Something Only We Know

di __aris__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I'm getting older ***
Capitolo 2: *** Tell Me when You Are Gonna Let Me In ***



Capitolo 1
*** I'm getting older ***








 
È passato quasi un secolo dall’ultima volta che Alina è stata a Ravka, da quanto tempo non torni a Os Alta nemmeno lo sa. Almeno due o tre secoli.
Ha viaggiato per tutto il continente e ovunque il vero mare l’abbia potuta portare. Ha incontrato migliaia di persone e vissuto centinaia di vite, imparato tantissime lingue e assaggiato sapori di ogni tipo. Ma più gli anni si sono accumulati e più ha iniziato a sentirsi come un ospite eterna dell’umanità, qualcuno che guarda le vite degli altri ma non può mai vivere davvero la propria perché troppo lunga.
E più l’eternità diventava pesante più iniziava a capire lui, la sua solitudine e la sua disperazione.
Ricordava il giorno in cui gli aveva detto che non sarebbe mai diventata come lui, e ricordava che la sua reazione l’aveva mandata su tutte le furie. Ma dopo tanti secoli lo capiva più di quanto non volesse ammettere, e ogni giorno mentre si guardava allo specchio immaginando rughe che non sarebbero mai arrivate si chiedeva se anche lui, molto tempo prima, avesse avuto i suoi stessi pensieri.
Forse era proprio per lui che aveva deciso di tornare a Os Alta.
Non al Piccolo Palazzo, perché non poteva più evocare il Sole.
Non al Piccolo Palazzo, perché sarebbe stato troppo vicino a lui.
Non al Piccolo Palazzo, perché era il suo palazzo.
Le basta vedere le alte mura quando va a lavorare per placare il senso di mancanza che la disturba.
Mancanza di una vita vera, di qualcuno con cui condividerla o semplicemente di qualcuno che capisse quanto l’eternità in solitudine possa compromettere la sanità mentale di chiunque. Inclusa una Santa.
C’era stato qualcuno che avrebbe potuto capirla, ma ormai era diventato cenere da molti secoli. Alina sospira pesantemente, sa che lui non le lasciò altra scelta, eppure vorrebbe che fosse finita diversamente.
Dal giornale scopre che c’è un museo sull’arte Grisha. Immagina si tratti di una raccolta di kefte polverose, di invenzioni dei Fabrikator ed altri manufatti, reliquie di un passato lontano dove la Piccola Scienza era superiore alla scienza.
Ormai sono lontani i giorni in cui i Grisha avevano bisogno di alte mura difensive e cappotti antiproiettile. Oggi c’è un solo esercito e i Grisha non sono costretti a farne parte, ma possono scegliere se e come impiegare i loro doni. Ma i Grisha ricordano di quando la società era diversa ed il museo serve a mantenere viva la memoria di quanto sia stato difficile diventare normali cittadini di Ravka.
Alina decide di andarci un giorno dopo il lavoro, prima che facesse buio.
Il museo si trovava in un quartiere vicino al Piccolo Palazzo, nella parte della città era riservata ai palazzi dei nobili o dei generali. Alina alza gli occhi ed è sicura che dai piani superiori ci sia una bella vista delle sue alte mura, forse si possono perfino intravedere i giardini dal tetto. Il palazzo doveva essere appartenuto a qualche nobile o a un funzionario di alto rango perché gli interni sono molto lussuosi, dai pavimenti in marmo agli stucchi sui soffitti.
In biglietteria c’è una ragazza Grisha che le sorride mentre le dice dove iniziano le esposizioni. Le Kefta non sono più in uso da …? Alina non saprebbe dirlo. Oggi indossano una semplice spilla che li contraddistingue come evocatori, spaccacuori, incendi o fabbrikator. Un semplice simbolo di appartenenza in una società integrata. Alina lo trova pratico, ma sa che a lui non piacerebbe per niente. Ma Ravka non è più in guerra, i Grisha non hanno nemici da cui difendersi e lui è cenere da secoli, quindi forse va bene così.
Alina segue le indicazioni e si trova davanti a una grande mappa di Ravka ai tempi della Faglia. Sulle pareti della stanza è scritta la storia della Faglia, del Grisha oscuro che la creò, dei mostri di oscurità che la popolavano e della Santa che la distrusse. Passa velocemente nella stanza successiva dove si trova una velasabbia in miniatura. Non è abbastanza grande da trasportare merci o persone, ma riempie quasi tutta la stanza, lasciando solo lo spazio necessario al passaggio dei visitatori. Si ferma dietro il cordone rosso lasciando che i ricordi della sua prima traversata riaffiorino alla mente: i chiamatempeste che gonfiavano le vele, i soldati e gli incendi pronti all’eventuale attacco e poi il rumore delle ali dei volcra, l’unico suono oltre il suo cuore in quel silenzio soffocante. Anche su queste pareti sono presenti descrizioni di come venivano affrontati i viaggi nella Faglia, ma Alina non le guarda nemmeno.
Le stanze successive spiegano come funzioni la magia dei Grisha, prima di raccontare la loro storia; come sono diventati una casta temuta e rispettata partendo dall’essere emarginati e perseguitati.
Sai perché il Piccolo Palazzo è dotato di mura? Perché per anni essere Grisha era una condanna a morte.
Alina deglutisce, era molto che quella frase non le tornava in mente. Quando la sentì la trovò alquanto irritante. Forse perché trovava tutta la situazione alquanto irritante o forse perché ancora non si sentiva una Grisha. Ma dopo cinque secoli la può capire di più e non riesce a vedere la sé stessa di allora come una bambina ingenua.
Adesso si ferma a leggere tutte le descrizioni sulle pareti e le didascalie degli oggetti esposti, ci sono poche persone oltre a lei e si può prendere tutto il tempo che desidera.
Il suo nome compare spesso, ma come potrebbe essere diversamente? Anche se nessuno sa che fu proprio Alexander Kirigan a creare la Faglia, il Piccolo Palazzo e la formazione del secondo esercito furono comunque opera sua. Senza di lui, forse, i Grisha sarebbero stati sterminati uno dopo l’altro. Non che questo basti per cancellare tutto il male che ha fatto, o il sangue che era disposto a versare, ma Alina gli può concedere di essere ricordato in un museo senza farsi prendere dalla rabbia.
Forse il tempo è davvero capace di guarire ogni ferita.
O forse, dopo tanto tempo, è capace di capire il suo punto di vista più di quanto vorrebbe.
Alina prosegue fino all’ultima sala, una lunga galleria dove sono esposte delle kefte divise in base ai Grisha che le avevano indossate: le uniformi di Corporalki e Etherealki erano esposte ai lati della galleria, mentre quelle dei Materialki in una lunga teca centrale. Sembra che tutti i visitatori del museo si siano radunati in quella sala; alcuni sono da soli e altri in piccoli capannelli di due o tre persone, ma tutti ammirano i ricami sulle kefte e si chiedono come sia possibile che cappotti all’apparenza tanto leggeri ed eleganti fossero antiproiettile.
Questo era uno dei pochi segreti che erano rimasti ai Grisha, per quanto ingegneri e scienziati ci si fossero scervellati sopra.
Le Kefte sono esposte in base all’anno di realizzazione, le prime risalgono alla creazione del secondo esercito e le ultime al momento in cui i due eserciti furono fusi in uno. I cambiamenti nei secoli non furono molti, principalmente nella forma dei ricami, ma gli altri visitatori si fermavano davanti a ogni kefta per osservarne ogni dettaglio. Alina le osserva tutte, come fanno gli altri visitatori, ma senza fermarsi lo stesso tempo davanti a ognuna, almeno fino a quando non vede l’ultima kefta.
Si trova in una teca separata dalle altre che permetteva di vederla da ogni angolo. Non era porposa, rossa o blu, ma nera con ricami dorati.
Alina riconosce quella kefta, ricorda ancora quanto il tessuto fosse morbido e leggero.
L’aria all’improvviso le manca.
Il cuore martella nelle orecchie e ogni altro rumore scompare.
La testa inizia a girarle fino a quando qualcuno non le impedisce di cadere.
È un ragazzo con dai riccioli biondi e gli occhi nocciola dall’aspetto gentile. Sulla giacca porta una spilla viola con il simbolo dei Fabrikators. “Si sente bene?
Alina si impegna a sorridere mentre ritrova l’equilibrio sui suoi piedi. “Forse non avrei dovuto saltare il pranzo.”
Il ragazzo ricambia il sorriso. “Venga con me, si sieda.” Disse mettendo una mano dietro la schiena di Alina e conducendola nella caffetteria del museo. “Purtroppo non ci sono guaritori tra i miei colleghi, ma se ha bisogno di qualcosa dica pure.”
Un bicchiere d’acqua sarà sufficiente, grazie…” per un attimo Alina cerca il nome del ragazzo sul cartellino identificativo che porta al collo “Ivan.” Lo segue con lo sguardo mentre si avvicina al bancone per prenderle l’acqua e mentre aspetta studia l’ambiente. Il pavimento è di marmo bianco con venature verde giada, così lucido da riflettere il volto di Alina. Una parete è costituita da una vetrata dalla quale si può ammirare il giardino interno del palazzo ancora cosparso di neve. I tavolini sono una decina, tutti bianchi e rotondi circondati da quattro sedie bianche. Lampadari di cristallo di un’altra epoca sono appesi al soffitto. Quando Ivan torna, oltre all’acqua, porta anche qualche biscotto. “Sei davvero gentile.”
Si figuri! E poi il direttore mi darebbe una strigliata lunga fino a domani se sapesse che qualcuno è stato male durante il mio turno.” Dice mentre le porge una bottiglietta d’acqua e un bicchiere riempito fino a metà.
Questa volta la risata di Alina è sincera “Non dirò nulla a nessuno, ha la mia parola.” Si sforza di mangiare uno dei biscotti solo per rendere più credibile la storia del calo di zuccheri, ma in realtà sente un nodo allo stomaco. “Quella kefta nera … non sapevo che i Grosha usassero anche quel colore.”
Non di solito, ma sappiamo che ci furono due evocatori che usarono quel colore: l’Oscuro e l’Evocaluce. Crediamo che quella esposta appartenesse proprio ad Alina Starkof.”
Lentamente beve un sorso d’acqua e annuisce. “Come fa a dirlo?
Non lo dico io, è una supposizione del direttore del museo. È sorprendente quanto conosca la storia dei Grisha! Ha delle intuizioni quasi divinatorie. Se vuole glielo presento, è dall’altro lato del giardino che parla con il ministro della cultura, ma sono sicuro che se aspetta qualche minuto sarà felice di rispondere a tutte le sue domande.
Alina segue lo sguardo di Ivan oltre le piante innevate per vedere due uomini sotto un porticato illuminato: il primo, il ministro della cultura, è di corporatura molto robusta, con la faccia tonda come una cipolla e le gote rosse come i pomodori maturi. L’altro è più giovane, alto e con i capelli nerissimi. Alina si deve impegnare per non aggrapparsi al piccolo tavolo, riconoscerebbe il direttore anche se non fosse vestito di nero da capo a piedi. “No grazie, per me è ora di tornare a casa.” Dice tornando a guardare il volto di Ivan solo per correre meno rischi che anche lui la veda.
Il ragazzo si alza e aspetta che anche lei faccia lo stesso. “Come preferisce. Buon ritorno a casa.”
Grazie ancora Ivan.”
Appena l’aria fredda della sera le pizzica il volto, Alina sospira e guarda il cielo nero, illuminato solo dalle luci artificiali.
Lui è vivo.
e Alina non sa se come sentirsi al riguardo.





 

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Capitolo 2
*** Tell Me when You Are Gonna Let Me In ***








 
È trascorsa una settimana dalla visita al museo e Alina non ha chiuso occhio nemmeno una delle ultime sette notti.
Alexander è vivo.
Non riesce a pensare ad altro. I suoi pensieri ormai le sembrano un disco rotto, li conosce a memoria, ma non riesce a interromperli e decidere come reagire o cosa provare. Sa di essere arrabbiata, forse è addirittura furibonda, ma non riesce a individuarne il motivo.
Il problema è che lui non è morto o che non l’abbia mai cercata?
Non che le avrebbe fatto piacere ritrovarselo davanti in un giorno qualsiasi degli ultimi cinquecento anni. Non è più la ragazzina ingenua che entra per la prima volta al Piccolo Palazzo ammaliata dal fascino dell’Oscuro; sa che se fosse tornato da lei sarebbe stato solo un altro tentativo di manipolarla e usarla per fare del male a qualcuno. Però … però … avrebbe comunque voluto saperlo.
 Sapere di non essere sola.
Dopotutto avere un avversario è sempre meglio che non avere nessuno, almeno avrebbe avuto uno scopo.
E poi ci sono le domande che le si rincorrono senza sosta nella mente.
Com’è possibile che sia sopravvissuto? Lei lo ha pugnalato e ha visto il suo corpo bruciare, aveva perfino pianto per lui e esaudito il suo ultimo desiderio. E invece lui era rimasto vivo tutti quei secoli! Com’era stato possibile? Cos’aveva fatto in tutto questo tempo? Perché non era tornato a essere il comandante del secondo esercito?
Alina si rigira nel letto sbuffando.
Se fosse tornato a comandare i Grisha la storia di Ravka sarebbe stata molto diversa.  
Invece dirige un museo in cui al massimo entravano solo le scolaresche e pochi appassionati di storia.
Forse anche lui era senza poteri come lei?
Alina sistema il cuscino e si mette a sedere nel letto. Sa che sta per fare qualcosa di inutile, se non pericoloso, ma deve fare un tentativo.
Dopo che è riuscita a chiudere la Faglia, ha provato innumerevoli volte a evocare il sole, ma al posto del brivido elettrico della sua magia ha sempre trovato il vuoto e la mancanza di una parte di sé, come se le avessero amputato un arto. Non è mai riuscita a creare nemmeno una scintilla di luce e ogni volta che provava e falliva si sentiva morire dentro.
Quello che vuole fare adesso è ancora più ridicolo.
Prova di concentrarsi chiudendo gli occhi e cercando la connessione che un tempo l’aveva legata a lui.
Era stupido! Se era senza poteri perché ci provava?
Alina scuote la testa per allontanare la voce della ragione e ricomincia a concentrarsi. Ma, proprio come la sua luce, anche quel legame ha lasciato posto al vuoto.
Solo adesso si concede un sospiro di sollievo mentre si stende di nuovo e prova a riaddormentarsi. Se non è rimasto nulla della loro connessione forse, solo forse, Alexander ha davvero perso i suoi poteri e non può fare del male a nessuno.
 
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La mattina seguente è fredda e luminosa. Alina cammina tra i grandi viali di Os Alta ammirando i rami degli alberi intrappolati in luccicanti cristalli di ghiaccio. Al termine del viale le cupole dorate del Gran Palazzo brillano nel cielo azzurro.  
Os Alta è ancora una delle città più belle del mondo, o almeno lo è la parte oltre il fossato. Oggi automobili di lusso hanno sostituito le carrozze e in molti degli antichi palazzi della nobiltà si trovano uffici di importanti aziende, banche internazionali e perfino studi legali. Altri ancora sono diventati appartamenti, più o meno grandi, per le persone che vi lavorano.
Continua a camminare fino a quando non vede le mura del Piccolo Palazzo.
Solo adesso nota in cinque secoli nessuno lo ha modificato. Nessuno ha mai osato spostare una sola delle pietre che il generale Kirigan aveva fatto posare. Chissà se anche gli interni sono ancora come li ricordava?
Per la prima volta dopo mesi che percorre quella strada tutte le mattine prova il desiderio di tornare al Piccolo Palazzo e circondarsi da Grisha. Se potesse evocare ancora il sole forse lo farebbe, forse potrebbe perfino chiamare quel luogo casa. Ma non può evocare il sole e nessuno può entrare al Piccolo Palazzo senza invito, quindi non le resta altro da fare se non ricominciare a camminare verso la scuola dove insegna.
Le piace insegnare, soprattutto ai bambini. Le riporta alla mente gli anni a Keramzin, i giochi con Mal e le strigliate di Ana Kuya. E poi prova una gioia infinita nel vedere bambini Ghrisha continuare a stare con i loro amici fino a quando non avranno l’età per decidere se o meno al Piccolo Palazzo. Perché se i secoli hanno insegnato qualcosa ad Alina è che quelle alte mura sono una lama a doppio taglio che proteggono i Grisha ma consentono anche a superstizioni e maldicenze di diffondersi tra la gente comune. Crescere assieme agli otkazat'sya è l’unico modo che i Grisha hanno per dimostrare di essere persone come le altre e non creature innaturali, scherzi dei Santi o figli dei demoni.
Alina si ferma all’improvviso quando si rende conto che i suoi passi l’hanno portata davanti al Musei delle Arti Grisha senza che se ne accorgesse.
L’idea di entrare la tenta, ma se lo facesse finirebbe nell’ufficio del direttore e non crede di essere pronta a incontrarlo.
Cosa si può dire a un uomo che non si vede da cinque secoli?
Come si saluta qualcuno che si ha ucciso?
Perché Alexander potrà anche essere resuscitato in qualche modo che lei non conosce, ma lei lo ha visto morire.
Riprende a camminare con passo spedito verso il collegio di Sankt Gabriel, coprendosi meglio con la sciarpa.
I passi di Alina sono veloci sui marciapiedi puliti dalla neve. Immagina che il direttore del collego la richiamerà per il ritardo e che Misha non avrà completato i compiti, mentre quelli di Evgeny saranno perfetti; ma nulla di tutto questo le sembra importante davanti alla consapevolezza che, prima o poi, deve trovare il coraggio per incontrare Alexander.
 
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Dimitriy Kalinin era solo un’altra identità vuota con cui passare da un’epoca all’altra. Un guscio sterile, come i molti altri che lo avevano preceduto.
C’erano state delle volte in cui un nome gli aveva permesso di compiere grandi cose, ma erano state rare. E comunque dopo la sua resurrezione non c’era molto che potesse fare se non nascondersi come un topo nell’oscurità. Privo di ogni potere, se non dell’immortalità, aveva visto come i miracoli che un tempo erano possibili solo ai Grisha venivano replicati dalla scienza degli otkazat’sya con facilità sempre maggiore.
A scuola si insegnava ai bambini che i miracoli moderni erano frutto della collaborazione di tutti, che la scienza degli otkazat’sya aveva scoperto nuove malattie e che le cure erano state trovate solo grazie ai Guaritori Grisha, che nuove leghe di metallo erano state rese indistruttibili grazie alla cooperazione di chimici e Fabrikator.
Ma per quanto tempo sarebbe potuto durare? Ormai era la Piccola Scienza che doveva rincorrere la scienza degli otkazat’sya nella medicina, nella chimica o nell’ingegneria. C’era perfino chi sosteneva che l’unica scienza fosse quella degli otkazat’sya, declassando le arti Grisha a poco più che fenomeni da circo.
Quando sarebbe arrivato il giorno in cui gli otkazat’sya non avrebbero più avuto bisogno dei Grisha?
E cosa sarebbe successo quel giorno?
Nuove e persecuzioni, rese ancora più efficienti dallo sviluppo tecnologico degli ultimi secoli.
Se avesse avuto ancora le sue ombre avrebbe dimostrato anche ai più scettici che non tutto era replicabile con l’aiuto di qualche voluminoso macchinario e della fisica.
Se avesse ancora avuto i suoi poteri il mondo sarebbe stato un posto molto diverso.
Ma Alexander Morozova non poteva più invocare le ombre da cinque secoli e il posto di direttore del museo dell’arte Grisha era ciò che lo aveva portato più vicino al Piccolo Palazzo dalla distruzione della faglia, con i suoi archivi di manufatti che gli otkazat’sya non dovevano sapere esistessero e la sua sterminata biblioteca. Ma, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscito ad avvicinarsi nemmeno alle porte di quelle stanze.
Per Natalya Kovaleva, la spaccacuori a capo del Piccolo Palazzo, lui era solo un otkazat’sya che conosceva la storia meglio di altri, ma che occupava il posto di un Grisha. La legge gli aveva concesso l’opportunità di ricoprire quell’incarico, ma per Natalya solo un Grisha poteva raccontare cosa voleva dire essere un Grisha prima e dopo la Faglia. Per lei un otkazat’sya non avrebbe mai potuto capire, e a nulla era servito aver guadagnato il rispetto dei dipendenti del museo.
Doveva ammettere che una parte di lui era fiera della scrupolosità con cui i Grisha difendevano ancora sé stessi, anche se la verità era molto più complicata di quanto Natalya potesse immaginare.
Alexander sospira guardando oltre la finestra del suo ufficio.
Detesta la modernità, con la sa aria inquinata e il rumore incessante delle automobili. Ma soprattutto detesta il pericolo che rappresenta: se la scienza degli otkazat’sya superasse la piccola scienza, cosa potrebbe proteggere i Grisha da nuove persecuzioni?
Lui ricorda, meglio di quanto possa fare Natalya Kovaleva, i tempi in cui i Grisha erano considerati più simili a demoni che a uomini; soprattutto ricorda il dolore di vedere ogni persona amata uccisa da un esercito di zotici.
Ci ha riflettuto a lungo, mano a mano che il tempo scorreva, ed è giunto alla conclusione che la sua memoria sia una condanna peggiore dell’aver perso i propri poteri. Perché se non ricordasse di essere stato l’Eretico Nero o il Generale Kirigan, non si sentirebbe cosi impotente e riuscirebbe a dormire la notte.
Ma Alexander ricorda tutto, ogni istante degli ultimi mille anni come se fosse accaduto ieri, e proprio per questo ha deciso di lavorare al Museo dell’Arte Grisha perché può solo insegnare alle nuove generazioni che per perdere ogni diritto faticosamente acquisito basta un pezzo di carta firmato dalle persone giuste. Solo perché la memoria del passato è più importante di ogni altra cosa sopporta un ministro della cultura idiota e il sarcasmo di Natalya Kovaleva.
Il telefono interno suona poco prima che l’orologio a pendola rintocchi le sei.
Direttore, mi scusi se la disturbo, ma c’è una persona per lei.” La voce di Klara sembra cortesemente irritata. Chiunque sia la persona davanti a lei deve essere stata molto insistente.
Alexander si massaggia la fronte, l’ultima cosa che vuole a quest’ora è l’ennesima seccatura della giornata. “Ha un appuntamento?
No, ma sostiene di essere una sua vecchia amica.”
Dimitriy Kalinin non ha amici: non ha mai ricevuto una visita personale da quando è direttore del museo, e le uniche persone con cui ha rapporti sono in qualche modo legate al suo lavoro. Non gli viene in mente nessuno che possa dire di conoscerlo da molto tempo. “Come si chiama?
Alina Ostereva.”
Ostereva è qualcosa che fa più male della pugnalata che Alina gli inferse secoli prima, eppure si scopre a sorridere per la prima volta dopo molto tempo. “Falla entrare Klara e, per favore, facci portare del tè.”





 

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