La salvezza e la perdizione

di mercutia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voi? ***
Capitolo 2: *** Il patto ***
Capitolo 3: *** Quale aspetto ha l'amore dei dannati ***
Capitolo 4: *** Amare un'anguissette ***
Capitolo 5: *** Sotto la luce del sole ***
Capitolo 6: *** La villa di Lord Sigàn ***
Capitolo 7: *** La reazione di Imriel ***
Capitolo 8: *** Parlami di mia madre ***
Capitolo 9: *** La morsa di panico ***
Capitolo 10: *** Un piano perfettamente congegnato ***
Capitolo 11: *** Tra le braccia di Joscelin ***
Capitolo 12: *** L'incontro ***
Capitolo 13: *** L'ultima notte ***
Capitolo 14: *** La lettera ***
Capitolo 15: *** La raffigurazione di Kushiel ***



Capitolo 1
*** Voi? ***


«Voi?»
Non riuscii a dire altro quando, aggirandomi tra i modellini e gli utensili impolverati della veranda che Mastro Louis Grandier definiva il suo laboratorio di scultura, mi voltai seguendo istintivamente il lieve fruscio del passo lento di qualcuno che mi si avvicinava. Louis, pensai, oppure più probabilmente il suo premuroso assistente Marcel, che si veniva a scusare per il classico ritardo del suo padrone. Ruotai leggermente su me stessa, le mie labbra che si preparavano a sorridergli, a rassicurarlo del fatto che quell'attesa non mi avrebbe affatto offesa e che una tazza di infuso di ribes rosso e miele sarebbe stata sufficiente per farsi perdonare l'affronto, come ogni volta.
Ma quel giorno non fu come ogni altra volta.
Quel giorno non trovai il solito mortificato Marcel alle mie spalle. Nemmeno l'eclettico e distante Louis. Quel giorno il mio sorriso s'infranse per lo stupore, misto a un dedalo di sensazioni così forti ed eterogenee da non poterle nominare tutte. Quel giorno il mio fiato restò sospeso tra il razionale terrore e la più intima nostalgia. Quel giorno le mie gambe si bloccarono, incerte se fare un passo indietro, lontano da quella donna, o piuttosto farne uno in avanti, per inginocchiarmi al suo cospetto. Quel giorno i miei occhi incontrarono quello sguardo celeste che non vedevo da ormai dodici anni, sebbene lo ritrovassi ogni giorno, quasi dannatamente identico, sul viso del mio Imriel, suo figlio. Quel giorno il mio cuore si divise tra il desiderio di maledire quella traditrice una volta per tutte e quello di obbedire ancora una volta al richiamo del sangue che scorreva nelle sue vene. Quel sangue divino. Il sangue di Kushiel. Quel sangue che riempiva la mia vista di una foschia cremisi, crudele e vergognosa.
«Voi?» sussurrai soltanto.
Mélisande Shahrizai aveva a sua volta fermato il suo incedere verso di me, a un passo da me, forse due. I suoi occhi non nascosero un'emozione quando incrociarono i miei. Mi era difficile dire quale, fin troppo facile congetturarvi sopra, sebbene volessi evitarlo. Per quanti anni fossero passati dal tempo in cui l'avevo amata, per quanto odio fosse trascorso tra noi da quando avevo conosciuto l'avidità del suo animo, il potere che aveva di piegare a sé ogni mio anelito era ancora dolorosamente inequivocabile. Non invincibile, come avevo sempre dimostrato, ma era lì, tanto ingombrante da sembrare tangibile, pesante e vischioso.
Lentamente sorrise. In modo elegante, sereno, quasi impercettibile, eppure caloroso e sincero.
«Sì» replicò poi, senza più alcuna traccia di quell'accenno di sorriso che mi aveva rivolto un attimo prima.
Mi parve una risposta laconica quanto irrisoria, lì per lì, ma dietro quella semplice e banale affermazione c'era un significato così grave e profondo da farmi rabbrividire, quando lo percepii, con un attimo di ritardo. Mélisande Shahrizai si era fatta numerosi, potenti nemici da che la conoscevo e ognuno di essi non voleva altro che la sua morte. Il Doge della Serenissima, così come ogni città stato sua alleata in Caerdicca Unitas, la Skaldia, Alba e chissà quante altre nazioni in tutto il continente avevano una buona ragione per volerla morta. Terre d'Ange, sopra ogni altra, agognava la sua testa e in quel momento Mélisande Shahrizai era lì, davanti a me, in tutta la sua matura perfezione, in Terre d'Ange, a poche ore di carrozza da Città di Elua, dove un editto affisso al muro del palazzo reale ricordava la sua condanna capitale da trent'anni.
Continuavo a guardarla intanto, non oso pensare con quale espressione, mentre imperversava ancora in me l'aspra diatriba tra la ragione e la mia natura, lotta che mi lasciava incapace di muovermi, parlare, reagire in una qualsivoglia maniera. E lei reggeva il mio sguardo, indecifrabile, avrebbe detto chiunque altro, ma non io. A me appariva seria, determinata, triste anche. Certamente non spaventata, nonostante la minaccia che rappresentava per lei il solo calpestare il suolo di quella terra ostile. D'altra parte avevo visto la paura offuscare il viso di quella donna una sola volta ed era stato per la vita di Imriel, mai per la propria. Perciò non ero stupita, non certo dalla sua espressione.
«Sono qui per parlarti.»
Avrei potuto chiederle di che cosa, avrei potuto chiederle con che diritto, avrei potuto semplicemente rifiutare e andarmene.
Invece restai immobile, annuendo incredula quando umilmente chiese «Posso?»
Un sorriso. Ancora. Breve, sincero, grato.
Si guardò attorno, individuò due sgabelli vicini l'uno all'altro e vi si diresse, dandomi le spalle, certa che l'avrei seguita.
Lo feci.
Lo feci senza fiatare, solo osservando la sua figura che sfilava davanti a me, austera come  se non di più, rispetto alla prima volta che l'avevo vista, quand'ero poco più che una bambina, restando subito folgorata dal suo fascino ammaliatore, senza minimamente immaginare a quale folle desiderio mi avrebbe portata poi. Indossava un abito grigio scuro, quasi nero, dalla foggia semplice, stoffa economica, senza fronzoli, ricami o decori a impreziosirlo, se non una cinta di pelle chiara che, larga e robusta, le avvolgeva l'addome, tra il seno e la vita. Avevo già visto qualcosa di simile, ma non ricordavo dove: a mente fredda forse il ricordo sarebbe tornato a darmi indizi sul luogo da cui Mélisande proveniva, ma forse era solo un trucco per depistarmi. A che scopo? Pensai, dal momento che ormai era uscita allo scoperto.
Smisi di interrogarmi sulla fattezza del suo abbigliamento quando lei si girò di nuovo verso di me, invitandomi a sedere con un gesto della mano. Eseguii, ancora muta, ancora osservando lei, il suo viso, sempre di una bellezza disarmante nonostante gli inevitabili segni dell'età, i capelli, sempre neri come la più oscura delle notti se non per alcune sfumature d'argento, le mani, che si andarono a intrecciare pacatamente nel suo grembo. Mi accorsi di fissarle quando un brivido, bollente e penetrante, mi percosse con violenza dal ventre fino alla nuca al ricordo di quelle dita su di me, sul mio corpo, sulla mia carnale vulnerabilità.
Mi obbligai a distogliere lo sguardo e posarlo, fermo quanto il mio stato d'animo potesse concedermi, sul suo volto. Solo ora che l'avevo di nuovo lì, mi rendevo conto di quanto mi fosse mancato poterlo ammirare.
Dischiuse le labbra, poi le serrò di nuovo, come se avesse voluto dire qualcosa, per poi ripensarci. Cominciò a parlare dopo poco.
«Phèdre.»
Elua!
Io non so se avesse idea di ciò che muoveva in me sentire la sua voce pronunciare il mio nome, non lo so davvero, ma ho sempre sospettato che ne fosse pienamente consapevole e lo usasse come uno dei suoi crudeli giocattoli di tortura. Dovetti prendere un lungo respiro e battere le palpebre un paio di volte per liberarmi dal torbido languore in cui quel suono aveva cercato di farmi scivolare.
E fu quando credevo di aver riguadagnato la mia lucidità che le sue parole vibrarono per portarmela di nuovo via.
«Non ricordavo cosa significasse stare vicina a una anguissette.
Avevo, nuovamente, sottovalutato ciò che significhi
tu per me.»
E le sue mani si contrassero e si strinsero tra loro, mentre i suoi occhi sembravano volermi divorare. Fu un momento, solo un brevissimo istante, ma io dovetti lottare con tutta me stessa per trattenermi, per restare seduta dov'ero, per non cercare un contatto con lei, con la sua pelle, con il suo calore.
Lessi in lei uno sforzo simile e mi costrinsi a non gioirne, rifugiandomi in una durezza che non mi apparteneva.
«Siete venuta incontro al patibolo per dirmi questo?»
Sorrise con espressione amara.
«No.»
Abbassò lo sguardo, pensierosa, prendendosi una lunga pausa di silenzio prima di darmi una spiegazione. Quindi rialzò gli occhi ai miei e cominciò a parlare, calma e posata a dispetto di quanto stava per dire.
«In alcuni momenti, sai, penso che l'esilio sia una condanna ben più dura della morte.»
La soppesai, poi replicai, cinica quanto onesta.
«La scelta è stata vostra, Mélisande. Vi basterebbe raggiungere Città di Elua per essere accontentata: credo non trovereste nessuno contrario a commutare l'una nell'altra.»
Un altro sorriso amaro.
«Non lo metto in dubbio.
Come ho detto, finora è stato solo un pensiero. 
Ma si fa sempre più assiduo.
Sempre più doloroso.»
Disse quell'ultima parola in un sospiro che mi rese chiaro per quale motivo fosse lì, ma la lasciai parlare.
«Penso che la morte sarebbe un sollievo da una parte, una resa dall'altra.
Finché vivo, finché sopravvivo, posso coltivare una speranza. È la sola cosa a cui mi sono aggrappata finora, la mia sola ragione di vita.
Ed è la ragione per cui sono qui.»
Tacque attendendo di leggere comprensione nel mio volto, ma non glielo permisi, restando impassibile. Comprensione avrebbe significato compassione, lo sapevo io quanto lo sapeva lei. E la mia compassione sarebbe stata per lei già l'implicito assenso alla richiesta di aiuto che era venuta a farmi. No, non potevo lasciarle guidare la mia volontà, non così facilmente. Anche se ero lì, anche se avevo in fin dei conti accettato di partecipare a quell'incontro proibito, cosa di cui già mi recriminavo, non le avrei concesso nulla di più.
Lei distolse lo sguardo da me.
«Il tempo passa tuttavia e trascina con sé quella mia speranza, non nel verso che avevo previsto» disse «Mi capita, sempre più spesso, di farmi assalire dal timore che il tempo a mia disposizione possa esaurirsi prima che io...»
Tornò a guardarmi mentre lasciava in sospeso quella frase.
«So che sai cosa provo a stargli lontana, a non poterlo vedere, a non poterlo toccare.
So che hai patito la sua mancanza, so bene con quanta impazienza hai atteso il suo ritorno.»
Si prese ancora una pausa e quando tornò a parlare il suo tono assunse un vigore diverso, via via più accorato.
«Ciò che non puoi sapere è cosa provo al pensiero di non conoscere che suono hanno la sua voce, la sua risata, i suoi passi. Ciò che non puoi nemmeno lontanamente immaginare è cosa provo all'idea di non essere in grado di distinguere il suo profumo, il tocco della sua pelle, il calore del suo corpo. Ciò che mai potrai provare in vita tua è l'invidia nei confronti di qualcuno che può tutto questo al posto tuo.»
Quelle parole ferirono, nel profondo, la sensibilità con la quale mi ero da sempre rapportata al fragile legame che mi stringeva tra lei e suo figlio.
«Io...»
«Non mi fraintendere, Phèdre» mi bloccò «Non ti sto accusando di nulla. Riconosco tutto ciò che hai fatto per lui, e per me, e ti sono grata per non aver mai smesso di ricordargli la mia esistenza, tuttavia...
Tuttavia io non posso stargli accanto. Tu sì.
È diventato insopportabile.
So che lo ami come fosse tuo figlio. Ma… Ma lui è una parte di me.
E io ho bisogno di lui. Ho bisogno di sapere di poterlo vedere prima di morire.»
La fissai, indecisa sul peso che dovevo attribuire a quelle parole e all'impeto, affatto usuale, con cui erano state pronunciate.
Abbassò gli occhi, cercando di calmarsi, in modo forse troppo evidente, pensai, o forse ero io che vedevo misurata malizia in ogni suo gesto. Sembrava davvero esasperata e non me lo voleva nascondere. Recita plateale o vera disperazione? Per quanto fossi convinta di conoscerla bene ormai, una tale manifestazione emotiva era del tutto atipica per lei, che essa fosse vera o simulata, e mi rendeva pertanto del tutto incapace di interpretarla.
«Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto, ma prova per un solo istante a metterti al posto mio e capirai che non ti sto chiedendo nulla, paragonato al mio tormento.»
Da sempre riflettevo su quello che provasse lei, avevo cercato di calarmi nei suoi panni ogni volta che mi accorgevo della gioia che Imriel aveva dato alla mia vita. Quella gioia, lo sapevo, sarebbe stata sua. Provavo pena per lei, nonostante lei stessa si fosse ampiamente guadagnata la condizione in cui viveva. Non dovevo darglielo a vedere.
«Cosa volete, esattamente?» le chiesi secca, più che altro per evitare che mi rigirasse con giochi di parole.
Mi penetrò con lo sguardo, a lungo, dannatamente a lungo.
«Un giorno, con lui. Solo questo.»
Risi lieve, reggendo la sua serietà.
«Solo questo» ripetei ironica.
«Sì» rispose scacciando la mia derisione.
«Non dovreste nemmeno essere qui.»
«Era inevitabile. Non potevo lasciare a una lettera la delega di spiegarti il mio dolore.»
«Perché ora?»
«Ha bisogno di me.»
«Perché ora?»
«Perché so cosa sta passando. Per quanto tu sia stata una brava educatrice per lui, tu non puoi capire le oscurità del suo sangue. O meglio, puoi capirle, ma non puoi aiutarlo a usarle.»
«Non
deve usarle.»
«Mi hai dato la tua parola in proposito, Phèdre» replicò secca «Non sei tu a dover decidere ciò che deve o non deve fare.
Lui è ciò che è. Dovresti saperlo bene.»
«Non è così uguale a voi, Mélisande.»
«Nemmeno così diverso. E sai anche questo.»
Mi guardò, oserei dire, con pietà, prima di proseguire.
«Nelle sue vene scorre il mio stesso sangue. Tu, Phèdre, sei l'ultima persona adatta a stargli accanto ora, non nel ruolo che ti sei ricucita, non nel ruolo a cui caparbiamente forse ancora ti attacchi. Ormai lo avrete capito entrambi.
Lui ha bisogno di me.
E anche tu.»
«Io non ho...»
Allungò una mano fino a raggiungere la mia e io ammutolii, spiazzata dal fremito che mi scosse.
«Nega che con lui sia diverso.»
Osservai le sue dita sul dorso della mia mano, le sue unghie che ne scalfivano lievemente la pelle e ricordai il mio polso stretto nella mano di Imriel, poco prima che lui partisse per Tiberium, il modo in cui mi aveva guardata e l'infame brama con cui il mio corpo aveva reagito.
Non potei negare.
Mélisande ritirò la mano, mettendo fine al nostro contatto velocemente. Troppo velocemente perché io non ne restassi delusa.
«Se vuoi essere onesta con te stessa, non serve che io aggiunga altro per spiegarti perché sono qui» disse alzando appena le spalle.
Io reagii lenta, ancora invischiata tra le sensazioni di quel breve contatto.
«Quali...» cominciai con voce malferma «Quali che siano le vostre ragioni, non sono sufficienti per...»
«Non sono le
mie ragioni, Phèdre, ciò di cui stiamo parlando. Non soltanto. La mia presenza qui, ora, è dettata da un bisogno. Di Imriel. E tuo.
Continuare a ignorarlo non risolverà nulla, sei troppo intelligente per continuare a insistere.»
«Io non ho bisogno di voi» quasi lo sibilai.
Lei sorrise prima di replicare.
«Quante altre insoddisfacenti visite al santuario di Kushiel dovrai fare prima di ammetterlo?»
Mi accorsi di aver sgranato gli occhi nel vedere la sua espressione assumere una traccia d'indiscutibile divertimento.
«Sei quel che sei, Phèdre» sentenziò, pietosa.
Lenta alzò poi una mano verso il mio viso, sentii i suoi polpastrelli tracciare l'arcata sopra il mio occhio sinistro, quello colpito dal dardo di Kushiel. Il suo sguardo penetrava la mia coscienza, blu come il cielo all'imbrunire, implacabile come la lama delle
flechettes che anni prima aveva usato su di me.
«Sei la prescelta, Phèdre. E Imriel è mio figlio. Non puoi impedire al tuo corpo di reagire al legame divino che vi lega.
Ma io... io posso accudire la dannazione che ti divora. Soltanto io, Phèdre, posso condurti attraverso gli abissi del misericordioso castigo che stai bramando.»
Chiusi gli occhi e rabbrividii.
La mia mente vacillò cullata da quel pensiero, accarezzata da quella promessa e dal tocco bollente delle sue dita sulla mia palpebra.
«Osi negarlo?»
La sua voce, appena un sussurro, vibrò profonda fino ai recessi più remoti del mio essere e io, totalmente disarmata e alienata da me stessa, gemetti «No».

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Capitolo 2
*** Il patto ***


Quando riaprii gli occhi vidi le sue labbra rosse piegarsi in un sorriso dai mille significati. Sentii le sue dita muoversi sul mio viso, le seguii assecondandone il movimento con la testa, fino a quando si fermarono sulla mia bocca socchiusa.
«Molto bene.»
La soddisfazione di quelle parole toccò il mio orgoglio, risvegliando finalmente la mia lucidità. Rapida mi sottrassi alla sua mano, facendomi indietro di scatto e per qualche eterno istante restai immobile a guardarla cercando di recuperare in me la forza che avevo sempre trovato di ribellarmi al suo giogo.
Mélisande tuttavia ne rise, con compiacimento, mentre tornava a riporre la mano in grembo insieme all'altra.
«Mi avete già usata una volta, Mélisande. Non cadrò ancora nello stesso errore.»
Scosse la testa sorridendo.
«Dopo tutto quello che c'è stato tra noi, sono io che non mi azzarderei più a commettere quel terribile errore.
Non voglio usarti, Phèdre. Voglio solo aiutare te, e lui… come solo io posso fare.»
Elua! Come potevo, dopo tutto il male che quella donna aveva riversato nella mia vita, come potevo non aver ancora imparato a essere immune al fascino suadente delle sue melliflue parole? Come potevo ancora essere così maledettamente vulnerabile alla sua assoluta bellezza? Volevo così tanto resistere, restare vigile, mantenermi cinica, fredda, capace di controbattere sicura, invece mormorai solo una lamentosa protesta, che suonò ridicola alle mie stesse orecchie.
«Voi… voi state mentendo. State solo cercando di abbindolarmi credendo di poter approfittare dell'ascendente che avete su di me.»
Mi osservò a lungo con irrisoria tenerezza, poi mi chiese, seria «Quale, dimmi, tra tutte le cose che ho detto, ti risulta essere meno che la pura e semplice verità?»
La sua presenza mi distraeva mentre riflettevo, avrei dovuto distogliere lo sguardo da lei, avrei potuto addirittura alzarmi, ma avrebbe capito perché lo facevo e una parte di me ancora si illudeva di poterle dimostrare che le sapevo tener testa, anche senza dover cercare di fracassarmela contro un muro, come avevo fatto alla Dolorosa.
Dopo qualche momento di silenzio che sembrava decretare la mia sconfitta, trovai qualcosa di ragionevole da ribattere.
«Avete chiesto un giorno con lui» dissi incredibilmente asciutta «Se davvero conoscete il tormento che alberga nel cuore di Imriel, cosa pensate di poter fare in una sola giornata?»
Mélisande mi studiò inespressiva, se non l'avessi conosciuta tanto bene avrei giurato che fosse stupita da quella mia domanda, ma d'altra parte anche lei conosceva me e per questo davo per scontato si fosse minuziosamente preparata ad argomentare ogni sua parola. Eppure il tempo che impiegò a rispondermi mi lasciò credere di averla davvero colta di sorpresa.
«Se vuoi concedermi più tempo, non sarò certo io a dire di no» replicò poi con la serenità con cui avrebbe potuto contrattare al mercato del pesce «Non ho osato chiedere di più immaginando che così per te fosse già troppo alta la posta in gioco.»
«
È troppo, infatti» sentenziai ferma «Quanto chiedete è troppo in sé, non avete nemmeno il diritto di essere qui, ma al di là di questo, rendetevi conto che pretendere di risolvere i problemi di Imriel in un giorno solo è davvero un'assurdità.»
«Certo che me ne rendo conto, ma se non sei disposta a concedermi di più, non posso far altro che accontentarmi.»
La guardai, incredula della cristallina limpidezza con cui sembrava attendere il mio ovvio assenso, se non un'offerta migliore.
«Ma davvero siete venuta fin qui credendo che io avrei potuto accettare?» le chiesi ridendo in modo forzato.
«Sì» rispose immediata.
«Andiamo, Mélisande, è già una grossa concessione che vi faccio quella di ascoltarvi invece di correre ad avvisare le autorità della vostra presenza. Capisco il vostro stato d'animo e solo per questo motivo, e per non coinvolgere Mastro Louis, vi lascerò tornare nell'angolo di mondo che vi ha tenuta nascosta e lontana sino ad oggi.
Ora, se non vi dispiace, credo che il nostro incontro sia durato più a lungo di quanto la mia coscienza sia disposta...»
«Phèdre» mi zittì calma.
Mentre io, muta, la osservavo dannandomi per l'incapacità che avevo ogni volta di resistere all'ordine implicito che gridava il mio nome sulle sue labbra, chiuse gli occhi e sospirò profondamente. 
«Quando Imriel era in Caerdicca Unitas» disse poi in tono grave «ho cercato il modo di avvicinarlo, ho tentato tutte le strade per poterlo incontrare di persona. Ma ogni volta che mi spingevo verso di lui lo mettevo in pericolo.
Di nuovo ho nutrito il timore che più che qualcuno,
qualcosa mi volesse impedire di arrivare a lui.»
Nel tornare a me, il suo sguardo tremò quella stessa vivida e sincera emozione che avevo colto quando mi aveva convocata alla Serenissima, in seguito alla scomparsa di suo figlio. Mi era penoso anche solo pensare di ignorarla.
«Tu, Phèdre, sei ciò che gli dei hanno dato alla luce per controbilanciare la mia essenza. Ho bisogno di te per giungere a lui, tu sei la sola che possa intercedere. Ho bisogno di te, quanto tu e lui avete bisogno di me.»
Raccolsi tutta la razionalità che potevo ancora trovare in me per rifiutare.
«Quello che chiedete, Mélisande, va oltre ciò che posso...»
«Te lo sto chiedendo come ultimo desiderio. Ogni condannato a morte ne ha diritto.»
Di nuovo soppesai quelle parole, mentre lei reggeva intelligibile il mio sguardo, carico di sicuro delle mille congetture che mi stavo ponendo. 
«Cosa volete dire?» chiesi infine.
Sospirò e portò la sua attenzione oltre il colonnato della veranda.
«Aver saputo che Imriel era in pericolo di vita mentre si trovava a Lucca mi ha palesato con quanta facilità la morte potrebbe mettersi improvvisamente tra noi, togliendomi per sempre l'opportunità di stargli accanto.»
Fece una pausa.
«Non è immortale. E nemmeno io lo sono, Phèdre.»
Dicendolo volse di nuovo il viso verso di me, grave, severo e così bello da farmi male.
«Ho però un'arma da usare contro la morte: posso decidere quando lasciare che mi venga data, come la tua cara Regina Ysandre tanto desidera.
Per me non chiedo altro che di poter stare con Imriel, almeno un giorno.»
La fissai attonita, incapace di credere di aver capito bene il significato di quella proposta. 
«State… state dicendo che vi consegnerete alla giustizia?»
«E chiedo appena una giornata con mio figlio.»
Non ci potevo credere. Elua! Devo essere onesta, non ci
volevo credere.
«Lo trovi accettabile?» mi sollecitò, vedendo che non parlavo.
«Io… io credo di aver bisogno di riflettere» boccheggiai a rilento.
«Lo immaginavo. 
Ti darò un giorno di tempo per farlo, uno soltanto. Suppongo tu possa comprendere quanto la mia presenza qui sia pericolosa per me, ma anche per chi ne è a conoscenza: non vorrei mai arrecare problemi a Mastro Loius. Voglio pensare sia lo stesso per te.»
Annuii vacua mettendo a fuoco le sue parole con estrema lentezza.
«Ti è consentito fare parola di questo incontro con Imriel, ovviamente.
E anche con quel tuo cassiliano.
Nessun altro.
A loro volta Imriel e il cassiliano dovranno mantenere assoluto silenzio.»
Era semplicemente assurdo fosse lei a dettare i patti di quell'accordo, ma ero tanto sconvolta che lì per lì non feci caso alla questione nel modo più assoluto. 
«Ci ritroveremo qui, tra ventiquattro ore esatte, che tu voglia accettare o meno la mia richiesta.
Se non verrai, se non dovessi essere sola, se manderai qualcuno al posto tuo o se in qualche altro modo verrai meno al nostro accordo, me ne andrò e riterrò di poter rompere ogni promessa fatta nei tuoi confronti.»
Strabuzzai gli occhi, sussurrando «Non potete...» improvvisamente conscia che tutta quella storia avrebbe potuto rivelarsi come un raggiro al solo scopo di annullare la parola che mi aveva dato di non fare del male a Ysandre e alle sue figlie. E quello era solo il più semplice dei doppi fini che potessi individuare.
«Non è mia intenzione approfittare della situazione per una simile bassezza, Phèdre» ribatté indignata come se avesse letto la mia mente «Se rispetterai gli accordi non accadrà nulla di sconveniente. Voglio solo incontrare mio figlio, il resto ha ben poca importanza.»
La minaccia sottesa a quelle parole aveva finalmente smosso la mia lucidità, portandomi a chiedere «Se il resto ha così poca importanza, perché ricorrere a un simile ricatto?»
«Quella promessa ha importanza per te, Phèdre e io in qualche modo mi dovevo tutelare.
Se sai che tra un giorno tornerai qui sola con una risposta per me, puoi anche ignorare quanto detto.»
La guardai a lungo senza dire una parola.
«Siamo d'accordo, Phèdre?» mi chiese quindi.
«Non è con me che dovreste stringere l'accordo» replicai sicura «Mi state gettando addosso una responsabilità che non mi compete. 
Terre d'Ange vuole la vostra testa: è a Ysandre de la Courcel che dovreste chiedere di esaudire il vostro ultimo desiderio prima della morte.»
«Ysandre non acconsentirebbe mai, lo sai perfettamente. Non capirebbe. Nemmeno se provassi a convincerla tu.
Tu sei la sola che possa comprendere e la sola capace di fidarsi della mia parola.»
Avrei voluto non pensare che avesse ragione, avrei dovuto essere dura e irremovibile, ma, che il Beato Elua abbia pietà di me, io comprendevo appieno la situazione, non riuscivo a non provare pena per lei e, sì, per quanto la mia razionalità cercasse di farmi aborrire l'idea, ero costretta ad ammettere che avevamo bisogno di lei, sia Imriel che io.
«Quali saranno i termini esatti dello scambio?»
Conoscevo il sorriso che si disegnò sulle labbra di Mélisande in quel momento: aveva capito che avevo ceduto.
Ora l'unico che al limite avrebbe potuto impedirmi di portare avanti quella follia era Joscelin, ma sapevo che non l'avrei ascoltato perché, a meno che non avessi trovato l'ombra di un doppio gioco, purtroppo avevo già deciso.
«Di questo discuteremo a tempo debito, anche in base a quanto Imriel stesso vorrà concedermi.»
«Ho bisogno anche io di garanzie, Mélisande, non potete essere così vaga.
Cosa accadrà se io accetterò l'accordo, ma Imriel dovesse rifiutare di incontrarvi?»
Era la più probabile delle ipotesi.
Mélisande si limitò a fare spallucce.
«Accadrà quel che deve accadere. Non posso certo metterlo nella condizione di decidere il mio destino in base alla sua scelta.
Imriel deve essere totalmente libero di decidere se incontrarmi o meno, ma ti prego, Phèdre, di fargli capire quanto sia importante per lui.»
Annuii mentre già immaginavo le difficoltà di quel dialogo, i sottintesi del nostro rapporto che avrebbe fatto emergere, l'angoscia con cui lui avrebbe affrontato la riflessione che ne sarebbe conseguita. Non sarebbe bastato un giorno.
«Non parlerò con Imriel domani» la avvertii quindi «le prossime ventiquattro ore saranno solo per me, solo per le mie valutazioni.
E trovo che siano decisamente poche.»
Mi alzai e presi a camminare, non mi importava più lasciarle pensare che ero nervosa. Lo ero e invece avevo disperato bisogno di ritrovare la calma.
«Cosa ti turba?» domandò alle mie spalle.
Feci ancora qualche passo prima di voltarmi a guardarla.
«Cosa mi turba? L'idea che celiate un inganno dietro tutto questo e che stiate dando a me tutta la responsabilità di coglierlo o meno, in appena un giorno.
Non amo affatto l'idea di stringere un patto che potrebbe mettere in pericolo il trono e tutta Terre d'Ange a insaputa della sua Regina.»
Mélisande si alzò, calma ed elegante. Mi trovai a tremare, di paura e di desiderio, al pensiero che mi si avvicinasse, ma non lo fece.
«Lo posso capire» replicò sollevando un modellino di argilla «Tuttavia, Phèdre, rifletti: io sono qui, totalmente indifesa, nelle tue mani, da adesso alle prossime ventiquattro ore sono in tua balìa.
Io mi sto ciecamente fidando di te.
Mi sembra il minimo che tu possa concedermi lo stesso.»
«Con tutto il rispetto, mia Signora, voi avete tradito la vostra Terra, io non ho mai tradito nessuno.»
A quel punto - Elua! - posò la statuina e si avvicinò. Si sporse verso di me. Io restai pietrificata, mentre lei scostava i capelli che mi ricadevano davanti all'orecchio destro e sussurrava «Tu hai tradito me.»

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Capitolo 3
*** Quale aspetto ha l'amore dei dannati ***


Vacillai per il brivido che mi diede il suo respiro sulla pelle e vacillai di nuovo quando si allontanò da me, lasciandomi immersa nell'impalpabilità del suo profumo.
Tardai un'enormità a rispondere e lo feci con scarsa convinzione, nonostante fossi più che mai certa di quanto dicevo.
«Io... io non vi ho mai tradita.»
Mi girò le spalle, s'incamminò di nuovo verso lo sgabello e piegò di tre quarti la testa per gettarmi un'occhiata mentre rispondeva «È solo una questione di punti di vista, anguissette. Secondo il mio, tu hai tradito me. E anche te stessa.»
Si sedette, accavallò le gambe sotto le gonne e mi fissò mentre concludeva «E ora avrei tutte le ragioni al mondo per non fidarmi di te, per temere che tu possa, ancora una volta, portarmi alla gogna seduta stante, ma so di poter contare sul tuo onore, sulla tua parola.
E tu sai di poter contare sulla mia. Te l'ho dimostrato.»
«Finora» trovai il coraggio di sottolineare.
«Perché dovrei smettere adesso?»
«Perché potete farlo. Hanno mai avuto motivazioni più alte le vostre azioni?»
«Io non posso nulla ora, Phèdre. Qualsiasi mia azione ora servirebbe solo a mettere in pericolo Imriel e farmi odiare da lui per questo, più di quanto già...» si bloccò visibilmente turbata «Perché dovrei?
Non ho più alcun potere adesso, nemmeno quello di vedere mio figlio. A meno che tu non me lo conceda. Lo capisci?»
Sospirai e presi a riflettere camminando, incurante del divertimento che questo avrebbe potuto darle.
«Se dovessi accettare questo patto» dissi dopo un po' senza fermarmi «Poi, eventualmente, ne parlassi con Imriel, quanto tempo darete a lui per prendere la sua decisione?»
«Purtroppo non posso permettermi di stare qui ad attendere tutte le vostre riflessioni, avrei voluto tu gli parlassi subito, ma posso capire le tue perplessità e accettare di slittare di un giorno in più. Credi che gli possa bastare?»
«Non voglio mentirvi, Mélisande: non credo accetterà di buon grado.»
Una lieve contrazione della mandibola rivelò il suo dolore.
«Lasciargli più tempo sarebbe d'aiuto?» chiese poi con un'inequivocabile traccia d'angoscia nella voce.
«Imriel è un ragazzo molto riflessivo, non credo che un giorno o due in più potrebbero fare la differenza, ma potrebbe essere meglio. Certamente saper di dover decidere in fretta lo metterebbe in agitazione.»
«Non dargli una scadenza allora. Lascia che rifletta quanto vuole.»
«Non vi preoccupate per la sua incolumità, come lo fate per Mastro Louis?»
«Una volta che tu avrai acconsentito, so che garantirai la mia sicurezza e con essa la discrezione per chiunque mi circondi.»
Lentamente dovetti annuire.
«Dovrò solo rendere conto alla mia coscienza, ma di questo suppongo non vi curiate.»
«Sarai costretta a rendere conto alla tua coscienza anche se deciderai di negare a Imriel il diritto di vedere sua madre prima della morte.»
Osservai con rabbia la sua calma e ripresi a camminare per la veranda. Le sue parole, la sua terribile bellezza, la sua sola obnubilante presenza mi confondevano. Avevo bisogno di uscire dal suo incantesimo perché dovevo riflettere e in fretta. Dovevo capire cosa c'era sotto quel semplice accordo, così lineare, così sbilanciato. Dovevo interpretare il suo gioco prima che lo mettesse in atto, dovevo assolutamente trovare il punto in cui aveva nascosto la trappola.
«Cos'altro pretendi per concedermi un po' di tempo con mio figlio?»
La voce di Mélisande cercò di strattonarmi via dai miei pensieri, i miei passi si fermarono meccanicamente, ma mi imposi di non voltarmi a guardarla, così da restare severa, dura.
«Pretendo garanzie, Mélisande, pretendo qualche risposta. Cosa volete da Imriel? Cosa gli direte? Cosa...»
«Cosa succederà tra me e lui non ti è concesso saperlo» mi interruppe «non certo da me, né ora né mai. 
Ti posso però garantire che non è mia intenzione rapirlo. Non è mia intenzione indurlo a scappare, a rivoltarsi contro di te o a muovere guerra al trono di Terre d'Ange. Non è mia intenzione fargli o indurlo a fare qualunque cosa possa in qualche modo danneggiarlo.
Non è mia intenzione conquistare il trono di Terre d'Ange per lui o per me. Non è mia intenzione fare del male a qualcuno, a meno che qualcuno lo desideri, Phèdre.
Questo ti basta?»
Mi concentrai su ognuna delle sue parole, imponendomi di non darle a vedere come il mio corpo avesse colto la malizia dell'ultima frase. Aveva praticamente escluso di avere fini politici, così come di voler usare Imriel contro di me o di volermelo portare via. Continuai a camminare cercando altri interessi che avrebbero potuto muovere i suoi piani, gettandole occhiate di tanto in tanto per accertarmi che fosse ancora lì: distrarmi o perderla di vista per troppo tempo mi metteva i brividi, questa era la fiducia che riponevo in lei. Eppure ero pronta a credere alle sue promesse.
«Non userete tutto questo per screditarmi o peggio?» mi venne in mente «Non cercherete di farmi condannare a mia volta per tradimento? Anche solo per vendetta o magari per togliermi di mezzo?»
«No» rispose placida «Per quel che mi riguarda nessuno, oltre i diretti interessati, dovrà essere informato di questo incontro e di quelli che verranno.»
«Chi ne sarà al corrente oltre me, Imriel e Joscelin?»
«Mastro Louis, Marcel, per forza di cose, ed Emeric, il mio… come potrei chiamarlo? Tuttofare.»
«Quanto mi avete garantito su ciò che non farete vale anche per loro?»
«Sì, Phèdre. Né io né i miei "collaboratori" torceranno un solo capello a qualche Angeline.»
«Nemmeno indirettamente?»
«In alcun modo.»
Mi venne da ridere, nonostante la serietà del momento.
«Cos'è che ti diverte tanto?»
«Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto ciò che, pur meritatamente, avete patito, stento a credere che non vogliate approfittare della vostra presenza in Terre d'Ange per vendicarvi di chi vi ha messa in queste condizioni. Non credo resisterei nemmeno io alla tentazione, al posto vostro.»
Fu lei a ridere allora, lieve e aggraziata come una dea.
«Non credere che la tentazione mi manchi, né le idee per farlo, ma capita di dover scendere a compromessi nella vita. Ora ho altre priorità.»
Feci un breve cenno di assenso, poi ripresi a camminare riflessiva.
«C'è stato un periodo in cui provavo gusto per gli intrighi» disse la sua voce, calma, alle mie spalle «Amavo i giochi di potere, assecondare le mie ambizioni e lanciare sfide a chi poteva competere con me. Ma ora non ho più tempo né voglia per giocare, Phèdre. Voglio solo mio figlio.»
Mi fermai lentamente. La guardai a lungo.
«Quando e come vi consegnerete alla giustizia?» domandai poi, secca.
Chiuse gli occhi per un lungo istante, poi li riaprì, colpendomi con l'intenso zaffiro del loro colore.
«Lascio a te decidere il da farsi. Dammi solo il tempo di fare ciò che è in mio potere per Imriel, poi fa quel che ritieni opportuno. Non lo voglio nemmeno sapere.»
Era difficile immaginare come Ysandre l'avrebbe presa, quale sarebbe stato il modo migliore per dirle quanto avevo fatto a sua insaputa senza rischiare che lei potesse condannare anche me di tradimento per aver concesso a Mélisande un diritto che non potevo darle io. Forse non c'era proprio un modo per far digerire bene la notizia a Ysandre, l'unica attenuante che avevo era che le avrei consegnato Mélisande Shahrizai, pronta per il patibolo. Oh, Elua! Sarei davvero stata capace di farlo?
Dovevo, pensai chiudendo gli occhi.
«Hai finito con le domande?» mi chiese dopo un lungo silenzio da parte mia. 
Non sapendo cos'altro chiederle, annuii e mi riavvicinai a lei, titubante, continuando ad assillarmi per i dubbi sulla tenacia che avrei trovato per portare fino in fondo quel patto, ora che per lei non nutrivo più l'odio e la rabbia di un tempo, ma solo, in definitiva, una gran pena. Oltre a tutto il resto che provavo per lei, per ciò che era, per ciò che rappresentava e per ciò che saremmo sempre state l'una per l'altra. Almeno finché lei sarebbe stata in vita.
«Ti senti bene?» mi chiese alzandosi quando l'avevo quasi raggiunta.
Temevo, ahimè, di essere impallidita per l'angoscia che mi davano quei miei pensieri e non riuscire a reggere il suo sguardo forse glielo fece anche capire. Nervosa e irritata con me stessa, mi affrettai a oltrepassarla avviandomi verso l'uscita, ma il suono di una campanella dietro di me mi fermò. Mi voltai di scatto, trovando Mélisande con l'oggetto in mano, mentre dall'altra parte la porta si apriva per fare entrare Marcel, trafelato e riverente ancor più del solito.
«Le Signore sono pronte?» chiese quasi prostrato a terra.
Tornai a guardare Mélisande, spaesata e anche spaventata, devo ammettere.
«Eri venuta per posare, no?» mi disse, in risposta all'implicita domanda che dovevo aver dipinta in viso.
Sì, ero andata da Mastro Louis per quel motivo, come facevo da qualche mese a intervalli regolari, per fargli da modella per la statua che avrebbe decorato uno dei nuovi santuari in costruzione a Città di Elua. Ma temevo abbastanza Mélisande da essere sulle spine per la situazione che si era creata così all'improvviso, non capendo per cosa dovevamo entrambe essere pronte, perciò restai immobile, muta, spostando giusto lo sguardo tra l'una e l'altro.
«Siamo pronte, Marcel» annunció lei ignorando la mia evidente incomprensione «Puoi far entrare Mastro Louis.»
Marcel scomparve oltre la soglia in un inchino e io riportai la mia attenzione a Mélisande.
«Cosa sta succedendo? Cosa c'entra Mastro Louis in tutto questo? Come l'avete convinto ad assecondare i vostri piani?»
«Rilassati, mia cara. Tra poco avrai una risposta.»
L'artista entrò nella veranda un attimo dopo, tallonato dal suo servile assistente. Non era da lui salutare e non lo fece nemmeno quel giorno, però ci raggiunse, ci osservò a lungo, muto, indecifrabile, poi improvvisamente prese una mano di entrambe, ci condusse verso l'esterno, in un punto più spazioso e illuminato, unì la mano di Mélisande alla mia, palmo contro palmo, tenendole premute e ci osservò ancora.
Rimasi interdetta a fissare il gesto, avvertii il calore e la tensione delle dita di Mélisande che pulsavano a contatto con le mie, quindi mi ritrovai ad alzare lo sguardo e incrociare inevitabilmente il suo.
«Così» mormorò Mastro Louis allontanandosi, oltre il mio campo visivo, via dalla mia attenzione, fuori dal mio mondo, che contemplava soltanto Mélisande Shahrizai.
Lei mosse le dita, intrecciandole lenta tra le mie, stringendo piano piano il nostro contatto, che bruciava in modo innaturale sulla mia pelle. Restai lì non so quanto a combattere il desiderio di avvicinarmi, pregando al contempo che fosse lei a tirarmi a sé, a sopportare le mie gambe che tremavano tutta la loro brama di inginocchiarsi, finché trovai la forza di sottrarmi con dolore a quella tortura: invano tentai di liberarmi dalla sua presa, ma riuscii almeno a fuggire dal suo sguardo per rivolgermi a Mastro Louis.
«Cosa… cosa diamine volete fare?»
Feci appena in tempo a vedere che l’uomo ci fissava scarabocchiando avidamente sul quaderno che usava per i bozzetti, quando un brivido mi sferzò giù per la schiena nel sentire l’altra mano di Mélisande insinuarsi dietro la mia nuca, aggrapparsi ai miei capelli e costringermi a volgere di nuovo l’attenzione a lei.
«Non disturbare il maestro, Phèdre» sussurrarono le labbra di Mélisande sopra di me «Sarai la raffigurazione carnale dell'oblio della passione nel più maestoso dei santuari di Kushiel del regno.»
Si avvicinò ancora al mio viso tanto da farmi credere che mi avrebbe baciata «Sei semplicemente perfetta per questo» bisbigliò e una fitta alla nuca accompagnò il gesto con cui afferrò ancor più saldamente la mia testa e la mia coscienza.
La mia vista s’inondò della foschia rossa che per lei da sempre montava insieme ai miei desideri più oscuri e profondi, mentre i miei occhi si lasciavano incatenare dalla violenta devozione che leggevo nei suoi e la mia mente si perdeva nel torbido miasma delle implicite promesse che mi lasciava intendere.
Non ho idea del tempo che passò da lì in poi, posso solo dire che quando Mélisande, brusca, mi lasciò, mi resi conto che la luce era cambiata e mi doleva praticamente ogni muscolo del corpo. Trovandomi all'improvviso privata del suo contatto, mi sentii così male che mi veniva da piangere e barcollai fino a un cavalletto poco distante per potermi sostenere. Presi un lungo respiro per riavermi e dovetti battere più volte le palpebre per ritrovare la limpidezza della mia vista, mentre alle mie spalle le voci di Mélisande e Mastro Louis piano piano prendevano volume sopra le pulsazioni che rimbombavano nei miei timpani.
«Vi sentite bene?»
Trasalii trovandomi accanto Marcel che mi porgeva da bere, scrutandomi preoccupato.
Io lo ignorai e gettai un'occhiata contrariata a Mélisande, la quale mi sorrise di rimando.
«Qualcosa non va, mia cara?» mi chiese.
«Cosa significa tutto questo?» vociai. 
Mastro Louis mi si avvicinò, con le sue dita callose, sporche di gesso e di carboncino, mi toccò lo zigomo sotto l'occhio colpito dal dardo.
«Mi rincresce non essere stato onesto sin dall'inizio: voi siete solo la metà della mia opera. La sua perfetta metà.
Vogliate perdonarmi, ma dovevo vedervi insieme coi miei occhi almeno una volta per poter capire che aspetto ha l'amore dei dannati. Ora l'ho visto, lo posso ancora vedere nei vostri occhi.»
La sua mano tremò sulla mia pelle.
«Sarà la scultura più vera che io abbia mai realizzato.»
Mi scostai da lui e dal suo sguardo da pazzo febbricitante e mi volsi di nuovo, torva, verso Mélisande.
«Ora capisci cosa c'entra Mastro Louis?» fece lei, sorridendomi.
«Ora capisco come ve ne siete approfittata.»
«Non essere così dura, Phèdre, il maestro ha le sue valide ragioni per voler compiere quest'opera.»
«Poserete ancora per me, non è vero?» continuò lui, fissandomi ancora, in modo malsano.
«Tornerò tra ventiquattro ore da adesso con una risposta. Una per entrambi» specificai lenta.
Riconquistata ormai la mia fermezza, mi avvicinai a Mélisande e la osservai con aria di sfida.
«Posso davvero fidarmi di voi? Mi date la vostra parola che non farete o non farete fare nulla di male a nessuno mentre vi permetto di stare impunemente qui?»
Cercai di non darle la soddisfazione di fremere quando mi si accostò. Troppo.
«Per l'ennesima volta, Phèdre: sono qui solo per vedere mio figlio» disse piano perché sentissi solo io «Non voglio altro, lo giuro nel nome di Kushiel.»
Ci guardammo come a suggellare quella promessa, poi le voltai le spalle e me ne andai.

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Capitolo 4
*** Amare un'anguissette ***


Avrei voluto che il viaggio di ritorno non finisse mai. Casa Cereo mi aveva cresciuta perché fossi una perfetta serva di Naamah, Delauney poi mi aveva addestrata perché diventassi una spia, un'arma sottile nelle sue mani. Nessuno purtroppo mi aveva mai insegnato a mentire: sapevo essere adulante e servile, sapevo essere attenta e circospetta, ma quando si trattava di celare la verità, soprattutto a chi amavo, non trovavo arte a cui appellarmi e finivo troppo spesso per essere smascherata.
Incontrai Joscelin attraversando il cortile tra le stalle e la villa, per quanta concentrazione misi nel tenere un'espressione che apparisse normale mentre lo salutavo baciandolo, come sempre, lui si scostò da me, con il pollice mi pulì i segni che la mano di Mastro Louis doveva aver lasciato sul mio zigomo e mi chiese corrucciato «È successo qualcosa?»
Amavo la vigile sensibilità con cui mi osservava, mi faceva sentire protetta e amata in ogni momento, ma quel giorno no, quel giorno la detestai. Non perché gli volessi tener nascosto quanto era e sarebbe accaduto, persino Mélisande aveva messo in conto che lui l'avrebbe saputo, ma perché avrei voluto avere un briciolo di tempo per pensare da sola a quanto era successo e digerirlo prima di rivelargli qualsiasi cosa.
Sospirai, lo baciai di nuovo e, arresami al fatto che in un modo o nell'altro lo avrei fatto preoccupare, gli dissi «Domani mattina vorrei stare sola con te, prepara il necessario per una gita fuori porta per noi due soli. Scegli tu il posto, purché sia tranquillo, appartato e abbastanza vicino da permetterci di rientrare per l'ora di pranzo. Dovrò tornare da Mastro Louis poi, domani ti spiegherò perché.»
Come potevo immaginare, lui s'incupí.
«Mi devo preoccupare?»
«No» cercai di mentire «È solo una questione molto delicata.»
Con le mezze verità mi sentivo più a mio agio, ma non sopportavo vedere la cristallina purezza di quegli occhi azzurri incresparsi a causa mia, perciò deviai lo sguardo, lo baciai ancora una volta e ripresi a camminare verso la villa.
Ero di pessimo umore, stanca eppure agitata per la tensione che Mélisande mi aveva lasciato. Elua! Mi sembrava ancora di sentire il suo profumo, la sensazione delle sue dita tra le mie, il dolore alla cute nel punto in cui aveva tirato i miei capelli. Avrei voluto non provare un bollore al ricordo di quei momenti, ma mi fu impossibile. Avvicinandomi alle scale che mi avrebbero portata al mio studio, mi presi il viso tra le mani, sospirai profondamente godendo del sollievo che mi diede la loro freschezza, ma quando le riabbassai e tornai a guardare davanti a me, trovai due occhi del colore del cielo all'imbrunire che mi fissavano incastonati in un volto dalla pelle di diafano. Nella penombra della casa immersa nel pomeriggio inoltrato, la mia mente, ancora in tumulto, impiegò un'infinità a capire che ovviamente appartenevano a Imriel, dandomi intanto tutto il tempo di sussultare portandomi le mani al petto per lo spavento.
«Phèdre? Ti senti bene?» mi chiese, con lo stesso agghiacciante tono con cui l'aveva fatto sua madre poco prima.
Allungai una mano verso il suo viso, con l'intento di porgergli una carezza affettuosa, ma qualcosa mi trattenne, bloccando il mio gesto in modo abbastanza evidente da diventare motivo di imbarazzo per entrambi. Odiavo gli attriti che momenti come quello causavano tra noi, ma purtroppo capitavano, non di rado e se quel giorno potevo addossarne la colpa all'incontro con sua madre, non potevo dire lo stesso di tutte le altre volte. Davvero lei avrebbe potuto sanare quella crepa tra noi? Non potevo certo esserne sicura, ma se qualcuno poteva, quella era lei.
«Sono solo un po' stanca» dissi abbassando la mano per poggiarla al corrimano della scala «Scusami» e deviandolo, né meglio né peggio di quanto avevo fatto con Joscelin, lo oltrepassai per salire le scale.
Di nuovo sola, chiusa tra le pareti familiari del mio studio, mi rilassai crollando sulla sedia del mio scrittoio stringendone i braccioli.
Mélisande!
Ogni suo ingresso nella mia vita era stato traumatico, in un modo o nell'altro. Questo, così inatteso e diretto, mi lasciava una sensazione addosso che non riuscivo a interpretare, ma che non mi abbandonava, ostinata e viscida. Ovviamente non era su questo che avrei dovuto concentrarmi, non ero io ciò a cui avrei dovuto pensare, tutta la mia attenzione, fredda e più razionale possibile, doveva andare a Mélisande e ai piani che la proposta di incontrare Imriel poteva sottendere. Ciò nonostante continuavo a focalizzarmi su me stessa e sul soffocante ricordo di quanto era appena accaduto. Elua! Per quanto volessi liberarmene, la mia mente ne era invischiata, il mio corpo lo era, maledetto e impenitente.
Mi accorsi del calare della sera quando Joscelin bussò alla porta e si affacciò, guardandomi con quell'espressione mista tra il rimprovero paterno e la preoccupazione.
«Non scendi nemmeno a mangiare?»
Non avevo fame, non avevo sonno, non avevo più reazioni che non fossero il riflesso delle parole e del tocco di Mélisande.
«Ho bisogno di star sola per un po', scusami.»
«Ti rendi conto che così stai facendo stare tutti in pensiero, vero?»
Sorrisi e gli feci segno di entrare.
Lui obbedì, chiudendosi la porta alle spalle per poi camminare fino alla mia sedia e sporgersi sopra di me.
«Non amo quando non mi parli: non mi sono mai piaciute le cose che ti hanno turbata tanto da ritenere opportuno tacermele. La cosa peggiore è che temo di comprendere di cosa potrebbe trattarsi. E non sono molte le cose di cui ho paura.»
«Lo so, amore mio» dissi tirandolo per il bavero fino a riuscire a baciarlo «Te ne parlerò domani.
Ora ho solo bisogno di riflettere, sola.
Non preoccupatevi per me, d'accordo?»
Lui annuì con evidente rassegnazione, ma annuì.
«Posso almeno mandarti Imriel? Voleva...»
«No» risposi brusca, causando il suo cipiglio.
«Phèdre, che sta succedendo?»
«Nulla che voglia spiegarti ora. Domani… domani ti dirò tutto.»
«Imriel mi ha detto che l'hai guardato come se fosse un fantasma e vista questa tua reazione...»
«Spiegherò tutto anche a lui. A tempo debito.»
«E non puoi nemmeno salutarlo ora?»
«Abbiate pazienza» risposi più pacata «Ora ho solo bisogno di stare sola.»
E sola rimasi. 
Joscelin uscì senza aggiungere altro e io tornai alle dure riflessioni che trascinavano la mia mente nel torbido fiume delle sensazioni che ancora mi fremevano sottopelle. Riuscii pian piano a ragionare tuttavia, invocando lo stesso Kushiel di darmi la forza di farlo senza essere condizionata dalla latente promessa del castigo che le mani di Mélisande avrebbero potuto donarmi. Era quello il mio cruccio, il timore fondato di accettare quel patto non per Imriel, né tantomeno per un senso di giustizia, che anzi opprimeva il mio cuore. Che il Beato Elua possa compatirmi, una parte di me voleva cederle per il solo massacrante desiderio di lasciarle domare tutte le mie angosce ancora una volta.
Un'ultima volta.
Questa era appunto l'altra questione dolente, il contraltare dell'istintivo impulso ad accettare. Per quanto volessi il contrario, odiavo pensare di essere proprio io a condurre Mélisande al patibolo, ora che lei non stava minacciando niente e nessuno, ora che anche il bisogno di vendetta che anni prima aveva marciato ardente insieme a me era ormai sopito. Mi sentivo in colpa nei confronti di Delaunay, di Alcuin e di tutti coloro che avevano perso la vita a causa dell'avidità di quella donna, eppure non volevo che morisse. Men che meno per mano mia, seppur indiretta. E lei questo lo sapeva.
Dovevo costringere la mia mente a liberarsi da tutte le derive emotive, ma più cercavo di portare il mio pensiero sul piano logico e razionale, più quelle si insinuavano e si faceva arduo per me trovare l'ago della bilancia su cui misurare in modo asettico i pro e i contro di quell'accordo in sé. 
Non ho idea del tempo che passai a ragionare a vuoto su questo, alla fine semplicemente mi arresi all'idea che forse la proposta fatta da Mélisande fosse il solo possibile epilogo del mortale duello che ci aveva unite sin dall'inizio, elementi opposti e complementari di una trama divina che in un modo o nell'altro doveva trovare una fine. Niente e nessuno ormai avrebbe più potuto restituirle la vita che lei stessa si era giocata, non c'era modo alcuno ormai di mutare la sua sorte. Mi aveva chiesto di esaudire un ultimo, legittimo desiderio prima di affrontare il proprio destino, conscia che sarei stata la sola in grado di capire perché ne avesse diritto. E io lo avrei fatto, addossandomi tutte le responsabilità del caso, perché soltanto io potevo mettere la parola fine alla mia controparte. Soltanto io dovevo.
Qualsiasi cosa avrebbe deciso Imriel poi, qualsiasi cosa Joscelin avrebbe detto per impedirmelo, per quel che riguardava me ero pronta ad accettare.
E ora, finalmente libera da quella zavorra emotiva, trovai la lucidità per dedicare il resto della notte all'intrigo che quel patto poteva celare, ai suoi possibili doppi fini, le eventuali trappole nascoste, a tutto ciò che Mélisande avrebbe potuto fare con la libertà che le stavo concedendo. Passai in rassegna ogni opzione, ogni scenario, ogni mossa che avrebbe potuto fare. Non trovai nulla. Valutai tuttavia ogni misura di sicurezza che potevo adottare a maggiore garanzia, ogni limite che avrei preteso e ogni postilla che avrei ancora potuto somministrarle prima del mio sì definitivo, fino a che mi addormentai lì seduta al mio scrittoio mentre imploravo Kushiel di proteggermi in nome dell'ultima follia che il suo dardo mi chiamava a compiere.
Mi svegliò Joscelin l'indomani, evitando almeno a voce di sottolineare l'ovvietà del suo disappunto per il fatto che non fossi andata a letto. Si limitò a scuotermi con delicatezza e comunicarmi che era mattino. Io lo fissai stranita, realizzai a rilento perché mi trovavo lì sulla sedia del mio scrittoio e quindi mi alzai e andai a prepararmi per la partenza.
Joscelin mi osservò accigliato per tutto il tempo, compreso il tragitto a cavallo fino al luogo che aveva scelto per noi, senza mai fiatare se non per rispondere alle mie domande. Quando arrivammo a destinazione, in uno spiazzo erboso di una conca del fiume Lilver, legò i cavalli a un albero, li impastoiò e poi venne a sedersi davanti a me, che lo attendevo fingendomi rilassata su un telo.
Avevo immaginato di iniziare con un preambolo che in parte avevo anche imbastito durante il viaggio, ma quando i suoi occhi si piazzarono nei miei non trovai il cuore, men che meno le parole, per tergiversare.
«Si tratta di Mélisande» ammisi d'un fiato, attendendo con timore la sua reazione, che tuttavia fu più contenuta di quel che mi sarei aspettata.
«Lo sapevo» si limitò a sibilare, mentre tutta la sua rabbia si manifestava nel biancore delle rughe d'espressione.
«Speravo di sbagliarmi, pregavo di scoprire di essere solo un pazzo paranoico e invece… dimmi almeno che non avanza assurde pretese su Imriel.»
Sospirai, prima di replicare «Non assurde.»
Il suo sguardo mi trafisse, fermo e letale.
«Vuole solo incontrarlo» spiegai.
«Solo?»
«È il suo ultimo desiderio prima di morire.»
Gli occhi di Joscelin si dilatarono di uno stupore scettico.
«Mi consentirà di consegnarla alla giustizia dopo averlo incontrato.»
«Come sarebbe? Perché a te? Può esprimere direttamente alla regina il suo ultimo desiderio.»
«Ysandre non accetterebbe.»
«Tu sì?»
Fu a quel punto che, leggendo la risposta nella mia espressione, si arrabbiò davvero. Fu una delle discussioni più aspre della nostra vita, a poco valsero le spiegazioni e i ragionamenti e quando seppe che l'avevo già incontrata di persona e le avevo concesso di restare in Terre d'Ange si adirò ancora più, alzandosi in piedi e torreggiando sopra di me. L'ultima lite tanto veemente che ricordavo era avvenuta alla Serenissima subito prima di scoprire, a spese mie ma soprattutto dei miei compianti accompagnatori, dove si celasse Mélisande. Allora lui era arrivato a lasciarmi, per gelosia in fin dei conti. La domanda era: perché questa volta sarebbe dovuto essere diverso?
«Perché lei è Mélisande!» esclamai esasperata dopo un susseguirsi di scambi snervanti in cui avevo cercato di spiegargli che quella era l'unica soluzione possibile «Hai sempre saputo quello che esiste tra me e lei! 
Non lo potrai forse mai capire, ma io d'altra parte non potrò mai fingere che non esista!» 
«Quindi ti aspetti che io accetti qualsiasi cosa in nome di quello che c'è tra voi?»
«Hai accettato compromessi che nessun altro uomo avrebbe tollerato, l'hai fatto solo per me, per ciò che sono. Ti sto chiedendo la stessa cosa ora, la stessa comprensione che hai già dimostrato di avere.»
«Non per lei!» sbottò girandomi le spalle «Né per quello che riguarda te, né per quello che riguarda Imriel.»
Stavo per replicare, invece decisi di prendere un lungo sospiro e parlai dopo essermi calmata, mentre Joscelin invece aveva preso a camminare torcendo nervoso le mani attorno alle impugnature dei pugnali.
«Dovrei lasciarla tornare a nascondersi dov'era, ora che è qui?»
«Dovresti solo consegnarla alla giustizia, ora che è qui. Non le devi altro. Nessuno le deve altro!»
Avrei potuto ripetergli ancora una volta che mi aveva minacciata di rompere la promessa di non agire contro Ysandre e le sue figlie se avessi fatto una cosa del genere, invece risposi triste e pacata «Da dodici anni ormai Imriel riempie la nostra vita della gioia di avere un figlio, ma forse dimentichi che lui non è figlio nostro, Joscelin. La nostra gioia spettava a lei.»
«Non sono stato io a privargliela! Lei stessa vi ha rinunciato, per aver osato troppo.»
«Resta comunque suo figlio e io non posso impedirle di vederlo, almeno una volta. Nessuno dovrebbe, io e te meno di chiunque altro.»
«Sciocchezze!» sbraitò agitato come l'avevo visto poche volte da che lo conoscevo «Io non le devo niente e non ho alcuna intenzione di concederle il permesso di vedere Imriel!»
«Non credi che la scelta spetti solo a lui?»
A quelle parole si bloccò a guardarmi.
«La questione non sta in ciò che dobbiamo concedere noi» continuai «quello che sto cercando di farti capire è che non abbiamo alcun diritto di dire di no. L'unico che può farlo è Imriel.»
Il suo viso non mutò espressione, ma le sue spalle cedettero e persero la tensione spiovendo improvvisamente verso il basso.
«Ascoltami, per favore» gli dissi invitandolo a sedersi di nuovo davanti a me «Sai quanto sia dura per Imriel fare i conti con la sua natura. Io…» lentamente si avvicinò «io, per quanto abbia tentato, non so essergli di aiuto… anzi, lo sai, mi crea, ci crea sempre maggior disagio la reazione del mio corpo al suo sangue. Era inevitabile che succedesse, ma ora che sta accadendo mi vedo costretta a trattenermi per non peggiorare le cose.
E tu, amore mio, tu non lo puoi capire.»
Si piegò sulle ginocchia davanti a me, stanco e quasi spaventato da ciò che stava realizzando.
«Cosa stai cercando di dire?»
«Che lei è la sola che possa fare qualcosa per lui. Lei sa come si sta sentendo. Sa cosa sta provando. E sa anche cosa sta succedendo tra me e lui.»
«Elua, tu non puoi credere che...»
«Non lo so, Joscelin, non so se davvero lei potrà aiutarci, ma chi se non lei?»
«E come?»
«Il come non lo so, non ha voluto darmi dettagli e anzi ci ha tenuto a specificare che non ha intenzione di far sapere a nessuno cosa accadrà tra loro durante l'incontro.»
«E tu le permetteresti di stare sola con Imriel?»
«Porrò le mie condizioni, ma lui non è più un bambino e lei ha giurato di non volermelo portare via, né rivoltare contro...»
«E tu le credi?»
«Mi ha dato la sua parola, le credo. E li lascerò soli per tutto il tempo che Imriel vorrà. Se vorrà.»
Joscelin abbassò lo sguardo.
«Credi che accetterà?»
«Non voglio pensarci. Qualsiasi cosa decida, io mi occuperò solo di garantire che lei mantenga quanto ha detto. E avrò bisogno del tuo aiuto per questo.»
Condivisi con lui le idee che avevo in merito alla sorveglianza del luogo e delle persone, perché oltre lei volevo tener d'occhio quel suo tuttofare. La mente strategica e militare di Joscelin mi fu di grande aiuto nel delineare, meglio di quanto avessi fatto da sola la sera prima, le condizioni che le avrei imposto per garantire il rispetto dei patti, ma soprattutto la sicurezza di Imriel, di Terre d'Ange e la mia, in fin dei conti. Ciò che io in prima persona rischiavo era la fiducia della mia regina e con essa la mia libertà, o la vita, ne ero ovviamente consapevole sin dall'inizio e Joscelin non mancò di sottolinearlo.
«Tutto questo è una pazzia, Phèdre. Ysandre vorrà la tua testa. E anche la mia. In ogni caso.»
«Le consegnerò Mélisande» gli risposi più per tranquillizzarlo che perché fossi davvero convinta fosse sufficiente.
«Stai tenendo nascosta, qui in Terre d'Ange, la sua più pericolosa nemica: è più che sufficiente per un'accusa di tradimento.»
Lo guardai muta per qualche istante, poi replicai calma e sicura.
«Se Ysandre vorrà la mia testa, che sia. Le chiederò di risparmiare la tua e quella di tutti coloro che in un modo o nell'altro saranno coinvolti.
In fin dei conti questa storia deve avere una fine e se dovessimo morire entrambe per aver seguito ancora una volta il legame che Kushiel ha teso tra noi credo sarebbe un finale adeguato.»
«Tu stai vaneggiando!»
«No, Joscelin, sono seria e lucidissima. Sono la sola che possa prendersi la responsabilità della vita di Mélisande. E se ne va anche della mia, non posso far altro che accettarlo. Come ho accettato tutto il resto.»
Joscelin si alzò di nuovo e si allontanò di qualche passo con aria tetra ormai, più che arrabbiata. Io restai in silenzio a osservare la sua solida figura di spalle, conscia del dolore che gli davo. 
Si voltò a guardarmi diversi minuti dopo, trovando il mio sguardo fermo, sereno per quanto sicuro e determinato. 
«È inevitabile, vero?»
«Sì» risposi grave e, mantenendo gli occhi nei suoi a fatica, continuai «E non è la sola cosa che dovrai accettare.
Torna qui, per favore.»
La sua espressione mi palesó che aveva già capito cosa stavo per chiedergli: il suo bel viso fu attraversato per un momento dalla rabbia e poi da quella disperata rassegnazione a cui purtroppo lo avevo costretto troppe volte. Lentamente si riavvicinó e si inginocchió di nuovo davanti a me, pronto alla condanna che stavo per infliggergli. 
«Mélisande conosce il cuore di Imriel e dice di sapere come aiutarlo. Credo sia vero. Altrettanto bene conosce il mio di cuore e del fatto che sappia come trattarlo sono certa. Lo sai anche tu. Non voglio mentirti, né nasconderti nulla di quanto potrebbe accadere o già è accaduto. Mélisande sa quanto sto soffrendo, me lo ha detto, sa delle mie visite al santuario di Kushiel e sa quanto non siano più sufficienti. Sa di cosa ho bisogno. E lei… »
«È la sola a potertelo dare… » disse Joscelin in un sospiro, mentre girava il volto verso il fiume che continuava a scorrere imperturbato accanto a noi. 
«Ho tentato di negarlo a lei, a me stessa anche, ma mentirei se dicessi di non aver bisogno di lei. Lo sappiamo tutti. Mi dispiace.»
Non aggiunsi altro, restai immobile a guardare il suo profilo, finché fu lui a riprendere la parola. 
«In che misura lo fai per te stessa, più che per Imriel.»
«Importa davvero?» replicai amara «Sono sinceramente convinta che Imriel abbia il diritto ad avere un confronto diretto con sua madre, se lo vorrà. Non avrei accettato di rivederla altrimenti. Fosse stato solo per il mio bisogno di lei, non sarei scesa a compromessi, se è quello che vuoi sapere. Saperlo ti consola forse?»
«No» sussurró. 
Mi sollevai, lo raggiunsi carponi e presi il suo volto tra le mani per riportare i suoi occhi ai miei. 
«Ho sempre saputo cosa comportava amare un'anguissette» disse prima che cominciassi io «E me ne sono accollato ogni conseguenza, pur di averti come compagna.
Ma con lei è diverso.
Con lei non lo sopporto. 
Dimmi che c'è qualcosa che posso dire, che posso fare per dissuaderti. Ti prego.»
Avevo le lacrime agli occhi quando gli risposi «Non c'è nulla. 
Se lei… io cederó, non posso evitarlo.
Vorrei solo che tu capissi… »
«Da me puoi pretendere che ti protegga» mi interruppe «perché è ciò che ho giurato, ma non pretendere che io capisca, perché questo non posso proprio farlo.»
Il suo evidente dolore mi spezzava il cuore. Per questo non aggiunsi altro in proposito: non c'erano purtroppo parole utili ad alleggerire il peso che significava l'amore per me in momenti come quello, era una verità dura e ineluttabile. Per quanto mi dispiacesse, non potevo farci nulla. E non poteva farci nulla lui. Eravamo entrambi inermi contro la mia natura e la presenza di colei che la enfatizzava come nessun altro. 
Ciò che dovevo chiedere a Joscelin tuttavia non era ancora finito, perciò non lasciai il suo viso e mi feci forza. 
«C'è un'ultima cosa» questo faceva male solo a me. Dovetti prendere una pausa prima di proseguire, durante la quale lui mi guardò torvo «Dopo l'incontro o quel che sarà, dovrai aiutarmi a portare a termine il patto tra me e lei. Temo che potrei non farcela da sola e temo che questo potrà farti innervosire e ferire. Ma ti garantisco, Joscelin, che a mente fredda e lucida è ciò che so di dover fare e quando sarà il momento, ti prego, ricordamelo e abbi pietà della debolezza che potrei dimostrare. Dovrai sostenermi e sopportare il fatto che, nonostante tutto ciò che ha fatto, consegnare la sua testa per me sarà un dolore.»
Non disse nulla. Si limitò a prendere le mie mani ancora a coppa attorno al suo volto e baciarle. 
Io mi resi conto di aver versato una lacrima quando questa mi raggiunse le labbra. Non so cosa mi avesse commossa, se il suo immenso amore o l'angoscia per la perdita di Mélisande. Forse era un po' di ognuna di queste cose o magari c'era anche altro, non lo so. So solo che mi trovai ad avvicinarmi di più a lui, baciarlo e cercare conforto nell'unione dei nostri corpi.

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Capitolo 5
*** Sotto la luce del sole ***


Fu difficile persuadere l'ostinazione di Joscelin a lasciarmi tornare sola da Mastro Louis, o meglio "da lei", come aveva sottolineato lui per tutta la discussione che precedette la mia partenza, rischiando di farmi tardare. E mentre la carrozza percorreva la strada che mi riconduceva alla villa dello scultore, mi chiedevo se davvero alla fine avesse desistito o piuttosto mi stesse stupidamente seguendo nascondendosi tra la rada boscaglia che ricopriva quelle colline. Pregavo con tutto il cuore che non fosse stato tanto scellerato da rischiare di compromettere tutto solo per quella cocciutaggine che nascondeva dietro i suoi giuramenti, ma lo conoscevo abbastanza bene da sapere che era là fuori e, lo ammetto, un po' in realtà il pensiero mi rincuorava, mentre sentivo il mio dannato corpo fremere alla sola idea che stavo per rivedere lei, Mélisande Shahrizai. 
La trovai ad attendermi nella veranda dove ci eravamo incontrate il giorno prima, seduta su una poltroncina davanti al colonnato dall'altra parte della stanza a guardare il panorama, la vidi di tre quarti da dietro quando entrai scortata da Marcel e mi bloccai. Lei si girò a guardarmi lentamente solo quando sentì la porta che si richiudeva a lasciarci sole. Io ero ancora lì, ferma a fissarla, spaventata dai battiti che già stavano percuotendo il mio petto. 
«Accomodati, Phèdre.»
Non farlo avrebbe significato palesarle lo stato d'animo in cui mi aveva gettata, per questo feci un sospiro, quindi mi avvicinai, pur sapendo che quella sensazione di precarietà che sentivo poteva solo acuirsi e pendere via via verso qualcosa che temevo di non poter controllare. I suoi occhi seguirono ogni mio movimento, ansiosi da un lato, predatori dall'altro. Avrei voluto fuggirli, ma non potevo, se volevo dimostrare, come avevo millantato con Joscelin, di essere in grado di tenerle testa e poter dettare le mie regole. 
«Ebbene?» mi chiese non appena mi sedetti davanti a lei. 
Elua! Quanto poteva essere velenosa la bellezza di un viso? Lo osservavo solo da pochi istanti, eppure già mi strappava via attenzione e lucidità, obbligandomi alla contemplazione. 
«Qual è il responso della tua riflessione?»
La sua voce mi riscosse, chiusi gli occhi un momento e presi un respiro per recuperare tutta la concentrazione e la freddezza di cui avevo bisogno. 
«Accoglierò la vostra richiesta, a patto che accettiate le mie condizioni.»
Mi soppesò qualche lungo istante, poi disse calma «Sentiamo.»
«Innanzitutto se, come credo, avete già in mente qualcosa, voglio sapere dove e come avverrà l'incontro.»
Mélisande attese che aggiungessi altro e al mio silenzio chiese «Tutto qui?»
«Certo che no. Ma rispondete a questo intanto.»
A quel punto fece un'espressione che non riuscii a decifrare, quindi sospirò e infine annuì. 
«Qualcosa in mente ce l'ho» disse guardandomi pensierosa, per poi distogliere lo sguardo da me e posarlo nuovamente sul panorama fuori. 
«Trattandosi di quello che potrebbe essere il mio ultimo giorno di libertà in terra angeline, ho in mente di celebrarlo, quasi fosse il Solstizio d'Inverno, ma per soli servi di Naamah. Oltre a me, te e Imriel, naruralmente.»
«Scherzate?» la interruppi trovando assolutamente fuori luogo l'idea. 
«Non molto distante da qui c'è la villa di campagna di Lord Sigàn, ne avrai sentito parlare» continuò lei come se io non avessi aperto bocca «Le feste che vi si tenevano erano piuttosto famose, prima che lui cadesse in rovina.»
Tornò a guardarmi, chiaramente attendendo che io confermassi di conoscerlo. Avrei voluto replicare diversamente, ma sapevo che di nuovo mi avrebbe ignorata, quindi mi limitai ad annuire. 
«Mastro Louis ha in concessione la villa a causa dei numerosi debiti che Sigàn ha verso di lui per opere commissionate e mai pagate. Quello sarebbe il luogo ideale.»
«Mélisande, ve lo chiedo di nuovo, state scherzando, vero?»
«No, Phèdre. Quella che ho in mente è una festa in maschera, che celi l'identità dei partecipanti una volta entrati. Non ci saranno temi, né costumi sfavillanti, ma la stessa maschera e lo stesso mantello che tu farai indossare a ogni partecipante all'ingresso.»
«Io?»
«Sì, tu sarai la madrina della serata. Chi se non te potrebbe organizzare una festa in onore di Naamah? Invierai una lettera al priore di ogni casa della notte, invitandolo a scegliere i suoi due adepti migliori, uno per sesso. Chiederai loro la massima discrezione, in modo che tu sia la sola a conoscere l'identità di tutti loro. 
Una volta giunti alla villa, separatamente, protetti dall'anonimato di maschera e mantello, saranno gli ospiti del tuo ricevimento, liberi, per una notte, di servire non la loro casa, non un patrono, ma soltanto Naamah e il loro piacere.»
Continuò ancora, scendendo nei dettagli mentre io la osservavo e ascoltavo allibita. Quando concluse la meticolosa spiegazione, non potei far altro che chiedere «Perché?»
Mélisande sorrise senza guardarmi e attese un po' prima di rispondermi. 
«Per Imriel.
La festa sarà in realtà per lui. 
Tutti quegli adepti il suo terreno di caccia. Una caccia libera, senza costrizioni, né vincoli, senza giudizi, né stereotipi. Sarà il campo in cui poter mettere in atto quanto gli trasmetterò durante il nostro precedente incontro, che dovrebbe avvenire almeno dalla mattina del giorno stesso.
Nessuno dovrà sapere della sua presenza. Maschera e mantello gli permetteranno di mimetizzarsi agli ospiti dandogli modo di esprimersi in totale libertà.»
«Ma voi e io non saremo presenti?»
«Sì. 
Ma fino ad un certo punto. 
Poi ci ritireremo.»
L'azzurro dei suoi occhi si pose su di me prima di proseguire. 
«A te scegliere come, se insieme oppure separatamente.»
Mi ci volle un'eternità per liberarmi dal languore che quella frase aveva riversato in me. 
Quando ne venni fuori dissi solo «Voi siete folle.»
«Folle? Per quale ragione?» la sua espressione era sinceramente stupita. 
«Avete una condanna a morte che vi pende sulla testa. Non avete nessun diritto di essere qui, dovreste preoccuparvi solo di non essere scoperta e voi invece volete partecipare a una festa?»
Mélisande tornò a guardare fuori. 
«Il nascondiglio migliore è sotto la luce del sole. Non dirmi che Delaunay non te l'ha insegnato.» 
Lo aveva fatto.
«È una follia.» replicai comunque. 
Mélisande sorrise, non divertita, semplicemente serena. 
«Cosa ti spaventa?»
«Il fatto che qualcuno vi riconosca, ovviamente.»
«E come potrebbe? Andiamo. Tu sei la causa della mia condanna a morte, del mio esilio e di ogni mio piano andato in fumo. Chi mai potrebbe pensare che sia io la tua accompagnatrice? Qui. Ora. 
E anche se proprio fosse, non dirmi che non hai intenzione di far sorvegliare la villa per assicurarti che io o chiunque altro se ne vada prima del dovuto.»
La guardai stranita. Quella era una delle mie condizioni. L'aveva prevista. Questo significava che davvero aveva intenzione di mantener fede al patto. O che sapeva come eluderlo comunque. 
«Credevi che non avrei immaginato volessi prendere misure di sicurezza?» domandò guardandomi ironica. 
«Dovendo mantenere segreta la vostra presenza, pensavo vi sareste opposta.»
«La festa sarà un'ottima scusa per chiedere a chicchessia di prestare servizio di guardia. Come avresti potuto farlo altrimenti?»
Era effettivamente un punto sul quale io e Joscelin ci eravamo riservati di riflettere meglio. 
«Dunque mettere qualcuno di guardia alla zona era un'altra delle tue condizioni, suppongo.» disse coprendo il silenzio. 
Annuii con un po' di imbarazzo. 
«Accolta. 
C'è altro?»
Come diamine riusciva a mettermi sempre in debito? Pensavo di avere il coltello dalla parte del manico e invece la sensazione che avevo era quella di chiedere un favore. Feci mente locale e cercai di risollevare il mio animo. 
«Non… » quello che mi uscì fu appena un fiato, al che mi schiarii la voce e ripresi imponendomi tutta la risolutezza che potevo «Mi avete parlato con cura della festa, ma non mi avete detto praticamente nulla dell'incontro privato che volete avere con Imriel.»
«Si terrà alla villa di Lord Sigàn, inizierà almeno la mattina del giorno della festa. Non ti serve sapere altro.»
«Cosa mi serve sapere è una decisione che spetta a me.»
«Ad esempio?»
Indugió lo sguardo incuriosito su di me. 
«Cosa… Come… » balbettai. 
Nemmeno io sapevo cosa chiedere del loro incontro. Elua! Non ero nemmeno certa di voler sapere qualcosa di quello che gli avrebbe detto!
«Ciò che avverrà tra me e Imriel durante il nostro incontro non ti è dato saperlo. Se te ne vorrà parlare lui in seguito, sarà libero di farlo. Per quel che riguarda me, ciò che abbiamo da dirci è soltanto affar mio e di mio figlio.
C'è altro?»
Rimasi interdetta qualche momento e poi cambiai argomento. 
«Il vostro… tuttofare… sarà presente?»
Mélisande annuì. 
«Che ruolo avrà?»
«Sarà l'addetto alla cucina e il solo servitore della serata. Un ruolo sicuramente impegnativo, ma non accetterei l'ingresso nella villa e ancor di più nella sala del ricevimento a nessun altro.»
«Nemmeno a Joscelin?»
Sorrise, divertita questa volta. 
«Oh, il tuo cassiliano può entrare. 
Non credo però che uno come lui gradirà ciò che potrebbe vedere.»
E anche questo ero vero. 
«Potrebbe eventualmente controllare quello che il vostro tuttofare fa in cucina. Ci avete drogato una volta, non accadrà una seconda volta.»
Mélisande rise brevemente. 
«Non ho intenzione di drogare, né avvelenare nessuno. Ma controllate pure quello che volete. Il tuo cassiliano può anche mettersi ai fuochi in persona, per quel che mi riguarda.
C'è altro?»
«Quando finirà la festa?»
«All'alba. Naturalmente. Nessuno potrà lasciare la villa prima del sorgere del sole. Nessuno tranne Imriel, ovviamente. Non sarà costretto a far nulla che non voglia. 
E nemmeno tu. 
Se non vorrai… restare per la notte… sarai libera di andartene.»
La malizia nei suoi occhi mi divorava. Avrei voluto sapere cos'aveva in mente per me, ma non era il momento. Dovevo cercare di non pensarci, dovevo restare lucida. Cambiai quindi velocemente argomento. 
«Io… Io e Joscelin dovremo perlustrare la villa prima della festa. Ogni sua stanza.»
Annuì lenta. 
«Te lo avrei proposto io, se non me l'avessi chiesto tu.
Possiamo andare oggi stesso. 
Faccio entrare il tuo cassiliano? Lo abbiamo trovato qua fuori.»
Mi si gelò il sangue. Spalancai gli occhi e mi affrettai a dire «Vi giuro che gli avevo detto di non seguirmi!»
Sollevò le labbra in un sorriso rassicurante. Giuro. Rassicurante. 
«Lo so.
Ma sapevi che non ti avrebbe obbedito. Così come lo sapevo io. 
Ad ogni modo non preoccuparti. 
Per questa volta.» 
La pausa che si prese prima dell'ultima frase enfatizzò la straordinaria concessione. 
«Posso solo immaginare quanta voglia avesse di rivedermi» continuó poi con un sorriso ironico. 
Mentre io cercavo di capire se davvero ci perdonava la trasgressione e se quindi potevo rilassarmi, Mélisande suonó la campanella che aveva usato il giorno prima per chiamare Marcel. Sussultai anche quella volta, poi mi voltai a vedere la porta che si apriva mostrandoci l'inchino del domestico sulla soglia. 
«Fai entrare l'ospite» ordinó Mélisande. 
Joscelin entrò poco dopo, tallonato da un uomo sconosciuto. 
«Mi dispiace, Phèdre» mi disse subito contrito. 
Non aveva la cintura con i pugnali, notai. Le sue mani erano dietro la schiena, legate probabilmente. Tuttavia non vedevo segni di colluttazione, né in lui, né nell'altro uomo. 
«Non usa salutare, cassiliano?» lo apostrofò Mélisande. 
Per tutta risposta lui si limitò a guardarla torvo. Lei sollevó un angolo della bocca e poi con un lento gesto della mano gli fece cenno di avvicinarsi. Lo sconosciuto si fece avanti, invitando Joscelin a camminare davanti a lui, mentre alle loro spalle Marcel restava sulla porta. 
«Il tuo cassiliano» disse Mélisande tornando a guardare me, quando i due uomini furono davanti a noi «ha già avuto modo di conoscere il mio fidato Emeric.»
Lo sconosciuto si inchinò profondamente guardandomi però con attenzione. Lo osservai a mia volta. Aveva tratti decisamente particolari, da tsingano, ma non angeline. Non era bello, nemmeno affascinante, i suoi lineamenti erano severi, bruschi. Non doveva avere più di 40 anni. Non avrei saputo assolutamente dire da che parte del mondo potesse provenire: il colore della sua pelle era olivastro, gli occhi erano chiari, i capelli neri folti e incredibilmente ricci. Sembrava un misto di qualsiasi razza avessi mai visto. 
«Mi dispiace vedere che Emeric ti abbia dovuto legare le mani.» proseguì Mélisande rivolta a Joscelin «Mi auguro con sincerità che il vostro incontro non sia stato troppo brutale, ma capirai che ha fatto solo il proprio dovere. Tu non dovevi essere qui.»
«Phèdre non c'entra, è stata una mia iniziativa!» specificó lui con foga. 
«Lo so perfettamente. 
Che sia l'ultima. 
Mi fido della parola di Phèdre e della sua intelligenza. Non posso dire altrettanto di te, ma lei sarà responsabile anche per le tue azioni. Cerca quindi di ponderarle meglio d'ora in poi. 
Posso farti slegare senza temere conseguenze?»
Joscelin cercó il mio sguardo, io lo ricambiai e risposi per lui. 
«Farà quello che gli verrà chiesto, vi do la mia parola.»
Mélisande annuì verso Emeric. Un attimo dopo le mani di Joscelin erano libere.
«Phèdre mi ha chiesto di vedere la villa in cui avverrà l'incontro. Se non avete nulla in contrario possiamo andare oggi stesso.»
Annuii mentre Joscelin mi osservava spaesato. 
«Solo una cosa, prima. 
Marcel, avvicinati pure.»
Attese che il domestico ci fosse vicino poi continuò. 
«Mastro Louis vorrebbe sapere se poserai ancora per lui. Cos'hai deciso?»
«Lo farò» risposi. 
Marcel annuì prostrandosi verso di me in un inchino immagino di ringraziamento. 
«Posso farlo chiamare ora?» chiese la voce di Mélisande. 
«Per posare?» domandai come una stupida, girandomi di scatto verso di lei mentre cominciavo a intuire dove volesse andare a parare. 
«Beh, sì. Ha bisogno di rivederci insieme.»
Sentivo gli occhi di Joscelin addosso. La sua gelosia che si scaldava. Di fronte a me Mélisande percepiva di certo lo stesso e ne gongolava. 
«No.» dovetti rispondere «Non oggi.»
Non l'avrei mai fatto davanti a lui: nemmeno posare poteva avere un minimo di innocenza se lo dovevo fare insieme a lei. Per quanto me ne vergognassi e per quanto fosse evidente il significato di quel rifiuto, non potevo fare altrimenti, pur sapendo che Joscelin ne avrebbe comunque sofferto, come la contrazione della sua mascella mi confermó. E purtroppo quella non fu che la prima scoccata che Mélisande si divertì a infliggergli da quel momento in poi.




Note dell'autrice
Dai, se hai letto fin qui sta storia così schifo non ti farà. Oppure sì, ma t'intriga abbastanza da sopportarlo.
Fai il tuo atto di gentilezza quotidiano, lascia un commento oppure scrivimi e dimmi che ne pensi o anche solo che ci sei.
Un piccolo passo per te
Un grande passo per la mia felicità.

Ad ogni modo, grazie

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Capitolo 6
*** La villa di Lord Sigàn ***


Partimmo poco dopo per la villa di Lord Sigàn. Viaggiammo su due carrozze separate, su proposta di Mélisande: una per lei ed Emeric, una per me e Joscelin. 
«Suppongo abbiate bisogno di scambiare due parole in privato» ci aveva detto. Ed era vero più che mai, ma il fatto che sistematicamente prevedesse ciò che pensavo mi spaventava ogni minuto di più. Se, com'era lecito sospettare, quella che aveva architettato era una trappola, ci stavo finendo dentro tutta intera. Ma di questi timori non avrei fatto parola con Joscelin, non ancora. 
«Sarai soddisfatto» esordii invece appena si chiuse la portiera della nostra carrozza. 
Lui ovviamente si scusó ancora, anche se non era del tutto convinto di aver sbagliato. Torto o ragione che avesse, quello che mi importava sapere era come uno come lui si fosse fatto catturare con tanta facilità da un uomo solo. 
«Mi ha colpito con un dardo. Il tempo di sentire la puntura, staccarmelo dalla spalla e ho perso i sensi. 
Quando mi sono svegliato avevo le mani legate dietro la schiena, un bavaglio sulla bocca e quell'Emeric era seduto davanti a me.»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Nemmeno una parola. Nemmeno quando mi si è avvicinato perché doveva portarmi da voi e ho tentato di ribellarmi alla sua presa.»
«Hai tentato e non sei riuscito?»
«Mi ha immobilizzato con mosse da manuale. Sa il fatto suo, oltre a essere ben allenato.»
«Un solo assistente per un viaggio così pericoloso, non può certo essere un uomo qualunque.»
A quel punto gli raccontai cosa mi aveva detto Mélisande, dell'incontro con Imri, della festa che voleva organizzare e del ruolo di Emeric. La sua reazione fu simile alla mia, solo più rabbiosa. 
«E tu hai intenzione di permetterle di fare una cosa del genere? Eri venuta per dettare le tue regole!»
«Se ci rifletti bene gioca tutto a nostro favore. Non mi ha vietato di mettere guardie e non ha posto limiti sul loro numero, purché stiano all'esterno della villa. Tu solo potrai entrare, così potrai controllare Emeric da vicino.»
«Secondo i nostri piani avremmo dovuto tenere d'occhio solo lui e Mélisande. Invece potrebbero esserci altre ventisei persone. Ti rendi conto di quanto sia diverso?»
«Anche questo potrebbe essere un vantaggio per noi, se ci pensi. I servi di Naamah possono essere inconsapevolmente nostri alleati, come guardie all'interno della villa: per volere di Mélisande stessa le regole saranno ben chiare, chiederò in più che qualsiasi effrazione noteranno sia riferita immediatamente a me o a te.»
«O a lei. 
Chi ti dice che non abbia pedine tra gli ospiti? Soprattutto tra quelli di casa Mandragora.»
«Lei non avrà spazio di manovra. Sarà per tutto il tempo sotto il mio controllo.»
A quelle parole tiró la mascella in modo vistoso. 
«Quanto lucidamente?»
«Ne va della vita della Regina!» risposi stizzita. 
«La vita della Regina vale per te più di quella di Lord Delauney?»
«Cosa c'entra? È successo una vita fa. Ancora non la conoscevo davvero. Ero giovane, ingenua… » Innamorata «Nemmeno Delauney aveva sospettato di lei, come avrei potuto farlo io?
Ora è tutto diverso. E lo sa anche lei.»
«È proprio questo che mi preoccupa.» sentenzió lui. 
Non potendo dargli torto, non replicai. E il mio silenzio fu più eloquente di qualsiasi cosa avrei mai potuto dire. Joscelin distolse lo sguardo da me per gettarlo oltre il finestrino e io ringraziai Elua quando, poco dopo, sentii fermarsi la carrozza perché eravamo arrivati a destinazione. 
Mélisande fu l'ultima a scendere dalla carrozza, so che lo fece di proposito, lo capii dal modo in cui guardó me, poi la villa una volta scesa. Quel luogo avrebbe suggellato il nostro incontro, la seconda notte in cui sarei stata sua, dopo così tanto tempo, dopo così tanto odio. E infinito desiderio. Detestai l'intesa dei nostri sguardi, il fremito del mio corpo, l'angoscia che saliva all'idea che sarebbe stato anche il nostro addio. 
Purtroppo non fui la sola a notarlo: con orribile ritardo mi resi conto che Joscelin mi aveva girato le spalle, probabilmente per non vedere il misero spettacolo del fascino che Mélisande sapeva esercitare su di me. D'istinto andai per toccarlo, dargli un segno del fatto che sapevo che lui era lì, ma Elua solo sapeva quanto un simile gesto avrebbe potuto soltanto peggiorare la situazione, sancendo l'ammissione della mia vulnerabilità. Per questo finsi che non fosse accaduto nulla e lo oltrepassai per avvicinarmi all'ingresso della villa che Emeric aveva già aperto. 
Ci trovammo in un ampio disimpegno che separava il portone dagli ambienti interni della villa. Il lato frontale era costituito da un arco sul quale pendeva una pesante tenda, mentre ai lati si trovavano due porte. 
«Gli ospiti entreranno uno alla volta, senza incontrarsi prima.» cominciò subito Mélisande. «Si fermeranno qui, dove tu, Phèdre, li accoglierai, invitandoli a spogliarsi per indossare solo maschera e mantello. Così facendo sarai certa che nessuno possa introdurre armi o qualsiasi altro oggetto pericoloso.»
«Voi dove sarete?» domandai. 
«Dove preferisci. Con Imriel, qui con te, al buio chiusa in una stanza… scegli tu.»
«Emeric?»
«Lo stesso.
Solo un suggerimento, per il cassiliano: lui dovrebbe essere qui all'arrivo degli ospiti, così da vederli senza maschera e poterli riconoscere quando se ne andranno il giorno dopo… In caso tu, Phèdre, non possa dar loro commiato di persona.»
Elua! All'alba io e lei avremmo potuto essere ancora insieme. All'alba avrei potuto non essere vagamente presentabile. All'alba avrei potuto non essere in grado di reggermi in piedi. E nessuno poteva saperlo meglio di Joscelin, lui che mi era venuto a prendere quella mattina, dopo la notte in cui lei era stata mia patrona. Ricordo ancora alla perfezione il suo sguardo sbigottito nel vedermi in quello stato. E allora non era innamorato di me. Allora era stata solo la sua sensibilità a essere ferita. 
Davvero potevo fargli una cosa del genere? Avrei voluto dire di no, ma più opponevo la mia razionalità, più il bisogno che avevo di lei vibrava nel mio corpo. Non potevo dire di no. Non ci riuscivo. 
«Faremo così» la voce sicura di Joscelin mi riscosse da quei pensieri «Voi starete con Imriel fino all'arrivo di tutti gli ospiti. 
Emeric starà subito fuori dal disimpegno in modo da occuparsi dei mantelli e dei vestiti degli ospiti senza vederli finché non saranno mascherati. 
Io sarò davanti all'ingresso, così potrò scortare gli ospiti dalle carrozze fino all'interno.
E, se sarà necessario, darò loro il commiato l'indomani.»
Mélisande sorrise. 
«La devozione del tuo cassiliano, Phèdre, è encomiabile.»
La beffa era più che ovvia, come se tutta quella situazione non fosse già abbastanza pesante per le spalle di Joscelin. Stavo per dire nemmeno io sapevo cosa per cercare di smorzare la tensione, ma lui mi precedette. 
«Prendetevi pur gioco di me. Sarò io a sorridere quando voi non potrete più farlo.»
Mi volsi immediatamente a guardare la reazione di Mélisande e con enorme stupore non ne vidi alcuna: né un sorriso beffardo, né uno sguardo di sfida, men che meno una anche solo vaga traccia di rabbia o paura. 
«Ti sei mai chiesto che uomo saresti diventato, se il tuo destino non avesse incrociato quello di Phèdre?» chiese però, con quell'aria inespressiva. 
Lui la guardó interrogativo. 
«Un cassiliano tanto passionale e mosso da sentimenti abietti come l'ira e la vendetta dubito avrebbe potuto mantenere i voti molto a lungo.»
Invece di intervenire, trattenni il fiato e restai a fissare sgomenta i due.
«Perché mi provocate in questo modo?»
Mélisande alzò le spalle e disse serena «Per lo stesso motivo per cui tu da sempre mi odi: viene naturale.»
«Mélisande» quasi mi stupii di sentire la fermezza della mia stessa voce «State decisamente esagerando!»
«Lascia che si diverta Phèdre, lascia pure che canti il suo ultimo atto come meglio crede. Siamo quasi al gran finale.
Ora vogliamo piuttosto procedere con l'ispezione?»
Mélisande annuì e fece quasi un inchino «Se qui avete già controllato abbastanza, possiamo certamente andare.»
Io non avevo fatto molto in verità, mentre Joscelin invece aveva ispezionato i muri e i drappi della tenda palmo a palmo, per questo cercai in lui una risposta. 
«Proseguiamo» disse. 
Invece di dirigerci verso il salone principale, Mélisande decise di farci passare dalle cucine e le sale da pranzo, cui si accedeva dalla porta sul lato destro del disimpegno. Gli ospiti non avrebbero avuto accesso a quegli ambienti, che sarebbero stati invece il territorio di Emeric, il quale ci mostrò tutto ciò che avrebbe usato, compresi montacarichi e passaggi riservati alla servitù. Il fatto che ci fossero cunicoli non ben visibili preoccupó sia me, che Joscelin, motivo per cui l'ispezione fu decisamente più approfondita rispetto a quella dell'ingresso. Emeric non fiató per tutto il tempo, fu sempre Mélisande a rispondere alle nostre domande, meticolosa ed esaustiva. 
Dopo le cucine, passammo alle sale del piano superiore, che sarebbero state il vero teatro della festa. Vi era un ampio salone collegato al piano di sotto da una scala di marmo ricoperta da un tappeto rosso. Ai lati del salone due navate più strette offrivano altro spazio, concedendo al contempo angoli più appartati. Ovunque erano disseminati poltroncine dalle varie forme, tavoli e tavolini, centinaia di candele che avrebbero scaldato l'atmosfera, alcuni strumenti musicali e qualche paravento utile a chi desiderava un po' di riserbo. Non mancavano ovviamente oggetti a scopo erotico di ogni tipo. Il disagio di Joscelin era evidente, per quanto cercasse di fingere il contrario in modo pietoso. Altrettanto malamente Mélisande nascondeva il suo divertimento in proposito, nonostante il diverbio di poco prima. Capii che non potevo fare troppo affidamento sulla scrupolosità del mio accompagnatore, data la sua difficoltà nel maneggiare quel materiale, quindi controllai tutto io. Fu ancora Mélisande a rispondere alle mie domande, lei a confermarmi che, vivande a parte, Emeric aveva già preparato tutto per la festa dal momento che, una volta coinvoltami, aveva sperato di concludere tutto in pochissimi giorni. Lei ad ammettere che aveva organizzato e raccolto tutto quanto le occorreva per mesi. Lei a spiegarmi che la poltrona sul palchetto davanti alla vetrata in fondo al salone sarebbe stata il mio seggio, da cui potevo osservare gli ospiti, mentre lei sarebbe stata al mio fianco, in piedi, come una servile dama di compagnia. 
«E questo cos'é?» chiesi notando una cordicella collegata a una campanella. 
«Servirebbe per chiamare la servitù: la cordicella fa suonare sia questa campanella che una in cucina. Per la festa non servirà.»
Attesi un momento, riflettendo, poi esposi la mia idea. 
«Potrebbe servire invece.»
La provai. Il suono era chiaro, ma il suo scopo era quello di non disturbare, facile immaginare che non si sarebbe udito nulla con una trentina di persone in sala. Dubitavo che quella in cucina fosse molto più potente e a me serviva qualcosa di udibile anche dall'esterno. Guardai Mélisande. 
«Sostituiremo questa campanella e quella in cucina con qualcosa di più rumoroso. Nel caso qualcuno abbandoni la festa prima del dovuto o nel caso accada qualcosa di sconveniente, gli ospiti saranno tenuti a usare questa e a riferire l'accaduto a me o a Joscelin.
Riconosceranno me perché indosseró il mio mantello sangoire. Anche il vostro mantello sarà diverso dagli altri e nessuno dovrà avvicinarvi.»
Mélisande osservó pensierosa la campanella e, dopo una lunga pausa, acconsentì. 
Finita l'interminabile ispezione di tutto il piano, scendemmo la scalinata per tornare all'ingresso e dirigerci quindi verso il lato che ancora non avevamo visto, dove si trovavano le stanze private. Erano tre ambienti di diversa dimensione, ognuno suddiviso al suo interno da camere dalle varie funzioni. La stanza più piccola, nell'idea di Mélisande, non aveva uno scopo definito, potevo usarla io a mio piacimento se ne avessi avuto bisogno. La stanza di mezzo sarebbe stata il luogo dell'incontro tra lei e Imri. Nel salotto al suo interno c'erano lettere, documenti e libri che Mélisande mi lasció sfogliare, spiegandomi che si trattava principalmente di materiale relativo alla sua famiglia e al legame che questa aveva con Kushiel. Rabbrividii nel toccarli, sapendo quanto il loro contenuto riguardava nel profondo anche me. 
Le stanze principali, infine, avrebbero accolto me e Mélisande durante la notte. Sapendo che anche quell'ambiente era già stato preparato al suo compito, prima di entrare guardai Joscelin, pregando che decidesse di restare lì fuori. 
Non lo fece. 
Entrammo dapprima nell'ampio ed elegante salotto, poi attraversammo lo studiolo, dove Mélisande chiese a Emeric di attenderci. Ci affacciammo quindi alla camera da letto. Mi bastó una veloce panoramica per sentire le gambe che venivano meno e dovermi sostenere stringendo la cornice della porta, mentre avvertivo lo sguardo di Mélisande godere della mia reazione. 
La stanza era poco adorna, ma sui muri erano ben evidenti i segni lasciati dalle decorazioni che l'avevano riempita fino a poco tempo prima. Doveva essere stata Mélisande stessa a volerla così e la ragione era per me fin troppo semplice da intuire: tutta l'attenzione doveva andare alle poche cose che c'erano. Al muro del lato destro, oltre il camino, era appoggiato un grande specchio, che rifletteva una sorta di poggiapiedi in pelle che gli stava a circa un metro e alla cui base erano fissate catene dotate di polsiere e cavigliere; davanti a questo troneggiava una fastosa poltrona di velluto rosso; il lato opposto della stanza era occupato dal possente letto a baldacchino con le sue tende e la sua coperta in tinta con la poltrona. La mia fervida immaginazione figuró immediatamente l'uso di quegli oggetti: non eravamo nemmeno entrati che già vedevo Mélisande seduta su quel trono e io inginocchiata, ricurva e legata a quella specie di sgabello ad attendere il suo tocco. Piantai le unghie nel legno della porta e chiusi lenta gli occhi per placare la mia dannata, languida sete. 
«Non entrate?» disse innocua la voce di Mélisande. 
Quando ritrovai il coraggio di guardare, il sorriso della donna mi accarezzó, denso di malizia, colmo di promesse. Lo fissai inerme, incapace di sottrarmi al suo muto richiamo, mentre una voce bisbigliava lontana alle mie spalle «Phèdre?». 
Temo che non fosse la prima volta che Joscelin mi chiamava, quando lo capii e finalmente mi girai verso di lui. 
«Non ci riesco» sussurró triste «Non posso entrare lì dentro. 
Ti prego, fai attenzione a tutto.»
Gli posai entrambe le mani sul petto, le lacrime che mi pungevano gli occhi per la compassione che provavo per la fiducia che mi dimostrava ancora una volta e per l'impenitenza del mio corpo. Non dissi una parola. Cosa diamine avrei potuto dire? 
Lui fece un passo indietro guardandomi con paura e - Elua! - con amore, nonostante tutto, poi spostó gli occhi dietro di me, verso Mélisande. Per lei non aveva che profondo rancore. 
Mi voltai a fronteggiarla. 
«Non azzardatevi a commentare» sibilai. 
Lei sorrise. Sorrise soltanto. 
Ah, Elua! Tanto bastó per cancellare quel minimo di risentimento che aveva creato vedere il dolore che davo all'uomo che amavo. Fosse dannata lei e la sua bellezza. Fossi dannata io e la morbosa attrazione che nutrivo per lei. 
Entrai. 
Dapprima perlustrai i muri, il camino, le finestre, le candele disseminate a gruppi qua e là e la piccola stanza da bagno attigua, quindi mi avvicinai al letto: ai pali del baldacchino erano già fissati legacci di pelle, spostai le tende, alzai la coperta per vedere se avesse nascosto qualcosa, guardai persino sotto, appoggiando il viso al morbido tappeto nero che correva dal letto alla parete opposta. Quindi passai alla poltrona, cercando nemmeno sapevo cosa tra i suoi cuscini. Infine il poggiapiedi, al quale era ovvio sarei stata legata. Era dura non farsi catturare dalla fantasia e dal desiderio, ma dovevo restare lucida. Mi chinai a sollevare le catene, vedendo così che erano collegate tra loro ed erano soggette a un sistema di blocco e rilascio manovrabile da una sola catena che arrivava ai piedi della poltrona. Lì a terra c'era inoltre un bauletto, di cui potevo sospettare il contenuto, motivo per cui mi bloccai a fissarlo. 
«Sei libera di aprirlo» disse la voce di Mélisande dietro di me. 
Lentamente lo feci. 
Fruste, scudisci, bavagli, bende, pinze, qualche oggetto che avrei dovuto guardare meglio per capirne la funzione e le flechettes. Chiusi gli occhi vedendole e mi parve di avvertire il loro tocco che scendeva dal mio seno, sul mio ventre, fino all'inguine. La mia voce che gridava il signale. Erano passati circa trent'anni e in tutto quel tempo non avevo più permesso a nessuno di usarle. 
«Le ricordi?» sussurró proprio accanto al mio orecchio. 
Chiusi il baule e mi scostai da lei. 
«Ricordo» risposi. Volevo sembrare fredda, ma temo che la mia voce sia uscita quasi come un gemito. 
Restammo in silenzio a lungo, lei dietro di me e io ferma lì, incapace di fermare il misto di ricordi e fantasia che domava la mia mente. 
«Non hai nulla da chiedere?» mi domandó poi. 
Mi sforzai di distogliere lo sguardo da quel mobilio per riguadagnare lucidità. Dopo un lungo silenzio tornai a parlare, ma non mi volsi a guardarla. 
«Qui dentro avrete il potere di farmi qualunque cosa, compreso privarmi della libertà. Come posso sapere che non ne approfitterete?»
«Oh, Phèdre. Da te non mi aspetto domande tanto sciocche. 
Il nostro è un gioco che ha regole ferree, lo sai bene: cieco abbandono da una parte, rigoroso rispetto dall'altra. Se hai dubbi su questo, possiamo fare a meno di continuare a parlare.»
«Avete ragione, ma ammetterete di aver messo alla prova la mia fiducia troppe volte perché io possa accontentarmi di regole date per scontate.»
«Dunque cosa vuoi?»
A quel punto mi girai verso di lei. 
«Che mi giuriate che non approfitterete della mia mancanza di libertà per ricatti o peggio.»
«Ricatti?» chiese sollevando le sopracciglia stupita. 
«Non vorrei trovarmi ad essere usata da voi come merce di scambio per aver salva la vita.»
A quelle parole rise di gusto. 
«Ti facevo meno fantasiosa» disse poi. 
«Siete disposta a giurare che non farete nulla del genere?»
«Come vuoi.»
Allora si fece seria. 
«Nel nome di Kushiel, ti giuro che non userò te per aver salva la mia vita e che nessuno degli oggetti presenti in questa stanza avrà ruolo diverso dal nostro reciproco piacere.
Vuoi che lo ripeta più forte perché senta anche il tuo cassiliano?» concluse indicando la soglia oltre la quale Joscelin stava di spalle. 
La fissai innervosita. 
«Lo trovate davvero così divertente?»
«Tu no? Sinceramente?»
«Da quando ho accettato la vostra richiesta siete diventata sfrontata. Vi ricordo che devo ancora parlare con Imri.»
«È una minaccia?»
«Se continuate a prendervi gioco di noi potrebbe diventarlo.»
«Non lo faresti mai.»
«Volete mettermi alla prova?
Il gioco che c'è tra noi prevede rispetto da parte vostra. Se volete la mia fiducia, pretendo quel rispetto fin da ora, per me e il mio consorte.»
«D'accordo. Come vuoi.»
Attesi inutilmente di vedere tracce di convinzione nella sua espressione, quindi mi arresi e passai ad altro. 
«C'è qualche altra condizione che vi pongo.»
«Sentiamo.»
«Non sarà Emeric a preparare le vivande. Se ne occuperanno i miei domestici per poi portare tutto qui. Emeric dovrà solo servire.»
«Temi così tanto che possa drogarti?»
«Joscelin è stato colpito da un dardo anestetizzante solo poche ore fa.»
«Il cassiliano non doveva seguirti. Ha infranto le regole.»
«E proprio questo ha dimostrato che siete pronta a infrangerle anche voi e che avete gli strumenti per farlo.»
«Mi hai presa per una sprovveduta, forse? Ad ogni modo accetto che i tuoi domestici si occupino del rinfresco, ma non posso accettare un andirivieni di estranei tra qui e la tua magione. Al trasporto penserà Emeric.»
«Insieme a Joscelin.»
Mélisande annuì sospirando «Te lo concedo.»
Senza altri indugi mi avviai verso l'uscita prima di farmi ricatturare dalla vista del teatro della nostra imminente notte insieme. 
«Hai visto abbastanza?» mi bloccò la voce di Mélisande «Sei sicura di non voler sapere nulla su quanto accadrà qui dentro?»
«A che scopo?»
«Non so. Vietarmi qualcosa. Darmi dei limiti.»
La guardai. 
«Mélisande, vi ricordo che mi avete appena promesso di non prendervi più gioco di me.»
«Volevo solo accertarmi del fatto che tu sia ancora la stessa di tanti anni fa.»
Scappai dalla malizia dei suoi occhi, prima che diventasse troppo faticoso farlo e lasciai la stanza per tornare da Joscelin ed Emeric. Quando ci raggiunse anche Mélisande riferimmo loro dell'accordo in merito la preparazione e il trasporto del rinfresco, trattammo su qualche altro dettaglio e infine lasciammo la villa. 
L'indomani avrei parlato con Imri e poi sarei tornata da Mastro Louis per posare. 
«Lasciagli tutto il tempo per decidere» mi disse Mélisande prima di farmi salire in carrozza «E, se puoi, non parlargli del patto fatto in cambio di questo incontro. L'ultima cosa al mondo che vorrei è la sua compassione.»
Quando l'argomento era Imri ogni traccia di insolenza svaniva dal suo atteggiamento: era davvero preoccupata che lui non accettasse di vederla e non le riusciva minimamente di nascondermi il dolore che le dava quella paura. La capivo bene, per questo provavo pena per lei e sentivo il bisogno di rassicurarla, ma in cuor mio dubitavo che i suoi timori fossero infondati e non me la sentivo di mentirle. L'unica premura che le potevo concedere era tenerle lontano Joscelin in momenti come quello, sapendo che lui avrebbe usato quella vulnerabilità per vendicarsi. 
Così feci. 
Ma non mi bastó e tornai a casa con addosso tutta la tristezza di quegli occhi blu che mi imploravano di fare l'impossibile.

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Capitolo 7
*** La reazione di Imriel ***


Arrivammo a casa che era quasi buio. Nessuno ci venne incontro, ma tutti ci stavano aspettando, era evidente. Notai Imri seduto sotto il porticato che fingeva spudoratamente di leggere, i suoi occhi che si alzavano dal libro a spiare quello che facevamo e svelti si riabbassavano appena incrociavano i miei.
Avevo pensato di parlargli il giorno successivo, ma ora che lo vedevo lì, non ero più tanto sicura di voler trovare scuse per evitarlo ancora. Guardai Joscelin, intento a sistemare i cavalli, gli misi una mano su un braccio per fermarlo. Quando ebbi la sua attenzione gli feci un cenno per indicargli Imri.
«Non vuoi aspettare domani?» mi sussurró.
Scossi la testa.
«In tutta onestà mi auguro che dica di no» disse, per poi tornare a dedicarsi ai cavalli.
Cos'avrei fatto se avesse rifiutato di vederla? Come avrei potuto rinunciare alla notte che aveva promesso a me? Come avrei potuto al contrario essere tanto sfacciatamente egoista da andare comunque, soltanto per il bisogno che avevo io di lei? Elua, era orribile da parte mia, ma non potevo oppormi. Doveva accettare. Doveva. Chiusi gli occhi, presi un lungo respiro e mi avviai verso il porticato.
Imriel continuó imperterrito a fingere di leggere nonostante il buio, tanto che quando giunsi davanti a lui con un dito dovetti abbassargli il libro che teneva in mano per attirare la sua attenzione.
«Bentornata, Phèdre» mi salutó simulando malamente sorpresa.
Gli sorrisi. Avrei avuto voglia di prenderlo in giro per la pietosa recita che aveva inscenato, ma non ero dell'umore adatto.
«Ti devo parlare.»
A quel punto mostrò apertamente tutta la sua preoccupazione.
«Cos'è successo?»
Allungai le mani verso di lui, per aiutarlo a mettersi in piedi.
«Vieni con me.»
Imri prese le mie mani e si alzó fino a svettare sopra di me. Quanto avrei voluto che somigliasse un po' meno a sua madre. Sospirai, poi mi girai e m'incamminai, seguita da lui, in casa, su per le scale, fino al mio studio.
«Siediti» gli dissi indicando la sedia del mio scrittoio dopo aver acceso le lampade e aver chiuso la porta.
Lui mi guardó stranito, ma obbedì.
«Non so nemmeno io da dove iniziare» esordii cominciando a camminare lenta per la stanza «Ti conosco troppo bene da sapere che quanto sto per dirti ti farà arrabbiare. E ancor di più il fatto che non te l'ho detto subito.»
«Che sta succedendo?»
Con le mani gli feci segno di aspettare.
«Ti chiedo di lasciarmi spiegare fino in fondo prima di saltare a qualsiasi conclusione e tenere sempre a mente che so quel che sto facendo.
Se ho aspettato finora a parlarti è perché non potevo fare altrimenti. E ti chiedo scusa per lo strano comportamento che ho da ieri.»
«Mi stai facendo paura.»
Mi voltai a sorridergli, quindi mi avvicinai, mi appoggiai leggermente allo scrittoio e presi il suo viso tra le mani.
«No, non c'è nulla di cui avere paura, né motivo di preoccuparsi, ma dobbiamo essere attenti e non fare nulla di avventato.
Promettimi di non prendere iniziative e che qualunque sarà la tua decisione, ne parlerai con me. D'accordo?»
Lentamente annuì corrucciato.
Lasciai il suo volto e posai le mani in grembo, nel tentativo di avere la postura più rilassata possibile, quindi venni al punto.
«Tua madre è in Terre d'Ange.»
Sgranó gli occhi.
«Lo sappiamo solo io e Joscelin, da ieri. E ora tu.
È qui per te. Vorrebbe incontrarti.»
Gonfió il petto e aprì la bocca già con aria contrariata. Era ovvio quel che stava per dire, per questo gli misi le dita sulle labbra.
«Lasciami spiegare. Me lo hai promesso» lo bloccai.
Attesi che la sua espressione si distendesse pian piano, quindi continuai.
«Ieri ci siamo incontrate. Mi ha chiesto il permesso di vederti e, dopo averci riflettuto e averne parlato anche con Joscelin, oggi le ho detto che lo avrei chiesto a te, perché tu sei l'unico che ha il diritto di prendere una decisione come questa.»
«Ma lei non potrebbe nemmeno essere qui! Avresti dovuto denunciare subito la sua presenza! Ora rischi di essere accusata di tradimento per colpa sua.»
«Non crucciarti di questo. Ho le mie valide ragioni per aver agito così e per poterle consentire di stare qui. Come ti ho detto, so quel che faccio e ho la situazione sotto controllo.
Tu devi preoccuparti solo di riflettere sulla sua richiesta.»
«Cosa vuole da me? Ora?»
«Aiutarti. Vuole solo, almeno per una volta, ricoprire il suo ruolo di madre.»
«Lo ha delegato fino ad ora e se è capitato a te è successo solo per fortuna. O comunque non per suo volere.»
Sospirai.
«Non posso negarlo, ma non è questo il punto.
Io, Imri, ho fatto del mio meglio in questi anni, ma ora sappiamo entrambi che ci sono questioni che, proprio perché sono io, non possiamo affrontare insieme, necessità che la sola mia presenza fa diventare problemi.
È una delle ragioni che ti hanno spinto ad andare a Tiberium, da solo. No?
Solo Elua sa quanto sia io che Joscelin vorremmo esserti d'aiuto, ma non possiamo. Ci sono aspetti del tuo animo che Joscelin non può capire e io… »
«Credi che lei sappia fare di meglio?»
«Non ne posso essere certa. So solo che è la persona che più di ogni altra può avere accesso alla parte oscura del tuo essere, perché, che tu lo voglia o no, è qualcosa che condividi con lei.»
«Io non sono come lei!»
«È ciò che le ho detto anche io, ma, come lei mi ha fatto notare, non sei nemmeno così diverso.
Imri, m'intristisce ammetterlo, ma il mio corpo reagisce al tuo come mi succede solo con lei.»
Abbassó gli occhi, la pelle che gli si chiazzava di rosso a conferma della verità delle mie parole.
«Non puoi mentire al tuo sangue e non puoi ignorare il fatto che ti scorre e ribolle nelle vene, ogni giorno di più.
Io lo so che… »
«Vorresti che accettassi?» mi interruppe.
«Io voglio solo che tu ci rifletta a fondo, consapevole del fatto che potrebbe non esserci un'altra opportunità, dal momento che già questa non avrebbe dovuto essere possibile.»
Sospiró e poi alzó gli occhi a guardarmi.
«Ma tu che faresti al posto mio?»
Sorrisi mesta.
«Non chiedere consiglio a me, né a Joscelin o chiunque altro. Quando si tratta di tua madre, ognuno è di parte a modo proprio e nessuno può anche solo vagamente mettersi nei tuoi panni.»
Tacque a lungo, pensieroso.
«Quanto tempo ho per rispondere?»
«Ti dirò la verità, anche se lei si è raccomandata di lasciarti tutto il tempo di cui avessi bisogno: ogni giorno che trascorre in Terre d'Ange per lei, e ora anche per noi, è un pericolo. Ma si trova in un luogo sicuro, quindi rifletti con calma, ma non troppa.»
Si mise il volto tra le mani per un po', poi di scatto spostó indietro la sedia e si alzó.
«Elua, Phèdre, come puoi essere così tranquilla? Stai proteggendo la nemica principale del regno! Come pensi di tenere un simile segreto in eterno a Ysandre, proprio tu che le sei amica?»
«Ti ho detto di non preoccuparti di questo. A tempo debito anche Ysandre lo saprà. Io e tua madre abbiamo stretto un patto. Un patto da cui anche la Regina trarrà i suoi vantaggi. Stai tranquillo.
E torna a sederti, per favore, non ti ho ancora detto tutto.»
Quando si convinse gli spiegai della festa e delle sue regole, della presenza di Joscelin e delle guardie e dell'assistente di Mélisande.
Come me, commentò che era una pazzia e dirgli che sua madre la voleva fare per lui non fece che peggiorare le cose.
«Ascoltami» cercai di placarlo «Nessuno ti obbligherà a far nulla. Ad ogni modo secondo tua madre dopo il vostro incontro avrà senso anche per te.»
«Lei crede di conoscermi, ma non sa un bel niente di me! Tu lo sai che odio essere al centro dell'attenzione e una festa così…»
«Non sarai al centro dell'attenzione, Imri» lo interruppi posata «A dirtela tutta, più ci rifletto più credo che la situazione che vuole creare con questa festa sia in effetti giusta per te. Nessuno saprà chi sei, nessuno si aspetterà qualcosa da te, non sarai un cliente, non sarai membro di nessuna famiglia, non sarai il figlio di nessuno.»
«Mi stai dicendo che dovrei accettare?»
«Ti sto solo dicendo che per quel che riguarda te l'idea non è così folle come può sembrare.»
Tuffó di nuovo il viso tra le mani e ne riemerse diverso tempo dopo.
«Non lo so Phèdre. È imbarazzante.»
«Cosa? La festa?»
«Anche. Ma già l'idea di parlare con lei di… di questo. Elua! È pur sempre mia madre!»
Sorrisi e gli feci una carezza.
«Parlarne con me ti sembra più facile?»
Gettó la testa indietro.
«Elua! No! Tu sei più che una madre!»
Quella frase, seppur detta con tutta la frustrazione che la situazione esigeva, mi scaldó il cuore. Il mio Imri.
«Per questo la festa… Saró anche anonimo agli altri ospiti, ma tu mi riconoscerai anche con maschera e mantello. Lo so. Non potrei mai… »
«Io non resteró a lungo alla festa. E nemmeno tua madre.»
Alzó gli occhi a guardarmi, nella sua espressione si leggeva il timore di ciò che doveva aver già intuito.
«C'è un'ultima cosa che ti devo dire» mormorai «Io… Io passerò la notte con lei.»
Imri cominciò a scuotere la testa.
«Non è vero.»
«Ho bisogno di lei, tesoro.
Ti prego, non guardarmi così. Non posso farne a meno.»
Si alzó, mi oltrepassó e iniziò a camminare nervoso per la stanza. Io non mi mossi, restai lì appoggiata allo scrittoio dandogli le spalle.
«Joscelin lo sa?» chiese concitato dopo un po'.
«Certo che lo sa.»
«E gli sta bene?»
«Chiaramente non gli fa piacere. Ma sono quel che sono, Imri. Lo ha sempre saputo e lo ha sempre accettato.»
«Se non stesse bene a me?»
Sospirai profondamente.
«È una mia scelta, Imri. È una questione che riguarda soltanto me.
E lei.»
«È questo il patto che hai fatto? Mi hai venduto per avere lei?»
A quelle parole mi girai di scatto a guardarlo.
«Non dirlo nemmeno per scherzo! Il tuo incontro con tua madre non c'entra nulla con quanto accadrà tra me e lei!»
«Andresti da lei anche se io non dovessi accettare di vederla?»
Non ero certa di ciò che avrei fatto in quel caso, ma avrei influenzato la sua decisione se non avessi risposto un sicuro «Sì».
Mi fissò. Delusione e - Elua! - disgusto attraversarono i suoi occhi. Poi si giró e aprì la porta per andarsene.
Lo raggiunsi prima che uscisse del tutto e lo bloccai afferrandogli la camicia.
«Torna dentro!» sibilai «Ti prego» aggiunsi poi pacata.
«Cos'hai ancora da dirmi?» ringhió.
«Torna dentro» ripetei e tirai la stoffa che avevo tra le dita.
Mi cacció via la mano, ma obbedì facendo un passo avanti che mi travolse dentro la stanza. Chiuse la porta e incroció le braccia sul petto.
«Quindi?»
«Ascoltami, per favore. E cerca di capire che… »
«Cosa? Che sei un'egoista l'ho già capito benissimo!»
Chiusi gli occhi e presi un lungo respiro per evitare di alzare il tono in risposta al suo. La cosa peggiore era che ciò che aveva detto era vero, io stessa mi sentivo un'egoista, perciò sentirmelo dire faceva doppiamente male.
«Come puoi fare una cosa del genere a Joscelin?» incalzó.
«Non giudicare senza… »
«Perché non corri subito da lei? Vai! Non perdere tempo! Sei come lei! Non pensi che a te stessa!»
«Imriel!»
«Che c'è? Hai il coraggio di dire che non è vero?»
«Che ti prende? Ne abbiamo già parlato in passato. Hai sempre saputo che ho le mie esigenze! Perché ora reagisci così?»
«Perché lei è lei! È Mélisande Shahrizai. È la traditrice della corona. Ed è mia madre! Elua! Come puoi non capirlo?»
«Come puoi non capirlo tu, dopo tutto quello che sai di me? Dopo tutto quello che hai visto!
Proprio il fatto che è Mélisande Shahrizai mi rende impossibile rifiutare la sua offerta!»
«È questo che non sopporto, Phèdre! Il fatto che tu metta lei davanti a ogni altra cosa. A ogni altra persona! Elua! Sei sua schiava!» ringhió inorridito «Sei e sempre sarai solo la sua puttana!»
Sentii arrivare l'impulso e per un breve istante riuscii a domarlo, ma poi feci ciò che mai avevo fatto prima, ció che mai avrei dovuto fare. Alzai la mano destra e la lasciai andare verso il suo viso.
Lui mi bloccó prima che lo potessi colpire.
«Non mettermi le mani addosso!» gridó e strinse con violenza la mia mano nella sua. I suoi occhi mi fissavano adirati come li avevo visti solo un'altra volta.
«Lasciami!» lo implorai, comprendendo quanto stava per succedere. Di nuovo.
Invece di farlo, strinse la mia mano con più forza. Il suo sguardo che mi penetrava, terribile, cieco. E poi strinse ancora strattonandomi a sé con un rantolo di rabbia e io, Elua, gemetti, preda del mio corpo pronto ad abbandonarsi a quell'abominio.
Restammo lì forse solo un attimo, il suo respiro che si faceva ansante, la mia mano ritorta e schiacciata nella sua, il suo corpo teso che paralizzava il mio, i miei occhi persi nell'ira dei suoi. Probabilmente fu solo un attimo, qualche manciata di secondi. Mi parve un'eternità, per tutto quello che temetti, per tutto quello che desiderai.
Poi brusco mi spinse via e io finii a terra. Mi fissó sgomento e ancora in affanno per un momento, poi si voltó e afferró il pomello della porta.
«Aspetta» dissi.
Lui si fermó. Non si giró verso di me tuttavia, né disse nulla.
«Non fare sciocchezze per punirti ora.»
Non volevo che accadesse quello che era successo la volta precedente «Vai in camera tua e cerca di dormirci sopra.
Ci vediamo domani mattina.»
La calma della mia voce celava per fortuna l'amarezza del mio reale stato d'animo, tanto affranto e angosciato che avevo voglia di piangere.
Lui annuì, quindi se ne andó.
Fu allora che mi portai una mano alla bocca e, sentendo ancora l'eccitazione strisciarmi vergognosa sotto pelle, mi lasciai andare alle lacrime.

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Capitolo 8
*** Parlami di mia madre ***


Piangere è qualcosa che faccio davvero di rado. Piangere aiuta a lenire il dolore, ma io sono un'anguissette e il dolore è parte integrante di me. Esistono tuttavia sensazioni che nemmeno un'anguissette riesce a sopportare e l'oscenità che era serpeggiata tra me e colui che amavo come un figlio era di certo una di queste.
Non appena Joscelin aveva visto i miei occhi rossi si era allarmato e mi era venuto incontro, premuroso come solo lui sapeva essere. «È accaduto di nuovo. È stato anche peggio» avevo mormorato tra le sue braccia. Poi gli avevo raccontato tutto e lui mi era stato accanto tutta la notte per calmarmi e consolarmi. Era ancora con me l'indomani, quando Imriel mi raggiunse.
«Lasciaci soli, Joscelin» dissi.
«No, resta» mi corresse Imri «È a entrambi che devo delle scuse».
Joscelin gli si avvicinò, gli pose con fermezza una mano sulla spalla e disse «Ciò che sei non è una colpa. Te l'ho già detto in passato e te lo ripeteró ogni volta che avrai bisogno di sentirtelo dire. Non hai nulla di cui scusarti con me.»
Lo sguardo che si scambiarono dopo valse più di mille parole, poi Joscelin gli diede una pacca sulla spalla e ci lasció soli.
Allora Imri mi guardò, io gli sorrisi e lo invitai ad avvicinarsi. Lo fece, un po' titubante, ma lo fece.
«Come ti senti, tesoro?»
«In imbarazzo» disse faticando a reggere il mio sguardo.
«È comprensibile» lo rassicurai «Ma vedi, come ti ha già detto Joscelin, il punto è che siamo ciò che siamo, non possiamo opporci e non ce ne dobbiamo vergognare.»
«Sì» mormorò «È ciò che mi avete detto anche l'altra volta ed è vero, ma mi sento male comunque… tu sei tu.»
«È naturale, tesoro. Fa star male anche me, per lo stesso motivo.
Vedi, Imri, nel corso degli anni ho imparato a fare i conti con la mia natura, a gestirla e anche a domarla, quando penso sia giusto farlo. Ma da un po' di tempo l'equilibrio che avevo raggiunto si è incrinato. Quanto ho sentito ieri sera ne è stata l'ennesima prova. Ormai non riesco a trovare pace nemmeno rifugiandomi al santuario di Kushiel. Mi sento prevaricata dalla mia natura e questo non mi rende serena. È per me un problema, tesoro, grave e serio quanto lo è per te l'incapacità di accettarti per ciò che sei.
Io non posso essere sicura che tua madre possa davvero esserti d'aiuto, come dice, di certo so che è la sola che può alleviare il mio tormento.»
Tacque pensieroso, poi, quasi in un smorfia, disse «Sì, lo capisco. Ma non mi sentirai comunque dire che mi fa piacere.»
«E non lo pretendo di certo.
So quanto ancora oggi fatichi a pensarmi nella mia veste di serva di Naamah e di anguissette e a maggior ragione quando questo coinvolge tua madre. Mi dispiace che sia per te fonte di dolore, così come solo Elua sa quanto mi dispiace lo sia per Joscelin, ma gli dei stessi mi hanno affidato il peso del dardo e hanno suggellato un legame inscindibile tra me e Mélisande, un legame a cui non posso sottrarmi.
E nemmeno lei, in fin dei conti.»
Annuì lento, guardandomi a lungo.
«Una volta Joscelin mi ha detto che ha provato a vivere senza di te e da allora ha capito che poteva accettare qualsiasi altra cosa… anche questo.»
Annuii.
Era successo alla Serenissima. Sarei morta o impazzita tra le mura della Dolorosa se non fosse tornato. Mélisande mi aveva rinchiusa in quell'inferno e poi mi aveva offerto di uscirne a patto che diventassi sua, il trastullo della moglie del doge. Allora ero stata capace di rifiutare. Mi ero fracassata il cranio per farlo, ma le avevo detto no. Ora sarei stata in grado di fare lo stesso? La paura mi faceva ribollire il sangue al solo pensiero.
«Perché me lo dici?»
«Perché credo di aver capito cosa intendesse. Non è esattamente la stessa cosa per me, ma… ma nemmeno io potrei sopportare di perdere ciò che sei per me e… e ieri notte, ripensando alla nostra discussione, ho avuto paura. A parte… oltre a quello che è successo alla fine, ti ho detto cose orribili. Ero arrabbiato e volevo ferirti e così ho offeso te, Naamah e tutto ciò in cui noi angeline crediamo.
Quello non c'entra con la mia natura, è stato solo meschino e me ne vergogno. Mi dispiace, Phèdre, mi dispiace tanto. Non voglio litigare mai più con te.»
Chiusi gli occhi e sospirai un sorriso.
«Nemmeno io, tesoro.»
A quel punto avrei voluto abbracciarlo, ma temevo il contatto con lui: il ricordo della sera prima riverberava ancora vergognoso nel mio ventre. Perciò mi limitai a sorridergli ancora e ripetere «Nemmeno io.»
Restò immobile anche lui, nel suo sguardo la tristezza che gli dava probabilmente la stessa paura che anche lui aveva di toccarmi.
«Passerà» lo rassicurai, certa che avrebbe capito a cosa mi riferivo.
Mi sorrise.
«Non mi chiedi cosa ho deciso sul mio incontro… con lei?» mi chiese dopo un lunghissimo silenzio in cui avevamo ritrovato la nostra muta intesa.
«No» gli risposi pacata «Qualsiasi decisione tu abbia preso, una sola notte è troppo poco. Prenditi il tuo tempo, tesoro.
Che tu dica sì o no, ci saranno conseguenze.»
«Ma io… »
«Rifletti con calma.»
Mi osservò perplesso per un po', ma infine annuì.
«Vai ora, ne riparleremo quando sarai più sereno.»
Lo osservai uscire, immaginando si sarebbe chiuso nei suoi pensieri dedicandosi a qualche attività che lo tenesse fisicamente impegnato. Fu così in effetti per qualche ora, ma in tarda mattinata tornó a cercarmi per chiedermi qualcosa che mai mi sarei aspettata.
«Parlami di lei» disse senza preamboli.
«Cosa?» domandai come una sciocca, colta totalmente di sorpresa.
«Parlami di mia madre.»
Tacqui un po' guardandolo stupita.
«Credo tu sappia già fin troppo di lei. A parte quanto ti ho detto io stessa, nel modo spero più imparziale possibile, hai avuto fin troppe fonti che ti hanno infarcito di storie su di lei.»
«Tutti mi avete raccontato appunto la storia di mia madre. Di lei so cos'ha fatto, i crimini che ha commesso, le morti che ha causato.
Non so nulla di lei come persona.
Non so cosa aspettarmi.»
Allora capii e mi resi conto che non sapevo bene che dirgli. Io, che pure ero certa di essere la persona che la conosceva meglio di chiunque altro, non ero sicura di avere una risposta a quella domanda. Per questo rimasi a fissarlo come una stupida per non so quanto tempo, tanto che lui dovette chiamarmi «Phèdre?»
«Scusami, Irmi, non mi aspettavo una domanda del genere.
Il fatto è che non so dirti cosa devi aspettarti da lei, nessuno lo sa, nemmeno io. Quanto al resto, proverò… »
Per quanto fosse assurdo, in tanti anni di vicende che ci avevano viste agli estremi di un filo teso tra noi, non avevo mai davvero parlato a nessuno di lei. A Delaunay di Mélisande interessavano solo le informazioni che potevo carpire dai miei incontri con lei e d'altra parte, a ben vedere, erano stati pochi quelli che ebbi modo di riportargli prima del suo assassinio. Dopo… dopo l'avevo odiata e non sarei stata capace di parlare a nessuno di ciò che, nonostante questo, continuavo a provare per lei ogni volta che la vedevo. Ora che qualcuno mi chiedeva di farlo era comunque difficile trovare nei miei ricordi qualcosa che raccontasse la vera Mélisande, perché aveva fatto di tutto per tenerla celata anche a me. Potevo dire di averla vista in alcuni suoi rarissimi sguardi, la prima volta che aveva visto il dardo nel mio occhio, quando aveva provato l'effetto del suo tocco sulla mia pelle, quando aveva ammirato la profondità del mio desiderio per lei, quando le avevo resistito, ogni volta che l'avevo sconfitta. In quello sguardo, seppur altero e superbo, era racchiuso il suo modo di essere e di amarmi: viscerale, furioso, inevitabile. Per lei io ho sempre rappresentato quanto di più prezioso e vitale, tanto che non mi aveva mai potuta uccidere, dannazione divina o meno.
«Ma la Mélisande più autentica l'ho vista una volta soltanto. Alla Serenissima. Nella sua cella al Tempio di Asherat. Davanti a te.
Quella volta non è stata in grado di nascondere le sue emozioni, davanti a te e alla gioia di rivederti, vivo, era disarmata. Era solo una madre con il cuore in gola all'idea del rischio scongiurato e per il dolore che le dava sapere che tu la odiavi.
E credo, tutto sommato, che quella sia la donna che troverai anche questa volta.»
Questo gli dissi e ancora le mie parole mi risuonavano in testa quando mi ritrovai nello studio di Mastro Louis, insieme a lei. Mi ero immaginata che mi accogliesse chiedendomi di Imri, se gli avevo parlato, come aveva reagito, cosa mi aveva risposto e invece, a dimostrazione del fatto che nemmeno io sapevo cosa aspettarmi da lei, non disse nulla in proposito. Mi attendeva insieme al maestro, sorseggiando una tisana, che aveva posato vedendomi entrare, mi aveva poi salutata con un lieve inchino della testa, quindi aveva atteso che il maestro si accorgesse della mia presenza e ci dicesse cosa fare.
Ci trovammo una di fronte all'altra poco dopo, la mia mano, la stessa che Imriel aveva stretto la sera prima, brandita dalla sua, la mia schiena che si inarcava indietro seguendo il suo braccio che mi ghermiva e sosteneva sotto la nuca, il suo corpo che premeva contro il mio, il suo viso così perfetto, così vicino da sentire il suo respiro sulla mia pelle, i miei occhi, incantati e infiammati da quella visione, che dovevano supplicare di più.
«Non implorarmi in questo modo, anguissette» sussurró al mio orecchio «Non è ancora giunto il momento.»
Rantolai tra le sue braccia, mentre brividi mi scendevano giù fino a rendermi instabili le ginocchia. Il suo sorriso manifestó tutta la sua delizia nel vedermi e sentirmi così persa, per così poco.
«Le sue gambe stanno per cedere, maestro.» disse dopo non so quanto tempo.
«Un momento! Ancora un momento, per carità!» la voce dell'uomo sembrava provenire da lontano, la sua presenza che aleggiava come un'ombra intorno a noi.
Gli occhi di Mélisande continuavano a nutrirsi dell'adorazione che leggevano nei miei. Non riuscii a reggere a lungo. Le braccia di Mélisande mi avvolsero prima che scivolassi a terra.
«Maestro… »
«Ferma! Elua! Continua a guardarla! Eccolo! Eccolo! Elua!» la voce del maestro continuó a delirare in quel modo, mentre gli occhi di Mélisande tornarono a me, immersi nella foschia rossa che mi era calata davanti alla vista, mentre giacevo tremante tra le sue braccia.
Uscii da quella tortura perdendo i sensi. Quando mi svegliai mi ritrovai adagiata, non troppo composta, su una poltrona in una stanza che non avevo mai visto. Mi sollevai rapida e vidi la figura di Mélisande, in piedi davanti alla finestra, che si girava a guardarmi.
«Bentornata, Phèdre.»
Sulle sue labbra un sorriso derisorio ricapitolava la miseria del mio cedimento.
«Dove siamo?» chiesi, mentre mi rimettevo in sesto.
«Nelle mie stanze. Il maestro aveva bisogno del suo studio per lavorare.
Stare qui ti mette a disagio?»
«Se il maestro non ha più bisogno di me, posso tornare a casa.»
«Certo» rispose piatta «Prima una cosa, però» continuò riversando nella voce quell'emozione che non sapeva trattenere quando l'argomento era suo figlio «Gli hai parlato?»
«Sì, gli ho parlato.»
Mi fissò cercando indizi nella mia espressione.
«Ha preso una decisione?»
Invece di rispondere le feci io una domanda.
«Perché me lo chiedete solo ora?»
«Ho le mie ragioni» replicò calma, per poi incalzarmi «Ebbene?»
«Sta ancora riflettendo.»
La sentii trarre un lungo respiro.
«Ha detto qualcosa?» chiese dopo un po'.
«Questo non sono tenuta a riferirvelo. Vi dirò quale sarà la sua decisione, quando la prenderà. Nient'altro.»
«Posso sapere perché?»
La canzonai ripetendo la sua laconica risposta di poco prima.
«Ho le mie ragioni.»
La verità era che avevo deciso di raccontarle tutto della discussione con Imriel, ma solo se lui avesse scelto di incontrarla. Credevo infatti che in quel caso fosse importante per lei essere messa al corrente della tensione che con un niente poteva sprigionarsi tra me e lui. Se Imri avesse rinunciato a vederla invece, non le avrei detto nulla: saperlo senza poter intervenire sarebbe stato per lei solo un altro motivo di dolore e frustrazione e io non me la sentivo di accollarglielo.
Rimase delusa, per un attimo non le riuscì di nasconderlo, ma poi tornò algida e distaccata.
«D'accordo. Se non hai altro da dire, puoi anche andare.
Su quello scrittoio» aggiunse indicandolo con una mano «c'è la lettera di invito alla festa che invierai ai priori. Mi sono permessa di scriverla, riportando il regolamento come pattuito fra noi. Prendila, leggila con calma e correggila, se lo ritieni opportuno. Ne riparleremo quando tornerai.»
A quel punto suonò la campanella per chiamare Marcel, si volse a guardare fuori dalla finestra e non mi degnó più di un solo sguardo.
Quando rientrai, Joscelin mi chiese con cautela se fosse accaduto qualcosa che lui doveva sapere. Una domanda tattica a cui potevo serenamente rispondere di no. Mi disse poi di aver già preso accordi per il servizio di guardia: per la festa avrebbe avuto dieci cassiliani a sua disposizione. Io mi sarei occupata del resto. Mélisande era stata di manica larga sulla questione sicurezza, purché si fosse svolta fuori dalla villa e io avevo trovato un modo per approfittare di quella generosità, senza dare troppo nell'occhio. Se Joscelin poteva contare sugli addestrati servitori di Cassiel, io sapevo di poter sempre fare ricorso a un esercito certo meno preparato, ma ben più numeroso e che poteva muoversi nell'ombra. Avrei contattato gli tzingani e a loro avrei affidato il compito di sorvegliare la zona collinare attorno alla villa come meglio credevano. Niente e nessuno si sarebbe aggirato nei pressi del luogo della festa senza essere fermato.
Imriel quasi mi evitó quella sera e anche tutto il giorno seguente. Non aveva parlato molto con nessuno, mi riferirono, e questo  suo comportamento evasivo aveva preoccupato tutti. Io non lo volevo forzare in nessun modo, quindi attesi paziente standomene in disparte.
Il tempo sembrava non passare mai.

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Capitolo 9
*** La morsa di panico ***


Imriel entró nel mio studio tre giorni dopo, di sera. Non ci eravamo più incontrati lì dentro dal giorno della lite, mi era impossibile non pensarci. Credo lo fosse anche per lui, dal momento che impiegò una vita a girarsi verso di me dopo aver chiuso la porta.
«Ho deciso» mi comunicò risoluto.
Io ero seduta allo scrittoio, vedendolo entrare avevo chiuso e messo da parte la lettera per i priori che stavo esaminando per l'ennesima volta. A quelle parole non mi mossi.
«Voglio incontrarla.»
Mi vergogno ad ammettere di aver provato sollievo, per questo mi sentii obbligata a chiedere «Ne sei sicuro?»
«Sì.»
Annuii.
«Domani mattina andrò a comunicarglielo. Vuoi che le riferisca qualcosa in particolare?»
Ci pensó su un po'.
«Dille… dille che lo faccio solo per me stesso.
Anzi… anzi, no. Non dirle niente.
Qualsiasi cosa debba dirle, mi posso togliere la soddisfazione di farlo io stesso di persona.»
Lo soppesai per qualche momento, prima di decidermi a metterlo in guardia.
«Non sarà così semplice, ne sei consapevole, vero?»
«Credi che io sia un codardo?»
«No. Ma lei è Mélisande Shahrizai.
Sarai teso quando la vedrai, ti torneranno in mente se non tutti gli aneddoti sentiti su di lei, sicuramente i più sordidi e infamanti. Veri o falsi che siano.
Mélisande Shahrizai ha paralizzato l'audacia di molti, zittito le lingue più taglienti e manipolato personalità su cui nessuno avrebbe mai dubitato. Sarai a disagio al suo cospetto, ne sarai intimorito e, come tu stesso hai detto, sarai anche in imbarazzo perché comunque lei è tua madre.
Non illuderti che sarà facile riversarle addosso tutto il tuo risentimento, ma se davvero ci tieni a dirle qualcosa, se non vuoi che sia solo lei a guidare il vostro incontro, preparati con cura.»
«Ma… Ma mi hai detto di aspettarmi qualcosa come una madre addolorata.»
«Sì. E credo davvero che sia ciò che troverai. Ma tu vedrai Mélisande Shahrizai e questo ti pietrificherà.
Non sottovalutare inoltre il fatto che lei sta preparando questo incontro da mesi, da anni forse, e si aspetta di certo che tu possa ricordarle tutte le sue mancanze come madre o le ingiustizie di cui ha macchiato sé stessa e te di riflesso. Non le farà piacere e sarà pronta a risponderti rigirando la verità per cancellare la tua animosità.
Qualsiasi cosa tu voglia dirle o chiederle, preparalo bene e tieni a mente che quella che hai è la sola occasione per farlo.»
Imri mi ascoltava perplesso e credo anche vagamente impaurito. Per questo gli sorrisi.
«Non era mia intenzione spaventarti, tesoro. Volevo solo sollecitarti a non prendere questo incontro sottogamba e a usare il tempo a tua disposizione per riflettere a fondo.
E se hai bisogno di aiuto, di un confronto, o qualsiasi altra cosa, sono qui per te.»
Mi guardó intensamente e nei suoi occhi, in quella virile maturità che avevano da quando era rientrato dalla Caerdicca Unitas, si fece spazio per un attimo il riflesso dolce e affettuoso del bambino che non era più. Era un uomo ormai il mio Imri, con tutto ciò che questo comportava. Sapevo, perché glielo leggevo in faccia, quanta voglia avesse di una carezza, di un bacio sulla fronte, di un mio gesto di amore innocente e puro, ma eravamo entrambi consapevoli che fosse ancora troppo presto per azzardare un contatto, perciò restammo lì così a scambiarci uno sguardo intriso di malinconia.
«Passerà, tesoro» gli dissi di nuovo «Vedrai che presto passerà.»
Osservai le sue spalle larghe varcare la soglia del mio studio mentre lo lasciava augurandomi la buonanotte e solo allora realizzai davvero quanto stava per accadere. Per quanto ci avessi pensato e ripensato, per quanto ne avessi discusso con Joscelin, Imriel e la stessa Mélisande, solo dal momento in cui non vi era più alcun impedimento, tutto assunse una dimensione reale, come se fino a quel punto ogni mio cruccio in proposito fosse stato rivolto solo a una vaga ipotesi.
Allora mi assalì la paura.
La paura di aver trascurato qualcosa, un singolo fondamentale dettaglio che poteva condannarci tutti a morte. Quanto la mia egoistica necessità mi aveva potuto rendere cieca e imprudente?
Ripresi di nuovo ad analizzare ossessivamente tutto, fin dal mio primo incontro con lei. Cercai di ricordare le sue parole, le sue promesse, i suoi giuramenti. Tornai mentalmente alla villa, ne ripercorsi i corridoi, le stanze, gli oggetti… tutti tranne quelli della camera in cui avrei passato la notte con lei. Era un ricordo viscido quello, capace di farmi perdere l'aderenza a tutto quanto stavo ricomponendo nella mia mente. Non chiusi occhio quella notte, suscitando la preoccupazione di Joscelin, al quale nuovamente tacqui la vera causa di quel mio rimuginare, dicendogli semplicemente che, dal momento che era coinvolto anche Imri, volevo assicurarmi ancor di più che tutto andasse secondo i piani, quando invece continuavo la ricerca di un cavillo che poteva rivelare la trappola, che mi pareva di percepire. Eppure di nuovo non trovai nulla. Assolutamente nulla.
Ero visibilmente stanca quando mi trovai davanti a Mélisande, l'indomani. Lei lo notó e parve preoccuparsene, o almeno ciò è quanto interpretai dalla sua espressione stupita nel vedermi in quello stato. Quando la porta delle sue stanze si richiuse alle mie spalle non mi invitó ad accomodarmi, ma restó lì in piedi a fissarmi porgendomi la muta domanda.
«Ha accettato» dissi allora.
Chiuse gli occhi, i lineamenti del viso si distesero, le mani si strinsero in grembo e restó ferma così. L'evidente sollievo della notizia e il sole che le illuminava la pelle le donavano una bellezza così delicata ed eterea che mi bloccai a contemplarla. Inutile negare che gli anni non avessero lasciato il segno, pochi rispetto all'età che aveva raggiunto, ma c'erano e nonostante questo nessuno avrebbe mai potuto restare indifferente di fronte alla perfetta grazia di quei lineamenti, certamente non un angeline, certamente non io.
«Accomodati» mi disse poi all'improvviso, svegliandomi dall'incanto in cui ero scivolata. Ci sistemammo su due poltrone, mi aspettavo che volesse dettagli sulla reazione di Imri e invece mi chiese se avevo letto la lettera per i priori. La sua intenzione, scoprii in quel momento, era di inviarle subito in modo che fossero recapitate entro la mattinata. Voleva tenere la festa la sera successiva.
«È impossibile!» sbottai.
«Non lo è.» replicò in tutta calma «I priori riceveranno l'invito e avranno tempo fino a domani pomeriggio per farci giungere la risposta. Maschere e mantelli sono già pronti» indicò un baule accanto al muro «Manca solo il tuo, ovviamente.»
Mi alzai, andai ad aprire il baule trovando conferma di quanto aveva detto. Ne aveva fatti fare in abbondanza, non avremmo avuto problemi anche se le adesioni fossero giunte all'ultimo momento. Il baule conteneva anche il suo mantello, di colore blu come concordato, non troppo diverso da quelli neri degli altri invitati in modo che non attirasse l'attenzione, ma non così simile da poter essere confuso.
«I tuoi domestici avranno tempo fino a tutto domani per preparare le vivande. Dimmi, cosa ti sembra impossibile?»
Restai un attimo interdetta a riflettere.
«I priori si vedranno recapitare l'invito a una festa immotivata e dovranno decidere se partecipare in un lasso di tempo inconsistente. Per quale ragione dovrebbero accettare e oltretutto mandare i loro adepti migliori?»
«La festa un motivo ce l'ha: è in onore di Naamah. Sei una donna libera e nobile ormai, ma resti pur sempre una sua serva, la più famosa e ammirata del regno, la tua sola esistenza è motivo di celebrazione. Se proprio vuoi specificare qualcosa di più nell'invito puoi aggiungere che è un'offerta che le fai, un voto, quello che ti sembra più appropriato. Sai bene che non importerà a nessuno. Phèdre no Delaunay de Montreve terrà una sua festa privata in onore di Naamah, chiunque farebbe carte false per partecipare. Non serve aggiungere altro.»
Era vero e mentire per inventare una scusa relativa alla celebrazione di Naamah in effetti non mi piaceva, mi sembrava quasi blasfemo.
«Ma perché dare loro così poco tempo?»
«Il tempo, mia cara, è mio nemico e anche tuo dal momento che ora sei a tutti gli effetti mia complice.»
Mi diede un attimo per assorbire il colpo di quella parola, poi riprese.
«Anche se chiedi la massima riservatezza ai priori e ai loro adepti e sono convinta che molti, se non tutti, la rispetteranno per il solo fatto che tu sei la mittente, non posso rischiare, non possiamo. La mancanza di tempo serve a evitare che qualcuno possa escogitare un modo per eludere le regole o fare qualche altra sciocchezza. Impedirà inoltre che la voce possa diffondersi, causando inutili fastidi.»
La sensazione di paura di una trappola continuava a mordermi lo stomaco e quella fretta la alimentava, ma anche in questo caso, dovevo ammettere, aveva ragione: lasciare più tempo ai priori poteva essere solo un pericolo. Elua! Mi sentivo accompagnata per mano in un vicolo cieco.
«A questo punto» disse interrompendo il mio silenzio «se non hai altre logiche obiezioni sul contenuto dell'invito, lo faccio copiare da Marcel per ogni Casa.»
«No» la fermai causando il suo cipiglio «Li scriverò io di persona.»
«Non ti fidi?»
«Non è solo questo. Più che altro non sarebbe da me. Mi stupisce che non lo abbiate messo in conto.»
Sospiró e fece spallucce.
«Non ho avuto il piacere di ricevere molte tue lettere.»
«Non avrei saputo dove spedirle.»
Sorrise divertita da quello scambio di frecciatine, quindi mi indicó lo scrittoio.
«Puoi accomodarti allora. Troverai lì tutto il necessario.»
Andai, mi sedetti e rilessi ancora la lettera: era oggettivamente ineccepibile sotto ogni punto di vista. Anche lo stile e le parole che aveva scelto ricalcavano fedelmente il mio modo di scrivere, benché avesse appena ironicamente lamentato di non aver mai corrisposto con me. Mélisande mi conosceva alla perfezione, di me sapeva tutto, punti deboli compresi. Alzai gli occhi dal foglio per guardarla.
«Hai ancora delle perplessità, Phèdre?»
La soppesai a lungo prima di chiederle ancora «Dov'è l'inganno, Mélisande?»
Rise lieve con fare stanco.
«Phèdre, ti ho già giurato che sono qui solo ed esclusivamente per vedere mio figlio. Non ho altro che la mia parola da darti come garanzia. Se non ti basta, potevi evitare a tutti lo sforzo di arrivare fino a questo punto.»
«Giuratemelo ancora. Giuratelo su Imriel che non mi state trascinando in una trappola.»
Mi gettó un'occhiata quasi spazientita. Fu solo per un attimo, poi chiuse gli occhi, sospiró rassegnata e parló.
«Te lo giuro, Phèdre, in nome di Kushiel, di mio figlio, di tutto ciò che mi è più caro in cielo e in terra. Non ho intenzione di arrecare alcun danno direttamente o indirettamente a te, a Imriel, alla regina e a tutta la sua famiglia, né a qualsiasi altro angeline. Non nascondo doppi fini, voglio soltanto un po' di tempo con mio figlio.
Non so cos'altro potrei dire o fare per dimostrartelo.»
I suoi occhi restarono a lungo fissi nei miei, per quanta fatica mi costasse li sostenni, cercando invano un segno di incertezza, che sapevo non avrei visto nemmeno se mi avesse mentito. Non avevo nulla di concreto a cui appellarmi, potevo solo scegliere di fidarmi o non fidarmi della sua parola.
«E sia» sospirai infine, provocando il suo sorriso «Devo però farlo sapere al più presto a Joscelin e Imriel» aggiunsi.
«Posso mandare subito Emeric ad avvisarli, se sei d'accordo»
«Mi tratterrete molto qui?»
«Devo parlarti e non vorrei avessi fretta di andartene.»
Sentivo lo stomaco contrarsi per lo stato d'incertezza che quella situazione continuava a suscitarmi, eppure acconsentii.
«Vuoi scrivere un messaggio per loro? Potrebbero non fidarsi altrimenti.»
Annuii e preparai con cura quei messaggi, immaginando che il loro contenuto non sarebbe stato gradito e mentre Mélisande dava istruzioni a Emeric perché li consegnasse nelle mani giuste, io mi chinai nuovamente sullo scrittoio, presi un foglio bianco, intinsi la penna nell'inchiostro e iniziai a scrivere l'invito per la priora di Casa Cereo. Seguirono, una dopo l'altra, quelle per le altre dodici Case della Notte. Per tutto il tempo che mi occorse, Mélisande restó nella stanza con me, seduta sulla poltrona, ferma a guardarmi. Ogni volta che alzavo gli occhi incrociavo il blu dei suoi, immobile e imperturbabile. Supponevo volesse controllare il mio operato, invece quando le chiesi se volesse leggere quanto avevo scritto prima di sigillarlo con la cera, rifiutó dicendomi che non ce n'era bisogno. Quindi mi lasciò finire, chiamó Marcel e le lettere partirono.
La morsa di panico che mi attanagliava fece un altro giro.

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Capitolo 10
*** Un piano perfettamente congegnato ***


Stavo ancora fissando la porta da cui era uscito Marcel con gli inviti quando Mélisande mi chiese di Imri.
«Davvero non vuoi dirmi cosa ti ha detto?»
Con estrema lentezza mi girai verso di lei e la guardai muta. Poi mi alzai dallo scrittoio e raggiunsi la poltrona. Allora le raccontai tutto: il disappunto e la preoccupazione con cui aveva accolto la notizia che io stavo coprendo un'esiliata, le perplessità con cui aveva commentato la richiesta dell'incontro e l'idea della festa, la reazione rabbiosa alla scoperta che io avrei passato la notte con sua madre e infine quello stupito schiaffo che aveva rischiato di trasformarsi in un'orribile mostruosità. 
«E non era la prima volta che accadeva» aggiunsi con un nodo alla gola che si ingrossava fino a rendermi difficile parlare «Era successo anche prima che partisse per Tiberium. Era di ritorno da Casa Valeriana.»
Mélisande ascoltò ogni parola senza fiatare, né mutare minimamente espressione. Rimase in silenzio quando conclusi, i suoi occhi erano su di me, ma non mi guardavano. All'improvviso si alzó e si portó alla finestra dandomi le spalle. Quando cominciò a parlare non lo fece per commentare quanto le avevo detto. 
«Ha letto le mie lettere?» chiese invece. 
Con rammarico dovetti dirle di no, lei non reagì in alcun modo visibile, se non facendomi altre domande su di lui, così capillari e precise da farmi capire quanto da vicino le sue spie ci dovevano osservare da sempre. Nulla di quanto le riportai sembró stupirla o turbarla, raccolse ogni informazione con imperscrutabile calma, fino a quando si giró verso di me, sulle labbra un sorriso che faticavo a decifrare. 
«Ti ringrazio, Phèdre» disse, per poi avanzare nella mia direzione. 
«Non ho mai avuto dubbi che con te Imriel avrebbe avuto tutto ciò di cui un bambino prima, un ragazzo poi, avrebbe avuto bisogno. Sapevo che saresti stata la persona più adatta anche a lenire le sue ferite, perché lo avresti compreso più di chiunque altro. Temo che nemmeno io, sua madre, avrei potuto fare di meglio.»
Si fermó davanti alla poltrona su cui sedevo, incombendo sopra di me ed eclissando la luce che proveniva dalla finestra. 
«Ora però Imriel è un uomo. Ed è uno Shahrizai.»
Si chinó, poggiando le mani sui braccioli. Io mi feci indietro d'istinto, fino a sbattere contro lo schienale. 
«Hai sempre saputo che sarebbe giunto questo momento. Lo hai sempre temuto. Lo so. Lo lessi nel tuo sguardo già quel giorno, nella mia cella al Tempio di Asherat.»
Come allora, mi bació. Io chiusi gli occhi e fu come tornare indietro nel tempo, a quel preciso momento. Mi ritrovai immersa nelle stesse sensazioni, il suono della fontana, il profumo di incenso, il tocco delle sue labbra, morbido, voluttuoso. Troppo breve. Con lentezza riaprii gli occhi, confusa, udendo un vago lamento provenire dalla mia stessa gola.   
«Ora Imriel è anche questo. Come pensavi di affrontarlo senza di me?»
Annaspai per la vicinanza del suo volto che, distante un soffio dal mio, mi occupava l'intero campo visivo. 
«Io… » boccheggiai. 
«Ora sono io la sola che può capirlo a fondo, la sola che può condurlo lungo la via che teme e al tempo stesso desidera percorrere.»
«Non… Non dovete più convincermi, Mélisande» riuscii a dire con un filo di voce «Vi ho… »
«Hai ancora paura, Phèdre. Hai ancora delle riserve. Ancora non ti fidi della mia parola.»
D'istinto le posi una mano sul petto e feci forza per sospingerla via da me: non riuscivo a parlare avendola così vicina, a fatica riuscivo a ragionare. Osservó la mia mano con curiosità, quindi si lasció spostare leggermente, ma non si sollevò. 
«Come… Come potrei non avere timori? Siete rientrata all'improvviso nella mia vita dopo essere scomparsa per dodici anni. Vi siete presentata al solo scopo di vedere e aiutare Imriel, a quanto dite, a quanto giurate. Ma per farlo avete architettato un piano perfettamente congegnato, inattaccabile, in cui tutto è già deciso e prestabilito da voi, un piano che non mi concede tempo per riflettere e in cui avete già previsto tutto, comprese le condizioni che avrei posto per accettare. Come potrei non avere timori?»
Sorrise lievemente e scosse la testa. 
«Ho messo in gioco la mia stessa vita per essere qui, per realizzare il solo desiderio che mi resta. Al posto mio, Phèdre, tu avresti lesinato con le precauzioni?»
Non mi diede il tempo di rispondere, continuó calma ma risoluta. 
«Non c'è nulla al mondo cui io tenga di più di Imriel e non ho certo intenzione di veder sfumata la mia sola occasione di stare con lui per aver trascurato un dettaglio. 
Sì, Phèdre, il piano è perfettamente congegnato, ho impiegato mesi per studiarlo e metterlo in atto. Ho previsto tutto, immaginato ogni scenario, calcolato ogni possibile impedimento e sai perché? Perché non avrei potuto fare altrimenti. Dimmi, tu avresti agito diversamente?»
Imprigionata sotto il giogo del suo sguardo, mi limitai a scuotere la testa. 
«Immaginavo anche questa tua resistenza. Immaginavo che sì, avresti accettato la proposta, ma conservando dubbi, scrupoli, paure fino alla fine. E questo sarebbe un vero peccato.»
Si prese una pausa in cui mi osservó con aria triste, malinconica direi. 
«Ricordi, Phèdre, la prima volta che ci siamo incontrate?»
Le gettai un'occhiata, sorpresa da quella domanda. 
«Sì che la ricordo.»
Come avrei potuto scordarla? Non ci sarei riuscita nemmeno se l'avessi voluto. 
Con una mano percorse il mio collo fino a prendere il mento per sostenere il mio viso e guardó l'iride trafitta dal dardo di Kushiel con la stessa meraviglia di allora. 
«Eri poco più di una bambina. Una anguissette, sì, un'autentica anguissette, quasi una figura leggendaria. Per quanto vederti mi lasció sbalordita ed entusiasta, allora in te non vidi che il più speciale dei giocattoli con cui mi sarei potuta divertire. Ero ben lungi dal capire ciò che quella bambina sarebbe divenuta, ciò che tu saresti stata per me, ciò che da quel momento in poi avrebbe legato le nostre vite in modo inscindibile. Non mi accorsi, allora, di quanto quell'incontro avrebbe cambiato il mio destino, che quel momento fosse l'inizio di una storia lunga una vita. Davvero, non mi resi conto di nulla di tutto ciò. 
Ora invece so perfettamente che siamo giunte all'epilogo.»
Tacque cercando la reazione dei miei occhi a quella parola, spostando al contempo la mano ad accarezzarmi con le dita e le unghie la guancia sinistra. Esattamente come aveva fatto quel giorno. E all'improvviso sentii i miei occhi irrorarsi di lacrime. 
«Domani, Phèdre, domani notte metteremo fine a tutto ciò che allora ebbe inizio. Questa volta so che potrò saggiare per l'ultima volta la sacralità dell'estasi che può esistere soltanto tra me e te, prescelta ed erede del divino sangue di Kushiel. Questa volta pretendo sia perfetto. Non ho intenzione di risparmiarmi nulla. Tu? Tu davvero vuoi lasciare che l'ostinata ricerca di una trappola inesistente ti trattenga dal concedere tutta te stessa a ciò che ci attende?»
Le sue dita strisciarono sul mio zigomo giungendo tra i capelli, il suo viso si riavvicinó al mio. 
La baciai. 
Mélisande si ritrasse appena. 
«Era la risposta alla mia domanda?» sussurró divertita, solleticandomi le labbra con il respiro tanto mi era ancora vicina. 
Io non riuscivo a muovermi: le sue parole erano riuscite ad angosciarmi ed eccitarmi allo stesso tempo. La mia imbarazzante mancanza di autocontrollo ne era stata il risultato. 
«Vi… Vi chiedo scusa.»
Rise, poi finalmente si sollevò fino a ergere di nuovo sopra di me. 
«Seriamente, Phèdre, domani voglio che tutto sia perfetto, tu compresa. Ho bisogno che tu metta da parte scrupoli e paranoie. Devi fidarti di me, altrimenti il gioco tra noi non può funzionare.»
Io ero ancora immobile, appoggiata allo schienale a osservare, dal basso della mia posizione, tutta la sua statuaria bellezza, mentre mi risuonava nelle orecchie l'eco delle sue parole e non riuscivo a liberarmi della sofferenza che mi davano. 
Domani notte metteremo fine a tutto ciò che allora ebbe inizio.
«C'è altro che posso fare per dissipare le tue paure?»
Ancora un giorno e le avrei detto addio. Ancora un giorno e io stessa avrei decretato l'epilogo di tutta la nostra storia, avrei spezzato per sempre quel legame unico. 
«Chiedimi tutto ciò che ti… »
«Elua, Mélisande, come potete essere tanto serena? State andando incontro a… Elua! Io nemmeno riesco a dirlo! E voi ve ne state placida a curarvi solo del fatto che io non rovini il vostro piano perfetto!»
Non replicó subito, restó invece ferma e impassibile a guardarmi dall'alto. Poi avvicinó una mano al mio volto, lo percorse con il dorso su un lato dal basso fino a infilare le dita tra i miei ricci, giocarci un po' per poi stringerli, ma senza troppa forza. I suoi occhi sembravano compatire la pena che vedevano nei miei. 
«Ho intrapreso questo viaggio consapevole di tutto ciò che significava. Sono mesi che preparo questo commiato. Io sono pronta, Phèdre.
Tu no, lo vedo. 
È forse questo che ti spaventa?»
Lasció la presa sui miei capelli e con un dito scese lungo il profilo del mio volto fino a raggiungermi le labbra. Ne seguì tutto il bordo con delicatezza, portandomi a dischiuderle senza che nemmeno me ne rendessi conto. 
«È stata una decisione sofferta anche per me, ma era necessaria. A darmi la pace è proprio la consapevolezza di poter realizzare il desiderio di rivedere Imriel» con due dita giocó a graffiarmi lieve il labbro inferiore, poi la punta della lingua che le avvicinai «E riavere te, ancora un'ultima volta.»
Ritrasse la mano nel momento in cui stavo per prendere in bocca le sue dita. 
«Il tuo corpo continua a rispondere con impazienza. La tua mente, Phèdre, che intenzioni ha?»
Non risposi. Attesi di tornare del tutto in me, di riconquistare la mia completa lucidità, poi le chiesi di rivedere insieme ogni minimo particolare del giorno seguente, da quando io, Imriel e Joscelin saremmo partiti da casa. Volevo in realtà rientrare al più presto per sistemare le ultime cose, parlare con Joscelin e con Imriel, dopo lo striminzito messaggio in cui avevo comunicato loro che dovevano essere pronti per l'indomani, ma d'altro canto quella era l'ultima opportunità che avevo per riesaminare tutto, porre eventuali altre condizioni e tornare anche alla villa di Sigàn prima che fosse troppo tardi. Fu Marcel ad accompagnarci, poi, sola con Mélisande, ripercorsi ogni anfratto del palazzo, accertandomi, tra le altre cose, che tutto fosse come lo avevamo visto alla visita precedente. 
Fu così. 
La villa era identica, non un solo oggetto era stato aggiunto, sottratto o spostato, tranne che nella stanza in cui avrei passato la notte con Mélisande. O almeno così credetti. Stavo ispezionando la camera, con la cautela a cui mi costringeva il timore che avevo di farmi trascinare dalla mia lussuriosa fantasia, quando Mélisande si sedette sulla poltrona dalla quale mi avrebbe torturata la notte successiva e iniziò a giocherellare con le catene a cui mi avrebbe legata. Sono certa che lo fece di proposito, come se ci fosse stato bisogno di infierire sulla mia evidente vulnerabilità, per questo mi sforzai di non badare a lei e ci riuscii finché vidi, attraverso il riflesso dello specchio accanto a me, che teneva in mano un collare collegato a una delle catene. 
«Quello l'altra volta non c'era» l'accusai continuando a guardarla attraverso lo specchio. 
Lei sollevó le sopracciglia stupita. 
«Questo?» domandó sinceramente incredula. 
«Ricordo che c'erano legacci per i polsi e le caviglie… »
«E per il collo» mi corresse «Te lo garantisco.»
A quel punto si alzó e mi raggiunse ponendosi dietro di me. Io restai ferma come una sciocca ad aspettare l'ovvio e, Elua, me ne rendevo persino conto! 
«Di tutti i legacci, avrei mai potuto dimenticare proprio quello per il tuo collo, mia cara?» bisbigliò al mio orecchio, mentre le sue mani stringevano lente il collare attorno alla mia gola e i nostri occhi mantenevano il contatto visivo attraverso lo specchio. Chiuse la fibbia sorridendomi, le sue mani sparirono dietro la mia schiena, con un braccio mi cinse la vita, poi restammo immobili a fissarci. 
All'improvviso il collare mi tiró da dietro strozzandomi il fiato. La ferocia del suo sguardo fu la sola cosa capace di penetrare la foschia cremisi che mi ottenebró. 
«È sempre stato qui, Phèdre» sussurró a denti stretti «pronto all'uso.»
Di scatto rilasció la catena, io ansimai barcollando leggermente in avanti sostenuta dal suo braccio. 
«Non sei più l'osservatrice acuta di una volta?»
Attese che mi riprendessi e che il mio respiro tornasse regolare, poi lasció la presa alla mia vita, le sue mani ricomparvero sulle mie spalle ad aprire la fibbia e io fui libera. E visibilmente delusa. Sorrise. 
«Scusami, non volevo distrarti. Riprendi pure la tua ispezione.»
Mi voltai e le presi il collare dalle mani. 
«Davvero è sempre stato qui?»
Annuì facendo spallucce e io sentii lo stomaco contrarsi ancora una volta per la paura: non ero in me, non ero lucida e capirlo, invece di farmi rinsavire, mi eccitava. Che diamine stavo facendo? 
«Ti senti bene, Phèdre?»
«Voglio… Devo tornare a casa.»
Quasi fuggii da quella stanza, poi camminai svelta fino all'uscita. L'aria fresca all'esterno mi giovó, presi un lungo respiro, quindi sorrisi distrattamente all'inchino di Marcel. 
«Accompagna la contessa alla sua tenuta.» disse la voce di Mélisande dietro di me «Io ti attenderò qui.»
Senza badare alle buone maniere, non mi girai nemmeno a salutarla, ma mi avviai verso la carrozza, desiderosa solo di allontanarmi da lei per riuscire a riflettere ancora una volta, in pace. 
«Phèdre.»
Come ogni dannata volta, il semplice suono della sua voce che proferiva il mio nome schioccó come il più perentorio dei comandi. Mi bloccai. Riuscii tuttavia a non voltarmi. 
«Hai solo bisogno di riposo» disse posandomi leggera le mani sulle spalle «Stai sprecando tutte le tue energie in una vana ricerca e in una ingiusta lotta contro te stessa. Riposa questa notte e lascia che io mi prenda cura di te domani.»
Mi divincolai senza replicare, salii in carrozza e attesi solo di potermi rifugiare nel solido abbraccio di Joscelin.




Note dell'autrice
E al decimo capitolo direi che ci sta palesarmi di nuovo e lo faccio per 3 motivi.
Innanzitutto giubilo perché finalmente è uscito allo scoperto un lettore! Carissima DubheFedra, lascia che ti ringrazi anche qui per avermi scritto e avermi fatto sapere che ci sei.
Punto secondo, rinnovo e sollecito chiunque altro a seguire il suo esempio e spendere un minuto per lasciare un commentino. Mancano solo 5 capitoli, dai ditemi che ne pensate della storia finora.
Infine volevo lanciare un appello: cercasi qualcuno che mi aiuti a tradurre la ff in inglese. Requisito fondamentale: aver letto la saga in lingua originale così da mantenere aderenza con il linguaggio dell'autrice.

Ad ogni modo, anche se ti ostini a non scrivermi, comunque grazie per aver letto fino a qui.

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Capitolo 11
*** Tra le braccia di Joscelin ***


Trovai il mio consorte in cortile ad allenarsi, era di pessimo umore, come mi aspettavo. Vedendo il cocchio non fermò i suoi esercizi e quando scesi mi gettó soltanto uno sguardo, per nulla caloroso. Tanto gli bastó però per capire che qualcosa non andava in me, perciò mi osservò una seconda volta, quindi si alzó da terra velocemente e mi venne incontro detergendosi il sudore. Non gli diedi il tempo di chiedermi nulla, gli gettai le braccia attorno al petto e mi strinsi a lui. 
«Sono tutto sporco» mugugnó incerto se ricambiare il gesto. 
Io mi limitai a stringerlo più forte, allora sentii le sue braccia avvolgermi e la sua voce che vibrava contro la mia testa mentre diceva «Andiamo dentro.»
Il suo calore e l'atmosfera di casa alleviarono molta della tensione che mi stava divorando la lucidità, il bagno caldo che feci insieme a lui poi mi liberò dal vischioso turbamento che mi aveva costretta a fuggire da Mélisande, ragionare con lui su tutte le misure di sicurezza che avremmo adottato mi confermava che non avevo nulla da temere, eppure non riuscivo a cancellare il terrore che gorgogliava ancora nella mia coscienza. 
«Vuoi ostinarti a non dirmi qual è il problema?» mi chiese Joscelin mentre mi asciugavo i capelli. 
Sospirai, appoggiando il telo sulle gambe. 
«Dimmi solo che è tutto pronto per domani.»
«Lo è.»
Lo guardai a lungo, gli sorrisi con il cuore che sembrava scoppiarmi d'affetto. 
«Non so come potrei vivere senza averti al mio fianco» dissi. 
«Amarti è una condanna, Phèdre, una condanna a cui non rinuncerei per niente al mondo.»
«Vieni qui» mi allungai ad afferrare la camicia che si era appena infilato, lo trascinai giù verso di me e lo amai, di nuovo. Era lui il mio solo antidoto al veleno di Mélisande, lui la mia sola difesa dall'intimo richiamo che quella donna esercitava sulla parte più cupa e malsana del mio essere. Elua, lui era da sempre l'ancora di salvezza che mi impediva di affogare nel mio stesso sangue. Davvero, ora come allora, mi chiedo come avrei potuto farcela senza la sua presenza nel mio cuore. 
Finalmente rigenerata dalle premure di Joscelin, andai a cercare Imriel, trovandolo nel mio studio. 
«Ti aspettavo» mi accolse imbronciato «Avevi scritto che saresti tornata presto.»
«Sono tornata appena ho potuto.»
«Non credevo di avere così poco tempo. E venirlo a sapere con due righe di messaggio non è stato il massimo. Avevi detto… »
«Lo so quel che avevo detto» lo interruppi un po' brusca «Tua madre ha preso alla sprovvista anche me sui tempi, ma ho dovuto convenire con lei che fosse meglio così.
Ora dimmi, come posso aiutarti?»
«Non lo so nemmeno io. Non voglio dire a te quello che devo dire o chiedere a lei. Non ora.»
«Posso sapere perché? Sei in imbarazzo?»
«No. Non è quello. Solo… Tu potresti non essere d'accordo. Non su tutto. E… è meglio di no.»
Temevo le sue ragioni, pur non volendo pensarci a fondo era facile immaginare e mi dispiaceva terribilmente. Ma lo capivo. 
«Come preferisci.»
«Credi che dovrei leggere le sue lettere?»
«Non credo cambi molto ora. Lo sa che non le hai lette, me lo ha chiesto.»
«E cos'ha detto?»
«Nulla. Forse ne parlerà con te. A me ha fatto solo domande. Ma sapeva già molto di te, molto più di quanto mi aspettassi» e quindi lo misi al corrente di tutto ciò che mi aveva chiesto e che io le avevo detto, incluso quanto era accaduto tra me e lui. 
«Ho ritenuto importante farglielo sapere, dal momento che è qui per aiutarti.»
«Di questo ha detto qualcosa?»
Scossi la testa. 
«Nulla. 
Credo lo immaginasse. 
Ad ogni modo quando abbiamo concluso mi ha ringraziata per essere stata all'altezza del compito di crescerti, finora.»
«E adesso cosa succederà?»
«Suppongo sia ciò di cui parlerete domani.»
Taceva pensieroso, lo sguardo fisso a un punto indefinito della parete. 
«Come ti senti?» gli chiesi dopo un po'. 
Mi guardò a lungo senza rispondere, poi fece un sospiro. 
«Ho un po' paura. 
Paura di sprecare l'occasione che ho. 
Paura di restarne deluso. 
Paura che questo incontro non servirà a niente. 
E… E paura di lei.»
«Mi sembra del tutto lecito. 
Ascoltami, durante gli anni di addestramento, sia a Casa Cereo che con Delaunay poi, mi sono stati insegnati dei piccoli trucchetti per mantenere il controllo delle emozioni in certi frangenti. Ci sono situazioni in cui non sono sufficienti, ma tentar non nuoce.»
Passai così il resto del pomeriggio a fare esercizi di respirazione e giochi mentali insieme a lui, scoprendo quanto fossero utili anche al mio tremendo stato emotivo, oltre che al nostro rapporto. Andammo avanti anche dopo cena, ritrovandoci poi a parlare di nuovo di Mélisande, in modo così sincero e spassionato che mi fu davvero difficile non rivelargli i termini del patto che avevo stretto con lei e quanto per me fosse doloroso pensare di portarlo a compimento. 
«È così strano» disse Imri ad un certo punto. 
«Cosa?»
«Quando parli di lei, anche quando racconti gli aspetti più negativi, c'è qualcosa di diverso nella tua voce, come una nota agrodolce, un velo di tristezza e, per quanto lo trovi assurdo, d'affetto.»
Sorrisi mesta. 
«Non me l'aveva mai detto nessuno.»
«Non l'avevo mai notato prima.»
Sospirai. 
«Tua madre si è macchiata di colpe indelebili, molte delle quali hanno colpito direttamente me e i miei cari.
Nonostante questo lei è la ragione della mia stessa esistenza, il motivo per cui sono ciò che sono, la sua esatta complementarietà. 
Non posso odiarla. Ci ho provato, non ne sono capace. 
E non posso nemmeno amarla, non fino in fondo, perché vorrebbe dire sacrificare la mia coscienza e anche di questo non sono capace.
È una triste condizione, Imri, forse è questo che avverti nella mia voce» e il fatto che non posso pensare di porle fine. 
Lo congedai poco dopo e andai in camera da letto, dove mi raggiunse Joscelin. 
«È pronto?» mi chiese. 
«Chi può dirlo? Per molti versi Imri è più duro di me e te messi insieme. Ma d'altra parte sua madre è sua madre e questo per lui vale più che per chiunque altro. 
Non ha voluto dirmi cosa le vuole dire e forse è un bene, avrei finito per influenzarlo in un modo o nell'altro. 
Abbiamo lavorato molto sul controllo delle emozioni. Credo abbia fatto bene a entrambi.»
Mi mise una mano sotto il mento e mi sollevó il viso. 
«Allora perché ancora questo sguardo?»
Chiusi gli occhi e girai la testa di lato. 
«Lo vedo che hai paura, Phèdre e non sono così stupido da non immaginarne il motivo. Quello che non capisco è perché hai accettato se hai ancora dei dubbi.»
«Perché sono dubbi infondati. Abbiamo esaminato tutto più e più volte, in ogni singolo dettaglio. Oggi sono anche tornata con lei alla villa, ho ricontrollato tutto. Non c'è nulla di cui aver paura, nulla di cui dubitare, se non di me stessa e della mia lucidità. Ho paura di me più di quanta ne abbia di lei. E lei è la sola che possa ristabilire il mio equilibrio. Mi sento intrappolata in un circolo vizioso.»
«Sicura che sia solo questo?»
«Ho paure irrazionali e non so nemmeno esattamente di cosa. Sono ossessionata dal fatto che ci sia una trappola e non la trovo. Continuo a chiederle giuramenti e poi non le credo. Non riesco a essere oggettiva e sai quanto questo non sia da me.»
«Phèdre, stai parlando di Mélisande, la donna che ha tradito te e il regno più volte e nei modi più infimi. Le tue paure sono umane.»
Scossi la testa. 
«Non ha mai mentito quando c'era in gioco la vita di Imriel. Ha giurato anche su di lui che non ha secondi fini. 
Il problema sono soltanto io.»
Joscelin mi prese il viso tra le mani. 
«Il fatto di doverla consegnare alla giustizia non c'entra niente? Dimmi la verità.»
Tacqui, distolsi lo sguardo e lui capì. 
«Vuoi che me ne occupi io? Sai che lo farei con piacere.»
«Proprio per questo non te lo permetterei mai. Devo farlo io.»
«Elua, Phèdre, tu e il tuo assurdo senso del dovere!»
«Detto da un cassiliano suona davvero ridicolo.»
Mi guardó storto, ma poi allungó le braccia a stringermi. 
«Non voglio discutere, non questa notte. Però, Phèdre, promettimi di non fare sciocchezze, promettimi che sarai attenta e soprattutto» mi distanzió per potermi guardare negli occhi «Soprattutto promettimi che se non dovessi farcela a portare a termine il patto, lascerai che ti aiuti io. È questo che io temo, che tu possa in qualche modo acconsentire a salvarla. Ho paura che arriveresti a pagare per lei.»
Avrei così voluto indignarmi, dirgli che fosse assurdo e offensivo nei miei confronti, invece restai lì a farmi penetrare dalla tenerezza dei suoi occhi, mentre pregavo di trovare almeno la forza di fare quelle promesse. Poi gli afferrai la testa, cercando in lui la forza che da sempre mi aveva dato per controbilanciare la debolezza della mia natura e, prima di baciarlo, dissi «Andremo fino in fondo, a qualunque costo. Te lo giuro.»
Riuscii a dormire, al sicuro tra le braccia di Joscelin riuscii a concedermi il riposo di cui avevo bisogno per poter affrontare quella giornata e ciò che ne sarebbe conseguito. Mi svegliai lucida e risoluta, attenta nel verificare che tutto quanto era stato predisposto cominciasse a prendere forma. Come me, né Joscelin né Imriel dissero una parola oltre i saluti, ognuno di noi si occupò soltanto di eseguire i propri compiti così come avevamo prestabilito e in poco tempo eravamo già diretti alla villa di Sigàn, Joscelin alla guida della carrozza, io e Imri al suo interno. 
«Sei pronto, tesoro?» chiesi al ragazzo dopo un primo tratto di strada trascorso in silenzio.
Si girò a guardarmi facendo spallucce. 
«Non lo so. Da un certo punto di vista non vedo l'ora che sia tutto finito.» 
«Vuoi che ne parliamo un po'?»
«Preferisco di no.»
Concentrarmi sul suo nervosismo mi avrebbe aiutata a non pensare al mio che stava facendo breccia sulla fermezza che mi ero imposta, ma rispettai la sua volontà, almeno fino a quando riconobbi le colline tra le quali si trovava la villa di Lord Sigàn. Stavamo per arrivare e non sapevo se una volta giunti a destinazione avrei più avuto modo di parlargli da sola prima che incontrasse sua madre. 
«Perdonami tesoro, una cosa soltanto» dissi allora. 
Mugugnó un assenso restando peró assorto a guardare fuori. 
«Stai sempre attento, mi raccomando.»
A quel punto si volse a guardare me. 
«Tua madre mi ha giurato di essere qui con le migliori intenzioni, di non voler arrecare danno né a te, né a me, né a nessun altro. Ad ogni modo il non sapere nulla di ciò che ti dirà onestamente mi spaventa. Perciò ti chiedo di essere sempre prudente e di valutare con cura tutto quanto… »
«Hai stretto un patto con lei e non ti fidi della sua parola?» mi interruppe. 
«Mi fido della parola che mi ha dato, ma credo di avere tutto il diritto di non essere troppo tranquilla comunque. Tu non abbassare mai la guardia, intesi? E soprattutto, non dubitare mai di me.»
«Perché dovrei?»
«Perché il suo punto di vista potrebbe portarti a farlo. In fin dei conti hai ascoltato sempre solo una campana, ascoltare l'altra è normale possa far sorgere dei dubbi e uno dei principali talenti di tua madre è senz'altro quello di confondere la verità.»
Sospiró scuotendo la testa. 
«La prima cosa che mi hai detto quando mi hai parlato del fatto che mia madre fosse qui è che sai quello che stai facendo e che hai la situazione sotto controllo. Ora, se dici così…»
«Vedi, tesoro, tra me e tua madre c'è un equilibrio estremamente sottile, eppure solido. Non dimenticarti che ho affrontato un viaggio fino all'altra parte del mondo per salvare te e Hyacinthe e l'ho fatto fidandomi ciecamente della parola di tua madre. E ho fatto bene: mi aveva detto il vero e grazie a lei ho potuto liberare suo figlio e il mio migliore amico. Sembrava un patto equo fino a quel punto, invece alla fine lei ha ottenuto, oltre alla tua salvezza, la mia implicita concessione alla sua fuga e anche la promessa che ti avrei cresciuto io. 
È questo che temo, che di nuovo riesca in qualche modo a strapparmi più di quanto abbiamo pattuito. Per questo non sono del tutto tranquilla e ti chiedo, per favore, di stare sempre attento.»
«Posso sapere, almeno adesso, cos'ha offerto lei?»
«Mi ha chiesto di non dirtelo e non lo farò nemmeno adesso.»
Restó a lungo pensieroso a guardarmi, poi la carrozza si fermó, dal finestrino vidi l'ingresso della villa che si apriva ed Emeric che usciva per accoglierci. 
«Staró attento» disse Imri subito prima che Joscelin aprisse la portiera e mi allungasse una mano per farmi scendere.

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Capitolo 12
*** L'incontro ***


Mélisande ci attendeva nelle stanze private come stabilito, la trovammo in piedi non molto distante dalla porta quando Emeric l'aprì. La reazione che aveva avuto alla Serenissima quando le avevo portato Imri bambino era impressa nella mia mente come fosse appena accaduto: il sentimento che era esploso quando aveva sussurrato il suo nome riverberava ancora nelle mie orecchie, bruciandomi il cuore con la stessa identica intensità. Quello che accadde in quel momento non fu molto diverso, ma trovarsi davanti Imriel uomo credo l'avesse sopraffatta, nonostante i mesi, gli anni impiegati a immaginare e preparare quell'incontro. Si portó una mano alla bocca come a voler zittire l'emozione che la colse, ma i suoi occhi, Elua, i suoi occhi gridarono, gridarono! Gridarono un mare di sofferenza e di rimpianto tanto cupo e intimo da lasciarmi senza fiato e al contempo un'indicibile gioia, calda, limpida, colma d'orgoglio e vivida commozione. Restó incantata in quel modo a lungo, tanto che Imriel giró un attimo la testa a guardarmi, come a chiedermi se dovesse fare qualcosa. Anche lei volse a me il suo sguardo allora, lasciandovi trapelare tutta la gratitudine più sincera e profonda che pur già aveva tentato di dire a parole. Se alla Serenissima avevo faticato a sopportare quella vista, ora me ne sentivo schiacciata, perché ora con lei condividevo l'amore materno: ora che conoscevo il sapore amaro della privazione e della nostalgia per un figlio lontano, potevo percepire sulla mia stessa pelle quello che lei sentiva. E se mai avevo avuto dubbi sul diritto che le avevo concesso, in quell'attimo svanirono tutti. 
Feci un inchino con la testa e mi rivolsi di nuovo a lei, dicendo a bassa voce «Vi lascio soli». 
Mi aspettavo che Imriel a quel punto mi avrebbe guardata di nuovo, che mi lanciasse una muta richiesta d'aiuto, invece il suo viso restó diritto, la mascella tirata per il nervosismo, gli occhi attenti che osservavano sua madre e chissà cosa vedevano. Lo osservai, poi guardai di nuovo lei: erano una scena di una bellezza struggente, così simili e così diversi, così vicini eppure enormemente distanti. Me ne riempii gli occhi, quindi uscii dalla stanza. 
Una volta fuori esalai un respiro tremante, come se avessi trattenuto il fiato fino ad allora e poi, esausta, mi appoggiai di schiena alla porta finché Joscelin mi si avvicinó preoccupato. 
«Cos'è successo?» 
Io, ancora confusa, alzai gli occhi in direzione della sua voce e sussurrai «Ha solo rivisto suo figlio.» 
Avevo voglia di ridere e anche di piangere. Lui mi guardò e, per quanto fosse fermo il suo odio per Mélisande, capì: mi prese il viso tra le mani, mi impresse un bacio sulla fronte e anche lui si rese conto che avevamo fatto la scelta giusta. Restammo lì così qualche minuto, poi tornammo alle questioni concrete: feci anche con lui un giro della villa, dopodiché lui iniziò a fare avanti e indietro da casa nostra insieme a Emeric per il trasporto delle vivande. Io intanto vagavo per le stanze e i corridoi, un po' per scrupolo, un po' per cercare di prevedere la serata che mi attendeva, un po' per evitare di congetturare a vuoto sul dialogo che si stava svolgendo tra Mélisande e Imriel e sulle mie apprensioni per quella notte. 
Presto per fortuna cominciarono a giungere le adesioni alla festa da parte delle Case della Notte: tutte avevano accettato, sottolineando fosse per loro un onore far partecipare i loro adepti. Tra i messaggi che arrivarono, uno senza stemmi sul sigillo mi informava che il mio piccolo esercito di tzingani si stava già appostando tra le colline nei dintorni e mentre le guardavo dalla finestra vidi arrivare i dieci cassiliani che avrebbero formato invece il servizio di guardia ufficiale. Andai ad accoglierli all'esterno, breve e formale, per lasciarli poi a Joscelin per le disposizioni della serata. Io non facevo che riflettere e osservare loro, Emeric che si affaccendava ad allestire le sale, la porta delle stanze private in cui Mélisande e Imriel erano chiusi da ore. Infine, sentendo l'agitarsi del groviglio dei miei pensieri, mi ritirai nelle mie stanze, mangiai qualcosa e passai il resto del pomeriggio a prendermi cura del mio corpo e della mia pace interiore. 
Stava per tramontare il sole quando Joscelin mi venne ad avvisare che la carrozza del primo ospite era stata avvistata. Io mi ero già preparata, avvolta dal mio mantello sangoire, la maschera in mano, guardai il cielo rosso fuoco fuori dalla finestra prima di uscire e alzai una muta preghiera a Naamah perché vegliasse su tutti noi e una a Kushiel perché proteggesse me. 
«È tutto pronto?» domandai. 
Joscelin annuì, prima di mettermi una mano dietro la nuca e avvicinarsi, appoggiando la mia fronte alla sua. Sapevamo che da quel momento probabilmente non avremmo più avuto modo di parlarci, finché non sarebbe finito tutto, eppure nessuno dei due disse nulla, ci crogiolammo soltanto nella nostra reciproca tenerezza, giusto qualche minuto, una pausa sospesa nel tempo, poi presi il suo viso tra le mani, lo baciai e la festa inizió.
Al primo ospite seguirono tutti gli altri, uno alla volta, rispettando con discreta puntualità le tempistiche che avevo dato loro nell'invito. Come da programma, Joscelin li accoglieva all'esterno, apriva loro la porta d'ingresso e me li presentava. Io, semiseduta su di un alto sgabello di legno, li ricevevo, li intrattenevo con qualche cortese convenevole, poi chiedevo loro di spogliarsi e indossare la maschera e il mantello che porgevo. Infine li accompagnavo ai piedi della scalinata e li invitavo a salire per accomodarsi alle sale della festa, mentre Emeric faceva sparire dall'ingresso i loro abiti e portava maschera e mantello per l'ospite successivo.
Non avrebbe certo dovuto stupirmi, eppure mi sorpresi a notare come il comportamento di ognuno degli adepti manifestasse in modo così preciso e radicato le caratteristiche tipiche delle loro Case di appartenenza. Erano tutti ovviamente giovani, ma non alle prime armi, anzi per la maggior parte erano ritenuti esperti veterani dai loro priori. Non era quindi certo immaturità o timidezza il motivo per cui ognuno di loro mi trattava con estrema deferenza. Persino i due adepti di Casa Mandragora, nei cui occhi brillava una spudorata attrazione nei miei confronti, si rivolsero a me in maniera sommessa, affatto usuale per loro. La questione era che Mélisande aveva ragione: la mia fama mi garantiva stima e autorevolezza tali che nessuno avrebbe mai dubitato di me o sospettato qualcosa relativamente a quella festa, anzi era più che evidente in ognuno dei miei ospiti tutto il più autentico entusiasmo di conoscere me e poter partecipare ad un simile evento. Tutto procedeva perfetto. 
Come previsto, mentre io accoglievo l'ultimo ospite, Joscelin andó a chiamare Imri e Mélisande: il tempo a loro disposizione era terminato. A quel punto Imriel avrebbe indossato maschera e mantello e sarebbe salito al piano superiore mescolandosi agli adepti e Joscelin avrebbe atteso insieme a Mélisande che anche l'ultimo ospite si unisse alla festa, quindi l'avrebbe scortata da me. Sapere che sarebbero stati soli, anche se soltanto per una decina di minuti, mi aveva portata a chiedere espressamente a Mélisande di evitare di rivolgere la parola al mio consorte e quando arrivarono all'ingresso non potei fare a meno di chiedermi se avesse rispettato la mia volontà: Joscelin mi gettó appena un'occhiata, gelida, prima di uscire sotto lo sguardo placido di Mélisande, le cui labbra, lente, s'incurvarono divertite. 
«Gli avete detto qualcosa?»
Sospiró una brevissima risata. 
«No, cara. Non ce n'era alcun bisogno.»
Osservai la porta da cui era uscito chiedendomi se avessi dovuto fermarlo, rincuorarlo un'ultima volta, ma non lo feci. 
Tornai a lei invece, innervosita da quell'ennesima sottile derisione, la fissai incollerita e sibilai una parola che in tutta la mia vita mai avevo pronunciato, mi era sempre solo stata ordinata.
«Spogliatevi».
La sorpresa attraversó gli occhi di Mélisande per un istante, poi sorrise, compiaciuta persino, forse dalla mia rabbia, forse dall'assurdità di quella situazione che sapeva perfettamente avrebbe ribaltato di lì a poco. 
L'abito che aveva indossato per l'occasione aveva il taglio tipico della regione del Kusheth, con il bustino rigido e stretto abbottonato fino al collo, il fatto che fosse oltretutto nero e rifinito in oro era un voluto richiamo alla dinastia Shahrizai. Una scelta senz'altro adatta per l'incontro con Imriel, ma decisamente sconsiderata per qualcuno che doveva evitare di farsi riconoscere. Ma stiamo parlando di Mélisande Shahrizai e quella sfacciata insolenza faceva parte di lei, quanto il colore dei suoi occhi. Senza indugi cominciò a sbottonarsi, godendo della mia espressione che man mano perdeva ogni traccia di ostilità. 
Per una serva di Naamah mostrare la grazia del proprio corpo è un dono, un atto d'amore, il primo che si concede al proprio patrono. Per me, per un'anguissette, è inoltre un gesto di sottomissione, che può assumere quella sensazione di eccitante umiliazione, che proprio lei aveva portato allo stremo trascinandomi tra i pari del regno vestita solo di un velo trasparente nella notte in cui ero stata al suo servaggio. Tuttavia non c'era umiliazione nell'espressione di Mélisande mentre si svestiva davanti a me, né un minimo segno di sottomissione, anzi quando il suo abito scivolò in un cumulo informe di stoffa nera a terra attorno ai suoi piedi, fece un sicuro passo in avanti e mi chiese ironica «Ora vuoi anche mi inginocchi?»
Elua! Volevo farlo io. Con tutta me stessa. La sua sola presenza lì, nuda davanti a me, fomentava i miei più atavici impulsi e rappresentava un implicito e potentissimo imperativo. Con enorme sforzo portai entrambe le mani ad afferrare lo sgabello sotto i miei fianchi e strinsi fermamente il legno per impedire al mio corpo di agire come gli veniva naturale, ma non solo quella dura resistenza mi era faticosa, per me non obbedire a quell'istinto era puro dolore. 
Mélisande sorrise, capendo, e restó lì ad ammirare la mia sofferenza, aspettando che cedessi. 
Non lo feci. 
Non so come, ma riuscii a trattenermi, afferrare con forza il suo mantello e porgerglielo quasi violentemente. Lei di me amava quell'aspetto, la mia ribellione, me l'aveva detto, per questo mi sorrise, poi prese il mantello e lo indossó, chiudendo la spilla che faceva sovrapporre i lembi di stoffa subito sotto l'incavo tra i seni in modo che la nudità non venisse esposta involontariamente ad ogni movimento. A quel punto, ostinata a mostrarle il mio autocontrollo, mi alzai e mi avvicinai per metterle la maschera e tirarle su il cappuccio. 
«Fuori di qui dovrete sembrare al mio servizio, pensate di poterci riuscire?»
«Sei tu che fatichi a non sottometterti.»
«Basta coi giochini, Mélisande. Fuori di qui non ammetto la minima trasgressione. Mi starete accanto come un'ombra, in modo che possa vedervi in ogni momento, discreta e insignificante. So che ne siete capace, ve l'ho visto fare quando volevate nascondervi da me e mi è costato caro.»
«Tutto ciò che desidera la mia signora» mormorò inclinando lievemente il capo. 
Avrei voluto non rabbrividire a quelle parole, ma lo feci. Questione di un attimo, sufficiente a far innervosire me e divertire lei. Per riscattarmi le posai la maschera sul viso e allungai le mani dietro la sua testa per legarne i lacci con fare sicuro. Quindi cercai il cappuccio e lo sollevai. 
«Posso chiedervi almeno com'è andato l'incontro con Imriel?» domandai prima che quel contatto così ravvicinato potesse di nuovo far emergere le mie debolezze. 
«Posso solo dirti grazie.»
Fermó le mie mani mentre le sistemavo il bordo del cappuccio ai lati del viso e io intercettai i suoi occhi attraverso le fessure della maschera. 
«Infinitamente grazie.»
Mi bació. 
Mi bació come non l'aveva mai fatto prima, senza sensualità, senza malizia, ma con una passione colma d'amore, così assoluto e puro che dentro di me esplose in un ruggito il suono del nome di dio. Restai inebetita a guardarla quando si staccò dalle mie labbra, finché sorrise e sussurró «Credo che dovremmo andare ora.».

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Capitolo 13
*** L'ultima notte ***


Era da poco passata la mezzanotte quando, indossata la maschera e levato il cappuccio, varcai l'arco d'ingresso e salii le scale. Mélisande incedeva alla mia sinistra, appena un passo dietro di me, il viso mascherato rivolto ossequiosamente verso il basso, in un atteggiamento così umile che nemmeno io avrei mai potuto pensare fosse lei.
Giunta al piano di sopra, nonostante nessuno avesse preannunciato il mio arrivo, tutti gli ospiti, chi subito chi dopo qualche istante, volsero a me l'attenzione: chi stava parlando si ammutolì, chi stava flirtando si fermó, chi stava suonando l'arpa si bloccó, chi già si era appartato lentamente comparì. Prima che arrivassi al mio scranno tutti gli occhi dei presenti erano su di me, e su Mélisande, nel silenzio più totale. Io sorridevo, dissimulando il disagio che mi dava, salutando con un cenno del capo tutti coloro che incontravo lungo il cammino, i quali mi rispondevano con profondi inchini.
Salita sul palchetto mi volsi alla platea e l'abbracciai con uno sguardo, cercando involontariamente di individuare Imri tra quei ragazzi, benché mi fossi imposta di evitarlo.
«Benvenuti miei cari» proclamai «Non è mia intenzione tediarvi con lunghi discorsi e rubare tempo prezioso a questa notte che è tutta per voi. Come sapete non mi tratterrò molto qui per non esservi di disturbo né motivo di distrazione, perciò voglio subito ringraziarvi di cuore per la vostra presenza e incoraggiarvi a prendere parte a questa serata dimenticando i precetti a cui siete stati educati, i dettami cui il vostro corpo ormai obbedisce inconsciamente.
Nel nome di Naamah, nelle ore a venire liberatevi di tutto ciò che rappresentate, liberatevi di tutto ciò che da voi ci si aspetta e per questa notte siate soltanto voi stessi.
Amate soltanto a vostro piacimento.»
Seguì uno scroscio di applausi, mentre io andavo a prendere posto sul mio scranno e Mélisande si appostava accanto a me. Davanti ai miei occhi la sala riprese vita dopo la mia interruzione e io, pur non volendo, di nuovo mi trovai a cercare di riconoscere Imriel in mezzo a quelle figure nere così uguali tra loro da confondere la vista. Era tutto come avevo immaginato, come Mélisande aveva pianificato, forse anche più disorientante e anonimo a giudicare dal fatto che, nonostante li avessi da poco visti senza maschera uno per uno, mi era impossibile identificare qualcuno di quei ragazzi. I costumi che indossavano mostravano ben poco, giusto una striscia del petto, la curvatura dei seni delle adepte più formose, il collo, la bocca, al limite anche il colore degli occhi se ci si avvicinava molto. Dalla mia postazione distinguevo giusto gli uomini dalle donne, faticando nel caso di un paio di ragazzi particolarmente esili. Nonostante questo, non molto tempo dopo il mio arrivo, fu impossibile non distinguere quella camminata, quel modo di muoversi e quel cercare invano di evitare il mio sguardo. Guardai altrove, cercai di distrarmi e di lasciar correre il tempo, ma il suo atteggiamento sembrava immutabile. Allora girai la testa verso Mélisande e con un gesto della mano la invitai ad avvicinarsi.
«Pensate sia troppo presto per lasciare la festa?» le chiesi coprendomi la bocca per evitare per sicurezza che qualcuno potesse leggere il labiale.
Vidi le sue labbra allargarsi in un sorriso, quindi anticipai la sua battuta.
«Non gongolate, non è per la mia impazienza, è per lui: mi sembra a disagio con noi qui.»
Alzó di scatto il viso mascherato a guardare la sala, la bocca che abbandonava ogni traccia di divertimento.
«Tu riesci a riconoscerlo?»
La sua domanda fu un sussurro strozzato, incredulo.
«Sì» risposi mio malgrado.
Restò lì, a scrutare, a cercare, a rendersi conto, sebbene già lo sapesse benissimo, che lei non poteva. Non ne avevo motivo, ma mi sentii in colpa. 
«Non commiserarmi» digrignò.
«Non saremmo qui se ne fossi capace.»
Tacque restando a fissare quegli sconosciuti che le apparivano tutti uguali, quindi disse piano «Cosa sta facendo?»
«Niente. È uno dei pochi ancora solo.»
«Se credi che possa dipendere dalla nostra presenza, andiamo.»
Mi alzai. Volti mascherati si girarono subito a guardarmi, qualcuno lo fece con ritardo, qualcuno non lo fece proprio, ormai troppo preso dal proprio partner per accorgersi di me. Sorrisi, feci un profondo inchino e m'incamminai decisa verso la scalinata, seguita dalla mia insolita dama. Ora che sapevo qual era, mi sentivo addosso lo sguardo di Imriel e per un breve istante lo incrociai. Impossibile interpretarlo, immaginare i pensieri che celava, se e quanto in qualche modo quella giornata lo avesse già cambiato. Se, vedendomi passare insieme a sua madre, ancora mi biasimasse o invece mi vedesse solo per ciò che ero: la creatura forgiata dagli dei e segnata da Kushiel per compensare la sua troppo perfetta discendente.
Sospirai di sollievo quando aprii la porta delle nostre stanze private, come se fossi giunta in salvo dopo una fuga. Un pensiero davvero bizzarro sapendo ciò a cui stavo andando incontro, ma in quel momento, concentrata com'ero su Imri, non realizzai altro. Una sola lampada forniva luce in quella prima camera, contrastando con la forte luminosità esterna, dandomi un primo lieve assaggio dello smarrimento in cui sarei sprofondata di lì a poco. Appena varcata la soglia mi girai verso Mélisande per parlarle di Imriel, dei suoi sguardi, ma lei troncò sul nascere le mie ingenue intenzioni.
«Spogliati.»
Colta alla sprovvista, rimasi immobile, basita a guardarla come se non avessi capito.
«Subito.»
Le mie mani allora si portarono alla spilla che avevo sul petto, l'aprirono e scostarono il mantello per farlo cadere oltre le spalle. Andarono poi a cercare i lacci dietro la testa e ne sciolsero i nastri lasciando che la mia maschera cadesse a terra. Mélisande non si mosse, né disse una parola. I suoi occhi mi scrutavano dalle fessure della sua maschera, appena visibili, distanti, in attesa. 
Mossa da un'educazione che era ormai impressa nelle mie vene e da un istinto che con lei si faceva più potente, feci un passo in avanti, mi inginocchiai ai suoi piedi e alzai il viso, adulante, ad aspettare un suo gesto, un suo comando, un suo castigo.
Lentamente, ai margini del mio campo visivo, la sua mano destra si mosse verso la mia nuca, la sentii insinuarsi tra i miei capelli in una carezza soddisfatta. Dall'alto il suo viso, ancora mascherato e oscurato dal cappuccio che vi calava sopra, continuava a osservarmi vuoto e inespressivo. Così anonimo da farmi pensare che potesse nascondere un'altra persona e mentre il tarlo del dubbio s'insinuava in me, di nuovo la sua mano scivoló in un delicato movimento alla base della mia testa, dandomi un brivido. Quel tocco mi era sconosciuto, eppure quello che sentivo era il profumo di Mélisande, ne ero certa. Forse. Una terza carezza mi spinse verso di lei, fino a farmi appoggiare una guancia alla stoffa liscia del mantello. Così vicina, il suo profumo mi avvolse più intenso, rassicurandomi, ma la sua mano si mosse nuovamente, a sfiorarmi il viso, così dolce da confondermi di nuovo. Era il suo profumo, vero? Inarcai maggiormente il collo per poterla guardare meglio, piegando in su la testa alla ricerca dei pochi lineamenti che avrei potuto vedere, delle sue labbra scoperte, ma ciò che i miei occhi riuscirono a catturare fu solo qualche forma indefinita nella penombra. Un'altra carezza, giù fino al collo, una lieve pressione contro la sua coscia mi indusse a strusciarmici, a desiderare di farlo sulla sua pelle, ma lei non faceva che osservarmi protetta dall'oscurità e muovere quella mano, sempre più gentile, premurosa, sempre meno da lei, alimentando in me sgomento ed eccitazione. Non sapevo più che pensare, se dare adito al sospetto e tentare di recuperare lucidità prima che fosse troppo tardi o lasciarmici cullare inerme mentre la paura diventava pulsione. Era Mélisande a toccarmi? Era lei con me in quella stanza? Dischiusi gli occhi che l'accondiscendenza insita del mio corpo faticava a tenere aperti e li gettai ancora una volta verso l'alto, ancora una volta invano. E intanto quella mano mi adulava, morbida e languida, il mio fiato si faceva corto, i pensieri sempre più vacui e il panico ammorbava relegato ad uno stato di quasi incoscienza.
D'improvviso le sue dita si irrigidirono tra i miei capelli, le sue unghie mi graffiarono la cute e con forza mi premette a sé quasi ad affogarmi contro la stoffa che copriva la sua nudità.
«Hai paura, Phèdre?»
Gemetti, di sollievo, per quel contatto violento, per quel gesto familiare, per quella voce gonfia di passione nel pronunciare il mio nome.
«Di voi sempre.»
Non potevo vederlo, ma sapevo che stava sorridendo. Mi tenne ancora così, poi lasciò di scatto la presa su di me, facendomi vacillare sulle ginocchia e sentire all'improvviso tutta la vulnerabilità del mio corpo nudo al suo volere.
«Preparami un bagno caldo.»
Battei le palpebre. Non solo non me l'aveva mai chiesto lei, ma nessuno l'aveva mai fatto, nessuno credo avrebbe mai anche solo pensato di usare me per un compito simile. Non perché fosse umile, né perché io non fossi abbastanza servile da farlo, ma ero un'anguissette, avevo ben altre doti e nessuno si sarebbe mai sognato di sprecare il tempo con me per farmi fare altro che non fosse ciò per cui ero celebre, unica, in tutto il regno.
«Devo ripetere?» domandò alla mia stupita immobilità.
Mi alzai solerte e su gambe incerte mi diressi in bagno. Misi subito l'acqua a scaldare, sapendo che serviva tempo, e intanto cominciai ad accendere candele e preparare gli olii. Mélisande si palesò con molta calma, ancora mascherata e ammantata, ma la luce, che avevo reso maggiore in quella stanza, mi consentiva finalmente di vedere chiaramente che era lei. Si appoggiò al bordo della vasca e restó lì a osservarmi mentre finivo di allestire il necessario. Poi mi si avvicinò, mi si pose alle spalle e mi oscurò la vista con una benda. Mossi le mani con l'istinto di impedirglielo, ma mi bloccai prima di alzarle.
«Perché?» chiesi soltanto
La domanda la fece fermare un attimo, poi riprese a fare il nodo dietro la mia testa, lo strinse con forza e lo usò per tirarmi a sé con rabbia.
«Te lo devo spiegare?»
Ero sua quella notte, poteva fare di me tutto ciò che voleva. Anche impedirmi di vedere cosa. Anche se questo, soprattutto quella notte, mi spaventava a morte. Anzi, quella ne era di certo la causa principale.
«No.»
Intrappolata dalla totale oscurità, sentii il suo mantello solleticarmi la pelle mentre si allontanava da me e poi il nulla. Mi lasciò lì, sola, nel silenzio, unico mio punto di riferimento il bordo della vasca a cui mi aggrappavo con dita bagnate. Potevo solo immaginare che lei fosse lì da qualche parte a guardarmi, a godere della paura che saliva ad accelerarmi il respiro.
Lo sciabordio improvviso dell'acqua mi fece sussultare, facendomi stringere le mani al marmo. Stava entrando nella vasca: era così vicina che riuscivo ad avvertire la sua presenza, lo spostamento d'aria dei suoi movimenti e infine il lungo sospiro rilassato quando si adagió. L'effluvio degli olii riempì la stanza e poi sentii solo il gocciolio dei suoi gesti sporadici. Non disse una parola per tutto il tempo, né mi toccó, sebbene dovesse essermi vicinissima, mentre io stavo lì in piedi, nuda e cieca, alla mercé del suo sguardo e del suo prossimo capriccio. La mia mente intanto non faceva che congetturare, tentare di prevedere e capire quanto stava per succedere, ma non accadeva nulla e l'attesa si faceva sempre più frustrante.
Un altro improvviso scroscio d'acqua mi scosse non saprei dire quanto tempo dopo, facendomi intuire che si stava alzando. Senza mai staccare le mani dal mio solido approdo marmoreo, cercai di seguire i rumori che facevano i suoi movimenti, i suoi passi, il suo respiro, per immaginare dove fosse, cosa facesse, ma sembrava spostarsi silenziosa come un felino e presto la persi, ritrovandomi di nuovo immersa nel mio disorientante e assordante vuoto. Ancora, a lungo, ad aspettare la prossima mossa, sempre più inquieta e impaziente che quell'eterna attesa cessasse. Ma la tortura invece si protraeva fomentando la mia curiosità, tramutandola in una bramosia che quell'infinita sospensione rendeva anelante, soffocante, perché Mélisande sapeva come infliggerla in modo magistrale e io e il mio avido corpo ne eravamo dannatamente suscettibili.
All'improvviso mi sentii afferrare la faccia da dita calde che mi stringevano le guance tanto da piantarmici le unghie e farmi respirare a fatica. Un forte strattone mi costrinse a girare la testa e poi a lasciare la sicura presa sul marmo, dandomi una sferzata di smarrimento, finché labbra fameliche avvinghiarono le mie in un bacio feroce che mi tolse quel poco fiato che avevo.
In uno stato di stordimento e smania montante, le mie mani cercavano il contatto con la mia predatrice, per potermi stringere a lei, per poter trovare in lei l'appiglio della mia instabilità, ma lei mi cacció prima che potessi farlo, spingendomi via così brusca che non caddi indietro soltanto perché lei ancora brandiva in mano il mio viso. Il suono sgraziato del mio faticoso respirare copriva qualsiasi altro rumore mentre restavo lì immobilizzata, in sua balìa, fino a quando le sue dita cominciarono a muoversi irruente sulla mia pelle, sulle mie labbra, dentro la mia bocca. E allora la sentii mugugnare, compiaciuta, subito prima di ritrarre la mano.
E fu un'altra lunga pausa, un altro vuoto interminabile e snervante.
Sussultai quando una familiare fascia di cuoio mi avvolse il collo. La fibbia lo serró soffocante e uno strattone mi fece barcollare in avanti una volta, poi un'altra, facendomi capire che dovevo seguire la mia padrona, di nuovo al suo guinzaglio. E non importava che non potessi vedere, sapevo dove mi stava portando. Per questo sorrisi quando ci fermammo e il collare mi trascinò in basso fino a farmi sbattere le ginocchia e la mani sul tappeto, fremetti quando udii lo sferragliare delle catene e ansimai nel sentirmi premere l'addome contro il poggiapiedi avvolta dal profumo di Mélisande mentre mi tirava le braccia dietro la schiena bloccandole per i polsi.
«Il tuo signale è ancora lo stesso?» sussurró al mio orecchio, premendomi sotto il suo peso.
«Sì.»
Mi tiró per i capelli in modo che tenessi la testa dritta in avanti, rivolta, immaginavo, allo specchio in cui stava ammirando il suo dominio alla mia totale sottomissione e la sua voce suonò minacciosa quando bisbigliò «Sei pronta, Phèdre?»
E io gemetti «Sì, mia signora».
Fu come sprofondare nel mare del tempo ed emergere trent'anni prima, nella notte del solstizio d'inverno che avevo trascorso insieme a lei. Ritrovai le stesse sensazioni, le stesse feroci emozioni e, Elua, per quanto odio avessi provato per lei da allora, anche gli stessi identici sentimenti. Se non posso raccontare con orgoglio di quella prima volta per l'ingenuo abbandono che le concessi, a maggior ragione non ho nulla di cui andare fiera di quanto accadde dal momento in cui mi incatenó: la prima volta ero poco più che una ragazzina, sciocca, innamorata e presuntuosa nel mio ritenermi esperta e capace nelle arti a cui Delauney mi aveva istruita, ma ora che ero una donna, matura, disillusa e segnata dai traumi a cui proprio Mélisande mi aveva sottoposta, mi comportai nella stessa indegna maniera.
Si sollevò da me solleticandomi i fianchi con il mantello che doveva aver indossato di nuovo dopo il bagno. La mano che mi aveva stretto i capelli scese lungo la mia schiena, seguendo, credevo, il disegno della marque. Forse guardò anche quello, ma la sua attenzione andò ad altro.
«È qui che Selig ti ha tagliato via la pelle?»
Dilatai gli occhi nella cecità della benda che li oscurava e tremai sotto il tocco leggero delle sue dita. Nessuno, nemmeno Joscelin, mi aveva mai detto che ne portavo ancora il segno. Quello era stato per me e per tutto il regno il momento della disperazione più totale, il momento in cui tutti abbiamo pensato fosse giunta la fine, un momento che avevo cercato di cancellare dalla mia mente. E ora, sentirlo ricordare da lei, lei che di quel momento era stata l'indiretta artefice, lei che sapevo avrebbe avuto la scelleratezza di riaprire quella ferita, non in senso figurato, mi fece rabbrividire di un terrore che avevo provato poche volte in tutta la mia vita. E mentre la sua domanda cadeva nel mio muto assenso, con un'unghia tracciò la riga netta del taglio accanto alla mia scapola sinistra e il dolore, il dolore più straziante che avessi mai provato, riemerse dalla memoria a percorrermi ogni terminazione nervosa, dilagando opprimente fin dentro le ossa e nello stomaco. I miei polmoni si gonfiarono, avvertii la gola pronta a cedere a un grido, per il solo ricordo, per la sola angosciosa paura. Ma Mélisande interruppe il contatto, rise e tutto si spense.
«No, Phèdre, non ho intenzione di scimmiottare giochi che hai fatto con altri. Non ripeterò nemmeno quelli che hai già fatto con me. Anche se questo restringe davvero tanto il campo.»
Con calma si alzó, un lembo del suo mantello mi scivolò sulla pelle mentre si spostava alla mia sinistra, un attimo dopo l'avevo persa. La cecità a cui mi costringeva acutizzava per natura gli altri miei sensi, il bisogno che avevo di capire dove fosse e prevedere le sue azioni mi imponeva di concentrarmi su ognuno di essi portando forzatamente la loro sensibilità all'estremo, ma nonostante le mie orecchie fossero pronte a cogliere il minimo palpito, la pelle di tutto il mio corpo tesa a catturare il più flebile alito d'aria, non riuscivo a percepire la sua presenza e quando si palesò, lo fece versandomi addosso un dolore così improvviso e acuto che non capii nemmeno cosa mi avesse fatto, dove. Rantolai, mi inarcai e poi mi accasciai sullo stomaco. Boccheggiai. Giusto un attimo. UnUn altro rivolo di dolore lungo la schiena e di nuovo mi mossi istintivamente per deviarlo da un lato, accoglierlo dall'altro tra brividi che mi s'irradiavano e mi bruciavano giù tra le cosce. Compresi alla terza volta che mi stava rovesciando cera bollente. E alla quarta riuscii a farglielo fare gemendo immobile e allora mi accorsi cosa stava facendo di preciso: con la cera stava tracciando la linea vicino alla mia scapola sinistra, lì dove Waldemar Selig aveva iniziato a spellarmi viva vent'anni prima.
«Ho in serbo per te qualcosa di davvero speciale, Phèdre. Questo non è che il primo assaggio.»
Così fu.
Andò avanti a lungo, bruciando e torturando la sensibilità della mia pelle scottata. All'inizio sulla schiena, poi mi mise supina e riservò lo stesso trattamento al mio ventre finché all'improvviso si fermò e mi liberò dalla benda sugli occhi. Battei le palpebre infastidita dalla luce, in realtà scarsa, e mi ci volle tempo per riuscire ad abituarmi, tempo che lei attese per permettermi di vedere chiaramente la cera che mi colava addosso, spostandosi sempre più pericolosamente sulle mie parti più sensibili, più intime. Ma quando vi giunse la mia vista era obnubilata: il volto di Mélisande fluttuava sopra di me immerso in una cortina cremisi e il mio corpo rispondeva non a me, ma alla depravazione della mia carnefice. Totalmente folle la lasciai fare, anzi le mie gambe si divaricarono invitandolo a proseguire, i miei fianchi si incurvarono cercandola, pregandola di andare avanti. Vidi i suoi occhi accendersi di stupore, le sue labbra muoversi a sussurrare qualcosa che non compresi. E fu lei a fermarsi, prima di spingersi troppo oltre. Allora sentii su di me, ovunque, le sue mani, la sua bocca, la sua brama, la sua voracità cieca e feroce. E altre torture, nuovi supplizi, strumenti che lei stessa aveva creato, per me, per quella notte. E io… io l'assecondai, come la dannazione di Kushiel mi obbligava a fare, lasciandomi condurre nel baratro più fosco della mia passione fino allo stremo della sopportazione della carne. Fino a rischiare di superarlo, fino a desiderare disperatamente di lasciarle fare qualcosa di irreparabile, fino a quando nello specchio vidi il riflesso del volto di Kushiel, nelle mie orecchie sentii rimbombare il battito delle sue ali e lo sguardo di Mélisande si sovrappose a quello del dio mentre invocava i miei occhi e mi imponeva il muto comando di gridare.
«Hyachinte!»
Gemetti il signale in un brivido che si irrorò in me travolgente, mentre il mio sangue ruggiva impetuoso in un'onda cremisi che sommerse tutto il resto.
Quando tornai in me ero a terra, sdraiata sul tappeto, le mani e il collo liberi dalle catene. Non ero caduta. Avevo un vago ricordo delle braccia di Mélisande che mi sorreggevano la schiena dolorante accompagnandomi, mentre il mio corpo si accasciava esanime all'indietro. Ora lei era inginocchiata al mio fianco, il suo viso sopra il mio ad accogliere con un sorriso compiaciuto il mio sguardo che riprendeva vita.
«Hai bisogno di riposarti?» mi chiese sottolineando un implicito che bastò a risvegliare i miei sensi.
«No.» Inspirò, soddisfatta della mia risposta, sorrise mentre con una carezza mi riportava il collare attorno al collo, poi lo usò per trascinarmi su, perché la baciassi.
Ogni gioco ha le sue regole, quelli che contemplano la nostra sfera religiosa soprattutto e secondo dettami insiti nella cultura angeline, usare violenza su una serva di Naamah dopo l'uso del signale era a tutti gli effetti un sacrilegio. Lo sapevamo entrambe, ma con quel bacio avrei sancito la mia complicità nel lasciarglielo commettere, perché le avrei così concesso di profanare anche la mia ultima sacra difesa, a cui poi non mi sarei più potuta aggrappare.
La baciai.
A quel punto, disarmata di ogni regola che avrebbe potuto proteggermi, le permisi di farmi tutto quanto la sua perversione poteva sognare, arrendevole e succube di ogni suo capriccio, conscia di non poter più fare appello al signale per fermarla e per questo mostruosamente eccitata. E lei usò quella libertà, violentandomi in tanti di quei modi, fisici e psicologici, da non poterli raccontare, maestra però nel dosare il dolore che mi infliggeva, attenta a non spezzare il perfetto equilibrio su cui si fondava l'essenza stessa del nostro reciproco amore.
Non ho davvero idea del tempo che passammo in quel modo, ricordo solo che terminò non diversamente da quanto era accaduto trent'anni prima, con me che, non paga di tutto ciò che avevo subito, finii per chiderle di più, per implorarle ancora una volta di avere lei. Mélisande. Solo lei, e io. Su quella poltrona, senza fruste, staffili, lame, legacci, senza alcun tipo di gioco in mezzo a noi. Eravamo io e lei soltanto. E tutti i sentimenti accumulati nella nostra lunga e contorta storia, tutte le emozioni che la nostra rivalità ci aveva costrette a trattenere e tutta la terribile consapevolezza che ci stavamo dando l'addio.
Avevo già conosciuto il suo lato premuroso, trent'anni prima sul letto della sua stanza a Città di Elua avevo provato la sua gentilezza nel prendersi cura di un'anguissette innamorata che le aveva dato tutto. Questa volta fu decisamente qualcosa di più, questa volta mi lasciò vedere tutta la sua reale passione per me, Phèdre no Delaunay de Montreve e io mi ci crogiolai abbandonandomi ai miei più intimi desideri. Ero esausta quando, dopo aver fatto il bagno, mi chiese cosa volessi fare del resto della notte. Non mi ero aspettata che me lo chiedesse, a essere sincera non avevo voluto riflettere su ciò che avrei fatto dopo la notte con lei. E non volli farlo nemmeno in quel momento: ero stanca, la notte per quel che sapevo non era ancora finita ed era l'ultima occasione che avevo per stare con lei. Dimentica della festa, degli ospiti, persino di Imriel e Joscelin, volevo egoisticamente solo che quella parentesi idilliaca perdurasse.
«Credo che potremmo riposare, no?» dissi.
«Sei tu a condurre ora, Phèdre. Il mio turno è finito quando hai dato il signale.»
Sorrisi, mentre mi sedevo sul letto.
«È andato tutto come avevate immaginato?»
Si avvicinò e mi osservò oserei dire soddisfatta.
«Anche meglio» restando in piedi davanti a me, affondò lenta le mani tra i miei capelli «In un modo o in un altro riesci sempre a superare le mie aspettative.»
Cacciai l'inopportuno senso di colpa che il doppio senso di quella frase era riuscito a insinuarmi e chiesi «Cos'avreste fatto se avessi gridato il signale per la cera?»
Rise guardandomi con tenerezza.
«Sarei rimasta delusa. Ma sapevo che non sarebbe successo.»
«Allora perché vi siete stupita?»
Le sue mani si mossero languide tra i miei capelli.
«Non credevo mi avresti addirittura supplicata in quel modo di andare avanti» si abbassò per avvicinarsi al mio viso «Non esiste in tutto il mondo una come te, Phèdre. Lo so perché l'ho cercata, invano.»
Mi baciò e fece ancora una volta l'amore con me. Elua! Prima di quel momento non avevo mai avuto la netta sensazione di aver tradito Joscelin.
Con quel pensiero mi addormentai e fu la prima cosa che mi venne in mente quando mi risvegliai, chissà quanto tempo dopo. Era un ragionamento strano per me, quell'idea non mi aveva mai attraversata prima, com'era normale che fosse: sono angeline, il concetto di tradimento d'amore non mi appartiene, non ne avevo mai colto il senso. Mai prima di quella notte. Nella scarsa luce che fornivano le due sole candele ancora accese nella stanza, voltai la testa a guardare il corpo di Mélisande accanto al mio, ma trovai il letto vuoto. Mi alzai di scatto, accesi la lampada a olio e corsi nella stanza da bagno, nello studio, nel salotto all'ingresso. Mélisande non c'era.

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Capitolo 14
*** La lettera ***


Vagai ancora tra le stanze con il cuore in gola, finché, con il panico che mi ghermiva lo stomaco, mi arresi all'evidenza, spalancai la porta e chiamai Joscelin con tutta la voce che avevo in corpo. Continuai a gridare il suo nome fino a quando lo vidi accorrere nel corridoio illuminato dalle tenui luci dell'alba.
Stavo per dirgli cos'era successo, ma lui mi travolse tirandomi per un braccio dentro la stanza, chiuse la porta e solo allora mi fece capire che potevo parlare.
«È scomparsa!» sussurrai.
«Che significa?» replicò esterrefatto guardando nel buio oltre le mie spalle.
«Mi sono addormentata, non so quando, non so per quanto tempo. Al mio risveglio lei non c'era più!»
«Hai guardato… ?»
«Ovunque, Joscelin, ovunque. È fuggita!»
«Non può essere. Ho visto io di persona tutti quelli che se ne sono andati finora.»
«C'è ancora qualcuno?»
«Sì» si voltò indietro e poi tornò a guardarmi, prendendomi per le spalle con fare sicuro «Resta qui. È meglio far uscire tutti gli adepti prima di occuparci di altro.»
Mi lasciò e si girò per andarsene, ma lo fermai.
«Imriel?»
«È andato via. Non molto tempo fa.»
Sospirai di sollievo. Almeno non avrebbe assistito.
Rimasi di nuovo sola e di nuovo perlustrai ogni stanza, accendendo tutte le lampade e le candele che trovai, non potendo aprire le finestre che avevo fatto chiudere dall'esterno. L'unica traccia di Mélisande erano il mantello e la maschera, che giacevano a ridosso della poltrona, dove glieli avevo tolti. Il suo profumo. Nient'altro.
Aspettando che tornasse Joscelin, andai a prendere il mio mantello ancora ammassato sul pavimento all'ingresso, lo indossai e poi mi lasciai cadere a sedere sul letto.
Mi aveva ingannata. Perché me ne stupivo? Il mio istinto aveva tentato in tutti i modi di mettermi in guardia, ma non avevo voluto dargli ascolto. I sensi di colpa ora mi mordevano inferociti e la delusione, Elua, la delusione per quell'ennesimo tradimento mi graffiava il cuore. Mi aveva ingannata. Come aveva potuto farlo dopo tutto ciò che le avevo concesso? Come aveva potuto dopo tutti i giuramenti, i ringraziamenti, tutte le belle parole con cui… con cui mi aveva solo abbindolata. Mi ero fatta ingannare. Accecata dai miei insani sentimenti, mi ero illusa come una sciocca di ritrovarli anche in lei. Più passava il tempo più la paura che avevo provato in un primo momento per le conseguenze di quella fuga faceva spazio al dolore per la ferita che quella fuga significativa.
Quando Joscelin entrò mi trovò ancora lì seduta. Lo guardai senza muovermi.
«Sono andati via tutti» mi disse «Chi era ancora qui ha ovviamente capito che è successo qualcosa. Presto cominceranno a circolare voci in città.»
Ero così afflitta che non ne compresi la gravità e restai lì a fissarlo senza dire nulla.
«Nessuno è uscito, tranne Imriel e gli adepti. Non c'è un solo punto della villa scoperto. Dev'essere ancora qui, i cassiliani stanno perlustrando tutte le stanze e i passaggi della villa. Tu sei sicura di aver controllato tutto qui?»
«Non c'è. Non c'è! Guarda tu stesso!»
Lui ampliò lo sguardo alla stanza. Mi resi conto di quanto fossi stata crudele a suggerirglielo solo quando mi chiese «Tu come stai? Sei ferita?» In quel momento capii che aveva ovviamente visto tutto ciò che Mélisande aveva usato su di me quella notte e mi sentii male, alzando gli occhi e vedendolo là, tra quelle stesse mura in cui solo poche ore prima avevo concesso a quella donna di prendersi non solo il mio corpo, ma anche ciò che fino ad allora avevo dato solo a lui: il mio cuore. Fu quel pensiero a riscattarmi e a mutare la mia tristezza in rabbia e risolutezza.
«Dobbiamo trovarla» dissi invece di rispondere, poi feci mente locale e gli chiesi di darmi l'ordine in cui erano andati via gli adepti, cosa che si era appuntato come gli avevo suggerito. Cominciai a controllare l'elenco cercandoci qualcosa che potesse fornirmi un indizio.
«Nessuno ha notato nulla di particolare?» chiesi senza smettere di leggere.
«No.»
«Hai lanciato il segnale per gli tsingani?»
«Sì. Nessun avvistamento neanche da parte loro, per sicurezza stanno allargando il campo di ricerca oltre le colline.»
«Emeric?»
«Emeric è sempre stato al suo posto. Ora è in cucina, sotto sorveglianza.»
«L'hai interrogato?»
«Ho pensato volessi farlo tu.»
Annuii mentre qualcuno bussava alla porta. Joscelin andò ad aprire, io restai lì a sentire ciò che mi aspettavo: non c'era traccia di Mélisande in tutta la villa.
Deposi il foglio con la lista dei nomi accanto a me sul letto e poi mi alzai, decisa ad andare ad interrogare Emeric, quando un refolo d'aria freddo e umido mi toccò i piedi. Mi abbassai rapidamente fino a mettere la faccia sul tappeto per guardare sotto il letto. Si sentiva freddo, come se ci fosse qualcosa di aperto. E odore di terra bagnata. Mi spinsi sotto il letto allungando le braccia sul tappeto finché lo sentii cedere sotto la pressione della mia mano. Rabbrividii intuendo cosa fosse, quindi tornai indietro in fretta per togliermi di dosso il mantello e prendere una lampada per poi strisciare di nuovo di sotto, più avanti. Scoprii che il tappeto aveva due lunghi tagli perpendicolari che si incrociavano a coprire una buca, come avevo intuito. Ignorando il dolore che lo sfregamento mi causava alle ferite che Mélisande mi aveva inferto, mi ci trascinai dentro, rovinando malamente nel buio su qualcosa di morbido. Mi sollevai sbattendo la testa sul fondo del tappeto, allungai le braccia a prendere la lampada e illuminai un tunnel che si allargava davanti ai miei occhi increduli. Restai paralizzata dallo stupore e dalla rabbia: quel passaggio doveva essere sempre stato lì e io non me n'ero accorta.
«Phèdre?» chiamò ovattata la voce di Joscelin da sopra.
Mi ripresi bruscamente: Mélisande era là sotto, forse non era ancora tutto perduto.
«C'è un tunnel» dissi a voce alta, producendo una cupa eco «Vai a chiamare qualcuno che possa scendere qua sotto.»
«Ti aiuto a risalire.»
«No, vai!»
Mentre sentivo lo scalpiccio dei passi di Joscelin che si allontanavano, cercai appigli per tornare in superficie andando ad urtare con un piede contro qualcosa di rigido, avvicinandomi illuminai un riquadro di cuoio piegato su sé stesso e chiuso con un laccio, lo afferrai senza curarmi di cosa fosse, quindi mi issai fuori dal tappeto e poi dal letto, dove Joscelin già stava arrivando con uno dei suoi uomini. Avvolgendomi nel mio mantello, li osservai muta mentre insieme spostavano il letto, portando alla luce l'ingresso del tunnel che il cassiliano sconosciuto varcò poco dopo. Joscelin stava per seguirlo, ma lo fermai colta solo in quel momento da un sospetto.
«Aspetta» bisbigliai «Potrebbe essere una trappola. Manda qualcun altro insieme a lui.»
Mi guardò torvo: non era da lui mandare qualcuno a rischiare la pelle al posto suo, non era nemmeno da me, ma in quel momento non mi importava.
«Non lascerò che mi porti via anche te. Manda qualcun altro.»
Così fece, suo malgrado e restammo lì a fissare il tappeto mentre la stanza si illuminava man mano che le finestre venivano aperte dall'esterno.
«Quello cos'è?» mi chiese Joscelin, indicando l'involto di cuoio che ancora stringevo inconsapevolmente.
«L'ho trovato laggiù.»
Slacciai i nodi, lo aprii e mi sedetti sul letto. Racchiuse al suo interno c'erano due lettere, sigillate con il marchio degli Shahrizai. Una era per me, una per Imriel. La calligrafia di Mélisande.

 

Phèdre,
le circostanze mi costringono a scrivere queste righe in anticipo, ma se tutto domani andrà secondo i miei piani, sarai amareggiata quando leggerai questa lettera. Starai pensando che ti ho mentito, che ho tradito la parola data, bestemmiato giurando il falso.
Ti sbagli.
Sì, me ne sono andata, ma non ho mai detto il contrario. Se ripensi a fondo alle mie parole e ai miei giuramenti ti renderai conto che mai, mai, ho detto che sarei rimasta dopo la notte della festa, mai ho detto che mi sarei consegnata alla giustizia, mai ho detto che mi sarei fatta portare da te al patibolo.
Tu l'hai detto.
Tu l'hai pensato.
Tu hai voluto crederlo.
Io ti ho semplicemente giurato di non avere altra intenzione se non quella di rivedere mio figlio, ti ho giurato che non avrei torto capello a un solo angeline, ti ho giurato che non avrei in alcun modo arrecato danno alla regina e alla sua famiglia.
E così è stato, così è e così sarà.
Ora, so che comunque cercherai di seguirmi, crederai di potermi ritrovare da sola, poi presa dalla disperazione andrai a cercare aiuto a Città di Elua, da Ysandre, confessandole tutto. Non mi troverete, ma vai pure, conoscendoti so che non mancheresti di riferire comunque tutto l'accaduto a lei, angosciata dall'idea di aver deluso la sua fiducia, di aver tradito il regno e di meritare una condanna esemplare. Impedire alla tua immacolata coscienza di darti il tormento non è in mio potere, ma ti ho giurato che non avresti pagato conseguenze accettando il patto con me e non ne pagherai. L'incolumità del trono è appesa a un giuramento che ho fatto a te, farò in modo di ricordarlo alla regina affinché non tocchi né te, né chiunque altro io abbia coinvolto.
Quanto a Imriel, non serve che tu gli spieghi nulla, l'ho fatto io stessa nella lettera che hai trovato insieme a questa. Leggila, se vuoi, ma assicurati, ti prego, che lo faccia lui, altrimenti tutto quanto riuscirò a costruire domani con lui verrà vanificato.
A questo proposito, non so se domani avrò modo di ringraziarti per la possibilità che mi dai di parlargli. Credo che tu ora possa capire cosa significa questo incontro, per questo sapevo che non me l'avresti negato. Patto o meno.
Ho giocato d'azzardo, Phèdre, puntando la mia stessa vita su di te, sulle tue reazioni, su tutto ciò che di te conosco. Il tuo amico tsingano mi consigliò di selezionare con cura le vittorie, questa sapevo che sarebbe stata mia.
Non serbarmi rancore quindi, ho solo giocato bene le carte che tu mi hai mostrato: la tua responsabilità verso Imriel, i tuoi sensi di colpa verso la sua vera madre, il bisogno che hai di me. Non ti ho ingannata, mai, sei tu che non hai mai notato le palesi omissioni nelle mie parole, né la mia via di fuga sotto il nostro letto. La possibilità di smascherare il mio piano l'hai avuta sempre a portata di mano, ma tu non l'hai colta. Lungi da me pensare tu sia una sciocca, no, questo mai, non è certo sulla tua ingenuità che ho scommesso. Solo sapevo che avresti volentieri evitato l'argomento della mia morte, così come che il cassiliano non avrebbe avuto il fegato di perlustrare la nostra stanza e che tu non saresti stata abbastanza lucida da farlo con cura. Non prendertela con me, Phèdre, entrambe sappiamo che in fin dei conti non cogliere quei dettagli è un favore che ti sei concessa.
E non biasimare nemmeno te stessa, perché hai agito assecondando la tua natura e perché la nostra storia a questo punto meritava un degno epilogo. Sì Phèdre, anche su questo non ti ho mentito: è davvero un addio. E lo dico con sincero rammarico, conscia del valore di ciò che sto per perdere, per sempre. Ma è necessario.
Quando leggerai queste righe quindi me ne sarò andata per non tornare mai più. Prego Kushiel di vegliare sulla nostra ultima notte insieme, affinché non ci lasci alcun rimpianto.
Addio.
Mélisande

 

«Phèdre?»
Non so da quanto tempo Joscelin mi stesse chiamando. I miei occhi erano impantanati in quell'ultima parola e non riuscivano a staccarsene.
«È sua?»
Ero attonita. Non sapevo che pensare, non sapevo nemmeno che provare. La paura era scomparsa, la delusione svanita e ora quelle ultime righe avevano spento anche la mia rabbia. Mi sentivo vuota e in quel vuoto quella parola risuonava terribilmente pesante.Addio.
«No!» esclamai quando Joscelin mi sottrasse il foglio, ma non mi scomposi più di tanto, non ne avevo l'energia. Restai seduta dov'ero, a guardarlo scorrere la lettera e tristemente dissi solo «Non leggerla, ti prego.»
Alzò gli occhi. Almeno avevo avuto la decenza di fermarlo.
«Non c'è nulla in quella lettera che possa esserti utile. Ma c'è molto che potrebbe ferirti. Non leggerla.»
Non mi diede ascolto.
I suoi occhi tornarono al foglio che stringeva in mano, la sua mascella si contrasse, poi chiese secco «Dice il vero?»
Annuii mesta.
«Sì, credo di sì. Mi ha… le ho permesso di raggirarmi.»
Buttò a terra la lettera, non con rabbia, piuttosto con disprezzo e poi si girò per dirigersi verso la porta.
«Dove vai?» riuscii a domandargli fermandolo prima che uscisse.
«A prendere Emeric. Lo interroghiamo.»
«Occupatene tu.»
A quel punto si voltò a guardarmi, la porta già aperta.
«Non l'avrebbe lasciato qui se sapesse qualcosa» spiegai «Ad ogni modo gli farei le stesse domande che gli faresti tu. E tu saprai essere di certo di più convincente di me a farlo parlare.»
Uscì senza aggiungere altro e io restai di nuovo in quella dannata stanza, sola con i miei lenti pensieri. Raccolsi la lettera, la lessi e rilessi e ogni volta provai lo stesso stupido ingiusto dolore davanti a quella parola.
Addio.
Nonostante la gravità della situazione non ero capace di fare altro che fissare quel pezzo di carta.
Joscelin tornò relativamente presto, troppo presto, in viso aveva un'espressione truce che non riuscivo a decifrare. Guardò l'ingresso del tunnel prima di guardare me e disse «Quell'uomo non ha la lingua.»
«Cosa?» domandai allibita.
«Emeric è muto. Non dalla nascita.»
Risi, non ero affatto divertita, ma mi venne da ridere. Il servitore perfetto: Emeric era analfabeta e aveva una cicatrice non troppo vecchia al posto della lingua. Nessuno lo disse, ma sono certa che tutti, me compresa, sospettammo che a recidergliela fosse stata la stessa Mélisande.
«Posso torturarlo finché non troverà il sistema per comunicare» mi aveva proposto Joscelin, ma io gli avevo risposto di risparmiarlo, fermamente convinta che anche potendo parlare quell'uomo non ci avrebbe detto nulla: non sembrava preoccupato quand'era stato messo sotto sorveglianza senza che nessuno gli spiegasse il perché, non si era scomposto quando Joscelin era andato a interrogarlo e non aveva battuto ciglio quando aveva saputo che la sua padrona era fuggita abbandonandolo. Sapeva che quello era il suo destino, lo stesso Joscelin glielo aveva letto in faccia, eppure non sembrava spaventato da ciò che avremmo potuto fare di lui. Qualsiasi cosa lo legasse a Mélisande, era per lui più preziosa della sua stessa vita.
«Che vuoi fare ora?» mi chiese quindi Joscelin, una volta stabilito che da quell'uomo non avremmo ottenuto alcuna informazione.
Guardai i tagli nel tappeto che si aprivano sul tunnel: gli uomini che erano scesi là sotto sarebbero potuti tornare indietro ore dopo, se mai sarebbero tornati. Potevano anche già essere morti, per quel che ne sapevamo.
«Phèdre, a Città di Elua le voci staranno già girando. Credo che dovremmo riferire l'accaduto prima che qualcuno venga a chiedere spiegazioni.»
Annuii, gli occhi ancora immobili a fissare il tappeto. Non pensavo a nulla in realtà, quantomeno non fino in fondo. Non ero capace di concentrarmi.
«Phèdre?» Joscelin mi si avvicinò e mi prese il volto tra le mani costringendomi a guardarlo negli occhi «Vuoi che me ne occupi io?»
La mia capacità di ragionare sembrava come schiacciata sotto il peso della mia coscienza. Non gli risposi. Alzai a mia volta le mani al suo viso e dissi qualcosa che mai avrei pensato di dovergli dire «Perdonami».
Ritrasse lievemente il viso per lo stupore e si accigliò. Mi sentivo in colpa verso di lui, ora che Mélisande aveva tradito me ancor di più e mi rendevo conto di aver bisogno di liberarmi di quel peso se volevo tornare in me, ma non sapevo come se non ferendo a morte l'uomo che amavo. Non avevo mai provato nulla di simile.
«Se n'è andata per non tornare mai più» mi anticipò lui «Così ha scritto. Che riesca a fuggire o che si faccia catturare, siamo finalmente giunti alla fine. Qualsiasi cosa sia successa, non succederà ancora.»
Avrei voluto credere anche io che fosse così facile, avrei voluto trarre conforto da quelle parole, ma mi era impossibile, perché in cuor mio io non volevo fosse così. Questo era il problema, questo mi rendeva colpevole.
Uno dei cassiliani ci interruppe bussando alla porta prima di affacciarsi e riferire che un uomo ci cercava: era Silvère, il giovane tsingano a capo delle guardie che pattugliavano per me le colline.
«Un crollo, mia signora» disse il ragazzo con il fiatone «Nelle colline a nord-est si è aperta una voragine nel terreno. Non abbiamo visto nessuno, mia signora, ma mi avete chiesto di riferirvi qualsiasi cosa… »
«Quand'è successo?»
«Il tempo di comunicarlo a me e a me di venire qui.»
Joscelin cercò l'intesa nei miei occhi e io annuii. Sì, poteva benissimo essere crollato  il tunnel. Lui si voltò immediatamente verso il cassiliano e ordinò «Altri due uomini nel tunnel: Clovis e Maxime potrebbero essere in pericolo. Qualcuno segua Silvère a ispezionare il crollo da sopra e intensificate le ricerche in quella zona: il crollo potrebbe farci capire dove conduce il tunnel.»
Non fecero in tempo a partire che un altro tsingano arrivò a riferire di un altro crollo avvenuto in un punto da tutt'altra parte. Ne seguirono altri due e nel frattempo i cassiliani entrati nel tunnel tornarono con la notizia che oramai ci aspettavamo: la galleria era interrotta e di Mélisande non c'era traccia.

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Capitolo 15
*** La raffigurazione di Kushiel ***


Era mattino inoltrato quando arrivammo a Città di Elua, tarda mattinata quando Ysandre mi ricevette in una delle sale private del palazzo reale, sola, per fortuna.
«Phèdre» esclamò venendomi incontro per salutarmi con calore «Accolgo sempre con gioia le tue visite, ma oggi la tua espressione mi preoccupa. Ne ho motivo?»
Mentire non è mai stato un mio talento, perciò di fronte a quella domanda non riuscii nemmeno a tergiversare.
«Mi sono macchiata di una colpa terribile. Perdonatemi, se potete.»
Il suo sguardo si allarmò immediatamente, i suoi occhi mi osservarono acuti.
«Parla» disse.
«Ho incontrato Mélisande. Qui, in Terre d'Ange. Le ho permesso di vedere Imriel. E ora è scomparsa.»
Lo sgomento nel suo sguardo era cresciuto ad ogni mia parola, fino a trasformarsi in terrore.
«Mi ha giurato che non vi avrebbe… »
«I giuramenti di quella donna valgono meno della spazzatura di una porcilaia, Phèdre!»
Con una mano si sollevò le ampie gonne dell'abito, mi diede le spalle e si affrettò a chiamare la servitù. Io restai dov'ero senza fiatare, incerta di essere in grado di trovare il coraggio di replicare a quelle parole, se mai me ne avesse dato la possibilità.
«Vai subito a chiamare il comandante Lefevre» ordinò al servitore entrato poco dopo, mentre questi ancora si stava inchinando.
«Sì, Vostra Maestà» rispose l'uomo mentre estraeva dal sottogiacca un messaggio sigillato e lo porgeva a Ysandre «Questo è stato recapitato questa mattina. Mi è stato detto di consegnarvelo personalmente quando avreste ricevuto la Contessa de Montreve.»
Ysandre sgranò gli occhi e li rivolse a me. Mélisande. Potevo immaginare quale fosse il contenuto, mi aveva avvertita, per questo potevo prevedere anche la reazione che avrebbe sortito. Non dissi nulla, osservai solo la regina congedare il servitore mentre già apriva il sigillo.
«Sai, vero, cos'è questo?» mi chiese Ysandre dopo aver letto.
«Credo di sì. Mélisande mi ha avvisata che avrebbe fatto in modo che io non fossi punita.»
Sospirò stizzita e mi fissò a lungo prima di parlare.
«È incredibile che proprio tu, tu fra tutti i miei sudditi, tu che a causa sua hai sofferto così tanto, tu che da lei hai salvato me e il trono di Terre d'Ange più di una volta, tu debba essere ancora oggi così debole nei suoi confronti da far trascinare te stessa e me in una posizione come questa!
Ogni volta che lei ti tocca, la fiducia e la stima che nutro per te vacillano, ma tu sei il perno su cui si basa la mia protezione e quindi non posso permettermi di dubitare di te. Non posso! Sei il punto più debole e l'arma più potente della mia difesa e a me non resta che pregare il Beato Elua che questo assurdo equilibrio non si spezzi mai. Per quanto sia forte la mia devozione, non mi piace affidare alle preghiere il mio destino, non sono quel tipo di persona. Eppure sono costretta a farlo» inspirò ed espirò a fondo, mi guardò muta per qualche istante e infine mi ordinò di raccontarle tutto quanto era accaduto.
Cominciai dal primo incontro, nel laboratorio di Mastro Louis, appena una settimana prima. Ysandre mi lasciò parlare senza fiatare né farmi capire cosa pensasse, a interrompermi, mentre le spiegavo i dettagli del patto stretto con Mélisande e lo svolgimento della festa, fu l'arrivo del comandante Lefevre. A quel punto in realtà non c'era più molto da dire, praticamente solo lo smacco al mio risveglio, il tunnel, la lettera, i crolli, informazioni da cui il capo delle guardie trasse le prime somme per decidere come organizzare il piano di ricerca di cui andó a discutere con Joscelin, che mi attendeva fuori dalla stanza.
«Imriel dov'è ora?» mi chiese Ysandre appena ci trovammo di nuovo sole.
«A casa. Dovrebbe essere a casa.»
«Dovrebbe?»
Il gelo mi pervase le ossa in un lampo. Saperlo lontano dalla miseria della mia umiliazione e da ciò che sua madre aveva tramato era stata la sola cosa che mi era importata, ma in quel momento la legittima domanda di Ysandre mi aprì un ventaglio di ipotesi che prima non avevo considerato. Poteva il mio Imri essere complice di quella fuga? Mélisande poteva averlo traviato a quel punto? Elua, no, quello me l'aveva giurato! Allora perché lo stomaco mi si contorceva per la paura?
«Lo capisci vero che se Imriel risultasse coinvolto in qualcosa di ancor più grave dell'averla incontrata senza denunciarla, mi sarebbe impossibile non prendere provvedimenti?»
Chiusi gli occhi e annuii, cominciando con ritardo mostruoso a rendermi conto della gravità della situazione. Oltre ai sospetti su Imri, c'erano le voci, i pettegolezzi che a quell'ora ormai dovevano pervadere le strade della città: anche se era pressoché impossibile che qualcuno avesse intuito la presenza di Mélisande, restava il fatto che io avevo dato una festa in segreto in cui era successo qualcosa, qualcosa di grave visto come si era conclusa. La fantasia e il passaparola della gente avrebbero potuto partorire le storie più incredibili, Mélisande si era assicurata di proteggere me e gli altri dalla pena di tradimento, ma se qualcosa fosse trapelato avrebbe messo Ysandre in una posizione davvero scomoda nei confronti del popolo. E anche questo aveva tutta l'aria di una strategia, ma Mélisande aveva giurato e io ancora, in fondo, volevo crederle.
«Imriel è innocente, non può averlo coinvolto» dissi.
«Cosa te lo fa credere? Te lo ha giurato lei?» ironizzò Ysandre «Non ti dispiace vero se mando qualcuno a cercarlo?»
Non attese il mio consenso: chiamò la servitù e inviò i suoi uomini a cercare Imri sia a Montreve che lì a Città di Elua. A me non rivolse più la parola, solo uno sguardo, freddo e inespressivo subito prima che Lefevre e Joscelin entrassero per comunicarci come avremmo proseguito le ricerche: la necessità di tenere segreto l'accaduto impediva di coinvolgere l'esercito, perciò il comandante aveva chiamato solo i suoi uomini più fidati, con i quali sarebbe partito alla volta delle colline attorno alla villa di Sigàn, a dar man forte ai cassiliani nella ricerca del punto di uscita del tunnel, mentre avremmo chiesto aiuto agli tsingani per sorvegliare in modo non ufficiale i confini del paese. Un piano destinato ovviamente a fallire, avevamo le mani legate dal rischio che si scoprisse cos'era successo e inoltre era ormai troppo tardi per credere di poterla trovare, ma il tentativo andava fatto.
Joscelin e Lefevre lasciarono quindi il palazzo reale, mentre io restai lì, sola, ad attendere notizie di Imriel. Non capivo come mi sentivo, la mia mente continuava ad essere intorpidita. Non che temessi di essere stata avvelenata o drogata, solo non ero in me, non riuscivo ad andare oltre. Senza volerlo rivivevo nella mia mente l'eco dei ricordi della notte precedente e risuonava ossessiva la voce di Mélisande, le sue risate, i suoi sospiri, i suoi gemiti, il momento in cui mi aveva guardata in quel modo strano e mi aveva detto "Non esiste in tutto il mondo una come te. Lo so perché l'ho cercata, invano" e poi aveva fatto l'amore con me, intensa e sincera come mai lo era stata, il suo addio. Estrassi dal borsello la lettera che mi aveva lasciato, la rilessi e ancora mi bloccai su quella parola.
Addio.
La rilessi ancora, e ancora, volevo trovarci… una speranza, sì, qualcosa che potesse rivelare un doppio gioco, un inganno nell'inganno, la smentita a quel commiato. E qualcosa c'era, forse non quello che cercavo, ma c'era una frase che non comprendevo, una frase che forse celava un significato nascosto, quando diceva che la sua definitiva partenza era necessaria. Non vi avevo dato peso in un primo momento, ma ora non potevo fare a meno di chiedermi cosa volesse dire, perché doveva lasciarmi. Perché scriverlo? Perché?
Forse vaneggiavo. Forse semplicemente non ero pronta, non lo ero mai stata, quell'argomento mi aveva destabilizzata fin dall'inizio sebbene fosse stata la merce di scambio del patto che avevo stretto con lei. L'avevo e l'avrei accettato per senso del dovere, non perché lo volessi davvero: una mia debolezza talmente palese che Mélisande ci aveva puntato la riuscita di tutto il suo piano. E aveva vinto, portandosi via qualcosa di me: avevo come l'impressione che quella notte mi avesse cambiata per sempre e che il definitivo distacco da lei avesse reciso una parte di me. Era insensato: in seguito al nostro patto l'avrei condotta all'esecuzione della sua condanna a morte, io l'avrei in pratica uccisa, una conclusione ben più definitiva di quella separazione che lei, era ovvio, avrebbe potuto nuovamente infrangere, eppure quell'addio che lei aveva imposto mi appariva persino più ineluttabile della morte. Era assurdo, non aveva davvero alcun senso, ma ero quello che provavo e non riuscivo a smettere di pensarci. A distanza di tempo credo semplicemente che la mia sensibilità fosse giunta a saturazione a causa di tutte le emozioni che aveva dovuto assorbire e che quindi non lasciasse più entrare niente, ma allora non fui capace di essere tanto razionale e restai lì a compatirmi fino a quando Ysandre rientrò. Fuori si era fatto buio, ma me ne accorsi solo in quel momento. Dietro di lei comparve Imriel. Mi osservò preoccupato, poi mi sorrise, con fare tenero come a cercare di far sorridere anche me. Io guardai Ysandre.
«Era a casa tua, a Montreve» spiegò lei «E, a quanto pare, non sapeva nulla. Vai pure, caro, puoi raggiungerla.»
Imri allora la superò per venirmi incontro, mi abbracciò, mi strinse con tutta la forza che aveva e a me sembrò di rinascere. Elua, quanto mi era mancata la purezza di quell'affetto. Mélisande ci era riuscita, mi aveva ridato il mio Imri. Mi divincolai appena dalle sue braccia per poterlo guardare il faccia, gli presi il viso tra le mani come avevo temuto non sarei stata più in grado di fare e lui mi guardò sollevato, felice e sicuro di una consapevolezza nuova. Io contemplavo commossa quegli occhi così maledettamente uguali a quelli di sua madre da farmi star male, ma il solo poterlo fare, senza provare quell'oscena tensione carnale che per troppo tempo ci aveva divisi, era il dono più prezioso al mondo.
Quando lo lasciai andare incrociai lo sguardo comprensivo di Ysandre. Continuava a biasimarmi come regina, ne ero certa, ma come madre non poteva restare indifferente a quella scena e non sapeva neanche la metà di ciò che significava.
«Probabilmente avresti voluto essere tu a spiegargli l'accaduto, ma ho dovuto farlo io, a modo mio» mi disse «Credo di dovervi un po' di intimità a questo punto».
La ringraziai con un profondo inchino e, prima che uscisse, le chiesi «Avete avuto notizie da Lefevre?»
Guardò un attimo Imriel invece di rispondere, segno che non era ancora del tutto convinta che lui fosse innocente, ma poi disse «So che stavano interrogando un ragazzo».
Uscì e la mia attenzione tornò a Imri.
«Cosa ti ha detto Ysandre?» gli chiesi.
«Che ti sei fatta ingannare da mia madre, che lei ti aveva fatto credere che si sarebbe consegnata alla giustizia in cambio dell'incontro con me e invece è fuggita. È vero?»
Avrei voluto correggere alcune parole, ma sarebbe stato più per mentire a me stessa.
«Sì, è andata così» ammisi quindi.
Lui sorrise. Di tutte le reazioni che avevo immaginato, che potesse sorridere non mi era mai venuto in mente.
«E non ne sei stupito o arrabbiato? Imri, c'entri qualcosa? A me lo diresti, vero?»
«No che non c'entro! Nemmeno mia madre mi ha parlato del patto che aveva fatto con te. Ma quando Ysandre mi ha detto com'erano andate le cose, beh» fece spallucce e continuò guardandomi con tenerezza «Era ovvio che andasse così. Mi stupisce piuttosto che non lo avessi previsto tu.»
Non risposi, gli diedi invece la lettera che gli aveva scritto sua madre.
«Ha lasciato questa per te. Mi ha pregato di assicurarmi che tu la legga, quindi per favore fallo subito.»
La prese, cercò una sedia e si mise a leggere senza obiettare. Quando terminò alzò lo sguardo a me e mi porse il foglio.
«Vuoi leggerla?»
Io feci istintivamente un passo indietro e rifiutai, non avrei retto un'altra sua lettera d'addio, anche se non era per me. Magari un giorno l'avrei letta, ma non in quel momento.
«Non vuoi nemmeno sapere cosa ci siamo detti?»
«Non ora. Per adesso mi basta vedere che è servito.»
Sorrise dicendo «Sono felice di aver accettato» poi mi guardò preoccupato e mi chiese «Tu invece come stai? Quando sono entrato avevi l'aria di un coniglietto ferito.»
«Lo sono, ferita. Profondamente.»
«Lo posso capire. Per questo credo che dovresti leggere la sua lettera.»
Osservai il foglio piegato che mi porgeva di nuovo, ma non mi avvicinai.
«Si capisce quanto costi anche a lei tutto questo. Sai, avevi ragione quando cercavi di spiegarmi quanto fosse irresistibile il vostro legame, per entrambe. Non me lo ha detto apertamente come lo hai fatto tu, ma è evidente: ha la tua stessa amarezza quando parla di te.»
«Ti ha parlato di me?»
«Per forza. Pensavo sarebbe stato imbarazzante, invece… non lo so… è stato tutto naturale come se la conoscessi e mi confidassi con lei da sempre.»
Fui io allora a sorridere.
«Quindi? Le hai detto tutto ciò che volevi rinfacciarle?»
Abbassò lo sguardo.
«Solo una piccola parte. Avevi ragione anche su questo, ma non perché fossi intimorito da lei, piuttosto perché mi ha portato a pensare che non si meritasse il mio rancore.
Leggila. Credo che ti farà piacere.»
Scossi la testa.
«Non oggi, tesoro. Ha lasciato una lettera anche a me e per oggi è sufficiente quella. »
E allora Imri comprese che la mia non era una ferita d'orgoglio o di fiducia, a farmi male non era l'inganno, ma solo quel secco e definitivo vuoto che mi aveva lasciato il suo improvviso abbandono. E l'infinita ingiustizia che questo rappresentava nei confronti di Joscelin. Si alzó, mi prese tra le braccia e mi tenne così fino a quando tornò Ysandre.
«Hanno trovato l'uscita del tunnel.»
Un ragazzino era stato pagato per dar fuoco a sei inneschi sparsi nelle colline, era riuscito a raggiungerne cinque e uno di questi non aveva funzionato, non facendo quindi crollare il punto. Ma erano tutti diversivi per depistarci, il tunnel vero era stato fatto saltare dalla stessa Mélisande, probabilmente, perché il suo crollo non era tra gli obiettivi del ragazzo. Sbucava nel fienile di una coppia di anziani che non si erano accorti di nulla, almeno così avevano detto. Era stato trovato quasi per caso, quando, perquisendo palmo a palmo tutte le abitazioni della zona, uno dei cassiliani vi era quasi caduto dentro. Era ormai il tramonto però, Mélisande poteva essere ovunque. Le ricerche andarono comunque avanti in segreto per giorni, settimane. Fu tutto inutile: era svanita nel nulla.
Faticai a riconquistare la fiducia di Ysandre e forse in realtà non ci sono mai più riuscita del tutto. Per mesi ho cercato di convincerla di ciò di cui potevamo andare certi, ovvero che Mélisande se ne fosse andata per sempre e che finché ci fossi stata io a mantenere in piedi la promessa fatta a me, la famiglia reale non aveva nulla da temere da lei. Ma se c'era una cosa che quell'episodio aveva insegnato a me, e a chiunque altro ne fosse a conoscenza, era che bisognava prestare la massima attenzione a ogni singola parola e Mélisande mi aveva detto addio, non che sarebbe uscita da Terre d'Ange, quindi per quel che ne sapevamo poteva benissimo nascondersi nella stessa Città di Elua e questo per Ysandre era un affronto terribile oltre che motivo di timore, dal momento che, a differenza di me, non è mai stata capace di prendere per attendibile qualsiasi giuramento uscito dalla bocca della sua rivale. Nessuno poteva biasimarla per questo, nemmeno io.
Il tempo intanto passava e curava le ferite. Quelle del mio corpo guarirono in fretta, quelle del mio spirito tardarono e, come sempre, fu soprattutto grazie alla presenza di Joscelin che lo fecero. Parlammo a lungo io e lui quando si calmarono le acque, la mia coscienza mi obbligò a rivelargli quanto avevo provato quella notte e insieme abbiamo poi ricostruito ciò che ci rende unici l'uno per l'altra, facendomi così ritrovare in lui quel porto sicuro in cui da sempre riesco a ripararmi dalle tempeste a cui la mia natura mi costringe. Lui e Mélisande in definitiva sono le due facce della stessa medaglia, rappresentano per me la personificazione dell'amore, seppur in accezioni del tutto opposte. Lui è la mia salvezza, lei è la mia perdizione. Negli anni ho figurato tante volte gli scenari possibili di una vita insieme a lei, anche ipotizzando che non fosse la persona avida e malvagia che è: in ognuno di essi finiremmo per lasciare ardere la nostra passione fino a perderne il controllo, fino a consumarci a vicenda. Credo che sia inevitabile, l'ultima notte con lei avevo avuto un assaggio di ciò a cui mi avrebbe condotta e anche se Mélisande aveva dimostrato di essere molto attenta a non valicare i miei limiti e a non lasciare che lo facessi io, prima o dopo la voracità del mio corpo avrebbe portato il suo animo spietato a prendere il sopravvento, a spezzare la soglia della mia sopportazione e io, lo so, non l'avrei fermata. Ci saremmo annientate a vicenda, questo è il nostro destino: gli dei ci hanno rese così perfettamente complementari non per unirci, ma per opporci, pur non potendo fare a meno l'una dell'altra per un certo verso. Ovunque fosse e per sempre Mélisande mi avrebbe mortalmente attratta come il fuoco per la falena e se ero, se sono in grado di resistere a quel richiamo istintivo è perché ho Joscelin al mio fianco, che mitiga la mia insita follia tenendo salda la mia coscienza e placando i lati oscuri del mio cuore, fino a cancellare la pena che mi costa tuttora l'assenza di Mélisande. Forse gli dei stessi me lo hanno dato, proprio per aiutarmi a sopportare il peso del dardo a cui mi hanno condannata, non sarei qui a scrivere queste memorie senza di lui e per questo li ringrazio. Li ringrazierò sempre.
Ma in quei giorni il mio ringraziamento andava anche a Mélisande, a lei che mi aveva ridato Imriel. Dopo il loro incontro avevo notato subito in lui una nuova consapevolezza e a distanza di tempo la vedevo concretizzarsi sempre di più nel suo sguardo, nei suoi comportamenti, non che fosse diverso da prima, solo lo era in modo più sicuro. Ed era più sereno, finalmente in pace con sé stesso e con me. Anche con lui parlai a lungo di quanto era accaduto quel giorno, un pezzetto alla volta mi rivelò molto, se non tutto quanto si erano detti e ogni volta mi ripeteva di leggere la lettera che gli aveva lasciato sua madre e io, a distanza di mesi, ancora non ci ero riuscita.
Ne discutemmo anche mentre mi accompagnava all'inaugurazione del nuovo Santuario di Kushiel e riuscii a chiudere l'argomento solo quando arrivammo e fummo assaliti dagli sguardi dei presenti. Per ovvie ragioni la mia partecipazione era molto attesa e il mio arrivo con il figlio di Mélisande Shahrizai non poteva che accentuare la curiosità di tutti. Fu quella, immagino, la ragione per la quale Ysandre mi salutò tanto calorosamente, come non faceva più da sei mesi ormai. Fu comunque piacevole per il mio umore poterle parlare amichevolmente, senza fare accenno per una volta a quanto era successo e alle futili relative indagini.
Il nuovo tempio era davvero maestoso: l'architettura, imponente e pesante, ben rappresentava la possenza di Kushiel, il colonnato e i muri esterni erano bianchi, in stile tiberiano, come tutti i nuovi templi costruiti in quei mesi, poche le decorazioni in questo caso, solo alcuni bassorilievi che raffiguravano gli strumenti di castigo e una grande iscrizione che, oltre a un'ode alla divinità, ricordava chi aveva fatto erigere quel tempio, la regina Ysandre de la Courcel. Un'altra epigrafe, più piccola ma molto più lunga, riportava i nomi di tutti coloro che vi avevano contribuito con il proprio lavoro o con le donazioni. Tra quelli c'erano il mio nome e quello di Imriel. Sapevo che anche Mélisande aveva fatto un'offerta, ma Ysandre aveva impedito, a torto o ragione, che il suo nome comparisse nell'elenco.
Entrai nel tempio. Nonostante la folla, il chiacchiericcio e i passi che riecheggiavano tra le mura, l'atmosfera cupa all'interno mi accolse con la sua intima familiare atmosfera facendomi sentire a casa: pavimenti, colonne e alcune delle pareti erano in marmo nero, dalle vetrate in alto filtrava una luce rossa che faceva brillare i rubini incastonati attorno all'altare centrale come fossero una vivida colata di sangue, altri altari minori risaltavano dalle loro nicchie per le numerose candele rosse accese, in ognuno di essi era presente uno strumento con cui affliggere i devoti, davanti sarebbero stati posti gli inginocchiatoi, ovunque era profumo di incenso e ambrosia. A dominare l'attenzione, oltre l'altare centrale, un telo bianco copriva le forme dell'opera di Mastro Louis.
Non avevo più visto lo scultore dopo l'ultima volta che avevo posato per lui insieme a Mélisande e curiosamente non lo vidi nemmeno lì, nonostante la presenza invece del suo servitore Marcel. Ysandre lo affiancò per prepararsi a rivelare la scultura e io, dietro di lei, lo salutai con un inchino della testa, che lui ricambiò più profondamente mentre un lieve sorriso tirato gli compariva sulle labbra e gli occhi gli brillavano di una strana luce nostalgica.
«Mastro Louis non è presente?» gli chiesi stupita.
Lui s'incupì prima di bisbigliare «Non avete saputo, mia signora?»
«Cosa?»
«Il maestro si è tolto la vita.»
Restai pietrificata, incapace di dire né chiedere altro.
«Quando è successo?» chiese Imri preoccupato al posto mio.
«Venti giorni fa, mio signore. Aveva da poco terminato l'opera. Non si dava pace, continuava a dire che non l'aveva fatta lui, che solo un dio può dare la vita. Diceva che quell'opera viveva, diceva di sentirne i sospiri. Diceva… diceva che lui non avrebbe mai potuto creare qualcosa di tanto perfetto.» Guardò me, le lacrime agli occhi «In realtà si è limitato a copiarlo, ma lo ha fatto così bene che sembrate davvero vivere sotto quella patina di bronzo, mia signora.»
Non avevo ancora visto il risultato del lavoro di Mastro Louis, non mi aveva mai mostrato nemmeno le bozze o il materiale preparatorio. Non sapevo come avesse usato la mia figura, pochi dei presenti erano a conoscenza del mio coinvolgimento, quasi nessuno sapeva ovviamente di quello di Mélisande. Fissai il telo, dopo quelle parole avevo quasi paura di vedere cosa celava.
«Non c'entra nulla quello che è successo, vero?» continuò Imri «Avete avuto problemi con la giustizia?»
«No, mio signore. Le guardie reali sono state molto indulgenti nei nostri confronti. Al maestro in realtà non è mai importato del rischio che correva e quando sono arrivate le guardie a interrogarci era troppo preso dal suo lavoro per rendersi conto di ciò che stava accadendo.»
«Ti prego di accettare le mie condoglianze, Marcel» dissi con un filo di voce rivolgendomi finalmente all'uomo «Non ne sapevo nulla. Sono davvero addolorata. E in qualche modo mi sento responsabile. Se posso… »
«Responsabile di cosa, mia signora? Vi sono debitore, so che è merito vostro se non siamo stati accusati di tradimento. E per quanto riguarda il maestro, credetemi, per lui ne è valsa certamente la pena. Quest'opera era tutto per lui.»
E mentre Marcel lo diceva, Ysandre prese la parola per rivolgersi alla folla assiepata lì davanti. Lo fece con un discorso accorato alla memoria del maestro, com'era giusto che fosse, elogiando la sua arte e la dedizione con cui aveva lavorato alla scultura per il tempio, che lei stessa avrebbe ammirato per la prima volta insieme a tutti noi. Fece quindi cenno a Marcel di togliere il telo, si udì la stoffa frusciare a terra facendo tremare le fiamme degli innumerevoli ceri posti tutti attorno, poi la luce si stabilizzò, diede forma al bronzo e giunse il secco silenzio degli astanti che trattenevano il fiato. Ero io, inequivocabilmente. Il mio corpo nudo, martoriato, giaceva molle sostenuto da una figura alata che con un braccio, nervoso più che muscoloso, mi cingeva il costato in un abbraccio forte e soffocante, mentre nell'altra mano ghermiva il flagello. Le mie braccia erano protese in alto, le dita sembravano tremare mentre lievi lambivano con timore reverenziale il volto davanti al mio, la maschera di Kushiel, con i lineamenti inconfondibili di Mélisande. I nostri sguardi si perdevano febbrili l'uno nel desiderio dell'altro, così intensi da sembrare vivi. Le nostre labbra si sfioravano nell'attesa di un bacio che sarebbe rimasto sospeso per sempre. Sotto di noi, una base di marmo chiaro si rifletteva nella lucentezza del bronzo, mettendone in risalto forme, volumi e movimenti, e riportava la frase "tra le mie braccia giace il tuo tormento".
E mentre guardavo, sentivo il dolore di tutte le ferite che Mélisande mi aveva inferto, il suo braccio che mi stringeva, la sua pelle a contatto con le mie dita, il calore della sua bocca che si avvicinava alla mia, i suoi occhi che mi scavavano dentro l'anima. Vivevo e rivivevo la sua presenza su di me e per la prima volta in vita mia ne potevo osservare l'effetto al di fuori del mio corpo. E quello che vedevo era il nostro amore, la passione e l'abbandono che lo avevano reso unico, totale, un vincolo maledetto voluto dagli dei. Ripensai ancora alla nostra ultima notte insieme, alla lettera con cui le aveva posto fine e intanto non riuscivo a staccare lo sguardo da ciò che avevo davanti, per quanto, Elua, mi facesse dannatamente male. Sentii gli occhi che mi si riempirono di lacrime, mi portai le mani al viso, le ginocchia d'improvviso cedettero. Quanto era avvenuto nel frattempo e accadde poi me lo raccontò successivamente Imriel, che mi prese al volo tra le braccia mentre mi accasciavo a terra.
Dietro di noi la platea era restata muta diversi minuti, poi si era levato il brusio delle voci che sussurravano il mio nome e quello di Mélisande. Poco distante da me, Ysandre era rimasta come impietrita a fissare la statua, le sue labbra sorridevano, ma il suo sguardo era carico d'odio.
«Ne eravate al corrente, Vostra Maestà?» le aveva chiesto uno degli uomini al suo seguito.
«Speravo fosse meno evidente» aveva risposto a denti stretti dopo un lungo silenzio.
«Possiamo farla rimuovere, se la ritenete offensiva.»
A quelle parole mi aveva osservata con compassione.
«No. Che mi piaccia o meno, la raffigurazione della dannazione per Kushiel non potrebbe essere più perfetta di così.»


FINE



Note dell'autrice
E almeno ora che siamo giunti alla fine, abbiate il buon cuore di scrivermi, di lasciarmi un commentino, un segno della vostra presenza oltre questo monitor.
Fatemi sapere che ne pensate, sia che la storia vi piaciuta che al contrario non sia andata incontro al vostro gusto, ma ditemi qualcosa.
A tal proposito non posso che ringraziare la mia assidua lettrice e commentatrice DubheFedra, che mi ha fatta compagnia con il suo entusiasmo durante la pubblicazione. Davvero grazie!
Altro ENORME e SPECIALE GRAZIE va all'Amica Nerd del mio cuore, XWP, che mi fece conoscere la saga, che è sempre la prima lettrice delle mie creazioni, nonchè in questo caso impagabile correttrice di bozze. Sei la benzina della mia follia <3
Rinnovo qui ancora una volta la richiesta di aiuto per tradurre la ff in inglese, specificando di nuovo che cerco nello specifico qualcuno che abbia letto e conosca bene l'originale in lingua, in modo da mantenere lo stile come ho cercato di fare io in italiano.
E ora chiudo, ringraziando cmq chi ha avuto la pazienza di leggere fin qua e augurandomi di tornare a pubblicare ancora, prima o poi, magari il seguito di questa storia, una pista per farlo l'ho lasciata aperta, ma molto dipende dal contenuto dei libri della saga che ancora non ho letto.
Quindi, chissà, questo forse è solo un arrivederci.

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