   «Ma nulla, nulla», cercò di sviare mentre rovistava nelle tasche in cerca del pacchetto di sigarette. Ne accese una e si abbandonò contro lo schienale della sedia. Restò così a fumare, silenzioso, sotto lo sguardo apprensivo della vecchia compagna che continuava a scrutarlo, seduta lì accanto a lui. Ad un tratto la chiamò:
   «Aura».
   «Sì?».
   «Perché non mi hai detto della lotta? Tu lo sapevi, non è vero? Me lo hai nascosto di proposito».
   «Oh, Meyer... Era a questo che pensavi?» mormorò dispiaciuta. Si passò una mano sul viso, gli occhi socchiusi in un attimo di riflessione. Prese un tovagliolo e si mise a sfregare lì dove i bambini avevano fatto cadere della cioccolata, ma le macchie non venivano via.
   «Temevo che la possibilità di fallire ti avrebbe distolto da qualsiasi tentativo», ammise. «So che se te l’avessi detto ti saresti tirato indietro senza nemmeno provarci. Volevo che per una volta potessi essere sicuro di te stesso, senza badare al resto».
    Sarebbe stato stupido negarlo: dopo tutti quegli anni, Aura lo conosceva fin troppo bene. Meyer annuì, e portandosi la sigaretta alle labbra le disse nel modo più sincero che gli fosse mai venuto: «Ti ringrazio».
 
 
 
   Dopo quel giorno, Sophie non l’aveva più vista. Al suo posto avevano preso ad avvicendarsi assistenti ogni volta diversi, con cui Meyer non era mai riuscito a rapportarsi più dello stretto necessario. Anche il professore, Augustine, si era fatto all’improvviso inarrivabile: troppi Allenatori, troppi Pokémon da seguire tutti assieme. Con il tempo Meyer aveva scoperto che quel sorriso amorevole non era mai stato esclusivamente diretto a lui, ma che egli lo rivolgeva a chiunque gli si dovesse rapportare. Se ne era sentito un po’ mortificato.
   Ad ogni modo, era diventato ormai innegabile che questo professore destasse in lui certe pulsioni, un fascino irresistibile, al di là del semplice sorriso. Meyer aveva cominciato a studiarlo, di nascosto, durante le ore che passava sempre più spesso in Università. E si era sorpreso di quanto ne fosse conquistato, giorno dopo giorno.
   Una volta era accaduto che, fermandosi in corridoio a prendere un caffè, lo avesse intravisto in fila alle macchinette vicino alle scale per fare lo stesso. Assieme a lui c’era un suo collega poco più giovane, non particolarmente bello, ma dallo sguardo pronto e la cadenza appassionata della voce, che ben compensavano alla sproporzione di quel naso troppo pronunciato in mezzo al viso liscio e sbarbato.
   Stavano discutendo di qualcosa, non avrebbe saputo dire di preciso l’argomento, tuttavia pareva fosse in ogni caso piuttosto noto a entrambi. Si scambiavano le proprie riflessioni al riguardo con disarmata sincerità, ed era con un sorriso cordiale che il professore gli si rivolgeva incessantemente, sia che concordasse o che dissentisse con quel ch’egli diceva. Con fare sciolto, poi, si era proposto di offrirgli il caffè, senza ammettere contestazioni, e quando dopo erano andati a sistemarsi accanto alla finestra fermandosi ad osservare gli studenti che entravano e uscivano dall’edificio della Facoltà, gli occhi di Meyer si erano improvvisamente illanguiditi d’un tratto. Perché qualcuno avrebbe potuto scambiare quei gesti per la sua solita ed ineffabile gentilezza, ma lui vi aveva scorto qualcosa d’altro.
   Lasciando raffreddare il proprio bicchiere sul davanzale, il professore si era avvicinato al collega e gli aveva porto il suo, sorreggendolo con entrambe le mani che andavano in parte a chiudersi sulle sue dita, sfiorandole impercettibilmente e con delicatezza. Si trattava di qualcosa di talmente tanto insignificante che uno non ci avrebbe mai fatto caso a meno che non ci si fosse soffermato con attenzione; ma Meyer l’aveva visto e aveva anche notato chiaramente quell’unico istante d’esitazione in più nella presa delle mani che era bastato a trasformare quel tocco da semplice gesto meccanico e distratto ad un più intenso, calcolato contatto volontario. Allora aveva capito ch'egli non lo stava banalmente interpellando su qualsiasi cosa stessero parlando – lo stava corteggiando. Ed era un corteggiamento così sottile, discreto, da risultare delizioso e gradevole in un modo unico tutto suo, al punto che Meyer ne rimase come meravigliato e sedotto a propria volta, seppur fosse così distante da loro e le sue mani stringessero da sole il bicchiere ormai vuoto.
   In quel mentre, il suo sguardo aveva incontrato quello di Augustine, laggiù, che ancora accarezzava le dita di lui, ed essi erano rimasti a guardarsi silenziosamente per qualche momento, l’uno e l’altro ai lati opposti del corridoio. Gli pareva di aver scorto un qualche bagliore di sorpresa nei suoi occhi, ma non aveva potuto averne conferma perché subito dopo aveva abbassato la testa ed era tornato a parlare con quell’altro.
   Per un’intera settimana Meyer non aveva fatto altro che chiedersi come fossero andate più tardi le cose tra quei due. E da una parte, aveva incominciato a pensare che non gli sarebbe dispiaciuto ricevere anche lui una cosa del genere. Allora era stato il periodo delle domande.
   Ciò che lo aveva sconvolto più del resto, quel giorno in cui aveva posato gli occhi sulle labbra di Sophie, era stato il fatto che fino a quel momento, quando andava ormai verso i quaranta, non si fosse mai reso conto di quanto anche gli uomini destassero in lui un’irrefrenabile attrazione.
   C’erano stati dei momenti in cui, da giovane, posando stancamente la testa sulla spalla di un compagno di viaggio, mentre si era fermi a scaldarsi davanti al falò, avesse provato l’impulso di spingersi oltre, di lasciarsi andare contro quel petto e fra quelle braccia; oppure che fosse intenerito dalla più lieve e imprudente carezza, da un tono di voce – quante volte, inconsciamente, aveva ricercato un contatto, una vicinanza, quante volte era rimasto ad ammirare un viso o un corpo mentre si era insieme a dormire, a spogliarsi, ad allenarsi! Ma poi aveva sempre pensato che fosse perché Aura era lontana e gli mancava, che voleva baciarla e doveva accontentarsi appena di stringersi al cuscino e imprimervi sopra con la mente le sue forme, il suo profumo, che insomma la solitudine lo inducesse a desiderare tutte queste cose in quei compagni occasionali, che spesso condividevano la tenda con lui anche il tempo di una notte soltanto (Blaziken era stato tanto paziente, allora, nell’ascoltare il suo tormento).
   Adesso invece intendeva che quel desiderio era fondato e non costruito, e palpitava nel cuore con violenza e ardore. Possibile che il legame con Aura lo avesse distratto a tal punto da fargli perdere di vista sé stesso? Che nell’anelare alla loro unione avesse compiuto il sacrificio e si fosse rifiutato di riconoscere la natura più intima della propria persona?
   Con leggero timore, Meyer aveva cominciato a scoprirsi. Nei corridoi incontrava Augustine e lo guardava, e attraverso la sua visione gli si rivelava quello che davvero provava, la parte di sé che era stata a tacere tanto a lungo. Per breve tempo aveva cercato di opporvi resistenza, strenuamente aveva combattuto, perché non era riuscito a capirlo, ad accettarlo, fino a quando una sera, che era a casa da solo, quasi per caso per la prima volta aveva cercato e aveva visto qualcosa, e poi timidamente si era toccato pensando a lui. Con un gemito strozzato aveva sollevato di getto la testa così pesantemente incassata nelle spalle e si era lasciato cadere fra i cuscini del divano, in un certo delizioso, inaspettato sollievo, che era rimasto a contemplare in balia del proprio affannoso respiro, via via sempre più quieto. Si era fermato ad ascoltarlo. Non c’era altro suono intorno che il suo fiato, e il battito del cuore nel suo petto accaldato, al riparo tra i vestiti. Sul tavolo, la ventola del computer su cui si sarebbe dovuto rimettere a lavorare girava fischiando. Anche il vento, di fuori, sbuffava, riversandosi contro i vetri delle finestre. Col sopraggiungere del tramonto, per strada era sceso il freddo. Anch’egli cominciò a sentirlo. Fece scivolare la mano ancora un poco sulle forme del corpo, a percepire la propria presenza, indugiando in quella sensazione di tranquillità. Avrebbe voluto addormentarsi. Il sonno scese a poco a poco sulle palpebre, e Meyer si rasserenò nella stretta delle sue stesse braccia che lo cingevano. Gli parve di rivedere le labbra di Augustine, quel suo sorriso amorevole. Ma che cosa aveva appena fatto?
   Di colpo si tirò su a sedere e stette ad osservarsi, gli abiti improvvisamente stretti e soffocanti, il sudore che gl’imperlava la fronte. Pensò ai bambini, ad Aura, soprattutto ad Aura, e tentò disperatamente di trovare una giustificazione, seppur non ce ne fosse bisogno, ma aveva questo senso di colpa pesante addosso che lo opprimeva e che doveva scacciare via in qualche modo, e allora, allora... Con le dita si precipitò a sfiorare l’anulare, in cerca dell’anello com’era solito, e tuttavia fu in quel momento che soggiunse in lui la più grande realizzazione, l’evidenza che ancora non era riuscito a cogliere del tutto chiaramente.
   Il fatto, cioè, che Aura ormai non c’era più.
   Aura non c’era più.


 
 
~ ~ ~



Ciao a tutti, lettrici e lettori, ben ritrovati! ♥
...E soprattutto, buon anno! Come sono andati questi primi due mesi del 2019? Per quanto mi riguarda, suppongo di dover ancora ingranare bene con questa questione del ritmo di pubblicazione: tra revisioni, impegni e studio, l'inserimento di questo capitolo è scalato dalla fine delle vacanze natalizie alla fine della sessione invernale. Vi chiedo scusa se vi ho fatto attendere più del previsto!
L'evoluzione di Meyer e la sua presa di coscienza nei confronti di ciò che sente di essere è il nodo centrale attorno a cui volevo sviluppare questa storia, e in effetti il segmento delle macchinette è uno dei primissimi che ho scritto quando ho cominciato a lavorarci sopra. Spero che possa essere sembrato coerente e non troppo affrettato, in ogni caso ci sarà ancora modo di approfondirlo meglio! Spero anche che il capitolo vi sia piaciuto, sebbene magari alcune reazioni possano essere state esagerate, ma ho l'impressione che in una famiglia come quella di Meyer, che sta attraversando una fase così delicata, anche le cose più banali possano essere fonte di turbamento. Perciò, ecco, da una parte spero che anche questo in un certo senso sia risultato coerente. Per quanto riguarda Sophie, infine, sì: come qualcuno aveva previsto si tratta proprio dell'assistente che Platan ha nell'anime!
Prima di chiudere, ringrazio JoksBK e GingerGin per il loro prezioso confronto, e Afaneia per l'ultima recensione alla seconda conchiglia.
Un forte abbraccio a tutti quanti, e mi raccomando mettiamocela tutta anche quest'anno per realizzare i nostri obiettivi!

Persej

P.S. Ho fatto richiesta per inserire Meyer nella lista personaggi della sezione, posso chiedervi il favore di andare a votare per lui? Vi ringrazio tanto in anticipo ♥

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Capitolo 6
*** ( quinta conchiglia ) ***




 
5
{ a L., M. }












   Quando aveva incontrato Aura per la prima volta, Meyer l’aveva sentita così simile a sé che si era subito convinto fosse una meravigliosa coincidenza, un segno del destino. Soltanto con il tempo si sarebbe reso conto che certe volte le coincidenze non sono altro che tali.
   Si era ormai fatta sera. Quel giorno Meyer aveva attraversato la Via Fogliebrune in compagnia di Combusken: sin dalla mattina non avevano fatto altro che allenarsi e acchiappare nuovi Pokémon fino a che non erano state esaurite le Sfere nello zaino. Allora, seguendo il consiglio di un Giramondo che avevano sfidato, avevano deciso di mettersi in marcia verso un albergo che doveva trovarsi più in là a nord. Sarebbe stato a tutti gli effetti un ottimo suggerimento, se soltanto il Giramondo non avesse omesso di precisare che si trattava dell’Albergo Diroccato. Meyer era rimasto con i nervi a fior di pelle in mezzo al sentiero ad osservare la vecchia struttura decadente, imprecando e borbottando tra sé e sé. Poi però aveva avvertito che il peso del bagaglio si stava facendo troppo gravoso sulle spalle, ed anche Combusken cominciava a tratti a chiudere gli occhi e a fermarsi lungo il cammino, vinto dalla stanchezza. Egli dunque aveva presto messo da parte ogni lamento, e a passi lenti si era diretto all’entrata più vicina. Non appena ebbe oltrepassato l’ingresso venne quasi travolto da un paio di ragazzini che stavano facendo a gara coi pattini nell’ampio corridoio principale: riuscì a ritrarsi per tempo, ma dopo non poté fare a meno di guardarsi intorno spaesato.
   C’erano non sapeva quanti Allenatori accampati in ogni dove, coi sacchi a pelo e gli zainoni ammassati contro le pareti. Qualcuno sonnecchiava in un angolo accoccolato al proprio Pokémon, altri avevano improvvisato un fuoco a terra per cuocere la cena. Quando Meyer provò a chiedere consiglio su dove potersi sistemare, una coppia di Gemelline gli indicò un corridoio poco distante: lì dovevano esserci delle stanze ancora vuote. Le ringraziò con un sorriso, offrì loro due gallette di Pan di Lumi da dividere insieme tra quelle che ancora gli erano rimaste nella borsa e si avviò.
   Nell’aria aleggiava un forte odore di erba che gli faceva pizzicare le narici. Meyer si fermò un po’ titubante di fronte alla prima porta e dopo essersi scambiato un cenno di assenso con Combusken bussò. Provò ad aprire chiedendo timidamente permesso.
   Il puzzo delle canne divenne nauseante. Meyer andò a coprirsi naso e bocca con una mano e restò sulla soglia a osservare la stanza senza emettere fiato. Un gruppo di Ribelli ne aveva fatto il proprio regno, e oltre che dagli spinelli abbandonati per terra, Meyer rimase turbato dalla quantità di bottiglie e lattine di alcolici, in parte riversati sulla moquette sfilacciata, scolorita dal tempo. Ad un tratto, mentre era assorto in quella visione di caos, un labile suono, di voce femminile, gli accarezzò brutalmente le orecchie. Meyer non poté reprimere l’impulso di rispondere a quel piacevole stimolo, che così all’improvviso veniva a distoglierlo dal putridume in cui era immerso. Si guardò attorno a cercare da dove provenisse quel sospiro, desiderando di poterlo cogliere un’altra volta, ma nel momento in cui sollevò lo sguardo ad indagare ciò che si celava nell’angolo più buio della camera, un brivido lungo la schiena lo trattenne dall’avanzare.
   Una massa informe e gigantesca si agitava nell’ombra come una belva agonizzante, stesa sulla branda a gridare implacabile il proprio dolore. Meyer ne ebbe lì per lì timore, salvo poi rendersi conto che si trattava di due corpi umani: un ragazzo e una ragazza, avvinghiati insieme come due animali accecati dalla foga di vincersi e possedessi l’un l’altro. Riconobbe un seno di lei che ricadeva mollemente sul petto, e il braccio irsuto di lui che oscillava senza forza nell’aria.
   Incontrò gli occhi del maschio. Li vide lucenti e arrossati, di un languore smorto, e gli ricordavano quelli dei vitelli. Provò un inspiegabile ribrezzo.
   Combusken indietreggiò di un passo. Il Pokémon tentò di convincere il suo Allenatore a fare altrettanto, ma egli non si mosse. Poi, a un certo punto, si avvicinò un giovane della combriccola a bloccargli la vista: decisamente più alto e piazzato di Meyer, si fermò a squadrarlo dall’alto in basso.
   «Scusa pivello, lasciagli un po’ di riservatezza. Sai, qui gli spazi sono quelli che sono... Noi li lasciamo fare», disse.
   Meyer si riscosse, pieno d’imbarazzo, e diede un’occhiata al resto del gruppo. Annuì, profondendosi in mille scuse.
   «Cercavi una stanza dove dormire?».
   «Ah, sì».
   «Beh, qui come vedi siamo al completo. Più avanti, però, dovrebbe essercene una libera. Prova a darci un’occhiata».
   «Certo. Grazie».
   Si allontanò il più in fretta possibile, seguito da Combusken che lo sorvegliava a qualche metro di distanza.
   Giunse alla seconda porta, e stavolta esitò a lungo prima di decidersi a bussare – il pugno che batteva sopra il legno tremava ancora. Aspettò una risposta. Qualcuno disse: «Avanti». Meyer aprì.
   In fondo alla stanza, rannicchiata in un angolo, c’era una ragazzina che stringeva in grembo un Mareep. Se ne stava tutta sola, seduta sul pavimento ammaccato, abbracciata con tenerezza al suo Pokémon. Nella mano teneva una spazzola che fino a poco prima doveva avere utilizzato per districare la lana dell’agnellino. Pareva così piccola, lei: il viso ancora tondeggiante, gli occhi grandi e azzurri, di fanciulla. Avrebbe dovuto avere sì e no due o tre anni meno di lui. Meyer venne colto da una dolcezza disarmante, un amabile sollievo dopo la visione di fronte a cui si era sentito tanto agitato poco prima. Adesso, davanti agli occhi gli si mostrava quest’immagine pura, della più viva innocenza.
   Combusken guardò sorpreso il giovane allontanarsi e muovere i primi passi verso di lei. Meyer s’inginocchiò ai suoi piedi e le rivolse intensamente lo sguardo. La ragazzina lo fissò in silenzio; le sue dita scorrevano con lentezza sulla schiena di Mareep. Il Pokémon socchiuse assonnato le palpebre. Osservò Meyer per un istante soltanto. Poi si addormentò.
   «Abbiamo un’altra appassionata del tipo Elettro, a quanto pare».
   Quegli occhi grandi e azzurri si posarono dubbiosi sulla sagoma del Pokémon Rampollo, e tornarono poco dopo a rincontrarsi con quelli di Meyer.
   «Ma quello è un Combusken. Sarà di un banalissimo doppio tipo Fuoco/Lotta».
   Egli sorrise. Lanciò un’occhiata al suo compagno, incoraggiandolo ad avvicinarsi.
   «Ho incontrato Torchic una notte di pioggia in cui ero triste e temevo di aver perso tutto nella vita. Torchic mi ha illuminato la strada con la sua fiamma e scaldato il cuore col suo calore. Da allora lo porto sempre con me».
   Allungò una mano ad accarezzare il morbido batuffolo sulla fronte di Mareep. Al passaggio delle sue dita si formarono tante piccole scintille di elettricità.
   «È il mio Pokémon più fidato, nonostante in battaglia preferisca di gran lunga il tipo Elettro», concluse, accogliendo Combusken accanto a sé. Il Pokémon si accovacciò al suo fianco e restò a scrutare con attenzione le sembianze di quella ragazza che parevano aver incantato così intimamente il suo Allenatore.
   «Io vengo da una baita lungo la Via dei Pascoli. In casa abbiamo sempre allevato cuccioli di Mareep. I miei genitori non volevano che partissi, così ho iniziato a viaggiare più tardi rispetto agli altri bambini».
   Aura. Il suo nome piacque a Meyer fin da subito. Questa ragazzina che giungeva dalle campagne pareva avere l’indole di una Veterana, sebbene così giovane, e non ci volle molto affinché egli la prendesse in simpatia. Quella notte dormirono vicini, coi sacchi a pelo sistemati uno accanto all’altro, in mezzo al resto degli Allenatori che col passare delle ore si erano affollati nella stanza.
   L’indomani Aura fece sfoggio della sua determinazione pregando Meyer di darle consiglio per la Palestra di Romantopoli che lui aveva già battuto. Gli mostrò l’astuccio delle Medaglie ed egli vide che era riuscita ad accaparrarsi le spille di Temperopoli e Luminopoli, ma le mancavano ancora le precedenti.
   «È troppo difficile, ho già tentato due volte. Non sono ancora riuscita a elaborare una strategia vincente».
   «Dovresti provare a raccogliere le prime tre Medaglie, intanto. Sicuramente ti aiuterebbe a capire meglio i vantaggi e gli svantaggi di quei tipi e come sfruttarli in una squadra. Penso tu abbia semplicemente bisogno di fare esperienza e di allenarti un altro po’. Se non altro i tuoi Pokémon ne sarebbero di certo rafforzati».
   Aura accolse il suo consiglio con entusiasmo. Poi gli confessò timidamente di aver raccolto le Medaglie Pianta e Voltaggio perché non aveva voluto allontanarsi troppo da casa, nonostante desiderasse a tutti i costi distaccarsene.
   Rimasero insieme una settimana, il tempo affinché Aura si abituasse all’idea di spingersi da sola fino a Novartopoli e oltre. In quel lasso di tempo Meyer ebbe modo di scoprire quanto ella fosse tenace in lotta con i propri sfidanti, anche di fronte alle sconfitte, ed egli era certo che quella forza d’animo dovesse venirle dalla consapevolezza di far parte degli ultimi. Meyer aveva sempre saputo di essere un ultimo, e se in quella notte di pioggia non avesse incontrato Torchic sul proprio cammino, probabilmente si sarebbe arreso senza pensarci.
   Accompagnò Aura a Luminopoli. Fecero rifornimento di strumenti e rimedi vari. Ella ascoltò con attenzione ogni sua dritta, e Meyer si sentì lusingato dal modo in cui lo prendeva così tanto in considerazione, da quanto fortemente volesse imparare da lui ogni cosa – perché dopotutto, non era mai stato un asso nei combattimenti, e aveva sempre guardato alle lotte semplicemente come a un gioco. Si separarono ai piedi della Torre Prisma e si scambiarono la promessa d’incontrarsi di nuovo.
   I successivi due anni erano stati un continuo perdersi e ritrovarsi, ed era parso che quella fosse una caratteristica costante del loro rapporto. Intanto, in segreto, si erano innamorati a vicenda.
   Avevano finito per trascorrere gli ultimi mesi insieme, senza più dividersi, e già così giovani avevano iniziato ad assaporare la quotidianità di una vita in comune: una vittoria dopo l’altra, avevano cominciato a progettare obiettivi, a condividere aspirazioni e successi, spostandosi di città in città, fino a quando un giorno non erano giunti nella fredda Fractalopoli. Lì Meyer si era scontrato per la prima volta con l’agghiacciante furia dell’Avalugg di Edel, e nonostante la superiorità di tipo del suo Blaziken, era stato sconfitto. Vi aveva ripensato per giorni e giorni, persino tra le carezze di Aura che puntualmente si stringeva a lui per consolarlo, un’ossessione perenne che non riusciva a scacciare. Si erano rimessi in marcia spinti dall’entusiasmo di lei. Aura continuava a ripetere che sarebbe bastato allenarsi soltanto un altro po’ e che quando sarebbero tornati Edel non avrebbe avuto scampo. Ma in Meyer ormai si era fatto strada lo sconforto, e ancor di più la disillusione che gli proveniva dalla consapevolezza dell’età matura. Così, sulle soglie dei diciotto anni, una mattina si era fermato di fronte all’ingresso per la Via Vittoria insieme ad Aura. Lassù, sopra i monti innevati, si riusciva a scorgere la sede maestosa della Lega Pokémon, con le alte torri dalle finestre a bifora.
   «Io rinuncio», disse. «Aura... Sarà meglio lasciarci qui».
   Lei lo guardò sconvolta.
   «...Che cosa? Rinunci?».
   Meyer si voltò verso di lei, sentì il proprio cuore appesantirsi nello sprofondare dentro il suo sguardo smarrito e tra le labbra serrate a nascondere chissà quali parole, il dispiacere che scivolava fin troppo chiaro fuori da quegli occhi, sulle guance rosee di fanciulla ingenua, spaesata di fronte ai primi ostacoli disseminati dall’adolescenza. Allungò le dita ad asciugarle le lacrime, ma Aura si dimenò.
   «Pensavo che un giorno ci saremo saliti insieme, io e te... Possibile che per una semplice sconfitta tu ti tiri indietro così? Eppure ti manca talmente poco, Meyer, perché?».
   «È stato bello finché è durato, Aura... Ma ormai sono cresciuto. Non posso più andare avanti in questo modo. E comunque, sappiamo bene entrambi che non sarei riuscito ad arrivare lassù. Ho bisogno di studiare, di trovare la mia strada altrove».
   Aura ascoltò quell’ammissione standosene ferma in disparte. Meyer aspettò da lei una risposta, ma non disse nulla. Ad un tratto la ragazza si avvicinò, lo abbracciò, nascose il viso contro il suo petto. Poi, all’improvviso, Aura alzò la testa all’insù, lo guardò dritto negli occhi con quelle ciglia umide e le palpebre arrossate, ancora socchiuse sotto lo sforzo del pianto. Si strinse con maggior forza contro i lembi del colletto, non lo voleva lasciare andare, Meyer sentì la sua presa farsi terribile e angosciata. La vide sollevarsi sulle punte dei piedi, e poi lo travolse il sapore di quelle lacrime nella propria bocca mentre le loro labbra venivano a sfiorarsi e a spingersi le une contro le altre, rabbiose e tristi, piene d’inconsolabile amore. Meyer si avvolse attorno ad Aura, al suo corpicino che debolmente si riversava in lui a tastarlo vicino, così vicino a sé. La baciò teneramente e infinitamente, colmo di quel sentimento che ancora, troppo timidi entrambi, non si erano confessati. Si aggrappò ai suoi capelli, come a volersi arenare lì per sempre, lontano dalle delusioni, dai tormenti, dalle insicurezze, tra quelle ciocche bionde e sinuose, catene lascive del suo stesso desiderio. E quando finalmente piegandosi sulla bocca di Aura sentì di tornare a respirare, a riappropriarsi di una qualche serenità perduta, ella si ritrasse. La guardò allontanarsi, fermarsi ed esitare più in là lungo il sentiero prima di rivolgersi l’un l’altra il loro ultimo saluto, ora divisi, in cammino su due strade diverse.
   Meyer quasi non riuscì a trovare la forza di parlare per una settimana. Blaziken, suo silenzioso confidente, era l’unica compagnia che si concesse di avere accanto in quel muto vagabondaggio sulla Via Malinconia, in rotta verso Luminopoli, per rischiarare in qualche modo le idee di fronte alle luci della Torre Prisma. Fu passeggiando intorno all’ingresso della quinta Palestra che una sera, sbocconcellando una galletta, Meyer comprese ancor più intensamente che quel mondo non era più fatto a sua misura. Vide un gruppo di bambini intenti a sfidarsi e a scommettere su chi per primo avrebbe sconfitto il Capopalestra. Inevitabilmente il suo pensiero si rivolse ad Aura, alla sua mano che spazzolava il pelo di Mareep – lei non aveva avuto nient’altro che le lotte Pokémon per appropriarsi del proprio destino, per essere sé stessa. Subito dopo Meyer si premette una mano sulle labbra per impedirsi di andare oltre e di riportare alla mente le sensazioni di quel bacio, che tuttavia non gli diedero pace per l’intera notte, quando più tardi provò a coricarsi nell’angusta cabina che gli avevano assegnato al Centro Pokémon di Piazza Rosa. Ricordava la dolcezza di quella bocca e si ritrovava bloccato in una spirale indistinta di emozioni che erano a tratti delizia e poi nostalgia.
   Iniziò a darsi da fare per cercare un appartamento dove stabilirsi, e soprattutto un lavoro, poiché con i suoi genitori aveva premuto affinché una parte della quota per gli studi potesse contribuire a pagarla lui stesso. Suo padre e sua madre erano stati piuttosto contenti di vederlo così deciso e indipendente, ma lo avevano anche rassicurato che per il momento non era necessario che si sacrificasse a quel modo. Alla fine si erano trovati d’accordo che lui avrebbe provveduto all’affitto e al proprio sostentamento, di tutto il resto se ne sarebbero occupati loro da lontano.
   Per un periodo venne assunto come fattorino di un ristorante: da lì cominciò a covare il desiderio di potersi fare prima o poi una motocicletta tutta per sé. Al momento gli bastava allacciarsi i pattini ai piedi e sfrecciare attraverso i vicoletti fra una consegna e l’altra. La mattina presto si recava in Università – si era iscritto a Ingegneria Elettrica –, seguiva con attenzione i corsi, prendeva appunti meravigliandosi di volta in volta delle cose nuove che imparava, nel pomeriggio si fermava in biblioteca a studiare, e infine a una certa ora si recava al Centro Pokémon per farsi una doccia e prepararsi per il turno serale. Dopodiché rincasava nella sua cabina soltanto a tarda ora, l’una passata, con la schiena a pezzi e i vestiti che puzzavano di fritto. Le ultime energie rimaste gli bastavano appena per spogliarsi, ammassare gli abiti nel cestello della biancheria sporca che l’indomani all’alba avrebbe portato a pulire nella lavanderia in comune messa a disposizione dalla struttura, poi si stendeva sul letto, pensava ad Aura, e si addormentava.
   Fu durante un giro di consegne che, un sabato sera, Meyer trovò un annuncio di affittasi in un piccolo palazzo a metà strada tra Piazza Blu e Corso Basso. Cercò di fissare al più presto un appuntamento con l’agenzia immobiliare, s’informò sui costi e su tutto ciò di cui aveva bisogno. Non si scoraggiò di fronte a quella manciata di appena qualche metro quadro – dopotutto non era che un monolocale da studente, in ogni caso da Allenatore aveva dovuto accamparsi in ambienti ben più spartani – e il giorno in cui andò a vedere l’appartamento ne fu talmente entusiasta da sentirlo già suo. Festeggiò insieme a Blaziken, subito si mise in contatto con i genitori. Di ritorno al Centro Pokémon ne parlò con un’Infermiera Joy, la trattenne almeno mezz’ora raccontandole dello scorcio che si vedeva dalla finestra del balcone, e della cucinetta e della lavatrice, poi avrebbe comprato quella vecchia scrivania che aveva puntato giorni prima al mercatino dell’usato, sotto sconto era così conveniente, e ancora avrebbe avuto bisogno di un tappeto, per i mesi invernali, forse avrebbe potuto prendersi cura di una pianta, la stanza era così luminosa, e poi...
   «Certo che però vi toccherà stringervi! Un appartamento così piccolo...».
   «Blaziken avrà sempre la sua Premier Ball. E comunque le dimensioni non sono certo un problema, per noi».
   «Oh, no, non mi riferivo a Blaziken! Dicevo... la tua ragazza».
   «...La mia ragazza?».
   Guardandola sorridere in quel modo, sottilmente malizioso e attraente, Meyer fu persuaso per un attimo che ci stesse provando con lui. Era già pronto a scusarsi e a mettere un freno alle sue attenzioni; non fece in tempo che quella aggiunse:
   «Ma sì, ha telefonato tutta la mattina! Dovrete stringervi per bene, tu e la tua ragazza».
   «Io non...».
   Aura. Nello stesso istante in cui realizzava che non poteva essere altri che lei, il telefono squillò un’altra volta, lo chiamarono: «Meyer! C’è Meyer?», egli scattò, si fece vedere, afferrò la cornetta con le mani impazienti. Lo lasciarono solo.
   «Aura!» esclamò, le lacrime agli occhi.
   «Ciao, Meyer».
   «Oh, Aura, sono così felice di sentirti!».
   «Anch’io, Meyer. Come stai?».
   «Bene, benissimo! Credo di non essere mai stato meglio!».
   Com’era bello poter ascoltare di nuovo la sua voce! Si sentì invadere tutto da una dolce commozione, completamente assorbito dalla contentezza. Con imbarazzo realizzò che avrebbe tanto voluto averla davanti a sé e stringerla, accarezzarle i capelli, prenderle il viso tra le mani e poi... Arrossì.
   «Tu invece come stai?» le chiese.
   Per un attimo sembrò come che Aura si fosse messa a tacere così all’improvviso. Meyer diede un’occhiata alla cornetta temendo fosse caduta la linea. Ma eccola di nuovo che tornava a parlare:
   «Bene», disse.
   Sospirò sollevato.
   «Mi hanno detto che hai chiamato più volte, stamattina...».
   «Sì. Ho chiesto di te in tutti i Centri Pokémon di Luminopoli. Per un attimo ho pensato che avessi ripreso a viaggiare e ho avuto paura che non avrei saputo dove cercarti...».
   «Oh, no. Ormai, Aura, non credo che partirò più. Sai, oggi ho trovato un appartamento: mi trasferirò presto. Non è proprio vicino all’Università, però... D’altra parte, gli studi mi stanno dando un sacco di soddisfazioni! Tra poco avrò il mio primo esame, sono un po’ agitato... Ma mi piace tutto, mi piace tutto tantissimo. Sono felice».
   Di nuovo, dall’altro capo del telefono fu silenzio. Meyer rimase ad aspettare.
   «Aura, non ti sento».
   Si spaventò.
   «Aura?».
   Udì un lungo, pesante, intenso sospiro. Avvicinò la mano libera alla cornetta come a volerla posare sulla sua guancia – la sua presenza gli mancava fin troppo.
   «Meyer, perché hai smesso di lottare?» la sentì mormorare ad un tratto, e la sua voce era bassa bassa, di un tono ambiguo tra il triste e lo stizzoso «Perché invece non ritorniamo a viaggiare insieme, eh? Lascia stare l’appartamento, i tuoi studi. Dove pensi che ti potranno mai portare, dopotutto? Andiamocene da qualche parte in cui ancora non siamo stati. L’hai mai visto un tramonto ad Hoenn, la luce del sole che scende sulle rocce di Ceneride? Non ho mai sentito il vento soffiare tra le foglie del Bosco di Lecci. Che profumo avrà? Sei mai salito su una montagna? Quanto pensi sia alto il Monte Corona? Io non ho mai camminato a piedi nudi sulla sabbia delle spiagge di Malie, e non ho mai mangiato una Malasada. Voglio presentarmi alla Lega, e se non vorrai batterla tu lo farò io per te. Alleneremo insieme i nostri Pokémon fino a quando poi...».
   Ad ogni dettaglio, ad ogni domanda che lei aggiungeva, Meyer si sentiva crescere sempre più e stupidamente di rabbia. Non riusciva a capire per quale motivo proprio adesso ella venisse a dirgli tutte queste cose, una dopo l’altra, senza alcun nesso logico, come che semplicemente vagasse in qualche sua fantasia, tra i pensieri; e forse anche lei come lui ancora soffriva per quella loro separazione tanto improvvisa e inaspettata, forse anche lei la notte lo pensava e non riusciva a trattenere il rimpianto al ricordo di tutto ciò che era stato lasciato alle spalle – se solo fosse stato davvero così, pensò Meyer – ma ormai che cosa se ne poteva fare, arrivati a questo punto? Possibile che ancora non l’avesse accettato, che non avesse realizzato a distanza di mesi che le cose erano cambiate, che lui aveva già scelto un’altra via e che non sarebbe più tornato indietro?
   Tutto l’entusiasmo che lo aveva riscosso nel momento in cui l’Infermiera Joy al banco lo aveva chiamato per rispondere al telefono svanì di colpo per lasciare il posto ad un irrefrenabile rancore che gli gonfiava il petto man mano che prendeva un respiro, poi un altro, e un altro ancora. Forse un banale capriccio, irrazionale e sciocco, di un ragazzo maturo d’età e d’intenzioni, ma non ancora di mente: irruente, poco saggio, avvezzo troppo al sentimento e troppo poco al ragionare – e pure Meyer a diciotto anni che cosa poteva saperne?
   «È per questo che mi hai chiamato? Mi hai cercato... per dirmi questo?».
   Lei tacque, ancora.
   «La mia strada è questa, Aura! Perché non vuoi capirlo?!».
   Riagganciò la cornetta e se ne andò via incollerito, coi pugni affondati nelle tasche e una smorfia terribile sul viso. Attraversando la sala d’aspetto, Meyer incontrò nuovamente l’Infermiera Joy che poco prima aveva fatto quell’insinuazione tutt’a un tratto insopportabile.
   «Non è la mia ragazza!» ringhiò, e corse nella sua cabina senza più rivolgere parola a nessuno.
   Nei giorni successivi, Aura continuò a cercarlo. Meyer talvolta la ignorava, poi però si sentiva in colpa e allora rimaneva lì nella sala d’attesa aspettando che richiamasse, pregando che non si fosse offesa e ripetendosi in mente le più disparate scuse che riusciva a mettere assieme, rifinendo questa frase qui, e questo tono qua, la virgola, il punto... Intanto, i preparativi per stabilirsi nel nuovo appartamento procedevano serenamente, Meyer si era già appuntato da parte, ricopiando la pianta sul suo diario, come avrebbe sistemato le proprie cose e come avrebbe disposto i mobili, provava a schizzare qualche scarabocchio per avere un’idea di che veduta d’insieme avrebbe avuto – ma a disegnare non era proprio capace, e un volta trasferito si sarebbe reso conto di quanto fossero assurde le prospettive che aveva tracciato – e quando non aveva la matita a portata di mano passava ore e ore a coltivare quell’immagine nella sua fantasia, accumulandovi dettagli su dettagli finché non se ne sentiva soddisfatto.
   Al contrario, per quanto cercasse di evitarlo, i litigi con Aura aumentavano: aveva assunto all’improvviso questo atteggiamento morboso, ossessivo nei suoi confronti, e col passare delle settimane egli era quasi giunto a odiare lo squillo gracchiante del telefono, le Infermiere Joy lo guardavano infastidite, e lui non sapeva in che modo sistemare la situazione. Per quanto volesse bene ad Aura, il clima che aveva creato era diventato a tratti insostenibile. Si ripromise che le avrebbe parlato chiaramente, quando un giorno qualsiasi, inaspettatamente e senza un perché:
   «Aura, smettila di cercarmi!».
   «Mio papà non c’è più».
   Meyer sentì ogni impulso di rabbia spegnersi all’improvviso, il silenzio fischiare nelle orecchie. Si lasciò andare contro il muro, allontanando per un attimo la cornetta dall’orecchio, coprendo con una mano il microfono. Soltanto adesso capiva il perché di quell’insistenza, la disperazione nel tentativo di riportarlo sulla sua vecchia strada. Pensò a quanto dovesse sentirsi sola, gli girava la testa. E lui non aveva capito nulla. Ma perché non glielo aveva detto prima? Aura piangeva, ed era qualcosa di tremendo.
   «Dove sei? Vengo da te».
   «No, non venire», quanto faceva male sentirla con quella voce! «Mia madre non ha preso bene il fatto che abbia viaggiato insieme a un ragazzo. Non è il caso che tu ti presenti adesso... Vorrei tanto vederti anch’io, ma tutto quello che mi sono sentita di fare è stato chiamarti... Se non la tua presenza, volevo sentire almeno la tua voce, capisci? Mi manchi, Meyer... Mi manchi troppo...».
   Con l’impotenza che cresceva sempre più nel suo animo, egli cercò di trovare le parole, qualcosa da dire, ma era tutto inutile, e la lingua si seccava nella sua bocca, in gola c’era un nodo che non si poteva sciogliere. Aura continuava a piangere, ed egli ebbe paura che non avrebbe smesso mai. Ad un tratto, non seppe dove trovò la forza, le sue labbra si mossero da sole, non sentiva nemmeno che cosa stesse effettivamente dicendo, si abbandonò alla ragione che per un istante era riuscita a riprendere il controllo sulla sua persona:
   «Aura, ascoltami. Ti lascio il mio indirizzo di casa. In realtà devo ancora finire di compilare le pratiche per il trasloco, ma penso che ormai... Vieni quando vuoi».
   «Grazie, Meyer... Grazie...».
 
 
 
   Passò un mese. Meyer non ebbe più notizie da Aura, finché una mattina, attraverso il vetro della cassetta della posta intravide una lettera solitaria adagiata sul fondo. Riconobbe la sua scrittura nelle curve ampie del corsivo in cui era segnato il proprio nome, e per un istante aveva provato l’impulso di disdire immediatamente ogni appuntamento che avrebbe dovuto attendere in giornata per chiudersi in casa a leggere e rileggere quelle righe, ma il senso di responsabilità lo aveva presto dissuaso, e Meyer aveva trascorso il resto del giorno tenendosi la lettera nel taschino, vicino al cuore. Quando poi la sera era rientrato, aveva lasciato la busta sul comodino, si era preparato da mangiare, aveva cenato senza particolare appetito, e per l’emozione aveva lasciato il piatto pieno a metà. Dopo essersi sistemato per andare a dormire si era accovacciato sul letto, tutto chino sulla busta, che era sua e soltanto sua, e l’aveva aperta con una cura invidiabile, stando attento a non sciupare la carta, a non farvi strappi, né la minima pieghetta – quei suoi gesti esalavano un che di sacro, un’intima riverenza. Su un foglio c’era scritto:
 
   Caro Meyer,
 
   Per il momento c’è bisogno che resti qui a casa. Mia madre è ancora molto scossa, lo sono anch’io, e non voglio lasciarla sola. È quasi imbarazzante il fatto di trovarci ad appena due ore di treno di distanza e non poterci vedere... Eppure è così... Perciò ho pensato di inviarti una lettera.
   Come stai? E come vanno i tuoi studi? Io ho abbandonato la mia carriera da Allenatrice. Non so se un giorno la riprenderò. Per adesso non ne voglio sapere. Mio padre avrebbe preferito che rimanessi qui alla baita a prendere il suo posto, non mi ci vedeva bene a lottare con i Pokémon (lo sai che i miei sono sempre stati un po’ così) e ora come ora rimettermi in marcia mi farebbe sentire troppo in colpa. So che era qualcosa a cui lui teneva molto, e mi sentirei di tradirlo se non restassi. Forse ti farà strano... Ma non so in che altro modo esprimermi.
 
   Scusami, ho scritto tutto di getto... Spero di sentirti presto.
 
Aura  
 
   Meyer rilesse la lettera più volte, quella sera, e l’indomani si svegliò che ancora la teneva in mano. Si alzò dal letto con le gambe appesantite dalla sonnolenza che non lo reggevano in piedi, mosse quei due o tre passi che lo separavano dalla scrivania coi piedi scalzi e infreddoliti. Mentre li sfregava tra loro, seduto scompostamente sulla sedia, frugò tra i fogli sparsi in mezzo ai libri, fece scorrere le dita tra i biglietti che durante la settimana aveva riempito di schemi e di appunti. Contrastando la nausea che gli provocava la vista di tutte quelle formule che avrebbe dovuto imparare a memoria per l’esame, continuò a cercare in ogni angolo finché non trovò un pezzo di carta vuoto. Quindi fu la volta di smuovere gli astucci e i portapenne – aveva banalmente collezionato i bicchieri di un fast food e ammassatovi dentro ogni singola penna che possedeva –, e intanto che le matite e gli evidenziatori cadevano sul pavimento, scrisse:
 
   Piccola Aura,
 
   Non lasciare andare quello che desideri. Non riesco a immaginare quanto possa essere grande il dolore per aver perso tuo padre, ma ti prego, non perdere anche te stessa.
 
   Poi gli si era offuscata all’improvviso la vista, la gola aveva preso a graffiare, aveva tirato su col naso, e sporcandosi le guance d’inchiostro era stato costretto a interrompersi.
   Aveva saltato le lezioni del giorno. Più tardi aveva dovuto telefonare un compagno e pregarlo di passargli le note; quando però l’aveva raggiunto per avere da lui una copia della registrazione che aveva fatto in aula, Meyer non era riuscito a seguire neppure uno dei ragionamenti che il collega gli aveva riassunto prima di cedergli la cassetta. Una volta tornato a casa, l’aveva inserita nel mangianastri, si era messo le cuffie alle orecchie e impugnando la penna era rimasto in attesa che le parole del professore fluissero ordinatamente a distoglierlo dai suoi pensieri. Ma era troppo distratto, e il bigliettino che aveva macchiato quella mattina era ancora lì, stipato in un angolo, in attesa di accogliere il resto. Lo ignorò, lo accartocciò, vi ammassò sopra i libri e i quaderni per impedirsi di guardarlo più a lungo. Si forzò a trascrivere la formula che il professore stava dettando, in una grafia storta e irrispettosa dei margini stabiliti dai quadretti. Poi però si accorse di aver sbagliato una lettera, che si era dimenticato un’altra volta l’alfabeto greco, allora la mano andò a rovistare tra i vecchi appunti, a ricercare quel post-it su cui si era segnato i caratteri principali che aveva incontrato fino a quel momento, ma sfogliando e sfogliando non lo trovò. Guardò dentro il blocchetto che aveva lasciato nello zaino, il professore intanto continuava a parlare, scialacquando definizioni su definizioni che Meyer si stava perdendo da parte, indietro con l’ascolto – nulla, ancora nulla, nemmeno lì! Stava per gettare a terra qualche altro taccuino in preda alla disperazione, quando il suo sguardo si posò sulla pila che aveva accatastato più in là sulla scrivania. Restò a fissarla con le mani che vibravano di un tremore inquieto.
   Si tolse le cuffie. Il nastro intanto continuava ad andare avanti. Meyer sollevò i libri e i quaderni uno ad uno, spostandoli dall’altra parte del tavolo, finché non rimase che quel pezzo di carta stropicciato e sporco di lacrime e inchiostro.
   E ricordatevi che la chiave dell’esame è lo scritto, lo scritto!, diceva il professore.
   «Mio dio, ma cosa ho scritto?» mormorò lui, rileggendo quelle due righe che aveva messo insieme la stessa mattina. Le trovò improvvisamente egoiste e meschine, seppure nate dal dolore per quell’anima sola.
   Per quanto fossero giuste e si trattassero effettivamente di ciò che aveva sentito premere di più nel suo petto squassato dai singhiozzi, si accorse tuttavia che in esse era intriso un certo sentimento ingordo, cattivo, prodotto dal desiderio unicamente suo, personale, di riavvicinarla a sé, come che nella sua sofferenza egli dovesse imporsi a manifestare la propria presenza, la rivendicazione del possesso di quell’amore che nutriva per lei, per la sua persona che non avrebbe sopportato di vedere cambiare (per quanto l’indole giovanile sia di per sé, come è naturale, un mutamento continuo e irrefrenabile, ad essa il cambiamento è doloroso e difficilmente lo riesce a tollerare) sotto la pressione insostenibile del lutto. Ma stava ad Aura e soltanto ad Aura scegliere che cosa fosse più giusto per lei e come dovesse sentirsi: lui, dinnanzi a tutto questo, non era nessuno, non era nulla.
   Le inviò semplicemente le sue condoglianze, un abbraccio, il suo affetto – e in segreto mille, mille baci.
 
 
 
   In quei pochi anni che seguirono, Meyer aveva preso a uscire con qualche ragazza, a frequentare nuove conoscenze. Soltanto a posteriori si sarebbe reso conto dell’ambiguità di certi rapporti con un paio dei suoi compagni di corso, le strette di mano, le confidenze sussurrate a notte fonda ubriachi, i baci sulle guance per salutarsi trattenuti eccessivamente a lungo con le labbra socchiuse. Ogni tanto ci si picchiava, coi pugni e con i morsi; Meyer era sempre stato contrario alla violenza, eppure non era mai riuscito a sottrarsi del tutto a quelle risse – ogni colpo avrebbe dovuto togliergli l’aria e invece lui vi respirava dentro a pieni polmoni, col naso fratturato e il sangue che colava da una parte, mentre una strana eccitazione ribolliva ovunque dentro di lui dandogli completamente alla testa. Solo dopo si sarebbe accorto di quanto disperatamente avesse ricercato in questo modo malsano un contatto fisico con il corpo maschile, quanto l’avesse desiderato senza mai averlo capito (accettato?) davvero. E nel frattempo passava le serate a crogiolarsi tra i complimenti che tutte quelle ragazze con cui si vedeva gli indirizzavano entusiaste per i tagli e per i lividi, perché ciò che una donna vuole è un uomo forte, virile, che la sappia proteggere – Meyer in realtà non era niente di tutto questo, e probabilmente sarebbero rimaste deluse dalla dolcezza, dalla pacatezza e dalla timidezza che gli riempivano l’animo: non avrebbe saputo proteggere neanche sé stesso, ma era proprio questo a renderlo splendido sul fiorire dei vent’anni, la sincerità con cui stava imparando ad ammettere le proprie debolezze e a riconoscerle come parte di sé. Aveva cominciato a riflettere a lungo, e non era raro che, standosene solo nel suo appartamento, spendesse ore fissando il soffitto, sdraiato sul letto, oppure che, accovacciato sulla sedia, rimanesse immobile davanti alla finestra a guardare la strada immerso in profondi e complessi ragionamenti. La scomparsa del padre di Aura l’aveva segnato più di quanto avesse inizialmente creduto, e allora si chiedeva che valore avesse per lui un padre, che cosa volesse dire la parola padre, la sua immagine, la sua presenza e di contro la sua assenza. Meyer non aveva mai avuto un rapporto troppo intimo con il proprio, di padre: se ne era andato via di casa così presto, e non c’era stato modo di costruire effettivamente qualcosa insieme. Spesso era capitato che qualche conoscente gli avesse rinfacciato la loro somiglianza, ma lui, non sapeva spiegarsene il motivo, aveva sempre accolto con fastidio certe allusioni, quelle similitudini che risiedevano nel sangue e a cui tuttavia l’impulso di ribellarsi era troppo forte. Dopotutto, non avrebbe potuto dire diversamente per quanto riguardava sua madre. Li conosceva poco, li aveva conosciuti entrambi fin troppo poco – si sarebbe ripetuto amaramente qualche anno più tardi.
   Il pensiero di Aura e del padre lo occupava quasi ogni giorno, di rado vi erano momenti in cui se ne dimenticasse, distratto dagli impegni universitari e dai primi tirocini, da qualche nuova ragazza con cui si attardava sotto gli archi del Pont Marie a scambiarsi i baci più intensi e caldi, o con cui giocava a rincorrersi tra i vicoli di Montmartre, in mezzo ai turisti e agli artisti di strada; ma non si era mai dato a nessuna di loro.
   Aura aveva continuato a scrivergli tutte le settimane. Sebbene non fosse lì con lui, egli la percepiva incessantemente accanto: talvolta, nell’aprire una lettera, aveva persino l’impressione di riuscire a sentire il suo profumo e che nello stringere quei fogli di carta si abbandonasse in realtà alle sue mani. Avrebbe desiderato abbracciarla più di ogni altra cosa, e checché si ostinasse a negarlo, ella gli mancava, e il suo ricordo stava fisso nella sua mente come una figura evanescente, che pian piano sbiadiva e che tuttavia generava in lui un sentimento profondo, doloroso come un tizzone ardente a contatto con la pelle nuda. Si lasciava consumare silenziosamente da quella passione, un poco alla volta: di tanto in tanto scivolava in una insolita apatia, poi d’improvviso un brivido eccitato lo riscuoteva da capo a piedi, e tornava ad essere il ragazzo di prima.
   Un pomeriggio suonarono alla porta. Meyer lasciò i libri sul tavolo, svogliatamente cercò nell’armadio qualcosa da mettere addosso – era rimasto in pigiama tutto il giorno – e dopo essersi sciacquato il viso in bagno andò ad aprire. Le sue guance si colorarono lievemente di rosso, mentre l’espressione seccata che campeggiava sul suo volto si faceva via via da parte a lasciare il posto ad una sincera sorpresa.
   «Aura», disse, osservando la ragazza che se ne stava ferma lì sulla soglia, tutta sorridente.
   «Ciao, Meyer», lo salutò lei con un piccolo inchino.
   Egli non poté trattenersi dal pensare come quegli anni di lontananza l’avessero piacevolmente cambiata: sebbene fosse rimasta di bassa statura, i suoi lineamenti si erano fatti più fini e aggraziati, e le forme del corpo avevano ormai il fascino di quelle di una donna. Aura indossava un adorabile vestitino a fiori dalle tinte rosa e azzurre, un nastro le fasciava delicatamente i fianchi morbidi, mentre ovunque sulla gonna era una cascata di veli e di pizzi leggeri. Meyer avrebbe voluto dirle che era così carina, ma si sentiva fin troppo imbarazzato per riuscire ad aprir bocca. Piuttosto, la invitò ad entrare.
   «Benvenuta nella mia tana!» annunciò con un teatrale gesto delle braccia, osservandola mentre si guardava attorno. Nel vederla così assorta a scrutare ogni dettaglio della sua stanza, provò un improvviso senso d’intimità. Quante volte aveva immaginato di averla lì con sé, mentre leggeva le sue lettere alla sera, sotto la debole luce dell’abat-jour... La fece accomodare sul letto e mettendo a scaldare dell’acqua per preparare un tè le domandò che cosa la portasse da quelle parti.
   «Indovina?».
   «È perché ti mancavo, scommetto...».
   «Ma smettila! Guarda qui, invece!».
   Meyer si girò e la vide rovistare dentro la borsa. Aura tirò fuori un astuccio di metallo col coperchio riccamente decorato di girali in smalto d’oro: lo sollevò con cautela, poi ne mostrò orgogliosa il contenuto. Su un cuscinetto di stoffa stavano tutte e otto le Medaglie della Lega di Kalos, fresche di lucidatura. Le prime erano appena smussate agli angoli, sui vetri colorati si notava evidente il segno di qualche graffio, ma l’ultima, la Iceberg, splendeva in tutta la sua chiarezza all’interno della sua fessura.
   «Sei diventata proprio forte, eh?» disse Meyer con un largo sorriso, colmo d’ammirazione. Avrebbe voluto darle una carezza sulla testa, stringerla tra le braccia in un impeto di euforia, ma la timidezza lo trattenne, di nuovo. Gli bastò riempirsi lo sguardo e le orecchie della risata spensierata in cui si era aperta la bocca di Aura che intanto continuava a tenere le spille bene in mostra.
   «Ho sconfitto Edel la scorsa settimana. La Lega Pokémon ormai è quasi mia», disse la ragazza. «Volevo fartele vedere tutte insieme... Sono belle vero?».
   «Già. È una vera soddisfazione vedere finalmente un cofanetto completo».
   «Non immagini nemmeno! Ho comprato un astuccio nuovo apposta. Ti piace? Ho speso tutti i risparmi che avevo messo da parte».
   «È molto bello, sì! Deve esserti costato un occhio...».
   «Dopotutto non posso mica presentarmi alle porte della Via Vittoria con la vecchia custodia! Durante il viaggio mi si è rovinata tutta, sai, il tempo, l’usura... Tu conservi ancora le tue Medaglie?».
   «Sì, ma è tanto che non le tiro fuori, si saranno ossidate... Aspetta».
   Si avvicinò alla libreria, scansò una pila di manuali e di fumetti che aveva accatastato insieme e dal fondo del ripiano prese una scatola: vi aveva riposto dentro i suoi averi di Allenatore, la Tessera, la Mappa Città, le ultime Poké Ball che gli erano rimaste alla fine del viaggio, vuote – dopo una lunga e sofferta riflessione alla fine aveva deciso di liberare tutti i suoi Pokémon, ad esclusione di Blaziken e di pochi altri cui si era affezionato, che portava sempre con sé legati alla cintura – e infine, ovviamente, il suo astuccio delle Medaglie. Soffiò sul coperchio per mandare via la polvere che si era accumulata in superficie, vi strofinò sopra un lembo della maglietta, poi si sedette sul letto accanto ad Aura e l’aprì.
   «Al negozio dell’usato ho visto che molti di quelli che si sono ritirati le hanno rivendute», disse afferrando il cofanetto con delicatezza «Chiaramente a livello legale non hanno più alcun valore, ma pare che fruttino parecchi soldi, specie tra i collezionisti. Io comunque non avrei mai avuto il coraggio di darle via».
   Sulle Medaglie si era formata una patina scura e sgradevole. Meyer provò a sfregare un dito su di un paio, ma era abbastanza inutile, e così annerite facevano davvero una gran differenza rispetto a quelle ben pulite di Aura. Nell’ultima fessura risaltava anche troppo evidente lo spazio vuoto che avrebbe dovuto occupare l’ottava spilla. Quella mancanza non aveva mai fatto male più di tanto come in quel momento – gli era mancato così poco per davvero, e lui invece aveva mollato.
   «Cazzo...» mormorò, cominciando a realizzare solo ora fin dove era riuscito a spingersi nonostante le insicurezze e le continue difficoltà. Sentì gli occhi bruciare, si stropicciò gli occhi contro una manica per alleviare il fastidio.
   «Non te l’ho mai chiesto, Meyer... Ma ti è mai capitato di ripensarci?» chiese lei.
   «No», rispose lui «Nemmeno una volta. All’Università mi trovo bene. Certo, questo non vuol dire che non sia difficile o che riesca a fare tutto perfettamente... Però mi sento a mio agio. Da quando ho iniziato gli studi mi sono reso conto che è quello che avrei sempre voluto imparare nella vita: se dovessi tornare indietro al momento in cui ci siamo separati, farei di nuovo la stessa scelta. Sono felice nel posto in cui mi trovo ora».
   «Non ti ho mai detto neppure questo», disse ancora Aura, «Che sono contenta per te, dal profondo del mio cuore. Lo sono sempre stata».
   Meyer ne fu sorpreso. Aveva sempre pensato che non gli avesse mai perdonato quell’addio, e forse ciò che gli era bruciato di più era stato il rimorso per averla lasciata sola. Invece ora scopriva, guardandola distendere le labbra in un sorriso dolce, che nonostante le divergenze Aura lo aveva sempre avuto a cuore in ogni istante, e che aveva accolto con gioia ogni suo progresso. Meyer se ne sentì commuovere, sorrise a propria volta rassicurandosi nel calore che gli veniva dalle loro spalle che si toccavano distrattamente, seduti vicini così, come ai vecchi tempi.
   «Grazie, piccola».
   L’aveva chiamata in questo modo infinite volte nelle sue lettere, ma pronunciato per la prima volta a voce alta assumeva un effetto diverso, più concreto e tenero, amorevole. Gli era venuto talmente spontaneo che, nel momento in cui effettivamente lo realizzò, ne rimase imbarazzato – anche lei arrossiva, come lui. Si alzò a spegnere il fuoco sotto il bollitore, versò l’acqua nelle tazze e con un cucchiaino versò il tè solubile.
   «Mi dispiace, ho solo questo».
   «Va bene lo stesso, non preoccuparti».
   Porse la ceramica ad Aura e si riaccomodò al suo fianco, bevendo un primo sorso.
   «Però, dimmi... Ti è mai mancato viaggiare insieme, invece?» chiese ancora lei, con le dita che tremavano leggermente contro il bordo della tazza.
   «Quello sì. Ma più di tutto», ed esitò «più di tutto mi sei mancata tu, Aura».
   La mano di lei, allora, meravigliosamente fragile e irrequieta, di fronte a quella confessione non poté fare a meno di cedere. Meyer vide la tazza traballare nelle sue dita, ma prima che riuscisse ad afferrarla una macchia di tè era già caduta a bagnarle le calze. Aura si scusò più e più volte per la sua reazione un po’ sciocca, che era così sbadata, ma Meyer cercò di tranquillizzarla con mille parole gentili, che si sentiva un po’ in colpa anche lui e non voleva metterla a disagio. Prese un tovagliolo e lo passò piano lì poco sopra al ginocchio per asciugarla.
   Oltre le calze, riusciva a percepire la pelle morbida di lei, il calore che essa emanava. Per un accidente giunse a sfiorarle l’orlo della gonna. Si fermò. Aura però non si ritraeva. Egli sollevò gli occhi a incontrare i suoi, e li vide risplendere di un dolcissimo languore. Col fiato mozzato provò a chinarsi, ad abbandonarsi a un bacio, come quello di quando si erano separati tempo prima, senza più rivedersi per anni, e intanto si accorgeva che Aura di nuovo non si ritraeva, non si ritraeva.
   Non capiva nulla. Sentiva quelle labbra carnose schiudersi contro le proprie e diventare umide. Le mani di lei scorrevano lentamente sul suo petto e si arrestavano a tratti, ancora troppo pudiche per spingersi oltre con maggior sicurezza. Lui continuava a esitare sull’orlo di quella gonna, senza voler risalire più in alto. Il tè intanto cominciava a freddarsi.
   I veli e i pizzi leggeri scivolavano su quelle gambe con un fruscio delizioso. Meyer allungò il palmo a sentirli scorrere sotto le proprie dita, inebriato da quel suono, e intanto le forme di Aura si facevano sempre più tonde, più tenere, e il desiderio di unirsi con lei cresceva di volta in volta che solcava una nuova curva, un tratto sconosciuto di quel corpo delicato.
   Come nel dormiveglia, percepiva le membra appesantirsi. Ricadde sul letto, steso di schiena, abbracciato ad Aura e ai suoi innumerevoli baci. Fuori scendevano le prime gocce di pioggia, si alzava il vento. Loro si tenevano l’uno nell’altra, senza dirsi nulla, riparati nel proprio calore. Poi ad un tratto Aura si allontanò, si sollevò sulle ginocchia. Le sue braccia andarono a piegarsi dietro la schiena, e a poco a poco il pezzo superiore di quel grazioso vestito si allentò sopra il suo busto. Meyer vide le bretelline scivolare sulle sue spalle chiare, il modo in cui lei stessa con le dita se le sfilava con gesto sicuro e consapevole, sebbene timido, tanto timido. Aura sorrideva, le guance rosse e vivaci come due splendidi papaveri. Egli la guardò seminuda, con il reggiseno che le avvolgeva il petto minuto, ed era la cosa più bella che avesse mai visto.
   «Vuoi farlo davvero?».
   «Sì».
   Meyer si alzò. La strinse nelle braccia e poggiò la testa sul suo seno, sprofondando dentro di lei, nel suo profumo, e respirò contro la sua pelle, fra i suoi capelli. Aura lo accarezzava silenziosa, amorevole e sensuale al tempo stesso. Condotto dalle sue mani, Meyer le sganciò il ferretto dell’intimo e glielo tolse. Passò le dita sul suo petto nudo, fissandola ardentemente negli occhi. Mentre la baciava, le disse di amarla. Era la prima volta per entrambi.
   Restarono ad ascoltare il mormorio dei respiri che si spingevano a sfiorare le loro pelli, a sentire il contatto fra i loro corpi che si accoglievano a vicenda. Il piacere li soggiogò a poco a poco, accompagnato da una sottile paura di rivelarsi, di spogliarsi – quand’era troppo forte allontanavano gli occhi, poi li lasciavano vagare di nuovo su quelle forme che destavano così tanto imbarazzo e insieme attrazione, e si abbracciavano senza volersi separare mai più. Meyer si sentiva morire al solo udire i suoi sospiri, e subito rinasceva nel momento in cui ella lo richiamava, lo attirava a sé con le dita, sottraendogli un bacio o una carezza.
   In quello sforzo di aprirsi per la prima volta a un’altra persona, s’incontrarono nella sofferenza che li accomunava, in un timore che era solitudine e assieme amor proprio, completo abbandono nell’intimo altrui. Si tennero insieme, confusi, mentre il dolore li scuoteva entrambi per poi scomparire in macchie rosse sul telo bianco. Allora si abbracciarono, quieti quieti, la sonnolenza che scendeva sulle palpebre, immersi in una dolce calma, scandita dai battiti dei loro cuori.
   Meyer si stava per addormentare, quando ad un tratto Aura chiese:
   «È così brutto diventare adulti?».
   Lui la guardò, infagottata nelle coperte e accoccolata contro il suo petto.
   «Con te nemmeno tanto», rispose, e le diede un bacio sulla bocca.
 
 
 
   Furono otto anni di duri sacrifici. Meyer aveva fatto la conoscenza della madre di Aura, era stato messo in riga dal suo cipiglio severo. L'aveva conosciuta una domenica mattina, invitato per la prima volta alla baita a pranzare inseme: una donna ancora giovane, non particolarmente bella, sebbene nel taglio degli occhi e delle labbra vi riconoscesse qualcosa della grazia della figlia, il viso pieno e ambrato dal sole. Ciò che lo colpì di più furono le folte sopracciglia scure e rigide, non curate, che parevano tendersi perennemente sopra le palpebre in questo sguardo arcigno con cui lo attanagliava, prima di assestargli una carezza priva di tatto sulla spalla, nello sforzo di mostrargli un affetto che tuttavia non riusciva a provare. A Meyer pareva di percepire la sua diffidenza persino nel modo in cui si piegava a rivolgergli il volto, forzosamente vicino, eppure nascosto in parte dietro i lunghi capelli scarmigliati, una nuvola nera enorme e impenetrabile.
   «Bello è bello», l’aveva sentita dire ad Aura a fine giornata, mentre si era fermato all’ingresso per prendere la giacca «Ma non è nulla di che. Vedo che si dà da fare, che studia, ma non ha ancora trovato un lavoro stabile. Sarà un bravo ragazzo... Un bravo marito, non so».
   Poi aveva aggiunto che sembrava timido e poco virile, Aura aveva ribattuto che se lo trattava con così poca considerazione per forza s’intimidiva, lui che era tanto buono e sensibile, lei allora le aveva risposto seccamente che a maggior ragione non era quello che faceva per lei, «che se non vuoi tornare alla baita, vedi almeno di trovarti qualcuno che sia all’altezza e che sia in grado di mantenerti, di darti una casa e una famiglia, invece di scorrazzare da sola in giro per la regione come una poco di buono, a fare che cosa, poi, lo sai solo tu». Meyer aveva sentito Aura arrabbiarsi e urlarle contro, poi l‘aveva vista uscire di corsa dalla cucina e raggiungerlo ad afferrargli un braccio: «Ce ne andiamo», aveva detto, e se n’erano andati.
   Più tardi, sulla monorotaia che li avrebbe portati a Temperopoli Alta, si era scusata per entrambe, dopo essere stata in silenzio lungo tutto il tragitto a piedi fino alla stazione.
   «Speravo se ne fosse fatta una ragione. Non riesce a sopportare il fatto che tu mi stia portando via da lei».
   «È comprensibile, dopotutto è pur sempre una madre...».
   «Sì, ma non può continuare a tarparmi le ali in questo modo! Non ha nemmeno mai accettato che io volessi diventare un’Allenatrice... Non l’accettava neppure mio padre... E tu, non dare retta a quelle cose brutte che ha detto su di te. Io ti amo così come sei».
   «Lo so, Aura. Non ti preoccupare».
   Si abbracciarono, seduti sui sedili, assonnati e stanchi. Meyer la baciò a lungo sulla fronte, mentre lei si rintanava nelle sue braccia grandi e accoglienti. Giocherellavano un po’ con le dita, Aura gli accarezzava il pizzetto che aveva iniziato ad acconciarsi sul mento. Erano cresciuti tanto.
   «Finirò i miei studi, troverò un lavoro. Tu nel frattempo sarai diventata Campionessa, e allora ce ne andremo a vivere insieme. Viaggeremo per le altre regioni e faremo delle lunghe vacanze. Andremo a Ceneride, passeggeremo nel Bosco di Lecci, cammineremo sulle spiagge di Alola mangiando Malasade...».
   Nel sopraggiungere del dormiveglia, sembrava davvero che i loro sogni non fossero poi così irrealizzabili.
   Quando il proprietario dell’appartamento non c’era, spesso Meyer invitava Aura a dormire da lui
– bisognava farsi effettivamente stretti –, e così ricominciarono a tessere quella quotidianità di coppia, fatta delle cose più semplici, che già avevano vissuto negli ultimi mesi del loro viaggio a Kalos. La laurea era quasi vicina, così come la Lega: mentre Meyer preparava i suoi ultimi esami, Aura si allenava lungo la Via Vittoria, confrontandosi con altri Allenatori agguerriti come lei; aveva già provato a battere i Superquattro, ma i Campioni che si succedevano ogni volta uno di seguito all’altro rimanevano il suo più grande ostacolo, con le loro strategie articolate, difficilmente inquadrabili.
   Un giorno Aura tornò da Meyer prima del previsto. Disse che nella Sala della Luce aveva trovato per la prima volta una ragazza e che, nonostante l’avesse sconfitta anche lei, ne era stata contenta, come mai le era capitato prima di fronte a una perdita. Aveva deciso di ritirarsi, perché per quanto ambisse al suo posto, si era resa conto di non esserne all’altezza; ma non per questo rinunciò alla sua carriera di Allenatrice.
   Furono otto anni di duri sacrifici, e non tutti diedero il risultato sperato. Molte cose dovettero essere abbandonate, le strade tracciate nuovamente da capo infinite volte, poi interrotte e infine riprese, per poi essere definitivamente chiuse: che purtroppo, non le si poteva più percorrere.
   Ma Meyer sentiva che nonostante le sofferenze, nonostante i rifiuti e le separazioni, dentro di lui, di fronte alle numerose onde in cui si attorcigliava ininterrottamente la vita a ridosso della scogliera, una nuova gioia, calorosa e splendida, si stava facendo largo nel suo cuore: ed era Aura vestita di bianco all’altare, che sorrideva dolcemente con le guance arrossate – senza saperlo, portava Lem in grembo.


 
 
~ ~ ~



Volevo postare questo capitolo entro la fine del 2019 per salutare l'anno appena passato, perciò siccome sono già in ritardo di due mesi stavolta pubblico di sabato anziché di domenica per non scalare ulteriormente a marzo. È stato un anno denso di prime volte per me, sia sentimentalmente che nella vita in generale, quindi sarebbe stato davvero importante chiuderlo con una prima volta come quella della conchiglia di oggi: vale lo stesso anche dopo due mesi.
Ringrazio Afaneia per le recensioni alla terza e alla quarta conchiglia, czerwony per aver inserito la storia tra le ricordate e le preferite insieme a Nick Wilde, e come al solito tutti i lettori silenziosi che passano a dare un'occhiata! Tornerò presto con la sesta conchiglia ♥
Nel frattempo vi ricordo di lasciare un voto per Meyer nella lista dei personaggi se non lo avete già fatto, così che lo possa inserire nelle note della storia. Grazie mille ♥
Un abbraccio,

Persej

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Capitolo 7
*** ( sesta conchiglia ) ***




 
6












   Augustine gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio, ma non capiva esattamente cosa, e tuttavia lo eccitava da morire. Sentiva unicamente la modulazione della sua voce, bassa e profonda, quasi stanca, che vibrava contro la propria tempia e si spostava in maniera scomposta, e a volte era vicina, a volte lontana, e il letto sotto di loro scricchiolava. Chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dal movimento ritmico e sinuoso dei loro corpi uniti assieme, e ad un tratto avvertì il calare di un buio intenso, elettrizzante, che gli offuscò d’improvviso la mente, e percepì le proprie membra contrarsi e irrigidirsi, i gemiti che erompevano dalla bocca come un’eco distante. Poi tornò a udire quella voce stanca e affannata, ad avvertire il proprio peso sul materasso e quello dell’altro sopra di sé. Guardò il viso di Augustine tendersi in una smorfia contrita, lo vide fremere e gridare senza voce, e gridava il suo nome, nello slancio disperato di un ultimo orgasmo; si accasciò sul suo petto e restò in silenzio.
   Meyer gli passò una mano lungo la schiena, lo sguardo fisso sul soffitto. Il calore dei loro corpi sudati gli risultava a tratti asfissiante, ma non aveva la forza di ritrarsi, né voleva farlo. Tutto pareva permanere in una qualche atmosfera ovattata, stranamente quieta, ora che anche l’altro taceva, e non intendeva sciuparla appena per un banale capriccio. Restò ad osservare la stanza illuminata dalla luce fioca del lumetto, e le coperte sfatte, gli abiti sparsi a terra, la porta lasciata aperta. Ogni cosa aveva il profumo di Augustine. Allungò le dita a toccargli le punte dei capelli, lo sentì rivoltare la testa e capì che lo stava guardando: le sue braccia magre si muovevano nel tentativo di cingerlo in qualche modo.
   Meyer lo strinse un poco a sé e lo baciò sulle labbra ancora rosse, vagamente salate. Lasciò scivolare le mani sul suo corpo mentre la bocca di lui si richiudeva ad avvolgergli la lingua in un tepore umido e gradevole. Restarono così ad accarezzarsi per qualche minuto, rigirandosi in mezzo ai cuscini, poi però con un sospiro Meyer si ritrasse, perché un bisogno più forte si era fatto impellente, per quanto avesse cercato di reprimerlo.
   «Scusami, ti dispiace se fumo?» chiese, un po’ timidamente.
   «No, no. Fai pure, non preoccuparti», rispose l’altro.
   Allora si allontanarono e intanto che Meyer apriva i cassetti del comodino a cercare le sigarette, Augustine si toglieva il preservativo dandogli le spalle.
   «...Tu ne vuoi una?».
   «Grazie, ma non mi va».
   «Okay».
   Tuttavia mentre Meyer si ristendeva sul letto assaporando l’aroma del tabacco, Augustine gli si avvicinò con fare lascivo:
   «Però, ripensandoci...» disse, allungando sinuosamente una mano ad afferrare la sua, sfilandogli la sigaretta dalle labbra e portandosela alle proprie «Un tiro non mi dispiacerebbe».
   La sua bocca si arcuò in un sorriso scaltro, accarezzato da un ricciolo di fumo, e Meyer ebbe l’incontrollabile impulso di mordergliela. Bastarono uno, due baci, e tornarono a stringersi di nuovo senza pietà.
   A tratti pareva ancora così strano riversarsi su quest’altro uomo, tastarne le forme nude del corpo e sentirle venire a contatto con le proprie senza che vi si frapponesse alcun tipo di ostacolo. E percepire quelle mani, quelle dita carezzevoli e allo stesso tempo spudorate, che lo cullavano mollemente fino allo sfinimento per poi stregarlo di colpo, correre e scorrere libere sopra le carni e lì dove neppure lui aveva mai avuto l’ardire di toccarsi, tutto quanto lo gettava in un abisso che era estasi e agitazione insieme, da cui non voleva più riemergere. Si scostò per un attimo dalle labbra di Augustine, guardò il suo viso e realizzò di avere e di avere avuto per tutta la notte questo bell’uomo nel letto, solo e soltanto per sé, pronto a soddisfare ogni suo vizio e capriccio senza che lo giudicasse mai una volta. Avvertì un piacevole e inaspettato senso d’intimità, e pensò fosse strano, ancora più strano rispetto al resto.
   Si chiese se non fosse semplicemente per quell’essere amorevole di Augustine, che una cosa tanto sterile come aveva pensato dovesse essere, avesse preso a coinvolgerlo così emotivamente. Ma forse si sbagliava, forse anche nel solo sesso fine a sé stesso doveva esserci un senso, una spiritualità occulta che non aveva mai considerato. Sospirò – non ne sapeva niente, ancora niente! – e piegò la testa a rintanare il viso contro il collo dell’altro. Sentì i suoi polpastrelli passare fra le ciocche di capelli e indugiare a lungo sulla nuca. Poi con lentezza essi incominciarono a strisciare verso il basso, a tracciare innumerevoli linee in mezzo alle scapole e oltre fino a quando le sue mani non si richiusero ad avvolgergli i glutei. Meyer vacillò.
   «Come va da queste parti?».
   «...Bene. Abbastanza bene».
   «Sai, in genere non lo faccio al primo incontro», confessò. «Preferisco concentrarmi su altro».
   «Su altro?».
   «Sì. Non c’è solo quello, dopotutto».
   «Cos’altro?».
   Sentì la sua gola vibrare di una calda risata, sottile, non troppo marcata, e assomigliava tanto a quella che faceva lui quando Clem gli chiedeva dove andasse il sole la notte e perché non volesse rimanere insieme alla luna, che poverina doveva starsene da sola al buio e al freddo.
   «Diciamo», rispose Augustine, dopo averci pensato un po’ su «Diciamo che non sembri esattamente il tipo da roba più spinta di quella che abbiamo fatto stasera...».
   Meyer sollevò la testa: di nuovo quel sorriso insinuante!
   «E sarebbe un male?».
   «Perché mai? Ognuno fa come si sente. È questo il bello».
   «Tu, invece, saresti il tipo?».
   «Suppongo dipenda dalla situazione».
   Dopodiché tacque, con i suoi segreti e i suoi misteri. Meyer lo vide arcuare le labbra, incalzato da qualche ricordo. Si chiese che cosa fosse, e tuttavia non avrebbe mai potuto saperlo. La sigaretta si consumava a poco a poco. Dovette girarsi a scrollare via la cenere.
   «Sei stato così carino a prendere in mano la situazione, che non me la sono sentita di dirti di no».
   Meyer non avrebbe potuto tenere il conto dei tanti – troppi – sottintesi che Augustine aveva infilato in quel prendere e poi in quella mano, e lo trovava ridicolmente infantile nel suo seminare di continuo – non aveva mai smesso, sin da quando era passato a salutarlo nel suo studio ore prima – allusioni e doppi sensi come un ragazzino malizioso, che prenda tutto poco sul serio. Ma gli piaceva questo suo carattere giocoso, spudoratamente frivolo.
   Quando avvertì le sue dita poggiarsi sulla spalla, si lasciò andare senza protestare al modo in cui lo trascinava giù a stenderlo sul materasso. Lo fissò dal basso, riempiendosi lo sguardo dell’immagine di lui che lo sovrastava mentre piano piano andava a piegarsi sul suo viso – sentiva i capelli ricadergli sulle guance, il suo respiro soffiare contro le labbra, e la prima cosa che gli venne in mente fu che l’avrebbe rifatto con lui ancora un’ultima volta, se soltanto non fosse stato così stanco e intorpidito. Le unghie che esitavano sopra il suo petto diffondevano un piacevole formicolio in tutto il corpo. Incrociando i suoi occhi ancora pieni di desiderio, Meyer arrossì. Allungò di poco il collo a raggiungere la sua bocca, ma Augustine si ritrasse.
   «Sei meno timido di quello che pensi», sussurrò, lasciandogli una carezza sulla guancia. Poi si rannicchiò al suo fianco dandogli le spalle, e Meyer pensò che si volesse riposare. Finì di fumare standosene nel suo angolo del letto. Cominciava a sentire anche lui una certa sonnolenza, quando:
   «È una bella idea, lo specchio qua davanti».
   Meyer sapeva che non stava tentando di fare altro che di lanciargli ancora le sue frecciatine, ma in quel tono basso, inframmezzato da uno sbadiglio, aveva un effetto completamente diverso e poco sensuale.
   «L’ho messo vicino al letto così quando i bambini vengono a dormire con me posso rimanere a guardarli», disse, anche se non poteva negare di essercisi guardato dentro anche prima, quando Augustine l’aveva fatto completamente suo, e di averne provato piacere.
   «Mh. È una cosa dolce. E quelle lassù invece, che sono?».
   «Ah, quelle sono le stelle».
   «...Stelle?».
   Meyer si chinò a spingere un altro interruttore accanto a quello del lumetto, e subito nel riflesso dello specchio fu un echeggiarsi e rincorrersi di tanti bagliori fiochi. Vide nel vetro Augustine stropicciarsi gli occhi e poi guardarsi intorno a osservare le stringhe di luci a forma di stelline appese sull’intero soffitto.
   «Ho fatto una modifica all’impianto elettrico, così possono accenderle appena entrano in stanza la notte. Sia Clem che Lem hanno ancora paura del buio».
   «Che bravo papà».
   «Ci si prova».
   Scrollando le spalle spense la luce del comodino lasciando accese solo le stelle. Vide che una lampadina si era fulminata, e si annotò a mente che avrebbe dovuto cambiarla. In settimana sarebbe passato in negozio a farne scorta, poi le avrebbe riposte nell’armadio degli attrezzi, avrebbe dovuto comprare una scatola apposita per non perdersele da parte come faceva sempre...
   «Loro come sono?».
   Augustine ancora non dormiva.
   «I bambini?».
   «I bambini».
   «Aspetta, te li faccio vedere».
   Meyer si alzò. Lasciò per un attimo Augustine da solo mentre andava a prendere il cellulare lasciato nella tasca del cappotto. La cucina e il salone erano illuminate di striscio dalla debole luce proveniente dalla stanza da letto. C’era qualcosa di diverso in quelle forme famigliari, radicate nella quotidianità, immerse così nella penombra. Meyer non se ne lasciò attrarre, e tornò indietro senza rivolgere loro lo sguardo.
   «Questo con le guance rosse e gli occhiali è Lem. Il batuffolo più in basso invece è Clem», disse ad Augustine mostrandogli la foto che teneva come salvaschermo: ne andava particolarmente fiero «Otto e tre anni».
   «Ti somigliano».
   «Hanno preso di più dalla madre, te l’assicuro».
   Rimasero entrambi in silenzio a contemplare la fotografia. Meyer vide Augustine particolarmente assorto, e si chiese a cosa stesse pensando.
   «Io non ho mai considerato l’idea di avere dei figli», confessò. Si era fatto d’un tratto serioso, le sopracciglia folte tese leggermente sopra le pieghe dell’occhio.
   «Hai la tua carriera all’Università, dopotutto. Non ti biasimo. Un figlio richiede tempo, e molti sacrifici. Io e Aura avevamo già trovato casa quando abbiamo iniziato a pensarci seriamente. Poco dopo esserci sposati è arrivato lui», e accarezzava teneramente con il dito la testolina bionda del maggiore impressa sullo schermo.
   «Aura».
   «Sì. Vedi, io e mia moglie...».
   Si bloccò. L’espressione sul suo viso si fece grave, la fronte attraversata da una ruga profonda, mentre gli occhi restavano socchiusi, intensamente distratti sopra le pieghe delle coperte accartocciate contro il bordo del letto e che l’indomani avrebbe di certo dovuto mettere a lavare, se non altro per cancellare quell’odore, quell’odore così estraneo che sapeva di lui e di Augustine insieme, maschile. Nell’aria cercò involontariamente un altro profumo, ma quel profumo non c’era, non una minima traccia, e lo trovò nei ricordi, in quella stessa spossatezza si sentì sollevare e avvolgere da un aroma d’arancia, se ne lasciò inebriare fino a quando la vista non si fece lucida e si accorse in quale razza di sentimento si fosse andato irrimediabilmente a cacciare. Un poco di cenere cadde sul lenzuolo e Meyer con gesto assente della mano la scansò via sul pavimento.
   «Cazzo, Augustine. Scusami», mormorò, con la sigaretta tra le labbra, dando un ultimo tiro prima di gettarla. Prese il posacenere e ve la spense dentro in una nuvola fumosa. «Io ancora la chiamo così».
   Le dita andarono a rintanarsi tra i capelli spettinati e percorsero tutta la testa per poi richiudersi a stringere una ciocca ribelle che penzolava oltre la nuca. Meyer si soffermò a lungo a strofinare le palpebre, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime. In qualche modo vi riuscì. Poi gli giunse la voce di Augustine, che fino ad allora era rimasto semplicemente a guardarlo, e nella sua voce un’affermazione: «Tu l’ami».
   E non era forse stupido? Se Meyer si fosse trovato nei panni di un’altra persona, probabilmente avrebbe riso di sé stesso, ed in effetti una risata iniziò a rintronare nella sua gola, ma presto si spense e morì in un sorriso penoso. Augustine stava sdraiato al suo fianco, ed era una grande odalisca, con la postura fiera delle spalle e il petto in fuori, proteso verso di lui, le forme del corpo spudoratamente scoperte a compiacere il suo sguardo e null’altro: gli ricordava una di quelle che aveva visto, nude, al museo insieme ai bambini e di fronte a cui Lem si era coperto gli occhi per l’imbarazzo, la perversione dinnanzi all’innocenza.
   «È passato un anno da quando ci siamo separati. All’inizio contavo anche i giorni, ma ormai che senso avrebbe?» si limitò a ribattere. A quel punto, voltandosi a rivolgere all’altro i propri occhi, nell’algida, orgogliosa sensualità di Augustine, Meyer notò anche un barlume di tepore, nel suo viso, che lo scaldò come l’abbraccio che gli era stato offerto all’inizio, quando si era smarrito.
   La sveglia sul comodino segnava le undici e qualcosa. Non avevano neppure fatto così tardi come era sembrato. Meyer si tirò a sedere, prese a raccattare la biancheria che era stata abbandonata senza troppi complimenti sul tappeto e chiese ad Augustine se avesse potuto offrirgli almeno una tazza di latte caldo con i biscotti, che non avevano nemmeno cenato.
   Mangiare a tavola con un uomo seminudo come fosse la cosa più naturale del mondo era stata un’esperienza decisamente surreale.
 
 
 
   La mattina dopo, Meyer si svegliò di buonumore. La consapevolezza di avere qualcuno che non fossero i suoi figli accanto a lui nel letto gli risultava per qualche motivo rassicurante. Non avrebbe potuto paragonare quella presenza alla stessa che aveva percepito per anni di Aura, tuttavia proprio questo essere un qualcosa di nuovo, insolito, totalmente diverso da ciò che erano le sue abitudini, gli dava una gradevole sensazione. Aveva ancora addosso l’odore dell’altro e di quello che avevano fatto, e non si dispiacque nel riportare alla mente qualche ricordo della notte appena trascorsa. Con la testa ancora infossata nel cuscino, forse arrossì un poco, e tanto comunque nessuno avrebbe potuto vederlo. Come era stato timido, eppure così sfrontato! Sorrise nel ripensare a certi momenti, e si sentì come un adolescente esaltato e curioso alle prese con le sue prime volte.
   Augustine dormiva lì vicino, disteso per lungo in tutta la sua magrezza, con la testa reclinata sul braccio che si piegava a cingere il capo, le dita abbandonate fra i capelli mossi. Era coperto a malapena da un lembo di lenzuolo, che gli fasciava un fianco e la coscia, là dove la mano sinistra ricadeva molle sul materasso. Meyer si perse nel percorrere con lo sguardo le gambe sottili che si incrociavano fra loro all’altezza delle ginocchia, ed ebbe l’impressione che la pelle di Augustine rilucesse come marmo bianco nella luce del mattino. Lo guardò ancora, l’impulso di piegarsi su di lui e prendere un altro po’ di quel che era stato la sera prima si fece improvvisamente calore, e Meyer se ne sentì avvampare in tutto il corpo; ma poi gli parve di approfittarsene troppo, così ritrasse le dita che già erano in cerca di quel petto poco villoso, e si alzò per andare a indossare la vestaglia.
   Mentre usciva sul corridoio si rese conto di quanto effettivamente si sentisse riposato. Poi lo colse l’inaspettata consapevolezza del lungo sonno che aveva fatto, privo dei soliti incubi e delle ansie che lo risvegliavano di continuo nel cuore della notte, lasciandolo in balia dei propri tremori e del sudore e delle coperte che lo avvolgevano e lo imprigionavano bloccandogli ogni possibile movimento. In quei momenti rimaneva a scrutarsi, solitario, nel riflesso dello specchio, cogli occhi sbarrati e le mani tra i capelli, un indemoniato, finché ad un certo punto non si allungava ad accendere le stelle, pregandole di fargli compagnia soltanto un po’, il tempo di una sigaretta o due per calmarsi. Allora Meyer diventava una montagna che sbuffa – così l’aveva chiamato Clem una volta quando l’aveva visto, una montagna che sbuffa; poi era arrivato Lem a correggerla: vorrai dire un vulcano, e lei si era opposta: no, no, una montagna che sbuffa.
   Stavolta invece, guardandosi nella specchiera del bagno, dopo essersi sciacquato il viso si sentì inspiegabilmente bello, e tranquillo. Non erano d’impiccio né le rughe sotto gli occhi, né l’eccessiva robustezza che si accumulava sulla pancia e sulle braccia. Si era trascurato tanto in quei mesi, per quanto difficile fosse ammetterlo, e sembrava che assieme all’amore di Aura fosse svanito piano piano anche ogni affetto verso sé stesso. Ma quella mattina era diverso, e non, non soltanto, per Augustine, ma piuttosto perché – un calore intenso e vibrante lo colmò in tutto il corpo – per la prima volta dopo non ricordava nemmeno quanto tempo si era mosso per qualcosa che desiderava senza tirarsi indietro e l’aveva ottenuta. A lungo aveva atteso il momento in cui finalmente sarebbe riuscito ad abbandonarsi ad un’altra persona, distaccandosi finalmente dal ricordo di Aura: sebbene ancora non avesse elaborato appieno la separazione (ma l’avrebbe mai fatto davvero?, si chiese; in cuor suo rimaneva inconcepibile) e sebbene ciò che era stato con Augustine si trattasse di un rapporto avulso da qualsiasi sentimento amoroso, romantico, nonostante egli fosse così tenero nei modi, tuttavia qualcosa era successo, nel momento in cui chinandosi sul viso dell’altro gli aveva detto Vieni da me. Ed era un che di straordinario. Meyer sentì le lacrime sgorgare dagli occhi come l’acqua che dalla sorgente rinasce fiume.
   Dopo la doccia tornò in camera per vestirsi. Augustine dormiva. Non lo volle svegliare. Sbucò sulla soglia della cucina soltanto più tardi mentre stava preparando la colazione. Meyer nel frattempo aveva avuto modo di riordinare casa e soprattutto di rimettere a posto i soldatini a guardia della stanza dei piccoli. Non aveva capito però come sistemare Psyduck, ed era rimasto anche troppo seduto lì sul pavimento, con le membra indolenzite che più in basso avevano iniziato a dargli fastidio, nel cercare di trovargli la posizione migliore accanto agli altri pupazzetti. Chissà perché, poi, arruolare Psyduck in un esercito? Ma i suoi bambini erano così imprevedibili che Meyer non poté trattenere una risata racchiusa tra le labbra.
   Augustine apparve quindi in cucina con due occhi piccoli di sonno, i capelli spettinati, e non lo si sarebbe mai riconosciuto come la stessa persona che percorreva avanti e indietro i corridoi del Dipartimento facendo svolazzare dietro di sé le falde del camice.
   «Ho lezione il pomeriggio, oggi», si giustificò, la voce impastata. «Posso usare il bagno?».
   Tornò all’incirca una mezz’ora dopo, ed era già perfettamente efficiente, con l’agenda nera e la penna in mano, mentre Meyer gli versava il caffè nella tazzina. Fecero colazione insieme, e non appena Augustine ebbe finito di riorganizzare gli impegni della giornata si salutarono, lo ringraziò per l'ospitalità e si avviò.
   Sulla soglia della porta però, Meyer lo chiamò prima che potesse andarsene via definitivamente.
   Lui si girò, lo guardò tenendo la tracolla stretta nelle dita.
   «Grazie. Ne avevo bisogno».
   A quelle parole, Augustine distese le labbra in un sorriso raggiante. Gli fece l’occhiolino, e non avrebbe potuto dileguarsi se non con un’ultima, maliziosissima battuta:
   «È stato un piacere!».



 
 
~ ~ ~



...E con l'anno nuovo sarei passata a un cambio di registro, così come anche Meyer avrebbe afferrato in mano le nuove occasioni della vita! Purtroppo questi primi due mesi non sono stati il massimo, e oggi dopo gli ultimi provvedimenti presi per il Coronavirus guardandomi intorno mi sento un po' giù di morale. Vorrei mandare un pensiero affettuoso e tutto il mio sostegno alle persone che in questo momento si trovano nelle zone rosse e a quelle che impegnate sul fronte medico stanno lavorando giorno e notte. C'è bisogno di collaborare tutti insieme, e adesso più che mai è importante ricordare che ognuno di noi nel suo piccolo può fare la differenza. Saranno inevitabilmente delle settimane dure, ma dobbiamo farci coraggio e avere pazienza.
Per quanto riguarda il capitolo di oggi non ho molto da dire, se non che l'incipit è stata la seconda cosa in assoluto che ho scritto subito dopo il prologo: questo pezzo non è altro che il continuo di ciò che stava succedendo quella sera. Mi diverte molto sperimentare con questi incastri e spero possa piacere anche a voi lettori!
Dopo questa pubblicazione, vorrei concentrarmi sulla conclusione di
Cara Samina, ed è molto probabile che ritorni ai miei aggiornamenti irregolari. Spero comunque di tornare il più presto possibile!
Ringrazio tutti quanti per essere passati per quest'ultima conchiglia, e in particolare czerwony per la gentile recensione alla precedente.
Un abbraccio a tutti, anche se da un metro di distanza, e un caro pensiero alle fanciulle di Efp ♥ Forza! ♥ 

Persej

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Capitolo 8
*** ( settima conchiglia ) ***




 
7












   Quando Meyer aveva pensato che in quella prima notte passata con Augustine aveva avuto l’impressione fossero sempre stati amanti, non era stato per compiacersi di qualche improbabile vena poetica che poteva possibilmente nascondere in segreto nel proprio animo, ma perché non avrebbe trovato altro modo più adatto per descrivere quella sensazione che aveva provato. C’era qualcosa nell’atteggiamento di Augustine che, per quanto frivolo e malizioso fosse, gli dava davvero la strana percezione di essere amato e considerato.
   L’indomani aveva cercato di non pensarci molto, ma alla sera, un momento prima di addormentarsi, le sue domande erano riaffiorate tutte insieme prive del freno moraleggiante che, da persona ancora poco avvezza a certe dinamiche, vi aveva posto nell’istante subito dopo in cui la porta di casa si era richiusa dietro Augustine – nell’ascoltare i suoi passi lungo le scale aveva trattenuto il respiro allo stesso modo in cui, quando portava i bambini a vedere i fuochi d’artificio, restava a guardare in alto nel cielo finché persino l’ultimo crepitio lieve che echeggiava nell’aria non era più udibile alle orecchie. Era stato il capriccio di una notte e tale sarebbe rimasto: questo almeno era ciò che aveva ripetuto di continuo a sé stesso col passare delle ore. Però sopraffatto dagli impegni che si era imposto quel giorno per tenere la mente costantemente occupata non aveva avuto il tempo di cambiare le lenzuola, e adesso l’assenza di Augustine pesava col suo odore come una presenza indelebile. Erano stati distesi là insieme godendo l’uno dell’altro, e a Meyer si erano dischiusi piaceri nuovi e inaspettati, finalmente si era aperto a una persona del suo stesso genere dopo anni di negazione.
   Forse, si ritrovò a pensare, era semplicemente per questo che lui si era mostrato tanto paziente. Una volta, ricordò, mentre erano soli in Università, Augustine gli aveva chiesto scherzosamente quale fosse il suo tipo di uomo. Meyer aveva esitato nel rispondere, e precisamente in quell’indugiare egli doveva aver inteso i suoi trascorsi e il cammino tortuoso che stava ancora intraprendendo senza sapere bene la direzione in cui l’avrebbe condotto: gli aveva sorriso con uno dei suoi sorrisi compassionevoli e ingiusti. Il dormiveglia lo restituì a Meyer sempre più gigantesco e sensuale, mentre si distorceva ad aprirsi in una O rosso-sanguigna, e nelle orecchie gli pareva di udirlo mormorare questa stessa O prolungata e roca, che vibrava in fondo alla gola.
   Spalancò gli occhi di colpo per scacciare via quell’immagine, pur continuando a sentire a tratti la sua voce lamentosa ronzare in testa.
   Si domandò se anche lui avesse cercato qualcosa da lui. Per quanto lo riguardava, le cose si erano succedute in questo modo: aveva guardato Augustine, l’aveva visto accanto a sé, l’aveva sentito ricambiare le sue parole e sorridere, e poi l’aveva baciato. Questo era quanto. Tutto ciò che aveva voluto era stato un mero contatto fisico. Probabilmente, quindi, a impensierirlo adesso era il fatto che Augustine oltre al contatto fisico gli avesse riservato alla fine anche un contatto emotivo, e che da esso fosse stato colpito forse anche più intensamente – gli occhi tornarono lucidi nel ricordare il bruciore alla bocca dello stomaco nel momento in cui lo spettro di Aura era riapparso nei loro discorsi e lui gli aveva rivolto quell’espressione consolante.
   C’erano tante domande che voleva porgli. Si era anche chiesto se una volta tornati in Università si sarebbero guardati con gli stessi occhi di prima, sebbene sapesse che inevitabilmente qualcosa nel loro incontrarsi sarebbe cambiato. Avrebbero fatto finta di nulla? Gli sarebbe parso così strano da parte sua che era sempre tanto premuroso. Possibile che una persona del genere si arrogasse il diritto d’insegnare alla sua Garchomp una mossa talmente meschina come Frustrazione? Presto ogni dubbio, anche il più insensato, cominciò ad agglomerarsi in un ammasso confuso, e l’unica domanda che riuscì a distinguere in quell’intreccio caotico prima di addormentarsi fu un enorme, inesauribile: perché?
 
 
 
   Il giorno dopo Meyer si svegliò con un gran mal di testa per aver pensato troppo; se ne rimproverò mille volte di fronte allo specchio mentre si lavava il viso, e fuori dal bagno, in corridoio, il pupazzetto di Psyduck pareva fargli il verso con la grossa testa ciondolante e gli occhi sconsolati. Quando però più tardi si rese conto di starci rimuginando ancora sopra intanto che esitava davanti alla tazzina di caffè bollente, decise, anche per stare meglio con sé stesso, di andare da Augustine e parlargli.
   L’edificio dell’Università lo accolse all’arrivo coi suoi ampi portoni di legno. Prima di entrare si fermò qualche minuto a fumare sotto la tettoia e si scambiò un’occhiata distratta con un paio di studenti che erano usciti per fare lo stesso. Il vento freddo dell’inverno ormai in procinto di stabilirsi s’insinuava sotto i vestiti e aveva costretto i meno intrepidi a ripararsi dentro, così che oltre a loro intorno non c’era nessun altro. Dopo un po’ che Meyer li aveva visti rovistare nelle borse, i ragazzi si erano avvicinati tutti insieme: «Ha da accendere?» chiesero, quindi tirò fuori l’accendino dalla salopette, glielo diede, si accesero le sigarette e con un «Grazie» biascicato tra le labbra si riallontanarono dall’altra parte del pianerottolo.
   Mentre lasciava scendere il fumo in gola e riempirgli i polmoni, Meyer soffermava lo sguardo sui gradini sotto di lui, e per qualche motivo quella vista vuota e desolante gli suscitò un senso di malinconia. Si domandò se nelle stagioni successive sarebbero tornate a riempirsi come aveva visto le prime volte all’inizio dell’autunno, quando con Blaziken li aveva percorsi dapprima rassegnato, poi, sempre più attratto da Augustine, carico d’impazienza e di desiderio di rivederlo, di prestarsi alle prove. Di nuovo vide tra le sue fantasie la grande O rosso-sanguigna, si abbandonò al ricordo di quella notte. Un brivido gli accarezzò le braccia e la schiena nel riportare alla mente la sensazione di averlo sentito dentro di sé, e pensò fosse soltanto per effetto della nicotina che riuscisse a ripensare a tutto quanto in uno stato di placida calma. Sorrise e insieme arrossì nel dirsi che era stato bello; avrebbe voluto approfondire ancora quell’emozione, ma non c’era tempo. Spense la sigaretta e buttò via la cicca nel posacenere. Entrò in Università affondando le mani nelle tasche.
   Diversamente dalla situazione che versava all’esterno, partendo sin dall’atrio era come al solito un viavai di gente, di studenti ammassati di fronte alle aule in attesa di prendere posto per la lezione, di professori che dissertavano tra loro o agganciati al cellulare. Meyer diede una guardata veloce alle macchinette del caffè vicino alle scale, ma di Augustine nessuna traccia: fece rotta verso il Dipartimento, e a giudicare dall’accalcamento davanti alle porte d’ingresso, intuì già da lontano che qualcosa di singolare stava accadendo quel giorno.
   Sulla soglia trovò la portinaia presa d’assalto da una schiera di ragazzi e ragazze che chiedevano delucidazioni sugli esami, e poi sugli orari e sulle lezioni non ancora concluse. «Come facciamo, noi? Come facciamo!», li sentiva lamentare. Oltrepassò il gruppo osservandosi attorno incuriosito da quel clima insolito e si accorse del passo nervoso con cui i docenti gli correvano accanto, l’incedere instabile dei tacchi delle professoresse, il chiacchiericcio degli assistenti. Si fece di lato lasciando passare un giovane distratto, poi vide due ragazzine confabulare tra di loro, e si indicavano il naso, camuffando un po’ la voce a imitare un accento straniero. Quando svoltando il corridoio si ritrovò davanti a uno degli studi e lo ritrovò vuoto, le finestre aperte ad arieggiare l’ambiente, Meyer non ebbe più bisogno di chiederne il motivo. Lesse il nome sulla targhetta della porta e subito intuì cosa dovesse essere successo. Allungò gli occhi verso l’ala opposta del Dipartimento e si chiese inevitabilmente che cosa ne pensasse Augustine, se avesse avuto qualche reazione. Affrettò l’andatura per raggiungere al più presto la sua stanza.
   Non appena gli venne dato il permesso di entrare, si schiarì rapidamente la voce e aprì la porta.
   «Augustine!» lo chiamò, precipitandosi dentro. Cercandolo con gli occhi, si accorse che assieme a lui c’era un suo assistente, e lo stava fissando con espressione interdetta mentre riordinava alcuni schedari nella libreria. Augustine si circondava sempre di assistenti graziosi, si ritrovò inavvertitamente a pensare.
   «...Professore!» si corresse, richiudendo impacciato la porta.
   Augustine però aveva l’aria di essere piuttosto concentrato sul proprio lavoro: gli rivolse a malapena un sorriso, e lo accolse nello studio esattamente allo stesso modo in cui l’aveva sempre ricevuto, calato appieno nella parte del professore alla scrivania. Lo invitò ad accomodarsi coi soliti gesti cordiali e s’interessò della salute di Blaziken.
   «Gli ha fatto fare esercizio come le avevo consigliato?» chiese, intanto che sbatacchiava le dita sulla tastiera del computer, senza mai distogliere lo sguardo dal monitor.
   Meyer si sentì un po’ spaesato da quell’indifferenza, perché si era immaginato tutto in maniera diversa. Però si accorse anche che lui, contrariamente al suo stile usuale, quella mattina indossava sotto il camice una maglia a collo alto, e sapeva perfettamente che cosa stesse nascondendo e chi avesse lasciato quei segni – ecco un’altra strana, ma bella sensazione: l’appagamento sottile del non detto.
   Ad un tratto Augustine si alzò, si avvicinò alla stampante e ritirò alcuni fogli, li mise in ordine, li spillò, poi si rivolse all’assistente: «Potresti gentilmente portare questo fascicolo al professor Beardsley da parte mia?».
   Il ragazzo lo guardò sorpreso, e anche Meyer non poté fare a meno di rimanere perplesso.
   «Ah... Professor Platan...» cominciò a dire il giovane, ma Augustine lo bloccò.
   «Se ti sbrighi fai in tempo per la pausa caffè. Offro io», insistette con voce melliflua, mettendogli il fascicoletto nelle dita.
   «La ringrazio, ma non credo sia...» riprovò l’altro, cercando con lo sguardo un segno di assenso da parte di Meyer, che gli rese la sua stessa espressione confusa. Meyer in realtà sapeva che fosse probabilmente un pretesto per rimanere da soli loro due, ma davvero non aveva idea di come sostenere una scusa tanto poco meditata. Si limitò a scrollare le spalle e a fare un cenno di solidarietà con la testa. Il ragazzo sospirò.
   «Beh, sì, forse in effetti se mi sbrigo...» fece rassegnato.
   «Grazie mille», disse Augustine con un sorriso «Ti aspetto per il caffè. Andiamo insieme. Oh, potresti per favore chiudere la porta? Grazie, grazie mille».
   Meyer sentì chiaramente l’assistente imprecare in corridoio, ma si sforzò di ignorarlo. Osservò di sottecchi Augustine e per la prima volta considerò quanto dovesse essere difficile per i nuovi assistenti ricoprire quel posto che prima era stato di Sophie. Nell’affinità che era venuta a crearsi nell’ultimo periodo e che era culminata nel rapporto dell’altro ieri notte, Augustine gli aveva raccontato di tante persone, ma di lei mai una volta.
   Proprio adesso aveva preso a fissarlo col mento poggiato nelle dita, piegato col busto sopra la scrivania, ed era così vicino.
   «Allora? Blaziken?» incalzò, esortandolo con occhi impazienti e curiosi.
   Meyer si riscosse, insicuro cominciò a mettere mano nella tasca dove teneva la Premier Ball. Mormorò sottovoce che era lì, cercando di capire nel frattempo se Augustine fosse serio o meno: egli aspettava, afferrando intanto il blocchetto e la penna, senza staccargli lo sguardo di dosso.
   Blaziken uscì fuori dalla sfera emettendo il suo verso gracchiante, una manciata di scintille incandescenti scoppiettarono attorno ai suoi polsi. Si rivolse prima a Meyer, poi esitando sollevò il becco verso Augustine.
   «Le tue piume non smettono mai d’incantarmi, Blaziken», disse lui, avvicinandosi ad accarezzargli le penne arruffate sopra la testa. Gliele allisciò dolcemente con le dita e quella piccola coccola bastò a mettere il Pokémon a suo agio.
   Meyer si accostò a loro, il passo lento, le braccia conserte. Tossicchiò.
   «Bella scusa, quella del fascicolo».
   «Guarda che non lo era affatto».
   Dopo questa risposta data tanto seriamente, Meyer pensò di non capirlo proprio, e il cambio di registro a quel tono confidenziale non faceva altro che confonderlo ancora di più. Augustine ridacchiava rigirandosi nelle dita gli artigli di Blaziken e sfiorandogli le zampe robuste: non era che un gioco anche quello. Di tanto in tanto si annotava qualcosa sul taccuino, poi tornava a osservare il Pokémon, e di nuovo ancora si immergeva nella lettura dei dati raccolti in un silenzio assorto, corrugando leggermente la fronte.
   A un certo punto allungò la mano a poggiarsi contro la spalla di Meyer, e pian piano che quel gesto da una pacca distratta si trasformava in una carezza più solida e le dita si abbassavano a sfiorargli la schiena, Meyer si scambiò uno sguardo con Blaziken. Il Pokémon non pareva infastidito da quell’iniziativa improvvisa, né egli d’altra parte lo era. Però, più lui scendeva, più diventava difficile non cedere a certi pensieri, e non poteva trattenere le sensazioni che gli rievocavano il ricordo di quella notte ancora troppo vicina. Abbassò la testa a evitare il contatto visivo con Blaziken e Augustine parve intuire il suo disagio, perché doveva essersi irrigidito tutto d’un tratto. Allora la sua carezza si era ammorbidita di un languore consolatorio, dopodiché aveva allontanato la mano.
   «Blaziken mi sembra in ottima forma», disse sorridendo, poi aggiunse: «Tu, invece, come ti senti?».
   Sollevando lo sguardo, Meyer aveva incrociato i suoi occhi.
   «Sto bene, Augustine... Professore... Uhm...».
   «Chiamami come preferisci. Se ti fa sentire più a tuo agio mantenere le distanze, puoi continuare a darmi del lei».
   Parlava così spigliatamente, come se fosse più che abituato a ritrovarsi in questo tipo di situazioni. Effettivamente pareva davvero che non avesse alcun genere di preoccupazione, e si comportava come se nulla fosse poi tanto cambiato rispetto a due giorni prima.
   «Dimmelo, se pensi che mi stia prendendo troppa confidenza».
   «No, no. Ecco... Sei gentile a preoccuparti. Ma vorrei parlarti, se non ti dispiace».
   «Hai avuto dei ripensamenti?».
   «No».
   «L’importante è questo. È qualcosa di cui possiamo parlare qui? Altrimenti possiamo andare a bere qualcosa insieme più tardi. Oggi finisco alla solita ora».
   Meyer non poteva negare che quell’invito lo allettasse, ma la rapidità con cui gli eventi si stavano accelerando lo gettava sempre più in uno stato d’incertezza. Fino a due giorni prima non si sarebbe nemmeno sognato di proporgli un caffè – di quelli veri in caffetteria, non l’acqua sporca delle macchinette automatiche come erano abituati; ma d’altra parte erano stati a letto, e forse farsi tutti questi problemi a posteriori ormai non aveva alcun senso. Di fronte alla disinvoltura di Augustine si riconosceva un’altra volta inesperto, e questa situazione per lui nuova continuava a gettare una sequela interminabile di interrogativi, anche – probabilmente? – banali.
   L’assistente rientrò in quel mentre con un’espressione spazientita, i documenti ancora in mano. Richiuse la porta e Augustine lo guardò stupito, come fosse tornato prima del tempo, fissando i fogli che gli erano tornati indietro.
   «Professore, io ci ho provato, ma il professor Beardsley ha lasciato il suo studio stamattina, non sono riuscito a trovarlo. Pensavo lo sapesse, ne sta parlando tutto il Dipartimento».
   Augustine si riscosse, scansò Meyer di lato e raggiunse il ragazzo.
   «Sapevo dovesse andarsene a breve, ma non oggi, non ne avevo idea», disse, e Meyer notò un bagliore di sorpresa balenare di colpo nei suoi occhi, ma una sorpresa stranamente cupa. Se ne insospettì.
   «Sì, è tornato nella regione di Galar dalla Professoressa Flora», continuò il giovane «Se n’è andato un’ora fa senza preavviso».
   Il suo sguardo si fece improvvisamente inquisitivo, e Meyer intese che si stava ponendo le sue stesse domande.
   Augustine sollevò la testa dalle schede che aveva preso a sfogliare con tanta cura e passandosi una mano nei capelli si guardò attorno spaesato. Le sue labbra si erano serrate in una linea dura e asciutta, e scrutando il modo in cui le sopracciglia si piegarono subito dopo sulla sua fronte, Meyer ebbe la certezza che qualcosa effettivamente dovesse essere successo. Augustine sembrò accorgersi dell’insistenza con cui entrambi lo stavano fissando e si affrettò a trovare una risoluzione:
   «Ho capito. Non volevo farti fare tutta quella strada inutilmente, ti chiedo scusa», disse. «Vorrà dire che glieli spedirò io, in qualche modo... Sì. Sì, facciamo così».
 
 
 
   «Non penso se ne sia andato per questo».
   Meyer era rimasto a guardarlo per dei lunghi istanti quando Augustine aveva finito di parlare, ed era stato tutto ciò che si era sentito di dirgli. Si portò il boccale alle labbra e bevve un altro sorso di birra. Augustine stava in silenzio nel suo angolo del divano a rigirare lo spritz con la cannuccia. I cubetti di ghiaccio tintinnavano scorrendo contro la superficie del bicchiere, e suonavano la cantilena del bacio rubato.
   Erano andati a cena insieme: una volta usciti dal ristorante, Beardsley si era offerto di accompagnarlo alla stazione della metropolitana più vicina; prima di separarsi, Augustine gli aveva allisciato con una mano il bavero del cappotto: Non tornare a casa raffreddato, lo aveva ammonito, poi si era gettato impetuoso a baciarlo sulle labbra, ma lui l’aveva respinto.
   Meyer in parte già sapeva, in realtà, poiché in precedenza gliene aveva accennato.
   «Vedi, è che lui mi affascinava molto», ammise Augustine, per l’ennesima volta. «Era gentile e aveva un gran cuore».
   Meyer in realtà pensò a qualcos’altro che iniziasse con la stessa sillaba e che non doveva essergli passato inosservato, ricordando i lunghi pomeriggi in cui non aveva fatto altro che sciorinargli quanto fosse un bell’uomo e quanto ne fosse attratto fisicamente. Eppure Augustine pareva essere sincero, nelle sue parole non risuonava alcunché di malizioso. Ancora una volta riaffiorava quell’unione di amorevolezza e sensualità unite assieme, come che per lui non potessero essere disgiunte del tutto l’una dall’altra. Meyer lo osservava mentre ancora rimestava il drink e si sentiva così incuriosito da quella strana commistione di sentimenti: per tutta la vita non aveva fatto altro che tenerli separati, invece Augustine aveva un modo talmente diverso di ragionare e di amare, che desiderava capirlo più a fondo.
   «Possibile che te ne fossi innamorato?».
   «Oh, no, no. Non cercavo quel tipo di relazione. Non saprei come spiegarti. Per una persona che ha condiviso la maggior parte della sua vita sempre con la stessa persona è difficile da comprendere».
   Meyer era piuttosto scettico su questo punto, magari anche piuttosto presuntuoso. Avrebbe potuto insistere e domandargli che almeno facesse un tentativo, ma, forse per imbarazzo, pensò di prenderla alla larga.
   «È solo che, tutta questa storia per un bacio...».
   «Oh Meyer, non si tratta di una questione sentimentale. Se capisci cosa intendo».
   L’intonazione seria e stizzita con cui l’aveva detto lo riportò immediatamente coi piedi per terra, lontano da certe riflessioni ideali e romantiche. Le preoccupazioni di Augustine erano molto più concrete di quanto avesse pensato.
   «Certo che lo capisco», continuò, e la sua voce si fece di colpo più grave. «Solo che, davvero, non penso se ne sia andato per questo. So che la Professoressa Flora è molto rinomata nella regione di Galar...».
   «Non avrei nemmeno dovuto baciarti lì, l’altro giorno», lo sentì aggiungere, che non stava ascoltando una parola di quel che gli stava dicendo.
   «Ho fatto anch’io la mia parte», replicò, e si sorprese della sottile fierezza con cui gli era venuto di ribadirlo. «Ma quanto a quella sera, non eravate sul posto di lavoro... Era un’uscita fuori insieme, no? Perciò...».
   Tuttavia, proprio mentre parlava, all’improvviso Meyer fu colto da un dubbio, un’intuizione maligna, e guardò Augustine stordito da quella congettura che si faceva sempre più definita nei suoi pensieri.
   «Voglio dire, quando quella sera l’hai baciato e ti ha detto di no... Non sei andato oltre, vero?».
   Augustine si riscosse di colpo e lo fissò risentito.
   «Vorresti forse insinuare che io...!» articolò, ma notando la saldezza con cui lo stava fronteggiando si zittì, nascose il viso nelle mani e sospirò.
   Meyer restò con le dita che esitavano gravose attorcigliate al manico del boccale senza trovare che cosa dire e distolse lo sguardo. Augustine tornò a ridistendersi contro lo schienale del divano lasciando cadere le braccia sulle gambe. Scrollò le spalle rassegnato, e tuttavia pareva consapevole di quel che aveva potuto lasciare intendere.
   «Avevo rotto da poco con...» non disse il suo nome, ma Meyer sapeva che si stava riferendo a lei «Mi piaceva così tanto, fin da quando è arrivato. È vero che ho provato ad avvicinarlo a me. Ma sono stato attento. Quel giorno in cui mi sono accorto che ci stavi guardando e che avevi capito tutto, ho avuto paura. Perché nel frattempo si sono diffuse certe voci, su di me e sui miei assistenti, sul fatto che li cambi tanto spesso, e per un attimo ho pensato... Ma con lui sono stato attento, sono stato attento...».
   Non l’aveva mai visto così inquieto. Era tanto diverso dall’immagine che ne aveva sempre avuto dietro la scrivania, con quei gesti ampi a comunicare apertura e serenità; invece ora appariva talmente meschino, tutto chiuso in sé stesso, mentre si tormentava un’unghia col pollice, tenendo il capo chino a guardarsi le ginocchia.
   Augustine disse qualcosa di strano, ma Meyer ebbe come l’impressione di esserselo aspettato:
   «Ti sei mai sentito schiacciato dalla tua stessa apparenza?».
   Uscirono dal pub costeggiando i tavoli degli altri clienti, accompagnati dal chiacchiericcio confuso che si disperdeva man mano che si addentravano nel corridoio verso le porte. Fuori cominciava ad alzarsi il vento freddo della sera, lungo le strade erano già accesi i lampioni. Avevano attraversato il parcheggio passeggiando in silenzio uno accanto all’altro senza guardarsi mai una volta.
   Meyer aveva già indossato il casco e stava prendendo posto sulla moto quando Augustine posò una mano a bloccargli il braccio prima che partisse.
   «So che dopo un discorso del genere non sarebbe il caso. Ma ti andrebbe... Ti andrebbe se ti invitassi a cena stasera?».
   Meyer fu colto alla sprovvista. Tirò su la visiera, ma pur rivolgendogli lo sguardo continuò a esitare. Si chiese se fosse il caso, se addentrarsi oltre, ancora una volta, lo avrebbe mantenuto saldo nelle proprie intenzioni. Ecco che le preoccupazioni della notte prima tornavano ad assillarlo: si rese conto soltanto ora di non essere minimamente riuscito a confessargliene una, quel pomeriggio. Da una parte la cosa lo allettava, ma non poteva reprimere la sensazione di fastidio che aveva provato poco prima nei suoi confronti. Però, anche così, però...
   «Se hai altri programmi, non voglio disturbarti. O i bambini, magari...».
   «No, no, i bambini sono ancora da Aura. Stasera sono solo».
   Gli occhi di Augustine si rischiararono di un bagliore sottile. Lo guardava quasi a supplicarlo, sforzandosi al contempo di non darlo troppo a vedere. Meyer sapeva di stare sbagliando, mentre ripensava alla sua figura piccola rannicchiata sul divano del pub e si convinceva che forse stasera fosse lui ad avere bisogno del calore disinteressato del sesso, come era stato per lui l’ultima volta. Nella mente guizzò, soltanto per un attimo, il dubbio se ieri l’altro non gli avesse fatto questa stessa impressione, se Augustine cioè non l’avesse percepito in quel momento in cui gli si era riversato addosso con quella richiesta improvvisa minuscolo e disperato come lo vedeva lui ora.
   «D’accordo», gli disse quindi.
   Augustine lo ringraziò. Gli diede l’indirizzo di casa, e mentre si allontanava, Meyer ebbe l’impressione che tra le labbra, in tono basso e malconcio, canticchiasse: «J’ai baisé ta bouche Jokkanaan, J’ai baisé ta bouche...».



 
 
~ ~ ~



Ciao a tutt*, come state?
Per quanto riguarda l'aggiornamento di oggi non ho molto da dire, se non che mi rendo conto che Augustine non ne esca affatto bene. Spero comunque che il capitolo non vi sia dispiaciuto troppo.
Pubblico questo pezzo alla fine della mia prima settimana di lezione in presenza in università dopo quasi un anno e mezzo di sospensione/didattica a distanza, e mi mette un po' di nostalgia pensare a quando l'avevo iniziato a scrivere prima che succedesse tutto.
Il collega di Augustine, lo stesso che avevamo visto nella quarta conchiglia, prende il nome da un artista inglese attivo sul finire dell'Ottocento: Aubrey Beardsley. Sebbene condividano il dettaglio del naso importante rimane più un prestanome che un prestavolto. Beardsley era molto vicino all'ambiente di Oscar Wilde e ha illustrato la sua
Salomè, da cui viene la citazione con cui si chiude il capitolo e che è anche il titolo di una delle tavole più note (in link nella versione del 1892). Ho pensato che il carattere erotico di molte illustrazioni di questo artista potesse coincidere bene con l'ossessione di Augustine. Quando hanno annunciato la regione di Galar sono stata molto contenta di poter dare a questo personaggio un minimo di contesto in più.
Chiudo con i ringraziamenti che mi erano rimasti in sospeso a Gella per aver messo la storia tra le seguite e a Barbra e Afaneia per i loro commenti alle conchiglie precedenti! Come sempre grazie di cuore anche a chi passa a leggere in silenzio e a chiunque dia anche solo una sbirciata 

Un abbraccio e alla prossima,
Persej

 

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Capitolo 9
*** ( ottava conchiglia ) ***




 
8












   Diversamente da come si era immaginato dovesse essere per un professore universitario, Augustine abitava in un quartiere modesto, e modesto era anche il palazzo che gli aveva indicato. Meyer parcheggiò il motorino e si fermò a osservarne la facciata dipinta di bianco, provò a indovinare dietro quale delle tante finestre illuminate dovesse esserci lui ad aspettarlo. Suonò al citofono, entrò, salì le scale.
   Non sapeva neppure quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui aveva ricevuto un invito per un appuntamento, o qualsiasi cosa dovesse chiamarsi questo in cui si era ritrovato invischiato con Augustine. Dopo essersi fatto la doccia, aveva indugiato fin troppo in bagno per profumarsi e scorciare la barba e altrettanti minuti era rimasto a scrutare spaesato l’armadio aperto – ma a che pro, se alla fine non avrebbero fatto altro che spogliarsi di nuovo?, e pur sapendolo era stato tanto nervoso, si provava una camicia controvoglia e la buttava via. Poi era passato al supermercato, aveva comprato una bottiglia di vino, e prima di arrivare alle casse si era fermato davanti all’espositore dei preservativi a rimuginare, rimuginare, con l’incertezza che fioccava sopra le guance.
   Gli era venuto da pensare ad Aura, alle serate trascorse insieme in giovinezza in preda all’emozione del primo amore, e più tardi, dopo il matrimonio, quando per stare da soli approfittavano di qualche ora sporadica lasciando il pargolo dalla nonna – oh, la nonna, se avesse saputo di quel che stava accadendo stasera, quanto ancora meno uomo l’avrebbe creduto! Non c’era alcun paragone che si potesse fare con quelle notti, si diceva di nuovo adesso continuando a salire le scale. Contrapposti alla quotidianità e alla monotonia di un tempo, gli incontri con Augustine nascondevano la sorpresa sfavillante dell’ignoto, gravosa e insieme eccitante, sempre più vicina ogni passo che avanzava, e qualsiasi mossa Meyer avrebbe potuto escogitare si sarebbe ritrovato sempre irrimediabilmente impreparato.
   Spinse il bottone del campanello. Augustine venne ad aprire. La scollatura del maglione gli lasciava scoperti il collo e quella piccola porzione di petto dove Meyer poteva ora distinguere chiaramente i segni postumi della sera precedente disseminati dalla sua stessa bocca.
   «Bonsoir», lo salutò Augustine, spingendosi sulle punte dei piedi per baciarlo sulle guance. Meyer venne travolto dal profumo del suo dopobarba – era così piacevole su di un altro uomo –, ma quando fece per piegarsi e ricambiarlo si era già allontanato e lo stava invitando a entrare.
   L’ingresso di casa si apriva direttamente sul soggiorno su cui si affacciava la cucina, e per quanto ben ammobiliato ed elegante, l’ambiente nel suo insieme ristretto manteneva un sentore squisitamente raccolto, minimale. Meyer stava ammirando le alte librerie addossate alle pareti, quando Augustine si offrì di sistemargli via il cappotto.
   «E questa?».
   «Ah, ho portato il vino».
   «Per una cosa così, non dovevi! Sei gentile, grazie. Dopo l’apriamo insieme».
   Meyer riusciva a percepire il suo compiacimento senza neppure che avesse bisogno di guardarlo negli occhi, mentre Augustine con la testa un poco china sulla spalla stava concentrato sopra il suo petto a osservare le bretelle che aveva indosso.
   «Ci siamo messi a lustro per bene», commentò.
   In un angolo del salotto erano appese in bella mostra alcune stampe giapponesi che Augustine aveva comprato, gli spiegò mentre aspettavano si cuocesse la cena, durante gli anni di studio a Sinnoh. Meyer riconobbe in una la sagoma del Monte Corona immersa in una coltre di neve, in un’altra invece era raffigurato uno scorcio degli antichi palazzi di Memoride fermati nella calma luce del crepuscolo, e poi ancora il volto di una ragazza in kimono che ammiccava con due occhi sibillini, nascondendo il proprio sorriso dietro la manica della veste. Accanto stavano un paio di acquerelli di Pokémon, i contorni tracciati a matita si distinguevano ancora col loro tratto rapido: dei doni, gli disse, di persone che lo avevano seguito, studenti, colleghi, cottarelle, pegni di un amore effimero ma non per questo meno bello, scarabocchi strappati da pagine di diari pregne di sospiri.
   Il passato di Augustine pareva essere, racchiuso in quei cimeli conservati con cura, circondato di un fascino grazioso, che ammaliava con garbo. Aveva viaggiato molto, conosciuto luoghi, popoli e lingue, aveva fatto tutto suo «D’altra parte, per me, è sempre stato così», rifletteva tra un racconto e l’altro, e accendeva una candela, rassettava una mensola, guardava Meyer assorto e gli sorrideva.
   Tra le portefinestre che davano sul balcone, sotto uno specchio incorniciato di finto oro, gorgogliava sommessamente un acquario – un acquario vuoto. Meyer restò a osservarlo, notando oltre il vetro che era già arredato con le decorazioni e i ciottoli, le piante rigogliose vibravano d’azzurro alla luce della lampada. Chiese perché lo tenesse in funzione. Augustine rispose che avrebbe voluto metterci dei pesci mansueti, ma che ancora non ne aveva trovati. Lo manteneva in attesa del momento opportuno.
   «Sai, ai tempi ho fatto qualche tirocinio all’Acquario di Altoripoli. Ci sei mai stato?».
   «No, ma vorrei tanto portarci i bambini. Andiamo spesso alla spiaggia, d’estate».
   Meyer non aveva spunti di conversazione di cui fare altrettanto sfoggio, tuttavia si accontentò d’intrattenerlo a tavola raccontandogli di qualche incomprensione avuta con i clienti del negozio, e il solo riuscire a strappargli una risata di tanto in tanto gli bastò per definirsi soddisfatto.
   Augustine si destreggiava tra un piatto e l’altro, si rimproverava di non essere un gran cuoco, poi ancora terminata la cena offrendogli un fetta di dolce aveva scherzato sul fatto che forse un giorno avrebbe incontrato un uomo, un pasticcere magari, che gli preparasse ogni giorno una leccornia, i croissant caldi alla mattina, col caffè già bollente nella tazza.
   Seduti sul divano bevevano a piccoli sorsi dal bicchiere, Meyer si scioglieva, si riempiva il petto del bruciore dell’alcol e rilassava la schiena. Lo raggiunsero col passare del tempo i tentativi nient’affatto timidi di Augustine che provava ad accucciarsi contro la sua spalla, e sebbene non si spingesse a fare altro, anche così, colmando la distanza, lo tentava. Meyer sentiva già a tratti il respiro spezzarsi, d’altronde non si era figurato che quello per l’intera serata: senza pensarci troppo, si allungò ad accarezzargli i capelli, a sfiorargli la curva della guancia che scivolava verso il mento. Augustine lo guardò, l’intensità dei suoi occhi si fece improvvisamente più tenue. Meyer gli si accostò un poco, e sulle proprie labbra percepì folgorante il calore di un bacio.
   In un primo momento si lasciò cadere tra le sue mani, si fece stringere in un abbraccio languido, avvolto tutto nel suo odore inebriante. Poi però lo scricchiolio del divano, intanto che Augustine gli si avvicinava di più, gli ricordò la visione infelice cui aveva assistito nel pub, e percependo un fastidio pruriginoso tornare a gonfiarglisi dentro si discostò.
   «Ascolta», disse «riguardo quello che ci siamo detti oggi...» e lo guardava serio, mentre cercava le parole.
   Egli pazientava, lo fissava serrando le labbra, come avesse già intuito: la stretta delle sue braccia cominciava ad allentarsi, la pressione di un fianco a farsi meno impudente.
   «Mi sono sentito a disagio, non so bene perché», chiuse brevemente Meyer.
   Sebbene dicesse a torto di non saperlo, Augustine pareva esserne del tutto cosciente, e allora distogliendo lo sguardo lo aveva lasciato andare.
   «Perdonami. Se non ti va, non ne facciamo nulla», disse.
   Quindi erano rimasti in silenzio da un capo all’altro del divano. Una pausa interminabile scorse a tendersi sempre più fino a che Meyer non si tirò in piedi sentendo di non riuscire più a sopportarla. Quindi filarono una dietro l’altra le formule di cortesia, intanto che valutava la soluzione, più ragionevole per entrambi, per cui avrebbe fatto meglio a tornare a casa, salvo poi ritrovarsi poco dopo ad affannarsi coi denti addosso alla sua bocca un’altra volta, e si diceva di essere un bugiardo e di non capirci più niente.
 
 

   Allo stesso modo in cui Meyer si era dato a lui in precedenza, così Augustine aveva fatto a propria volta quella sera. Era stato allo stesso tempo la meta del piacere e la guida, e lentamente lo aveva condotto a sé e stretto nelle braccia a infondergli calore. Meyer aveva respirato dentro il suo abbraccio, gli si era avvicinato tremando, e dopo la paura iniziale si era lasciato andare ancora alle parole sussurrate, all’oscillare armonioso del suo corpo che lo accoglieva tutto senza tentennare. Augustine pareva gradire particolarmente questo dare e ricevere, l’atto intrinseco della condivisione che avesse però sempre principio dal suo concedersi. Meyer dovette ammettere di nuovo a sé stesso di non saperne nulla.
   Quando gli capitava di incrociare il suo sguardo sentiva la testa girare e quegli occhi grigi sembravano un abisso di cui non potesse mai arrivare a toccare il fondo, come fosse costretto in un limbo indefinito. Avvinto contro di lui, si muoveva a scoprirlo un tratto di pelle alla volta, percorrendo con le dita e con la lingua i suoi contorni. Augustine lo spogliava di ogni pudore e lo incoraggiava a perseguire con gioia ferina il piacere; a un certo punto lo aveva strattonato per i capelli, e Meyer era rimasto talmente sorpreso che per un attimo aveva dovuto fermarsi. Nel cogliere l’urgenza di quel gesto percepì lo stesso impeto furente e incontrollabile che durante l’adolescenza lo aveva riversato addosso ai compagni in quelle azzuffate velatamente carnali, e l’associazione con un simile ricordo gli fece ribollire il sangue, tornò a piegarsi sulla schiena di Augustine rinvigorito da quel sentimento – perché era tutto così giusto, a distanza di anni, ogni cosa si stava ricollocando al posto dovuto – e lo baciò ingordamente sul collo tenendolo stretto per i fianchi, sottomesso, ancora una volta suo.
 
 
 
   Forse per il disagio di trovarsi in una casa diversa, forse perché aveva freddo, Meyer si svegliò di soprassalto qualche ora più tardi. Augustine dormiva accanto a lui rannicchiato dall’altro capo del letto. Ora che l’incanto della prima volta si era dissolto gli dava una sensazione di normalità, priva di qualunque fronzolo: non era più il bell’Endimione accarezzato dai raggi di luna, ma semplicemente Augustine, abbracciato al suo cuscino e con la coperta tirata fin sul mento. Per emulazione Meyer ne afferrò un angoletto e vi si avvoltolò meglio dentro, respirando stancamente mentre ascoltava il rumore del vento che faceva tremare i vetri della finestra. Restò a guardare Augustine prima di richiudere gli occhi. Non c’era alcun corpo nudo di cui godere, soltanto una faccia contratta in una smorfia sonnolenta. Pensò che dopotutto non ci fosse posto più intimo del proprio letto.
   Meyer era sempre sul punto di addormentarsi per poi venire disturbato da qualche cosa: un brivido di freddo, una sensazione di ansia per una preoccupazione futura. Cambiò posizione, rigirò il cuscino, poi si arrese e si alzò dal letto. Provò a bere un bicchiere d’acqua: Augustine gliene aveva lasciato uno sul ripiano della cucina. Rimase per un po’ a gironzolare in salotto, coi piedi scalzi che pungevano contro il pavimento gelido. Sulle pareti si soffermò a scrutare le stampe e gli altri quadri.
   Augustine aveva un’idea strana dall’amore e dei rapporti. Gli ritornavano adesso alla mente lacerti di quel che prima, mentre si stava addormentando, gli aveva sussurrato. Quello che egli professava era un amore libertino, ma non volgare. Ammetteva di potersi innamorare in un momento e che amore lo trovasse nel sorriso di una donna in metropolitana, nella stretta di mano di un uomo che gli si presentasse per la prima volta, e tutto quanto era amore, amore, amore, persino l’incontro di una notte, l’unione di corpi casuale e irripetibile che però in quel momento era sentimento concreto, mai sporco. Meyer trovava tutto questo affascinante, una visione certamente ispirata, eppure dentro di sé la vedeva ingenua, infantile, e non sapeva se il matrimonio e gli anni passati con Aura l’avessero irrigidito in qualche modo, se non gli avessero proiettato un limite troppo ferreo. E in effetti a pensarci l’idea di un secondo amore lo appesantiva, persino l’incontro notturno gli veniva a creare dubbi, nonostante il piacere e la gioia che gli procurava, e non avrebbe potuto accettare una commistione sensuale e assieme romantica, ricercando più che altro una carnalità soffocante che lo distraesse dal resto.
   Continuò a passare gli occhi attorno a sé, a riempirsi di ogni dettaglio che nel buio riuscisse a carpire, a scoprire gli affetti di Augustine: luoghi che aveva amato, persone che aveva amato, persino Pokémon, libri, storie, oggetti d’arte – i pochi che possedeva. Meyer aveva perso da tempo un amore per le cose, e questa dedizione intensa lo sorprendeva, gli suscitava ammirazione a tal punto da provarne un’invidia logorante. Desiderava questa soddisfazione per sé, ma sapeva che nella condizione in cui si trovava in quel momento difficilmente avrebbe potuto raccoglierne anche solo una parte; ma era forse una bugia anche questa? Una proiezione autonoma, autoprodotta, una narrazione personale distorta nei toni di una certezza?
   E intanto gli stava davanti agli occhi lampante la vita vissuta di Augustine, pregna di considerazione per i piccoli atti da avere avuto persino l’ardire di accostare una stampa a uno scarabocchio, a una pagina stracciata, e farli coesistere insieme in un equilibrio improbabile e intimo.
   Provò per noia a cambiare gli oggetti sulla mensola, a spostarli, a rimetterli in ordine. Ripercorreva i gesti con cui Augustine aveva disposto i suoi averi e glieli aveva mostrati sfoggiandoli nella loro angolazione migliore, appetibili resti, e intanto che ne mutava la combinazione a Meyer saliva l’impressione che in realtà egli, così come aveva fatto in Università, semplicemente disponesse delle cose a suo piacimento, senza accorgersi della protezione che quel camice gli offriva.
   Gli sembrava allora che fosse tutta apparenza, e nel pensarlo gli tornò in mente la domanda che Augustine gli aveva rivolto: Ti sei mai sentito schiacciato dalla tua stessa apparenza?
   Istintivamente, la risposta confusa che la sua mente formulò fu l’ammissione, di fatto, di non aver nemmeno mai conosciuto quello che aveva dentro di sé, di non averci mai prestato ascolto, Non ho mai avuto il coraggio di addentrarmi davvero più affondo, e quando l’ho fatto, quando io ci ho provato
   L’acquario vuoto brillava di fronte a lui, incorniciato nell’algida trasparenza dei vetri delle finestre. Sentì nelle orecchie il borbottio dell’acqua scrosciante, e poi freddo sulle membra, come paralizzato stava a guardare questa immagine che gli ricordava una paura assopita. Udì nel silenzio notturno la Premier Ball di Blaziken oscillare nella tasca del suo cappotto. Ma qualcosa indelebilmente lo terrorizzava dentro l’acqua. Cominciò a percepire un nodo serrato alla gola, con una mano si allungò a tastarsi il collo, e non riusciva a espellere il suo malessere neppure a vocalizzi, apriva la bocca annaspando dentro il tormento di una memoria che non poteva rivelarsi, il cuore che gli scoppiava, e ancora tremava, sudava, e dovette poggiarsi contro una delle librerie per potersi sostenere in piedi. Percepì al tatto come una sensazione distante i dorsi dei libri che scorrevano sotto i polpastrelli. A grandi respiri lottava contro quell’angoscia. Più in là verso l’ingresso la Pietra Chiave splendeva nella sua tasca. Chiamò Blaziken con un filo di voce, si trascinò a recuperare la sua Premier Ball. Si soffermò a percepirne il calore in una mano mentre nell’altra tratteneva la gemma incandescente. Riconobbe il tepore rassicurante della sfera come un monito premuroso del suo Pokémon. Riprendeva così lentamente contatto con l’ambiente circostante.
   Allora si domandava, stavolta lucidamente, il più possibilmente che potesse, per quale ragione sprecare un acquario vuoto a quel modo, salvo giungere alla conclusione che si trattasse in realtà di apparenza anche quella, in cui non c’era però nulla da mostrare, puro capriccio estetico senza altro intento dietro: Augustine era un involucro vuoto. Come se, abituato a crescere in un centro aperto quale Ponte Mosaico, avesse poi nel corso del tempo continuato ad assorbire tutto, senza riuscire a porvi un limite, un filtro. Proprio lui, che da studioso della Megaevoluzione custodiva il segreto degli argini invalicabili di una intimità inaccessibile, si rivelava incapace di stabilire un confine con chi gli gravitava intorno e ne sembrava risucchiato, o forse al contrario si lasciava riempire – un’apparenza quindi superficiale, priva di struttura, malleabile a seconda di chi avesse di fronte per inglobarne l’approvazione e nutrirsene. E non era irrispettoso di sé?
   Ma poi rivolgeva un’altra volta gli occhi all’acquario e sapeva di essere stato altrettanto irrispettoso nei propri confronti in passato, un passato ancora recente. Quindi si disse di avere troppi problemi e di non poter pretendere di soffocarli semplicemente andando a letto con... Eppure non era stato proprio lui a trattenersi lì alla fine, ad accettare l’invito, a desiderarlo, ancora? Quanto gli era piaciuto, nonostante tutto, quanto aveva goduto spensierato fino all’estasi, un appagamento genuino di cui si era privato a lungo nel tempo.
   Augustine sbadigliava nel letto. Meyer si arrestò sul ciglio della stanza ad assicurarsi che non si fosse svegliato. Sentiva di non poter ancora tornare, di essere ancora turbato e preda dei propri pensieri.
   La luce della luna che illuminava lo studio gli diede tuttavia un senso di calma. Attratto da quella visione provò a sporgersi oltre la porta di vetro. Entrò. Qui vi erano impressi i segni del lavoro e della fatica, un ambiente più maneggiato, vissuto in senso concreto. Qualche tomo aperto riposava riverso a terra colmo di pieghe. Scoprì altre librerie, una scaletta era posizionata all’occorrenza a lato per raggiungerne i punti più alti. Vide i diplomi appesi alla parete, fotografie di annuari.
   Sul pavimento, accatastate in un angolo stagnavano due ciotole, una con dell’acqua intorbidata, l’altra con del cibo secco, qualche rimasuglio, briciole appena. La prima impressione che gli fecero fu di disgusto, perché rispetto al resto gli sembrava emanassero un’eccessiva trascuratezza, oltre al tanfo e al sudiciume – intorno, spazzate alla buona, scaglie di pesce sgretolate. Sulle superfici graffiate, rosicchiate e consunte stava scritto GIBLE, in una grafia inverosimilmente piacevole.
   Più in là sul davanzale della finestra scorse un paio di piante grasse, facili da mantenere senza troppo sforzo. Una dalle foglie a forma di cuore ricadeva oltre l’estremità del vaso piegata verso il basso. Fermandosi lì davanti, Meyer si poggiò con una spalla al muro per guardare di fuori. Per un gioco di luci rivide impresso nel vetro il proprio riflesso – questa notte niente stelle, niente specchi, niente montagne che sbuffano – in mezzo a tutte quelle cose che non erano sue. Ne sentiva l’odore, ma non era il profumo raffinato che aveva percepito per tutta la serata mentre si era lasciato incantare dalla seduzione di Augustine.
   Si ritirò con l’intenzione di tornare in stanza. Passando accanto alla scrivania osservò ancora i fogli e le cartelle strabordanti di documenti, raggruppati questi però in un certo ordine maniacale, impilati uno sull’altro a recuperare spazio, un tentativo vano. Sul bordo notò una cornice abbassata. Meyer la prese credendo di averla urtata in qualche modo e di doverla mettere a posto; soltanto nel momento in cui il viso che era impresso dentro la foto gli si fissò negli occhi comprese che in realtà era stata lasciata così di volontà, e che Augustine, pur tenendosela vicino se la celava alla vista. Una fotografia di Sophie.
   Per qualche ragione se ne sentì come impietosito, e nello scrutare quel viso ridente, oltre il vetro della cornice sbeccato in un angolo, cominciò a rievocare i ragionamenti di Augustine, l’urgenza di darsi a quell’altro uomo, e ad altre persone, e riconobbe uno spiraglio di solitudine, di disperazione, e gli parve di comprendere il vero motivo per cui in realtà lo trattasse tanto premurosamente, di riuscire a sbirciare l’idolo nascosto sotto il camice. Anche se Augustine si spogliava smaniosamente davanti ai suoi occhi, davanti agli occhi di tutti, non si sarebbe mai davvero denudato.
   «Che ci fai qui?».
   Coprendosi convulsamente nella vestaglia, Augustine era apparso sulla soglia della porta proprio in quel momento. Meyer ebbe un sussulto, ripose la foto al suo posto sulla scrivania, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo da essa. Forse, però, quella sua ostinazione a rimaner fermo lì era anche dettata dall’imbarazzo di dover fronteggiare i suoi occhi, dopo tutto quel che aveva appena pensato su di lui.
   «Mi sono svegliato e non riuscivo a riprendere sonno», tentò di dire.
   «Vuoi qualcosa da leggere? Ho molti libri, di là. Non mi disturba se accendi la luce», replicò Augustine, che intanto si era avvicinato e non pareva propenso a lasciargli via di fuga, cingendolo per le spalle. Mormorò: «Torna a letto con me. Dai».
   «Anche tu l’ami ancora, non è così?».
   Meyer non seppe perché l’avesse detto. Augustine si fece improvvisamente teso. Si sciolse dall’abbraccio con cui stava cercando di attirarlo e a testa bassa si accostò alla scrivania, si accorse evidentemente che aveva messo mano alla foto. La sfiorò appena con le dita, la raccolse, la fissò a lungo. Poi senza guardarlo disse:
   «Esci da questa stanza... per favore».
   Con l’imbarazzo che cresceva nel petto, Meyer si allontanò. Per un attimo fu tentato di tornare indietro, di scusarsi, ma non trovandone il coraggio si arrese alla propria irresolutezza, e andò a letto mogio. Augustine lo raggiunse solo molto più tardi.



   Quando Meyer si risvegliò la mattina presto, Augustine era già al tavolo della cucina, vestito di tutto punto e con l’immancabile agenda nera tra le dita mentre trascriveva qualche nota sul portatile.
   La porta dello studio era stata chiusa. Il disagio per quell’infrazione ingiustificata tornò ad acuirsi nel petto, e Meyer decise che la prima cosa da fare fosse, stavolta senza esitazioni, scusarsi. Attraversò il salotto a piedi scalzi cercando nella mente il tono con cui rivolgerglisi, ma prima che potesse richiamarlo Augustine si era già accorto di lui. Finendo di bere il suo caffè gli diede il buongiorno: per qualche motivo sembrava non avercela con lui, e anzi sorrideva, come sempre, con quella sua pacatezza imperturbata. Augustine aveva tutta l’aria di averlo già perdonato, ma Meyer pensò fosse talmente ingiusto.
   «Ti chiedo scusa, non avrei dovuto intromettermi. Però...».
   Però, avrebbe voluto dirgli, nel momento in cui ho visto il tuo dolore mi sono sentito capito.
   «La caffettiera è sul fuoco. Serviti pure quanto vuoi», disse tuttavia lui sbrigativo, e Meyer comprese che non intendeva ritirare fuori l’argomento «Rispondo un attimo a questa mail e sono da te».
   Prendendo posto sulla sedia al suo fianco, Meyer intravide di sfuggita sulla sua agenda un nome appuntato con B. Quando Augustine ebbe richiuso il monitor e messo da parte il computer, Meyer si offrì di versargli altro caffè nella tazzina.
   «Sarei passato a svegliarti tra poco. Oggi ho lezione la mattina».
   Come l’ultima volta, assaporavano assieme la colazione in silenzio, ognuno nei propri pensieri. Meyer inspirava nelle narici il profumo di quella casa sconosciuta e allo stesso tempo accogliente, ed era la stessa impressione che faceva Augustine.
   Meyer aveva sempre avuto al proprio fianco Aura, ma raramente negli ultimi anni si era rivolto a una compagnia maschile. Non aveva mai sofferto troppo la mancanza di una tale controparte, o almeno non si era mai soffermato a pensarci. Ora che lo realizzava tuttavia se ne sorprendeva, e gli sembrava al contrario un bisogno cui avrebbe dovuto sopperire.
   «Che giorno è oggi?».
   «Giovedì».
   Meyer ricercò con gli occhi l’orologio appeso alla parete. Disse che doveva andare. Si alzò dalla sedia e tornò in camera a rivestirsi, chiese in prestito del profumo poiché non c’era tempo per fare una doccia. Una volta pronto, raccolse il casco e le altre sue cose, ringraziò Augustine dell’ospitalità. Egli lo salutò, ancora seduto al tavolo che sorseggiava il caffè. Non venne alla porta. Con lo sguardo distratto, si limitò appena a salutarlo con una mano.




 
 
~ ~ ~



Ciao a tutt*! Come va? Spero di trovarvi bene!
Con questa conchiglia siamo a 1/3 della storia. Per il prossimo futuro, dopo aver chiuso quella di Guzman, vorrei mettere un po' l'acceleratore, spero tanto di riuscirci! (E come al solito prendetemi con le pinze, perché con i miei tempi da bradipo non si sa mai...)
Avete ritrovato qualcosa di familiare? Mentre rileggevo il capitolo prima di pubblicarlo mi è venuto da pensare che è buffo quanto con questa coppia stia spingendo più del solito su certi dettagli, mentre con l'altra mi è successo più di rado di andare proprio al punto. Vero che sono due rapporti diversi, comunque.
Ringrazio ancora Barbra e Afaneia per le loro ultime recensioni e, come sempre, chiunque sia passat* a leggere silenziosamente!

Un abbraccio 
Persej
 

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